TEMPUS AMPLIUS NON ERIT (Apocalisse 10, 6) (I)
“- Vi siete messo a credere nell’eternità della vita futura? – No, non nell’eternità della vita futura, ma di questa vita. Ci sono momenti, voi arrivate a certi momenti in cui il tempo tutt’a un tratto si ferma e diventa eternità. – Voi sperate di arrivare a un momento simile? – Sì. – Ai nostri tempi è un po’ difficile, – rispose, pure senz’ironia alcuna, Nikolàj Vsévolodovič, lentamente e come se meditasse. – Nell’Apocalisse un angelo giura che non ci sarà più il tempo. – Lo so. Quel che è detto là è verissimo, è chiaro e preciso. Quando ogni uomo avrà raggiunto la felicità, il tempo non ci sarà più, perché non ce ne sarà bisogno. È un pensiero molto giusto. – E dove lo ficcheranno? – Non lo ficcheranno in nessun posto. Il tempo non è un oggetto, ma un’idea. Si estinguerà nella mente” (F. Dostoevskij, I demoni) [1].
Dove Dante ficca il tempo allorché, nel suo viaggio per luoghi eterni, non ci dovrebbe più essere? Quale soluzione dà ai “problemi che derivano dal narrare l’inenarrabile”, soprattutto a quello, fondamentale, “della temporalità del racconto”? [2]. Quale metamorfosi subisce l’esegesi di Apocalisse 10, 6 offerta dalla Lectura super Apocalipsim di Pietro di Giovanni Olivi?
1. Il giuramento. 2. Il silenzio. 3. La pace. 4. Il tempo nel cielo senza tempo.
Al suono della sesta tromba – nel pieno del rinnovamento recato dal sesto stato della Chiesa, il “novum saeculum” tanto atteso -, l’angelo dal volto solare giura: “Allora l’angelo che avevo visto stare con un piede sul mare e con un piede sulla terra, levò la sua mano verso il cielo e giurò per Colui che vive nei secoli dei secoli, che ha creato cielo, terra, mare, e quanto è in essi, che non ci sarà più tempo e che nei giorni in cui il settimo angelo farà udire la sua voce e comincerà a suonare la tromba, allora si compirà il mistero di Dio come egli ha annunziato per mezzo dei suoi servi, i profeti” (Apocalisse [= Ap] 10, 5-7). Questo giuramento designa la veemente certezza e affermazione che il tempo di questo mondo al momento della settima tromba finirà del tutto. Non si intende che dopo questo suo giuramento non ci sia altro tempo, ma che questo sarà consumato nella voce del settimo angelo. Il sesto stato è iniziato con san Francesco e durerà fino alla distruzione di Babylon, la Chiesa carnale: è dunque il tempo in cui scrivono Olivi († 1298) e Dante. È un periodo di prove e tentazioni che procede verso la piena libertà interiore; di martìri, inflitti dall’Anticristo e dai suoi seguaci, non corporali ma psicologici che insinuano il dubbio sulla fede e perdono anche i più esperti. È però segnato anche da miracoli intellettuali, dall’aprirsi della volontà di dire liberamente di Cristo per dettato interiore. Dopo la caduta di Babylon, subentrerà il settimo stato caratterizzato dalla brevità (da intendere, secondo Olivi, come proporzionata alla durata degli altri stati della storia), dal silenzio, dalla pace. Il suono della tromba del settimo angelo può essere riferito al giudizio finale, e allora è vero che il tempo di questo mondo cesserà completamente. Ma il settimo e ultimo stato ha un inizio in questa vita, dove non sarà tanto breve, ben prima del giudizio finale. Può trattarsi di pregustare, contemplando, la pace eterna in questo mondo; oppure della quiete delle anime beate in attesa della resurrezione.
Il tema del giurare si presenta in diversi luoghi del poema, accompagnato or da uno or da altro dei motivi che lo circondano, nell’esegesi di Ap 10, 5-7. A Purg. XXVI il verbo è posto in bocca a Guinizzelli, riferito a Dante (v. 109: “Ma se le tue parole or ver giuraro”) e preceduto dall’affermare di questi (v. 105: “con l’affermar che fa credere altrui”). L’angelo dal volto solare giura asserendo che il tempo finirà al suono della settima tromba: siamo nel settimo girone della montagna, corrispondente al settimo stato della Chiesa e alla sua tematica, come dimostra il fatto che numerosi versi del canto sono tessuti con fili tratti dall’esegesi dell’istruzione data a Laodicea, la settima chiesa d’Asia.
Giura anche Pier della Vigna, “per le nove radici d’esto legno”, che non ruppe mai la fedeltà a Federico II, suo signore. Giuramento che non gli toglie la pena dell’essere “incarcerato” nel gran pruno della mesta selva, ma nel quale, come nel giurare dell’angelo sesto che conforta gli animi desiderosi di uscire dal carcere di questa vita e dall’oppressione babilonica, è insito il conforto dato alla memoria del dannato nel mondo dal poeta che vi ritornerà (Inf. XIII, 73-78, 87). Al consigliere imperiale (“Io son colui che tenni ambo le chiavi / del cor di Federigo”, ibid., 58-59) è appropriato uno dei temi più celebri dell’Apocalisse (sviluppo da Isaia 22, 22), riferito alla sesta e più cristiforme chiesa d’Asia, la chiave di David che apre e nessuno chiude, chiude e nessuno apre (Ap 3, 7). Così lo definì l’amico Nicola da Rocca: «tanquam Imperii claviger, claudit, et nemo aperit; aperit, et nemo claudit».
“E per le note / di questa comedìa, lettor, ti giuro, / s’elle non sien di lunga grazia vòte” (Inf. XVI, 127-129). L’angelo giura, levando la mano, per il cielo, la terra e il mare. Al “poema sacro”, come detto a Par. XXV, 1-2, “ha posto mano e cielo e terra”. Quest’ultima espressione è accostabile principalmente all’esegesi di Ap 22, 2, dove si parla delle due rive, la divina e l’umana, del fiume di acqua viva (la grazia dello Spirito) che deriva dalla Trinità, entrambe ombreggiate dalle foglie che designano i sacramenti, adombranti verità superiori: “Nam non solum celum, sed etiam terra plena est gloria et maiestate Dei”. Ma nei versi, anch’essi ombra del vero, non può essere esclusa una sacramentale formula di giuramento: “Se mai continga che ’l poema sacro / al quale ha posto mano e cielo e terra, / sì che m’ha fatto per molti anni macro / vinca la crudeltà che fuor mi serra / del bello ovile ov’ io dormi’ agnello, / nimico ai lupi che li danno guerra; / con altra voce omai, con altro vello / ritornerò poeta …”; quasi dicesse, come l’angelo dal volto solare: giuro per il cielo e la terra che il tempo dell’afflizione finirà. Se l’angelo giura che anche il tempo finirà e che la patria è quella celeste, l’effetto principale delle sue parole sarà però la pace instaurata dopo la morte dell’Anticristo (che durerà in terra alquanto tempo prima del giudizio finale). Secondo l’interpretazione di Riccardo di San Vittore, tutto il finale dell’apertura del sesto sigillo (Ap 7, 13-17) è riferibile a Giovanni, al quale viene promesso il ritorno in patria dall’esilio: “Ricardus exponit hoc de persona Iohannis, tunc propter suum exilium a predicatione cessantis, cui consolatorie Christus promittit quod de exilio liberabitur et ad pristine predicationis officium iterato redibit”. Ma ciò, come sottolinea Olivi, va riferito non solo a Giovanni, bensì soprattutto ai santi che vivono nel sesto stato, e dunque anche nel 1300.
Leva le mani in alto, quasi giurando, Vanni Fucci nell’atto di squadrare a Dio “amendue le fiche”. Tutto il contesto accenna alla brevità del tempo: il ladro compie questo gesto blasfemo “al fine de le sue parole”, quelle con cui ha profetizzato, per recare dolore a Dante, sciagure ai Bianchi fiorentini; una serpe gli si avvolge al collo, come per ingiungergli di tacere – “come dicesse ‘Non vo’ che più diche’ ” -, ed “el si fuggì che non parlò più verbo”: il silenzio è anch’esso tema del settimo e ultimo stato (Inf. XXV, 1-6, 16). L’invettiva contro Pistoia reca ancora il tema della durata nel tempo della città, che il poeta si augura breve, invitandola a deliberare il proprio incenerimento (ibid., 10-12). Incenerita verrà Babilonia dai dieci re (Ap 17, 16), cosicché non resti memoria o segno della sua gloria passata.
Un altro dannato che alza le mani come l’angelo – “levando i moncherin per l’aura fosca” – è il Mosca dei Lamberti, il quale con il suo capo ha cosa fatta fece risolvere gli offesi Amidei a uccidere Buondelmonte, uccisione che nel 1216 segnò l’inizio dei mali per Firenze e la Toscana (Inf. XXVIII, 103-108). Anche in questo caso, il senso letterale, o storico, concorda con quello spirituale. L’angelo giura (terza visione) che quando il settimo angelo suonerà la tromba si avrà la consumazione del tempo in questo mondo. E il settimo angelo (quinta visione) versa la sua coppa nell’aria, mentre una voce esce dicendo factum est, ossia tutto è consumato, “adest finis mundi” (Ap 16, 17). Ma l’uccisione di Buondelmonte, “che fu mal seme per la gente tosca”, non recò la fine del tempo. (segue)
Confronti testuali: Il sesto sigillo, capp. 6 (Voce esteriore e dettato interiore), tab. XXXVII bis (“la chiave di David”); 7a Gli angeli neutrali (Inf. III, 37-42), tab. XLIV (esegesi dell’istruzione data a Laodicea, la settima chiesa d’Asia; 8 (Il nuovo Giovanni), tab. LXXVIII, LXXXIII, LXXXVI (Vanni Fucci), LXXXVII (Mosca dei Lamberti).
[1] Parte II, cap. I, v (dialogo tra Stavrogin e Kirillov); trad. it. di A. Polledro, Torino 1994 (19421).
[2] T. Barolini, The Undivine Comedy: Detheologizing Dante, Princeton 1992, trad. it., La “Commedia” senza Dio. Dante e la creazione di una realtà virtuale, Milano 2003, pp. 232-268: p. 232.