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Feb 08 2018

Dante e Gioacchino da Fiore – III

 

III.

1. L’instabile arena del mare (Ap 12, 18). 2. I quattro lati dell’altare d’oro (Ap 9, 13). 3. I limiti invalicabili dell’Impero romano (Ap 9, 14). 4. Odiare la carità fraterna (Ap 16, 10-11). 5. Le corazze degli pseudoprofeti (Ap 9, 17).

INDICE GENERALE – AVVERTENZE

 

1. L’instabile arena del mare (Ap 12, 18)

Ad Ap 12, 18 (quarta visione, quinta guerra) si dice che il diavolo “stette fermo sull’arena del mare”, cioè sugli avanzi del vino purissimo dei quattro stati precedenti, corrottosi con l’eccezione di poche reliquie che nel quinto stato hanno conservato il seme della donna, osservando i comandamenti di Dio e dando testimonianza a Cristo (Ap 12, 18) [1]. L’ “arena” terrestre, polverosa, sterile, divisa in innumerevoli particelle indurite, instabile e disperdibile a ogni vento, penetrata e sbattuta dall’acqua del mare o putrefatta dal sole, viene interpretata, nel senso di Gioacchino da Fiore, come la moltitudine di coloro che non sono del tutto infedeli ma neppure aderenti alla pietà cristiana con tutta la purezza della fede. Si tratta delle genti (i cristiani di Alessandria e della Siria) [2] rimaste in aliqua sui parte nelle terre orientali conquistate dai Saraceni vicine al mare dei pagani, come l’arena è vicino al mare. A questa esegesi rinvia il “cattivo coro”, mischiato agli ignavi, degli angeli che furono per sé, né ribelli né fedeli a Dio e per questo cacciati dai cieli e non ricevuti dal profondo inferno (Inf. III, 37-39). Il motivo dell’ “arena” introduce a sua volta le terzine degli ignavi, nella descrizione del “tumulto, il qual s’aggira / … come la rena quando turbo spira” (ibid., 28-30).
Pietro Alighieri, nella terza redazione del suo commento (ca. 1358) riconduce gli angeli neutrali a Ugo di San Vittore: “Et ex hoc dicit hic auctor in persona Virgilii quod anime dictorum captivorum unite sunt cum illis angelis qui non fuerunt boni nec mali tenendo cum Deo vel cum Lucifero, quos Ugo de Sancto Victore dicit puniri etiam extra Infernum in loco et aere caliginoso (…)” [3]. Ma il Vittorino, se ritiene possibile un diverso grado di punizione degli angeli caduti, non parla di una specie ignava [4]. Altre fonti accreditate sono gli Stromata di Clemente di Alessandria [5], la Visio Pauli (sec. V, dove sono puniti gli ignavi, non gli angeli) [6], la Navigatio sancti Brendani [7], il Parzival di Wolfram von Eschenbach (ca. 1210-1220) [8] (in queste due ultime ci sono gli angeli neutrali, ma non sono puniti all’inferno). Gli angeli neutrali hanno un’origine letteraria e teologica insieme [9]. Si tratta di opere precedenti la Commedia, ma da ciò non si può dedurre una conoscenza certa di questa o dell’altra da parte di Dante.
È certo invece che questi angeli danno “e piedi e mano” all’esegesi apocalittica di Gioacchino da Fiore che, spostata in avanti di un secolo quanto alla sua applicazione (Gioacchino termina la sua Expositio nel 1200)[10], li fascia con un criptico significato di storia contemporanea, dopo il luttuoso evento della caduta di San Giovanni d’Acri nel 1291, ultimo baluardo della cristianità in Terrasanta. Si ricordino le parole di Guido da Montefeltro sui cristiani compromessi con gli infedeli: “Lo principe d’i novi Farisei, / avendo guerra presso a Laterano, / e non con Saracin né con Giudei, / ché ciascun suo nimico era cristiano, / e nessun era stato a vincer Acri / né mercatante in terra di Soldano”, espressione, quest’ultima, che ben s’accorda con le parole di Gioacchino da Fiore su quanti “utrum sint christiani aut sarraceni dubitatur” (Inf. XXVII, 85-90).
Si noti che il tema dell’arena percorre tutti i canti dedicati all’ “orribil sabbione” del terzo girone del settimo cerchio. Gli ultimi dannati sono gli usurai: “poco più oltre veggio in su la rena / gente seder propinqua al loco scemo”, cioè al burrone (Inf. XVII, 31-36). Sull’arena ma vicini a Malebolge, essi partecipano dell’instabilità degli ignavi; sono infatti  violenti sui generis, contro la natura e l’arte (e quindi indirettamente contro Dio), ma pure quasi fraudolenti (Gerione, il simbolo della frode, nel salire dall’abisso arriva fin lì). Agli ignavi li accomuna il disprezzo che si esprime nel parlar poco: “Dicerolti molto breve … non ragioniam di lor, ma guarda e passa – Li tuoi ragionamenti sian là corti” (Inf. III, 45, 51; XVII, 40) [11].
Se gli angeli neutrali di Inf. III, 37-39 rinviano a un passo dell’Expositio di Gioacchino da Fiore, il resto dei versi dedicati agli ignavi si riferisce prevalentemente all’esegesi dell’istruzione data a Laodicea, l’ultima delle sette chiese d’Asia alle quali Giovanni scrive nella prima visione (Ap 3, 14-22) [12]. In questa esegesi non ci sono citazioni di Gioacchino da Fiore, palesi o occulte. Il difetto maggiore del vescovo (o della chiesa) è la tepidezza, il non trovarsi né nel calore della carità che esulta in Dio né nel freddo dell’infedeltà triste per i propri peccati, per cui gli viene detto: “Magari tu fossi freddo o caldo!” (Ap 3, 15). Meglio (secondo Riccardo di San Vittore) sarebbe trovarsi freddi infedeli per ignoranza, ma con possibilità di convertirsi all’ardore della vera giustizia, piuttosto che tiepidi rinunciatari di una via di perfezione intrapresa e apostati da un alto stato. Olivi cita un passo delle Collationes di Cassiano [13] (360ca-435) a conferma di come sia più facile che un infedele o un secolare acquisti fervore spirituale che un monaco vi ritorni dopo averlo perduto. Verso questi “tiepidi”, detestati da Dio, gli uomini spirituali e i dottori debbono tralasciare di diffondere moniti o insegnamenti salutari cosicché, spregiata una terra sterile occupata da sterpi nocivi, spargano altrove il seme della parola salutare, in una nuova terra tra i pagani e i secolari, piuttosto che seminare sulle spine, secondo il comando del profeta Geremia (Jr 4, 3). L’ammonimento è rivolto a tutti coloro che hanno rinunciato a questo mondo e alla carnalità ma che poi, ritenendo di aver raggiunto il vertice della perfezione, sono lenti nel liberarsi dalle passioni e vengono così trovati in uno stato di tepidezza e rigettati dalla bocca di Dio. A differenza del freddo e del caldo, il tiepido provoca infatti nausea e vomito. I cibi freddi, recati alla bocca, si convertono in calore e diventano salutari e soavi, quelli viziati da tepidezza non solo non possono essere recati alle labbra, ma neppure guardati da lontano senza orrore. Così coloro che vengono ricevuti nelle viscere della carità, fattisi tiepidi, vengono vomitati poiché, pur potendo offrire un cibo salutare, sono diventati nauseabondi e detestabili. È più facile pertanto che un secolare o un pagano, acceso dall’ardore dello spirito, ascenda dal gelido stato di infedeltà alla fonte della vera purificazione, che vi riascenda un monaco nel quale sia scemato l’originario fervore e si ritenga ricco di beni spirituali e di nulla indigente, quando invece, fatto più deteriore del secolare o pagano, è misero, cieco, nudo e bisognoso di correzione.
I temi del tepore, del dispregio e del vomito sono propri degli ignavi, “a Dio spiacenti e a’ nemici sui”, sdegnati dalla misericordia e dalla giustizia divina, dei quali il dottore Virgilio, che applica i precetti dell’abate Daniele nelle Collationes di Cassiano, parla brevemente: “non ragioniam di lor, ma guarda e passa” (Inf. III, 50-51, 63; da considerare, al v. 31, la variante orror di error : ciò che è tiepido non può essere guardato senza orrore).
Alla chiesa di Laodicea e al suo vescovo viene rimproverata (Ap 3, 17) la presunzione di considerarsi senza difetti, nella ritenuta abbondanza di ricchezze che paiono renderla sufficiente a sé stessa. Essa si considera beata, e invece pecca di ignoranza dei propri difetti: è misera (la miseria si oppone alla beatitudine), miserabile (perché abbisogna di commiserazione), povera (perché difetta non solo del sufficiente, ma pure del necessario), cieca (perché difetta della prudenza e della previdenza con cui i ricchi, che reggono le città e consigliano i potenti, raccolgono, conservano e dispensano i beni materiali; così i ricchi di beni spirituali sono prudenti e conoscono i consigli divini), nuda (a differenza dei ricchi, che indossano vesti preziose e ornate). Sono i difetti comuni a un mendicante cieco, nudo, bisognoso, pieno di miserie e miserabile all’altrui sguardo.
La cecità, inoltre, è duplice: c’è quella che proviene dall’ignoranza che riconosce tuttavia umilmente sé stessa come tale, e quella che nell’ignoranza presume il contrario. Come la perfezione della conoscenza sta nel sapere di sapere, così la somma ignoranza sta nell’ignorare di essere ignorante e stolto.
Da questa esegesi, in cui né Riccardo di San VittoreGioacchino da Fiore, le due “auctoritates” dell’Olivi, assumono particolare rilievo, il tema del mendico e dei suoi difetti si insinua ancora tra gli ignavi. Al vescovo di Laodicea viene detto “quia tu es miser” (Ap 3, 17), e Virgilio dice degli ignavi: “… Questo misero modo / tegnon l’anime triste di coloro / che visser sanza ’nfamia e sanza lodo” (Inf. III, 34-36). Dell’uno si dice: «“et miserabilis” … quod vident te indigere Dei et ipsorum miseratione … “et cecus” … “et nudus”»; degli altri: “e la lor cieca vita è tanto bassa … misericordia e giustizia li sdegna … erano ignudi” (vv. 47, 50, 65). Contro la miseria, l’essere miserabile e povero, il vescovo di Laodicea viene invitato ad acquistare oro ignito e sottoposto a prova (Ap 3, 18), mentre gli ignavi sono “sciaurati” (vili, quasi fossero, per concordia nel suono delle parole, ‘senz’oro’: v. 64). Cristo stimola il vescovo della settima chiesa a imitare i santi esempi usando nel senso di ‘zelare per il bene’ un verbo – “emulari” – che ha però anche il significato di ‘invidiare’ (Ap 3, 19): così gli ignavi dalla cieca vita “ ’nvidïosi son d’ogne altra sorte” (v. 48) [14].
Una variazione dei motivi compare all’inizio di Inf. XXIV (vv. 1-30). Il turbamento di Virgilio di fronte al guasto ponte della sesta bolgia è reso con la similitudine del villanello che abbisogna del foraggio per il bestiame, “in quella parte del giovanetto anno / che ’l sole i crin sotto l’Aquario tempra” (tra gennaio e febbraio), e che sconfortato non sa il da farsi di fronte a quella che crede neve e invece è brina che presto si scioglie ai raggi del sole facendogli riacquistare la speranza di pascere le sue pecorelle. Al villanello sono appropriati temi presenti nel rimprovero al vescovo di Laodicea: l’essere ignorante (“che non sa che si faccia”), misero e povero (“a cui la roba manca”, “come ’l tapin”). Virgilio, invece, se è rimasto turbato d’ira per essersi fatto ingannare dai Malebranche bugiardi, dimostra di aver riacquistato tutta la sua sicurezza e di essere dotato di tutte le virtù contrarie alla “cecità” rimproverata al vescovo, nonostante l’ira gli abbia per poco offuscato l’occhio della mente: prende “consiglio” su come affrontare la via, si mostra previdente su quello che dovrà fare dopo (“E come quei ch’adopera ed estima, / che sempre par che ’nnanzi si proveggia”), indicando a Dante le schegge di roccia cui aggrapparsi e avvisandolo di provarle prima se siano salde in modo da potervisi reggere (da notare la variazione del “regunt” in “ti reggia”), mostra insomma di essere uno di quei “divites in spiritualibus … prudentes et scientes consilia summi Dei” [15].
I motivi del reggere, della prudenza, dell’essere sufficienti sono appropriati a Salomone, elogiato da Tommaso d’Aquino come re “sufficïente” e senza pari (Par. XIII, 94-96, 104-105). L’Aquinate invita anche alla prudenza nel giudicare sulla futura sorte delle anime, nella presunzione di vedere dentro al consiglio divino come credono “donna Berta e ser Martino” (i due nomi sono usati con un’accezione di disprezzo che corrisponde ai difetti rimproverati alla settima chiesa, ibid., 139-142). L’esser ciechi e mendichi è proprio degli invidiosi del secondo girone del Purgatorio (Purg. XIII, 61-62).
All’esegesi dell’istruzione data a Laodicea rinviano molti altri luoghi del poema. Il tema del tepore pernicioso ritorna ad esempio in un momento di grave pericolo, che insinua nell’animo il desiderio di rinunciare: il volo in groppa a Gerione verso Malebolge (Inf. XVII, 85-90). Allorché Virgilio lo invita a salire sul fiero animale, Dante prova tremando il senso di nausea e di vomito che il malato di “quartana” ha per i luoghi freddi (lo stesso sentimento proverà di fronte ai “gelati guazzi” di Cocito in Inf. XXXII, 70-72). La vergogna vince però la paura e il poeta non rinuncia ad andare avanti. Rispetto al commento scritturale, nei versi si conserva il tema della nausea mentre il freddo perde il suo valore positivo (di potersi trasformare in caldo) nei confronti del tiepido.
È Virgilio a invitare il gigante Anteo a non avere “schifo” di deporre lui e Dante al fondo dell’Inferno, “dove Cocito la freddura serra” (Inf. XXXI, 122-123). E in effetti il chinarsi di Anteo, senza “fare dimora” sul “fondo che divora / Lucifero con Giuda”, apparenta a suo modo il gigante a quei santi perfetti del quinto stato che condiscendono solo per la carità e l’utilità degli infermi senza per questo macchiarsi di impurità, nel caso senza contaminarsi coi traditori e gli apostati, dei quali colui che nella piana di Zama recò “già mille leon per preda” può ben avere “schifo”. Quei santi non verranno cancellati dal libro della vita, riceveranno anzi gloria e fama, secondo quanto esposto nell’esegesi della quinta vittoria, ed è la fama che brama Anteo (Ap 3, 5) [16].
Pur nel prevalere dell’asceta Cassiano citato da Olivi, c’è spazio anche per la trasformazione dell’esegesi di Riccardo di San Vittore dell’ “utinam frigidus esses”: risuona nell’apostrofe contro i traditori che stanno in Cocito, “mal creata plebe” (riflettere sulla propria creazione o principio appartiene anch’esso alla settima chiesa: Ap 3, 14), che meglio sarebbe stata in vita pecore o capre ignoranti e umili (Inf. XXXII, 13-15).
Lo stesso tema pervade la similitudine dei lussuriosi purganti nel settimo girone – “Poi, come grue ch’a le montagne Rife / volasser parte, e parte inver’ l’arene, / queste del gel, quelle del sole schife” (Purg. XXVI, 43-45) -, che cioè volino o al freddo o al caldo, quasi evitando comunque il tiepido (non esplicitato) come ingiunto al settimo vescovo. Le due schiere (lussuriosi secondo natura e contro), nel dipartirsi dopo essersi incontrate, “tornan, lagrimando, a’ primi canti” (vv. 46-48), cioè al principio, come deve fare la settima e ultima chiesa (Ap 3, 14); “lagrimando”, in quanto a questa è proposto il collirio pungente e lacrimativo, che fa riflettere sui propri difetti (Ap 3, 18). Dante, al quale è appropriato in senso negativo il tema della cecità: “Quinci sù vo per non esser più cieco” (v. 58), va “pensoso” di fronte a Guinizzelli (v. 100); Arnaut Daniel piange e va cantando, riflettendo afflitto sulla passata follia (vv. 142-143).

 

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[1] Sul versetto precedente (Ap 12, 17) cfr. Il sesto sigillo, 2d.3 («Maria rimase giuso»).

[2] Si tratta, come Gioacchino precisa ad Ap 16, 19, di non pochi cristiani di Alessandria e di Siria e di altri luoghi,“qui tamen, si de moribus agitur, utrum sint christiani an sarraceni dubitatur” (Expositio, pars VI, distinctio I, f. 192va-b); cfr. G. L. POTESTÀ, Il tempo dell’Apocalisse. Vita di Gioacchino da Fiore, Bari 2004, pp. 319-320.

[3] Cfr. il testo in I commenti danteschi dei secoli XIV, XV e XVI, a cura di P. PROCACCIOLI, Roma 1999 (Archivio Italiano).

[4] UGO DI SAN VITTORE, Summa Sententiarum, II, iv; PL 176, col. 84 B-C: “Et quia contra Creatorem suum in tantum superbivit, dejectus est in istum caliginosum aerem cum omnibus illis qui ei consenserunt; et hoc ad nostri probationem ut sint nobis adminiculum exercitationis. Non est eis concessum habitare in coelo, quae est clara patria; nec in terra, ne homines nimis infestarent; sed in aere caliginoso qui est carcer eis usque in diem judicii. Tunc enim detrudentur in barathrum inferni secundum illud: Ite, maledicti, in ignem aeternum qui praeparatus est diabolo et angelis ejus (Mt 25, 41). Et sicut majoris scientiae sunt vel minoris, ita habent majores vel minores praelationes; quia quidam uni provinciae, quidam uni homini, quidam uni vitio praesunt. Unde dicitur spiritus superbiae, spiritus luxuriae. De hoc autem dubitatio est utrum modo omnes in isto aere sint usque in diem judicii; an aliqui eorum in inferno inferiori sint, quod de auctoritate non multum certum habemus. Quidam tamen volunt dicere quod Lucifer qui plus caeteris peccavit, statim illuc demersus sit; et etiam quidam ex aliis”.

[5] CLEMENTE ALESSANDRINO, Stromata, VII, 7; PG 9, coll. 466-467. È fonte sostenuta con decisione da B. NARDI, Dal “Convivio” alla “Commedia” (Sei saggi danteschi), Roma 1960 (Istituto Storico Italiano per il Medio Evo. Studi Storici, 35-39; ristampa anastatica, 1992), pp. 331-350: 338-339.

[6] TH. SILVERSTEIN – A. HILHORST, Apocalypse of Paul. A new critical edition of three long latin versions, Genève 1997 (Cahiers d’Orientalisme, XXI), 31, p. 136 [ms. parigino]: “Cum autem quieuit loqui mihi, duxit me foras extra ciuitatem per medias arbores et Acerosium lacum terre bonorum et statuit me super flumen lactis et mellis. Et post aec duxit me super Oceanum, qui portat fundamenta celi. Respondit angelus et dixit mihi: Intelliges quo incedas? Et dixi: Ita, domine. Et dixit mihi: Veni et sequere me et ostendam tibi animas impiorum et peccatorum, ut cognoscas quales sit locus. Et profectus sum cum angelo et tulit me per ocansu solis. Et uidi principium celi fundatum super flumine aque magno et interrogaui: Quis est iste fluuius aque? Et dixit mihi: Haec est Oceanus, qui circuit omnem terram. Et cum fuissem ad exteriora Oceani, aspexi et non erat lumen in illo loco, sed tenebre et tristicia et mesticia, et suspiraui. Et uidi illic fluuium ignis feruentem et ingressus multitudo uirorum et mulierum dimersus usque ad ienua et alios uiros usque ad umbiculum, alios enim usque ad labia, alios autem usque ad capillos. Et interrogaui angelum et dixi: Domine, qui sunt isti in flumine igneo? Et respondit angelus et dixit mihi: Neque calidi neque frigidi sunt, quia neque in numero iustorum inuenti sunt neque in numero impiorum. Isti enim inpenderunt tenpus uite suae in terris dies aliquos facientes in oracionibus dei, alios uero dies in peccatis et fornicacionibus usque ad mortem”. È fonte sostenuta da G. INGLESE, in Dante Alighieri, Commedia. Revisione del testo e commento. Inferno, Roma 2007, p. 63, nt. a Inf. III, 39.

[7] NAVIGATIO SANCTI BRENDANI ABBATIS. From Early Latin Manuscripts, ed. C. Selmer, University of Notre Dame Press 1959, cap. 11, 16-48, pp. 22-25: «Erat autem super illum fontem arbor mire latitudinis in girum, non minus altitudinis, cooperta auibus candidissimis. In tantum cooperuerunt illam ut folia et rami eius uix uiderentur. Cum hec uidisset uir Dei, cepit intra se cogitare et tractare quidnam esset aut que causa fuisset quod tanta multitudo auium potuisset esse in una collectione. Ac de hoc tantum sibi erat tedium ut effunderet lacrimas preuolutis genibus ac deprecaretur Deum, dicens: “Deus, cognitor incognitorum et revelator absconditorum omnium, tu scis angustiam cordis mei. Deprecor tuam majestatem ut mihi peccatori digneris per tuam magnam misericordiam reuelare tuum secretum, quod modo pre oculis meis uideo. Non de meritis meis aut dignitate sed de immensa clemencia tua presumo”. Cum hec dixisset intra se atque resedisset, ecce una de illis auibus uolabat de arbore, et sonabant ale eius sicut tintinnabula, contra nauim ubi uir Dei sedebat. Que sedit in summitate prore et cepit extendere alas quasi signo leticie et placido uultu aspicere sanctum patrem. Statimque agnouit uir Dei quia Deus recordatus esset deprecationem eius, et ait ad auem: “Si nuncius Dei es, narra mihi unde sint aues iste / aut pro qua re illarum collectio hic [sit]?” Que statim ait: “Nos sumus de illa magna ruina antiqui hostis, sed non peccando in eorum consensu fuimus. Sed ubi fuimus creati, per lapsum illius cum suis satellitibus contigit et nostra ruina. Deus autem noster iustus est et uerax. Per suum magnum iudicium misit nos in istum locum. Penas non sustinemus. Hic presenciam Dei possumus uidere, sed tantum alienauit nos a consorcio aliorum qui steterunt. Vagamur per diuersas partes aeris et firmamenti et terrarum, sicut alii spiritus qui mittuntur. Sed in sanctis diebus atque dominicis accipimus corpora talia qualia nunc uides et commoramur hic laudamusque nostrum creatorem. Tu autem cum tuis fratribus habes unum annum in tuo itinere. Adhuc restant sex. Ubi hodie celebrasti Pascha, ibi omni anno celebrabis, et postea inuenies que posuisti in corde tuo, id est terram repromissionis sanctorum”. Cum hec dixisset, leuauit se de prora illa auis et cepit uolare ad alias».

[8] WOLFRAM VON ESCHENBACH, Parzival, IX, 471, 15-25; XVI, 798, 11-22 (ed. a cura di L. Mancinelli. Traduzione e note di C. Gamba, Torino 1993). L’eremita Trevrizent parla a Parzival degli angeli neutrali, inviati da Dio in un primo tempo a vegliare sul Graal. Precisa di non sapere se, nella sua giustizia, li abbia in seguito assolti o dannati per sempre (avendo successivamente affidato la pietra agli eletti da lui scelti), salvo infine smentirsi affermando che questi spiriti sono dannati.

[9] È possibile che ad essi predisponga l’angelologia francescana (cfr. A. MELLONE, Angelo, in Enciclopedia Dantesca, I, Roma 19842, pp. 270-271), ma ciò non significa che Bonaventura o l’Olivi parlino di angeli neutrali. Quello che Olivi afferma nelle varie quaestiones sugli angeli [Quaestiones in secundum librum Sententiarum, ed. B. Jansen, I, Ad Claras Aquas prope Florentiam, 1922 (Bibliotheca franciscana scholastica medii aevi, IV), qu. xlii-xliii, pp. 702-734: 710-711], è che gli angeli non peccarono nell’istante della loro creazione, tesi propria di altri teologi e da confrontare con le parole di Beatrice a Par. XXIX, 49-51.

[10] Cfr. G. L. POTESTÀ, Il tempo dell’Apocalisse. Vita di Gioacchino da Fiore cit., pp. 286-287.

[11] Da notare la rima “latino / vicino” a Inf. XXII, 65, 67, dove il motivo della Chiesa “latina” rimasta nel quinto stato come reliquia dopo le devastazioni saracene in Oriente, “vicina” e quasi mescolata alle impurità, è appropriato in modo sarcastico ai barattieri del quinta bolgia (il numero corrisponde allo stato della storia della Chiesa, al quale principalmente rinviano i versi relativi a quella zona). All’esegesi di Ap 12, 18 rinviano anche parole-chiave in Inf. XXIV, 85, 90 («“Et stetit”, scilicet dracho, “super arenam maris” – Più non si vanti Libia con sua rena … né con ciò che di sopra al Mar Rosso èe») e Purg. V, 15, 18 (“et semper instabilis et ab omni vento dispergibilisper soffiar di venti … perché la foga l’un de l’altro insolla”).

[12] Qui vengono considerati soltanto alcuni aspetti; per un esame completo cfr. Il sesto sigillo, 7a, tab. XLIV.

[13] Cfr. CASSIANI Opera, Collationes XXIIII, edidit M. Petschenig. Editio altera supplementis aucta curante G. Kreuz, Wien 2004 (Corpus Scriptorum Ecclesiasticorum Latinorum, XIII), Conlatio IIII, xviiii, 7, pp. 114-115 (= PL 49, col. 607 B-C). Sull’uso di questo autore da parte di Olivi cfr. A. A. DAVENPORT, Private Apocalypse: Spiritual Gnosis in Saint John Cassian and Peter John Olivi, in Ende und Vollendung. Eschatologische Perspektiven im Mittelalter, herausgegeben von J. A. Aertsen und M. Pickavé, Berlin-New York 2002 (Miscellanea Mediaevalia. Veröffentlichungen des Thomas-Instituts der Universität zu Köln, 29), pp. 641-656.

[14] L’esegesi di Ap 3, 19 espone tutti i possibili significati del verbo emulari.
[LSA, cap. III, Ap 3, 19; Paris, BnF, ms. lat. 713, f. 55ra-b] Deinde ut ipsum efficacius inducat et trahat ad ista, ostendit se ex singulari amore ipsum corripere et alios, quos consimiliter corripit et emendat, in exemplum imitandum proponere sibi, unde subdit (Ap 3, 19): “Ego quos amo corrigo et castigo”, id est verbis reprehensionis obiurgo et penis castigo seu castifico et emendo. “Emulare ergo”, scilicet illos bonos et eorum sancta exempla, quos ego amo et castigo. Emulari sumitur aliquando pro invidere, ut ad Romanos [XIII°] (Rm 13, 13): “Non in contentione et emulatione”; aliquando autem pro zelotipe indignari, ut Ezechielis VIII° (Ez 8, 3): “Erat statutum idolum zeli ad provocandum emulationem”; aliquando pro ex magno amore zelari seu ex magno zelo optare bonum alteri, ut IIa ad Corinthios XI° (2 Cor 11, 2): “Emulor enim vos Dei emulatione”, et ad Romanos X° (Rm 10, 2): “Emulationem” quidem “Dei habent”; aliquando vero sumitur pro zelatorie imitari, ut Proverbiorum III° (Pro 3, 31): “Ne emuleris hominem iniustum”, [et] ad Galatas IIII° (Gal 4, 18): “Bonum”, scilicet hominem, “emulamini in bono semper”, et sic sumitur hic. “Et penitentiam age”, quasi dicat, secundum Ricardum: «si suasio premissa non potest te de tuo tepore excitare, animadverte diligenter me verbis arguere et flagellis castigare illos quos amo, ipsosque mea verba et flagella libenter accipere, et ab illis exemplum sume ipsosque imitando in bono emulare». Vel sensus est: “Emulare ergo”, id est ad exemplum mei et zelo amoris mei et tue salutis irascere et indignare contra tua vitia, “et” ad castigandum ea “penitentiam age”.
Invidiare, nel senso positivo di imitare i buoni esempi, è nel linguaggio di Bonaventura al termine della lode di Domenico: “Ad inveggiar cotanto paladino / mi mosse l’infiammata cortesia / di fra Tommaso e ’l discreto latino; / e mosse meco questa compagnia” (Par. XII, 142-145; negativo il senso di “inveggia” a Purg. VI, 20). “Paladino” sarebbe così da riferire non a Domenico, ma a Tommaso d’Aquino, del quale Bonaventura ha ‘emulato’ l’elogio di Francesco.

[15] Nella similitudine del villanello entrano anche i temi della quarta perfezione di Cristo come sommo pastore trattata nel primo capitolo (Ap 1, 14), i cui capelli sono bianchi come la lana e come la neve. La lana lenisce col calore, è molle, temperata e soave nel candore; la neve è fredda, congelata, rigida e intensa nel candore non sostenibile alla vista. Così la sapienza di Cristo, umore che impingua e purga le colpe, è da una parte calda per la pietà e condescensiva in modo contemperato alle nostre facoltà; è dall’altra astratta, rigida e intensa. Non a caso la similitudine del villanello cade “in quella parte del giovanetto anno / che ’l sole i crin sotto l’Aquario tempra”: il passaggio dalla neve alla sua bianca sorella brina segna il passaggio dal rigido inverno, gelato e chiuso, al condiscendere temperato e pietoso verso la necessità di cibo delle pecorelle. I ‘crini’ di Cristo designano anche il maturo consiglio, per cui il temprare i crini da parte del sole è speculare alla formazione di un provvido consigliarsi da parte di Virgilio.

[16] Cfr. Il sesto sigillo, 2d. 1, tab. XVII.

 Tab. 1.1

[LSA, cap. XII, Ap 12, 17.18 – 13, 1 (IVa visio, Vum prelium)] (Ap 12, 17) Utrique enim signanter vocantur reliqui seu reliquie, quia sicut bibita superiori et puriori et maiori parte vini vasis magni restant pauce reliquie cum fecibus quibus sunt propinque et quasi commixte, sic de plenitudine purissimi vini doctorum et anachoritarum tertii et quarti temporis remanserunt reliquie circa tempora Sarracenorum; ac deinde pluribus ecclesiis per Sarracenos vastatis et occupatis, Grecisque a romana ecclesia separatis, remansit in quinto tempore sola latina ecclesia tamquam reliquie prioris ecclesie per totum orbem diffuse. De utrisque ergo reliquiis simul agit, tum quia in utrisque remissio habundavit respectu perfectionis priorum, tum quia bestia sarracenica contra utrosque pugnavit quamvis primo contra primos. […]
Quomodo igitur et unde diabolus hanc bestiam eduxerit, et qualis ipsa sit, monstratur cum subditur: “Et stetit”, scilicet dracho, “super arenam maris” (Ap 12, 18), id est super feces vini de quibus dixeram. Arena enim est terrea seu pulverosa et sterilis et in multitudine[m] partium minimarum et in lapillulorum athomos induratorum innumerabilem divisa et semper instabilis et ab omni vento dispergibilis. Arena vero maris modo aquis maris infunditur eiusque fluctibus iactatur, modo solis ardore tabescit.
Et ideo, secundum Ioachim, designat hic multitudinem hominum qui nec omnino infideles esse videntur, nec pietati christiane tota fidei puritate adherent*.
Design[at] ergo hic multitudinem pulveream, duram et sterilem et omni vento temptationis mobilem, que partim de fecibus hereticorum, partim de fecibus anachoritarum et monachorum et ceterorum fidelium tunc remanserat, et in aliqua sui parte mari pag[a]norum in orientali terra Mahomet tunc temporis, ut fertur, restantium vicina, sicut arena riparum maris est mari vicina.
Super istam ergo stetit diabolus, tamquam sue voluntati subiectam et ad votum eius ductibilem, et per hoc potuit educere in publicum et exaltare bestiam secte sarracenice. Unde subdit: (Ap 13, 1) “Et vidi de mari”, id est de infideli natione paganismi, “bestiam”, id est bestialem catervam et sectam, “ascendentem”, scilicet in altum dominium et in publicum effectum et statum.

[LSA, prologus, Notabile V; V status] Quia vero ecclesia Christi usque ad finem seculi non debet omnino extingui, ideo oportuit eam in quibusdam suis reliquiis tunc specialiter a Deo defendi et in unam partem terre recolligi, qua nulla congruentior sede  Petri et sede romani imperii, que est principalis sedes Christi. Ideo in quinto tempore, quod cepit a Karolo, facta est defensio et recollectio ista […].

* Expositio, pars IV, distinctio IV, f. 162ra; cfr. pars VI, distinctio I, f. 192va-b.

Inf. XXII, 64-67

Lo duca dunque: “Or dì: de li altri rii
conosci tu alcun che sia latino
sotto la pece?”. E quelli: “I’ mi partii,
poco è, da un che fu di là vicino.”

Inf. XXIV, 85, 88-90

Più non si vanti Libia con sua rena ……

né tante pestilenzie né sì ree
mostrò già mai con tutta l’Etïopia
né con ciò che di sopra al Mar Rosso èe.

Inf. III, 25-30, 37-39

Diverse lingue, orribili favelle,
parole di dolore, accenti d’ira,
voci alte e fioche, e suon di man con elle
facevano un tumulto, il qual s’aggira
sempre in quell’ aura sanza tempo tinta,
come la rena quando turbo spira.

Mischiate sono a quel cattivo coro
de li angeli che non furon ribelli
né fur fedeli a Dio
, ma per sé  fuoro.

Inf. XIV, 13-15; XV, 116-117; XVI, 28-29, 40-41; XVII, 31-36

Lo spazzo era una rena arida e spessa,
non d’altra foggia fatta che colei
che fu da’ piè di Caton già soppressa.

…………………..….. però ch’i’ veggio
là surger nuovo fummo del sabbione.

E  “Se miseria d’esto loco sollo
rende in dispetto noi e nostri prieghi” ……
L’altro, ch’appresso me la rena trita,
è Tegghiaio Aldobrandi …………..

Però scendemmo a la destra mammella,
e diece passi femmo in su lo stremo,
per ben cessar la rena e la fiammella.
E quando noi a lei venuti semo,
poco più oltre veggio in su la rena
gente seder propinqua al loco scemo.

Purg. V, 13-18

Vien dietro a me, e lascia dir le genti:
sta come torre ferma, che non crolla
già mai la cima per soffiar di venti ;
ché sempre l’omo in cui pensier rampolla
sovra pensier, da sé dilunga il segno,
perché la foga l’un de l’altro insolla.

Tab. 1.2

[LSA, cap. III, Ap 3, 15 (Ia visio, VIIa ecclesia)] Increpans ergo eum, subdit (Ap 3, 15): “Scio opera tua”, id est scientia iudiciali et improbativa, “quia neque calidus es”, scilicet per caritatem, “neque frigidus”, per infidelitatem vel per omnimodam vite secularitatem, quasi dicat: solam fidem et quandam exterioris religionis speciem absque igne caritatis habes.
Quidam vero sumunt frigidum pro contristato de suis peccatis, calidum vero pro exultatione in Deo, quasi dicat: nec scis de Deo per fervidam devotionem gaudere, nec de tuis peccatis et de tua miseria penitentialiter contristari.
Hunc autem caloris defectum exaggerat preferendo frigidum huic tepido. Unde subdit: “Utinam frigidus esses aut calidus”, quasi dicat, secundum Ricardum: utinam fidem cum caritate haberes, vel saltem in infidelitate positus esses, quia propter ignorantiam minus peccatum haberes et citius ad veram iustitiam converti et pertingere posses*.   Unde et in libro Collationum Cassiani, collatione IIIIa, dicit abbas Daniel: «Frequenter vidimus de frigidis atque carnalibus, id est de secularibus atque paganis, ad spiritualem pervenisse fervorem, sed de tepidis et animalibus omnino non vidimus. Quod etiam per prophetam ita legimus a Domino detestari, ut spiritualibus viris atque doctoribus precipiatur ut ab eis monendis docendisque discedant et nequaquam, velut in terra sterili noxiisque seminibus occupata, semen verbi salutaris expendant, et ipsa contempta novam potius excolant terram, id est erga paganos et seculares omnem culturam salutaris doctrine transferant. Sic enim dicit Dominus: “Novate vobis novale et nolite serere super spinas” (Jr 4, 3)».
Item, multis de hoc ipso dictis, subdit: «Festinandum nobis est, ut cum renuntiantes seculo desierimus esse carnales, id est ceperimus a secularium conversatione segregari et a manifesta carnis pollutione cessare, ne forte blandientes nobis quod secundum exteriorem hominem videmur mundo renuntiasse, tamquam qui summam perfectionis per hoc apprehenderimus, reddamur remissiores et lentiores erga emundationem ceterarum passionum, et inter utraque detenti gradum spiritalis profectus assequi nequeamus, et ita inventi in tepido statu evomendos nos noverimus ex ore Domini dicentis: “utinam calidus esses” et cetera. Nec immerito eos quos receperat in visceribus caritatis, iam noxie tepefactos, evomendos esse cum quadam sui pectoris convultione pronuntiat, quia cum potuissent ei salutarem quodammodo prebere substantiam, maluerunt a visceribus eius evelli, in tantum deteriores effecti illis cibis qui numquam ori dominico sunt illati quantum id quod nausea compellente proicimus odibilius detestamur. Quicquid enim frigidum est, etiam ore nostro susceptum, vertitur in calorem et salutifera suavitate perficitur; quod autem semel vitio perniciosi teporis abiectum est, non dicam labiis amovere, sed etiam eminus intueri sine horrore non possumus. Rectissime ergo pronuntiatur esse deterior, quia facilius ad salutarem conversionem ac perfectionis fastigium carnalis quis, id est secularis vel gentilis, accedit quam is qui professus monachum, nec tamen viam perfectionis arripiens secundum regulam discipline, ab illo semel spiritalis fervoris igne discessit. Ille namque, corporalibus saltem vitiis humiliatus atque immundum se sentiens contagione carnali, ad fontem vere purificationis atque perfectionis culmen quandoque compunctus occurr<et>, et horrescens illum, in quo est, infidelitatis gelidissim<um> stat<um>, spiritus ardore succensus ad perfectionem facilius convolabit. Qui autem semel tepido exorsus initio cepit abuti vocabulo monachi, nec humilitate ac fervore quo debuit iter huius perfectionis arripuit, non poterit ex se ulterius perfecta sapere nec alterius monitis erudiri. Secundum enim sententiam Christi dicit in corde suo: “quia dives sum et locuples et nullius indigeo”, cum tamen sit “miser et cecus et nudus” (cfr. Ap 3, 17). In quo et factus est seculari deterior, quod nec miserum se nec cecum nec nudum aut emendatione dignum, vel egere monitis alicuius aut instructione cognoscit, et ob hoc nec exhortationem quidem ullam verbi salutaris admittit». Hucusque Daniel*.

* In Ap I, xi (PL 196, col. 738 D).

* Cassiani Opera, Collationes XXIIII, edidit M. Petschenig. Editio altera supplementis aucta curante G. Kreuz, Wien 2004 (Corpus Scriptorum Ecclesiasticorum Latinorum, XIII), Conlatio IIII, xviiii, 2-7, pp. 112-115 (= PL 49, coll. 605 B- 607 C), con considerevoli abbreviazioni e spostamenti del testo.

Inf. III, 31-51, 61-63

E io ch’avea d’error la testa cinta,  orror
dissi: “Maestro, che è quel ch’i’ odo?
e che gent’ è che par nel duol sì vinta?”.
Ed elli a me: “Questo misero modo
tegnon l’anime triste di coloro
che visser sanza ’nfamia e sanza lodo.
Mischiate sono a quel cattivo coro
de li angeli che non furon ribelli
né fur fedeli a Dio, ma per sé fuoro.  12, 18 (Ioachim)
Caccianli i ciel per non esser men belli,
né lo profondo inferno li riceve,
ch’alcuna gloria i rei avrebber d’elli”.

E io: “Maestro, che è tanto greve
a lor che lamentar li fa sì forte?”.
Rispuose: “Dicerolti molto breve.
Questi non hanno speranza di morte,
e la lor cieca vita è tanto bassa,
che ’nvidïosi son d’ogne altra sorte.
Fama di loro il mondo esser non lassa;
misericordia e giustizia li sdegna :
non ragioniam di lor, ma guarda e passa”.

Incontamente intesi e certo fui
che questa era la setta d’i cattivi,
a Dio spiacenti  e a’ nemici sui.

Purg. XXIX, 4-6

E come ninfe che si givan sole
per le salvatiche ombre, disïando
qual di veder, qual di fuggir lo sole

Inf. XVII, 85-87, 106-112, 115

Qual è colui che sì presso ha ’l riprezzo
de la quartana, c’ha già l’unghie smorte,

e triema tutto pur guardando ’l rezzo

Maggior paura non credo che fosse
quando Fetonte abbandonò li freni,
per che ’l ciel, come pare ancor, si cosse;
né quando Icaro misero le reni
sentì spennar per la scaldata cera,
gridando il padre a lui “Mala via tieni!”,
che fu la mia ……………………………….

Ella sen va notando lenta lenta

Inf. XXXI, 122-123; XXXII, 13-15, 70-72

mettine giù, e non ten vegna schifo,
dove Cocito la freddura serra.

Oh sovra tutte mal creata plebe
che stai nel loco onde parlare è duro,
mei foste state qui pecore o zebe !

Poscia vid’ io mille visi cagnazzi
fatti per freddo; onde mi vien riprezzo,
e verrà sempre, de’ gelati guazzi.

Inf. II, 127-129

Quali fioretti dal notturno gelo
chinati e chiusi, poi che ’l sol  li ’mbianca,

si drizzan tutti aperti in loro stelo

Purg. XXVI, 43-46

Poi, come grue ch’a le montagne Rife
volasser parte, e parte inver’ l’arene12, 18
queste del gel, quelle del sole schife
l’una gente sen va, l’altra sen vene

[LSA, cap. III, Ap 3, 17-19 (Ia visio, VIIa ecclesia)] Deinde hanc eius presumptionem improbat et falsificat per sex defectus intente sue presumptioni oppositos sueque presumptioni annexos.
Quorum primum est inconsideratio et ignorantia sui ipsius suorumque defectuum et specialiter quinque subscriptorum, et ideo respectu omnium quinque dicit: “et nescis” (Ap 3, 17). Subscriptorum etiam ordo sic currit. In presumptione enim de predictis divitiis, que ex suo nomine dicunt sufficientiam et habundantiam, subintelligitur, quasi formale et finale earum, quod in habente eas esset secundum se  magna beatitudo et etiam respectu alieni oculi seu iudicii.
Contra primum horum dicit: “quia tu es miser”. Miseria enim directe opponitur beatitudini et miser beato.
Contra secundum dicit: “et miserabilis”, id est in aliorum oculis haberis ita pro misero quod vident te indigere Dei et ipsorum miseratione.
Contra sufficientiam vero dicit: “et pauper”. Pauper enim dicitur qui caret non solum sufficientia sed etiam necessariis, unde et pauper dicitur quasi parum de re habens.
Item divitiis congregandis et conservandis et dispensandis solet adesse solers prudentia et providentia congregandi et conservandi et dispensandi. Divites communiter etiam regunt civitates et ad potentum consilia solent convocari. Unde et per simile divites in spiritualibus sunt prudentes et scientes consilia summi Dei. Contra hoc autem subditur: “et cecus”.
Sicut etiam divites mundi sunt multis pretiosis et valde ornatis et decoris vestimentis induti, sic et divites Dei sunt multis et magnis virtutibus induti et adornati, contra quod hic subditur: “et nudus”.
Nota etiam quod hic ponit communes defectus qui ceco mendicanti communiter insunt. Est enim egenus et nudus et multis miseriis plenus, et hoc sic patenter quod est in aliorum oculis miserabilis.
Nota etiam quod notat eum de duplici cecitate. Prima est ceca ignorantia agendorum et vitandorum ac sperandorum seu amandorum et spernendorum, et hanc notat cum dicit quod “es cecus”. Secunda est huius cecitatis et ceterorum defectuum suorum ceca et inflata nescientia. Sicut enim perfectio sciendi est scire se scire, quia in hoc est plena et certa reflexio scientie super suum actum, sic consumatio ignorantie et stultitie est nescire se esse ignorantem et stultum, immo contrarium presumere. Hanc ergo notat cum premittit: “et nescis, quia tu es”. Sicut autem in defectu primi actus sciendi includitur defectus secundi, scilicet actus super primum reflexi, sic in cecitate includitur nescientia eius, nisi pro quanto quidam humiliter advertunt et recognoscunt se esse in multis multum ignorantes et cecos. […]
Deinde consulit et suadet modum expellendi a se istos defectus, et primo tres defectus primos, miserie sue et miserabilis paupertatis, unde subdit (Ap 3, 18): “Suadeo tibi emere a me aurum ignitum et probatum, ut locuples fias”. Hinc apparet quod locupletari sumit pro ditari per propriam industriam, puta per industriam mercandi. Per “aurum” autem “ignitum” significatur caritas ardens et ignita. […]
“Emulare ergo” (Ap 3, 19), scilicet illos bonos et eorum sancta exempla, quos ego amo et castigo. Emulari sumitur aliquando pro invidere, ut ad Romanos [XIII°] (Rm 13, 13): “Non in contentione et emulatione” […] aliquando vero sumitur pro zelatorie imitari, ut Proverbiorum III° (Pro 3, 31): “Ne emuleris hominem iniustum”, [et] ad Galatas IIII° (Gal 4, 18): “Bonum”, scilicet hominem, “emulamini in bono semper”, et sic sumitur hic.

[LSA, cap. I, Ap 1, 14 (radix Ie visionis)] Quarta (perfectio summo pastori condecens) est reverenda et preclara sapientie et consilii maturitas per senilem et gloriosam canitiem capitis et crinium designata, unde subdit: “caput autem eius et capilli erant candidi tamquam lana alba et tamquam nix” (Ap 1, 14). Per caput vertex mentis et sapientie, per capillos autem multitudo et ornatus subtilissimorum et spiritualissimorum cogitatuum et affectuum seu plenitudo donorum Spiritus Sancti verticem mentis adornantium designatur. […] Per que designatur quod Christi sapientia est partim nobis condescensiva et sui ad nos contemperativa nostrique fomentativa et sua pietate calefactiva, partim autem est a nobis abstracta et nobis rigida nimisque intensa, nostrarumque sordium purgativa nostreque hereditatis impinguativa.

Inf. III, 34-36, 46-51, 64-66

Ed elli a me: “Questo misero modo
tegnon l’anime triste di coloro
che visser sanza ’nfamia e sanza lodo.”

Questi non hanno speranza di morte,
e la lor cieca vita è tanto bassa,
che ’nvidïosi son d’ogne altra sorte.
Fama di loro il mondo esser non lassa;
misericordia e giustizia li sdegna :                   3, 15
non ragioniam di lor, ma guarda e passa.

Questi sciaurati, che mai non fur vivi,
erano ignudi e stimolati molto
da mosconi e da vespe ch’eran ivi.

Purg. XIII, 61-62

Così li ciechi a cui la roba falla,
stanno a’ perdoni a chieder lor bisogna

Par. XIII, 94-96, 104-105, 139-142

Non ho parlato sì, che tu non posse
ben veder ch’el fu re, che chiese senno
acciò che re sufficïente fosse

regal prudenza è quel vedere impari
in che lo stral di mia intenzion percuote

Non creda donna Berta e ser Martino,
per vedere un furare, altro offerere,
vederli dentro al consiglio divino
ché quel può surgere, e quel può cadere.

Inf. XXIV, 1-30

In quella parte del giovanetto anno
che ’l sole i crin sotto l’Aquario tempra
e già le notti al mezzo dì sen vanno,
quando la brina in su la terra assempra
l’imagine di sua sorella bianca,
ma poco dura a la sua penna tempra,
lo villanello a cui la roba manca,
si leva, e guarda, e vede la campagna
biancheggiar tutta; ond’ ei si batte l’anca,
ritorna in casa, e qua e là si lagna,
come ’l tapin che non sa che si faccia;
poi riede, e la speranza ringavagna,
veggendo ’l mondo aver cangiata faccia
in poco d’ora, e prende suo vincastro
e fuor le pecorelle a pascer caccia.
Così mi fece sbigottir lo mastro
quand’ io li vidi sì turbar la fronte,
e così tosto al mal giunse lo ’mpiastro;
ché, come noi venimmo al guasto ponte,
lo duca a me si volse con quel piglio
dolce ch’io vidi prima a piè del monte.
Le braccia aperse, dopo alcun consiglio
eletto seco riguardando prima
ben la ruina, e diedemi di piglio.
E come quei ch’adopera ed estima,
che sempre par che ’nnanzi si proveggia,
così, levando me sù ver’ la cima
d’un ronchione, avvisava un’altra scheggia
dicendo: “Sovra quella poi t’aggrappa;
ma tenta pria s’è tal ch’ella ti reggia”.

 

 

2. I quattro lati dell’altare d’oro (Ap 9, 13-14)

Al suono della sesta tromba, nella terza visione apocalittica, scrive Giovanni: “E udii una voce dai quattro lati dell’altare d’oro che si trova dinanzi agli occhi di Dio” (Ap 9, 13). Questa voce una, secondo Riccardo di San Vittore, è la voce concorde dell’universale dottrina; i quattro lati dell’altare d’oro designano i predicatori che levano in alto e portano Cristo col predicare i quattro Vangeli alle quattro parti del mondo. Cristo è detto altare, perché su di lui vengono offerti i nostri sacrifici (cfr. Ap 8, 3-5); sta dinanzi agli occhi di Dio perché il Padre si compiacque nel Figlio (cfr. Mt 3, 17; 17, 5; Mr 1, 11; Lc 3, 22). Accanto a questa interpretazione Olivi giustappone quella, tragica, di Gioacchino da Fiore. I quattro lati dell’altare sono i quattro evangelisti dai cui Vangeli una comune voce è udita, dicente che Cristo sarà consegnato a tradimento in mano dei peccatori alla fine del quinto giorno (giovedì) che precede la Parasceve ebraica; che sarà crocifisso, morrà e sarà seppellito nel sesto giorno (venerdì, cioè nella Parasceve). La voce intende dire che al momento del suono della sesta tromba i figli delle tenebre verranno sciolti perché sia compiuta la parola di Cristo: “Quando vedrete che Gerusalemme è circondata da eserciti, sappiate allora che la sua devastazione è vicina” (Luca 21, 20).
I quattro lati dell’altare sono pure, secondo Olivi, le quattro virtù di Cristo che chiamano perché i figli delle tenebre siano sciolti, cosicché vengano a punire Babylon che tanti crimini ha commesso contro Cristo alla fine del quinto stato. Lo grida la verità di Cristo da essa conculcata e che invece è degna di essere esaltata, la giustizia di Cristo che esige vendetta con la punizione corrispondente alle colpe, la misericordia di Cristo verso gli eletti troppo oppressi, che devono essere liberati, e la vita e la gloria di Cristo che conviene e giova siano dichiarate a tutto il mondo e da questo adorate e partecipate, il che non può avvenire se prima non siano stati espulsi dalla Chiesa le turpitudini e quanti insozzano.
I motivi dei quattro lati dell’altare da cui esce una comune voce, di Cristo tradito e consegnato nelle mani dei nemici nel quinto giorno che precede la Parasceve, della sua crocifissione nel sesto giorno, del chiamare contro le scelleratezze della nuova Babilonia, percorrono come cellule musicali il racconto del conte Ugolino (Inf. XXXIII, 43-58, 67-74, 85-89), dove la poesia li appropria variandoli: il padre scorge “per quattro visi il mio aspetto stesso”; vede cadere tre dei suoi quattro figli, posti “a tal croce”, tra il quinto e il sesto giorno di prigionia; li chiama per due giorni dopo morti, ha voce di aver tradito Pisa consegnando i castelli ai nemici. Ciò che nell’esegesi è concentrato solo su Cristo, nei versi è diffuso: è Pisa ad essere “tradita … de le castella” (per voce comune che accusa Ugolino; “fore traditum … d’aver tradita”: unico caso, nel poema, del participio passato di tradire); ma alla croce essa ha posto i quattro figli del conte (che rode l’arcivescovo Ruggieri, a sua volta traditore), per cui s’è fatta “novella Tebe”, figura della “nova Babilon” e della nuova crocifissione di Cristo. Il poeta invoca perciò che la città, “vituperio de le genti / del bel paese là dove ’l sì suona”, venga punita con il muoversi della Capraia e della Gorgona a chiudere la foce dell’Arno sì da farne annegare gli abitanti, invettiva che contiene il tema del muoversi delle isole e del conseguente sterminio dei popoli che segna il terremoto con cui si apre il sesto sigillo (Ap 6, 14; 16, 20). Il suonare del “sì ” nel “bel paese” trova riscontro nell’amen  – “vere sic sit et fiat” – con cui i seniori e gli animali lodano Dio (Ap 7, 11-12). I tempi che scandiscono la fine del conte e dei suoi figli nella Muda sono gli stessi della passione di Cristo. Ma l’ottavo giorno, la domenica di resurrezione, designato dall’ottava beatitudine – “Beati qui persecutionem patiuntur propter iustitiam” (Mt 5, 10) -, o dallo stadio paolino (l’ottava parte del miglio romano) in cui tutti corrono ma uno solo vince il premio e che è misura dei lati della Gerusalemme celeste (1 Cor 9, 24, cfr. Ap 21, 16), non è stato tale per il conte: “vid’ io cascar li tre ad uno ad uno / tra ’l quinto dì e ’l sesto; ond’ io mi diedi, / già cieco, a brancolar sovra ciascuno, / e due dì li chiamai, poi che fur morti. / Poscia, più che ’l dolor, poté ’l digiuno”.
La Scrittura è “pelago”, il mare vitreo simile a cristallo che sta dinanzi alla sede divina (Ap 4, 6). La Scrittura resta dinanzi alla Chiesa in modo che gli eletti possano in essa vedere l’aspetto del proprio volto e conoscano quali essi siano, e anche possano comprendere le cose invisibili di Dio come in un chiaro specchio e per mezzo di esso. Guardare sé nella Scrittura per conoscere la propria immagine appartiene al conte Ugolino, dopo che ha sentito inchiodare l’uscio dell’orribile torre: «ond’ io guardai / nel viso a’ mie’ figliuoi sanza far motto … e Anselmuccio mio / disse: “Tu guardi sì, padre! che hai?” … e io scorsi / per quattro visi il mio aspetto stesso» (Inf. XXXIII, 47-48, 50-51, 56-57). Fra i vari significati attribuiti al “mare di vetro”, si addicono al conte l’amaro e infinito patire di Cristo e, per contrasto, la tolleranza del martirio, la contrizione penitenziale. Come egli non sa sopportare le tribolazioni, ed è impaziente e si dispera mordendosi le mani per il dolore, così il guardare nei figli – che sono quattro come i Vangeli – non gli rende la vista delle cose spirituali.
Un altro attributo della Scrittura è di essere assimilata al collirio. Il tema è introdotto ad Ap 3, 18, nel corso dell’istruzione data alla chiesa di Laodicea, la settima delle chiese d’Asia. Il collirio, che all’inizio punge gli occhi in modo amaro e provoca le lacrime e le fa uscire, rendendo però alla fine chiara la vista, designa l’amara compunzione dei propri peccati. Così la Scrittura è come il collirio, perché il precetto del Signore è lucente e illumina gli occhi. Ugolino guarda nel viso dei suoi figli che piangono, ma lui non piange né lacrima.
Nell’Eden, Beatrice rimprovera Dante invitandolo a guardarla: “Guardaci ben!” (Purg. XXX, 73). Il poeta guarda nel Lete, “chiaro fonte” le cui acque senza “mistura alcuna” sono limpide e nulla nascondono (Purg. XXVIII, 28-30), ma vedendo la sua immagine prova tanta vergogna da distogliere gli occhi verso l’erba (Purg. XXX, 76-78). Di fronte al rimprovero della donna, che gli pare superba come la madre al figlio “perché d’amaro / sente il sapor de la pietade acerba”, Dante resta “sanza lagrime e sospiri”, gelato attorno al cuore come la neve congelata e addensata dai venti di Schiavonia che soffiano fra i rami degli alberi sul giogo d’Appennino. Il dolce canto degli angeli, che temperano l’amaro delle parole di Beatrice, scioglie però quel gelo come neve al caldo vento del sud e lo trasforma in sospiri e lacrime che sgorgano con fatica dalla bocca e dagli occhi (ibid., 79-99).
All’inizio del periodo di purgazione, “le guance lagrimose” di Dante, annebbiate dal “sucidume” infernale, vengono lavate da Virgilio con la rugiada sul “molle limo” ai piedi della montagna, secondo l’indicazione di Catone (Purg. I, 94-99, 121-129).
Se Dante guarda in Beatrice e piange dinanzi a lei, la sua donna è discesa a visitare “l’uscio d’i morti”, dove ha rivolto lacrimando gli occhi lucenti a Virgilio per renderlo ancor più presto al muovere per la salute dell’amico (Inf. II, 115-117; Purg. XXVII, 136-137; XXX, 139-141). Piange, Beatrice, non solo perché donna e amante, come voleva Boccaccio [1]. La “gentilissima” designa la Sacra Scrittura, precetto di Dio che rende lucidi gli occhi, purga, chiarisce e illumina con umiltà l’alta tragedia.

[1] G. BOCCACCIO, Il Comento alla Divina Commedia e gli altri scritti intorno a Dante, a cura di D. Guerri, I, Bari 1918 (Scrittori d’Italia, G. Boccaccio, Opere volgari, XII), pp. 224-225: “E in questo lagrimare ancora più d’affezion si dimostra, dimostrandosi ancora un atto d’amante, e massimamente di donna, le quali, come hanno pregato d’alcuna cosa la quale disiderino, incontanente lagrimano, mostrando in quello il disiderio suo essere ardentissimo”.

Tab. 2.1

[LSA, cap. IX, Ap 9, 13 (IIIa visio, VIa tuba)] Dicit ergo: “Et audivi vocem unam ex quattuor cornibus altaris aurei, quod est ante oculos Dei”.
Secundum Ricardum, vox una est universalis doctrine concordia; quattuor autem cornua altaris aurei sunt omnes predicatores Christi, qui ipsum sublevant et deferunt predicando quattuor evangelia per quattuor partes mundi. Christus autem dicitur altare, quia super ipsum quasi super altare nostra sacrificia offeruntur, diciturque esse “ante oculos Dei” quia Pater complacuit sibi in Filio*.

Secundum autem Ioachim, quattuor cornua altaris sunt quattuor evangeliste, a quorum evangeliis unam communem vocem audivimus dicentem Christum fore traditum in manus peccatorum in fine quinte diei que precedit paraceven, die vero sexta crucifixum, mortuum et sepultum; que vox innuit nobis in spiritu quod filii tenebrarum erant solvendi tempore sexti angeli tuba canentis ad complendum illud verbum Christi: “Cum videritis Iherusalem circumdari ab exercitu, tunc scitote quia prope est exterminium eius” (Lc 21, 20)*.
Vel quattuor cornua altaris sunt quattuor virtutes Christi clamantes et exigentes filios tenebrarum solvi ad percutiendam Babilonem, que in fine quinti temporis tot contra Christum scelera perpetravit, ut dictum est in parte precedenti. Clamat enim hoc veritas Christi per Babilonem conculcata, quam decet et dignum est exaltari; et Christi iustitia exigens vindictam de illa, secundum quod demeruit punienda; et Christi misericordia in electos ab illa supra modum oppressos, quos oportet ab illius oppressionibus liberari; et Christi vita et gloria, quam decet et oportet universo orbi declarari et a toto orbe coli et participari, quod nequit fieri nisi prius expulsis fecibus et defedatoribus ab ecclesia Christi.

* In Ap III, vii (PL 196, col. 786 C).

* Expositio, pars III, f. 133vb.

Inf. XXXIII, 67-74, 79-89

Poscia che fummo al quarto dì venuti,
Gaddo mi si gittò disteso a’ piedi,
dicendo: “Padre mio, ché non m’aiuti?”.
Quivi morì; e come tu mi vedi,
vid’ io cascar li tre ad uno ad uno
tra ’l quinto e ’l sesto; ond’ io mi diedi,
già cieco, a brancolar sovra ciascuno,
e due dì li chiamai, poi che fur morti.

Ahi Pisa, vituperio de le genti
del bel paese là dove ’l sì suona,
poi che i vicini a te punir son lenti,
muovasi la Capraia e la Gorgona,
e faccian siepe ad Arno in su la foce,
sì ch’elli annieghi in te ogne persona !
Che se ’l conte Ugolino aveva voce
d’aver tradita te de le castella,
non dovei tu i figliuoi porre a tal croce.
Innocenti facea l’età novella,
novella Tebe, ………………………………..

[LSA, cap. VII, Ap 7, 11-12 (IIa visio, apertio VIi sigilli)] “Et omnes angeli stabant in circuitu troni […] et seniorum et quattuor animalium, et ceciderunt in conspectu troni in facies suas” (Ap 7, 11), scilicet se profunde humiliando Deo, “et adoraverunt Deum dicentes (Ap 7, 12): Amen”, id est vere sic sit et fiat sicut hec sancta turba decantat et orat. Dicunt enim “Amen” confirmando laudem sancte turbe et ei iocunde correspondendo et congratulando et Deum pariter conlaudando.

[LSA, cap. VI, Ap 6, 14 (IIa visio, apertio VIi sigilli)] Tunc etiam montes, id est regna ecclesie, et “insule”, id est monasteria et magne ecclesie in hoc mundo quasi in solo seu mari site, movebuntur “de locis suis”, id est subvertentur et eorum populi in mortem vel in captivitatem ducentur. […] Est enim tunc nova Babilon sic iudicanda sicut fuit carnalis Iherusalem, quia Christum non recepit, immo reprobavit et crucifixit.

muovasi la Capraia e la Gorgona,
e faccian siepe ad Arno in su la foce,
sì ch’elli annieghi in te ogne persona !

[LSA, cap. XVI, Ap 16, 20 (radix VIe visionis)] Deinde effectum huius iudicii insinuat quoad duas partes pene eterne. Quarum prima est pena dampni, scilicet privatio omnis boni iocundi, et hanc tangit cum subdit: “Et omnis insula fugit, et omnes montes non sunt inventi”. Sicut in terra nichil firmius et eminentius aut tutius quam montes, sic in mari nichil stabilius et humane quieti aptius quam insule, et ideo per consumptionem seu non inventibilem subversionem vel per translationem omnium montium et insularum, tam hic quam supra sub apertione sexti sigilli (cfr. Ap 6, 14), designatur consumptio vel subversio solidiorum et eminentiorum et immobiliorum statuum et urbium et ecclesiarum et regnorum totius carnalis ecclesie.

[LSA, cap. IV, Ap 4, 6 (radix IIe visionis)] “Et in conspectu sedis”, scilicet erat, “tamquam mare vitreum simile cristallo”. Per mare designatur Christi amara et quasi infinita passio et lavacrum baptismale et penitentialis contritio et martiriorum perpessio et pelagus sacre scripture. Quodlibet enim horum est puritate et claritate et pervia perspicuitate vitreum et soliditate cristallinum. Hec omnia etiam sunt ad utilitatem ecclesie ordinata et ad cultum et gloriam maiestatis Dei. Scriptura etiam ideo manet in conspectu ecclesie, ut in ea valeant electi species facierum suarum prospicere ad cognoscendum se quales sint, et etiam ut in ipsa tamquam in speculo et per speculum possint intelligere invisibilia Dei.

Inf. XXXIII, 43-58

Già eran desti, e l’ora s’appressava
che ’l cibo ne solëa essere addotto,
e per suo sogno ciascun dubitava;
e io senti’ chiavar l’uscio di sotto
a l’orribile torre; ond’ io guardai
nel viso a’ mie’ figliuoi
sanza far motto.
Io non piangëa, sì dentro impetrai:
piangevan elli; e Anselmuccio mio
disse: “Tu guardi sì, padre! che hai?”.
Perciò non lagrimai  né rispuos’ io
tutto quel giorno né la notte appresso,
infin che l’altro sol nel mondo uscìo.
Come un poco di raggio si fu messo
nel doloroso carcere, e io scorsi
per quattro visi il mio aspetto stesso
,
ambo le man per lo dolor mi morsi

Purg. XXX, 73-78, 91-93

Guardaci ben! Ben son, ben son Beatrice.
Come degnasti d’accedere al monte?
non sapei tu che qui è l’uom felice?”.
Li occhi mi cadder giù nel chiaro fonte;
ma veggendomi in esso, i trassi a l’erba,
tanta vergogna mi gravò la fronte.

così fui sanza lagrime e sospiri
anzi ’l cantar di quei che notan sempre
dietro a le note de li etterni giri

[Ap 9, 13] Secundum autem Ioachim, quattuor cornua altaris sunt quattuor evangeliste, a quorum evangeliis unam communem vocem audivimus dicentem Christum fore traditum in manus peccatorum in fine quinte diei que precedit paraceven, die vero sexta crucifixum […]

[LSA, cap. III, Ap 3, 18 (Ia visio, VIIa ecclesia)] Deinde monet [quartum] defectum expelli, subdens: “et collirio unge oculos tuos ut videas”. Collirium est unctio facta ad purgandum feces oculorum, et est in principio communiter oculorum pungitivum et amaricativum et lacrimarum provocativum et emissivum sed tandem visus clarificativum, et ideo per ipsum designatur amara compunctio de suis peccatis. Hec enim continue tenet aspectum et sensum cordis intime reflexum super se et super suos defectus, et ideo includit et auget primam illuminationem cordis, que est cognitio sui et suorum defectuum includens timoratam considerationem iudiciorum Dei ac sue reverende et tremende simul et piissime maiestatis. Hec autem directe contrariatur presumptioni premisse. Per collirium etiam designatur scriptura sacra: preceptum enim Domini est lucidum illuminans oculos.

Inf. II, 79-81, 115-117; Purg. XXVII, 136-137; XXX, 139-145

tanto m’aggrada il tuo comandamento,
che l’ubidir, se già fosse, m’è tardi;
più non t’è uo’ ch’aprirmi il tuo talento. ……
Poscia che m’ebbe ragionato questo,
li occhi lucenti lagrimando volse,
per che mi fece del venir più presto.

Mentre che vegnan lieti li occhi belli
che, lagrimando, a te venir mi fenno

Per questo visitai l’uscio d’i morti,
e a colui che l’ha qua sù condotto,
li preghi miei, piangendo, furon porti.
Alto fato di Dio sarebbe rotto,
se Letè si passasse e tal vivanda
fosse gustata sanza alcuno scotto
di pentimento che lagrime spanda.

Purg. I, 94-99, 121-129

Va dunque, e fa che tu costui ricinghe
d’un giunco schietto e che li lavi ’l viso,
sì ch’ogne sucidume quindi stinghe;
ché non si converria, l’occhio sorpriso
d’alcuna nebbia
, andar dinanzi al primo
ministro, ch’è di quei di paradiso.

Quando noi fummo là ’ve la rugiada
pugna col sole, per essere in parte
dove, ad orezza, poco si dirada,
ambo le mani in su l’erbetta sparte
soavemente ’l mio maestro pose:
ond’ io, che fui accorto di sua arte,
porsi ver’ lui le guance lagrimose ;
ivi mi fece tutto discoverto
quel color che l’inferno mi nascose.

 

 

3. I limiti invalicabili dell’Impero romano (Ap 9, 14)

 

La voce proveniente dai quattro lati dell’altare d’oro (Ap 9, 13) dice al sesto angelo tubicinante di sciogliere i quattro angeli legati nel grande fiume Eufrate (Ap 9, 14). Riccardo di San Vittore interpreta questo fiume come il battesimo, il cui merito non ha permesso all’esercito delle genti infedeli di distruggere la cristianità. Secondo Gioacchino da Fiore, il grande fiume è invece l’Impero romano, per la cui possente resistenza non fu permesso alle genti di passare i confini posti da Dio. Quando il sesto angelo verserà la sua coppa sul fiume Eufrate (Ap 16, 12), le acque si prosciugheranno, ossia verrà meno la difesa della milizia cristiana e latina e si aprirà la via alla distruzione di Babilonia.
La funzione di ritenere i nemici della cristianità, che Gioacchino da Fiore assegna all’Impero romano, è nei versi assegnata da Ulisse a Ercole: “Io e ’ compagni eravam vecchi e tardi / quando venimmo a quella foce stretta / dov’ Ercule segnò li suoi riguardi / acciò che l’uom più oltre non si metta” (Inf. XXVI, 106-109). L’esegesi di Ap 9, 14 va collazionata con quella di Ap 20, 3 (settima visione), dove l’angelo che possiede la chiave dell’abisso ha il potere di chiudere in esso il diavolo, e anzi di “segnare” la chiusura con un sigillo inviolabile. Agostino (De civitate Dei, XX, 7) vede in questa chiusura la volontà di Dio di non rendere noti coloro che il diavolo non potrà sedurre e gli altri nei quali gli sarà invece concesso di mettersi. Olivi aggiunge che la legge di Cristo e l’esemplare vita sua e dei suoi seguaci legano il diavolo affinché non seduca costoro e sono il limite non oltrepassabile. Anche la santità della grazia dei sacramenti di Cristo è come un segno che incute timore e impedisce che il diavolo acceda a coloro che da essi sono segnati. Il passo tratto da Ap 20, 3 ha nella Lectura come contesto il rapporto tra l’essere il diavolo legato per mille anni e il suo potere di tentare, sciolto, i predestinati, una questione che Olivi risolve con ampie citazioni dal De civitate Dei (a questa esegesi rinviano alcune parole-chiave in Purg. I, 46, 77, 89: “le  leggi d’abisso … men non lega … per quella legge).
Ercole, in quanto rappresentante dell’Impero romano ancora prima della sua formazione storica, assume un valore provvidenziale. Ulisse non poteva varcare i limiti da lui posti per “la divina elezione del romano imperio”, per cui “Enea venne di Troia in Italia, che fu origine de la cittade romana, sì come testimoniano le scritture”, e Roma nacque nel medesimo tempo in cui nacque David, dalla cui progenie (dalla radice di Iesse) sarebbe discesa Maria, “la baldezza e l’onore dell’umana generazione”, come scritto in Convivio IV, v, 5-6. Un’elezione divina avvenuta nell’Empireo (Inf. II, 20-21), in “quella Roma onde Cristo è romano” (Purg. XXXII, 102), contro la quale nulla può l’ardore di Ulisse. Il fattore che trattiene le genti infedeli, nell’esegesi scritturale, è ad Ap 9, 14 l’Impero romano e ad Ap 20, 3 la “Christi lex et eius et suorum sanctorum exemplaris vita … quia sanctitas gratie sacramentorum Christi est signum terrens et prohibens diabolum ab hiis qui sunt gratia Christi et eius sacramentis signati”. L’Aquila è “sacrosanto segno” (Par. VI, 32), per essa si manifestano i segni di Dio nella storia umana, che attuano in terra la sua volontà, una con quella del cielo e con quella di Roma stessa: “divina voluntas per signa querenda est” (Monarchia II, ii, 8).
“Acciò che l’uom più oltre non si metta”. Ulisse avrebbe dovuto considerare di seguire virtù e conoscenza in senso relativo, per quanto possibile in questa vita, e invece le desiderò assolutamente. L’esperienza dei costumi umani, dei vizi e delle virtù, della quale Orazio rende modello il greco, avrebbe dovuto essergli sufficiente, mantenendolo nel campo dell’Etica, cioè dell’intelligenza morale propria dell’uomo razionale, esaltato nel terzo stato. Campo riservato agli Antichi dalla prescienza divina, che in esso ebbero la propria parte di libro aperto e “però moralità lasciaro al mondo” (Purg. XVIII, 67-69). Ulisse volle invece sperimentare con i sensi il “mondo sanza gente”, andando oltre l’Etica verso la montagna dell’anagogia (il ‘sovrasenso’). La terra proibita alla ragione umana non era solo una terra senza abitanti, l’ “extra notum nobis orbem” di cui scrive Seneca (Epist. LXXXVIII, 6); era figura della terra che sarebbe stata data alle Genti, luogo della loro conversione a Cristo, che si sarebbe compiuta solo nel sesto stato della Chiesa. L’ultimo viaggio dell’eroe greco fu un andare sensibilmente al sesto stato, verso un lido allora noto unicamente a Dio, andata che solo un uomo evangelico avrebbe potuto compiere, nel novum saeculum segnato dal secondo avvento di Cristo nello Spirito. Su quel “lito diserto”, all’arrivo di Dante, sta Catone. Custode della legge, garante della libera volontà, di un tesoro che con il suicidio fece vittima come in un voto di alto valore, il “santo petto” di Catone sta ai piedi della montagna che designa il tempo, non ancora concluso, della “plenitudo gentium” paolina.
Prima che Ercole ponesse le sue mete alla ragione umana, un segno invalicabile era già stato posto da Dio stesso ad Adamo, come ammesso dal progenitore, il quale spiega a Dante che non il gustare il frutto proibito causò la cacciata dall’Eden, “ma solamente il trapassar del segno”, non cioè il peccato di gola, ma quello di superbia (Par. XXVI, 115-117). L’andare oltre il segno, nel caso di Ulisse, è proposto in modo assai più chiuso che nel caso di Adamo, ma qualcosa li unisce, nel comune presumere di sapere. Non è casuale, come mai nulla è nel poema sacro, se l’incontro con entrambi corrisponda nel medesimo numero di canto e che, nel canto successivo a quello relativo ad Adamo, il ricordo di Ulisse si ripresenti allorché, prima di ascendere al Primo Mobile, Dante ne vede dall’alto “il varco folle” (Par. XXVII, 82-83). Adamo condannò sé e tutta la sua prole “per non soffrire a la virtù che vole / freno a suo prode” (Par. VII, 25-27; un’assenza di freno che per Eva fu assenza di “velo”, Purg. XXIX, 25-27; si noti, ancora, la simmetria numerica dei versi); Ulisse si perdette per sé, per non aver frenato il suo ingegno.
Il passo della sesta tromba (Ap 9, 14), con il tema del trattenere, trova vari riscontri. Nella rosa dell’Empireo, san Bernardo spiega che, dopo la Redenzione, coloro che muoiono senza battesimo sono ‘ritenuti’ (il ritenere traduce l’ “alligare”) nel Limbo (Par. XXXII, 82-84). Stazio racconta di aver ricevuto il battesimo prima di scrivere l’episodio in cui i Greci giungono ai fiumi di Tebe (Purg. XXII, 88-89). A prima vista non sembrerebbe esserci alcuna relazione con l’esegesi (salvo il riferimento congiunto al fiume e al battesimo; da notare che Tebe è figura classica della Babilonia ebraica e della Babylon moderna: cfr. Inf. XXXIII, 89), se più avanti i tre poeti, sulla soglia del sesto girone della montagna, non trovassero la strada sbarrata da un albero i cui rami digradano all’ingiù, “perché persona sù non vada”, limite stabilito da Dio per punire i golosi (Purg. XXII, 130-135). Tra i golosi rinsecchiti nella pelle (come le acque dell’Eufrate al versamento della sesta coppa), Bonagiunta da Lucca, una volta che Dante gli ha esposto il proprio manifesto poetico, dichiara di essere finalmente in grado di vedere “il nodo / che ’l Notaro e Guittone e me ritenne / di qua dal dolce stil novo ch’i’ odo”, impedendo di varcare il limite superato invece dalle “nove rime” (Purg. XXIV, 55-57). Superare il confine appartiene al sesto stato, al periodo della vita cristiforme, del rendersi simili a Cristo, del seguirlo fedelmente, che non è poi altro, nelle parole di Bonagiunta, se non l’andare dietro stretti al “dittator” che spira dentro. Che l’incontro con Bonagiunta sia il culmine del sesto stato lo si ricava dall’essere tutto l’episodio dell’incontro con Stazio e l’intero girone dei golosi tessuti con i motivi dello stato più caro ad Olivi, che iniziano dove finiscono quelli del quinto, appropriati al precedente girone degli avari e prodighi, che si conclude con un terremoto, trasposizione di quello con cui si apre il sesto sigillo.
Il passaggio dalla quinta alla sesta bolgia è vietato ai Malebranche che vorrebbero prendere Dante e Virgilio, perché posti dall’alta provvidenza come “ministri de la fossa quinta” (Inf. XXIII, 55-57). In questo caso il limite di cui si dice ad Ap 9, 14 coincide con quello trattato ad Ap 20, 3, dove si proibisce al diavolo di tentare i predestinati.
Il messo celeste che apre la porta della Città di Dite – altro sesto momento – discende come vento impetuoso “che fier la selva e sanz’ alcun rattento / li rami schianta, abbatte e porta fori” (Inf. IX, 67-70), attraversa “con le piante asciutte” lo Stige dalle acque prosciugate come quelle dell’Eufrate per far via agli eserciti che distruggeranno la nuova Babilonia (ibid., 80-81), apre infine con una verghetta la porta “che non v’ebbe alcun ritegno” (ibid., 89-90; cfr. la pioggia che nulla ritiene nel suo rovinare dai fossati verso l’Arno a Purg. V, 121-123).
Con la sua “orazion picciola”, Ulisse rese i suoi compagni “sì aguti / … al cammino, / che a pena poscia li avrei ritenuti” (Inf. XXVI, 121-123), anticipando un momento che sarebbe dovuto avvenire dopo la Redenzione, nel sesto stato della Chiesa di Cristo, al suono della sesta tromba e al versamento della sesta coppa.
Olivi vede nel grande fiume Eufrate, che funge da meta non valicabile, il potere papale, cui obbediscono le plebi numerose, che impedisce il passaggio e l’assalto degli avversari dello stato evangelico. Lo scioglimento dei quattro angeli legati nel fiume significa pertanto che viene a cessare il favore del papa verso lo stato evangelico, impersonato dall’Ordine francescano. Questa interpretazione passa nel cielo di Venere, dove Folchetto da Marsiglia presenta la luce più fulgida, quella di Raab, la meretrice di Gerico la quale, ricevendo nella sua casa gli esploratori inviati da Giosuè, favorì la vittoria di questi in Terra Santa, nei luoghi che oggi non sono nel cuore del papa (Par. IX, 124-126). Il termine “favor”, che nel testo teologico è collegato alla persona del papa, nella terzina viene appropriato a Raab, restando sempre il riferimento polemico alla scarsa memoria (e dunque allo scarso favore) del pontefice verso i casi di Terra Santa. Il vescovo di Tolosa, sviluppando il tema della cessazione del favore papale verso lo stato evangelico, procede quindi a deplorare che, per brama di ricchezza (del fiorino, “il maladetto fiore” prodotto e sparso da Firenze, “pianta” di Lucifero), il pastore si sia trasformato in lupo e il Vangelo e i padri della Chiesa siano abbandonati a solo vantaggio dello studio delle Decretali, alle quali attendono il papa e i cardinali: “non vanno i lor pensieri a Nazarette, / là dove Gabrïello aperse l’ali” (ibid., 127-138).

Tab. 3.1

Inf. XXVI, 106-109, 121-123

Io e ’ compagni eravam vecchi e tardi
quando venimmo a quella foce stretta
dov’ Ercule  segnò li suoi riguardi
acciò che l’uom più oltre non si metta

Li miei compagni fec’ io sì aguti,
con questa orazion picciola, al cammino,
che a pena poscia li avrei ritenuti

Par. XXVI, 115-117

Or, figliuol mio, non il gustar del legno
fu per sé la cagion di tanto essilio,
ma solamente il trapassar del segno.

Purg. I, 46-48, 76-77, 88-90

Son le leggi d’abisso così rotte?
o è mutato in ciel novo consiglio,
che, dannati, venite a le mie grotte?

Non son li editti etterni per noi guasti,
ché questi vive e Minòs me non lega

Or che di là dal mal fiume dimora,
più muover non mi può, per quella legge
che fatta fu quando me n’usci’ fora.

[LSA, cap. IX, Ap 9, 14 (IIIa visio, VIa tuba)] Sequitur (Ap 9, 14): “qui alligati sunt in flumine magno Eufrate” id est, secundum Ricardum, per baptismum christianitatis*, propter cuius meritum non sunt usque huc permissi christianitatem destruere.
Vel, secundum Ioachim, “in flumine magno”, id est in romano imperio, quo resistente potenter non fuere permissi transire metas quas posuit ibi Deus. Cum autem sextus angelus effuderit phialam suam super flumen magnum Eufra[ten] ad siccandas aquas eius, id est multitudines militie equitum et peditum populi christiani et latini que tenent alligatas gentes infideles, tunc preparabitur via ut veniant ad percutiendum Babilonem “que”, sicut infra dicitur, “sedet super aquas multas” (Ap 17, 1), que aque multe sunt populi multi, prout ibi dicit Iohannes (Ap 17, 15)*. Congrue autem designantur per Eufraten, quia ille erat fluvius Babilonis prime, ex quo magnum robur et decorem et potum et irrigationem habebat**.
Item prout hec possunt referri ad tertium initium sexti status, designatur per hec aut discessio fere omnium ab obedientia summi pontificis, de qua dicit Apostolus IIa ad Thessalonicenses II°: “nisi venerit discessio primum” et cetera (2 Th 2, 3), aut cessatio favoris eius ad statum evangelicum per quem eius emuli sunt usque nunc impediti in ipsum irruere iuxta votum. Potestas enim pape et multitudo plebium sibi obediens et favor ipsius est quasi magnus fluvius Eufrates impediens transitum et insultum emulorum evangelici status in ipsum. Designatur etiam per Eufraten multitudo sapientium virorum et sapientie theologice et humane resistentis erroribus hereticorum et Sarracenorum et consimilium, cuius desiccatio, partim per ruditatem ignorantie partim per ardorem erronearum opinionum faventium erroribus predictorum, est solutio ligamenti istorum quattuor angelorum.

* In Ap III, vii (PL 196, col. 787 A).

* Expositio, pars III, f. 134va.

** Cfr. ibid., pars V, f. 190va (Ap 16, 12).

[LSA, cap. XX, Ap 20, 1.3 (VIIa visio)] Per “clavem” autem “abissi”, quam habet angelus (Ap 20, 1), designatur potestas claudendi diabolum in abisso. Non solum autem dicit quod “clausit eum” ibi, sed etiam quod “signavit” (Ap 20, 3), id est sigillum clausure posuit super illum, tum ad designandum inviolabilem firmitatem huius clausure, tum, secundum Augustinum, ad designandum quod Deus vult in hac clausura esse occultum quos potest finaliter seducere et quos non* (ab illis enim in quos finaliter non potest est per hanc clausuram impeditus et in reliquos permissive missus), tum quia Christi lex et eius et suorum sanctorum exemplaris vita ligat diabolum ne seducat sectatores Christi et sanctorum, et ipsa lex et vita sunt signum eis et limes, ultra quam non debent progredi nec citra illum aperire diabolo hostium seu dare ei aditum; tum quia sanctitas gratie sacramentorum Christi est signum terrens et prohibens diabolum ab hiis qui sunt gratia Christi et eius sacramentis signati.

* De civitate Dei, XX, vii, 91-96 (CCSL, XLVIII, p. 711; PL 41, coll.  668-669).

Par. IX, 124-126, 133-138

perch’ ella favorò la prima gloria
di Iosüè in su la Terra Santa,
che poco tocca al papa la memoria.

Per questo l’Evangelio e i dottor magni
son derelitti, e solo ai Decretali
si studia, sì che pare a’ lor vivagni.
A questo intende il papa e ’ cardinali;
non vanno i lor pensieri a Nazarette,
là dove Gabrïello aperse l’ali.

Inf. IX, 67-70, 79-81, 89-90

non altrimenti fatto che d’un vento
impetüoso per li avversi ardori,
che fier la selva e sanz’ alcun rattento
li rami schianta, abbatte e porta fori

vid’ io più di mille anime distrutte
fuggir così dinanzi ad un ch’al passo
passava Stige con le piante asciutte.

Venne a la porta e con una verghetta
l’aperse, che non v’ebbe alcun ritegno.

Inf. XXIII, 55-57

ché l’alta provedenza che lor volle
porre ministri de la fossa quinta,
poder di partirs’ indi a tutti tolle.

Purg. XXIII, 25-27; XXIV, 55-57

Non credo che così a buccia strema
Erisittone fosse fatto secco,
per digiunar, quando più n’ebbe tema.

“O frate, issa vegg’ io”, diss’ elli, “il nodo
che ’l Notaro e Guittone e me ritenne
di qua dal dolce stil novo ch’i’ odo!”

Purg. V, 121-123

e come ai rivi grandi si convenne,
ver’ lo fiume real  tanto veloce
si ruinò, che nulla la ritenne 

Purg. XXII, 46-51, 88-89, 130-135

Quanti risurgeran coi crini scemi
per ignoranza, che di questa pecca
toglie ’l penter vivendo e ne li stremi!
E sappie che la colpa che rimbecca
per dritta opposizione alcun peccato,
con esso insieme qui suo verde secca

E pria ch’io conducessi i Greci a’ fiumi
di Tebe poetando, ebb’ io battesmo

Ma tosto ruppe le dolci ragioni
un alber che trovammo in mezza strada,
con pomi a odorar soavi e buoni;
e come abete in alto si digrada
di ramo in ramo, così quello in giuso,
cred’ ïo, perché persona sù non vada.

Par. XXXII, 82-84

ma poi che ’l tempo de la grazia venne,
sanza battesmo perfetto di Cristo
tale innocenza là giù si ritenne.

 

 

4. Odiare la carità fraterna (Ap 16, 10-11)

 

Bello in principio, dotato di tutti i doni dello Spirito, pacifico, di lunga durata (cinquecento anni a partire da Carlo Magno o da suo padre Pipino), limitato alla sede romana a causa delle devastazioni operate in Oriente dai Saraceni, il quinto stato degenera poi in rilassatezza: alla fine la Chiesa appare corrotta quasi fosse una nuova Babilonia (cfr. prologo, Notabile VII: “circa finem quinti temporis a planta pedis usque ad verticem est fere tota ecclesia infecta et confusa et quasi nova Babilon effecta”). La chiesa, delle sette d’Asia, che per eccellenza possiede tutte le perfezioni stellari è la quinta, quella di Sardi, assimilata alla sede romana (Ap 3, 1). Va tuttavia precisato che Roma in quanto meretrice si identifica con la moltitudine dei reprobi, i quali con le loro inique opere impugnano e blasfemano la Chiesa dei giusti peregrina sulla terra. Questa meretrice non deve pertanto essere cercata in un solo luogo ma, come per tutta l’area dell’impero romano è diffuso il grano degli eletti, così per la sua intera latitudine è dispersa la paglia dei reprobi. È l’interpretazione morale e spirituale dei “patres catholici”, che fa salve le prerogative carismatiche della sede romana, data da Gioacchino da Fiore citato da Olivi ad Ap 17, 1.
Il quinto angelo, cioè l’ordine dei santi che zelano nel quinto stato, “versò la sua coppa sulla sede della bestia e il regno di questa si fece tenebroso” (Ap 16, 10; quinta visione). La sede della bestia, cioè della moltitudine bestiale, prevale in numero e potere e quasi assorbe la Chiesa di Cristo con la quale si trova mischiata “localiter et nominaliter”, tanto da essere chiamata Chiesa dei fedeli come quella che è veramente per grazia la sede e la Chiesa di Cristo. Su tale sede dagli enormi e abominevoli vizi gli zelanti del quinto tempo non cessano di versare la coppa del rimprovero, in modo che il suo regno appaia a tutti con evidenza, si voglia o meno, “tenebroso”, cioè dissipato e reso abominevole da sozza ed enorme lussuria, avarizia, simonia, superbia, commercio doloso, astuzia e da quasi ogni malizia, per cui di seguito viene chiamata Babilonia, la meretrice che tiene in mano la coppa aurea piena di abominio (Ap 17, 4).

LSA, cap. XVI, Ap 16, 10 (Va visio, Va phiala) “Et quintus angelus” (Ap 16, 10), id est ordo sanctorum zelatorum quinti temporis, “effudit phialam suam super sedem bestie, et factum est regnum eius tenebrosum”. Nota quod sicut post quattuor animalia, quattuor primos status sanctorum designantia, sublimata est generalis sedes romane ecclesie, ceteris patriarchalibus seu ecclesiis orientalibus a Christo et ab eius vera fide reiectis, sic in eodem quinto tempore, post quattuor bestias a Daniele visas et quattuor primis ordinibus sanctorum contrarias (cfr. Dn 7, 2-8), sublimata est ‘sedes bestie’, id est bestialis caterve, ita ut numero et potestate prevaleat et fere absorbeat sedem Christi, cui localiter et nominaliter est commixta, unde et sic appellatur ecclesia fidelium sicut et illa que vere est per gratiam sedes et ecclesia Christi. Super huiusmodi vero malitiam non cessant zelatores sancti huius quinti temporis effundere phialam detestationis et celebris increpationis, ita quod “regnum” eius velit nolit evidenter apparet omnibus et etiam ipsismet “tenebrosum”, id est feda et enormi luxuria et avaritia et symonia et superbia et dolosa negotiatione et astutia et fere omni malitia dissipatum et abhominandum, unde et infra vocatur Babilon meretrix “habens in manu sua poculum aureum plenum abhominatione” (Ap 17, 1.4-5).

In particolare, la sede della bestia designa il clero carnale, che nel quinto tempo regna e presiede su tutta la Chiesa e in cui la vita bestiale regna e siede in modo trascendente e singolare come nella sua principale sede ed assai più che nelle plebi laiche ad esso soggette. Secondo Gioacchino da Fiore – che nell’esegesi oliviana della quinta coppa registra due citazioni contro una sola di Riccardo di san Vittore -, costoro ambiscono a regnare al di sopra dei loro confratelli come il diavolo regna al di sopra dei figli della superbia e, poiché all’abito sembrano essere dello stesso livello di coloro che su di essi effondono le coppe dell’ira divina, tanto più sdegnano di essere rimproverati dai propri uguali o dagli inferiori. Il loro regno si fa tenebroso perché l’ambizione acceca i loro occhi, in quanto l’odio che nutrono nei confronti di quanti li rimproverano sottrae ad essi del tutto il lume della vista.
Poiché, impediti dagli spirituali, non possono ottenere quello che vogliono, per il dolore nel cuore e per impazienza prorompono in detrazione di quanti li rimproverano. Per questo segue: “e si mangiarono le proprie lingue per il dolore”. Per “lingue”, secondo Gioacchino da Fiore, si intendono coloro che posseggono il fuoco dello zelo divino e l’ardore di parlare contro le ingiurie fatte a Dio, e tali lingue vengono morse dalle detrazioni fatte senza timore dai rimproverati. Secondo Riccardo di San Vittore, mordersi la lingua significa interrompere il discorso per livore d’invidia e per detrazione, oppure distruggere e corrodere dentro di sé ogni quieto sapore di gioia. “E bestemmiarono il Dio del cielo a causa dei dolori e delle piaghe” (Ap 16, 11), cioè per il livore dell’invidia e per le piaghe inflitte per la confusione recata dai rimproveri dei santi. Bestemmiano Dio in quanto odiano e maledicono la grazia e la verità divina e il divino zelo dei santi. “E non si pentirono delle loro azioni”, cioè si ostinano nel loro operare malvagio invece di fare penitenza.
Come sempre nella metamorfosi dantesca, gli elementi che nella teologia della storia dell’Olivi sono concentrati sulla Chiesa vengono nel poema rifratti sull’intero creato e in particolare sul mondo umano, che si agita sull’ “aiuola che ci fa tanto feroci”.
L’espressione “quia quoad speciem habitus videntur esse unius ordinis cum eis” (riferita ai chierici che all’abito sembrano essere dello stesso livello di coloro che su di essi effondono le coppe dell’ira divina) viene traslata, in tutt’altro contesto (per quanto tessuto principalmente con i temi del quinto stato) nel richiamo dei tre fiorentini sodomiti: “Sòstati tu ch’a l’abito ne sembri / essere alcun di nostra terra prava” (Inf. XVI, 8-9; cfr. “abitüati” a Purg. XXIX, 146).
La trattazione della quinta coppa è suscettibile di alcune collazioni, con passi anch’essi riferiti al quinto stato. Il “rodere” è proprio dei denti delle locuste che escono dal pozzo dell’abisso al suono della quinta tromba, considerati ad Ap 9, 8 (quinta proprietà), e si tratta del corrodere crudelmente la vita e la fama degli altri. Dell’odio, vizio predominante nella vita bestiale del quinto tempo, si tratta anche nell’esegesi del capitolo XV, il quale fa da introduzione alla quinta visione, che è quella delle coppe (ad Ap 15, 1). Una citazione di Gioacchino da Fiore afferma che dopo le prime quattro virtù, corrispondenti ai quattro animali che stanno intorno alla sede divina (Ap 4, 6-8) – fede, pazienza, umiltà e speranza -, succede lo zelo igneo della carità proprio dello Spirito Santo e della sua sede sostenuta dai quattro animali. Così nei reprobi, ai quattro vizi contrari – infedeltà, impazienza, superbia, disperazione – subentra l’odio della fraterna carità, che è peccato contro lo Spirito Santo.
Questi temi – l’odio, corrodere la fama altrui, mangiare coi denti, vivere bestiale, il dolore del cuore, l’impazienza, la disperazione, l’accecamento – sono altrettanti fili del panno di cui è vestito il conte Ugolino. Coi denti rode il misero teschio dell’arcivescovo Ruggieri, come Tideo “si rose / le tempie a Menalippo per disdegno”, ed è un roderne la fama: “Ma se le mie parole esser dien seme / che frutti infamia al traditor ch’i’ rodo” (Inf. XXXII, 127-132; XXXIII, 7-8). Per “sì bestial segno” mostra odio su colui che si mangia, ma ha anche il cuore oppresso da disperato dolore (Inf. XXXII, 133-134; XXXIII, 4-6). Mostra impazienza di fronte all’impassibilità senza pianto del poeta, che considera crudele (XXXIII, 40-42). Non solo si mangia il suo nemico, “come ’l pan per fame si manduca”, ma si morde per il dolore ambo le mani tanto che i figli pensano che lo faccia “per voglia di manicar”, lì dove le mani sostituiscono nella poesia il mordersi la lingua della prosa scritturale (Inf. XXXII, 127; XXXIII, 58-60). Brancola cieco sopra i figli morti (Inf. XXXIII, 72-73). Dopo il racconto, “con li occhi torti / riprese ’l teschio misero co’ denti” in modo ancor più ostinato di prima (vv. 76-77), variazione sul «“Et non egerunt penitentiam ex operibus suis”, scilicet malis, immo, supple, amplius obstinati sunt in illis peragendis» da Ap 16, 11. I denti, “che furo a l’osso, come d’un can, forti” (v. 78): nell’esegesi di Ap 22, 15 i cani sono i detrattori della vita altrui, come i malvagi su cui viene versata la quinta coppa. Si può notare che forse anche l’espressione “ma se le mie parole esser dien seme” (v. 7) suggerisce una caratteristica delle locuste, che “disseminant verba sua” (è la “vox alarum” trattata ad Ap 9, 9). Il sembrare Dante fiorentino all’ascolto della lingua pare rinviare allo stesso inciso da cui proviene il richiamo dei tre fiorentini sodomiti (vv. 11-12).
All’impazienza del conte ben si addice quella provocata dal versamento della quinta coppa:

Potest etiam effusio huius phiale exponi de pluribus corporalibus bellis et exterminiis temporalis regni ecclesie in hoc quinto tempore factis, ex quo multi per impatientiam se corroserunt et Deum blasphemaverunt.

In Purg. VI, 82-84 a rodersi l’un l’altro sono i cittadini della “serva Italia”, chiusi da uno stesso muro e da uno stesso fossato, e invece sempre divisi da fazioni che si combattono. Il muro e il fossato sono motivi della Gerusalemme celeste, della “civitas” interpretata come “civium unitas” (Ap 21, 2 .12.18). I temi sono trattati nella settima visione.
Dello stesso tenore sono le parole di Brunetto Latini: “Faccian le bestie fiesolane strame / di lor medesme” (Inf. XV, 73-74), in un contesto (si tratta di una zona nella quale prevalgono i temi del quinto stato) dove l’aver fame del poeta da parte delle fazioni fiorentine si presta ad una variazione del versetto “et commanducaverunt linguas suas pre dolore”, cioè si rodano tra loro e non tocchino Dante, “sementa santa”.
Mordersi la lingua per livore d’invidia e per detrazione si addice ai Malebranche, i dieci demoni che, prima di andare in compagnia di Virgilio e Dante a sorvegliare i barattieri immersi nella pece, “avea ciascun la lingua stretta / coi denti, verso lor duca, per cenno”, cui Barbariccia risponde “con sì diversa cennamella” (Inf. XXI, 136-139; XXII, 10).

All’inizio del capitolo XIII (quarta visione), la bestia che sale dal mare ha sette teste e dieci corna (Ap 13, 1). Su questo luogo Gioacchino da Fiore (richiamato da Olivi anche ad Ap 12, 3) afferma che le teste di questa bestia differiscono dalle teste del drago come le chiese metropolitane, che sono capo alle altre, si distinguono dai propri vescovi, i quali sono comunque anch’essi capi e quasi teste di Cristo di cui fanno le veci, e con ciò intende che quei popoli che furono i principali nel perseguitare Cristo e la Chiesa sono, come capi degli altri, propriamente teste della bestia e della massa bestiale. Il riferimento ai “capita capitum”, cioè a delle teste che stanno sopra altre teste loro sottoposte, e queste teste bestiali che sovrastano le altre sono gli arcivescovi preposti alle chiese metropolitane, è impersonato nei versi dalla posizione sovrapposta del conte Ugolino nel rodere coi denti l’arcivescovo Ruggieri, “sì che l’un capo a l’altro era cappello” (Inf. XXXII, 126), posizione rovesciata rispetto all’esegesi poiché è l’arcivescovo a star sotto, ma che mostra ugualmente, “per sì bestial segno”, due bestie una delle quali soggiace e l’altra soggioga.

Tab. 4.1

Inf. XV, 73-74

Faccian le bestie fiesolane strame
di lor medesme
………………………

Inf. XVI, 7-9

Venian ver’ noi, e ciascuna gridava:
“Sòstati tu ch’a l’abito ne sembri
essere
alcun di nostra terra prava”.

Inf. XXI, 137-139

ma prima avea ciascun la lingua stretta
coi
denti, verso lor duca, per cenno;
ed elli avea del cul fatto trombetta.

Inf. XXXIII, 10-12

Io non so chi tu se’ né per che modo
venuto se’ qua giù; ma fiorentino
mi sembri  veramente quand’ io t’odo.

Purg. XXIX, 145-147

E questi sette col primaio stuolo
erano abitüati, ma di gigli
dintorno al capo non facëan brolo

Purg. VI, 82-84

e ora in te non stanno sanza guerra
li vivi tuoi, e l’un l’altro si rode
di quei ch’un muro e una fossa serra.

[LSA, cap. XVI, Ap 16, 10-11 (Va visio, Va phiala)] Per hanc autem “sedem bestie” principaliter designatur carnalis clerus in hoc quinto tempore regnans et toti ecclesie presidens, in quo quidem bestialis vita transcendenter et singulariter regnat et sedet sicut in sua principali sede et longe plusquam in laicis plebibus sibi subiectis.
Et quia, secundum Ioachim, tales supra modum ambiunt regnare super fratres suos instar diaboli, qui est rex super omnes filios superbie, et quia quoad speciem habitus videntur esse unius ordinis cum eis, qui super eos effundunt phialas ire Dei, ideo magis indigne ferunt quod quasi a coequalibus vel etiam inferioribus increpantur. Et ideo, secundum eundem, efficitur regnum eius tenebrosum, tum quia ambitio cecat oculos eorum, tum quia odium, quod concipiunt contra eos qui se increpant, aufert omnino lumen ab oculis eorum. Quia etiam tales, quando a viris spiritualibus impediti non possunt obtinere quod cupiunt, pre dolore cordis in detractionem eorum, qui se increpant, protinus erumpunt, ideo sequitur: “Et commanducaverunt linguas suas pre dolore”. Lingue, secundum Ioachim, dicuntur hii qui habent ignem zeli Dei et ardorem loquendi contra iniurias Dei, quas increpati ab eis commanducant cum non metuunt detrahere ipsis*.
Vel, secundum Ricardum, linguas suas pre dolore comedunt quia proprium sermonem per invidiam et detractionem corrumpunt*.
Vel linguam propriam comedunt, quia intra se pre livore invidie tabescunt et se ipsos ac sui gaudii quietum saporem omnino destruunt et corrodunt.
“Et blasphemaverunt Deum celi pre doloribus et vulneribus suis” (Ap 16, 11), id est pre livoribus invidie et vulneribus confessionis per confusivas increpationes sanctorum inflictis. Deum autem blasphemant, cum divinam gratiam et veritatem et divinum zelum sanctorum odiunt et maledicunt.
“Et non egerunt penitentiam ex operibus suis” scilicet malis, immo, supple, amplius obstinati sunt in illis peragendis. Potest etiam effusio huius phiale exponi de pluribus corporalibus bellis et exterminiis temporalis regni ecclesie in hoc quinto tempore factis, ex quo multi per impatientiam se corroserunt et Deum blasphemaverunt.

[LSA, cap. IX, Ap 9, 8 (IIIa visio, Va tuba)] Pro quinta (proprietate locustarum) dicit: “Et dentes e[a]rum sicut dentes leonum erant”, tum per crudelitatem detractionum vitam et famam alienam corrodentium et precipue suorum emulorum, tum propter impiam rapacitatem temporalium.

[LSA, cap. IX, Ap 9, 9 (IIIa visio, Va tuba)] Per alas autem locustarum designantur hii qui apud eos vocantur perfecti, qui quando veniunt ad conflictum sicut stridentes et rugientes disseminant verba sua, ut videantur superare verbis quos non possunt vincere ratione.

* Expositio, pars V, ff. 189vb-190ra.

* In Ap V, vii (PL 196, col. 827 C).

[LSA, cap. XV, Ap 15, 1 (radix Ve visionis)] Ioachim autem dicit quod post quattuor dona quattuor animalibus, id est quattuor ordinibus, propria, que sunt fides, patientia, humilitas et spes, succedit zelus igneus caritatis Spiritui Sancto et eius sedi a quattuor animalibus sustentate appropriatus. Et e contra in reprobis post quattuor vitia, quattuor predictis virtutibus contraria, sequitur odium fraterne caritatis, quod est peccatum in Spirit[um] Sanct[um] contra quod zelus Spiritus Sancti effundit plagas novissimas*. Mali enim sue infidelitati addunt impatientiam, impatientie superbiam, superbie despe-rationem, desperationi odium. Sustinet autem Dominus peccatores usque ad tertium, in quarto autem terribiliter comminatur, in quinto vero non remittetur neque in hoc seculo neque in futuro**.

Inf. XXXII, 124-135; XXXIII, 4-9, 58-60, 72-73, 76-78

Noi eravam partiti già da ello,
ch’io vidi due ghiacciati in una buca,
sì che l’un capo a l’altro era cappello;
e come  ’l pan per fame si manduca,
così  ’l sovran li denti a l’altro pose
là ’ve ’l cervel s’aggiugne con la nuca:
non altrimenti Tidëo si rose
le tempie a Menalippo per disdegno,
che quei faceva il teschio e l’altre cose.
“O tu che mostri per sì bestial segno
odio sovra colui che tu ti mangi,
dimmi ’l perché”, diss’ io ………

Poi cominciò: “Tu vuo’ ch’io rinovelli
disperato dolor che ’l cor mi preme
già pur pensando, pria ch’io ne favelli.
Ma se le mie parole esser dien seme
che frutti infamia al traditor ch’i’ rodo,
parlare e lagrimar vedrai insieme.”

ambo le man per lo dolor mi morsi;
ed ei, pensando ch’io ’l fessi per voglia
di manicar, di sùbito levorsi

 …………………… ond’ io mi diedi,
già cieco, a brancolar sovra ciascuno

Quand’ ebbe detto ciò, con li occhi torti
riprese  ’l teschio misero co’ denti,
che furo a l’osso, come d’un can, forti.

[LSA, cap. XXII, Ap 22, 15 (VIIa visio)] “Foris”, scilicet sunt vel erunt, “canes”, id est immundi et sanctorum vitam detractoriis latratibus lacerantes […]

* Expositio, pars V, ff. 177rb sgg. (citazione abbreviata).

** Ibid., f.180rb-va.

Tab. 4.2

[LSA, cap. XII, Ap 12, 3 (IVa visio)] Secundum autem Ioachim, septem capita drachonis sunt allegorice septem reges, qui secundum septem status ecclesie debebant esse prima et principalia capita septem certaminum contra Christum et eius ecclesiam fiendorum. Sicut enim episcopalis ecclesia dicitur esse caput subiectarum ecclesiarum, episcopus vero dicitur esse caput illius ecclesie, sic illi populi per quos facte sunt generales seu principales persecutiones ecclesie sunt capita bestie de quibus in capitulo sequenti agetur (cfr. Ap 13, 1). Reges vero, qui eisdem populis prefuerunt, dicuntur capita drachonis et quasi capita capitum; corpus vero drachonis est innumera reproborum multitudo*.

* Expositio, pars IV, distinctio I, f. 156rb-va.

[LSA, cap. XIII, Ap 13, 1 (IVa visio)] Et ideo subdit: “habentem capita septem”. Ioachim, prout superius recitavi, dicit quod capita huius bestie differunt a capitibus drachonis sicut metropolitane ecclesie, que sunt capita aliarum, differunt a suis episcopis, qui utique sunt capita ipsarum et quasi capita Christi cuius vicem gerunt. Et secundum hoc, vult quod illi populi, qui fuerunt principales et quasi capita aliorum ad persequendum Christum et ecclesiam, sint proprie capita bestie et bestialis caterve.

Inf. XXXII, 124-126; XXXIII, 13-14

Noi eravam partiti già da ello,
ch’io vidi due ghiacciati in una buca,
sì che l’un capo a l’altro era cappello

Tu dei saper ch’i’ fui conte Ugolino,
e questi è l’arcivescovo Ruggieri

 

 

5. Le corazze degli pseudoprofeti (Ap 9, 17)

 

Il tema della corazza appartiene sia alle locuste, di cui costituisce la sesta proprietà (Ap 9, 9), sia ai cavalieri che nell’esegesi della sesta tromba stanno sui cavalli dalle teste di leone (Ap 9, 17). In entrambi i casi, la corazza indica l’ostinazione, la pertinacia e l’impenetrabilità da parte delle saette dell’eloquio divino che rimprovera e invita alla penitenza. Ad Ap 9, 17 Olivi segue l’interpretazione di Gioacchino da Fiore, secondo il quale le corazze hanno tre colori: sono di fuoco (per l’ira), di zolfo (per la lussuria), di giacinto (per l’ipocrisia). Sono portate dai cavalieri che siedono, “sessores” dell’Anticristo e suoi falsi profeti. Nel suo breve stare tra gli usurai prima di salire in groppa a Gerione (Inf. XVII, 34-78), Dante vede tre dannati ai quali pende dal collo una tasca, o borsa, o sacchetto con un determinato colore corrispondente all’arme di famiglia. La prima ha un leone azzurro in campo giallo (i Gianfigliazzi; “d’un leone avea faccia” è da confrontare con “Leo palam sevit … sic etiam os in facie se aperte ingerit” di Ap 9, 19); la seconda un’oca bianca in campo rosso (gli Obriachi); la terza una scrofa azzurra in campo bianco (gli Scrovegni). Con l’eccezione del bianco, si tratta dei colori delle corazze. Il bianco rinvia ad altri passi dell’Apocalisse : è il colore di Cristo che, all’apertura del primo sigillo, esce vittorioso in campo su un cavallo bianco (Ap 6, 2); come pure dei cavalli e dei cavalieri dell’esercito di Cristo nella battaglia finale descritta ad Ap 19, 14; la figura bianca in campo rosso può ironicamente alludere a coloro che hanno reso bianche le proprie stole lavandole nel sangue dell’Agnello, cioè nella mortificazione e nel martirio, e che si trovano di fronte al trono di Dio ad Ap 7, 14-15. Come gli pseudoprofeti sono “sessores”, così gli usurai siedono “in su la rena” (tema della quinta guerra, ad Ap 12, 18) vicino al burrone. Il padovano che parla a Dante ha un linguaggio pieno di risentimento sia nei confronti degli altri due fiorentini sia nel denunziare al poeta il prossimo arrivo del suo concittadino Vitaliano del Dente (che corrisponde allo zelo amaro dei cavalieri e al loro parlare senza freno, “letabunde et inhianter”, cioè a bocca aperta, cui è riconducibile anche il distorcere la bocca e il trarre fuori la lingua); Gianni Buiamonti, atteso dagli usurai fiorentini, è inoltre lui stesso “cavalier sovrano”. La “tasca / ch’avea certo colore e certo segno” è il cartiglio che ad Ap 13, 17 i seguaci dell’Anticristo recano sulla fronte o in mano in segno certo di professione della sua setta, di venerazione della sua persona e di rispetto della sua legge.
L’ “os ”, cioè l’ “effrenata locutio … que quidem per sevitiam ire est ignea, et per confusam et tumultuosam obscurationem veritatis et sanctitatis christiani cultus est fumus …”, è quella del gigante Nembrot dalla “fiera bocca” toccata dall’ “ira o altra passïon … anima confusa”, come gli dice Virgilio (Inf. XXXI, 67-75).

Tab. 5.1

[LSA, cap. IX, Ap 9, 17 (IIIa visio, VIa tuba)] “Et qui sedebant super equos habebant loricas igneas et sulphureas et iacinctinas” (Ap 9, 17). Per loricam designatur pertinax et impenetrabilis defensio et obstinatio. Et secundum Ioachim, per igneam designatur fervens ira, per sulphuream autem fetens luxuria, per iacinctinam vero, que est coloris celestis seu etherei, designatur ypocrisis simulans se celestem et celestium contemplatricem. Hiis enim tribus teguntur sessores pseudoprophete, ne sagittis et spiculis verborum Dei possint transfigi. Ira enim et zelus eius amarus non permittit eos cernere verum, nec etiam rationem et iustitiam audire, immo nec tolerare quod in aliquo dissentiatur ab eis. Luxuria vero sic facit eos estimare vitam carnalem et opulentam esse felicem quod contrariam, quantumcumque castam et sanctam, derident ut miseram et stolidam. Ypocritalis vero cultus et sapientia divinorum reliqua omnia eis operit et adornat, ut totum videatur esse divinum*.
Item pro quanto potestas eorum contra ecclesiam et ecclesie ab eis oppressio videbitur esse iusta et a Deo data, pro tanto habebunt loricam iacinctinam; pro quanto autem erit efficax contra ecclesiam sicut ignis est contra stupam, et pro quanto secta eorum apparebit luce rationis munita, pro tanto habebunt loricam igneam; pro quanto etiam eorum carnalitas apparebit rationabiliter necessaria vel utilis corpori et humane infirmitati et aliquibus exercitiis virtutum, pro tanto habebunt loricam sulphuream. Nota etiam quod sulphurea additur ad monstrandum inexcusabilitatem credentium talibus et ad monstrandum electis unum evidens signum et hostium pravitatis istorum.
Et capita equorum erant quasi capita leonum” (Ap 9, 17), id est animosa et impavida et ferocia et fortissima ad insiliendum et devorandum.
“Et de ore ipsorum procedit ignis et fumus et sulphur”. Per os equorum signatur effrenata locutio turbarum contra ecclesiam, que quidem per sevitiam ire est ignea, et per confusam et tumultuosam obscurationem veritatis et sanctitatis christiani cultus est fumus, per sui vero carnalitatem est sulphur. Nam de carnalibus effrenate et impudenter loquuntur et carnalia letabunde et inhianter laudant.

[LSA, cap. XIII, Ap 13, 15-17 (IVa visio, VIum prelium)] “Et faciet”, scilicet secunda bestia pseudoprophetarum, “et quicumque non adoraverit imaginem bestie occidetur”, quasi dicat: non solum signis et rationibus et promissionibus facient Antichristum et eius imaginem adorari, sed etiam terribilibus statutis et penis, et hinc est quod facient sanctos occidi.
Ut autem omnes fortius cogantur Antichristum et eius sectam sequi, et ne aliquis possit inter gentes latere, idcirco subduntur alia duo que bestia pseudoprophetarum faciet. Pro primo dicitur: “Et faciet omnes, pusillos et magnos et divites et pauperes et liberos et servos, habere caracterem in dextera manu aut in frontibus suis” (Ap 13, 16).
Pro secundo  autem subditur: “et ne quis possit emere aut vendere, nisi habeat caracterem aut nomen bestie aut numerum nominis eius” (Ap 13, 17). Secundum Ioachim, caracter iste erit aliqua cedula habens in se scriptum aliquid de lege seu preceptis Antichristi, vel forte aliquam figuram statutam in signum professionis et sequele fidei eius, quam aliqui ad maiorem venerationem Antichristi circumponent frontibus suis, alii vero portabunt eam in manu quandocumque habebunt aliquid emere vel vendere. Qui autem non habebit cedulam tali caractere figuratam oportet quod habeat aliam in qua scriptum sit nomen Antichristi aut numerus nominis eius, id est littere numerales nominis eius, vel alie significantes eundem numerum**.
Intelligitur etiam in predictis quod nullus poterit “vendere”, id est predicare vel docere, nec “emere”, id est audire vel addiscere, nec aliquod sollempne officium agere, nisi sit apertus sectator et discipulus Antichristi et quod hoc per signa certa pateat.

* Expositio, pars III, f. 135 ra-b (citazione libera).

** Ibid., pars IV, distinctio IV, ff. 168va-b, 169rb.

 Inf. XVII, 34-36, 52-75

E quando noi a lei venuti semo,
poco più oltre veggio in su la rena
gente seder propinqua al loco scemo.

Poi che nel viso a certi li occhi porsi,
ne’ quali ’l doloroso foco casca,
non ne conobbi alcun; ma io m’accorsi
che dal collo a ciascun pendea una tasca
ch’avea certo colore e certo segno,
e quindi par che ’l loro occhio si pasca.
E com’ io riguardando tra lor vegno,
in una borsa gialla  vidi azzurro
che d’un leone avea faccia e contegno.
Poi, procedendo di mio sguardo il curro,
vidine un’altra come sangue rossa,
mostrando un’oca bianca più che burro.
E un che d’una scrofa azzurra e grossa
segnato avea lo suo sacchetto bianco,
mi disse: “Che fai tu in questa fossa?
Or te ne va; e perché se’ vivo anco,
sappi che ’l mio vicin Vitalïano
sederà qui dal mio sinistro fianco.
Con questi Fiorentin son padoano:
spesse fïate mi ’ntronan li orecchi
gridando: ‘Vegna il cavalier sovrano,
che recherà la tasca con tre becchi!’ ”.
Qui distorse la bocca e di fuor trasse
la lingua, come bue che ’l naso lecchi.

Inf. XXXI, 67-75

Raphèl maì amècche zabì almi ”,
cominciò a gridar la fiera bocca,
cui non si convenia più dolci salmi.
E ’l duca mio ver’ lui: “Anima sciocca,
tienti col corno, e con quel ti disfoga
quand’ ira o altra passïon ti tocca!
Cércati al collo, e troverai la soga
che ’l tien legato, o anima confusa,
e vedi lui che ’l gran petto ti doga”.

[LSA, cap. IX, Ap 9, 19] Leo palam sevit, serpens vero occultis insidiis ferit et feriendo suum occultum venenum infundit; sic etiam os in facie se aperte ingerit, cauda vero post tergum latet. In leonino igitur capite et ore equorum designatur temptatio aperta et violenta, in cauda vero serpentina temptatio latens et fraudulenta.

[LSA, cap. VI, Ap 6, 2 (IIa visio, apertio Ii sigilli)] In prima autem apertione apparet Christus resuscitatus sedens in equo albo, id est in suo corpore glorioso et in primitiva ecclesia per regenerationis gratiam dealbata et per lucem resurrectionis Christi irradiata, in qua Christus sedens exivit in campum totius orbis non quasi pavidus aut infirmus, sed cum summa magnanimitate et insuperabili virtute. Nam suos apostolos deduxit in mundum quasi leones animosissimos et ad mirabilia facienda poten-tissimos, et “habebat” in eis “archum” predicationis valide ad corda sagittanda et penetranda. […] “Et exivit vincens ut vinceret”, id est, secundum Ricardum, vincens quos de Iudeis elegit ipsos convertendo ut per eosdem vinceret, id est converteret gentiles quos predestinaverat*.
Vel per hoc designatur quod, quando exivit ut mundum vinceret, apparuit in ipso exitu totus victoriosus et ac si iam totus vicisset.

* In Ap II, iv (PL 196, col. 762 B-C).