VI.
Variazioni sul tema della voce
INDICE GENERALE – AVVERTENZE
Una delle norme su cui si fonda il rapporto tra Commedia e Lectura super Apocalipsim consiste nel fatto che più luoghi della Lectura possono essere collazionati tra loro, secondo un procedimento analogico tipico delle “distinctiones” ad uso dei predicatori [1]. La scelta non è arbitraria. Vi predispone lo stesso testo scritturale, poiché l’Apocalisse [Ap] contiene espressioni, come Leitmotive, che ritornano più volte. È determinata da parole-chiave che collegano i passi da collazionare. È suggerita dallo stesso Olivi, nel prologo, per una migliore intelligenza del testo. La “mutua collatio” di parti della Lectura arricchisce il significato legato alle parole e consente uno sviluppo tematico.
Vengono esaminati qui di seguito i principali passi dell’esegesi apocalittica oliviana collegabili tramite la parola-chiave vox : Ap 1, 10-12 (la voce udita da Giovanni dietro le spalle); 1, 15; 14, 2; 19, 6 (tre luoghi connessi per l’espressione: vox aquarum multarum); poi ancora 14, 2 (la voce dei suonatori d’arpa). A questi gruppi tematici fanno riferimento (nel senso che verso di essi sollecitano la memoria del lettore consapevole) numerosi luoghi della Commedia.
La presenza di Gioacchino da Fiore in questi passi esegetici è limitata ad alcune citazioni, per quanto di rilievo (in particolare ad Ap 14, 2 e 19, 6); del tutto assenti ad Ap 1, 10-12.
Ap 1, 10-12 (et audivi post me vocem magnam tamquam tubae dicentis: quod vides scribe in libro … et conversus sum ut viderem vocem quae loquebatur mecum).
All’inizio della parte narrativa della sua esposizione, Giovanni precisa sette circostanze generali e degne di lode proprie delle visioni successivamente descritte. La sesta circostanza (Ap 1, 10-11) consiste nel fatto che all’evangelista viene ingiunto solennemente di scrivere la visione e di inviarla alle chiese d’Asia, come intendesse dire: non per mia iniziativa, ma per speciale comando divino ho scritto ed invio. Per cui soggiunge: “E udii una voce dietro di me”.
Il comando proviene da una voce udita dietro le spalle. Lo stare dietro può essere inteso nel senso che Giovanni era in quel momento dedito alla quiete della contemplazione, lontano dalla sollecitudine derivante dall’attività pastorale, che aveva lasciata alle spalle: la voce dunque lo richiama dalla visione delle cose supreme, che gli stanno dinanzi, alla cura d’anime che sta dietro (è l’interpretazione di Riccardo di San Vittore). Oppure (è l’interpretazione di Olivi), considerando che le cose che ci stanno dietro sono invisibili e pertanto superiori, si può intendere che Giovanni ascolti una voce alle spalle che lo elevi e riconduca verso l’alto, mentre con il volto è rivolto in basso, verso cose inferiori. In questo senso, nel Vangelo di Giovanni, si dice che Maria Maddalena, volta indietro, vide Gesù (Jo 20, 14).
Ricevuto il comando di scrivere il libro e di mandarlo alle sette chiese, delle quali viene specificato il nome, Giovanni si volta per vedere attentamente da quale persona provenga la voce (è la settima circostanza, Ap 1, 12). Questo vedere può essere inteso come un apprendimento totale: sebbene abbia già appreso la voce al momento del suo primo ascolto, ora si converte più fortemente ad essa per apprenderla in modo compiuto.
Il parlare dietro le spalle, di cui si tratta ad Ap 1, 10-12, è anche quello che proviene dalla propria guida, che sta dietro come custode e conducitrice della sua cavalcatura, per cui in Ezechiele si dice: “uno spirito mi sollevò e dietro a me udii una voce” (Ez 3, 12). È “vox magna”, in quanto il suono esce da una persona di grande virtù, eccitando mirabilmente Giovanni; è “come una tromba”, sia perché esorta alla guerra contro i vizi e contro l’esercito dei reprobi, sia perché invita a banchetti di gloria. La tromba designa inoltre la predicazione, la quale fu come occulta fino al tempo dei profeti, più manifesta nel periodo che va da Isaia a Giovanni Battista e infine consumata nel coro degli apostoli, per cui, secondo san Paolo ai Romani, “in ogni terra uscì il loro suono” (Rm 10, 18; cfr. Ps 18, 5).
L’esegesi di questi passi si mostra fondamentale per le agnizioni nel poema; è inoltre collazionabile con altri luoghi parzialmente analoghi.
Per due terzine risuona la voce del magnanimo Farinata, che invita Dante a restare presso di lui (Inf. X, 22-27). Nella terzina successiva si precisa trattarsi di un suono improvviso, uscente “d’una de l’arche”, che suscita timore nell’ascoltatore, per cui questi si stringe alla sua guida (ibid., 28-30). I temi derivano per una parte da Ap 11, 11 (sesta tromba), dove si tratta della sùbita resurrezione dei due testimoni uccisi dall’Anticristo, i quali, eretti e vivi, suscitano timore negli osservatori; per l’altra da Ap 14, 17 (settima guerra), dove l’angelo con la falce esce repentinamente dagli ‘arcani’ dei cieli verso gli uomini, scuotendone di timore i cuori.
Al richiamo del maestro Dante si volge, e come Maria vide Cristo risorto, così vede “Farinata che s’è dritto”, anch’egli a suo modo risorto, e questo vedere, come dice Virgilio, è “tutto” dalla cintola in su (ibid., 31-33). Anche Dante, come Giovanni, ha prima ascoltato il suono della “vox magna” e si è poi voltato per apprenderla in modo totale. Una conversione a chi parla che si ripete nel volgere il viso verso Manfredi (Purg. III, 103-106) e verso la voce di Beatrice che nell’Eden chiama il poeta con il proprio nome (Purg. XXX, 62-63). Un nome pregno di significato, che qui viene specificato come vengono specificati i nomi delle sette chiese alle quali deve essere inviata la visione.
Il tema del maestro (“dux”) che richiama e riconduce si trova ancora verso la fine dell’episodio di Farinata (Inf. X, 115). Un altro esempio è nell’incontro con Beatrice, che asserisce di aver cercato, dopo la morte, di richiamare Dante a sé ispirandolo in sogno o altrimenti (Purg. XXX, 133-135). Connesso con il tema del volgere le spalle, si presenta nelle spiegazioni date a Brunetto Latini sul viaggio: l’avere il poeta volto le spalle alla selva per salire il “dilettoso monte” (che può corrispondere al lasciarsi alle spalle da parte di Giovanni le sollecitudini pastorali per dedicarsi alla contemplazione), il ricondurre a casa da parte di Virgilio (Inf. XV, 52-54).
I motivi da Ap 1, 10-12 si ritrovano, con varia appropriazione, in apertura di Purg. V (prima il riferimento alla guida, poi il rivolgersi al suono di parole che provengono da dietro) e di Purg. XXI (l’apparizione di Stazio, paragonata a quella di Cristo risorto ai due discepoli sulla via di Emmaus, ma commista con quella di Cristo alla Maddalena perché Virgilio e Dante sentono la voce alle spalle e subitamente si volgono).
Matelda rimprovera il poeta intento a guardare con sì ardente affetto le vive luci dei candelabri aurei, che nell’Eden aprono la processione, da non considerare quello che viene dietro ad essi, cioè i ventiquattro seniori (Purg. XXIX, 61-65; non c’è il tema del volgersi ma, in variazione, quello dello stare dietro e della guida).
Tab. 1
Ap 1, 10-12; 19, 6
Si può collazionare Ap 1, 10-12 (la gran voce come una tromba udita dietro le spalle) con quanto detto ad Ap 19, 6 sulla “voce di molte acque”. Questa, nella gaudiosa festa delle nozze di Cristo con la Chiesa, è anche come la voce di una grande tromba e come la voce di grandi tuoni che dice “alleluia”. Secondo Gioacchino da Fiore, ad iniziare la lode è un santo, quasi fosse la grande tromba di Dio, alla cui voce la lode subito risuona su molte bocche come la voce di molte acque, la quale, fatta più ampia nel suo estremo quasi quella di grandi tuoni, perviene fino ai confini della terra. Alla triplice specie della voce corrisponde una triplice proprietà o perfezione della lode: è efficace nel muovere come la voce di una grande tromba, irriga con la multiforme devozione e compunzione come la voce di molte acque, aliena nello stupore estatico quasi assorbendo la mente e scuotendo nell’intimo come la voce di grandi tuoni.
Nel notabile XII del prologo della Lectura, la diffusione della fede nel mondo ad opera degli apostoli viene paragonata alla velocità della luce del sole, che procede subitamente da oriente verso occidente e percorre come folgore l’universo. Analogo motivo ad Ap 1, 7, con la citazione da Matteo 24, 27: “Come la folgore proviene da oriente e appare a occidente, così sarà la venuta del Figlio dell’uomo”.
Il procedere come una folgore muovendo da oriente verso occidente è proprio di Cesare, che dalla Troade si scosse contro Tolomeo, e dall’Egitto “scese folgorando a Iuba”, in Mauritania, per poi volgersi “nel vostro occidente”, nella Spagna, “ove sentia la pompeana tuba” (Par. VI, 67-72).
Cesare “si volse” come sentendo una voce dietro di sé, “vox tamquam tube”; e certo il richiamo a sconfiggere a Munda i seguaci di Pompeo dovette essere, come quello di Giovanni, un revocare a cose più alte dopo la vittoria a Tapso su Giuba, re di Mauritania, su cui “scese folgorando” (come verso cose inferiori). Le folgoranti imprese di Cesare precedono la venuta di Cristo, di cui sono “figura” e preparazione. Come afferma Gioacchino da Fiore, citato ad Ap 16, 18, il folgorare è segno del nuovo che Dio intende fare sulla terra: “quando Deus vult mutare statum ecclesie precedunt ante per aliquot annos fulgura miraculorum et voces exhortationum et tonitrua spiritualium eloquiorum, ut homines excitentur et intelligant quod novum aliquid facturus sit Dominus super terram”.
Nell’elogio di san Francesco, la povertà, impersonata nel pescatore Amiclate descritto da Lucano (Phars., V, 515-531), venne trovata imperturbabile da Cesare in persona, al suono della cui voce tutto il mondo era scosso di paura, variazione del tema paolino del suono della voce che perviene fino ai confini della terra, “efficax ad movendum sicut est vox magne tube” (Par. XI, 67-69). Anche il suono della fama delle opere volpine di Guido da Montefeltro si diffuse fino agli estremi del mondo (Inf. XXVII, 76-78).
Tab. 2
[LSA, cap. I, Ap 1, 10 (VIa circumstantia visionum)] Sexta circumstantia est sollempnis iussio sibi facta ut visiones has sollempniter scribat et septem ecclesiis Asie mittat, quasi dicat: non meo motu, sed Dei speciali iussu hec scripsi et mitto. Unde subdit: “et audivi post me vocem” (Ap 1, 10).
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Par. VI, 67-72Antandro e Simeonta, onde si mosse,
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Par. XI, 64-69Questa, privata del primo marito,
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[LSA, prologus, Notabile XII] Dicendum quod diffusio fidei per apostolos in orbem universum debuit esse velox instar lucis solaris ab oriente in occidentem subito procedentis et instar fulguris universa subito discurrentis. Hoc enim fuit in gloriam Christi et lucis sue, unde in apertione primi signaculi dicitur exisse vincens ut vinceret (cfr. Ap 6, 2).[LSA, Ap 1, 7 (VIIus primatus Christi secundum quod homo)] “Et videbit eum omnis oculus”, scilicet bonorum et malorum. Non quod eius deitatem videant, sed corpus assumptum in quo omnibus visibiliter et manifeste apparebit. Unde Matthei XXIIII° dicit: “Sicut fulgur exit ab oriente et apparet in occidente, ita erit adventus Filii hominis” (Mt 24, 27). Per hoc autem monstrat eum iudicaturum omnes tam bonos quam malos. |
Ap 1, 15/14, 2/19, 6 (vox aquarum multarum)
Si possono ancora collazionare i luoghi nei quali, nell’Apocalisse, compare l’espressione “voce di molte acque”.
La settima perfezione di Cristo come sommo pastore (prima visione) è la risonanza della celebre sua dottrina e la feconda irrigazione che da essa deriva per mezzo della voce della predicazione. Per questo si dice: “e la sua voce come la voce di molte acque” (Ap 1, 15), cioè come la voce di piogge inondanti e come l’impeto di fiumi e il mugghiare del mare.
Un passo simmetrico è ad Ap 14, 2. La quarta delle sette prerogative attribuite ai compagni dell’Agnello sul monte Sion consiste nell’eccellenza del cantico di giubilo, a sua volta magnificato in sette modi (i primi tre modi sono stati esaminati anche altrove). Il secondo modo consiste nell’essere questo canto come la “voce di molte acque”, la quale procede concordemente unita come un solo suono e un solo suonatore dal grande e numeroso collegio dei santi e dai loro affetti, al modo della voce di una grande e abbondante pioggia che riunisce il suono di innumerevoli gocce: è suono di un’acqua che irriga, impingua, rinfresca con le lacrime e con sospiri ruggenti. Il terzo modo della voce è di essere “vox tonitrui magni”.
Ancora, ad Ap 19, 6, la “voce di molte acque” – qui sopra già considerata -, nella gaudiosa festa delle nozze di Cristo con la Chiesa, è anche come la voce di una grande tromba e come la voce di grandi tuoni che dice “alleluia”. Secondo Gioacchino da Fiore, ad iniziare la lode è un santo, quasi fosse la grande tromba di Dio, alla cui voce la lode subito risuona su molte bocche come la voce di molte acque, la quale, fatta più ampia nel suo estremo quasi quella di grandi tuoni, perviene fino ai confini della terra. Alla triplice specie della voce corrisponde una triplice proprietà o perfezione della lode: è efficace nel muovere come la voce di una grande tromba, irriga con la multiforme devozione e compunzione come la voce di molte acque, aliena nello stupore estatico quasi assorbendo la mente e scuotendo nell’intimo come la voce di grandi tuoni.
Si può aggiungere il passo tratto da Ap 1, 10-12 – qui sopra considerato -, relativo alla “vox magna” della guida, per apprendere la quale Giovanni si volge indietro, anch’essa in forma di tromba il cui suono, come scrive san Paolo ai Romani, percorre tutta la terra fino ai confini del mondo (Rm 10, 18).
Il motivo della voce che dice alleluia come una tromba (“inchoante hanc laudem aliquo magno sancto, quasi magna tuba Dei”, Ap 19, 6) –, e che risuona subito su molte bocche (“statim resonabit laus in ore multorum”), si rinviene nell’Eden prima dell’apparizione di Beatrice: uno dei vegliardi, “quasi da ciel messo”, grida cantando per tre volte le parole del Cantico dei Cantici “Veni, sponsa, de Libano”, seguito da “tutti li altri appresso”. Sono “cento” gli angeli i quali, “ad vocem tanti senis”, si levano sul carro come i beati al suono della tromba del giudizio finale risorgeranno ciascuno dalla propria tomba cantando alleluia con la voce rivestita dagli organi corporei (Purg. XXX, 10-18). Nel cielo delle stelle fisse, alla “circulata melodia” dell’angelo, che “si sigillava”, tutte le altre luci facevano risuonare il nome di Maria (Par. XXIII, 109-111).
L’alienazione estatica provocata dalla voce (“ad extatice stupefaciendum et alienandum et quasi ad cordis cerebrum absorbendum et funditus concutiendum”, Ap 19, 6) è propria del canto di Casella, le cui note sulla canzone Amor che ne la mente mi ragiona tutti ascoltano fissi e attenti “come a nessun toccasse altro la mente” (Purg. II, 115-119).
Lo stesso modo della voce, “quasi vox tonitruorum magnorum”, è nel “grido di sì alto suono”, simile al tuono, emesso dai beati che nel cielo di Saturno confermano le parole di Pier Damiani contro i prelati, grido che opprime di stupore il poeta, per cui egli si volge alla sua guida (Par. XXI, 139-142; XXII, 1-2: la “vox magna” udita da Giovanni ad Ap 1, 10, verso la quale si volge indietro, è la voce della guida che gli sta dietro le spalle).
Beatrice ha “voce di spedito duce”: di fronte alla sua bellezza, la tromba del poeta cede “a maggior bando” (Par. XXX, 34-38).
L’impeto del fiume designante la dottrina di Cristo che irriga (Ap 1, 15) è tema appropriato a san Domenico, che percuote il suo impeto negli sterpi eretici “quasi torrente ch’alta vena preme” e da cui derivano “diversi rivi / onde l’orto catolico si riga” (Par. XII, 97-105). Si è già detto del suono della voce di Cesare, “colui ch’a tutto ’l mondo fé paura” («“in omnem” enim “terram exivit sonus eorum”, Ap 1, 10 … ad extremum autem maior effecta, quasi tonitruorum magnorum, perveniet usque ad fines terre», Ap 19, 6), ma che “trovò sicura” la povertà con Amiclate (Par. XI, 67-69). Tommaso d’Aquino (che narra di Francesco) e Bonaventura (che narra di Domenico) rinviano dunque nel poema alla medesima pagina esegetica dell’Olivi.
Il ruggire del mare (Ap 1, 15: “impetus fluminum et marinorum fluctuum et rugituum”) sta nel mugghiare “come fa mar per tempesta”, che risuona nel secondo cerchio infernale (Inf. V, 28-29). La voce di Guido da Montefeltro mugghia come il toro (“’l bue cicilian”) costruito per Falaride (Inf. XXVII, 7-10), il fuoco che la nasconde “rugghia” (ibid., 58; “Sonat etiam quasi cum irriguo … rugientium suspiriorum”, Ap 14, 2), il suono della fama delle opere volpine si diffonde fino agli estremi del mondo (ibid., 76-78). Ruggisce anche la porta del Purgatorio, sonante nei cardini (Purg. IX, 133-138).
La voce irrigua e pingue di lacrime e di sospiri (Ap 14, 2: “Sonat etiam quasi cum irriguo pinguium et lavantium et refrigerantium lacrimarum et rugientium suspiriorum”) è quella che sgorga da Dante pentito di fronte ai rimproveri di Beatrice (Purg. XXX, 85-99; XXXI, 19-21). “Lagrime e sospiri” dapprima congelati come neve, poi, dopo il pietoso temperamento dato dal canto degli angeli, scioltisi in voce ed acqua, secondo la duplice sapienza di Cristo, rigida per purgare e condiscendente, come neve e come lana, designata dai suoi crini nella quarta perfezione del sommo pastore (Ap 1, 14).
Tab. 3
“et audivi post me vocem” (Ap 1, 10)revocatur
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suono uscìo, duca, volgiti, tutto ’l vedrai, mi richiamava, volsi (Inf. X, 28, 30, 31, 33, 115, 122)volsi le spalle, reducemi (Inf. XV, 52, 54)volgi ’l viso, mi volsi (Purg. III, 104, 106)duca, di retro a me, rivolsi al suon (Purg. V, 2, 3, 7)dietro, duca, dietro a noi, ci volgemmo (Purg. XXI, 5, 10, 14)e ciò che vien di retro a lor non guardi, duci (Purg. XXIX, 63, 64)mi volsi al suon del nome, lo rivocai (Purg. XXX, 62, 135)suon, voce, a tutto ’l mondo (Par. XI, 68, 69) |
“et vox illius tamquam vox aquarum multarum” (Ap 1, 15)doctrine
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mugghia, mar (Inf. V, 29)mugghiò, mugghiava, voce, rugghiato, al fine de la terra il suono uscie (Inf. XXVII, 7, 10, 58, 78)mi suona, come a nessun toccasse altro la mente (Purg. II, 114, 117)sonanti, rugghiò (Purg. IX, 135, 136)e un di loro, quasi da ciel messo … e tutti li altri appresso, bando, voce, alleluiando, ad vocem (Purg. XXX, 10, 12, 13, 15, 17)lagrime, sospiri, acqua ; lagrime, sospiri, voce (Purg. XXX, 91, 98; XXXI, 20-21)si volse, sentia, tuba (Par. VI, 71, 72)dottrina, impeto, si riga (Par. XII, 97, 101, 104)suono, tuono ; stupore, guida, mi volsi (Par. XXI, 140-142; XXII, 1-2)e tutti li altri … facean sonare (Par. XXIII, 110-111)tuba, voce, duce (Par. XXX, 35, 37) |
Tab. 4
La successione di “fulgura, voces, tonitrua” si ripete più volte nell’Apocalisse : Ap 4, 5 (nella trattazione della “radice” della seconda visione); Ap 8, 5 (“radice” della terza visione); 11, 19 (“radice” della quarta visione) e 16, 18 (“radice” della sesta visione). In tutti i casi, salvo che ad Ap 4, 5, il gruppo dei forti influssi ed effetti si conclude con il terremoto. In due casi (Ap 11, 19 e 16, 21) si aggiunge l’effetto della grandine. Si tratta, secondo Gioacchino da Fiore, dei segni inviati da Dio per indicare che di lì a poco intende procedere a mutare lo stato della Chiesa (Ap 16, 18). Al di là della citazione di Gioacchino, la sequenza si registra in alcuni luoghi della Commedia. In particolare, le “voci”, udite in terra, umane, razionali, soavi e modeste – il parlare di Beatrice (Inf. II, 56-57), degli “spiriti magni” nel “nobile castello” del Limbo (Inf. IV, 114), di Salomone (Par. XIV, 35), di Cacciaguida (Par. XVI, 32) – sono state considerate altrove, come pure il “terremoto”.
Ap 14, 2 (et vocem quam audivi sicut citharoedorum citharizantium in citharis suis)
Il capitolo XIV dell’Apocalisse si apre con la descrizione della virtù e della gloria dei santi del sesto stato che hanno vinto le persecuzioni dell’Anticristo e stanno con l’Agnello sul monte Sion. La quarta delle sette prerogative attribuite a questi compagni dell’Agnello consiste nell’eccellenza del cantico di giubilo, a sua volta magnificato in sette modi (sopra è stato considerato il secondo modo, “tamquam vocem aquarum multarum”). Il quarto modo, o proprietà, della voce cantante è di essere oltremodo soave, giocosa, modulata e proporzionata (Ap 14, 2): “e la voce che udii era come quella dei citaristi che si accompagnano nel canto con le loro arpe”. Secondo Gioacchino da Fiore, la parte vuota della cetra designa la povertà volontaria: come infatti un vaso musicale non suona bene se non sia concavo, così neppure la lode di Dio risuona bene se non proceda da una mente umile e svuotata delle cose terrene.
Le corde della cetra – afferma Olivi – sono le diverse virtù, che non suonano se non siano tese, e non concordano se non siano proporzionate l’una con l’altra e non vengano toccate in ugual proporzione. È infatti necessario che gli affetti virtuali siano protesi in modo fisso e attento verso i loro termini e oggetti e che, secondo le dovute circostanze, una virtù e i suoi atti concordino in modo proporzionato con le altre virtù e i loro atti e che essi siano congiunti in modo concorde, cosicché il rigore della giustizia non escluda né venga a turbare la dolcezza della misericordia né al contrario, oppure una lieve mitezza impedisca il dovuto zelo della santa correzione e ira, o al contrario. La cetra è Dio stesso, o l’universa sua opera, della quale ciascuna parte o perfezione è una corda che, toccata dall’affetto del contemplante o del lodatore, rende con le altre una risonanza mirabilmente giocosa. Citarista è solo colui che, da maestro, ha l’arte e il frequente uso (il “magister artificiose citharizandi”). Gli altri suonano in modo discordante e rustico o senz’arte, e se talvolta compulsano bene, ciò è dovuto al caso piuttosto che alla prudenza dell’artista.
Ad Ap 18, 22-23 (sesta visione) viene mostrato come Babylon, la Chiesa carnale, verrà privata in eterno di ogni canto di gioia, di ogni gaudio e di ogni opera o artificio utile o ricercato e della gioiosa luce e delle nozze, per cui si dice che non si udrà più in essa la “voce della mola”, che designa il grano o una qualche utilità, e la “voce di sposo e sposa”, che designa la letizia delle nozze.
Ad Ap 9, 9 (terza visione, quinta tromba) la “voce delle ruote” costituisce la settima proprietà delle locuste, le cui sentenze, che queste presumono altissime e volanti sopra le altre, formano come il suono di ruote e di eserciti tumultuosi o di carri che corrono in guerra contro ogni sentenza contraria, per quanto vera.
Se si confronta Ap 14, 2 con 18, 22-23 e con 9, 9 (nel secondo e nel terzo caso l’esegesi viene in poesia interpretata in senso positivo), si vede che la vox citharedorum del primo passo è anche vox mole e vox sponsi et sponse nel secondo e vox rotarum nel terzo. Dalla collazione dei tre passi si ottengono alcuni motivi propri della seconda corona di spiriti sapienti, fra i quali è san Bonaventura, che in apertura di Par. XII si aggiunge alla prima, nella quale è Tommaso d’Aquino, cingendola: il ruotare della prima “santa mola”, il volgersi delle “due ghirlande” in modo concorde, “moto a moto, canto a canto”, e il rispondere dell’estrema all’intima come due archi dell’iride (tema del concordare, nelle corde della cetra, una virtù con l’altra), il vincere da parte del canto ogni umana poesia, per quanto dolce (tema della voce soave e gioconda da Ap 14, 2 e del non poter ridire il canto nuovo da Ap 14, 3, dove è esposta la settima proprietà della voce cantante). Ai motivi della vox citharedorum da Ap 14, 2 rinviano anche i versi finali di Par. XX.
Il tema della cetra (o dell’arpa) compare anche ad Ap 5, 8 (“radice” della seconda visione), al momento della lode a Cristo che apre il libro chiuso dai sette sigilli, lì dove si dice: “E quando ebbe aperto il libro, i quattro animali e i ventiquattro seniori caddero prostrati davanti all’Agnello, avendo ciascuno una cetra e coppe d’oro piene di profumi, che sono le preghiere dei santi”. Secondo Riccardo di San Vittore, le cetre designano le buone opere che vengono toccate dalle mani perché suonino, e allora questo strumento sta a indicare la virtù della vita attiva. Se il toccare le corde della cetra e il loro risuonare sono connessi con il “canto nuovo” di cui ad Ap 5, 9, ciò significa che tutti gli affetti virtuali e gli atti sono toccati e risuonano in questa lode insieme al canto di gioia: un pieno e perfetto gioire tocca infatti tutte le virtù e da tutte trae il risuonare della lode, e ciascuna virtù è come una corda della cetra, cioè della mente che gioisce. Anche in questo caso, l’esegesi è foriera di intensi sviluppi, soprattutto se collazionata con il passo simmetrico di Ap 14, 2.
La vox mole è connessa ad Ap 18, 22-23 con la letizia delle nozze, e la letizia, da cui sono “pinti e tratti” (“pulsare” e “trahere” le corde della cetra ad Ap 5, 9; una variante è nelle ruote dell’orologio di Par. X, 142, “che l’una parte e l’altra tira e urge”), l’andare “a rota” (vox rotarum) e il levar “la voce” si ritrovano ancora negli spiriti sapienti, che in Par. XIV, 19-24 mostrano “nova gioia / nel torneare e ne la mira nota” (il cantico nuovo) alla domanda posta da Beatrice per conto di Dante. Chi si lamenta che qui, in terra, si muoia per andare a vivere in paradiso – aggiunge il poeta (ibid., 25-27) – “non vide quive / lo refrigerio de l’etterna ploia”, che è motivo proveniente dall’esegesi della “voce di molte acque”, voce di una grande e abbondante pioggia, che lava e rinfresca (seconda proprietà della voce cantante, ad Ap 14, 2, per cui la vox citharedorum è anche vox mole, vox sponsi et sponse, vox rotarum e vox pluvie).
Ruotare e letiziare sono propri degli spiriti amanti Cunizza e Folchetto di Marsiglia (Par. IX, 64-72) e di Giuda Maccabeo, nel momento di essere nominato da Cacciaguida (Par. XVIII, 40-42; la “mola” è sostituita dal “paleo”, cioè dalla trottola).
Di rilievo la presenza dei temi da Ap 14, 2 in un luogo relativo alle vicende che si susseguono nell’Eden (Purg. XXXII, 28-33). Matelda, Stazio e Dante (Virgilio ha già lasciato il campo) seguono la ruota destra del carro-Chiesa tirato dal grifone-Cristo che, volgendosi verso destra, descrive nel suo girare un arco minore della ruota sinistra: “seguitavam la rota / che fé l’orbita sua con minore arco”. Nell’ “alta selva vòta … temprava i passi un’angelica nota”. Il ‘seguire’ il carro tirato da Cristo contiene il tema, da Ap 14, 4, dei compagni dell’Agnello, i quali lo seguono ovunque vada (è la sesta prerogativa dei compagni dell’Agnello); la “rota”, sineddoche per “carro”, è da riferire alla “vox rotarum” di Ap 9, 9, che è anche “vox curruum” (interpretata in senso positivo); il suo piegare più stretto “con minore arco”, nonché l’essere la selva “vòta”, è allusione alla “vacuitas cithare” di cui dice Gioacchino da Fiore nella citazione oliviana ad Ap 14, 2, che designa nel suo essere concavo la povertà volontaria e la lode di Dio che risuona bene se proceda da una mente umile e svuotata delle cose terrene (“vòta” rima con “nota”). Ciò indipendentemente dal senso letterale, per cui l’essere “vòta” la selva dell’Eden si intende ‘vuota di uomini’, per “colpa di quella ch’al serpente crese”.
Tutta l’esegesi della cetra da Ap 14, 2, e in particolare la parte dove si tratta dell’arte divina e dell’uso frequente e non casuale, è soggetta a numerose variazioni. Se ne dà qui di seguito qualche esempio.
Delle due chiavi date da san Pietro all’angelo portiere del Purgatorio (cui è appropriato il tema del “magister artificiose citharizandi”), quella d’oro (l’autorità del sacerdote di rimettere i peccati) è più preziosa, ma quella d’argento (la discrezione, che apre per prima) “vuol troppa / d’arte e d’ingegno avanti che diserri” (“citharedus non dicitur nisi per artem et frequentem usum … ascribitur … prudentie artis”; cfr. “Perch’ io lo ’ngegno e l’arte e l’uso chiami” a Par. X, 43); entrambe comunque debbono girare dritte per la toppa (Purg. IX, 121-126). Superata la porta, “che ’l mal amor de l’anime disusa, / perché fa parer dritta la via torta” (Purg. X, 1-3), i due poeti salgono “per una pietra fessa, / che si moveva e d’una e d’altra parte, / sì come l’onda che fugge e s’appressa”. A questo succedersi di sporgenze e di rientranze nella roccia, che designano l’ “asperitas” e la “lenitas” (“ita quod rigor iustitie non excludat nec perturbet dulcorem misericordie nec e contrario”, come detto ad Ap 14, 2), corrispondono le parole di Virgilio, anch’egli maestro citarista: “Qui si conviene usare un poco d’arte / … in accostarsi / or quinci, or quindi (che equivale al concordare le corde della cetra) al lato che si parte”, cioè alle rientranze evitando le sporgenze (Purg. X, 7-12; è presente anche il tema del muoversi delle pietre, cedevoli e condiscendenti, cui si ricorre per rifugio, che appartiene all’apertura del sesto sigillo ad Ap 6, 15-16). Nella costa che sale del primo girone sono intagliati nel marmo esempi di umiltà, tali che non solo Policleto ma la stessa natura ne rimarrebbero scornati. Il secondo di questi rilievi, che rappresenta Davide che trasferisce l’arca santa, dà all’occhio l’illusione del canto della gente divisa in sette cori e del profumo degli incensi: così, lì dove l’artista divino ha concordato vista e udito nel canto, occhi e naso nel profumo immaginato, i sensi del poeta che guarda “e al sì e al no discordi fensi” (Purg. X, 58-63). Da notare i versi “Lì precedeva al benedetto vaso, / trescando alzato, l’umile salmista” (ibid., 64-65), che rinviano alla citazione di Gioacchino da Fiore: “Sicut enim vas musicum non bene resonat nisi sit concavum, sic nec laus bene coram Deo resonat nisi a mente humili et a terrenis evacuata procedat (e sarà dunque da considerare la variante procedea)”.
Il motivo della dolcezza e soavità della voce, modulata con l’arte e l’uso frequente, è nelle parole che Dante rivolge a Guido Guinizzelli: “Li dolci detti vostri, / che, quanto durerà l’uso moderno, / faranno cari ancora i loro incostri” (Purg. XXVI, 112-114). La risposta di Guido, che addita Arnaut Daniel come “miglior fabbro del parlar materno”, riprende il tema dell’artista (ibid., 115-117).
All’ “aura dolce” che le colpisce come soave vento, le fronde della foresta spessa e viva dell’Eden piegano pronte tremolando verso ponente, ma nel far ciò non si discostano troppo dalla loro normale posizione (“dal loro esser dritto”) così da dar modo agli “augelletti per le cime … d’operare ogne lor arte” (Purg. XXVIII, 7-15). In questo concordare gli atti in modo proporzionato, gli uccelli “con piena letizia l’ore prime, / cantando, ricevieno intra le foglie, / che tenevan bordone a le sue rime” (ibid., 16-18).
Carlo Martello, trattando nel cielo di Venere della diversità delle indoli umane, dichiara che le influenze celesti sono ‘provedute’ nel loro fine da Dio, come una saetta diretta al proprio bersaglio (“Oportet enim affectus virtuales ad suos fines et ad sua obiecta fixe et attente protendi”: la corda è elemento che accomuna la cetra della similitudine teologica e l’arco di quella poetica). Se ciò non fosse, gli effetti prodotti dai cieli “non sarebbero arti, ma ruine” (il maestro citarista, che ha l’arte, non tocca le corde a caso), cosa impossibile perché presupporrebbe imperfezione nelle intelligenze motrici dei cieli e quindi nel Primo Motore (Par. VIII, 103-111). La “circular natura … fa ben sua arte”, afferma l’angioino, cioè i cieli i quali, come cause seconde, distribuiscono a ciascuno l’attitudine e l’ufficio che ne deriva, ma questa natura individuale “sempre … se fortuna trova / discorde a sé … fa mala prova” (ibid., 127-144), c’è cioè differenza tra il “magister artificiose citharizandi” (Dio, la natura) e quanti (la fortuna, ma soprattutto il mondo che non pone mente “al fondamento che natura pone”) “discordanter et rusticaliter seu inartificialiter citharizant, et si aliquando pulsant bene casualiter contingit, unde ascribitur casui potius quam prudentie artis”: “Ma voi torcete a la religïone / tal che fia nato a cignersi la spada, / e fate re di tal ch’è da sermone; / onde la traccia vostra è fuor di strada” (ibid., 145-148), nel caso, a cui probabilmente si allude, dei due fratelli di Carlo Martello, il frate minore Ludovico e il re Roberto di Napoli.
Nel canto seguente, il tema dell’artista è utilizzato da Folchetto di Marsiglia, il quale nel terzo cielo non si pente ricordando le passioni passate, ma ride contemplando “ne l’arte ch’addorna / cotanto affetto” (Par. IX, 103-108; la lezione del Petrocchi “cotanto affetto” è preferibile a “cotanto effetto”, data la ripetuta presenza del termine nel contesto del passo relativo all’artista).
I motivi, presenti ad Ap 14, 2, della cetra (le opere di Dio, nelle quali ciascuna perfezione è una corda dello strumento, concorde con le altre) e del citarista (colui che possiede l’arte, per frequente uso e prudenza) sono presenti anche nell’invito fatto dal poeta al lettore, in Par. X, 7-27, a levare con lui lo sguardo “a l’alte rote”, in quella parte in cui, nell’equinozio di primavera, si incontrano il movimento diurno equatoriale di tutti i corpi celesti da levante a ponente e quello annuo zodiacale dei pianeti da ponente a levante. Si tratta di movimenti opposti ma l’un con l’altro concordanti. Nelle opere divine c’è una concordia tra due elementi conformi, e c’è una concordia, altrettanto bella e piacente, tra due elementi contrapposti: “Sicut enim correspondentia concordie similis et conformis est pulchra et placens, sic et correspondentia per decentem contrapositionem. Et ideo in operibus Dei non semper est querenda correspondentia prima” (ad Ap 11, 12). A quest’ultimo tipo appartiene il divergere, a partire dal punto d’incontro equinoziale, dell’eclittica (“l’oblico cerchio che i pianeti porta”) rispetto all’equatore, essendo la prima inclinata di 23 gradi e mezzo rispetto al secondo. Una strada, quella dei pianeti, necessariamente “torta”, perché diversamente “molta virtù nel ciel sarebbe in vano, / e quasi ogne potenza qua giù morta”, se cioè nell’eclittica e nell’equatore ci fosse concordia fra simili.
La concordia dei dissimili è per Gioacchino da Fiore la chiave per comprendere il rapporto tra Vecchio e Nuovo Testamento, come dimostra l’ampia citazione che Olivi considera ad Ap 12, 6. Gioacchino sostiene che la concordia non è esigibile in modo assoluto. Come la persona del figlio è simile a quella del padre, e tuttavia altra è la natura del padre e altra quella del figlio, così il Nuovo Testamento è simile al Vecchio, ma ha diversa natura. I due Testamenti sono come alberi simili nel tronco ma dissimili nei rami e nelle foglie, ed è pertanto fallace volerli legare con un’unica legge di concordia. Colui che ha condotto con sapienza le cose dove ha voluto ha inserito tra i fili generali vari colori, così da decorare in modo diverso la superficie delle tele e da far apparire la diversità tra tela e tela.
Nel cielo di Venere, Carlo Martello, affermato il principio aristotelico che un ordinato vivere civile comporta la differenziazione delle indoli e degli uffici, sostiene che “le radici” dell’operare umano debbono essere diverse in ciascuno, per cui c’è chi nasce legislatore, come Solone, e chi guerriero, come Serse; chi sacerdote, come Melchisedech, e chi artefice, come Dedalo. La natura dei figli sarebbe sempre simile a quella dei padri (le tele, l’antica e la nuova, sarebbero sempre uguali) se la provvidenza divina non intervenisse a rendere dissimili le indoli per mezzo degli influssi celesti (i fili di colori diversi) come, si dirà due canti dopo, ha reso dissimili i due moti del cielo, uno dei quali “si dirama” dall’altro (gli alberi sono simili nelle radici, dissimili nei rami e nelle foglie). In tal modo i cieli imprimono nei singoli uomini il suggello di una particolare indole, non distinguendo da casa a casa: così è avvenuto che Esaù sia stato diverso dal gemello Giacobbe fin nel concepimento e che un eroe, Romolo, sia nato da un padre di così vili origini da doverlo poi considerare generato da Marte (Par. VIII, 118-135; X, 13-15).
Il lettore potrà così cominciare a vagheggiare l’arte di un maestro che mai distoglie lo sguardo dalla propria opera (Par. X, 10-12): si può qui richiamare il tema del conservare, presente nel “canto nuovo” di Ap 5, 9 che conserva i suoi cantanti, oppure la sesta prerogativa dei santi che stanno con Cristo sul monte Sion, che consiste nel seguire ovunque l’Agnello, cioè nel non dipartire mai da lui lo sguardo (Ap 14, 4). Sempre in Par. X (vv. 43-45), “lo ’ngegno e l’arte e l’uso”, per quanto chiamati dal poeta, non bastano a far immaginare la luminosità delle anime del cielo del Sole.
Un altro esempio di utilizzazione di Ap 14, 2 è in Par. XIII, 16-27, dove la doppia danza delle luci beate è paragonata a due costellazioni, che si girano “per maniera / che l’uno andasse al primo e l’altro al poi”, altro esempio di concordia fra dissimili procedendo le due corone l’una in una direzione, l’altra in quella opposta, danza che va al di là di ogni uso umano (tema dell’arte e dell’uso frequente unito al tema, da Ap 14, 3, del non poter ripetere il canto).
Il tema dell’arte ritorna due volte nel discorso di Tommaso d’Aquino. Una prima volta (Par. XIII, 73-78) per spiegare che la natura (cioè le cause seconde nella generazione) rende sempre il sigillo della luce divina in maniera imperfetta, come l’artista a cui trema la mano, luce che tuttavia parrebbe tutta se la materia fosse perfettamente disposta e il cielo fosse nella sua virtù suprema (da notare la distinzione tra “l’artista” e “l’abito de l’arte” difettivo: non si dà maestro citarista “nisi per artem et frequentem usum”).
Una seconda volta (ibid., 115-117, 121-123) il discorso di Tommaso prima definisce stolti coloro che affermano e negano “sanza distinzione … ne l’un così come ne l’altro passo”, cioè in modo precipitoso e temerario (variazione del tema della necessaria concordia delle opposte corde, come lo zelo e la misericordia), poi si appunta su colui che, come un pescatore, si mette a cercare la verità senza avere l’arte per farlo, tornando peggiorato nell’ignoranza rispetto a quando era partito (tema dell’arte). L’espressione “non torna tal qual e’ si move”, che esprime un discordare tra un prima e un poi proprio di chi non possiede l’arte per frequente uso, conduce in ben altro contesto ai versi, più antichi e famosi, con cui Dante replica a Farinata che i suoi ‘maggiori’, se cacciati due volte (nel 1248 e nel 1260), tornarono a Firenze in entrambi casi (nel 1251 e nel 1266), mentre i ghibellini non appresero bene l’arte di ritornare: «“S’ei fur cacciati, ei tornar d’ogne parte”, / rispuos’io lui, “l’una e l’altra fïata; / ma i vostri non appreser ben quell’ arte”» (Inf. X, 49-51). Le opere divine, scrive Olivi, sono come il suono di un maestro citarista che sa concordare “iustitia” e “lenitas”, rigore e dolcezza; diversamente si tratta di un suonare discordante che non deriva dall’arte e dal frequente uso. Giustizia e pietà, le due vie di Dio, valgono anche per l’esule. Non diversamente in Tre donne, nel secondo congedo, l’esule fiorentino scriveva: “camera di perdon savio uom non serra, / ché ’l perdonare è bel vincer di guerra”.
L’arte umana, dice Virgilio richiamandosi alla Fisica di Aristotele, segue come può la natura (“come ’l maestro fa ’l discente”), che a sua volta prende il corso dall’intelletto e dall’arte divina, un seguire Dio che difetta all’usuraio, che tiene altra via ponendo la speranza nel lucro (Inf. XI, 97-111): esempio di posizioni aristoteliche armate dalle maglie della corazza della Lectura super Apocalipsim.
Tab. 5
Tab. 6
Tab. 7 (cfr. Nota)
Nota alla Tabella 7
Il “panno” fornito dall’esegesi di Ap 12, 6 (nella citazione di Gioacchino da Fiore relativa alle due tele, il Vecchio e il Nuovo Testamento, in cui il sommo artefice inserisce differenti fili) è stato utilizzato in vari punti del poema.
Le parole di Carlo Martello in Par. VIII, se lette alla luce del commento apocalittico dell’Olivi, sono una potente conferma della più antica tesi relativa al Veltro (già propria di Iacopo Alighieri), secondo la quale “tra feltro e feltro” (Inf. I, 105) significherebbe ‘tra cielo e cielo’. Virgilio intende dire che il Veltro nascerà in un’ottima disposizione degli influssi celesti. L’antico poeta non conosce, però, il momento preciso, per cui genericamente dice “tra feltro e feltro – inter telam et telam”, fa cioè riferimento a tele ancora prive del suggello del sommo artefice. Lo stesso Dante, d’altronde, mostra di ignorare tale momento allorché, maledicendo l’ “antica lupa”, lamenta a Purg. XX, 13-15: “ O ciel, nel cui girar par che si creda / le condizion di qua giù trasmutarsi, / quando verrà per cui questa disceda?”.
Né questa tesi contrasta con quella, già esaminata su questo sito, per cui il Veltro-Elia verrà, in un serotino convivio spirituale, a riconciliare Antico e Nuovo Testamento, padri e figli. Con il “cielo” viene infatti indicata la Sacra Scrittura: “per celum designatur hic ecclesia et scriptura sacra”, come scritto nell’esegesi di Ap 4, 2. L’intelligenza spirituale di questa, chiusa nella durezza del senso umano fino alla resurrezione di Cristo, sarà ancor più aperta nel sesto stato, il tempo moderno del secondo avvento nei suoi discepoli spirituali, nel quale sta già operando un “novum saeculum”. [Maggiori dettagli in Il sesto sigillo, 12.4]
San Bernardo varia il tema gioachimita, da Ap 12, 6, nell’esporre il motivo per cui, nella rosa celeste, i bambini sono collocati in gradi differenti: come nella creazione Dio assegna a suo piacimento alle anime una diversa dote di grazia, il che appare evidente nei due gemelli Esaù e Giacobbe i quali, l’uno inviso a Dio e l’altro eletto, furono discordi già nel grembo materno, così in proporzione di tal dono – “secondo il color d’i capelli” – i bambini vengono assegnati a diversi gradi di beatitudine non in base al merito che deriva dal loro operare ma in base alla differenza “nel primiero acume” loro innato, che è la disposizione a vedere Dio da questi data per grazia (Par. XXXII, 61-75).
I motivi dell’albero e del volere divino (Ap 12, 6) sono accostati in Purg. VII, 121-123, a sostegno del principio che la nobiltà umana non si trasmette per via di sangue, ma è dono di Dio ai singoli individui: “Rade volte risurge per li rami / l’umana probitate; e questo vole / quei che la dà, perché da lui si chiami”.
Il tema dell’essere i Testamenti simili e al tempo stesso dissimili, uno e insieme due, è presente rovesciato nei due ladri Cianfa Donati, già trasformato in serpente, e Agnolo Brunelleschi, ancora uomo, i quali mischiano il loro colore in modo che né l’uno né l’altro paia quello che era ed essi non siano né due né uno: così il colore bruno, che procede innanzi al fuoco su un foglio acceso, non è ancora nero ma il bianco si perde (Inf. XXV, 61-69). Nella successiva trasformazione del serpente in uomo e dell’uomo in serpente, operata fra Guercio Cavalcanti e Buoso, il fumo che emana dai due “vela di color novo” entrambi (ibid., 118-119).
Il motivo della varietà dei colori è proprio di Gerione, che ha il dorso, il petto e i fianchi “dipinti … di nodi e di rotelle” con tanta ricchezza di colori come mai furono i drappi dei Tartari o dei Turchi, e con tanta complessità nel disegno come mai Aracne impose le sue tele (Inf. XVII, 14-18).
Proprio il riferimento ad Aracne conduce di nuovo ai luoghi sopra citati del cielo di Venere, dove dopo Carlo Martello parla Cunizza, la quale utilizza il tema della tela per profetizzare la trama che s’appresta contro Rizzardo da Camino, il signore di Treviso e vicario imperiale ucciso a tradimento nel 1312: “e dove Sile e Cagnan s’accompagna, / tal signoreggia e va con la testa alta, / che già per lui carpir si fa la ragna” (Par. IX, 49-51). Da notare la corrispondenza tra “qui cuncta fecit in sapientia”, della citazione di Gioacchino da Fiore sulle due tele decorate da fili di diversi colori, e “non fer mai drappi Tartari né Turchi … si fa la ragna”. Non sarà casuale che, subito dopo, Cunizza passi ad altra profezia che riguarda Feltro : “Piangerà Feltro ancora la difalta / de l’empio suo pastor, che sarà sconcia / sì, che per simil non s’entrò in malta”, piangerà cioè il tradimento perpetrato dal vescovo francescano di Feltre Alessandro Novello, nel luglio 1314, contro i fuorusciti ferraresi (ibid., 52-54). Feltro, alludendo alla tela, perpetua la tematica del “si fa la ragna” della precedente profezia e concatena le due terzine (strettamente congiunte, concernendo entrambe i Da Camino e la Marca Trevigiana).
Ciò non significa che “tra feltro e feltro” debba intendersi ‘tra Feltre e Montefeltro’, secondo una nota e antica interpretazione. La medesima esegesi è stata utilizzata sia per Inf. I, 105 come per Par. IX, 52. In questo secondo caso, “Feltro” (nome di luogo) ha assunto un valore significante (ragna–Feltro [tela]) per quei versi in cui la citazione del luogo è collocata. Ma è ben più difficile che “feltro” (nome di cosa) possa indicare due distinte località geografiche. In ogni caso, la conferma dell’interpretazione “tra feltro e feltro” come ‘tra cielo e cielo’ esclude l’interpretazione topografica.
Cunizza (Par. IX, 25-36) racconta di sé con i motivi della radice di David, del vecchio e del nuovo (Ap 5, 5; 22, 16). Sorella di Ezzelino da Romano – di “una facella / che fece a la contrada un grande assalto” – è una con lui nello stipite: “D’una radice nacqui e io ed ella”. Il forte contrasto tra il feroce tiranno punito nel Flegetonte che bolle di sangue (Inf. XII, 109-110) e la sorella vinta in terra dall’inclinazione amorosa, per influsso di Venere, stella dove ora rifulge, sembra accennare ai due Testamenti, il Vecchio e il Nuovo, che hanno entrambi una sola radice in Cristo. Più avanti nel canto, Folchetto di Marsiglia riprende il motivo dei due diversi Testamenti di una stessa Scrittura allorché, per precisare con complessa perifrasi il proprio luogo di origine, parla dei “discordanti liti” dell’Europa e dell’Africa, fra i quali è compresa “la maggior valle in che l’acqua si spanda … fuor di quel mar che la terra inghirlanda”, cioè il Mediterraneo (Par. IX, 82-84), precisando che Buggea (Bougie) in Africa e Marsiglia in Europa siano “ad un occaso quasi e ad un orto”, si trovino cioè sullo stesso meridiano (ibid., 91-93). Non è l’unico caso in cui una descrizione geografica concorda con i sensi spirituali contenuti nella Lectura (basti ricordare, per tutte, la descrizione che Tommaso d’Aquino fa di Assisi a Par. XI, 43-54).
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Tab. 8
[LSA, cap. XI, Ap 11, 12 (IIIa visio, VIa tuba)] “Et viderunt eos inimici eorum” (Ap 11, 12), scilicet corporaliter ascendentes in celum. Adverte hic et ubique sumi preteritum pro futuro. Nota etiam quod inimici Christi non viderunt Christum ascendentem in celum, sed soli eius discipuli, quia tunc erant Iudei excecandi et Christus abscondendus ab eis et postmodum sub alio congruo ordine erat per apostolos gentibus predicandus et manifestandus. Nunc vero totus orbis erit convertendus et Antichristus cum suis complicibus erit ex sanctorum gloria confundendus et plagandus. Sicut enim gloriosum est Deo quod aliquando iuste excecandis se ingeniose abscondat et prudentiam sui ingenii nobis in hoc ipso demonstret, et etiam ordinem procedendi ab occulta radice per strictum stipitem ad ramorum latam et altam spansionem, sic in gloriam Dei cedit quod aliquando per subitam manifestationem sue potentie et glorie con[ter]at et confundat adversarios suos et ad se convertat et illuminet multos, in quo et monstrat alium ordinem procedendi a superiori ad inferiora et a fontali et patula luce solis ad expansam et claram et subitam diffusionem radiorum suorum in totum orbem. Tuncque per quandam pulchram contrapositionem correspondent ultima primis. Sicut enim correspondentia concordie similis et conformis est pulchra et placens, sic et correspondentia per decentem contrapositionem. Et ideo in operibus Dei non semper est querenda correspondentia prima. |
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Par. XII, 49-52non molto lungi al percuoter de l’onde
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Par. VII, 73-77, 112-117; XXIX, 25-30Più l’è conforme, e però più le piace ;
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Uccisi dalla bestia ma risorti dopo tre giorni e mezzo, i due testimoni Enoc ed Elia saliranno al cielo in una nube sotto gli sguardi dei loro nemici (Ap 11, 12). A differenza dell’ascensione di Cristo, che non fu vista dai suoi nemici ma solo dai suoi discepoli, poiché allora i Giudei dovevano essere accecati e Cristo doveva essere loro nascosto per venire invece predicato e manifestato ai Gentili, con la resurrezione dei due testimoni la conversione riguarderà tutto il mondo e l’Anticristo, con i suoi complici, sarà confuso e piagato. Come infatti ricade nella gloria di Dio che talvolta si nasconda ingegnosamente a quanti sono giustamente da accecare e ci dimostri con ciò la prudenza del suo ingegno e un ordinato procedere da una radice occulta, tramite un tronco stretto, a un ampio e alto distendersi dei rami, così è proprio della sua gloria un’improvvisa manifestazione di potenza che confonde gli avversari e converte a sé e illumina molti, con il che ci dimostra un altro ordine, che procede dall’alto verso gli inferiori, per cui la luce del sole dalla sorgente subito diffonde in modo aperto, espanso e chiaro i suoi raggi su tutto l’universo. Al primo modo sembra accostabile il nascondersi “talvolta” del sole, “per la lunga foga”, dietro le onde dell’oceano a Par. XII, 49-51; al secondo il più vivace raggiare dell’ “ardor santo” nell’uomo, più a Dio conforme perché creato “sanza mezzo” (Par. VII, 70-75), come pure il raggiare “insieme tutto / sanza distinzïone in essordire” nel “triforme effetto” di “forma e materia, congiunte e purette” (Par. XXIX, 22-30). Nelle opere divine c’è una concordia tra due elementi conformi, e c’è una concordia, altrettanto bella e piacente, tra due elementi contrapposti. |
Come si è già sottolineato più volte, la Commedia risponde a una Lectura super Apocalipsim diversamente organizzata nella materia esegetica. Seppure segue l’ordine dei ventidue capitoli dell’Apocalisse, l’Olivi stesso suggerisce un metodo differente di comprensione e di aggregazione del testo, fondato sui sette stati, cioè sulle epoche nelle quali si articola la storia della Chiesa, prefigurate nell’Antico Testamento. L’Apocalisse si articola in sette visioni: le sette chiese d’Asia, i sette sigilli, le sette trombe, la donna vestita di sole (le sette guerre sostenute dalla Chiesa), le sette coppe, il giudizio di Babylon nelle sette teste del drago, la Gerusalemme celeste. Le prime sei visioni possono essere a loro volta divise in sette momenti, ciascuno dei quali riferibile a uno dei sette stati. Assembrando, per le prime sei visioni, tutti i primi elementi (chiesa, sigillo, tromba, guerra, coppa, momento del giudizio di Babylon), tutti i secondi, i terzi e così di seguito, si ottengono sette gruppi di materia teologica, corrispondenti al complesso dei temi afferenti a ciascuno dei sette stati. A questi sette gruppi se ne aggiungono altri due: l’esegesi della settima visione (senza articolazioni interne) e l’esegesi di capitoli del testo scritturale, o di parti di essi, introduttivi delle successive specificazioni delle singole visioni per settenari, che l’Olivi definisce “radicalia” o “fontalia”. Si ottengono in tal modo nove gruppi: le parti proemiali, i sette assembramenti di settenari e la settima visione. Il grande prologo della Lectura, articolato in tredici notabilia, può essere anch’esso riaggregato secondo i sette stati. Il principio è chiaramente affermato nel notabile VIII del prologo: “[…] si omnia prima membra visionum ad invicem conferas et consimiliter omnia secunda et sic de aliis, aperte videbis omnia prima ad idem primum concorditer referri et consimiliter omnia secunda ad idem secundum et sic de aliis. Et hoc in tantum quod plena intelligentia eiusdem primi multum clarificatur ex mutua collatione omnium primorum, et idem est de omnibus secundis et tertiis et sic de aliis” (Par. lat. 713, ff. 12vb-13ra).
Un libro (la Lectura) contiene dunque, nel prologo, princìpi e criteri affinché l’accorto lettore possa trarne un altro libro, fatto con lo stesso materiale ma ricomposto e distribuito in forma diversa. Questa forma organizzatoria, proposta in contemporanea agli scritti di Raimondo Lullo, era certamente uno strumento mnemonico: i sette stati possono essere infatti assimilati agli innumerevoli settenari della storia sacra. In tal modo l’esegesi dell’ultimo libro canonico si trasforma in una teologia della storia, che comprende per settenari tutta la Scrittura, la quale a sua volta è forma, esempio e fine di ogni scienza [2].
Nel suo rispondersi alla Lectura, la Commedia mostra un ordine interno diverso da quello che appare al lettore: il viaggio di Dante ha un andamento di ciclici settenari, che corrispondono ai sette stati oliviani. È un ordine registrabile per zone progressive del poema dove prevalgono i temi di un singolo stato, che rompe i confini letterali stabiliti dai canti e da tutte le divisioni materiali per cerchi, gironi, cieli. Ogni stato, che ha differenti inizi, è concatenato per “concurrentia”, come le maglie di un’armatura, con quello che precede e con quello che segue. Ciascuno stato ha in sé una grande ricchezza di motivi e contiene inoltre temi di tutti gli altri, consentendo innumerevoli intrecci e variazioni. Si possono in tal modo redigere mappe che comprendano l’ordine spirituale della Commedia. La ricerca è pervenuta a una Topografia spirituale della Commedia, dove per quasi ogni verso, o gruppo di versi, collegamenti ipertestuali conducono al “panno” esegetico fornito dalla Lectura super Apocalipsim, sul quale il “buon sartore” ha fatto “la gonna”, per usare la similitudine proposta da san Bernardo nell’Empireo.
Come dimostrato in questo articolo, la Lectura non fu riorganizzata solo secondo gli status, ma anche, come fosse un dizionario analogico, per parole-chiave, al modo delle distinctiones ad uso dei predicatori, dell’esplicazione cioè dei differenti sensi di una parola nei libri della Scrittura, applicabili, unitamente alle raccolte di exempla, secondo le circostanze. Le variazioni sulla “voce” sono solo un esempio.
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[1] Sulle distinctiones cfr. L.-J. BATAILLON, Les images dans les sermons du XIIIe siècle, in “Freiburger Zeitschrift für Philosophie und Theologie”, 37/3 (1990), pp. 327-395; The Tradition of Nicholas of Biard’s Distinctiones, in “Viator. Medieval and Renaissance Studies”, 25 (1994), pp. 245-288.
[2] Se la tradizione manoscritta non ci ha trasmesso alcun testimone contenente un’organizzazione per stati del testo della Lectura super Apocalipsim, questa forma è però attestata da fonti inquisitoriali. Nel 1318 due teologi – il carmelitano Guido Terreni e il domenicano Pietro de Palude – inviarono al papa Giovanni XXII un memoriale contenente quarantadue articoli erronei estratti da un compendio in catalano della Lectura dell’Olivi intitolato De statibus Ecclesiae secundum expositionem Apocalypsis: cfr. J. M. Pou y Martí, Visionarios, Beguinos y Fraticelos catalanes (Siglos XIII-XV), Vich 1930, pp. 255-258, 483-512. Il medesimo titolo reca una versione (Venetiis 1516, 1525) del quinto libro dell’Arbor vitae di Ubertino da Casale, libro che è una riscrittura del commento dell’Olivi (“incipit tractatus de septem statibus ecclesie iuxta septem visiones beati Johannis in Apocalypsi ”).