Questo articolo costituisce l’ultima parte del saggio Dante e Bonifacio VIII, pubblicato su questo sito il 19 maggio 2016. Data la sua estensione, viene presentata separatamente. Alla parte sinottica, conseguente alle Tab. I-XV, viene pertanto complessivamente assegnata l’indicazione: (Tab. XVI). In “Collectanea Franciscana”, 86/1-2 (2016), pp. 65-115, è stato pubblicato Dante e il Giubileo (I): L’anno delle “pietre” misericordiose (anticipato online l’8 dicembre 2015); la continuazione, che riguarda appunto Dante e Bonifacio VIII, lo sarà sul numero successivo. In realtà le due edizioni, online e a stampa, non coincidono del tutto, essendo la prima molto più estesa, dotata di legami ipertestuali e di ausilio alla seconda, che all’altra rinvia per più ampia dimostrazione. Le stesse due parti edite a stampa differiscono nella modalità di esposizione dei testi. Nella prima parte il confronto sinottico fra Commedia e Lectura super Apocalipsim è stato presentato in un’appendice separata dal testo; nella seconda parte, invece, si rinvia direttamente al sito web.
1. La “porta di san Pietro”. 2. L’angelo del sesto sigillo. 2.1. Divieto di andare senza guida (e senza il ricordo di ‘Guido’). 2.2. Libero volere, libero salire, libero parlare. 3. La gloriosa vita degli operosi.
1. La “porta di san Pietro”
Alla chiesa di Filadelfia, la sesta lodata come particolarmente santa e a sé diletta, Cristo dice: “Ecco, ti darò qualcuno della sinagoga di Satana” (Ap 3, 9), cioè qualcuno dei Giudei che per malizia e infedeltà sono la sinagoga del diavolo, “di quelli che si dicono Giudei, ma mentiscono perché non lo sono”, non avendo cioè la virtù e la santità designate con il nome di Giudei. Secondo Riccardo di San Vittore, da questo si evince che nella chiesa di Filadelfia c’erano alcuni Giudei che contraddicevano la predicazione del vescovo e ne deridevano l’umiltà perché non provava con segni di miracoli la fede di Cristo predicata. Promette pertanto che costoro saranno convertiti alla fede e sottoposti al suo magistero e che da essi egli sarà sommamente venerato. Per questo prosegue: “Ecco, li farò”, cioè essere tali, “in modo che vengano”, poiché per la mia grazia opererò un tale mutamento nel loro cuore da farli venire. Oppure farò in modo che essi vengano al vescovo di Filadelfia e adorino prostrati ai suoi piedi, chiedendo umilmente e devotamente di essere da lui istruiti, battezzati e governati. In tal modo tutti sapranno “che io ti ho amato”, per quanto possa sembrare il contrario a motivo dell’assenza di virtù atta a miracoli o a forti opere corporali.
Un passo simmetrico, sul chiamare e trarre con misericordia e pietà le genti che vengono adorando (“veniant et adorent ante pedes tuos … quoniam omnes gentes venient et adorabunt in conspectu tuo”, è ad Ap 15, 3-4 [cfr. nota]. Qui il canto dell’Agnello, di pietà, d’amore e di libertà designa la pietà del figlio mitissimo che ama il padre e si contrappone al canto di Mosè, di terrore per il giudizio divino e di servitù: si tratta delle due vie di Dio, della giustizia e della misericordia.
Questo venire umile e devoto dei Gentili e d’Israele nella loro conversione al vescovo di Filadelfia è quello di Dante all’angelo portinaio del purgatorio. Alle parole di cortese invito – “Venite dunque a’ nostri gradi innanzi” (Purg. IX, 93) – corrisponde l’avanzare dei passi dei due poeti – “Là ne venimmo” (ibid., 94). Dante è stimolato all’umiltà e alla devozione dalla sua guida: «“Chiedi / umilemente che ’l serrame scioglia”. / Divoto mi gittai a’ santi piedi; / misericordia chiesi e ch’el m’aprisse”» (ibid., 107-110). Il tema della misericordia, unito al venire, lo si trova ad Ap 15, 3-4. Il motivo del prostrarsi ai piedi (Ap 3, 9) è ripetuto dall’angelo, al quale san Pietro ha detto di errare nell’aprire la porta per misericordia piuttosto che nel tenerla chiusa per rigore, “pur che la gente a’ piedi mi s’atterri” (ibid., 127-129). L’aprire e il chiudere la porta esprimono il tema della chiave di David con il quale Cristo si propone alla sesta chiesa (Ap 3, 7); l’apertura della porta è l’ “ostium apertum” dato ad essa (Ap 3, 8; cfr. “quella intrata aperta”, ibid., 62); le parole dell’angelo – “Intrate …” (ibid., 131) – segnano la sesta vittoria, che consiste nel vittorioso ingresso in Cristo (Ap 3, 12); la successiva minaccia – “ma facciovi accorti / che di fuor torna chi ’n dietro si guata” – è riferibile all’angelo della sesta tromba, che ha la faccia come il sole (Ap 10, 3; cfr. qui di seguito).
La devozione di Dante rispetto all’angelo portinaio è da confrontare con il trovarsi il poeta, nell’Eden prima delle visioni relative al carro-Chiesa, rispetto a Beatrice come colui che “tutto ai piedi / d’i suoi comandamenti era divoto” (Purg. XXXII, 106-108).
Quello di Virgilio e di Dante è un comune venire all’angelo (“là ne venimmo”) con desiderio, che nasce dall’invito dello Spirito. Nei versi, alle parole-chiave che rinviano ai passi simmetrici di Ap 3, 9 e 15, 3-4, altre si insinuano che conducono la memoria ad Ap 22, 17. Ivi lo “sposo” (Cristo e il suo Spirito) e la “sposa” (la Chiesa nelle sue varie forme) invitano, dicendo “Vieni”, alla gloriosa cena delle nozze dell’Agnello e alla città beata. Poi è Cristo stesso a invitare con liberalità dicendo: “Chi ha sete venga, e chi vuole riceva gratuitamente l’acqua della vita”, cioè la grazia che ristora, vivifica e conduce alla vita eterna. Dice “chi ha sete e chi vuole” perché nessuno può venire senza che ci sia desiderio e volontario consenso. È “cortese” il portinaio, cioè liberale nei doni dello Spirito, che dice “venite” (Purg. IX, 93-94); Dante è tratto da Virgilio su per i tre gradini “di buona voglia”, cioè acconsente al venire.
Questo invito dello Spirito, sempre collazionato con gli altri due passi, è già risuonato nell’appello di Dante a Francesca e Paolo – “O anime affannate, / venite a noi parlar, s’altri nol niega!” (Inf. V, 80-81); a tale “affettüoso grido” le due anime, “quali colombe dal disio chiamate (cfr. Ap 15, 3-4) … vegnon per l’aere, dal voler portate” (ibid., 82-84). Il richiamo di Dante ai due dannati perché parlino equivale ad un invito a convivare. Il venire “quali colombe … dal voler portate” può essere riferito sia all’ “apertio voluntatis” propria della sesta chiesa (Ap 3, 8), sia al rispondere all’invito di Ap 22, 17 con desiderio e volontario consenso. Ogni stato, sostiene Olivi, ha qualcosa degli altri, dunque anche del sesto, che è lo stato cristiforme per eccellenza, coincidente con l’età dello Spirito di Gioacchino da Fiore; i motivi del sesto stato risuonano anche nella vecchia roccia infernale e in modo tanto più tragico in quanto l’imitazione di Cristo vi appare incompiuta, deformata, degradata. Alla chiesa di Filadelfia, la sesta, Cristo promette di far venire quelli che si dicono Giudei senza esserlo, mutati nel cuore e disposti a farsi battezzare e governare (Ap 3, 9). Il venire dei due cognati al richiamo del poeta è un momento di mutazione, sebbene limitata al successivo colloquio. È un venire suggerito da Virgilio: «Ed elli a me: “Vedrai quando saranno / più presso a noi; e tu allor li priega / per quello amor che i mena, ed ei verranno”» (Inf. V, 76-78). Al sesto stato è data la porta aperta al parlare. Così Francesca vuole venire e parla: “Di quel che udire e che parlar vi piace, / noi udiremo e parleremo a voi” (ibid., 94-95). Ancora, come ogni stato, e quindi ogni momento della storia umana, ha una sua “quietatio”, una pausa di pace, di quiete, di silenzio propria del settimo e ultimo degli stati. Così Francesca parla e ascolta “mentre che ’l vento, come fa, ci tace”.
Dopo le prime cinque età del mondo (corrispondenti all’Antico Testamento, la gioachimita età del Padre), che hanno segnato la discesa a spirale per i cinque cicli settenari dell’Inferno, con il Purgatorio inizia la sesta età, quella di Cristo (l’età del Figlio), che ha sette stati, corrispondenti ai sette stati della Chiesa. Dapprima, nel cosiddetto “antipurgatorio”, si registrano in successione temi prevalenti dei primi cinque stati. Il sesto stato della sesta età (con cui si apre l’età dello Spirito) inizia con l’apertura della porta di san Pietro (la porta del purgatorio). Questo sesto stato procede anch’esso con andamento settenario, per cui ha sette momenti, coincidenti principalmente con un girone della montagna, ma non del tutto, perché sempre l’ordine spirituale del poema rompe i confini letterali e le divisioni materiali, concatenando i temi di uno stato prevalente con quelli dello stato che precede e con quelli dello stato che segue e intrecciandoli con temi di tutti gli altri stati.
È spiegato nel Notabile VII del prologo della Lectura che il sesto stato della Chiesa è il secondo stato di Cristo e ha i suoi sette tempi per cui la Chiesa, come fosse una sfera, si ricongiunge circolarmente al primo apostolico tempo. Il settimo dei sette momenti del sesto stato della Chiesa coincide con il settimo stato generale della Chiesa, che nel poema corrisponde in parte all’ultimo girone della montagna (il settimo, dove si purgano i lussuriosi) e in parte all’Eden, con cui si chiude la seconda cantica.
Il Purgatorio dunque, secondo il senso spirituale, è la storia della Chiesa che corre verso il suo sesto stato, punto di riferimento di tutte le vicende umane, antiche e moderne, che ad esso cooperano. Non è casuale che nel sesto girone della montagna sia chiarificata e riconosciuta, nel colloquio con Bonagiunta da Lucca, la poetica delle “nove rime” di Dante, già “sesto tra cotanto senno” cooptato nella “bella scola” dei poeti del Limbo.
Il settimo stato dell’Olivi si realizza parte in questa vita (come pregustazione in terra della gloria eterna, cioè fin sulla cima della montagna) e in parte nella futura (nel senso della quiete delle anime beate in attesa della resurrezione, che è la materia del Paradiso).
[dalla Topografia spirituale della “Commedia”]
PURGATORIO
(sesta età del mondo)
canti |
I ciclo – fino al sesto sato |
stati |
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I |
Catone |
Radici, I |
|
II |
angelo nocchiero, Casella |
I – II |
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III |
scomunicati |
III |
“Antipurgatorio” |
IV |
salita al primo balzo, Belacqua |
IV – V |
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V |
negligenti morti per violenza |
V |
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VI |
Sordello |
V |
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VII-VIII |
valletta dei principi |
V |
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IX |
apertura della porta |
VI – sesto stato |
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canti |
II ciclo – il sesto stato della sesta età |
stati |
gironi |
X-XII |
superbi |
I |
I |
XIII-XIV-XV |
invidiosi |
II |
II |
XV-XVIII |
iracondiordinamento del Purgatorio,
|
III |
IIIIV |
XVIII-XIX |
accidiosi |
IV |
IV |
XIX-XX |
avari e prodighi |
V |
V |
XX (terremoto) -XXV |
Stazio, golosi, generazione dell’uomo |
VI |
VI |
XXV-XXVI |
lussuriosi |
VII – settimo stato |
VII |
XXVII |
muro di fuoco, notte stellata, termine dell’ascesa |
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|
XXVIII-XXXIII |
Eden |
Per comprendere meglio l’ingresso per la porta del purgatorio, “la porta di san Pietro” che, lo si ripete, è storicamente (cioè nel viaggio di Dante) l’ingresso nel sesto stato della Chiesa, ci si deve spostare al capitolo X (sesta tromba), tutto dedicato all’angelo dal volto solare. L’angelo (questo angelo, come l’altro del sesto sigillo ad Ap 7, 2, viene da Olivi identificato in Francesco) griderà a gran voce come un leone che ruggisce (Ap 10, 3), in primo luogo perché parlerà con forte indignazione e collera contro gli errori e i vizi di quanti sono induriti, predicendo loro con somma autorità e terribile minaccia lo spaventoso giudizio divino che incombe, al punto che farà tremare le bestie, cioè i bestiali. La veemenza della sua indignazione deriverà dal fatto che quando il libro era chiuso essi avevano una qualche scusa, ma ora che è aperto non vi è più alcuna parvenza (alcun “velo”) di scusa. Un altro motivo è l’ostinata resistenza e la grande moltitudine di quanti hanno il cuore indurito. Un terzo è il fervido zelo di richiamarli dal sonno della morte alla vita della fede. In secondo luogo griderà a gran voce come un leone che ruggisce perché con leonina costanza e fame correrà all’esca e alla preda delle anime secondo quanto detto dal profeta Amos: “ruggisce forse il leone nella selva se non ha qualche preda?” (Am 3, 4).
L’angelo che ruggisce come un leone, con forte indignazione, conduce alla porta del purgatorio, che ha gli spigoli forti e ‘rugghia’ (Purg. IX, 133-138). Olivi afferma che l’angelo ruggisce perché i carnali non hanno più alcuna scusa ora che il libro è aperto: anche Dante, secondo l’ammonizione dell’angelo portiere, sa che non deve voltarsi indietro, e che qualora lo facesse non ci sarebbe degna scusa alla sua colpa (Purg. IX, 131-132; X 5-6). Il tema del colpevole guardare indietro è pure nell’istruzione data ad Efeso, la prima delle sette chiese d’Asia (Ap 2, 4-5; cfr. i “retrosi passi” di Purg. X, 123, che rinviano a Luca 9, 62 [per questa esegesi, fortemente pregna di Riccardo di San Vittore, cfr. “Lectura super Apocalipsim” e “Commedia”. Le norme del rispondersi, 2]).
La medesima indignazione si ritrova nell’impetuoso arrivo del messo celeste che fa tremare entrambe le sponde dello Stige e apre con una verghetta la porta della Città di Dite, il quale, “pien di disdegno”, rimprovera l’arroganza con cui i diavoli recalcitrano ancora una volta di fronte alla volontà divina che più volte ha spezzato la loro resistenza (Inf. IX, 88-99). Il tema del ruggire è proprio anche di san Domenico, che percuote il suo impeto (prerogativa dello stesso angelo, ad Ap 10, 2) negli sterpi eretici in modo più veemente nel Tolosano, dove maggiori erano le resistenze degli Albigesi (Par. XII, 100-102).
L’accostamento del ‘sonno’ con lo ‘scusare’ accompagna la situazione psicologica di Dante seguita alla collera di Virgilio (che corrisponde all’indignazione dell’angelo) verso di lui tutto fisso alla rissa tra maestro Adamo e Sinone “greco di Troia”, con la differenza che il poeta può ancora scusarsi (nell’inferno il libro resta chiuso) e dovrà stare attento la prossima volta (“se più avvien che fortuna t’accoglia / dove sien genti in simigliante piato”; Inf. XXX, 136-148). Il desiderio di parlare per scusarsi e il non poterlo fare corrispondono al desiderio dei discepoli spirituali di dire i significati dei sette tuoni racchiusi nel cuore, parlare che viene vietato al versetto successivo (Ap 10, 4; cfr. Inf. X, 16-21: sul tema si rinvia a Il sesto sigillo, 8, tab. LXXVII). A Par. XIV, 136-139 il poeta si scusa perché non è stato dischiuso (cioè manifestato) “il piacer de li occhi belli” di Beatrice, posposto all’innamorarsi del dolce canto udito nel cielo di Marte, perché “i vivi suggelli / d’ogne bellezza più fanno più suso”, in modo “più sincero” man mano che si sale (e dunque il “libro” non è ancora del tutto aperto, per cui Dante, che ascende col corpo, è scusato).
Segue Ap 10, 3: “E quando ebbe gridato, i sette tuoni fecero udire la loro voce”. Secondo Gioacchino da Fiore, questi sette tuoni sono i sette spiriti di Dio che emettono universalmente su tutta la terra, come dal terzo cielo, voci spirituali e allegoriche concordi col ruggito dell’angelo sia nel rivelare le grandi cose e gli arcani della gloria di Dio e delle sue opere, soprattutto di quelle che si compiono nelle menti contemplative, sia nel proclamarne i terribili giudizi. La settiforme grazia dello Spirito Santo e la settiforme intelligenza delle sette età del mondo, dei sette sigilli dell’Antico Testamento, dei sette stati della Chiesa e dei giudizi già intervenuti proclamano, a guisa di sette tuoni, i massimi doni delle grazie e dei premi che devono essere conferiti agli eletti e i terribili giudizi che devono ancora essere consumati sugli empi nel sesto stato della Chiesa e nel settimo. Viene detto che questi tuoni parlano al grido dell’angelo sia per l’efficacia della sua preclara dottrina, quasi di per sé si presentino alle menti dei discepoli perfetti, sia perché secondo la parola di Cristo lo Spirito Santo Paraclito suggerirà loro interiormente tutte quelle cose che l’angelo disse loro esteriormente (Giovanni 14, 26). Come infatti lo Spirito di verità recava testimonianza di Cristo nel cuore degli apostoli, così anche nei cuori dei discepoli spirituali sarà attestata la predicazione di questo angelo, secondo quel passo degli Atti degli Apostoli (Ac 10, 44) in cui è detto che, mentre Pietro predicava, lo Spirito Santo scese su tutti quanti ascoltavano la sua parola.
Dopo il rugghiare della porta del purgatorio, Dante si rivolge “attento al primo tuono” (Purg. IX, 139), espressione oscura, ma che può significare la prima, o il primo gruppo, delle voci e delle visioni estatiche che il poeta ascolterà e riceverà nella mente ascendendo la montagna che è distinta, appunto, in sette gironi. In ogni caso, c’è una consequenzialità non scontata di temi, portati da elementi semantici – il ruggire forte, il non poter più invocare scuse per i carnali una volta avvenuta l’apertura, il tuonare – che è comune ai due testi.
Nel secondo girone, degli invidiosi, i moniti alla carità sono voci spirituali (Purg. XIII, 25-42): essi invitano alla mensa d’amore, che è tema della conclusione del libro, allorché lo Spirito di Cristo, che corrisponde al Paraclito suggeritore interno di Ap 10, 3, invita alla gloriosa cena dell’Agnello (Ap 22, 17). Alla stregua di voci che paiono folgori e tuoni si presentano gli esempi di invidia punita (Purg. XIV, 130-141): in questo caso il tema dei sette tuoni si combina con quello delle folgori, voci e tuoni che ritorna più volte nel testo apocalittico (Ap 4, 5; 8, 5; 11, 19; 16, 18).
Nel terzo girone, degli iracondi, gli esempi di mansuetudine si presentano come visioni estatiche (le voci allegoriche vengono dal terzo cielo, Purg. XV, 85-117; non si può non ricordare la canzone ‘Voi che ’ntendendo il terzo ciel movete’, menzionata da Carlo Martello a Par. VIII, 37), al termine delle quali Virgilio richiama alla realtà un Dante piegato dal sonno (come il fervido zelo del leone ruggente richiama dal sonno alla vita della fede, Purg. XV, 118-138). Virgilio spiega anche che le visioni avute servono a rendere non più scusabile il non aprire il cuore alle acque della pace (tema dell’apertura del libro che toglie ogni parvenza di scusa, ibid., 130-132). Immaginazioni dell’ “alta fantasia” sono gli esempi di ira punita, che restringono la mente dentro da sé (i sette tuoni “per se se ingerent mentibus”) e cadono come si frange il sonno quando una nuova luce percuote il viso chiuso (Purg. XVII, 13-45; l’ “imaginativa” reca in sé temi del terzo stato, i cui vittoriosi dottori conseguono, ad Ap 2, 17, il premio di salire al di sopra dell’immaginazione che si fonda sui sensi, e cioè all’ “alta fantasia” che riceve il lume dal cielo).
L’ingresso per la porta del purgatorio, apertagli dal vicario del principe degli apostoli, è il giubileo spirituale di Dante, la sua andata a “Santo Pietro”.
In così alta retorica del significante viene in rilievo la simmetria fra terzine nella numerazione dei versi di singoli canti, o meglio il numero stesso della terzina. Non può essere infatti casuale che l’Italia sia due volte collocata sull’ultimo verso della 35a terzina (vv. 103-105) a Purg. VI (“che ’l giardin de lo ’mperio sia diserto”) e a Par. XI (“redissi al frutto de l’italica erba”). La semantica rinvia ad Ap 8, 7 (terza visione, prima tromba) e ad Ap 12, 6 (quarta visione, prima guerra), dove si tratta della Giudea, un tempo fiorente giardino poi divenuta deserto per il suo indurirsi contro Cristo. Da essa la donna (la Chiesa) fugge nella solitudine del deserto dei Gentili (il “lito diserto” della montagna del purgatorio), che fiorisce, mentre la Giudea si fa “selva selvaggia” («“in saltum” seu silvam “reputabitur”, id est silvestrescet»). Ma nel sesto stato la Giudea, dopo la conversione delle reliquie delle genti, si volgerà umilmente per ultima a Cristo. Per cui Virgilio profetizza del Veltro: “Di quella umile Italia fia salute” (Inf. I, 106; 36a terzina: il senso è ben diverso dalla virgiliana “humilem … Italiam” [Aen., III, 523-524]), pronunciando parole che aprono la memoria del canto di lode della moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni gente, tribù, popolo e lingua, confermata dagli angeli, dai seniori e dai quattro animali che stanno intorno al trono (Ap 7, 10-12): «“dicentes: Salus Deo nostro”, id est salus nostra non nobis ascribatur … scilicet se profunde humiliando Deo, “et adoraverunt Deum (Ap 7, 12) dicentes: Amen”, id est vere sic sit et fiat sicut hec sancta turba decantat et orat”». L’Italia, “’l giardin de lo ’mperio”, la fruttuosa “erba” alla quale torna Francesco (terra d’umiltà: “per … herbas virentes designantur simplices, humilitatem et virorem fidei et vite honeste et pie servantes”; la stessa esegesi, da Ap 8, 7 [prima tromba] e 9, 4 [quinta tromba] segna anche, a Purg. I [35a terzina], gli umili giunchi sulla riva del purgatorio [è da notare, ancora, come degli stessi temi si faccia segno nelle terzine 44a e 45a di Purg. I, VII – che hanno lo stesso numero di versi – e XXVII]), è pure il “bel paese là dove ’l sì suona”, dove cioè si conferma in terra il sovranazionale canto di lode che gira la sede divina in cielo.
La turba immensa, non di una sola gente o lingua, ma di ogni gente, tribù, popolo e lingua, che sta davanti al trono e nel cospetto dell’Agnello, avvolta in vesti candide e con le palme nelle mani, designa coloro che sono venuti alla gloria dalla passione, dalla sofferenza e dal martirio, come affermato dal vegliardo (Ap 7, 14). Sono coloro che ad Ap 12, 10-11, al termine della seconda battaglia vinta per intervento di Michele (il secondo stato è quello dei martiri, cui si addice il combattere e la tribolazione), esultano e lodano Dio per la salvezza intervenuta; hanno vinto il diavolo “per mezzo del sangue dell’Agnello”; “non hanno amato le loro anime”, ossia le loro vite corporee, “fino alla morte”, esponendosi per Cristo ad ogni passione. Nella profezia del Veltro, il non essere di una sola gente, tribù, popolo o lingua coloro che stanno dinanzi al trono si adatta ai due versi relativi all’umile Italia, “per cui morì la vergine Cammilla, / Eurialo e Turno e Niso di ferute” (Inf. I, 107-108), nei quali non si fa distinzione tra l’appartenenza di campo dei caduti nella guerra combattuta nel Lazio da Enea, che rientra nel piano provvidenziale, ne “l’alto effetto” per il quale il troiano “fu de l’alma Roma e di suo impero / ne l’empireo ciel per padre eletto” (Inf. II, 16-24).
Ma allora, di fronte a tanto profondi significati che aprono prospettive di una storia della salvezza collettiva, quale senso ha che l’Italia stia due volte sulla 35a terzina? Forse la risposta si trova nell’esegesi di Ap 12, 6 relativa allo scambiarsi fra selva e deserto fiorito. Esegesi i cui signacula si rinvengono in molti versi fra i quali (ancora una volta la 35a terzina) Purg. VII, 105, riferito con variazione dissonante alla morte nel 1285 di Filippo III l’Ardito in fuga dagli Aragonesi: «“Et mulier”, id est ecclesia, “fugit in solitudinem” … De hac autem solitudine dicitur Isaie … Et capitulo XXXV° (Is 35, 1-2): “Letabitur deserta et invia, exultabit solitudo et florebit quasi lilium”.│morì fuggendo e disfiorando il giglio». Questo deserto che fiorisce è quello profetizzato da Isaia, più volte citato ad Ap 12, 6. Ivi fiorirà la giustizia (“et habitabit in solitudine iudicium et iustitia”, Is 32, 16). Il numero 35 è menzionato nel poema allorché, nel cielo di Giove, a Dante si mostra la scritta dipinta “Diligite iustitiam, qui iudicatis terram”, cioè il primo versetto del libro della Sapienza formato da 35 lettere (“Mostrarsi dunque in cinque volte sette / vocali e consonanti”; Par. XVIII, 88-93). Dante pensava che l’Italia sarebbe stata un giorno la sede della giustizia.
Si noterà che sulla 35a terzina di Inf. I e Purg. IX stanno rispettivamente l’“umile Italia”, della quale il Veltro “fia salute”, e l’umiltà di Dante nel chiedere all’angelo, vicario di Pietro, l’apertura della porta del purgatorio. Non significa che Dante e il Veltro coincidano, ma che quando scriveva i versi che riguardavano la sua conversione interiore, il poeta pensava a una renovatio universale.
Mentre Dante varca la porta del purgatorio con il beneplacito del vicario di Pietro, altrove, “là dove Cristo tutto dì si merca”, già si trama contro di lui. Nella quinta parte della sesta visione, una voce dal cielo, diversa dalla precedente che è di condanna dei reprobi (Ap 18, 1-3), ammonisce gli eletti a non partecipare con questi della colpa e quindi della pena. Dice dunque: “Uscite, popolo mio, da Babilonia per non associarvi ai suoi delitti e non ricevere parte dei suoi flagelli” (Ap 18, 4). In modo simile dice Geremia al popolo di Dio: “Fuggite da Babilonia e dalla regione dei Caldei e siate come capri in testa al gregge” (Jr 50, 8). Allo stesso modo san Paolo scrive ai Corinzi di non mescolarsi con gli impudichi nominati e famosi che si trovano tra i fedeli, che sono più pericolosi di quelli che si trovano nel mondo al di fuori, tra i pagani (1 Cor 5, 9-13). L’uscire da Babilonia si intende principalmente come allontanamento dalle sue scelleratezze, dalla sua amicizia e dalla sua compagnia. In via secondaria si può intendere anche come un allontanarsi corporeo e locale per il periodo in cui la città verrà assediata e distrutta, come avvenne con i cristiani che si dice fossero ammoniti dall’angelo a lasciare la Giudea nell’imminenza dell’assedio dei Romani. Se poi ci si chiede come mai questo angelo ammonisca a lasciare la città dopo che il precedente ne ha dichiarato la caduta (Ap 18, 2), si può rispondere riferendo le parole del primo angelo all’imminenza della caduta della città, considerata come già avvenuta; oppure al suo accecamento al tempo dell’Anticristo mistico, oppure riferendo le parole del secondo angelo a ciò che gli eletti debbono fare prima e all’approssimarsi della caduta di Babilonia, oppure interpretando che l’ammonizione del secondo angelo vale nel senso che sempre fino alla fine dei tempi ci saranno nel mondo i cittadini di Babilonia, dai quali bisogna dipartirsi.
Brunetto Latini ammonisce Dante a ‘forbirsi’, cioè a mantenersi immune, dai costumi dei suoi concittadini, che una “vecchia fama” (l’essere “nominati” della lettera paolina) nel mondo definisce “orbi”, ingrato popolo maligno, gente avara, invidiosa, superba (Inf. XV, 67-69). Le stesse parole di Brunetto al suo antico discepolo – «E quelli: “O figliuol mio, non ti dispiaccia / se Brunetto Latino un poco teco / ritorna ’n dietro e lascia andar la traccia”» (ibid., 31-33) – ripetono, per l’attimo che la poesia registra in “loco etterno”, l’ammonimento di Geremia 50, 8: “Recedite de medio Babilonis”.
Cacciaguida dice a Dante, preannunciandogli l’esilio, che “di Fiorenza partir ti convene”, eco del paolino oportet exire da Babilonia. Gli dice ancora che farà bene a far parte per sé stesso, abbandonando la compagnia dei Bianchi esiliati con lui, “che, tutta ingrata, tutta matta ed empia”, rappresenta la “societas reproborum” della nuova Babilonia (Par. XVII, 46-48, 61-69). Non diverse sono le parole di Virgilio al poeta in lacrime per l’impedimento frapposto dalla lupa nell’ascesa al dilettoso monte: “A te convien tenere altro vïaggio” (Inf. I, 91-93). Brunetto Latini definisce i Fiorentini “li lazzi sorbi” tra i quali “si disconvien fruttare al dolce fico”, dai cui costumi Dante deve ‘forbirsi’ (Inf. XV, 65-66). Al momento di ‘uscire’ dall’inferno, capovoltosi aggrappato al pelo di Lucifero, Virgilio dice che “per cotali scale … conviensi dipartir da tanto male” (Inf. XXXIV, 82-85).
Da notare come le parole di Cacciaguida: “Questo si vuole e questo già si cerca, / e tosto verrà fatto a chi ciò pensa / là dove Cristo tutto dì si merca” (Par. XVII, 49-51) siano memori dell’inciso: «quando ibi dicitur: “Cecidit, cecidit Babilon” [et cetera], hoc dixit pro imminenti casu eius, ex quo iam reputabat illum quasi iam factum …». In terra l’esilio di Dante già si prepara e presto sarà fatto, esilio necessario (“di Fiorenza partir ti convene”) perché la provvidenziale punizione della Chiesa carnale è anch’essa imminente e come già avvenuta. “Là dove Cristo tutto dì si merca”: “(Ap 18, 4) … non est ecclesia Christi sed sinagoga Sathane et habitatio demonum … (prologo, notabile V) Inter laxationes autem intellig[e] symonias, quibus omnia ecclesiastica fere ab omnibus venduntur et emuntur et quasi venalia reputantur … (prologo, notabile VII) … multiplex enormitas superbie et luxurie et symoniarum et causidicationum et litigiorum et fraudum et rapinarum ex ipsis occasionaliter accepta, ex quibus circa finem quinti temporis a planta pedis usque ad verticem est fere tota ecclesia infecta et confusa et quasi nova Babilon effecta”.
Il fatto che fino alla fine dei tempi ci saranno sempre nel mondo “aliqui babilonici, id est reprobi” (Ap 18, 4), tenendo conto che Babilonia è interpretata come “confusio” (cfr. Ap 14, 8), viene reso da Cacciaguida con l’affermazione che “sempre la confusion de le persone / principio fu del mal de la cittade”, ossia il mescolare le stirpi con la venuta di gente nuova da fuori le città fu sempre causa della rovina di queste, come il cibo non digerito è causa di malattia per l’uomo (Par. XVI, 67-69; cfr., alla terzina successiva, l’espressione “e cieco toro più avaccio cade / che cieco agnello”: “et estote quasi edi ante gregem … de casu excecationis eius …”).
Non sarà poi casuale che, rinviando per memoria alla stessa esegesi, i versi 61-69 (terzine 21a-23a) di Inf. XV e Par. XVII si rispondano nel dire contro i Fiorentini in genere (Brunetto Latini) e contro i Bianchi in particolare (Cacciaguida). Il rinvio non è solo ad Ap 18, 4, ma anche ad Ap 17, 6, dove si tratta della prostituta prima pagana e poi cristiana, recidiva nella colpa che ricade sulle generazioni successive come l’acqua di un fiume: «… hec mulier in suo priori et antiquo tempore … “ut veniat super vos omnis sanguis iustus” (Mt 23, 35) … de omnibus facta ingrata … non timuit cadere in peccata consimilia vel peiora …│(Inf. XV) Ma quello ingrato popolo maligno / che discese di Fiesole ab antico, / e tiene ancor del monte e del macigno, / ti si farà, per tuo ben far, nimico … │ (Par. XVII) E quel che più ti graverà le spalle, / sarà la compagnia malvagia e scempia / con la qual tu cadrai in questa valle; / che tutta ingrata, tutta matta ed empia / si farà contr’ a te; ma, poco appresso, / ella, non tu, n’avrà rossa la tempia».
Nella bolgia dei barattieri, Dante cerca invano di convincere Virgilio a rifiutare la scorta dei diavoli, “fiera compagnia” (Inf. XXI, 127-129; XXII, 13-15, cfr. anche l’espressione “e talvolta partir per loro scampo”, ibid., 3, da riferire al recedere da Babilonia da Ap 18, 4).
Virgilio, alla fine di Inf. XXX, rimprovera Dante per essersi troppo soffermato ad ascoltare le basse parole dei litigiosi maestro Adamo e Sinone. Nello stesso canto, Griffolino addita “l’anima antica / di Mirra scellerata, che divenne / al padre, fuor del dritto amore, amica” (ibid., 37-39; “loquitur hic de exitu ab imitatione et participatione scelerum eius, et etiam ab omni amicitia vel societate ipsius prebente occasionem peccandi”), versi nei quali Ovidio (Met. X, 314-315: “scelus est odisse parentem; / hic amor est odio maius scelus”) concorda con l’esegesi apocalittica.
(XVI)
[LSA, cap. II, Ap 2, 1 (VIa ecclesia)] Sexta (ecclesia) autem dicitur habere hostium scripturarum [ac] predicationis et cordium convertendorum apertum, et quod Iudei debent ad eam cum summa humilitate adduci, et quod est servanda ne cadat in temptationem toti orbi venturam, quia Dei consilia et mandata longanimiter et patienter servavit, que utique competunt statui sexto. Unde et congrue vocatur Philadelphia, id est salvans hereditatem, quia in regula evangelica, quasi in archa Noe, salvabitur semen fidei et electorum a diluvio Antichristi tam mistici quam aperti.[LSA, cap. III, Ap 3, 12 (VIa victoria)] Sexta victoria est victoriosus ingressus in Christum, qui fit per totalem configurationem et transformationem mentis in ipsum, quod utique proprie competit sexto statui. […] |
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[LSA, cap. XV, Ap 15, 2-4 (Va visio, radix)] Unde subditur: “(Ap 15, 2) Habentes citharas Dei (Ap 15, 3) et cantantes canticum Moysi servi Dei et canticum Agni”. Canticum utriusque in hoc convenit, quod uterque cantavit de pia liberatione electorum et de terribili submersione seu perditione hostium. Differunt autem in hoc, quod canticum Moysi fuit sicut servi, cuius est timere Dominum terribilem in iudiciis; canticum vero Agni fuit vere filii mitissimi, cuius est filialiter amare patrem et consequi eius hereditatem. Ergo isti cantant simul canticum timoris ut servi et amoris ut filii, et hoc ipsum patet ex materia cantici eorum, unde subditur: “dicentes: Magna”, scilicet in se, “et mirabilia”, scilicet contemplantibus, “sunt opera tua, Domine Deus omnipotens”. Pro operibus autem seu iudiciis iustitie, subdunt: “Iuste et vere vie tue”, id est opera tua, “rex seculorum. (Ap 15, 4) Quis non timebit te, Domine, et magnificabit nomen tuum?”. Pro operibus vero misericordie, subdunt: “Quia solus pius es”, scilicet per se et substantialiter et summe; “quoniam omnes gentes venient”, scilicet ad te tamquam a te misericorditer vocate et tracte, “et adorabunt in conspectu tuo, quoniam iudicia tua manifesta sunt”, scilicet per evidentes effectus perditionis Antichristi et suorum et salvationis electorum.
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[LSA, cap. III, Ap 3, 7.9 (Ia visio, VIa ecclesia)] Hiis autem, sicut et in ceteris, premittitur preceptum scribendi hec huic ecclesie et introductio Christi sibi hec dicentis, cum subditur: “Hec dicit sanctus” (Ap 3, 7). Quia hunc episcopum commendat tamquam singulariter sanctum et sibi dilectum, ideo proponit se ei ut sanctum, supple, supersubstantialiter et fontaliter tamquam primam et summam causam omnis sanctitatis omnium sanctorum. […]
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Purg. IX, 61-63, 91-94, 106-111, 127-131Qui ti posò, ma pria mi dimostraro
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Inf. V, 76-87Ed elli a me: “Vedrai quando saranno
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[LSA, cap. XXII, Ap 22, 17 (finalis conclusio totius libri)] Septimo loquitur ut invitator omnium ad prefatam gloriam, et hoc tam per se quam per ecclesiam et eius doctores, unde subdit: “Et sponsus”, id est, secundum Ricardum, Christus (quidam tamen habent “Spiritus”, et quidam correctores dicunt quod sic habent antiqui et Greci, ut sic Christus tam per se quam per Spiritum suum et eius internam inspirationem ostendat se invitare), “et sponsa”, id est generalis ecclesia tam beata quam peregrinans vel contemplativa ecclesia, “dicunt: veni”, scilicet ad nuptias. Ideo enim dixit “sponsa”, ut innueret nos invitari ad gloriosam cenam nuptiarum Agni. “Et qui audit”, scilicet hanc nostram invitationem, id est qui est de hiis sufficienter doctus; vel “qui audit”, id est recte et obedienter credit et opere perficit, “dicat”, scilicet unicuique vocandorum: “veni”, scilicet ad cenam et civitatem beatam. Deinde ipse Christus per se liberaliter invitat et offert, dicens: “Et qui sitit veniat, et qui vult accipiat aquam vite gratis”. Quia nullus cogitur nec potest venire nisi per desiderium et voluntarium consensum, ideo dicit “qui sitit et qui vult”. Idem autem est venire quod accipere “aquam vite”, id est gratiam vite refectivam et vivificam et perducentem in vitam eternam. Dicit autem “gratis”, tum quia absque omni pretio venali et exteriori datur et accipitur, tum quia prima gratia datur absque omni previo merito et tamquam principium et caus[a] meriti, ac per consequens totum premium et augmentum gratie quod per primam gratiam acquiritur gratia reputatur. Dicit etiam “gratis”, quia tota a summa caritate Christi et summe gratuita et liberali predestinatur et offertur et datur. |
[LSA, cap. XV, Ap 15, 2-4 (Va visio, radix)] Unde subditur: “(Ap 15, 2) Habentes citharas Dei (Ap 15, 3) et cantantes canticum Moysi servi Dei et canticum Agni”. Canticum utriusque in hoc convenit, quod uterque cantavit de pia liberatione electorum et de terribili submersione seu perditione hostium. Differunt autem in hoc, quod canticum Moysi fuit sicut servi, cuius est timere Dominum terribilem in iudiciis; canticum vero Agni fuit vere filii mitissimi, cuius est filialiter amare patrem et consequi eius hereditatem. Ergo isti cantant simul canticum timoris ut servi et amoris ut filii, et hoc ipsum patet ex materia cantici eorum, unde subditur: “dicentes: Magna”, scilicet in se, “et mirabilia”, scilicet contemplantibus, “sunt opera tua, Domine Deus omnipotens”. Pro operibus autem seu iudiciis iustitie, subdunt: “Iuste et vere vie tue”, id est opera tua, “rex seculorum. (Ap 15, 4) Quis non timebit te, Domine, et magnificabit nomen tuum?”. Pro operibus vero misericordie, subdunt: “Quia solus pius es”, scilicet per se et substantialiter et summe; “quoniam omnes gentes venient”, scilicet ad te tamquam a te misericorditer vocate et tracte, “et adorabunt in conspectu tuo, quoniam iudicia tua manifesta sunt”, scilicet per evidentes effectus perditionis Antichristi et suorum et salvationis electorum.[LSA, cap. XIV, Ap 14, 6-9 (IVa visio)] […] iuxta quod Christus suaviter docuit, quasi cantans canticum dulce ; Iohannes vero Baptista terribilius, quasi lamentans et comminans ve dampnationis eterne […]. |
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Inf. XXVI, 94-99né dolcezza di figlio, né la pieta
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[LSA, cap. I, Ap 1, 5 (Prohemium, Salutatio: septem notabiles primatus Christi) Quarto primatum dilectionis, cum dicit: “qui dilexit nos”. Quinto primatum nostre iustificationis et redemptionis, quam iustificationem tangit dicendo: “et lavit nos a peccatis nostris”; redemptionem vero cum subdit: “in sanguine suo”, id est in merito sue passionis et mortis cuius modum et speciem exprimit sanguis effusus. Servat autem methaforam leprosorum, qui per balneum sanguinis mundi et calidi expurgantur et sanantur. Premisit autem “qui dilexit nos”, ad monstrandum quod ipse nos redemit et lavit non ex sua necessitate vel utilitate, vel ex debito vel ex timore aut ex coactione, sed ex sua sola misericordia et gratuita caritate.Par. VII, 103-120Dunque a Dio convenia con le vie sue
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Par. XXXI, 79-90O donna in cui la mia speranza vige,
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Par. XXXIII, 13, 19-27Donna, se’ tanto grande e tanto vali ……In te misericordia, in te pietate,
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[Nota alla tabella precedente]
Non c’è carità in Ulisse: “né dolcezza di figlio, né la pieta / del vecchio padre, né ’l debito amore / lo qual dovea Penelopè far lieta, / vincer potero dentro a me l’ardore / ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto / e de li vizi umani e del valore” (Inf. XXVI, 94-99). Anche il richiamo agli affetti famigliari è permeato, in senso negativo, di temi propri di Cristo, cui appartiene la dolcezza: Cristo insegnò infatti con dolcezza quasi cantando un canto dolce mentre Giovanni Battista usò un tono terribile come lamentando e minacciando il “guai!” dell’eterna dannazione (Ap 14, 6-9). Così il canto dell’Agnello (Ap 15, 3-4), di pietà, d’amore e di libertà designa la pietà del figlio mitissimo che ama il padre e si contrappone al canto di Mosè, di terrore per il giudizio divino e di servitù: si tratta delle due vie di Dio, della giustizia e della misericordia; entrambe, la giustizia e la pietas filiale, si ritrovano nelle parole di Virgilio: “Poeta fui, e cantai di quel giusto / figliuol d’Anchise che venne di Troia” ad Inf. I, 73-74 (di queste due vie dicono Virgilio, Beatrice, l’aquila e san Bernardo rispettivamente a Purg. XI, 37, Par. VII, 103-120, Par. XIX, 13 e a Par. XXXII, 117). Di Cristo è proprio il primato dell’amore con il quale ci lavò dai peccati (Ap 1, 5), con la differenza che l’amore di Cristo non è dovuto, come quello di Ulisse verso la sposa, ma proviene dalla sua gratuita carità.
Ad Ap 12, 10-11, al termine della seconda battaglia della Chiesa, vinta per intervento di Michele (il secondo stato è quello dei martiri, cui si addice il combattere e la tribolazione), i santi esultano e lodano Dio per la salvezza intervenuta; hanno vinto il diavolo “per mezzo del sangue dell’Agnello”; “non hanno amato le loro anime”, ossia le loro vite corporali, “fino alla morte”, esponendosi per Cristo ad ogni passione. Il passo da Ap 12, 10, per la compresenza delle parole – dominatio / donna, spes / speranza, virtus / virtute, potestas / potestate, facta est salus / fatt’ hai sana – conduce alla preghiera di ringraziamento che nell’Empireo Dante rivolge a Beatrice, donna della salute (Par. XXXI, 79-90). Ma altre parole-chiave rinviano ad Ap 15, 3-4: «Tu m’hai di servo tratto a libertate … per tutte quelle vie … La tua magnificenza in me custodi │ … uterque cantavit de pia liberatione electorum et de terribili submersione seu perditione hostium. Differunt autem in hoc, quod canticum Moysi fuit sicut servi, cuius est timere Dominum terribilem in iudiciis; canticum vero Agni fuit vere filii mitissimi … Pro operibus autem seu iudiciis iustitie, subdunt: “Iuste et vere vie tue”, id est opera tua, “rex seculorum. (Ap 15, 4) Quis non timebit te, Domine, et magnificabit nomen tuum?”». Alcune di queste parole-chiave si registrano a Par. XIV, 82-84 e a Par. XXXIII, 13, 20, 25, 27, nella preghiera di san Bernardo alla Vergine.
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2. L’angelo del sesto sigillo
2.1. Divieto di andare senza guida (e senza il ricordo di ‘Guido’)
Scrive Giovanni: «Poi la voce che avevo udito dal cielo mi parlò di nuovo: “Va’, prendi il libro aperto dalla mano dell’angelo che sta ritto sul mare e sulla terra”. Allora mi avvicinai all’angelo (l’angelo della sesta tromba, che ha la faccia come il sole, che per l’Olivi designa Francesco, come l’angelo del sesto sigillo di Ap 7, 2) e lo pregai di darmi il libro» (Ap 10, 8-9). Secondo Gioacchino da Fiore, l’ordine figurato in Giovanni udrà questa voce “dal cielo”, cioè dalla Sacra Scrittura, perché se non ci fosse altra voce nella Scrittura che lo ordinasse, basterebbe la voce che discende da questo grande cielo, cioè da questo libro aperto; e anche quella che dice la stessa cosa nel terzo capitolo di Ezechiele (Ez 3, 1ss.). Quest’ordine andrà dunque dall’angelo con la verità conosciuta e assentirà con reverenza ai nunzi della verità di Dio. Questa voce, sempre secondo Gioacchino, consiste in ogni ispirazione di Dio che incita o accende ad apprendere la sapienza del libro dai sacri dottori designati da questo angelo e in particolare da Cristo. Dio infatti insegnerà loro a non presumere di poter partecipare della sapienza del libro con le proprie forze e senza il magistero di questo angelo.
Il tema del non presumere delle proprie forze venendo da soli e della necessità di una “guida” viene più volte proposto nella Commedia: dal poeta di fronte al padre di Guido Cavalcanti, che gli si è rivolto per la sua “altezza d’ingegno” (Inf. X, 61), oppure nel ricordare quanto visto nell’ottava bolgia, in modo da frenare l’ingegno “perché non corra che virtù nol guidi” (Inf. XXVI, 21-22); da Catone che vuole che si spieghi chi sia stata la guida o la lucerna nell’uscire dalla “valle inferna” (Purg. I, 43-45); dall’angelo portiere del purgatorio che chiede dove sia “la scorta” (Purg. IX, 86; in entrambi i casi, verso Catone e l’angelo, è dovuta reverenza da parte di Dante); nel riconoscimento dell’impossibilità di ridire l’amore visto negli occhi santi di Beatrice se la mente non venga guidata da altri (Par. XVIII, 10-12).
Così avviene nell’avvio del colloquio tra Virgilio e Stazio (Purg. XXI, 21, 28-29). Anzi, all’inizio del canto successivo c’è un esempio di voce che basta a sé stessa, quella dell’angelo della giustizia che cancella il quinto “P” dalla fronte di Dante e volge al “sesto giro” (qui il numero allude al sesto stato), la quale, dichiarando beati “quei c’hanno a giustizia lor disiro”, non dice tutta la beatitudine secondo Matteo 5, 6 (“Beati qui esuriunt et sitiunt iustitiam”): “e le sue voci / con ‘sitiunt ’, sanz’altro, ciò forniro” (Purg. XXII, 1-6; l’ “esuriunt” è riservato alla voce dell’angelo – “esurïendo sempre quanto è giusto”: Purg. XXIV, 154 – udita al termine della pemanenza fra i golosi; sul piano letterale, cioè, Dante scinde nella beatitudine la ‘sete’ e la ‘fame’ di giustizia, applicando la prima agli avari e prodighi, la seconda ai golosi). Già Catone aveva detto a Virgilio: “Ma se donna del ciel ti move e regge … bastisi ben che per lei mi richegge” (Purg. I, 91-93). Beatrice aveva parlato a Virgilio “con angelica voce” (Inf. II, 56-57).
Tra tanti temi che percorrono i primordi del duetto tra Virgilio e Stazio, dei quali si dirà in seguito, se ne scorge in filigrana un altro non secondario.
Prima di procedere all’esegesi dell’apertura del sesto sigillo (Ap 6, 12), Olivi ricorda quanto già affermato nei notabilia del prologo, che cioè la vita di Cristo nel sesto e settimo stato verrà glorificata e magnificata nella conversione di tutto il mondo e di tutto Israele. Per attestazione autentica e conferma della Chiesa romana, consta che la regola dei Minori data dal beato Francesco è veramente e propriamente la regola evangelica, quella osservata da Cristo, imposta agli apostoli e scritta nel Vangelo. Ciò consta per inconfutabili testimonianze dei libri scritturali e dei loro espositori. Consta per la testimonianza del santissimo Francesco, confermata dalla sua indicibile santità e da innumerevoli miracoli di Dio, e soprattutto dalle gloriosissime stimmate impresse da Cristo, che dimostrano come egli sia l’angelo che apre il sesto sigillo (Ap 7, 2), il quale ha il segno del Dio vivente, cioè delle piaghe di Cristo crocifisso, e della totale trasformazione e configurazione in Cristo, secondo una tradizione, chiara e degna di fede, ascoltata dall’Olivi nel 1266 da san Bonaventura predicante a Parigi in modo solenne nel capitolo generale dei Frati minori.
Sullo stesso panno dell’esegesi di Ap 6, 12, dove Olivi dichiara che Francesco è angelo del sesto sigillo, sono ritagliate le parole che designano i “sette P” descritti nella fronte del poeta con la punta della spada dall’angelo portinaio dei sette gironi della montagna. Essi sono “piaghe”, “segni” che rendono il poeta conforme all’angelo che ha il «“signum Dei vivi”, signum scilicet plagarum Christi crucifixi”». Non è casuale che, nei versi in cui Virgilio spiega a Stazio che chi porta quei segni “coi buon convien ch’e’ regni”, compaia il verbo ‘imporre’, appropriato a Cloto che “la conocchia … impone a ciascuno e compila”, che cioè, letteralmente, compone e aggiusta sulla rocca la quantità di fibra filata da Lachesi (Purg. XXI, 22-30). La regola evangelica imposta agli apostoli equivale alla vita di Cristo, che deve essere da noi perfettamente imitata e partecipata come fine della nostra vita (prologo, Notabile VII). Anche la parca che “impone” la conocchia della vita, grazie all’esegesi dell’Olivi, diventa ancella di Cristo perché la nostra vita non può essere che trasformazione e configurazione in lui. Da notare l’espressione “venendo sù”, che traspone il tema dell’angelo del sesto sigillo, che sale da Oriente (Ap 7, 2); da confrontare, ancora, i “segni che questi porta” (Purg. XXI, 22-23) con le stimmate che le membra di Francesco “due anni portarno” (Par. XI, 106-108).
Quando Dante scriveva i versi di Purg. XXI, 19-33, aveva in mente una vicenda letterale, l’incontro tra due poeti, uno pagano ma il cui calore giovò, illuminando, alla poesia e alla conversione dell’altro; l’altro cristiano, ma chiuso per tepidezza. Il confronto con la Lectura mostra come Dante avesse in mente anche molti significati spirituali, relativi ai tempi moderni designati dal sesto stato, “novum seculum” per Francesco e il suo Ordine come lo fu l’età di Augusto per il primo avvento di Cristo. Uno di questi significati spirituali risiede nella necessità di una guida, nel non poter far da soli, e ciò congiunge i versi ad altri luoghi del poema, tra i quali ce n’è uno memorabile, la risposta data al padre di Guido Cavalcanti a Inf. X, 61-63: «E io a lui: “Da me stesso non vegno: / colui ch’attende là, per qui mi mena / forse cui Guido vostro ebbe a disdegno”». Così, accanto alla lettera e allo spirito, dai versi che narrano l’incontro tra il poeta mantovano e quello “tolosano” emerge la memoria del “primo delli miei amici”: «S’io fosse quelli che d’amor fu degno – se voi siete ombre che Dio sù non degni │E tu, che se’ de l’amoroso regno … riguarda se ’l mi’ spirito ha pesanza: / ch’un prest’ arcier di lui ha fatto segno – E ’l dottor mio: “Se tu riguardi a’ segni / che questi porta e che l’angel profila, / ben vedrai che coi buon convien ch’e’ regni ”». Si tratta della risposta di Cavalcanti al sonetto Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io, il cui andar per mare senza impedimento “al voler vostro e mio” si ritrova nel salire veloce, per libera volontà, ancora di tre: Virgilio, Stazio e Dante. Quello che nel sonetto è “il motivo sentimentale principe del dolce stile in quanto ‘scuola’, cioè a dire la necessità corale dell’amicizia, che non può scompagnarsi dall’amore cortese” (Contini) si trasforma nel poema nell’amore fraterno che segna la “renovatio” moderna; il desiderio di evasione diventa anelito a una compiuta libertà dell’arbitrio e della parola che liberamente è “quasi come per sé stessa mossa”. La memoria del cominciare delle “nove rime” è ben presente nella zona del poema dove più che in ogni altra prevalgono i temi del sesto stato dell’Olivi, che è stato di novità. È questo solo un modo di interpretare la propria poetica a tanti anni di distanza, oppure anche quell’inizio, apparentemente spontaneo, mischiò le sue acque con il grande fiume della teologia dell’Olivi, lettore della materia a Santa Croce nei tre anni che precedettero la morte di Beatrice?
[LSA, cap. X, Ap 10, 8-9 (IIIa visio, VIa tuba)] Sequitur (Ap 10, 8): “Et vox”, supple facta est, vel sonuit secundum Ricardum, “quam audivi de celo iterum loquentem mecum et dicentem: Vade, et accipe librum apertum de manu angeli stantis supra mare et super terram. (Ap 10, 9) Et abii ad angelum dicens ei ut daret michi librum”. Secundum Ioachim, iste ordo qui signatur in Iohanne auditurus est hanc vocem “de celo”, id est de scriptura sacra, quia si nusquam esset alia vox in scriptura sacra que hoc preciperet, sufficeret ista vox que de isto celo magno, id est de hoc libro aperto, descendit, et etiam illa que hoc ipsum dicit in Ezechiele, scilicet capitulo tertio (Ez 3, 1ss.). Ibit autem ordo iste ad angelum cum agnita veritate, de nuntiis veritatis Dei reverenter assentiet eis*.
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Purg. I, 43-45, 49-54, 91-93Chi v’ha guidati, o che vi fu lucerna,
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Inf. X, 58-63piangendo disse: “Se per questo cieco
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2.2. Libero volere, libero salire, libero parlare
Dante, alter Iohannes, si fregia anche delle prerogative dell’angelo che sale da oriente (“ascendens ab ortu solis”) all’apertura del sesto sigillo (Ap 7, 2), che Olivi identifica in Francesco. Tema così importante, che lo si ritrova già nei primi versi del poema. Segna la salita di Dante al “dilettoso monte”, “quasi al cominciar de l’erta”, lì dove la lonza gli impedisce il cammino: l’ora è il “principio del mattino” («“ascendens ab ortu solis”, id est ab illa vita quam Christus sol mundi in suo “ortu”, id est in primo suo adventu, attulit nobis. Nam decem umbratiles lineas orologii Acaz Christus in Francisco reascendit usque ad illud mane in quo Christus est ortus [4 Rg 20, 9-11; Is 38, 8]»); il sole sorge (“montava ’n sù” rende “ascendens”) nel segno primaverile dell’Ariete, costellazione che si riteneva occupasse anche al momento della creazione, “quando l’amor divino / mosse di prima quelle cose belle” (Inf. I, 37-40).
Secondo Gioacchino da Fiore, l’angelo designa un momento di gaudio e di quiete tra due tribolazioni, cioè tra la caduta di Babylon e il combattimento della bestia e dei re della terra contro colui che siede sul cavallo bianco (Ap 19, 19). San Pietro, dice l’abate calabrese citato da Olivi ad Ap 7, 2, ha trascorso una notte senza pescare, e ciò indica la prima tribolazione: Dante ha trascorso nella selva oscura una notte d’angoscia, “la notte ch’i’ passai con tanta pieta” (Inf. I, 21). Al mattino Pietro celebra il banchetto dopo la pesca miracolosa, e ciò indica il gaudio che segue la notte: arrivato al termine di “quella valle / che m’avea di paura il cor compunto”, il poeta quieta la sua paura nel vedere le spalle del colle “vestite già de’ raggi del pianeta / che mena dritto altrui per ogne calle” (vv. 13-21); riposa “un poco il corpo lasso” prima di riprendere la via (v. 28); di fronte alla prima fiera è animato da buona speranza a motivo de “l’ora del tempo e la dolce stagione” (vv. 41-43). Consumato il banchetto, Pietro sente Cristo che gli dice “seguimi”, cioè verso la croce (cf. Jo 21, 3-19: «“Sequere me”, scilicet ad crucem»), e questo indica la seconda tribolazione, perché incomincia subito il combattimento della bestia e dei re della terra contro Cristo: Dante, impedito definitivamente dalla lupa (v. 94: “questa bestia, per la qual tu gride”) nella salita del “dilettoso monte”, viene invitato da Virgilio, nel frattempo apparsogli nella “diserta piaggia”, a seguirlo – “Ond’ io per lo tuo me’ penso e discerno / che tu mi segui, e io sarò tua guida (l’angelo, nell’interpretazione di Gioacchino da Fiore, è “novus dux”), / e trarrotti di qui per loco etterno; / ove udirai le disperate strida, / vedrai li antichi spiriti dolenti, / ch’a la seconda morte ciascun grida” (vv. 112-117) -, un viaggio che il poeta accetta e al quale si prepara “a sostener la guerra / sì del cammino e sì de la pietate, / che ritrarrà la mente che non erra”, cioè nella vera ‘scrittura’, come fu quella di “Livïo … che non erra” (Inf. II, 3-6, 8; cfr. Inf. XXVIII, 12).
Il motivo del seguire Cristo da parte di Pietro è rinfacciato dallo stesso Dante al simoniaco Niccolò III (Inf. XIX, 90-93): «Deh, or mi dì: quanto tesoro volle / Nostro Segnore in prima da san Pietro / ch’ei ponesse le chiavi in sua balìa? / Certo non chiese se non “Viemmi retro”». Come si è mostrato altrove, Dante sta di fronte al papa simoniaco come sta un dottore della Chiesa, che possiede la verità evangelica scritta e imposta da Cristo, di fronte a un eresiarca; parla a un pontefice romano in quanto depositario di quella “prima et vera lingua et confessio fidei” che avrebbe dovuto essere custodita “in domo Petri”.
L’angelo del sesto sigillo, ascendendo (Ap 7, 2), rimuove un impedimento (Ap 7, 1). Questo è frapposto dai quattro angeli che stanno sopra i quattro angoli della terra: designano i demoni i quali, dopo il giudizio e lo sterminio della Chiesa carnale intervenuti con il terremoto nell’apertura del sigillo (Ap 6, 12-17), cercano di impedire ai quattro venti di soffiare, cioè di impedire la predicazione della fede, la conversione delle genti e anche il conservarsi dei fedeli nella fede già accolta. Possono anche designare gli angeli buoni, che trattengono il soffiare della grazia per esigenza della giustizia divina. In quanto demoni, prestano panno a Caronte, Minosse, Cerbero, Pluto.
Rimosso l’impedimento, il segno è posto sulla fronte, non vergognosa ma liberamente magnanima, degli eletti amici di Dio, difensori della fede fino al martirio da lui conosciuti per nome e ascritti alla più alta milizia dei baroni, dei decurioni, dei cavalieri che si distingue da quella volgare dei fanti (Ap 7, 3-4). Questa esegesi, nella quale il sesto stato corrisponde agli ultimi sei anni della costruzione del Tempio dopo la cattività in Babilonia, è una sacra sinfonia militare i cui temi trascorrono in più luoghi: dalla “signatio” poetica di Dante, amico di Beatrice e “sesto tra cotanto senno” nella schiera dei sommi poeti del Limbo, alla “signatio” apostolica nelle virtù teologali di fronte a Pietro, Giacomo e Giovanni; dall’impossibile amicizia con Dio di Francesca e Paolo (anch’essi in una schiera) alle famiglie fiorentine, menzionate da Cacciaguida, che portano la “bella insegna” del marchese Ugo di Toscana, assunte a una milizia più alta rispetto a Giano della Bella, l’autore dei famosi Ordinamenti di giustizia (1293) anch’egli di essa insignito (la quale “fascia col fregio”), ma che oggi si raduna col popolo, corrispondente alla volgare e pedestre milizia che viene dopo i segnati. Questi eletti ‘sesti’ amati da Dio sono lo sviluppo sacro di coloro (De vulgari eloquentia, II, iv, 10-11) che Virgilio, nel sesto dell’Eneide, definisce “Dei dilectos”, i poeti tragici innalzati al cielo per ardente virtù (Aen., VI, 129-131: “Pauci, quos aequus amavit / Iuppiter”), designati dall’ “astripeta aquila”. Ecco che, nei primi canti del poema, non poche parole-chiave rinviano anche ad Ap 7, 3-4. Il tema dell’amicizia divina contrapposto alla volgare milizia è presente nelle accorate parole con cui Lucia invita Beatrice a soccorrere Dante, “ch’uscì per te de la volgare schiera” dei poeti (Inf. II, 103-105), che la stessa Beatrice, rivolgendosi a Virgilio, definisce “l’amico mio, e non de la ventura” (ibid., 61; da notare, nello stesso canto [ibid., 44-45], il contrasto tra il “magnanimo” Virgilio e la “viltade” da cui è offesa l’anima di Dante). Virgilio che, mosso da Beatrice, rimuove l’ “impedimento” frapposto dalla lupa a Dante nel salire il “dilettoso monte”, svolge in qualche modo la funzione dell’angelo del sesto sigillo. Il tema della “signatio” sulla fronte degli eletti e amici di Dio, difensori pubblici della fede, si mostra anche nel primo canto del poema, nella “vergognosa fronte” con cui Dante risponde a Virgilio (Inf. I, 81; cfr. III, 79). Anche l’espressione di Virgilio al v. 129 – “oh felice colui cu’ ivi elegge!” – fa parte del gruppo tematico.
Una delle norme che regolano il rapporto tra Commedia e Lectura super Apocalipsim consiste nel fatto che più luoghi della Lectura possono essere collazionati tra loro, secondo un procedimento analogico tipico delle distinctiones ad uso dei predicatori. La scelta non è arbitraria. Vi predispone lo stesso testo scritturale, poiché l’Apocalisse contiene espressioni, come Leitmotive, che ritornano più volte. È determinata da parole-chiave che collegano i passi da collazionare. È suggerita dallo stesso Olivi, nel prologo, per una migliore intelligenza del testo. L’introduzione di categorie estranee di per sé al testo sacro – la divisione della storia della Chiesa in sette ‘stati’, ciascuno dei quali raccolga l’esegesi dei singoli elementi settenari in cui sono divise le visioni apocalittiche – fa sì che un commento sui ventidue capitoli dell’Apocalisse si trasformi in una teologia della storia. La mutua collatio di parti della Lectura arricchisce il significato legato alle parole e consente uno sviluppo tematico.
In tal modo l’esegesi relativa all’angelo del sesto sigillo (seconda visione, Ap 7, 1-4) può essere collazionata con altri punti relativi al sesto stato, ad esempio con l’esegesi riferita a Filadelfia, la sesta delle sette chiese d’Asia (prima visione, Ap 3, 7-13).
A Filadelfia Cristo si propone come vero nelle promesse e dice: “Ho aperto davanti a te una porta che nessuno può chiudere” (Ap 3, 7-8). La porta è aperta allorché l’intelletto è illuminato e reso acuto in modo da penetrare e scrutare con rapidità e facilità i misteri delle Scritture e quando alla predicazione viene data efficacia spirituale per penetrare nei cuori degli ascoltatori, cosicché quelli che sono increduli vengano aperti per intervento divino alla fede e alla legge di Cristo che viene predicata. La porta aperta significa anche che lo spirito di chi parla sente l’ordine, che proviene dalla volontà (dell’interno dettatore, che è una con la propria), di aprire il cuore delle genti; sente in tal modo anche l’assistenza della Grazia. Si tratta di un’apertura al parlare che avviene con tanta luce ed evidenza da non poter essere oscurata da alcuna ragione o astuzia e neanche da qualsivoglia testimone scritturale, designata dall’angelo che, al suono della sesta tromba, ha la faccia come il sole e tiene il libro aperto che nessuno può chiudere (Ap 10, 2; terza visione). Nel sesto stato ci si dedicherà più al gusto senza misura della contemplazione che alle forti opere della vita attiva, e per questo non sarà data a questo stato tanta forza e virtù per forti opere, come è stata data agli stati precedenti, e in particolare agli anacoreti del quarto (i quali, pur essendo alti contemplativi, non per questo furono meno attivi). La “porta aperta” della contemplazione e della predicazione data al sesto stato supplisce al difetto di forza, alla “modica virtù”. Nel sesto non si ritrovano le forti opere corporali che gli uomini sensuali ammirano, stimano e, da esse mossi, sono tratti a imitare e desiderare più di quelle intellettuali e interne. Non avvengono miracoli, ad eccezione dei segni concessi ai due testimoni Enoch ed Elia (Ap 11, 5-6); i segni e i prodigi sono concessi infatti all’Anticristo e ai suoi seguaci. La conversione attraverso stupendi e innumerevoli miracoli ha caratterizzato il primo tempo cristiano; la nuova conversione finale del mondo dovrà avvenire tramite la luce della sapienza divina e delle Scritture, alla cui contemplazione il sesto stato deve venire elevato per potervi entrare. Coopererà a questo ingresso tutta l’illuminazione degli stati precedenti e l’universale fama di Cristo, della sua fede e della sua Chiesa diffusa per il mondo a partire dal primo stato fino ai tempi odierni.
A Dante, che con animo offeso da viltà ha mutato il primo proposito di seguirlo nel viaggio, Virgilio spiega le cause del suo venire per levarlo dalla lupa che gli impedisce la salita del “dilettoso monte”. Il racconto del poeta pagano sulle “tre donne benedette” che curan di lui “ne la corte del cielo” (gli amici di Dio sono menzionati nella sua curia: Ap 7, 3-4) promette al suo discepolo molto bene (alla sesta chiesa Cristo “multa et singularia sibi promittit”: Ap 3, 7), tanto che la “virtù stanca” di Dante (la “modica virtus” del sesto vescovo) si apre, “quali fioretti dal notturno gelo / chinati e chiusi, poi che ’l sol li ’mbianca, / si drizzan tutti aperti in loro stelo” (“loco huius apertum est sibi hostium contemplationis et predicationis”: Ap 3, 7-8); la “viltà” si muta in “ardire e franchezza” (come avviene ai segnati sulla fronte, all’apertura del sesto sigillo: Ap 7, 3-4); è “il cor disposto / sì al venir con le parole tue … ch’un sol volere è d’ambedue” (“cum spiritus predicantium sentit ordinationem et assistentiam Christi ad aperiendum corda gentium per sermonem ipsius. Nam predicta Christi ordinatio seu voluntas est primum hostium seu prima apertio sue voluntatis et gratie dande auditoribus et sermoni predicantis”: Ap 3, 8). Il poeta ringrazia Virgilio per aver ubbidito subito alle “vere parole” (alla sesta chiesa Cristo si propone “ut verum in promissis”: Ap 3, 7) porte da Beatrice (Inf. II, 121-135). I dubbi di Dante riguardavano la propria virtù (“Poeta che mi guidi, / guarda la mia virtù s’ell’ è possente”, ibid., 10-12), perché “ad immortale secolo” andarono solo Enea e san Paolo. Il primo a causa dell’ “alto effetto” che doveva uscire dalla sua vittoria: il “victoriosus effectus” è il conseguimento della quarta vittoria, degli operosi anacoreti (Ap 2, 26-28). Il secondo per recare conforto alla fede. Dante non è Enea né Paolo, non ha virtù per opere forti, non vive in un momento in cui la conversione si opera per i miracoli. Ha scarsa virtù, ma in compenso la porta gli è aperta. Glielo ripeterà Cacciaguida: “sicut tibi cui / bis unquam celi ianüa reclusa? ” (Par. XV, 29-30). A lui spetta di entrare per essere elevato alla luce della sapienza divina. Ma perché la sua vista entri “per lo raggio / de l’alta luce che da sé è vera” (Par. XXXIII, 52-54) dovrà ripercorrere tutta la storia umana degli stati precedenti che a quella visione deve cooperare. Come all’ingresso del sesto stato coopera tutta l’illuminazione degli stati precedenti e l’universale fama della fede di Cristo, così Beatrice si rivolge a Virgilio: “O anima cortese mantoana, / di cui la fama ancor nel mondo dura, / e durerà quanto ’l mondo lontana” (Inf. II, 58-60 – “Cooperabiturque ad hoc tota precedens illuminatio priorum statuum, et universalis fama Christi et sue fidei et sue ecclesie per totum orbem diffusa a tempore prime conversionis mundi continue usque ad tempora ista”).
Così, con parole-chiave, i temi principali dell’esegesi del sesto stato sono introdotti fin nei primi due canti del poema. In seguito verranno variamente appropriati. Quelli relativi all’angelo del sesto sigillo, che sale da oriente, li si ritrova (sempre in collazione con altri punti simmetrici o analogici), fra tanti luoghi, con Beatrice nel suo apparire nell’Eden (cfr. Il sesto sigillo, 2c), o infine dove sarebbe più naturale trovarli, nell’elogio di Francesco tessuto da Tommaso d’Aquino nel cielo del Sole (cfr. ibid., 2d.1).
JOACHIM VON FIORE, Concordia Novi ac Veteris Testamenti. Herausgegeben von A. Patschovsky, 2017 (Monumenta Germaniae Historica. Quellen zur Geistesgeschichte des Mittelalters, 28 Band), Teil 2 (lib. I-IV), Teil 3 (lib. V).GIOACCHINO DA FIORE, Expositio in Apocalypsim, in Edibus Francisci Bindoni ac Maphei Pasini, Venetiis 1527 (rist. an. Minerva, Frankfurt a. M. 1964.RICCARDO DI SAN VITTORE, In Apocalypsim libri septem, PL 196, coll. 683-888 (= In Ap). |
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[LSA, cap. III, Ap 3, 7-8 (Ia visio, VIa ecclesia)] Quia etiam multa et singularia sibi promittit, ideo proponit se ei ut verum in promissis, cum dicit “et verus”. […]
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[LSA, cap. VII, Ap 7, 1-4 (IIa visio, apertio VIi sigilli)] “Post hec vidi” et cetera (Ap 7, 1). Hic ostenditur quomodo, post prefatum iudicium et exterminium carnalis ecclesie, nitentur demones et homines impii impedire predicationem fidei et conversionem gentium ad fidem et etiam conservationem fidelium in fide iam suscepta. Unde ait: “Post hec”, id est post predictum iudicium, “vidi quattuor angelos stantes super quattuor angulos terre”. […] Possunt etiam per hoc intelligi angeli boni ex Dei iustitia retinentes influxum gratiarum, et permittendo hoc per demones et homines impios impediri. “Tenentes quattuor ventos terre” id est, secundum Ricardum, impedientes doctrinam quattuor evangeliorum, quibus terra a predicationibus perflatur*. Vel secundum Ioachim, quattuor venti sunt quattuor intelligentie spiritales, quarum doctrina consuevit terra fecundari1. Item per hos quattuor ventos intelliguntur omnes spirationes Spiritus Sancti, secundum illud Ezechielis XXXVII°: “A quattuor ventis veni, spiritus, et insuffla super interfectos istos et reviviscant” (Ez 37, 9).
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[→] Sequitur: “habentem signum Dei vivi”, tam scilicet in stigmatibus sibi a Christo impressis quam in tota vita interiori et exteriori, et in statu professionis et in concordia temporis et officii singulariter Christo assimilatum et eius similitudini consignatum. […] Signatio hec (Ap 7, 3) fit per administrationem fidei et caritatis et per assumptionem ac professionem sacramentorum Christi distinctivam fidelium ab infidelibus. In hac etiam signatione includitur fides et devotio ad Christi passionem adorandam et imitandam et exaltandam. Fit autem “in frontibus”, quando signatis datur constans et magnanimis libertas ad Christi fidem publice confitendam et observandam et predicandam et defendendam. In fronte enim apparet signum audacie et strenuitatis vel formidolositatis et inhertie, et signum gloriationis vel erubescentie. […] Igitur per hunc numerum (Ap 7, 4), prout est certus et diffinitus, designatur singularis dignitas signatorum. Hii enim, qui sub certo nomine et numero et scriptura a regibus ad suam militiam vel curiam aut ad sua grandia vel dona ascribuntur, sunt digniores ceteris, qui absque scriptura et numero ad vulgarem et pedestrem militiam vel familiam eliguntur. Sicut etiam Deus, in signum familiarissime notitie et amicitie, Exodi XXXIII° (Ex 33, 17) dicit Moysi: “Novi te ex nomine”, cum tamen omnes electos suos communiter noverit ut amicos et hoc modo solos reprobos dicatur nescire, sic per hanc specialem et prefixam numerationem et consignationem designatur familiarior signatio et notitia et amicitia apud Deum. |
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Inf. I, 19-21, 28-40, 79-81, 94-96, 112-113, 127-129, 133-136; II, 3-5Allor fu la paura un poco queta,
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Inf. II, 10-12, 43-45, 58-63, 94-96, 103-105, 121-140Io cominciai: “Poeta che mi guidi,
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Il confronto sinottico tra Ap 3, 7-8 (prima visione: sesta chiesa) e Ap 7, 1-4 (seconda visione: sesto sigillo) viene seguito sistematicamente nei canti IX-XXVII del Purgatorio, cioè dall’apertura della “porta di san Pietro” fino all’Eden.
L’esegesi dell’angelo del sesto sigillo sviluppa la seguenti tematiche: impedimento alla predicazione e alla conversione delle genti da parte degli angeli buoni che trattengono l’influsso della grazia in quanto mossi dalla giustizia divina (“angeli boni ex Dei iustitia retinentes influxum gratiarum”; Ap 7, 1); rimozione dell’impedimento (“prohibitio predicti impedimenti”; Ap 7, 2) col mattutino ascendere, quasi ritorno ai primordi, dell’angelo da oriente («“ascendens ab ortu solis”, id est ab illa vita quam Christus sol mundi in suo “ortu”, id est in primo suo adventu, attulit nobis. … reascendit usque ad illud mane in quo Christus est ortus»), al cominciare del nuovo giorno che apre la terza età dello Spirito, coincidente con l’apertura del sesto e settimo sigillo (“predicabit certis indiciis veri solis adventum … circa initium solaris diei sexte et septime apertionis seu tertii generalis status mundi”); salita veloce (“ascendet autem non gressu pedum”); libero salire di un nuovo duce (“ascendet universalis pontifex nove Iherusalem quasi novus dux de Babilone … quia dabitur ei plena libertas ad innovandum christianam religionem et predicandum verbum Dei, iam incipiente regnare Domino exercituum super omnem terram”); “signatio” sulla fronte dei magnanimi ai quali è data libertà di predicare e difendere la fede («Fit autem “in frontibus”, quando signatis datur constans et magnanimis libertas ad Christi fidem publice confitendam et observandam et predicandam et defendendam. In fronte enim apparet signum audacie et strenuitatis vel formidolositatis et inhertie, et signum gloriationis vel erubescentie»; Ap 7, 3-4) e che, assunti a più alta milizia (“specialis assumptio ipsorum ad professionem perfectionis evangelice et altioris militie christiane et ad maiorem configurationem et transformationem ipsorum in Christum crucifixum”), sono più degni degli altri (“singularis dignitas signatorum … sunt digniores ceteris”), quasi cavalieri e baroni rispetto ai fanti (“qui absque scriptura et numero ad vulgarem et pedestrem militiam vel familiam eliguntur”), eletti, con nome (“sub certo nomine”) e notizia fra gli amici di Dio (“familiarior signatio et notitia et amicitia apud Deum”). Tutte queste tematiche, proprie della salita dell’angelo del sesto sigillo, sono applicabili ai discepoli spirituali di Francesco (“per ipsum [angelum] intelligitur cetus discipulorum eius in tertio et quarto initio sexte apertionis futurus et consimiliter ab ortu solis ascensurus”).
L’esegesi dell’istruzione data a Filadelfia, la sesta chiesa (Ap 3, 7-8), sviluppa la seguenti tematiche: al vescovo (e alla sua chiesa) non sono date forza e virtù per forti opere corporali («non dabitur ei tantum robur virtutis ad fortia opera … sanctis sexti status dabitur modica virtus ad signa seu miracula facienda … “quia modicam habes virtutem”, scilicet ad miracula vel ad corporalia fortis active opera, que sensuales homines plus admirantur et estimant quam intellectualia et interna»), come è stato dato ad altri stati e in particolare al quarto (che è per eccellenza lo stato delle “res gestae”); in compenso viene data la ‘porta aperta’, cioè l’illuminazione dell’intelletto nel penetrare la Scrittura (“hostium aperitur cum intellectus illuminatur et exacuitur ad scripturarum occulta expedite et faciliter penetranda et videnda”); è porta aperta al parlare (“hostium sermonis ad loquendum misterium Christi”) per dettato interiore sentito dal predicatore che apre i cuori delle genti (“cum spiritus predicantium sentit ordinationem et assistentiam Christi ad aperiendum corda gentium per sermonem ipsius”); l’ordine di Cristo è apertura della volontà (“predicta Christi ordinatio seu voluntas est primum hostium seu prima apertio sue voluntatis et gratie dande auditoribus et sermoni predicantis”); al parlare è data forza spirituale (“cum predicationi datur spiritalis efficacia ad corda audientium penetranda”) per aprire i cuori degli ascoltatori (“cum incredulorum corda divinitus aperiuntur ad credendum et implendum Christi legem et fidem que predicatur eis”); la ‘porta aperta’ con l’illuminazione non può essere chiusa o oscurata da alcuno (“quia sub tanta luce et evidentia fit hec apertio isti et statui sexto per eum designato quod nemo potest eam obscurare per aliquam rationem vel astutiam, nec per aliquod scripture sacre testimonium, nec per quamcumque aliam viam”); il predicatore, che ha sentito l’ordine e al quale è stata aperta la volontà, conserva quanto gli è stato dettato («“Et servasti … verbum meum”, id est doctrinam mee fidei et mee legis»), non nega il nome di Cristo (“Et non negasti nomen meum”). Il sesto stato, del quale è proprio patire e ricevere piuttosto che operare e dare (“potius prefertur eis [aliis statibus] in pati seu recipere quam in agere vel dare”), che è amato come Giovanni da Cristo, piuttosto che amante di Cristo come Pietro (“in contemplativis plus refulget dilectio Christi ad eos, in activis vero plus refulget dilectio eorum ad Christum”), insieme al successivo settimo e ultimo stato con il quale forma la terza età gioachimita, allorché “Spiritus Sanctus exhibebit se ut flammam et fornacem divini amoris”, sperimenta, oltre all’illuminazione dell’intelletto, anche il gusto della verità, come promesso da Cristo in Giovanni 16, 13-14 («non solum simplici intelligentia, sed etiam gustativa et palpativa experientia videbitur omnis veritas sapientie Verbi Dei incarnati et potentie Dei Patris. Christus enim promisit quod “cum venerit ille Spiritus veritatis, docebit vos omnem veritatem” et “ille me clarificabit”»).
Seguendo il confronto sinottico, si noterà la quantità di parole-chiave che formano il tessuto letterale dei versi ma che pure fanno segno di altro, rinviando la memoria del lettore accorto (il quale, cioè, già conosce l’altro testo) alla dottrina contenuta nella Lectura super Apocalipsim dell’Olivi. Perché ciò avvenga è stato spiegato altrove. Il confronto si limita qui principalmente ad Ap 3, 7-8 e 7, 1-4, con l’inserimento di qualche passo sempre riferito al sesto stato: Ap 3, 12 (sesta vittoria: l’ingresso in Cristo); 10, 5-7 (sesta tromba: l’angelo giura la fine del tempo laborioso). Si deve ricordare che quelli proposti sono solo una parte dei temi e delle relative parole-chiave, sia che appartengano al sesto stato sia agli altri stati, intrecciati fra loro per “concurrentia” (cfr. supra). Si noterà altresì come gruppi di terzine numericamente corrispondenti, a diversi stadi della Commedia, contengano parole-chiave che conducono alla medesime pagine esegetiche. Notabile è soprattutto la grande varietà di forme che nei versi assumono i signacula, cioè le parole-chiave che fanno segno dei temi dottrinali presenti nel testo in prosa, dove la forma semantica è per lo più univoca. Il tema ascendens, ad esempio, è variato in ascendere, ir suso, montare, montare in su, salire, salir su, venir suso, venir su.
[Purg. IV, VII, IX]
Tutta la salita della montagna della purgazione avviene sotto il regime dell’angelo del sesto sigillo, che al sorgere del sole va su senza impedimento – “ascendet … non gressu pedum” secondo Gioacchino da Fiore citato da Olivi (Ap 7, 2). I suoi temi sono congiunti con quelli del sesto vescovo il quale, pur avendo scarsa virtù ad opere forti, sente libera e aperta la propria volontà per dettato interiore. Impedimento è dato al salire dalla notturna tenebra – “quella col nonpoder la voglia intriga”, che costringe Virgilio e Dante ad attendere “il novo giorno” nella valletta dei principi (Purg. VII, 49-60, 67-69; ‘attendere’ è tema dell’apertura del sigillo precedente, il quinto). I motivi del sesto angelo si registrano già in precedenza, nella faticosa salita descritta a Purg. IV, 52-57 (cfr. gli stessi temi, in terzine numericamente corrispondenti, a Par. XI).
Ricchissimo di parole-chiave è Purg. IX, il canto dell’apertura della “porta di san Pietro”. Le prerogative dell’angelo del sesto sigillo sono variamente attribuite: d’orïente (aurora); sale (notte); comincia, la mattina, primi (rondinella); suso (Dante rapito dall’aquila). Dante stesso non sale alla porta con i piedi, perché ‘tolto’ da Lucia, la quale sen venne suso. L’ingresso per la porta – già sopra considerato per la presenza di altre parole-chiave – è descritto combinando i temi propri di Filadelfia, la sesta chiesa cui, per apertura della volontà (Dante è tratto sù di buona voglia da Virgilio), è data la porta aperta (una porta, v’apersi, la porta, m’aprisse, la porta, non s’apre, la porta, intrate), alla quale i Giudei sono condotti umilmente convertiti (Ap 2, 1; 3, 7-8 – umilemente) e della sesta vittoria (Ap 3, 12), ingresso in Cristo (intrata aperta).
[Purg. X, XI, XII, XIII, XV, XVII, XVIII]
Passata la porta, dopo la salita al piano del primo girone, Virgilio e Dante si sentono “liberi e aperti” (Purg. X, 17); Omberto Aldobrandesco è “impedito dal sasso / che la cervice mia superba doma” (Purg. XI, 52-54). Oderisi da Gubbio narra di Provenzan Salvani con parole-chiave che rinviano all’esegesi della “signatio” all’apertura del sesto sigillo. Costui, “quando vivea più glorïoso”, messa da parte ogni vergogna, liberamente si piantò a mendicare “nel Campo di Siena” per raccogliere il denaro necessario al riscatto dell’amico prigioniero di Carlo d’Angiò (Purg. XI, 133-138). Se il deporre la viltà per la magnanimità appartiene al Cristo vittorioso che esce “in campo” all’apertura del primo sigillo (Ap 6, 2: “exivit in campum totius orbis non quasi pavidus aut infirmus, sed cum summa magnanimitate et insuperabili virtute”), l’affiggersi “liberamente” appartiene ai segnati che all’apertura del sesto sigillo ricevono il sigillo di Dio sulla fronte, lì dove si mostra il segno dell’audacia e della strenuità o della pusillanimità e dell’inerzia, della gloria o della vergogna (Ap 7, 3: la fronte in questo caso non è citata, ma lo sono i motivi connessi). Lo stesso ‘stare fisso’ è una prerogativa della sesta vittoria (Ap 3, 12). Così il Campo di Siena fu per il Salvani, come per Cristo, luogo di vittoria: l’atto di umiltà, per il quale “si condusse a tremar per ogne vena”, tolse a colui che “fu presuntüoso / a recar Siena tutta a le sue mani” lo stare fuori dei gironi della montagna a purgare anche la negligenza della tardiva conversione.
La descrizione dell’angelo che invia al secondo girone (Purg. XII, 79-93), e la successiva ascesa (ibid., 112-126), mostrano ancora i segni del sesto angelo (libero salire senza i piedi: in suso; agevolemente … si sale; montavam su; ed esser mi parea troppo più lieve; nulla quasi / per me fatica, andando, si riceve), del sesto vescovo (libero parlare: non potea parlarmi chiuso; porta aperta: aperse; sentire la volontà che s’apre: “fier li tuoi piè dal buon voler sì vinti, / che non pur non fatica sentiranno, / ma fia diletto loro esser sù pinti”), della sesta vittoria (s’entra). Ma l’angelo si fregia anche dei temi da Ap 22, 16 (questo dì mai non raggiorna, mattutina stella, mi promise: cfr. Ap 2, 26-28) – 17 (il liberale e gratuito invito dello Spirito di Cristo perché si venga alla cena con desiderio e volontario consenso: Venite! ; cfr. Purg. XIII, 22-27; XVII, 55-63) e da Ap 19, 10/22, 8-9 (la reverenza di Giovanni verso l’angelo).
Al sesto vescovo è data la porta aperta al parlare per ordine dell’interna volontà (Ap 3, 7-8). Fra gli invidiosi, Virgilio è colui che dà l’ordine di parlare (Purg. XIII, 78: Parla). L’antico poeta, voce esteriore, è mosso da Beatrice, voce interiore, e a lei predispone, come la “lux simplicis intelligentie” del Verbo prepara al gusto d’amore dello Spirito di Cristo (cfr. Ap 2, 7 e nota). Quasi alla fine del viaggio sarà la Grazia ad aprire la bocca al poeta (Par. XXIV, 118-120). Sapia senese parla con Dante variando i temi della “signatio” degli amici di Dio eletti, noti e nominati (“fammiti conto o per luogo o per nome … spirito eletto …che gran segno è che Dio t’ami ”; Purg. XIII, 105, 143, 146).
Nel terzo girone, degli iracondi, gli esempi di mansuetudine si presentano come visioni estatiche (le voci allegoriche vengono dal terzo cielo, Purg. XV, 85-117), al termine delle quali Virgilio richiama alla realtà un Dante piegato dal sonno (come il fervido zelo del leone ruggente di Ap 10, 3 richiama dal sonno alla vita della fede, Purg. XV, 118-138). Virgilio spiega anche (ibid., 130-132) che le visioni avute servono a rendere non più scusabile il non aprire il cuore alle acque della pace (tema dell’apertura del libro che toglie ogni parvenza di scusa, da Ap 10, 3, combinato con l’apertura del cuore operata dalla predicazione del vescovo di Filadelfia, da Ap 3, 8).
Il sesto vescovo (la cui parte è variamente attribuita) ha “modica virtus … ad corporalia fortis active opera”: il poeta, nonostante la “voglia tanto pronta” nel guardare l’angelo, sente nel salire dal terzo al quarto girone mancargli virtù: “così la mia virtù quivi mancava … ‘O virtù mia, perché sì ti dilegue?’ … ché mi sentiva / la possa de le gambe posta in triegue”; gli è data in compenso la porta aperta al voler parlare: “Se i piè si stanno, non stea tuo sermone”, dice a Virgilio, e quello risponde con il tema della ‘porta aperta’: “Ma perché più aperto intendi ancora, / volgi la mente a me”, e poi pone ancora ardire di parlare accorgendosi “del timido voler che non s’apriva”. Sono versi che concernono la divisione morale della montagna e la dottrina d’amore, ‘centro’ del poema (Purg. XVII, 46-54, 73-90; XVIII, 7-9).
[Purg. XXI-XXIV]
Il terremoto che accompagna la liberazione di Stazio dal purgatorio (Purg. XX, 124-141) corrisponde al terremoto in coincidenza con l’apertura del sesto sigillo (Ap 6, 12). Stazio stesso è rimasto nel girone degli avari e dei prodighi più di cinquecento anni, periodo che coincide con la durata del quinto stato, come indicata nel Notabile XII del prologo della Lectura. In quel girone i temi – assolutamente prevalenti – del quinto stato hanno segnato la maledizione dell’ “antica lupa” e della “mala pianta” capetingia. Il terremoto che apre il sesto sigillo è interpretato dall’Olivi sia come “immutatio status in melius” (ad Ap 11, 19; la “miglior soglia” di cui dice Stazio) sia come la caduta del regno di Francia ad opera di un discendente dal seme redivivo di Federico II (ad Ap 13, 18).
Compiutosi il terremoto nel quinto girone del purgatorio, i due poeti riprendono il cammino e con loro si congiunge Stazio. Virgilio, senza rivelarsi, chiede al nuovo venuto (che pure ancora non si nomina) il motivo del terremoto e del Gloria avvertiti poco prima. Stazio spiega che la montagna trema – e il canto accompagna il terremoto – quando un’anima purgante si sente “monda … per salir sù”. Solo la volontà è prova della compiuta purificazione, perché l’anima, che prima avrebbe voluto salire al cielo ma era impedita dalla giustizia divina, ora si sente libera nel suo voler “mutar convento” (Purg. XXI, 58-72). Stazio parla collazionando i temi della sesta chiesa (Ap 3, 7-8) con quelli del sesto sigillo (Ap 7, 1-2). Il sentire interiore e la volontà sono temi propri della chiesa di Filadelfia (“sentit ordinationem … predicta Christi ordinatio seu voluntas”), l’ascendere in modo libero e privo di impedimenti è proprio dell’angelo del sesto sigillo (“Ascendet autem non gressu pedum, sed quia dabitur ei plena libertas ad innovandum christianam religionem et predicandum verbum Dei”). Il sesto angelo rimuove l’impedimento ai quattro venti di soffiare, posto dai quattro angeli stanti ai quattro angoli della terra. Una delle interpretazioni proposte dall’Olivi (che riprende Gioacchino da Fiore) è che la giustizia divina, tramite questi angeli, impedisce ai quattro venti di soffiare, ossia trattiene l’influsso della grazia, oppure impedisce l’intelligenza spirituale o lo spirare dei quattro venti dello Spirito. L’ascesa del sesto angelo rimuove l’impedimento, perché a lui è data libertà di innovare la religione cristiana e di predicare il verbo e quindi di aprire l’età dello Spirito. Così Stazio, nel sentire “libera volontà di miglior soglia”, ha potuto rimuovere l’impedimento che la giustizia divina ha posto, a causa del peccare, nella sua volontà condizionata di espiare la colpa.
L’apertura della porta è, secondo Olivi, apertura interiore, un aprirsi della volontà che avviene allorché si sente nell’animo l’ordine dato da Cristo perché si parli di lui. Qualcosa di simile dovette provare il giovane poeta, il quale volendo lodare la sua “gentilissima”, restò “alquanti dì, con disiderio di dire e con paura di cominciare”, finché un giorno gli “giunse tanta volontà di dire” che la sua lingua “parlò quasi come per sé stessa mossa e disse: ‘Donne ch’avete intellecto d’amore’ ” (Vita Nova, 10. 11-15). Una situazione analoga si verifica nell’incontro tra Stazio e Virgilio (Purg. XXI, 103-129). Dante, di fronte a Stazio che dichiara essere disposto a restare un anno più del dovuto nel luogo di purgazione in cambio dell’essere vissuto di là quando visse Virgilio, vorrebbe ubbidire a Virgilio che gli fa cenno di tacere, ma la sua virtù è scarsa (“ma non può tutto la virtù che vuole”: la “modica virtus” data agli uomini del sesto stato), e sorride “come l’uom ch’ammicca”. Interrogato da Stazio, resta nel dubbio se tacere o dire (il dubbio è tema proprio degli ultimi tempi del quinto stato), finché il maestro gli ordina di parlare e di dire che colui che lo guida in alto è quel Virgilio dal quale Stazio ha tratto forza a cantare degli uomini e degli dèi. Alla volontà di salire al cielo, sentita da Stazio una volta terminato il proprio periodo di purgatorio, fa dunque seguito la volontà di dire, sentita da Dante.
Non mancano, nel duetto tra Stazio e Virgilio, parole-chiave che rinviano alla “signatio” (la rima segni / degni: Purg. XXI, 20, 22, versi per altro aspetto già considerati). Tra Virgilio e Stazio si sviluppa quell’ “amor fratris” che è nella radice stessa del nome di Filadelfia, la sesta chiesa alla quale è data scarsa virtù per grandi azioni (proprie invece del quarto stato), ma in compenso le è aperta la porta dall’interno dettatore (secondo un’altra interpretazione, Filadelfia significa “salvans hereditatem”, depositaria del seme evangelico; cfr. la relativa semantica, combinata con Ap 19, 11.16, appropriata a Francesco e a Domenico). Allorché Dante, libero di parlare come il vescovo della sesta chiesa, rivela che la sua guida è proprio Virgilio, Stazio si inchina ad abbracciare i piedi del poeta dell’Eneide, ma questi lo vieta – “Frate, non far …” –, e allora Stazio si rialza spiegando che è stata “la quantitate … de l’amor ch’a te mi scalda” ad avergli fatto dimenticare la propria vanità di ombra non corporea (Purg. XXI, 130-136). Nel chinarsi dell’uno ad abbracciare i piedi e nell’impedirlo da parte dell’altro, fa da contrappunto il tema della beata tenzone dell’umiltà evangelica tra i discepoli che riveriscono i maestri e questi che lo proibiscono (Ap 22, 8-9). L’inchinarsi di Stazio di fronte a colui che fece “come quei che va di notte, / che porta il lume dietro e sé non giova, / ma dopo sé fa le persone dotte” (Purg. XXII, 67-69) è l’umiliarsi del sesto stato dinanzi agli stati precedenti, la sapienza dei quali si riassume tutta in Virgilio, che coi suoi versi ha levato il coperchio che nascondeva la fede e reso poeta e cristiano il “tolosano” cantore di Tebe e del grande Achille. Stazio, che è caduto in via con la “seconda soma”, non completando l’Achilleide (Purg. XXI, 93), che dall’Eneide ha succhiato il latte del canto epico (la forza data al quarto stato), ha anch’egli avuto scarsa virtù per forti opere ma ha trovato la porta aperta, illuminato “prima appresso Dio” grazie ai “buccolici carmi” che cantano l’età dell’oro, versi che Stazio ripete con parole che fanno segno della palingenesi operante nel sesto stato della Chiesa (Purg. XXII, 70-72).
Come negli attivi anacoreti del quarto stato rifulse l’amore verso Cristo, così nei contemplativi del sesto rifulge il loro essere diletti da Cristo, non diversamente da quel che si dice di Pietro, che amò Cristo, e di Giovanni, che fu prediletto da Cristo. In tal modo prerogativa del sesto è di essere disposto a ricevere e a patire, e in ciò si differenzia dagli stati precedenti, e soprattutto dal quarto, disposti a fare e a dare (Ap 3, 7). Così si può dire di Stazio, il quale ha amato Virgilio, ed è stato poi da questi amato (dopo che Giovenale, arrivato nel Limbo, gli ha reso noto l’affetto: Purg. XXII, 13-18), o di Forese che molto amò la sua Nella, diletta da Dio (Purg. XXIII, 91-93; è questo tema che si travasa nell’amore di Carlo Martello verso il poeta – “dilectus a Christo”, per quanto fosse stato anch’egli attivo “Assai m’amasti” – che l’angioino avrebbe portato fino ai frutti se fosse vissuto più a lungo [Par. VIII, 55-57]). Nel sesto stato prevale il vincolo dell’amicizia, e tale è il rapporto tra Virgilio e Stazio (“e come amico mi perdona … e come amico omai meco ragiona”: Purg. XXII, 19, 21; cfr., a Purg. XXVI, 32, 37, il “basciarsi” con “accoglienza amica” dei lussuriosi nella fiamma del settimo girone).
Dopo l’incontro con Stazio, nel passaggio dal quinto al sesto girone, l’andar su, fino all’Eden, è veloce e ‘libero’ come il parlare: “e parte andavam forte … sanz’alcun labore / seguiva in sù li spiriti veloci … liberi da saliri e da pareti” (Purg. XXI, 19; XXII, 8-9, 117); Virgilio e Stazio “parlavan sìe, / che l’andar mi facean di nullo costo” (Purg. XXIII, 7-9): l’angelo del sesto sigillo sale senza procedere con i piedi (Ap 7, 2). Sale “iam incipiente regnare Domino exercituum super omnem terram”, motivo che Virgilio, parlando con Stazio, appropria in parte a Dante (Purg. XXI, 24: “ben vedrai che coi buon convien ch’e’ regni”) e che poi Stazio stesso proietta più diffusamente sui suoi tempi già cristianizzati ai quali il sesto stato – i tempi moderni – si congiunge circolarmente, quasi la Chiesa fosse una sfera (Purg. XXII, 76-78: “Già era ’l mondo tutto quanto pregno / de la vera credenza, seminata / per li messaggi de l’etterno regno”).
Dopo il terremoto e l’incontro con Stazio, nel girone dei golosi – il sesto – trova luogo l’incontro con Bonagiunta da Lucca, il quale chiede a Dante se egli sia “colui che fore / trasse le nove rime, cominciando / ‘Donne ch’avete intelletto d’amore’ ” (Purg. XXIV, 49-51). Quel momento decisivo, preso in sé, è precedente all’incontro del poeta fiorentino con la Lectura super Apocalipsim, che poté essere conosciuta solo a partire dal 1305 (l’anno in cui Ubertino da Casale scriveva a La Verna l’Arbor vitae utilizzando largamente il commento apocalittico oliviano). Ma nella Commedia il trarre fuori le nuove rime viene fatto coincidere con la novità rappresentata dal sesto stato. Alla domanda del lucchese Dante risponde: “I’ mi son un che, quando / Amor mi spira, noto, e a quel modo / ch’e’ ditta dentro vo significando” (ibid., 52-54). Il ‘dettare’- nell’esegesi di Ap 5, 12, dove tutte le creature lodano, tra altri attributi, la “fortitudo” di Colui che siede sul trono e dell’Agnello – indica la forza virtuosa e prepotente con cui si esegue l’ordine dato dalla somma sapienza divina, quella forza che manca alla sesta chiesa, cui è data una “modica virtus”, ma ha in compenso la porta aperta, sente cioè l’ordine di dire. Il poeta che nota i dettami d’Amore coincide così con colui che serba il verbo di Cristo (Ap 3, 8), cioè la dottrina della sua fede e della sua legge. Tra i golosi rinsecchiti nella pelle per la fame e la sete – il loro “difetto di carne” sembra accordarsi con la “modica virtus” data alla sesta chiesa, che non rende adatti a forti opere -, Bonagiunta, una volta che Dante gli ha esposto il proprio manifesto poetico, dichiara di essere finalmente in grado di vedere “il nodo / che ’l Notaro e Guittone e me ritenne / di qua dal dolce stil novo ch’i’ odo” (ibid., 55-57), impedendo loro di varcare il limite superato dalle “nove rime”, proprio come Stazio non ha potuto prima salire a “miglior soglia”. L’impedimento è stato rimosso perché ora “le vostre penne / di retro al dittator sen vanno strette, / che de le nostre certo non avvenne” (ibid., 58-60), spiegazione che traspone nei canoni poetici la vita cristiforme, il rendersi simili a Cristo dettatore interiore, il seguirlo fedelmente. Trarre rime è aprire una porta che nessuno può chiudere perché la chiave è girata dal poeta per virtù del dettatore. L’apertura avviene con tanta luce ed evidenza che nessuno la può oscurare: “Tu lasci tal vestigio, / per quel ch’i’ odo, in me, e tanto chiaro, / che Letè nol può tòrre né far bigio”, come dirà Guinizzelli a Dante nel girone successivo (Purg. XXVI, 106-108: notabile è anche Arnaut, che “cominciò liberamente a dire”, v. 139). L’ordine interiore dato da Cristo ai predicatori della sesta Chiesa concorda con il fondamento della poetica dantesca.
Nel sesto girone del purgatorio i temi della “signatio” (Ap 7, 3-4) sono intensi. Insistente è il motivo del notare e del nominare. I ‘segnati’ sono ascritti alla milizia “sub certo nomine et numero et scriptura”, ad essi spetta una “familiarior signatio et notitia et amicitia apud Deum”; nel girone dei golosi purganti “non si vieta / di nominar ciascun”, così Forese “molti altri mi nomò ad uno ad uno; / e del nomar parean tutti contenti” (Purg. XXIV, 16-18, 25-27). Nomi significanti, se confrontati con un’esegesi teologica che annovera “equites … barones seu duces … centuriones … decuriones”, sono Ubaldin da la Pila (il castello del Mugello, che concorda nel suono con “l’alto primipilo” di Par. XXIV, 59) e “messer Marchese”, il forlivese gagliardo bevitore. Cfr. anche, a Purg. XXII, 124/126, la rima insegna /degna.
Nel congedo di Forese è da notare la presenza del tema del rimanere del seme, dalla quinta guerra (Ap 12, 17 [cfr. Il sesto sigillo, 2d.3]). C’è un seme della donna che precede, e viene rapito al cielo (Cristo) e un seme che rimane (in Giovanni e nei suoi discepoli). Questo motivo è appropriato a Dante (Purg. XXIV, 91, 98), che rimane con Stazio e Virgilio (“che fuor del mondo sì gran marescalchi”, per restare in tema), mentre a Forese sono attribuiti temi dalla “signatio” nel paragone con l’uscita dalla schiera del cavaliere che “va per farsi onor del primo intoppo” (ibid., 94-99). Il tempo della purgazione fa così avanzare sul poeta vivo, che rimane in via, quello morto, che “si partì da noi con maggior valchi”, già assunto a una più alta milizia cristiana e a una maggiore configurazione in Cristo crocifisso. Ai segnati destinati al martirio è data la “magnanimis libertas” di predicare e di difendere la fede; i golosi purganti si rifanno santi “in fame e ’n sete” e vanno alla pena degli alberi che accendono il desiderio di bere e di mangiare con quella voglia “che menò Cristo lieto a dire ‘Elì ’, / quando ne liberò con la sua vena” (Purg. XXIII, 66, 73-75), versi nei quali si insinua il tema, sempre dall’apertura del sesto sigillo, di Cristo che conduce alle desiderabili acque della vita per cui i beati non avranno più fame né sete (Ap 7, 16-17). L’uscire di schiera di Forese ripete quella dell’amico poeta, che per Beatrice “uscì … de la volgare schiera” (Inf. II, 105), “sesto tra cotanto senno” nella bella schiera degli onorati poeti del Limbo (Inf. IV, 100-102).
Come nel primo tempo Dio si è mostrato Padre terribile e temibile, e nel secondo Figlio e maestro che apre la verbale sapienza del Padre, così nel terzo tempo si mostrerà Spirito Santo, fiamma e fornace di amore divino, cellario di ebbrezza spirituale, dispensa di aromi divini e di spirituali unzioni ed unguenti, tripudio giocoso di giubilo spirituale: allora si vedrà non solo con l’intelligenza, ma anche con l’esperienza del gusto e del tatto ogni verità della sapienza del Verbo di Dio incarnato e della potenza di Dio padre, come promesso da Cristo: “quando verrà lo Spirito di verità egli vi insegnerà ogni verità e mi chiarificherà” (Jo 16, 13-14). Alla fatica del lavoro corporale (che compete ai laici) del primo tempo è subentrata, nel secondo, la lettura e l’erudizione (che compete ai chierici); nel terzo dovrà prevalere la casta e soave contemplazione (che spetta ai monaci o ai religiosi). Così ad Ap 3, 7. Il sesto angelo del Purgatorio, l’angelo della temperanza che indica il cammino a “chi vuole andar per pace” – tema della sesta vittoria, la Gerusalemme “visio pacis” (Ap 3, 12) – si mostra così splendente come “già mai non si videro in fornace (hapax) / vetri o metalli sì lucenti e rossi” (Purg. XXIV, 136-141). Dante ‘sente’ (Ap 3, 8) – mi senti’ … ben senti’ … che fé sentir – la fronte (Ap 7, 3-4) ventilata (ibid., 148-150); l’angelo, nel dire la beatitudine (“beati qui esuriunt iustitiam”), aggiunge parole-chiave che rinviano la memoria del lettore al sesto stato illuminato dalla Grazia ed esperto nel gustare la verità: “Beati cui alluma / tanto di grazia, che l’amor del gusto …” (ibid., 151-152).
[Purg. XXV-XXVII]
In avvio di Purg. XXV, si ritrovano i temi dell’angelo che sale da oriente libero da impedimento (Ap 7, 2): ’l salir … non storpio … ’l sole … per l’andar che fosse ratto … (vv. 1-2, 16); dell’apertura della volontà data a Filadelfia (Ap 3, 7-8): volea … per voglia … con voglia (vv. 1, 11, 13); del libero parlare: a dicer … scocca / l’arco del dir … apri’ la bocca (vv. 15, 17-19); dell’ingresso proprio della sesta vittoria (Ap 3, 12): intrammo (v. 7).
Il sesto vescovo non ha negato il nome di Cristo, anzi ne ha conservato il verbo: a questa esegesi (Ap 3, 8) rinvia Stazio prima di iniziare la sua lezione sulla generazione dell’uomo (“discolpi me non potert’ io far nego. … Se le parole mie, / figlio, la mente tua guarda e riceve”: Purg. XXV, 31-36).
A corollario del trionfale sviluppo dei temi del sesto stato è la lezione di Stazio sulla generazione dell’uomo, che ritrova nell’anima l’impronta trinitaria, e più precisamente la successione dei tre stati generali del mondo di Gioacchino da Fiore nella rielaborazione proposta dal notabile VII del prologo della Lectura (Purg. XXV, 37-78; cfr. Il sesto sigillo, 3, tab. XXVIII bis). L’anima è prima vegetativa, poi sensitiva, infine razionale per intervento divino che infonde nel feto “spirito novo, di vertù repleto”. Lo “spirito novo” corrisponde alla novità recata dal sesto stato, che coincide con l’età dello Spirito. Si tratta un “punto” che indusse in errore Averroè, il quale separò l’intelletto possibile (ritenuto unico ed eterno) dall’anima individuale. Il sesto stato è il “punto” da cui dipendono gli altri stati, dei quali è la causa finale. Gli stati dell’Olivi non sono solo periodi storici, sono anche modi di essere degli individui secondo i doni dello Spirito. Nel sesto giorno della creazione venne creato l’uomo razionale ed evangelico:
[LSA, prologus, notabile XIII] In sexto autem die seu tempore primo creata sunt animalia irrationalia, scilicet iumenta et reptilia et bestie, et post hoc creatus est homo ad imaginem Dei cum muliere ex ipso formata (cfr. Gn 1, 24-28). Bestie enim et reptilia sunt regna paganorum et secte pseudoprophetarum, que sexto ecclesie tempore contra ipsam atrocius permittentur sevire. Iumenta vero sunt simplices ad obedientiam prompti et ad honera active. Ordo autem evangelicus est tamquam homo rationalis ad imaginem Dei factus, et ipse subiciet bestias et omnem terram et preerit piscibus et avibus, id est omnibus ordinibus quinto tempore formatis; distinguetur autem in prelatos et collegium subditorum, quasi in virum et uxorem.
Nel “natural vasello” femminile – afferma Stazio -, si congiungono il sangue della donna, disposto a patire, e il seme maschile disposto a fare, il quale dà vita al coagulo prima prodotto (Purg. XXV, 37-51). Ciò che segue, l’accogliersi dell’uno e dell’altro sangue, “l’un disposto a patire, e l’altro a fare” (vv. 46-47), contiene in sé uno dei temi più belli della Lectura, dall’esegesi di Filadelfia, la sesta delle chiese d’Asia (Ap 3, 7). Come negli attivi anacoreti del quarto stato rifulse l’amore verso Cristo, così nei contemplativi del sesto rifulge il loro essere diletti da Cristo, non diversamente da quel che si dice di Pietro, che amò Cristo, e di Giovanni, che fu prediletto da Cristo. In tal modo prerogativa del sesto stato è di essere disposto a ricevere e a patire, e in ciò si differenzia dagli stati precedenti, disposti a fare e a dare. Ad esso è attribuita più la felicità che deriva dalla speranza del premio che la fatica dell’attività per cui si acquistano meriti. Ricevendo più grazie e più segni di familiare amore da parte di Cristo, il sesto stato eccelle sugli altri precedenti, ma nello stesso tempo ad essi si deve maggiormente umiliare. Al sangue maschile corrisponde dunque il quarto stato, del quale è proprio il “victoriosus effectus” delle “res gestae”, la virtù atta a forti opere (Ap 2, 26-28); al sangue femminile corrisponde il più alto e al tempo stesso il più umile degli stati, il sesto, che ha “modica virtus” ma più di Grazia. Così lo “spirito novo” (sesto stato) è “di vertù repleto” (quarto stato). I due verbi, “ricevere” e “patire”, prerogative del sesto stato, sono appropriati anche al cielo della Luna, “etterna margarita” che ‘riceve’ dentro a sé il poeta come l’acqua riceve un raggio di luce senza dividersi, in modo che la sua dimensione ‘patisca’ un’altra, cioè il corpo di Dante, cosa inconcepibile sulla terra (Par. II, 34-42; il ricevere dentro di sé è tema proprio anche della sesta vittoria: Ap 3, 12; cfr. Il sesto sigillo, 10, tab. XCV; La settima visione, I. 1). A ribadire che l’età dello Spirito è già operante stanno le parole di Stazio: “Apri a la verità che viene il petto” (Purg. XXV, 67), variazione su Giovanni 16, 13: “Cum venerit ille Spiritus veritatis”.
Al risveglio dopo la terza notte trascorsa nella montagna, Dante sente “tanto voler sopra voler … de l’esser sù”, come era capitato a Stazio (Purg. XXVII, 121-122); ora salire è come volare (“ch’ad ogne passo poi / al volo mi sentia crescer le penne”, ibid., 122-123). Sente l’apertura della volontà, data al vescovo della sesta chiesa (Ap 3, 7-8) e sale veloce come l’angelo del sesto sigillo (Ap 7, 2; i temi dell’angelo del sesto sigillo – i primi, il sole, l’angel – si registrano già in principio del canto, ai vv. 1, 5-6). Virgilio, nel suo successivo congedo (ibid., 127-142), usa ancora temi dell’angelo del sesto sigillo: “Vedi lo sol che ’n fronte ti riluce” (il poeta è rivolto a oriente), dove la “fronte” è uno specifico motivo dell’esegesi che segue Ap 7, 2, allorché ai segnati “in frontibus” è data la “constans et magnanimis libertas” di predicare e difendere la fede (Ap 7, 3). Perciò il poeta pagano aggiunge che “libero, dritto e sano è tuo arbitrio” e che può prendere “per duce” il proprio piacere senza “aspettar mio dir più né mio cenno”. Secondo Gioacchino da Fiore, l’angelo che sale è “dux” e “pontifex” al tempo stesso, colui che conduce fuori della nuova Babilonia e insieme pontefice della nuova Gerusalemme; il che corrisponde alle ultime parole di Virgilio: “per ch’io te sovra te corono e mitrio”. Il tutto avviene, sempre secondo Gioacchino, nella quarantaduesima generazione dall’Incarnazione, per cui non saranno casuali le ultime due cifre del numero dei versi (142) che compongono il canto.
Non che a Dante, è ovvio, venga effettivamente attribuita la potestà spirituale, anche se l’iniziativa individuale, stimolo alla riforma della Chiesa in presenza di una gerarchia assente o lontana, è realmente sentita, come dimostrano i temi dell’angelo del sesto sigillo, dal poeta appropriati a sé stesso, che percorrono già i primi canti del poema. Né è sufficiente riferirsi al mitratus et coronatus del cerimoniale dell’incoronazione imperiale, nel senso che Dante è fatto ‘imperatore di sé stesso’. L’espressione “corono e mitrio” è da intendere invece nel senso dato ad Ap 1, 6, dove si dice che Cristo “fecit nos regnum et sacerdotes”. L’esame di questa pagina mostra anche le sue varie utilizzazioni nel poema.
Il sesto primato di Cristo uomo, trattato nel proemio del libro (nella “salutatio” di Giovanni ai destinatari dell’Apocalisse), è il primato della nostra glorificazione o sublimazione al suo regno e al suo sacerdozio (Ap 1, 6; un passo simmetrico è ad Ap 5, 10). Per questo si dice (con l’uso del passato in luogo del futuro, frequente nella Scrittura per indicare una cosa come se fosse già fatta): “e fece noi regno e sacerdoti”, cioè ha fatto sì che Dio regni in noi con magnificenza come un re nel suo regno e che noi regniamo distruggendo i vizi ed edificando i beni delle virtù, ovvero che Dio regni su di noi per la grazia e infine per la gloria ed anche perché, a noi in lui e al suo culto in noi, ha fatto avere tanti beni da poterci a buon diritto considerare il suo regno grande, opulento e glorioso (e ciò corrisponde al “te sovra te corono”, la corona per cui si regna coi buoni). Ci ha fatto anche sacerdoti, nello stato della grazia e della gloria, affinché gli vengano offerte le buone opere e venga commemorato, celebrato e offerto al Padre il suo sacrificio (e ciò corrisponde al “te sovra te mitrio”). L’offerta e la rappresentazione del Figlio al Padre è da noi possibile in quanto il Figlio che ci è stato dato è veramente nostro. Il regno è inteso in senso passivo, di soggezione; il sacerdozio in senso attivo, di dominio. Prima bisogna infatti essere retti da Dio e sottoporsi al suo regale impero, come un regno al suo re; poi, mediante la vera grazia da lui ricevuta, bisogna offrire sé stessi e trasformarsi in lui con un sacrificio igneo. Nel primo caso ci si pone come l’effetto rispetto al suo primo principio, nel secondo come atto rispetto al suo fine, perché fece ciò per essere da noi e in noi glorificato. Difatti si aggiunge: “a lui la gloria e l’impero”, cioè sia, è, e sarà, “nei secoli dei secoli”, ossia in eterno; “Amen”, cioè così sia oppure sia a lui davvero e per fede. La gloria si riferisce all’assoluta perfezione della sua beatitudine, l’impero a quanto gli è sottoposto. Oppure per “gloria” si intende l’atto di lode e di onore con cui deve essere da noi glorificato, per “impero” il pieno suo dominio su di noi. Sia la gloria che l’impero debbono essergli da noi, per mezzo della lode, attribuiti, riconosciuti e desiderati.
Nel “Padre nostro” che i superbi dicono girando la prima cornice della montagna, angosciati sotto il peso dei massi, si invoca prima il venire della pace del regno di Dio, poi il sacrificio della volontà da parte degli uomini, sull’esempio degli angeli che fanno questo sacrificio lodando (Purg. XI, 7-12; l’auspicio di pace, che non c’è nella formula del Pater, è tema del saluto di Giovanni ad Ap 1, 4). La terzina che precede (ibid., 4-6) è in parte determinata – “laudato sia ’l tuo nome e ’l tuo valore / da ogne creatura, com’ è degno / di render grazie al tuo dolce vapore” – dall’intervento dei motivi presenti ad Ap 5, 12-13, per cui l’Agnello è degno di ricevere da ogni creatura, per lode e rendimento di grazie, ogni virtù (dallo stesso panno deriva l’onore tributato ad Aristotele fra gli “spiriti magni”, Inf. IV, 133).
I temi del regno e del sacerdozio si ritrovano nel ringraziamento reso dal poeta all’arrivo ai cieli del Sole e di Marte. Nel primo caso, Beatrice invita Dante a ringraziare Dio, “Sol de li angeli”, per la grazia (che corrisponde al “regno”) di averlo levato al sole sensibile. Il poeta si rende pronto a Dio “con tutto ’l suo gradir”, come mai fu disposto a devozione cuore di mortale (che corrisponde all’offerta sacerdotale, Par. X, 52-58). Nel secondo e analogo caso, il ringraziamento (“feci olocausto”) per la nuova grazia avviene con tutto il cuore e con ardente sacrificio (Par. XIV, 88-93).
L’offerta di sé stesso veste anche il topos del poeta che si rivolge alle muse “poi che vostro sono” (Purg. I, 8). Il tema dell’offerta di sé stessi come ripetizione dell’offerta del Figlio al Padre che ce l’ha dato viene sviluppato, nell’episodio del conte Ugolino, con l’offerta al padre delle proprie carni da parte dei figli (Inf. XXXIII, 61-63 [cfr. L’agone del dubbio, ovvero il martirio moderno, 2]).
Riconoscimento laudativo sono le ultime parole di ringraziamento rivolte dal poeta a Beatrice ormai assisa nel trono che le spetta nell’Empireo. Dalla donna, dal suo potere e dalla sua bontà, egli riconosce la grazia e la virtù per cui di servo è stato tratto a libertà, cioè, come esposto nell’esegesi, dalla soggezione del “regno” è passato al dominio proprio del “sacerdozio” (Par. XXXI, 82-87; l’espressione “per tutte quelle vie”, riferita a Beatrice, è da confrontare con l’esegesi di Ap 15, 3-4, dove coloro che hanno vinto la bestia cantano le “vie” di Dio – la giustizia e la misericordia – con il canto di Mosè, proprio dei servi, e col canto dell’Agnello, proprio dei liberi). Riconoscimento di gloria è già stato dato dal poeta ai Gemelli, costellazione alla quale riconosce tutto il suo ingegno (Par. XXII, 112-114).
Nell’Epistola V, ai Signori d’Italia (scritta dopo il 1° settembre 1310), si rinviene una possibile traccia della medesima tematica nell’esortazione agli “incole Latiales” a sorgere incontro al loro re Arrigo, poiché destinati non solo all’impero, cioè alla soggezione, ma anche, come liberi, al reggimento.
La virtù che ha fatto degno di reverenza il segno dell’Aquila “cominciò da l’ora / che Pallante morì per darli regno” (Par. VI, 34-36). Il figlio del re Evandro, che morì combattendo per Enea contro Turno, è figura di Cristo che, come affermato ad Ap 1, 6, ha sublimato l’uomo al suo regno e al suo sacerdozio e a cui spetta la gloria e l’impero nei secoli dei secoli. Da notare le parole “Vedi quanta virtù l’ha fatto degno / di reverenza”, che possono essere riferite ad Ap 5, 12, la lode di Cristo degno di aprire i sette sigilli: “Dignus est … accipere virtutem … et honorem”. Inoltre, ad Ap 1, 6 – «“fecit nos regnum” celestis glorie quia facturus est, et hoc sic ac si iam esset factum» (nella Scrittura il passato viene assunto come futuro) – conduce la terzina “Ma ciò che ’l segno che parlar mi face / fatto avea prima e poi era fatturo / per lo regno mortal ch’a lui soggiace” (ibid., 82-84), dove il “regno” nell’esegesi viene inteso “passive seu subiective”.
“Corono e mitrio” è dunque trasposizione di “fecit nos regnum et sacerdotes”. La doppia corona spetta all’ordine evangelico e contemplativo di quanti, alla fine dei tempi, più si saranno fatti simili a Cristo. Essi sono designati dall’angelo di Ap 14, 14, simile nell’aspetto al Figlio dell’uomo, seduto su una nube bianca con sul capo una corona d’oro e in mano una falce affilata. Questo angelo, secondo Gioacchino da Fiore citato da Olivi, designa un ordine di giusti a cui è dato di imitare Cristo in modo perfetto e che possiede una “lingua erudita” per diffondere il Vangelo del regno di Dio e raccogliere nella terra di Dio l’ultima messe:
“Et vidi et ecce nubem candidam et super nubem sedentem similem Filio hominis, habentem in capite suo coronam auream et in manu sua falcem acutam” (Ap 14, 14). Ioachim dicit: «Arbitramur in isto signari quendam ordinem iustorum, cui datum est perfecte imitari vitam Filii hominis et habere eruditam linguam ad evangelizandum evangelium regni et colligendam in aream Domini ultimam messionem, qui stat super nubem candidam quia conversatio eius non est ponderosa et obscura sed lucida et spiritalis». […] dicitque quod […] intelligendus est aliquis ordo futurus perfectorum virorum servantium vitam Christi et apostolorum […]. Si autem e contra obicias quod angelus in extremo iudicio metens malos et bonos incongrue diceretur “similis Filio hominis” et “habens coronam auream”, quasi rex omnium, ex quo magis videtur quod designet ibi Christum, qui in nube seu nubibus venturus est ad iudicium, prout dicitur supra capitulo I° (cfr. Ap 1, 7), potest dici quod principaliter designat hic evangelicum ordinem sanctorum Christo et eius vite similium et regiam seu pontificalem coronam seu auctoritatem circa finem seculi habiturorum cum potestate et officio colligendi finalem messem electorum. Unde et eorum ordo designatus est supra, capitulo X°, per angelum amictum nube in cuius capite erat iris quasi corona (cfr. Ap 10, 1).
[LSA, cap. VII, Ap 7, 1 (IIa visio, apertio VIi sigilli)] “Post hec vidi” et cetera (Ap 7, 1). Hic ostenditur quomodo, post prefatum iudicium et exterminium carnalis ecclesie, nitentur demones et homines impii impedire predicationem fidei et conversionem gentium ad fidem et etiam conservationem fidelium in fide iam suscepta. Unde ait: “Post hec”, id est post predictum iudicium, “vidi quattuor angelos stantes super quattuor angulos terre”. […] Possunt etiam per hoc intelligi angeli boni ex Dei iustitia retinentes influxum gratiarum, et permittendo hoc per demones et homines impios impediri. “Tenentes quattuor ventos terre” id est, secundum Ricardum, impedientes doctrinam quattuor evangeliorum, quibus terra a predicationibus perflatur. Vel secundum Ioachim, quattuor venti sunt quattuor intelligentie spiritales, quarum doctrina consuevit terra fecundari. Item per hos quattuor ventos intelliguntur omnes spirationes Spiritus Sancti, secundum illud Ezechielis XXXVII°: “A quattuor ventis veni, spiritus, et insuffla super interfectos istos et reviviscant” (Ez 37, 9). |
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[LSA, cap. III, Ap 3, 7-8 (Ia visio, VIa ecclesia)] Nota etiam quod quia tunc amplius vacabitur excessibus et gustibus contemplationis quam fortibus active operibus, ideo non dabitur ei tantum robur virtutis ad fortia opera sicut datum est primis statibus et specialiter quarto, quod fiet non solum propter causam predictam, sed etiam ut unusquisque status habeat unde alteri humilietur et debeat humiliari, propter quod habent se sicut excedentia et excessa. Quia et tunc temporis est “filius perditionis” venturus “in omni virtute” miraculorum et cum “signis et prodigiis mendacibus”, prout dicitur IIa ad Thessa-lonicenses [II°] (2 Th 2, 3/9), tunc etiam “pseudochristi et pseudoprophete dabunt signa magna et prodigia”, prout dicitur Matthei XXIIII° (Mt 24, 24), idcirco sanctis sexti status dabitur modica virtus ad signa seu miracula facienda, exceptis signis Helie et Enoch de quibus infra XI° scribitur (Ap 11, 5-6). Propter igitur utramque causarum predictarum dicitur hic mistice de sexto statu quod modicam habet virtutem et quod loco huius apertum est sibi hostium contemplationis et predicationis. Qua enim ratione permittetur Antichristus tunc temporis facere signa ad mundum decipiendum, et qua ratione mundus tunc permittetur decipi et veritas prosterni et electi fortissimis temptamentis probari, eadem ratione oportebit tunc subtrahi gratiam miraculorum electis, saltem in copia magna. […]
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[LSA, cap. VII, Ap 7, 2-4 (IIa visio, apertio VIi sigilli)] Sequitur tertia pars, scilicet prohibitio predicti impedimenti per subscriptum angelum facta (Ap 7, 2): “Et vidi alterum angelum”, alterum scilicet a quattuor iam premissis, et alterum non tantum in persona sed etiam in virtute et officio. Nam illi mali et impeditivi boni, iste vero in utroque contrarius eis.
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[LSA, cap. II, Ap 2, 1 (VIa ecclesia)] Sexta (ecclesia) autem dicitur habere hostium scripturarum [ac] predicationis et cordium convertendorum apertum, et quod Iudei debent ad eam cum summa humilitate adduci, et quod est servanda ne cadat in temptationem toti orbi venturam, quia Dei consilia et mandata longanimiter et patienter servavit, que utique competunt statui sexto. Unde et congrue vocatur Philadelphia, id est salvans hereditatem, quia in regula evangelica, quasi in archa Noe, salvabitur semen fidei et electorum a diluvio Antichristi tam mistici quam aperti.[LSA, cap. III, Ap 3, 12 (VIa victoria)] Sexta victoria est victoriosus ingressus in Christum, qui fit per totalem configurationem et transformationem mentis in ipsum, quod utique proprie competit sexto statui. […]****** |
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[LSA, cap. VII, Ap 7, 1 (IIa visio, apertio VIi sigilli)] “Post hec vidi” et cetera (Ap 7, 1). Hic ostenditur quomodo, post prefatum iudicium et exterminium carnalis ecclesie, nitentur demones et homines impii impedire predicationem fidei et conversionem gentium ad fidem et etiam conservationem fidelium in fide iam suscepta. Unde ait: “Post hec”, id est post predictum iudicium, “vidi quattuor angelos stantes super quattuor angulos terre”. […] Possunt etiam per hoc intelligi angeli boni ex Dei iustitia retinentes influxum gratiarum, et permittendo hoc per demones et homines impios impediri. “Tenentes quattuor ventos terre” id est, secundum Ricardum, impedientes doctrinam quattuor evangeliorum, quibus terra a predicationibus perflatur. Vel secundum Ioachim, quattuor venti sunt quattuor intelligentie spiritales, quarum doctrina consuevit terra fecundari. Item per hos quattuor ventos intelliguntur omnes spirationes Spiritus Sancti, secundum illud Ezechielis XXXVII°: “A quattuor ventis veni, spiritus, et insuffla super interfectos istos et reviviscant” (Ez 37, 9). |
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[LSA, cap. III, Ap 3, 7-8 (Ia visio, VIa ecclesia)] Nota etiam quod quia tunc amplius vacabitur excessibus et gustibus contemplationis quam fortibus active operibus, ideo non dabitur ei tantum robur virtutis ad fortia opera sicut datum est primis statibus et specialiter quarto, quod fiet non solum propter causam predictam, sed etiam ut unusquisque status habeat unde alteri humilietur et debeat humiliari, propter quod habent se sicut excedentia et excessa. Quia et tunc temporis est “filius perditionis” venturus “in omni virtute” miraculorum et cum “signis et prodigiis mendacibus”, prout dicitur IIa ad Thessa-lonicenses [II°] (2 Th 2, 3/9), tunc etiam “pseudochristi et pseudoprophete dabunt signa magna et prodigia”, prout dicitur Matthei XXIIII° (Mt 24, 24), idcirco sanctis sexti status dabitur modica virtus ad signa seu miracula facienda, exceptis signis Helie et Enoch de quibus infra XI° scribitur (Ap 11, 5-6). Propter igitur utramque causarum predictarum dicitur hic mistice de sexto statu quod modicam habet virtutem et quod loco huius apertum est sibi hostium contemplationis et predicationis. Qua enim ratione permittetur Antichristus tunc temporis facere signa ad mundum decipiendum, et qua ratione mundus tunc permittetur decipi et veritas prosterni et electi fortissimis temptamentis probari, eadem ratione oportebit tunc subtrahi gratiam miraculorum electis, saltem in copia magna. […]
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[LSA, cap. VII, Ap 7, 2-4 (IIa visio, apertio VIi sigilli)] Sequitur tertia pars, scilicet prohibitio predicti impedimenti per subscriptum angelum facta (Ap 7, 2): “Et vidi alterum angelum”, alterum scilicet a quattuor iam premissis, et alterum non tantum in persona sed etiam in virtute et officio. Nam illi mali et impeditivi boni, iste vero in utroque contrarius eis.
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Purg. X, 13-18E questo fece i nostri passi scarsi,
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Purg. XIII, 76-78, 103-105, 142-147Ben sapev’ ei che volea dir lo muto;
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[LSA, cap. VII, Ap 7, 1 (IIa visio, apertio VIi sigilli)] “Post hec vidi” et cetera (Ap 7, 1). Hic ostenditur quomodo, post prefatum iudicium et exterminium carnalis ecclesie, nitentur demones et homines impii impedire predicationem fidei et conversionem gentium ad fidem et etiam conservationem fidelium in fide iam suscepta. Unde ait: “Post hec”, id est post predictum iudicium, “vidi quattuor angelos stantes super quattuor angulos terre”. […] Possunt etiam per hoc intelligi angeli boni ex Dei iustitia retinentes influxum gratiarum, et permittendo hoc per demones et homines impios impediri. “Tenentes quattuor ventos terre” id est, secundum Ricardum, impedientes doctrinam quattuor evangeliorum, quibus terra a predicationibus perflatur. Vel secundum Ioachim, quattuor venti sunt quattuor intelligentie spiritales, quarum doctrina consuevit terra fecundari. Item per hos quattuor ventos intelliguntur omnes spirationes Spiritus Sancti, secundum illud Ezechielis XXXVII°: “A quattuor ventis veni, spiritus, et insuffla super interfectos istos et reviviscant” (Ez 37, 9). |
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[LSA, cap. III, Ap 3, 7-8 (Ia visio, VIa ecclesia)] Sicut etiam in primo tempore exhibuit se Deus Pater ut terribilem et metuendum, unde tunc claruit eius timor, sic in secundo exhibuit se Deus Filius ut magistrum et reseratorem et ut Verbum expressivum sapientie sui Patris, sic in tertio tempore Spiritus Sanctus exhibebit se ut flammam et fornacem divini amoris et ut cellarium spiritualis ebrietatis et ut apothecam divinorum aromatum et spiritualium unctionum et unguentorum et ut tripudium spiritualium iubilationum et iocunditatum, per que non solum simplici intelligentia, sed etiam gustativa et palpativa experientia videbitur omnis veritas sapientie Verbi Dei incarnati et potentie Dei Patris. Christus enim promisit quod “cum venerit ille Spiritus veritatis, docebit vos omnem veritatem” et “ille me clarificabit” et cetera (Jo 16, 13-14). […]
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[LSA, cap. VII, Ap 7, 2-4 (IIa visio, apertio VIi sigilli)] Sequitur tertia pars, scilicet prohibitio predicti impedimenti per subscriptum angelum facta (Ap 7, 2): “Et vidi alterum angelum”, alterum scilicet a quattuor iam premissis, et alterum non tantum in persona sed etiam in virtute et officio. Nam illi mali et impeditivi boni, iste vero in utroque contrarius eis.
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Purg. XXI, 19-30, 58-70, 103-105, 115-126“Come!”, diss’ elli, e parte andavam forte :
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Purg. XXIV, 10-12, 16-18, 25-36, 49-69, 94-99, 136-154Ma dimmi, se tu sai, dov’ è Piccarda;
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[LSA, cap. VII, Ap 7, 1 (IIa visio, VIum sigillum)] “Post hec vidi” et cetera (Ap 7, 1). Hic ostenditur quomodo, post prefatum iudicium et exterminium carnalis ecclesie, nitentur demones et homines impii impedire predicationem fidei et conversionem gentium ad fidem et etiam conservationem fidelium in fide iam suscepta. Unde ait: “Post hec”, id est post predictum iudicium, “vidi quattuor angelos stantes super quattuor angulos terre”. […] Possunt etiam per hoc intelligi angeli boni ex Dei iustitia retinentes influxum gratiarum, et permittendo hoc per demones et homines impios impediri. “Tenentes quattuor ventos terre” id est, secundum Ricardum, impedientes doctrinam quattuor evangeliorum, quibus terra a predicationibus perflatur. Vel secundum Ioachim, quattuor venti sunt quattuor intelligentie spiritales, quarum doctrina consuevit terra fecundari. Item per hos quattuor ventos intelliguntur omnes spirationes Spiritus Sancti, secundum illud Ezechielis XXXVII°: “A quattuor ventis veni, spiritus, et insuffla super interfectos istos et reviviscant” (Ez 37, 9). |
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[LSA, cap. III, Ap 3, 7-8 (Ia visio, VIa ecclesia)] Sicut etiam in primo tempore exhibuit se Deus Pater ut terribilem et metuendum, unde tunc claruit eius timor, sic in secundo exhibuit se Deus Filius ut magistrum et reseratorem et ut Verbum expressivum sapientie sui Patris, sic in tertio tempore Spiritus Sanctus exhibebit se ut flammam et fornacem divini amoris et ut cellarium spiritualis ebrietatis et ut apothecam divinorum aromatum et spiritualium unctionum et unguentorum et ut tripudium spiritualium iubilationum et iocunditatum, per que non solum simplici intelligentia, sed etiam gustativa et palpativa experientia videbitur omnis veritas sapientie Verbi Dei incarnati et potentie Dei Patris. Christus enim promisit quod “cum venerit ille Spiritus veritatis, docebit vos omnem veritatem” et “ille me clarificabit” et cetera (Jo 16, 13-14). […]
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[LSA, cap. VII, Ap 7, 2-4 (IIa visio, apertio VIi sigilli)] Sequitur tertia pars, scilicet prohibitio predicti impedimenti per subscriptum angelum facta (Ap 7, 2): “Et vidi alterum angelum”, alterum scilicet a quattuor iam premissis, et alterum non tantum in persona sed etiam in virtute et officio. Nam illi mali et impeditivi boni, iste vero in utroque contrarius eis.
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Purg. XXV, 1-20, 31-36, 46-48, 67-68Ora era onde ’l salir non volea storpio ;
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Purg. XXVI, 106-108, 139Ed elli a me: “Tu lasci tal vestigio,
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[LSA, cap. I, Ap 1, 6; Salutatio, VIus primatus Christi secundum quod homo] Sexto ascribit sibi primatum nostre glorificationis seu sublimationis ad suum regnum et sacerdotium, quod quidem in hac vita per gratiam inchoatur et in alia consumatur. Unde et subdit: “et fecit nos regnum et sacerdotes” (Ap 1, 6), id est quod sic Deus regnat in nobis magnifice sicut rex in suo regno, et ut sic nos sibi regn[e]mus quod vitia destruamus et bona virtutum hedificemus. Eo enim modo quo sepe in scripturis sumitur preteritum pro futuro, “fecit nos regnum” celestis glorie quia facturus est, et hoc sic ac si iam esset factum.
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[LSA, cap. V, Ap 5, 10; radix IIe visionis] “Et fecisti nos Deo nostro regnum et sacerdotes” (Ap 5, 10). “Regnum” scilicet ut Deus regnet super nos per gratiam et tandem per gloriam, et etiam quia per hoc ipsum facit nos sibi et suo cultui in nobis habere tanta bona ut merito simus magnum et opulentum et gloriosum regnum Dei, et maxime omnes insimul sumpti. Fecit etiam nos “sacerdotes”, id est ut in statu tam gratie quam glorie offeramus nos Deo in holocaustum devotionis, et etiam ut offeramus seu representemus Filium suum sibi. Offerri enim potest a nobis tamquam vere noster et verissime nobis datus.
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Par. X, 52-58E Bëatrice cominciò: “Ringrazia,
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Par. XIV, 88-93Con tutto ’l core e con quella favella
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Purg. XXVII, 139-142Non aspettar mio dir più né mio cenno;
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Par. VI, 34-36, 82-84Vedi quanta virtù l’ha fatto degno
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Purg. XI, 4-12laudato sia ’l tuo nome e ’l tuo valore
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Inf. IV, 133Tutti lo miran, tutti onor li fannoPurg. I, 7-8Ma qui la morta poesì resurga,
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[LSA, cap. II, Ap 2, 7 (Ia visio, Ia ecclesia)] Quadruplici enim ex causa hec informatio primo proponitur ut a Christo dicta et ultimo ut dicta a Sancto Spiritu.
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[LSA, cap. III, Ap 3, 7-8 (Ia visio, VIa ecclesia)] Sicut etiam in primo tempore exhibuit se Deus Pater ut terribilem et metuendum, unde tunc claruit eius timor, sic in secundo exhibuit se Deus Filius ut magistrum et reseratorem et ut Verbum expressivum sapientie sui Patris, sic in tertio tempore Spiritus Sanctus exhibebit se ut flammam et fornacem divini amoris et ut cellarium spiritualis ebrietatis et ut apothecam divinorum aromatum et spiritualium unctionum et unguentorum et ut tripudium spiritualium iubilationum et iocunditatum, per que non solum simplici intelligentia, sed etiam gustativa et palpativa experientia videbitur omnis veritas sapientie Verbi Dei incarnati et potentie Dei Patris. Christus enim promisit quod “cum venerit ille Spiritus veritatis, docebit vos omnem veritatem” et “ille me clarificabit” et cetera (Jo 16, 13-14).Inf. II, 100-102, 67-72Lucia, nimica di ciascun crudele,
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Purg. XXVII, 121-142Tanto voler sopra voler mi venne
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[LSA, cap. XXI, Ap 21, 22-23 (VIIa visio)] Nota quod hec secundum quid verificantur in ecclesia Christi, que non artatur ad corporalem locum et templum veteris Iherusalem et sinagoge, nec cerimoniali luce et cultu legis et prophetarum eget, quia Christus et eius vita et doctrina est eius templum et sol et lucerna lucis solaris sue deitatis. In ecclesia autem septimi status hoc plenius complebitur, ita ut multis doctrinis prioribus non egeat, pro eo quod per contemplationis excessum absque ministerio exterioris vocis et libri docebit eam Christi Spiritus omnem veritatem, et temporalibus denudata adorabit Deum Patrem in spiritu et veritate. Nec ex hoc intelligo quod omnem usum temporalium vel exterioris doctrine et scripture abiciat sed, prout dixi, secundum quid impletur et implebitur in ecclesia militante, simpliciter autem in ecclesia triumphante. |
[Nota alla tabella precedente]
Ad Ap 2, 7 Olivi spiega perché l’istruzione data al vescovo di Efeso, il metropolita delle sette chiese d’Asia, venga proposta come detta dapprima da Cristo e per ultimo dallo Spirito Santo. Ciò avviene per quattro motivi. Il primo è affinché essa sia intesa provenire da tutta la Trinità.
Il secondo è perché due sono i modi di questo insegnamento, uno per mezzo della voce esteriore, l’altro tramite l’ispirazione e la suggestione interiore: il primo spetta a Cristo in quanto uomo, il secondo alla sua divinità ed è appropriato allo Spirito Santo. Il primo modo predispone al secondo come al suo fine ed è inutile senza di esso. Di questi due modi parla Cristo in Giovanni 14, 25-26: “Queste cose vi ho detto rimanendo tra di voi. Ma il Consolatore, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, egli vi insegnerà ogni cosa e vi suggerirà tutto ciò che io vi ho detto”. A Cristo, in quanto Verbo e verbale sapienza del Padre, è appropriato anche il parlare interiore che avviene per mezzo della luce della semplice intelligenza. Il parlare che avviene tramite il gusto e il sentimento dell’amore è appropriato allo Spirito Santo. Il primo modo si pone rispetto al secondo come la disposizione materiale rispetto all’ultima forma. Il sesto e il settimo stato dell’Olivi corrispondono all’età dello Spirito di Gioacchino da Fiore, nella quale “non solum simplici intelligentia, sed etiam gustativa et palpativa experientia videbitur omnis veritas sapientie Verbi Dei incarnati et potentie Dei Patris” (Ap 3, 7).
Il terzo motivo, infatti, è perché il tempo da Cristo fino al sesto stato è appropriato al Figlio, a partire dal sesto stato è appropriato allo Spirito Santo.
Il quarto motivo è perché a muoverci sia una duplice autorità magistrale e una duplice solenne testimonianza: dapprima l’evidente esempio delle opere di Cristo mostrate nella sua umanità, poi la fiamma e l’efficacia dello Spirito.
Questa duplice autorità si ritrova in Inf. II, 94ss., nell’episodio delle “tre donne benedette” che curano del poeta nella corte del cielo. Nell’Empireo una “donna … gentil”, cioè la Vergine la quale, come detto nella quarta visione, partorisce di continuo il corpo mistico di Cristo (Ap 12, 2) e dunque “si compiange di questo ’mpedimento”, cioè dell’ostacolo che impedisce il parto della buona prole (la salita del “dilettoso monte” impedita dalla lupa), ha chiamato Lucia, cioè la “lux simplicis intelligentie”, perché presti aiuto al poeta, suo devoto. Lucia, mossasi, si è recata da Beatrice, che siede “con l’antica Rachele” (la vita contemplativa), come l’ “interna locutio que fit per lucem simplicis intelligentie” predispone al suo fine e alla sua ultima forma, cioè al gusto e al sentimento dell’amore, che avviene per mezzo della fiamma e dell’efficacia dello Spirito Santo. Mossa da amore, Beatrice discende veloce all’ “uscio d’i morti”, cioè al Limbo, per muovere Virgilio.
Dante è mosso da due maestri. Virgilio, da una parte, è “voce esteriore”, assimilato a Cristo uomo; partecipa tuttavia anche del secondo tipo di insegnamento, quello che avviene per ispirazione e suggestione interiore, in quanto “lux simplicis intelligentie”: “Quanto ragion qui vede, dir ti poss’io” (Purg. XVIII, 46-47). Lucia, che di questa luce è la più alta figura (designa Cristo “in quantum est Verbum et verbalis sapientia Patris”), agevola la salita del poeta dormiente dalla valletta dei principi alla porta del purgatorio e mostra a Virgilio l’ “intrata aperta” verso di essa (Purg. IX, 52-63). Con la porta comincia il sesto stato dell’Olivi (contraddistinto, appunto, dalla ‘porta aperta’), ovvero l’età dello Spirito di Gioacchino da Fiore. Beatrice rappresenta il gusto e il sentimento dell’amore, appropriato allo Spirito Santo. Mossa da amore, fa muovere Virgilio alla salvezza del suo amico: “Or movi, e con la tua parola ornata … l’aiuta, sì ch’i’ ne sia consolata … amor mi mosse, che mi fa parlare” (Inf. II, 67-72). Virgilio e Beatrice operano entrambi per mezzo della “locutio”, cioè della favella, il primo con la “parola ornata”, la seconda con il parlare dettato da amore che suggerisce all’altro ciò che debba fare in modo da esserne consolata (lo Spirito Santo è Paraclito, cioè ‘consolatore’).
Nella Chiesa peregrinante del settimo e ultimo stato non ci sarà più bisogno di molte dottrine precedenti, poiché nell’eccesso della contemplazione lo Spirito di Cristo le insegnerà ogni verità senza l’ausilio della voce esteriore e, denudata di quanto è temporale, adorerà Dio Padre in spirito e verità (cfr. Giovanni 4, 24), anche se non verrà completamente abbandonato, come nella Chiesa trionfante, ogni uso delle cose temporali o dell’esteriore dottrina e scrittura. La Chiesa di Cristo non occupa il luogo arto e corporeo del tempio dell’antica Gerusalemme e della Sinagoga, né ha bisogno della luce cerimoniale e del culto della legge e dei profeti, in quanto Cristo, la sua vita e la sua dottrina sono tempio, sole e lucerna della luce solare della sua divinità (Ap 21, 22-23). Ecco che la “voce esteriore” di Virgilio, all’apparire di Beatrice, sparisce (Purg. XXX, 49-51). Lo stesso poeta pagano, sulla soglia dell’Eden, invita il discepolo a prendere per guida il proprio piacere (“non solum simplici intelligentia, sed etiam gustativa et palpativa experientia”), cioè il proprio gusto interiore, perché “fuor se’ de l’erte vie, fuor se’ de l’arte. / Vedi lo sol che ’n fronte ti riluce …” (Purg. XXVII, 131-133).
Il parlare consolando per amore si ritrova nella preghiera di Guido del Duca al poeta perché si riveli in Purg. XIV, 12-13: “per carità ne consola e ne ditta / onde vieni e chi se’ …’”, dove il ‘dittare’ rende l’ispirazione e la suggestione interiore appropriata al Paraclito consolatore (l’espressione “onde vieni e chi se’ ’” traduce inoltre l’inciso “hii qui sunt et unde venerunt” di Ap 7, 13). Il consolare e l’idioma sono pure congiunti nella madre della Firenze antica la quale, come dice Cacciaguida, “vegghiava a studio de la culla, / e, consolando, usava l’idïoma / che prima i padri e le madri trastulla” (Par. XV, 121-123): l’idioma è quello puerile e giocoso con cui i genitori parlano ai propri nati, e la “iocunditas” fa parte del gustare e sentire lo Spirito.
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[LSA, cap. XIX, Ap 19, 10 (VIa visio)] Quia vero spiritales discipuli, per Iohannem hec ab angelo di[s]centem designati, summe reverentur suos sanctos doctores et precipue illos qui tam alta et gloriosa promittunt et docent, idcirco subditur (Ap 19, 10): “Et cecidi ante pedes eius, ut adorarem eum”, non scilicet sicut creatura Deum, sed sicut servus vehementer et cum servili subiectione honorat suum dominum creatum. Et tamen angelus in veteri testamento se sic ab homine adorari sustinebat, non autem sustinet hic, immo prohibet, unde subditur: “Et dixit michi: Vide ne feceris”, scilicet talem reverentiam michi. Cuius causam subdit dicens: “Conservus tuus sum”, id est tecum et sicut tu sum servus eiusdem Dei et Domini. Ne autem credatur quod respectu solius Iohannis, propter eius singularem precellentiam, hoc diceret, et non de omnibus hominibus servis Christi, ideo dicit: “et fratrum tuorum habentium testimonium Ihesu”, id est qui perfecto corde confitentur et testificantur Ihesum esse Deum et Dominum omnium et salvatorem et redemptorem hominum.[LSA, cap. XXII (Ap 22, 8-9)] Quintum est magna humilitas et sobrietas angeli et reverentia eius ad Iohannem, quia non permittit se adorari, et fidelitas eius ad Deum quem solum iubet adorari, unde subdit: “Vide ne feceris” et cetera (Ap 22, 9). Hec satis exposita sunt supra XIX° (cfr. Ap 19, 10). Nota tamen quod Iohannes bis adoravit, id est humillime prostratus honoravit eum, et bis prohibitus est ab eo: primo scilicet in sexto statu, ubi post destructionem Babilonis agitur de festo et nuptiis sponse; et secundo hic in septimo, postquam ostendit gloriam sponse et nove Iherusalem. In utroque enim statu, quanto erit altior contemplatio glorie sponsi et sponse, tanto erit profundior humiliatio non solum ad Deum, sed etiam ad spiritales doctores et demonstratores tante glorie. Quanto autem maior erit in discipulis humiliatio, tanto erit maior et in magistris, ita quod etiam ad litteram angeli erunt eis familiares quasi socii, et conservi tam “prophetarum”, id est doctorum, quam discipulorum “qui servant verba prophetie”, id est doctrine “libri huius”. Docemur etiam in hoc quod quamvis spirituales magistri, proprium honorem refugientes, prohibeant se a suis subditis et discipulis honorari, non debent propter hoc discipuli cessare, immo profundius se humiliare quanto plus magistri et prelati se exhibent humiles eis. Et hec est beata contentio evangelice humilitatis, per quam superiores se honorari prohibent, et inferiores honorare et se illis omnino subicere numquam cessant. |
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Purg. XII, 73-99Più era già per noi del monte vòlto
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[LSA, cap. XXII, Ap 22, 16-17 (finalis conclusio totius libri)] Sum” etiam “stella splendida” (Ap 22, 16), omnium scilicet sanctorum illuminatrix, “et matutina”, future scilicet et eterne diei immensam claritatem predicando et promittendo et tandem prebendo, et etiam prout fui homo mortalis ipsam precurrendo, ut ipse secundum quod homo sit stella et secundum quod Deus sit sol.
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[LSA, prologus, Notabile VI] Quia vero Christus est causa efficiens et exemplaris et etiam contentiva omnium statuum ecclesie, idcirco radix visionum proponitur sub hoc trino respectu, prout infra suis locis specialibus exponetur. Nunc tamen in generali breviter demonstretur. Constat enim quod totum imperium potestatis ecclesiastice (I), ac sacerdotale sacrificium martirizationis sue (II), et sapientiale magisterium sue doctrine (III), ac altivolum supercilium vite anachoritice (IV), et condescensivum contubernium vite domestice seu cenobitice (V), et nuptiale connubium seu familiare vinculum singularis amicitie (VI), ac beatificum convivium divine glorie (VII), sunt in Christo exemplariter et etiam contentive et effective. Contentive quidem, tum quia ab eterno est presens omnibus futuris, tum quia virtus, per quam unumquodque in suo tempore efficit et conservat et continet, est sibi essentialis et eternaliter presens.[LSA, cap. III, Ap 3, 7 (Ia visio, VIa ecclesia)] […] sic in tertio tempore Spiritus Sanctus exhibebit se ut flammam et fornacem divini amoris et ut cellarium spiritualis ebrietatis et ut apothecam divinorum aromatum et spiritualium unctionum et unguentorum et ut tripudium spiritualium iubilationum et iocunditatum, per que non solum simplici intelligentia, sed etiam gustativa et palpativa experientia videbitur omnis veritas sapientie Verbi Dei incarnati et potentie Dei Patris.
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Purg. XXI, 130-136; XXII, 13-21Già s’inchinava ad abbracciar li piedi
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[LSA, cap. XXII, Ap 22, 8-9; (VIIa visio)] Quintum est magna humilitas et sobrietas angeli et reverentia eius ad Iohannem, quia non permittit se adorari, et fidelitas eius ad Deum quem solum iubet adorari, unde subdit: “Vide ne feceris” et cetera (Ap 22, 9). Hec satis exposita sunt supra XIX° (cfr. Ap 19, 10). Nota tamen quod Iohannes bis adoravit, id est humillime prostratus honoravit eum, et bis prohibitus est ab eo: primo scilicet in sexto statu, ubi post destructionem Babilonis agitur de festo et nuptiis sponse; et secundo hic in septimo, postquam ostendit gloriam sponse et nove Iherusalem. In utroque enim statu, quanto erit altior contemplatio glorie sponsi et sponse, tanto erit profundior humiliatio non solum ad Deum, sed etiam ad spiritales doctores et demonstratores tante glorie. Quanto autem maior erit in discipulis humiliatio, tanto erit maior et in magistris, ita quod etiam ad litteram angeli erunt eis familiares quasi socii, et conservi tam “prophetarum”, id est doctorum, quam discipulorum “qui servant verba prophetie”, id est doctrine “libri huius”. Docemur etiam in hoc quod quamvis spirituales magistri, proprium honorem refugientes, prohibeant se a suis subditis et discipulis honorari, non debent propter hoc discipuli cessare, immo profundius se humiliare quanto plus magistri et prelati se exhibent humiles eis. Et hec est beata contentio evangelice humilitatis, per quam superiores se honorari prohibent, et inferiores honorare et se illis omnino subicere numquam cessant.Par. VIII, 55-57Assai m’amasti, e avesti ben onde;
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Inf. XIX, 28-33 (10-11)Qual suole il fiammeggiar de le cose unte
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Purg. XXVI, 28-33ché per lo mezzo del cammino acceso
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[LSA, cap. II, Ap 2, 1 (Ia visio, VIa ecclesia)] Sexta (ecclesia) autem dicitur habere hostium scripturarum [ac] predicationis et cordium convertendorum apertum, et quod Iudei debent ad eam cum summa humilitate adduci, et quod est servanda ne cadat in temptationem toti orbi venturam, quia Dei consilia et mandata longanimiter et patienter servavit, que utique competunt statui sexto. Unde et congrue vocatur Philadelphia, id est salvans hereditatem, quia in regula evangelica, quasi in archa Noe, salvabitur semen fidei et electorum a diluvio Antichristi tam mistici quam aperti. |
[LSA, cap. III, Ap 3, 7 (Ia visio, VIa ecclesia)] Unde congrue nomen huius sexte ecclesie, scilicet Philadelphia, non solum interpretatur salvans hereditatem, prout tactum est supra, sed etiam amor fratris, prout dicit Ricardus. Nam in sexto statu, qui est tertius generalis status populi Dei, anthonomasice complebitur illud quod in tertia parte Cantici Canticorum dicit sponsa ad sponsum (Cn 8, 1-2): “Quis michi det te fratrem meum suggentem ubera matris mee, ut inveniam te solum foris et [de]obsculer? Apprehendam te et ducam in domum matris mee”, scilicet sinagoge tunc temporis convertende. |
Inf. VIII, 124-127Questa lor tracotanza non è nova;
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Par. XI, 112-114; XII, 61-66, 94-96a’ frati suoi, sì com’ a giuste rede,
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[LSA, cap. XIX, Ap 19, 11 (VIa visio)] “Et qui sedebat super eum”, scilicet per personalem unionem et presidentiam, “vocabatur fidelis et verax”, scilicet in attendendo promissa et in docendo vera absque omni fraude et mendacio.[LSA, cap. XIX, Ap 19, 16 (VIa visio)] “Et habet in vestimento et femore suo scriptum: Rex regum et Dominus dominantium” (Ap 19, 16). In vestimento designatur iustitia; in femore autem propagatio prolis, seu vis equitativa et processiva. Quidam enim dominantur quia dignis operibus hoc iuste promerentur, quidam vero quia sunt filii et heredes regum aut quia per fortem et [strenuam] potentiam regnum victoriose obtinuerunt. Utroque autem modo competit Christo esse regem regum. Nam ipse est consubstantialis Filius Dei Patris et naturalis heres omnium bonorum eius. Ipse etiam per passionem meruit nomen quod est super omne nomen, et per triumphalem potentiam hoc victoriose obtinuit. Item in vestimento sue humanitatis et in femore sue carnis inscripsit Deus regiam maiestatem et potestatem deitatis et persone Filii, quando ipsam personaliter univit sue humanitati et carni. |
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[LSA, cap. III, Ap 3, 8 (Ia visio, VIa ecclesia)] Dicit ergo (Ap 3, 8): “Scio opera tua”, per singularem scilicet approbationem et per gubernandi et remunerandi infallibilem intentionem. “Ecce dedi coram te hostium apertum”. Hostium aperitur cum intellectus illuminatur et exacuitur ad scripturarum occulta expedite et faciliter penetranda et videnda, et cum predicationi datur spiritalis efficacia ad corda audientium penetranda, et cum incredulorum corda divinitus aperiuntur ad credendum et implendum Christi legem et fidem que predicatur eis, et etiam cum spiritus predicantium sentit ordinationem et assistentiam Christi ad aperiendum corda gentium per sermonem ipsius. Nam predicta Christi ordinatio seu voluntas est primum hostium seu prima apertio sue voluntatis et gratie dande auditoribus et sermoni predicantis. De hoc autem dicit Apostolus, Ia ad Corinthios ultimo (1 Cor 16, 8-9): “Permanebo Ephesi. Hostium enim michi apertum est magnum et evidens”. Et ad Colossenses ultimo (Col 4, 3): “Orantes simul etiam pro nobis, ut Deus aperiat hostium sermonis ad loquendum misterium Christi”. Et Actuum XIIII° (Ac 14, 26), ubi dicitur quod Paulus et Barnabas “retulerunt” in ecclesia Antiochie “quanta fecisset Deus cum illis et [quia] aperuisset gentibus hostium fidei”. De apertione vero libri scripture dicitur infra, sub sexto angelo tuba canente, angelus habens faciem velut solis tenere librum apertum (Ap 10, 2). “[Quod] nemo potest claudere”, tum quia quod Deus vult omnino irrefragabiliter aperire, sicut utique voluit isti, nemo potest impedire; tum quia sub tanta luce et evidentia fit hec apertio isti et statui sexto per eum designato quod nemo potest eam obscurare per aliquam rationem vel astutiam, nec per aliquod scripture sacre testimonium, nec per quamcumque aliam viam. “Dedi”, inquam sic tibi “apertum”, “quia modicam habes virtutem”, scilicet ad miracula vel ad corporalia fortis active opera, que sensuales homines plus admirantur et estimant quam intellectualia et interna, unde et plus moventur per illa quam per ista et facilius trahuntur ad imitandum seu ad desiderandum imitari [illa quam ista], et ideo carentem istis et miraculis oportet habere modo supradicto hostium apertum, si multi sunt convertendi per ipsum. “Et servasti”, id est et quia servasti, “verbum meum”, id est doctrinam mee fidei et mee legis. |
[LSA, cap. VII, Ap 7, 2 (IIa visio, apertio VIi sigilli)] Sequitur tertia pars, scilicet prohibitio predicti impedimenti per subscriptum angelum facta (Ap 7, 2): “Et vidi alterum angelum”, alterum scilicet a quattuor iam premissis, et alterum non tantum in persona sed etiam in virtute et officio. Nam illi mali et impeditivi boni, iste vero in utroque contrarius eis. […]
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Purg. XVIII, 7-9 (3)Ma quel padre verace, che s’accorse
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Purg. XXII, 7-9E io più lieve che per l’altre foci
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Purg. XXIII, 7-9Io volsi ’l viso, e ’l passo non men tosto,
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[LSA, cap. VII, Ap 3, 7-8 (Ia visio, VIa ecclesia)] Quia etiam promittit sibi apertionem hostii a nemine sibi possibilis claudi, immo asserit iam hoc sibi dedisse, ideo proponit se ei correspondenter subdendo: “qui habet clave[m] David, qui aperit et nemo claudit, claudit et nemo aperit” (Ap 3, 7). “Clavem David” dicit tum propter concordiam ad verbum propheticum Isaie, capitulo XXII° dicentis: “Dabo clavem domus David super humerum eius; et aperiet et non erit qui claudat, et claudet et non erit qui aperiat” (Is 22, 22); tum quia templum seu domus tabernaculi fuit sub regia potestate David, ut sit sensus: “clavem David”, id est clavem domus David (sic enim ponitur in predicto verbo Isaie; nam ipsa clavis erat proprie Helchie pontificis, prout ibi dicitur); tum quia sicut regia potestas David erat ad condempnatorie excludendum indignos a regno et templo et ad introducendum dignos, sic Christus habet potestatem summam ad claudendum indignis archana sapientie et glorie regni Dei et ad aperiendum ea electis prout vult, et quia eius potestati nullus resistere potest ideo dicit quod “nemo claudit”, id est nemo potest claudere id quod ipse aperit nec aperire id quod ipse claudit; tum quia spiritualis iubilatio, cuius magisterium et singularem prerogativam habuit David in citaris et psalmis, unde et eius psalmodia singulariter celebratur in tota ecclesia et in sacra scriptura, hec inquam iubilatio est clavis Christi ad omnia divina aperienda et ad claudendum ea aridis et indevotis et accidiosis et carnali seu vana letitia plenis.
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Inf. XIII, 58-61 (20-21)
Io son colui che tenni ambo le chiavi
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Par. VII, 58-60 (20)
Questo decreto, frate, sta sepulto
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Par. VIII, 55-57 (19)Assai m’amasti, e avesti ben onde;
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Purg. XXI, 58-63 (20-21)
Tremaci quando alcuna anima monda
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Purg. XXIV, 55-60 (19-20)“O frate, issa vegg’ io”, diss’ elli, “il nodo
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[LSA, cap. VII, Ap 7, 1-2 (IIa visio, apertio VIi sigilli)] “Post hec vidi” et cetera (Ap 7, 1). Hic ostenditur quomodo, post prefatum iudicium et exterminium carnalis ecclesie, nitentur demones et homines impii impedire predicationem fidei et conversionem gentium ad fidem et etiam conservationem fidelium in fide iam suscepta. Unde ait: “Post hec”, id est post predictum iudicium, “vidi quattuor angelos stantes super quattuor angulos terre”. […] Possunt etiam per hoc intelligi angeli boni ex Dei iustitia retinentes influxum gratiarum, et permittendo hoc per demones et homines impios impediri. “Tenentes quattuor ventos terre” id est, secundum Ricardum, impedientes doctrinam quattuor evangeliorum, quibus terra a predicationibus perflatur. Vel secundum Ioachim, quattuor venti sunt quattuor intelligentie spiritales, quarum doctrina consuevit terra fecundari. Item per hos quattuor ventos intelliguntur omnes spirationes Spiritus Sancti, secundum illud Ezechielis XXXVII°: “A quattuor ventis veni, spiritus, et insuffla super interfectos istos et reviviscant” (Ez 37, 9). […]
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[LSA, cap. VII, Ap 3, 7-8 (Ia visio, VIa ecclesia)] Significatur etiam per hoc proprium donum et singularis proprietas tertii status mundi sub sexto statu ecclesie inchoandi et Spiritui Sancto per quandam anthonomasiam appropriati. Sicut enim in primo statu seculi ante Christum studium fuit patribus enarrare magna opera Domini inchoata ab origine mundi, in secundo vero statu a Christo usque ad tertium statum cura fuit filiis querere sapientiam misticam rerum et misteria occulta a generationibus seculorum, sic in tertio nichil restat nisi ut psallamus et iubilemus Deo, laudantes eius opera magna et eius multiformem sapientiam et bonitatem in suis operibus et scripturarum sermonibus clare manifestatam. Sicut etiam in primo tempore exhibuit se Deus Pater ut terribilem et metuendum, unde tunc claruit eius timor, sic in secundo exhibuit se Deus Filius ut magistrum et reseratorem et ut Verbum expressivum sapientie sui Patris, sic in tertio tempore Spiritus Sanctus exhibebit se ut flammam et fornacem divini amoris et ut cellarium spiritualis ebrietatis et ut apothecam divinorum aromatum et spiritualium unctionum et unguentorum et ut tripudium spiritualium iubilationum et iocunditatum, per que non solum simplici intelligentia, sed etiam gustativa et palpativa experientia videbitur omnis veritas sapientie Verbi Dei incarnati et potentie Dei Patris. Christus enim promisit quod “cum venerit ille Spiritus veritatis, docebit vos omnem veritatem” et “ille me clarificabit” et cetera (Jo 16, 13-14). […]
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Purg. XXI, 67-69 (23)E io, che son giaciuto a questa doglia
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Purg. XXV, 67-69 (23)Apri a la verità che viene il petto;
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Par. I, 67-72 (23-24)Nel suo aspetto tal dentro mi fei,
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Purg. XVII, 73-78 (25-26)‘O virtù mia, perché sì ti dilegue?’,
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Purg. XXII, 76-78 (26)
Già era ’l mondo tutto quanto pregno
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[LSA, cap. VII, Ap 7, 2 (IIa visio, apertio VIi sigilli)] Sequitur tertia pars, scilicet prohibitio predicti impedimenti per subscriptum angelum facta (Ap 7, 2): “Et vidi alterum angelum”, alterum scilicet a quattuor iam premissis, et alterum non tantum in persona sed etiam in virtute et officio. Nam illi mali et impeditivi boni, iste vero in utroque contrarius eis.
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[LSA, cap. VII, Ap 3, 7-8 (Ia visio, VIa ecclesia)] Nota etiam quod quia tunc amplius vacabitur excessibus et gustibus contemplationis quam fortibus active operibus, ideo non dabitur ei tantum robur virtutis ad fortia opera sicut datum est primis statibus et specialiter quarto, quod fiet non solum propter causam predictam, sed etiam ut unusquisque status habeat unde alteri humilietur et debeat humiliari, propter quod habent se sicut excedentia et excessa. […]
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Purg. XV, 106-114 (36-38)Poi vidi genti accese in foco d’ira
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Purg. XXVI, 106-108 (36)Ed elli a me: “Tu lasci tal vestigio,
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Par. XX, 106-114 (36-38)Ché l’una de lo ’nferno, u’ non si riede
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Purg. XXI, 118-120 (40)dal mio maestro, e “Non aver paura”,
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Par. XXIV, 118-120ricominciò: “La Grazia, che donnea
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Purg. XII, 124-126 (42)
fier li tuoi piè dal buon voler sì vinti,
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Purg. XXVII, 121-123 (41)Tanto voler sopra voler mi venne
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Par. XX, 121-126 (41-42)tutto suo amor là giù pose a drittura:
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[LSA, cap. VII, Ap 7, 2 (IIa visio, apertio VIi sigilli)] Sequitur tertia pars, scilicet prohibitio predicti impedimenti per subscriptum angelum facta (Ap 7, 2): “Et vidi alterum angelum”, alterum scilicet a quattuor iam premissis, et alterum non tantum in persona sed etiam in virtute et officio. Nam illi mali et impeditivi boni, iste vero in utroque contrarius eis.
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[LSA, cap. VII, Ap 3, 7-8 (Ia visio, VIa ecclesia)] Significatur etiam per hoc proprium donum et singularis proprietas tertii status mundi sub sexto statu ecclesie inchoandi et Spiritui Sancto per quandam anthonomasiam appropriati. Sicut enim in primo statu seculi ante Christum studium fuit patribus enarrare magna opera Domini inchoata ab origine mundi, in secundo vero statu a Christo usque ad tertium statum cura fuit filiis querere sapientiam misticam rerum et misteria occulta a generationibus seculorum, sic in tertio nichil restat nisi ut psallamus et iubilemus Deo, laudantes eius opera magna et eius multiformem sapientiam et bonitatem in suis operibus et scripturarum sermonibus clare manifestatam. Sicut etiam in primo tempore exhibuit se Deus Pater ut terribilem et metuendum, unde tunc claruit eius timor, sic in secundo exhibuit se Deus Filius ut magistrum et reseratorem et ut Verbum expressivum sapientie sui Patris, sic in tertio tempore Spiritus Sanctus exhibebit se ut flammam et fornacem divini amoris et ut cellarium spiritualis ebrietatis et ut apothecam divinorum aromatum et spiritualium unctionum et unguentorum et ut tripudium spiritualium iubilationum et iocunditatum, per que non solum simplici intelligentia, sed etiam gustativa et palpativa experientia videbitur omnis veritas sapientie Verbi Dei incarnati et potentie Dei Patris. Christus enim promisit quod “cum venerit ille Spiritus veritatis, docebit vos omnem veritatem” et “ille me clarificabit” et cetera (Jo 16, 13-14). […] Unde congrue nomen huius sexte ecclesie, scilicet Philadelphia, non solum interpretatur salvans hereditatem, prout tactum est supra, sed etiam amor fratris, prout dicit Ricardus. Nam in sexto statu, qui est tertius generalis status populi Dei, anthonomasice complebitur illud quod in tertia parte Cantici Canticorum dicit sponsa ad sponsum (Cn 8, 1-2): “Quis michi det te fratrem meum suggentem ubera matris mee, ut inveniam te solum foris et [de]obsculer? Apprehendam te et ducam in domum matris mee”, scilicet sinagoge tunc temporis convertende. […]
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Inf. II, 127-132 (43-44)Quali fioretti dal notturno gelo
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Purg. IX, 127-132 (43-44)“Da Pier le tegno; e dissemi ch’i’ erri
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Purg. XV, 130-132 (44)
Ciò che vedesti fu perché non scuse 10, 8
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Inf. V, 133-136 (45-46) Quando leggemmo il disïato riso
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Purg. XXI, 130-136 (44-45)Già s’inchinava ad abbracciar li piedi
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Purg. XXIV, 136-141 (46-47)Drizzai la testa per veder chi fossi;
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Purg. XXVII, 139-142 (47)
Non aspettar mio dir più né mio cenno;
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Par. I, 136-142 (46-47)“Non dei più ammirar, se bene stimo,
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[LSA, cap. VII, Ap 7, 2 (IIa visio, apertio VIi sigilli)] Sequitur tertia pars, scilicet prohibitio predicti impedimenti per subscriptum angelum facta (Ap 7, 2): “Et vidi alterum angelum”, alterum scilicet a quattuor iam premissis, et alterum non tantum in persona sed etiam in virtute et officio. Nam illi mali et impeditivi boni, iste vero in utroque contrarius eis.
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[LSA, cap. VII, Ap 7, 2 (IIa visio, apertio VIi sigilli)] Sequitur tertia pars, scilicet prohibitio predicti impedimenti per subscriptum angelum facta (Ap 7, 2): “Et vidi alterum angelum”, alterum scilicet a quattuor iam premissis, et alterum non tantum in persona sed etiam in virtute et officio. […]
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[LSA, cap. X, Ap 10, 1 (IIIa visio, VIa tuba)] “Facies” etiam “eius erat ut sol ”, quia in singulari contemplatione Christi et evangelice vite eius fuit non instar lune defective, vel modice stelle vel lucis nocturne, sed instar solis et lucis diurne inflammatus et illuminatus et illuminans et inflammans. […] Sicut enim in tertia decima die a nativitate Christus apparuit regibus orientis (Mt 2, 1ss.) et in consimili die baptizatus est (Mt 3, 13ss.; Mr 1, 4ss.; Lc 3, 21ss.) et aquam convertit in vinum (Jo 2, 1-11), et in tertio decimo anno absentatus a matre est ab ea inventus in templo (Lc 2, 40-50), sic in tertio decimo centenario a Christi ortu apparuit Franciscus et eius evangelicus ordo, sed in tertio decimo a Christi morte et ascensione exaltabitur in cruce et ascendet ei[us] gloria super totum orbem, prout pie conicitur ex scripturis et specialiter ex hiis que tanguntur infra in quarta visione huius libri. […] Et per profundissimam sui humiliationem et per sue originis a Deo humilem recognitionem et per sui ad inferiores piam condescensionem descendet “de celo”, eritque scientia scripturarum non terrestrium et falsarum sed celestium et purissimarum quasi “nube amictus”, et etiam agillima et altissima et fecunda simul et obscura seu humili paupertate. Sicut enim nubes est supra inter nos et celum suscipiens solis radios et contemperans nobis eos, et est purgans aquis pluvialibus et fecundis ipsasque ad fructificationem terre nascentium moderate effundens, sic est hec scriptura sacra spiritualiter; in caritate etiam et sapientia Dei erit ut sol ad irradiandum finaliter totum orbem et ad formandum solarem diem tertii generalis status mundi.[LSA, cap. XXI, Ap 21, 20 (VIIa visio)] “Ametistus”, qui est coloris purpurei habens similitudinem viole et rose, et qui flammulas aureas videtur emittere tenetque, secundum Papiam, principatum inter gemmas purpureas, designat perfectionem prelationis humilis ut viola et pro ardenti zelo et amore subditorum se omni morti et angustie exponentis et in ipsos verbo et exemplo flammas divine caritatis et sapientie effundentis.Purg. XXXII, 58-59men che di rose e più che di vïole
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[LSA, cap. III, Ap 3, 1 (Ia visio, Va ecclesia)] Hiis autem premittitur Christus loquens, cum dicitur (Ap 3, 1): “Hec dicit qui habet septem spiritus Dei et septem stellas”, id est qui occulta omnium videt et fervido zelo spiritus iudicat tamquam habens “septem spiritus Dei”, qui prout infra dicitur “in omnem terram sunt missi” (cfr. Ap 5, 6); et etiam qui potest omnes malos quantumcumque potentes punire tamquam in sua manu, id est sub sua potentia, habens “septem stellas”, id est universos prelatos omnium ecclesiarum. Quid per septem spiritus significetur tactum est supra, capitulo primo, super prohemio huius libri. […] Unde et Ricardus dat aliam rationem quare hec ecclesia dicta est “Sardis”, id est principium pulchritudinis, quia scilicet sola initia boni non autem consumationem habuit, et solum nomen sanctitatis potius quam rem. Supra vero fuit alia ratio data. Respectu etiam prave multitudinis tam huius quinte ecclesie quam quinti status, prefert se habere “septem spiritus Dei et septem stellas”, id est fontalem plenitudinem donorum et gratiarum Spiritus Sancti et continentiam omnium sanctorum episcoporum quasi stellarum, tum ut istos de predictorum carentia et de sua opposita immunditia plus confundat, tum ut ad eam rehabendam fortius attrahat. |
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Purg. XXX, 22-33Io vidi già nel cominciar del giorno
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Par. XXXI, 118-123Io levai li occhi; e come da mattina
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[LSA, cap. VII, Ap 7, 2; IIa visio, apertio VIi sigilli] Hic ergo angelus est Franciscus, evangelice vite et regule sexto et septimo tempore propagande et magnificande renovator et summus post Christum et eius matrem observator, “ascendens ab ortu solis”, id est ab illa vita quam Christus sol mundi in suo “ortu”, id est in primo suo adventu, attulit nobis. Nam decem umbratiles lineas orologii Acaz Christus in Francisco reascendit usque ad illud mane in quo Christus est ortus (4 Rg 20, 9-11; Is 38, 8).
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Purg. IV, 52-57A seder ci ponemmo ivi ambedui
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Par. XI, 43-57Intra Tupino e l’acqua che discende
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[LSA, cap. X, Ap 10, 1-3 (IIIa visio, VIa tuba)] “(Ap 10, 1) Et vidi alium angelum fortem, descendentem de celo, amictum nube, et iris in capite eius, et facies eius erat ut sol, et pedes eius tamquam columpna ignis, (Ap 10, 2) et habebat in manu sua libellum apertum, et posuit pedem suum dextrum supra mare, sinistrum vero super terram, (Ap 10, 3) et clamavit voce magna, quemadmodum leo rugit”. […] Ioachim dicit hic: «Quicumque erit iste predicator veritatis, “fortis” esse describitur, quia robustus erit in fide; et “de celo” descendet, id est de vita contemplativa ad activam; et “amictus” erit “nube”, quia indutus erit scriptura prophetarum; et “irim in capite”, quia Spiritum Sanctum et misticum seu spiritalem intellectum scripturarum habebit in mente. Sicut enim archus celestis apparet iunctus nubibus celi, sic scripturis prophetarum iungendus est misticus intellectus ad adversarios convincendos». Et subdit: «Ego autem angelum istum secundum litteram aut Enoch fore puto aut Heliam. Verum, prout hoc Deus melius novit, unum dico pro certo, quod hic angelus significat personaliter magnum aliquem predicatorem, quamvis spiritaliter ad multos viros spiritales tunc temporis futuros competenter valeat intorqueri. Sane facies angeli similis est soli, quia in hoc sexto tempore oportet Dei contemplationem in modum solis splendescere et perduci ad notitiam eorum qui designantur in Petro et Iacobo et Iohanne, id est Latinorum et Grecorum et Hebreorum, primo quidem Latinorum, deinde Grecorum, tertio Hebreorum, ut fiant novissimi qui erant primi et e contrario». Hec Ioachim.
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Par. X, 139-141; XI, 43-72Indi, come orologio che ne chiami
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[LSA, cap. VII, Ap 7, 2 (IIa visio, apertio VIi sigilli)] Sequitur tertia pars, scilicet prohibitio predicti impedimenti per subscriptum angelum facta (Ap 7, 2): “Et vidi alterum angelum”, alterum scilicet a quattuor iam premissis, et alterum non tantum in persona sed etiam in virtute et officio. […]
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3. La gloriosa vita degli operosi
La quarta vittoria è propria degli anacoreti, che dedicano le forze del corpo e della mente in modo assiduo e totale alle perfette opere di virtù, né posano per il lungo continuare l’opera, ma anzi sono intenti e preparati ad opere più forti (Ap 2, 26-28). Alla quarta chiesa d’Asia (Tiàtira), che in questo consegue la suprema perfezione dei due ultimi stati, il sesto e il settimo, viene pertanto detto che quanti vinceranno custodendo fino alla fine i precetti e i consigli di Cristo otterranno la virtù, ossia la potestà di reggere le genti in modo retto e inflessibile, spezzandone i vizi quasi con uno scettro di ferro, e la conoscenza, ossia la pienezza della sapienza celeste atta a governare la Chiesa. Costoro sono come il servo della parabola delle mine (Luca 19, 11-27), che riceve il potere sopra dieci città per aver fatto fruttare la sua unica mina, che invece viene tolta al servo ozioso, perché solo a chi ha sarà dato. Quell’unica mina significa il dono della conoscenza.
Un “victoriosus effectus” – la vittoria dei forti anacoreti del quarto stato (Ap 2, 26-28), “alti ” come le stelle (Ap 8, 12: quarta tromba) – uscì dalle imprese (“l’alto effetto”) di Enea, eletto nel cielo per padre dell’alma Roma e del suo impero, “la quale e ’l quale, a voler dir lo vero, / fu stabilita per lo loco santo / u’ siede il successor del maggior Piero”. Per questo Dio gli concesse di andare da vivo “ad immortale secolo” per ascoltare dal padre Anchise “cose che furon cagione / di sua vittoria e del papale ammanto” (Inf. II, 13-27). Al quarto stato appartengono le forti e virtuose opere corporali – le res gestae -, che invece difettano al sesto (lo stato in cui vive Dante), nel quale la “porta aperta” supplisce al difetto di forza e alla modica virtù (Ap 3, 7-8). Signacula parzialmente diversi – alta gloria, vittoria -, ma provenienti dalla medesima rosa tematica, si registrano nella terzina con cui inizia la descrizione della storia di Traiano e della vedovella scolpita nella prima cornice della montagna (Purg. X, 73-75).
Salito al cielo delle stelle fisse, il poeta invoca i Gemelli, suo segno astrale – “O glorïose stelle, o lume pregno / di gran virtù” – al quale riconosce tutto il proprio ingegno, “per acquistar virtute / al passo forte che a sé la tira”, per ricevere cioè, come gli anacoreti vittoriosi, la virtù per cui si sale a forti opere e la gloriosa luce in cielo a queste corrispondente (Par. XXII, 112-114, 121-123; cfr. “per acquistar virtute” con le parole di Ulisse: “per seguir virtute e canoscenza … sempre acquistando dal lato mancino”: Inf. XXVI, 120, 126). Il “passo forte”, in tal senso, è la descrizione degli ultimi tre cieli a cominciare dal trionfo di Cristo del canto seguente. Il sole, definito “quelli ch’è padre d’ogne mortal vita” (Par. XXII, 115-117), rientra nel complesso tematico del quarto stato (Ap 8, 12: quarta tromba): designa la solare vita di quegli anacoreti contemplativi che furono ‘padri’ degli altri. Vi rientrano anche le “stelle” che girano “ne l’alta rota” (ibid., 118-120), poiché gli alti anacoreti sono anche stelle. Il cielo ottavo, delle stelle fisse, viene raggiunto da Dante dopo la permanenza in Saturno, che è dei contemplativi. I motivi della quarta vittoria sono incastonati anche nelle successive parole di Beatrice la quale, invitando Dante a riguardare in giù le sette sfere, gli dice che deve avere “le luci … chiare e acute”, poiché è più vicino a Dio, “a l’ultima salute” (ibid., 124-126). La vista chiara corrisponde alla chiara intelligenza delle Scritture data ai vincitori del quarto stato con la “stella matutina” (cfr. il passo simmetrico ad Ap 22, 16); la vista acuta corrisponde alla verga di ferro, accostata alla spada acuta e penetrante, attributo della nona perfezione di Cristo, che designa la retta e severa giustizia (Ap 1, 16).
La quarta vittoria (Ap 2, 26-28) si consegue “quando scilicet omnes vires corporis et mentis assidue et totaliter perfectis virtutum operibus dedicantur, nec ex longa continuatione operis remittuntur sed potius intenduntur et roborantur et ad fortia opera superexcrescunt”. Nel risalire alla superficie della terra, Virgilio e Dante impegnano in modo assiduo tutte le forze della mente, “sanza cura aver d’alcun riposo” (Inf. XXXIV, 135-136; variazione di motivi già utilizzati, in un contesto tutto diverso, a Inf. XIV, 22-24, 40-42). I due poeti ritornano “nel chiaro mondo”, che corrisponde alla “clara intelligentia scripturarum” data agli anacoreti vittoriosi: uscito “fuor de l’aura morta / che m’avea contristati li occhi e ’l petto”, Dante vede Venere, la stella mattutina, “lo bel pianeto che d’amar conforta” (Purg. I, 17-21). L’espressione “intrammo a ritornar” (Inf. XXXIV, 134) contiene in sé i temi della sesta vittoria, ingresso in Cristo e ritorno della contemplazione a Dio, vittoria cui la quarta è assimilata (Ap 3, 12).
Del concentrarsi dell’anima su una qualche “virtù” della sua potenza sensitiva, quando questa viene presa fortemente da un’impressione di diletto o di dolore, in modo da intendere solo ad essa, ha esperienza Dante udendo e ammirando Manfredi, mentre il sole sale di cinquanta gradi senza che egli se ne accorga (Purg. IV, 1-16; cfr. più avanti le parole di Virgilio nell’erta salita, v. 38: “pur su al monte dietro a me acquista – per unam mnam acquisivit decem mnas”; poi, una volta pervenuti i due poeti al balzo, v. 75: “se lo ’ntelletto tuo ben chiaro bada” – Est etiam accepturus claram intelligentiam scripturarum”). Con pena il poeta avrebbe distolto il proprio intento dal canto della “femmina balba” apparsagli in sogno (Purg. XIX, 16-18). Levato al cielo di Saturno, dove si mostrano gli spiriti contemplativi, con gli occhi e l’animo nuovamente fissi al volto della sua donna, egli si toglie da ogni altro intento (Par. XXI, 1-3). Prima piegato “come la fronda che flette la cima / nel transito del vento”, per la meraviglia di sentire da Beatrice che nel quarto lume aggiuntosi ai tre apostoli nell’ottavo cielo si annida l’anima di Adamo, Dante “poi si leva / per la propria virtù che la soblima – quicumque sunt sic operosi sunt digni super principatum ecclesie sublimari et accipere virtutem rectam et inflexibilem et insuperabilem” (Par. XXVI, 85-87; la similitudine proviene da Stazio, ma in Theb. VI, 854-857 non vi è alcun riferimento al sublimare per virtù).
Il tema della stella mattutina, unito al promettere, percorre l’angelo dell’umiltà, “la creatura bella, / biancovestito e ne la faccia quale / par tremolando mattutina stella”, che promette sicura la salita al secondo girone della montagna (Purg. XII, 88-99). San Bernardo, nell’Empireo, “abbelliva di Maria, / come del sole stella mattutina” (Par. XXXII, 107-108). Il tema è sviluppato pure nell’esegesi di Ap 22, 16.
Al quarto stato è detto: “A chi vincerà e custodirà sino alla fine le mie opere”. Se si collaziona il passo relativo alla quarta vittoria (Ap 2, 26-28) con Ap 2, 10, dove alla seconda chiesa d’Asia, propria dei martiri (Smirne), si dice: “Sii fedele fino alla morte”, cioè fino all’ultimo giorno della vita o fino al soffrire il martirio, che uccide il corpo, “e ti darò la corona della vita”, cioè la gloria eterna, si ritrovano i fili con cui è tessuta, a Purg. XVIII, 136-138, la terzina del secondo esempio di accidia punita, relativa ai compagni di Enea che si fermarono in Sicilia, gente “che l’affanno non sofferse / fino a la fine”, offrendo “sé stessa a vita sanza gloria” (l’offrirsi come vittima è proprio della quarta chiesa, cfr. l’esegesi del nome “Thyatira” ad Ap 2, 1). È possibile anche richiamare l’esegesi di Ap 20, 5: “E gli altri morti”, cioè i reprobi nella morte eterna, “non vissero” la vita della grazia e della gloria “fino al compimento dei mille anni”, ossia per tutto il tempo di questa vita, dopo la quale verranno puniti più duramente. Chi in questa vita non visse sono gli ignavi, “questi sciaurati, che mai non fur vivi” (Inf. III, 64).
Ad Ap 21, 8 (settima visione) l’essere “timidi” – negare cioè la fede o fuggirne l’accoglimento per timore della morte o di una pena temporale – è il primo degli otto crimini puniti nello stagno ardente di fuoco e di zolfo. A Cacciaguida che gli ha profetizzato l’esilio, Dante palesa il timore che ridire nei versi quanto da lui appreso nel corso del viaggio “a molti fia sapor di forte agrume”, mentre il tacere – “e s’io al vero son timido amico” – non gli recherà fama duratura presso i posteri (Par. XVII, 112-120). Il timore “di perder viver tra coloro / che questo tempo chiameranno antico” è il timore dell’essere ignavo.
Secondo Gioacchino da Fiore (quinto libro della Concordia, citato ad Ap 12, 14), come nel Genesi le opere del quarto giorno – il sole, la luna e le stelle – vengono chiamate “segni e tempi e giorni e anni” (Gn 1, 14), così nella quarta visione dell’Apocalisse la donna che sta nel cielo ed è adornata dal sole, dalla luna e dalle stelle viene detta “grande segno” (Ap 12, 1) e il suo tempo, che è il quarto della Chiesa, viene distinto in “(un) tempo, (due) tempi e la metà di un tempo” (Ap 12, 14). Il medesimo tema compare nel quarto sigillo dell’Antico Testamento, nel quale Elia, Eliseo e i figli dei profeti furono come il sole, la luna e le stelle ed Elia venne nascosto lontano da Gezabele per tre anni e mezzo, periodo nel quale la pioggia della predicazione venne sottratta alla gente peccatrice (3 Rg 18, 1ss.). Gioacchino si domanda per quale motivo questo numero mistico compaia sempre nel quarto tempo, e risponde che il quarto è il mediano di sette tempi, connesso ai tre tempi precedenti e agli altrettanti che seguono e di tutti partecipante. La donna – la Vergine che portò Cristo nel ventre, che lo partorì e lo allattò – sta a significare la Chiesa delle vergini, madre e nutrice dei fedeli, formata da uomini e donne dalla giusta vita che, come le stelle del cielo segnano il cammino ai naviganti, sono segni ed esempi agli altri, in modo che sappiano dove andare coloro che li considerano.
La precedente illuminazione di Virgilio – “la divina fiamma / onde sono allumati più di mille” (cfr. Ap 3, 7-8) – ha operato su Stazio, al cui ardore poetico furono seme le faville dell’Eneide, “la qual mamma / fummi, e fummi nutrice, poetando” (Purg. XXI, 94-99). Stazio fascia Virgilio con parte del panno della Vergine madre e nutrice da Ap 12, 14 come, nel canto successivo, Virgilio farà con Omero, “quel Greco / che le Muse lattar più ch’altri mai” (Purg. XXII, 100-105). Al quarto stato è data forza per le opere della vita attiva, e da Virgilio Stazio ha tratto “forza a cantar de li uomini e d’i dèi” (Purg. XXI, 124-126). Alle Muse, “sacrosante vergini” (“ecclesia virginum, que in muliere significatur”) si rivolge il poeta affinché lo aiutino “forti cose a pensar mettere in versi” (Purg. XXIX, 42).
Virgilio, come gli altri personaggi della Commedia, veste molti panni. La quinta vittoria (Ap 3, 5) consiste nella vittoriosa discesa alle opere di pietà e di misericordia, la quale dal consorzio con gli infermi cui condiscende non assume macchie o imperfezioni, anzi il vittorioso vive tra i carnali, i rilassati e gli immondi in modo puro, immacolato e santo come se si trovasse in solitudine o in mezzo a gente austera e perfetta. I perfetti padri del quinto stato conseguirono questa ardua vittoria, ad essi viene promesso che cammineranno con Cristo in bianche vesti. I vittoriosi del quinto stato non verranno cancellati dal libro della vita, cioè dalla predestinazione e dalla gloria divina, anzi verranno scritti in esso in modo chiaro. Poiché vissero in mezzo alla moltitudine degli infermi come fossero sepolti o innominati senza avere il nome o la fama dei sommi perfetti, ad essi sarà dato il singolare nome nella gloria divina, raccomandato da Cristo di fronte a tutta la curia celeste.
Quale tema si addice di più a Virgilio della “pietas” e della “condescensio”? Non è forse il suo trarre il discepolo “per loco etterno” un discendere per i cerchi infernali tra gli immondi senza macchiarsi di alcuna colpa, discesa che all’inizio si mostra anche pietosa e angosciata? (cfr. Inf. IV, 13-21). Se i santi pietosi e condiscendenti del quinto stato sono sepolti e innominati, “visi sunt quasi infirmi et nulli” (come Virgilio, che all’apparire pare “chi per lungo silenzio parea fioco”: Inf. I, 63; “fragilis et despectus” poteva apparire Cristo dopo la passione e morte: Ap 1, 5), essi hanno dinanzi a Dio nome e fama nel libro della vita. Così Virgilio, quinto fra i grandi poeti del Limbo, è “quell’ ombra gentil per cui si noma / Pietola più che villa mantoana”, dove l’oscuro e quasi sepolto luogo natio, che singolarmente concorda nel suono con pietas, ha più fama della stessa Mantova (Purg. XVIII, 82-83). I santi del quinto stato saranno raccomandati di fronte alla curia celeste; così dice Beatrice a Virgilio: “Quando sarò dinanzi al segnor mio, / di te mi loderò sovente a lui” (Inf. II, 73-74).
Nel cielo di Marte, Cacciaguida discende dal braccio destro al piede della croce formata dai lumi dei beati: “Sì pïa l’ombra d’Anchise si porse, / se fede merta nostra maggior musa, / quando in Eliso del figlio s’accorse” (Par. XV, 19-27); poi anche il suo iniziale parlar profondo “discese / inver’ lo segno del nostro intelletto” (ibid., 43-45).
È da notare come gli stessi temi del nome e della “pietas”, variati, siano appropriati a Dante da Omberto Aldobrandesco, che purga la superbia nel primo girone della montagna (Purg. XI, 52-57): questi, se non fosse impedito “dal sasso / che la cervice mia superba doma”, guarderebbe il poeta – “ch’ancor vive e non si noma” (cioè non ha ancora fama; cfr. Purg. XIV, 21) – per farlo pietoso verso di lui così curvo sotto il macigno. Il tema della superbia domata è proprio dello stato precedente, il quarto. Il superbo essere indomito della nostra libertà rende infatti chiuso il quarto sigillo (ad Ap 5, 1).
Una zona che afferisce al quinto stato è la bolgia dei barattieri, dove i due poeti sono scortati dalla “fiera compagnia” dei dieci demoni e costretti così ad andare “in taverna coi ghiottoni” (Inf. XXII, 13-15, dove la parola “taverna” deriva dal “condescensivum contubernium” del quinto stato di cui al Notabile VI del prologo). Liberatisi dei Malebranche, Virgilio e Dante vanno in solitudine “come frati minor vanno per via” (Inf. XXIII, 1-3; cfr. la discesa nella barca di Flegiàs a Inf. VIII, 19-21, 25).
[LSA, cap. II, Ap 2, 26-28 (IVa victoria)] Quarta est victoriosus effectus, quando scilicet omnes vires corporis et mentis assidue et totaliter perfectis virtutum operibus dedicantur, nec ex longa continuatione operis remittuntur sed potius intenduntur et roborantur et ad fortia opera superexcrescunt, qualis fuit in exercitiis perfectorum anachoritarum, quibus competit premium de quo quarte ecclesie dicitur: “Qui vicerit et custodierit usque in finem opera mea”, id est qualia ego feci et precepi vel consului, “dabo illi potestatem super gentes et reg[et] [eas] in virga ferrea, et tamquam vas figuli confri[n]gentur, sicut ego accepi a Patre meo, et dabo illi stellam matutinam” (Ap 2, 26-28). Secundum quosdam hic promittitur quarto ordini perfectio sexti et septimi status, quia ordo quartus est in fine seculi consumandus et visurus confractionem statue Nabucodonosor et superaturus gentes et regna et Christi cultui subiugaturus. Est etiam accepturus claram intelligentiam scripturarum et future diei eterne quasi stellam matutinam, que gratiose solem pronuntiat et precurrit.
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Inf. II, 10-12, 16-21, 25-27Io cominciai: “Poeta che mi guidi, Però, se l’avversario d’ogne male
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Par. XXII, 112-126O glorïose stelle, o lume pregno
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Inf. XXXIV, 133-136; Purg. I, 19-20Lo duca e io per quel cammino ascoso
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Purg. XII, 88-90, 99; Par. XXXII, 106-108A noi venìa la creatura bella,
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[LSA, cap. II, Ap 2, 26-28 (IVa victoria)] Quarta est victoriosus effectus, quando scilicet omnes vires corporis et mentis assidue et totaliter perfectis virtutum operibus dedicantur, nec ex longa continuatione operis remittuntur sed potius intenduntur et roborantur et ad fortia opera superexcrescunt, qualis fuit in exercitiis perfectorum anachoritarum, quibus competit premium de quo quarte ecclesie dicitur: “Qui vicerit et custodierit usque in finem opera mea”, id est qualia ego feci et precepi vel consului, “dabo illi potestatem super gentes et reg[et] [eas] in virga ferrea, et tamquam vas figuli confri[n]gentur, sicut ego accepi a Patre meo, et dabo illi stellam matutinam” (Ap 2, 26-28). […] Designatur etiam per hoc quod in a[na]choriticis sic operosis est virtus terrificativa et contritiva gentium terrestrium, et quod per exemplum operis lucent omnibus velut stella matutina, et quod in celis habebunt gloriosam potestatem et lucem huic correspondentem.[LSA, cap. II, Ap 2, 1 (IVum exercitium)] Quartum (exercitium mentis ordinate ad perfectionem ascendentis) est contemplativa abstractio et solitudo, et assidua sui ad illam per austera et laboriosa opera preparatio.[LSA, cap. II, Ap 2, 1 (Ia visio, IVa ecclesia)] Quarta autem commendatur de superhabundanti et perseveranti et superexcrescenti supererogatione sanctorum operum et de perfectione fidei et caritatis, que utique competunt quarto statui, scilicet anachoritarum, qui partim opere manuum, partim lectione, partim vocali psalmodia, cum assidua maceratione corporis per ieiunia et per alias austeritates, se semper preparabant et sursum agebant ad contemplativos actus fidei et caritatis. Unde bene vocatur Tyatira, id est illuminata vel inflammata vel vivens hostia, quia tales per lucem et flammam contemplative devotionis se offerunt Deo hostiam viventem. |
[LSA, cap. II, Ap 2, 10 (Ia visio, IIa ecclesia)] “Esto fidelis usque ad mortem” (Ap 2, 10), id est fideliter pro mea fide concerta “usque ad mortem”, id est usque ad ultimum diem vite tue vel usque ad sufferentiam martirii interfectivi tui corporis, “et dabo tibi coronam vite”, scilicet eterne post mortem.
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[LSA, cap. III, Ap 3, 7-8 (Ia visio, VIa ecclesia)] Sicut etiam in primo tempore exhibuit se Deus Pater ut terribilem et metuendum, unde tunc claruit eius timor, sic in secundo exhibuit se Deus Filius ut magistrum et reseratorem et ut Verbum expressivum sapientie sui Patris, sic in tertio tempore Spiritus Sanctus exhibebit se ut flammam et fornacem divini amoris et ut cellarium spiritualis ebrietatis et ut apothecam divinorum aromatum et spiritualium unctionum et unguentorum et ut tripudium spiritualium iubilationum et iocunditatum, per que non solum simplici intelligentia, sed etiam gustativa et palpativa experientia videbitur omnis veritas sapientie Verbi Dei incarnati et potentie Dei Patris. Christus enim promisit quod “cum venerit ille Spiritus veritatis, docebit vos omnem veritatem” et “ille me clarificabit” et cetera (Jo 16, 13-14).
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Purg. XXI, 94-99, 124-126; XXII, 100-105; XXIX, 37-42Al mio ardor fuor seme le faville,
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[LSA, cap. XII, Ap 12, 14 (IVa visio)] Nota etiam quod, secundum Ioachim, libro V° Concordie, sicut de opere quarte diei, scilicet de sole et luna et stellis, dicitur quod “sint in signa et tempora et dies et annos” (Gn 1, 14), sic in quarta visione huius libri, in qua describitur mulier in celo existens et adornata sole et luna et stellis, proponitur fuisse in “signum magnum” et distinguitur tempus eius in “tempus et tempora”, signanterque hoc reperitur ubi agitur de quarto statu ecclesie. […] Nempe et ecclesia ipsa virginum, que in muliere significatur, est mater et nutrix fidelium, quia Virgo portavit Christum in utero, Virgo peperit et lactavit? Tales etiam viri et mulieres in signa fuere, quia sicut stelle celi in signa sunt navigantibus, ita et vita iustorum est in exemplum fidelium data, ut sciant quo ire debeant omnes qui considerant eos». Hec Ioachim. |
[LSA, cap. III, Ap 3, 5 (Va victoria)] Quinta (victoria) est victoriosus descensus ad opera condescensionis et pietatis, qui tunc est victoriosus quando nichil sordis vel imperfectionis accipit ex consortio infirmorum quibus condescendit nec ex sua condescensione, immo inter carnales et laxos et immundos vivit sic immaculate et sancte ac si esset in solitudine vel inter austerrimos et perfectos, quod quidem patet tunc arduissimum tam in puritate quam in pietate misericordi et competit perfectis patribus quinti status, quibus et competit premium de quo in quinta ecclesia dicitur: “Qui vicerit”, scilicet sicut illi pauci qui non inquinaverunt vestes suas inter immundos, “sic vestietur vestimentis albis”, scilicet sicut illi (Ap 3, 5). Nam de illis premisit: “Ambulabunt mecum in albis” (Ap 3, 4). Per que intelligitur gloria singularis [decoris] correspondens merito predicte munditie. “Et non delebo nomen eius de libro vite, et confitebor nomen eius coram Patre meo et coram angelis eius”. Duplici ex causa hoc premium appropriat talibus.
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Purg. XI, 52-57E s’io non fossi impedito dal sasso
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Purg. XVIII, 82-84E quell’ ombra gentil per cui si noma
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Inf. VII, 103-105; VIII, 19-21, 25; XXI, 127-129; XXII, 13-15; XXIII, 1-3L’acqua era buia assai più che persa;
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[LSA, cap. I, Ap 1, 5; prohemium, salutatio] Pro tertio dicit: “Et a Ihesu Christo” (Ap 1, 5). Ne autem propter fragilitatem passionis et mortis quam tunc passus fuerat et propter contemptum quo tunc ab infidelibus spernebatur ubique crederetur esse fragilis et despectus, ideo septem notabiles primatus sibi singulariter ascribit, scilicet primatum attestationis salutaris veritatis Dei, cum dicit: “qui est testis fidelis”.Inf. I, 61-63; II, 73-74Mentre ch’i’ rovinava in basso loco,
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Tutte le citazioni della Lectura super Apocalipsim presenti nei saggi o negli articoli pubblicati su questo sito sono tratte dalla trascrizione, corredata di note e indici, del ms. Paris, Bibliothèque nationale de France, lat. 713, a disposizione fin dal 2009 sul sito medesimo. I passi scritturali ai quali si riferisce l’esegesi sono in tondo compresi tra “ ”; per le fonti si rinvia all’edizione in rete. Non viene presa in considerazione l’edizione critica a cura di W. LEWIS (Franciscan Institute Publications, St. Bonaventure – New York, 2015) per le problematiche da essa poste, che sono discusse in “Archivum Franciscanum Historicum”, 109 (2016), pp. 99-161. Il testo della Commedia citato è in Dante Alighieri, La Commedia secondo l’antica vulgata, a cura di G. PETROCCHI, Firenze 1994.
[All quotations from the Lectura super Apocalipsim in the essays or articles published in this website have been drawn from the transcription, with notes and indexes, of ms. Paris, Bibliothèque nationale de France, lat. 713, which has been available therein since 2009. The Biblical passages to which the exegesis refers are in Roman type in “ ”; for sources please refer to the online edition. The critical edition by W. LEWIS (Franciscan Institute Publications, St. Bonaventure – New York, 2015) has not been considered due to the issues it poses, which are discussed in “Archivum Franciscanum Historicum” 109 (2016), pp. 99-161. The text referring to the Commedia has been drawn from Dante Alighieri, La Commedia secondo l’antica vulgata, edited by G. PETROCCHI, Firenze 1994.]