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Mar 14 2015

Dante eterodosso? La questione della « lanceatio Christi »

 

Giorgio Brugnoli, nel 1999 [1], prendeva lo spunto da un vecchio libro di R. L. John (1949) [2] nel quale, in un contesto insostenibile sul piano scientifico (il templarismo di Dante), era però individuato un punto – l’adesione di Dante alle tesi dell’Olivi condannate dal Concilio di Vienne (1311-1312) – il quale, ripreso in seguito (1965) da W. Schwarz [3], era stato troppo frettolosamente messo da parte dalla dantistica ufficiale, probabilmente per “la solita censura ideologica e inquisizionale” operata dal “pietismo dantistico imperante” allo scopo di sottrarre Dante all’eterodossia. L’illustre studioso rilevava come il sospetto che Dante conoscesse testi dell’Olivi si stava facendo comunque strada negli ultimi anni. Di qui muoveremo ad esaminare una delle tesi, quella relativa agli effetti prodotti sul corpo di Cristo dalla lancia secondo la narrazione di Giovanni  19, 33.

Contrariamente all’opinione comune, Olivi [4] sosteneva, con cautela (“Hec igitur dicta sint absque alicuius assertionis temeritate”) e sulla base di opinione altrui (“Verumtamen audivi sanctissimam quamdam personam nostri temporis et multis raptibus et divinis revelationibus sepius usitatam, dixisse quod …”) che Cristo, al momento della lanceatio, era ancora vivo. La piaga “laterale” – o piuttosto “pettorale”, inferta dal lato del cuore -, produttiva di dolore e pena, era stata dunque partecipe del processo di soddisfazione della colpa. Una volta constatato che tale tesi non era discordante con la “veritas scripture”, anzi con essa congrua, il francescano ne faceva discendere i significati spirituali. Delle cinque piaghe, è quella che conduce direttamente al cuore aperto nel dolore, cioè alla carità di Cristo. Inferta da ultimo e più dolorosa delle altre, è il vero fine della passione e il compimento delle precedenti piaghe. È piaga segreta rivelata a Giovanni, discepolo prediletto, come lo fu la piaga nel costato di Francesco, a pochissimi rivelata in vita (e come Giovanni designa l’ordine dei contemplativi, così con Francesco si intendono i suoi discepoli spirituali, l’ultimo ordine “in postremis ecclesie passionibus plenius propagando et parturiendo”). Mostrandola, risorto, agli apostoli, e invitando Tommaso a palparla, Cristo intese imprimerla nei nostri cuori. Da essa uscì, come da cella vinaria, prima il sangue che è sede della vita, significante nel rossore il dolore, nel caldo l’amore, la letizia e il diletto. Poi uscì, come da vaso, acqua, designante il lavacro dei peccati, ma anche apertura e porta della sapienza (cfr. Ecclesiastico  15, 3) e delle acque della vita (cfr. Giovanni  7, 38; Apocalisse  22, 17).

Questa tesi dell’Olivi, come è noto, fu condannata dal Concilio di Vienne (1311-1312), insieme a quella secondo la quale l’anima intellettiva non costituisce la forma del corpo e all’altra per cui il battesimo non infonde negli infanti le virtù teologali.

Bisogna ora verificare se, come supposero John e Schwarz, e come Brugnoli ha ritenuto “assai probabile” [5], Dante “risenta deliberatamente” della tesi dell’Olivi. Della lancia parla Tommaso d’Aquino nel cielo del Sole:

Par. XIII, 37-48

Tu credi che nel petto onde la costa
si trasse per formar la bella guancia
il cui palato a tutto ’l mondo costa,
e in quel che, forato da la lancia,
e prima e poscia tanto sodisfece,
che d’ogne colpa vince la bilancia,
quantunque a la natura umana lece
aver di lume, tutto fosse infuso
da quel valor che l’uno e l’altro fece;
e però miri a ciò ch’io dissi suso,
quando narrai che non ebbe ’l secondo
lo ben che ne la quinta luce è chiuso.

“E in quel che, forato da la lancia, / e prima e poscia tanto sodisfece”. Gli antichi commentatori riferirono le parole “e prima e poscia” (nella sequenza “e poscia e prima”) al colpo di lancia, nel senso che, per quanto Cristo fosse già morto, la lanceatio fu il compimento della passione (“poscia”) e della sua vita salvifica (“prima”). John vi vide l’adesione di Dante alla tesi dell’Olivi: “e poscia e prima” significava ‘prima della morte (inferta dalla lancia) e dopo’. Brugnoli, invece, sulla base del restauro testuale proposto dal Petrocchi – “e prima e poscia” – e degli “enunciati delle due terzine fra cui è incastrata la terzina incriminata” (una riferita ad Adamo, l’altra alla sapienza che l’umana natura può possedere per i meriti di Cristo), si àncora alla spiegazione moderna: “e prima (la soddisfazione del peccato originale) e poscia (la soddisfazione dei peccati futuri)” [6]. Cosa vi avrebbe letto uno Spirituale, conoscitore della Lectura super Apocalipsim dell’Olivi, alla cui dottrina i versi della Commedia rinviavano, utilizzando le parole del senso letterale come segni mnemonici verso l’altro testo?

La memoria di quel lettore sarebbe stata indirizzata all’esegesi di alcuni versetti del cap. XVII. Ad Ap 17, 1 (sesta visione) Olivi afferma che la grande meretrice designa la gente e l’impero dei Romani sia nello stato del paganesimo come in quello cristiano, durante il quale colpevolmente fornicò molto con questo mondo. Questa continuità viene sviluppata ad Ap 17, 6, dove il francescano pone la questione del perché vengano menzionate le colpe commesse da questa donna nel suo primo e antico periodo, al tempo dei pagani: per esse non dovrebbe essere infatti condannata la gente carnale e semicristiana che vive nel sesto tempo della Chiesa. La risposta sta nelle parole di Cristo in Matteo  23, 35: “perché venga su di voi il giusto sangue effuso dal sangue di Abele il giusto”. Come un fiume che dura per molto tempo viene sempre considerato uno, per quanto l’acqua dei suoi primi anni sia diversa dall’acqua di questo anno che corre – al modo con cui diciamo che sono ormai cent’anni che questo fiume ha straripato o si è fatto sangue -, così il continuo succedere del popolo romano viene considerato una gente e un popolo, in modo che si possa dire che questo popolo fu prima pagano e poi cristiano, così da attribuire, quasi per sineddoche, quel che è di una parte all’altra parte o al tutto. Così la colpa della prima parte ridonda nella successiva, in quanto recidiva e fatta ingrata della grazia di Cristo che con misericordia l’ha lavata e santificata. Questa donna, pertanto, che dopo i molti e gravi giudizi fatti nella prima parte del suo popolo non temette di cadere in peccati simili o peggiori, deve essere giudicata per il dispregio di tutti i primi giudizi, anche misericordiosi, dati da Dio sui primi suoi padri, e dunque anche su di essa, su cui sarebbero ricaduti se non avesse demeritato. Imitando i peccati dei padri, li ha abbracciati e proseguiti, e pertanto è rea di tutto, come dice Cristo agli Ebrei del suo tempo: “Guai a voi che edificate i monumenti dei profeti, i vostri padri li hanno uccisi, poiché con la vostra opera date testimonianza che consentite alle opere dei vostri padri” (Luca, 11, 47- 48). Questo passo contenente l’immagine del fiume “per multa tempora durans”, che giustifica teologicamente il connubio fra tempo pagano e tempo cristiano nel giudizio divino, si presta nel poema a molte variazioni, come mostra la tabella che segue [7]. La storia umana che corre al giudizio come un unico grande fiume, anche se le sue acque non sono le stesse attraverso i secoli, rende partecipe – come in una sineddoche – il paganesimo di tutto il bene e il male che ridondano di secolo in secolo e ricadono infine sul sesto stato, cioè sull’età moderna, quella del viaggio di Dante. Quel lettore avrebbe dunque inteso le parole dell’Aquinate nel senso che Cristo soddisfece per le colpe antiche e per le nuove.

 

[Ap 17, 6; VIa visio] Si queratur quare hic commemorat culpas quas hec mulier in suo priori et antiquo tempore et paganica gente commisit, cum propter illas non debeat sequens carnalis et semicristiana gens eius in sexto tempore ecclesie condempnari, de qua quidem condempnatione hic proprie agitur, patet responsio ex tactis supra XIII° et etiam in lectura super Mattheum super illud XXIIIi capituli: “ut veniat super vos omnis sanguis iustus qui effusus est a sanguine Abel iusti” et cetera (Mt 23, 35). Sicut enim totus fluvius per multa tempora durans dicitur esse unus, quamvis aqua priorum annorum eius sit alia ab aqua presentis anni, ita ut propter hanc unitatem dicamus quod iste fluvius, iam centum anni sunt, inundavit vel fuit sanguineus, sic tota continua successio populi romani dicitur esse una gens vel unus populus, ita ut dicamus quod populus romanus fuit primo paganus et postea christianus; et secundum hoc quod est unius partis attribuitur toti vel alteri parti per sinodochem.

Prima culpa prioris partis redundat pro tanto in postremam pro quanto, per Christi gratiam ab ill[a] misericorditer lota et sanctificata, est recidivando de omnibus facta ingrata.
Preterea ex hoc quod post multa gravia iudicia in primas partes sui populi facta non timuit cadere in peccata consimilia vel peiora, debet iudicari tamquam contemptrix omnium priorum iudiciorum et etiam misericordiarum factarum in priores patres eius, ac per consequens et in ipsam, pro quanto redundaverunt in eam vel redundassent si ipsa non demeruisset.
Preterea pro quanto in imitando peccata priorum amplexatur et prosequitur illa, pro tanto est omnium rea, unde Christus Luce XI° dicit Iudeis sui temporis: “Ve vobis, qui edificatis monumenta prophetarum; patres autem vestri occiderunt illos” (Lc 11, 47), quod vestro opere pro certo “testificamini quod consentitis operibus patrum vestrorum” et cetera (Lc 11, 48).

Inf. XIII, 133-135

“O Iacopo”, dicea, “da Santo Andrea,
che t’è giovato di me fare schermo?
che colpa ho io de la tua vita rea?”.

Inf. XIX, 115-117

Ahi, Costantin, di quanto mal fu matre,
non la tua conversion, ma quella dote
che da te prese il primo ricco patre!

Par. VI, 109-110

Molte fïate già pianser li figli
per la colpa del padre ……

Par. XIII, 37-42

Tu credi che nel petto onde la costa
si trasse per formar la bella guancia
il cui palato a tutto ’l mondo costa,
e in quel che, forato da la lancia,
e prima e poscia tanto sodisfece,
che d’ogne colpa vince la bilancia

 Inf. XXVII, 25-27, 70-71, 108-120

Se tu pur mo in questo mondo cieco
caduto se’ di quella dolce terra
latina ond’ io mia colpa tutta reco

se non fosse il gran prete, a cui mal prenda!,
che mi rimise ne le prime colpe

 e dissi: Padre, da che tu mi lavi
di quel peccato ov’ io mo cader deggio,
lunga promessa con l’attender corto
ti farà trïunfar ne l’alto seggio”.
Francesco venne poi, com’ io fu’ morto,
per me; ma un d’i neri cherubini
li disse: “Non portar; non mi far torto.
Venir se ne dee giù tra ’ miei meschini
perché diede ’l consiglio frodolente,
dal quale in qua stato li sono a’ crini;
ch’assolver non si può chi non si pente,
né pentere e volere insieme puossi
per la contradizion che nol consente”.

Par. V, 64-70, 75

Non prendan li mortali il voto a ciancia;
siate fedeli, e a ciò far non bieci,
come Ieptè a la sua prima mancia;
cui più si convenia dicer ‘Mal feci’,
che, servando, far peggio; e così stolto
ritrovar puoi il gran duca de’ Greci,
onde pianse Efigènia il suo bel volto

e non crediate ch’ogne acqua vi lavi.

 

Il discorso di Tommaso d’Aquino è un tessuto di segni che conducono la memoria dell’esperto lettore verso più punti dell’esegesi apocalittica oliviana. Così, se “e prima e poscia” è signaculum di Ap 17, 6, altre parole nel contesto – sodisfece, bilancia, umana, valor (Par. XIII, 41-45) – fanno segno dell’esegesi del terzo sigillo (Ap 5, 1/6, 6) [8]. Ciò non è casuale, perché se l’Aquinate parla della sapienza che è lecito alla natura umana possedere, il terzo stato dell’Olivi riassume tutti gli elementi che Dante ritiene utili per conseguire la felicità dell’uomo su questa terra. Segnato dal primato dell’intelletto sui sensi, realizzazione dell’uomo razionale, il terzo stato – che nella storia della Chiesa è proprio dei dottori – è il luogo della discrezione e dell’esperienza, al cui regime soggiace il falso e nebuloso immaginare; il luogo del sapere (la “cura sciendi”) che è “de veris et de utilibus, seu de prudentia regitiva actionum et de scientia speculativa divinorum”; è il depositario della lingua vera e della vera fede, della scrittura che non erra, della giusta misura contro ciò che è oscuro e intorto, della bilancia che rettamente pesa la divinità del Figlio di Dio contro gli Ariani che non la ritenevano somma, coeguale e consustanziale a quella del Padre; i suoi dottori (il terzo stato è assimilato al sacramento del sacerdozio) sono perfettamente illuminati nella sapienza; sono maestri del senso morale, “mores hominum rationabiliter et modeste componens”, assimilato al ‘vino’ con il quale ardono contro i vizi e accendono all’amore delle virtù; è il tempo delle leggi e della spada che scinde le eresie, dell’autonomia della potestà temporale, una delle due ali della grande aquila date alla donna (la Chiesa) per vincere il drago nella terza e quarta guerra (Ap 12, 14). L’esegesi dell’Olivi offre dunque a Dante molti motivi da trasformare e da riversare sull’intero mondo umano. I dottori della Chiesa ebbero una loro antica prefigurazione, in “color che ragionando andaro al fondo, / s’accorser d’esta innata libertate; / però moralità lasciaro al mondo” (Purg. XVIII, 67-69), cioè negli antichi filosofi e in particolare in Aristotele autore dell’Etica. Dei due fini proposti all’uomo dalla Provvidenza dei quali si tratta nella Monarchia, la beatitudine di questa vita e la beatitudine della vita eterna (III, xv, 7-10), il primo corrisponde alle realizzazioni del terzo stato della Chiesa secondo l’Olivi. A questo fine, al quale presiede l’Imperatore, si giunge attraverso la filosofia, seguendola nell’operare secondo le virtù morali e intellettuali: essa è speculare, nel rapporto instaurato tra la Lectura e la Commedia, al lume dei dottori che reggono con la ragione. All’altro fine, la beatitudine della vita eterna che spetta al papa, si perviene attraverso gli insegnamenti spirituali che trascendono la ragione umana, seguendoli nell’operare secondo le virtù teologali: a questi corrisponde la santa vita e la “pascualis refectio”, il “pastus” degli anacoreti, cui è appropriato lo stato successivo, il quarto, corrispondente all’altra ala della grande aquila data alla donna. “Spada” e “pasturale”, come terzo stato (dottori) e quarto (anacoreti), possono concorrere a illuminare come soli l’orbe, ma non identificarsi.

Nel quinto capitolo della Lectura, la cui esegesi costituisce con il quarto una sorta di prologo alla seconda visione, Olivi definisce le cause della chiusura del libro, i cui sigilli stanno per essere aperti (ad Ap 5, 1). La seconda causa della presenza dei sette sigilli sta nella passione di Cristo, che per sette motivi appare abietta al senso umano, il quale trova nella morte in croce impotenza, angustia, stoltezza, inopia, ignominia, inimicizia e sevizia (ad Ap 5, 1). Il terzo motivo è l’apparente stoltezza, per cui Dio si è fatto uomo ed è morto per dare soddisfazione alle ingiurie a Lui stesso arrecate e ha redento con tale prezzo coloro che avrebbe potuto salvare col solo suo potere. Contro l’apparente stoltezza sta il “valore”, di incomparabile lucro, che deriva dal commercio della dottrina di Cristo. In cambio di un solo denaro – la fede unica e semplice – si ottengono infatti beni senza prezzo, cioè il grano, l’orzo, il vino e l’olio di cui si dice nella terza apertura e che corrispondono ai quattro sensi della Scrittura (Ap 6, 6). Il commercio della sapienza tramite lo studio dello Scrittura si contrappone alla bilancia dolosa ed erronea degli eretici, che vacilla dal retto equilibrio della verità. A questa parte della dottrina apocalittica dell’Olivi relativa al terzo stato, come appare dalla tabella che segue, il senso letterale del poema rinvia in più punti, fra i quali ci sono le menzionate parole di Tommaso d’Aquino.

 

[Ap 5, 1; III-IV sigillum] Secunda causa seu ratio septem sigillorum libri est quia in Christo crucifixo fuerunt septem secundum humanum sensum et estimationem abiecta, que claudunt hominibus sapientiam libri eius.
In eius enim cruce et morte apparet humano sensui summa impotentia (I) et angustia (II) et stultitia (III) et inopia (IV) et ignominia (V) et inimicitia (VI) et sevitia (VII). […]
(III) Deum autem humanari ac sperni et mori, ut Deomet satisfiat de iniuriis sibi ab alio factis, et ut illos tali pretio redimeret, qui simpliciter erant sub dominio suo et quos per solam potentiam salvare poterat, pretendit summam stultitiam. (…) Contra stultitiam vero, est mercationum doctrine Christi lucrosus et incomparabilis valor. Nam pro denario unius et simplicis fidei habetur impretiabile triticum et ordeum et vinum et oleum, prout in tertia apertione monstratur (cfr. Ap 6, 6). (IV) Contra vero inopiam est eiusdem doctrine refectivus et copiosissimus sapor. Sicut enim mercatio sapientie per fidele studium scripturarum refertur ad doctores, et statera dolosi erroris, a recta equilibratione veritatis claudicans, respicit hereticos, sic spiritalis sapor et refectio eiusdem sapientie Christi refertur ad anachoritas, tantam eisdem sufficientiam tribuens ut nichil exterius querere viderentur nec aliquo exteriori egere, propter quod quasi nudi et soli in solitudinibus habitabant spiritalibus divitiis habundantes. Falsa autem statera et dolosa libratio et intentio ypocrisis, austeritates exteriores simulant[is] vel prava intentione sumentis, respicit ypocritas illius temporis. Sicut enim supra in principio prenotavi, status doctorum et anachoritarum simul cucurrerunt quamvis, prout ibidem notavi, quarto statui approprietur tempus sequens a Iustiniano usque ad exitum secte Sarracenorum. Vel in quarta apertione designatur copia virtutis et vite anachoritarum per suum contrarium, scilicet per internam mortem et ariditatem ypocritarum in pallido equo, id est corpore exterius apparenter macerato, sedentium (cfr. Ap 6, 8). […]
Tertia ratio septem sigillorum quoad librum veteris testamenti sumitur ex septem apparenter in eius cortice apparentibus. […] Tertium est irrationabilitas cerimonialium legum et observantiarum. Hanc autem evacuat sapientialis et vivificus doctrine Christi cibus et sapor in tertia apertione notatus.

Par. XXIX, 142-145; XXXIII, 79-81, 109-114

Vedi l’eccelso omai e la larghezza
de l’etterno valor, poscia che tanti
speculi fatti s’ha in che si spezza,
uno manendo in sé come davanti.

E’ mi ricorda ch’io fui più ardito
per questo a sostener, tanto ch’i’ giunsi
l’aspetto mio col valore infinito.

Non perché più ch’un semplice sembiante
fosse nel vivo lume ch’io mirava,
che tal è sempre qual s’era davante;
ma per la vista che s’avvalorava
in me guardando, una sola parvenza,
mutandom’ io, a me si travagliava.

Purg. XXII, 145-150

E le Romane antiche, per lor bere,
contente furon d’acqua; e Danïello
dispregiò cibo e acquistò savere.
Lo secol primo, quant’ oro fu bello,
savorose con fame le ghiande,
e nettare con sete ogne ruscello.

Par. XIII, 37-48

Tu credi che nel petto onde la costa
si trasse per formar la bella guancia
il cui palato a tutto ’l mondo costa,
e in quel che, forato da la lancia,
e prima e poscia tanto sodisfece,
che d’ogne colpa vince la bilancia,
quantunque a la natura umana lece
aver di lume, tutto fosse infuso
da quel valor che l’uno e l’altro fece;
e però miri a ciò ch’io dissi suso,
quando narrai che non ebbe ’l secondo
lo ben che ne la quinta luce è chiuso.

Inf. XVI, 67-76

“cortesia e valor dì se dimora
ne la nostra città sì come suole,
o se del tutto se n’è gita fora;
ché Guiglielmo Borsiere, il qual si duole
con noi per poco e va là coi compagni,
assai ne cruccia con le sue parole”.
“La gente nuova e i sùbiti guadagni
orgoglio e dismisura  han generata,
Fiorenza, in te, sì che tu già ten piagni”.
Così gridai con la faccia levata

[Notabile I] Tertius (status) est confessorum seu doctorum, homini rationali appropriatus.

Par. IV, 136-138; V, 19-27, 61-63

Io vo’ saper se l’uom può sodisfarvi
ai voti manchi sì con altri beni,
ch’a la votra statera non sien parvi.

Lo maggior don che Dio per sua larghezza
fesse creando, e a la sua bontate
più conformato, e quel ch’e’ più apprezza,
fu de la volontà la libertate;
di che le creature intelligenti,
e tutte e sole, fuoro e son dotate.
Or ti parrà, se tu quinci argomenti,
l’alto valor del voto, s’è sì fatto
che Dio consenta quando tu consenti

Però qualunque cosa tanto pesa
per suo valor che tragga ogne bilancia,
sodisfar non si può con altra spesa.

 

 

 

 

 

 

L’Aquinate, il quale mai in terra sostenne che Cristo al momento della lanceatio fosse ancora vivo [9], non lo afferma neanche da spirito nel cielo del Sole. Ivi, dove si manifestano le anime sapienti, si assiste a una pacificazione generale delle controversie terrene, a un vero e proprio giubileo: Tommaso d’Aquino presenta a Dante la luce più fulgida, la quinta, dentro la quale è contenuta la vera sapienza cristiana, e infine Sigieri, un avversario dei Domenicani; quindi narra la vita di Francesco. Bonaventura, il maestro di Olivi, narra la vita di Domenico, mentre gli luce accanto Gioacchino da Fiore. In questa superiore concordia discors di persone e dottrine, come avrebbe potuto l’Aquinate asserire una tesi condannata qualche anno prima dal Concilio di Vienne? Eppure le sue parole sono tessute, non diversamente da quanto avviene per gli altri versi del poema, con i fili tratti dalla “pestifera postilla” dell’Olivi su cui si accanivano gli inquisitori. Già Raoul Manselli sottolineava come il silenzio di Dante su Olivi, su un personaggio che non poteva non conoscere e stimare, potrebbe essere connesso con le polemiche e con il giudizio di ortodossia cui erano soggette le opere del francescano che, dopo morto (1298), subì una persecuzione senza precedenti [10]. La redazione del Paradiso, generalmente collocata a partire dal 1316, è infatti contemporanea all’inasprirsi della persecuzione contro la Lectura (nel 1318-1319 Giovanni XXII ne affidò l’esame a otto maestri in teologia). Si potrebbe anche affermare che, essendo la Commedia metamorfosi della Lectura super Apocalipsim, non era necessario che il poeta incontrasse nel suo pellegrinaggio il frate minore, la cui ultima opera sempre gli stava innanzi. Eppure, se mai Pietro di Giovanni avesse dovuto trovar luogo nella Commedia, nessuna collocazione migliore avrebbe avuto che nel cielo del Sole. Lì avrebbe potuto ascoltare il suo ideale avversario in teologia, Tommaso d’Aquino, fare l’elogio di Francesco; sarebbe stato accanto al suo maestro Bonaventura, a Riccardo di San Vittore e a Gioacchino da Fiore, i due autori tanto citati nella Lectura, a Dionigi l’Areopagita, dal cui pensiero fu molto influenzato. Avrebbe udito da Bonaventura riprovare la mancanza di equilibrio nell’interpretare la Regola da parte del rigorista Ubertino da Casale, che dell’Olivi fu discepolo a Firenze e strenuo difensore nella “magna disceptatio”, e del rilassato Matteo d’Acquasparta, che come Ministro generale inviò nel 1287 Pietro di Giovanni al convento fiorentino di Santa Croce.

I motivi della profonda sapienza contenuta dentro al libro, tratti dall’esegesi del cap. V della Lectura (parte proemiale della seconda visione, che è dell’apertura dei sigilli), sono propri dell’elogio che nel cielo del Sole Tommaso d’Aquino fa della quinta e più fulgida luce tra gli spiriti sapienti: “entro v’è l’alta mente u’ sì profondo / saver fu messo, che, se ’l vero è vero, / a veder tanto non surse il secondo” (Par. X, 112-114). Le espressioni entro, alta mente, profondo saver coincidono con elementi semantici del testo esegetico. La luce resta innominata, ma in Par. XIII, 31-111 Tommaso chiarisce, pur senza mai nominarlo, che si tratta del più sapiente dei re, cioè di Salomone. Nella prima terzina del suo elogio, l’Aquinate afferma che la luce “spira di tale amor, che tutto ’l mondo / là giù ne gola di saper novella” (Par. X, 109-111), alludendo alle dispute terrene dei teologi, divisi tra i sostenitori della salvezza di Salomone e quelli della sua dannazione a motivo della lussuria senile. Così, a tutto il mondo che brama di avere notizie, Tommaso dà l’annuncio che l’anima non solo è salvata, ma è la luce “più bella” e “più dia” del quarto cielo. Lo spirare d’amore è motivo che si ritrova nel medesimo capitolo quinto (Ap 5, 8). Dopo che l’Agnello ha preso il libro, i quattro animali e i ventiquattro seniori si prostrano dinanzi a lui, avendo ciascuno un’arpa e coppe d’oro colme di profumi. Le coppe (“phiale”) sono i cuori dei santi, lucenti per la sapienza, dilatati per la carità, splendenti di aurea fiamma per la contemplazione e ripiene di profumi che ridondano dalle devote orazioni. Come i profumi che sprigionano dal fuoco salgono verso l’alto e riempiono di odore tutto l’edificio, così le devote orazioni salgono alla presenza di Dio, lo raggiungono e piacciono per il loro esser soavi a Lui e a tutta la curia celeste e subceleste. Come il profumo che si diffonde spira in modo invisibile dagli aromi, così i devoti affetti di coloro che pregano spirano invisibili e si diffondono in modo amplissimo nelle varie maniere del santo amore, come è evidente nella varietà dei santi affetti espressi e messi in opera nei Salmi.

La reticenza iniziale di Tommaso sul nome della quinta luce in Par. X, rimediata in Par. XIII con un complesso argomentare che sembra aggiunto apposta per fornire un’interpretazione autentica a un’incertezza equivoca, giustifica il dubbio che il desiderio del mondo di sapere sulla salvezza o sulla dannazione dell’innominato non riguardi unicamente la lussuria di Salomone, ma pure e soprattutto la dottrina dell’Olivi. Le parole di Tommaso, che comunque non entrano nel merito della controversia, avrebbero come retroscena la battaglia intorno agli scritti dell’Olivi iniziata dopo la morte di questi (1298) e culminata, dopo la soluzione compromissoria tra la Comunità francescana e gli Spirituali trovata al concilio di Vienne (1311-1312), nella proibizione della lettura delle opere di Pietro di Giovanni, messe al rogo a Marsiglia (1319), e nella condanna della Lectura da parte di Giovanni XXII cinque anni dopo la morte di Dante (1326). La sentenza di riabilitazione del francescano, pronunciata in cielo dall’autorità di una delle parti avverse, proverrebbe da una figura esterna al suo Ordine, dal quale vennero le più aspre persecuzioni, e ciò è conforme all’infiammata cortesia reciproca tra Tommaso e Bonaventura, il primo dei quali si farebbe corifeo sia di Francesco sia di colui che aveva interpretato la Regola del “poverel di Dio” come un Vangelo vissuto. L’ultimo a parlare, nel cielo del Sole, è proprio la luce di Salomone che risolve, su richiesta di Beatrice, un dubbio di Dante sulla luminosità dei beati dopo la resurrezione dei corpi. È un Salomone che splende di umiltà: dalla “luce più dia del minor cerchio» esce «una voce modesta, / forse qual fu da l’angelo a Maria” (Par. XIV, 34-36). Ed è forse memore dell’angelo che, nella Lectura super Lucam dell’Olivi, umilmente riferisce tutta la lode a Dio. Reminiscenza santacrociana, di un ascolto diretto dell’Olivi da parte di Dante negli anni 1287-1289? Certo l’apparizione dell’angelo a Zaccaria, descritta in Luca 1, 11-13 (e nell’esegesi offerta dall’Olivi) come una forza divina la cui virtù atterrisce, fa tremare e ammutolire colui che “pro salute sua et totius populi orans petebat Saluatorem”, come di uno spirito “qui occulte prout uult cerebrum ac neruos et medullas et totam hominis sensualitatem agitat et concutit et opprimit, quantum et prout sibi placet”, pare essersi inverata nell’apparizione dell’ “angiola giovanissima” che per virtù fa tremare il cuore di Dante quasi alla fine del suo nono anno, e allo spirito della vita che vi risiede fa dire tremando queste parole: “Ecce Deus fortior me, qui veniens dominabitur michi!” (Vita Nova, 1 [5]). Allora anche l’aprirsi del muto Zaccaria alla lode di Dio per imporre al figlio il nome Giovanni (Lc 1, 64) si è ripetuto nella lingua che “parlò quasi come per sé stessa mossa” di “colui che”, lodando la propria donna, “fore / trasse le nove rime, cominciando / ‘Donne ch’avete intelletto d’amore’ ” [11].

I temi propri del libro sono presenti, in un contesto tutto diverso da quello di Salomone, nella presentazione che Giustiniano fa di sé stesso nel secondo cielo di Mercurio (Par. VI, 10-12, 22-27). Da una parte stanno i motivi provenienti da Ap 5, 1: il trarre “d’entro le leggi” (il libro contiene all’interno le leggi del sommo imperatore), “l’alto lavoro” (che corrisponde all’alta mente richiesta per l’intelligenza del libro), la “destra del ciel … sì congiunta” alle imprese di Belisario (il libro sta nella destra di Dio e contiene le promesse della grazia e della gloria; il congiungere è tema appropriato ai forti angoli delle mura della Gerusalemme celeste descritta nella settima visione, come pure il ‘posarsi’ è tema connesso con lo stadio, che è misura della città) [12]. Da Ap 5, 8, il passo della cetra e delle coppe tenute in mano dai seniori utilizzato da Tommaso d’Aquino per descrivere la “quinta luce”, deriva il tema dello spirare da parte del primo d’amore e quello del beneplacito divino (è possibile una collazione con il passo simmetrico di Ap 16, 1, in cui i ministri del giudizio si apprestano a versare le coppe per ispirazione, comando e beneplacito di Dio, passo al quale rinviano le parole di Ulisse “com’ altrui piacque” e del sacrosanto segno di cui dice lo stesso Giustiniano, che “Cesare per voler di Roma il tolle”).

Se la “quinta luce”, oltre ad essere Salomone, designa Olivi – “dono Dei sapiens vir” [13], “sapiens sapientia sibi divinitus infusa et acquisita” come lo definiva Angelo Clareno, che vi scorgeva il “sole” profetizzato dall’Oraculum Cyrilli “propter splendidissimam sapientiae et scientiae sibi divinitus infusae multiformitatem” [14] -, allora il medesimo panno, cioè l’esegesi del libro della sapienza divina, offre i fili per ordire la figura del Cesare che ebbe in mano il sacrosanto segno dell’aquila, la figura del re prudente e quella della sapienza teologica: dal libro, come da una fonte, discendono entrambe le autorità, la temporale e la spirituale. La sapienza di Salomone, come elogiata da Tommaso d’Aquino, non fu solo politica, ma anche filosofica, di una filosofia non inutile o fine a sé stessa: “non per sapere il numero in che enno / li motor di qua sù, o se necesse / con contingente mai necesse fenno; / non si est dare primum motum esse, / o se del mezzo cerchio far si puote / trïangol sì ch’un retto non avesse” (Par. XIII, 97-102). Salomone fece un usus pauper, prudente e proporzionato, della sapienza, sfrondata del superfluo, al modo con cui Giustiniano trasse “d’entro le leggi … il troppo e ’l vano”.

È di conseguenza possibile dare una risposta alla fondamentale obiezione in merito ai rapporti fra Dante e gli Spirituali francescani: come poté seguirli tanto, considerato il giudizio negativo che Bonaventura dà di Ubertino da Casale, loro maggior punto di riferimento, a Par. XII, 124-126? La risposta sta, appunto, nel separare gli opposti estremismi riprovati da Bonaventura – il coartare la Regola da parte del rigorista Ubertino e il fuggirla da parte del rilassato Matteo d’Acquasparta – dalla sua vera interpretazione sapientemente data dall’Olivi. Nell’ultima fase della stesura del poema Dante volle con nettezza distinguersi dall’estremista Ubertino da Casale, che pure attorno al 1307, in un periodo nel quale la riforma della Chiesa era ancora possibile, fu probabilmente colui che gli diede in mano la Lectura super Apocalipsim perché la volgarizzasse nei suoi modi poetici.

[Ap 5, 8; radix IIe visionis] Phiale [igitur] iste sunt corda sanctorum per sapientiam lucida, per caritatem dilatata, et per contemplationem splendidam et flammeam aurea, et per devotarum orationum redundantiam odoramentis plena. Sicut enim odoramenta per ignem elicata sursum ascendunt totamque domum replent suo odore, sic devote orationes ad Dei presentiam ascendunt et pertingunt, eique suavissime placent et etiam toti curie celesti et subcelesti. Sicut [etiam] diffusio odoris spiratur invisibiliter ab odoramentis, sic devote affectiones orantium spirantur invisibiliter et latissime diffunduntur ad varias rationes dilecti et ad varias rationes sancti amoris, prout patet ex multiformi varietate sanctorum affectuum qui exprimuntur et exercentur in psalmis.

[Ap 16, 1; radix Ve visionis] Quartum radicale est divina iussio seu inspiratio unumquemque ministrorum divini iudicii actualiter movens et applicans ad exsequendum officium suum, quia non debent ad hoc propria voluntate seu animositate moveri, sed explendo Dei beneplacitum et mandatum. Unde subdit: “Et audivi vocem magnam dicentem septem angelis: Ite et effundite septem phialas ire Dei in terram”, id est in terrenos et inferiores. 

[Ap 5, 1; radix IIe visionis] Visus autem estin dexteraDei, tum quia est in eius plena potentia et facultate, tum quia continet promissiones Christi gratie et glorie et etiam largitiones et preparationes, que dicuntur spectare ad dexteram sicut adversa vel bona temporalia dicuntur spectare ad sinistram.
Erat etiam “in dextera sedentis super tronum”, tum quia continet leges et precepta summi imperatoris et sententias et iudicia summi iudicis, tum quia altam et stabilem et maturam et quietam ac recollectam mentem requirit ad hoc quod intellectualiter haberi et intelligi possit, unde et talis est intelligentia Dei.
Est etiam “scriptus intus et foris” propter varios sensus vel intellectus ipsius, quorum quidam sunt magis intrinseci et nobis magis absconsi, quidam vero sunt magis forinseci et noti. Et hoc dico respectu omnium supradictarum apertionum libri, prout in primo generali principio edito de hoc verbo super totam scripturam diffusius pertractavi. Liber etiam scripture sacre habet litteralem sensum foris, intus vero anagogicum et allegoricum et moralem. In sensu etiam litterali habet foris ystorica gesta et exempla sanctorum et suorum exteriorum operum, intus vero profundiores sententias divinorum preceptorum et sapientialium documentorum.

Par. VI, 10-12, 22-27

Cesare fui e son Iustinïano,
che, per voler del primo amor ch’i’ sento,
d’entro le leggi trassi il troppo e  ’l vano.

Tosto che con la Chiesa mossi i piedi,
a Dio per grazia piacque di spirarmi
l’alto lavoro, e tutto ’n lui mi diedi;
e al mio Belisar commendai l’armi,
cui la destra del ciel fu sì congiunta,
che segno fu ch’i’ dovessi posarmi.

Par.  X, 109-114

La quinta luce, ch’è tra noi più bella,
spira di tale amor, che tutto ’l mondo
là giù ne gola di saper novella:
entro v’è l’alta mente u’ sì profondo
 saver
fu messo, che, se ’l vero è vero,
a veder tanto non surse il secondo.

Petri Iohannis Olivi Lectura super Lucam, ed. F. Iozzelli, Ad Claras Aquas, Grottaferrata 2010 (Collectio Oliviana, V), p. 197 (Lc 1, 28) [le citazioni scritturali, anziché in corsivo, sono state poste fra “ ”]:

    Et aduerte quod in hoc trino preconio semper tota laus refertur in Deum: nam non dicit eam “plenam” uirtute, sed “gratia”, id est donis gratiosis et gratificis sibi non ex debito nec ex suis meritis, sed ex sola Dei gratia gratis datis. Non etiam dicit: tu tua uirtute ascendisti ad Deum, sed potius quod “Dominus” condescensiue est “tecum”. Quod enim de modo condescensiuo loquatur, aperte insinuat, quia uocat eum Dominum. Dominus autem non est cum suo famulo uel ancilla tamquam cum superiori uel principali aut coequali, sed tamquam cum suo inferiori. Non etiam dicit: tu es omnibus bonis per ceteris fecunda et accumulata; sed dicit: tu es “benedicta”, scilicet a Domino Deo tuo, cuius benedicere est bona efficere et bonis replere, iuxta illud Genesis primo: “Benedixit illis, dicens: Crescite et multiplicamini” (Gn 1, 28). Si enim angelus in huiusmodi laudibus Virginis prefatos in Deum respectus non obseruasset, potius censendus fuerat dyabolicus adulator quam diuinus et angelicus consolator.

Par. XIV, 34-37

E io udi’ ne la luce più dia
del minor cerchio una voce modesta,
forse qual fu da l’angelo a Maria,
risponder …………………………………

[Lectura super Apocalipsim, Ap 4, 5] “Et de trono procedebant” (Ap 4, 5), vel secundum aliam litteram “procedunt”, “fulgura et voces et tonitrua”, quia tam a Deo quam ab eius ecclesia et quam a sanctis, qui sunt sedes Dei, procedunt “fulgura” miraculorum, quorum claritas longe lateque coruscat sicut fulgura discurrentia; et “voces” rationabilis ac temperate predicationis, “et tonitrua” terribilium comminationum, vel tonitrua altiorum et spiritualium documentorum, que competunt perfectioribus. Voces enim in terra fiunt, tonitrua vero in celo seu ethere, vocesque sunt modice respectu tonitruorum.

 

Petri Iohannis Olivi Lectura super Lucam, ed. F. Iozzelli, Ad Claras Aquas, Grottaferrata 2010, pp. 175-177 (Collectio Oliviana, V) [le citazioni scritturali, anziché in corsivo, sono state poste fra “ ”]:
(Lc 1, 11) “Apparuit autem illi angelus Domini stans a dextris altaris incensi” […] Quante autem magnificentie et efficacie hec apparitio fuerit, per eius effectum patuit, unde subdit: (Lc 1, 12) “Et Zacharias turbatus est”, id est ualde territus, “uidens”, id est ex uisione angeli. Quantus autem hic timor fuerit, subditur: “et timor irruit super eum”; in quo significatur quod fuit subitus et rapidus seu impetuosus, et uirium eius oppressiuus, et tamquam ab alto potenter et predominanter in ipsum insiliens sibique subiciens. Cooperatur autem materialiter et dispositiue ad talem timorem nostre fantasie et sensualitatis naturalis infirmitas et pusillanimitas, que ad uisa subita et insolita et nimium transcendentia faciliter expauescit, et maxime quando sub terribili et quasi intolerabili aspectu sibi se ingerunt. Effectiue uero et predominanter prouenit a uoluntaria potestate spiritus in assumpta specie apparentis, qui occulte prout uult cerebrum ac neruos et medullas et totam hominis sensualitatem agitat et concutit et opprimit, quantum et prout sibi placet. Quod quidem ualet ad sui superexcellentiam et ad sue apparitionis ueritatem fortius et experimentalius imprimendam, et etiam ad cor uidentis humiliandum, et humiliando ad diuina altius disponendum, et ut primo per terrorem alienetur homo a se ipso et concidat robur carnis et sentiatur fortitudo et seueritas superne uirtutis, ac demum per subsequentes confortationes et consolationes melius sentiatur eius dulcedo et pietas et clementia et suauitas.
“Ne timeas, Zacharia” (Lc 1, 13): tam sensuali uerbo quam actu occulto assistente ipsi uerbo solent prius perterritos confortare, et ideo utrumque est hic supponendum. “Quoniam exaudita est oratio tua”, qua scilicet generaliter pro salute sua et totius populi orans petebat Saluatorem, ac per consequens et illa que Deus ad eius introductionem fieri ordinauerat, inter que utique erat eius precursor; uel eius “oratio”, qua explicite et in speciali sepe a Deo petierat filium ad Dei cultum seruandum et propagandum ydoneum: ex quo erat enim in officio coniugali, non esset sanctus, nisi in tali actu intendisset et optasset fructum prolis, et nisi super hoc Deum sepe orasset. “Pariet tibi”: hoc dicitur, tum ut ostendat quod non ex alio sed ex eo concipiet; tum ut ostendat quod proles genita potius est in ditione patris quam matris. “Et uocabis”: hoc dicitur tam predictorie quam preceptorie. “Nomen eius Iohannem”: nomen specificat, tum ad maiorem certitudinem de futura prole ei exprimendam et imprimendam; tum ad innuendum quod hic filius ex sola gratia Dei dabitur, et gratia singulari replebitur, et status gratie in ipso et eius predicatione tamquam in immediato Christi precursore initiabitur. Nam Iohannes interpretatur in quo est gratia. […]

[p. 180] (Lc 1, 19-20) “Ego sum Gabriel”. Quia Zacharias suo dubio angelum sibi apparentem quodammodo paruipenderat et eius paruipensione dubitauerat, idcirco ad hoc dubium fortius repellendum quadrupliciter se ipsum magnificat. Primo scilicet ex proprio nomine, dicens: “Ego sum Gabriel”, qui interpretatur fortitudo Dei, et quem in septima et octaua et nona uisione Danielis Zacharias nouerat nominatum et magnificatum; quasi dicat: ego sum tantus et tante uirtutis, quod mereor dici fortitudo Dei, et sum ille qui mutationem regni Persarum in Grecos, et mala populi tui sub Antiocho tandem facta, et Christum post septuaginta septenas a reedificatione Ierusalem uenturum Danieli exposui et ostendi, et quem sic mea uisione prostraui, ut diceret: “Domine mi, in uisione tua solute sunt compages mee, et nichil in me remansit uirium” (Dn 10, 16). […]

[p. 184] […] Sicut etiam sacerdotium Christi imposuit silentium legali, secundum hoc quod erat carnale et dubium circa Christi aduentum, sic in huius figuram conceptus precursoris fecit obmutescere Zachariam; sed in eius partu, factus spiritualis, pandit spiritualia eius et Christi, sicut et spiritualis intellectus legis et sacerdotii sui per Christum apertus testimonium perhibet Christo.

Vita Nova, 1 (ed. a cura di G. Gorni, Torino 1996): [2] Nove fiate già apresso lo mio nascimento era tornato lo cielo della luce quasi a uno medesimo puncto quanto alla sua propria giratione, quando alli miei occhi apparve prima la gloriosa donna della mia mente, la quale fu chiamata da molti Beatrice, li quali non sapeano che si chiamare. [3] Ella era già in questa vita stata tanto, che nel suo tempo lo Cielo Stellato era mosso verso la parte d’oriente delle dodici parti l’una d’un grado, sì che quasi dal principio del suo anno nono apparve a me, e io la vidi quasi dalla fine del mio nono. [4] Apparve vestita di nobilissimo colore umile e onesto sanguigno, cinta e ornata alla guisa che alla sua giovanissima etade si convenia. [5] In quel puncto dico veracemente che lo spirito della vita, lo quale dimora nella secretissima camera del cuore, cominciò a tremare sì fortemente, che apparia nelli menomi polsi orribilmente; e tremando disse queste parole: «Ecce Deus fortior me, qui veniens dominabitur michi!». [6] In quel puncto lo spirito animale, lo quale dimora nell’alta camera nella quale tutti li spiriti sensitivi portano le loro perceptioni, si cominciò a maravigliare molto, e parlando spetialmente alli spiriti del viso, disse queste parole: «Apparuit iam beatitudo vestra!». [7] In quel puncto lo spirito naturale, lo quale dimora in quella parte ove si ministra lo nutrimento nostro, cominciò a piangere, e piangendo disse queste parole: «Heu, miser, quia frequenter impeditus ero deinceps!». [8] D’allora innanzi, dico che Amore segnoreggiò la mia anima, la quale fu sì tosto a.llui disponsata, e cominciò a prendere sopra me tanta sicurtade e tanta signoria per la virtù che li dava la mia ymaginatione, che me convenia fare tutti li suoi piaceri compiutamente. [9] Elli mi comandava molte volte che io cercassi per vedere questa angiola giovanissima; onde io nella mia pueritia molte volte l’andai cercando, e vedeala di sì nobili e laudabili portamenti, che certo di lei si potea dire quella parola del poeta Homero: «Ella non parea figliuola d’uomo mortale, ma di Dio». [10] E avegna che la sua ymagine, la quale continuatamente meco stava, fosse baldanza d’Amore a signoreggiare me, tuttavia era di sì nobilissima virtù, che nulla volta sofferse che Amore mi reggesse sanza lo fedele consiglio della Ragione in quelle cose là dove cotale consiglio fosse utile a udire. […]

 

 

 

Vita Nova, 17 [5]:

Tanto gentile e tanto onesta pare
la donna mia quand’ella altrui saluta,
ch’ogne lingua deven tremando muta
e gli occhi no l’ardiscon di guardare.

 

Lectura super Lucam, 1, 63-66, pp. 232-234: (Lc 1, 63) “Et postulans pugillarem”, id est tabellulam uel calamum siue pennam: utrumque enim dicitur pugillaris, quia pugillo scriptoris tenetur. “Iohannes est nomen eius”: non dixit erit, sed “est”, quasi dicat secundum Ambrosium: «Non ei nos nomen imponimus, quia iam a Deo nomen accepit». “Et mirati sunt uniuersi”, “mirati” scilicet tam de insolita singularitate impositionis nominis, quam de hoc quod pater mutus et surdus cum matre circa nomen pueri concordauit. Secundum autem Chrysostomum, quia per supernaturale miraculum gratie potius quam priori uirtute nature fuerat eis datus, idcirco congruum fuit eum non uocari aliquo nomine sui generis naturalis, sed potius nomine gratiam designante.
(Lc 1, 64) “Apertum est autem ilico os eius”, ideo statim, tum ut merito et future magnificentie infantis hoc ascriberetur, ac si statim post nomen uocale, a patre per scripturam acceptum, daret sibi uim nomen impositum et Dei laudem promerendi ore et uoce; tum ad insinuandum quod sicut propter incredulitatem uim loquendi amiserat, sic propter fidem, quam iam in conscriptione nominis aperte expresserat, loquelam recuperasset; tum ad mistice figurandum quod propheticus intellectus de Christo in sacerdotali lege conceptus, et per Iohannem designatus, debebat in suo partu aperire ora plurium Iudeorum primo dubitantium et tandem credentium.
(Lc 1, 65-66) “Et factus est timor”, scilicet concussiui stuporis et uehementis admirationis, uel “timor” grandis reuerentie in Deum et in talem infantem; “factus”, inquam, “super omnes uicinos eorum et super omnia montana Iudee”: ideo specialiter dicit “super montana Iudee”, quia, sicut supra dictum fuit, urbs in qua Zacharias manebat, erat in montanis Iudee circa Ierusalem, et per hoc uult monstrare quod maioribus Iudeorum in Ierusalem et circa commorantium hec mirabilia innotuerunt. Ne autem putetur huiusmodi gentium admiratio fuisse uolatilis et impressionis superficialis et cito transeuntis, subditur: “Et omnes qui audierant posuerunt”, id est fixerunt et pondere grandis estimationis impresserunt, “in corde suo”, scilicet uerba de infante audita, “dicentes”, scilicet corde et ore: “Quis putas, puer iste erit?” Quasi dicant: quam stupendus et ineffabilis “erit”, cum creuerit, qui iam tante uirtutis in suo infantili ortu apparet! Quod autem causam haberent admirandi et dicendi, astruit Euangelista subdens: “Etenim manus”, id est singularis uirtus et potentia, “Domini erat”, scilicet per effectus euidentes, “cum illo”, tamquam scilicet ei assistens. Deus enim eius conceptum et ortum mirifice magnificauit non solum propter ipsummet Iohannem, sed potius in preconium Christi per ipsum testificandi et manifestandi, et ad tollendam omnem rationem excusationis incredulitatis Iudeorum in Christum.

Vita Nova, 10. [11] E però propuosi di prendere per matera del mio parlare sempre mai quello che fosse loda di questa gentilissima; e pensando molto a.cciò, pareami avere impresa troppo alta matera quanto a me, sì che non ardia di cominciare. E così dimorai alquanti dì, con disiderio di dire e con paura di cominciare. [12] Avenne poi che passando per uno camino lungo lo quale sen gia uno rivo chiaro molto, a me giunse tanta volontà di dire, che io cominciai a pensare lo modo che io tenessi; e pensai che parlare di lei non si convenia che io facesse, se io non parlassi a donne in seconda persona, e non a ogni donna, ma solamente a coloro che sono gentili e che non sono pure femine. [13] Allora dico che la mia lingua parlò quasi come per sé stessa mossa e disse: «Donne ch’avete intellecto d’amore».

 

 

Se le parole di Tommaso d’Aquino non attestano alcuna posizione eterodossa, esse però non sfuggono alla polisemia imperante nel poema. Definendo Cristo “quel che, forato da la lancia” sottolinea la lanceatio. Non lo aveva fatto Ugo Capeto, se non indirettamente, nel lamentare l’attentato di Anagni contro il vicario di Cristo come una nuova passione [15]:

 

Purg. XX, 88-90

Veggiolo un’altra volta esser deriso;
veggio rinovellar l’aceto e ’l fiele,
e tra vivi ladroni esser anciso.

 

La lanceatio è invece ancora sottolineata nell’Empireo da san Bernardo, nell’indicare san Giovanni in quanto autore dell’Apocalisse:

 

Par. XXXII, 127-129

E quei che vide tutti i tempi gravi,
pria che morisse, de la bella sposa
che s’acquistò con la lancia e coi clavi

 

Tanta insistenza sulla lancia non è casuale. Essa, pur non prendendo mai posizione sul punto incriminato della morte di Cristo, suscita nella memoria del lettore la dottrina dell’Olivi, e soprattutto gli effetti della lanceatio.

Il ricordo della piaga “laterale” o piuttosto “pettorale”, produttiva di dolore e pena, partecipe del processo di soddisfazione della colpa è presente anche altrove, senza alcun riferimento alla lancia. Manfredi la mostra come segno di riconoscimento:

 

Purg. III, 106-111

Io mi volsi ver’ lui e guardail fiso:
biondo era e bello e di gentile aspetto,
ma l’un de’ cigli un colpo avea diviso.
Quand’ io mi fui umilmente disdetto
d’averlo visto mai, el disse: “Or vedi”;
e mostrommi una piaga a sommo ’l petto.”

 

Delle “due punte mortali” che lo colpirono, sul ciglio e sul petto, fu la seconda a far nescere nello Svevo il pentimento, il lavacro dei peccati commessi:

 

Purg. III, 118-123

Poscia ch’io ebbi rotta la persona
di due punte mortali, io mi rendei,
piangendo, a quei che volontier perdona.
Orribil furon li peccati miei;
ma la bontà infinita ha sì gran braccia,
che prende ciò che si rivolge a lei.

 

Cristo, afferma Olivi, intese imprimere questa piaga nei nostri cuori. Lo stesso Giovanni, che la menziona nel suo Vangelo, fu “colui che giacque sopra ’l petto / del nostro pellicano, e questi fue / di su la croce al grande officio eletto” (Par. XXV, 112-114): il “petto” ricorda l’ultima cena, ma è subito seguito dalla menzione della “croce” da cui a Giovanni venne affidato il compito di custodire la Vergine. Afferma ancora Olivi che come Giovanni designa l’ordine dei contemplativi e scrisse per ultimo nei Vangeli della lancia, così i discepoli spirituali di Francesco rappresentano l’ultimo ordine a difesa della Chiesa, “in postremis ecclesie passionibus plenius propagando et parturiendo”.

E come non menzionare la lancia di Achille e del padre Peleo la quale, alla stregua delle parole di rimprovero di Virgilio, era “cagione / prima di trista e poi di buona mancia” (Inf. XXXI, 1-6; si ricordino le parole di Tommaso d’Aquino a Par. XIII, 40-41: “e in quel che, forato da la lancia, / e prima e poscia tanto sodisfece”)? L’antica lancia guariva le ferite da essa stessa inferte, come dalla piaga provocata dalla lancia che colpì Cristo uscì, quasi da cella vinaria, prima il sangue significante nel rossore il dolore, ma nel caldo l’amore, la letizia e il diletto e poi, quasi da vaso, l’acqua designante il lavacro dei peccati e la porta delle acque della vita.

Poiché la consuetudine con le opere dell’Olivi non nacque in Dante al momento di scrivere la Commedia, ma molto prima, come sopra si accennato e in parte mostrato, non è illegittimo ricercare anche altrove le tracce di questa piaga segreta rivelata a Giovanni, discepolo prediletto, come lo fu la piaga nel costato di Francesco, a pochissimi rivelata in vita. Per esempio in Amor, tu vedi ben che questa donna (Rime, 45 [CII], vv. 13-24):

 

E io, che son costante più che petra
in ubidirti per bieltà di donna,
porto nascoso il colpo de la petra
con la qual tu mi desti come a petra
che t’avesse innoiato lungo tempo,
tal che m’andò al core ov’io son petra.
E mai non si scoperse alcuna petra
o da splendor di sole o di sua luce,
che tanta avesse né vertù né luce
che mi potesse atar da questa petra,
sì ch’ella non mi meni col suo freddo
colà dov’io sarò di morte freddo.

 

Non entrando nella questione se avesse o meno prodotto la morte di Cristo, Dante esalta gli effetti della lancia. Effetti predicabili e devozionali, che avrebbero avuto, indipendentemente dall’Olivi, grande sviluppo. Si pensi a Caterina da Siena, la quale scrivendo a Stefano di Corrado Maconi lo chiama a Roma, “in questa santa terra, in la quale Dio manifestava la dignità sua, chiamandola il suo giardino”, affinché fugga “nella caverna del costato di Cristo crocifisso” e venga “a terra di promissione” (lettera 329). E a Raimondo da Capua, nel 1375, parla della “bottiga aperta del costato suo, pieno di misericordia”, che ha accolto il sangue sparso di un giovane perugino giustiziato insieme al fuoco del suo desiderio di salvazione e poi la sua anima (lettera 273 [XXXI ed. Dupré Theseider]).

Nella Napoli di Roberto d’Angiò (1309-1343) e della regina Sancia, tanto aperta verso gli Spirituali francescani [16], nella quale forse perfino la chiesa di Santa Chiara venne progettata, a partire dal 1310, su uno schema tratto dal Liber figurarum attribuito a Gioacchino da Fiore [17], chiesa dove Giotto dipinse un’Apocalisse che, come afferma il Vasari, fu “invenzione di Dante” [18], il ricordo della lanceatio oliviana doveva essere ben presente, come dimostra una serie di crocifissi in legno (Gesù Nuovo, Gesù Vecchio) in cui Cristo è raffigurato col capo non reclinato (dunque ancora vivo) e con la ferita nel costato assai pronunciata, quasi una caverna da cui esce sangue e acqua [19].

Napoli, Chiesa del Gesù Nuovo, Crocifisso ligneo (sec. XIV, prima metà)

Napoli, Chiesa del Gesù Nuovo, Crocifisso ligneo (sec. XIV, prima metà)

Napoli, Chiesa del Gesù Nuovo, Crocifisso ligneo (sec. XIV, prima metà)

Napoli, Chiesa del Gesù Nuovo, Crocifisso ligneo (sec. XIV, prima metà)

Napoli, Chiesa del Gesù Vecchio, Crocifisso ligneo (sec. XIV, prima metà)

Napoli, Chiesa del Gesù Vecchio, Crocifisso ligneo (sec. XIV, prima metà)

Se Dante, sulla questione della lancia, non esprime alcuna posizione eterodossa, lo stesso si può affermare in merito alle altre due tesi oliviane condannate dal Concilio di Vienne. La prima, secondo la quale l’anima intellettiva non è la forma del corpo, richiede un esame complessivo di Purg. XXV, dove Stazio tratta dell’umana generazione, e sarà oggetto di uno studio a sé [20]. Qui si dirà brevemente della seconda, per cui il battesimo non conferisce agli infanti la grazia santificante né le virtù teologali, ma solo la cancellazione degli effetti del peccato originale.

Le parole di Virgilio a Inf. IV, 35-36, su coloro che stanno nel Limbo (fra cui gli infanti) “perché non ebber battesmo / ch’è porta de la fede che tu credi” – dove tutti i codici, salvo il Cortonese nell’edizione dell’antica vulgata del Petrocchi, recano “parte” e non “porta”, come reca invece lo stesso editore -, sono state argomento per il John nel sostenere che Dante affermi la tesi dell’Olivi [21]. Se il battesimo è “parte de la fede”, di questa non è il compimento che avviene solo col risveglio della ragione allorché con la professio fidei viene conferita la grazia santificante insieme con le virtù teologali. A ragione il Brugnoli osserva che “dire che il battesimo è porta fidei  è già di per sé un monstrum teologico, nella misura in cui è largamente consolidata l’immagine che è invece la fides che è la porta delle altre virtù teologali, senza le quali non v’ha né gratiaregnum caelorum[22].

Scrive Olivi che l’ingresso nella fede è avvenuto attraverso le porte di Cristo e degli apostoli; avverrà ancora attraverso i dottori del sesto stato della Chiesa: “Sicut enim apostolis magis competit esse cum Christo fundamenta totius ecclesie et fidei christiane, sic istis plus competet esse portas apertas et apertores seu explicatores sapientie christiane” (Ap 21, 21). Questo tipo di ingresso vale per Dante, che ha ripetuto nel sesto stato il battesimo, sacramento speculare al primo stato di fondazione della Chiesa: “e in sul fonte / del mio battesmo prenderò ’l cappello; / però che ne la fede, che fa conte / l’anime a Dio, quivi intra’ io, e poi / Pietro per lei sì mi girò la fronte” (Par. XXV, 8-12). Il rinnovato battesimo reca le vestigia della “signatio” sulla fronte, che avviene in apertura del sesto sigillo (Ap 7, 3) [23].

Ma la fede, come la Chiesa, ha un suo sviluppo secondo gli stati. Ciascun dono dello Spirito può essere distinto in sette parti. Il terzo dono, la “tuba magistralis”, espone la fede secondo sette parti (prologo, Notabile III). La prima parte, volta a seminare la fede, corrisponde al sacramento del battesimo (prologo, Notabile XIII). Di qui nascono, a Inf. IV, 35-36, le parole di Virgilio sul battesimo “ch’è parte de la fede che tu credi”. “Parte” è da intendere come ‘prerogativa’, ‘qualità’, propria dei singoli sette doni dello Spirito increato, uno semplicissimo ma ‘partito’ nella storia della Chiesa, divisa secondo sette stati. Le tabelle che seguono mostrano lo sviluppo semantico e tematico, riscontrabile nei versi della Commedia, a partire dal Notabile III del prologo della Lectura super Apocalipsim, collazionato analogicamente con gli altri simmetrici elementi settenari proposti dall’esegesi (a ogni stato è assegnato un diverso colore).

Affermare che la fede è soggetta a uno sviluppo storico, e che il seminarla corrisponde al battesimo, non significa asserire che il battesimo non infonda negli infanti la grazia santificante e le virtù teologali “prima ch’avesser vere elezïoni”, per usare un’espressione di san Bernardo (Par. XXXII, 45). Né si può sostenere che l’estrema guida di Dante, allorché nell’Empireo parla di “battesmo perfetto di Cristo” (ibid., 83) intenda il battesimo perfezionato dalla professio fidei in età di ragione, perché si tratta invece del compimento della circoncisione, figura del battesimo.

 

[Ap 21, 12; VIIa visio] Nam Christus est fundamentum secundum Apostolum, Ia ad Corinthios III° (1 Cor 3, 10-11); et porta seu hostium et etiam hostiarius, prout dicitur Iohannis X° (Jo 10, 3/9); et murus et antemurale, prout dicitur Isaie XXVI° (Is 26, 1). Apostoli etiam fuerunt fundamenta ecclesie, prout dicitur ad Ephesios II° (Eph 2, 20); fuerunt etiam porte per quas infideles intraverunt ad fidem et ecclesiam Christi. Sed ad presens sufficit predictum modum tamquam principaliorem breviter exponere. Dicit ergo: “Et habebat murum magnum et altum” (Ap 21, 12). […]

[Prologus, Notabile IIII status] Quarta ratio est quia quodlibet predictorum septem donorum potest subdistingui in septem partes sive proprietates, ita quod prima a proprietate correspondet primo statui et secunda secundo et sic de aliis, ut sic sint septies septem. […] De tertio (dono) etiam patet. Nam magistralis tuba seu expositio intendit fidei et eius scientie seminande (I), et deinde radicande seu roborande (II), deinde explicande (III), deinde amplexande (IV), deinde contemperande, unicuique scilicet secundum suam proportionem (V); intendit etiam finaliter eam imprimere et sigillare (VI) et tandem glorificare seu glorificatam exhibere (VII). Et patet correspondentia primi ad primum statum et secundi ad secundum et sic de aliis.

[Prologus, Notabile XIII I status] Quia primus status fundationis ecclesie conformatur baptismali regenerationi.

Inf. IV, 34-36; Par. XXV, 8-11; XXXII, 19-21

ch’ei non peccaro; e s’elli hanno mercedi,
non basta, perché non ebber battesmo,
ch’è porta de la fede che tu credi
        parte
 …………………..e in sul fonte
del mio battesmo prenderò ’l cappello;
però che ne la fede, che fa conte
l’anime a Dio, quivi intra’ io ……

perché, secondo lo sguardo che fée
la fede in Cristo, queste sono il muro
a che si parton le sacre scalee.

[Prologus, Notabile III I status] Quarta ratio est quia quodlibet predictorum septem donorum potest subdistingui in septem partes sive proprietates, ita quod prima a proprietate correspondet primo statui et secunda secundo et sic de aliis, ut sic sint septies septem. […] De tertio (dono) etiam patet. Nam magistralis tuba seu expositio intendit fidei et eius scientie seminande (I), et deinde radicande seu roborande (II), deinde explicande (III), deinde amplexande (IV), deinde contemperande, unicuique scilicet secundum suam proportionem (V); intendit etiam finaliter eam imprimere et sigillare (VI) et tandem glorificare seu glorificatam exhibere (VII). Et patet correspondentia primi ad primum statum et secundi ad secundum et sic de aliis.

[Prologus, Notabile XIII I status] Quia primus status fundationis ecclesie conformatur baptismali regenerationi.

[Ap 5, 1 = Ap 6, 2 I sigillum] Nam in prima triumphalis lux fidei, procedens a Christo quasi acuta sagitta ex archu, penetravit et illustravit cecos in tenebris sedentes. […] Nam contra impotentiam est Christi resurgentis gloriosus [et] triumphalis vigor et splendor in prima apertione monstratus per sedentem in equo albo cum corona et archu exeuntem victoriosum, ut vinceret totam potentiam demonis et orbis (cfr. Ap 6, 2).

[Ap 6, 2 I sigillum] In prima autem apertione apparet Christus resuscitatus sedens in equo albo, id est in suo corpore glorioso et in primitiva ecclesia per regenerationis gratiam dealbata et per lucem resurrectionis Christi irradiata, in qua Christus sedens exivit in campum totius orbis non quasi pavidus aut infirmus, sed cum summa magnanimitate et insuperabili virtute. Nam suos apostolos deduxit in mundum quasi leones animosissimos et ad mirabilia facienda potentissimos, et “habebat” in eis “archum” predicationis valide ad corda sagittanda et penetranda. […] “Et exivit vincens ut vinceret”, id est, secundum Ricardum, vincens quos de Iudeis elegit ipsos convertendo ut per eosdem vinceret, id est converteret gentiles quos predestinaverat. Vel per hoc designatur quod, quando exivit ut mundum vinceret, apparuit in ipso exitu totus victoriosus et ac si iam totus vicisset.

 

Inf. III, 130-131; IV, 33-36, 46-54, 67-69, 103-105

Finito questo, la buia campagna
tremò sì forte ……………………

Or vo’ che sappi, innanzi che più andi,
ch’ei non peccaro; e s’elli hanno mercedi,
non basta, perché non ebber battesmo,
ch’è parte de la fede che tu credi

“Dimmi, maestro mio, dimmi, segnore”,
comincia’ io per volere esser certo
di quella fede che vince ogne errore:
uscicci mai alcuno, o per suo merto
o per altrui, che poi fosse beato?”.
E quei che ’ntese il mio parlar coverto,
rispuose: “Io era nuovo in questo stato,
quando ci vidi venire un possente,
con segno di vittoria coronato.”

Non era lunga ancor la nostra via
di qua dal sonno, quand’ io vidi un foco
ch’emisperio di tenebre vincia.

Così andammo infino a la lumera,
parlando cose che ’l tacere è bello,
sì com’ era ’l parlar colà dov’ era.

Par. XXIV, 109-111

ché tu intrasti povero e digiuno
in campo, a seminar la buona pianta
che fu già vite e ora è fatta pruno

 

[Prologus, Notabile III II status] Quarta ratio est quia quodlibet predictorum septem donorum potest subdistingui in septem partes sive proprietates, ita quod prima a proprietate correspondet primo statui et secunda secundo et sic de aliis, ut sic sint septies septem. […] De tertio (dono) etiam patet. Nam magistralis tuba seu expositio intendit fidei et eius scientie seminande (I), et deinde radicande seu roborande (II), deinde explicande (III), deinde amplexande (IV), deinde contemperande, unicuique scilicet secundum suam proportionem (V); intendit etiam finaliter eam imprimere et sigillare (VI) et tandem glorificare seu glorificatam exhibere (VII). Et patet correspondentia primi ad primum statum et secundi ad secundum et sic de aliis.

[Prologus, Notabile III II status] Item (zelus) est septiformis prout fertur contra quorundam ecclesie primitive fatuam infantiam (I), ac deinde contra pueritiam inexpertam (II), et tertio contra adolescentiam levem et in omnem ventum erroris agitatam (III), et quarto contra pertinaciam quasi in loco virilis et stabilis etatis se firmantem (IV), quinto contra senectutem remissam (V), sexto contra senium decrepitum ac frigidum [et] defluxum (VI), septimo contra mortis exitum desperatum et sui oblitum (VII).

[Prologus, Notabile V II status] Quia etiam tota ecclesia in Christi passione fundatur et sibi debet concrucifigi, nichilque ita profuit ad radicationem prime plantationis eius sicut imitatio crucis Christi, idcirco congrue in secundo statu refulsit ordo martirum.

[Prologus, Notabile V II status] In secundo vero statu factum est in celo, id est in celesti ecclesia, firmamentum patientie et constantie martiriorum, per quod desideria vite superne divisa sunt a desideriis vite terrene quasi aque superiores ab aquis inferioribus (cfr. Gn 1, 6-8). […] Sicut etiam in secunda etate Noe per archam iussu Dei fabricatam salvatur a diluvio, levaturque archa per diluvium super montes altissimos, sic in secundo statu per robur catholice fidei salvatur populus christianus a diluvio paganorum, et tam per hoc diluvium quam per diluvium sanguinis martirum tunc effusi elevatur fides et ecclesia super verticem regum et romani imperii, converso Constantino ad fidem et diluvio idolatrie exsiccato.

[Prologus, Notabile XIII II status] Status vero militie martirum conformatur confirmationi, per quam christiani proprie ponuntur in statu pugilum et roborantur ad pugnam, unde et signo crucis insigniuntur in fronte.

[Ap 6, 2 I sigillum] In prima autem apertione apparet Christus resuscitatus sedens in equo albo, id est in suo corpore glorioso et in primitiva ecclesia per regenerationis gratiam dealbata et per lucem resurrectionis Christi irradiata, in qua Christus sedens exivit in campum totius orbis non quasi pavidus aut infirmus, sed cum summa magnanimitate et insuperabili virtute. Nam suos apostolos deduxit in mundum quasi leones animosissimos et ad mirabilia facienda potentissimos, et “habebat” in eis “archum” predicationis valide ad corda sagittanda et penetranda. […] “Et exivit vincens ut vinceret”, id est, secundum Ricardum, vincens quos de Iudeis elegit ipsos convertendo ut per eosdem vinceret, id est converteret gentiles quos predestinaverat. Vel per hoc designatur quod, quando exivit ut mundum vinceret, apparuit in ipso exitu totus victoriosus et ac si iam totus vicisset.

Inf. V, 82-85, 124-125, 133-136

Quali colombe dal disio chiamate
con l’ali alzate e ferme al dolce nido
vegnon per l’aere, dal voler portate;
cotali uscir de la schiera ov’ è Dido ……

Ma s’a conoscer la prima radice
del nostro amor tu hai cotanto affetto ……

Quando leggemmo il disïato riso
esser basciato da cotanto amante,
questi, che mai da me non fia diviso,
la bocca mi basciò tutto tremante.

Purg. II, 22-26, 46-51, 55-63; III, 1-3

Poi d’ogne lato ad esso m’appario
un non sapeva che bianco, e di sotto
a poco a poco un altro a lui uscìo.
Lo mio maestro ancor non facea motto,
mentre che i primi bianchi apparver ali

In exitu Isräel de Aegypto
cantavan tutti insieme ad una voce
con quanto di quel salmo è poscia scripto.
Poi fece il segno lor di santa croce;
ond’ ei si gittar tutti in su la piaggia:
ed el sen gì, come venne, veloce.

Da tutte parti saettava il giorno
lo sol, ch’avea con le saette conte
di mezzo ’l ciel cacciato Capricorno,
quando la nova gente alzò la fronte
ver’ noi, dicendo a noi: “Se voi sapete,
mostratene la via di gire al monte”.
E Virgilio rispuose: “Voi credete
forse che siamo esperti d’esto loco;
ma noi siam peregrin come voi siete.”

Avvegna che la subitana fuga
dispergesse color per la campagna,
rivolti al monte ove ragion ne fruga

 

 

[Prologus, Notabile III III status] Quarta ratio est quia quodlibet predictorum septem donorum potest subdistingui in septem partes sive proprietates, ita quod prima a proprietate correspondet primo statui et secunda secundo et sic de aliis, ut sic sint septies septem. […] De tertio (dono) etiam patet. Nam magistralis tuba seu expositio intendit fidei et eius scientie seminande (I), et deinde radicande seu roborande (II), deinde explicande (III), deinde amplexande (IV), deinde contemperande, unicuique scilicet secundum suam proportionem (V); intendit etiam finaliter eam imprimere et sigillare (VI) et tandem glorificare seu glorificatam exhibere (VII). Et patet correspondentia primi ad primum statum et secundi ad secundum et sic de aliis.

[Prologus, Notabile IIII status] Tertius (status) est confessorum seu doctorum, homini rationali appropriatus. […] In tertio (statu) sonus predicationis seu eruditionis et tuba magistralis.

[Prologus, Notabile XIII III status] Status vero doctorum assimilatur ordinibus sacerdotalibus. Nam, secundum Dionysium, libro ecclesiastice hierarchie, ordo sacerdotalis est illuminativus, et ordo pontificalis est ultra hoc in Dei sapientia perfectivus, et eius est archanas rationes sacramentorum videre et alios docere. […]
In tertio vero sequestrate sunt aque nationum idolatrantium a terra fidelium, et protulit herbam virentem simplicium et ligna pomifera doctorum fructum spiritalis doctrine emittentium (cfr. Gn 1, 9-13). […]

Purg. XVI, 52-63, 82-88, 103-105, 113-114, 125-126

E io a lui: “Per fede mi ti lego
di far ciò che mi chiedi; ma io scoppio
dentro ad un dubbio, s’io non me ne spiego.
Prima era scempio, e ora è fatto doppio
ne la sentenza tua, che mi fa certo
qui, e altrove, quello ov’ io l’accoppio.
Lo mondo è ben così tutto diserto
d’ogne virtute, come tu mi sone,
e di malizia gravido e coverto;
ma priego che m’addite la cagione,
ch’i’ la veggia e ch’i’ la mostri altrui;
ché nel cielo uno, e un qua giù la pone”.

Però, se ’l mondo presente disvia,
in voi è la cagione, in voi si cheggia;
e io te ne sarò or vera spia.
Esce di mano a lui che la vagheggia
prima che sia, a guisa di fanciulla
che piangendo e ridendo pargoleggia,
l’anima semplicetta che sa nulla

Ben puoi veder che la mala condotta
è la cagion che ’l mondo ha fatto reo,
e non natura che ’n voi sia corrotta.

se non mi credi, pon mente a la spiga,
ch’ogn’ erba si conosce per lo seme.

e Guido da Castel, che mei si noma,
francescamente, il semplice Lombardo.

Purg. XVII, 88-90; XVIII, 46-48, 85-87

Ma perché più aperto intendi ancora,
volgi la mente a me, e prenderai
alcun buon frutto di nostra dimora.

Ed elli a me: “Quanto ragion qui vede,
dir ti poss’ io; da indi in là t’aspetta
pur a Beatrice, ch’è opra di fede.” ………
per ch’io, che la ragione aperta e piana
sovra le mie quistioni avea ricolta,
stava com’ om che sonnolento vana.

[Prologus, Notabile III IV status] Quarta ratio est quia quodlibet predictorum septem donorum potest subdistingui in septem partes sive proprietates, ita quod prima a proprietate correspondet primo statui et secunda secundo et sic de aliis, ut sic sint septies septem. […] De tertio (dono) etiam patet. Nam magistralis tuba seu expositio intendit fidei et eius scientie seminande (I), et deinde radicande seu roborande (II), deinde explicande (III), deinde amplexande (IV), deinde contemperande, unicuique scilicet secundum suam proportionem (V); intendit etiam finaliter eam imprimere et sigillare (VI) et tandem glorificare seu glorificatam exhibere (VII). Et patet correspondentia primi ad primum statum et secundi ad secundum et sic de aliis.

[Prologus, Notabile X IIIIV status] Ideo autem quartus status concurrit eodem tempore cum tertio, quia sicut affectus exigit notitiam intellectus, nec ista notitia est sancta absque sancto affectu, sic affectualis exercitatio et contemplatio anachoritarum et sanctorum illitteratorum eguit preclaro lumine doctorum, nec illud preclarum esse potuit absque precellentia vite. Unde ad mutuum obsequium et ad meridiem universi orbis tunc ad fidem conversi simul clarificandam et inflammandam debuerunt illi duo status concurrere simul. Sicut autem notitia preit amorem, quia non potest amari nisi cognitum, sic status doctorum in hoc libro premittitur ante statum anachoritarum; in quarta tamen visione ostenduntur simul concurrere, ubi dicitur quod “date sunt mulieri due ale aquile magne ut volaret in desertum” (Ap 12, 14). Quod autem de facto insimul concurrant, patet ex cronicis. […]

Inf. XX, 100-102

E io: “Maestro, i tuoi ragionamenti
mi son sì certi e prendon sì mia fede,
che li altri mi sarien carboni spenti.”

Par. XXII, 52-57

E io a lui: “Laffetto che dimostri
meco parlando, e la buona sembianza
ch’io veggio e noto in tutti li ardor vostri,
così m’ha dilatata mia fidanza,
come ’l sol fa la rosa quando aperta
tanto divien quant’ ell’ ha di possanza.”

[Prologus, Notabile III V status] Quarta ratio est quia quodlibet predictorum septem donorum potest subdistingui in septem partes sive proprietates, ita quod prima a proprietate correspondet primo statui et secunda secundo et sic de aliis, ut sic sint septies septem. […] De tertio (dono) etiam patet. Nam magistralis tuba seu expositio intendit fidei et eius scientie seminande (I), et deinde radicande seu roborande (II), deinde explicande (III), deinde amplexande (IV), deinde contemperande, unicuique scilicet secundum suam proportionem (V); intendit etiam finaliter eam imprimere et sigillare (VI) et tandem glorificare seu glorificatam exhibere (VII). Et patet correspondentia primi ad primum statum et secundi ad secundum et sic de aliis.

[Prologus, Notabile V V status] Ideo in quinto tempore, quod cepit a Karolo, facta est defensio et recollectio ista, tuncque congrue instituta est vita condescensiva, ut nequeuntibus in arduis perdurare daretur locus gratie in mediocri statu.

[Prologus, Notabile XIII V status] In quinto vero tempore fuerunt spiritualiores monachi quasi aves volantes, clerici vero gentibus commixti fuerunt quasi pisces in aquis. […]

[Ap 2, 1 – Ia visio, V ecclesia] Vocatur autem congrue hec ecclesia Sardis, id est principium pulchritudinis, tum quia in suis paucis incoinquinatis habet singularem gloriam pulchritudinis, quia difficillimum et arduissimum est inter tot suorum luxuriantes se omnino servare mundum; tum quia primi institutores quinti status fuerunt in se et in suis omnis munditie singulares zelatores, suorumque collegiorum regularis institutio, diversa membra et officia conectens et secundum suas proportiones ordinans sub regula unitatis condescendente proportioni membrorum, habet mire pulchritudinis formam toti generali ecclesie competentem, que est sicut regina aurea veste unitive caritatis ornata et in variis donis et gratiis diversorum membrorum circumdata varietate.

 

Purg. XXVI, 133-135

Poi, forse per dar luogo altrui secondo
che presso avea, disparve per lo foco,
come per l’acqua il pesce andando al fondo.

 

 

 

 

 

 

Par. XXIII, 85-87

O benigna vertù che sì li  ’mprenti,
sù t’essaltasti per largirmi loco
a li occhi lì che non t’eran possenti.

 

 

 

Par. XXII, 145-147

Quindi m’apparve il temperar di Giove
tra ’l padre e ’l figlio; e quindi mi fu chiaro
il varïar che fanno di lor dove

Par. XXVI, 130-132

Opera naturale è ch’uom favella;
ma così o così, natura lascia
poi fare a voi secondo che v’abbella.

[Prologus, Notabile III V status/VI status] Quarta ratio est quia quodlibet predictorum septem donorum potest subdistingui in septem partes sive proprietates, ita quod prima a proprietate correspondet primo statui et secunda secundo et sic de aliis, ut sic sint septies septem. […] De tertio (dono) etiam patet. Nam magistralis tuba seu expositio intendit fidei et eius scientie seminande (I), et deinde radicande seu roborande (II), deinde explicande (III), deinde amplexande (IV), deinde contemperande, unicuique scilicet secundum suam proportionem (V); intendit etiam finaliter eam imprimere et sigillare (VI) et tandem glorificare seu glorificatam exhibere (VII). Et patet correspondentia primi ad primum statum et secundi ad secundum et sic de aliis.

Par. I, 40-42, 76-78

con miglior corso e con migliore stella
esce congiunta, e la mondana cera
più a suo modo tempera e suggella.

Quando la rota che tu sempiterni
desiderato, a sé mi fece atteso
con l’armonia che temperi e discerni

[Ap 2, 1III status] Tertium (exercitium) est discretio prudentie ex temptamentorum experientiis, et exercitiis acquisita providens conferentia et excludens stulta et erronea.

[Prologus, Notabile III VI status] Quarta ratio est quia quodlibet predictorum septem donorum potest subdistingui in septem partes sive proprietates, ita quod prima a proprietate correspondet primo statui et secunda secundo et sic de aliis, ut sic sint septies septem. […] De tertio (dono) etiam patet. Nam magistralis tuba seu expositio intendit fidei et eius scientie seminande (I), et deinde radicande seu roborande (II), deinde explicande (III), deinde amplexande (IV), deinde contemperande, unicuique scilicet secundum suam proportionem (V); intendit etiam finaliter eam imprimere et sigillare (VI) et tandem glorificare seu glorificatam exhibere (VII). Et patet correspondentia primi ad primum statum et secundi ad secundum et sic de aliis.

Purg. X, 43-45

e avea in atto impressa esta favella
Ecce ancilla Deï’, propriamente
come figura in cera si suggella.

Par. VII, 67-69

Ciò che da lei sanza mezzo distilla
non ha poi fine, perché non si move
la sua imprenta quand’ ella sigilla.

 

[Prologus, Notabile III VII status] Quarta ratio est quia quodlibet predictorum septem donorum potest subdistingui in septem partes sive proprietates, ita quod prima a proprietate correspondet primo statui et secunda secundo et sic de aliis, ut sic sint septies septem. […] De tertio (dono) etiam patet. Nam magistralis tuba seu expositio intendit fidei et eius scientie seminande (I), et deinde radicande seu roborande (II), deinde explicande (III), deinde amplexande (IV), deinde contemperande, unicuique scilicet secundum suam proportionem (V); intendit etiam finaliter eam imprimere et sigillare (VI) et tandem glorificare seu glorificatam exhibere (VII). Et patet correspondentia primi ad primum statum et secundi ad secundum et sic de aliis.

Par. XXIV, 43-45

ma perché questo regno ha fatto civi
per la verace fede, a glorïarla,
di lei parlare è ben ch’a lui arrivi.

 

Scrive il Brugnoli che Petrocchi “sostenne d’impeto il suo porta”, anziché parte, forse per salvare Dante dall’inquietante prospettiva di renderlo seguace di una dottrina condannata dal Concilio di Vienne [24]. Ma non era stato proprio il Petrocchi a spiegare, meglio di altri, i motivi dell’abbandono del Convivio con l’irrompere nell’animo del poeta di un “sogno mistico” recato dal “mondo del profetismo gioachimita e celestiniano del Duecento”? [25]

D’altronde Dante non deve essere difeso, come fa il Brugnoli, solo dal pietismo della certezza ortodossa, che ne oscura i veri significati spirituali. Non gli è meno pernicioso il laicismo guardiano del dubbio integrale contro ogni certezza, sdegnoso al pensiero che il poeta venga condotto a ‘farsi frate’, dimentico che sull’ultima opera di frate Pietro, trasformata secondo i propri intenti, Dante ha deliberatamente creato una nuova lingua, dato veste sacra a tutto lo stato umano e cittadinanza a quei concetti che oggi chiamiamo ‘laici’. Né è più lungimirante l’essoterismo di coloro che esaltano le qualità letterali della Commedia, relegando in un esoterismo di comodo ogni tentativo di spiegare i sensi interni ai quali la filologia più raffinata non arriva, se priva del senso della storia. Il rinvio alla Lectura super Apocalipsim, che percorre interiormente l’intera Commedia, non è solo una straordinaria tecnica di arte della memoria. Nasce soprattutto dall’intento di creare un pubblico di chierici colti, di predicatori in volgare aperti alla classicità. Ma i tempi non erano maturi per degli umanisti in volgare, la visione della storia per stati del mondo svanì; gli Spirituali, possibili riformatori della Chiesa, vennero perseguitati e con essi condannato il loro libro-vessillo (1326).

 

AVVERTENZA

Tutte le citazioni della Lectura super Apocalipsim presenti nei saggi o negli articoli pubblicati su questo sito sono tratte dalla trascrizione, corredata di note e indici, del ms. Paris, Bibliothèque nationale de France, lat. 713, a disposizione fin dal 2009 sul sito medesimo. I passi scritturali ai quali si riferisce l’esegesi sono in tondo compresi tra “ ”; per le fonti si rinvia all’edizione in rete. Non viene presa in considerazione l’edizione critica a cura di W. LEWIS (Franciscan Institute Publications, St. Bonaventure – New York, 2015) per le problematiche da essa poste, che sono discusse in “Archivum Franciscanum Historicum” 109 (2016), pp. 99-161. Il testo della Commedia citato è in Dante Alighieri, La Commedia secondo l’antica vulgata, a cura di G. PETROCCHI, Firenze 1994.

[All quotations from the Lectura super Apocalipsim in the essays or articles published in this website have been drawn from the transcription, with notes and indexes, of ms. Paris, Bibliothèque nationale de France, lat. 713, which has been available therein since 2009.  The Biblical passages to which the exegesis refers are in Roman type in “ ”; for sources please refer to the online edition.   The critical edition by W. LEWIS (Franciscan Institute Publications, St. Bonaventure – New York, 2015) has not been considered due to the issues it poses, which are discussed in “Archivum Franciscanum Historicum” 109 (2016), pp. 99-161.  The text referring to the Commedia has been drawn from Dante Alighieri, La Commedia secondo l’antica vulgata, edited by G. PETROCCHI, Firenze 1994.]

 

 


 

[1] G. BRUGNOLI, Tracce di Pierre de Jean Olieu nella Divina Commedia, in San Francesco e il francescanesimo nella letteratura italiana dal XIII al XV secolo, in Atti del Convegno Nazionale (Assisi, 10-12 dicembre 1999), a cura di Stanislao da Campagnola e P. Tuscano (Accademia Properziana del Subasio. Assisi), pp. 139-168.

[2] R. L. JOHN, Dante, Wien 1946, trad. it. Dante templare, Milano 1987, pp. 75-102.

[3] W. SCHWARZ, Si trovano in Dante echi delle opinioni teologiche di Pietro Olivi? Dante e i Templari, in Atti del Congresso internazionale di Studi Danteschi, 20-27 aprile 1965, Firenze 1965, II, pp. 147-149.

[4] Cfr. P. I. OLIVI Postilla in Ioannem, cap. 19, v. 33, ed. V. DOUCET, De operibus manuscriptis fr. Petri Ioannis Olivi in Bibliotheca Universitatis Patavinae asservatis, “Archivum Franciscanum Historicum”, 28 (1935), pp. 436-441.

[5] BRUGNOLI, Tracce …, p. 142.

[6] Ibid., p. 145.

[7] I passi sono esaminati in Dante all’«alta guerra» tra latino e volgare. Postilla alle ricerche di Gustavo Vinay sul De vulgari eloquentia, cap. 2.11 (La «riviera del sangue», ovvero la grande sineddoche della storia pagana e cristiana), tab. XXII, 1-2.

[8] Cfr. Il terzo stato. La ragione contro l’errore, cap. 2, Tab. II-5. Ancora ad altri luoghi conduce il discorso di Tommaso a partire dal verso 52, su cui cfr. Il sesto sigillo, cap. 3 (Libero volere, libero salire, libero parlare [Ap 3, 7-8]), tab. XXVIII quater.

[9] Cfr. THOMAS AQUINAS, Catena aurea, in Ioannem 19, 5, lectio 10: “Chrisostomus. Vide autem qualiter valida est veritas: per eorum enim studia prophetia completur; unde subditur venerunt ergo milites, et primi quidem fregerunt crura, et alterius qui crucifixus est cum eo; ad Iesum autem cum venissent, ut viderunt eum iam mortuum, non fregerunt eius crura; sed unus militum lancea latus eius aperuit”; Lectura super Evangelium S. Ioannis, cap. 19, lectio 5: “Dicendum, quod duorum militum singuli ad singulum latronem confringendum venerunt: quibus confractis, unus ab uno et alius ab alio, ad Iesum venerunt. Unde inde signatur occasio vulnerandi, quia cum vidissent eum iam mortuum, non fregerunt eius crura. Sed ut certificarentur de morte, unus militum lancea latus eius aperuit” (ed. www.corpusthomisticum.org).

[10] R. MANSELLI, Olivi, in Enciclopedia Dantesca, Roma 19842,  IV, p. 136.

[11] Cfr. Il sesto sigillo, cap. 12.3 (Il Veltro. «Amor terribilis et imperiosus»). Circa la sorgente delle “nove rime” scrive il GORNI: “Ma la lingua non si scioglie e l’ispirazione tarda: la nuova poesia non è figlia della volontà, che pure la prepara, e neppure di quell’inesauribile ragionar di sé stesso e dei propri dolori. Il verso risolutivo, cominciamento del nuovo stile, è un dono travolgente e improvviso, forte come il fiato divino della grazia: la mia lingua parlò quasi come per sé stessa mossa e disse:  «Donne ch’avete intellecto d’Amore» […] Non l’angelo dell’Annunciazione reca quelle decisive parole, né altra voce dall’alto; eppure la reazione del poeta è quella stessa di Maria al cospetto di Gabriele, nel racconto del vangelo di Luca: Queste parole io ripuosi nella mente con grande letitia, pensando di prenderle per mio cominciamento […]” (Dante Alighieri, Vita Nova, a cura di G. Gorni, Torino 1996 [Nuova raccolta di classici italiani annotati], p. 257).

[12] Cfr. La settima visione, I.5 (Gli angoli e la misura dello stadio: la forza del congiungersi e il posarsi trionfale).

[13] ANGELO CLARENO, Expositio super Regulam Fratrum Minorum, a cura di G. Boccali, con introduzione di F. Accrocca e traduzione italiana a fronte di M. Bigaroni, S. Maria degli Angeli 1995 (Pubblicazioni della Biblioteca Francescana, 7), Epilogus, p. 726; cfr. G. L. POTESTÀ, Angelo Clareno. Dai Poveri Eremiti ai Fraticelli, Roma 1990 (Istituto Storico Italiano per il Medio Evo. Nuovi Studi Storici, 8), p. 154, n. 7.

[14] ANGELO CLARENO, Liber chronicarum sive tribulationum Ordinis minorum, a cura di G. Boccali, con introduzione di F. Accrocca e traduzione italiana a fronte di M. Bigaroni, Assisi 1999 (Pubblicazioni della Biblioteca Francescana, 8), 5, 21/41, pp. 468, 474; cfr. POTESTÀ, Angelo Clareno, p. 204 e n. 56.

[15] La “lancia / con la qual giostrò Giuda”, nelle parole di Ugo Capeto, è appropriata a Carlo di Valois, il quale “quella ponta / sì, ch’ a Fiorenza fa scoppiar la pancia (Purg. XX, 73-75). Il contesto è pregno di signacula relativi al quinto stato, in particolare alla quinta tromba, al suono della quale escono dal pozzo dell’abisso le pungenti locuste, dalla faccia pia e socievole (come Carlo di Valois, che “sanz’ arme n’esce”). Cfr. Il sesto sigillo, cap. 3, tab. XXIII.

[16] Cfr. R. G. MUSTO, Queen Sancia of Naples (1286-1345) and the Spiritual Franciscans, in Women of  the  Medieval World. Essays in Honor of John H. Mundy, ed. J. Kirschner and S. F. Wemple, Oxford 1985, pp. 179-214; Franciscan Joachimism at the Court of Naples, 1309-1345: a new appraisal, “Archivum Franciscanum Historicum”, 90 (1997), pp. 419-486.

[17] Ipotesi suggestiva, ma non sufficientemente dimostrata (anche per le distruzioni subite dall’edificio), sostenuta da C. BRUZELIUS, Queen Sancia of Mallorca and the Convent Church of Sta Chiara in Naples, “Memoirs of the American Academy in Rome”, 40 (1995), pp. 69-100 (cfr. p. 86: “The plan of Sta Chiara may have been conceived as a secretly Joachite project”) e da V. M. MATTANÒ, La Basilica angioina di S. Chiara a Napoli. Apocalittica ed escatologia, Napoli 2003 (Istituto Italiano per gli Studi Europei). Nota il MUSTO (Franciscan Joachimism, p. 421, n. 8: “Nor can a manuscript of the Figurae  be traced positively to Naples”).

[18] G. VASARI, Le vite dei più eccellenti pittori, scultori e architetti, Roma 20036, p. 156: “E le storie de l’Apocalisse che fece in una di dette capelle, furono, per quanto si dice, invenzione di Dante, come per avventura furono anco quelle tanto lodate d’Ascesi, delle quali si è di sopra abastanza favellato; e sebbene Dante in questo tempo era morto, potevano averne avuto, come spesso avviene fra gli amici, ragionamento”. Giotto fu attivo a Napoli dal 1328 al 1333 come famigliare di Roberto d’Angiò. Tutte le sue opere ivi eseguite sono perdute. Quanto affermato dal Vasari, pur in presenza della perdita dell’affresco, assume oggi un valore altissimo, considerato lo stretto rapporto testuale della Commedia con la Lectura super Apocalipsim dell’Olivi. Dell’Apocalisse giottesca di Santa Chiara sono probabilmente un riflesso le singolari tavole della Staatsgalerie di Stoccarda (1330/1340), eseguite per devozione privata (Roberto d’Angiò?), che sono state messe in relazione con gli Spirituali a Napoli e anche con la Lectura super Apocalipsim dell’Olivi. Cfr. R. MUIR WRIGHT, Living in the final count down: the Angevin Apocalypse panels in Stuttgart, in Prophecy, Apocalypse and the Day of Doom. Proceedings of the 2000 Harlaxton Symposium, Donington 2004 (Harlaxton Medieval Studies, XII), pp. 261-276 (dove è asserita la relazione delle tavole con l’opera oliviana); D. ZARU, Les panneaux de l’«Apocalypse» de Stuttgart: une syntaxe figurative originale de la «vision», in Figura e racconto. Figure et récit. Narrazione letteraria e narrazione figurativa in Italia dall’Antichità al primo Rinascimento. Narration Littéraire et narration figurative en Italie de l’Antiquité à la première Renaissance. Atti del Convegno di studi. Losanna, 25-26 nov. 2005, cur. G. Bucchi, I. Foletti, M. Praloran, S. Romano, Firenze 2009 (Études lausannoises d’histoire de l’art, 9), pp. 111-162; A. TOMEI, I pannelli dell’Apocalisse di Stoccarda e altre visioni angioine, “Ikon”, 6 (2013), pp. 65-78. Carlo Martello, i cui fratelli (Ludovico, Roberto e Raimondo Berengario) prigionieri degli Aragonesi furono destinatari della celebre lettera dell’Olivi (18 maggio 1295), è figura centrale del Paradiso. Di passaggio a Firenze nel marzo 1294, dove incontrò Dante, e morto prematuramente l’anno dopo, le sue parole sono pregne di alti significati spirituali espressi nella lettera dei versi, per i quali cfr. Topografia spirituale della Commedia, Par. VIII-IX; Il sesto sigillo, cap. 1a, tab. II; 6, tab. XXXVII ter; 10.4, tab. CIII, CIII quater; 12.4, tab. CXXVII bis; Il terzo stato, cap. 2, tab. II. 7.

[19] Il crocifisso del Gesù Nuovo – che mi è stato segnalato dall’amico Paolo Vian – si trovava nell’arciconfraternita dei SS. Andrea e Marco a Nilo, vicinissima a Santa Chiara. Ringrazio i PP. Gesuiti per avermi consentito di fotografarlo e il sig. Stefano Pepe per avermi messo a disposizione il prezioso materiale conservato nella Biblioteca.

[20] Cfr.Topografia spirituale della Commedia, Purg. XXV; Il sesto sigillo, cap. 3, tab. XXVIII bis.

[21] JOHN, op. cit., pp. 97-98.

[22] G. BRUGNOLI, S. Agostino, Pierre de Jean Olieu e Dante, in Studi di filologia e letteratura latina, a cura di S. Conte e F. Stok, Pisa 2004, pp. 213-230: p. 222.

[23] Cfr. Il sesto sigillo, cap. 1c (La «signatio» nell’anno giubilare 1300 [Ap 7, 3-4]), tab. VI-1.

[24] BRUGNOLI, S. Agostino, Pierre de Jean Olieu e Dante, p. 225.

[25] Cfr. G. PETROCCHI, Biografia. Attività politica e letteraria, in Enciclopedia Dantesca, Appendice, pp. 34-35, 41: “Lo spazio bianco che intercorre tra la chiosa al commiato di Le dolci rime [la canzone commentata nel IV trattato del Convivio] e i primi versi dell’Inferno, è enorme quanto al salto di qualità, al timbro espressivo, alle scansioni passionali, alla presa in carico di un materiale smisuratamente più gravoso, ma fu forse bruciato in un tempo rapidissimo, se non si vuol dar credito a ipotesi più affascinante per palati moderni: che le due fatiche, finale l’una e iniziale l’altra, si siano addirittura accavallate per un lasso di tempo che sono i mesi intermedi dell’anno 1307. Peraltro il problema non può essere ridotto meramente a un mutamento di programma letterario; occorre cercare qualche motivazione più profonda, che si ricolleghi a eventi della spiritualità di D., poiché in questo settore forse è dato cogliere il fenomeno più nuovo che presenti l’incipit dell’Inferno rispetto alle battute finali dei due trattati. La rivoluzione poetica e stilistica in nulla, d’altronde, può contrastare un totale commovimento etico-religioso, quale ben oltre la visione allegorica della Vita Nuova irrompe nelle prime terzine dell’Inferno. […] Il mondo del profetismo gioachimita e celestiniano del Duecento crea nuovi temi e interrogativi all’animo del poeta; l’uomo-Dante si ritrae e analizza nelle sue esitazioni morali e nel suo bisogno di sacrificio e di redenzione, con una forte percezione del peccato che l’ha macchiato e con ardente volontà di purificarsi. D’ora in poi la vita politica e quella intellettuale dell’Alighieri s’identificheranno totalmente nel titanico sforzo di portare avanti, canto per canto, il sogno mistico della ‘divina’ Commedia”.