“I due sembrano ignorarsi: un silenzio di cui si potrebbero tentare spiegazioni psicologiche di varia natura. Se non intervengono altri documenti, il problema dei rapporti fra Dante e Mussato resterà aperto all’ingegnosità e alle sottigliezze dei commentatori”. Così Guido Martellotti nell’Enciclopedia Dantesca (1984), a conclusione della voce dedicata al letterato padovano.
“Quanto piacerebbe sapere se Albertino vide o conobbe mai Dante!”, scriveva Carducci. Certo entrambi individuarono “in tutte le sue forze e con tutte anche l’esuberanze ideali e morali l’esempio del perfetto cittadino di Comune italiano in quel supremo passaggio dalla libertà alla signoria” [1]. E poi entrambi sperimentarono i costumi dei potenti, videro le supreme altezze del mondo, il papa e l’imperatore. Uniti nella difesa della poesia e delle sue origini divine, divisi però sulla “gloria de la lingua”, da assegnare secondo l’uno al volgare, per l’altro al latino, Dante e Mussato potrebbero essersi incontrati a Padova o a Milano, al momento dell’incoronazione di Enrico VII, il 6 gennaio 1311. Certamente i testi, senza dover essere sollecitati da un sottile ingegno di commentatore, dicono di una chiara risposta contenuta nel Paradiso all’Ecerinis, la tragedia del Mussato che fu “l’inno della libertà padovana” per Giacomo Zanella, più epos che dramma per Carducci [2]. Per ‘testi’ si intende quel confronto fra la Commedia e la Lectura super Apocalipsim di Pietro di Giovanni Olivi condotto su questo sito e che ha portato alla realizzazione di una Topografia spirituale della Commedia, in cui i 14233 versi del “poema sacro” mostrano in filigrana, contenuta nel senso letterale, una dottrina ben più ampia alla quale la lettera fornisce “e piedi e mano” a scopi omiletici o di edificazione del lettore, rinviandovi con una mnemotecnica che agisce attraverso parole-segni. Come sia avvenuta la trasmissione della Lectura a Dante, e in quale temperie storica; quali motivazioni abbiano spinto Dante a sceglierla come “panno” per fare la “gonna”, è stato più volte discusso altrove e qui vi si accennerà solo incidentalmente [3].
Nell’Ecerinis il protagonista – Ezzelino da Romano -, di fronte all’invito dell’antoniano fra’ Luca di aprirsi a Cristo “pastor bonus”, di tralasciare il furore per l’umiltà, risponde invocando il Dio vendicatore dell’Antico Testamento, che gli ha ingiunto di punire i malvagi:
ALBERTINO MUSSATO, Ecerinide, tragedia, a cura di L. Padrin, con uno studio di G. Carducci, Bologna (ristampa anastatica della edizione 1900), vv. 374-397, pp. 48-49:FR. LUCASEcerine, crede, carior Saulus fuit,
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Questo flagello moderno, pari alle piaghe veterotestamentarie, fu secondo Mussato figlio adulterino del demonio, concepito nel vapore sulfureo, fra crepitio della terra, folgore e tuono:
vv. 28-38, pp. 25-26:Cum prima noctis hora, communis quies,
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Dante, è noto, colloca Ezzelino da Romano fra i tiranni puniti nel primo girone del settimo cerchio infernale. Si tratta di un breve accenno (Inf. XII, 109-110):
E quella fronte c’ha ’l pel così nero,
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Torna però a parlare di lui in modo più ampio la sorella Cunizza, beata che si mostra nel terzo cielo (di Venere) del paradiso (Par. IX, 25-36):
In quella parte de la terra prava
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L’Ecerinis è probabilmente del 1315, precedente l’incoronazione del Mussato come poeta a Padova il 3 dicembre di quell’anno. Il Paradiso si suppone scritto a partire dal 1316, comunque dopo l’elezione a papa di Giovanni XXII (7 agosto), il ‘caorsino’ riprovato da san Pietro in persona a Par. XXVII, 58-60. La Commedia, per ammissione del suo stesso autore, ha un significato “polisemos, hoc est plurium sensuum” (Epistola XIII, 20). La ricerca, presentata su questo sito, ha dimostrato come nella struttura interna della Commedia numerose parole-chiave, che nel contesto dei versi fungono da imagines agentes, conducono il lettore alla dottrina contenuta nella Lectura super Apocalipsim consentendo così il passaggio dal senso letterale, che è per tutti, a quelli mistici in esso racchiusi, riservati ai depositari della chiave di sì alta crittografia o piuttosto ars memorativa. Questa operazione era stata concepita da Dante per un nuovo pubblico di predicatori – gli Spirituali francescani – che, nel primo decennio del Trecento si configurava come possibile riformatore della Chiesa. Un gruppo di lettori privilegiato in possesso della Lectura super Apocalipsim, subito diffusasi in Italia dopo la morte del suo autore (1298), avrebbe potuto leggerla, parafrasata e aggiornata in senso aristotelico e imperiale, nei versi in volgare. Questi riformatori e predicatori avrebbero trovato nella Commedia un viaggio per exempla e uno speculum clericorum. Se, poi, grazie alla Commedia Dante fosse tornato a Firenze per esservi incoronato poeta “con altra voce omai, con altro vello”, quanti fra essi non l’avrebbero citata dai pergami cittadini?
Quale parte, dunque, della dottrina contenuta nella Lectura dell’Olivi sarebbe venuta alla mente di uno Spirituale che nel tardo secondo decennio del Trecento avrebbe potuto leggere nel “poema sacro” le parole di Cunizza da Romano e dal contesto semantico essere ricondotto alla visione della storia contenuta nella Lectura super Apocalipsim di Pietro di Giovanni Olivi? Seguiamo la sua esegesi in luoghi importanti. Ricordiamo prima una delle norme che regolano il rapporto fra i due testi: un medesimo luogo della Lectura conduce, tramite la compresenza delle parole, a più luoghi della Commedia. Ciò significa che la medesima esegesi di un passo del commento scritturale è stata utilizzata, quasi cerniera semantica, in momenti diversi della stesura del poema. Un corollario a questa norma è che più luoghi della Lectura possono essere collazionati tra loro. La scelta non è arbitraria. Vi predispone lo stesso testo scritturale, poiché l’Apocalisse contiene espressioni, come Leitmotive, che ritornano più volte. È determinata da parole-chiave che collegano i passi da collazionare. È suggerita dallo stesso Olivi per una migliore intelligenza del significato del testo. La “mutua collatio” di parti della Lectura arricchisce il significato legato alle parole e consente uno sviluppo tematico dell’esegesi.
Ad Apocalisse [= Ap] 22, 16, quasi a conclusione del libro, Cristo si definisce “stella splendida”, illuminatrice dei santi, e “matutina”, che promette, predica e mostra la luce futura dell’eterno giorno. È stella in quanto fu uomo mortale e sole in quanto Dio. Prima ancora, si definisce “radice e stirpe di David”, il che comporta un confronto con altro e più importante passo, ad Ap 5, 5.
Nel quinto capitolo, un angelo forte chiede a gran voce chi sia degno di aprire il libro e di scioglierne i sette sigilli (Ap 5, 2). Segue il gemito e il pianto di Giovanni, a nome di tutti coloro che sospirano l’apertura del libro ma constatano che nessuno è in grado di aprirlo e di leggerlo (Ap 5, 4). Uno dei vegliardi dice a Giovanni di non piangere più, perché ha vinto il leone della tribù di Giuda, la radice di David (Ap 5, 5). È Cristo, nato dalla tribù di Giuda, che aprirà il libro risorgendo possente e invincibile come un leone verso la preda. Egli nascerà dalla radice di David in quanto radice di tutta la vita spirituale precedente e successiva, sia dei fedeli venuti dopo di lui, sia dei santi padri che precedettero. Come tutti i rami di un albero procedono dalla radice e in essa trovano solidità, così tutto l’albero dei santi padri del Vecchio e del Nuovo Testamento procede da Cristo e da lui prende vigore. Viene fatto riferimento a David, piuttosto che ad altri santi padri, sia perché fu l’istitutore del regno e del culto divino, sia per mostrare che Cristo ha dignità regale e potere sui presenti e sui futuri, sia perché a David fu singolarmente promesso che Cristo sarebbe nato dalla sua stirpe e avrebbe compiuto la costruzione del tempio e del regno e del culto di Dio, sia perché la chiave di David, cioè il giubilo della salmodia spirituale, è quella che apre il libro (cfr. Ap 3, 7).
Dante aveva ben presente il valore dell’espressione “radice di David”. Di questa parla nel Convivio (IV, v, 5-6), per dimostrare che il disegno divino di inviare un “celestiale rege” da una progenie purissima – quella di Iesse padre di David, secondo la profezia di Isaia 11, 1 – dalla quale nascesse Maria, “la baldezza e l’onore dell’umana generazione”, coincise con l’altro disegno, la divina elezione dell’impero romano: David nacque infatti nello stesso tempo in cui nacque Roma, cioè in cui Enea venne da Troia in Italia.
Cunizza (Par. IX, 25-33) racconta di sé con i motivi della radice di David, del vecchio e del nuovo (Ap 5, 5; 22, 16). Sorella di Ezzelino da Romano – di “una facella / che fece a la contrada un grande assalto” – è una con lui nello stipite: “D’una radice nacqui e io ed ella”. Il forte contrasto tra il feroce tiranno punito nel Flegetonte che bolle di sangue (Inf. XII, 109-110) e la sorella vinta in terra dall’inclinazione amorosa, per influsso di Venere, stella dove ora rifulge, sembra accennare ai due Testamenti, il Vecchio e il Nuovo, che hanno entrambi una sola radice in Cristo.
Il tema della radice di David (Ap 5, 5; 22, 16), per cui Cristo, nato dalla tribù di Giuda, aprirà il libro segnato da sette sigilli risorgendo possente e invincibile come un leone verso la preda, radice di David in quanto stipite di tutta la vita spirituale a lui precedente e successiva, è già risuonato alto nell’incontro fra Virgilio e Sordello. L’anima del trovatore, altera e disdegnosa, se ne sta sola soletta “solo sguardando / a guisa di leon quando si posa” (Purg. VI, 64-66). Il ‘posarsi’ deriva da Ap 21, 16 (la misura della città celeste, nella settima visione) e indica in senso paolino (1 Cor 9, 24) lo stare trionfale (elemento che collega questo passo ad Ap 5, 5) di chi, dopo aver corso nello stadio, ha ottenuto il premio corrispondente al merito: Sordello è ormai già spirito eletto, sicuro di arrivare a vedere l’alto Sole [4]. Al suo opposto, al termine dell’invettiva contro la “serva Italia”, sta la dolorosa Firenze, “quella inferma / che non può trovar posa in su le piume” (ibid., 148-151). A Virgilio che lo interroga sulla migliore via per salire la montagna, Sordello non risponde ma a sua volta interroga “di nostro paese e de la vita”. Al nome “Mantüa …” pronunciato da Virgilio, Sordello “surse ver’ lui”: il leone, prima posato, risorge all’udire che da una sola radice nacque lui e il suo concittadino. Una è la vita spirituale che unisce l’antico poeta e il nuovo, per cui “e l’un l’altro abbracciava” (ibid., 67-75).
Variazione negativa del tema è nelle parole di Ugo Capeto, “radice”, suo malgrado, “de la mala pianta … per cui novellamente è Francia retta”, dopo il venir meno de “li regi antichi … / tutti, fuor ch’un renduto in panni bigi” (Purg. XX, 43-54). Parole che intervengono poco dopo l’invocazione del poeta al cielo affinché venga il Veltro, per cui l’antica, maledetta lupa disceda (ibid., 13-15).
I motivi connessi alla ‘radice di David’, di Cristo risorgente stipite della vita sia dei fedeli che vennero dopo come dei santi padri che precedettero, è cantato, ancora, dalle due corone degli spiriti sapienti nel cielo del Sole, pronte a dire “Amme!” dopo il discorso di Salomone, mostrando così il desiderio di ricongiungersi coi loro corpi morti, “forse non pur per lor, ma per le mamme, / per li padri e per li altri che fuor cari / anzi che fosser sempiterne fiamme”: versi in cui il motivo del desiderio (che ad Ap 5, 4 è per l’apertura del libro) è accostato a quello della resurrezione e a quello degli antichi padri (Par. XIV, 61-66). Nel cielo seguente, Cacciaguida si definisce “radice” di Dante (Par. XV, 88-90). Beatrice nell’Eden siede “sotto la fronda / nova … in su la sua radice”, cioè è Cristo radice dell’albero rinnovato nel sesto stato della Chiesa (Purg. XXXII, 85-87).
Virgilio e Sordello, Ezzelino da Romano e Cunizza: figure storiche inserite, a diverso titolo, in un medesimo processo storico figurale che va, per apocalittici segni, dall’antico al nuovo. E non è certo casuale che la ‘nuova’ Cunizza avesse avuto fama di essere stata in vita l’amante del ‘nuovo’ Sordello.
[Ap 5, 5; radix IIe visionis] Deinde subditur consolatoria promissio: “Et unus de senioribus dixit michi: Ne fleveris: ecce vicit”, id est victoriose promeruit et etiam per triumphalem potentiam prevaluit, “leo de tribu Iuda”, id est Christus de tribu Iuda natus ac invincibilis et prepotens et ad predam potenter resurgens sicut leo.
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Purg. VI, 64-75, 148-151Ella non ci dicëa alcuna cosa,
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Par. IX, 25-33In quella parte de la terra prava
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[Ap 5, 5; radix IIe visionis] Deinde subditur consolatoria promissio: “Et unus de senioribus dixit michi: Ne fleveris: ecce vicit”, id est victoriose promeruit et etiam per triumphalem potentiam prevaluit, “leo de tribu Iuda”, id est Christus de tribu Iuda natus ac invincibilis et prepotens et ad predam potenter resurgens sicut leo. |
[Ap 21, 16; VIIa visio] “Et mensus est civitatem Dei cum arundine per stadia duodecim milia”. Stadium est spatium in cuius termino statur vel pro respirando pausatur, et per quod curritur ut bravium acquiratur, secundum illud Apostoli prima ad Corinthios, capitulo IX°: “Nescitis quod hii, qui in stadio currunt, omnes quidem currunt, sed unus accipit bravium?” (1 Cor 9, 24), et ideo significat iter meriti triumphaliter obtinentis premium. Cui et congruit quod stadium est octava pars miliarii, unde designat octavam resurrectionis. |
Cunizza, dicendo “d’una radice nacqui e io ed ella”, non solo smentisce la fama della nascita demoniaca del fratello Ezzelino; afferma pure che il nuovo è subentrato al vecchio. Non solo smentisce l’Ecerinis, ma la integra. Nella mente di Dante era dunque presente una precisa risposta a Mussato.
Olivi, ad Ap 13, 11, aveva escluso che l’Anticristo fosse un figlio del diavolo, da costui guidato fin nel ventre materno. Questo perché Dio volle lasciargli libera volontà; sarà infatti, come Lucifero da quello angelico, apostata da uno stato altissimo di religione. Quando, a Par. XII, 58-60, Bonaventura tesse l’elogio di san Domenico, usa fra l’altro – come in parte già fatto da Tommaso d’Aquino per san Francesco – il canovaccio dell’esegesi dell’angelo forte, vestito di nube, che discende dal cielo col volto solare (Ap 10, 1-3). Parlando del “santo atleta” la cui mente “fu repleta sì … di viva vertute”, infusa da Dio al momento della creazione, per cui la madre sua fu resa profeta del futuro del figlio, il maestro dell’Olivi fa risuonare (non unico caso nel poema di metamorfosi in bonam partem di temi negativi nell’esegesi scritturale), i motivi da Ap 13, 11, offerti dalla questione se l’Anticristo verrà o meno guidato dal diavolo fin dal ventre materno.
[Ap 10, 1-3; IIIa visio, VIa tuba] “(Ap 10, 1) Et vidi alium angelum fortem, descendentem de celo, amictum nube, et iris in capite eius, et facies eius erat ut sol, et pedes eius tamquam columpna ignis, (Ap 10, 2) et habebat in manu sua libellum apertum, et posuit pedem suum dextrum supra mare, sinistrum vero super terram, (Ap 10, 3) et clamavit voce magna, quemadmodum leo rugit”. […] Ioachim dicit hic: «Quicumque erit iste predicator veritatis, “fortis” esse describitur, quia robustus erit in fide; et “de celo” descendet, id est de vita contemplativa ad activam; et “amictus” erit “nube”, quia indutus erit scriptura prophetarum; et “irim in capite”, quia Spiritum Sanctum et misticum seu spiritalem intellectum scripturarum habebit in mente. Sicut enim archus celestis apparet iunctus nubibus celi, sic scripturis prophetarum iungendus est misticus intellectus ad adversarios convincendos». […] Ipse enim fuit singulariter “fortis” in omni virtute et opere Dei (Ap 10, 1), et per summam humilitatem et recognitionem prime originis omnis nature et gratie semper “descendens de celo”, et per aeream et per subtilem seu spiritualem levitatem ab omni pondere terrenorum excussam fuit “amictus nube”, id est altissima paupertate aquis celestibus plena, id est suprema possessione et imbibitione celestium divitiarum. |
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[Ap 13, 11; IVa visio, VIum prelium] Quod autem quidam opinati sunt et scripserunt, istum (Antichristum) ab infantia et ab utero matris esse a diabolo educandum et edocendum et quasi a diabolo esse ab initio replendum et habitandum, et quod Deus hoc permittet tamquam prescius sue future malitie, non videtur quibusdam esse verisimile.
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Par. XII, 58-60e come fu creata, fu repleta
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Ciò non toglie che la condanna di Ezzelino, imposta dalla giustizia divina, rimanga. Chiuso nella sua durezza lapidea e ferrea, aspra a dirsi, l’Inferno è davvero l’Antico Testamento, articolato nelle prime cinque età del mondo. Il volgersi di Virgilio sull’anca di Lucifero segna il passaggio alla sesta età, la quale è il tempo della Chiesa, rivissuto nel moderno viaggio di Dante che va verso il sesto stato, il novum saeculum che tanto s’aspetta. Ciò non sminuisce affatto la credenza nelle pene dell’inferno o del purgatorio. Il sentimento storico di speranza del nuovo, che Gioacchino da Fiore aveva scorto nell’Apocalisse e che Olivi aveva ricondotto allo Spirito di Cristo operante nella storia attraverso i suoi moderni discepoli, si accompagna in Dante a una ferma positività della legge e della morale. La misericordia divina ha salvato Manfredi dai suoi orribili peccati nonostante la maledizione del pastore, ma lo svevo, morto “in contumacia … di Santa Chiesa”, deve attendere fuori della “porta di san Pietro”. L’inferno non è un simbolo, ciò che per De Sanctis “misura la distanza tra il decimoquarto e il decimonono secolo”; la compassione per la sofferenza non è romanticamente illimitata e deve cedere di fronte al giudizio divino. L’angoscia per il dolore diventa la prova suprema, il terribile martirio insinuato dal dubbio che perde anche gli animi più esperti.
Un lettore spirituale della Commedia, arrivato all’altezza di Cunizza, era già ben allenato, attraverso una mnemotecnica per signacula contenuti nella lettera dei versi, a riconoscere un viaggio nella storia per status. Aveva già visto il fero Ezzelino collocato all’inferno, in una delle cinque zone della prima cantica dedicate al secondo stato della storia della Chiesa, quello dei martiri (Inf. XII; le altre sono Inf. V, XVIII, XXVII, XXXIII: per il principio della “concurrentia” fra gli stati, esposto nel notabile X del prologo della Lectura, le zone semanticamente dedicate a uno stato non coincidono esattamente con un canto, ma si intrecciano nel principio e nella fine: l’ordine spirituale spezza quello letterale). Cinque zone come i cinque stati della storia umana prima della venuta di Cristo, che corrispondono all’Antico Testamento. Antico, si direbbe, che riassume e divora quanto c’è di vecchio nel Nuovo, perché gli stati considerati, pur con la loro prefigurazione veterotestamentaria, sono quelli della storia della Chiesa che corrono verso il sesto (il tempo di Olivi e Dante), il punto sui cui ridonda tutta la malizia e l’illuminazione precedente. Qui di seguito sono esposti solo alcuni dei temi (parole-segni) che avrebbero dovuto indirizzare la memoria del lettore verso la dottrina del secondo stato; per il resto si rinvia alla Topografia spirituale della Commedia (Inf. XII) o ai luoghi dei saggi collocati su questo sito dove quanto contenuto nelle tabelle sinottiche è stato discusso.
● Inf. XII, 107-108: quivi è Alessandro, e Dïonisio fero / che fé Cicilia aver dolorosi anni. Al nome “Cicilia”, il lettore dei sensi mistici avrebbe sì pensato all’isola martire per il tiranno Dionigi il Vecchio, ma come antica prefigurazione della santa Cecilia martirizzata (232) sotto l’imperatore Alessandro Severo, coincidente nel nome con altro più celebre Alessandro (Magno), anch’egli bollito “sotto infino al ciglio” nel Flegetonte sanguigno. I due versi avrebbero indirizzato la memoria del lettore al notabile X del prologo della Lectura. Il nome significante della “bella Trinacria” ritorna in altro luogo, nella similitudine delle “parole grame” di Guido da Montefeltro, che non hanno via d’uscita dalla fiamma che le fascia, con il muggire del “bue cicilian”, cioè del toro arroventato, per le grida di coloro che vi erano rinchiusi, costruito da Perillo per Falaride, tiranno di Agrigento (Inf. XXVII, 7-15). Come i violenti contro il prossimo descritti in Inf. XII, così i consiglieri di frode latini dell’ottava bolgia, trattati in Inf. XXVII, si collocano in una zona dove prevalgono i temi del secondo stato [5]. Il secondo stato, dei martiri, è assimilato al bue paziente e tollerante nella sofferenza (prologo, notabile I; Ap 4, 6), di qui l’espressione “bue cicilian”. Da notare la simmetria tra i “dolorosi anni” fatti avere alla Sicilia dai suoi tiranni e il bue che “con tutto che fosse di rame, / pur el pareva dal dolor trafitto”. Ancora, i nominati (Guido di Montfort lo è con una perifrasi) in Inf. XII fra i violenti contro il prossimo sono dieci, per far segno delle dieci persecuzioni generali ricordate nell’esegesi della seconda chiesa (Ap 2, 10: “Et habebitis tribulationem diebus decem”; a questo luoghi rinviano anche i ‘dieci passi’ di Inf. XVII, 32; Purg. XXIX, 81; XXXIII, 17; nonché i dieci demoni della quinta bolgia).
La storia di Roma è la manifestazione dei segni di Dio nella storia umana, che attuano in terra la sua volontà, una con quella del cielo e con quella di Roma stessa: “divina voluntas per signa querenda est” (Monarchia II, ii, 8). Questi segni hanno un andamento settenario, quello proprio dei sette stati della Chiesa, per cui quanto anticamente avvenuto prima di Cristo si mostra come ordinata e progressiva prefigurazione della nuova storia, che è insieme della Chiesa e dell’Impero. I versi con cui, in Par. VI, il “sacrosanto segno” dell’aquila parla per bocca di Giustiniano sono articolati secondo i sette stati [6]. La seconda guerra venne condotta contro l’idolatria delle altre nazioni, affinché Cristo, affermatosi come signore e redentore, fosse portato in tutto il mondo. L’aquila ebbe sede ad Albalonga “per trecento anni e oltre”, fino al combattimento degli Orazi e Curiazi: “infino al fine / che i tre a’ tre pugnar per lui ancora” (Par. VI, 37-39). “Alba”, cioè Albalonga, allude al colore bianco di Cristo, che nella prima guerra “in equo albo … exivit vincens ut vinceret” (Ap 6, 2); trecento anni durò la seconda guerra, dei martiri “pro fide Trinitatis” contro il paganesimo (prologo, notabile XII). Poi, nel periodo dei sette re, l’aquila sottomise “le genti vicine”, dal ratto delle Sabine al suicidio di Lucrezia, che causò la cacciata di Tarquinio il Superbo (Par. VI, 40-42). Combattere i “vicini” è un tema proprio dell’apertura del secondo sigillo (Ap 6, 4). Ancora, ai vv. 47-48, i nomi delle famiglie che caddero combattendo per la salvezza della repubblica – “i Deci e ’ Fabi” –, trovano singolare corrispondenza coi nomi dell’imperatore Decio e di papa Fabiano ricordati, insieme a santa Cecilia, nel notabile X del prologo ed entrambi, l’uno come carnefice l’altro come martire, appartenenti al periodo delle persecuzioni. Infine, il “volontier mirro” da parte dell’aquila, cioè l’onorare la fama con l’incenso che preserva dalla corruzione, corrisponde al significato del nome della seconda chiesa, Smirne (la chiesa dello stato dei martiri, ad Ap 2, 1), che viene interpretato appunto come “mirra”. Non sono estranei alla tematica Scipione e Pompeo, i quali “giovanetti trïunfaro” (Par. VI, 52-53): il secondo stato, quello dei martiri trionfatori, corrisponde alla “pueritia” nelle età dell’uomo (prologo, notabile III).
[Notabile I] Secundus (status) fuit probationis et confirmationis eiusdem (primitive ecclesie) per martiria, que potissime inflicta sunt a paganis in toto orbe. […] Secundus vero proprie cepit a persecutione ecclesie facta sub Nerone imperatore, quamvis alio modo cep[er]it a Stephani lapidatione vel etiam a Christi passione. […]
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[Ap 4, 6; radix IIe visionis] “Et in medio sedis et in circuitu sedis quattuor animalia” (Ap 4, 6). Per hec quattuor animalia anagogice designantur quattuor perfectiones Dei, quibus sustentant totam sedem ecclesie triumphantis et militantis, scilicet omnipotentia magnanimis et insuperabilis, quasi leo; et patientia seu sufferentia humilis omnium defectus quantum decet subportans et tolerans, quasi bos sub iugo vel curru; et prudentia rationalis omnia discrete et mansuete regens et moderans, quasi homo; et perspicacia altivola omniumque visiva et penetrativa et diiudicativa, quasi aquila.
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Inf. XXVII, 7-15Come ’ l bue cicilian che mugghiò prima
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Purg. XII, 1-3Di pari, come buoi che vanno a giogo,
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[Notabile XIII] Martiria vero, martires configurantia Christo passo et testimonium dantia Christo et fidei eius et virtutis exemplum relinquentia posteris, debuerunt esse multa et diuturna, tum propter maiorem gloriam Christi, tum propter maiorem confirmationem fidei, tum propter maiorem coronam maioremque societatem ipsorum martirum. Unde et a prima persecutione Neronis usque ad persecutionem Iuliani imperatoris et apostate et repulsam idolatriam renovantis fuerunt circiter trecenti anni. Et a passione Christi usque ad pacem christianis datam sub Constantino sunt quasi totidem anni. Qui numerus bene congruit statui martirum pro fide Trinitatis fructum martirii centenarium afferentium.
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[Notabile X] Unde et consimiliter tertius status doctorum seu expositorum inchoatus est sub secundo. Nam Clemens in Alexandria, doctor Origenis doctoris famosissimi, claruit cum ipso ante tempus Silvestri pape et Constantini imperatoris fere per centum annos. Dicitur enim in cronicis quod Origenes, auditor Clementis eiusque in docendi officio successor, claruit anno Domini CCIX° tempore Zepherini pape, ante scilicet sextam persecutionem martirum que cepit sub Maximiano imperatore anno Domini CCXXXVI°, et paulo ante sancta Cecilia fuerat martirizata sub Alexandro imperatore, quamvis et Origenes perduraverit usque ad Fabianum papam, qui sub sexta persecutione facta a Decio est martirizatus.
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Par. VI, 37-39, 43-48, 52-54Tu sai ch’el fece in Alba sua dimora
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Inf. XII, 107-108quivi è Alessandro, e Dïonisio fero
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[Notabile III] Item (zelus) est septiformis prout fertur contra quorundam ecclesie primitive fatuam infantiam (I), ac deinde contra pueritiam inexpertam (II), et tertio contra adolescentiam levem et in omnem ventum erroris agitatam (III), et quarto contra pertinaciam quasi in loco virilis et stabilis etatis se firmantem (IV), quinto contra senectutem remissam (V), sexto contra senium decrepitum ac frigidum [et] defluxum (VI), septimo contra mortis exitum desperatum et sui oblitum (VII).
[2, 1; IIa ecclesia] Secunda autem commendatur de passionibus et predicitur multa passura. Sic etiam fuit de secundo statu, scilicet martirum. Et quia martiria purgant, nec sinunt mentem tepescere vel torpescere, ideo ibi de nullo increpatur. Que et merito vocatur Smirna, id est amaritudo consumpta; interpretatur etiam mirra, que est amara et preservans a corruptione.
[Ap 2, 10; Ia visio, IIa ecclesia] “Et habebitis tribulationem diebus decem”. Hoc tempus secundum litteram predicit, ut ex precognita modicitate temporis consolentur et facilius ferant.
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Inf. XIIAlessandro, Dionisio, Azzolino,
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● Inf. XII, 110-112: e quell’ altro ch’è biondo, / è Opizzo da Esti, il qual per vero / fu spento dal figliastro sù nel mondo. In apertura del secondo sigillo (Ap 6, 4) a Giovanni appare un cavallo rosso (l’esercito dei pagani rosso per il sangue sparso dai martiri). A chi vi sta seduto sopra (l’imperatore romano o il diavolo) è concesso di togliere la pace dalla terra, perseguitando non solo gente estranea e lontana ma anche i propri parenti e vicini.
Il tema dell’uccisione dei parenti e dei “vicini” si ritrova appropriato a Obizzo II d’Este il quale, ucciso dal figliastro Azzo VIII (1293), sta insieme a Ezzelino da Romano immerso nel Flegetonte sanguigno tra i violenti contro il prossimo (Inf. XII, 110-112; di conseguenza, “Alessandro” sarà Alessandro Magno, del quale Dante poteva leggere in Orosio III, xvi, 3: “omnes cognatos ac proximos suos interfecit”). Nello stesso canto, tutto pervaso dai signacula del secondo stato, gli può essere accostato anche l’accenno ad Arianna, la sorella del Minotauro che ammaestrò Teseo su come portargli la morte (ibid., 19-20).
L’esegesi dell’apertura del secondo sigillo (Ap 6, 4) mostra ancora come un medesimo passo della Lectura possa costituire il nucleo tematico di più momenti della Commedia a prima vista del tutto indipendenti. Ad esempio, le parole “terra”, “pace” e il verbo ‘togliere’ (“che mi fu tolta – come suole esser tolto”) sono fili che formano parte del tessuto sia nel discorso di Francesca (Inf. V, 97-102) come in quello di Catalano, uno dei due frati ‘godenti’ bolognesi nella bolgia degli ipocriti (Inf. XXIII, 103-108). Se identiche sono le parole, la loro collocazione è del tutto diversa nei due distinti episodi. Il significato originario, il ‘togliere la pace dalla terra’ si mantiene in entrambi. A Francesca fu tolta la bella persona che fece innamorare Paolo, e quindi fu tolta la pace alla terra, Ravenna, che sembrava ristabilita con il matrimonio che aveva unito una da Polenta con un Malatesta, pace il cui tema viene espresso con il discendere verso il mare del Po. L’esegesi si riferisce ai Gentili, mai senza guerra, dai cuori fluttuanti come il mare. I due frati bolognesi Catalano dei Malavolti e Loderingo degli Andalò furono tolti (nel senso di presi, eletti; in realtà inviati da Clemente IV dopo la sconfitta di Manfredi a Benevento) come podestà dalla terra fiorentina nel 1266 per conservare la sua pace, ma si comportarono in modo che gli effetti del loro operato sono ancor visibili presso il Gardingo, dove erano le case degli Uberti distrutte a seguito della rivolta popolare scoppiata dopo il loro governo e da essi preparata permettendo la cacciata di Guido Novello. Si può notare che i due passi presentano altre simmetrie (prese costui e insieme presi, ’l modo ancor m’offende e ch’ancor si pare). L’episodio di Paolo e Francesca, inoltre, a differenza di quello di Catalano e Loderingo, si inquadra principalmente nel secondo stato, quello dei martiri. Dall’apertura del secondo sigillo proviene il tema dell’uccisione dei propri parenti e vicini da parte dei persecutori (la Caina che “attende chi a vita ci spense”, Inf. V, 107), come pure quello dell’effusione del sangue (“noi che tignemmo il mondo di sanguigno”, ibid., 90). Star seduto sul sangue (cfr. Francesca: “Siede la terra …”) è nelle parole di Iacopo del Cassero, fatto uccidere nel 1298 da Azzo VIII d’Este, il parricida di Obizzo II, compagno di pena di Ezzelino da Romano (Purg. V, 73-78). Le parole iniziali di Cunizza – “In quella parte de la terra prava / italica che siede tra Rïalto / e le fontane di Brenta e di Piava” (Par. IX, 25-28) – non alludono solo al Trentino e al Cadore, ma anche a una terra alla quale è stata tolta la pace.
È interessante notare la variante vicino che il codice riccardiano 1005 (Rb nell’edizione del Petrocchi) recava (la variante è stata poi corretta a margine in nimico) a Inf. XXVII, 88, riferito a Bonifacio VIII, “lo principe d’i novi Farisei”, il quale nella lotta contro i Colonna muove guerra non contro Saraceni o Giudei, “ché ciascun suo nimico era cristiano”: variante che il Petrocchi ritiene originata dall’espressione “presso a Laterano”, ma che, essendo il contesto pregno di temi del secondo stato, potrebbe fare riferimento alla persecuzione operata non verso estranei, ma nei confronti di parenti e di vicini, come per il papa sono i propri correligionari.
Il conte Ugolino è “vicino” all’arcivescovo Ruggieri, del quale si era fidato (Inf. XXXIII, 15). Al termine del canto, Frate Alberigo racconta del genovese Branca Doria, che lasciò un diavolo in sua vece nel proprio corpo, ancora vivo su in terra, insieme ad “un suo prossimano”, cioè ad un suo parente che l’aiutò (ca. 1294) nel tradimento verso il suocero Michele Zanche di Logudoro (ibid., 142-147).
[Ap 6, 4; IIa visio, apertio IIi sigilli] Subdit ergo: “Et ecce alius”, id est ab equo albo valde diversus, “equus rufus”, id est exercitus paganorum effusione sanguinis sanctorum rubicundus. “Et qui sedebat super eum”, scilicet romanus imperator vel diabolus, “datum est ei ut sumeret”, id est ut auferret, “pacem de terra”, id est a Deo permissum est ut persequeretur fideles; “et ut invicem se interficiant”, id est ut pagani interficerent corpora fidelium et etiam quorundam fidem, sancti vero interficerent infidelitatem et pravam vitam plurium paganorum, convertendo scilicet eos ad Christum. Vel, secundum Ricardum, “ut invicem se interficiant”, id est ut ipsi persecutores non solum interficiant alienos et remotos, sed etiam suos parentes et notos et domesticos et vicinos.[Ap 2, 10; Ia visio, IIa ecclesia] “Nichil horum timeas que passurus es” (Ap 2, 10), quasi dicat: passurus quidem es multa, sed non oportet te timere illa, tum quia ego tecum semper ero et protegam, tum quia non sunt ad tuum dampnum, sed potius ad probationem et ad amplius meritum et ad maioris corone triumphum et premium, quia vero iacula que previdentur minus feriunt, et previa preparatio et animatio sui ad illa constanter toleranda multum confert.
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Inf. V, 97-102, 107Siede la terra dove nata fui
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Inf. XII, 19-21, 109-112Pàrtiti, bestia, ché questi non vene
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Inf. XXVII, 85-88
Lo principe d’i novi Farisei,
avendo guerra presso a Laterano,
e non con Saracin né con Giudei,
ché ciascun suo nimico era cristiano
vicino [Petrocchi, Rb]
Par. XIV, 94-95
ché con tanto lucore e tanto robbi
m’apparvero splendor dentro a due raggi
Purg. XI, 67-69, 139-141
Io sono Omberto; e non pur a me danno
superbia fa, ché tutti miei consorti
ha ella tratti seco nel malanno.
Più non dirò, e scuro so che parlo;
ma poco tempo andrà, che ’ tuoi vicini
faranno sì che tu potrai chiosarlo.
Inf. XXIII, 103-108
Frati godenti fummo, e bolognesi;
o Catalano e questi Loderingo
nomati, e da tua terra insieme presi
come suole esser tolto un uom solingo,
per conservar sua pace; e fummo tali,
ch’ancor si pare intorno dal Gardingo.
Par. IX, 25-27
In quella parte de la terra prava
italica che siede tra Rïalto
e le fontane di Brenta e di Piava
Purg. V, 73-78
Quindi fu’ io; ma li profondi fóri
ond’ uscì ’l sangue in sul quale io sedea,
fatti mi fuoro in grembo a li Antenori,
là dov’ io più sicuro esser credea:
quel da Esti il fé far, che m’avea in ira
assai più là che dritto non volea.
Inf. XXXIII, 13-15, 145-147
Tu dei saper ch’i’ fui conte Ugolino,
e questi è l’arcivescovo Ruggieri:
or ti dirò perché i son tal vicino.
che questi lasciò il diavolo in sua vece
nel corpo suo, ed un suo prossimano
che ’l tradimento insieme con lui fece.
Purg. II, 7-9, 13-15
sì che le bianche e le vermiglie guance,
là dov’ i’ era, de la bella Aurora
per troppa etate divenivan rance.
Ed ecco, qual, sorpreso dal mattino,
per li grossi vapor Marte rosseggia
giù nel ponente sovra ’l suol marino
[Notabile VII] Rursus sicut omnis dies habet mane, meridiem et vesperam, sic et omnis status populi Dei in hac vita. Nam in eterna erit semper meridies absque nocte. Ergo tempus plenitudinis gentium sub Christo debuit ante conversionem alterius populi, scilicet iudaici, habere mane et meridiem et vesperam. Et sic quasi iam vidimus esse completum et a Iohanne in hoc libro descriptum. Nam eius mane commixtum tenebris idolatrie fuit ab initio conversionis gentium usque ad Constantinum.
[Dettagli in: L’agone del dubbio ovvero il martirio moderno (Francesca e la «Donna Gentile»), cap. 7 (Gentilezza, Gentilità, affanni, cortesia), cap. 7, tab. XXXIII, XXXIV-1]
● Par. IX, 29-30: là onde scese già una facella / che fece a la contrada un grande assalto. Il lettore accorto, sollecitato nella memoria verso i sensi più profondi del libro, si sarebbe ricordato dell’esegesi di Ap 8, 10, cioè della terza visione, terza tromba. L’ordine dei dottori del terzo stato (che subentra al secondo, proprio dei martiri), cui il suonare la tromba spetta per antonomasia, predicò e insegnò nel mondo già convertito dopo la pace di Costantino. Quanto male ne seguitò viene mostrato con queste parole: “e cadde dal cielo una grande stella, ardente come una fiaccola, e colpì la terza parte dei fiumi e le fonti delle acque”. Come con la “terra” viene indicato il luogo dei fedeli e con il “mare” il luogo degli infedeli o dei Gentili, così con le “fonti” e i “fiumi”, che irrigano la terra e offrono il dolce bere agli uomini e alle bestie, vengono indicati la sacra dottrina e i dottori che la espongono. E in effetti Pietro di Dante riporta una tradizione popolare per cui la madre del crudele tiranno sognò di partorire una fiaccola ardente che incendiava tutta la Marca Trevigiana. Ma cosa aveva a che fare Ezzelino da Romano con i dottori e la corretta esposizione della Scrittura? Per rispondere bisogna ricordare sommariamente la tematica del terzo stato.
Segnato dal primato dell’intelletto sui sensi, realizzazione dell’uomo razionale, il terzo stato è il luogo della discrezione e dell’esperienza, al cui regime soggiace il falso e nebuloso immaginare; il luogo del sapere (la “cura sciendi”) che è “de veris et de utilibus, seu de prudentia regitiva actionum et de scientia speculativa divinorum”; è il depositario della lingua vera e della vera fede, della scrittura che non erra, della giusta misura contro ciò che è oscuro e intorto, della bilancia che rettamente pesa la divinità del Figlio di Dio contro gli Ariani che non la ritenevano somma, coeguale e consustanziale a quella del Padre; i suoi dottori (il terzo stato è assimilato al sacramento del sacerdozio) sono perfettamente illuminati nella sapienza; sono maestri del senso morale, “mores hominum rationabiliter et modeste componens”, assimilato al ‘vino’ con il quale ardono contro i vizi e accendono all’amore delle virtù; è il tempo delle leggi e della spada che scinde le eresie, dell’autonomia della potestà temporale, una delle due ali della grande aquila date alla donna (la Chiesa) per vincere il drago nella terza e quarta guerra (Ap 12, 14): contiene insomma tutti gli elementi che Dante ritiene utili per conseguire la felicità su questa terra. Il terzo dei quattro animali che circondano la sede divina ad Ap 4, 6-8, quello che ha la faccia quasi di uomo, designa il senso morale, ma anche la ragione, l’impero, le leggi: “Tertium rationale et imperiosum seu legislativum”. Dei due fini proposti all’uomo dalla Provvidenza dei quali si tratta nella Monarchia, la beatitudine di questa vita e la beatitudine della vita eterna (III, xv, 7-10), il primo corrisponde alle realizzazioni del terzo stato della Chiesa secondo l’Olivi. A questo fine, al quale presiede l’Imperatore, si giunge attraverso la filosofia, seguendola nell’operare secondo le virtù morali e intellettuali: essa è speculare, nel rapporto instaurato tra la Lectura e la Commedia, al lume dei dottori che reggono con la ragione. All’altro fine, la beatitudine della vita eterna che spetta al papa, si perviene attraverso gli insegnamenti spirituali che trascendono la ragione umana, seguendoli nell’operare secondo le virtù teologali: a questi corrisponde la santa vita e la “pascualis refectio”, il “pastus” degli anacoreti, cui è appropriato lo stato successivo, il quarto, corrispondente all’altra ala della grande aquila data alla donna. “Spada” e “pasturale”, come terzo stato (dottori) e quarto (anacoreti), possono concorrere a illuminare come soli l’orbe, ma non identificarsi. Nei celebri versi di Purg. XVI, 106-114, relativi ai “due soli” di Roma, il periodo storico rimpianto da Marco Lombardo, in cui il “pasturale” (il potere spirituale) non aveva spento e congiunto a sé la “spada” (il potere temporale), corrisponde alla concorrenza nel tempo di due stati distinti, il terzo (i dottori, che razionalmente confutano le eresie con la spada e danno le leggi) e il quarto (gli anacoreti, dalla santa e divina vita fondata sull’affetto), nel periodo in cui (da Costantino a Giustiniano) entrambi erano due stati di sapienza solare e concorrevano per due diverse strade ad infiammare il meriggio dell’universo, prima che nel quinto stato i beni temporali invadessero la Chiesa trasformandola quasi in una nuova Babilonia. Quell’improprio congiungere da parte del potere spirituale è eresia assimilabile a quella di Ario, che divise il Figlio dal Padre ritenendolo non consustanziale, a livello di creatura, o, ancor meglio, a quella di Sabellio, che unificò il Padre e il Figlio nella stessa persona.
I dottori sono già nell’esegesi dell’Olivi (che riguarda la storia della Chiesa) anche reggitori, e Dante non esita ad appropriarne le prerogative a quanti ebbero responsabilità di governo. La stella che cade dal cielo al suono della terza tromba, ardente come una fiaccola (Ap 8, 10), è nell’esegesi oliviana un “magnus doctor” che si fece maestro dell’errore (come Origene, Ario o Sabellio). Per Dante Ezzelino, che avrebbe potuto incarnare un modello di monarca, di buona signoria, ha disviato cadendo nell’errore e trascinandovi molti. L’acqua dei fiumi e delle fonti si è crudamente fatta sangue (Ap 16, 4: quinta visione, terza coppa). Il motivo dei fiumi (e delle fonti) percorre non a caso tutto Par. IX: “In quella parte de la terra prava / italica che siede tra Rïalto / e le fontane di Brenta e di Piava” (il Trentino e il Cadore, vv. 25-27); “E ciò non pensa la turba presente / che Tagliamento e Adice richiude” (la Marca Trevigiana, vv. 43-44); “l’acqua che Vincenza bagna” (il Bacchiglione, v. 47); “e dove Sile e Cagnan s’accompagna” (Treviso, v. 49); “Di quella valle fu’ io litorano / tra Ebro e Macra”, dice Folchetto da Marsiglia che subentra a Cunizza (vv. 88-89). Se i fiumi che irrigano la terra designano i dottori che propinano il dolce bere della sacra pagina (Ap 8, 10-11), il contrario avviene con la dottrina eretica. Per questo, nella quinta visione apocalittica, il terzo angelo versa la coppa sopra i fiumi e sopra le fonti delle acque (Ap 16, 4), cioè sopra la dottrina erronea degli eretici, da essi bevuta come dolce acqua e agli altri propinata. “E fu fatto sangue”, cioè la dottrina eretica si palesò mortifera, crudele e abominevole. Il tema dell’acqua che si fa mortifera, crudele e sanguigna si può ritrovare nella prima delle profezie di Cunizza (Par. IX, 43-48), relativa al mutarsi dell’acqua del Bacchiglione nel sangue dei Padovani, gente “cruda” al dovere, dopo la sconfitta subita nel 1314 dai guelfi ad opera dei ghibellini vicentini alleati con Cangrande della Scala.
Anche il “nero”, che tanto contraddistingue il “pel” della “fronte” di Ezzelino (Inf. XII, 109) rientra nella tematica, assai diffusa nel poema, aggregata attorno al cavallo nero che appare all’apertura del terzo sigillo (Ap 6, 5), che designa l’errata interpretazione della Scrittura da parte dell’esercito degli eretici, oscuro per fallace astuzia e fatto nero per gli errori contrari alla luce di Cristo [7].
[Ap 8, 10; IIIa visio, IIIa tuba] “Et tertius angelus” (Ap 8, 10), id est ordo doctorum tertii status cui anthonomasice appropriatur nomen doctorum, “tuba cecinit”, id est predicavit et docuit in orbe iam ad Christum converso a Constantino et ultra.
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Inf. XIX, 5-6, 115-117or convien che per voi suoni la tromba,
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Par. VIII, 64-66Fulgeami già in fronte la corona
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[Dettagli in: Il terzo stato, tab. III.1]
● Par. IX, 25-26: In quella parte de la terra prava / italica … Le parole di Cunizza avrebbero mosso la mente del lettore spirituale verso Ap 11, 18, dove si parla dell’arrivo del tempo di “sterminare quanti hanno corrotto la terra”: “Videtur enim terra et totus orbis fedari et corrumpi a pravis habitatoribus et precipue a pessimis qualis erit Antichristus et sui maiores”. Il modo di procedere tipico dello spirito profetico, che dal proprio particolare si allarga all’universale (modo che fu di Isaia, Ezechiele e di Cristo : cfr. Ap 13, 1), lo avrebbe fatto passare dalla “prava terra italica” all’universale pravità.
Inf. III, 88-89, 121-123E tu che se’ costì, anima viva,
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[Ap 11, 18; IIIa visio, VIIa tuba] “Et irate sunt gentes” (Ap 11, 18), id est et gratias tibi agimus de hoc, quod ita gloriose regnasti in tuis sanctis et super tuos hostes quod inde irati et perturbati sunt hostes. “Et advenit ira tua”, id est effectus tue iudiciarie ire seu tue iuste vindicte in reprobos.
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[Dettagli in: Il sesto sigillo, cap. 2d.1, tab. XVI bis2]
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[Ap 13, 1; IVa visio, Vum prelium] Tertio nota quod mos est scripture prophetice, dum de uno speciali agit sub quo spiritus propheticus invenit locum idoneum ad exeundum et dilatandum se, a specialibus ad generalia ascendere et expandi ad illa, iuxta quod Isaias, loquendo de Babilone et eius rege, dilatat se ad loquendum contra totum orbem Babiloni similem et contra Luciferum regem omnium superborum et malorum quasi regem magne Babilonis (cfr. Is 14, 12-21). Sic etiam Ezechiel, loquendo contra Tirum, diffundit se ad totum orbem et ad supremum Cherub de medio lapidum ignitorum, id est sanctorum angelorum, deiectum (Ez 28, 14-19). Sic etiam Christus Matthei XXIII° (Mt 23, 35-36) ascribit omnia mala totius generationis omnium reproborum generationi male Iudeorum sui temporis, tamquam a particulari ascendens ad generale et tamquam universale reducens ad suum particulare, cum ait quod omnis sanguis iustorum impie effusus a sanguine Abel iusti usque ad sanguinem Zacharie veniet super generationem istam. Sic ergo in proposito, occasione bestie sarracenice, dilatatur spiritus propheticus ad totam bestialem catervam omnium reproborum, que ab initio mundi usque ad finem pugnat contra corpus seu ecclesiam electorum et per septem etates seculi habet capita septem; specialiter tamen a Christo usque ad finem mundi per septem ecclesiastica tempora habet septem principalia capita contra septem ecclesie spiritales status et exercitus.Inf. I, 1-2Nel mezzo del cammin di nostra vita
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Inf. XXVI, 1-3Godi, Fiorenza, poi che se’ sì grande,
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[Dettagli in: Dante all’«alta guerra» tra latino e volgare, cap. 2.10, tab. XIX]
Il lettore spirituale, pervenuto ai canti di Cacciaguida, avrebbe ritrovato in quanto detto di Cangrande – tanto combattuto da Mussato quasi un nuovo Ezzelino – le qualità proprie dell’angelo della sesta tromba, dalla faccia solare, che Olivi assegna a Francesco e che Dante (dopo averle applicate anch’egli a Francesco in Par. XI, mischiate con altri motivi) riversa sul signore scaligero. Nel momento in cui Cacciaguida dice di Cangrande “cose / incredibili a quei che fier presente”, che Dante non deve rivelare (Par. XVII, 91-93), quel lettore sarebbe andato alla straordinaria esegesi di Ap 10, 4-7, eccezionale anche per la presenza dei suoi signacula nel “poema sacro” e in particolare nell’uso del verbo ‘giurare’ e nei due celebri appelli al lettore di Inf. IX, 61-63 e di Purg. VIII, 19-21. Al suono della sesta tromba – nel pieno del rinnovamento recato dal sesto stato della Chiesa, il “novum saeculum” tanto atteso -, l’angelo dal volto solare giura: “Allora l’angelo che avevo visto stare con un piede sul mare e con un piede sulla terra, levò la sua mano verso il cielo e giurò per Colui che vive nei secoli dei secoli, che ha creato cielo, terra, mare, e quanto è in essi, che non ci sarà più tempo e che nei giorni in cui il settimo angelo farà udire la sua voce e comincerà a suonare la tromba, allora si compirà il mistero di Dio come egli ha annunziato per mezzo dei suoi servi, i profeti”. A Giovanni, poco prima, è stato ingiunto di tacere i sensi spirituali dei sette tuoni (“signa que locuta sunt septem tonitrua et noli ea scribere”; cfr. Matteo 17, 9: “Nemini dixeritis visionem, donec Filius hominis a mortuis resurgat”), come a Daniele, nell’Antico Testamento, venne ingiunto di tacere (“Tu autem, Daniel, claude sermones et signa librum usque ad tempus statutum”: Dn 12, 4). A Dante viene imposto di tacere gli eventi futuri che riguardano Cangrande; si tratta dei giudizi divini che corrispondono a ciò che l’angelo che giura chiama “mistero”, cioè “segreto”, occulto e incredibile ai mondani ma non agli eletti, preannunciato sotto mistici velami. I nemici dello Scaligero, i quali, conosciute le sue magnificenze, “non ne potran tener le lingue mute” (Par. XVII, 85-87) sono i cittadini della grande città (la Gerusalemme mondana), muta come Sodoma e tenebrosa come l’Egitto, nella quale verranno uccisi i due testimoni (Ap 11, 8/12) [8].
[Ap 10, 1; visio III, tuba VI] Ipse enim fuit singulariter “fortis” in omni virtute et opere Dei (Ap 10, 1), et per summam humilitatem et recognitionem prime originis omnis nature et gratie semper “descendens de celo”, et per aeream et per subtilem seu spiritualem levitatem ab omni pondere terrenorum excussam fuit “amictus nube”, id est altissima paupertate aquis celestibus plena, id est suprema possessione et imbibitione celestium divitiarum.
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Par. XVII, 76-93Con lui vedrai colui che ’mpresso fue,
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[Ap 11, 8/12; visio III, tuba VI] “Que”, scilicet civitas, “spiritaliter”, id est secundum spiritalem intelligentiam, “vocatur Sodoma”, id est muta, “et Egiptus”, id est tenebrosa, quia muta erit ad confessionem vere fidei et tenebrosa per ignorantiam et pravam actionem. Vel per excessum luxurie erit quasi Sodoma et per excessum maligne persecutionis Israel, id est sanctorum, erit quasi Egiptus. Egiptus enim et Pharao rex eius afflixit crudeliter populum Dei, et precipue ex quo iussu Dei habuit de Egipto exire. Ibi etiam erat tunc summa idolatria et avaritia, sic et hic erit magna idolatria errorum et abhominanda adoratio Antichristi. […]
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Par. XIX, 88-90Cotanto è giusto quanto a lei consuona:
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Par. VII, 73-77, 112-117; XXIX, 22-30Più l’è conforme, e però più le piace;
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[Dettagli in: Il sesto sigillo, capp. 2d.1, tab. XVI bis1; 12.1, tab. CXXIII]
[Ap 10, 4-7; visio III, tuba VI] Sunt enim quedam sic omnibus communia quod sunt omnibus publice predicanda, quedam vero non sunt omnibus dicenda et precipue ante tempus, iuxta illud Matthei XVII° (Mt 17, 9): “Nemini dixeritis visionem, donec Filius hominis a mortuis resurgat”. Unde et sub sexto signaculo veteris testamenti dicit angelus Danieli: “Tu autem, Daniel, claude sermones et signa librum usque ad tempus statutum” (Dn 12, 4), quod quidem erat sexta etas in qua apparuit Christus, et precipue sextus status ecclesie sue in quo liber erat plenius aperiendus, non tamen malivolis aut indispositis. Ante enim mortem magni Antichristi oportebit multa tunc sanctis aperta claudere emulis et etiam fidelibus vel adhuc animalibus. […]
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[segue Ap 10, 4-7] Sciendum etiam quod prout tubicinium septimi angeli refertur ad extremum iudicium, de quo [Ia] ad Thessalonicenses IIII° (1 Th 4, 16; cfr. 2 Th 1, 7) dicitur quod “ipse Dominus in iu[s]su et in voce archangeli et in tuba Dei descendet de celo, et mortui, qui in Christo sunt, resurgent primi”, est simpliciter verum quod tempus huius seculi tunc omnino cessabit et plene implebitur quicquid Deus per suos prophetas prenuntiavit fiendum, quod vocat “misterium”, id est secretum, quia nichil mundanis occultius quam spiritalis gratia et gloria in electis consumanda, futura etiam Dei iudicia sunt eis occulta et quasi incredibilia. Dicitur etiam “misterium”, quia sub misticis velaminibus sunt prenuntiata. Nec intendo quin principalia corpora huius mundi tunc durent, sed solum quod temporalis et mobilis cursus eius et temporalis status humani generis in hac vita mortali cessabit. […] |
[Ap 12, 6] Item (Ioachim) de hoc ultimo dicit libro V° (Concordie) circa finem prime partis: «Unum dico, quod misteria tertii status subtiliora sunt misteriis secundi status et misteriis primi. […]». |
[segue Ap 10, 4-7] Nota etiam quod sicut nos iuramus levando et ponendo manum super altare vel super librum evangeliorum, tamquam protestantes nos per sanctitatem altaris vel evangelii iurare, sic iste angelus iurat levando manum ad celum, id est per altam protestationem celestis ecclesie et Dei habitantis in ea, et etiam quia demonstratio celestis mansionis et eternitatis multum confirmat tempus huius seculi [c]eleriter transiturum. Hinc etiam est quod iurat “per viventem” in eternum, ubi etiam signanter specificat tria per ipsum creata, scilicet “celum”, tamquam electis querendum et tamquam locum in quo est eorum gloria consumanda; deinde “terram” cum existentibus in ea, et tertio “mare” cum existentibus in eo, quasi dicat: iuro per eum qui creavit terram fidelium et mare nationum infidelium, quibus utrisque nunc ego predico ed ad eternam gloriam invito. Unde et tenebat pedem unum super terram et alium super mare. |
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[incipit, Is 30, 26] Hec autem lux habet septiformem diem transcendentem velamen umbre legalis, quoniam in hac aperitur trinitatis Dei archanum, ac culpe originalis et actualis vinculum et debitum, et incarnationis Filii Dei beneficium, et nostre redemptionis pretium, et iustificantis gratie supernaturale donum simul et predestinationis ac reprobative subtractionis eiusdem gratie incomprehensibile secretum, ac spiritualis et perfecti modi vivendi Deumque colendi saluberrimum exemplum ac preceptum et consilium, et eterne retributionis premium et supplicium cum finali consumatione omnium. Hec enim septem sunt velut septem dies solaris doctrine Christi, que sub velamine scripta et absconsa fuerunt in lege et prophetis.[Ap 13, 9; IV visio, prelium VI] “Si quis habet aurem”, id est sanam intelligentiam dictorum et dicendorum, “audiat”, id est attente et prudenter consideret id quod est premissum et etiam id quod mox subditur, quia hoc quod subditur multum ei conferet ad servandam fidem et patientiam in tanta tribulatione. |
Inf. IX, 61-63O voi ch’avete li ’ntelletti sani,
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Purg. VIII, 10-12, 19-21Ella giunse e levò ambo le palme,
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Par. XVII, 91-93“e portera’ne scritto ne la mente
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Par. XXV, 1-2
Se mai continga che ’l poema sacro
al quale ha posto mano e cielo e terra
[Dettagli in: Il sesto sigillo, cap. 8, tab. LXXVIII]
Fin qui un lettore spirituale. Mussato poteva comprendere i significati interiori della Commedia? Certamente no, o almeno non compiutamente; non apparteneva al pubblico degli Spirituali che Dante aveva in mente, fra gli altri destinatari, nello scrivere il “poema sacro”; non aveva in mano la “chiave” e non era destinato a predicare la Commedia per riformare la Chiesa. Ma poteva ben afferrare il senso letterale, in base al quale anche studiosi moderni, come Ezio Raimondi, hanno sospettato che Dante avesse posto Cunizza nel cielo di Venere per motivi politici, nell’intento di riabilitare in qualche modo, nel dominio ghibellino di Cangrande, l’efferata signoria ezzeliniana: “[…] la rievocazione della sorella presenta l’antico dominatore della Marca in uno spazio storico e ne profila l’opera in dimensioni umane, appena con un’aura di leggenda guerriera: e può essere una congettura ragionevole che anche in questo processo riduttivo abbia la sua parte una sorta di realismo, se vogliamo dire, filoscaligero, che libera appunto Ezzelino dall’involucro rutilante del mito padovano” [9].
Il padovano Mussato avrebbe compreso che Dante, al di là del privilegiare il volgare anziché il latino, considerava la sua Ecerinis monca dell’ardente amore di Cunizza, e avrebbe anche intuito che il binomio Ezzelino-Cunizza svelava il precedente duetto tra Virgilio e Sordello, cioè tra “l’alta … tragedìa” dell’Eneide e i cortesi dettami d’amore figurati nel trovatore mantovano. Non si trattava però solo di contenuti politici, di contrappesare un personaggio tenebroso con un altro lucente. Si trattava di rivendicare alla Commedia una compiutezza, dall’aspro inizio al dolce fine – di cui fanno segno quegli abbinamenti di persone – che la tragedia non raggiungeva. Così Dante precisava nell’Epistola XIII a Cangrande:
[Ep. XIII, 28-32 (10), ed. A. Frugoni – G. Brugnoli, in Dante Alighieri, Opere minori, II, Milano-Napoli 1979 (La Letteratura Italiana. Storia e Testi, V/II), pp. 614-623] Libri titulus est: “Incipit Comedia Dantis Alagherii, florentini natione, non moribus”. Ad cuius notitiam sciendum est quod comedia dicitur a “comos” villa et “oda” quod est cantus, unde comedia quasi “villanus cantus”. Et est comedia genus quoddam poetice narrationis ab omnibus aliis differens. Differt ergo a tragedia in materia per hoc, quod tragedia in principio est admirabilis et quieta, in fine seu exitu est fetida et horribilis; et dicitur propter hoc a “tragos” quod est hircus et “oda” quasi “cantus hircinus”, id est fetidus ad modum hirci; ut patet per Senecam in suis tragediis. Comedia vero inchoat asperitatem alicuius rei, sed eius materia prospere terminatur, ut patet per Terentium in suis comediis. Et hinc consueverunt dictatores quidam in suis salutationibus dicere loco salutis “tragicum principium et comicum finem”. Similiter differunt in modo loquendi: elate et sublime tragedia; comedia vero remisse et humiliter, sicut vult Oratius in sua Poetria, ubi licentiat aliquando comicos ut tragedos loqui, et sic e converso:
Interdum tamen et vocem comedia tollit,
iratusque Chremes tumido delitigat ore;
et tragicus plerunque dolet sermone pedestri
Telephus et Peleus, etc.
Et per hoc patet quod Comedia dicitur presens opus. Nam si ad materiam respiciamus, a principio horribilis et fetida est, quia Infernus, in fine prospera, desiderabilis et grata, quia Paradisus; ad modum loquendi, remissus est modus et humilis, quia locutio vulgaris in qua et muliercule comunicant. Sunt et alia genera narrationum poeticarum, scilicet carmen bucolicum, elegia, satira, et sententia votiva, ut etiam per Oratium patere potest in sua Poetria; sed de istis ad presens nichil dicendum est.
Principio tragico e fine comico, cioè lieto, sono categorie applicabili al viaggio di Dante dalla miseria alla felicità, definito dalla stessa epistola:
[Ep. XIII, 33-34, 39 (11, 15), ed. cit., pp. 622-624] Potest amodo patere quomodo assignandum sit subiectum partis oblate. Nam si totius operis litteraliter sumpti sic est subiectum, status animarum post mortem non contractus sed simpliciter acceptus, manifestum est quod hac in parte talis status est subiectum, sed contractus, scilicet status animarum beatarum post mortem. Et si totius operis allegorice sumpti subiectum est homo prout merendo et demerendo per arbitrii libertatem est iustitie premiandi et puniendi obnoxius, manifestum est in hac parte hoc subiectum contrahi, et est homo prout merendo obnoxius est iustitie premiandi. […] Finis totius et partis esse posset et multiplex, scilicet propinquus et remotus; sed, omissa subtili investigatione, dicendum est breviter quod finis totius et partis est removere viventes in hac vita de statu miserie et perducere ad statum felicitatis.
Nell’ Epistola a Cangrande (§§ 33-34) si distingue tra il soggetto letterale del Paradiso, cioè lo stato delle anime beate dopo la morte, e quello allegorico, cioè l’uomo che per i meriti ha conseguito il premio della giustizia divina. È distinzione molto vicina a quella proposta da Olivi, ad Ap 21, 9 (con le citazioni di Riccardo di San Vittore e dello pseudo-Dionigi), tra i premi futuri (senso letterale) e i meriti presenti (senso allegorico), per cui nella settima visione (che descrive la Gerusalemme celeste) si tratta più dei secondi che dei primi, in quanto in questa vita non è dato all’intelletto di vedere le differenze della gloria dei beati secondo le proprie specie e proprietà o mediante similitudini univoche, ma solo per mezzo di similitudini già note, cioè attraverso la rappresentazione allegorica. Naturalmente l’allegoria non è da intendere in senso strettamente poetico, cioè come una menzogna che nasconde la verità (cfr. Convivio II, i, 3), bensì nel senso teologico, di qualcosa (personaggi e vicende storiche) che è prefigurazione di ciò che viene a compimento, della storia della Chiesa militante che si realizza nel “regno santo”.
Ep. XIII, 33-34 [11] Potest amodo patere quomodo assignandum sit subiectum partis oblate. Nam si totius operis litteraliter sumpti sic est subiectum, status animarum post mortem non contractus sed simpliciter acceptus, manifestum est quod hac in parte talis status est subiectum, sed contractus, scilicet status animarum beatarum post mortem. Et si totius operis allegorice sumpti subiectum est homo prout merendo et demerendo per arbitrii libertatem est iustitie premiandi et puniendi obnoxius, manifestum est in hac parte hoc subiectum contrahi, et est homo prout merendo obnoxius est iustitie premiandi. […]
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[Ap 21, 9; VIIa visio] Nota etiam, secundum Ricardum, quod multa ponuntur hic que magis spectant ad sanctorum presentia merita quam ad futura premia, quamvis intentio huius visionis sit describere supernum statum Iherusalem beate. Cuius ratio, secundum eum, est ut dum de sanctorum magnificis virtutibus et meritis erudimur, celestia eorum premia sublimius admiremur.
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Cangrande, come Mussato, non conosceva la Lectura super Apocalipsim. Poteva leggere il “poema sacro” solo secondo il senso letterale. Anche se Dante avrà ritenuto che l’affermazione della signoria scaligera, così fedele all’Impero, potesse accompagnarsi a una diffusione dei riformatori della Chiesa che leggevano la Commedia più nel profondo (e, in effetti, gli Spirituali sostennero Ludovico il Bavaro). Questi “spirituali”, secondo l’Olivi, non dovevano necessariamente essere francescani; potevano provenire da ordini diversi, fra loro positivamente concorrenti, come in concorso erano stati, ormai da cent’anni, l’ordine di san Francesco e quello di san Domenico: “nec tamen per hoc nego quin ordines diversarum professionum in hoc concurrant sicut et iam fere per centum annos simul cucurrerunt duo” (ad Ap 11, 3). L’idea è che all’ordine finale evangelico e contemplativo fossero ascritte persone svolgenti diverse funzioni, di vita attiva e contemplativa, al modo con cui san Paolo scrive ai Corinzi che Dio nella Chiesa “quosdam dedit apostolos, secundo prophetas, tertio doctores” (1 Cor 12, 28) e per cui Pietro, pur pastore universale, si dedicò inizialmente all’ “apostolatus circumcisionis” mentre a Paolo fu data la “predicatio gentium” (Ap 10, 1). Non solo persone formalmente viventi in ordini religiosi, ma anche “singulares persone”, come era stato Giovanni (Ap 10, 11) [10]. Questo perché la Chiesa può ridursi anche a poche pure reliquie, senza però mai estinguersi. Se alla fine del quinto stato “a planta pedis usque ad verticem est fere tota ecclesia infecta et confusa et quasi nova Babilon effecta” (LSA, prologus, notabile VII), nel sesto stato, il novum saeculum tanto atteso iniziato con san Francesco (e ancora concorrente col quinto), essa verrà salvata da pochi eletti, come nell’arca di Noè [11].
Dante, quando scriveva a Cangrande, aveva quasi concluso la Commedia sempre elaborando intensamente la Lectura super Apocalipsim, come aveva fatto da quando, attorno al 1307, l’aveva molto probabilmente ricevuta dalle mani di Ubertino da Casale. Proprio mentre sulla Lectura si appuntavano le attenzioni dei censori nominati da Giovanni XXII (1317-1319), in una procedura che portò nel 1326 alla condanna dell’opera [12], il commento dell’Olivi conseguiva con il Paradiso l’interpretazione più autentica e profonda. Il ‘Caorsino’ poneva ai suoi teologi la domanda se davvero, come scritto dal frate ad Ap 3, 7, nel sesto e nel settimo stato della Chiesa si potesse pervenire a una “gustativa et palpativa experientia” della verità per suggerimento interiore dello Spirito. Che è proprio ciò a cui arriva Dante nel suo “trasumanar”: ascendendo al cielo egli ‘gusta’ interiormente guardando Beatrice fissa nel sole, figura dei dottori fissi per vita e contemplazione nella solare luce di Cristo (Par. I, 64-69). È “esperienza” che la grazia riserva anche ad altri (ibid., 71-72); è “palpativa experientia” perché Dante mantiene il suo corpo (ibid., 73-75).
Dal 1307, però, molte prospettive erano cambiate, molte speranze svanite. L’idea di un clero riformatore in volgare, aperto ai classici e filoimperiale, che avesse in mente l’esegesi apocalittica dell’Olivi, che concepisse la storia per stati settenari, non aveva più alcun fondamento. Gli Spirituali francescani erano già votati alla persecuzione (dopo il Concilio di Vienne, 1311-1312) e il loro libro-vessillo al nascondimento e quasi alla sparizione. Quel lettore che avrebbe dovuto mirare la dottrina nascosta nella lettera dei versi non si sarebbe mai più trovato.
Era Dante consapevole che i sensi più profondi rischiavano di non venire mai compresi? Nell’Epistola a Cangrande non c’è, apparentemente, alcun riferimento escatologico. Vi è però (§§ 77-82), l’esigenza di affermare, contro ogni opposizione, che la visione beatifica è possibile, che cioè il viaggio oltremondano non è stata una finzione letteraria bensì una realtà espressa in poesia [13]. Questa espressione è stata data con un poema “polisemos, hoc est plurium sensuum” (§§ 20-22), dove l’allegoria – il senso contenuto nella lettera unitamente al senso morale e all’anagogico – è quella dei teologi, non cioè una finzione, ma una relazione figurale fra fatti storici. Detto questo, però, l’epistola procede nell’esegesi dei versi del prologus del Paradiso – tradotti in latino (sono interessate le prime quattro terzine e sommariamente l’invocazione che segue) – solo secondo il senso letterale e al modo del Convivio, accostando cioè argomenti dell’ “intelletto umano” ad “autoritadi a lui concorde”, per usare la distinzione tra filosofia e teologia fatta da san Giovanni nella professione di Dante a Par. XXVI, 46-48. Tacciono, nell’epistola, le “altre corde” (i “morsi” della carità) di cui l’Evangelista chiede poi conto al poeta (ibid., 49-66); sono silenti i “sensus mistici” racchiusi nel senso letterale. Sarà necessaria più attenta disamina, per altro già iniziata, su questi punti per capire come fosse possibile che Dante commentasse nell’Epistola a Cangrande il primo canto del Paradiso senza che alcuno potesse sospettare del reticolo di significati mistici che conteneva. Si trattava di distinguere il pubblico del senso letterale, fra cui erano i curiali, dai “voialtri pochi che drizzaste il collo / per tempo al pan de li angeli” (Par. II, 10-11)? Le prospettive escatologiche e di riforma della Chiesa si erano appannate? L’uso del latino (anche per i versi) e il ritorno al modulo del Convivio sono una forma emulativa dei retori padovani come Mussato, che Dante non nominò mai, “distanti da lui nella retorica, nella politica e anche nella morale”? [14].
Non solo era scomparso dalla scena il pubblico degli Spirituali – che Dante aveva ritenuto potesse essere il futuro clero riformatore -; era venuta meno una storia basata sugli stati del mondo, un’escatologia di attesa del nuovo, la possibilità che la poesia potesse esprimere vere visioni. Che l’Apocalisse fosse da considerarsi poesia lo sosteneva anche Mussato [15], la differenza sta nel fatto che Dante la ripercorreva tutta, come un nuovo Giovanni, in un viaggio nella storia della salvezza collettiva, imbarcando sotto i segni della divina Provvidenza i classici e vestendo delle sacre prerogative della Chiesa la Curia imperiale e il regime mondano. Quella visione che Dante aveva, dal suo punto di vista, realmente sperimentato, anche se poi aveva dovuto adattarla a schemi letterari (come aveva fatto d’altronde l’Evangelista con l’Apocalisse) [16], diventava una vana finzione, un sogno. Così la irrideva nell’Acerba (IV, xiii, 1-2) Cecco d’Ascoli, arso vivo a Firenze nel 1327, che rifaceva il verso sui “tres spiritus immundi in modum ranarum” di Ap 16, 13: “Qui non se canta al modo de le rane, / qui non se canta al modo del poeta / che finge imaginando cose vane” [17]. Sull’oltretomba Dante non avrebbe mai rivolto a Virgilio la domanda fattagli da Petrarca: “Quanto distanti dal vero erano i tuoi sogni?” [18]. La vera biografia di Dante fu, come Guglielmo Gorni ha intitolato l’ultimo suo libro (Bari, 2008), la “storia di un visionario fallito”. “Theologus Dantes”, scrisse Giovanni del Virgilio in principio del suo epitaffio per la tomba del poeta fiorentino. Ma la teologia, fra i letterati preumanisti, significava soltanto Sacra Scrittura; non presupponeva una renovatio, né l’Apocalisse come summa della sacra pagina, né una visione realmente vissuta cantata in poesia come san Giovanni l’aveva trasposta in prosa. Scrive Giorgio Padoan:
All’avvento dell’umanesimo la grandezza poetica della Comedìa era ormai celebrata universalmente, e fu sanzionata anche dai letterati: ma fu però il trionfo di una interpretazione del «poema sacro» che ne tagliava via non pochi rami, e che agì soprattutto sull’ambivalenza di fondo su cui si innalza la Comedìa: quel profondo anelito di rinnovamento morale e religioso, quel messaggio escatologico che animano tutto il poema e segnano la «realtà» del viaggio dantesco, fuori dal contesto storico che li aveva ispirati, persero di vigore, divennero motivi accolti genericamente e senza interesse diretto, svanirono, quasi, dinanzi ad una interpretazione attenta soprattutto al fatto letterario e al modello retorico [19].
Questa interpretazione della Commedia come fatto letterario e modello retorico, a scapito del “Dante profeta” e visionario, o meglio del Dante storico, della “sua carica vitale ed umana”, per citare ancora il Padoan, durò settecento anni. Non fu solo un’interpretazione umanista; anche la Chiesa vi aderì [20]. Oggi, di fronte alla riscoperta della Lectura super Apocalipsim, l’apparentemente incontrovertibile “essoterismo” della lettera, con la selva delle interpretazioni arbitrarie che ne consegue, mostra di fondarsi, come la statua del sogno svelato dal profeta Daniele, su un piede di terracotta. Togliere la Lectura dalla biblioteca di Dante, o non valutarne il gran peso che vi recò, equivale a concepire quella di Cervantes senza i romanzi cavallereschi, o quella di Proust senza Ruskin e Bergson, o quella di Italo Calvino senza Kipling e Conrad.
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