«

»

Dic 08 2017

Dante e Gioacchino da Fiore – I

 

INTRODUZIONE

Vieux prophètes du Moyen-Âge,
qui nous promettez l’Évangile éternel:
venez à notre aide!

Jules Michelet [1]

“Rabano è qui, e lucemi dallato / il calavrese abate Giovacchino / di spirito profetico dotato”. Sulle parole di san Bonaventura pronunciate nel cielo del Sole, dove si mostrano gli spiriti sapienti (Par. XII, 139-141), scriveva Arsenio Frugoni:

Che la qualifica di ‘profeta’ possa avere giustificazione in una conoscenza diretta o indiretta da parte di Dante di opere, autentiche o credute tali, di Gioacchino, non si può affermare, perché manca nell’opera di Dante una qualsiasi indicazione di opere di Gioacchino; né ci è dato di trovare un solo riscontro testuale preciso, ché sempre ci si può richiamare a una fonte comune, scritturale o patristica, o riferire ad affermazioni diffuse nel mondo ‛spirituale’ [2].

Era definitivamente chiusa la via di un rapporto diretto di Dante con l’opera dell’abate calabrese, dopo che la pubblicazione del Liber Figurarum, attribuito a Gioacchino, da parte di Leone Tondelli [3] aveva suscitato tante speranze presto deluse dal confronto fra i testi.
Restava l’altra via, quella di un rapporto di Dante con il “gioachimismo”, cioè con le opere nate nell’ambito dei movimenti ispirati in qualche modo a Gioacchino.
Nel suo saggio del 1965 su Dante e l “Ecclesia Spiritualis”, Manselli partiva proprio da tale questione chiedendosi come fosse possibile negare il rapporto che unisce la religiosità dantesca, la sua critica alla gerarchia ecclesiastica, con uno dei più tormentati filoni della religiosità duecentesca. La risposta è che se Dante non conobbe le opere di Gioacchino, ebbe però presente l’idea dell’Ecclesia Spiritualis così come si era sviluppata tra gli Spirituali francescani, e ne condivise alcuni degli elementi fondamentali. In questo senso Pietro di Giovanni Olivi, il maggiore esponente del movimento spirituale, non può considerarsi una fonte di Dante ma, attraverso la Lectura super Apocalipsim, una voce dell’Ecclesia Spiritualis [4].
Manselli era l’ultimo dei grandi maestri che avevano segnato il campo nel secolo XX. Alois Dempf, in Sacrum Imperium (1929), aveva accostato la Lectura super Apocalipsim dell’Olivi (completata poco prima della morte, a Narbonne, nel 1298) alla Commedia di Dante (iniziata intorno al 1307) come due “Apocalissi gioachimite”. Con la differenza che Dante, posto fra due secoli, guardava come Giano sia a una guida spirituale sia a un imperatore filosofo [5].
Con grande equilibrio, nel 1932 Herbert Grundmann aveva inquadrato il problema del rapporto tra Dante e Gioacchino da Fiore nella spiegazione del perché l’abate calabrese si manifesti nel cielo del Sole accanto a Bonaventura che lo presenta [6].
Nel 1934, Ernst Benz aveva sottolineato nella sua Ecclesia Spiritualis la consonanza dell’elogio di san Francesco pronunciato da san Tommaso nel cielo del Sole con le attese escatologiche degli Spirituali francescani, come Dante avrebbe potuto leggere nella Lectura super Apocalipsim dell’Olivi e ascoltare dalle parole stesse del frate, che insegnò a Santa Croce fra il 1287 e il 1289 [7].
Due anni dopo, nel 1936, Ernesto Buonaiuti aveva trovato in Olivi lo “schema ideale” nel quale Dante “ha potuto inquadrare il suo amore per Beatrice” [8].
Con recisa negazione intervennero Michele Barbi e Bruno Nardi. Per il primo, che andava scrivendo sulle “eresie dantesche” di Dempf, la Commedia era certo una profezia e una rivelazione, ma a Dante poteva bastare il testo della Scrittura, senza la sua esegesi [9]. Il secondo denunciava come innaturale questo voler far coincidere le idee di Dante con quelle dei gioachimiti:

Nelle loro aspirazioni c’era qualcosa del romanticismo anarchico che di quando in quando vediamo tornare ad affermarsi, nel corso della storia, come reazione ad una vita politico-sociale agitata, turbolenta, tirannica. Dante aveva studiato troppo il suo Aristotele e il suo Virgilio per svalutare fino a questo punto la vita terrena. Ed aveva troppo lottato, troppo amato, troppo sofferto, per dimenticare anche nella luce dei cieli “l’aiuola che ci fa tanto feroci” e in essa Firenze [10].

[…] accanto alla Bibbia, per Dante, ci sono gli scritti d’Aristotele e c’è l’Eneide. Nel terzo stato di Gioacchino, invece, l’Impero è assente; e con l’Impero sono assenti la filosofia aristotelica e l’umanesimo virgiliano che riempiono di sé tutta la Divina Commedia. […] Non manca certo in Dante l’ardore religioso e lo slancio dei grandi mistici. […] Ma si guasterebbe il miracoloso equilibrio della Divina Commedia, se se ne accentuasse l’aspetto di visione profetica, qual essa certamente è, fino a ignorarne o anche semplicemente a svalutarne l’umanesimo filosofico, dimenticando che il poema dantesco è nato da una felicissima “contaminatio” dell’Eneide con la Bibbia [11].

In tutti questi casi, di affermazione o diniego, il confronto tra Dante e gli Spirituali era un mettere in parallelo le idee, coincidenti o divergenti, di rinnovamento della Chiesa. Nel 1984, Marjorie Reeves, al II Congresso internazionale di studi gioachimiti al quale partecipò anche Raoul Manselli, propose di connettere il numero con cui Beatrice indica il messo di Dio – “cinquecento”, “diece” e “cinque”, cifre corrispondenti alle lettere latine D, X, V: DVX, invertendo l’ordine delle lettere (Purg. XXXIII, 43-45) –, con la profezia del novus dux contenuta nel quarto libro della Concordia di Gioacchino da Fiore [12]. Passo che però è citato nella Lectura super Apocalipsim dell’Olivi ad Ap 7, 2. Il confronto con quella che è stata definita l’ultima storia della salvezza collettiva del Medioevo cristiano [13] non era più rinviabile.
I risultati della ricerca sin qui condotta, e pubblicata su questo sito, convergono tutti su un punto fondamentale: tra il poeta e il frate non ci fu solo una consonanza di idee. Olivi non fu per Dante solo una ‘voce’ come intendeva Manselli; l’insegnamento del Francescano, in vita e dopo la morte, si concretizzò in testi esegetici che il Fiorentino liberamente elaborò e trasformò in poesia aderendo alla teologia della storia espressa in particolare nella Lectura super Apocalipsim da cui trasse elementi semantici e concetti teologici in essi racchiusi, destinati alla Chiesa, per trasferirli sulle vicende dell’ “aiuola che ci fa tanto feroci”. Non fu un tentativo mistico, come sarebbe avvenuto al principio del secolo XX con Solov’ëv, il primo Blok e gli altri simbolisti russi del gruppo degli “Argonauti”, ispirati dalla teologia nella ricerca del soprannaturale, dell’Eterno Femminino; la teologia della storia dell’Olivi – la più discussa del tempo nella sua novità – servì a Dante per dare ad Aristotele e agli Antichi la cittadinanza “di quella Roma onde Cristo è romano”. Non fu la poesia “ancilla theologiae”, bensì fu il “saeculum humanum”, per usare il titolo di un celebre libro di Hanno Helbling (Napoli 1958), ad appropriarsi delle sacre prerogative.
Dante si sentì investito di una missione, attraverso la poesia, di predicazione e di conversione universale. Nuovo Giovanni esiliato e visionario autore di una nuova Apocalisse, nel narrare la sua vera visione fu profeta perché diede alle particolari vicende e personaggi di questo mondo valore universale. Così fu Isaia il quale, parlando di Babilonia e del suo re, dilata il discorso rivolgendolo contro tutto il mondo simile a Babilonia e contro Lucifero re di tutti i superbi e i malvagi quasi fosse re della grande Babilonia (Is 14, 12). Così Ezechiele, parlando contro Tiro, si diffonde su tutto il mondo e sul supremo cherubino che sta nel mezzo delle pietre infuocate (Ez 28, 14-16). Così Cristo, che attribuisce tutti i mali provenienti da ogni generazione di reprobi alla particolare malvagia generazione dei reprobi Giudei del suo tempo, sulla quale ricade tutto il sangue versato dal tempo di Abele il giusto (Matteo 23, 35-36). Così l’autore dell’Apocalisse, che toccando della bestia che sale dal mare (la bestia saracena: Ap 13, 1-10) si dilata a tutta la massa dei reprobi che dalla creazione alla fine del mondo combatte contro la Chiesa degli eletti e ha sette teste corrispondenti alle sette età. Così Dante può dire della fama di Firenze che “si spande” per tutto l’inferno (Inf. XXVI, 1-3), o che la città “è pianta” di Lucifero (Par. IX, 127-128). Fu profeta ‘laico’, nel senso che rese sacro il “viver bene” dell’“omo in terra”, con le sue esigenze – lingua, ragione, regime politico – e le sue passioni. Il realismo dantesco fa sì che “l’altro mondo è reso sensibile e leggibile con le forme del nostro mondo” [14] ma, armonizzando “e cielo e terra”, nel “poema sacro” le forme del nostro mondo sono inserite in un processo storico che manifesta i segni della volontà divina. Questa storia universale della salvezza è contenuta nella Lectura super Apocalipsim dell’Olivi.
Le norme che regolano il rapporto intertestuale fra Commedia e Lectura sono state più volte indicate: rispondenze semantiche in rose di parole-chiave entro spazi testuali ristretti, con accostamenti non banali o scontati; parole-chiave, riferibili alla medesima pagina esegetica, che si riscontrano in più punti del poema; collazione di più passi della Lectura (il cui testo si può scomporre e riaggregare sulla base di elementi settenari), secondo un procedimento analogico tipico delle distinctiones ad uso dei predicatori; elaborazione di una struttura semantica interna al poema, “topograficamente” articolata secondo i sette stati della storia della Chiesa, cioè secondo le categorie in base alle quali Olivi espone l’Apocalisse.
È stato anche sempre sottolineato che l’adesione non significa acquiescenza. Dante aggiorna l’Olivi appropriando i concetti teologici presenti nella Lectura all’Impero, alla filosofia aristotelica e all’umanesimo virgiliano che, come rilevava Nardi nella critica al Tondelli, riempiono di sé tutta la Commedia.
Poema polisemico, secondo quanto l’autore afferma nell’Epistola a Cangrande (Ep. XIII, 20), la Commedia è un universo di segni. Il senso letterale contiene parole che sono chiavi di accesso a un altro testo, la Lectura super Apocalipsim dell’Olivi. Si tratta di un procedimento di arte della memoria: le parole-chiave operano sul lettore come imagines agentes che lo sollecitano verso un’opera di ampia dottrina, che già conosce, ma che rilegge mentalmente parafrasata in volgare, profondamente aggiornata secondo gli intenti propri del poeta, in versi che le prestano “e piedi e mano” e la dotano di exempla contemporanei e noti. Nel senso letterale del “poema sacro”, riservato a tutti, sono incardinati gli altri sensi interpretativi: allegorico, morale, anagogico (che Dante, nell’Epistola a Cangrande, definisce collettivamente “mistici” o “allegorici”). Dante mirava non solo a un pubblico di laici, ma anche di predicatori e riformatori della Chiesa. Questo pubblico di chierici non si formò, perché gli Spirituali (non un gruppo organizzato, ma di sensibilità comune), che dovevano conoscere la Lectura oliviana, furono perseguitati e il loro libro-vessillo, censurato nel 1318-1319 e condannato nel 1326, fu votato alla clandestinità e quasi alla sparizione. Ma la Commedia e la Lectura, testualmente tanto unite, furono anche gli ultimi testimoni, nel Medioevo cristiano, dell’inserimento dell’individuo nell’ordine universale secondo i giudizi di Dio, di una storia della salvezza collettiva, prima che l’individuo restasse solo.
Incurante della “solita censura ideologica e inquisizionale” operata dal “pietismo dantistico imperante” allo scopo di sottrarre Dante all’eterodossia, di cui scriveva Giorgio Brugnoli a proposito della possibilità che il poeta avesse aderito alle tesi dell’Olivi condannate dal Concilio di Vienne (1311-1312) [15], indifferente ai timori dei guardiani del laicismo integrale su un possibile ‘farsi frate’ dell’autore della Monarchia, tetragona ai consapevoli silenzi accademici che l’hanno accompagnata per vent’anni [16], la ricerca rovescia la vecchia regoletta del loicare, che Nardi adduceva a proposito delle presunte fonti dantesche [17]: “a posse ad esse non datur illatio”. Non inventa ipotesi ma mostra testi, non forzandoli né dolcemente sollecitandoli. Sono i testi, nel loro esse, ad argomentare e a provare.
Il rapporto fra Commedia e Lectura getta nuova luce sull’intera opera dantesca – dalle “nove rime” alla Vita Nova al Convivio alla Monarchia -; potrà forse in futuro precisare meglio cronologie insicure e accertare “possibili” biografie di Dante. Egregi studi sui rapporti del poeta con il gioachimismo [18] e con i Francescani [19] potranno essere rivisti alla luce della nuova ricerca. Tutto ruota attorno al momento in cui Dante ebbe in mano la Lectura dell’Olivi. Fu probabilmente Ubertino da Casale colui che diede a Dante il “libro” affinché ne facesse cosa nuova in versi. Dopo la morte dell’Olivi la Lectura si diffuse subito in Italia; nel 1305 (marzo-settembre) Ubertino da Casale l’aveva con sé a La Verna mentre scriveva l’Arbor vitae; nel 1306 (6 ottobre) Dante è in Lunigiana come procuratore di pace con il vescovo di Luni per conto dei Malaspina; nel 1307 è forse in Casentino, da dove invia a Moroello la canzone Montanina; nello stesso anno Ubertino, diventato cappellano del cardinale Napoleone Orsini [20], opera per il ritorno a Firenze degli esiliati, azione che fallisce dopo il mancato scontro a Gargonza tra i Neri e le truppe del Cardinale, ospite dei conti Guidi. Dunque negli stessi mesi, e in luoghi contigui se non coincidenti, Dante e Ubertino lavoravano per la pace, e si può ben immaginare quanto l’attività del frate stesse a cuore al poeta. Fu quella l’ultima possibilità che Dante ebbe di rientrare a Firenze prima dell’inizio della stesura della Commedia. Fu un anno decisivo, il 1307, come scrisse Giorgio Petrocchi, allorché “un totale commovimento etico-religioso, quale ben oltre la visione allegorica della Vita Nuova, irrompe nelle prime terzine dell’Inferno” e “il mondo del profetismo gioachimita e celestiniano del Duecento crea nuovi temi e interrogativi all’animo del poeta” [21].
In ogni caso, parlare di “profetismo” dantesco senza conoscere la Lectura super Apocalipsim dell’Olivi significa rimanere sul piano del confronto di idee, legittimo ma privo di quelle basi storiche che solo può fornire lo scavo dei testi, e dunque opinabile e insicuro. Togliere la Lectura dalla ‘biblioteca’ di Dante, o non valutare compiutamente il gran peso che vi recò, equivale a concepire quella di Agostino senza le Historiae di Orosio, di Cervantes senza i romanzi cavallereschi, di Proust senza Ruskin e Bergson, di Italo Calvino senza Kipling e Conrad.
In questa nuova situazione, il rapporto Dante-Gioacchino da Fiore appare in modo più chiaro, liberato dai legittimi dubbi derivanti dalla dimostrata mancanza di conoscenza diretta. Di Gioacchino Dante utilizzò nel poema solo quanto citato dall’Olivi e solo in quel contesto che non era, in senso stretto, gioachimita.
Quasi una basilica a due navate, la Lectura è una synkresis tra due grandi esegeti dell’Apocalisse, che si temperano a vicenda: Riccardo di San Vittore (morto nel 1173), preoccupato dell’interpretazione letterale del testo, quale irrinunciabile fondamento dell’allegoria; Gioacchino da Fiore (che termina la sua Expositio nel 1200) [22], più attento all’interpretazione spirituale lì dove serva a interpretare i fatti storici contemporanei, e anche quelli passati in quanto prefigurazione degli eventi successivi. Sui due emerge la voce modesta e sapiente del francescano, tutta centrata su Cristo e sui suoi tre avventi, il secondo dei quali – novum saeculum – si verifica nei tempi moderni (il sesto stato della Chiesa), vicini ma non coincidenti con l’ultimo avvento, quello della parusia.
Complessivamente i due auctores sono in equilibrio: 161 citazioni esplicite di Riccardo (di cui 157 dal commento all’Apocalisse); 167 di Gioacchino (di cui 129 dall’Expositio e 38 dalla Concordia, ma le citazioni implicite sono assai più numerose rispetto a quelle del Vittorino) [23], a cui bisogna aggiungere due citazioni di rilievo dagli scritti pseudo gioachimiti (ad Ap 13, 18, sul redivivo seme di Federico II; ad Ap 20, 1-5, dove è fatto diffuso riferimento al De semine Scripturarum).
Gioacchino da Fiore non è per l’Olivi “un autore fra gli altri, che egli cita, discute, accetta o rifiuta come uno qualsiasi dei teologi o degli esegeti che via via utilizza nella sua opera”, come intende Raoul Manselli [24]. Ciò è vero sui singoli punti, ma Gioacchino è in primo luogo il profeta del sesto stato (che con il settimo corrisponde alla terza età dell’abate), e questo comporta in primo luogo l’accettazione della sua impostazione storica.
Con Riccardo di San Vittore il Francescano dissente su punti fondamentali, che riguardano proprio il sesto stato. I 144.000 segnati all’apertura del sesto sigillo da tutte le dodici tribù d’Israele (Ap 7, 3-8) sono, secondo il Vittorino, i santi dell’Antico Testamento, il cui numero è preciso, a differenza della “turba magna, quam dinumerare nemo poterat” che segue (Ap 7, 9), con la quale sono invece designati i santi del Nuovo Testamento. Olivi rovescia questa interpretazione: i segnati sono gli eletti destinati all’ultima fase, cioè al sesto stato della Chiesa, come quanto mancava alla costruzione del tempio fu fatto negli ultimi sei anni. La gran turba, che viene dopo, segue i segnati come i fanti nella milizia seguono i cavalieri  e i capitani.
Ancora, Riccardo afferma che l’angelo del sesto sigillo (Ap 7, 2; ciò vale anche per l’angelo dalla faccia solare di Ap 10, 1) è Cristo. Tale asserzione priva di ogni sviluppo storico la figura apocalittica. Se certamente Cristo è la prima causa di ogni bene, ha tuttavia ordinato sotto di sé uomini angelici che illuminano gli inferiori, come avvenuto anche per i sette angeli che suonano la tromba (Ap 10, 1).
In entrambi i casi, l’esegesi di Olivi è sostenuta da citazioni di Gioacchino, tutte di particolare pregnanza, soprattutto quella che fa riferimento alla duplice tribolazione di Pietro, con cui si apre la parte relativa ad Ap 7, 2. Ma il frate non arriva ad identificare l’angelo del sesto sigillo con un pontefice romano, l’“universalis pontifex nove Iherusalem” prefigurato nella salita al tempio di Zorobabele. Per lui è Francesco, seminatore della nuova pianta evangelica, fondatore cioè di un Ordine che convertirà molti pescando nel gran mare dei laici, che ascende partendo dalla “civitas solis”, cioè da Roma, “quia sui ascensus in Deum fundamentum et initium cepit a sede romana”. Non dunque una sola singola persona, un papa come pensava Gioacchino [25], ma più persone suscitate dallo Spirito, i discepoli di Francesco che potranno ancora ripercorrere quell’ascesa.
La struttura del pensiero di Gioacchino rimane e, ciò che è più importante, viene esposta in modo sintetico con una chiarezza, sconosciuta all’abate calabrese, che sembra quasi predisposta a una volgarizzazione. Accanto a una rilevante presenza, anche implicita (in particolare nel prologo e nella prima visione), di Gioacchino, si registrano tuttavia profonde differenze.
Soprattutto, l’età dello Spirito (il sesto e il settimo stato), che per Gioacchino è segnata dal giubilo salmodiante, è per Olivi tempo di prove e di battaglie, solo successivamente quietate [26]; su questo punto Gregorio Magno è autore determinante nella descrizione del martirio non corporale ma psicologico dei tempi finali, allorché il martire affronta un “certamen dubitationis” ingannato da una falsa Scrittura e da una falsa autorità pontificale [27].
Né per il francescano l’età dello Spirito è appropriazione a una persona della Trinità, ma manifestazione compiuta dello Spirito di Cristo, interno dettatore che subentra alla voce esteriore della sua umanità (per altro non completamente abbandonata):

[LSA, cap. IX, Ap 9, 20] Christus etiam et eius Spiritus non ignoravit rationem et causam propter quam idolatria fuit post tempora martirum exsufflanda, iuxta quod per psalmistam et prophetas fuerat multipliciter prophetatum. … [cap. XXII, Ap 22, 17] Septimo loquitur ut invitator omnium ad prefatam gloriam, et hoc tam per se quam per ecclesiam et eius doctores, unde subdit: “Et sponsus”, id est, secundum Ricardum, Christus (quidam tamen habent “Spiritus”, et quidam correctores dicunt quod sic habent antiqui et Greci, ut sic Christus tam per se quam per Spiritum suum et eius internam inspirationem ostendat se invitare), “et sponsa”, id est generalis ecclesia tam beata quam peregrinans vel contemplativa ecclesia, “dicunt: veni”, scilicet ad nuptias.

Passi come quelli presenti nell’esegesi di Ap 3, 7 e 9, 20, il cui impianto gioachimita è innegabile, non debbono trarre in inganno, perché hanno come centro Cristo e come sfera la Chiesa che gira, cioè si sviluppa in luminosità, per poi tornare al suo principio: “Ma naturalmente non si tratta di un ciclo dell’eterno ritorno: nel tornare in fine al suo principio la storia della Chiesa apre sempre orizzonti nuovi, non ripete il passato ma fruttifica, chiarisce, porta a compimento il processo inaugurato dal primo avvento di Cristo” [28]. Alla base c’è la visione cristocentrica esposta nella prima ratio del notabile VII del prologo, dove i tre stati generali del mondo si riferiscono prima “ad Christum prefigurandum et promittendum et parturiendum”, poi a Cristo “ut Dei et hominis filius mundum redimens et renovans”, e infine alla “singularis participatio et sollempnizatio sue sanctissime vite et caritatis”.
Si può dunque affermare che “[…] lo schema gioachimita delle tre età e dunque la funzione liminare dello Spirito Santo nella storia della salvezza sono senz’altro presenti nella Lectura super Apocalipsim; ma in essa il modello originale appare sottoposto a una radicale rilettura in chiave cristologica e francescana che ne modifica profondamente il contenuto; Francesco ripropone Cristo, e lo Spirito, che lo conduce e lo colma, è lo Spirito di Cristo, l’orizzonte dell’opera dello Spirito è sempre e comunque la Chiesa. Vi è certo un progresso, nella storia della Chiesa, nella conoscenza della Scrittura e nella comprensione della verità e tale progresso può essere ascritto e appropriato allo Spirito; ma la verità, chiarita e illustrata, è la verità di Cristo e della sua Chiesa. In definitiva, a ben vedere, lo Spirito non inaugura dunque un’epoca nuova ma porta a compimento e a pienezza il tempo della Chiesa nel Nuovo Testamento” [29]. Per cui, se Olivi assume lo schema gioachimita non sostituisce un’epoca nuova, appropriata allo Spirito, alle precedenti, ma delinea un’età di rinnovamento che porti alla loro piena “consummatio”: «Thus the age of the Holy Spirit will fulfill the Christian dispensation, not replace it […] In this context, finis seems to mean not “conclusion” but “fulfillment”» [30].
È nota la posizione dell’Olivi in merito a Gioacchino da Fiore, nel pensiero del quale distingue tra verità e opinioni:

 

[LSA, cap. IX, Ap 9, 1-11; IIIa visio Va tuba] Super quo et consimilibus advertendum quod ipse plura dicit non assertorie sed opinative. Sicut enim ex naturali lumine intellectus nostri quedam scimus indubitabiliter ut prima principia, quedam vero ut conclusiones ex ipsis necessario deductas, quedam vero nescimus sed solum opinamur per probabiles rationes, et in hoc tertio sepe fallimur et possumus falli, nec tamen ex hoc lumen nobis concreatum est falsum nec pro tanto fallimur pro quanto opiniones nostras scimus non esse scientias infallibiles, sic lumen per gratuitam revelationem datum quedam scit ut prima principia et indubitabilia revelata, quedam vero ut conclusiones ex ipsis necessario deductas, quedam vero ex utrisque solum probabiliter et coniecturaliter opinatur, et sic videtur fuisse intelligentia scripturarum et concordie novi et veteris testamenti per revelationem abbati Ioachim, ut ipsemet asserit, data.

[LSA, cap. IX, Ap 9, 13; IIIa visio VIa tuba] Hec autem commemoravi quia videntur necessaria ad intelligentiam huius partis, et etiam ut sciatur quod Ioachim dicit in hiis multa non assertorie sed solum opinative.

[LSA, cap. XII, Ap 12, 6; IVa visio] Quod autem ultra hoc Ioachim opinative dixit futuram persecutionem Antichristi esse complendam in primis quadraginta annis huius centenarii, aut etiam in tribus annis et dimidio prime partis eorum, unde et super illo verbo infra XIII° (Ap 13, 4): “Quis similis bestie, et quis poterit pugnare cum illa?”, dicit: «Heu, quot arbitror natos esse in mundo, qui tante huius calamitatis angustias non evadent!», non mireris si cum magna luce sibi data, quasi in aurora tertii status, habuit permixtas tenebras in notitiam futurorum, et maxime cum nocturne tenebre quinti temporis suo tempore inundarent. Quod autem non assertorie sed opinative talia dixerit, patet ex pluribus superius a me tactis super quinta  et sexta tuba.

[LSA, cap. XVII, Ap 17, 10; VIa visio] Vides ne quod, tamquam dubitans circa ista, nunc in uno loco opinative dicit unum et in alio loco aliud, nec mirum, quia neutrum horum potest clare et indubitabiliter probari ex textu.

Formalmente, è la stessa posizione di Tommaso d’Aquino (Super Sent., lib. 4, d. 43, q. 1, a. 3, qc. 2):

Ad tertium dicendum, quod quamvis status novi testamenti in generali sit praefiguratus per statum veteris testamenti, non tamen oportet quod singula respondeant singulis, praecipue cum in Christo omnes figurae veteris testamenti fuerint completae; et ideo Augustinus, 18 de Civ. Dei, respondet quibusdam, qui volebant accipere numerum persecutionum quae Ecclesia passa est et passura secundum numerum plagarum Aegypti, dicens: ego per illas res gestas in Aegypto istas persecutiones prophetice significatas esse non arbitror; quamvis ab eis qui hoc putant, exquisite et ingeniose illa singula his singulis comparata videantur, non prophetico spiritu, sed conjectura mentis humanae, quae aliquando ad verum pervenit, aliquando fallitur. Et similiter videtur esse de dictis abbatis Joachim, qui per tales conjecturas de futuris aliqua vera praedixit, et in aliquibus deceptus fuit.

Gioacchino, secondo Olivi, è colui  che ha visto in spirito, senza fallire, il sesto stato, con il quale è iniziata la terza età generale del mondo. Può essere assimilato a Zaccaria, il padre di Giovanni Battista, al quale venne rivelato il prossimo avvento di Cristo:

[LSA, cap. VI, Ap 6, 12; IIa visio, apertio VIi sigilli] […] est adhuc notandum a quo tempore debeat sumi initium huius sexte apertionis. Videtur enim quibusdam quod ab initio ordinis et regule sancti patris prefati; aliis vero quod a sollempni revelatione tertii status generalis continentis sextum et septimum statum ecclesie facta abbati Ioachim, et forte quibusdam aliis sibi contemporaneis […] Sicut enim Luchas inchoat Christi evangelium a sacerdotio Zacharie, cui facta est prophetica revelatio de Christo statim venturo et de Iohanne eius immediato precursore […] sic hec sexta apertio sumpsit quoddam prophetale initium a revelatione abbatis et consimilium […].

Sui singoli punti, le divergenze sono però numerose. Le posizioni sono completamente diverse, ad esempio, su una questione importante come i termini iniziali e finali dei sette periodi di guerra della Chiesa nella quarta visione: a partire dalla terza guerra (Ap 12, 13), l’Olivi procede in modo completamente autonomo. Così i due esegeti sono assai distanti nell’identificare il secondo dei due testimoni che, insieme ad Elia, verrà ucciso dalla bestia e poi risorgerà dopo tre giorni e mezzo: per Gioacchino si tratta di Mosè, per Olivi di Enoc (Ap 11, 3; è la stessa posizione di Bonaventura). Ancora, l’atrio che ad Ap 11, 2 si dice debba essere calcato dalle genti non designa per il francescano i Greci, ma i pravi chierici e religiosi della Chiesa latina. Nell’enumerare le sette teste del drago (Ap 12, 3), o le sette teste della bestia che sale dal mare (Ap 13, 1), o i sette re di Ap 17, 9-10, Olivi riporta l’opinione di Gioacchino, che le appropria storicamente a re e a popoli, ma poi, considerata anche la posizione prevalentemente morale di Riccardo di San Vittore, esprime il proprio parere in tutto o in parte diverso. A differenza di Gioacchino, Olivi non costringe in un tempo troppo breve (i tre anni e mezzo letteralmente intesi) né la distruzione di Babylon (ad Ap 11, 2) né la durata del terzo stato generale del mondo, che non può essere abbreviato in modo risibile e sproporzionato per un periodo che è appunto generale (prologo, notabile XII).
Oltre a Gioacchino da Fiore, a Riccardo di San Vittore e a Gregorio Magno, fonti importanti per la Lectura oliviana sono Agostino (per la questione del millenarismo ad Ap 20, 2) e lo pseudo Dionigi (soprattutto ad Ap 21, 9.18.21, dove Olivi, nell’esegesi della Gerusalemme celeste, paragona la differenziata gloria dei beati alle differenti gerarchie angeliche, che secondo Dionigi non possono essere da noi apprese in modo univoco, ma solo attraverso similitudini note e familiari; la gerarchia fra i beati, come fra gli angeli, fa sì che i diversi gradi siano tratti e tirino al tempo stesso verso la visione di Dio, nella quale i beati entrano come per specchi o vetri sempre più chiari o trasparenti).
Accostato a Riccardo di San Vittore o ad altri autori decisivi, incastonato nell’esegesi dell’Olivi, Gioacchino da Fiore, nel rapporto fra Commedia e Lectura super Apocalipsim, è presente nel “poema sacro” in modo diffuso, perché le numerose sue citazioni nella Lectura sono inserite nella generale metamorfosi di questa. Si procederà dunque progressivamente all’esame delle singole citazioni. Alcuni punti sono stati già trattati; se ne dà brevemente conto qui di seguito.
Si registrano pagine di autonoma rilevanza: Ap 7, 2 per le tribolazioni descritte nel primo canto dell’Inferno; 10, 1 (il “magnus predicator”) per il risveglio nell’Eden (Purg. XXXII); 17, 1, con l’immagine della Roma dei giusti peregrinante per l’intero Impero insieme a quella dei malvagi appropriata a Romeo, ministro di Provenza e pellegrino (Par. VI); 19, 17-18 per la “gustativa et palpativa experientia” del trasumanar nell’ascesa al cielo (Par. I).
In altre pagine Gioacchino da Fiore è solo una citazione fra altre nel contesto dell’esegesi oliviana: così di nuovo Ap 7, 2 nell’elogio di Francesco, angelo del sesto sigillo (Par. XI); la “signatio” (7, 3-4); 10, 3 (i sette tuoni); l’ingiunzione a Giovanni di predicare ancora, dopo gli apostoli, a tutto il mondo (10, 8).
Ampio spazio è riservato a Gioacchino nell’esegesi del quarto stato, alla quale rinviano celebri figure e luoghi del poema: la lupa, Omero, il passaggio dei petrosi margini del Flegetonte, solo per citarne alcuni (cfr. anche 12, 14).
Le opinioni gioachimite citate ad Ap 13, 18 subiscono una profonda trasformazione in Farinata.
Si possono accostare Virgilio e Gioacchino da Fiore, “di spirito profetico dotati ”, perché i limiti dell’abate calabrese, come sottolineati da Olivi, si riverberano nelle incertezze del poeta pagano.
Cosa rimane del rapporto tra Dante e Gioacchino da Fiore? In primo luogo, l’adesione a una storia della salvezza collettiva, descritta nel libro dell’Apocalisse come esposto dall’Olivi. In secondo luogo, una moltitudine di frammenti di testi di Gioacchino, citati nella Lectura super Apocalipsim, ai quali la poesia presta “e piedi e mano” vestendoli di un senso letterale la cui semantica doveva sollecitare la memoria del lettore accorto verso quelle citazioni che lui e il poeta sapevano appartenere all’abate calabrese. In terzo luogo, la fede in una nuova età, il novum saeculum che tanto s’aspetta dopo quello augusteo. C’è una perfetta concordanza spirituale, e anche letterale, fra quanto Olivi afferma della renovatio recata dal sesto e settimo stato della storia della Chiesa (l’età dello Spirito) e la quarta egloga virgiliana. Un’età nella quale ogni contraddizione o contrasto terreno si appiana (“Tunc enim omnis litigatio et contradictio inter vetus et novum omnino silebit, prout notat apertio septima”: LSA, cap. VIII, Ap 8, 1).
Notava Grundmann come la costante ricerca di una superiore concordia in terra fra opposte fazioni cittadine, fra posizioni speculative o teologiche avverse, fra impero e papato, i “due soli” in conflitto, consentì a Dante di collocare, fra gli spiriti sapienti che si manifestano nel cielo del Sole, Gioacchino da Fiore accanto a Bonaventura in simmetria con Sigieri di Brabante presentato da Tommaso d’Aquino. Con ciò si mostrò spirito veramente ‘cattolico’ [31]. Il rapporto con la Lectura super Apocalipsim dell’Olivi non è estraneo alla ricerca di questa universale concordia. Con l’esegesi dell’ultimo libro canonico, esposta in una teologia della storia che comprende per settenari tutta la Scrittura, la quale a sua volta è forma, esempio e fine di ogni scienza, concorda infatti ogni conoscenza dell’autore, ogni esperienza, ogni soluzione indipendente data a questioni dottrinali, quasi la storia della salvezza marcata dai segni della volontà divina attribuisse a ciascuna il posto che le spetta. Non vi è solo concordia dell’Eneide con la Bibbia, come intendeva Nardi, ma dell’Eneide con l’Apocalisse e dunque con l’ “alta provedenza”.
Il volgare della Commedia, che tanto riceve dall’umile latino dell’esegesi e alla sua dottrina rinvia facendovi concordare ogni conoscenza, è vera clavis universalis del sapere. È la lingua del nuovo Giovanni, non più solo illustre ma di tutti; con essa gli stili possono essere liberamente variati, come lo sono nell’esegesi i quattro sensi scritturali; l’allegoria non è più finzione ma figura, cioè storia significante della prescienza e provvidenza divina. Nel secondo avvento di Cristo nei suoi discepoli spirituali, il volgare è diventato una nuova “lingua gratiae” come fu l’ebraico, la lingua parlata dal Redentore nel suo avvento nella carne [32].

—————————————————————————————————————————————-

Tab. introd.1 (Nota)

[LSA, cap. X, Ap 10, 1 (IIIa visio, VIa tuba)] […] Ioachim dicit hic: «Quicumque erit iste predicator veritatis, “fortis” esse describitur, quia robustus erit in fide; et “de celo” descendet, id est de vita contemplativa ad activam; et “amictus” erit “nube”, quia indutus erit scriptura prophetarum; et “irim in capite”, quia Spiritum Sanctum et misticum seu spiritalem intellectum scripturarum habebit in mente. Sicut enim archus celestis apparet iunctus nubibus celi, sic scripturis prophetarum iungendus est misticus intellectus ad adversarios convincendos». Et subdit: «Ego autem angelum istum secundum litteram aut Enoch fore puto aut Heliam. Verum, prout hoc Deus melius novit, unum dico pro certo, quod hic angelus significat personaliter magnum aliquem  predicatorem, quamvis spiritaliter ad multos viros spiritales tunc temporis futuros competenter valeat intorqueri. Sane facies angeli similis est soli, quia in hoc sexto tempore oportet Dei contemplationem in modum solis splendescere et perduci ad notitiam eorum qui designantur in Petro et Iacobo et Iohanne, id est Latinorum et Grecorum et Hebreorum, primo quidem Latinorum, deinde Grecorum, tertio Hebreorum, ut fiant novissimi qui erant primi et e contrario». Hec Ioachim. * […]
Ipse enim fuit singulariter “fortis” in omni virtute et opere Dei (Ap 10, 1), et per summam humilitatem et recognitionem prime originis omnis nature et gratie semper “descendens de celo”, et per aeream et per subtilem seu spiritualem levitatem ab omni pondere terrenorum excussam fuit “amictus nube”, id est altissima paupertate aquis celestibus plena, id est suprema possessione et imbibitione celestium divitiarum. […]
Sicut enim nubes est supra inter nos et celum suscipiens solis radios et contemperans nobis eos, et est purgans aquis pluvialibus et fecundis ipsasque ad fructificationem terre nascentium moderate effundens, sic est hec scriptura sacra spiritualiter; in caritate etiam et sapientia Dei erit ut sol ad irradiandum finaliter totum orbem et ad formandum solarem diem tertii generalis status mundi.

* Expositio, pars III, f. 137ra-va.

 

 

Purg. XXXII, 70-78

Però trascorro a quando mi svegliai,
e dico ch’un splendor mi squarciò ’l velo
del sonno, e un chiamar: “Surgi: che fai?”.
Quali a veder de’ fioretti del melo
che del suo pome li angeli fa ghiotti
e perpetüe nozze fa nel cielo,
Pietro e Giovanni e Iacopo condotti
e vinti, ritornaro a la parola
da la qual furon maggior sonni rotti

Par. XVII, 76-84

Con lui vedrai colui che ’mpresso fue,
nascendo, sì da questa stella forte,
che notabili fier l’opere sue.
Non se ne son le genti ancora accorte
per la novella età, ché pur nove anni
son queste rote intorno di lui torte;
ma pria che ’l Guasco l’alto Arrigo inganni,
parran faville de la sua virtute
in non curar d’argento né d’affanni.

Inf. I, 103-105

Questi non ciberà terra né peltro,
ma sapïenza, amore e virtute,
e sua nazion sarà tra feltro e feltro.

 

[Nota alla Tab. introd.1]

Ad Ap 10, 1, trattando dell’angelo che ha la faccia come il sole (terza visione, sesta tromba), Olivi cita l’Expositio in Apocalipsim di Gioacchino da Fiore. È un passo che Ubertino da Casale ha poi riportato nell’Arbor vitae e che il Kraus ritenne connesso con il Veltro [33]: “Penso che quest’angelo, secondo la lettera, sia Enoch o Elia, come Dio meglio sa; ma affermo con certezza che esso indica personalmente un grande predicatore, per quanto spiritualmente possa essere volto a indicare molti futuri uomini spirituali di quel tempo. La faccia dell’angelo è simile al sole perché in questo sesto stato è necessario che la contemplazione di Dio splenda come il sole per condurre alla verità coloro che sono designati in Pietro, Giacomo e Giovanni, cioè i Latini, i Greci e gli Ebrei, prima i Latini, poi i Greci e infine gli Ebrei, perché siano ultimi coloro che furono primi e viceversa”.
Questa citazione conduce a Purg. XXXII, 70ss., allorché Dante si risveglia nell’Eden dal sonno, come Pietro, Giovanni e Iacopo si risvegliarono dopo essere stati condotti ad assistere alla trasfigurazione. Si ritrovano nei versi di Dante alcune parole della prosa esegetica: “splendescere”, “perduci” e i nomi dei tre apostoli. Si deve tenere in considerazione anche il passo del capitolo primo (simmetrico a quanto viene detto dell’angelo del capitolo X, ivi richiamato) relativo alla decima perfezione di Cristo sommo pastore (Ap 1, 16), dove “la faccia come il sole” designa appunto l’aperta e fulgida notizia delle Scritture che avviene nel mezzogiorno del sesto stato, come la trasfigurazione avvenne dopo sei giorni.
Si deve intendere che il risveglio del poeta designa la compiuta illuminazione di quelle genti che nel sesto stato verranno condotte a Cristo, prima le reliquie dei Gentili (Latini e Greci) e poi gli Ebrei. All’ora di mezzogiorno del sesto giorno di viaggio si chiude la seconda cantica (Purg. XXXIII, 103-105), con il poeta “rifatto sì come piante novelle / rinovellate di novella fronda” (ibid., 143-144). Il sesto stato è rinnovamento della vita di Cristo e della nuova pianta seminata da Francesco nel suo Ordine, nel senso che, dopo un inizio profetico con Gioacchino da Fiore, che con la terza età dello Spirito vide in anticipo il sesto stato, si ha un secondo inizio in Francesco (nella sua conversione, avvenuta nel 1206) e un terzo nell’Ordine perfettamente disposto e maturato a predicare contro l’Anticristo, un quarto infine nell’effettiva caduta di Babylon (cfr. l’esegesi di Ap 6, 12). Così il rinnovarsi della pianta prima dispogliata, una volta che il grifone vi ha legato il carro (Purg. XXXII, 52-60), è prefigurazione del Dante rinnovato, “puro e disposto a salire a le stelle”.
Da notare che all’angelo dal volto solare di Ap 10, 1 rinviano sia i versi relativi al Veltro (Inf. I, 100-105) come quelli riferiti a Cangrande (Par. XVII, 76-84).

—————————————————————————————————————————————-

Tab. introd.2 (Nota)

[LSA, cap. VI, Ap 6, 8 (IIa visio, apertio IVi sigilli)] Equus autem sarracenicus dicitur “pallidus”, pallore scilicet tali qualis proprie competit mortuis. Mors etiam dicitur sedere super eum triplici ex causa. […] Tertia est quia, quando a principio tot ecclesias Christi vastavit, non legimus nec audivimus facta tunc fuisse miracula per fideles tunc occisos vel captivatos, nec data vive predicationis verba per que infideles converterentur ad Christum et vivificarentur aut per que fideles in vita fidei confirmarentur, quin potius maior pars captivatorum videtur ad eorum sectam mortiferam convolasse. Non enim, sicut inter paganos et hereticos multiplicabantur fideles et plures convertebantur ad fidem, sic contingit inter Sarracenos, immo contrarium iam per sescentos annos et amplius.

[LSA, cap. V, Ap 5, 1] Quartus (defectus in nobis claudens intelligentiam huius libri) est nostre libertatis superba indomabilitas. […]
In quarta (apertione) vero mors sedens in equo pallido, id est in carne quasi iam emortua pallescente, domuit et infregit superbam libertatem orientalium ecclesiarum nolentium subici sedi et fidei Petri. Et certe nichil validius ad infringendam superbiam imperii nostri quam consideratio assidua et experientia humane fragilitatis et mortis, unde Ecclesiastici X° ad retundendam hominis superbiam dicitur: “Quid superbis terra et cinis?” (Ecli 10, 9), et capitulo VII° dicitur: “In omnibus operibus tuis memorare novissima tua et in eternum non peccabis” (Ecli 7, 40).

Inf. III, 37-39, 61-63

Mischiate sono a quel cattivo coro
de li angeli che non furon ribelli
né fur fedeli a Dio, ma per sé fuoro.

Incontamente intesi e certo fui
che questa era la setta d’i cattivi,
a Dio spiacenti e a’ nemici sui.

Inf. XIV, 63-64, 88-90

O Capaneo, in ciò che non s’ammorza
la tua superbia
, se’  tu più punito

cosa non fu da li tuoi occhi scorta
notabile com’ è ’l presente rio,
che sovra sé tutte fiammelle ammorta.

Inf. XXX, 13-21

E quando la fortuna volse in basso
l’altezza de’  Troian che tutto ardiva,
sì che ’nsieme col regno il re fu casso,
Ecuba trista, misera e cattiva,
poscia che vide Polissena morta,
e del suo Polidoro in su la riva
del mar si fu la dolorosa accorta,
forsennata latrò sì come cane;
tanto il dolor le fé la mente torta.

Inf. XXXI, 91-93

“Questo superbo volle esser esperto
di sua potenza contra ’l sommo Giove”,
disse ’l mio duca, “ond’ elli ha cotal merto.”

[LSA, prologus, Notabile XII] De quarto autem statu, scilicet anachoritarum, dicit Ioachim, libro V° Concordie, quod «proficiendo decrevit, quia et herba tunc magis proficit cum appropinquat ad messem. Nam tempus eius non tam illud esse dicitur in quo incipit quam illud in quo, peracta messione, grana per trituram separantur a paleis. Ordines enim iustorum propria tempora acceperunt non in quibus inceperunt sed in quibus ad consumationem et perfectionem venerunt. Quod autem diximus ordinem quartum, qui est heremitarum et virginum, proficiendo defecisse, timendum est potius quam dicendum. Aperta enim perfectio gloriationem parit, gloriatio exaltationem, exaltationem vero comitatur ruin[a], quia scriptum est: “ante ruinam exaltatur cor” (Pro 16, 18; 18, 12). Igitur ordo iste quarto tempore claruit, sed mox defecit in illa claritate et in locis illis in quibus visus est floruisse ad horam, et hoc propter malitiam habitantium in eis»*. Preterea fragilitas humane carnis non patitur tantum statum diu in multitudine perdurare.

* Concordia, V 1, c. 12; Patschovsky 3, p. 551, 3-20.

[LSA, cap. VIII, Ap 8, 12 (IIIa visio, IVa tuba)] Per “stellas” vero, quidam singulares et alti et solitarii anachorite.

[LSA, prologus, Notabile V] […] tuncque (in quinto statu) congrue instituta est vita condescensiva, ut nequeuntibus in arduis perdurare daretur locus gratie in mediocri statu.

[LSA, cap. XII, Ap 12, 6 (IVa visio)] Quare autem quadraginta duas generationes a Christo usque ad tempora ista dicit (Ioachim) esse tricenari[as] ostendit libro II°, dicens quod novum testamentum differt a veteri sicut sol a luna, et ideo generationes veteris testamenti ad modum lune crescentis et decrescentis cucurrerunt per dissimiles annos. In novo autem debuerunt esse stabiles sicut sol, quia Christus est sol iustitie qui regnat in populo christiano*.

 

 * Concordia, II 1, c. 20; Patschovsky 2, p. 102, 4-8.

Inf. VIII, 46-48, 61-63

Quei fu al mondo persona orgogliosa;
bontà non è che sua memoria fregi:
così s’è l’ombra sua qui furïosa.

Tutti gridavano: “A Filippo Argenti!”;
e ’l fiorentino spirito bizzarro
in sé medesmo si volvea co’ denti.

Inf. XVI, 73-75 

La gente nuova e i sùbiti guadagni
orgoglio e dismisura han generata,
Fiorenza, in te, sì che tu già ten piagni.

Purg. XI, 52-54, 112-114

E s’io non fossi impedito dal sasso
che la cervice mia superba doma,
onde portar convienmi il viso basso

ond’ era sire quando fu distrutta
la rabbia fiorentina, che superba
fu a quel tempo sì com’ ora è putta.

Par. XVI, 82-99, 109-111

E come l volger del ciel de la luna
cuopre e discuopre i liti sanza posa
,
così fa di Fiorenza la Fortuna:
per che non dee parer mirabil cosa
ciò ch’io dirò de li alti Fiorentini
onde è la fama nel tempo nascosa.
Io vidi li Ughi e vidi i Catellini,
Filippi, Greci, Ormanni e Alberichi,
già nel calare, illustri cittadini;
e vidi così grandi come antichi,
con quel de la Sannella, quel de l’Arca,
e Soldanieri e Ardinghi e Bostichi.
Sovra la porta ch’al presente è carca
di nova fellonia di tanto peso
che tosto fia iattura de la barca,
erano i Ravignani, ond’ è disceso
il conte Guido e qualunque del nome
de l’alto Bellincione ha poscia preso.

Oh quali io vidi quei che son disfatti
per lor superbia! e le palle de l’oro
fiorian Fiorenza in tutt’ i suoi gran fatti.

Par. XXI, 4-12, 61-63

E quella non ridea; ma “S’io ridessi”,
mi cominciò, “tu ti faresti quale
fu Semelè quando di cener fessi:
ché la bellezza mia, che per le scale
de l’etterno palazzo più s’accende,
com’ hai veduto, quanto più si sale,
se non si temperasse, tanto splende,
che ’l tuo mortal podere, al suo fulgore,
sarebbe fronda che trono scoscende.”

“Tu hai l’udir mortal sì come il viso”,
rispuose a me; “onde qui non si canta
per quel che Bëatrice non ha riso.”

 [Nota alla Tab. introd.2]

Che i Saraceni, mai nominati, siano ben presenti in Inf. III, lo dimostrano espressioni come “cattivo coro”, “setta d’i cattivi” (vv. 37, 62). I ‘cattivi’ sono i prigionieri fatti dai Saraceni, secondo l’esegesi dell’apertura del quarto sigillo (Ap 6, 8), in cui il cavallo pallido (la morte) designa Maometto e la sua setta, secondo l’interpretazione di Gioacchino da Fiore seguita da Olivi. Da quando i Saraceni hanno iniziato a devastare la Chiesa non si è mai letto o ascoltato di miracoli fatti dai fedeli uccisi o resi schiavi, né che fosse stato dato il verbo della predicazione per convertire a Cristo gli infedeli e vivificarli o per confermare nella vita della fede i fedeli, ché anzi la maggior parte dei finiti in cattività è convolata alla setta mortifera. Tra i Saraceni non accade – e ciò da più di seicento anni – quanto era avvenuto con i pagani e gli eretici, fra i quali si moltiplicavano i fedeli e molti venivano convertiti alla fede.
Ecuba è “trista, misera e cattiva”, una troiana furia paragonata ai rabbiosi falsatori di persona (Inf. XXX, 16). Il primo difetto che rende chiuso il quarto sigillo (ad Ap 5, 1) è il superbo essere indomito della nostra libertà: nella quarta apertura la morte che siede sul cavallo pallido, cioè sulla carne già morta e impallidita (i Saraceni), domò e infranse la superba libertà delle chiese orientali che non vollero sottoporsi alla sede e alla fede di Pietro. E certo, afferma Olivi, nulla è più adatto ad infrangere la superbia del nostro potere quanto l’assidua considerazione ed esperienza della fragilità umana e della morte. Per spuntare la superbia umana è infatti detto nell’Ecclesiastico: “A che insuperbisci, terra e cenere?” (Ecli 10, 9) e: “In tutte le tue opere ricordati della tua fine, e non cadrai mai nel peccato” (Ecli 7, 40). I temi della superbia domata e della considerazione della morte sono appropriati, nella descrizione dell’ultima bolgia, appunto ai Troiani – la cui “altezza … che tutto ardiva” (motivo dell’ardua e alta vita degli anacoreti del quarto stato, distrutta in oriente dai Saraceni), fu volta in basso dalla fortuna, – e a Ecuba, che “forsennata latrò sì come cane” dopo che si fu accorta dei propri figli morti (Inf. XXX, 13-21). Variazioni dei motivi (la superbia domata, l’esperienza della morte) si registrano in Capaneo (Inf. XIV, 63-64; da notare, al v. 90, l’ “ammorta” appropriato al Flegetonte, i cui vapori estinguono le falde della pioggia infuocata, salvando i “duri margini” sui quali passano i due poeti), in Fialte (Inf. XXXI, 91-93), in Omberto Aldobrandesco (Purg. XI, 52-54), nelle parole di Beatrice e Pier Damiani a Par. XXI, 4-12, 61-63.
La superbia distrutta è nel ricordo di Montaperti, espresso da Oderisi da Gubbio a proposito di Provenzan Salvani, che era signore di Siena “quando fu distrutta / la rabbia fiorentina, che superba / fu a quel tempo sì com’ ora è putta” (Purg. XI, 112-114). L’orgoglio è propriamente fiorentino. Con Filippo Argenti: “Quei fu al mondo persona orgogliosa … ’l fiorentino spirito bizzarro” (Inf. VIII, 46-48, 61-63). Nella risposta di Dante ai tre concittadini sodomiti: “la gente nuova e i sùbiti guadagni / orgoglio e dismisura han generata, / Fiorenza, in te, sì che tu già ten piagni”, Inf. XVI, 73-75). Costituisce un vizio proprio del quarto tempo, allorché – come si afferma nel Notabile XII del Prologo con citazione dal quinto libro della Concordia di Gioacchino da Fiore – l’ordine degli anacoreti contemplativi “visus est floruisse ad horam” ma poi passò dalla perfezione al gloriarsi e di qui all’esaltazione e infine alla rovina.
Questi motivi si ritrovano nel discorso di Cacciaguida in Par. XVI, che utilizza (vv. 97-99) il tema del discendere, proprio del quinto stato, dall’alto e arduo stato precedente (cfr. il Notabile V del Prologo), applicandolo a “li alti Fiorentini” (alti come gli anacoreti, secondo l’interpretazione delle “stelle” data ad Ap 8, 12, nell’esegesi della quarta tromba), da lui conosciuti nel tempo in cui “le palle de l’oro / fiorian Fiorenza in tutt’ i suoi gran fatti” (vv. 109-111), e poi “disfatti / per lor superbia”.
Nell’elencare le schiatte degli “antichi ” fiorentini volte in basso dalla Fortuna, Cacciaguida usa l’immagine delle maree causate dal volgere del cielo della luna, che “cuopre e discuopre i liti sanza posa” (Par. XVI, 82-84), sollecitando la memoria del lettore verso le instabili generazioni dell’Antico Testamento di cui parla Gioacchino da Fiore nella citazione, ad Ap 12, 6, del secondo libro della Concordia.

__________________________________________________________________________________________________________________

Tab. introd.3 (Nota)

Par. X, 130-132

Vedi oltre fiammeggiar l’ardente spiro
d’Isidoro, di Beda e di Riccardo,
che a considerar fu più che viro.

Par. XXI, 97-99, 112

E al mondo mortal, quando tu riedi,
questo rapporta, sì che non presumma
a tanto segno più mover li piedi.

Così ricominciommi il terzo sermo

(I: vv. 61-72 = 12 ; II: vv. 79-102 = 24 ; III: vv. 106-111 = : tempus et tempora et dimidium temporis)

Inf. XXVI, 90-93, 118 

 …………………………Quando
mi diparti’ da Circe, che sottrasse
me più d’un anno là presso a Gaeta,
prima che sì Enëa la nomasse

Considerate la vostra semenza

[LSA, cap. XI, Ap 11, 6 (IIIa visio, VIa tuba)] Significatur etiam per hoc quod Deus, iuxta zelum suorum testium, sic irascetur contra hostes eorum quod longe plus solito subtrahet eis pluviam salutarem et permittet eos a demonibus et a sua propria malitia fortius excecari et obdurari et ab omni humore gratie exsiccari.

[LSA, cap. XII, Ap 12, 14 (IVa visio, III-IVum prelium)] Nota etiam quod, secundum Ioachim, libro V° Concordie, sicut de opere quarte diei, scilicet de sole et luna et stellis, dicitur quod “sint in signa et tempora et dies et annos” (Gn 1, 14), sic in quarta visione huius libri, in qua describitur mulier in celo existens et adornata sole et luna et stellis, proponitur fuisse insignum magnum” et distinguitur tempus eius in “tempus et tempora”, signanterque hoc reperitur ubi agitur de quarto statu ecclesie. Consimiliter enim sub quarto signaculo veteris testamenti fuit Helias et Heliseus et filii prophetarum quasi sol et luna et stelle, ubi et idem numerus ponitur, scilicet tres anni et dimidius absconsionis Helie a facie Iesabel (3 Rg 17-19) et subtractionis pluvie a gente peccatrice *. Et subdit: «quare hic misterialis numerus potius est scriptus sub quarto tempore quam sub alio, nisi quia quartum tempus est tribus temporibus precedentibus totidemque sequentibus veluti ex equo coniunctum, ita ut utrique participare videatur? Nempe et ecclesia ipsa virginum, que in muliere significatur, est mater et nutrix fidelium, quia Virgo portavit Christum in utero, Virgo peperit et lactavit?** Tales etiam viri et mulieres in signa fuere, quia sicut stelle celi in signa sunt navigantibus, ita et vita iustorum est in exemplum fidelium data, ut sciant quo ire debeant omnes qui considerant eos»***. Hec Ioachim.

* Concordia, V 1, c. 12; Patschovsky 3, pp. 556, 12-18, 22-25; 557, 1-3.

** Ibid., p. 557, 15-21.

*** Ibid., p. 556, 19-22.

Inf. XXII, 10-12, 19-24

né già con sì diversa cennamella
cavalier vidi muover né pedoni,
nave a segno di terra o di stella.

Come i dalfini, quando fanno segno
a’ marinar
con l’arco de la schiena
che s’argomentin di campar lor legno,
talor così, ad alleggiar la pena,
mostrav’ alcun de’ peccatori ’l dosso
e nascondea in men che non balena.

Purg. VI, 58-60

Ma vedi là un’anima che, posta
sola soletta, inverso noi riguarda:
quella ne ’nsegnerà la via più tosta.

Purg. XI, 40-42

mostrate da qual mano inver’ la scala
si va più corto; e se c’è più d’un varco,
quel ne ’nsegnate che men erto cala

 

Purg. III, 100-102, 112-117

Così ’l maestro; e quella gente degna
“Tornate”, disse, “intrate innanzi dunque”,
coi dossi de le man faccendo insegna.

Poi sorridendo disse: “Io son Manfredi,
nepote di Costanza imperadrice;
ond’ io ti priego che, quando tu riedi,
vadi a mia bella figlia, genitrice
de l’onor di Cicilia e d’Aragona,
e dichi ’l vero a lei, s’altro si dice.”

Purg. XXI, 94-99; XXII, 100-105

Al mio ardor fuor seme le faville,
che mi scaldar, de la divina fiamma
onde sono allumati più di mille;
de l’Eneïda dico, la qual mamma
fummi, e fummi nutrice, poetando:
sanz’ essa non fermai peso di dramma.

“Costoro e Persio e io e altri assai”,
rispuose il duca mio, “siam con quel Greco
che le Muse lattar più ch’altri mai,
nel primo cinghio del carcere cieco;
spesse fïate ragioniam del monte
che sempre ha le nutrice nostre seco”.

[Nota alla Tab. introd.3]

Secondo Gioacchino da Fiore (quinto libro della Concordia, citato ad Ap 12, 14), come nel Genesi le opere del quarto giorno – il sole, la luna e le stelle – vengono chiamate “segni e tempi e giorni e anni” (Gn 1, 14), così nella quarta visione dell’Apocalisse la donna che sta nel cielo ed è adornata dal sole, dalla luna e dalle stelle viene detta “grande segno” (Ap 12, 1) e il suo tempo, che è il quarto della Chiesa, viene distinto in “tempo, tempi e la metà di un tempo” (Ap 12, 14) [34]. Il medesimo tema compare nel quarto sigillo dell’Antico Testamento, nel quale Elia, Eliseo e i figli dei profeti furono come il sole, la luna e le stelle ed Elia venne nascosto lontano da Gezabele per tre anni e mezzo, periodo nel quale la pioggia della predicazione venne sottratta alla gente peccatrice (3 Rg 18, 1; Lc 4, 25; Jc 5, 17). Gioacchino si domanda per quale motivo questo numero mistico compaia sempre nel quarto tempo, e risponde che il quarto è il mediano di sette tempi, connesso ai tre tempi precedenti e agli altrettanti che seguono e di tutti partecipante. La donna – la Vergine che portò Cristo nel ventre, che lo partorì e lo allattò – sta a significare la Chiesa delle vergini, madre e nutrice dei fedeli, formata da uomini e donne dalla giusta vita che, come le stelle del cielo segnano il cammino ai naviganti, sono segni ed esempi agli altri, in modo che sappiano dove andare coloro che li considerano.
Pier Damiani, nel settimo cielo di Saturno (Par. XXI), si rivolge a Dante in tre riprese, corrispondenti a tre domande del poeta: la prima volta ai versi 61-72, per spiegare perché in quel cielo non si oda, come negli altri, il dolce canto e per chiarire cosa l’abbia spinto a scendere i gradini della scala santa per porsi vicino a lui; la seconda volta ai versi 79-102, per spiegare l’imperscrutabilità dei disegni provvidenziali; la terza volta – “il terzo sermo” – ricomincia ai versi 106-111 e continua ai versi 112-135. Questa divisione dei versi comporta che il ‘primo sermo’ occupi 12 versi (“un tempo”), il secondo 24 versi (“due tempi”, il doppio del primo) e l’inizio del “terzo sermo” 6 versi (“metà di un tempo”), per complessivi 42 versi, che corrispondono alle generazioni gioachimite. La restante parte del “terzo sermo” (vv. 112-135) occupa 24 versi che, aggiunti ai 6 del suo cominciare, fanno 30 (il numero che moltiplicato per 42 dà 1260). Parlando de “lo abisso de l’etterno statuto … che da ogne creata vista è scisso”, Pier Damiani raccomanda al poeta di riferire al mondo mortale quanto gli viene detto, “sì che non presumma / a tanto segno più mover li piedi”, espressione che traduce il “signum magnum” della quarta visione apocalittica e del quarto tempo della Chiesa diviso in “(un) tempo, (due) tempi e la metà di un tempo” (vv. 97-99). Nel cielo di Saturno si mostrano gli spiriti dei contemplativi e numerosi sono i temi provenienti dal quarto stato. Il cielo di Saturno, settimo in progressione, è anche il quarto a partire dal cielo del Sole, la prima delle “alte rote” a non venire toccata dal cono d’ombra proveniente dalla terra (cfr. Topografia spirituale della “Commedia”).
Le anime degli scomunicati riconciliati con Dio in fin di vita, che errano ai piedi della montagna trenta volte il tempo vissuto nella scomunica, fanno “insegna” coi dossi delle mani a Dante e a Virgilio in modo che tornino indietro procedendo innanzi a loro: sono la trasposizione degli uomini e delle donne dalla giusta vita di cui parla Gioacchino che, come le stelle del cielo, segnano il cammino ai naviganti (Purg. III, 100-102; cfr. VI, 60; XI, 42 e la similitudine dei delfini a Inf. XXII, 19-24). Il tema della Chiesa madre e nutrice dei fedeli è appropriato a Costanza, la “bella figlia” di Manfredi “genitrice / de l’onor di Cicilia e d’Aragona”, alla quale il re svevo prega il poeta di andare, una volta ritornato al mondo, per spiegare il suo vero stato, che è di salvezza, nonostante la condanna della Chiesa (Purg. III, 114-117). Nell’espressione “bella figlia” è contenuto anche il tema della bellezza, che nell’esegesi del quinto stato definisce la Chiesa, la quale è come una regina ornata di una veste aurea per la carità che unisce e circondata dalla varietà nei vari doni e nelle varie grazie delle diverse membra [35].
La precedente illuminazione di Virgilio – “de la divina fiamma / onde sono allumati più di mille” – ha operato su Stazio, al cui ardore poetico furono seme le faville dell’Eneide, “la qual mamma / fummi, e fummi nutrice, poetando” (Purg. XXI, 94-99). Stazio fascia Virgilio con parte del panno della Vergine madre e nutrice da Ap 12, 14 come, nel canto successivo, Virgilio farà con Omero, “quel Greco / che le Muse lattar più ch’altri mai” (Purg. XXII, 100-105).
La donna – la Vergine che portò Cristo nel ventre, che lo partorì e lo allattò – sta a significare la Chiesa delle vergini, madre e nutrice dei fedeli, formata da uomini e donne dalla giusta vita che, come le stelle del cielo segnano il cammino ai naviganti, sono segni ed esempi agli altri, in modo che sappiano dove andare coloro che li considerano (considerare equivale a contemplare, come dice Tommaso d’Aquino di Riccardo di San Vittore, “che a considerar fu  più che viro”, Par. X, 131-132).
Nella citazione di Gioacchino, è proprio di Ulisse il ‘considerare’ dei naviganti, l’essere stato ‘sottratto’ da Circe “più d’un anno là presso a Gaeta, / prima che sì Enëa la nomasse”, prima cioè che Enea desse a quel luogo il nome della sua nutrice, che ripete pertanto, prefigurandolo, il tema della Chiesa nutrice dei fedeli (Inf. XXVI, 90-93). La ‘sottrazione’ di Ulisse (unico caso del verbo ‘sottrarre’ nel poema), che corrisponde alla sottrazione della salutare pioggia della predicazione (cfr. il potere dato ai due testimoni, Enoch ed Elia, ad Ap 11, 6), concorda con l’immagine del greco dottore esperto dei vizi umani [36].

__________________________________________________________________________________________________________________

Tab. introd.4 (Nota)

[LSA, cap. XII, Ap 12, 17 (IVa visio, Vum prelium)] Dicit ergo: “Et iratus est draco in mulierem”. […] “Et abiit facere bellum cum reliquis de semine eius, qui custodiunt mandata Dei et habent testimonium Ihesu”, id est fidelem confessionem Christi per quam testimonium perhibent de Christo. Duo ponit necessaria ad salutem, scilicet observantiam mandatorum et fidem Christi exteriori professione et confessione expressam. Ioachim dicit quod semen mulieris est Christus raptus ad tronum cum martiribus suis, et istud semen precesserat; aliud autem remanserat designatum in Iohanne evangelista, scilicet ordo monachorum quarti temporis meridianam plagam incolentium. Et ideo vocat eos reliquos seu residuos de semine mulieris*.
Videtur tamen quod post Christum et martires ubique dispersos egit de ecclesia post Constantinum in unum collecta et duabus alis, id est duobus ordinibus doctorum scilicet et anachoritarum altivolis, adornata et in altum sublevata, et tam in deserto gentilitatis quam in deserto contemplative solitudinis alimentum sue refectionis habente. Post hoc autem restabat agere de reliquis tam predicti temporis quam de reliquis in quinto statu relictis. Uterque enim signanter vocantur reliqui seu reliquie, quia sicut bibita superiori et puriori et maiori parte vini vasis magni restant pauce reliquie cum fecibus quibus sunt propinque et quasi commixte, sic de plenitudine purissimi vini doctorum et anachoritarum tertii et quarti temporis remanserunt reliquie circa tempora Sarracenorum; ac deinde pluribus ecclesiis per Sarracenos vastatis et occupatis, Grecisque a romana ecclesia separatis, remansit in quinto tempore sola latina ecclesia tamquam reliquie prioris ecclesie per totum orbem diffuse. De utrisque ergo reliquiis simul agit, tum quia in utrisque remissio habundavit respectu perfectionis priorum, tum quia bestia sarracenica contra utrosque pugnavit quamvis primo contra primos.

* Expositio, pars IV, distinctio IV, ff. 161vb-162ra.

[LSA, cap. XIII, Ap 13, 18 (IVa visio, VIum prelium)] Quidam autem, ex pluribus que Ioachim de Frederico secundo et eius semine scripsit, et ex quibusdam que beatus Franciscus secrete fratri Leoni et quibusdam aliis sociis suis revelasse fertur, opinantur quod Fredericus prefatus cum suo semine sit respectu huius temporis quasi caput occisum, et quod tempore mistici Antichristi ita reviviscat in aliquo de semine eius ut non solum romanum imperium sed etiam, Francis ab ipso devictis, obtineat regnum Franchorum. Quinque ceteris regibus christianorum sibi coherentibus, statuet in pseudopapam quendam falsum religiosum, qui contra regulam evangelicam excogitabit et faciet dispensationem dolosam promovens in episcopos professores regule prefate sibi consentientes, et [ex]inde expellens clericos et priores episcopos qui semini Frederici et specialiter illi imperatori et sibi et suo statui fuerant adversati, ac per consequens omnes qui regulam predictam ad purum et plene voluerint observare et defensare.
Prefatum autem cleri et regni Francie casum et aliquem alium illi annexum vel previum dicunt designari per terremotum in initio apertionis sexti sigilli tactum, quamvis etiam preter hoc designet spiritalem subversionem et excecationem fere totius ecclesie tunc fiendam. Quid autem horum erit vel non erit, dispensationi divine censeo relinquendum. Addunt etiam predicti quod tunc in parte implebitur illud Apostoli [IIa] ad Thessalonicenses  II° (2 Th 2, 3), scilicet “nisi venerit discessio primum”. Dicunt enim quod tunc fere omnes discedent ab obedientia veri pape et sequentur illum pseudopapam, qui quidem erit pseudo quia heretico modo errabit contra veritatem evangelice paupertatis et perfectionis, et quia forte ultra hoc non erit canonice electus sed scismatice introductus.

Inf. X, 40-42, 46-48, 94-95, 118-120

Com’ io al piè de la sua tomba fui,
guardommi un poco, e poi, quasi sdegnoso,
mi dimandò: “Chi fuor li maggior tui?”.

poi disse: “Fieramente furo avversi
a me e
a miei primi e a mia parte,
sì che per due fïate li dispersi”.

“Deh, se riposi mai vostra semenza”,
prega’ io lui ………………………

Dissemi: “Qui con più di mille giaccio:
qua dentro è  ’l secondo Federico
e ’l Cardinale; e de li altri mi taccio”.

Inf. XV, 73-85

“Faccian le bestie fiesolane strame
di lor medesme, e non tocchin la pianta,
s’alcuna surge ancora in lor letame,
in cui riviva la sementa santa
di que’ Roman che vi rimaser quando
fu fatto il nido di malizia tanta”.
“Se fosse tutto pieno il mio dimando”,
rispuos’ io lui, “voi non sareste ancora
de l’umana natura posto in bando;
ché ’n la mente m’è fitta, e or m’accora,
la cara e buona imagine paterna
di voi
quando
nel mondo ad ora ad ora
m’insegnavate come l’uom s’etterna: …”

[LSA, cap. II, Ap 2, 5 (Ia visio, Ia ecclesia)] Si vero queratur plenior ratio sui casus vel translationis predicte, potest colligi ex tribus. Primum est inanis gloria et superba presumptio de suo primatu et primitate, quam scilicet habuit non solum ex hoc quod prima in Christum credidit, nec solum ex hoc quod fideles ex gentibus ipsam honorabant et sequebantur ut magistram et primam, tamquam per eam illuminati in Christo et tracti ad Christum, sed etiam ex gloria suorum patriarcharum et prophetarum et divine legis ac cultus legalis longo tempore in ipsa sola fundati.

[LSA, cap. VIII, Ap 8, 7 (IIIa visio, Ia tuba)] Vel per hoc designatur quod temptationem que simul habet magnam speciem boni et veri, et auctoritatem et testimonium maiorum et antiquiorum et in sapientia famosiorum, et sequelam maioris et quasi totalis partis populi, nullus potest vincere nisi sit in fide et caritate firmus ut terra vel arbor et non fragilis et instabilis et cito arefactibilis sicut fenum. Talis autem fuit temptatio iudaica contra Christum.

[LSA, cap. III, Ap 3, 12 (Ia visio, VIa victoria)] Columpna autem, sic stans, est longa et a fundo usque ad tectum erecta et solida ac sufficienter densa, et rotunda communiter vel quadrata, et firmiter fixa templique sustentativa et decorativa. Sic autem stat in Dei ecclesia vel religione vir evangelicus Christo totus configuratus, sic etiam suo modo stat in celesti curia. […] In huius[modi] autem mente tria inscribuntur […] Item, secundum quosdam, inscribitur sibi nomen Dei Patris quando sue paternitatis imago sic illi imprimitur ut merito possit dici abba seu pater spiritualis religionis et prolis. […] Nomen vero Christi sibi inscribitur, cum meretur dici christianus et etiam christus Domini, secundum illud Psalmi (Ps 104, 15): “Nolite tangere christos meos”.

Purg. XX, 13-15, 43-51, 127-128

O ciel, nel cui girar par che si creda
le condizion di qua giù trasmutarsi,
quando verrà per cui questa disceda?

Io fui radice de la mala pianta
che la terra cristiana tutta aduggia,
sì che buon frutto rado se ne schianta.
Ma se Doagio, Lilla, Guanto e Bruggia
potesser, tosto ne saria vendetta;
e io la cheggio a lui che tutto giuggia.
Chiamato fui di là Ugo Ciappetta;
di me son nati i Filippi e i Luigi
per cui novellamente è Francia retta.

quand’ io senti’, come cosa che cada,
tremar lo monte ………………………..

[LSA, cap. V, Ap 5, 1 (Vum sigillum)] In quinta autem (apertione), contra torporem accidie et otii quinti temporis, quod est sentina luxurie et omnis iniquitatis, clamant sancti martires eorum sanguinem, id est penales labores et dolores usque ad mortem, vindicari in illos. […] In quinta autem apertione, contra carnales eiusdem quinti temporis contemptores macerationum et martiriorum Christi et sanctorum precedentium, expetitur instanter et alte iusta vindicta (cfr. Ap 6, 10). Contra etiam ignominiam, est non solum spiritalis sed etiam temporalis pax et gloria sanctorum quinti status, designata per hoc quod ibi dicitur sanctis ut interim quiescant et in sui ornatum recipiant stolam albam (cfr. Ap 6, 11).

 

[Ap 13, 18] Prefatum autem cleri et regni Francie casum et aliquem alium illi annexum vel previum dicunt designari per terremotum in initio apertionis sexti sigilli tactum, quamvis etiam preter hoc designet spiritalem subversionem et excecationem fere totius ecclesie tunc fiendam. Quid autem horum erit vel non erit, dispensationi divine censeo relinquendum. Addunt etiam predicti quod tunc in parte implebitur illud Apostoli [IIa] ad Thessalonicenses  II° (2 Th 2, 3), scilicet “nisi venerit discessio primum”.

Inf. VI, 60-63

ma dimmi, se tu sai, a che verranno
li cittadin de la città partita;
s’alcun v’è giusto; e dimmi la cagione
per che l’ha tanta discordia assalita.

Par. XVI, 151-154

Con queste genti vid’ io glorïoso
e giusto il popol suo, tanto che ’l giglio
non era ad asta mai posto a ritroso,
per divisïon fatto vermiglio.

Par. XVII, 67-69

Di sua bestialitate il suo processo
farà la prova; sì ch’a te fia bello
averti fatta parte per te stesso.

[LSA, cap. XVI, Ap 16, 19; VIa visio] Ex hiis autem sequetur divisio que subditur: “Et facta est civitas magna in tres partes”. […] Potest etiam per hoc designari quecumque intestina discordia et divisio tunc temporis futura in ipsa. Nam et Zacharie XIII° (Zc 13, 7-9) dicitur evangelica religio consimiliter dividenda tunc temporis in tres partes, cum dicitur: “Et convertam manum meam ad parvulos, et erunt in omni terra: partes due in ea dispergentur et deficient, et ducam tertiam partem per ignem et probabo eos sicut probatur aurum. Ipse invocabit nomen meum, et dicam: Populus meus es” et cetera, quamvis hoc in parte in primitiva ecclesia sub apostolis sit impletum.

Inf. X, 48

sì che per due fïate li dispersi

 [Nota alla Tab. introd.4]

Al termine dell’esegesi del capitolo XIII dell’Apocalisse, che tratta della grande guerra mossa nel sesto stato dalla bestia, della quale viene spiegato anche il mistero del numero del nome – il DCLXVI -, Olivi riporta l’opinione di alcuni, i quali, sulla base degli scritti che allora si ritenevano di Gioacchino da Fiore e di quanto sarebbe stato rivelato in segreto da san Francesco a frate Leone suo confessore e ad altri compagni, ritengono che Federico II e il suo seme sia la testa della bestia che sembrava uccisa e che rivive di Ap 13, 3 (“Et vidi unum de capitibus suis quasi occisum in mortem, et plaga mortis eius curata est”). Secondo costoro, al tempo dell’Anticristo mistico (che precede quello aperto), in questo discendente di Federico non solo rivivrà l’Impero romano, ma egli conquisterà pure il regno di Francia e gli saranno alleati gli altri cinque re cristiani. Farà eleggere papa un falso religioso nemico della regola francescana, che contro questa escogiterà dolose dispense, promuovendo vescovi a lui consenzienti ed espellendo i chierici e i precedenti vescovi che erano stati avversi al seme di Federico e specialmente a quell’imperatore, a lui e al suo stato (Ap 13, 18).
In questa pagina si misura la portata della metamorfosi della Lectura nella Commedia, perché l’operato del falso papa che caccia coloro qui semini Frederici et specialiter illi imperatori et sibi et suo statui fuerant adversati risuona in bocca al ghibellino Farinata, uditi i nomi de “li maggior” di Dante: Fieramente furo avversi / a me e a miei primi e a mia parte (Inf. X, 46-47; la forma “furo avversi” ricorre solo in questo luogo).
Farinata incarna la vecchia Sinagoga e i suoi capi, sdegnosa perché forte di avere dalla sua parte l’autorità e la testimonianza dei ‘maggiori’ (cioè degli avi) e dei più antichi e famosi sapienti e la sequela di quasi tutto il popolo: fu questa la tentazione giudaica contro Cristo, come spiegato nell’esegesi della prima tromba (Ap 8, 7). Ben si addice al ghibellino, che domanda “quasi sdegnoso” chi furono “li maggior” del proprio interlocutore, e che alla risposta alza in alto le ciglia dichiarando di averli per due volte cacciati in quanto a lui avversi, l’immagine dei pontefici e dei prìncipi della vecchia legge i quali, superbi per l’altezza del magistero e della fama conseguita presso tutto il popolo e del favore di questo, non si sottomettono alla correzione di Cristo, che anzi sdegnano e disprezzano per l’abiezione.
Alla chiesa di Gerusalemme, subentrata nel primato alla Sinagoga con la nuova fede, viene assimilata Efeso, la prima delle sette chiese d’Asia alle quali Giovanni scrive nella prima visione apocalittica. Nel suo eccessivo e superbo mantenere le cerimonie della vecchia legge giudaica, la chiesa “ex circumcisione” fu troppo zelante contro la fede di Cristo e venne meno all’originario fervore di carità. Così fece Farinata nei confronti di Firenze, “nobil patrïa” assimilata alla Chiesa di Cristo, come egli stesso riconosce dicendo: “a la qual forse fui troppo molesto”.
La chiesa di Efeso si distinse per l’ “inanis gloria et superba presumptio de suo primatu et primitate”, per cui viene minacciata di traslazione del primato, come avvenne per la Sinagoga (Ap 2, 5). Così Farinata: “Fieramente furo avversi … a miei primi ”. Alla Sinagoga dell’Antico Testamento corrisponde, nel Nuovo, Babylon, la Chiesa corrotta della fine del quinto stato, come a Cristo corrisponde la Chiesa del sesto stato, quella che Dante rappresenta, che sarà, una volta liberatosi dal vecchio con cui ancora concorre, “novum saeculum”, per cui essa si ricongiungerà circolarmente, quasi fosse una sfera, ai suoi inizi. In tal modo al ghibellino sono appropriati temi propri della sesta e grande guerra combattuta dalla Chiesa. Vicende private ed episodi locali, del microcosmo toscano, trovano collocazione in una storia universale, quale è quella della Chiesa insita nell’Apocalisse secondo Olivi.
Il verso successivo, “sì che per due fïate li dispersi” (Inf. X, 48), rinvia ad Ap 16, 19, dove si introduce il tema della divisione della grande città in tre parti, provocata da discordie intestine (“la città partita” di Ciacco, assalita da tanta discordia, di Inf. VI, 60-63; “’l giglio … per divisїon fatto vermiglio” evocato da Cacciaguida a Par. XVI, 152-154), designate dal terremoto descritto nel secondo preambolo della sesta visione che, in quanto segno premonitore della caduta della nuova Babilonia che avviene nel sesto tempo della Chiesa, designa l’accecamento della chiesa carnale, la quale sotto l’Anticristo mistico si muove contro lo spirito evangelico di Cristo. Un passo del profeta Zaccaria (Zc 13, 7-9), applicato alla divisione in tre parti della religione evangelica, precisa che due parti verranno disperse, mentre la terza, popolo di Dio, verrà condotta e provata attraverso il fuoco. Si può intendere che, dispersi i maggiori di Dante nel 1248 e nel 1260, la terza parte, Dante stesso, non lo sarà (cfr. quanto gli dice Cacciaguida a Par. XVII, 68-69: “sì ch’a te fia bello / averti fatta parte per te stesso”).
Questo Farinata, tessuto nel suo parlare con il panno, pregno di scritti pseudogioachimiti, del falso papa imposto dall’Anticristo mistico-Federico II, ma che dice delle fazioni di Firenze come fossero divisioni della religione evangelica, giace mell’arca “con più di mille” epicurei, “che l’anima col corpo morta fanno”. Fra costoro c’è “’l secondo Federico”, nominato ma che non si drizza dal suo sepolcro (Inf. X, 118-119). Nell’episodio, il rivivere del seme di Federico sembra tacere, ma al ghibellino il poeta augura il riposo della sua discendenza (ibid., 94). “Deh, se riposi mai vostra semenza”: è augurio di pace delle fazioni, per cui gli sbanditi Uberti possano ritornare a Firenze. Dante pronuncia queste parole dopo un profondo mutamento interiore intervenuto in Farinata. Alla risposta del poeta, che la causa dell’esilio dei suoi è la memoria del sangue sparso a Montaperti, il ghibellino, fino allora immutabile nell’aspetto e immobile nella figura, sospirando muove il capo. È il momento in cui la sofferenza trasforma la statua in uomo e gli apre il libro della memoria, per cui ricorda il suo muovere contro Firenze con gli altri non senza ragione, quasi ministro della giustizia divina, e la sua solitaria difesa a viso aperto della città contro tutti, che per un attimo lo fa assurgere ai segnati di Cristo, ai quali nel sesto stato è data la costante e magnanima libertà di difendere pubblicamente la fede. Tanto alti significati, che qui non è possibile compiutamente aprire, fanno dell’episodio il più profondo ed ermetico del poema.
Il tema del seme imperiale che rivive è invece messo in bocca a Brunetto Latini, per il quale “le bestie fiesolane” (i fiorentini) non dovranno toccare Dante, pianta in cui riviva la sementa santa / di que’ Roman che vi rimaser quando / fu fatto il nido di malizia tanta, che parteciparono cioè alla fondazione di Firenze (Inf. XV, 76-78; unico caso nel poema del verbo ‘rivivere’, proprio congiunto al seme come ad Ap 13, 18). Anche il ‘rimanere’ del seme ha un valore, come spiegato ad Ap 12, 17, al momento della guerra del quinto stato. La quinta guerra [37] viene condotta dal drago contro le rimanenze (le reliquie) del seme della donna, rappresentate da coloro che custodiscono i precetti divini e danno testimonianza di Cristo. Secondo Gioacchino da Fiore, il seme della donna è Cristo rapito in cielo e questo è seme che precede; quello che ‘rimane’ viene designato con l’evangelista Giovanni, cioè con i contemplativi propri del quarto stato. Olivi ritiene tuttavia che il testo sacro, nella quarta visione, dopo aver trattato le guerre sostenute in primo luogo da Cristo, in secondo dai martiri e in terzo e quarto dalla Chiesa prima dispersa e poi riunita da Costantino e dotata delle ali dei dottori e degli anacoreti per volare nel deserto dei Gentili e in quello della vita contemplativa, si riferisca ora in parte ad eventi successivi allo stato degli anacoreti, e precisamente a quanti fra essi rimasero sopravvivendo alle distruzioni operate dai Saraceni e, comunque, alle reliquie lasciate al quinto stato (che inizia con Carlo Magno e dura circa cinquecento anni). In entrambi i casi si parla di ‘reliquie’ poiché, come in un vaso di vino purissimo, una volta bevuta la parte superiore, maggiore e più pura, rimangono solo poche reliquie vicine alle impurità e quasi con esse mescolate, così della pienezza e purezza del vino dei dottori e degli anacoreti del terzo e del quarto stato rimasero prima solo le reliquie, al momento della devastazione saracena; poi, nel quinto stato, occupate molte chiese dai Saraceni e separatisi i Greci dalla fede romana, rimase solo la Chiesa latina come reliquia della Chiesa che prima era diffusa in tutto l’orbe. Dante è pertanto ‘reliquia’ del seme che rimane – assimilato alla Chiesa romana – accanto e commisto al letame delle bestie fiesolane. È da notare che, nelle parole di Brunetto, il “romanus populus … ille sanctus, pius et gloriosus” (Monarchia, II, v, 5), di cui Dante è seme rimasto, è ammantato dalla veste che nell’esegesi scritturale spetta alla Chiesa di Roma, la sola ‘rimasta’ di una Chiesa prima diffusa su tutto l’orbe, della quale il seme degli antichi Romani è dunque prefigurazione. Il tema del purissimo seme della donna che rimane, da Ap 12, 17, è anche singolarmente consonante con quanto affermato in Convivio IV, v, 5-6: “E però [che] anche l’albergo dove ’l celestiale rege intrare dovea, convenia essere mondissimo e purissimo, ordinata fu una progenie santissima … Per che assai è manifesto la divina elezione del romano imperio, per lo nascimento della santa cittade, che fu contemporaneo alla radice della progenie di Maria”.
L’espressione di Brunetto – “e non tocchin la pianta, / s’alcuna surge ancora in lor letame” (Inf. XV, 73-75) – trasforma un tema della sesta vittoria (Ap 3, 12), allorché il nuovo nome di Cristo viene iscritto intendendo ‘cristiano’ come ‘unto del Signore’, nel senso del salmo 104, 15: “Non toccate i miei consacrati”. Chi consegue la sesta vittoria – ed è uomo evangelico che sta fisso in Cristo come una colonna nel tempio –  ha iscritto nella mente il nome di Dio padre, immagine paterna che si imprime come quella di un padre spirituale nella prole, di un abate nella propria religione. Nella mente di Dante è “fitta … la cara e buona imagine paterna” di Brunetto Latini che gli insegnava “come l’uom s’etterna”, immagine che ora l’ “accora” (Inf. XV, 82-85). Anche nell’inferno esistono momenti di apertura all’imitazione di Cristo, per quanto solo nel ricordo della vita passata che la poesia registra.
Olivi (ad Ap 13, 18) rimette alla volontà divina l’avverarsi dell’opinione che l’Anticristo mistico nasca dal seme di Federico II [38]. Ricorda tuttavia che i sostenitori di questa tesi affermano pure che la ‘caduta’ del regno di Francia avverrà in coincidenza con il terremoto che segna l’apertura del sesto sigillo, e che allora si verificherà quanto dice l’Apostolo ai Tessalonicesi sul fatto che l’apostasia, il discedere dall’obbedienza del vero papa per seguire il falso papa non eletto canonicamente, scismatico ed errante contro la verità della povertà e della perfezione evangelica, dovrà venire prima del ritorno di Cristo nella parusia (2 Th 2, 3). Dell’espressione paolina – “nisi venerit discessio primum” – è pregno il verso di invettiva contro la lupa – “quando verrà per cui questa disceda?” -, nel quale il ‘discedere’ è appropriato alla lupa e il ‘venire’ al Veltro. L’invettiva è collocata all’inizio di Purg. XX (vv. 13-15), canto che si chiude con il terremoto sentito “come cosa che cada” e che fa tremare la montagna (vv. 124-141). Stazio spiegherà che il terremoto si verifica allorché un’anima purgante si sente monda e libera nella sua volontà di salire al cielo (Purg. XXI, 58-72). Tra l’invettiva contro la lupa e il terremoto è descritto l’incontro con Ugo Capeto, il quale chiede vendetta a Dio sulla “mala pianta” di cui fu radice. Il terremoto – che assume testualmente, comunque, le caratteristiche dell’apertura del sesto sigillo –, al di là dei motivi dati da Stazio (anch’essi propri del sesto stato) [39], è allusione alla prossima caduta del regno di Francia.
All’apertura del quinto sigillo (Ap 6, 9) i santi, rattristati fino alla disperazione per i mali che invadono la Chiesa, chiedono a gran voce che venga fatta subito vendetta contro i carnali del quinto tempo che dispregiano Cristo e i suoi. Con grande desiderio gridano a Dio: “Fino a quando, Signore, tu che sei santo e verace, non farai giustizia e non vendicherai il nostro sangue contro gli abitanti della terra?”. Nel “fino a quando” sta la loro insofferenza ad attendere ancora una vendetta rinviata per seicento anni e che la giustizia divina non può ulteriormente procrastinare. Poiché santo, Dio non può non odiare l’iniquità, e in quanto vero non può non mettere in pratica i mali minacciati e i beni promessi. Tuttavia ai santi del quinto stato viene detto di quietarsi e di aspettare le cose grandi che avverranno all’apertura del sesto sigillo, allorché saranno rivelati segreti fino allora chiusi e si rinnoveranno i gloriosi martìri in modo che il numero degli eletti sia completato. Il tema del santo desiderio di vendetta che chiama contro i malvagi e che non soffre altra attesa, risuona in più punti del poema. Compare ben tre volte tra gli avari e i prodighi del Purgatorio, in una zona che principalmente si riferisce al quinto stato. La prima volta è il poeta a maledire l’antica lupa e a domandare al cielo il momento dell’arrivo del Veltro (Purg. XX, 10-15). La seconda volta è Ugo Capeto a chiedere sùbita vendetta a colui che tutto giudica a nome di Douai, Lille, Gand, Bruges vessate da Filippo il Bello (ibid., 46-48), come i santi del quinto stato dai quali “expetitur instanter et alte iusta vindicta”. Ancora Ugo Capeto si rivolge a Dio chiedendogli quando potrà godere la gioia di vedere attuata la vendetta per ora nascosta nel suo segreto, chiusa cioè fino a quando, nel sesto stato, verrà il giudizio di Babylon (ibid., 94-96). Terminato l’episodio di Ugo Capeto, un terremoto scuote la montagna: si tratta di un’allusione al terremoto con cui si apre il sesto sigillo (ibid., 124-141).
L’esame dei testi rivela un metodo per il quale la poesia trasforma in senso positivo, di prossimo rinnovamento, quanto nell’esegesi dell’Apocalisse viene appropriato a figure o a situazioni negative. Così per la discendenza di Federico II, che Olivi, sulla base di scritti ritenuti di Gioacchino da Fiore, connette con l’Anticristo mistico, e che invece per Dante è “sementa santa”. Così nella descrizione delle luci degli spiriti giusti, che nel cielo di Giove risorgono formando la figura di un’aquila, viene utilizzata l’esegesi della bestia la cui testa sembrava uccisa e che invece risorge (Ap 13, 3).

 

Zahari Zograf (1810-1853), scene dall’Apocalisse. Monastero di Rila (Bulgaria)

 

1. L’angelo dalla parola ornata. 2. L’Ordine finale. 3. Evangelium aeternum

 

 

1. L’angelo dalla parola ornata  (Ap 11, 1; 14, 14)

■ A Giovanni (Ap 11, 1; terza visione, sesta tromba) viene dato il “calamus”, cioè una canna simile a una verga, che designa il potere e la discrezione di reggere la Chiesa. Come con il “calamus” gli architetti sogliono misurare gli edifici e i mercanti i panni, così con esso i rettori della Chiesa posseggono la regolare e giusta misura in base alla quale sanno ciò che debbono governare e ciò che debbono lasciare. Questo “calamus” non assomiglia a una vuota e fragile canna o asticciola, ma piuttosto a una dritta e solida verga. Designa infatti l’autorità nel governare propria dei pontefici e dei maestri, la virtù e la giustizia capace di correggere, drizzare e dirigere rettamente la Chiesa. Secondo Gioacchino da Fiore, il “calamus” designa la lingua erudita di cui si dice nel Salmo: “La mia lingua è stilo di scriba” (Ps 44, 2). Come infatti con l’austerità della verga si piegano le bestie indomite, così con la disciplina della lingua vengono corretti i duri cuori degli uomini.
Si ritrova questa limitata parte di esegesi, variamente utilizzata, in più punti del poema, che ad essa rinviano. Il “calamus” designa l’autorità nel governare propria dei pontefici: il drizzare ben si applica al “benedetto Agapito, che fue / sommo pastore”, il papa (535-536) che avrebbe convinto Giustiniano ad abbandonare l’eresia monofisita (Par. VI, 13-21; da notare la corrispondenza numerica fra terzine).
Gli elementi semantici – parole-chiave che conducono dal senso letterale dei versi alla dottrina contenuta nell’altro testo prestando una lingua moderna ed esempi contemporanei – fasciano con i loro significati non solo la Chiesa, quali sue prerogative, ma pervadono l’intero mondo umano con le sue esigenze. Due di queste, la lingua e il regime del Monarca, si mostrano intimamente congiunte, per cui si può affermare che l’assenza dell’Imperatore dall’Italia è di nocumento anche alla lingua [1]. “Il valore della parola presuppone l’identificazione, addirittura pseudoetimologica, fra la rectorica e l’arte di ‘reggere’ le comunità” [2], tanto che Brunetto Latini, concludendo il Tresor con la trattazione della politica, la fa seguire a quella della retorica, e afferma (III, 75, 8): “[…] il affiert a seingnor que il parole miauz que les autres, por ce que tot li mondes tient a plus saige celui qui plus saigement dit […]”. Così la “pontificalis vel magistralis seu gubernatoria auctoritas et virtus et iustitia potens corrigere et rectificare et recte dirigere ecclesiam Dei” è pervenuta in mano anche all’ “alto Arrigo, ch’a drizzare Italia / verrà in prima ch’ella sia disposta” (Par. XXX, 137-138).
Il “calamus” equivale agli sproni e al freno con cui l’Imperatore dovrebbe correggere l’Italia, “costei ch’è fatta indomita e selvaggia”, dopo che la Chiesa (la “gente” che dovrebbe “esser devota”) si è impadronita della cavalcatura (Purg. VI, 91-99). “Indomita” è hapax nel poema.
Il “calamus” – si è detto – è la “lingua erudita”, secondo l’interpretazione di Gioacchino da Fiore. La lingua di Virgilio è di un reggitore: il poeta latino è colui che possiede la scienza della discrezione, in virtù della quale conosce luoghi e tempi per ammettere ed escludere i malvagi dannati, che fa a lui venire, che ‘adizza’ a parlare e ai quali dà licenza di andar via. La sua “parola ornata” o “parlare onesto” (così dice Beatrice in Inf. II, 67, 113), con cui nel mondo scrisse “li alti versi”, corrisponde alla “lingua erudita-calamo” data a Giovanni (Ap 11, 1): è la sola che possa piegare gli “schivi” Greci; essa frena la lingua del discepolo (Inf. XXVI, 70-75), congeda in lombardo la fiamma che fascia Ulisse, fa drizzare la voce del “latino” Guido da Montefeltro (Inf. XXVII, 1-3, 19-21) [3].
La regolare e giusta misura, espressa dal “calamus” dato a Giovanni per reggere la Chiesa, mancò a Stazio nel troppo spendere, “e questa dismisura / migliaia di lunari hanno punita”. Si salvò ‘drizzando’, cioè torcendo alla giusta misura, la propria “cura”, cioè il proprio affanno a spendere, grazie alla lettura di quel punto dell’Eneide (III, 56-57) in cui Virgilio, di fronte all’assassinio di Polidoro perpetrato da Polimnestore, esclama “crucciato quasi a l’umana natura: / ‘Per che non reggi tu, o sacra fame / de l’oro, l’appetito de’ mortali?’” (Purg. XXII, 34-42). È noto che la citazione virgiliana è stata interpretata in due modi opposti: ‘Per che (cioè a quali malvagità) non spingi (o trascini, secondo il Petrocchi) tu, o esecranda fame dell’oro, l’appetito dei mortali?’, oppure ‘Perché non guidi tu, o santa fame dell’oro, l’appetito dei mortali?’. Proprio il panno dell’esegesi consente di scegliere la seconda soluzione: in esso infatti il “calamus” che frena, costringe e drizza designa la “discretio … regendi … per regularem ipsius calami rectitudinem et mensuram”. Si tratta pertanto di ‘reggere’, cioè di guidare misuratamente nell’appetire le ricchezze, misura che appunto Stazio non ha avuto peccando di prodigalità.
Virgilio, a Purg. XIV, 143-144 (a proposito delle voci su Caino e Aglauro, esempi di invidia punita), parla del “duro camo”, cioè del freno “che dovria l’uom tener dentro a sua meta”, con il quale viene percosso da Dio, che “tutto discerne”. “Camo” (freno, morso) deriva da “camus”, e come tale è nel Salmo 31, 9: “in camo et freno maxillas eorum constringe”, citato a Monarchia III, xv, 9. Ma il “calamus” dato a Giovanni, di cui ad Ap 11, 1, è in realtà un “camus”, ed è accompagnato da motivi non contenuti nel Salmo 31, 9: la durezza, il discernere di colui che regge, l’uomo. È questo esempio di citazione polisemica, cioè di più significati (“polisemos” è il termine con cui Dante definisce la Commedia nell’Epistola XIII, 20). Ciò avviene in più luoghi del poema, dove le citazioni scritturali, palesi o coperte, sono incastonate in quelle della Lectura super Apocalipsim, che le circoscrivono e le armano con diverse maglie semantiche [4].
Al “calamus” dei reggenti è assimilata la “doga” di Purg. XII, 105, cioè la misura del sale un tempo sicura e poi falsificata nella Firenze ironicamente chiamata “la ben guidata”.
Infine, i temi da Ap 11, 1 sono nel parlare di san Bernardo: la misura del panno del “buon sartore” nel fare “la gonna”, il ‘drizzare’ gli occhi a Dio (Par. XXXII, 139-144). Il “tempo” che “assonna”, cioè il tempo della visione, sta per finire, così come pure sta per terminare il “panno” su cui è stata cucita la “gonna”.
In tutt’altro contesto (Purg. XX, 54-56), “panni” e “freno del governo del regno” sono nel parlare di Ugo Capeto.
Per il principio della collazione analogica di più passi della Lectura, freno, oltre che ad Ap 11, 1, rinvia anche all’esegesi di Ap 9, 1-2 (terza visione, quinta tromba); panni ad Ap 3, 3-4 (prima visione, quinta chiesa).

 

 

Tab. I.1

Inf. IX, 88-90

Ahi quanto mi parea pien di disdegno!
Venne a la porta e con una verghetta
l’aperse, che non v’ebbe alcun ritegno.

[LSA, cap. XI, Ap 11, 1 (IIIa visio, VIa tuba)] “Et datus est michi calamus” (Ap 11, 1). Hic ordini prefato datur potestas et discretio regendi ecclesiam illius temporis. Datio enim potestatis significatur [per] donationem calami, quo artifices domorum solent mensurare edificia sua. Discretio vero regendi sibi dari designatur, tum per regularem ipsius calami rectitudinem et mensuram, tum per hoc quod docetur quos debeat mensurare, id est regere, et quos relinquere. Dicit autem: “Et datus est michi”, supple a Deo, “calamus similis virge”, quasi dicat: non similis vacue et fragili canne seu arundini, sed potius recte et solide virge. Et certe tali communiter mensurantur panni et edificia. Per hanc autem designatur pontificalis vel magistralis seu gubernatoria auctoritas et virtus et iustitia potens corrigere et rectificare et recte dirigere ecclesiam Dei.
Secundum Ioachim, calamus iste signat linguam eruditam, dicente Psalmo (Ps 44, 2): “Lingua mea calamus scribe”, qui est similis virge, quia sicut austeritate virge coarcentur iumenta indomita, ita lingue disciplina dura corda hominum corriguntur *.

* Expositio, pars III, f. 145rb.

Par. VI, 16-18

ma ’l benedetto Agapito, che fue
sommo pastore
, a la fede sincera
mi dirizzò con le parole sue.

Purg. XIV, 142-151

Già era l’aura d’ogne parte queta;
ed el mi disse: “Quel fu ’l duro camo   Ps 31, 9
che dovria l’uom tener dentro a sua meta.
Ma voi prendete l’esca, sì che l’amo
de l’antico avversaro a sé vi tira;
e però poco val freno o richiamo.
Chiamavi ’l cielo e ’ntorno vi si gira,
mostrandovi le sue bellezze etterne,
e l’occhio vostro pur a terra mira;
onde vi batte chi tutto discerne”.

Purg. XXII, 34-42

Or sappi ch’avarizia fu partita
troppo da me, e questa dismisura
migliaia di lunari hanno punita.
E se non fosse ch’io drizzai mia cura,
quand’ io intesi là dove tu chiame,
crucciato quasi a l’umana natura:
‘Per che non reggi tu, o sacra fame  [Perché
de l’oro, l’appetito de’ mortali?’,
voltando sentirei le giostre grame.

Aen. III, 56-57

… Quid non mortalia pectora cogis,
auri sacra fames! …………………

Inf. XXVI, 70-75; XXVII, 16-21

Ed elli a me: “La tua preghiera è degna
di molta loda, e io però l’accetto;
ma fa che la tua lingua si sostegna.
Lascia parlare a me, ch’i’ ho concetto
ciò che tu vuoi; ch’ei sarebbero schivi,
perch’ e’ fuor greci, forse del tuo detto”.

Ma poscia ch’ebber colto lor vïaggio
su per la punta, dandole quel guizzo
che dato avea la lingua in lor passaggio,
udimmo dire: “O tu a cu’ io drizzo
la voce e che parlavi mo lombardo,
dicendo ‘Istra ten va, più non t’adizzo’ …”.

Par. XXX, 133-138

E ’n quel gran seggio a che tu li occhi tieni
per la corona che già v’è sù posta,
prima che tu a queste nozze ceni,
sederà l’alma, che fia giù agosta,
de l’alto Arrigo, ch’a drizzare Italia
verrà in prima ch’ella sia disposta.   7, 3

Purg. VI, 88-99

Che val perché ti racconciasse il freno
Iustinïano, se la sella è vòta?
Sanz’ esso fora la vergogna meno.
Ahi gente che dovresti esser devota,
e lasciar seder Cesare in la sella,
se bene intendi ciò che Dio ti nota,
guarda come esta fiera è fatta fella
per non esser corretta da li sproni,
poi che ponesti mano a la predella.
O Alberto tedesco ch’abbandoni
costei ch’è fatta indomita e selvaggia,
e dovresti inforcar li suoi arcioni

Purg. XII, 100-105

Come a man destra, per salire al monte
dove siede la chiesa che soggioga
la ben guidata sopra Rubaconte,
si rompe del montar l’ardita foga
per le scalee che si fero ad etade
ch’era sicuro il quaderno e la doga

Purg. XX, 52-57

Figliuol fu’ io d’un beccaio di Parigi:
quando li regi antichi venner meno
tutti, fuor ch’un renduto in panni bigi,
trova’mi stretto ne le mani il freno
del governo del regno, e tanta possa
di nuovo acquisto, e sì d’amici pieno

Par. XXXII, 139-144

Ma perché ’l tempo fugge che t’assonna,
qui farem punto, come buon sartore
che com’ elli ha del panno fa la gonna;
e drizzeremo li occhi al primo amore,
sì che, guardando verso lui, penètri
quant’ è possibil per lo suo fulgore.

[Ap 9, 1-2; IIIa visio, Va tuba] “Et data est [illi] clavis putei abissi, et aperuit puteum abissi” (Ap 9, 1-2), id est data est eis potestas aperiendi ipsum. Puteus abissi habet infernalem flammam et fumositatem obscuram et profunditatem voraginosam et quasi immensam et societatem demoniacam. Aperire ergo puteum abissi in populo quinti status fuit perverso exemplo et malo regimine solvere frenum carnalis concupiscentie et avaritie et terrene astutie et malitie et secularis lacivie ac demoniace seu pompose superbie, quod quidem frenum erat prius in ecclesia tam per Dei et suorum preceptorum ac iudiciorum timorem quam per sanctorum prelatorum disciplinam rigidam et severam ad se et suos subditos fortiter infrenandos, et etiam per sancte societatis exemplum et zelum nequeuntem in se vel in sociis tolerare enormitates et effrenationes predictas.

 

[LSA, cap. XI, Ap 11, 1 (IIIa visio, VIa tuba)] “Et datus est michi calamus” (Ap 11, 1). Hic ordini prefato datur potestas et discretio regendi ecclesiam illius temporis. Datio enim potestatis significatur [per] donationem calami, quo artifices domorum solent mensurare edificia sua. Discretio vero regendi sibi dari designatur, tum per regularem ipsius calami rectitudinem et mensuram, tum per hoc quod docetur quos debeat mensurare, id est regere, et quos relinquere. Dicit autem: “Et datus est michi”, supple a Deo, “calamus similis virge”, quasi dicat: non similis vacue et fragili canne seu arundini, sed potius recte et solide virge. Et certe tali communiter mensurantur panni et edificia. Per hanc autem designatur pontificalis vel magistralis seu gubernatoria auctoritas et virtus et iustitia potens corrigere et rectificare et recte dirigere ecclesiam Dei.
Secundum Ioachim, calamus iste signat linguam eruditam, dicente Psalmo (Ps 44, 2): “Lingua mea calamus scribe”, qui est similis virge, quia sicut austeritate virge coarcentur iumenta indomita, ita lingue disciplina dura corda hominum corriguntur .

 

Inf. XXVII, 16-21 (6-7)

Ma poscia ch’ebber colto lor vïaggio
su per la punta, dandole quel guizzo
che dato avea la lingua in lor passaggio,
udimmo dire: “O tu a cu’ io drizzo
la voce e che parlavi mo lombardo,
dicendo ‘Istra ten va, più non t’adizzo’ …”.

Par. VI, 16-18 (6)

ma ’l benedetto Agapito, che fue
sommo pastore
, a la fede sincera
mi dirizzò con le parole sue.

 Purg. XIV, 142-151 (48-50)

 

 

Già era l’aura d’ogne parte queta;  Ps 31, 9
ed el mi disse: “Quel fu ’l duro camo
che dovria l’uom tener dentro a sua meta.
Ma voi prendete l’esca, sì che l’amo
de l’antico avversaro a sé vi tira;
e però poco val freno o richiamo.
Chiamavi ’l cielo e ’ntorno vi si gira,
mostrandovi le sue bellezze etterne,
e l’occhio vostro pur a terra mira;
onde vi batte chi tutto discerne”.

Par. XXXII, 139-144 (47-48)

Ma perché ’l tempo fugge che t’assonna,
qui farem punto, come buon sartore
che com’ elli ha del panno fa la gonna;
e drizzeremo li occhi al primo amore,
sì che, guardando verso lui, penètri
quant’ è possibil per lo suo fulgore.

 

La canna simile a una verga, che designa il potere e la discrezione nel reggere la Chiesa, viene interpretata anche come la “lingua erudita”, che serve a correggere i duri cuori degli uomini, come con la verga si piegano le bestie indomite (Ap 11, 1). Questa “lingua erudita” è altresì propria dell’angelo che ad Ap 14, 14 siede sopra una nube candida con in capo la corona d’oro e in mano la falce acuta: secondo Gioacchino da Fiore, l’immagine designa un ordine di giusti ai quali è dato di imitare in modo perfetto il Figlio dell’uomo e di possedere l’eloquio per diffondere il Vangelo del regno e per raccogliere nel campo del Signore l’ultima messe. La nube candida indica che la “conversatio” dell’angelo, cioè la sua vita religiosa, non è gravata da oscurità ma è lucida e spirituale.
La “lingua erudita”, di cui si parla ad Ap 11, 1 (il “calamus similis virge”, dato a Giovanni, che corregge e piega i duri cuori degli uomini: terza visione, sesta tromba) e ad Ap 14, 14 (quarta visione, settima guerra), è anche honesta. Se si confronta infatti Ap 11, 1 con Ap 1, 13, dove si tratta della terza perfezione di Cristo sommo pastore (prima visione), si può notare che all’autorità pontificale si addice tanto il “calamus similis virge”, cioè l’eloquio, quanto la “honestatis sanctitudo”.
Se si confronta ancora Ap 14, 14 con Ap 3, 18 (prima visione, esegesi della settima chiesa, Laodicea), si vede che la “conversatio non … ponderosa et obscura sed lucida et spiritalis”, propria di quanti hanno la “lingua erudita” (Ap 14, 14) è “conversatio honesta” e consiste nell’ “ornatus” esteriore delle buone opere (Ap 3, 18; il “parlare onesto” e la “parola ornata” di Virgilio, come affermato da Beatrice a Inf. II, 67, 113).
Il potere di correzione, che ad Ap 11, 1 si dice dato al pontefice, al maestro o comunque a chi governa, è quello proprio della nona perfezione di Cristo sommo pastore (Ap 1, 16), per cui la giustizia retta e severa si esprime nella parola viva, nel “sermo vivus” che penetra efficace come una spada a doppio taglio, secondo quanto affermato nella Lettera agli Ebrei 4, 12.
La collazione di tutti questi passi, collegati tra loro da parole-chiave (“pontificalis” per Ap 11, 1 e 1, 13; “conversatio” per Ap 14, 14 e 3, 18; “corrigere / correctio” per Ap 11, 1 e 1, 16) e vertenti anche sul tema dell’eloquio, fornisce il panno per tessere le parole con cui Farinata si rivolge a Dante: “O Tosco che per la città del foco / vivo ten vai così parlando onesto” (Inf. X, 22-23).
Certamente è presente, nel parlare ornato e onesto, una “concezione classico-umanistica della poesia  (di lunghissima durata), i cui valori principali sono il decoro formale, l’efficacia etica, la fama” [5]. Ma i significati ciceroniani dell’ “oratio erudita” contrapposta all’ “oratio popularis”, degli illuminati “erudita saecula” che Dante contrapporrebbe alle “etati grosse”, sono congiunti con ben altro valore. La “lingua eudita”, nella citazione dall’Expositio in Apocalypsim di Gioacchino da Fiore riportata da Olivi ad Ap 14, 14, è la lingua della conversione finale e universale “ad evangelizandum evangelium regni et colligendam in aream Domini ultimam messionem”. Essa è propria di quanti, designati dall’angelo che sta su una nube candida (per purezza spirituale), appartengono a un ordine di giusti imitatori del Figlio dell’uomo.
Virgilio che guida, mosso dalla “donna del ciel”, e Beatrice incarnano entrambi due distinte prerogative di Cristo. Corrispondono il primo all’insegnamento di Cristo in quanto uomo e in quanto “lux simplicis intelligentie”, o verbale sapienza del Padre; la seconda ai suggerimenti, per gusto interiore d’amore, dello Spirito di Cristo, ai quali prepara la voce esteriore del Figlio dell’uomo. Beatrice rappresenta il gusto e il sentimento dell’amore, appropriato allo Spirito Santo. Mossa da amore, fa muovere Virgilio alla salvezza del suo amico: “Or movi, e con la tua parola ornata … l’aiuta, sì ch’i’ ne sia consolata. … amor mi mosse, che mi fa parlare” (Inf. II, 67-72: il Paraclito è ‘consolatore’; cfr. qui di seguito). Virgilio e Beatrice operano entrambi, come Cristo, per mezzo della “locutio”, cioè della favella; il primo con la “parola ornata”, la seconda con il parlare dettato da amore che suggerisce all’altro ciò che debba fare.

 

Tab. I.2

 

1, 13

 

11, 1

 

14, 14

 

pontificalis sanctitudo ————————>                 |

        honestas

 

pontificalis vel magistralis seu gubernatoria
auctoritas et virtus et iustitia

       |

lingua erudita ————————————>

       |

corrigere ————- 1, 16  correctio

                                                |

                                       sermo vivus

 

 

 

lingua erudita

         |

conversatio ——– 3, 18 conversatio honesta

‌                                                   |

                                        exterior ornatus

[LSA, cap. XI, Ap 11, 1 (IIIa visio, VIa tuba)] “Et datus est michi calamus” (Ap 11, 1). Hic ordini prefato datur potestas et discretio regendi ecclesiam illius temporis. Datio enim potestatis significatur [per] donationem calami, quo artifices domorum solent mensurare edificia sua. Discretio vero regendi sibi dari designatur, tum per regularem ipsius calami rectitudinem et mensuram, tum per hoc quod docetur quos debeat mensurare, id est regere, et quos relinquere. Dicit autem: “Et datus est michi”, supple a Deo, “calamus similis virge”, quasi dicat: non similis vacue et fragili canne seu arundini, sed potius recte et solide virge. Et certe tali communiter mensurantur panni et edificia. Per hanc autem designatur pontificalis vel magistralis seu gubernatoria auctoritas et virtus et iustitia potens corrigere et rectificare et recte dirigere ecclesiam Dei.
> Secundum Ioachim, calamus iste signat linguam eruditam, dicente Psalmo (Ps 44, 2): “Lingua mea calamus scribe”, qui est similis virge, quia sicut austeritate virge coarcentur iumenta indomita, ita lingue disciplina dura corda hominum corriguntur < *.

Inf. X, 22-23

O Tosco che per la città del foco
vivo ten vai così parlando onesto

 

Expositio, pars III, f. 145rb.

[LSA, Ap 14, 14 (IVa visio, VIIum prelium)] “Et vidi et ecce nubem candidam et super nubem sedentem similem Filio hominis, habentem in capite suo coronam auream et in manu sua falcem acutam” (Ap 14, 14).
> Ioachim dicit: «Arbitramur in isto signari quendam ordinem iustorum, cui datum est perfecte imitari vitam Filii hominis et habere eruditam linguam ad evangelizandum evangelium regni et colligendam in aream Domini ultimam messionem, qui stat super nubem candidam quia conversatio eius non est ponderosa et obscura sed lucida et spiritalis» < *.

[LSA, cap. I, Ap 1, 16 (radix Ie visionis)] Nona est iudiciarie correctionis et retributionis recta et severa iustitia, unde subdit: “et de ore eius gladius ex utraque parte acutus exibat”. Per gladium intelligitur Dei sententia omnia penetrans et cuncta vitia undique absque acceptione personarum abscindens, secundum illud Apostoli ad Hebreos IIII° (Heb 4, 12): “Vivus est sermo Dei et efficax et penetrabilior”, id est penetrantior, “omni gladio ancipiti”. Est etiam utraque parte acutus quia non solum percutit extraneos sed etiam suos prout iustitia exigit, secundum illud Iob IX° (Jb 9, 22): “Innocentem et impium ipse consumet”, iustum quidem ne glorietur et ut amplius expurgetur, impium vero ne perseveret in malo aut ne condempnetur. Per gladium etiam intelligitur Dei verbum seu doctrina penetrans intima cordium et vitia scindens, secundum illud ad Ephesios VI° (Eph 6, 17): “Et gladium Spiritus, quod est verbum Dei”.

Expositio, pars IV, distinctio VII, f. 175va.

[LSA, cap. I, Ap 1, 13 (radix Ie visionis)] Tertia (perfectio summo pastori condecens) est sacerdotalis et pontificalis ordinis et integre castitatis et honestatis sanctitudo, unde subdit: “vestitum podere”. Poderis enim erat vestis sacerdotalis et linea pertingens usque ad pedes, propter quod dicta est poderis, id est pedalis: pos enim grece, id est pes latine. Poderis enim, secundum aliquos, erat tunica iacinctina pertingens usque ad pedes, in cuius fimbriis erant tintinabula aurea, et de hac videtur dici illud Sapientie XVI[II]° (Sap 18, 24): “In veste poderis, quam habebat, totus erat orbis terrarum, et parentum magnalia in quattuor ordinibus lapidum erant sculpta”.

[LSA, cap. III, Ap 3, 18 (Ia visio, VIIa ecclesia)] Nota autem quod supra premisit cecum ante nudum, hic vero premittit expulsionem nuditatis per vestes curationi oculorum et visus per collirium, quia cum perditione interne caritatis primo perditur interior lux et visus, antequam perdatur exterior ornatus bonorum operum et conversationis honeste. In reparatione vero non pertingitur ad plenam compunctionem et illuminationem visus interni usquequo, reiectis pravis operibus, assumitur aliquis ornatus bonorum operum seu exterioris status penitentie; initium tamen compunctionis et illuminationis precedit hunc ornatum.

Inf. I, 67-69

Rispuosemi: “Non omo, omo già fui,
e li parenti miei furon lombardi,
mantoani per patrïa ambedui.”

Inf. II, 67-69, 112-114

Or movi, e con la tua parola ornata
e con ciò c’ha mestieri al suo campare,
l’aiuta sì ch’i’ ne sia consolata.

venni qua giù del mio beato scanno,
fidandomi del tuo parlare onesto,
ch’onora te e quei ch’udito l’hanno.

 

■ Ad Ap 12, 5 (quarta visione, prima guerra) si dice che la donna, dinanzi alla quale stava il drago pronto a divorarne il parto, “partorì un figlio maschio”, maschio non solo per sesso ma anche per valore di virile virtù, “che avrebbe governato tutte le genti con lo scettro di ferro”, cioè con inflessibile e insuperabile giustizia e potenza; figlio che fu poi “rapito” al trono di Dio.
Il tema del figlio maschio che governerà le genti con lo scettro di ferro (Ap 12, 5) si connette con quanto detto all’inizio del capitolo XI sul significato del “calamus” dato a Giovanni per misurare il tempio. La canna simile a una verga, che designa il potere e la discrezione nel reggere la Chiesa, viene interpretata anche come la “lingua erudita”, che serve a correggere i duri cuori degli uomini, come con la verga si piegano le bestie indomite (Ap 11, 1). Questa “lingua erudita” è altresì propria dell’angelo che ad Ap 14, 14 siede sopra una nube candida con in capo la corona d’oro e in mano la falce acuta: secondo Gioacchino da Fiore, l’immagine designa un ordine di giusti ai quali è dato di imitare in modo perfetto il Figlio dell’uomo e di possedere l’eloquio per diffondere il Vangelo del regno e per raccogliere nel campo del Signore l’ultima messe. La nube candida indica che la “conversatio” dell’angelo, cioè la sua vita religiosa, non è gravata da oscurità ma è lucida e spirituale.
Sono questi i fili spirituali intrecciati nella terzina relativa alla “luce de la gran Costanza” d’Altavilla, sposa del figlio di Federico Barbarossa, Enrico VI, “secondo vento di Soave”, dal quale “generò ’l terzo e l’ultima possanza”, ossia Federico II, ultimo imperatore dei Romani (Par. III, 118-120).
Costanza è come la donna che ha partorito un figlio destinato a governare con giustizia e potenza “in virga ferrea”, che non è solo lo scettro del potere, ma anche quello della lingua. Come affermato nel De vulgari eloquentia I, xii, 4, Federico II e il suo “benegenitus” Manfredi, “illustres heroes”, avevano fatto in modo che quanti erano nobili di cuore e dotati di doni divini aderissero loro e, poiché la sede del trono regale era la Sicilia, tutto ciò che gli Italiani di animo eccellente producevano a quel tempo vedeva dapprima la luce in quella reggia e di conseguenza quanto è stato finora prodotto in volgare viene chiamato siciliano, “nec posteri nostri permutare valebunt”.
È stato notato da alcuni commentatori (Pietro di Dante, Buti) come l’espressione “vento di Soave”, riferita ad Enrico VI, secondo imperatore della casa di Svevia, alluda all’instabilità delle dignità mondane: “esprime potenza impetuosa e superba”, aggiunge il Sapegno. Questa interpretazione sembra confermata dalla Lectura nell’esegesi dell’apertura del sesto sigillo (Ap 6, 13) dove, per spiegare la caduta delle stelle dal cielo, cioè dei religiosi apostati e scismatici dal proprio alto stato, si ricorre all’immagine dell’immaturità dei fichi, privi della “soave” carità interna e grossi per superbia, per cui verranno portati via dall’albero della santa religione dal “vento” della vanità e della tentazione.
Il tema della mascolinità nel corpo e nella virtù, del reggere con forza insuperabile e con giustizia inflessibile, è applicato in modo disgiunto e con diversa intensità a Pietro III d’Aragona e a Carlo d’Angiò, che purgano la propria negligenza nella valletta dei principi. Del re, “quel che par sì membruto” e che, mentre canta, si accorda con Carlo I d’Angiò – “con colui dal maschio naso” -, è detto che “d’ogne valor portò cinta la corda” (Purg. VII, 112-114), superando nella virtù l’angioino, come dimostra il maggior diritto a vantarsi del marito da parte di Costanza, moglie di Pietro III, rispetto a Beatrice e a Margherita, mogli di Carlo (ibid., 127-129). Un rapimento per virtù è il movimento con cui Beatrice spinge Dante dal cielo di Saturno a quello Stellato (Par. XXII, 100-105).

Tab. I.3

[LSA, cap. XI, Ap 11, 1 (IIIa visio, VIa tuba)] “Et datus est michi calamus” (Ap 11, 1). Hic ordini prefato datur potestas et discretio regendi ecclesiam illius temporis. Datio enim potestatis significatur [per] donationem calami, quo artifices domorum solent mensurare edificia sua. Discretio vero regendi sibi dari designatur, tum per regularem ipsius calami rectitudinem et mensuram, tum per hoc quod docetur quos debeat mensurare, id est regere, et quos relinquere. Dicit autem: “Et datus est michi”, supple a Deo, “calamus similis virge”, quasi dicat: non similis vacue et fragili canne seu arundini, sed potius recte et solide virge. Et certe tali communiter mensurantur panni et edificia. Per hanc autem designatur pontificalis vel magistralis seu gubernatoria auctoritas et virtus et iustitia potens corrigere et rectificare et recte dirigere ecclesiam Dei.
> Secundum Ioachim, calamus iste signat linguam eruditam, dicente Psalmo (Ps 44, 2): “Lingua mea calamus scribe”, qui est similis virge, quia sicut austeritate virge coarcentur iumenta indomita, ita lingue disciplina dura corda hominum corriguntur < *.

Expositio, pars III, f. 145rb.

[LSA, Ap 14, 14 (IVa visio, VIIum prelium)] “Et vidi et ecce nubem candidam et super nubem sedentem similem Filio hominis, habentem in capite suo coronam auream et in manu sua falcem acutam” (Ap 14, 14).
> Ioachim dicit: «Arbitramur in isto signari quendam ordinem iustorum, cui datum est perfecte imitari vitam Filii hominis et habere eruditam linguam ad evangelizandum evangelium regni et colligendam in aream Domini ultimam messionem, qui stat super nubem candidam quia conversatio eius non est ponderosa et obscura sed lucida et spiritalis» < *.

Purg. VII, 112-114

Quel che par sì membruto e che s’accorda,
cantando, con colui dal maschio naso,
d’ogne valor portò cinta la corda

Par. III, 118-120

Quest’ è la luce de la gran Costanza
che del secondo vento di Soave
generò  ’l terzo e l’ultima possanza.

Expositio, pars IV, distinctio VII, f. 175va.

[LSA, cap. XII, Ap 12, 5 (IVa visio, Ium prelium)] Sequitur: “Et peperit filium masculum” (Ap 12, 5), masculum quidem non solum sexu corporis sed etiam strenuitate virilis virtutis, “qui recturus erat omnes gentes in virga ferrea”, id est in inflexibili et insuperabili iustitia et potentia. “Et raptus est”, scilicet per resurrectionem et ascensionem, “filius eius ad Deum et ad tronum eius”. Christus secundum deitatem non fuit raptus vel mutatus, sed solum secundum humanitatem, nec per resurrectionem et ascensionem fuit eius humanitas rapta seu elevata, nisi solum in quantum erat passibilis. Nam in initio incarnationis fuit ad unionem personalem Dei et ad mentis substantialem gloriam plenissime elevata. Dicit autem “raptus” ad innuendum supernaturalem vim et repentinam ac prepotentem actionem, per quam de inferis exivit et a morte resurrexit et ascendit ad celos.
Nota quod licet hec principaliter referantur ad Christum, nichilominus analogice referuntur ad apostolicum cetum seu ad Christum inhabitantem in eis. Nam ipsos fecit reges seu rectores totius orbis, nec dracho cum Iudeis potuit prevalere quin ad tronum principatus divini et ecclesiastici triumphaliter raperentur et tandem ad tronum eterne glorie Dei.

Par. XXII, 100-105

La dolce donna dietro a lor mi pinse
con un sol cenno su per quella scala,
sì sua virtù la mia natura vinse;
né mai qua giù dove si monta e cala
naturalmente, fu sì ratto moto
ch’agguagliar si potesse a la mia ala.

[LSA, cap. VI, Ap 6, 13 (IIa visio, apertio VIi sigilli)] Quantum etiam ad tertium initium sexte apertionis, fiet utique grandis terremotus subvertens fidem plurium contra evangelice regule veritatem et contra spiritum vite eius, et ideo tunc “sol” plenius fiet “niger”, et “luna” crudelis ut “sanguis” tam in electos quam in se invicem per seditiones et bella. Unde suscitationem spiritus preibunt in ecclesia quedam bella subvertentia insulas et montes (cfr. Ap 6, 14), id est urbes et regna. Preibunt etiam vel comitabuntur aliqua scismata in clero et religione subvertentia aliquorum status et collegia, unde plures “stelle” cadent per apostasiam de suo statu celesti seu regulari, etiam plures de evangelico statu, qui pre ceteris videbantur stelle. Cuius ratio est quia non erant “ficus” mature per devote caritatis suavitatem, nec parve per humilitatem, sed grosse per inflantem superbiam et immature per interne virtutis defectum, et ideo “a vento” vanitatis et illius temptationis impellentur et corruent a ficulnea sancti status, propter que omnia plures non solum boni, sed etiam mali fortiter perterrebuntur non solum a visu et perpessione tantorum malorum, sed etiam suspicione et expectatione longe maiorum (cfr. Ap 6, 13). Tunc etiam plures signabuntur ad militiam spiritalem, quamvis sint pauci respectu multitudinis reproborum.

 

La seconda proprietà di Cristo sommo pastore (nella parte ‘radicale’ della prima visione) è la conformità con la natura umana, ovvero l’umiltà e l’umanità condiscendente verso quanti gli sono soggetti, per cui viene definito “simile al Figlio dell’uomo” (Ap 1, 13). Dal fatto che non si dica “Figlio dell’uomo” ma “simile al Figlio dell’uomo”, Riccardo di San Vittore deduce trattarsi di un angelo apparso a Giovanni, che gli mostrava le cose con persona simile a quella di Cristo e in modo tanto più autorevole per il fatto di assomigliare al Salvatore. Si può anche sostenere – continua Olivi – che la forma in cui Cristo apparve era molto simile a quella conosciuta da Giovanni e dagli altri apostoli prima della morte e dopo la resurrezione. Sebbene infatti nella gloria fosse stata cancellata ogni traccia di mortalità, di passione e di infermità, nondimeno Cristo ritenne per il resto la somiglianza con l’aspetto precedentemente avuto nella vita mortale. L’interpretazione di Riccardo si addice al fatto che la visione fu spirituale e non corporea, per cui Giovanni non vide con l’occhio corporeo un corpo esteriore realmente esistente, ma vide mediante le specie formate nella memoria e presenti al suo vedere spirituale al quale era elevato.
Il tema della conformità con la natura umana è presente nell’apparizione di Virgilio “nel gran diserto”. A Dante che gli chiede se sia “od ombra od omo certo” Virgilio risponde: “Non omo, omo già fui”, dove  l’insistenza sulla locuzione “omo”, ripetuta per tre volte in due versi, indica che l’ombra è conforme alla natura umana e mantiene la somiglianza con la forma assunta nella precedente vita mortale (Inf. I, 64-67). Se si collaziona Ap 1, 13 con Ap 22, 16, l’espressione di Cristo “fui homo mortalis”, per cui si definisce “stella splendida”, illuminatrice dei santi, e “matutina”, che promette, predica e mostra la luce futura dell’eterno giorno (il sole della sua divinità), sembra coincidere con l’ “omo già fui” detto dal poeta pagano che, se pure può paragonarsi a Cristo solo per questo, è anch’egli “stella matutina” perché il suo parlare, prospettando a Dante il viaggio nell’oltretomba, è promessa di tanto bene (Inf. II, 126). Se l’angelo che appare a Giovanni è autorevole in quanto si presenta somigliante al Salvatore, Virgilio è l’ “autore” di Dante (Inf. I, 85), e questi a lui si dà per la sua salute (Purg. XXX, 51).
Virgilio non ritiene solamente l’aspetto umano, ma anche la sua “parola ornata”, il “parlare onesto” per cui Beatrice fiduciosa lo fa andare al soccorso dell’amico nella “diserta piaggia” (Inf. II, 67, 113-114). In altro punto del testo apocalittico Giovanni descrive la visione di un angelo simile nell’aspetto al Figlio dell’uomo: si tratta dell’angelo che sta seduto su una nube bianca con sul capo una corona d’oro e in mano una falce affilata (Ap 14, 14). Questo angelo, secondo Gioacchino da Fiore citato da Olivi, designa un ordine di giusti a cui è dato di imitare Cristo in modo perfetto e che possiede una “lingua erudita” per diffondere il Vangelo del regno di Dio e per raccogliere sulla terra l’ultima messe. A differenza dell’angelo che esce dal tempio, cioè dagli arcani del cielo dove sta nascosto (Ap 14, 17), appare manifesto perché coloro che sono destinati all’erudizione delle plebi sono dati di fronte agli occhi in modo che esse possano ricevere gli ammonimenti salutari e i pii esempi di comportamento. Così Virgilio, che viene offerto dinanzi agli occhi di Dante per la sua salute (Inf. I, 61-63).
All’umanità di Cristo è associata la fragilità che deriva dall’essere soggetto a morte, passione, infermità, abiezione (cfr. l’esegesi ad Ap 1, 5 e 5, 12-13, luogo, quest’ultimo, dove l’apparire infermo e abietto di Cristo è una delle cause per cui i sigilli sono chiusi). La fragilità di Cristo viene meno nella gloria; resta in Virgilio, “chi per lungo silenzio parea fioco” (Inf. I, 63). Il motivo dell’essere fragili e disprezzabili a causa della mortalità è presente anche in altri punti della Lectura. All’apertura del quarto sigillo (Ap 5, 1; 6, 8), la fragilità dell’uomo è connessa con il pallore della morte. Ad Ap 11, 7-11 i due testimoni vengono vinti e uccisi dall’Anticristo e i loro corpi giacciono insepolti nella piazza della grande città, da tutti disprezzati: ma si tratta di vittoria secondo l’apparenza umana, perché dopo tre giorni e mezzo i due risorgono. Così l’esser “fioco” di Virgilio, per il lungo silenzio dovuto alla morte, è solo apparente agli occhi corporei di Dante, non ancora sollevato a una visione spirituale (cfr. Inf. XXIV, 64-66).
Come sempre nella stesura del poema, la stessa parte di “panno” teologico è servita, variando i temi, a fare la “gonna” dei versi, che con ars memorativa ad esso rinviano. Il ritenere ancora l’aspetto della vita precedente (Ap 1, 13) è tema proprio di Giasone, “quel grande che vene, / e per dolor non par lagrime spanda”, fatto impassibile alla fragilità umana come l’angelo simile al Figlio dell’uomo di Ap 14, 14. Il tema raggiunge piena intensità nell’espressione “quanto aspetto reale ancor ritene!” (Inf. XVIII, 83-85). Anche Giasone, come Virgilio, ebbe le “parole ornate”, che però utilizzò per ingannare Isifile (ibid., 91-93).
Una visione spirituale, che non avviene mediante gli occhi corporei, è l’apparizione di Beatrice nell’Eden. Dante non vede la donna velata, di cui scorge però delle specie già conosciute, i colori bianco e rosso portati nelle vesti dalla donna in vita e descritti nella Vita Nova. Il suo spirito, che per tanto tempo non l’aveva vista presente, sente “sanza de li occhi aver più conoscenza” la potenza dell’antico amore per occulta virtù che muove da lei (Purg. XXX, 34-39) [6].
Questo diffondere le prerogative del Figlio dell’uomo, nel bene e nel male, su più soggetti a lui “simili” come l’angelo di Ap 14, 14, rende massima dignità all’Impero. A conclusione della Monarchia (III, xv, 18), Dante parla della reverenza che Cesare deve a Pietro come quella del figlio primogenito verso il padre. La controversa espressione – “ut romanus Princeps in aliquo romano Pontifici non subiaceat” (ibid., 17) -, alla quale è speculare il parlare di Giustiniano in Par. VI, 84 – “per lo regno mortal ch’a lui soggiace” -, non denota soggezione politica dell’uno all’altro, ma tensione della parte mortale verso ciò che è immortale, “mentre che ’l nostro immortale col mortale è mischiato” (Convivio, II, viii, 15). Anche Cristo fu soggetto al Padre per la sua mortale umanità, ma non per questo gli fu meno consustanziale ed eguale. Gli angeli lo trascendono rispetto alla sua carne passibile, secondo il Salmo 8, 6 – “Tu l’hai fatto poco minore che li angeli” – che Dante applica all’uomo, medio tra ciò che è corruttibile e ciò che è incorruttibile, operante in modo quasi divino (cfr. Convivio, IV, xix, 7; Monarchia, I, iv, 2; III, xv, 3-5). Qui sta il paradosso, non la contraddizione: nel momento in cui l’Impero diventa consorte in cielo della Chiesa, discendente dalla medesima fonte, partecipa a pieno titolo non solo dei doni e delle prerogative dello Spirito ma anche dei misteri della Trinità e dell’Incarnazione, cioè dell’eterna generazione del Verbo e del suo farsi carne. Il Figlio che deve reverenza al Padre non è un figlio qualunque, è il Figlio dell’uomo al quale il romano Principe è assimilato [7]. Fra umano e divino vi è concordia, pur in apparente contraddizione: così avviene nel Primo Mobile, il luogo dove il tempo ha le sue radici, fra i cerchi corporali e quelli angelici, fra l’esempio e l’esemplare che “non vanno d’un modo” (Par. XXVIII, 55-57) [8]. Cristo è “lignum vitae” fra le due rive, umana e divina, del fiume luminoso (lo Spirito che deriva dall’intera Trinità) che scorre nel mezzo della Gerusalemme celeste (Ap 22, 1-2).
Nei celebri versi di Purg. XVI, 106-114, relativi ai “due soli” di Roma, il periodo storico rimpianto da Marco Lombardo, in cui il “pasturale” (il potere spirituale) non aveva spento e congiunto a sé la “spada” (il potere temporale), corrisponde alla concorrenza nel tempo di due stati distinti, il terzo (i dottori, che razionalmente confutano le eresie con la spada e danno le leggi) e il quarto (gli anacoreti, dalla santa e divina vita fondata sull’affetto), nel periodo in cui (da Costantino a Giustiniano) entrambi erano due stati di sapienza solare e concorrevano per due diverse strade a infiammare il meriggio dell’universo, prima che nel quinto stato i beni temporali invadessero la Chiesa trasformandola quasi in una nuova Babilonia. Quell’improprio congiungere da parte del potere spirituale è eresia assimilabile a quella di Ario, che divise il Figlio dal Padre ritenendolo non consustanziale, a livello di creatura, o, ancor meglio, a quella di Sabellio, che unificò il Padre e il Figlio nella stessa persona.

Tab. I.4

[LSA, cap. I, Ap 1, 13 (Ia visio)] Secunda (perfectio summo pastori condecens) est nature humane conformitas seu condescensiva ad subditos humilitas et humanitas, propter quod dicit: “similem Filio hominis”. Ex hoc autem quod non dicit “Filium hominis”, sed “similem Filio hominis”, arguit Ricardus quod angelum vidit, qui in persona et similitudine Christi demonstrabat sibi omnia, qui eo amplius habuit auctoritatis quod apparuit in ipsa similitudine salvatoris.
Potest etiam dici quod ideo dicit “similem” ut ostendat quod forma, in qua Christus sibi apparuit, erat vere similis illi quam ipse et ceteri apostoli in Christo viderant ante mortem et post resurrectionem. Licet enim mortalitas et passibilitas et omnis infirmitas esset tunc a Christi corpore per gloriam ablata, nichilominus retinuit in ceteris priorem similitudinem quam habuit in hac vita mortali.
Priori tamen modo Ricardi magis consonat quod visio hec fuit in spiritu, id est spiritualis, non corporalis, per quam non potest a nobis videri corpus realiter extra exixtens, sed potius videtur a nobis per species in memoria formatas et aciei nostri spiritualis aspectus obiectas. Quamvis posset ad hoc dici, quod ipse dicitur “in spiritu” fuisse et vidisse ista, non quin viderit illa oculo corporali, sed quia vidit illa sublevatus in spiritu et quia sic suo corporali visui presentabantur a supernaturali potentia Christi vel angeli, quod non posset ea videre nisi supernaturaliter esset in spiritu et corpore sublevatus ad quendam supernaturalem modum videndi.

Inf. I, 61-67, 85; II, 67, 126

Mentre ch’i’ rovinava in basso loco,
dinanzi a li occhi mi si fu offerto
chi per lungo silenzio parea fioco.
Quando vidi costui nel gran diserto,
Miserere di me”, gridai a lui,
“qual che tu sii, od ombra od omo certo!”.
Rispuosemi: “Non omo, omo già fui …”

Tu se’ lo mio maestro e ’l mio autore

Or movi, e con la tua parola ornata

e ’l mio parlar tanto ben ti promette?

Inf. XVIII, 82-93

E ’l buon maestro, sanza mia dimanda,
mi disse: “Guarda quel grande che vene,
e per dolor non par lagrime spanda :
quanto aspetto reale ancor ritene!
Quelli è Iasón, che per cuore e per senno
li Colchi del monton privati féne.
Ello passò per l’isola di Lenno
poi che l’ardite femmine spietate
tutti li maschi loro a morte dienno.
Ivi con segni e con parole ornate
Isifile ingannò, la giovinetta
che prima avea tutte l’altre ingannate.

Purg. XXX, 34-39, 51

E lo spirito mio, che già cotanto
tempo era stato ch’a la sua presenza
non era di stupor, tremando, affranto,
sanza de li occhi aver più conoscenza,
per occulta virtù che da lei mosse,
d’antico amor sentì la gran potenza.

Virgilio a cui per mia salute die’mi

[LSA, cap. XXII, Ap 22, 16 (finalis conclusio totius libri)] “Sum” etiam “stella splendida”, omnium scilicet sanctorum illuminatrix, “et matutina”, future scilicet et eterne diei immensam claritatem predicando et promittendo et tandem prebendo, et etiam prout fui homo mortalis ipsam precurrendo, ut ipse secundum quod homo sit stella et secundum quod Deus sit sol.

Inf. XXIV, 64-66

Parlando andava per non parer fievole ;
onde una voce uscì de l’altro fosso,
a parole formar disconvenevole.

[LSA, cap. XIV, Ap 14, 14 (IVa visio, VIIum prelium)] “Et vidi et ecce nubem candidam et super nubem sedentem similem Filio hominis, habentem in capite suo coronam auream et in manu sua falcem acutam” (Ap 14, 14). Ioachim dicit: «Arbitramur in isto signari quendam ordinem iustorum, cui datum est perfecte imitari vitam Filii hominis et habere eruditam linguam ad evangelizandum evangelium regni et colligendam in aream Domini ultimam messionem, qui stat super nubem candidam quia conversatio eius non est ponderosa et obscura sed lucida et spiritalis»*.
Item post dicit quod in duobus angelis habentibus falces designantur aliqui ordines, quorum primus (cfr. Ap 14, 14) erit mitior et suavior ad colligendas segetes electorum quasi in spiritu Moysi, secundus (cfr. Ap 14, 17) vero erit ardentior et ferocior ad secandam vindemiam reproborum ac si in spiritu Helie**, dicitque quod in primo intelligendus est aliquis ordo futurus perfectorum virorum servantium vitam Christi et apostolorum, in secundo vero aliquis ordo heremitarum emulantium vitam angelorum, unde et dicitur egressus esse “de templo quod est in celo” ***. Primus enim manifestus apparet, quia illi qui militant Deo ad utilitatem et eruditionem plebium sunt in conspectu ips[arum] dati, ut accipiant ab illis salutis monita et pie conversationis exempla****. […] Ricardus tamen, hunc sensum prosequens, dicit quod angelus similis Filio hominis est ipse Christus, qui pro tanto dicitur non iam ‘Filius hominis’ sed “similis Filio hominis” quia factus impassibilis et immortalis transcendit metas humane fragilitatis, qui et habet coronam ad coronandum iustos et falcem acutam, id est iudiciariam sententiam, ut condempnet iniustos*.

[LSA, cap. I, Ap 1, 5 (septem notabiles primatus Christi secundum quod homo)] Pro tertio dicit: “Et a Ihesu Christo” (Ap 1, 5). Ne autem propter fragilitatem passionis et mortis quam tunc passus fuerat et propter contemptum quo tunc ab infidelibus spernebatur ubique crederetur esse fragilis et despectus, ideo septem notabiles primatus sibi singulariter ascribit […]

[LSA, cap. V, Ap 5, 12-13 (radix IIe visionis)] Potest etiam dici quod quia Christus per humanitatem et mortalitatem assumptam apparuit hominibus mortalis et infirmus et solum homo non Deus, et propter abiectionem sui inter homines apparuit stultus et ingloriosus et maledictus, ideo horum contraria hic tanguntur.

Expositio, pars IV, distinctio VII, f. 175va.

** Ibid., f. 176rb.

*** Ibid., f. 175vb.

**** Ibid., f. 176ra.

In Ap IV, viii (PL 196, col. 815 C-D).

 

■ La diffusione di singoli aspetti perfettivi di Cristo sulla natura e sugli uomini è proprio, in varia misura, di tutto il gruppo delle dodici prerogative di sommo pastore (Ap 1, 13-17), nonché delle precedenti appartenenti all’apparente fragilità del Cristo uomo (Ap 1, 5-7). Si tratta di passi nei quali non si registrano citazioni di Gioacchino da Fiore. Virgilio, che incarna molte qualità del Figlio dell’uomo, anzi gli è “simile” (Ap 1, 13), si fregia altresì della santità del manto sacerdotale (Ap 1, 13), elemento che non manca all’indovina ‘Manto’, fondatrice della sua città e dannata nella quarta bolgia.
La terza perfezione di Cristo sommo pastore consiste nell’appartenenza all’ordine sacerdotale e pontificale, cui si addicono santità, integrità, castità e onestà, per designare la quale si afferma: “vestito con un abito lungo fino ai piedi” (Ap 1, 13). La veste è la “poderis” di lino, propria dei sacerdoti, lunga fino ai piedi (“poderis” è vocabolo di origine greca che equivale a “pedalis”). È assimilata al manto dell’efod da cui era avvolto Aronne, la “tunica superhumeralis” sovrapposta al pettorale del giudizio (il “rationale” con incisi i nomi degli Israeliti), di color giacinto, sulle cui frange erano sonagli aurei (“tintinabula”, Esodo 28, 31-35). Di questo manto si dice nella Sapienza (Sap 18, 24): “Sulla sua veste lunga fino ai piedi vi era tutto il mondo e la grandezza dei parenti era scolpita su quattro ordini di pietre preziose”. All’ordine sacerdotale appartiene anche quanto soggiunge l’autore dell’Apocalisse: “e cinto alle mammelle con una zona aurea”. L’essere succinto alle reni designa il restringere la concupiscenza carnale. L’essere precinto alle mammelle indica la restrizione di ogni impuro pensiero e affetto del cuore: l’intelletto e la volontà sono infatti le due mammelle della mente che propinano il latte della sapienza e dell’amore. Cingersi con una zona di pelle, cioè con una fascia di cuoio di animali morti, designa il mantenere la castità per il timore della morte o della pena. Cingersi con una zona aurea significa serbarsi casti per puro e solido ardore di carità.
Il tema del manto avvolge la figura di Virgilio dal “parlare onesto” (Inf. II, 113). Mantova, patria del poeta latino, concorda con “manto” nel suono e anche nel significare i “parentum magnalia”, la grandezza dei padri. Così Virgilio si presenta a Dante dicendo: “e li parenti miei furon lombardi, / mantoani per patrïa ambedui”. (Inf. I, 68-69). La prova che Mantova non sia un puro nome geografico sta nel fatto che lo stesso tema riveste la fondatrice della città, Manto, la quale nella bolgia degli indovini mantiene nella pena un che di sacerdotale, per quanto stravolto dal tenere il capo volto all’indietro, con il ricoprire le mammelle con le trecce sciolte (Inf. XX, 52-55; le trecce corrispondono ai capelli propri della quarta perfezione di Cristo): ciò designa, con senso limitato, la restrizione di ogni impuro pensiero e affetto del cuore. Il “Mantoano” Sordello è “anima lombarda … onesta” (Purg. VI, 61-63, 74-75). Ai “parentum magnalia” sembra rinviare anche la menzione di Bartolomeo della Scala, il “gran Lombardo / che ’n su la scala porta il santo uccello” (Par. XVII, 70-72).
Il tema del manto connesso con il riferimento alla famiglia appartiene anche a Niccolò III, che fu “vestito del gran manto” papale e vero “figliuol de l’orsa” (Inf. XIX, 69-70). Adriano V parla del peso, da lui sperimentato, del “gran manto” subito dopo aver detto del titolo comitale della sua famiglia (Purg. XIX, 100-105). In apertura di Par. XVI, la nobiltà del sangue viene paragonata a un manto che presto si raccorcia se non si aggiunge altra stoffa derivante dai meriti personali.
I motivi sacerdotali della terza perfezione di Cristo come sommo pastore (Ap 1, 13), combinati con quelli provenienti dalle altre perfezioni, rivestono anche Catone (cfr. qui di seguito).
Il tema del cingersi si ritrova nella corda con la quale, prima di scioglierla su ordine di Virgilio, Dante pensava di prendere la lonza, cioè la concupiscenza carnale (Inf. XVI, 106-108). Fra i giganti, Nembrot sembra anch’egli fasciato, ma con tono sarcastico, dai motivi connessi con il manto sacerdotale: ha come perizoma la sponda del pozzo e la parte del corpo scoperta è alta “trenta gran palmi” a partire dalla clavicola, “dov’ omo affibbia ’l manto”; tiene al collo un corno legato con una “soga” che gli “doga”, cioè gli fregia, il “gran petto” (Inf. XXXI, 61-66, 70-75). Fialte è cinto da una catena che gli tiene “soccinto” dinanzi il braccio sinistro e dietro il braccio destro (ibid., 85-88). Alla stessa esegesi rinviano, con appropriazione in malam partem delle prerogative di Cristo, Inf. XXIII, 67 (“manto”); XXIV, 31 (“vestito”), 34 (“precinto”) e, in collazione con Ap 15, 6, XXXII, 43 (“strignete i petti”), 49 (“cinse”).
Nella Firenze che “si stava in pace, sobria e pudica”, Cacciaguida vide Bellincion Berti “andar cinto di cuoio e d’osso” e i Nerli e i Vecchietti “esser contenti a la pelle scoperta”, cioè senza panno di sopra (Par. XV, 112-113, 115-116).
Nel cielo del Sole, la prima corona di spiriti sapienti circonda Beatrice e Dante come la luna (“la figlia di Latona”, che designa la castità) si cinge di un alone luminoso (la “zona”) quando l’atmosfera è satura di vapori in modo da trattenere la luce (Par. X, 67-69; cfr. XXIX, 1-6).
L’Empireo, “precinto” al Primo Mobile, che a sua volta comprende gli altri cieli, è “luce e amor”, che corrispondono all’intelletto e alla volontà, le due mammelle della mente: esso è cinto da Dio, che solo intende il suo operare (Par. XXVII, 112-114; cfr. i serafini, descritti a XXVIII, 22-27). Il Primo Mobile è anche “lo real manto di tutti i volumi del mondo” (Par. XXIII, 112-113).

Tab. I.5

[LSA, cap. I, Ap 1, 13 (radix Ie visionis)] Tertia (perfectio summo pastori condecens) est sacerdotalis et pontificalis ordinis et integre castitatis et honestatis sanctitudo, unde subdit: “vestitum podere. Poderis enim erat vestis sacerdotalis et linea pertingens usque ad pedes, propter quod dicta est poderis, id est pedalis: pos enim grece, id est pes latine. Poderis enim, secundum aliquos, erat tunica iacinctina pertingens usque ad pedes, in cuius fimbriis erant tintinabula aurea, et de hac videtur dici illud Sapientie XVI[II]° (Sap 18, 24): “In veste poderis, quam habebat, totus erat orbis terrarum, et parentum magnalia in quattuor ordinibus lapidum erant sculpta”. Dicuntur etiam fuisse in veste poderis quia erant in rationali et superhumerali ipsi poderi immediate superposita. Per utramque autem designatur habitus celestis castitatis et sanctitatis sacerdotes et pontifices condecens, pro cuius ardua plenitudine subdit: “et precinctum ad mamillas zona aurea”.
Succingi circa renes designat restrictionem inferiorum concupiscentiarum et operum carnis. Precingi vero ad mamillas designat restrictionem omnis impuri cogitatus et affectus cordis. Intellectus enim et voluntas sunt quasi due mamille mentis, propinantes lac sapientie et amoris. Item cingi zona pellicea, id est de corio animalium mortuorum, est timore mortis seu pene castitatem servare. Cingi vero zona aurea est ex mero et solido caritatis ardore eam servare.

Inf. I, 67-69

Rispuosemi: “Non omo, omo già fui,
e li parenti miei furon lombardi,
mantoani per patrïa ambedui.”

Par. XVII, 70-72

Lo primo tuo refugio e ’l primo ostello
sarà la cortesia del gran Lombardo
che ’n su la scala porta il santo uccello

 Purg. VI, 61-63

Venimmo a lei: o anima lombarda,
come ti stavi altera e disdegnosa
e nel mover de li occhi onesta e tarda!

Inf. XIX, 67-69

Se di saper ch’i’ sia ti cal cotanto,
che tu abbi però la ripa corsa,
sappi ch’i’ fui vestito del gran manto

Purg. XIX, 103-105

Un mese e poco più prova’ io come
pesa il gran manto a chi dal fango il guarda,
che piuma sembran tutte l’altre some.

 Inf. XXIII, 67; XXIV, 31-36

Oh in etterno faticoso manto!

Non era via da vestito di cappa,
ché noi a pena, ei lieve e io sospinto,
potavam sù montar di chiappa in chiappa.
E se non fosse che da quel precinto
più che da l’altro era la costa corta,
non so di lui, ma io sarei ben vinto.

Succingi circa renes designat restrictionem inferiorum concupiscentiarum et operum carnis.

 

 

 

 

Precingi vero ad mamillas designat restrictionem omnis impuri cogitatus et affectus cordis. Intellectus enim et voluntas sunt quasi due mamille mentis, propinantes lac sapientie et amoris.

Par. XXIII, 112-114

Lo real manto di tutti i volumi
del mondo, che più ferve e più s’avviva
ne l’alito di Dio e nei costumi

Inf. XVI, 106-108

Io avea una corda intorno cinta,
e con essa pensai alcuna volta
prender la lonza a la pelle dipinta.

Inf. XX, 52-55

E quella che ricuopre le mammelle,
che tu non vedi, con le trecce sciolte,
e ha di là ogne pilosa pelle,
Manto fu, che cercò per terre molte

Par. XXVII, 112-114

Luce e amor d’un cerchio lui comprende,
sì come questo li altri; e quel precinto
colui che ’l cinge solamente intende.

Item cingi zona pellicea, id est de corio animalium mortuorum, est timore mortis seu pene castitatem servare.

Par. XV, 112-116

Bellincion Berti vid’ io andar cinto
di cuoio e d’osso, e venir da lo specchio
la donna sua sanza ’l viso dipinto;
e vidi quel d’i Nerli e quel del Vecchio
esser contenti a la pelle scoperta

Cingi vero zona aurea est ex mero et solido caritatis ardore eam servare.

Par. X, 67-69

così cinger  la figlia di Latona
vedem talvolta, quando l’aere è pregno,
sì che ritenga il fil che fa la zona.

Purg. XXIX, 76-78

sì che lì sopra rimanea distinto
di sette liste, tutte in quei colori
onde fa l’arco il Sole e Delia il cinto.

Par. XXVIII, 22-27

Forse cotanto quanto pare appresso
alo cigner  la luce che ’l dipigne
quando ’l vapor che ’l porta più è spesso,
distante intorno al punto un cerchio d’igne
si girava sì ratto, ch’avria vinto
quel moto che più tosto il mondo cigne

Par. XXIX, 1-6

Quando ambedue li figli di Latona,
coperti del Montone e de la Libra,
fanno de l’orizzonte insieme zona,
quant’ è dal punto che ’l cenìt inlibra
infin che l’uno e l’altro da quel cinto,
cambiando l’emisperio, si dilibra

Inf. XXXI, 61-66, 70-75, 85-89

sì che la ripa, ch’era perizoma
dal mezzo in giù, ne mostrava ben tanto
di sovra, che di giugnere a la chioma
tre Frison s’averien dato mal vanto;
però ch’i’ ne vedea trenta gran palmi
dal loco in giù dov’ omo affibbia ’l manto.

E ’l duca mio ver’ lui: “Anima sciocca,
tienti col corno, e con quel ti disfoga
quand’ ira o altra passïon ti tocca!
Cércati al collo, e troverai la soga
che ’l tien legato, o anima confusa,
e vedi lui che ’l gran petto ti doga”.

A cigner  lui qual che fosse ’l maestro,
non so io dir, ma el tenea soccinto
dinanzi l’altro e dietro il braccio destro
d’una catena che ’l tenea avvinto
dal collo in giù ………………….

[LSA, cap. XV, Ap 15, 6 (radix Ve visionis)] Hii autem sunt et esse debent “vestiti lapide mundo et candido”, id est solida et insuperabili et munda et clara fortitudine et iustitia, “et precincti circa pectora zonis aureis”, id est caritate restringente non solum exteriorem fluxum concupiscibilium rerum sed etiam internum fluxum quarumcumque immundarum vel noxiarum vel superfluarum seu inutilium cogitationum et affectionum.

Inf. XXXII, 43-51

“Ditemi, voi che sì strignete i petti ”,
diss’ io, “chi siete?”. E quei piegaro i colli;
e poi ch’ebber li visi a me eretti,
li occhi lor, ch’eran pria pur dentro molli,
gocciar su per le labbra, e ’l gelo strinse
le lagrime tra essi e riserrolli.
Con legno legno spranga mai non cinse
forte così; ond’ ei come due becchi
cozzaro insieme, tanta ira li vinse.

Purg. I, 94-96, 133

Va dunque, e fa che tu costui ricinghe
d’un giunco schietto e che li lavi ’l viso,
sì ch’ogne sucidume quindi stinghe ……

Quivi mi cinse sì com’ altrui piacque:

___________________________________________________________________________________________________________________

 

Tab. I.6 (Nota)

[LSA, cap. I, Ap 1, 13-14.16 (radix Ie visionis)] Secunda (perfectio summo pastori condecens) est nature humane conformitas seu condescensiva ad subditos humilitas et humanitas, propter quod dicit: “similem Filio hominis” (Ap 1, 13). Ex hoc autem quod non dicit “Filium hominis”, sed “similem Filio hominis”, arguit Ricardus quod angelum vidit, qui in persona et similitudine Christi demonstrabat sibi omnia, qui eo amplius habuit auctoritatis quod apparuit in ipsa similitudine salvatoris. […]

Tertia (perfectio summo pastori condecens) est sacerdotalis et pontificalis ordinis et integre castitatis et honestatis sanctitudo, unde subdit: “vestitum podere”. Poderis enim erat vestis sacerdotalis et linea pertingens usque ad pedes, propter quod dicta est poderis, id est pedalis: pos enim grece, id est pes latine. Poderis enim, secundum aliquos, erat tunica iacinctina pertingens usque ad pedes, in cuius fimbriis erant tintinabula aurea, et de hac videtur dici illud Sapientie XVI[II]° (Sap 18, 24): “In veste poderis, quam habebat, totus erat orbis terrarum, et parentum magnalia in quattuor ordinibus lapidum erant sculpta”. Dicuntur etiam fuisse in veste poderis quia erant in rationali et superhumerali ipsi poderi immediate superposita. Per utramque autem designatur habitus celestis castitatis et sanctitatis sacerdotes et pontifices condecens, pro cuius ardua plenitudine subdit: “et precinctum ad mamillas zona aurea”. […]

Quarta (perfectio summo pastori condecens) est reverenda et preclara sapientie et consilii maturitas per senilem et gloriosam canitiem capitis et crinium designata, unde subdit: “caput autem eius et capilli erant candidi tamquam lana alba et tamquam nix” (Ap 1, 14). Per caput vertex mentis et sapientie, per capillos autem multitudo et ornatus subtilissimorum et spiritualissimorum cogitatuum et affectuum seu plenitudo donorum Spiritus Sancti verticem mentis adornantium designatur.
Sicut autem in lana est calor fomentativus et mollities corpori se applicans, et candor contemperatior et suavior quam in nive, sic in nive est frigiditatis et congelationis algor et rigor et candor intensior nostroque visui intolerabilior, est etiam humor sordium purgativus et terre impinguativus. Per que designatur quod Christi sapientia est partim nobis condescensiva et sui ad nos contemperativa nostrique fomentativa et sua pietate calefactiva, partim autem est a nobis abstracta et nobis rigida nimisque intensa, nostrarumque sordium purgativa nostreque hereditatis impinguativa. […]

Decima (perfectio summo pastori condecens) est sue claritatis et virtutis incomprehensibilis gloria, unde subdit: “et facies eius sicut sol lucet in virtute sua” (Ap 1, 16).

[LSA, cap. II, Ap 2, 5 (Ia visio, Ia ecclesia)] […] Sancta itaque desideria faciunt caput aureum, recta autem consilia et opera pectus et brachium argenteum.

Inf. III, 82-87, 97-99

Ed ecco verso noi venir per nave
un vecchio, bianco per antico pelo,
gridando: “Guai a voi, anime prave!
Non isperate mai veder lo cielo:
i’ vegno per menarvi a l’altra riva
ne le tenebre etterne, in caldo e ’n gelo.”

Quinci fuor quete le lanose gote
al nocchier de la livida palude,
che ’ntorno a li occhi avea di fiamme rote.

Inf. XXVII, 115-117

Venir se ne dee giù tra ’ miei meschini
perché diede ’l consiglio frodolente,
dal quale in qua stato li sono a’ crini 

Inf. XXX, 64-72

Li ruscelletti che d’i verdi colli
del Casentin discendon giuso in Arno,
faccendo i lor canali freddi e molli,
sempre mi stanno innanzi, e non indarno,
ché l’imagine lor vie più m’asciuga
che ’l male ond’ io nel volto mi discarno.
La rigida giustizia che mi fruga
tragge cagion del loco ov’ io peccai
a metter più li miei sospiri in fuga.

Purg. I, 31-42, 46-51, 78-80, 100-105

vidi presso di me un veglio solo,
degno di tanta reverenza in vista,
che più non dee a padre alcun figliuolo.
Lunga la barba e di pel bianco mista
portava, a’ suoi capelli simigliante,
de’ quai cadeva al petto doppia lista.
Li raggi de le quattro luci sante
fregiavan sì la sua faccia di lume,
ch’i’ ’l vedea come ’l sol fosse davante.
“Chi siete voi che contro al cieco fiume
fuggita avete la pregione etterna?”,
diss’ el, movendo quelle oneste piume.

“Son le leggi d’abisso così rotte?
o è mutato in ciel novo consiglio,
che, dannati, venite a le mie grotte?”.
Lo duca mio allor mi diè di piglio,
e con parole e con mani e con cenni
reverenti mi fé le gambe e ’l ciglio.

ma son del cerchio ove son li occhi casti
di Marzia tua, che ’n vista ancor ti priega,
o santo petto, che per tua la tegni: ……

“Questa isoletta intorno ad imo ad imo,
là giù colà dove la batte l’onda,
porta di giunchi sovra ’l molle limo:
null’ altra pianta che facesse fronda
o indurasse, vi puote aver vita,
però ch’a le percosse non seconda.”

[LSA, cap. I, Ap 1, 14 (radix Ie visionis)] Quarta (perfectio summo pastori condecens) est reverenda et preclara sapientie et consilii maturitas per senilem et gloriosam canitiem capitis et crinium designata, unde subdit: “caput autem eius et capilli erant candidi tamquam lana alba et tamquam nix” (Ap 1, 14). Per caput vertex mentis et sapientie, per capillos autem multitudo et ornatus subtilissimorum et spiritualissimorum cogitatuum et affectuum seu plenitudo donorum Spiritus Sancti verticem mentis adornantium designatur.
Sicut autem in lana est calor fomentativus et mollities corpori se applicans, et candor contemperatior et suavior quam in nive, sic in nive est frigiditatis et congelationis algor et rigor et candor intensior nostroque visui intolerabilior, est etiam humor sordium purgativus et terre impinguativus. Per que designatur quod Christi sapientia est partim nobis condescensiva et sui ad nos contemperativa nostrique fomentativa et sua pietate calefactiva, partim autem est a nobis abstracta et nobis rigida nimisque intensa, nostrarumque sordium purgativa nostreque hereditatis impinguativa. […]

[Ap 1, 15] Sexta (perfectio summo pastori condecens) est sue active seu suorum operum perfectio, unde subdit: “et pedes eius similes auricalco, sicut in camino ardenti” (Ap 1, 15). Auricalcum est es nitidissimum valde simile auro, et cum est in camino ardenti est ignitissimum ac scintillans liquefactum. Christi autem corporales seu exteriores et inferiores actus et processus fuerunt et sunt igne caritatis Dei et nostri ignitissimi et exemplariter scintillantes et etiam, dum hic viveret, in camino temptationum probati et auro sue interne et superne caritatis simillimi.

Purg.  XXX, 70-75, 79-102

regalmente ne l’atto ancor proterva
continüò come colui che dice
e  ’l più caldo parlar dietro reserva:
“Guardaci ben! Ben son, ben son Beatrice.
Come degnasti d’accedere al monte?
non sapei tu che qui è l’uom felice?”.

Così la madre al figlio par superba,
com’ ella parve a me; perché d’amaro
sente il sapor de la pietade acerba.
Ella si tacque; e li angeli cantaro
di sùbito ‘In te, Domine, speravi ’ ;
ma oltre ‘pedes meos’ non passaro.
Sì come neve tra le vive travi
per lo dosso d’Italia si congela,
soffiata e stretta da li venti schiavi,
poi, liquefatta, in sé stessa trapela,
pur che la terra che perde ombra spiri,
sì che par foco fonder la candela;
così fui sanza lagrime e sospiri 
anzi ’l cantar di quei che notan sempre
dietro a le note de li etterni giri;
ma poi che ’ntesi ne le dolci tempre
lor compartire a me, par che se detto
avesser: ‘Donna, perché sì lo stempre?’,
lo gel che m’era intorno al cor ristretto,
spirito e acqua fessi, e con angoscia
de la bocca e de li occhi uscì del petto.
Ella, pur ferma in su la detta coscia
del carro stando, a le sustanze pie
volse le sue parole così poscia:

[Ap 1, 15] Septima (perfectio summo pastori condecens) est sue doctrine celebris resonantia et irrigatio fecunda, unde subdit: “et vox illius  tamquam vox aquarum multarum”, id est sicut vox pluviarum inundantium et impetus fluminum et marinorum fluctuum et rugituum, sic enim ab ipso et ab eius scripturis et doctoribus manat vox predicationis irrigantis et comminantis.
[Ap 14, 2; IVa visio] Secundo quod erat irrig[u]a et fecunda et ex magno et multo collegio sanctorum et plurium virtualium affectuum ipsorum procedens et concorditer unita, cum dicit: “tamquam vocem aquarum multarum”. Vox enim magne et multe pluvie est ex multis et quasi innumerabilibus guttis, proceditque quasi tamquam unus sonus et quasi ab uno sonante, et idem est de sono aquarum maris vel fluminis. Sonat etiam quasi cum irriguo pinguium et lavantium et refrigerantium lacrimarum et rugientium suspiriorum.

[LSA, cap. I, Ap 1, 14 (radix Ie visionis)] Quarta (perfectio summo pastori condecens) est reverenda et preclara sapientie et consilii maturitas per senilem et gloriosam canitiem capitis et crinium designata, unde subdit: “caput autem eius et capilli erant candidi tamquam lana alba et tamquam nix” (Ap 1, 14). Per caput vertex mentis et sapientie, per capillos autem multitudo et ornatus subtilissimorum et spiritualissimorum cogitatuum et affectuum seu plenitudo donorum Spiritus Sancti verticem mentis adornantium designatur.
Sicut autem in lana est calor fomentativus et mollities corpori se applicans, et candor contemperatior et suavior quam in nive, sic in nive est frigiditatis et congelationis algor et rigor et candor intensior nostroque visui intolerabilior, est etiam humor sordium purgativus et terre impinguativus. Per que designatur quod Christi sapientia est partim nobis condescensiva et sui ad nos contemperativa nostrique fomentativa et sua pietate calefactiva, partim autem est a nobis abstracta et nobis rigida nimisque intensa, nostrarumque sordium purgativa nostreque hereditatis impinguativa. […]

[LSA, cap. XVI, Ap 16, 12 (Va visio, VIa phiala)] “Et sextus angelus effudit phialam suam in flumen magnum Eufraten et siccavit aquas eius, ut preparetur via regibus ab ortu solis” (Ap 16, 12). Secundum Ioachim, per flumen Eufraten, quod influebat in Babilonem antiquam ispamque non modicum muniebat, designatur hic romani seu christiani imperii militia mundana, unde et infra XVII° dicitur quod “aque”, super quas “meretrix sedet, sunt populi et gentes (Ap 17, 15), quas oportet siccari et debilitari, ut non sit qui resistat regibus et tirannis ad destruendam novam Babilonem venturis, prout in capitulo sequenti dicitur (cfr. Ap 17, 16)*. Unde et hic dicitur quod “siccavit aquas eius, ut preparetur via regibus ab ortu solis”, scilicet venturis. […]

[LSA, cap. XVIII, Ap 18, 2-3 (VIa visio)] “Et facta est habitatio demoniorum et custodia omnis spiritus immundi et custodia omnis volucris immunde et odibilis” (Ap 18, 2). Demones sunt “spiritus” propter nature subtilitatem, et “volucres” propter agilem velocitatem et superbiam; “immundi” autem sunt propter maculas suorum vitiorum, “odibiles” vero propter excessum malitie et impietatis et arrogantie. Babilon autem erit eorum habitatio et custodia, quia sicut ipsis in culpa per consensum et imitationem fuit subiecta et associata, quasi domicilium eorum, sic erit et in pena eterna. Servatque in hoc Iohannes typum Isaie, capitulo XIII° dicentis: “Et erit Babilon illa” civitas “gloriosa in regnis, sicut subvertit Dominus Sodomam; et replebuntur domus eorum drachonibus, et habitabunt ibi strutiones, et pilosi  saltabunt ibi” (Is 13, 19.21). Et idem dicitur Ieremie L° (Jr 50, 39). Subditurque hic causa: “Quia de ira fornicationis eius” (Ap 18, 3), id est, secundum Ricardum, de ardore fornicationis eius, vel de fornicatione eius pro qua irascitur Deus; vel de deliciis sue fornicationis pro quarum lesura vel impeditione irascitur contra quoscumque impedientes (ira enim vindex lese concupiscentie), “biberunt”, id est voluptuose participaverunt, “omnes gentes”, id est subditi.

*Expositio, pars V, f. 190va.

[LSA, cap. I, Ap 1, 7 (prohemium, septem primatus Christi secundum quod homo)] Septimo ascribit ei primatum iudiciarie retributionis omnium bonorum et malorum, et ut hoc sensibilius et magnificentius ac terribilius nobis ingerat, introducit eius de celis maiestativum adventum quasi iam presentem seu in procinctu imminentem, dicens: “Ecce venit cum nubibus” (Ap 1, 7). Non solum autem propter causam predictam dicit “venit” de presenti, sed etiam quia sicut rex venturus Romam ad iudicia danda dicitur venire ex quo inchoat iter suum, et domificator dicitur hedificare domum ex quo incipit iacere fundamenta, sic Deus dicitur venire ad iudicium quia quicquid ab initio ecclesie facit est iter ad illud. Preterea nunc continue dat multa occulte iudicia, et pro tanto semper venit et per effectus iudiciorum.

[LSA, cap. II, Ap 2, 12 (Ia visio, IIIa ecclesia)] “Si quo minus”, id est si in aliquo minus quam monui penitueris, id est si aliter quam dixi egeris, “veniam tibi”, id est contra te, “cito”. “Cito” dicit, ut ex propinquitate sui adventus magis timeat et citius ac fortius peniteat.
“Et pugnabo cum illis in gladio oris mei”, id est per meas scripturas et per meos doctores gladium, id est verbum vivum spiritus mei, habentes illorum errores confundam et convincam cum auctoritatibus suis et tandem per meam iudiciariam sententiam condempnabo. Quasi dicat: per meum adventum te corrigam vel puniam illosque confundam, supple, nisi penitentiam egerint.

Inf. III, 70-71, 82-89, 97-99, 109-111, 121-123

E poi ch’a riguardar oltre mi diedi,
vidi genti a la riva d’un gran fiume

Ed ecco verso noi venir per nave
un vecchio, bianco per antico pelo,
gridando: “Guai a voi, anime prave!
Non isperate mai veder lo cielo:
i’ vegno per menarvi a l’altra riva
ne le tenebre etterne, in caldo e ’n gelo.
E tu che se’ costì, anima viva,
pàrtiti da cotesti che son morti ”.

Quinci fuor quete le lanose gote
al nocchier de la livida palude,
che ’ntorno a li occhi avea di fiamme rote.

Caron dimonio, con occhi di bragia
loro accennando, tutte le raccoglie;
batte col remo qualunque s’adagia.

“Figliuol mio”, disse ’l maestro cortese,
quelli che muoion ne l’ira di Dio
tutti convegnon qui d’ogne paese ” 

Inf. IV, 85-90

Lo buon maestro cominciò a dire:
“Mira colui con quella spada in mano,
che vien dinanzi ai tre sì come sire:
quelli è Omero poeta sovrano;
l’altro è Orazio satiro che vene;
Ovidio è ’l terzo, e l’ultimo Lucano.”

Aen. VI, 298-301

Portitor has horrendus aquas et flumina servat
terribili squalore Charon, cui plurima mento
canities inculta iacet, stant lumina flamma,
sordidus ex umeris nodo dependet amictus.

Inf. XVI, 8-9; Par. IX, 25-27

Sòstati tu ch’a l’abito ne sembri
essere alcun di nostra terra prava.

In quella parte de la terra prava
italica che siede tra Rïalto
e le fontane di Brenta e di Piava

[LSA, cap. XI, Ap 11, 18 (IIIa visio, VIIa tuba)] “Et irate sunt gentes” (Ap 11, 18), id est et gratias tibi agimus de hoc, quod ita gloriose regnasti in tuis sanctis et super tuos hostes quod inde irati et perturbati sunt hostes. “Et advenit ira tua”, id est effectus tue iudiciarie ire seu tue iuste vindicte in reprobos.
Et tempus mortuos iudicare”. Quidam habent “et mortuorum”, sed Ricardus habet “mortuos”, unde exponit: et tempus, scilicet advenit, mortuos iudicari, id est bonos a malis et malos a bonis segregari. Seu bonis per tuum iudicium reddi condignum premium et malis condignum supplicium. Hee enim sunt due partes iusti iudicii. […]
Deinde pro iudicio dampnandorum subdit: “et”, supple advenit tempus, “exterminandi eos qui corruperunt terram”, id est se ipsos per malam vitam vel alios per malum exemplum vel consilium. Est autem modus loquendi exaggerativus et magis proprie dictus de impiis valde pestiferis. Videtur enim terra et totus orbis fedari et corrumpi a pravis habitatoribus et precipue a pessimis qualis erit Antichristus et sui maiores. Sicut e contra locus videtur ornari et sanctificari a sanctis in eo stantibus et a sanctis operibus ibi factis. Et iuxta hunc modum dicitur Genesis VI°: “Corrupta est terra coram Deo, et repleta est iniquitate” (Gn 6, 11).
Nota autem quod hec dampnatio reproborum est tertium ve, de quo paulo ante dictum est: “Ecce ve tertium veniet cito” (Ap 11, 14).

[LSA, cap. IX, Ap 9, 3.7.9 (IIIa visio, Va tuba)] “De fumo” autem predicti casus et apertionis “putei exierunt locuste” (Ap 9, 3), id est religiosi illorum sequaces ac leves et volatiles et cupidi et carnales et ypocritales et detractores, qui et contra omnes eis non faventes animosissime concitantur quasi equi currentes in bellum (Ap 9, 7), et etiam contra omnia multum spiritalia contra que zelum acrem assumunt. “Vox” autem “alarum” (Ap 9, 9), id est suarum sententiarum quas altissimas et prevolantes esse presumunt, est sicut vox rotarum et tumultuosi exercitus currentis in bellum contra omnem sententiam contrariam quantumcumque veram.

[LSA, cap. I, Ap 1, 14 (radix Ie visionis)] Quinta (perfectio summo pastori condecens) est contemplationis speculative et practice zelativus et perspicax fervor et splendor, omnes actus et intentiones et nutus ecclesiarum circumspiciens, unde subdit: “et oculi eius velut flamma ignis”.

[LSA, cap. XIX, Ap 19, 12 (VIa visio)] “Oculi autem eius sicut flamma ignis” (Ap 19, 12), scilicet propter ardorem zeli ad faciendum iudicium et iustitiam de impiis et ad liberandum suos ab eis et ad inflammandum et illuminandum eos igne caritatis et amative sapientie.

 [LSA, cap. IV, Ap 4, 8 (radix IIe visionis)] Item moraliter per sex alas animalium designantur sex virtutes. […] Due vero quibus volant sunt fides et spes. Caritas enim est ignis seraphicus quo sancta animalia sunt plena; sunt enim ignita quasi carbones et lampades ardentes, prout dicitur Ezechielis I° (Ez 1, 13). […] Sequitur: “Et in circuitu et intus plena sunt oculis” (Ap 4, 8), id est perspicaciter et circumspecte vident sua interiora et exteriora, et etiam interiora et exteriora Dei et ecclesie et scripture sacre. Precavent etiam hostes impios in circuitu ambulantes et insidias diaboli, qui tamquam leo circuit querens quem devoret. Discutiunt etiam sua interiora, ut corrigant defectus et ordinent bona. Nota quod plenitudo oculorum appropriatur ordini cherubin secundum Dionysium; trinus autem ordo alarum seu valde esse alatum appropriatur seraphin secundum ipsum, sicut et expansio et volatus amoris.

[LSA, cap. XIV, Ap 14, 11 (IVa visio, VIum prelium)] Deinde de eternitate et de irremissibilitate pene eorum subdit (Ap 14, 11): “Et fumus tormentorum eorum in secula seculorum ascendet”, id est in sua quasi infinita altitudine stabunt semper eis tormenta, ac si semper ascenderet ignis eorum et fumus. Ad litteram etiam innuit quod ignis infernalis, quo torquebuntur, erit fumosus et tenebrosus et semper in vivacissimo motu tamquam semper ardentissimus. Per hunc fumum etiam, secundum Ioachim, designatur dampnatorum murmur et blasphemia contra Deum semper ascendens*.

* Expositio, pars IV, distinctio VI, f. 174va.

Inf. III, 97-99, 109-111; IV, 123

Quinci fuor quete le lanose gote
al nocchier de la livida palude,
che ’ntorno a li occhi avea di fiamme rote.

Caron dimonio, con occhi di bragia
loro accennando, tutte le raccoglie;
batte col remo qualunque s’adagia.

Cesare armato con li occhi grifagni

Aen. VI, 298-301

Portitor has horrendus aquas et flumina servat
terribili squalore Charon, cui plurima mento
canities inculta iacet, stant lumina flamma,
sordidus ex umeris nodo dependet amictus.

Purg. VI, 61-66

Venimmo a lei: o anima lombarda,
come ti stavi altera e disdegnosa
e nel mover de li occhi onesta e tarda!
Ella non ci dicëa alcuna cosa,
ma lasciavane gir, solo sguardando
a guisa di leon
quando si posa.

 

[Nota alla Tab. I.6]

● La quarta perfezione di Cristo sommo pastore consiste nella reverenda e preclara maturità del consiglio, che è designata dalla senile e gloriosa canizie del capo e dei crini, per cui si dice: “il suo capo e i suoi capelli erano candidi come lana bianca e come neve” (Ap 1, 14). Il capo costituisce la cima della mente e della sapienza; i capelli designano la moltitudine e l’ornato dei sottilissimi e spiritualissimi pensieri e affetti, oppure la pienezza dei doni dello Spirito Santo che adornano la cima della mente.
I capelli di Cristo sono bianchi come lana e come neve. La lana lenisce col calore, è molle, temperata e soave nel candore; la neve è fredda, congelata, rigida e intensa nel candore non sostenibile alla vista, ma è anche umore che purga e impingua la terra. Così la sapienza di Cristo è da una parte calda per la pietà e condescensiva in modo contemperato alle nostre facoltà; è dall’altra astratta, rigida e intensa, ma anche purgativa delle colpe e impinguativa della nostra eredità.
L’esegesi della quarta perfezione si distingue pertanto in due parti, la prima strettamente connessa con i capelli, la seconda mostra invece una duplice proprietà nella sapienza di Cristo.
La duplice prerogativa della sapienza di Cristo ha diversi significati portati da parole: nix, frigiditas, algor, rigor, rigida, abstracta, candor intensior nostroque visui intolerabilior, per indicare il lato che si potrebbe chiamare duro della sapienza divina; lana, calor, mollities, condescensiva, contemperativa, pietate calefactiva, candor contemperantior, per designarne invece il lato pietoso e temperato. Inoltre il lato duro, indicato dalla neve, non si mostra solo freddo e rigido, ma anche purgativo e impinguativo, per cui la sapienza divina è sordium purgativa nostreque hereditatis impinguativa.
Beatrice (Purg. XXX, 70-81), nel suo apparire a Dante nel Paradiso terrestre, si presenta dapprima come “proterva”, cioè altera e rigida. Come una madre al figlio rimproverato “par superba … perché d’amaro / sente il sapor de la pietade acerba”, così la donna riprende (vv. 73-75) le prime parole di rimprovero (vv. 55-57) – “continüò come colui che dice / e ’l più caldo parlar dietro reserva”. Beatrice mostra il lato astratto della sapienza di Cristo, ma nello stesso tempo di lei si anticipa il lato pietoso: il “più caldo parlar” può essere riferito sia alle seconde parole, più dure delle prime, ma anche a quelle, assai più temperate ed espresse con pietà non acerba, che pronuncerà in seguito, dopo il pentimento di Dante. Il contrasto fra il gelido rigore e il caldo pietoso e temperato percorre infatti i versi che seguono.
Beatrice tace, e gli angeli cantano “In te, Domine, speravi ”, cioè il salmo XXX, ma solo i primi nove versetti, perché dopo “pedes meos” David chiede misericordia a Dio nelle proprie tribolazioni, cosa che sarebbe fuor di luogo per Dante (ibid., 82-84). Gli angeli sono “dolci tempre” (ibid., 94), “sustanze pie” (ibid., 101): ad essi è appropriato il lato pietoso della sapienza di Cristo.
Alle parole proterve e superbe della donna il cuore del poeta si congela come la neve tra gli alberi d’Appennino quando è “soffiata e stretta da li venti schiavi”, cioè del nord-est, e tale resta fino all’ascolto del canto pietoso degli angeli che paiono partecipare del suo dramma e dire a Beatrice: “Donna, perché sì lo stempre?”, cioè perché gli togli vigore con le tue parole non temperate? Poi, come la neve si liquefa allo spirare del caldo vento meridionale che proviene dall’Africa (“la terra che perde ombra”), così il gelo stretto attorno al cuore del poeta si scioglie in “lacrime e sospiri”, “spirito e acqua”, “e con angoscia / de la bocca e de li occhi uscì del petto” (ibid., 85-99). Anche Dante dunque partecipa dei due lati, rigido e aperto, della sapienza di Cristo.
È da notare la compresenza di alcune parole nella ristretta parte di esegesi e nel ristretto numero di versi: la neve e il congelarsi, il caldo, la pietà, il contemperare. Il significato originario non cambia, anche se quanto nell’esposizione scritturale è concentrato solo su Cristo è in poesia diffuso su tre soggetti, Beatrice, gli angeli e Dante. Bisogna anche dire che se la neve e il gelo sono accostati già nel parlare comune, e nell’ambito di questo sono altresì contrapponibili al caldo e al temperato, non appartiene del tutto al comune sentire acquisito nel linguaggio accostare la pietà al caldo e al temperare in contrapposizione al gelo.
Sarebbe ancora da notare che i piedi e il liquefarsi (vv. 84, 88) sono parole che compaiono nella sesta prerogativa di Cristo come sommo pastore, che concerne la vita attiva e l’operare, per cui si dice: “e i suoi piedi simili all’oricalco, come nel crogiolo ardente” (Ap 1, 15). L’oricalco (l’ottone) è assai simile all’oro, nel crogiolo si liquefa, è nitido, fiammeggiante, scintillante: così in Cristo gli atti corporei, esterni e inferiori procedevano e procedono fiammeggianti per la carità verso Dio e verso di noi, scintillanti in modo esemplare, provati durante la vita terrena nel crogiolo delle tentazioni e assai simili all’oro della sua interna e suprema carità.
Lo sgorgare lacrime e sospiri appartiene invece alla settima prerogativa, per cui si dice: “e la sua voce come la voce di molte acque” (Ap 1, 15[9], cioè come la voce di piogge inondanti e come l’impeto di fiumi e il mugghiare del mare. Questa voce di molte acque viene interpretata (in un luogo parallelo, ad Ap 14, 2) come suono di un’acqua che irriga, impingua, rinfresca con le lacrime e con sospiri ruggenti. La sapienza di Cristo, designata dalla neve, è rigida ed astratta, ma anche “sordium purgativa”.

● Il duplice aspetto della sapienza di Cristo non si ritrova solo nei versi sopra citati. “Freddi e molli” sono i canali de “li ruscelletti che d’i verdi colli / del Casentin discendon giuso in Arno”, che “la rigida giustizia” divina fa sì che siano sempre dinanzi agli occhi di maestro Adamo, il falsario di Romena, per accrescergli l’arsura della sete dell’idropico datagli per pena (Inf. XXX, 64-72). Il bucolico paesaggio virgiliano – “hic gelidi fontes, hic mollia prata” (Buc. X, 42) – è qui armato dai motivi propri della sapienza divina, che si presenta, anche nella pena, insieme neve e lana, fredda e ‘condiscendente’ (il tema è nei ruscelletti che “discendono”; da notare l’aggettivo “rigida”, presente nei versi e nell’esegesi teologica).

●La prima parte dell’esegesi di Ap 1, 14 è relativa ai capelli, o crini, che nella loro senilità designano la “reverenda et preclara sapientie et consilii maturitas”. Un accostamento, quello dei crini e del consiglio (tra l’altro non consueto), che è ben conosciuto dal diavolo preparato in logica che argomenta con successo, di fronte a san Francesco, il suo diritto a prendersi l’anima di Guido da Montefeltro (Inf. XXVII, 115-117). Guido, arrivato alla vecchiaia, si era pentito delle proprie opere volpine e si era cinto del cordone, ma poi, dando a Bonifacio VIII il consiglio fraudolento su come conquistare Palestrina, si era rimesso nelle prime colpe, e da quel momento i suoi crini non sono stati più segno di maturità e di gloria celeste, per cui il diavolo dice: “dal quale in qua stato li sono a’ crini”. Crini e consiglio sono accostati nei versi in senso negativo, all’opposto di quanto viene detto di Cristo.

● I motivi sacerdotali delle perfezioni di Cristo come sommo pastore rivestono Catone, il Gentile degno di significare Dio più di qualsiasi altro uomo terreno (Convivio, IV, xxviii, 15). La santità (terza perfezione: Ap 1, 13) è propria delle quattro stelle (le virtù cardinali, le “quattro luci sante”), “non viste mai fuor ch’a la prima gente”, che adornano la sua faccia di luce come se avesse davanti il sole (Purg. I, 23-24, 37-39; il tema della “facies eius sicut sol” costituisce la decima perfezione ad Ap 1, 16). È “veglio onesto” (Purg. II, 119; terza perfezione) e muove le “oneste piume” (la barba, Purg. I, 42). La sua barba (ibid., 34-36) è mista di pelo bianco (quarta perfezione, i capelli candidi come la neve: Ap 1, 14), somigliante (seconda perfezione, somiglianza con il Figlio dell’uomo: Ap 1, 13) ai capelli (quarta perfezione) che cadono sul petto in doppia lista (il precinto delle mammelle, cioè dell’intelletto e della volontà). La senile maturità del consiglio designata dai capelli (quarta perfezione) è reverenda, per cui è “veglio … degno di tanta reverenza in vista”, di fronte al quale Virgilio rende reverenti le gambe e il capo di Dante (ibid., 31-32, 49-51). Il suo “santo petto” (ibid., 80) designa, come si desume da Ap 2, 4, il retto consiglio, che corrisponde alla domanda del veglio se per Virgilio e Dante sia mutato il consiglio divino che impedisce ai dannati di fuggire la prigione eterna (ibid., 47-48). La castità (terza perfezione) è negli occhi della moglie Marzia (ibid., 78-79). Invia i due poeti verso il “molle limo” sull’orlo più basso della montagna del Purgatorio: ivi crescono giunchi che non induriscono al percuotere delle onde, simbolo dell’umiltà che è principio di purgazione  (ibid., 100-105; cfr. i “piè molli” a Purg. XXI, 36). Ivi (Purg. I, 94-99) Dante deve essere lavato nel viso d’ “ogne sucidume” e cinto (terza perfezione; ibid., 94-99, 133). È da notare che la sapienza di Cristo è molle e condescensiva (come i giunchi), e anche “sordium purgativa” (quarta perfezione).

● Catone, per la senilità e il biancore (Purg. I, 31, 34), è accostabile a Caronte (Inf. III, 83, 97): “un veglio solo … Lunga la barba e di pel bianco mista” – “un vecchio, bianco per antico pelo … Quinci fuor quete le lanose gote” (unico riferimento alla lana nel poema, assente in Virgilio; cfr. Aen. VI, 299-300: “cui plurima mento / canities inculta iacet”). Anche per il traghettatore d’Acheronte i temi corrispondono in parte alla quarta prerogativa di Cristo sommo pastore, di cui vengono citate le due vie, corrispondenti al calore della lana e al freddo della neve, entrambe volte alla punizione: “i’ vegno per menarvi a l’altra riva / ne le tenebre etterne, in caldo e ’n gelo” (Inf. III, 86-87). L’aggettivo “antico” appartiene, nell’esegesi della sesta coppa versata dall’angelo sul grande fiume Eufrate (Ap 16, 12), all’antica Babilonia per la quale quel fiume scorreva contribuendo non poco alla sua difesa. Secondo Gioacchino da Fiore, esso designa Roma o la milizia mondana dell’impero cristiano, per cui ad Ap 17, 15 viene detto che “le acque sopra le quali siede la meretrice sono i popoli e le genti”. Di qui il verso “vidi genti a la riva d’un gran fiume” (Inf. III, 71). Di Babilonia si dice ad Ap 18, 2: “Ed è fatta nido di demoni e covo di ogni spirito immondo e di ogni uccello sozzo e odioso”. I demoni sono detti “spiriti” per la natura sottile; “uccelli” per agilità, velocità e superbia; “immondi” per le macchie dei vizi; “odiosi” per la grande malizia, empietà ed arroganza. Babilonia sarà la loro abitazione e il loro covo, poiché come nella colpa terrena, nel consentire ad essi e nell’imitarli, fu ad essi soggetta e associata e fu quasi la loro casa, così sarà nella pena eterna. Giovanni in questo caso mantiene l’immagine di Isaia: “Babilonia, gloriosa città tra i regni, sarà come Sodoma sconvolta da Dio; le sue case si riempiranno di serpenti, vi faranno dimora gli struzzi e esseri pelosi vi danzeranno” (Is 13, 19.21). Di qui il “pelo” di Caronte.
La quinta perfezione di Cristo come sommo pastore è il fervido, splendente e perspicace zelo della contemplazione che osserva intorno ogni atto, intenzione o cenno delle chiese, per cui si dice: “e i suoi occhi fiammeggianti come fuoco” (Ap 1, 14). Un passo simmetrico è ad Ap 19, 12. Se si collazionano i passi relativi alla quinta perfezione con quanto ad Ap 9, 9 si dice, nell’esegesi della quinta tromba, sullo zelo acre delle locuste le cui ali suonano come ruote ed eserciti tumultuosi che corrono in guerra contro ogni sentenza contraria, si ritrovano altri fili con cui è tessuta la figura di Caronte, “che ’ntorno a li occhi avea di fiamme rote” (lo zelo è il motivo-chiave che unisce i tre passi). Dante ha presente il virgiliano “stant lumina flamma” (Aen. VI, 300), ma modifica l’immobilità dello sguardo con il movimento circolare degli occhi, reso dalle “rote” fiammeggianti, che raccoglie tutte le anime con cenni. Un altro passo che può aver recato motivi a Inf. III, 99 è ad Ap 14, 11, dove la fiamma infernale è detta ardente e sempre in vivacissimo moto (cfr., a Inf. IV, 123, “Cesare armato con li occhi grifagni”). La “bragia” degli occhi si trova ad Ap 4, 8, nel fuoco della carità proprio dei cherubini, lampade ardenti secondo Ezechiele (Ez 1, 13), riferito alle sei ali piene di occhi circospetti di ciascuno dei quattro esseri viventi che vanno intorno alla sede divina difendendola dalle insidie come un leone (cfr. l’atteggiamento di Sordello a Purg. VI, 61-66).
L’avvento di Caronte è segnato, come quello di Virgilio, da temi che nell’esegesi sono propri di Cristo. La sua apparizione riprende il tema, da Ap 1, 7 e 2, 12, dell’avvento di Cristo giudice, che viene proposto al lettore in modo sensibile e terribile: «Ecce venit cum nubibus … “veniam tibi”, id est contra te, “cito” / Ed ecco verso noi venir per nave» (Inf. III, 82; cfr., a Inf. IV, 82-87, l’arrivo di Omero con la “spada”, che come il “remo” di Caronte corrisponde al “gladium” di Ap 2, 12, cioè alla parola viva dello spirito di Cristo, che determina, giudica e condanna).
Alcuni motivi suggeriti ad Ap 11, 18 (settima tromba) sono presenti nei versi che descrivono la “trista riviera d’Acheronte”. La divisione dei buoni dai malvagi è nell’invito di Caronte a Dante: “pàrtiti da cotesti che son morti” (Inf. III, 89). L’ira nell’espressione di Virgilio: “quelli che muoion ne l’ira di Dio …” (ibid., 122). L’esser pravo e il “guai!” nelle parole crude del nocchiero: “Guai a voi, anime prave!” (ibid., 84; cfr. l’espressione “terra prava” a Inf. XVI, 9 e Par. IX, 25).

 

__________________________________________________________________________________________________________________

Tab. I.7 (Nota)

[LSA, cap. IX, Ap 9, 1-2 (IIIa visio, Va tuba)] “Et quintus angelus” (Ap 9, 1), id est ordo doctorum quinti temporis, “tuba cecinit”, id est officium sue doctrine exercuit. Quid autem mali sit subsecutum ostendit subdens: “et vidi stellam” et cetera. Ad cuius evidentiam nota quod preter mala omnibus temporibus ecclesie et humano generi communia, erant tria gravissima circa finem quinti temporis ventura.
Quorum primum fuit horrenda et effrenata laxatio clericorum et monachorum et laicorum seu vulgarium plebium.
Secundum, sumens a predicta occasione[m], est hereticorum manicheorum et valdentium (sic!) eis in multis consimilium multa et pestifera inundatio.
Tertium est aliorum ypocritalium religiosorum cum primis multiplicatio et spiritus Christi et vite eius ab omnibus impugnatio, quamvis sub diversis modis et fraudibus, ut fiat perplexior temptatio fere inducens in errorem electos. Unaqueque autem istarum trium temptationum tangitur et describitur in parte ista, et ideo oportet eam ter exponi.
Igitur exponendo eam primo pro prima, scilicet pro enormi laxatione quasi omnium, tanguntur septem.
“Et data est [illi] clavis putei abissi, et aperuit puteum abissi” (Ap 9, 1-2), id est data est eis potestas aperiendi ipsum. Puteus abissi habet infernalem flammam et fumositatem obscuram et profunditatem voraginosam et quasi immensam et societatem demoniacam. Aperire ergo puteum abissi in populo quinti status fuit perverso exemplo et malo regimine solvere frenum carnalis concupiscentie et avaritie et terrene astutie et malitie et secularis lacivie ac demoniace seu pompose superbie, quod quidem frenum erat prius in ecclesia tam per Dei et suorum preceptorum ac iudiciorum timorem quam per sanctorum prelatorum disciplinam rigidam et severam ad se et suos subditos fortiter infrenandos, et etiam per sancte societatis exemplum et zelum nequeuntem in se vel in sociis tolerare enormitates et effrenationes predictas. Fuit autem prelatis in predicta gradatim ruentibus data seu permissa potestas aperiendi puteum cordium ad concipiendum et effundendum mala predicta, tum quia malum quod a prelatis geritur facile trahitur a subditis in exemplum et sequuntur ipsum ut caput et ducem, tum quia prelatis non solum dissimulantibus et negligentibus mala subditorum corripere et punire sed etiam favorem prebentibus hiis qui peccant, grex subditorum de se pronus ad malum cito labitur et tandem precipitatur; tum quia ob huiusmodi culpam prelatorum Deus permisit subditos temptari et a demonibus instigari et tandem ruere.
Secundo tangitur gravitas mali de aperto iam puteo exeuntis, cum ait: “et ascendit fumus putei sicut fumus fornacis magne, et obscuratus est [sol et] aer de fumo putei” (Ap 9, 2). Fumus iste est omne extrinsecum malum opus et signum de cordali flamma luxurie et avaritie et superbie et ire et invidie et  malitiose astutie procedens. Et quanto iste fumus est maior et gro[ss]ior et de maiori ac peiori flamma exiens, tanto plus pungit et confundit oculos intuentium, et tanto plus non solum coram fidelibus sed etiam coram infidelibus diffamat et obscurat solarem claritatem fidei et ecclesie et religionis perducentis ad cultum veri solis Christi, sicut aer sua perspicuitate perducit nostrum visum ad solem et radios solis usque ad oculum nostrum. Vel per hoc designatur quod multi prelati ecclesiarum et religionum, qui prius erant quasi sol, et multi spirituales, qui prius erant quasi aer purus a sole illuminatus, corrumpuntur et denigrantur a fumo tante laxationis.

2. Deinde pro secunda temptatione, scilicet Manicheorum hereticorum in quinto tempore multiplicatorum, et precipue in Italia et in comitatu tholosano et circa, est expositio Ioachim quod “stella de celo” cadens (cfr. Ap 9, 1) fuit aliquis clericus scientia litterarum imbutus, qui clavem scientie pravi dogmatis et potestatem investigandi profunda sapientie false et superstitiose, non Dei, a patre mendacii accepit. “Puteus” autem “abissi” est profunditas humane et false sapientie*, de qua “fumus” erroris procedit obscurantis solem et aerem, quia non solum plebei sed et multi sacerdotes et religiosi multique principes et milites fuerunt hoc errore infecti (cfr. Ap 9, 2).

3. Ultimo pro tertia igitur temptatione impugnativa vite et spiritus Christi et predisponente ad sectam magni Antichristi, est sciendum quod casus stelle de celo in terram habentis clavem putei abissi ipsumque aperientis (cfr. Ap 9, 1-2) est quorundam altiorum et doctiorum et novissimorum religiosorum casus in terrenas cupiditates et in mundanorum philosophorum scientias curiosas et in multis erroneas et periculosas. Acceperunt enim ingenium et clavem ad aperiendam et exponendam doctrinam Aristotelis et Averrois comentatoris eius et ad excogitandum profunda et voraginosa dogmata obscurantia solem christiane sapientie et evangelice vite et purum aerem religiosi status ipsius, in tantum quod quidam eorum dicunt paupertatem altissimam non esse de substantia perfectionis eius et quod eius est habere sufficientiam aut saltem necessaria in communi; quidam vero quod usus pauper, id est altissime paupertatis secundum debitas circumstantias proportionatus, non est de substantia eius. Quidam etiam talia dogmata philosophica seu paganica suis theologicis tractatibus inseruerunt, ut ex eis multi clerici Parisius philosophantes omnes articulos fidei reiecer[int] preter [unita]tem Dei et solam philosophiam mundanam dixerint esse veram et humano regimini sufficientem. Dixeruntque mundum ab eterno fuisse et Deum per se et immediate nichil posse operari de novo, sed quicquid immediate potuit fecit necessario ab eterno. Ponuntque unum solum intellectum in omnibus hominibus et fere negant arbitrii libertatem.

Expositio, pars III, f. 130va.

Purg. XV, 142-145; XVI, 4-7, 25, 35-36, 58-60, 67-72, 91-102, 142-143

Ed ecco a poco a poco un fummo farsi
verso di noi come la notte oscuro;
né da quello era loco da cansarsi.
Questo ne tolse li occhi e l’aere puro.

non fece al viso mio sì grosso velo
come quel fummo ch’ivi ci coperse,
né a sentir di così aspro pelo,
che l’occhio stare aperto non sofferse

Or tu chi se’ che ’l nostro fummo fendi

……… e se veder  fummo non lascia,
l’udir ci terrà giunti in quella vece. 

Lo mondo è ben così tutto diserto
d’ogne virtute, come tu mi sone,
e di malizia gravido e coverto

Voi che vivete ogne cagion recate
pur suso al cielo, pur come se tutto
movesse seco di necessitate.
Se così fosse, in voi fora distrutto
libero arbitrio, e non fora giustizia
per ben letizia, e per male aver lutto.

Di picciol bene in pria sente sapore;
quivi s’inganna, e dietro ad esso corre,
se guida o fren non torce suo amore.
Onde convenne legge per fren porre;
convenne rege aver, che discernesse
de la vera cittade almen la torre.
Le leggi son, ma chi pon mano ad esse?
Nullo, però che ’l pastor che procede,
rugumar può, ma non ha l’unghie fesse;
per che la gente, che sua guida vede
pur a quel ben fedire ond’ ella è ghiotta,
di quel si pasce, e più oltre non chiede.

Vedi l’albor che per lo fummo raia
già biancheggiare ……………….

Purg. XXI, 40-45

Quei cominciò: “Cosa non è che sanza
ordine senta la religïone
de la montagna, o che sia fuor d’usanza.
Libero è qui da ogni alterazione:
di quel che ’l ciel da sé in sé riceve
esser ci puote, e non d’altro, cagione.”

Purg. XXVIII, 70-75 

Tre passi ci facea il fiume lontani;
ma Elesponto, là ’ve passò Serse,
ancora freno a tutti orgogli umani,
più odio da Leandro non sofferse
per mareggiare intra Sesto e Abido,
che quel da me perch’ allor non s’aperse.

Purg. XXXII, 34-36

Forse in tre voli tanto spazio prese
disfrenata saetta, quanto eramo
rimossi, quando Bëatrice scese.

[LSA, cap. IX, Ap 9, 1-2 (IIIa visio, Va tuba)] “Et data est [illi] clavis putei abissi, et aperuit puteum abissi” (Ap 9, 1-2), id est data est eis potestas aperiendi ipsum. Puteus abissi habet infernalem flammam et fumositatem obscuram et profunditatem voraginosam et quasi immensam et societatem demoniacam. Aperire ergo puteum abissi in populo quinti status fuit perverso exemplo et malo regimine solvere frenum carnalis concupiscentie et avaritie et terrene astutie et malitie et secularis lacivie ac demoniace seu pompose superbie, quod quidem frenum erat prius in ecclesia tam per Dei et suorum preceptorum ac iudiciorum timorem quam per sanctorum prelatorum disciplinam rigidam et severam ad se et suos subditos fortiter infrenandos, et etiam per sancte societatis exemplum et zelum nequeuntem in se vel in sociis tolerare enormitates et effrenationes predictas. Fuit autem prelatis in predicta gradatim ruentibus data seu permissa potestas aperiendi puteum cordium ad concipiendum et effundendum mala predicta, tum quia malum quod a prelatis geritur facile trahitur a subditis in exemplum et sequuntur ipsum ut caput et ducem, tum quia prelatis non solum dissimulantibus et negligentibus mala subditorum corripere et punire sed etiam favorem prebentibus hiis qui peccant, grex subditorum de se pronus ad malum cito labitur et tandem precipitatur; tum quia ob huiusmodi culpam prelatorum Deus permisit subditos temptari et a demonibus instigari et tandem ruere. Secundo tangitur gravitas mali de aperto iam puteo exeuntis, cum ait: “et ascendit fumus putei sicut fumus fornacis magne, et obscuratus est [sol et] aer de fumo putei” (Ap 9, 2). Fumus iste est omne extrinsecum malum opus et signum de cordali flamma luxurie et avaritie et superbie et ire et invidie et  malitiose astutie procedens. Et quanto iste fumus est maior et gro[ss]ior et de maiori ac peiori flamma exiens, tanto plus pungit et confundit oculos intuentium, et tanto plus non solum coram fidelibus sed etiam coram infidelibus diffamat et obscurat solarem claritatem fidei et ecclesie et religionis perducentis ad cultum veri solis Christi, sicut aer sua perspicuitate perducit nostrum visum ad solem et radios solis usque ad oculum nostrum. Vel per hoc designatur quod multi prelati ecclesiarum et religionum, qui prius erant quasi sol, et multi spirituales, qui prius erant quasi aer purus a sole illuminatus, corrumpuntur et denigrantur a fumo tante laxationis.

[LSA, cap. XVI, Ap 16, 17 (Va visio, VIIa phiala)] Et sicut aer purgatus a grossis et fumosis vaporibus et nubibus et tranquillatus a ventorum tempestatibus est pervius radiis solis et stellarum et visui hominum, sic septimus status ecclesie, post plenam sui purgationem in effusione septime phiale consumandam, erit serenus et tranquillus et pervius seu perspicuus ad contemplativos radios solis eterni et totius celestis et subcelestis hierarchie […].

Purg. V, 41-42, 109-129

e, giunti là, con li altri a noi dier volta,
come schiera che scorre sanza freno.

Ben sai come ne l’aere si raccoglie
quell’ umido vapor che in acqua riede,
tosto che sale dove ’l freddo il coglie.
Giunse quel mal voler che pur mal chiede
con lo ’ntelletto, e mosse il fummo e ’l vento
per la virtù che sua natura diede.
Indi la valle, come ’l dì fu spento,
da Pratomagno al gran giogo coperse
di nebbia; e ’l ciel di sopra fece intento,
sì che ’l pregno aere in acqua si converse;
la pioggia cadde, e a’ fossati venne
di lei ciò che la terra non sofferse;
e come ai rivi grandi si convenne,
ver’ lo fiume real tanto veloce
ruinò, che nulla la ritenne.
Lo corpo mio gelato in su la foce
trovò l’Archian rubesto; e quel sospinse
ne l’Arno, e sciolse al mio petto la croce
ch’i’ fe’ di me quando ’l dolor mi vinse;
voltòmmi per le ripe e per lo fondo,
poi di sua preda mi coperse e cinse.

Purg. XIX, 142-145

Nepote ho io di là c’ha nome Alagia,
buona da sé, pur che la nostra casa
non faccia lei per essempro malvagia ;
e questa sola di là m’è rimasa.

Inf. XXI, 4-6; XXII, 121-123

restammo per veder l’altra fessura
di Malebolge e li altri pianti vani;
e vidila mirabilmente oscura.

Lo Navarrese ben suo tempo colse;
fermò le piante a terra, e in un punto
saltò e dal proposto lor si sciolse.

Purg. VI, 88-90

Che val perché ti racconciasse il freno
Iustinïano, se la sella è vòta?
Sanz’ esso fora la vergogna meno.

Purg. XX, 55-57

trova’mi stretto ne le mani il freno
del governo del regno, e tanta possa
di nuovo acquisto, e sì d’amici pieno

Purg. XXV, 118-120

Lo duca mio dicea: “Per questo loco
si vuol tenere a li occhi stretto il freno,
però ch’errar potrebbesi per poco”.

[Nota alla Tab. I.7]

Verso la fine del quinto stato tre gravissime tentazioni pervadono la Chiesa: la rilassatezza del clero, dei monaci e dei laici; la pestifera eresia manichea (catara), valdese e patarina; l’impugnazione dello spirito di Cristo fatta da religiosi ipocriti e fraudolenti in modo subdolo così da indurre in errore anche gli eletti. Le tre tentazioni vengono considerate insieme nella trattazione della quinta tromba.
La causa della rilassatezza è il cadere di vescovi e abati nella cupidigia e nell’ambizione, essi che prima apparivano come stelle in cielo. Perciò si dice: “vidi una stella caduta dal cielo sulla terra”, cioè nella terrestre avarizia e lussuria. Alla stella “fu data la chiave del pozzo dell’abisso e aprì il pozzo dell’abisso” (Ap 9, 1-2). Il pozzo dell’abisso è la fiamma infernale oscura e fumosa, la voragine profonda e quasi senza fondo e la compagnia dei demoni. Aprire il pozzo dell’abisso significa che il cattivo esempio e il malgoverno dei prelati scioglie il freno posto ai vizi, che prima nella Chiesa era rappresentato dai precetti divini, dal timore dei giudizi, dalla rigida e severa disciplina dei prelati nei confronti dei sudditi, dall’esempio della santa compagnia e dallo zelo insofferente di enormità o sfrenatezze. Poiché il male commesso dai prelati viene preso a esempio dai sottoposti che li seguono come capi e guide, il gregge dei sudditi, sempre incline al male, vedendo i prelati precipitare a poco a poco nei vizi, in assenza di correzione o punizione da parte dei superiori negligenti e anzi favorevoli ad aprire il pozzo dei cuori, scivola anch’esso e infine precipita.
“E salì dal pozzo un fumo come il fumo di una grande fornace” (Ap 9, 2). Il grave e grosso fumo che esce dal pozzo punge e confonde gli occhi di chi guarda e diffama e oscura presso fedeli e infedeli la solare chiarezza della fede, della Chiesa e della religione che conduce al culto di Cristo vero sole, come l’aere perspicuo permette alla nostra facoltà visiva di raggiungere il sole e ai raggi del sole di pervenire all’occhio. Così molti prelati, secolari e regolari, che prima apparivano quasi come il sole, e molti spirituali, che prima erano quasi come l’aere puro illuminato dal sole, si corrompono e si fanno neri per il fumo causato da tanta rilassatezza.
Se si collazionano tutti i temi relativi all’apertura del pozzo dell’abisso una volta sciolto il freno, e al fumo che ne esce, propri delle tre tentazioni del quinto stato (Ap 9, 1-2), si possono identificare una serie di fili con cui è tessuto parte dell’ordito di Purg. XV-XVI. In questo caso gli iracondi purganti nella terza cornice della montagna non appartengono a una zona nella quale prevalgono i temi del quinto stato (sono quelli del terzo a essere preminenti; cfr. Topografia spirituale della “Commedia” ), tuttavia il tema del fumo ha una parte importante, sia perché anticipa la quinta zona degli avari e dei prodighi, dopo la quarta relativamente breve degli accidiosi, sia perché nell’Inferno il fumo è tema proprio sia degli iracondi come degli accidiosi, che portarono dentro “accidïoso fummo”, insieme fitti nel limo della palude Stigia (Inf. VII, 123), e pertanto viene nel Purgatorio posto a introduzione di tre successivi gironi.
Per la seconda tentazione (relativa all’eresia manichea, cioè catara e patarina, radicata nella contea di Tolosa e in Italia) viene riportata l’esegesi di Gioacchino da Fiore, per il quale la stella che cadde dal cielo fu qualche chierico ripieno di scienza delle lettere, che dal “padre di menzogna” prese la chiave della scienza del dogma erroneo e il potere di investigare le profondità della sapienza falsa e superstiziosa.
Nella terza tentazione, la più grave perché impugna la vita e lo spirito di Cristo e apre la via alla “setta” del grande Anticristo, secondo Olivi la stella designa il cadere di alcuni alti e dotti religiosi moderni nella cupidigia delle cose terrene e nelle scienze filosofiche curiose e mondane e in molti punti erronee e pericolose. Costoro hanno ricevuto l’ingegno e la chiave per aprire ed esporre la dottrina di Aristotele e di Averroè suo commentatore e per escogitare profondi e abissali dogmi che oscurano il sole della sapienza cristiana e della vita evangelica e l’aere puro della vita religiosa a questa ispirata. Costoro avversano l’ “usus pauper”, cioè proporzionato all’altissima povertà secondo le debite circostanze, e sostengono che esso non fa parte della sostanza della perfezione evangelica, di cui è invece proprio avere in comune quanto è sufficiente o almeno quanto è necessario. Molti chierici hanno inserito nei loro trattati questi dogmi filosofici o piuttosto pagani e sostenuto a Parigi che solo la filosofia mondana è vera e sufficiente al governo degli uomini. Hanno pure affermato che Dio ha operato e opera tutto per necessità ab aeterno, senza poter fare mai cosa nuova; sostengono con Averroè che in tutti gli uomini esiste un solo intelletto possibile e arrivano a negare quasi del tutto la libertà umana.
Il fumo oscuro come la notte, che avvolge gli iracondi, si fa incontro verso Dante e Virgilio “a poco a poco” (i prelati rovinano gradatamente) togliendo “li occhi”, cioè non consentendo di vedere, e “l’aere puro”; fa al viso “sì grosso velo … che l’occhio stare aperto non sofferse” (Purg. XV, 142-145; XVI, 4-7, 25, 35, 142). Nel colloquio con Marco Lombardo, l’essere il mondo “di malizia gravido e coverto” deriva dalla “gravitas mali” provocata dal fumo che esce dal pozzo. È presente il tema del rapporto tra necessità e libero arbitrio, che Dante applica alla questione, che gli è cara, del rapporto tra gli influssi astrali e la volontà degli uomini (Purg. XVI, 58-84). Il tema del freno e della guida appare nell’ingannarsi de “l’anima semplicetta che sa nulla”, la quale corre dietro ai piccoli beni che le paiono grandi “se guida o fren non torce suo amore” (ibid., 85-93). Di qui la convenienza a porre il freno della legge e la guida del monarca che conduca l’umanità alla meta prefissa (ibid., 94-96). Il tema del precipitare dei prelati trascinando dietro a sé i propri sudditi per negligenza e complicità nel peccato è ancora nell’argomentare di Marco: nessuno pone mano alle leggi esistenti essendo vacante l’Impero, e il pontefice, pastore che procede innanzi al gregge, si indirizza solo ai beni materiali imitato dalla gente che non cerca altro (ibid., 97-102; il cattivo esempio può venire anche dai casati: cfr. quanto a Purg. XIX, 142-145 dice Adriano V della sua nipote Alagia, la moglie di Moroello Malaspina).
Sull’essere la filosofia mondana sufficiente al governo degli uomini, come sostenuto da alcuni religiosi a Parigi, c’è la risposta data da Tommaso d’Aquino nel cielo del Sole. Il “doctor angelicus” esalta la sapienza di Salomone, la luce più bella del quarto cielo; per essa egli “chiese senno / acciò che re sufficïente fosse”, non per futili motivi di filosofia mondana. Salomone fece pertanto un “uso povero”, cioè prudente e proporzionato, della sapienza (Par. XIII, 94-102; non in tabella) [10]. Da notare che una delle questioni, giudicate dall’Aquinate come superflue, è se da una premessa necessaria e da una contingente si possa dedurre una conclusione necessaria, il che è assurdo secondo la logica aristotelica: essa sembra un’eco delle parole di Marco Lombardo: “Voi che vivete ogne cagion recate / pur suso al cielo, pur come se tutto / movesse seco di necessitate” (Purg. XVI, 67-69).
Quanto alla decisa condanna da parte dell’Olivi di Aristotele e di Averroè, considerati un pericolo per il pensiero cristiano, è stato più volte affermato, nel corso dell’esposizione di questa ricerca, che il “maestro di color che sanno” e il suo grande commentatore sono da Dante incorporati nella stessa teologia della storia concepita dal francescano e quindi conciliati con il pensiero cristiano. Non solo vengono onorati come giusti che non conobbero Cristo fra gli “spiriti magni” del Limbo, ma sono anch’essi inseriti in un processo provvidenziale che non riguarda solo la Chiesa ma l’intero mondo degli uomini, in attesa di una nuova conversione universale.
Un altro modello di “usus pauper” è la montagna del Purgatorio. Alla domanda di Virgilio sulle cause del terremoto e del grido che l’ha sconvolta allorché i due poeti hanno lasciato Ugo Capeto, Stazio risponde che “ la religïone de la montagna” fa in modo che tutto ciò che avviene non sia “sanza ordine” o “fuor d’usanza”. La montagna, al di là della porta, è libera da tutte le alterazioni terrestri e in essa si può far sentire solo l’efficacia causale “di quel che ’l ciel da sé in sé riceve … e non d’altro …” (Purg. XXI, 40-45). Il terremoto stesso corrisponde a quello che accompagna l’apertura del sesto sigillo.
Nella foresta dell’Eden tre soli passi separano Dante da Matelda, che sta al di là del fiumicello; eppure l’Ellesponto, molto più largo del Lete, non fu oggetto di maggiore odio da parte di Leandro, quando il mareggiare gli impediva di raggiungere di notte l’amata Ero (Purg. XXVIII, 70-75). Il riferimento a Serse, “ancora freno a tutti orgogli umani”, in quanto passò l’Ellesponto per portare guerra ai Greci e lo riattraversò sconfitto, non è solo reminiscenza storica tratta dall’Ormista (II, x, 8-11) che s’innesta sulle Heroides di Ovidio (18-19), perché il fiumicello che separa il poeta dalla bella donna è il freno che non viene aperto o sciolto. Come dirà più avanti Beatrice, non si può passare il Lete senza pentimento delle proprie colpe (Purg. XXX, 142-145). L’uso di questo tema conferma Matelda, bella donna che fa rimembrare un ‘prima’ perduto, come depositaria della disciplina propria dei prelati dell’inizio del quinto stato, il cui bel principio designa l’età dell’oro sognata in Parnaso dagli antichi poeti.
All’esegesi di Ap 9, 1-2 rinviano altri luoghi della Commedia: l’oscura bolgia dei barattieri dove Ciampòlo, saltando nella pece bollente, si scioglie dalla poco severa sorveglianza del “preposto” Barbariccia, come i sudditi dal freno dei rilassati prelati che dovrebbero governarli (Inf. XXI, 4-6; XXII, 121-123); la tempesta di pioggia scatenata dal diavolo sul corpo senza vita di Buonconte da Montefeltro, insepolto sull’ “Archian rubesto” dopo la battaglia di Campaldino, per vendicarsi della salvezza dell’anima “per una lagrimetta che ’l mi toglie” (Purg. V, 109-129: il diavolo assume il ruolo del prelato che, oscurando l’aere [cfr. anche l’esegesi di Ap 16, 17], permette che il freno sia sciolto, ma il suo operato conduce a rovina solo il corpo, non l’anima).
Il “freno”, cioè le redini del “governo”, di cui all’esegesi di Ap 9, 1-2, è strettamente connesso con il già trattato “calamus” di Ap 11, 1. Ugo Capeto afferma: “Figliuol fu’ io d’un beccaio di Parigi: / quando li regi antichi venner meno / tutti, fuor ch’un renduto in panni bigi, / trova’mi stretto ne le mani il freno / del governo del regno …” (Purg. XX, 52-56). Per comprendere il significato di “tutti, fuor ch’un renduto in panni bigi” bisogna esaminare l’esegesi di Ap 3, 3-4, come esposta nella tabella che segue (cfr. nota).

_________________________________________________________________________________________________________________

Tab. I.8 (Nota)

[LSA, cap. III, Ap 3, 3-4 (Ia visio, Va ecclesia)] Deinde comminatur eidem iudicium sibi occulte et inopinate superventurum si non se correxerit, unde subdit: “Si ergo non vigilaveris, veniam ad te tamquam fur”, qui scilicet venit latenter et ex improviso ut bona auferat et possessorem occidat. Unde subdit: “et horam nescies qua veniam ad te”. Iustum enim est ut qui se ipsum per negligentiam et torporem nescit, nesciat horam iudicii sui et exterminii. Talis etiam propter suas tenebras non videt lucem, ac erronee credit et optat se diu in prosperitate victurum et Dei iudicium diu esse tardandum, et etiam spe presumptuosa sperat se esse finaliter salvandum, propter quod Ia ad Thessalonicenses V° dicit Apostolus quod “dies Domini veniet in nocte sicut fur. Cum enim dixerint: pax et securitas, tunc superveniet eis repentinus interitus (1 Th 5, 2-3). Quibus autem, scilicet sanctis, et quare non veniet sicut fur ostendit subdens: “Vos autem, fratres, non estis in tenebris, ut vos dies illa tamquam fur comprehendat ; omnes enim vos estis filii lucis et diei. Igitur non dormiamus sicut et ceteri, sed vigilemus et sobrii simus. Qui enim dormiunt nocte dormiunt” et cetera (ibid., 5, 4-7). Nota quod correspondenter prefigurat hic occultum Christi adventum et iudicium in fine quinti status et in initio sexti fiendum, prout infra in apertione sexti signaculi explicatur.
Deinde a predicto defectu excipit quosdam illius ecclesie, subdens: “Sed habes pauca nomina in Sardis” (Ap 3, 4). Nomina sumit pro personis quarum nomina sunt. Per nomina etiam intelligit personas merito sue sanctitatis notas Christo. Item proprium donum gratie, quod unusquisque accepit, dat cuique viro quasi proprium nomen ut cognoscatur ex nomine. Caritas autem Dei, in quantum communis omnibus bonis, dat commune nomen sanctis ut vocentur cives Iherusalem. “Qui non coinquinaverunt”, scilicet sordibus vitiorum et precipue carnalium, “vestimenta sua”, id est virtutes suas quibus quasi vestibus ornantur et vestiuntur, vel corpora sua que sunt quasi vestes anime, vel opera sua que sunt quasi vestes extrinsece ipsarum virtutum. “Ambulabunt mecum in albis”, scilicet vestibus, “quia digni sunt”. Per vestes albas intelligitur hic singularis candor et decor glorie correspondens merito predicte munditie. Quod autem dicit: “ambulabunt mecum”, significat gloriam singularis societatis talium cum Christo, iuxta quod infra XIIII° de virginibus dicitur quod “sequuntur Agnum quocumque ierit” (Ap 14, 4). Decet enim Christo summe puro purissimos immediatius iungi et associari. Iustum etiam est ut qui inter immundos socios mundissime vixerunt, quibus necessario aut ex sola caritate iuncti fuerunt, et quorum pravum exemplum et consortium fuit mundis continuum martirium et temptamentum, remunerentur glorioso et singulari consortio Christi.

[LSA, cap. XVI, Ap 16, 15 (Va visio, VIa phiala)] Quia vero Deus tunc ex improviso et subito faciet hec iudicia, ideo subdit: “Ecce venio sicut fur” (Ap 16, 15). Fur enim venit latenter ad furandum, ne advertat hoc dominus cuius sunt res quas furatur. Non autem dicit ‘veniam’ sed “venio”, et hoc cum adverbio demonstrandi, ut per hoc estimationem de sua mora nobis tollat et ad adventum suum nos attentiores et vigilantiores et timoratiores reddat. Ad quod etiam ultra hoc inducit per promissionem premii et comminationem sui oppositi, unde subdit: “Beatus qui vigilat et custodit vestimenta sua”, scilicet virtutes et bona opera, “ne nudus ambulet”, id est virtutibus spoliatus; “et videant”, scilicet omnes tam boni quam mali, “turpitudinem eius”, id est sua turpissima peccata et suam confusibilem penam in die iudicii sibi infligendam.

[LSA, cap. VI, Ap 6, 14-15 (apertio VIi sigilli; IVum initium)] Tunc etiam montes, id est regna ecclesie, et “insule”, id est monasteria et magne ecclesie in hoc mundo quasi in solo seu mari site, movebuntur “de locis suis” (Ap 6, 14), id est subvertentur et eorum populi in mortem vel in captivitatem ducentur. Tunc etiam, tam propter illud temporale exterminium quod sibi a Dei iudicio velint nolint sentient supervenisse, quam propter desperatum timorem iudicii eterni eis post mortem superventuri, sic erunt omnes, tam maiores quam medii et minores, horribiliter atoniti et perterriti quod preeligerent montes et saxa repente cadere super eos. Ex ipso etiam timore fugient et abscondent se “in speluncis” et inter saxa montium (cfr. Ap 6, 15-17).

Inf. XX, 118-120; XXI, 22-30, 39-45

Vedi Guido Bonatti; vedi Asdente,
ch’avere inteso al cuoio e a lo spago
ora vorrebbe, ma tardi si pente.

Mentr’ io là giù fisamente mirava,
lo duca mio, dicendo “Guarda, guarda!”,
mi trasse a sé del loco dov’ io stava.
Allor mi volsi come l’uom cui tarda
di veder quel che li convien fuggire
e cui paura sùbita sgagliarda,
che, per veder, non indugia ’l partire:
e vidi dietro a noi un diavol nero
correndo su per lo scoglio venire.

“Mettetel sotto, ch’i’  torno per anche
a quella terra, che n’è ben fornita:
ogn’ uom v’è  barattier, fuor che Bonturo;
del no, per li denar, vi si fa ita”.
Là giù ’l buttò, e per lo scoglio duro
si volse; e mai non fu mastino sciolto
con tanta fretta a seguitar lo furo.

Inf. XIII, 103-105, 109-121

Come l’altre verrem per nostre spoglie,
ma non però ch’alcuna sen rivesta,
ché non è giusto aver ciò ch’om si toglie.

Noi eravamo ancora al tronco attesi,
credendo ch’altro ne volesse dire,
quando noi fummo d’un romor sorpresi,
similemente a colui che venire
sente
’l porco e la caccia a la sua posta,
ch’ode le bestie, e le frasche stormire.
Ed ecco due da la sinistra costa,
nudi e graffiati, fuggendo sì forte,
che de la selva rompieno ogne rosta.
Quel dinanzi: “Or accorri, accorri, morte!”.
E l’altro, cui pareva tardar troppo,
gridava: “Lano, sì non furo accorte
le gambe tue a le giostre dal Toppo!”.

Purg. II, 118-133

Noi eravam tutti fissi e attenti
a le sue note; ed ecco il veglio onesto
gridando: “Che è ciò, spiriti lenti?
qual negligenza, quale stare è questo?
Correte al monte a spogliarvi lo scoglio
ch’esser non lascia a voi Dio manifesto”.
Come quando, cogliendo biado o loglio,
li colombi adunati a la pastura,
queti, sanza mostrar l’usato orgoglio,
se cosa appare ond’ elli abbian paura,
subitamente lasciano star l’esca,
perch’ assaliti son da maggior cura;
così vid’ io quella masnada fresca
lasciar lo canto, e fuggir ver’ la costa,
com’ om che va, né sa dove rïesca;
né la nostra partita fu men tosta.

Purg. V, 52-54, 73-76

Noi fummo tutti già per forza morti,
e peccatori infino a l’ultima ora ;
quivi lume del ciel ne fece accorti

Quindi fu’ io; ma li profondi fóri
ond’ uscì ’l sangue in sul quale io sedea,
fatti mi fuoro in grembo a li Antenori,
là dov’ io più sicuro esser credea

Purg. VI, 130-132, 136-137

Molti han giustizia in cuore, e tardi scocca
per non venir sanza consiglio a l’arco;
ma il popol tuo l’ha in sommo de la bocca.

Or ti fa lieta, ché tu hai ben onde:
tu ricca, tu con pace e tu con senno!

Purg. VII, 25-27, 34-36, 91-96

Non per far, ma per non fare ho perduto
a veder l’alto Sol che tu disiri
e che fu tardi per me conosciuto.

quivi sto io con quei che le tre sante
virtù non si vestiro, e sanza vizio
conobber l’altre e seguir tutte quante.

Colui che più siede alto e fa sembianti
d’aver negletto ciò che far dovea,
e che non move bocca a li altrui canti,
Rodolfo imperador fu, che potea
sanar le piaghe c’hanno Italia morta,
sì che tardi per altri si ricrea.

Purg. XIX, 106-108, 142-145

La mia conversïone, omè!, fu tarda;
ma, come fatto fui roman pastore,
così scopersi la vita bugiarda.

Nepote ho io di là c’ha nome Alagia,
buona da sé, pur che la nostra casa
non faccia lei per essempro malvagia;
e questa sola di là m’è rimasa.      12, 17 

Purg. XX, 52-54

Figliuol fu’ io d’un beccaio di Parigi:
quando li regi antichi venner meno
tutti, fuor ch’un renduto in panni bigi

Par. III, 19-21, 46-51, 55-57, 97-102

Sùbito sì com’ io di lor m’accorsi,
quelle stimando specchiati sembianti,
per veder di cui fosser, li occhi torsi

I’ fui nel mondo vergine sorella;
e se la mente tua ben sé riguarda,
non mi ti celerà l’esser più bella,
ma riconoscerai ch’i’ son Piccarda,
che, posta qui con questi altri beati,
beata sono in la spera più tarda.

E questa sorte che par giù cotanto,
però n’è data, perché fuor negletti
li nostri voti, e vòti in alcun canto.

“Perfetta vita e alto merto inciela
donna più sù”, mi disse, “a la cui norma
nel vostro mondo giù si veste e vela,
perché fino al morir si vegghi e dorma
con quello sposo ch’ogne voto accetta
che caritate a suo piacer conforma.”

[Nota alla Tab. I.8]

Nella tabella viene presa in considerazione l’esegesi di Ap 3, 3-4, parte dell’istruzione data alla chiesa di Sardi, la quinta delle sette chiese d’Asia alle quali Giovanni scrive nella prima visione [11].
Se il vescovo della chiesa di Sardi, accusato di essere negligente, intorpidito e ozioso, non vigilerà correggendosi, il giudizio divino verrà da lui come un ladro, che arriva di nascosto all’improvviso, senza che egli sappia l’ora della venuta (Ap 3, 3). È giusto infatti che chi non conosce sé stesso a causa della negligenza e del torpore non conosca l’ora del proprio giudizio e sterminio. Costui non vede la luce a motivo delle sue tenebre; erroneamente crede e desidera di poter vivere a lungo nella prosperità ritenendo che il giudizio divino possa essere a lungo ritardato, e con speranza presuntuosa spera di venire infine salvato. Ma l’Apostolo dice ai Tessalonicesi che “il giorno del Signore verrà di notte come un ladro. E quando diranno: ‘pace e sicurezza’, allora verrà su di loro una repentina distruzione” (1 Th 5, 2-3). Ma ai santi non verrà come un ladro, per cui san Paolo aggiunge: “Ma voi, fratelli, non siete nelle tenebre, così che quel giorno possa sorprendervi come un ladro: voi tutti infatti siete figli della luce e del giorno. Pertanto, non dormiamo come gli altri, ma vigiliamo e restiamo sobri. Quelli che dormono, infatti, dormono di notte” (ibid., 5, 4-7). È questa una prefigurazione dell’occulto avvento e giudizio di Cristo alla fine del quinto stato e all’inizio del sesto, che verrà spiegato all’apertura del sesto sigillo.
Il tema del venire come un ladro si trova in un passo simmetrico, proprio della sesta delle sette coppe che vengono versate nella quinta visione (Ap 16, 15), dove si parla di un giudizio improvviso e subitaneo, sottolineato dall’avverbio “ecce” e dal presente “venio” al posto del futuro ‘veniam’ per togliere ogni possibile stima dell’indugiare e per rendere più attenti, vigili e timorati. Inoltre si definisce beato colui che vigila e custodisce le sue vesti, cioè le virtù e le buone opere, per non andar nudo, cioè spogliato di esse, sì che tutti vedano le sue sconcezze, cioè il suo peccato e la pena piena di confusione inflitta nel giorno del giudizio.
Da questi difetti vengono escluse poche persone buone, i cui nomi sono noti a Cristo per la loro santità, per cui si dice: “Ma hai pochi nomi in Sardi” (Ap 3, 4). Il dono della grazia che ciascuno ha ricevuto come proprio dà a ogni uomo un nome per il quale egli è conosciuto. La carità divina, in quanto comune a tutti i buoni, dà un comune nome ai santi, che sono così chiamati cittadini di Gerusalemme.
I due passi (Ap 3, 3 e 16, 15), che sono loci paralleli, se collazionati offrono una serie di parole-temi. Comune è il “fur”, il “vigilare”, il sopravvenire improvviso. Peculiari di Ap 3, 3 sono l’inconsapevolezza (“et horam nescies qua veniam ad te”), il “tardare”, la speranza presuntuosa di potersi salvare alla fine e, nel passo paolino, il sentirsi sicuri e la distinzione tra coloro che sono nelle tenebre perché dormono la notte e i figli della luce e del giorno. Peculiari di Ap 16, 15 sono l’avverbio “ecce”, l’impossibilità di stimare l’indugio (“ut per hoc estimationem de sua mora nobis tollat”), il timore, il non vedersi spogliato delle vesti, cioè delle virtù e delle buone opere.
A questi temi si può aggiungere, in quanto richiamato dall’Olivi ad Ap 3, 3, ciò che avviene all’apertura del sesto sigillo (Ap 6, 12-17): il sentir sopravvenire il giudizio divino provoca la fuga ai “monti” e alle “pietre”, interpretati come i santi sublimi e fermi nella fede.
È da notare che su Ap 3, 3 e 16, 15 Olivi non si discosta dall’esegesi di Riccardo di San Vittore [12], salvo che per due punti: l’inserimento del passo paolino dalla prima lettera ai Tessalonicesi e il collegamento del sopravvenire di Cristo in quanto “fur” con quello che avverrà in apertura del sesto sigillo.

Una delle apparizioni del tema che si potrebbe definire ‘del ladro’ è in Inf. XXI, 22-45, nel momento in cui Dante, fisso a guardare la “pegola spessa” che bolle nella bolgia dei barattieri, simile a quella che si vede nell’ “arzanà de’ Viniziani”, viene richiamato da Virgilio. Il poeta si volge come colui che “tarda” nel fermarsi a vedere ciò che è opportuno fuggire e che un sùbito timore priva di gagliardia per cui non indugia il partire, guardando però al tempo stesso un diavolo nero venire correndo su per lo scoglio. Il diavolo porta in spalla un peccatore – “ecco un de li anzïan di Santa Zita!” – e dal ponte dice agli altri Malebranche di metterlo sotto la pece intanto che lui torna a Lucca, terra ben fornita di barattieri. Buttato l’ “anzian” di sotto, ritorna indietro con tanta fretta come mai fece mastino nell’inseguire un ladro. Dal confronto dei versi con i passi tratti da Ap 3, 3 e 16, 15 si può notare che il tardare rinvia ad Ap 3, 3 (dove designa la presunzione di chi ritiene che il giudizio divino tardi; il “Guarda, guarda!” di Virgilio è richiamo dal torpore proprio di chi si ritiene troppo sicuro), mentre la “paura sùbita” e il non indugiare sollecitano la memoria del lettore accorto (che cioè già conosce la Lectura oliviana) verso Ap 16, 15 (“et subito faciet hec iudicia … ut per hoc estimationem de sua mora nobis tollat et ad adventum suum nos attentiores et evigilantiores et timoratiores reddat”). Entrambi i passi sono congiunti dalla parola “fur”, che nel testo di esegesi scritturale compare come soggetto attivo del giudizio (è Cristo giudice che viene all’improvviso come un ladro), mentre in poesia viene appropriato all’oggetto del giudizio, cioè ai barattieri lucchesi che il diavolo si precipita ad andare a prendere. Il ‘fuggire’ come atto da non ritardare è un tema del sesto stato e più precisamente dell’apertura del sesto sigillo, ad Ap 6, 12-17; lo si ritroverà nella fuga dai Malebranche, nel passaggio dalla quinta alla sesta bolgia. La sarcastica frase del diavolo su Lucca – “ogn’ uom v’è barattier, fuor che Bonturo” – sembra tradurre l’eccezione fatta nella chiesa di Sardi di pochi buoni non “coinquinati”, che segue immediatamente ad Ap 3, 4. Per quanto collocate in un contesto diverso e appropriate a soggetti differenti, le parole mantengono una parte dei significati originari. Resta nel complesso il tema principale del sopravvenire improvviso del giudizio divino, nel caso impersonato dal diavolo nero che di tale giustizia è ministro.
Una variazione di questi motivi si trova nella selva dei suicidi. Dapprima Pier della Vigna spiega che dopo la resurrezione i suicidi andranno anch’essi nella valle di Giosafat per riprendervi i propri corpi (le “nostre spoglie”) senza però rivestirsene, perché questi saranno trascinati per la selva e appesi ciascuno al pruno che incarcera l’anima. Nei versi è ripetuto il motivo di Ap 16, 15: «“Beatus qui vigilat et custodit vestimenta sua”, scilicet virtutes et bona opera, “ne nudus ambulet”, id est virtutibus spoliatus» (Inf. XIII, 103-105). Il corpo non è in questo caso “la carne glorïosa e santa” che “fia rivestita” (cfr. Par. XIV, 43-44), bensì ‘spoglia’, cioè carne spogliata di virtù, “ché non è giusto aver ciò ch’om si toglie”.
Mentre i due poeti attendono ancora al tronco di Pier della Vigna per udire altro, vengono sorpresi da un rumore e vedono venir fuggendo due dannati, il senese Lano e Iacopo da Santo Andrea, inseguiti da nere cagne (anche qui il fuggire è motivo tratto dal sesto sigillo, come pure il sentir venire sopra di sé qualcosa di imminente, nel caso “’l porco e la caccia”). Uno dei due scialacquatori, Iacopo, “cui pareva tardar troppo” nella corsa, si rivolge all’altro rinfacciandogli di non aver avuto gambe tanto svelte nell’agguato della Pieve al Toppo (1278), dove trovò la morte (Inf. XIII, 109-121). Il tardare è ad Ap 3, 3, l’avverbio “ecco” ad Ap 16, 15.
Si potrebbe dire che perfino l’espressione “Lano, sì non furo accorte / le gambe tue a le giostre dal Toppo!” concorda nel verbo con fur, quasi ad accentuare una subitanea rapidità, propria del ladro, che è mancata al momento del bisogno. Non paia, questa, affermazione astrusa, perché il confronto tra Lectura e Commedia registra nei versi non pochi esempi di parole che nel suono coincidono con altre dell’esegesi teologica pur avendo significato letterale diverso.
Nei versi che descrivono l’intervento di Catone a disperdere le anime da poco giunte alla riva del Purgatorio, tutte fisse e attente con Dante e Virgilio ad ascoltare l’amoroso canto di Casella che intona dolcemente “Amor che ne la mente mi ragiona”, si registrano numerosi motivi del gruppo del “fur”, nel silenzio del tema principale (Purg. II, 118-133). Alla negligenza si contrappone il rimprovero del “veglio onesto” (“veglio” equivoca tra ‘vecchio’ e ‘vigilante’), e si tratta di motivi che rinviano ad Ap 3, 3.
L’invito ad andare a purgarsi – “Correte al monte a spogliarvi lo scoglio / ch’esser non lascia a voi Dio manifesto” – contiene il motivo del «“Beatus qui vigilat et custodit vestimenta sua”, scilicet virtutes et bona opera, “ne nudus ambulet”, id est virtutibus spoliatus» ad Ap 16, 15. ‘Spogliarsi lo scoglio’ del peccato è un rivestirsi di virtù. È da notare che nel canto precedente Virgilio ricorda a Catone il suo suicidio in Utica, “ove lasciasti / la vesta ch’al gran dì sarà sì chiara” (Purg. I, 74-75): non è casuale che il versetto precedente, Ap 16, 14, parli del “dies magnus Dei omnipotentis”, cioè del giudizio di cui poi si dice che verrà subitamente come un ladro. È ancora da notare come il corpo, detto ‘spoglia’ nel caso dei suicidi puniti nella selva infernale, sia chiamato “vesta” nel caso di Catone, che vigilò e custodì le virtù e le buone opere. Lo stesso motivo compare nel coro dei quattro figli del conte Ugolino: “tu ne vestisti / queste misere carni, e tu le spoglia” (Inf. XXXIII, 62-63). Essi offrono in sacrificio al padre una carne peritura e hanno fame di cibo spirituale, come Catone di libertà [13].
Le anime che il gridare di Catone fa fuggire verso la montagna sono paragonate ai colombi che abbandonano il cibo “se cosa appare ond’ elli abbian paura”. Anche nella similitudine (Purg. II, 124-133) sono presenti motivi del gruppo: “subitamente” corrisponde a “et subito faciet hec iudicia”, “abbian paura” a “timoratiores reddat”, mentre il fuggire delle anime “com’ om che va, né sa dove rïesca” è da ricondurre al non sapere l’ora del giudizio ad Ap 3, 3. Il fuggire atterriti ai monti è inoltre un tema di Ap 6, 15, l’apertura del sesto sigillo cui è assimilato il venire di Cristo come un ladro proposto alla chiesa di Sardi.
Nel complesso dei versi si mantengono i concetti teologici di un sopravvenire improvviso che suscita la paura del giudizio (da notare la presenza dell’avverbio “ecco”, da Ap 16, 15), della necessità di vigilare contro ogni negligenza e torpore, del custodire le proprie vesti, cioè le virtù e le buone opere. Tace, come si è già notato, il tema principale, quello del “fur”.
Nel colloquio con Sordello, Virgilio usa il motivo del vestirsi di virtù e di buone opere da Ap 16, 15 (Purg. VII, 7-8, 25-27). Egli ha perduto la visione di Dio “non per far, ma per non fare”, cioè “per non aver fé” in quel Dio “che fu tardi per me conosciuto”. Da notare il tardare, ad Ap 3, 3; il “non fare” corrisponde ai «“vestimenta sua”, scilicet virtutes et bona opera», e per questo il poeta pagano aggiunge: “quivi sto io con quei che le tre sante / virtù non si vestiro, e sanza vizio / conobber l’altre e seguir tutte quante” (vv. 34-36). Virgilio distingue tra le virtù cardinali, di cui si rivestì, e quelle teologali, di cui non poté rivestirsi. Qui il tardare non è peccato, perché solo la prescienza divina poteva stabilire il tempo della Redenzione; designa un fatto ineluttabile e doloroso. Delle quattro parole fondamentali del gruppo da Ap 16, 15 (“vestimenta”, “virtutes”, “bona opera”, “spoliatus”) solo l’ultima, quella negativa, non viene pronunciata da Virgilio.
Più avanti nel canto, Sordello guida i due poeti alla valletta dei principi, dove il tema della negligenza e del tardare (da Ap 3, 3) sono generali, ma in particolare appropriati a Rodolfo d’Asburgo (re d’Italia dal 1273 al 1291), “che potea / sanar le piaghe c’hanno Italia morta, / sì che tardi per altri si ricrea” (Purg. VII, 91-96).
Nel secondo balzo del cosiddetto Antipurgatorio, tra i morti per violenza e negligenti nel pentimento sino all’ultima ora, Iacopo del Cassero ripete il motivo paolino di quanti dicono “pax et securitas”, ammettendo di essere stato ucciso dai sicari del marchese Azzo d’Este a Oriago, presso Padova (1298), proprio nel luogo, “in grembo a li Antenori”, dove credeva di essere più sicuro (Purg. V, 73-76). Pace e sicurezza di cui, dice ironicamente il poeta, può vantarsi Firenze: “tu ricca, tu con pace e tu con senno!” (Purg. VI, 137).
Il tardare è proprio del cielo della Luna, che delle sfere celesti è quella che si muove più lentamente. In essa si manifestano i beati che hanno negletto i voti (Par. III, 51, 55-57). Piccarda varia ancora i temi. Fu infatti clarissa, secondo la regola per cui “nel vostro mondo giù si veste  e vela, / perché fino al morir si vegghi e dorma / con quello sposo ch’ogne voto accetta / che caritate a suo piacer conforma” (ibid., 97-102). Il vestirsi, da Ap 16, 15, è speculare al vegliare da Ap 3, 3; il dormire (motivo anch’esso presente, in senso negativo, ad Ap 3, 3) corrisponde al ‘velare’.
“Fu tarda” la conversione alle cose celesti di Adriano V, che purga l’avarizia nel quinto girone della montagna (Purg. XIX, 106); il successore di Pietro (il Fieschi regnò per soli trentotto giorni nel 1276) aggiunge il tema dell’eccezione di pochi buoni della chiesa di Sardi (Ap 3, 4) allorché menziona la sua “buona” nipote Alagia, la moglie di Moroello Malaspina (ibid., 142-145). Le parole “e questa sola di là m’è rimasa” contengono il tema del rimanere del purissimo seme, proprio della quinta guerra (Ap 12, 17) [14]. All’inciso «excipit quosdam illius ecclesie … Caritas autem Dei, in quantum communis omnibus bonis, dat commune nomen sanctis ut vocentur cives Iherusalem. “Qui non coinquinaverunt”, scilicet sordibus vitiorum et precipue carnalium, “vestimenta sua”, id est virtutes suas quibus quasi vestibus ornantur et vestiuntur” …», nel rimprovero fatto al vescovo di Sardi, che era suonato beffardo nel giudizio del diavolo su Lucca – “ogn’ uom v’è barattier, fuor che Bonturo” -, rinviano anche le parole di Ugo Capeto: “Figliuol fu’ io d’un beccaio di Parigi: / quando li regi antichi venner meno / tutti, fuor ch’un renduto in panni bigi, / trova’mi stretto ne le mani il freno / del governo del regno …” (Purg. XX, 52-56). Tutto l’episodio dell’incontro con Ugo Capeto si inserisce topograficamente nel quinto stato della storia della Chiesa. Pochi si salvano: il capostipite della “mala pianta” capetingia e l’ultimo, non nominato, dei “regi antichi”, fattosi monaco.

___________________________________________________________________________________________________________________

Tab. I.9 (Nota)

Purg. XXXI, 1-3, 139-145

“O tu che se’ di là dal fiume sacro”,
volgendo suo parlare a me per punta,
che pur per taglio m’era paruto acro

O isplendor di viva luce etterna,
chi palido si fece sotto l’ombra
sì di Parnaso, o bevve in sua cisterna,
che non paresse aver la mente ingombra,
tentando a render te qual tu paresti
là dove armonizzando il ciel t’adombra,
quando ne l’aere aperto ti solvesti?

Par. XXV, 1-3

Se mai continga che ’l poema sacro
al quale ha posto mano e cielo e terra,
sì che m’ha fatto per molti anni macro

[LSA, cap. X, Ap 10, 5-7 (IIIa visio, VIa tuba)] Nota etiam quod sicut nos iuramus levando et ponendo manum super altare vel super librum evangeliorum, tamquam protestantes nos per sanctitatem altaris vel evangelii iurare, sic iste angelus iurat levando manum ad celum, id est per altam protestationem celestis ecclesie et Dei habitantis in ea, et etiam quia demonstratio celestis mansionis et eternitatis multum confirmat tempus huius seculi [c]eleriter transiturum. Hinc etiam est quod iurat “per viventem” in eternum, ubi etiam signanter specificat tria per ipsum creata, scilicet “celum”, tamquam electis querendum et tamquam locum in quo est eorum gloria consumanda; deinde “terram” cum existentibus in ea, et tertio “mare” cum existentibus in eo, quasi dicat: iuro per eum qui creavit terram fidelium et mare nationum infidelium, quibus utrisque nunc ego predico ed ad eternam gloriam invito. Unde et tenebat pedem unum super terram et alium super mare.

Par. I, 16-18, 22-27

Infino a qui l’un giogo di Parnaso
assai mi fu, ma or con amendue
m’è uopo intrar ne l’aringo rimaso.

O divina virtù, se mi ti presti
tanto che l’ombra del beato regno
segnata nel mio capo io manifesti,
vedra’mi al piè del tuo diletto legno
venire, e coronarmi de le foglie
che la materia e tu mi farai degno.

Par. III, 109-114

E quest’ altro splendor che ti si mostra
da la mia destra parte e che s’accende
di tutto il lume de la spera nostra,
ciò ch’io dico di me, di sé intende;
sorella fu, e così le fu tolta
di capo l’ombra de le sacre bende.

Par. VI, 7-9, 31-33

e sotto l’ombra de le sacre penne
governò ’l mondo lì di mano in mano,
e, sì cangiando, in su la mia pervenne.

perché tu veggi con quanta ragione
si move contr’ al sacrosanto segno
e chi ’l  s’appropria e chi a lui s’oppone.

Par. XIII, 19-21

e avrà quasi l’ombra de la vera
costellazione e de la doppia danza
che circulava il punto dov’ io era

[LSA, cap. XXII, Ap 22, 1-2 (VIIa visio)] “Et ostendit michi fluvium” (Ap 22, 1). Hic sub figura nobilissimi fluminis currentis per medium civitatis describit affluentiam glorie manantis a Deo in beatos. Fluvius enim iste procedens a “sede”, id est a maiestate “Dei et Agni”, est ipse Spiritus Sanctus et tota substantia gratie et glorie per quam et in qua tota substantia summe Trinitatis dirivatur seu communicatur omnibus sanctis et precipue beatis, que quidem ab Agno etiam secundum quod homo meritorie et dispensative procedit. Dicit autem “fluvium” propter copiositatem et continuitatem, et “aque” quia refrigerat et lavat et reficit, et “vive” quia, secundum Ricardum, numquam deficit sed semper fluit. Quidam habent “vite”, quia vere est vite eterne. Dicit etiam “splendidum tamquam cristallum”, quia in eo est lux omnis et summe sapientie, et summa soliditas et perspicuitas quasi cristalli solidi et transparentis. Dicit etiam “in medio platee eius” (Ap 22, 2), id est in intimis cordium et in tota plateari latitudine et spatiositate ipsorum.
“Ex utraque parte fluminis lignum vite”. Ricardus construit hoc cum immediate premisso, dicens quod hoc “lignum” est “in medio platee”. Et certe tam fluvius quam lignum vite, id est Christus, est “in medio eius”, id est civitatis, iuxta quod Genesis II° dicitur quod “lignum vite” erat “in medio paradisi” (Gn 2, 9). Una autem pars seu ripa fluminis est ripa seu status meriti quasi a sinistris, dextera vero pars est status premii; utrobique autem occurrit Christus, nos fruct[u] vite divine et foliis sancte doctrine et sacramentorum reficiens et sanans. Per folia enim designantur verba divina, tum quia veritate virescunt, tum quia fructum bonorum operum sub se tenent et protegunt, tum quia quoad vocem transitoria sunt. Sacramenta etiam Christi sunt folia, quia sua similitudine obumbrant fructus et effectus gratie quos significant et quia arborem ecclesie ornant. Vel una pars fluminis est suprema, altera vero pertingit usque ad infimum sensuum et corporum.
Nam non solum celum, sed etiam terra plena est gloria et maiestate Dei, unde beatis ex utraque parte occurrit Deus et specialiter Christus homo, qui secundum corpus se visibilem exhibet in ripa inferiori et suam deitatem et animam in ripa superiori.

Purg. XXVIII, 1-4, 10-18, 25-33; XXXII, 43-45; XXXIII, 106-111, 127-129

Vago già di cercar dentro e dintorno
la divina foresta spessa e viva,
ch’a li occhi temperava il novo giorno,
sanza più aspettar, lasciai la riva

per cui le fronde, tremolando, pronte
tutte quante piegavano a la parte
u’ la prim’ ombra gitta il santo monte;
non però dal loro esser dritto sparte
tanto, che li augelletti per le cime
lasciasser d’operare ogne lor arte;
ma con piena letizia l’ore prime,
cantando, ricevieno intra le foglie,
che tenevan bordone a le sue rime

ed ecco più andar mi tolse un rio,
che ’nver’ sinistra con sue picciole onde
piegava l’erba che ’n sua ripa uscìo.
Tutte l’acque che son di qua più monde,
parrieno avere in sé mistura alcuna
verso di quella, che nulla nasconde,
avvegna che si mova bruna bruna
sotto l’ombra perpetüa, che mai
raggiar non lascia sole ivi né luna.

Beato se’, grifon, che non discindi
col becco d’esto legno dolce al gusto,
poscia che mal si torce il ventre quindi.

quando s’affisser, sì come s’affigge
chi va dinanzi a gente per iscorta
se trova novitate o sue vestigge,
le sette donne al fin d’un’ombra smorta,
qual sotto foglie verdi e rami nigri
sovra suoi freddi rivi l’alpe porta.

Ma vedi Eünoè che là diriva :
menalo ad esso, e come tu se’ usa,
la tramortita sua virtù ravviva.

Par. XXX, 61-66, 76-87

e vidi lume in forma di rivera
fulvido di fulgore, intra due rive
dipinte di mirabil primavera.
Di tal fiumana uscian faville vive,
e d’ogne parte si mettien ne’ fiori,
quasi rubin che oro circunscrive

Anche soggiunse: “Il fiume e li topazi
ch’entrano ed escono e ’l rider de l’erbe
son di lor vero umbriferi prefazi.
Non che da sé sian queste cose acerbe;
ma è difetto da la parte tua,
che non hai viste ancor tanto superbe”.
Non è fantin che sì sùbito rua
col volto verso il latte, se si svegli
molto tardato da l’usanza sua,
come fec’ io, per far migliori spegli
ancor de li occhi, chinandomi a l’onda
che si deriva perché vi s’immegli

Inf. IV, 106-108

Venimmo al piè d’un nobile castello,
sette volte cerchiato d’alte mura,
difeso intorno d’un bel fiumicello.

Inf. XXXIII, 154-157

Ché col peggiore spirto di Romagna
trovai di voi un tal, che per sua opra
in anima in Cocito già si bagna,
e in corpo par vivo ancor di sopra.

[LSA, cap. I, Ap 1, 20 (Ia visio)] Misterium dicitur omne signum figurale figurans aliquod grande secretum, et aliquando stat pro tali occulto significato.
Littera Ricardi habet “sacramentum”, quam exponit dicens: «Sacramentum est sacre rei signum, ubi scilicet aliud videatur et aliud intelligatur, sicut hic ubi stelle et candelabra videbantur et episcopi et ecclesie intelligebantur».

[LSA, cap. XVII, Ap 17, 7 (VIa visio)] Responsio tamen angeli plus videtur tendere ad secundum modum per Ioachim datum. Nam ipse exponit Iohanni misterium huius predicte imaginis mulieris tamquam nescienti illud et tamquam miranti quid significaret. Unde subdit: “Ego tibi dicam sacramentum” (Ap 17, 7), id est sacram et secretam significationem, “mulieris et bestie que portat eam” et cetera. Pro primo tamen modo Ricardi facit quia paulo post dicitur quod mali, qui non sunt in libro vite scripti, mirabuntur quando videbunt bestiam que fuit et non est (Ap 17, 8).
Nota quod licet res seu malitia gentis per mulierem et bestiam significata sit mala, ipsum tamen signum et eius activa significatio a Deo per angelum data et presentata erat et est quid sacrum, et ideo dicitur “sacramentum”, id est sacrum signum.

Inf. III, 21; VIII, 86-87

mi mise dentro a le segrete cose

E ’l savio mio maestro fece segno
di voler lor parlar segretamente.

Par. VII, 55-57, 61-63

Tu dici: “Ben discerno ciò ch’i’ odo;
ma perché Dio volesse, m’è occulto,
a nostra redenzion pur questo modo”.

Veramente, però ch’a questo segno
molto si mira e poco si discerne,
dirò perché tal modo fu più degno.

[Nota alla Tab. I.9]

Il capitolo XXII dell’Apocalisse si apre con la visione del nobilissimo fiume che scorre nel mezzo della città celeste. È lo stesso Spirito Santo, ovvero la gloria che da Dio affluisce sui beati: fiume di acqua viva, o di vita eterna, da cui deriva tutta la sostanza della Trinità. Fiume di splendore e luce per sapienza, che ha due rive o due parti (destra e sinistra, superiore e inferiore), designanti le due nature, divina e umana, di Cristo-lignum vite che dà perpetui frutti. Il lignum vite, l’albero che sta nel mezzo, con le sue foglie getta un’ombra sacramentale, di verità superiori, su entrambe le rive, l’umana e la divina, perché non solo il cielo, ma anche la terra è ripiena della gloria di Dio [15].
L’esegesi di Ap 22, 1-2 offre una ricchezza tematica riaffiorante in numerosi luoghi della Commedia. Può inoltre essere considerata in collazione con altri passi del testo sacro, come Ap 21, 11 (la forma della città, ‘idea’ dello splendore divino) e Ap 21, 18.21 [16].
Se riferita al fiume, essa conduce ai due fiumi dell’Eden (il Lete e l’Eunoè) che si dipartono da un’unica fontana, e al fiume di luce dell’Empireo. In sintesi, qui si noterà come il tessuto dell’Eden sia in parte segnato dai temi del fiume celeste, scomposti e assegnati a più immagini. In parte perché innumerevoli sono i segni che rinviano agli altri raggruppamenti tematici, e qui se ne isola un solo tipo. Si noti la rima diriva / ravviva, per l’Eunoè (Purg. XXXIII, 127, 129); ma viva è anche “la divina foresta”, in rima con riva intesa come margine in corrispondenza dell’ultimo gradino della scala (Purg. XXVIII, 2, 4), quasi anticipazione della ripa verdeggiante e ombrata del Lete. L’operare degli uccelli sotto le foglie piegate “a la parte / u’ la prim’ ombra gitta il santo monte”, ibid., 10-18, ha un valore sacramentale: “Per folia enim designantur verba divina, tum quia veritate virescunt, tum quia fructum bonorum operum sub se tenent et protegunt”. Il Lete, “rio, / che ’nver’ sinistra con sue picciole onde / piegava l’erba che ’n sua ripa uscìo” (ibid., 25-27), la cui acqua toglie la memoria del peccato, costituisce la riva sinistra del fiume celeste, mentre l’Eunoè, il cui gusto “a tutti altri sapori … è di sopra” (ibid., 133), corrisponde all’altra riva, destra e superiore. Entrambi i fiumi nascono da un’unica sorgente, “al fin d’un’ombra smorta, / qual sotto foglie verdi e rami nigri / sovra suoi freddi rivi l’alpe porta” (Purg. XXXIII, 109-111). I signacula rinviano tutti alla medesima parte di esegesi, ma sono assegnati alcuni a un fiume altri all’altro, altri a entrambi: la ripa e l’essere “fiume sacro” al Lete, il derivare e l’essere l’acqua viva all’Eunoè; è comune l’ombra delle foglie. Dalle singole parti così parzialmente contrassegnate, come per sineddoche, l’esperto lettore può ricostruire il tutto, cioè la dottrina che proviene dall’esegesi del testo sacro. Certo questo ‘tutto’ egli già lo conosce in latino, ma è cosa diversa ritrovarselo in volgare, figurato in tante immagini.
Non sono solo i due fiumi dell’Eden ad essere fasciati dalla sacra pagina e dalla sua esposizione. Perfino Beatrice vi partecipa. Anche la donna ha due bellezze, gli occhi e la bocca. Alla prima si perviene con le virtù cardinali (le quali accompagnano lì Dante), ma si guarda nel suo profondo solo con le virtù teologali e per preghiera di queste, congiunta con la grazia gratuitamente data, si ottiene la seconda bellezza. Nel suo svelarsi, Beatrice è “isplendor di viva luce etterna” che sta fra cielo e terra, “là dove armonizzando il ciel t’adombra”. Per lei non si parla di ‘fiume’ o di ‘acqua’, ma assume alcune fondamentali prerogative di Cristo centro della Gerusalemme celeste, della sua irrigazione e dunque della storia umana (Purg. XXXI, 139-145). La donna ha anche nelle sue vesti una zona superiore (il velo candido, “sopra” il quale è “cinta d’uliva”) e una inferiore (“sotto verde manto”), cioè la veste rossa, indelebile memoria dell’umana Beatrice descritta con “vestimenta sanguigne” nella Vita Nova (1. 4/15; 28. 1 [ed. G. Gorni, Torino 1996]; Purg. XXX, 31-33). Il suo disvelarsi è una vera e propria messa in versi della parola “apocalisse”, rivelazione per grazia dell’arcano [17]. L’ombra del velo verrà completamente tolta nella gloria di Cristo allorché, nel sesto e nel settimo stato, la luce della luna sarà, come quella del sole, splendente della luce di sette giorni, secondo Isaia 30, 26 che è incipit della Lectura super Apocalipsim  [18].
I due fiumi dell’Eden sono figura in terra dell’unico luminoso fiume dell’Empireo: “fulvido di fulgore, intra due rive / dipinte di mirabil primavera”, dal quale escono “faville vive”, è “onda / che si deriva” da Dio; ma il fiume, le faville (“li topazi / ch’entrano ed escono”) e il verdeggiante “rider de l’erbe” sono “umbriferi prefazi”, cioè ombra sacramentale “di lor vero”, adombranti il primo una forma circolare e non lineare, le seconde gli angeli, il terzo i beati (Par. XXX, 61ss.). Non è detto, ma è facile deduzione dal confronto con gli elementi semantici che segnano l’esegesi scritturale e i versi, che il fiume di luce, come linearmente appare al poeta che non ha “viste ancor tanto superbe”, designi nelle sue due rive la doppia natura di Cristo, umana e divina, volta verso la terra e il cielo. Ma sono entrambe rive di un unico fiume di “luce intellettüal, piena d’amore” (lo Spirito Santo: Dante ne beve l’acqua con gli occhi), per cui dalla Trinità deriva ai beati, ad essi comunicata, tutta la sostanza della grazia e della gloria.
All’estremo infernale dell’Empireo sta Cocito, nella cui Tolomea si registra uno stare dell’anima (superiore e ‘viva’) e del corpo (inferiore e terreno) distorto rispetto a quello di Cristo centro fra le due rive: ivi infatti i traditori degli ospiti stanno dannati con l’anima ancor prima della morte corporale, essendo il corpo governato da un demonio che lo fa apparire “vivo ancor di sopra” (Inf. XXXIII, 154-157).
Ma l’archetipo figurale del nobilissimo fiume di luce dell’Empireo è il “bel fiumicello” che ‘difende’ il “nobile castello” del Limbo (Inf. IV, 106-108); con gli “spiriti magni” che vi albergano, costituisce il primo nucleo dell’edificio santo che tanto si svilupperà attraverso i sette stati della storia, antica e nuova.
In questa esegesi del fiume di una città immateriale, perché tale è la Gerusalemme celeste, Dante poteva specchiare quanto la sua mente aveva elaborato sulle due beatitudini, poste come fini all’uomo dalla Provvidenza: la beatitudine di questa vita (raffigurata nel paradiso terrestre), alla quale si perviene sotto il regime dell’Imperatore, attraverso la filosofia e la pratica delle virtù morali e intellettuali; la beatitudine della vita eterna (consistente nella visione di Dio), alla quale si perviene tramite le virtù teologali e sotto la guida del romano pontefice (cfr. Monarchia, III, xv, 7-10). Entrambe le beatitudini, come le loro guide, discendono senza intermediari dall’unico Fonte dell’universale autorità (ibid., xv, 15). Corrispondono alle due rive, umana e divina, dell’unico fiume della grazia e della gloria, all’umanità e alla divinità di Cristo. Beatrice, figura di Cristo, è nell’Eden cerniera: gli occhi partecipano sia dell’una come dell’altra, la bocca svelata adombra la visione di Dio.
Nel “poema sacro / al quale ha posto mano e cielo e terra” (Par. XXV, 1-2; cfr., ad Ap 10, 5-7, l’angelo che giura che al suono della settima tromba il tempo cesserà), per il quale la Grazia deriva da entrambe le rive dell’unico fiume celeste, l’esegesi di Ap 22, 1-2 torna con insistenza, e in modo insospettabile. Ad esempio, voto religioso e impero sono nel Paradiso trattati rispettivamente nei primi due cieli, entrambi, nelle “sacre bende” (di cui dice Piccarda) o nelle “sacre penne” (di cui parla l’aquila imperiale, il “sacrosanto segno” [cfr. Ap 1, 20; 17, 7] per bocca di Giustiniano), “ombra” sacramentale di verità superiori che discendono dal fiume luminoso dell’Empireo, che ha due rive, una divina e l’altra umana (cfr. Par. III, 114; VI, 7). C’è una ragione precisa del tanto spazio dato alla questione dell’alienabilità dei voti. Alcuni fondamentali attributi del voto evangelico, così come delineati dall’Olivi, appaiono infatti applicabili anche alla Monarchia: la stabilità, l’immutabilità, l’indissolubilità, il divieto assoluto di alienazione. Così lo stato di altissima povertà, a causa dell’immutabilità del voto, produce su chi lo professa gli stessi effetti della giurisdizione del Monarca: il non poter desiderare di più, la rimozione della cupidigia, la carità, la pace [19].
Si direbbe che la stessa poesia derivi la sua linfa da quel fiume di grazia e di gloria (Ap 22, 1-2). Essa, nel descrivere il “regno santo”, è umbratile figurazione di verità superiori; si corona delle lauree foglie del “diletto legno” del “buono Appollo” utilizzando ambedue i gioghi di Parnaso, quello abitato dalle Muse e quello sede di Apollo, come su ambedue le rive, umana e divina, stanno le foglie di Cristo-lignum vite con il loro sacro ombreggiare (Par. I, 16-18, 22-27; cfr. XIII, 19-21).

2. L’Ordine finale

Vengono qui esposte in forma sintetica, con l’ausilio di autorevoli citazioni, le posizioni di Gioacchino da Fiore, Bonaventura e Olivi in relazione all’Ordine che si instaurerà nel terzo status : definizione, rapporto con gli Ordini precedenti, finalità. Seguono i riferimenti all’esegesi olivana contenuti nella Commedia. 

Gioacchino da Fiore 

● Novus ordo dell’ecclesia contemplativa; Concordia, V 1, c. 14, Patschovsky 3, pp. 569, 2-9, 570, 1-7: “Futurum est enim, ut ordo unus convalescat in terra, similis Joseph et Salomonis … ut compleatur in eo promissio illa psalmi dicentis: Et dominabitur a mari usque ad mare, et a flumine usque ad terminos orbis terrarum (Ps 71, 8) … Hic est populus ille sanctus, ordo scilicet iustorum circa finem futurus, de quo in typo Salomonis dictum est … Ego ero illi in patrem et ipse erit michi in filium (2 Reg 7, 14)”; V 2, c. 10, Patschovsky 3, p. 744, 9-12: “Beatus est autem, aut erit, ordo ille, quem dominus diliget super omnes, utpote qui visione pacis fruiturus est et dominaturus a mari usque ad mare …” [1].

● Nel sesto tempo (sesta tromba), i due testimoni di Ap 11, 3-12 – Mosè (ordo dei chierici), Elia (ordo dei monaci) – sono da considerare “come i resti dei due ordines al cospetto dell’Anticristo, così come Mosè e Aronne stettero davanti al Faraone, e Pietro e Giovanni davanti a Nerone” [2].

● “Se la celebrazione dei cistercensi e di Bernardo è alta, resta peraltro il dubbio se saranno loro i protagonisti degli eventi futuri sino alla consumazione finale: Gioacchino accenna infatti alla necessità che ad essi succedano altri, senza chiarire affatto in che rapporto siano questi ultimi con coloro che li precedono. Si intravede dal testo che nell’avvicendarsi dei tempi finali dovranno succedersi monaci dotati di carismi particolari. Coloro che nella sesta tribolazione si opporranno all’undicesimo re saranno predicatori. Quanto ai protagonisti del tempo successivo, saranno interamente dediti alla contemplazione (non a caso la Scrittura loro propria corrisponderà nello spirito al vangelo di Giovanni)” [3].

● Non è chiaro se la domus religionis (Concordia, V, 1 c. 17; Patschovsky 3, pp. 581-586) sia un’istituzione del terzo stato o della fase di passaggio dal secondo al terzo stato: «Come osservava già Grundmann, l’abate aveva in mente non “un ordine monastico con monasteri del tutto identici, bensì un’organizzazione complessiva unitaria di comunità disparate”». La sesta delle sette mansiones spetta ai laici “che, come gli animali della terra nel sesto giorno, possono prendere moglie in vista della procreazione” [4].

Bonaventura

● “L’affermazione fondamentale concernente il nuovo ed ultimo ordine è in Bonaventura la stessa che in Gioacchino: sarà un ordine di ‘contemplatio’. Questa ‘contemplatio’ è però anche un nuovo modo di vedere la Scrittura, destinata a realizzarsi completamente e veramente soltanto ora, così da poter parlare di una rivelazione nuova, generale, consistente in una nuova intelligenza dell’antica Scrittura. […] I tipi principali sono in questo caso Beniamino-Paolo e Giovanni. […]” [5].
Gli Spirituali facevano coincidere l’ordo con i Francescani; Bonaventura lo distingue: l’ordine cherubico (Francescani e Domenicani); l’ordine serafico (Francesco): “[…] il Santo è palesemente dell’opinione che l’ordine escatologico deve essere un ordine di Francesco che in lui venererà e vedrà il suo vero inizio e che lo stesso Francesco appartiene interamente all’ ‘ordo seraphicus’ e non all’ ‘ordo cherubicus’. Ciò significa che l’ordine francescano attuale non è ancora il vero ordine di San Francesco. Nella propria persona Francesco anticipa in definitiva una forma di esistenza escatologica che quale forma di vita universale appartiene ancora al futuro. In questa realistica distinzione tra Francesco e il francescanesimo, che non è dunque solo una scoperta della liberale Forschung su Francesco ma venne invece già formulata dal grande Generale francescano del secolo XIII, non si ha solo la risposta di Bonaventura agli Spirituali; in essa troviamo anche – come Gilson, in altro contesto e con diverso accento, ha già dimostrato – la chiave del comportamento di Bonaventura come Generale ed inoltre dell’atteggiamento di vita suo proprio come francescano. Egli può rifiutare il ‘sine glossa’ – che pure conosce dal testamento di lui come la vera volontà di Francesco – sia per l’esercizio della sua funzione che per la sua personale forma di vita, sapendo che per tutto ciò l’ora storica non è ancora scoccata. Fino a quando durerà il sesto giorno, i tempi non saranno ancora maturi per quella radicalità dell’esistenza cristiana che Francesco, per missione divina, aveva potuto realizzare in anticipo nella sua persona. Senza la coscienza di un’infedeltà nei riguardi del santo fondatore, Bonaventura potè e dovette, di conseguenza, creare per il suo ordine quei limiti istituzionali che sapeva non esser mai stati voluti da Francesco” [6].

Olivi

● Nella LSA introduce il concetto di sviluppo (uomo-pianta): il novus ordo sono i Francescani giunti a maturità.

L’apertura del sesto sigillo (Ap 6, 12) avviene in quattro diversi momenti temporali:

1) un inizio profetico, con Gioacchino da Fiore (e altri a lui contemporanei), al quale fu rivelato in spirito il sesto stato, cioè la terza età: corrisponde al Vangelo di Luca, che inizia dal sacerdozio di Zaccaria, al quale fu rivelato l’avvento di Cristo e del suo precursore Giovanni Battista;

2) un inizio generazionale – “sue generationis et plantationis initium” – con il rinnovamento della regola evangelica fatto da Francesco: corrisponde al Vangelo di Matteo, che inizia dall’umana generazione di Cristo;

3) un inizio di nuova fioritura della pianta dovuta al risvegliarsi dello Spirito di Cristo e di Francesco in alcuni predicatori, nel momento in cui la regola francescana viene impugnata e condannata da Babylon, la Chiesa carnale – “a suscitatione spiritus seu quorundam ad spiritum Christi et Francisci … a predicatione vero spiritualium suscitandorum et a nova Babilone reprobandorum sumet initium refloritionis seu repullulationis”: corrisponde al Vangelo di Marco, che inizia dalla predicazione di Cristo e Giovanni Battista;

4) l’ultimo inzio dalla distruzione di Babylon, allorché non ci sarà più concurrentia fra quinto e sesto stato e questo si distinguerà con chiarezza: corrisponde al Vangelo di Giovanni, che inizia dall’eternità del Verbo e dalla sua eterna generazione.

Olivi, ad Ap 6, 12, spiega perché Francesco, la cui conversione segnò il secondo inizio dell’apertura del sesto sigillo, non sarà con i suoi nel terzo e nel quarto inizio. Assimila i seguaci di Francesco alla persona umana di Cristo: come questa si sviluppò fino all’età virile, così dovrà essere per i primi; l’ordo evangelicus piantato da Francesco avrà bisogno (a differenza di Cristo che stette poco tempo nel mondo) di due o tre generazioni per svilupparsi prima di subire una condanna simile a quella di Cristo.

[LSA, cap. VI, Ap 6, 12 (IIa visio, apertio VIi sigilli)] Secunda ratio est quia persone Christi correspondet in sexta apertione unus ordo plurium personarum sic secundum suam proportionem augendus, sicut Christus secundum suum corpus fuit usque ad perfectam etatem viriliter auctus. […] Quarta est quia, prout super evangelia ostendi, Christus parvo tempore debuit inter nos vivere et pauciori predicare, nec suis discipulis altum spiritum debuit dare usque post eius mortem et resurrectionem, ac per consequens nec ecclesiam suam sollempniter instituere per eosdem, nec ipse per se eguit multo tempore roborari ad sustinendum condempnationem a summis pontificibus Iudeorum et ab omnibus consentientibus eis. Nisi autem ordo evangelicus, per Franciscum renovatus, esset in multis et saltem sub duabus vel tribus generationibus propagatus et sollempnizatus, non esset nec ipse nec populus ab eo ducendus sufficienter dispositus ad tam autenticam condempnationem condempnationi Christi consimilem subeundam. […]

Simile impostazione ispira le rationes date ad Ap 7, 3 per spiegare perché il conflitto fra gli Spirituali e i nuovi Babilonesi debba precedere la distruzione temporale di Babylon.
Olivi fa dunque coincidere il novus ordo con i Minori [7] pervenuti a maturità, rinnovati come piante novelle per opera di alcuni ‘Spirituali’ – “a suscitatione spiritus seu quorundam ad spiritum Christi et Francisci … a predicatione vero spiritualium suscitandorum et a nova Babilone reprobandorum sumet initium refloritionis seu repullulationis” -, cioè di una parte limitata dell’Ordine. Mentre Bonaventura distingue Francesco (l’ordine futuro) dal francescanesimo attuale, escludendo di fatto gli Spirituali dalla storia prossima, Olivi incorpora gli Spirituali nel processo storico dell’Ordine come suscitatori di un vicino rinnovamento (due o tre generazioni, cioè al massimo novant’anni dalla conversione di Francesco). Più che un novus ordo, Olivi pensa a un ordo renovatus.
D’altronde Olivi, fin dalla quaestio de altissima paupertate, aveva applicato il concetto di sviluppo alla Chiesa stessa, assimilata in questo al mondo naturale, rispondendo all’obiezione, che sarebbe stata fatta più volte dai suoi censori, di un possibile declassamento dello “status Apostolorum” rispetto alla pienezza, in vita e in sapienza di Cristo, del sesto stato.
Secondo Bonaventura il novus ordo dovrà pervenire a una corrispondenza con Francesco stimmatizzato attraverso le tribolazioni, come fosse Cristo apparso sofferente nel suo corpo mistico: “Iste ordo non florebit, nisi Christus appareat et patiatur in corpore suo mystico – Et dicebat, quod illa apparitio Seraph beato Francisco, quae fuit expressiva et impressa, ostendebat, quod iste ordo illi respondere debeat, sed tamen pervenire ad hoc per tribulationes. Et in illa apparitione magna mysteria erant”.
Secondo Olivi l’angelo del sesto sigillo (Ap 7, 2) non si identifica solo con Francesco – come inteso da Bonaventura – ma anche con il “cetus discipulorum eius in tertio et quarto initio sexte apertionis futurus et consimiliter ab ortu solis ascensurus”, assistito (come alcuni ritengono) da Francesco risorto nel momento delle maggiori prove, al modo con cui Cristo risorto apparve ai discepoli per istruirli sul futuro governo della Chiesa. L’angelo del sesto sigillo ascende fra due tribolazioni, come spiegato nell’ampia citazione di Gioacchino da Fiore ripresa nell’esegesi oliviana di Ap 7, 2.

● Quale il rapporto del novus ordo con gli altri Ordini? La questione non è chiarita né da Bonaventura né da Olivi.
La possibilità che ci siano diversi offici (predicazione contro i vizi dei cristiani, contemplativi, predicazione agli infedeli) nell’unica professione evangelica è affermata da Olivi in principio del capitolo X, al momento di definire se l’angelo dalla faccia solare (Ap 10, 1) sia da distinguere o meno dall’angelo della sesta tromba (Ap 9, 13):

[LSA, cap. X, Ap 10, 1 (IIIa visio, VIa tuba)] Sicut enim Petrus, quamquam esset universalis pastor omnium fuit specialiter ab initio deputatus apostolatui circumcisionis, Paulus vero predicationi gentium, prout ipse dicit ad Galatas II° (Gal 2, 7-8); sicut etiam Deus in ecclesia “quosdam dedit apostolos, secundo prophetas, tertio doctores”, prout dicitur Ia ad Corinthios XII° (1 Cor 12, 28), sic et in sexto statu quidam plus predicabunt contra vitia monstrando exterminium Babilonis tamquam de proximo imminens et deinde tamquam iam factum, sic quidam alii plus insistent contemplative sapientie et illuminationi discipulorum contemplativorum ad speciale regimen ecclesie applicandorum et ad predicationem infidelium mittendorum. Primi autem designantur per angelum sexte tube, secundi per angelum istum faciei solaris, tertii per Iohannem accipientem ab eo librum apertum et predicaturum populis et gentibus et mensurantem templum (Ap 10, 8-11; 11, 1ss.), per quam mensurationem designatur specialis gubernatio ecclesie Christi, sicut per tubam et eius tubicinationem designatur exhortatio et incitatio ad prelium contra vitia et errores et contra principes et exercitus vitiis et erroribus plenos.

Ancora, ad Ap 11, 3, trattando dei due testimoni (Elia ed Enoc), non esclude la possibilità che designino più ordini evangelici concorrenti, come già da cent’anni ve ne sono due (con allusione ai Francescani e ai Domenicani).

[LSA, cap. XI, Ap 11, 3 (IIIa visio, VIa tuba)] Nec oportet istos duos ordines testium esse diverse professionis seu religionis, sicut nec Petrus et Iohannes fuerunt, immo uterque fuit eiusdem professionis apostolice et evangelice, nec tamen per hoc nego quin ordines diversarum professionum in hoc concurrant sicut et iam fere per centum annos simul cucurrerunt duo.

I due testimoni vengono da Bonaventura e Olivi identificati con Elia ed Enoch, contrariamente a Gioacchino da Fiore che vi scorgeva Elia e Mosè. Olivi tuttavia non esclude che, “ex misterio ternarii”, oltre a Enoch (lex naturae) e a Elia (lex scripta) ci possa essere un altro testimone (“cetus sanctorum evangelicorum illius temporis, aut aliquis unus ex eis”: lex gratiae).

[LSA, cap. XI, Ap 11, 3] Unde ex misterio ternarii non potest probari quod Moyses sit venturus pro tertio teste, et maxime quia cetus sanctorum evangelicorum illius temporis, aut aliquis unus ex eis, poterit servire de tertio, ut sic sit ibi Enoch de statu legis nature, Helias vero de statu legis mosaice, reliqui vero sint ibi de statu legis gratie.

Dunque l’ordine finale, che pure ha la sua pianta in Francesco e nella sua Regola veramente evangelica, potrà mostrarsi diversamente articolato. Accanto alla preminenza francescana, in Olivi sembra presente quella visione complementare degli ordini che “in uno studii proposito et voto concurrent”, già propria alla metà del secolo del Super Hieremiam [8]. D’altronde lo stesso francescano afferma di aver sentito, novizio nel convento di Béziers, Raimondo Barravi predicare quanto udito a Parigi da san Domenico, il quale constatata personalmente ad Assisi la vita senza possessi dei Minori, ne avrebbe seguito l’esempio per i suoi [9]. Bonaventura aveva scritto di “religiones pauperculae” suscitate dallo Spirito [10].
Il problema è che Ap 10, 1 e 11, 3-12 sono riferiti alla sesta tromba, dunque al sesto stato. Sarà così anche nel settimo e ultimo stato? Questo può valere per Bonaventura, che non sembra distinguere chiaramente la settima età dalla sesta – “Et secundum hoc distinguuntur sex aetates; septima autem currit secundum omnes cum sexta [Collationes in Hexaëmeron, XVI, 2, in Sancti Bonaventurae Sermones Theologici, Roma 1994 (Sancti Bonaventurae Opera, VII/1), p. 290] -, ma non per Olivi, per il quale il settimo stato, sia pur concorrendo a lungo col sesto, ha una propria autonomia, come detto nel notabile I del prologo della LSA: “Septimus autem uno modo inchoat ab interfectione illius Antichristi qui dicet se Deum et messiam Iudeorum, alio vero modo inchoat in initio extremi et generalis iudicii omnium reproborum et electorum”.

● Gioacchino da Fiore e Bonaventura ritengono che l’ordine finale sia formato da contemplativi. Olivi si distingue perché i contemplativi sono anche reggitori. Una doppia corona, regia o pontificale, spetta all’ordine evangelico e contemplativo di quanti, alla fine dei tempi, più si saranno fatti simili a Cristo. Essi sono designati dall’angelo di Ap 14, 14, simile nell’aspetto al Figlio dell’uomo, seduto su una nube bianca con sul capo una corona d’oro e in mano una falce affilata. Questo angelo, secondo Gioacchino da Fiore citato da Olivi, designa un ordine di giusti a cui è dato di imitare Cristo in modo perfetto e che possiede una “lingua erudita” per diffondere il Vangelo del regno di Dio e per raccogliere sulla terra l’ultima messe.

[LSA, cap. XIV, Ap 14, 14 (IVa visio, VIIum prelium)] “Et vidi et ecce nubem candidam et super nubem sedentem similem Filio hominis, habentem in capite suo coronam auream et in manu sua falcem acutam” (Ap 14, 14). Ioachim dicit: «Arbitramur in isto signari quendam ordinem iustorum, cui datum est perfecte imitari vitam Filii hominis et habere eruditam linguam ad evangelizandum evangelium regni et colligendam in aream Domini ultimam messionem, qui stat super nubem candidam quia conversatio eius non est ponderosa et obscura sed lucida et spiritalis». […] dicitque quod […] intelligendus est aliquis ordo futurus perfectorum virorum servantium vitam Christi et apostolorum […]. Si autem e contra obicias quod angelus in extremo iudicio metens malos et bonos incongrue diceretur “similis Filio hominis” et “habens coronam auream”, quasi rex omnium, ex quo magis videtur quod designet ibi Christum, qui in nube seu nubibus venturus est ad iudicium, prout dicitur supra capitulo I° (cfr. Ap 1, 7), potest dici quod principaliter designat hic evangelicum ordinem sanctorum Christo et eius vite similium et regiam seu pontificalem coronam seu auctoritatem circa finem seculi habiturorum cum potestate et officio colligendi finalem messem electorum. Unde et eorum ordo designatus est supra, capitulo X°, per angelum amictum nube in cuius capite erat iris quasi corona (cfr. Ap 10, 1).

A Giovanni (Ap 11, 1) viene dato il “calamus”, cioè una canna simile a una verga, che designa il potere e la discrezione di reggere la Chiesa. Come con il “calamus” gli architetti sogliono misurare gli edifici e i mercanti i panni, così con esso i rettori della Chiesa posseggono la regolare e giusta misura in base alla quale sanno ciò che debbono governare e ciò che debbono lasciare. Questo “calamus” non assomiglia a una vuota e fragile canna o asticciola, ma piuttosto a una dritta e solida verga. Designa infatti l’autorità nel governare propria dei pontefici e dei maestri, la virtù e la giustizia capace di correggere, drizzare e dirigere rettamente la Chiesa. Secondo Gioacchino da Fiore, il “calamus” designa la “lingua erudita” di cui si dice nel Salmo: “La mia lingua è stilo di scriba” (Ps 44, 2). Come infatti con l’austerità della verga si piegano le bestie indomite, così con la disciplina della lingua vengono corretti i duri cuori degli uomini. Si tratta della stessa “lingua erudita” di cui si fregia l’angelo di Ap 14, 14, che designa l’ordine finale di contemplativi e di governanti.

[LSA, cap. XI, Ap 11, 1 (IIIa visio, VIa tuba)] “Et datus est michi calamus” (Ap 11, 1). Hic ordini prefato datur potestas et discretio regendi ecclesiam illius temporis. Datio enim potestatis significatur [per] donationem calami, quo artifices domorum solent mensurare edificia sua. Discretio vero regendi sibi dari designatur, tum per regularem ipsius calami rectitudinem et mensuram, tum per hoc quod docetur quos debeat mensurare, id est regere, et quos relinquere. Dicit autem: “Et datus est michi”, supple a Deo, “calamus similis virge”, quasi dicat: non similis vacue et fragili canne seu arundini, sed potius recte et solide virge. Et certe tali communiter mensurantur panni et edificia. Per hanc autem designatur pontificalis vel magistralis seu gubernatoria auctoritas et virtus et iustitia potens corrigere et rectificare et recte dirigere ecclesiam Dei. Secundum Ioachim, calamus iste signat linguam eruditam, dicente Psalmo (Ps 44, 2): “Lingua mea calamus scribe”, qui est similis virge, quia sicut austeritate virge coarcentur iumenta indomita, ita lingue disciplina dura corda hominum corriguntur.

I futuri reggitori del mondo sono designati dai compagni dell’Agnello che stanno sul monte Sion (Ap 14, 1-5). Il quale è interpretato come “specula”, cioè come luogo di altissima contemplazione; è però anche il luogo più consono per il governo dell’orbe convertito. Ciò avverrà in un futuro prossimo, forse anche prima della morte dell’Anticristo:

[LSA, cap. XIV, Ap 14, 5 (IVa visio, VIum prelium)] Nota quod cum superius dixit istos cum Christo stare “super montem Sion”, forte ultra sensum ibi tactum voluit insinuare quod post mortem Antichristi, et forte etiam ante mortem, erit sublimissimus cultus Christi ad litteram in monte Sion. Nec mirum si locus nostre redemptionis super omnia loca terre tunc temporis exaltetur, et maxime quia ad conversionem totius orbis et ad gubernationem totius iam conversi ille locus erit congruentior summis rectoribus orbis, tamquam centrale medium terre habitabilis.

La quarta vittoria (Ap 2, 26-28) è conseguita dagli anacoreti, alti per contemplazione come il sole e le stelle, ma anche operosi senza requie a forti cose nella vita attiva. Alla quarta chiesa d’Asia (Tiàtira), che in questo consegue la suprema perfezione dei due ultimi stati, il sesto e il settimo (dunque anche dell’ordine finale), viene detto che quanti vinceranno seguendo e custodendo fino alla fine i precetti e i consigli di Cristo otterranno la virtù, ossia la potestà di reggere le genti in modo retto e inflessibile, spezzandone i vizi quasi con uno scettro di ferro, e la conoscenza, ossia la pienezza della sapienza celeste atta a governare la Chiesa. Si tratta dunque di contemplativi, ma anche di reggitori.

[LSA, cap. II, Ap 2, 26-28 (IVa victoria)] Quarta est victoriosus effectus, quando scilicet omnes vires corporis et mentis assidue et totaliter perfectis virtutum operibus dedicantur, nec ex longa continuatione operis remittuntur sed potius intenduntur et roborantur et ad fortia opera superexcrescunt, qualis fuit in exercitiis perfectorum anachoritarum, quibus competit premium de quo quarte ecclesie dicitur: “Qui vicerit et custodierit usque in finem opera mea”, id est qualia ego feci et precepi vel consului, “dabo illi potestatem super gentes et reg[et] [eas] in virga ferrea, et tamquam vas figuli confri[n]gentur, sicut ego accepi a Patre meo, et dabo illi stellam matutinam” (Ap 2, 26-28).
Secundum quosdam hic promittitur quarto ordini perfectio sexti et septimi status, quia ordo quartus est in fine seculi consumandus et visurus confractionem statue Nabucodonosor et superaturus gentes et regna et Christi cultui subiugaturus. Est etiam accepturus claram intelligentiam scripturarum et future diei eterne quasi stellam matutinam, que gratiose solem pronuntiat et precurrit.
Generaliter tamen hic significatur quod quicumque sunt sic operosi sunt digni super principatum ecclesie sublimari et accipere virtutem rectam et inflexibilem et insuperabilem, quasi virgam ferream ad faciliter confringendum terrestria vitia gentium, et accipere plenitudinem sapientie celestis ad regendum ecclesiam et ad celestia contemplanda. Unde Luche XIX° (Lc 19, 17) illi, qui per unam mnam acquisivit decem mnas, dicit Christus: “Eris potestatem habens super decem civitates”, et iterum infra dicit: “Auferte ab illo”, id est a servo otioso, “mnam et date illi qui habet decem mnas, quia omni habenti dabitur et habundavit” (Lc 19, 24-26). Per mnam autem illius otiosi, secundum sanctos, intelligitur donum scientie. Designatur etiam per hoc quod in a[na]choriticis sic operosis est virtus terrificativa et contritiva gentium terrestrium, et quod per exemplum operis lucent omnibus velut stella matutina, et quod in celis habebunt gloriosam potestatem et lucem huic correspondentem.

● Ad Ap 10, 11 Olivi afferma che Giovanni, al quale viene ingiunto di predicare ancora a tutto il mondo – “Oportet te iterum prophetare in gentibus et populis et linguis et regibus multis” -, designa sia delle “singulares persone” sia un “ordo”, e la distinzione è sottolineata dalla doppia congiunzione (“prout … prout”) e dal fatto che per i singoli è necessaria una rivelazione spirituale della missione ingiunta, mentre per l’ordine basta l’intelligenza del libro. Un terzo testimone accanto a Elia e a Enoch potrebbe essere anche un solo membro del “cetus sanctorum evangelicorum”. Bonaventura sosteneva che la sua comparazione degli ordini secondo maggiore o minore perfezione era stata fatta “secundum status, non secundum personas; quia una persona laica aliquando perfectior est quam religiosa”.

 

Dante

            I due testimoni

 

Elia ed Enoch sono, nel capitolo undecimo dell’Apocalisse (Ap 11, 3-13), i due testimoni dati per compiere la loro missione di profeti, al termine della quale vengono uccisi in apparenza dalla bestia che sale dall’abisso per resuscitare dopo tre giorni e mezzo ed ascendere al cielo sotto lo sguardo dei nemici, mentre un grande terremoto distrugge un decimo della città, fa perire settemila persone e costringe gli altri a dare gloria a Dio.
Contro Gioacchino da Fiore, che identifica i testimoni con Elia e Mosè, i quali apparvero con Cristo sul monte della trasfigurazione, Olivi si schiera accanto ad Agostino, Gregorio Magno, Riccardo di San Vittore e Bonaventura, secondo i quali i due sono Elia ed Enoch. Di Enoch è scritto, nel Genesi  (5, 22-24) e nella Lettera agli Ebrei  (11, 5), che venne trasportato via, in modo da non vedere la morte. Di Mosè si sa invece che morì, e non è logico che ora risorga per morire di nuovo per mano della bestia, mentre si può dire che Enoch sia stato riservato per qualche compito solenne per la fede e per la Chiesa, assolto il quale possa poi morire. Accanto a Cristo trasfigurato sul monte apparve, accanto a Elia, Mosè perché i discepoli di Cristo erano nati dalla stirpe di Israele, e dunque a essi era più adatto, in quanto legislatore di somma autorità. Al tempo dell’Anticristo, al momento della conversione di tutto il mondo, accanto a Elia, adatto agli Ebrei perché della stirpe di Israele, nato sotto la legge mosaica, uomo evangelico il cui avvento è stato promesso dai profeti, dovrà comparire Enoch il quale, per essere stato contemporaneo di Adamo primo padre e padre di tutti i popoli nati da Noè dopo il diluvio, e per essere nato sotto la legge naturale, sarà molto più adatto per i Gentili da convertire, oltre che per gli stessi Ebrei. Gioacchino argomenta ancora che tra i segni in potere dei due testimoni ci sono il convertire l’acqua in sangue e il percuotere la terra con ogni sorta di piaga (Ap 11, 5-6), che sono attributi propri di Mosè, ma Olivi ribatte che ciò non toglie possano essere propri anche di Enoch. Gioacchino infine propone in subordine che i testimoni siano in realtà tre – Elia, Mosè e Enoch -, ma Olivi sottolinea che se in altri luoghi scritturali prevale il mistero trinitario, in questo caso, come in molti altri, la lettera conferma trattarsi di un mistero fondato sul numero due.
Elia ed Enoch hanno caratteristiche differenti. Così risulta dalla collazione di Ap 11, 3 (i due testimoni) con Ap 14, 14.17 (i due angeli con la falce, il primo simile al Figlio dell’uomo, l’altro uscente dal tempio che è in cielo). Elia è più dedito al governo e ai patimenti, come san Pietro; Enoch, come san Giovanni, alla contemplazione e alla pace. Il primo è ardente e feroce nello zelo contro i reprobi, il secondo più mite e soave nel raccogliere la messe degli eletti. Uno è occulto eremita che negli arcani del cielo imita la vita degli angeli e, allorché se ne distacca, scuote i cuori con il timore. L’altro rappresenta l’ordine di coloro che imitano la vita di Cristo ed è dato alle genti in modo manifesto per la loro utilità ed erudizione. Uno è fuoco ardente nell’amore e nello zelo divino, l’altro pioggia che riga la superficie terrestre nella perfezione della carità fraterna. Lo sdoppiamento ripete quanto detto a proposito dell’angelo del capitolo decimo, che ha la faccia come il sole. A questi due testimoni Olivi aggiunge comunque un terzo elemento, l’ordine dei santi evangelici, rappresentati da Giovanni che riceve il libro e viene destinato a predicare ai popoli e alle genti e a misurare il tempio, ossia a governare la Chiesa (Ap 10, 11; 11, 1-2). Così Enoch designa la legge naturale, Elia quella mosaica e Giovanni il tempo della grazia.
Come avviene con l’angelo del sesto sigillo e con l’angelo che ha la faccia come il sole, anche nel caso dei due testimoni i temi, nella trasformazione poetica, non vengono concentrati su un unico personaggio, ma variamente diffusi e appropriati. Se Elia, uomo evangelico ardente e feroce nel segare i reprobi vendemmiando, si avvicina al Veltro che caccerà la lupa e la rimetterà nell’inferno, Dante, che assume su di sé il compito di Giovanni e dell’ordine evangelico, di predicare di nuovo ai popoli e alle genti (Ap 10, 11), ha almeno due prerogative proprie di Enoch, l’altro testimone. Come di costui è scritto, nel Genesi  (5, 24) e nella Lettera agli Ebrei  (11, 5), che venne trasportato via in modo da non vedere la morte, perché riservato ad alto officio alla fine dei tempi, così del poeta dice Virgilio a Catone: “Questi non vide mai l’ultima sera” (Purg. I, 58), essendogli stata riservata un’onorata impresa alla fine dei tempi. Enoch fu contemporaneo di Adamo, e Dante nel cielo delle stelle fisse incontra “l’anima prima / che la prima virtù creasse mai” (Par. XXVI, 80-142).
Dei due testimoni si dice (Ap 11, 3) che «“prophetabunt amicti saccis”, id est vestibus cilicinis vel asperis et pauperculis», a significare l’austerità della vita religiosa. Essi sono (Ap 11, 4) “due olive”, pingui di carità e ripieni dell’unzione divina e di soavità, “et duo candelabra lucentia” spandenti per tutta la Chiesa il lume della sapienza divina che portano in modo alto e preclaro, “in conspectu Domini terre stantes”, cioè assistono sempre Dio sia per la singolare contemplazione che per il servigio di una pronta obbedienza e ossequio. Secondo Gioacchino da Fiore, sia qui come in Zaccaria 4, 14 si dice di costoro che ‘stanno nel cospetto del Signore della terra’ perché sono venuti per questo, e andranno davanti al volto di Cristo per annunziare la venuta di un tempo nel quale è necessario che il Figlio di Dio regni su tutta la terra, cosicché gli uomini siano illuminati come da candelabri luminosi e il cuore degli eletti venga unto dalla grazia e dalla dottrina spirituale come da lampade colme di olio santo. Con il “Signore della terra” può essere anche designato l’Anticristo, che allora dominerà da usurpatore la terra e i terreni, di fronte al quale i due resisteranno con costanza ammonendolo da parte di Dio, come fecero Mosè e Aronne di fronte al Faraone e Pietro e Paolo di fronte a Nerone. Inoltre vengono detti stare nel cospetto del Signore come due candelabri luminosi o due luci stanno davanti a un signore o dinanzi all’altare di Dio uno a destra e l’altro a sinistra, o come due prìncipi e consiglieri che stanno e incedono uno a destra e uno a sinistra al cospetto di un gran re.
Il loro insegnamento sarà così alto e umile da non poter piacere ai carnali, i quali non potranno gustarlo e, conseguentemente, neppure intenderlo. Con la loro dottrina e vita accenderanno gli avversari di invidia e di indignazione, cosicché non potranno apprezzarle e amarle, ma piuttosto disprezzarle e impugnarle. La loro virtù sarà efficace contro gli avversari, in quanto potranno operare segni e prodigi (Ap 11, 5-6).
Olivi osserva (Ap 10, 1) che alcuni (Riccardo di San Vittore) dicono che l’angelo dal volto solare (di cui si tratta nel capitolo X) deve essere Cristo perché solo a lui spetta aprire il libro, come è detto al capitolo quinto (Ap 5, 2-3). Non si nega, afferma il francescano, che sia lui il principale rivelatore del libro, in particolare in quanto è Dio che illumina interiormente le menti; nondimeno ordinò sotto di sé degli spiriti e degli uomini angelici per illuminare, come suoi ministri, gli esseri inferiori. Al modo con cui i sette angeli che suonano la tromba vanno interpretati come gli uomini angelici e i dottori e anche come gli spiriti angelici che presiedono ad essi, sebbene sia Cristo principalmente a insegnare tutte quelle cose significate col suono della tromba, così si deve intendere a proposito dell’angelo con la faccia come il sole.
Il testo di Olivi conduce a Par. XI, 35-36, dove si parla dei due prìncipi – Francesco e Domenico – ordinati dalla Provvidenza a guida della Chiesa. È da notare che se si collaziona il testo del capitolo X (Ap 10, 1) con quello del capitolo XI dove i due testimoni, Enoch ed Elia, sono definiti due candelabri luminosi che stanno al cospetto di Dio, come due prìncipi e consiglieri che stanno e incedono uno a destra e uno a sinistra al cospetto di un gran re (Ap 11, 4), si ritrovano complessivamente, tradotte dal latino in volgare, alcune parole contenute nei versi danteschi. Però il medesimo passo del capitolo X si accosta pure ad Inf. VII, 77-78, dove si dice che la Fortuna è “general ministra e duce” ordinata “a li splendor mondani”.
Se si collaziona ulteriormente con Ap 4, 4 (nella parte proemiale della seconda visione), cioè con il passo relativo ai ventiquattro seniori che circondano la sede divina come prìncipi, dodici da sinistra e dodici da destra, ordinati come muro e come servitori alla difesa della Chiesa, si ottengono altri accostamenti: la difesa della Chiesa da parte dei due campioni nelle parole di san Bonaventura (Par. XII, 106-107), il circuire la vigna proprio di Domenico (ibid., 86-87); l’essere ordinate le virtù cardinali, ninfe nell’Eden, come ancelle a Beatrice, che nel caso rappresenta la Chiesa (Purg. XXXI, 106-108); Iride (tema sia della sede, ad Ap 4, 3, come dell’angelo solare di Ap 10, 1) ancella di Giunone (Par. XII, 10-12); l’apprestarsi (l’ ‘aggirarsi’, come i seniori stanno “in circuitu”) dei diavoli alla difesa entro le mura della Città di Dite (Inf. VIII, 123).
Ventiquattro sono pure gli spiriti sapienti che circondano nel cielo del Sole, con due corone concentriche, Dante e Beatrice. I seniori che circondano la sede divina ad Ap 4, 4 sono, secondo Gioacchino da Fiore, i dodici apostoli per i quali i Gentili entrarono in Cristo e i dodici futuri evangelici per i quali Israele e l’intero orbe si convertiranno a Cristo.
Al passo di Ap 11, 4, relativo ai due testimoni e al loro stare “in cospetto del Signore della terra” (che può essere il Figlio di Dio oppure l’Anticristo), rinvia pure lo stare di Francesco, assetato di martirio, “ne la presenza del Soldan superba” ove “predicò Cristo e li altri che ’l seguiro” (Par. XI, 100-102). Che il Sultano sia inteso come “Dominus terre” si ricava anche dalle parole di Virgilio relative a Semiramìs (“tenne la terra che ’l Soldan corregge”, Inf. V, 60) [11]. I due testimoni “verranno per questo”, cioè per stare in presenza di Cristo “Dominus terre” e per annunciare essere prossimo il tempo in cui il Figlio di Dio regnerà sull’universa terra: il tema entra nella narrazione che Bonaventura fa della vita di Domenico: “Spesse fïate fu tacito e desto / trovato in terra da la sua nutrice, / come dicesse: ‘Io son venuto a questo’” (Par. XII, 76-78).
Da un “panno” strettamente francescano è dunque fatta la “gonna” per più soggetti. All’austerità della vita religiosa dei due testimoni rinviano il “vil ciliccio” che copre gli invidiosi purganti a Purg. XIII, 58, nonché “le rime aspre e chiocce” di Inf. XXXII, 1. Circa l’efficacia della loro virtù, Olivi pone la questione se essi faranno alla lettera segni e miracoli – come il non far piovere in qualche parte del mondo, o il bruciare i nemici con il fuoco che esce dalla bocca, o il percuotere la terra con ogni piaga e peste (Ap 11, 5-6) -, seguendo il modo della vendetta corporale propria dei santi dell’Antico Testamento, o se piuttosto non sia verosimile che essi seguiranno la mansuetudine evangelica tenuta da Cristo e dagli apostoli. La risposta è che essi saranno nel pieno potere di fare segni e miracoli, ma che opereranno solo quanto sarà conveniente e necessario. La questione ricorda la domanda sulla misericordia di Arrigo VII contenuta nella lettera ai Signori d’Italia – “Sed an non miserebitur cuiquam?” -, perché la maestà di Cesare sgorga dal fonte della pietà, anche se Cesare certo non plauderà alle audacie dei malvagi ma perseguiterà i recidivi fino alla loro distruzione come avvenne con Pompeo (Ep. V, 7-10). La compresenza delle parole conduce invece nel poema a un momento di vendetta corporale, cioè a Dante che, passeggiando sul ghiaccio di Cocito tra le teste dei traditori, percuote forte con il piede il volto di Bocca degli Abati, ‘pestandolo’ (deriva, per concordia fonica, dal percuotere con la piaga della ‘peste’) e accrescendo in tal modo la vendetta verso il traditore di Montaperti (Inf. XXXII, 76-81).

 

            Infanzia e maturità dell’Ordine evangelico

 

Trattando dell’apertura del sesto sigillo (Ap 6, 12), che ha quattro diversi inizi temporali, Olivi pone la questione del perché Francesco, angelo del sesto sigillo, non fu presente personalmente nel terzo (nel momento della nuova predicazione degli Spirituali) e nel quarto inizio (la distruzione di Babylon) della sua apertura, così come Cristo visse con i suoi apostoli nell’inizio della nuova legge al tempo della sua predicazione e crocifissione, corrispondente al terzo inizio. Così anche Pietro e Paolo furono martirizzati al tempo di Nerone e di Simon Mago e in cui la Giudea venne devastata da Vespasiano inviato da Nerone, momento corrispondente al quarto inizio, nel quale la chiesa carnale verrà percossa e appariranno l’undecimo corno della bestia (nella visione di Daniele, 7, 24), nuovo Nerone, e il grande Anticristo da tale corno esaltato come lo fu Simon Mago da Nerone. Dal tempo di Francesco (la cui conversione si colloca nel 1206) al terzo inizio (il momento in cui il suo Ordine consegue la piena maturità) trascorre infatti tutto il tredicesimo secolo.
Delle otto rationes fornite, di particolare interesse è la quarta. Cristo fu nel mondo poco tempo e infuse il suo alto spirito nei discepoli, istituendo la Chiesa, solo dopo la propria morte e resurrezione. Non ebbe bisogno di molto tempo per dotarsi della forza necessaria a sostenere la condanna da parte dei Giudei. L’Ordine evangelico rinnovato da Francesco, e il popolo da esso condotto, non poteva invece essere disposto a subire una condanna simile a quella di Cristo prima di essersi propagato e reso solenne in più generazioni (almeno due o tre) [12].
“Il mondo m’ebbe / giù poco tempo; e se più fosse stato, / molto sarà di mal, che non sarebbe”, inizia a dire Carlo Martello, morto nel 1295 (Par. VIII, 49-51; i versi 58-78 sono una vera e propria messa in poesia dell’esegesi dell’apertura del sesto sigillo). La conformità con Cristo, nella brevità della vita, si palesa ancora nel tema, proprio della chiesa di Filadelfia (Ap 3, 7), dell’essere diletti da Cristo. Come negli attivi anacoreti del quarto stato rifulse l’amore verso Cristo, così nei contemplativi del sesto rifulge il loro essere diletti da Cristo, non diversamente da quel che si dice di Pietro, che amò Cristo, e di Giovanni, che fu prediletto da Cristo. In tal modo prerogativa del sesto è di essere disposto a ricevere e a patire, e in ciò si differenzia dagli stati precedenti, disposti a fare e a dare. È questo tema che travasa nell’amore verso il poeta – “dilectus a Christo”, per quanto fosse stato anch’egli attivo (“Assai m’amasti”) – che l’angioino avrebbe portato fino ai frutti se fosse vissuto più a lungo (ibid., 55-57). Così si può dire di Stazio, il quale ha amato Virgilio, ed è stato poi da questi amato (dopo che Giovenale, arrivato nel Limbo, gli ha reso noto l’affetto: Purg. XXII, 13-18), o di Forese che molto amò la sua Nella, diletta da Dio (Purg. XXIII, 91-93).
Il tema della necessità di un lasso di tempo perché l’Ordine evangelico e il suo popolo siano disposti a ricevere l’alto spirito di Cristo è nelle parole con cui Beatrice nell’Empireo mostra a Dante il gran seggio “de l’alto Arrigo, ch’a drizzare Italia / verrà in prima ch’ella sia disposta” (Par. XXX, 133-138). Il ‘drizzare’ proviene dall’esegesi di Ap 11, 1, dove il “calamus” simile a una verga, che viene dato a Giovanni per misurare il Tempio, designa l’autorità nel governare propria dei pontefici e dei maestri, la virtù e la giustizia capace di correggere, drizzare e dirigere rettamente la Chiesa di Dio.
Ancora, come si afferma nell’ottava ratio al quesito, negli inizi del rinnovamento della vita evangelica vennero seminati errori spirituali contro di essa, i quali necessitano di tempo per emettere spine perfette e per gettare fuori tutto il veleno. Come Erode uccise i bambini per uccidere Cristo, così nell’infanzia dell’Ordine francescano il nuovo Erode costituito dai dottori carnali condannò lo stato della mendicità evangelica uccidendo molti buoni e teneri concetti. In attesa del secondo Erode, è necessario istruire gli eletti contro gli errori e le insidie, perché queste, nella tentazione ventura, feriscano di meno.
Beatrice, rimproverando Dante nell’Eden per essersi fatto subito attrarre dopo la sua morte dal desiderio di cose terrene “per lo primo strale / de le cose fallaci”, lo tratta come un fanciullo, più ingenuo di un “novo augelletto” che almeno aspetta due o tre colpi prima di diventare esperto dei pericoli: il poeta qui impersona il cammino di tirocinio dell’Ordine francescano che deve avvenire, almeno, in due o tre generazioni (ottava ratio), fino alla perfetta età virile (seconda ratio), che è il momento in cui Dante inizia il viaggio [13]. Così egli sta dinanzi alla donna muto e vergognoso, come un fanciullo nel pentimento, mentre Beatrice, nel chiedergli di alzare la barba, segno di virilità, usa un argomento ‘velenoso’ (Purg. XXXI, 49-75). I temi del “mal seme” e dell’infanzia sono pure presenti nel canto precedente, appropriato l’uno al “buon vigore terrestro” delle doti del poeta, l’altro agli “occhi giovanetti” della donna, diventati dopo la morte men cari e men graditi, come gli avversari della povertà evangelica sentono meno la necessità della rinuncia ai beni mondani (Purg. XXX, 118-123, 127-129). Sarà lo stesso Dante, ormai pienamente maturato, a chiedere a Cacciaguida di prepararlo alle insidie future, “ché saetta previsa vien più lenta” (Par. XVII, 27).
Come l’Italia, non disposta rispetto all’alto Arrigo, per cieca cupidigia si è resa simile “al fantolino / che muor per fame e caccia via la balia” (Par. XXX, 139-141), così Dante, rispetto a Beatrice, non ha aspettato la maturità per affrontare i pericoli e, fanciullo, ha smarrito “la diritta via”. Ma quali erano questi pericoli ai quali allude Beatrice, incontrati allorché “di carne a spirto era salita”? Nei versi essi sono presentati in varie forme: “via non vera” (Purg. XXX, 130), “imagini di ben … false” (ibid., 131), “memorie triste” (Purg. XXXI, 11), “fossi attraversati”, “catene” (ibid., 25), “agevolezze”, “avanzi” (ibid., 28), “le presenti cose / col falso lor piacer” (ibid., 34-35), “cosa mortale” (ibid., 53), “cose fallaci” (ibid., 56), “o pargoletta / o altra novità con sì breve uso” (ibid., 59-60). Questo non essere del tutto disposto, per il troppo riverire la sua donna, è ancora sottolineato da Beatrice a Purg. XXXIII, 19-21.
Da notare, nella sesta ratio ad Ap 6, 12, l’inciso “Christi persona et vita fuit exemplar totius ecclesie future”, da confrontare con la definizione che nella Monarchia  (III, xiv, 3) Dante dà della forma della Chiesa, cioè della sua natura: “Forma autem Ecclesie nichil aliud est quam vita Cristi, tam in dictis quam in factis comprehensa: vita enim ipsius ydea fuit et exemplar militantis Ecclesie, presertim pastorum, maxime summi, cuius est pascere agnos et oves”.

 

Tab. II.1

 

GIOACCHINO DA FIORE

Concordia, V 1, c. 14, Patschovsky 3, pp. 569, 2-9, 570, 1-7: “Futurum est enim, ut ordo unus convalescat in terra, similis Joseph et Salomonis … ut compleatur in eo promissio illa psalmi dicentis: Et dominabitur a mari usque ad mare, et a flumine usque ad terminos orbis terrarum (Ps 71, 8) … Hic est populus ille sanctus, ordo scilicet iustorum circa finem futurus, de quo in typo Salomonis dictum est … Ego ero illi in patrem et ipse erit michi in filium (2 Reg 7, 14)”; V 2, c. 10, Patschovsky 3, p. 744, 9-12: “Beatus est autem, aut erit, ordo ille, quem dominus diliget super omnes, utpote qui visione pacis fruiturus est et dominaturus a mari usque ad mare …”.

BONAVENTURA

Collationes in Hexaëmeron, XXII, 20-23, in Sancti Bonaventurae Sermones Theologici, Roma 1994 (Sancti Bonaventurae Opera, VII/1), pp. 410-412.

  1. In ordine contemplantium sunt tres ordines respondentes supremae Hierarchiae, quorum est divinis vacare. Intendunt autem divinis tripliciter: quidam per modum supplicatorium, quidam per modum speculatorium, quidam per modum sursumactivum. – Primo modo sunt illi qui se totos dedicant orationi et devotioni et divinae laudi, nisi aliquando, quando intendunt operi manuali seu labori ad sustentationem suam et aliorum, ut sunt ordo monasticus, sive albus, sive niger, ut Cisterciensis, Praemonstratensis, Carthusiensis, Grandimontensis, Canonici regulares. Omnibus istis datae sunt possessiones, ut orent pro illis qui dederunt. Huic respondent Throni.

OLIVI 

  1. Secundus est, qui intendit per modum speculatorium vel speculativum, ut illi qui vacant speculationi Scripturae, quae non intelligitur nisi ab animis mundis. Non enim potes noscere verba Pauli, nisi habeas spiritum Pauli; et ideo necesse est, ut sis sequestratus in deserto cum Moyse et ascendas in montem. – Huic respondent Cherubim. Hi sunt Praedicatores et Minores. Alii principaliter intendunt speculationi, a quo etiam nomen acceperunt, et postea unctioni. – Alii principaliter unctioni et postea speculationi. Et utinam iste amor vel unctio non recedat a Cherubim. – Et addebat quod beatus Franciscus dixerat, quod volebat, quod fratres sui studerent, dummodo facerent prius, quam docerent. Multa enim scire et nihil gustare quid valet?

  1. Tertius ordo est vacantium Deo secundum modum sursumactivum, scilicet ecstaticum seu excessivum. – Et dicebat: Quis enim iste est? Iste est ordo seraphicus. De isto videtur fuisse Franciscus. Et dicebat, quod etiam antequam haberet habitum, raptus fuit et inventus iuxta quandam sepem. – Hic enim est maxima difficultas, scilicet in sursumactione, quia totum corpus enervatur, et nisi esset aliqua consolatio Spiritus sancti, non sustineret. Et in his consummabitur Ecclesia. Quis autem ordo iste futurus sit, vel iam sit, non est facile scire.

  1. Primus ordo respondet Thronis, secundus Cherubim; tertius Seraphim, et isti sunt propinqui Ierusalem et non habent nisi evolare. Iste ordo non florebit, nisi Christus appareat et patiatur in corpore suo mystico. – Et dicebat, quod illa apparitio Seraph beato Francisco, quae fuit expressiva et impressa, ostendebat, quod iste ordo illi respondere debeat, sed tamen pervenire ad hoc per tribulationes. Et in illa apparitione magna mysteria erant.

– Sic ergo distinguuntur isti ordines secundum maiorem et minorem perfectionem; comparatio autem est secundum status, non secundum personas; quia una persona laica aliquando perfectior est quam religiosa.

 LSA, cap. VI, Ap 6, 12 (IIa visio, apertio VIi sigilli) […]

Secunda ratio est quia persone Christi correspondet in sexta apertione unus ordo plurium personarum sic secundum suam proportionem augendus, sicut Christus secundum suum corpus fuit usque ad perfectam etatem viriliter auctus. […]

Quarta est quia […]. Nisi autem ordo evangelicus, per Franciscum renovatus, esset in multis et saltem sub duabus vel tribus generationibus propagatus et sollempnizatus, non esset nec ipse nec populus ab eo ducendus sufficienter dispositus ad tam autenticam condempnationem condempnationi Christi consimilem subeundam. […]

LSA, cap. VII, Ap 7, 2 (IIa visio, apertio VIi sigilli)  Item per ipsum intelligitur cetus discipulorum eius in tertio et quarto initio sexte apertionis futurus et consimiliter ab ortu solis ascensurus, quibus eius exemplar et meritum et virtuale de celo regimen singulariter coassistet, ita ut quicquid boni per eos fiet sit sibi potius ascribendum quam eis.
Audivi etiam a viro spirituali valde fide digno, et fratri Leoni confessori et socio beati Francisci valde familiari, quoddam huic scripture consonum, quod nec assero nec scio nec censeo asserendum, scilicet quod tam per verba fratris Leonis quam per propriam revelationem sibi factam perceperat Franciscum in illa pressura temptationis babilonice, in qua eius status et regula quasi instar Christi crucifigetur, resurget gloriosus, ut sicut in vita et in crucis stigmatibus Christo singulariter assimilatus, sic et in resurrectione Christo assimiletur, necessaria autem tunc discipulis confirmandis et informandis, sicut Christi resurrectio fuit necessaria apostolis confirmandis et super fundatione et gubernatione future ecclesie informandis.

[LSA, cap. X, Ap 10, 11 (IIIa visio, VIa tuba)] Sequitur: (Ap 10, 11) “Et dixit michi: Oportet te iterum prophetare in gentibus et populis et linguis et regibus multis”. In ipsa sapientia libri expresse continetur quod oportet iterum predicari evangelium in toto orbe, et Iudeis et gentibus, et totum orbem finaliter converti ad Christum. Sed quod per istum hoc esset implendum non poterat sciri nisi per spiritualem revelationem, et hoc dico prout per Iohannem designantur hic singulares persone quia, prout per ipsum designatur in communi ordo evangelicus et contemplativus, scitur ex ipsa intelligentia libri quod per illum ordinem debet hoc impleri.

OLIVI

Quaestio de altissima paupertate, in quinta parte responsionis, ed. J. Schlageter, Das Heil der Armen und das Verderben der Reichen. Petrus Johannis Olivi OFM. Die Frage nach der höchsten Armut, Werl/Westfalen 1989 (Franziskanische Forschungen, 34), pp. 151-152.

Si tamen quis contra hoc dicat quod secundum hoc status Christi et Apostolorum qui fuerunt in primo tempore ecclesiae, esset inferior statu sexti et septimi temporis: scire debet qui hoc dicit, quod Christus secundum aliquid est quasi pars, si tamen pars prioris temporis, secundum aliquid vero finalis temporis, simpliciter tamen ipse est caput universale omnis temporis. Sicut non est dubium quod ipse secundum aliquid et prius fuit sub Lege, antequam evidenter in se inchoaret statum ecclesiae, quando scilicet baptizatus est. Christus igitur quantum ad fundamentalem plantationem fidei seu Novi Testamenti et ecclesiae stat convenienter in primo eius tempore, quantum vero ad plenitudinem spiritualis suae inhabitationis et praesentiae quae est per vitam perfecte christiformem, magis aspicit sextum tempus et septimum quam primum. Omnes tamen status ecclesie aspicit secundum varias influentias et aspectus. Et sic etiam est de Apostolis Christi et discipulis qui fuerunt quaedam universalia vasa eius. Nec mireris in hac re, quia fere simile invenies in omni propagatione naturae. Finis enim plantarum et ultimum est fructuosum semen earum, ex quo postea nascitur planta consimilis quae in sui fine gignit semen pro posse semini priori consimile. Similiter: cum homo est virilis aetatis seu tricenarius, est plene potens procreare prolem sibi consimilem quae tamen sibi perfecte non assimilatur, usquequo est in fine crescentis et perfectae aetatis scilicet tricenarie. Sic nec arca perfecte assimilatur arcae quae est in mente artificis nisi in consummatione sua. Et tamen intellectus completus artificis plus aspicit finem arcae quam initium qui tamen, si non esset ab initio simul totus, non posset perfecte etiam inchoare suum opus. Et ideo oportuit Christum cum suis Apostolis cum totali perfectione in principio fundationis ecclesiae apparere, quamvis consummatio perfectionis eorum magis aspiceret tempora ecclesiae finalia quam primordialia. Ad istam autem difficultatem plura et plura non modicum profunda nec modicae sapientiae dici possent, nisi prolixitas contrarium suaderet.

 

[LSA, cap. VI, Ap 6, 12 (IIa visio, apertio VIi sigilli)] Hoc igitur commemorato, est adhuc notandum a quo tempore debeat sumi initium huius sexte apertionis. Videtur enim quibusdam quod ab initio ordinis et regule sancti patris prefati;

aliis vero quod a sollempni revelatione tertii status generalis continentis sextum et septimum statum ecclesie facta abbati Ioachim, et forte quibusdam aliis sibi contemporaneis;

aliis vero quod ab exterminio Babilonis, id est ecclesie carnalis, per decem cornua bestie, id est per decem reges, fiendo (cfr. Ap 17, 12/16);

aliis vero quod a suscitatione spiritus seu quorundam ad spiritum Christi et Francisci, tempore quo eius regula est a pluribus nequiter et sophistice impugnanda et condempnanda ab ecclesia carnalium et superborum, sicut Christus condempnatus fuit a sinagoga reproba Iudeorum. Hoc enim oportet preire temporale exterminium Babilonis, sicut Christi et suorum condempnatio a Iudeis preivit temporale exterminium sinagoge.

Sciendum autem quattuor sententias predictas sane assumptas non esse sibi contrarias, sed concordes. Sicut enim Luchas inchoat Christi evangelium a sacerdotio Zacharie, cui facta est prophetica revelatio de Christo statim venturo et de Iohanne eius immediato precursore; Mattheus vero ab humana Christi generatione; Marchus vero a Christi et Iohannis predicatione; Iohannes vero a Verbi eternitate et eterna generatione, sic hec sexta apertio sumpsit quoddam prophetale initium a revelatione abbatis et consimilium; a renovatione vero regule evangelice per servum eius Franciscum sumpsit sue generationis et plantationis initium; a predicatione vero spiritualium suscitandorum et a nova Babilone reprobandorum sumet initium refloritionis seu repullulationis; a destructione vero Babilonis sumet initium sue clare distinctionis a quinto statu et sue distincte clarificationis, iuxta quod et dicimus legalia quantum ad obligationem necessariam fuisse mortificata in Christi passione et resurrectione et tandem sepulta et effecta mortifera in evangelii pl[e]na promulgatione et in templi legalis per Titum et Vespasianum destructione.
Similia etiam reperies in prophetis. Nam initium septuaginta annorum captivitatis babilonice et desolationis templi per Caldeos facte sumitur uno modo a tertio decimo anno regni Iosie, sub quo cepit Ieremias eam prophetare (cfr. Jr 1, 2; 25, 3), et terminatur in primo anno Ciri regis. Alio vero modo sumitur ab ipsa destructione templi et terminatur secundo anno Darii filii Idaspis, sicut patet Zacharie I° (Zc 1, 1).

Purg. XXXII, 52-60; XXXIII, 142-145

Come le nostre piante, quando casca
giù la gran luce mischiata con quella
che raggia dietro a la celeste lasca,
turgide fansi, e poi si rinovella
di suo color ciascuna, pria che ’l sole
giunga li suoi corsier sotto altra stella;
men che di rose e più che di vïole
colore aprendo, s’innovò la pianta,
che prima avea le ramora sì sole.

Io ritornai da la santissima onda
rifatto sì come piante novelle
rinovellate di novella fronda
,
puro e disposto a salire a le stelle.

Par. XII, 139-141

Rabano è qui, e lucemi dallato
il  calavrese abate Giovacchino
di spirito profetico dotato.

 

Tab. II.2

Inf. XXXII, 1-3, 76-81

S’ ïo avessi le rime aspre e chiocce,
come si converrebbe al tristo buco
sovra ’l qual pontan tutte l’altre rocce

se voler fu o destino o fortuna,
non so; ma, passeggiando tra le teste,
forte percossi ’l piè nel viso ad una.
Piangendo mi sgridò: “Perché mi peste?
se tu non vieni a crescer la vendetta
di Montaperti, perché mi moleste?”.

Purg. XIII, 58

Di vil ciliccio mi parean coperti

Ep. V, 7-10: [3] Sed an non miserebitur cuiquam? Ymo ignoscet omnibus misericordiam implorantibus, cum sit Cesar et maiestas eius de Fonte defluat pietatis. Huius iudicium omnem severitatem abhorret, et semper citra medium plectens, ultra medium premiando se figit. Anne propterea nequam hominum applaudet audacias, et initis presumptionum pocula propinabit? Absit, quoniam Augustus est. Et si Augustus, nonne relapsorum facinora vindicabit, et usque in Thessaliam persequetur, Thes-saliam, inquam, finalis deletionis?

[LSA, cap. XI, Ap 11, 3-6 (IIIa visio, VIa tuba)] Deinde subditur religiosa austeritas eorum cum precellentia gratie et officii et virtutis eorum, dicens quod “prophetabunt amicti saccis”, id est vestibus cilicinis vel asperis et pauperculis. “Hii sunt due olive” (Ap 11, 4), id est pinguedine caritatis et divine unctionis et suavitatis pleni; “et duo candelabra lucentia”, id est lumen divine sapientie in se alte et preclare gestantes et toti ecclesie expandentes. “In conspectu Domini terre stantes”, id est tam per singularem contemplationem quam per prompte obedientie et obsequii famulatum semper Deo assistentes.
Et secundum Ioachim, ideo tam hic quam in Zacharia, capitulo scilicet IIII° (Zc 4, 14), dicitur de istis quod sunt in conspectu Domini terre stantes”, quia ad hoc venturi sunt et ante faciem Christi ituri, ut annuntient advenisse tempus in quo oportet regnare Filium Dei in universa terra, ita ut tamquam de candelabris lucentibus illuminentur homines et tamquam de lampadibus oleo sancto plenis inungantur corda electorum spiritali gratia et doctrina. Vel si per “dominum terre” intelligatur Antichristus tunc usurpatorie dominans terre et terrenis, constat quod isti stabunt coram eo tamquam sibi constanter resistentes et tamquam ipsum auctorizabiliter ex parte Dei monentes, sicut Moyses et Aaron steterunt coram Pharaone et Petrus et Paulus coram Nerone imperatore*.
Primum tamen videtur magis de mente littere, quia in scriptura non est consuetum quod sancti dicantur stare in conspectu regis mundani, et tamen consuetum est dici stare eos in conspectu Dei.
Preterea hic dicuntur stare in conspectu Domini sicut duo candelabra lucentia seu duo luminaria stant coram uno Domino seu coram altari Dei unum a dextris et aliud a sinistris, vel sicut duo principes vel consiliarii unius magni regis stant et incedunt coram eo unus a dextris et alius a sinistris.
Deinde subdit de efficacia virtutis eorum contra adversarios, ibi: “Et si quis eos voluerit nocere, ignis exiet de ore illorum” et cetera (Ap 11, 5). Super quo posset queri an ad litteram faciant huiusmodi visibilia signa seu miracula. Videtur enim quod non, tum quia non est verisimile quod in totis tribus annis et dimidio, in quibus predicabunt, non pluat in aliqua parte orbis, aut quoad litteram ignis exeat de ore eorum et comburat eorum inimicos, aut quod terram percutiant omni corporali plaga et peste, tum quia verisimilius est quod ipsi sequantur mansuetudinem et evangelicam formam Christi et apostolorum et signorum eius quam quod sequantur modos corporalis vindicte per sanctos veteris testamenti visibiliter explete, tum quia si tanta et talia signa plagarum super Antichristum et suos facerent, videtur quod saltem timore plagarum potius faveret eis totus orbis quam Antichristo, et tamen valde pauci erunt tunc sequaces eorum respectu sequentium Antichristi. Potest dici primo quod hic non dicitur quod ipsi faciant ne pluat tempore predicationis eorum, aut quod convertant aquas in sanguinem, vel percutiant terram plagis, sed solum dicitur quod habent potestatem hec faciendi cum voluerint (cfr. Ap 11, 6). In quo intelligitur quod habebunt plenam potestatem faciendi miracula, non tamen facient nisi quantum decuerit et expedierit, quia nec ipsi volent facere signa vana vel inexpedientia nec sub aliquo modo vano et inutili. Unde et Ioachim dicit quod hec minime fient secundum litteram, sed solum spiritaliter**.
Secundo dicendum quod per tria signa hic specificata et per quartum, scilicet de omni plaga, generaliter positum, designantur spiritualia signa. Nam per primum, de igne adversarios devorante, significatur spiritalis et ignea et superfervida doctrina eorum aperte confundens et convincens errores et vitia hostium suorum, et etiam efficaciter retundens impios affectus et conatus eorum; et in eos, quod a suis erroribus et peccatis ad Christum convertens, consument et occident illorum vitia et errores. […] Isti enim sic alta et alte docebunt, et sic humilia et humillime, quod carnalibus et superbis non poterunt placere ac sapere ac per consequens nec intelligi. […]

* Expositio, pars III, f. 149ra.

** Expositio, pars III, f. 149rb.

Inf. VII, 77-81

Similemente a li splendor mondani
ordinò general ministra e duce
che permutasse a tempo li ben vani
di gente in gente e d’uno in altro sangue,
oltre la difension d’i senni umani

[LSA, cap. X, Ap 10, 1 (IIIa visio, VIa tuba)] Quod autem quidam dicunt hunc angelum esse Christum, quia solius ipsius est aperire librum, prout dicitur supra capitulo quinto (Ap 5, 2-3/9), non negamus quin ipse sit principalis reserator libri et precipue in quantum est Deus illuminans interius mentes, sed nichilominus ordinavit sub se angelicos spiritus et angelicos homines ad ministerialiter illuminandum inferiores. Qua ergo ratione per septem angelos tuba canentes intelliguntur angelici homines et doctores et etiam spiritus angelici eis presidentes, quamquam Christus principaliter doceat omnia que per tubicinationes angelorum docentur, eadem ratione debet consimiliter intelligi in proposito.

Inf. V, 58-60

Ell’ è Semiramìs, di cui si legge
che succedette a Nino e fu sua sposa:
tenne la terra che ’l Soldan corregge.

Par. XXVII, 22-24

Quelli ch’usurpa in terra il luogo mio,
il luogo mio, il luogo mio che vaca
ne la presenza del Figliuol di Dio

Inf. VIII, 121-123

E a me disse: “Tu, perch’ io m’adiri,
non sbigottir, ch’io vincerò la prova,
qual ch’a la difension dentro s’aggiri.” 

Purg. XXXI, 106-108

Noi siam qui ninfe e nel ciel siamo stelle;
pria che Beatrice discendesse al mondo,
fummo ordinate a lei per sue ancelle.

Par. XI, 28-36, 100-102 

La provedenza, che governa il mondo
con quel consiglio nel quale ogne aspetto
creato è vinto pria che vada al fondo,
però che andasse ver’ lo suo diletto
la sposa di colui ch’ad alte grida
disposò lei col sangue benedetto,
in sé sicura e anche a lui più fida,
due principi ordinò in suo favore,
che quinci e quindi le fosser per guida.

E poi che, per la sete del martiro,
ne la presenza del Soldan superba
predicò Cristo e li altri che ’l seguiro

Par. XII, 10-12, 76-78, 85-87, 94-96, 106-108

Come si volgon per tenera nube
due archi paralelli e concolori,
quando Iunone a sua ancella iube

Spesse fïate fu tacito e desto
trovato in terra da la sua nutrice,
come dicesse: ‘Io son venuto a questo’.

in picciol tempo gran dottor si feo;
tal che si mise a circüir la vigna
che tosto imbianca, se ’l vignaio è reo.

addimandò, ma contro al mondo errante
licenza di combatter per lo seme
del qual ti fascian ventiquattro piante.

Se tal fu l’una rota de la biga
in che la Santa Chiesa si difese
e vinse in campo la sua civil briga

[LSA, cap. IV, Ap 4, 4 (radix IIe visionis)] “Et in circuitu sedis sedilia viginti quattuor” (Ap 4, 4), scilicet erant, nobiles quidem sedes prima tamen longe inferiores; “et super sedilia”, scilicet erant, “viginti quattuor seniores sedentes, circumamicti stolis albis, et in capitibus eorum corone auree”. […]
Per istos igitur anagogice designantur celestes angeli et potissime supremi; allegorice autem prophete et apostoli ceterique prelati, per quorum documenta et consilia a Deo accepta regitur universa ecclesia. Vel secundum Ioachim, duodecim apostoli per quos ecclesia de gentibus intravit ad Christum, et alii duodecim futuri evangelici per quos omnis Israel et iterum totus orbis convertetur ad Christum*.
Dicuntur autem esse “in circuitu sedis”, quia ad defensionem et protectionem sancte matris ecclesie ordinati sunt quasi murus eius et etiam sicut famuli eius. Sicut enim sedes Dei integratur ex ecclesia plenitudinis gentium et ex finali ecclesia reliquiarum Iudeorum et gentium tamquam ex parte sinistra et dextera, sic duodecim principes unius partis stant ad sinistram sedis et duodecim principes alterius partis stant ad dexteram eius.

* Expositio, pars II, f. 103ra-b.

 

Tab. II.3

[LSA, cap. VI, Ap 6, 12 (IIa visio, apertio VIi sigilli)]

[secunda ratio] Secunda ratio est quia persone Christi correspondet in sexta apertione unus ordo plurium personarum sic secundum suam proportionem augendus, sicut Christus secundum suum corpus fuit usque ad perfectam etatem viriliter auctus. […]

[quarta ratio] Quarta est quia, prout super evangelia ostendi, Christus parvo tempore debuit inter nos vivere et pauciori predicare, nec suis discipulis altum spiritum debuit dare usque post eius mortem et resurrectionem, ac per consequens nec ecclesiam suam sollempniter instituere per eosdem, nec ipse per se eguit multo tempore roborari ad sustinendum condempnationem a summis pontificibus Iudeorum et ab omnibus consentientibus eis. Nisi autem ordo evangelicus, per Franciscum renovatus, esset in multis et saltem sub duabus vel tribus generationibus propagatus et sollempnizatus, non esset nec ipse nec populus ab eo ducendus sufficienter dispositus ad  tam autenticam condempnationem condempnationi Christi consimilem subeundam. […]

[octava ratio] Octava ratio est quia spiritales errores contra regulam evangelicam oportuit prius callide et fortiter seminari et radicari antequam perfectas spinas emittant et priusquam evomant suum totale venenum. Institutio autem ordinis evangelici et regule eius dedit multis occasionem invidie et zeli amari contra ipsam et excogitandi contraria sibi. Unde et sicut primus Herodes necavit infantes ut occideret Christum infantem, sic circa primordialem infantiam huius ordinis regibus mundi devote adorantibus Christi paupertatem in ipso, novus Herodes doctorum carnalium dampnavit statum evangelice mendicitatis. Ex quo multi boni et teneri conceptus in pluribus sunt necati, isteque error varias radices misit et mittet usquequo surgat secundus Herodes, oportuit etiam, ut contra, electos per oppositum zelum et exercitium erudiri contra huiusmodi errorum fundamenta et machinamenta, ut in die temptationis minus feriantur et concutiantur a iaculis iam premissis.

[Ap 7, 3 (IIa visio, apertio VIi sigilli; septima ratio)] Septimo quia prius expedit tirones intra suos exerceri et probari, antequam mittantur longe ad universalia bella cum extrinsecis gentibus totius orbis committenda. Unde et istum ordinem Christus servavit in apostolis suis. Nam primo dixit eis: “In viam gentium ne abieritis, sed ite ad oves domus Israel” (Mt 10, 5-6). Dixit etiam: “Sedete in civitate donec induamini virtute ex alto” (Lc 24, 49).

Purg. XXX, 118-126

Ma tanto più maligno e più silvestro
si fa ’l terren col mal seme e non cólto,
quant’ elli ha più di buon vigor terrestro.
Alcun tempo il sostenni col mio volto:
mostrando li occhi giovanetti a lui,
meco il menava in dritta parte vòlto.
Sì tosto come in su la soglia fui
di mia seconda etade e mutai vita,
questi si tolse a me, e diessi altrui.

Purg. XXXI, 25-27, 43-46, 58-65, 74-75                                 

quai fossi attraversati o quai catene
trovasti, per che del passare innanzi
dovessiti così spogliar la spene?

Tuttavia, perché mo vergogna porte
del tuo errore, e perché altra volta,
udendo le serene, sie più forte,
pon giù il seme del piangere e ascolta

“Non ti dovea gravar le penne in giuso,
ad aspettar più colpo, o pargoletta
o altra novità con sì breve uso.
Novo augelletto due o tre aspetta;
ma dinanzi da li occhi d’i pennuti
rete si spiega indarno o si saetta”.
Quali fanciulli, vergognando, muti
con li occhi a terra stannosi, ascoltando

e quando per la barba il viso chiese,
ben conobbi il velen de l’argomento.

Purg. XXXIII, 19-21

e con tranquillo aspetto “Vien più tosto”,
mi disse, “tanto che, s’io parlo teco,
ad ascoltarmi tu sie ben disposto”.

Par. VIII, 49-51

Così fatta, mi disse: “Il mondo m’ebbe
giù poco tempo; e se più fosse stato,
molto sarà di mal, che non sarebbe.”

Par. XXX, 133-141

E ’n quel gran seggio a che tu li occhi tieni
per la corona che già v’è sù posta,
prima che tu a queste nozze ceni,
sederà l’alma, che fia giù agosta,
de l’alto Arrigo, ch’a drizzare Italia      11, 1
verrà in prima ch’ella sia disposta.
La cieca cupidigia che v’ammalia
simili fatti v’ha al fantolino
che muor per fame e caccia via la balia.

[Ap 6, 12; sexta ratio] Sexta est quia sicut Christi persona et vita fuit exemplar totius ecclesie future, sic decuit quod prima pars huius ordinis usque ad excidium Babilonis esset typica imago totius partis sequentis, ut scilicet principium corresponderet principio et medium medio et terminus termino.

Monarchia III, xiv, 3: Forma autem Ecclesie nichil aliud est quam vita Cristi, tam in dictis quam in factis comprehensa: vita enim ipsius ydea fuit et exemplar militantis Ecclesie, presertim pastorum, maxime summi, cuius est pascere agnos et oves.

Par. XVII, 25-27

per che la voglia mia saria contenta
d’intender qual fortuna mi s’appressa:
ché saetta previsa vien più lenta.

Pskov (Federazione Russa) – Monastero Snetogorskij. Scene dall’Apocalisse (sec. XIV)

 

3. Evangelium aeternum  (Ap 14, 6)

 

Sulla questione dell’evangelium aeternum, Bonaventura afferma chiaramente: “Post novum testamentum non erit aliud, nec aliquod sacramentum novae legis subtrahi potest, quia illud testamentum aeternum est” [1].
Olivi, nell’esegesi di Ap 14, 6 – versetto dove suonano le parole “habentem evangelium eternum” -, non cita Gioacchino da Fiore, i cui scritti avrebbero dovuto sostituire la Scrittura secondo Gerardo da Borgo San Donnino [2]. Vi è solo una citazione di Riccardo di San Vittore. L’angelo, al quale il versetto si riferisce (il primo dei tre ad Ap 14, 6-12), designa i predicatori degli ultimi tempi (“nove legis”, dunque del Nuovo Testamento), la cui dottrina concernente il disprezzo del mondo, l’altissima povertà e la vita eterna, non è caduca ma, appunto, eterna.
La scritta sulla porta dell’inferno mostra temi provenienti dall’esegesi del primo dei tre angeli di Ap 14, 6-12. La prima “ratio motiva”, che cioè muove, il primo angelo (Ap 14, 6-7), è il timore della “potestativa deitas”; la seconda è la vicinanza del giudizio; la terza il riconoscere a Dio la creazione di tutte le cose; la predicazione di questo angelo è inoltre eterna e riguarda cose eterne. Sono motivi scritti sulla porta: “Giustizia mosse il mio alto fattore; / fecemi la divina podestate / … Dinanzi a me non fuor cose create / se non etterne, e io etterno duro” (Inf. III, 4-5, 7-8). Si rileva la corrispondenza, con in entrambi i casi la presenza avverbiale, tra “e io etterno duro” e “sempiternaliter … perdurat” ad Ap 19, 3 (cfr. Par. XV, 11-12).
All’esegesi dell’angelo rinviano le parole dell’aquila a Par. XIX, 40-42 (Dio creatore di tutte le cose), 106-108 (la prossimità del giudizio, variata come propinquità nel giudizio) nonché la prima alta e volante voce che esorta all’amore nel girone degli invidiosi purganti: «“volantem per medium celi” … “habentem evangelium eternum” … quia altius et ferventius predicabunt mundi contemptum et paupertatem altissimam et eternam vitam … non predicabit tepide vel remisse aut inefficaciter, immo modis omnino contrariis et supremis, unde subdit: “dicentem magna voce” …│ La prima voce che passò volando / ‘Vinum non habent’ altamente disse, / e dietro a noi l’andò reïterando» (Purg. XIII, 28-30).

Tab.III.1

[LSA, cap. XIV, Ap 14, 6-7 (IVa visio, VIum prelium)] “Et vidi alterum angelum” (Ap 14, 6). Hic subditur trina predicatio trini ordinis doctorum, per tres angelos designatorum non solum propter misterium Trinitatis sed etiam propter tria ad mundum convertendum vel plenius elevandum in Deum valde utilia.
Primus enim predicat tria que principaliter et necessario sunt agenda cum triplici ratione motiva. Tres enim actus Deo debemus nostre saluti et perfectioni necessarios.
Primo scilicet eius potestativum dominium timorate revereri omnemque eius offensam formidare,  fugere et vitare, et ideo dicit: “Timete Deum” (Ap 14, 7). In quo etiam tangitur prima ratio motiva, scilicet Dei maiestativa et potestativa deitas omnium gubernativa et omnibus presidens.
Secundo in omnibus operationibus et intentionibus nostris eius honorem et gloriam prosequi et intendere, unde subdit: “et date illi honorem”. Ubi et subditur secunda ratio motiva, scilicet imminens vicinitas et quasi presentialitas iudicii eius, qui in quantum malos dampnabit est super omnia metuendus, in quantum vero bonos remunerabit est super omnia diligendus et colendus. Licet autem hoc iudicium sit semper timendum et predicandum, precipue tamen tunc per maiorem et evidentiorem propinquitatem ipsius.
Tertio debemus ei subiectissimam recognitionem nostre creationis et recreationis tamquam nostro et omnium creatori, unde subdit: “et adorate eum qui fecit celum et terram, mare et omnia que in eis sunt, et fontes aquarum”.
Per “celum et terram” intendit mundi extrema, et per “mare” media; vel per “celum” statum beatorum, per “terram” vero statum fidelium huius vite, per “mare” autem locum infidelium. Addit autem, secundum Ricardum, “et fontes aquarum” ut monstret quod non solum maxima sed etiam minima creavit *. Vel per “mare” intelligit aquas salsas seu grandes congregationes aquarum, per “fontes” vero aquas dulces vel simplices et mistice sacros doctores.
Angelum autem hec predicantem eiusque predicationem magnificat quoad quattuor (Ap 14, 6-7).
Primo scilicet quantum ad eminentiam seu volatum celestis conversationis et contemplationis, cum ait (Ap 14, 6): “volantem per medium celi”.
Secundo quia eius doctrina non est terrena nec de temporalibus et caducis, sed potius eterna et de eternis, cum ait: “habentem evangelium eternum”. Licet enim omnium sanctorum nove legis sit talis, istorum tamen erit magis anthonomasice talis, quia altius et ferventius predicabunt mundi contemptum et paupertatem altissimam et eternam vitam.
Tertio quia eius predicatio non est ad solam unam gentem sed ad omnem et in totum orbem, unde subdit: “ut evangelizaret sedentibus super terram et super omnem gentem et tribum et linguam et populum”.
Quarto quia non predicabit tepide vel remisse aut inefficaciter, immo modis omnino contrariis et supremis, unde subdit (Ap 14, 7): “dicentem magna voce.

* In Ap IV, vii (PL 196, col. 813 A).

Inf. III, 4-8

Giustizia mosse il mio alto fattore;
fecemi la divina podestate,
la somma sapïenza e ’l primo amore.
Dinanzi a me non fuor cose create
se non etterne, e io etterno duro.

[LSA, cap. XIX, Ap 19, 3 (VIa visio)] Deinde redit ad explicandum effectum et signum prefati iudicii et vindicte dicens: “Et fumus eius”, id est tenebrosa amaritudo tormentorum eius, “ascendit in secula seculorum”, id est sempiternaliter  in sua altitudine et vivacitate perdurat.

Par. XV, 10-12

Bene è che sanza termine si doglia
chi, per amor di cosa che non duri
etternalmente
, quello amor si spoglia. 

Purg. XIII, 28-30

La prima voce che passò volando
Vinum non habent altamente disse,
e dietro a noi l’andò reïterando.

Par. XIX, 40-42, 106-108

Poi cominciò: “Colui che volse il sesto
a lo stremo del mondo, e dentro ad esso
distinse tanto occulto e manifesto …”

Ma vedi: molti gridan “Cristo, Cristo!”,
che saranno in giudicio assai men prope
a lui, che tal che non conosce Cristo 

 

L’esegesi di Ap 14, 6 può essere collazionata con quella dei versetti che precedono.
La quarta delle sette prerogative attribuite ai compagni dell’Agnello che stanno sul monte Sion è la magnificenza del cantico di giubilo, la cui voce o suono ha a sua volta sette proprietà (Ap 14, 2[3].
Il primo modo della voce è lì dove dice: “Poi udii una voce dal cielo” (Ap 14, 2), con il che intende che la voce, ovvero il risuonare del canto, era in eccesso sublime e celeste.
Il secondo modo sta nell’essere questa voce irrigua e feconda e procedente in modo concorde e unito da più affetti virtuali di un grande e numeroso collegio di santi, lì dove dice: “come la voce di molte acque”. La voce di una grande e abbondante pioggia procede infatti da molte e quasi innumerevoli gocce come un solo suono proveniente da un solo suonatore, e lo stesso si può dire del suono delle acque del mare o di un fiume. Suona come irrigando di lacrime che impinguano, lavano e rinfrescano e con sospiri che ruggiscono.
Il terzo modo consiste nell’essere la voce altissima, acutissima, possente al massimo nel suo pervadere e scuotere tutto, per cui soggiunge: “e come la voce di un grande tuono”.
Il tema della “vox aquarum multarum”, che nello stesso tempo è “unus sonus” (secondo modo), è appropriato nel cielo di Giove alla bella immagine dell’aquila, che Dante vede e anche sente parlare (citazione da Ap 8, 13: «“Et vidi et audivi vocem unius aquile volantis per medium celi”. Vidit quidem ipsam aquilam et audivit vocem ipsius.│ch’io vidi e anche udi’ parlar lo rostro»), la quale suona nella voce al singolare («e sonar ne la voce e “io” e “mio”») pur essendo formata da molti amori e dunque al plurale nel pensiero (“quand’ era nel concetto e ‘noi’ e ‘nostro’ ”), come un solo calore si fa sentire da molti carboni ardenti, come un unico profumo da molti fiori (Par. XIX, 10-12; 19-24). Il tema è ripreso all’inizio del canto successivo, allorché l’aquila tace e gli spiriti di cui è contesta iniziano a cantare, come il cielo, che di giorno solo del sole si accende, dopo il tramonto torna ad essere visibile per le molte luci delle stelle, nelle quali una sola luce, quella del sole, risplende (Par. XX, 1-12). Poi, cessati gli angelici squilli degli spiriti, è di nuovo l’aquila a parlare con voce che si forma nella gola ed esce “per lo suo becco in forma di parole, / quali aspettava il core ov’ io le scrissi” (ibid., 28-30): scrivere nel cuore il “nome” di Dio trino e uno e del Figlio incarnato è la terza prerogativa dei compagni dell’Agnello, di cui ad Ap 14, 1.
Questa voce una, che procede concordemente da molte voci (“ex magno et multo collegio sanctorum et plurium virtualium affectuum ipsorum procedens et concorditer unita”), formata da più individui che al tempo stesso trascende in quanto una, è un concetto teologico che veste l’immagine dell’aquila. Ma il procedere dell’aquila, uno e molteplice, ha un risvolto filosofico in quell’operazione propria dell’intera umanità alla quale i singoli, presi per sé, non possono pervenire, sulla quale Dante stava nel frattempo fondando la Monarchia: “Est ergo aliqua propria operatio humane universitatis, ad quam ipsa universitas hominum in tanta multitudine ordinatur; ad quam quidem operationem nec homo unus, nec domus una, nec una vicinia, nec una civitas, nec regnum particulare pertingere potest” (I, iii, 4). Questa moltitudine attua la più alta potenza dell’umanità, cioè la facoltà intellettiva e su ciò, afferma Dante, concorda Averroè nel commento al De anima di Aristotele (ibid., I, iii, 7-9). È questo esempio di come il rapporto fra la Commedia e la Lectura super Apocalipsim dell’Olivi sia volto alla ricerca di quella universale e superiore concordia in terra fra opposte fazioni cittadine, fra posizioni speculative o teologiche avverse, fra impero e papato sottolineata da Grundmann.
Cantano insieme “ad una voce” il salmo “In exitu Isräel de Aegypto” (Ps 113, 1) le più di cento anime che siedono nella navicella che le porta dalla foce del Tevere alla riva dell’isola del Purgatorio, guidata dal “celestial nocchiero, / tal che parea beato per iscripto” (Purg. II, 43-48; il tema della “patens inscriptio et expressio”, da Ap 14, 1, rende preferibile questa lezione a quella del Petrocchi “tal che faria beato pur descripto”).
Il “nome”, con il quale “famosa notitia designatur, que respectu Dei non reputatur nisi sit amativa”,  che ad Ap 14, 1 viene scritto nel cuore o sulla fronte, ed è espresso con le parole e con le opere, coincide con la “signatio” sulla fronte di quanti (nello stesso numero, 144.000, dei compagni dell’Agnello sul monte Sion) all’apertura del sesto sigillo (Ap 7, 3-4) vengono assunti alla professione della perfezione evangelica, di una più alta milizia cristiana; il segno comporta una loro maggiore configurazione e trasformazione nella passione di Cristo. Le anime giunte alla spiaggia del Purgatorio sono ‘segnate’ dall’angelo nocchiero (“Poi fece il segno lor di santa croce”, Purg. II, 49), si volgono verso Dante e Virgilio alzando la fronte (ibid., 58). Sono ben finiti, già spiriti eletti, dunque amici di Dio.
Ma c’è il caso di chi a Dio non è amico. “Frons vero est suprema pars faciei omnibus patula, et ideo quod est scriptum in fronte omnibus se prima facie offert, ita quod potest statim ab omnibus legi. In fronte etiam signa audacie vel sui oppositi cognoscuntur”. I motivi offerti dall’esegesi si ritrovano, scomposti e diversamente appropriati, nell’opposto atteggiarsi di Farinata (“ed el s’ergea col petto e con la fronte”) e di Cavalcante, che si rivolge a Dante piangendo per poi alla risposta ricadere supino nell’avello, in modo disperato. Anche per costui interviene in parte il tema dell’iscrizione sulla fronte, nel momento in cui, per “le sue parole e ’l modo de la pena”, il poeta riesce subito a ‘leggerne il nome’ senza che questi gli si palesi (Inf. X, 35, 64-65).
Il tema della voce una e molteplice risuona nel Limbo, dove la voce che onora l’altissimo poeta Virgilio onora tutti gli altri che hanno in comune il nome di poeta (Inf. IV, 91-93). Nella “bella scola”, formata da più poeti, uno parla a nome di tutti come avviene con l’aquila del cielo di Giove, e la voce è quella di Omero, “di quel segnor de l’altissimo canto / che sovra li altri com’ aquila vola” (ibid., 94-96; cfr. Ap 8, 13): il terzo modo della voce cantante è appunto di essere altissima, come quella di un tuono (cfr., a Par. XXI, 140-142, il grido con cui gli spiriti contemplanti confermano l’invettiva di Pier Damiani contro i prelati). Il “nome”, che designa l’esser noti per fama, è motivo che appartiene alla terza prerogativa dei santi che stanno con Cristo sul monte Sion, interpretato come “specula” in quanto designa lo stato dei contemplativi (Ap 14, 1).
Nella lettera dei versi si registrano anche signacula che inviano la mente ad Ap 14, 6-7, i versetti dell’evangelo eterno:

Secundo in omnibus operationibus et intentionibus nostris eius honorem et gloriam prosequi et intendere, unde subdit: “et date illi honorem”. […] Angelum autem hec predicantem eiusque predicationem magnificat quoad quattuor.  Primo scilicet quantum ad eminentiam seu volatum celestis conversationis et contemplationis, cum ait: “volantem per medium celi”. Secundo quia eius doctrina non est terrena nec de temporalibus et caducis, sed potius eterna et de eternis, cum ait: “habentem evangelium eternum”. Licet enim omnium sanctorum nove legis sit talis, istorum tamen erit magis anthonomasice talis, quia altius et ferventius predicabunt mundi contemptum et paupertatem altissimam et eternam vitam. Tertio quia eius predicatio non est ad solam unam gentem sed ad omnem et in totum orbem, unde subdit: “ut evangelizaret sedentibus super terram et super omnem gentem et tribum et linguam et populum”. Quarto quia non predicabit tepide vel remisse aut inefficaciter, immo modis omnino contrariis et supremis, unde subdit: “dicentem magna voce”.
Inf. IV, 76-81, 91-96: “L’onrata nominanza … Onorate l’altissimo poeta … fannomi onore, e di ciò fanno bene. / Così vid’ i’ adunar la bella scola / di quel segnor de l’altissimo canto / che sovra li altri com’ aquila vola.

Del particolare significato, connesso alla contemplazione, contenuto nell’esser “sospesi” si è detto altrove.

Tab. III.2

[LSA, cap. XIV, Ap 14, 1-2.6-7 (IVa visio)] Tertium est fidei et amoris et contemplationis Dei Patris et Filii humanati in istorum corde et ore singularis et patens inscriptio et expressio, unde subditur: “habentes nomen eius et nomen Patris eius scriptum in frontibus suis” (Ap 14, 1). Per “nomen” famosa notitia designatur, que respectu Dei non reputatur nisi sit amativa. Frons vero est suprema pars faciei omnibus patula, et ideo quod est scriptum in fronte omnibus se prima facie offert, ita quod potest statim ab omnibus legi. In fronte etiam signa audacie vel sui oppositi cognoscuntur. Est ergo sensus quod maiestas Dei trini et Filii humanati sic erat in cordibus istorum impressa et sic per apertam et constantem confessionem oris et operis expressa, quod ab omnibus poterat statim legi et discerni quod ipsi erant de familia Agni et singulares socii eius.
Nomen autem Spiritus Sancti non dicitur hic scriptum, quia in ipsa inscriptione subintelligitur. Nam inscriptio et infusio gratie sibi appropriatur, et dare Spiritum Sanctum nobis [est] nobis inscribere nomen Christi et Patris eius et e contrario. […]
Quartum est excessiva precellentia iubilator[ii] cantici  istorum, quam quidem septiformiter magnificat.

(1) Primo scilicet cum dicit: “Et audivi vocem de celo” (Ap 14, 2), in quo innuit quod vox seu resonantia cantici eorum erat excessive sublimis et celestis.

(2) Secundo quod erat irrig[u]a et fecunda et ex magno et multo collegio sanctorum et plurium virtualium affectuum ipsorum procedens et concorditer unita, cum dicit: “tamquam vocem aquarum multarum”. Vox enim magne et multe pluvie est ex multis  et quasi innumerabilibus guttis, proceditque quasi tamquam unus sonus et quasi ab uno sonante, et idem est de sono aquarum maris vel fluminis. Sonat etiam quasi cum irriguo pinguium et lavantium et refrigerantium lacrimarum et rugientium suspiriorum.

(3) Tertio quod erat altissima et acutissima et maxima et potentissima et omnia replens et concutiens, qualis scilicet est vox tonitrui magni. Unde subdit: “et tamquam vocem  tonitrui magni ”. […]

Secundo in omnibus operationibus et intentionibus nostris eius honorem et gloriam prosequi et intendere, unde subdit: “et date illi honorem” (Ap 14, 6). Ubi et subditur secunda ratio motiva, scilicet imminens vicinitas et quasi presentialitas iudicii eius, qui in quantum malos dampnabit est super omnia metuendus, in quantum vero bonos remunerabit est super omnia diligendus et colendus. Licet autem hoc iudicium sit semper timendum et predicandum, precipue tamen tunc per maiorem et evidentiorem propinquitatem ipsius. […] Angelum autem hec predicantem eiusque predicationem magnificat quoad quattuor (Ap 14, 6-7).
Primo scilicet quantum ad eminentiam seu volatum celestis conversationis et contemplationis, cum ait (Ap 14, 6): “volantem per medium celi”. Secundo quia eius doctrina non est terrena nec de temporalibus et caducis, sed potius eterna et de eternis, cum ait: “habentem evangelium eternum”. Licet enim omnium sanctorum nove legis sit talis, istorum tamen erit magis anthonomasice talis, quia altius et ferventius predicabunt mundi contemptum et paupertatem altissimam et eternam vitam.
Tertio quia eius predicatio non est ad solam unam gentem sed ad omnem et in totum orbem, unde subdit: “ut evangelizaret sedentibus super terram et super omnem gentem et tribum et linguam et populum”.
Quarto quia non predicabit tepide vel remisse aut inefficaciter, immo modis omnino contrariis et supremis, unde subdit (Ap 14, 7): “dicentem magna voce”.

Purg. II, 43-48

Da poppa stava il celestial nocchiero,
tal che parea beato per iscripto;
e più di cento spirti entro sediero.
In exitu Isräel de Aegypto
cantavan  tutti insieme ad una voce
con quanto di quel salmo è poscia scripto. 

Inf. IV, 76-81, 91-96

E quelli a me: “L’onrata nominanza
che di lor suona sù ne la tua vita,
grazïa acquista in ciel che sì li avanza”.
Intanto voce fu per me udita:
Onorate l’altissimo poeta;
l’ombra sua torna, ch’era dipartita”.

“Però che ciascun meco si convene
nel nome che sonò la voce sola,
fannomi onore, e di ciò fanno bene”.
Così vid’ i’ adunar la bella scola
di quel segnor de l’altissimo canto
che sovra li altri com’ aquila vola8, 13

Inf. X, 35, 58, 64-66

ed el s’ergea col petto e con la fronte

piangendo disse ……………………..

Le sue parole e ’l modo de la pena
m’avean di costui già letto il nome;
però fu la risposta così piena.

Par. XIX, 10-12, 19-25; XX, 1-6, 28-30

ch’io vidi e anche udi’ parlar lo rostro,
e sonar  ne la voce e “io” e “mio”,
quand’ era nel concetto e ‘noi’ e ‘nostro’.

Così un sol calor di molte  brage
si fa sentir, come di molti  amori
usciva solo un suon di quella image.
Ond’ io appresso: “O perpetüi fiori
de l’etterna letizia, che pur uno
parer mi fate tutti vostri odori,
solvetemi, spirando, il gran digiuno …”

Quando colui che tutto ’l mondo alluma
de l’emisperio nostro sì discende,
che ’l giorno d’ogne parte si consuma,
lo ciel, che sol di lui prima s’accende,
subitamente si rifà parvente
per molte luci, in che una risplende

Fecesi voce quivi, e quindi uscissi
per lo suo becco in forma di parole,
quali aspettava il core ov’ io le scrissi. 

Par. XXI, 139-142

Dintorno a questa vennero e fermarsi,
e fero un grido di sì alto suono,
che non potrebbe qui assomigliarsi;
né io lo ’ntesi; sì mi vinse il tuono.

Ad Ap 2, 7 Olivi spiega perché l’istruzione data al vescovo di Efeso, il metropolita delle sette chiese d’Asia, venga proposta come detta dapprima da Cristo e per ultimo dallo Spirito Santo. Ciò avviene per quattro motivi. Il primo è affinché essa sia intesa provenire da tutta la Trinità.
Il secondo è perché due sono i modi di questo insegnamento, uno per mezzo della voce esteriore, l’altro tramite l’ispirazione e la suggestione interiore: il primo spetta a Cristo in quanto uomo, il secondo alla sua divinità ed è appropriato allo Spirito Santo. Il primo modo predispone al secondo come al suo fine ed è inutile senza di esso. Di questi due modi parla Cristo in Giovanni 14, 25-26: “Queste cose vi ho detto rimanendo tra di voi. Ma il Consolatore, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, egli vi insegnerà ogni cosa e vi suggerirà tutto ciò che io vi ho detto”. A Cristo, in quanto Verbo e verbale sapienza del Padre, è appropriato anche il parlare interiore che avviene per mezzo della luce della semplice intelligenza. Il parlare che avviene tramite il gusto e il sentimento dell’amore è appropriato allo Spirito Santo. Il primo modo si pone rispetto al secondo come la disposizione materiale rispetto all’ultima forma.
Il terzo motivo, infatti, è perché il tempo da Cristo fino al sesto stato è appropriato a Cristo, a partire dal sesto stato è appropriato allo Spirito Santo.
Il quarto motivo è perché a muoverci sia una duplice autorità magistrale e una duplice solenne testimonianza: dapprima l’evidente esempio delle opere di Cristo mostrate nella sua umanità, poi la fiamma e l’efficacia dello Spirito.
Questa duplice autorità si ritrova in Inf. II, 94ss., nell’episodio delle “tre donne benedette” che curano del poeta nella corte del cielo. Nell’Empireo una “donna … gentil”, cioè la Vergine la quale, come detto nella quarta visione, partorisce di continuo il corpo mistico di Cristo (Ap 12, 2) e dunque “si compiange / di questo ’mpedimento”, cioè dell’ostacolo che impedisce il parto della buona prole (la salita del “dilettoso monte” impedita dalla lupa), ha chiamato Lucia, cioè la “lux simplicis intelligentie”, perché presti aiuto al poeta, suo devoto. Lucia, mossasi, si è recata da Beatrice, che siede “con l’antica Rachele” (la vita contemplativa), come l’ “interna locutio que fit per lucem simplicis intelligentie” predispone al suo fine e alla sua ultima forma, cioè al gusto e al sentimento dell’amore, che avviene per mezzo della fiamma e dell’efficacia dello Spirito Santo. Mossa da amore, Beatrice discende veloce all’ “uscio d’i morti”, cioè al Limbo, per muovere Virgilio.
Dante è mosso da due maestri. Virgilio, da una parte, è “voce esteriore”, assimilato a Cristo uomo; partecipa tuttavia anche del secondo tipo di insegnamento, quello che avviene per ispirazione e suggestione interiore, in quanto “lux simplicis intelligentie”: “Quanto ragion qui vede, / dir ti poss’io” (Purg. XVIII, 46-47). Lucia, che di questa luce è la più alta figura (designa Cristo “in quantum est Verbum et verbalis sapientia Patris”), agevola la salita del poeta dormiente dalla valletta dei principi alla porta del Purgatorio e mostra a Virgilio l’ “intrata aperta” verso di essa (Purg. IX, 52-63). Con la porta comincia il sesto stato dell’Olivi (contraddistinto, appunto, dalla ‘porta aperta’) ovvero l’età dello Spirito di Gioacchino da Fiore. Beatrice rappresenta il gusto e il sentimento dell’amore, appropriato allo Spirito Santo. Mossa da amore, fa muovere Virgilio alla salvezza del suo amico: “Or movi, e con la tua parola ornata … l’aiuta, sì ch’i’ ne sia consolata … amor mi mosse, che mi fa parlare” (Inf. II, 67-72). Virgilio e Beatrice operano entrambi per mezzo della “locutio”, cioè della favella, il primo con la “parola ornata”, la seconda con il parlare dettato da amore che suggerisce all’altro ciò che debba fare in modo da esserne consolata (lo Spirito Santo è Paraclito, cioè ‘consolatore’) [4].
Ad Ap 21, 22-23 (settima visione) Olivi sostiene che nella Chiesa peregrinante del settimo e ultimo stato non ci sarà più bisogno di molte dottrine precedenti, poiché nell’eccesso della contemplazione lo Spirito di Cristo le insegnerà ogni verità senza l’ausilio della voce esteriore e, denudata di quanto è temporale, adorerà Dio Padre in spirito e verità (cfr. Giovanni 4, 24), anche se non verrà completamente abbandonato, come nella Chiesa trionfante, ogni uso delle cose temporali o dell’esteriore dottrina e scrittura. La Chiesa di Cristo non occupa il luogo arto e corporeo del tempio dell’antica Gerusalemme e della Sinagoga, né ha bisogno della luce cerimoniale e del culto della legge e dei profeti, in quanto Cristo, la sua vita e la sua dottrina sono tempio, sole e lucerna della luce solare della sua divinità. Si tratta, come confermato dall’autorità di Gregorio Magno, di maggiore illuminazione data alla fine dei tempi: “Urgente enim mundi fine superna scientia proficit et largius cum tempore excrescit”. Il sesto e il settimo stato dell’Olivi corrispondono all’età dello Spirito di Gioacchino da Fiore, nella quale “non solum simplici intelligentia, sed etiam gustativa et palpativa experientia videbitur omnis veritas sapientie Verbi Dei incarnati et potentie Dei Patris” (Ap 3, 7; pagina pregna di citazioni occulte da Gioacchino).
Ecco che la “voce esteriore” di Virgilio, all’apparire di Beatrice, sparisce (Purg. XXX, 49-51). Lo stesso poeta pagano, sulla soglia dell’Eden, invita il discepolo a prendere per guida il proprio piacere (“non solum simplici intelligentia, sed etiam gustativa et palpativa experientia”), cioè il proprio gusto interiore, perché “fuor se’ de l’erte vie, fuor se’ de l’arte. / Vedi lo sol che ’n fronte ti riluce …” (Purg. XXVII, 131-133).
A Filadelfia, la sesta delle sette chiese d’Asia, Cristo dice: “Ho aperto davanti a te una porta che nessuno può chiudere” (Ap 3, 8). Bonaventura aveva detto in proposito che l’intelligenza della Scrittura era stata finora data a un singolo o a più persone: “Et dixit, quod adhuc intelligentia Scripturae daretur vel revelatio vel clavis David personae vel multitudini; et magis credo, quod multitudini” [5].
Per Olivi si tratta di apertura interiore, allorché il predicatore sente nell’animo l’ordine dato da Cristo, interno dettatore, alla propria volontà di dire perché si parli di lui aprendo il cuore delle genti. Qualcosa di simile dovette provare il giovane Dante, il quale volendo lodare la sua gentilissima, restò “alquanti dì, con disiderio di dire e con paura di cominciare”, finché un giorno gli “giunse tanta volontà di dire” che la sua lingua “parlò quasi come per sé stessa mossa e disse: ‘Donne ch’avete intellecto d’amore’” (Vita Nova, 10. 11-13). Nel 1290, l’anno dopo la partenza dell’Olivi da Firenze, moriva Beatrice; attorno a quella data uscivano le “nove rime”. Con la teologia di Cristo interno dettatore si accompagnava la poetica dello spirare d’Amore: “I’ mi son un che, quando / Amor mi spira, noto, e a quel modo / ch’e’ ditta dentro vo significando” (Purg. XXIV, 52-54).
Anni dopo, nell’esilio, uno dei passi capitali della LSA, quello che riguarda l’ingiunzione dell’angelo a Giovanni di inviscerare il libro prima amaro e poi dolce e di predicare ancora a tutto il mondo dopo gli Apostoli (Ap 10, 8-11), dovette dare a Dante la consapevolezza della propria missione nello scrivere una vera visione e la libertà di usare parole gravi anche nei confronti dei papi. Al passo rinvia il momento in cui Dante ascolta da Cacciaguida il suo futuro destino e le vicende dolorose dell’esilio, e gusta insieme l’amaro del suo futuro patire con il dolce della fama che gli è riservata. Questo essere dolce e amaro non è solo nel gusto di Dante che ascolta le parole dell’avo, ma pure negli effetti del libro, molesto nel primo gusto ma poi salutare. Come ai nuovi predicatori del sesto stato viene confermato dai sacri dottori il loro essere destinati alla predicazione universale in modo che non temano di venirne impediti dalla moltitudine dei nemici, così Cacciaguida invita Dante a non essere “al vero … timido amico” e a manifestare senza timore tutta la sua visione, nonostante i molti che si troveranno ad avere “coscïenza fusca / o de la propria o de l’altrui vergogna” (Par. XVII, 124-142). Singularis persona, corifeo del nuovo Ordine, Dante proverà nel salire al cielo una “gustativa et palpativa experientia” (proprio negli anni nei quali il concetto suscitava l’interesse inquisitorio di Giovanni XXII) – trasumanar – quale fu quella del pescatore Glauco “nel gustar de l’erba / che ’l fé consorto in mar de li altri dèi” (Par. I, 67-72).

Tab. III.3

[LSA, cap. II, Ap 2, 7 (Ia visio, Ia ecclesia)] Quadruplici enim ex causa hec informatio primo proponitur ut a Christo dicta et ultimo ut dicta a Sancto Spiritu.
Prima est ut intelligatur dicta a tota Trinitate. Nam Pater loquitur nobis per Filium et Spiritum Sanctum, tamquam per productos et missos ab eo.
Secunda est ut intelligatur duplex modus docendi. Quorum primus est per vocem exteriorem, secundus vero per inspirationem et suggestionem interiorem. Prima autem competit Christo in quantum homo; secunda vero eius deitati, appropriatur tamen Spiritui Sancto. Prima autem disponit ad secundam sicut ad suum finem et est inutilis sine illa. Unde Christus, Iohannis XIIII° utriusque proprietatem ostendens, dicit: “Hec locutus sum vobis apud vos manens. Paraclitus autem Spiritus Sanctus, quem mittet Pater in nomine meo, ille vos docebit omnia et suggeret vobis omnia quecumque dixero vobis” (Jo 14, 25-26).
Item Christo, in quantum est Verbum et verbalis sapientia Patris, appropriatur interna locutio que fit per lucem simplicis intelligentie. Illa vero que fit per amoris gustum et sensum appropriatur Spiritui Sancto. Prima autem se habet ad istam sicut materialis dispositio ad ultimam formam.
Tertia est in misterium quod informatio primi temporis a Christo usque ad sextum statum appropriatur Christo, sequens vero Spiritui Sancto.
Quarta est ut ex duplici auctoritate duorum tam sollempnium testium et magistrorum fortius moveremur, et prima quidem moveret iterum per evidens exemplum operum Christi nobis in sua humanitate visibiliter ostensorum; secunda vero ulterius moveret per spiritualem flammam et efficaciam Spiritus Sancti.

[LSA, cap. XXI, Ap 21, 22-23 (VIIa visio)] Nota quod hec secundum quid verificantur in ecclesia Christi, que non artatur ad corporalem locum et templum veteris Iherusalem et sinagoge, nec cerimoniali luce et cultu legis et prophetarum eget, quia Christus et eius vita et doctrina est eius templum et sol et lucerna lucis solaris sue deitatis. In ecclesia autem septimi status hoc plenius complebitur, ita ut multis doctrinis prioribus non egeat, pro eo quod per contemplationis excessum absque ministerio exterioris vocis et libri docebit eam Christi Spiritus omnem veritatem, et temporalibus denudata adorabit Deum Patrem in spiritu et veritate. Nec ex hoc intelligo quod omnem usum temporalium vel exterioris doctrine et scripture abiciat sed, prout dixi, secundum quid impletur et implebitur in ecclesia militante, simpliciter autem in ecclesia triumphante.

Purg. XIV, 10-15

e disse l’uno: “O anima che fitta
nel corpo ancora inver’ lo ciel ten vai,
per carità ne consola e ne ditta
onde vieni e chi se’; ché tu ne fai
tanto maravigliar de la tua grazia,
quanto vuol cosa che non fu più mai”.

Inf. II, 100-102, 67-72

Lucia, nimica di ciascun crudele,
si mosse, e venne al loco dov’ i’ era,
che mi sedea con l’antica Rachele.

Or movi, e con la tua parola ornata
e con ciò c’ha mestieri al suo campare,
l’aiuta sì ch’ i’ ne sia consolata.
I’ son Beatrice che ti faccio andare;
vegno del loco ove tornar disio;
amor mi mosse, che mi fa parlare.

Purg. XXX, 49-51

 Ma Virgilio n’avea lasciati scemi
di sé
, Virgilio dolcissimo patre,
Virgilio a cui per mia salute die’mi

Purg. XXVII, 121-142

Tanto voler sopra voler mi venne
de l’esser sù, ch’ad ogne passo poi  3, 8
al volo mi sentia crescer le penne.    7, 2
Come la scala tutta sotto noi
fu corsa e fummo in su ’l grado superno,
in me ficcò Virgilio li occhi suoi,
e disse: “Il temporal foco e l’etterno
veduto hai, figlio; e se’ venuto in parte
dov’ io per me più oltre non discerno
.
Tratto t’ho qui con ingegno e con arte;
lo tuo piacere omai prendi per duce 7, 2
fuor se’ de l’erte vie, fuor se’ de l’arte.
Vedi lo sol che ’n fronte ti riluce;        7, 3
vedi l’erbette, i fiori e li arbuscelli
che qui la terra sol da sé produce.
Mentre che vegnan lieti li occhi belli
che, lagrimando, a te venir mi fenno,
seder ti puoi e puoi andar tra elli.
Non aspettar mio dir più né mio cenno;
libero, dritto e sano è tuo arbitrio,
e fallo fora non fare a suo senno:
per ch’io te sovra te corono e mitrio”.

[LSA, cap. III, Ap 3, 7 (Ia visio, VIa ecclesia)] Significatur etiam per hoc proprium donum et singularis proprietas tertii status mundi sub sexto statu ecclesie inchoandi et Spiritui Sancto per quandam anthonomasiam appropriati. Sicut enim in primo statu seculi ante Christum studium fuit patribus enarrare magna opera Domini inchoata ab origine mundi, in secundo vero statu a Christo usque ad tertium statum cura fuit filiis querere sapientiam misticam rerum et misteria occulta a generationibus seculorum, sic in tertio nichil restat nisi ut psallamus et iubilemus Deo, laudantes eius opera magna et eius multiformem sapientiam et bonitatem in suis operibus et scripturarum sermonibus clare manifestatam*. Sicut etiam in primo tempore exhibuit se Deus Pater ut terribilem et metuendum, unde tunc claruit eius timor, sic in secundo exhibuit se Deus Filius ut magistrum et reseratorem et ut Verbum expressivum sapientie sui Patris, sic in tertio tempore Spiritus Sanctus exhibebit se ut flammam et fornacem divini amoris et ut cellarium spiritualis ebrietatis et ut apothecam divinorum aromatum et spiritualium unctionum et unguentorum et ut tripudium spiritualium iubilationum et iocunditatum, per que non solum simplici intelligentia, sed etiam gustativa et palpativa experientia videbitur omnis veritas sapientie Verbi Dei incarnati et potentie Dei Patris. Christus enim promisit quod “cum venerit ille Spiritus veritatis, docebit vos omnem veritatem” et “ille me clarificabit” et cetera (Jo 16, 13-14).

Cfr. Expositio, pars I, ff. 85va-b (ad Ap 3, 7, cit. quasi letterale da Sicut enim a laudantes), 87rb.

________________________________________________________________________________________________________________

INTRODUZIONE

[1] Cfr. G. MONOD, La vie et la pensée de Jules Michelet, Paris 1923, II, p. 156.

[2] A. FRUGONI, Gioachino (Giovacchino) da Fiore, in Enciclopedia Dantesca, III, Roma 19842 (Istituto della Enciclopedia Italiana), pp. 165-167: p. 167.

[3] L. TONDELLI, Il Libro delle Figure dell’abate Gioacchino da Fiore, I. Introduzione e commento. Le sue rivelazioni dantesche, Torino 19532 (19391), pp. 217-399.

[4] R. MANSELLI, Dante e l’ “Ecclesia Spiritualis”, in Dante e Roma. Atti del Convegno di studio a cura della “Casa di Dante”, sotto gli auspici del Comune di Roma, in collaborazione con l’Istituto di Studi Romani, Roma 8-9-10 aprile 1965, Firenze 1965, pp. 115-135, ripubblicato in ID., Da Gioacchino da Fiore a Cristoforo Colombo. Studi sul francescanesimo spirituale, sull’ecclesiologia e sull’escatologisno bassomedievali, introduzione e cura di P. Vian, Roma 1997 (Istituto Storico Italiano per il Medio Evo. Nuovi Studi Storici, 36), pp. 55-78.

[5] A. DEMPF, Sacrum Imperium. Geschichts- und Staatsphilosophie des Mittelalters und der politischen Renaissance, Darmstadt 1954 (München-Berlin 1929), p. 293: “[…] und er (Olivi) schrieb 1295 seine Postille zur Apokalypse, die Parallele zur Johannesapokalypse, vielleicht in dem ganz tiefen Sinn, daß auch diese ein visionärer Kommentar zu prophetischen und apokryphen Weltendschriften gewesen ist. […] Und kurz danach schrieb der größte Dichter an der Wende der beiden Äonen, Dante, seine divina commedia, auch sie eine joachitische Apokalypse. Nur sollte bei ihm nach dem Renaissancekopf seines Janushauptes halb ein philosophischer Weltkaiser und halb der spiritualistische Dux die neue Friedenszeit bringen”.

[6] H. GRUNDMANN, Dante und Joachim von Fiore. Zu Paradiso X-XII, in “Deutsches Dante-Jahrbuch”, 14 (NF 5) 1932, pp. 210-256, ripubblicato in ID., Ausgewählte Aufsätze, 2. Joachim von Fiore, Stuttgart 1977 (Schriften der Monumenta Germaniae Historica. Band 25, 2), pp. 166-210.

[7] E. BENZ, Ecclesia Spiritualis. Kirchenidee und Geschichtstheologie der Franziskanischen Reformation, Stuttgart 1934, pp. 201-205: p. 203: “Das Leben des Heiligen Franziskus selbst, von Thomas von Aquin besungen, zeigt bereits das ins Messianische erhobene endzeitliche Franzbild des Spiritualenkreises, wie es sich in der Apokalypsenpostille Olivis findet und wie es Dante aus dem Munde Olivis selbst dem Sinne nach gehört haben mochte”.

[8] E. BUONAIUTI, Storia del Cristianesimo, II, Milano 1941, p. 544. Il cap. XVIII della parte II (Evo Medio) dell’opera è rielaborazione del cap. V (L’Apocalissi dantesca) di Dante come profeta, Modena 1936, pp. 113-163, dove (p. 151) scriveva in modo meno assertorio: “Forse egli aveva udito colà [nella scuola francescana della vecchia Santa Croce] Pietro Olivi interpretare gioachimiticamente proprio l’Apocalissi canonica. Ad ogni modo, conosceva molto bene i testi canonici ed apocrifi della tradizione profetica, sbocciata sulla Sila e propagatasi lungo la dorsale appenninica d’Italia, all’alba del Duecento”. Buonaiuti, al quale negli anni ’30 gli studi su Gioacchino da Fiore presso l’Istituto Storico Italiano erano stati di provvidenziale conforto dopo l’allontanamento dalla cattedra romana, avrebbe scritto che “mai e poi mai avremmo dovuto dissociare le due grandi figure che Dante, e con lui la migliore tradizione religiosa del suo tempo, hanno visto indissolubilmente avvinte l’una all’altra: la figura di Gioacchino e quella di Francesco. La catena appenninica non è soltanto fisicamente la spina dorsale della penisola. Dalla Sila al Subasio è corsa, nella maturità del Medioevo italiano, una stupenda continuità spirituale. Avervi inciso una frattura è stato gesto di improvvida iconoclastia” (E. BUONAIUTI, Pellegrino di Roma. La generazione dell’esodo, a cura di M. Niccoli, introduzione di A. C. Jemolo, Bari 1964 [Biblioteca di cultura moderna, 604], p. 256).

[9] M. BARBI, Il Gioachinismo francescano e il Veltro, in “Studi danteschi”, 18 (1934), pp. 209-211; L’Apocalissi dantesca, ibid., 22 (1938), pp. 195-197; Veltro, Gioachinismo e Fedeli d’Amore: sbandamenti e aberrazioni, ibid., 23 (1938), pp. 29-46.

[10] B. NARDI, Dante e la cultura medievale. Nuovi saggi di filosofia dantesca, Bari 1942 (Biblioteca di cultura moderna), pp. 270-271.

[11] B. NARDI, Pretese fonti della «Divina Commedia», in “Nuova Antologia”, 90 (1955), pp. 383-398, ripubblicato in ID., Dal “Convivio” alla “Commedia”. Sei saggi danteschi, Roma 1960 (Istituto Storico Italiano per il Medio Evo. Studi storici, 35-39), pp. 351-370: pp. 364-365.

[12] M. REEVES, The Third Age: Dante’s Debt to Gioacchino da Fiore, in L’età dello Spirito e la fine dei tempi in Gioacchino da Fiore e nel gioachimismo medievale. Atti del II Congresso internazionale di studi gioachimiti 6-9 set. 1984, a cura di A. Crocco, San Giovanni in Fiore 1986 (Centro internazionale di studi gioachimiti), pp. 125-139.

[13] Cfr. P. VIAN, Tempo escatologico e tempo della Chiesa: Pietro di Giovanni Olivi e i suoi censori, in Sentimento del tempo e periodizzazione della storia nel Medioevo. Atti del XXXVI convegno storico internazionale, Todi, 10-12 ottobre 1999, Spoleto 2000 (Atti dei Convegni del Centro Italiano di Studi sul Basso Medioevo-Accademia Tudertina e del Centro di Studi sulla Spiritualità Medievale dell’Università degli Studi di Perugia, n.s., 13), pp. 137-183: p. 183: “[…] con la sua concezione del tempo e della storia,  appare come l’estrema espressione dell’escatologismo medievale […]”.

[14] G. INGLESE, in Dante Alighieri, Inferno. Revisione del testo e commento, Roma 2007, p. 9.

[15] G. BRUGNOLI, Tracce di Pierre de Jean Olieu nella Divina Commedia, in San Francesco e il francescanesimo nella letteratura italiana dal XIII al XV secolo. Atti del Convegno Nazionale (Assisi, 10-12 dicembre 1999), a cura di Stanislao da Campagnola e P. Tuscano, Assisi 2001 (Accademia Properziana del Subasio. Assisi), pp. 139-168.

[16] Al di là dell’assoluta novità e complessità della ricerca, che traccia sentieri sulla nuova terra ma è comunque sgomentante per chi intenda accingersi a una verifica o a una sua continuazione, i silenzi accademici nascono soprattutto da un problema di ambiti di competenza. I “dantisti” non conoscono se non superficialmente la Lectura dell’Olivi e non considerano, salvo rarissimi casi, l’arte della memoria: non sono dunque in grado di confermare o confutare alcunché. Viceversa, nel campo degli studi storici l’Olivi è confinato nell’ambito francescano, mentre Dante è appannaggio della storia della letteratura. Non ha certo giovato il fatto che la Lectura sia rimasta inedita per settecento anni e conosciuta soltanto per estratti, né giova alla sua conoscenza la recente “edizione critica” di Warren Lewis (cfr. Avvertenze).

[17] NARDI, Dal “Convivio” alla “Commedia”  (nota 11), p. 356.

[18] Cfr., ad esempio, S. CRISTALDI, Dante di fronte al gioachimismo. I. Dalla «Vita Nova» alla «Monarchia», Caltanissetta-Roma 2000.

[19] Cfr., ad esempio, N. HAVELY, Dante and the Franciscans. Poverty and the Papacy in the ‘Commedia’, Cambridge University Press, 2004; S. CASCIANI (ed.), Dante and the Franciscans, Leiden-Boston 2006 (The Medieval Franciscans, 3).

[20] Cfr. P. VIAN, «Noster familiaris solicitus et discretus»: Napoleone Orsini e Ubertino da Casale, in Ubertino da Casale. Atti del XLI Convegno Internazionale. Assisi 18-20 ottobre 2013, Spoleto 2014 (Società Internazionale di Studi Francescani – Centro Interuniversitario di Studi Francescani), pp. 217-298: pp. 246-249.

[21] G. PETROCCHI, Biografia. Attività politica e letteraria, in Enciclopedia Dantesca, Appendice, Roma, 19842, p. 41. Luigi Pietrobono anticipava alla Vita Nova il ‘misticismo’ dantesco: cfr. CRISTALDI, Dante di fronte al gioachimismo, pp. 15-17.

[22] Cfr. G. L. POTESTÀ, Il tempo dell’Apocalisse. Vita di Gioacchino da Fiore, Bari 2004, pp. 286-287.

[23] Il numero delle citazioni può lievemente variare secondo i criteri assunti nel computarle.

[24] Cfr. R. MANSELLI, La terza età, “Babylon” e l’Anticristo mistico (a proposito di Pietro di Giovanni Olivi) (1970), in ID., Da Gioacchino da Fiore a Cristoforo Colombo  (nota 4), p. 155.

[25] POTESTÀ, Il tempo dell’Apocalisse, p. 217.

[26] Cfr. P. VIAN, Dalla gioia dello Spirito alla prova della Chiesa. Il tertius generalis status mundi nella Lectura super Apocalipsim di Pietro di Giovanni Olivi, in L’età dello Spirito e la fine dei tempi in Gioacchino da Fiore e nel gioachimismo medievale (nota 12), pp. 165-215.

[27] Cfr. L’agone del dubbio, ovvero il martirio moderno (Francesca e la «Donna Gentile»).

[28] Cfr. VIAN, Tempo escatologico e tempo della Chiesa: Pietro di Giovanni Olivi e i suoi censori  (nota 13), p. 171.

[29] P. VIAN, Fra Gioacchino da Fiore e lo spiritualismo francescano: Lo Spirito Santo nella Lectura super Apocalipsim di Pietro di Giovanni Olivi, in Lo Spirito Santo, in “Parola spirito e vita. Quaderni di lettura biblica”, 38 (1998/2), p. 248.

[30] D. BURR, Olivi’s Peaceable Kingdom. A Reading of the Apocalypse Commentary, Philadelphia 1993 (Middle Ages Series), pp. 115-116.

[31] GRUNDMANN, Dante und Joachim von Fiore (nota 6), p. 193: Am ehesten scheint mir dafür die von Erich Auerbach geprägte Formel von Dantes Wille zu universaler Konkordanz, zu universaler Einheit zutreffend [E. Auerbach, Dante als Dichter der irdischen Welt, Berlin 1929]. Aber diese Wille geht nicht auf Ausgleich von Gegensätzen in einem Mittelweg. Sondern es ist der Wille und der Glaube und die Sehnsucht, dass sich über allem Streit und Gegensatz der politischen, religiösen, wissenschaftlichen Parteien eine Haltung, eine Gesinnung, eine geistige und politische Bildung und Gestaltung der Menschheit müsse gewinnen lassen, in der alle religiösen und politischen Parteien ihr Recht und alle wissenschaftlichen Richtungen ihre Wahrheit wiederfinden können, ohne wie bisher untereinander in parteiischem Kampfe zu liegen. Damit aber erweist sich Dante gerade hier, wo man seine kirchliche Rechtgläubigkeit glaubte in Frage stellen zu dürfen, als ein im wahren Sinne des Wortes katholischer Geist.

[32] Cfr. De vulgari eloquentia, I, vi, 5-7.

[33] UBERTINO DA CASALE, Arbor vitae crucifixae Iesu, V, ix, Venetiis, 1485, rist. anast. a cura di C. T. Davis, Torino, 1961, f. 470b; F. X. KRAUS, Dante. Sein Leben und sein Werk. Sein Verhältniss  zur Kunst und zur Politik, Berlin 1897, pp. 720-746: 736-746.

[34] Queste parole sono riferite al periodo (si tratta, nella quarta visione, dell’esegesi congiunta della terza e della quarta guerra) in cui la donna (la Chiesa) venne nutrita lontano dal serpente nel deserto dei Gentili, il luogo preparatole da Dio come suo, e dove le vennero date le due ali di una grande aquila (Ap 12, 14). Su tale inciso, secondo Olivi, Gioacchino da Fiore ha fondato tutta la sua Concordia. L’espressione indica un periodo di tre anni e mezzo, formati da quarantadue mesi (12 mesi x 3 anni + 6 mesi) nei quali i trenta giorni dei singoli mesi corrispondono a trenta anni: si ha così una permanenza della donna nel deserto di 1260 anni. “Tempus” sta per un anno, “tempora” per due anni e “dimidium temporis” per sei mesi. I “due anni” derivano dal duale greco, lingua nella quale scrisse Giovanni. Questo numero compare anche ad Ap 12, 6 (quarta visione, prima guerra) per indicare il periodo in cui la donna venne nutrita nel deserto (dove era fuggita dalla durezza dei Giudei), mentre in Daniele 7, 24-25 si dice che il re undicesimo distruggerà i santi dell’Altissimo che gli saranno dati in mano “per un tempo, due tempi e la metà di un tempo” e in Daniele 12, 6-7 che “fra un tempo, due tempi e la metà di un tempo si compiranno tutte queste cose meravigliose”.

[35] Cfr. Il sesto sigillo, cap. 2b (La perfezione stellare della “prima” grazia [Ap 3, 3]).

[36] Si può anche intendere la ‘sottrazione’ di Ulisse come speculare a quella di Elia: questi fu sottratto a Gezabele, quello fu sottratto da Circe “più d’un anno”. La figura di Gezabele, moglie di Achab re di Israele e fautrice dei quattrocento profeti di Baal, svolge un ruolo importante nell’istruzione data a Tiàtira, quarta delle sette chiese d’Asia alle quali scrive Giovanni nella prima visione apocalittica (Ap 2, 18-25). I temi che le vengono appropriati (concentrati attorno all’ipocrisia falsa e seducente) subiscono multiformi variazioni nei versi. Cfr. Il sesto sigillo, 7c (La «bestia saracena»), tab. LIII-LV.

[37] Cfr. Il sesto sigillo, 2d.3 (“Maria rimase giuso”).

[38] Sulla questione cfr. R. E. LERNER, Frederick II, Alive, Aloft and Allayed in Franciscan-Joachite Eschatology, in The Use and Abuse of Eschatology in the Middle Ages, edited by W. Verbeke, D. Verhelst, A. Welkenhuysen, Louvain 1988, pp. 359-384, trad. it. Federico II mitizzato e ridimensionato post mortem nell’escatologia francescano-gioachimita, in Refrigerio dei santi. Gioacchino da Fiore e l’escatologia medievale, Roma 1995 (Centro Internazionale di Studi Gioachimiti. S. Giovanni in Fiore, Opere di Gioacchino da Fiore, 5), pp. 147-167.

[39] Cfr. Il sesto sigillo, 3 (Libero volere, libero salire, libero parlare).

CAPITOLO I

[1] Cfr. Dante all’ “alta guerra” tra latino e volgare. Postilla alle ricerche di Gustavo Vinay sul De vulgari eloquentia, 2.5 (Legge, lingua, ragione, governo).

[2] Cfr. INGLESE (nota 14), Inf. X, 23, pp. 129-130.

[3] Cfr. Ulisse perduto. Un viaggio nel futuro, dove si mostra anche la rilevante presenza di temi da Ap 2, 5.

[4] Cfr. “In mensura et numero et pondere”. Nella fucina della Commedia: storia, poesia e arte della memoria, 4 (Salmi polisensi).

[5] Cfr. INGLESE (nota 14), Inf. II, 113-114, pp. 58-59.

[6] Cfr. L’agone del dubbio, ovvero il martirio moderno, 8 (Beatrice ritrovata e subito perduta).

[7] Olivi sottolinea in più luoghi la soggezione del Figlio al Padre, a motivo della sua mortale umanità: «(LSA, Ap 2, 7) Dicit autem “Dei mei” quia Christus in quantum homo minor est Deo Patre, ita quod in quantum homo habet Patrem pro Deo et Domino et etiam totam Trinitatem. […] (Ap 3, 12) Quod Christus hic vel alibi dicit “Dei mei” vel “a Deo meo”, non dicit nisi tantum ratione sue humanitatis, secundum quam est subiectus Patri et toti Trinitati tamquam Deo suo. […] (Ap 8, 3) Qui “venit”, per nature humane et mortalis assumptionem, “et stetit ante altare”, id est ante curiam seu hierarchiam celestem. Pro quanto enim, secundum carnis sue passibilitatem, minoratus est paulo minus ab angelis (cfr. Heb 2, 7; Ps 8, 6), habuit eos quasi ante se. […] (Ap 14, 18) Per illum vero angelum qui clamat ad alterum ut vindemiet dicit designari angelos bonos, qui non solum de templo sed etiam de altari exeunt quia non tantum ecclesiam electorum sed etiam Christum, qui est nostrum altare, respectu sue carnis transcendunt, secundum illud Psalmi (Ps 8, 6): “Minuisti eum paulo minus ab angelis”».

[8] Cfr. G. SASSO, Le autobiografie di Dante, Napoli 2008, p. 94: “Per sforzi che avesse compiuti per conferire il maggior pregio possibile al momento terreno (e cioè imperiale) della sintesi filosofico/teologica, era inevitabile che anche in lui, pensatore cristiano, a prevalere fosse l’altro termine. Ma questo non significa quel che tante volte si è detto; e cioè che, rinunziando all’idea che il primo termine godesse di autonomia nei confronti del secondo, a questo Dante lo avesse in sostanza subordinato”. Non c’è subordinazione di un termine all’altro, ma una sua “consumazione”, cioè una conduzione a compimento.

[9] Cfr. Dante all’«alta guerra» tra latino e volgare, 2.12 (Le rime aspre e dolci), tab. XXVI.

[10] Sull’equivoca figura di Salomone, cfr. Dante all’«alta guerra» tra latino e volgare, 3.6 (Il libro scritto dentro e fuori), tab. XLII.

[11] Cfr. Il sesto sigillo, 1d (La venuta del ladro).

[12] Cfr. RICHARDI S. VICTORIS In Apocalypsim libri septem, I, 9; V, 8, PL 196, coll. 730 C, 828 D-829 A.

[13] Cfr. L’agone del dubbio, ovvero il martirio moderno, 2, tab. V (1-2).

[14] Cfr. Il sesto sigillo, 2d.3 (“Maria rimase giuso”).

[15] Ad Ap 22, 2 Olivi si sofferma a lungo sul Lignum vitae di Bonaventura (cfr. l’edizione in rete della Lectura super Apocalipsim).

[16] Cfr. La settima visione, I, 1 (La luce della città [Ap 21, 11]).

[17] Cfr. Il sesto sigillo, cap. 2c (L’apparizione di Beatrice nell’Eden: un’Apocalisse dei tempi moderni).

[18] Cfr. ibidem, tab. XV.

[19] Cfr. A. FORNI, Pietro di Giovanni Olivi nella penisola italiana: immagine e influssi tra letteratura e storia in Pietro di Giovanni Olivi frate minore. Atti del XLIII Convegno Internazionale. Assisi 16-18 ottobre 2015, Spoleto 2016 (Società Internazionale di Studi Francescani – Centro Interuniversitario di Studi Francescani), pp. 428-430.

CAPITOLO II

[1] Cfr. J. RATZINGER, S. Bonaventura. La teologia della storia, ed. L. Mauro, S. Maria degli Angeli – Assisi 2008, p. 66 e nota 113.

[2] Cfr. POTESTÀ, Il tempo dell’Apocalisse (nota 22), pp. 311-313: p. 313.

[3] Ibid., p. 178.

[4] Ibid., pp. 255-259: pp. 257, 259.

[5] RATZINGER, S. Bonaventura, pp. 71-72.

[6] Ibid., pp. 80-82.

[7] Il termine “Minori” compare una sola volta nella LSA (cap. VI, Ap 6, 12), con riferimento alla Regola.

[8] Cfr. F. SIMONI, Il Super Hieremiam e il gioachimismo francescano, in “Bullettino dell’Istituto Storico Italiano per il Medio Evo e Archivio Muratoriano”, 82 (1970), pp. 44-46.

[9] L’episodio è narrato nella Lectura super Lucam, cap. 1, ed. F. IOZZELLI, Grottaferrata 2010 (Collectio Oliviana, V), pp. 230-231; cfr. D. PACETTI, Petrus Ioannis Olivi O. F. M., Quaestiones quatuor de domina, Quaracchi, Florentiae, 1954 (Bibliotheca Franciscana Ascetica Medii Aevi, VIII), p. 37, nota 1.

[10] Cfr. BONAVENTURA, Quaestiones disputatae de perfectione evangelica, q. 2, a. 3, ad 12, in Opera omnia, V, Ad Claras Aquas (Quaracchi) prope Florentiam 1891, p. 164 b): “Et quia Ecclesiae iam ditatae magis indigebant spiritualibus operariis quam vinitoribus et agricolis; hinc est, quod Spiritus sanctus religiones pauperculas suscitavit, quarum sollicitudo et cura tota esset ad signandos servos Dei in frontibus eorum signo Dei vivi, vocando ad poenitentiam et ad gratiam Spiritus sancti”.

[11] Cf. le parole di Cacciaguida, che subì il martirio per opera dei Saraceni, a Par. XV, 142-144: “Dietro li andai incontro a la nequizia / di quella legge il cui popolo usurpa, / per colpa d’i pastor, vostra giustizia”. Più avanti, nelle parole di san Pietro, sarà lo stesso pastore romano “quelli ch’usurpa”.

[12] Un passo simmetrico del notabile VII del prologo indica una situazione simile per i Gentili, non sufficientemente disposti, al momento della conversione, alla perfetta imitazione di Cristo e pertanto da condurre a essa attraverso successive illuminazioni nei vari esempi di stati e con varie guide.

[13] Questo attendere è sottolineato anche nella settima delle dieci rationes poste successivamente, ad Ap 7, 3: “quia prius expedit tirones intra suos exerceri et probari, antequam mittantur longe ad universalia bella cum extrinsecis gentibus totius orbis committenda”.

CAPITOLO III

[1] BONAVENTURA, Collationes in Hexaëmeron, XVI, 2, in Sancti Bonaventurae Sermones Theologici, Roma 1994 (Sancti Bonaventurae Opera, VII/1), p. 290; RATZINGER, San Bonaventura  (nota II.1), pp. 45-46.

[2] RATZINGER, San Bonaventura  (nota II.1), p. 45, n. 71; M. REEVES-W. GOULD, Joachim of Fiore and the myth of the Eternal Evangel in the nineteenth century, Oxford 1987, trad. it., Gioacchino da Fiore e il mito dell’Evangelo eterno nella cultura europea, Città di Castello 2000 (Centro Internazionale di Studi Gioachimiti. S. Giovanni in Fiore. Opere di Gioacchino da Fiore: testi e strumenti, 12), pp. 7-9.

[3] Cfr. Cfr. Dante all’«alta guerra» tra latino e volgare, 2.12 (Le rime aspre e dolci).

[4] Il parlare consolando per amore si ritrova nella preghiera di Guido del Duca al poeta perché si riveli in Purg. XIV, 12-13: “per carità ne consola e ne ditta / onde vieni e chi se’ …”, dove il ‘dittare’ rende l’ispirazione e la suggestione interiore appropriata al Paraclito consolatore (l’espressione “onde vieni e chi se’” traduce inoltre l’ “hii qui sunt et unde venerunt” di Ap 7, 13). Il consolare e l’idioma sono pure congiunti nella donna della Firenze antica la quale, come dice Cacciaguida, “… vegghiava a studio de la culla, / e, consolando, usava l’idïoma / che prima i padri e le madri trastulla” (Par. XV, 121-123): l’idioma è quello puerile e giocoso con cui i genitori parlano ai propri nati, e la “iocunditas” fa parte del gustare e sentire lo Spirito.

[5] BONAVENTURA, Collationes in Hexaëmeron, XVI, 29, p. 308.

 

INDICE GENERALE – AVVERTENZE