INDICE GENERALE
I
Introduzione. 1. L’angelo dalla parola ornata. 2. L’Ordine finale. 3. Evangelium aeternum.
II
1. Tempus amplius non erit (Ap 10, 5-7). 2. Roma, la grande meretrice (Ap 17, 1). 3. Al modo delle rane (Ap 16, 12-14).
III
1. L’instabile arena del mare (Ap 12, 18). 2. I quattro lati dell’altare d’oro (Ap 9, 13). 3. I limiti invalicabili dell’Impero romano (Ap 9, 14). 4. Odiare la carità fraterna (Ap 16, 10-11). 5. Le corazze degli pseudoprofeti (Ap 9, 17).
IV
1. I quattro sensi della Scrittura (Ap 6, 6). 2. La montagna dell’anagogia (Ap 21, 2.10). 3. L’altare dei profeti consorti nella pietas (Ap 8, 3).
V
La resurrezione della testa della bestia che sembrava uccisa (Ap 13, 3; 17, 8).
VI
Variazioni sul tema della voce.
VII
Il secondo stato: i martiri.
VIII
Il quarto stato: i contemplativi.
IX
Il quinto stato: i condescensivi.
X
Il sesto e il settimo stato: l’età dello Spirito.
Indice delle citazioni di Gioacchino da Fiore.
Abbreviazioni e avvertenze
LSA : PIETRO DI GIOVANNI OLIVI, Lectura super Apocalipsim.
Concordia : JOACHIM VON FIORE, Concordia Novi ac Veteris Testamenti. Herausgegeben von A. Patschovsky, Wiesbaden 2017 (Monumenta Germaniae Historica. Quellen zur Geistesgeschichte des Mittelalters, 28. Band), Teil 2 (lib. I-IV), Teil 3 (lib. V).
Expositio : GIOACCHINO DA FIORE, Expositio in Apocalypsim, in Edibus Francisci Bindoni ac Maphei Pasini, Venetiis 1527, ristampa anastatica Minerva, Frankfurt a. M. 1964.
Olivi opera spesso una sintesi del testo di Gioacchino da Fiore. Le « » precedono e chiudono un’effettiva citazione. Diversamente, viene posto un asterisco (*) o una nota in apice al termine della parte riferibile a Gioacchino.
In Ap : RICCARDO DI SAN VITTORE, In Apocalypsim libri septem, PL 196, coll. 683-888.
Tutte le citazioni della Lectura super Apocalipsim presenti nei saggi o negli articoli pubblicati su questo sito sono tratte dalla trascrizione, corredata di note e indici, del ms. Paris, Bibliothèque nationale de France, lat. 713, a disposizione fin dal 2009 sul sito medesimo. I passi scritturali ai quali si riferisce l’esegesi sono in tondo compresi tra “ ”; per le fonti si rinvia all’edizione in rete. Non viene presa in considerazione l’edizione critica a cura di W. LEWIS (Franciscan Institute Publications, St. Bonaventure – New York, 2015) per le problematiche da essa poste, che sono discusse in A. FORNI – P. VIAN, A proposito dell’edizione di Warren Lewis della Lectura super Apocalipsim di Pietro di Giovanni Olivi. Alcune osservazioni, in “Archivum Franciscanum Historicum”, 109 (2016), pp. 99-161.
Il testo della Commedia citato è in Dante Alighieri, La Commedia secondo l’antica vulgata, a cura di G. PETROCCHI, Firenze 1994.
[All quotations from the Lectura super Apocalipsim in the essays or articles published in this website have been drawn from the transcription, with notes and indexes, of ms. Paris, Bibliothèque nationale de France, lat. 713, which has been available therein since 2009. The Biblical passages to which the exegesis refers are in Roman type in “ ”; for sources please refer to the online edition. The critical edition by W. LEWIS (Franciscan Institute Publications, St. Bonaventure – New York, 2015) has not been considered due to the issues it poses, which are discussed in A. FORNI – P. VIAN, A proposito dell’edizione di Warren Lewis della Lectura super Apocalipsim di Pietro di Giovanni Olivi. Alcune osservazioni, “Archivum Franciscanum Historicum” 109 (2016), pp. 99-161.
The text referring to the Commedia has been drawn from Dante Alighieri, La Commedia secondo l’antica vulgata, edited by G. PETROCCHI, Firenze 1994.]
ABSTRACT
La Divina Commedia è un universo di segni. Il senso letterale, riservato a tutti, contiene parole che sono chiavi di accesso a un altro testo, la Lectura super Apocalipsim dell’Olivi. Si tratta di un procedimento di arte della memoria: le parole-chiave operano sul lettore come imagines agentes che lo sollecitano verso un’opera di ampia dottrina, che già conosce, ma che rilegge mentalmente parafrasata in volgare, profondamente aggiornata secondo gli intenti propri del poeta, in versi che le prestano “e piedi e mano” e la dotano di exempla contemporanei e noti. Dante, che considerava sé come un nuovo Giovanni e la sua opera come una nuova Apocalisse, mirava non solo a un pubblico di laici, ma anche di predicatori e riformatori della Chiesa. Questo pubblico di chierici non si formò, perché gli Spirituali, che dovevano conoscere la Lectura oliviana, furono perseguitati e il loro libro-vessillo, censurato nel 1318-1319 e condannato nel 1326, fu votato alla clandestinità e quasi alla sparizione.
La ricerca prova che fra la Commedia e la Lectura super Apocalipsim esiste un rapporto tecnico che riguarda tutto il poema per ognuno dei 14233 endecasillabi, nei quali i concetti teologici vengono incardinati e trasformati. Questa straordinaria metamorfosi testuale si fonda su precise e verificabili norme.
Il confronto testuale risolve il problema, a lungo dibattuto, del rapporto tra Dante e Gioacchino da Fiore. Dante conobbe Gioacchino solo attraverso l’Olivi. Dal confronto si vede come i testi dell’abate calabrese passino in Olivi e di qui, con in più quel che è proprio del francescano, in Dante. Gioacchino da Fiore è dunque presente nella Commedia in modo diffuso, perché le numerose sue citazioni nella Lectura sono inserite nella generale metamorfosi di questa.
The Divina Commedia is a universe of signs. The literal meaning, intended for readers in general, contains keywords to access another text, the Lectura super Apocalipsim by Olivi. This is a technique used in the art of memory: like imagines agentes the keywords remind readers of a doctrinal book they have read before, which they mentally reread paraphrased in the vernacular, extensively updated according to the poet’s intent, in verses that lend “e piedi e mano” to the doctrine and provide contemporary and familiar exempla. Dante, who considered himself a new Saint John and his work a new Apocalypse, targeted a readership of seculars, as well as preachers and Church reformers. This clerical readership failed to develop because the Franciscan Spirituals, who should have known Olivi’s Lectura, were persecuted and their book-vexillum, which was censured in 1318-1319 and condemned in 1326, became clandestine and almost disappeared.
The research proves that between the two texts there is indeed a technical relationship that concerns the entire poem and each of the 14233 hendecasyllables, in which the theological concepts have been established and transformed. This extraordinary textual metamorphosis is based on specific and verifiable rules.
A comparison of the texts solves the issue, debated at length, regarding the relationship between Dante and Joachim of Fiore. Such investigation shows how the texts of the Abbot from Calabria are passed down to Olivi, who added his own thoughts, and hence to Dante. Dante was only acquainted with Joachim through the works of Olivi. Hence, the Abbot is “mentioned” throughout the Commedia, since his numerous quotations in the Lectura are part of its general metamorphosis.
X.
IL SESTO E IL SETTIMO STATO: L’ ETÀ DELLO SPIRITO
Come Gioacchino da Fiore, come Francesco d’Assisi, come gli Spirituali gioachimiti, e come i poeti dell’amore mistico, Dante crede al Rinnovamento dell’anima umana. Solo ch’egli non lo cerca più esclusivamente nella sua posizione di fronte a Dio. Certo, anch’egli, come i suoi predecessori, spera nella reformatio della Chiesa; ma egli l’attende in connessione con una grande trasformazione di tutte le cose terrene, dello Stato, della società. Ed egli si sforza di raggiungere la nuova vita nell’accordo del bello e del celeste, in quella nuova poesia, sulla quale splende la luce della verità saggezza e bellezza sovrasensibili, sorgenti però dalla varia ricchezza dei fenomeni della vita terrena ed umana. La Vita Nova, col suo maggior compimento artistico, la Divina Commedia, dà forma al grande pensiero dell’epoca: la Rinascita, la trasformazione ideale, cioè il Rinascimento e la Riforma degli individui e della comunità.K. BURDACH, Riforma Rinascimento Umanesimo. Due dissertazioni sui fondamenti della cultura e dell’arte della parola moderne, trad. di D. Cantimori, pref. di C. Vasoli, Firenze 19862, p. 89. |
Il sesto e il settimo stato della storia della Chiesa nella ‘topografia spirituale’ della Commedia. I visione: sesta chiesa. II Visione: sesto sigillo. Francesco e Gioacchino da Fiore. L’angelo del sesto sigillo (Ap 7, 2) e l’angelo dal volto solare (Ap 10, 1). III Visione: sesta tromba. IV visione: Le citazioni di Gioacchino da Fiore ad Ap 12, 6. Sesta e settima guerra. V visione: sesta e settima coppa. VI visione. VII visione. Explicit. |
Il sesto e il settimo stato della storia della Chiesa nella ‘topografia spirituale’ della Commedia
Per quanto segua l’ordine dei ventidue capitoli dell’Apocalisse, Olivi suggerisce un metodo differente di comprensione e di aggregazione del testo esegetico, fondato sui sette stati, cioè sui periodi nei quali si articola la storia della Chiesa. L’Antico Testamento corrisponde alle prime cinque età del mondo, secondo la divisione tradizionale [1]: è l’età del Padre secondo Gioacchino da Fiore. Con il primo avvento di Cristo, nella carne, inizia la sesta età (l’età del Figlio), nella quale la Chiesa, come fosse un individuo, cresce e si sviluppa in sette stati. Al primo, apostolico periodo, succede il secondo dei martiri; poi, al tempo di Giustiniano, il terzo stato dei dottori che confutano con l’intelletto le eresie concorre con il quarto stato degli affettuosi anacoreti devoti al pasto eucaristico, alti per la contemplazione ma anche attivi come reggitori delle genti; a partire da Carlo Magno subentra il quinto stato aperto alla vita associata delle moltitudini, bello nel principio ma poi corrottosi fino a trasformare quasi tutta la Chiesa in una nuova Babilonia; la riforma interviene, a partire da Francesco, con il cristiforme sesto stato, fino alla sconfitta dell’Anticristo; subentra infine il silenzio e la quiete del pacifico settimo stato. Il sesto e il settimo stato (la terza età di Gioacchino da Fiore) coincidono con il secondo avvento di Cristo, nello Spirito, cioè nei suoi discepoli spirituali inviati a convertire il mondo con la predicazione; al termine del settimo stato ci sarà il terzo avvento, nel giudizio.
L’Apocalisse si articola in sette visioni: le sette chiese d’Asia, i sette sigilli, le sette trombe, la donna vestita di sole (le sette guerre sostenute dalla Chiesa), le sette coppe, il giudizio di Babylon nelle sette teste del drago, la Gerusalemme celeste. Le prime sei visioni possono essere a loro volta divise in sette momenti, ciascuno dei quali riferibile a uno dei sette stati. Assembrando, per le prime sei visioni, tutti i primi elementi (chiesa, sigillo, tromba, guerra, coppa, momento del giudizio di Babylon), tutti i secondi, i terzi e così di seguito, si ottengono sette gruppi di materia teologica, corrispondenti al complesso dei temi afferenti a ciascuno dei sette stati [2]. A questi sette gruppi se ne aggiungono altri due: l’esegesi della settima visione (senza articolazioni interne) e l’esegesi di capitoli del testo scritturale, o di parti di essi, introduttivi delle successive specificazioni delle singole visioni per settenari, che Olivi definisce “radicalia” o “fontalia”. Si ottengono in tal modo nove gruppi: le parti proemiali, i sette assembramenti di settenari e la settima visione. Il grande prologo della Lectura, articolato in tredici notabilia, può essere anch’esso aggregato nelle sue parti secondo i sette stati.
L’intenso travaso di parole-temi dalla Lectura nella Commedia si accompagna a un fatto strutturale. La Commedia mostra un ordine interno diverso da quello che appare al lettore: il viaggio di Dante ha un andamento di ciclici settenari, che corrispondono ai sette stati oliviani. È un ordine registrabile per zone progressive del poema dove prevalgono i temi di un singolo stato, che rompe i confini letterali stabiliti dai canti e da tutte le divisioni materiali per cerchi, gironi, cieli. Ogni stato, che ha differenti inizi, è concatenato per “concurrentia”, come le maglie di un’armatura, con quello che precede e con quello che segue. Ciascuno stato ha in sé una grande ricchezza di motivi e contiene inoltre temi di tutti gli altri, consentendo innumerevoli intrecci e variazioni. La Commedia appare, come l’Apocalisse, “libro scritto dentro e fuori” (Ap 5, 1), con duplice struttura, linguaggio e senso, letterale e spirituale. Il viaggio di Dante e la visione di Giovanni hanno la stessa causa finale, che è la beatitudine, alla quale si perviene con diverse guide, per gradi segnati da visioni sempre più nuove e ardue delle precedenti, attraverso una sempre maggiore apertura dell’arcano coperto dal velame dei sette sigilli fino al punto più alto in cui, in questa vita, è possibile vedere la verità.
Tutti i modi del linguaggio interiore al poema esprimono un processo, un viaggio dal più chiuso al più aperto, e in questo andare hanno una loro precisa collocazione ‘topografica’, uno ‘stato’ (nel senso di momento storico che ricade sulla coscienza individuale) al quale appartenere. Si possono in tal modo stendere vere e proprie mappe tematiche che comprendano l’ordine spirituale di tutta la Commedia, che aderisce a una precisa teologia della storia, sia pure modificandone profondamente le prospettive. La ciclicità dei temi permette di stabilire collegamenti inusitati tra le diverse zone; il procedere per gradi dell’illuminazione divina fa sì che episodi oscuri e quasi ermeticamente chiusi si chiariscano poi, aprendosi all’intelligenza in modo più alto.
A ogni gruppo è arbitrariamente assegnato un diverso colore: Radici (verde), I stato (verde acqua), II stato (rosso), III stato (nero), IV stato (viola), V stato (marrone), VI stato (blu), VII stato (indaco), VII visione (fucsia). Dei gruppi sono stati integralmente studiati il terzo stato e la settima visione.
INFERNO
(le prime cinque età del mondo)
La ‘topografia spirituale’ del poema mostra nell’Inferno cinque cicli settenari corrispondenti agli stati della Chiesa descritti da Olivi e ai loro temi contenuti nella Lectura. Questi cinque cicli designano le prime cinque età del mondo (riunite a loro volta nel primo stato generale, che corrisponde all’età del Padre di Gioacchino da Fiore), in quanto prefigurazione del primo avvento di Cristo e della Chiesa.
I cinque cicli settenari che si susseguono nell’Inferno a partire dal quarto canto (i primi tre canti hanno una tematica particolare) sono preceduti da cinque zone che possono essere definite ‘snodi’, dove cioè confluiscono temi provenienti da più stati, intrecciati insieme ad altri ad avviare il procedere settenario. Il centro di questi ‘snodi’ coincide con un canto (Inf. IV, X, XVII, XXVI, XXXII), ma la zona è più vasta e supera l’ambito dato dalla divisione letterale del poema.
Inf. I-III: da considerare al di fuori dei cicli: I primi due canti dell’Inferno sono profondamente segnati dai temi del sesto stato: cfr. Il sesto sigillo, cap. 1c, Tab. VI-3; 2a, Tab. IX, X. Inf. III è riferibile al settimo stato (per gli ignavi) e in parte al quinto (per l’episodio di Caronte): cfr. ibid., cap. 7a, Tab. XLIV-XLV. |
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canti |
I ciclo |
stati |
cerchi |
IV |
Limbo |
Radici, I (I snodo) |
I |
V |
lussuriosi |
II |
II |
VI |
golosi |
III |
III |
VII |
avari e prodighi, Palude Stigia(iracondi e accidiosi) |
III–IV–V |
IV-V |
VIII |
Palude Stigia, Città di Dite |
V |
V |
IX |
apertura della porta della Città di Dite |
V–VI |
|
canti |
II ciclo |
stati |
cerchi |
IX-X-XI |
eretici, ordinamento dell’Inferno |
I (II snodo) |
VI |
XII |
violenti contro il prossimo |
II |
VII (girone 1) |
XIII |
violenti contro sé |
III |
(girone 2) |
XIV |
violenti contro Dio: bestemmiatori |
IV |
(girone 3) |
XV-XVI |
violenti contro Dio: sodomiti |
V |
|
XVIXVII |
ascesa di GerioneGerione, violenti contro Dio: usurai |
VI |
canti |
III ciclo |
stati |
cerchi |
XVII |
volo verso Malebolge |
I (III snodo) |
|
XVIII |
ruffiani, lusingatori |
Radici – II |
VIII (bolgia 1, 2) |
XIX |
simoniaci |
III |
(bolgia 3) |
XX |
indovini |
IV |
(bolgia 4) |
XXI-XXII |
barattieri |
V |
(bolgia 5) |
XXIII |
ipocriti |
V–VI |
(bolgia 6) |
XXIV-XXV |
ladri |
VI |
(bolgia 7) |
canti |
IV ciclo |
stati |
cerchi |
XXVI |
consiglieri di frode (greci) |
I (IV snodo) |
(bolgia 8) |
XXVII |
consiglieri di frode (latini) |
II |
|
XXVIII-XXIX |
seminatori di scandalo e di scisma |
III |
(bolgia 9) |
XXIX |
falsatori |
IV |
(bolgia 10) |
XXX |
falsatori |
IV–V |
|
XXXI |
giganti |
V–VI |
|
canti |
V ciclo |
stati |
cerchi |
XXXII |
Cocito: Caina, Antenora |
I (V snodo) |
IX |
XXXIII |
Antenora, Tolomea |
II |
|
XXXIV |
Giudecca |
III–IV–V |
|
XXXIV |
volgersi di Virgilio sull’anca di Lucifero |
VI |
|
Il sesto stato è per Olivi la fase più importante nella costruzione dell’edificio della Chiesa. In esso “renovabitur Christi lex et vita et crux”. Corrisponde ai tempi moderni. Ha quattro diversi inizi temporali: uno profetico, con Gioacchino da Fiore, il quale lo vide in spirito concependo la sua terza età; il secondo con la conversione di Francesco (1206), che seminò la pianta; il terzo con la predicazione degli uomini spirituali, per la quale la pianta si rinnovella; il quarto con la distruzione storica di Babylon [3]. Dura fino alla sconfitta dell’Anticristo, il cui avvento si collocherebbe, secondo i numeri della profezia di Daniele 12, 11-12 combinati con Ap 12, 6 e 14, fra il 1290 e il giubileo di pace del 1335.
Una ‘vita nuova’ si instaura nel sesto stato, per eccellenza il momento dell’imitazione di Cristo. I rami dell’albero si dilatano producendo il frutto della carità, l’acqua che proviene da Cristo-fonte attraverso il condotto che percorre i primi cinque stati della Chiesa si effonde in un lago; è il tempo, assimilato al sacramento del matrimonio, della letizia nuziale, della familiarità, dell’amicizia. Corrisponde al sesto giorno della creazione, in cui vennero creati prima i rettili e le bestie irrazionali, poi l’uomo razionale che, come l’ordine evangelico, è fatto a immagine e somiglianza di Dio e domina tutti gli animali.
Le espressioni di Olivi relative al sesto stato – “quoddam sollempne initium novi seculi … renovaretur et consumaretur seculum”, nel quale il sacerdozio apostolico “redeat et assurgat ad ordinem primum”, la “nova Ierusalem”, interpretata come “visione di pace”, viene vista “descendere de celo” e la Chiesa descritta come la donna vestita di sole con la sua “virginea proles” – sono la veste spirituale dei versi della quarta egloga virgiliana che celebrano la rinnovata età dell’oro: “Magnus ab integro saeclorum nascitur ordo / iam redit et Virgo; redeunt Saturnia regna; / Iam nova progenies caelo demittitur alto” (Egloga IV, 5-7). Olivi completa la Lectura super Apocalipsim nel 1298, poco prima di morire, il 14 marzo, a Narbonne. Quel felicissimo stato segnato dalla pace sotto il divo Augusto, che rese l’umanità disposta al primo avvento di Cristo, si sta rinnovando nel sesto stato della Chiesa, nel secondo avvento nello Spirito. Scrive Arsenio Frugoni: “[…] quell’escatologismo, oltre che ideologia di lotta e di riforma del gruppo spirituale, era anche un vero e proprio sentimento storico […] una tensione di rinnovamento, una ansia di salvezza, che nel 1300, l’anno centenario della Natività, aveva trovato come una attivazione, in un senso di pienezza dei tempi, cui doveva corrispondere un fatto, un accadere meraviglioso e nuovo” [4].
All’apertura del sesto sigillo, l’eletta schiera dei riformatori – i 144.000 segnati dalle dodici tribù d’Israele – guida la turba innumerevole di ogni gente, tribù, popolo e lingua (Ap 7, 3-4.13). Questi eletti e magnanimi duci, separati dalla volgare schiera per più alta milizia, vengono destinati a difendere liberamente la fede – ad essi è data la “plena libertas ad innovandam christianam religionem” -; sono gli amici di Dio a lui noti per nome, configurati in Cristo crocifisso e votati al martirio.
All’interno della Chiesa del sesto stato, l’Ordine dei Minori – “ordo plurium personarum” – è assimilabile alla persona umana di Cristo. Come questa si sviluppò fino all’età virile, così dovrà essere per l’ordo evangelicus piantato da Francesco, che avrà bisogno (a differenza di Cristo che stette poco tempo nel mondo) di due o tre generazioni per svilupparsi prima di subire una condanna simile a quella di Cristo [5]. La sua maturità coincide, verso il 1300, con il terzo inizio del sesto stato, cioè con il rinnovarsi per opera dello Spirito di Cristo, nel suo secondo avvento, della pianta seminata da Francesco. Questa concezione dell’Ordine francescano come individuo in sviluppo che, perfettamente maturato, diventa il novus ordo preconizzato da Gioacchino da Fiore per l’età dello Spirito, si differenzia da quella di Bonaventura, che aveva invece distinto i Francescani del proprio tempo – e quindi anche gli Spirituali – dall’Ordine finale che dominerà fino ai confini della terra. Alla terza apertura del sesto sigillo nuovi san Giovanni vengono inviati a predicare al mondo come al tempo degli Apostoli. Ma Giovanni non designa solo un Ordine, perché Olivi lascia aperta la possibilità di rivelazioni individuali, avute da “singulares persone”, perfetti imitatori di Cristo votati, con la loro “lingua erudita”, al compito della conversione universale.
[LSA, cap. X, Ap 10, 11] “Et dixit michi: Oportet te iterum prophetare in gentibus et populis et linguis et regibus multis”. In ipsa sapientia libri expresse continetur quod oportet iterum predicari evangelium in toto orbe, et Iudeis et gentibus, et totum orbem finaliter converti ad Christum. Sed quod per istum hoc esset implendum non poterat sciri nisi per spiritualem revelationem, et hoc dico prout per Iohannem designantur hic singulares persone quia, prout per ipsum designatur in communi ordo evangelicus et contemplativus, scitur ex ipsa intelligentia libri quod per illum ordinem debet hoc impleri.
Nei cinque cicli settenari della prima cantica il sesto stato è segnato dall’apertura della porta della Città di Dite (Inf. IX, 89-90); dall’ascesa di Gerione dall’abisso (Inf. XVI, 106-136); dal precipitoso passaggio dalla quinta alla sesta bolgia (Inf. XXIII, 1-57) e poi dalle trasformazioni della settima, dove i ladri fiorentini si mutano in serpenti e viceversa (Inf. XXIV-XXV); dal chinarsi di Anteo sul fondo dell’inferno (Inf. XXXI, 136-145); dal passaggio del centro della terra, con la conversione di Virgilio sull’anca di Lucifero, passaggio verso la sesta età, quella della Chiesa, descritta nel Purgatorio.
Ma i temi propri del sesto stato sono diffusi ovunque, intrecciati con quelli degli altri stati, e alla loro esegesi rinviano precise parole-chiave incardinate nel senso letterale dei versi. L’esegesi dell’angelo del sesto sigillo è già centrale nel primo canto del poema.
La novità che il sesto stato, per eccellenza stato di rinnovamento di questo secolo, arreca nell’inferno è una novità fittizia: l’apertura della porta della Città di Dite non è vera novità, perché essa è stata chiusa dall’ostinazione dei diavoli, recidivi dopo l’apertura della porta dell’inferno da parte di Cristo prefigurata dalla venuta di Ercole all’Ade, per cui Cerbero “ne porta ancor pelato il mento e ’l gozzo”; Gerione viene su ad un “novo cenno” di Virgilio, ma è figura della frode dalla velenosa coda aculeata; il nuovo prodotto dalle trasformazioni reciproche di serpenti e uomini è qualcosa di incompiuto perché l’uomo razionale, creato nel sesto stato, regredisce allo stato precedente.
L’Inferno è il luogo della durezza lapidea, dell’impetrarsi, del parlare duro di cose dure a dirsi, del duro giudizio, del senso duro della scritta al sommo della porta, dei duri lamenti, dei duri demoni, dei duri veli del gelo, della gravezza. Nell’Inferno vige l’imposizione data a Daniele dall’angelo sotto il sesto sigillo dell’Antico Testamento: “Ora tu, Daniele, chiudi queste parole e sigilla questo libro fino al tempo stabilito” (Dn 12, 4), che era la sesta età nella quale apparve Cristo e in particolare il sesto stato della sua Chiesa nella quale il libro doveva essere più pienamente aperto, non però ai malevoli e ai maldisposti. Questa durezza è rotta dall’invito di Dante ai dannati perché parlino. Far parlare liberamente, per dettato interiore, è la principale prerogativa del sesto stato – la nuova età che tanto s’aspetta, quella che ode del “dolce stil novo” e delle “nove rime” -, ed è tema che la poesia canta per intero, sia pure per un attimo, anche nella vecchia roccia infernale. Appartiene alla sesta chiesa il parlare liberamente di Cristo – ad essa è dato l’ “ostium apertum”, che è “ostium sermonis” – , il sentire per dettato interiore, l’aprirsi della volontà. Appartiene alla sesta chiesa anche il far venire quelli che si dicono Giudei senza esserlo, mutati nel cuore e disposti a farsi battezzare e governare. Questo far venire a parlare equivale all’invito dello Spirito di Cristo a convivare, a venire con desiderio e volontario consenso, con “disio” e con “velle”, in una pausa di pace nell’eterna dannazione. All’ “affettüoso grido” del poeta le ombre di Francesca e Paolo vengono “dal voler portate” verso un momento di mutazione, sebbene limitata al successivo colloquio. Tutto l’Inferno è un contrappunto fra la durezza del giudizio e l’apertura per la parola dirompente, fin che essa dura, la pena. Un’apertura che si esprime in varie forme: muoversi sospirando nel Farinata prima immobile, ‘crollarsi’ quasi per terremoto interiore dello ‘schivo’ Ulisse, convertirsi del vento in voce in Guido da Montefeltro, tornare indietro nel cammino assegnato o separarsi dai compagni di pena, essere sforzati a parlare anche malvolentieri, non poterlo negare o mostrare fretta di farlo, arrestarsi obliando il martirio, levarsi per poi ricadere, sollevarsi da atti bestiali per ritornare a essi dopo aver parlato, come nel conte Ugolino. In tante lingue, che parlano come per sé stesse mosse, sta un solo desiderio, il vivere ancora nel libro che è stato altrui aperto.
Se nell’Inferno il sesto stato non si realizza mai compiutamente, anche il settimo, che gli è strettamente connesso, non può trovare un luogo autonomo. Ciò non toglie che temi del settimo stato (e della settima visione) siano ben presenti in modo diffuso. Ad esempio, quelli relativi alla settima chiesa assumono particolare rilievo nella descrizione degli ignavi a Inf. III. Tempo del silenzio, della serena pace, del riposo dalle ansiose fatiche, il settimo stato subentra dopo le terribili tentazioni inferte, con un martirio non corporale ma psicologico, dai carnefici dell’Anticristo nel sesto. Come ogni momento della storia umana partecipa dell’imitazione di Cristo, che raggiunge l’acme nel sesto stato, così in ogni periodo si verifica una sua “quietatio”, una pausa di pace, di quiete, di silenzio propria del settimo. Così Francesca parla e ascolta “mentre che ’l vento, come fa, ci tace”. Il vento – “la bufera infernal, che mai non resta” – designa il fluttuare tempestoso delle passioni nel cuore.
PURGATORIO
(sesta età del mondo)
Dopo le prime cinque età del mondo (corrispondenti all’Antico Testamento, la gioachimita età del Padre), che hanno segnato la discesa a spirale per i cinque cicli settenari dell’Inferno, con il Purgatorio inizia la sesta età, quella di Cristo (l’età del Figlio), che ha sette stati, corrispondenti ai sette stati della Chiesa. Dapprima, nel cosiddetto ‘antipurgatorio’, si registrano in successione temi prevalenti dei primi cinque stati. Il sesto stato della sesta età (con cui si apre l’età dello Spirito) inizia con l’apertura della porta di san Pietro (la porta del Purgatorio). Questo sesto stato procede anch’esso con andamento settenario, per cui ha sette momenti, coincidenti principalmente con un girone della montagna, ma non del tutto, perché sempre l’ordine spirituale del poema rompe i confini letterali e le divisioni materiali, concatenando i temi di uno stato prevalente con quelli dello stato che precede e con quelli dello stato che segue e intrecciandoli con temi di tutti gli altri stati.
È spiegato nel Notabile VII del prologo della Lectura che il sesto stato della Chiesa è il secondo stato di Cristo e ha i suoi sette tempi per cui la Chiesa, come fosse una sfera, si ricongiunge circolarmente al primo apostolico tempo. Il settimo dei sette momenti del sesto stato della Chiesa coincide con il settimo stato generale della Chiesa, che nel poema corrisponde in parte all’ultimo girone della montagna (il settimo, dove si purgano i lussuriosi) e in parte all’Eden, con cui si chiude la seconda cantica.
Il Purgatorio dunque, secondo il senso spirituale, è la storia della Chiesa che corre verso il suo sesto stato, punto di riferimento di tutte le vicende umane, antiche e moderne, che ad esso cooperano. Non è casuale che nel sesto girone della montagna sia chiarificata e riconosciuta, nel colloquio con Bonagiunta da Lucca, la poetica delle “nove rime” di Dante, già “sesto tra cotanto senno” cooptato nella “bella scola” dei poeti del Limbo.
La vasta zona dedicata al sesto momento del sesto stato della Chiesa ha il suo inizio nel forte terremoto che scuote la montagna mentre Dante e Virgilio si trovano ancora nel quinto girone (Purg. XX, 124-141). Essa è stata compiutamente esaminata altrove.
Il settimo stato dell’Olivi si realizza parte in questa vita (come pregustazione in terra della gloria eterna, cioè fin sulla cima della montagna) e in parte nella futura (nel senso della quiete delle anime beate in attesa della resurrezione, che è la materia del Paradiso).
canti |
I ciclo – fino al sesto sato |
stati |
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I |
Catone |
Radici, I |
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II |
angelo nocchiero, Casella |
I – II |
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III |
scomunicati |
III |
“Antipurgatorio” |
IV |
salita al primo balzo, Belacqua |
IV – V |
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V |
negligenti morti per violenza |
V |
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VI |
Sordello |
V |
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VII-VIII |
valletta dei principi |
V |
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IX |
apertura della porta |
VI – sesto stato |
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canti |
II ciclo – il sesto stato della sesta età |
stati |
gironi |
X-XII |
superbi |
I |
I |
XIII-XIV-XV |
invidiosi |
II |
II |
XV-XVIII |
iracondiordinamento del Purgatorio,amore e libero arbitrio |
III |
IIIIV |
XVIII-XIX |
accidiosi |
IV |
IV |
XIX-XX |
avari e prodighi |
V |
V |
XX (terremoto) -XXV |
Stazio, golosi, generazione dell’uomo |
VI |
VI |
XXV-XXVI |
lussuriosi |
VII – settimo stato |
VII |
XXVIIXXVIII-XXXIII |
muro di fuoconotte stellata, termine dell’ascesaEden |
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PARADISO
(settimo stato della Chiesa)
Il Primo Mobile è il nono e penultimo cielo, ma è il sesto se si parte dal cielo del Sole. È anche il cielo più segnato dal tema del “punto”, cui è assimilato il sesto stato. Questo consente di ricostruire l’ordine spirituale del Paradiso ponendo la cerniera nel quarto cielo del Sole. Con il terzo cielo di Venere termina infatti il cono d’ombra gettato dalla terra, secondo la dottrina di Alfragano (Par. IX, 118-119), mentre prima di descrivere l’ascesa al cielo del Sole il poeta invita il lettore a rivolgersi “a l’alte rote” (Par. X, 7-27). Senza la cesura recisa che, nella prima cantica, divide i dannati puniti all’interno della Città di Dite da quelli che ne stanno fuori e, nella seconda cantica, separa le anime purganti nei sette gironi della montagna dalle anime che attendono fuori della porta (il cosiddetto ‘antipurgatorio’), anche nel Paradiso gli spiriti che si manifestano nei primi tre cieli della Luna, di Mercurio e di Venere (spiriti che mancarono ai voti, spiriti che furono attivi per conseguire onore e fama, spiriti amanti) si distinguono per minore perfezione rispetto a quelli che appaiono nei cieli seguenti.
I dieci cieli del Paradiso si mostrano pertanto ordinati in due gruppi di settenari, corrispondenti agli stati della Chiesa (e alle loro prerogative) secondo Olivi, parzialmente combacianti (da 1 a 7 e da 4 a 10: coincidono gli ultimi quattro numeri del primo gruppo e i primi quattro del secondo).
I Se si considera il primo settenario, nel primo cielo della Luna si affronta la questione dell’inadempienza dei voti, che ha corrispondenza con i temi propri della prima chiesa di Efeso, il cui nome, se interpretato, oscilla tra la fervida volontà iniziale e la remissione (l’essenza del voto consiste nella volontà).
II Nel secondo cielo di Mercurio, le battaglie sostenute dal “sacrosanto segno” dell’aquila corrispondono allo stato dei martiri, che è dei combattenti, e anche la dottrina dell’incarnazione e della passione di Cristo, esposta successivamente da Beatrice, fa parte della tematica, perché l’intera Chiesa, fondata sulla passione di Cristo, imita con i martiri la sua croce, e questo giova assai al suo radicamento.
III Nel terzo cielo di Venere, Carlo Martello spiega al modo di un dottore del terzo stato la diversità delle indoli umane e come gli uomini, non assecondandole, errino; nello stesso cielo compare Folchetto di Marsiglia, che da vescovo di Tolosa combatté l’eresia albigese.
IV – I Al quarto cielo del Sole, primo del secondo gruppo di settenari per l’esaltazione della vita apostolica (propria del primo stato e rinnovata nel sesto), si può connettere il tema stesso del sole inteso nell’esegesi della quarta tromba (Ap 8, 12): “Per solem videtur hic designari solaris vita et contemplatio summorum anachoritarum, qui fuerunt patres et exempla aliorum, vel solaris sapientia et doctrina summorum doctorum”. Sapienza e contemplazione, dottori del terzo e anacoreti del quarto stato, concorrono, come Domenico e Francesco – “L’un fu tutto serafico in ardore; / l’altro per sapïenza in terra fue / di cherubica luce uno splendore” (Par. XI, 37-39) – con mutua cortesia a infiammare il meriggio dell’universo.
V – II Il quinto cielo di Marte, secondo (come il secondo stato dei martiri) per l’esaltazione della croce di Cristo formata dai lumi dei combattenti per la fede, reca in sé il tema del condiscendere proprio del quinto stato sia nel pio discendere per la croce di Cacciaguida verso Dante, sia nella decadenza degli “alti Fiorentini”, cioè delle antiche famiglie, assimilate agli anacoreti, un tempo alti e poi vòlti in basso.
VI – III Il sesto cielo di Giove, terzo (come il terzo stato dei dottori) per la spiegazione di profonde verità di fede, sviluppa il motivo, proprio della sesta chiesa, della “porta aperta”. Aprire la porta significa illuminare e rendere acuto l’intelletto che penetra nell’occulto delle Scritture, e anche dare efficacia spirituale a penetrare nel cuore di chi ascolta: così l’aquila apre la “latebra” di Dante, così l’occhio di Rifeo Troiano fu da Dio aperto alla futura redenzione.
VII – IV Nel settimo cielo di Saturno, quarto (come il quarto stato degli anacoreti), “si tace … la dolce sinfonia di paradiso” (Par. XXI, 58-60), e il tacere è tema del settimo stato. Ivi si mostrano gli spiriti contemplativi, principali soggetti del quarto stato, proprio degli anacoreti: se si conta a partire dal quarto cielo del Sole, considerando questo come primo ovvero come nuovo avvio del ciclo settenario, il cielo di Saturno è appunto quarto.
VIII (V) Il settimo cielo di Saturno è seguito dal cielo delle Stelle fisse – ottavo e quinto -, dove si mostrano le schiere del trionfo di Cristo che discendono dall’Empireo (il quinto stato è caratterizzato dalla “condescensio”) e si celebra il trionfo di Maria (sviluppo del tema, proprio della quinta chiesa, della mirabile bellezza della Chiesa, regina ornata di veste aurea per la carità che unisce e circondata dalla varietà nei doni e nelle grazie delle diverse membra). È inoltre ricapitolazione dei precedenti sette, secondo un’interpretazione più volte presente nella Lectura dell’essere ‘ottavo’. Per questo Dante, stando nel segno dei Gemelli, riguarda in giù e torna col viso per tutte quante le sette precedenti sfere (Par. XXII, 124-154).
IX (VI) Segue il Primo Mobile o Cristallino – nono e sesto cielo –, dove il poeta vede il punto luminosissimo – Dio – da cui dipende il cielo e la terra, circondato dai nove cerchi di fuoco (Par. XXVIII, 16-18, 40-42, 94-96). Il sesto stato, secondo quanto Olivi afferma nel Notabile VIII, è il “punto” da cui dipendono gli altri stati, perché appare nel testo dell’Apocalisse in modo più evidente degli altri, che da esso assumono chiarezza quanto alla loro manifestazione nella storia, come l’intelligenza delle cose ordinate ad un fine dipende dal fine.
X (VII) La quiete e l’immobilità dell’Empireo, decimo cielo – il “ciel de la divina pace” -, corrispondono al settimo stato, di cui è propria la “quietatio”, il silenzio (tema anticipato dal tacere di Beatrice in apertura del canto XXIX), e la pace.
Il Paradiso avrebbe pertanto un ordine spirituale del seguente tipo:
cielo |
stato |
cielo |
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I |
LUNA |
I |
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II |
MERCURIO |
II |
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III |
VENERE |
III |
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IV |
SOLE |
IV |
I |
SOLE |
V |
MARTE |
V |
II |
MARTE |
VI |
GIOVE |
VI |
III |
GIOVE |
VII |
SATURNO |
VII |
IV |
SATURNO |
VIII |
V |
STELLE FISSE |
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IX |
VI |
PRIMO MOBILE |
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X |
VII |
EMPIREO |
Oltre ai luoghi sopra indicati, i temi del sesto e del settimo stato si rinvengono in più punti, intrecciati con altri.
Con un procedimento di arte della memoria, il senso letterale della Commedia contiene parole-chiave che rinviano al commento apocalittico dell’Olivi. Queste parole-chiave, vere e proprie imagines agentes, sollecitano la memoria del lettore verso un testo dottrinale che già conosce, ma che rilegge parafrasato in volgare e profondamente aggiornato secondo gli intenti del poeta, nei versi che prestano “e piedi e mano” alla dottrina e la vestono con esempi contemporanei e familiari. Il senso letterale, rivolto a chiunque, ne racchiude altri ‘mistici’ rivolti a un preciso pubblico – agli Spirituali francescani, e forse non solo ad essi, se la Lectura si fosse diffusa anche presso altri Ordini -, a coloro cioè che con la predicazione avrebbero potuto riformare la Chiesa e con la “lingua erudita” – il volgare di Dante – convertire il mondo. La riforma, come pure il ristretto pubblico che avrebbe dovuto attuarla, non si realizzò, per le note vicende che travolsero gli Spirituali e il loro stesso libro-vessillo.
Nella Topografia spirituale della Commedia, per quasi ogni verso, o gruppo di versi, collegamenti ipertestuali conducono al “panno” esegetico fornito dalla Lectura super Apocalipsim, sul quale il “buon sartore” ha fatto “la gonna” (Par. XXXII, 139-141).
La persistenza di un “panno” – cioè di un altro testo da cui trarre i significati spirituali del poema, materialmente elaborati attraverso le parole – è anche servita a mantenere l’unità e la coerenza interna dell’ordito. Si può supporre che il poema sia stato pubblicato per gruppi di canti, non più modificabili [6]: sempre stava innanzi al poeta la medesima esegesi teologica con le innumerevoli possibilità di variazioni tematiche e di sviluppi.
Qui di seguito sono esaminate unicamente le citazioni di Gioacchino da Fiore contenute nell’esegesi oliviana del sesto e del settimo stato. Molte fra queste sono già state considerate altrove; per esse è fatto rinvio al luogo d’esame [→ …]. L’ordine segue i capitoli della Lectura, e dunque delle sette visioni apocalittiche.
I visione: sesta chiesa. II Visione: sesto sigillo. Francesco e Gioacchino da Fiore. L’angelo del sesto sigillo (Ap 7, 2) e l’angelo dal volto solare (Ap 10, 1). III Visione: sesta tromba. IV visione: Le citazioni di Gioacchino da Fiore ad Ap 12, 6. Sesta e settima guerra. V visione: sesta e settima coppa. VI visione. VII visione. Explicit. |
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[1] Cfr. LSA, cap. XVII, Ap 17, 9: «Et subdit Ricardus quod per septem reges, et per septem capita designatos, designatur hic universus populus malorum, qui secundum septem status huius seculi determinantur. Primus scilicet ab Adam usque ad Noe. Secundus a Noe usque ad Abraam. Tertius ab Abraam usque ad Moysen. Quartus a Moys[e] usque ad David. Quintus a David usque ad Christum. Sextus a Christo usque ad Antichristum. Septimus autem sub Antichristo attribuitur». Cfr. PETRI IOHANNIS OLIVI Lectura super Lucam, Lc 1, 26, ed. F. Iozzelli, Grottaferrata 2010 (Collectio Oliviana, V), pp. 187-188: «Signanter autem dicitur in sexto mense, quia Christus uenit in sexta mundi etate, et iterum post quinque notabiles synagoge decursus: nam primo, cum sola circumcisione fuit sub patribus per quadringentos annos; secundo, accepta lege, fuit sub iudicibus per tantumdem temporis; tertio, proficiens in regnum, fuit sub regibus; quarto, assumpto plenius spiritu prophetico, fuit sub prophetis sollempnioribus, scilicet sub Elia, Ysaia et Yeremia etc.; quinto, restituto templo et urbe, fuit sub pontificibus quibus, per Aggeum et Zachariam et Malachiam iterata prophetia de Christo et eius precursore Elia, factum est silentium prophetarum, ita quod obmutuit cetus sacerdotum usque ad Iohannis ortum; et iterum in eiusdem quinti temporis sexto centenario conceptus est Christus. Sicut etiam sexto die factus est homo ad ymaginem Dei, sic conuenienter sub consimili senario factus est Christus homo, plenior Dei ymago: nam et perfectio numeri senarii, que ex omnibus partibus suis aliquotis et iterum ex ternario cum suis partibus, scilicet binario et unitate, consurgit, competit sibi et etiam reflexio ternarii per binarium, id est cultus fidei et Trinitatis per geminam caritatem».
[2] Il principio è chiaramente affermato nel notabile VIII del prologo della LSA: «[…] si omnia prima membra visionum ad invicem conferas et consimiliter omnia secunda et sic de aliis, aperte videbis omnia prima ad idem primum concorditer referri et consimiliter omnia secunda ad idem secundum et sic de aliis. Et hoc in tantum quod plena intelligentia eiusdem primi multum clarificatur ex mutua collatione omnium primorum, et idem est de omnibus secundis et tertiis et sic de aliis».
[3] [LSA, cap. VI, Ap 6, 12 (IIa visio, apertio VIi sigilli)] Hoc igitur commemorato, est adhuc notandum a quo tempore debeat sumi initium huius sexte apertionis. Videtur enim quibusdam quod ab initio ordinis et regule sancti patris prefati;
aliis vero quod a sollempni revelatione tertii status generalis continentis sextum et septimum statum ecclesie facta abbati Ioachim, et forte quibusdam aliis sibi contemporaneis;
aliis vero quod ab exterminio Babilonis, id est ecclesie carnalis, per decem cornua bestie, id est per decem reges, fiendo (cfr. Ap 17, 12/16);
aliis vero quod a suscitatione spiritus seu quorundam ad spiritum Christi et Francisci, tempore quo eius regula est a pluribus nequiter et sophistice impugnanda et condempnanda ab ecclesia carnalium et superborum, sicut Christus condempnatus fuit a sinagoga reproba Iudeorum. Hoc enim oportet preire temporale exterminium Babilonis, sicut Christi et suorum condempnatio a Iudeis preivit temporale exterminium sinagoge.
Sciendum autem quattuor sententias predictas sane assumptas non esse sibi contrarias, sed concordes. Sicut enim Luchas inchoat Christi evangelium a sacerdotio Zacharie, cui facta est prophetica revelatio de Christo statim venturo et de Iohanne eius immediato precursore; Mattheus vero ab humana Christi generatione; Marchus vero a Christi et Iohannis predicatione; Iohannes vero a Verbi eternitate et eterna generatione, sic hec sexta apertio sumpsit quoddam prophetale initium a revelatione abbatis et consimilium; a renovatione vero regule evangelice per servum eius Franciscum sumpsit sue generationis et plantationis initium; a predicatione vero spiritualium suscitandorum et a nova Babilone reprobandorum sumet initium refloritionis seu repullulationis; a destructione vero Babilonis sumet initium sue clare distinctionis a quinto statu et sue distincte clarificationis, iuxta quod et dicimus legalia quantum ad obligationem necessariam fuisse mortificata in Christi passione et resurrectione et tandem sepulta et effecta mortifera in evangelii pl[e]na promulgatione et in templi legalis per Titum et Vespasianum destructione.
Similia etiam reperies in prophetis. Nam initium septuaginta annorum captivitatis babilonice et desolationis templi per Caldeos facte sumitur uno modo a tertio decimo anno regni Iosie, sub quo cepit Ieremias eam prophetare (cfr. Jr 1, 2; 25, 3), et terminatur in primo anno Ciri regis. Alio vero modo sumitur ab ipsa destructione templi et terminatur secundo anno Darii filii Idaspis, sicut patet Zacharie I° (Zc 1, 1).
[4] A. FRUGONI, La Roma di Dante, tra il tempo e l’eterno, in ID., Pellegrini a Roma nel 1300. Cronache del primo Giubileo, presentazione di C. Frugoni, a cura e con Introduzione di F. Accrocca, Casale Monferrato 1999, pp. 102-103.
[5] LSA, cap. VI, Ap 6, 12: «Secunda ratio est quia persone Christi correspondet in sexta apertione unus ordo plurium personarum sic secundum suam proportionem augendus, sicut Christus secundum suum corpus fuit usque ad perfectam etatem viriliter auctus. […] Quarta est quia, prout super evangelia ostendi, Christus parvo tempore debuit inter nos vivere et pauciori predicare […]. Nisi autem ordo evangelicus, per Franciscum renovatus, esset in multis et saltem sub duabus vel tribus generationibus propagatus et sollempnizatus, non esset nec ipse nec populus ab eo ducendus sufficienter dispositus ad tam autenticam condempnationem condempnationi Christi consimilem subeundam».
[6] Cfr. G. PADOAN, Il lungo cammino del “poema sacro”. Studi danteschi, Firenze 1993 (Biblioteca dell’ “Archivum Romanicum”, Ser. I, vol. 250), passim.
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I VISIONE (Ap 1, 12-3, 22)
RADICI (Ap 1, 13-18)
[→ Ap 1, 16-17 (testo) – (tabella)]
Nella premessa (o “radice”, secondo l’accezione oliviana) delle istruzioni date alle sette chiese d’Asia nella prima visione, la decima e undecima perfezione di Cristo in quanto sommo pastore (lo splendore del volto di Cristo nel sesto stato) elaborano, senza citazione esplicita, le rispettive posizioni di Gioacchino da Fiore e di Riccardo di San Vittore. A questa esegesi rinviano più luoghi, anche di grande importanza, della Commedia [1].
VI CHIESA (Ap 3, 7-12)
Ap 3, 7 (I)
Verso la chiesa di Filadelfia, da lui singolarmente considerata santa e diletta, Cristo opera molte promesse, proponendo sé come vero e santo. Promette soprattutto, come già avvenuta, l’apertura della porta che nessuno può chiudere, in quanto egli è depositario della “chiave di David, che apre e nessuno chiude, chiude e nessuno apre” (Ap 3, 7). L’espressione “chiave di David” è posta sia per concordia con un passo del profeta Isaia relativo alla casa del re d’Israele (Is 22, 22), sia perché la potestà regale di David comportava l’escludere dal regno e dal tempio gli indegni e l’ammettervi i degni (prefigurazione della potestà di Cristo di chiudere agli indegni l’arcana sapienza e la gloria del regno di Dio e di aprirla agli eletti), sia perché David, per il suo eccellere nella cetra e nella salmodia, è per antonomasia depositario del giubilo spirituale, che è chiave che apre il divino. Questa apertura è propria del terzo stato generale del mondo, che inizia con il sesto stato ed è appropriata allo Spirito Santo. Nella prima età, che precedette l’avvento di Cristo, i padri narrarono le grandi opere di Dio a partire dalla creazione del mondo. Nella seconda, da Cristo fino al sesto stato della Chiesa, i figli hanno cercato nelle generazioni succedutesi nei secoli la sapienza mistica delle cose e i misteri occulti. Nella terza non resta che salmodiare e lodare giubilando Dio, le sue opere, la sua multiforme sapienza e bontà manifestata nelle opere stesse e nelle scritture. Come nel primo tempo Dio si è mostrato Padre terribile e temibile, e nel secondo Figlio e maestro che apre la verbale sapienza del Padre, così nel terzo tempo si mostrerà Spirito Santo, fiamma e fornace di amore divino, cellario di ebbrezza spirituale, dispensa di aromi divini e di spirituali unzioni ed unguenti, tripudio giocoso di giubilo spirituale: allora si vedrà non solo con l’intelligenza, ma anche con l’esperienza del gusto e del tatto ogni verità della sapienza del Verbo di Dio incarnato e della potenza di Dio padre, come promesso da Cristo: “quando verrà lo Spirito di verità egli vi insegnerà ogni verità e mi chiarificherà” (Jo 16, 13-14). Alla fatica del lavoro corporale (che compete ai laici) del primo tempo è subentrata, nel secondo, la lettura e l’erudizione (che compete ai chierici); nel terzo dovrà prevalere la casta e soave contemplazione (che spetta ai monaci o ai religiosi).
L’esegesi relativa all’istruzione data a Filadelfia, la sesta chiesa d’Asia (Ap 3, 7ss.), mostra passi di chiara impronta gioachimita – in parte citazione diretta e occulta dall’Expositio -, nei quali la terza età del mondo è contraddistinta del giubilo, dall’ebbrezza spirituale, dal gusto soave della contemplazione, dal mantenimento delle promesse sulla piena conversione d’Israele. Ma su questo festivo tripudio si addensano passi tipicamente oliviani, che sottolineano le fortissime tentazioni e persecuzioni. Un gusto amaro e dolce insieme, provato da chi ha il dono della “porta aperta” al parlare di ciò che sente interiormente, e nello stesso tempo è tormentato dal dubbio nell’angustia del martirio psicologico. Un accostamento di questi passi giova ad evidenziare le profonde differenze che intercorrono fra Olivi e Gioacchino da Fiore [2].
Dice Pier della Vigna: “Io son colui che tenni ambo le chiavi / del cor di Federigo, e che le volsi, / serrando e diserrando, sì soavi, / che dal secreto suo quasi ogn’ uom tolsi” (Inf. XIII, 58-61). Aprire la porta, come affermato ad Ap 3, 8, significa illuminare e rendere acuto l’intelletto che scruta e penetra con rapidità e facilità nell’occulto delle Scritture, e dare efficacia spirituale a penetrare nel cuore di chi ascolta. Il ‘tenere’, come viene spiegato ad Ap 2, 1, significa “potestà”, e corrisponde al potere di escludere gli indegni dal regno e dal tempio nell’Antico Testamento, dall’arcana sapienza divina nel Nuovo. Del tenere le chiavi partecipano l’angelo portiere di Purg. IX e il simoniaco Niccolò III in Inf. XIX. Proprio il tema della chiave di David (Ap 3, 7), sviluppo da Isaia 22, 22 (luogo solitamente citato nei commenti a Inf. XIII, 58-61, dimenticando l’Apocalisse), fu applicato a Piero dall’amico Nicola da Rocca: “qui tamquam Imperii claviger claudit, et nemo aperit, aperit, et nemo claudit” [3]. Il volgersi “soavi” delle chiavi è parte del tema dell’aprire nel giubilo spirituale. È il momento nel quale Pier della Vigna ha raggiunto il sesto stato, vivendo in modo conforme a Cristo, prima che l’invidia, la meretrice che vizia le corti, volgesse i lieti onori in tristi lutti rendendolo suicida “per disdegnoso gusto”. Ma certo, anche alla curia imperiale, dove siede il Monarca destinato da Dio a condurre gli uomini per mezzo della filosofia alla felicità terrena, può ben essere appropriato il tema centrale dell’ultimo libro della Scrittura. Pier della Vigna con chiavi soavi serra e diserra; l’angelo portiere apre più di quanto chiuda la ruggente porta, come gli ha ingiunto san Pietro (Purg. IX, 127-129); l’arcangelo Gabriele, “intagliato in un atto soave” nei bianchi marmi della prima cornice della montagna, apre soltanto: “L’angel … ch’aperse il ciel del suo lungo divieto … ad aprir l’alto amore volse la chiave” (Purg. X, 34-45).
[Tab. I]
[LSA, cap. III, Ap 3, 7 (Ia visio, VIa ecclesia)] Hiis autem, sicut et in ceteris, premittitur preceptum scribendi hec huic ecclesie et introductio Christi sibi hec dicentis, cum subditur: “Hec dicit sanctus” (Ap 3, 7).
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[3, 7] Quia etiam multa et singularia sibi promittit, ideo proponit se ei ut verum in promissis, cum dicit: “et verus”.
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[LSA, cap. III, Ap 3, 8 (Ia visio, VIa ecclesia)] Dicit ergo (Ap 3, 8): “Scio opera tua”, per singularem scilicet approbationem et per gubernandi et remunerandi infallibilem intentionem. “Ecce dedi coram te hostium apertum”. Hostium aperitur cum intellectus illuminatur et exacuitur ad scripturarum occulta expedite et faciliter penetranda et videnda, et cum predicationi datur spiritalis efficacia ad corda audientium penetranda, et cum incredulorum corda divinitus aperiuntur ad credendum et implendum Christi legem et fidem que predicatur eis, et etiam cum spiritus predicantium sentit ordinationem et assistentiam Christi ad aperiendum corda gentium per sermonem ipsius. Nam predicta Christi ordinatio seu voluntas est primum hostium seu prima apertio sue voluntatis et gratie dande auditoribus et sermoni predicantis. |
[3, 7] Significatur* etiam per hoc proprium donum et singularis proprietas tertii status mundi sub sexto statu ecclesie inchoandi et Spiritui Sancto per quandam anthonomasiam appropriati.
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Inf. XIII, 58-61Io son colui che tenni ambo le chiavi
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[LSA, cap. II, Ap 2, 1 (Ia visio, Ia ecclesia] Ipse etiam est pius pastor eos protegens et custodiens, et pro eorum custodia eos semper tenens et visitans. Tertia est quia metropolitano episcopo et eius metropoli ceteras ecclesias sub se habenti hic loquitur, et ideo significat se habere potestatem et curam super omnes septem episcopos et eorum ecclesias. Tentio enim significat potestatem et perambulatio vero curam. |
Purg. IX, 115-117, 127-131Cenere, o terra che secca si cavi,
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Purg. X, 34-45L’angel che venne in terra col decreto
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* 13° («Significatur etiam … ille me clarificabit et cetera ») dei sessanta articoli estratti, negli anni 1318-1319, dai censori incaricati da Giovanni XXII (otto maestri in teologia guidati dal domenicano Nicolò de Albertis, cardinale vescovo di Ostia, quel Nicolò da Prato che nel 1304 tentò invano di metter pace tra le fazioni fiorentine e lanciò l’interdetto sulla città; è il destinatario della prima epistola di Dante, del marzo-aprile 1304, a nome dei Bianchi fuorusciti), editi in STEPHANI BALUZII TUTELENSIS Miscellanea novo ordine digesta et non paucis ineditis monumentis opportunisque animadversionibus aucta opera ac studio Johannis Dominici Mansi Lucensis. Tomus secundus continens Monumenta Sacra, Lucae, apud Vincentium Junctinium, MDCCLXI, p. 260 A-B: «Primo quantum ad hoc quod spiritui sancto per quandam antonomasiam appropriat tertium statum mundi praeferens in hoc ipsum Apostolorum statui sicut prius […] Tertio quantum ad hoc quod dicit quod in tertio statu spiritus sanctus se exhibebit ut flammam et fornacem divini amoris, et c. (tanquam) spiritus sancti dona excellentia, quae sequuntur quasi in primo Christo adventu, ita nullo modo aut non ita ad plenum fuerint adimpleta sicut illo tempore sunt implenda. Quarto quantum ad hoc quod sequitur. Christus enim promisit quod cum venerit ille spiritus veritatis, docebit vos omnem veritatem. Per hoc enim videtur innuere quod promissio illa a Christo Apostolis facta non fuerit impleta in eis in die Pentecostes, quod est haeresis jam damnata». Nel margine interno del ms. Par. lat. 713, al f. 48r, r. 21, articulus tertius (?) usque ; nell’angolo superiore destro del f. 48r, sotto la foliazione, articulus quartus (?); in margine alla colonna b, r. 28, huc : corrisponde alla conclusione del II dei quattro articoli estratti direttamente da Giovanni XXII (1322): «Utrum catholice possit dici quod in sexto statu huius vite non solum simplici intelligentia, sed palpativa et gustativa experientia videbitur omnis sapientia Verbi incarnati et potentia Dei Patris, quia Christus promisit, quod cum venerit ille Spiritus veritatis, docebit vos omnem veritatem ?». Cfr. J. KOCH, Der Prozess gegen die Postille Olivis zur Apokalypse, in Kleine Schriften. Zweiter Band, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1973 (Storia e Letteratura. Raccolta di studi e testi, 128; il saggio fu pubblicato in “Recherches de théologie ancienne et médiévale”, 5 [1933], pp. 302-315), p. 268; A. FORNI – P. VIAN, Un codice curiale nella storia della condanna della Lectura super Apocalipsim di Pietro di Giovanni Olivi: il Parigino latino 713, in “Collectanea Franciscana”, 81 (2011), pp. 479-558; 82 (2012): pp. 616-636.* … * Cfr. GIOACCHINO DA FIORE, Expositio, pars I, ff. 85va-b (ad Ap 3, 7, cit. quasi letterale da «Sicut enim» a «laudantes»), 87rb. |
Io son colui che tenni ambo le chiavi (Inf. XIII, 58)
Se le parole di Pier della Vigna sollecitano la memoria dell’accorto lettore verso Ap 3, 7 e la relativa esegesi pregna di Gioacchino da Fiore, le stesse parole rinviano anche ad altri luoghi della Lectura super Apocalipsim dove l’impronta dell’abate calabrese è assente. Qui si considera l’espressione “Io son colui”.
Al termine delle dodici perfezioni in quanto sommo pastore trattate nella prima visione, Cristo aggiunge tre doppie perfezioni, la cui fede e conoscenza possano essere di conforto (Ap 1, 17-18). La prima è: “Io sono il primo e l’ultimo”, cioè il principio e la fine, oppure il primo per dignità ed eternità e l’ultimo per umiltà, con la quale mi sono umiliato alla morte in croce.
La seconda è: “Io sono vivo e fui morto”, cioè per la verità e per la vostra salute. Perché non si creda che ora abbia una vita mortale come prima, soggiunge: “ecco, vivo nei secoli”, quasi affermasse: ti posso ben sollevare dalla morte alla vita eterna, io che mi sono elevato dalla morte e che sono causa e fine di tutto, oppure quasi dicesse: è buono per te umiliarti e morire per me, perché come io fui morto per te e fui come l’ultimo, così anche tu in ciò perverrai alla gloria.
La terza è: “e ho le chiavi della morte e dell’inferno”, cioè ho il potere di trarre chiunque dal sepolcro della morte, sia essa la morte del corpo o quella causata dalla colpa, e anche di trarre chiunque dal profondo dell’inferno. Le chiavi, che designano la potestà di aprire e chiudere, si possono anche intendere come il potere di condannare e introdurre i dannati nella morte della pena eterna e nel luogo infernale. In questo caso, poiché le parole di Cristo sono rivolte a confortare e non a terrorizzare, la prima interpretazione è la più corretta. A conclusione dell’esame delle dodici perfezioni di Cristo sommo pastore, a lui attribuibili come causa efficiente ed esemplare, Olivi afferma che esse possono essere applicate sia ai perfetti prelati sia agli eletti, che sono come le membra del corpo mistico di cui Cristo è il capo (nel senso che gli occhi sono appropriati ai contemplativi, i piedi agli attivi, la voce ai dottori e ai giudici). In altri termini, si apre la possibilità di appropriarle variamente.
Alla seconda doppia perfezione di Cristo, trattata ad Ap 1, 18, fa riferimento, nella comune risposta dei tre fiorentini sodomiti, il verso «quando ti gioverà dicere “I’ fui”» (Inf. XVI, 84). Non è detta tutta l’espressione di Cristo, cioè che giova umiliarsi e morire per poi pervenire alla gloria – “io sono vivo e fui morto” -, ma ricordare dopo il viaggio quanto visto non è, in questo caso, solo il dolce ricordo come quello di cui Enea parla ai compagni (Aen., I, 203: “et haec olim meminisse iuvabit”), ma è un ricordo che giova alla salute, la memoria dolorosa della “profonda notte … d’i veri morti” (Purg. XXIII, 121-122).
Variante del “et sum vivus … bene possum” è quanto Virgilio dice del suo discepolo al centauro Chirone: “Ben è vivo, e sì soletto / mostrar li mi convien la valle buia; / necessità ’l ci ’nduce, e non diletto” (Inf. XII, 85-87), un mostrare necessario che è tra le cause per cui Giovanni scrive l’Apocalisse (Ap 1, 1). Due canti dopo, il superbo Capaneo stravolge il versetto: «“et sum vivus et fui mortuus” // gridò: “Qual io fui vivo, tal son morto”» (Inf. XIV, 51).
Nell’Eden Beatrice, “regalmente ne l’atto ancor proterva”, continua: “Guardaci ben! Ben son, ben son Beatrice” (Purg. XXX, 73). Le sue parole contengono i motivi della perfezione di Cristo trattata ad Ap 1, 18: “et sum vivus et fui mortuus”, cioè per la verità e per la vostra salute. “Bene possum te a morte ad vitam eternam sublevare … // Ben ti dovevi, per lo primo strale / de le cose fallaci, levar suso / di retro a me che non era più tale”: al momento della prima delusione verso le cose di questo mondo causata dalla morte della sua donna, Dante avrebbe ben dovuto, come afferma Beatrice nel rimproverarlo, levarsi dietro a lei che non era più cosa mortale (Purg. XXXI, 55-57). Cristo che parla è principio e fine; il fine dell’Apocalisse è la beatitudine.
Virgilio possiede, almeno in parte, la terza perfezione di Cristo, perché ha la possibilità di portare Dante fuori dell’inferno, avendo già fatto il cammino altra volta (“ben so ’l cammin”), allorché gli scongiuri di “Eritón cruda” lo fecero entrare nella Città di Dite per trarvi un’anima dalla Giudecca, il luogo infernale più oscuro e basso (Inf. IX, 16-30). Possiede anche in parte la seconda perfezione – “et sum vivus et fui mortuus” -, considerate le sue parole: “Ver è ch’altra fïata qua giù fui ”, interpretate alla luce di quanto egli stesso afferma delle anime del Limbo, unici dannati cui sia attualmente appropriato il verbo vivere: “e sol di tanto offesi / che sanza speme vivemo in disio” (Inf. IV, 41-42). Le parole con cui il poeta pagano racconta a Dante del suo precedente viaggio servono a rassicurare e a confortare il discepolo intimorito dall’atteggiamento ostinato dei diavoli e dalla reticenza dello stesso Virgilio.
Il tema del potere dato dalle chiavi, appropriato a Bonifacio VIII nel racconto reso da Guido da Montefeltro (Inf. XXVII, 103-105), o all’angelo portiere del Purgatorio (Purg. IX, 117ss.), è da confrontare con quello della “chiave di David” proprio della sesta chiesa (Ap 3, 7).
«“Et sum vivus et fui mortuus” … bene possum te a morte ad vitam eternam sublevare … bonum est te pro me humiliari … sicut ego ex hoc perveni ad gloriam ita et tu pervenies». Esser vivo significa dare gloria, suscitare dalla morte. Così Virgilio ad Anteo perché si chini a portare i due poeti sul fondo dell’inferno (“però ti china … Ancor ti può nel mondo render fama, / ch’el vive …”, Inf. XXXI, 126-128) e Dante a Bocca degli Abati: (“Vivo son io, e caro esser ti puote, / … se dimandi fama …”, Inf. XXXII, 91-93). Brunetto Latini raccomanda a Dante “il mio Tesoro, / nel qual io vivo ancora” (Inf. XV, 119-120). Pier della Vigna si presenta: “Io son colui che tenni ambo le chiavi / del cor di Federigo …” (Inf. XIII, 58-59), nel senso “sum vivus” a motivo di quel “glorioso offizio”, la memoria del quale, “che giace / ancor del colpo che ’nvidia le diede”, prega venga riconfortata (perde dunque qualsiasi valore la variante “Io fui”, ritenuta ammissibile dal Petrocchi, ma esclusa in base alla tradizione). Nel cielo di Mercurio, Giustiniano usa invece prima il passato: “Cesare fui, e son Iustiniano” (Par. VI, 10): l’imperatore parla infatti per dettato dell’aquila, “sacrosanto segno” della giustizia, con la quale consuona nel nome, e conclude narrando del “giusto” Romeo di Villanova.
[Tab. I bis]
[LSA, cap. I, Ap 1, 17-18 (Ia visio)] Deinde explicat sibi illas suas perfectiones ex quarum fide et notitia amplius poterat confortari. Subdit ergo tres binarios suarum perfectionum. Primus est: “Ego sum primus et novissimus” (Ap 1, 17), id est omnium principium et finis, seu principiator et consumator, vel “primus” dignitate et eternitate “et novissimus” humilitate, per quam usque ad mortem crucis me humiliavi. |
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Secundus est: “et sum vivus et fui mortuus” (Ap 1, 18), scilicet pro veritate et pro vestra salute. Ne tamen credatur nunc habere vitam mortalem sicut prius habuit, ideo subdit: “et ecce sum vivens in secula seculorum”, scilicet quasi dicat: bene possum te a morte ad vitam eternam sublevare, qui memetipsum excitavi a morte et qui omnium sum causa et finis; et quasi dicat: bonum est te pro me humiliari et mori, quia ego fui pro te mortuus et novissimus, et sicut ego ex hoc perveni ad gloriam ita et tu pervenies.Inf. XIV, 49-51E quel medesmo, che si fu accorto
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Inf. XII, 85-87rispuose: “Ben è vivo, e sì soletto
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Tertius binarius est: “et habeo claves mortis et inferni”, id est habeo potestatem educendi quoscumque a sepulcro mortis, tam corporis quam culpe, et etiam a profundo infernalis gehenne.
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Inf. XXVII, 103-105; Purg. IX, 117Lo ciel poss’ io serrare e diserrare,
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Inf. XIII, 58-61 Io son colui che tenni ambo le chiavi
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Ap 3, 7 (II)
“[…] sic in tertio tempore Spiritus Sanctus exhibebit se ut flammam et fornacem divini amoris et ut cellarium spiritualis ebrietatis et ut apothecam divinorum aromatum et spiritualium unctionum et unguentorum et ut tripudium spiritualium iubilationum et iocunditatum, per que non solum simplici intelligentia, sed etiam gustativa et palpativa experientia videbitur omnis veritas sapientie Verbi Dei incarnati et potentie Dei Patris” (Ap 3, 7).
[→ (testo) – (tabella)] Il sesto angelo del Purgatorio, l’angelo della temperanza che indica il cammino a “chi vuole andar per pace” – tema della sesta vittoria, la Gerusalemme “visio pacis” (Ap 3, 12) – si mostra così splendente come “già mai non si videro in fornace / vetri o metalli sì lucenti e rossi” (Purg. XXIV, 136-141). Fornace (v. 137) è hapax nel poema; nei versi sono incastonate altre parole che fanno segno dell’esegesi della sesta chiesa, fortemente gioachimita, ad Ap 3, 7: amore, gusto (v. 152), insieme ad altre che rinviano all’esegesi, propriamente oliviana, del versetto successivo (Ap 3, 8) e ad altre ancora che rimandano ad Ap 7, 2 (l’angelo del sesto sigillo), dove Gioacchino da Fiore è presente solo in parte.
[→ (testo); (tabella)] Nell’ascesa del poeta al cielo, il gustar di Glauco e l’esperienza che la grazia tiene in serbo per gli eletti (Par. I, 67-72) fanno segno dell’età dello Spirito di Gioacchino da Fiore, nella quale “non solum simplici intelligentia, sed etiam gustativa et palpativa experientia videbitur omnis veritas sapientie Verbi Dei incarnati et potentie Dei Patris” (Ap 3, 7). Sulle parole di Gioacchino da Fiore, abbreviate, incastonate e arricchite dall’esegesi dell’Olivi, in particolare di Ap 19, 17-18 (dove Gioacchino è ancora citato), Dante ha forgiato il suo trasumanar. Non si tratta di conoscenza diretta delle opere dell’abate calabrese, ma mediata attraverso la Lectura super Apocalipsim, che ne modifica parzialmente l’impostazione.
Tripudio (hapax nel poema) e fiammeggiarsi sono altri “signacula” di Ap 3, 7 a Par. XII, 22-23 (la gaudiosa festa delle “due ghirlande” di spiriti sapienti), contestuali ad altri che intrecciano motivi di Ap 19, 1 (il magnifico convivio che si tiene dopo la dannazione di Babylon) e 14, 2 (il rispondersi concorde delle corde della cetra).
Ad Ap 19, 1 viene descritto il festoso gaudio della Chiesa che segue la dannazione di Babylon. Come, allorché venne ripudiata la regina Vasti dal regno e dal connubio del re Assuero e fu eletta l’umile e santa Ester quale sposa e regina, il re fece un grande banchetto con tutti i suoi principi e servi (Est 2, 18), e lo stesso avvenne in occasione del ripudio della Sinagoga quando fu eletta la Chiesa della pienezza delle genti, così nel sesto stato, ripudiata l’adultera Babilonia, conviene sia esaltata la Chiesa spirituale e celebrato un convivio spirituale per le sue nozze. Dapprima si narra pertanto la gioia per la giusta dannazione di Babilonia e per la liberazione dei santi dalla sua servitù: “Dopo ciò”, cioè dopo la dannazione di Babilonia, “udii una gran voce come di molte trombe in cielo che dicevano: alleluia”. Quanti saranno allora i santi altrettante le trombe risonanti, per mezzo del veemente soffio dello Spirito Santo, dalle viscere più profonde fino al cielo e in tutto l’universo, lodi altissime e diffuse di gioia divina. E poiché un gran numero di Giudei e di Gentili, Greci e Latini, allora entrerà in Cristo con spirito grande e alto, molte saranno le trombe risonanti per le grandi voci degli intelletti spirituali e degli affetti, al modo con cui si celebra annualmente la solennità delle Palme, nella quale Cristo venne glorificato da molti popoli. Le turbe che precedono designano i Greci, quelle che seguono i Latini, quelle che vengono incontro alla discesa del monte degli Ulivi i Giudei, tra i quali sono i fanciulli. Tutti costoro cantavano “Osanna al Figlio di Davide”, e gloria, lode e onore sia a te, Cristo redentore (Mt 21, 9).
Ap 19, 1 – dove Olivi ha ben presente Gioacchino da Fiore senza citarlo – è nel poema luogo di riferimento importante (sempre in collazione con altri passi), dalla gaudiosa festa di Par. XII, 22-24 alla “gran cena del benedetto Agnello” di Par. XXIV, 1ss., ai vari modi di cantare Osanna [4]; ma anche dagli “spiriti magni ” del Limbo (Inf. IV, 118-120 – l’espressione “in spiritu magno et alto” non c’è in Gioacchino; cfr. “exaltavit electos” con “che del vedere in me stesso m’essalto”) agli “spiriti … di gran voce” del cielo di Marte (Par. XVIII, 31-33 – anche l’inciso “magnis vocibus” è assente nell’Expositio).
Se l’espressione “spiriti magni ”, oltre che la ‘magnanimità’ in senso aristotelico, designa anche le reliquie dei Gentili greci e latini che alla fine dei tempi entreranno in Gerusalemme “in spiritu magno et alto” insieme a tutto Israele, ciò significa che essi, stando nel “nobile castello” del Limbo, attendono di venire di lì tratti a beatitudine in un nuovo avvento di Cristo, non più nella carne come avvenne per gli antichi Padri, bensì nello Spirito-Amore operante nei suoi discepoli, interno dettatore che apre la volontà al parlare. La poesia coopera a una Redenzione non ancora compiuta. Anche se son “genti … con occhi tardi e gravi”, tutt’altro che gaudiosa perché posta in “luogo … non tristo di martìri, / ma di tenebre solo”, gli “spiriti magni” sono ‘figura’ della conversione universale, del tripudio, della festa, del fiammeggiare, della concordia fra le virtù, dell’ingresso in Cristo “in spiritu magno et alto” che avverrà nel sesto stato della Chiesa, per antonomasia appropriato al suo Spirito. Nuovi cittadini entrano così in “quella Roma onde Cristo è romano”. Pagani o maomettani, sono stati prescelti non per nobiltà di sangue, ma per filiazione spirituale, per dono della Grazia che discende dal ‘Padre de’ lumi’ (Jc 1, 17). Con un aggiornamento di quanto esposto nella Lectura super Apocalipsim sull’incorporazione delle genti nella Roma dei giusti o dei reprobi, che peregrinano insieme in terra, Dante poteva pervenire ad attribuire agli Antichi una sacralità fino ad allora propria solo della Chiesa in sé.
[Tab II]
[LSA, cap. XIX, Ap 19, 1 (VIa visio)] “Post hoc audivi”. Descripta Babilonis dampnatione, subditur hic festivale gaudium sancte ecclesie quod erit post dampnationem Babilonis. Sicut enim Vasti regina a regno et coniugio regis Assueri abiecta, electa est Hester humilis et sancta ad eiusdem regis conubium et regnum, fecitque ex hoc rex magnificum convivium cunctis principibus et servis suis (cfr. Est 2, 18), sic reiecta sinagoga electa est ecclesia plenitudinis gentium, sicque in sexto statu ecclesie reiecta Babilone adultera oportet spiritalem ecclesiam exaltari et celebre ac spiritale convivium pro eius nuptiis celebrari. In hac igitur parte primo narratur gaudium ex iusta dampnatione Babilonis et ex liberatione sanctorum a servitute ipsius proveniens. Secundo subditur gaudium de exaltatione et clarificatione regni Christi et ex nuptiis Christi et spiritalis ecclesie procedens, ibi: “Et audivi quasi vocem tube magne” (Ap 19, 6).
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[LSA, cap. III, Ap 3, 7 (Ia visio, VIa ecclesia)] Significatur etiam per hoc proprium donum et singularis proprietas tertii status mundi sub sexto statu ecclesie inchoandi et Spiritui Sancto per quandam antho-nomasiam appropriati.
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Inf. IV, 118-120Colà diritto, sovra ’l verde smalto,
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Par. XVIII, 31-33spiriti son beati, che giù, prima
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Par. XII, 19-27 così di quelle sempiterne rose
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[LSA, cap. XIV, Ap 14, 2 (IVa visio)] Corde vero cithare sunt diverse virtutes, que non sonant nisi sint extense, nec concorditer nisi sint ad invicem proportionate et nisi sub consimili proportione pulsentur. Oportet enim affectus virtuales ad suos fines et ad sua obiecta fixe et attente protendi et sub debitis circumstantiis unam virtutem et eius actus aliis virtutibus et earum actibus proportionaliter concordare et concorditer coherere, ita quod rigor iustitie non excludat nec perturbet dulcorem misericordie nec e contrario, nec mititatis lenitas impediat debitum zelum sancte correctionis et ire nec e contrario, et sic de aliis. |
II VISIONE (Ap 4, 1-8, 1)
RADICI (Ap 4, 1-5, 14)
[→ Ap 4, 4 (testo) – (tabella)]
I seniori che circondano la sede divina ad Ap 4, 4 sono, secondo Gioacchino da Fiore, i dodici apostoli per i quali i Gentili entrarono in Cristo e i dodici futuri evangelici per i quali Israele e l’intero orbe si convertiranno a Cristo.
VI SIGILLO (Ap 6, 12-7, 17)
[→ Ap 7, 1]
L’esegesi dell’angelo del sesto sigillo, che rimuove l’impedimento frapposto dai quattro angeli malvagi quietandoli, viene appropriata a Virgilio che rimuove gli impedimenti posti dalla lupa e da quattro antichi demoni (Caronte, Minosse, Cerbero, Pluto). Gioacchino da Fiore (Expositio, pars II, f. 120va) è giustapposto a Riccardo di San Vittore (In Ap II, ix [PL 196, col. 770 C]).
[→ Ap 7, 2 (testo); (tabella)]
L’esegesi dell’angelo del sesto sigillo, che sale da Oriente, costituisce un punto centrale della Lectura oliviana. Si apre con un’ampia citazione dall’Expositio (pars II, ff. 120vb-121ra) di Gioacchino da Fiore, richiamata nei primi versi della Commedia.
Per un’altra importante citazione (Concordia IV 1, c. 45 [Patschovsky 2, p. 471, 1-13]), cfr. pure Un cinquecento diece e cinque, PDF, 2011, pp. 3 [638], 47-48 [682-683], 57 [692].
Olivi applica a Francesco le figure dell’angelo del sesto sigillo (Ap 7, 2) e dell’angelo dal volto solare (sesta tromba: Ap 10, 1-3): cfr. infra.
[→ Ap 7, 3-4]
La rosa di elementi semantici o parole-chiave, proposta nell’esegesi della “signatio” dei 144.000 dalle dodici tribù di Israele, attraversa l’intero poema, in più luoghi e con variazioni sempre diverse di tali elementi. Rilevante è la citazione di Gioacchino da Fiore (Expositio, pars II, f. 121ra-b).
[→ Ap 7, 13; cfr. « In mensura et numero et pondere ». Nella fucina della Commedia: storia, poesia e arte della memoria, PDF, 2014, pp. 19-20, 64-65, 257-259)]
Nel finale dell’apertura del sesto sigillo (Ap 7, 13), uno dei seniori ‘risponde’, cioè si rivolge a Giovanni parlando. Questo vegliardo, nell’interpretazione di Riccardo di San Vittore, designa la totalità dei profeti, degli apostoli, dei dottori, che insegnano la giustizia e la gloria degli eletti, e in tal modo è come se parlasse a nome di tutti (In Ap II, ix [PL 196, col. 774 B]). Secondo Gioacchino da Fiore, il vegliardo è il beato Giovanni, autore del libro, il quale ci interroga ed incita a cercare, a capire, a imitare quei santi. Egli è uno, e il maggiore, dei ventiquattro seniori. Noi siamo qui da lui designati in quanto viene edotto dall’angelo che assume la forma di un seniore (Expositio, pars II, f. 122ra). Il vegliardo dice: “Quelli che sono vestiti di bianco, chi sono”, cioè di quali e quante dignità sono insigniti, “e donde vengono?”, cioè per quali meriti e quale via di santità sono pervenuti a tanta gloria. E Giovanni: “Signore mio, tu lo sai” (Ap 7, 14), come per dire: io non lo so ma insegnamelo tu che lo sai. E il vegliardo: “Essi sono coloro che sono venuti», a tanta gloria, «attraverso la grande tribolazione”, cioè attraverso le grandi tribolazioni patite per Cristo a causa degli empi e a causa di se stessi in lotta contro le concupiscenze.
L’esegesi di questi versetti (e del passo simmetrico di Ap 5, 2) si riflette in molte agnizioni nella Commedia. Si tratta di temi banali, per cui qualcuno chiede chi sia un altro, e da dove venga. Tanto ovvi che li si ritrova nelle parole di Nestore a Telemaco (Odissea, III, 71). Qui però si registra una rosa tematica, che rende unica quella forma comune di dire.
Francesco e Gioacchino da Fiore
L’angelo del sesto sigillo (Ap 7, 2) e l’angelo dal volto solare (Ap 10, 1)
■ Un lettore spirituale avrebbe ben afferrato la successione tematica tra quarto, quinto e sesto stato nei versi con cui Tommaso d’Aquino inizia in Par. XI l’elogio di san Francesco. Ivi all’ “alto monte” Subasio, che fa segno dell’arduo quarto stato proprio degli alti anacoreti, avrebbe visto contrapporsi “l’acqua (del Chiascio) che discende / del colle eletto dal beato Ubaldo” e la “fertile costa” che pende e spezza la “rattezza” del monte: segni del quinto stato sotto il cui regime Francesco formò il suo Ordine, periodo condiscendente, pietoso e tenero verso le moltitudini associate, di cui è figura Cristo che condiscese agli infermi e la bella costa sottratta al forte e solitario Adamo, che Dio nel creare Eva riempì di pietas (prologo, Notabile VII).
Più volte nel poema la “costa” della ripa infernale, o della montagna del purgatorio, che giace o che è corta o che cala o che pende si abbina allo “scendere” in modo da far via, indicando la rottura della solitaria arditezza, del luogo “alpestro” a vantaggio del condiscendere pietoso, del dar via. Così il pendere della costa del Subasio, il frangere la ripidezza dell’alto monte, il discendere dell’acqua del Chiascio dal colle di Gubbio sono temi propri del quinto stato, cui appartiene il pio condiscendere verso gli inferiori e la possibilità di mantenere le moltitudini fedeli in uno stato mediocre rispetto al precedente troppo arduo. Francesco, uomo per antonomasia del sesto stato, nasce ancora nel concorrere del quinto con esso, e pertanto gli si può ben attribuire il carattere della condiscendenza. Tra le dodici tribù di Israele da cui provengono i 144.000 segnati all’apertura del sesto sigillo, la settima è quella di Simeone, che conduce a perfezione il tema della pietas (Ap 7, 7).
Assisi fu dunque luogo predisposto, nel quinto stato, alla nascita di “un sole”; esso, piuttosto che Ascesi, dovrebbe chiamarsi Oriente (Francesco è l’angelo del sesto sigillo, ascendens ab ortu solis, Ap 7, 2). L’angelo sale da oriente perché Francesco assunse come fondamento della sua ascesa verso Dio la sede romana, che tra le cinque principali chiese è sede principale e città del sole, della quale è detto allegoricamente in Isaia 19, 18: “In quel giorno ci saranno cinque città nell’Egitto. Una di esse si chiamerà Città del Sole”. Le città citate nei versi danteschi sono cinque: Perugia, Nocera, Gualdo, Ascesi, Oriente e una sola, l’ultima, può dirsi realmente civitas solis (“ma Orïente, se proprio dir vuole”). La descrizione geografica del luogo di nascita di Francesco fa dunque concordare il senso letterale con quello spirituale.
L’angelo del sesto sigillo, “ascendens ab ortu solis” (Ap 7, 2), viene identificato da Olivi, che segue il suo maestro Bonaventura, con Francesco. Nel quadro geografico offerto dai versi il tema del salire da oriente viene appropriato a Francesco stesso (“nacque al mondo un sole”, “non era ancor molto lontan da l’orto”), alla “Porta Sole” (da cui Perugia “sente freddo e caldo”), ai due nomi del luogo di nascita, “Ascesi ” (che allude all’ ascendere) e “Oriente”.
Nella sua esegesi Olivi reca anche l’immagine dell’orologio di Acaz (la meridiana portata da Dio indietro di dieci gradi, in segno della guarigione di Ezechia; cfr. 2 Rg 20, 8-11), che Cristo nuovamente ascende in Francesco sino al mattino (Ap 7, 2). Questa immagine si ritrova al termine di Par. X, dove l’ “orologio” (hapax nel poema) che chiama al mattutino è appropriato alla prima corona delle anime sapienti, tra le quali è Tommaso d’Aquino che nel canto successivo tesse l’elogio di Francesco. La reminiscenza indubbia del Cantico dei Cantici – “Indi, come orologio che ne chiami / ne l’ora che la sposa di Dio surge / a mattinar lo sposo perché l’ami” – è, qui come in altri casi [5], incastonata nelle maglie del grande commento apocalittico, con cui concorda e grazie al quale assume un valore storico, non di citazione ma di metafora che si invera in un processo sacro.
Il rapporto fra le cinque città citate da Tommaso si colloca fra la stabilità solare di “Oriente” cui si ascende (Ascesi), l’instabilità di Perugia (la quale “sente freddo e caldo / da Porta Sole”, cioè dalla porta che si apre a oriente, verso il Subasio), e il “grave giogo” che fa piangere Nocera e Gualdo Tadino, poste dietro al Subasio e per questo sottratte alla maggior luce rispetto agli altri luoghi.
Nel Notabile XIII del prologo della Lectura Olivi paragona i tre fini della storia umana, cioè i tre avventi di Cristo (nella carne, nello spirito, nel gudizio), a un grande monte con tre vette, contenente al proprio interno due grandi valli. A chi guarda dalla distanza, il monte appare uno, non trino: tale fu la prospettiva degli Ebrei che vennero prima dell’avvento di Cristo e dei profeti che non distinsero i tre fini. I cristiani che vivono nei primi cinque stati dopo la venuta di Cristo si trovano sulla prima vetta, in condizione di vedere la prima valle chiusa da due dossi: distinguono pertanto lo spazio temporale in cui, tra il primo e l’ultimo avvento, avviene la conversione delle genti ma non quello che sta tra il secondo avvento, proprio del sesto stato allorché verrà ucciso l’Anticristo, e l’ultimo. Coloro che si trovano a vivere nel sesto stato, o che lo vedono in spirito (come Gioacchino da Fiore, che altrove Olivi afferma aver visto per rivelazione in spirito, nella sua terza età, il sesto stato), hanno la visione compiuta, poiché trovandosi sulla mediana delle tre vette distinguono tra il primo e il terzo avvento, che alla fine dei tempi sarà segnato dalla conversione di Israele. Essi vedono chiaramente i tre fini nelle profezie, ove erano involuti, e si rendono conto che ogni novità intervenuta nel corso della storia umana è segno figurativo della mutazione e del rinnovamento operati dai tre avventi, verso i quali tutto corre:
Secundo elucidat ipsam distinguendo tres fines seu tres Christi adventus in prophetis indistincte involutos. Sicut enim viro distanti a monte magno, duas magnas valles seu planities intra se continente ac per consequens et trino, videtur mons ille non ut trinus sed tantum ut unus mons nullis vallibus distinctus, ex quo vero vir ille stat super primum montem videt primam vallem et duos montes illam vallem concludentes, ex quo vero stat in monte secundo seu medio videt duas valles cum montium ipsas concludentium trinitate, sic Iudei, qui fuerunt ante primum Christi adventum quasi ante primum montem, non distinxerunt inter primum et postremos sed sumpserunt totum pro uno.
Christiani vero sextum statum ecclesie preeuntes distinguunt quidem inter primum et ultimum, tamquam iam positi super primum et tamquam videntes medium spatium conversionis gentium quod est et fuit inter primum adventum et ultimum, communiter tamen non distinguunt inter illum qui erit in extremo iudicio et inter illum qui erit in statu sexto quando, secundum Apostolum, Christus illustratione sui adventus interficiet Antichristum (2 Th 2, 8).
Qui autem statuentur in sexto, vel in spiritu vident ipsum, distinguunt ipsum a primo et postremo, videntque tunc hanc distinctionem in libris propheticis et etiam in hiis que a Christo et apostolis dicta sunt de finali Christi adventu et de finali statu mundi. Tunc etiam vident quod licet opera quinque priorum etatum concordent cum quinque primis ecclesie statibus et septem prelia seu signacula sub lege completa concordent cum septem ecclesie statibus, nichilominus mutatio veterum et institutio novorum facta in quolibet predictorum principalius dirigitur ad significandam mutationem et renovationem factam vel fiendam in trino Christi adventu prefato, id est in primo statu ecclesie et in sexto et in extremo iudicio. Unde et spiritus propheticus prophetarum veteris testamenti ad istos tres principalius currit. Nec mirum, quia principalis intentio eorum de Christo et circa Christum fuit prophetare eius adventum in carnem passibilem et redemptionem nostram per eius mortem fiendam, ac deinde post conversionem plenitudinis gentium promittere conversionem omnis Israel et postremo mundum inde a Christo iudicandum et consumandum, electos quidem in eterna gloria et reprobos in eterna pena.
L’immagine oliviana del monte trino e uno è un adattamento di un passo di Gioacchino da Fiore. L’abate florense, nell’Expositio in Apocalypsim (pars IV, distinctio VII, f. 175rb), usa l’immagine di una città, che può essere vista da lontano, dalla porta o dall’interno: “Aliud est enim videre multa, aliud omnia. Aliter videtur civitas cum adhuc per dietam longius distat, aliter cum venitur ad ianuam, aliter cum pergitur intus. Nos igitur qui ad ianuam sumus multa quidem loqui possumus, que aliquando ex toto vel ex parte latebant, sed non sicut hi qui erunt intus et oculo ad oculum videbunt”. Olivi sposta in avanti la posizione che Gioacchino assegna a se stesso. La vista della città da lontano coincide con il vedere il monte dalla distanza (da parte di coloro che vennero prima di Cristo); lo stare sulla porta corrisponde, nel Francescano, allo stare sul primo dei tre dossi; lo stare dentro equivale alla posizione mediana. Il vedente di Olivi, che vive nel sesto stato, sta sul secondo dosso e abbraccia con lo sguardo le tre vette e le due valli che le separano. Si trova dunque all’interno.
“Sicut enim viro distanti a monte magno … sic Iudei, qui fuerunt ante primum Christi adventum quasi ante primum montem, non distinxerunt inter primum et postremos sed sumpserunt totum pro uno. – quando n’apparve una montagna, bruna / per la distanza”: la prospettiva dei Giudei che vennero prima di Cristo fu quella di Ulisse, nel suo ultimo viaggio, di fronte alla montagna del purgatorio (Inf. XXVI, 133-134). Quella montagna rappresenta la sesta età del mondo, propria della Chiesa, con i suoi sette stati (i sette gironi) e a Dante e a Virgilio, che la saliranno, apparirà articolata al suo interno, con una valle (la ‘valletta’ dei principi negligenti) e con piani. L’eroe greco, con il suo “folle volo” – vero e proprio viaggio nel futuro -, volle anticipare il disegno provvidenziale, che tutto aveva previsto ma non aveva stabilito che tutto il libro fosse aperto in un solo tempo. Nel cielo del Sole Tommaso d’Aquino cita un “grave giogo” (che fa piangere Nocera e Gualdo Tadino), poi un luogo intermedio (Perugia, che “sente freddo e caldo”), infine “Ascesi” (la “civitas solis”). Corrispondono ai tre punti di vista della montagna una e trina del Notabile XIII del prologo: l’Antico Testamento o le prime cinque età del mondo (laboriose e servili), la storia della Chiesa dal primo avvento di Cristo fino al quinto stato e infine il sesto stato, secondo avvento di Cristo, nello spirito, e novum saeculum iniziato appunto con Francesco e la sua evangelica Regola.
Dante fu certo primo fra gli Italiani moderni, come scrisse Burckhardt [6], a osservare e gustare di nuovo il lato estetico del paesaggio. Ma, questo gusto quanto aspetto sacro ancora ritiene!
■ Nell’esegesi dell’angelo del sesto sigillo (Ap 7, 2) due importanti citazioni di Gioacchino da Fiore (una relativa alla pesca miracolosa di san Pietro, l’altra al veloce salire del “novus dux”), che incidono profondamente in altri luoghi del poema, non hanno invece rilievo nella vita del “poverel di Dio” narrata da Tommaso d’Aquino. Diversamente avviene con le citazioni di Gioacchino contenute nell’esegesi dell’angelo dal volto solare al suono della sesta tromba. Questo angelo, trattato nel capitolo X, viene anch’esso identificato da Olivi (a differenza di Bonaventura) con Francesco. Di questo angelo dice il testo scritturale: “Vidi poi un altro angelo, forte, discendere dal cielo, avvolto in una nube, il capo cinto da un arcobaleno; aveva la faccia come il sole e i piedi come colonna di fuoco. Nella mano teneva un piccolo libro aperto. E pose il piede destro sul mare e il sinistro sulla terra e gridò a gran voce come leone che ruggisce” (Ap 10, 1-3).
Francesco fu singolarmente “forte” in ogni virtù, in ogni opera di Dio; per la somma umiltà e il riconoscimento della prima origine di ogni natura e grazia fu sempre “discendente dal cielo”; per l’aerea e sottile o spirituale leggerezza spogliata da ogni peso terrestre, fu “avvolto in una nube”, cioè dall’altissima povertà ripiena delle acque celesti, ossia del supremo possesso e assorbimento delle grazie divine.
Gli stessi concetti vengono ripetuti più avanti, allorché Olivi parla del discendere spirituale di Cristo, del suo servo Francesco e dell’angelico gruppo dei suoi discepoli contro gli errori e le malizie del mondo e contro l’intero esercito dei demoni e degli uomini malvagi, nel momento della solenne contestazione e condanna della vita evangelica e della Regola che sarà fatta al tempo dell’Anticristo mistico e sarà più ampiamente consumata al tempo dell’Anticristo proprio. Francesco discenderà costante, forte, impavido come il leone, sia per attaccare che per difendersi. Per la sua profondissima umiliazione, per l’umile riconoscimento della sua origine da Dio, per il pietoso condiscendere verso gli inferiori, discenderà dal cielo e sarà avvolto come da una nube dalla scienza delle Scritture, non terrene e false ma celesti e purissime, e anche dalla agilissima, altissima e insieme feconda, oscura e umile povertà. Tutto ciò viene detto poiché apparirà chiaramente nelle sue future opere e nei suoi discepoli.
Gioacchino da Fiore dice a questo riguardo: «Chiunque sia questo predicatore della verità, è descritto come “forte” perché sarà robusto nella fede; “discenderà dal cielo”, cioè dalla vita contemplativa a quella attiva; sarà “avvolto in una nube” perché ricoperto dalla scrittura dei profeti, e avrà “l’arcobaleno sul capo” perché avrà nella mente lo Spirito Santo e l’intelligenza mistica o spirituale delle Scritture. Come infatti l’arcobaleno appare unito alle nubi del cielo, così alle scritture dei profeti bisogna unire l’intelligenza mistica per convincere gli avversari».
Nelle parole di Tommaso d’Aquino, al capitolo X rinviano “l’acqua che discende / del colle eletto dal beato Ubaldo”, cioè il Chiascio (il discendere dell’angelo, nel sesto stato, concorda con quello pietoso del quinto segnalato dalla “costa”: cfr. prologo, Notabile VII; il “colle” sopra Gubbio allude a uno stato mediocre, quale il quinto, rispetto al quarto designato dall’ “alto monte”); la “gran virtute” di Francesco sentita dalla terra; il riferimento alla “spirital corte” (nell’esegesi oliviana è la spirituale leggerezza; nei versi la curia episcopale di Assisi, dinanzi alla quale, presente il padre, il santo si unisce con la povertà) e tre aggettivi della povertà (“scura”, “costante”, “feroce”, cioè impavida).
Come la nube, che sta tra noi e il cielo, riceve i raggi del sole e ce li tempera, ed effonde in misura dovuta le acque piovane feconde per la fruttificazione delle sementi, così la Sacra Scrittura sarà spiritualmente nella carità e nella sapienza di Dio come il sole che irradia alla fine tutta la terra formando il giorno solare del terzo stato generale del mondo. Questa rosa di motivi (già in parte appropriata all’apparizione di Beatrice nell’Eden, e ancor prima al Veltro) [7] è contenuta nel conforto che la terra sente per la grande virtù di Francesco e viene anticipata dall’essere “fertile” la costa ove nacque.
Il canovaccio di Ap 10, 1-3 (che, sia chiaro, non esclude altre fonti di consueto addotte a commento, ma le arma) non è recitato solo da Tommaso d’Aquino nel narrare la vita di Francesco. Lo si ritrova, variato, nell’elogio di Domenico che Bonaventura pronuncia nel canto seguente. Anche per il “santo atleta” si parla di “viva vertute” infusa da Dio nella sua mente al momento della creazione (Par. XII, 58-60). In questi versi, riferiti all’essere perciò la madre di Domenico resa profeta del futuro del figlio, sono presenti anche i motivi, da Ap 13, 11, offerti dalla questione se l’Anticristo verrà o meno guidato dal diavolo fin dal ventre materno, e ciò per decisione della prescienza divina, non unico caso nel poema di metamorfosi in bonam partem di temi negativi nell’esegesi teologica [8].
Se l’angelo del capitolo X sarà impavido come un leone, sia per attaccare (“ad invadendum”) che per difendere (“ad patiendum”), il luogo di nascita di Domenico, Calaruega, si trova sotto la protezione dello scudo di Castiglia, in cui è rappresentato un leone che sovrasta ed insieme soggiace a un castello (Par. XII, 52-54). La “fortunata Calaroga” siede “in quella parte ove surge ad aprire / Zefiro dolce le novelle fronde / di che si vede Europa rivestire” (ibid., 46-48), terzina che contiene il tema del rinnovamento della vita evangelica proprio del sesto stato, del quale è tipico il motivo dell’aprire.
Essere forte nella virtù e nelle opere e libero da ogni peso temporale, prerogative dell’angelo che ha la faccia come il sole (Ap 10, 1), sono motivi attribuiti da Cacciaguida a Cangrande, impresso da una stella “forte” (quella di Marte) che renderà “notabili” le sue opere, anche se finora le genti non si sono accorte di lui “per la novella età”. La sua “virtute”, di cui “parran faville”, consisterà “in non curar d’argento né d’affanni”, cioè nel disprezzo delle ricchezze e delle sollecitudini temporali (Par. XVII, 76-84; cfr., anche in questo caso, il Veltro). Di lui Cangrande dice a Dante “cose incredibili” da tacere agli altri, e qui i versi (ibid., 91-93) rinviano all’esegesi dei versetti 4-7 del capitolo X della Lectura.
Tab. III
[LSA, cap. X, Ap 10, 1-3 (IIIa visio, VIa tuba)] “(Ap 10, 1) Et vidi alium angelum fortem, descendentem de celo, amictum nube, et iris in capite eius, et facies eius erat ut sol, et pedes eius tamquam columpna ignis, (Ap 10, 2) et habebat in manu sua libellum apertum, et posuit pedem suum dextrum supra mare, sinistrum vero super terram, (Ap 10, 3) et clamavit voce magna, quemadmodum leo rugit”. […] Ioachim dicit hic: «Quicumque erit iste predicator veritatis, “fortis” esse describitur, quia robustus erit in fide; et “de celo” descendet, id est de vita contemplativa ad activam; et “amictus” erit “nube”, quia indutus erit scriptura prophetarum; et “irim in capite”, quia Spiritum Sanctum et misticum seu spiritalem intellectum scripturarum habebit in mente. Sicut enim archus celestis apparet iunctus nubibus celi, sic scripturis prophetarum iungendus est misticus intellectus ad adversarios convincendos»*. Et subdit: «Ego autem angelum istum secundum litteram aut Enoch fore puto aut Heliam. Verum, prout hoc Deus melius novit, unum dico pro certo, quod hic angelus significat personaliter magnum aliquem predicatorem, quamvis spiritaliter ad multos viros spiritales tunc temporis futuros competenter valeat intorqueri. Sane facies angeli similis est soli, quia in hoc sexto tempore oportet Dei contemplationem in modum solis splendescere et perduci ad notitiam eorum qui designantur in Petro et Iacobo et Iohanne, id est Latinorum et Grecorum et Hebreorum, primo quidem Latinorum, deinde Grecorum, tertio Hebreorum, ut fiant novissimi qui erant primi et e contrario»**. Hec Ioachim.
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Par. X, 139-141; XI, 43-72Indi, come orologio che ne chiami
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[LSA, cap. VII, Ap 7, 2 (IIa visio, apertio VIi sigilli)] Sequitur tertia pars, scilicet prohibitio predicti impedimenti per subscriptum angelum facta (Ap 7, 2): “Et vidi alterum angelum”, alterum scilicet a quattuor iam premissis, et alterum non tantum in persona sed etiam in virtute et officio. […]
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Inf. I, 100-105Molti son li animali a cui s’ammoglia,
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Par. XVII, 76-84Con lui vedrai colui che ’mpresso fue,
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■ Un altro importante passo di Gioacchino da Fiore, relativo all’angelo dal volto solare, viene utilizzato da Dante in tutt’altro contesto (Purg. XXXII, 70ss.). A questo passo Olivi fa seguire l’immagine del carro di Elia come segno figurale di Francesco trasfigurato nel vero sole, cioè in Cristo, alla quale rinvia, in modo apparentemente dissonante, Inf. XXVI, (cfr. Ulisse perduto. Un viaggio nel futuro, pp. 154-156, 159-161).
Ad Ap 11, 4, invece, l’interpretazione che dà Gioacchino delle parole: “In conspectu Domini terre stantes”, relative ai due testimoni che saranno uccisi dalla bestia per poi risorgere, è ben presente sia nel discorso di Tommaso d’Aquino su Francesco (Par. XI, 100-102) sia in quello di Bonaventura su Domenico (Par. XII, 76-78).
■ L’angelo della sesta tromba, che ha la faccia come il sole, discende lievemente dal cielo, avvolto in una nube («per aeream et per subtilem seu spiritualem levitatem ab omni pondere terrenorum excussam fuit “amictus nube”, id est altissima paupertate aquis celestibus plena, id est suprema possessione et imbibitione celestium divitiarum»), il capo cinto da un arcobaleno. La nube designa la scienza delle Scritture, oppure (Gioacchino da Fiore) la scienza dei profeti, oppure la contemplazione estatica (designata, secondo lo Pseudo Dionigi, dalla nube nella quale Dio parlava a Mosè); la nube inoltre contempera i raggi del sole e irriga. L’iride designa l’intelligenza spirituale della Scrittura (Gioacchino), oppure l’arcuale rifulgenza del sole, perché la carità viscerale di Cristo aperta e dilatata come un arco verso le miserie umane fu continuamente, intimamente impressa nella mente di Francesco (Ap 10, 1).
Questi motivi si trovano insieme nel paragone del chinarsi del gigante Anteo verso il fondo dell’inferno con la Carisenda pendente verso chi la guarda dal basso quando una nuvola vi passi sopra (Inf. XXXI, 136-145). Il pozzo attorno a cui sono legati i giganti fa parte di una zona in cui prevalgono i temi del quinto stato. Il pozzo stesso è uno dei temi principali della quinta tromba (Ap 9, 1-2); Fialte dal collo in giù è avvinto dalla catena “infino al giro quinto” (Inf. XXXI, 88-90); Anteo esce fuori dalla roccia, senza la testa, “ben cinque alle” (ibid., 113-114). Anche il “declinare” (equivale a ‘pendere’), come il “condiscendere”, fa parte dei temi del quinto stato (prologo, Notabile III: lo zelo severo, il quinto dei doni dello Spirito, è nel quinto periodo “declinans”). Il sesto sigillo si apre con un grande terremoto (Ap 6, 12), ed è preannunciato dal “tremoto … tanto rubesto” con cui si scuote Fialte (Inf. XXXI, 106-108). Anteo, sciolto rispetto agli altri (tema da Ap 9, 14: il sesto angelo che suona la tromba scioglie i quattro angeli incatenati nel fiume Eufrate), assume su di sé caratteristiche del sesto stato, per quanto queste si possano ritrovare nell’inferno. Il suo chinarsi “lievemente” ha qualcosa della “viscerosa caritas Christi” di Francesco che discende col capo coperto dalla nube dilatato ad arco verso le miserie umane (cfr. anche, a Inf. XXII, 19-24, la similitudine dei delfini che fanno “arco” per segnalare ai marinai l’arrivo di una tempesta con i barattieri della quinta bolgia che mostrano il dorso sopra la pece “ad alleggiar la pena”). La nube (che in questo caso, fra i vari significati, designerà nel senso di Gioacchino la scienza delle scritture profetiche, perché Anteo prefigura Scipione, a sua volta prefigurazione del soccorso dell’ “alta provedenza” preconizzata da san Pietro nell’ottavo cielo a Par. XXVII, 61-63) è appropriata alla Carisenda, e il nome della bolognese torre pendente appare singolarmente consonante con la caritas verso gli inferiori, nonostante il timore di Dante. Lo stesso chinarsi senza ‘fare dimora’ sul “fondo che divora / Lucifero con Giuda” ha un significato spirituale, in quanto Anteo si comporta a suo modo come quei santi perfetti del quinto stato che condiscendono solo per la carità e l’utilità degli infermi senza per questo macchiarsi di impurità, nel caso senza contaminarsi coi traditori e gli apostati (prologo, Notabile VII). Questi perfetti non verranno cancellati dal libro della vita, riceveranno anzi gloria e fama (Ap 3, 5: quinta vittoria). Ed è proprio la fama che Virgilio promette al gigante (Inf. XXXI, 124-129). Il levarsi di questi “come albero in nave” allude ai prelati, alti come alberi nella scienza divina e nel frutto delle loro opere (Ap 8, 7), preposti ai monasteri e cenobi considerati navi spirituali (Ap 18, 17). Ad Anteo sono anche appropriati i temi della vittoria di Cristo sull’Anticristo (Ap 19, 11-16).
Così, con una variazione dissonante, ad Anteo è appropriato il motivo del matrimonio, il sacramento per eccellenza del sesto stato (prologo, Notabile XIII) che appartiene a Francesco e a Povertà: “Ma lievemente al fondo che divora / Lucifero con Giuda, ci sposò … e dinanzi a la sua spirital corte / e coram patre le si fece unito” [9].
Gioacchino da Fiore afferma che come l’arcobaleno appare unito alle nubi del cielo, così alle scritture dei profeti bisogna unire l’intelligenza mistica per convincere gli avversari. L’accostamento della nube e dell’arcobaleno si trova in Par. XII, 10-12, nel momento in cui una seconda corona di spiriti sapienti, in cui è Bonaventura, si aggiunge alla prima, in cui è Tommaso d’Aquino. L’iride, in questo caso, è doppia, perché due sono i prìncipi ordinati (cfr. Ap 4, 4; 11, 4), Francesco e Domenico, di cui sono tessute le lodi. È da notare che la nube è “tenera”, aggettivo che significa un motivo del quinto stato, “habens sensum vivum et tenerum pietatis” (prologo, Notabile XIII; cfr. quanto detto a Par. XXXI, 61-63 di san Bernardo, il quale al quinto stato appartiene di diritto: “in atto pio / quale a tenero padre si convene”).
Tab. IV
[LSA, cap. X, Ap 10, 1 (IIIa visio, VIa tuba] Ioachim dicit hic: «Quicumque erit iste predicator veritatis, “fortis” esse describitur, quia robustus erit in fide; et “de celo” descendet, id est de vita contemplativa ad activam; et “amictus” erit “nube”, quia indutus erit scriptura prophetarum; et “irim in capite”, quia Spiritum Sanctum et misticum seu spiritalem intellectum scripturarum habebit in mente. Sicut enim archus celestis apparet iunctus nubibus celi, sic scripturis prophetarum iungendus est misticus intellectus ad adversarios convincendos»*. |
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Et subdit: «Ego autem angelum istum secundum litteram aut Enoch fore puto aut Heliam. Verum, prout hoc Deus melius novit, unum dico pro certo, quod hic angelus significat personaliter magnum aliquem predicatorem, quamvis spiritaliter ad multos viros spiritales tunc temporis futuros competenter valeat intorqueri. Sane facies angeli similis est soli, quia in hoc sexto tempore oportet Dei contemplationem in modum so-lis splendescere et perduci ad notitiam eorum qui designantur in Petro et Iacobo et Iohanne, id est Latinorum et Grecorum et Hebreorum, primo quidem Latinorum, deinde Grecorum, tertio Hebreorum, ut fiant novissimi qui erant primi et e contrario». Hec Ioachim. ** |
Purg. XXXII, 70-78Però trascorro a quando mi svegliai,
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Sciendum etiam quod sicut sanctissimus pater noster Franciscus est post Christum et sub Christo primus et principalis fundator et initiator et exemplator sexti status et evangelice regule eius, sic ipse post Christum designatur primo per angelum istum. Unde et in huius signum in curru igneo apparuit transfiguratus in solem, ut monstraretur venisse in spiritu et imagine Helie (cfr. 4 Rg 2, 11) et simul cum hoc gerere perfectam imaginem veri solis, scilicet Christi. |
Inf. XXVI, 34-42, 46-48E qual colui che si vengiò con li orsi
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Ipse enim fuit singulariter “fortis” in omni virtute et opere Dei, et per summam humilitatem et recognitionem prime originis omnis nature et gratie semper “descendens de celo”, et per aeream et per subtilem seu spiritualem levitatem ab omni pondere terrenorum excussam fuit “amictus nube”, id est altissima paupertate aquis celestibus plena, id est suprema possessione et imbibitione celestium divitiarum. Fuit etiam “amictus nube”, id est extatice contemplationis caligine, quam secundum Dionysium, libro de mistica theologia, designabat caliginosa nubes in qua Deus apparebat et loquebatur Moysi (cfr. Ex 24, 18).
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Par. XI, 43-45, 58-63Intra Tupino e l’acqua che discende
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Par. XII, 10-12Come si volgon per tenera nube
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Inf. XXXI, 124-127, 136-145Non ci fare ire a Tizio né a Tifo:
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Inf. X, 73-75Ma quell’ altro magnanimo, a cui posta
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[LSA, prologus, Notabile III (V status)] Item (zelus) est septiformis quia est contra initium mali intrinsecum (I) et extrinsecum (II); et contra medium terminum, scilicet ascendens (III) stans (IV) et declinans (V); et contra terminum intrinsecum (VI) et extrinsecum (VII).[LSA, prologus, Notabile VII (V status)] Prima (responsio) est quia licet condescensio quinti status in infirmis, pro quibus fit, sit imperfectior, in sanctis tamen, arduas perfectiones priorum statuum in habitu mentis tenentibus et ex sola caritate et infirmorum utilitate condescendentibus, est ipsa condescensio ad perfectionis augmentum, prout patet in Christo infirmis condescendente. Unde et Ade subtracta est fortis costa ad formationem Eve, “et replevit” Deus “carnem pro ea” (Gn 2, 21), id est pietatem condescensionis pro robore solitarie austeritatis.[LSA, prologus, Notabile XIII (V status)] In quinto vero tempore fuerunt spiritualiores monachi quasi aves volantes, clerici vero gentibus commixti fuerunt quasi pisces in aquis (cfr. Gn 1, 20-21). In hac autem die primo dictum est: “Crescite et multiplicamini” et cetera (Gn 1, 22), quia numquam in preteritis temporibus sic monasteria vel ecclesie in tali vita, que conveniret pluribus, ordinate fuere quomodo in tempore quinto, quia non tantum clericorum et monachorum, verum etiam ecclesiarum et monasteriorum que sunt propagata in tempore quinto in hac occidentali ecclesia colligere numerum non est facile. Unde quamvis vita monachorum quarti temporis fuerit clarior, non tamen fecundior nec sic habens sensum vivum et tenerum pietatis.[LSA, cap. III, Ap 3, 5 (Va victoria)] Quinta est victoriosus descensus ad opera condescensionis et pietatis, qui tunc est victoriosus quando nichil sordis vel imperfectionis accipit ex consortio infirmorum quibus condescendit nec ex sua condescensione, immo inter carnales et laxos et immundos vivit sic immaculate et sancte ac si esset in solitudine vel inter austerrimos et perfectos, quod quidem patet tunc arduissimum tam in puritate quam in pietate misericordi et competit perfectis patribus quinti status […] quia isti ex multitudine immundorum, inter quos quasi sepulti et innominati vixerunt, et ex condescensione ad eos, visi sunt quasi infirmi et nulli, unde nec habuerunt nomen seu famam summe perfectorum, ideo digni sunt habere singulare nomen in gloria Dei et quod singulariter commendentur a Christo coram tota curia celi. |
■ Nel sopra ricordato Notabile XIII del prologo, è detto che quanti sono posti sulla seconda vetta della montagna (si trovano cioè a vivere nel sesto stato) vedono come, sebbene le opere delle prime cinque età che precedettero Cristo (nelle sette guerre o sigilli dell’Antico Testamento) concordino con i primi cinque stati della Chiesa, nondimeno la mutazione del vecchio e l’istituzione del nuovo avvenuta in qualsivoglia età sia diretta principalmente a significare la mutazione e il rinnovamento che è avvenuto o che avverrà nei tre avventi di Cristo, cioè nel primo stato della Chiesa, nel sesto e nel giudizio finale. Pertanto lo spirito profetico dei profeti dell’Antico Testamento corre soprattutto verso questi tre avventi, e non c’è da meravigliarsi se la loro principale intenzione fu quella di profetizzare l’avvento di Cristo nella carne passibile e la nostra redenzione per mezzo della sua morte, e di promettere poi, dopo la conversione delle genti, la conversione di tutto Israele (secondo avvento) e il giudizio e la consumazione del mondo per opera di Cristo, con gli eletti nell’eterna gloria e i reprobi nell’eterna pena (terzo avvento).
I temi si ritrovano, sia pure con appropriazione tutt’altro che palese, a conclusione della seconda trasformazione nella bolgia dei ladri, quella tra il Guercio Cavalcanti (il serpente: “quel che tu, Gaville, piagni”) e Buoso (l’anima dell’uomo): il “mutare e trasmutare” della “settima zavorra”, l’insistenza sulla “novità” (il nuovo del sesto stato), riferita all’argomento poetico o alle “novelle spalle” dell’uomo che prima era fiera; il correre carpone di Buoso trasformato in serpente (Inf. XXV, 136-151). I ladri fiorentini sono cinque (Inf. XXVI, 4-5), come le cinque età del mondo prima di Cristo, ma sono tre i compagni “che venner prima” (Inf. XXV, 34-36, 149-150, come i tre “avventi” di Cristo verso i quali “corre” lo spirito profetico dell’Antico Testamento), e cioè “Agnel” (Agnolo Brunelleschi, forse allusione a Cristo in quanto Agnello), Buoso e Puccio Sciancato (l’unico che non si muta). Nel Notabile VII del prologo si afferma che la Chiesa, alla fine del quinto stato – dopo le continue mutazioni – “est fere tota … infecta et confusa et quasi nova Babilon effecta”: di fronte a tanto “mutare e trasmutare”, gli occhi di Dante sono alquanto “confusi” (Inf. XXV, 145-146). Di certo, la “novità” dei ladri fiorentini è un ritorno all’antico, dall’uomo alla bestia [10].
Un episodio tanto chiuso è illuminato da più alta apertura. Se nella bolgia dei ladri i dannati sono incapaci di portare a stabilità le sembianze umane, nel sesto girone del purgatorio interviene, a corollario del trionfale sviluppo dei temi del sesto stato, nello stesso numero di canto delle perverse mutazioni infernali, la lezione di Stazio sulla generazione dell’uomo e sull’origine dell’anima umana, che ritrova negli organi dell’uomo l’impronta trinitaria, e più precisamente la successione dei tre stati generali del mondo gioachimiti nella versione proposta dal Notabile VII del prologo della Lectura (Purg. XXV, 34-78). Una medesima anima è prima vegetativa e poi sensitiva per virtù del seme “ch’è dal cor del generante”, infine razionale per intervento divino che infonde nel feto “spirito novo, di vertù repleto”, l’intelletto possibile che assimila a sé le operazioni precedenti. Lo “spirito novo” corrisponde alla “novità” recata dal sesto stato, che coincide con l’età dello Spirito; il suo spirare è indizio di “come d’animal divegna fante”, un “punto” che indusse in errore Averroè: il sesto stato è il “punto” da cui dipendono gli altri stati, perché appare nel testo dell’Apocalisse in modo più evidente degli altri, che da esso assumono chiarezza quanto alla loro manifestazione nella storia, come l’intelligenza delle cose ordinate a un fine dipende dal fine.
Ancor più alta apertura sull’argomento è contenuta nell’elogio di Francesco tessuto da Tommaso d’Aquino nel cielo del Sole. Se nel sesto stato l’uomo razionale, creato nel sesto giorno, si configura di più a Cristo suo esemplare, perché uomo evangelico, chi meglio di Francesco potrebbe rappresentarlo? Se si confrontano i versi conclusivi di Inf. XXV con le parole dell’Aquinate sulla prima famiglia francescana in Par. XI, si può osservare come esse, per quanto siano cantate con ben diverso registro, abbiano molto in comune con la descrizione dei ladri fiorentini. Questi sono cinque, ma “tre compagni … venner prima”. Il rapporto tra cinque e tre, così come presentato nell’esempio della montagna del Notabile XIII del prologo, è quello che intercorre tra le prime cinque età del mondo (antecedenti la sesta età, segnata dal primo avvento di Cristo) o i primi cinque stati della Chiesa (prima che, nel sesto, con il secondo avvento di Cristo si formi l’uomo razionale ed evangelico) – cinque età e cinque stati che concordano tra loro – e i tre avventi di Cristo verso cui corre lo spirito profetico. Ai “tre compagni che venner prima”, dei cinque ladri – Agnolo Brunelleschi, Buoso, Puccio Sciancato – corrispondono i primi tre compagni di Francesco, che prima si scalzarono: “’l venerabile Bernardo … Egidio … Silvestro”. Se a questi si aggiungono Francesco e Povertà, si consegue il numero cinque, il medesimo dei ladri, integrando i tre primi con Cianfa e il Guercio Cavalcanti (“quel che tu, Gaville, piagni”), già fatti serpenti. Si afferma nel Notabile XIII del prologo: “Ordo autem evangelicus est tamquam homo rationalis ad imaginem Dei factus, et ipse subiciet bestias et omnem terram et preerit piscibus et avibus, id est omnibus ordinibus quinto tempore formatis; distinguetur autem in prelatos et collegium subditorum, quasi in virum et uxorem”. Dopo la discesa infernale che trova l’uomo regredito a bestia, incapace di mantenere la stabilità umana, si risale fino alla sua forma perfetta, razionale ed evangelica.
Un altro gruppo tematico accomuna i cinque ladri e i cinque evangelici. Si tratta dei motivi offerti dall’esegesi dei “tre spiriti immondi al modo delle rane” descritti nel versamento della sesta coppa (quinta visione), i quali escono concordemente dalla bocca del drago, dalla bocca della bestia e dalla bocca del falso profeta. Si tratta di “spiriti di demoni che operano segni e che vanno a radunare i re di tutta la terra per la guerra del gran giorno di Dio onnipotente” (Ap 16, 13-14; questa esegesi, per quanto riguarda Gioacchino da Fiore, è stata già trattata altrove). Questi tre spiriti designano sia le suggestioni astute, sottili e quasi spirituali che i demoni inducono e suggeriscono, direttamente o per la bocca di uomini maligni, sia alcuni uomini astuti e fraudolenti i quali, nunzi e ambasciatori dell’Anticristo, vanno a radunare i re affinché corrano in guerra contro Babilonia, cioè contro la Chiesa carnale. In quanto tre, e uscenti da tre bocche, rappresentano una trinità pessima opposta a quella santa delle persone divine e delle loro virtù.
Una pessima trinità è formata dai tre spiriti dei ladri fiorentini che si apprestano a trasmutarsi con altri due (Inf. XXV, 35). Il tema del correre alla guerra da parte dei re radunati dai tre spiriti immondi passa in Francesco che, giovinetto, per Povertà “in guerra / del padre corse” (Par. XI, 58-59); il motivo della concordia dei tre che inviano i nunzi – il drago, la bestia e il falso profeta – è nel concordare di Francesco con la sua donna più cara (“La lor concordia e i lor lieti sembianti”, ibid., 76), mentre correre è proprio anche dei suoi seguaci che per primi si scalzarono, che sono tre – il venerabile Bernardo, Egidio e Silvestro – come i tre spiriti immondi (ibid., 79-84) e del ladro Buoso, non però da uomo, ma “carpon” una volta divenuto serpente (Inf. XXV, 140-141). L’andare (il verbo “vadere” riferito ai nunzi immondi, l’ “indi sen va” a Francesco) è attribuito al padre e maestro, alla sua donna e alla “famiglia (altro tema appartenente ai nunzi, familiari ai demoni) / che già legava l’umile capestro” (Par. XI, 85-87). Nel Notabile IX del prologo è esposto il tema del correre con desiderio verso il sesto e settimo stato, a motivo dei beni della grazia che li inondano e di cui ridondano e per cui contrastano con gli stati precedenti pieni di mali. Anche Domenico, che di Francesco “degno / collega fu a mantener la barca / di Pietro in alto mar per dritto segno” (Par. XI, 118-120), “ben parve messo e famigliar di Cristo”, come gli spiriti immondi lo sono dell’Anticristo (Par. XII, 73-75). Come i tre spiriti per mezzo dei demoni inducono, e come i re unanimi vanno alla guerra, così – nelle parole di Bonaventura su Domenico e Francesco, che rovesciano in positivo l’esegesi del confratello Olivi – “Degno è che, dov’ è l’un, l’altro s’induca: / sì che, com’ elli ad una militaro, / così la gloria loro insieme luca” (Par. XII, 34-36).
Indipendentemente dalle parti del panno che li unisce, Inf. XXV e Par. XI mostrano singolari corrispondenze: il “non poter quei fuggirsi tanto chiusi” (Inf. XXV, 147) dei ladri trova eco nell’espressione “Ma perch’ io non proceda troppo chiuso”, detto degli amanti Francesco e Povertà (Par. XI, 73); ai “tre compagni / che venner prima” (Inf. XXV, 149-150) risponde “’l venerabile Bernardo” che “si scalzò prima”, seguito da Egidio e Silvestro (Par. XI, 79-80); “e l’altro dietro a lui parlando sputa”, detto del serpente fatto uomo (Inf. XXV, 138) è avvicinabile al correre di Bernardo “dietro a tanta pace” e degli altri “dietro a lo sposo” (Par. XI, 80-81, 84).
In altri punti della Commedia il poeta torce vistosamente il panno della Lectura super Apocalipsim al suo ordito, e si tratta dei versi messi in bocca a Farinata e a Brunetto Latini, tessuti con fili tratti dal finale del capitolo XIII (Ap 13, 18), lì dove trovava il seme di Federico II identificato con l’Anticristo mistico, mentre per lui era sementa santa che rivivrà. Così le trasformazioni dei lumi del cielo di Giove nell’aquila sono incastonate nell’esegesi di Ap 13, 3, della bestia la cui testa sembrava uccisa e che risorge. Tutto ciò rivela un metodo sorprendente che trasforma in senso positivo, di prossimo rinnovamento, passi che nel testo dell’Apocalisse vengono appropriati a figure o a situazioni negative.
Tab. V
Tab. V bis
[LSA, cap. XVI, Ap 16, 13-14] Hec igitur erit preparatio ad facilius producendum carnalem ecclesiam in errores Antichristi magni et orientalium regum. De quorum adductione, et per quorum suggestionem adducentur, ostendit subdens: “(Ap 16, 13) Et vidi de ore drachonis et de ore bestie et de ore pseudoprophete tres spiritus immundos exire in modum ranarum. (Ap 16, 14) Sunt enim spiritus demoniorum facientes signa et procedunt ad reges totius terre congregare illos in prelium ad diem magnum Dei omnipotentis”. Per hos autem tres spiritus designantur tam suggestiones astute et subtiles et quasi spiritales, quam demones per se et per ora malignorum hominum suggerentes et inducentes, quam [qui]dam homines astut[i] et dolos[i] Antichristi nunti[i] et imbaxatores et quasi corretari[i] ad congregandum hos reges mundi ut veniant in prelium contra Babilonem, id est contra ecclesiam carnalem. […] Per hoc autem quod dicit quod “sunt spiritus demoniorum facientes signa”, ostendit quod demones erunt sic familiares illis nuntiis per quos facient signa, seu illi per ipsos demones, quod quasi sensibiliter totum poterit ascribi ipsis spiritibus demonum. Si etiam per solos pseudoprophetas facient signa, tunc videtur quod nuntii a drachone et bestia et pseudopropheta missi erunt pseudoprophete, et secundum hoc dicuntur ex trino ore ipsorum exire, quia ex ipsorum trium concordi consilio et beneplacito ibunt. Item ex hoc quod dicit eos ire ad congregandos reges, videtur quod antequam congregaverint eos non essent illi reges omnino subiecti Antichristo, nisi forte vadant ad reges ad hoc, ut libentius et animosius et unanimius ad bellum conveniant et concurrant. |
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Par. XII, 34-36, 73-75Degno è che, dov’ è l’un, l’altro s’induca:
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III VISIONE (Ap 8, 2-11, 18)
VI TROMBA (Ap 9, 13-11, 14)
[ → Ap 9, 13]
La voce udita dai quattro lati dell’altare d’oro. I giorni della Passione secondo Gioacchino da Fiore e la prigionia del conte Ugolino.
[ → 9, 14]
Vengono sciolti i quattro angeli legati nel grande fiume Eufrate, limite invalicabile, per Gioacchino da Fiore, dell’Impero romano.
[→ 9, 17]
Le corazze degli pseudoprofeti e i loro colori secondo Gioacchino Da Fiore.
[→ Ap 10, 1-3] L’angelo dal volto solare; cfr. supra.
[→ Ap 10, 3 (testo) – (tabella)]
Al ruggito dell’angelo dal volto solare, si odono i “sette tuoni”, cioè, secondo Gioacchino da Fiore, le voci allegoriche provenienti dal terzo cielo che irrompono nelle menti contemplative.
[→ Ap 10, 3-7]
L’angelo dal volto solare giura che, al suono della settima tromba, non ci sarà più il tempo. La pace spirituale del mondo per Gioacchino da Fiore.
[→ Ap 10, 8-9 (testo) – (tabella)]
Una voce ingiunge a Giovanni di prendere il libro dalla mano dell’angelo dal volto solare. L’interpretazione di Gioacchino da Fiore.
[→ Ap 11, 1 (testo) – (tabella)]
La verga data a Giovanni designa, secondo Gioacchino da Fiore, la “lingua erudita” che corregge gli indomiti.
[→ Ap 11, 1-2] cfr. Ulisse perduto. Un viaggio nel futuro (PDF), p. 215.
L’interpretazione che Gioacchino da Fiore dà dell’ “atrio” del “tempio” come il clero dei Greci che non vogliono sottomettersi alla Chiesa di Roma.
[→ Ap 11, 3-4 (testo) – (tabella)]
I due testimoni che “stanno nel cospetto del Signore della terra”: la posizione di Gioacchino da Fiore.
Ap 11, 8-9
Ad Ap 11, 8-9 si dice che i corpi dei due testimoni Enoch ed Elia, uccisi dall’Anticristo, “giaceranno nelle piazze della grande città, che spiritualmente si chiama Sodoma ed Egitto, dove anche il loro Signore fu crocifisso”. Secondo Gioacchino da Fiore, la grande città designa il regno di questo mondo – la città dei reprobi – e le sue piazze quegli uomini che scelsero le ampie vie che conducono alla perdizione, nelle quali giaceranno morti i corpi dei santi poiché l’intelligenza spirituale della Scrittura sarà morta con essi, una volta uccisi dalla bestia, e la verità, come dice Daniele (Dn 8, 12), sarà prostrata in terra. In questa Gerusalemme terrena l’Anticristo, predicando in qualità di messia e di salvatore, convocherà i Giudei. Concorda con questo Daniele: “uomini violenti del tuo popolo insorgeranno per adempiere la visione” (Dn 11, 14), per mantenere cioè le promesse della lettera dei profeti sulla Gerusalemme terrena e sul suo messia. Secondo Riccardo di San Vittore, la cui esegesi non si discosta su questo punto da quella di Gioacchino, nelle piazze della grande città, che un tempo fu grande per la giustizia e allora sarà grande per la malizia, giaceranno i corpi dei santi in modo che, al vederli, tutti paventino il seguire la loro fede, ed anche tengano in maggiore dispregio i due testimoni morti e la dottrina da essi predicata. La città viene chiamata “Sodoma”, cioè muta; ed “Egitto”, cioè tenebrosa, poiché sarà muta nel confessare la vera fede e tenebrosa per pravità. Oppure, aggiunge Olivi, l’appellativo “Egitto” designa l’eccesso di persecuzione verso Israele, cioè verso i santi, al modo del Faraone, che fece crudelmente tribolare il popolo di Dio, in particolare dal momento in cui ebbe l’ordine di uscire dall’Egitto. Come a quel tempo vi fu somma idolatria e avarizia, così anche qui ci sarà una grande idolatria dell’errore e un’abominevole adorazione dell’Anticristo. Uomini di ogni popolo, tribù, lingua e gente, confluiti da diverse parti nella città regia, vedranno i due testimoni giacere “occisi et despecti” per tre giorni e mezzo, fino alla loro inopinata resurrezione. Gli uomini dell’Anticristo “non permetteranno che i loro corpi vengano deposti nei monumenti”, cosicché di essi non resti alcuna memoria nei posteri, i loro cadaveri imputridiscano ed emanino fetore davanti a tutti e tutti li abbiano di conseguenza in maggiore dispregio.
Questo passo della sesta tromba è richiamato in più punti del poema. L’inciso relativo agli uomini, “qui sibi elegerunt vias latas ducentes ad perditionem”, conduce alle parole di Minosse rivolte al poeta in Inf. V, 20: “non t’inganni l’ampiezza de l’intrare!” (nel senso di Matteo 7, 13: “lata porta et spatiosa via est, quae ducit ad perditionem”). Nello stesso canto, poco dopo, è presente il tema di Sodoma-città muta: “Io venni in loco d’ogne luce muto” (ibid., 28).
La condizione di Caifas nella bolgia degli ipocriti, “un, crucifisso in terra con tre pali”, posto di traverso nella via in modo da sentire il peso di chiunque passa (cfr. Ap 9, 11), è il “contrapasso” del giacere dei due testimoni “occisi et despecti” sulla piazza della grande città dove Cristo stesso venne crocifisso (Inf. XXIII, 109-126). Poco prima, ai due frati gaudenti Catalano e Loderingo, Dante ha dichiarato di essere nato e cresciuto “sovra ’l bel fiume d’Arno a la gran villa” (ibid., 94-95), verso che rinvia a quanto scrive Riccardo di San Vittore sulla città un tempo grande per la giustizia, fattasi poi grande per la malizia. Fra le visioni di ira punita immaginate nel terzo girone del purgatorio, si presenta all’alta fantasia del poeta “un crocefisso, dispettoso e fero ne la sua vista”, cioè Aman messo a morte da Assuero (Purg. XVII, 25-30).
La figura di Capaneo, “quel grande che non par che curi / lo ’ncendio e giace dispettoso e torto, / sì che la pioggia non par che ’l marturi” (Inf. XIV, 46-48), ha presente il gigante di Stazio “torvus adhuc visu” dopo la morte intervenuta per il fulmine di Giove (Theb. XI, 9-10). Per ritrovare nel panno teologico i fili dei due aggettivi, “dispettoso e torto”, bisogna collazionare Ap 11, 8-9 (sesta tromba) con un passo da Ap 6, 5, relativo all’apertura del terzo sigillo. In Ap 6, 5 l’esser ‘torto’ indica la falsa misurazione, che si fonda sull’errore e sul falso e intorto accoglimento della Scrittura, per mezzo della stadera dolosa, cui si riferiscono i Proverbi : “La bilancia falsa è in abominio al Signore” (Pro 11, 1). In Capaneo si può interpretare “torto” sia “di torvo aspetto”, sia “distorto nel corpo” poiché non rassegnato alla pena: in ogni caso, l’armatura teologica induce i motivi dell’errore, del falso, dell’abominio (da notare la concordia dell’Apocalisse con la Tebaide : «“Et videbunt de populis …”, scilicet quod sic occisi et despecti iacebunt in plateis” // “ille iacet … torvus adhuc visu”»). In questo caso, il panno (Ap 6, 5) è il medesimo da cui deriva lo storcere i piedi del simoniaco Niccolò III (Inf. XIX, 64) o lo storcersi di Bruto penzolante dal nero ceffo di Lucifero (Inf. XXXIV, 66). E ciò anche se, a differenza della terza bolgia e della Giudecca, l’episodio di Capaneo si inquadra in una zona in cui prevalgono i temi del quarto piuttosto che del terzo stato (che invece prevalgono nella precedente selva dei suicidi).
Caifas, al vedere Dante, “tutto si distorse”; Aman è “dispettoso e fero”; Capaneo “giace dispettoso e torto”. Le tre figure, per quanto riguarda questi aggettivi, indossano una veste ricavata, con diverse cuciture, dallo stesso panno teologico, verso il quale sollecitano la memoria del lettore consapevole del commento oliviano. Si può osservare che i due passi, Ap 6, 5 (apertura del terzo sigillo) e 11, 8-9 (sesta tromba), nel primo dei quali è proposto il tema del “torto” e nel secondo quello del “dispetto”, sono collegati dal comune riferimento all’errore e all’abominio. Al gigante blasfemo sono appropriati due motivi tratti da Ap 11, 8-9, ma il senso originario è variato nel secondo: se il giacere mantiene il valore che ha nel testo di esegesi scritturale, il “dispettoso” non è rivolto verso Capaneo prostrato, ma lo muove a disdegno e a pregiar poco la pioggia di fuoco che cade sopra di lui. D’altronde il disprezzare la vita del prossimo per erronea presunzione nel misurare gli altrui detti e fatti appartiene all’apertura del terzo sigillo (chi siede sul cavallo nero ha in mano la bilancia), come si desume dall’esegesi collettiva delle tre aperture (la seconda, la terza e la quarta) in cui si mostrano nei cavalli rosso, nero e pallido i tre eserciti contrari a Cristo (ad Ap 6, 3, esegesi riferita però ad Ap 6, 5, cioè all’apertura del terzo sigillo).
L’esegesi di Ap 11, 8-9, congiunta al disprezzare i fatti e i detti altrui proprio dell’apertura del terzo sigillo, offre motivi anche alla figura di Farinata, sia per il dipregio – “com’ avesse l’inferno a gran dispitto” (Inf. X, 36) -, sia per il riferimento ai “monimenti” (così sono chiamate le arche roventi degli eresiarchi in Inf. IX, 131), sia per l’interpretazione del nome “Egitto” dato alla grande città come eccesso di persecuzione contro Israele, che ricorda da vicino le parole del ghibellino: “di quella nobil patrïa natio, / a la qual forse fui troppo molesto” (Inf. X, 26-27).
Tab. VI
[LSA, cap. XI, Ap 11, 8-9 (IIIa visio, VIa tuba)] Sequitur (Ap 11, 8): “Et corpora eorum iacebunt in plateis civitatis magne, que spiritualiter vocatur Sodoma et Egiptus, ubi et Dominus eorum crucifixus est”. Ioachim dicit quod si per istos duos intelliguntur duo ordines sanctorum, tunc per “civitatem magnam” intelligitur regnum huius mundi et per plateas illi homines qui sibi elegerunt vias latas ducentes ad perditionem (cfr. Mt 7, 13), in quibus iacebunt mortua corpora sanctorum quia spiritales intellectus scripture sacre morientur in eis, interfectis a bestia predicatoribus veritatis et prostrata, secundum Danielem, veritate in terra (cfr. Dn 8, 12). Referendo autem hec specialiter ad duas personas, tunc gens illa in qua sunt occidendi vocatur per participationem perfidie “civitas magna”, quia una est civitas omnium reproborum, et eadem participatione dicitur “Dominus eorum” ibi “crucifixus” esse. Deinde subdit quod fortassis Antichristus convocabit Iudeos in Iherusalem civitatem terrenam, tamquam messiam et salvatorem se predicans Iudeorum – cui consonare videtur illud Danielis X°: “Filii prevaricatorum populi tui extollentur, ut impleant visiones” (cfr. Dn 11, 14), id est litterales promissiones prophetarum de Iherusalem terrena et de suo messia – et quod in illa occidentur Enoch et Helias sicut ibi Christus est crucifixus*.
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Inf. XXIII, 94-96, 109-120E io a loro: “I’ fui nato e cresciuto
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Inf. XIV, 46-48chi è quel grande che non par che curi
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[LSA, cap. VI, Ap 6, 3 (IIa visio, apertio IIIii sigilli)] Secundo sequitur presumptio erronee mensurans et iudicans aliena dicta et facta, unde tenet stateram librantem aliorum vitam. Solent enim noviter conversi, post aliquas macerationes proprie carnis, aliorum vitam presumptuose despicere et diiudicare.[LSA, cap. VI, Ap 6, 5 (IIa visio, apertio IIIii sigilli)] “Et qui sedebat super eum”, scilicet imperatores et episcopi arriani, “habebat stateram in manu sua”. Cum statera mensuratur quantitas ponderum, et ideo per stateram designatur hic mensuratio articulorum fidei, que quando fit per rectam et infallibilem regulam Christi et scripturarum suarum est recta statera, de qua Proverbiorum XVI° dicitur: “Pondus et statera iudicia Domini sunt” (Pro 16, 11), et Ecclesiastici XXI°: “Verba prudentium statera ponderabuntur” (Ecli 21, 28); quando vero fit per rationem erroneam et per falsam et intortam acceptionem scripture est statera dolosa, de qua Proverbiorum XI° dicitur: “Statera dolosa abhominatio est apud Deum” (Pro 11, 1), et in Psalmo: “Mendaces filii hominum in stateris” (Ps 61, 10), et Michee VI°: “Numquid iustificabo stateram impiam et sac[c]elli pondera dolosa” (Mic 6, 11). |
IV VISIONE (Ap 11, 19-14, 20)
Le citazioni di Gioacchino da Fiore ad Ap 12, 6
■ Gioacchino da Fiore, secondo Olivi che lo cita ad Ap 12, 6, fonda tutto il suo libro della Concordia sull’espressione “un tempo, (due) tempi e la metà di un tempo” (tre anni e mezzo, espressione che propriamente si trova ad Ap 12, 14, al momento della terza e della quarta guerra sostenuta dalla Chiesa; ad Ap 12, 6 sono citati i 1260 giorni/anni, un periodo di tempo equivalente nel quale la donna, fuggita dal serpente, rimane nel deserto dei Gentili). Il lettore, afferma l’abate calabrese, deve pensare a queste parole, dette, oltre che nell’Apocalisse, anche nella profezia di Daniele, come a quelle che racchiudono in breve quanto esposto in modo diffuso nel corso della Concordia, che altro non ha inteso far conoscere se non ciò che questo versetto suona: “fra un tempo, (due) tempi e la metà di un tempo si compiranno tutte queste cose meravigliose” (Dn 12, 6-7). I tre anni e mezzo, formati da 42 mesi di 30 anni ciascuno, per complessivi 1260 anni, corrispondono alle quarantadue generazioni sulla base delle quali procede la Concordia di Gioacchino. Il passo di Daniele 12, 6-7 – nel quale l’uomo vestito di lino, che sta sulle acque del fiume, alza la destra e la sinistra al cielo e giura per colui che vive in eterno – ha stretta connessione con l’angelo della sesta tromba apocalittica, il quale alza la destra verso il cielo e giura con veemente certezza e affermazione che il tempo di questo mondo finirà del tutto nel momento in cui l’angelo della settima tromba farà udire la sua voce (Ap 10, 5-7). Inoltre, a Daniele 7, 25 si dice che il re undicesimo distruggerà i santi dell’Altissimo che gli saranno dati in mano “per un tempo, (due) tempi e la metà di un tempo”.
Una difficoltà, rileva Olivi, proviene dal fatto che nella profezia di Daniele è detto poco dopo (Dn 12, 11-12) che “dal tempo in cui sarà tolto il sacrificio perpetuo e sarà eretto l’abominio della desolazione ci saranno 1290 giorni. Beato chi aspetta e perviene a 1335 giorni”. Siamo pertanto di fronte a tre numeri per indicare la fine del tempo di questo mondo: 1260, 1290, 1335.
I numeri di Daniele, osserva Olivi, possono essere considerati in due modi. Secondo il primo modo, essi designano il tempo della Chiesa che va dalla morte di Cristo, o dalla fuga della Chiesa dalla Giudea e dalla sua desolazione abominevole, fino al grande Anticristo e al beato silenzio che seguirà la sua morte e alla piena conversione di Israele e di tutto il mondo nell’apertura del settimo sigillo. Questo periodo può essere computato in tre modi. Preso senza le “minutie temporum”, senza cioè le frazioni di tempo che vengono ogni anno trascurate nel calcolo, sono 1260 anni. Se si aggiungono le “minutie”, computate con un mese di 30 giorni (che sono in realtà anni), si arriva a 1290. Per questo alcuni credono che l’Anticristo verrà al più tardi 1290 anni dopo la morte di Cristo, ma Olivi ritiene che ciò sia tutt’altro che sicuro, dovendosi dimostrare che il numero, come termina con precisione con l’Anticristo, altrettanto precisamente cominci dalla morte di Cristo: sarà l’evidenza dei fatti a provare questa tesi o quella opposta.
L’aggiunta di 45 giorni (anni) al secondo numero – il 1290 – conduce al 1335, cioè al giubileo di pace e di grazia del settimo stato, e pertanto in Daniele 12, 12 viene chiamato “beato chi aspetta” chi con fervida fede, speranza e carità perviene ad esso.
Un secondo modo di considerare i numeri di Daniele li fa cominciare con la persecuzione dell’Anticristo, che durerà tre anni e mezzo (secondo Daniele 7, 25), e questi coincideranno sia con 1260 sia con 1290. Il periodo di tempo considerato ha infatti differenti inizi e conseguentemente differenti conclusioni, e ciò avviene, secondo l’opinione di alcuni, per accecare i reprobi e per tentare ed esercitare gli eletti. Così nei Vangeli gli anni della predicazione di Cristo vengono fatti iniziare talvolta dalla predicazione di Giovanni Battista, talvolta dalla sua incarcerazione e talvolta dal battesimo di Cristo.
Il passo di Daniele 12, 11-12 – “dal tempo in cui sarà tolto il sacrificio perpetuo e sarà eretto l’abominio della desolazione ci saranno 1290 giorni. Beato chi aspetta e perviene a 1335 giorni” -, come ha dimostrato Guglielmo Gorni [11], è ben conosciuto all’autore della Vita Nova. Il quale, dopo aver perduto la sua Beatrice, va lacrimando “in questa desolata cittade” e scrive ai principi della terra introducendo la lettera con il tema tratto dalle Lamentazioni del profeta Geremia: “Quomodo sedet sola civitas” (Vita Nova, 19.8; ed. Gorni 2011). Beatrice, nata nel 1266 e morta l’8 giugno 1290, si colloca tra due numeri mistici presenti nella profezia di Daniele. Non solo il 1290, continua il Gorni, è anno-chiave, ma anche il 1335: Dante, infatti, nato nel 1265, sarebbe nel 1335 arrivato a settant’anni, ossia alla beatitudine, dopo aver effettuato il suo viaggio ultraterreno, nel 1300, a trentacinque anni (la metà di settanta che segna il colmo dell’arco della vita umana, come affermato in Convivio IV, xxiv, 3).
Si può aggiungere che anche la “mirabile visione” apparsa al poeta e sulla quale si chiude la Vita Nova (31.1-2) risente della profezia di Daniele: come al profeta viene detto di nascondere e sigillare fino al tempo della fine le parole dette dall’uomo che era sulle acque del fiume e che con le mani alzate aveva giurato per colui che vive in eterno che le cose mirabili si compiranno fra “un tempo, tempi e la metà di un tempo”, così il poeta intende tacere la “mirabile visione, nella quale io vidi cose che mi fecero proporre di non dire più di questa benedecta infino a tanto che io potessi più degnamente tractare di lei”.
Passando dalla Vita Nova alla Commedia, per la quale il confronto non è col solo testo biblico ma con la sua esegesi offerta dalla Lectura, il passo di Daniele 12, 11-12, proposto nel contesto gioachimita citato ad Ap 12, 6, conduce a Inf. X, 61-63, alla celebre risposta data da Dante a Cavalcante che gli ha chiesto piangendo perché Guido, suo figlio, non sia con lui: «E io a lui: “Da me stesso non vegno: / colui ch’attende là, per qui mi mena / forse cui Guido vostro ebbe a disdegno”». Nella terzina si trova l’accostamento del “beatus qui <ex>spectat ” di Daniele con il “perducere ad iubileum pacis et gratie septimi status” dell’esegesi, che corrisponde al 1335 [12] (cfr., a Purg. VII, 62, menane, detto da Virgilio a Sordello, esattamente sul secondo verso della 21a terzina come il mi mena detto a Cavalcante; attenderemo, detto da Sordello, è al v. 69).
Il tema si ritrova una volta terminato l’episodio di Farinata, allorché Dante volge i passi verso l’antico poeta, ripensando smarrito al parlar nemico di Farinata che gli ha profetizzato l’esilio. Virgilio lo rincuora invitandolo a conservare nella mente quanto udito e poi gli dice: «“e ora attendi qui”, e drizzò ’l dito: / “quando sarai dinanzi al dolce raggio / di quella il cui bell’ occhio tutto vede, / da lei saprai di tua vita il vïaggio”» (Inf. X, 129-132). L’attendere stavolta è appropriato a Dante, nel significato di fare attenzione alle parole che Virgilio sta per pronunciare, ed è accostato alla beatitudine (“di quella”, cioè di Beatrice). Nei versi sono presenti anche temi da Ap 1, 3, dove si tratta della causa finale del libro dell’Apocalisse, che è appunto la beatitudine, e si dice: “Beatus qui legit … qui audit … et servat ea”. Per cui Virgilio premette, rivolgendosi al discepolo: “La mente tua conservi quel ch’udito / hai contra te” (Inf. X, 127-128), cioè “quel parlar che mi parea nemico” di Farinata nel profetizzare l’esilio. Altro esempio di variazione consequenziale di questo gruppo tematico è il ‘serbare’ alle chiose di Beatrice quanto narrato al poeta sul proprio destino da Brunetto Latini: la donna saprà spiegare la profezia dell’infallibile conseguimento del glorioso porto insieme a quanto oscuramente dettogli da Farinata sul peso dell’arte del rientrare in patria (Inf. XV, 88-90).
A Purg. XVIII, 46-48 c’è un’altra variazione del tema profetico: Virgilio, prima di spiegare il rapporto tra amore e libero arbitrio, precisa che la sua esposizione è fatta secondo ragione; per quello che è materia di fede, dice al discepolo, “t’aspetta pur a Beatrice”. Si tratta di un’espressione che traduce, torcendolo ad altro senso quasi hysteron proteron interiore, il “beatus qui spectat ” di Daniele. Come spiega Olivi, “beato” può venire definito solo chi con fervida fede si sforza di raggiungere la meta.
Alle “minutie temporum” da aggiungere o meno al 1260, fa riferimento la “centesma ch’è là giù negletta”, nel parlare di Beatrice sulla “fortuna che tanto s’aspetta” (il soccorso divino) a Par. XXVII, 143.
Tab. VI bis
■ [→ Ap 12, 6]
Olivi propone numerose citazioni dalla Concordia di Gioacchino da Fiore. Precisa tuttavia che esse non esprimono asserzioni ma opinioni. Sottolinea, qui e altrove, alcune incertezze dell’abate calabrese nel determinare l’inizio dell’età dello Spirito. Non c’è da meravigliarsi, afferma il francescano, se pur fra tanta luce datagli, quasi nell’aurora del terzo stato, permangono le tenebre del tempo precedente che avvolgono la notizia delle cose future. A questa esegesi si riferisce Inf. X, il canto di Farinata e Cavalcante; altrove il “sospetto” che esita circa tempi e momenti si riverbera su Virgilio, antica figura dell’abate calabrese “di spirito profetico dotato”.
■ [→ Ap 12, 6]
Il “panno” fornito dall’esegesi di Ap 12, 6, con la citazione della Concordia di Gioacchino da Fiore relativa alle due tele, il Vecchio e il Nuovo Testamento, in cui il sommo artefice inserisce differenti fili, è stato utilizzato in vari punti del poema.
■ [→ Ap 12, 6 (testo) – (tabella)]
Gioacchino da Fiore, citato nell’esegesi di Ap 12, 6, afferma che i misteri del terzo stato generale del mondo (che corrisponde al sesto e settimo stato della Chiesa secondo Olivi) sono più sottili di quelli del primo e del secondo stato. Le due allegorie del “velame” a Inf. IX, 61-63, e a Purg. VIII, 19-21.
■ [→ Ap 12, 6]
Gioacchino da Fiore ritiene che forse le generazioni e le sofferenze saranno abbreviate per gli eletti.
VI GUERRA (Ap 13, 3-18; 14, 1-12)
[→ Ap 13, 1 (testo) – (tabella)]
Su questo luogo Gioacchino da Fiore (richiamato da Olivi anche ad Ap 12, 3) afferma che le teste della bestia che sale dal mare differiscono dalle teste del drago come le chiese metropolitane, che sono capo alle altre, si distinguono dai propri vescovi, i quali sono comunque anch’essi capi e quasi teste di Cristo di cui fanno le veci, e con ciò intende che quei popoli che furono i principali nel perseguitare Cristo e la Chiesa sono, come capi degli altri, propriamente teste della bestia e della massa bestiale.
[→ Ap 13, 1-2 (testo) – (tabella)]
Gioacchino interpreta la quarta parte della statua vista in sogno da Nabucodonosor, quella commista di ferro e terracotta (Daniele 2, 33), come il quarto regno suscitato contro la Chiesa nel suo quarto tempo, cioè il regno dei Saraceni indomito come ferro. Il fatto che dei piedi della statua una parte sia di ferro e l’altra di terracotta designa l’ultimo dei regni, al tempo dell’Anticristo, che pur traendo origine da una gente di ferro, a causa della mescolanza in esso di genti diverse non avrà tuttavia tanta solidità come in precedenza, in quanto sarà in parte solido in parte fragile per la mistura del seme umano presente in esso. Le “meschite” della Città di Dite (Inf. VIII, 70-73).
[→ Ap 13, 3; 17, 8]
La resurrezione della testa della bestia che sembrava uccisa. Le posizioni di Gioacchino da Fiore su 13, 3 e 17, 8.
[→ Ap 13, 17 (testo) – (tabella1) (tabella2)]
Portare sulla fronte il marchio della bestia o il suo nome o il numero del nome.
[→ Ap 13, 18 (testo) – ( tabella)]
L’interpretazione di Gioacchino da Fiore del “numero del nome” della bestia.
[→ Ap 13, 18]
Gli scritti pseudogioachimiti sul seme di Federico II che rivivrà nell’Anticristo mistico. Le parole di Farinata (Inf. X, 46-47).
Ap 14, 1
Dall’esegesi di Ap 14, 1 (i compagni dell’Agnello che stanno sul monte Sion, interpretato come “specula”) proviene il tema, proposto da una citazione di Gioacchino da Fiore, del discendere dell’evangelista a parlare dei mali recati dalla bestia, descritti nel precedente capitolo, per poi ritornare a mostrare la singolare virtù e la grazia dei santi del quarto stato, cioè delle vergini e dei contemplativi. Tale tema è presente nel cielo di Saturno, che segna il culmine della virtù e della gloria dei contemplativi. Prima Pier Damiani – che nell’eremo sotto al Catria trascorreva estati e inverni “contento ne’ pensier contemplativi” – pronuncia l’invettiva contro i prelati invocando la pazienza divina che sostiene questo vivere bestiale – “sì che due bestie van sott’ una pelle” (due sono le bestie descritte nal capitolo XIII) -, e alle sue parole discendono per i gradini della scala d’oro le altre fiammelle degli spiriti contemplanti, le quali con un grido simile a tuono confermano quanto detto dal monaco ravennate (Par. XXI, 127-142). Poi, nel canto successivo, Beatrice, dopo aver confortato il poeta oppresso dallo stupore, lo invita a ritornare con lo sguardo agli illustri spiriti contemplativi, tra i quali si fa innanzi san Benedetto (Par. XXII, 19-22).
Tab. VII
[LSA, cap. XIV, Ap 14, 1 (IVa visio)] “Et vidi, et ecce Agnus” (Ap 14, 1). Hic describitur virtus et gloria sanctorum persecutionem Antichristi vincentium vel subsequentium. Ioachim tamen dicit quod quia occasione bestie sarracenice quarto tempore consurgentis et contra quartum statum, scilicet anachoritarum et ceterorum fidelium illius temporis, primitus confligentis descenderat ad loquendum de malo quod hec bestia factura est tempore Antichristi, ac per consequens de malis per Antichristum et sub Antichristo fiendis, idcirco nunc redit ad monstrandum singularem virtutem et gratiam sanctorum quarti status, id est virginum et contemplativorum*.* Expositio , pars IV, distinctio IV, f. 170ra-b. |
Par. XXI, 133-142; XXII, 19-24“Cuopron d’i manti loro i palafreni,
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[→ Ap 14, 2; 19, 6]
L’interpretazione data da Gioacchino da Fiore, in due luoghi diversi, della “voce di molte acque”.
Ap 14, 11
Il versetto – “E il fumo dei loro tormenti salirà nei secoli dei secoli” – viene interpretato nel senso che i tormenti dei dannati, per il vivissimo moto del fuoco infernale, non cesseranno nella loro altezza (ad Ap 19, 3, passo simmetrico, ne viene ribadito il perdurare). Gioacchino da Fiore, citato da Olivi, interpreta l’ascesa del fumo come il perenne blasfemo mormorare dei dannati verso Dio.
A questa pagina di esegesi, relativa alle pene infernali, fanno segno più luoghi del poema lontani fra loro, con variazioni sempre nuove degli elementi semantici. La parola-chiave principale è murmur : che il fuoco si muova verso l’alto e sia sempre in movimento appartiene al comune sentire del linguaggio, ex communi institutione direbbero gli Scolastici, ma che il mormorare salga come il fuoco non è appropriazione comune; questa è data dall’esegesi con la citazione dell’abate calabrese.
Come quel musicista autore dell’Apocalypsis cum figuris nel Doctor Faustus, il poeta rende disuguali le cose uguali e varia i temi, utilizzati indifferentemente per descrizioni infernali o paradisiache, in modo tale che, pur conservandoli strettamente, non li si riconosca come ripetizioni. Sono così meglio udibili quelli che Contini definiva gli “echi di Dante entro Dante” [13]. Non si tratta però unicamente di echi interni al poema, percepibili solo al suo autore. Questi poteva servirsi del canovaccio della Lectura oliviana per l’ordito interno e per la redazione numerica delle terzine. Il fatto che gruppi di terzine numericamente corrispondenti, a diversi stadi della Commedia, contengano parole-chiave che conducono alla medesima pagina esegetica sembra indicare che queste parole erano per il poeta anche segni del numero dei versi, ‘luogo’ dove collocare i medesimi signacula in forma e contesto diversi [14]. Ma queste parole-chiave dovevano essere per il lettore spirituale signacula mnemonici di un altro testo, la Lectura super Apocalipsim che ben conosceva.
Mormora la fiamma di Ulisse, che nell’ottava bolgia si muove salendo dalla gola del fosso come salì in alto il carro di Elia visibile a Eliseo come fiamma sola (Inf. XXVI, 37-42, 85-86), ed è, unica occorrenza di mormorare nell’Inferno, l’appropriazione più consonante con l’interpretazione che Gioacchino dà del murmur come blasphemia. Mormora Virgilio al vedere, nel primo girone della montagna, genti che “ne ’nvïeranno a li alti gradi” (Purg. X, 100-102); trattando della dottrina d’amore, il poeta pagano non mormora, ma usa elementi semantici presenti ad Ap 14, 11 e 19, 3 per spiegare che il desiderio dell’animo è “moto spiritale”, simile al fuoco che sale “là dove più in sua matera dura” (Purg. XVIII, 28-33). Mormora, nel sesto girone della montagna, Bonagiunta da Lucca, mormorio non blasfemo ma comunque connesso alla “piaga / de la giustizia che sì li pilucca” (Purg. XXIV, 37-39, 47). Nell’Eden i componenti la processione mormorano “Adamo” prima di cerchiare l’albero dall’alta chioma (Purg. XXXII, 37-42). Sale, nel cielo di Giove, il “mormorar” dell’aquila; il poeta scrive nel cuore le parole che escono dal becco (Par. XX, 25-30; anche questo motivo è presente nell’esegesi di Ap 14, 11).
Tab. VIII
[LSA, cap. XIV, Ap 14, 11 (IVa visio)] Deinde de eternitate et de irremissibilitate pene eorum subdit (Ap 14, 11): “Et fumus tormentorum eorum in secula seculorum ascendet”, id est in sua quasi infinita altitudine stabunt semper eis tormenta, ac si semper ascenderet ignis eorum et fumus.
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[LSA, cap. XIX, Ap 19, 3 (VIa visio)] Deinde redit ad explicandum effectum et signum prefati iudicii et vindicte dicens: “Et fumus eius”, id est tenebrosa amaritudo tormentorum eius, “ascendit in secula seculorum”, id est sempiternaliter in sua altitudine et vivacitate perdurat.Inf. XXVI, 37-42, 85-87che nol potea sì con li occhi seguire,
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Tab. VIII bis
[LSA, cap. XIV, Ap 14, 11 (IVa visio)] Deinde de eternitate et de irremissibilitate pene eorum subdit (Ap 14, 11): “Et fumus tormentorum eorum in secula seculorum ascendet”, id est in sua quasi infinita altitudine stabunt semper eis tormenta, ac si semper ascenderet ignis eorum et fumus.
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Purg. XVIII, 28-33
Poi, come ’l foco movesi in altura
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Par. XX, 25-30così, rimosso d’aspettare indugio,
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Inf. XXVI, 37-42che nol potea sì con li occhi seguire,
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Purg. XXIV, 37-39El mormorava; e non so che “Gentucca”
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Purg. XXXII, 37-42Io senti’ mormorare a tutti “Adamo”;
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VII GUERRA (Ap 14, 13-20)
Ap 14, 19-20 (VII stato)
La parte finale della settima guerra, nella quarta visione apocalittica, vede l’angelo gettare l’uva vendemmiata nel grande tino (“lacus”) dell’ira divina. Il “lago” è “calcato” fuori della città di Dio, cioè fuori del luogo e del collegio dei beati, nella valle di Giosafat posta tra il monte Sion e il monte degli Ulivi, in cui staranno gli empi il giorno del giudizio. Dice Isaia (Is 30, 33) che la valle Tofet, che sta fuori Gerusalemme, è “preparata, profonda e larga” e che in essa “fuoco e legna abbondano e il soffio del Signore come torrente di zolfo” per incendiarvi il re degli Assiri col suo esercito. Dal “lago” “uscì sangue fino al morso dei cavalli per una distanza di 1600 stadi”. Secondo Gioacchino da Fiore, il salire del livello del sangue fino al morso dei cavalli indica che, come un fiume non più guadabile mette a repentaglio non solo le piccole cavalcature ma anche i cavalli, così la malizia è divenuta intollerabile. Allora Dio, che ha tollerato il torrente di malizia finché lo hanno sostenuto anche i cavalli, non può più differire la punizione degli empi. Sono due i motivi che rendono la malizia intollerabile: l’immensità della colpa e la sua continuità nel tempo. La prima viene indicata con l’altezza del sangue che raggiunge il morso dei cavalli, la seconda con la lunghezza del torrente che arriva fino a 1600 stadi.
Appena deposto dalle mani di Anteo sul fondo dell’inferno, Dante ode una voce che lo supplica di camminare con attenzione, in modo da non ‘calcare’ con le piante dei piedi le teste dei dannati immersi fino al collo nel “lago” ghiacciato di Cocito (Inf. XXXII, 19-24). Il ‘calcare’ di Ap 14, 19-20 ha un passo simmetrico ad Ap 19, 15, dove nella battaglia contro l’Anticristo il Verbo di Dio “calca nel tino il vino dell’ira furiosa del Dio onnipotente”, cioè “preme” gli empi con pene mortifere. Il verbo ‘premere’, che rientra nella tematica del vendemmiare, è presente nell’esordio di Inf. XXXII, dove Dante dichiara che solo con rime “aspre e chiocce”, adatte al triste pozzo su cui gravano tutti gli altri cerchi rocciosi, sarebbe in grado di ‘premere’ il succo di quanto ha visto. I traditori dei congiunti stanno nel ghiaccio “come a gracidar si sta la rana / col muso fuor de l’acqua, quando sogna / di spigolar sovente la villana” (Inf. XXXII, 31-33), cioè nel periodo estivo, e il tema della mietitura caratterizza i versetti precedenti del XIV capitolo, lì dove un angelo esce dal tempio e grida all’altro angelo seduto sulla nube bianca di mietere perché la messe della terra è matura (Ap 14, 15).
Il motivo del ‘lago’ e quello del sangue sono congiunti nel centauro Caco, che sotto il monte Aventino, dove abitava, “di sangue fece spesse volte laco” (Inf. XXV, 25-27). In questo caso i temi presenti ad Ap 14, 19-20 offrono l’armatura spirituale al virgiliano “semperque recenti / caede tepebat humus” (Aen. VIII, 195-196). Interviene ancora la tematica di Ap 19, 15 (che è collegato ad Ap 14, 19-20 dal ‘calcare’), lì dove si afferma che il Verbo di Dio “governerà con scettro di ferro” le genti, cioè con inflessibile giustizia. Quanti non vogliono convertirsi a seguito di atti blandi e umili sentiranno la severità e la forza della sua disciplina così da essere sottoposti, per quanto tardivamente, al suo scettro. Così Caco, le cui opere scellerate cessarono nel sentire i colpi della mazza di Ercole (Inf. XXV, 31-33).
Ancora il sangue e il ‘lago’ caratterizzano il racconto della propria fine reso da Iacopo del Cassero (Purg. V, 73-84): il sangue “uscì” dai “profondi fóri”, di esso si fece “laco” in terra. Anche l’inciso riferito al mandante dell’omicidio, Azzo VIII d’Este – il quale, dice Iacopo, “m’avea in ira / assai più là che dritto non volea” – ha la sua origine, per variazione in contrario, nel vendemmiare dell’angelo uscito dal tempio che è in cielo di cui si parla ad Ap 14, 17. Con il “tempio” si indica la provenienza dell’angelo dalla contemplazione e dall’orazione santissima e celeste, che cioè la sua severità non può attribuirsi a un’ira ingiusta. Qui è anche l’origine della risposta di Dante a Farinata che gli chiede perché il popolo fiorentino sia “sì empio”, cioè spietato, nei confronti della propria famiglia esiliata, esclusa da ogni editto di condono (Inf. X, 82-87). Il ricordo della strage di Montaperti, dice il poeta, “tal orazion fa far nel nostro tempio”, cioè lo zelo contro gli Uberti non è ingiusto, ma santo in quanto ‘proviene dal tempio’. L’orazione a Cristo da parte dei santi affinché tolga dalla terra gli “empi” viene figurata ad Ap 14, 15, secondo l’interpretazione di Riccardo di San Vittore, con l’angelo (che pure esce dal tempio) che grida all’altro seduto sulla nube di mietere. L’espressione “che fece l’Arbia colorata in rosso”, dove si rinvia a un inciso dell’esegesi di Ap 4, 3, si inserisce bene nella tematica del torrente di sangue [15].
Il motivo del ‘premere’, congiunto con quello del ‘torrente’, è cantato da Bonaventura nel panegirico di Domenico, che muove e percuote il proprio impeto contro gli eretici “quasi torrente ch’alta vena preme”, verso in cui, secondo Pirandello, v’è “efficacia d’ogni parola nella similitudine” (Par. XII, 97-102) [16]. Verso pregno dell’esegesi di Gioacchino da Fiore citata da Olivi ad Ap 14, 20. “Quasi torrente” rinvia a “sicut torrens sulphuris” nella citazione di Isaia 30, 33; “preme” segue l’esegesi (“premit ”) del “calcatus/calcat” scritturale ad Ap 14, 20/19, 15, dove è presente (nel secondo versetto) anche il ‘percuotere’ le genti con la spada acuta che esce dalla bocca del Verbo di Dio “ut in ipso percutiat gentes – e ne li sterpi eretici percosse / l’impeto suo”. L’ “alta vena” può riferirsi alla profondità della sorgente (la valle Tofet, in cui scorre il torrente sulfureo, è anche “profunda”), oppure, poiché “vena” è connessa con “sangue”, all’altezza del sangue nel torrente di malizia (“in altitudine sanguinis usque ad frenos equorum”). Ciò significherebbe che l’impeto di Domenico negli sterpi ereticali prorompe da una situazione di malizia – l’alto sangue – che non può più essere tollerata [17].
“Dal lago uscì sangue fino al morso dei cavalli per una distanza di 1600 stadi” (Ap 14, 19-20). Il numero MDC, in cui sono compresi il sei, il cento e il mille, che sono numeri designanti la perfezione, indica il livello di perfezione del tormento dei dannati, minore, mediocre o perfetto. Significa pure che le pene dei dannati sono varie e adattabili in modo multiforme.
Nel Flegetonte, “riviera del sangue” (cfr. come anche la descrizione del “Bulicame”, a Inf. XIV, 76-81, contenga parole-chiave afferenti ad Ap 14, 19-20), i violenti contro il prossimo hanno la pena graduata secondo l’altezza del sangue in cui sono immersi: i tiranni, violenti contro le persone e le cose, stanno sotto “infino al ciglio” (Inf. XII, 103-105); gli omicidi, violenti solo contro le persone, fino alla gola (ibid., 115-117); altri dannati, con pena via via meno grave (feritori, guastatori, predoni), tengono fuori del sangue bollente la testa e il busto o tutto il corpo salvo i piedi (ibid., 121-125). Come spiega Nesso nel portare Dante sulla groppa, se da una parte il “bulicame” si riduce progressivamente in profondità, dall’altra “preme” sempre più il suo fondo (il ‘premere’ della pena di Ap 19, 15) fino a raggiungere la massima altezza nel luogo dove sono puniti i tiranni (ibid., 127-132).
Simile gradualità della pena si verifica anche nel “lago” di Cocito, per quanto in progressione ascendente rispetto a quella discendente registrata nel Flegetonte: i traditori dei parenti e i traditori della patria stanno immersi nel ghiaccio fino al collo col viso rivolto in giù, rispettivamente nella Caina e nell’Antenora (Inf. XXXII, 31-39); i traditori degli ospiti giacciono nella Tolomea col viso rivolto verso l’alto (Inf. XXXIII, 91-93); i traditori dei benefattori sono infine tutti coperti dal ghiaccio, in varie posizioni, nella Giudecca (Inf. XXXIV, 10-15).
Anche le arche roventi degli eresiarchi sono differenziate: “e i monimenti son più e men caldi” (Inf. IX, 131).
L’uscita del sangue dal “lago”, ad Ap 14, 20, indica pure l’uscita del dolore provocato dalla violenza dei tormenti, come se tutto il sangue e tutti i visceri dei dannati fossero effusi fuori così da ridondare in un grande fiume o in un mare di amarissimo dolore.
La compresenza dei motivi da Ap 14, 20 (l’uscita del dolore, il tormento, l’amaro, le varie proprietà delle pene dei dannati) conduce allo spettacolo che si presenta al poeta una volta varcata la porta della città di Dite (Inf. IX, 109-123). La “grande campagna” è “piena di duolo e di tormento rio”; il luogo è reso “varo”, cioè disuguale, dai sepolcri come accade nelle necropoli di Arles e di Pola, ma in modo “più amaro” per la presenza delle fiamme che li arroventano; dai coperchi sospesi dei monumenti “fuor n’uscivan sì duri lamenti”. Nel canto seguente, Virgilio afferma che i sepolcri verranno chiusi quando le anime avranno ripreso i propri corpi il giorno del giudizio, che avverrà nella valle di Giosafat, citata anch’essa nell’esegesi scritturale (Inf. X, 10-12).
Tab. IX
V VISIONE (Ap 15, 1-16, 17)
RADICI (Ap 15, 1-16, 1)
Ap 15, 1
Nella seconda visione apocalittica, l’esegesi dell’apertura del secondo sigillo (Ap 6, 3) si estende in generale ai primi quattro sigilli. All’apertura del primo, infatti, appare Cristo vittorioso che esce in campo sul cavallo bianco (Ap 6, 1-2), mentre nelle aperture dei successivi tre sigilli vengono specificati gli eserciti contrari a Cristo e alle sue tre perfezioni (potenza, sapienza, santità), designati rispettivamente con il cavallo rosso (secondo sigillo: i pagani), nero (terzo sigillo: gli eretici) e pallido (quarto sigillo: i Saraceni). Secondo Gioacchino da Fiore, i quattro cavalli corrispondono alle quattro bestie di Daniele 7, 3-7, considerate rispetto al futuro regno dell’Anticristo: la leonessa dalle ali di aquila (i Giudei), l’orso (i pagani), la pantera (le eresie), la quarta bestia ‘diversa’ (i Saraceni). La leonessa, sempre secondo Gioacchino da Fiore, designa la Sinagoga crudele, che negli Scribi e nei Farisei ha due ali come quelle di un’aquila: ad essa, nell’uscire vittorioso di Cristo in campo all’apertura del primo sigillo, si contrappone il leone, come lo spirito alla carne e come il sesso maschile a quello femminile.
Mentre Giudei, pagani ed eretici non ebbero una legge di per sé contraria a quella di Cristo, i Saraceni seguono invece una legge carnale e falsa del tutto dissimile, che non accetta le Scritture cristiane e contro la quale non è possibile una qualsiasi confutazione sulla base di queste, come con i Giudei e con gli eretici. Né è possibile argomentare contro sulla base della ragione naturale, come contro i pagani, in quanto i Saraceni non credono in più dèi, ma in un solo Dio. Inoltre i loro sapienti, afferma Olivi, da lungo tempo si dedicano agli studi filosofici e in particolare di Aristotele, tanto che i cristiani latini hanno ricevuto da essi i commenti ad Aristotele e altre opere, soprattutto di medicina e di astronomia, con cui hanno farcito e insozzato i propri scritti teologici. Ancora, la bestia saracena, a differenza delle prime tre, non tollera che la fede di Cristo venga predicata tra i seguaci della sua setta o che venga detto qualcosa contro la sua legge, pena la morte immediata.
Altrove si è mostrato sino a qual punto delle prerogative della quarta bestia, o dell’equivalente cavallo pallido – l’ipocrita magrezza, la fame, la paura che incute, il dominio su molte genti, la morte come effetto irremissibile – sia carica la lupa, che “non lascia altrui passar per la sua via, / ma tanto lo ’mpedisce che l’uccide” (Inf. I, 95-96). Con un metodo che non si perita di applicare ai Cristiani quanto i Cristiani dicevano dei Giudei o dei Saraceni (e che è certamente memore di uno dei principi fondamentali dell’esegesi apocalittica, cioè l’appropriazione delle figure scritturali ad altri tempi, luoghi e persone), Dante ha vestito la cupidigia con i colori della bestia saracena.
Dopo ciò, non ci si stupirà di vedere in filigrana, nelle parole di Francesca – “Amor, ch’a nullo amato amar perdona … Amor condusse noi ad una morte” (Inf. V, 103, 106) -, il motivo della legge carnale di Maometto che non tollera confutazione razionale, che non perdona ma uccide, armatura teologica che fascia la regola, esposta nel De amore di Andrea Cappellano (II, 8, xxvi: “Amor nil posset amori denegare”), per cui amore non tollera che chi è amato non riami.
L’espressione “a nullo amato amar perdona” può essere ancora accostata ad Ap 13, 3-4 dove, nell’esegesi della grande guerra del sesto stato, si parla di quanti amano le cose terrene seguendo la bestia che sale dal mare (che viene interpretata come la bestia saracena) e adorando il drago (che, anch’esso interpretato in tal senso, ad Ap 12, 3 è detto astuto e di grande potenza). Costoro si sottomettono alla bestia chiedendosi chi sia simile ad essa in potenza o chi possa combatterla o farle resistenza, e rispondono “nullus”. “Secuti sunt bestiam” entra anche nel parlare del lussurioso Guinizzelli: “Nostro peccato fu ermafrodito; / ma perché non servammo umana legge, / seguendo come bestie l’appetito …” (Purg. XXVI, 82-84).
Una curiosa e grottesca utilizzazione del tema della legge maomettana diversa, che non accetta le nostre scritture, è in apertura di Inf. XXII: Barbariccia, per dare un cenno di partenza alla schiera dei Malebranche che sorvegliano i barattieri immersi nella pece bollente, “avea del cul fatto trombetta” (Inf. XXI, 139), e il poeta assicura di non aver mai visto fanti o cavalieri muoversi al suono di “sì diversa cennamella”, pur avendo già udito segnali di trombe, di campane, di tamburi, dati “e con cose nostrali e con istrane”.
Perdonare è accostato nell’esegesi a sostenere, nel senso di risparmiare, assumere su di sé la pena. Lo si constata confrontando Ap 6, 3 – “Preterea bestia hec non sustinet fidem Christi inter eos predicari aut aliquid contra eorum legem dici, immo statim morte punitur” – con Ap 15, 1, parte proemiale della quinta visione – “… cur alii pepercerunt viris impiis et sustinuerunt eos usque ad mortem, alii punierunt eos et occiderunt”. I motivi contenuti in quest’ultimo passo, prevalentemente fondato su una citazione dall’Expositio di Gioacchino da Fiore e con oggetto le due vie divine delle quali gli uomini a volte cominciano ad accorgersi, la pietà che redime e risparmia e la giustizia per zelo ardente e punitivo, possono essere verificati in altri luoghi del poema. Il perdonare benignamente “in spiritu levitatis”, come Cristo redentore, è nel Padre nostro dei superbi, ai quali Virgilio augura “che possiate muover l’ala, / che secondo il disio vostro vi lievi” (Purg. XI, 16-18, 37-39). Sulle due vie divine insiste anche l’esegesi di Ap 15, 3-4 (dove Gioacchino non è citato).
“La morte ch’el sostenne per ch’io viva”, cioè la redenzione operata da Cristo, è fra le corde che tirano verso Dio, fra i morsi dell’amore divino che, come dice Dante a san Giovanni, “tratto m’hanno del mar de l’amor torto, / e del diritto m’han posto a la riva”, mare che designa il tempestoso flutto delle passioni (Par. XXVI, 49-63; lo stesso verbo sostenere è appropriato a Beatrice, che in vita guidava Dante “in dritta parte” mostrando “li occhi giovanetti a lui”: Purg. XXX, 121-123).
Ricavata nell’esegesi di Ap 15, 1 è ancora la dura critica di Beatrice contro le false indulgenze dei moderni predicatori dal cappuccio gonfio di vanità e nascondiglio del diavolo: “Ma tale uccel nel becchetto s’annida, / che se ’l vulgo il vedesse, vederebbe / la perdonanza di ch’el si confida” (Par. XXIX, 118-120; cfr. con l’inciso “quia mirantur homines cum incipiunt videre que aliquando non viderunt”).
Tab. X
[LSA, cap. VI, Ap 6, 3 (IIa visio, apertio IIi sigilli] *Sicut etiam per equum pallidum, cuius sessor est mors, designatur Sarracenorum populus et eius propheta mortiferus, scilicet Mahomet, sic et per quartam bestiam dissimilem ceteris. Hec enim est dissimilis ceteris in tribus. Primo scilicet quia Iudeorum regnum et paganorum et hereticorum confluxerunt ad tempus cum fidelibus Christi et tandem disperierunt, sed bestia sarracenica surgens in quarto tempore confligit et perdurat in toto quinto et pertinget usque ad sectam Antichristi, propter quod hic dicitur quod “infernus”, id est infernalis secta Antichristi, “sequebatur eum”, scilicet equum pallidum et sessorem eius (Ap 6, 8).
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[LSA, cap. XIII, Ap 13, 3-4 (IVa visio, VIum prelium] Sequitur: “Et admirata est universa terra post bestiam” (Ap 13, 3), id est cum multe admirationis timore et stupore de resurrectione capitis bestie seu de reassumptione tante potestatis. Omnes terreni, terrena amantes, secuti sunt bestiam. “Et adoraverunt drachonem, qui dedit potestatem bestie” (Ap 13, 4). Adorare enim errorem et erroneam sectam illius bestie est adorare drachonem actorem illius erroris et secte. Vel, secundum Ioachim, adorare drachonem est quasi adorare regem illum in quo diabolus et eius malitia et potestas singulariter habitabit*. “Et adoraverunt bestiam”, scilicet se subiciendo et humiliando illi bestiali genti et secte eius, “dicentes”, scilicet admirative: “Quis similis bestie?”, scilicet in potestate, quasi dicat: nullus; “et quis poterit pugnare cum ea?”, id est resistere ei, quasi dicat: nullus.* Expositio, pars IV, distinctio IV, f. 165rb. |
Inf. XXII, 7-12quando con trombe, e quando con campane,
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[LSA, cap. XV, Ap 15, 1 (radix Ve visionis)] Pro primo dicit: “Et vidi aliud signum”, scilicet ab omnibus predictis, vel specialiter ab illo de quo supra ait quod “signum magnum apparuit in celo, mulier amicta sole” et cetera (Ap 12, 1). Illud enim fuit “magnum” in significando magnam gratiam et gloriam sancte matris ecclesie et sue prolis, hoc verum est “magnum et mirabile” in significando magnas et stupendas penas reproborum et magna et terribilia iudicia Dei et magnum et severum zelum sanctorum eius, per quos exercet iudicia sua. Et secundum Ioachim, dicitur “mirabile” quia mirantur homines cum incipiunt videre que aliquando non viderunt, scilicet cur alii pepercerunt viris impiis et sustinuerunt eos usque ad mortem, alii punierunt eos et occiderunt, et cur aliqui loquuntur eis humiliter et benigne quasi fratribus ad mortem egrotantibus, alii autem in zelo quasi hostibus Dei, sicut Christus primo venit in spiritu levitatis ut redimeret, secundo veniet ut iudex in spiritu iudicii et ardoris*.* Expositio, pars V, f. 182ra-b. |
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Purg. XI, 16-18, 37-39E come noi lo mal ch’avem sofferto
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Purg. XXX, 121-123; Par. XXVI, 59Alcun tempo il sostenni col mio volto:
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Ap 15, 8
La storia di Roma è la manifestazione dei segni di Dio nella storia umana, che attuano in terra la sua volontà, una con quella del cielo e con quella di Roma stessa: “divina voluntas per signa querenda est” (Monarchia II, ii, 8). Questi segni hanno un andamento settenario, quello proprio dei sette stati della Chiesa, per cui quanto anticamente avvenuto prima di Cristo si mostra come ordinata e progressiva prefigurazione della nuova storia, che è insieme della Chiesa e dell’Impero. I versi con cui, in Par. VI, il “sacrosanto segno” dell’Aquila parla per bocca di Giustiniano hanno anch’essi un ordine fondato sui sette stati. Un esame completo è dato in Dante all’« alta guerra » tra latino e volgare, cap. 3.4. Qui si considera Ap 15, 8 per una citazione di Gioacchino da Fiore, di per sé non incisiva, ma inserita in un’esegesi alla quale rinviano importanti luoghi del poema.
Al termine del capitolo che descrive la radice della quinta visione delle coppe, che è particolarmente riferita al quinto stato e di cui esprime lo zelo, si afferma che “nessuno potrà entrare nel tempio finché non saranno consumate le sette piaghe dei sette angeli” (Ap 15, 8). Questi sette angeli sono quelli ai quali è attribuita la potestà di giudicare con zelo; le sette coppe che dovranno versare sono “colme dell’ira del Dio vivente” (Ap 15, 7). Il tempio è pieno di fumo (Ap 15, 8), perché la Chiesa contemplativa è colma dell’irato zelo che turba gli stessi santi (viene addotta in proposito una citazione dei Moralia di Gregorio Magno). Il versetto – “nessuno potrà entrare nel tempio finché non saranno consumate le sette piaghe dei sette angeli” – viene diversamente interpretato da Gioacchino da Fiore (lo zelo esige che non si possa entrare fino al compimento del giudizio degli empi incurabili nel loro farneticare) e da Riccardo di San Vittore (al compimento delle sette piaghe, i reprobi entreranno, cioè conosceranno il giusto giudizio divino, mentre ora hanno la mente ottenebrata dal fumo dell’ignoranza; anche i santi, che in questa vita non possono conoscere gli occulti giudizi divini, entreranno nella manifesta visione alla fine di questo mondo). Entrambi però concordano sul fatto che per entrare si debba attendere il versamento della settima e ultima coppa.
Olivi dà invece un’altra interpretazione, “distributive, non collective”: il senso non è che non si potrà entrare nella serena pace dell’arcana contemplazione fino al versamento di tutte e sette le coppe, ma fino a quando ciascun angelo avrà versata la propria. Ciò significa che il momento della serenità non sarà proprio solo della fine dei tempi, ma di qualunque periodo storico dei sette in cui si articolano gli stati della Chiesa. Viene poi detto (ad Ap 16, 1) che gli angeli che versano la coppa operano per comando di Dio, da lui ispirati, e muovono come ministri del giudizio divino, non per propria volontà o animosità ma per beneplacito e mandato altrui.
A questa esegesi rinviano le parole di Giustiniano, portavoce del “sacrosantosegno” dell’aquila: “Poi, presso al tempo che tutto ’l ciel volle / redur lo mondo a suo modo sereno, / Cesare per voler di Roma il tolle” (Par. VI, 55-57). Per predisporre il mondo alla venuta di Cristo era necessario che venisse istituita la monarchia universale. Così Cesare muove per volontà del popolo romano, cioè della divina provvidenza, come pure la “viva giustizia” ispira il parlare di Giustiniano (v. 88). E prima che il mondo sia ricondotto a serenità, cioè alla serena pace dell’arcana contemplazione, si verificano le folgoranti imprese di Cesare (vv. 58-72) e del “baiulo seguente”, ossia di Augusto (vv. 73-78), contro i sudditi ribelli: esse sono descritte in sette terzine (vv. 58-78), corrispondenti alle sette coppe del giudizio divino, al termine delle quali l’ottava terzina (vv. 79-81) accenna al fatto che con Augusto il mondo fu posto “in tanta pace, / che fu serrato a Giano il suo delubro”, che venne chiuso perché, finite le guerre, si entrò nel tempio della serena pace dell’arcana contemplazione di Dio.
Cesare appartiene ancora alla fine della quinta età, che precede la sesta segnata dall’avvento di Cristo con i sette stati della storia della Chiesa. Gli episodi del primo avvento di Cristo nella carne si riproporranno nel secondo avvento nello Spirito: l’uccisione della meretrice è prefigurata dalla “trista Cleopatra” (vv. 76-78); il latrare di Bruto e Cassio nell’inferno (vv. 74-75) sembra corrispondere ad Ap 19, 20: «“Et vivi missi sunt hii duo”, scilicet bestia et pseudopropheta, “in stagnum [Cocito, dove stanno i traditori, è appunto uno “stagno”, Inf. XIV, 119] ardentis ignis sulphure”»); dopo la sconfitta dell’Anticristo sarà data pace universale, propria del settimo stato, come quella augustea.
Culmine delle imprese dell’Aquila è la passione di Cristo, allorché il “sacrosantosegno” si trovava in mano al “terzo Cesare”, cioè a Tiberio, ed è impresa che oscura le precedenti se ivi “si mira / con occhio chiaro e con affetto puro” (Par. VI, 82-87): riferimento ad Ap 15, 8, dove si afferma che l’ingresso nella chiara visione contemplativa non può verificarsi prima che l’occhio sia stato purgato dal collirio in esso versato dalle sette coppe. Poiché Cristo per la redenzione del genere umano patì la pena inflitta ad opera di un legittimo giudice romano, al segno dell’aquila fu concessa la “gloria di far vendetta a la sua ira” (vv. 88-90): in questa terzina sono ancora reperibili temi provenienti dalla radice della quinta visione delle coppe, nel conferimento ai sette angeli della potestà giudiziaria vendicatrice, designata dalle coppe ripiene dell’ira di Dio vivente nei secoli dei secoli (Ap 15, 7): «Dicit autem “Dei viventis” et cetera, quia sicut morituri est iudicari et occidi, ita viventis est exercere vindictam et viventis in eternum est exercere eternam».
Poi, cosa mirabile, lo stesso Impero punì la morte di Cristo allorché “con Tito a far vendetta corse / de la vendetta del peccato antico” (vv. 91-93): come affermato nel Notabile XI del prologo, la distruzione di Gerusalemme e della sinagoga ad opera di Tito (che agisce nel secondo stato, dei martiri) prefigura il terremoto che accompagnerà, nel sesto stato della Chiesa, la distruzione di Babylon, la Chiesa carnale.
Ministro della divina giustizia fu dunque Cesare, il quale nel prendere il segno dell’Aquila mosse per volontà di Roma, cioè della divina provvidenza, “non … propria voluntate seu animositate”. Tale fu anche il “turbo” che mosse dalla “nova terra” intravista dalla distanza da Ulisse e ne rovesciò la nave, “infin che ’l mar fu sovra noi richiuso”. Le parole di Ulisse, “com’ altrui piacque” (Inf. XXVI, 141), e quelle di Giustiniano, “Cesare per voler di Roma il tolle” (Par. VI, 57), sono cucite sul medesimo panno teologico. Giustizia, non violenza. Non c’è, nella fine di Ulisse, quella vendetta che gli è riservata per la frode, la quale “è de l’uom proprio male” (Inf. XI, 25-26). È a causa del peccato per antonomasia della ragione umana, che “più spiace a Dio”, che “si martira / Ulisse e Dïomede, e così insieme / a la vendetta vanno come a l’ira” (Inf. XXVI, 55-57), e di ciò si possono ritrovare i fili nell’esegesi di Ap 15, 7 (sono gli stessi presenti nella “gloria di far vendetta a la sua ira” concessa all’aquila). Ma il patto sempiterno che la giustizia divina ha stabilito con l’alma Roma e con il suo Impero ha fatto richiudere il mare su chi non è stato eletto, come Enea, Paolo e Dante, “ne l’empireo ciel”.
Il tema dei ministri della giustizia divina che eseguono la volontà altrui, congiunto con quello dell’entrare (nel tempio, cioè nella pace della contemplazione), è nel racconto di Casella sull’angelo nocchiero, che più volte gli ha negato il passaggio dalla foce del Tevere alla spiaggia del purgatorio, “ché di giusto voler lo suo si face”, ma che da tre mesi, dopo l’indizione del Giubileo, “ha tolto / chi ha voluto intrar, con tutta pace” (Purg. II, 94-99).
Se il giusto zelo dei santi turba la contemplazione (tema del fumo dentro al tempio, che ne impedisce l’ingresso, da Ap 15, 8), la giustizia sempiterna, come afferma l’aquila nel cielo di Giove, è lume che “vien dal sereno / che non si turba mai” (Par. XIX, 64-65; a questo “suo modo sereno” il cielo ha voluto ricondurre il mondo per il primo avvento di Cristo). È un giudizio non comprensibile ai mortali, continua l’aquila, “quali / son le mie note a te, che non le ’ntendi” (vv. 97-99), secondo l’interpretazione data da Riccardo di San Vittore del non poter entrare nel tempio: “Vel, secundum eundem, nemo potest usque tunc intrare quia nec sancti possunt in hac vita perfecte cognoscere occulta iudiciorum Dei”. Tema ribadito nel canto seguente, allorché la benedetta immagine parla della predestinazione e ammonisce i mortali ad essere prudenti nel giudicare, “ché noi, che Dio vedemo, / non conosciamo ancor tutti li eletti”, ma questo limite è dolce “perché il ben nostro in questo ben s’affina (motivo connesso al principale tema, taciuto in paradiso, delle piaghe che purgano e colano gli eletti alla stregua dell’oro e dell’argento), / che quel che vole Iddio, e noi volemo”, come i ministri che versano le coppe sulla terra operano non per propria volontà ma per mandato divino (Par. XX, 133-138). Le parole dell’aquila sono di affinamento per Dante stesso, “soave medicina” che rendono “chiara la mia corta vista” (vv. 139-141: tema dell’occhio che non entra nel chiaro vedere fino a che non sia purgato o sanato da colliri o altre medicine).
Il tema dell’ingresso nella chiara contemplazione è presente nella risalita dei due poeti dall’inferno a riveder le stelle: “intrammo a ritornar nel chiaro mondo” (Inf. XXXIV, 133-134), dove però i congiunti motivi dell’ingresso e del ritorno sono riconducibili anche all’esegesi della sesta vittoria (Ap 3, 12). L’entrare nella chiarezza è ribadito dal “sereno aspetto del mezzo” che si presenta agli occhi del poeta appena uscito dall’ “aura morta” infernale (Purg. I, 13-18). L’occhio di Dante non è tuttavia ancora puro tanto da potersi presentare dinanzi al “primo ministro”, cioè all’angelo portiere del purgatorio, ma è “sorpriso d’alcuna nebbia”, e perciò Catone ingiunge a Virgilio di lavargli il viso per pulirlo di ogni sudiciume infernale (vv. 94-99). Oltre ad adempiere quest’ufficio, Virgilio cinge Dante “d’un giunco schietto … sì com’altrui piacque” (vv. 94-95, 133), proprio “in sul lito diserto, / che mai non vide navicar sue acque / omo, che di tornar sia poscia esperto” (vv. 130-132). Di quelle acque non era tornato Ulisse, che le aveva solcate solo con argomenti umani, seguendo l’esperienza sensibile delle cose mondane che era ed è causa della chiusura del settimo sigillo.
Il tempio, cioè la comprensione spirituale della Scrittura, viene progressivamente aperto. Molte sono infatti le illuminazioni che segnano la storia della Chiesa. La possibilità che alcuni santi possano comunque entrare nel tempio, al termine dei gradi di purgazione, senza aspettare temporalmente il settimo tempo della Chiesa, perché questo è in essi virtualmente o spiritualmente compiuto come se avessero raggiunto il tempo e le opere del settimo stato, è appropriata a Dante, al quale Virgilio dice sulla soglia dell’Eden: “Non aspettar mio dir più né mio cenno; / libero, dritto e sano è tuo arbitrio”, ormai compiutamente signore di se stesso (Purg. XXVII, 139-142; cfr. XXVIII, 4). Per lui l’Apocalisse è consumata.
Tab. X bis
[LSA, cap. XV, Ap 15, 7-16, 1 (radix Ve visionis)] Tertium radicale est collatio potestatis iudiciarie et iniunctio officii eius cum pleniori influxu et effluxu zeli iudiciarii, unde subditur: “Et unum ex quattuor animalibus dedit septem angelis septem phialas aureas plenas iracundia Dei viventis in secula seculorum”. […] Per “phialas” autem designatur hic mensurata potestas et equitas iudicii exercendi, que sunt “auree” per fulgorem sapientie et caritatis, suntque “plene iracundi[a] Dei”, id est zelo severo et efficaci ad corripiendum omnia per eos corripienda. Dicit autem “Dei viventis” et cetera, quia sicut morituri est iudicari et occidi, ita viventis est exercere vindictam et viventis in eternum est exercere eternam.
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Inf. XXVI, 55-57, 136-142Rispuose a me: “Là dentro si martira
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Par. VI, 55-57, 79-93Poi, presso al tempo che tutto ’l ciel volle
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VI COPPA (Ap 16, 12-16)
Ap 16, 16
Ad Ap 16, 16, nell’esegesi della sesta coppa, l’unica citazione di Gioacchino da Fiore non è particolarmente rilevante rispetto alle tre di Riccardo di San Vittore. Più importanti sono quelle dei versetti precedenti (Ap 16, 12-14), trattate altrove.
Centrale è il tema dell’Armagedon, interpretato come ‘monte dei ladri gibboso’ e come ‘tentazione insorgente’. Si tratta del luogo – “monte” per potere temporale e superbia, “dei ladri” per rapace fraudolenza, gibboso per astuzia – dove i tre spiriti immondi al modo delle rane (Ap 16, 13-14) raduneranno i re fedeli all’Anticristo. Ad esso rinvia il “gibbo che si chiama Catria”, formato dai rilievi sassosi che “surgon” tra i due lidi d’Italia, del Tirreno e dell’Adriatico, non molto distanti da Firenze, e che si innalzano tanto da oltrepassare con le loro vette la regione delle nuvole dove risuonano i tuoni. Sotto il gibbo è l’eremo di Fonte Avellana, consacrato al solo culto di Dio, al cui servizio Pier Damiani si dedicò fermamente. Una parte del nome Hermagedon è in ermo, e forse, poiché her viene interpretato come “vigile”, il poeta ha voluto contrapporre alla tentazione che si leva rappresentata dagli alti monti (la superbia, il potere temporale), e alla frode designata dal gibbo del Catria, l’austera vita claustrale del monaco ravennate: “che pur con cibi di liquor d’ulivi / lievemente passava caldi e geli, / contento ne’ pensier contemplativi” (tema dell’olio, che designa il senso anagogico, dalla terza tromba, ad Ap 6, 6), prima di essere “tratto a quel cappello, / che pur di male in peggio si travasa”, prima cioè di essere fatto cardinale di una Chiesa corrotta e condannata dalle parole del Damiani e dal grido delle anime che le confermano (Par. XXI, 106 ss.).
È possibile ritrovare accennato il tema dell’Armagedon interpretato, sempre nella sesta coppa (Ap 16, 16), come nome composto da “magedon”, cioè Megiddo (il luogo dove il re Iosia venne ucciso in battaglia, una morte per la quale Geremia fece delle lamentazioni e a questo pianto è assimilato il pianto per la morte di Cristo da parte delle tribù d’Israele da convertire di cui si dice in Zaccaria 12, 11) e da “ar”, interpretato come “suscitazione” o “vigilie”, oppure “her”, interpretato come “vigilante” o “insorgente” o “effusione”. Narrando la sua fine, Buonconte da Montefeltro nomina l’Archiano, fiume “che sovra l’Ermo (di Camaldoli) nasce in Apennino” (Purg. V, 94-96), con una congiunzione tra “ermo” e alto monte che si ritrova pure nelle parole di Pier Damiani a proposito del Catria (Par. XXI, 106-111). E “l’Archian rubesto” – nome che contiene anch’esso in sé una parte di Armagedon -, al momento del suo sfociare, carico di acque pluviali, in Arno (altro nome di significato, perché consonante ad “Arnoyme”, uno dei derivati dal 666, che è il numero della bestia) [18], trova il corpo gelato di Buonconte fuggito ferito da Campaldino e ne fa mal governo per vendetta del diavolo che non è riuscito ad ottenerne l’anima.
Tab. XI
VII COPPA (Ap 16, 17)
Ap 16, 17
Dopo la morte dell’Anticristo, l’angelo versa la settima coppa nell’aria. Olivi, come di consueto, adduce Riccardo di San Vittore e Gioacchino da Fiore. Si tratta di due interpretazioni assai distanti fra loro. Per il Vittorino, l’aria è il collegio dei demoni che ivi abitano, gravemente afflitti per l’imminenza del giudizio annunciata dalla gran voce che dal trono del tempio dice “È fatto”, cioè è la fine del mondo. Per l’abate calabrese, l’aria designa gli eletti, che vengono purgati e sbiancati con la neve dalle macchie che restano della loro connivenza con Babylon. L’aria designa la Chiesa spirituale che, sublimata da quanto sa di terreno e di carnale, si avvicina alla vita degli angeli. La gran voce che esce dal tempio (dai due Testamenti) e dal trono (dalla Chiesa) è la “manifesta intelligentia” della fine di ogni cosa, e che altro non resta che ciascuno riceva la propria ricompensa secondo le proprie fatiche.
Olivi aggiunge che come l’aria, la quale designa lo stato contemplativo che sta nel mezzo tra la vita beata e la terrena come l’aria tra la terra e il cielo, purgata dai vapori grossi e fumosi e tranquilla dalle tempeste dei venti, diventa pervia ai raggi del sole e delle stelle che divengono accessibili alla vista degli uomini, così il settimo stato della Chiesa sarà, dopo l’effusione della settima coppa, sereno, tranquillo e aperto ai raggi contemplativi del sole eterno e di tutta la gerarchia celeste e subceleste.
■ All’esegesi oliviana dell’aria purgata (e in parte anche a quella di Gioacchino da Fiore), di ciò che è sereno, tranquillo, puro, rinviano diversi luoghi del poema, il principale dei quali è la similitudine con il chiaro rispondere di Beatrice, a Par. XXVIII, 79-87, sull’apparente discordare nella misura fra le sfere celesti e i cerchi angelici, similitudine che segue la prosa anche nella struttura sintattica: “Et sicut aer purgatus … sic septimus status ecclesie, post plenam sui purgationem … // Come rimane splendido e sereno / l’emisperio de l’aere … così fec’ ïo, poi che mi provide / la donna mia del suo risponder chiaro …”.
In questi casi il tema, con le relative parole-chiave, dell’aria serena liberata da ogni nebbia e grosso vapore (Ap 16, 17) si intreccia analogicamente con l’esegesi della decima perfezione di Cristo come sommo pastore (delle dodici premesse alla prima visione), dove si tratta della gloria ineffabile della sua chiarezza e virtù nella trasfigurazione della meridiana luce del sole, che è l’ora del sesto stato. (Ap 1, 16; lo “splendor faciei” del volto di Cristo si travasa nelle varie forme del ridere : cfr. Il Cristo di Dante, cap. 2). Esegesi che altrove si è mostrato cucire insieme quelle di Gioacchino da Fiore e di Riccardo di San Vittore.
Tab. XII
[LSA, cap. XVI, Ap 16, 17 (Va visio, VIIa phiala)] Secundum autem Ioachim, septima phiala effunditur super “aerem”, id est super electos, ut si que eis macule adheserunt de communione Babilonis, purgentur et dealbentur super nivem, et in percussione septima cessat plaga Domini a populo Dei. Et subdit: «In aere ergo spiritalis ecclesia designatur, que nichil iam sapiet terrenum atque carnale, sed sublimata a terra, munditia et sanctitate angelice vite appropinquabit. Tuncque “de templo”, id est de utroque testamento, et de “trono” Dei, id est de ecclesia, egredietur “vox magna”, id est manifesta intelligentia que docebit omnia esse consumata, nichilque superesse de reliquo nisi quod unusquisque propriam mercedem accipiat secundum suum laborem». Hec Ioachim*.
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[LSA, cap. I, Ap 1, 16 (radix Ie visionis)] Decima (perfectio summo pastori condecens) est sue claritatis et virtutis incomprehensibilis gloria, unde subdit: “et facies eius sicut sol lucet in virtute sua”. Sol in tota virtute sua lucet in meridie, et precipue quando aer est serenus expulsa omni nube et grosso vapore, et quidem corporalis facies Christi plus incomparabiliter lucet et viget. Per hoc tamen designatur ineffabilis claritas et virtus sue divinitatis et etiam sue mentis. Splendor etiam iste sue faciei designat apertam et superfulgidam notitiam scripture sacre et faciei, ita quod in sexta etate et precipue in eius sexto statu debet preclarius radiare. In cuius signum Christus post sex dies transfiguratus est in monte in faciem solis (cfr. Mt 17, 1-8), et sub sexto angelo tuba canente videtur angelus habens faciem solis et tenens librum apertum (cfr. Ap 10, 1-2).Par. XXVIII, 79-87Come rimane splendido e sereno
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Purg. I, 13-18, 22-24Dolce color d’orïental zaffiro,
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Par. V, 100; XIII, 4-6; XV, 13, 23-24; XXIII, 25-27Come ’n peschiera ch’è tranquilla e puraquindici stelle che ’n diverse plage
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■ Al suono della sesta tromba – nel pieno del rinnovamento recato dal sesto stato della Chiesa, il novum saeculum tanto atteso -, l’angelo dal volto solare giura: “Allora l’angelo che avevo visto stare con un piede sul mare e con un piede sulla terra, levò la sua mano verso il cielo e giurò per Colui che vive nei secoli dei secoli, che ha creato cielo, terra, mare, e quanto è in essi, che non ci sarà più tempo e che nei giorni in cui il settimo angelo farà udire la sua voce e comincerà a suonare la tromba, allora si compirà il mistero di Dio come egli ha annunziato per mezzo dei suoi servi, i profeti” (Ap 10, 5-7). Questo giuramento designa la veemente certezza e affermazione che il tempo di questo mondo al momento della settima tromba finirà del tutto. Come noi giuriamo levando e ponendo la mano sull’altare o sul libro dei Vangeli, così questo angelo giura levando la mano al cielo, cioè con l’alta attestazione della Chiesa celeste e di Dio che abita in essa e anche perché la dimostrazione della celeste dimora e dell’eternità conferma che il tempo di questo mondo passerà velocemente. Per lo stesso motivo giura per Colui che vive in eterno ove specifica in particolare i tre elementi da lui creati, cioè il cielo come luogo che gli eletti devono cercare e in cui deve essere consumata la loro gloria; la terra con le creature che in essa vivono; e il mare con le creature che vi vivono; come dica: ‘giuro per Colui che creò la terra dei fedeli e il mare delle nazioni infedeli; e ad ambedue ora mi rivolgo invitandoli alla gloria eterna’. Per questo teneva un piede sulla terra e un altro sul mare (Ap 10, 3).
Il tema della certezza della fine dei tempi ricorre nelle parole con cui Beatrice profetizza la prossima venuta di “un cinquecento diece e cinque” (Purg. XXXIII, 40-41).
Levare la mano in alto per giurare, tema proprio dell’angelo che ha la faccia come il sole (Ap 10, 5-7; le mani sono entrambe nel passo concordante di Daniele 12, 7), è appropriato a Vanni Fucci nell’atto di squadrare a Dio “amendue le fiche”. È da notare la sequenza dei motivi relativi alla brevità del tempo: il ladro compie questo gesto blasfemo “al fine de le sue parole”, quelle con cui ha profetizzato, per recare dolore a Dante, sciagure ai Bianchi fiorentini; una serpe gli si avvolge al collo, come per ingiungergli di tacere – “come dicesse ‘Non vo’ che più diche’ ” -, ed “el si fuggì che non parlò più verbo”: il silenzio è anch’esso tema del settimo e ultimo stato (Inf. XXV, 1-6, 16). L’invettiva contro Pistoia reca ancora il tema della durata nel tempo della città, che il poeta si augura breve, invitandola a deliberare il proprio incenerimento (ibid., 10-12). Incenerita verrà Babilonia dai dieci re (Ap 17, 16), cosicché non resti memoria o segno della sua gloria passata.
Un altro dannato che alza le mani come l’angelo – “levando i moncherin per l’aura fosca” – è il Mosca dei Lamberti, il quale con il suo capo ha cosa fatta fece risolvere gli offesi Amidei a uccidere Buondelmonte, uccisione che nel 1216 segnò l’inizio dei mali per Firenze e la Toscana (Inf. XXVIII, 103-108). Anche in questo caso, il senso letterale, o storico, concorda con quello spirituale. L’angelo giura che quando il settimo angelo suonerà la tromba si avrà la consumazione del tempo in questo mondo. E il settimo angelo versa la sua coppa nell’aria, mentre una voce esce dicendo factum est, ossia tutto è consumato, è arrivata la fine del mondo (Ap 16, 17). A questi temi degli ultimi due stati si accompagnano quelli propri dello stato principale (il terzo, dei dottori) che fasciano i seminatori di scandalo e di scisma puniti nella nona bolgia: le mani sono mozze (i dottori tagliano le eresie: Ap 2, 12), l’aura è fosca (all’apertura del terzo sigillo si vede un cavallo nero: Ap 6, 5), il sangue che “facea la faccia sozza” (“et factus est sanguis” al versamento della terza coppa: Ap 16, 4).
Tab. XIII
[LSA, cap. X, Ap 10, 5-7 (IIIa visio, VIa tuba)] Sequitur (Ap 10, 5): “Et angelus, quem vidi stantem supra mare et supra terram, levavit manum suam in celum (Ap 10, 6) et iuravit per viventem in secula seculorum, qui creavit celum et ea que in illo sunt, et terram et ea que in ea sunt, et mare et ea que in eo sunt, quia tempus amplius non erit; (Ap 10, 7) sed in diebus vocis septimi angeli, cum ceperit tuba canere, consumabitur misterium Dei, sicut evangelizavit per servos suos prophetas”. Iuramentum hoc designat vehementem certitudinem et assertionem quod tempus huius seculi omnino finietur in tempore septime tube. Non enim intendit quod post hoc iuramentum suum non sit tempus amplius, sed quod in voce septimi angeli consumabitur. Iurat autem hoc ita fortiter, tum ad fortius perterrendum malos et terrendo convertendum ad penitentiam, tum ad consolandum electos multiplicibus persecutionibus et miseriis vexaturos et de exilio et carcere huius vite cupientes exire et ad eternam patriam iugiter suspirantes. […] Nota pulchram concordiam, quia sicut hic sub sexta tuba angelus super mare et super terram iurat quod “tempus amplius non erit”, sic Danielis XI° (cfr. Dn 12, 6-7) sub sexto tempore seu signaculo veteris testamenti vir seu angelus stans super aquas fluminis, elevatis in celum manibus, iurat “per viventem in eternum” quod “in tempus et tempora et dimidium temporis”, supple: durabit tempus et labor, “et, cum completa fuerit dispersio populi sancti, complebuntur universa hec”. Quid autem designetur per “tempus et tempora et dimidium temporis” tangetur infra super quarta visione (cfr. Ap 12, 14). […] Nota etiam quod ideo sub sexto statu iuratorie predicatur temporis brevitas et quasi finis, quia ex tunc singulariter inclarescet electis quod finis seculi instat et quod Dei opera sunt finali consumationi propinqua. Nota etiam quod sicut nos iuramus levando et ponendo manum super altare vel super librum evangeliorum, tamquam protestantes nos per sanctitatem altaris vel evangelii iurare, sic iste angelus iurat levando manum ad celum, id est per altam protestationem celestis ecclesie et Dei habitantis in ea, et etiam quia demonstratio celestis mansionis et eternitatis multum confirmat tempus huius seculi [c]eleriter transiturum. Hinc etiam est quod iurat “per viventem” in eternum, ubi etiam signanter specificat tria per ipsum creata, scilicet “celum”, tamquam electis querendum et tamquam locum in quo est eorum gloria consumanda; deinde “terram” cum existentibus in ea, et tertio “mare” cum existentibus in eo, quasi dicat : iuro per eum qui creavit terram fidelium et mare nationum infidelium, quibus utrisque nunc ego predico ed ad eternam gloriam invito. Unde et tenebat pedem unum super terram et alium super mare.[LSA, cap. XVI, Ap 16, 17 (Va visio, VIIa phiala)] “Et septimus angelus effudit phialam suam in aerem, et exivit vox magna de templo a trono dicens: Factum est” (Ap 16, 17), id est, secundum Ricardum, post mortem Antichristi septimus et ultimus ordo predicatorum effundet phialam suam “in aerem”, id est in collegium demonum in hoc aere habitantium, quia in tempore predicationis eius graviter affligentur pre timore imminentis iudicii et supplicii sempiterni. Scient enim certissime instare diem iudicii et adventum Christi. Unde de instantia utriusque dicitur: “Et exivit vox” et cetera “dicens: Factum est”, quasi dicat: consumata sunt omnia, adest finis mundi. Que vox dicitur “magna”, quia magnum est quod per eam nuntiatur. Hec Ricardus*.* In Ap V, ix (PL 196, col. 830 A-C). |
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Inf. XXV, 1-6, 10-12, 16Al fine de le sue parole il ladro
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Inf. XXVIII, 103-111E un ch’avea l’una e l’altra man mozza,
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[LSA, cap. XVII, Ap 17, 16 (VIa visio)] “Et decem cornua, que vidisti, et bestia” (Ap 17, 16), et etiam bestia seu rex bestie seu, secundum Ricardum, “et bestia”, id est diabolus*; “hii”, scilicet decem reges per cornua designati, “odient fornicariam et desolatam facient illam”, scilicet suis aquis seu populis in quibus consolatorie quiescebat, “et nudam”, scilicet suis ornamentis et divitiis, “et carnes eius manducabunt”, <id est crudeliter dilacerabunt et occident, “et ipsam igni concremabunt”,> id est eius urbes et terras cremabunt et incinerabunt, ut quasi non sit memoria vel signum prioris status vel glorie eius.* In Ap V, ix (PL 196, col. 835 C). |
VI VISIONE (Ap 16, 18-19, 21)
[→ Ap 16, 18]
I segni premonitori, secondo Gioacchino da Fiore, del nuovo stato della Chiesa. Sull’interpretazione del “terremoto” cfr. anche Ap 11, 13.
[→ Ap 17, 1]
L’interpretazione che Gioacchino da Fiore dà della “grande meretrice”. La Roma dei giusti pellegrina nell’Impero accanto a quella dei malvagi. Romeo di Villanova.
[→ Ap 17, 7]
La posizione di Gioacchino da Fiore su Ap 17, 6-7, dove viene spiegata la meraviglia di Giovanni nel vedere la prostituta, seguita dall’invito dell’angelo a non meravigliarsi.
Ap 18, 17.21.24
Elia, oltre a invitare al convivio spirituale (cfr. Ap 19, 17-18), incarna lo zelo del giudizio e della vendetta divina contro i peccatori nella casa di Dio. Secondo Gioacchino da Fiore, quello dei quattro animali che, nella quinta visione, trasmette ai sette angeli le sette coppe d’oro ripiene dell’ira di Dio (Ap 15, 7) designa il quarto ordine, proprio degli eremiti, del quale fu padre Elia. Questi uccise i profeti di Baal, per comando divino unse Eliseo come profeta, il quale a sua volta unse, per comando di Elia, Ieu re di Israele e Hazaèl re di Siria, dicendogli il Signore: “Chiunque sfuggirà alla spada di Hazaèl, lo ucciderà Ieu, e chiunque sfuggirà alla spada di Ieu lo ucciderà Eliseo” (3 [1] Rg 19, 17).
A Elia si addice quanto Virgilio dice del Veltro: “Questi la caccerà per ogne villa, / fin che l’avrà rimessa ne lo ’nferno / là onde ’nvidia prima dipartilla” (Inf. I, 109-111; cfr. Il Veltro).
Mettere nell’inferno è tema della sesta visione, che riguarda la caduta di Babylon. Ad Ap 18, 21 un angelo forte prende una pietra grande come una mola e la getta nel mare dell’inferno, proclamando che con la stessa violenza verrà precipitata la nuova Babilonia. Ad Ap 19, 20 si aggiunge che la bestia e il falso profeta verranno messi vivi nello stagno di fuoco, cioè nell’inferno, aprendosi la terra per il terremoto che accompagnerà la resurrezione dei due testimoni, Elia ed Enoch, apparentemente uccisi dalla bestia, di cui ad Ap 11, 13. Nella quinta bolgia, Alichino e Calcabrina, azzufatisi, “amendue / cadder nel mezzo del bogliente stagno” (Inf. XXII, 139-141).
“Questi la caccerà per ogne villa” (Inf. I, 109). Ad Ap 18, 17, l’esegesi di “Et omnis gubernator” è quella di Gioacchino da Fiore, che la riferisce ai comandanti di navi, cioè agli abati dei monasteri considerati come navi spirituali (si tratta di quanti, già implicati nei negozi babilonici, da lontano guardano l’incendio di Babylon). Come in mare alcuni navigano lontano e altri più vicino, come i pescatori, così alcuni monaci rimangono nelle città, mentre altri hanno “parrochias in villulis”. Una variante è a Par. XXVIII, 84, al termine delle parole di Beatrice che hanno chiarito la differenza fra i cieli corporali e i cerchi angelici, nella similitudine con l’aere purgato “sì che ’l ciel ne ride / con le bellezze d’ogne sua paroffia”. Letteralmente significa di ogni ‘parrocchia’, e quindi di ogni ‘plaga’ del cielo, come il Veltro caccerà la lupa per ogni ‘plaga’ terrestre (i versi di Par. XXVIII, 79-87 registrano un’importante elaborazione dei temi di Ap 16, 17).
Ad Ap 18, 24 si afferma che in Babilonia verrà trovato sangue dei profeti e dei santi e di tutti coloro che furono uccisi sulla terra. Ciò, spiega Gioacchino da Fiore, perché Babylon ha le sue radici in Caino, primo reprobo. Poiché il primo esempio di invidia punita ascoltato nel secondo girone del purgatorio è la voce di Caino (Purg. XIV, 133: “Anciderammi qualunque m’apprende”), si può intendere per “invidia prima” – quella che trasse la lupa fuori dall’inferno (Inf. I, 111) – non, genericamente, l’invidia di Lucifero per gli uomini, ma l’invidia che ha provocato il primo omicidio (anche la lupa impedisce il passaggio fino ad uccidere; cfr. Inf. I, 94-96). Questa interpretazione sembra confermata dal valore del “dipartilla”. Accanto al significato di ‘lasciar partire’ o di ‘allontanare’, non gli è del tutto estraneo quello del ‘dividere’, proprio del “dispertire” latino. Nella Lectura, ad Ap 5, 9, tale verbo è collegato con Romolo, che divise i Romani in senatori, militi e plebe, divisione ternaria con la quale Isidoro di Siviglia spiega l’etimologia di ‘tribù’. Romolo, ad Ap 12, 6, dove si cita la Concordia di Gioacchino da Fiore, viene riportato al tempo del re Ozia il quale, offrendo l’incenso nel tempio, usurpò l’ufficio sacerdotale e venne colpito dalla lebbra. Poiché in Ozia si deve ritrovare la concordia con Adamo, colpito anch’egli dalla lebbra del peccato, in Rea Silvia, madre dei due gemelli, si ritrova la concordia con Eva, che generò due figli uno dei quali uccise l’altro, come Romolo uccise Remo. La divisione in tre parti della Chiesa si verifica ad Ap 16, 19, al momento del terremoto che segna l’inizio della caduta di Babylon. Così a Firenze, “città partita”, i cuori sono stati accesi da tre faville: superbia, invidia, avarizia (Inf. VI, 60-63, 74-75).
Tab. XIV
Ap 19, 11-16
Ad Ap 19, 11-16 viene descritta la battaglia finale contro l’Anticristo. I temi sono tutti appropriati a Cristo, del quale vengono proposte dodici perfezioni, per mostrare in modo aperto con quanta giustizia, santità, virtù ed efficacia verrà col suo esercito a debellare l’Anticristo e i suoi e a recare per preda le genti di tutto il mondo, che saranno allora sottomesse e asservite alla fede e al fedele servigio del suo culto. Allora i santi avranno dinanzi agli occhi Cristo come proprio re e duce, come lo vedessero correre e volare nei cieli per trionfare sull’Anticristo. Gioacchino da Fiore, su questo punto, domandandosi se Cristo apparirà di persona in un momento così difficile per combattere contro l’Anticristo e i suoi “in gladio oris sui”, risponde: “Ritengo che verrà lui stesso per distruggerlo, e per questo viene visto sedere su un cavallo bianco, perché con il suo corpo mondo apparirà ai buoni e ai malvagi per vendicarsi sulle nazioni”.
Delle dodici perfezioni (alcune delle quali ripetono le perfezioni di Cristo come sommo pastore di Ap 1, 13-17), la decima – “E dalla sua bocca esce una spada acuta” (Ap 19, 15; Olivi osserva che qualche testo reca anche “da entrambe le parti”) – consiste nella sentenza sottile e rigida che percuote le genti, alcune verso l’eterna distruzione, altre verso la correzione e l’estinzione dei propri vizi.
L’undicesima perfezione – “Egli le governerà con la verga di ferro” (Ap 19, 15) – indica l’inflessibile giustizia. Coloro che non vogliono convertirsi di fronte a lusinghe o a un atteggiamento umile è necessario sentano allora la severità e la forza della sua disciplina cosicché, almeno tardi, siano sottomessi al suo scettro. I ribelli invece sentiranno il suo furore, per cui soggiunge: “E calca nel tino il vino dell’ira furiosa del Dio onnipotente”, cioè preme gli empi con le pene mortifere che Dio trino come furibondo e irato propina loro.
La dodicesima perfezione – “E ha scritto sulla veste e sul femore: Re dei re e Signore dei signori” (Ap 19, 16) – consiste nella giustizia, designata dalla veste, e nella propagazione della prole, designata dal femore (che indica pure la capacità di cavalcare e di procedere). Alcuni divengono signori per averlo giustamente meritato per mezzo di opere degne; altri sono invece figli o eredi di re, oppure hanno conseguito il regno vincendo con forte e valorosa potenza. Entrambi i modi appartengono a Cristo re dei re. Egli infatti è il Figlio consustanziale di Dio padre e il naturale erede di tutti i suoi beni. Per la sua passione ha inoltre meritato il nome che è al di sopra di ogni nome e ha ottenuto ciò con trionfale potenza. Ancora, nella veste della sua umanità e nel femore della sua carne Dio ha iscritto la regale maestà e la potestà della divinità.
Esistono precise e verificabili norme del rispondersi fra Commedia e Lectura super Apocalipsim. Una di queste norme consiste nel fatto che più luoghi della Commedia rinviano, tramite la compresenza degli elementi semantici, a un medesimo luogo dell’esegesi apocalittica oliviana. Il che significa che la medesima esegesi di un punto del commento scritturale è stata utilizzata, variandola, in momenti diversi della stesura del poema. Il fenomeno riguarda, sia pure con diversa intensità, tutto il materiale teologico proposto dall’Olivi. Così è anche per Ap 19, 11-16.
■ «“Et ipse reget eas (gentes) in virga ferrea”, id est in inflexibili iustitia» (undicesima perfezione, Ap 19, 15). “Sotto la mazza (hapax) d’Ercule” cessarono le “opere biece”, cioè ingiuste, di Caco, il quale forse non arrivò a sentire la decima delle cento percosse dategli (Inf. XXV, 31-33; l’episodio è uno dei casi nei quali i temi di Ap 19, 15 si intrecciano con quelli di 14, 20). Il “non sentì le diece” interpreta “necesse est ut tunc temporis sentiant severitatem et fortitudinem discipline eius, ut saltem sero subiciantur sceptro ipsius” ad Ap 19, 15. Al glorioso e magnanimo Alcide, vittorioso sull’Idra di Lerna per avere attaccato la radice stessa della vita delle molte teste che rinascevano, deve guardare Arrigo VII muovendo senza indugi su Firenze invece di restare a Milano per piegare le città lombarde ribelli (Ep. VII, 20). Il governare le genti con lo scettro di ferro è anche tema precipuo della quarta vittoria, ad opera dei forti e austeri anacoreti (Ap 2, 26-28). Di esso partecipano le parole dell’abate di San Zeno di Verona, vissuto “sotto lo ’mperio del buon Barbarossa, / di cui dolente ancor Milan ragiona” (Purg. XVIII, 118-120).
■ “Et habet in vestimento et femore suo scriptum: Rex regum et Dominus dominantium” (dodicesima perfezione, Ap 19, 16). Il tema dell’eredità del regno si inserisce nel rivolgersi lusinghiero di Virgilio ad Anteo: “O tu che ne la fortunata valle / che fece Scipïon di gloria reda, / quand’ Anibàl co’ suoi diede le spalle, / recasti già mille leon per preda” (Inf. XXXI, 115-118). Anteo riveste un ruolo equivoco. Da una parte il gigante è dannato e sta nel pozzo, per quanto sciolto, insieme coi suoi fratelli incatenati con i quali tuttavia non combatté alla battaglia di Flegra contro Giove: venne ucciso da Ercole, sorretto da Dio come Davide nel duello con Golia (Monarchia, II, vii, 10; ix, 11). Dall’altra, nel recare per preda mille leoni nella valle dove sarebbe stata combattuta la battaglia di Zama, è prefigurazione di Scipione, che debellando Annibale con i suoi ereditò la gloria. Tutto rientra nel disegno de “l’alta provedenza, che con Scipio / difese a Roma la gloria del mondo” e che, come afferma con sicurezza san Pietro nel cielo delle stelle fisse, “soccorrà tosto, sì com’ io concipio” (Par. XXVII, 61-63). Le due battaglie, quella di Flegra dei giganti contro Giove e quella di Zama, sono a loro volta prefigurazione della grande battaglia che nel sesto stato della Chiesa vedrà opposti con i loro eserciti Cristo e l’Anticristo. Se Anteo fosse intervenuto all’alta guerra dei suoi fratelli, forse, come qualcuno ritiene, “avrebber vinto i figli de la terra” (Inf. XXXI, 119-121): l’Anticristo è appunto definito, come i giganti, “dominum terre … tunc usurpatorie dominans terre et terrenis” (Ap 11, 4). È da notare nei versi, oltre alla presenza del tema dell’eredità, anche la corrispondenza tra “ad debellandum Antichristum et suos” e “quand’ Anibàl co’ suoi diede le spalle”, nonché l’appropriazione ad Anteo del motivo della preda, che rimanda all’inciso “ad capiendam predam gentium totius orbis tunc subiciendarum et captivandarum fidei et fideli ac famulatorio cultui” da parte di Cristo. L’accostamento della preda al leone si trova ad Ap 5, 5, dove Cristo, radice di Davide e nato dalla tribù di Giuda, risorge invincibile e possente verso la preda come un leone (è motivo di Sordello, “leon” che “surse” verso Virgilio, a Purg. VI, 66, 73). Ancora, i mille leoni tratti per preda da Anteo sono prefigurazione degli apostoli, inviati da Cristo nel mondo quasi leoni animosissimi: così è affermato ad Ap 6, 2, all’apertura del primo sigillo ove Cristo esce in campo sul cavallo bianco per combattere con virtù e magnanimità, come avverrà in occasione della battaglia finale contro l’Anticristo.
■ Il tema della propagazione della prole erede del regno percorre le parole che Beatrice nell’Eden premette alla profezia della prossima venuta di “un cinquecento diece e cinque”, il messo divino che ucciderà la Chiesa-prostituta e il gigante che con lei delinque, cioè il regno di Francia: “Non sarà tutto tempo sanza reda / l’aguglia che lasciò le penne al carro, / per che divenne mostro e poscia preda” (Purg. XXXIII, 37-39, dove è da notare la rima reda / preda come nell’episodio di Anteo, ma in questo caso con valore negativo, riferito all’essere senza eredità e al rapimento operato dal gigante).
■ Oltre a queste metamorfosi in senso imperiale delle prerogative di Cristo da Ap 19, 11-16, si rinvengono altre trasformazioni. I temi della giustizia, designata dalla veste, e dell’eredità, designata dal femore (dodicesima perfezione, Ap 19, 16), sono uniti in Francesco, che sul letto di morte “a’ frati suoi, sì com’ a giuste rede, / raccomandò la donna sua più cara, / e comandò che l’amassero a fede” (Par. XI, 112-114). Quest’ultima espressione può essere ricondotta alla seconda perfezione di Cristo: “E chi sedeva su di esso (sul cavallo bianco) si chiamava Fedele e Verace” (Ap 19, 11), nel mantenere cioè le promesse e nell’insegnare la verità senza alcuna frode o mendacio. Anche a Domenico è appropriato il tema dell’eredità, nella madrina che “vide nel sonno il mirabile frutto / ch’uscir dovea di lui e de le rede” (Par. XII, 64-66). Gli è proprio il tema del ‘premere’ gli empi, presente nell’undicesima perfezione di Cristo, col muoversi “quasi torrente ch’alta vena preme” (ibid., 97-99; cfr. supra).
■ Il motivo del premere e quello del ferro (“in virga ferrea”, senza riferimento allo scettro), da Ap 19, 15 (undicesima perfezione), diventano il “fil di ferro” che, come avviene con gli sparvieri selvatici per addomesticarli, cuce le palpebre degli invidiosi purganti, i quali attraverso tale orribile cucitura premono le lacrime tanto da bagnare le gote (Purg. XIII, 70-72, 82-84).
■ Il tema della spada che esce dalla bocca da entrambe le parti, proprio della decima perfezione di Cristo (Ap 19, 15, contaminato con Ap 1, 16 per l’aggiunta “ex utraque parte”), è applicato a Ciriatto, “a cui di bocca uscia / d’ogne parte una sanna come a porco”, e che a Ciampolo “li fé sentir come l’una sdruscia”, come Cristo, nell’undicesima perfezione, fa sentire la sua severità (Inf. XXII, 55-57). Non è escluso che Ciriatto sia nome derivato da Ciro, il re dei Persiani più volte citato nella Lectura come distruttore dell’antica Babilonia. Il suo essere “sannuto” è invece da porre in corrispondenza con il cinghiale – l’ “aper de silva” – che ad Ap 9, 11 (quinta tromba) è presentato come devastatore della vigna.
■I motivi del volare, proprio di Cristo che debella l’Anticristo (“in celis currentem et volantem ad triumphandum de Antichristo … ut faciat vindictam in nationibus”, Ap 19, 14: qui interviene la citazione di Gioacchino da Fiore, incastonata in una più ampia esegesi tutta di Olivi), del percuotere le genti (decima perfezione, Ap 19, 15), del sentirne la severità da parte dei ribelli (undicesima, Ap 19, 15) e del seguirlo da parte degli eserciti celesti (nona, Ap 19, 14) percorrono i versi che descrivono le folgoranti imprese di Cesare: “Quel che fé poi ch’elli uscì di Ravenna / e saltò Rubicon, fu di tal volo, / che nol seguiteria lingua né penna”. Conseguenza fu la sconfitta di Pompeo, ‘percosso’ a Farsalo e poi ucciso a tradimento da Tolomeo, “sì ch’al Nil caldo si sentì del duolo” (Par. VI, 61-66). Il “sacrosanto segno” dell’aquila con Ottaviano “corse infino al lito rubro”; poi con Tito “a far vendetta corse / de la vendetta del peccato antico” (ibid., 79, 92-93).
Tab. XV
[LSA, cap. XIX, Ap 19, 11-16 (VIa visio)] “Et vidi celum apertum” (Ap 19, 11). Habito de dampnatione adultere et de festo ac nuptiis nove sponse, subditur dampnatio bestie et pseudoprophete. Et quia hoc fiet in fine prelii Antichristi et suorum contra Christum et suos, fietque ad gloriam Christi et sanctorum ad conversionem totius orbis ad Christum, ideo in hac parte quinque tanguntur. Primo scilicet Christi et sui exercitus ad bellum preparatio. Secundo sanctorum ad triumphalem et spiritalem devorationem hostium invitatio, ibi : “Et vidi unum angelum” (Ap 19, 17). Tertio Antichristi et suorum ad bellum congregatio, ibi : “Et vidi bestiam” (Ap 19, 19). Quarto ipsius devictio et captio, ibi : “Et apprehensa est bestia” (Ap 19, 20). Quinto ceterorum ipsum sequentium ad Christum traductio seu conversio, ibi : “Et ceteri occisi sunt” (Ap 19, 21).
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Inf. XXXI, 115-121O tu che ne la fortunata valle
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[Ap 19, 11] In prima autem tangit duodecim perfectiones seu dignitates Christi, sub modo aptissimo ad monstrandum cum quanta iustitia et sanctitate et virtute et efficacia veniet cum suo exercitu ad debellandum Antichristum et suos et ad capiendam predam gentium totius orbis tunc subiciendarum et captivandarum fidei et fideli ac famulatorio cultui Christi.Purg. XXXIII, 37-39Non sarà tutto tempo sanza reda
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[LSA, cap. V, Ap 5, 5; (radix IIe visionis)] Deinde subditur consolatoria promissio: “Et unus de senioribus dixit michi: Ne fleveris: ecce vicit”, id est victoriose promeruit et etiam per triumphalem potentiam prevaluit, “leo de tribu Iuda”, id est Christus de tribu Iuda natus ac invincibilis et prepotens et ad predam potenter resurgens sicut leo.
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Inf. XXII, 55-57E Cirïatto, a cui di bocca uscia
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10] “Et de ore eius procedit gladius acutus” (Ap 19, 15), id est sententia subtilis et rigida (quidam habent “ex utraque parte”, sed antiqui non habent hic “ex utraque parte” neque Ricardus, sed supra capitulo I° [Ap 1, 16]), “ut in ipso percutiat gentes”, quasdam scilicet in eternum interitum, quasdam vero ad correctionem et ad vitiorum suorum extinctionem.11] “Et ipse reget eas in virga ferrea”, id est in inflexibili iustitia. Qui enim nolunt converti blanditiis et humilitate necesse est ut tunc temporis sentiant severitatem et fortitudinem discipline eius, ut saltem sero subiciantur sceptro ipsius. Rebelles autem sentient furorem eius, unde subditur : “Et ipse calcat torcular vini furoris ire Dei omnipotentis”, id est ipse premit impios penis mortiferis quas Deus Trinitas quasi furibundus et iratus propinat eis.Purg. V, 43-45; VI, 7-9“Questa gente che preme a noi è molta,
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Par. VI, 61-66, 79, 92-93Quel che fé poi ch’elli uscì di Ravenna
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9] “Et exercitus qui sunt in celo” (Ap 19, 14), id est sancti celestem vitam agentes et contra exercitum demonum et reproborum preliantes, “sequebantur eum”, scilicet imitatione et participatione secundum quam effectus sequitur suam causam. Sequebantur etiam ipsum sicut ducem preeuntem ad bellum. “In equis albis”, id est, secundum Ricardum, in corporibus et operibus mundis. “Vestiti bissino albo mundo”, id est candore omnium virtutum a maculis criminum mundo. […] Tunc enim sancti habebunt sic pre oculis Christum tamquam suum regem et ducem, ac si ipsum visibiliter viderent in celis currentem et volantem ad triumphandum de Antichristo, “quem” quidem “interficiet spiritu oris sui et illustratione adventus sui”, prout dicitur secunda ad Thessalonicenses II° (2 Th 2, 8). Unde Ioachim super hoc loco, mota prius questione an Christus tunc per se ipsum appareat in tempore tante necessitatis ut prelietur contra Antichristum et suos in gladio oris sui, respondet : Ego puto quod per se ipsum veniet ad destruendum eum, ideoque visus est sedere super equum album, quia in corpore suo mundo apparebit bonis et malis ut faciat vindictam in nationibus.10] “Et de ore eius procedit gladius acutus” (Ap 19, 15), id est sententia subtilis et rigida (quidam habent “ex utraque parte”, sed antiqui non habent hic “ex utraque parte” neque Ricardus, sed supra capitulo I° [Ap 1, 16]), “ut in ipso percutiat gentes”, quasdam scilicet in eternum interitum, quasdam vero ad correctionem et ad vitiorum suorum extinctionem.11] “Et ipse reget eas in virga ferrea”, id est in inflexibili iustitia. Qui enim nolunt converti blanditiis et humilitate necesse est ut tunc temporis sentiant severitatem et fortitudinem discipline eius, ut saltem sero subiciantur sceptro ipsius. Rebelles autem sentient furorem eius, unde subditur : “Et ipse calcat torcular vini furoris ire Dei omnipotentis”, id est ipse premit impios penis mortiferis quas Deus Trinitas quasi furibundus et iratus propinat eis. |
[→ Ap 19, 17-18]
L’angelo fisso nel sole, che invita al serotino convivio spirituale: per Gioacchino da Fiore si tratta di Elia. Il trasumanar di Dante.
VII VISIONE (Ap 20, 1-22, 21)
[→ Ap 20, 3]
L’alfabeto mistico esposto nello scritto pseudogioachimita De semine Scripturarum, ampiamente citato da Olivi nell’esegesi del cap. XX.
[→ Ap 21, 1-2]
Secondo Gioacchino da Fiore, il monte sul quale viene elevato Giovanni (Ap 21, 10) designa l’intelletto anagogico, grande e alto perché apprende cose grandi e sublimi, come la lettera apprende ciò che è transitorio e terreno e l’allegoria lo stato della Chiesa peregrinante che opera in un certo modo tra cielo e terra.
Ap 21, 16
I quattro lati delle mura della Gerusalemme celeste, descritta nella settima visione, formano un quadrilatero (Ap 21, 16), che designa la solida quadratura delle virtù (a Cacciaguida il poeta dice di sentirsi “ben tetragono ai colpi di ventura”, Par. XVII, 23-24). I quattro lati sono uguali in lunghezza e in larghezza. La città dei beati quanto vede di Dio e dei suoi beni tanto ama, quanto è lunga nella visione tanto si dilata nella carità, quanto si prolunga nell’eterno tanto si dilata nel gaudio giocoso e glorioso. Lo stesso può dirsi di coloro che in questa vita raggiungono la perfezione, i quali quanto conoscono o credono tanto amano, quanto per la speranza si protendono nei beni eterni tanto si dilatano nel gaudio. Nei beati le quattro virtù cardinali – prudenza, fortezza, giustizia e temperanza -, designate dai quattro lati della città, hanno uguale misura. Anche l’altezza è uguale alla lunghezza e alla larghezza, poiché quanto i beati per la visione e per l’amore si protendono in lungo e si dilatano in largo, tanto si elevano nell’alta lode e nella reverenza verso Dio e nell’alto apprendimento e degustazione della sua sublime maestà. Tuttavia in questa vita l’altezza, proporzionata alla misura della carità e del tendere in Dio, sta comunemente solo nel desiderio e nella speranza di raggiungere la compiuta misura della patria celeste. Un edificio si pone infatti diversamente nel suo inizio e nella perfezione del fine.
Anche un sommario esame rivela quanto siano importanti questi temi nel Paradiso. La citazione di Gioacchino da Fiore sottolinea come l’uguaglianza dei lati della città designi la somma concordia dei beati nel regno di Dio. Beatrice, spiegando la differenza tra l’ordine celeste e quello del mondo, definisce il Primo Mobile come la sfera corporea corrispondente al primo dei cerchi angelici, i Serafini, “che più ama e che più sape” (la larghezza e la lunghezza si equivalgono), invitando Dante ad applicare la sua misura (il misurare la città) al criterio della virtù (i lati della città designano le virtù) e non a quello della grandezza apparente dei cerchi (Par. XXVIII, 70-78). Più avanti la donna dice che tutte le intelligenze “hanno diletto” (il godere giocoso proprio della larghezza e anche la degustazione propria dell’altezza) quanto è profonda la visione di Dio (la lunghezza; ibid., 106-108). Soggiunge che l’essere beato si fonda nell’atto della visione, non nell’atto dell’amore, il quale consegue dal primo (Par. XXVIII, 109-111; cfr. Par. XXIX, 139-140). Secondo molti interpreti qui Dante accoglie la tesi tomista che fa precedere nella beatitudine l’atto dell’intelletto a quello della volontà se non nel tempo, almeno nella natura e nell’origine. Ernesto Buonaiuti notò una contraddizione tra la terzina di Par. XXVIII, 109-111 e la definizione del Primo Mobile come corrispondente “al cerchio che più ama e che più sape” (ibid., 72), dove invece prevarrebbe la tesi volontaristica francescana in quanto, in questo caso, l’amare è posto prima del sapere [19]. La questione viene affrontata dallo stesso Olivi ad Ap 21, 22, dove i due atti – la “visio” e il “beatificus actus caritatis” – sono considerati tanto compenetrati che nessuno dei due può ritenersi perfetto senza l’altro. Lo stesso Olivi, però, nel Notabile X del prologo della Lectura, afferma che non si può amare se non quello che si conosce, e che quindi la “notitia” precede l’amore come il terzo stato dei dottori (l’intelletto) precede storicamente il quarto stato degli anacoreti (l’affetto) [20]. La stessa questione viene posta nella domanda che Dante fa a Francesca: “Ma dimmi: al tempo d’i dolci sospiri, / a che e come concedette amore / che conosceste i dubbiosi disiri?”, e riecheggiata nella risposta: “Ma s’a conoscer la prima radice / del nostro amor tu hai cotanto affetto, / dirò come colui che piange e dice” (Inf. V, 118-120, 124-126).
Nei beati, come sa Dante che si rivolge a Cacciaguida, “l’affetto e ’l senno” (la larghezza e la lunghezza) sono di pari peso dal momento in cui essi hanno cominciato a contemplare Dio (definito, per restare nel medesimo ambito tematico, “la prima equalità ”, il sole uguale nel calore della carità e nella luce della visione), diversamente dai mortali, nei quali “voglia e argomento” (corrispondenti all’affetto e al senno) hanno ali disuguali (Par. XV, 73-84). Al termine del viaggio, la lunghezza (“il mio disio”, che esprime anche l’altezza, “secundum mensuram sue tensionis”, e dunque la “sete natural” di cui a Purg. XXI, 1-4) e la larghezza (“’l velle”) saranno in Dante “sì come rota ch’igualmente è mossa” (Par. XXXIII, 143-145). Lo Spirito di Cristo, nell’invitare alla gloriosa cena delle nozze dell’Agnello, dice: “Et qui sitit veniat. Et qui vult accipiat aquam vite gratis”, perché, aggiunge Olivi, “nullus cogitur nec potest venire nisi per desiderium et voluntarium consensum” (ad Ap 22, 17) [21].
Nella descrizione dell’empirea rosa, la fiumana luminosa, che prima appariva in lunghezza, successivamente diviene tonda distendendosi in figura circolare, con una circonferenza che sarebbe cintura “troppo larga” per il sole (Par. XXX, 88-90, 103-105). La rosa sempiterna “si digrada” (si allunga nel senso di protendersi), “e dilata” (si allarga) “e redole / odor di lode al sol che sempre verna” (l’elevarsi dell’altezza; ibid., 124-126). Il digradare fa comunque riferimento ai “gradi”, che nella misura della città sono uguali per ciascun lato: secondo Gioacchino da Fiore, ovunque si ritrova il numero 6, in quanto il senario, riflesso su sé stesso ed elevato in alto, dà 36, e 36.000 (6 volte 6000) si ottiene dividendo 144.000 (dodici volte la misura della città, che è di 12.000 stadi) per i 4 lati.
Nel riferire l’ultima visione, Dante prima ricorda “l’abbondante grazia ond’ io presunsi / ficcar lo viso per la luce etterna” (la visione corrisponde alla lunghezza), poi afferma di aver visto la forma universale del nodo che unisce tutte le cose perché, dicendo ciò, prova un godimento più largo (i perfetti, i quali “in gaudio dilatantur” in questa vita, designano la larghezza; Par. XXXIII, 82-93) [22]. Il vedere del poeta è tanto più sincero quanto più entra nel raggio dell’alta luce (ibid., 52-54), che tanto si eleva sui concetti mortali (ibid., 67-68: l’altezza).
Pier Damiani ‘pareggia’, cioè rende uguale, la chiarezza della visione di Dio (“la vista mia, quant’ ella è chiara”) con “l’allegrezza ond’ io fiammeggio” – in lui sono pertanto uguali la lunghezza della visione e la larghezza del gaudio che deriva dalla carità – e, grazie alla virtù della luce divina che si congiunge con il suo vedere, può levarsi tanto sopra di sé (uguaglianza dell’altezza) nell’intelligenza della somma essenza (Par. XXI, 82-90).
Altri esempi in La settima visione, I. 3.
Tab. XVI
[LSA, cap. XXI, Ap 21, 16 (VIIa visio)] “Et civitas in quadro posita est”, id est habens quattuor latera muri sub figura quadranguli iuncta, per quod designatur solida quadratura virtutum.
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Par. XV, 73-84Poi cominciai così: “L’affetto e ’l senno,
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Par. XVII, 23-24……… avvegna ch’io mi senta
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[→ Ap 22, 10]
Secondo Gioacchino da Fiore, le voci spirituali emesse dai sette tuoni, che Giovanni deve sigillare (Ap 10, 4), corrispondono agli arcani designati dal sudario che avvolse il capo di Cristo e che Pietro vide separato dalle altre bende; ciò che deve invece rendere palese (Ap 22, 10) si riferisce alle cose future che dovevano verificarsi ai suoi tempi.
Explicit
La Lectura si conclude, citando Gioacchino da Fiore, con un ringraziamento a Dio che dopo tanti mari percorsi ha condotto la nave in porto, e con la preghiera di prestare indulgenza se in qualche punto l’espressione non sia stata conforme alla Sua volontà. Olivi si dichiara pronto a ricevere correzioni mentre è ancora in vita, qualora ci sia qualche pio disposto a farlo. Se poi la veloce chiamata di Dio lo sottrarrà dalla luce terrena, allora il compito di emendare spetterà alla Chiesa romana, alla quale è stato dato il magistero universale. Citando Riccardo di San Vittore, il frate assegna infine a sé quanto detto da lui meno bene e, come i seniori di fronte al trono divino, attribuisce ciò che è degno a Colui che non occupa luogo né è mutato dal tempo.
Anche questa estrema parte non si sottrae a profonde metamorfosi poetiche. Il prestarsi, che nell’esegesi è un prestare indulgenza ai limiti dell’autore, si trasforma nel prestarsi della luce divina a una memoria incapace di seguire l’intelletto che in quella luce si profonda. Ciò è tema del primo e dell’ultimo canto del Paradiso. Nel primo caso, invocando il “buono Appollo”, il poeta ascrive alla virtù divina (“se mi ti presti / tanto …”) la dignità che gli darà l’amato alloro (Par. I, 22-27). Nel secondo caso, la somma luce viene invocata – “ripresta un poco di quel che parevi” -, affinché il poeta possa lasciare alla futura gente una sola favilla di quella gloria (Par. XXXIII, 67-75; altrove sono trattati temi differenti).
L’emendarsi (“rimendo qui la vita ria”: hapax, singolarmente congiunto col prestarsi, come nella Lectura) è proprio di Sapìa senese, la quale nel secondo girone della montagna purga l’invidia, “lagrimando a colui che sé ne presti”, affinché voglia concederne la visione (Purg. XIII, 106-108). Non sarà casuale questo appropriare le finali attestazioni di umiltà e di sottomissione dell’Olivi a colei che ebbe abbreviata la sua penitenza per le preghiere di Pier Pettinaio, uomo spirituale.
I motivi dell’indulgere, dell’essere veloce, di Dio che non ha luogo né tempo percorrono l’ascesa di Dante al nono cielo, il Primo Mobile o Cristallino, in Par. XXVII, 97ss. Lo sguardo di Beatrice ‘indulge’, cioè presta una virtù che sottrae il poeta alla costellazione dei Gemelli e lo spinge “nel ciel velocissimo”. Tutte le parti di questo cielo sono così uniformi, che Dante non sa dire quale luogo abbia scelto Beatrice per entrarvi. Il Primo Mobile, da cui comincia la natura del mondo, non ha altro luogo in cui si possa considerare situato che la mente divina, da cui deriva l’amore che lo fa girare e la virtù che fa piovere sugli otto cieli da esso contenuti. Non è misurato dal tempo, ma è la radice del tempo, che tiene “in cotal testo / le sue radici ” (vv. 118-119), cioè in tale vaso (da notare l’uso di termini presenti nell’incipit della Lectura, relativi alla dottrina di Cristo contenuta nel Vecchio Testamento “sicut nucleum in testa et pullum in ovo et fructum in semine vel radice”). Nel Primo Mobile, Beatrice ride “tanto lieta, / che Dio parea nel suo volto gioire” (vv. 103-105).
Tab. XVII
[LSA, explicit] Ut autem verbis Ioachim* utar, referamus et nos gratiam ei qui nos, decursis tantis pelagis, perduxit ad portum, orantes ut si in aliquibus locis aliter locuti sumus quam ipse voluit, prestet indulgentiam delinquenti. Quod si est qui pie corrigat dum adhuc vivo, paratus sum recipere correctionem. Si autem velox vocatio Domini me subtraxerit ex hac luce, romana ecclesia, cui datum est universale magisterium, si qua indigna esse perspexerit, dignetur obsecro emendare.
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Par. I, 22-27; XXXIII, 67-69O divina virtù, se mi ti presti
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Par. XXVII, 97-105, 109-110, 115-120E la virtù che lo sguardo m’indulse,
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[LSA, prologus, incipit] Hec autem lux habet septiformem diem transcendentem velamen umbre legalis, quoniam in hac aperitur trinitatis Dei archanum, ac culpe originalis et actualis vinculum et debitum, et incarnationis Filii Dei beneficium, et nostre redemptionis pretium, et iustificantis gratie supernaturale donum simul et predestinationis ac reprobative subtractionis eiusdem gratie incomprehensibile secretum, ac spiritualis et perfecti modi vivendi Deumque colendi saluberrimum exemplum ac preceptum et consilium, et eterne retributionis premium et supplicium cum finali consumatione omnium. Hec enim septem sunt velut septem dies solaris doctrine Christi, que sub velamine scripta et absconsa fuerunt in lege et prophetis. Eo ipso autem quod doctrina novi testamenti probat se ipsam contineri in veteri sicut nucleum in testa et pullum in ovo et fructum in semine vel radice et sicut lumen in lucerna lucente in loco caliginoso, eo ipso promovetur luna, id est vetus lex et scriptura, in lucem solis. |
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[1] Cfr. Il Cristo di Dante, cap. 2 («La faccia che a Cristo più si somiglia» [Ap 1, 16-17; 14, 4]).
[2] I passi dell’esegesi della sesta chiesa sono accostati nell’edizione della Lectura super Apocalipsim, pp. 122-123. Cfr. P. VIAN, Dalla gioia dello Spirito alla prova della Chiesa. Il “tertius generalis status mundi” nella “Lectura super Apocalipsim” di Pietro di Giovanni Olivi, in L’età dello Spirito e la fine dei tempi in Gioacchino da Fiore e nel gioachimismo medievale, Atti del II Congresso internazionale di studi gioachimiti, San Giovanni in Fiore – Luzzi – Celico, 6-9 set. 1984, a cura di A. Crocco, Centro internazionale di studi gioachimiti, San Giovanni in Fiore 1986, pp. 165-215.
[3] NICOLA DA ROCCA, Epistolae, ed. F. Delle Donne, SISMEL. Edizioni del Galluzzo, Firenze 2003 (Edizione Nazionale dei Testi Mediolatini 9), nr. 15, p. 31 (cfr. nr. 2, p. 9: “Cum benefaciendi quibuslibet regnet in pectore vestro potentia, dum reserat nemo quod clauditis et quod reseratis per consequens nemo claudit”); Cfr. C. VILLA, «Per le nove radici d’esto legno». Pier della Vigna, Nicola della Rocca (e Dante): anamorfosi e riconversione di una metafora, in “Strumenti critici”, 15 (1991), pp. 131-144.
[4] Cfr. Amore angelico, p. 6.
[5] Si vedano le citazioni dei Salmi: cfr. «In mensura et numero et pondere». Nella fucina della Commedia: storia, poesia e arte della memoria, cap. 4.
[6] J. BURCKHARD, La civiltà del Rinascimento in Italia, trad. it., Firenze 1968, p. 272 e nt. 1: Dante «sale altresì sulle cime dei monti coll’unico intento possibile di goder grandiose prospettive, uno dei primi, forse, dopo i poeti antichi, che si sia accinto a tale impresa … Difficilmente s’indovinerebbe che cosa altrimenti fosse andato a fare sulla vetta del Bismantova nella provincia di Reggio».
[7] Cfr. Il sesto sigillo, cap. 2c; Il Veltro, pp. 15 [768], 67 [820].
[8] Ad esempio, la descrizione delle luci che nel cielo di Giove formano l’aquila è tessuta sull’esegesi di Ap 13, 3, relativa alla testa della bestia che sembrava uccisa ma che poi rivive.
[9] Sposò è, per Petrocchi, tipo più difficile rispetto a posò. La s intensiva è però anche equivoca ed allusiva.
[10] Questa instabilità, che è poi impossibilità per le anime di mantenere la forma di uomo, quella più conforme a Cristo, regredendo allo stato bestiale, alla natura e alla forma del serpente creato prima dell’uomo, è propria dei dannati, il cui tempo sarà nei secoli (infatti passeranno dal freddo al caldo e dal caldo al freddo), a differenza dei santi che saranno glorificati nell’immobilità dell’eterna gloria, come promesso dall’angelo della sesta tromba, che ha la faccia come il sole (Ap 10, 5-7): «Secundum vero Ricardum, non dicit tempus amplius non esse respectu dampnandorum, quia illorum tempus erit in secula (nam de frigoribus ad calores et de caloribus ad frigora revertentur), sed dicit hoc respectu sanctorum glorificandorum et elementorum innovandorum. Dicit enim hoc ad consolationem sanctorum hic pro Christo multa patientium, quibus promittit instabilem mutabilitatem huius seculi transituram et eterne glorie immobilitatem successuram» Cfr. In Ap III, vii (PL 196, coll. 789 D–790 A, C).
[11] G. GORNI, Lettera Nome Numero. L’ordine delle cose in Dante, Bologna 1990, pp. 126-127.
[12] Sulla questione del “disdegno” di Guido Cavalcanti, indirizzato verso Beatrice, non verso Virgilio, cfr. Lectura Dantis, Inferno X (PDF), pp. 67-76.
[13] G. CONTINI, Un’idea di Dante. Saggi danteschi, Torino 1970 e 1976, p. 91.
[14] Numerosi esempi sono dati in « In mensura et numero et pondere ». Nella fucina della Commedia: storia, poesia e arte della memoria, cap. 3.
[15] Cfr. Lectura Dantis, Inferno X (PDF), p. 214.
[16] L. PIRANDELLO, Chiose al «Paradiso» di Dante. Edizione critica, introduzione e note a cura di G. Bolognese, Milano 1996, pp. 100-101.
[17] I versi su Domenico rinviano anche ad Ap 1, 15 (settima perfezione di Cristo sommo pastore).
[18] Cfr. «Un cinquecento diece e cinque» (PDF), p. 73 [708].
[19] E. BUONAIUTI, Storia del Cristianesimo, II, Milano 19472, pp. 537-538: «Ma come nell’animo di Dante l’intellettualismo tomistico e il volontarismo cistercense-francescano si mantenessero giustapposti, senza elidersi né sopraffarsi, appare dalla contraddizione in cui è lasciata cadere Beatrice, quando, nel canto XXVIII del Paradiso, spiegando il movimento dei cerchi angelici, afferma una volta tomisticamente che l’amore poggia sul conoscere […] e afferma un’altra volta, francescanamente, che il conoscere poggia sull’amare».
[20] Cfr. Il terzo stato. La ragione contro l’errore, tab. IV.1-2.
[21] Su Ap 22, 17 cfr. L’agone del dubbio, ovvero il martirio moderno, cap. 7, tab. XXX-XXXII.
[22] Per altri temi presenti nei versi 91-96 (in particolare, l’accostamento della larghezza all’oblio, quasi questo ne consegua [Ap 7, 6]) cfr. L’agone del dubbio, cap. 1.2, tab. II bis.
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INDICE DELLE CITAZIONI DI GIOACCHINO DA FIORE
Sono riportati, per la Concordia e l’Expositio, i passi secondo le rispettive edizioni. Al di sotto è indicato, con collegamento ipertestuale ad esso, il luogo della Lectura super Apocalipsim contenente la citazione di Gioacchino da Fiore.
Concordia Novi ac Veteris TestamentiHerausgegeben von A. PATSCHOVSKY, 2017 (Monumenta Germaniae Historica. Quellen zur Geistesgeschichte des Mittelalters, 28 Band), Teil 2 (lib. I-IV), Teil 3 (lib. V). |
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liber II
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liber III |
II 1, c. 13Ap 12, 6 |
III 1, c. 1prologus, Notabile XII |
II 1, c. 20Ap 12, 6 (a); (b); (c) |
III 1, c. 2prologus, Notabile XII |
II 1, c. 28Ap 12, 6 |
III 1, c. 7Ap 15, 1 |
III 2, c. 4prologus, Notabile X |
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III 2, c. 5Ap 6, 9-11 |
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III 2, c. 6Ap 9, 11Ap 9, 13Ap 12, 6 |
liber IV
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liber V |
IV 1, c. 2Ap 12, 6 |
V 1, c. 12prologus, notabile XII (a); (b); (c); (d); (e)Ap 12, 1-2Ap 12, 14 |
IV 1, cc. 29, 33-38Ap 6, 9-11 |
V 1, c. 13prologus, Notabile XIII |
IV 1, c. 38Ap 9, 13 |
V 1, c. 16Ap 12, 6 |
IV 1, c. 40Ap 12, 16 |
V 1, c. 17Ap 12, 6 (a); (b) |
IV 1, c. 44Ap 9, 13 |
V 6, c. 4 §§ 4, 5Ap 13, 1 |
IV 1, c. 45Ap 7, 2 |
V 6, c. 4 § 5Ap 9, 13 |
V 6, c. 4 § 7Ap 13, 3 (a); (b) |
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V 6, c. 4 § 8Ap 12, 6 (a); (b) |
Expositio in Apocalypsimin Edibus Francisci Bindoni ac Maphei Pasini, Venetiis 1527,
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pars I
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f. 45ra-bAp 1, 16-17 |
distinctio I, f. 156rb-vaAp 12, 3; 13, 1 |
f. 69raAp 2, 10 |
distinctio III, f. 161va-bAp 12, 15-16 |
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distinctio IV, ff. 161vb-162ra, 163vb-164raAp 12, 17 (a); (b); (c) |
f. 103ra-bAp 4, 4 |
distinctio IV, f. 162raAp 12, 18 |
f. 108rbAp 4, 7-8 (a); (b) |
pars IV, distinctio IV, f. 163va-bAp 6, 3 |
f. 115ra-bAp 6, 6 (a); (b); (c); (d); (e); (f) |
distinctio IV, f. 165rbAp 13, 4 (a); (b) |
f. 116raAp 6, 7-8 |
distinctio IV, f. 165vaAp 12, 6 |
116rb-vaAp 6, 9-11 |
distinctio IV, f. 167ra-bAp 13, 11 |
f. 120rb-vaAp 7, 1 (a); (b) |
distinctio IV, ff. 167vb-168rbAp 9, 13 (13, 11) (a); (b) |
ff. 120vb-121raAp 7, 2 |
distinctio IV, f. 168raAp 13, 15 |
f. 121ra-bAp 7, 3 |
distinctio IV, ff. 168va-169rbAp 13, 17 (a); (b) |
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distinctio IV, f. 169ra-bAp 13, 18 (a); (b) |
distinctio IV, f. 170ra-bAp 14, 1 |
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f. [124]va-bAp 8, 3 |
distinctio IV, f. 172raAp 14, 2 |
f. 128vaAp 8, 8-9 |
distinctio VI, f. 174vaAp 14, 11 (a); (b) |
f. 130rbAp 8, 13 |
distinctio VII, f. 175vaAp 14, 14 (a); (b) |
f. 130vaAp 9, 1-2 (a); (b) |
distinctio VII, ff. 176vb-177rbAp 14, 20 |
f. 131rb-vaAp 9, 5-6 (a); (b); (c); (d); (e) |
pars V
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f. 133ra, vaAp 9, 11 |
ff. 177rb sgg., 180rb-vaAp 15, 1 |
f. 133vbAp 9, 13 |
f. 182ra-bAp 15, 1 (a); (b) |
f. 134vaAp 9, 14 |
f. 185ra-bAp 15, 7 |
f. 135ra-bAp 9, 17 |
f. 186rbAp 15, 8 |
f. 135vbAp 9, 19 |
ff. 188vb-189raAp 16, 5-7 |
f. 137ra-vaAp 10, 1 (a); (b); (c) |
f. 189rb-vbAp 16, 8-9 |
f. 138vbAp 10, 3 |
ff. 189vb-190raAp 16, 10-11 |
f. 141rb-vaAp 10, 5-7 (a); (b) |
f. 190vaAp 16, 12 (a); (b) |
f. 141vbAp 10, 8-9 |
f. 190va-bAp 16, 12-14 |
f. 145rbAp 11, 1 (a); (b); (c); (d) |
f. 191rbAp 16, 16 |
f. 149raAp 11, 4 |
f. 191vaAp 16, 17 |
f. 149rbAp 11, 5 |
pars VI
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f. 150rb-vaAp 11, 8-9 |
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f. 151va-bAp 11, 13 |
distinctio I, ff. 191vb-192raAp 16, 18 (a); (b) |
distinctio I, f. 192va-bAp 12, 18 |
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distinctio I, f. 194ra-bAp 17, 1 |
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distinctio I, f. 195vbAp 17, 6-7 |
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distinctio I, f. 196ra-bAp 17, 8 |
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distinctio I, f. 197ra-b
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distinctio I, ff. 201vb-202ra, 202va-bAp 18, 17.21.24 |
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distinctio II, f. 203rb-vbAp 19, 1 |
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distinctio II, f. 204vbAp 19, 6 (a); (b) |
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distinctio III, f. 207rb-vbAp 19, 14 |
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distinctio III, f. 209ra-bAp 19, 17-18 (a); (b) |
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pars VIII
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ff. 216vb-217raAp 21, 2 |
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ff. 217vb-218rbAp 21, 16 |
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f. 222vbAp 22, 10 |
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ff. 223vb-224rbExplicit |
Pseudo Gioacchino da Fiore
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■ Ex pluribus que Ioachim de Frederico secundo et eius semine scripsit: Ap 13, 18■ De seminibus Scripturarum : Ap 20, 3 |