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Dic 08 2014

«Pallida mors Sarracenorum». La lupa, la morte e l’Islam

Nel primo canto dell’Inferno, scriveva Benedetto Croce, “ci si ritrova in una selva che non è selva, e si vede un colle che non è un colle, e si mira un sole che non è il sole, e s’incontrano tre fiere, che sono e non sono fiere, e la più minaccevole di esse è magra per le brame che la divorano e, non si sa come, ‘fa vivere grame molte genti’ ” [1].

Nella seconda visione apocalittica, l’esegesi oliviana dell’apertura del secondo sigillo (Ap 6, 3-4) – esposta nella Lectura super Apocalipsim – si estende in generale, incorporando quanto esposto da Gioacchino da Fiore, ai primi quattro sigilli. All’apertura del primo appare Cristo vittorioso che esce in campo sul cavallo bianco (Ap 6, 1-2), mentre nei successivi tre sigilli vengono specificati gli eserciti contrari a Cristo e alle sue tre perfezioni (potenza, sapienza, santità), designati rispettivamente con il cavallo rosso (secondo sigillo), nero (terzo sigillo) e pallido (quarto sigillo). Secondo Gioacchino da Fiore [2], i quattro cavalli corrispondono alle quattro bestie di Daniele 7, 3-7, considerate in una prospettiva storica rispetto al futuro regno dell’Anticristo: la leonessa dalle ali di aquila (i Giudei), l’orso (i pagani), la pantera (le eresie), la quarta bestia ‘diversa’ (i Saraceni). Olivi opera un confronto anche ad Ap 13, 1-2 con quanto detto dall’abate calabrese [3] sulla bestia dalle sette teste e dieci corna, che sale dal mare: simile a una pantera, con i piedi di un orso e la bocca di un leone, questa bestia riunisce in sé qualità prese da tutte e quattro le bestie della visione di Daniele, secondo un modo tipico dell’autore dell’Apocalisse, il quale assume, aggrega e applica ad altri tempi figure e sentenze dei profeti.

Quanto nell’esegesi è attribuito polemicamente agli Ebrei, ai pagani o all’Islam viene da Dante rovesciato sui Cristiani. La durezza della Giudea persecutrice di Cristo, che da giardino s’è fatta selva, è figura dell’Italia, già giardino dell’Impero e ora deserto (Purg. VI, 105), la quale, come la Giudea, verrà umilmente condotta a convertirsi per ultima. I Gentili, affannati per la carnalità e fluttuosi nei cuori come un mare tempestoso, sempre in guerra tra loro, uccisori di parenti e vicini, passano nella moderna ‘gentilità’, nell’amore gentile di Francesca o nella Romagna senza pace di Guido da Montefeltro o di Guido del Duca.

La quarta bestia di Daniele  (Dn 7, 7), ‘diversa’ dalle altre, corrisponde al cavallo pallido del quarto sigillo (e al terzo esercito contrario a Cristo), che designa la morte recata dai Saraceni e dal loro profeta Maometto (Ap 6, 7-8). La legge finta e carnale da questi stabilita impugna infatti la legge e la vita dei santi. Il cavallo pallido indica, oltre all’ipocrisia, anche l’ambizione del primato che vi siede sopra, che si fa forte di una superficiale austerità e macerazione quasi di un corpo pallido, ma che in realtà una volta conseguito il primato mostra apertamente la vita infernale e a lei conduce.

La lupa – la cupidigia universale, ma in primo luogo cristiana – possiede tutte le caratteristiche del cavallo pallido e macerato per l’ipocrisia che appare all’apertura del quarto sigillo, cioè della bestia saracena (Ap 6, 8). Ad essa è dato il potere “sulle quattro parti della terra”, che esercita tramite la “spada”, la “fame”, la “morte” e le “bestie”. Questi quattro strumenti alla lettera significano i vari modi di debellare i nemici, uccisi in battaglia campale, o per fame negli assedi di città che poi, abbandonate dagli uomini, diventano deserti devastati da bestie selvagge. La “spada” designa pure il terrore che questa bestia, la quale molte terre ha occupato, incute penetrando nell’intimo del cuore e della carne con la paura che deriva dalla sua forza militare; la “fame” denota l’assenza del verbo ristoratore di Cristo; la “morte” indica la mortifera legge di Maometto; le “bestie” la compagnia delle genti bestiali. La vista della lupa nella sua magrezza (che, a differenza delle altre due fiere, è chiamata “bestia”: Inf. I, 58, 88, 94), la quale “molte genti fé già viver grame”, incute paura, essa “fa tremar le vene e i polsi” (ibid., 49-54, 88-90); dopo il pasto ha più fame che prima (ibid., 97-99); impedisce al punto di uccidere chiunque tenti di passare per la sua via (ibid., 94-96; è la sola delle tre fiere con facoltà di uccidere). Beatrice, scesa al Limbo da Virgilio, asserisce che Dante “ne la diserta piaggia è impedito / sì nel cammin, che vòlt’ è per paura” (Inf. II, 61-63); le ha detto infatti Lucia: “non vedi tu la morte che ’l combatte / su la fiumana ove ’l mar non ha vanto?” (ibid., 107-108). Il fiume che non può essere vinto dal mare, cioè che non ha in esso consumazione, non è un fiume specifico, sia il Giordano o altro; corrisponde a quanto ad Ap 6, 3 si dice della bestia saracena, che non accetta la Scrittura, contro la quale non è possibile usare argomenti razionali e che perdura fino all’Anticristo, a differenza di quanto avvenuto con i Giudei, i pagani e gli eretici, i quali combatterono contro il cristianesimo per un certo periodo e poi sparirono.

[Ap 6, 8; IIa visio, apertio IVi sigilli] “Et ecce equus pallidus”, id est, secundum Ricardum [4], ypocritarum cetus per nimiam carnis macerationem pallidus et moribundus. “Et qui sedebat super eum”, scilicet diabolus, qui per pravam intentionem ypocritarum sedet in eis et per eos malitiam suam exercet, “nomen illi mors”. Hoc enim nomen bene diabolo convenit, quia per eum mors incepit et alios ad mortem trahere non cessat. “Et infernus”, id est omnes in inferno dampnandi, “sequeb[atur] eum”, quia omnes tales eum imitantur. […]
Deinde de eius potestate et sevitia subdit: “Et data est ei potestas in quattuor partes terre”, non quidem quod usque adhuc totum orbem possederit, sed quia versus orientem et occidentem et meridiem et aquilonem multas terras occupavit et in reliquos bellicum terrorem sue potestatis immisit et sepe exercuit, et secundum abbatem [5] circa suum finem et circa introductionem Antichristi hoc plenius complebitur.
Quod autem dicit “gladio et fame et morte et bestiis”, significat ad litteram varios modos penarum et varios modos debellandi hostes. Et ad litteram videtur sic loqui, quia gentes solent primo in campali bello per gladium aut in propriis urbibus per obsidionem et famem occidi, et sic ibi [terra] gentibus deserta solent insurgere silvestres bestie omnia vastantes. Spiritualiter vero designat quattuor mala que immittit hiis quos ad suam sectam trahit, scilicet ‘gladium’ carnalis timoris et amoris penetrantis intima cordis et carnis; et ‘famem’, id est egestatem refective gratie et sapientie Christi; et ‘mortem’, id est mortiferam legem et sectam; et ‘bestias’, id est societatem gentium bestialium.

 

Inf. I, 49-54, 88-90, 94-99; II, 61-63, 107-108:

Ed una lupa, che di tutte brame
sembiava carca ne la sua magrezza,
e molte genti fé già viver grame,
questa mi porse tanto di gravezza
con la paura ch’uscia di sua vista,
ch’io perdei la speranza de l’altezza.

Vedi la bestia per cu’ io mi volsi;
aiutami da lei, famoso saggio,
ch’ella mi fa tremar le vene e i polsi.

ché questa bestia, per la qual tu gride,
non lascia altrui passar per la sua via,
ma tanto lo ’mpedisce che l’uccide;
e ha natura sì malvagia e ria,
che mai non empie la bramosa voglia,
e dopo ’l pasto ha più fame che pria.

l’amico mio, e non de la ventura,
ne la diserta piaggia è impedito
sì nel cammin, che vòlt’ è per paura

non vedi tu la morte che  ’l combatte
su la fiumana ove  ’l mar non ha vanto?

[Ap 6, 3; IIa visio, in apertione IIi sigilli] Sicut etiam per equum pallidum, cuius sessor est mors, designatur Sarracenorum populus et eius propheta mortiferus, scilicet Mahomet, sic et per quartam bestiam dissimilem ceteris. Hec enim est dissimilis ceteris in tribus. Primo scilicet quia Iudeorum regnum et paganorum et hereticorum confluxerunt ad tempus cum fidelibus Christi et tandem disperierunt, sed bestia sarracenica surgens in quarto tempore confligit et perdurat in toto quinto et pertinget usque ad sectam Antichristi, propter quod hic dicitur quod “infernus”, id est infernalis secta Antichristi, “sequebatur eum”, scilicet equum pallidum et sessorem eius (Ap 6, 8) [6].
Secundo est eis dissimilis quia prima tria regna non habuerunt novam legem contrariam Christo. Nam lex Iudeorum, scilicet lex vetus, non fuit realiter contraria Christo, immo potius eius, nec lex nova quam heretici fingunt se sequi. Pagani autem legem non habuerunt quasi a Deo datam, sed solum legem naturalem in civilibus civiliter explicatam. Sarraceni autem habent legem carnalem et falsam a Mahomet, quasi a Dei propheta, datam.
Tertio est dissimilis quia contra istam non possunt fideles arguere per scripturas sacras sicut possunt contra Iudeos et contra hereticos, quia ista nostras scripturas non recipit, nec per rationem naturalem potest sic faciliter et evidenter convinci sicut poterat idolatria paganorum, quia isti non idola nec plures deos sed solum unum deum colunt [7]. Et insuper sapientes eorum ab antiquo philosophicis vacant et specialiter philosophie Aristotelis, unde et christiani latini acceperunt ab eis comenta super libros Aristotelis et plura alia de scientia medicinali, et etiam de quadrivio et specialiter de astronomia, ita ut iam multa scripta theologorum latinorum sunt Sarracenorum auctoritatibus farcita et fedata, in quo satis est signum quod infernus sequatur sectam illam.
Preterea bestia hec non sustinet fidem Christi inter eos predicari aut aliquid contra eorum legem dici, immo statim morte punitur. Non sic autem fuit in tribus primis.

[Ap 13, 3; IVa visio, VIum prelium] Ad hoc dicit Ioachim [8], qui hic accipit septimum caput bestie non pro uno rege sed pro gente sarracenica, prout superius recitavi, quod non dicit hic Iohannes quin et alia capita, scilicet gentem iudaicam et paganicam et quattuor gentes Arrianorum, viderit occisa, sed quia hoc solum vidit quasi occisum in mortem et post hoc a plaga mortis curatum. Iudeos autem, postquam contriti sunt a Romanis, nusquam audivimus pro legis defensione contra christianos arma levasse; et similiter nullum regnum paganorum pro cultura idolorum, post Iuliani obitum, contra christianos pugnasse; et similiter Gothos, Vandalos, Longobardos ad veram fidem conversos non audivimus ad antiquam perfidiam remeasse; Sarracenorum vero ex tot annis inchoata perfidia perseverat in malo et ubique christianum nomen impugnare pro viribus non desistit. Caput istud mori non potuit usque ad presens.

 [I sigillum; II sigillum; III sigillum; IV sigillum]

Clermont-Ferrand, Cattedrale, Vetrata dell’Apocalisse (Alain Makaravicz).

Clermont-Ferrand, Cattedrale, Vetrata dell’Apocalisse (Alain Makaravicz).

Giudei, pagani ed eretici non ebbero una legge di per sé contraria a quella di Cristo. La legge giudaica non si può dire contraria a Cristo, anzi fu sua; i pagani seguirono civilmente la legge di natura, gli eretici mossero interpretando in modo erroneo la legge di Cristo. I Saraceni seguono invece una legge carnale e falsa del tutto dissimile, che non accetta le Scritture cristiane e contro la quale non è possibile una qualsiasi confutazione sulla base di queste, come con i Giudei e con gli eretici. Né è possibile argomentare contro sulla base della ragione naturale, come contro i pagani, in quanto i Saraceni non credono in più dèi, ma in un solo Dio. Inoltre i loro sapienti, afferma Olivi, da lungo tempo si dedicano agli studi filosofici e in particolare di Aristotele, tanto che i cristiani latini hanno ricevuto da essi i commenti ad Aristotele e altre opere, soprattutto di medicina e di astronomia, con cui hanno farcito e insozzato i propri scritti teologici. Ancora, la bestia saracena, a differenza delle prime tre, non tollera che la fede di Cristo venga predicata tra i seguaci della sua setta o che venga detto qualcosa contro la sua legge, pena la morte immediata. Tolta la polemica antiaristotelica (che forse sarebbe meglio definire antitomista), tutta oliviana e che Dante non può accettare (correzione importante, ma che non fa venire meno l’adesione del poeta alla teologia della storia del frate di Sérignan), per il resto le prerogative della bestia saracena sono appropriate alla lupa, cioè all’avarizia dei cristiani. Dopo la lupa, tessuta con i fili della bestia saracena, non ci si stupirà di vedere in filigrana, nelle parole di Francesca – “Amor, ch’a nullo amato amar perdona … Amor condusse noi ad una morte” -, il motivo della legge carnale di Maometto che non tollera confutazione razionale, che non perdona ma uccide, armatura teologica che fascia la regola, esposta nel De amore di Andrea Cappellano, per cui amore non tollera che chi è amato non riami.

Di qui il valore storico delle tre fiere che impediscono a Dante la salita del “dilettoso monte”. Esse possono dirsi allegoria soltanto nel senso dell’allegoria dei teologi; non sono cioè finzioni ma figure di realtà storiche. Gli induriti Giudei (alla Giudea corrisponde la “selva che non è selva” di cui scriveva Croce), i lussuriosi pagani, i superbi eretici sparirono, appunto, come sparisce la lonza e subentra il leone, sparisce il leone e subentra, restando, la lupa, cioè la bestia saracena. Sono i mutevoli aspetti dell’unico corpo dei reprobi, dell’unica prostituta le cui varie colpe ridondano sull’ultima parte della storia umana come l’acqua di un fiume muta ma il fiume resta uno. Nonostante le articolazioni settenarie che percorrono la storia, una è la Chiesa e uno il suo avversario:

(prologo, notabile V) […] quarta visio demonstrat in omnibus septem statibus unam esse ecclesiam electorum quasi unam mulierem sole amictam attamen habentem variam prolem et varios exercitus correspondentes septem capitibus drachonis; sexta vero docet totam catervam reproborum esse unam meretricem et unam Babilonem et unam bestiam habentem tamen capita septem.

Un’esegesi fortemente gioachimita – ma filtrata attraverso l’Olivi – permea dunque punti essenziali dei primi canti del poema. Il senso interiore – marcato nella lettera dei versi da parole che sono segni mnemonici verso il testo dottrinale (magrezza, grame, paura, bestiafa tremar, uccide, famediserta, morte) – doveva essere ben chiaro a un lettore spirituale possessore della Lectura super Apocalipsim. Non si sarebbe arrovellato troppo nello scorgere nella lupa la bestia saracena; non avrebbe certo, di fronte alle fiere che sono e non sono tali, favoleggiato di inesistenti allegorie. L’essere “sanza pace” della lupa (Inf. I, 58) è tra i mali predetti dall’Apostolo nella seconda lettera a Timoteo (2 Tm 3, 1-9), dove parla dei tempi perigliosi che incombono sugli ultimi giorni, allorché ci saranno uomini pieni di ogni vizio che penetrano nelle case e catturano le “muliercule”, passo riferito all’ultimo periodo del quinto stato quando più grave è il dolore provocato dalle locuste (Ap 9, 5-6). Se ne ricorderà bene Ugo Capeto predicendo l’attentato di Anagni: “In novissimis diebus instabunt tempora periculosa et erunt homines se ipsos amantes, cupidi, … sine pace … sunt qui penetrant domos et captivas ducunt mulierculas”│“veggio in Alagna intrar lo fiordaliso, / e nel vicario suo Cristo esser catto” (Purg. XX, 86-87). Prima che Ugo Capeto chieda vendetta sulla propria discendenza, è ancora la lupa ad essere maledetta da Dante. Qui interessa l’interpretazione data, ad Ap 13, 18, del terremoto che avviene in apertura del sesto sigillo. Olivi rimette alla volontà divina l’avverarsi dell’opinione di alcuni che l’Anticristo mistico nasca dal seme di Federico II. Ricorda tuttavia che i sostenitori di questa tesi gioachimita affermano pure che la ‘caduta’ del regno di Francia avverrà in coincidenza con il terremoto che segna l’apertura del sesto sigillo, e che allora si verificherà quanto dice l’Apostolo ai Tessalonicesi sul fatto che l’apostasia, il discedere dall’obbedienza del vero papa per seguire il falso papa non eletto canonicamente, scismatico ed errante contro la verità della povertà e della perfezione evangelica, dovrà venire prima del ritorno di Cristo nella parusia (2 Th 2, 3). L’espressione paolina – “nisi venerit discessio primum” – si rispecchia nel verso che conclude l’invettiva contro la lupa – “quando verrà per cui questa disceda?” – nel quale il ‘discedere’ – hapax nel poema – è appropriato alla lupa e il ‘venire’ al Veltro. L’invettiva è collocata all’inizio di Purg. XX (vv. 13-15), canto che si chiude con il terremoto sentito “come cosa che cada” e che fa tremare la montagna (vv. 124-141). Stazio spiegherà che il terremoto si verifica allorché un’anima purgante si sente monda e libera nella sua volontà di salire al cielo (Purg. XXI, 58-72). Tra l’invettiva contro la lupa e il terremoto sta appunto Ugo Capeto, il quale chiede vendetta a Dio sulla “mala pianta” di cui fu radice, come i santi, all’apertura del quinto sigillo, chiedono con impazienza a Dio sùbita vendetta contro i mali (Ap 6, 9) e ad essi viene detto di aspettare i grandi eventi in apertura del sesto. Il terremoto – che assume testualmente le caratteristiche dell’apertura del sesto sigillo –, al di là dei motivi esposti da Stazio (anch’essi propri del sesto stato, al quale è data, per dettato interiore, libera volontà di salire senza impedimento), è allusione alla futura caduta del regno di Francia per mano imperiale.

[Ap 5, 1 (6, 9-11); IIa visio, Vum sigillum] In quinta autem (apertione), contra torporem accidie et otii quinti temporis, quod est sentina luxurie et omnis iniquitatis, clamant sancti martires eorum sanguinem, id est penales labores et dolores usque ad mortem, vindicari in illos. […] In quinta autem apertione, contra carnales eiusdem quinti temporis contemptores macerationum et martiriorum Christi et sanctorum precedentium, expetitur instanter et alte iusta vindicta (cfr. Ap 6, 10). Contra etiam ignominiam, est non solum spiritalis sed etiam temporalis pax et gloria sanctorum quinti status, designata per hoc quod ibi dicitur sanctis ut interim quiescant et in sui ornatum recipiant stolam albam (cfr. Ap 6, 11).

[Ap 13, 18; IVa visio, VIum prelium] Prefatum autem cleri et regni Francie casum et aliquem alium illi annexum vel previum dicunt designari per terremotum in initio apertionis sexti sigilli tactum, quamvis etiam preter hoc designet spiritalem subversionem et excecationem fere totius ecclesie tunc fiendam. Quid autem horum erit vel non erit, dispensationi divine censeo relinquendum. Addunt etiam predicti quod tunc in parte implebitur illud Apostoli [IIa] ad Thessalonicenses II° (2 Th 2, 3), scilicet “nisi venerit discessio primum”. Dicunt enim quod tunc fere omnes discedent ab obedientia veri pape et sequentur illum pseudopapam, qui quidem erit pseudo quia heretico modo errabit contra veritatem evangelice paupertatis et perfectionis, et quia forte ultra hoc non erit canonice electus sed scismatice introductus.

Purg. XX, 13-15, 43-51, 127-128:

O ciel, nel cui girar par che si creda
le condizion di qua giù trasmutarsi,
quando verrà per cui questa disceda?

Io fui radice de la mala pianta
che la terra cristiana tutta aduggia,
sì che buon frutto rado se ne schianta.
Ma se Doagio, Lilla, Guanto e Bruggia
potesser, tosto ne saria vendetta;
e io la cheggio a lui che tutto giuggia.
Chiamato fui di là Ugo Ciappetta;
di me son nati i Filippi e i Luigi
per cui novellamente è Francia retta.

quand’ io senti’, come cosa che cada,
tremar lo monte ………………………..

Ottone di Frisinga, in ben altre condizioni di certezza dell’autorità imperiale (morì nel 1158), aveva definito Ottone II, pur sconfitto a Rossano dagli Arabi nel 982, “pallida mors Sarracenorum” [9]. Lo stesso titolo fu tributato agli imperatori bizantini [10]. In Dante, che è della generazione che registrò la caduta di San Giovanni d’Acri nel 1291, la morte pallida diventa la malizia del mondo. Nell’esegesi di Ap 18, 7 (la condanna di Babylon) la superba gloria (il leone) e la voluttà carnale (la lonza) stimolano la brama di ricchezze (la lupa): in questi tre vizi, che già secondo gli antichi commentatori corrispondono alle tre fiere, consiste tutta la malizia del mondo figurata dalla prostituta apocalittica, come affermato nella prima epistola di san Giovanni (1 Jo 2, 16: le ricchezze corrispondono alla “concupiscentia oculorum”, che si aggiunge alla “concupiscentia carnis” e alla “superbia vitae”):

Quia vero non solum (Babilon) punietur pro malis que fecit in sanctos vel in proximos, sed etiam pro hiis quibus se ipsam vanificavit et fedavit, ideo pro hiis subditur (Ap 18, 7): “Quantum glorificavit se et in deliciis fuit, tantum date illi tormentum et luctum”. Le “tantum” non significat hic absolutam equalitatem quantitatis, sed equalitatem proportionis et iustitie. Signanter autem notat eius culpam de duobus, scilicet de superba gloria et de carnali voluptate, quia hec duo sunt radices omnium aliorum. Nullus enim, secundum Ieronimum, querit divitias nisi pro hiis duobus. In hiis autem [tribus], secundum Iohannem, consistit radicaliter tota malitia mundi (cfr. 1 Jo 2, 16).

 

Francia 2014 120

Chauvigny (Poitou-Charentes), St-Pierre, capitello (sec. XII).

Le tre fiere, che in Inf. I impediscono al poeta la salita del “dilettoso monte”, si presentano ciascuna con qualità molteplici che assommano quelle delle varie bestie scritturali. La lonza ha in parte le caratteristiche della prima bestia di Daniele 7, 3-7, la “leena” (la leonessa) crudele che si contrappone al leone come la carne allo spirito e come il sesso femminile a quello maschile: essa infatti designa la concupiscenza della carne, o la lussuria. La lonza ha però, nel pelo macchiato (la “gaetta pelle”), l’astuzia dolosa della pantera, ossia della terza bestia di Daniele, che corrisponde al cavallo nero nell’apertura del terzo sigillo apocalittico e che si ritrova, insieme all’orso e al leone, nella bestia che sale dal mare in Ap 13, 1-2. Si può aggiungere che, nella carnalità, ha anche qualcosa dell’orso, la seconda bestia vista dal profeta. Il leone corrisponde alla bestia di Ap 13, 2 che con rapace voracità uccide i santi, ma anche all’orso che con ferocia li conculca; la sua “fame” e la “paura” che incute sono tolte dalla quarta bestia di Daniele. La “test’ alta”, che designa la superbia e l’audacia, esclude invece ogni riferimento alla dolosa astuzia. La lupa, controfigura principale della quarta bestia di Daniele, diversa (“dissimilis”) dalle altre, ha in sé elementi del leone (la voracità) e della pantera (la magrezza con cui si presenta, nonostante la sua fame senza fine, è indizio di frode). Questa “concurrentia” tra le fiere, avvertita da commentatori e interpreti nell’appropriarle a questo o a quel vizio, è speculare all’esegesi dei cavalli del secondo, terzo e quarto sigillo (Ap 6, 3-8) – designanti storicamente la carnalità dei pagani, la superbia degli eretici [11] e l’ipocrisia saracena -, contaminati con le prerogative della bestia che sale dal mare di Ap 13, 1-2, e corrisponde alla “concurrentia” degli stati della storia della Chiesa trattata da Olivi nel notabile X del prologo della Lectura super Apocalipsim.

 

[Ap 6, 3; IIa visio, in apertione IIi sigilli] Notandum autem quod in prima apertione non expressit aliquem ducem et exercitum malum Christo et eius exercitui oppositum, sed solum Christum et eius exercitum in equo albo designatum; in tribus vero sequentibus, secundum omnes expositores, principaliter exprimit duces et exercitus oppositos Christo. Cuius ratio, secundum Ioachim [12], est quia id ipsum quod Danielis septimo (Dn 7, 5-7) designatur per pardum et ursum et per bestiam quartam dissimilem ceteris, designatur hic per equum rufum et per nigrum et per pallidum. […]
Secundum autem Ioachim, per primam bestiam Danielis, scilicet per leenam (cfr. Dn 7, 4), significatur sinagoga crudelis, quam hic Iohannes subticuit, tum ut Christo daretur honor singularitatis et victorie consumate, tum quia per primum animal, scilicet per leonem, satis designatur leena sibi opposita, velut caro spiritui et sicut sexus femineus sexui virili.
Secunda ratio potest dari, quia Christo exeunti in campum voluit obicere tres exercitus per ordinem succedentes et per oppositum correspondentes tribus triumphalibus perfectionibus Christi, scilicet eius potentie et sapientie et sanctitati. […]
Tertia ratio est in morale misterium, quia viriliter et triumphaliter relinquens mundum et exiens in campum certaminum contra diabolum, iam in ipso exitu primam victoriam perfecit. Nam possessio temporalium, quam reliquit, iam non detinet ipsum, immo potius est expulsa et prostrata.

[I sigillumII sigillumIII sigillumIV sigillum]

 

[Ap 6, 3] Nam sicut per equum rufum designatur paganorum populus sanguine martirum cruentatus, et per eius sessorem imperator romanus et etiam diabolus quem in idolis colebant, sic per ursum designatur idem paganorum regnum habens tres ordines dentium, scilicet pontifices idolorum et eorum opifices et paganorum principes, qui principalius insani[e]runt contra martires et ceteros instigaverunt contra eos, unde et dicebant urso: “Surge et comede carnes plurimas”, scilicet sanctorum martirum (Dn 7, 5). 
Sicut vero per equum nigrum designatur hereticorum cetus astutia profunda obscurus et errore perfidie obtenebratus, sic et per pardum variis maculis, id est variis fraudibus, infectum.
 
Sicut etiam per equum pallidum, cuius sessor est mors, designatur Sarracenorum populus et eius propheta mortiferus, scilicet Mahomet, sic et per quartam bestiam dissimilem ceteris.
 
Nam primus (exercitus), scilicet paganicus, per potentiam et violentiam impugnavit martires.
Secundus vero, scilicet hereticorum, non cum tanta potentia, sed potentie malignam adiungens malitiam, impugnavit fideles.
Tertius vero, scilicet sarracenic[us] vel secundum alios ypocritarum cuneus, per legem fictam et carnalem vel per simulationem sanctitatis dolosam impugnavit sanctam legem et vitam.
Post hoc autem sequitur caro sanguinea et per concupiscentias ignea et rufa, impugnans spiritum secundum illud Apostoli: “Caro concupiscit adversus spiritum” et “spiritus adversus carnem” (Gal 5, 17).
Secundo sequitur presumptio erronee mensurans et iudicans aliena dicta et facta, unde tenet stateram librantem aliorum vitam. Solent enim noviter conversi, post aliquas macerationes proprie carnis, aliorum vitam presumptuose despicere et diiudicare.
Tertio sequitur mortifera ambitio primatus sedens super equum pallidum, id est fulciens se ypocritali et superficiali austeritate, quam pallor corporis pretendit, quam quidem sequitur infernus, quia primatu iuxta votum obtento vitam infernalem aperte ostendit et suo exemplo et ducatu subditos ad infernum deducit.

 

 

(Ap 13, 1-2: Et vidi de mari bestiam ascendentem, habentem capita septem et cornua decem … Et bestia, quam vidi, similis erat pardo; et pedes eius sicut pedes ursi, et os eius sicut os leonis)
[Ap 13, 2; IVa visio, Vum prelium] Sequendo autem primum modum, dicit Ioachim [13] quod primum caput bestie, respectu septem statuum ecclesie Christi, fuit plebs iudaica, iuxta sextam visionem Danielis assimilata leene habens phariseos et scribas quasi alas aquile (cfr. Dn 7, 4). […]
(Olivi) “et os eius sicut os leonis”, per voracem scilicet rapacitatem et occisionem sanctorum et aliorum.
(Ioachim) Secundum caput fuit gens paganica et principaliter Romanorum ceteris imperantium, assimilata urso devoranti multas carnes sanctorum martirum et etiam omnium sibi resistentium (cfr. Dn 7, 5).

 

 

 

 

 

 

(Olivi) “et pedes eius sicut ursi”, scilicet per ferocem conculcationem sanctorum et per carnalem infixionem suorum affectuum et processuum in carnalibus (est enim ursus animal gulosum et fedum)
Sequentia vero quattuor capita fuerunt quattuor principalia regna seu populi heresis arriane, assimilate pardo maculis errorum et fraudum vario et quattuor capita et quattuor alas habenti (cfr. Dn 7, 6).
Primum enim huius heresis caput fuerunt Greci. Secundum vero Gothi, tam orientales quam occidentales, qui Italiam et Ispaniam occupaverunt. Tertium vero Vandali, qui Africam occupaverunt. Quartum Longobardi, qui post predictos Italiam vastaverunt et magnam partem eius occupa-verunt.
Deinde qualitatem bestie describit, subdens: “Et bestia, quam vidi, similis erat pardo”, scilicet per maculosas varietates duplicis et dolose astutie
Igitur post sex predicta capita advenit septimum, scilicet plebs et secta sarracenica, cuius primus dux fuit scilicet Mahomet, secundum eum non septimum sed quartum caput drachonis, prout superius tetigi ubi de septem capitibus drachonis est actum.
   Nota quod de qualibet quattuor bestiarum septime visionis Danielis assumit hic aliquid, ac si insinuet hanc bestiam ex illis quattuor esse compositam.

 

Inf. I, 31-36, 41-54, 94-99:
Ed ecco, quasi al cominciar de l’erta,          [leenaursus (carnalitas), pardus (variis maculis infectus)]
una lonza leggera e presta molto,
che di pel macolato era coverta;
e non mi si partia dinanzi al volto,
anzi ’mpediva tanto il mio cammino,
ch’i’ fui per ritornar più volte vòlto.
 sì ch’a bene sperar m’era cagione
di quella fiera a la gaetta pelle
l’ora del tempo e la dolce stagione;
ma non sì che paura non mi desse               [leo,  ursus, quarta bestia]
la vista che m’apparve d’un leone.
Questi parea che contra me venisse
con la test’ alta e con rabbiosa fame,
sì che parea che l’aere ne tremesse.
Ed una lupa, che di tutte brame                      [quarta bestiaursus, leo, pardus (dolosa astutia)]
sembiava carca ne la sua magrezza,
e molte genti fé già viver grame,
questa mi porse tanto di gravezza
con la paura ch’uscia di sua vista,
ch’io perdei la speranza de l’altezza. ……
ché questa bestia, per la qual tu gride,
non lascia altrui passar per la sua via,
ma tanto lo ’mpedisce che l’uccide;
e ha natura sì malvagia e ria,
che mai non empie la bramosa voglia,
e dopo ’l pasto ha più fame che pria.

 

Il modo di procedere proprio dell’autore dell’Apocalisse, il quale nella bestia che sale dal mare di Ap 13, 1-2 ha concentrato elementi propri di tutte le bestie della visione di Daniele 7, 3-7, non si ritrova unicamente nelle tre fiere dantesche. Anche nella figura di Cerbero (Inf. VI, 13-18) sono riunite qualità di differente provenienza. Il mostro infernale è collocato in una zona in cui prevalgono temi propri del terzo stato della Chiesa, dei quali è quasi emblema nel graffiare, iscoiare e isquatrare le anime. Esso tuttavia contiene elementi che caratterizzano l’apertura di tutti e tre sigilli in cui compaiono eserciti contrari a Cristo. Gli occhi “vermigli” e le mani “unghiate” sono propri del secondo sigillo (il cavallo rosso, l’orso), la “barba unta e atra” del terzo (il cavallo nero), il “ventre largo” è qualità dei Saraceni dei quali, nell’esegesi della quarta chiesa (Ap 2, 22) si dice con san Paolo che “hanno il ventre per loro Dio e per loro gloria” (Ph 3, 19). Inoltre Cerbero, che latra con “tre gole”, è “fiera crudele e diversa”, cioè “bestia dissimilis”, come la quarta bestia di Daniele lo è dalle altre tre precedenti. “Uomini diversi d’ogne costume” sono pure definiti i Genovesi in Inf. XXXIII, 151-152. Una curiosa e grottesca utilizzazione del tema della legge maomettana diversa, che non accetta le nostre scritture, è in apertura di Inf. XXII: Barbariccia, per dare un cenno di partenza alla schiera dei Malebranche che sorvegliano i barattieri immersi nella pece bollente, “avea del cul fatto trombetta” (Inf. XXI, 139), e il poeta assicura di non aver mai visto fanti o cavalieri muoversi al suono di “sì diversa cennamella”, pur avendo già udito segnali di trombe, di campane, di tamburi, dati “e con cose nostrali e con istrane”. Ciò che in Olivi è teologicamente inteso in senso assoluto, è ricostruito e separato da Dante in più affluenti, facendo risuonare ora l’uno ora l’altro tema. Qui “sta – direbbe Gianfranco Contini – la mondanità discretiva del Dante della Commedia, unicuique suum[14]I tre eserciti contrari a Cristo, designati rispettivamente all’apertura del secondo, del terzo e del quarto sigillo con il cavallo rosso, il cavallo nero e il cavallo pallido, si trasformano nelle tre facce di Lucifero (Inf. XXXIV, 39-45): la prima vermiglia, la seconda nera, la terza tra bianca e gialla.

[Ap 6, 3] Nam sicut per equum rufum designatur paganorum populus sanguine martirum cruentatus, et per eius sessorem imperator romanus et etiam diabolus quem in idolis colebant, sic per ursum designatur idem paganorum regnum habens tres ordines dentium, scilicet pontifices idolorum et eorum opifices et paganorum principes, qui principalius insani[e]runt contra martires et ceteros instigaverunt contra eos, unde et dicebant urso: “Surge et comede carnes plurimas”, scilicet sanctorum martirum (Dn 7, 5).
 
Sicut vero per equum nigrum designatur hereticorum cetus astutia profunda obscurus et errore perfidie obtenebratus, sic et per pardum variis maculis, id est variis fraudibus, infectum.
 
Sicut etiam per equum pallidum, cuius sessor est mors, designatur Sarracenorum populus et eius propheta mortiferus, scilicet Mahomet, sic et per quartam bestiam dissimilem ceteris.
 
Nam primus (exercitus), scilicet paganicus, per potentiam et violentiam impugnavit martires.
Secundus vero, scilicet hereticorum, non cum tanta potentia, sed potentie malignam adiungens malitiam, impugnavit fideles.
Tertius vero, scilicet sarracenic[us] vel secundum alios ypocritarum cuneus, per legem fictam et carnalem vel per simulationem sanctitatis dolosam impugnavit sanctam legem et vitam.
Post hoc autem sequitur caro sanguinea et per concupiscentias ignea et rufa, impugnans spiritum secundum illud Apostoli: “Caro concupiscit adversus spiritum” et “spiritus adversus carnem” (Gal 5, 17).
Secundo sequitur presumptio erronee mensurans et iudicans aliena dicta et facta, unde tenet stateram librantem aliorum vitam. Solent enim noviter conversi, post aliquas macerationes proprie carnis, aliorum vitam presumptuose despicere et diiudicare.
Tertio sequitur mortifera ambitio primatus sedens super equum pallidum, id est fulciens se ypocritali et superficiali austeritate, quam pallor corporis pretendit, quam quidem sequitur infernus, quia primatu iuxta votum obtento vitam infernalem aperte ostendit et suo exemplo et ducatu subditos ad infernum deducit.
Inf. XXXIV, 39:
L’una dinanzi, e quella era vermiglia
Inf. XXXIV, 44-45:
la sinistra a vedere era tal, quali
vegnon di là onde ’l Nilo s’avvalla.
Inf. XXXIV, 43:
e la destra parea tra bianca e gialla
Inf. XXII, 7-12:
quando con trombe, e quando con                                                             [campane,
con tamburi e con cenni di castella,
e con cose nostrali e con istrane;
né già con sì diversa cennamella
cavalier vidi muover né pedoni,
 né nave a segno di terra o di stella.
Inf. VI, 13-18:
Cerbero, fiera crudele e diversa,
con tre gole caninamente latra
sovra la gente che quivi è sommersa.
Li occhi ha vermigli, la barba unta e atra,
e ’l ventre largo, e unghiate le mani;
graffia li spirti ed iscoia ed isquatra.
 
Tertio est dissimilis quia contra istam non possunt fideles arguere per scripturas sacras sicut possunt contra Iudeos et contra hereticos, quia ista nostras scripturas non recipit, nec per rationem naturalem potest sic faciliter et evidenter convinci sicut poterat idolatria paganorum, quia isti non idola nec plures deos sed solum unum deum colunt
[Ap 2, 22; Ia visio, IVa ecclesia] Potest tamen per hanc Iesabelem intelligi gens sarracenica, que gloriatur se habere Mahomet pro propheta, cuius lex carnalia promittit et docet, que utique surrexit quarto tempore ecclesie. Nota etiam quod omnes hereses, de quibus fit in istis ecclesiis mentio, leguntur dedite voluptati et carnalitati. Nam et de pseudoapotolis dicitur ad Philippenses III° quod “venter est eorum deus et gloria” (Ph 3, 19). Quamvis enim quedam secte hereticorum fingant ad tempus magnam castitatem et austeritatem, finaliter tamen occulte vel publice ad carnalia currunt. Unde IIa ad Timotheum III° dicitur de eis quod erunt “se ipsos amantes” et “voluptatum amatores” (2 Tim 3, 2/4). Et IIa Petri II° de ipsis dicitur quod “multi sequentur eorum luxurias, per quos via veritatis blasphemabitur” (2 Pt 2, 2), et infra eodem dicit multa plura de hoc, et idem dicitur in epistula Iude (Ju 1, 12). Nec mirum, quia qui veras et spiritales delicias in Deo et ex Deo non gustant nec hauriunt oportet eos in terrenis et carnalibus querere voluptatem, quamvis propter ambitionem inanis glorie sepe exterius se affligant.

 

Uno Spirituale avrebbe potuto leggere la Commedia risalendo, con l’ausilio di parole-chiave (che esprimono il senso letterale), alla dottrina contenuta nella Lectura super Apocalipsim e alla visione della storia provvidenziale fondata sui sette stati, ciclicamente proposti nel “poema sacro”. Uno degli aspetti più significativi di quest’arte della memoria consiste nella simmetria numerica, a diversi stadi del poema, fra terzine che contengono parole-chiave riferibili al medesimo passo esegetico. Si è detto sopra che la metamorfosi poetica di questa bestia macerata (designante i Saraceni) che incute terrore nelle genti, segnata da parole-chiave come fame e morte, devastatrice della Chiesa orientale e anche di quella latina, è la lupa. La si registra in simmetria sulla 18a terzina (vv. 52-54) con Ciacco fiaccato dalla pioggia (Inf. VI) e con lo stancare da parte di Giove la sua fucina in Mongibello (Inf. XIV); sulla 30a (vv. 88-90) con il mai stanco parlare dei due barattieri sardi (Inf. XXII) e con i falsatori di metalli (Inf. XXIX); sulla 32a (vv. 94-96) con la Creta dei ‘Saturnia regna’ guastata e con essa il mondo (Inf. XIV). Quanto nell’esegesi è scritto sulla pallida, affamata e mortifera bestia saracena viene trasferito da Dante su tutto l’orbe, prima di tutto su quello latino.

 

[Ap 6, 7-8; IIa visio, apertio IVi sigilli] “Et ecce equus pallidus” (Ap 6, 8), id est, secundum Ricardum, ypocritarum cetus per nimiam carnis macerationem pallidus et moribundus. “Et qui sedebat super eum”, scilicet diabolus, qui per pravam intentionem ypocritarum sedet in eis et per eos malitiam suam exercet, “nomen illi mors”. Hoc enim nomen bene diabolo convenit, quia per eum mors incepit et alios ad mortem trahere non cessat. “Et infernus”, id est omnes in inferno dampnandi, “sequeb[atur] eum”, quia omnes tales eum imitantur.
“Et data est illi” id est diabolo, “potestas” scilicet per divinam permissionem, “super quattuor partes terre” id est super omnes terrenis inherentes, “interficere”  eos “gladio” scilicet peccati, “et fame” scilicet verbi Dei, “et morte” id est languore corporis vel pestilentia seu tabe mortifera, “et bestiis” id est a bestialibus moribus. […]
Et hinc est quod abbas Ioachim dicit per equum pallidum intelligi reg[num] Sarracenorum, cui per concordiam [correspondet] regnum Assiriorum, sub quarto signaculo veteris testamenti devastans et captivans regnum decem tribuum Israel et fere regnum Iude, sicut sub apertione quarti sigilli vastate sunt quasi decem tribus ecclesiarum orientalium et fere ecclesia latina, que assimilata est regno Iude, quia sicut ibi fuit vera et principalis sedes divini cultus sic est et in ecclesia latina seu romana. Sicut etiam tribus Beniamin fuit tunc iuncta regno Iude, sic Paulus de tribu Beniamin est in Roma iunctus Petro, qui in principatu fidei fuit alter David et inter apostolos nostre fidei patriarcha. Fuit quasi Iudas patriarcha, cui dictum est: “Non auferetur sceptrum de Iuda” (Gn 49, 10), sicut et Petro dixit Christus: “Ego pro te rogavi, Petre, ut non deficiat fides tua” (Lc 22, 32/34) et quod “porte inferi non prevalebunt adversus” ecclesiam super tua fide fundatam (Mt 16, 18). […]
Dicendo ergo quod infernus sequitur predictum equum et sessorem eius significat duo. Primo scilicet quod secta Sarracenorum durat usque ad Antichristum. Secundo quod precursorie disponit ad ipsum introducendum, sicut lex Moysi longo tempore precucurrit et perduravit usque ad Christum et precursorie disposuit ad ipsum introducendum. Unde et iam plures articuli secte Antichristi sunt in philosophis Sarracenorum fundati et in quosdam christianos, si tamen christianos, vane philosophantes iam disseminati. Quod non est huius temporis aperire; iam enim misterium operatur iniquitatis (cfr. 2 Th 2, 7), quod suo tempore de medio exibit in lucem.
Licet autem posset exponi quod “infernus”, id est dampnatio infernalis, sequitur mortem et eius equum, videtur tamen ultra hoc aliud intendisse, quia nulli est dubium quin mortem culpe et gentem semper ab ipsa possessam sequatur dampnatio infernalis. Preterea infra, capitulo XX°, dicitur quod “infernus et mors missi sunt in stagnum ignis” (Ap 20, 14), et tamen ridiculosum est dicere quod corporalis locus inferni mittatur in stagnum ignis tamquam ibi puniendus.
Deinde de eius potestate et sevitia subdit: “Et data est ei potestas in quattuor partes terre”, non quidem quod usque adhuc totum orbem possederit, sed quia versus orientem et occidentem et meridiem et aquilonem multas terras occupavit et in reliquos bellicum terrorem sue potestatis immisit et sepe exercuit, et secundum abbatem circa suum finem et circa introductionem Antichristi hoc plenius complebitur.
Quod autem dicit “gladio et fame et morte et bestiis”, significat ad litteram varios modos penarum et varios modos debellandi hostes. Et ad litteram videtur sic loqui, quia gentes solent primo in campali bello per gladium aut in propriis urbibus per obsidionem et famem occidi, et sic ibi [terra] gentibus deserta solent insurgere silvestres bestie omnia vastantes. Spiritualiter vero designat quattuor mala que immittit hiis quos ad suam sectam trahit, scilicet ‘gladium’ carnalis timoris et amoris penetrantis intima cordis et carnis; et ‘famem’, id est egestatem refective gratie et sapientie Christi; et ‘mortem’, id est mortiferam legem et sectam; et ‘bestias’, id est societatem gentium bestialium.
Inf. I, 49-54 (17-18):

Ed una lupa, che di tutte brame
 sembiava carca ne la sua magrezza,
 e molte genti fé già viver grame,
questa mi porse tanto di gravezza
 con la paura ch’uscia di sua vista,
 ch’io perdei la speranza de l’altezza.

 

 

Inf. VI, 52-54 (18):

 

 

Voi cittadini mi chiamaste Ciacco:
 per la dannosa colpa de la gola,
 come tu vedi, a la pioggia mi fiacco.

 

 

Inf. XIV, 52-57 (18-19): 

 

 

Se Giove stanchi ’l suo fabbro da cui
 crucciato prese la folgore aguta
 onde l’ultimo dì percosso fui;
o s’elli stanchi li altri a muta a muta
 in Mongibello a la focina negra,
 chiamando “Buon Vulcano, aiuta, aiuta!”

Par. IV, 55-57 (19):

e forse sua sentenza è d’altra guisa
 che la voce non suona, ed esser puote
 con intenzion da non esser derisa.

 

Inf. I, 88-90 (30): 

Vedi la bestia per cu’ io mi volsi;
 aiutami da lei, famoso saggio,
 ch’ella mi fa tremar le vene e i polsi.

 

Inf. XXII, 88-90: 

Usa con esso donno Michel Zanche
 di Logodoro; e a dir di Sardigna
 le lingue lor non si sentono stanche.

 Inf. XXIX, 88-93 (30-31):

“dinne s’alcun Latino è tra costoro
 che son quinc’ entro, se l’unghia ti basti
 etternalmente a cotesto lavoro”.
Latin siam noi, che tu vedi sì guasti
 qui ambedue”, rispuose l’un piangendo;
 “ma tu chi se’ che di noi dimandasti?”.

 

Inf. I, 94-99 (32-33):

ché questa bestia, per la qual tu gride,
 non lascia altrui passar per la sua via,
 ma tanto lo ’mpedisce che l’uccide;
e ha natura sì malvagia e ria,
 che mai non empie la bramosa voglia,
 e dopo ’l pasto ha più fame che pria.

Inf. XIV, 94-96 (32):

“In mezzo mar siede un paese guasto”,
 diss’ elli allora, “che s’appella Creta,
 sotto ’l cui rege fu già ’l mondo casto.”

 

 

[Ap 6, 3] Preterea bestia hec (equus pallidus) non sustinet fidem Christi inter eos predicari aut aliquid contra eorum legem dici, immo statim morte punitur.

 

Par. XI, 118-121 (40-41):

Pensa oramai qual fu colui che degno
 collega fu a mantener la barca
 di Pietro in alto mar per dritto segno;
e questo fu il nostro patrïarca

Par. XXI, 118-121:

Render solea quel chiostro a questi cieli
 fertilemente; e ora è fatto vano,
 sì che tosto convien che si riveli.
In quel loco fu’ io Pietro Damiano …

 

[da notare che su Ap 6, 8 Pietro Damiano (Par. XXI, 118-121) si allinea con Domenico, “degno collega” di Francesco “a mantener la barca / di Pietro in alto mar per dritto segno” (Par. XI, 118-121).]

Solo uno Spirituale, esperto conoscitore della Lectura super Apocalipsim dell’Olivi, avrebbe potuto ritrovare nella lupa di Dante i tratti dell’apocalittico cavallo pallido, interpretato da Gioacchino da Fiore con i Saraceni. Per il lettore comune – e per quello futuro – la lupa, pur con tutti i problemi esegetici connessi, sarebbe stata solo il simbolo della cupidigia. Se questo comune modo di leggere è restato, mentre il primo si è perduto, ciò fu dovuto alla persecuzione degli Spirituali e alla quasi sparizione del loro libro-vessillo. Fu il lato perdente e caduco della Commedia, nuova Scrittura per una riforma che non avvenne. Ma la Lectura dell’Olivi fu la scintilla che generò la gran fiamma del poema sacro; da essa il latino dell’esegesi si travasò nel volgare e, per quanto nella metamorfosi le tracce originarie siano state deviate, modificate e aggiornate secondo il multiforme intento del poeta, esse sono testualmente rilevabili e, quindi, storicamente registrabili.

Olivi, che pure segue Gioacchino da Fiore nell’esegesi dell’apertura del quarto sigillo (Ap 6, 7-8), identificando il cavallo pallido con i Saraceni, se ne distanzia togliendo ai maomettani la prerogativa di esprimere l’Anticristo. L’abate calabrese aveva infatti ritenuto che i dieci re, che avrebbero distrutto e incenerito Babilonia (Ap 17, 16), sarebbero stati saraceni. Olivi non è affatto convinto. Nell’esegesi della bestia che sale dal mare, che ha sette teste e dieci corna (Ap 13, 1), il francescano osserva che Gioacchino argomenta in tal modo, nella Concordia, per due motivi. Il primo è che le dieci corna sono di una bestia che insorge nel quarto tempo della Chiesa, come la potenza saracena (il capitolo XIII appartiene alla quarta visione apocalittica, descritta nei capitoli XII-XIV). Il secondo è che nella profezia di Daniele si afferma che la quarta e ‘diversa’ bestia (quella saracena) ha dieci corna e poi un undicesimo corno (Dn 7, 7-8/19-27) il quale, come viene lì esposto, è l’undicesimo re che distruggerà i santi dell’Altissimo e dominerà per tre anni e mezzo (Dn 7, 24-25), un periodo di tempo che corrisponde all’espressione “tempo, tempi e metà di un tempo” di Ap 12, 14 (in cui è contenuto il numero mistico 1260, proprio della permanenza della “mulier amicta sole” nel deserto dei Gentili). Per questo Gioacchino afferma che i dieci re dei quali di seguito, al capitolo XVII (sesta visione, che concerne la caduta e il giudizio di Babilonia), si dice che distruggeranno la chiesa carnale (Ap 17, 16) e il sesto re (che corrisponde all’undicesimo corno di Daniele), che allora regnerà su tutti, del quale dopo i primi cinque che caddero si afferma che “uno resta ancora in vita” (Ap 17, 10), proverranno dalla setta e dalla bestia dei Saraceni.

Per quanto la conclusione sia forse vera, prosegue Olivi, tuttavia non è sufficientemente provata da ciò, sia perché per lo stesso motivo tutte le sette teste della bestia avrebbero dovuto o dovranno provenire dalla setta saracena, cosa che però Gioacchino esclude, sia perché secondo lui il regno dei Saraceni guarda per concordia al regno degli Assiri, che nell’Antico Testamento condusse la quarta guerra principale come questo fece nel Nuovo. Per quanto la sesta guerra verificatasi sotto la vecchia legge al tempo di Giuditta venga attribuita nel suo libro della Scrittura al re degli Assiri, è tuttavia certo che allora imperavano i re Persiani successori di Ciro, essendo già stati distrutti i re assiri e caldei, tanto che si tramanda che quel re fosse stato Cambise, figlio di Ciro. Da ciò consegue, secondo la predetta concordia, che questi dieci re e il re sesto che dominerà tutto il mondo non proverranno dalla gente saracena ma piuttosto da un’altra gente, per quanto è possibile che, come quel re si gloriò di essere chiamato re degli Assiri piuttosto che dei Persiani, così questo sesto si professi della setta saracena e si glori di essere il suo re. Lo stesso Gioacchino, rileva ancora il frate, sembra concordare con questa posizione, allorché nel quinto libro della Concordia riferisce la quarta parte della statua vista in sogno da Nabucodonosor, quella commista di ferro e terracotta (Daniele 2, 33), al quarto regno suscitato contro la Chiesa nel suo quarto tempo, cioè al regno dei Saraceni indomito come ferro e corrente verso la spada come si corre ad un banchetto. Ma poi soggiunge: «“Dio susciterà dunque questo regno affinché percuota Babilonia, come è scritto nell’Apocalisse: “Le dieci corna della bestia odieranno la prostituta e la bruceranno col fuoco” (Ap 17, 16). Il fatto che dei piedi della statua una parte sia di ferro e l’altra di terracotta designa l’ultimo dei regni, al tempo dell’Anticristo, che pur traendo origine da una gente di ferro, a causa della mescolanza in esso di genti diverse non avrà tuttavia tanta solidità come in precedenza, in quanto sarà in parte solido in parte fragile per la mistura del seme umano presente in esso». Olivi non si cura di quello che sia di ciò: gli basta infatti sapere che il re sesto sarà contrario a Cristo e ai suoi: “Quid autem sit de hoc non est michi cure: sufficit enim michi scire quod erit contrarius Christo et suis”.

Nella metamorfosi dantesca, i temi (portati da elementi semantici) della bestia saracena, come quelli relativi all’Anticristo, vengono appropriati ai più diversi soggetti. Se l’Olivi corregge Gioacchino sulla sesta e più grande guerra contro la Chiesa, quella combattuta nei tempi moderni dai dieci re e dall’Anticristo, per cui la concordia del nuovo col vecchio non è con il regno degli Assiri, ma con quello dei Persiani, che si glorierà di essere ‘saraceno’, non sarà casuale che, nel sesto cielo di Giove, l’Aquila denunci la «lue» dei principi cristiani dicendo: «Che poran dir li Perse a’ vostri regi, / come vedranno quel volume aperto / nel qual si scrivon tutti suoi dispregi?» (Par. XIX, 112-114).

La città di Dite ha mura che paiono ferro, e torri definite “meschite”, cioè moschee, rosse per l’arroventare del fuoco eterno (Inf. VIII, 70-74, 78). Questo significa prestare “e piedi e mano” all’esegesi di Ap 13, 1-2, dove Olivi cita l’interpretazione data da Gioacchino da Fiore della statua vista da Nabucodonosor nel sogno spiegato da Daniele, secondo la quale con la quarta parte della statua, fatta di ferro mescolato con fango (è da ricordare che il Veglio di Creta ha il piede destro in terracotta), viene indicato il regno dei Saraceni indomabili come il ferro e correnti alla guerra. Ma si tratta di ferro misto, cioè di seme non più puro, indebolito perché mescolato ad altre genti. “Meschite”, dunque, concorda nel suono con “mixtum”, ed è segnale mnemonico che rinvia ai significati dell’esegesi esposta nella Lectura. Che poi le “meschite” siano “là entro certe ne la valle” (Inf. VIII, 71), sta ad indicare la certa e giusta misura del giudizio divino, che propina (mesce) il vino dell’ira, «“quod mixtum”, id est propinatum, “est mero”, id est purissimo supplicio» (Ap 14, 10).

I diavoli ostinati, che non vogliono fare entrare Virgilio e Dante nella città, corrono a gara entro le mura, che sembrano ferro, e si preparano alla guerra proprio come i Saraceni. L’arrivo del messo celeste dimostrerà poi, all’apertura della porta con una verghetta, la scarsa solidità di quelle mura, ancora difese, nel secondo avvento di Cristo nei suoi discepoli spirituali, da una tracotanza usata già “a men segreta porta, / la qual sanza serrame ancor si trova”, cioè per difendere la porta dell’inferno contro il Redentore nel suo primo avvento (Inf. VIII, 124-126). La tematica della gente ‘mista’, che nell’esegesi è relativa ai Saraceni, è ben conosciuta da Cacciaguida (per altro morto come crociato), allorché lamenta l’attuale mistura della cittadinanza di Firenze con gente del contado, «di Campi, di Certaldo e di Fegghine» (Par. XVI, 49-51).

La prospettiva storica, nella Lectura super Apocalipsim, si allarga oltre l’Islam; ai Saraceni potranno subentrare nuove genti. Roma, la “magna meretrix” non è in un solo luogo (la sede romana e la sua gerarchia), bensì è ovunque diffusa. Ed è ancora Gioacchino da Fiore ad essere citato ad Ap 17, 1, lì dove ricorda che i “patres catholici” chiamarono la meretrice “Roma” intendendo la moltitudine dei reprobi che con le loro inique opere impugnano e blasfemano la Chiesa dei giusti peregrina sulla terra. Questa meretrice non deve pertanto essere cercata in un solo luogo ma, come per tutta l’area dell’impero romano è diffuso il grano degli eletti, così per la sua intera latitudine è dispersa la paglia dei reprobi. La meretrice, aggiunge Olivi, designa la gente e l’impero dei Romani sia nello stato del paganesimo sia in quello cristiano, durante il quale colpevolmente fornicò molto con questo mondo.

 

[Ap 13, 1] Sequitur: “et cornua decem”, id est decem reges eodem tempore regnaturi, prout dicitur infra XVII° (Ap 17, 12). Unde et hic subditur: “Et super [cornua] eius decem diademata”, id est decem regie dignitates. Diadema est corona regia et signum regie dignitatis. Nota quod tam ex hoc quod hec decem cornua dicuntur esse cornua huius bestie quarto tempore ecclesie consurgentis, quam ex hoc quod Danielis VII° bestia quarta dicitur habere cornua decem ac deinde cornu undecimum, quod ut ibi exponitur est undecimus rex sanctos Altissimi contriturus et per tres annos et dimidium eis dominaturus (Dn 7, 7-8/19-27), arguit Ioachim quod decem reges carnalem ecclesiam, ut infra XVII° dicitur (Ap 17, 16), destructuri et sextus rex tunc super omnes regnaturus, de quo post quinque qui ceciderunt dicitur “unus est” (Ap 17, 10), erunt  de secta et bestia sarracenica1. Licet autem conclusio sit forsitan vera, non tamen ex hiis sufficienter probatur, tum quia eadem ratione omnia septem capita bestie fuissent et forent de secta sarracenica, cuius contrarium ipsemet astruxit; tum quia, secundum eum, regnum Sarracenorum per concordiam respicit regnum Assiriorum, quod in veteri lege dedit quartum principale prelium, sicut istud dedit prelium quartum in nov[a]. Licet autem sextum bellum, in veteri datum tempore Iudith, in eius libro ascribatur regi Assiriorum, certum est tamen quod tunc imperabant Perse successores Ciri regis Persarum destructis iam regibus assiriis et caldeis, unde et ille rex traditur fuisse Cambisses filius Ciri. Ex quo, secundum predictam concordiam, potius sequitur quod non de gente Sarracenorum sed de alia gente surgant isti decem reges et rex sextus tunc toti orbi dominaturus, quamvis possit esse quod sicut ille gloriatus est se vocari regem Assiriorum potius quam Persarum, quod sic iste sextus profiteatur sarracenicam sectam et glorietur se esse regem eius. Quid autem sit de hoc non est michi cure; sufficit enim michi scire quod erit contrarius Christo et suis.

[Ap 13, 1 (segue)] Et huic sententie satis videtur concordare idem Ioachim, libro V° Concordie circa finem, ubi exponit aliqua de visionibus Danielis et ubi agit de quarta parte statue, scilicet de ferro luto et teste commixto (cfr. Dn 2, 33), per quod debet intelligi quartum regnum contra ecclesiam in quarto eius tempore suscitatum, scilicet regnum Sarracenorum indomabile quasi ferrum et ita currens ad gladium ac si curreret ad convivium. Ibi enim subdit: «Suscitabit autem Deus regnum istud ut percutiat Babilonem, sicut scribitur in Apocalipsi: “decem cornua in bestia odient fornicariam et ipsam igne cremabunt” (Ap 17, 16). Quod autem pedum ipsius statue pars una ferrea erat, altera fictilis, designat regnum novissimum quod erit tempore Antichristi, quod licet a gente ipsa ferrea originem trahat, ob mixturam tamen diversarum gentium, que erit in eo, non erit in ipso tanta soliditas quanta in precedenti, quia ex parte regnum erit solidum, ex parte contr[it]um propter mixturam humani seminis que erit in eo»2.

Inf. VIII, 67-73, 76-78:

Lo buon maestro disse: “Omai, figliuolo,
s’appressa la città c’ha nome Dite,
coi gravi cittadin, col grande stuolo”.
E io: “Maestro, già le sue meschite
là entro certe ne la valle cerno,
vermiglie come se di foco uscite
fossero”. ………………………………..
Noi pur giugnemmo dentro a l’alte fosse
che vallan quella terra sconsolata:
le mura mi parean che ferro fosse.

[Ap 14, 10] “Hic bibet de vino ire Dei” (Ap 14, 10), id est de horrendo et infernali supplicio a Dei ira propinato, “quod mixtum”, id est propinatum, “est mero”, id est purissimo supplicio nulla refrigerante misericordia ad[a]quato. “Mixtum”, inquam, seu propinatum est “in calice ipsius”, id est in certa et iusta mensura iusti iudicii eius, quasi dicat: de infinito vino zelatricis et iracund[e]iustitie Dei contra scelera reproborum miscuit seu propinavit meram penam “in calice”, id est in mensura proportionata culpe illorum.
Miscere est equivocum ad propinare et ad diversa adinvicem coniungere et commiscere. […] Ricardus tamen sumit hoc secundo modo, dicens quod est “mixtum” propter diversum cruciatum diversorum in uno loco dampnationis punitorum3, quasi dicat: licet sit merum absque omni mixtura gaudii vel quietis, est tamen ex dissimilibus et inequalibus penis diversorum impiorum et in inferno commixtum seu aggregatum. Primus tamen modus magis videtur esse de mente littere.
Glos[s]a legit: “quod mixtum est”, scilicet mero et fece, et vult ipsum esse turbidum in comparatione meri.

 Par. XVI, 49-51:

Ma la cittadinanza, ch’è or mista
 di Campi, di Certaldo e di Fegghine,
pura vediesi ne l’ultimo artista.

 

 1 Concordia, V 6, c. 4 § 5; Patschovsky 3, pp. 975, 19-23; 976, 1-6.

2 Concordia, V 6, c. 4 § 4; Patschovsky 3, pp. 971, 6-13; 972, 1-8.

 3 In Ap IV, vii (PL 196, col. 814 A).

JOACHIM VON FIORE, Concordia Novi ac Veteris Testamenti. Herausgegeben von A. Patschovsky, 2017 (Monumenta Germaniae Historica. Quellen zur Geistesgeschichte des  Mittelalters, 28 Band), Teil 2 (lib. I-IV), Teil 3 (lib. V).

RICCARDO DI SAN VITTORE, In Apocalypsim libri septem, PL 196, coll. 683-888 (= In Ap).

 

Per Dante, come per il contemporaneo Raimondo Lullo, il fine è missionario; entrambi credono nella conversione universale. Ma mentre per Lullo c’è un effettivo intento di convertire ebrei e musulmani con un’arte basata su concezioni comuni a tutte le religioni e sulla struttura elementare del mondo naturale accettata nella scienza del tempo, per Dante bisogna prima di tutto convertire i cristiani, applicando ad essi i concetti da loro appropriati ad altre religioni; fare cioè come Francesco, che trovò “a conversione acerba / troppo la gente” e per questo “redissi al frutto de l’italica erba” (Par. XI, 103-105).

La presenza nel Limbo all’arrivo di Dante di genti giuste, antiche (prima del Cristianesimo) e ‘moderne’ (i maomettani Avicenna, Averroè e il Saladino), come alla discesa di Cristo vi stavano i padri e i profeti dell’Antico Testamento (e anche Catone), che furono di lì strappati e fatti beati, sembra indicare che il processo della Redenzione è ancora aperto e guarda a una nuova età di palingenesi e di conversione universale come a un nuovo avvento di Cristo nel suo Spirito, che nel caso di Dante si realizza nella sua poesia ispirata dall’interno dettatore. Quelle genti giuste videro solo una parte del libro, desiderarono vederlo tutto, e ora, come afferma Virgilio, ‘vivono’ ancora in quel desiderio (Inf. IV, 42). Non a caso sono le sole anime ad avere una ‘vita’ come atto che continua, nell’Inferno in cui l’unica vita possibile è quella del poeta che registra il ricordo delle vite passate.

I tre maomettani fra gli “spiriti magni” non sono però segno, da parte di Dante, di tolleranza verso l’Islam. Maometto sta nella nona bolgia fra gli scismatici, dove le parole rinviano alla dottrina oliviana del terzo stato, cioè al periodo degli eretici confutati dai dottori: era infatti considerato un prete cristiano apostata. Avicenna, Averroè e il Saladino rientrano invece in un processo di conversione universale. L’incorporazione degli infedeli, sostiene Olivi in uno dei Principia in Sacram Scripturam (De doctrina Scripturae) [15], fu fatta nel tempo della legge di natura, prima della circoncisione, e nel tempo della pienezza delle genti (di cui dice san Paolo ai Romani 11, 25-26), e avverrà di nuovo nel tempo della conversione finale di ciò che rimane dei Gentili e di Israele: non si tratta pertanto di un processo ancora concluso. Il francescano, ricordando la discesa dello Spirito Santo su Cristo, già battezzato e orante, sotto la specie di colomba, accompagnato dalla voce celeste: “Tu sei il mio figlio prediletto, in te mi sono compiaciuto” (Luca 3, 21-22), afferma che questa discesa dello Spirito è l’origine di ogni filiazione spirituale che avviene per grazia, “non per viam carnis, nec per viam naturae”. Per questo Luca procede, nella sua genealogia (Lc 3, 23-38), non secondo i padri naturali ma secondo quelli che erano padri per la legge dello Spirito e della grazia, comprendendo anche quanti furono sotto la “lex naturae” e risalendo fino ad Adamo, «“qui fuit Dei”, filius scilicet», che fu appunto figlio di Dio per grazia e non per natura.

L’esegesi dell’Olivi su Dio che non è “acceptor personarum” dei purificati dal peccato, e sul discendere dello Spirito che rende figli di Dio per grazia e non per carne o per natura, è speculare a quanto Dante affermava nel Convivio  (IV, xx, 3-6) sulla nobiltà di cui tanta gente erroneamente parla, che è grazia che discende da Dio, “appo cui non è scelta di persone, sì come le divine Scritture manifestano”, che tocca persone che sono “quasi dèi … uomini … nobilissimi e divini”. Di qui a breve il Convivio sarebbe stato interrotto. Non era dunque lontano il tempo dei versi che descrivono il “nobile castello” del Limbo, dove Dio ha posto, senza “acceptio personarum”, i giusti che non hanno peccato. Costoro, al tempo della conversione universale delle Genti e di Israele, entreranno in Cristo “in spiritu magno et alto”, come scritto nell’esegesi di Ap 19, 1. Il “nobile castello” è figura storica in terra della candida rosa dell’Empireo; gli “spiriti magni”, che vi albergano, sono rappresentati come i seniori che siedono intorno al trono prima che il libro segnato da sette sigilli venga aperto, prima cioè che la storia provvidenziale giunga a compimento, svolgendosi nei tre avventi di Cristo (nella carne, nello Spirito, nel giudizio) e nei sette stati della Chiesa. Nel secondo avvento di Cristo, dei suoi discepoli spirituali che scendono, come Beatrice e Dante, al Limbo per la seconda volta, è data l’ascesa al cielo gustativa e sperimentale, come quella del poeta, “qual si fé Glauco nel gustar de l’erba / che ’l fé consorto in mar de li altri dèi” (Par. I, 67-69).

 


[1] B. Croce, La poesia di Dante, Bari 19527 [19201] (Scritti di storia letteraria e politica, XVII), p. 67.
[2] Gioacchino da Fiore, Expositio in Apocalypsim [= Expositio magni prophete], ed. Venetiis 1527, in Edibus Francisci Bindoni ac Maphei Pasini, ristampa anastatica Minerva, Frankfurt a. M. 1964, pars II, f. 116ra, pars IV, distinctio IV, f. 163ra-va; cfr. G. L. Potestà, Il tempo dell’Apocalisse. Vita di Gioacchino da Fiore, Bari 2004, pp. 307, 315, 321.
[3] Expositio magni prophete, pars IV, distinctio IV, ff. 162vb-163ra-vb.
[4] Riccardo di San Vittore, In Apocalypsim libri septem, II, vii (PL 196, col. 767 C-D).
[5] Expositio magni prophete, f. 116ra-vb.
[6] Cfr. ibid., pars IV, distinctio IV, f. 163va-b: «Iudei quidem pugnaverunt contra fidem Christi, sed tamen eis renittentibus et invitis edificate sunt ecclesie Hierosolymis, et non post multos dies absorti sunt a Romanis, ita ut ex tunc quo ad eos finem acciperet et persequutio ecclesiarum et regnum. Pagani pugnaverunt contra Christum, sed quottidie vincebantur a militibus eius, ita ut in diebus Silvestri pape pene redderent arma et eidem Christi vicario sceptrum imperii assignarent. Gothi et Vandali et Longobardi et alii Arriani heretici partim deleti sunt ab exercitu Romanorum, partim ad catholicam fidem conversi. Hec vero quarta bestia indomabilis fuit, ut licet apparuerit ad tempus humiliata et quasi mortua, quam iterum magnificata sit et ad devorandum parata, plus timere est quam exprimere. Hec igitur est illa bestia quam sanctus Daniel nominat terribilem nimis, Ioannes vero tam ipsam quam tres alias comprehendit sub una habente septem capita et in uno eorum cornua decem».
[7] Cfr. ibid., f. 163va: «Si hystorias ecclesiasticas diligenter notamus, cum iam moderata esset persequutio Arrianorum, et etiam in quibusdam deleta inchoante Cosdroe rege Persarum, qui in persequutione orientali precessit Mahometh et successores eius, persequutio ipsius secte sequuta est tam immanis, ut re vera non hominum, sed bestie cuiusdam terribilis esse putaretur, presertim cum ipsius error non aliqua ratione humana videatur esse munitus, sed solo detestandi furore mendacii et tyrannica armorum potestate defensus».
[8] Ibid., ff. 164vb-165ra.
[9] Ottonis episcopi Frisingensis Chronica sive historia de duabus civitatibus, lib. VI, cap. xxvi, ed. W. Lammers, Darmstadt 1961, p. 470.
[10] O. Kresten, «Pallida mors Sarracenorum». Zur Wanderung eines literarischen Topos von Liudprand von Cremona bis Otto von Freising und zu seiner byzantinischer Vorlage, “Römische historische Mitteilungen”, 17 (1975), pp. 23-75.
[11]
 La superbia (corrispondente alla test’alta del leone) è fra i principali vizi attribuiti agli eretici: 
[Ap 2, 1; IIIa ecclesia] Tertia autem commendatur de servando et confitendo fidem inter magistros erroris, in quibus quasi in cathedra pestilentie Sathanas sedet. Increpatur tamen quia ex quorundam suorum negligentia quosdam hereticos habebat. Competunt autem hec tempori tertio, scilicet doctorum. Tunc enim aliqui catholici nimis participabant cum aliquibus hereticis, quamvis ceteri essent constantissimi contra eos. Hec autem ecclesia congrue vocatur Pergamus, id est dividens cornua, quia superbam potentiam et scissuram hereticorum potentissime frangebat et dissolvebat. [Ap 5, 4-5] Secundo ad tempus hereticorum et precipue Arrianorum. Nam prout ex sollempnibus cronicis habetur, cum in nicena synodo convenissent plures philosophi simplicitatem ecclesie cornibus superbie ventilantes et argumentis diabolicis fidem catholicorum impugnantes, exinde occasione assumpta, alie hereticorum secte ex una specie arriane heresis processerunt, et in hiis omnibus erat luctus ecclesie magnus, quam consolatus est Deus ostendens oportere compleri victoriam huius apertionis, unde repente in Christi ecclesia claruerunt doctores eximii, puta Ieronimus, Ilarius, Ambrosius, Augustinus et plures alii.
[12] Cf. nota 2.
[13]
Cf. nota 3.
[14] G. Contini, Filologia ed esegesi dantesca  (1965) in Un’idea di Dante. Saggi danteschi, Torino 1970 e 1976, p. 135.

[15] Peter of John Olivi, On the Bible. Principia quinque in Sacram Scripturam, ed. D. Flood – G. Gál, St. Bonaventure, New York 1997 (St. Bonaventure University, Franciscan Institute Publications, Text Series, 18), pp. 91-93 (De doctrina Scripturae, 44-45).