La lezione di Stazio sull’origine dell’anima umana è sempre stata oggetto di discussione quanto alle fonti, speculative e dottrinali, di Dante: si tratti di Aristotele, Averroè, Tommaso d’Aquino, Alberto Magno, o Sigieri di Brabante [1]. Qui non interessa distinguere nei vari punti tali possibili fonti, si intende invece mostrare come i versi relativi – in questo canto come negli altri del poema – rinviano alle posizioni dell’Olivi espresse nella Lectura super Apocalipsim.
Il Notabile VII del prologo della Lectura super Apocalipsim spiega i motivi della preminenza del sesto stato. In primo luogo, per rendere onore alla Trinità e alle tre perfezioni o proprietà di Cristo: la sua persona divina e umana; la sua vita, esempio e fine per la nostra; la sua gloria, oggetto della nostra beatitudine, che è la causa finale dell’Apocalisse (Ap 1, 3). La persona di Cristo redentore venne celebrata con il rinnovamento del mondo per la fede e con il rigetto della vecchia legge; la vita di Cristo viene ancora celebrata e rinnovata nel sesto stato in attesa che, tolta tutta la vetustà del secolo, questo si rinnovi per la terza volta nella gloria. Così il sesto stato, segnato dal secondo avvento di Cristo nello Spirito (per Olivi corrisponde ai tempi moderni), si congiunge in circolo con il primo stato, corrispondente al primo avvento di Cristo nella carne, quasi la Chiesa fosse una sfera e nel suo sesto stato iniziasse una seconda volta il tempo di Cristo, a sua volta distinto in sette tempi, in modo tale che il settimo tempo del sesto stato coincida con il settimo stato della Chiesa.
La storia umana appare come una rappresentazione della trinità e dell’unità divina (Notabile VII). Il tempo che precede il primo avvento di Cristo (corrispondente alle prime cinque età del mondo, o all’età del Padre di Gioacchino da Fiore) ci mostra Dio padre fecondo e tutto ordinato alla generazione del Figlio, come la legge e le profezie e tutto il primo popolo di Dio furono virtualmente fecondati e ordinati a prefigurare, promettere, partorire Cristo.
Cristo, figlio di Dio e dell’uomo che redime e rinnova il mondo, rappresenta nella sua persona il tempo del Figlio (la sesta età del mondo o la gioachimita età del Figlio, che si articola nei sette stati della Chiesa), e il suo popolo da lui propagato e in lui incorporato fu espressamente la sua immagine.
Il tempo del rinnovamento del secolo per la celebrazione della vita e della carità di Cristo – il sesto stato della sesta età, suo secondo avvento – è appropriato allo Spirito Santo, che procede dal Padre e dal Figlio ed entrambi chiarifica. In questa età – corrispondente alla terza di Gioacchino da Fiore – il popolo ebraico che già fu “imago Patris”, e il popolo dei Gentili che dopo aver ricevuto Cristo da lui si discostò, verranno restituiti e riuniti per opera del calore vitale e della luce della vita di Cristo per mezzo dello Spirito suo e del Padre.
Lo stato dell’eterna gloria, successiva ai predetti tre tempi, è assimilata all’unità dell’essenza delle tre persone, poiché lì Dio sarà “omnia in omnibus et omnia unum in ipso”.
Tutta la virtù delle prime età – si afferma nel Notabile X del prologo – intende alla generazione che avviene nel sesto e nel settimo stato.
Questa tematica si ritrova nella lezione di Stazio sulla generazione dell’uomo e sull’origine dell’anima umana (Purg. XXV, 31-78). Il poeta spiega che la virtù attiva del seme che deriva dal cuore del padre generante si fa dapprima anima vegetativa e poi sensitiva. Questa virtù quindi si dispiega e distende “dove natura a tutte membra intende”, e ha come fine quel “punto” per cui l’animale diviene “fante”, uomo dotato di ragione e capace di parlare. L’anima vegetativa e sensitiva corrisponde al primo tempo, proprio del Padre fecondo e tutto ordinato alla generazione del Figlio. Il “punto” coincide con il secondo tempo, proprio del Figlio e in particolare con il sesto stato (Notabile VIII del prologo), nel quale viene creato l’uomo razionale, in simmetria con quanto avvenuto nel sesto giorno della creazione (l’uomo, come l’ordine evangelico, è fatto a immagine e somiglianza di Dio e domina tutti gli animali, Notabile XIII) [2].
Il “punto” – continua Stazio – è sul piano dottrinale così difficile da aver indotto in errore un filosofo tanto sapiente come Averroè, il quale considerò l’intelletto possibile separato dall’anima e unico per tutti gli uomini, constatando che all’atto dell’intendere non corrisponde alcun organo specifico del corpo. La verità è invece che, nel momento in cui nel feto si è perfezionata l’articolazione del cervello, il primo motore infonde nell’opera della natura uno “spirito novo, di vertù repleto” (l’intelletto possibile) che, traendo nella sua sostanza la virtù informativa divenuta anima vegetativa e poi sensitiva, forma una sola anima che vive, sente e riflette su di sé (“e sé in sé rigira”), come il calore del sole, unito all’umore della vite, diventa vino.
Il sesto stato, tempo di rinnovamento del secolo per la celebrazione della vita di Cristo, è appropriato allo Spirito Santo, che procede dal Padre e dal Figlio ed entrambi chiarifica: in esso i due popoli, l’ebraico e il gentile, verranno riuniti dal calore vitale e dalla luce della vita di Cristo per mezzo dello Spirito.
Il sesto stato è il “punto” da cui dipendono gli altri stati, perché appare nel testo dell’Apocalisse in modo più evidente degli altri, che da esso assumono chiarezza quanto alla loro manifestazione nella storia, come l’intelligenza delle cose ordinate a un fine dipende dal fine (cfr. Tab. 2). Lo spirare dello “spirito novo” corrisponde al calore vivifico dello Spirito che unisce quel che sembrava separato (nel caso l’intelletto possibile, che Averroè aveva disgiunto dall’anima).
L’immagine finale – “E perché meno ammiri la parola, / guarda il calor del sol che si fa vino, / giunto a l’omor che de la vite cola” (Purg. XXV, 76-78) – è tratta dalla tematica propria dell’ultima delle chiese d’Asia (Laodicea, Ap 3, 15), dove il calore della carità si contrappone in modo maggiore al tepore di quanto non lo sia al freddo, potendo il freddo riassurgere al caldo con maggiore facilità del tiepido, come è più facile trarre il vino buono dall’umore della vite, una volta riscaldato, che dal vino putrefatto [3].
Ma le immagini son sempre immagini, formate di luce e d’ombra. E Dante sa bene che quest’unione dell’intelletto possibile coll’anima in vita, prodotta per virtù celestiale dalla potenza del seme, “par forte ad intendere”, sì che a lui medesimo “pare maraviglia, come cotale produzione si può pur conchiudere e con lo intelletto vedere” [Convivio, IV, xxi, 6]. Uomini come Averroè ed altri non erano riusciti a veder chiaro nel delicato problema, e a intendere come l’intelletto possibile s’unisca all’anima sensitiva. Dante riconosce nell’intervento divino per recare a termine tant’arte di natura un mistero della sapienza di Dio, che la mente umana non saprebbe appieno scandagliare né esprimere con parole adeguate.
Così Bruno Nardi [4]. Ma l’immagine – questa come le altre – sono scavate in una cava di concetti teologici, le cui venature possono ben essere ritrovate. Lo “spirito novo” corrisponde al novum saeculum arrecato dal sesto stato (l’età dello Spirito di Cristo); il calore del sole è il caldo della carità divina che fa germinare i nuovi fiori, proprio come l’animo di Dante si rinfranca alle parole di Virgilio e si dispone a fare con lui il viaggio prima accettato e poi per viltà rifiutato: “Quali fioretti dal notturno gelo / chinati e chiusi, poi che ’l sol li ’mbianca, / si drizzan tutti aperti in loro stelo” (Inf. II, 127ss.). Lì dove la filosofia dei savi ha errato, la teologia soccorre. Non una teologia qualunque, ma una precisa teologia della storia umana che corre verso un’età di rinnovamento. Questa età, come le altre precedenti, non è solo un periodo cronologico, è un modo di essere degli individui corrispondente a un dono dello Spirito. La forma cristiforme, propria del sesto stato, è anche la vera forma umana e tramite essa Dio ha segnato il “punto” dell’umana generazione.
Secondo Bruno Nardi, Dante nella dottrina dell’umana generazione si discosta dall’opinione di san Tommaso (al corrompersi dell’anima vegetativa succede l’anima sensitiva e così al corrompersi dell’anima sensitiva succede l’anima razionale) per aderire a quella di Alberto Magno, secondo il quale una medesima virtù segue la progressiva perfezione degli organi, divenendo con integrazione di più forme sostanziali prima anima vegetativa, poi sensitiva (per opera di natura) e quindi razionale (per intervento divino) [5]. Nardi tuttavia, in un primo tempo (1911-1912), considerò non Alberto Magno il principale ispiratore di Dante sull’origine dell’anima umana ma l’Olivi [6]. Per il francescano l’anima intellettiva non è l’unica forma del corpo, ma tre forme distinte (vegetativa, sensitiva e intellettiva) si trovano “radicate in uno stesso sustrato che è chiamato materia spiritualis” [7]. È comunque da notare come il principio, che percorre la lezione di Stazio, dello sviluppo della virtù, la quale dal generante si distende a tutte le membra dell’uomo, concordi con lo sviluppo insito negli stati secondo Olivi, per cui “tota virtus priorum temporum intendit generationi sexti et septimi status”. Tutta la prima parte della lezione – il discendere del “sangue perfetto” nel “natural vasello”, dove il sangue maschile, fatto seme, si coagula con il sangue femminile, cioè la parte pacificamente concorde con la medicina e la filosofia del tempo (Purg. XXV, 37-51) – è fortemente marcata dai temi del quinto stato (in particolare dal tema del seme che rimane dalla quinta guerra), prima di procedere verso il “punto” che segna il sesto e cristiforme stato (cfr. Tab. 3).
In tal modo, dopo la morte, l’anima dell’uomo “ne porta seco e l’umano e il divino” (ibid., 79-81), cioè tutte le sue facoltà, umane (vegetativa e sensitiva) e divina (intellettiva): si potrebbe affermare che porta con sé tutto il suo sviluppo storico riunito dallo “spirito novo”, proprio come nel sesto stato lo Spirito di Cristo riunirà i popoli, il giudaico e il gentile, che prima sembravano essere separati.
Qualunque sia la provenienza dottrinale, la lezione di Stazio ha in ogni caso un unico punto di riferimento spirituale, dall’andamento trinitario, che fa suonare i motivi del sesto stato al momento (il “punto”) dell’umana generazione (cfr. Tab. 2).
Al Padre spetta l’operare iniziale e l’ “organar le posse ond’è semente”, che corrisponde, nella creazione della porta dell’Inferno, alla “divina podestate”.
Al Figlio, “somma sapienza”, compete l’intelletto che rende l’animale essere razionale. A Cristo – afferma Olivi ad Ap 2, 7 -, in quanto Verbo e verbale sapienza del Padre, è anche appropriato il parlare interiore all’uomo che avviene per mezzo della “lux simplicis intelligentie”. Questa luce corrisponde al “possibile intelletto” che Averroè aveva disgiunto dall’anima e che lo “spirito novo” congiunge con quanto già in atto nel feto, con quella “virtute attiva” che si è fatta prima anima vegetativa e poi sensitiva.
Allo Spirito Santo, “primo amore”, appartiene il calore che unifica in una le tre operazioni dell’anima in virtù dello “spirito novo”, nel momento in cui si rinnova la vita di Cristo. La virtù che deriva dal cuore del padre si dilata e si dispiega a formare il corpo lì “dove natura a tutte membra intende”, cioè si apre progressivamente, come l’intelligenza spirituale che stava nascosta nella lettera della legge e nella scorza della Sinagoga al pari del corpo umano nell’utero materno (Ap 11, 19).
Se Nardi avesse conosciuto a fondo la Lectura super Apocalipsim, avrebbe constatato che la dottrina dell’inchoatio formae, propria di Alberto Magno, concordava nei versi di Dante – “or si spiega, figliuolo, or si distende / la virtù ch’è dal cuor del generante / dove natura a tutte membra intende” – con il principio oliviano per cui “tota virtus priorum temporum intendit generationi sexti et septimi status”, tende cioè alla generazione dell’uomo razionale. Epoche e stati sono per Olivi non solo periodi storici, ma anche modi di essere della persona, habitus [8]. Cristo, centro della storia, lo è anche dell’individuo, del quale è mediatore verso tutta la Trinità; la sua vita deve essere esemplare per l’uomo. Il suo porsi come “interna locutio que fit per lucem simplicis intelligentie” avrebbe offerto conferme a quando il filosofo di Spianate andava affermando:
Avicenna aveva scissi fra loro il soggetto e l’agente dell’intellezione; Averroè li aveva riuniti, ma sopra e fuori dell’individuo; Tomaso ne faceva due potenze dello spirito individuale; Dante pensa che l’individuo viva in intimo mistico contatto collo spirito creatore. Per mezzo di questo contatto l’intelletto umano comunica per natura colla sorgente profonda dell’universo e non più, come presso Avicenna, con una intelligenza particolare la quale ora è unita e ora no all’intelletto possibile. Presso Dante, poi, come presso gli agostinisti, lo spirito umano non è illuminato dal di fuori, ma dal di dentro; poiché l’essere dello spirito umano risulta appunto da questa illuminazione. […] la tesi di Dante […] è una tesi […] vicinissima, tra le teoriche antiche, a quella dell’Olivi, e, tra le moderne, a quella del Rosmini [9].
Non però una singola tesi che coincide con altra. La tesi di Dante, che tiene conto di molteplici posizioni, concorda con la visione apocalittica dell’Olivi.
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[1] Una sintesi delle posizioni è nel ricco apparato di DANTE ALIGHIERI, Commedia. Revisione del testo e commento a cura di G. INGLESE, Purgatorio, Roma 2011, pp. 304-310.
[2] Sul sesto stato come “punto” cfr. L’agone del dubbio, ovvero il martirio moderno, 1.2 (Il punto), tab. II, II bis.
[3] Sui rinvii nella Commedia all’esegesi dell’istruzione data alla chiesa di Laodicea, cfr. Dante e Gioacchino da Fiore, III.1.
[4] B. NARDI, Dante e la cultura medievale. Nuovi saggi di filosofia dantesca, Bari 1942 (Biblioteca di cultura moderna, 368), p. 207.
[5] Ibid., p. 199.
[6] Cfr. M. LENZI, Bruno Nardi, Pietro di Giovanni Olivi e l’origine dell’anima umana in Dante (Purg. XXV, 37-79), in Pierre de Jean Olivi – Philosophe et théologien. Actes du colloque de Philosophie médiévale. 24-25 octobre 2008, Université de Fribourg, édité par C. König-Pralong, O. Ribordy, T. Suarez-Nani (Scrinium Friburgense, 29), Göttingen 2010, pp. 369-405: pp. 389 sgg. La scoperta di Alberto Magno, che oscurò del tutto l’Olivi, data dal 1922 (ibid., pp. 402-405).
[7] Ibid., p. 391.
[8] La storia della Chiesa segue i princìpi della propagazione naturale. Cristo stesso, come ogni individuo, crebbe fino all’età perfetta – trent’anni – prima di iniziare il suo magistero, ma poi non decrebbe, perché non era per Lui conveniente subire i difetti della natura umana. La Chiesa è come un individuo che cresce e si sviluppa nei suoi sette stati. Al primo, apostolico periodo, succede il secondo dei martiri; poi, al tempo di Giustiniano, il terzo stato dei dottori che confutano con l’intelletto le eresie concorre con il quarto stato degli affettuosi anacoreti devoti al pasto eucaristico, alti per la contemplazione ma anche attivi come reggitori delle genti; a partire da Carlo Magno subentra il quinto stato aperto alla vita associata delle moltitudini, bello nel principio ma poi corrottosi fino a trasformare quasi tutta la Chiesa in una nuova Babilonia; la riforma interviene, a partire da Francesco, con il cristiforme sesto stato, fino alla sconfitta dell’Anticristo; subentra infine il silenzio e la quiete del pacifico settimo stato. Gli stati sono interconnessi fra loro per concurrentia al modo dell’umana generazione: il periodo che segue inizia prima della fine di quello che precede come il feto si forma e si nutre nell’utero materno prima di nascere e come un fanciullo viene educato nella casa del padre prima di diventarne l’erede. La storia è segnata da tre momenti di novità corrispondenti ai tre avventi di Cristo: nella carne, nello Spirito – corrisponde al sesto stato della Chiesa -, nel giudizio finale.
I sette stati non sono solo periodi storici relativi alla Chiesa nel suo complesso, ma anche modi di essere della persona, habitus. In quanto doni del settiforme Spirito increato, e in relazione alla funzione svolta dall’individuo, possono essere tutti compresenti anche in una sola persona in qualsiasi tempo. Ad esempio, Pietro fu pastore (primo stato), martire (secondo), dottore (terzo), austero e solitario (quarto), condescensivo (quinto), professore di vita evangelica (sesto). La povertà della Chiesa, propria del tempo apostolico e subapostolico – nel primo e nel secondo stato -, commutata a partire da Costantino in uno stato di ricchezza e beni temporali, tornerà tale nel sesto stato. Ma nei periodi di ricchezza, i pontefici che preferirono la povertà evangelica ai beni temporali segnarono di nuovo, e in modo raddoppiato, il prevalere del primo ordine, quello del sacerdozio apostolico, anticipando così il sesto stato. Il terzo e il quarto sono due stati di solare sapienza che concorrono a infiammare il meriggio dell’universo. Corrispondono storicamente ai dottori e agli anacoreti, ma pure designano, in ogni tempo, la solare e paritaria concorrenza di ragione e vita devota, di intelletto e affetto, di sapienza e amore, di spada e pasto eucaristico, di Impero e Papato, concorrenza figurata dalle due ali della grande aquila date alla donna per volare come regina nel deserto dei Gentili (Ap 12, 14). La pietas verso le moltitudini, unita al senso della vita associata, è prerogativa eminente del quinto stato, ma raggiunge il suo compimento nella persona di Francesco, con cui inizia il sesto stato, dilatata ad arco per viscerale carità verso gli inferiori.
[9] Cit. da LENZI (nota 6), pp. 400-402.
Tab. 1
Tab. 2
La Tabella è stata esaminata altrove. Qui interessa soffermarsi sul concetto di “punto”, che nella lezione di Stazio sull’origine dell’anima umana corrisponde al momento in cui “d’animal divegna fante”, “punto” – il passaggio dall’animalità alla razionalità – che indusse in errore Averroè.
Il sesto stato – iniziato con Francesco e non ancora terminato, per Olivi corrisponde ai tempi moderni – è il “punto” da cui dipendono gli altri stati, perché appare nel testo dell’Apocalisse in modo più evidente degli altri, che da esso assumono chiarezza quanto alla loro manifestazione nella storia, come l’intelligenza delle cose ordinate ad un fine dipende dal fine (LSA, prologo, Notabile VIII). Nel Primo Mobile Dante vede “un punto … che raggiava lume / acuto sì, che ’l viso ch’elli affoca / chiuder conviensi per lo forte acume” (Par. XXVIII, 16-18). Intorno al punto, che designa la semplicità e indivisibilità di Dio, girano nove cerchi concentrici di fuoco via via meno veloci quanto più si allontanano da esso, che rappresentano le gerarchie angeliche. Come afferma Beatrice, “da quel punto / depende il cielo e tutta la natura” (ibid., 41-42). A Dio, punto geometrico, è dunque appropriato il tema del sesto stato come “punto”, fine da cui dipendono gli stati ad esso ordinati (è da notare la presenza del verbo ‘dipendere’ nel Notabile VIII e nei versi, dove depende è hapax). Dei cieli il Primo Mobile è nono, ma è sesto, a partire dal cielo del Sole, dei pianeti senza il cono d’ombra proiettato dalla terra.
La sesta prerogativa dei compagni che stanno con l’Agnello sul monte Sion è la familiarità con Cristo senza divisione o distanza, per cui essi “seguono l’Agnello ovunque vada” (Ap 14, 4; quarta visione). Olivi spiega che “seguire” significa imitare e partecipare. Chi imita Dio nelle perfezioni più alte e numerose più lo possiede e dunque più lo segue. Coloro che partecipano di tutte le sublimi e supererogative perfezioni dei mandati e dei consigli di Cristo, per quanto sia possibile agli uomini in questa vita, costoro “seguono l’Agnello ovunque vada”, condotti da Cristo, “dux et exemplator itineris”, guida e cammino, ad ogni atto di perfezione, ai meriti e ai premi corrispondenti. I santi seguono l’Agnello anche perché sempre a lui drizzano e tengono lo sguardo in modo da vederlo ovunque sempre presente. Questi temi sono ancora evidenti nel Primo Mobile (Par. XXVIII, 91-102), dove i cerchi dei Serafini e dei Cherubini “seguono” veloci il vincolo d’amore con Dio “per somigliarsi al punto quanto ponno”, per quanto cioè è possibile a una creatura farsi simile al Creatore, e tanto più possono quanto più la loro vista è sublime (l’essere sublimi nell’esegesi è proprio delle perfezioni evangeliche, nei versi del vedere da parte delle intelligenze angeliche). Il motivo del seguire appartiene a tutti i cerchi angelici, nei quali “l’incendio suo seguiva ogne scintilla” (v. 91). Il punto fisso che i cori angelici vedono, e a cui cercano di assomigliarsi, li tiene e li terrà sempre a li ubi, al luogo eternamente assegnato loro (variazione del tenere sempre lo sguardo in Dio e vederlo ovunque, ubique, da parte dei compagni dell’Agnello, v. 95).
Al “seguire l’Agnello ovunque vada” (Ap 14, 4) fa anche riferimento la similitudine del seguire l’anima separata, nelle sue alterazioni, da parte della “novella forma”, che l’anima ha riflessa nell’aria circostante, con “la fiammella / che segue il foco là ’vunque si muta” (Purg. XXV, 97-99; cfr. infra, Tab. 8). Dopo la morte, l’anima “ne porta seco l’umano e ’l divino”, per quanto tacciano, restate solo in potenza, le facoltà corporee e siano attive solo quelle razionali: “memoria, intelligenza e volontade” (ibid., 79-84).
[LSA, prologus, Notabile VIII] Rursus quinque membra sic distincte et interscalariter currunt inter radicem visionum et inter sextum membrum, quod ex hoc ipso aperte insinuatur per ipsa designari quinque sollempnia tempora cum suis sollempnibus statibus et operibus ordinate percurrentibus ab initio ecclesie usque ad sextum tempus ipsius. Que autem essent illa tempora vel opera, aut in quo puncto inchoarentur et finirentur, non potuit a nobis communiter sciri vel investigari nisi per realem et manifestum adventum ipsorum ac per preclaram et sollempnem initiationem status sexti. Et ideo sicut sollempnis initiatio novi testamenti facta in sexta mundi etate cum precursione quinque etatum elucidat intellectum prophetarum quoad primum Christi adventum et quoad tempora ipsum precurrentia, sic sollempnis initiatio sexti status ecclesie cum precursione quinque priorum elucidat intelligentiam huius libri et ceterorum prophetalium quoad trinum Christi adventum et quoad tempora precurrentia tam primum quam secundum adventum, propter quod in ipso sexto tempore erit sol sapientie christiane septempliciter lucens sicut lux septem dierum (cfr. Is 30, 26). (…) Ex predictis autem patet quod principalis intelligentia sexti et septimi membri visionum huius libri fortius probatur et probari potest quam intelligentia membrorum intermediorum inter primum et sextum seu inter radicem et sextum, unde et clara intelligentia ipsorum dependet ab intelligentia sexti, sicut et ratio eorum que sunt ad finem dependet a fine. |
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[LSA, cap. XIV, Ap 14, 4 (IVa visio)] Unde et sextum preconium prerogative ipsorum est indivisibilis et indistans ipsorum ad Christum familiaritas, propter quod subditur: “Et sequuntur Agnum quocumque ierit”. Quantum unusquisque Deum imitatur et participat, in tantum sequitur eum. Qui ergo pluribus et altioribus seu maioribus perfectionibus ipsum imitantur et possident altius et multo fortius ipsum sequuntur. Qui ergo secundum omnes sublimes et supererogativas perfectiones mandatorum et consiliorum Christi ipsum prout est hominibus huius vite possibile participant, “hii sequuntur Agnum quocumque ierit”, id est ad omnes actus perfectionum et meritorum ac premiorum eis correspondentium, ad quos Christus tamquam dux et exemplator itineris ipsos deducit.
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Par. XXVIII, 22-27, 40-42, 91-102Forse cotanto quanto pare appresso
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Par. III, 124-126La vista mia, che tanto lei seguio
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Par. XXXII, 142-150e drizzeremo li occhi al primo amore,
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Tab. 2bis
Passato “’l punto / al qual si traggon d’ogne parte i pesi”, cioè il centro della terra coincidente con il “grosso de l’anche” di Lucifero, Virgilio e Dante si ritrovano nell’emisfero sotto la cui sommità (lo zenith di Gerusalemme) fu ucciso Cristo (“sotto ’l cui colmo consunto / fu l’uom che nacque e visse sanza pecca”), con “i piedi in su picciola spera / che l’altra faccia fa de la Giudecca”. L’Inferno, topograficamente, corrisponde alle cinque età del mondo prima della venuta di Cristo uomo; il passaggio del centro della terra, con la conversione di Virgilio sull’anca di Lucifero, segna il passaggio alla sesta età, quella della Chiesa, descritta nel Purgatorio. Di qui il riferimento a Cristo, esemplare dell’uomo razionale ed evangelico, e alla sfera, cioè alla Chiesa che nel sesto stato troverà il suo più alto sviluppo e nello stesso tempo un ritorno in circolo al proprio inizio (Inf. XXXIV, 109-117).
[LSA, prologus, Notabile VIII] Rursus quinque membra sic distincte et interscalariter currunt inter radicem visionum et inter sextum membrum, quod ex hoc ipso aperte insinuatur per ipsa designari quinque sollempnia tempora cum suis sollempnibus statibus et operibus ordinate percurrentibus ab initio ecclesie usque ad sextum tempus ipsius. Que autem essent illa tempora vel opera, aut in quo puncto inchoarentur et finirentur, non potuit a nobis communiter sciri vel investigari nisi per realem et manifestum adventum ipsorum ac per preclaram et sollempnem initiationem status sexti. Et ideo sicut sollempnis initiatio novi testamenti facta in sexta mundi etate cum precursione quinque etatum elucidat intellectum prophetarum quoad primum Christi adventum et quoad tempora ipsum precurrentia, sic sollempnis initiatio sexti status ecclesie cum precursione quinque priorum elucidat intelligentiam huius libri et ceterorum prophetalium quoad trinum Christi adventum et quoad tempora precurrentia tam primum quam secundum adventum, propter quod in ipso sexto tempore erit sol sapientie christiane septempliciter lucens sicut lux septem dierum (cfr. Is 30, 26). (…) Ex predictis autem patet quod principalis intelligentia sexti et septimi membri visionum huius libri fortius probatur et probari potest quam intelligentia membrorum intermediorum inter primum et sextum seu inter radicem et sextum, unde et clara intelligentia ipsorum dependet ab intelligentia sexti, sicut et ratio eorum que sunt ad finem dependet a fine.[LSA, prologus] Septimum est quare sextus status semper describitur ut notabiliter preeminens quinque primis et sicut finis priorum et tamquam initium novi seculi evacuans quoddam vetus seculum, sicut status Christi evacuavit vetus testamentum et vetustatem humani generis, unde et quasi circulariter sic iungitur primo tempori Christi ac si tota ecclesia sit una spera et ac si in sexto eius statu secundo incipiat status Christi habens sua septem tempora sicut habet totus decursus ecclesie, sic tamen quod septimus status sexti sit idem cum septimo statu totius ecclesie. Et iterum quare sexta et septima visio principaliter describunt solum finalem statum ecclesie, coannexe vero et quasi non ex principali intento describunt tempora priorum quinque statuum. |
[LSA, prologus, Notabile XIII] In sexto autem die seu tempore primo creata sunt animalia irrationalia, scilicet iumenta et reptilia et bestie, et post hoc creatus est homo ad imaginem Dei cum muliere ex ipso formata (cfr. Gn 1, 24-28). Bestie enim et reptilia sunt regna paganorum et secte pseudoprophetarum, que sexto ecclesie tempore contra ipsam atrocius permittentur sevire. Iumenta vero sunt simplices ad obedientiam prompti et ad honera active. Ordo autem evangelicus est tamquam homo rationalis ad imaginem Dei factus, et ipse subiciet bestias et omnem terram et preerit piscibus et avibus, id est omnibus ordinibus quinto tempore formatis; distinguetur autem in prelatos et collegium subditorum, quasi in virum et uxorem.Inf. XXXIV, 109-117Di là fosti cotanto quant’ io scesi;
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Tab. 3
Nella prima parte della lezione di Stazio (Purg. XXV, 37-45) si ritrovano i temi da Ap 12, 17, che afferiscono al quinto stato (quinta guerra; cfr., per altri luoghi della Commedia, Il sesto sigillo, 2d. 3, tab. XX, 1-8). Il rimanere del seme puro, cioè le poche reliquie del quarto stato che restano nel quinto, è appropriato prima al seme maschile, “sangue perfetto” che “si rimane”. L’immagine del vaso di vino purissimo passa poi nel “natural vasello” femminile, mentre il motivo del bere (nel senso di consumare, assorbire) assume un senso negativo (“quia sicut bibita superiori et puriori et maiori parte vini vasis magni” – “Sangue perfetto, che poi non si beve / da l’assetate vene”). Da notare l’inciso “in altum sublevata, et tam in deserto gentilitatis quam in deserto contemplative solitudinis alimentum sue refectionis habente”, riferito alla Chiesa dopo Costantino, dotata delle due ali di una grande aquila identificate con i dottori del terzo stato e con gli anacoreti del quarto (cfr. Ap 12, 14): i temi, quasi cellule musicali, trascorrono nel verso “quasi alimento che di mensa leve” a sottolineare la purezza del sangue che “si rimane”, come nel quinto stato “de plenitudine purissimi vini doctorum et anachoritarum tertii et quarti temporis remanserunt reliquie”.
Ciò che segue, l’accogliersi “in natural vasello” dell’uno e dell’altro sangue, femminile e maschile, “l’un disposto a patire, e l’altro a fare” (vv. 46-47), contiene in sé uno dei temi più belli della Lectura, dall’esegesi di Filadelfia, la sesta delle chiese d’Asia (Ap 3, 7). Come negli attivi anacoreti del quarto stato rifulse l’amore verso Cristo, così nei contemplativi del sesto stato rifulge il loro essere diletti da Cristo, non diversamente da quel che si dice di Pietro, che amò Cristo, e di Giovanni, che fu prediletto da Cristo. In tal modo prerogativa del sesto stato è di essere disposto a ricevere e a patire, e in ciò si differenzia dagli stati precedenti, disposti a fare e a dare. Ad esso è attribuita più la felicità che deriva dalla speranza del premio che la fatica dell’attività per cui si acquistano meriti. Ricevendo più grazie e più segni di familiare amore da parte di Cristo, il sesto stato eccelle sugli altri precedenti, ma nello stesso tempo ad essi si deve maggiormente umiliare. Al sangue maschile, oltre al ‘rimanere’ del quinto stato, corrisponde dunque il quarto stato, del quale è proprio il “victoriosus effectus” delle “res gestae” (Ap 2, 26-28); al sangue femminile corrisponde il più alto e al tempo stesso il più umile degli stati, il sesto. I due verbi, “ricevere” e “patire”, prerogative del sesto stato, sono appropriati anche al cielo della Luna, “etterna margarita” che ‘riceve’ dentro a sé il poeta come l’acqua riceve un raggio di luce senza dividersi, in modo che la sua dimensione ‘patisca’ un’altra, cioè il corpo di Dante, cosa inconcepibile sulla terra (Par. II, 34-42; il ricevere dentro di sé è tema proprio anche della sesta vittoria: Ap 3, 12; cfr. Il sesto sigillo, 10, tab. XCV; La settima visione, I. 1).
Da notare la presenza dei temi da Ap 12, 17 (quinta guerra) anche in Par. XIII, 52-66, dove Tommaso d’Aquino tratta dell’eterna generazione trinitaria che si riflette sul creato: il rimanere è accostato al seme e al discendere, tema principale del condescensivo quinto stato, con appropriazione alla viva luce del Verbo, che si irradia nei nove ordini angelici “etternalmente rimanendosi una”, e poi “discende a l’ultime potenze” producendo infine solo “brevi contingenze … con seme e sanza seme il ciel movendo”. La luce del Verbo – “… quella viva luce che sì mea / dal suo lucente, che non si disuna / da lui né da l’amor ch’a lor s’intrea” (Par. XIII, 55-57) – è speculare all’anima dell’uomo, “… e fassi un’alma sola, / che vive e sente e sé in sé rigira” (Purg. XXV, 74-75).
[LSA, cap. XII, Ap 12, 17 (IVa visio, Vum prelium)] Dicit ergo: “Et iratus est dracho in mulierem” (Ap 12, 17). Nota quod quanto plus et pluries videt se vinci ab ecclesia et prole eius, tanto maiori ira exardescit ad illam fortius temptandam et deiciendam.
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Purg. XXV, 37-75Sangue perfetto, che poi non si beve
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[LSA, cap. III, Ap 3, 7 (Ia visio, VIa ecclesia)] Hinc etiam est quod Christus plus commendat promissiones suorum donorum factas angelo sexto quam merita ipsius sexti. Consurgitque ex hoc quoddam mirabile et valde notabile, videlicet quod status sextus quanto maior erit precedentibus in susceptione gratiarum et familiarium signorum amoris Christi ad eum, tanto habebit unde plus Christo et statibus precedentibus humilietur, quia potius prefertur eis in pati seu recipere quam in agere vel dare, et potius in felicitate hab[ente] speciem premii quam in laborioso opere habent[e] rationem meriti. Hec tamen per anthonomasiam et per quandam appropriationem sunt intelligenda, alias omnia in viris perfectis omnium statuum reperiuntur. Unde et ista sexta singulariter laudatur de patientia (cfr. Ap 3, 10).Par. XIII, 52-66Ciò che non more e ciò che può morire
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Par. I, 13-18O buono Appollo, a l’ultimo lavoro
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Par. XXI, 124-129Poca vita mortal m’era rimasa,
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Tab. 4
In un contesto di parole-chiave, altrove esaminate, che rinviano alla tematica propria del sesto stato, il quale corrisponde all’età dello Spirito di Gioacchino da Fiore (apertura della volontà, illuminazione dell’intelletto, libertà di parlare, salire, gusto d’amore), stanno le parole di Stazio: “Apri a la verità che viene il petto” (Purg. XXV, 67), variazione su Giovanni 16, 13: “Cum venerit ille Spiritus veritatis”, a ribadire che l’età dello Spirito è già operante.
[LSA, cap. III, Ap 3, 7-8 (Ia visio, VIa ecclesia)] (Ap 3, 7) Sicut etiam in primo tempore exhibuit se Deus Pater ut terribilem et metuendum, unde tunc claruit eius timor, sic in secundo exhibuit se Deus Filius ut magistrum et reseratorem et ut Verbum expressivum sapientie sui Patris, sic in tertio tempore Spiritus Sanctus exhibebit se ut flammam et fornacem divini amoris et ut cellarium spiritualis ebrietatis et ut apothecam divinorum aromatum et spiritualium unctionum et unguentorum et ut tripudium spiritualium iubilationum et iocunditatum, per que non solum simplici intelligentia, sed etiam gustativa et palpativa experientia videbitur omnis veritas sapientie Verbi Dei incarnati et potentie Dei Patris. Christus enim promisit quod “cum venerit ille Spiritus veritatis, docebit vos omnem veritatem” et “ille me clarificabit” et cetera (Jo 16, 13-14). […]
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Purg. XXV, 10-20, 67-68E quale il cicognin che leva l’ala
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Tab. 5
Passo considerato altrove nei suoi importanti sviluppi. Qui si noti come la richiesta di Virgilio a Stazio, che spieghi e risolva il dubbio di Dante (come possono dimagrire corpi che non hanno bisogno di nutrimento?), e le parole iniziali della risposta del poeta ‘tolosano’, contengano parole-chiave che rinviano la memoria del lettore spirituale all’incipit della Lectura, con la citazione da Isaia 30, 26 (Purg. XXV, 25-32). Alla citazione dalla seconda Lettera ai Corinzi (2 Cor 3, 14-16.18) – “Nos vero revelata facie gloriam Domini speculantes in eandem imaginem transformamur a claritate in claritatem” -, relativa al progressivo svelamento del velame del Vecchio Testamento nel Nuovo (alla fine la luce della luna non sarà più velata, ma pari a quella del sole), fanno riferimento le parole: “e se pensassi come, al vostro guizzo, / guizza dentro a lo specchio vostra image”, che anticipano l’argomentazione di Stazio circa la virtù formativa dell’anima che si riflette, come in uno specchio, nell’aria circostante (ibid., 91-96).
[LSA, prologus (incipit)] “Erit lux lune sicut lux solis, et lux solis erit septempliciter sicut lux septem dierum, in die qua alligaverit Dominus vulnus populi sui et percussuram plage eius sanaverit ”. In hoc verbo, ex XXX° capitulo Isaie (Is 30, 26) assumpto, litteraliter prophetatur precellentia fulgoris celestium luminarium, quam in fine mundi ad pleniorem universi ornatum Dei dono habebunt. Allegorice vero extollitur gloria Christi et novi testamenti. Novum enim testamentum se habet ad vetus sicut sol ad lunam, unde IIa ad Corinthios III° (2 Cor 3, 7-8) dicit Apostolus: “Quod si ministratio mortis”, id est veteris legis mortem et dampnationem per accidens inducentis, “fuit in gloria, ita ut non possent filii Israel intendere in faciem Moysi propter gloriam vultus eius, que evacuatur”, id est que fuit temporalis et transitoria, “quomodo non magis ministratio spiritus”, id est spiritualis gratie et sapientie Christi, “erit in gloria?”. Tempore autem quo Christus erat nostra ligaturus vulnera sol nove legis debuit septempliciter radiare et lex vetus, que prius erat luna, debuit fieri sicut sol. Nam umbra sui velaminis per lucem Christi et sue legis aufertur secundum Apostolum, capitulo eodem dicentem quod “velamen in lectione veteris testamenti manet non revelatum, quoniam in Christo evacuatur”. Unde “usque in hodiernum diem, cum legitur Moyses”, id est lex Moysi, “velamen est positum super cor” Iudeorum; “cum autem conversus fuerit ad Dominum, auferetur velamen. Nos vero revelata facie gloriam Domini speculantes in eandem imaginem transformamur a claritate in claritatem” (2 Cor 3, 14-16, 18). Et subdit (2 Cor 4, 6): “Quoniam Deus, qui dixit de tenebris lucem splendescere”, id est qui suo verbo et iussu de tenebrosa lege et prophetarum doctrina lucem Christi eduxit, “ipse illuxit in cordibus nostris ad illuminationem scientie et claritatis Dei in faciem Christi Ihesu”, scilicet existentis et refulgentis. |
Purg. VII, 94-96Rodolfo imperador fu, che potea
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Tab. 6
“Queste cose dice Colui che possiede la rumphea “, cioè la spada, “acuta da entrambi i lati” (Ap 2, 12). Così Cristo introduce l’istruzione alla chiesa di Pergamo – la terza delle sette chiese d’Asia, alle quali scrive Giovanni nella prima visione apocalittica – presentandosi contro i pestiferi dottori dell’erronea dottrina e setta come terribile confutatore dall’incisiva dottrina e dalla sentenza di condanna della sua bocca. Dice “da entrambi i lati” sia perché scinde e taglia qualsiasi vizio senza distinzione di persone, sia perché distrugge i vizi contrari. Ario, da una parte, erra dicendo che il Figlio è sostanzialmente diviso dal Padre come fosse una sua creatura. Sabellio, dal lato opposto, afferma che il Padre e il Figlio sono la stessa persona. La fede di Cristo scinde e taglia entrambi gli errori. Se si adunano tutti gli elementi semantici che, nei vari passi relativi al terzo stato, designano l’operare dei dottori e si raccolgono attorno al tema della rumphea, la ‘spada acuta’, si ottengono molte varianti al motivo del rompere, dividere e scindere (esaminate in Il terzo stato, tab. I.1).
I temi coinvolgono anche Averroè (Purg. XXV, 61-66), “errante” sul “punto” nel quale l’anima vegetativa e sensitiva diviene anche razionale, “sì che per sua dottrina fé disgiunto / da l’anima il possibile intelletto, / perché da lui non vide organo assunto”. Il suo errore, assimilabile in parte all’eresia di Ario, per cui divise il Padre (l’anima vegetativa e sensitiva) dal Figlio (l’anima intellettiva, unita invece a quanto generato dalla natura per opera dello “spirito novo, di vertù repleto”), è speculare a quello di Bertran de Born, che ha diviso padre e figlio, “così giunte persone” (Inf. XXVIII, 139). All’opposto, esempio di erronea congiunzione (che corrisponde all’eresia di Sabellio che unificò Padre e Figlio nella stessa persona, ma anche a quella di Ario che negava l’eternità e la consustanzialità del Verbo), è quella forzata della spada col pastorale, del potere temporale con quello spirituale nella persona del papa (il Padre), unico sole rimasto una volta spento l’imperatore (il Figlio), l’altro sole che mostrava la strada del mondo, come dice Marco Lombardo (Purg. XVI, 109-112).
[LSA, cap. II, Ap 2, 12 (Ia visio, IIIa ecclesia)] Hiis autem premittuntur duo, scilicet preceptum de scribendo hec sibi et introductio Christi loquentis, cum subdit (Ap 2, 12): “Hec dicit qui habet rumpheam”, id est spatam, “ex utraque parte acutam”. Hec congruit ei, quod infra dicit: “pugnabo cum illis in gladio oris mei” (Ap 2, 16).
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Inf. VI, 18-21, 60-61graffia li spirti ed iscoia ed isquatra.
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[LSA, cap. IX, Ap 9, 13 (IIIa visio, VIa tuba)] Referendo tamen hoc ad tertium initium sexti status, in quo solventur hostes evangelici status, potest per hos quattuor designari quadripertita divisio regum christianorum designata per quattuor tetrarchas contemporaneos predicationi et interfectioni Iohannis et Christi, et iterum quadripertita divisio cleri et religionis in contrarias sententias et conten[t]iones earum. Utraque enim divisio designatur per quattuor partes vestium Christi et per quattuor milites divisores et sortitores earum, de quibus habetur Iohannis XIX°; tunica autem inconsutilis et indivisa designat spiritalem ecclesiam illius temporis (Jo 19, 23-24).Purg. XVI, 109-112L’un l’altro ha spento; ed è giunta la spada Sabellius
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Tab. 7
L’intervento divino – “spirito novo, di vertù repleto” – sull’anima già generata per natura viene descritto con parole-chiave che rinviano la memoria all’esegesi di Ap 5, 8-9: le coppe (le preghiere) che i seniori elevano in su, spirano amore e riempiono di profumo (Ap 5, 8: spira, repleto); il successivo “canto nuovo” in onore di Cristo, accompagnato dalla cetra le cui corde sono le diverse virtù da cui il giubilo di lode trae risonanza (Ap 5, 9: novo, vertù, tira). L’ “arte di natura”, su cui agisce lo “spirito novo”, fa riferimento ad altro canto accompagnato dalla cetra, che designa l’opera divina, le cui corde sono toccate dal “magister artificiose citharizandi” (Ap 14, 2), cioè dalla natura, la quale “lo suo corso prende / dal divino ’ntelletto e da sua arte” (Inf. XI, 99-100).
[LSA, cap. V, Ap 5, 8 (radix IIe visionis)] Phiale [igitur] iste sunt corda sanctorum per sapientiam lucida, per caritatem dilatata, et per contemplationem splendidam et flammeam aurea, et per devotarum orationum redundantiam odoramentis plena. Sicut enim odoramenta per ignem elicata sursum ascendunt totamque domum replent suo odore, sic devote orationes ad Dei presentiam ascendunt et pertingunt, eique suavissime placent et etiam toti curie celesti et subcelesti. Sicut [etiam] diffusio odoris spiratur invisibiliter ab odoramentis, sic devote affectiones orantium spirantur invisibiliter et latissime diffunduntur ad varias rationes dilecti et ad varias rationes sancti amoris, prout patet ex multiformi varietate sanctorum affectuum qui exprimuntur et exercentur in psalmis. Patet autem, secundum modum Ricardi, quare citharas premisit ante phialas, quia activa communiter precedit contemplativam. Sequendo etiam alterum modum, premittit convenienter citharas, quia nisi corde virtutum sint in cithara mentis disposite prout congruit laudi Dei, non potest haberi phiala cordis plena devotis desideriis et suspiriis et meditationibus ignitis et odoriferis, sicut nec iubilatio laudis potest perfecte exerceri nisi preeat plenitudo odoramentorum. |
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[LSA, cap. V, Ap 5, 9 (radix IIe visionis)] Et ideo tertius vel, secundum Ricardum, quartus actus est decantatio laudis. Unde subditur (Ap 5, 9): “Et cantabant canticum novum”. Novum quidem, tum quia omnia que de Christo cantantur sunt nova, est enim novus homo et nova eius lex et vita et familia et gloria; tum quia numquam veterascit nec est de aliquo veteri et caduco et cito interituro, sed de eternis aut ad eternitatem ordinatis; tum quia renovat et in novitate divina conservat suos cantatores. Si pulsatio et resonantia cithare in hoc cantico includatur, tunc designat omnium virtutum affectus et actus pulsari et resonare cum iubilo huius laudis. Plena enim seu perfecta iubilatio pulsat omnes virtutes et ex omnibus trahit resonantiam laudis. Quelibet enim virtus est una corda cithare, id est mentis iubilative. Per citharam etiam designatur scriptura sacra, vel tota universitas divinorum operum, quorum cordas varias contemplativi tangunt et pulsant et ex eis divine laudis iubilum formant: quot modi autem sunt tangendi tot sunt modi iubilandi et cantandi. |
Purg. XXV, 67-75, 112-114Apri a la verità che viene il petto;
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[LSA, cap. XIV, Ap 14, 2 (IVa visio, VIum prelium)] Quarto erat suavissima et iocundissima et artificiose et proportionaliter modulata, unde subdit: “et vocem, quam audivi, sicut citharedorum citharizantium cum citharis suis”. Secundum Ioachim, vacuitas cithare significat voluntariam paupertatem. Sicut enim vas musicum non bene resonat nisi sit concavum, sic nec laus bene coram Deo resonat nisi a mente humili et a terrenis evacuata procedat.
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Tab. 8
La sede divina descritta nella seconda visione apocalittica è circondata dall’iride, simile allo smeraldo, cioè alla gemma incomparabilmente più verde (Ap 4, 3; cfr. Il sesto sigillo, 10.1, tab. XCIV). In essa il colore verde supera in intensità quello delle erbe e delle fronde e impregna l’aria ripercossa, riempie gli occhi al solo sguardo e non lo sazia, tanto è grazioso a vedersi. Per quanto il colore verde sia più appariscente e grazioso, l’iride ha vari colori, secondo la densità o rarità della nube acquosa percossa dai raggi del sole: nella densa è di colore rosso, nella più densa ceruleo (verde e nero, è il colore del mare profondo) oppure di colore livido oppure purpureo (commisto di nero e rosso), nella densissima nero; nella rara verde, nella più rara croceo, nella rarissima bianco. L’iride designa la Grazia che preesiste causalmente ed esemplarmente in Dio e che si diffonde in giro a ornamento della sede della Chiesa celeste e subceleste: essa ha il colore della fiamma per la carità, il nero o il livido per l’umiltà, il verde per la sobrietà, il bianco per la chiarezza che proviene dalla sapienza.
Il tema dello smeraldo che impregna l’aria intorno di color verde fa parte della spiegazione che Matelda dà sull’origine del vento che spira nel Paradiso terrestre (Purg. XXVIII, 103-120). L’aria si muove in cerchio con il Primo Mobile (“la prima volta”, che corrisponde all’essere “in circuitu”) e percuote l’alta selva (l’ “alta eminentia” della sede) facendone stormire le fronde, cosicché le piante impregnano del loro seme l’aria che lo diffonde nell’altra terra, cioè nel mondo abitato dagli uomini, il quale, secondo disposizione, concepisce e produce da diversi semi diverse piante. Anche se nessun colore viene indicato, non è difficile scorgere in questo circuire dell’aria a percuotere la selva e nel suo secondo girare, impregnata di riflesso dai semi delle piante percosse che essa diffonde, un valore assai simile a quello dell’iride, multiforme Grazia che preesiste in Dio causa ed esempio e da lui emana su tutta la sede celeste e subceleste attorno alla quale gira.
L’iride, della quale dice Matelda senza nominarla, è esplicitata nel corso della successiva processione, allorché le sette fiammelle dei candelabri, quasi “tratti pennelli”, lasciano “dietro a sé l’aere dipinto … sì che lì sopra rimanea distinto / di sette liste, tutte in quei colori / onde fa l’arco il Sole e Delia il cinto”, colori che designano, come nell’esegesi della sede divina, i sette doni dello Spirito (Purg. XXIX, 73-78).
Sempre nel Paradiso terrestre, di smeraldo sembrano fatte le carni e le ossa della speranza, seconda delle tre donne che vengono danzando dalla destra ruota del carro e che simboleggiano le virtù teologali (Purg. XXIX, 124-125). “Li smeraldi / ond’ Amor già ti trasse le sue armi” sono gli occhi di Beatrice, ai quali viene condotto il poeta dalle quattro virtù cardinali (Purg. XXXI, 115-117). In questo caso il significato dello smeraldo proprio dell’iride (saziare lo sguardo con il grazioso verdeggiare) cede ai motivi che appartengono al diaspro, sia ad Ap 4, 3 (riferiti a Colui che siede) come nei passi simmetrici ad Ap 21, 11-12 (riferiti al lume della Gerusalemme celeste descritta nella settima visione). Il diaspro incorpora in modo fermo e incancellabile, al modo di uno specchio, la luce, come la città celeste e i cuori dei beati incorporano la luce che è gloriosa forma e immagine di Dio (Ap 21, 11). Così gli “occhi rilucenti” di Beatrice stanno saldi sul grifone-Cristo che li irradia e lo riflettono “come in lo specchio il sol” (Purg. XXXI, 119-123). Il diaspro sta a indicare la solida virtù dei santi che difendono la Chiesa contro i nemici (sono il muro della città celeste, Ap 21, 12), ed è a questo tipo di armi, promotrici di virtù, che alludono gli strali di Amore.
Una variazione dei temi dell’iride è nella spiegazione che Stazio dà dei cosiddetti ‘corpi aerei’ (Purg. XXV, 88-108). Dopo la morte, tacciono le potenze sensitive dell’anima, ma la virtù formativa di questa, che “raggia intorno”, imprime nell’aria una forma, come l’aria pregna di umidità, riflettendo i raggi del sole, si adorna dei colori dell’iride. L’anima può essere così veduta, e assume il nome di “ombra”, che “si figura” secondo il parlare, il ridere, le lacrime e i sospiri causati dalle pene. Più che di ‘corpi aerei’ bisognerebbe parlare di “corpi iridati’, proiezioni differenti sull’aria della virtù formativa dell’anima. Questa partecipa dell’increata luce divina, la quale “est sensibus cordis intime et solide incorporata et variis virtutum coloribus adornata et divina munde et polite et speculariter representans et omnium virtutum temperie virens” (Ap 21, 11); ciò vale non solo per le anime purganti, sicure della beatitudine, ma anche, all’estremo opposto, per i dannati.
Si noti il confronto di alcuni punti della lezione di Stazio sull’origine dell’anima umana (Purg. XXV, 46-57) con l’arrivo e la descrizione del cielo della Luna (Par. II, 28-39). Si registrano temi comuni: Ap 3, 7 (‘ricevere e patire’, cfr. supra, Tab. 3); Ap 21, 12 (‘congiungere’, proprio degli angoli della città celeste); Ap 21, 21 (la ‘margarita’, cioè la conchiglia – lo “spungo marino” che designa l’anima sensitiva – pura nel coagulo).
I colori dell’iride si ritrovano nei tre gradini che precedono la porta del Purgatorio: bianco il primo come marmo pulito e terso da specchiarvisi (cfr. Ap 21, 11); il secondo nero di pietra “ruvida e arsiccia”; di porfido, fiammeggiante come sangue, il terzo. L’angelo che siede “in su la soglia” sembrava a Dante “pietra di diamante”, come Colui che siede “quasi sub specie regis sedentis super solium” sembrava a Giovanni pietra di diaspro (Purg. IX, 94-105).
Il colore livido della pietra compare nel secondo girone del Purgatorio, dove gli invidiosi ‘siedono’ con manti anch’essi color pietra, come la parete e il pavimento (il manto è tema della terza perfezione di Cristo come sommo pastore, Ap 1, 13). La durezza, che è motivo appropriato alla pietra (il tema presente ad Ap 4, 2), si stempera nella compassione del poeta allorché si rende conto della pena che li affligge (Purg. XIII, 8-9, 47-48, 52-54).
Nella bolgia dei ladri, “livido e nero (altro colore dell’iride) come gran di pepe” è il serpentello (Francesco dei Cavalcanti) che trafigge Buoso (Inf. XXV, 84).
[LSA, cap. IV, Ap 4, 2-3 (radix IIe visionis)] Dicit ergo (Ap 4, 2): “Et ecce sedes posita erat in celo, et supra sedem sedens”, scilicet erat. Deus enim Pater apparebat ei quasi sub specie regis sedentis super solium. […]
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[LSA, cap. XXI, Ap 21, 11 (VIIa visio)] Formam autem tangit tam quoad eius splendorem quam quoad partium eius dispositionem et dimensionem, unde subdit: “a Deo habentem claritatem Dei” (Ap 21, 10-11). “Dei” dicit, quia est similis increate luci Dei tamquam imago et participatio eius. Dicit etiam “a Deo”, quia ab ipso datur et efficitur. Sicut enim ferrum in igne et sub igne et ab igne caloratur et ignis speciem sumit, non autem a se, sic et sancta ecclesia accipit a Deo “claritatem”, id est preclaram et gloriosam formam et imaginem Dei, quam et figuraliter specificat subdens: “Et lumen eius simile lapidi pretioso, tamquam lapidi iaspidis, sicut cristallum”. Lux gemmarum est eis firmissime et quasi indelebiliter incorporata, et est speculariter seu instar speculi polita et variis coloribus venustata et visui plurimum gratiosa. Iaspis vero est coloris viridis; color vero seu claritas cristalli est quasi similis lune seu aque congelate et perspicue. Sic etiam lux glorie et gratie est sensibus cordis intime et solide incorporata et variis virtutum coloribus adornata et divina munde et polite et speculariter representans et omnium virtutum temperie virens. Est etiam perspicua et transparens non cum fluxibili vanitate, sed cum solida et humili veritate. Obscuritas enim lune humilitatem celestium mentium designat.[LSA, cap. XXI, Ap 21, 12 (VIIa visio)] Dicit ergo: “Et habebat murum magnum et altum” (Ap 21, 12). Per magnum intelligit longum et latum, seu totum eius circuitum. Sicut autem murus opponitur exterioribus et defendit et abscondit interiora, sic sancti martires et zelativi doctores et pugiles, qui opposuerunt se hostibus et eorum impugnationibus in defensionem fidei et ecclesie, fuerunt murus ecclesie magnus et altus. Virtutes etiam hiis officiis dedicate sunt murus animarum sanctarum, qui quidem murus est ex lapide propter solidam virtutem sanctorum, et “ex lapide iaspide” (cfr. Ap 21, 18) propter virorem vive fidei, propter quam sunt zelati et passi et fortes effecti.[LSA, cap. XXI, Ap 21, 18.21 (VIIa visio)] Unde et platea non solum dicitur esse “aurum simile vitro mundo”, id est perspicuo et polito et nulla macula vel pulvere obumbrato, sed etiam dicitur esse sicut “vitrum perlucidum”, id est valde lucidum, quia tunc maior erit cordis et oris puritas et clarior veritas. In ecclesia vero beatorum erit tanta, ut omnia interiora cordium sint omnibus beatis mutuo pervia et aperta. |
Purg. XXV, 88-96Tosto che loco lì la circunscrive,
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Purg. XXVIII, 103-114Or perché in circuito tutto quanto
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[LSA, cap. XXI, Ap 21, 12 (VIIa visio)] In scripturis tamen sepe angulus sumitur pro fortitudine et ornatu, quia in angulis domorum, in quibus parietes coniunguntur, est fortitudo domus. Unde Christus dicitur esse factus in caput anguli et lapis angularis […][LSA, cap. XXI, Ap 21, 21 (VIIa visio)] Quod autem hic per duodecim portas magis designentur illi per quos duodecim tribus Israel intrabunt ad Christum, patet ex hoc quod dicit nomina duodecim tribuum Israel esse scripta in hiis duodecim portis (Ap 21, 12), sicut nomina duodecim apostolorum et Agni sunt scripta in fundamentis (Ap 21, 14). Unde bene dicuntur esse margarite et ex margaritis, quia singulari cordis et corporis munditia et castimonia candescent tamquam ex rore celitus concepti et coagulati. Margarite enim dicuntur in conchilibus formari ex rore celesti eis imbibito. Sicut etiam margarite sunt parvule, sic ipsi erunt per evangelicam humilitatem et paupertatem parvuli. |
[LSA, cap. III, Ap 3, 7 (Ia visio, VIa ecclesia)] Hinc etiam est quod Christus plus commendat promissiones suorum donorum factas angelo sexto quam merita ipsius sexti. Consurgitque ex hoc quoddam mirabile et valde notabile, videlicet quod status sextus quanto maior erit precedentibus in susceptione gratiarum et familiarium signorum amoris Christi ad eum, tanto habebit unde plus Christo et statibus precedentibus humilietur, quia potius prefertur eis in pati seu recipere quam in agere vel dare, et potius in felicitate hab[ente] speciem premii quam in laborioso opere habent[e] rationem meriti. Hec tamen per anthonomasiam et per quandam appropriationem sunt intelligenda, alias omnia in viris perfectis omnium statuum reperiuntur. Unde et ista sexta singulariter laudatur de patientia (cfr. Ap 3, 10).[LSA, cap. II, Ap 3, 12 (VIa victoria)] Quantum autem ad hoc premium, nota quod quia intrans in Deum recipit intra se Deum, ita quod et Deus intrat in ipsum […] |
Tab. 9
Il capitolo XXII dell’Apocalisse si apre con la visione del nobilissimo fiume che scorre nel mezzo della città celeste. È lo stesso Spirito Santo, ovvero la gloria che da Dio affluisce sui beati: fiume di acqua viva, o di vita eterna, da cui deriva tutta la sostanza della Trinità. Fiume di splendore e luce per sapienza, che ha due rive o due parti (destra e sinistra, superiore e inferiore), designanti le due nature, divina e umana, di Cristo-lignum vite che dà perpetui frutti. Il lignum vite, l’albero che sta nel mezzo, con le sue foglie getta un’ombra sacramentale, di verità superiori, su entrambe le rive, l’umana e la divina, perché non solo il cielo, ma anche la terra è ripiena della gloria di Dio.
L’esegesi di Ap 22, 1-2 offre una ricchezza tematica riaffiorante in numerosi luoghi della Commedia (cfr. La settima visione, Introduzione, 2. 2). Qui si consideri il parlare di Tommaso d’Aquino a Par. XIII, 52ss. In “quella viva luce che sì mea (corrisponde a dirivatur nell’esegesi) / dal suo lucente, che non si disuna / da lui né da l’amor ch’a lor s’intrea”, per cui ogni creatura “non è se non splendor di quella idea / che partorisce, amando, il nostro Sire”, affiorano i motivi del fiume luminoso per il quale tutta la sostanza della Trinità si deriva, comunicata, ai santi e ai beati (Ap 22, 1), e che Dante riversa sull’intero creato.
La rima rive, vive segnala concetti relativi al fiume di acqua vivificante (lo Spirito Santo) che deriva da Dio. Così, ad esempio, a Par. XXX, 62-64 e a Purg. XXV, 86, 90, due luoghi nei quali si noterà anche la diversa posizione di circunscrive e il comune riferimento all’ ‘ombra’: “Il fiume e li topazi / ch’entrano ed escono e ’l rider de l’erbe / son di lor vero umbriferi prefazi” (Par. XXX, 76-78) – “Però che quindi ha poscia sua paruta, / è chiamata ombra” (Purg. XXV, 100-102). Ombra sacramentale del vero sono nell’Empireo il fiume (la luce divina), i “topazi” (gli angeli), le “erbe” (i beati), come lo sono i corpi fittizi che l’anima dopo la morte proietta sull’aria circostante.
[LSA, cap. XXII, Ap 22, 1-2 (VIIa visio)] “Et ostendit michi fluvium” (Ap 22, 1). Hic sub figura nobilissimi fluminis currentis per medium civitatis describit affluentiam glorie manantis a Deo in beatos. Fluvius enim iste procedens a “sede”, id est a maiestate “Dei et Agni”, est ipse Spiritus Sanctus et tota substantia gratie et glorie per quam et in qua tota substantia summe Trinitatis dirivatur seu communicatur omnibus sanctis et precipue beatis, que quidem ab Agno etiam secundum quod homo meritorie et dispensative procedit. Dicit autem “fluvium” propter copiositatem et continuitatem, et “aque” quia refrigerat et lavat et reficit, et “vive” quia, secundum Ricardum, numquam deficit sed semper fluit. Quidam habent “vite”, quia vere est vite eterne. Dicit etiam “splendidum tamquam cristallum”, quia in eo est lux omnis et summe sapientie, et summa soliditas et perspicuitas quasi cristalli solidi et transparentis. Dicit etiam “in medio platee eius” (Ap 22, 2), id est in intimis cordium et in tota plateari latitudine et spatiositate ipsorum.
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Purg. XXV, 49-54, 85-90, 100-102e, giunto lui, comincia ad operare
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Par. XIII, 52-57, 70-72Ciò che non more e ciò che può morire
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