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Mar 05 2016

La « bella Trinacria », martire e ribelle

All’apertura del sesto sigillo (Lectura super Apocalipsim [* ], cap. VI, Ap 6, 12-17) un grande terremoto – interpretato sia come eventi naturali che come sovvertimenti politici – provocherà terrore negli uomini senza distinzione di stirpe o di grado, le coscienze saranno sconvolte e si convertiranno o si induriranno maggiormente. Quanti saranno indotti alla penitenza si rifugeranno fra i sassi e le spelonche dei monti petrosi, cioè chiederanno ausilio ai santi fermi nella fede fuggendo l’irato volto di Cristo giudice [1]. Cristo stesso predisse mali simili, dicendo: “Figlie di Gerusalemme, non piangete su di me ma su voi stesse” (Luca 23, 28), e ancora: “allora cominceranno a dire ai monti: cadete su di noi, e ai colli: copriteci” (ibid., 23, 30). Guerre e sedizioni, all’apertura del sesto sigillo, sovvertiranno le isole e i monti, cioè le città e i regni (Ap 6, 14); le isole si muoveranno e i monti saranno traslati (Ap 16, 20); verrà cioè sconvolto, in modo imprevedibile, quel che vi è di più stabile e adatto all’umana quiete in mare, oppure di più sicuro ed eminente in terra. 

Seguendo in controluce l’esegesi della Lectura super Apocalipsim, alla quale i versi della Commedia rinviano con procedimento di arte della memoria, vestendo la dottrina teologica con exempla contemporanei – rileggendo cioè i versi secondo i “sensi mistici” come avrebbe potuto intenderli uno Spirituale conoscitore della Lectura –, troveremo dapprima applicato al Vespro siciliano, nelle parole di Carlo Martello, il figlio di Carlo II d’Angiò che si presenta quale “alter Christus“, l’escatologismo con cui Olivi interpreta l’apertura del sesto sigillo (Par. VIII, 58-78). Una Sicilia da sempre afflitta e addolorata dai suoi tiranni, e per questo quasi una figura antica della santa Cecilia martire romana. Lo stesso escatologismo si rinviene nelle parole di Cacciaguida sulla tragica fine di Buondelmonte che pose fine al viver lieto di Firenze (Par. XVI, 136-144) e nell’immagine del carro-Chiesa, su cui siede la prostituta, tratto nella selva dal gigante, a designare la cattività avignonese (Purg. XXXII, 148-160). Infine, verrà preso in considerazione il significato dell’attendere, che dai versi rinvia all’esegesi dell’apertura del quinto sigillo.

 

1. Isole che si muovono: il Vespro siciliano  (30 marzo 1282)

 

se mala segnoria, che sempre accora
li popoli suggetti, non avesse mosso
Palermo a gridar: “Mora, mora!”.

(Par. VIII, 73-75)

Un suggestivo passaggio in poesia del tema delle guerre e delle sedizioni che, all’apertura del sesto sigillo, sovvertiranno le isole e i monti, cioè le città e i regni (Ap 6, 14), è l’applicazione fatta da Dante alla rivolta del Vespro (Par. VIII, 58-84). Nel cielo di Venere, Carlo Martello, spirito amante scomparso prematuramente nel 1295, afferma che la Provenza (“quella sinistra riva che si lava / di Rodano poi ch’è misto con Sorga”) e l’Italia (nella sua parte meridionale, cioè il regno di Napoli: “quel corno d’Ausonia”) lo attendevano come sovrano una volta morto il padre Carlo II. La corona di Ungheria (“di quella terra che ’l Danubio riga / poi che le ripe tedesche abbandona”) gli fulgeva già in fronte dal 1292. La Provenza infiammata dalla crociata contro gli Albigesi, l’Italia sconvolta “ex tunc” (nei primi tempi dell’Ordine francescano) da “procellose commotiones et subversiones” (con il conflitto tra Federico II e il Papato) e l’Ungheria invasa dai Tartari (1241) sono citate da Olivi come esempi di luoghi squassati da calamità politiche, sconvolgimenti o invasioni nel secondo inizio dell’apertura del sesto sigillo (a partire dalla conversione di san Francesco, nel 1206). Bisogna precisare che Olivi parla non della Provenza, ma della contea di Tolosa – “in comitatu tholosano” -, la quale era già parte del regno di Francia dal 1271 e non avrebbe potuto essere ereditata da Carlo Martello, ma il preciso riferimento storico-geografico nei versi danteschi richiama comunque la memoria del lettore (e conoscitore della Lectura) verso i luoghi devastati dalla crociata contro gli Albigesi, e non a caso, nello stesso cielo di Venere, si mostra Folchetto di Marsiglia, il trovatore provenzale che fu poi vescovo di Tolosa (1205).

E anche la “bella Trinacria”, continua lo spirito amante, avrebbe atteso i suoi re angioini – “nati per me di Carlo e di Ridolfo” -, cioè la propria discendenza, “se mala segnoria, che sempre accora / li popoli suggetti, non avesse / mosso Palermo a gridar: ‘Mora, mora!’”. Un celebre fatto storico, il Vespro siciliano (30 marzo 1282; il grido di “Muoiano i Franceschi!” è riportato da tutte le cronache: cfr. Giovanni Villani, Nuova cronica VIII, lxi) dà corpo a quanto nell’esegesi viene detto delle ‘isole che si muovono’, che vengono cioè sovvertite da guerre e ribellioni, e dei popoli che vengono condotti a morte (terzo e quarto inizio dell’apertura).

Nelle parole del re angioino (i suoi fratelli – Ludovico, Roberto e Raimondo Berengario -, prigionieri degli Aragonesi, furono destinatari di una celebre lettera dell’Olivi, del 18 maggio 1295) è presente il tema della luna insanguinata (Ap 6, 12), interpretata come i popoli i quali, soggetti al malgoverno dei prelati (il “sole” del governo ecclesiastico si fa nero), si macchieranno in modo turpe del sangue omicida. Al terzo inizio dell’apertura del sesto sigillo indica la crudeltà, sia contro gli eletti sia intestina, provocata dalle guerre e dalle rivolte che sovvertiranno le isole e i monti, e che precederanno il rifiorire dello spirito per opera dei predicatori evangelici. L’espressione “populi subiecti” compare in altro contesto poco dopo, ad Ap 7, 1, riferita all’assenza di predicazione da parte dei prelati (che corrisponde alla “mala segnoria”). È presente anche il tema della fuga, nell’invito di Carlo Martello al fratello Roberto perché fugga l’ “avara povertà di Catalogna”, per non venirne offeso.

Il terremoto, che segna con le sue conseguenze l’apertura del sesto sigillo, è lo stesso di cui si tratta ad Ap 16, 18, nel preambolo alla sesta visione, che concerne la caduta e la punizione della nuova Babilonia. L’effetto del giudizio divino consiste nelle due parti della pena eterna: la prima (la pena del danno) nella privazione di ogni gaudio, la seconda (la pena dei sensi) nella grandine grossa. La privazione del gaudio è resa con l’immagine della fuga delle isole e della traslazione dei monti – “Ogni isola fuggì e i monti scomparvero” (Ap 16, 20) -, ossia della sovversione di quel che vi è di più stabile e adatto all’umana quiete in mare, oppure di più sicuro ed eminente in terra: isole e monti che già in occasione dell’apertura del sesto sigillo (Ap 6, 14) sono identificate con i regni, le città e le chiese di Babilonia. Questa “non inventibilis subversio insularum”, applicata alla rivolta antiangioina del 30 marzo 1282, bene esprime il sentimento che i contemporanei ebbero del Vespro, di rivolta spontanea, inimmaginabile, imprevedibile. Dante, laicamente, applica quanto nell’esegesi scritturale è detto della chiesa carnale alla “mala segnoria” angioina [2].

Il tema del muoversi delle isole e del conseguente sterminio dei popoli che accompagna il terremoto con cui si apre il sesto sigillo (Ap 6, 14; 16, 20) segna anche l’invettiva contro Pisa, “vituperio de le genti / del bel paese là dove ’l sì suona”, che il poeta chiede venga punita con il muoversi della Capraia e della Gorgona a chiudere la foce dell’Arno sì da far annegare gli abitanti (Inf. XXXIII, 79-84).

[Ap 6, 13-14; apertio VIi sigilli, IIIum initium] Quantum etiam ad tertium initium sexte apertionis, fiet utique grandis terremotus subvertens fidem plurium contra evangelice regule veritatem et contra spiritum vite eius, et ideo tunc “sol” plenius fiet “niger”, et “luna” crudelis ut “sanguis” tam in electos quam in se invicem per seditiones et bella. Unde suscitationem spiritus preibunt in ecclesia quedam bella subvertentia insulas et montes (cfr. Ap 6, 14), id est urbes et regna. […] propter que omnia plures non solum boni, sed etiam mali fortiter perterrebuntur non solum a visu et perpessione tantorum malorum, sed etiam suspicione et expectatione longe maiorum (cfr. Ap 6, 13). Tunc etiam plures signabuntur ad militiam spiritalem, quamvis sint pauci respectu multitudinis reproborum.

[Ap 6, 14-17; IVum initium] Tunc etiam montes, id est regna ecclesie, et “insule”, id est monasteria et magne ecclesie in hoc mundo quasi in solo seu mari site, movebuntur “de locis suis” (Ap 6, 14), id est subvertentur et eorum populi in mortem vel in captivitatem ducentur. Tunc etiam, tam propter illud temporale exterminium quod sibi a Dei iudicio velint nolint sentient supervenisse, quam propter desperatum timorem iudicii eterni eis post mortem superventuri, sic erunt omnes, tam maiores quam medii et minores, horribiliter atoniti et perterriti quod preeligerent montes et saxa repente cadere super eos. Ex ipso etiam timore fugient et abscondent se “in speluncis” et inter saxa montium (cfr. Ap 6, 15-17). Est enim tunc nova Babilon sic iudicanda sicut fuit carnalis Iherusalem, quia Christum non recepit, immo reprobavit et crucifixit. Unde Luche XXII[I]° predicit ei Christus mala consimilia istis, dicens (Lc 23, 28): “Filie Iherusalem, nolite flere super me, sed super vos ipsas flete”, et paulo post (23, 30): “Tunc incipient dicere montibus: Cadite super nos, et collibus: Cooperite nos”.

[Ap 6, 12; apertio VIi sigilli, IIum initium] Preterea in initio ordinis Francisci “factus est terremotus” (Ap 6, 12) in pluribus partibus, puta in comitatu tholosano tunc temporis per crucesignatos dissipato, unde et urbs Biterris, in qua fui nutritus, fuit vel tertio vel quarto anno huius ordinis destructa per eosdem. In Italia etiam et in ultramarinis partibus fuerunt ex tunc procellose commotiones et subversiones. Ex tunc etiam Tartari publice subverterunt et ceperunt plurimas terras in oriente et aquilone, ita quod Ungariam, terram christianorum, circa tricesimum annum nostri ordinis intraverunt et fere dissipaverunt.

Inf. XXXIII, 79-84:

Ahi Pisa, vituperio de le genti
del bel paese là dove ’l sì suona,
poi che i vicini a te punir son lenti,
muovasi la Capraia e la Gorgona,
e faccian siepe ad Arno in su la foce,
sì ch’elli annieghi in te ogne persona!

[Ap 7, 1; apertio VIi sigilli] Secundum autem Ioachim, per eos (per quattuor angelos stantes super quattuor angulos terre) designantur gentes infideles seu heretici, qui sunt in circuitu ecclesie prohibentes doctores christianos ne verbum Dei predicent populis eis subiectis.

Par. VIII, 58-78:

Quella sinistra riva che si lava
di Rodano poi ch’è misto con Sorga,
per suo segnore a tempo m’aspettava, 6, 9
e quel corno d’Ausonia che s’imborga
di Bari e di Gaeta e di Catona,
da ove Tronto e Verde in mare sgorga.
Fulgeami già in fronte la corona
di quella terra che ’l Danubio riga
poi che le ripe tedesche abbandona.
E la bella Trinacria, che caliga
tra Pachino e Peloro, sopra ’l golfo
che riceve da Euro maggior briga,
non per Tifeo ma per nascente solfo,
attesi  avrebbe li suoi regi ancora,   6, 9
nati per me di Carlo e di Ridolfo,
se mala segnoria, che sempre accora
li popoli suggetti, non avesse
 mosso Palermo a gridar: ‘Mora, mora!’.
E se mio frate questo antivedesse,
l’avara povertà di Catalogna
già fuggeria, perché non li offendesse

[Ap 6, 12; apertio VIi sigilli, IIum initium] Unde “sol” fidei et ecclesiastici regiminis “factus est niger” (Ap 6, 12) et quasi “saccus” de pilis porcorum et ferarum contextus. Ex hoc etiam “luna”, id est plebs illis subdita, “facta est” velut “sanguis”, id est sanguine luxurie et homicidiorum turpiter fedata.

[Ap 16, 20; radix VIe visionis] Deinde effectum huius iudicii insinuat quoad duas partes pene eterne. Quarum prima est pena dampni, scilicet privatio omnis boni iocundi, et hanc tangit cum subdit: “Et omnis insula fugit, et omnes montes non sunt inventi” (Ap 16, 20). Sicut in terra nichil firmius et eminentius aut tutius quam montes, sic in mari nichil stabilius et humane quieti aptius quam insule, et ideo per consumptionem seu non inventibilem subversionem vel per translationem omnium montium et insularum, tam hic quam supra sub apertione sexti sigilli (cfr. Ap 6, 14), designatur consumptio vel subversio solidiorum et eminentiorum et immobiliorum statuum et urbium et ecclesiarum et regnorum totius carnalis ecclesie.

Palermo, Chiesa di Santo Spirito o dei Vespri

Palermo, Chiesa di Santo Spirito o dei Vespri

Provenza, Italia meridionale, Ungheria e Sicilia designano anche, nel discorso di Carlo Martello, i quattro angeli che ad Ap 7, 1 stanno ai quattro angoli della terra, i quali trattengono i quattro venti, cosicché non soffino sulla terra e sul mare. L’esegesi fornisce spiegazioni diverse. In senso negativo, possono essere i demoni e gli uomini empi che cercano di impedire la predicazione della fede, la conversione dei popoli e la conservazione dei fedeli nella fede già accolta (Riccardo di San Vittore), oppure le genti infedeli o eretiche che circondano la Chiesa impedendo ai dottori cristiani di predicare la parola di Dio ai popoli soggetti (Gioacchino da Fiore). In senso positivo, sono i quattro generi di predicatori cui è dato nuocere cessando dalla predicazione del verbo divino a motivo dei peccati (Gioacchino da Fiore), nel senso più innanzi specificato a proposito dei due profeti che hanno il potere di chiudere il cielo nei giorni della loro profezia (Ap 11, 6); oppure gli angeli buoni che, per giustizia di Dio, trattengono l’influsso delle grazie e permettono che i demoni e gli empi lo impediscano (Olivi). I quattro venti designano la dottrina dei quattro Vangeli che spira sulla terra (Riccardo), oppure le quattro intelligenze spirituali dalla cui dottrina la terra suole essere fecondata (Gioacchino), oppure (Olivi) tutte le ispirazioni dello Spirito Santo secondo quel passo di Ezechiele: “Spirito, vieni dai quattro venti e soffia su questi morti, perché rivivano” (Ez 37, 9). Il primo vento proviene dall’oriente dell’umile incarnazione di Cristo e della nostra vile origine; il secondo dall’occidente della morte di Cristo e della nostra miserabile morte; il terzo dall’aquilone delle tentazioni di Cristo e delle nostre; il quarto dal meridione della carità e della gloria di Cristo a noi promessa.

Nelle parole del principe angioino sono presenti “signacula” – mare, terra, Euro (Par. VIII, 63, 65, 69) – che rinviano all’esegesi di Ap 7, 1. Sarà da intendere che se Carlo Martello non fosse morto prematuramente, sulle quattro terre del suo regno avrebbe soffiato il vento della grazia, come egli stesso afferma: “Il mondo m’ebbe / giù poco tempo; e se più fosse stato, / molto sarà di mal, che non sarebbe” (ibid., 49-51). Avrebbe cioè svolto la funzione dell’angelo del sesto sigillo, che sale da Oriente, di rimuovere l’impedimento posto allo spirare dei venti sulla terra e sul mare (Ap 7, 2). In questo senso è anche il combattimento (“briga”) mosso da Euro “sopra ’l golfo” (il mare tra Pachino e Peloro) per purgare la caligine causata “non per Tifeo ma per nascente solfo” (ibid., 67-70). Se Dante corregge il mito del gigante che ansima incatenato sotto l’Etna a vantaggio di una spiegazione naturalistica, “solfo” (i giacimenti sulfurei sotto la crosta terrestre) avrebbe indirizzato la memoria del lettore al “sulphureus ignis magnus, et tetrum ac fetidum fumum emittens” di Ap 9, 17-19, che designa gli pseudoprofeti e i loro falsi miracoli [3]. Come pure, alle parole di Carlo Martello relative all’Ungheria – “quella terra che ’l Danubio riga / poi che le ripe tedesche abbandona” (Par. VIII, 64-66) – quel lettore si sarebbe ricordato di Ap 8, 10-11 (terza visione, terza tromba) [4], dove i fiumi che irrigano la terra designano i dottori che propinano il dolce bere della sacra pagina, mentre il contrario avviene con la dottrina eretica o erronea, per la quale molti annegano (il motivo sarebbe tornato nel canto successivo per le parole di Cunizza e di Folco di Marsiglia). E sarà da intendere in senso positivo quell’abbandonare la terra tedesca per la “beata Ungheria” (cfr. Par. XIX, 142) da parte delle acque del Danubio, se si ricordano i versi: “O Alberto tedesco ch’abbandoni / costei ch’è fatta indomita e selvaggia”, a Purg. VI, 97-98, e il “sì grosso velo” invernale fatto dalla “Danoia in Osterlicchi”, assimilato al gelo di Cocito a Inf. XXXII, 25-26. L’Ungheria era già del figlio di Carlo II d’Angiò, mentre le altre tre terre avrebbero dovuto attendere lui o i suoi eredi (la Sicilia). Ma la “mala segnoria” ha rotto quell’attesa; attendere è un tema fondamentale dell’apertura del quinto sigillo (Ap 6, 9-11; cfr. infra), allorché a quanti desiderano ardentemente la vendetta di Dio sui reprobi viene detto di aspettare il completarsi del numero degli eletti e le grandi cose che si compiranno nella sesta apertura.

[Ap 7, 1; apertio VIi sigilli] “Post hec vidi” et cetera (Ap 7, 1). Hic ostenditur quomodo, post prefatum iudicium et exterminium carnalis ecclesie, nitentur demones et homines impii impedire predicationem fidei et conversionem gentium ad fidem et etiam conservationem fidelium in fide iam suscepta. Unde ait: “Post hec”, id est post predictum iudicium, “vidi quattuor angelos stantes super quattuor angulos terre”.
Secundum Ricardum, isti quattuor angeli sunt universi demones totum mundum in suis quattuor angulis tempore illo possidere cupientes, suntque “stantes” quia sunt in hoc immorantes et fixe considerantes quos in tota latitudine mundi possint devorare. Et secundum hoc sicut per quattuor angulos designatur totus orbis, sic et per quattuor angelos in eis stantes designatur universitas demonum vel principales eorum.
Secundum autem Ioachim, per eos designantur gentes infideles seu heretici, qui sunt in circuitu ecclesie prohibentes doctores christianos ne verbum Dei predicent populis eis subiectis. Vel secundum eum, sumendo hoc in bona parte, quattuor angeli sunt quattuor genera predicatorum quibus datum est nocere cessando a predicatione verbi Dei propter peccata, secundum quod infra de duobus prophetis dicitur quod “habent potestatem claudendi celum diebus prophetie eorum” (Ap 11, 6).
Possunt etiam per hoc intelligi angeli boni ex Dei iustitia retinentes influxum gratiarum, et permittendo hoc per demones et homines impios impediri.

Tenentes quattuor ventos terre” id est, secundum Ricardum, impedientes doctrinam quattuor evangeliorum, quibus terra a predicationibus perflatur.
Vel secundum Ioachim, quattuor venti sunt quattuor intelligentie spiritales, quarum doctrina consuevit terra fecundari.
Item per hos quattuor ventos intelliguntur omnes spirationes Spiritus Sancti, secundum illud Ezechielis XXXVII°: “A quattuor ventis veni, spiritus, et insuffla super interfectos istos et reviviscant” (Ez 37, 9). Unus enim ventus est ab oriente humilis incarnationis Christi et nostre vilis originis. Alius vero est ab occidente mortis Christi et nostre miserabilis mortis. Alius vero ab aquilone temptationum Christi et nostrarum. Quartus vero est a meridie caritatis et glorie Christi nobis promisse.
“Ne flarent super terram neque super mare” id est, secundum Ricardum, super malos terrena diligentes et in mari huius seculi fluctuantes; “neque in ullam arborem”, id est in bonos sursum erectos et fructificantes. Dicitque quod quia bonum desuper offertur malis, quod a bonis iam intrinsecus possidetur, ideo pro malis dicit “super terram” et cetera, pro bonis vero non ‘super’ sed “in arborem”.
Vel sequendo modum quem liber iste infra prosequitur, per “terram” intelligitur locus fidelium quamquam carnalium, per “mare” vero locus et gens infidelium erroribus fluctuans, unde ibi herbe vel arbores fructifere non nascuntur. Tunc autem de utrisque erunt plures convertendi, sed in principio diabolus hoc toto posse impediet. Pro primis autem initiis huius sexte apertionis, per “terram” intelligitur status religiosorum, per “mare” vero status secularium fluctubus secularium negotiorum et turbinum plenus.

Purg. XXX, 85-90:

Sì come neve tra le vive travi      1, 14
per lo dosso d’Italia si congela,
soffiata e stretta da li venti schiavi,
poi, liquefatta, in sé stessa trapela,   1, 15
pur che la terra che perde ombra spiri,
sì che par foco fonder la candela

Purg. XXI, 55-57, 64-66:

Trema forse più giù poco o assai;
ma per vento che ’n terra si nasconda,
non so come, qua sù non tremò mai.

Prima vuol ben, ma non lascia  il talento
che divina giustizia, contra voglia,
come fu al peccar, pone al tormento.

Par. VIII, 58-75, 131-132:

Quella sinistra riva che si lava                           I
di Rodano poi ch’è misto con Sorga,
per suo segnore a tempo m’aspettava,
e quel corno d’Ausonia che s’imborga            II
di Bari e di Gaeta e di Catona,
da ove Tronto e Verde in mare  sgorga.
Fulgeami già in fronte la corona
di quella terra che ’l Danubio riga                     III
poi che le ripe tedesche abbandona.
E la bella Trinacria, che caliga                            IV
tra Pachino e Peloro, sopra  ’l golfo
che riceve da Euro maggior briga,
non per Tifeo ma per nascente solfo,
attesi avrebbe li suoi regi ancora,
nati per me di Carlo e di Ridolfo,
se mala segnoria, che sempre accora
li popoli suggetti, non avesse
mosso Palermo a gridar: ‘Mora, mora!’.

 ……………………………….. e vien Quirino
da sì vil padre, che si rende a Marte.

[Ap 6, 12; apertio VIi sigilli, IIum initium] Preterea in initio ordinis Francisci “factus est terremotus” (Ap 6, 12) in pluribus partibus, puta in comitatu tholosano tunc temporis per crucesignatos dissipato, unde et urbs Biterris, in qua fui nutritus, fuit vel tertio vel quarto anno huius ordinis destructa per eosdem. In Italia etiam et in ultramarinis partibus fuerunt ex tunc procellose commotiones et subversiones. Ex tunc etiam Tartari publice subverterunt et ceperunt plurimas terras in oriente et aquilone, ita quod Ungariam, terram christianorum, circa tricesimum annum nostri ordinis intraverunt et fere dissipaverunt.

[Ap 6, 13-14; apertio VIi sigilli, IIIum initium] Unde suscitationem spiritus preibunt in ecclesia quedam bella subvertentia insulas et montes (cfr. Ap 6, 14), id est urbes et regna. […]

[A proposito dei quattro venti di cui si tratta ad Ap 7, 1, sono da ricordare le parole di rimprovero, proterve e superbe, di Beatrice alle quali il cuore del poeta si congela come la neve tra gli alberi d’Appennino quando è “soffiata e stretta da li venti schiavi”, cioè del nord-est, e tale resta fino all’ascolto del canto pietoso degli angeli che paiono partecipare del suo dramma e dire a Beatrice: “Donna, perché sì lo stempre?”, cioè perché gli togli vigore con le tue parole non temperate? Poi, come la neve si liquefa allo spirare del caldo vento meridionale che proviene dall’Africa (“la terra che perde ombra”), così il gelo stretto attorno al cuore del poeta si scioglie in lacrime e sospiri, spirito e acqua, “e con angoscia / de la bocca e de li occhi uscì del petto” (Purg. XXX, 85-99). La presenza di neve e si congela significa che Dante sperimenta prima il lato rigido della sapienza di Cristo e poi quello pietoso, caldo e temperato, lati designati rispettivamente ad Ap 1, 14 con l’immagine dei capelli candidi come neve e come lana bianca nella quarta perfezione di Cristo quale sommo pastore. I due venti sono pertanto quello del nord, che tenta, e quello meridionale, che reca carità e gloria. La tematica di questi versi è però assai più complessa (cfr. Il sesto sigillo, 2c, tab. XIII). In essi pedes (dal Salmo XXX, 9) e liquefatta sono parole-chiave della sesta perfezione di Cristo (Ap 1, 15: i piedi simili all’oricalco). Lo sgorgare lacrime e sospiri appartiene invece alla settima prerogativa, per cui si dice: “e la sua voce come la voce di molte acque” (Ap 1, 15), cioè come la voce di piogge inondanti e come l’impeto di fiumi e il mugghiare del mare. Questa voce di molte acque viene interpretata (in un luogo parallelo, ad Ap 14, 2) come suono di un’acqua che irriga, impingua, rinfresca con le lacrime e con sospiri ruggenti. La sapienza di Cristo, designata dalla neve, è rigida ed astratta, ma anche “sordium purgativa”.

Stazio spiega che sulla montagna del purgatorio non avvengono terremoti naturali, ma solo spirituali: “ma per vento che ’n terra si nasconda, / non so come, qua sù non tremò mai” (Purg. XXI, 56-57). Il terremoto fa segno che un’anima si sente monda e libera di salire al cielo, perché prima la “divina giustizia” pone “il talento … contra voglia, / come fu al peccar … al tormento” (ibid., 64-66). Cioè la divina giustizia trattiene l’influsso della Grazia (il vento dello Spirito) fino al compimento della pena, segnalato dal terremoto (quello che apre il sesto sigillo ad Ap 6, 12) e dalla libera volontà di salire (propria dell’angelo del sesto sigillo ad Ap 7, 2: cfr. Il sesto sigillo, 3, tab. XXIV).

Ancora un riferimento a uno dei quattro venti, l’orientale che designa l’umile incarnazione di Cristo e la nostra vile origine, è nelle parole di Carlo Martello “e vien Quirino / da sì vil padre, che si rende a Marte” (Par. VIII, 131-132): l’umiltà contraddistingue Cristo e il fondatore di Roma, la cui oscura nascita venne commutata con l’essere considerato figlio di Marte.]

 

[Ap 2, 12; Ia visio, IIIa ecclesia] Hiis autem premittuntur duo, scilicet preceptum de scribendo hec sibi et introductio Christi loquentis, cum subdit (Ap 2, 12): “Hec dicit qui habet rumpheam”, id est spatam, “ex utraque parte acutam”. Hec congruit ei, quod infra dicit: “pugnabo cum illis in gladio oris mei” (Ap 2, 16). Unde contra doctores pestiferos erronee doctrine et secte ingerit se ut terribilem confutatorem et condempnatorem ipsorum per incisivam doctrinam et condempnativam sententiam oris sui. Dicit autem “ex utraque parte”, non solum quia absque acceptione personarum omnia vitia scindit et resecat vel condempnat, sed etiam quia contrarios errores destruit. Arrius enim, quasi ex uno latere, errat dicendo Dei Filium esse substantialiter diversum a Patre tamquam eius creaturam. Sabellius vero, quasi ab opposito latere, dicit quod eadem persona est Pater et Filius. Fides autem Christi utrumque scindit et resecat. 

[Ap 8, 10; IIIa visio, IIIa tuba] “Et tertius angelus” (Ap 8, 10), id est ordo doctorum tertii status cui anthonomasice appropriatur nomen doctorum, “tuba cecinit”, id est predicavit et docuit in orbe iam ad Christum converso a Constantino et ultra.
Quid autem mali sit per accidens subsecutum, et qui seu quales rebellaverint fidei et doctrine eorum, monstratur cum subditur: “et cecidit de celo stella magna ardens tamquam facula, et cecidit in tertiam partem fluminum et in fontes aquarum”.
Sicut per “terram” designatur supra locus fidelium (cfr. Ap 8, 7) et per “mare” locus infidelium seu plebs gentilis (cfr. Ap 8, 8), sic per “fontes” et “fluminaterram irrigantia et potum dulcem hominibus et iumentis prebentia designatur sacra doctrina et doctores eius. […] “Et nomen stelle dicitur absintium” (Ap 8, 11), id est stella illa post eius casum fuit amarissima quasi absintium, et hoc apud omnes fideles fuit famosum et nominatum. “Et multi homines mortui sunt de aquis”, id est de erronea expositione scripturarum sunt multi mortui a vita fidei et gratie per culpam mortalem et etiam per mortem eternam. Non dicit ‘tertia pars hominum’, sed “multi homines”, ad insinuandum quod supra modum fuerunt in toto orbe multi et innumerabiles per heresim Arrii extincti ac deinde per aliquos heresiarchas, puta per N[e]storium et Eu[t]ichen et consimiles, qui prius visi sunt quasi “stella” in celo “magna ardens”. Nota autem quod per “fontes” possunt intelligi libri sacri canonis et scriptores eorum, scilicet prophete et apostoli. Per “flumina” vero, que de fontibus trahuntur, possunt intelligi subsequentes expositiones librorum canonis et expositores seu editores earum. Ille enim sunt instar fluminum quantitate maiores et aquam plurium fontium in se continentes.

[Ap 16, 4; Va visio, IIIa phiala] “Et tertius angelus” (Ap 16, 4), id est ordo sanctorum zelatorum tertii temporis, “effudit phialam suam super flumina et super fontes aquarum”, id est super doctrinam erroneam doctorum et episcoporum hereticorum, quam ipsi tamquam dulcem aquam bibebant et aliis propinabant. “Effudit”, inquam, non solum ipsam improbando, sed etiam ipsam et eius sectatores et fautores anathematizando et ab omni communion[e] ecclesie catholice sententialiter excludendo. “Et factus est sanguis”, id est per hanc effusionem apparuit esse mortifera et crudelis et abhominabilis. Vel “factus est sanguis”, quia propter hanc plagam effuderunt sanguinem multorum catholicorum et multas persecutiones catholicis intulerunt. Corporaliter autem fuit ad litteram multorum hereticorum sanguis effusus per aliquos catholicos imperatores et principes, et etiam per aliquas nationes gentilium occupantium terras illorum.

Inf. XIX, 5-6, 16-21, 115-117:                     

or convien che per voi suoni la tromba,
però che ne la terza bolgia state.

Non mi parean men ampi né maggiori
che que’ che son nel mio bel San Giovanni,
fatti per loco d’i battezzatori;
l’un de li quali, ancor non è molt’ anni,
rupp’ io per un che dentro v’annegava:
e questo sia suggel ch’ogn’ omo sganni.

Ahi Costantin, di quanto mal  fu matre,
non la tua conversion, ma quella dote
che da te prese il primo ricco patre!

[Notabile I] In tertio (statu) sonus predicationis seu eruditionis et tuba  magistralis.

Inf. XXXIII, 82-84:

muovasi la Capraia e la Gorgona,
e faccian siepe ad Arno in su la foce,
ch’elli annieghi in te ogne persona!

Purg. XVI, 115-120:

In sul paese ch’Adice e Po riga,
solea valore e cortesia trovarsi,
prima che Federigo avesse briga;
or può sicuramente indi passarsi
per qualunque lasciasse, per vergogna,
di ragionar coi buoni o d’appressarsi.

 Par. VIII, 64-66; XII, 103-105:

Fulgeami già in fronte la corona
di quella terra che ’l Danubio riga
poi che le ripe tedesche abbandona.

Di lui si fecer poi diversi rivi
onde l’orto catolico si riga,
sì che i suoi arbuscelli stan più vivi.

 

 

Par. IX, 25-30, 43-54, 82-93, 133-135:

In quella parte de la terra prava
italica che siede tra Rïalto
e le fontane di Brenta e di Piava,
si leva un colle, e non surge molt’ alto,
là onde scese già una facella
che fece a la contrada un grande assalto.

E ciò non pensa la turba presente
che Tagliamento e Adice richiude,
né per esser battuta ancor si pente;
ma tosto fia che Padova al palude
cangerà  l’acqua che Vincenza bagna,
per essere al dover le genti crude ;
e dove Sile e Cagnan s’accompagna,
tal signoreggia e va con la testa alta,
che già per lui carpir si fa la ragna.
Piangerà Feltro ancora la dif[f]alta
de l’empio suo pastor, che sarà sconcia
sì, che per simil non s’entrò in malta.

“La maggior  valle in che l’acqua si spanda”,
incominciaro allor le sue parole,
“fuor di quel mar che la terra inghirlanda,
tra ’ discordanti liti contra ’l sole
tanto sen va, che fa meridïano
là dove l’orizzonte pria far suole.
Di quella valle fu’ io litorano
tra Ebro e Macra, che per cammin corto
parte lo Genovese dal Toscano.
Ad un occaso quasi e ad un orto
Buggea siede e la terra ond’ io fui,
che fé del sangue suo già caldo il porto.

Per questo l’Evangelio e i dottor magni
son derelitti, e solo ai Decretali
si studia, sì che pare a’ lor vivagni.”

Par. XXIV, 55-57:

poi mi volsi a Beatrice, ed essa pronte
sembianze femmi perch’ ïo spandessi
l’acqua di fuor del mio interno fonte.

Par. XXVII, 25-27:

fatt’ ha  del cimitero mio cloaca
del sangue  e de la puzza; onde ’l perverso
che cadde di qua sù, là giù si placa.

 

 

2. “Cecilia” martire

Giudizio popolare eternamente valido contro la signoria straniera e la tirannide, sancito dall’isola che aveva tanto sofferto: tale fu considerato il Vespro dagli storici romantici, come Michele Amari [5] o Ferdinand Gregorovius [6]. E in effetti quella “Cicilia” alla quale il “Dïonisio fero … fé … aver dolorosi anni” (Inf. XII, 107-108) è citata in una zona dell’Inferno (il cerchio dei violenti contro il prossimo) dove prevalgono i temi del secondo stato, proprio dei martiri. Ciò appare evidente percorrendo ‘topograficamente’ i versi del poema e rilevando in essi la ciclicità, variata in sempre più ampia spirale, dei temi relativi ai sette stati oliviani. Nel notabile X del prologo della Lectura, per spiegare come il terzo stato dei dottori inizi (con Clemente alessandrino e Origene) sotto il regime del secondo, Olivi si riporta ai tempi del martirio di santa Cecilia, che (secondo lui) avvenne sotto Alessandro Severo. Dante, nella metamorfosi intertestuale e mnemotecnica operata sulla Lectura, risale ancor più indietro, accostando fonosimbolicamente in due versi successivi i nomi del tiranno “Alessandro” (di Fere o, meglio, Alessandro Magno), assimilato all’imperatore Alessandro Severo, e di “Cicilia”, ossia della Sicilia, che nei “dolorosi anni” subìti ad opera dell’altro tiranno Dionigi è assimilata alla santa martire romana.

Il motivo della Sicilia ‘martire’ per i tiranni (antica “figura” di santa Cecilia) ritorna in altro luogo, nella similitudine delle “parole grame” di Guido da Montefeltro, che non hanno via d’uscita dalla fiamma che le fascia, con il muggire del “bue cicilian” arroventato, per le grida di coloro che vi erano rinchiusi, costruito da Perillo per Falaride, tiranno di Agrigento (Inf. XXVII, 7-15). Come i violenti contro il prossimo descritti in Inf. XII, così i consiglieri di frode latini dell’ottava bolgia, trattati in Inf. XXVII, si collocano in una zona dove prevalgono i temi del secondo stato. Il secondo stato, dei martiri, è assimilato al bue paziente e tollerante nella sofferenza (prologo, notabile I; Ap 4, 6), di qui l’espressione “bue cicilian”. Da notare la simmetria tra i “dolorosi anni” fatti avere alla Sicilia dai suoi tiranni e il bue che “con tutto che fosse di rame, / pur el pareva dal dolor trafitto” [7]. È stata anche opportunamente rilevata la simmetria tra il grido “Mora-Mora!” degli insorti siciliani e il grido “Martira, Martira!” verso santo Stefano, il protomartire (Purg. XV, 108) [8].

[Per comprendere che la consonanza onomastica di “Cicilia” e “Alessandro”, cioè dell’isola e del tiranno (Inf. XII, 107-108), con la martire romana e con l’imperatore carnefice, non è frutto di fantasia ermeneutica, è necessario riportare un altro esempio. I versi nei quali, a Par. VI, 34ss., Giustiniano racconta la storia del “sacrosanto segno” dell’Aquila hanno un andamento settenario: cfr. Dante all’«alta guerra» tra latino e volgare, 3.4, tab. XXXV, 1-2. La seconda guerra venne condotta contro l’idolatria delle altre nazioni, affinché Cristo, affermatosi come signore e redentore, fosse portato in tutto il mondo. L’aquila ebbe sede ad Albalonga per trecento anni e oltre, fino al combattimento degli Orazi e Curiazi. Poi, nel periodo dei sette re, sottomise i popoli vicini, dal ratto delle Sabine al suicidio di Lucrezia, che causò la cacciata di Tarquinio il Superbo (Par. VI, 37-42). È da notare che “Alba”, cioè Albalonga, allude al colore bianco di Cristo, il quale nella prima guerra “in equo albo … exivit vincens ut vinceret” (Ap 6, 2); che trecento anni durò la seconda guerra, dei martiri contro il paganesimo (prologo, notabile XII). Nelle terzine successive (vv. 43-48) sono presenti ancora temi del secondo stato dei martiri (lo stato precedente non si esaurisce del tutto, ma continua sotto il regime del seguente): il ‘portare’ (v. 43), proprio della seconda tromba (Ap 8, 9); i nomi delle famiglie che caddero combattendo – “i Deci e ’ Fabi” (vv. 47-48) –, le quali trovano singolare corrispondenza coi nomi dell’imperatore Decio e di papa Fabiano fatti appunto nel notabile X del Prologo della Lectura ed entrambi, l’uno come carnefice l’altro come martire, appartenenti al periodo delle persecuzioni; il “volontier mirro” detto dall’aquila, cioè l’onorare la fama con l’incenso che preserva dalla corruzione, che corrisponde al significato del nome della seconda chiesa, Smirne (la chiesa dello stato dei martiri, ad Ap 2, 1), che viene interpretato come “mirra”. Infine, sotto il segno dell’aquila trionfarono giovanetti Scipione e Pompeo (Par. VI, 52-53): lo stato dei martiri corrisponde alla puerizia della Chiesa. Le parole di Giustiniano, dettate dal “sacrosanto segno”, rendono sacra la storia di Roma antica considerata come prefigurazione della storia della Chiesa, marcata anch’essa dai segni della volontà divina (cfr. Monarchia, II, ii, 8).]

 

[LSA, prologus, Notabile I] Secundus (status) fuit probationis et confirmationis eiusdem (primitive ecclesie) per martiria, que potissime inflicta sunt a paganis in toto orbe. […]
Secundus vero proprie cepit a persecutione ecclesie facta sub Nerone imperatore, quamvis alio modo cep[er]it a Stephani lapidatione vel etiam a Christi passione. […]
Secundus est martirum, vitulo in sacrificiis mactato assimilatus. […]
In secundo vero honus passionis et pugna militaris seu triumphalis. […]
Propter quod in primo preeminent pastores ecclesie catholice. In secundo pugiles christiane militie […]

[LSA, cap. IV, Ap 4, 6 (radix IIe visionis)] “Et in medio sedis et in circuitu sedis quattuor animalia” (Ap 4, 6). Per hec quattuor animalia anagogice designantur quattuor perfectiones Dei, quibus sustentant totam sedem ecclesie triumphantis et militantis, scilicet omnipotentia magnanimis et insuperabilis, quasi leo; et patientia seu sufferentia humilis omnium defectus quantum decet subportans et tolerans, quasi bos sub iugo vel curru; et prudentia rationalis omnia discrete et mansuete regens et moderans, quasi homo; et perspicacia altivola omniumque visiva et penetrativa et diiudicativa, quasi aquila.

Purg. XII, 1-3

Di pari, come buoi che vanno a giogo,
m’andava io con quell’ anima carca,
fin che l sofferse il dolce pedagogo.

Inf. XXVII, 7-15

Come ’l bue cicilian che mugghiò prima
col pianto di colui, e ciò fu dritto,
che l’avea temperato con sua lima,
mugghiava con la voce de l’afflitto,
sì che, con tutto che fosse di rame,
pur el pareva dal dolor trafitto;
così, per non aver via né forame
dal principio nel foco, in suo linguaggio
si convertïan le parole grame.

[LSA, prologus, Notabile X] Unde et consimiliter tertius status doctorum seu expositorum inchoatus est sub secundo. Nam Clemens in Alexandria, doctor Origenis doctoris famosissimi, claruit cum ipso ante tempus Silvestri pape et Constantini imperatoris fere per centum annos. Dicitur enim in cronicis quod Origenes, auditor Clementis eiusque in docendi officio successor, claruit anno Domini CCIX° tempore Zepherini pape, ante scilicet sextam persecutionem martirum que cepit sub Maximiano imperatore anno Domini CCXXXVI°, et paulo ante sancta Cecilia fuerat martirizata sub Alexandro imperatore, quamvis et Origenes perduraverit usque ad Fabianum papam, qui sub sexta persecutione facta a Decio est martirizatus.

[LSA, prologus, Notabile XII] Martiria vero, martires configurantia Christo passo et testimonium dantia Christo et fidei eius et virtutis exemplum relinquentia posteris, debuerunt esse multa et diuturna, tum propter maiorem gloriam Christi, tum propter maiorem confirmationem fidei, tum propter maiorem coronam maioremque societatem ipsorum martirum. Unde et a prima persecutione Neronis usque ad persecutionem Iuliani imperatoris et apostate et repulsam idolatriam renovantis fuerunt circiter trecenti anni. Et a passione Christi usque ad pacem christianis datam sub Constantino sunt quasi totidem anni. Qui numerus bene congruit statui martirum pro fide Trinitatis fructum martirii centenarium afferentium.

[LSA, prologus, Notabile III] Item (zelus) est septiformis prout fertur contra quorundam ecclesie primitive fatuam infantiam (I), ac deinde contra pueritiam inexpertam (II), et tertio contra adolescentiam levem et in omnem ventum erroris agitatam (III), et quarto contra pertinaciam quasi in loco virilis et stabilis etatis se firmantem (IV), quinto contra senectutem remissam (V), sexto contra senium decrepitum ac frigidum [et] defluxum (VI), septimo contra mortis exitum desperatum et sui oblitum (VII).

Inf. XII, 107-108

quivi è Alessandro, e Dïonisio fero
che Cicilia aver dolorosi  anni.

Par. VI, 37-39, 43-48, 52-54

Tu sai ch’el fece in Alba sua dimora
per trecento anni e oltre, infino al fine
che i tre a’ tre pugnar per lui ancora.

Sai quel ch’el fé portato da li egregi  8, 9    Romani incontro a Brenno, incontro a Pirro,
incontro a li altri principi e collegi;
onde Torquato e Quinzio, che dal cirro
negletto fu nomato, i Deci e Fabi
ebber la fama che volontier mirro.

Sott’ esso giovanetti trïunfaro
Scipïone e Pompeo; e a quel colle

sotto ’l qual tu nascesti parve amaro.

 

[LSA, cap. II, Ap 2, 1 (IIa ecclesia)] Secunda autem commendatur de passionibus et predicitur multa passura. Sic etiam fuit de secundo statu, scilicet martirum. Et quia martiria purgant, nec sinunt mentem tepescere vel torpescere, ideo ibi de nullo increpatur. Que et merito vocatur Smirna, id est amaritudo consumpta; interpretatur etiam mirra, que est amara et preservans a corruptione.

Purg. I, 73-75

Tu ’l sai, ché non ti fu per lei amara
in Utica la morte, ove lasciasti

la vesta ch’al gran dì sarà sì chiara.

 Inf. XXIV, 109-111

erba né biado in sua vita non pasce,
ma sol d’incenso lagrime e d’amomo,
e nardo e mirra son l’ultime fasce

[LSA, cap. XVIII, Ap 18,  11-13 (VIa visio)] Unde subdit (Ap 18, 11): “Et negotiatores terre flebunt et lugebunt super illam, quoniam mercedes eorum nemo emet amplius”. Quarum aliquas specificat subdens (Ap 18, 12): […]. “Et omnia vasa eboris, et omnia vasa de lapide pretioso et eramento”, id est de ere, “et ferro et marmore (Ap 18, 13) et cinnamomi”, scilicet merces, “et amomi  et odoramentorum”, id est aromatum odoriferorum, “et unguenti et thuris et vini et olei et simile et tritici et iumentorum et ovium et equorum et redarum”, id est curruum, “et mancipiorum et animarum hominum”, scilicet nemo emet amplius. Quidam libri habent “cinnamomum”, sed Ricardus habet illud et sequentia in genitivo; et supple<t> “merces”, scilicet quod merces istorum nemo emet amplius. Amomum autem, secundum Papiam, est dictum quod sicut cinnamomum odorem habeat.

 

3. Monti che fuggono o si spostano:

l’assassinio di Buondelmonte (1216) e la cattività avignonese (1309)

 

Francesco Saverio Altamura, I funerali di Buondelmonte (1861)

Francesco Saverio Altamura, I funerali di Buondelmonte (1861)

È stato giustamente osservato come le parole di Carlo Martello esprimano la consapevolezza di Dante circa la rottura di un’unità politica [9]. Ciò appare ancor più palese se si considera l’esegesi di Ap 16, 18-20. Il secondo preambolo della sesta visione, che descrive la caduta di Babylon, è costituito dal “grande terremoto, di cui non vi era mai stato l’uguale da quando gli uomini furono sulla terra” (Ap 16, 18). Questo terremoto, in quanto è proprio del sesto stato della Chiesa, coincide con il terremoto che avviene in apertura del sesto sigillo (Ap 6, 12). In quanto è proprio della fine del mondo, coincide con quello che avverrà al momento del giudizio finale. In quanto è un segno premonitore della caduta della nuova Babilonia che avviene nel sesto tempo, designa l’accecamento della Chiesa carnale la quale, sotto l’Anticristo mistico (che precede quello aperto, il quale verrà sconfitto dopo la dannazione di Babylon), si muove contro lo spirito evangelico di Cristo. Oppure designa la venuta dei dieci re con i loro eserciti per distruggere la città (Ap 17, 16) e lo sconvolgimento della Chiesa che ne deriva. In ogni caso, anche gli eletti saranno sommamente commossi, ma verso lo Spirito di Cristo e per opera di questo.

La conseguenza è la divisione della città: “La grande città si divise in tre parti” (Ap 16, 19). In fine al capitolo XVII si dice che “la donna che hai vista è la grande città che regna sui re della terra” (Ap 17, 18). Si tratta della Chiesa carnale, diffusa sia a Roma, sia in tutto il regno dei romani o dei cristiani [10]. Delle tre parti, una sarà degli eletti, che curano solo di Cristo e del suo Spirito e si preparano a sostenere con pazienza ogni tribolazione. La seconda parte raccoglierà i carnali che tenteranno di ribellarsi all’Anticristo o ai dieci re. La terza sarà formata dai reprobi fuggiaschi presso l’Anticristo. Le tre parti designano anche le discordie e le divisioni intestine che si verificheranno nella città. In Zaccaria 13, 7-9 si profetizza infatti che la religione evangelica si dividerà in tre parti: “Volgerò la mia mano sopra i deboli, e in ogni parte della terra due parti verranno disperse e periranno, e condurrò la terza parte per il fuoco e l’affinerò come si affina l’oro. Essa invocherà il mio nome e io dirò: ‘questo è il mio popolo’”. Si verificherà anche quanto è scritto in Ezechiele (5, 2ss.) di Gerusalemme, della quale un terzo verrà consumato dal fuoco nell’assedio, un terzo ucciso in battaglia dalla spada nemica, un terzo fatto prigioniero.

Il tema della città divisa per la discordia è nella domanda che Dante pone a Ciacco su Firenze, “città partita” e da “tanta discordia assalita” (Inf. VI, 60-63). Il motivo delle due parti disperse risuona nelle parole di Farinata sui ‘maggiori’ di Dante, a lui fieramente avversi, “sì che per due fïate li dispersi” (Inf. X, 46-48). Il passo del profeta Zaccaria, applicato alla divisione in tre parti della religione evangelica, precisa che due parti verranno disperse, mentre la terza, popolo di Dio, verrà condotta e provata attraverso il fuoco. Messa parzialmente in bocca al fiero ghibellino, significa che, dispersi i ‘maggiori’ di Dante nel 1248 e nel 1260, la terza parte, Dante stesso, non lo sarà. Le fazioni di Firenze, assalita da tanta discordia, sono assimilate alle divisioni della religione evangelica. Viene in mente quanto scriveva Dino Compagni sulla divisione tra Bianchi e Neri, dopo gli scontri tra Cerchi e Donati la sera del calendimaggio 1300: “Divisesi di nuovo la città, negli uomini grandi, mezani e piccolini; e i religiosi non si poterono difendere che con l’animo non si dessono alle dette parti, chi a una chi a una altra” (I, xxii).

Se le vicende fiorentine sono anch’esse ‘storia sacra’, non dovrà poi sorprendere che la difesa di Firenze fatta a Empoli dal ghibellino “a viso aperto”, dopo Montaperti “là dove sofferto / fu per ciascun di tòrre via Fiorenza”, si colori con i fili propri della difesa che gli spirituali faranno della vera vita evangelica impugnata dai reprobi, o della difesa della fede fatta dai martiri e dai dottori che furono come il muro grande e alto della Chiesa, figura di quello della Gerusalemme celeste descritto nella settima visione [11]. Nell’esegesi di questa, alla città celeste sono appropriati temi, come quelli della concordia dei cittadini, della misurata regolarità dell’entrare e dell’uscire e della povertà evangelica, che si ritrovano nella Firenze antica conosciuta da Cacciaguida [12].

Dopo l’esposizione dei due preamboli, subentra il giudizio della Chiesa carnale. Lo sdegno divino nei confronti di Babylon si esprime ad Ap 16, 19 nella coppa (la giusta misura della punizione) e nel vino (che per intimo, amaro gusto, pervade tutte le membra): “Dio si ricordò di lei, nel darle da bere la coppa di vino della sua ira sdegnata”. L’acerbità della pena viene designata dall’accostamento dello sdegno (la giustizia e l’indegnità della colpa intollerabile) all’ira (la vendetta). L’effetto del giudizio divino consiste nelle due parti della pena eterna: la prima (la pena del danno) nella privazione di ogni gaudio, la seconda (la pena dei sensi) nella grandine grossa. La privazione del gaudio è resa con l’immagine della fuga delle isole e della traslazione dei monti – “Ogni isola fuggì e i monti scomparvero” (Ap 16, 20) -, cioè della sovversione di quel che vi sia di più stabile e adatto all’umana quiete in mare, oppure di più sicuro ed eminente in terra.

Un “giusto disdegno”, secondo Cacciaguida, ha posto fine al “viver lieto” di Firenze con l’uccisione di Buondelmonte da parte degli offesi Amidei (1216), che secondo i cronisti avrebbe dato origine alla divisione dei cittadini in guelfi e ghibellini (Par. XVI, 136ss.). La “privatio omnis boni  iocundi” di Ap 16, 20 (la pena del danno), segnata dalla fuga dei monti (“et omnis insula fugit, et omnes montes non sunt inventi”), collazionata con il passo simmetrico di Ap 18, 22-23, si precisa consistere nella privazione della “letitia nuptiarum”, della “vox sponsi et sponse”, un suono che Firenze-Babilonia avrebbe continuato ad ascoltare se Buondelmonte non avesse mal fuggito per una dei Donati le nozze promesse agli Amidei. Buondelmonte : un nome che, quasi per intimo calembour con l’esegesi della sacra pagina [13], contiene in sé letizia (bonum) e stabilità (montes), inopinatamente fuggiti. L’effetto del grande terremoto di Ap 16, 18-19 è appunto quello della divisione intestina della città, evocata da Cacciaguida con l’immagine del giglio “per divisїon fatto vermiglio” (Par. XVI, 154).

Il motivo della sicurezza dei monti, poi traslati, è nella visione delle tribolazioni del carro dell’Eden: Babylon, “una puttana sciolta”, appare seduta sul carro “sicura, quasi rocca in alto monte”, ma viene poi tratta nella selva dal gigante “d’ira crudo” (Purg. XXXII, 148-150, 154-160). Cosa c’è di più sicuro e stabile della Chiesa di Roma, “l’alma” città che, insieme al suo impero, “fu stabilita per lo loco santo / u’ siede il successor del maggior Piero” (Inf. II, 22-24), Chiesa traslata inopinatamente da Filippo il Bello ad Avignone con la connivenza del “nuovo Iasón”?

[Ap 16, 19-20; radix VIe visionis] Ex hiis autem sequetur divisio que subditur (Ap 16, 19): “Et facta est civitas magna in tres partes”. Infra, in fine XVIIi capituli (Ap 17, 18), dicitur quod “mulier, quam vidisti, est civitas magna, que habet regnum super reges terre”. Hec ergo est ecclesia carnalis, tam Rome quam in toto regno romanorum seu christianorum diffusa. Trium autem partium eius erit una electorum, de solo Christo et eius spiritu curantium et ad omnem tribulationem patienter sustinendam preparatorum. Secunda erit carnalium Antichristo seu decem regibus rebellare conantium. Tertia erit aliorum reproborum ad Antichristum confugientium seu confugere disponentium. Potest etiam per hoc designari quecumque intestina discordia et divisio tunc temporis futura in ipsa. Nam et Zacharie XIII° (Zc 13, 7-9) dicitur evangelica religio consimiliter dividenda tunc temporis in tres partes, cum dicitur: “Et convertam manum meam ad parvulos, et erunt in omni terra: partes due in ea dispergentur et deficient, et ducam tertiam partem per ignem et probabo eos sicut probatur aurum. Ipse invocabit nomen meum, et dicam: Populus meus es” et cetera, quamvis hoc in parte in primitiva ecclesia sub apostolis sit impletum. […]

Inf. VI, 60-63; X, 46-48

ma dimmi, se tu sai, a che verranno
li cittadin de la città partita;
s’alcun v’è giusto; e dimmi la cagione
per che l’ha tanta discordia assalita.

poi disse: “Fieramente furo avversi
a me e a miei primi e a mia parte,
sì che per due fïate li dispersi”.

Secundo igitur post duo predicta preambula subditur iudicium ecclesie carnalis, cum dicitur: “Et Babilon magna”. Babilon, ut superius dixi, vocatur quia per enormem et effrenatam multitudinem vitiorum est in ea omnis status et ordo confusus. Babilon enim confusio interpretatur. “Venit in memoriam ante Deum dare ei”, id est ad dandum ei, “calicem vini indignationis ire eius”. Deus videtur oblitus malitie peccantium quamdiu non punit aperte illam; quando autem aperte illam iudicat et punit tunc videtur recordari ipsius, non quidem ad ipsam glorificandam, sed potius puniendam. Per “calicem” autem designatur iusta mensura, quia non punit ultra condignum. Quia vero vinum potatum intrat celeriter usque ad intima gustus et viscerum et cito incorporatur omnibus membris, ideo pena amarissima sepe designatur per amaram potionem vini amarissimi.
Dicit autem “indignationis ire eius”, tum ut per ingeminationem et reflexionem ire in iram designetur magnitudo et vehementia ire et penalis acerbitatis a Dei severa iustitia procedentis, tum quia per iram designatur magnitudo vindicte, per indignationem vero iustitia eius seu indignitas culpe. Indignamur enim contra illud quo invehimur tamquam indignum tolerari et tamquam contra illud quod digne vel dignative tolerare nequimus.
Deinde effectum huius iudicii insinuat quoad duas partes pene eterne. Quarum prima est pena dampni, scilicet privatio omnis boni iocundi, et hanc tangit cum subdit: “Et omnis insula fugit, et omnes montes non sunt inventi” (Ap 16, 20). Sicut in terra nichil firmius et eminentius aut tutius  quam montes, sic in mari nichil stabilius et humane quieti aptius quam insule, et ideo per consumptionem seu non inventibilem subversionem vel per translationem omnium montium et insularum, tam hic quam supra sub apertione sexti sigilli (cfr. Ap 6, 14), designatur consumptio vel subversio solidiorum et eminentiorum et immobiliorum statuum et urbium et ecclesiarum et regnorum totius carnalis ecclesie.

 Inf. XXV, 16-18

El si fuggì che non parlò più verbo;
e io vidi un centauro pien di rabbia
venir chiamando: “Ov’ è, ov’ è l’acerbo?”.

[Ap 9, 19; IIIa visio, VIa tuba] Rabies vero iracundie terribilis et crudelis et commina-tionum eius est apta ad flectendum et subi-ciendum omnes pusillanimes ad illorum vo-tum et sectam.

 Par. XVI, 136-144, 151-154

La casa di che nacque il vostro fleto,
per lo giusto disdegno che v’ha morti
e puose fine al vostro viver lieto,
era onorata, essa e suoi consorti:
o Buondelmonte, quanto mal fuggisti
le nozze  süe per li altrui conforti!

Molti sarebber lieti, che son tristi,
se Dio t’avesse conceduto ad Ema
la prima volta ch’a città venisti.

Con queste genti vid’ io glorïoso
e giusto il popol suo, tanto che ’l giglio
non era ad asta mai posto a ritroso,
per divisïon fatto vermiglio.

 

Purg. XXXII, 148-150, 157-160

Sicura, quasi rocca in alto monte,
seder sovresso una puttana sciolta
m’apparve con le ciglia intorno pronte

poi, di sospetto pieno e d’ira crudo,
disciolse il mostro, e trassel per la selva,
tanto che sol di lei mi fece scudo
a la puttana e a la nova belva.

[Ap 18, 22-23 VIa visio] Deinde ostendit quomodo (Babilon) omni iocundo cantico seu gaudio, et omni utili et etiam curioso opere et artificio, et iocunda luce et nuptiis erit ex tunc omnino et in eternum privata, unde subdit (Ap 18, 22-23): “Et vox citharedorum” et cetera; “et vox”, id est sonus, “mole”, molentis scilicet triticum vel alia utilia, et cetera; “et vox sponsi et sponse”, id est letitia nuptiarum, “non audietur adhuc”, id est amplius seu de cetero, “in te”.

Inf. XIII, 70-72

L’animo mio, per disdegnoso gusto,
credendo col morir fuggir disdegno,
ingiusto fece me contra me giusto

4. Rodano e Sorgue: due fiumi significanti

 

Quella sinistra riva che si lava
di Rodano poi ch’è misto con Sorga,
per suo segnore a tempo m’aspettava

(Par. VIII, 58-60)

 

A Cristo uomo vengono ascritti sette notabili primati (Ap 1, 5-7). Ciò affinché non venga considerato fragile e spregevole a motivo di quanto ha patito nella passione e nella morte e del disprezzo da parte degli infedeli. I temi relativi al secondo, terzo, quarto e quinto primato (Ap 1, 5) si ritrovano nelle parole di Carlo Martello. Al “principari” sui re della terra e sulle gerarchie angeliche (terzo primato) fanno riferimento i versi: “Noi ci volgiam coi principi celesti / d’un giro e d’un girare e d’una sete” (Par. VIII, 34-35). Il riferimento è tanto più consono se si considerano i ripetuti accenni ai regni terreni presenti nel discorso dell’angioino. Anche l’inciso rivolto a Dante – “ai quali tu del mondo già dicesti: / ‘Voi che ’ntendendo il terzo ciel movete’” (ibid., 36-37) – sembra contenere un accenno allo stimare le cose mondane (“tu del mondo”) più di quelle spirituali («Propter tamen sensuales, qui plus estimant reges et regna terre quam celi, dicit “regum terre”, et etiam contra credentes Christum et eius angelos principari solum in regno celi et non in toto regno terrarum seu inferiorum»), poiché la canzone commentata nel secondo trattato del Convivio concerne l’amore per la Filosofia, “la bellissima e onestissima figlia dello Imperadore dell’universo” (II, xv, 12), donna che presiede al regime della beatitudine terrena, della quale il poeta s’innamorò appresso il suo primo amore per Beatrice e il cui pensiero fece fuggire, in quanto contrario, il soave pensiero della prima donna che gloriosa contemplava il regno dei beati (ibid., II, vii, 9). Non è casuale che Carlo Martello integri l’“intendendo” della canzone terrena – che si rivolge alle intelligenze motrici del cielo di Venere “collo intelletto solo” (ibid., II, vi, 2) – con il tema del primato dell’amore, quarto di Cristo uomo: “e sem sì pien d’amor … Assai m’amasti … io ti mostrava / di mio amor più oltre che le fronde” (Par. VIII, 38, 55-57). “Luce intellettüal, piena d’amore” dirà Beatrice sulla soglia dell’Empireo (Par. XXX, 40).

Il motivo del lavare i peccati (quinto primato di Cristo; Olivi usa l’immagine dei lebbrosi purgati e sanati col bagno di sangue caldo) è pure presente nel discorso di Carlo: “Quella sinistra riva che si lava / di Rodano poi ch’è misto con Sorga” (Par. VIII, 58-59; «Secundo primatum resurrectionis, cum dicit: “primogenitus ex mortuis”»), cioè la Provenza, indicata come riva sinistra del Rodano (l’essere ‘sinistro’ allude a un significato terreno e temporale: la “sinistra cura” che, a Par. XII, 128-129, Bonaventura dice di aver posposto “ne’ grandi offici”). “Si lava di Rodano” significa ‘bagnata dal Rodano’. Già in Uguccione da Pisa l’impetuoso Rodano non godeva di buona fama etimologica – “Rodanus quia rodat ripas, vel a rodanizo quia torquet lapides et arbores evellit impetu suo” [14] – e Petrarca non sarà da meno, nella seconda epistola delle Sine nomine, dove non risparmierà neppure la sua “Sorga” – “O impudenter elati, o irreverentes et indevoti amnes! O non tua sorbens, et tumide in dominum surgens Sorga! O Rodanus rodens omnia! Sic Tyberim recognoscitis? Sic dominum honoratis?”. Dante non nomina mai Avignone, né sembra alludervi per calembour, ma non ha del Rodano, il fiume che vi scorre in mezzo, un buon concetto: ad Arles “stagna”, cioè s’impaluda (Inf. IX, 112; “stagno” è definito Cocito a Inf. XIV, 119) e sarà pure connotazione negativa, a Par. VI, 60, il verso “e ogne valle onde Rodano è pieno” che vide le folgoranti imprese di Cesare. Ma il Rodano è mischiato con la Sorgue (per la verità attraverso l’Ouèze) e ciò sembra dare a “si lava” un valore di purificazione. E certo il regno del figlio di Carlo II d’Angiò sarebbe stata sì “sinistra cura”, ma retta da un vero monarca che miri alla pace e al bene dei sudditi.

Nel canto seguente, riprendendo il tema del lavarsi senza citare esplicitamente il verbo, Folchetto di Marsiglia ricorda il “sangue … caldo” che la sua patria versò nella strage operata da Bruto per conto di Cesare (Par. IX, 91-93; il verso è reminiscenza da Lucano, Phars., III, 572-573, ma l’essere “caldo” del sangue non c’è nel poeta pagano).

[Ap 1, 5; septem notabiles primatus Christi secundum quod homo] Secundo primatum resurrectionis, cum dicit: “primogenitus ex mortuis”. Quidam habent “mortuorum”, id est a mortuis, secundum quod ad Romanos I° (Rm 1, 4) dicitur: “ex resurrectione mortuorum Ihesu Christi”, id est ex resurrectione Ihesu Christi ex mortuis, id est a morte seu a statu mortis. Resurrectio enim gloriosa vocatur generatio, Matthei XIX°, cum dicitur (Mt 19, 28): “in regeneratione, cum sederit Filius hominis in sede maiestatis sue, sedebitis et vos” et cetera. Christus autem hanc obtinuit primo primitate temporis et dignitatis et causalitatis et exemplaritatis, et ideo dicitur “primogenitus mortuorum” seu “ex mortuis”.
Tertio primatum supreme et universalis dominationis, cum ait: “et princeps regum terre”. Per reges terre intelligit non solum homines, sed etiam superiores angelos qui celesti hierarchie et subcelesti principantur. Propter tamen sensuales, qui plus estimant reges et regna terre quam celi, dicit “regum terre”, et etiam contra credentes Christum et eius angelos principari solum in regno celi et non in toto regno terrarum seu inferiorum.
Quarto primatum dilectionis, cum dicit: “qui dilexit nos”.
Quinto primatum nostre iustificationis et redemptionis, quam iustificationem tangit dicendo: “et lavit nos a peccatis nostris”; redemptionem vero cum subdit: “in sanguine suo”, id est in merito sue passionis et mortis cuius modum et speciem exprimit sanguis effusus. Servat autem methaforam leprosorum, qui per balneum sanguinis mundi et calidi expurgantur et sanantur. Premisit autem “qui dilexit nos”, ad monstrandum quod ipse nos redemit et lavit non ex sua necessitate vel utilitate, vel ex debito vel ex timore aut ex coactione, sed ex sua sola misericordia et gratuita caritate.

Purg. XI, 28-36:

disparmente angosciate tutte a tondo
e lasse su per la prima cornice,
purgando la caligine del mondo.
Se di là sempre ben per noi si dice,
di qua che dire e far per lor si puote
da quei c’hanno al voler buona radice?
Ben si de’ loro atar lavar le note
che portar quinci, sì che, mondi e lievi,
possano uscire a le stellate ruote.

Par. VIII, 34-39, 55-60; IX, 91-93:

Noi ci volgiam coi principi celesti
d’un giro e d’un girare e d’una sete,
ai quali tu del mondo già dicesti:
Voi che ’ntendendo il terzo ciel movete’ ;
e sem sì pien d’amor, che, per piacerti,
non fia men dolce un poco di quïete.

Assai m’amasti, e avesti ben onde;
che s’io fossi giù stato, io ti mostrava
di mio amor più oltre che le fronde.
Quella sinistra riva che si lava
di Rodano poi ch’è misto con Sorga,
per suo segnore a tempo m’aspettava

Ad un occaso quasi e ad un orto
Buggea siede e la terra ond’ io fui,
che fé del sangue suo già caldo il porto.

 

Lucano, Phars., III, 572-573:

……………… Cruor altus in unda
spumat, et obducti concreto sanguine fluctus.

 

La Sorgue (Vaucluse)

La Sorgue (Vaucluse)

In coerenza con quanto allegoricamente dice dei primati di Cristo in quanto uomo, Carlo Martello si presenta: “Il mondo m’ebbe / giù poco tempo; e se più fosse stato, / molto sarà di mal, che non sarebbe” (Par. VIII, 49-51). In ciò allude al suo essere conforme con Cristo, e sollecita la memoria del lettore verso l’esegesi di Ap 6, 12. Trattando dell’apertura del sesto sigillo, che ha quattro diversi inizi temporali, Olivi pone la questione del perché Francesco, angelo del sesto sigillo, non fu presente personalmente nel terzo (nel momento della nuova predicazione degli Spirituali) e nel quarto inizio (la distruzione di Babylon) della sua apertura, così come Cristo visse con i suoi apostoli nell’inizio della nuova legge al tempo della sua predicazione e crocifissione, corrispondente al terzo inizio. Dal tempo di Francesco (la cui conversione si colloca nel 1206) al terzo inizio (il momento in cui il suo Ordine consegue la piena maturità) trascorre infatti tutto il tredicesimo secolo. Delle otto risposte fornite, nella quarta si afferma che Cristo fu nel mondo poco tempo e infuse il suo alto spirito nei discepoli, istituendo la Chiesa, solo dopo la propria morte e resurrezione. Non ebbe bisogno di molto tempo per dotarsi della forza necessaria a sostenere la condanna da parte dei Giudei. L’Ordine evangelico rinnovato da Francesco, e il popolo da esso condotto, non poteva invece essere disposto a subire una condanna simile a quella di Cristo prima di essersi propagato e reso solenne in più generazioni (almeno due o tre).

La conformità con Cristo di Carlo Martello, nella brevità della vita, si palesa ancora nel tema, proprio della chiesa di Filadelfia (Ap 3, 7), dell’essere diletti da Cristo. Come negli attivi anacoreti del quarto stato rifulse l’amore verso Cristo, così nei contemplativi del sesto rifulge il loro essere diletti da Cristo, non diversamente da quel che si dice di Pietro, che amò Cristo, e di Giovanni, che fu prediletto da Cristo. In tal modo prerogativa del sesto stato è di essere disposto a ricevere e a patire, e in ciò si differenzia dagli stati precedenti, disposti a fare e a dare. È questo tema che si travasa nell’amore di Carlo verso il poeta – “dilectus a Christo”, per quanto fosse stato anch’egli attivo (“Assai m’amasti”) – amore che l’angioino avrebbe portato fino ai frutti se fosse vissuto più a lungo (Par. VIII, 55-57). Così si può dire di Stazio, il quale ha amato Virgilio, ed è stato poi da questi amato (dopo che Giovenale, arrivato nel Limbo, gli ha reso noto l’affetto: Purg. XXII, 13-18) [15], o di Forese che molto amò la sua Nella, diletta da Dio (Purg. XXIII, 91-93).

Carlo Martello si presenta dunque a Dante come “alter Christus” – prerogativa che nell’Olivi è riservata a Francesco – e ciò getta una luce intensa sull’incontro fiorentino tra i due di più di vent’anni prima (1294). Non è solo l’angioino ad essere segnato da siffatta conformità. Il tema della necessità di un lasso di tempo perché l’Ordine evangelico e il suo popolo siano disposti a ricevere l’alto spirito di Cristo si ritrova infatti nelle parole con cui Beatrice nell’Empireo mostra a Dante il gran seggio “de l’alto Arrigo, ch’a drizzare Italia / verrà in prima ch’ella sia disposta” (Par. XXX, 133-138). Arrigo VII come Cristo, come Francesco; l’Italia come l’Ordine francescano. Il ‘drizzare’ proviene dall’esegesi di Ap 11, 1, dove il “calamus” simile a una verga, che viene dato a Giovanni per misurare il Tempio, designa l’autorità nel governare propria dei pontefici e dei maestri, la virtù e la giustizia capace di correggere, drizzare e dirigere rettamente la Chiesa di Dio [16].

Né l’imitazione di Cristo e di Francesco si estende solo ai regnanti e ai regni, perché anche gli individui ne vengono segnati. Come si afferma nell’ottava risposta al quesito sopra ricordato (Ap 6, 12), negli inizi del rinnovamento della vita evangelica vennero seminati errori spirituali contro di essa, i quali necessitano di tempo per emettere spine perfette e per gettare fuori tutto il veleno. Come Erode uccise i bambini per uccidere Cristo, così nell’infanzia dell’Ordine francescano il nuovo Erode costituito dai dottori carnali condannò lo stato della mendicità evangelica uccidendo molti buoni e teneri concetti. In attesa del secondo Erode, è necessario istruire gli eletti contro gli errori e le insidie, perché queste, nella tentazione ventura, feriscano di meno.

Beatrice, rimproverando Dante nell’Eden per essersi fatto subito attrarre dopo la sua morte dal desiderio di cose terrene “per lo primo strale de le cose fallaci”, lo tratta come un fanciullo, più ingenuo di un “novo augelletto” che almeno aspetta due o tre colpi prima di diventare esperto dei pericoli: il poeta qui impersona il cammino di tirocinio dell’Ordine francescano che deve avvenire, almeno, in due o tre generazioni (ottava risposta), fino alla perfetta età virile (seconda risposta), che è il momento in cui Dante inizia il viaggio. Così egli sta dinanzi alla donna muto e vergognoso, come un fanciullo nel pentimento, mentre Beatrice, nel chiedergli di alzare la barba, segno di virilità, usa un argomento ‘velenoso’ (Purg. XXXI, 49-75). Il tema del “mal seme” e dell’infanzia sono pure presenti nel canto precedente, appropriato l’uno al “buon vigor terrestro” delle doti del poeta, l’altro agli “occhi giovanetti” della donna, diventati dopo la morte men cari e men graditi, come gli avversari della povertà evangelica sentono meno la necessità della rinuncia (Purg. XXX, 118-123; 127-129). Sarà lo stesso Dante, ormai pienamente maturato, a chiedere a Cacciaguida di prepararlo alle insidie future, “ché saetta previsa vien più lenta” (Par. XVII, 27).

Come l’Italia, non disposta rispetto all’alto Arrigo, per cieca cupidigia si è resa simile “al fantolino / che muor per fame e caccia via la balia” (Par. XXX, 139-141), così Dante, rispetto a Beatrice, non ha aspettato la maturità per affrontare i pericoli e, fanciullo, ha smarrito “la diritta via”. Ma quali erano questi pericoli ai quali allude Beatrice, incontrati allorché “di carne a spirto era salita”? Nei versi essi sono presentati in varie forme: “via non vera” (Purg. XXX, 130), “imagini di ben … false” (ibid., 131), “memorie triste” (Purg. XXXI, 11), “fossi attraversati”, “catene” (ibid., 25), “agevolezze”, “avanzi” (ibid., 28), “le presenti cose col falso lor piacer” (ibid., 34-35), “cosa mortale” (ibid., 53), “cose fallaci” (ibid., 56), “o pargoletta / o altra novità con sì breve uso” (ibid., 59-60). Questo non essere del tutto disposto, per il troppo riverire la sua donna, è ancora sottolineato da Beatrice a Purg. XXXIII, 19-21. Il rimprovero di Beatrice (si può discutere sul reale oggetto di esso) è tessuto su quanto scrive Olivi circa le tentazioni che l’Ordine francescano deve subire prima di pervenire a perfetta maturità (i “fossi attraversati” o le “catene” corrispondono ai “fundamenta et machinamenta” escogitati dagli erranti contro la verità evangelica).

[Ap 6, 12; IIa visio, apertio VIi sigilli]

[secunda ratio] Secunda ratio est quia persone Christi correspondet in sexta apertione unus ordo plurium personarum sic secundum suam proportionem augendus, sicut Christus secundum suum corpus fuit usque ad perfectam etatem viriliter auctus. […]

[quarta ratio] Quarta est quia, prout super evangelia ostendi, Christus parvo tempore debuit inter nos vivere et pauciori predicare, nec suis discipulis altum spiritum debuit dare usque post eius mortem et resurrectionem, ac per consequens nec ecclesiam suam sollempniter instituere per eosdem, nec ipse per se eguit multo tempore roborari ad sustinendum condempnationem a summis pontificibus Iudeorum et ab omnibus consentientibus eis. Nisi autem ordo evangelicus, per Franciscum renovatus, esset in multis et saltem sub duabus vel tribus generationibus propagatus et sollempnizatus, non esset nec ipse nec populus ab eo ducendus sufficienter dispositus ad  tam autenticam condempnationem condempnationi Christi consimilem subeundam. […]

[octava ratio] Octava ratio est quia spiritales errores contra regulam evangelicam oportuit prius callide et fortiter seminari et radicari antequam perfectas spinas emittant et priusquam evomant suum totale venenum. Institutio autem ordinis evangelici et regule eius dedit multis occasionem invidie et zeli amari contra ipsam et excogitandi contraria sibi. Unde et sicut primus Herodes necavit infantes ut occideret Christum infantem, sic circa primordialem infantiam huius ordinis regibus mundi devote adorantibus Christi paupertatem in ipso, novus Herodes doctorum carnalium dampnavit statum evangelice mendicitatis. Ex quo multi boni et teneri conceptus in pluribus sunt necati, isteque error varias radices misit et mittet usquequo surgat secundus Herodes, oportuit etiam, ut contra, electos per oppositum zelum et exercitium erudiri contra huiusmodi errorum  fundamenta et machinamenta, ut in die temptationis minus feriantur et concutiantur a iaculis iam premissis.

Par. VIII, 49-51:

Così fatta, mi disse: “Il mondo m’ebbe
giù poco tempo; e se più fosse stato,
molto sarà di mal, che non sarebbe.”

Par. XXX, 133-141:

E ’n quel gran seggio a che tu li occhi tieni
per la corona che già v’è sù posta,
prima che tu a queste nozze ceni,
sederà l’alma, che fia giù agosta,
de l’alto Arrigo, ch’a drizzare Italia
verrà in prima ch’ella sia disposta.
La cieca cupidigia che v’ammalia
simili fatti v’ha al fantolino
che muor per fame e caccia via la balia.

Purg. XXXIII, 19-21:

e con tranquillo aspetto “Vien più tosto”,
mi disse, “tanto che, s’io parlo teco,
ad ascoltarmi tu sie ben disposto”.

 

 

Purg. XXX, 118-126:

Ma tanto più maligno e più silvestro
si fa ’l terren col mal seme e non cólto,
quant’ elli ha più di buon vigor terrestro.
Alcun tempo il sostenni col mio volto:
mostrando li occhi giovanetti a lui,
meco il menava in dritta parte vòlto.
Sì tosto come in su la soglia fui
di mia seconda etade e mutai vita,
questi si tolse a me, e diessi altrui.

Purg. XXXI, 25-27, 43-46, 58-65, 74-75:       

quai fossi attraversati o quai catene
trovasti, per che del passare innanzi
dovessiti così spogliar la spene?

Tuttavia, perché mo vergogna porte
del tuo errore, e perché altra volta,
udendo le serene, sie più forte,
pon giù il seme del piangere e ascolta: ……

“Non ti dovea gravar le penne in giuso,
ad aspettar più colpo, o pargoletta
o altra novità con sì breve uso.
Novo augelletto due o tre aspetta;
ma dinanzi da li occhi d’i pennuti
rete si spiega indarno o si saetta”.
Quali fanciulli, vergognando, muti
con li occhi a terra stannosi, ascoltando ……

e quando per la barba il viso chiese,
ben conobbi il velen de l’argomento.

[Ap 3, 7; Ia visio, VIa ecclesia] Rursus quia in contemplativis plus refulget dilectio Christi ad eos, in activis vero plus refulget dilectio eorum ad Christum, unde Iohannes, in quo prerogativa contemplationis est designata, potius dicitur predilectus a Christo quam prediligens Christum; Petrus vero, in quo fervor active est presignatus, potius dicitur prediligens Christum quam predilectus, prout patet Iohannis ultimo (Jo, 21, 15/20) et prout Augustinus super eodem loco exponit, idcirco angelus huius sexte ecclesie potius laudatur  a Christo dilectus, cum dicitur infra: “quia ego dilexi te” (Ap 3, 9).

Par. VIII, 55-57:

Assai m’amasti, e avesti ben onde;
che s’io fossi giù stato, io ti mostrava
di mio amor più oltre che le fronde.

Par. XXXIII, 40-42:

Li occhi da Dio diletti e venerati,
fissi ne l’orator, ne dimostraro
quanto i devoti prieghi le son grati

 

Purg. XXII, 13-18:

onde da l’ora che tra noi discese
nel limbo de lo ’nferno Giovenale,
che la tua affezion mi fé palese,
mia benvoglienza inverso te fu quale
più strinse mai di non vista persona,
sì ch’or mi parran corte queste scale.

Purg. XXIII, 91-93:

Tanto è a Dio più cara e più diletta
la vedovella mia, che molto amai,
quanto in bene operare è più soletta

5. L’impazienza che non può aspettare: l’apertura del quinto sigillo (Ap 6, 9/11)

"i' dico di Traiano imperadore" (Par. X, 76)

“i’ dico di Traiano imperadore” (Purg. X, 76)

“Quella sinistra riva … per suo segnore a tempo m’aspettava … E la bella Trinacria … attesi  avrebbe li suoi regi ancora …”. Nelle parole di Carlo Martello, l’attendere dei “popoli suggetti”, infranto dal terremoto in apertura del sesto sigillo, è tema dall’ampio sviluppo, proprio dell’apertura del sigillo precedente, il quinto, ove si dice a quanti desiderano ardentemente la vendetta di Dio sui reprobi di aspettare il completarsi del numero degli eletti e le grandi cose che si compiranno nella sesta apertura.

Il chiamare dei santi martiri affinché la giustizia divina vendichi il loro sangue viene considerato in più punti da collazionare (Ap 5, 1 si riferisce al difetto che rende chiuso il quinto sigillo; Ap 6, 9-11 ai mali presenti nella Chiesa all’inizio e alla fine del quinto stato). Da tutti questi passi si deduce che all’apertura del quinto sigillo i santi, rattristati fino alla disperazione per i mali che invadono la Chiesa, chiedono a gran voce che venga fatta sùbita vendetta contro i carnali del quinto tempo che dispregiano Cristo e i suoi. Con grande desiderio gridano a Dio: “Fino a quando, Signore, tu che sei santo e verace, non farai giustizia e non vendicherai il nostro sangue contro gli abitanti della terra?”. Nel “fino a quando” sta la loro insofferenza ad attendere ancora una vendetta rinviata e che la giustizia divina non può ulteriormente procrastinare. Poiché santo, Dio non può non odiare l’iniquità, e in quanto vero non può non mettere in pratica i mali minacciati e i beni promessi. Tuttavia ai santi del quinto stato viene detto di quietarsi e di aspettare le cose grandi che avverranno all’apertura del sesto sigillo, allorché saranno rivelati segreti fino allora chiusi e si rinnoveranno i gloriosi martìri in modo che il numero degli eletti sia completato.

Il tema del santo desiderio di vendetta che chiama contro i malvagi e che non soffre altra attesa risuona più volte nel poema. Il grande desiderio di Dante di vedere Filippo Argenti attuffato nella broda dello Stige viene soddisfatto mentre tutti gridano “A Filippo Argenti!” (Inf. VIII, 52-63). In principio del canto successivo, a Virgilio tarda l’arrivo del messo celeste che faccia vendetta dei diavoli che hanno chiuso le porte della città di Dite (Inf. IX, 9).

I Malebranche non sono estranei a tale sentimento. Chinano i loro uncini sul poeta per accoccargli un colpo sul groppone, ma vengono trattenuti da Malacoda (Inf. XXI, 100-105). I “maladetti” invitano Rubicante a scuoiare lo sciagurato Ciampolo, ma vengono fermati da Barbariccia affinché Virgilio possa domandare per conto di Dante. Poco dopo, però, Libicocco, ritenendo di aver atteso troppo  – “troppo avem sofferto” – gli porta via con l’uncino un brandello di braccio (Inf. XXII, 40-42, 70-72; il maledire appartiene alla tematica del quinto sigillo, ad Ap 5, 1: la sentenza di maledizione nei confronti di chi non rispetta la vecchia legge rende chiuso il sigillo, che apre invece la “pietas indulgens” di Cristo come di una madre verso il figlio). Il conte Ugolino chiama due volte i figli dopo morti e il desiderio del poeta che Pisa venga punita si sfoga nell’invettiva che succede all’episodio (Inf. XXXIII, 74, 79-84; in questo caso, il chiamare e l’esigere vendetta coincidono con i motivi analoghi contenuti nell’esegesi della sesta tromba, ad Ap 9, 13) [17] .

Il tema compare ben tre volte fra gli avari e i prodighi del Purgatorio, in una zona (il quinto girone) che  principalmente si riferisce al quinto stato. La prima volta è il poeta a maledire l’antica lupa e a domandare al cielo il momento dell’arrivo del Veltro (Purg. XX, 10-15). La seconda volta è Ugo Capeto a chiedere sùbita vendetta a colui che tutto giudica a nome di Douai, Lille, Gand, Bruges vessate da Filippo il Bello (ibid., 46-48), come i santi del quinto stato dai quali “expetitur instanter et alte iusta vindicta”. Ancora Ugo Capeto si rivolge a Dio chiedendogli quando potrà godere la gioia di vedere attuata la vendetta per ora nascosta nel suo segreto, chiusa cioè fino a quando, nel sesto stato, verrà il giudizio di Babylon (ibid., 94-96). Terminato l’episodio di Ugo Capeto, un terremoto scuote la montagna: si tratta di un’allusione al terremoto con cui si apre il sesto sigillo (ibid., 127-141) [18]. Allo stesso gruppo tematico appartiene l’accenno di Stazio alla vendetta della passione di Cristo compiuta dal “buon Tito” con la distruzione di Gerusalemme (Purg. XXI, 82-84): il senso letterale è un dato autobiografico di Stazio, quello spirituale un’allusione alla caduta della nuova Babilonia preceduta dal ricordato terremoto, prefigurato dalla fine della vecchia Sinagoga (cfr. prologo, notabile XI).

Il tema viene usato ancora nell’apostrofe alla “serva Italia” di Purg. VI, con il rivolgersi al “sommo Giove” crocifisso in terra per chiedergli se rivolga altrove i suoi giusti occhi (vv. 118-123). Un ulteriore passo che può essere accostato agli altri è ad Ap 2, 23 (prima visione, quarta chiesa), dove si fa riferimento al fatto che Dio, i cui occhi di fuoco vedono e penetrano tutto, talvolta non punisce i peccatori secondo quanto giustizia esige, e allora sembra ignorare i mali.

L’episodio di Traiano e della vedovella, scolpito nel marmo del primo girone del Purgatorio (Purg. X, 73-93), raffigura la misera madre che chiede vendetta al ‘signore’ della morte del proprio figlio, e che avvenga presto, per un dolore che “s’affretta”. La vedovella chiama l’imperatore “Segnor mio”, come Ugo Capeto che si rivolge a Dio perché punisca il suo sangue. Sta “al freno”, che è tema della quinta tromba (Ap 9, 1), dove designa la rigida e severa disciplina verso i sudditi applicata dai prelati del principio ‘bello’ del quinto tempo. Traiano le risponde di aspettare il suo ritorno, che è quanto viene detto ai santi del quinto stato desiderosi di vendetta. Alla fine Traiano decide di compiere il proprio dovere prima di partire, perché “giustizia vuole e pietà mi ritene”, dove l’esigenza di giustizia fa parte dei temi proposti ad Ap 6, 9-11 (“cum iustitia tua exigat”) e la pietà è tema proprio del quinto stato. Anche l’espressione “Or ti conforta” appartiene al gruppo, essendo riferita nel quinto sigillo alla Chiesa romana, “confortata” da Dio nel suo vigore presso i latini del quinto stato (Ap 6, 11). Traiano, che pietoso rende giustizia alla vedovella, è il modello di quello che dovrebbe fare e non fa Alberto tedesco, il quale (Purg. VI, 97ss.) non viene a vedere la sua Roma “che piagne vedova e sola” come la madre privata del figlio dinanzi al suo glorioso predecessore nel “roman principato”. La diffusissima leggenda, che Dante aveva certo presente, mostra dunque una diversa armatura spirituale.

Chi non ha aspettato, è stato Cesare indotto dallo scismatico Curione, il quale sta nella nona bolgia “con la lingua tagliata ne la strozza”. Vorrebbe non aver mai visto la terra di Rimini dove, scacciato da Roma, spense il dubbio di Cesare se passare o no il Rubicone, affermando che il differire sempre nuoce a chi è pronto (Inf. XXVIII, 97-102). L’episodio deriva da Lucano – “tolle moras; semper nocuit differre paratis … affermando che ’l fornito / sempre con danno l’attender sofferse” -, ma la Pharsalia (I, 269, 280-281) concorda con la Lectura super Apocalipsim. L’attendere, tema che si oppone al motivo del “fornito”, deriva appunto dal quinto sigillo (Ap 6, 9/11), alla cui apertura viene espresso il desiderio dei santi di vedere vendicati i mali della Chiesa: perché differire la vendetta divina? Ai santi viene risposto che l’esecuzione della giustizia divina deve attendere fino al momento in cui sia raggiunto il numero di eletti prestabilito. I tre motivi addotti per attendere gli altri eletti – l’essere tutti conservi dello stesso Signore, la mutua fraternità dallo stesso Padre, la conformità nel martirio – bene si adattano a un caso di guerra civile.

L’attendere di Traiano è speculare a quello di Cesare, con effetti però diversi quanto alle cause della rimozione. Nel primo caso è la vedovella che chiede giustizia, nel secondo Curione che spinge Cesare alla guerra civile, cioè allo scisma ereticale, e come tale è punito. Ciò anche se le parole dello scismatico sono servite agli occulti giudizi divini, che ha voluto le folgoranti imprese sotto il vittorioso e reverendo segno dell’aquila, allorché “Cesare per voler di Roma il tolle” (Par. VI, 57) [19].

Il Vespro siciliano è stato anch’esso un non attendere, determinato dalla “mala segnoria” angioina, con l’effetto dell’irreparabile scisma della Sicilia dal resto d’Italia. Di questa scissione è antica prefigurazione “l’alpestro monte ond’ è tronco Peloro”, di cui dice Guido del Duca a Purg. XIV, 32. “Troncare” non è verbo casuale. Appartiene ai suicidi incarcerati nella mesta selva, che hanno diviso l’anima dal corpo, come ai seminatori di scandalo e scisma. È tema tipico del terzo stato della Chiesa, allorché i dottori con la spada della ragione spezzano le eresie che dividono la Chiesa. Una tematica che topograficamente nell’Inferno si ritrova con Ciacco e Pier della Vigna, Niccolò III, Curione e i suoi compagni di pena, Lucifero che maciulla i sommi traditori, Giuda, Bruto e Cassio: da Firenze, “città partita”, alla divisione di sé stessi, allo strazio della Chiesa, agli scismi fino ai traditori di Cristo e del “voler di Roma”. L’espressione “se mala segnoria, che sempre accora / li popoli suggetti” richiama “ond’io m’accoro” detto dalla vedova a Traiano, esempio di ‘buona signoria’ nel rinunciare ad attendere nel far vendetta, mentre l’ingiusto dominio angioino ha reso vano l’attendere della discendenza del giusto Carlo Martello vissuto, come Cristo, per poco tempo.

È da notare che il tema del confortare, unito con quello dell’attendere, compare in luoghi percorsi da altri motivi del quinto stato. Virgilio dice a Dante di attenderlo mentre parla con gli ostinati diavoli custodi della città di Dite e di confortare di buona speranza “lo spirito lasso” (il quinto stato è per antonomasia rilassato nel suo declinare), che qui significa affranto per la paura insinuata dalle “parole maladette” che l’avevano sconfortato (Inf. VIII, 106-108). Ugo Capeto parla di sé non per il conforto che attende da quanti sono ancora in vita (di preghiere o di fama), ma perché vede rilucere tanta grazia in Dante (Purg. XX, 40-42).

Un esempio di clamore perché si attui la vendetta contro la corruzione della Chiesa è nel “grido di sì alto suono” fatto dalle fiammelle che nel cielo di Saturno discendono la scala d’oro per confermare l’invettiva di Pier Damiani contro i moderni pastori. In quel grido, non inteso da Dante, è contenuta una preghiera di vendetta la quale, come gli dice Beatrice, “come madre che soccorre / sùbito al figlio palido e anelo / con la sua voce”, il poeta vedrà prima di morire (Par. XXI, 136-142; XXII, 1-18). E san Pietro è l’ultimo nel poema ad invocare su Caorsini e Guasconi una punizione di Dio che non sembra arrivare. Nei versi (Par. XXVII, 57-60) sono cuciti due temi: il primo è la richiesta a Dio perché giudichi i malvagi, il secondo è quello del buon principio caduto a vile fine (cfr. prologo, notabile V), secondo l’interpretazione (“principium pulchritudinis”) data al nome della quinta chiesa, Sardi.

È da notare infine come la sublimazione dell’attendere sia la speranza, di cui tanto bene parla Dante di fronte a san Giacomo, suo apostolo eponimo, a Par. XXV, 67ss. – «“Spene”, diss’ io, “è uno attender certo / de la gloria futura» – in un contesto pregno di signacula che rinviano la memoria del lettore spirituale all’esegesi oliviana dell’apertura del quinto sigillo (Ap 6, 9-11).

 

[Ap 5, 1; IIa visio, Vum sigillum] In quinta autem (apertione), contra torporem accidie et otii quinti temporis, quod est sentina luxurie et omnis iniquitatis, clamant sancti martires eorum sanguinem, id est penales labores et dolores usque ad mortem, vindicari in illos. […]
In quinta etiam apertione, contra carnales eiusdem quinti temporis contemptores macerationum et martiriorum Christi et sanctorum precedentium, expetitur instanter et alte iusta vindicta (cfr. Ap 6, 10). Contra etiam ignominiam est non solum spiritalis sed etiam temporalis pax et gloria sanctorum quinti status, designata per hoc quod ibi dicitur sanctis ut interim quiescant et in sui ornatum recipiant stolam albam (cfr. Ap 6, 11).

[Ap 6, 9-11; IIa visio, apertio Vi sigilli] “Et cum aperuisset sigillum quintum, vidi” et cetera. Ea que hic dicuntur possunt referri ad initium quinti status vel ad eius medium vel ad eius extremum. In initio enim eius visa est ecclesia quasi tota deficere, ac si novissimum iudicium huius seculi advenisset. Propter etiam scelera hereticorum et ypocritarum et scismaticorum et apostatantium ad sarracenicam sectam et ceterorum infidelium, videbatur martirium et labor primorum sanctorum vehementer exigere et expetere extremum iudicium dampnationis dari contra reprobos, post tanta sanctorum certamina et testimonia et exempla nolentes Christum et ipsos sequi. […]
“Et clamabant voce magna” (Ap 6, 10), id est eorum martiria evidentissime et vehementissime, secundum ordinem iustitie, apud Deum exigebant dampnationem malorum nolentium eos sequi;  vel, secundum absolutum ordinem divine iustitie, magno voto et desiderio hoc expetebant; “dicentes: Usquequo, Domine, sanctus et verus non iudicas et vindicas sanguinem nostrum de hiis qui habitant in terra?”, scilicet non solum per corporalem mansionem, sed etiam per terrenum amorem.   Dicunt autem: “Usquequo”, quasi dicant: iam per sescentos annos, ab initio tue ecclesie delapsos, hoc distulisti. Vel “usquequo”, id est numquid semper vel numquid ulterius, cum iustitia tua exigat quod non ulterius?
Dicunt autem: “sanctus et verus”, quasi dicant: cum sis sanctus, non potes non odire omnem iniquitatem, et cum sis verus in tuis comminationibus et promissionibus, non potes non implere mala que contra reprobos comminatus es et bona que nobis promisisti. Iudicare autem et vindicare sanguinem sanctorum est dare iudicium ostensivum meriti mortis sanctorum et remunerativum eorum et vindicative punire interfectores et contemptores eorum et Christi, pro quo sunt passi. […]

[Ap 2, 23; Ia visio IVa ecclesia] “Et scient omnes ecclesie”, scilicet per evidentiam facti, “quia”, id est quod, “ego sum scrutans renes et corda”, id est omnes internos cogitatus et affectus mentis et sensualitatis. In renibus enim viget sensualis concupiscentia carnis. Quando enim Deus aperte non punit mala quantum iustitia exigit, videtur ignorare mala et pondus eorum; quando autem iustissime et rigidissime et publicissime punit illa, tunc omnibus de facto patet quod ipse omnia mala quantumcumque occulta intime novit et ponderat, ac si ea profundissime scrutaretur. Nota autem quam congrue proposuit Christus se habere oculos sicut flammam (cfr. Ap 2, 18), ut pateret quod omnia videt et penetrat et zelo ardenti urit et punit vel corripit, etiam permissionem huius episcopi, que vix crederetur esse peccatum nisi ipse eam increpasset tamquam culpabilem.

[Ap 6, 9-11] Referendo vero predicta ad finem quinti status, designatur quod tunc tot et tanta scelera in carnali ecclesia inundabunt, et iam diu est inundare ceperunt, quod tam sancti preteriti quam presentes, ex tanta malorum inundantia fere usque ad desperationem contristati, cum grandi clamore expetunt et adhuc amplius expetent iudicium fieri pro ipsis et contra reprobos. Designatur etiam quod tunc a multis erat putandum finem mundi adesse, propter tantam inun-dantiam malorum et tantam paucitatem bonorum.
Designatur etiam sanctos illius temporis admirari quare quintum tempus tantum durat, aut quare in tanta pace affluitate temporali faciente carnales amplius insanire, et quare Deus tanto tempore differt vindicare tot et tanta mala.
Designatur etiam quod magnalia tertii status generalis totius orbis nullis aut paucis sunt aperta usque ad apertionem sexti sigilli, seu usque ad finem quinti status. Et ideo sanctis, qui tamquam vere mundo mortui stant sub altari Dei, revelabitur, et iam in parte revelatum est, quod quiete expectent gloriosa martiria sub apertione sexti signaculi renovanda et gloriosum numerum electorum in sexto et septimo statu complendum.
Quia igitur tam primum spectans ad initium quinti status quam secundum spectans ad medium quam tertium spectans ad finem habebant rationem magni secreti, et precipue primum et tertium, ideo merito reserantur in apertione quinti sigilli.

[Ap 5, 1; IIa visio, Vum sigillum] Tertia ratio septem sigillorum quoad librum veteris testamenti sumitur ex septem apparenter in eius cortice apparentibus. (…) Quintum est severitas preceptorum et iudiciorum, quia precipit “non concupisces” et “diliges Deum ex toto corde” (Dt 5, 21; 6, 5), et multa alia infirmitati humani generis ex se impossibilia, et tamen dat sententiam maledictionis omnibus qui non permanserint in omnibus verbis legis. Hanc autem temperat et exponit condescensiva Christi pietas indulgens multa infirmitatibus nostris, sicut mater infantulo suo. Et hoc notatur in quinta apertione, cum expetentibus iustitiam respondetur “ut requiescerent adhuc” per “tempus modicum, donec compleantur conservi eorum et fratres” (Ap 6, 11), id est ut propter pietatem fraterne salutis patienter differant et prolongent iudicia ultionis.

Inf. VIII, 10-11, 52-57, 61, 94-96, 106-108; IX, 9:

Ed elli a me: “Su per le sucide onde
già scorgere puoi quello che s’aspetta ……

E io: “Maestro, molto sarei vago
di vederlo attuffare in questa broda
prima che noi uscissimo del lago”.
Ed elli a me: “Avante che la proda
ti si lasci veder, tu sarai sazio:
di tal disïo convien che tu goda”.

Tutti gridavano: “A Filippo Argenti!”

Pensa, lettor, se io mi sconfortai
nel suon de le parole maladette,
ché non credetti ritornarci mai.

Ma qui m’attendi, e lo spirito lasso
conforta e ciba di speranza buona,
ch’i’ non ti lascerò nel mondo basso.

Oh quanto tarda a me ch’altri qui giunga!

Purg. VI, 112-114, 118-123:

Vieni a veder la tua Roma che piagne
vedova e sola, e dì e notte chiama:
“Cesare mio, perché non m’accompagne?”.

E se licito m’è, o sommo Giove
che fosti in terra per noi crucifisso,
son li giusti occhi tuoi rivolti altrove?
O è preparazion che ne l’abisso
del tuo consiglio fai per alcun bene
in tutto de l’accorger nostro scisso?

Purg. X, 73-93:

Quiv’ era storïata l’alta gloria
del roman principato, il cui valore
mosse Gregorio a la sua gran vittoria;
i’ dico di Traiano imperadore;
e una vedovella li era al freno,         9, 1
di lagrime atteggiata e di dolore.
Intorno a lui parea calcato e pieno
di cavalieri, e l’aguglie ne l’oro
sovr’ essi in vista al vento si movieno.
La miserella intra tutti costoro
pareva dir: “Segnor, fammi vendetta
di mio figliuol ch’è morto, ond’io m’accoro”;
ed elli a lei rispondere: “Or aspetta
tanto ch’i’ torni”; e quella: “Segnor mio”,
come persona in cui dolor s’affretta,
“se tu non torni?”; ed ei: “Chi fia dov’ io,
la ti farà”; ed ella: “L’altrui bene
a te che fia, se ’l tuo metti in oblio?”;
ond’ elli: “Or ti conforta; ch’ei convene
ch’i’ solva il mio dovere anzi ch’i’ mova:
giustizia vuole e pietà mi ritene”.

[Ap 6, 11] In hac autem persecutione non est dictum quod tale aut tale animal dixerit “veni et vide”, quia «sicut in quattuor animalibus quattuor speciales ordines accipiendi sunt, sic in altare Dei romanam ecclesiam dicimus accipiendam, que peractis quattuor temporibus illorum quattuor ordinum, tam in clero quam in monachis confortata est in Domino Deo suo et viguit pre ceteris quinto tempore apud Latinos» (Ioachim).

 

Par. VIII, 58-60, 67-75:

Quella sinistra riva che si lava
di Rodano poi ch’è misto con Sorga,
per suo segnore a tempo m’aspettava

E la bella Trinacria, che caliga      6, 14
tra Pachino e Peloro, sopra ’l golfo
che riceve da Euro maggior briga,
non per Tifeo ma per nascente solfo,
attesi avrebbe li suoi regi ancora,
nati per me di Carlo e di Ridolfo,
se mala segnoria, che sempre accora
li popoli suggetti, non avesse
mosso Palermo a gridar: ‘Mora, mora!’.

Par. IX, 34-35:

ma lietamente a me medesma indulgo
la cagion di mia sorte, e non mi noia

Inf. XXI, 100-102; XXII, 40-42, 70-72:

Ei chinavan li raffi e “Vuo’ che ’l tocchi”,
diceva l’un con l’altro, “in sul groppone?”.
E rispondìen: “Sì, fa che gliel’ accocchi”.

“O Rubicante, fa che tu li metti
li unghioni a dosso, sì che tu lo scuoi!”,
gridavan tutti insieme i maladetti.

E Libicocco “Troppo avem sofferto”,
disse; e preseli  ’l braccio col runciglio,
sì che, stracciando, ne portò un lacerto.

Inf. XXXIII, 74, 81:

e due dì li chiamai, poi che fur morti

poi che i vicini a te punir son lenti

Purg. XX, 10-15, 40-41, 46-48, 94-96, 127-128; XXI, 82-84:

Maladetta sie tu, antica lupa,
che più che tutte l’altre bestie hai preda
per la tua fame sanza fine cupa!
O ciel, nel cui girar par che si creda
le condizion di qua giù trasmutarsi,
quando verrà per cui questa disceda?

Ed elli: “Io ti dirò, non per conforto
ch’io attenda di là ……………………. ”

Ma se Doagio, Lilla, Guanto e Bruggia
potesser, tosto ne saria vendetta;
e io la cheggio a lui che tutto giuggia.

O Segnor mio, quando sarò io lieto
a veder la vendetta che, nascosa,
fa dolce l’ira tua nel tuo secreto?

quand’ io senti’, come cosa che cada,
tremar lo monte …………………  6, 12

Nel tempo che ’l buon Tito, con l’aiuto
del sommo rege, vendicò le fóra
ond’ uscì ’l sangue per Giuda venduto

[Notabile XI] Deinde per Neronem, misso contra Iudeam Vespasiano et Thito, factus est terremotus sinagogam quasi alteram Babilonem subvertens (cfr. Ap 6, 12) […]

Par. XXVII, 57-60:

o difesa di Dio, perché pur giaci?
Del sangue nostro Caorsini e Guaschi
s’apparecchian di bere: o buon principio,
a che vil fine convien che tu caschi!

[Notabile V] (…) idcirco circa finem quinti temporis crevit enormiter laxatio omnimoda et fere in omnes, propter quod digno iudicio permissi sunt ruere in vilissimam fecem heresis Manicheorum.

Par. XXI, 139-142; XXII, 4-7, 10-15:

Dintorno a questa vennero e fermarsi,
e fero un grido di sì alto suono,
che non potrebbe qui assomigliarsi;
né io lo ’ntesi, sì mi vinse il tuono.

e quella, come madre  che soccorre
sùbito al figlio  palido e anelo
con la sua voce, che ’l suol ben disporre,
mi disse: ………………………….

“Come t’avrebbe trasmutato il canto,
e io ridendo, mo pensar lo puoi,
poscia che ’l grido t’ha mosso cotanto;
nel qual, se  ’nteso avessi i prieghi suoi,
già ti sarebbe nota la vendetta
che tu vedrai innanzi che tu muoi.”

Par. XXIII, 7-9:

previene il tempo in su aperta frasca,
e con ardente affetto il sole aspetta,
fiso guardando pur che l’alba nasca

 

[Ap 6, 9; IIa visio, apertio Vi sigilli] Quia vero sufficiens numerus electorum, secundum eternam Dei predestinationem et secundum Christi redemptoris condignam honorificentiam et secundum congruentiam consumationis civitatis celestis et secundum promissionem factam patribus de plena reductione Israelis ad Christum, nondum erat completus, sufficiebatque interim sanctis animabus gloria ipsarum ante resumptionem et glorificationem suorum corporum eis dat[a], ideo primo premittitur primus ordo iustitie, cum dicitur: “vidi subtus altare Dei” et cetera (Ap 6, 9).

Par. XXV, 67-69, 91-96, 124-129:

“Spene”, diss’ io, “è uno attender certo
de la gloria futura, il qual produce
grazia divina e precedente merto.”

Dice Isaia che ciascuna vestita
ne la sua terra fia di doppia vesta:
e la sua terra è questa dolce vita;
e ’l tuo fratello assai vie più digesta,
là dove tratta de le bianche stole,
questa revelazion ci manifesta.

In terra è terra il mio corpo, e saragli
tanto con li altri, che ’l numero nostro
con l’etterno proposito s’agguagli
.
Con le due stole nel beato chiostro
son le due luci sole che saliro;
e questo apporterai nel mondo vostro.

Inf. VIII, 106-108, 112-114:

“Ma qui m’attendi, e lo spirito lasso
conforta e ciba di speranza buona,
ch’i’ non ti lascerò nel mondo basso”.

Udir non potti quello ch’a lor porse;
ma ei non stette là con essi guari,
che ciascun dentro a pruova si ricorse.

Inf. XXII, 31-33:

I’ vidi, e anco il cor me n’accapriccia,
uno aspettar così, com’ elli ’ncontra
ch’una rana rimane e l’altra spiccia ……

Inf. XXIII, 80-81:

Onde ’l duca si volse e disse: “Aspetta,
e poi secondo il suo passo procedi”.

[Ap 6, 10] “Et clamabant voce magna” (Ap 6, 10), id est eorum martiria evidentissime et vehementissime, secundum ordinem iustitie, apud Deum exigebant dampnationem malorum nolentium eos sequi;  vel, secundum absolutum ordinem divine iustitie, magno voto et desiderio hoc expetebant; “dicentes: Usquequo, Domine, sanctus et verus non iudicas et vindicas sanguinem nostrum de hiis qui habitant in terra?”, scilicet non solum per corporalem mansionem, sed etiam per terrenum amorem. 

 

[Ap 6, 11] Deinde subduntur duo propter que iudicium hoc debet convenienter differri ad tempus.
Primum est sufficiens glorificatio animarum sanctarum, unde subdit (Ap 6, 11): “Et date sunt illis singule stole albe”. Duas quidem stolas albas, id est glorias et quasi vestes gloriosas, sunt habiture, quarum prima et principalissima est in anima, secunda vero erit in earum corpore. De prima ergo loquitur hic.
Secundum est numerus sanctorum martirum et electorum adhuc complendus et nondum completus. Unde subdit: “Et dictum est illis ut requiescerent”, scilicet in gloria preaccepta, “tempus adhuc modicum”, quasi dicat: non multo tempore, sed modico, volo vos expectare hoc iudicium, nec cum aliquo labore vestri, sed cum pura requie et pace quam dedi vobis, “donec impleantur”, id est ad plenum compleantur, “conservi eorum et fratres [eorum], qui interficiendi sunt sicut et illi”.
Preter rationem sumptam ex completione numeri, tangit tria propter que gratanter debent hoc spectare.
Primum est honorificentia summi Domini ut habe[at] plures servos, et etiam coequalitas horum et illorum in servitute Dei, unde dicit quod sunt “conservi eorum”, id est simul cum eis servi eiusdem Domini.
Secundum est mutua confraternitas respectu eiusdem patris, unde dicit: “et fratres eorum”.
Tertium est martirii conformitas; “sunt” enim “interficiendi sicut et illi” qui precesserunt.

Inf. XVI, 13-15, 121-123:

A le lor grida il mio dottor s’attese;
volse ’l viso ver’ me, e “Or aspetta”,
disse, “a costor si vuole esser cortese.”

El disse a me: “Tosto verrà di sovra
ciò ch’ io attendo e che il tuo pensier sogna;
tosto convien ch’al tuo viso si scovra”.

Inf. XXVI, 7-12:

Ma se presso al mattin del ver si sogna,
tu sentirai, di qua da picciol tempo,
di quel che Prato, non ch’altri, t’agogna.
E se già fosse, non saria per tempo.
Così foss’ ei, da che pur esser dee!
ché più mi graverà, com’ più m’attempo.

[Ap 18, 1; VIa visio] “Et post hec vidi alium angelum” (Ap 18, 1), id est alium doctorem vel alium ordinem doctorum. Nam per precedentem intelliguntur illi qui spiritalibus disciplinis exponunt malitiam meretricis et futurum casum eius, per istum vero illi qui casum eius iam factum predicaturi sunt magnifice et clare et letabunde. Vel per primum designantur hii qui docent absolute contemplari futura, per istum vero hii qui futurorum et factorum notitiam docent et iubent vel monent applicari ad fugam malorum et ad actionem bonorum. Unde subdit: “descendentem de celo”, id est de altitudine celestis contemplationis ad activam predicationis.

 

 


* Tutte le citazioni della Lectura super Apocalipsim presenti nei saggi o negli articoli pubblicati su questo sito sono tratte dalla trascrizione, corredata di note e indici, del ms. Paris, Bibliothèque nationale de France, lat. 713, a disposizione fin dal 2009 sul sito medesimo. I passi scritturali ai quali si riferisce l’esegesi sono in tondo compresi tra “ ”; per le fonti si rinvia all’edizione in rete. Non viene presa in considerazione l’edizione critica a cura di W. LEWIS (Franciscan Institute Publications, St. Bonaventure – New York, 2015) per le problematiche da essa poste, che sono discusse in “Archivum Franciscanum Historicum” 109 (2016), pp. 99-161. Il testo della Commedia citato è in Dante Alighieri, La Commedia secondo l’antica vulgata, a cura di G. PETROCCHI, Firenze 1994.

[All quotations from the Lectura super Apocalipsim in the essays or articles published in this website have been drawn from the transcription, with notes and indexes, of ms. Paris, Bibliothèque nationale de France, lat. 713, which has been available therein since 2009.  The Biblical passages to which the exegesis refers are in Roman type in “ ”; for sources please refer to the online edition.   The critical edition by W. LEWIS (Franciscan Institute Publications, St. Bonaventure – New York, 2015) has not been considered due to the issues it poses, which are discussed in “Archivum Franciscanum Historicum” 109 (2016), pp. 99-161.  The text referring to the Commedia has been drawn from Dante Alighieri, La Commedia secondo l’antica vulgata, edited by G. PETROCCHI, Firenze 1994.]

[1] Cfr. Il sesto sigillo, 1a.

[2] Se le parole di Carlo Martello pongono in rilievo la causa occasionale del Vespro, cioè la rivolta popolare, Dante non è del tutto ignaro della ‘congiura’ che da anni si stava ordendo contro Carlo d’Angiò, come dimostrano le gravi parole rivolte dal poeta a Niccolò III, punito nella bolgia dei simoniaci: «e guarda ben la mal tolta moneta / ch’esser ti fece contra Carlo ardito» (Inf. XIX, 98-99). Cfr. S. TRAMONTANA, Gli anni del Vespro. L’immaginario, la cronaca, la storia, Bari 1989, pp. 143-172: pp. 150-151.

[3] LSA, cap. IX (Ap 9, 19), ms. Par. lat. 713, f. 112ra-b. Si noti come a questo passo (con le parole evidenziate) abbia già rinviato Inf. XI, 4-12, dove si registra anche il riferimento all’abisso (Ap 9, 1-2; 20, 1), mentre lo “scender” fa segno della “condescensio” propria del quinto stato e il “coperchio” dello ‘star sotto’ proprio dei santi all’apertura del quinto sigillo (Ap 6, 9), un tema che tornerà beffardo nella quinta bolgia dei barattieri. Da notare anche la concordia fonica del gallicismo s’ausi (da ausare = abituarsi) con audet, quis ausus (da audeo = osare), quasi si intenda dire: ‘una volta abituato il senso al tristo fiato si potrà osare la discesa’ (cfr. Inf. XV, 43: “Io non osava scender de la strada”).

 

[Ap 9, 19; IIIa visio, VIa tuba] Si queratur quare solas loricas equitum tangit, cum ipsorum non solum sit se defendere sed etiam hostes suos ferire, potius quam equorum, potest dici quod ideo, quia plus nocebit tunc effrenatus clamor turbarum et militum laicalium quam ratio sapientium suorum, et tamen hoc plus valebit ad apparentem et fide dignam defensionem suorum errorum et malitiarum.
  Nota quod predicta expositio currit secundum hoc quod occident mentes trahendo eas ad peccatum et specialiter ad erroneam sectam.
 Referendo autem predicta ad occisionem corporum, est sensus quod sicut sulphureus ignis magnus, et tetrum ac fetidum fumum emittens, faciliter incendit et extinguit omnia, nec audet eum quis tangere et multo minus penetrare, sic isti faciliter et horribiliter omnia vastabunt, nec erit quis ausus eos tangere vel penetrare. Designatur etiam per hoc quod homines ita perterrebuntur ab eis ac si viderent equos et equites infernales igne infernali vestitos et ignem infernalem moventes et ac si viderent equos eorum habentes monstruosa capita leonum et monstruosas caudas drachonum.
   Nota etiam quod respectu primi modi possunt per ignem et fumum et sulphur intelligi falsa miracula, quibus quasi loricis se armabunt et per que quasi sagittis igneis alios occident. Signa enim eorum in quantum falsa et curiosa erunt sulphurea, in quantum vero erunt veritatis et sanctitatis denigrativa et hominum excecativa erunt quasi fumus, in quantum vero apparebunt alta et mira et divina et ob zelum Dei et per supernaturalem eius potentiam facta videbuntur quasi ignis lucidus et subtilis et virtuosissimus et quasi iacinctus coloris celestis.
  Nota etiam quod referendo hec ad tertium initium apertionis sexti sigilli, quod erit, ut supra dictum est, sub mistico Antichristo precursore magni Antichristi, est primus modus exponendi sequendus. Que autem signa sint per ipsum et per eius pseudoprophetas fienda exponetur infra XII°. Licet enim non faciant illa que proprie vocantur miracula, nichilominus facient seu dabunt signa magna fere inducentia in errorem electos.

Inf. XI, 4-12: 

e quivi, per l’orribile soperchio
 del puzzo che ’l profondo abisso gitta,
 ci raccostammo, in dietro, ad un coperchio  6, 9
d’un grand’ avello, ov’ io vidi una scritta
 che dicea: ‘Anastasio papa guardo,
 lo qual trasse Fotin de la via dritta’.
“Lo nostro scender conviene esser tardo,   Not. I
  sì che s’ausi un poco in prima il senso
  al tristo fiato; e poi no i fia riguardo”. 

[Ap 9, 1-2; IIIa visio, Va tuba] “Et data est [illi] clavis putei abissi, et aperuit puteum abissi” (Ap 9, 1-2), id est data est eis potestas aperiendi ipsum. Puteus abissi habet infernalem flammam et fumositatem obscuram et profunditatem voraginosam et quasi immensam et societatem demoniacam. […] Secundo tangitur gravitas mali de aperto iam puteo exeuntis, cum ait: “et ascendit fumus putei sicut fumus fornacis magne, et obscuratus est [sol et] aer de fumo putei” (Ap 9, 2). 

[Ap 20, 1; VIIa visio] Per “abissum” autem, in [quam] diabolus clauditur, designatur, secundum Augustinum, «innumerabilis multitudo impiorum profunde malitie contra ecclesiam Dei, in quibus dicitur missus non quia [non] esset prius in eis, sed quia exclusus a credentibus plus cepit impios possidere. Nam plus possidetur a diabolo qui non solum est alienatus a Deo, immo etiam gratis odit servientes Deo». Vel per abissum designatur interior profunditas diaboli, intra quam coartatur a Deo eius potestas, ne pro libitu possit se ad exteriora nocumenta et temptamenta effundere. Vel sua penalis abiectio est abissus, in quam tanto plus clauditur quanto plus a Deo infrenatur. 

Purg. XIX, 31-33: 

L’altra prendea, e dinanzi l’apria
 fendendo i drappi, e mostravami ’l ventre;
 quel mi svegliò col puzzo che n’uscia. 

 

[4] Cfr. Il terzo stato, tab. III.1, dove sono confrontati e commentati altri luoghi (alcuni esposti nella tabella), relativi all’acqua della retta o erronea dottrina.

[5] M. AMARI, La guerra del Vespro siciliano, Milano 18869 (Parigi 1843), p. 484: «Tali furono, o Siciliani, le geste dei vostri padri nel secol decimoterzo! Ripigliaron così la indipendenza di nazione, la dignità d’uomini: e detterne esempio alla Scozia, alla Fiandra, alla Svizzera, che scuoteano, a un dipresso in quel tempo, la dominazione straniera».

[6] F. GREGOROVIUS, Geschichte der Stadt Rom im Mittelalter vom V. bis zum XVI. Jahrhundert, X, 4 (18651), herausgegeben von W. Kampf, II, 2, München 1978, p. 505: «Die berühmte Sizilianische Vesper war das für alle Zeit gültige Urteil der Völker über Fremdherrschaft und Tyrannei; sie war auch die erste siegreiche Herstellung der Volksrechte gegenüber dynastischen Ansprüchen und Kabinettsverträgen».

[7] Guido da Montefeltro è posto in una zona dedicata ai martiri non nel senso che sia assimilabile ai martiri dei primi tempi cristiani, ma nel senso che, di fronte al martirio psicologico dei tempi moderni, fu ingannato da una falsa immagine di bene e da una falsa autorità pontificia (cfr. L’agone del dubbio, ovvero il martirio moderno, 2; Dante e Bonifacio VIII, 4.2).

[8] Cfr. A. M. CHIAVACCI LEONARDI, nel commento al Paradiso (Par. VIII, 75), Milano 2005, p. 227.

[9] A. BARTOLI LANGELI, Vespri siciliani, in Enciclopedia Dantesca, V, Roma 19842, p. 985: «A D[ante] non sfugge infine il significato più profondo dei V[espri], che nel discorso di Carlo Martello sono indicati come la causa dello smembramento del regno meridionale: con la tirannide di Carlo d’Angiò, con la rivolta palermitana e la guerra che ne seguì è cancellato definitivamente quel legame sostanziale della Sicilia al continente che, misteriosamente spezzata l’originaria unità geografica tra il Peloro e gli Appennini (Purg. XIV, 32), si era mantenuto almeno nell’unità della corona angioina».

[10] Cfr. Dante all’«alta guerra» tra latino e volgare, 3.5, tab. XL.

[11] Cfr. Lectura Dantis, Inferno X, cap. vii («Il secondo Farinata»).

[12] Cfr. La settima visione (la Gerusalemme celeste, Ap XX-XXII), I. 6 («Una città sobria»).

[13] «Forse la nostra critica letteraria diffida del significante ed è spesso così sorda alle sue ragioni per fare postuma ammenda dell’alta retorica che ha imperato nelle nostre lettere, in tutta la loro storia. E così anche le ali dell’Alighieri possono essere scambiate per un cerebrale abuso di senso o per una facezia, e sono invece – ne sono persuaso – la firma interna, e più, un simbolo dell’autore». Così G. GORNI (Dante prima della Commedia, Fiesole 2001, p. 36). Quanto sia fondata affermazione lo dimostra il confronto tra la Lectura e la Commedia. Il movimento della metamorfosi non consiste unicamente nel passaggio di parole e di concetti, perché i personaggi con i loro sentimenti, i fatti, i nomi, che si trovano solo nel poema, sono come tesi a concordare perfino nel suono con concetti che si trovano solo nell’esegesi scritturale, ad essi inizialmente estranei, ma che in fine risultano incorporati in un unico testo “quasi animal di sua seta fasciato”. Di questi “calembour  dello Spirito”, che denotano una mnemotecnica, è piena la Commedia.

[14] UGUCCIONE DA PISA, Derivationes, edizione critica princeps a cura di E. Cecchini, Firenze 2004, II, p. 1030 [R 44].

[15] Il duetto fra Stazio e Virgilio è variazione sul tema dell’ “amor fratris”, secondo l’interpretazione del nome della sesta chiesa, Filadelfia: cfr. Il sesto sigillo, 5, tab. XXXIII bis.

[16] Cfr. ibidem, 10.4, tab. CIV.

[17] Cfr. Dante all’«alta guerra» tra latino e volgare, 2.8, tab. XVII.

[18] Cfr. ibid., 3.2, tab. XXXIII-1.

[19] Cfr. ibid., 3.4 , tab. XXXV-2.