II.
1. Tempus amplius non erit (Ap 10, 5-7). 2. Roma, la grande meretrice (Ap 17, 1). 3. Al modo delle rane (Ap 16, 12-14).
INDICE GENERALE – AVVERTENZE
1. Tempus amplius non erit (Ap 10, 5-7)
Nel capitolo X si tratta dell’angelo che, al suono della sesta tromba (terza visione), ha la faccia come il sole: per Olivi designa Francesco, come l’altro angelo, quello che sale da Oriente all’apertura del sesto sigillo (Ap 7, 2).
Un’importante citazione di Gioacchino da Fiore è inserita da Olivi nell’esegesi di Ap 10, 1. Qui di seguito viene esaminata l’esegesi di Ap 10, 3-7 [1].
« […] “E quando ebbe gridato, i sette tuoni fecero udire la loro voce” (Ap 10, 3). Secondo Gioacchino da Fiore, questi sette tuoni sono i sette spiriti di Dio che emettono universalmente su tutta la terra, come dal terzo cielo, voci spirituali e allegoriche concordi col ruggito dell’angelo sia nel rivelare le grandi cose e gli arcani della gloria di Dio e delle sue opere, soprattutto di quelle che si compiono nelle menti contemplative, sia nel proclamarne i terribili giudizi. […]
Segue: “Io ero pronto a scrivere quando udii una voce dal cielo che mi disse: Chiudi sotto sigillo”, cioè quasi con sigillo fermo nel tuo cuore, “quello che hanno detto i sette tuoni e non scriverlo” (Ap 10, 4). Qui viene mostrato in primo luogo il pio desiderio dei discepoli spirituali di diffondere a tutti i sensi spirituali dei sette tuoni che risuonano in modo veemente e stupendo nei loro cuori. In secondo luogo è mostrato in che modo da Cristo e dal suo spirito e dai santi dottori venga imposto loro di non divulgarli all’uomo carnale e animale al quale non è lecito parlare di queste cose secondo quella parola di Cristo (Lc 8, 10; Mt 7, 6): “a voi è dato conoscere i misteri del regno di Dio, ma agli altri solo in parabole” e “non date le cose sante ai cani né ai porci”. Vi sono infatti alcune realtà comuni a tutti che a tutti devono essere predicate, altre invece che non devono essere rivelate a tutti, in particolare prima del tempo, secondo quel passo di Matteo: “Non dite a nessuno di questa visione finché il Figlio dell’Uomo non sia risorto dai morti” (Mt 17, 9); per cui anche sotto il sesto sigillo dell’Antico Testamento l’angelo dice a Daniele: “Ora tu, Daniele, chiudi queste parole e sigilla questo libro fino al tempo stabilito” (Dn 12, 4), che era la sesta età nella quale apparve Cristo e in particolare il sesto stato della sua Chiesa, nel quale il libro doveva essere più pienamente aperto, non però ai malevoli e ai maldisposti. Prima della morte dell’Anticristo conveniva che molte cose allora aperte ai santi fossero chiuse ai nemici e anche ai fedeli ancora animali.
Segue: “Allora l’angelo che avevo visto stare con un piede sul mare e con un piede sulla terra, levò la sua mano verso il cielo e giurò per Colui che vive nei secoli dei secoli, che ha creato cielo, terra, mare, e quanto è in essi, che non ci sarà più tempo e che nei giorni in cui il settimo angelo farà udire la sua voce e comincerà a suonare la tromba, allora si compirà il mistero di Dio come egli ha annunziato per mezzo dei suoi servi, i profeti” (Ap 10, 5-7). Questo giuramento designa la veemente certezza e affermazione che il tempo di questo mondo al momento della settima tromba finirà del tutto; non intende infatti che dopo questo suo giuramento non ci sia altro tempo, ma che sarà consumato nella voce del settimo angelo. Lo giura in modo così forte, sia per terrorizzare più aspramente i malvagi e convertirli alla penitenza, sia per consolare gli eletti che saranno vessati da molteplici persecuzioni e miserie e che desidereranno uscire dall’esilio, dal carcere di questa vita sospirando continuamente la patria celeste. Bisogna sapere che riferendo la tromba del settimo angelo al giudizio finale, del quale è scritto nella prima lettera ai Tessalonicesi: “Il Signore stesso, a un ordine, alla voce dell’arcangelo e al suono della tromba di Dio, discenderà dal cielo. E prima risorgeranno i morti in Cristo” (1 Ts 4, 16), è semplicemente vero che il tempo di questo mondo allora cesserà completamente e si compirà pienamente ciò che Dio ha annunciato prossimo per mezzo dei suoi profeti, che chiama “mistero”, cioè ‘segreto’ perché non vi è nulla di più occulto ai mondani della grazia spirituale e della gloria che sarà consumata negli eletti; sono loro occulti e come incredibili i futuri giudizi di Dio. È detto anche “mistero” poiché questi giudizi sono preannunciati sotto veli mistici. Non intendo che i principali corpi di questo mondo in quel momento non sussistano più, ma solo che il loro temporale e mobile corso e il temporale stato del genere umano cesserà in questa vita mortale. Assumendo la tromba del settimo angelo rispetto alla pace che sarà nella Chiesa dopo la morte dell’Anticristo, allora il senso delle parole dell’angelo sesto, che giura, è che il tempo dell’afflizione e della fatica dei precedenti sei stati, come i sei giorni in cui fu necessario faticare e lavorare, verrà meno nel sabato e nel riposo del settimo stato perché allora sarà consumato il mistero annunciato per mezzo dei profeti nella misura in cui deve essere consumato in questa vita. Così spiega Gioacchino da Fiore, che dopo il tempo delle sei aperture di questa sesta età rimarrà il tempo, come dice l’angelo a Daniele, “quale non fu dal tempo in cui gli uomini incominciarono a essere sulla terra” (Dn 12, 1), il tempo del settimo angelo benedetto dal Signore conferendo in quello pace e letizia a coloro che lo temono. […] Nota la bella concordia: come qui, sotto la sesta tromba, l’angelo sul mare e sulla terra giura che il tempo non ci sarà più, così nell’undicesimo capitolo di Daniele, nel sesto tempo e sigillo dell’Antico Testamento, l’uomo o l’angelo che sta sulle acque del fiume, elevate le mani verso il cielo, giura per colui che vive in eterno che in “un tempo, tempi e la metà di un tempo”, aggiungi, durerà il tempo e la fatica e che quando sarà compiuta la dispersione del popolo santo si compiranno tutte queste cose (Dn 12, 7). […] Nota anche che come noi giuriamo levando e ponendo la mano sull’altare o sul libro dei Vangeli, così questo angelo giura levando la mano al cielo cioè con l’alta attestazione della Chiesa celeste e di Dio che abita in essa e anche perché la dimostrazione della celeste dimora e dell’eternità conferma che il tempo di questo mondo passerà velocemente. Per lo stesso motivo giura per Colui che vive in eterno ove specifica in particolare i tre elementi da lui creati, cioè il cielo come luogo che gli eletti devono cercare e in cui deve essere consumata la loro gloria; la terra con le creature che in essa vivono; e il mare con le creature che vi vivono; come dica: ‘giuro per Colui che creò la terra dei fedeli e il mare delle nazioni infedeli; e ad ambedue ora mi rivolgo invitandoli alla gloria eterna’ (Ap 10, 5-7). Per questo teneva un piede sulla terra e un altro sul mare (Ap 10, 3)» [2].
desiderium, resonantium, velut e tertio celo [Ap 10, 3], claude, claudere adhuc, prohibentur ne pandant, non licet talia loqui, nemini dixeritis [Ap 10, 4]
sonando, richiusa ; sonava, disiro, ’l terzo ciel, taci ; ’l mio dir più dichiarar non puote
Le prerogative di questo angelo – leone che ruggisce con forte indignazione contro i vizi e gli errori, per cui i carnali non hanno più alcuna scusa da invocare ora che il libro segnato da sette sigilli è aperto, ruggito a cui fa seguito la voce dei sette tuoni (Ap 10, 3) – sono state esaminate compiutamente altrove. Ad esse rimanda la alla porta del purgatorio (“la porta di san Pietro”), che ha gli spigoli forti e ‘rugghia’ (Purg. IX, 133-138). Dante, secondo l’ammonizione dell’angelo portiere, sa che non deve voltarsi indietro, e che qualora lo facesse non ci sarebbe degna scusa alla sua colpa (Purg. IX, 131-132; X 5-6). Dopo il rugghiare della porta, Dante si rivolge “attento al primo tuono” (Purg. IX, 139), espressione oscura, ma che può significare la prima, o il primo gruppo, delle voci e delle visioni estatiche che il poeta ascolterà e riceverà nella mente ascendendo la montagna che è distinta, appunto, in sette gironi. Secondo Gioacchino da Fiore, questi sette tuoni sono i sette spiriti di Dio che emettono universalmente su tutta la terra, come dal terzo cielo, voci spirituali e allegoriche – le quali quasi di per sé si presentano alle menti dei discepoli perfetti – concordi col ruggito dell’angelo sia nel rivelare le grandi cose e gli arcani della gloria di Dio e delle sue opere, soprattutto di quelle che si compiono nelle menti contemplative, sia nel proclamarne i terribili giudizi. Subito dopo, però, viene ingiunto ai discepoli spirituali, desiderosi di rivelare i significati dei sette tuoni che risuonano in modo veemente e stupendo nei loro cuori, di tacere e non scriverli, mantenendoli chiusi nel proprio cuore. Conviene infatti che molte cose aperte ai santi restino ancora chiuse ai carnali (Ap 10, 4). Suona richiudendosi dietro a Dante la porta del Purgatorio, “che ’l mal amor de l’anime disusa”, cioè la fa aprire di rado (Purg. X, 4).
Il motivo del suonare connesso con quello del desiderio è nell’udire da parte di Dante l’ “Osanna” cantato dagli spiriti amanti nel terzo cielo (lo stesso da cui provengono i sette tuoni) che si volgono con i loro angeli motori ai quali, come gli ricorda Carlo Martello, Dante aveva indirizzato nel mondo la canzone Voi che ’ntendendo il terzo ciel movete (Par. VIII, 28-30, 34-37). Il tacere è ingiunto dal sovrano angioino dopo che ha parlato degli inganni che dovrà subire la propria discendenza, cioè l’esclusione di Caroberto dalla successione (Par. IX, 1-6; cfr., a Purg. XXIV, 88-90, l’impossibilità, da parte di Forese, di dire tutto circa la punizione che verrà, nel 1308, su Corso Donati).
claude, aperiendus non … malivolis, oportebit claudere adhuc [Ap 10, 4]
richiuso ; conviene ancor … si chiuda, aprimi, io non gliel’apersi
“Infin che ’l mar fu sovra noi richiuso” (Inf. XXVI, 142). Si richiude, su Ulisse e i suoi compagni, il mare (il “pelago” della Scrittura: cfr. Ap 4, 6) ‘aperto’ a gente non disposta, uomini che avevano infranto il divieto di andare oltre le mete poste da Ercole per compiere un “folle volo” verso un mondo che non può essere oggetto di esperienza sensibile, ma solo di rivelazione spirituale.
Il tema del chiudere i segreti è nelle parole del conte Ugolino circa la torre della Muda, nella quale lui e i suoi figli furono rinchiusi fino alla morte, “e che conviene ancor ch’altrui si chiuda” (Inf. XXXIII, 22-24): la scelta del Petrocchi di dare ad “altrui” il valore di dativo consente di interpretare sia nel senso letterale – ‘nella quale altri dovranno essere rinchiusi dopo di me’ – sia nel senso che la torre chiuderà ad altri, come avvenuto con Ugolino, l’intelligenza spirituale del libro. Più avanti nel cammino di Cocito, Dante si rifiuta di aprire a frate Alberigo gli occhi incrostati di lacrime ghiacciate, perché “cortesia fu lui esser villano”, in quanto indegno di vedere la benché minima parte del libro (ibid., 148-150).
claude, non licet talia loqui, desiderium, in … corde, (in)dispositis, nemini dixeritis [Ap 10, 4]
’l tacere ; disio, mi taci, riposto, cuor, disposto
L’imposizione di tacere ha molteplici sviluppi. Può riguardare una domanda di Dante, come nel caso del desiderio di sapere circa la condizione delle anime pronte a passare l’Acheronte, il cui appagamento viene rinviato da Virgilio a un momento successivo (Inf. III, 72-78). Dante tace nel proprio cuore il desiderio di vedere Farinata, avendolo Virgilio disposto a ciò (Inf. X, 16-21; il tema dell’essere indisposto diventa nei versi essere disposto “per dicer poco”). È bello anche il tacere le cose dette dai sei poeti mentre vanno verso il nobile castello del Limbo (Inf. IV, 103-105). Dante, poco prima (ibid., 100-102), è stato reso “sesto tra cotanto senno”, ‘segnato’ nella onorata milizia dei poeti, con tutto quello che l’essere “sesto” comporta per l’assunzione del ruolo di chi “salva l’eredità”, proprio di Filadelfia, la sesta chiesa. Ma siamo solo agli inizi del viaggio, ed è appunto opportuno tacere, come viene detto al profeta Daniele – “Ora tu, Daniele, chiudi queste parole e sigilla questo libro fino al tempo stabilito” (Dn 12, 4) – nell’Antico Testamento, momento storico per tanti aspetti assimilato all’Inferno.
claude, claudere, prohibentur ne pandant, non licet talia loqui, nemini dixeritis, aperiendus [Ap 10, 4], levavit manum suam, iuravit, iuramus levando et ponendo manum, celum, terram, tempus non erit, certitudinem et assertionem, ad consolandum, de exilio et carcere, respectu pacis, tempus afflictionis et laboris … cessabit [Ap 10, 5-7]
vi giuro, conforti, incarcerato ; chiuder le labbra, tacer, ti giuro ; riposar l’affanno ; pace, giurarlo ; pregava con le mani sporte ; levò ambo le palme, vi giuro s’io di sopra vada ; pace, aperse, divieto, tace, giurato, aprir ; taci, tacer, scongiura ; tempo non è, l’affermar, giuraro ; da essilio, pace ; t’assicura, ti giura ; ha posto mano e cielo e terra
Al suono della sesta tromba – nel pieno del rinnovamento recato dal sesto stato della Chiesa, il novum saeculum tanto atteso -, l’angelo dal volto solare giura: “Allora l’angelo che avevo visto stare con un piede sul mare e con un piede sulla terra, levò la sua mano verso il cielo e giurò per Colui che vive nei secoli dei secoli, che ha creato cielo, terra, mare, e quanto è in essi, che non ci sarà più tempo e che nei giorni in cui il settimo angelo farà udire la sua voce e comincerà a suonare la tromba, allora si compirà il mistero di Dio come egli ha annunziato per mezzo dei suoi servi, i profeti” (Ap 10, 5-7). Questo giuramento designa la veemente certezza e affermazione che il tempo di questo mondo al momento della settima tromba finirà del tutto. Non si intende che dopo questo suo giuramento non ci sia altro tempo, ma che questo sarà consumato nella voce del settimo angelo. Il sesto stato è iniziato con san Francesco e durerà fino alla distruzione di Babylon, la Chiesa carnale: è dunque il tempo in cui scrivono Olivi († 1298) e Dante. È un periodo di prove e tentazioni che procede verso la piena libertà interiore; di martìri, inflitti dall’Anticristo e dai suoi seguaci, non corporali ma psicologici che insinuano il dubbio sulla fede e perdono anche i più esperti. È però segnato anche da miracoli intellettuali, dall’aprirsi della volontà di dire liberamente di Cristo per dettato interiore. Dopo la caduta di Babylon, subentrerà il settimo stato caratterizzato dalla brevità (da intendere, secondo Olivi, come proporzionata alla durata degli altri stati della storia), dal silenzio, dalla pace. Il suono della tromba del settimo angelo può essere riferito al giudizio finale, e allora è vero che il tempo di questo mondo cesserà completamente. Ma il settimo e ultimo stato ha un inizio in questa vita, dove non sarà tanto breve, ben prima del giudizio finale. Può trattarsi di pregustare in questo mondo, contemplando, la pace eterna; oppure della quiete delle anime beate in attesa della resurrezione.
Il tema del giurare si presenta in diversi luoghi del poema, accompagnato or da uno or da altro dei motivi che lo circondano, nell’esegesi di Ap 10, 5-7. Giura Pier della Vigna, “per le nove radici d’esto legno”, che non ruppe mai la fedeltà a Federico II, suo signore. Giuramento che non gli toglie la pena dell’essere “incarcerato” nel gran pruno della mesta selva, ma nel quale, come nel giurare dell’angelo sesto che conforta gli animi desiderosi di uscire dal carcere di questa vita e dall’oppressione babilonica, è insito il conforto dato alla memoria del dannato nel mondo dal poeta che vi ritornerà (Inf. XIII, 73-78, 87). Al consigliere imperiale è appropriato uno dei temi più celebri dell’Apocalisse, riferito alla sesta e più cristiforme chiesa d’Asia, la chiave di David che apre e nessuno chiude, chiude e nessuno apre (Ap 3, 7) [3].
L’angelo giura a conforto dei perseguitati che anelano a uscire dall’esilio per venire alla pace: “l’anima santa” di Boezio, “ottava” luce fra gli spiriti sapienti presentati da Tommaso d’Aquino nel cielo del Sole (Par. X, 121-129), “da martiro / e da essilio venne a questa pace”. Boezio è all’opposto di Pier della Vigna, eternamente incarcerato nel “gran pruno”.
L’angelo giura, levando la mano, per il cielo, la terra e il mare. L’obbligo di chiudere le labbra al parlare – “Nemini dixeritis visionem” (Ap 10, 4) – viene meno per l’impossibilità di tacere da parte del poeta la visione di Gerione che sale dall’abisso, e il vedere è confermato con giuramento: “per le note / di questa comedìa, lettor, ti giuro, / s’elle non sien di lunga grazia vòte” (Inf. XVI, 124-129). Una situazione analoga è la rimozione da parte di Virgilio del precedente divieto di tacere la propria identità dinanzi a Stazio (Purg. XXI, 103-120); anche qui è presente il tema del giurare, proprio dell’angelo dal volto solare, nell’espressione “Or son io d’una parte e d’altra preso: / l’una mi fa tacer, l’altra scongiura / ch’io dica”. In entrambi i casi interviene uno dei temi fondamentali del sesto stato, al quale è dato l’ “hostium sermonis ad loquendum misterium Christi”, per cui chi predica sente interiormente l’ordine di dire (Ap 3, 8).
Al “poema sacro”, come detto a Par. XXV, 1-2, “ha posto mano e cielo e terra”. Quest’ultima espressione è accostabile all’esegesi di Ap 22, 2, dove si parla delle due rive, la divina e l’umana, del fiume di acqua viva (la grazia dello Spirito) che deriva dalla Trinità, entrambe ombreggiate dalle foglie che designano i sacramenti, cioè la verità: “Nam non solum celum, sed etiam terra plena est gloria et maiestate Dei”. Ma nei versi non può essere esclusa una sacramentale formula di giuramento su un prossimo tempo di pace, “sicut nos iuramus levando et ponendo manum super altare vel super librum evangeliorum”: “Se mai continga che ’l poema sacro / al quale ha posto mano e cielo e terra / … vinca la crudeltà che fuor mi serra / del bello ovile ov’ io dormi’ agnello, / nimico ai lupi che li danno guerra; / con altra voce omai, con altro vello / ritornerò poeta …”; quasi dicesse, come l’angelo dal volto solare: giuro per il cielo e la terra che il tempo dell’afflizione e dell’esilio finirà. Se l’angelo giura che anche il tempo finirà e che la patria è quella celeste, l’effetto principale delle sue parole sarà però la pace instaurata dopo la morte dell’Anticristo, che durerà in terra alquanto tempo prima del giudizio finale. Il tempo, cioè, non finirà del tutto. Contro Riccardo di San Vittore, Olivi ritiene che l’ingiunzione fatta a Giovanni nel finale del capitolo X, di predicare ancora dopo gli apostoli a tutto il mondo (Ap 10, 11), per cui gli viene promesso il ritorno in patria dall’esilio, non è riferibile solo all’Evangelista bensì soprattutto ai santi che vivono nel sesto stato, e dunque anche nel 1300 [4].
Assumendo la tromba del settimo angelo rispetto alla pace che sarà nella Chiesa dopo la morte dell’Anticristo, allora il senso delle parole dell’angelo che giura è che il tempo dell’afflizione e della fatica dei precedenti sei stati, come i sei giorni in cui fu necessario faticare e lavorare, verrà meno nel sabato e nel riposo del settimo stato, perché allora sarà consumato il mistero annunciato per mezzo dei profeti nella misura in cui deve essere consumato in questa vita. Così spiega Gioacchino da Fiore nell’Expositio, che dopo il tempo delle sei aperture di questa sesta età rimarrà il tempo, come dice l’angelo a Daniele, “quale non fu dal tempo in cui gli uomini incominciarono a essere sulla terra” (Dn 12, 1), il tempo del settimo angelo benedetto dal Signore conferendo in quello pace e letizia a coloro che lo temono [5].
L’ascesa della montagna del purgatorio – spiega Virgilio – faticosa da principio, si fa poi via via sempre più soave e leggera; alla fine, dopo il settimo girone, Dante potrà riposare il proprio affanno (Purg. IV, 88-96). “Pace” il poeta va cercando “di mondo in mondo” dietro alla sua guida, come dice ai negligenti morti per violenza, per i quali risponde per primo Iacopo del Cassero a quella che è una formula di giuramento: “Ciascun si fida / del beneficio tuo sanza giurarlo” (Purg. V, 61-66).
Fra le anime che invocano suffragi dal poeta per abbreviare la propria permanenza nell’Antipurgatorio, Federigo Novello “pregava con le mani sporte”, come l’angelo che giura levando in alto la mano (ma, nel passo simmetrico di Daniele 12, 7, l’uomo che sta sulle acque del fiume giura levando le mani). Così si atteggia “quel da Pisa”, fatto uccidere dal conte Ugolino nel 1288, cioè Gano, il figlio del “buon Marzucco” Scornigiani. Al padre, che fu uomo politico e divenne poi francescano nel convento di Santa Croce a Firenze nel 1286, l’anno prima che vi arrivasse l’Olivi, viene appropriato l’aggettivo “forte”, che appartiene anch’esso all’angelo dal volto solare (Ap 10, 1), nel senso che non volle vendicarsi degli uccisori del figlio ma anzi si pacificò con loro, ed anche questo motivo è consono all’angelo che giura la pace del settimo stato (Purg. VI, 16-18).
L’immagine virgiliana (Aen. VI, 313-314) della folla degli insepolti che pregano Caronte di traghettarli all’altra sponda d’Acheronte – “Stabant orantes primi transmittere cursum / tendebantque manus ripae ulterioris amore” -, che nel canto ha un suo sviluppo nel successivo discorso del poeta pagano (Purg. VI, 34-48), è fasciata dal tema della brevità del tempo, giurata dall’angelo. Questi è sotto il regime della sesta tromba, e giura in vista del suono della settima. Sesto e settimo stato corrispondono all’età dello Spirito di Gioacchino da Fiore, in cui le generazioni e le sofferenze saranno abbreviate per gli eletti: “[…] ne nimis immoderata tribulatio absorbeat electos. Unde et veritas ait quod propter electos breviabuntur dies illi […]” (prologo, Notabile XII). Che è proprio quanto chiesto con desiderio “da tutte quante / quell’ ombre che pregar pur ch’altri prieghi, / sì che s’avacci lor divenir sante” (Purg. VI, 25-27). Si tratta di “spiriti eletti” che s’aspettano “pace” (Purg. III, 73-75), ai quali con le preghiere si può abbreviare il tempo dell’afflizione e della fatica come giurato dall’angelo (cfr. le parole di Cacciaguida sul bisnonno di Dante a Par. XV, 95-96).
Un giuramento è fatto da Dante, nella valletta in costa del monte, a conferma della vera nobiltà dei Malaspina, di fronte al nipote dell’antico Corrado: «e io vi giuro, s’io di sopra vada … Hinc etiam est quod iurat “per viventem” in eternum, ubi etiam signanter specificat tria per ipsum creata, scilicet “celum”, tamquam electis querendum et tamquam locum in quo est eorum gloria consumanda”» (Purg. VIII, 124-129). Il poeta, letteralmente, si augura di andare fino in cima alla montagna; di fatto pensa in cuor suo di ascendere al cielo.
Il tema della pace [6], di un tempo di cui dice l’angelo a Daniele “quale non fuit ex eo tempore quo ceperunt homines esse in terra” (che è la “pace universale … che mai, più non fu né fia” di Convivio IV, v, 8 – cfr. Purg. XIV, 13-15: “… ché tu ne fai / tanto maravigliar de la tua grazia, / quanto vuol cosa che non fu più mai”), si trova nell’immagine che raffigura l’annunciazione, intagliata nel marmo della costa del primo girone del purgatorio. Nelle quattro terzine (Purg. X, 34-45), sono presenti molti motivi che appartengono al sesto stato: l’aprire – “ch’aperse il ciel del suo lungo divieto … quella / ch’ad aprir l’alto amor volse la chiave” -, che elabora il tema della chiave di David che apre e nessuno chiude, chiude e nessuno apre, tipico della sesta chiesa (Ap 3, 7); il tema del giuramento, proprio dell’angelo dal volto solare (Ap 10, 5-7), a conferma del fatto che Gabriele “non sembiava imagine che tace” poiché “giurato si saria ch’el dicesse ‘Ave! ’ ” (l’apertura del sesto stato è anche rimozione del divieto di parlare di cui ad Ap 10, 4); i motivi dell’imprimere e del sigillare la fede (che secondo il Notabile III del prologo appartengono al sesto momento della “tuba magistralis” [non in tabella]) nelle parole “Ecce ancilla Dei”, impresse “propriamente / come figura in cera si suggella” (gli stessi motivi, dell’imprimere e del sigillare, sono nelle parole di Beatrice, a Par. VII, 67-69, sulle cose che derivano senza mediazioni dalla divina bontà). È da notare la concordia: con il primo avvento di Cristo, di cui parla il marmo istoriato, inizia la sesta età del mondo; la porta di san Pietro, da poco aperta, designa l’inizio del sesto stato della sesta età, ovvero dell’età dello Spirito di Gioacchino da Fiore.
Giurare equivale affermare con certezza. Così a Purg. XXVI, 109 Guinizzelli, riferendosi all’elogio fattogli da Dante – “Ma se le tue parole or ver giuraro” -, preceduto dall’affermare di questi (ibid., 104-105: “tutto m’offersi pronto al suo servigio / con l’affermar che fa credere altrui”; cfr. la rima t’assicura / ti giura a Par. XXIV, 103, 105). Da rilevare che l’angelo dal volto solare giura asserendo che il tempo finirà al suono della settima tromba: topograficamente, siamo nel settimo girone della montagna, corrispondente al settimo stato della Chiesa e alla sua tematica.
Al termine della salita della montagna Virgilio dice al discepolo che in quello stesso giorno la sua fame verrà posta in pace, poiché egli sta per conseguire “quel dolce pome che per tanti rami / cercando va la cura de’ mortali”, cioè la beatitudine terrena raffigurata dall’ormai vicino paradiso terrestre (Purg. XXVII, 115-117).
claude, claudere, prohibentur ne pandant, non licet talia loqui, nemini dixeritis [Ap 10, 4], incredibilia [Ap 10, 7]
chiuso, mi chiudessi ; nol dirai, cose incredibili
“misterium” quia sub misticis velaminibus sunt prenuntiata [Ap 10, 7]
si quis habet … sanam intelligentiam [Ap 13, 9]
doctrine, sub velamine, absconsa [LSA, incipit ]
misteria tertii status subtiliora sunt misteriis secundi status et misteriis primi [Ap 12, 6]
ch’avete li ’ntelletti sani, la dottrina, s’asconde sotto ’l velame ; ’l velo, sottile
L’angelo giura che si compirà il “mistero”, cioè gli occulti giudizi di Dio, profeticamente preannunciati sotto veli mistici (Ap 10, 7). L’esegesi del “mistero” conduce a una terzina famosa, l’appello al lettore che precede l’arrivo del messo celeste che apre la porta della Città di Dite, chiusa a Virgilio dai diavoli che non vogliono farvi entrare Dante, anzi intendono rimandarlo indietro da solo per la buia strada (Inf. IX, 61-63). Le parole di questa terzina – “O voi ch’avete li ’ntelletti sani, / mirate la dottrina che s’asconde / sotto ’l velame de li versi strani” – risultano quasi tutte da una collazione di tre passi: l’esegesi del tema introduttivo della Lectura, da Isaia 30, 26; Ap 10, 7; Ap 13, 9. Il primo passo si riferisce alla dottrina settiforme di Cristo, nascosta nell’Antico Testamento sotto i veli profetici, che verranno tolti nel giorno in cui la luce della luna sarà come quella del sole [7]. Il secondo è relativo ai giudizi divini, cioè ai ‘misteri’ preannunciati sotto il medesimo velame. Il terzo fa appello a coloro che hanno orecchio – «“Si quis habet aurem”, id est sanam intelligentiam dictorum et dicendorum, “audiat”» -, i quali, sulla base di quanto il testo sacro ha detto o dirà, debbono mantenersi nella tribolazione pazienti e confidenti nell’aiuto divino, perché verranno salvati contro quanti vogliono condurli in prigionia. Così l’arrivo del messo celeste salva i due poeti, ed è descritto con versi “strani”, cioè oscuri, perché non è ancora tempo di aprire la dottrina di Cristo ai malvagi e agli indisposti nemici. La terzina è preceduta da altre due che espongono il tema del chiudere: al minacciato sopravvenire del “Gorgón” che impietrisce, invocato dalle tre Furie, Virgilio fa volgere indietro il poeta e gli chiude il viso con le sue stesse mani, sciogliendo gli occhi del discepolo solo all’arrivo del messo celeste (Inf. IX, 55-60, 73).
Simmetrica all’episodio del discendere del messo celeste è, in Purg. VIII, la discesa dei due angeli che mettono in fuga il serpente nella valletta dei principi. Qui il tema del giurare levando in alto le mani (assente nell’episodio infernale) – come l’angelo dal volto solare – è fatto proprio da una delle anime che giunge e leva le mani intonando l’inno Te lucis ante (vv. 10-18). Subito dopo, il nuovo appello di Dante al lettore perché aguzzi gli occhi al vero, in quanto il velo è ora tanto sottile che il trapassarvi dentro risulta lieve (vv. 19-21). Il velo, ancora una volta, allude al “mistero” e, come afferma Gioacchino da Fiore (citato nell’esegesi di Ap 12, 6), i misteri del terzo stato generale del mondo (che corrisponde al sesto e settimo stato della Chiesa secondo Olivi) sono più sottili di quelli del primo e del secondo stato e pertanto meno necessitano di versi oscuri che ne nascondano la dottrina. L’Inferno corrisponde al primo stato, quello del Padre (che comprende le prime cinque età del mondo, prima della venuta di Cristo); il Purgatorio al secondo stato del Figlio (la sesta età, che inizia con l’avvento di Cristo) e al terzo, dello Spirito (secondo Olivi il sesto e il settimo stato della sesta età), che si apre con l’apertura della porta di san Pietro (la porta del purgatorio). La valletta dei principi si inserisce nella zona in cui prevalgono ancora i temi del quinto stato della Chiesa, uno dei quali è l’attendere la nuova età. L’appello, che allude alla prossima apertura dei misteri del terzo stato, precede, come nel nono canto dell’Inferno, l’arrivo di qualcuno, in questo caso dei due angeli che vengono dal grembo di Maria (Purg. VIII, 25-42). La loro faccia che fa smarrire l’occhio è variante del tema dell’angelo che ha la faccia come il sole oppure del risplendere del volto Cristo nelle perfezioni trattate ad Ap 1, 16-17. È da notare che la levità del velo si contrappone agli “avversi ardori” del vento impetuoso cui è paragonato il messo celeste che apre la porta della Città di Dite, e ciò corrisponde a quanto, con citazione di Gioacchino da Fiore, si dice ad Ap 15, 1 di Cristo, che venne prima per redimere “in spiritu levitatis” e che verrà per giudicare “in spiritu ardoris”.
Quelle che paiono due allegorie per eccellenza – “la dottrina che s’asconde / sotto ’l velame de li versi strani”, a Inf. IX, 61-63, e “ ’l velo … ora ben tanto sottile, / certo che ’l trapassar dentro è leggero”, a Purg. VIII, 19-21 – mostrano in realtà la differenza tra l’allegoria dei poeti e quella dei teologi di cui Dante parla nel Convivio (II, i, 2-15: 4). Si tratta di due velami del vero (o della dottrina) dei quali il primo nasconde, e il secondo nasconde assai meno non perché esprimano entrambi, a diversi livelli, “una veritade ascosa sotto bella menzogna”, cioè sotto la lettera-finzione della poesia, ma perché si riferiscono a due momenti storici differenti del viaggio, il primo (il tempo antico) in cui l’illuminazione è chiusa; il secondo (il tempo moderno, ovvero la soglia del sesto stato dell’Olivi, che equivale alla terza età di Gioacchino da Fiore, appropriata allo Spirito Santo) in cui è molto più sottile e aperta. Ciò corrisponde al teologico vedere le vicende di Cristo e della Chiesa come prefigurate nei fatti e nei detti dei profeti dell’Antico Testamento. Per i teologi, infatti, ha valore storico non solo la lettera, che non può essere quindi una finzione, lo ha anche l’allegoria con riferimento alla storia antica, “figura” della nuova.
Il tacere gli eventi futuri, che sono anche giudizi divini, viene ingiunto a Dante da Cacciaguida nel momento in cui dice di Cangrande “cose / incredibili a quei che fier presente”, che corrispondono a ciò che l’angelo che giura chiama “mistero”, cioè “segreto”, occulto e incredibile ai mondani ma non agli eletti (Par. XVII, 91-93) [8].
Tab.1.1
[LSA, cap. X, Ap 10, 3-7 (IIIa visio, VIa tuba)] “Et cum clamasset, locuta sunt septem tonitrua voces suas” (Ap 10, 3). Secundum Ioachim, hec septem tonitrua sunt septem spiritus Dei, qui missi in omnem terram spiritales et allegoricas voces, velut e tertio celo, emittunt* concordantes rugitui angeli, tam in revelando magnalia et archana glorie Dei et operum eius, et precipue illorum que fiunt in mentibus contemplativis, quam in tonando terribilia iudicia Dei. […]
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Inf. X, 16-21“Però a la dimanda che mi faci
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Inf. IV, 103-105Così andammo infino a la lumera,
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Inf. IX, 61-68O voi ch’avete li ’ntelletti sani,
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Purg. VIII, 19-21Aguzza qui, lettor, ben li occhi al vero,
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[LSA, incipit (Is 30, 26)] Hec autem lux habet septiformem diem transcendentem velamen umbre legalis, quoniam in hac aperitur trinitatis Dei archanum, ac culpe originalis et actualis vinculum et debitum, et incarnationis Filii Dei beneficium, et nostre redemptionis pretium, et iustificantis gratie supernaturale donum simul et predestinationis ac reprobative subtractionis eiusdem gratie incomprehensibile secretum, ac spiritualis et perfecti modi vivendi Deumque colendi saluberrimum exemplum ac preceptum et consilium, et eterne retributionis premium et supplicium cum finali consumatione omnium. Hec enim septem sunt velut septem dies solaris doctrine Christi, que sub velamine scripta et absconsa fuerunt in lege et prophetis.[LSA, cap. X, Ap 10, 7] […] est simpliciter verum quod tempus huius seculi tunc omnino cessabit et plene implebitur quicquid Deus per suos prophetas prenuntiavit fiendum, quod vocat “misterium”, id est secretum, quia nichil mundanis occultius quam spiritalis gratia et gloria in electis consumanda, futura etiam Dei iudicia sunt eis occulta et quasi incredibilia. Dicitur etiam “misterium”, quia sub misticis velaminibus sunt prenuntiata. Nec intendo quin principalia corpora huius mundi tunc durent, sed solum quod temporalis et mobilis cursus eius et temporalis status humani generis in hac vita mortali cessabit. |
[LSA, cap. XIII, Ap 13, 9] “Si quis habet aurem”, id est sanam intelligentiam dictorum et dicendorum, “audiat”, id est attente et prudenter consideret id quod est premissum et etiam id quod mox subditur, quia hoc quod subditur multum ei conferet ad servandam fidem et patientiam in tanta tribulatione.[LSA, cap. XII, Ap 12, 6] Item (Ioachim) de hoc ultimo dicit libro V° (Concordie) circa finem prime partis: «Unum dico, quod misteria tertii status subtiliora sunt misteriis secundi status et misteriis primi. […]»*.[LSA, cap. XV, Ap 15, 1] Et secundum Ioachim, dicitur “mirabile” quia mirantur homines cum incipiunt videre que aliquando non viderunt, scilicet cur alii pepercerunt viris impiis et sustinuerunt eos usque ad mortem, alii punierunt eos et occiderunt, et cur aliqui loquuntur eis humiliter et benigne quasi fratribus ad mortem egrotantibus, alii autem in zelo quasi hostibus Dei, sicut Christus primo venit in spiritu levitatis ut redimeret, secundo veniet ut iudex in spiritu iudicii et ardoris **.* Concordia, V 1, c. 17; Patschovsky 3, p. 578, 7-10.** Expositio, pars V, f. 182ra-b; cfr. Concordia, III 1, c. 7; Patschovsky 2, pp. 265, 14-16; 266, 1-14. |
Tab. 1.2
[LSA, cap. XII, Ap 12, 6] Item de hoc ultimo (Ioachim) dicit libro V° circa finem prime partis: «Unum dico, quod misteria tertii status subtiliora sunt misteriis secundi status et misteriis primi. Et nescio utrum tempora tertii status sint eo modo breviora temporibus secundi quo tempora secundi breviora fuere temporibus primi, licet in operibus non discordent. Etenim ab ortu Isaac usque ad Moysen pene anni quadringenti fuerunt, ab ortu autem Iohannis Baptiste usque ad conversionem sancti Pauli fuit minus quadraginta annis. Quid igitur si eodem modo quod in hoc secundo statu infra mille ducentos fere annos protelatum est in illo tertio statu sub brevi temporis spatio compleatur, quamvis sicut est nobis prolixitas dubia ita et brevitas sit incerta, ut Deo soli super hoc magisterium reservetur»*.* Concordia, V 1, c. 17; Patschovsky 3, pp. 578, 7-15; 579, 1-5.Purg. III, 73-75“O ben finiti, o già spiriti eletti ”,
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Inf. V, 1-2Così discesi del cerchio primaio
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[LSA, prologus, Notabile XII] De sexto autem statu videtur Ioachim in locis aliquibus estimare quod duret per solos tres annos et dimidium. Vult enim duas tribulationes esse in ipso. Unde libro III° Concordie, ubi ostendit septem signacula et eorum apertiones durare per quadraginta duas generationes triginta annorum, quarum viginti quattuor assignat quattuor primis signaculis et sedecim quinto, dicit quod quadragesima prima spectat ad sextam apertionem, quadragesima vero secunda ad septimam*. Et subdit: «Nam ideo subtractas esse puto decem generationes a duobus signaculis, ut pro duodecim generationibus accipiantur due, ne nimis immoderata tribulatio absorbeat electos. Unde et veritas ait quod propter electos breviabuntur dies illi. Terminus autem huius tribulationis Deo soli cognitus est. […]»**.*Concordia, III 1, c. 1; Patschovsky 2, pp. 205, 7-18; 206, 1-8.** Ibid., pp. 206, 8-10; 207, 1-3.[LSA, cap. X, Ap 10, 5-7] Sumendo vero tubicinium septimi angeli respectu pacis que erit in ecclesia post mortem Antichristi, tunc est sensus quod tempus afflictionis et laboris sex priorum statuum, quasi sex dierum quibus laborare et operari oportet, cessabit in sabbato et requie septimi status, tuncque “consumabitur misterium” per prophetas [pre]nuntiatum quantum in hac vita consumari debet. Et sic exponit hoc Ioachim, subdens quod post tempus sex apertionum huius sexte etatis manet «tempus, ut ait angelus Danieli, quale non fuit ex eo tempore quo ceperunt homines esse in terra (cfr. Dn 12, 1), tempus utique septimi angeli, cui benedicet Dominus dans in eo pacem et letitiam sustinentibus se»*.* Expositio, pars III, f. 141rb-va. |
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La brevità delle generazioni del secondo stato rispetto a quelle del primo è tema di Gioacchino da Fiore (citato ad Ap 12, 6) applicato alla seconda cornice del Purgatorio, simile alla prima ma con raggio più stretto (Purg. XIII, 4-6: il piegare “più tosto” dell’arco allude a una brevità temporale oltre che spaziale). Più avanti si dice che i due poeti hanno percorso un miglio “con poco tempo” per la volontà di purificarsi (ibid., 22-24). Con l’apertura della porta del Purgatorio, che dà accesso ai sette gironi della montagna, inizia il sesto stato, che con il settimo corrisponde al terzo stato generale del mondo, cioè all’età dello Spirito di Gioacchino. Il medesimo tema è appropriato, in modo inverso, al secondo cerchio dell’Inferno, che “men loco cinghia / e tanto più dolor, che punge a guaio” rispetto al primo (Inf. V, 1-3). Cacciaguida raccomanda a Dante di abbreviare, con preghiere e opere, il laborioso tempo di purgazione del bisnonno, che da più di cent’anni gira la prima cornice della montagna (Par. XV, 95-96). |
Ad Ap 10, 5-7 (terza visione, sesta tromba) la veemente certezza della fine, che si appropinqua, del tempo di questo secolo è indicata dal giuramento dell’angelo che ha la faccia come il sole. Proprio come afferma Beatrice prima di profetizzare l’arrivo di “un cinquecento diece e cinque”: “ch’io veggio certamente, e però il narro, / a darne tempo già stelle propinque” (Purg. XXXIII, 40-41). L’imminenza del giudizio divino, che è “quasi presentialitas”, è pure proclamata a gran voce dal primo dei tre angeli ad Ap 14, 6-7 (quarta visione, sesta guerra). Lo stesso motivo, del “tempus … prope est”, della propinquità del tempo futuro e del giudizio, compare ad Ap 22, 10, ultimo capitolo del libro, dove viene ripreso il tema, proposto nel Titolo, delle cose che devono presto accadere. Ad Ap 22, 10 è però presente un altro tema sviluppato nel corso delle parole di Beatrice, cioè il comando di divulgare la dottrina profetica del libro in quanto certa, utile e necessaria agli eletti. A Giovanni viene pertanto detto di non mettere sotto sigillo le parole profetiche (“ne signaveris”), ma di rivelarle come sono scritte (“quod revelet ea prout hic sunt scripta”); a Dante la donna ordina di ‘segnare’ (nel senso di significare) ai vivi le parole “sì come da me son porte” (Purg. XXXIII, 52-53).
Ad Ap 22, 10 si sottolinea la differenza tra quanto ingiunto a Giovanni ad Ap 10, 4, di sigillare le voci spirituali emesse dai sette tuoni, e quanto gli viene invece ora ordinato. La quarta spiegazione della differenza, proposta da Olivi, è che Giovanni in un primo tempo dovesse rivelare alcune cose in modo chiaro e altre sotto veli figurali, esponendo quanto conviene e non di più, mentre ora debba rivelare tutto con parole nude e senza l’ausilio di figure. È quanto Beatrice applica a sé stessa, allorché al termine del colloquio con Dante dichiara che d’ora in poi le sue parole “saranno nude … quanto converrassi / quelle scovrire a la tua vista rude” (Purg. XXXIII, 100-102), intendendo cioè che l’intelletto di Dante, non ancora allenato per una perfetta visione, necessita di un’esposizione delle verità in parte velata da figure (come avviene nella profezia del messo divino) e in parte espressa con parole chiare e nude. Chi parlerà senza veli e con chiarezza sarà Cacciaguida, nel chiosare “né per ambage … ma per chiare parole e con preciso / latin” le varie profezie fatte a Dante e nel rivelargli la fortuna che s’appressa (anche in questo caso, il tempo “sprona” verso il poeta; Par. XVII, 31-36, 106-108: chi parla con chiarezza e non per oscuri enigmi è l’angelo che ad Ap 18, 1-3 proclama a gran voce la caduta di Babilonia).
La terza spiegazione dei contrastanti ordini dati a Giovanni è di Gioacchino da Fiore, secondo il quale le voci spirituali emesse dai sette tuoni, che egli deve sigillare (Ap 10, 4), corrispondono agli arcani designati dal sudario che avvolse il capo di Cristo e che Pietro vide separato dalle altre bende; ciò che deve invece rendere palese si riferisce alle cose future che dovevano verificarsi ai suoi tempi. Il sudario non può non ricordare la Veronica che il pellegrino non si sazia di guardare fin che si mostra, come Dante ammira la vivace carità di san Bernardo (Par. XXXI, 103-111). In altra occasione, Virgilio ingiunge a Dante di chiudere il viso di fronte a un volto che sta per mostrarsi, e si tratta di Medusa che impietrisce (Inf. IX, 55-60). All’ordine di Virgilio fa seguito la celebre terzina con cui il poeta si appella ai lettori dagli “intelletti sani” perché guardino alla dottrina nascosta sotto il velo dei “versi strani”: le rime, come visto sopra, sviluppano il tema contenuto nel giurare dell’angelo ad Ap 10, 7 circa il prossimo compimento del mistero di Dio, cioè dei giudizi preannunciati sotto veli mistici (Inf. IX, 61-63). Poiché il medesimo angelo ruggisce come un leone contro la resistenza e la moltitudine degli ‘induriti’ (Ap 10, 3), tema che transita nell’indignazione del messo celeste di fronte alla resistenza dei diavoli dentro le mura della Città di Dite, è plausibile che Medusa designi proprio la durezza impenetrabile di chi, reso edotto da precedenti esperienze, persevera nell’errore. Una volta aperto il libro, si dice ad Ap 10, 3, non rimane più alcun velo di scusa. Il tema del volgersi indietro è presente sia nell’episodio del “Gorgón” sia nell’apertura della porta del Purgatorio (anch’essa ruggente come il leone), nel primo caso come obbligo di chiudere lo sguardo ai carnali, ai nemici, agli erranti; nel secondo come divieto di tornare ingiunto a chi viene aperto un cammino di perfezione.
Tab. 1.3
2. Roma, la grande meretrice (Ap 17, 1)
Con il capitolo XVII inizia la seconda parte della sesta visione, in cui la dannazione di Babilonia viene considerata diffusamente. Il primo momento di questa parte consiste nella venuta di uno dei sette angeli che avevano le sette coppe descritte nella precedente quinta visione. Secondo Gioacchino da Fiore, si tratta del sesto angelo cui più degli altri cinque è dato di rivelare gli occulti segreti. L’angelo – prosegue Gioacchino – chiama Giovanni per mostrare che i discepoli non possono entrare nell’intelligenza spirituale se i loro cuori non siano dai dottori di questa tratti con l’insegnamento all’apprendimento della verità. Il sollecito invito dell’angelo affinché Giovanni veda la dannazione e la malizia della meretrice significa che la visione spirituale di queste cose giova assai, poiché chi non le conosce viene facilmente ingannato dai cenni degli occhi e dalla gloria della meretrice.
Segue una celebre citazione di Gioacchino da Fiore: i “patres catholici” identificarono la meretrice con Roma, e più precisamente con la moltitudine dei reprobi che con le loro inique opere impugnano e blasfemano la Chiesa dei giusti peregrina sulla terra. Questa meretrice non deve pertanto essere cercata in un solo luogo ma, come per tutta l’area dell’impero romano è diffuso il grano degli eletti, così per la sua intera latitudine è dispersa la paglia dei reprobi. La meretrice, aggiunge Olivi, designa la gente e l’impero dei Romani sia nello stato del paganesimo sia in quello cristiano, durante il quale colpevolmente fornicò molto con questo mondo (Ap 17, 1).
Questo passo che Olivi trae dall’abate calabrese, in base al quale si può dire che per il frate “la Chiesa non è, senz’altro, ‘Babilon’, per quanto gravi siano le colpe di cui essa sia rea; e la gerarchia, di cui è costituita, non può essere, tranquillamente, condannata e messa da parte” [9], riceve in Dante una suggestiva quanto insospettabile metamorfosi. La peregrinante Roma dei giusti impugnata dai reprobi è impersonata, in fine di Par. VI (vv. 127-142), da Romeo di Villanova: “Romeo, persona umìle e peregrina”, fu il “giusto” ministro del conte di Provenza Raimondo Beringhieri, “di cui / fu l’ovra grande e bella mal gradita”. Ed è elogio tributato, per rimanere in tema, da “Giustiniano”, dopo che questi ha ripercorso tutte le imprese operate, nel governo del mondo, dalla virtù del “sacrosanto segno” dell’Aquila. I Provenzali, che con “le parole biece”, cioè con invidia e calunnia, costrinsero il giusto a lasciare la corte, sono “Babilon”. Rappresentano la Roma dei reprobi, cattivi pellegrini: “e però mal cammina / qual si fa danno del ben fare altrui”. Sono stati puniti, come lo sarà la nuova Babilonia, passando sotto il duro giogo angioino, dopo che Beatrice, una delle quattro figlie di Raimondo da Romeo accasate a regnanti, avrà recato “la gran dota provenzale” a Carlo I.
Ma uno spirituale, leggendo i versi, vi avrebbe scorto anche il motivo della “margarita”, come Giustiniano definisce il cielo di Mercurio. Il tema deriva dall’esegesi della settima visione, che descrive la Gerusalemme celeste. Il muro della città ha dodici porte, le porte dodici angoli e nomi scritti, che sono i nomi delle dodici tribù dei figli di Israele (Ap 21, 12): “A oriente tre porte, a settentrione tre porte, a mezzogiorno tre porte, a occidente tre porte” (Ap 21, 13). Più avanti, trattando della loro materia, si dice: “E le dodici porte sono dodici perle” (“margarite”, Ap 21, 21), sono cioè coloro per i quali Israele entrerà in Cristo, candidi e puri come le perle nel cuore e nel corpo; concepiti, come le perle si formano nelle conchiglie, per rugiada celeste che in essi si coagula. Le perle sono inoltre piccole, e per questo designano l’umiltà e la povertà evangelica [10]. Il cielo di Mercurio, dice appunto Giustiniano, è “picciola stella” e “margarita” (Par. VI, 112, 127): in essa riluce Romeo, “persona umìle e peregrina”, che dovette abbandonare “povero e vetusto” la corte provenzale resa grande con la sua opera (ibid., 135, 139). La prima rosa di parole, che ha per cerniera la peregrinante Roma dei giusti diffusa su tutto l’Impero, s’intreccia con la seconda, nella quale risuonano i temi della povertà e dell’umiltà francescana, consonanti per contrario suono con il secondo cielo, che “si correda / d’i buoni spirti che son stati attivi / perché onore e fama li succeda”, e per questo meno desiderosi del vero amore e quindi beati con minor merito (ibid., 112-117).
La “meretrice”, che nella visione gioachimita e oliviana è sparsamente diffusa all’interno della Chiesa, è da Dante introdotta nella curia di Cesare: non a caso l’unica occorrenza del termine nel poema è a Inf. XIII, 64. Ancora una volta, si tratta di una corte in cui l’invidia prevale. È la corte di Federico II, “Cesare” come Giustiniano, ma che come questi non testimonia in favore di un giusto, il suo consigliere Pier della Vigna, che rese sé stesso ingiusto suicidandosi: “La meretrice che mai da l’ospizio / di Cesare non torse li occhi putti, / morte comune e de le corti vizio” (Inf. XIII, 64-66). Da confrontare gli “occhi putti” con “qui hoc nescit (dampnationem et malitiam meretricis) de facili decipitur nutibus oculorum eius et a gloria eius”. Il termine “meretrice” è poi sostituito con “puttana” a Inf. XVIII, 133 e a Purg. XXXII, 149, 160 (cfr. il “puttaneggiar coi regi” di Inf. XIX, 108).
Questa meretrice, spiega Olivi ad Ap 17, 6, fu prima pagana e poi cristiana; le sue colpe antiche ridondano sulle successive come l’acqua cangiante di un fiume sanguigno, che è però sempre uno. Questa immagine, per cui ciò che storicamente precede è solo parte di un tutto che si sviluppa, quasi in una grande sineddoche – “et secundum hoc quod est unius partis attribuitur toti vel alteri parti per sinodochem” [11] – non solo giustifica il connubio figurale fra storia pagana e cristiana, ma fa ricadere sull’acqua che scorre al 1300 tutte le colpe dei padri (ad esempio nelle fazioni cittadine), delle quali i figli si sono fatti recidivi [12].
Come l’angelo invita Giovanni a vedere la dannazione e la malizia della meretrice, perché ciò giova assai, in quanto chi non le conosce viene facilmente ingannato dai cenni dei suoi occhi e dalla sua gloria, così nell’Eden Beatrice invita Dante a tenere gli occhi sul carro della Chiesa e a scrivere poi, una volta ritornato di là, quel che ha visto “in pro del mondo che mal vive” (Purg. XXXII, 103-105; passo riconducibile anche ai vari luoghi dell’Apocalisse in cui a Giovanni si ingiunge di scrivere). Tra le vicende allegoriche del carro, la “puttana sciolta” che siede sopra di esso trasformato in mostro appare al poeta “con le ciglia intorno pronte”, e gli rivolge “l’occhio cupido e vagante”, suscitando il sospetto e l’ira del gigante che vigila su di lei (la casa di Francia che vigila sul papato, ibid., 148-160). La condanna di Babylon è preannunciata da Beatrice con la profezia della venuta di “un cinquecento diece e cinque”, il “messo di Dio” che “anciderà la fuia / con quel gigante che con lei delinque” (Purg. XXXIII, 37-45).
Ancora, la funzione dell’angelo che trae i discepoli all’insegnamento spirituale viene svolta da Virgilio nell’offrirsi come guida: “Ond’ io per lo tuo me’ penso e discerno / che tu mi segui, e io sarò tua guida, / e trarrotti di qui per loco etterno; / ove udirai le disperate strida, / vedrai li antichi spiriti dolenti, / ch’a la seconda morte ciascun grida” (Inf. I, 112-117).
Infine, il bene operare (proprio di Romeo) opposto alla nequizia (a cui i beati non possono più inclinare l’affetto, addolcito dalla giustizia divina), già proprio del parlare di Giustiniano (Par. VI, 121-123, 129), si ritrova con Cacciaguida, tanto gradito all’imperatore Corrado III “per bene ovrar” da essere da questi armato cavaliere per poi morire martire contro la nequizia saracena, “di quella legge il cui popolo usurpa, / per colpa d’i pastor, vostra giustizia” (Par. XV, 139-148; “nequizia”, “iniqua opera” nell’esegesi, oltre che nei due luoghi qui citati si ritrova solo a Par. IV, 69).
Tab. 2.1
3. Al modo delle rane (Ap 16, 12-14)
Viene qui esaminata l’esegesi dei “tre spiriti immondi al modo delle rane”, descritti nel versamento della sesta coppa (quinta visione). Si tratta di “spiriti di demoni che operano segni e che vanno a radunare i re di tutta la terra per la guerra del gran giorno di Dio onnipotente” (Ap 16, 13-14). Questi tre spiriti designano sia le suggestioni astute, sottili e quasi spirituali che i demoni inducono e suggeriscono, direttamente o per la bocca di uomini maligni, sia alcuni uomini astuti e fraudolenti i quali, nunzi e ambasciatori dell’Anticristo, vanno a radunare i re affinché corrano in guerra contro Babilonia, cioè contro la Chiesa carnale.
In quanto tre, e uscenti concordemente da tre bocche (del drago, della bestia e del falso profeta), i tre spiriti immondi simili a rane rappresentano una trinità pessima opposta a quella santa delle persone divine e delle loro virtù. Verranno mandati dalle due genti o dalle due teste delle quali il drago, o il diavolo, sarà terzo e come il primo motore, cioè dal re dei pagani o dei Saraceni e dal falso papa o dal principe dei falsi profeti. Designano anche le tre categorie dei guerrieri (inviati dalla bestia), dei falsi maestri, dottori o predicatori (inviati dal falso profeta) e dei falsi religiosi (inviati per antonomasia dal drago), nei quali maggiore è la falsità, l’ipocrisia e la frode. Secondo Gioacchino da Fiore – che nell’esegesi di Ap 16, 13-14 non è fonte prevalente, ma giustapposta a Riccardo di San Vittore -, il drago sta qui per l’Anticristo, nella cui adorazione sarà ricompresa quella del drago e attraverso il quale il drago principalmente parlerà e opererà; con la bestia viene designata la gente pagana o il loro monarca.
Di questi tre spiriti si dice che sono “immondi al modo delle rane” per mostrare la viltà, il fetore e la sussurratoria garrulità che promana da essi e dalle loro suggestioni. Essi sono “spiriti di demoni che operano segni”, poiché i demoni saranno tanto familiari a quei nunzi, per mezzo dei quali faranno prodigi, o quelli ai demoni tramite i quali opereranno, da fare in modo che si possa sensibilmente attribuire i segni agli spiriti demoniaci. Si può anche intendere che i nunzi opereranno prodigi per mezzo dei soli falsi profeti, e allora essi stessi saranno falsi profeti inviati dalle tre bocche del drago, della bestia e del falso profeta per concorde consiglio e beneplacito di questi tre.
Il tema della pessima trinità si configura con una certa frequenza nella prima cantica, dalle “tre furïe infernal di sangue tinte” (Inf. IX, 38) ai tre centauri Chirone, Nesso e Folo che si staccano dalla schiera alla vista dei due poeti (Inf. XII, 59-60: il motivo trinitario deriva anche da altro tema tratto da Ap 1, 8), dalle tre ombre dei sodomiti fiorentini che si dipartono insieme nell’arena dalla torma che passa sotto la pioggia di fuoco (Inf. XVI, 4-6) ai tre spiriti dei ladri fiorentini che si apprestano a trasmutarsi con altri due (Inf. XXV, 35).
Una variante è costituita da Gerione, che è “fiera pessima” e triplice (“pessima” è hapax): uomo nel volto, leone (o drago) nelle zampe artigliate, serpente nel resto con una coda simile a quella dello scorpione. Come i tre spiriti immondi si preparano alla guerra contro Babilonia, così Gerione si presenta come il “bivero”, il castoro che “tra li Tedeschi lurchi … s’assetta a far sua guerra” ai pesci (Inf. XVII, 21-24). Nel mentre Virgilio parla con Gerione, Dante va in visita agli usurai, “su per la strema testa di quel settimo cerchio” (ibid., 34-78). Ne vede tre, con le armi di famiglia che segnano una tasca che pende loro dal collo (i Gianfigliazzi, gli Obriachi, gli Scrovegni), provenienti da due città (Firenze, Padova) in attesa di altri due (il padovano Vitaliano del Dente e “ ’l cavalier sovrano”, cioè il fiorentino Gianni Buiamonti). Il rapporto numerico tra due e tre è proprio degli spiriti immondi simili a rane (che sono tre, ma inviati dalle due teste delle quali il drago è il primo motore). I tre spiriti, dice Olivi, sono “corretarii Antichristi”, cioè aiutanti del grande usuraio.
Questo rapporto numerico si ritrova nelle anime che morirono di morte violenta e che si pentirono all’ultima ora meritando di stare nel secondo balzo dell’Antipurgatorio. Due di loro corrono incontro ai poeti “in forma di messaggi”, cioè di nunzi, per chiedere della loro condizione (Purg. V, 28-30), ma poi sono in tre a parlare: Iacopo del Cassero, Buonconte da Montefeltro e la Pia. Oltre al motivo dell’annunziare, di queste anime è proprio anche quello del sussurrare in modo garrulo per la meraviglia suscitata dal poeta che, essendo vivo, fa ombra col proprio corpo. Di qui il rimprovero di Virgilio a non prestare attenzione al mormorio: “che ti fa ciò che quivi si pispiglia?” (ibid., 12). Un motivo non del tutto estraneo ai casi infernali sopra considerati, visto che le Furie piangono e gridano alto, Chirone parla coi suoi compagni dei piedi di Dante che, poiché muovono ciò che toccano, non possono essere piedi di un morto; i tre sodomiti stanno nel luogo dove l’acqua del Flegetonte che cade nel girone sottostante rimbomba come ronzio di api dentro gli alveari; i tre ladri si chiamano l’un l’altro per nome.
La tematica dei tre spiriti immondi e istigatori, familiari dell’Anticristo, percorre in Inf. XXX l’episodio di maestro Adamo, il quale accusa i tre fratelli conti di Romena di averlo indotto a falsificare i fiorini. Anche Romena, il castello dei conti Guidi, per la singolare concordia nel suono con l’impero romano, su cui viene versata la sesta coppa, sembra partecipare della metamorfosi poetica dei motivi presenti nell’esegesi di Ap 16, 12-14.
Secundum Ioachim, per flumen Eufraten, quod influebat in Babilonem antiquam ispamque non modicum muniebat, designatur hic romani seu christiani imperii militia mundana … De quorum adductione, et per quorum suggestionem adducentur, ostendit subdens: “(Ap 16, 13) Et vidi de ore drachonis et de ore bestie et de ore pseudoprophete tres spiritus immundos exire in modum ranarum. … ”. Per hos autem tres spiritus designantur tam suggestiones astute et subtiles et quasi spiritales, quam demones per se et per ora malignorum hominum suggerentes et inducentes … Per hoc autem quod dicit quod “sunt spiritus demoniorum facientes signa”, ostendit quod demones erunt sic familiares illis nuntiis per quos facient signa, seu illi per ipsos demones, quod quasi sensibiliter totum poterit ascribi ipsis spiritibus demonum”.
“Ivi è Romena, là dov’ io falsai / la lega suggellata del Batista; / per ch’io il corpo sù arso lasciai. / Ma s’io vedessi qui l’anima trista / di Guido o d’Alessandro o di lor frate, / per Fonte Branda non darei la vista. … Io son per lor tra sì fatta famiglia ; / e’ m’indussero a batter li fiorini / ch’avevan tre carati di mondiglia” (Inf. XXX, 73-78, 88-90; “mondiglia” è hapax nella Commedia).
L’esegesi può anche subire una trasformazione in senso positivo. Correre in guerra, come i tre spiriti immondi, è proprio di Francesco e dei suoi primi seguaci (Par. XI, 58-59) [13]; essere messo e famigliare appartiene sia a Domenico (Par. XII, 73-75; cfr. ibid., 34-35: “s’induca … ad una militaro – inducentes … unanimius ad bellum conveniant ”) come all’angelo che invia dal secondo al terzo girone della montagna (Purg. XV, 28-30).
Tab. 3.1
Il sesto angelo (Ap 16, 12) versa la coppa per prosciugare le acque del grande fiume Eufrate, che scorreva a difesa dell’antica Babilonia, interpretate da Gioacchino da Fiore come la milizia mondana dell’impero, romano o cristiano, per togliere cioè a questo la funzione di baluardo contro i re e i tiranni che dalla provincia orientale vengono coi loro eserciti a distruggere la nuova Babilonia. Olivi aggiunge l’opinione di alcuni che ritengono che la forza di questo deterrente si secchi per le lotte intestine fra i regni cristiani, e che ciò sia preparazione alla distruzione della Chiesa carnale e del suo principato ad opera dei dieci re e dell’undecimo che li comanda (Ap 17, 10.12.16; cfr. Dn 7, 24).
L’esegesi oliviana, che si appunta contro “Roma” – “de iure omnium domina”: cfr. Ap 17, 9 – in quanto Chiesa carnale, è applicata da Dante alla “serva Italia”, non “donna di provincie”, dilaniata “in seno”, le cui città “tutte piene / son di tiranni”, dalla quale persino la giustizia del “sommo Giove” distoglie gli occhi, ma forse perché ciò “è preparazion che ne l’abisso / del tuo consiglio fai per alcun bene / in tutto de l’accorger nostro scisso” (Purg. VI, 78, 86, 121-123, 125).
In questa terra dove “l’alta gloria del roman principato” (Purg. X, 73-74) è vergognosamente volta in basso, “un Marcel diventa / ogne villan che parteggiando viene” (Purg. VI, 125-126). Nei versetti successivi relativi alla sesta coppa (Ap 16, 13-14) si parla dei “tre spiriti immondi al modo delle rane”, vili e loquaci: «Dicit etiam “immundos ad modum ranarum”, ut monstret vilitatem et feditatem et susurratoriam garrulitatem istorum spirituum seu nuntiorum et suarum suggestionum». Il “Marcellus loquax” di Lucano (Phars., I, 313) – il console Claudio Marcello, avversario di Cesare – concorda con l’esegesi apocalittica (cfr. Purg. V, 12: “che ti fa ciò che quivi si pispiglia?”). “Parteggiando” rinvia ancora, nello stesso capitolo, al preambolo della sesta visione, che concerne la caduta di Babylon (Ap 16, 18-19), preannunciata dalla divisione in tre parti, per discordie intestine, della grande città; esegesi applicata a Firenze, alla quale fanno riferimento Ciacco, Farinata, Cacciaguida.
Tab. 3.2
[LSA, cap. XVI, Ap 16, 12-14 (Va visio, VIa phiala)] “Et sextus angelus effudit phialam suam in flumen magnum Eufraten et siccavit aquas eius, ut preparetur via regibus ab ortu solis” (Ap 16, 12). Secundum Ioachim, per flumen Eufraten, quod influebat in Babilonem antiquam ispamque non modicum muniebat, designatur hic romani seu christiani imperii militia mundana, unde et infra XVII° dicitur quod “aque”, super quas “meretrix sedet, sunt populi et gentes” (Ap 17, 15), quas oportet siccari et debilitari, ut non sit qui resistat regibus et tirannis ad destruendam novam Babilonem venturis, prout in capitulo sequenti dicitur (cfr. Ap 17, 16). Unde et hic dicitur quod “siccavit aquas eius, ut preparetur via regibus ab ortu solis”, scilicet venturis. Super quo Ioachim dicit: «Puto quod a parte orientali incipiet tribulatio, hoc est ab illa provincia, ut tangamus spiritum, ubi ortus est verus sol». Quidam dicunt quod per intestina prelia regum et regnorum ecclesie romane siccabitur seu deficiet robur et multitudo suorum exercituum, et hoc erit preambula preparatio ad secuturam destructionem carnalis ecclesie et sui principatus et regni fiendam per decem reges et per regem undecimum eis presidentem. […] Hec igitur erit preparatio ad facilius producendum carnalem ecclesiam in errores Antichristi magni et orientalium regum. De quorum adductione, et per quorum suggestionem adducentur, ostendit subdens: “(Ap 16, 13) Et vidi de ore drachonis et de ore bestie et de ore pseudoprophete tres spiritus immundos exire in modum ranarum. (Ap 16, 14) Sunt enim spiritus demoniorum facientes signa et procedunt ad reges totius terre congregare illos in prelium ad diem magnum Dei omnipotentis”.
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Purg. VI, 85-87, 124-126Cerca, misera, intorno da le prode
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Lucano, Pharsalia, I, 303-313Non secus ingenti bellorum Roma tumultu
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[LSA, cap. XVI, Ap 16, 18-19 (radix VIe visionis)] Sicut enim Ioachim ait, quando Deus vult mutare statum ecclesie precedunt ante per aliquot annos fulgura miraculorum et voces exhortationum et tonitrua spiritualium eloquiorum, ut homines excitentur et intelligant quod novum aliquid facturus sit Dominus super terram*.
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[1] Ap 10, 3 è stata già considerata più diffusamente altrove.
[2] Si segue, con qualche variante, la traduzione di P. VIAN, in Pietro di Giovanni Olivi. Scritti scelti , Roma 1989 (Fonti cristiane per il terzo millennio, 3), pp. 139-142.
[3] Cfr. Il sesto sigillo, 6 (Voce esteriore e dettato interiore), tab. XXXVII bis.
[4] LSA, cap. X, Ap 10, 11: «Ricardus exponit hoc de persona Iohannis, tunc propter suum exilium a predicatione cessantis, cui consolatorie Christus promittit quod de exilio liberabitur et ad pristine predicationis officium iterato redibit. Sed miror Ricardum non advertisse quod hoc in nullo pertinet ad sextum tempus ecclesie sub sexta tuba futurum et circa tempus Antichristi. Preterea eadem ratione deberet dici quod subsequens mensuratio templi et reiectio atrii Iohanni iniuncta fuisset tempore Iohannis et per ipsum implenda, cuius contrarium constat per id quod subditur, quod atrium datum est gentibus, calcandum ab eis per quadraginta duos menses (cfr. Ap 11, 2), quod, prout ex subsequentibus patet, expectat ad tempus Ant[i]christi».
[5] Cfr. E. BUONAIUTI, Pellegrino di Roma. La generazione dell’esodo, a cura di M. Niccoli e A. C. Jemolo, Bari 1964 (Biblioteca di cultura moderna, 604), pp. 261-262: «Profondamente convinto di possedere ormai la chiave di tutto il simbolismo della rivelazione biblica e cristiana, Gioacchino immagina di essere, al cospetto della Chiesa, quel che fu lo schiavo di Rebecca, al momento decisivo della vita della sua padrona: il discopritore della verità fatale. Egli annuncia alla Chiesa di Roma la trasmutazione definitiva dei simboli di cui le è stata affidata l’amministrazione. … La pace spirituale del mondo! Il monaco sepolto nella solitudine della Sila non aveva avuto altro miraggio in cuore. … Gli uomini facevano il più crudele strazio del più insigne dono dello Spirito: la gioia, la pace. … L’orizzonte era percosso da uno di quegli uragani rovinosi in cui l’occhio della fede scorge, senza esitazione, il presagio delle nuove rivelazioni. Con l’anima battuta dalla febbre della speranza, Gioacchino aveva ansiosamente interpellato i simboli delle precedenti economie della grazia. E aveva ad essi strappato il loro segreto. La nuova età stava per spuntare. Alla Chiesa dei simboli stava per succedere la Chiesa delle realtà spirituali. La spiritualità francescana tentò di incorporare in sé e di trarre a compimento il vaticinio del veggente di Celico. Ma le circostanze storiche dannarono il tentativo al fallimento. E da allora ebbe origine la decadenza dei grandi valori cristiani nel mondo».
[6] La pace è uno dei principali temi della sesta vittoria (Ap 3, 12).
[7] Cfr. Il sesto sigillo, 2c (L’apparizione di Beatrice nell’Eden: un’Apocalisse dei tempi moderni ), tab. XV.
[8] I significati propri della parola “mistero” (Ap 10, 7) vanno integrati con quanto si dice ad Ap 1, 20 (relativo all’ingiunzione di scrivere il mistero proprio delle sette stelle o candelabri) e ad Ap 17, 7 (circa il mistero della donna e della bestia che la porta). In entrambi i casi “mistero”, inteso come segno figurale di ciò che è segreto o occulto, equivale a “sacramento”, che è “sacre rei signum”: di qui i possibili riferimenti nel poema, dalle “segrete cose” in cui Virgilio mette Dante all’inizio della discesa nell’inferno (Inf. III, 21), al “segno” fatto da Virgilio ai diavoli “di voler lor parlar segretamente” (Inf. VIII, 86-87), al “sacrosanto segno” dell’Aquila che fa parlare di sé Giustiniano (Par. VI, 32), alla ragione occulta, definita da Beatrice “segno”, per cui Dio volle che la redenzione avvenisse per la morte di Cristo (Par. VII, 55-63).
[9] Cfr. R. MANSELLI, La terza età, “Babylon” e l’Anticristo mistico (a proposito di Pietro di Giovanni Olivi) (1970), in ID., Da Gioacchino da Fiore a Cristoforo Colombo. Studi sul francescanesimo spirituale, sull’ecclesiologia e sull’escatologisno bassomedievali, introduzione e cura di P. Vian, Roma, Istituto Storico Italiano per il Medio Evo, 1997 (Nuovi Studi Storici, 36), p. 171 e nota 14: «Ne viene che “Babilon” non è, dunque, un concetto che tocca gli aspetti carismatici e giurisdizionali della Chiesa o degli ecclesiastici; si riferisce, invece, ai valori morali e spirituali: è l’insieme di quei fedeli – ed in questo concetto sono compresi anche chierici e prelati – i quali hanno dimenticato l’esempio di Cristo, e si sono quindi resi colpevoli di acquiescenza al mondo e di cedimento alle sue tentazioni. In ciò e per ciò saranno puniti sul piano della storia come dal giudizio divino. (nota 14) È appena il caso di ricordare la posizione, che per vari aspetti ci pare significativamente analoga, di Dante Alighieri. Questi, dopo aver detto a chiare parole nel canto XIX dell’Inferno, parlando dei simoniaci, che Bonifacio VIII è già, nella previsione di Dio, dannato ed atteso perciò nella tomba infuocata ove dovrà restare per l’eternità con quanti lo precedettero “simoneggiando”, lo considera pur sempre “vicario di Cristo” contro il quale ha empiamente agito Filippo il Bello per mezzo dei suoi scherani».
[10] Cfr. La settima visione, I.7 (Pietre preziose e ‘margherite’ ).
[11] LSA, cap. XVII, Ap 17, 6; Par. lat. 713, f. 170ra-va.
[12] Cfr. Dante all’ “alta guerra” tra latino e volgare. Postilla alle ricerche di Gustavo Vinay sul De vulgari eloquentia, 2.11 (La «riviera del sangue», ovvero la grande sineddoche della storia pagana e cristiana).
[13] Su questo punto cfr. Il sesto sigillo, 2d.2 (L’uomo razionale ed evangelico), tab. XIX-1.
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Prossimamente
Dante e Gioacchino da Fiore – III
1. L’instabile arena del mare (Ap 12, 18). 2. I quattro lati dell’altare d’oro (Ap 9, 13-14). 3. Odiare la carità fraterna (Ap 16, 10-11). 4. Le corazze degli pseudoprofeti (Ap 9, 17).