1. Il serotino convivio spirituale
Nel capitolo XIX della Lectura super Apocalipsim, nella parte che tratta della dannazione della bestia e dello pseudoprofeta dopo la battaglia finale contro l’Anticristo – che si verificherà nel sesto stato della storia della Chiesa (cioè in quelli che per Olivi sono i ‘tempi moderni’) -, Giovanni vede un angelo che fissa gli occhi al sole: rappresenta gli alti e preclari contemplativi, la cui mente e la cui vita sono tutte fisse nella solare luce di Cristo e delle sacre scritture (Ap 19, 17-18: “E vidi un angelo che stava nel sole”). L’angelo “gridava a gran voce a tutti gli uccelli che volavano in mezzo al cielo”, cioè a tutti gli uomini evangelici e contemplativi di quel tempo: “venite, radunatevi alla gran cena di Dio”. Questo angelo – secondo Gioacchino da Fiore (Expositio in Apocalipsim) si tratta di Elia, che anche Gregorio Magno (Moralia) chiama “convivantium invitator” – invita allo spirituale e serotino convivio di Cristo dove verrà divorata la carne soggetta a corruzione, che passerà, in modo che resti ciò che è spirituale. Per questo dice: “mangiate le carni dei re, le carni dei tribuni, le carni dei forti, le carni dei cavalli e dei cavalieri, le carni degli uomini, liberi e servi, pusilli e grandi”. L’invito alla spirituale divorazione significa incorporare in Cristo e nella Chiesa i popoli e i re, al modo con cui negli Atti degli Apostoli viene detto a Pietro di uccidere e di mangiare quadrupedi, serpenti e volatili visti in una grande tovaglia (“vas linteum”) discesa dal cielo (Ac 10, 9-16). I santi saranno ristorati dal gaudio, dall’amore e dalla dolcezza per la conversione dei Gentili e di Israele che avrà luogo dopo la morte dell’Anticristo.
Beatrice, nel momento di ascendere al cielo con Dante, tiene fissi gli occhi al sole, seguìta dal poeta come un raggio riflesso segue quello diretto (Par. I, 46-54, 64-66): “nel sole … s’affisse … fissi … al sole … tutta … fissa … stava … in lei le luci fissi …│stantem in sole … tota infixa in solari luce Christi …”. Mai aquila si fissò nel sole in modo così intenso. L’aquila è per antonomasia figura dei contemplativi, i quali, come detto ad Ap 4, 7-8, stanno in essa “sospesi” (appartengono in modo preminente al quarto stato dei sette nei quali, secondo Olivi, si articola la storia della Chiesa, ma raggiungono compiutezza nel sesto). Dante fissa quindi i suoi occhi su quelli della donna, la quale “tutta ne l’etterne rote / fissa con li occhi stava”:
Nel suo aspetto tal dentro mi fei,
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Contemplando Beatrice si sente trasumanar, stato che non può essere espresso con parole e viene reso con l’immagine ovidiana del pescatore Glauco, il quale, gustando un’erba che resuscitava i pesci da lui presi, si trasmutò in dio (Par. I, 64-72; Ovidio, Metam., XIII, 898-968). Glauco, pescatore come Pietro, e Dante hanno preso parte a un convivio spirituale, “ut transeat quod carnale est (carnes hominum, come detto ad Ap 19, 18) et maneat quod spirituale est”.
“Quibus autem verbis explicari posset quanto gaudio et amore et dulcore reficientur sancti de conversione omnium gentium et Iudeorum post mortem Antichristi fienda.│… significar per verba non si poria”. L’inciso della Lectura può essere inteso sia come riferito alle due citazioni scritturali che precedono, cioè a quella principale, che viene commentata (Ap 19, 17-18) e a quella incidentale dagli Atti degli Apostoli (10, 9-16); sia come a sé stante e, in questo caso, la frase sarebbe da intendere in senso interrogativo. È più probabile la prima interpretazione; in entrambi i casi assume valore la trasformazione dantesca con l’aggiunta della negazione, quasi firma interiore del poeta che intendesse dire al lettore ‘spirituale’: ‘dai versi che precedono hai compreso che Beatrice è l’angelo che sta, quale aquila contemplativa, fissa in Cristo sole del mondo e che, guardandola, ho preso parte al convivio spirituale dove verrà divorata la peritura carne degli uomini e incorporate le genti convertite e poi Israele; di tutto ciò, simile al gustare di Pietro, ho cantato l’unico esempio possibile, “qual si fé Glauco”, né conosco altro modo per dare e piedi e mano alla Scrittura’. È da notare che Dante non parla della conversione universale che dovrà avvenire dopo la morte dell’Anticristo; concetto che sarebbe però stato risvegliato nel leggere le parole come marcatori. Dalla tabella sottostante, appare infatti evidente che le parole inserite nella lettera dei versi sono segni dell’esegesi di Ap 19, 17-18 contenuta nella Lectura e ad essa conducono la memoria del lettore (che già conosceva quel testo), per dargli esempi predicabili fornendo “e piedi e mano”, cioè immagini sensibili, ad una dottrina.
OLIVI, Lectura super Apocalipsim [= LSA], cap. XIX, Ap 19, 17-18 (VIa visio)“Et vidi unum angelum stantem in sole” (Ap 19, 17). Iste designat altissimos et preclarissimos contemplativos doctores illius temporis, quorum mens et vita et contemplatio erit tota infixa in solari luce Christi et scripturarum sanctarum, et secundum Ioachim inter ceteros precipue designat Heliam. “Et clamavit voce magna omnibus avibus que volabant per medium celi”, id est omnibus evangelicis et contemplativis illius temporis: “Venite, congregamini ad cenam Dei magnam”, id est ad spirituale et serotinum convivium Christi, in quo quidem devorabitur universitas moriture carnis, ut transeat quod carnale est et maneat quod spirituale est*. Unde subdit (Ap 19, 18): “ut manducetis carnes regum et carnes tribunorum et carnes fortium et carnes equorum et sedentium in ipsis et carnes hominum liberorum ac servorum ac pusillorum et magnorum”. Hoc, quantum ad populos et reges tunc Christo et eius ecclesie incorporandos, significat idem quod et illud quod dictum est Actuum X° Petro videnti quadrupedia et serpentia et volatilia in magno vase linteo, cui dicitur: “Occide et manduca” (Ac 10, 9-16). Quibus autem verbis explicari posset quanto gaudio et amore et dulcore reficientur sancti de conversione omnium gentium et Iudeorum post mortem Antichristi fienda. Unde Gregorius XXXV° Moralium, super illud Iob XLII°: “Et dederunt ei unusquisque ovem unam” et cetera (Jb 42, 11), dicit: «Aperire libet oculos fidei et extremum illud sancte ecclesie de susceptione israelitici populi convivium contemplari. Ad quod nimirum convivium magnus ille Helias convivantium invitator adhibetur; et tunc propinqui et noti ad Christum cum muneribus veniunt, quem in flagello paulo ante positum contempserunt»*. Et subdit: «Quod enim cernimus magna ex parte iam factum, adhuc credimus perfecte fiendum, scilicet “adorabunt eum filie Tyri in muneribus” (Ps 44, 12-13). Hec enim tunc plenius fient cum Israelitarum mentes ei quem superbientes negabant quandoque cognito hostiam sue confessionis aportant»**. |
Par. I, 43-54, 64-72Fatto avea di là mane e di qua sera
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* Expositio, pars VI, distinctio II, f. 209ra-b.** Ibid., pars II, f. 108rb.* S. Gregorii Magni, Moralia in Iob, libri XXIII-XXXV (CCSL, CXLIII B), lib. XXXV, cap. XIV, 271-276, (n. 34), p. 1796 (= PL 76, col. 768 C).** Ibid., 283-289, pp. 1796-1797 (= PL 76, coll. 768 D – 769 A). |
Quasi una basilica a due navate, la Lectura super Apocalipsim (completata dall’Olivi nel 1297-1298, anno della morte) è una synkrisis tra due grandi autori, che si temperano a vicenda, nei quali confluiscono due tradizioni di commenti apocalittici: quella confluita in Riccardo di San Vittore (morto nel 1173), preoccupato dell’interpretazione letterale del testo, “quale irrinunciabile fondamento dell’allegoria”; e quella che fa capo a Gioacchino da Fiore, “più attenta ai valori spirituali del testo, pronta a coglierne gli elementi validi per l’interpretazione dei fatti storici e spirituali contemporanei” [1] (l’abate calabrese termina la sua Expositio entro il 1200) [2]. Sui due emerge la voce modesta e sapiente del francescano, tutta centrata su Cristo e sui suoi tre avventi (nella carne, nello spirito, nel giudizio), il secondo dei quali – coincidente con un “novum saeculum” e ben distinto dal terzo, che avverrà con la parusìa – si verifica nei tempi moderni (il sesto stato della Chiesa).
Se si confronta quanto scritto dalle due auctoritates sopra citate, che sono come i due pilastri del commento dell’Olivi che le incorpora, si vede come i testi del mistico vittorino e dell’abate calabrese passino in Olivi e di qui, con in più quel che è proprio del francescano, in Dante [3].
Olivi, sul punto di Ap 19, 17-18, non prende neppure in considerazione l’interpretazione di Riccardo di San Vittore. Non vi sono infatti in Riccardo, che afferma l’intenzione di esporre il passo secondo il senso letterale, i cardini dell’esegesi oliviana: stare fisso con gli occhi nel sole-Cristo, invitare al convivio spirituale, passare al di là dell’umano, gustare la dolcezza della conversione finale dei Gentili e degli Ebrei incorporati nella Chiesa. L’invito è ben altro, fatto dall’angelo ai demoni affinché divorino i dannati. Lo stesso angelo non designa i contemplativi, ma l’ “ordo praedicatorum universus”; “sta nel sole”, cioè è fervente e perseverante nel perseguitare i reprobi. Il confronto con i versi danteschi appare piuttosto povero. Eppure, nell’epistola a Cangrande, Dante chiama a testimone proprio il Vittorino per quanto ha affermato a Par. I, 4-9 circa l’ineffabilità della visione [4].
RICCARDO DI SAN VITTORE, In Apocalypsim, VI, 5; PL 196, coll. 851 B-852 A.“Et vidi unum angelum stantem in sole” (…) Superius potentiam Christi Babylonem condemnantis descripsit, hic invitationem daemonum ab angelo factam ad comestionem damnatorum subjungit. Unde patet malum quod daemones impiis in inferno illaturi sunt, non tam esse eorum liberae voluntatis quam divinae permissionis. In hoc enim quod invitantur subtiliter innuitur, quod non possunt saevire nisi permittantur. Et vidi unum angelum stantem in sole. Unus angelus est ordo praedicatorum universus. Qui in sole stat, quia in fervore persecutionis per bonam intentionem erectus recte praedicando perseverat. Qui etiam clamare voce magna, daemones invitando ad comestionem malorum dicitur, quia malignos spiritus homines damnatos in infernos cruciandos magna constantia protestatur. Qui scilicet daemones per medium coeli volant, quia in medio aeris hujus habitant. Qui quoque recte non ad prandium, sed ad coenam invitantur, quia reprobi spiritus qui in cruciatibus hominum delectantur, post illius ultimae damnationis humanae delectationem non habebunt aliam. Non enim poterit habere successionem, quia erit perpetua, non transitoria. Ut manducetis carnes regum, et tribunorum, et carnes fortium. Potentes anteponit, quia potentes potenter tormenta patientur. Et carnes equorum, et sedentium in ipsis. Equi sunt corpora, sessores spiritus, qui utrique a daemonibus manducabuntur, quia daemones utrorumque cruciatibus delectabiliter saturabuntur. Vel equi sunt subjecti, sessores praelati. Qui utrique comedentur, quia utrique punientur. Et carnes omnium liberorum, ac servorum, et pusillorum, et magnorum. Haec ad litteram intelligenda sunt non spiritualiter exponenda. Sed diligenter est intelligendum, quod per istos quos in hoc capitulo breviter describit, omnes damnandos comprehendit. Unus ergo angelus, ordo praedicatorum universus; vox magna, praedicationis instantia; aves, daemones; coena, ultima poena. Alii dicunt per aves, electos posse significari; quia, sicut aves ad alta levantur volando, sic electi coelestia contemplando. Qui per hoc etiam comedent filios Babyloniae, quod in damnatione eorum condelectabuntur divinae justitiae. |
Par. I, 43-54, 64-72Fatto avea di là mane e di qua sera
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Ben più proficuo è il confronto con Gioacchino da Fiore, che sul punto costituisce la principale fonte dell’Olivi, corroborata dall’autorità di Gregorio Magno. Mancano tuttavia ancora temi, non secondari, introdotti direttamente dall’Olivi: lo stare fisso, l’inciso sopra menzionato (“Quibus autem verbis explicari posset …”), il gustare di Pietro. Si può però affermare che sulle parole di Gioacchino da Fiore, abbreviate, incastonate e arricchite nell’esegesi dell’Olivi, Dante ha forgiato il suo trasumanar. Non si tratta dunque di conoscenza diretta delle opere dell’abate calabrese, ma mediata attraverso la Lectura super Apocalipsim, che ne modifica parzialmente l’impostazione. Il sesto e il settimo stato della Chiesa corrispondono secondo Olivi alla terza età di Gioacchino da Fiore, quella dello Spirito Santo ma, novità sostanziale, non sono appropriati a una persona della Trinità, bensì allo Spirito di Cristo, centro della storia in progressivo sviluppo [5].
2. Gustare la verità nell’età dello Spirito
Ascendere di terra in cielo equivale dunque a partecipare al serotino convivio degli alti contemplativi dopo la morte dell’Anticristo (figurata nella profezia dell’ “un cinquecento diece e cinque” che ucciderà gigante e prostituta, come assicurato da Beatrice a Purg. XXXIII, 43-45). Ma Dante non sperimenta e non gusta di sera. Sera si è fatta invero sull’emisfero di Gerusalemme, quello della terra abitata; è però mattino su quello del Purgatorio, “nova terra” nell’emisfero opposto al nostro (Par. I, 43-44: “Fatto avea di là mane e di qua sera / tal foce”), allorché, bisogna aggiungere, “nel cominciar del giorno” Dante ha rivisto Beatrice (cfr. Purg. XXX, 22). Poi il sole è pervenuto al meriggio dall’una parte (cfr. Purg. XXXIII, 103-104), mentre è notte dall’altra (ibid., 44-45: “e quasi tutto era là bianco / quello emisperio, e l’altra parte nera”). Ciò che nella terra abitata dovrà avvenire di sera – nel sesto stato della storia della Chiesa ovvero nel novum saeculum – viene proiettato su una scena illuminata dal sole di mezzogiorno (allorché, come si afferma ad Ap 1, 16-17, il volto di Cristo più rifulge e più illumina) in un punto al di là del quale non ci sarà più indicazione oraria perché sarà sempre meriggio, nonostante il cono d’ombra della terra veli ancora i primi tre cieli (cfr. Par. IX, 118-119). Nel meriggio dunque Beatrice fissa gli occhi al sole e Dante gusta. Nella stessa ora – l’ora sesta – anche Pietro gustò l’ “excessus mentis”, come deve fare chiunque vuole che gli sia aperto il cielo delle Scritture – spiega Olivi in uno dei Principia in Sacram Scripturam (De doctrina Scripturae): “cum ascendisset in superiora domus ut oraret circa horam sextam, et cum esuriens vellet gustare, cecidit super eum mentis excessus … Qui enim in hac parte vult sibi caelum sanctarum Scripturarum aperiri, oportet eum ascendere in superiorem domum suae mentis et curiae caelestis et orando intrare ad meridiem divinae caritatis, quia in sexta hora, qua Christus passus est, efferbuit. Et esuriendo et gustare volendo dulcedinem divinae suavitatis et pietatis, fiat in homine extasis seu mentis excessus”. Forse Dante, che nello scrivere i versi aveva certamente accanto la Lectura dell’Olivi, quasi cava da cui scolpire parole come “trasumanar”, non conosceva il Principium, o non ne tenne conto; tuttavia è assai notabile quanto il gustare di Pietro, incorporativo dei Gentili e degli Ebrei, ma anche purgativo (“destructa seu occisa prius malitia et purificata immunditia”) sia singolarmente prossimo a quello di Glauco, che nei versi ovidiani ‘trasumana’ anch’egli, ma prima di essere accolto tra gli dèi del mare viene purificato da Oceano e Teti: “utque mihi, quaecumque feram mortalia, demant, / Oceanum Tethynque rogant” (Metam., XIII, 950-951). Dante incontrerà Pietro nell’ottavo cielo, tra il “sodalizio eletto a la gran cena / del benedetto Agnello” (Par. XXIV, 1-2), cioè al convivio spirituale di cui si tratta nel cap. XIX dell’Apocalisse.
Questa incorporazione degli infedeli, sostiene Olivi, fu fatta nel tempo della legge di natura, prima della circoncisione, e nel tempo della pienezza delle genti (di cui dice san Paolo ai Romani 11, 25-26), e avverrà di nuovo nel tempo della conversione finale di ciò che rimane dei Gentili e di Israele: non si tratta pertanto di un processo ancora concluso.
Il francescano prosegue – nel Principium – glossando Luca 3, 21, la discesa dello Spirito Santo su Cristo, già battezzato e orante, sotto la specie di colomba, accompagnato dalla voce celeste: «Tu sei il mio figlio prediletto, in te mi sono compiaciuto». Questa discesa dello Spirito è l’origine di ogni filiazione spirituale che avviene per grazia, «non per viam carnis, nec per viam naturae». Per questo Luca procede, nella sua genealogia (Lc 3, 23-38), non secondo i padri naturali ma secondo quelli che erano padri per la legge dello Spirito e della grazia, comprendendo anche quanti furono sotto la «lex naturae» e risalendo fino ad Adamo, «“qui fuit Dei”, filius scilicet», che fu appunto figlio di Dio per grazia e non per natura.
Ovidio, Metamorfosi, XIII, 944-953Vix bene conbiberant ignotos guttura sucos,
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Peter of John Olivi, On the Bible. Principia quinque in Sacram Scripturam, ed. D. Flood – G. Gál, St. Bonaventure, New York 1997 (St. Bonaventure University, Franciscan Institute Publications, Text Series, 18), pp. 91-93 (De doctrina Scripturae)44. Pro secunda autem apertione valet quod legitur Actuum 10, 9 ss., ubi dicitur de Petro quod cum ascendisset in superiora domus ut oraret circa horam sextam, et cum esuriens vellet gustare, cecidit super eum mentis excessus et vidit caelum apertum et descendens quoddam vas, velut linteum magnum submitti de coelo in terram, in quo erant quadrupedia et serpentia et volatilia, factaque voce ad eum: Surge, Petre, occide et manduca. Ait: Absit, Domine, quia nunquam manducavi omne commune et etiam immundum. Et vox iterum facta est ad eum: quod Deus purificavit, tu ne commune dixeris. Hoc autem factum est per ter. Hoc autem fuit sibi ostensum in signum divinae acceptionis super conversionem gentium. Unde in fine conclusit ex hoc Petrus: In veritate comperi quoniam non est personarum acceptor Deus, sed in omni gente qui timet eum et operatur iustitiam acceptus est illi.
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Par. I, 43-48, 67-69Fatto avea di là mane e di qua sera
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45. Pro tertia apertione valet quod legitur Lucae 3, 21, quod cum baptizaretur omnis populus, et Iesu baptizato et orante, apertum est caelum et descendit Spiritus Sanctus corporali specie sicut columba in ipsum, et vox de coelo facta est: Tu es Filius meus dilectus, in te complacui mihi. In ista enim apertione ostensa est radix et origo spiritualis adoptionis et filiationis et forma deveniendi ad ipsam. Radix enim eius est Spiritus Sancti in mentes descensio et inhabitatio. Et ideo statim postquam apertum est coelum, mox subiunxit: Descendit Spiritus sanctus specie corporali in ipsum. Et tunc dictum est: Tu es Filius meus dilectus. Ad illam enim aeternalem emanationem, qua Filius procedit a Patre, nullus potest etiam participative attingere nisi per gratiam Spiritus Sancti regeneretur et Dei Filio incorporetur. In tantumque hoc verum est quod ipsa natura humana Christi non est sibi unita nisi per meram gratiam huius Spiritus. Et ut Lucas significaret plenius, seu potius Spiritus Sanctus per eum, quod non per viam carnis, nec per viam naturae, sed per viam gratiae ad Dei filiationem et propinquitatem ascenderet, genealogiam Christi per patres legales, non naturales, inchoat, qui erant patres secundum legem Spiritus et gratiae et non secundum legem carnis et naturae, et non solum ponit patres qui fuerunt post circumcisionem sed etiam eos qui fuerunt tempore legis naturae, et patres gentium sicut et Iudaeorum. Et ut hoc plenius in finali termino huius genealogiae ostenderet, cum venisset ad Adam, dixit: Qui fuit Dei, filius scilicet (Lc 3, 38). Et tamen certum est quod ipse non fuit Dei filius per naturam, sed solum per gratiam sive creantem sive sanctificantem. Si autem ipse sic Dei filius esse potuit, eadem ratione et omnes propagati ab eo. Et si ipse aliter esse non potuit, patet quod nec aliquis ab eo descendens, nisi forte talis esset qui praeter naturam quam ab eo traheret in se naturam haberet divinam: sicut ipse unigenitus Dei Filius.
Forma autem deveniendi ad hanc filiationem est sacramentorum Christi susceptio et mentis affectualis elevatio per ardentia orationum desideria. Et ideo praemissum est: Iesu baptizato et orante. Familiaritas igitur Dei ad nos et nostri ad eum secundum omnia penitus spiritualis est, non carnalis, et gratiae potius quam naturae. Unde et frustra et falso Iudaei sibi arrogant quandam specialitatem cuiusdam carnalis amicitiae et propinquitatis cum Deo.
L’esegesi dell’Olivi su Dio che non è “acceptor personarum” dei purificati dal peccato, e sul discendere dello Spirito che rende figli di Dio per grazia e non per carne o per natura, non è forse speculare a quanto Dante, commentando Le dolci rime, afferma nel Convivio sulla nobiltà di cui tanta gente erroneamente parla, che è grazia che discende da Dio, “appo cui non è scelta di persone, sì come le divine Scritture manifestano”?
Convivio, IV, xx, 3-6 [edizione a cura di F. Brambilla Ageno, Firenze 1995 (Le opere di Dante Alighieri. Edizione Nazionale a cura della Società Dantesca Italiana)]Poi appresso argomenta per quello che detto è, che nessuno per poter dire: ‘Io sono di cotale schiatta’, non dee credere essere con essa, se questi frutti non sono in lui. E rende incontanente ragione dicendo che quelli che hanno questa «grazia», cioè questa divina cosa, sono «quasi» come «dèi», sanza macula di vizio; e ciò dare non può se non Iddio solo, appo cui non è scelta di persone, sì come le divine Scritture manifestano. E non paia troppo alto dire ad alcuno, quando si dice:ch’elli son quasi dèi;ché, sì come di sopra nel settimo capitolo del terzo trattato si ragiona, così come uomini sono vilissimi e bestiali, così uomini sono nobilissimi e divini; e ciò pruova Aristotile nel settimo dell’Etica per lo testo d’Omero poeta. Sì che non dica quelli delli Uberti di Fiorenza, né quelli delli Visconti da Melano: ‘Perch’io sono di cotale schiatta, io sono nobile’; ché ’l divino seme non cade in ischiatta, cioè in istirpe, ma cade nelle singulari persone; e, sì come di sotto si proverà, la stirpe non fa le singulari persone nobili, ma le singulari persone fanno nobile la stirpe.
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Di qui a breve il Convivio sarebbe stato interrotto. Non era dunque lontano il tempo dei versi che descrivono il “nobile castello” del Limbo, dove Dio ha posto, senza “acceptio personarum”, i giusti che non hanno peccato. La presenza nel Limbo all’arrivo di Dante di genti giuste, antiche (prima del Cristianesimo) e ‘moderne’ (i maomettani Avicenna, Averroè e il Saladino), come alla discesa di Cristo vi stavano i padri e i profeti dell’Antico Testamento (e anche Catone), che furono di lì strappati e fatti beati, sembra indicare che il processo della Redenzione è ancora aperto e guarda a una nuova età di palingenesi e di conversione universale come a un nuovo avvento di Cristo nel suo Spirito, che nel caso di Dante si realizza nella sua poesia ispirata dall’interno dettatore. Quelle genti giuste videro solo una parte del libro, desiderarono vederlo tutto, e ora, come afferma Virgilio, ‘vivono’ ancora in quel desiderio (Inf. IV, 42). Non a caso sono le sole anime ad avere una ‘vita’ come atto che continua, nell’Inferno in cui l’unica vita possibile è quella del poeta che registra il ricordo delle vite passate.
Scrive Olivi (Ap 21, 22-23; 22, 4) che nel settimo e ultimo stato, che si svolge parte in questa vita, dove la Chiesa è ancora peregrinante in terra (nella Commedia corrisponde all’Eden), parte nell’altra, dove i beati attendono in pace la resurrezione (corrisponde al Paradiso), non ci sarà più bisogno della luce del sole mondano, non nel senso che non verrà più usata, ma nel senso che basterà Cristo, superiore lucerna per la sua umanità e sole per la sua divinità. Nell’ascesa al cielo, Dante vede “sfavillar dintorno, / com’ ferro che bogliente esce del foco”; gli sembra quasi che un secondo sole si sia aggiunto alla “lucerna del mondo”, la quale “la mondana cera … a suo modo tempera e suggella”: “e di sùbito parve giorno a giorno / essere aggiunto, come quei che puote / avesse il ciel d’un altro sole addorno” (Par. I, 37-42, 58-63). Il poeta, con gli occhi fissi in quelli di Beatrice fissa nel sole, si sente “trasumanar”: nelle due terzine famose, che sopra si è visto pregne dell’esegesi di Ap 19, 17-18, il gustar di Glauco e l’esperienza che la grazia tiene in serbo per gli eletti (Par. I, 68, 72) sono una criptica metamorfosi dei segni dell’età dello Spirito di Gioacchino da Fiore, nella quale – come afferma Olivi ad Ap 3, 7, commentando l’istruzione data alla sesta chiesa d’Asia, Filadelfia – “non solum simplici intelligentia, sed etiam gustativa et palpativa experientia videbitur omnis veritas sapientie Verbi Dei incarnati et potentie Dei Patris”.
Verso la chiesa di Filadelfia (corrispondente al sesto stato), da lui singolarmente considerata santa e diletta, Cristo opera molte promesse, proponendo sé come vero e santo. Promette soprattutto, come già avvenuta, l’apertura della porta che nessuno può chiudere, in quanto egli è depositario della “chiave di David, che apre e nessuno chiude, chiude e nessuno apre” (Ap 3, 7). L’espressione “chiave di David” è posta sia per concordia con un passo del profeta Isaia relativo alla casa del re d’Israele (Is 22, 22), sia perché la potestà regale di David comportava l’escludere dal regno e dal tempio gli indegni e l’ammettervi i degni (prefigurazione della potestà di Cristo di chiudere agli indegni l’arcana sapienza e la gloria del regno di Dio e di aprirla agli eletti), sia perché David, per il suo eccellere nella cetra e nella salmodia, è per antonomasia depositario del giubilo spirituale, che è chiave che apre il divino. Questa apertura è propria del terzo stato generale del mondo, che inizia con il sesto stato ed è appropriata allo Spirito Santo. Nella prima età, che precedette l’avvento di Cristo, i padri narrarono le grandi opere di Dio a partire dalla creazione del mondo. Nella seconda, da Cristo fino al sesto stato della Chiesa, i figli hanno cercato nelle generazioni succedutesi nei secoli la sapienza mistica delle cose e i misteri occulti. Nella terza non resta che salmodiare e lodare giubilando Dio, le sue opere, la sua multiforme sapienza e bontà manifestata nelle opere stesse e nelle scritture. Come nel primo tempo Dio si è mostrato Padre terribile e temibile, e nel secondo Figlio e maestro che apre la verbale sapienza del Padre, così nel terzo tempo si mostrerà Spirito Santo, fiamma e fornace di amore divino, cellario di ebbrezza spirituale, dispensa di aromi divini e di spirituali unzioni ed unguenti, tripudio giocoso di giubilo spirituale: allora si vedrà non solo con l’intelligenza, ma anche con l’esperienza del gusto e del tatto ogni verità della sapienza del Verbo di Dio incarnato e della potenza di Dio padre, come promesso da Cristo: “quando verrà lo Spirito di verità egli vi insegnerà ogni verità e mi chiarificherà” (Jo 16, 13-14). Alla fatica del lavoro corporale (che compete ai laici) del primo tempo è subentrata, nel secondo, la lettura e l’erudizione (che compete ai chierici); nel terzo dovrà prevalere la casta e soave contemplazione (che spetta ai monaci o ai religiosi).
Appare singolare che proprio mentre sulla Lectura super Apocalipsim si appuntavano le attenzioni dei censori nominati da Giovanni XXII (1317-1319), in una procedura che portò nel 1326 alla condanna dell’opera [6], il commento dell’Olivi conseguisse con il Paradiso l’interpretazione più autentica e profonda. Il ‘Caorsino’ poneva ai suoi teologi la domanda se davvero, come scritto dal frate ad Ap 3, 7, nel sesto e nel settimo stato della Chiesa si potesse pervenire a una “gustativa et palpativa experientia” della verità per suggerimento interiore dello Spirito. Che è proprio ciò a cui arriva Dante. Nel suo “trasumanar” ascendendo al cielo egli ‘gusta’ interiormente guardando Beatrice fissa nel sole, figura dei dottori fissi per vita e contemplazione nella solare luce di Cristo (Par. I, 64-69). È “esperienza” che la grazia riserva anche ad altri (ibid., 71-72). È “palpativa experientia” perché Dante mantiene il suo corpo: “S’i’ era sol di me quel che creasti / novellamente, amor che ’l ciel governi, / tu ’l sai, che col tuo lume mi levasti” (ibid., 73-75), quasi non fosse in carne. La “gustativa et palpativa experientia” trascorre di bene in meglio a “viste” sempre più “superbe” nella loro arditezza. Dell’acqua del fiume luminoso dell’Empireo – quella che appaga “la sete natural che mai non sazia / se non con l’acqua onde la femminetta / samaritana domandò la grazia” (Purg. XXI, 1-3) – “bevve la gronda / de le palpebre mie” (Par. XXX, 88-89), afferma il poeta ormai al termine del viaggio [7]. Che si tratti dei “fontes aquarum”, dolci e desiderabili, ai quali Cristo conduce (Ap 7, 17), o dell’acqua della vita, alla quale Cristo liberalmente invita e fa venire con desiderio e volontario consenso (Ap 22, 17), è sempre un termine raggiungibile, almeno in parte, in questa vita. Così è stato per san Bernardo: “tal era io mirando la vivace / carità di colui che ’n questo mondo, / contemplando, gustò di quella pace» (Par. XXXI, 109-111). Il ‘doctor marianus’ – che potrebbe anche fregiarsi dell’appellativo di ‘doctor spiritualis’ o ‘anagogicus’ per il ruolo di ultima guida di Dante nella trionfante Gerusalemme celeste che non è visibile per la Chiesa militante – ha riassunto in sé, nonostante sia vissuto prima di questi due periodi, le prerogative del sesto e del settimo stato della Chiesa: “in sexto eminet fructus caritatis, in septimo vero esus seu gustus felicitatis. […] In septimo pregustatores glorie” (prologo, notabile I).
Il sesto angelo del Purgatorio, l’angelo della temperanza che indica il cammino a “chi vuole andar per pace” – tema della sesta vittoria, la Gerusalemme “visio pacis” (Ap 3, 12) – si mostra così splendente come “già mai non si videro in fornace / vetri o metalli sì lucenti e rossi” (Purg. XXIV, 136-141) [8]. E si noterà come i versi dedicati al sesto angelo, che concludono il canto, siano carichi di signacula che rinviano all’esegesi del sesto stato, nei suoi aspetti precipui: montare in sù (ascendere è proprio dell’angelo del sesto sigillo, ad Ap 7, 2); mi senti’ … senti’ … fé sentir (sentire il dettato e l’ispirazione interiore appartiene ai predicatori della sesta chiesa, ad Ap 3, 8; ad essi è data la porta aperta al parlare); alluma … grazia (l’apertura della porta è illuminazione dell’intelletto per grazia); amor … gusto (prerogative dello Spirito). La lettera dei versi, che si riferisce alla temperanza (nel sesto girone si purgano i golosi), appare a prima vista fortemente asimmetrica rispetto all’esegesi della sesta chiesa. Quale rapporto potrebbe infatti intercorrere fra il peccato di gola e l’età dello Spirito? La connessione si mostra assai meno strana se si considera che la ‘gola’ punita nella sesta cornice non si limita al cibo materiale, ma si estende al desiderio di sapere. In tal senso devono essere intesi i “pomi a odorar soavi e buoni” del primo albero sulla soglia del sesto girone, che impedisce la salita (Purg. XXII, 130-154), e “i rami gravidi e vivaci” dell’altro “pomo” che tiene alto il desiderio delle anime purganti senza soddisfarlo (Purg. XXIV, 100-129) [9]. Se alla sesta chiesa è data l’illuminazione per la quale l’intelletto può penetrare più profondamente nella Scrittura, la temperanza (che è tutta dantesca) ammonisce a non desiderare di vedere tutto (cf. Purg. III, 34-45), in un eccesso di contemplazione.
La zona dedicata al sesto angelo è solo l’acme di uno straordinario sviluppo dei temi del sesto stato [10]. Essi iniziano, una volta lasciato il quinto girone, con il terremoto che scuote la montagna (come all’apertura del sesto sigillo: Ap 6, 12; Purg. XX, 127-141): terremoto anche interiore, come affermerà Stazio, per l’anima che si libera dalla pena e vuole salire (l’angelo del sesto sigillo rimuove l’impedimento e sale, libero di innovare; alla sesta chiesa si apre la volontà: Ap 3, 8; 7, 2; Purg. XXI, 58-72), ma ancora segno di sovversione politica in quanto allusione (Ap 13, 18) alla caduta del regno di Francia (della cui dinastia tanto male ha detto Ugo Capeto nel quinto girone dove si purgano gli avari e i prodighi, profondamente segnato da una semantica afferente al quinto stato). La tematica ‘sesta’ prosegue, dopo l’incontro con Stazio, con la libertà di parlare data da Virgilio a Dante (Purg. XXI, 118-120); il duetto tra i due antichi poeti sviluppa il motivo dell’ “amor fratris” proprio della sesta chiesa [11] e del riverire negato da parte di questa [12] (Purg. XXI, 130-136). I bucolici versi sulla renovatio, già profetici del primo avvento di Cristo nella carne, lo diventano del secondo avvento nei discepoli spirituali e della nuova palingenesi (Purg. XXII, 70-72) [13]. Il sesto girone è soprattutto il luogo dove, nell’incontro con Bonagiunta Orbicciani da Lucca, viene definita la poetica delle “nove rime”, fondata sul dettato interiore ispirato da Amore. Essa invera il gusto e l’ordine interiore dello Spirito di Cristo sentito da quanti predicano di lui (Purg. XXIV, 49-63) [14]. Passato il sesto angelo, Stazio tiene una lezione sulla nascita dell’uomo, creato nel sesto giorno [15]. Giunto al punto in cui il primo motore infonde l’anima intellettiva – “spira / spirito novo, di vertù repleto” – ricorda a Dante la citazione giovannea con cui Cristo testimonia l’insegnamento chiarificatore del suo Spirito: «Apri a la verità che viene il petto ║ “cum venerit ille Spiritus veritatis, docebit vos omnem veritatem”» (Purg. XXV, 67). Prima di esporre la sua lezione, Stazio usa ancora il tema, da Isaia 30, 26, con cui si apre la Lectura: “La luce della luna sarà come la luce del sole e la luce del sole sarà sette volte di più, quando il Signore curerà le ferite del suo popolo e sanerà le piaghe prodotte dalle sue percosse” – «“in die qua alligaverit Dominus vulnus populi sui et percussuram plage eius sanaverit ” ║ … ecco qui Stazio; e io lui chiamo e prego / che sia or sanator de le tue piage. / “Se la veduta etterna li dislego”, / rispuose Stazio …» (Purg. XXV, 29-32). Quel giorno (nel settimo stato della storia della Chiesa; il viaggio è pervenuto ormai quasi al settimo girone della montagna) l’illuminazione sarà piena della luce dei sette giorni e la luna, cioè il Vecchio Testamento, sarà pari alla luce del sole, poiché l’antico velo sarà del tutto rivelato [16].
Sesto e settimo stato segnano ancora l’ultimo girone (gli stati sono concatenati per “concurrentia”, per cui la tematica specifica di ciascuno, per quanto prevalga in un girone, si estende oltre il suo confine letterale): nell’incontro con Guinizzelli risuona il motivo dell’impressione dell’immagine paterna, già applicata a Brunetto Latini, dalla sesta vittoria (Ap 3, 12; Purg. XXVI, 97-99, Inf. XV, 82-84) [17], come quello dell’aprire la porta a Cristo secondo quanto detto a Laodicea, l’ultima chiesa d’Asia (Ap 3, 20; Purg. XXVI, 103-105) [18].
Se nella Chiesa peregrinante del settimo e ultimo stato non ci sarà più bisogno delle dottrine precedenti – designate dalla voce esteriore di Cristo uomo, che è anche “lux simplicis intelligentie” , poiché nell’eccesso della contemplazione lo Spirito di Cristo detterà interiormente ogni verità, ecco che la voce esteriore di Virgilio, all’apparire di Beatrice nell’Eden, sparisce (Purg. XXX, 49-51). Lo stesso poeta pagano, sulla soglia dell’Eden, ha invitato il discepolo a prendere per guida, gustando, il proprio piacere (Purg. XXVII, 131) [19].
3. I due soli
La distinzione, al momento dell’ascesa al cielo, fra due soli, quello mondano e quello aggiunto, non può non ricordare i due soli dei quali ha parlato Marco Lombardo nel terzo girone del Purgatorio.
Purg. XVI, 106-108Soleva Roma, che ’l buon mondo feo,
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Par. I, 37-38, 61-63Surge ai mortali per diverse foci
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Nei celebri versi di Purg. XVI, 106-114, relativi ai “due soli” di Roma, il periodo storico rimpianto da Marco Lombardo, in cui il “pasturale” (il potere spirituale) non aveva spento e congiunto a sé la “spada” (il potere temporale), corrisponde alla concorrenza nel tempo di due stati distinti, il terzo (i dottori, che razionalmente confutano le eresie con la spada e danno le leggi) e il quarto (gli anacoreti, dalla santa e divina vita fondata sull’affetto), nel periodo in cui (da Costantino a Giustiniano) entrambi erano due stati di sapienza solare e concorrevano per due diverse strade a infiammare il meriggio dell’universo, prima che nel quinto stato i beni temporali invadessero la Chiesa trasformandola quasi in una nuova Babilonia. Quell’improprio congiungere da parte del potere spirituale è eresia assimilabile a quella di Ario, che divise il Figlio dal Padre ritenendolo non consustanziale, a livello di creatura, o, ancor meglio, a quella di Sabellio, che unificò il Padre e il Figlio nella stessa persona [20].
D’altronde, a conclusione della Monarchia (III, xv, 18), Dante non parla forse della reverenza che Cesare deve a Pietro come quella del figlio primogenito verso il padre? La controversa espressione – “ut romanus Princeps in aliquo romano Pontifici non subiaceat” (ibid., 17) -, alla quale è speculare il parlare di Giustiniano in Par. VI, 84 – “per lo regno mortal ch’a lui soggiace” -, non denota soggezione politica dell’uno all’altro, ma tensione della parte mortale verso ciò che è immortale, “mentre che ’l nostro immortale col mortale è mischiato” (Convivio, II, viii, 15). Anche Cristo fu soggetto al Padre per la sua mortale umanità, ma non per questo gli fu meno consustanziale ed eguale. Gli angeli lo trascendono rispetto alla sua carne passibile, secondo il Salmo 8, 6 – “Tu l’hai fatto poco minore che li angeli” -, che Dante applica all’uomo, medio tra ciò che è corruttibile e ciò che è incorruttibile, operante in modo quasi divino (cfr. Convivio, IV, xix, 7; Monarchia, I, iv, 2; III, xv, 3-4). Qui sta il paradosso, se si vuole, non la contraddizione: nel momento in cui l’Impero diventa consorte in cielo della Chiesa, discendente dalla medesima fonte, partecipa a pieno titolo non solo dei doni e delle prerogative dello Spirito ma anche dei misteri della Trinità e dell’Incarnazione, cioè dell’eterna generazione del Verbo e del suo farsi carne. Il Figlio che deve reverenza al Padre non è un figlio qualunque, è il Figlio dell’uomo al quale il romano Principe è assimilato. Fra umano e divino vi è concordia, pur in apparente contraddizione: così avviene nel Primo Mobile, il luogo dove il tempo ha le sue radici, fra i cerchi corporali e quelli angelici, fra l’esempio e l’esemplare che “non vanno d’un modo”. Si noti come nella Lectura super Apocalipsim Olivi sottolinea in più luoghi la soggezione del Figlio al Padre, a motivo della sua mortale umanità.
[LSA, prologus, Notabile X] Ideo autem quartus status concurrit eodem tempore cum tertio, quia sicut affectus exigit notitiam intellectus, nec ista notitia est sancta absque sancto affectu, sic affectualis exercitatio et contemplatio anachoritarum et sanctorum illitteratorum eguit preclaro lumine doctorum, nec illud preclarum esse potuit absque precellentia vite. Unde ad mutuum obsequium et ad meridiem universi orbis tunc ad fidem conversi simul clarificandam et inflammandam debuerunt illi duo status concurrere simul. Sicut autem notitia preit amorem, quia non potest amari nisi cognitum, sic status doctorum in hoc libro premittitur ante statum anachoritarum; in quarta tamen visione ostenduntur simul concurrere, ubi dicitur quod “date sunt mulieri due ale aquile magne ut volaret in desertum” (Ap 12, 14). |
Inf. XXXIV, 46-48, 72-73Sotto ciascuna uscivan due grand’ ali,
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[LSA, Ap 12, 14 (IV vis., III-IV prel.)] Antequam autem hic explicetur qualis fuit hec persecutio, ostendit duplicem virtutem tunc datam ecclesie ad triumphandum de hac gemina persecutione. Unde subdit: “Et date sunt mulieri due ale aquile magne”, id est sublimis sapientia sanctorum doctorum et sublimis vita et caritas sanctorum anachoritarum et ceterorum regularium illius temporis. Hec enim sunt “due [ale] aquile magne”, id est Christi et sue contemplative ecclesie in apostolis primo fundate. Nonne enim Iohannes vel Paulus fuit aquila magna habens has duas alas? Item potestas imperialis seu temporalis et potestas spiritualis super totum orbem sunt due ale. Licet enim prius secundum rem haberet potestatem spiritualem, non tamen sic evidenter et efficaciter sicut cum imperium romanum fuit sibi famulatorie et devote subiectum.Purg. XVI, 73-78Lo cielo i vostri movimenti inizia;
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[LSA, Ap 8, 12 (III vis., IV tub.)] Per “solem” videtur hic designari solaris vita et contemplatio summorum anachoritarum, qui fuerunt patres et exempla aliorum, vel solaris sapientia et doctrina summorum doctorum.Purg. XVI, 106-112Soleva Roma, che ’l buon mondo feo,
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spada (terzo stato)[LSA, Ap 2, 12 (I vis., III eccl.)] Hiis autem premittuntur duo, scilicet preceptum de scribendo hec sibi et introductio Christi loquentis, cum subdit: “Hec dicit qui habet rumpheam”, id est spatam, “ex utraque parte acutam”. Hoc congruit ei, quod infra dicit: “pugnabo cum illis in gladio oris mei” (Ap 2, 16). Unde contra doctores pestiferos erronee doctrine et secte ingerit se ut terribilem confutatorem et condempnatorem ipsorum per incisivam doctrinam et condempnativam sententiam oris sui. Dicit autem “ex utraque parte”, non solum quia absque acceptione personarum omnia vitia scindit et resecat vel condempnat, sed etiam quia contrarios errores destruit. Arrius enim, quasi ex uno latere, errat dicendo Dei Filium esse substantialiter diversum a Patre tamquam eius creaturam. Sabellius vero, quasi ab opposito latere, dicit quod eadem persona est Pater et Filius. Fides autem Christi utrumque scindit et resecat. |
pasturale (quarto stato)[LSA, prologus, Notabile III] Patet enim hoc de primo dono. Nam pastoralis cura insistit primo ovium propagationi. Secundo earum defensioni ab imbribus et lupis et consimilibus. Tertio earum directioni seu deductioni ad exteriora. Quarto earum pascuali refectioni. (…) Constat autem quod propagatio appropriatur prime plantationi ecclesie sub apostolis, defensio vero militari pugne martirum, directio vero eruditioni doctorum, refectio autem studiose et refective devotioni anachoritarum et sic de aliis.[LSA, prologus, Notabile XIII] Refectio vero eucharistie congruit devotioni anachoritarum.Monarchia, III, xv, 17-18: Que quidem veritas ultime questionis non sic stricte recipienda est, ut romanus Princeps in aliquo romano Pontifici non subiaceat, cum mortalis ista felicitas quodammodo ad inmortalem felicitatem ordinetur. Illa igitur reverentia Cesar utatur ad Petrum qua primogenitus filius debet uti ad patrem : ut luce paterne gratie illustratus virtuosius orbem terre irradiet, cui ab Illo solo prefectus est, qui est omnium spiritualium et temporalium gubernator. |
[LSA, Ap 2, 7 (I vis., I vict.)] Dicit autem “Dei mei” quia Christus in quantum homo minor est Deo Patre, ita quod in quantum homo habet Patrem pro Deo et Domino et etiam totam Trinitatem. (…) [Ap 3, 12 (I vis., VI vict.)] Quod Christus hic vel alibi dicit “Dei mei” vel “a Deo meo”, non dicit nisi tantum ratione sue humanitatis, secundum quam est subiectus Patri et toti Trinitati tamquam Deo suo. (…) [Ap 8, 3 (III vis., radix)] Qui “venit”, per nature humane et mortalis assumptionem, “et stetit ante altare”, id est ante curiam seu hierarchiam celestem. Pro quanto enim, secundum carnis sue passibilitatem, minoratus est paulo minus ab angelis (cfr. Heb 2, 7; Ps 8, 6), habuit eos quasi ante se. (…) [Ap 14, 18 (IV vis., VII prel.)] Per illum vero angelum qui clamat ad alterum ut vindemiet dicit (Ricardus) designari angelos bonos, qui non solum de templo sed etiam de altari exeunt quia non tantum ecclesiam electorum sed etiam Christum, qui est nostrum altare, respectu sue carnis transcendunt, secundum illud Psalmi (Ps 8, 6): “Minuisti eum paulo minus ab angelis”. |
4. L’aquila fissa nel sole
Di Beatrice fissa nel sole è detto: “aguglia sì non li s’affisse unquanco” (Par. I, 48). L’aquila è tema presente all’apertura del quarto sigillo (Ap 6, 7). Il quarto stato (dei sette nei quali, secondo Olivi, si articola la storia della Chiesa) è proprio degli anacoreti, cioè dei contemplativi; ad essi è dato di vedere le cose prima che avvengano e poi di contemplare (“speculari”) stupiti e meravigliati le ragioni dei giudizi divini (nell’esegesi il riferimento è alla distruzione della Chiesa orientale da parte dei Saraceni, fatto prima inconcepibile). In Dante che ascende al cielo “la novità del suono e ’l grande lume” provocano “grande ammirazion” (tema del quarto sigillo, ad Ap 6, 7), come pure il fatto di trascendere, legato ancora al corpo, i “corpi levi”, cioè l’aria e il fuoco (Par. I, 82-84, 97-99). Ad Ap 4, 7, l’aquila, l’ultimo dei quattro animali (o esseri viventi) che circuiscono la sede divina, designa coloro che sono “sospesi” nella contemplazione e anche il senso anagogico, o ‘sovrasenso’ (di rilievo l’espressione “aguglia di Cristo”, riferita a Par. XXVI, 53 a san Giovanni, che Bernardo definisce “quei che vide tutti i tempi gravi” della Chiesa a Par. XXXII, 127-129). La contemplazione è il tema che unisce Ap 6, 7 ad Ap 19, 17-18.
Tornando ad Ap 19, 17-18, si noterà ancora come un medesimo luogo della Lectura conduca, tramite la compresenza delle parole-temi, a più luoghi della Commedia. Il che significa che la medesima esegesi di un punto del commento scritturale è stata utilizzata con sempre nuove variazioni in momenti diversi della stesura del poema, ed è un fenomeno che si verifica in moltissimi casi. Nel salire al primo balzo dell’Antipurgatorio, Dante sta “stupido tutto al carro de la luce”, ammirando il fatto che i raggi del sole lo feriscano da sinistra (Purg. IV, 55-60): nelle terzine si può notare la commistione di temi da Ap 6, 7 (lo stare stupìto, l’ammirare) e da Ap 19, 17 (lo stare “tutto” al sole). Lo stupore per gli imperscrutabili giudizi divini è anticipato dalla meraviglia per aver visto Manfredi salvato: “udendo quello spirto e ammirando” (Purg. IV, 14), e non è certo casuale che il maledetto dai pastori, ora spirito eletto incorporato nella Chiesa, sia definito “di gentile aspetto” (Purg. III, 107), perché a un attento esame si potrebbe vedere come il Purgatorio realizzi il tempo che san Paolo nella lettera ai Romani (11, 25) chiama della “pienezza delle genti” (la salita della montagna, dopo l’apertura della porta, corrisponde al sesto stato della Chiesa, cioè alla storia contemporanea). Se in questo caso tace il motivo del convivio spirituale, a Elia va comunque ricondotta l’espressione “carro de la luce”: il carro del Sole è immagine di Elia, figura di Francesco, designato dall’angelo del capitolo X (sesta tromba), che ha la faccia come il sole (Ap 10, 1-3). I temi ritornano, come sopra esposto, a Purg. XIII, 13, nell’atteggiamento di Virgilio che “fisamente al sole li occhi porse” prima di invocarne la guida “per lo novo cammin”. Subito dopo questa invocazione, vengono uditi spiriti che passano volando e “parlando / a la mensa d’amor cortesi inviti”, invitando cioè al convivio spirituale, nel caso sollecitando con esempi di carità, virtù opposta all’invidia punita in quel girone (ibid., 25-27).
Ancora, nel cielo di Giove l’aquila invita il poeta a guardarle “fisamente” nell’occhio, la parte che nelle aquile terrene “vede e pate il sole” (Ap 19, 17; Par. XX, 31-33; da notare ad Ap 6, 7: “aquila … invitat nos non solum ad contemplandum sed etiam ad compatiendum et imitandum”). Degli spiriti luminosi che formano l’aquila, i sei che risplendono nell’occhio sono i sommi: delle luci che stanno sull’arco del ciglio superiore, la prima (Traiano) e la quinta (Rifeo Troiano) fanno meravigliare il poeta il quale, proveniente dal “mondo errante”, non avrebbe mai creduto che dei “Gentili” potessero essere salvati (Par. XX, 67-69, 100-102). Si tratta di un’ardita variazione del tema da Ap 6, 7, del meravigliarsi per la distruzione delle superbe chiese orientali da parte dei Saraceni, “unum stupendius et antequam fieret inexcogitabilius” [21]. Così il giudizio divino ha consentito la distruzione di Troia (“’l superbo Ilïón”, Inf. I, 75) perché di lì uscisse “de’ Romani il gentil seme” (Inf. XXVI, 60), con la venuta di Enea da Troia, che fu il tempo in cui nacque David (Convivio, IV, v, 6): la pupilla dell’occhio dell’aquila è appunto David (Par. XX, 37-42); le altre luci intorno, oltre alle due sopra nominate, sono Ezechia, Costantino, Guglielmo II il Buono. L’occhio rappresentata dunque le genti e insieme Israele (l’antico e il nuovo), incorporati nella Chiesa del sesto e del settimo stato.
[LSA, Ap 19, 17-18; VIa visio] “Et vidi unum angelum stantem in sole” (Ap 19, 17). Iste designat altissimos et preclarissimos contemplativos doctores illius temporis, quorum mens et vita et contemplatio erit tota infixa in solari luce Christi et scripturarum sanctarum, et secundum Ioachim inter ceteros precipue designat Heliam. “Et clamavit voce magna omnibus avibus que volabant per medium celi”, id est omnibus evangelicis et contemplativis illius temporis: “Venite, congregamini ad cenam Dei magnam”, id est ad spirituale et serotinum convivium Christi, in quo quidem devorabitur universitas moriture carnis, ut transeat quod carnale est et maneat quod spirituale est. |
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[LSA, Ap 6, 7; IIa visio, apertio IVi sigilli] Si autem queras quomodo aquila, id est contemplativus status quarti temporis, docuit ista, ita ut diceret: “Veni et vide”, potest ratio duplex dari.
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Purg. IV, 13-14, 55-60Di ciò ebb’ io esperïenza vera,
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5. Lo scriba della visione e il lettore
I versi di Par. XXXI, 37-39 – “ïo, che al divino da l’umano, / a l’etterno dal tempo era venuto, / e di Fiorenza in popol giusto e sano” – con la triplice antitesi, conducono ad altra opera dell’Olivi, la prima quaestio de domina. Ivi il francescano spiega su un piano psicologico il passaggio della Vergine dallo stato precedente la maternità al nuovo stato incominciato con l’assenso dato alla divina concezione. Come nel venire a un alto stato religioso, o nell’ascendere al culmine della contemplazione dalla vita attiva, o nel passare all’altra vita da questo secolo, un fedele prova un’ardua trascendenza, un estraniarsi e un’inusitata novità che pervadono di stupore ogni sentimento, e per questo si sente come morire al suo stato precedente, tanto più Maria, nell’ora dell’assenso, provò quasi un ineffabile morire al suo stato precedente passando a uno stato sovramondano e a una regione inusitata, nella quale doveva venire assorbita in modo radicale e irrevocabile dagli eccelsi abissi degli arcani divini. Di tutti i sentimenti provati dalla Vergine e fatti propri dal poeta, pellegrino che perviene a ricrearsi “nel tempio del suo voto riguardando”, solo il morire non è espresso in modo esplicito. Anche lo straniarsi è reso col vagheggiare Arcade da parte della madre Elice, entrambi mutati da Giunone e trasformati nel superiore stato di costellazioni (le due Orse).
La quaestio viene comunque incastonata nelle maglie del commento apocalittico con il quale, per la compresenza tematica, è possibile una collazione. Qui i riferimenti sono per lo più alla settima visione, dove viene descritta la Gerusalemme celeste. Nelle visioni, afferma Olivi, è possibile vedere prima una cosa e poi un’altra che nella realtà non può stare insieme alla prima, come accade nella visione delle quattro ruote di Ezechiele. Inoltre appaiono molte cose mostruose e inconsuete che si mescolano con quelle consuete, e ciò serve a elevare il contemplante o il lettore in uno stato di stupore (Ap 21, 17).
Il tema del levarsi in stupore è appunto cantato dal poeta nell’Empireo, allorché definisce la propria meraviglia – un cambiamento di stato assimilabile a quello provato dell’Annunziata, un farsi dentro analogo a quello sperimentato col trasumanar a Par. I, 67-72 – di gran lunga superiore a quanto sentito dai barbari, provenienti da settentrione, “veggendo Roma e l’ardüa sua opra … quando Laterano / a le cose mortali andò di sopra” (Par. XXXI, 31-42). Si può notare il tema della ruota (da Ap 21, 17, con riferimento alla visione di Ezechiele) nel girare insieme di Elice col figlio Arcade. L’elevarsi del poeta è simmetrico all’andare sopra alle cose mortali da parte del Laterano. Di questo, che letteralmente designa la sede che fu prima degli imperatori e poi dei papi, non può non colpire la concordanza con i “latera” della città celeste. “Laterano”, oltre a indicare genericamente la magnificenza di Roma imperiale e cristiana, può alludere, nel suo ‘andar di sopra’ alle cose mortali, alla conversione dell’impero al cristianesimo [22].
Ancora, ad Ap 4, 2 (nelle ‘radici’ della seconda visione), passo da collazionare con Ap 21, 17, il tema dell’elevarsi dello spirito a visioni sempre più ardue si accompagna a quello delle grandi opere recate da Cristo nella fabbrica della Chiesa (“Roma e l’ardüa sua opra”). Infine, la corrispondenza tra ‘esser vago’ e ‘straniarsi’ è propria, per quanto in senso negativo, dell’esegesi dell’apertura del sesto sigillo (ad Ap 5, 1).
Petrus Ioannis Olivi O. F. M., Quaestiones quatuor de domina, ed. D. Pacetti, Quaracchi, Florentiae, 1954 (Bibliotheca Franciscana Ascetica Medii Aevi, VIII), p.8 (Quaestio I): «Videmus quod tanta est vis mutationis status inferioris in superiorem, quod, cum quis est in procinctu et actu ascendendi ad unam altam religionem, aut de statu activae ad contemplationis culmen et statum, aut de hoc saeculo ad aliud, quod homo sentit sibi imminere quamdam mortem, per quam moritur toti statui et vitae priori. Sentit etiam homo quamdam transcendentem arduitatem et quasi extraneitatem seu inusitatam novitatem omnes sensus personae obstupefacientem, ita quod ex hoc aliquando in corpore sequitur magna horripilatio et obrigescentia. Sed plus distat prior status Virginis a sequenti statu suae maternitatis, quam status minimi fidelis et boni differt a statu suo priori. Ergo in hora assensus sui ad illum statum sensit se transire per quamdam ineffabilem mortem sui, quoad suum statum priorem, ad statum omnino supermundanum et ad regionem seu mansionem inusitatissimam, ad quaedam scilicet Dei abyssalia et arcana et superalta, in quibus et a quibus erat funditus et irrevocabiliter absorbenda».
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[LSA, Ap 21, 17; VIIa visio] Si obicias quod civitas habens duodecim milia stadia non potest contineri infra muros centum quadraginta quattuor cubitorum, ad hoc est triplex responsio. […] Tertia est quod in visionibus propter diversa misteria potest una vice videri unum et alia vice aliud, quod secundum rem non potest simul esse cum primo, sicut super Ezechielem de quattuor rotis Ezechielis secundum unam opinionem ostendi. Nota tamen quod si quodlibet latus habuit centum quadraginta quattuor cubitos, tunc videtur quod spatium a porta ad portam et a portis extremis ad angulos lateris habuit triginta sex cubitos. Nam quater triginta sex faciunt centum quadraginta quattuor. Si vero quattuor latera insimul habuerunt tantum centum quadraginta quattuor cubitos et unumquodque latus triginta sex, tunc a porta ad portam essent novem cubiti, et consimiliter a portis extremis usque ad angulos lateris. Nam quater novem faciunt triginta sex, sed tunc semper mensura hec inciperet a medio porte, quia spatium portarum includeretur infra triginta sex cubitos lateris. Quilibet autem istorum modorum et numerorum est aptus misteriis. Consimiliter etiam potes videre quod, secundum litteralem corticem huius visionis, non sufficiunt duodecim lapides pro fundamentis muri tante civitatis, et maxime tales quales communiter sunt duodecim gemme hic nominate. Una etiam margarita vel duodecim communiter non sufficerent, ne dicam pro magna, nec etiam pro minima porta tante urbis. Unde patet quod in visionibus multa monstruosa vel inusitata cum usitatis miscentur, prout expedit misteriis et sublevationi contemplantium vel legentium in stuporem, et ut ex hoc magis pateat ea que monstrantur potius esse mistica quam litteralia. |
Par. XXXI, 31-42Se i barbari, venendo da tal plaga
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[LSA, Ap 4, 2; radix IIe visionis] “Et statim fui in spiritu”, id est in spirituali excessu mentis. Nota ex istis haberi aut quod post primam visionem fuerat ab excessu mentis ad se reductus, et ideo nunc iterato sublevatur ad mentis excessum ; aut quod a primo mentis excessu, sub quo primam visionem vidit, elevatur nunc ad multo altiorem excessum, ac si tunc esset infra celum, nunc autem supra celum ascendat, et ac si suum primum esse in spiritu fuerit quasi non esse in spiritu respectu istius, de quo hic dicit : “Et statim fui in spiritu” ; aut per reiterationes huiusmodi sublevationum designat quamlibet visionum cum suis obiectis habere propriam et novam arduitatem, et quod ad quamlibet videndam indigebat superelevari a Deo ad illam. Sicut autem una illuminatio disponit mentem ad aliam altiorem, sic spiritualis visio apertionis celi et spiritualis auditus vocis sic grandis, sicut est vox tube, erant dispositiones et ex[c]itationes ad sequentes sublevationes spiritus sui. […] Item absentia seu potius non existentia magnorum operum in ecclesia fiendorum erat nobis magna clausura hostii ad fabricam ecclesie contemplandam. Primus autem apertor huius hostii et prima vox nos in celum ascendere faciens est Christus et eius illuminatio et doctrina. Nam vox priorum prophetarum potius clausit hostium sub figuris, et sub terrenis promissionibus carnalem sensum Iudeorum depressit potius quam levavit.[LSA, Ap 5, 1; IIa visio, clausura VIi sigilli] Prima (causa) est quia septem sunt defectus in nobis claudentes nobis intelligentiam huius libri. […] Sextus est ad omnia spiritualiora et deiformiora opposita difformitas et semotissima extraneitas, propter quod adolescens vagus dicitur a Christo abisse in regionem longinquam (Lc 15, 13), et de filiis vagis dicitur Isaie I° quod “[ab]alienati sunt retrorsum” (Is 1, 4), et in Psalmo dicitur: “Quomodo cantabimus canticum Domini in terra aliena?” (Ps 136, 4), scilicet in Babilone, que confusio interpretatur; et Baruch III° dicitur: “Quid est, Israel, quod in terra inimicorum es; inveterasti in terra aliena?” (Bar 3, 10-11). |
Si noterà come questi temi (che sono prima di tutto elementi polisemici, che dalla lettera rinviano al testo della Lectura), provenienti dall’esegesi della Gerusalemme celeste (Ap 21, 17), oggetto della settima visione, si ritrovino nei versi variamente appropriati. A cominciare da Purg. IX, 70-72, dove il poeta avvisa il lettore di non meravigliarsi se, con l’elevarsi della materia trattata, egli rafforza lo stile con più arte (da confrontare con altro invito al lettore, a Par. X, 7-9, di levare la vista “a l’alte rote”). Da menzionare, nella medesima cantica, Purg. XV, 10-15 (lo stupore per l’inusitato splendore dell’angelo e il levare le mani per farsi il “solecchio”) e Purg. XXVI, 67-72 (lo stupore del montanaro “quando rozzo e salvatico s’inurba”; cfr. il levarsi e lo stupore di Dante di fronte ad Adamo, a Par. XXVI, 85-90). Poi un altro appello al lettore circa la meraviglia e lo stupore nel vedere il grifone-Cristo (la doppia fiera, leone e aquila) raggiare negli occhi di Beatrice, “or con altri, or con altri reggimenti” (Purg. XXXI, 121-127): come nelle visioni si possono vedere cose che nella realtà non possono stare insieme, così il grifone trasmuta negli occhi della donna le due nature (come possano stare unite verrà rivelato al poeta soltanto alla fine del viaggio). Similmente nell’incontro con san Bernardo: “Uno intendëa, e altro mi rispuose” (Par. XXXI, 58-60). Ancora, questi temi si rinvengono nei versi che precedono la prima mostruosa trasformazione dei ladri, in cui il poeta si rivolge al lettore ribadendo il proprio stupore per quanto vide, una volta “levate … le ciglia” (Inf. XXV, 46-49). Tutte situazioni nelle quali viene instaurato un rapporto tra colui che ha visto e scrive (come Giovanni: “scribe quae vidisti”; Ap 1, 19) e colui che legge e viene esercitato ad elevarsi nella visione.
[LSA, Ap 21, 17; VIIa visio] Unde patet quod in visionibus multa monstruosa vel inusitata cum usitatis miscentur, prout expedit misteriis et sublevationi contemplantium vel legentium in stuporem, et ut ex hoc magis pateat ea que monstrantur potius esse mistica quam litteralia.Purg. IX, 70-72Lettor, tu vedi ben com’ io innalzo
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Inf. XXV, 46-51Se tu se’ or, lettore, a creder lento
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[LSA, Ap 21, 17; VIIa visio] Si obicias quod civitas habens duodecim milia stadia non potest contineri infra muros centum quadraginta quattuor cubitorum, ad hoc est triplex responsio. […] Tertia est quod in visionibus propter diversa misteria potest una vice videri unum et alia vice aliud, quod secundum rem non potest simul esse cum primo, sicut super Ezechielem de quattuor rotis Ezechielis secundum unam opinionem ostendi. […] Unde patet quod in visionibus multa monstruosa vel inusitata cum usitatis miscentur, prout expedit misteriis et sublevationi contemplantium vel legentium in stuporem, et ut ex hoc magis pateat ea que monstrantur potius esse mistica quam litteralia.
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Purg. XXXI, 121-128Come in lo specchio il sol, non altrimenti
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Il levarsi quasi al di fuori del corpo, in puro spirito, viene sperimentato dal poeta nell’ascesa al Paradiso; ciò avviene grazie al lume divino riflesso in lui dagli occhi di Beatrice, e si esprime nelle parole “S’i’ era sol di me quel che creasti / novellamente, amor che ’l ciel governi, / tu ’l sai, che col tuo lume mi levasti” (Par. I, 73-75), cioè sa Dio se io ero solo anima o anche col corpo. Sul punto si suole opportunamente citare san Paolo, che narra della sua ascesa al terzo cielo (2 Cor., 12, 2-4): “sive in corpore nescio, sive extra corpus nescio …”. Ma come l’immagine ovidiana di Glauco che gustò è armata dall’esegesi di Ap 19, 17-18, così anche il ricordo delle parole di san Paolo, richiamate nell’Epistola a Cangrande, si inserisce nell’esegesi offerta dalla Lectura, in questo caso quella di Ap 4, 1-2. Ivi si dice prima del cielo, cioè della Scrittura, che viene aperto a Giovanni elevato a visioni sempre più nuove e ardue (Ap 4, 1: “et ecce ostium apertum in celo”). Poi Olivi sviluppa il tema tradizionale della dura pietra rimossa dal sepolcro di Cristo, per cui si aprì l’intelligenza spirituale della Scrittura, memore della celebre visione di Gioacchino da Fiore, che nella notte di Pasqua gli aprì la comprensione del libro dell’Apocalisse. Come sulla porta della tomba di Cristo era posta una pietra grande e pesante che fu rimossa al momento della resurrezione e dell’uscita di Cristo dal sepolcro, così il duro involucro del senso letterale, gravato dal peso di figure sensibili e carnali, chiudeva nell’Antico Testamento la porta della Scrittura impedendo l’accesso all’intelligenza spirituale. Nei cuori degli uomini era lapidea durezza e sentimento ottuso, chiuso alle illuminazioni divine. L’assenza di grandi opere nella Chiesa era anch’essa come una porta chiusa che impediva di contemplare la “fabrica ecclesie”. Colui che per primo aprì la porta e diede la prima voce che ci fece salire al cielo fu Cristo, con la sua illuminazione e dottrina. La voce degli antichi profeti, che chiuse la porta con figure e promesse terrene, depresse il senso carnale dei Giudei piuttosto che elevarlo. Cristo, invece, con l’esempio della sua vita spiritualissima, con la morte della sua carne e con l’abbondante infusione del suo spirito, fece in modo che gli apostoli e qualunque uomo spirituale fossero in spirito e quasi non in carne (Ap 4, 2: “et statim fui in spiritu”), secondo quanto detto ai Corinzi da san Paolo: “L’uomo animale non percepisce né può comprendere le cose dello Spirito di Dio, l’uomo spirituale invece giudica ogni cosa”, cioè è dotato di discernimento (1 Cor 2, 14-15). Cristo, in Giovanni 10, 1-9, definisce sé “porta” e “portinaio”. Chi con chiara fede e intelligenza si fissa in lui in modo che gli venga incontro in ogni luogo della Scrittura e in ogni fatto della Chiesa, lo avrà in quei luoghi e in quei fatti come il sole che irraggia fugando le tenebre.
Se la prima parte dell’esegesi (Ap 4, 1) è richiamata in molti punti del poema, a motivo del viaggio che trascorre verso visioni sempre nuove, più alte e ardue (si veda, ad esempio, come il verbo ‘indigere’, hapax nel poema, vi rinvii nell’estrema visione), la seconda parte (Ap 4, 2) si mostra nel contrasto fra chiudere, durezza, senso duro e aprire, levarsi [23]. Così la terzina di Par. I, 73-75 – “S’i’ era sol di me quel che creasti / novellamente, amor che ’l ciel governi, / tu ’l sai, che col tuo lume mi levasti” – corrisponde nell’esegesi al “fecit suos apostolos et quoscumque spirituales suos esse in spiritu et quasi non esse in carne”, per quanto fossero ancora in vita, elevati per la luce irradiatasi dopo l’apertura della porta per opera di Cristo risorto.
[LSA, Ap 4, 1-2; radix IIe visionis] Quantum ad primum, dicit: “Post hec vidi”, scilicet id quod immediate subditur, “et ecce hostium apertum in celo”, scilicet apparuit, que apertio designabat novam apertionem supercelestium et divinorum sibi tunc fiendam. “Et vox prima, quam audivi”, supple fuit, “tamquam tube loquentis mecum, dicens: Ascende huc”, scilicet in celum, “et ostendam tibi que oportet fieri post hec”, id est post predicta, que litteraliter spectant ad presentem statum septem ecclesiarum Asie. “Et statim fui in spiritu” (Ap 4, 2), id est in spirituali excessu mentis. Nota ex istis haberi aut quod post primam visionem fuerat ab excessu mentis ad se reductus, et ideo nunc iterato sublevatur ad mentis excessum; aut quod a primo mentis excessu, sub quo primam visionem vidit, elevatur nunc ad multo altiorem excessum, ac si tunc esset infra celum, nunc autem supra celum ascendat, et ac si suum primum esse in spiritu fuerit quasi non esse in spiritu respectu istius, de quo hic dicit: “Et statim fui in spiritu”; aut per reiterationes huiusmodi sublevationum designat quamlibet visionum cum suis obiectis habere propriam et novam arduitatem, et quod ad quamlibet videndam indigebat superelevari a Deo ad illam. Sicut autem una illuminatio disponit mentem ad aliam altiorem, sic spiritualis visio apertionis celi et spiritualis auditus vocis sic grandis, sicut est vox tube, erant dispositiones et ex[c]itationes ad sequentes sublevationes spiritus sui. Vox etiam hec dicitur ‘prima vox’ huius visionis respectu sequentium, quas in hac visione audivit.Par. III, 4-9e io, per confessar corretto e certo
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Inf. VI, 1-6; VII, 19-20; XVIII, 22-23; XXIV, 58-63Al tornar de la mente, che si chiuse
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[LSA, Ap 4, 1-2 (segue)] Nota etiam quod hec sibi sic monstrantur et sic nobis scribuntur, quod sint apta ad misteria nobis et principali materie huius libri convenientia. Unde per celum designatur hic ecclesia et scriptura sacra, et precipue eius spiritalis intelligentia. Sicut autem in hostio monumenti Christi erat superpositus magnus lapis et ponderosus, qui Christo resurgente et de sepulcro exeunte est inde amotus, sic in scriptura erat durus cortex littere, pondere sensibilium et carnalium figurarum gravatus, claudens hostium, id est [ad]itum intelligentie spiritalis. In humanis etiam cordibus erat lapidea durities sensus obtusi, claudens introitum divinarum illuminationum.
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Inf. III, 10-12Queste parole di colore oscuro
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“Trasumanar” non è solo vocabolo tratto dal latino, come Machiavelli costringe Dante ad ammettere nel Discorso intorno alla nostra lingua; ed è molto più di un’audace parola composta. È un verbo scolpito a ricordo, per il lettore esperto, di una grande esegesi riformatrice, in un’alta retorica del significante. Non ci fu l’auspicata riforma della Chiesa, che se fosse avvenuta avrebbe anticipato il rientro dell’apocalittica prostituta dalla selva avignonese e, forse, evitato la Riforma protestante. Come pure si spense quell’escatologismo il quale “oltre che ideologia di lotta e di riforma del gruppo spirituale, era anche un vero e proprio sentimento storico” [24]. Ma se il confronto fra i testi rivela la parte caduca della Commedia, perché legata al periodo storico e a una visione della storia per “stati del mondo” [25], tramite il suo intimo rapporto con un libro perseguitato e votato quasi alla sparizione, mostra però con evidenza la metamorfosi delle esperienze fondamentali della interiorità cristiana medievale “negli ideali laici della dignità dell’uomo, della potenza creativa dell’individuo, della cultura concepita come mezzo di perfezionamento spirituale, propri della nuova età del Rinascimento” [26].
[1] P. VIAN, Pietro di Giovanni Olivi. Scritti scelti, Roma 1989 (Fonti cristiane per il terzo millennio), p. 108 (nel capitolo Olivi esegeta si può trovare la traduzione italiana dei capp. VII e X della Lectura super Apocalipsim sul testo offerto dal ms. Paris, Bibliothèque Nationale de France, lat. 713).
[2] Cf. G. L. POTESTÀ, Il tempo dell’Apocalisse. Vita di Gioacchino da Fiore, Bari 2004, pp. 286-287.
[3] Cf. Il sesto sigillo, cap. 7 (Gioacchino da Fiore in Dante: una presenza mediata e discreta); Lectura super Apocalipsim e Commedia. Le norme del rispondersi, cap. 2 (Scendere e risalire per gradi: l’istruzione al vescovo di Efeso [Ap 2, 2-7] secondo Riccardo di San Vittore e Pietro di Giovanni Olivi).
[4] Epistola XIII, 77-80 (a cura di A. Frugoni-G. Brugnoli, in DANTE ALIGHIERI, Opere minori, II, Milano-Napoli 1979, pp. 638-640): «[28.] Et postquam dixit quod fuit in loco illo Paradisi per suam circumlocutionem, prosequitur dicens se vidisse aliqua que recitare non potest qui descendit. Et reddit causam dicens “quod intellectus in tantum profundat se” in ipsum “desiderium suum”, quod est Deus, “quod memoria sequi non potest”. Ad que intelligenda sciendum est quod intellectus humanus in hac vita, propter connaturalitatem et affinitatem quam habet ad substantiam intellectualem separatam, quando elevatur, in tantum elevatur, ut memoria post reditum deficiat propter transcendisse humanum modum. Et hoc insinuatur nobis per Apostolum ad Corinthios loquentem, ubi dicit: “Scio hominem, sive in corpore sive extra corpus nescio, Deus scit, raptum usque ad tertium celum, et vidit arcana Dei, que non licet homini loqui (2 Cor 12, 2-4)”. Ecce, postquam humanam rationem intellectus ascensione transierat, quid extra se ageretur non recordabatur. Et hoc est insinuatum nobis in Matheo, ubi tres discipuli ceciderunt in faciem suam, nichil postea recitantes, quasi obliti (Mt 17, 6). Et in Ezechiele scribitur: “Vidi, et cecidi in faciem meam” (Ez 2, 1). Et ubi ista invidis non sufficiant, legant Richardum de Sancto Victore in libro De Contemplatione, legant Bernardum in libro De Consideratione, legant Augustinum in libro De Quantitate Anime, et non invidebunt».
[5] Cf. P. VIAN, Fra Gioacchino da Fiore e lo spiritualismo francescano: lo Spirito Santo nella Lectura super Apocalipsim di Pietro di Giovanni Olivi, in «lo spirito santo», in Parola spirito e vita. Quaderni di lettura biblica 38 (1998/2), pp. 237-250: p. 248: “[…] lo schema gioachimita delle tre età e dunque la funzione liminare dello Spirito Santo nella storia della salvezza sono senz’altro presenti nella Lectura super Apocalipsim; ma in essa il modello originale appare sottoposto a una radicale rilettura in chiave cristologica e francescana che ne modifica profondamente il contenuto; Francesco ripropone Cristo, e lo Spirito, che lo conduce e lo colma, è lo Spirito di Cristo, l’orizzonte dell’opera dello Spirito è sempre e comunque la Chiesa. Vi è certo un progresso, nella storia della Chiesa, nella conoscenza della Scrittura e nella comprensione della verità e tale progresso può essere ascritto e appropriato allo Spirito; ma la verità, chiarita e illustrata, è la verità di Cristo e della sua Chiesa. In definitiva, a ben vedere, lo Spirito non inaugura dunque un’epoca nuova ma porta a compimento e a pienezza il tempo della Chiesa nel Nuovo Testamento”.
[6] Cfr. A. FORNI – P. VIAN, Un codice curiale nella storia della condanna della Lectura super Apocalipsim di Pietro di Giovanni Olivi: il Parigino latino 713, «Collectanea Franciscana» 81 (2011), pp. 479-558; 82 (2012), pp. 563-677.
[7] Nelle Derivationes di UGUCCIONE DA PISA, «palpo -as», («a palim quod est motus») indica l’anelare, cioè un movimento dell’anima («anelare sicut qui animam trahit»). Di qui «palpebra -e, idest sinus oculorum, quia palpebre semper moventur» [Edizione critica princeps a cura di E. Cecchini …., II, Firenze 2004 (Edizione nazionale dei testi mediolatini II, Serie I, 6), P 7 (11-13), p. 890].
[8] Del fiammeggiare dell’amore divino nella terza età è ancora testimonianza il fiammeggiare “nel caldo d’amore” di Beatrice, che procede da perfetto vedere, all’inizio di Par. V; il “caldo” è proprio dello Spirito che unisce descritto nel notabile VII del prologo.
[9] Cf. Dante all’«alta guerra» tra latino e volgare. Postilla alle ricerche di Gustavo Vinay sul De vulgari eloquentia, cap. 2.9 (I quattro sensi secondo i teologi), tab. XVIII-2.
[10] Esaminati in Il sesto sigillo, cap. 3 (Libero volere, libero salire, libero parlare [Ap 3, 7-8]), in particolare alle tab. XXII-XXIV.
[11] Ibid., cap. 5 (L’ingegno guidato da virtù [Ap 10, 8-9]), tab. XXXIII-bis.
[12] Ibid., cap. 6 (Voce esteriore e dettato interiore [Ap 2, 7]), tab. XL-bis.
[13] Ibid., cap. 7e (La «mala luce» sull’età dello Spirito che s’appressa [e il «disdegno» di Guido Cavalcanti]), tab. LXXIII.
[14] «E io a lui: “I’ mi son un che, quando / Amor mi spira, noto, e a quel modo / ch’e’ ditta dentro vo significando”» (Purg. XXIV, 52-54). La terzina traspone nei canoni poetici la vita cristiforme, il rendersi simili a Cristo dettatore interiore, il seguirlo fedelmente. “Amor”, per Dante, fa segno dello Spirito di Cristo variamente diffuso sull’intero stato umano. Leopardi (Zibaldone, 4372-4373) avrebbe sostituito “Natura” ad “Amor”: “Il poeta non imita la natura: ben è vero che la natura parla dentro di lui e per la sua bocca. I’ mi son un che, quando Natura parla, ec. vera definiz. del poeta. Così il poeta non è imitatore se non di se stesso. Quando colla imitaz. egli esce veramente da se med., quella propriam. non è più poesia, facoltà divina; quella è un’arte umana; è prosa, malgrado il verso e il linguaggio. Come prosa misurata, e come arte umana, può stare; ed io non intendo di condannarla”.
[15] Cf. Il sesto sigillo, cap. 3, tab. XXVIII.
[16] Ibid., cap. 2c (L’apparizione di Beatrice nell’Eden: un’Apocalisse dei tempi moderni), tab. XV.
[17] Ibid., cap. 6, tab. XXXIX-ter.
[18] Ibid., cap. 3, tab. XXVI.
[19] Ibid., cap. 6, tab. XXXIV.
[20] Cf. Il terzo stato. La ragione contro l’errore, cap. IV.
[21] Applicare ad altri tempi fatti e detti dei profeti è, secondo Olivi, uso consueto di Giovanni nello scrivere l’Apocalisse; allo stesso modo l’esegeta può fare con le visioni ivi descritte (prologo, notabile XI).
[22] Se “Laterano” (parola, come “Vaticano” a Par. IX, 139, formata da quattro sillabe) allude ai quattro lati di una città in somma concordia e che vive nella povertà evangelica (tale è la Gerusalemme santa e pacifica), non è escluso che il suo andare sopra le cose mortali sia anche accenno a un vivere del papato non ancora corrotto dall’avidità dei beni temporali (cfr. le parole di san Pietro, a Par. XXVII, 40-45, sul papato del tempo dei martiri (che, con Giuliano l’Apostata, durò anche dopo Costantino): “Non fu la sposa di Cristo allevata / del sangue mio, di Lin, di quel di Cleto, / per essere ad acquisto d’oro usata; / ma per acquisto d’esto viver lieto / e Sisto e Pïo e Calisto e Urbano / sparser lo sangue dopo molto fleto”). Nel poema il nome compare solo un’altra volta, con la “guerra presso a Laterano” condotta da Bonifacio VIII, “lo principe d’i novi Farisei”, contro i cristiani, cioè contro i Colonna (Inf. XXVII, 85-90). “Laterano”, in questo senso, avrebbe un valore simile a quello della “cerchia antica” dentro la quale Firenze “si stava in pace, sobria e pudica” (Par. XV, 97-99).
[23] Su Ap 4, 1-2 cf. Lectura super Apocalipsim e Commedia. Le norme del rispondersi, cap. 2, tab. 2.8-9.
[24] A. FRUGONI, La Roma di Dante, tra il tempo e l’eterno, in IDEM, Pellegrini a Roma nel 1300. Cronache del primo Giubileo, presentazione di C. Frugoni, a cura e con Introduzione di F. Accrocca, Casale Monferrato 1999, pp. 102-103.
[25] M.-D. CHENU, La teologia nel dodicesimo secolo, a cura di P. Vian (Biblioteca di cultura medievale), Milano 1986 (1957), pp. 272-273: “[…] il riferimento evangelico preparerà, anzi favorirà all’interno del regime della grazia, la scoperta delle leggi della natura, la coscienza delle esigenze della ragione, il valore delle strutture della società: regime unico della grazia, sempre, in cui la natura, la ragione, la società serviranno tanto meglio la fede e la grazia, quanto non lo faranno più sotto una tutela infantile, ma nell’autonomia dei loro metodi […] Dante sarà ancora il testimone di una gerarchia statica in cui gli “stati del mondo” rimangono come nel sottosuolo di una società sacrale. Ma già cominciano ad avere ripercussioni su tutto il comportamento cristiano […]”.
[26] R. MORGHEN, Medioevo cristiano, Bari 19744, pp. 263-264.