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Dic 21 2016

GIROLAMO ARNALDI FRA GLI STORICI

Il 16 dicembre 2016 si è tenuta all’Università di Roma “La Sapienza” una giornata dedicata a Girolamo Arnaldi (1929-2016), dal titolo: Girolamo Arnaldi alla Sapienza. Ricordi di colleghi e allievi, organizzata dal Dipartimento di Storia, Culture e Religioni. Ringrazio il Comitato organizzatore, in particolare Giulia Barone, per l’invito e pubblico in questa sede il discorso letto per l’occasione.

I. “Dico subito che non pretendo di offrire un contributo di storia della storiografia […]”. Faccio mie queste parole di Girolamo Arnaldi, pronunciate il 20 novembre 1984 nella commemorazione di Raffaello Morghen tenuta all’Istituto Storico Italiano per il Medio Evo, e proseguo nella citazione: “Invece di limitarci a fare l’elogio di chi non è più fra noi, di elencarne le opere e di soffermarci un istante a piangerne in silenzio la scomparsa, siamo tutti presi dall’ansia di imbalsamare i nostri morti con un giudizio per l’eternità o – come si usa dire – di storicizzarli. Salvo preparare, al tempo stesso, in anticipo una nicchia anche per noi, in qualità di epigoni, di continuatori – possibilmente (come si diceva una volta) di superatori” [1].
Credo che il miglior elogio che si possa rendere al proprio maestro sia di dargli testimonianza con le opere eseguite, mostrando in esse riflesso il lume dei suoi insegnamenti, anche quando l’esempio si discosta dall’esemplare e lo studioso percorre vie diverse. Narrerò dunque brevemente alcune tappe del mio viaggio negli studi storici, per il quale Arnaldi mi è stato guida, diretta o indiretta.

Ero entrato alla Sapienza, nel 1971, con l’idea precisa di specializzarmi in Storia medievale, convinzione che neppure il fascino delle lezioni e dei libri sul tardoantico di Santo Mazzarino riuscì a scalfire. Una certa visione romantica del Medioevo fu subito messa a confronto con i testi esaminati nei seminari. Lì, che si trattasse del Liber de duabus civitatibus di Ottone di Frisinga o del Polycraticus di Giovanni di Salisbury, appresi il modo di leggere e penetrare le fonti, da interpretare, datare, attribuire. A lezione ascoltavo dei “rinascimenti” del Medioevo – a vario titolo propugnati dai Lopez, Sapori, Panofsky, Haskins -, della coscienza di una “renovatio” e dell’idea del progresso saltuariamente emerse in un periodo così lungo.
La tesi che mi fu assegnata e discussa nel 1976  – sui sermones ad status di Jacques de Vitry, il vescovo di San Giovanni d’Acri ai tempi di Onorio III e Gregorio IX – era un segno della sensibilità e apertura di Arnaldi verso quella che riteneva “la scuola storiografica di maggiore risonanza internazionale” dopo la seconda guerra mondiale [2]. Non era ancora uscito Tempo della Chiesa e tempo del mercante di Le Goff (1977), ma la prospettiva era quella proposta dallo storico francese. Si trattava di studiare un momento nel quale, secondo quanto andava scrivendo Le Goff, “la predicazione si orienta verso una parola nuova, più orizzontale che verticale, maggiormente aperta alla storicità e disposta ad adattarsi alle condizioni socio-professionali, una parola che attinge alla vita quotidiana” [3]. La sensibilità di Arnaldi verso la storiografia francese era tanto più significativa se si considera che il suo punto di riferimento era la storiografia etico-politica di Croce e Chabod e che verso le tendenze d’oltralpe fu sempre cauto se non critico. Riteneva infatti che, terminata con la morte di Raymond Aron la stagione dei quasi filosofi “maîtres-à-penser”, vi fosse, al di là dell’insegnamento dei grandi maestri, il rischio della specializzazione, di una microstoria che aveva perso la fede nel progresso e nello sviluppo storico [4].
Arnaldi teneva tanto all’argomento della mia tesi che, grazie anche all’intervento di André Vauchez, il manoscritto parigino latino 17509, contenente i sermones ad status, venne trasferito con la valigia diplomatica a Palazzo Farnese, dove per quasi un anno ebbi il singolare privilegio di studiarlo. Radicata così nelle fonti, la tesi non fu animata dal rapporto fra realtà materiali e realtà dell’immaginario, centrale nella concezione della storia di Le Goff. Arnaldi e, per suo beneplacito e mandato Giulia Barone, furono molto attenti ad evitare che cadesse in considerazioni puramente antropologiche o sociologiche o di simbologia allegorica. Essa era piuttosto uno studio sulla predicazione come istituto, inserito nel grande movimento spirituale che la “Societas Christianorum” attraversò nei primi decenni del XIII secolo; emergeva soprattutto, memore delle lezioni di Arnaldi, la “renovatio occidentalis ecclesie”. Era cioè più vicina al padre Chenu che a Le Goff, per quanto quest’ultimo a Todi, nel 1980, citasse ripetutamente l’articolo su “La Cultura” che sintetizzava la tesi. Non a caso la tesi ebbe come correlatore Raoul Manselli: Jacques de Vitry fu infatti anche il prezioso testimone dei primi Francescani, allorché, nel 1216, cercò di respirare un’aria diversa da quella della Curia papale, impegnata a Perugia nella successione di Innocenzo III.

II. Il mio passaggio alla Camera dei Deputati, nel 1982, venne salutato da Arnaldi con soddisfazione. Riteneva infatti che avrebbe potuto essere un’applicazione pratica della necessaria osmosi fra le istituzioni dello Stato, fra la funzione pubblica e il mondo universitario. Ai pubblici funzionari – scriveva due anni dopo – “potrebbe essere data la chance di un comando, preludio di un eventuale, successivo accesso all’insegnamento in un’Università o anche concepito come un periodo di autoformazione in servizio, da spendersi svolgendo un’attività di ricerca presso un dipartimento universitario. […] dall’adozione generalizzata di questa formula l’istituzione universitaria ricaverebbe un indubbio vantaggio. Il suo conclamato rapporto con il ‘territorio’ e la ‘società civile’ cesserebbe infatti così di essere un flatus vocis, buono solo per il discorso inaugurale di un anno accademico” [5]. Un esempio era stato Silvio Furlani, bibliotecario della Camera dei Deputati, che nel 1949, su chiamata di Morghen, fu per alcuni mesi assistente volontario presso la cattedra di Storia medievale.
Il lavoro alla Camera, nel ruolo generale sempre a contatto con la vita politica, e la possibilità di fruire della sua ricchissima Biblioteca, fecero convergere le mie ricerche su alcuni aspetti di storia della storiografia. I contatti con Arnaldi rimasero sempre intensi. In due casi abbiamo scritto in parallelo sugli stessi storici.

Il primo fu Ernesto Sestan, che Arnaldi commemorò il 30 novembre 1987 presso l’Istituto italiano per gli studi storici [6] e sul quale avevo scritto l’anno prima su “La Cultura” in merito al libro Venezia Giulia. Lineamenti di storia etnica e culturale, del 1947 [7]. I problemi posti da Sestan erano quanto mai attuali: la necessità per la storiografia italiana – già sottolineata da Walter Maturi nel 1934 – di rifarsi alle origini prossime, con la conseguente caduta della divisione netta fra studi di storia medievale da una parte e di storia moderna e contemporanea dall’altra; il concetto di nazione come legame spirituale (quello che unì l’italianità di frontiera di friulani e istriani); il concetto di Europa, mai stata, come affermato da Wilhelm von Humboldt, un “ensemble constitutionnel”, segnata tuttavia dai “caratteri del mito, il mito della civiltà”; il rapporto fra le origini nazionali e la nuova Europa. Scriveva Arnaldi, dopo aver riletto Stato e nazione di Sestan, uscito nel 1952: “È un libro che ha avuto il solo difetto di essere un frutto fuori stagione, ma dal quale potremmo prendere utilmente le mosse il giorno che decidessimo di tornare a porre alle fonti altomedievali le domande tutt’altro che non pertinenti che aveva osato porre loro Sestan, in un momento in cui eravamo in tanti a coltivare l’illusione che mettendo fra parentesi il problema delle origini nazionali contribuissimo a costruire una nuova Europa. Mentre, semmai, era proprio vero il contrario” [8].

Il secondo incontro comune con gli storici ci vide impegnati nel 1991 in due relazioni presentate al Convegno su Ferdinand Gregorovius organizzato dal Deutsches Historisches Institut in Rom. Dello storico protestante prussiano vissuto a Roma dal 1852 al 1874, che sentì la Città Eterna come il suo “demonio”, Arnaldi sottolineava le novità. A differenza di Gibbon, la storia tardoantica di Roma appariva come palingenesi, non come decadenza; di questa “renovatio” il papato, vero erede dell’antico Impero, era stato il primo artefice. Non si trova, nella Geschichte der Stadt Rom im Mittelalter, “nessuna traccia … di gretti pregiudizi protestanti antipapalisti”. Veniva dunque rovesciato “il famoso giudizio di Machiavelli sulla responsabilità storica del papato nell’avere deviato il corso della storia d’Italia” [9].
Il rapporto politico-religioso con l’Impero tedesco aveva fatto di Roma il centro del Medioevo: scriveva Gregorovius, che nella storia “la nostra unica conquista è stata, in fondo, l’Italia”. Per questo rapporto, sottolineava Arnaldi, “durante quei mille anni, tutto quanto di buono, di saggio, di bello, di utile era stato prodotto e pensato in Europa, era promanato, in un modo o nell’altro, da Roma” [10]. Nulla di singolare, pertanto, che Gregorovius proponesse di lasciare Roma al papa o di farne, patrimonio comune dell’umanità, la capitale degli Stati Uniti d’Europa [11]. Non diversamente ragionava Dostoevskij, quando scriveva che il conte di Cavour aveva sì riunito l’Italia, ma facendone un regno di second’ordine, un’unità meccanica e non spirituale [12].
Arnaldi metteva in luce Gregorovius come anticipatore. La tensione fra l’idea di Roma e “la realtà per lo più deludente e meschina di Roma medievale […] ‘la più gloriosa e più angusta’ di tutte le storie”, sarebbe stata ripresa da Percy Ernst Schramm, il quale avrebbe scritto in Kaiser, Rom und Renovatio che “nella storia di Roma, ogni avvenimento è nello stesso tempo grande e piccolo” [13]. Ancora, a proposito dell’importanza data alle figure di due capi religiosi, definiti “il sacerdote dell’Occidente e quello dell’Oriente”, scriveva Arnaldi: “Mi domando se il Maometto e Carlomagno di Henri Pirenne non sia un calco del ‘Maometto e Gregorio Magno’ di Gregorovius” [14].
Era ancora il metodo storico di Gregorovius a suggestionare Arnaldi, l’utilizzazione di ogni tipo di documenti, anche quelli della “Roma di pietre […] la frequentazione assidua di tutti i più riposti angoli della scena su cui si svolgeva la storia che andava narrando, lo aiutò in molti casi a decifrarne il senso, altrimenti incomprensibile” [15]. Un metodo lodato e suggerito, nel 1872, agli studenti napoletani da Francesco De Sanctis: visitare prima i luoghi, poi seppellirsi negli archivi e biblioteche, infine elevarsi all’ideale nel determinare le leggi stesse delle vicende umane [16].

Uno storico che, come Gregorovius, cercò di scrivere una storia “interna” di Roma e del papato, per quanto limitata al IX secolo, fu il gesuita francese Arthur Lapôtre (1844-1927), studiato da Arnaldi nell’introduzione ai due volumi contenenenti gli opera omnia: Études sur la papauté au IXe siècle, pubblicati nel 1978 [17]. La figura del Lapôtre, “partecipe in pieno degli slanci e delle illusioni che, per molti religiosi ed ecclesiastici dediti ai buoni studi, hanno caratterizzato il pontificato di Leone XIII”, era messa in rilievo da Arnaldi come quella di uno “storico puro, attento ai soli fatti” [18]. Il gesuita non fu, come vi scorgeva Buonaiuti, un protomartire della repressione antimodernista; non mostrò disinvoltura, come sarebbe capitato ad ecclesiastici e religiosi al tempo del Vaticano II, “nel caricare uomini e cose della Chiesa del passato di troppo pesanti responsabilità di convalida e di testimonianza nei confronti di una Chiesa del presente che essi avrebbero voluto, per lo più a ragione, diversa” [19].
In un fertile incontro fra critica e storia, che prendeva a modelli Duchesne e Mommsen, ma anche i Bollandisti, paladina dell’“histoire des historiens” contro l’“histoire des sociologues et des philosophes”, la storiografia di Lapôtre toccava punti cari ad Arnaldi: la questione foziana, la recezione delle decretali pseudo-isidoriane, Formoso vescovo di Porto, Giovanni VIII e soprattutto quell’Anastasio Bibliotecario che “non ‘prestava’ la sua opera ai papi ma era in condizioni di ‘infliggergliela’”, figura che aveva interessato Arnaldi quasi vent’anni prima, nel 1961 [20].
Ma non si trattava solo di un omaggio a un precursore negli argomenti trattati. Arnaldi trovava in Lapôtre molti segni della propria storiografia: la critica dei testi e la ricerca delle fonti in vista della ricomposizione del passato “in lavori d’insieme e in una forma ad un tempo precisa e viva”; la non sconvenienza, anzi l’opportunità, che gli storici siano degli artisti. Arnaldi ha sempre sostenuto l’esigenza di una storia che sia “opus oratorium maxime” come l’intendeva Cicerone: “Non esiste una storiografia che possa prescindere dai valori letterari e espressivi, in quanto lo storico per comunicare si serve di parole” [21].

Fra il 1992 e il 1994 le mie ricerche ebbero come oggetto dom Luigi Tosti (1811-1897), il celebre autore, nel 1848, della Storia della Lega lombarda. Si trattava del monaco neoguelfo che avrebbe voluto conciliati Stato e Chiesa, Dante e Bonifacio VIII; che invitò Pio IX a salire a Montecassino durante la Repubblica Romana piuttosto che fuggire a Gaeta; che avrebbe preferito che il monumento a Vittorio Emanuele II fosse posto dinanzi alla Stazione Termini anziché addossato al Campidoglio; che avrebbe desiderato Montecassino come sede dell’Istituto Storico Italiano. Il libro, che poté utilizzare i fondi dell’Archivio privato di Montecassino, fu scritto in un momento travagliato della storia italiana, in cui sembrava che la costruzione dello Stato risorgimentale stesse definitivamente per cadere. I miei compiti di funzionario della Camera dei Deputati, la cui tipografia stampò per prima a partire dal 1886 gli opera omnia del benedettino, prestarono alimento spirituale. Arnaldi seguì con interesse le mie ricerche su Tosti. Fu lui  a volere che il libro uscisse, nel 1997, nella doppia veste dei “Nuovi Studi Storici” dell’Istituto Storico Italiano per il Medio Evo e della “Biblioteca della Miscellanea Cassinese” [22].
Ma Arnaldi seppe far fruttare le mie ricerche su Tosti anche per l’ora presente. Il 21 marzo 1994, a una settimana dalle elezioni politiche che segnarono la fine della “Prima Repubblica”, il Presidente del Consiglio Carlo Azeglio Ciampi si recò a Montecassino, mezzo secolo dopo la distruzione. Per l’occasione Antonio Maccanico, allora Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, chiese ad Arnaldi elementi per il discorso del Presidente; Arnaldi mi chiese di scrivere una nota su Tosti. Così i buoni monaci ascoltarono con stupore un discorso pregno della storia risorgimentale dell’abbazia più che di quella medievale.
Accanto alle parole pronunciate cinquant’anni prima da Benedetto Croce, che quelle rovine “non sono mere cose materiali ma strumenti di vita spirituale”, Ciampi ricordava Renan, al quale i monaci di quel luogo, “quello ove è possibile conoscere meglio lo spirito italiano nella sua elevatezza e nella sua poesia”, assomigliavano agli apostoli della gioachimita età dello Spirito, di cui aveva letto in Spiridion di George Sand. Ma il fulcro del discorso era il padre Tosti, del quale veniva non a caso citata la Storia della Lega Lombarda. La risurrezione di Montecassino, affermava Ciampi, fu l’“opera prima del povero ma virtuoso Stato italiano dell’immediato dopoguerra”. L’Abbazia “reca in sé incorporata la memoria che la capacità di ripresa dell’Italia è tanto più grande quanto più grandi sono le difficoltà”. Tosti – proseguiva Ciampi – « esaltava l’individualismo italiano, capace di degenerare in discordie intestine ma anche di far fronte comune nelle necessità: vincitori a Legnano, gli italiani non chiesero feudi, in ricompensa, contenti delle sole libertà democratiche. […] Tosti additava il riscatto dell’Italia nelle due realtà che nella penisola più avevano avuto radici popolari, il comune e la Chiesa, e concludeva esortando gli Italiani a guardare al di là della nazione, verso l’umanità e il cosmopolitismo … Aveva fiducia nel carattere del popolo italiano, portato per sua natura a riflettere sull’evoluzione storica e a saper risolvere i nodi: “Noi – scriveva a Giuseppe Massari, il fedelissimo di Gioberti – abbiamo la sapienza dell’evoluzione. E quando vogliamo e dobbiamo fare una rivoluzione, lo sappiamo fare sciogliendo e non troncando” » [23]. Come al principio dello Stato unitario, nel settembre 1861, Tosti fu utilizzato da Ricasoli, che ne citò in modo anonimo i Prolegomeni alla storia universale della Chiesa nell’indirizzo a Pio IX “a nome della nazione italiana”, per proporgli un capitolato a soluzione della questione romana [24], così un altro Presidente del Consiglio, in uno dei momenti di maggior crisi di quell’idea di Stato, parlava degli Italiani con il linguaggio del monaco.
Tutto ciò grazie ad Arnaldi e al suo senso delle istituzioni. Tosti gli ricordava certamente la storia “come pensiero e come azione” di Croce e Omodeo, della storia utile che può talora, con moderazione, dare una risposta ai problemi del presente anche trattando di temi apparentemente remoti dalle preoccupazioni attuali [25].

III. A partire dal 1995 la mia vita di studioso è stata quasi tutta dedicata al rapporto fra la Commedia di Dante e la Lectura super Apocalipsim di Pietro di Giovanni Olivi. Ricordo lo stupore di Arnaldi quando gli riferivo dell’andamento della ricerca. Man mano che questa progrediva, il rapporto fra i due testi si configurava sempre più come un travaso semantico dell’umile latino dell’esegesi apocalittica oliviana nel volgare del “poema sacro”, secondo precise norme che escludono ogni casualità; quello che poteva inizialmente apparire un modo comune di sentire il linguaggio era in realtà un rispondersi dei due testi per cui la Commedia rinvia alla Lectura attraverso parole-chiave che sono imagines agentes di un’arte della memoria che percorre tutto il poema e sollecita il lettore accorto verso una dottrina più ampia alla quale i versi prestano “e piedi e mano” per la predicazione in volgare e l’edificazione; la Lectura super Apocalipsim appariva non una nuova fonte, ma il libro con cui tutte le altre fonti o conoscenze concordano; emergeva una struttura interna spirituale del poema, non coincidente con l’ordine letterale, ordinata secondo i sette stati della Chiesa, cioè secondo le categorie che organizzano l’esegesi apocalittica dell’Olivi.
La ricerca, ormai ventennale, può apparire distante dagli interessi di Arnaldi, ma in realtà gli è fortemente debitrice. In primo luogo perché il maestro ha sempre stimolato i discepoli alla ricerca; per questa, talora, chi va cercando argento può trovare oro; grazie alla ricerca mi è stato dato di salire per primo un nuovo versante del “picco dolomitico” dantesco, per usare un’espressione di Bruno Nardi. In secondo luogo perché è una ricerca incardinata nei testi, che vengono approfonditi secondo quanto quarant’anni fa mi fu insegnato in queste aule. Dunque posso dire con Oderisi da Gubbio che l’“onore è tutto or suo, / e mio in parte”.
La ricerca si avvale di discipline diverse, nel senso auspicato da Le Goff: più che filologia, essa è archeologia del testo (all’IRHT parlano di DNA del testo); cerca il senso di quanto i testi mostrano nell’arte della memoria, nella crittografia, nelle scienze cognitive; utilizza strumenti nuovi: gli spazi offerti dalla rete, i collegamenti ipertestuali. Ma la ricerca ha anche fatto tesoro delle voci firmate da Arnaldi sull’Enciclopedia Dantesca (ricordo in particolare quella su Cangrande).
Non si trattava di portare Dante a farsi frate, come forse temevano i guardiani del laicismo integrale senza peraltro mai affrontare una seria discussione, ma registrare un umanesimo sacro subito perduto, constatare che Dante aveva inizialmente concepito, per un poema “polisemos, hoc est plurium sensuum”, anche un pubblico di chierici riformatori della Chiesa – gli Spirituali – che poi però non si formò; vedere Gioacchino da Fiore laicizzato e, come scritto da Ovidio Capitani, i valori francescani applicati all’humana civilitas “per una vera identità cristiana della società europea”. Il confronto dei testi dissolve in modo definitivo la distinzione crociana fra poesia e romanzo teologico, ma realizza altra esigenza sottolineata da Croce, il quale richiedeva “dal lettore della Commedia che anzitutto si renda familiari le linee fondamentali dell’edifizio medievale e viva dentro questa figurazione, grandiosamente conclusa in sé ma a noi per ogni verso estranea” [26]. Non è l’esoterismo a trionfare sull’essoterismo affermato dalla critica novecentista, è la storia che, fondata sui testi, ridà carne e sangue a quell’escatologismo che – secondo Arsenio Frugoni – “oltre che ideologia di lotta e di riforma del gruppo spirituale, era anche un vero e proprio sentimento storico”.
Se il tempo non ha permesso ad Arnaldi di apprezzare compiutamente una ricerca ancora acerba e solitaria, penso tuttavia che sarebbe contento di vederla verificata in questa Università, perché sia consentito ad altri di entrare nel laboratorio di colui che “mostrò ciò che potea la lingua nostra”. Il grado di certezza offerto dal confronto testuale, simile a quello che si registra nelle scienze della natura, consente ora allo storico di riflettere sulle cause. Le prime considerazioni conducono ad uno dei temi più cari ad Arnaldi, quello delle varie rinascite medievali. I testi mostrano infatti come la renovatio cantata da Dante ponesse in perfetto equilibrio la storia della salvezza collettiva propria della “media aetas”, di cui la Lectura oliviana fu l’ultima espressione, e il singolo individuo con le sue nuove esigenze, la lingua, la natura, il regime politico, i classici. Lo sviluppo storico, che non registrò l’auspicata riforma della Chiesa, fattasi avara Babilonia avignonese, condannò la visione collettiva a vantaggio dell’individuo e dissociò il miles Christi nel cristiano e nel cittadino; si perse subito, se mai alcuno fece in tempo ad accorgersene, il linguaggio spirituale che porta i sensi interiori della Commedia, scritta come l’Apocalisse “dentro e fuori”, e ne rimase il senso letterale e la selva dei commenti e delle interpretazioni impotenti a spiegare l’altro nascosto. Quella perdita di coscienza già nel secondo decennio del Trecento, fu sintomo evidente dell’“autunno del Medioevo”. In questa visione concreta di ciò che è vivo e di ciò che è morto della Commedia, per usare le parole di De Sanctis, rivivono i problemi eviscerati da Arnaldi sul concetto di Medioevo e sulla sua diversa periodizzazione, dei quali scriveva nel saggio su Fernand Braudel [27].
L’insegnamento di Arnaldi sulla storia pone in primo luogo il suo valore etico: “Secondo me, dirsi storico è come dirsi poeta […] continuo a credere che la funzione cui assolve lo storico sia una delle più alte funzioni conoscitive e morali, da potersi paragonare solo alla creazione artistica” [28]. Studioso delle istituzioni, Arnaldi non si è fermato al loro tempo; ne ha seguito gli sviluppi. Scrivendo della microstoria di Le Roy Ladurie, si stupiva che, riguardo ad esempio all’Inquisizione, “non ci si soffermi mai a giudicare il peso che questa istituzione ha avuto nel basso Medioevo e a indicare le vie attraverso le quali essa avrebbe finito con l’essere superata e sconfitta” [29]. Per Arnaldi, “il fatto storico non si esaurisce nel suo immediato contorno, si svolge invece nella sua potenza creatrice”, cioè nel suo sviluppo, come scrisse Federico Chabod di Machiavelli [30].

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[1] G. ARNALDI, Commemorazione di Raffaello Morghen, in “Bullettino dell’Istituto storico italiano per il medio evo e Archivio muratoriano”, XCII (1985-1986), pp. 1-19, ripubblicato in IDEM, Conoscenza storica e mestiere di storico, Napoli 2010 (Istituto Italiano per gli studi storici in Napoli), pp. 379-397: p. 382.

[2] G. ARNALDI, Impegno dello storico e libertà della memoria, in G. Arnaldi, A. Caracciolo, A. Carandini, V. Castronovo, G. Galasso, G. Papagno, F. Pitocco, S. Romano, D. Sabbatucci, Incontro con gli storici, Bari 1986, pp. 5-16: p. 7.

[3] J. LE GOFF, Réalités sociales et codes idéologiques au début du XIIIe siècle: un exemplum de Jacques de Vitry sur les tournois  (1980), trad. it. Realtà sociali e codici ideologici all’inizio del secolo XIII: un exemplum di Giacomo di Vitry sui tornei, in IDEM, L’immaginario medievale, trad. di A. Salmon Vivanti, Bari 1998, pp. 57-74: p. 59.

[4] ARNALDI, Impegno dello storico e libertà della memoria, pp. 7-8.

[5] G. ARNALDI, Morghen e l’Istituto storico italiano per il Medio Evo, in Raffello Morghen e la storiografia del Novecento. Atti del Convegno, Roma 19-20 giugno 2003, Roma 2005, pp. 9-22, ripubblicato in IDEM, Conoscenza storica e mestiere di storico, pp. 397-411: p. 403.

[6] G. ARNALDI, Ernesto Sestan, in “Annali dell’Istituto italiano per gli studi storici”, IX (1985-1986), pp. 319-337, ripubblicato in IDEM, Conoscenza storica e mestiere di storico, pp. 413-430.

[7] A. FORNI, Italianità di frontiera. Il confine orientale d’Italia nella storiografia di Ernesto Sestan, in “La Cultura. Rivista di Filosofia Letteratura e Storia”, 24 (1986/2) pp. 256-283.

[8] ARNALDI, Ernesto Sestan, p. 428.

[9] G. ARNALDI, Gregorovius als Geschichtsschreiber der Stadt Rom: das Frühmittelalter. Eine Würdingung, in Ferdinand Gregorovius und Italien. Eine kritische Würdingung. Heraugegeben von A. Esch und J. Petersen, Tübingen 1993, pp. 117-130; ripubblicato col titolo Tramonto e rinascita di Roma nella Storia di Gregorovius, in Studi in onore di Cinzio Violante, Spoleto 1994, pp. 109-122 e in IDEM, Conoscenza storica e mestiere di storico, pp. 489-502: pp. 491-492, 502.

[10] G. ARNALDI, Tramonto e rinascita di Roma nella Storia di Gregorovius, pp. 493, 499.

[11] F. GREGOROVIUS, Römische Tagebücher 1852-1889, herausgegeben und kommentiert von H.-W Kruft und M. Völkel, München 1991, pp. 188 (13 nov. 1864), 357 (9 giu. 1875).

[12] F. DOSTOEVSKIJ, Diario di uno scrittore, trad. e introd. di E. Lo Gatto, Firenze 1981, pp. 925-926.

[13] G. ARNALDI, Tramonto e rinascita di Roma nella Storia di Gregorovius, p. 493.

[14] Ibid., p. 500.

[15] Ibid., p. 494.

[16] F. DE SANCTIS, La letteratura italiana nel secolo XIX. Scuola liberale – Scuola democratica. Lezioni raccolte da F. Torraca e pubblicate con prefazione e note da B. Croce, Napoli 19144 (Opere, 7), pp. 56-57 (1872-1873).

[17] G. ARNALDI, L’opera di P. Lapôtre, in A. Lapôtre, Études sur la papauté au IXe siècle, I, Torino 1978, pp. xliii-lxiii, ripubblicato in IDEM, Conoscenza storica e mestiere di storico, pp. 257-281.

[18] ARNALDI, L’opera di P. Lapôtre, p. 261.

[19] Ibid., pp. 257, 261.

[20] Ibid., pp. 262-264, 277. Nel 1961 Arnaldi aveva pubblicato la voce Anastasio Bibliotecario per il Dizionario Biografico degli Italiani.

[21] ARNALDI, Impegno dello storico e libertà della memoria, p. 15.

[22] A. FORNI, Lo storico delle tempeste. Pensiero e azione in Luigi Tosti (Istituto Storico Italiano per il Medio Evo. Nuovi studi storici, 41 – Biblioteca della Miscellanea Cassinese, 2), Roma  – Montecassino 1997.

[23] L’“Osservatore Romano” del 23 marzo riprendeva (p. 12) il discorso di Ciampi: “Questi (Tosti), negli anni del Risorgimento nazionale, sottolineava l’esigenza che nella nuova Italia non ci fossero due idee della patria, una cattolica e l’altra laica, così come reputava indispensabile la collaborazione delle terre del Nord con quelle del Sud per il bene della nazione”.

[24] FORNI, Lo storico delle tempeste, pp. 140-144.

[25] ARNALDI, Impegno dello storico e libertà della memoria, p. 6.

[26] Cfr. G. SASSO, Croce e Dante, Considerazioni filosofiche su «struttura» e «poesia», in “La Cultura”, 31/2 (1993), p. 199, nota 22.

[27] G. ARNALDI, Riflessioni di un medievista italiano su Fernand Braudel, in IDEM, Conoscenza storica e mestiere di storico, pp. 647-659.

[28] ARNALDI, Impegno dello storico e libertà della memoria, pp. 5-6.

[29] Ibid., pp. 14-15.

[30] F. CHABOD, Introduzione al “Principe”  (1924), in Scritti su Machiavelli, Torino 19643, p. 9.