“Il giubileo del 1300 può veramente considerarsi come la sagra del Medioevo: con esso ebbe termine un’età e trovarono la loro attuazione definitiva aspirazioni e aspettative che da secoli avevano fatto palpitare i cuori di tutti i fedeli. Svanito ormai il sogno apocalittico di un rinnovamento totale della società dei credenti e dell’inaugurazione di una nuova epoca della storia della Chiesa, il giubileo di papa Bonifacio veniva tuttavia ad appagare, con i mezzi a disposizione della Chiesa, l’anelito di rinnovamento e di purificazione che era alle radici della grande speranza messianica del regno dello Spirito. E doveva apparire quasi provvidenziale che fosse proprio papa Bonifacio, il rappresentante più tipico del papato politico, ad iniziare la nuova era di rinnovamento spirituale della società cristiana, proprio alla vigilia dell’attentato di Anagni e del tracollo definitivo della teocrazia medievale. Il giubileo era quasi la prefigurazione dell’atteso regno di Dio in terra e in esso si placarono le ultime aspettative escatologiche del misticismo eterodosso medievale e dell’evangelismo francescano”. Così scriveva nel 1951 Raffaello Morghen in Medioevo cristiano, quasi a conclusione del suo tentativo, attraverso lo studio del “problema del Medioevo”, di “riattingere i motivi eterni che hanno fatto della civiltà europea la civiltà umana per antonomasia” [1].
Certamente Bonifacio VIII, sommo canonista, nella bolla di indizione del Giubileo – Antiquorum habet fida relatio del 22 febbraio 1300, datata apud Sanctum Petrum nella festa della Cattedra – seppe cogliere e incanalare la “grande speranza messianica del regno dello Spirito” cosicché dalla frequentazione delle basiliche romane degli apostoli Pietro e Paolo “fideles ipsi spiritualium largitione munerum … magis senserint se refectos”. La bolla retrodatava al Natale precedente la validità del pellegrinaggio penitenziale. Proprio dal Natale, infatti, era iniziato quel movimento spontaneo di masse di fedeli, attestato da cronisti e scrittori, verso la basilica di San Pietro [2]. La particolare sensibilità per l’evento centenario alla fine del XIII secolo era stata diffusa e accentuata dalle correnti gioachimite e dagli Spirituali francescani che tentarono di incorporare in sé e di trarre a compimento le profezie di Gioacchino da Fiore [3]. Ma quell’escatologismo, che papa Caetani aveva cristallizzato in norma, “oltre che ideologia di lotta e di riforma del gruppo spirituale – scriveva Arsenio Frugoni –, era anche un vero e proprio sentimento storico, mi si conceda l’espressione, una tensione di rinnovamento, una ansia di salvezza, che nel 1300, l’anno centenario della Natività, aveva trovato come una attivazione, in un senso di pienezza dei tempi, cui doveva corrispondere un fatto, un accadere meraviglioso e nuovo” [4].
Non sappiamo con certezza se Dante si sia recato a Roma nell’anno giubilare [5]. Ma, quando vi fu subito dopo, nell’ambasceria fiorentina del 1301, “dovette sentire la santità che era il volto più vero di Roma: a scoprirlo e a venerarlo si muoveva da secoli ormai il mondo cristiano” [6]. Anche se, nel luogo “là dove Cristo tutto dì si merca” (Par. XVII, 51), e nell’incontro privato e rivelatore con Bonifacio VIII – “lo principe d’i novi Farisei” (Inf. XXVII, 85) -, dovette anche sentire quella ripulsa che aveva provato nel 1216 Giacomo di Vitry a Perugia, nella sede pro tempore della Curia pontificia appena morto Innocenzo III, poco avvezza a parlare di cose dello spirito, mentre lì vicino ad Assisi constatava il modo di vivere, semplice e povero, in vergogna dei prelati, di san Francesco e dei suoi compagni [7]. Di lì, e per i casi fiorentini, nacque quell’avversione di Dante per Bonifacio VIII e per i suoi successori (con l’eccezione di Benedetto XI, per altro mai nominato) che non fu affatto rifiuto della Chiesa istituzionale, dei suoi aspetti carismatici e giurisdizionali, Chiesa che anzi il poeta avrebbe voluto riformata nel senso della povertà evangelica. Fu certo avversione personale che Dante, quale nuovo Giovanni autore di una moderna Apocalisse, cioè investito di scrivere una vera visione di cose che debbono avvenire presto, trasferì sul piano del giudizio divino sovrastante quello umano.
Nel poeta non era svanito “il sogno apocalittico di un rinnovamento totale della società dei credenti e dell’inaugurazione di una nuova epoca della storia della Chiesa”, del quale diceva il Morghen sopra citato. Lo dimostra il confronto della Commedia con la Lectura super Apocalipsim dell’Olivi. Quella che appare un’intertestualità tanto diffusa nei versi, capillare e sempre rispondente a precise norme, significa che Dante intese rivolgersi, attraverso una straordinaria arte della memoria che dal senso letterale conduce ai sensi interiori, anche a un pubblico di chierici e di predicatori in volgare che quei valori non avevano affatto dismesso e per i quali la Lectura – l’ultimo esempio di una storia della salvezza collettiva lasciataci dal Medioevo [8] – era un vero e proprio libro-vessillo. Un pubblico di riformatori italiani non ancora sconfitto nel primo decennio del Trecento, quando Dante iniziò a scrivere la Commedia (intorno al 1307), ma che venne presto meno, per le note persecuzioni subite dagli Spirituali nel secondo decennio, fino alla condanna della Lectura super Apocalipsim nel 1326. Per quel pubblico, che non si formò, il poeta aveva aggiornato la visione storica dell’Olivi estendendone i concetti, di per sé appartenenti alla Chiesa, agli autori classici e a tutto il mondo umano al quale l’Imperatore con la ragione e la filosofia avrebbe dovuto presiedere.
Come “il viaggio di Dante è una metaforica traduzione del reale viaggio di pellegrinaggio” [9], così la Roma di Dante è insieme temporale e ideale e al suo compimento – “quella Roma onde Cristo è romano” (Purg. XXXII, 102) – le coscienze dei pellegrini vi pervengono convertiti dalla lettura del “poema sacro / al quale ha posto mano e cielo e terra” (Par. XXV, 1-2). In questo, al di là delle posizioni personali, sta la profonda differenza fra Bonifacio VIII, che teocraticamente incardina un sentimento storico nella cattedra di Pietro, e Dante che, nonostante “la reverenza de le somme chiavi” (Inf. XIX, 100-102), con la poesia lo diffonde discretivamente ovunque in un viaggio “al divino da l’umano, / a l’etterno dal tempo”, per cui “Laterano / a le cose mortali vada di sopra” (Par. XXXI, 35-38). Il confronto tra i testi consente di dare carne e sangue a quel sentimento storico che permea i versi della Commedia, ma che presto svanì, alla pari della teocratica plenitudo potestatis bonifaciana.
[Avvertenza*]
1. Gli amici di Dio: “L’essercito di Cristo, che sì caro / costò a rïarmar” (Ap 7, 3-4).
Il De vulgari eloquentia (II, iv, 10-11), trattando dello stile tragico espresso per mezzo della canzone, paragona i poeti capaci di levarsi al sommo degli stili a coloro che Virgilio nel sesto dell’Eneide definisce “Dei dilectos”, i quali sono innalzati al cielo per ardente virtù (Aen., VI, 129-131), designati, secondo Dante, dall’ “astripeta aquila”. Questi “figli degli dèi” formano nel Limbo “la bella scola” di cui Omero è “poeta sovrano” e “segnor de l’altissimo canto / che sovra li altri com’ aquila vola” (Inf. IV, 88, 94-96). Dove però, con Orazio, Ovidio e Lucano rappresentano tutti gli stili.
Anche nella Lectura si parla degli “amici di Dio”: sono i ‘segnati’ all’apertura del sesto sigillo (Ap 7, 3-4). L’angelo del sesto sigillo, che sale da oriente, rimuove l’impedimento opposto da quattro angeli nocivi, e permette la “signatio”. L’impressione del segno avviene in fronte, allorché ai segnati è data la costante e magnanima libertà di confessare pubblicamente la fede di Cristo e di osservarla, predicarla e difenderla. In fronte si mostra infatti il segno dell’audacia e della strenuità o della pusillanimità e dell’inerzia, della gloria o della vergogna.
Come nell’esercito del medesimo re i cavalieri sono distinti dai fanti, i baroni o condottieri, i centurioni e i decurioni dai semplici soldati, così qui sono distinti i segnati dalle dodici tribù d’Israele rispetto all’innumerevole moltitudine dei fedeli che segue. I segnati vengono assunti alla professione della perfezione evangelica, di una più alta milizia cristiana; il segno comporta una loro maggiore configurazione e trasformazione nella passione di Cristo. Questo della sesta apertura, secondo Gioacchino da Fiore, è un momento di consumazione, come quando, dopo il ritorno di Israele da Babilonia, quanto mancava alla costruzione del tempio, compiuta in quarantasei anni, venne finito negli ultimi sei anni. Nel giorno intermedio tra le due tribolazioni, quella della caduta di Babylon e quella dell’Anticristo, saranno segnati molti Giudei e Gentili (Greci e Latini) col sigillo della Trinità.
Con il numero dei segnati, certo e definito – 144.000 – viene designata la loro singolare dignità. Coloro infatti che sono ascritti dai re alla loro milizia, curia, grandezze, doni, con un nome preciso, numero e scrittura, sono più degni degli altri che sono compresi nella volgare e pedestre milizia o famiglia senza scrittura e numero. Così Dio in segno di familiarissima amicizia dice a Mosè nell’Esodo : “Ti ho conosciuto per nome” (Es 33, 17), per quanto conosca comunemente tutti i suoi eletti come amici e solo dei reprobi si dica che non sono conosciuti. Così, con questa speciale e determinata numerazione e consegna, è designata la più familiare “signatio”, conoscenza, notizia, amicizia presso Dio.
La straordinaria metamorfosi testuale operata dalla Commedia sulla Lectura super Apocalipsim si fonda su precise e verificabili norme, delle quali qui due vengono prese in considerazione.
a) Gruppi di parole ravvicinate presenti nella Lectura super Apocalipsim si ritrovano, con parole altrettanto ravvicinate, ma liberamente collocate nelle forme più varie, nella Commedia, quasi fili tratti da altro ordito e, intrecciati con altri, tessuti in uno nuovo. Il fenomeno risulta troppo diffuso perché sia casuale. Non si tratta di parole isolate, ma collocate in una rosa entro spazi testuali ristretti; gli accostamenti non sono banali o scontati. Non c’è calco o riscrittura; il travaso non è di frasi – e non potrebbe esserlo dalla prosa in poesia – ma di elementi semantici che sono segnali, in un’alta retorica del significante. La compresenza risulta evidente per quanto, nel lessico della Commedia, proviene dal latino, si tratti di latinismi o di termini già entrati nell’uso fiorentino. Ma anche le voci fiorentine di ogni strato sociale, o quelle tratte da altri dialetti della penisola, i gallicismi, gli arabismi, i neologismi concordano con l’esegesi apocalittica, talora anche per somiglianza fonica, circondati da segnali che sollecitano il lettore verso l’altro testo.
b) Un medesimo luogo della Lectura conduce, tramite la compresenza delle parole, a più luoghi della Commedia. Ciò significa che la medesima esegesi di un passo dell’Apocalisse è stata utilizzata in momenti diversi della stesura del poema.
Vediamo ora come l’esegesi di Ap 7, 3-4 sia una sacra sinfonia militare i cui temi trascorrono in più luoghi del “poema sacro”.
1) Cominciamo dalla signatio apostolica di Dante, che avviene negli esami sostenuti sulla fede, sulla speranza e sulla carità di fronte a Pietro, Giacomo e Giovanni nell’ottavo cielo. Nel caso di san Pietro la rosa dei motivi che costellano la signatio appare evidente: Dante (Par. XXIV, 58-60) confessa la propria fede (“ad Christi fidem publice confitendam”), per grazia (l’angelo del sesto sigillo rimuove l’impedimento alla grazia), all’ “alto primipilo” (la signatio è “specialis assumptio […] ad professionem perfectionis evangelice et altioris militie christiane”; il primipilo, presso i Romani, era colui che portava il segno e scagliava la prima lancia). Terminato l’esame, Dante esprime la speranza di ritornare in patria e di essere incoronato poeta: “con altra voce omai, con altro vello / ritornerò poeta, e in sul fonte / del mio battesmo prenderò ’l cappello; / però che ne la fede, che fa conte / l’anime a Dio (“conte”, cioè note; cfr. la “notitia apud Deum” per cui si è segnati), quivi intra’ io, e poi / Pietro per lei sì mi girò la fronte (la “signatio” avviene sulla fronte)”, cioè approvò la professione di fede fatta girandomi attorno tre volte, come descritto alla fine del canto precedente (Par. XXV, 7-12).
Dante, che ‘leva la fronte’ nella luce di san Pietro che gli domanda della fede (Par. XXIV, 52-54), che ‘affronta’ per grazia da vivo il sommo Imperatore “ne l’aula più secreta co’ suoi conti” (cioè con quelli che sono a lui noti: Par. XXV, 40-42), è nella Chiesa militante colui che ha più speranza e scrittura, nel senso di privilegio (“com’ è scritto / nel Sol che raggia tutto nostro stuolo”: ibid., 52-54). San Giacomo – definito appunto “barone” (ibid., 17; come san Pietro, Par. XXIV, 115) – è lume che muove “di quella spera ond’ uscì la primizia / che lasciò Cristo d’i vicari suoi”, dove la variante schiera, largamente attestata, sarebbe preferibile perché suggerita dalla rosa dei motivi, riferiti alla milizia terrena, offerti dall’esegesi scritturale e applicati non solo a Dante, ma anche ai suoi apostolici esaminatori (Par. XXV, 13-15). Ancora, dovendo dire “quello che la speranza ti ’mpromette”, il poeta afferma che il Nuovo e il Vecchio Testamento “pongon lo segno, ed esso lo mi addita, / de l’anime che Dio s’ha fatte amiche” (ibid., 88-90: si tratta del segno che rende note le anime beate “sub certo nomine … et scriptura”). Dopo Giacomo viene il ‘segnato’ per eccellenza, cioè san Giovanni: “questi fue / di su la croce al grande officio eletto” (ibid., 112-114).
2) Il tema della distinzione nella milizia viene appropriato, nella rassegna fatta da Cacciaguida degli “alti fiorentini”, a tutte le famiglie (i Nerli, i Giandonati, i Gangalandi, i Pulci, gli Alepri e i della Bella) le quali portano la bella insegna “del gran barone il cui nome e ’l cui pregio / la festa di Tommaso riconforta”, cioè del marchese Ugo di Toscana, morto nel 1001 e ricordato ogni anno a Firenze il giorno di san Tommaso. Costoro, che da Ugo ebbero “milizia e privilegio”, si contrappongono, nelle parole dell’avo di Dante, a Giano della Bella, l’autore dei famosi Ordinamenti di giustizia (1293) anch’egli insignito di quella bella insegna (la quale “fascia col fregio”), ma che oggi si raduna col popolo, corrispondente alla volgare e pedestre milizia che viene dopo i segnati (Par. XVI, 127-132). L’armatura teologica di queste due terzine, che dà alla contrapposizione tra magnati e popolani un significato spirituale, è suggello a quanto scriveva Raoul Manselli, che “nella dimensione della storia del nostro Medio Evo europeo, il piano religioso è della stessa importanza concretamente storica del piano politico” [10]. Ma questo diffondere sulla vita cittadina concetti dottrinali appartenenti di per sé alla storia della Chiesa è anche un segno che “il miles Christi si dissociava in cittadino e fedele: era la fine della grande esperienza medioevale” [11].
Non è estraneo a questi significati il fatto che Cacciaguida milite terreno e martire, figura in cui la Firenze antica, “così bello viver di cittadini”, raggiunge il suo compimento prima di decadere, dica che lui e i suoi antenati nacquero nel sestiere di Porta San Piero, “l’ultimo sesto” per coloro che corrono il palio di san Giovanni, che pare corrispondere ai sei ultimi anni in cui venne completato il Tempio dopo il ritorno da Babilonia, secondo la citazione di Gioacchino da Fiore (Par. XVI, 40-42). E se quello di san Piero è “l’ultimo sesto” di “Fiorenza dentro da la cerchia antica”, non sarà poi casuale che san Pietro sia “quel baron che sì di ramo in ramo, / essaminando, già tratto m’avea, / che a l’ultime fronde appressavamo” (Par. XXIV, 115-117). Anche il correre il palio ha una sua fasciatura spirituale. Ad Ap 21, 16 si tratta della misura della città celeste, che è di 12.000 stadi. Lo stadio è lo spazio al cui termine si sosta o si posa per respirare e lungo il quale si corre per conseguire il premio. Esso designa il percorso del merito che ottiene il premio in modo trionfale, secondo quanto scrive san Paolo ai Corinzi: “Non sapete che tutti corrono nello stadio, ma di costoro uno solo prende il premio?” (1 Cor 9, 24). Si constata d’altronde come la Firenze rimpianta dall’avo di Dante sia fasciata da temi che nella Lectura designano uno stato bello, poi corrottosi (nell’esegesi della quinta chiesa d’Asia, Sardi), ed anche tratti dalla settima visione (la Gerusalemme celeste) [12].
3) Nel cielo del Sole, Bonaventura utilizza il tema dei ‘segnati’ introducendo la narrazione della vita di san Domenico. “L’essercito di Cristo, che sì caro / costò a rïarmar”, afferma il maestro dell’Olivi, “dietro a la ’nsegna / si movea tardo, sospeccioso e raro”. Dio provvide pertanto alla milizia, che era in forse, con i due campioni Domenico e Francesco (Par. XII, 37-45). Bonaventura ripete quello che Olivi scrive (Ap 7, 3) dello spirito che, negli uomini evangelici “tepefactus et quasi extinctus seu consopitus”, deve essere suscitato e riacceso per poter essere disposto e spinto a sostenere e vincere le fortissime tentazioni che insorgeranno con l’Anticristo. Tra gli spiriti sapienti della ghirlanda in cui parla san Bonaventura sono Illuminato da Rieti e Augustino d’Assisi, fra i primi seguaci di Francesco, che nel capestro della regola si fecero amici di Dio. C’è anche Pietro Ispano (papa nel 1276 come Giovanni XXI), autore delle Summulae logicales che nel mondo rilucono in dodici libelli: il dodici fa parte della tematica dei segnati, provenendo questi dalle dodici tribù d’Israele ed essendo il loro numero 144.000, ossia dodici volte dodicimila (Par. XII, 130-135).
4) Nel Paradiso, questi temi ‘militari’ che segnano gli eletti al martirio sono ancora nelle parole del poeta che prega la mente divina e la “milizia del ciel”, apparsagli nel cielo di Giove a formare un’aquila, perché l’ira divina colpisca un’altra volta i profanatori “del comperare e vender dentro al templo / che si murò di segni e di martìri” (Par. XVIII, 121-126). Oppure in fine del discorso di Folchetto di Marsiglia (Par. IX, 139-142), che dice di “Vaticano e l’altre parti elette / di Roma che son state cimitero / a la milizia che Pietro seguette”. Esse “tosto libere fien de l’avoltero”, cioè dalla Chiesa carnale (ai segnati è data appunto la “libertas” che difende pubblicamente la fede).
5) Nel sesto girone del Purgatorio, dove Dante incontra Forese e Bonagiunta da Lucca, al quale espone la propria poetica, i temi della “signatio” sono intensi. Insistente è il motivo del notare e del nominare. I ‘segnati’ sono ascritti alla milizia “sub certo nomine et numero et scriptura”, ad essi spetta una “familiarior signatio et notitia et amicitia apud Deum”; nel girone dei golosi purganti “non si vieta / di nominar ciascun”, così Forese “molti altri mi nomò ad uno ad uno; / e del nomar parean tutti contenti” (Purg. XXIV, 16-18, 25-27). Nomi significanti, se confrontati con un’esegesi teologica che annovera “equites … barones seu duces … centuriones … decuriones”, sono Ubaldin da la Pila (il castello del Mugello, che concorda nel suono con “l’alto primipilo” di Par. XXIV, 59) e “messer Marchese”, il forlivese gagliardo bevitore.
Nel congedo di Forese è da notare la presenza del tema del rimanere del seme, dalla quinta guerra (Ap 12, 17) [13]. C’è un seme della donna che precede, e viene rapito al cielo (Cristo) e un seme che rimane (in Giovanni e nei suoi discepoli). Questo motivo [14] è appropriato a Dante (Purg. XXIV, 91, 98), che rimane con Stazio e Virgilio (“che fuor del mondo sì gran marescalchi”, per restare in tema), mentre a Forese sono attribuiti temi dalla “signatio” nel paragone con l’uscita dalla schiera del cavaliere che “va per farsi onor del primo intoppo” (ibid., 94-99). Il tempo della purgazione fa così avanzare sul poeta vivo, che rimane in via, quello morto, che “si partì da noi con maggior valchi”, già assunto a una più alta milizia cristiana e a una maggiore configurazione in Cristo crocifisso. Ai segnati destinati al martirio è data la “magnanimis libertas” di predicare e di difendere la fede; i golosi purganti si rifanno santi “in fame e ’n sete” e vanno alla pena degli alberi che accendono il desiderio di bere e di mangiare con quella voglia “che menò Cristo lieto a dire ‘Elì ’, / quando ne liberò con la sua vena” (Purg. XXIII, 66, 73-75), versi nei quali si insinua il tema, sempre dall’apertura del sesto sigillo, di Cristo che conduce alle desiderabili acque della vita per cui i beati non avranno più fame né sete (Ap 7, 16-17).
L’uscire di schiera di Forese ripete quella dell’amico poeta, che per Beatrice “uscì … de la volgare schiera” (Inf. II, 105), “sesto tra cotanto senno” nella bella schiera degli onorati poeti del Limbo (Inf. IV, 100-102).
6) La processione trionfale dell’Eden, “glorïoso essercito”, si volge come una schiera che “sé gira col segno” (i sette candelabri che precedono i ventiquattro seniori) proteggendosi con gli scudi “per salvarsi”, in modo che a muoversi sia prima l’avanguardia (la “milizia del celeste regno”, ossia i ‘segnati’, Purg. XXXII, 16-24; cfr. “le prime insegne”, in fine di Purg. XXIX).
7) Il tema dell’amicizia divina contrapposto alla volgare milizia è presente nelle accorate parole con cui Lucia invita Beatrice a soccorrere Dante, “ch’uscì per te de la volgare schiera” dei poeti (Inf. II, 103-105), che la stessa Beatrice, rivolgendosi a Virgilio, definisce “l’amico mio, e non de la ventura” (ibid., 61; da notare, nello stesso canto [ibid., 44-45], il contrasto tra il “magnanimo” Virgilio e la “viltade” da cui è offesa l’anima di Dante). Virgilio che, mosso da Beatrice, rimuove l’ “impedimento” frapposto dalla lupa a Dante nel salire il “dilettoso monte”, svolge in qualche modo la funzione dell’angelo del sesto sigillo. È presente ancora nelle parole di Sapia senese, “spirito eletto”, cioè già salvo, che dice al poeta: “Oh, questa è a udir sì cosa nuova”, / rispuose, “che gran segno è che Dio t’ami” (Purg. XIII, 145-146). Non sarà casuale, poi, che Sapia, nel parlare secondo la Lectura, ricordi Pier Pettinaio, lo spirituale francescano che fu uditore a Santa Croce dell’Olivi con Ubertino da Casale (1287-1289), grazie alle cui preghiere la sua penitenza è stata abbreviata (ibid., 127-129).
L’amicizia di Dio e la schiera sono invece disgiunte nell’episodio di Paolo e Francesca. Le due anime affannate escono dalla schiera ov’è Didone, chiamate dall’affettuoso grido di Dante in luogo dove tace il vento (e pertanto a uno stato migliore, sia pur momentaneo, della precedente “bufera infernal, che mai non resta”), ma l’amicizia di Dio è solo ipotetica nel desiderio di un’impossibile preghiera per la pace del poeta pietoso del loro male perverso (Inf. V, 85, 91-93).
Il motivo della schiera, accompagnato dal numero corrispondente allo stato della Chiesa – il sesto, il “novum saeculum” che tanto s’aspetta – compare nel Limbo, allorché i cinque poeti (Omero, Orazio, Ovidio, Lucano e Virgilio) ammettono Dante nella loro schiera (Inf. IV, 100-102). È il momento della “signatio” poetica di Dante, che si ritrova ad essere “sesto tra cotanto senno”, con tutto quello che comporta il significato, sia pur recondito, dell’essere sesto, secondo l’esegesi della Lectura : il divenire depositario della sapienza passata, l’avere la porta aperta al parlare, il rinnovare la fede e la vita evangelica (il metter fuori le “nove rime”), il sentire l’ordine interiore che spinge a dire, la conformità a Cristo, la fedeltà al Verbo (l’andar le penne strette ad Amore, interno “dittator” che “spira”, elemento di distinzione del “dolce stil novo” dalla vecchia poetica, come riconosciuto da Bonagiunta nel ‘sesto’ girone del Purgatorio).
8) Il tema della “signatio” sulla fronte degli eletti e amici di Dio, difensori pubblici della fede, si mostra fin dal primo canto del poema, d’altronde percorso da molti motivi dell’apertura del sesto sigillo [15], nella “vergognosa fronte” con cui Dante risponde a Virgilio (Inf. I, 81; cfr. III, 79. Anche l’espressione di Virgilio al v. 129 – “oh felice colui cu’ ivi elegge!” – fa parte del gruppo tematico).
Farinata, il magnanimo difensore “a viso aperto” di Firenze contro quanti l’avrebbero voluta distruggere dopo Montaperti, “s’ergea col petto e con la fronte”. A suo modo, lo sdegnoso ghibellino ha vissuto un momento del sesto stato, predicando (senza esserne consapevole) la fede di Cristo. Firenze, anche se “nido di malizia tanta”, è infatti pur sempre il luogo dove sarebbe nato Dante, pianta in cui rivive la “sementa santa” dei Romani, come dice Brunetto Latini. Salvando Firenze, Farinata ha salvato il seme della fede (Inf. X, 35, 73, 93) [16].
Il sole riluce “ ’n fronte” a Dante nel momento in cui, sulla soglia dell’Eden, Virgilio gli dice che il suo arbitrio è “libero, dritto e sano” da poter essere assecondato senza guida (Purg. XXVII, 133, 139-140).
Nel girone dove si purgano i superbi, di Provenzan Salvani dice Oderisi da Gubbio che “quando vivea più glorïoso”, messa da parte ogni vergogna, liberamente si piantò a mendicare nel Campo di Siena per raccogliere il denaro necessario al riscatto dell’amico prigioniero di Carlo d’Angiò (Purg. XI, 133-138). Se il deporre la viltà per la magnanimità appartiene al Cristo vittorioso che esce “in campo” all’apertura del primo sigillo (Ap 6, 2) [17], l’affiggersi “liberamente” appartiene ai segnati che all’apertura del sesto sigillo ricevono il sigillo di Dio sulla fronte, lì dove si mostra il segno dell’audacia e della strenuità o della pusillanimità e dell’inerzia, della gloria o della vergogna (Ap 7, 3: la fronte in questo caso non è citata, ma lo sono i motivi connessi). Lo stesso ‘stare fisso’ è una prerogativa della sesta vittoria (Ap 3, 12) [18]. Così il Campo di Siena fu per il Salvani, come per Cristo, luogo di vittoria: l’atto di umiltà, per il quale “si condusse a tremar per ogne vena”, tolse a colui che “fu presuntüoso / a recar Siena tutta a le sue mani” lo stare fuori dei gironi della montagna a purgare anche la negligenza della tardiva conversione.
Da quanto esaminato si desume:
a) La rosa di elementi semantici o parole-chiave, proposta nel medesimo luogo di esegesi scritturale, attraversa l’intero poema, in più luoghi e con variazioni sempre diverse di tali elementi (nella sinossi proposta sono stati toccati punti di almeno 25 canti, e altri potrebbero trovarsi).
b) Quella che appare frantumazione del testo è in realtà identificazione di cellule tematiche, le cui variazioni sono più ampie man mano che si procede nelle cantiche. Si va dai luoghi più chiusi o embrionali (Inf. II, IV, V) ad altri più aperti (Purg. XXIV, Par. XVI, XXIV-XXV).
c) I temi sono appropriabili in tutte le guise, alle similitudini come agli altri modi del discorso poetico: sia “ch’uscì per te de la volgare schiera” o “ch’e’ sì mi fecer de la loro schiera” o “cotali uscir de la schiera ov’ è Dido”, sia “Qual esce alcuna volta di gualoppo / lo cavalier di schiera che cavalchi” o “Come sotto li scudi per salvarsi / volgesi schiera, e sé gira col segno”.
d) La sinossi consente accostamenti inusitati tra luoghi del poema: valga per tutti la simmetria tra la “signatio” poetica nel Limbo e quella apostolica nell’esame sulle tre virtù teologali che si svolge nel cielo delle stelle fisse.
e) Non si tratta solo di un passaggio di elementi semantici, ma anche dei relativi significati dati ad essi dall’Olivi. Questi fasciano di una veste sacra temi cortesi [19]. L’autore del Fiore, riscrivendo il Roman de la Rose, canta della “baronia” alla quale Amore dà mandato di abbattere il castello di Gelosia, cosicché si “soccorra Durante”, che lo merita per il suo fino amore (Fiore, LXXXII). Beatrice soccorre Dante, visitando Virgilio nell’ “uscio d’i morti”, perché è il suo “amico”, cioè è amico di Dio e per questo ‘segnato’ a una milizia non volgare. Si tratta della milizia privilegiata del sesto stato, propria di “chi prende sua croce e segue Cristo” (Par. XIV, 106). Con Dante ‘segnato’, per l’amore di Beatrice e tra il “cotanto senno” dei sommi poeti del Limbo, la tematica della “signatio” si diffonde su tutti, dagli alti apostoli al grottesco “decurio” Barbariccia (Inf. XXII, 74), alla caccia dell’arcivescovo Ruggieri nel sogno del conte Ugolino (Inf. XXXIII, 31-33).
f) Ancora, non si tratta solo di accostamenti di elementi semantici, con i relativi significati. Vi è grande libertà di variazione, e ciò è comprensibile, perché il processo di metamorfosi avviene dalla prosa alla poesia, e inoltre è soggetto alle esigenze della narrazione. La ripetizione degli elementi semantici non si accompagna, apparentemente, ad analoghe congiunture ritmiche o sintattiche. Ma si notino: “che gran segno è che Dio t’ami – designatur familiarior signatio et notitia et amicitia apud Deum” (Purg. XIII, 146); la rima “degni / segni” (la “dignitas signatorum”: Purg. XXI, 20/22), “degno / segno” (Par. XI, 118/120), “ ’nsegna / degna” (Par. XII, 38/42; tipologia presente anche in altri luoghi, ma il contesto semantico significativo della “signatio” non è così evidente, o è riferibile ad altri contesti).
“Magnanimo” compare solo due volte nel poema, riferito a Virgilio e a Farinata. Nel primo caso (Inf. II, 44) è unito, nel contesto, all’ovvia “viltade” di Dante e all’assai meno ovvia ‘amicizia’ di Beatrice per cui egli è uscito dalla “volgare schiera”; nel secondo caso (Inf. X, 73) è unito all’ovvia “fronte” e al meno ovvio ‘difendere’: tutti temi presenti nell’esegesi della “signatio” ad Ap 7, 3.
“Pubblico” è hapax nel poema, dove è unito a “segno” (l’aquila, Par. VI, 100); ai segnati è infatti data la “constans et magnanimis libertas ad Christi fidem publice confitendam et observandam et predicandam et defendendam” (si ricordi come la “salus publica” sia accostata alla “libertas” nel celebre passo su Catone in Monarchia, II, v, 15).
g) I significati portati dalla Lectura super Apocalipsim sono incastonati e come rinchiusi nel senso letterale. “L’amico mio” non vuol dire, di per sé, ‘amico di Dio’; “la difesi a viso aperto” non ha nulla a che vedere con la difesa della fede di Cristo. Per isolare e comprendere tali secondi significati è necessario possedere la chiave, cioè il libro da cui derivano. Conoscendo a fondo il libro, essi si aprono subito alla mente, e lo spessore sacro del poema si mostra compiutamente. Non si tratta di singoli punti, più o meno ispirati da una fonte esterna. Si è in presenza di una metamorfosi testuale ovunque diffusa, per cui non solo un libro è passato in un altro, ma si è come cristallizzato nel suo strato più profondo. Si tratta, pertanto, di una forma di arte della memoria: le parole-chiave operano sul lettore come imagines agentes che lo sollecitano verso un’opera di ampia dottrina, che già conosce, ma che rilegge mentalmente parafrasata in volgare, profondamente aggiornata secondo gli intenti propri del poeta, in versi che le prestano “e piedi e mano” e la dotano di exempla contemporanei e noti. Nel senso letterale del “poema sacro”, riservato a tutti, sono incardinati gli altri sensi interpretativi: allegorico, morale, anagogico (che Dante, nell’Epistola a Cangrande, definisce collettivamente “mistici” o “allegorici”). Dante, che considerava sé come un nuovo Giovanni e la sua opera come una nuova Apocalisse, mirava non solo a un pubblico di laici, ma anche di predicatori e riformatori della Chiesa. Questo pubblico di chierici non si formò, perché gli Spirituali (non un gruppo organizzato, ma di sensibilità comune), che dovevano conoscere la Lectura oliviana, furono perseguitati e il loro libro-vessillo, censurato nel 1318-1319 e condannato nel 1326, fu votato alla clandestinità e quasi alla sparizione. Ma la Commedia e la Lectura, testualmente tanto unite, furono anche gli ultimi testimoni, nel Medioevo cristiano, dell’inserimento dell’individuo nell’ordine universale secondo i giudizi di Dio, di una storia della salvezza collettiva, prima che l’individuo restasse solo.
h) L’arte della memoria per parole-chiave non serviva soltanto ai chierici. Il fatto che gruppi di terzine numericamente corrispondenti, a diversi stadi della Commedia, contengano parole-chiave che conducono alla medesima pagina esegetica sembra indicare che queste parole, se dovevano essere per il lettore spirituale signacula mnemonici di un altro testo, erano per il poeta anche segni del numero dei versi, “luogo” dove collocare i medesimi signacula in forma e contesto diversi. Ap 7, 3 è solo un esempio (cfr. le tabelle IV, V, VI), perché innumerevoli altri luoghi della Lectura si propongono a riaffermare la medesima norma.
(I)
(II)
(III)
(IV)
[Ap 7, 3] Clamat ergo (Ap 7, 3): “Nolite”, id est non audeatis; vel si ad bonos angelos loquitur, dicit “nolite” quia, ex quo ipse prohibuit, non debuerunt velle; “nocere”, scilicet per effrenatam temptationem vel per predicationis et gratie impeditionem, “terre et mari neque arboribus, quoadusque signemus servos Dei nostri in frontibus eorum”.
|
Purg. XXIV, 10-18 (4-6)
“Ma dimmi, se tu sai, dov’ è Piccarda; |
Par. XXV, 10-18
però che ne la fede, che fa conte |
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Purg. XXI, 19-24 (7-8)
“Come!”, diss’ elli, e parte andavam forte:
Inf. XVIII, 28-33 (10-11) come i Roman per l’essercito molto, |
Purg. XXXII, 16-24 (6-8)
vidi ’n sul braccio destro esser rivolto
Inf. XXXIII, 31-33 (11)
Con cagne magre, studïose e conte |
Par. XVI, 22-27 (8-9)
Ditemi dunque, cara mia primizia, |
(V)
[Ap 7, 3] Clamat ergo (Ap 7, 3): “Nolite”, id est non audeatis; vel si ad bonos angelos loquitur, dicit “nolite” quia, ex quo ipse prohibuit, non debuerunt velle; “nocere”, scilicet per effrenatam temptationem vel per predicationis et gratie impeditionem, “terre et mari neque arboribus, quoadusque signemus servos Dei nostri in frontibus eorum”.
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Par. XII, 37-42 (13-14) L’essercito di Cristo, che sì caro costò a rïarmar, dietro a la ’nsegna si movea tardo, sospeccioso e raro, quando lo ’mperador che sempre regna provide a la milizia, ch’era in forse, per sola grazia, non per esser degna |
Par. XVI, 40-42 (14)
Li antichi miei e io nacqui nel loco |
Par. XXV, 40-42 (14)
“Poi che per grazia vuol che tu t’affronti |
Inf. III, 52-60 (18-20)
E io, che riguardai, vidi una ’nsegna |
Par. XXIV, 52-60 (18-20)
“Dì, buon Cristiano, fatti manifesto:
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Par. XXV, 52-57 (18-19)
“La Chiesa militante alcun figliuolo |
Inf. X, 73-74 (25)
Ma quell’ altro magnanimo, a cui posta |
Inf. XXII, 73-75
Draghignazzo anco i volle dar di piglio
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Inf. IV, 100-102 (34); II, 103-105 (35)
e più d’onore ancora assai mi fenno, Disse: – Beatrice, loda di Dio vera,
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Purg. XIII, 103-105 (35)
“Spirto”, diss’ io, “che per salir ti dome, |
Par. VI, 100-105 (34-35)
L’uno al pubblico segno i gigli gialli Faccian li Ghibellin, faccian lor arte |
(VI)
[Ap 7, 3] Clamat ergo (Ap 7, 3): “Nolite”, id est non audeatis; vel si ad bonos angelos loquitur, dicit “nolite” quia, ex quo ipse prohibuit, non debuerunt velle; “nocere”, scilicet per effrenatam temptationem vel per predicationis et gratie impeditionem, “terre et mari neque arboribus, quoadusque signemus servos Dei nostri in frontibus eorum”.
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Inf. II, 121-126 (41-42)
Dunque: che è? perché, perché restai,
Purg. XI, 133-135 (45)
“Quando vivea più glorïoso”, disse,
Purg. XXVII, 139-142 (47) Non aspettar mio dir più né mio cenno; |
Par. XVIII, 121-126
sì ch’un’altra fïata omai s’adiri
Par. XII, 130-135 (44-45) Illuminato e Augustin son quici,
Par. IX, 139-142 (47) Ma Vaticano e l’altre parti elette |
Par. XV, 139-141 (47)
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2.“Turbam magnam, quam dinumerare nemo poterat”
Terremoti nelle coscienze e fuga alle “pietre” pietose
All’apertura del sesto sigillo (Lectura super Apocalipsim, cap. VI, Ap 6, 12-17) un grande terremoto – interpretato sia come eventi naturali che come sovvertimenti politici – provocherà terrore negli uomini senza distinzione di stirpe o di grado, le coscienze saranno sconvolte e si convertiranno o si induriranno maggiormente. Quanti saranno indotti alla penitenza si rifugeranno fra i sassi e le spelonche dei monti petrosi – che si faranno pietosi, condiscendenti e misericordiosi -, cioè chiederanno ausilio ai santi fermi nella fede fuggendo l’irato volto di Cristo giudice: « Dixeruntque “montibus et petris” (Ap 6, 16), id est sanctis sublimibus et firmis in fide: “Cadite super nos”, per piam scilicet affectionem et condescensionem, “et abscondite nos”, per vestram scilicet intercessionem » [20]. Cristo stesso predisse mali simili, dicendo: “Figlie di Gerusalemme, non piangete su di me ma su voi stesse” (Luca 23, 28), e ancora: “allora cominceranno a dire ai monti: cadete su di noi, e ai colli: copriteci” (ibid., 23, 30). Guerre e sedizioni, all’apertura del sesto sigillo, sovvertiranno le isole e i monti, cioè le città e i regni (Ap 6, 14); le isole si muoveranno e i monti saranno traslati (Ap 16, 20); verrà cioè sconvolto, in modo imprevedibile, quel che vi è di più stabile e adatto all’umana quiete in mare, oppure di più sicuro ed eminente in terra.
Il tema della “signatio” sulla fronte dell’esercito di Cristo (Ap 7, 3), congiunto con quelli del terremoto interiore che spinge alla conversione e alla penitenza (Ap 6, 12) e del rifugiarsi presso le pietre e i monti (Ap 6, 15-16), compare nella celebre similitudine dei ruffiani e dei seduttori i quali, nella prima bolgia, vanno a schiera in due opposte direzioni, come “l’essercito molto” delle genti accorse al Giubileo è stato organizzato dai Romani sul ponte Sant’Angelo in due gruppi, l’uno, con la fronte verso il Castello, che va a San Pietro, l’altro che, ritornando, va verso Monte Giordano (Inf. XVIII, 25-33). I pellegrini che vanno a Santo Pietro e ritornano verso il Monte per chiedere il perdono dei propri peccati costituiscono la turba immensa, che nessuno poteva contare, di ogni gente, tribù, popolo o lingua, che segue nell’esercito i “segnati” in fronte (Ap 7, 9), nella quale si verifica un terremoto interiore che spinge a mutare vita. Nell’esegesi oliviana l’impulso alla penitenza e la fuga alle pietre e ai monti (i santi sublimi e fermi nella fede) provengono dal terrore del giudizio imminente e dall’attesa dei mali maggiori che incombono. Questo motivo passa nei versi successivi a quelli che recano il riferimento al Giubileo del 1300, nei “demon cornuti con gran ferze” che “su per lo sasso tetro” battono crudelmente i ruffiani, i quali se la danno a gambe alle prime percosse, senza aspettare le seconde o le terze. Il primo dei dannati che Dante incontra abbassa il viso per nascondersi, ma inutilmente poiché il poeta riconosce in lui Venedico Caccianemico.
È da notare come, nel Notabile XIII del Prologo della Lectura, il Castello e la sede di Pietro vengano menzionati insieme per ricordare la cessazione della peste con l’apparizione dell’angelo che trattiene la spada dopo i sette cori di litanie ordinate da Gregorio Magno e il ripristino dell’arca del culto divino nella sede di Pietro, prefigurato nell’Antico Testamento da David che riportò l’arca in Gerusalemme e collocò il tempio sul monte Moria. Il giubileo stesso, si dice nel Notabile, rientra tra i misteri del numero sette di cui è piena la Scrittura, perché venne stabilito al cinquantesimo anno, ossia dopo sette volte sette anni (Levitico 25, 8-10), e non è forse casuale che il riferimento compaia all’inizio dell’ottavo cerchio infernale, nel canto che precede la bolgia dei simoniaci che attende di lì a poco Bonifacio VIII.
L’eco del Giubileo parve a Luigi Pietrobono “non troppo riguardosa” [21]. Essa è tuttavia consona con lo stile comico, ed è tragicamente collocata dove la penitenza non trova più luogo e dove non è più possibile nascondersi tra le pietre e i sassi, tessuta con i fili tratti dall’esegesi dell’apertura del sesto sigillo, che per Olivi è tempo di rinnovamento, di conversione, di consegna alla gloriosa milizia di Cristo per quanti sono ancora vivi. Anche per Dante, come scrisse Raffaello Morghen in Medioevo cristiano, “il grande perdono doveva assumere senza dubbio nel suo pensiero il significato di una palingenesi totale di tutta la società cristiana” [22]. Non solo perché nel Convivio dichiara di attendere “la consumazione del celestiale movimento” (II, xiv, 12), ma anche per aver introdotto nel poema l’accenno alla “sagra del Medioevo” con i temi propri delle aspettative escatologiche dell’evangelismo francescano diffondendoli in favore del “viver bene” dell’ “omo in terra”.
La paura, il fuggire ai monti e ai colli, la compunzione provocata dal terremoto percorrono Inf. I, 13-27: “(Ap 6, 14-17) fuerunt vehementer perterriti … Ex ipso etiam timore fugient et abscondent se “in speluncis” et inter saxa montium … “Tunc incipient dicere montibus: Cadite super nos, et collibus : Cooperite nos” [Lc 23, 30] … (Ap 8, 5) “Et terremotus” … mota sunt corda hominum ad compunctionem, et mutata vita priori conversi sunt ad Christum … │ Ma poi ch’i’ fui al piè d’un colle giunto, / là dove terminava quella valle / che m’avea di paura il cor compunto … Allor fu la paura un poco queta … così l’animo mio, ch’ancor fuggiva … [vv. 77-78] perché non sali il dilettoso monte / ch’è principio e cagion di tutta gioia?”. Il fuggire alle pietre viene recitato da Dante stesso in Inf. I, 130-135, nel chiedere a Virgilio di condurlo alla porta di san Pietro (la porta del Purgatorio), “acciò ch’io fugga questo male e peggio”.
È significativo che un cronista contemporaneo come l’astigiano Guglielmo Ventura usi (consapevolmente?) la stessa espressione di Ap 7, 9 – “vidi turbam magnam, quam dinumerare nemo poterat” – per indicare la folla dei pellegrini venuta a Roma. Ma il tema della moltitudine innumerevole – la “turba magna … ex omnibus gentibus” (Ap 7, 9) – che segue i segnati passa negli ignavi, “sì lunga tratta / di gente, ch’i’ non averei creduto / che morte tanta n’avesse disfatta”, che va dietro a “una ’nsegna / che girando correva tanto ratta, / che d’ogne posa mi parea indegna” (Inf. III, 52-57). Poi passa nelle “turbe” del Limbo, “ch’eran molte e grandi, / d’infanti e di femmine e di viri” (Inf. IV, 29-30). La “signatio” degli ignavi è signum formidolositatis et inhertie ; fra essi infatti sta “l’ombra di colui / che fece per viltade il gran rifiuto” (Inf. III, 59-60).
Nella valletta dei principi, Dante vede l’ “essercito gentile” delle anime purganti guardare in alto “palido e umìle” nell’attesa (tema dell’apertura del quinto sigillo, Ap 6, 9), carica di timore, del serpente che sta per sopraggiungere. Dall’alto scendono due angeli con le spade infuocate ma tronche e private delle punte (Purg. VIII, 22-27).
Si è già ricordata la processione trionfale dell’Eden, “glorïoso essercito” che si volge come una schiera che gira “col segno” proteggendosi con gli scudi “per salvarsi”, in modo che a muoversi sia prima l’avanguardia (la “milizia del celeste regno”, ossia “i segnati”, Purg. XXXII, 19-24).
Quando nell’Apocalisse si parla di “terremoto” (Ap 8, 5; 11, 13.19; 16, 18), l’esegesi dell’Olivi insiste sullo sconvolgimento operato nei cuori, sul mutamento di vita verso uno stato migliore, sulla conversione a Cristo: “mota sunt corda hominum ad compunctionem, et mutata vita priori conversi sunt ad Christum … ‘Commovet populum docens per universam Iudeam’ (Luca 23, 5) … magnus terremotus, id est magna concussio cordium hec videntium vel audientium … fortis concussio et commotio terrenorum cordium ad penitentiam et ad immutationem status in melius. … stupenda immutatio totius seculi … maxima commotio electorum ad spiritum Christi et per spiritum Christi”. Si noterà quanto intensamente le parole-chiave, ‘signacula’ che rinviano al ‘terremoto’ anche senza citarlo, siano presenti nel poema collocati nelle situazioni e con le modalità più varie.
Oltre a questi significati morali, il “terremoto” ha anche il senso di sconvolgimento politico. Un forte terremoto, accompagnato dal grido di Gloria, scuote la montagna mentre Dante e Virgilio si trovano ancora nel quinto girone, dove si purgano gli avari e i prodighi (Purg. XX, 124-141). Di questo terremoto rende conto Ap 13, 18 [23]. Al termine dell’esegesi del capitolo XIII dell’Apocalisse, che tratta della grande guerra mossa nel sesto stato dalla bestia, della quale viene spiegato anche il mistero del numero del nome – il DCLXVI -, Olivi riporta l’opinione di alcuni, i quali, sulla base degli scritti di Gioacchino da Fiore e di quanto sarebbe stato rivelato in segreto da san Francesco a frate Leone suo confessore e ad altri compagni, ritengono che Federico II e il suo seme sia la testa della bestia che sembrava uccisa e che rivive di Ap 13, 3 (“Et vidi unum de capitibus suis quasi occisum in mortem, et plaga mortis eius curata est”). Secondo costoro, al tempo dell’Anticristo mistico (che precede quello aperto), in questo discendente di Federico non solo rivivrà l’Impero romano, ma egli conquisterà pure il regno di Francia e gli saranno alleati gli altri cinque re cristiani. Farà eleggere papa un falso religioso nemico della regola francescana, che contro questa escogiterà dolose dispense, promuovendo vescovi a lui consenzienti ed espellendo i chierici e i precedenti vescovi che erano stati avversi al seme di Federico e specialmente a quell’imperatore, a lui e al suo stato. Olivi rimette alla volontà divina l’avverarsi dell’opinione che l’Anticristo mistico nasca dal seme di Federico II [24]. Ricorda tuttavia che i sostenitori di questa tesi affermano pure che la ‘caduta’ del regno di Francia avverrà in coincidenza con il terremoto che segna l’apertura del sesto sigillo, e che allora si verificherà quanto dice l’Apostolo ai Tessalonicesi sul fatto che l’apostasia, il discedere dall’obbedienza del vero papa per seguire il falso papa non eletto canonicamente, scismatico ed errante contro la verità della povertà e della perfezione evangelica, dovrà venire prima del ritorno di Cristo nella parusia (2 Th 2, 3). Dell’espressione paolina – “nisi venerit discessio primum” – è contesto il verso di invettiva contro la lupa – “quando verrà per cui questa disceda?” -, nel quale il ‘discedere’ è appropriato alla lupa e il ‘venire’ al Veltro. L’invettiva è collocata all’inizio di Purg. XX (vv. 13-15), canto che si chiude con il terremoto sentito “come cosa che cada” e che fa tremare la montagna (vv. 124-141). Stazio spiegherà, moralmente, che il terremoto si verifica allorché un’anima purgante si sente monda e libera nella sua volontà di salire al cielo (Purg. XXI, 58-72). Tra l’invettiva contro la lupa e il terremoto sta Ugo Capeto, il quale chiede vendetta a Dio sulla “mala pianta” di cui fu radice a nome di Douai, Lille, Gand, Bruges vessate da Filippo il Bello (ibid., 46-48), come i santi del quinto stato dai quali, all’apertura del quinto sigillo, “expetitur instanter et alte iusta vindicta” (Ap 6, 9) e che si rivolge ancora a Dio chiedendogli quando potrà godere la gioia di vedere attuata la vendetta per ora nascosta nel suo segreto, chiusa cioè fino a quando, nel sesto stato, verrà il giudizio di Babilonia (ibid., 94-96). Il terremoto – che assume testualmente, comunque, le caratteristiche dell’apertura del sesto sigillo –, al di là dei motivi dati da Stazio, è anche allusione alla futura caduta del regno di Francia. È anche esempio concreto di quello che intende l’autore della Commedia, allorché scrive a Cangrande che il significato dell’opera non è uno solo, anzi può definirsi polisemos, cioè di più significati (Epistola XIII, 20).
[LSA, cap. VI, Ap 6, 12-17 (IIa visio, apertio VIi sigilli, IIum initium)] Ad secundum quidem. Nam per Franciscum, ab initio huius ordinis usque nunc, facta est magna consignatio ad spiritalem militiam evangelice regule, et preter hoc multe turbe populorum sunt post illos ad exemplum illorum adducte ad penitentiam et ad gratiam Christi. Nec defuit in quibusdam “terremotus” compunctionis et mutationis male vite in bonam, et in pluribus aliis “terremotus” iracund<e> commotionis contra viros evangelicos et eorum professionem […]. Rursus viris evangelicis in sui adventus primordio zelantibus et predicantibus fervide contra ista, evidentius inclaruerunt omnibus mala predicta, ipsisque alte comminantibus et preconizantibus iram et adventum iudicis in ianua esse, multi “reges” et “principes” et “divites” et pauperes fuerunt vehementer perterriti, propter quod “absconderunt se in speluncis et petris montium” (Ap 6, 15), id est in secreta et firma conversatione sublimium sanctorum recurrendo, scilicet humiliter, ad eorum refugium. Dixeruntque “montibus et petris” (Ap 6, 16), id est sanctis sublimibus et firmis in fide: “Cadite super nos”, per piam scilicet affectionem et condescensionem, “et abscondite nos”, per vestram scilicet intercessionem, “a facie”, id est ab animadversione, “sedentis super tronum”, id est deitatis regnantis, “et ab ira Agni”, id est Christi hominis. “Et quis poterit stare” (Ap 6, 17), scilicet coram sic terribili et irata facie tanti iudicis, quasi dicat: vix etiam ipsi iusti, quanto magis nos impii?[Ap 6, 12-17; IIIum initium] […] propter que omnia plures non solum boni, sed etiam mali fortiter perterrebuntur non solum a visu et perpessione tantorum malorum, sed etiam suspicione et expectatione longe maiorum (cfr. Ap 6, 13). Tunc etiam plures signabuntur ad militiam spiritalem, quamvis sint pauci respectu multitudinis reproborum.[Ap 6, 14-15; IVum initium] Tunc etiam montes, id est regna ecclesie, et “insule”, id est monasteria et magne ecclesie in hoc mundo quasi in solo seu mari site, movebuntur “de locis suis” (Ap 6, 14), id est subvertentur et eorum populi in mortem vel in captivitatem ducentur. Tunc etiam, tam propter illud temporale exterminium quod sibi a Dei iudicio velint nolint sentient supervenisse, quam propter desperatum timorem iudicii eterni eis post mortem superventuri, sic erunt omnes, tam maiores quam medii et minores, horribiliter atoniti et perterriti quod preeligerent montes et saxa repente cadere super eos. Ex ipso etiam timore fugient et abscondent se “in speluncis” et inter saxa montium (cfr. Ap 6, 15-17). Est enim tunc nova Babilon sic iudicanda sicut fuit carnalis Iherusalem, quia Christum non recepit, immo reprobavit et crucifixit. Unde Luche XXII[I]° predicit ei Christus mala consimilia istis, dicens (Lc 23, 28): “Filie Iherusalem, nolite flere super me, sed super vos ipsas flete”, et paulo post (23, 30): “Tunc incipient dicere montibus: Cadite super nos, et collibus: Cooperite nos”.[LSA, cap. VII, Ap 7, 3 (IIa visio, apertio VIi sigilli)] Signatio hec fit per administrationem fidei et caritatis et per assumptionem ac professionem sacramentorum Christi distinctivam fidelium ab infidelibus. In hac etiam signatione includitur fides et devotio ad Christi passionem adorandam et imitandam et exaltandam. Fit autem “in frontibus”, quando signatis datur constans et magnanimis libertas ad Christi fidem publice confitendam et observandam et predicandam et defendendam. In fronte enim apparet signum audacie et strenuitatis vel formidolositatis et inhertie, et signum gloriationis vel erubescentie. Item prout in eodem exercitu eiusdem regis distinguuntur equites a peditibus et barones seu duces vel centuriones et decuriones a simplicibus militibus, sic videntur hic distingui signati ex duodecim tribubus a turba innumerabili fidelium post ipsos subiuncta. Designatur enim per hanc signationem specialis assumptio ipsorum ad professionem perfectionis evangelice et altioris militie christiane et ad maiorem configurationem et transformationem ipsorum in Christum crucifixum et, secundum Ioachim, ad passionem martiriorum in eis complendam. Sicut enim post transmigrationem Babilonis, quod deerat in constructione templi, in quadraginta sex annis facta, completum est in sex ultimis annis, ita nunc sub sexta apertione ordo sanctorum martirum consumationem accipiet. Unde in die illo qui <erit> medius inter utramque tribulationem, scilicet Babilonis et Antichristi, signabuntur multi Iudeorum et gentium signaculo sancte Trinitatis, ad complendum numerum sanctorum martirum infra scriptum et illam gloriosam multitudinem cuius est numerus infinitus. Hec Ioachim.[LSA, cap. VIII, Ap 8, 5 (radix IIIe visionis)] “Et terremotus”, quia visis tot signis et miraculis et sanctitatis exemplis, et auditis tam altis tamque discretis et fulgurativis Dei eloquiis, mota sunt corda hominum ad compunctionem, et mutata vita priori conversi sunt ad Christum; in pertinacibus vero, factus est terremotus peioris subversionis et iracunde commotionis et persecutionis fidei Christi et doctorum eius. Possunt etiam predicta de missione ignis et de tonitruis et terremot<u> referri ad ignitam predicationem Christi que magnum terremotum causavit in tota Iudea, unde Luche XXIII° (Lc 23, 5) principes sacerdotum contra ipsum allegant: “Commovet populum docens per universam Iudeam” et cetera. Usquequo enim Christus baptizatus est et predicavit, non apparuit implevisse de igne altaris turibulum sue humanitatis. |
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Inf. I, 13-27, 130-136Ma poi ch’i’ fui al piè d’un colle giunto,
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[LSA, prologus, Notabile XIII] Sicut etiam in quarta etate David, deiectis Siriis et Philisteis ceterisque hostibus suis, reduxit cum septem choris archam Dei in Iherusalem, et propter pestem populo suo immissam angelo sibi apparente statuit locum templi in monte Moria, sic in quarto statu ecclesie sub Iustiniano imperatore extirpati sunt heretici arriani de Grecia et de Africa et Italia, et paulo post sub Gregorio Magno extirpati sunt de Ispania, et propter pestem inguinariam Rome immissam ordinati sunt per Gregorium septem chori letaniarum seu rogationum, cessavitque plaga apparente angelo gladium tenente in loco qui adhuc Rome castrum sancti angeli appellatur, restituitque archam divini cultus in sede Petri ordinavitque ecclesiasticum officium sollempnius quam foret ante, sicut etiam David ordinavit officia cantorum et levitarum et pontificum sollempnius quam foret ante. […][…] post septem septenas annorum statuit annum iubileum generalis remissionis […]
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[LSA, cap. VII, Ap 7, 9] Sequitur (Ap 7, 9): “Post h<e>c vidi turbam magnam”. Non dicit “post hec” ex hoc quod tota hec turba convertatur post predictos signatos, sed quia ista per imitationem sequetur illos tamquam perfectiores et exemplares, iuxta quod pedites in exercitu sequuntur equites et duces. “Quam dinumerare nemo poterat”, non quod sit simpliciter et secundum se numeri infiniti vel confusi, immo erit secundum legem Dei et secundum mensuram et proportionem ecclesiastice fabrice et eterne glorie mensuratus et prefixus. “Turbam”, inquam, non solum ex una gente vel lingua existente<m>, sed “ex omnibus gentibus et tribubus et populis et linguis stantes ante tronum”, id est ante regiam dignitatem divine maiestatis designatam per tronum. Vel “ante tronum”, id est ante generalem ecclesiam Dei, vel ante supercelestem, vel ante priorem ecclesiam sanctorum. |
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Purg. VIII, 22-27Io vidi quello essercito gentile
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Purg. XXXII, 16-24vidi ’n sul braccio destro esser rivolto
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[LSA, cap. VIII, Ap 8, 5 (radix IIIe visionis)] “Et terremotus”, quia visis tot signis et miraculis et sanctitatis exemplis, et auditis tam altis tamque discretis et fulgurativis Dei eloquiis, mota sunt corda hominum ad compunctionem, et mutata vita priori conversi sunt ad Christum; in pertinacibus vero, factus est terremotus peioris subversionis et iracunde commotionis et persecutionis fidei Christi et doctorum eius. Possunt etiam predicta de missione ignis et de tonitruis et terremot<u> referri ad ignitam predicationem Christi que magnum terremotum causavit in tota Iudea, unde Luche XXIII° (Lc 23, 5) principes sacerdotum contra ipsum allegant: “Commovet populum docens per universam Iudeam” et cetera. Usquequo enim Christus baptizatus est et predicavit, non apparuit implevisse de igne altaris turibulum sue humanitatis.[LSA, cap. XI, Ap 11, 7.13 (IIIa visio, VIa tuba)] Sequitur: “Et cum finierint testimonium suum, bestia, que ascendit de abisso, faciet adversus illos bellum et vincet illos et occidet illos”. Nota quod nec diabolus nec sui permittuntur occidere sanctos usquequo, secundum Dei ordinationem, compleverint officium suum. Propter quod Iohannis VII° dicitur quod Iudei querebant Christum apprehendere, et tamen nemo misit in illum manus quia nondum venerat hora eius (Jo 7, 1-9). […] “Et in illa hora factus est terremotus magnus” (Ap 11, 13), quia, secundum Ricardum, alii moti sunt ad penitentiam, alii ad maiorem duritiam. Et Ioachim dicit quod in hora qua sanctorum gloria manifestabitur fiet magnus terremotus, id est magna concussio cordium hec videntium vel audientium, ita quod quidam arguent se super sua incredulitate, alii vero desperantes fient deteriores ita ut ipsi ruant et multos a vera fide ruere faciant. […]*[LSA, cap. XI, Ap 11, 19 (radix IVe visionis)] “Et terremotus”, id est fortis concussio et commotio terrenorum cordium ad penitentiam et ad immutationem status in melius.[LSA, cap. XVI, Ap 16, 18 (radix VIe visionis)] Sicut enim Ioachim ait, quando Deus vult mutare statum ecclesie precedunt ante per aliquot annos fulgura miraculorum et voces exhortationum et tonitrua spiritualium eloquiorum, ut homines excitentur et intelligant quod novum aliquid facturus sit Dominus super terram**. Secundum preambulum est singularis et stupenda immutatio totius seculi et triformis divisio ecclesie, unde subdit: “Et terremotus factus est magnus, qualis numquam fuit ex quo homines fuerunt super terram, talis terremotus sic magnus”. Prout hoc spectat ad sextum tempus ecclesie, est idem quod ille terremotus qui supra, sub apertione sexti sigilli, est tactus (Ap 6, 12). Prout vero spectat ad finem seculi, erit ille qui fiet circa extremum iudicium. Prout autem dicit preambulum casus Babilonis sexto tempore fiendi, est subversio et commotio sub mistico Antichristo fienda, per quam tota carnalis ecclesia terribiliter excecabitur et commovebitur contra evangelicum spiritum Christi. Designatur etiam per hoc alia subsequens commotio adventus decem regum cum suis exercitibus super Babilonem, id est super ecclesiam carnalem (cfr. Ap 17, 16), et etiam commotio ipsius ecclesie propter adventum illorum. In utraque autem harum commotionum erit maxima commotio electorum ad spiritum Christi et per spiritum Christi.
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Purg. XX, 127-132; XXI, 58-63, 67-72quand’ io senti’, come cosa che cada,
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Inf. III, 130-136; IV, 1-3Finito questo, la buia campagna 6, 2
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Il tema del timoroso rifugiarsi presso le pietre misericordiose, del darsi per paura alla roccia, proprio dell’apertura del sesto sigillo, può essere confrontato con quanto detto nell’esegesi dell’apertura del quarto sigillo (Ap 6, 8). Gioacchino da Fiore aveva identificato (nell’Expositio in Apocalypsim) il cavallo pallido, che si mostra all’apertura del quarto sigillo, con il regno dei Saraceni, che corrisponde per concordia al regno degli Assiri, i quali sotto il quarto sigillo dell’Antico Testamento devastarono e resero schiave le dieci tribù di Israele e quasi fecero lo stesso con il regno di Giuda, come all’apertura del quarto sigillo nel Nuovo Testamento furono devastate le chiese orientali – le nuove dieci tribù – e quasi la stessa sorte toccò alla chiesa latina, assimilata al regno di Giuda poiché, come in questo fu la vera e principale sede del culto divino (della vera lingua), così lo è nella chiesa latina o romana. Come allora, aggiunge Olivi, la tribù di Beniamino venne congiunta al regno di Giuda, così Paolo, della tribù di Beniamino, si congiunse in Roma con Pietro, che nel principato della fede fu un altro Davide e, tra gli apostoli, patriarca della nostra fede. Fu come il patriarca Giuda, al quale fu detto: “non sarà tolto lo scettro da Giuda” (Genesi 49, 10), poiché a lui Cristo disse: “io ho pregato per te, Pietro, perché non venga meno la tua fede” (Luca 22, 32/34) e “le porte degli inferi non prevarranno contro di essa”, contro cioè la Chiesa fermata sopra la tua fede (Matteo 16, 18).
Dalla selva, che inghirlanda l’ “orribil sabbione” dove stanno i violenti contro Dio, esce un fiumicello rosso sangue, che se ne va giù per la rena. È il Flegetonte: ha il fondo, le pendici e i margini fatti di pietra e per questo consente di attraversare la rena infuocata (Inf. XIV, 82-84). Gli argini del ruscello, infatti, “fan via, che non son arsi” dalla pioggia di fuoco, poiché “sopra loro ogne vapor si spegne” (ibid., 141-142). Nei margini di pietra è il tema della chiesa romana – la sede di Pietro – che non venne meno nella fede e contro la quale non poté prevalere la devastazione dei Saraceni. I “duri margini”, sopra i quali il vapore che si leva dal sangue bollente fa schermo alla pioggia di fuoco, sono simili alle dighe che i Fiamminghi – “temendo ’l fiotto che ’nver’ lor s’avventa” – tra Wissant e Bruges oppongono come schermo “perché ’l mar si fuggia” (il motivo del fuggire, nel senso di ritirarsi, appropriato non a coloro che temono ma all’oggetto del timore) o a quelle costruite dai Padovani “lungo la Brenta” per difendere le loro città e i loro borghi murati, prima che la Carinzia senta il caldo (motivo del sentir sopravvenire il giudizio divino) che fa sciogliere le nevi e ingrossa i fiumi (Inf. XV, 4-12). Dall’ira di Cristo giudice è dunque salvezza la Chiesa di Pietro.
Ciò è confermato dal fatto che Inf. XIV (i bestemmiatori) si colloca in una zona dove “topograficamente” prevalgono i temi del quarto stato e Inf. XV-XVI (i sodomiti) in una zona dove prevalgono i temi del quinto. Se Dante cammina sui “duri margini” salvo dal fuoco, “Brunetto Latino”, col “cotto aspetto” e col “viso abbrusciato”, è immagine di quella parte della “ecclesia latina” devastata dai Saraceni, con cui concorda singolarmente nel nome e negli effetti (Inf. XV, 25-33). Con lui siamo nel quinto stato, assimilato alla “sede” romana, sola semenza rimasta di una Chiesa una volta diffusa su tutto l’orbe, “sementa santa” che rivive in Dante, come appunto gli dice il suo antico maestro Brunetto (ibid., 73-78). Roma, pur sotto la pioggia di fuoco, resta diga di pietra indefettibile che consente di attraversare i passi infernali. Tra le due menzioni dei margini di pietra si colloca la digressione virgiliana sul Veglio di Creta, che “Roma guarda come süo speglio”, cioè l’umanità invecchiata che anela al rinnovamento (Inf. XIV, 105).
Nel silenzioso andare per l’ultima bolgia fra i falsatori di metalli, guardando e ascoltando gli spiriti ammalati, Dante vede “due sedere a sé poggiati, / com’ a scaldar si poggia tegghia a tegghia”, e Virgilio domanda a uno di essi se vi sia lì con loro qualche “latino”, cioè italiano (Inf. XXIX, 73-74, 85-93). I due, seduti e latini, sono Griffolino d’Arezzo e il fiorentino Capocchio: a essi è appropriato il tema della chiesa latina devastata dai Saraceni (“Latin siam noi, che tu vedi sì guasti”: l’esser ‘guasto’ corrisponde al cavallo pallido del quarto sigillo) e della ‘sede’ romana sostenuta congiuntamente da Pietro e Paolo (Ap 6, 8), che si trasforma nella grottesca immagine delle due teglie collocate sulla brace in modo da sostenersi reciprocamente. Bisogna dire che i falsatori di metalli si collocano in una zona con prevalenza di temi del quarto stato, dopo una zona ‘terza’ (la nona bolgia: Inf. XXVIII) e prima di una zona ‘quinta’, i cui temi si insinuano già in Inf. XXIX per poi sfociare nel canto seguente, dove si mantengono però ancora quelli del quarto. È da notare come ai due falsari – “dal capo al piè di schianze macolati” (ibid., 75) – sia appropriato il tema della chiesa della fine del quinto stato: “a planta pedis usque ad verticem est fere tota ecclesia infecta et confusa et quasi nova Babilon effecta” (prologo, notabile VII; il tema tornerà con la “puttana” flagellata dal gigante “dal capo infin le piante”, Purg. XXXII, 156).
La barca di Pietro, come afferma Tommaso d’Aquino nel cielo del Sole (Par. XI, 118-121), fu degnamente mantenuta “in alto mar per dritto segno” da due colleghi, Francesco e Domenico. Chiama Domenico “il nostro patrïarca”, appellativo che nell’esegesi scritturale è dato a Pietro, nuovo Giuda patriarca della fede tra gli apostoli. Non è espresso nei versi, ma si può dedurre, che Francesco sia da assimilare a Beniamino e a Paolo, apostolo delle genti – il “tuo caro frate / che mise teco Roma nel buon filo”, come dice Dante a san Pietro a Par. XXIV, 61-63.
[LSA, cap. VI, Ap 6, 7-8 (IIa visio, apertio IVi sigilli)] Et hinc est quod abbas Ioachim dicit per equum pallidum intelligi reg<num> Sarracenorum, cui per concordiam <correspondet> regnum Assiriorum, sub quarto signaculo veteris testamenti devastans et captivans regnum decem tribuum Israel et fere regnum Iude, sicut sub apertione quarti sigilli vastate sunt quasi decem tribus ecclesiarum orientalium et fere ecclesia latina, que assimilata est regno Iude, quia sicut ibi fuit vera et principalis sedes divini cultus sic est et in ecclesia latina seu romana. Sicut etiam tribus Beniamin fuit tunc iuncta regno Iude, sic Paulus de tribu Beniamin est in Roma iunctus Petro, qui in principatu fidei fuit alter David et inter apostolos nostre fidei patriarcha. Fuit quasi Iudas patriarcha, cui dictum est: “Non auferetur sceptrum de Iuda” (Gn 49, 10), sicut et Petro dixit Christus: “Ego pro te rogavi, Petre, ut non deficiat fides tua” (Lc 22, 32.34) et quod “porte inferi non prevalebunt adversus” ecclesiam super tua fide fundatam (Mt 16, 18).Inf. XIV, 82-84, 141-142; XV, 1-12, 25-33; XVII, 23-24Lo fondo suo e ambo le pendici
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Inf. XXIX, 73-75, 85-93Io vidi due sedere a sé poggiati,
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I temi dell’apertura del sesto sigillo (Ap 6, 12-17) percorrono ancora l’episodio della fuga di Dante e di Virgilio dai Malebranche (nel passaggio, numericamente non casuale, dalla quinta alla sesta bolgia), per causa loro “scherniti con danno e con beffa” (Inf. XXIII, 1-57). Dante è spaventato (“i’ ho pavento”) e già sente i diavoli venire dietro (“che già li sento”), chiede a Virgilio di nascondersi (“… Maestro, se non celi / te e me tostamente …”). Virgilio, con rapido consiglio, decide di scendere nell’altra bolgia dalla “destra costa”, meno ripida, per fuggire “l’imaginata caccia”. La “costa” e lo “scendere” sono temi del quinto stato, il momento della pia condescensione che frange l’ardua e ripida altezza dello stato precedente degli anacoreti. Nel Notabile VII del Prologo si recano gli esempi di Cristo che condiscese agli infermi e di Adamo al quale venne sottratta una forte “costa” (simbolo della solitudine austera degli anacoreti del quarto stato), che Dio nel creare Eva riempì di pietas. Più volte nel poema la “costa” della ripa infernale, o della montagna del Purgatorio, che giace o che è corta o che cala o che pende, si abbina allo “scendere” in modo da far via in giù o in su, indicando la rottura della solitaria arditezza, del luogo “alpestro” a vantaggio del condiscendere pietoso, del dar via [25].
Virgilio fa appena in tempo a esprimere tale decisione, che Dante vede venire i diavoli con le ali tese per prenderlo. Il maestro “giù dal collo de la ripa dura” si abbandona supino “a la pendente roccia” portandosi il discepolo sul petto come la madre il figlio, finché non arriva nella sesta bolgia. I diavoli sono sopra il colle dal quale i due poeti si sono appena calati, ma nella sesta bolgia “non … era sospetto” perché la Provvidenza, che ha posto i Malebranche a guardia della quinta bolgia, impedisce loro di oltrepassarne i confini. Il darsi di Virgilio “a la pendente roccia” è immagine che traspone il tema della fuga presso i monti, i colli, i sassi, le pietre che diventano condiscendenti e coprono le genti terrorizzate dall’ira del giudice. Il tema ritorna alla fine del canto (Inf. XXIII, 133-138), allorché il frate gaudente Catalano, a Virgilio che gli chiede se vi sia una via d’uscita dalla bolgia, risponde che “s’appressa un sasso che da la gran cerchia / si move e varca tutt’ i vallon feri”; questo sasso è rotto sopra la sesta bolgia, ma la rovina, poiché “giace in costa”, permette di salirvi. Si tratta, anche in questo caso, di un sasso ‘condiscendente’, che consente il passaggio. La rottura del ponte sopra la sesta bolgia è stata causata, come spiegato da Malacoda, dal terremoto che scosse l’inferno al momento della morte di Cristo (Inf. XXI, 106-114), prefigurazione di quello che accompagna l’apertura del sesto sigillo [26].
Nello spavento di Dante (“fuerunt vehementer perterriti … propter illud temporale exterminium quod sibi a Dei iudicio velint nolint sentient supervenisse”), che immagina l’inseguimento dei diavoli (“Già mi sentia tutti arricciar li peli / de la paura e stava in dietro intento”), sono presenti anche elementi semantici che rinviano agli effetti del terremoto: i peli sono un tema appropriato nell’esegesi (Ap 6, 14) al sole che annerisce, l’arricciarsi è accostabile all’arrotolarsi e nascondersi del cielo come un volume che si arrotola. Il cielo indica infatti la “celestis puritas et sublimitas” e può essere assimilato al capo (“vertex mentis et sapientie”) e ai capelli (i pensieri e gli affetti sottili e spirituali, o la pienezza dei doni dello Spirito) di Cristo sommo pastore (Ap 1, 14; Inf. XXIII, 19-21). Si noterà che, in Inf. I e XXIII, la paura è signacolo della settima terzina (vv. 19-21).
Un altro caso di roccia rotta da un terremoto, che consente una via di scesa, è la rovina per la quale Virgilio e Dante scendono verso il Flegetonte, anch’essa mossasi dalla cima del monte a causa del terremoto verificatosi in morte di Cristo (Inf. XII, 1-10, 31-45). È simile a “quella ruina che nel fianco (la ‘costa’ da cui fu creata Eva, che sempre indica la rottura dell’arduo in pro del pietoso dar via) / di qua da Trento l’Adice percosse, / o per tremoto o per sostegno manco”. Nella discesa spesso le pietre si muovono sotto i piedi del poeta, “per lo novo carco” (ibid., 28-30), cioè sotto il peso di un corpo vivo, ma il ‘nuovo’ è anche indice del sesto stato, del secolo che si rinnova, del nuovo avvento di Cristo nei suoi discepoli spirituali, che ripercorre il primo avvento del Salvatore, causa per cui, come afferma Virgilio, “questa vecchia roccia, / qui e altrove, tal fece riverso” (ibid., 44-45).
[LSA, cap. VI, Ap 6, 15-17 (IIa visio, apertio VIi sigilli, IIum initium)] Rursus viris evangelicis in sui adventus primordio zelantibus et predicantibus fervide contra ista, evidentius inclaruerunt omnibus mala predicta, ipsisque alte comminantibus et preconizantibus iram et adventum iudicis in ianua esse, multi “reges” et “principes” et “divites” et pauperes fuerunt vehementer perterriti, propter quod “absconderunt se in speluncis et petris montium” (Ap 6, 15), id est in secreta et firma conversatione sublimium sanctorum recurrendo, scilicet humiliter, ad eorum refugium. Dixeruntque “montibus et petris” (Ap 6, 16), id est sanctis sublimibus et firmis in fide: “Cadite super nos”, per piam scilicet affectionem et condescensionem, “et abscondite nos”, per vestram scilicet intercessionem, “a facie”, id est ab animadversione, “sedentis super tronum”, id est deitatis regnantis, “et ab ira Agni”, id est Christi hominis. “Et quis poterit stare” (Ap 6, 17), scilicet coram sic terribili et irata facie tanti iudicis, quasi dicat: vix etiam ipsi iusti, quanto magis nos impii?[LSA, prologus, Notabile V] […] tuncque (in quinto statu) congrue instituta est vita condescensiva, ut nequeuntibus in arduis perdurare daretur locus gratie in mediocri statu.[LSA, prologus, Notabile VII] Prima (responsio) est quia licet condescensio quinti status in infirmis, pro quibus fit, sit imperfectior, in sanctis tamen, arduas perfectiones priorum statuum in habitu mentis tenentibus et ex sola caritate et infirmorum utilitate condescendentibus, est ipsa condescensio ad perfectionis augmentum, prout patet in Christo infirmis condescendente. Unde et Ade subtracta est fortis costa ad formationem Eve, “et replevit” Deus “carnem pro ea” (Gn 2, 21), id est pietatem condescensionis pro robore solitarie austeritatis.[LSA, cap. VI, Ap 6, 13-14 (apertio VIi sigilli, IIIum initium)] Unde suscitationem spiritus preibunt in ecclesia quedam bella subvertentia insulas et montes (cfr. Ap 6, 14), id est urbes et regna. […] propter que omnia plures non solum boni, sed etiam mali fortiter perterrebuntur non solum a visu et perpessione tantorum malorum, sed etiam suspicione et expectatione longe maiorum (cfr. Ap 6, 13). Tunc etiam plures signabuntur ad militiam spiritalem, quamvis sint pauci respectu multitudinis reproborum.[LSA, cap. VI, Ap 6, 12-17 (apertio VIi sigilli, IVum initium)] Dicit ergo: “Et ecce terremotus factus est magnus” (Ap 6, 12), de quo scilicet infra XVIII° (Ap 18, 21) dicitur quod “unus angelus fortis sustulit lapidem quasi molarem magnum, et misit in mare dicens: Hoc impetu mittetur Babilon illa magna civitas, et ultra iam non invenietur”. Per “mare” autem, ut infra tangetur, designatur fluctus infidelium nationum et etiam pregrandis amaritudo tante submersionis et etiam ruine. […] Tunc etiam montes, id est regna ecclesie, et “insule”, id est monasteria et magne ecclesie in hoc mundo quasi in solo seu mari site, movebuntur “de locis suis” (Ap 6, 14), id est subvertentur et eorum populi in mortem vel in captivitatem ducentur. Tunc etiam, tam propter illud temporale exterminium quod sibi a Dei iudicio velint nolint sentient supervenisse, quam propter desperatum timorem iudicii eterni eis post mortem superventuri, sic erunt omnes, tam maiores quam medii et minores, horribiliter atoniti et perterriti quod preeligerent montes et saxa repente cadere super eos. Ex ipso etiam timore fugient et abscondent se “in speluncis” et inter saxa montium (cfr. Ap 6, 15-17). Est enim tunc nova Babilon sic iudicanda sicut fuit carnalis Iherusalem, quia Christum non recepit, immo reprobavit et crucifixit. Unde Luche XXII<I>° predicit ei Christus mala consimilia istis, dicens (Lc 23, 28): “Filie Iherusalem, nolite flere super me, sed super vos ipsas flete”, et paulo post (23, 30): “Tunc incipient dicere montibus: Cadite super nos, et collibus: Cooperite nos”. |
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Inf. XII, 4-9, 28-30, 34-36, 44-45, 79-81Qual è quella ruina che nel fianco
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Inf. XXIII, 16-24, 31-45, 52-54, 133-138‘Se l’ira sovra ’l mal voler s’aggueffa,
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3. La Roma dei giusti pellegrina in terra
Con il capitolo XVII della Lectura super Apocalipsim inizia la seconda parte della sesta visione, in cui la dannazione della meretrice Babilonia viene considerata diffusamente. Il primo momento di questa parte consiste nella venuta di uno dei sette angeli che avevano le sette coppe descritte nella precedente quinta visione (Ap 17, 1). Secondo Gioacchino da Fiore, si tratta del sesto angelo cui più degli altri cinque è dato di rivelare gli occulti segreti. L’angelo – prosegue Gioacchino – chiama Giovanni per mostrare che i discepoli non possono entrare nell’intelligenza spirituale se i loro cuori non siano dai dottori di questa tratti con l’insegnamento all’apprendimento della verità. Il sollecito invito dell’angelo affinché Giovanni veda la dannazione e la malizia della meretrice significa che la visione spirituale di queste cose giova assai, poiché chi non le conosce viene facilmente ingannato dai cenni degli occhi e dalla gloria della meretrice.
Gioacchino, citato da Olivi [27], ricorda che i “patres catholici” identificarono la meretrice con Roma, e più precisamente con la moltitudine dei reprobi che con le loro inique opere impugnano e blasfemano la Chiesa dei giusti peregrina sulla terra. Questa meretrice non deve pertanto essere cercata in un solo luogo ma, come per tutta l’area dell’impero romano è diffuso il grano degli eletti, così per la sua intera latitudine è dispersa la paglia dei reprobi. La meretrice, aggiunge Olivi, designa la gente e l’impero dei Romani sia nello stato del paganesimo sia in quello cristiano, durante il quale colpevolmente fornicò molto con questo mondo.
Questo passo che Olivi trae dall’abate florense, in base al quale si può dire che per il frate “la Chiesa non è, senz’altro, “Babilon”, per quanto gravi siano le colpe di cui essa sia rea; e la gerarchia, di cui è costituita, non può essere, tranquillamente, condannata e messa da parte” [28], riceve in Dante una suggestiva quanto insospettabile metamorfosi. La peregrinante Roma dei giusti impugnata dai reprobi è impersonata, in fine di Par. VI (vv. 127-142), da Romeo di Villanova: “Romeo, persona umìle e peregrina” [29], fu il “giusto” ministro del conte di Provenza Raimondo Beringhieri IV, “di cui / fu l’ovra grande e bella mal gradita”, avversata dai Provenzali. Ed è elogio tributato, per rimanere in tema, da Giustiniano, dopo che questi ha ripercorso tutte le imprese operate, nel governo del mondo, dalla virtù del “sacrosanto segno” dell’Aquila. I Provenzali, che con “le parole biece”, cioè con invidia e calunnia, costrinsero il giusto a lasciare la corte, sono “Babilon”. Rappresentano la Roma dei reprobi, cattivi pellegrini: “e però mal cammina / qual si fa danno del ben fare altrui”. Sono stati puniti, come lo sarà la nuova Babilonia, passando sotto il duro giogo angioino, dopo che nel 1245 Beatrice, una delle quattro figlie di Raimondo da Romeo accasate a regnanti, avrà recato “la gran dota provenzale” a Carlo I.
E se qualcuno non fosse convinto per la rosa di elementi semantici, dagli accostamenti tutt’altro che banali, che con diversi risultati si ritrova nell’uno e nell’altro testo, oppure ritenga che Dante possa aver letto direttamente Gioacchino da Fiore senza la mediazione dell’Olivi, consideri il motivo della “margarita”, come Giustiniano definisce il cielo di Mercurio. Il tema deriva dall’esegesi della settima visione, che descrive la Gerusalemme celeste. Il muro della città ha dodici porte, le porte dodici angoli e nomi scritti, che sono i nomi delle dodici tribù dei figli di Israele (Ap 21, 12): “A oriente tre porte, a settentrione tre porte, a mezzogiorno tre porte, a occidente tre porte” (Ap 21, 13). Più avanti, trattando della loro materia, si dice: “E le dodici porte sono dodici perle” (“margarite”, Ap 21, 21), sono cioè coloro per i quali Israele entrerà in Cristo, candidi e puri come le perle nel cuore e nel corpo; concepiti, come le perle si formano nelle conchiglie, per rugiada celeste che in essi si coagula. Le perle sono inoltre piccole, e per questo designano l’umiltà e la povertà evangelica. Il cielo di Mercurio, dice appunto Giustiniano, è “picciola stella” e “margarita” (Par. VI, 112, 127): in essa riluce Romeo, “persona umìle e peregrina”, che dovette abbandonare “povero e vetusto” la corte provenzale che aveva reso grande con la sua opera (ibid., 135, 139) [30]. La prima rosa di parole, che ha per cerniera la peregrinante Roma dei giusti diffusa su tutto l’Impero, si intreccia con la seconda, nella quale risuonano i temi della povertà e dell’umiltà francescana [31], consonanti per contrario suono con il secondo cielo, che “si correda / d’i buoni spirti che son stati attivi / perché onore e fama li succeda”, e per questo meno desiderosi del vero amore e quindi beati con minor merito (ibid., 112-117).
Altri punti dell’esegesi oliviana di Ap 17, 1 sono riconducibili a luoghi della Commedia. Ivi si tratta della “meretrice” che impugna i giusti, e in un solo luogo del poema questo termine ricorre. Ancora una volta, si tratta di una corte in cui l’invidia prevale. È la corte di Federico II, “Cesare” come Giustiniano, ma che come questi non testimonia in favore di un giusto, il suo consigliere Pier della Vigna, che rese sé stesso ingiusto suicidandosi: “La meretrice che mai da l’ospizio / di Cesare non torse li occhi putti, / morte comune e de le corti vizio” (Inf. XIII, 64-66). Da confrontare gli “occhi putti ” con “qui hoc nescit (dampnationem et malitiam meretricis) de facili decipitur nutibus oculorum eius et a gloria eius”. Il termine “meretrice” è poi sostituito con “puttana” a Inf. XVIII, 133 e a Purg. XXXII, 149, 160 (cfr. il “puttaneggiar coi regi” di Inf. XIX, 108).
Come l’angelo invita Giovanni a vedere la dannazione e la malizia della meretrice, perché ciò giova assai, in quanto chi non le conosce viene facilmente ingannato dai cenni dei suoi occhi e dalla sua gloria, così nell’Eden Beatrice invita Dante a tenere gli occhi sul carro della Chiesa e a scrivere poi, una volta ritornato di là, quel che ha visto “in pro del mondo che mal vive” (Purg. XXXII, 103-105; passo riconducibile anche ai vari luoghi dell’Apocalisse in cui a Giovanni si ingiunge di scrivere). Tra le vicende allegoriche del carro, la “puttana sciolta” che siede sopra di esso trasformato in mostro appare al poeta “con le ciglia intorno pronte”, e gli rivolge “l’occhio cupido e vagante”, suscitando il sospetto e l’ira del gigante che vigila su di lei (la casa di Francia che vigila sul papato, ibid., 148-160). La condanna di Babilonia è preannunciata da Beatrice con la profezia della venuta di “un cinquecento diece e cinque”, il “messo di Dio” che “anciderà la fuia / con quel gigante che con lei delinque” (Purg. XXXIII, 37-45).
Ancora, la funzione dell’angelo che trae i discepoli all’insegnamento spirituale viene svolta da Virgilio nell’offrirsi come guida: “Ond’ io per lo tuo me’ penso e discerno / che tu mi segui, e io sarò tua guida, / e trarrotti di qui per loco etterno; / ove udirai le disperate strida, / vedrai li antichi spiriti dolenti, / ch’a la seconda morte ciascun grida” (Inf. I, 112-117).
Infine, il bene operare (proprio di Romeo) opposto alla nequizia (a cui i beati non possono più inclinare l’affetto, addolcito dalla giustizia divina), già proprio del parlare di Giustiniano (Par. VI, 121-123, 129), si ritrova con Cacciaguida, tanto gradito all’imperatore Corrado III “per bene ovrar” da essere da questi armato cavaliere per poi morire martire contro la nequizia saracena, “di quella legge il cui popolo usurpa, / per colpa d’i pastor, vostra giustizia” (Par. XV, 139-148; “nequizia”, “iniqua opera” nell’esegesi, oltre che nei due luoghi qui citati si ritrova solo a Par. IV, 69).
Una Chiesa dei giusti – secondo l’esegesi di ‘Roma’ data da Gioacchino da Fiore e riportata da Olivi ad Ap 17, 1 – va dunque peregrinando per l’intera area dell’Impero con una Chiesa dei reprobi che iniquamente la combatte. La meretrice non si trova dunque in un solo luogo, ma ovunque. Prima di identificarla con la Chiesa corrotta (la “puttana” di Purg. XXXII, 149, 160), Dante l’ha già introdotta nella Curia di Cesare (Inf. XIII, 64-66). La figura più compiuta della Roma dei giusti pellegrina in terra è Romeo di Villanova, costretto a partirsi di Provenza per le cortigiane “parole biece” (Par. VI, 127-142).
Se Dante, a differenza di Olivi, non usa mai l’espressione “Chiesa carnale”, si noterà come proprio verso le caratteristiche dell’ “Ecclesia carnalis” – così come descritte nell’esegesi apocalittica – venga sollecitata la memoria del lettore attraverso parole-chiave incardinate nel senso letterale. Ma non si tratta solo della Chiesa romana, o dei suoi pastori, perché è l’intera Chiesa militante ad essere investita, e anche la sua antica prefigurazione nel mondo pagano. La divisione in tre parti della città (Ap 16, 19) è applicata a Firenze, “città partita” [32], come pure la necessità di uscire da Babylon per non essere contaminati dai suoi mali (Ap 18, 4) che risuona nelle parole di Brunetto Latini e di Cacciaguida (Inf. XV, Par. XVII: da notare la coincidenza nel numero dei versi: 61-69) [33]. Alla confusione babilonica fa riferimento l’avo di Dante parlando dell’arrivo dei nuovi cittadini dal contado che hanno contaminato l’originaria purezza – “Sempre la confusion de le persone / principio fu del mal de la cittade” (Par. XVI, 67-69) -, ma è il poeta stesso a descrivere la propria “Babilonia” interiore, da bruciare come quella storica, nel pianto di pentimento di fronte a Beatrice ritrovata nell’Eden (Purg. XXXI, 7-9).
La stessa definizione che Dante dà della forma della Chiesa, ossia della sua natura – “Forma autem Ecclesie nichil aliud est quam vita Cristi, tam in dictis quam in factis comprehensa: vita enim ipsius ydea fuit et exemplar militantis Ecclesie, presertim pastorum, maxime summi, cuius est pascere agnos et oves” (Monarchia III, xiv, 3) -, ben avrebbe potuto essere sottoscritta da Olivi, per il quale “Christi persona et vita fuit exemplar totius ecclesie future” (Lectura super Apocalipsim, ad Ap 6, 12).
[Ap 14, 8; IVa visio, VIum prelium] Secundus autem angelus seu doctor predicat amotionem precipui impedimenti ad agendum predicta seu expeditionem intrinseci et domestici obstaculi. Predicat enim casum Babilonis, id est ecclesie carnalis, dicens: “Cecidit, cecidit Babilon illa magna” (Ap 14, 8). Ecclesia carnalis ideo vocatur “Babilon” hic et infra XVII° et XVIII° (Ap 17, 5; 18, 2/10/21), et tam ibi quam capitulo XIX° vocatur ‘meretrix magna’ (Ap 17, 1; 19, 2), tum quia ordo virtutum est in ipsa per deordinationem vitiorum enormiter confusus (Babilon enim confusio interpretatur), tum quia in malo non solum intensive sed etiam extensive est magna, ita quod boni sic sunt in ea sicut pauca grana auri intra immensos acervos arene et sicut pauca grana tritici sub immenso cumulo palearum seu quisquiliarum vel scopiliarum; tum quia sicut filii Israel fuerunt in Babilone captivati et vehementer oppressi, ita et ut David prophetice dicat: “Super flumina Babilonis illic sedimus et flevimus”, et “in salicibus eius suspendimus organa nostra”, dicentes: “Quomodo cantabimus canticum Domini in terra aliena?” (Ps 136, 1-2, 4), sic spiritus iustorum huius temporis supra modum angustiatur et opprimitur a principatu et predominio et innumerabili multitudine ecclesie carnalis cui oportet eos velint nolint servire; tum quia publice et impudentissime adulteratur a suo sponso Christo, prout infra plenius tangetur. |
Purg. XXXI, 7-9:Era la mia virtù tanto confusa,
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[Ap 16, 19; VIa visio] Ex hiis autem sequetur divisio que subditur: “Et facta est civitas magna in tres partes”. […] Potest etiam per hoc designari quecumque intestina discordia et divisio tunc temporis futura in ipsa. Nam et Zacharie XIII° (Zc 13, 7-9) dicitur evangelica religio consimiliter dividenda tunc temporis in tres partes, cum dicitur: “Et convertam manum meam ad parvulos, et erunt in omni terra: partes due in ea dispergentur et deficient, et ducam tertiam partem per ignem et probabo eos sicut probatur aurum. Ipse invocabit nomen meum, et dicam: Populus meus es” et cetera, quamvis hoc in parte in primitiva ecclesia sub apostolis sit impletum.Par. XVII, 67-69:Di sua bestialitate il suo processo
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Inf. VI, 60-63:ma dimmi, se tu sai, a che verranno
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[Ap 18, 4; VIa visio] “Et audivi aliam vocem de celo dicentem” (Ap 18, 4). Recte dicitur alia, quia prior fuit de dampnatione reproborum, hec vero est de admonitione electorum, ne communicent cum reprobis in culpa et tandem in pena. Ait enim: “Exite de illa, popule meus, et ne participes sitis delictorum eius et de plagis eius ne accipiatis”. Idem dicitur Ieremie, L°, ubi dicitur Dei populo: “Recedite de medio Babilonis et de terra Caldeorum egredimini, et estote quasi edi ante gregem”, et subdit causam quia cito est capienda et destruenda (Jr 50, 8-9).
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Inf. XV, 31-33, 61-69:E quelli: “O figliuol mio, non ti dispiaccia
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4. “Roma e l’ardüa sua opra”
I versi di Par. XXXI, 37-39, con la triplice antitesi – “ïo, che al divino da l’umano, / a l’etterno dal tempo era venuto, / e di Fiorenza in popol giusto e sano” -, conducono ad altra opera dell’Olivi, la prima quaestio de domina (de consensu virginali pro Annuntiatione). Ivi il francescano spiega su un piano psicologico il passaggio della Vergine dallo stato precedente la maternità al nuovo stato incominciato con l’assenso dato alla divina concezione. Come nel venire a un alto stato religioso, o nell’ascendere al culmine della contemplazione dalla vita attiva, o nel passare all’altra vita da questo secolo, un fedele prova un’ardua trascendenza, un estraniarsi e un’inusitata novità che pervadono di stupore ogni sentimento, e per questo si sente come morire al suo stato precedente, tanto più Maria, nell’ora dell’assenso, provò quasi un ineffabile morire al suo stato precedente passando a uno stato sovramondano e a una regione inusitata, nella quale doveva venire assorbita in modo radicale e irrevocabile dagli eccelsi abissi degli arcani divini. Di tutti i sentimenti provati dalla Vergine e fatti propri dal poeta, che perviene a ricrearsi “nel tempio del suo voto riguardando”, solo il morire non è espresso in modo esplicito. Anche lo straniarsi è reso col vagheggiare Arcade da parte della madre Elice, entrambi mutati da Giunone e trasformati nel superiore stato di costellazioni (le due Orse).
La quaestio viene comunque incastonata nelle maglie del commento apocalittico con il quale, per la compresenza tematica, è possibile una collazione. Trattando della Gerusalemme celeste descritta nella settima visione, all’obiezione che una città che misura 12.000 stadi non possa essere contenuta entro mura di 144.000 cubiti, Olivi replica principalmente che questi numeri non debbono essere intesi in senso letterale ma mistico. Un altro argomento è che nelle visioni è possibile vedere prima una cosa e poi un’altra che nella realtà non può stare insieme alla prima, come accade nella visione delle quattro ruote di Ezechiele. Inoltre nelle visioni appaiono molte cose mostruose e inconsuete che si mescolano con quelle consuete, e ciò serve a elevare il contemplante o il lettore in uno stato di stupore (Ap 21, 17).
Il tema del levarsi in stupore è appunto cantato dal poeta nell’Empireo, allorché definisce la propria meraviglia – un cambiamento di stato assimilabile a quello provato dell’Annunziata – di gran lunga superiore a quanto sentito dai barbari, provenienti da settentrione, “veggendo Roma e l’ardüa sua opra … quando Laterano / a le cose mortali andò di sopra” (Par. XXXI, 31-42). Si può notare il tema della ruota (da Ap 21, 17) nel girare insieme di Elice e del figlio Arcade [34]. L’elevarsi del poeta è simmetrico all’andare sopra alle cose mortali da parte del Laterano. Di questo, che letteralmente designa la sede che fu prima degli imperatori e poi dei papi, non può non colpire la concordanza con i “latera” della città celeste. “Laterano”, oltre a indicare genericamente la magnificenza di Roma imperiale e cristiana, può alludere, nel suo ‘andar di sopra’ alle cose mortali, alla conversione dell’impero al cristianesimo. Se poi “Laterano” allude ai quattro lati di una città in somma concordia e che vive nella povertà evangelica (come è la Gerusalemme santa e pacifica), non è escluso che il suo andare sopra le cose mortali sia anche accenno a un vivere del papato non ancora corrotto dall’avidità dei beni temporali (cfr. le parole di san Pietro, a Par. XXVII, 40-45, sul papato del tempo dei martiri: “Non fu la sposa di Cristo allevata / del sangue mio, di Lin, di quel di Cleto, / per essere ad acquisto d’oro usata; / ma per acquisto d’esto viver lieto / e Sisto e Pïo e Calisto e Urbano / sparser lo sangue dopo molto fleto”). Nel poema il nome compare solo un’altra volta, nella “guerra presso a Laterano” condotta da Bonifacio VIII, “lo principe d’i novi Farisei”, contro i cristiani (Inf. XXVII, 85-90). “Laterano”, in questo senso, avrebbe un valore simile a quello della “cerchia antica” dentro la quale Firenze “si stava in pace, sobria e pudica” (Par. XV, 97-99).
Ancora, ad Ap 4, 2 [35], passo da collazionare con Ap 21, 17, il tema dell’elevarsi dello spirito a visioni sempre più ardue si accompagna a quello delle grandi opere recate da Cristo nella fabbrica della Chiesa (“Roma e l’ardüa sua opra”).
Si noterà come questi temi, provenienti dall’esegesi della Gerusalemme celeste, oggetto della settima visione, si ritrovino nei versi variamente appropriati. A cominciare da Purg. IX, 70-72, dove il poeta avvisa il lettore di non meravigliarsi se, con l’elevarsi della materia trattata, egli rafforza lo stile con più arte. Da menzionare, nella medesima cantica, Purg. XV, 10-15 (lo stupore per l’inusitato splendore dell’angelo e il levare le mani per farsi il “solecchio”) e Purg. XXVI, 67-69 (lo stupore del montanaro “quando rozzo e salvatico s’inurba”). Poi un altro appello al lettore circa la meraviglia e lo stupore nel vedere il grifone (la doppia fiera) raggiare negli occhi di Beatrice, “or con altri, or con altri reggimenti” (Purg. XXXI, 121-127): come nelle visioni si possono vedere cose che nella realtà non possono stare insieme, così il grifone-Cristo trasmuta negli occhi della donna le due nature (come possano stare unite verrà rivelato al poeta soltanto alla fine del viaggio). Similmente nell’incontro con san Bernardo: “Uno intendëa, e altro mi rispuose” (Par. XXXI, 58-60). Ancora, questi temi si rinvengono nei versi che precedono la prima mostruosa trasformazione dei ladri, in cui il poeta si rivolge al lettore ribadendo il proprio stupore per quanto vide una volta “levate … le ciglia” (Inf. XXV, 46-49). Oppure nell’appello al lettore a rivolgere con lui la vista “a l’alte rote” (Par. X, 7-9), o nell’incontro con Adamo (Par. XXVI, 85-90).
PETRUS IOANNIS OLIVI O. F. M., Quaestiones quatuor de domina, ed. D. Pacetti, Quaracchi, Florentiae, 1954 (Bibliotheca Franciscana Ascetica Medii Aevi, VIII), p.8 (Quaestio I): «Videmus quod tanta est vis mutationis status inferioris in superiorem, quod, cum quis est in procinctu et actu ascendendi ad unam altam religionem, aut de statu activae ad contemplationis culmen et statum, aut de hoc saeculo ad aliud, quod homo sentit sibi imminere quamdam mortem, per quam moritur toti statui et vitae priori. Sentit etiam homo quamdam transcendentem arduitatem et quasi extraneitatem seu inusitatam novitatem omnes sensus personae obstupefacientem, ita quod ex hoc aliquando in corpore sequitur magna horripilatio et obrigescentia. Sed plus distat prior status Virginis a sequenti statu suae maternitatis, quam status minimi fidelis et boni differt a statu suo priori. Ergo in hora assensus sui ad illum statum sensit se transire per quamdam ineffabilem mortem sui, quoad suum statum priorem, ad statum omnino supermundanum et ad regionem seu mansionem inusitatissimam, ad quaedam scilicet Dei abyssalia et arcana et superalta, in quibus et a quibus erat funditus et irrevocabiliter absorbenda”. |
[Lectura super Apocalipsim, Ap 21, 17; VIIa visio] Si obicias quod civitas habens duodecim milia stadia non potest contineri infra muros centum quadraginta quattuor cubitorum, ad hoc est triplex responsio. […] Tertia est quod in visionibus propter diversa misteria potest una vice videri unum et alia vice aliud, quod secundum rem non potest simul esse cum primo, sicut super Ezechielem de quattuor rotis Ezechielis secundum unam opinionem ostendi.
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Par. XXXI, 31-42:Se i barbari, venendo da tal plaga
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[Ap 21, 17; VIIa visio] Si obicias quod civitas habens duodecim milia stadia non potest contineri infra muros centum quadraginta quattuor cubitorum, ad hoc est triplex responsio. […] Tertia est quod in visionibus propter diversa misteria potest una vice videri unum et alia vice aliud, quod secundum rem non potest simul esse cum primo, sicut super Ezechielem de quattuor rotis Ezechielis secundum unam opinionem ostendi. […] Unde patet quod in visionibus multa monstruosa vel inusitata cum usitatis miscentur, prout expedit misteriis et sublevationi contemplantium vel legentium in stuporem, et ut ex hoc magis pateat ea que monstrantur potius esse mistica quam litteralia.
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Purg. XXXI, 121-128:Come in lo specchio il sol, non altrimenti
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Par. XXXI, 58-60:Uno intendëa, e altro mi rispuose:
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* Tutte le citazioni della Lectura super Apocalipsim presenti nei saggi o negli articoli pubblicati su questo sito sono tratte dalla trascrizione, corredata di note e indici, del ms. Paris, Bibliothèque nationale de France, lat. 713, a disposizione fin dal 2009 sul sito medesimo. I passi scritturali ai quali si riferisce l’esegesi sono in tondo compresi tra “ ”; per le fonti si rinvia all’edizione in rete. Non viene presa in considerazione l’edizione critica a cura di W. LEWIS (Franciscan Institute Publications, St. Bonaventure – New York, 2015) per le problematiche da essa poste, che sono discusse in “Archivum Franciscanum Historicum” 109 (2016), pp. 99-161. Il testo della Commedia citato è in Dante Alighieri, La Commedia secondo l’antica vulgata, a cura di G. PETROCCHI, Firenze 1994.
[All quotations from the Lectura super Apocalipsim in the essays or articles published in this website have been drawn from the transcription, with notes and indexes, of ms. Paris, Bibliothèque nationale de France, lat. 713, which has been available therein since 2009. The Biblical passages to which the exegesis refers are in Roman type in “ ”; for sources please refer to the online edition. The critical edition by W. LEWIS (Franciscan Institute Publications, St. Bonaventure – New York, 2015) has not been considered due to the issues it poses, which are discussed in “Archivum Franciscanum Historicum” 109 (2016), pp. 99-161. The text referring to the Commedia has been drawn from Dante Alighieri, La Commedia secondo l’antica vulgata, edited by G. PETROCCHI, Firenze 1994.]
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[1] R. MORGHEN, Medioevo cristiano, Bari 19744 (19511), pp. 15, 265-282: p. 281.
[2] L. GATTO, Organizzazione e gestione del primo Giubileo, in Dante e il Giubileo. Atti del Convegno (Roma, 29-30 novembre 1999), a cura di E. Esposito, Città di Castello 2000 (Dantologia. Pubblicazioni del Centro Bibliografico Dantesco, 2), pp. 21-42: pp. 21-23.
[3] G. BRUGNOLI, Nel mezzo del cammin di nostra vita, ibid., pp. 87-102: pp. 96-101.
[4] A. FRUGONI, La Roma di Dante, tra il tempo e l’eterno, in IDEM, Pellegrini a Roma nel 1300. Cronache del primo Giubileo, presentazione di C. Frugoni, a cura e con Introduzione di F. Accrocca, Casale Monferrato 1999, pp. 102-103.
[5] Sulla questione cfr. M. CURSIETTI, Memorie topografiche di Roma giubilare nell’opera di Dante (con una nuova ipotesi su Par. IX, 40: questo centesimo anno ancor s’incinqua), in Dante e il Giubileo, pp. 103-113.
[6] FRUGONI, La Roma di Dante, p. 102.
[7] GIACOMO DA VITRY, ex Epistola I, in La letteratura francescana, I, a cura di C. Leonardi, commento di D. Solvi, Milano 2004, pp. 234, 236: “Cum autem aliquanto tempore fuissem in curia, multa inueni spiritui meo contraria: adeo enim circa secularia et temporalia, circa reges et regna, circa lites et iurgia occupati erant, quod uix de spiritalibus aliquid loqui permittebant. Vnum tamen in partibus illis inueni solatium, multi enim utriusque sexus diuites et seculares omnibus pro Christo relictis seculum fugiebant, qui Fratres minores et Sorores minores uocabantur. A domno papa et cardinalibus in magna reuerentia habentur. Hii autem circa temporalia nullatenus occupantur, sed feruenti desiderio et uehementi studio singulis diebus laborant ut animas que pereunt a seculi uanitatibus retrahant et eas secum ducant […]. Credo autem quod in opprobrium prelatorum, qui quasi canes sunt muti non ualentes latrare, Dominus per huiusmodi simplices et pauperes homines multas animas ante finem mundi uult saluare”.
[8] Cfr. P. VIAN, Tempo escatologico e tempo della Chiesa: Pietro di Giovanni Olivi e i suoi censori, in Sentimento del tempo e periodizzazione della storia nel Medioevo. Atti del XXXVI convegno storico internazionale, Todi, 10-12 ottobre 1999 Spoleto 2000 (Atti dei Convegni del Centro Italiano di Studi sul Basso Medioevo-Accademia Tudertina e del Centro di Studi sulla Spiritualità Medievale dell’Università degli Studi di Perugia, n.s., 13), pp. 137-183: p. 183: “[…] con la sua concezione del tempo e della storia, appare come l’estrema espressione dell’escatologismo medievale […]”.
[9] R. MERCURI, Significati metaforici del Giubileo nell’opera di Dante, in Dante e il Giubileo, pp. 115-140: p. 116.
[10] Cfr. R. MANSELLI, La politica religiosa di Federico III d’Aragona, in IDEM, Scritti sul Medioevo, Roma 1994 (Università di Roma « La Sapienza ». Dipartimento di studi sulle società e le culture del medioevo), pp. 471-481: p. 481 (il testo risale al 1976), ripubblicato in IDEM, Da Gioacchino da Fiore a Cristoforo Colombo. Studi sul francescanesimo spirituale, sull’ecclesiologia e sull’escatologisno bassomedievali, introduzione e cura di P. Vian, Roma 1997 (Istituto Storico Italiano per il Medio Evo. Nuovi Studi Storici, 36), pp. 445-453: p 453.
[11] A. FRUGONI, Il Libro del Giubileo del cardinale Stefaneschi, in IDEM, Pellegrini a Roma nel 1300, p. 50.
[12] Cfr. La settima visione, I.6 (Una città sobria).
[13] Cfr. Il sesto sigillo, 2d.3 (Maria rimase giuso).
[14] Su Dante come “sementa santa”, che rimane, cfr. Dante all’ « alta guerra » tra latino e volgare, 3.2, tab. XXXIII-1.
[15] Cfr. i riferimenti nella Topografia spirituale della Commedia.
[16] Il canto X dell’Inferno è diffusamente trattato nella Lectura Dantis.
[17] Cfr. Il sesto sigillo, Appendice (L’apertura del primo sigillo [Ap 6, 1-2]: la vittoria del bianco).
[18] Cfr. ibidem, 6, tab. XXXIX.
[19] Si può notare come questi temi di milizia spirituale, inseriti in una prospettiva apocalittica, siano del tutto assenti nell’esposizione di Riccardo di San Vittore, la principale fonte, con Gioacchino da Fiore, della Lectura dell’Olivi (In Apocalypsim, II, ix; PL 196, coll. 771-772).
[20] Cfr. Il sesto sigillo, 1a.
[21] CURSIETTI, Roma giubilare nell’opera di Dante, p. 108.
[22] MORGHEN, Medioevo cristiano, p. 280.
[23] Cfr. Dante all’ « alta guerra» tra latino e volgare, 3.2 (Il seme di Federico II e la fine del regno di Francia), tab. XXXIII-1.
[24] Sulla questione cfr. R. E. LERNER, Frederick II, Alive, Aloft and Allayed in Franciscan-Joachite Eschatology, in The Use and Abuse of Eschatology in the Middle Ages, edited by W. Verbeke, D. Verhelst, A. Welkenhuysen, Louvain 1988, pp. 359-384, trad. it. Federico II mitizzato e ridimensionato post mortem nell’escatologia francescano-gioachimita, in Refrigerio dei santi. Gioacchino da Fiore e l’escatologia medievale, Roma 1995 (Centro Internazionale di Studi Gioachimiti. S. Giovanni in Fiore, Opere di Gioacchino da Fiore, 5), pp. 147-167. Ap 13, 18 assume grande rilievo nell’episodio di Farinata (cfr. Lectura Dantis: Inferno X, cap. V: Il primo Farinata).
[25] Sui significati connessi alla destra cfr. Lectura Dantis, Inferno X, cap. I (Promessa di sicura andata); il passo sulla “costa” del notabile VII è esaminato ibid., nella tabella (e nota relativa) alla quale rinvia il v. 75.
[26] Le parole, parzialmente bugiarde, di Malacoda sono esaminate in Il sesto sigillo, 11.4.4.
[27] Dall’Expositio in Apocalypsim, ed. Venetiis 1527, f. 194rb, opera che Olivi nella sua Lectura segue e cita quasi ad ogni luogo, in genere giustapponendo quanto sostenuto dall’altra auctoritas, cioè dall’Expositio di Riccardo di San Vittore (PL 196, coll. 683-888). Sull’esegesi gioachimita della caduta di Babilonia, cfr. G. L. POTESTA’, Il tempo dell’Apocalisse. Vita di Gioacchino da Fiore, Bari 2004, pp. 318-322: p. 320.
[28] Cfr. R. MANSELLI, La terza età, “Babylon” e l’Anticristo mistico (a proposito di Pietro di Giovanni Olivi) (1970), in IDEM, Da Gioacchino da Fiore a Cristoforo Colombo, p. 171 e nt. 14: « Ne viene che “Babilon” non è, dunque, un concetto che tocca gli aspetti carismatici e giurisdizionali della Chiesa o degli ecclesiastici; si riferisce, invece, ai valori morali e spirituali: è l’insieme di quei fedeli – ed in questo concetto sono compresi anche chierici e prelati – i quali hanno dimenticato l’esempio di Cristo, e si sono quindi resi colpevoli di acquiescenza al mondo e di cedimento alle sue tentazioni. In ciò e per ciò saranno puniti sul piano della storia come dal giudizio divino. (nt. 14) È appena il caso di ricordare la posizione, che per vari aspetti ci pare significativamente analoga, di Dante Alighieri. Questi, dopo aver detto a chiare parole nel canto XIX dell’Inferno, parlando dei simoniaci, che Bonifacio VIII è già, nella previsione di Dio, dannato ed atteso perciò nella tomba infuocata ove dovrà restare per l’eternità con quanti lo precedettero “simoneggiando”, lo considera pur sempre “vicario di Cristo” contro il quale ha empiamente agito Filippo il Bello per mezzo dei suoi scherani ». L’esempio di Romeo è prova della preminenza dei valori morali e spirituali su cui insiste Manselli, che Dante variamente distribuisce e appropria in un universo che non è più né gioachimita né oliviano.
[29] La leggenda diffusa tra i contemporanei faceva di Romeo un vero pellegrino, che tornando da San Iacopo di Compostela si sarebbe fermato in Provenza (G. Villani, Cron. VI, 90). Il senso letterale coincide in tal modo con quello spirituale.
[30] Il tema della “margarita” è appropriato anche al cielo della Luna, “l’etterna margarita” che riceve dentro sé Dante, coperta da una nube che ne designa l’umiltà (Par. II, 31-45). Nel cielo di Saturno, san Benedetto è “la maggiore e la più luculenta / di quelle margherite” (Par. XXII, 28-29).
[31] Da notare che, a questo riguardo, Gioacchino da Fiore non è citato e Riccardo di San Vittore sottolinea solo la fermezza nella fede e la lucentezza delle “margarite”, cioè dei dodici apostoli.
[32] Su Ap 16, 19 cfr. Il sesto sigillo, 1a, tab. III.
[33] Su Ap 18, 4 cfr. ibid., 7c, tab. LVII. Fra le tante appropriazioni, da notare quella a Mirra, figura mitologica tolta da Ovidio (Inf. XXX, 37-39).
[34] Il riferimento alle ruote della visione di Ezechiele conduce al penultimo verso della Commedia, al volgere “sì come rota ch’igualmente è mossa” il desiderio e la volontà del poeta da parte de “l’amor che move il sole e l’altre stelle”.
[35] Su Ap 4, 2 cfr. “Lectura super Apocalipsim” e “Commedia”. Le norme del rispondersi, tab. 2.8-9.