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Giu 13 2014

« COMEDÌA » E « DON QUIJOTE »: COME IN UNO SPECCHIO

Cesare Segre, nella sua Introduzione al Don Chisciotte (Milano 1974, pp. xvi-xvii), ha scritto dello sdoppiamento di Cervantes, il quale “in prima persona … è portavoce della poetica rinascimentale; travestito da Cide Hamete [la sua fonte fittizia], crea personaggi e vicende barocchi nel gusto dei contrasti, nella voluta disarmonia, nel senso della labilità del reale”. Sdoppiamento che è segno di un’età di transizione nella Spagna di Filippo III, “con la crisi demografica prodotta dalle guerre e dalla cacciata dei moriscos, con la stasi economica seguita all’interruzione dei traffici con le Fiandre, con l’aria soffocante dell’assolutismo politico alleato a quello religioso” (p. liv).

Anche l’età di Dante fu un periodo di transizione: eventi inopinati come il sollevamento popolare del Vespro contro il giogo angioino (1282) o il trasferimento della sede papale ad Avignone (1309) dovettero dare l’impressione che nulla fosse sicuro e stabile. L’alma Roma, che pure aveva visto l’ “essercito molto” per il Giubileo del 1300, era destinata a un’inconsolabile vedovanza. Con la precoce morte di Arrigo VII (1313) la speranza rimasta era che si aprisse un periodo, ma non si sapeva quanto lungo, al termine del quale l’Italia sarebbe stata disposta a ricevere i frutti seminati nel troppo breve avvento imperiale. All’interno dell’Ordine francescano si discettava di “altissima paupertas”, e Dante voleva povera tutta la Chiesa e non solo i figli di san Francesco, ma intanto la ricchezza, dentro o fuori la Chiesa, era indotta da traffici e commerci che inesorabilmente permeavano l’economia europea, con buona pace della sobria e pudica Firenze antica rimpianta da Cacciaguida.

I due, ai quali fu dato di vivere in un’età di crisi, si fecero voces clamantes in deserto. Come “l’utopia di Don Chisciotte è un’utopia che guarda al passato, assolutizzando valori legati a situazioni non ripetibili” (Segre, p. lv), così la biografia di Dante è la “storia di un visionario fallito” (G. Gorni) [1]. Eppure, nei primi anni del Trecento, nulla era ancora deciso. Un gruppo di uomini ‘spirituali’ – il loro vessillo era un libro eccezionale, la Lectura super Apocalipsim di Pietro di Giovanni Olivi (morto nel 1298) – avrebbe potuto riformare la Chiesa, cioè la vita degli uomini. La decisione di scrivere la Commedia (intorno al 1307) partecipò di questa spinta riformatrice. Fu un altro fallimento, perché gli Spirituali francescani erano votati alla persecuzione (dopo il Concilio di Vienne, 1311-1312) e il loro libro al nascondimento (un libro, condannato da Giovanni XXII nel 1326, veramente maledetto: dopo settecento anni non esiste ancora un’edizione critica). Da allora non “ebbe inizio la decadenza dei grandi valori cristiani nel mondo” (E. Buonaiuti) [2], ma la vittoria degli Spirituali avrebbe forse potuto evitare la cattività avignonese e, più tardi, la Riforma protestante. La Commedia, se storicamente è da ancorare a qualcosa di caduco, non fu una riscrittura della Lectura, bensì un suo travasarsi nell’umano, perché i contenuti del commento oliviano, appartenenti alla storia provvidenziale della Chiesa, incorporarono esigenze in favore del “viver bene” dell’ “omo in terra” come la lingua, la filosofia, la monarchia; gli antichi acquistarono la cittadinanza “di quella Roma onde Cristo è romano”; il microcosmo toscano e fiorentino irruppe nella storia apocalittica, universale e provvidenziale.

Anche Dante, a suo modo, può essere sdoppiato. Raffaello, nella Stanza della Segnatura, non l’ha raffigurato due volte, fra i teologi della Disputa sul Sacramento e come poeta nel Parnaso? Benedetto Croce non ha separato, nel “poema sacro”, la poesia dal romanzo teologico? Come l’io-Cervantes (il Rinascimento) instaura un rapporto con la fonte fittizia (il Barocco), aprendo nuove prospettive letterarie, così il Dante-poeta rinvia al testo-vessillo tanto intertestualmente elaborato (la Lectura super Apocalipsim). L’Umanesimo, cioè l’individuo: “mi ritrovai”, rinvia al Medioevo: “Nel mezzo del cammin di nostra vita” -, la salvezza del singolo si inquadra in quella collettiva.

È noto come nella spaventevole avventura dei mulini a vento, creduti da Don Chisciotte giganti (I, 8), vi sia un ironico rovesciamento di Inferno XXXI [3]. Dice Virgilio al suo discepolo: “sappi che non son torri, ma giganti, / e son nel pozzo intorno da la ripa / da l’umbilico in giuso tutti quanti” (vv. 31-33). Dice Sancio Panza al suo padrone: “Mire vuestra merced … que aquellos que allí se parecen no son gigantes, sino molinos de viento, y lo que en ellos parecen brazos son la aspas, que volteadas del viento hacen andar la piedra del molino”. E Don Chisciotte, quando il vento muove le ali: “pues aunque mováis más brazos que los del gigante Briareo, me lo habéis de pagar”. Virgilio mostra a Dante il gigante Fialte (che afferma essere del tutto simile a Briareo) legato da una catena: “le braccia ch’el menò, già mai non move” (v. 96). Lucifero stesso, sul fondo dell’inferno, appare da lontano come un mulino a vento: “Come quando una grossa nebbia spira, / o quando l’emisperio nostro annotta, / par di lungi un molin che ’l vento gira, / veder mi parve un tal dificio allotta” (Inf. XXXIV, 4-7).

L’erroneo immaginare accomuna dunque, come in uno specchio, l’idalgo al poeta, secondo quanto espresso nella lettera dei versi e parafrasati nel romanzo. Ma il senso letterale del poema racchiude in sé i sensi mistici (allegorico, morale, anagogico) in quanto le parole, non prese singolarmente ma accostate in rose semantiche presenti nell’immediato contesto, sono segni di altro, cioè della dottrina contenuta nella Lectura super Apocalipsim. Un procedimento di arte della memoria utile per l’edificazione personale e soprattutto per la predicazione che avrebbe dovuto riformare le coscienze, in vista della quale la Commedia si poneva come una gigantesca raccolta di antichi e moderni exempla.

Così uno Spirituale, leggendo Inf. XXXI, vi avrebbe potuto trovare, fra gli altri, molti segni che lo avrebbero condotto a quanto Olivi aveva scritto sul terzo stato (dei sette nei quali si articola la storia della Chiesa) [4]. Segnato dal primato dell’intelletto sui sensi, realizzazione dell’uomo razionale, il terzo stato è il luogo della discrezione e dell’esperienza, al cui regime soggiace il falso e nebuloso immaginare; il luogo del sapere (la “cura sciendi”) che è “de veris et de utilibus, seu de prudentia regitiva actionum et de scientia speculativa divinorum”; è il depositario della lingua vera e della vera fede, della scrittura che non erra, della giusta misura contro ciò che è oscuro e intorto, della bilancia che rettamente pesa la divinità del Figlio di Dio contro gli Ariani che non la ritenevano somma, coeguale e consustanziale a quella del Padre; i suoi dottori (il terzo stato è assimilato al sacramento del sacerdozio) sono perfettamente illuminati nella sapienza; sono maestri del senso morale, “mores hominum rationabiliter et modeste componens”, assimilato al ‘vino’ con il quale ardono contro i vizi e accendono all’amore delle virtù; è il tempo delle leggi e della spada che scinde le eresie, dell’autonomia della potestà temporale, una delle due ali della grande aquila date alla donna (la Chiesa) per vincere il drago nella terza e quarta guerra (Apocalisse [Ap] 12, 14): contiene insomma tutti gli elementi che Dante ritiene utili per conseguire la felicità su questa terra. Il terzo dei quattro animali che circondano la sede divina ad Ap 4, 6-8, quello che ha la faccia quasi di uomo, designa il senso morale, ma anche la ragione, l’impero, le leggi: “Tertium rationale et imperiosum seu legislativum”. Dei due fini proposti all’uomo dalla Provvidenza dei quali si tratta nella Monarchia, la beatitudine di questa vita e la beatitudine della vita eterna (III, xv, 7-10), il primo corrisponde alle realizzazioni del terzo stato della Chiesa secondo l’Olivi. Il secondo fine, la beatitudine della vita eterna, corrisponde ai devoti anacoreti del quarto stato, dei quali è proprio il refettivo pastus. Due stati di sapienza solare, come i due soli di Roma rimpianti da Marco Lombardo, cioè impero e papato, spada e pastorale, prima che questo s’incamerasse la prima (Purg. XVI, 106-114).

Di fronte all’erroneo immaginare fondato sui sensi, di Dante al quale pare di vedere “molte alte torri”, Virgilio spiega che, poiché “ ’l senso s’inganna di lontano”, egli male discerne (“nel maginare abborri”) scambiando per torri quelli che sono giganti (Inf. XXXI, 19-27). Man mano che s’avvicina e vede meglio come per nebbia che si dissipa, in Dante fugge l’errore e cresce la paura (vv. 34-39). Il nostro Spirituale si sarebbe qui ricordato che proprio sull’ “imaginativa” che prende le mosse dai dati sensibili si esercita la terza vittoria, la quale appartiene ai dottori: “Tertia est victoriosus ascensus super phantasmata suorum sensuum, quorum sequela est causa errorum et heresum. Hic autem ascensus fit per prudentiam effugantem illorum nubila et errores ac impetus precipites et temerarios ac tempestuosos” (Ap 2, 17). Questo tipo di immaginazione deve essere superato con graduale ascesi, pervenendo infine all’ “alta fantasia” che prescinde dai sensi, direttamente stimolata da un lume che prende forma nel cielo, o per influsso celeste o perché mandato da Dio, come nelle visioni estatiche che Dante avrà nel terzo girone del purgatorio (il numero non è casuale), allorché riconoscerà che le cose da lui viste erano “non falsi errori”, errori in quanto non esistenti nella realtà, non falsi come esperienza di visione soggettiva (Purg. XV, 85-117; XVII, 13-45).

Ancora, quello Spirituale avrebbe connesso senza difficoltà la falsa immagine delle torri con Nembrot, il superbo costruttore della torre di Babele, l’ “anima confusa” che causò la divisione delle lingue, tema che il notabile XIII del prologo della Lectura super Apocalipsim appropria al terzo stato nell’Antico Testamento. Avrebbe potuto riconoscere, nella descrizione di Lucifero in Inf. XXXIV, altri signacula del terzo stato. In Bruto – “quel che pende dal nero ceffo” di Lucifero, che “si storce, e non fa motto” – avrebbe ad esempio trovati riassunti quasi tutti i temi dell’apertura del terzo sigillo (Ap 6, 5): nel nero il colore del cavallo, nel pendere e storcersi l’erronea e torta interpretazione della Scrittura col falso ponderare la divinità del Figlio dell’uomo, al quale Cesare è assimilato. Non avrebbe mancato di notare che Dite ha tre facce, le quali nei colori seguono l’esegesi dei cavalli (designanti i tre eserciti contrari a Cristo) all’apertura del secondo sigillo (“vermiglia”), del terzo (il “nero ceffo”, come quello degli Etiopi), del quarto (“tra bianca e gialla”, cioè pallida). Avrebbe altresì rilevato, leggendo di esse: “L’una dinanzi, e quella era vermiglia; / l’altr’ eran due, che s’aggiugnieno a questa / sovresso ’l mezzo di ciascuna spalla”, come a Lucifero fosse appropriata l’espressione “[un] tempo, [due] tempi e la metà di un tempo” di Ap 12, 14, un numero mistico designante la durata della tribolazione (tre anni e mezzo) sotto il regno dell’Anticristo (l’undicesimo re di Daniele 7, 24-25), espressione che sarà ancora utilizzata da Botticelli alla fine dell’anno 1500, come datazione della Natività mistica ispirata ai sermoni sull’Apocalisse del Savonarola. Nella similitudine di Lucifero con un mulino avrebbe scorto la personificazione di Babylon, la Chiesa carnale paragonata a una macina “quia multos sanctos moluit et contrivit quasi triticum Dei, et quia magno pondere criminum est inclinata et aggravata deorsum” (Ap 18, 21).

Se Cervantes si traveste da Cide Hamete per creare uno spazio letterario fra Rinascimento e Barocco, Dante traveste i versi per creare uno spazio, del tutto medievale, a un lettore (gli Spirituali) diverso dal moderno umanista che avanza. “O voi ch’avete li ’ntelletti sani, / mirate la dottrina che s’asconde / sotto ’l velame de li versi strani” (Inf. IX, 61-63) è una vera chiamata a quei pochi (“Voialtri pochi che drizzaste il collo / per tempo al pan de li angeli”: Par. II, 10-11) depositari della Lectura super Apocalipsim. “E noi – scriveva Luigi Pietrobono – ci dovremmo astenere dal cercar di penetrare sotto il velame de’ suoi versi, che impenetrabile di sicuro non sarà una volta ch’egli medesimo ci dice: «Mirate»? Somiglieremmo ai figli che del testamento paterno leggono avidamente ciò che torna gradito, e del rimanente non si curano” [5]. Una lettura medievale che si perdé in quell’età di transizione, la quale – vero “autunno del Medioevo” – vide sconfitti gli Spirituali e il loro libro-vessillo: l’individuo prevalse sul collettivo.

 

[LSA, prologus (Is 30, 26)] [6] Hec autem lux habet septiformem diem transcendentem velamen umbre legalis, quoniam in hac aperitur trinitatis Dei archanum, ac culpe originalis et actualis vinculum et debitum, et incarnationis Filii Dei beneficium, et nostre redemptionis pretium, et iustificantis gratie supernaturale donum simul et predestinationis ac reprobative subtractionis eiusdem gratie incomprehensibile secretum, ac spiritualis et perfecti modi vivendi Deumque colendi saluberrimum exemplum ac preceptum et consilium, et eterne retributionis premium et supplicium cum finali consumatione omnium. Hec enim septem sunt velut septem dies solaris doctrine Christi, que sub velamine scripta et absconsa fuerunt in lege et prophetis.

Inf. IX, 61-63:

O voi ch’avete li ’ntelletti sani,
mirate la dottrina che s’asconde
 sotto ’l velame de li versi strani.

[Ap 13, 9] “Si quis habet aurem”, id est sanam intelligentiam dictorum et dicendorum, “audiat”, id est attente et prudenter consideret id quod est premissum et etiam id quod mox subditur, quia hoc quod subditur multum ei conferet ad servandam fidem et patientiam in tanta tribulatione.

 


[1] G. GORNI, Dante. Storia di un visionario (Storia e società), Bari 2008: “Questa la definizione che, in ultima analisi, spetta al nostro Dante. Se non fosse che la grandezza insuperata dell’artefice vince ogni contesa, avremmo a che fare con un pover’uomo, sconfitto dagli eventi, che ha sbagliato ogni suo calcolo”.

[2] E. BUONAIUTI, Pellegrino di Roma. La generazione dell’esodo, a cura di M. Niccoli, introduzione di A. C. Jemolo (Biblioteca di cultura moderna, 604), Bari 1964, p. 262: “Con l’anima battuta dalla febbre della speranza, Gioacchino [da Fiore] aveva ansiosamente interpellato i simboli delle precedenti economie della grazia. E aveva ad essi strappato il loro segreto. La nuova età stava per spuntare. Alla Chiesa dei simboli stava per succedere la Chiesa delle realtà spirituali. La spiritualità francescana tentò di incorporare in sé e di trarre a compimento il vaticinio del veggente di Celico. Ma le circostanze storiche dannarono il tentativo al fallimento. E da allora ebbe origine la decadenza dei grandi valori cristiani nel mondo”.

[3] W. T. AVERY, Elementos dantescos del Quijote, “Anales Cervantinos”, IX (1961-1962), pp. 1-28: pp. 1-4. Per quanto non siano certe le modalità con cui Cervantes poté conoscere Dante (l’Inferno fu edito in castigliano a Burgos nel 1515), il confronto fra i testi, nell’episodio dei mulini a vento, non sembra lasciare dubbi.

[4] Vedi la trattazione del terzo stato su questo sito.

[5] L. PIETROBONO, Struttura allegoria e poesia nella Divina Commedia, in ID., Nuovi saggi danteschi, Torino s.d. [1954],  p. 246.

[6] Per la trattazione completa del punto vedi Il sesto sigillo, cap. 8, tab. LXXVIII bis.