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Gen 12 2017

Dante profeta. Cavalcante, Farinata e la scimmia indovina di mastro Pietro

 

1. Una scimmia eterodossa. 2. Dante e Guido Cavalcanti (Inferno X). 2.1. La nuova era s’avvicina, ma quando inizia? 2.2. Un passato remoto equivoco (“ebbe”): morte corporale o sostituzione nel primato della “gloria de la lingua” ?. 3. Essere “sospesi”: desiderio inappagato di Dio o vita contemplativa? 4. La vittoria dei contemplativi. 5. Le incertezze cognitive del diavolo. 6. Dante profeta. 7. Apocalisse. 8. Alleluia. 9. Conclusioni.

 

1. Una scimmia eterodossa

Allora Don Chisciotte domandò chi era quel mastro Pietro, e che cos’erano questa scimmia e questo teatrino che si portava dietro. – È un famoso giocoliere – rispose l’oste – che da molto tempo va su e giù per questa parte della Mancia aragonese, facendo vedere un quadro della liberazione di Melisendra per opera del famoso Don Gaifero, che è una delle storie migliori e meglio rappresentate che da parecchi anni in qua si sien viste in questi posti. Porta anche con sé una scimmia ammaestrata, d’una bravura che non s’è mai vista l’eguale tra le scimmie, e che uno non si può nemmeno immaginare. Perché, se le domandan qualche cosa, sta attenta a quel che le domandano, poi salta sulle spalle del padrone, e accostandosi al suo orecchio gli sussurra la risposta a quello che le hanno domandato, e, dopo, mastro Pietro la ridice forte. Sui fatti passati parla molto di più che sui futuri, e sebbene non sempre e non in tutti i casi ci indovini, il più delle volte non sbaglia; di modo che ci sarebbe da credere ch’abbia il diavolo in corpo. Piglia due reali per domanda, se la scimmia risponde, cioè se risponde il padrone per lei dopo che essa gli ha parlato all’orecchio; e quindi si crede che il nominato mastro Pietro sia ricchissimo. È anche un galantuomo e un buon compagno, che fa la miglior vita del mondo: discorre per sei, e beve per dodici, e tutto a spese della sua lingua, della sua scimmia e del suo teatro. A questo punto arrivò mastro Pietro, e su una carretta venivano il teatrino e la scimmia, che era grande e senza coda, con le natiche che parevan di feltro, ma non tanto brutta di viso. Don Chisciotte, appena la vide, le domandò: – Dica un po’ la Signoria Vostra: signora indovina, che pesci si piglia? Che succederà di noi? Ecco qui i miei due reali. E ordinò a Sancio che li desse a mastro Pietro: il quale rispose per la scimmia, e disse: – Signore, questo animale non risponde né dà notizia di ciò che deve succedere; dei fatti passati sa qualche cosa, e parecchio dei presenti. […] Don Chisciotte non era rimasto troppo soddisfatto del talento divinatorio della scimmia, perché non gli pareva cosa normale che una scimmia indovinasse né le cose future, né quelle passate; e perciò nel tempo che mastro Pietro preparava il suo teatrino, si ritirò insieme con Sancio in un angolo della stalla, dove nessuno potesse sentirli, e gli disse: – Senti, Sancio, io ho riflettuto bene alla straordinaria bravura di questa scimmia, e per conto mio ritengo sicuramente che questo mastro Pietro, suo padrone, deve avere, o tacito o espresso, patteggiato un patto col diavolo. – Pasticciato un patto col diavolo? Allora, se è un pasticcio fatto col diavolo, dev’esser di molto schifoso. Ma par farne che? – Tu non mi capisci. Voglio dire che deve essersi accordato col demonio, perché infonda quell’abilità nella scimmia e così gli faccia guadagnar da vivere, e dopo, diventato ricco, gli darà la sua anima, che è il compenso preteso da questo nemico del genere umano. E questo me lo fa credere anche il vedere che la scimmia non risponde se non alle cose passate o presenti, e infatti la sapienza del diavolo non può andar più in là; perché quelle future non può saperle se non per congettura, e non tutte le volte, perché solo a Dio è riservato il conoscere i tempi e i momenti, e per Lui non c’è passato né futuro, ma tutto è presente. Stando così le cose, come certamente stanno, è chiaro che questa scimmia parla per bocca del demonio, e mi meraviglio che non l’abbiano ancora accusata al Sant’Uffizio per esaminarla e mettere in chiaro in virtù di qual potere indovini le cose; perché è certo che questa scimmia non è un astrologo […] [1].

Nella seconda parte del Don Chisciotte (II, 25), l’hidalgo incontra all’osteria un burattinaio, mastro Pietro, che possiede una scimmia portentosa: conosce il presente, non prevede però il futuro. William T. Avery [2], nella sua efficace carrellata di elementi della Commedia presenti nel Quijote, ritenne che l’animale ‘scimmiotti’ la prescienza dei dannati di cui parla Farinata degli Uberti in Inferno X, per cui essi conoscono le cose lontane, non però quelle vicine o presenti:

 

Inf. X, 94-108

“Deh, se riposi mai vostra semenza”,
prega’ io lui, “solvetemi quel nodo
che qui ha ’nviluppata mia sentenza.
El par che voi veggiate, se ben odo,
dinanzi quel che ’l tempo seco adduce,
e nel presente tenete altro modo”.
“Noi veggiam, come quei c’ha mala luce,
le cose”, disse, “che ne son lontano;
cotanto ancor ne splende il sommo duce.
Quando s’appressano o son, tutto è vano
nostro intelletto; e s’altri non ci apporta,
nulla sapem di vostro stato umano.
Però comprender puoi che tutta morta
fia nostra conoscenza da quel punto
che del futuro fia chiusa la porta”.

Don Qijote de la Mancha, II, XXV

En esto, volvió maese Pedro, y en una carreta venía el retablo, y el mono, grande y sin cola, con las posaderas de fieltro, pero no de mala cara; y, apenas le vio don Quijote, cuando le preguntó:
– Dígame vuestra merced, señor adivino: ¿qué peje pillamo? ¿Qué ha de ser de nosotros?. Y vea aquí mis dos reales.
Y mandó a Sancho que se los diese a maese Pedro, el cual respondió por el mono, y dijo:
– Señor, este animal no responde ni da noticia de las cosas que están por venir; de las pasadas sabe algo, y de las presentes, algún tanto.

 

Questo stravolgere invertendo le parole del fiero ghibellino non è, secondo Avery, una parodia senza ragione: “Cervantes mirerebbe soprattutto a screditare quegli elementi della Commedia dantesca che contraddicevano il cattolicesimo ortodosso spagnolo: e principalmente l’attribuzione di lucidità e potere divinatorio ai morti. Avery, insomma, attraverso una campionatura di esempi […]  ha individuato nel Chisciotte passi derivati parodicamente dal testo dantesco, rilevando così in Cervantes un atteggiamento critico nei confronti di Dante” [3]. Fedele ai dettati tridentini, metterebbe in ridicolo l’eterodossia di Dante [4].
Tuttavia bisogna distinguere l’autore dal protagonista, Cervantes da Don Chisciotte, per cui le idee del secondo non coincidono necessariamente con quelle del primo. Se l’hidalgo vorrebbe far esaminare la scimmia dal Sant’Uffizio, non per questo Cervantes, in quanto campione della Controriforma, intendeva per essa segnalare alle autorità ecclesiastiche la strana soluzione che Dante aveva dato al problema della prescienza dei dannati [5]. Tanto più in un’opera dove, come scritto da Cesare Segre, l’autore si sdoppia: “in prima persona … è portavoce della poetica rinascimentale; travestito da Cide Hamete, crea personaggi e vicende barocchi nel gusto dei contrasti, nella voluta disarmonia, nel senso della labilità del reale” [6].
Ha ragione, invece, Avery nel sottolineare la conoscenza della Commedia da parte di Cervantes e i rivolgimenti parodistici di punti del testo dantesco, il più efficace dei quali è nella spaventevole avventura dei mulini a vento, creduti da Don Chisciotte giganti (I, 8), ironico rovesciamento di Inferno XXXI. L’Inferno fu tradotto in castigliano a Burgos nel 1515. Lope de Vega citò frequentemente la Commedia nelle sue opere; sapeva, ad esempio, del “calavrese abate Giovacchino / di spirito profetico dotato” (Par. XII, 139-141)[7]. In generale, Cervantes non si propone di scrivere, “in pro del mondo che mal vive”, un “poema sacro, / al quale ha posto mano e cielo e terra”:

“… ni tiene para qué predicar a ninguno, mezclando lo humano con lo divino, que es un género de mezcla de quien no se ha de vestir ningún cristiano entendimiento” [8].

Tornando alla questione della prescienza dei dannati, c’è poi da chiedersi se quest’attività divinatoria dei defunti fosse davvero espressione dell’eterodossia dantesca. Per il suo tempo queste idee erano del tutto ortodosse [9]. Nonostante Pietro di Dante rilevasse l’assenza di accordo fra i teologi sul punto – “Circa hoc videtur esse dubitatio in scriptura nostra sacra ut inter nostros theologos” [10] – chiarissima era l’autorità di Tommaso d’Aquino. Le anime dei morti ignorano ciò che avviene presso di noi; sono infatti, per disposizione divina, da noi segregate e in rapporto solo con le altre sostanze spirituali separate dal corpo. Tuttavia Agostino e Gregorio Magno ritengono che le anime beate, che vedono in Dio, conoscano il nostro presente, anche se non vi interferiscono. Ancora, afferma l’Aquinate, l’anima separata conosce “per species ex influentia divini luminis participatas”. Dunque Tommaso attribuisce ai soli beati la capacità di conoscere il presente, ma pure afferma la possibilità che i defunti in generale possano, per illuminazione divina, conoscere il futuro.

Summa Theologiae I, 89, 1, ad tertium: “Ad tertium dicendum quod anima separata non intelligit per species innatas; nec per species quas tunc abstrahit; nec solum per species conservatas, ut obiectio probat: sed per species ex influentia divini luminis participatas, quarum anima fit particeps sicut et aliae substantiae separatae, quamvis inferiori modo. Unde tam cito cessante conversione ad corpus, ad superiora convertitur. Nec tamen propter hoc cognitio non est naturalis: quia Deus est auctor non solum influentiae gratuiti luminis, sed etiam naturalis”.

I, 89, 4, resp.: “Alius modus intelligendi est per influentiam specierum a Deo: et per istum modum intellectus potest singularia cognoscere. Sicut enim ipse Deus per suam essentiam, inquantum est causa universalium et individualium principiorum, cognoscit omnia et universalia et singularia, ut supra dictum est; ita substantiae separatae per species, quae sunt quaedam participatae similitudines illius divinae essentiae, possunt singularia cognoscere”.

I, 89, 8: “Respondeo dicendum quod, secundum naturalem cognitionem, de qua nunc hic agitur, animae mortuorum nesciunt quae hic aguntur. Et huius ratio ex dictis accipi potest. Quia anima separata cognoscit singularia per hoc quod quodammodo determinata est ad illa, vel per vestigium alicuius praecedentis cognitionis seu affectionis, vel per ordinationem divinam. Animae autem mortuorum, secundum ordinationem divinam, et secundum modum essendi, segregatae sunt a conversatione viventium, et coniunctae conversationi spiritualium substantiarum quae sunt a corpore separatae. Unde ea quae apud nos aguntur ignorant […] Magis tamen videtur, secundum sententiam Gregorii [11], quod animae sanctorum Deum videntes, omnia praesentia quae hic aguntur cognoscant. Sunt enim angelis aequales: de quibus etiam Augustinus [12] asserit quod ea quae apud vivos aguntur non ignorant. Sed quia sanctorum animae sunt perfectissime iustitiae divinae coniunctae, nec tristantur, nec rebus viventium se ingerunt, nisi secundum quod iustitiae divinae dispositio exigit”.

Che è poi quello che avviene con Cavalcante e Farinata. Il padre di Guido è dannato in quanto epicureo e dunque non ha cognizione del presente, per cui si dispera udendo Dante usare il passato remoto riferito al figlio come fosse morto – “forse cui Guido vostro ebbe a disdegno” -; il fiero ghibellino parla dell’influenza del gratuito lume divino per cui può profetizzare l’esilio di Dante:

 

Inf. X, 58-63, 67-69

piangendo disse: “Se per questo cieco
carcere vai per altezza d’ingegno,
mio figlio ov’ è? e perché non è teco?”.
E io a lui: “Da me stesso non vegno:
colui ch’attende là, per qui mi mena
forse cui Guido vostro ebbe a disdegno”.

Di sùbito drizzato gridò: « Come?
dicesti “elli ebbe”? non viv’ elli ancora?
non fiere li occhi suoi lo dolce lume? ».

Inf. X, 79-81, 100-105

Ma non cinquanta volte fia raccesa
la faccia de la donna che qui regge,
che tu saprai quanto quell’ arte pesa.

“Noi veggiam, come quei c’ha mala luce,
le cose”, disse, “che ne son lontano;
cotanto ancor ne splende il sommo duce.
Quando s’appressano o son, tutto è vano
nostro intelletto; e s’altri non ci apporta,
nulla sapem di vostro stato umano.”

 

Considerati dai critici un espediente artistico per ampliare la prospettiva temporale del viaggio datato al 1300, i versi di Inf. X relativi alla prescienza dei dannati fanno segno, come qualunque punto del poema, di qualcosa di più profondo. La Commedia, infatti, rivela anche un’eccezionale arte della memoria, per cui le singole parole si leggono, nel contesto dei versi, come segni che conducono ad altro testo dottrinale in prosa, la Lectura super Apocalipsim di Pietro di Giovanni Olivi, consentendo così il passaggio dal senso letterale, che è per tutti, a quelli mistici (allegorico, morale, anagogico) in esso racchiusi, riservati ai depositari della ‘chiave’, cioè agli Spirituali francescani. Costoro, campioni della riforma della Chiesa, avrebbero trovato nel “poema sacro” materia predicabile in volgare che dava “e piedi e mano” alla dottrina apocalittica oliviana aggiornata, secondo gli intenti di Dante, in senso aristotelico e imperiale. Le esigenze ‘laiche’ nell’uso del volgare, nella definizione del regime politico, nell’ambito della natura e della ragione, nella valorizzazione degli autori classici, venivano rese sacre, inserite nella storia della salvezza collettiva, della quale la Lectura super Apocalipsim fu l’estrema espressione. Dante stesso definì la Commedia poema “polisemos, hoc est plurium sensuum” (Epistola XIII, 20). Avere “più significati” vuol dire rivolgersi a più lettori. Dante aveva concepito un pubblico di chierici per il quale la Lectura dell’Olivi e la Commedia avrebbero dovuto porsi come vessilli; questo pubblico non si formò per le note vicende che portarono alla persecuzione degli Spirituali e alla quasi sparizione della Lectura, condannata nel 1326 da Giovanni XXII. Ma il confronto fra i testi (non si tratta di interpretazione, ma di raccolta di dati) [13] consente di far rivivere quel particolare senso che si era perduto, tutto medievale pregno com’è di segni, e al tempo stesso di constatarlo applicato al nuovo “viver bene” dell’ “omo in terra”. La Commedia fu scritta in un’età di crisi, tra storia collettiva e solitudine individuale, come lo fu il Don Chisciotte, tra armonia rinascimentale e disarmonia barocca.

 

2. Dante e Guido Cavalcanti (Inferno X)

2.1. La nuova era s’avvicina, ma quando inizia?

Nell’esegesi di Ap 12, 6 – allorché la donna (la Chiesa) fugge dall’ostinata durezza giudaica nel deserto della gentilità, e ivi rimane per 1260 anni, ovvero per “un tempo, (due) tempi e la metà di un tempo”, come detto in seguito (Ap 12, 14) – Olivi propone numerose citazioni dalla Concordia di Gioacchino da Fiore. Precisa che esse non esprimono asserzioni ma opinioni. Questa presa di distanza da parte del francescano è più volte ribadita, soprattutto quando il testo sacro, attraverso i numeri mistici in esso contenuti, induce a determinare con precisione gli eventi del prossimo futuro. In questi casi Olivi tende a destoricizzare Gioacchino, a sottolinearne le incertezze, a lasciare in sospeso l’identificazione dei fatti e delle persone verso le quali si appuntano i termini del computo delle generazioni. Se, scrive Raoul Manselli, sottolinea tutta l’importanza di una “figura così terribile” come l’Anticristo mistico, il finto cristiano capo della Chiesa carnale e persecutore dei seguaci della regola evangelica, non la applica concretamente a questo o a quello, come farà poi il suo discepolo Ubertino da Casale: “tendeva piuttosto a pensare ad un antipapa, sostenuto ed appoggiato da qualche grande potenza politica. Ma più non volle dire; e mai si pronunciò sull’altra grande figura apocalittica, ‘Babilon’, la ‘meretrix magna’ che è certo a Roma, ma che non è mai fatta esplicitamente coincidere con la Curia papale” [14].
Convinto di trovarsi sulla soglia dell’apertura del sesto sigillo (il “novum seculum” dell’Olivi), corrispondente all’età dello Spirito che si apre nella quarantunesima generazione, l’abate calabrese in più di un punto della Concordia si mostra volutamente incerto: “esito e preferisco esitare piuttosto che determinare”. Non c’è da meravigliarsi, afferma Olivi, se pur tra tanta luce datagli, quasi nell’aurora del terzo stato, permangono le tenebre del tempo precedente (il quinto stato della Chiesa per Olivi, l’età del Figlio per Gioacchino) che avvolgono la notizia delle cose future. Circa l’apertura del sesto sigillo, Gioacchino afferma che il tempo è vicino ma che il giorno e l’ora sono conosciuti solo da Dio: “i tempi e i momenti mi sono ad ogni modo sospetti”. E trattando delle quarantadue generazioni del secondo stato, ciascuna di trent’anni, e dei 1260 anni che le compongono, esita a stabilire se, per integrare il numero, Zaccaria e suo figlio Giovanni Battista siano da considerare come due generazioni, oppure se alla quarantesima generazione, che è quella in cui vive, ne seguano altre due che non abbiano la medesima durata delle precedenti ma vengano abbreviate per gli eletti [15].
Il ‘sospetto’ di Gioacchino da Fiore sui tempi e le generazioni segna il comportamento dell’epicureo Cavalcante, il padre di Guido: levatosi in ginocchio nell’avello infuocato dove sta dritto Farinata, guarda intorno a Dante per vedere se altri sia con lui, “e poi che ’l sospecciar fu tutto spento”, chiede nel pianto: “mio figlio ov’ è? e perché non è teco?” (Inf. X, 55-60).
Osserva Gioacchino da Fiore, nel V libro della Concordia: “Se dunque Zaccaria, il padre di Giovanni Battista posto tra la Sinagoga e la Chiesa, predisse vicino il tempo e la nascita di Cristo, ma non gli fu concesso di far sapere nella loro successione le cose che Cristo avrebbe fatto, così anche a noi, posti tra il secondo e il terzo stato, è concesso di contemplare molte cose del terzo, ma non possiamo determinarne l’ordine per numero e distinzione di fatti, se non forse qualcosa del principio” (ad Ap 12, 6).
L’incertezza di Gioacchino da Fiore nella contemplazione del tempo che s’appressa e nella determinazione delle ultime generazioni si trasforma nel limite posto ai dannati nel vedere il futuro prossimo o il presente. Le parole di Cavalcante – «Come? / dicesti “elli ebbe”? non viv’ elli ancora? / non fiere li occhi suoi lo dolce lume?» (Inf. X, 67-69) – mostrano come egli ignori se il figlio, nell’anno 1300, sia ancora in vita. Eppure Ciacco aveva profetato il futuro prossimo di Firenze (Inf. VI, 64-75). Di qui la preghiera del poeta dubbioso a Farinata, anch’egli profeta del suo destino (Inf. X, 79-81), di spiegargli come mai i dannati prevedano gli eventi futuri ma non conoscano il presente. La risposta di Farinata conferma la “mala luce” dei dannati, che vedono le cose lontane ma hanno vano intelletto di quelle che si avvicinano o che sono (Inf. X, 97-105).
Talora, afferma Gioacchino, le generazioni sono doppie, come nel caso di Ioacaz, deposto dal faraone Necao e sostituito nel regno con Ioiakìm (4 Rg 23, 34); e di Ieconia, figlio di Ioiakìm, deposto da Nabucodonosor e sostituito con Sedecia (4 Rg 24, 15-17; 1 Par 3, 16-17). E gli esclusi talora restano nel numero delle precedenti generazioni, talora sono esclusi anche da queste, come Samgar, che al tempo di Aod giudice difese Israele contro i Filistei (Jd 3, 31) e come Isboset, il figlio di Saul che regnò su Israele al tempo in cui Davide regnò in Hebron su Giuda (2 Rg 2, 10-11;  4) [16].
Ancora, se non è certo sotto quale generazione avvenne la distruzione di Babilonia o si verificarono le persecuzioni dei tempi di Giuditta e di Ester, così anche nel Nuovo Testamento non si può avere concordia certa. È infatti necessario che l’intelletto venga meno nel Nuovo dove consta sia venuto meno per confusione nel Vecchio, non nel senso che si ignori la vicinanza del tempo, ma che non si conosca il giorno e l’anno.
Il tema della sostituzione nelle generazioni mentre si è in vita – “cum viventi adhuc … substitutus est …” – risuona nella disperata domanda di Cavalcante: “Come? / dicesti “elli ebbe”? non viv’ elli ancora?” (Inf. X, 67-68). Una ripresa del tema è al v. 111, allorché il poeta prega Farinata di dire a Cavalcante, “caduto” per disperazione nell’avello, “che ’l suo nato è co’ vivi ancor congiunto”, e se egli ha indugiato a rispondere provocando la disperazione del padre è stato per il dubbio sulla prescienza dei dannati che il ghibellino gli ha risolto. La poesia fa risuonare due registri differenti: Cavalcante pensa alla morte corporale; Dante, nella risposta, pensa alla sostituzione in vita. L’amico Guido, ancora vivo nella primavera 1300, non è infatti con lui. Zaccaria, il padre di Giovanni Battista divenuto muto sulle cose che avverranno, è figura che ben si addice al padre di Guido, che non vede il tempo che s’appressa. Guido stesso, “quelli cui io chiamo primo delli miei amici”, è controfigura del Battista nella sua donna, quella monna Vanna-Primavera che nella Vita Nova (cap. 15; ed. a cura di G. Gorni, Torino 1996) viene prima di monna Bice-Amore, «però che lo suo nome Giovanna è da quello Giovanni lo quale precedette la verace luce dicendo: “Ego vox clamantis in deserto: parate viam Domini” (Jo 1, 23)».
Si possono notare le tracce di questa esegesi nel caso della Tolomea, lì dove i traditori degli ospiti ‘cadono’ prima di morire, mentre un demonio ne “governa” il corpo in terra. Un’invenzione di Dante, che il figlio Pietro si affrettò a difendere contro possibili riserve teologiche affermando trattarsi di finzione poetica, di un’allegoria dello stato di disperazione di quei peccatori. Ma la meravigliata domanda a frate Alberigo: «“Oh!” diss’ io lui, “or se’ tu ancor morto?”» (Inf. XXXIII, 121-123) è una variante di quella fatta dal padre di Guido: “non viv’ elli ancora?”, ed è cucita, e ad essa rinvia, con gli stessi fili di un’esegesi che sottolinea, utilizzando Gioacchino da Fiore, l’incertezza sulle generazioni e la traslazione ad altri del governo di chi è ancora in vita.
Il caso di Cavalcante non resta isolato, perché un momento simmetrico, per la presenza dei temi del ‘sospetto’ e del guardarsi attorno, si ha in Purg. XXII, 115-126, allorché Virgilio e Stazio, sulla soglia del sesto girone della montagna, tacciono “di novo attenti a riguardar dintorno”, presi dal “sospetto” su quale via prendere, finché Virgilio determina che, come fatto fino allora, si debba volgere “le destre spalle” all’orlo esterno del balzo. Stazio, “anima degna”, dà il suo assenso. L’ora – indicata dall’essere già le prime “quattro ancelle … del giorno / rimase a dietro, e la quinta era al temo” – è fra le dieci e le undici antimeridiane: l’ora del sesto stato è il mezzogiorno, e ciò significa che i tre poeti si trovano prossimi al sesto ma ancora sotto il regime del quinto. Il sesto e il settimo stato della Chiesa coincidono, nella teologia dell’Olivi, con l’età dello Spirito di Gioacchino da Fiore. Che la consuetudine tenuta per il passato, di girare verso destra, venga mantenuta nella circostanza – “così l’usanza fu lì nostra insegna” – corrisponde al fatto che a illuminare il sesto stato cooperano tutte le illuminazioni degli stati precedenti e la fama di Cristo, della sua fede e della sua Chiesa diffusa per il mondo a partire dal primo stato fino ai tempi moderni [17]. Il “nuovo” è segno del sesto stato, che è di “renovatio” della vita evangelica: così Virgilio e Stazio sono “di novo attenti a riguardar dintorno”. Il sesto girone del purgatorio è quello dove Dante incontra Bonagiunta da Lucca, il poeta che gli chiede se sia “colui che fore / trasse le nove rime” (Purg. XXIV, 49-51). Nel Limbo, alle quattro grandi ombre di Omero, Orazio, Ovidio e Lucano si aggiunge la quinta di Virgilio: “tra cotanto senno” Dante è sesto (Inf. IV, 102) [18]. Da notare altre simmetrie tra Inf. X, 55-60 e i versi che precedono Purg. XXII, 115-126, nel colloquio tra Stazio e Virgilio: “per questo cieco carcere / nel primo cinghio del carcere cieco”, “mio figlio, ov’ è? / dimmi dov’ è Terrenzio nostro antico”, “e perché non è teco? / che sempre ha le nutrice nostre seco”. Virgilio dunque determina, con l’assenso di Stazio, la via da seguire per andare al sesto stato, che è la compiuta età dello Spirito (già iniziata in Purg. IX con l’apertura della porta del purgatorio, la “porta di san Pietro”). Come Virgilio, Cavalcante dubita sull’imminente inizio dell’età dello Spirito ma, a differenza del poeta pagano, equivoca nella risposta di Dante sulla sorte del figlio.
Una curiosa variazione è a Purg. XII, 127-136, allorché Dante, passato l’angelo dell’umiltà, scopre di essere libero dalla prima delle sette “P” incise sulla sua fronte dall’angelo portiere con la punta della spada. Anche qui è presente il tema del sospetto: “Allor fec’ io come color che vanno / con cosa in capo non da lor saputa, / se non che ’ cenni altrui sospecciar fanno”, per cui, senza vedere, si aiuta con la mano a ritrovare le sei lettere restanti impresse sulla fronte.
Le citazioni di Gioacchino da Fiore sul proprio “sospetto”, riportate ad Ap 12, 6, possono essere confrontate con un passo del quarto libro della Concordia citato da Olivi prima di procedere, nella terza visione, all’esegesi della sesta tromba (Ap 9, 13). Gioacchino ritiene incauto definire con precisione gli anni dopo la quarantesima generazione, cioè a partire dal sesto stato, che coincide con la quarantunesima generazione. Usa l’immagine dei marinai, i quali in vista del porto ammainano le vele e utilizzano altri strumenti per venire a proda, oppure quella di coloro che, dopo aver navigato per lidi sicuri e conosciuti, iniziano a solcare acque sconosciute in modo cauto e circospetto.
Sono questi alcuni dei motivi presenti nell’episodio della corda che Virgilio, volgendosi verso il lato destro, getta nel burrone dove cade il Flegetonte verso Malebolge (Inf. XVI, 106-120). Dante pensa tra sé a questo atto come a un “novo cenno”, che il maestro segue con attento sguardo e al quale “e’ pur convien che novità risponda”. Poi afferma apertamente che si deve essere “cauti” (hapax) presso a coloro i quali, come Virgilio, non solo vedono gli atti esteriori ma penetrano col senno nei pensieri altrui. Comune con l’immagine di Gioacchino da Fiore è l’essere cauti (proprio di Dante nei confronti di Virgilio) o circospetti (proprio di Virgilio) di fronte alle novità. La corda, “novo cenno” al quale viene in su Gerione, è uno dei momenti che nell’Inferno sono segnati, topograficamente, dalla prevalenza dei temi del sesto stato [19].
Purg. XII, 127-129, luogo sopra ricordato, sembra riferibile ad Ap 9, 13 per l’espressione “come color che vanno / con cosa in capo non da lor saputa”; ad Ap 12, 6 per il “sospecciar”. Da confrontare il “novo cenno” di Inf. XVI, 116 (la corda gettata) con i “cenni altrui” di Purg. XII, 129. È da considerare che siamo nel primo girone della montagna dopo l’apertura della porta del purgatorio, che coincide con l’inizio del sesto stato oliviano o con l’età dello spirito di Gioacchino. Non sarà pertanto casuale l’espressione “trovai pur sei le lettere che ’ncise / quel da le chiavi a me sovra le tempie” (Purg. XII, 134-135) , che un esperto lettore o ascoltatore non avrebbe mancato di rilevare.
Il tema del “sospetto” si trova anche in Purg. VI, 25-48, allorché Virgilio invita Dante a non fermarsi “a così alto sospetto”, cioè a un dubbio sì profondo, senza una spiegazione data da Beatrice – “se quella nol ti dice / che lume fia tra ’l vero e lo ’ntelletto” -, dalla sua donna che potrà vedere sulla cima della montagna. Il dubbio è il seguente: nell’Eneide la Sibilla, supplicata dall’insepolto Palinuro di portarlo oltre l’Acheronte, aveva risposto che i decreti divini non si possono modificare con la preghiera – “desine fata deum flecti sperare precando” (Aen., VI, 376) -; è dunque vana la preghiera delle tante anime purganti che pregano Dante perché ricordi al mondo di pregare per loro? Virgilio risponde che la preghiera dei pagani non era udita in cielo e che, adesso, il giudizio divino non subisce alcun mutamento per il fatto che l’ardore della carità soddisfi “in un punto”, cioè in un istante, quanto dovuto dai peccatori per il riscatto delle loro colpe. Il “sospetto” di Dante riguarda dunque la possibilità che le preghiere abbrevino la permanenza nel purgatorio delle anime già elette – “sì che s’avacci lor divenir sante” -, come l’esitazione di Gioacchino da Fiore verte sul fatto se i giorni delle ultime due generazioni siano o meno abbreviati in favore degli eletti. Da notare che, secondo quanto Olivi afferma nel notabile VIII del prologo della Lectura, il sesto stato è il “punto” da cui dipendono gli altri stati, perché esso appare nel testo dell’Apocalisse in modo più evidente degli altri, che da esso assumono chiarezza quanto alla loro manifestazione nella storia, come l’intelligenza delle cose ordinate ad un fine dipende dal fine. È questo un tema che si ritrova nel punto luminosissimo – Dio – da cui dipende il cielo e la terra, circondato dai nove cerchi di fuoco, che Dante vede nel Primo Mobile, nono ma sesto, a partire dal cielo del Sole, dei cieli senza il cono d’ombra proiettato dalla terra (Par. XXVIII, 16-18, 40-42, 94-96) [20].
Il discorso di Virgilio, nel quale il poeta pagano si rimette a quanto dirà Beatrice, “quella … / che lume fia tra ’l vero e lo ’ntelletto” (Purg. VI, 44-45), corrisponde in parte a quanto Olivi dice delle affermazioni di Gioacchino da Fiore, molte delle quali ritiene non asserzioni ma opinioni. Nell’esegesi della quinta tromba (Ap 9, 11), il francescano sostiene che come per mezzo della naturale luce dell’intelletto conosciamo alcune cose in modo certo, quali i primi princìpi (“lo ’ntelletto de le prime notizie”, che l’uomo non sa da dove venga, a Purg. XVIII, 55-56); alcune come necessariamente da essi dedotte, altre invece opiniamo in base a ragioni probabili, e in queste opinioni possiamo errare senza che per questo sia falso il lume dell’intelletto a noi concreato, ma non erriamo in quanto siamo consapevoli che si tratta di opinioni e non di scienza infallibile, così per mezzo del lume dato in virtù della gratuita rivelazione conosciamo alcune cose come princìpi indubitabili, altre come conclusioni necessarie, altre ancora come probabili congetture (cfr. le espressioni “nec pro tanto fallimur … e la speranza di costor non falla”, Purg. VI, 35). A una precedente domanda su quanto sia lunga l’ascesa della montagna, Virgilio ha risposto che la salita, grave all’inizio, si fa poi sentire sempre più leggera, concludendo: “Più non rispondo, e questo so per vero” (Purg. IV, 96). Sa queste cose in modo indubitabile come fossero primi princìpi.
Dante evita di applicare ai ragionamenti di Virgilio il termine “opinioni”, come fa Olivi a proposito di Gioacchino da Fiore; il poeta pagano è mosso dal lume di Beatrice, per cui le sue sono asserzioni della ragione illuminata. È il “lume che nel ciel s’informa”, che muove l’ “alta fantasia”, cioè l’ “imaginativa” che fa a meno dei sensi. La fantasia è la virtù organica che media tra il sensibile e l’intelletto: chi la fa operare, si chiede il poeta, se la materia non è fornita dalle percezioni sensibili? Essa, nelle visioni estatiche di ira punita apparse nel terzo girone della montagna, viene stimolata da un lume che prende forma nel cielo, o per influsso astrale o perché mandato da Dio (Purg. XVII, 13-45; cfr. nota). Così è per Virgilio, che nel secondo girone si è rivolto al lume del sole, perché guidi il cammino coi suoi raggi (Purg. XIII, 13-21). ‘Opinione’ è quando la ragione va dietro ai sensi, per cui “ha corte l’ali”, ed “erra … dove chiave di senso non diserra”, come afferma Beatrice all’inizio della confutazione circa la provenienza delle macchie lunari dal raro e dal denso della materia, teoria averroista creduta da Dante (Par. II, 52-57). Virgilio non rappresenta soltanto, come si suole affermare, la ragione in quanto tale, ma la ragione vittoriosa sui sensi. Questa vittoria è prerogativa del terzo stato, dei dottori che confutano con la ragione le eresie e i loro fantastici e sensibili errori. Questo stato, che è della Chiesa ma che ha una sua prefigurazione nella legge data nell’Antico Testamento, Dante lo appropria agli Antichi, convinti sostenitori del libero arbitrio: “Color che ragionando andaro al fondo, / s’accorser d’esta innata libertate; / però moralità lasciaro al mondo” (Purg. XVIII, 67-69). Il terzo stato corrisponde all’intelligenza morale della Scrittura, che gli Antichi non conobbero, ma dei cui sviluppi furono ‘figura’ per essere poi da essa ricompresi attraverso la loro ‘vita nova’ nel poema sacro. La ragione illuminata ‘aspetta’ la fede, e qui Virgilio riconosce il suo limite: «Ed elli a me: “Quanto ragion qui vede, / dir ti poss’ io; da indi in là t’aspetta / pur a Beatrice, ch’è opra di fede”» (Purg. XVIII, 46-48).
Grande valore, considerata l’esegesi del “sospetto” sulla concordia gioachimita tra Vecchio e Nuovo Testamento, assume l’espressione di Virgilio sul fatto che non ci sia contraddizione tra la preghiera un tempo disgiunta da Dio (come fu vana la richiesta alla Sibilla di essere traghettato da parte dell’insepolto Palinuro) e l’odierno “foco d’amor” che soddisfa la colpa: “La mia scrittura è piana” (Purg. VI, 34). L’antico poeta non intende soltanto ‘il mio testo scritto’, bensì ‘quel che scrissi, che è anch’essa Scrittura antica da concordare con la nuova’. Essa è come l’angelica favella di Beatrice, “soave e piana” (Inf. II, 56-57), di cui è figura, per cui l’alta tragedia si è fatta, convertendosi, “sermo humilis”.
Nel Notabile VII del Prologo della Lectura, Olivi inserisce il celebre passo sulla “commutatio” del pontificato. I temi presenti in questo passo sono principalmente due: l’alterno succedersi delle stirpi sacerdotali nell’Antico Testamento, per disegno divino o per deposizione da parte di un re (il caso di Abiatar da parte di Salomone), e una sorta di corsi e di ricorsi tra povertà e ricchezza del pontificato nel Nuovo Testamento, fino al definitivo ritorno, nel sesto stato, alla stabilità dell’originaria povertà evangelica. Se si collazionano i temi propri della sesta vittoria (Ap 3, 12) con quelli propri della “commutatio” del pontificato (Notabile VII), si deduce che il sesto stato si presenta come “novum seculum” che rinnova il vecchio e in cui ritorna l’originaria povertà del primo stato. La nuova Gerusalemme, ossia la pace, discende dal cielo e una nuova progenie spirituale viene creata. La virginea prole è pure tema della quarta visione, che inizia con il capitolo XII, dove appare la donna (la Chiesa) vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e sul suo capo una corona di dodici stelle (cfr. l’esegesi ad Ap 12, 7). Questi motivi sono la veste spirituale, perfettamente aderente, dei versi della quarta egloga virgiliana che celebrano la rinnovata età dell’oro, versi che Stazio ripete nel dichiarare il suo debito verso Virgilio: “Per te poeta fui, per te cristiano” (Purg. XXII, 64-73). Se tra i due poeti sta il mistero della predestinazione per cui uno fu toccato dalla Grazia e l’altro no, qui Virgilio è non solo profeta del primo avvento di Cristo ma anche della seconda e altrettanto grande “renovatio”, quella del sesto stato, in cui ha luogo la conversione delle genti e del popolo d’Israele fino allora escluso. La lode che Stazio fa di Virgilio assomiglia a quella che nel cielo del Sole Bonaventura pronuncia del “calavrese abate Giovacchino / di spirito profetico dotato” (Par. XII, 139-141), il quale, come dice Olivi, vide in spirito il sesto stato. Nel Limbo, alle quattro grandi ombre di Omero, Orazio, Ovidio e Lucano si aggiunge la quinta di Virgilio: “tra cotanto senno” Dante è sesto (Inf. IV, 102). Si noterà che “Secol si rinova” non c’è in Virgilio, ma in Olivi; e se ciò non bastasse, si aggiunga “torna giustizia e primo tempo umano”.

 

[LSA, cap. XII, Ap 12, 6 (IVa visio); non si segue l’ordine consequenziale dei passi]

Item de hoc ultimo (Ioachim) dicit libro V° (Concordie) circa finem prime partis […] Et aliquantulum supra dicit: «Si enim Zacharias pater Iohannis, inter sinagogam et ecclesiam constitutus, predixit adesse tempus et nativitatem Christi, sed tamen ea que Christus erat facturus non est seriatim intimare permissus, ita et nos, qui inter secundum et tertium statum constituti sumus, multa quidem de tertio illo statu contemplari permittimur, ordinem vero rei iuxta numerum et distinctiones operum assignare nequimus, nisi forte aliquid de principio». […]*

Item, libro IIII°, ostendit quod sicut ex sacro textu non est nobis certum sub qua generatione fuerit destructio Babilonis aut persecutio facta sub Iudith vel alia facta sub Hester, sic nec per concordiam possunt similia sciri in novo, propter quod infert: «Igitur, ut sepe dixi, in tempore confusionis omnia non immerito sunt confusa. Etsi per exemplaria veterum intelligimus nova, necesse est ut ibi ex parte aliqua deficiat intellectus in novo ubi defecisse constat in veteri, non ut ignoretur vicinitas temporis sed ut dies ignoretur et annus». […]**

Inf. X, 97-105

“El par che voi veggiate, se ben odo,
dinanzi quel che ’l tempo seco adduce,
e nel presente tenete altro modo”.
Noi veggiam, come quei ch’ha mala luce,
le cose”, disse, “che ne son lontano;
cotanto ancor ne splende il sommo duce.
Quando s’appressano o son, tutto è vano
nostro intelletto; e s’altri non ci apporta,
nulla sapem di vostro stato umano.”

* Concordia, V 1, c. 16; Patschovsky 3, pp. 573, 14-19; 574, 1-3.

** Concordia, IV 1, c. 40; Patschovsky 2, p. 466, 1-2, 9-12.

Docet etiam aliquando simul poni generationes duplices, ut cum viventi adhuc Io[achaz] substitutus est Ioachim, et viventi Ieconi[e] substitutus est Sedechias. Et de talibus dicit quod aliquando secundum aliquid manent in numero aliarum et secundum aliquid excluduntur, sicut Sangar qui tempore Aioht iudicis defendit Israel, et sicut Isbozet qui regnavit super Israel tempore quo David regnavit in Ebron super Iudam*.
Item super libro eodem, dicit: «Admonendus est summopere lector operis huius, quatinus in initiis istorum temporum aut in finibus eorum non sit scrupulosus exactor super una vel duabus generationibus; quia, ut fiat in quibusdam locis intercisio inter nova et vetera, est aliquando a penultima incipiendum, et tunc subtractis de medio duabus generationibus, due ultime generationes duplices estimentur, quatinus etsi plures sint in numero pauciores sint in re»**.
Et secundum hoc subdit quod in prima distinctione, que extenditur ab Adam usque ad Isaac, intermittende sunt due generationes ultime, ut in secunda distinctione sumatur initium ab Abraam usque ad Christum***. Vocat autem ibi primam distinctionem respectu trine distinctionis sexaginta trium generationum que sunt ab Adam usque ad Christum, quarum quelibet habet viginti unam.

Inf. X, 67-72, 109-111

Di sùbito drizzato gridò: “Come?
dicesti ‘elli ebbe’ ? non viv’ elli ancora?
non fiere li occhi suoi lo dolce lume?”.
Quando s’accorse d’alcuna dimora
ch’io facëa dinanzi a la risposta,
supin ricadde e più non parve fora.

Allor, come di mia colpa compunto,
dissi: “Or direte dunque a quel caduto
che ’l suo nato è co’  vivi ancor congiunto

Inf. XXXIII, 121-123

“Oh”, diss’ io lui, “or se’ tu ancor morto?”.
Ed elli a me: “Come ’l mio corpo stea
nel mondo sù, nulla scïenza porto.”

* Concordia, II 1, c. 28; Patschovsky 2, pp. 125, 14-18, 24-28; 126, 1-5.

** Concordia, II 1, c. 13; Patschovsky 2, p. 90, 16-23.

*** Ibid., pp. 90, 14-15; 91, 1-5.

JOACHIM VON FIORE, Concordia Novi ac Veteris Testamenti. Herausgegeben von A. Patschovsky, 2017 (Monumenta Germaniae Historica. Quellen zur Geistesgeschichte des  Mittelalters, 28 Band), Teil 2 (lib. I-IV), Teil 3 (lib. V).

 

[LSA, cap. XII, Ap 12, 6 (IVa visio)] Quod autem ultra hoc Ioachim opinative dixit futuram persecutionem Antichristi esse complendam in primis quadraginta annis huius centenarii, aut etiam in tribus annis et dimidio prime partis eorum, unde et super illo verbo infra XIII° (Ap 13, 4): “Quis similis bestie, et quis poterit pugnare cum illa?”, dicit: «Heu, quot arbitror natos esse in mundo, qui tante huius calamitatis angustias non evadent!»1, non mireris si cum magna luce sibi data, quasi in aurora tertii status, habuit permixtas tenebras in notitiam futurorum, et maxime cum nocturne tenebre quinti temporis suo tempore inundarent. Quod autem non assertorie sed opinative talia dixerit, patet ex pluribus superius a me tactis super quinta  et sexta tuba.

[segue Ap 12, 6] Preterea hoc patet ex hoc quod libro III° Concordie, circa finem ubi agit de apertione sexti sigilli, dicit: «Tempus autem quando hec erunt, dico manifeste quia prope est, diem autem et horam Dominus ipse novit. Quantum autem secundum coaptationem concordie estimare queo, si pax conceditur ab hiis malis usque ad annum millesimum ducentesimum incarnationis dominice, exinde, ne subito ista fiant, suspecta michi sunt omnimodis tempora et momenta»2.
Item libro II°, bene ante medium loquens de quadraginta duabus generationibus secundi status et de mille ducentis sexaginta annis earum, dicit: «Unum est autem in quo hesito et magis hesitare volo quam temere diffinire; utrum scilicet in suppletione huius numeri Zacharias et Iohannes Baptista sint pro duabus generationibus accipiendi? Aut due generationes, ad predictum numerum pertinentes, sequantur eam que presens est?», scilicet quadragesima. «Et si hoc, utrum hee currant sub eodem numero quo et cetere? Aut forte breviabuntur ipsi dies propter electos, ut tres anni et dimidius pro duabus generationibus accipiantur ?»3.

Expositio, pars IV, distinctio IV, f. 165va.

2 Concordia, III 2, c. 6; Patschovsky 2, pp. 334, 12-16; 335, 1.

3 Concordia, II 1, c. 20; Patschovsky 2, p. 105, 3-11.

[LSA, cap. IX, Ap 9, 13 (IIIa visio, VIa tuba)] Item (Ioachim) IIII° libro (Concordie), ubi agit de quadragesima secunda generatione, dicit quod «articulus temporis eius melius relinquitur Deo, qui hec et multa alia in sua posuit potestate. Non enim pertinet ad concordiam querere numerum annorum in novo, ubi non habetur in veteri, et ultra quadragesimam generationem aliquid per certum numerum incautius diffinire. Nec mirum. Solent enim et naute, conspecto comminus portu, navis armamenta deponere et aliis auxiliis competenter inniti»4. Item supra eodem, agens de generatione quadragesima, dicit: «Usque ad presentem locum per experta, ut ita dicam, littora navigantes securo navigio iter faciebamus. Amodo cautius est agendum et hinc inde circumspecte reli[quum] itineris peragendum, utpote qui per incognita navigare incipimus», et cetera5.

Inf. XVI, 115-120

‘E’ pur convien che novità risponda’,
dicea fra me medesmo, ‘al novo cenno
che ’l maestro con l’occhio sì seconda’.
Ahi quanto cauti li uomini esser dienno
presso a color che non veggion pur l’ovra,
ma per entro i pensier miran col senno!

Concordia, IV 1, c. 44; Patschovsky 2, pp. 469, 20; 470, 1-6.

5
 
Concordia, IV 1, c. 38; Patschovsky 2, p. 453, 2-5.

Inf. X, 55-60

Dintorno mi guardò, come talento
avesse di veder s’altri era meco;
e poi che ’l sospecciar fu tutto spento,
piangendo disse: “Se per questo cieco
carcere
vai per altezza d’ingegno,
mio figlio ov’ è? e perché non è teco?”.

Purg. XII, 127-136

Allor fec’ io come color che vanno
con cosa in capo non da lor saputa,
se non che ’ cenni altrui sospecciar fanno;
per che la mano ad accertar s’aiuta,
e cerca e truova e quello officio adempie
che non si può fornir per la veduta;
e con le dita de la destra scempie
trovai pur sei  le lettere che ’ncise
quel da le chiavi a me sovra le tempie:
a che guardando, il mio duca sorrise.

Purg. XIX, 55-57

E io: “Con tanta sospeccion fa irmi
novella visïon ch’a sé mi piega,
sì ch’io non posso dal pensar partirmi”.

Purg. XXII, 94-105, 115-126

Tu dunque, che levato hai il coperchio
che m’ascondeva quanto bene io dico,
mentre che del salire avem soverchio,
dimmi dov’ è Terrenzio nostro antico,
Cecilio e Plauto e Varro, se lo sai:
dimmi se son dannati, e in qual vico”.
“Costoro e Persio e io e altri assai”,
rispuose il duca mio, “siam con quel Greco
che le Muse lattar più ch’altri mai,
nel primo cinghio del carcere cieco;
spesse fïate ragioniam del monte
che sempre ha le nutrice nostre seco.”

Tacevansi ambedue già li poeti,
di novo attenti a riguardar dintorno,
liberi da saliri e da pareti;
e già le quattro ancelle eran del giorno
rimase a dietro, e la quinta era al temo,
drizzando pur in sù l’ardente corno,
quando il mio duca: “Io credo ch’a lo stremo
le destre spalle volger ne convegna,
girando il monte come far solemo”.
Così l’usanza fu lì nostra insegna,
e prendemmo la via con men sospetto
per l’assentir di quell’ anima degna.

[LSA, cap. IX, Ap 9, 11 (IIIa visio, Va tuba)] Super quo et consimilibus advertendum quod ipse plura dicit non assertorie sed opinative. Sicut enim ex naturali lumine intellectus nostri quedam scimus indubitabiliter ut prima principia, quedam vero ut conclusiones ex ipsis necessario deductas, quedam vero nescimus sed solum opinamur per probabiles rationes, et in hoc tertio sepe fallimur et possumus falli, nec tamen ex hoc lumen nobis concreatum est falsum nec pro tanto fallimur pro quanto opiniones nostras scimus non esse scientias infallibiles, sic lumen per gratuitam revelationem datum quedam scit ut prima principia et indubitabilia revelata, quedam vero ut conclusiones ex ipsis necessario deductas, quedam vero ex utrisque solum probabiliter et coniecturaliter opinatur, et sic videtur fuisse intelligentia scripturarum et concordie novi et veteris testamenti per revelationem abbati Ioachim, ut ipsemet asserit, data. 

Purg. IV, 96; XVIII, 46-48, 55-57

Più non rispondo, e questo so per vero.

Ed elli a me: “Quanto ragion qui vede,
dir ti poss’ io; da indi in là t’aspetta
pur a Beatrice, ch’è opra di fede.”

Però, là onde vegna lo  ’ntelletto
de le prime notizie, omo non sape,
e de’ primi appetibili l’affetto

 

 

Purg. VI, 25-36, 43-45

Come libero fui da tutte quante
quell’ ombre che pregar pur ch’altri prieghi,
sì che s’avacci lor divenir sante,
io cominciai: “El par che tu mi nieghi,
o luce mia, espresso in alcun testo
che decreto del cielo orazion pieghi;
e questa gente prega pur di questo:
sarebbe dunque loro speme vana,
o non m’è ’l detto tuo ben manifesto?”.
Ed elli a me: “La mia scrittura è piana;
e la speranza di costor non falla,
se ben si guarda con la mente sana ……

Veramente a così alto sospetto
non ti fermar, se quella nol ti dice
che lume fia tra ’l vero e lo ’ntelletto.”

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[LSA, cap. II, Ap 2, 1 (Ia visio, IIIa ecclesia)] Tertia autem commendatur de servando et confitendo fidem inter magistros erroris, in quibus quasi in cathedra pestilentie Sathanas sedet. Increpatur tamen quia ex quorundam suorum negligentia quosdam hereticos habebat. Competunt autem hec tempori tertio, scilicet doctorum. Tunc enim aliqui catholici nimis participabant cum aliquibus hereticis, quamvis ceteri essent constantissimi contra eos. Hec autem ecclesia congrue vocatur Pergamus, id est dividens cornua, quia superbam potentiam et scissuram hereticorum potentissime frangebat et dissolvebat.

[LSA, cap. II, Ap 2, 12 (Ia visio, IIIa ecclesia)] Hiis autem premittuntur duo, scilicet preceptum de scribendo hec sibi et introductio Christi loquentis, cum subdit (Ap 2, 12): “Hec dicit qui habet rumpheam”, id est spatam, “ex utraque parte acutam”. Hec congruit ei, quod infra dicit: “pugnabo cum illis in gladio oris mei” (Ap 2, 16).
Unde contra doctores pestiferos erronee doctrine et secte ingerit se ut terribilem confutatorem et condempnatorem ipsorum per incisivam doctrinam et condempnativam sententiam oris sui. Dicit autem “ex utraque parte”, non solum quia absque acceptione personarum omnia vitia scindit et resecat vel condempnat, sed etiam quia contrarios errores destruit. Arrius enim, quasi ex uno latere, errat dicendo Dei Filium esse substantialiter diversum a Patre tamquam eius creaturam. Sabellius vero, quasi ab opposito latere, dicit quod eadem persona est Pater et Filius. Fides autem Christi utrumque scindit et resecat.

[LSA, cap. V, Ap 5, 1 (IIIus defectus in nobis claudens intelligentiam huius libri)] Tertius est nostre phantasie proterva et erronea cervicositas.

[LSA, prologus, Notabile I (IIIus status)] Tertius est confessorum seu doctorum, homini rationali appropriatus. […] In tertio sonus predicationis seu eruditionis et tuba magistralis.

[LSA, cap. II, Ap 2, 17 (Ia visio, IIIa victoria)] Tertia est victoriosus ascensus super phantasmata suorum sensuum, quorum sequela est causa errorum et heresum. Hic autem ascensus fit per prudentiam effugantem illorum nubila et errores ac impetus precipites et temerarios ac tempestuosos. Hoc autem competit doctoribus phantasticos hereticorum errores expugnantibus, quibus et competit premium singularis apprehensionis et degustationis archane sapientie Dei, de quo tertie ecclesie dicitur: “Vincenti dabo manna absconditum, et dabo ei calculum lucidum, et in calculo nomen novum scriptum, quod nemo novit, nisi qui accipit” (Ap 2, 17).

Purg. XV, 115-117; XVII, 7-9, 13-21, 25-26

Quando l’anima mia tornò di fori
a le cose che son fuor di lei vere,
io riconobbi i miei non falsi errori.

e fia la tua imagine leggera
in giugnere a veder com’ io rividi
lo sole in pria, che già nel corcar era.

O imaginativa che ne rube
talvolta sì di fuor, ch’om non s’accorge
perché dintorno suonin mille tube,
chi move te, se ’l senso non ti porge?
Moveti lume che nel ciel s’informa,
per sé o per voler che giù lo scorge.
De l’empiezza di lei che mutò forma
ne l’uccel ch’a cantar più si diletta,
ne l’imagine mia apparve l’orma

Poi piovve dentro a l’alta fantasia
un crucifisso, dispettoso e fero

Purg. XIII, 118-119

Rotti  fuor quivi e vòlti ne li amari
passi di fuga …………………….

Purg. XXXII, 118-123

Poscia vidi avventarsi ne la cuna
del trïunfal veiculo una volpe
che d’ogne pasto buon parea digiuna;
ma, riprendendo lei di laide colpe,
la donna mia la volse in tanta futa
quanto sofferser l’ossa sanza polpe.

Purg. XVII, 31-33, 40-45, 106-114

E come questa imagine rompeo
sé per sé stessa, a guisa d’una bulla
cui manca l’acqua sotto qual si feo

Come si frange il sonno ove di butto
nova luce percuote il viso chiuso,
che fratto guizza pria che muoia tutto;
così l’imaginar mio cadde giuso
tosto che lume il volto mi percosse,
maggior assai che quel ch’è in nostro uso.

Or, perché mai non può da la salute
amor del suo subietto volger viso,
da l’odio proprio son le cose tute;
e perché intender non si può diviso,
e per sé stante, alcuno esser dal primo,
da quello odiare ogni effetto è deciso.
Resta, se dividendo bene stimo,
che ’l mal che s’ama è del prossimo; ed esso
amor nasce in tre modi in vostro limo.

Purg. XVIII, 10-12

Ond’ io: “Maestro, il mio veder s’avviva
sì nel tuo lume, ch’io discerno chiaro
quanto la tua ragion parta o descriva.”

 

 

 

[Nota alla tabella precedente]

La terza vittoria (la cui esegesi conclude l’istruzione data a Pergamo, la terza chiesa d’Asia) consiste nella vittoriosa ascesa al di sopra della fantasia mossa dal senso, che è causa di errore e di eresia. Questa salita avviene tramite la prudenza che mette in fuga le nebbie, gli errori e gli impulsi precipitosi e temerari. È propria dei dottori che vincono gli errori della fantasia eretica, a loro spetta il premio del singolare apprendimento e del gusto dell’arcana sapienza di Dio. Così alla terza chiesa d’Asia (Pergamo) viene detto: “Al vincitore darò la manna nascosta e una pietruzza lucida sulla quale sta scritto un nome nuovo, che nessuno conosce all’infuori di chi la riceve” (Ap 2, 17). La fantasia erronea è pure il difetto che rende chiuso il terzo sigillo (ad Ap 5, 1).
I temi della fantasia e dell’errore, dalla terza vittoria, emergono con evidenza (accanto ad altri del terzo stato) nel terzo girone del Purgatorio. Cessate le visioni estatiche di mansuetudine, che precedono l’episodio di Marco Lombardo, il poeta, tornato con l’anima “di fori / a le cose che son fuor di lei vere”, riconosce che le cose da lui viste erano “non falsi errori”, errori in quanto non esistenti nella realtà, non falsi come esperienza di visione soggettiva (Purg. XV, 115-117). Dopo l’uscita dal fumo degli iracondi (momento in cui il poeta si appella all’immaginazione del lettore, Purg. XVII, 1-9), è la volta delle visioni di ira punita. La loro descrizione è preceduta da un’apostrofe all’ “imaginativa”, cioè alla fantasia, la facoltà dell’anima che media tra il sensibile e l’intelletto: chi la fa operare, si chiede il poeta, se la materia non è fornita dalle percezioni sensibili? Essa, in questo caso, viene stimolata da un lume che prende forma nel cielo, o per influsso celeste o perché mandato da Dio (Purg. XVII, 13-18). Nel caso delle visioni estatiche, pertanto, il poeta consegue la terza vittoria, cioè ascende al di sopra della fantasia che muove dal senso, causa di errore e di eresia: il lume celeste che muove l’ “imaginativa” corrisponde al lume dei dottori (prologo, Notabile X). È l’ “alta fantasia” (Par. XXXIII, 142), cioè la visione intellettuale che, come quella dell’Apocalisse avuta da Giovanni, non viene sminuita dal fatto di essere aiutata da figure (Ap 1, 2). È da notare, nell’apostrofe all’ “imaginativa”, la presenza di un altro tema del terzo stato (la tuba dottorale: prologo, Notabile I) nel riferimento al suonar delle “mille tube” che non potrebbero impedire il rapimento dell’anima dalle impressioni del mondo esterno (l’espressione “ch’om non s’accorge” contiene il motivo dell’uomo razionale, sempre dal Notabile I). Il rapporto equivoco tra l’immagine vera e quella erronea (le cose vere fuori dell’anima e i “non falsi errori” all’interno) continua nelle visioni di ira punita, nell’immaginazione di Aman crocifisso, tra Assuero, Ester e il giusto Mardocheo, la quale si rompe da sola, come una bolla d’aria che viene meno al rompersi del velo d’acqua che l’avvolge (Purg. XVII, 31-33): il tema del rompere l’errore (in questo caso non falso) è proprio della terza chiesa (Pergamo), alla quale Cristo si presenta come colui che ha la rumphea, cioè la spada acuta che scinde e divide (Ap 2, 12). La fine delle visioni (ibid., 40-45) corrisponde al cader giù dell’immaginare del poeta percosso nel volto dal lume dell’angelo della pace, come il sonno “si frange” (altro motivo appropriato alla chiesa di Pergamo) guizzando allorché il viso è percosso da “nova luce” (la pietruzza lucida che contiene il nome nuovo, premio della terza vittoria ad Ap 2, 17).

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[LSA, prologus, Notabile VI] Tertia ratio magis litteralis est quia ut quidam finis sollempnis et quoddam sollempne initium novi seculi monstretur esse in sexto statu et plenius in septimo […]

[LSA, prologus, Notabile VII] […] sicque tertio, reiecta tota vetustate huius seculi, renovaretur et consumaretur seculum per gloriam et in gloria Christi. […]
Huius autem figurale exemplum precessit in veteri testamento. Nam Eleazarus primogenitus Aaron factus est post ipsum pontifex summus, ac deinde Finees filio eius statuit Deus pactum sacerdotii eterni propter zelum Dei quem habuit contra Madianitas. Et tamen circa tempus Helii erant summi pontifices non de stirpe Eleazari, sed de stirpe Itamar fratris sui; sub David autem prelata est usque ad duplum stirps Eleazari. Nam ex tunc habuit sedecim pontifices et sedecim sortes, quarum Sadoc fuit princeps. Stirps vero Itamar non habuit nisi octo, quarum Abiatar princeps fuit, quem Salomon de pontificatu reiecit et Sadoc omnibus prefecit. Deus autem Ezechielis XLIIII° promittit quod in templo futuro, de quo ibi agitur, soli filii Sadoc erunt sacerdotes in Dei sanctuario ministrantes, reliquis vero sufficiat quod sint editui templi et ianitores portarum eius et ministri sacerdotum (Ez 44, 10-16). Constat autem quod hoc non fuit impletum usque ad tempus Christi. Nam Zacharias, pater Iohannis, fuit pontifex de octava sorte stirpis Itamar. Consimiliter autem pontificatus Christi fuit primo stirpi vite evangelice et apostolice in Petro et apostolis datus, ac deinde utiliter et rationabiliter fuit ad statum habentem temporalia commutatus, saltem a tempore Constantini usque ad finem quinti status. Pro quanto autem multi sanctorum pontificum fuerunt regulares et in suis scriptis et in habitu sui cordis preferentes paupertatem Christi et apostolorum omnibus temporalibus ecclesie datis, pro tanto quasi usque ad duplum preeminuit primus ordo sacerdotii apostolici. Congruum est ergo quod in fine omnino redeat et assurgat ad ordinem primum, ad quem spectat iure primogeniture et perfectionis maioris et Christo conformioris. Ad istum autem reditum valde, quamvis per accidens, cooperabitur non solum multiplex imperfectio in possessione et dispensatione temporalium ecclesie in pluribus comprobata, sed etiam multiplex enormitas superbie et luxurie et symoniarum et causidicationum et litigiorum et fraudum et rapinarum ex ipsis occasionaliter accepta, ex quibus circa finem quinti temporis a planta pedis usque ad verticem est fere tota ecclesia infecta et confusa et quasi nova Babilon effecta.

[LSA, cap. II, Ap 3, 12 (VIa victoria)] In huius[modi] autem mente tria inscribuntur, scilicet excessiva visio vel contemplatio deitatis trium personarum, et totius civitatis seu collegii sanctorum, quam dicit descendere de celo a Deo tum quia tota a Deo oritur et sic quod est inferior eo et sua immensitate per celum designata, tum quia per humilitatem non solum Deo sed etiam suo proprio ac celesti loco reputat se indignam, tum quia prout Iherusalem sumitur pro militanti ecclesia descendunt eius gratie a Deo et a hierarchia beatorum.
Vocat autem eam novam propter novitatem glorie vel gratie, unde et precipue significat hic civitatem beatorum, et post hoc illam que erit in sexto et septimo statu, et post hoc illam que reiecta vetustate legalium fuit in quinque primis statibus Christi, et post hoc totam universaliter ab initio mundi. Vocatur etiam Iherusalem, id est visio pacis, quia vel ipsa fruitur vel ad ipsam suspiratur.
Tertium quod sibi [in]scribitur est contemplatio Christi secundum quod homo et secundum quod redemptor noster et mediator. Dicitur autem nomen suum esse novum, tum propter novitatem sue resurrectionis et glorie, tum quia unio sue deitatis cum humanitate in eadem persona et universaliter omnia que in ipso sunt miram continent et preferunt novitatem.
Et attende quomodo a Deo incipiens et in eius civitatem descendens, reascendit et finit in se ipsum, quia contemplatio incipit in Deo et per Dei civitatem ascendit in Christum eius regem, in quo et per quem consumatissime redit et reintrat in Deum, et sic fit circulus gloriosus.
Item, secundum quosdam, inscribitur sibi nomen Dei Patris quando sue paternitatis imago sic illi imprimitur ut merito possit dici abba seu pater spiritualis religionis et prolis. Nomen vero Iherusalem nove sibi inscribitur, cum per suavitatem amoris est eius mens digna ut vocetur sponsa Christi et mater pia et nutritiva spiritalis prolis.

[LSA, cap. XII, Ap 12, 7 (IVa visio, IIum prelium)] Tertio ut modus loquendi in hac quarta visione conformetur proprietatibus quarti status virginum et angel[ic]orum et anachoritarum seu contemplativorum, unde et ecclesia descripta est hic sub typo Virginis matris Christi, non carnali indumento sed celesti et solari indute, nec quasi stans in terra cum hominibus et bestiis sed tamquam stans in celo cum angelis, unde et infra describit virgineam prolem eius tamquam agnos incorruptos et citharedos et Agni Dei indivisos socios (cfr. Ap 14, 1-5).

Purg. XXII, 67-72

Facesti come quei che va di notte,
che porta il lume dietro e sé non giova,
ma dopo sé fa le persone dotte,
quando dicesti: ‘Secol si rinova;
torna giustizia e primo tempo umano,
e progenïe scende da ciel nova’.

Egloga IV, 5-7

Magnus ab integro saeclorum nascitur ordo
iam redit et Virgo, redeunt Saturnia regna;
iam nova progenies caelo demittitur alto.

 

2.2. Un passato remoto equivoco (“ebbe”): morte corporale o sostituzione nel primato della “gloria de la lingua”?

Cosa intendeva dire Dante a Cavalcante – «E io a lui: “Da me stesso non vegno: / colui ch’attende là, per qui mi mena / forse cui Guido vostro ebbe a disdegno”» (Inf. X, 61-63)? Cosa comprende il padre di Guido – «Come? / dicesti “elli ebbe”? non viv’ elli ancora? / non fiere li occhi suoi lo dolce lume?» (ibid., 67-69)? Per intendere bene l’equivoco fra i due bisogna esaminare il tessuto spirituale di Purg. XI.

Al vescovo di Efeso, il metropolita delle sette chiese d’Asia alle quali Giovanni scrive nella prima visione, viene minacciato lo spostamento del candelabro, cioè la “translatio” del primato ad altra chiesa, qualora nel suo allontanarsi, discendendo in basso, non ritorni, risalendo, alla carità originaria: “Memor esto itaque unde excideris et age penitentiam et prima opera fac. Sin autem, venio tibi et movebo candelabrum tuum de loco suo, nisi penitentiam egeris” (Ap 2, 5).
Efeso viene assimilata all’ “Ecclesia ex circumcisione”, che aveva sede a Gerusalemme. Questa peccò di vanagloria nella superba presunzione del suo primato che le derivava dall’essere stata la prima a credere in Cristo, dal fatto che i Gentili la onoravano e seguivano come maestra che li aveva illuminati in Cristo e tratti a Cristo, dalla gloria dei suoi patriarchi e profeti e dalla legge e dal culto di Dio per lungo tempo in essa sola fondati. Tra i motivi della traslazione, avvenuta con la fissazione della sede in Roma da parte di san Pietro, rientra anche quello per cui i Giudei dovevano essere, all’avvento di Cristo, abbandonati nella loro cecità e la sede somma di Cristo posta a Roma, nella principale sede dell’Impero dei Gentili. Ad umiliazione di questo superbo primato, Cristo si mostra all’inizio dell’istruzione rivolta alla chiesa di Efeso come “Colui che tiene le sette stelle nella sua destra” (Ap 2, 1), cioè tutti i preclari prìncipi e prelati di ogni chiesa, e che è presente in tutte le chiese attuali e future, che percorre e visita. Egli è il sommo re e pontefice, molte altre importanti chiese sono e dovranno porsi sotto Cristo oltre alla superba Gerusalemme. Olivi, a differenza di Riccardo di San Vittore che si mantiene nell’interpretazione letterale e morale, fa della “translatio” uno dei motori della storia. Essa infatti non avviene solo con la chiesa di Gerusalemme, perché si verificherà ancora, alla fine del quinto stato della Chiesa, con la traslazione del primato della nuova Babilonia alla nuova Gerusalemme e, al termine dell’ultima e prava parte del settimo stato, nella traslazione alla Gerusalemme celeste.

Se alla chiesa di Efeso (la prima delle sette chiese d’Asia) viene minacciato lo spostamento del candelabro, alla sesta chiesa, Filadelfia (il sesto stato è il tempo di Olivi e di Dante), viene minacciata la perdita della corona se non persevererà nella fede e nelle buone opere. Come infatti il primo stato della Chiesa, designato con la chiesa di Efeso, ebbe il primato rispetto al secondo stato generale del mondo (la gioachimita età del Figlio), definito da san Paolo il tempo della pienezza delle genti (Rm 11, 25-26), così il sesto stato avrà il primato rispetto al terzo stato generale, che durerà fino alla fine del mondo (l’età dello Spirito, che coincide appunto con gli ultimi due stati della Chiesa, il sesto e il settimo). La traslazione viene minacciata affinché le chiese e i loro vescovi non insuperbiscano credendo che altri non possa sostituirle in modo ugualmente degno. Inoltre, sia la Chiesa primitiva sia quella del sesto stato subentrano nella gloria ad un’altra, la prima alla Sinagoga, la seconda alla meretrice Babilonia, che verrà condannata agli inizi del sesto stato (Ap 3, 11).

La collazione dei due luoghi relativi alla chiesa di Efeso (Ap 2, 5) e alla chiesa di Filadelfia (Ap 3, 11) conduce al primo girone del Purgatorio, quello dei superbi, dove Oderisi da Gubbio riconosce la superiorità nell’arte della miniatura di Franco Bolognese e cita altri due celebri esempi di “translatio”. Come Cimabue è stato superato da Giotto nella pittura, “così ha tolto l’uno a l’altro Guido / la gloria de la lingua; e forse è nato / chi l’uno e l’altro caccerà del nido” (Purg. XI, 79-84, 94-99). L’essere onorati e “illuminati”, vanto della chiesa di Efeso, viene appropriato a Oderisi, “l’onor d’Agobbio” e, in senso equivoco, all’arte della miniatura, “ch’alluminar chiamata è in Parisi” (il francese “enluminer”). Oderisi, con atto di umiltà, afferma che tutto l’onore è di chi gli è subentrato, ed è suo solo in parte.
“Credette Cimabue ne la pittura / tener lo campo”: il verbo tenere designa il potere di Cristo che “tiene” nella mano destra le sette stelle, cioè tutte le chiese presenti e future (cfr. Ap 2, 1), le quali ‘tengono’ un primato solo temporaneo. Non diversamente Provenzan Salvani, un altro purgante nel girone dei superbi, “fu presuntüoso / a recar Siena tutta a le sue mani” (Purg. XI, 121-123).
La gloria preparata per la Sinagoga e poi traslata alla Chiesa di Cristo, o quella che dal quinto stato viene passata al sesto, è appropriata ai due Guidi (per lo più intesi come Guido Cavalcanti e Guido Guinizzelli), che verranno superati dalle nuove rime di Dante (il quale non a caso è “sesto tra cotanto senno” nella “bella scola” dei poeti del Limbo, Inf. IV, 100-102). L’espressione “ha tolto l’uno a l’altro Guido” corrisponde all’evellere per cui il candelabro viene spostato.
I temi propri del primato della chiesa di Gerusalemme, onorata maestra illuminatrice e per lungo tempo sola depositaria della legge divina e del culto, si trovano nelle parole che Dante rivolge a Virgilio subito dopo l’apparizione di questi nella “diserta piaggia”: egli è “onore e lume” degli altri poeti, solo maestro da cui il fiorentino ha tolto “lo bello stilo che m’ha fatto onore”, cioè lo stile tragico o elevato (Inf. I, 82-87). L’espressione “da cu’ io tolsi”, considerato il significato, di passaggio del primato, che il verbo ‘togliere’ assume nel discorso di Oderisi relativo ai due Guidi, adombra forse un’idea di onorevole “translatio” del primato poetico da Virgilio a Dante (senza, ovviamente, alcun riferimento alla superbia). Non diversamente si rivolge Stazio a Virgilio, che per primo lo avviò alla poesia e lo illuminò nella fede cristiana (Purg. XXII, 64-66: non c’è il verbo ‘togliere’, ma a Virgilio è attribuito per due volte un “prima”; “tamquam per eam illuminati in Christo et tracti ad Christum … e prima appresso Dio m’alluminasti).

In Purg. XI, per bocca di Oderisi da Gubbio che purga la superbia nel primo girone della montagna, Dante fa dunque risuonare i temi propri del primato della superba chiesa di Gerusalemme, onorata maestra illuminatrice e per lungo tempo sola depositaria della legge divina e del culto, primato traslato ad altri per presunzione e minacciato ad Efeso, la principale delle sette chiese d’Asia. L’esegesi della prima chiesa (Ap 2, 5) è da collazionare con quella della prima tromba (Ap 8, 7), la quale risuona contro la durezza giudaica che non volle riconoscere Cristo. Il male venuto sui Giudei viene così espresso: “e la terza parte della terra fu combusta, e la terza parte degli alberi fu bruciata e ogni erba verde fu combusta”. Secondo una delle interpretazioni proposte, nessuno che non sia fermo nella fede e nella carità come la terra o un albero può vincere quella che fu la tentazione giudaica contro Cristo, forte di avere dalla sua parte l’autorità e la testimonianza dei ‘maggiori’ (cioè degli avi) e dei più antichi e famosi sapienti e la sequela di quasi tutto il popolo. A questa tentazione non può resistere chi è fragile e instabile come l’erba che inaridisce.
Il panno, che cuce insieme Ap 2, 5 (prima chiesa) e Ap 8, 7 (prima tromba), si mostra il medesimo per Inf. X e Purg. XI. Si confrontino, ad Ap 2, 5, le espressioni “Si vero queratur plenior ratio sui casus vel translationis predicte … Primum est inanis gloria et superba presumptio de suo primatu et primitate, quam scilicet habuit” con le parole “forse cui Guido vostro ebbe a disdegno”, dette da Dante a Cavalcante (Inf. X, 63), e con “ogn’ uomo ebbi in despetto tanto avante” dette da Omberto Aldobrandesco (Purg. XI, 64), ed anche la superbia di Capaneo, che “ebbe e par ch’elli abbia / Dio in disdegno, e poco par che ’l pregi” (Inf. XIV, 69-70). Per quanto le situazioni siano diverse o solo parzialmente simili e i motivi variamente appropriati, la memoria del lettore consapevole doveva essere sollecitata verso quei punti esegetici. In ogni caso habuit, nell’esegesi, è tempo incontestabilmente legato a una “translatio” avvenuta. Nella risposta di Dante a Cavalcante, “ebbe” è parola chiave dell’equivoco: il padre di Guido pensa alla morte corporale; Dante pensa alla traslazione del primato, vivente ancora il primo dei suoi amici, nella “gloria de la lingua”. La domanda di Cavalcante – «piangendo disse: “Se per questo cieco / carcere vai per altezza d’ingegno, / mio figlio ov’ è? e perché non è teco?”» (Inf. X, 58-60) – vuole anche dire: ‘perché mio figlio non è come te sesto, cioè della generazione che ha messo fuori le nove rime?’.
Unito alla primitas da Ap 2, 5, l’avere dalla propria parte “auctoritatem et testimonium maiorum et antiquiorum”, da Ap 8, 7, è nella domanda di Farinata – «guardommi un poco, e poi, quasi sdegnoso, / mi dimandò: “Chi fuor li maggior tui?”» (Inf. X, 41-42) –, nelle successive parole dopo che l’ubbidiente poeta tutto gli ha aperto in merito – «poi disse: “Fieramente furo avversi / a me e a miei primi e a mia parte”» (ibid., 46-47) -, nonché nel riconoscimento della propria arroganza da parte di Omberto – “L’antico sangue e l’opere leggiadre / d’i miei maggior mi fer sì arrogante” (Purg. XI, 61-62).
“Ma i vostri non appreser ben quell’ arte … forse cui Guido vostro ebbe a disdegno” (Inf. X, 51, 63): alla presunzione del primato politico in Farinata, il quale viene a sapere da Dante che i suoi ghibellini non hanno appreso l’arte di rientrare a Firenze, a differenza degli avversari per due volte dispersi che ne sono stati capaci in entrambi i casi, fa seguito la presunzione che alla poesia basti l’ “altezza d’ingegno” senza guida [21].
Capopopolo e capitano d’arte, Farinata assume la veste di vescovo di una chiesa detentrice di un primato solo temporaneo e soggetto a “translatio”. Ad Ap 2, 1 Olivi precisa che per ‘chiese’ (quelle d’Asia alle quali Giovanni scrive nella prima visione), le cui qualità positive o negative si sviluppano nella storia, non sono da intendere soltanto i vescovi, perché vi compartecipano tutti i fedeli: “[…] episcopi istarum ecclesiarum non commendantur vel increpantur vel instruuntur solum pro se, sed etiam sub nomine eorum intelliguntur ecclesie ipsorum commendari et increpari et moneri”. Lo dice nel male Farinata, al quale Dante chiede conto dello strazio di Montaperti: “A ciò non fu’ io sol ”, non fu cioè solo lui, capo dei ghibellini, a muovere contro la sua città; lo fece con gli altri della sua parte, assimilata a una ‘chiesa’ (Inf. X, 89-90). Lo ripete nel bene Ugo Capeto, fra gli avari e i prodighi purganti che dicono durante il giorno gli esempi virtuosi: “dianzi non era io sol ” (Purg. XX, 122).

 

[LSA, cap. II, Ap 2, 5 (Ia visio, Ia ecclesia)] Deinde, si non se correxerit, comminatur ei casum totalem dicens (Ap 2, 5): “Sin autem, venio tibi”, id est contra te. Dicit autem “venio”, non ‘veniam’, ut ex imminenti propinquitate sui adventus ipsum fortius terreat. “Et movebo candelabrum tuum de loco suo, nisi penitentiam egeris”, id est evellam a me et a fide mea in quo es fundata, secundum illud Apostoli Ia ad Corinthios III°: “Fundamentum aliud nemo potest ponere, preter id quod positum est, quod est Christus Ihesus” (1 Cor 3, 11). […]
Si vero queratur plenior ratio sui casus vel translationis predicte, potest colligi ex tribus. Primum est inanis gloria et superba presumptio de suo primatu et primitate, quam scilicet habuit non solum ex hoc quod prima in Christum credidit, nec solum ex hoc quod fideles ex gentibus ipsam honorabant et sequebantur ut magistram et primam, tamquam per eam illuminati in Christo et tracti ad Christum, sed etiam ex gloria suorum patriarcharum et prophetarum et divine legis ac cultus legalis longo tempore in ipsa sola fundati. […]
Consimiles fere rationes invenies de ultimo casu novissimi cursus quinti temporis ecclesiastici et translationis primatus Babilonis in novam Iherusalem, et iterum casus et translationis ultime et reprobe partis septimi status in celestem Iherusalem.
Ad humiliationem autem sue superbie et manifestationem primatus Christi super legalia et super omnia secula valet quod premittitur Christus tenere in sua dextera “septem stellas” (Ap 2, 1), id est omnes preclaros principes et prelatos omnium ecclesiarum presentialiter precurrere ac visitare omnes ecclesias presentes et futuras. Ex quo patet quod Christus est summus rex et pontifex, et quod multe alie sollempnes ecclesie preter Ierosolimitanam ecclesiam sunt et esse debebant sub Christo, ita quod non oportebat eam superbire de suo primatu.

Inf. I, 82-87

O de li altri poeti onore e lume,
vagliami  ’l lungo studio e  ’l grande amore
che m’ha fatto cercar lo tuo volume.
Tu se’ lo mio maestro e  ’l mio autore,
tu se’ solo colui da cu’ io tolsi
lo bello stilo che m’ha fatto onore.

Purg. XXII, 64-66, 73

Ed elli a lui: “Tu prima m’invïasti
verso Parnaso a ber ne le sue grotte,
e prima appresso Dio m’alluminasti.”

Per te poeta fui, per te cristiano 

[LSA, cap. III, Ap 3, 11 (VIa ecclesia)] Item sicut soli primo comminatus est translationem sue ecclesie de loco suo, sic soli sexto significat quod, si non perseveraverit, eius corona ad alium transferetur. Cuius mistica ratio est quia sicut primus status habuit primatum respectu totius secundi generalis status mundi, qui ab Apostolo vocatur tempus seu ingressus plenitudinis gentium (Rm 11, 25), sic sextus habebit primatum respectu totius tertii generalis status mundi duraturi usque ad finem seculi. Ne ergo de suo primatu superbiant aut insolescant, quasi non possint ipsum perdere aut quasi alius nequeat substitui eis et fieri eque dignus, insinuatur eis predicta translatio. Secunda ratio est quia uterque eorum substitutus est alteri. Nam gloria que fuerat sinagoge parata et pontificibus suis, si in Christum credidissent, translata fuit ad primitivam ecclesiam et ad pastores eius. Sic etiam gloria parata finali ecclesie quinti status transferetur propter eius adulteria ad electos sexti status, unde et in hoc libro vocatur Babilon meretrix circa initium sexti status dampnanda. Notandum tamen quod per hoc verbum docemur numerum electorum ad complendam fabricam civitatis superne sic esse prefixum quod si unus per suam culpam corruat, alterum oportet substitui ne illa fabrica remaneat incompleta.

Purg. XI, 79-84, 88, 94-99, 121-123

“Oh!”, diss’ io lui, “non se’  tu Oderisi,
l’onor d’Agobbio e l’onor di quell’ arte
ch’ alluminar chiamata è in Parisi?”.
“Frate”, diss’ elli, “più ridon le carte
che pennelleggia Franco Bolognese;
l’onore è tutto or suo, e mio in parte.”

Di tal superbia qui si paga il fio

Credette Cimabue ne la pittura
tener lo campo, e ora ha Giotto il grido,
sì che la fama di colui è scura.
Così ha tolto  l’uno a l’altro Guido
la gloria de la lingua; e forse è nato
chi l’uno e l’altro caccerà del nido.

“Quelli è”, rispuose, “Provenzan Salvani;
ed è qui perché fu presuntüoso
a recar Siena tutta a le sue mani.”

Inf. IV, 100-102

e più d’onore ancora assai mi fenno,
ch’e’ sì mi fecer de la loro schiera,
sì ch’io fui sesto tra cotanto senno.

[LSA, cap. II, Ap 2, 5 (Ia visio, Ia ecclesia)] Si vero queratur plenior ratio sui casus vel translationis predicte, potest colligi ex tribus. Primum est inanis gloria et superba presumptio de suo primatu et primitate, quam scilicet habuit non solum ex hoc quod prima in Christum credidit, nec solum ex hoc quod fideles ex gentibus ipsam honorabant et sequebantur ut magistram et primam, tamquam per eam illuminati in Christo et tracti ad Christum, sed etiam ex gloria suorum patriarcharum et prophetarum et divine legis ac cultus legalis longo tempore in ipsa sola fundati.

 [LSA, cap. VIII, Ap 8, 7 (IIIa visio, Ia tuba)] Vel per hoc designatur quod temptationem que simul habet magnam speciem boni et veri, et auctoritatem et testimonium maiorum et antiquiorum et in sapientia famosiorum, et sequelam maioris et quasi totalis partis populi, nullus potest vincere nisi sit in fide et caritate firmus ut terra vel arbor et non fragilis et instabilis et cito arefactibilis sicut fenum. Talis autem fuit temptatio iudaica contra Christum.

 Inf. X, 40-48, 61-63

Com’ io al piè de la sua tomba fui,
guardommi un poco, e poi, quasi sdegnoso,
mi dimandò: “Chi fuor li maggior tui?”.
Io ch’era d’ubidir disideroso,
non gliel celai, ma tutto gliel’ apersi;
ond’ ei levò le ciglia un poco in suso;
poi disse: “Fieramente furo avversi
a me e a miei primi e a mia parte,
sì che per due fïate li dispersi”.

E io a lui: “Da me stesso non vegno:
colui ch’attende là, per qui mi mena
forse cui Guido vostro ebbe a disdegno”.

 Purg. XI, 61-66 

L’antico sangue e l’opere leggiadre
d’i miei maggior mi fer sì arrogante,
che, non pensando a la comune madre,
ogn’ uomo ebbi in despetto tanto avante,
ch’io ne mori’, come i Sanesi sanno,
e sallo in Campagnatico ogne fante.

Inf. XIV, 67-72

Poi si rivolse a me con miglior labbia,
dicendo: “Quei fu l’un d’i sette regi
ch’assiser Tebe; ed ebbe e par ch’elli abbia
Dio in disdegno, e poco par che ’l pregi;
ma, com’ io dissi lui, li suoi dispetti
sono al suo petto assai debiti fregi.”

Inf. X, 40-42, 61-63

Com’ io al piè de la sua tomba fui,
guardommi un poco, e poi, quasi sdegnoso,
mi dimandò: “Chi fuor li maggior tui ?”.

E io a lui: “Da me stesso non vegno:
colui ch’attende là, per qui mi mena
forse cui Guido vostro ebbe a disdegno”.

Inf. X, 49-51

“S’ei fur cacciati, ei tornar d’ogne parte”,
rispuos’ io lui, “l’una e l’altra fïata;
ma i vostri non appreser ben quell’ arte”.

Inf. X, 51, 63

ma i vostri  non appreser ben quell’ arte

forse cui Guido vostro ebbe a disdegno

Purg. XI, 61-66

L’antico sangue e l’opere leggiadre
d’i miei maggior mi fer sì arrogante,
che, non pensando a la comune madre,
ogn’ uomo ebbi in despetto tanto avante,
ch’io ne mori’, come i Sanesi sanno,
e sallo in Campagnatico ogne fante.

Purg. XI, 97-99

Così ha tolto l’uno a l’altro Guido
la gloria de la lingua; e forse è nato
chi l’uno e l’altro caccerà del nido.

Purg. XI, 115-117

La vostra nominanza è color d’erba,
che viene e va, e quei la discolora
per cui ella esce de la terra acerba.

 

 

3. Essere “sospesi”: desiderio inappagato di Dio o vita contemplativa?

La descrizione della pena degli eresiarchi conduce ai primi versetti del capitolo IV, in relazione al cielo, cioè alla Scrittura, che viene aperto a Giovanni elevato a visioni sempre più nuove e ardue (Ap 4, 2: “et ecce ostium apertum in celo”; cfr. nota[22]. Come sulla porta della tomba di Cristo era posta una pietra grande e pesante che fu rimossa al momento della resurrezione e dell’uscita di Cristo dal sepolcro, così il duro involucro del senso letterale, gravato dal peso di figure sensibili e carnali, chiudeva nell’Antico Testamento la porta della Scrittura impedendo l’accesso all’intelligenza spirituale. Nei cuori degli uomini era lapidea durezza e sentimento ottuso, chiuso alle illuminazioni divine. L’assenza di grandi opere nella Chiesa era anch’essa come una porta chiusa che impediva di contemplare la “fabrica ecclesie”. Colui che per primo aprì la porta e diede la prima voce che ci fece salire al cielo fu Cristo, con la sua illuminazione e dottrina. La voce degli antichi profeti, che chiuse la porta con figure e promesse terrene, depresse il senso carnale dei Giudei piuttosto che elevarlo. Cristo, invece, con l’esempio della sua vita spiritualissima, con la morte della sua carne e con l’abbondante infusione del suo spirito, fece in modo che gli apostoli e qualunque uomo spirituale fossero in spirito e quasi non in carne (“et statim fui in spiritu”), secondo quanto detto ai Corinzi da san Paolo: “L’uomo animale non percepisce né può comprendere le cose dello Spirito di Dio, l’uomo spirituale invece giudica ogni cosa”, cioè è dotato di discernimento (1 Cor 2, 14-15). Cristo, in Giovanni  10, 1-9, definisce sé “porta” e “portinaio”. Chi con chiara fede e intelligenza si fissa in lui in modo che gli venga incontro in ogni luogo della Scrittura e in ogni fatto della Chiesa, lo avrà in quei luoghi e in quei fatti come il sole che irraggia fugando le tenebre.

Il tema, da Ap 4, 2, della pietra rimossa che chiudeva la tomba, congiunto con quello della durezza, si trova nelle arche degli eretici, “monimenti”, o “sepolcri”, dai “coperchi” “sospesi” e “levati” fino al momento in cui verranno chiusi il giorno del giudizio, ma dai quali “fuor n’uscivan sì duri lamenti” (Inf. IX, 121-123, 131; X, 7-12).
Questi significati, appropriati alle arche infuocate, non escludono il senso letterale, in cui sono racchiusi; si tratti di un calco dei roghi comminati come pena degli eretici da Federico II [23]  oppure del Salmo 48, 12-13, dove è presente la medesima equiparazione fra uomini e bestie data da Ecclesiaste 3, 18-19, con l’aggiunta: “sepulchra eorum domus illorum in aeternum”, luogo addotto da Salimbene nel noto passo su Federico II epicureo.
L’essere “sospesi” ha qui un senso proprio, da connettere alla contemplazione. Dei quattro animali (leone, bue o vitello, simile a un uomo, aquila) che ad Ap 4, 7-8 sono in mezzo e intorno al trono della sede divina, quello simile a un’aquila che vola designa coloro i quali “sono sospesi nella contemplazione” (“in aquila [accipiamus] contemplatione suspensos”). L’apertura del coperchio ‘sospeso’ delle arche allude dunque alla possibilità di vedere il futuro da parte dei dannati. Farinata vede, cioè contempla, le cose che sono lontane nel tempo, senza sapere nulla degli eventi vicini o presenti (Inf. X, 97-108). Ma questa “mala luce”, cui fa riferimento la sospensione del coperchio, verrà meno il giorno del giudizio, allorché non ci sarà più futuro e l’avello verrà chiuso e con esso l’accesso all’illuminazione divina che “cotanto ancor ne splende” e consente al ghibellino di profetizzare l’esilio di Dante.
Di qui il valore equivoco dell’esser “sospesi”, che designa sì lo stato di coloro che, nel Limbo, vivono in eterno nel desiderio di Dio senza speranza di appagamento, ma pure lo stato di chi, contemplando, è capace di vedere più degli altri. Il volare di Omero sopra gli altri è un filo tratto dalla quarta tromba (il quarto stato è per antonomasia quello dei contemplativi): si tratta di un’altra citazione gioachimita, relativa a Gregorio Magno che molto scrisse sulla fine del mondo e che seppe meglio di chiunque percorrere i sentieri dell’allegoria, “ardue vie del cielo” (Ap 8, 13): “quique allegoriarum semitas ac si arduas celi vias altius pre ceteris prevolavit │ che sovra li altri com’ aquila vola” (Inf. IV, 96) [24].
In tal senso è da intendere la curiosa terzina riferita a Maometto in Inf. XXVIII, 61-63, il quale nella nona bolgia parla di Fra Dolcino ‘sospendendo’, cioè alzando, un piede per rimettersi in cammino e distendendolo poi a terra, finito di parlare, nell’allontanarsi. Maometto è dotato di spirito profetico, per cui contempla la futura fine (nel 1307) dell’eretico novarese per “stretta di neve” e fa concordare il movimento del piede con il quarto senso della Scrittura, l’anagogico, assimilato all’aquila sospesa nella contemplazione e al profetare. Cessata la profezia, il piede si distende per terra in quanto dal senso anagogico, in virtù del quale stava sospeso, scende al senso letterale designato dal vitello (o bue) che solca la terra [25]. Maometto riprende “la dolente strada” verso il diavolo che riapre le ferite con la spada, perché tale è “il martiro” inflitto ai seminatori di scandalo e di scisma, e anche questo concorda con l’animale sofferente, aggiogato, destinato al martirio che designa il senso storico o letterale.

L’essere sospesi nella contemplazione come un’aquila (Ap 4, 7-8) si accompagna allo stare fissi nel tempio come una colonna, proprio della sesta vittoria (Ap 3, 12[26]. Ne è esempio Beatrice la quale, nell’attesa che le schiere del trionfo di Cristo discendano al cielo delle stelle fisse, “stava eretta e attenta”, “sospesa e vaga” verso il mezzogiorno, come sta l’uccello che con ardente affetto attende la luce del sole (Par. XXIII, 1-15: l’attendere è tema del quinto sigillo, ad Ap 6, 11; il meriggio è proprio del sesto stato, allorché la faccia di Cristo luce come il sole in tutta la sua virtù, ad Ap 1, 16). Ne è ulteriore esempio il pellegrino che, pervenuto all’Empireo, “si ricrea / nel tempio del suo voto riguardando” e comprende con lo sguardo la forma generale del paradiso “in nulla parte ancor fermato fiso”, per cui si rivolge a Beatrice desideroso di domandare “di cose / di che la mente mia era sospesa” (Par. XXXI, 43-57).

‘Sospeso’ ha però anche un senso negativo di interruzione del canto di lode cui subentra il pianto, secondo quanto è scritto nel Salmo: “Sui fiumi di Babilonia sedevamo piangendo, e ai salici sospendemmo le nostre cetre dicendo: come canteremo il cantico del Signore in una terra straniera?”, cioè in Babilonia (Ps 136, 1-4). Ne conseguono, analogicamente, confusione, disordine nelle virtù, pianto, ‘sospensione’ del parlare (a Purg. XXXI, 9, “li organi suoi”, cioè quelli che esprimono la voce di Dante,  fa segno mnemonico degli “organa nostra”, cioè delle cetre, di cui dice il Salmo), come nel corso del ‘giudizio’ che Dante deve sostenere di fronte a Beatrice apparsagli nell’Eden [27].

Il dubbio di Cavalcante, espresso in forma interrogativa, si appunta sulla lacrimosa espressione: “mio figlio ov’ è? e perché non è teco?” (Inf. X, 60). A lui, dannato, è appropriato il forte pianto di Giovanni ad Ap 5, 4. Questo pianto, sostiene Olivi, è proprio dei momenti (al tempo degli apostoli, delle grandi eresie e dell’Anticristo) nei quali quanti sono inconsapevoli della ragione che permette le tribolazioni e le “pressure” causate dalle eresie, e il terrore provocato dall’imminenza dei pericoli, piangono e sospirano affinché il libro segnato da sette sigilli venga aperto, almeno per la parte che è consentito aprire in quel tempo. Il pianto di Cavalcante, quasi un lamento femminile [28], si ritroverà nel pianto di Lavinia per la morte suicida della madre Amata, della quale non comprende il motivo (“O regina, / perché per ira hai voluto esser nulla?”, Purg. XVII, 35-36). Il dubbio inconsapevole si insinua anche nella statuaria effigie di Farinata: “E se tu mai nel dolce mondo regge, / dimmi: perché quel popolo è sì empio / incontr’ a’ miei in ciascuna sua legge?” (Inf. X, 82-84). A differenza di Cavalcante non vi sarà pianto, ma solo sospiro dopo la risposta di Dante.
Così piange la Roma «vedova e sola, e dì e notte chiama: / “Cesare mio, perché non m’accompagne?”» (Purg. VI, 112-114), nella “pressura” dei “gentili” (ibid., 109-110; hapax): l’apostrofe ad Alberto tedesco ripete quattro volte (ibid., 106, 109, 112, 115) il “veni et vide” apocalittico detto a Giovanni all’apertura dei primi quattro sigilli. Anche Virgilio mostra di non comprendere la ragione della ‘pressura’ di Dante nella “diserta piaggia”: “Ma tu perché ritorni a tanta noia?” (Inf. I, 76). Il lutto, proprio di Lavinia, segna anche Aristotele e Platone e molti altri, dei quali dice Virgilio, che desiderarono vedere tutto senza frutto, “tai che sarebbe lor disio quetato, / ch’etternalmente è dato lor per lutto” (Purg. III, 34-45); in questo caso il sospiroso desiderio, che fu già dei Padri nel Limbo, di vedere tutto il libro aperto (che solo Cristo, nei suoi tre avventi, avrebbe aperto compiutamente) sostituisce il pianto.

 

[LSA, cap. IV, Ap 4, 1-2 (radix IIe visionis)] Nota etiam quod hec sibi sic monstrantur et sic nobis scribuntur, quod sint apta ad misteria nobis et principali materie huius libri convenientia. Unde per celum designatur hic ecclesia et scriptura sacra, et precipue eius spiritalis intelligentia. Sicut autem in hostio monumenti Christi erat superpositus magnus lapis et ponderosus, qui Christo resurgente et de sepulcro exeunte est inde amotus, sic in scriptura erat durus cortex littere, pondere sensibilium et carnalium figurarum gravatus, claudens hostium, id est [ad]itum intelligentie spiritalis. In humanis etiam cordibus erat lapidea durities sensus obtusi, claudens introitum divinarum illuminationum.
Item absentia seu potius non existentia magnorum operum in ecclesia fiendorum erat nobis magna clausura hostii ad fabricam ecclesie contemplandam. Primus autem apertor huius hostii et prima vox nos in celum ascendere faciens est Christus et eius illuminatio et doctrina. Nam vox priorum prophetarum potius clausit hostium sub figuris, et sub terrenis promissionibus carnalem sensum Iudeorum depressit potius quam levavit.
Christus etiam, per exemplum sue spiritualissime vite et per mortem carnis sue et per habundam infusionem Spiritus sui fecit suos apostolos et quoscumque spirituales suos esse in spiritu et quasi non esse in carne, nec enim aliter possent sapere et intelligere spiritualia Dei, secundum illud Apostoli Ia ad Corinthios II° (1 Cor 2, 14-15): “Animalis homo non percipit ea que sunt Spiritus Dei, nec potest intelligere ea; spiritualis autem iudicat”, id est discernit, “omnia”.
Item Iohannis X° (Jo 10, 9) dicit Christus se esse hostium et etiam hostiarium. Qui enim per claram fidem et intelligentiam sic in Christo figitur ut in omni loco scripture et in omni facto sue ecclesie sibi occurrat, et hoc sub congrua proportione ad illa loca et opera, erit sibi ad omnia sicut sol omnia loca illa et opera irradians, noctis tenebris inde expulsis.

[LSA, cap. IV, Ap 4, 7-8 (radix IIe visionis)] Dividit (Ioachim) enim viginti quattuor legiones in quattuor partes secundum quattuor animalia, ita ut in leone accipiamus fortes in fide, in vitulo autem robustos in patientia, in homine preditos scientia, in aquila contemplatione suspensos. 

Inf. III, 10-12

Queste parole di colore oscuro
vid’ ïo scritte al sommo d’una porta;
per ch’io: “Maestro, il senso lor m’è duro”. 

Inf. XXXII, 10-14

Ma quelle donne aiutino il mio verso
ch’aiutaro Anfïone a chiuder Tebe,
sì che dal fatto il dir non sia diverso.
Oh sovra tutte mal creata plebe
che stai nel loco onde parlare è duro

Inf. IX, 121-123, 131; X, 7-12, 52-54, 106-108

Tutti li lor coperchi eran sospesi,
e fuor n’uscivan sì duri lamenti,
che ben parean di miseri e d’offesi.

e i monimenti son più e men caldi.

“La gente che per li sepolcri giace
potrebbesi veder? già son levati
tutt’ i coperchi, e nessun guardia face”.
E quelli a me: “Tutti saran serrati
quando di Iosafàt qui torneranno
coi corpi che là sù hanno lasciati”.

Allor surse a la vista scoperchiata
un’ombra, lungo questa, infino al mento:
credo che s’era in ginocchie levata.

Però comprender puoi che tutta morta
fia nostra conoscenza da quel punto
che del futuro fia chiusa la porta.

Par. I, 73-75

S’i’ era sol di me quel che creasti
novellamente, amor che ’l ciel governi,
tu ’l sai, che col tuo lume mi levasti.

Inf. IV, 68-72

……….…….. quand’ io vidi un foco
ch’emisperio di tenebre vincia.
Di lungi n’eravamo ancora un poco,
ma non sì ch’io non discernessi in parte
ch’orrevol gente possedea quel loco.

Inf. XXXIII, 1-3, 58-60, 112-114

La bocca sollevò dal fiero pasto
quel peccator, forbendola a’ capelli
del capo ch’elli avea di retro guasto.

ambo le man per lo dolor mi morsi;
ed ei, pensando ch’io ’l fessi per voglia
di manicar, di sùbito levorsi

levatemi dal viso i duri  veli,
sì ch’ïo sfoghi ’l duol che ’l cor m’impregna,
un poco, pria che ’l pianto si raggeli.

Inf. VI, 37-39

Elle giacean per terra tutte quante,
fuor d’una ch’a seder si levò, ratto
ch’ella ci vide passarsi davante.

Purg. XXII, 94-96

Tu dunque, che levato hai il coperchio
che m’ascondeva quanto bene io dico,
mentre che del salire avem soverchio

Par. XVI, 16-18

Io cominciai: “Voi siete il padre mio;
voi mi date a parlar tutta baldezza;
voi mi levate sì, ch’i’ son più ch’io.”

Purg. XXVII, 34-40, 112-114

Quando mi vide star pur fermo e duro,
turbato un poco disse: “Or vedi, figlio:
tra Bëatrice e te è questo muro”.
Come al nome di Tisbe aperse il ciglio
Piramo in su la morte, e riguardolla,
allor che ’l gelso diventò vermiglio;
così, la mia durezza fatta solla ……

le tenebre fuggian da tutti lati,
e ’l sonno mio con esse; ond’ io leva’mi,
veggendo i gran maestri già levati.

[nota alla tabella precedente]

Il tema giovanneo di Cristo come porta – “Ego sum hostium. Per me, si quis introierit …” – inizia, con l’anafora del “per me”, i tre versi della prima terzina che contiene la scritta della porta dell’inferno. Su di essa sono scritte parole di colore oscuro e dal senso duro, non solo minacciose, ma pure chiuse a ogni illuminazione spirituale (Inf. III, 10-12). I motivi del chiudere e della durezza segnano la descrizione del fondo dell’inferno, “nel loco onde parlare è duro”, che necessita di rime “aspre e chiocce”: in suo aiuto il poeta invoca le Muse, che aiutarono Anfione “a chiuder Tebe” traendo con il suono della lira le pietre delle mura dalle falde del monte Citerone (Inf. XXXII, 10-14). È anche “cosa dura” dire della “selva selvaggia e aspra e forte” (Inf. I, 4-5).

L’Inferno è la cantica dell’antica durezza lapidea, dell’impetrarsi, del parlare duro di cose dure a dirsi, del duro giudizio, del senso duro della scritta al sommo della porta, dei duri lamenti, dei duri demoni, dei duri veli del gelo, della gravezza. Il conte Ugolino incarna la durezza nel più alto grado. Eppure, da peccatore dannato, alle parole del poeta “la bocca sollevò dal fiero pasto”, quasi aprendo per un attimo uno spiraglio nella sua bestialità. Quel “sollevò” contiene in sé il tema, da Ap 4, 1-2, dell’aprirsi della porta alla voce di Cristo che solleva con la sua illuminazione e dottrina dal senso carnale chiuso e impetrato. E ciò anche se il levarsi avviene per puro odio, affinché le parole che seguono “esser dien seme / che frutti infamia al traditor ch’i’ rodo”, ed anche se al termine del suo parlare e lacrimare insieme il conte riprende a rodere coi denti il misero teschio del vicino. Solo la parola del poeta riesce per un attimo a farlo levare, ripetendo nel “cieco carcere” senza tempo il gesto compiuto dai suoi figli nella Muda, i quali “di sùbito levorsi” allorché videro il padre mordersi le mani. Più avanti, nella Tolomea, a frate Alberigo non saranno ‘levati’ dal viso i duri veli (Inf. XXXIII, 112). A Filadelfia, la sesta chiesa d’Asia, viene data la libertà di parlare per dettato interiore (le viene aperto l’ “ostium sermonis”, Ap 3, 8). Questo tema cristiforme è cantato anche nell’inferno. Far parlare liberamente, per dettato interiore, quasi invitando a un convivio spirituale e rompendo, per quanto dura il parlare, la vecchia roccia infernale, corrisponde alla poetica di Dante che nasce per interno dettato e ispirazione d’Amore, dietro al quale il poeta si tiene stretto come alla sua Regola. Così i dannati vengono con desiderio e volontario consenso, con “disio” e con “velle”, e varcano questa ideale porta aperta al parlare in una pausa di conversione e di pace. All’ “affettuoso grido” del poeta le ombre di Francesca e Paolo vengono “dal voler portate” verso un momento di mutazione, sebbene limitata al successivo colloquio, “mentre che ‘l vento, come fa, ci tace”. Tutto l’Inferno è un contrappunto tra la durezza del giudizio eterno e l’attimo in cui la parola, quasi frangendo il giudizio, sospende la pena. Un’apertura che si esprime in varie forme: muoversi sospirando nel Farinata prima immobile, ‘crollarsi’ quasi per terremoto interiore dello ‘schivo’ Ulisse, convertirsi del vento in voce in Guido da Montefeltro, tornare indietro nel cammino assegnato o separarsi dai compagni di pena, essere sforzati a parlare anche malvolentieri, non poterlo negare o mostrare fretta di farlo, arrestarsi obliando il martirio, levarsi subitamente per poi ricadere al modo di Ciacco, sollevarsi da atti bestiali per ritornare ad essi dopo aver parlato, come nel conte Ugolino. In tante lingue, che parlano come per sé stesse mosse, sta un solo desiderio, il vivere ancora nel grande libro che è stato a Dante aperto e che questi trascrive nel corso del suo viaggio. [Sul conte Ugolino cfr. Dante all’«alta guerra» tra latino e volgare, 2.7, tab. X; L’agone del dubbio, ovvero il martirio moderno, 2, tab. IV, V, 1-6]

Il levarsi quasi al di fuori del corpo, in puro spirito, viene sperimentato dal poeta nell’ascesa al cielo, cui viene levato grazie al lume divino riflesso in lui dagli occhi di Beatrice, e si esprime nelle parole “S’i’ era sol di me quel che creasti / novellamente, amor che ’l ciel governi, / tu ’l sai …”, cioè solo Dio sa se io ero solo anima o anche col corpo, che corrisponde nell’esegesi al “fecit suos apostolos et quoscumque spirituales suos esse in spiritu et quasi non esse in carne”, per quanto fossero ancora in vita (Par. I, 73-75; gli echi del passo paolino [2 Cor 12, 2-4] sono incastonati nell’esegesi apocalittica, dove pure è citato san Paolo, in un passo diverso [1 Cor 2, 14-15]). Creato “novellamente” fu lo spirito, da ultimo, dopo il corpo: nel commento dell’Olivi l’aggettivo “novus”, appropriato alla visione, è collegato all’essere “in spiritu” di Giovanni (Ap 4, 1).
Di fronte al “muro” della fiamma, si apre la durezza di Dante al nome di Beatrice, “come al nome di Tisbe aperse il ciglio / Piramo in su la morte, e riguardolla” (Purg. XXVII, 34-42); i motivi del levarsi e del diradarsi delle tenebre sono, dopo l’ultima notte, congiunti nella salita all’Eden: gli “splendori antelucani” mettono in fuga le tenebre e il sonno del poeta, che si leva al vedere già levati i due “gran maestri” Virgilio e Stazio (ibid., 109-114).
Il diradarsi delle tenebre è accostato al discernere (nel senso del discernere le cose dello spirito) nel Limbo: un “foco” rompe le tenebre a metà, e il poeta, pur da lontano, discerne che il luogo è posseduto da gente degna di onore (Inf. IV, 67-72).

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[LSA, cap. IV, Ap 4, 7-8 (radix IIe visionis)] Dividit (Ioachim) enim viginti quattuor legiones in quattuor partes secundum quattuor animalia, ita ut in leone accipiamus fortes in fide, in vitulo autem robustos in patientia, in homine preditos scientia, in aquila contemplatione suspensos. 

[LSA, cap. VI, Ap 6, 6 (IIa visio, apertio IIIii sigilli)] (secundum Ioachim) Per ordeum vero designatur (intelligentia) ystorica seu litteralis, que habet tres bilibres propter sex tempora laboriosa et servilia sub servitute legis currentia ab Abraam usque [ad] Iohannem Baptistam, que Mattheus enumerat per tres quaterdenas generationum (cfr. Mt 1, 1-17). Et quia quelibet quaterdena duas habet hebdomadas seu septenas, ideo hic vocantur “tres bilibres ordei”. […] Secunda (intelligentia) vero convenit secundo (animali), scilicet vitulo, quia instar vituli sulcat terram, id est terrena et corporalia gesta patrum, et etiam quia martires per vitulum designati predicaverunt paganis, qui ystoricam litteram legis et prophetarum non noverant, et ideo ante allegoriam oportuit eos doceri ystoriam. […]

Inf. II, 52-54

Io era tra color che son sospesi,
e donna mi chiamò beata e bella,
tal che di comandare io la richiesi.

Purg. IX, 19-21

in sogno mi parea veder sospesa
 un’aguglia nel ciel con penne d’oro,
con l’ali aperte e a calare intesa

Inf. IV, 43-45, 94-96

Gran duol mi prese al cor quando lo ’ntesi,
però che gente di molto valore
conobbi che ’n quel limbo eran sospesi.

Così vid’ i’ adunar la bella scola
di quel segnor de l’altissimo canto
che sovra li altri com’ aquila vola.

Inf. XXVIII, 61-63

Poi che l’un piè per girsene sospese,
Mäometto mi disse esta parola;
indi a partirsi in terra lo distese.

[LSA, cap. VIII, Ap 8, 13 (IIIa visio, IVa tuba)] Per aquilam designantur hic alti contemplativi quarti temporis, qui prophetico spiritu presenserunt et predixerunt mala que post finem quarti temporis debebant subsequi. Inter quos credit Ioachim per hanc aquilam specialius designari beatum papam Gregorium, qui utique fuit in quarto tempore, prout supra fuit in principio prenotatum. Ipse enim «libere plurima de mundi fine et de pressura seculi scripsisse dinoscitur, quique allegoriarum semitas ac si arduas celi vias altius pre ceteris prevolavit, neque enim invenitur alius similis eius, qui ista erumpnosa tempora appropinquasse in suis operibus testaretur». Hec Ioachim.

 

[LSA, cap. XIV, Ap 14, 8 (IVa visio, VIum prelium)] Secundus autem angelus seu doctor predicat amotionem precipui impedimenti ad agendum predicta seu expeditionem intrinseci et domestici obstaculi. Predicat enim casum Babilonis, id est ecclesie carnalis, dicens: “Cecidit, cecidit Babilon illa magna” (Ap 14, 8).
Ecclesia carnalis ideo vocatur “Babilon” hic et infra XVII° et XVIII° (Ap 17, 5; 18, 2/10/21), et tam ibi quam capitulo XIX° vocatur ‘meretrix magna’ (Ap 17, 1; 19, 2), tum quia ordo virtutum est in ipsa per deordinationem vitiorum enormiter confusus (Babilon enim confusio interpretatur), tum quia in malo non solum intensive sed etiam extensive est magna, ita quod boni sic sunt in ea sicut pauca grana auri intra immensos acervos arene et sicut pauca grana tritici sub immenso cumulo palearum seu quisquiliarum vel scopiliarum; tum quia sicut filii Israel fuerunt in Babilone captivati et vehementer oppressi, ita et ut David prophetice dicat: “Super flumina Babilonis illic sedimus et flevimus”, et “in salicibus eius suspendimus organa nostra”, dicentes: “Quomodo cantabimus canticum Domini in terra aliena?” (Ps 136, 1-2, 4), sic spiritus iustorum huius temporis supra modum angustiatur et opprimitur a principatu et predominio et innumerabili multitudine ecclesie carnalis cui oportet eos velint nolint servire; tum quia publice et impudentissime adulteratur a suo sponso Christo, prout infra plenius tangetur.

Purg. XXXI, 7-15

Era la mia virtù tanto confusa,
che la voce si mosse, e pria si spense
che da li organi suoi fosse dischiusa.
Poco sofferse; poi disse: “Che pense?
Rispondi a me; ché le memorie triste
in te non sono ancor da l’acqua offense”.
Confusione e paura insieme miste
mi pinsero un tal “sì” fuor de la bocca,
al quale intender fuor mestier le viste.

[LSA, cap. XVIII, Ap 18, 4 (VIa visio)] Quarto potest dici quod electi semper debent recedere a prava imitatione malorum tam preteritorum quam presentium. Semper enim usque ad finem seculi erunt in hoc mundo aliqui babilonici, id est reprobi, a quorum peccatis est recedendum.

Par. XVI, 67-69

Sempre la confusion de le persone
principio fu del mal de la cittade,
come del vostro il cibo che s’appone

 

[LSA, cap. V, Ap 5, 4-5 (radix IIe visionis)] Attamen hec revelatio et fletus Iohannis potius respicit illa tempora in quibus, propter pressuras heresum et terrores imminentium periculorum, et propter nescientiam rationis seu rationabilis permissionis talium pressurarum et periculorum [et] iudiciorum, flent et suspirant sancti pro apertione libri, quantum ad illa precipue que pro illo tempore magis expedit eos scire. Hoc autem potissime spectat ad triplex tempus.
Primo scilicet ad tempus apostolorum ante Spiritus Sancti missionem. Unde et Christus, quasi unus de senioribus, consolatorie dicebat eis: “Ego mittam vobis a Patre Spiritum veritatis”, qui “docebit vos omnem veritatem”, et: “Venit hora, cum iam non in proverbiis loquar vobis, sed palam de Patre meo annuntiabo vobis”, prout patet Iohannis XV° et XVI° (Jo 15, 26; 16, 13/25).
Secundo ad tempus hereticorum et precipue Arrianorum. Nam prout ex sollempnibus cronicis habetur, cum in nicena synodo convenissent plures philosophi simplicitatem ecclesie cornibus superbie ventilantes et argumentis diabolicis fidem catholicorum impugnantes, exinde occasione assumpta, alie hereticorum secte ex una specie arriane heresis processerunt, et in hiis omnibus erat luctus ecclesie magnus, quam consolatus est Deus ostendens oportere compleri victoriam huius apertionis, unde repente in Christi ecclesia claruerunt doctores eximii, puta Ieronimus, Ilarius, Ambrosius, Augustinus et plures alii. […]
Item fletus hic quantus fuit in sanctis patribus ante Christum; cum etiam essent in limbo inferni, quanto desiderio suspirabant ut liber vite aperiretur eis et omnibus cultoribus Dei!

[LSA, prologus, Notabile IX] Nec est hoc contra illud quod in omnibus sequentibus septimus status miro modo prefertur, quia finis septimi, prout septimus sumitur in hac vita ante tempus iudicii, debet malis plurimis inundare ita ut ex tantis malis Deus merito provocetur venire ad iudicandum orbem et ad liberandum electos illius temporis a pressura tantorum malorum.

 

[LSA, cap. VI, Ap 6, 11 (IIa visio, apertio Vi sigilli)] In hac autem persecutione non est dictum quod tale aut tale animal dixerit “veni et vide”, quia «sicut in quattuor animalibus quattuor speciales ordines accipiendi sunt, sic in altare Dei romanam ecclesiam dicimus accipiendam, que peractis quattuor temporibus illorum quattuor ordinum, tam in clero quam in monachis confortata est in Domino Deo suo et viguit pre ceteris quinto tempore apud Latinos» (Ioachim).

Purg. VI, 106-117

Vieni a veder Montecchi e Cappelletti,             I
Monaldi e Filippeschi, uom sanza cura:
color già tristi, e questi con sospetti!
Vien, crudel, vieni, e vedi la pressura                II
d’i tuoi gentili, e cura lor magagne;
e vedrai Santafior com’ è oscura!
Vieni a veder la tua Roma che piagne              III
vedova e sola, e dì e notte chiama:
“Cesare mio, perché non m’accompagne?”.
Vieni a veder la gente quanto s’ama!                 IV
e se nulla di noi pietà ti move,
a vergognar ti vien de la tua fama.

Inf. X, 58-60, 82-84, 88-90

piangendo disse: “Se per questo cieco
carcere vai per altezza d’ingegno,
mio figlio ov’ è? e perché non è teco?”.

E se tu mai nel dolce mondo regge,
dimmi: perché quel popolo è sì empio
incontr’ a’ miei in ciascuna sua legge?

Poi ch’ebbe sospirando il capo mosso,
“A ciò non fu’ io sol”, disse, “né certo
sanza cagion con li altri sarei mosso.”

Inf. I, 76-78

Ma tu perché ritorni a tanta noia?
perché non sali il dilettoso monte
ch’è principio e cagion di tutta gioia?.

Purg. XVII, 34-39

surse in mia visïone una fanciulla
piangendo forte, e dicea: “O regina,
perché per ira hai voluto esser nulla?
Ancisa t’hai per non perder Lavina;
or m’hai perduta! Io son essa che lutto,
madre, alla tua pria ch’a l’altrui ruina”.

[LSA, cap. XVIII, Ap 18, 7.10 (VIa visio)] Sexto predicit iterum eius culpam et condignam penam, ibi: “Quia in corde suo dicit: Sedeo” et cetera (Ap 18, 7). Et ibi exaggerat eius exterminium et planctum ac stuporem et tremorem carnalium amicorum eius super tanto casu ipsius, cum paulo post subdit: “Et flebunt et plangent” (Ap 18, 9). […] “Quia in corde suo dicit”, id est superbiendo: “Sedeo regina”, id est in magna presidentia et gloria super regnum meum dominor et conquiesco; “et vidua non sum”, id est non sum destituta gloriosis episcopis et regibus; “et luctum non videbo”, id est numquam incidam in miseriam nec amittam predicta. […] Ipsi, inquam, “longe stantes propter timorem tormentorum eius” (Ap 18, 10). Per longe stare designatur hic maxima et totalis fuga et elongatio cordis non solum ab amplexu pene, sed etiam a societate dampnatorum pro quanto subiacent tam horrendis penis. Vel referendo hoc ad temporalem casum eius, stabunt longe tamquam non audentes ad eam defendendam accedere nec se ad prelium parare.

[Ep. XI, 21] Quod ut gloriosa longanimitas foveat et defendat, Romam urbem, nunc utroque lumine destitutam, nunc Annibali nedum alii miserandam, solam sedentem et viduam prout superius proclamatur, qualis est, pro modulo vestre ymaginis ante mentales oculos affigatis oportet.

Purg. III, 40-44

e disïar vedeste sanza frutto
tai che sarebbe lor disio quetato,
ch’etternalmente è dato lor per lutto:
io dico d’Aristotile e di Plato
e di molt’altri ………………….

Inf. IV, 25-27, 40-42

Quivi, secondo che per ascoltare,
non avea pianto mai che di sospiri
che l’aura etterna facevan tremare

Per tai difetti, non per altro rio,
semo perduti, e sol di tanto offesi
che sanza speme vivemo in disio.

4. La vittoria dei contemplativi

Nella prima visione apocalittica, a ciascuna delle sette chiese d’Asia è data una vittoria (le sette vittorie sono trattate in principio del cap. II della LSA, anche se, per la quinta, la sesta e la settima chiesa, si riferiscono formalmente al cap. III). La più importante è quella conseguita da Filadelfia, la sesta chiesa, perché la visione è maggiore; essa porta a consumazione la vittoria conseguita da Tiàtira, la quarta chiesa, che rappresenta per antonomasia lo stato dei contemplativi.
La sesta vittoria (Ap 3, 12) per Olivi è l’ingresso in Cristo, che si consegue con una perfetta configurazione e trasformazione della mente in lui. Del vincitore si dice: “lo porrò come una colonna nel tempio del mio Dio e non ne uscirà più; scriverò su di lui il nome del mio Dio e il nome della città del mio Dio, della nuova Gerusalemme che discende dal cielo dal mio Dio, insieme al mio nome nuovo”. Chi entra in Dio riceve Dio dentro sé e Dio entra in lui. L’ingresso avviene in due modi. Il primo con l’essere stabilito nella Chiesa o nella vita religiosa per mezzo della professione; il secondo con la contemplazione, che apprende Dio e le sue opere.
Il primo ingresso è reso con l’immagine della colonna che sta all’interno del tempio, immobile, lunga, eretta, solida, densa, rotonda o quadrata, ferma, fissa, sostentativa e decorativa: così sta, nella Chiesa, nella vita religiosa, o nella curia celeste, un uomo evangelico configurato a Cristo. Sostiene, in quanto superiore, gli inferiori; si contrappone, con la sua semplicità e spiritualità, alla grossezza degli altri, per i quali si pone come il centro della sfera: la colonna, infatti, occupa meno spazio del tempio che sostiene. Stare fisso nel tempio indica il divieto di qualsiasi apostasia, negozio o distrazione temporale.
Il secondo ingresso viene indicato con lo scrivere nella mente il nome di Dio, il nome della nuova Gerusalemme che discende dal cielo e il nuovo nome di Cristo.
In primo luogo, viene inscritta la visione e la contemplazione della divinità delle tre persone. In secondo luogo, la visione della città, ossia del collegio dei santi, che si dice discendere dal cielo sia perché da Dio deriva, sia perché inferiore all’immensità divina designata con il cielo, sia per l’umiltà con cui si reputa indegna non solo di Dio ma anche del proprio celeste luogo, sia in quanto Chiesa militante che riceve le grazie da Dio e dalla gerarchia dei beati. Viene chiamata “nuova” per la novità della grazia e della gloria; è la Chiesa dei beati ma anche quella che, in questo mondo, è stata finora nei primi cinque stati dopo la venuta di Cristo e il ripudio della vecchia legge, e sarà nel sesto (nei tempi ‘moderni’) e settimo stato. Viene chiamata “Gerusalemme”, ossia “visione della pace”, perché di essa gusta o ad essa sospira.
In terzo luogo, viene inscritta la visione di Cristo uomo, nostro redentore e mediatore. Il suo nome viene definito “nuovo” sia per la novità della resurrezione e della gloria, sia perché l’unione personale della divinità e dell’umanità e in generale quanto si trova in lui contengono e palesano una mirabile novità.
E come la città discende da Dio e poi a lui ritorna, così la contemplazione, formando un circolo glorioso, inizia da Dio e per la città di Dio ascende in Cristo suo re, da dove ritorna e rientra in Dio.
Il nome di Dio padre viene inscritto quando l’immagine paterna si imprime come quella di un padre spirituale nella prole, di un abate nella propria religione.
Il nome della nuova Gerusalemme si inscrive allorché la mente, per la soavità dell’amore, è degna di essere definita sposa di Cristo e pia madre e nutrice di prole spirituale.
Il nuovo nome di Cristo viene inscritto intendendo “cristiano” come “unto del Signore”, nel senso del Salmo 104, 15: “Non toccate i miei consacrati”.

I temi della sesta vittoria forniscono molto panno ai versi, che ad essi rinviano con parole-chiave che costituiscono imagines agentes sulla memoria del lettore spirituale. Nel primo momento della visione finale, in cui vede l’unità dell’universo in Dio, Dante sta come una colonna nel tempio, con la mente “fissa, immobile e attenta” (Par. XXXIII, 97-98), di fronte a una luce che non consente di “volgersi da lei per altro aspetto”, come lo stare fisso nel tempio non consente distrazioni (ibid., 100-105). Si tratta di motivi connessi nell’esegesi con la totale configurazione e trasformazione in Cristo dell’uomo evangelico. Stare “tutto fisso” nella contemplazione è tema presente anche ad Ap 19, 17, proprio dell’angelo che, con gli occhi fissi al sole, invita al convivio spirituale. Ne è ancora esempio Beatrice la quale, nell’attesa che le schiere del trionfo di Cristo discendano al cielo delle stelle fisse, “stava eretta e attenta”, “sospesa e vaga” (l’essere ‘sospesi’ designa pure il contemplare: è appropriato all’aquila ad Ap 4, 7-8) verso il meridiano, cioè verso quella parte del cielo dov’è il sole a mezzodì, come sta l’uccello che con ardente affetto attende la luce del sole (Par. XXIII, 1-15: l’attendere è tema del quinto sigillo, ad Ap 6, 11; il meriggio è proprio del sesto stato, allorché la faccia di Cristo luce come il sole in tutta la sua virtù, ad Ap 1, 16). Ne è ulteriore esempio il pellegrino che, pervenuto all’Empireo, “si ricrea / nel tempio del suo voto riguardando” e comprende con lo sguardo la forma generale del paradiso “in nulla parte ancor fermato fiso”, per cui si rivolge a Beatrice desideroso di domandare “di cose / di che la mente mia era sospesa” (Par. XXXI, 43-57). Nel cielo Stellato, degli apostoli Pietro e Giacomo il poeta dice che “tacito coram me ciascun s’affisse”; di Giacomo è proprio lo scrivere sulla speranza (star fisso e scrivere sono i due elementi della sesta vittoria, e tra l’altro sono in rima; la speranza, ad Ap 21, 16 [cfr. nota] corrisponde all’altezza della città celeste), anzi il suo ‘figurarla’ tante volte quante Cristo mostrò la sua predilezione ai tre maggiori apostoli (Par. XXV, 25-33). Nel meriggio dell’Eden, le sette donne “s’affisser” dinanzi alla sorgente del Lete e dell’Eunoè (Purg. XXXIII, 103-111). Il tema della colonna interviene nel riconoscimento del ruffiano Venedico Caccianemico: “Per ch’ ïo a figurarlo i piedi affissi” (Inf. XVIII, 43; i dannati sono immagini ‘torte’ di Cristo). Ha poi un’applicazione più letterale ai superbi purganti i quali, curvi sotto il peso di grossi macigni, paiono mensole che sostengono tetti (Purg. X, 130-132).

Nella visione finale di Dio, il poeta vede prima l’unità dell’universo in Dio (Par. XXXIII, 85-93), poi contempla il mistero della Trinità (ibid., 115-120), infine quello dell’Incarnazione (ibid., 127-145). La contemplazione dell’unità dell’universo in Dio è assimilata all’interno del libro segnato da sette sigilli (i temi provengono dalla parte proemiale o radicale della seconda visione; cfr. nota). La contemplazione della Trinità e quella di Cristo in quanto uomo si conseguono con la sesta vittoria: “In huius[modi] autem mente tria inscribuntur, scilicet excessiva visio vel contemplatio deitatis trium personarum // parvermi tre giri / di tre colori e d’una contenenza … Tertium quod sibi [in]scribitur est contemplatio Christi secundum quod homo et secundum quod redemptor noster et mediator // mi parve pinta de la nostra effige”. “Qual è ’l geomètra che tutto s’affige / per misurar lo cerchio” (nel “tutto s’affige” è il tema della colonna), Dante si trova di fronte “a quella vista nova” – il “nomen novum” di Cristo uomo, redentore e mediatore -, incapace di comprendere come l’effigie umana si adatti e si collochi nel cerchio (tema del “circulus gloriosus”; Par. XXXIII, 133-138).
Il tema della “visio pacis” e della contemplazione come circolo appare nella rosa celeste, che ha la sua pace solo nel vedere Dio, distendendosi “in circular figura” (Par. XXX, 102-103). Da notare che la ‘circolarità’ è propria sia della rosa, cioè della città – “Vedi nostra città quant’ ella gira” dice Beatrice (ibid., 130) -, da cui le schiere del trionfo di Cristo, insieme a questi e sua madre, sono in precedenza discese al cielo delle stelle fisse per poi risalire all’Empireo (Par. XXIII; XXVII, 67-72); sia del Figlio fattosi uomo nella visione finale – “Quella circulazion che sì concetta / pareva in te come lume reflesso” (Par. XXXIII, 127-132). Contemplare e gustare la pace in questo mondo sono appropriati a san Bernardo (Par. XXXI, 110-111): l’esegesi della sesta vittoria è da collazionare con un passo del notabile VIII del prologo della Lectura, relativo al settimo stato, nel quale si potrà pregustare in questa vita, poco prima della fine del mondo, la vita eterna.
L’ingresso (in Cristo) e il ritorno (appropriato alla contemplazione, che ritorna in Dio), insieme combinati (“intrammo a ritornar”), sono motivi della salita di Dante e Virgilio per il “cammino ascoso” attraverso il quale escono “a riveder le stelle” (Inf. XXXIV, 133-134). L’ascesa al cielo del poeta è un tornare al proprio sito (Par. I, 92-93); il suo “trasumanar” avviene fissando gli occhi al sole, atto che si genera da quello di Beatrice come il raggio riflesso suole generarsi dal raggio di incidenza “e risalire in suso, / pur come pelegrin che tornar vuole” (ibid., 49-51). Nella candida rosa, i beati – “quanto di noi là sù fatto ha ritorno” – stanno “intorno intorno” e sopra la luce divina (Par. XXX, 112-114, dove la circolarità è in rima col tornare; cfr. Par. IX, 107-108: “… e discernesi ’l bene / per che ’l mondo di sù quel di giù torna”, cioè lo circuisce ma anche lo trae col desiderio di ‘tornare’ a lui; e Par. XI, 13-15: “Poi che ciascuno fu tornato ne lo / punto del cerchio in che avanti s’era”). Discendere e risalire, prerogativa della città dei contemplativi, appartiene agli angeli che s’infiorano come api, partecipando ai beati la pace e l’ardore, e poi ritornano “là dove ’l süo amor sempre soggiorna” (Par. XXXI, 4-18).
Il discendere dal cielo della città è appropriato a Beatrice, donna scesa dal cielo, come dice Virgilio a Catone (Purg. I, 53): il “nome nuovo” di Gerusalemme è d’altronde assimilato a una madre pia e nutrice di prole spirituale. La donna discende al Limbo da Virgilio ma arde di tornare all’Empireo (Inf. II, 82-84).
L’ingresso in Cristo e la pace sono congiunti nel parlare di Casella, secondo il quale l’angelo nocchiero, che porta le anime dalla foce del Tevere alla riva del purgatorio, “veramente da tre mesi”, ossia dall’indizione del Giubileo il 22 febbraio 1300 (con effetto retroattivo al Natale 1299), “elli ha tolto / chi ha voluto intrar, con tutta pace” (Purg. II, 98-99).
Nella profezia fatta dal goloso Bonagiunta, una donna di nome Gentucca farà piacere al poeta Lucca, città altrove ripresa a motivo dei barattieri: più oltre, l’angelo della temperanza – il sesto angelo dei gironi della montagna – indica ai tre poeti che “quinci si va chi vuole andar per pace” (Purg. XXIV, 43-45, 141).

Il tema dell’iscrizione del nome di Dio padre, immagine paterna che si imprime come quella di un padre spirituale nella prole, di un abate nella propria religione, tocca la mente di Dante nella quale è fitta “la cara e buona imagine paterna” di Brunetto Latini, che gli insegnava “come l’uom s’etterna”, immagine che ora l’ “accora” per “lo cotto aspetto” e “’l viso abbrusciato” (Inf. XV, 82-85). Anche nell’inferno esistono momenti di apertura all’imitazione di Cristo, per quanto solo nel ricordo della vita passata. Come pure sono presenti momenti di quiete e di silenzio, tipici del settimo stato (Francesca parla e ascolta “mentre che ’l vento, come fa, ci tace”, Inf. V, 94-96). Brunetto, poco prima, ammonisce i fiorentini a ‘non toccare’ la pianta in cui rivive il santo seme dei Romani, trasponendo su Dante, unto di Dio, quanto scritto nel Salmo 104, 15 sul popolo di Israele (Inf. XV, 73-78) [29]. Lo stesso tema della “paternitatis imago”, unito a quello della soavità d’amore per cui si inscrive il nome della nuova Gerusalemme, ritorna con Guido Guinizzelli, “il padre / mio e de li altri miei miglior che mai / rime d’amor usar dolci e leggiadre”, il quale parla di Cristo come “abate del collegio” per chiedere a Dante di recitare “un paternostro” (Purg. XXVI, 97-101, 127-130; da notare, qui e nel caso di Brunetto, l’uso di “quando”).

Il tema del ritorno, unito a quello della soavità d’amore espressa nel nome della nuova Gerusalemme, è nelle parole dello scomunicato Manfredi, che conosce come la maledizione dei pastori (la quale appartiene alla vecchia legge) non impedisce “che non possa tornar, l’etterno amore, / mentre che la speranza ha fior del verde” (Purg. III, 133-135; da notare i motivi del ritorno e dell’ingresso nelle parole delle anime purganti, ibid., 100-102: «“Tornate”, disse, “intrate innanzi dunque”»).

Sposa e Pia – altri due motivi propri del nome della nuova Gerusalemme inscritto nella mente – è colei che chiede al poeta di ricordarla ai vivi: “Deh, quando tu sarai tornato al mondo / e riposato de la lunga via …” (Purg. V, 130-136). Tornare al mondo, dopo tanto viaggio, è come conseguire la sesta vittoria, dopo la piena contemplazione, propria dell’uomo evangelico; riposarsi equivale a trionfare nello stadio. La misura della città celeste, descritta nella settima visione (Ap 21, 16), è di 12.000 stadi (i lati della città sono uguali). Lo stadio è lo spazio al cui termine si sosta o “si posa” per respirare e lungo il quale si corre per conseguire il premio. Esso designa il percorso del merito che ottiene il premio in modo trionfale, secondo quanto scrive san Paolo ai Corinzi: “Non sapete che tutti corrono nello stadio, ma di costoro uno solo prende il premio?” (1 Cor 9, 24). Ciò concorda con il fatto che lo stadio è l’ottava parte del miglio, e in questo senso designa l’ottavo giorno di resurrezione. L’ottava parte del miglio corrisponde a 125 passi, che rappresentano lo stato di perfezione apostolica adempiente i precetti del decalogo (12 apostoli x 10 comandamenti), cui si aggiunge la pienezza dei cinque sensi e delle cinque chiese patriarcali. Dicendo “e riposato de la lunga via”, la Pia identifica il viaggio del suo interlocutore con lo stadio paolino, al termine della corsa che conquista trionfalmente il premio. Della città misurata dallo ‘stadio’, chiamata anche ‘visione di pace’, partecipa la Pia, la quale sta nel gruppo di spiriti “ben nati” e usciti di vita “a Dio pacificati” ai quali si rivolge il poeta proprio in nome della pace (Purg. V, 56, 58-63). Per lei certamente la morte violenta subìta è sentita come «un ricordo di dolce speranza femminile: quella speranza fu illusoria quanto al suo oggetto, ma ben autentica nel soggetto, e vive ancora come sentimento del bene, e si conserva come “gemma” preziosa» [30]. Ma il sentimento realistico, la dolce speranza femminile illusa, è rivissuto da un’anima che spera di diventare “cittadina d’una vera città”, come dirà Sapia senese (Purg. XIII, 94-96). Di questa città chiamata, ad Ap 21, 2, “sposa” [31], fa segno la Pia. Le fondamenta della città sono ornate con dodici pietre preziose: diaspro, zaffiro, calcedonio, smeraldo, sardonice, cornalina, crisòlito, berillo, topazio, crisopazio, giacinto, ametista (Ap 21, 19-20) [32]. Queste gemme sono virtù. Nel “poema sacro” si impersonano nei beati, come nella “luculenta e cara gioia” (Folchetto di Marsiglia, Par. IX, 37) o nelle “molte gioie care e belle” dei solari spiriti sapienti, tanto ineffabili che si trovano solo nella “corte del cielo” e da essa non si possono sottrarre (Par. X, 70-72). Oppure può trattarsi effettivamente di virtù, come nel caso della fede – “questa cara gioia / sopra la quale ogne virtù si fonda” (corrisponde al verde diaspro, prima pietra fondante; cfr. il passo simmetrico di Ap 21, 12, relativo al muro della città, di verde diaspro per viva fede) – dal poeta professata a san Pietro (Par. XXIV, 89-91). Può essere una vera “gemma”, come quella con cui la Pia fu “ ’nnanellata pria / disposando”, che fa però segno di altro.

L’arrivo al cielo della Luna è tanto veloce quanto il ‘posarsi’ di una freccia (“un quadrel”, per concordare con l’ambito tematico della città: «“Et civitas in quadro posita est”, id est habens quattuor latera muri sub figura quadranguli iuncta, per quod designatur solida quadratura virtutum”»: Dante stesso pone sé “in quadro”, per sentirsi “ben tetragono ai colpi di ventura”, Par. XVII, 23-24), la quale vola dopo essersi staccata dalla balestra (Par. II, 23-25). Dal momento in cui inizia la descrizione dell’ascesa al cielo (con il verso 43 del primo canto del Paradiso), fino al congiungersi “con la prima stella” (che coincide – “giunto mi vidi” – con il 25° verso del secondo canto), sono esattamente 125 versi (100 nel primo canto, 25 nel secondo), come i passi dello stadio (Ap 21, 16). La navigazione, della quale il poeta ha premesso in principio di Par. II, è dunque un correre al premio paolino (“L’acqua ch’io prendo già mai non si corse”), un solcare “l’acqua che ritorna equale” (la Scrittura) verso Dio, “la prima equalità” (Par. XV, 74).
Gli angoli delle dodici porte della città (Ap 21, 12; tre per ciascuno dei quattro lati) designano la forza e l’ornato, perché nelle case le pareti si congiungono agli angoli. In tal senso si dice di Cristo che è pietra angolare, oppure in Zaccaria si afferma la futura forza del vittorioso regno di Giuda definendolo angolo, palo e arco, cioè capace di sostenere (Zc 10, 4; qui Olivi si discosta dall’interpretazione di Riccardo di San Vittore, secondo il quale gli angoli designano coloro i quali si distinguono per meriti più occulti). Il tema degli angoli si annida dietro al “congiungersi”: l’arrivo al cielo della Luna è appunto una congiunzione (“giunto mi vidi … che n’ha congiunti con la prima stella”) che avviene velocemente, “… e forse in tanto in quanto un quadrel (“et civitas in quadro posita est”) posa (tema del posarsi o dello stadio, che è misura della città) / e vola e da la noce si dischiava …” (Par. II, 23-30).
I motivi del posarsi e del congiungersi tornano uniti a Par. IV, 127-128, riferiti all’intelletto umano che si riposa nel vero divino “come fera in lustra, / tosto che giunto l’ha; e giugner puollo”, e a Par. VI, 25-27, dove Giustiniano ricorda come i successi militari di Belisario contro i Goti, “cui la destra del ciel fu sì congiunta”, furono segno che dovesse tutto dedicarsi (‘posarsi’) all’alto lavoro di trarre “d’entro le leggi … il troppo e ’l vano”.

A Inf. XV e Par. XXV emerge ancora il tema paolino del vincere il premio correndo nello stadio, che è la misura della città. Nel primo caso allorché Brunetto Latini lascia la compagnia del suo discepolo: “Poi si rivolse, e parve di coloro / che corrono a Verona il drappo verde / per la campagna; e parve di costoro / quelli che vince, non colui che perde” (Inf. XV, 121-124). Più che lo sfuggire alla pena di giacere cent’anni sotto la pioggia di fuoco senza potersi far schermo con le mani in quanto correndo riesce a raggiungere la sua schiera, il premio che egli consegue è la fama del suo Tesoro che ha raccomandato a Dante. Il paragone con il palio di Verona (la corsa a piedi nella prima domenica di quaresima), che chiude il canto, contiene il riferimento alla vittoria nel 124° verso, uno in meno dello “stadio” paolino. Uscire in campo apparendo vittorioso, non pavido o infermo, è tema proprio di Cristo all’apertura del primo sigillo (Ap 6, 2 [33]. Dal confronto è possibile rilevare più di un aspetto, nel rispondersi fra i due testi: la compresenza di elementi semantici; la collazione di passi simmetrici della Lectura (da Ap 6, 2); una figura retorica (la perissologia, cioè un’affermazione seguita dalla negazione del suo contrario: “e parve di costoro / quelli che vince, non colui che perde”) suggerita dalla prosa (“apparuit in ipso exitu totus victoriosus et ac si iam totus vicisset […] exivit in campum totius orbis non quasi pavidus aut infirmus”); l’appropriazione a Brunetto, che è un dannato, di motivi propri di Cristo. Si è visto sopra come proprio a Brunetto, e così avverrà poi per Guinizzelli, venga attribuito quell’essere abate di una prole spirituale il cui insegnamento si imprime nella mente come l’immagine di Dio padre, cioè uno dei conseguimenti più alti della sesta vittoria, la più cristiforme fra tutte (Ap 3, 12). Nel finale di Inf. XV non viene assegnata a Brunetto una vittoria postuma [34]. Il suo correre non è degradante [35], è però solo parvenza di vittoria, un’imitazione di Cristo non riuscita, una corsa senza vero premio. Chi prenderà quel premio – “la gloria de la lingua” – sarà Dante, il quale, come dice lo stesso Latini, è “sementa santa” dei Romani, vero loro erede nell’universalità dell’eloquio.
A Par. XXV, di san Giacomo è proprio, oltre ai motivi dei lati della città (cfr. Ap 21, 16; cfr. nota), anche il tema della folgorante luce di Cristo (vv. 79-81, dal notabile XII del prologo: “… dentro al vivo seno / di quello incendio tremolava un lampo / sùbito e spesso a guisa di baleno”). Emblematica la presenza del verbo respirare (che è hapax nel poema: «Indi spirò: “L’amore ond’ ïo avvampo … vuol ch’io respiri a te che ti dilette / di lei …”», cioè della speranza; vv. 82-86), richiamato dal ‘posarsi’ nella descrizione finale del quietarsi del suono, dolcemente mischiato, delle voci dei tre apostoli Pietro, Giacomo e Giovanni, come i remi che “per cessar fatica o rischio … tutti si posano al sonar d’un fischio”, i quali prima percuotevano l’acqua (vv. 130-135). Respirare e posarsi sono segno del conseguimento del premio, dopo il correre nello stadio (Ap 21, 16). “L’uscir del campo” (v. 84) per san Giacomo, una volta conseguita la “palma” del martirio, fu vera vittoria, non sua parvenza come nel caso di Brunetto (ad Ap 6, 2, Cristo esce vittorioso nel campo del mondo; san Giacomo, invece, esce da esso). Il tema del posarsi è congiunto con quello della quiete e della pace proprio del settimo stato, libero da ogni fatica o opera servile (prologo, notabile XIII; cap. X, Ap 10, 5-7).
Con san Domenico, una delle due ruote, insieme a san Francesco, della biga della Chiesa, questa “si difese / e vinse in campo la sua civil briga”, ossia la lotta contro gli eretici (Par. XII, 106-108), altra variazione di Cristo che esce vittorioso nel campo del mondo.

 

[LSA, cap. II, Ap 3, 12 (Ia visio, VIa victoria)] Sexta victoria est victoriosus ingressus in Christum, qui fit per totalem configurationem et transformationem mentis in ipsum, quod utique proprie competit sexto statui. Hiis autem promittitur premium de quo sexte ecclesie dicitur: “Qui vicerit, faciam illum columpnam in templo Dei mei, et foras non egredietur amplius; et scribam super illum nomen Dei mei et nomen civitatis Dei mei, nove Iherusalem, que descendit de celo a Deo meo et nomen meum novum” (Ap 3, 12). Quod Christus hic vel alibi dicit “Dei mei” vel “a Deo meo”, non dicit nisi tantum ratione sue humanitatis, secundum quam est subiectus Patri et toti Trinitati tamquam Deo suo. Quantum autem ad hoc premium, nota quod quia intrans in Deum recipit intra se Deum, ita quod et Deus intrat in ipsum, ideo hunc duplicem intrandi respectum hic ponit. Primum enim ponit sub typo columpne intra templum existentis et inde non egressure; secundum vero sub typo scripture per quam nomen Dei et sue civitatis inscribitur menti. Et secundum hoc templum significat Deum, prout infra XX[I°] dicitur: “Dominus Deus templum illius est”, scilicet civitatis Dei (Ap 21, 22). Sumendo tamen templum pro ecclesia sustentata a perfectis quasi a columpnis eius, tunc sub alio respectu significatur duplex ingressus. Quia enim et Deum et eius cultum intramus primo per professionis statum, per quem quis in Dei ecclesia et religione statuitur; secundo per contemplationis actum, per quem Deus cum suis operibus apprehenditur, idcirco primum significat per immobilem statum columpne in templo; secundum vero per inscriptionem divinorum in animo.
Columpna autem, sic stans, est longa et a fundo usque ad tectum erecta et solida ac sufficienter densa, et rotunda communiter vel quadrata, et firmiter fixa templique sustentativa et decorativa. Sic autem stat in Dei ecclesia vel religione vir evangelicus Christo totus configuratus, sic etiam suo modo stat in celesti curia. Nam superiores ordines sunt sustentativi universitatis inferiorum, ipsorumque humilis simplicitas et simplex spiritualitas se habet ad minorem simplicitatem et quasi ad grossiciem inferiorum sicut centrum ad speram aut sicut spiritus ad corpus. Et ideo templum occupat maius spatium quam columpna ipsum sustentans.
Item per non egredi foras templum non solum negatur exitus apostasie vel precipitium, sed etiam exitus ad queque negotia temporalia aut ad queque distractiva vel imperfecta. […] (sequitur*)

[LSA, cap. XIX, Ap 19, 17-18 (VIa visio)] “Et vidi unum angelum stantem in sole” (Ap 19, 17). Iste designat altissimos et preclarissimos contemplativos doctores illius temporis, quorum mens et vita et contemplatio erit tota infixa in solari luce Christi et scripturarum sanctarum, et secundum Ioachim inter ceteros precipue designat Heliam. “Et clamavit voce magna omnibus avibus que volabant per medium celi”, id est omnibus evangelicis et contemplativis illius temporis: “Venite, congregamini ad cenam Dei magnam”, id est ad spirituale et serotinum convivium Christi, in quo quidem devorabitur universitas moriture carnis, ut transeat quod carnale est et maneat quod spirituale est.

[LSA, cap. IV, Ap 4, 7-8 (radix IIe visionis)] Dividit (Ioachim) enim viginti quattuor legiones in quattuor partes secundum quattuor animalia, ita ut in leone accipiamus fortes in fide, in vitulo autem robustos in patientia, in homine preditos scientia, in aquila contemplatione suspensos.

Par. XXXI, 43-45, 52-57

E quasi peregrin che si ricrea
nel tempio del suo voto riguardando,
e spera già ridir com’ ello stea

La forma general di paradiso
già tutta mïo sguardo avea compresa,
in nulla parte ancor fermato fiso;
e volgeami con voglia rïaccesa
per domandar la mia donna di cose
di che la mente mia era sospesa.

Purg. XXXIII, 103-111

E più corusco e con più lenti passi
teneva il sole il cerchio di merigge,
che qua e là, come li aspetti, fassi,
quando s’affisser, sì come s’affigge
chi va dinanzi a gente per iscorta
se trova novitate o sue vestigge,
le sette donne al fin d’un’ombra smorta,
qual sotto foglie verdi e rami nigri
sovra suoi freddi rivi l’alpe porta.

Inf. XVIII, 43-45

Per ch’ ïo a figurarlo i piedi affissi;
e ’l dolce duca meco si ristette,
e assentio ch’alquanto in dietro gissi.

Purg. X, 130-132

Come per sostentar solaio o tetto,
per mensola talvolta una figura
si vede giugner le ginocchia al petto

[LSA, cap. III, Ap 3, 12 (Ia visio, VIa victoria)] “Qui vicerit” et cetera. Hoc expositum est supra. Nota tamen quod iste victor signanter dicitur fiendus columpna templi Dei, quia sicut primi apostoli Christi fuerunt fundamenta ecclesie sic iste debet esse columpna tecti ipsius, id est erectus et pertingens ad sublimem consumationem ipsius, debetque firmum esse et decorum sustentaculum alte et finalis perfectionis ipsius.

Par. XXXIII, 97-105, 133-134

Così la mente mia, tutta sospesa,
mirava fissa, immobile e attenta,
e sempre di mirar faceasi accesa.
A quella luce cotal si diventa,
che volgersi da lei per altro aspetto
è impossibil che mai si consenta;
però che ’l ben, ch’è del volere obietto,
tutto s’accoglie in lei, e fuor di quella
è defettivo ciò ch’è lì perfetto.

Qual è ’l geomètra che tutto s’affige
per misurar lo cerchio …………….

Par. XXIII, 1-15

Come l’augello, intra l’amate fronde,
posato al nido de’ suoi dolci nati
la notte che le cose ci nasconde,
che, per veder li aspetti disïati
e per trovar lo cibo onde li pasca,
in che gravi labor li sono aggrati,
previene il tempo in su aperta frasca,
e con ardente affetto il sole aspetta,
fiso guardando pur che l’alba nasca;
così la donna mïa stava eretta
e attenta, rivolta inver’ la plaga
sotto la quale il sol mostra men fretta:
sì che, veggendola io sospesa e vaga,
fecimi qual è quei che disïando
altro vorria, e sperando s’appaga.

Par. XXV, 25-33

Ma poi che ’l gratular si fu assolto,
tacito coram me ciascun s’affisse,
ignito sì che vincëa ’l mio volto.
Ridendo allora Bëatrice disse:
“Inclita vita per cui la larghezza
de la nostra basilica si scrisse,
fa risonar la spene in questa altezza:
tu sai, che tante fiate la figuri,
quante Iesù ai tre fé più carezza”.

[LSA, cap. II,  Ap 3, 12 (Ia visio, VIa victoria)] Sexta victoria est victoriosus ingressus in Christum, qui fit per totalem configurationem et transformationem mentis in ipsum, quod utique proprie competit sexto statui. […] Columpna autem, sic stans, est longa et a fundo usque ad tectum erecta et solida ac sufficienter densa, et rotunda communiter vel quadrata, et firmiter fixa templique sustentativa et decorativa. Sic autem stat in Dei ecclesia vel religione vir evangelicus Christo totus configuratus, sic etiam suo modo stat in celesti curia. […]

(sequitur*) In huius[modi] autem mente tria inscribuntur, scilicet excessiva visio vel contemplatio deitatis trium personarum, et totius civitatis seu collegii sanctorum, quam dicit descendere de celo a Deo tum quia tota a Deo oritur et sic quod est inferior eo et sua immensitate per celum designata, tum quia per humilitatem non solum Deo sed etiam suo proprio ac celesti loco reputat se indignam, tum quia prout Iherusalem sumitur pro militanti ecclesia descendunt eius gratie a Deo et a hierarchia beatorum.
Vocat autem eam novam propter novitatem glorie vel gratie, unde et precipue significat hic civitatem beatorum, et post hoc illam que erit in sexto et septimo statu, et post hoc illam que reiecta vetustate legalium fuit in quinque primis statibus Christi, et post hoc totam universaliter ab initio mundi. Vocatur etiam Iherusalem, id est visio pacis, quia vel ipsa fruitur vel ad ipsam suspiratur.
Tertium quod sibi [in]scribitur est contemplatio Christi secundum quod homo et secundum quod redemptor noster et mediator. Dicitur autem nomen suum esse novum, tum propter novitatem sue resurrectionis et glorie, tum quia unio sue deitatis cum humanitate in eadem persona et universaliter omnia que in ipso sunt miram continent et preferunt novitatem.
Et attende quomodo a Deo incipiens et in eius civitatem descendens, reascendit et finit in se ipsum, quia contemplatio incipit in Deo et per Dei civitatem ascendit in Christum eius regem, in quo et per quem consumatissime redit et reintrat in Deum, et sic fit circulus gloriosus. […] (sequitur**)

Par. XXX, 100-103, 112-114, 130

Lume è là sù che visibile face
lo creatore a quella creatura
che solo in lui vedere ha la sua pace.
E’ si distende in circular figura

sì, soprastando al lume intorno intorno,
vidi specchiarsi in più di mille soglie
quanto di noi là sù fatto ha ritorno.

Vedi nostra città quant’ ella gira

Par. XI, 13-15

Poi che ciascuno fu tornato ne lo
punto del cerchio in che avanti s’era,
fermossi, come a candellier candelo.

Par. IX, 106-108

Qui si rimira ne l’arte ch’addorna
cotanto affetto, e discernesi ’l bene
per che ’l mondo di sù quel di giù torna.

Par. I, 49-51, 91-93

E sì come secondo raggio suole
uscir del primo e risalire in suso,
pur come pelegrin che tornar vuole

Tu non se’ in terra, sì come tu credi;
ma folgore, fuggendo il proprio sito,
non corse come tu ch’ad esso riedi.

Inf. XXXIV, 133-136

Lo duca e io per quel cammino ascoso
intrammo a ritornar nel chiaro mondo;
e sanza cura aver d’alcun riposo,
salimmo sù, el primo e io secondo

Inf. II, 82-84

Ma dimmi la cagion che non ti guardi
de lo scender qua giuso in questo centro
de l’ampio loco ove tornar tu ardi.

Inf. XVI, 133-135

sì come torna colui che va giuso
talora a solver l’àncora ch’aggrappa
o scoglio o altro che nel mare è chiuso

Purg. I, 52-54

Poscia rispuose lui: “Da me non venni:
donna scese del ciel, per li cui prieghi
de la mia compagnia costui sovvenni.”

Purg. II, 98-99

veramente da tre mesi elli ha tolto
chi ha voluto intrar, con tutta pace.

Par. XXXIII, 115-120, 127-138

Ne la profonda e chiara sussistenza
de l’alto lume parvermi tre giri
di tre colori e d’una contenenza;
e l’un da l’altro come iri da iri
parea reflesso, e ’l terzo parea foco
che quinci e quindi igualmente si spiri.

Quella circulazion che sì concetta
pareva in te come lume reflesso,
da li occhi miei alquanto circunspetta,
dentro da sé, del suo colore stesso,
mi parve pinta de la nostra effige:
per che ’l mio viso in lei tutto era messo.
Qual è ’l geomètra che tutto s’affige
per misurar lo cerchio, e non ritrova,
pensando, quel principio ond’ elli indige,
tal era io a quella vista nova:
veder voleva come si convenne
l’imago al cerchio e come vi s’indova

Par. XXXI, 1-12, 16-18, 109-111

In forma dunque di candida rosa
mi si mostrava la milizia santa
che nel suo sangue Cristo fece sposa;
ma l’altra, che volando vede e canta
la gloria di colui che la ’nnamora
e la bontà che la fece cotanta,
sì come schiera d’ape che s’infiora
una fïata e una si ritorna
là dove suo laboro s’insapora,
nel gran fior discendeva che s’addorna
di tante foglie, e quindi risaliva
là dove ’l süo amor sempre soggiorna.

Quando scendean  nel fior, di banco in banco
porgevan de la pace e de l’ardore
ch’elli acquistavan ventilando il fianco.

tal era io mirando la vivace
carità di colui che  questo mondo,
contemplando, gustò di quella pace.

[LSA, prologus, Notabile VIII] Septimum vero et ultimum membrum ipsarum visionum ac septima et ultima visio libri aperte demonstrant quod finis ipsarum est simpliciter vita eterna in fine seculi revelanda, secundum quid autem eius perfecta participatio in vita ista paulo ante finem seculi pregustanda.

Purg. XXIV, 43-45, 139-141

“Femmina è nata, e non porta ancor benda”,
cominciò el, “che ti farà piacere
la mia città, come ch’om la riprenda.”

com’ io vidi un che dicea: “S’a voi piace
montare in sù, qui si convien dar volta;
quinci si va chi vuole andar per pace”. 

 

[LSA, cap. II, Ap 3, 12 (Ia visio, VIa victoria)] Sexta victoria est victoriosus ingressus in Christum, qui fit per totalem configurationem et transformationem mentis in ipsum, quod utique proprie competit sexto statui. Hiis autem promittitur premium de quo sexte ecclesie dicitur: “Qui vicerit, faciam illum columpnam in templo Dei mei, et foras non egredietur amplius; et scribam super illum nomen Dei mei et nomen civitatis Dei mei, nove Iherusalem, que descendit de celo a Deo meo et nomen meum novum” (Ap 3, 12). Quod Christus hic vel alibi dicit “Dei mei” vel “a Deo meo”, non dicit nisi tantum ratione sue humanitatis, secundum quam est subiectus Patri et toti Trinitati tamquam Deo suo. Quantum autem ad hoc premium, nota quod quia intrans in Deum recipit intra se Deum, ita quod et Deus intrat in ipsum, ideo hunc duplicem intrandi respectum hic ponit. Primum enim ponit sub typo columpne intra templum existentis et inde non egressure; secundum vero sub typo scripture per quam nomen Dei et sue civitatis inscribitur menti. Et secundum hoc templum significat Deum, prout infra XX[I°] dicitur: “Dominus Deus templum illius est”, scilicet civitatis Dei (Ap 21, 22). Sumendo tamen templum pro ecclesia sustentata a perfectis quasi a columpnis eius, tunc sub alio respectu significatur duplex ingressus. Quia enim et Deum et eius cultum intramus primo per professionis statum, per quem quis in Dei ecclesia et religione statuitur; secundo per contemplationis actum, per quem Deus cum suis operibus apprehenditur, idcirco primum significat per immobilem statum columpne in templo; secundum vero per inscriptionem divinorum in animo.
Columpna autem, sic stans, est longa et a fundo usque ad tectum erecta et solida ac sufficienter densa, et rotunda communiter vel quadrata, et firmiter fixa templique sustentativa et decorativa. Sic autem stat in Dei ecclesia vel religione vir evangelicus Christo totus configuratus, sic etiam suo modo stat in celesti curia. […]
In huius[modi] autem mente tria inscribuntur, scilicet excessiva visio vel contemplatio deitatis trium personarum, et totius civitatis seu collegii sanctorum, quam dicit descendere de celo a Deo tum quia tota a Deo oritur et sic quod est inferior eo et sua immensitate per celum designata, tum quia per humilitatem non solum Deo sed etiam suo proprio ac celesti loco reputat se indignam, tum quia prout Iherusalem sumitur pro militanti ecclesia descendunt eius gratie a Deo et a hierarchia beatorum.
Vocat autem eam novam propter novitatem glorie vel gratie, unde et precipue significat hic civitatem beatorum, et post hoc illam que erit in sexto et septimo statu, et post hoc illam que reiecta vetustate legalium fuit in quinque primis statibus Christi, et post hoc totam universaliter ab initio mundi. Vocatur etiam Iherusalem, id est visio pacis, quia vel ipsa fruitur vel ad ipsam suspiratur.
Tertium quod sibi [in]scribitur est contemplatio Christi secundum quod homo et secundum quod redemptor noster et mediator. Dicitur autem nomen suum esse novum, tum propter novitatem sue resurrectionis et glorie, tum quia unio sue deitatis cum humanitate in eadem persona et universaliter omnia que in ipso sunt miram continent et preferunt novitatem.
Et attende quomodo a Deo incipiens et in eius civitatem descendens, reascendit et finit in se ipsum, quia contemplatio incipit in Deo et per Dei civitatem ascendit in Christum eius regem, in quo et per quem consumatissime redit et reintrat in Deum, et sic fit circulus gloriosus.
(sequitur**) Item, secundum quosdam, inscribitur sibi nomen Dei Patris quando sue paternitatis imago sic illi imprimitur ut merito possit dici abba seu pater spiritualis religionis et prolis.
Nomen vero Iherusalem nove sibi inscribitur, cum per suavitatem amoris est eius mens digna ut vocetur sponsa Christi et mater pia et nutritiva spiritalis prolis.
Nomen vero Christi sibi inscribitur, cum meretur dici christianus et etiam christus Domini, secundum illud Psalmi (Ps 104, 15): “Nolite tangere christos meos”.

Inf. XV, 82-85

ché ’n la mente m’è fitta, e or m’accora,
la cara e buona imagine paterna
di voi  quando nel mondo ad ora ad ora
m’insegnavate come l’uom s’etterna

Par. XXXIII, 136-138

tal era io a quella vista nova:
veder voleva come si convenne
l’imago al cerchio e come vi s’indova

Purg. V, 61-63, 130-136

voi dite, e io farò per quella pace
che, dietro a’ piedi di sì fatta guida,
di mondo in mondo cercar mi si face

“Deh, quando tu sarai tornato al mondo
e riposato de la lunga via”,
seguitò ’l terzo spirito al secondo,
“ricorditi di me, che son la Pia;
Siena mi fé, disfecemi Maremma:
salsi colui che ’nnanellata pria
disposando m’avea con la sua gemma”.

Inf. XV, 73-78

Faccian le bestie fiesolane strame
di lor medesme, e non tocchin  la pianta,
s’alcuna surge ancora in lor letame,
in cui riviva la sementa santa
di que’ Roman che vi rimaser quando
fu fatto il nido di malizia tanta.

Purg. XXVI, 97-101, 127-132

quand’ io odo nomar sé stesso il padre
mio e de li altri miei miglior che mai
rime d’amor usar dolci  e leggiadre;
e sanza udire e dir pensoso andai
lunga fïata rimirando lui

Or se tu hai sì ampio privilegio,
che licito ti sia l’andare al chiostro
nel quale è Cristo abate del collegio,
falli per me un dir d’un paternostro
quanto bisogna a noi di questo mondo,
dove poter peccar non è più nostro.

Purg. III, 100-102, 133-135

Così ’l maestro; e quella gente degna
Tornate”, disse, “intrate innanzi dunque”,
coi dossi de le man faccendo insegna.

Per lor maladizion sì non si perde,
che non possa tornar, l’etterno amore,
mentre che la speranza ha fior del verde.

Inf. XXI, 88-90, 100-102

E ’l duca mio a me: “O tu che siedi
tra li scheggion del ponte quatto quatto,
sicuramente omai a me ti riedi”.

Ei chinavan li raffi e “Vuo’ che ’l tocchi”,
diceva l’un con l’altro, “in sul groppone?”.
E rispondien: “Sì, fa che gliel’ accocchi”.

_________________________________________________________________________________________________________________________

[LSA, cap. XXI, Ap 21, 16 (VIIa visio)] “Et civitas in quadro posita est”, id est habens quattuor latera muri sub figura quadranguli iuncta, per quod designatur solida quadratura virtutum.
“Longitudo eius tanta est quanta et latitudo”, id est quattuor latera eius sunt equalia. Nam duo sunt longitudo eius et alia duo sunt eius latitudo. Civitas enim beatorum quantum de Deo et bonis eius videt tantum amat, et ideo quantum est in visione longa tantum est in caritate lata; quantum etiam est in longitudinem eternitatis immortaliter prolongata, tantum est iocunditate glorie dilatata.
In vita autem ista non sunt hec communiter equalia, nisi forte in illis perfectis qui quantum cognoscunt vel credunt tantum amant, et quantum per spem in bona eterna protenduntur tantum gaudio dilatantur. In beatis etiam prudentia et fortitudo et iustitia et temperantia sunt equales. Hec enim sunt quattuor latera civitatis.
Nota quod quia hic agit solum de quadratura non facit mentionem de altitudine, sed paulo post, agens de totali mensura civitatis, dicit quod “longitudo et latitudo et altitudo eius equalia sunt”. Nam quantum per visionem et amorem protenditur in longum et latum, tantum elevatur in altam laudem et reverentiam Dei et in altum superexcessum apprehensionis et degustationis sublimis maiestatis Dei. Secundum etiam mensuram sue caritatis et tensionis Dei est altitudo sue dignitatis et auctoritatis, quod non est communiter in hac vita, nisi in desiderio et in spe pertingendi ad consumatam mensuram patrie. Aliter enim se habet omne edificium in suo initio et aliter in suo fine perfecto. […]
“Et mensus est civitatem Dei cum arundine per stadia duodecim milia” (Ap 21, 16). […] Secundum autem Ioachim, designat duodecim turmas sanctorum martirum designatas per duodecim milia signatos ex unaquaque duodecim tribuum Israel, qui numerus demonstrat longitudinem et latitudinem et altitudinem esse equales. Si enim duodecies duodecim milia dividas in quattuor partes, erunt in singulis triginta sex milia, id est sexies sex milia. Si enim senarius est per se simpliciter perfectus, multo magis est cum per reflexionem sui in se ipsum est in altum auctus. Et secundum hoc ubique per latera longitudinis et latitudinis et per altitudinem ipsorum invenies sex gradus. Tanta autem equalitas designat summam concordiam beatorum in regno Dei.

[LSA, cap. XXI, Ap 21, 16 (VIIa visio)] “Et templum non vidi in ea” et cetera. Hic agit de sacro cultu et lumine quo civitas beatorum colit Deum et videt ipsum et omnia in ipso. Prius enim egit de formali et intrinseca luce et claritate eius (Ap 21, 11), hic vero de fontali obiecto et radio in quo Deum et omnia videbit. Que quidem visio est summa et ultimata illuminatio beatorum; beatificus autem actus caritatis spectat magis proprie ad cultum et sacrificium templi, quamvis utrumque in utroque comprehendatur, quia neutrum absque altero est perfectum etiam in propria specie sua.

[LSA, prologus, Notabile X] Sicut autem notitia preit amorem, quia non potest amari nisi cognitum, sic status doctorum in hoc libro premittitur ante statum anachoritarum; in quarta tamen visione ostenduntur simul concurrere, ubi dicitur quod “date sunt mulieri due ale aquile magne ut volaret in desertum” (Ap 12, 14).

[LSA, cap. XXII, Ap 22, 17 (finalis conclusio totius libri)] Septimo loquitur ut invitator omnium ad prefatam gloriam, et hoc tam per se quam per ecclesiam et eius doctores, unde subdit: “Et sponsus”, id est, secundum Ricardum, Christus (quidam tamen habent “Spiritus”, et quidam correctores dicunt quod sic habent antiqui et Greci, ut sic Christus tam per se quam per Spiritum suum et eius internam inspirationem ostendat se invitare), “et sponsa”, id est generalis ecclesia tam beata quam peregrinans vel contemplativa ecclesia, “dicunt: veni ”, scilicet ad nuptias. Ideo enim dixit “sponsa”, ut innueret nos invitari ad gloriosam cenam nuptiarum Agni. “Et qui audit”, scilicet hanc nostram invitationem, id est qui est de hiis sufficienter doctus; vel “qui audit”, id est recte et obedienter credit et opere perficit, “dicat”, scilicet unicuique vocandorum: “veni ”, scilicet ad cenam et civitatem beatam.
Deinde ipse Christus per se liberaliter invitat et offert, dicens: “Et qui sitit veniat, et qui vult accipiat aquam vite gratis”. Quia nullus cogitur nec potest venire nisi per desiderium et voluntarium consensum, ideo dicit “qui sitit et qui vult. Idem autem est venire quod accipere “aquam vite”, id est gratiam vite refectivam et vivificam et perducentem in vitam eternam. Dicit autem “gratis”, tum quia absque omni pretio venali et exteriori datur et accipitur, tum quia prima gratia datur absque omni previo merito et tamquam principium et caus[a] meriti, ac per consequens totum premium et augmentum gratie quod per primam gratiam acquiritur gratia reputatur. Dicit etiam “gratis”, quia tota a summa caritate Christi et summe gratuita et liberali predestinatur et offertur et datur.

Par. XV, 73-84

Poi cominciai così: “L’affetto e ’l senno,
come la prima equalità v’apparse,
d’un peso per ciascun di voi si fenno,
però che ’l sol che v’allumò e arse,
col caldo e con la luce è sì iguali,
che tutte simiglianze sono scarse.
Ma voglia e argomento ne’ mortali,
per la cagion ch’a voi è manifesta,
diversamente son pennuti in ali ;
ond’ io, che son mortal, mi sento in questa
disagguaglianza, e però non ringrazio
se non col core a la paterna festa.”

Par. XVII, 23-24

………   avvegna ch’io mi senta
ben tetragono ai colpi di ventura

Par. XXI, 82-90

poi rispuose l’amor che v’era dentro:
“Luce divina sopra me s’appunta,
penetrando per questa in ch’io m’inventro,
la cui virtù, col mio veder congiunta,
mi leva sopra me tanto, ch’i’ veggio
la somma essenza de la quale è munta.
Quinci vien l’allegrezza ond’ io fiammeggio;
per ch’a la vista mia, quant’ ella è chiara,
la chiarità de la fiamma pareggio.”

Par. XXVIII, 67-78, 106-111

Maggior bontà vuol far maggior salute;
maggior salute maggior corpo cape,
s’elli ha le parti igualmente compiute.
Dunque costui che tutto quanto rape
l’altro universo seco, corrisponde
al cerchio che più ama e che più sape:
per che, se tu a la virtù circonde
la tua misura, non a la parvenza
de le sustanze che t’appaion tonde,
tu vederai mirabil consequenza
di maggio a più e di minore a meno,
in ciascun cielo, a süa intelligenza.

e dei saper che tutti hanno diletto
quanto la sua veduta si profonda
nel vero in che si queta ogne intelletto.
Quinci si può veder come si fonda
l’esser beato ne l’atto che vede,
non in quel ch’ama, che poscia seconda

Par. XXXII, 85-90

Riguarda omai ne la faccia che a Cristo
più si somiglia, ché la sua chiarezza
sola ti può disporre a veder Cristo.
Io vidi sopra lei tanta allegrezza
piover, portata ne le menti sante
create a trasvolar per quella altezza

Par. XXXIII, 67-68, 82-84, 91-93, 139-145

O somma luce che tanto ti levi
da’ concetti mortali …………

Oh abbondante grazia ond’ io presunsi
ficcar lo viso per la luce etterna,
tanto che la veduta vi consunsi!

La forma universal di questo nodo
credo ch’i’ vidi, perché più di largo,
dicendo questo, mi sento ch’i’ godo.

ma non eran da ciò le proprie penne:
se non che la mia mente fu percossa
da un fulgore in che sua voglia venne.
A l’alta fantasia qui mancò possa;
ma già volgeva il mio disio e l velle,
sì come rota ch’ igualmente è mossa,
l’amor che move il sole e l’altre stelle.

Par. XXX, 88-90, 100-105, 115-120, 124-126

e sì come di lei bevve la gronda
de le palpebre mie, così mi parve
di sua lunghezza divenuta tonda.

Lume è là sù che visibile face
lo creatore a quella creatura
che solo in lui vedere ha la sua pace.   3, 12
E’ si distende in circular  figura,
in tanto che la sua circunferenza
sarebbe al sol troppo larga cintura.

E se l’infimo grado in sé raccoglie
sì grande lume, quanta è la larghezza
di questa rosa ne l’estreme foglie!
La vista mia ne l’ampio e ne l’altezza
non si smarriva, ma tutto prendeva
il quanto e ’l quale di quella allegrezza.

Nel giallo de la rosa sempiterna,
che si digrada e dilata e redole
odor di lode al sol che sempre verna

Par. XXV, 25-33

Ma poi che ’l gratular si fu assolto,
tacito coram me ciascun s’affisse,
ignito sì che vincëa ’l mio volto.
Ridendo allora Bëatrice disse:
“Inclita vita per cui la larghezza
de la nostra basilica si scrisse,
fa risonar la spene in questa altezza:
tu sai, che tante fiate la figuri,
quante Iesù ai tre più carezza”.
                                             chiarezza

Par. XXVI, 25-30

E io: “Per filosofici argomenti
e per autorità che quinci scende
cotale amor convien che in me si ’mprenti:
ché ’l bene, in quanto ben, come s’intende,
così accende amore, e tanto maggio
quanto più di bontate in sé comprende.”

[LSA, cap. I, Ap 1, 16-17 (Ia visio)] Decima (perfectio summo pastori condecens) est sue claritatis et virtutis incomprehensibilis gloria, unde subdit: “et facies eius sicut sol lucet in virtute sua”. Sol in tota virtute sua lucet in meridie, et precipue quando aer est serenus expulsa omni nube et grosso vapore, et quidem corporalis facies Christi plus incomparabiliter lucet et viget. Per hoc tamen designatur ineffabilis claritas et virtus sue divinitatis et etiam sue mentis. Splendor etiam iste sue faciei designat apertam et superfulgidam notitiam scripture sacre et faciei, ita quod in sexta etate et precipue in eius sexto statu debet preclarius radiare. In cuius signum Christus post sex dies transfiguratus est in monte in faciem solis (cfr. Mt 17, 1-8), et sub sexto angelo tuba canente videtur angelus habens faciem solis et tenens librum apertum (cfr. Ap 10, 1-2).
Undecima est ex predictis sublimitatibus impressa in subditos summa humiliatio et tremefactio et adoratio, unde subdit: “et cum vidissem eum”, scilicet tantum ac talem, “cecidi ad pedes eius tamquam mortuus” (Ap 1, 17). Et est intelligendum quod cecidit in faciem prostratus, quia talis competit actui adorandi; casus vero resupinus est signum desperationis et desperate destitutionis. Huius casus sumitur ratio partim ex intolerabili superexcessu obiecti, partim ex terrifico et immutativo influxu assistentis Dei vel angeli, partim ex materiali fragilitate subiecti seu organi ipsius videntis.
Est etiam huius ratio ex causa finali, tum quia huiusmodi immutatio intimius et certius facit ipsum videntem experiri visionem esse arduam et divinam et a causis supremis, tum quia per eam quasi sibi ipsi annichilatus humilius et timoratius visiones suscipit divinas, tum quia valet ad significandum quod sanctorum excessiva virtus et perfectio tremefacit et humiliat et sibi subicit animos subditorum et etiam ceterorum intuentium. Significat etiam quod in divine contemplationis superexcessum non ascenditur nisi per sui oblivionem et abnegationem et mortificationem et per omnium privationem.

 

[Nota alla tabella precedente]

I quattro lati delle mura della città formano un quadrilatero (Ap 21, 16), che designa la solida quadratura delle virtù (a Cacciaguida il poeta dice di sentirsi “ben tetragono ai colpi di ventura”, Par. XVII, 23-24). I quattro lati sono uguali in lunghezza e in larghezza. La città dei beati quanto vede di Dio e dei suoi beni tanto ama, quanto è lunga nella visione tanto si dilata nella carità, quanto si prolunga nell’eterno tanto si dilata nel gaudio giocoso e glorioso. Lo stesso può dirsi di coloro che in questa vita raggiungono la perfezione, i quali quanto conoscono o credono tanto amano, quanto per la speranza si protendono nei beni eterni tanto si dilatano nel gaudio. Nei beati le quattro virtù cardinali – prudenza, fortezza, giustizia e temperanza -, designate dai quattro lati della città, hanno uguale misura. Anche l’altezza è uguale alla lunghezza e alla larghezza, poiché quanto i beati per la visione e per l’amore si protendono in lungo e in largo, tanto si elevano nell’alta lode e nella reverenza verso Dio e nell’alto apprendimento e degustazione della sua sublime maestà. Tuttavia in questa vita l’altezza, proporzionata alla misura della carità e del tendere in Dio, sta comunemente solo nel desiderio e nella speranza di raggiungere la compiuta misura della patria celeste. Un edificio si pone infatti diversamente nel suo inizio e nella perfezione del fine.
Anche un sommario esame rivela quanto siano importanti questi temi nel Paradiso [36]. Beatrice, spiegando la differenza tra l’ordine celeste e quello del mondo, definisce il Primo Mobile come la sfera corporea corrispondente al primo dei cerchi angelici, i Serafini, “che più ama e che più sape” (la larghezza e la lunghezza si equivalgono), invitando Dante ad applicare la sua misura (il misurare la città) al criterio della virtù (i lati della città designano le virtù) e non a quello della grandezza apparente dei cerchi (Par. XXVIII, 70-78). Più avanti la donna dice che tutte le intelligenze “hanno diletto” (il godere giocoso proprio della larghezza e anche la degustazione propria dell’altezza) quanto è profonda la visione di Dio (la lunghezza; ibid., 106-108). Soggiunge che l’essere beato si fonda nell’atto della visione, non nell’atto dell’amore, il quale consegue dal primo (Par. XXVIII, 109-111; cfr. Par. XXVI, 27-29; XXIX, 139-140). Secondo molti interpreti qui Dante accoglie la tesi tomista che fa precedere nella beatitudine l’atto dell’intelletto a quello della volontà se non nel tempo, almeno nella natura e nell’origine. Ernesto Buonaiuti notò una contraddizione tra la terzina di Par. XXVIII, 109-111 e la definizione del Primo Mobile come corrispondente “al cerchio che più ama e che più sape” (ibid., 72), dove invece prevarrebbe la tesi volontaristica francescana in quanto, in questo caso, l’amare è posto prima del sapere [37]. La questione viene affrontata dallo stesso Olivi ad Ap 21, 22, dove i due atti – la “visio” e il “beatificus actus caritatis” – sono considerati tanto compenetrati che nessuno dei due può ritenersi perfetto senza l’altro. Lo stesso Olivi, però, nel Notabile X del prologo della Lectura, afferma che non si può amare se non quello che si conosce, e che quindi la “notitia” precede l’amore come il terzo stato dei dottori (l’intelletto) precede storicamente il quarto stato degli anacoreti (l’affetto) [38]. La stessa questione viene posta nella domanda che Dante fa a Francesca: “Ma dimmi: al tempo d’i dolci sospiri, / a che e come concedette amore / che conosceste i dubbiosi disiri?”, e riecheggiata nella risposta: “Ma s’a conoscer la prima radice / del nostro amor tu hai cotanto affetto, / dirò come colui che piange e dice” (Inf. V, 118-120, 124-126).
Nei beati, come sa Dante che si rivolge a Cacciaguida, “l’affetto e ’l senno” (la larghezza e la lunghezza) sono di pari peso dal momento in cui essi hanno cominciato a contemplare Dio (definito, per restare nel medesimo ambito tematico, “la prima equalità”, il sole uguale nel calore della carità e nella luce della visione), diversamente dai mortali, nei quali “voglia e argomento” (corrispondenti all’affetto e al senno) hanno ali disuguali (Par. XV, 73-84). Al termine del viaggio, la lunghezza (“il mio disio”, che esprime anche l’altezza, “secundum mensuram sue tensionis”, e dunque la “sete natural” di cui a Purg. XXI, 1-4) e la larghezza (“’l velle”) saranno in Dante “sì come rota ch’igualmente è mossa” (Par. XXXIII, 143-145). Lo Spirito di Cristo, nell’invitare alla gloriosa cena delle nozze dell’Agnello, dice: “Et qui sitit veniat. Et qui vult accipiat aquam vite gratis”, perché, aggiunge Olivi, “nullus cogitur nec potest venire nisi per desiderium et voluntarium consensum” (ad Ap 22, 17) [39]. Nella descrizione dell’empirea rosa, la fiumana luminosa, che prima appariva in lunghezza, successivamente diviene tonda distendendosi in figura circolare, con una circonferenza che sarebbe cintura “troppo larga” per il sole (Par. XXX, 88-90, 103-105). La rosa sempiterna “si digrada” (si allunga nel senso di protendersi), “e dilata” (si allarga) “e redole / odor di lode al sol che sempre verna” (l’elevarsi dell’altezza; ibid., 124-126). Il digradare fa comunque riferimento ai “gradi”, che nella misura della città sono uguali per ciascun lato: secondo Gioacchino da Fiore, ovunque si ritrova il numero 6, in quanto il senario, riflesso su sé stesso ed elevato in alto, dà 36, e 36.000 (6 volte 6000) si ottiene dividendo 144.000 (dodici volte la misura della città, che è di 12.000 stadi) per i 4 lati.
Nel riferire l’ultima visione, Dante prima ricorda “l’abbondante grazia ond’ io presunsi / ficcar lo viso per la luce etterna” (la visione corrisponde alla lunghezza), poi afferma di aver visto la forma universale del nodo che unisce tutte le cose perché, dicendo ciò, prova un godimento più largo (i perfetti, i quali “in gaudio dilatantur” in questa vita, designano la larghezza; Par. XXXIII, 82-84, 91-93) [40]. Il vedere del poeta è tanto più sincero quanto più entra nel raggio dell’alta luce (ibid., 52-54), che tanto si eleva sui concetti mortali (ibid., 67-68: l’altezza).
Pier Damiani ‘pareggia’, cioè rende uguale, la chiarezza della visione di Dio (“la vista mia, quant’ ella è chiara”) con “l’allegrezza ond’ io fiammeggio” – in lui sono pertanto uguali la lunghezza della visione e la larghezza del gaudio che deriva dalla carità – e, grazie alla virtù della luce divina che si congiunge con il suo vedere, può levarsi tanto sopra di sé (uguaglianza anche nell’altezza) nell’intelligenza della somma essenza (Par. XXI, 82-90).
L’altezza della città, in questa vita, si consegue solo parzialmente, secondo la misura del proprio tendere nella lunghezza e nella larghezza verso Dio con la speranza di apprenderlo. La montagna del purgatorio, nei suoi sette gironi (corrispondenti ai sette stati della Chiesa secondo Olivi) rappresenta la Chiesa militante verso la ‘nobil patria’ celeste, che procedendo nella storia spera e consegue una misura sempre maggiore dei suoi lati. Di tale speranza, che è l’altezza dei lati del muro della città, dice Beatrice a san Giacomo: “Inclita vita per cui la larghezza / de la nostra basilica si scrisse, / fa risonar la spene in questa altezza (Par. XXV, 29-31). Un confronto fra Par. XXV, 28-33 e Par. XXXII, 85-90 mostra nel primo caso la rima larghezza / altezza / carezza variata in chiarezza / allegrezza / altezza nel secondo. In entrambi i casi è fatto segno dell’altezza e della larghezza (che equivale alla “iocunditas”) della città celeste; nel secondo si menziona anche la lunghezza (equivalente alla chiarezza, cioè alla luce della visione). Sia in Par. XXV come in Par. XXXII si registrano parole-chiave che rinviano ad Ap 1, 16-17 (lo splendore solare del volto di Cristo, decima perfezione del sommo pastore; il non poterla sostenere, undecima perfezione): vincëa ’l mio volto (ex materiali fragilitate subiecti seu organi ipsius videntis) … ridendo (il ridere di Beatrice corrisponde sempre allo splendor faciei di Cristo) … Iesù ai tre fé più carezza (in cuius signum Christus post sex dies transfiguratus est in monte in faciem solis) / la faccia (facies eius) … la sua chiarezza (sue claritatis). In questa rosa di segni, appropriata in modo variato a Beatrice e alla Vergine, ci si domanda se non sia da prendere in debita considerazione la variante chiarezza al posto di carezza (Par. XXV, 33): Iesù ai tre fé più chiarezza (et quidem corporalis facies Christi plus incomparabiliter lucet et viget. Per hoc tamen designatur ineffabilis claritas et virtus sue divinitatis et etiam sue mentis … in cuius signum Christus post sex dies transfiguratus est in monte in faciem solis). Cristo, nella Trasfigurazione, si mostrò ai tre apostoli più luminoso, piuttosto che farsi più ‘caro’, cioè con maggior carità e amore; oppure con il dar loro maggior ‘pregio’ e onore rispetto agli altri. Carezza compare solo in un altro luogo, a Par. XXIV, 19 (in rima con chiarezza al v. 21), nel senso di ‘prezioso’, della cara gioia (v. 89), e in questo corrisponde alla Gerusalemme celeste “omni lapide pretioso ornata” (Ap 21, 19) [41].

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[LSA, cap. VI, Ap 6, 2 (IIa visio, apertio Ii sigilli)] In prima autem apertione apparet Christus resuscitatus sedens in equo albo, id est in suo corpore glorioso et in primitiva ecclesia per regenerationis gratiam dealbata et per lucem resurrectionis Christi irradiata, in qua Christus sedens exivit in campum totius orbis non quasi pavidus aut infirmus, sed cum summa magnanimitate et insuperabili virtute. Nam suos apostolos deduxit in mundum quasi leones animosissimos et ad mirabilia facienda potentissimos, et “habebat” in eis “archum” predicationis valide ad corda sagittanda et penetranda. […]
“Et exivit vincens ut vinceret”, id est, secundum Ricardum, vincens quos de Iudeis elegit ipsos convertendo ut per eosdem vinceret, id est converteret gentiles quos predestinaverat. Vel per hoc designatur quod, quando exivit ut mundum vinceret, apparuit in ipso exitu totus victoriosus et ac si iam totus vicisset.

[LSA, prologus, Notabile XII] Dicendum quod diffusio fidei per apostolos in orbem universum debuit esse velox instar lucis solaris ab oriente in occidentem subito procedentis et instar fulguris universa subito discurrentis. Hoc enim fuit in gloriam Christi et lucis sue, unde in apertione primi signaculi dicitur exissevincens ut vinceret” (cfr. Ap 6, 2).

[LSA, cap. XXI, Ap 21, 12.16 (VIIa visio)] Secundum autem Ricardum, per duodecim angulos cuiuslibet porte intelliguntur universi minores et meritis occultiores, quia angulus occultum significat, et duodenarius universitatem. In scripturis tamen sepe angulus sumitur pro fortitudine et ornatu, quia in angulis domorum, in quibus parietes coniunguntur, est fortitudo domus. Unde Christus dicitur esse factus in caput anguli et lapis angularis; et Iob I° dicitur “ventus” [concussisse] “quattuor angulos domus” ut dirueret ipsam domum (Jb 1, 19), et Zacharie X°, ubi agitur de futura fortitudine et victoria regni Iude, dicitur quod “ex ipso” erit “angulus et paxillus et archus prelii” (Zc 10, 4), id est robusti duces qui erunt aliorum sustentatores sicut angulus et paxillus; et Sophonie I° dicitur quod “dies ire” erit “super civitates munitas et super angulos excelsos” (Sph 1, 15-16), et capitulo III° dicitur: “Disperdidi gentes et dissipati sunt anguli earum” (Sph 3, 6), id est robusti duces earum; et I° Regum XIIII°: “dixit Saul: Applicate huc universos angulos populi” et cetera (1 Rg 14, 38). […]
“Et mensus est civitatem Dei cum arundine per stadia duodecim milia” (Ap 21, 16). Stadium est spatium in cuius termino statur vel pro respirando pausatur, et per quod curritur ut bravium acquiratur, secundum illud Apostoli Ia ad Corinthios, capitulo IX°: “Nescitis quod hii, qui in stadio currunt, omnes quidem currunt, sed unus accipit bravium?” (1 Cor 9, 24), et ideo significat iter meriti triumphaliter obtinentis premium. Cui et congruit quod stadium est octava pars miliarii, unde designat octavam resurrectionis. Octava autem pars miliarii, id est mille passuum, sunt centum viginti quinque passus, qui faciunt duodecies decem et ultra hoc quinque; in quo designatur status continens perfectionem apostolicam habundanter implentem decalogum legis, et ultra hoc plenitudinem quinque spiritualium sensuum et quinque patriarchalium ecclesiarum.

Par. XII, 106-108; XXV, 79-87, 130-135

Se tal fu l’una rota de la biga
in che la Santa Chiesa si difese
e vinse in campo la sua civil briga

Mentr’ io diceva, dentro al vivo seno
di quello incendio tremolava un lampo
sùbito e spesso a guisa di baleno.
Indi spirò: “L’amore ond’ ïo avvampo
ancor ver’ la virtù che mi seguette
infin la palma e a l’uscir del campo,
vuol ch’io respiri a te che ti dilette
di lei; ed emmi a grato che tu diche
quello che la speranza ti ’mpromette”.

A questa voce l’infiammato giro
si quïetò con esso il dolce mischio
che si facea nel suon del trino spiro,
sì come, per cessar fatica o rischio,
li remi, pria ne l’acqua ripercossi,
tutti si posano al sonar d’un fischio.

Par. IV, 127-129; VI, 25-27 

Posasi in esso, come fera in lustra,
tosto che giunto l’ha; e giugner puollo:
se non, ciascun disio sarebbe frustra.

e al mio Belisar commendai l’armi,
cui la destra del ciel fu sì congiunta,
che segno fu ch’i’ dovessi posarmi.

Purg. V, 130-133

“Deh, quando tu sarai tornato al mondo
e riposato de la lunga via”,
seguitò ’l terzo spirito al secondo,
“ricorditi di me, che son la Pia …”

Inf. XV, 121-124

Poi si rivolse, e parve di coloro
che corrono a Verona il drappo verde
per la campagna; e parve di costoro
quelli che vince, non colui che perde.

Par. II, 22-25 (Par. I, 43-142 + II, 1-25 = 125)

Beatrice in suso, e io in lei guardava;
e forse in tanto in quanto un quadrel posa
e vola e da la noce si dischiava,
giunto mi vidi ove mirabil cosa

vv. 26-30

mi torse il viso a sé; e però quella
cui non potea mia cura essere ascosa,
volta ver’ me, sì lieta come bella,
“Drizza la mente in Dio grata”, mi disse,
“che n’ha congiunti con la prima stella”.

[LSA, cap. XXI, Ap 21, 16 (VIIa visio)] “Et civitas in quadro posita est”, id est habens quattuor latera muri sub figura quadranguli iuncta, per quod designatur solida quadratura virtutum.

Purg. XVIII, 31-33

così l’animo preso entra in disire,
ch’è moto spiritale, e mai non posa
fin che la cosa amata il fa gioire.

[LSA, prologus, Notabile XIII] Dies vero septimus erit benedictus et sanctificatus et liber ab omni opere et labore servili et fruens pace que exsuperat omnem sensum (cfr. Gn 2, 1-3). […] Sicut etiam septima etas, a sabbato quietis Christi initiata, continet in quiete et pace sanctas animas defunctorum, sic in septimo statu complebitur id quod scribitur in hoc libro (Ap 14, 13): “Beati qui in Domino moriuntur. Dicit” enim “Spiritus ut amodo requiescant a laboribus suis”, tamquam scilicet mundo et mundanis omnino defuncti.

[LSA, cap. X, Ap 10, 5-7 (IIIa visio, VIa tuba)] Sumendo vero tubicinium septimi angeli respectu pacis que erit in ecclesia post mortem Antichristi, tunc est sensus quod tempus afflictionis et laboris sex priorum statuum, quasi sex dierum quibus laborare et operari oportet, cessabit in sabbato et requie septimi status, tuncque “consumabitur misterium” per prophetas [pre]nuntiatum quantum in hac vita consumari debet. Et sic exponit hoc Ioachim, subdens quod post tempus sex apertionum huius sexte etatis manet «tempus, ut ait angelus Danieli, quale non fuit ex eo tempore quo ceperunt homines esse in terra (cfr. Dn 12, 1), tempus utique septimi angeli, cui benedicet Dominus dans in eo pacem et letitiam sustinentibus se».

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[Ap 4, 2-3; IIa visio, radix] Quoniam autem presentatio seu descriptio summe magnificentie et reverentie et sapientie maiestatis Dei et assistentium sibi plurimum confert ad advertendum profundam et altam et gloriosam continentiam huius libri a Dei dextera tenti, idcirco in prima parte magnificatur Dei maiestas ex septem.
Primo scilicet ex sue sedis alta eminentia.
Secundo ex Dei admirabili forma, ibi: “Et qui sedebat” (Ap 4, 3).
Tertio ex sue sedis archuali refulgentia, ibi: “Iris erat” (ibid.).
Quarto ex viginti quattuor seniorum sollempnium et suarum sedium circumassistentia, ibi: “Et in circuitu sedis” (Ap 4, 4).
Quinto ex fulgurum ac vocum et tonitruorum emissione valida a sede divina, ibi: “Et de trono procedebant fulgura” (Ap 4, 5).
Sexto ex septem lampadum et maris preclari obsequiosa seu adornatoria ante sedem coassistentia, ibi: “Et septem lampades” (ibid.).
Septimo ex quattuor animalium sedem Dei portantium stupenda forma et iubilatoria laudum Dei resonantia, et iterum ex dictorum seniorum concord[i] ad laudem animalium correspondentia, ibi: “Et in medio sedis” (Ap 4, 6).
Dicit ergo (Ap 4, 2): “Et ecce sedes posita erat in celo, et supra sedem sedens”, scilicet erat. Deus enim Pater apparebat ei quasi sub specie regis sedentis super solium.
Per hanc autem sedem significatur primo altissima stabilitas essentie Dei, in qua et per quam Deus maiestative existit.
Secundo quelibet mens sancta et precipue perfecta, inter quas prima est Christi mater.
Tertio suprema angelorum hierarchia, cuius ordo tertius vocatur troni vel sedes, et de secundo ordine dicitur in Psalmo (Ps 79, 2; 98, 1): “Qui sedes super cherubin”, et idem monstratur Ezechielis capitulo primo et decimo (Ez 1, 26; 10, 1). Tota etiam ecclesia triumphans et tota ecclesia militans sunt sedes Dei. Quelibet etiam metropolitana ecclesia et precipue illa que est caput omnium, scilicet romana, dicitur sedes Dei.
“Et qui sedebat, similis erat aspectui”, id est aspectibili seu visibili forme, lapidis iaspidis et sardini (Ap 4, 3). Lapidi dicitur similis, quia Deus est per naturam firmus et immutabilis et in sua iustitia solidus et stabilis, et firmiter regit et statuit omnia per potentiam infrangibilem proprie virtutis.
Lapidi vero pretioso dicitur similis, quia quicquid est in Deo est pretiosissimum super omnia. Sicut autem iaspis est viridis, sardius vero rubeus et coloris sanguinei, sic Deus habet in se immarcescibilem decorem et virorem delectabilissimum electis, gratioso virori gemmarum et herbarum assimilatum. Rubet etiam caritate et pietate ad electos et fervida iracundia seu odio ad reprobos. Rubet etiam in eo quod voluit et fecit suum Filium pro nobis sanguine rubificari.
“Et iris erat in circuitu sedis similis visioni [s]maragdine”, id est viridis coloris smaragdi. Smaragdus enim est gemma cui, secundum Isidorum et Papiam, nichil viridius comparatur. Nam virentes herbas et frondes exsuperat et intingit circa se viriditate repercussum aerem, soloque intuitu implet oculos nec satiat, est enim gratiosissima visui.
Iris autem est archus viridis et splendidus, generatus in nube aquosa et rorida ex radiosa repercussione solis, et secundum quosdam dicitur iris quasi aeris, quia per aera descendit ad terram. Cuius radii in parte nubis densa faciunt rubeum colorem, in densiori ceruleum, id est commixtum ex nigro et viridi, qualis est color maris profundi (est enim color lividus vel etiam purpureus, quasi ex fusco et rubeo commixtus), in densissima vero nigrum, in rara vero viridem, in rariori croceum, in rarissima album. Color tamen viridis est in iride apparentior et gratiosior, unde et hic magis specificatur cum dicitur similis smaragdo.  Per hanc autem iridem designatur multiformis gratia Dei in ipso causaliter et exemplariter preexistens et tandem in sedem ecclesie celestis et subcelestis manans totamque circuiens et adornans, que quidem est caritate flammea, humilitate autem nigra seu livida, sobrietate virens et sapientie claritate albescens.

Purg. XXVIII, 7-12, 25-27, 61-63, 103-111

Un’aura dolce, sanza mutamento
avere in sé, mi feria per la fronte
non di più colpo che soave vento;
per cui le fronde, tremolando, pronte
tutte quante piegavano a la parte
u’ la prim’ ombra gitta il santo monte

ed ecco più andar mi tolse un rio,
che ’nver’ sinistra con sue picciole onde
piegava l’erba che ’n sua ripa uscìo.

Tosto che fu là dove l’erbe sono
bagnate già da l’onde del bel fiume,
di levar li occhi suoi mi fece dono.

Or perché in circuito tutto quanto
l’aere si volge con la prima volta,
se non li è rotto il cerchio d’alcun canto,
in questa altezza ch’è tutta disciolta
ne l’aere vivo, tal moto percuote,
e fa sonar la selva perch’ è folta;
e la percossa pianta tanto puote,
che de la sua virtute l’aura impregna
e quella poi, girando, intorno scuote

Par. IX, 61-63

Sù sono specchi, voi dicete Troni,
onde refulge a noi Dio giudicante;
sì che questi parlar ne paion buoni.

Par. XXVIII, 103-105

Quelli altri amori che ’ntorno li vonno,
si chiaman Troni del divino aspetto,
per che ’l primo ternaro terminonno

Par. XXXI, 103-108

Qual è colui che forse di Croazia
viene a veder la Veronica nostra,
che per l’antica fame non sen sazia,
ma dice nel pensier, fin che si mostra:
‘Segnor mio Iesù Cristo, Dio verace,
or fu sì fatta la sembianza vostra?’

Par. XXXIII, 109-111, 115-120, 124-133, 144

Non perché più ch’un semplice sembiante
fosse nel vivo lume ch’io mirava,
che tal è sempre qual s’era davante

Ne la profonda e chiara sussistenza
de l’alto lume parvermi tre giri
di tre colori e d’una contenenza;
e l’un da l’altro come iri da iri
parea reflesso, e ’l terzo parea foco
che quinci e quindi igualmente si spiri.

O luce etterna che sola in te sidi,
sola t’intendi, e da te intelletta
e intendente te ami e arridi!
Quella circulazion che sì concetta
pareva in te come lume reflesso,
da li occhi miei alquanto circunspetta,
dentro da sé, del suo colore stesso,
mi parve pinta de la nostra effige:
per che ’l mio viso in lei tutto era messo.
Qual è ’l geomètra che tutto s’affige :  3, 12
…………………………………………….
sì come rota ch’ igualmente è mossa

[LSA, cap. XXI, Ap 21, 16-17 (VIIa visio)] Et secundum hoc ubique per latera longitudinis et latitudinis et per altitudinem ipsorum invenies sex gradus. Tanta autem equalitas designat summam concordiam beatorum in regno Dei. […] Secunda est quod quando muri dicuntur habere centum quadraginta quattuor cubitos subintelligatur milia, ut sint centum quadraginta quattuor milia, et tunc unicuique stadio correspondent duodecim cubiti. Vel si quodlibet latus muri habuit centum quadraginta quattuor cubitos, tunc unicuique stadio competunt quadraginta octo cubiti. Si tamen cubiti geometrici sumantur, quorum unus habet novem cubitos communes, tunc unicuique stadio competerent quadringenti triginta duo cubiti. Tertia est quod in visionibus propter diversa misteria potest una vice videri unum et alia vice aliud, quod secundum rem non potest simul esse cum primo, sicut super Ezechielem de quattuor rotis Ezechielis secundum unam opinionem ostendi.

[LSA, cap. VI, Ap 6, 1 (radix IIe visionis)] “Et vidi quod aperuisset Agnus” et cetera. Premissa fontali radice et causa septem subsequentium apertionum, que est Deus trinus et Christus homo pro nobis occisus et sue deitatis potentia resuscitatus et glorificatus, et exemplariter et causaliter et collective continens omnes ordines electorum, et non solum per naturam sue deitatis sed etiam per meritum sue humanitatis dignus aperire librum, hic subduntur sigillatim et per ordinem septem apertiones.
Circa quas est primo notandum, circa formam imaginariam huius libri, quod videtur Iohannes librum hunc vidisse instar rotuli intus et foris scripti. Ridiculosum enim esset dicere quod liber, per quaternos et cartas distinctus, esset scriptus intus et foris. Videtur etiam quod rotulus ille haberet in se septem plicas et super unaquaque erat sigillum unum impressum pro clausura ipsius. Intra autem plicam videbantur depicte imagines equorum et equitum hic subscripte, vel ad apertionem ipsius subito videbatur exterius exire unus equus vivus cum equite suo.

Inf. XI, 28-30, 49-51, 67-69, 73-74, 85-87, 101-102

Di vïolenti il primo cerchio è tutto;
ma perché si fa forza a tre persone,
in tre gironi è distinto e costrutto.

e però lo minor giron suggella
del segno suo e Soddoma e Caorsa
e chi, spregiando Dio col cor, favella.

E io: “Maestro, assai chiara procede
la tua ragione, e assai ben distingue
questo baràtro e ’l popol ch’e’ possiede.”

perché non dentro da la città roggia
sono ei puniti, se Dio li ha in ira?

Se tu riguardi ben questa sentenza,
e rechiti a la mente chi son quelli
che sù di fuor sostegnon penitenza

e se tu ben la tua Fisica note,
tu troverai, non dopo molte carte

[LSA, cap. XIV, Ap 14, 3 (IVa visio, VIum prelium)] Septimo quia tante erat precellentie quod nullus alius poterat pertingere ad hunc canticum, unde subdit: “Et nemo poterat dicere canticum, nisi illa centum quadraginta quattuor milia”.

intus

1. Di vïolenti il primo cerchio è tutto (VII)

2. onde nel cerchio secondo s’annida (VIII)
ipocresia, lusinghe e chi affattura,
falsità, ladroneccio e simonia,
ruffian, baratti e simile lordura.

3. onde nel cerchio minore, ov’ è ’l punto (IX)
de l’universo in su che Dite siede,
qualunque trade in etterno è consunto.

Inf. IX, 106-109

Dentro li  ’ntrammo sanz’ alcuna guerra;
e io, ch’avea di riguardar disio
la condizion che tal fortezza serra,
com’ io fui dentro, l’occhio intorno invio

[LSA, cap. V, Ap 5, 1 (radix II visionis)] Tertio est idem quod totum volumen scripture sacre et specialiter veteris testamenti, in quo novum fuit inclusum et sub figuris variis signatum et velatum. […]

Par. XXXIII, 85-87

Nel suo profondo vidi che s’interna,
legato con amore in un volume,
ciò che per l’universo si squaderna

Par. XXIV, 19-27

Di quella ch’io notai di più carezza
vid’ ïo uscire un foco sì felice,
che nullo vi lasciò di più chiarezza;
e tre fïate intorno di Beatrice
si volse con un canto tanto divo,
che la mia fantasia nol mi ridice.
Però salta la penna e non lo scrivo:
ché l’imagine nostra a cotai pieghe,
non che ’l parlare, è troppo color vivo.

foris

4. quei de la palude pingue (V)

5. che mena il vento (II)

6. che batte la pioggia (III)

7. che s’incontran con sì aspre lingue (IV)

 [Nota alle due tabelle precedenti]

I. La sede divina descritta nella seconda visione apocalittica è circondata dall’iride, simile allo smeraldo, cioè alla gemma incomparabilmente più verde (Ap 4, 3). In essa il colore verde supera in intensità quello delle erbe e delle fronde e impregna l’aria ripercossa, riempie gli occhi al solo sguardo e non lo sazia, tanto è grazioso a vedersi. Per quanto il colore verde sia più appariscente e grazioso, l’iride ha vari colori, secondo la densità o rarità della nube acquosa percossa dai raggi del sole: nella densa è rosso, nella più densa ceruleo (verde e nero, è il colore del mare profondo) oppure di colore livido oppure purpureo (commisto di nero e rosso), nella densissima nero; nella rara verde, nella più rara croceo, nella rarissima bianco. L’iride designa la grazia che preesiste causalmente ed esemplarmente in Dio e che si diffonde in giro a ornamento della sede della Chiesa celeste e subceleste: essa ha il colore della fiamma per la carità, il nero o il livido per l’umiltà, il verde per la sobrietà, il bianco per la chiarezza che proviene dalla sapienza.
Gli “spiriti magni” del nobile castello del Limbo vengono mostrati a Dante su un “prato di fresca verdura … sovra ’l verde smalto” (Inf. IV, 111, 118-119). Si è altrove mostrato come questa zona del poema sia cucita sul panno della sede divina. Ma solo con alcuni dei possibili fili, relativi ai sette punti in cui si distende l’ordito: l’altezza (I), l’assistenza dei seniori attorno a chi siede (IV), al quale viene reso onore (VII). Il verde è “verde smalto”, cioè impetrato (Colui che siede è simile nell’aspetto, perché fermo e immutabile nella giustizia, a pietra di diaspro, anch’essa verde, e di cornalina); l’iride (III) non si dispiega nei suoi vari colori: i doni dello Spirito non sono mancati agli “spiriti magni”, ma non si sono storicamente sviluppati. Dei tre elementi che emanano dalla sede (V), nel Limbo non ci sono né folgori né tuoni, ma le voci umane e razionali, proprie del senso morale.
Lo sviluppo della tematica segue il viaggio di Dante; nel Paradiso terrestre i temi dell’iride si mostrano compiutamente, e ancor più nell’Empireo e nella visione finale. Il tema dello smeraldo che impregna l’aria intorno di color verde fa infatti parte della spiegazione che Matelda dà sull’origine del vento che spira nel Paradiso terrestre (Purg. XXVIII, 103-120). L’aria si muove in cerchio con il Primo Mobile (la “prima volta”, che corrisponde all’essere l’iride “in circuitu”) e percuote l’ “alta selva” (l’ “alta eminentia” della sede) facendone stormire le fronde, cosicché le piante impregnano del loro seme l’aria che lo diffonde nell’altra terra, cioè nel mondo abitato dagli uomini, il quale, secondo disposizione, concepisce e produce da diversi semi diverse piante [42]. Anche se nessun colore viene indicato, non è difficile scorgere in questo circuire dell’aria a percuotere la selva e nel suo secondo girare, impregnata di riflesso dai semi delle piante percosse che essa diffonde, un valore assai simile a quello dell’iride, multiforme grazia che preesiste in Dio causa ed esempio e da lui emana su tutta la sede celeste e subceleste attorno alla quale gira.
I temi propri della sede (Ap 4, 2-3) trovano collocazione nella visione finale della Trinità. In quattro versi (Par. XXXIII, 115-118) si ritrovano almeno sei elementi semantici che nella Lectura designano altrettanti attributi della sede: la “sussistenza” (che corrisponde alla “stabilitas essentie” della maestà divina; cfr. Par. XXIX, 15) dell’ “alto” lume è “profonda” e “chiara” (l’essere alto e profondo è proprio del contenuto del libro, la chiarezza appartiene al mare trasparente che sta dinanzi alla sede) [43]; in essa Dante vede tre cerchi di tre colori e “d’una contenenza” (di una medesima dimensione, che corrisponde alla “continentia” del libro; anche i tre “giri” hanno un riferimento allo stare “in circuitu” dei seniori) e il secondo dei tre giri (il Figlio) che pareva riflesso dall’altro (il Padre) “come iri da iri” (la sede rifulge nell’arco dell’iride). Le parole “e l’un da l’altro come iri da iri / parea reflesso” sono sviluppo del tema dell’aria che gira con il Primo Mobile ed è ripercossa dalla folta selva dell’Eden verso la terra abitata dall’uomo, appunto “come iri da iri”. Lo ‘spirare’ come fuoco del terzo giro (lo Spirito Santo) in modo uguale dal primo e dal secondo è pure tema connesso alla sede e al libro, come appare dall’esegesi delle coppe spiranti d’amore ad Ap 5, 8 (cfr. nota[44].

Il libro, definito ad Ap 5, 1 “volumen”, scritto dentro e fuori, che sarebbe incongruo affermare distinto per quaderni e carte, ha una forma immaginaria a guisa di rotolo, con sette pieghe, ciascuna delle quali chiusa da un sigillo. A ciascuna apertura, si presentavano a Giovanni le immagini da lui descritte dei cavalli e dei cavalieri, come se uscissero vive da dentro le pieghe (Ap 6, 1). Sui motivi propri del libro è tessuta la visione finale dell’unità e semplicità di Dio, volume che nel profondo della sua essenza lega con amore tutto ciò che “si squaderna” in modo diffuso per l’universo (Par. XXXIII, 85-87). Ma è soprattutto in Inf. XI, il canto in cui Virgilio spiega l’ordinamento e la distribuzione dei dannati, che questi temi vengono sviluppati. L’Inferno è formato da nove cerchi ma, a ben vedere, nel discorso di Virgilio e nelle domande di Dante ne vengono enumerati solo sette. Tre sono dentro le mura della Città di Dite: il cerchio dei violenti (a sua volta diviso in tre gironi), il cerchio dei fraudolenti veri e propri (Malebolge, dove sono i fraudolenti verso chi non si fida) e il cerchio minore dei traditori (i fraudolenti verso chi si fida). Quattro sono fuori le mura, meno martellati dalla giustizia divina in quanto meno offesero: gli iracondi e gli accidiosi dello Stige (“quei de la palude pingue”), i lussuriosi (“che mena il vento”), i golosi (“che batte la pioggia”), gli avari e i prodighi (“che s’incontran con sì aspre lingue”). Se mancano all’appello il primo cerchio (il Limbo) e il sesto (gli eretici), ciò è forse perché Virgilio non ha bisogno di dire altro sul luogo dove sconta la pena e perché la sua spiegazione dell’ordinamento infernale avviene accanto all’arca dell’eretico papa Anastasio II, cioè nel sesto cerchio. Oppure essa è memore di quanto sostenuto da Tommaso d’Aquino circa l’eresia la quale, in modo analogo alla bestialità rispetto alla malizia umana, era da collocare “extra numerum peccatorum” [45]. In ogni caso, esempio di concordia fra la dottrina aristotelica e l’esegesi apocalittica, l’enunciazione dei sette cerchi corrisponde al tema del libro scritto “dentro e fuori” e segnato sulle sette pieghe. Anche il riferimento alle “carte” della Fisica di Aristotele, utilizzata da Virgilio per precisare la posizione degli usurai, concorda con siffatta tematica. Ad Inf. IX, 106-109, il desiderio di guardare “dentro” la città di Dite, una volta varcata la porta, è il desiderio di guardare l’interno del libro.
È da notare che alcuni elementi semantici presenti ad Ap 6, 1 (la forma immaginaria del libro, il suo essere scritto, la presenza di “pieghe” da cui le immagini si mostravano a Giovanni come se uscissero vive) si ritrovano in Par. XXIV, 25-27. Fra le anime discese dall’Empireo al cielo delle stelle fisse, che girano danzando, una si distacca dalle altre per volgersi attorno a Beatrice “con un canto tanto divo, / che la mia fantasia nol mi ridice”. Si tratta di san Pietro: la penna del poeta è incapace di descrivere quel canto, “ché l’imagine nostra a cotai pieghe, / non che ’l parlare, è troppo color vivo”. La variazione poetica è fra le più lontane dal tema originario. Si può tuttavia notare che, pur con i temi rovesciati nel significato e con diversa appropriazione, permane nei due testi il contrasto tra la forma immaginaria e la realtà viva, sensibile: come il libro era immaginario e non reale, e le immagini dei cavalli e dei cavalieri che uscivano dalle pieghe erano anch’esse immaginarie come se fossero vive, così l’ “imagine nostra”, cioè la nostra fantasia (e conseguentemente il parlare, che ha limiti ancor più ristretti) è “troppo color vivo” (cioè troppo sensibile) rispetto “a cotai pieghe”, cioè a tali sfumature (che costituiscono la parte interna del libro, quella più spirituale). Fin dall’esegesi del primo capitolo, Olivi ha posto la questione del rapporto tra la visione intellettuale di Giovanni e le similitudini corporee, di cui necessita per essere compresa ed espressa: in questa vita non si verificano visioni dell’intelletto che non facciano uso di similitudini corporee. Il non poter ridire il canto dei compagni dell’Agnello sul monte Sion è tema presente ad Ap 14, 3.

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Par. X, 1-3

Guardando nel suo Figlio con l’Amore
che l’uno e l’altro etternalmente spira,
lo primo e ineffabile Valore

Par. XV, 1-3

Benigna volontade in che si liqua
sempre l’amor che drittamente spira,
come cupidità fa ne la iniqua

Par. XXIII, 103-105

Io sono amore angelico, che giro
l’alta letizia che spira del ventre
che fu albergo del nostro disiro

Par. XXXII, 103-105

qual è quell’ angel che con tanto gioco
guarda ne li occhi la nostra regina,
innamorato sì che par di foco?

Par. XXXI, 124-129

E come quivi ove s’aspetta il temo
che mal guidò Fetonte, più s’infiamma,
e quinci e quindi il lume si fa scemo,
così quella pacifica oriafiamma
nel mezzo s’avvivava, e d’ogne parte
per igual modo allentava la fiamma

Par. II, 124-129

Riguarda bene omai sì com’ io vado
per questo loco al vero che disiri,
sì che poi sappi sol tener lo guado.
Lo moto e la virtù d’i santi giri,
come dal fabbro l’arte del martello,
da’ beati motor convien che spiri 

Par. XIV, 127-129

Ïo m’ innamorava tanto quinci,
che ’nfino a lì non fu alcuna cosa
che mi legasse con sì dolci vinci.

Par. VII, 142-144 [148 vv.]

ma vostra vita sanza mezzo spira
la somma beninanza, e la innamora
di sé sì che poi sempre la disira.

Par. X, 142-144 [148 vv.]

che l’una parte e l’altra tira e urge,
tin tin sonando con sì dolce nota,
che ’l ben disposto spirto d’amor turge

[Ap 5, 8; radix IIe visionis] Phiale [igitur] iste sunt corda sanctorum per sapientiam lucida, per caritatem dilatata, et per contemplationem splendidam et flammeam aurea, et per devotarum orationum redundantiam odoramentis plena. Sicut enim odoramenta per ignem elicata sursum ascendunt totamque domum replent suo odore, sic devote orationes ad Dei presentiam ascendunt et pertingunt, eique suavissime placent et etiam toti curie celesti et subcelesti. Sicut [etiam] diffusio odoris spiratur invisibiliter ab odoramentis, sic devote affectiones orantium spirantur invisibiliter et latissime diffunduntur ad varias rationes dilecti et ad varias rationes sancti amoris, prout patet ex multiformi varietate sanctorum affectuum qui exprimuntur et exercentur in psalmis. Patet autem, secundum modum Ricardi, quare citharas premisit ante phialas, quia activa communiter precedit contemplativam. Sequendo etiam alterum modum, premittit convenienter citharas, quia nisi corde virtutum sint in cithara mentis disposite prout congruit laudi Dei, non potest haberi phiala cordis plena devotis desideriis et suspiriis et meditationibus ignitis et odoriferis, sicut nec iubilatio laudis potest perfecte exerceri nisi preeat plenitudo odoramentorum. Patet autem, secundum modum Ricardi, quare citharas premisit ante phialas, quia activa communiter precedit contemplativam. Sequendo etiam alterum modum, premittit convenienter citharas, quia nisi corde virtutum sint in cithara mentis disposite prout congruit laudi Dei, non potest haberi phiala cordis plena devotis desideriis et suspiriis et meditationibus ignitis et odoriferis, sicut nec iubilatio laudis potest perfecte exerceri nisi preeat plenitudo odoramentorum.

Inf. X, 16-21

“Però a la dimanda che mi faci
quinc’ entro satisfatto sarà tosto,
e al disio ancor che tu mi taci”.
E io: “Buon duca, non tegno riposto
a te mio cuor se non per dicer poco,
e tu m’hai non pur mo a ciò disposto”.

Par. XIX, 22-25

Ond’ io appresso: “O perpetüi fiori
de l’etterna letizia, che pur uno
parer mi fate tutti vostri odori,
solvetemi, spirando, il gran digiuno …”

Par. XXIV, 28-33, 82-83

“O santa suora mia che   ne prieghe
divota
, per lo tuo ardente affetto
da quella bella spera mi disleghe”.
Poscia fermato, il foco benedetto
a la mia donna dirizzò lo spiro,
che favellò così com’ i’ ho detto.

Così spirò di quello amore acceso;
indi soggiunse: ………………………..

 

 

 

 

 

Par. XXV, 82-84

Indi spirò: “L’amore ond’ ïo avvampo
ancor ver’ la virtù che mi seguette
infin la palma e a l’uscir del campo …”

Purg. XXIII, 88-90

Con suoi prieghi devoti e con sospiri
tratto m’ha de la costa ove s’aspetta,
e liberato m’ha de li altri giri.

Par. XXXI, 94-96

E ’l santo sene: “Acciò che tu assommi
perfettamente”,  disse, “il tuo cammino,
a che priego e amor santo mandommi …”

Par. X, 109-111

La quinta luce, ch’è tra noi più bella,
spira di tale amor, che tutto ’l mondo
là giù ne gola di saper novella

Par. XXXIII, 115-120

Ne la profonda e chiara sussistenza
de l’alto lume parvermi tre giri
di tre colori e d’una contenenza;
e l’un da l’altro come iri da iri
parea reflesso, e ’l terzo parea foco
che quinci e quindi igualmente si spiri.

Par. XXII, 121-123

A voi divotamente ora sospira
l’anima mia, per acquistar virtute
al passo forte che a sé la tira.

 

 [Nota alla tabella precedente]

Il trionfo di Maria in Par. XXIII è un concertato contenente tutti i temi di canto e di letizia che è possibile trarre dalla Lectura [46]. Nella lode angelica resa dalla facella scesa dal cielo (vv. 103-111), l’amore (proprio dell’angelo), lo spirare (del ventre) e il desiderare (Cristo da parte degli uomini e degli angeli) sono temi delle fiale o coppe da Ap 5, 8. Queste coppe auree e fiammeggianti, che i ventiquattro seniori (angeli o santi uomini) offrono prostrati dinanzi all’Agnello, ricolme di profumi che si diffondono come gli odori “ad varias rationes dilecti et ad varias rationes sancti amoris”, designano le preghiere dei santi, spirano di devoti affetti e di desideri dei cuori, con menti già disposte alla lode di Dio. I signacula, che rinviano a questo luogo esegetico, compongono una vera sinfonia dell’amor sacro che il poeta con libertà diffonde variamente combinandone i motivi. Ora inseriti in un solo endecasillabo (Par. X, 110: “spira di tale amor, che tutto ’l mondo”; Par. XV, 2: “sempre l’amor che drittamente spira”; Par. XXII, 121: “A voi divotamente ora sospira”; Par. XXIV, 82: “Così spirò di quello amore acceso”; Par. XXV, 82: «Indi spirò: “L’amore ond’ ïo avvampo”»; Par. XXXI, 96: “a che priego e amor santo mandommi”; Par. XXXII, 105: “innamorato sì che par di foco”), ora diffusi su più versi consecutivi (Par. X, 1-2: “Guardando nel suo Figlio con l’Amore / che l’uno e l’altro etternalmente spira”; Par. XIX, 24-25: “parer mi fate tutti vostri odori, / solvetemi, spirando, il gran digiuno”; Par. XXIII, 103-105: “Io sono amore angelico, che giro / l’alta letizia che spira del ventre / che fu albergo del nostro disiro”; Par. XXIV, 28-29: “O santa suora mia che sì ne prieghedivota, per lo tuo ardente affetto), o distanziati (Par. XXIV, 32: “a la mia donna dirizzò lo spiro”); ora in rima (disiri / spiri, Par. II, 125.129; s’infiamma / oriafiamma / la fiamma, Par. XXXI, 125.127.129); ora ultime parole dei versi di una terzina (spira / innamora / disira, Par. VII, 142-144); ora presenti singolarmente (Par. XIV, 127: “Ïo m’innamorava tanto quinci”).
Né Ap 5, 8 serve solo il Paradiso, perché i suoi signacula si rinvengono, ad esempio, anche a Inf. X, 18, 20-21 (disio, cuor, disposto). Oppure nel ricordo della “Nella mia” (prieghi devoti, sospiri) fatto da Forese (Purg. XXIII, 88).
Non è infrequente che la presenza di questi sacri marcatori coincida numericamente in versi o in terzine diverse: si veda al verso 82 di Par. XXIV e XXV – riferiti il primo a san Pietro e il secondo a san Giacomo -; oppure ai versi 142-144 (48a terzina) di Par. VII e X – entrambi i canti sono di 148 versi -; o ancora ai versi 124-129 (42a-43a terzina) di Par. II e XXXI. Così la prima terzina in cui parla l’ “amore angelico” che scende nell’ottavo cielo (Par. XXIII) coincide nel numero (vv. 103-105; 35a terzina) con altra terzina in cui, nell’Empireo, Dante domanda a san Bernardo dell’arcangelo Gabriele (Par. XXXII). Un fenomeno indice del costante lavorio del poeta sull’esegesi latina, che ha creato nel poema una straordinaria arte della memoria per il lettore e per l’autore stesso [47].
Un lettore ‘spirituale’, con nella mente bene impressa la Lectura super Apocalipsim, non avrebbe avuto difficoltà a riconoscere questi sacri marcatori. Leggendo (o ascoltando) le parole dell’ “amore angelico” di Par. XXIII sarebbe subito andato con la memoria ad Ap 5, 8, nel luogo più eminente descritto nell’Apocalisse – la sede divina prima dell’apertura del libro segnato da sette sigilli e nel momento in cui Cristo, centro dei tempi che quei sigilli chiudono, si accinge ad aprirli – e nel punto più corale, la lode che i quattro animali e i ventiquattro seniori rendono a Cristo, lode che è anche devota preghiera, affetto e desiderio del cuore, santo amore che spira e piace alla curia celeste e subceleste. Da “la somma beninanza” e da “lo primo e ineffabile Valore” la scala delle note scende alla Vergine Madre, all’angelo che ne tesse la lode, ai beati – Bernardo, Giacomo, Pietro, Salomone -; alle luci che formano l’aquila nel cielo di Giove o la croce del cielo di Marte, fino a Dante.

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5. Le incertezze cognitive del diavolo 

“Dante l’ha ritrovata e subito dopo l’ha riperduta in quanto ideale ed espressione del suo cuore; il dramma dell’amore tace innanzi al gran còmpito di salire con lei di stella in stella, e tutto vedere e tutto udire e tutto apprendere”. Così scriveva Benedetto Croce dell’incontro di Dante con Beatrice nell’Eden [48].
Per comprendere la situazione psicologica di Dante al momento dell’apparizione della sua donna nell’Eden, bisogna introdurre i temi della prima delle sette guerre descritte nella quarta visione (Ap 12, 4). Il drago sta dinanzi alla donna, che è in procinto di partorire, per divorarne il figlio, cioè per trarlo in dannazione come gli altri uomini. Non si tratta del parto naturale della Vergine, che avvenne senza dolore, ma del parto spirituale di Cristo e dei suoi discepoli, e quindi della Chiesa come corpo mistico [49], accompagnato da sommo dolore nella croce e nelle tentazioni. Olivi pone qui la questione se il diavolo sapesse che Cristo era Dio o comunque senza peccato e non soggetto a dannazione. Viene citata la posizione di Gregorio Magno, contenuta nei Moralia su Giobbe 40, 19 – “nei suoi occhi lo prenderà come con l’amo” [50]. Secondo Gregorio, il diavolo sapeva trattarsi del Figlio di Dio incarnato per la nostra redenzione ma non conosceva l’ordine della redenzione stessa, per cui Cristo morendo sulla croce lo avrebbe trafitto. Olivi corregge Gregorio e sostiene che il diavolo prima della morte di Cristo non sapeva con certezza e senza dubbi che Cristo fosse il Figlio di Dio a lui consustanziale, né tanto meno che fosse senza peccato, altrimenti non lo avrebbe mai tentato, prima nel deserto e poi al momento della passione. Come afferma san Paolo (1 Cor 2, 7-8), nessuno dei prìncipi di questo mondo conobbe la sapienza divina; se l’avessero conosciuta, non avrebbero mai crocifisso o istigato alla crocifissione il Signore della gloria. Il diavolo pertanto non conobbe la divinità di Cristo, ma solo la sua mortale umanità. Questa, come afferma lo stesso Gregorio, era però un amo che ostendeva un’esca dentro la quale stava occulto un aculeo. Così, mentre il diavolo era attratto dall’esca corporea costituita dal corpo infermo per umanità, veniva trafitto, per occulta virtù, dall’aculeo della divinità.
La situazione del diavolo di fronte a Cristo è la medesima di Dante di fronte a Beatrice non più veduta da tanto tempo. Come l’avversario del Redentore venne attratto dall’esca del Cristo uomo, così il poeta crede di sentire con lo spirito la donna conosciuta in vita (“E lo spirito mio … d’antico amor sentì la gran potenza”). Ma come l’aculeo della divinità del Figlio di Dio trafisse per occulta virtù l’antico nemico, così “per occulta virtù che da lei mosse” vengono trafitti gli occhi di Dante da una donna ormai salita di carne a spirito, cresciuta in bellezza e virtù (Purg. XXX, 34-42). Egli riprova, a un livello superiore, l’esperienza de “l’alta virtù che già m’avea trafitto / prima ch’io fuor di püerizia fosse”. Il tema ritorna all’inizio di Purg. XXXII, con il poeta assorto nella contemplazione del “santo riso” di Beatrice appena svelata, che trae a sé gli occhi del poeta “con l’antica rete”, uno stato dal quale egli viene distolto per forza dalle tre virtù teologali, rimanendo per un po’ senza facoltà visiva. È direttamente riferito al diavolo in Purg. XIV, 145-146, a proposito degli esempi di invidia punita che dovrebbero essere il “duro camo”, cioè il freno agli uomini i quali invece, attirati dall’esca, sono presi dall’amo dell’antico avversario.
Il motivo paolino, per cui nessuno dei prìncipi di questo mondo conobbe la sapienza divina perché, se l’avessero conosciuta, non avrebbero mai crocifisso o istigato alla crocifissione il Signore della gloria (1 Cor 2, 7-8), è utilizzato nella spiegazione che Virgilio dà a Pier della Vigna sul perché Dante abbia strappato un ramoscello dal gran pruno nel quale è incarcerata la sua anima: se il discepolo avesse potuto credere prima quello che ha veduto tramite l’Eneide (“pur con la mia rima”), nell’episodio di Polidoro (Aen., III, 22-68), non avrebbe disteso la mano per troncare la frasca, ma la cosa incredibile ha spinto il maestro a indurlo a un atto che gli dispiace (Inf. XIII, 46-51). È da notare la diversa appropriazione dei motivi: la mancata conoscenza preventiva e l’istigare, che nell’esegesi scritturale sono del diavolo, nei versi appartengono rispettivamente a Dante e a Virgilio. Distendere la mano per cogliere il ramoscello dal gran pruno del suicida, che si fa poi “di sangue bruno”, richiama il crocifiggere, secondo quanto in Giovanni 21, 18 Cristo dice a Pietro: “distenderai le tue mani”, cioè in croce, passo citato ad Ap 11, 3. La “cosa incredibile” – un’anima incarcerata in una pianta –, vista fino allora solo con la rima di Virgilio, conduce ad Ap 10, 5-7 (terza visione, sesta tromba), al “mistero” che l’angelo dal volto solare giura si compirà al suono della tromba del settimo angelo: si tratta degli occulti e incredibili giudizi di Dio, chiamati “mistero” perché preannunciati sotto veli mistici, che nel caso sono i versi dell’Eneide.
Dante recita la parte che nell’esegesi spetta al diavolo ingannato dall’arte di Cristo, e ciò concorda con il fatto che egli si trova, nel ruolo di colpevole per aver seguito false immagini di bene, di fronte a un giudice regale e protervo, quale appare dalle severe prime parole della donna: “Come degnasti d’accedere al monte?” (Purg. XXX, 74). Anche la “gran potenza” dell’antico amore deriva da un motivo che nella Lectura viene attribuito al drago, cioè al diavolo (Ap 12, 3).
Come Dante è stato trafitto, nella sua umana infermità, dall’aculeo del Figlio di Dio pieno di occulta virtù, così Matelda assomiglia a Venere trafitta dal figlio Cupido: “Non credo che splendesse tanto lume / sotto le ciglia a Venere, trafitta / dal figlio fuor di tutto suo costume” (Purg. XXVIII, 64-66). I versi ovidiani (Metam. X, 525-528) che descrivono Cupido il quale, mentre bacia la madre, la ferisce al petto senza volerlo (inscius) e l’inganna con la ferita (primoque fefellerat ipsam) sembrano concordare con quanto cantato da Venanzio Fortunato nell’inno Pange, lingua, gloriosi proelium certaminis citato nell’esegesi di Ap 12, 4, cioè “quod nostre salutis ordo depoposcerat ut ars Christi falleret artem multiformis proditoris, de quo in versu priori premisit quod per pomum ligni fraudulenter fefellerat prothoplaustrum, id est primum hominem”. Anche “la bella Ciprigna” e Cupido, onorate da “le genti antiche ne l’antico errore” (Par. VIII, 1-9), rientrano nell’ordine provvidenziale che procede per passaggi dal vecchio al nuovo, e sono prefigurazione di più alta trafittura dell’antico nemico con la prima venuta di Cristo nella carne e con la seconda sua venuta nello Spirito, nel sesto stato della Chiesa.
Il ritrovare Beatrice, con la contestuale sparizione di Virgilio, segna per Dante il passaggio dal vecchio al nuovo, l’essere venuto, per una sorta di superiore astuzia, dall’umano al divino della sua donna, quell’umano che con Matelda procede in terra ordinatamente verso l’immortale felicità.
Il diavolo, sostiene Olivi, sapeva che Cristo era figlio di Dio per grazia; a questo aspetto si riferisce il Salmo 81, 6, citato ad Ap 12, 4: “Ego dixi: dii estis et filii excelsi omnes”. Ma non per questo sapeva che era figlio di Dio per natura. Nel cielo di Mercurio, Beatrice invita Dante a rivolgersi con sicurezza agli “spirti pii”, credendo loro “come a dii” (Par. V, 121-123). Il non sapere, nell’episodio citato, è proprio di Dante, che non sa chi sia lo spirito che gli ha parlato né perché manifesti la propria beatitudine nel secondo cielo (ibid., 127-129). L’anima è quella di Giustiniano, e forse non a caso si insinua nei versi il tema dell’essere figlio di Dio per natura tratto da Ap 12, 4, considerato che, nella metamorfosi poetica dell’esegesi del terzo stato (dei dottori, il cui simbolo è la spada) e del quarto stato (i contemplativi, che con vita divina si dedicano al “pasto” spirituale), i due soli, l’impero e il papato, sono equiparati alle due nature di Dio, umana e divina, che non possono essere ridotte a una, come è invece successo allorché uno dei due soli ha spento l’altro, congiungendo la spada al pastorale. Con coerenza Giustiniano premette al suo discorso sull’Impero il racconto della propria errata fede monofisita, che riconosceva in Cristo una sola natura, quella divina, prima che il benedetto papa Agapito lo riportasse alla fede sincera (Par. VI, 13-22). Dante, quindi, sapeva che lo spirito che gli aveva parlato era figlio di Dio per grazia (in quanto già beato), ma non per natura, cioè non sapeva che si trattava di un imperatore, assimilabile al Figlio di Dio. Così non aveva dubitato che la sua donna fosse beata, ma non aveva sospettato della sua natura divina.

[LSA, cap. XII, Ap 12, 4 (IVa visio, Ium prelium)] Sequitur de primo prelio: “Et dracho stetit ante mulierem” (Ap 12, 4), id est ante ecclesiam, “que erat paritura”, scilicet Christum in cruce et in suis primis discipulis. Non enim videtur hic agi de virginali et corporali partu Christi, quia Virgo tunc non parturivit illum cum dolore. In cruce tamen et in omnibus temptationibus Christum peperit cum summo dolore.
“Stetit”, inquam, “dracho ante” eam, “ut, cum peperisset, filium eius devoraret”, id est in mortem eternam seu in infernum sicut ceteros homines traheret.
Ex hoc aperte videtur quod diabolus non scivit Christum esse Deum aut impeccabilem et indampnabilem. Sed contra hoc esse videtur Gregorius, libro Moralium XXXIII° super illud Iob: “In oculis eius quasi hamo capiet eum” (Jb 40, 19): «Et quid<e>m», inquit, «Behemot iste Filium Dei incarnatum noverat, sed redemptionis nostre ordinem nesciebat. Sciebat enim quod pro redemptione nostra incarnatus Dei Filius fuerat, sed omnino quod isdem redemptor noster illum moriendo transfigeret nesciebat. Unde et bene dicitur: “In oculis eius quasi hamo capi<e>t eum”. In oculis quippe habere dicimur quod coram nobis positum videmus. Antiquus vero hostis redemptorem ante se positum vidit, quem confitendo pertimuit dicens: “Quid nobis et tibi, fili Dei? Venisti ante tempus torquere nos” (Mt 8, 29)». Hec Gregorius.
Ad quod dicendum quod ex textu sacro et ex dictis aliorum sanctorum satis aperte habetur quod diabolus ante Christi mortem non novit certitudinaliter seu indubitabiliter Christum esse Dei Filium Deo Patri consubstantialem et coequalem et Deum summum, immo nec noverat ipsum esse omnino impeccabilem. Quod patet ex trina temptatione quam Christo in deserto tulit, et specialiter in tertia. Ad quid enim diceret ei: “Hec omnia tibi dabo, si cadens adoraveris me” (Mt 4, 9), si indubitabiliter sciret ipsum esse summum Deum aut omnino nequeuntem peccare neque errare? Quamvis autem tunc ab eo discesserit, nichilominus Luche III<I>° (Lc 4, 13) dicitur quod “diabolus recessit” tunc “ab illo usque ad tempus”, ex quo sancti et ceteri doctores colligunt quod in tempore sue passionis redierit ad Christum temptandum.
Item, super illud Ia ad Corinthios II°: “Loquimur Dei sapientiam, quam nemo principum huius seculi cognovit; si eum cognovissent, numquam Dominum glorie crucifixissent” (1 Cor 2, 7-8), dicunt sancti quod si demones indubitabiliter scivissent Christum esse Dominum glorie, numquam ipsum crucifigi fecissent vel instigassent.
Preterea ex verbo prefato, scilicet “in oculis eius quasi hamo capiet eum”, potius habetur quod non noverat Christi deitatem sed solum eius mortalem humanitatem, prout enim ibi Gregorius dicit: «In hamo esca ostenditur, sed aculeus occultatur. In hamo ergo incarnationis Christi captus est, quia dum in illo appetit escam corporis, transfixus est aculeo deitatis. Ibi enim erat aperta infirmitas que provocaret, et occulta virtus que raptoris faucem transfigeret». Hec ipsemet Gregorius ibi dicit.

[LSA, cap. XI, Ap 11, 3 (IIIa visio, VIa tuba)] Quorum unus (testis) magis erit exteriori regimini et passionibus mancipatus, unde et Iohannis ultimo allegorice designatur per <Petrum>, cui di<c>it Christus: “Pasce oves meas”, et “cum senueris, extendes manus tuas”, scilicet in cruce, et “sequere me”, scilicet ad crucem (Jo 21, 17-19).

Inf. XIII, 46-51, 55-57

S’elli avesse potuto creder prima”,
rispuose ’l savio mio, “anima lesa,
ciò c’ha veduto pur con la mia rima,
non averebbe in te la man distesa;
ma la cosa incredibile mi fece
indurlo
ad ovra ch’a me stesso pesa”.

E ’l tronco: “Sì col dolce dir m’adeschi,
ch’i’ non posso tacere; e voi non gravi
perch’ ïo un poco a ragionar m’inveschi
.

[LSA, cap. X, Ap 10, 5-7 (IIIa visio, VIa tuba)] Sciendum etiam quod prout tubicinium septimi angeli refertur ad extremum iudicium, de quo <Ia> ad Thessalonicenses IIII° (1 Th 4, 16; cfr. 2 Th 1, 7) dicitur quod “ipse Dominus in iu<s>su et in voce archangeli et in tuba Dei descendet de celo, et mortui, qui in Christo sunt, resurgent primi”, est simpliciter verum quod tempus huius seculi tunc omnino cessabit et plene implebitur quicquid Deus per suos prophetas prenuntiavit fiendum, quod vocat “misterium”, id est secre-tum, quia nichil mundanis occultius quam spiritalis gratia et gloria in electis consumanda, futura etiam Dei iudicia sunt eis occulta et quasi incredibilia.
Dicitur etiam “misterium”, quia sub misticis velaminibus sunt prenuntiata. Nec intendo quin principalia corpora huius mundi tunc durent, sed solum quod temporalis et mobilis cursus eius et temporalis status humani generis in hac vita mortali cessabit.

 

[LSA, cap. XII, Ap 12, 4 (IVa visio, Ium prelium)] Sequitur de primo prelio: “Et dracho stetit ante mulierem” (Ap 12, 4), id est ante ecclesiam, “que erat paritura”, scilicet Christum in cruce et in suis primis discipulis. Non enim videtur hic agi de virginali et corporali partu Christi, quia Virgo tunc non parturivit illum cum dolore. In cruce tamen et in omnibus temptationibus Christum peperit cum summo dolore.
“Stetit”, inquam, “dracho ante” eam, “ut, cum peperisset, filium eius devoraret”, id est in mortem eternam seu in infernum sicut ceteros homines traheret.
Ex hoc aperte videtur quod diabolus non scivit Christum esse Deum aut impeccabilem et indampnabilem. Sed contra hoc esse videtur Gregorius, libro Moralium XXXIII° super illud Iob: “In oculis eius quasi hamo capiet eum” (Jb 40, 19): «Et quid<e>m», inquit, «Behemot iste Filium Dei incarnatum noverat, sed redemptionis nostre ordinem nesciebat. Sciebat enim quod pro redemptione nostra incarnatus Dei Filius fuerat, sed omnino quod isdem redemptor noster illum moriendo transfigeret nesciebat. Unde et bene dicitur: “In oculis eius quasi hamo capi<e>t eum”. In oculis quippe habere dicimur quod coram nobis positum videmus. Antiquus vero hostis redemptorem ante se positum vidit, quem confitendo pertimuit dicens: “Quid nobis et tibi, fili Dei? Venisti ante tempus torquere nos” (Mt 8, 29)». Hec Gregorius. […]
Preterea ex verbo prefato, scilicet “in oculis eius quasi hamo capiet eum”, potius habetur quod non noverat Christi deitatem sed solum eius mortalem humanitatem, prout enim ibi Gregorius dicit: «In hamo esca ostenditur, sed aculeus occultatur. In hamo ergo incarnationis Christi captus est, quia dum in illo appetit escam corporis, transfixus est aculeo deitatis. Ibi enim erat aperta infirmitas que provocaret, et occulta virtus que raptoris faucem transfigeret». Hec ipsemet Gregorius ibi dicit.
Non ergo dicitur capi in oculis eius ex hoc quod deitas videretur a diabolo, sed solum ex hoc quod escam humanitatis Christi habuit visibiliter coram oculis suis, non autem aculeum sue deitatis. Unde et Ambrosius super Lucam dicit quod ideo Virgo fuit desponsata Iosep, ut sacramentum incarnationis Christi diabolo celaretur. Et ecclesia, in imno passionis Christi, cantat quod nostre salutis ordo depoposcerat ut ars Christi falleret artem multiformis proditoris, de quo in versu priori premisit quod per pomum ligni fraudulenter fefellerat prothoplaustrum, id est primum hominem.
Preterea si, prout Gregorius opinatur, sciebat ipsum esse Deum et pro nostra redemptione incarnatum, quomodo simul cum hoc poterat ignorare quod mors et passio Christi non esset supra modum meritoria et utilis redemptioni nostre, ac per consequens quod moriendo transfigeret spem et intentum diaboli?
Ad id autem quod Gregorius pro se allegat, diabolum dixisse “quid nobis et tibi, fili Dei?”, est duplex responsio.
Prima est quod licet opinaretur seu opinative coniceret Christum esse Dei Filium, et ex hac opinione diceret illa verba, non propter hoc sequitur quod sciret hoc indubitabiliter.
Secunda est quod licet sciret et diceret ipsum esse Filium Dei per gratiam, iuxta illud Psalmi: “Ego dixi: Dii estis et filii excelsi omnes” (Ps 81, 6), non propter hoc sequitur quod sciret ipsum esse Dei Filium per naturam.

Purg. XXX, 34-43

E lo spirito mio, che già cotanto
tempo era stato ch’a la sua presenza
non era di stupor, tremando, affranto,
sanza de li occhi aver più conoscenza,
per occulta virtù che da lei mosse,
d’antico amor sentì la gran potenza.
Tosto che ne la vista mi percosse
l’alta virtù che già m’avea trafitto
prima ch’io fuor di püerizia fosse,

volsimi a la sinistra …………….

[LSA, cap. XII, Ap 12, 3 (IVa visio)] “Et ecce dracho”, id est diabolus per calliditatem “dra-cho”, per elationem et per grandem poten-tiam “magnus” […]

Purg. XXXII, 1-12

Tant’ eran li occhi miei fissi e attenti
a disbramarsi la decenne sete,
che li altri sensi m’eran tutti spenti.
Ed essi quinci e quindi avien parete
di non caler – così lo santo riso
a sé traéli con l’antica rete! -;
quando per forza mi fu vòlto il viso
ver’ la sinistra mia da quelle dee,
perch’ io udi’ da loro un “Troppo fiso!”;
e la disposizion ch’a veder èe
ne li occhi pur testé dal sol percossi,
sanza la vista alquanto esser mi fée.

Par. XXVII, 91-93

e se natura o arte fé pasture
da pigliare occhi, per aver la mente,
in carne umana o ne le sue pitture

Purg. XIV, 145-147

Ma voi prendete l’esca, sì che l’amo
de l’antico avversaro a sé vi tira;

e però poco val freno o richiamo.

Purg. XXVIII, 64-66

Non credo che splendesse tanto lume
sotto le ciglia a Venere, trafitta
dal figlio fuor di tutto suo costume.

Metam. X, 525-528

Namque pharetratus dum dat puer oscula matri,
inscius exstanti destrinxit harundine pectus:
laesa manu natum dea reppulit; altius actum
vulnus erat specie primoque fefellerat ipsam.

Par. V, 121-129

Così da un di quelli spirti pii
detto mi fu; e da Beatrice: “Dì, dì
sicuramente, e credi come a dii”.
“Io veggio ben sì come tu t’annidi
nel proprio lume, e che de li occhi il traggi,
perch’ e’ corusca sì come tu ridi;
ma non so chi tu se, né perché aggi,
anima degna, il grado de la spera
che si vela a’ mortai con altrui raggi”.

Par. XXVIII, 10-12

così la mia memoria si ricorda
ch’io feci riguardando ne’ belli occhi
onde a pigliarmi fece Amor la corda.

 

6. Dante profeta

L’espressione “Dante profeta” ha sempre percorso, da Ignaz von Döllinger ed Ernesto Buonaiuti [51] ai tempi più recenti, gli studi sulla Commedia. Ma cosa significa realmente? E quale profeta imiterebbe Dante? Non si può certo limitare questo epiteto ai casi del Veltro, dell’ “un cinquecento diece e cinque”, o di quanto viene detto al poeta circa la sua vita futura. La questione richiederebbe un’adeguata trattazione; qui si sottolinea l’aspetto ‘profetico’ che sembra più incidere sul senso stesso del viaggio.

Il passaggio dall’universale al particolare, che nei primi due versi del poema porta da “Nel mezzo del cammin di nostra vita” a “mi ritrovai per una selva oscura”, corrisponde a una caratteristica dello spirito profetico di cui, ad Ap 13, 1, Olivi nota la capacità di salire dal particolare all’universale e di ricondurre questo al proprio particolare. L’ascendere all’universale avviene allorché lo spirito trova un luogo idoneo all’uscire per dilatarsi ed espandersi dalle cose speciali verso le generali. Così Isaia, parlando di Babilonia e del suo re, dilata il discorso rivolgendolo contro tutto il mondo simile a Babilonia e contro Lucifero re di tutti i superbi e i malvagi quasi fosse re della grande Babilonia (Is 14, 12). Così Ezechiele, parlando contro Tiro, si diffonde su tutto il mondo e sul supremo cherubino che sta nel mezzo delle pietre infuocate (Ez 28, 14-16). Così Cristo, che attribuisce tutti i mali provenienti da ogni generazione di reprobi alla particolare malvagia generazione dei reprobi Giudei del suo tempo, sulla quale ricade tutto il sangue versato dal tempo di Abele il giusto (Matteo 23, 35-36). Così Giovanni, autore dell’Apocalisse, toccando della bestia che sale dal mare (la bestia saracena: Ap 13, 1-10) si dilata a tutta la massa dei reprobi che dalla creazione alla fine del mondo combatte contro la Chiesa degli eletti e ha sette teste corrispondenti alle sette età.
Lo spirito profetico dà alle vicende un valore esemplare. Tutti i tre più gravi peccati capitali – “superbia, invidia e avarizia” -, secondo Ciacco, cooperano alle divisioni di Firenze, e ne sono concausa (Inf. VI, 74-75). Un particolare fatto cittadino viene elevato a modello di male universale, e questo espandersi verso l’universale al di là del proprio particolare, per poi ritornarvi, è appunto una caratteristica del modo tenuto dai grandi profeti, Isaia o Ezechiele.
Nell’apostrofe che apre Inf. XXVI, il nome di Firenze “si spande” per l’inferno come la fama della città fatta “sì grande” batte le ali per mare e per terra. Il passaggio dal particolare all’universale è ribadito nel cielo di Venere da Folchetto di Marsiglia, che dilata il suo discorso al modo dei profeti: Firenze, pianta di Lucifero, “produce e spande il maladetto fiore”, la moneta che ha traviato il gregge cristiano trasformando i pastori in lupi (Par. IX, 127-132).
In altro contesto, Virgilio è “quella fonte / che spandi di parlar sì largo fiume”, dotato anch’egli di spirito profetico (Inf. I, 79-80). L’uscire e il dilatarsi sono propri della mente di Dante la quale, come la folgore si dilata fuori della nuvola che la contiene, esce da sé stessa fatta più grande per i cibi spirituali offerti dalla visione del trionfo di Cristo nel cielo delle stelle fisse (Par. XXIII, 40-45).
Nell’Eden la “puttana sciolta” – la meretrice Babylon, la Chiesa carnale  – viene mostrata darsi al gigante (il regno di Francia) e finir tratta nella selva: secondo gli esegeti, “Babylon confusio interpretatur”. Se la confusione babilonica si mostra sul piano dei due poteri universali, il temporale e lo spirituale, essa nondimeno agisce anche a livello individuale dove, come afferma Olivi, ciascuno deve bruciare la propria meretrice interiore [52]. Così la confusione è appropriata anche a Dante (Purg. XXXI, 7, 13), finito nella selva oscura dopo essersi tolto a Beatrice e dato ad altri, quasi specchio individuale della prostituta apocalittica (“questi si tolse a me, e diessi altrui … e come perché non li fosse tolta”: Purg. XXX, 126; XXXII, 151). La confusione agisce anche a livello cittadino: “Semper enim usque ad finem seculi erunt in hoc mundo aliqui babilonici, id est reprobi, a quorum peccatis est recedendum … Babilon enim confusio interpretatur – Sempre la confusion de le persone / principio fu del mal de la cittade (Ap 14, 8; 18, 4; Par. XVI, 67-69)”.
Come nella prima terzina del poema si scende da ciò che è comune al genere umano (“Nel mezzo del cammin di nostra vita”) al singolo individuo Dante (“mi ritrovai”), così all’inverso, nel rimprovero formulato da Beatrice nell’Eden, si sale da “quella scuola ch’hai seguitata”, che è all’opposto della “parola” della donna, alla “vostra via” che tanto dista da quella divina (Purg. XXXIII, 85-90) [53].
Dunque lo “spirito profetico”, nel suo trascorrere dall’individuale all’universale e viceversa, è, prima ancora che la prescienza tramite il lume divino di eventi futuri, lo strumento che consente di inserire fatti e personaggi contemporanei nel corso della storia provvidenziale; per esso il realismo radicato sull’ “aiuola che ci fa tanto feroci” diventa “sacro” e la terra adombra il cielo [54].

Vi è un libro della Scrittura al quale la Commedia è stata accostata anche da autori, come Michele Barbi [55] e Bruno Nardi [56], restii a scorgervi influenze dirette dell’esegesi contemporanea: l’Apocalisse. Come questa, il “poema sacro” è un libro scritto dentro (i sensi mistici) e fuori (il senso letterale). Si suole fare riferimento all’Apocalisse solo per quei luoghi del poema dove essa è palesemente citata, come nella bolgia dei simoniaci (Inf. XIX) o nelle visioni delle vicissitudini del carro-Chiesa militante che concludono Purg. XXXII. Un’attenta analisi toccherebbe molti altri punti, che permeano il tessuto dei versi. Il fiume luminoso dell’Empireo, con le sue due rive, è memore di quello che scorre nel mezzo della Gerusalemme celeste (Ap 22, 1-2); l’ascesa al cielo, che avviene guardando negli occhi di Beatrice fissi nel sole, ripete Ap 19, 17-18 (“Et vidi unum angelum stantem in sole”); le tre facce di Lucifero hanno i colori (rosso, nero, tra bianco e giallo) dei tre cavalli designanti gli eserciti contrari a Cristo rispettivamente all’apertura del secondo, terzo e quarto sigillo (Ap 6, 3-8); i motivi delle pungenti locuste che escono dal pozzo dell’abisso al suono della quinta tromba (Ap 9, 1-12) si rinvengono nella bolgia dei barattieri o nelle malefatte dei Capetingi descritte dal loro capostipite.
La città ideale – descritta nella settima visione apocalittica con similitudini materiali: fosse, muro, porte, case, piazza, angoli, misure dei lati, pietre preziose, fiume, rive, albero, frutti -, viene applicata agli uomini, che partecipano così delle sue divine qualità. Nell’esegesi essa è la Chiesa dei contemplativi, cioè dei beati; ma anche la Chiesa peregrinante e militante in terra ne può ben pregustare la pace. Nella storia terrena, nessuna città le è stata più somigliante della Firenze antica rimpianta da Cacciaguida. Nell’amarezza dell’esilio, fra rimproveri e invettive contro di essa, il poeta sempre ama un’idea della sua Firenze, patria di degni cittadini “ch’a ben far puoser li ’ngegni” (Inf. VI, 81). Come sarebbe stato un giorno per Savonarola, Firenze è l’eletta e diletta città, nuova Gerusalemme santa e pacifica [57]. Ma questa città ideale – “quella Roma onde Cristo è romano” (Purg. XXXII, 102) – subisce una degradazione nel mondo infernale, strutturato con le stesse similitudini che descrivono la Gerusalemme celeste, per cui la civitas Dei si fa civitas diaboli  [58].
Una vera e propria messa in poesia della parola ‘apocalisse’ (“revelatio”) è lo svelamento nell’Eden di Beatrice, il cui nome coincide con il fine stesso dell’ultimo dei libri canonici (Ap 1, 3: “Beatus qui legit, et qui audit verba prophetie, et servat ea”).
Il libro dell’Apocalisse, con i suoi settenari, illumina il Vecchio Testamento. Con esso concordano i profeti [59], che intesero preannunciare i tre avventi di Cristo (nella carne, nello Spirito, nel giudizio); in esso Giovanni applica le figure e le sentenze dei profeti ad altri tempi e fatti:

(LSA, prologus, notabile XIII) Ex predictis autem faciliter patet qualiter per intelligentiam huius libri elucidatur obscuritas scripture veteris, et etiam explicatur implicatio septem statuum nove legis. Elucidat enim eam primo per concordiam. Si enim omnes septenarios in scripturis positos coaptes ad septenarios huius libri, innumerabilia misteria tibi clarescent, si diligenter attenderis ipsorum parilem concordiam et consignificantiam […].
Secundo elucidat ipsam distinguendo tres fines seu tres Christi adventus in prophetis indistincte involutos. […] Unde et spiritus propheticus prophetarum veteris testamenti ad istos tres principalius currit. Nec mirum, quia principalis intentio eorum de Christo et circa Christum fuit prophetare eius adventum in carnem passibilem et redemptionem nostram per eius mortem fiendam, ac deinde post conversionem plenitudinis gentium promittere conversionem omnis Israel et postremo mundum inde a Christo iudicandum et consumandum, electos quidem in eterna gloria et reprobos in eterna pena.
Tertio elucidat ipsam applicando figuras vel sententias eius ad alia facta et tempora quam in prophetis videantur applicari, ut verbi gratia quando prophete loquuntur de destructione Babilonis non applicant hoc expresse ad illam Babilonem de cuius dampnatione agit sexta visio huius libri, nec sibi aut bestie ipsam portanti ascribunt septem capita et septem reges secundum septem tempora ecclesiastica. Item quod Daniel videt quattuor bestias in mari pugnantes (Dn 7, 2-8), Iohannes in quarta visione aggregat eas in unam. Nam de quarta bestia assumit quod habet “capita septem et cornua decem” (Ap 13, 1) et “os loquens” ingentia (Ap 13, 5-6), de tertia vero sumit quod “erat similis pardo”, de secunda vero quod “pedes eius sicut pedes ursi”, de prima vero, scilicet de leena, quod “os eius sicut os leonis” (Ap 13, 2). Item quod Isaias et ceteri prophete dicunt de finali gloria populi Dei fienda sub magno messia, applicat septima visio huius libri ad celestem gloriam cum renovatione orbis post extremum iudicium fiendam. Et sic de ceteris consimilibus advertere potes.

Lo spirito profetico è la predicazione di Cristo, che gli dà testimonianza:

(LSA, cap. XIX, Ap 19, 10) Deinde subdit quem debeat adorare, dicens: “Deum adora”. Deinde exponit quid sit “testimonium Ihesu”, dicens: “Testimonium enim Ihesu est spiritus prophetie”, id est spiritualis prophetatio seu predicatio Christi est testimonium seu testificatio ipsius, quasi dicat: omnes qui Christo serviunt, ipsum per eius Spiritum predicando seu confitendo, sunt servi Christi sicut et ego, et ideo quoad hoc sumus invicem coequales. Vel habere “testimonium Ihesu” est credere spirituali prophetie et doctrine de Christo. Nam ipsa testificatur Ihesum.

I profeti, e i loro discepoli, “serbano le parole della profezia”; si cimentano in una beata contesa per l’umiltà, nella quale i primi rifiutano di essere riveriti mentre i secondi non cessano dall’ossequio:

(LSA, cap. XXII, Ap 22, 8-9) Quanto autem maior erit in discipulis humiliatio, tanto erit maior et in magistris, ita quod etiam ad litteram angeli erunt eis familiares quasi socii, et conservi tam “prophetarum”, id est doctorum, quam discipulorum “qui servant verba prophetie”, id est doctrine “libri huius”. Docemur etiam in hoc quod quamvis spirituales magistri, proprium honorem refugientes, prohibeant se a suis subditis et discipulis honorari, non debent propter hoc discipuli cessare, immo profundius se humiliare quanto plus magistri et prelati se exhibent humiles eis. Et hec est beata contentio evangelice humilitatis, per quam superiores se honorari prohibent, et inferiores honorare et se illis omnino subicere numquam cessant.

Camminando sull’argine che lo protegge dal sabbione su cui piove fuoco, Dante china il capo, “com’ uom che reverente vada”, verso il suo maestro Brunetto Latini, che tuttavia pare primo nell’umiliarsi dicendo: “Però va oltre: i’ ti verrò a’ panni”, cioè procedendo più in basso col capo che sfiora la veste del poeta (Inf. XV, 40, 43-45). L’umiliarsi di Brunetto è tuttavia obbligato dalla sua pena che lo costringe in basso nel sabbione, mentre il discepolo, portato dai margini di pietra del Flegetonte, è elevato su di lui. Il tema della gara d’umiltà è già presente al momento dell’incontro e del riconoscimento del maestro da parte del discepolo: prima Brunetto, che sta più in basso, prende Dante “per lo lembo”, cioè per la veste, gridando la sua meraviglia; poi Dante china la mano verso la faccia di lui (ibid., 22-30). Al maestro che gli promette glorioso porto e tanto onore il poeta si dichiara pronto a ‘serbare’ la profezia fattagli: “Ciò che narrate di mio corso scrivo, / e serbolo a chiosar con altro testo / a donna che saprà, s’a lei arrivo” (Inf. XV, 88-90).
Profeti non sono solo quelli dell’Antico Testamento, ma anche gli apostoli e i dottori del Nuovo:

(LSA, cap. X, Ap 10, 5-7) Nota etiam quod hic per prophetas non solum intelliguntur prophete veteris testamenti, sed etiam apostoli et ceteri doctores novi testamenti. Omnes enim prenuntiant consumationem ecclesie et operum Dei in finem seculi implendam.

“Et dixit michi: Oportet te iterum prophetare in gentibus et populis et linguis et regibus multis” (Ap 10, 11). Come l’angelo ingiunge a Giovanni di predicare ancora senza timore a tutto il mondo dopo gli apostoli, inviscerando il libro dal sapore amaro e dolce insieme (Ap 10, 9-10), così Dante ascolta da Cacciaguida il suo futuro destino e le vicende dolorose dell’esilio, e gusta insieme l’amaro del suo futuro patire con il dolce della fama che gli è riservata (Par. XVII). Questo essere dolce e amaro è pure negli effetti del poema, molesto nel primo gusto ma poi salutare. Dall’avo, e poi da san Pietro (Par. XXVII, 64-66), egli riceve, quasi “alter Iohannes”, l’ingiunzione di rendere manifesto quanto gli è stato mostrato nel corso del viaggio e che egli ha notato nel suo “poema sacro”, nuova Apocalisse di cui ha realmente percorso per grazia, portandoli a compimento, tutti i gradi temporali.
San Pietro, nel rivolgersi a Dante – “e tu, figliuol, che per lo mortal pondo / ancor giù tornerai, apri la bocca, / e non asconder quel ch’io non ascondo” – usa quell’avverbio che se è riferito all’essere il poeta un mortale che deve di nuovo tornare sulla terra, sembra bene alludere all’ “iterum” detto dall’angelo a Giovanni e ai suoi epigoni del sesto stato della Chiesa (che si tratti di un ordine di contemplativi evangelici o di “singulares persone”) [60] perché predichino ancora, dopo gli apostoli, a tutto il mondo “le cose che è necessario avvengano presto”, quanto cioè scritto nel libro loro aperto, consegnato e divorato con dolore e con dolcezza:

(LSA, cap. XXII, Ap 22, 6) Secundum est: “Et Dominus Deus spirituum prophetarum”, id est qui dat prophetis spiritum prophetandi vel creator et illustrator spirituum eorum, “misit angelum suum”, scilicet me, “ostendere servis suis que oportet fieri cito”, quasi dicat: singulari iussu et missione et auctoritate summi Dei ostendi hec, non quidem vana sed necessaria, nec tardanda sed cito fienda, nec quibuscumque sed servis Dei.

Dante intese il suo viaggio come una vera visione, ma da subito gli interpreti e la stessa Chiesa [61] privilegiarono la fictio poetica, l’elemento retorico-letterario ancor oggi largamente privilegiato dagli studiosi.
Lo “spirito profetico” doveva avere un suo pubblico di predicatori che rendessero manifesta la “profezia”. Costoro, leggendo i versi le cui parole fungevano da imagines agentes che indirizzavano la memoria alla dottrina contenuta nel “libro”, non avrebbero trovato alcuna contraddizione fra la dimensione allegorica e l’enunciazione letterale, non avrebbero dovuto decifrare alcun “segreto”. Il “libro” quasi scomparve e il pubblico non si formò [62]. Ai posteri restò la selva delle interpretazioni, la distinzione fra poesia e struttura, i tentativi di conciliare poesia e teologia. Restò, perché si perdé del tutto il significato spirituale del poema, il “segreto”.

 

[LSA, cap. XIII, Ap 13, 1 (IVa visio, Vum prelium)] Tertio nota quod mos est scripture prophetice, dum de uno speciali agit sub quo spiritus propheticus invenit locum idoneum ad exeundum et dilatandum se, a specialibus ad generalia ascendere et expandi ad illa, iuxta quod Isaias, loquendo de Babilone et eius rege, dilatat se ad loquendum contra totum orbem Babiloni similem et contra Luciferum regem omnium superborum et malorum quasi regem magne Babilonis (cfr. Is 14, 12-21). Sic etiam Ezechiel, loquendo contra Tirum, diffundit se ad totum orbem et ad supremum Cherub de medio lapidum ignitorum, id est sanctorum angelorum, deiectum (Ez 28, 14-19). Sic etiam Christus Matthei XXIII° (Mt 23, 35-36) ascribit omnia mala totius generationis omnium reproborum generationi male Iudeorum sui temporis, tamquam a particulari ascendens ad generale et tamquam universale reducens ad suum particulare, cum ait quod omnis sanguis iustorum impie effusus a sanguine Abel iusti usque ad sanguinem Zacharie veniet super generationem istam. Sic ergo in proposito, occasione bestie sarracenice, dilatatur spiritus propheticus ad totam bestialem catervam omnium reproborum, que ab initio mundi usque ad finem pugnat contra corpus seu ecclesiam electorum et per septem etates seculi habet capita septem; specialiter tamen a Christo usque ad finem mundi per septem ecclesiastica tempora habet septem principalia capita contra septem ecclesie spiritales status et exercitus.

Inf. I, 1-2

Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai  per una selva oscura

Inf. XXVI, 1-3

Godi, Fiorenza, poi che se’ sì grande,
che per mare e per terra batti l’ali,
e per lo ’nferno tuo nome si spande!

Par. IX, 127-132

La tua città, che di colui è pianta
che pria volse le spalle al suo fattore
e di cui è la ’nvidia tanto pianta,
produce e spande il maladetto fiore
c’ha disvïate le pecore e li agni,
però che fatto ha lupo del pastore.

 

Purg. XXXIII, 85-90

“Perché conoschi”, disse, “quella scuola
c’hai  seguitata, e veggi sua dottrina
come può seguitar la mia parola;
e veggi vostra via da la divina
distar cotanto, quanto si discorda
da terra il ciel che più alto festina”.

Inf. I, 79-80

Or se’ tu quel Virgilio e quella fonte
che spandi di parlar sì largo fiume?

Par. XXIII, 40-45

Come foco di nube si diserra
per dilatarsi sì che non vi cape,
e fuor di sua natura in giù s’atterra,
la mente mia così, tra quelle dape
fatta più grande, di sé stessa uscìo,
e che si fesse rimembrar non sape.

7. Apocalisse

 

Mira profunditas eloquiorum tuorum,
quorum ecce ante nos superficies blandiens parvulis:
sed mira profunditas, Deus meus, mira profunditas!
Horror est intendere in eam, horror honoris et tremor amoris.

Agostino, Confessionum  lib. XII, xiv, 17

“Apocalisse di Gesù Cristo”. Il libro si divide nell’esordio o proemio, nella narrazione e nella conclusione. La narrazione comincia ivi: “Io, Giovanni, vostro fratello” (Ap 1, 9); la conclusione, verso la fine del libro, ivi: “Poi mi disse: ‘Queste parole sono certe e veraci’” (Ap 22, 6). Nel proemio e nella conclusione viene raccomandata e magnificata la profezia di questo libro affinché sia maggiormente accettabile e degna di fede e venga accolta con più attenzione, amore e timore.
Il proemio del libro (Ap 1, 1-8) comprende il titolo e il saluto. Nel titolo (Ap 1, 1-3) viene spiegata la quadruplice causa del libro: formale, efficiente, materiale e finale. “Apocalisse” equivale a “rivelazione”, la quale può essere sia l’atto di colui che rivela, sia l’atto di colui che riceve o vede la rivelazione, sia la cosa stessa rivelata.
L’essere stato rivelato è la causa formale del libro, che meglio si definisce “rivelazione” piuttosto che “visione”, a sottolineare il dono e la grazia di colui che rivela e il suo arcano celarsi se il velo non venga tolto o aperto per dono divino. È nome greco (από = re, κάλυψις = velo) che è rimasto non interpretato in latino, come le parole ebraiche “amen” e “alleluia”, in segno di sacra riverenza verso l’arditezza della rivelazione.
“Apocalisse”, rivelazione dell’arcano per grazia, è il disvelarsi della bocca velata di Beatrice alla preghiera delle tre virtù teologali: “Per grazia fa noi grazia che disvele / a lui la bocca tua, sì che discerna / la seconda bellezza che tu cele” (Purg. XXXI, 136-138). Ed è rivelazione non interpretata, poiché quale poeta, quand’anche fattosi pallido nello studio della poesia o abbeveratosi alla fonte di Parnaso, sarebbe capace di renderla? (ibid., 139-145).
La riverenza di fronte al nome, “pur per Be e per ice” (che sembra far segno della disgiunzione di “apocalisse” in re e in velo), cioè anche senza interpretarlo, “s’indonna” di tutto il poeta, che nel dubbio non ha sufficiente ardimento a chiedere (Par. VII, 10-15; il ‘velare’ è appropriato al subitaneo sparire degli spiriti mostratisi nel cielo di Mercurio: “e quasi velocissime faville / mi si velar di sùbita distanza”, ibid., 7-9). Sulla soglia dell’Empireo, la bellezza della donna viene lasciata “a maggior bando / che quel de la mia tuba, che deduce / l’ardüa sua matera terminando”, come il nome del libro non viene interpretato “in signum singularis arduitatis et reverentie huius revelationis” (Par. XXX, 34-36).
Alla donna del poeta appartiene anche la parola alleluia, della quale ad Ap 19, 1 si dice: “Quod est hebreum et est idem quod laudare Deum”, e l’amen, di cui ad Ap 19, 4: «“Amen, alleluia”, id est vere est Deus ineffabiliter laudandus”». Lucia così le si rivolge nell’Empireo per muoverla a salvare l’amico: “Beatrice, loda di Dio vera” (Inf. II, 103), dice cioè tre parole non interpretate: ‘apocalipsis, alleluia, amen’.
Se “Beatrice” resta nome non interpretato, interpretato (così Uguccione) è invece quello della madre di san Domenico, Giovanna – ja = dominus, anna = gratia (Par. XII, 80-81).
La causa efficiente del libro dell’Apocalisse è quadruplice. La principale è Dio, la secondaria Cristo in quanto uomo, l’intermedia l’angelo, la prossima Giovanni. Così si dice della “rivelazione di Gesù Cristo”, cioè fatta da Cristo, “che Dio gli diede”, che gli fu cioè data dal Padre e da tutta la Trinità non solo per sua conoscenza ma “per render noto”, ossia per manifestare, “ai suoi servi le cose che è necessario avvengano presto”.
Parlando di “necessità” si tocca anche la causa materiale, costituita dagli eventi futuri, necessari non in senso assoluto, bensì rispetto all’infallibilità della prescienza divina, all’utilità e alla necessità della Chiesa, alla giustizia distributiva, alla malizia dei reprobi. Questi eventi futuri è necessario avvengano “presto” sia perché cominciano e continuano e si compiono senza interruzione; sia perché il tempo, comparato all’eternità, è quasi un momento; sia perché il tempo della nuova legge, rispetto ai tempi precedenti, viene computato come “l’ultima ora”, secondo quanto detto nella prima lettera di Giovanni (1 Jo 2, 18 “novissima hora est”).
Si soggiunge la causa intermedia e poi quella prossima, dicendo: “e che egli”, cioè Cristo, “manifestò”, cioè rivelò o mostrò per mezzo di segni figurali, “inviando il suo angelo”, per annunziarle, “al servo suo Giovanni”.
È da notare che il poema non viene definito “rivelazione”. Cacciaguida, nell’invitare il suo discendente a non essere timido amico del vero, parla di “visione”: “tutta tua visïon fa manifesta” (Par. XVII, 128). Si tratta però di una visione mostrata da altri, come dice lo stesso Cacciaguida: “Però ti son mostrate in queste rote, / nel monte e ne la valle dolorosa / pur l’anime che son di fama note” (ibid., 136-138). L’autore del libro dell’Apocalisse è colui che “questa revelazion ci manifesta”, come afferma il poeta di fronte al fratello di Giovanni, san Giacomo, con riferimento alle “bianche stole” (Ap 3, 4-5; 7, 9; Par. XXV, 94-96). Il verbo “revelare” ricorre solo altre tre volte nel poema. A Par. XXIX, 133, circa il numero degli angeli nella ‘rivelazione’ di Daniele (“ ’n sue migliaia”; cfr. Dn 7, 10), entro cui “si cela” un numero “determinato” ma inconcepibile per la mente umana: da notare la variante, perché Daniele rivela celando. A Par. XXI, 120, Pier Damiani lamenta la decadenza di Fonte Avellana: “Render solea quel chiostro a questi cieli / fertilemente; e ora è fatto vano, / sì che tosto convien che si riveli”, dove il rivelare è accostato alla necessità (“convien”) e al presto apocalittico (“tosto”). A Purg. III, 142-143, Manfredi, del cui destino eterno non si dice il vero tra i vivi, prega Dante che, una volta tornato, vada dalla figlia “revelando a la mia buona Costanza / come m’hai visto” (da intendere come un rivelare il mirabile giudizio divino sul padre, che ha stravolto il giudizio degli umani pastori).
La causa finale del libro, che si consegue attraverso la sua intelligenza e osservanza, è la beatitudine: “Beato chi legge e chi ascolta le parole della profezia, e chi le conserva” (Ap 1, 3).
I temi connessi al titolo del libro (Ap 1, 1) sono presenti in Purg. XXX, al momento dell’apparizione di Beatrice nell’Eden. La voce di Beatrice chiama l’amico con il proprio nome: “Dante, perché Virgilio se ne vada, / non pianger anco …” (vv. 55-57). Il poeta si volge “al suon del nome mio, / che di necessità qui si registra” (vv. 62-63). Un nome pregno di significato, che qui viene specificato come nel libro di Giovanni vengono poi specificati i nomi delle sette chiese alle quali deve essere inviata la visione: Dante – “colui che dà” [63] – riassume in sé, come la Chiesa universale, il settiforme spirito che la santifica. La necessità che giustifica l’unica registrazione nel poema del nome dell’autore, con il venir meno della norma retorica che vieta di parlare di sé, non è determinata soltanto, come pensava l’Ottimo, dal fatto che un rimprovero, quale quello cui si appresta Beatrice, diventa più pungente se si nomina la persona, ma anche dall’imminenza della fine dei tempi. Il poeta nominato è colui che riceve la rivelazione da divulgare, necessaria perché gli uomini si pentano per tempo [64]. Necessità e utilità già addotte nel Convivio (I, ii, 12.14), con l’esempio di Agostino, per giustificare il parlare di sé.
“Guardaci ben ! Ben son, ben son Beatrice” (Purg. XXX, 73): le parole della donna espongono il fine dell’Apocalisse, cioè la beatitudine: “Beatus qui legit, et qui audit verba prophetie, et servat ea” (Ap 1, 3). La triplice ripetizione dell’avverbio ben esprime la causa finale del libro. Dante ascolta e guarda. Ciò è dimostrato da altri versi che rinviano al medesimo punto esegetico: Purg. III, 124-126 (“Se ’l pastor di Cosenza, che a la caccia / di me fu messo per Clemente allora, / avesse in Dio ben letta questa faccia”, quella misericordiosa: “et sic omnia sunt a nobis servanda vel agendo illa vel credendo ea cum caritate et spe vel timore”); Par. X, 125-126 (“l’anima santa che ’l mondo fallace / fa manifesto a chi di lei ben ode”, cioè Boezio; il manifestare è verbo tipico della rosa offerta dall’esegesi dei primi versetti apocalittici); Inf. XIV, 16-18 (“O vendetta di Dio, quanto tu dei / esser temuta da ciascun che legge / ciò che fu manifesto a li occhi miei!”: senza l’avverbio “ben”, ma con l’accostamento del leggere il lato temibile del libro – “cum caritate et spe vel timore” – e del manifestare).
Ancora, nell’Eden Beatrice è velata e non appare manifesta; le sue parole ‘continuano’, quasi a sottolineare la necessità di cose che debbono avvenire presto (Purg. XXX, 71: “continüò come colui che dice”; «“[…] “que oportet fieri cito” … quia indistanter sunt inchoanda et absque interpolatione continuanda et consumanda”»): motivo che ritorna all’inizio del canto successivo, allorché Beatrice ricomincia a parlare, “seguendo sanza cunta” (Purg. XXXI, 4); un modo di parlare proprio anche di Farinata (Inf. X, 76), di Matelda (Purg. XXIX, 2) e ancora di Beatrice nel cielo della Luna (Par. V, 17-18). Simmetrico ad Ap 1, 1 è Ap 22, 10, dove alla fine del libro Cristo afferma la prossimità del suo avvento e giudizio. Ivi è ripreso il tema del continuare senza posa un discorso: “et continuat se ad immediate premissum”. Cristo dice anche (Ap 22, 12) che verrà presto a portare, “tamquam dantis”, la propria mercede a ciascuno secondo le sue opere, cioè ai buoni i premi e ai malvagi le pene. Che è poi quello che si propone la Commedia. Il tema della visione mostrata a Giovanni perché la manifesti ad altri si traspone sul poeta. A lui, dice Beatrice, sono state mostrate “le perdute genti” come ultimo argomento per la sua salute (Purg. XXX, 136-138); a lui, dice Cacciaguida, sono “mostrate” le anime perché ‘manifesti’ la sua visione (Par. XVII, 128, 136). Pentitosi di fronte a Beatrice del proprio traviamento, Dante riceverà dalla sua donna (Purg. XXXII, 103-105) e dal suo avo (Par. XVII, 127-128) l’ingiunzione di scrivere e di manifestare, come all’evangelista viene detto: “Scribe ergo que vidisti” (Ap 1, 19).

Nel poema si mostrano altre variazioni di questi temi. Al centauro Chirone Virgilio spiega che il mostrare a Dante vivo la buia valle infernale è indotto da “necessità” e non da diletto (Inf. XII, 85-87). Il ‘convenire’, cioè l’essere necessario, è verbo che già Virgilio ha usato per indurre Dante a “tenere altro vïaggio” se vuole salvarsi dalla lupa (Inf. I, 91-93). I motivi della necessità e della velocità sono pure appropriati alla Fortuna (Inf. VII, 89). La Fortuna s’appressa, “necessità la fa esser veloce” (Inf. VII, 89), ma Dante ad essa è “presto” (cioè pronto con altrettanta velocità), e ciò vuole “sia manifesto” al suo antico maestro Brunetto Latini (Inf. XV, 91-93; “manifesto” e “presto” si trovano qui anche in rima, come a Par. XXIV, 50.52). E Virgilio interloquisce variando il tema Beatus qui audit (Ap 1, 3): «poi disse: “Bene ascolta chi la nota”» (Inf. XV, 99).
L’aggettivo utile non compare mai nel poema; hapax è l’avverbio utilmente a Purg. XXIII, 6, non a caso riferito al “tempo che n’è imposto”, che secondo Virgilio deve essere adeguatamente impiegato perché, appunto, è poco, e le cose debbono necessariamente avvenire presto, e presto debbono esser vedute.

Il tema dei “signa figuralia”, attraverso i quali si attua la rivelazione (le similitudini a noi note, perché non è dato ripetere una visione che sia puramente intellettuale), è appropriato ai lumi che nel cielo di Giove si trasformano nell’aquila, mostrandosi dapprima come figure di lettere e come segni (Par. XVIII, 73-93). Segnare e manifestare sono congiunti nell’invocazione in principio della terza cantica (Par. I,  22-24: “O divina virtù, se mi ti presti / tanto che l’ombra del beato regno / segnata nel mio capo io manifesti”). I motivi della necessità e dei “signa figuralia” sono appropriati a Cacciaguida, il cui parlare per un po’ si cela “per necessità, ché ’l suo concetto / al segno d’i mortal si soprapuose”, per poi condiscendere “inver’ lo segno del nostro intelletto” (Par. XV, 37-48).
La necessità, afferma Olivi, non è da intendere in senso assoluto, bensì con rispetto all’infallibilità della prescienza e della giustizia divina e all’utilità della Chiesa (Ap 1, 1); il libro tratta pertanto degli eventi futuri che è necessario avvengano presto, non di fallibili contingenze. Così Cacciaguida, che legge “nel cospetto etterno”, afferma (Par. XVII, 37-42) che la contingenza è solo umana (“fuor del quaderno / de la vostra matera non si stende”), e che la necessità non è assoluta (“necessità però quindi non prende / se non come dal viso in che si specchia / nave che per torrente giù discende”).
Una ‘rivelazione’, cioè un disvelamento, si verifica nell’Empireo, allorché “ambo le corti del ciel”, angeli e beati, si rendono “manifeste” al poeta, “come gente stata sotto larve, / che pare altro che prima, se si sveste / la sembianza non süa in che disparve”; la città “si distende in circular figura” (Par. XXX, 91-96, 103-105).

Una variante della rima disvele / cele (Purg. XXXI, 136.138) è anticipata, rispetto al disvelarsi di Beatrice, a Purg. XXIII, 112.114, da ti celi / veli nella richiesta di Forese perché il suo interlocutore si riveli. Ma altri temi tratti dall’esegesi dei primi versetti del testo apocalittico si trovano nell’episodio: il manifestarsi (nell’accezione negativa della causa della magrezza delle anime, ibid., 37-39; cfr. Purg. XXX, 69), poi il palesarsi a Dante («“palam facere”, id est ad manifestandum») per grazia («poi gridò forte: “Qual grazia m’è questa?”», ibid., 42-45). I temi si intrecciano con quelli provenienti dall’esegesi di Ap 9, 16-17 (terza visione, sesta tromba), dove si distingue tra l’ascoltare il numero dei cavalieri e il vedere i cavalli dell’esercito sciolto al suono della sesta tromba, nel senso che l’ascoltare viene riferito ai più sapienti (i cavalieri), mentre il vedere alle plebi sensuali (i cavalli), perché con l’udito percepiamo ciò che è sottile, segreto e intelligibile senza vederlo o palparlo. Così Dante riconosce Forese, disseccato nella pelle dalla fame e dalla sete che lo purgano del peccato di gola, solo attraverso la voce udita – “Mai non l’avrei riconosciuto al viso”: l’essere ‘sottile’, appropriato alla magrezza di Forese, partecipa del tema dell’apprendimento con l’udito di ciò che è più sottile e segreto (Purg. XXIII, 43-45, 61-63). Forese è paragonato nel suo dipartirsi a un cavaliere (Purg. XXIV, 94-97); al suono della sesta tromba vengono seccate le acque del fiume Eufrate, cioè di quanto è umano e babilonico (Ap 9, 14).
Altri esempi di percezione uditiva (più sottile), non visiva: “Luogo è là giù da Belzebù remoto / tanto quanto la tomba si distende, / che non per vista, ma per suono è noto” (Inf. XXXIV, 127-129: il punto al quale Virgilio e Dante pervengono al termine della “natural burella”, percorsa dopo essersi staccati dal pelo di Lucifero e dal quale risalgono ed escono “a riveder le stelle”, cioè alla contemplazione; le parole luogo e remoto rinviano la memoria del lettore a Patmos, dove Giovanni scrisse l’Apocalisse: “Ecce quod locus erat divinis contemplationibus et visionibus aptus, tamquam remotus et quietus et secretus ac deliciis et divitiis carnalibus vacuus” [Ap 1, 19)]; «“Io ti seguiterò quanto mi lece”, / rispuose; “e se veder fummo non lascia, / l’udir ci terrà giunti in quella vece”», nell’incontro con Marco Lombardo (Purg. XVI, 34-36).

A Dante è appropriato il tema della singolare grazia concessa da Dio a Cristo perché riveli quel che è arcano e incomprensibile: a lui viene infatti ‘concesso’ per grazia di vedere i troni del trionfo eterno prima di abbandonare il militare terreno (Par. V, 115-117) e di venire d’Egitto in Gerusalemme (Par. XXV, 55-57).
A Par. V l’espressione “ben nato”, oltre che alla “beatitudo”, causa finale del libro, rinvia anche all’interpretazione del nome “Beniamin”, il figlio di Rachele chiamato dapprima dalla madre “Bennoni”, cioè figlio del dolore, perché nel darlo alla luce morì. Alla tribù di Beniamino è appropriata la pace, nella quale la mente muore a sé stessa e passa alla destra di Dio. Ben, con o senza nati, è accostato a pace a Purg. III, 73-74 e V, 60-61.
A Francesca e a Paolo Amore “concedette” di conoscere i “dubbiosi disiri” (Inf. V, 118-120), ma fu un concedere mal interpretato dai due amanti, nel senso dell’amore carnale [65]. Il tema del concedere da parte di Dio (Ap 1, 1) e della dignità di Giovanni, testimone del Verbo divino e insieme dell’umanità di Cristo (Ap 1, 2), è appropriato a sé stesso da Dante, dubbioso nel fare il viaggio proposto da Virgilio e accettato con troppa fretta: “Ma io, perché venirvi? o chi ’l concede? / Io non Enëa, io non Paulo sono; / me degno a ciò né io né altri ’l crede” (Inf. II, 31-33; cfr. la richiesta a Virgilio circa le genti in riva all’Acheronte: «per ch’io dissi: “Maestro, or mi concedi / ch’i’ sappia quali sono …”», Inf. III, 72-73). “Lo tempo è poco omai che n’è concesso, / e altro è da veder che tu non vedi”, afferma Virgilio nel lasciare la nona bolgia (Inf. XXIX, 11-12).
‘Concedere’ è proprio di Dio e del suo provvedere. Cacciaguida, che pure in quanto beato va da tempo “leggendo del magno volume / du’ non si muta mai bianco né bruno” (Par. XV, 50-51), avrebbe voluto che almeno vi fosse stato mutato il destino di Buondelmonte, cosicché costui fosse morto, affogato nella sua Val di Greve, prima di entrare nella pacifica Firenze: “Molti sarebber lieti, che son tristi, / se Dio t’avesse conceduto ad Ema / la prima volta ch’a città venisti. / Ma conveniesi, a quella pietra scema / che guarda ’l ponte, che Fiorenza fesse / vittima ne la sua pace postrema” (Par. XVI, 142-147). “Ma conveniesi … oportet fieri”, cioè era utile e necessario, che Firenze piangesse.

Questa tematica iniziale concernente il titolo del libro si completa con le numerose ingiunzioni fatte a Giovanni perché scriva ciò che vede (in particolare, nella prima visione, ad Ap 1, 11; 1, 19; nella settima, ad Ap 21, 5), che possono essere confrontate con le ingiunzioni provenienti da Beatrice di scrivere le visioni avute nell’Eden “in pro del mondo che mal vive” (Purg. XXXII, 103-105; XXXIII, 52-55). Da notare, nel primo caso, la metamorfosi della prosa latina (con passi tra loro collazionati) nei versi in volgare: «(Ap 1, 19) “Scribe ergo que vidisti” … (Ap 1, 11) “Quod vides”, id est quod visurus es et videre iam cepisti, “scribe in libro”, id est fac inde librum sollempnem – Però, in pro del mondo che mal vive, / al carro tieni or li occhi, e quel che vedi, / ritornato di là, fa che tu scrive» (fa non deriva dal testo sacro, ma dalla sua esegesi). Alla conclusione del decimo capitolo, a Giovanni-Dante viene affidato il compito di predicare nuovamente il libro della sapienza cristiana (Ap 10, 9-11).

Si è detto che la causa finale del libro dell’Apocalisse, ciò che si consegue attraverso la sua intelligenza e osservanza, è la beatitudine: “Beato chi legge e chi ascolta” (Ap 1, 3). L’intelligenza si ottiene tramite la lettura e l’ascolto; la prima spetta ai dottori o ai letterati, il secondo ai laici. Per la salvezza non basta tuttavia apprendere o sapere senza conservare nell’affetto – con fede, speranza, carità e timore – e nelle opere, per cui si dice: “e chi conserva”.
Il passo tratto da Ap 1, 3 può essere collazionato con quello da Ap 3, 3, in cui alla quinta chiesa, e al suo intorpidito vescovo, viene raccomandato di avere sempre in mente, ripensandola con attenzione, la prima grazia ricevuta da Dio, ascoltata nella predicazione e dimenticata per torpore: una volta tornata alla mente, la prima grazia – che corrisponde a un principio di bellezza e di pienezza stellare [66] – deve essere conservata. Da questo difetto sono esclusi “pochi nomi”, cioè quelle persone i cui nomi sono “noti” a Cristo per la loro santità (Ap 3, 4).
Il tema del “beatus qui audit … et servat” costituisce il tessuto delle parole di Virgilio a Dante “sì smarrito” (rende il “sic torpens” di Ap 3, 3; cfr. quanto dice Beatrice allo stesso Virgilio a Inf. II, 64), che volge i passi da Farinata “ripensando / a quel parlar che mi parea nemico” in quanto gli aveva predetto sciagure (Inf. X, 121-132). Come il vescovo della quinta chiesa, Dante viene invitato a conservare nella mente quello che ha ascoltato (anche se non si tratta della “prima grazia”, ma di profezie contrarie). Il motivo dell’attenzione sta nel drizzare il dito da parte di Virgilio, per affermare che solo quando sarà dinanzi a Beatrice, “al dolce raggio / di quella il cui bell’ occhio tutto vede”, potrà conoscere il corso della propria vita. Il fine di chi ascolta, ripensa attentamente e conserva ciò che ha ascoltato è  la beatitudine.
Altro esempio di variazione di questo gruppo tematico è il ‘serbare’ alle chiose di Beatrice quanto narrato al poeta sul proprio destino da Brunetto Latini: la donna saprà spiegare la profezia circa il conseguimento dell’infallibile glorioso porto insieme a quanto oscuramente dettogli da Farinata sul peso dell’arte del rientrare in patria (Inf. XV, 88-90). Anche l’espressione di Virgilio “Bene ascolta chi la nota” (ibid., 99) sembra derivare dai medesimi temi, se interpretata nel senso che solo chi “nota”, cioè ha in mente e conserva, ascolta bene. Virgilio interviene dopo che per due terzine Dante ha dichiarato di essere pronto ai colpi della Fortuna: “però giri Fortuna la sua rota / come le piace” (ibid., 91-96). La Fortuna, così come presentata a Inf. VII, 94-96, per quanto ministra di Dio, è il contrario del “beatus qui audit”: “ma ella s’è beata e ciò non ode” (nel senso che non ascolta il biasimo e la mala voce datale dai mondani; cfr., a Inf. X, 97, le parole di Dante a Farinata: “El par che voi veggiate, se ben odo …”). In presenza di Brunetto, per le parole di Virgilio, Dante le si oppone come colui che bene ascolta e conserva.
Ancora variante dell’ascoltare e del serbare “in affectu et opere”, da Ap 1, 3, è quanto il poeta dice ai tre fiorentini sodomiti: “e sempre mai / l’ovra di voi e li onorati nomi / con affezion ritrassi e ascoltai” (Inf. XVI, 58-60), dove il nominare è precipuo tema della quinta chiesa (Ap 3, 4) e, più in generale (nel senso di fama), di tutto il quinto stato. Serbare “ad salutem … in affectu” dopo aver visto (“beatus qui legit”) è nella preghiera alla Vergine di san Bernardo: “Ancor ti priego … che conservi sani, / dopo tanto veder, li affetti suoi” (Par. XXXIII, 34-36).
Stazio, iniziando la lezione sulla generazione umana, invita Dante a ricevere e a conservare nella mente le sue parole (Purg. XXV, 34-36; da Ap 3, 3). Un’ulteriore variante è l’inciso contro la gente che dovrebbe “esser devota” (gli ecclesiastici) in Purg. VI, 93: “se bene intendi ciò che Dio ti nota”. Ancora, l’attenzione e l’ascoltare sono propri di Virgilio, che in Inf. IX, 4 attende l’arrivo del messo celeste.
Il ricordare un ‘prima’ bello che non si ritrova più perché mutato in meglio si verifica nel riconoscimento di Piccarda. Nel rivelarsi, la donna invita il poeta a ricordare con mente attenta i “primi concetti” che ebbe di lei, cioè la prima immagine conosciuta in terra, e Dante replica che questi “primi” sono tanto trasfigurati dallo splendore divino da non avergli consentito un immediato riconoscimento senza l’aiuto delle parole del suo interlocutore (Par. III, 47-49, 58-63).
Trasposizione quasi letterale del testo teologico è l’invito di Beatrice ad aprire la mente per fermarvi dentro quanto il poeta ascolterà da lei sull’essenza del voto religioso, “ché non fa scïenza, / sanza lo ritenere, avere inteso” (Par. V, 40-42; cfr. Par. XIII, 1-3). Si tratta certo di un modo comune di dire: “il concetto ritorna frequente nelle raccolte medievali di massime, sulle orme di analoghe sentenze di Seneca e di Cicerone” (Sapegno). Ma anche questo concetto trova rispondenze nella Lectura che lo armino (è Beatrice ad esprimerlo, il cui nome coincide la causa finale dell’Apocalisse), e si tratta proprio di quelle parole che avrebbero convinto Machiavelli a notare le conversazioni da lui intrattenute “nelle antique corti delli antiqui huomini” e a comporre un opuscolo De principatibus, come scrisse a Francesco Vettori il 10 dicembre 1513.

 

[LSA, cap. I, Ap 1, 1.3 (prohemium, titulus)] “Apocalipsis Ihesu Christi” (Ap 1, 1). Liber iste dividitur in exordium seu prohemium et narrationem et conclusionem. Narratio autem incipit ibi (Ap 1, 9): “Ego Iohannes frater vester”. Conclusio vero circa finem libri, ibi (Ap 22, 6): “Et dixit michi: Hec verba fidelissima sunt et vera”. In prohemio autem et conclusione commendat et magnificat prophetiam huius libri, ut sit susceptibilior et fide dignior et ut attentius et amabilius ac timoratius suscipiatur.
In titulo autem explicatur quadruplex causa huius libri, scilicet formalis, quia est per revelationem traditus propter quod vocatur “apocalipsis”, et est nomen grecum et est idem quod revelatio latine (ab apo, quod est re, et calipso, quod est velo seu operio).
Potest autem hic sumi revelatio tam pro actu revelantis quam pro actu suscipientis seu videntis quam pro obiecto, id est pro re visa et revelata in quantum subest tali actui, id est in quantum est revelata.
Nota etiam quod potius dicit revelatio quam visio, quia magis significat donum et gratiam revelantis et archanam occultationem eius, nisi dono Dei eius velamen auferatur  seu aperiatur.
Nota etiam quod hoc nomen grecum, scilicet “apocalipsis”, remansit hic non interpretatum latine in signum singularis arduitatis et reverentie huius revelationis, sicut ‘amen’ et ‘alleluia’ non sunt apud nos ex hebreo in latinum interpretata in signum sacre reverentie eorum.
Tangit etiam causam efficientem quadruplicem. Principalis enim est Deus, secundaria Christus in quantum homo, media vero angelus, proxima vero Iohannes. Et ideo dicit quod est “apocalipsis Ihesu Christi” (Ap 1, 1), id est a Ihesu Christo facta, “quam dedit illi Deus”, scilicet Pater et tota Trinitas; “dedit”, inquam, non solum ut eam sciret, sed etiam “palam facere”, id est ad manifestandum, “servis suis que oportet fieri cito”.
In quo tangit causam materialem, quia est de futuris que non ex absoluta necessitate, sed respectu infallibilitatis divine prescientie et respectu utilitatis ac necessitatis ecclesie et respectu iustitie Dei retributive et respectu malitie reproborum, “oportet fieri”.
Dicit autem “cito”, tum quia indistanter sunt inchoanda et absque interpolatione continuanda et consumanda, tum quia totum tempus eternitati comparatum est sicut momentum, tum quia respectu priorum seculorum computatur totum tempus nove legis pro una hora novissima, secundum illud Iohannis epistule prime sue capitulo secundo: “novissima hora est” (1 Jo, 2, 18).
Subdit etiam causam mediam ac deinde proximam, dicens: “et significavit”, scilicet Christus, id est revelavit vel per signa figuralia demonstravit, scilicet predicta, “mittens”, id est denuntians ea, “per angelum suum servo suo Iohanni”. […]
Ostensa igitur causa formali et effectiva et materiali, subdit de causa finali, que est beatitudo per doctrine huius libri intelligentiam et observantiam obtinenda. Unde subdit (Ap 1, 3): “Beatus qui legit” et cetera. Quantum ad ea que proprio visu vel per propriam investigationem addiscimus, dicit: “qui legit”; quantum vero ad ea que per auditum et alterius eruditionem addiscimus, dicit: “qui audit”. Primum etiam magis spectat ad litteratos vel ad doctores, qui aliis legunt et exponunt; secundum vero ad laicos vel auditores.
Quia vero ad salutem non sufficit solum addiscere vel scire, nisi serventur in affectu et opere, ideo subdit: “et servat ea”. Quedam enim ibi scribuntur ut a nobis agenda, quedam vero ut credenda et speranda vel metuenda, et sic omnia sunt a nobis servanda vel agendo illa vel credendo ea cum caritate et spe vel timore. Quod autem talis beatus sit, nunc in spe et merito et tandem cito in premio, ostendit subdens: “Tempus enim”, scilicet future retributionis, “prope est”, quasi dicat: observans cito remunerabitur, et non observans cito dampnabitur, et ideo quoad utrumque beatus est qui hec observat.

Convivio, I, ii, 12.14 (ed. a cura di Franca Brambilla Ageno, Firenze 1995 [Le opere di Dante Alighieri. Edizione Nazionale a cura della Società Dantesca Italiana]).
Veramente, al principale intendimento tornando, dico [che], come è toccato di sopra, per necessarie cagioni lo parlare di sé è conceduto: ed in tra l’altre necessarie cagioni due sono più manifeste. […] L’altra è quando, per ragionare di sé, grandissima utilitade ne segue altrui per via di dottrina; e questa ragione mosse Agustino nelle sue Confessioni a parlare di sé, ché per lo processo della sua vita, lo quale fu di [meno] buono in buono, e di buono in migliore, e di migliore in ottimo, ne diede essemplo e dottrina, la quale per [altro] sì vero testimonio ricevere non si potea.

Purg. XXXI, 133-145

“Volgi, Beatrice, volgi li occhi santi”,
era la sua canzone, “al tuo fedele
che, per vederti, ha mossi passi tanti!
Per grazia fa noi grazia che disvele
a lui la bocca tua, sì che discerna
la seconda bellezza che tu cele”.
O isplendor di viva luce etterna,
chi palido si fece sotto l’ombra
sì di Parnaso, o bevve in sua cisterna,
che non paresse aver la mente ingombra,
tentando a render te qual tu paresti
là dove armonizzando il ciel t’adombra,
quando ne l’aere aperto ti solvesti?

Par. III, 46-48

I’ fui nel mondo vergine sorella;
e se la mente tua ben sé riguarda,
non mi ti celerà l’esser più bella

Par. XXIX, 130-135

Questa natura sì oltre s’ingrada
in numero, che mai non fu loquela
né concetto mortal che tanto vada;
e se tu guardi quel che si revela
per Danïel, vedrai che ’n sue migliaia
determinato numero si cela.

Par. XXX, 34-36

Cotal qual io la lascio a maggior bando
che quel de la mia tuba, che deduce
l’ardüa sua matera terminando

Par. XVII, 127-128; XXV, 94-96

Ma nondimen, rimossa ogne menzogna,
tutta tua visïon fa manifesta

e ’l tuo fratello assai vie più digesta,
là dove tratta de le bianche stole,
questa revelazion ci manifesta.

Par. VII, 7-16

ed essa e l’altre mossero a sua danza,
e quasi velocissime faville
mi si velar di sùbita distanza.
Io dubitava e dicea ‘Dille, dille!’
fra me, ‘dille’ dicea, ‘a la mia donna
che mi diseta con le dolci stille’.
Ma quella reverenza che s’indonna
di tutto me, pur per Be e per ice,
mi richinava come l’uom ch’assonna.
Poco sofferse me cotal Beatrice ……

Par. XII, 80-81

oh madre sua veramente Giovanna,
se, interpretata, val come si dice!

 

Purg. XXX, 55-75, 136-138; XXXI, 1-6

Dante, perché Virgilio se ne vada,
non pianger anco, non piangere ancora;
ché pianger ti conven per altra spada”.
Quasi ammiraglio che in poppa e in prora
viene a veder la gente che ministra
per li altri legni, e a ben far l’incora;
in su la sponda del carro sinistra,
quando mi volsi al suon del nome mio,
che di necessità qui si registra,
vidi la donna che pria m’appario
velata sotto l’angelica festa,
drizzar li occhi ver’ me di qua dal rio.
Tutto che ’l vel che le scendea di testa,
cerchiato de le fronde di Minerva,
non la lasciasse parer manifesta,
regalmente ne l’atto ancor proterva
continüò come colui che dice
e ’l più caldo parlar dietro reserva:
“Guardaci ben! Ben son, ben son Beatrice.
Come degnasti d’accedere al monte?
non sapei tu che qui è l’uom felice?”. … … …
Tanto giù cadde, che tutti argomenti
a la salute sua eran già corti,
fuor che mostrarli le perdute genti.

“O tu che se’ di là dal fiume sacro”,
volgendo suo parlare a me per punta,
che pur per taglio m’era paruto acro,
ricominciò, seguendo sanza cunta,
“dì, dì se questo è vero; a tanta accusa
tua confession conviene esser congiunta”.

[LSA, cap. XXII, Ap 22, 10-12 (finalis conclusio totius libri)] Loquitur autem Christus primo ut contestator propinquitatis sui adventus ad iudicium, de quo paulo ante dixit angelus: “Tempus enim prope est” (Ap 22, 10). Et continuat se ad immediate premissum, ac si ironice contra malos dictum sit: “Qui nocet noceat”, quia “ecce venio cito” (Ap 22, 11-12), quasi dicat: in penam suam hoc faciet, quia ego cito veniam ad iudicandum. “Et merces mea mecum est, reddere unicuique secundum opera sua” (Ap 22, 12), id est bonis condigna premia et malis condigna supplicia. “Mea” dicit, quia merces ista est eius tamquam dantis, hominis vero est tamquam promerentis eam et recipientis. Dicit etiam “mecum”, quia causaliter seu per vim causalem est in ipso et quasi in manu eius; respectu etiam premii est in ipso substantia principalis obiecti.

Inf. X, 76; Purg. XXIX, 2; Par. V, 17-18

e sé continüando al primo detto

continuò col fin di sue parole

e sì com’ uom che suo parlar non spezza,
continüò così ’l processo santo

Purg. XXIII, 1-6

Mentre che li occhi per la fronda verde
ficcava ïo sì come far suole
chi dietro a li uccellin sua vita perde,
lo più che padre mi dicea: “Figliuole,
vienne oramai, ché ’l tempo che n’è imposto
più utilmente compartir si vuole”.

Inf. I, 91-93; XII, 85-87

“A te convien tenere altro vïaggio”,
rispuose, poi che lagrimar mi vide,
“se vuo’ campar d’esto loco selvaggio”

rispuose: “Ben è vivo, e sì soletto
mostrar li mi convien la valle buia;
necessità  ’l ci ’nduce, e non diletto.”

Inf. VII, 88-90

Le sue permutazion non hanno triegue:
necessità la fa esser veloce;
sì spesso vien chi vicenda consegue.

Par. XV, 37-48; XVII, 136-138

Indi, a udire e a veder giocondo,
giunse lo spirto al suo principio cose,
ch’io non lo ’ntesi, sì parlò profondo;
né per elezïon mi si nascose,
ma per necessità, ché ’l suo concetto
al segno d’i mortal si soprapuose.
E quando l’arco de l’ardente affetto
fu sì sfogato, che ’l parlar discese
inver’ lo segno del nostro intelletto,
la prima cosa che per me s’intese,
“Benedetto sia tu”, fu, “trino e uno,
che nel mio seme se’ tanto cortese!”.

Però ti son mostrate in queste rote,
nel monte e ne la valle dolorosa
pur l’anime che son di fama note

Par. XXX, 91-96, 103-105

Poi, come gente stata sotto larve,
che pare altro che prima, se si sveste
la sembianza non süa in che disparve,
così mi si cambiaro in maggior feste
li fiori e le faville, sì ch’io vidi
ambo le corti del ciel manifeste.

E’ si distende in circular figura,   3, 12
in tanto che la sua circunferenza
sarebbe al sol troppo larga cintura.

 Par. XVIII, 76-81, 88-90

sì dentro ai lumi sante creature
volitando cantavano, e faciensi
or D, or I, or L in sue figure.
Prima, cantando, a sua nota moviensi;
poi, diventando l’un di questi segni,
un poco s’arrestavano e taciensi.

Mostrarsi dunque in cinque volte sette
vocali e consonanti; e io notai
le parti sì, come mi parver dette.

Purg. I, 58-60, 64-66

Questi non vide mai l’ultima sera;
ma per la sua follia le fu sì presso,
che molto poco tempo a volger era.

Mostrata ho lui tutta la gente ria;
e ora intendo mostrar quelli spirti
che purgan sé sotto la tua balìa.

Par. I, 22-27

O divina virtù, se mi ti presti
tanto che l’ombra del beato regno
segnata nel mio capo io manifesti,
vedra’mi al piè del tuo diletto legno
venire, e coronarmi de le foglie
che la materia e tu mi farai degno.

Par. XXI, 118-120

Render solea quel chiostro a questi cieli
fertilemente; e ora è fatto vano,
sì che tosto convien che si riveli.

Par. XXXIII, 55-57

Da quinci innanzi il mio veder fu maggio
che ’l parlar mostra, ch’a tal vista cede, [*]
e cede la memoria a tanto oltraggio.

[*] Rispetto alla variante “che ’l parlar nostro” è da rilevare che vedere e mostrare sono verbi tipici dell’esegesi apocalittica: la rivelazione, o visione, vene mostrata a Giovanni “per signa figuralia” affinché la manifesti, come dice Cacciaguida a Dante (Par. XVII, 128).

Inf. XIV, 16-18

O vendetta di Dio, quanto tu dei
esser temuta
da ciascun che legge
ciò che fu manifesto a li occhi miei!

Inf. XV, 88-99

Ciò che narrate di mio corso scrivo,
e serbolo a chiosar con altro testo  22, 8-9
a donna che saprà, s’a lei arrivo.
Tanto vogl’ io che vi sia manifesto,
pur che mia coscïenza non mi garra,
ch’a la Fortuna, come vuol, son presto.
Non è nuova a li orecchi miei tal arra:
però giri Fortuna la sua rota
come le piace, e ’l villan la sua marra”.
Lo mio maestro allora in su la gota
destra si volse in dietro e riguardommi;
poi disse: “Bene ascolta chi la nota”.

Purg. III, 124-126, 142-144

Se ’l pastor di Cosenza, che a la caccia
di me fu messo per Clemente allora,
avesse in Dio ben letta questa faccia

Vedi oggimai se tu mi puoi far lieto,
revelando a la mia buona Costanza
come m’hai visto, e anco esto divieto

Par. X,  124-126

Per vedere ogne ben dentro vi gode
l’anima santa che ’l mondo fallace
fa manifesto a chi di lei ben ode.

Inf. VII, 94-96

ma ella s’è beata e ciò non ode:
con l’altre prime creature lieta
volve sua spera e beata si gode.

[LSA, cap. I, Ap 1, 3 (prohemium, titulus)] Ostensa igitur causa formali et effectiva et materiali, subdit de causa finali, que est beatitudo per doctrine huius libri intelligentiam et observantiam obtinenda. Unde subdit (Ap 1, 3): “Beatus qui legit” et cetera. Quantum ad ea que proprio visu vel per propriam investigationem addiscimus, dicit: “qui legit”; quantum vero ad ea que per auditum et alterius eruditionem addiscimus, dicit: “qui audit”. Primum etiam magis spectat ad litteratos vel ad doctores, qui aliis legunt et exponunt; secundum vero ad laicos vel auditores.
Quia vero ad salutem non sufficit solum addiscere vel scire, nisi serventur in affectu et opere, ideo subdit: “et servat ea”. Quedam enim ibi scribuntur ut a nobis agenda, quedam vero ut credenda et speranda vel metuenda, et sic omnia sunt a nobis servanda vel agendo illa vel credendo ea cum caritate et spe vel timore. Quod autem talis beatus sit, nunc in spe et merito et tandem cito in premio, ostendit subdens: “Tempus enim”, scilicet future retributionis, “prope est”, quasi dicat: observans cito remunerabitur, et non observans cito dampnabitur, et ideo quoad utrumque beatus est qui hec observat.

[LSA, cap. I, Ap 3, 3-4 (Ia visio, Va ecclesia)] “In mente ergo habe” (Ap 3, 3), id est attente recogita, “qualiter acceperis”, scilicet a Deo priorem gratiam, “et audieris”, ab homine scilicet per predicationem evangelicam, “et serva”, scilicet illa que per predicationem audisti et per influxum gratie a Deo primitus accepisti. Vel recogita qualiter per proprium consensum accepisti fidem et gratiam et statum eius, prout a me et a ceteris tibi predicantibus audivisti. “Et serva” ea “et penitentiam age”, scilicet de tuis malis, quasi dicat: si digne recogitaveris gratiam tibi prius impensam et qualiter prius accepisti eandem, servabis eam et penitentiam ages.
Innuit etiam per hoc quod sic fuit otiosus et torpens, quod in mente non habuit qualiter acceperit et audierit statum et gratiam sue perfectionis, et quod ideo sic corruit. Que quidem nimis correspondenter patent in hoc cursu novissimo quinti temporis ecclesiastici. […]
Deinde a predicto defectu excipit quosdam illius ecclesie, subdens: “Sed habes pauca nomina in Sardis” (Ap 3, 4). Nomina sumit pro personis quarum nomina sunt. Per nomina etiam intelligit personas merito sue sanctitatis notas Christo. Item proprium donum gratie, quod unusquisque accepit, dat cuique viro quasi proprium nomen ut cognoscatur ex nomine. Caritas autem Dei, in quantum communis omnibus bonis, dat commune nomen sanctis ut vocentur cives Iherusalem.

Inf. IX, 4

Attento si fermò com’ uom ch’ascolta

Inf. X, 97-99, 121-132

El par che voi veggiate, se ben odo,
dinanzi quel che ’l tempo seco adduce,
e nel presente tenete altro modo.

Indi s’ascose; e io inver’ l’antico
poeta volsi i passi, ripensando
a quel parlar che mi parea nemico.
Elli si mosse; e poi, così andando,
mi disse: “Perché se’ tu sì smarrito?”.
E io li sodisfeci al suo dimando.
La mente tua conservi quel chudito
hai contra te”, mi comandò quel saggio;
“e ora attendi qui”, e drizzò ’l dito:
“quando sarai dinanzi al dolce raggio
di quella il cui bell’ occhio tutto vede,
da lei saprai di tua vita il vïaggio”.

Inf. XVI, 58-60

Di vostra terra sono, e sempre mai
l’ovra di voi e li onorati nomi
con affezion  ritrassi e ascoltai.

Par. XXXIII, 34-36

Ancor ti priego, regina, che puoi
ciò che tu vuoli, che conservi sani,
dopo tanto veder, li affetti  suoi.

Purg. VI, 93

se bene intendi ciò che Dio ti nota

Purg. XXV, 34-36

Poi cominciò: “Se le parole mie,
figlio, la mente tua guarda e riceve,
lume ti fiero al come che tu die.”

Par. III, 46-48, 58-63

I’ fui nel mondo vergine sorella;
e se la mente tua ben riguarda,
non mi ti celerà l’esser più bella

Ond’ io a lei: “Ne’ mirabili aspetti
vostri risplende non so che divino
che vi trasmuta da’ primi concetti:
però non fui a rimembrar festino;
ma or m’aiuta ciò che tu mi dici,
sì che raffigurar m’è più latino.”

Par. V, 40-42

Apri la mente a quel ch’io ti paleso
e fermalvi entro; ché non fa scïenza,
sanza lo ritenere, avere inteso.

Par. XIII, 1-3

Imagini, chi bene intender cupe
quel ch’i’ or vidi – e ritegna l’image,
mentre ch’io dico, come ferma rupe –

Par. XXIX, 130-135

Questa natura sì oltre s’ingrada
in numero, che mai non fu loquela
né concetto mortal che tanto vada;
e se tu guardi quel che si revela
per Danïel, vedrai che ’n sue migliaia
determinato numero si cela

[LSA, cap. I, Ap 1, 1 (prohemium, titulus)] Nota etiam quod potius dicit revelatio quam visio, quia magis significat donum et gratiam revelantis et archanam occultationem eius, nisi dono Dei eius velamen auferatur  seu aperiatur.
Nota etiam quod hoc nomen grecum, scilicet “apocalipsis”, remansit hic non interpretatum latine in signum singularis arduitatis et reverentie huius revelationis, sicut ‘amen’ et ‘alleluia’ non sunt apud nos ex hebreo in latinum interpretata in signum sacre reverentie eorum.
Tangit etiam causam efficientem quadruplicem. Principalis enim est Deus, secundaria Christus in quantum homo, media vero angelus, proxima vero Iohannes. Et ideo dicit quod est “apocalipsis Ihesu Christi” (Ap 1, 1), id est a Ihesu Christo facta, “quam dedit illi Deus”, scilicet Pater et tota Trinitas; “dedit”, inquam, non solum ut eam sciret, sed etiam “palam facere”, id est ad manifestandum, “servis suis que oportet fieri cito”.

[LSA, cap. IX, Ap 9, 16-17 (IIIa visio, VIa tuba)] Nota quod cum in signum maioris certitudinis voluit dicere quod predictum numerum equitum et equorum percepit tam per auditum angelice vocis quam per visum imaginum equorum et equitum sibi in visione per angelum monstratorum, nichilominus usitato more scripture appropriat auditum numero equitum, visum vero numero equorum. In quo et innuit apprehensionem equitum esse subtiliorem et secretiorem quam apprehensionem equorum; auditu enim percipimus multa intelligibilia que nequeunt a nobis visibiliter sentiri et palpari.

[LSA, cap. I, Ap 1, 9 (premittit septem generales et laudabiles circumstantias visionum sequentium)] Secunda circumstantia est idoneitas loci, unde subdit: “Fui in insula que appellatur Patmos”. Ecce quod locus erat divinis contemplationibus et visionibus aptus, tamquam remotus et quietus et secretus ac deliciis et divitiis carnalibus vacuus. Est autem Patmos insula Grecie et interpretatur separati hostes, vel separatio palpantium, et congruit huic misterio quia in excessu contemplationis sunt hostes spiritus et palpantes, id est sensuales et carnales, separati. Secundum Papiam autem interpretatur fretum vel vorago, quia fervor et vorago persecutionum multum confert ad sublevationem spiritus in divina.

Inf. XXXIV, 127-129

Luogo è là giù da Belzebù remoto
tanto quanto la tomba si distende,
che non per vista, ma per suono è noto 

Purg. XVI, 34-36

“Io ti seguiterò quanto mi lece”,
rispuose; “e se veder  fummo non lascia,
l’udir  ci terrà giunti in quella vece”.

 

 

 

 

 

Purg. XXIII, 37-48, 61-63, 112-114

Già era in ammirar che sì li affama,
per la cagione ancor non manifesta
di lor magrezza e di lor trista squama,
ed ecco del profondo de la testa
volse a me li occhi un’ombra e guardò fiso;
poi gridò forte: “Qual grazia  m’è questa?”.
Mai non  l’avrei riconosciuto al viso;
ma ne la voce sua mi fu palese
ciò che l’aspetto in sé avea conquiso.
Questa favilla tutta mi raccese
mia conoscenza a la cangiata labbia,
e ravvisai la faccia di Forese.

Ed elli a me: “De l’etterno consiglio
cade vertù ne l’acqua e ne la pianta
rimasa dietro, ond’ io sì m’assottiglio.”

Deh, frate, or fa che più non mi ti celi !
vedi che non pur io, ma questa gente
tutta rimira là dove ’l sol veli.

[LSA, cap. I, Ap 1, 1-2 (prohemium, titulus)] Nota etiam quod ex hoc quod dicit eam sibi esse datam “palam facere”, docet duo. Primum est quod multa dantur et revelantur non ad ali[is] revelandum nec cum auctoritate propalandi ea, immo cum precepto vel debito ea secrete servandi.
Secundum est quod illa que hic revelantur sunt sic archana et incomprehensibilia, quod ex singulari gratia datum et concessum est Christo a Deo quod ipse propalaret ea suis. Nota etiam quod dicit “servis suis”, quasi dicat: non est datum ea revelare superbis Phariseis, nec incredulis Iudeis, nec perversis christianis. Non enim debent sancta canibus dari vel porcis (cfr. Mt 7, 6).
Subditur etiam fide dignitas persone Iohannis, ut sibi facilius et firmius credatur. Unde ait (Ap 1, 2): “Qui testimonium perhibuit verbo Dei”, id est deitati et eterne generationi Filii Dei, “et testimonium Ihesu Christi”, scilicet quoad eius humanitatem, testificando scilicet “quecumque vidit”, scilicet de Christo. Et hoc sive visu corporali sive spirituali. Oculis enim carnis “vidit” opera corporalia et miracula Christi, oculis vero contemplationis mentalis “vidit”, id est intellexit, deitatem eius, quasi dicat: illi et per illum sunt hec revelata, qui tamquam Christi apostolus per evidentiam facti ecclesiis, quibus scribit, expertam et notam fideliter predicavit veritatem utriusque nature Christi, divine scilicet et humane, ac gestorum vite et doctrine Christi.

Inf. II, 31-33; III, 72-75

Ma io, perché venirvi? o chi ’l concede?
Io non Enëa, io non Paulo sono;
me degno a ciò né io né altri ’l crede.

per ch’io dissi: “Maestro, or mi concedi
ch’i’ sappia quali sono, e qual costume
le fa di trapassar parer sì pronte,
com’ i’ discerno per lo fioco lume”.

Inf. V, 118-120

Ma dimmi: al tempo d’i dolci sospiri,
a che e come concedette amore
che conosceste i dubbiosi disiri?

Inf. XXIX, 11-12

lo tempo è poco omai che n’è concesso,
e altro è da veder che tu non vedi.

Par. XVI, 142-147

Molti sarebber lieti, che son tristi,
se Dio t’avesse conceduto ad Ema
la prima volta ch’a città venisti.
Ma conveniesi, a quella pietra scema
che guarda ’l ponte, che Fiorenza fesse
vittima ne la sua pace postrema.

[Ap 1, 1] In quo tangit causam materialem, quia est de futuris que non ex absoluta necessitate, sed respectu infallibilitatis divine prescientie et respectu utilitatis ac necessitatis ecclesie et respectu iustitie Dei retributive et respectu malitie reproborum, “oportet fieri”.

Par. XXI, 52-54

E io incominciai: “La mia mercede
non mi fa degno de la tua risposta;
ma per colei che ’l chieder mi concede  …”.

Par. V, 109-120

Pensa, lettor, se quel che qui s’inizia
non procedesse, come tu avresti
di più savere angosciosa carizia;
e per te vederai come da questi
m’era in disio d’udir lor condizioni,
sì come a li occhi mi fur manifesti.
“O bene nato a cui veder li troni
del trïunfo etternal concede grazia
prima che la milizia s’abbandoni,
del lume che per tutto il ciel si spazia
noi semo accesi; e però, se disii
di noi chiarirti, a tuo piacer ti sazia”.

[LSA, cap. VII, Ap 7, 8 (IIa visio, apertio VIi sigilli)] Post hoc autem duodecimo ascenditur ad extaticam contemplationem et pacem que exsuperat omnem sensum, per quam quidem tota mens moritur sibi ipsi et huic vite ut transeat ad dexteram Dei, et hec designatur per Beniamin, qui in Psalmo dicitur “adol[es]centulus in mentis excessu” (Ps 67, 28), et qui interpretatur filius dextere dictusque est primo a matre Bennoni, id est filius doloris, quia in partu eius obiit pro dolore (cfr. Gn 35, 18).

Purg. III, 73-75; V, 58-63

“O ben finiti, o già spiriti eletti”,
Virgilio incomiciò, “per quella pace
ch’i’ credo che per voi tutti s’aspetti …”.

E io: “Perché ne’ vostri visi guati,
non riconosco alcun; ma s’a voi piace
cosa ch’io possa, spiriti ben nati,
voi dite, e io farò per quella pace
che, dietro a’ piedi di sì fatta guida,
di mondo in mondo cercar mi si face”.

Par. XXV, 55-57

però li è conceduto che d’Egitto
vegna in Ierusalemme per vedere,
anzi che ’l militar li sia prescritto.

[LSA, cap. I, Ap 1, 19 (Ia visio)] “Scribe ergo que vidisti” (Ap 1, 19). Hec est tertia pars visionis, in qua ponitur visio Christi mandantis Iohanni quod scribat et mittat ecclesiis totam hanc visionem, specificans duo ex scribendis, ibi: “Misterium septem stellarum”, et exponens illa ibi: “Septem stelle” et cetera (Ap 1, 20).
Dicit igitur: “Scribe ergo”, tamquam concludens ex premissis quod fiducialiter et indubitanter debet scribere, et etiam tamquam obligatus obedire preceptori tante auctoritatis et potestatis.
Subdit autem tria scribenda.
Quorum primum respicit tempus preteritum, scilicet “que vidisti”, puta misterium incarnationis et predicationis ac passionis et resurrectionis et universalis principatus Christi et consimilia.
Secundum vero respicit presens tempus, scilicet “que sunt”.
Tertium vero respicit futurum tempus, scilicet “et que oportet fieri post hec”. Illa enim, que ab initio conceptus et ortus Christi usque ad illud tempus Iohannis precesserant, describuntur quasi sub prima parte visionis huius libri, ac deinde presentia et fienda usque ad finem seculi.
Signanter autem ponit hic tria tempora sicut et supra, cum ait: “qui est et qui erat et qui venturus est” (Ap 1, 4), quia perfecta contemplatio operum Dei et Dei in suis operibus exigit speculationem preteritorum, presentium et futurorum.
Item signanter dicit “que oportet fieri” (Ap 1, 19), tum ut monstret quod liber iste non est de futuris inutilibus aut preter necessariis aut propter suam contingentiam fallibilibus seu a suo eventu frustrandis, sed de valde expedientibus et necessariis ecclesie Dei et de infallibilibus. Nota etiam ex hoc patere librum istum tractare de fiendis ab initio Christi et ecclesie usque ad finem mundi, et hoc ipsum patet ex hoc quod supra in titulo dixit, quod est de hiis “que oportet fieri cito” (Ap 1, 1), et etiam ex hoc quod Christum introdu[x]it ut “alpha et o”, id est ut principium et finem (Ap 1, 8).

[Ap 1, 1] In quo tangit causam materialem, quia est de futuris que non ex absoluta necessitate, sed respectu infallibilitatis divine prescientie et respectu utilitatis ac necessitatis ecclesie et respectu iustitie Dei retributive et respectu malitie reproborum, “oportet fieri”.

[LSA, cap. I, Ap 1, 11 (premittit septem generales et laudabiles circumstantias visionum sequentium)] “Quod vides” (Ap 1, 11), id est quod visurus es et videre iam cepisti, “scribe in libro”, id est fac inde librum sollempnem, “et mitte septem ecclesiis”. Secundum correctores peritos “que sunt in Asia” non est hic de textu, sed subintelligitur ex hoc quod positum fuit supra. Specificat autem nomina ecclesiarum dicens: “Ephesum”, id est ad Ephesum, et est sicut dicimus ‘vado Romam’. Nota quod per has septem designatur universalis ecclesia non solum propter septem status sepius memoratos, sed etiam propter septiformem spiritum quo tota ecclesia sanctificatur.

[LSA, cap. XXI, Ap 21, 5 (VIIa visio)] Quia etiam hec sunt ad credendum arduissima et tamen necessarissima, ideo pro eorum firma et indubitabili fide dignitate subditur (Ap 21, 5): “Et dixit michi: Scribe”, scilicet hec in libro autentico, “quia hec verba fidelissima sunt et vera”, quasi dicat: non solum verbo, sed etiam scripto autentico et diu duraturo hec ex mea auctoritate imprime et confirma in cordibus discipulorum.

Purg. XXXII, 103-105; XXXIII, 55-57

Però, in pro del mondo che mal vive,
al carro tieni or li occhi, e quel che vedi,
ritornato di là, fa che tu scrive.

E aggi a mente, quando tu le scrivi,
di non celar qual hai vista la pianta
ch’è or due volte dirubata quivi.

Par. XVII, 37-42, 127-128

La contingenza, che fuor del quaderno
de la vostra matera non si stende,
tutta è dipinta nel cospetto etterno;
necessità però quindi non prende
se non come dal viso in che si specchia
nave che per torrente giù discende.

Ma nondimen, rimossa ogne menzogna,
tutta tua visïon fa manifesta

8. Alleluia

L’esegesi di Ap 19, 1 tratta del festivo giubilo che segue la dannazione della nuova Babilonia; è particolarmente importante sotto l’aspetto della conversione finale dei Gentili e d’Israele i quali, rinnovando la festività delle Palme, entreranno in Cristo “in spiritu magno et alto”. Più avanti, ad Ap 19, 17-18, si tratta dello spirituale e serotino convivio al quale inviterà Elia (“Et vidi unum angelum stantem in sole”), passo fondamentale nella salita al cielo descritta nel primo canto del Paradiso.
Beatrice racchiude in sé tre nomi i quali, in segno di reverenza, non possono essere tradotti. Il primo è il greco “apocalisse” (che significa ‘rivelazione’): appartiene alla donna di Dante nel suo disvelarsi nell’Eden, insieme a tutti gli elementi semantici e concettuali che accompagnano, nei primi tre versetti del libro sacro, il termine apocalipis. Il nome della donna coincide anche con la causa finale del libro (la “beatitudo”).
Gli altri due nomi sono ebraici: “alleluia” (che significa ‘lodare Dio’, come detto ad Ap 19, 1: “Quod est hebreum et est idem quod laudare Deum”) e “amen” (che significa ‘veramente’, come ad Ap 19, 4: «“Amen, alleluia”, id est vere est Deus ineffabiliter laudandus») [67]. Lucia così le si rivolge nell’Empireo per muoverla a salvare l’amico: “Beatrice, loda di Dio vera” (Inf. II, 103), dicendo tre parole non interpretate, cioè non traducibili in segno di reverenza: ‘apocalipsis, alleluia, amen’. Beatrice è colei che nell’Empireo canta “alleluia”, come dice Virgilio a Chirone (Inf. XII, 88).
Da notare la rima in –uia a Par. IX, 73 (“Dio vede tutto, e tuo veder s’inluia”), nel rivolgersi di Dante a Folchetto di Marsiglia, spirito amante non ancora manifestatosi. ‘Inluiarsi’ è neologismo dantesco, e significa letteralmente ‘penetrare in Dio’. Ma l’alta retorica che sempre fascia i versi richiama “alleluia”, che secondo san Girolamo è uno dei nomi di Dio (ia), nel senso che il vedere dei beati si accompagna alla lode ineffabile. Di rilievo è anche l’esplicito riferimento al letiziar, per cui “là sù fulgor s’acquista” (ibid., 70). La lunghezza (il vedere), la larghezza (il gaudio) e l’altezza (la lode) sono le misure, perfettamente uguali fra loro, della città celeste [68].
Dice Adamo che “I s’appellava in terra il sommo bene / onde vien la letizia che mi fascia”: questo prima che, con la sua morte, scendesse al Limbo (“a l’infernale ambascia”). Poi – continua il progenitore – gli uomini diedero a Dio un altro nome, El, “e ciò convene, / ché l’uso d’i mortali è come fronda / in ramo, che sen va e altra vene” (Par. XXVI, 133-138). Questo variare dell’umano artificio, che la natura lascia agli uomini, è espresso da Adamo attraverso il tema della bellezza (“secondo che v’abbella”, ibid., 130-132), un tema proprio del quinto stato nel suo bell’inizio ripieno dei doni dello Spirito: il quinto stato è per eccellenza quello della vita associata [69].
La presenza della letizia nelle parole di Adamo sembra ricondurre il nome I  non a un numero (l’unità di Dio), né genericamente a un nome di massima semplicità, bensì a Ia  (I consonantica, pronunciata Ia[70], cioè ad alleluia, nome che esprime l’ineffabilità di Dio e, dal punto di vista dell’uomo, la lode tributatagli. Tale è nell’esegesi di Ap 19, 1, dove sono citati Girolamo e Agostino [71]. Il primo nome di Dio fu dunque di ineffabile lode, espresso anche da Beatrice, “loda di Dio”.

[LSA, cap. XIX, Ap 19, 1 (VIa visio)] Pro primo dicit: “Post hoc”, id est post dampnationem Babilonis, “audivi vocem magnam quasi tubarum multarum in celo dicentium: Alleluia” (Ap 19, 1). Quot sancti erunt tunc tot erunt et tube, que per Spiritus Sancti vehementem flatum ex intimis visceribus usque ad celum et in totum orbem divinas iubilationes et laudes altissime et effusive resonabunt. Et quia magna multitudo Iudeorum et gentium, et Grecorum et Latinorum, tunc intrabit ad Christum in spiritu magno et alto, ideo tunc multe erunt tube magnis vocibus spiritalium intellectuum et affectuum resonantes, sicut et in huius typum sexta hebdomada quadragesim[e] sextoque die ante passionem Domini celebratur annuatim sollempnitas palmarum, in qua a multis populis glorificatus est Christus. Turbe enim que precedunt designant Grecos et que sequuntur Latinos; que autem occurrunt ad descensum montis Olivarum Iudeos, inter quos sunt et pueri Hebreorum. Igitur hii omnes cantabant “Osanna filio David” et ‘gloria, laus et honor tibi sit, rex Christe redemptor’ (cfr. Mt 21, 9-15).
Quia etiam spiritalis intellectus tertii generalis status tunc clarissime aperietur, et cum ipso omnes ceteri, idcirco procedet tunc de tubis diversarum ystoriarum seu figurarum et innumerabilium misteriorum concorditer et admirabiliter resonantium et sanctorum corda suscitantium ad ineffabilem Dei laudem, que hic designatur per “alleluia”. Quod est hebreum et est idem quod laudare Deum. Nam, secundum Ieronimum, ia est in hebreo [unum] de decem nominibus Dei, cantaturque communiter in ecclesia cum grandi melodia et neupmate ad designandum illum ineffabilem iubilum laudis Dei qui verbis exprimi non potest. Unde, secundum Augustinum, ‘alleluia’ et ‘amenpropter sui reverentiam remanserunt intranslata. Unde, secundum Ricardum, quia “alleluiaignotum est, addit quod notum est dicens: “laus et gloria et virtus Deo nostro”, scilicet est vel sit et reddatur seu ascribatur a nobis. “Laus” dicitur in respectu ad nos a quibus est laudandus; “gloria” vero designat essentialem et immensam beatitudinem eius suis sanctis tunc singulariter inclarescentem; “virtus” vero est eius omnipotentia per quam deiecit Babilonem et mirabiliter exaltavit electos.

[LSA, cap. XIX, Ap 19, 4] Deinde ostendit quomodo communi laudi sanctorum correspondebit laus prelatorum presidentium collegiis sanctorum. Unde subdit (Ap 19, 4): “Et viginti quattuor seniores et quattuor animalia ceciderunt et adoraverunt Deum sedentem super tronum dicentes: Amen, alleluia”, id est vere est Deus ineffabiliter laudandus. Dicendo enim “amen” confirmant laudem communitatis suorum subditorum, et post hoc addunt et ipsi suam laudem […].

Par. IX, 70-75

Per letiziar  là sù fulgor s’acquista,
sì come riso qui; ma giù s’abbuia
l’ombra di fuor, come la mente è trista.
“Dio vede tutto, e tuo veder s’inluia”,
diss’ io, “beato spirto, sì che nulla
voglia di sé a te puot’ esser fuia.”

Inf. II, 103-105

Disse: – Beatrice, loda di Dio vera,
ché non soccorri quei che t’amò tanto,
ch’uscì per te de la volgare schiera?

Inf. XII, 88-90

Tal si partì da cantare  alleluia
che mi commise quest’ officio novo:
non è ladron, né io anima fuia.

Par. XXVI, 133-138

Pria ch’i’ scendessi a l’infernale ambascia
I <a> s’appellava in terra il sommo bene
onde vien la letizia che mi fascia;
e El  si chiamò poi: e ciò convene,
ché l’uso d’i mortali è come fronda
in ramo, che sen va e altra vene.

 

9. Conclusioni

Se don Chisciotte voleva affidare al Sant’Uffizio la scimmia eterodossa di mastro Pietro, per esaminarla, nessuno poté condannare compiutamente la Commedia, nonostante il bando dei Domenicani del Capitolo provinciale (della Provincia romana) di Firenze, intervenuto nel 1335. Eppure la Commedia era stata concepita e scritta per intero su un libro che, già censurato in Curia almeno dal 1317-18, a meno di cinque anni dalla morte di Dante sarebbe stato condannato in un concistoro pubblico da Giovanni XXII “tamquam continentem pestiferum et hereticum dogma contra unitatem Ecclesie catholice et potestatem summi pontificis romani”, come testimoniato dall’inquisitore domenicano Bernard Gui (8 febbraio 1326). Già allora nessuno poteva più comprendere il linguaggio interiore della Commedia; il pubblico al quale era destinato non si era formato; il libro-vessillo degli Spirituali veniva condannato e letto solo di nascosto. Il “poema sacro”, che per l’autore era stato il manifestare una vera visione, fu interpretato come finzione letteraria, e tale è rimasto fino ai giorni nostri.

Si registra qui di seguito lo stato della ricerca (31 dicembre 2016) [72].

L’accostamento della Commedia alla Lectura super Apocalipsim non è nuovo, da Ernesto Buonaiuti [73] a Raoul Manselli [74] a Ovidio Capitani [75], ma si trattava di vicinanza di idee e toccava solo alcuni punti della Commedia. La nuova scoperta, avvenuta nel corso di una ricerca ventennale, sta nel fatto che si tratta di un rapporto tecnico; esso riguarda tutto il poema per ognuno dei 14233 endecasillabi, nei quali i concetti teologici vengono incardinati e trasformati. Questa straordinaria metamorfosi testuale si fonda su precise e verificabili norme, già più volte indicate e che qui vengono riproposte.

a) Gruppi di parole ravvicinate presenti nella Lectura super Apocalipsim si ritrovano, con parole altrettanto ravvicinate, ma liberamente collocate nelle forme più varie, nella Commedia, quasi fili tratti da altro ordito e, intrecciati con altri, tessuti in uno nuovo. Il fenomeno risulta troppo diffuso perché sia casuale. Non si tratta di parole isolate, ma collocate in una rosa entro spazi testuali ristretti; gli accostamenti non sono banali o scontati. Non c’è calco o riscrittura; il travaso non è di frasi – e non potrebbe esserlo dalla prosa alla poesia – ma di elementi semantici che sono segnali, in un’alta retorica del significante. La compresenza risulta evidente per quanto, nel lessico della Commedia, proviene dal latino, si tratti di latinismi o di termini già entrati nell’uso fiorentino. Ma anche le voci fiorentine di ogni strato sociale, o quelle tratte da altri dialetti della penisola, i gallicismi, gli arabismi, i neologismi concordano con l’esegesi apocalittica, talora anche per somiglianza fonica, circondati da segnali che sollecitano il lettore verso l’altro testo.
A dimostrazione della costanza di questa norma, altrove è stato registrato (in un centinaio di esempi) come, a partire da singole parole, nello stesso verso o nei versi immediatamente circostanti se ne registrano altre che si riferiscono al medesimo luogo dell’esegesi apocalittica (non al solo testo dell’Apocalisse, ma a questo e alla sua esegesi).

b) Un medesimo luogo della Lectura conduce, tramite la compresenza delle parole, a più luoghi della Commedia. Ciò significa che la medesima esegesi di un passo dell’Apocalisse è stata utilizzata in momenti diversi della stesura del poema.
A dimostrazione si vedano, ad esempio, i numerosi rinvii dai versi al passo sulla signatio (Ap 7, 3-4).

c) Più luoghi della Lectura possono essere collazionati tra loro, secondo un procedimento analogico tipico delle distinctiones ad uso dei predicatori. La scelta non è arbitraria. Vi predispone lo stesso testo scritturale, poiché l’Apocalisse contiene espressioni, come Leitmotive, che ritornano più volte. È determinata da parole-chiave che collegano i passi da collazionare. È suggerita dallo stesso Olivi, nel prologo, per una migliore intelligenza del testo. L’introduzione di categorie estranee di per sé al testo sacro – la divisione della storia della Chiesa in sette ‘stati’, ciascuno dei quali raccolga l’esegesi dei singoli elementi settenari in cui sono divise le visioni apocalittiche – fa sì che un commento sui ventidue capitoli dell’Apocalisse si trasformi in una teologia della storia. La mutua collatio di parti della Lectura arricchisce il significato legato alle parole e consente uno sviluppo tematico.
L’Apocalisse si articola in sette visioni: le sette chiese d’Asia, i sette sigilli, le sette trombe, la donna vestita di sole (le sette guerre sostenute dalla Chiesa), le sette coppe, il giudizio di Babylon nelle sette teste del drago, la Gerusalemme celeste. Le prime sei visioni possono essere a loro volta divise in sette momenti, ciascuno dei quali riferibile a uno dei sette stati. Assembrando, per le prime sei visioni, tutti i primi elementi (chiesa, sigillo, tromba, guerra, coppa, momento del giudizio di Babylon), tutti i secondi, i terzi e cosí di seguito, si ottengono sette gruppi di materia teologica, corrispondenti al complesso dei temi afferenti a ciascuno dei sette stati. A questi sette gruppi se ne aggiungono altri due: l’esegesi della settima visione (senza articolazioni interne) e l’esegesi di capitoli del testo scritturale, o di parti di essi, introduttivi delle successive specificazioni delle singole visioni per settenari, che l’Olivi definisce “radicalia” o “fontalia”. Si ottengono in tal modo nove gruppi: le parti proemiali, i sette assembramenti di settenari e la settima visione. Il grande prologo della Lectura, articolato in tredici notabilia, può essere anch’esso riaggregato secondo i sette stati.
Il principio è chiaramente affermato nel notabile VIII del prologo:

“[…] si omnia prima membra visionum ad invicem conferas et consimiliter omnia secunda et sic de aliis, aperte videbis omnia prima ad idem primum concorditer referri et consimiliter omnia secunda ad idem secundum et sic de aliis. Et hoc in tantum quod plena intelligentia eiusdem primi multum clarificatur ex mutua collatione omnium primorum, et idem est de omnibus secundis et tertiis et sic de aliis” (Par. lat. 713, ff. 12vb-13ra).

Un libro (la Lectura) contiene dunque, nel prologo, princìpi e criteri affinché l’accorto lettore possa trarne un altro libro, fatto con lo stesso materiale ma ricomposto e distribuito in forma diversa. Questa forma organizzatoria, proposta in contemporanea agli scritti di Raimondo Lullo, era certamente uno strumento mnemonico: i sette stati possono essere infatti assimilati agli innumerevoli settenari della storia sacra. In tal modo l’esegesi dell’ultimo libro canonico si trasforma in una teologia della storia, che comprende per settenari tutta la Scrittura, la quale a sua volta è forma, esempio e fine di ogni scienza:

“Si enim omnes septenarios in scripturis positos coaptes ad septenarios huius libri, innumerabilia misteria tibi clarescent, si diligenter attenderis ipsorum parilem concordiam et consignificantiam […]” (LSA, prologo, notabile XIII; Par. lat. 713, f. 20vb); “Ipsa [Scriptura] enim est principium omnis scientiae et comprehensiva omnis scientiae et forma seu exemplar omnis scientiae et finis omnis scientiae” [cfr. De causis Scripturae § 4, in Peter of John Olivi On the Bible. Principia quinque in Sacram Scripturam …, ed. D. Flood – G. Gál (Franciscan Institute Publications, Text Series, 18), New York 1997, 44].

Se la tradizione manoscritta non ci ha trasmesso alcun testimone contenente un’organizzazione per stati del testo della Lectura super Apocalipsim, questa forma è però attestata da fonti inquisitoriali. Nel 1318 due teologi – il carmelitano Guido Terreni e il domenicano Pietro de Palude – inviarono al papa Giovanni XXII un memoriale contenente quarantadue articoli erronei estratti da un compendio in catalano della Lectura dell’Olivi intitolato De statibus Ecclesiae secundum expositionem Apocalypsis [cfr. J. M. Pou y Martí, Visionarios, Beguinos y Fraticelos catalanes (Siglos XIII-XV), Vich 1930, pp. 255-258, 483-512]. Il medesimo titolo reca una versione (Venetiis 1516, 1525) del quinto libro dell’Arbor vitae di Ubertino da Casale, libro che è una riscrittura del commento dell’Olivi (“incipit tractatus de septem statibus ecclesie iuxta septem visiones beati Johannis in Apocalypsi ”). Esistevano inoltre compendi della Lectura (come il ms. Siena, Biblioteca comunale, F.IV.11, ff. 35v-76v), e anche volgarizzamenti parziali (un esempio dovrebbe essere pubblicato sulla rivista “oliviana”  – [http://oliviana.revues.org/]  – da Caterina Menichetti).
Non è d’altronde operazione molto complessa quella di scomporre analogicamente la Lectura secondo gli status (cfr. Il terzo stato, La settima visione) e con parole-chiave (si veda, ad esempio, il caso della parola “terremotus”).

d) L’intenso travaso semantico dalla Lectura nella Commedia si accompagna a un fatto strutturale. La Commedia mostra un ordine interno diverso da quello che appare al lettore: il viaggio di Dante ha un andamento di ciclici settenari, che corrispondono ai sette stati della storia della Chiesa, cioè alle categorie con cui l’Olivi organizza la materia esegetica. È un ordine registrabile per zone progressive del poema dove prevale la semantica riferibile a un singolo stato, ordine dirompente i confini letterali stabiliti dai canti e da tutte le divisioni materiali per cerchi, gironi, cieli. Ogni stato, che ha differenti inizi, è concatenato per concurrentia, come le maglie di un’armatura, con quello che precede e con quello che segue. Ciascuno stato ha in sé una grande ricchezza di motivi e contiene inoltre temi di tutti gli altri stati, consentendo innumerevoli intrecci e variazioni.
Si possono in tal modo redigere mappe che comprendano l’ordine spirituale della Commedia. La ricerca, collocata su un sito per sfruttare gli spazi offerti dalla rete, è pervenuta a una Topografia spirituale della Commedia, dove per quasi ogni verso, o gruppo di versi, collegamenti ipertestuali conducono al “panno” esegetico fornito dalla Lectura super Apocalipsim, sul quale il “buon sartore” ha fatto “la gonna”, per usare la similitudine proposta da san Bernardo nell’Empireo.

Il grado di certezza offerto dal confronto testuale, simile a quello che si registra nelle scienze della natura, consente ora allo storico di riflettere sulle cause di un legame così intenso ed esteso. Esso presuppone un messaggio, cioè un rapporto con un pubblico.
Si può in principio pensare che il messaggio in realtà non sia mai esistito, e ricordare quanto affermò Singleton nell’annunciare la scoperta del numero sette come numero centrale della Commedia, rivelatore di una mirabile struttura nascosta ancora tutta da decifrare. Come nella cattedrale di Chartres gli scalpellini lasciarono bellissimi fregi a grande altezza, dove occhio umano non sarebbe potuto arrivare, così l’ordine e l’intelligenza del poema non furono concepiti solo per la vista degli uomini: “quel disegno, qualunque fosse il suo posto nella struttura, l’avrebbe veduto Colui che tutto vede, Colui che ha creato il mondo con meraviglioso ordine, in pondere, numero, mensura; e l’avrebbe certo guardato come prova che l’architetto umano aveva imitato l’universo che Egli, divino architetto, aveva creato innanzi tutto per la propria contemplazione, e poi, per la contemplazione degli angeli e degli uomini” [76]. Quel disegno però qualche umano l’ha visto e registrato, anche se dopo un silenzio di sette secoli.
Premesso dunque che Dante non ha lavorato tanto sulla Lectura super Apocalipsim solo per il Primo lettore del suo “poema sacro”, non restano, al momento, che due risposte al problema.
Una prima risposta può essere, per così dire, di carattere tecnico. La persistenza di un “panno” – cioè di un altro testo da cui trarre i significati spirituali del poema, materialmente elaborati attraverso le parole – serve a mantenere l’unità e la coerenza interna dell’ordito della “gonna” (cfr. Par. XXXII, 140-141). Sia stata o meno la Commedia pubblicata (o meglio conosciuta da altri) per gruppi di canti, non più modificabili [77], sempre stava innanzi al poeta la medesima esegesi teologica con le innumerevoli possibilità di variazioni tematiche e di sviluppi. Dunque il legame con la Lectura dell’Olivi, con la sua struttura settenaria, sarebbe stato dettato dall’esigenza di un ordine mentale, dal “fren de l’arte”.
Questa struttura interna, tuttavia, si fonda su una semantica che proviene da un altro testo e al tempo stesso, liberamente adattata e disposta in volgare, ad esso rinvia. Quest’altro testo – la Lectura – non era sconosciuto, anche se principalmente diffuso nell’ambito francescano; chi lo conosceva a fondo non avrebbe avuto difficoltà a rileggerlo mentalmente, pur fra innumerevoli variazioni, nei versi in volgare. Dunque, un lettore diverso da sé il poeta l’aveva previsto anche per i sensi interiori.
Viene qui in rilievo la seconda risposta. L’elaborazione intertestuale che accompagnò l’intera stesura del “poema sacro”, con un procedimento analogico su singole parti della Lectura assimilabile alle “distinctiones” dei predicatori, costituisce un eccezionale esempio di arte della memoria. Nella struttura interna le imagines agentes sono le parole-chiave, che conducono il lettore alla dottrina contenuta nella Lectura super Apocalipsim. Le singole parole si leggono, nel contesto dei versi, come segni che conducono all’altro testo dottrinale consentendo così il passaggio dal senso letterale, che è per tutti, a quelli mistici in esso racchiusi, riservati ai depositari della chiave di sì alta crittografia.
Dalla poesia, dunque, il lettore spirituale sarebbe risalito a un testo dottrinale da lui già conosciuto. La poesia in volgare si poneva come “speculum clericorum”, con un fine devozionale e di edificazione di una cerchia di lettori dotti. Ma quel lettore, rafforzando la memoria della dottrina contenuta nella Lectura, scritta in latino, l’avrebbe trovata dotata di “e piedi e mano” per una predicazione in volgare. “Beatus qui legit, et qui audit verba prophetiae”: il fine dell’Apocalisse (Ap 1, 3), la beatitudine, è rivolto a due categorie: i chierici e i laici. Per entrambi si aggiunge: “et qui servat ea”. L’arte della memoria serve appunto, alla prima categoria, per fermare e conservare nella mente. Come la struttura esteriore offre luoghi e immagini, anche quella interiore consente di percorrere ‘zone’ del poema (non coincidenti con le divisioni letterali) nelle quali sono collocate le parole-chiave che si riferiscono ai sette stati e alla loro esegesi. Il legame fra le parole, nel senso letterale, descrive luoghi e vi colloca immagini impressionanti; in quello spirituale suscita alla mente concetti dottrinali.
Se si può affermare che valga per Dante quello che scrive Tommaso d’Aquino sul senso spirituale, nel quale non è contenuto nulla di necessario alla fede che non sia espresso in qualche luogo dal senso letterale, perché questo è fondamento di tutti gli altri (Summa Theologiae, I, qu. I, a. 10) [78], non si può negare che valga anche quanto Tommaso afferma poco prima (ibid., a. 9), sull’uso delle metafore nella Scrittura [79]. L’Aquinate distingue tra l’uso che ne fanno i poeti, “propter repraesentationem” e per fine di diletto, dall’uso che ne fa la Scrittura, “propter necessitatem et utilitatem”, avendo per fine di proporre a tutti verità spirituali, anche alla comprensione dei rudi, “qui ad intelligibilia secundum se capienda non sunt idonei”. La verità, rivelata dal raggio divino, rimane sempre tale, né viene meno per le figure sensibili, perché da esse la mente può elevarsi a ciò che è intellettuale. L’ “occultatio figurarum” è utile per l’esercizio negli studi e contro le derisioni degli infedeli, secondo quanto afferma Cristo: “non vogliate dare ai cani ciò che è santo” (Matteo 7, 6).
Né è possibile negare l’importanza per Dante di quanto afferma Bonaventura, sulla scia dell’interpretazione spirituale della Scrittura di Gioacchino da Fiore, circa l’allegoria che coglie “quid credendum”, che non è dato attraverso la lettera, acqua senza vino, pietra senza pane, scorza senza frutto lì dove la comprensione spirituale distingue il cristiano dal giudeo [80].
Come nella Scrittura esistono due livelli, il letterale e il mistico, così nella Commedia, che l’autore riteneva una nuova Apocalisse, scritta da un nuovo Giovanni. In essa la metafora dei poeti, che rappresenta dilettando, si sposa alla metafora della Scrittura, necessaria, utile e occulta per esercitare nello studio e contro le irrisioni degli infedeli.
Dante avrebbe voluto crearsi un nuovo pubblico. Il principio secondo il quale clerus vulgaria tempnit, per usare le parole di Giovanni del Virgilio nel carmen indirizzato a Dante, sarebbe stato smentito. Il senso letterale, rivolto a chiunque, ne avrebbe racchiuso altri ‘mistici’ rivolti ai pochi – agli Spirituali francescani, e forse non solo ad essi, se la Lectura si fosse diffusa anche presso altri Ordini – a coloro cioè che con la predicazione avrebbero potuto riformare la Chiesa. Un gruppo di lettori privilegiato che possedeva la Lectura super Apocalipsim avrebbe potuto leggerla, parafrasata e aggiornata, nei versi in volgare. I riformatori erano soprattutto predicatori. La Commedia è un viaggio per exempla. Se grazie alla Commedia Dante fosse tornato a Firenze “con altra voce omai, con altro vello”, quanti predicatori non l’avrebbero citata dai pergami cittadini?
Il “poema sacro” si sarebbe proposto come speculum per quel gruppo riformatore. Non solo avrebbero potuto predicarlo, ma sarebbe stato guida nella conduzione del gregge affidato. Un pastore devoto vicino al popolo cristiano, che lasci “seder Cesare in la sella”, non impegnato a discettare da opposti estremismi di rigoristi e rilassati, non timoroso della classicità tanto da riconoscere in Aristotele il “maestro di color che sanno”, ma con la non secondaria clausola di concordarlo con la visione apocalittica dell’Olivi (che riassume l’intera Scrittura); pronto ad ammettere gli antichi e i moderni poeti come figure del nuovo poeta “sesto tra cotanto senno” e della sua vera visione che, nuovo Giovanni, aveva avuto l’ordine di scrivere; convinto che la conversione della “prava terra italica” debba essere recata ad esempio universale della futura conversione finale delle genti e di Israele.
Quel pubblico non si formò. I testi mostrano come la renovatio cantata da Dante ponesse in perfetto equilibrio la storia della salvezza collettiva propria della “media aetas”, di cui la Lectura oliviana fu l’ultima espressione, e il singolo individuo con le sue nuove esigenze, la lingua, la natura, il regime politico, i classici. Lo sviluppo storico, che non registrò l’auspicata riforma della Chiesa, fattasi avara Babilonia avignonese, condannò la visione collettiva a vantaggio dell’individuo e dissociò il miles Christi nel cristiano e nel cittadino; si perse subito, se mai alcuno fece in tempo ad accorgersene, il linguaggio spirituale che porta i sensi interiori della Commedia, scritta come l’Apocalisse “dentro e fuori”, e ne rimase il senso letterale e la selva dei commenti e delle interpretazioni impotenti a spiegare l’altro nascosto. Quella perdita di coscienza, già nel secondo decennio del Trecento, fu sintomo evidente dell’ “autunno del Medioevo”.
La seconda risposta al problema della cause del rapporto tra Commedia e Lectura super Apocalipsim, il concepire da parte di Dante un pubblico di chierici riformatori, non esclude la prima, connessa ad utilità tecniche. L’arte della memoria per parole-chiave non serviva soltanto ai chierici. Il fatto che gruppi di terzine numericamente corrispondenti, a diversi stadi della Commedia, contengano parole-chiave che conducono alla medesima pagina esegetica sembra indicare che queste parole, se dovevano essere per il lettore spirituale signacula mnemonici di un altro testo, erano per il poeta anche segni del numero dei versi, ‘luogo’ dove collocare i medesimi signacula in forma e contesto diversi.
Proprio in questa ars memorativa, e nella sua chiave, sta quello che Alberto Asor Rosa ha definito “l’unico ma grandioso mistero, con cui ha a che fare ogni lettore di Dante (incomparabile con quei misteriucci da quattro soldi, con cui si sono misurati gli Aroux e i Guénon): il mistero del segno, o di quel sistema di segni, che ha racchiuso un mondo intero in un insieme d’immagini plurisense” [81].
La metamorfosi della Lectura super Apocalipsim nei versi in volgare non fa venir meno il voluto carattere polisemico del “poema sacro”, secondo quanto l’autore stesso afferma nell’Epistola a Cangrande (Ep. XIII, 20). Con l’esegesi dell’ultimo libro canonico, esposta in una teologia della storia che comprende per settenari tutta la Scrittura, la quale a sua volta è forma, esempio e fine di ogni scienza, concorda infatti ogni conoscenza, ogni esperienza, ogni soluzione indipendente data a questioni dottrinali. La Lectura non è una fonte, bensì il libro della storia delle illuminazioni sapienziali con cui tutto deve concordare. Si vedano, ad esempio, gli echi virgiliani incastonati nell’esegesi. L’ “umile Italia” è la Giudea, che si convertirà per ultima. La figura di Caronte è vestita in parte con i panni di Cristo sommo pastore (la canizie, la lana, gli occhi flammei rotanti). Il ramo che si vede in autunno dispogliato (Inf. III, 112-114) sollecita la memoria del lettore verso l’esegesi di due passi simmetrici, Ap 3, 3 e 16, 15 (i quali armano anche Stazio nel risveglio di Achille a Sciro a Purg. IX, 34-42). I Centauri sono una pessima Trinità, e con essa consuonano anche nei nomi (Inf. XII, 67-72). Omero, che vola sopra gli altri, è antica figura di Gregorio Magno, aquila nel percorrere i sentieri dell’allegoria. Aristotele, ” ‘l maestro di color che sanno”, occupa la sede divina da cui discende la sapienza, prima dell’apertura da parte di Cristo del libro segnato da sette sigilli. Non fanno eccezione Ovidio con Mirra o con il “trasumanar” di Glauco, Lucano con i serpenti o con Amiclate. Per Boezio si vedano Purg. XXX, 130-132 o Par. II, 127ss. A siffatta “concordia” è interessata la stessa Scrittura: i Salmi, ad esempio, non vengono molto citati nella Lectura, ma quando lo sono nella Commedia assumono una polisemia che fa segno anche di punti dell’esegesi apocalittica. L’egloga che canta l’età dell’oro coincide con la renovatio del sesto stato, il momento del secondo avvento di Cristo, nello Spirito, cioè nei discepoli che saranno inviati a predicare a tutto il mondo come lo fu Giovanni, autore dell’Apocalisse.
Ancora, sul piano dottrinale Gioacchino da Fiore può ben figurare insieme a Tommaso d’Aquino e a Bonaventura fra i sapienti del cielo del Sole. Il sesto e il settimo stato della Chiesa, nella prospettiva di Olivi, corrispondono alla terza età di Gioacchino, quella dello Spirito Santo ma, novità sostanziale rispetto all’abate calabrese, non sono appropriati a una persona della Trinità, bensì allo Spirito di Cristo, centro della storia in progressivo sviluppo. Dunque l’abate è presente nella Commedia in modo diffuso, perché le numerose sue citazioni nella Lectura sono inserite nella generale metamorfosi di questa. Si vedano le citazioni ad Ap 10, 110, 3 e 7, 1-3 (quest’ultime giustapposte, come usa fare l’Olivi, a Riccardo di San Vittore; il Vittorino è largamente presente nell’istruzione data ad Efeso, prima delle sette chiese d’Asia: Ap 2, 2-7).
Si potrebbe pensare che la Commedia instauri con la Lectura quel tipo di corrispondenza emblematica, finalizzata alla costruzione di un sapere universale, che tanta parte avrà poi nella cultura del Rinascimento e del Barocco, da Bruno a Leibniz a Bach. Ciò può essere in parte vero se si considera che dal microcosmo locale si ascende al macrocosmo della Scrittura principio e fine di ogni scienza, di cui l’Apocalisse è sintesi. È inoltre proprio dello spirito profetico nel linguaggio di Isaia, di Ezechiele o di Cristo stesso passare dal particolare storico all’universale per poi di lì ridiscendere al contingente. La mnemotecnica che unisce i due testi non è però una ricerca di un’altra poesia, di qualcosa di occulto come avverrà nel Rinascimento, ma di altri ben precisi significati dottrinali vestiti dalla poesia. In questo l’arte della memoria dantesca è profondamente scolastica, come parte di una virtù cardinale, la prudenza, volta a fini missionari e devozionali. Quando Dante iniziò a scrivere la Commedia, Raimondo Lullo componeva la sua Ars Magna (1305-1308). In Dante non ci sono quegli artifici tipici del lullismo, non lettere alfabetiche significative di concetti, né cerchi concentrici, figure mobili, diagrammi di alberi. Tuttavia lo scopo dell’arte di Lullo e della Commedia è il medesimo: la conversione universale. Inoltre, se si considera la collocazione ai fini mnemonici delle parole nel poema, si può vedere come le rispondenze interne non siano statiche, ma sempre variate in una rosa semantica e poste in luoghi differenti all’interno degli endecasillabi. L’arte della memoria della Commedia è ispirata al medesimo dinamismo propugnato da Lullo.
Il volgare della Commedia, che tanto riceve dall’umile latino dell’esegesi e alla sua dottrina rinvia facendovi concordare ogni conoscenza, è vera “clavis universalis” del sapere. Eliot, scrivendo nel 1929 sulla sua esperienza di lettore di poesia, si dichiarava sorpreso dalla estrema facilità di lettura della poesia dantesca. Prova che un’emozione si possa comunicare anche senza una compiuta conoscenza della lingua in cui si esprime. Ma questa universalità di Dante “non è unicamente un fatto personale. La lingua italiana, e specialmente l’italiano dei tempi di Dante, ci guadagna molto per il fatto di essere il prodotto del latino, lingua universale” [82]. L’incontro con la Lectura dell’Olivi mostrò quanto potesse una lingua fattasi umile, rispetto all’antica gloria, ma che continuava ad essere universale per la visione del mondo e della storia che esprimeva. In fondo, l’esegesi apocalittica dell’Olivi insegnava che era giunto il tempo, per un nuovo Giovanni, di parlare a tutto il mondo, senza distinzione di razza e di terra: “Et dixit michi: Oportet te iterum prophetare in gentibus et populis et linguis et regibus multis” (Ap 10, 11). Questa parola, mossa per dettato interiore che fa dire e fa cambiare i cuori degli uomini che l’ascoltano, è pregna di tutto quanto è avvenuto prima nella storia, che non si perde, ma in essa è ricompreso. L’Altissimo non ha voluto tutto in un solo tempo; il libro che tutto racchiude è stato progressivamente aperto, e in modo sempre più ampio.
L’incontro con l’ultima e più viva testimonianza dell’escatologismo medievale avvenne nel momento della riflessione sul volgare illustre, sul rapporto fra questo e gli altri idiomi volgari, fra la tragedia e gli altri stili. Rapporti che solo la Commedia avrebbe risolto. Con essa il volgare diventa la lingua del nuovo Giovanni, non più solo illustre ma di tutti; gli stili possono essere liberamente variati, come lo sono nell’esegesi i quattro sensi scritturali; l’allegoria non è più finzione ma figura, cioè storia significante della prescienza e provvidenza divina. Il volgare è diventato una nuova “lingua gratiae” come lo fu l’ebraico, l’unico linguaggio dato da Dio ad Adamo prima della confusione babilonica, rimasta agli Ebrei e parlata dal Redentore nel suo primo avvento nella carne (De vulgari eloquentia, I, vi, 5-7). Non a caso Adamo, nel Paradiso, corregge questa posizione: l’ebraico non fu la lingua ispirata da Dio al primo uomo, perché fu, come tutti gli altri idiomi, costruzione umana (Par. XXVI, 124-138). Viene in mente quanto ha detto Oderisi da Gubbio nel primo girone della montagna sul primato nell’arte della miniatura, passato da lui a Franco Bolognese; nell’arte della pittura, traslato da Cimabue a Giotto; nella “gloria de la lingua”, tolta da Cavalcanti a Guinizzelli e a entrambi da Dante (Purg. XI, 79-117). L’uso, come la fama, “è color d’erba, / che viene e va”. Ma come l’ebraico fu la lingua del nostro Redentore nel suo primo avvento, così il volgare del “poema sacro” è ora la gloriosa lingua della renovatio operante nel secondo avvento, quello nello Spirito, interno dettatore dei suoi discepoli.

 

 

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[LSA, cap. I, Ap 1, 14 (radix Ie visionis)] Quarta (perfectio summo pastori condecens) est reverenda et preclara sapientie et consilii maturitas per senilem et gloriosam canitiem capitis et crinium designata, unde subdit: “caput autem eius et capilli erant candidi tamquam lana alba et tamquam nix” (Ap 1, 14). Per caput vertex mentis et sapientie, per capillos autem multitudo et ornatus subtilissimorum et spiritualissimorum cogitatuum et affectuum seu plenitudo donorum Spiritus Sancti verticem mentis adornantium designatur.
Sicut autem in lana est calor fomentativus et mollities corpori se applicans, et candor contemperatior et suavior quam in nive, sic in nive est frigiditatis et congelationis algor et rigor et candor intensior nostroque visui intolerabilior, est etiam humor sordium purgativus et terre impinguativus. Per que designatur quod Christi sapientia est partim nobis condescensiva et sui ad nos contemperativa nostrique fomentativa et sua pietate calefactiva, partim autem est a nobis abstracta et nobis rigida nimisque intensa, nostrarumque sordium purgativa nostreque hereditatis impinguativa.

[LSA, cap. I, Ap 1, 7] Septimo ascribit ei primatum iudiciarie retributionis omnium bonorum et malorum, et ut hoc sensibilius et magnificentius ac terribilius nobis ingerat, introducit eius de celis maiestativum adventum quasi iam presentem seu in procinctu imminentem, dicens: “Ecce venit cum nubibus” (Ap 1, 7). Non solum autem propter causam predictam dicit “venit” de presenti, sed etiam quia sicut rex venturus Romam ad iudicia danda dicitur venire ex quo inchoat iter suum, et domificator dicitur hedificare domum ex quo incipit iacere fundamenta, sic Deus dicitur venire ad iudicium quia quicquid ab initio ecclesie facit est iter ad illud. Preterea nunc continue dat multa occulte iudicia, et pro tanto semper venit et per effectus iudiciorum.

[LSA, cap. II, Ap 2, 12 (Ia visio, IIIa ecclesia)] “Si quo minus”, id est si in aliquo minus quam monui penitueris, id est si aliter quam dixi egeris, “veniam tibi”, id est contra te, “cito”. “Cito” dicit, ut ex propinquitate sui adventus magis timeat et citius ac fortius peniteat. “Et pugnabo cum illis in gladio oris mei”, id est per meas scripturas et per meos doctores gladium, id est verbum vivum spiritus mei, habentes illorum errores confundam et convincam cum auctoritatibus suis et tandem per meam iudiciariam sententiam condempnabo. Quasi dicat: per meum adventum te corrigam vel puniam illosque confundam, supple, nisi penitentiam egerint.

Aen. VI, 298-301

Portitor has horrendus aquas et flumina servat
terribili squalore Charon, cui plurima mento
canities inculta iacet, stant lumina flamma,
sordidus ex umeris nodo dependet amictus.

 

Inf. III, 82-87, 97-99, 109-111

Ed ecco verso noi venir per nave
un vecchio, bianco per antico pelo,
gridando: “Guai a voi, anime prave!
Non isperate mai veder lo cielo:
i’ vegno per menarvi a l’altra riva
ne le tenebre etterne, in caldo e ’n gelo.”

Quinci fuor quete le lanose gote
al nocchier de la livida palude,
che ’ntorno a li occhi avea di fiamme rote.

Caron dimonio, con occhi di bragia
loro accennando, tutte le raccoglie;
batte col remo qualunque s’adagia.

[LSA, cap. I, Ap 1, 14 (radix Ie visionis)] Quinta (perfectio summo pastori condecens) est contemplationis speculative et practice zelativus et perspicax fervor et splendor, omnes actus et intentiones et nutus ecclesiarum circumspiciens, unde subdit: “et oculi eius velut flamma ignis”.

[LSA, cap. XIX, Ap 19, 12] “Oculi autem eius sicut flamma ignis” (Ap 19, 12), scilicet propter ardorem zeli ad faciendum iudicium et iustitiam de impiis et ad liberandum suos ab eis et ad inflammandum et illuminandum eos igne caritatis et amative sapientie.

[LSA, cap. XIV, Ap 14, 11] Deinde de eternitate et de irremissibilitate pene eorum subdit (Ap 14, 11): “Et fumus tormentorum eorum in secula seculorum ascendet”, id est in sua quasi infinita altitudine stabunt semper eis tormenta, ac si semper ascenderet ignis eorum et fumus. Ad litteram etiam innuit quod ignis infernalis, quo torquebuntur, erit fumosus et tenebrosus et semper in vivacissimo motu tamquam semper ardentissimus. Per hunc fumum etiam, secundum Ioachim, designatur dampnatorum murmur et blasphemia contra Deum semper ascendens.

[LSA, cap. IX, Ap 9, 3.9] “De fumo” autem predicti casus et apertionis “putei exierunt locuste” (Ap 9, 3), id est religiosi illorum sequaces ac leves et volatiles et cupidi et carnales et ypocritales et detractores, qui et contra omnes eis non faventes animosissime concitantur quasi equi currentes in bellum (Ap 9, 7), et etiam contra omnia multum spiritalia contra que zelum acrem assumunt. “Vox” autem “alarum” (Ap 9, 9), id est suarum sententiarum quas altissimas et prevolantes esse presumunt, est sicut vox rotarum et tumultuosi exercitus currentis in bellum contra omnem sententiam contrariam quantumcumque veram.

[Caronte è in parte vestito con la quarta prerogativa di Cristo sommo pastore: la senile bianca lanosa canizie (Ap 1, 14; ne sono partecipi anche Catone e Beatrice: cfr. Il sesto sigillo, 2c, tab. XIII). In Cristo i capelli sono gelidi come neve e caldi come lana: indicano le due vie, la rigida giustizia e la temperata pietà. In Caronte le due vie si unificano per la punizione dei dannati, portati “in caldo e ’n gelo”. Viene come Cristo al giudizio (Ap 1, 7; 2, 12). Gli occhi fiammeggianti e, a differenza dell’immagine virgiliana, rotanti, appartengono alla quinta prerogativa di Cristo sommo pastore, che con fervido zelo guarda attorno ogni atto delle chiese (Ap 1, 15; 19, 12; cfr. la “vox rotarum” ad Ap 9, 9). “Caron dimonio”, che l’anime “tutte … raccoglie”, reca ancora la memoria di “Karolus imperator”, che difese la Chiesa contro la nequizia del maggior pericolo cristiano. Se questi ‘raccolse’ la santa Chiesa a Roma cinquecento anni prima, c’è ancora, nel 1300, una Roma dei malvagi carnali che peregrina in terra con la Chiesa spirituale dei buoni, con essa commista e confliggente, che viene ‘raccolta’ sulle rive d’Acheronte da un demone vestito dell’antico pelo virgiliano di Caronte e con la moderna funzione storica di Carlo Magno (cfr. Il sesto sigillo, 7a, tab. XLV bis).]

 

[LSA, cap. III, Ap 3, 3 (Ia visio, Va ecclesia)] Deinde comminatur eidem iudicium sibi occulte et inopinate superventurum si non se correxerit, unde subdit: “Si ergo non vigilaveris, veniam ad te tamquam fur”, qui scilicet venit latenter et ex improviso ut bona auferat et possessorem occidat. Unde subdit: “et horam nescies qua veniam ad te”. Iustum enim est ut qui se ipsum per negligentiam et torporem nescit, nesciat horam iudicii sui et exterminii. Talis etiam propter suas tenebras non videt lucem, ac erronee credit et optat se diu in prosperitate victurum et Dei iudicium diu esse tardandum, et etiam spe presumptuosa sperat se esse finaliter salvandum, propter quod Ia ad Thessalonicenses V° dicit Apostolus quoddies Domini veniet in nocte sicut fur. Cum enim dixerint: pax et securitas, tunc superveniet eis repentinus interitus (1 Th 5, 2-3). Quibus autem, scilicet sanctis, et quare non veniet sicut fur ostendit subdens: “Vos autem, fratres, non estis in tenebris, ut vos dies illa tamquam fur comprehendat; omnes enim vos estis filii lucis et diei. Igitur non dormiamus sicut et ceteri, sed vigilemus et sobrii simus. Qui enim dormiunt nocte dormiunt” et cetera (ibid., 5, 4-7). Nota quod correspondenter prefigurat hic occultum Christi adventum et iudicium in fine quinti status et in initio sexti fiendum, prout infra in apertione sexti signaculi explicatur.

[LSA, cap. XVI, Ap 16, 15 (Va visio VIa phiala)] Quia vero Deus tunc ex improviso et subito faciet hec iudicia, ideo subdit: “Ecce venio sicut fur” (Ap 16, 15). Fur enim venit latenter ad furandum, ne advertat hoc dominus cuius sunt res quas furatur. Non autem dicit ‘veniam’ sed “venio”, et hoc cum adverbio demonstrandi, ut per hoc estimationem de sua mora nobis tollat et ad adventum suum nos attentiores et vigilantiores et timoratiores reddat. Ad quod etiam ultra hoc inducit per promissionem premii et comminationem sui oppositi, unde subdit: “Beatus qui vigilat et custodit vestimenta sua”, scilicet virtutes et bona opera, “ne nudus ambulet”, id est virtutibus spoliatus; “et videant ”, scilicet omnes tam boni quam mali, “turpitudinem eius”, id est sua turpissima peccata et suam confusibilem penam in die iudicii sibi infligendam.

Aen VI, 309-310

quam multa in silvis autumni  frigore primo
lapsa cadunt folia aut ad terram gurgite ab alto

Georg. II, 80-82

plantae immittuntur; nec longum tempus, et ingens
exiit ad caelum ramis felicibus arbos
miratastque novas frondes et non sua poma

Inf. III, 112-114

Come d’autunno si levan le foglie
l’una appresso de l’altra, fin che ’l ramo
vede a la terra tutte le sue spoglie

 

Par. XXVIII, 115-117

L’altro ternaro, che così germoglia
in questa primavera sempiterna
che notturno Arïete non  dispoglia

Inf. XXVII, 121-123, 127-129

Oh me dolente! come mi riscossi
quando mi prese dicendomi: ‘Forse
tu non pensavi  ch’io löico fossi!’. 

“disse: ‘Questi è d’i rei del foco furo’;
per ch’io là dove vedi  son perduto,
e vestito, andando, mi rancuro”.

Par. XII, 46-48

In quella parte ove surge ad aprire
Zefiro dolce le novelle fronde
di che si vede  Europa rivestire

[Ap 3, 3 (prima visione, quinta chiesa) e 16, 15 (quinta visione, sesta coppa) sono passi simmetrici che sviluppano il tema del ladro (cfr. Il sesto sigillo, 1d). La terzina di Par. XXVIII, 115-117 è riferita al “secondo ternaro” delle gerarchie angeliche (Dominazioni-Virtù-Potestà), il quale germoglia “in questa primavera sempiterna / che notturno Arïete non dispoglia”, verso, quest’ultimo, che congiunge il tema della notte della citazione paolina in Ap 3, 3 (“dies Domini veniet in nocte sicut fur”) con quello dell’essere spogliato delle virtù in Ap 16, 15 («“ne nudus ambulet”, id est virtutibus spoliatus»). Poiché da un punto di vista astronomico l’Ariete è visibile di notte in autunno, la terzina rinvia ad altra assai più antica, quella che in Inf. III, 112-114 descrive il volontario gettarsi nella barca di Caronte del “mal seme d’Adamo”: “Come d’autunno si levan le foglie / l’una appresso de l’altra, fin che ’l ramo / vede a la terra tutte le sue spoglie”. È da notare l’accostamento del vedere («“et videant ” , scilicet omnes tam boni quam mali, “turpitudinem eius”»), appropriato al ramo, con lo spogliarsi, motivi non presenti nella reminiscenza virgiliana – “Quam multa in silvis autumni frigore primo / Lapsa cadunt folia …” (Aen. VI, 309-310) -, e che sono invece nell’esegesi di Ap 16, 15. All’opposto, nelle parole con cui Bonaventura tesse l’elogio di Domenico, sono “le novelle fronde / di che si vede Europa rivestire”, aperte da Zefiro, dove i temi dell’aprire e dell’essere nuovo sono tipici del sesto stato (Par. XII, 46-48). A Inf. XXVII, 127-129, il tema del “fur” è nel “foco furo” che fascia Guido da Montefeltro, il quale va “sì vestito” (“Beatus qui vigilat et custodit vestimenta sua”) perché altri lo vedano («“et videant” , scilicet omnes tam boni quam mali, “turpitudinem eius” – là dove vedi»): sono tutti motivi da Ap 16, 15. Due terzine prima (ibid., 121-123), l’espressione “mi prese”, riferita al diavolo “löico” che argomenta contro Francesco, può essere ricondotta al “comprehendat ” della citazione paolina di Ap 3, 3.]

 

[LSA, cap. XVIII, Ap 18, 4 (VIa visio)] “Et audivi aliam vocem de celo dicentem” (Ap 18, 4). Recte dicitur alia, quia prior fuit de dampnatione reproborum, hec vero est de admonitione electorum, ne communicent cum reprobis in culpa et tandem in pena. Ait enim: “Exite de illa, popule meus, et ne participes sitis delictorum eius et de plagis eius ne accipiatis”. Idem dicitur Ieremie, L°, ubi dicitur Dei populo: “Recedite de medio Babilonis et de terra Caldeorum egredimini, et estote quasi edi ante gregem”, et subdit causam quia cito est capienda et destruenda (Jr 50, 8-9).
Et nota quod principaliter loquitur hic de exitu ab imitatione et participatione scelerum eius, et etiam ab omni amicitia vel societate ipsius prebente occasionem peccandi. Plus autem precipit hoc modo exire ab ea quam a paganis, quia facilius inficiuntur fideles a societate pravorum fidelium vel hereticorum quam a paganis. Unde Apostolus Ia ad Corinthios V° dicit: “Scripsi vobis: Ne commisceamini”, id est ne communicetis, “fornicariis, non utique fornicariis huius mundi”, id est paganis tunc per totum orbem dispersis et cetera, “alioquin debueratis de hoc mundo exisse” (1 Cor 5, 9-10), id est si de illis hoc precepissem, oporteret vos de toto mundo exire, quia ipsi sunt ubique replentes totum mundum. Et ideo subdit: “Nunc autem scripsi vobis non commisceri ” fratribus, id est christianis, qui sunt nominati, id est famosi et per sententiam ecclesie notati de vitiis que ibi subiungit (1 Cor, 5, 11).

Inf. XXX, 37-39

Ed elli a me: “Quell’ è l’anima antica
di Mirra scellerata, che divenne
al padre, fuor del dritto amore, amica.”

Met. X, 314-315

e tribus una soror. Scelus est odisse parentem;
hic amor est odio maius scelus. – Undique lecti

 

 

[LSA, cap. III, Ap 3, 3 (Ia visio, Va ecclesia)] Deinde comminatur eidem iudicium sibi occulte et inopinate superventurum si non se correxerit, unde subdit: “Si ergo non vigilaveris, veniam ad te tamquam fur”, qui scilicet venit latenter et ex improviso ut bona auferat et possessorem occidat. Unde subdit: “et horam nescies qua veniam ad te”. Iustum enim est ut qui se ipsum per negligentiam et torporem nescit, nesciat horam iudicii sui et exterminii. Talis etiam propter suas tenebras non videt lucem, ac erronee credit et optat se diu in prosperitate victurum et Dei iudicium diu esse tardandum, et etiam spe presumptuosa sperat se esse finaliter salvandum, propter quod Ia ad Thessalonicenses V° dicit Apostolus quod dies Domini veniet in nocte sicut fur. Cum enim dixerint: pax et securitas, tunc superveniet eis repentinus interitus” (1 Th 5, 2-3). Quibus autem, scilicet sanctis, et quare non veniet sicut fur ostendit subdens: “Vos autem, fratres, non estis in tenebris, ut vos dies illa tamquam fur comprehendat; omnes enim vos estis filii lucis et diei. Igitur non dormiamus sicut et ceteri, sed vigilemus et sobrii simus. Qui enim dormiunt nocte dormiunt” et cetera (ibid., 5, 4-7). Nota quod correspondenter prefigurat hic occultum Christi adventum et iudicium in fine quinti status et in initio sexti fiendum, prout infra in apertione sexti signaculi explicatur. Deinde a predicto defectu excipit quosdam illius ecclesie, subdens: “Sed habes pauca nomina in Sardis” (Ap 3, 4). Nomina sumit pro personis quarum nomina sunt. Per nomina etiam intelligit personas merito sue sanctitatis notas Christo. Item proprium donum gratie, quod unusquisque accepit, dat cuique viro quasi proprium nomen ut cognoscatur ex nomine. Caritas autem Dei, in quantum communis omnibus bonis, dat commune nomen sanctis ut vocentur cives Iherusalem. “Qui non coinquinaverunt”, scilicet sordibus vitiorum et precipue carnalium, “vestimenta sua”, id est virtutes suas quibus quasi vestibus ornantur et vestiuntur, vel corpora sua que sunt quasi vestes anime, vel opera sua que sunt quasi vestes extrinsece ipsarum virtutum. “Ambulabunt mecum in albis”, scilicet vestibus, “quia digni sunt”. Per vestes albas intelligitur hic singularis candor et decor glorie correspondens merito predicte munditie.

[LSA, cap. XVI, Ap 16, 15 (Va visio VIa phiala)] Quia vero Deus tunc ex improviso et subito faciet hec iudicia, ideo subdit: “Ecce venio sicut fur” (Ap 16, 15). Fur enim venit latenter ad furandum, ne advertat hoc dominus cuius sunt res quas furatur. Non autem dicit ‘veniam’ sed “venio”, et hoc cum adverbio demonstrandi, ut per hoc estimationem de sua mora nobis tollat et ad adventum suum nos attentiores et vigilantiores et timoratiores reddat. Ad quod etiam ultra hoc inducit per promissionem premii et comminationem sui oppositi, unde subdit: “Beatus qui vigilat et custodit vestimenta sua”, scilicet virtutes et bona opera, “ne nudus ambulet”, id est virtutibus spoliatus; “et videant ”, scilicet omnes tam boni quam mali, “turpitudinem eius”, id est sua turpissima peccata et suam confusibilem penam in die iudicii sibi infligendam. 

[LSA, cap. VI, Ap 6, 14-15 (IIa visio, apertio VIi sigilli; IVum initium)] Tunc etiam montes, id est regna ecclesie, et “insule”, id est monasteria et magne ecclesie in hoc mundo quasi in solo seu mari site, movebuntur “de locis suis” (Ap 6, 14), id est subvertentur et eorum populi in mortem vel in captivitatem ducentur. Tunc etiam, tam propter illud temporale exterminium quod sibi a Dei iudicio velint nolint sentient supervenisse, quam propter desperatum timorem iudicii eterni eis post mortem superventuri, sic erunt omnes, tam maiores quam medii et minores, horribiliter atoniti et perterriti quod preeligerent montes et saxa repente cadere super eos. Ex ipso etiam timore fugient et abscondent se “in speluncis” et inter saxa montium (cfr. Ap 6, 15).

Stazio,  Achill. I, 247-250

cum pueri tremefacta quies oculique patentes
infusum sensere diem. Stupet aere primo:
quae loca, qui fluctus, ubi Pelion? Omnia versa
atque ignota videt dubitatque agnoscere matrem.

Par. XXX, 82-87, 127-132

Non è fantin che sì sùbito rua
col volto verso il latte, se si svegli
molto tardato da l’usanza sua,
come fec’ io, per far migliori spegli
ancor de li occhi, chinandomi a l’onda
che si deriva perché vi s’immegli

qual è colui che tace e dicer vole,
mi trasse Bëatrice, e disse: “Mira
quanto è ’l convento de le bianche stole!
Vedi nostra città quant’ ella gira;
vedi li nostri scanni sì ripieni,
che poca gente più ci si disira.”

Purg. IX, 34-42, 52-63

Non altrimenti Achille si riscosse,
li occhi svegliati rivolgendo in giro
e non sappiendo là dove si fosse,
quando la madre da Chirón a Schiro
trafuggò lui dormendo in le sue braccia,
là onde poi li Greci il dipartiro;
che mi scoss’ io, sì come da la faccia
mi fuggì ’l sonno e diventa’ ismorto,
come fa l’uom che, spaventato, agghiaccia.

Dianzi, ne l’alba che procede al giorno,
quando l’anima tua dentro dormia,
sovra li fiori ond’ è là giù addorno
venne una donna, e disse: “I’ son Lucia;
lasciatemi pigliar costui che dorme;
sì l’agevolerò per la sua via”.
Sordel rimase e l’altre genti forme;
ella ti tolse, e come ’l fu chiaro,
sen venne suso; e io per le sue orme.
Qui ti posò, ma pria mi dimostraro
li occhi suoi belli quella intrata aperta;
poi ella e ’l sonno ad una se n’andaro.

Purg. XXX, 103-105

Voi vigilate ne l’etterno die,
sì che notte né sonno a voi non fura
passo che faccia il secol per sue vie

Purg. XXXIII, 43-45, 55-57, 64-66

nel quale un cinquecento diece e cinque,
messo di Dio, anciderà la fuia
con quel gigante che con lei delinque.

E aggi a mente, quando tu le scrivi,
di non celar qual hai vista la pianta
ch’è or due volte dirubata quivi

Dorme lo ’ngegno tuo, se non estima
per singular cagione essere eccelsa
lei tanto e sì travolta ne la cima.

Par. XXVI, 70-75

E come a lume acuto si disonna
per lo spirto visivo che ricorre
a lo splendor che va di gonna in gonna,
e lo svegliato ciò che vede aborre,
nescïa è la sùbita vigilia
fin che la stimativa non soccorre

Purg. XV, 136-138

ma dimandai per darti forza al piede:
così frugar conviensi i pigri, lenti
ad usar lor vigilia quando riede.

[Ap 10, 1; IIIa visio, VIa tuba] Et (Ioachim) subdit: «Ego autem angelum istum secundum litteram aut Enoch fore puto aut Heliam. Verum, prout hoc Deus melius novit, unum dico pro certo, quod hic angelus significat personaliter magnum aliquem  predicatorem, quamvis spiritaliter ad multos viros spiritales tunc temporis futuros competenter valeat intorqueri. Sane facies angeli similis est soli, quia in hoc sexto tempore oportet Dei contemplationem in modum solis splendescere et perduci ad notitiam eorum qui designantur in Petro et Iacobo et Iohanne, id est Latinorum et Grecorum et Hebreorum, primo quidem Latinorum, deinde Grecorum, tertio Hebreorum, ut fiant novissimi qui erant primi et e contrario». Hec Ioachim.

Purg. XXXII, 37-39, 64-82

Io senti’ mormorare a tutti “Adamo”;
poi cerchiaro una pianta dispogliata
di foglie e d’altra fronda in ciascun ramo.

S’io potessi ritrar come assonnaro
li occhi spietati udendo di Siringa,
li occhi a cui pur vegghiar costò sì caro;
come pintor che con essempro pinga,
disegnerei com’ io m’addormentai;
ma qual vuol sia che l’assonnar ben finga.
Però trascorro a quando mi svegliai,
e dico ch’un splendor mi squarciò ’l velo
del sonno, e un chiamar: “Surgi: che fai?”.
Quali a veder de’ fioretti del melo
che del suo pome li angeli fa ghiotti
e perpetüe nozze fa nel cielo,
Pietro e Giovanni e Iacopo condotti
e vinti, ritornaro a la parola
da la qual furon maggior sonni rotti,
e videro scemata loro scuola
così di Moïsè come d’Elia,
e al maestro suo cangiata stola;
tal torna’ io ……………………

[Altro luogo fasciato dall’esegesi teologica di Ap 3, 3 e 16, 15 è il risvegliarsi di Dante dal sonno della prima notte passata nel purgatorio (Purg. IX, 34ss.). Se i motivi dello svegliarsi o del dormire non possono certo, presi da soli, essere connessi al testo della Lectura, tuttavia l’introduzione del tema del fuggire, appropriato al sonno (prefigurato dal trafugamento di Achille sottratto a Chirone dalla madre Teti, che recita la parte del “fur”, e portato a Sciro per impedirgli di prendere parte alla guerra di Troia), e dello scuotersi per lo spavento conducono all’apertura del sesto sigillo ad Ap 6, 12 (lo scuotersi corrisponde alla “fortis concussio” causata dal terremoto che allora si verifica, che non è solo scuotimento fisico, ma anche interiore). Come pure lo svegliarsi volgendo gli occhi attorno senza sapere il luogo in cui ci si trova è un filo tratto dal torpore che rende inconsapevoli dell’ora del giudizio di cui si parla ad Ap 3, 3. È da notare che i versi sono segnati dalla reminiscenza dell’Achilleide (I, 247-250), ma mentre Stazio sottolinea la meraviglia dell’eroe nel vedere, svegliandosi, cose sconosciute, Dante insiste sul terrore provocato dal risveglio, che è proprio quanto suggerito dall’esegesi del “fur”. In questo spavento viene confortato da Virgilio, il quale gli dice che all’alba è venuta Lucia, ha preso il suo fedele che dormiva e, come il giorno è stato chiaro, lo ha portato presso la porta del purgatorio. Il passo paolino dalla prima lettera ai Tessalonicesi, incastonato nell’esegesi di Ap 3, 3, distingue tra coloro che dormono e che vengono sopraffatti dal ladro, e quelli che vigilano e che sono “filii lucis et diei”. La similitudine con Achille trafugato nel sonno dalla madre consente di dare il valore di madre anche a Lucia che prende Dante, il quale è veramente il “figlio della luce e del giorno” di cui dice san Paolo. L’ “intrata aperta” (la fenditura nel balzo al là della quale è la porta del purgatorio) corrisponde alla “porta aperta” data alla sesta chiesa, Filadelfia (Ap 3, 8) e alla sesta vittoria, che è ingresso in Cristo (Ap 3, 12). Per altri rinvii dai versi alla medesima esegesi, mostrati nella tabella, cfr. Il sesto sigillo, 1d, tab. VIII, 1-6. Da notare in particolare il risveglio di Dante nell’Eden, quasi ritorno dall’aver assistito a una nuova Trasfigurazione, descritto con parole-chiave che fanno segno, oltre di Ap 3, 3, anche della citazione di Gioacchino da Fiore ad Ap 10, 1 (nel sesto stato è necessario che la contemplazione di Dio splenda come il sole per condurre alla verità coloro che sono designati in Pietro, Giacomo e Giovanni, cioè i Latini, i Greci e gli Ebrei, prima i Latini, poi i Greci e infine gli Ebrei, perché siano ultimi coloro che furono primi).]

 

GIOACCHINO DA FIORE, Expositio in Apocalypsim, in Edibus Francisci Bindoni ac Maphei Pasini, Venetiis 1527 (rist. an. Minerva, Frankfurt a. M. 1964).

RICCARDO DI SAN VITTORE, In Apocalypsim libri septem, PL 196, coll. 683-888 (= In Ap).

[Ap 7, 1-3; IIa visio, apertio VIi sigilli] “Post hec vidi” et cetera (Ap 7, 1). Hic ostenditur quomodo, post prefatum iudicium et exterminium carnalis ecclesie, nitentur demones et homines impii impedire predicationem fidei et conversionem gentium ad fidem et etiam conservationem fidelium in fide iam suscepta. Unde ait: “Post hec”, id est post predictum iudicium, “vidi quattuor angelos stantes super quattuor angulos terre”.
Secundum Ricardum, isti quattuor angeli  sunt universi demones totum mundum in suis quattuor angulis tempore illo possidere cupientes, suntque “stantes” quia sunt in hoc immorantes et fixe considerantes quos in tota latitudine mundi possint devorare1. Et secundum hoc sicut per quattuor angulos designatur totus orbis, sic et per quattuor angelos in eis stantes designatur universitas demonum vel principales eorum.
Secundum autem Ioachim, per eos designantur gentes infideles seu heretici, qui sunt in circuitu ecclesie prohibentes doctores christianos ne verbum Dei predicent populis eis subiectis. Vel secundum eum, sumendo hoc in bona parte, quattuor angeli sunt quattuor genera predicatorum quibus datum est nocere cessando a predicatione verbi Dei propter peccata, secundum quod infra de duobus prophetis dicitur quod “habent potestatem claudendi celum diebus prophetie eorum” (Ap 11, 6)2. […]
Sequitur tertia pars, scilicet prohibitio predicti impedimenti per subscriptum angelum facta (Ap 7, 2): “Et vidi alterum angelum”, alterum scilicet a quattuor iam premissis, et alterum non tantum in persona sed etiam in virtute et officio. Nam illi mali et impeditivi boni, iste vero in utroque contrarius eis.
De hoc dicit hic Ioachim: Angelus iste est ille, quem Christus per concordiam respicit, futurus in principio tertii status. «Ascendet autem “ab ortu solis”, quia ut casus presentis vite non timeatur, predicabit certis indiciis veri solis adventum et vicinam iustorum omnium resurrectionem. Ad cuius clamoris virtutem adversarie potestates quiescent, et gaudium quod in sexta parte libri inter casum Babilonis et inter prelium bestie et regum terre contra sedentem in equo albo demonstratur futurum permittent fieri vel inviti, quatinus fideles acies, signo crucis instructe ad complendum numerum electorum, quod reliquum erit prelii expedire percurrant. […]»3.
Sequitur: “habentem signum Dei vivi”, tam scilicet in stigmatibus sibi a Christo impressis quam in tota vita interiori et exteriori, et in statu professionis et in concordia temporis et officii singulariter Christo assimilatum et eius similitudini consignatum. “Et clamavit voce magna quattuor angelis, quibus est datum”, id est a Deo permissum, “nocere terre et mari”, id est usque ad tempus prohibitionis eorum per hunc angelum facte. Secundum Ricardum, hic tacet de arboribus quia perfecte bonis non sic possunt nocere4, immo eorum temptatio exercet bonos ad bonum. Vel potest dici quod in terra subintelligantur arbores, que in ipsa et ex ipsa crescunt. Clamor iste est idem quod magnum meritum et potens imperium ad cohibendum temptamenta et impedimenta demonum. Sicut enim Christus et eius virtus assistebat apostolis et huic angelo ad facienda miracula et ad demones expellendos de corporibus obsessis, sic et multo magis assistebat eis ad repellendas vel refrenandas malignas temptationes demonum ab hiis qui per ipsos sanctos erant adducendi ad bonum. Sanctorum etiam merita et orationes sunt quidam spiritales clamores repulsivi demonum et suarum temptationum. Sanctorum etiam predicatio efficax contra malos refrenat ipsos sepius a multis nocumentis. Clamat ergo (Ap 7, 3): “Nolite”, id est non audeatis; vel si ad bonos angelos loquitur, dicit “nolite” quia, ex quo ipse prohibuit, non debuerunt velle; “nocere”, scilicet per effrenatam temptationem vel per predicationis et gratie impeditionem, “terre et mari neque arboribus, quoadusque signemus servos Dei nostri in frontibus eorum”.

Inf. I, 34-36, 94-96; II, 61-63, 94-96; III, 94-98

e non mi si partia dinanzi al volto,
anzi ’mpediva tanto il mio cammino,
ch’i’ fui per ritornar più volte vòlto. … …
ché questa bestia, per la qual tu gride,
non lascia altrui passar per la sua via,
ma tanto lo ’mpedisce che l’uccide

l’amico mio, e non de la ventura,
ne la diserta piaggia è impedito
sì nel cammin, che vòlt’ è per paura … …
Donna è gentil nel ciel che si compiange
di questo ’mpedimento ov’ io ti mando,
sì che duro giudicio là sù frange.

E ’l duca lui: “Caron, non ti crucciare:          Caronte
vuolsi
così colà dove si puote
ciò che si vuole, e più non dimandare”.
Quinci fuor quete le lanose gote
al nocchier de la livida palude

Inf. V, 4, 21-24; VI, 28-33; VII, 3-6

Stavvi Minòs orribilmente, e ringhia … …    Minosse
E ’l duca mio a lui: “Perché pur gride?
Non impedir lo suo fatale andare:
vuolsi così colà dove si puote
ciò che si vuole, e più non dimandare”.

Qual è quel cane ch’abbaiando agogna,         Cerbero
e si racqueta poi che ’l pasto morde,
ché solo a divorarlo intende e pugna,
cotai si fecer quelle facce lorde
de lo demonio Cerbero, che ’ntrona
l’anime sì, ch’esser vorrebber sorde.

e quel savio gentil, che tutto seppe,                Pluto
disse per confortarmi: “Non ti noccia
la tua paura; ché, poder ch’elli abbia,
non ci torrà lo scender questa roccia”.

1 In Ap II, ix (PL 196, col. 770 C).

2 Expositio, pars II, f. 120va.

 Expositio, pars II, ff. 120vb-121ra.

4 In Ap II, ix (PL 196, col. 771 B).

L’esegesi dell’angelo del sesto sigillo, che rimuove l’impedimento frapposto dai quattro angeli malvagi quietandoli, viene appropriata a Virgilio che rimuove gli impedimenti posti dalla lupa e da quattro antichi demoni (Caronte, Minosse, Cerbero, Pluto). Cfr. Il sesto sigillo, 2a, tab. X.

 

[LSA, cap. V, Ap 5, 1 (IIa visio, Ium sigillum)] Tertia ratio septem sigillorum quoad librum veteris testamenti sumitur ex septem apparenter in eius cortice apparentibus. Primum est falsitas promissionum, quia iuxta quod superficialiter sonant non sunt implete nec etiam possibiles impleri, quia impossibile est per eas hominem beatificari et satiari, quod tamen ipse promittunt. Hanc autem evacuat veritatis Christi splendor in prima apertione notatus.

[LSA, cap. XVI, Ap 16, 2 (Va visio, Ia phiala)] Unde subditur: “et factum est vulnus sevum ac pessimum”, id est turbatio ire crudelis et pessime, “in homines qui habebant caracterem bestie”, id est formam bestialis vite et intelligentie sibi impressam, “et in eos qui adoraverunt imaginem eius”. Omnes reprobi habent aliquam falsam estimationem eius [quod] prave sequuntur et amant et in quo, tamquam in Deo, suam beatitudinem estimant et querunt, et ideo id quod adorant est potius falsa imago quam realis veritas Dei et vere glorie. Est tamen realiter et veraciter bestiale; et ideo illud prout est in estimatione eorum est imago bestie, prout vero est in re est bestia seu bestiale tamquam carens intellectu et ratione.

Purg. XXX, 130-132

e volse i passi suoi per via non vera,
imagini di ben seguendo false,
che nulla promession rendono intera.

Boezio, Cons., III, pr. 9: Haec igitur vel imagines veri boni, vel imperfecta quaedam bona dare mortalibus videntur; verum autem atque perfectum bonum conferre non possunt.

Inf. XII, 11-19

e ’n su la punta de la rotta lacca
l’infamïa di Creti era distesa
che fu concetta  ne la falsa vacca;
e quando vide noi, sé stesso morse,
sì come quei cui l’ira dentro fiacca.
Lo savio mio inver’ lui gridò: “Forse
tu credi che qui sia ’l duca d’Atene,
che sù nel mondo la morte ti porse?
Pàrtiti, bestia, ché questi non vene …”

Inf. XXIV, 124-126

Vita bestial mi piacque e non umana,
sì come a mul ch’i’ fui; son Vanni Fucci
bestia, e Pistoia mi fu degna tana.

 

[LSA, prologus, Notabile VI] Quia vero Christus est causa efficiens et exemplaris et etiam contentiva omnium statuum ecclesie, idcirco radix visionum proponitur sub hoc trino respectu, prout infra suis locis specialibus exponetur. Nunc tamen in generali breviter demonstretur. Constat enim quod totum imperium potestatis ecclesiastice (I), ac sacerdotale sacrificium martirizationis sue (II), et sapientiale magisterium sue doctrine (III), ac altivolum supercilium vite anachoritice (IV), et condescensivum contubernium vite domestice seu cenobitice (V), et nuptiale connubium seu familiare vinculum singularis amicitie (VI), ac beatificum convivium divine glorie (VII), sunt in Christo exemplariter et etiam contentive et effective. Contentive quidem, tum quia ab eterno est presens omnibus futuris, tum quia virtus, per quam unumquodque in suo tempore efficit et conservat et continet, est sibi essentialis et eternaliter presens.

[LSA, cap. XIV, Ap 14, 2 (IVa visio)] Quarto erat suavissima et iocundissima et artificiose et proportionaliter modulata, unde subdit: “et vocem, quam audivi, sicut citharedorum citharizantium cum citharis suis”. Secundum Ioachim, vacuitas cithare significat voluntariam paupertatem. Sicut enim vas musicum non bene resonat nisi sit concavum, sic nec laus bene coram Deo resonat nisi a mente humili et a terrenis evacuata procedat. Corde vero cithare sunt diverse virtutes, que non sonant nisi sint extense, nec concorditer nisi sint ad invicem proportionate et nisi sub consimili proportione pulsentur. Oportet enim affectus virtuales ad suos fines et ad sua obiecta fixe et attente protendi et sub debitis circumstantiis unam virtutem et eius actus aliis virtutibus et earum actibus proportionaliter concordare et concorditer coherere, ita quod rigor iustitie non excludat nec perturbet dulcorem misericordie nec e contrario, nec mititatis lenitas impediat debitum zelum sancte correctionis et ire nec e contrario, et sic de aliis.
Cithara etiam est ipse Deus, cuius quelibet perfectio, per affectuales considerationes contemplantis tacta et pulsata, reddit cum aliis resonantiam mire iocunditatis.
Cithara etiam est totum universum operum Dei, cuius quelibet pars sollempnis est corda una a contemplatore et laudatore divinorum operum pulsata.
Dicit autem “sicut citharedorum”, quia citharedus non dicitur nisi per artem et frequentem usum, sicut magister artificiose citharizandi. Reliqui enim discordanter et rusticaliter seu inartificialiter citharizant, et si aliquando pulsant bene casualiter contingit, unde ascribitur casui potius quam prudentie artis.

[LSA, cap. V, Ap 5, 9 (radix IIe visionis)] Si pulsatio et resonantia cithare in hoc cantico includatur, tunc designat omnium virtutum affectus et actus pulsari et resonare cum iubilo huius laudis. Plena enim seu perfecta iubilatio pulsat omnes virtutes et ex omnibus trahit resonantiam laudis. Quelibet enim virtus est una corda cithare, id est mentis iubilative. Per citharam etiam designatur scriptura sacra, vel tota universitas divinorum operum, quorum cordas varias contemplativi tangunt et pulsant et ex eis divine laudis iubilum formant: quot modi autem sunt tangendi tot sunt modi iubilandi et cantandi.

Par. II, 70-72, 112-120, 127-148

Virtù diverse esser convegnon frutti
di princìpi formali, e quei, for ch’uno,
seguiterieno a tua ragion distrutti.

Dentro dal ciel de la divina pace
si gira un corpo ne la cui virtute
l’esser di tutto suo contento giace.
Lo ciel seguente, c’ha tante vedute,
quell’ esser parte per diverse essenze,
da lui distratte e da lui contenute.
Li altri giron per varie differenze
le distinzion che dentro da sé hanno
dispongono a lor fini e lor semenze.

Lo moto e la virtù d’i santi giri,
come dal fabbro l’arte del martello,
da’ beati motor convien che spiri;
e ’l ciel cui tanti lumi fanno bello,
de la mente profonda che lui volve
prende l’image e fassene suggello.
E come l’alma dentro a vostra polve
per differenti membra e conformate
a diverse potenze si risolve,
così l’intelligenza sua bontate
multiplicata per le stelle spiega,
girando sé sovra sua unitate.
Vir diversa fa diversa lega
col prezïoso corpo ch’ella avviva,
nel qual, sì come vita in voi, si lega.
Per la natura lieta onde deriva,
la virtù mista per lo corpo luce
come letizia per pupilla viva.
Da essa vien ciò che da luce a luce
par differente, non da denso e raro;
essa è formal principio che produce,
conforme a sua bontà, lo turbo e ’l chiaro.

[LSA, cap. II, Ap 2, 1 (Va ecclesia)] Vocatur autem congrue hec ecclesia Sardis, id est principium pulchritudinis, tum quia in suis paucis incoinquinatis habet singularem gloriam pulchritudinis, quia difficillimum et arduissimum est inter tot suorum luxuriantes se omnino servare mundum; tum quia primi institutores quinti status fuerunt in se et in suis omnis munditie singulares zelatores, suorumque collegiorum regularis institutio, diversa membra et officia conectens et secundum suas proportiones ordinans sub regula unitatis condescendente proportioni membrorum, habet mire pulchritudinis formam toti generali ecclesie competentem, que est sicut regina aurea veste unitive caritatis ornata et in variis donis et gratiis diversorum membrorum circumdata varietate.

Lo moto e la virtù d’i santi giri,
come dal fabbro l’arte del martello,
da’ beati motor convien che spiri;
e ’l ciel cui tanti lumi fanno bello,
e la mente profonda che lui volve
prende l’image e fassene suggello.
E come l’alma dentro a vostra polve
per differenti membra e conformate
a diverse potenze si risolve

Boezio, Cons., III, m. ix, 13-17

Tu triplicis mediam naturae cuncta moventem
Connectens animam per consona membra resolvis,
Quae cum secta duos motus glomeravit in orbes,
In semet reditura meat, mentemque profundam
Circuit
, et simili convertit imagine coelum.

[LSA, cap. XXI, Ap 21, 11 (VIIa visio)] Formam (civitatis) autem tangit tam quoad eius splendorem quam quoad partium eius dispositionem et dimensionem, unde subdit: “a Deo habentem claritatem Dei” (Ap 21, 10-11). “Dei” dicit, quia est similis increate luci Dei tamquam imago et participatio eius. Dicit etiam “a Deo”, quia ab ipso datur et efficitur. Sicut enim ferrum in igne et sub igne et ab igne caloratur et ignis speciem sumit, non autem a se, sic et sancta ecclesia accipit a Deo “claritatem”, id est preclaram et gloriosam formam et imaginem Dei, quam et figuraliter specificat subdens: “Et lumen eius simile lapidi pretioso, tamquam lapidi iaspidis, sicut cristallum”. Lux gemmarum est eis firmissime et quasi indelebiliter incorporata, et est speculariter seu instar speculi polita et variis coloribus venustata et visui plurimum gratiosa. Iaspis vero est coloris viridis; color vero seu claritas cristalli est quasi similis lune seu aque congelate et perspicue. Sic etiam lux glorie et gratie est sensibus cordis intime et solide incorporata et variis virtutum coloribus adornata et divina munde et polite et speculariter representans et omnium virtutum temperie virens. Est etiam perspicua et transparens non cum fluxibili vanitate, sed cum solida et humili veritate. Obscuritas enim lune humilitatem celestium mentium designat.

[LSA, cap. XXII, Ap 22, 1-2 (VIIa visio)] “Et ostendit michi fluvium” (Ap 22, 1). Hic sub figura nobilissimi fluminis currentis per medium civitatis describit affluentiam glorie manantis a Deo in beatos. Fluvius enim iste procedens a “sede”, id est a maiestate “Dei et Agni”, est ipse Spiritus Sanctus et tota substantia gratie et glorie per quam et in qua tota substantia summe Trinitatis dirivatur seu communicatur omnibus sanctis et precipue beatis, que quidem ab Agno etiam secundum quod homo meritorie et dispensative procedit. Dicit autem “fluvium” propter copiositatem et continuitatem, et “aque” quia refrigerat et lavat et reficit, et “vive” quia, secundum Ricardum, numquam deficit sed semper fluit. Quidam habent “vite”, quia vere est vite eterne. Dicit etiam “splendidum tamquam cristallum”, quia in eo est lux omnis et summe sapientie, et summa soliditas et perspicuitas quasi cristalli solidi et transparentis. Dicit etiam “in medio platee eius” (Ap 22, 2), id est in intimis cordium et in tota plateari latitudine et spatiositate ipsorum.

Per la descrizione dettagliata della tabella cfr. Il Cristo di Dante, 6.2.

 

 


Tutte le citazioni della Lectura super Apocalipsim presenti nei saggi o negli articoli pubblicati su questo sito sono tratte dalla trascrizione, corredata di note e indici, del ms. Paris, Bibliothèque nationale de France, lat. 713, a disposizione fin dal 2009 sul sito medesimo. I passi scritturali ai quali si riferisce l’esegesi sono in tondo compresi tra “ ”; per le fonti si rinvia all’edizione in rete. Non viene presa in considerazione l’edizione critica a cura di W. LEWIS (Franciscan Institute Publications, St. Bonaventure – New York, 2015) per le problematiche da essa poste, che sono discusse in “Archivum Franciscanum Historicum” 109 (2016), pp. 99-161. Il testo della Commedia citato è in Dante Alighieri, La Commedia secondo l’antica vulgata, a cura di G. PETROCCHI, Firenze 1994.

[All quotations from the Lectura super Apocalipsim in the essays or articles published in this website have been drawn from the transcription, with notes and indexes, of ms. Paris, Bibliothèque nationale de France, lat. 713, which has been available therein since 2009.  The Biblical passages to which the exegesis refers are in Roman type in “ ”; for sources please refer to the online edition.   The critical edition by W. LEWIS (Franciscan Institute Publications, St. Bonaventure – New York, 2015) has not been considered due to the issues it poses, which are discussed in “Archivum Franciscanum Historicum” 109 (2016), pp. 99-161.  The text referring to the Commedia has been drawn from Dante Alighieri, La Commedia secondo l’antica vulgata, edited by G. PETROCCHI, Firenze 1994.]


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[1] MIGUEL DE CERVANTES, Don Chisciotte della Mancia, a cura di CESARE SEGRE e di DONATELLA MORO PINI. Traduzione di FERDINANDO CARLESI, Milano 19968, pp. 806-807, 809-810 (II, 25).

[2] WILLIAM T. AVERY, Elementos dantescos del “Quijote”, in “Anales Cervantinos”, 9 (1961-1962), pp. 1-28: pp. 24-27.

[3] Cfr. PINI, Note all’edizione sopra citata del Don Chisciotte, pp. 1363-1364 (nota 15 a II, XXV).

[4] AVERY, Elementos dantescos del “Quijote”, p. 10: “La ortodoxia española, representada aquí por el autor del Quijote, habría sido vehemente en su ahinco de desacreditar la Divina Comedia, haciendo observar por medio de lo burlesco y la parodia cualesquiera elementos del poema de Dante que se prestasen a tal tratamiento”.

[5] Ibid., p. 26: “¿ Puede ser que nos equivoquemos al interpretar estas palabras como una indicación de que Cervantes pensase que esta parte de la Divina Comedia merecía la atención de las autoridades eclesiásticas ?”.

[6] SEGRE, Don Chisciotte, Introduzione, pp. xvi-xvii.

[7] Cfr. JOAQUÍN ARCE, Vega, Lope de, in Enciclopedia Dantesca, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 19842, V, pp. 898-899; VITTORIO BORGHINI, Poesia e letteratura nei poemi di Lope de Vega, Genova 1949.

[8] El Quijote, Prólogo; cfr. AVERY, p. 27: “El método de Cervantes de contender con Dante ‘el hereje’ no fue el de pasarle por alto, sino el de arremeter contra él de la manera sutil, oblicua, y maliciosa que hemos presenciado. Esta clase de ataque resultaría más eficaz que un asalto frontal en la forma, digamos, de un folleto que condenase la Divina Comedia como poco idónea para el uso de cristianos, y fue, después de todo, la misma estrategia que él empleaba para combatir la aceptación y el aplauso otorgados por el público a los libros de caballerías que ejercían tanto hechizo sobre una multitud tan grande de lectores en España y sobre don Quijote en particular”.

[9] Cfr. FERNANDO SALSANO, Prescienza, in Enciclopedia Dantesca, IV, pp. 651-652.

[10] L’inciso citato è nella seconda redazione del Commentarium di Pietro (1350-1355).

[11] Moral., lib. XII, cap. 21 (PL 75, 999).

[12] De cura pro mortuis agenda, cap. 15 (PL 40, 605).

[13] Qualche critico potrà forse ingenuamente pensare di trovarsi di fronte a una riedizione dei Fedeli d’Amore del Valli, o a Minerve oscure di pascoliana memoria e credere, in mancanza di argomenti scientifici seri, di poter liquidare con la qualifica di esoterismo questa ricerca, che è invece ascritta alla scienza storica. La crittografia è una scienza, come lo era anche l’arte della memoria per Alberto Magno e Raimondo Lullo.

[14] RAOUL MANSELLI, Pietro di Giovanni Olivi ed Ubertino da Casale (a proposito della Lectura super Apocalipsim e dell’ Arbor vitae crucifixae Jesu), in “Studi medievali”, ser. III, 6 (1965), pp. 95-122: pp. 117-118, ripubblicato in IDEM, Da Gioacchino da Fiore a Cristoforo Colombo. Studi sul francescanesimo spirituale, sull’ecclesiologia e sull’escatologisno bassomedievali, introduzione e cura di PAOLO VIAN, Roma 1997 (Istituto Storico Italiano per il Medio Evo. Nuovi Studi Storici, 36), pp. 79-107: pp. 101-102.

[15] Sulle incertezze di Gioacchino da Fiore circa il tempo dell’apertura del sesto sigillo, cfr. GIAN LUCA POTESTA’, Il tempo dell’Apocalisse. Vita di Gioacchino da Fiore, Bari 2004, pp. 148-149. Cfr. anche quanto esposto nell’edizione, su questo sito, del testo della Lectura (La fabbrica della Chiesa, ovvero lo sviluppo nel tempo della divina perfezione), edizione cui si rinvia per i luoghi delle citazioni che, ad Ap 12, 6, Olivi trae dalla Concordia e dall’Expositio di Gioacchino da Fiore.
L’apertura del sesto sigillo, secondo Olivi, avviene in quattro tempi diversi. C’è un inizio profetico in Gioacchino da Fiore, e forse in alcuni altri suoi contemporanei, ai quali è stato rivelato il terzo stato generale del mondo, l’età dello Spirito che corrisponde al sesto e al settimo stato della Chiesa secondo Olivi. C’è un inizio in Francesco, padre e pianta del suo Ordine e della sua Regola. Un altro inizio coincide con la nuova fioritura dovuta al risvegliarsi dello Spirito di Cristo in alcuni predicatori, nel momento in cui la Regola francescana viene impugnata e condannata dalla Chiesa carnale. Il quarto inizio è segnato dalla distruzione di Babilonia ad opera dei dieci re (Ap 17, 16), inizio per cui il sesto stato si distingue in modo chiaro dal quinto. Se la conversione di Francesco, avvenuta nel sesto anno della quarantunesima generazione a partire dall’incarnazione di Cristo e nel sesto del terzodecimo centenario (1206), segna fondamentalmente l’inizio del sesto stato (concorrente ancora con il quinto) e della terza età del mondo, Olivi non precisa i termini della terza e quarta apertura.
Anche i 1260 giorni (computati come anni) in cui la donna sarebbe rimasta nel deserto, secondo Ap 12, 6, articolati in quarantadue generazioni di trent’anni ciascuna (che sono, secondo Gioacchino da Fiore, le generazioni del secondo stato), possono, secondo il francescano, avere quattro differenti inizi, e dunque concludersi in tempi diversi. Il computo è di particolare importanza per la quarantunesima e la quarantaduesima generazione nelle quali, sempre secondo Gioacchino, verranno aperti rispettivamente il sesto e il settimo sigillo. Le quarantadue generazioni si possono far cominciare: dall’incarnazione di Cristo (è il modo che segue Gioacchino), e allora il terzo stato generale è già cominciato nell’anno della conversione di Francesco (1206), nella XLIa generazione (1200-1230; XLIIa: 1230-1260); oppure dal battesimo di Cristo, e allora tutti i termini slittano di un trentennio (XLIa generazione: 1230-1260; XLIIa: 1260-1290); oppure dalla morte di Cristo o dall’ascensione, e allora c’è un ulteriore slittamento di tre anni (XLIa generazione: 1233-1263; XLIIa: 1263-1293); oppure dal settimo anno dalla passione di Cristo, con il trasferimento della cattedra di Pietro ad Antiochia, e allora lo slittamento, rispetto al computo ab incarnatione, è di quarant’anni (XLIa generazione: 1240-1270; XLIIa: 1270-1300), e al termine ultimo, afferma l’Olivi che muore il 14 marzo 1298 poco dopo aver completato la Lectura, mancano solo tre anni (cfr. la tabella sinottica nell’edizione on line della Lectura super Apocalipsim). Secondo la periodizzazione scelta, si possono rilevare, nelle due ultime generazioni del secondo stato generale del mondo, diversi sconvolgimenti politici (la lotta di Federico II contro la Chiesa, la fine degli Svevi, il Vespro siciliano, la “novitas” dell’elezione di Celestino V) e diverse persecuzioni dell’Ordine francescano e della povertà evangelica, consumatesi soprattutto a Parigi, dove pure presero piede, dopo il 1260, “errores philosophici seu potius paganici, qui a doctoribus estimantur magna seminaria secte magni Antichristi, sicut et precedentes sunt seminaria et etiam plante errorum mistici Antichristi”. Tutto ciò “è indicativo dell’elasticità della periodizzazione oliviana, simile all’indeterminatezza relativa nella quale nel tredicesimo capitolo vengono lasciate le figure apocalittiche del capo della bestia ascendente dal mare, del capo della bestia ascendente dalla terra, la questione dei rapporti fra loro e l’ipotesi che al tempo dell’Anticristo mistico Federico II col suo seme, come il ‘caput occisum’, riprenda vita per costituire come pseudopapa un falso religioso che promuoverà l’abbandono della regola evangelica” [cfr. PAOLO VIAN, Tempo escatologico e tempo della Chiesa: Pietro di Giovanni Olivi e i suoi censori, in Sentimento del tempo e periodizzazione della storia nel Medioevo, Atti del XXXVI Convegno storico internazionale. Todi 10-12 ottobre 1999, Spoleto 2000 (Centro Italiano di Studi sul Basso Medioevo –  Accademia Tudertina. Centro di Studi sulla Spiritualità Medievale dell’Università degli Studi di Perugia), pp. 137-183: p. 151].

[16] Duplice è, secondo Gioacchino, la causa della somiglianza tra vecchio e nuovo. Talora infatti due popoli vengono designati con due eletti, talvolta con due dei quali il primo è reprobo e l’altro è eletto. Il popolo antico, generato secondo la carne da Abramo e dagli altri padri, fu infatti secondo certi rispetti reprobo e secondo certi altri eletto. Nella Scrittura è detto, a proposito di Ismaele che l’egiziana Agar aveva partorito ad Abramo: “il figlio della schiava non sarà erede con il figlio della donna libera” (cfr. Genesi 21, 10): «Et paulo ante dicit quod “duplex est causa similitudinis inter vetus et novum. Aliquando enim duo populi ipsorum designantur in duobus electis; aliquando in duobus, quorum primus est reprobus et alius electus. Cuius ratio est quia populus antiquus, ex Abraam et ceteris patribus secundum carnem genitus, fuit secundum aliquid reprobus et secundum aliquid electus. Unde scriptura dicit de utroque: Non erit heres filius ancille cum filio libere”. Hec Ioachim» (citato ad Ap 12, 6).
Considerata l’importanza dell’esegesi oliviana e dei temi che contiene, nonché della sua quasi capillare utilizzazione nel poema, non si può non notare la simmetria tra la domanda di Cavalcante a Dante – “mio figlio ov’ è? e perché non è teco?” (Inf. X, 60) -, che si è visto partecipe dell’incertezza di Gioacchino da Fiore circa l’appressarsi della terza età, e quella di Stazio a Virgilio – “dimmi dov’ è Terrenzio nostro antico, / Cecilio e Plauto e Varro, se lo sai: / dimmi se son dannati, e in qual vico” (Purg. XXII, 97-99) -, due momenti tra l’altro accomunati anche dalle circostanti rime mecociecoteco / ciecoseco (Inf. X, 56.58.60; Purg. XXII, 103.105). Virgilio risponde a Stazio (Purg. XXII, 100-114) elencando una serie di personaggi, storici o mitologici, in aggiunta a quelli già presenti nel Limbo (aggiunta anticipata, ai versi 13-15, dal nome di Giovenale). Tra questi c’è anche Manto: “èvvi la figlia di Tiresia, e Teti” (ibid., 113). Si tratta di una delle più spinose ‘cruces’ dantesche: già collocata nella quarta bolgia degli indovini, come può stare Manto anche nel Limbo? Le varie soluzioni sono puramente congetturali, contro di esse sta la lezione concorde di tutti i manoscritti. Gioacchino da Fiore, citato da Olivi ad Ap 12, 6, non solo afferma che le generazioni (che corrispondono a persone) possono essere, nel computo generale, sottratte o ripetute, ma anche che talora due popoli vengono designati con due eletti, talvolta con due dei quali il primo è reprobo e l’altro è eletto. Il popolo antico fu secondo certi rispetti reprobo e secondo certi altri eletto. Viene il dubbio che Manto sia consapevolmente ripetuta due volte. “La figlia di Tiresia” è citata fra “le genti tue”, cioè fra i personaggi celebrati da Stazio nella Tebaide e nell’Achilleide. Stazio, poco prima, nel racconto della sua conversione, ha affermato: “E pria ch’io conducessi i Greci a’ fiumi / di Tebe poetando, ebb’ io battesmo” (Purg. XXII, 88-89), cioè ‘fui battezzato prima che giungessi a comporre quell’episodio del poema in cui rappresento l’arrivo dei Greci sulle rive dei fiumi tebani’, episodio che, secondo l’interpretazione corrente, è nel libro IX della Tebaide (vv. 225ss); oppure, più precisamente, nel libro VII, 424-425 (“Iam, ripas, Asope, tuas Boeotaque ventum / flumina”). In questo poema Manto compare quale vergine che aiuta il padre Tiresia nei suoi sortilegi, libando il sangue delle greggi sacrificate ad Ecate, alle Erinni, le figlie dell’Acheronte, a Plutone e a Proserpina, spargendone le viscere ancora palpitanti (Theb., IV, 463-469); il che corrisponde alla “vergine cruda” di Inf. XX, 82. Nel X libro della Tebaide, però, Manto compare sotto ben altro aspetto. Per convincere Meneceo a sacrificarsi per la patria, scende in terra Virtù, una dea compagna di Giove, che sta vicino al suo trono. Per rendersi più credibile assume le sembianze di Manto, la profetessa, con le vesti che scendono fino ai piedi e le nere chiome legate dalla benda. Questa Virtù che penetra le anime che possono contenerla, alla cui scesa fanno via gli astri, che convince il giovane figlio di Creonte, il “pius Menoeceus”, ad accettare una morte gloriosa e che riascende infine dalla terra verso il cielo (Theb., X, 632ss.), doveva apparire virtù quasi cristiana a Dante, consapevole che Stazio aveva scritto da “chiuso cristian” quell’episodio del libro X. Da notare anche qualche simmetria tra le genti notate in Inf. XX e  quelle elencate in Purg. XXII: “Ma dimmi, de la gente che procede, / se tu ne vedi alcun degno di nota (vv. 103-104) … dimmi dov’ è Terrenzio nostro antico … Quivi si veggion de le genti tue (vv. 97, 109)”, quasi che il tema della “gentilitas”, toccato con Anfiarao, Tiresia, Arunte, Manto, Euripilo nella quarta bolgia infernale, abbia una sua ripresa più elevata nell’incontro tra i due alti tragici, Stazio e Virgilio, il primo dei quali ebbe come madre e nutrice l’Eneide e si convertì per i versi del “cantor de’ buccolici carmi”. Sotto la larva della ‘vecchia’ e crudele profetessa, la ‘nuova’ Manto si cambia in Virtù. Il dubbio, legittimo, resta. In ogni caso, stare nel Limbo non equivale ad essere beati. Ma come lì si sospira per l’apertura del libro, che solo Cristo può aprire, nel suo secondo avvento nel sesto stato della Chiesa, nel quale Dante è “sesto tra cotanto senno”, così il Purgatorio porta a compimento il tempo che san Paolo definisce della “plenitudo gentium” (Rm 11, 25-26): il viaggio che sale e rigira la montagna dura tre giorni e mezzo, esattamente come la permanenza della donna nel deserto dei Gentili, che vengono incorporati nella Chiesa “per un tempo, (due) tempi e la metà del tempo” (Ap 12, 14). Al termine della sua integrazione circa le “genti” nel Limbo, Virgilio determina la via per andare al sesto girone. Lì i temi del “novum seculum”, cioè del sesto stato dell’Olivi, sono maggiormente presenti, e nel sesto stato si completa la conversione dei Gentili, prima della finale conversione di Israele.

[17] LSA, cap. III, Ap 3, 7 (Ia visio, VIa ecclesia): Est etiam huius alia ratio, quia sicut primo tempore conversus est mundus ad Christum per stupendas et innumeras virtutes miraculorum, sic decet quod in finali tempore convertatur iterum orbis per preclara et superadmiranda et superhabunda lumina sapientie Dei et scripturarum suarum, et maxime quia oportet statum illius temporis elevari et intrare ad ipsa lumina suscipienda et contemplanda. Cooperabiturque ad hoc tota precedens illuminatio priorum statuum, et universalis fama Christi et sue fidei et sue ecclesie per totum orbem diffusa a tempore prime conversionis mundi continue usque ad tempora ista. Cfr. Il sesto sigillo, 6, tab. XXXV.

[18] L’ammissione come “sesto” nella schiera dei cinque sommi poeti del Limbo corrisponde alla “signatio” di Ap 7, 3, che avviene sotto il regime dell’angelo del sesto sigillo.

[19] Cfr. Il sesto sigillo, 7e, tab. LXVII.

[20] Cfr. L’agone del dubbio, ovvero il martirio moderno (Francesca e la «Donna Gentile»), 1.2 (Il “punto”), tab. II, II bis.

[21] Un esame completo di Inferno X è pubblicato nella Lectura Dantis.

[22] Cfr. Lectura super Apocalipsim e Commedia. Le norme del rispondersi, 2, tab. 2.9. Il confronto su Ap 4, 1-2 fra Riccardo di San Vittore e l’Olivi mostra, in questo come in altri punti, che il primo autore – principale fonte, insieme a Gioacchino da Fiore, nella Lectura super Apocalipsim – passa in Dante principalmente attraverso la rielaborazione fatta dal secondo.

[23] Cfr. GIROLAMO ARNALDI, Dante Alighieri, in Enciclopedia Fridericiana, I, 2005, p. 464.

[24] Cfr. Dante all’«alta guerra» tra latino e volgare, 2.9 (I quattro sensi secondo i teologi).

[25] Ibid., tab. XVIII-1

[26] Cfr. Il sesto sigillo, 6, tab. XXXIX.

[27] È questo esempio di come parole-chiave sollecitino la memoria del lettore spirituale verso un passo dell’esegesi apocalittica oliviana e nello stesso tempo verso il salmo ivi citato. Cfr. «In mensura et numero et pondere». Nella fucina della Commedia: storia, poesia e arte della memoria, 4 (Salmi polisensi).

[28] Cfr. ERICH AUERBACH, Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, trad. it., I, Torino 19735, pp. 196-197, che propone come modello l’apparizione di Andromaca in Aen. III, 310 ss.

[29] Cfr. Dante all’«alta guerra» tra latino e volgare, 3. 2, tab. XXXIII-1.

[30] Cfr. GIORGIO INGLESE, in Dante Alighieri, Commedia. Revisione del testo e commento. Purgatorio, Roma 2011, p. 89 (V, 135-136).

[31] Cfr. LSA, cap. XXI, Ap 21, 2 (settima visione): «In prima (parte) autem primo describitur sub typo sponse precellenter adornate et Deo tamquam sponso suo familiariter iuncte. Vocatur autem “civitas”, quia ibi est mira unitas omnium sanctorum tamquam concivium. Vocatur vero “Iherusalem”, quia ibi est visio summe pacis et principalis metropolis et sedes Dei et sanctorum». Nelle parole di Sapia – “ma tu vuo’ dire / che vivesse in Italia peregrina” -, l’Italia è figura di una città che milita verso la patria celeste.

[32] Cfr. La settima visione, I. 7.

[33] Cfr. Il sesto sigillo, Appendice ( L’apertura del primo sigillo [Ap 6, 1-2]: la vittoria del bianco).

[34] Cfr. ANNA MARIA CHIAVACCI LEONARDI, in Dante Alighieri, La Divina Commedia. Inferno, Milano 2007, pp. 474-475 (XV, 124): “… forse vuole anche ricordare Brunetto, in questa ultima immagine, come un vincitore, e non come un perdente, pur in quella suprema miseria”.

[35] Cfr. GIORGIO INGLESE, in Dante Alighieri, Commedia. Revisione del testo e commento. Inferno, Roma 2007, p. 185 (XV, 121-124): “… l’atto in sé … è degradante … appartiene tutto all’anima infamata e dannata, in cui l’antica immagine paterna è ormai svanita per sempre”.

[36] Qui sono indicati solo alcuni punti. Per altri, cfr. La settima visione, I. 3.

[37] E. BUONAIUTI, Storia del Cristianesimo, II, Milano 19472, pp. 537-538: «Ma come nell’animo di Dante l’intellettualismo tomistico e il volontarismo cistercense-francescano si mantenessero giustapposti, senza elidersi né sopraffarsi, appare dalla contraddizione in cui è lasciata cadere Beatrice, quando, nel canto XXVIII del Paradiso, spiegando il movimento dei cerchi angelici, afferma una volta tomisticamente che l’amore poggia sul conoscere […] e afferma un’altra volta, francescanamente, che il conoscere poggia sull’amare».

[38] Cfr. Il terzo stato. La ragione contro l’errore, tab. IV. 1-2.

[39] Su Ap 22, 17 cfr. L’agone del dubbio, ovvero il martirio moderno, 7 (Gentilezza, Gentilità, affanni, cortesia), tab. XXX-XXXII.

[40] Per altri temi presenti nei versi 91-96 (in particolare, l’accostamento della larghezza all’oblio, quasi questo ne consegua [Ap 7, 6]) cfr. L’agone del dubbio, ovvero il martirio moderno, cap. 1. 2 (Il “punto”),  tab. II bis.

[41] Cfr. La settima visione, I. 7.

[42] L’Eden è figura del quinto stato nel suo bel principio, dotato della pienezza delle stelle e dei vari doni dello Spirito, assimilato alla quinta chiesa d’Asia, Sardi, che fu già “principium pulchritudinis”. Al quinto vescovo e alla sua semenza gli stellari doni dello Spirito sono preparati da Dio, qualora si mantengano degni: cfr. Il sesto sigillo, 2b (La perfezione stellare della «prima» grazia [Ap 3, 3]), tab. XI-2.

[43] Cfr. Dante all’«alta guerra» tra latino e volgare, 2.8 (Lettera e spirito: il “pelago di cristallo misto a fuoco” [Ap 4, 6; 15, 2]), tab. XIV-XVII.

[44] Ibid., 3. 6 (Il libro scritto dentro e fuori), tab. XLII; «In mensura et numero et pondere». Nella fucina della «Commedia»: storia, poesia e arte della memoria, 3 (L’arte della memoria per l’autore), p. 45 (Ap 5, 8). Altre trasformazioni della tematica relativa alla sede divina sono esposte in Il sesto sigillo, 10.1. Si veda, nella tabella qui riportata, l’applicazione a san Bernardo (Par. XXXI, 103-108) e all’ordine angelico dei Troni (Par. IX, 61-63; XXVIII, 103-105).

[45] In IV Sent., dist. 13, qu. 2, art. 2. Il passo è citato da G. INGLESE a prova di come all’eresia possa essere applicata l’espressione “matta bestialitate” (Inferno, p. 144 [XI, 82]).

[46] Cfr. Amore angelico (Par. XXIII, 103-11).

[47] «In mensura et numero et pondere». Nella fucina della «Commedia»: storia, poesia e arte della memoria, 3 (L’arte della memoria per l’autore).

[48] BENEDETTO CROCE, La poesia di Dante, Bari 19527 (1920), p. 129.

[49] Cfr. LSA, cap. XII, Ap 12, 1-2: Quartum (radicale) vero, huic annexum, est ad Christum tam verum quam misticum in eius spiritali utero conceptum et in gloriam pariendum fortis cruciatio. Unde de eius adornatione subditur (Ap 12, 1): “Et signum magnum apparuit in celo”, id est in celesti statu Christi, scilicet “mulier amicta sole, et luna sub pedibus eius, et in capite eius coronam stellarum duodecim”. De parturitionis autem cruciatu subditur (Ap 12, 2): “Et in utero habens et clamat parturiens et cruciatur ut pariat”. Mulier ista, per singularem anthonomasiam et per specialem intelligentiam, est virgo Maria Dei genitrix. Per generalem vero intelligentiam, hec mulier est generalis ecclesia et specialiter primitiva. Virgo enim Maria et in utero corporis et in utero mentis Christum caput concepit et habuit, et in utero cordis totum corpus Christi misticum habuit sicut mater suam prolem.

[50] Cfr. S. GREGORII MAGNI Moralia in Iob, libri XXIII-XXXV, cura et studio M. Adriaen, Turnholti 1975 (Corpus Christianorum. Series Latina, CXLIII B), lib. XXXIII, cap. VII, (n. 14), pp. 1684-1685 (= PL 76, col. 680 B-D).

[51] IGNAZ von DÖLLINGER, Dante als Prophet, in ID., Akademische Vorträge , I, Nordlingen 1888, pp. 78-117; ERNESTO BUONAIUTI, Dante come profeta, Modena 1936.

[52] LSA, cap. XIX, Ap 19, 10: Nota quod, secundum morale misterium, meretrix Babilon est concupiscentia carnis vel mens pravis concupiscentiis a Deo aversa. Bestia vero, supra quam sedet, est bestialis voluptas vel prava et bestialia obiecta concupiscentie prave, vel bestialis societas menti carnali subiecta et serviens. Septem autem capita bestie sunt septem genera principalium obiectorum concupiscentie prave, que distinguuntur secundum septem genera capitalium vitiorum. Nam unumquodque habet suum formale et proprium et principale obiectum. In sexta autem etate mortalis hominis, scilicet in senio, ceciderunt quinque reges, scilicet quinque sensus. Tunc tamen precipue regnat sextus, id est avaritia, quem secuturus est septimus, scilicet intolerabilis et desperatus timor et tristitia de mortis imminentia et de mundialis vite nimium dilecte deficientia.
Decem autem reges et cornua meretricem cremantia sunt decem genera penarum infernalium, quarum quinque sunt sensibiles, secundum quinque sensus corporis quos affligunt, alia vero quinque sunt intellectualia.
Primum est certitudo interminabilis eternitatis pene.
Secundum est intimus sensus reprobative [despectionis] et ire et inimicitie Dei et omnium sanctorum ad dampnatos.
Tertium est corrosivus remorsus conscientie, quia ex culpa propria et pro complacentia vili et transitoria tantam penam promeruerunt et in tanta dampna et supplicia se precipitaverunt.
Quartum est tabescentia invidie dampnatorum ad beatos et ad gloriam eorum.
Quintum est crepatio importabilis impatientie in summas sui ipsius maledictiones et proprie adnichilationis exoptationes et in Dei et sanctorum et etiam omnium blasphemationes se incessabiliter eviscerantis.
Qui autem per horum decem compunctivam et contritivam considerationem in se ipso comburit et occidit prefatam meretricem et reddit ei duplicia secundum demerita eius (cfr. Ap 18, 6), iste cantat quater alleluia et intrat ad nuptias Agni.

[53] Cfr. GENNARO SASSO, Le autobiografie di Dante, Napoli 2008, p. 92: “Il passaggio dalla seconda persona singolare alla seconda plurale non può essere casuale. E, posto che, soggettivamente, lo fosse stato, scendere verso la radice della personalità, o dell’anima, di Dante, per cogliervi la non casuale ragione di questa casualità, non solo non sarebbe illegittimo. Ma sarebbe necessario. Dimostrerebbe infatti, questa discesa verso la radice, come in determinati momenti della narrazione, quando questa s’innalzava verso vertici di particolare intensità intellettuale e morale, il viandante dell’al di là riassumesse in sé tutto il genere umano, che in lui, appunto, si identificava”. In realtà il viandante riassumeva sempre tutto il genere umano e non solo in determinati momenti. Tale è appunto il senso di essere “alter Ioannes” che deve predicare ancora a tutto il mondo, la cui storia egli ripercorre nel suo viaggio, fino alla fine del tempo, e di cui si fa carico. L’individuo Dante è ascritto all’ “ordo evangelicus et contemplativus” degli ultimi tempi, sul quale ricadono tutte le illuminazioni passate, che sostiene vittoriosamente tutto il male precedente che ridonda su quello attuale e che può così reggere le genti “in virga ferrea”, cioè con la sua poesia che piega anche i cuori più duri.

[54] Cfr. ibid., p. 222 e nota 54, dove si sottolinea con nettezza il limite della tesi sostenuta da Bruno Nardi, che cioè l’idea della profezia colga il carattere essenziale della Commedia: “La Commedia è un’apocalisse che via via si realizza fino a conseguire il traguardo. […] Nel suo senso più profondo, la Commedia è, non una profezia, ma la storia del tempo in cui il tempo finisce; e perciò nel senso più volte chiarito, e con le conseguenze che ne discendono, un’apocalisse. Non annunziata, ma vissuta e realizzata”. Ma l’Apocalisse – la “profezia” per eccellenza – è, appunto, storia della salvezza.
Scriveva ERNESTO SESTAN, Dante a Firenze, in Italia medievale, Napoli 1966, pp. 270-291: p. 273: “fra i fatti che punteggiarono la vita politica fiorentina negli anni della presenza di Dante in Firenze, gli storici non esitano a porre in particolare rilievo, come tipici di Firenze, l’istituzione del priorato delle arti, le lotte anti-magnatizie, la figura e l’azione di un Giano della Bella e di un Corso Donati; e anche le lotte feroci fra Bianchi e Neri, che colpirono personalmente il poeta, sebbene esse, sotto gli stessi nomi o analoghi, si ritrovino in moltissime città italiane del tempo, fenomeno di rivalità e di disgregazione nei gruppi dirigenti, appoggiantisi a forze esterne, si chiamino papato, impero o altrimenti: nulla di tipicamente fiorentino: solo la fama di Dante ha fatto sì che assurgessero, nella storiografia, a una notorietà e singolarità che veramente non meritano”. Più che la fama di Dante, è stato il suo profetismo, per il quale il microcosmo toscano è asceso a esemplare di storia universale.

[55] MICHELE BARBI, Il gioachinismo francescano e il Veltro, in “Studi danteschi”, 18 (1934) pp. 209-211 (contro le “eresie dantesche” contenute in Sacrum Imperium di Alois Dempf); L’Apocalissi dantesca, ibid., 22 (1938), pp. 195-197 (contro Buonaiuti); Veltro, Gioachinismo e Fedeli d’Amore: sbandamenti e aberrazioni, in Nuovi problemi della critica dantesca, V, ibid., 23 (1938), pp. 29-46. Raoul Manselli dichiarava il proprio dissenso da posizioni siffatte, pur espresse da un maestro come Michele Barbi: “La Divina Commedia è una profezia, una rivelazione; nessun dubbio – egli osserva in Il gioachimismo francescano -, ma Dante non ebbe bisogno perciò d’ispirarsi né ai sogni del monaco calabrese né a quelli dei seminatori di discordie nell’ordine francescano […] ebbe più sincere fonti d’ispirazioni nei profeti veri; gli bastarono per le sue figurazioni del paradiso terrestre gli elementi che gli eran dati dall’Apocalisse; ed anche per tuonare contro la Chiesa carnale aveva ben più alti esempi nella tradizione ecclesiastica stessa. A sentire certi critici, Dante non saprebbe trovare un’immagine né formare un pensiero senza un suggerimento di Giovanni Olivi (sic!) o di fra Ubertino da Casale.” (RAOUL MANSELLI, Dante e l’ “Ecclesia Spiritualis”, in Dante e Roma. Atti del Convegno di studio a cura della “Casa di Dante”, sotto gli auspici del Comune di Roma, in collaborazione con l’Istituto di Studi Romani, Roma 8-9-10 aprile 1965, Firenze 1965, pp. 115-135, ripubblicato in IDEM, Da Gioacchino da Fiore a Cristoforo Colombo [cfr. n. 14], pp. 55-78: p. 69, nota 38).

[56] BRUNO NARDI, Dante e la cultura medievale. Nuovi saggi di filosofia dantesca, Bari 1942 (Biblioteca di cultura moderna), pp. 258-334 (Dante profeta).

[57] Cfr. La settima visione, I.6 (Una città sobria).

[58] Cfr. ELISA BRILLI, Firenze e il profeta. Dante fra teologia e politica, Roma 2012.

[59] Per dare un solo esempio di concordia fra i profeti dell’Antico Testamento e il libro dell’Apocalisse, si ricorda l’esegesi di Ap 3, 7 (prima visione, sesta chiesa), dove al vescovo di Filadelfia Cristo parla dell’apertura della porta che nessuno può chiudere, in quanto egli è depositario della “chiave di David, che apre e nessuno chiude, chiude e nessuno apre”. L’espressione “chiave di David” è posta per concordia con un passo del profeta Isaia relativo alla casa del re d’Israele (Is 22, 22): «Quia etiam promittit sibi apertionem hostii a nemine sibi possibilis claudi, immo asserit iam hoc sibi dedisse, ideo proponit se ei correspondenter subdendo: “qui habet clave[m] David, qui aperit et nemo claudit, claudit et nemo aperit”. “Clavem David” dicit tum propter concordiam ad verbum propheticum Isaie, capitulo XXII° dicentis: “Dabo clavem domus David super humerum eius; et aperiet et non erit qui claudat, et claudet et non erit qui aperiat” (Is 22, 22) […]». Di questa espressione è memore Pier della Vigna: “Io son colui che tenni ambo le chiavi / del cor di Federigo, e che le volsi, / serrando e diserrando, sì soavi, / che dal secreto suo quasi ogn’ uom tolsi” (Inf. XIII, 58-61); essa gli fu applicata da Nicola da Rocca: “tanquam Imperii claviger, claudit, et nemo aperit; aperit, et nemo claudit”. Per la concordia dei salmi con l’esegesi apocalittica oliviana cfr. «In mensura et numero et pondere», 4 (Salmi polisensi).

[60] Sul fatto che il nuovo Giovanni possa essere impersonato non solo da un ordine, ma anche da “singulares persone” cfr. quanto scritto nel saggio La fabbrica della Chiesa, ovvero lo sviluppo nel tempo della divina perfezione nell’edizione del testo della Lectura.

[61] Cfr. TEODOLINDA BAROLINI, “Why did Dante write the Commedia? or The Vision Thing, in “Dante Studies” (Panel Discussion at the 1993 annual meeting of the Society in Cambridge), CXI (1993), pp. 1-8: p. 3: “Despite Augustine’s understanding that rhetorical prowess and access to truth can coincide [see De doctrina christiana 4.16.33], the Church on the whole (with a few telling exceptions like the Dominican ban of 1335) was willing to bracket Dante as a poet, a maker of  fictio”; The Undivine Comedy: Detheologizing Dante, Princeton 1992, trad. it., La “Commedia” senza Dio. Dante e la creazione di una realtà virtuale,  Milano 2003, p. 25: «non solo theologus e non solo poeta, Dante mantiene le aporie e le contraddizioni di un poema profeticamente ispirato – un’opera che in quanto arte può essere menzogna, ma in quanto profezia è “non falsa” – entro il rigoroso abbraccio del paradosso».

[62] Cfr. ALBERTO FORNI, Pietro di Giovanni Olivi nella penisola italiana: immagine e influssi tra letteratura e storia in Pietro di Giovanni Olivi frate minore. Atti del XLIII Convegno Internazionale. Assisi 16-18 ottobre 2015, Spoleto 2016 (Società Internazionale di Studi Francescani – Centro Interuniversitario di Studi Francescani), pp. 395-437.

[63] Cfr. GIOVANNI BOCCACCIO, Vita di Dante, II, in Il Comento alla “Divina Commedia” e gli altri scritti intorno a Dante, a cura di D. Guerri, I, Bari 1918 (Scrittori d’Italia), p. 8: “[…] e partorì uno figliuolo, il quale di comune consentimento col padre di lui per nome chiamaron Dante: e meritamente, percioché ottimamente, sì come si vedrà procedendo, seguì al nome l’effetto”.

[64] Nel volgersi di Dante risuona il tema da Ap 1, 10-12, su cui cfr. Dante all’«alta guerra» tra latino e volgare, 2.12 (Le rime aspre e dolci), tab. XXIV, XXV.

[65] Cfr. L’agone del dubbio, ovvero il martirio moderno (Francesca e la «Donna Gentile»), 1.1 (Certamen dubitationis), tab. I.

[66] Cfr. Il sesto sigillo, 2b (La perfezione stellare della «prima» grazia [Ap 3, 3]).

[67] Sul valore di “amen” come “sì” cfr. Dante all’«alta guerra» tra latino e volgare, 2.4 (“Amen, id est vere sic sit et fiat”: la preghiera “del bel paese là dove ’l sì suona”), tab. V, VI.

[68] Cfr. ibid., 2.8, tab. XIII; La settima visione, I.3 (I lati del quadrato e la loro somma uguaglianza [Ap 21, 16]).

[69] Cfr. Il sesto sigillo, 2b, tab. XI-4.

[70] Si conferma in tal modo la tesi di GINO CASAGRANDE, I s’appellava in terra ’l sommo bene, in “Aevum”, 50 (1976), pp. 249-273.

[71] Cfr. S. HIERONYMI Presbyteri Liber interpretationis hebraicorum nominum, cura et studio P. De Lagarde, Turnholti 1959 (Corpus Christianorum. Series Latina, LXXII), p. 159; Epist. XXV, PL 22, col. 429. Ma la citazione è mediata tramite ISIDORO DI SIVIGLIA, Etymologiarum VI, xix, 19-21 (ed. W. M. Lindsay, Oxonii 1911, vol. I). Cfr. Sancti Aurelii AUGUSTINI De doctrina christiana, cura et studio I. Martin, Turnholti 1962 (CCSL, XXXII), lib. II, xi, p. 42.

[72] La più recente sintesi è in ALBERTO FORNI, Pietro di Giovanni Olivi nella penisola italiana: immagine e influssi tra letteratura e storia in Pietro di Giovanni Olivi frate minore. Atti del XLIII Convegno Internazionale. Assisi 16-18 ottobre 2015, Spoleto 2016 (Società Internazionale di Studi Francescani – Centro Interuniversitario di Studi Francescani), pp. 395-437.

[73] Trascrivendo la Lectura dal manoscritto angelicano 382, suggeriva nel 1929 a Pietro Fedele « l’idea di un “corpus joachimitarum” che riporti alla luce della storia la voce di predicatori che alimentarono forse le aspirazioni di Dante »; cfr. Lettere a Raffaello Morghen, 1917-1983, scelte e annotate da G. Braga, A. Forni e P. Vian, introduzione di O. Capitani (Nuovi studi storici, 24), Roma, 1994, p. 83, nota 2 (la lettera di Buonaiuti a Fedele è del 10 dicembre 1929).

[74] RAOUL MANSELLI, Dante e l’ “Ecclesia Spiritualis”  [cfr. n. 55], pp. 55-78.

[75] OVIDIO CAPITANI, Da Dante a Bonifacio VIII, Roma, 2007 (Bonifaciana, 4), pp. 100-111.

[76] CHARLES SOUTHWARD SINGLETON, La poesia della Divina Commedia, trad. it., Bologna 1978, pp. 461-462.

[77] GIORGIO PADOAN, Il lungo cammino del “poema sacro”. Studi danteschi, Firenze 1993 (Biblioteca dell’ “Archivum Romanicum”, Ser. I, vol. 250), passim.

[78] TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, I, qu. I, a. 10: “Ad primum ergo dicendum quod multiplicitas horum sensuum non facit aequivocationem, aut aliam speciem multiplicitatis: quia, sicut iam dictum est, sensus isti non multiplicantur propter hoc quod una vox multa significet; sed quia ipsae res significatae per voces, aliarum rerum possunt esse signa. Et ita etiam nulla confusio sequitur in sacra Scriptura: cum omnes sensus fundentur super unum, scilicet litteralem; ex quo solo potest trahi argumentum, non autem ex his quae secundum allegoriam dicuntur, ut dicit Augustinus in epistola contra Vincentium Donatistam (Ep. XCIII, cap. 8). Non tamen ex hoc aliquid deperit sacrae Scripturae: quia nihil sub spirituali sensu continetur fidei necessarium, quod Scriptura per litteralem sensum alicubi manifeste non tradat”. Nel Convivio (II, i, 8-14) si dimostra come “sempre lo litterale dee andare innanzi, sì come quello nella cui sentenza li altri sono inchiusi, e sanza lo quale sarebbe impossibile ed inrazionale intendere alli altri, e massimamente allo allegorico”. Il senso letterale viene prima come lo star fuori precede lo star dentro, come la materia deve essere disposta prima di ricevere le altre forme, perché il letterale è fondamento degli altri sensi, perché è meglio conosciuto degli altri meno conosciuti, ai quali si deve ordinatamente procedere.

[79] TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, I, qu. I, a. 9: “Convenit etiam sacrae Scripturae, quae communiter omnibus proponitur (secundum illud ad Rom. I, [14]: sapientibus et insipientibus debitor sum), ut spiritualia sub similitudinibus corporalium proponantur; ut saltem vel sic rudes eam capiant, qui ad intelligibilia secundum se capienda non sunt idonei. Ad primum ergo dicendum quod poeta utitur metaphoris propter repraesentationem: repraesentatio enim naturaliter homini delectabilis est. Sed sacra doctrina utitur metaphoris propter necessitatem et utilitatem, ut dictum est. Ad secundum dicendum quod radius divinae revelationis non destruitur propter figuras sensibiles quibus circumvelatur, ut dicit Dionysius, sed remanet in sua veritate; ut mentes quibus fit revelatio, non permittat in similitudinibus permanere, sed elevet eas ad cognitionem intelligibilium; et per eos quibus revelatio facta est, alii etiam circa haec instruantur. Unde ea quae in uno loco Scripturae traduntur sub metaphoris, in aliis locis expressius exponuntur. Et ipsa etiam occultatio figurarum utilis est, ad exercitium studiosorum, et contra irrisiones infidelium, de quibus dicitur, Matth. 7, [6]: nolite sanctum dare canibus”.

[80] BONAVENTURA, Collationes in Hexaëmeron, XIII, 11 (in Sancti Bonaventurae Opera, VI/1, Roma 1994 [Quaracchi, 18911], p. 248): “Et quia per fidem, spem et caritatem pervenitur ad Deum; ideo omnis creatura insinuat, quid credendum, quid exspectandum, quid operandum. Et secundum hoc est triplex intelligentia spiritualis: allegoria, quid credendum; anagogia, quid exspectandum; tropologia, quid operandum”. Cfr. JOSEPH RATZINGER, San Bonaventura. La teologia della storia, ed. it. a cura di L. Mauro, S. Maria degli Angeli – Assisi 2008, p. 96, dove sono citati luoghi analoghi.

[81] ALBERTO ASOR ROSA, postfazione a L’idea deforme. Interpretazioni esoteriche di Dante, a cura di M. P. Pozzato, Milano, 1989, p. 316.

[82] THOMAS STEARNS ELIOT, Dante (1929), in Opere 1904-1939, a cura di R. Sanesi, Milano 1992, pp. 827-828.