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Ott 23 2014

Montecassino francescana. Dante e la “pietas” degli alti monti

«Castrum namque, quod Casinum dicitur, in excelsi montis latere situm est». Così Gregorio Magno (Dialogi, II, 8) che, «come tutto induce a ritenere», Dante riprende: «ritorna qui il termine costa adoperato già per indicare la posizione di Assisi» [1]. La fonte gregoriana è tuttavia incastonata e armata in altra ben più ampia, che coinvolge, quasi ‘liber concordiae’ di qualsivoglia citazione o reminiscenza dantesca, ogni punto del «poema sacro».

 

Intra Tupino e l’acqua che discende
 del colle eletto dal beato Ubaldo,
 fertile costa d’alto monte pende

                       (Paradiso XI, 43-45)

Subasio

Quel monte a cui Cassino è ne la costa
 fu frequentato già in su la cima
da la gente ingannata e mal disposta

                        (Paradiso XXII, 37-39)

Cairo

 La Commedia di Dante conseguì «la gloria de la lingua» attraverso un’intensa elaborazione intertestuale della Lectura super Apocalipsim del francescano Pietro di Giovanni Olivi, completata (1297/1298) appena dieci anni prima dell’inizio della stesura del «poema sacro» (ca. 1307). La ricerca in corso dà conto [2] di questa straordinaria metamorfosi testuale (che è anche esempio di arte della memoria), e delle sue norme filologicamente verificabili. Emerge un Dante tutto ‘medievale’, che si era perduto, lì dove il senso letterale, rivolto a chiunque, ne racchiude altri «mistici» rivolti ai pochi – gli Spirituali francescani – che con la predicazione avrebbero potuto riformare la Chiesa. Ma il confronto fra i due testi consente anche di percepire il passaggio, nell’«autunno del Medioevo», agli ideali laici propri del Rinascimento, lì dove le prerogative che nell’esegesi dell’Olivi sono concentrate sulla sola storia della Chiesa vengono da Dante riversate sull’intero mondo umano con le sue esigenze, come la lingua, la filosofia, la monarchia. Con Dante è maturato un processo da lungo tempo iniziato; egli, scrive il padre Chenu, è «ancora il testimone di una gerarchia statica in cui gli “stati del mondo” rimangono come nel sottosuolo di una società sacrale. Ma già cominciano ad avere ripercussioni su tutto il comportamento cristiano» [3]. Per ben leggere i versi relativi ai monti Cairo e Subasio bisogna fare riferimento proprio ai sette status, cioè alle categorie che segnano, secondo l’Olivi, la storia della Chiesa, sotto le quali tutto il materiale esegetico contenuto nel prologo e nei ventidue capitoli del commento apocalittico può essere disaggregato e ridistribuito [4].

La «costa» e lo «scendere» sono temi del quinto stato, il declinante momento della pia condescensione verso la vita associata che frange l’ardua, ripida e solitaria altezza dello stato precedente degli anacoreti. Nel notabile VII del prologo della Lectura super Apocalipsim si recano gli esempi di Cristo che condiscese agli infermi e di Adamo al quale venne sottratta una forte «costa» (simbolo della solitudine austera degli anacoreti del quarto stato), che Dio nel creare Eva riempì di pietas [5]. Più volte nel poema la «costa» della ripa infernale, o della montagna del purgatorio, che giace o che è corta o che cala o che pende, si abbina allo «scendere» in modo da far via in giù o in su, indicando la rottura della solitaria arditezza, del luogo «alpestro» a vantaggio del condiscendere pietoso, del dar via.

Ne è esempio la scesa dal «loco … alpestro» verso il settimo cerchio infernale, nella fossa del Flegetonte (Inf. XII, 1-10). Viene paragonata a «quella ruina che nel fianco  (equivalente alla «costa») / di qua da Trento l’Adice percosse, / o per tremoto o per sostegno manco»; ivi «è sì la roccia discoscesa, / ch’alcuna via darebbe a chi sù fosse» («ut nequeuntibus in arduis perdurare daretur locus gratie in mediocri statu»: prologo, notabile V); tale è quella che consente a Virgilio e Dante il passaggio dal monte al piano. Altro caso è la fuga dei due poeti i quali, inseguiti dai Malebranche, grazie alla «costa» che giace riescono a scendere dalla quinta alla sesta bolgia (Inf. XXIII, 31-33); oppure il passaggio dalla sesta bolgia alla successiva, facilitato dal fatto che il pendere, cioè l’inclinare, di Malebolge verso il pozzo centrale fa sì «che l’una costa surge e l’altra scende» (Inf. XXIV, 34-42). Nel dipartirsi dal male dell’inferno, Virgilio si appiglia «a le vellute coste» di Lucifero facendo scala del pelo e scendendo in giù «di vello in vello» (Inf. XXXIV, 73-75).

Altrove è la montagna del Purgatorio, «roccia sì erta», a calare nella «costa» e a rompere la propria arditezza per consentire l’erta salita, impossibile a chi va senz’ali (Purg. III, 46-54; IV, 19-33) o, allentando la ripa che precipita, a fare scale come quelle che consentono di mitigare «l’ardita foga» della salita di San Miniato, «la chiesa che soggioga / la ben guidata sopra Rubaconte» (Purg. XII, 100-108). La valletta dei prìncipi si apre «dove la costa face di sé grembo … in fianco de la lacca» e ivi, condotti da Sordello «tra erto e piano» (che corrisponde allo stato mediocre) per «un sentiero schembo» (tema dell’essere inclinato), Virgilio e Dante scendono (‘avvallano’) e attendono il nuovo giorno (tema del quinto sigillo, da Apocalisse [= Ap] 6, 9-11, ove ai santi si dice di aspettare fino al completamento del numero degli eletti; Purg. VII, 67-72; VIII, 43-44, 46).

Trovarsi in uno stato mediocre (il quinto) viene appropriato sul piano politico a Cesena in Inf. XXVII, 52-54, nella risposta che il poeta dà a Guido da Montefeltro sulla sua Romagna: «E quella cu’ il Savio bagna il fianco (la «costa»), / così com’ ella sie’ tra ’l piano e ’l monte, / tra tirannia si vive e stato franco», dove la tirannia è assimilata all’ardua e oltre una certa misura insostenibile vita degli anacoreti (il quarto stato). Del quarto stato, «stans» (prologo, notabile III), è proprio il fermo governare le genti «in virga ferrea», il «victoriosus effectus» che deriva dalle res gestae degli operosi. Nel quinto stato, «declinans» (notabile III), limitato alla Chiesa latina, si provvede a ricevere le moltitudini – «post tam altos status expedit multitudinem condescensive recipi et primos secundum proportionem suarum virium sequi» (prologo, notabile V) – e si apprestano le medicine che ne curino i morbi. Così la cascata del Flegetonte rimbomba verso Malebolge come quella di San Benedetto dell’Alpe «per cadere ad una scesa / ove dovea per mille esser recetto» (Inf. XVI, 100-102), si tratti del mai realizzato castello dei conti Guidi per riunirvi i villaggi circostanti, o della grande badia camaldolese vuota di monaci. Così, nella nona bolgia, l’oscuro Pier da Medicina, che vissuto «in su terra latina» concorda perfino nel nome con il ‘medicinale’ quinto stato, ricorda con nostalgia la pianura padana: «se mai torni a veder lo dolce piano / che da Vercelli a Marcabò dichina» (Inf. XXVIII, 70-75).

La successione tematica tra quarto, quinto e sesto stato forma l’ossatura dei versi con cui Tommaso d’Aquino inizia in Par. XI l’elogio di san Francesco: al motivo dell’«alto monte» (quarto stato) si contrappongono quelli dell’acqua «che discende / del colle eletto dal beato Ubaldo» (il Chiascio) e della «fertile costa» che pende e spezza l’altezza del Subasio (quinto stato), per sfociare nella nascita di un sole in un luogo che, piuttosto che Ascesi, dovrebbe chiamarsi Oriente (Francesco è l’angelo del sesto sigillo, ascendens ab ortu solis). Tematica che si ritrova nelle parole di san Benedetto, il quale portò per primo su «quel monte a cui Cassino è ne la costa» il nome di Cristo, «di colui che ’n terra addusse / la verità che tanto ci soblima», tanto da sottrarre gli abitanti delle «ville circunstanti» dal culto dei falsi dèi (Par. XXII, 37-45).

San Benedetto e san Francesco sono dunque accomunati dalla «costa», cioè dal pietoso e condiscendente aprirsi dell’erta solitudine verso le moltitudini e la vita associata proprio del quinto stato – un valore femminile, si direbbe, che tempera la mascolinità -, dopo che il «morale individuo tutto ascetico, che era stato nascosto nelle solitudini dell’Oriente … lasciò la colonna dello Stilita e l’antro di Paolo, e peregrinò in Occidente, perchè il Cristo voleva entrare redentore e maestro anche nella civile economia de’ popoli» e «il monacato orientale si trasfigurò su Monte Cassino in un individuo morale, che non tarpando le ali della sua contemplazione, umanamente consociasse gli uomini per lo amore di Cristo» [6]. I due santi stanno insieme anche nell’Empireo, dove Dante li vede «con imagine scoverta»; li accompagna Agostino: i nomi dei tre formano un endecasillabo (Par. XXXII, 35). La triade, pur non appartenendo storicamente allo stesso stato, designa la vita monastica e canonicale che si è sviluppata intensamente nel quinto (il quale formalmente inizia con il soccorso recato alla Chiesa romana da Carlo Magno o da suo padre Pipino). Per la «concurrentia» fra gli stati (prologo, notabile XII) le regole benedettina e agostiniana, istituite nel quarto stato (dei contemplativi), fiorirono nel quinto e Francesco iniziò il sesto stato sotto il regime del precedente periodo. E nell’Empireo fa da guida il contemplativo san Bernardo, che al quinto stato appartiene di diritto e ne reca tutta la tenerezza: «Diffuso era per li occhi e per le gene / di benigna letizia, in atto pio / quale a tenero padre si convene (Par. XXXI, 61-63; Dante si rivolge a san Benedetto chiamandolo «padre»: Par. XXII, 58) │ Unde quamvis vita monachorum quarti temporis fuerit clarior, non tamen fecundior nec sic habens sensum vivum et tenerum pietatis (notabile XIII)». Quarto stato (designato da Fonte Avellana) e quinto (indicato con «la casa / di Nostra Donna in sul lito adriano») sono ben distinti da Pier Damiani, l’anima che Dante incontra prima di san Benedetto nel cielo di Saturno, sia che con «Pietro Damiano» e «Pietro Peccator» debba intendersi la stessa persona (il Damiani anacoreta e canonico) o due distinti soggetti (Par. XXI, 121-123). Questa differenza fra i monaci del quarto stato, nei quali «nulla erat possessio aut possessionum anxietas sicut est in temporibus istis, sed summa et una omnibus paupertatis voluntas», e i più imperfetti monaci o canonici del quinto viene affermata da Gioacchino da Fiore citato da Olivi nel notabile XII del prologo, «ne forte cum de monachis quinti temporis sermo succedet, vel de illis clericis qui canonice vivunt, alterum occurat pro altero et nominum idemptitas intellectum obscuret».

 

Luigi Tosti, monaco cassinese (1811-1897)

Luigi Tosti, monaco cassinese (1811-1897)

 

Dante fu certo, come sottolineato da Burckhardt, primo fra i moderni ad osservare e gustare di nuovo il lato estetico del paesaggio [7]. Ma, questo gusto, quanto aspetto sacro ancora ritiene! Monti aperti nella «costa» – memori della piaga laterale di Cristo tanto cara a Olivi -; monti che si muovono. All’apertura del sesto sigillo (Ap 6, 12-17) un grande terremoto – interpretato sia come eventi naturali che come sovvertimenti politici – provocherà terrore negli uomini senza distinzione di stirpe o di grado, le coscienze saranno sconvolte e si convertiranno o si induriranno maggiormente. Quanti saranno indotti alla penitenza si rifugeranno fra i sassi e le spelonche dei monti petrosi, cioè chiederanno ausilio ai santi fermi nella fede fuggendo l’irato volto di Cristo giudice. Cristo stesso predisse mali simili, dicendo: «Figlie di Gerusalemme, non piangete su di me ma su voi stesse» (Luca 23, 28), e ancora: «allora cominceranno a dire ai monti: cadete su di noi, e ai colli: copriteci» (ibid., 23, 30).

Roccia rotta dal terremoto verificatosi in morte di Cristo, che consente nel «fianco» una via di scesa, è la sopra ricordata rovina per la quale Virgilio e Dante scendono verso il Flegetonte (Inf. XII, 1-10, 31-45). Nella discesa spesso le pietre si muovono sotto i piedi del poeta, «per lo novo carco» (ibid., 28-30), cioè sotto il peso di un corpo vivo, ma il ‘nuovo’ è anche indice del sesto stato, del secolo che si rinnova, del nuovo avvento di Cristo nei suoi discepoli spirituali, che ripercorre il primo avvento del Salvatore, causa per cui, come  afferma Virgilio, «questa vecchia roccia, / qui e altrove, tal fece riverso».

Fuggono alle pietre Dante e Virgilio inseguiti dai Malebranche nel passaggio, numericamente non casuale, dalla quinta alla sesta bolgia (Inf. XXIII, 1-57). Dante è spaventato e già sente i diavoli venire dietro, chiede a Virgilio di nascondersi («Maestro, se non celi / te e me tostamente») e il maestro «giù dal collo de la ripa dura» si abbandona supino «a la pendente roccia» – ‘pietosa’ nella «costa» – portandoselo sul petto come la madre il figlio. Poi un altro sasso ‘condiscendente’, una rovina che «giace in costa», permette ai due poeti di dipartirsi dalla sesta bolgia (ibid., 133-138). La rottura del ponte sopra la sesta bolgia è stata anch’essa causata, come spiegato dal bugiardo Malacoda, dal terremoto che scosse l’inferno al momento della morte di Cristo (Inf. XXI, 106-114), prefigurazione di quello nuovo che accompagna l’apertura del sesto sigillo.

Il «poema sacro» è pregno di quell’escatologismo che, «oltre che ideologia di lotta e di riforma del gruppo spirituale, era anche un vero e proprio sentimento storico (…) una tensione di rinnovamento, una ansia di salvezza, che nel 1300, l’anno centenario della Natività, aveva trovato come un’attivazione, in un senso di pienezza dei tempi, cui doveva corrispondere un fatto, un accadere meraviglioso e nuovo» [8]. Eventi imprevedibili e sconvolgenti, come il grande terremoto con il quale si apre il sesto sigillo (Ap 6, 12-17; 16, 18-20), con il conseguente muoversi delle isole e dei monti (cioè di quanto sembrava più sicuro e stabile), interpretato da Olivi come un sovvertimento del regime ecclesiale, trovano riscontro sia nel muoversi della «bella Trinacria» con la rivolta antifrancese del Vespro del 1282 (Par. VIII, 73-75) come nella cattività nella selva avignonese della Chiesa di Roma, che pur era «sicura, quasi rocca in alto monte» (Purg. XXXII, 148ss.), entrambi eventi inopinati.

Se i monti che coprono sono i santi sublimi e fermi nella fede, la ‘pietra’ per eccellenza è la Chiesa di Roma. Il cavallo pallido, che si mostra all’apertura del quarto sigillo (Ap 6, 7-8), designa secondo l’Expositio in Apocalipsim di Gioacchino da Fiore, citata da Olivi, il regno dei Saraceni. Questo corrisponde per concordia al regno degli Assiri, i quali sotto il quarto sigillo dell’Antico Testamento devastarono e resero schiave le dieci tribù di Israele e quasi fecero lo stesso con il regno di Giuda, come all’apertura del quarto sigillo nel Nuovo Testamento furono devastate le chiese orientali – le nuove dieci tribù – e quasi la stessa sorte toccò alla chiesa latina, assimilata al regno di Giuda poiché, come in questo fu la vera e principale sede del culto divino (della vera lingua), così lo è nella chiesa latina o romana. Come allora la tribù di Beniamino venne congiunta al regno di Giuda, così Paolo, della tribù di Beniamino, si congiunse in Roma con Pietro, che nel principato della fede fu un altro David e, tra gli apostoli, patriarca della fede. Fu come il patriarca Giuda, al quale fu detto: «non sarà tolto lo scettro da Giuda» (Genesi 49, 10), poiché a Pietro Cristo disse: «io ho pregato per te, perché non venga meno la tua fede» (Luca 22, 32) e «le porte degli inferi non prevarranno contro di essa», contro cioè la Chiesa fermata sopra la tua fede (Matteo 16, 18).

Il Flegetonte ha il fondo, le pendici e i margini fatti di pietra e questo consente di attraversare l’«orribil sabbione» infuocato (Inf. XIV, 82-84). Gli argini del ruscello, infatti, «fan via, che non son arsi», poiché «sopra loro ogne vapor si spegne» (ibid., 141-142). In essi è il tema della Chiesa romana – la sede di Pietro – che non venne meno nella fede e contro la quale non poté prevalere la devastazione dei Saraceni. I «duri margini», sopra i quali il vapore che si leva dal sangue bollente del fiume fa schermo alla pioggia di fuoco, sono simili alle dighe che i Fiamminghi – «temendo ’l fiotto che ’nver’ lor s’avventa» –  tra Wissant e Bruges oppongono come schermo «perché ’l mar si fuggia» o a quelle costruite dai Padovani «lungo la Brenta» per difendere le loro città e i loro borghi murati, prima che la Carinzia senta il caldo (motivo del sentir sopravvenire il giudizio divino) che fa sciogliere le nevi e ingrossa i fiumi (Inf. XV, 4-12). Dall’ira di Cristo giudice è dunque salvezza la Chiesa di Pietro, diga indefettibile che consente di attraversare anche i passi infernali.

Se la descrizione del luogo dà a Montecassino un valore francescano – anche perché l’episodio di san Benedetto rinvia, come avviene in tutto il «poema sacro», alla Lectura super Apocalipsim dell’Olivi -, diversi sono i motivi sviluppati nei canti XI e XXII del Paradiso. Prevalgono in Francesco quelli relativi al sesto stato, nell’esegesi appropriati agli angeli di cui ai capitoli VII (sesto sigillo) e X (sesta tromba); preminenti in Benedetto sono i temi del quarto stato, quello dei contemplativi. Ma, come afferma Olivi, la perfezione del quarto stato, pur realizzandosi in tempi storicamente diversi, equivale a quella del sesto e del settimo stato. Se il pietoso condiscendere del quinto stato raggiunge la sua consumazione nel sesto, con la «viscerosa caritas Christi ad nostras inferiores miserias aperta et arcualiter dilatata», impressa nella mente di Francesco, angelo «amictus nube» (Ap 10, 1), si può affermare che, nei versi danteschi, «sin dalla battuta iniziale Benedetto esprime uno spirito ardente di carità» [9], né questo è estraneo al colloquio con Pier Damiani nel medesimo cielo di Saturno. Il quarto stato è assimilato (prologo, notabile X) al santo affetto («L’affetto che dimostri / meco parlando»: Par. XXII, 52-53; il «libero amore» mostrato dal Damiani di cui a Par. XXI, 74), alla vita d’eccellenza («ch’assai illustri spiriti vedrai», afferma Beatrice: Par. XXII, 20); in esso la fede viene dilatata («così m’ha dilatata mia fidanza»: ibid., 55). La quarta chiesa d’Asia (Tiàtira; Ap 2, 18), il cui nome viene interpretato come «infiammata», ferve di ardore nella fede e nella carità; ad essa Cristo si rivolge con gli occhi fiammeggianti, cioè con la luce dell’infuocata contemplazione («ché più e tanto amor quinci sù ferve, / sì come il fiammeggiar ti manifesta. / Ma l’alta carità … Luce divina sopra me s’appunta … Quinci vien l’allegrezza ond’ io fiammeggio …» [Par. XXI, 68-70, 83-90, nell’episodio di Pier Damiani]; «Se tu vedessi / com’ io la carità che tra noi arde … Questi altri fuochi tutti contemplanti … e la buona sembianza / ch’io veggio e noto in tutti li ardor vostri» [Par. XXII, 31-32, 46, 53-54, nell’episodio di Benedetto]). Nel quarto stato ci si dedica all’anagogia, designata ad Ap 6, 6 dall’olio – «Per oleum vero, suave et omnibus ceteris liquoribus superenatans, designatur intelligentia contemplativa seu anagogica» -; così stava il Damiani sotto il Catria: «che pur con cibi di liquor d’ulivi / lievemente passava caldi e geli, / contento ne’ pensier contemplativi» (Par. XXI, 115-117).

Né però di sola contemplazione è la vita di questo periodo, bensì di grande operosità. Dopo il terzo stato dei dottori, il quarto è dei pastori; alla spada dei primi, con la quale viene confutata razionalmente l’eresia dai depositari del senso morale della Scrittura, subentra il pastus refettivo (non a caso a questi stati, che concorrono ad infiammare l’orbe ma non si identificano, entrambi di solare sapienza, rinviano i «due soli» di Roma, l’impero e il papato, di cui dice Marco Lombardo a Purg. XVI, 106-108). Rispetto al quinto, «declinans», l’alto stato precedente è «stans», fermo nel voto (prologo, notabile III); i suoi piedi, come quelli di Cristo che si propone a Tiàtira (Ap 2, 18), sono «simili all’oricalco», designano cioè la perfezione della vita attiva (il Damiani: «Quivi / al servigio di Dio mi fe’ sì fermo …» [Par. XXI, 113-114]; san Benedetto: «Qui è Maccario, qui è Romoaldo, / qui son li frati miei che dentro ai chiostri / fermar li piedi e tennero il cor saldo» [Par. XXII, 49-51]). Ed è ministero del pastore il dispensare ai poveri: «Quia etiam episcopi est ministrare seu dispensare pauperibus et precipue suis subditis bona ecclesie tamquam communia et tamquam bona pauperum» (Ap 2, 19). Di qui il duro rimprovero di Benedetto, detto per ogni ordine ecclesiastico: «ché quantunque la Chiesa guarda, tutto / è de la gente che per Dio dimanda; / non di parenti né d’altro più brutto» (Par. XXII, 82-84).

La contemplazione del quarto stato trova anch’essa consumazione nel sesto. A questo appartengono i compagni dell’Agnello che staranno sul monte Sion dopo la vittoria sull’Anticristo (Ap 14, 1-5). Sion, interpretato come «specula» (cioè l’«alta et solida eminentia contemplativi status»), sarà il luogo deputato al «sublimissimus cultus Christi» («e quel son io che sù vi portai prima / lo nome di colui che ’n terra addusse / la verità che tanto ci soblima», dice Benedetto: Par. XXII, 40-42) da parte di quanti si fregeranno dell’«universalis primatus sancte dedicationis eorum ad Dei cultum» e per questo saranno «singulariter segregati et ad Dei servitium empti» («di sotto al quale è consecrato un ermo, / che suole esser disposto a sola latria.  … Quivi  / al servigio di Dio mi fe’ sì fermo …», dice Pier Damiani di Fonte Avellana sotto il gibboso Catria: Par. XXI, 109-114). Prerogativa di costoro sarà la «perfecta et immaculata puritas», e Sion sarà anche il luogo riservato ai sommi rettori del mondo (Saturno, il cielo dei contemplativi, è il «cristallo che ’l vocabol porta, / cerchiando il mondo, del suo caro duce / sotto cui giacque ogne malizia morta»: Par. XXI, 25-27; i monti Catria e Cairo sono compimento storico del monte Ida a Creta, «sotto ’l cui rege fu già ’l mondo casto», di cui parla Virgilio a Inf. XIV, 94-99). Benedetto sa bene che l’anacoretismo, da solo, è insostenibile («infectio humani generis et sue carnis non patitur tam arduam vitam diu in hoc seculo perdurare [prologo, notabile V]│La carne d’i mortali è tanto blanda [Par. XXII, 85]»), e che anche la sua Regola deve passare storicamente per il quinto stato, dove il bel principio non coincide con la fine (così è detto della quinta chiesa d’Asia, «“Sardis”, id est principium pulchritudinis, quia scilicet sola initia boni non autem consumationem habuit» (Ap 3, 1)│«e se guardi ’l principio di ciascuno, / poscia riguardi là dov’ è trascorso, / tu vederai del bianco fatto bruno [Par. XXII, 91-93]»). Il patriarca parla anche per i Francescani: «Pier cominciò sanz’ oro e sanz’ argento, / e io con orazione e con digiuno, / e Francesco umilmente il suo convento» (Par. XXII, 88-90). Non a caso viene definito «la maggiore e la più luculenta / di quelle margherite» (ibid., 28-29) le quali, piccole pietre preziose incastonate nelle porte della Gerusalemme celeste, designano appunto l’umiltà e la povertà (Ap 21, 21). I suoi frati «uomini fuoro, accesi di quel caldo / che fa nascere i fiori e ’ frutti santi» (ibid., 47-48). Fiori e frutti che sono propri, rispettivamente, del sesto e del settimo stato della Chiesa, dopo che Cristo, sua radice e poi tronco, si diffonderà nei rami fiorenti e fruttuosi (prologo, notabile VI). San Benedetto guarda dunque, come tutti i personaggi della Commedia, al novum saeculum che tanto s’aspetta e che è già operante nella storia, al sesto stato che recherà a compimento quanto espresso nei periodi precedenti. Si fa profeta del soccorso provvidenziale e dell’imminente caduta di Babylon, definitivamente sanzionata nel cielo successivo dal principe degli apostoli (Par. XXII, 94-96; XXVII, 61-63).

Nel cielo di Saturno è la compiuta metamorfosi del mare di cristallo misto a fuoco (Ap 15, 2). Il «settimo splendore», che viene definito «cristallo» (Par. XXI, 25; il termine è ad Ap 4, 6, luogo parallelo), si trova congiunto con il segno del «Leone ardente» e raggia il proprio influsso, freddo e secco, «misto … del suo valore»: è cioè «vetro misto a fuoco» (ibid., 13-15). In esso Beatrice invita Dante a guardare come in uno specchio (ad Ap 4, 6), per rendere i propri occhi specchi della figura (la scala d’oro) che gli apparirà (ibid., 16-18). San Benedetto tesse le sue parole – «Questi altri fuochi tutti contemplanti» (Par. XXII, 46) – con i fili tratti da Ap 15, 2, dove il fuoco di cui è misto il vetro del mare designa il fuoco della contemplazione, la fervida carità e l’ardente intelligenza spirituale della Scrittura. A Dante timoroso di essere inopportuno nel domandare, si rivolge in nome della «carità che tra noi arde», che se il poeta vedesse come la vedono i beati, non avrebbe esitazione nell’esprimere i suoi concetti (Par. XXII, 28-33). Descrivendo la moderna decadenza dei monasteri, ricorda il buon principio di essi, e di sé che cominciò «con orazione e con digiuno» (ibid., 88-90): si tratta degli strumenti che ad Ap 15, 2 Olivi assegna agli spirituali per conseguire la vittoria contro i sottili vizi dell’Anticristo, in modo da potersi infine elevare sopra il mare di vetro misto a fuoco.

 [LSA, cap. XV, Ap 15, 2; ms. Par. lat. 713, ff. 159vb-160ra] “Et vidi tamquam mare”. Hic describitur fontalis radix septem effusionum. Et hoc quoad quattuor. Primum est sublimis status et triumphus et zelus sanctorum ad quos spectat effundere. Per “mare” enim “vitreum mixtum igne”, designatur contemplatio ignea et penitentialis maceratio et amaritudo, et etiam tribulationum perpessio magna et profunda sicut mare et perspicua et solida sicut vitrum et igne superfervide caritatis commixta. Sicut etiam in aqua maris designatur doctrina littere, sic in igne intelligentia spiritalis et ardens. Item per hoc mare principalius designatur immensa Christi sapientia plena igne caritatis et zelatricis iustitie, et amara et immensa passio Christi igne caritatis plena et exsequens vitia nostra et ad viscera Christi contemplanda mediatrix et pervia quasi vitrum.
Par.  XXI, 13-18, 25-27; XXII, 31-33, 46-48, 88-90:
Noi sem levati al settimo splendore,
 che sotto ’l petto del Leone ardente
 raggia mo misto giù del suo valore.
Ficca di retro a li occhi tuoi la mente,
 e fa di quelli specchi a la figura
 che ’n questo specchio ti sarà parvente.
Dentro al cristallo che ’l vocabol porta,
cerchiando il mondo, del suo caro duce
sotto cui giacque ogne malizia morta
Poi dentro a lei udi’: “Se tu vedessi
com’ io la carità che tra noi arde,
li tuoi concetti sarebbero espressi. ……
Questi altri fuochi tutti contemplanti
 uomini fuoro, accesi di quel caldo
che fa nascere i fiori e ’ frutti santi. ……”
Pier cominciò sanz’ oro e sanz’ argento,
e io con orazione e con digiuno,
e Francesco umilmente il suo convento
[LSA, cap. IV, Ap 4, 6; ms. Par. lat. 713, f. 58va] “Et in conspectu sedis”, scilicet erat, “tamquam mare vitreum simile cristallo”. Per mare designatur Christi amara et quasi infinita passio et lavacrum baptismale et penitentialis contritio et martiriorum perpessio et pelagus sacre scripture. Quodlibet enim horum est puritate et claritate et pervia perspicuitate vitreum et soliditate cristallinum. Hec omnia etiam sunt ad utilitatem ecclesie ordinata et ad cultum et gloriam maiestatis Dei. Scriptura etiam ideo manet in conspectu ecclesie, ut in ea valeant electi species facierum suarum prospicere ad cognoscendum se quales sint, et etiam ut in ipsa tamquam in speculo et per speculum possint intelligere invisibilia Dei.
[segue Ap 15, 2] Sancti ergo in predictis fundati et supereminentes, stant super mare predictum. Ipsi etiam “vicerunt bestiam et imaginem eius et numerum nominis eius”, id est bestialem vitam et ferocitatem Antichristi et ceterorum persequentium et doctrinam ipsius, que potius est imago bestie quam veritas Dei. “Vicerunt” etiam totam numerositatem vitiorum eius, et precipue illam ex qua coram suis sapientibus habet gloriosius et divinius nomen. Vincere quidem bestiam possunt fideles laici per solam simplicem confessionem fidei usque ad mortem. Sed sapientes clerici debent ultra hoc vincere imaginem doctrine eius, convincendo ipsam esse falsam et impiam et de sua catholica fide rationem reddendo. Sed religiosi evangelici debent ultra hoc vincere spiritalia et subtilia vitia eius, quod quidem habet fieri per orationem et ieiunium et per alia exercitia spiritalia.

 «Le parole di san Benedetto a Dante non hanno solo manifestato una persona, ma piuttosto rivelato un’anima: quella del monaco ideale, tutto carità benevola e bontà paziente» [10]. Un’idea che, anche se legata prevalentemente a un periodo storico, contiene in sé i più alti valori delle epoche precedenti e future.

[Si  riproduce il saggio di prossima pubblicazione sulla “Miscellanea Cassinese” in onore di dom Faustino Avagliano]

 

 


[1] R. Manselli, Benedetto, santo, in Enciclopedia Dantesca, II, 19842, p. 579.

[2] Pubblicata, a partire dal 2009, su questo sito, al quale si rinvia per ogni aspetto dimostrativo e per la trascrizione della Lectura super Apocalipsim dal ms. Paris, Bibliothèque Nationale de France, lat. 713. Cfr. A. Forni, Pietro di Giovanni Olivi e Dante. Un progetto di ricerca, in «Collectanea Franciscana», 82 (2012), pp. 87-156.

[3] M.-D. Chenu, La teologia nel dodicesimo secolo, a cura di P. Vian, Milano 1986 (19571) (Biblioteca di cultura medievale), p. 273.

[4] Il primo stato è quello della Chiesa primitiva degli apostoli, dove la fede si diffonde come folgore per l’universo. Il secondo stato, dei martiri, dura per circa trecento anni (da Cristo a Costantino oppure da Nerone a Giuliano l’Apostata). Segue il terzo stato dei dottori (che inizia con la conversione di Costantino o con il pontificato di Silvestro o con il Concilio di Nicea celebrato contro gli Ariani) e, con esso concorrente, il quarto degli anacoreti (dal tempo di Antonio anacoreta o di Paolo di Tebe, il primo eremita, oppure dall’impero di Giustiniano, fino alla distruzione delle chiese di Gerusalemme, Antiochia e Alessandria operata dai Saraceni). Con l’incoronazione di Carlo Magno (o con l’intervento di suo padre Pipino in aiuto della Chiesa contro i Longobardi) inizia il quinto stato, proprio dei condescensivi, i quali temperano la rigida austerità dello stato precedente pietosamente adattandola alle esigenze delle moltitudini dei fedeli, con la conseguente condizione di rilassatezza che ne deriva. La Chiesa, limitata alla parte latina a causa delle devastazioni dei Saraceni, viene ricompensata in lunghezza di tempo pacifico (il quinto stato dura circa cinquecento anni; nel 1300 concorre ancora con il sesto, già iniziato con san Francesco) e in larghezza di benefici, ma alla fine appare corrotta come fosse una nuova Babilonia. Il sesto stato, iniziato con Francesco (o, prima, con i suoi ‘profeti’ come Gioacchino da Fiore; o, dopo, con i discepoli spirituali di Francesco; letteralmente inizia con la distruzione della nuova Babylon), è il «novum saeculum» che tanto s’aspetta; ad esso farà seguito il quieto e pacifico settimo stato, che si svolgerà in parte in questa vita e in parte nella futura.

[5] LSA, prologus, notabile VII; ms. Par. lat. 713, f. 10ra: «Unde et Ade subtracta est fortis costa ad formationem Eve, “et replevit” Deus “carnem pro ea” (Gn 2, 21), id est pietatem condescensionis pro robore solitarie austeritatis».

[6] L. Tosti, Gli Ordini religiosi nella Divina Commedia, in Id., Scritti vari, I, Roma 1886 (Opere complete edite da L. Pasqualucci, IV), p. 147.

[7] J. Burckhardt, La civiltà del Rinascimento in Italia, tr. it., Firenze 1968 [1860], p. 272 e nota 1.

[8] A. Frugoni, La Roma di Dante, tra il tempo e l’eterno, in Id., Pellegrini a Roma nel 1300. Cronache del primo Giubileo, Casale Monferrato 1999, p. 103.

[9] Manselli, Benedetto, santo, p. 579.

[10] Manselli, Benedetto, santo, p. 580.