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Nov 10 2018

Dante e Gioacchino da Fiore – VIII

 

VIII.

 

IL QUARTO STATO (I CONTEMPLATIVI) 

 1. Il quarto stato della storia della Chiesa nella ‘topografia spirituale’ della Commedia. 2. Un enigma risolto. Pietro Damiano e Pietro Peccator, ovvero la distinzione fra quarto e quinto stato (Par. XXI, 121-123). 3.E solo, in parte, vidi ’l Saladino” (Inf. IV, 129). 4.Orgoglio e dismisura han generata, / Fiorenza, in te, sì che tu già ten piagni ” (Inf. XVI, 74-75). 5. Quarta chiesa (Ap 2, 18-29) e quarto sigillo (Ap 6, 7-8): il letto di dolore e gli argini petrosi. 6. La quarta coppa (Ap 16, 8-9): “’l fiorentino spirito bizzarro” (Inf. VIII, 62). 7. La quarta tromba (Ap 8, 12-13). 8. La quarta guerra (Ap 12, 13-16). 9. Appendice: la terza coppa (Ap 16, 4-7).

INDICE GENERALE – AVVERTENZE

 

1. Il quarto stato della storia della Chiesa nella ‘topografia spirituale’ della Commedia

 

Per quanto segua l’ordine dei ventidue capitoli dell’Apocalisse, Olivi suggerisce un metodo differente di comprensione e di aggregazione del testo esegetico, fondato sui sette stati, cioè sui periodi nei quali si articola la storia della Chiesa. L’Antico Testamento corrisponde alle prime cinque età del mondo, secondo la divisione tradizionale [1]: è l’età del Padre secondo Gioacchino da Fiore. Con il primo avvento di Cristo, nella carne, inizia la sesta età (l’età del Figlio), nella quale la Chiesa, come fosse un individuo, cresce e si sviluppa in sette stati. Al primo, apostolico periodo, succede il secondo dei martiri; poi, al tempo di Giustiniano, il terzo stato dei dottori che confutano con l’intelletto le eresie concorre con il quarto stato degli affettuosi anacoreti devoti al pasto eucaristico, alti per la contemplazione ma anche attivi come reggitori delle genti; a partire da Carlo Magno subentra il quinto stato aperto alla vita associata delle moltitudini, bello nel principio ma poi corrottosi fino a trasformare quasi tutta la Chiesa in una nuova Babilonia; la riforma interviene, a partire da Francesco, con il cristiforme sesto stato, fino alla sconfitta dell’Anticristo; subentra infine il silenzio e la quiete del pacifico settimo stato. Il sesto e il settimo stato (la terza età di Gioacchino da Fiore) coincidono con il secondo avvento di Cristo, nello Spirito, cioè nei suoi discepoli spirituali inviati a convertire il mondo con la predicazione; al termine del settimo stato ci sarà il terzo avvento, nel giudizio.
L’Apocalisse si articola in sette visioni: le sette chiese d’Asia, i sette sigilli, le sette trombe, la donna vestita di sole (le sette guerre sostenute dalla Chiesa), le sette coppe, il giudizio di Babylon nelle sette teste del drago, la Gerusalemme celeste. Le prime sei visioni possono essere a loro volta divise in sette momenti, ciascuno dei quali riferibile a uno dei sette stati. Assembrando, per le prime sei visioni, tutti i primi elementi (chiesa, sigillo, tromba, guerra, coppa, momento del giudizio di Babylon), tutti i secondi, i terzi e così di seguito, si ottengono sette gruppi di materia teologica, corrispondenti al complesso dei temi afferenti a ciascuno dei sette stati [2]. A questi sette gruppi se ne aggiungono altri due: l’esegesi della settima visione (senza articolazioni interne) e l’esegesi di capitoli del testo scritturale, o di parti di essi, introduttivi delle successive specificazioni delle singole visioni per settenari, che l’Olivi definisce “radicalia” o “fontalia”. Si ottengono in tal modo nove gruppi: le parti proemiali, i sette assembramenti di settenari e la settima visione. Il grande prologo della Lectura, articolato in tredici notabilia, può essere anch’esso aggregato nelle sue parti secondo i sette stati.

L’intenso travaso di parole-temi dalla Lectura nella Commedia si accompagna a un fatto strutturale. La Commedia mostra un ordine interno diverso da quello che appare al lettore: il viaggio di Dante ha un andamento di ciclici settenari, che corrispondono ai sette stati oliviani. È un ordine registrabile per zone progressive del poema dove prevalgono i temi di un singolo stato, che rompe i confini letterali stabiliti dai canti e da tutte le divisioni materiali per cerchi, gironi, cieli. Ogni stato, che ha differenti inizi, è concatenato per “concurrentia”, come le maglie di un’armatura, con quello che precede e con quello che segue. Ciascuno stato ha in sé una grande ricchezza di motivi e contiene inoltre temi di tutti gli altri, consentendo innumerevoli intrecci e variazioni. La Commedia appare, come l’Apocalisse, “libro scritto dentro e fuori” (Ap 5, 1), con duplice struttura, linguaggio e senso, letterale e spirituale. Il viaggio di Dante e la visione di Giovanni hanno la stessa causa finale, che è la beatitudine, alla quale si perviene con diverse guide, per gradi segnati da visioni sempre più nuove e ardue delle precedenti, attraverso una sempre maggiore apertura dell’arcano coperto dal velame dei sette sigilli fino al punto più alto in cui, in questa vita, è possibile vedere la verità.
Tutti i modi del linguaggio interiore al poema esprimono un processo, un viaggio dal più chiuso al più aperto, e in questo andare hanno una loro precisa collocazione ‘topografica’, uno ‘stato’ (nel senso di momento storico che ricade sulla coscienza individuale) al quale appartenere. Si possono in tal modo stendere vere e proprie mappe tematiche che comprendano l’ordine spirituale di tutta la Commedia, che aderisce a una precisa teologia della storia, sia pure modificandone profondamente le prospettive. La ciclicità dei temi permette di stabilire collegamenti inusitati tra le diverse zone; il procedere per gradi dell’illuminazione divina fa sì che episodi oscuri e quasi ermeticamente chiusi si chiariscano poi, aprendosi all’intelligenza in modo più alto.
A ogni gruppo è arbitrariamente assegnato un diverso colore: Radici (verde), I stato (verde acqua), II stato (rosso), III stato (nero), IV stato (viola), V stato (marrone), VI stato (blu), VII stato (indaco), VII visione (fucsia). Dei gruppi sono stati integralmente studiati il terzo stato e la settima visione.

 

INFERNO

(le prime cinque età del mondo)

La ‘topografia spirituale’ del poema mostra nell’Inferno cinque cicli settenari corrispondenti agli stati della Chiesa descritti dall’Olivi e ai loro temi contenuti nella Lectura. Questi cinque cicli designano le prime cinque età del mondo (riunite a loro volta nel primo stato generale, che corrisponde all’età del Padre di Gioacchino da Fiore), in quanto prefigurazione del primo avvento di Cristo e della Chiesa.
I cinque cicli settenari che si susseguono nell’Inferno a partire dal quarto canto (i primi tre canti hanno una tematica particolare) sono preceduti da cinque zone che possono essere definite ‘snodi’, dove cioè confluiscono temi provenienti da più stati, intrecciati insieme ad altri ad avviare il procedere settenario. Il centro di questi ‘snodi’ coincide con un canto (Inf. IV, X, XVII, XXVI, XXXII), ma la zona è più vasta e supera l’ambito dato dalla divisione letterale del poema.

 

Inf. I-III: da considerare al di fuori dei cicli: I primi due canti dell’Inferno sono profondamente segnati dai temi del sesto stato: cfr. Il sesto sigillo, cap. 1c, Tab. VI-3; 2a, Tab. IX, X. Inf. III è riferibile al settimo stato (per gli ignavi) e in parte al quinto (per l’episodio di Caronte): cfr. ibid., cap. 7a, Tab. XLIV-XLV.

canti

I ciclo

stati

cerchi

IV

Limbo

Radici, I (I snodo)

I

V

lussuriosi

II

II

VI

golosi

III

III

VII

avari e prodighi, Palude Stigia

(iracondi e accidiosi)

IIIIVV

IV-V

VIII

Palude Stigia, Città di Dite

V

V

IX

apertura della porta della Città di Dite

VVI

 

canti

II ciclo

stati

cerchi

IX-X-XI

eretici, ordinamento dell’Inferno

I (II snodo)

VI

XII

violenti contro il prossimo

II

VII (girone 1)

XIII

violenti contro sé

III

        (girone 2)

XIV

violenti contro Dio: bestemmiatori

IV

        (girone 3)

XV-XVI

violenti contro Dio: sodomiti

V

XVI

XVII

ascesa di Gerione

Gerione,  violenti contro Dio: usurai

VI

canti

III ciclo

stati

cerchi

XVII

volo verso Malebolge

I (III snodo)

 

XVIII

ruffiani, lusingatori

Radici II

VIII (bolgia 1, 2)

XIX

simoniaci

III

(bolgia 3)

XX

indovini

IV

(bolgia 4)

XXI-XXII

barattieri

V

(bolgia 5)

XXIII

ipocriti

VVI

(bolgia 6)

XXIV-XXV

ladri

VI

(bolgia 7)

canti

IV ciclo

stati

cerchi

XXVI

consiglieri di frode (greci)

I (IV snodo)

(bolgia 8)

XXVII

consiglieri di frode (latini)

II

XXVIII-XXIX

seminatori di scandalo e di scisma

III

(bolgia 9)

XXIX

falsatori

IV

  (bolgia 10)

XXX

falsatori

IVV

XXXI

giganti

VVI

 

canti

V ciclo

stati

cerchi

XXXII

Cocito: Caina, Antenora

I (V snodo)

IX

XXXIII

Antenora, Tolomea

II

XXXIV

Giudecca

IIIIVV

XXXIV

volgersi di Virgilio sull’anca di Lucifero

VI

 

 

PURGATORIO

(sesta età del mondo)

Dopo le prime cinque età del mondo (corrispondenti all’Antico Testamento, la gioachimita età del Padre), che hanno segnato la discesa a spirale per i cinque cicli settenari dell’Inferno, con il Purgatorio inizia la sesta età, quella di Cristo (l’età del Figlio), che ha sette stati, corrispondenti ai sette stati della Chiesa. Dapprima, nel cosiddetto ‘antipurgatorio’, si registrano in successione temi prevalenti dei primi cinque stati. Il sesto stato della sesta età (con cui si apre l’età dello Spirito) inizia con l’apertura della porta di san Pietro (la porta del Purgatorio). Questo sesto stato procede anch’esso con andamento settenario, per cui ha sette momenti, coincidenti principalmente con un girone della montagna, ma non del tutto, perché sempre l’ordine spirituale del poema rompe i confini letterali e le divisioni materiali, concatenando i temi di uno stato prevalente con quelli dello stato che precede e con quelli dello stato che segue e intrecciandoli con temi di tutti gli altri stati.
È spiegato nel Notabile VII del prologo della Lectura che il sesto stato della Chiesa è il secondo stato di Cristo e ha i suoi sette tempi per cui la Chiesa, come fosse una sfera, si ricongiunge circolarmente al primo apostolico tempo. Il settimo dei sette momenti del sesto stato della Chiesa coincide con il settimo stato generale della Chiesa, che nel poema corrisponde in parte all’ultimo girone della montagna (il settimo, dove si purgano i lussuriosi) e in parte all’Eden, con cui si chiude la seconda cantica.
Il Purgatorio dunque, secondo il senso spirituale, è la storia della Chiesa che corre verso il suo sesto stato, punto di riferimento di tutte le vicende umane, antiche e moderne, che ad esso cooperano. Non è casuale che nel sesto girone della montagna sia chiarificata e riconosciuta, nel colloquio con Bonagiunta da Lucca, la poetica delle “nove rime” di Dante, già “sesto tra cotanto senno” cooptato nella “bella scola” dei poeti del Limbo.
Il settimo stato dell’Olivi si realizza parte in questa vita (come pregustazione in terra della gloria eterna, cioè fin sulla cima della montagna) e in parte nella futura (nel senso della quiete delle anime beate in attesa della resurrezione, che è la materia del Paradiso).

canti

I ciclo – fino al sesto sato

stati

 

I

Catone

Radici, I

 

II

angelo nocchiero, Casella

–  II

 

III

scomunicati

III

“Antipurgatorio”

IV

salita al primo balzo, Belacqua

IV  –  V

V

negligenti morti per violenza

V

VI

Sordello

V

VII-VIII

valletta dei principi

V

IX

apertura della porta

VI sesto stato

 

 

canti

II ciclo – il sesto stato della sesta età

stati

gironi

X-XII

superbi

I

I

XIII-XIV-XV

invidiosi

II

II

XV-XVIII

iracondi

ordinamento del Purgatorio,

amore e libero arbitrio

III

III

IV

XVIII-XIX

accidiosi

IV

IV

XIX-XX

avari e prodighi

V

V

XX (terremoto)  -XXV

Stazio, golosi, generazione dell’uomo

VI

VI

XXV-XXVI

lussuriosi

VII – settimo stato

VII

XXVII

XXVIII-XXXIII

 muro di fuoco

notte stellata, termine dell’ascesa

Eden

 

 

PARADISO

(settimo stato della Chiesa)

Il Primo Mobile è il nono e penultimo cielo, ma è il sesto se si parte dal cielo del Sole. È anche il cielo più segnato dal tema del “punto”, cui è assimilato il sesto stato. Questo consente di ricostruire l’ordine spirituale del Paradiso ponendo la cerniera nel quarto cielo del Sole. Con il terzo cielo di Venere termina infatti il cono d’ombra gettato dalla terra, secondo la dottrina di Alfragano (Par. IX, 118-119), mentre prima di descrivere l’ascesa al cielo del Sole il poeta invita il lettore a rivolgersi “a l’alte rote” (Par. X, 7-27). Senza la cesura recisa che, nella prima cantica, divide i dannati puniti all’interno della Città di Dite da quelli che ne stanno fuori e, nella seconda cantica, separa le anime purganti nei sette gironi della montagna dalle anime che attendono fuori della porta (il cosiddetto ‘antipurgatorio’), anche nel Paradiso gli spiriti che si manifestano nei primi tre cieli della Luna, di Mercurio e di Venere (spiriti che mancarono ai voti, spiriti che furono attivi per conseguire onore e fama, spiriti amanti) si distinguono per minore perfezione rispetto a quelli che appaiono nei cieli seguenti.
I dieci cieli del Paradiso si mostrano pertanto ordinati in due gruppi di settenari, corrispondenti agli stati della Chiesa (e alle loro prerogative) secondo l’Olivi, parzialmente combacianti (da 1 a 7 e da 4 a 10: coincidono gli ultimi quattro numeri del primo gruppo e i primi quattro del secondo).

I  Se si considera il primo settenario, nel primo cielo della Luna si affronta la questione dell’inadempienza dei voti, che ha corrispondenza con i temi propri della prima chiesa di Efeso, il cui nome, se interpretato, oscilla tra la fervida volontà iniziale e la remissione (l’essenza del voto consiste nella volontà).

II  Nel secondo cielo di Mercurio, le battaglie sostenute dal “sacrosanto segno” dell’aquila corrispondono allo stato dei martiri, che è dei combattenti, e anche la dottrina dell’incarnazione e della passione di Cristo, esposta successivamente da Beatrice, fa parte della tematica, perché l’intera Chiesa, fondata sulla passione di Cristo, imita con i martiri la sua croce, e questo giova assai al suo radicamento.

III  Nel terzo cielo di Venere, Carlo Martello spiega al modo di un dottore del terzo stato la diversità delle indoli umane e come gli uomini, non assecondandole, errino; nello stesso cielo compare Folchetto di Marsiglia, che da vescovo di Tolosa combatté l’eresia albigese.

IV – I  Al quarto cielo del Sole, primo del secondo gruppo di settenari per l’esaltazione della vita apostolica (propria del primo stato e rinnovata nel sesto), si può connettere il tema stesso del sole inteso nell’esegesi della quarta tromba (Ap 8, 12): “Per “solem” videtur hic designari solaris vita et contemplatio summorum anachoritarum, qui fuerunt patres et exempla aliorum, vel solaris sapientia et doctrina summorum doctorum”. Sapienza e contemplazione, dottori del terzo e anacoreti del quarto stato, concorrono, come Domenico e Francesco – “L’un fu tutto serafico in ardore; / l’altro per sapïenza in terra fue / di cherubica luce uno splendore” (Par. XI, 37-39) – con mutua cortesia a infiammare il meriggio dell’universo.

V – II  Il quinto cielo di Marte, secondo (come il secondo stato dei martiri) per l’esaltazione della croce di Cristo formata dai lumi dei combattenti per la fede, reca in sé il tema del condiscendere proprio del quinto stato sia nel pio discendere per la croce di Cacciaguida verso Dante, sia nella decadenza degli “alti Fiorentini”, cioè nella decadenza delle antiche famiglie, assimilate agli anacoreti, un tempo alti e poi vòlti in basso.

VI – III  Il sesto cielo di Giove, terzo (come il terzo stato dei dottori) per la spiegazione di profonde verità di fede, sviluppa il motivo, proprio della sesta chiesa, della “porta aperta”. Aprire la porta significa illuminare e rendere acuto l’intelletto che penetra nell’occulto delle Scritture, e anche dare efficacia spirituale a penetrare nel cuore di chi ascolta: così l’aquila apre la “latebra” di Dante, così l’occhio di Rifeo Troiano fu da Dio aperto alla futura redenzione.

VII – IV Nel settimo cielo di Saturno, quarto (come il quarto stato degli anacoreti), “si tace … la dolce sinfonia di paradiso” (Par. XXI, 58-60), e il tacere è tema del settimo stato. Ivi si mostrano gli spiriti contemplativi, principali soggetti del quarto stato, proprio degli anacoreti: se si conta a partire dal quarto cielo del Sole, considerando questo come primo ovvero come nuovo avvio del ciclo settenario, il cielo di Saturno è appunto quarto.

VIII (V) Il settimo cielo di Saturno è seguito dal cielo delle Stelle fisse – ottavo e quinto -, dove si mostrano le schiere del trionfo di Cristo che discendono dall’Empireo (il quinto stato è caratterizzato dalla “condescensio”) e si celebra il trionfo di Maria (sviluppo del tema, proprio della quinta chiesa, della mirabile bellezza della Chiesa, regina ornata di veste aurea per la carità che unisce e circondata dalla varietà nei doni e nelle grazie delle diverse membra). È inoltre ricapitolazione dei precedenti sette, secondo un’interpretazione più volte presente nella Lectura dell’essere ‘ottavo’. Per questo Dante, stando nel segno dei Gemelli, riguarda in giù e torna col viso per tutte quante le sette precedenti sfere (Par. XXII, 124-154).

IX (VI) Segue il Primo Mobile o Cristallino – nono e sesto cielo –, dove il poeta vede il punto luminosissimo – Dio – da cui dipende il cielo e la terra, circondato dai nove cerchi di fuoco (Par. XXVIII, 16-18, 40-42, 94-96). Il sesto stato, secondo quanto Olivi afferma nel Notabile VIII, è il “punto” da cui dipendono gli altri stati, perché appare nel testo dell’Apocalisse in modo più evidente degli altri, che da esso assumono chiarezza quanto alla loro manifestazione nella storia, come l’intelligenza delle cose ordinate ad un fine dipende dal fine.

X (VII) La quiete e l’immobilità dell’Empireo, decimo cielo – il “ciel de la divina pace” -, corrispondono al settimo stato, di cui è propria la “quietatio”, il silenzio (tema anticipato dal tacere di Beatrice in apertura del canto XXIX), e la pace.

Il Paradiso avrebbe pertanto un ordine spirituale del seguente tipo:

cielo

stato

cielo

I

LUNA

I

II

MERCURIO

II

III

VENERE

III

IV

SOLE

IV

I

SOLE

V

MARTE

V

II

MARTE

VI

GIOVE

VI

III

GIOVE

VII

SATURNO

VII

IV

SATURNO

VIII

V

STELLE FISSE

IX

VI

PRIMO MOBILE

X

VII

EMPIREO

 

Con un procedimento di arte della memoria, il senso letterale della Commedia contiene parole-chiave che rinviano al commento apocalittico dell’Olivi. Queste parole-chiave, vere e proprie imagines agentes, sollecitano la memoria del lettore verso un testo dottrinale che già conosce, ma che rilegge parafrasato in volgare e profondamente aggiornato secondo gli intenti del poeta, nei versi che prestano “e piedi e mano” alla dottrina e la vestono con esempi contemporanei e familiari. Il senso letterale, rivolto a chiunque, ne racchiude altri ‘mistici’ rivolti a un preciso pubblico – agli Spirituali francescani, e forse non solo ad essi, se la Lectura si fosse diffusa anche presso altri Ordini -, a coloro cioè che con la predicazione avrebbero potuto riformare la Chiesa e con la “lingua erudita” – il volgare di Dante – convertire il mondo. La riforma, come pure il ristretto pubblico che avrebbe dovuto attuarla, non si realizzò, per le note vicende che travolsero gli Spirituali e il loro stesso libro-vessillo.
Nella Topografia spirituale della Commedia, per quasi ogni verso, o gruppo di versi, collegamenti ipertestuali conducono al “panno” esegetico fornito dalla Lectura super Apocalipsim, sul quale il “buon sartore” ha fatto “la gonna” (Par. XXXII, 139-141).
La persistenza di un “panno” – cioè di un altro testo da cui trarre i significati spirituali del poema, materialmente elaborati attraverso le parole – è anche servita a mantenere l’unità e la coerenza interna dell’ordito. Si può supporre che il poema sia stato pubblicato per gruppi di canti, non più modificabili [3]: sempre stava innanzi al poeta la medesima esegesi teologica con le innumerevoli possibilità di variazioni tematiche e di sviluppi.
Come riassunto qui sopra nelle tabelle, nella ‘topografia spirituale’ della Commedia la semantica del quarto stato è prevalente (vi sono comunque intrecciati elementi relativi ad altri stati), nelle seguenti zone:

Inferno

1) cerchio IV (avari e prodighi, in concorrenza con il terzo stato).

2) cerchio VII, 3° girone (bestemmiatori).

3) cerchio VIII, 4a bolgia (indovini) [4].

4) cerchio VIII, 10a bolgia (falsatori).

5) cerchio IX (“Giudecca”, in concorrenza con il terzo stato).

Le zone sub 2), 3) e 4) sono quelle più interessate dalla tematica.

Purgatorio

1) “antipurgatorio”: salita al primo balzo (in concorrenza con il terzo stato).

2) girone 4° (accidiosi).

Il numero del girone corrisponde allo stato; concorrono però temi relativi a tutti gli altri stati, a volte in modo significativo.

Paradiso

Il punto più alto è il cielo di Saturno (quarto a partire dal cielo del Sole).

Qui di seguito ci si limiterà alle citazioni di Gioacchino da Fiore presenti nella Lectura. Quelle relative al quarto stato sono assai più numerose e importanti che quelle riferite al primo e al terzo stato. Il secondo periodo è stato già trattato.


2. Un enigma risolto. Pietro Damiano e Pietro Peccator,
ovvero la distinzione fra quarto e quinto stato (Par. XXI, 121-123)

Gli stati della Chiesa sono interconnessi fra loro per concurrentia al modo dell’umana generazione: il periodo che segue inizia prima della fine di quello che precede come il feto si forma e si nutre nell’utero materno prima di nascere e come un fanciullo viene educato nella casa del padre prima di diventarne l’erede. Così Francesco iniziò il sesto stato sotto l’egida del quinto, che concorre con ciò che resta del quinto fino alla distruzione di Babylon; la regola benedettina e i canonici regolari agostiniani raggiunsero la fioritura nel quinto tempo (che inizia con Carlo Magno) ma prima si radicarono nel quarto (prologo, Notabile X). Non sarà casuale che “Francesco, Benedetto e Augustino” siano citati da san Bernardo, collocati nella rosa dell’Empireo sotto Giovanni Battista, in un unico endecasillabo (Par. XXXII, 34-36).
Pur essendo un contemplativo (quarto stato), Bernardo appartiene storicamente al quinto, e di questo possiede alcune alte qualità: la tenerezza e la pietas. Si mostra “in atto pio / quale a tenero padre si convene” (Par. XXXI, 62-63; “tenero” è hapax nel poema). Del quinto stato, infatti, dopo l’alta e troppo ardua vita degli anacoreti, splendenti come il sole (il quarto stato concorre con il terzo, dei dottori, come affetto e intelletto, pastorale e spada, Papato e Impero; entrambi sono stati di solare sapienza che infiamma il meriggio dell’universo), è propria la fecondità, nel moltiplicarsi di monasteri e canonie – nel quinto giorno della creazione fu detto: “Crescete e moltiplicatevi” (Genesi 1, 22) -; alla “claritas” subentra il “sensus vivus et tenerus pietatis” (prologo, Notabile XIII) [5]. Uccelli (i monaci più spirituali) e pesci (i chierici, che operano fra la gente) abbondano in sensibilità rispetto ai “luminaria celi” (sole, luna, stelle) creati nel quarto giorno. Il passo del Notabile XIII del prologo è una citazione occulta di Gioacchino da Fiore: si osservino le parole-chiave che ad essa rinviano nella descrizione dei beati che si manifestano nel cielo di Mercurio (peschiera, pesci, chi crescerà, pii : Par. V, 100, 101, 105, 121) nonché nell’episodio di Pier della Vigna (le brutte Arpie – uccelli e pesci sono anche immondi -, la pietas due volte evocata dal suicida: Inf. XIII, 10, 36, 38).
Per determinare il periodo storico relativo al quarto stato, Olivi ricorre a Gioacchino da Fiore, che lo considera (prologo, Notabilia I, X) non nel periodo iniziale, proprio dei primi anacoreti, ma in quello della massima fioritura, sotto Giustiniano (527-565). La citazione dal libro V della Concordia nel Notabile XII del prologo sottolinea il momento nel quale gli alti anacoreti, raggiunta la fioritura, decaddero dalla loro perfezione. Nell’orgoglioso gloriarsi ed esaltarsi pervennero alla rovina, portata dai Saraceni proprio in quei luoghi – i deserti d’Arabia e d’Egitto – dove la loro vita era stata più fiorente. Aggiunge Olivi che l’infermità dell’umana carne non consente di mantenersi a lungo in uno stato tanto alto (prologo, Notabile V). È quanto afferma san Benedetto nel cielo di Saturno, il luogo dove si manifestano gli spiriti contemplativi, per il quale i versi registrano una semantica prevalente del quarto stato: “La carne d’i mortali è tanto blanda, / che giù non basta buon cominciamento / dal nascer de la quercia al far la ghianda” (Par. XXII, 85-93; si noti, nelle tre terzine, l’insistenza sul tema del buon inizio disatteso – cominciamento, cominciò, ’l principio -, elaborato tramite l’esegesi della quinta chiesa [Ap 3, 1.3] e del sesto sigillo [Ap 6, 12]).
Sempre nel Notabile XII del prologo della Lectura, Olivi, trattando della durata temporale del quinto stato, cita ancora il libro V della Concordia di Gioacchino da Fiore. L’abate calabrese sottolinea come i monaci del quinto stato siano più imperfetti di quelli del quarto, che non conobbero l’ansia del possesso temporale. Afferma ciò per il caso che, nel parlare dei monaci del quinto tempo, o di quanti vivono nelle canoniche, uno possa essere scambiato per l’altro e l’identità dei nomi impedisca la comprensione delle differenze di vita religiosa.
Questa citazione di Gioacchino, che distingue fra i monaci del quarto stato e i canonici del quinto, consente di risolvere uno dei punti più dibattuti della Commedia. Ad essa fa infatti riferimento Pier Damiani quando afferma: “In quel loco fu’ io Pietro Damiano, / e Pietro Peccator fu’ ne la casa / di Nostra Donna in sul lito adriano” (Par. XXI, 121-123). Le numerose interpretazioni, antiche e moderne, possono ridursi a due:

1) Una è la più antica, risale al Lana, all’Ottimo e a Pietro di Dante, seguita fra i moderni dal Torraca e in parte dal Sapegno: Pier Damiani (morto nel 1072), eremita a Fonte Avellana (come afferma nel primo verso della terzina) e che usava chiamarsi “petrus peccator monachus”, vuole (nei due versi successivi) distinguersi da un altro Pietro, chiamato Pietro Peccatore, fondatore (1096) della canonica di S. Maria in Porto a Ravenna, morto nel 1119, sulla cui tomba era scritto “Petrus Peccans cognomine dictus”.

2) La seconda, che fu di Benvenuto e poi di Giovanni Mercati e di Michele Barbi, è quella attualmente più seguita: Pier Damiani visse a Fonte Avellana [6]; dopo aver rinunciato al cardinalato si sarebbe ritirato a vita di penitenza a Ravenna nella canonica di S. Maria in Porto, che avrebbe fondato, col nome di Pietro Peccatore. Dante avrebbe letto a Ravenna l’epitaffio di Petrus Peccator e lo avrebbe ritenuto quello del Damiani sotto nome diverso.

Il prevalere attuale, pressoché unanime, della seconda interpretazione nasce dalla constatazione che un secondo Pietro (un “Pietro Peccator”), distinto dal primo (“Pietro Damiano”), darebbe adito all’incomprensibile presenza di un intruso: “inciso del tutto gratuito” (Chiavacci Leonardi) [7], ‘parentesi erudita’ (Sapegno) [8], “l’intromissione di un secondo personaggio appare qui totalmente inopportuna e immotivata” (Inglese) [9].
La citazione del libro V della Concordia di Gioacchino da Fiore, ben presente alla mente di Dante e alla quale la terzina rinvia, chiarisce che il secondo Pietro non è un intruso. Pier Damiani non vuole soltanto distinguere due persone, se stesso e l’altro Pietro, intende soprattutto affermare la differenza fra due modi di vita religiosa:

Io, Pier Damiani, fui eremita a Fonte Avellana, dove mi dedicai a una vita contemplativa come i perfetti anacoreti del quarto stato della storia della Chiesa; un altro Pietro, che si chiamava come me ‘peccatore’, seguì poi nella canonica di S. Maria in Porto di Ravenna un tipo di vita comune, diverso e meno perfetto, proprio del quinto stato. Dico questo sia per distinguere me e l’altro dal nome identico, sia soprattutto per distinguere i diversi modi di vita religiosa”.

La citazione di Gioacchino da Fiore non lascia dubbi che si tratti di due persone diverse, esemplare la prima dei contemplativi puri, la seconda di quanti vivono una vita associata: “ne forte cum de monachis quinti temporis sermo succedet, vel de illis clericis qui canonice vivunt, alterum occurrat pro altero et nominum idemptitas intellectum obscuret”.
Vengono quindi meno i sostegni all’interpretazione che i due Pietro siano un’unica persona (il Damiani). Non c’è nessuna fonte antica che attesti che l’eremita di Fonte Avellana abbia mai fondato la canonia ravennate né che vi abbia mai risieduto. La notizia si fonda su tradizioni e credenze piuttosto tardive. Boccaccio, in una lettera (XI) a Petrarca del 2 gennaio 1362, riteneva il Damiani fondatore del cenobio sul lido adriatico, dove avrebbe assunto il cognome di “Peccatore” [10]. Ma nulla sanno di ciò nei loro commenti il Lana, fra il 1324 e il 1328, e l’Ottimo fra il 1333 e il 1340, né l’altro antico sostenitore della distinzione fra le due persone, Pietro di Dante, che scrive negli anni ’50 e doveva conoscere bene le tradizioni ravennati.
Pier Damiani era stato sepolto a Faenza, in una tomba venerata, ed è inverosimile che Dante non ne avesse notizia. Né è da pensare che la sua convinzione che il Damiani fosse sepolto a Ravenna sia stata accentuata dal “legame biografico e culturale con l’ ‘ultimo rifugio’ del Poeta” [11].
Resta inoltre, come osservò Arsenio Frugoni, “la stranezza […] di un maestro di vita eremitica e contemplativa fondatore di canonia di canonici regolari” [12]. Salimbene (vivente ancora nel 1288) asserisce che la casa-madre dell’Ordine di Pietro Peccatore è S. Maria in Porto a Ravenna (non sa nulla del Damiani); la vita religiosa di quest’Ordine è attiva piuttosto che contemplativa:

“Igitur exemplo Christi prelati ministrare debent subditis suis. Quod in Ordine Petri Peccatoris bene fit, quia diebus ieiuniorum ad collationem priores subditis suis propinant, in memoriam exempli Dominici, ut ostendatur verum esse quod Dominus dixit, quoniam maior est qui recumbit quam qui  ministrat. Ordinis autem Petri Peccatoris capud est Ravenne in Sancta Maria in Portu” [13].

La tormentata terzina presenta dunque, nel senso letterale, una distinzione di persone; nel senso spirituale, una differenza di esperienza religiosa. Questo senso mistico poteva essere chiaro solo a quanti conoscevano la Lectura dell’Olivi e dai versi della Commedia risalivano per segni alla sua ampia dottrina, vestita nel poema con esempi contemporanei e noti.
Né la citazione oliviana di Gioacchino da Fiore, che apre l’intelligenza di Par. XXI, 121-123, deve essere presa in modo isolato, perché l’intero poema è un mare di segni – ordinati secondo precise norme – che portano al commento apocalittico del frate di Sérignan. Non fanno eccezione i due canti relativi al cielo di Saturno (Par. XXI-XXII). Lo si può constatare attraverso la Topografia spirituale della “Commedia”. Gioacchino da Fiore, che qui interessa, viene da Olivi incastonato nella propria esegesi, ed è a questa che la Commedia fa riferimento. Si considerino solo alcuni dei rinvii all’esegesi della quarta chiesa d’Asia, Tiàtira (Ap 2, 18-29): in essa Gioacchino da Fiore non è presente, o meglio lo è con una citazione occulta che verrà in seguito considerata. Oppure l’esegesi di Ap 14, 1-5, relativa ai compagni dell’Agnello che stanno sul monte Sion, il monte della contemplazione ma anche del governo del mondo casto: il monte Ida nella Creta governata da Saturno è antica figura del Catria di Pier Damiani e di “quel monte a cui Cassino è nella costa” di Benedetto. Ma a Gioacchino appartiene l’interpretazione dell’ “olio” (Ap 6, 6) riferita al quarto senso della Scrittura, anagogico e contemplativo, che il Damiani ripete a Par. XXI, 115-117; mentre le parole del romita di Fonte Avellana sull’ultimo periodo di vita – “Poca vita mortal m’era rimasa, / quando fui chiesto e tratto a quel cappello, / che pur di male in peggio si travasa” (ibid., 124-126) – volgono la memoria del lettore all’esegesi della quinta guerra (Ap 12, 17), alle poche reliquie che rimangono nel vaso di vino purissimo lasciato al quinto dagli stati precedenti (cfr. Il sesto sigillo, 2d. 3, tab. XX, 1-8). Sono, lo si ripete, solo alcuni degli innumerevoli fili intrecciati nei versi.

 

Tab. II.1

[LSA, prologus, Notabile I] Quartus vero proprie cepit a tempore magni Antonii anachorite, seu a tempore Pauli primi heremite; vel, secundum Ioachim, a tempore Iustiniani augusti de quo infra in decimo notabili amplius tangetur.

[LSA, prologus, Notabile X] Secundum tamen Ioachim, libro III° Concordie sue, quartus status ecclesie non sumitur proprie a primo tempore priorum anachoritarum sed solum a tempore Iustiniani augusti usque ad tempus Karoli *. Subponit enim quod illo tempore in sollempniori multitudine claruit status ille quam claruerit in primo. Nam tempore Iustiniani multum fuit attrita heresis Arrianorum et ceterorum et multo amplius paulo post tempore Gregorii Magni, quando gens Gothorum in Ispania conversa est ab heresi arriana, et ideo hereticis ab Africa et Ispania et ab oriente pro magna parte purgatis, potuit copiosius multiplicari et clarificari religio christiana. Secundum hoc autem, satis tempore et statu distinguitur status quartus a tertio. Posset etiam, secundum hoc, tertius status vocari doctrine et ardue vite cum hereticis commixte et ab eis inquietate; quartus vero doctrine et vite ab illis purgate ac per consequens magis quiete et clarificate. […]
Debuit enim sequens status inchoari ante decisionem prioris, tum propter maiorem connexionem statuum, tum quia sicut infans formatur et nutritur in utero matris antequam per exitum distinguatur ab ea, et sicut parvulus prius nutritur et docetur a patre antequam ipso mortuo fiat heres eius et rector domus sue, sic expedit sequentem statum formari et nutriri in utero prioris et a principio regi ab eo quasi a tutore vel patre. […] Sic etiam status monachorum sancti Benedicti et canonicorum regule sancti Augustini, in quinto tempore multiplicatus, cepit sub quarto tempore. Nam sanctus Benedictus floruit ante tempus Iustiniani imperatoris circa tempus Theodorici regis Gothorum et Boetii ab ipso occisi et circa initium sexti centenarii Christi. Augustinus autem floruit longe ante, scilicet circa finem quarti centenarii incarnationis Christi.
Sic etiam sextus status a beato Francisco est inchoatus, durante adhuc quinto et concurrente cum ipso iam fere per centum annos.

* Concordia, III 2, c. 4; Patschovsky 2, p. 322, 1-10.

Par. XXXII, 34-36

e sotto lui così cerner sortiro
Francesco, Benedetto e Augustino
e altri fin qua giù di giro in giro.

[LSA, prologus, Notabile XII] Quod autem monachi quinti temporis fuerint communiter imperfectiores monachis quarti temporis ostendit Ioachim, libro V° Concordie dicens quod in illis «nulla erat possessio aut possessionum anxietas, sicut est in temporibus istis, sed summa et una omnibus paupertatis voluntas». Et subdit: «Hec ideo dico, ut sciamus, quid inter illos et monachos nostri temporis differens aut indifferens sit, ne forte cum de monachis quinti temporis sermo succedet, vel de illis clericis qui canonice vivunt, alterum occurrat pro altero et nominum idemptitas intellectum obscuret»*.

Concordia, V 1, c. 12; Patschovsky 3, p. 552, 10-17.

Par. XXI, 121-123

In quel loco fu’ io Pietro Damiano,
e Pietro Peccator fu’  ne la casa        fu
di Nostra Donna in sul lito adriano.

[LSA, prologus, Notabile XIII] In quinto vero tempore fuerunt spiritualiores monachi quasi aves volantes, clerici vero gentibus commixti fuerunt quasi pisces in aquis (cfr. Gn 1, 20-21). In hac autem die primo dictum est: “Crescite et multiplicamini” et cetera (Gn 1, 22), quia numquam in preteritis temporibus sic monasteria vel ecclesie in tali vita, que conveniret pluribus, ordinate fuere quomodo in tempore quinto, quia non tantum clericorum et monachorum, verum etiam ecclesiarum et monasteriorum que sunt propagata in tempore quinto in hac occidentali ecclesia colligere numerum non est facile. Unde quamvis vita monachorum quarti temporis fuerit clarior, non tamen fecundior nec sic habens sensum vivum et tenerum pietatis. Aves enim et pisces prehabundant in sensu luminaribus celi. Attamen notandum quod in quinta die creata sunt munda pariter et immunda. Sunt enim pisces secundum legem mundi et immundi, avesque similiter*

*Cfr. Concordia, V 1, c. 13; Patschovsky 3, p. 561, 10-11; p. 563, 4-15; p. 565, 3-4 (Olivi sintetizza più passi di Gioacchino, è comunque sua l’espressione “nec sic habens sensum vivum et tenerum pietatis“).

Par. XXXI, 61-63

Diffuso era per li occhi e per le gene
di benigna letizia, in atto pio
quale a tenero padre si convene.

Inf. XIII, 10, 34-39, 82-84

Quivi le brutte Arpie lor nidi fanno

Da che fatto fu poi di sangue bruno,
ricominciò a dir: “Perché mi scerpi?
non hai tu spirto di pietade alcuno?
Uomini fummo, e or siam fatti sterpi:
ben dovrebb’ esser la tua man più pia,
se state fossimo anime di serpi”.

Ond’ ïo a lui: “Domandal tu ancora
di quel che credi ch’a me satisfaccia;
ch’i’ non potrei, tanta pietà m’accora”.


Par
. V, 100-105, 121-123

Come ’n peschiera ch’è tranquilla e pura
traggonsi i pesci a ciò che vien di fori
per modo che lo stimin lor pastura,
sì vid’ io ben più di mille splendori
trarsi ver’ noi, e in ciascun s’udia:
“Ecco chi crescerà li nostri amori”.

Così da un di quelli spirti pii
detto mi fu; e da Beatrice: “Dì, dì
sicuramente, e credi come a dii”.

 

Tab. II.2

[LSA, prologus, Notabile V; IV status] Quia vero intelligentia divinorum parum aut nichil prodest absque vita divina, ideo in quarto statu refulsit celestis vita anachoritarum, et precipue in desertis Arabie et Egipti tali vite congruis. Quia vero infectio humani generis et sue carnis non patitur tam arduam vitam diu in hoc seculo perdurare, casus autem a statu tam arduo gravem ypocrisim et remissionem aut apertam apostasiam inducit. Talis autem casus cum primo lapsu perfidarum heresum dignus est iudicio et exterminio grandi, idcirco circa finem quarti status congrue contra hereticos et ypocritas et remissos supervenit secta sarracenica omnia fere devastans et sibi subiugans.

[LSA, cap. III, Ap 3, 1.3 (Ia visio, Va ecclesia)] Unde et Ricardus dat aliam rationem quare hec ecclesia dicta est “Sardis”, id est principium pulchritudinis, quia scilicet sola initia boni non autem consumationem habuit, et solum nomen sanctitatis potius quam rem*. […] si digne recogitaveris gratiam tibi prius impensam et qualiter prius accepisti eandem, servabis eam et penitentiam ages.

In Ap I, xi (PL 196, col. 742 C).

Par. XXII, 85-93

La carne d’i mortali è tanto blanda,
che giù non basta buon cominciamento
dal nascer de la quercia al far la ghianda.
Pier cominciò sanz’ oro e sanz’ argento,
e io con orazione e con digiuno,
e Francesco umilmente il suo convento;
e se guardi ’l principio di ciascuno,
poscia riguardi  là dov’ è trascorso,
tu vederai del bianco fatto bruno.

[LSA, cap. VI, Ap 6, 12 (IIa visio, apertio VIi sigilli)] Septima est ut prima pars conformetur principio et medio et termino quinti status, cum quo concurrit, et etiam totius ecclesie, cuius initium humile et plenum egestate, medium vero preclarum et expansum in orbem, finis vero vespertinus et tepidus.

 

Tab. II.3

[LSA, cap. II, Ap 2, 1.18-19.23 (Ia visio, IVa ecclesia)] (Ap 2, 1) […] Unde bene vocatur Tyatira, id est illuminata vel inflammata vel vivens hostia, quia tales per lucem et flammam contemplative devotionis se offerunt Deo hostiam viventem. […] Increpatur tamen, quia permittebat Iesabelem seducere servos suos ut fornicarentur et comessarentur de idolaticis. Solitarii enim et contemplativi negligere solent correctionem aliorum, tamquam iudicantes soli sibi esse vacandum. Quidam etiam ex eis, propter excessus contemplationis et macerationis corpore fracti, de facili solent a sociis suaderi ut indulgeant sue carni, ita quod ex hoc plus debito delicatis utantur. […]
Hiis autem premittitur preceptum de scribendo hec huic episcopo et eius ecclesie et introductio Christi loquentis, cum subdit: “Hec dicit Filius hominis, qui habet oculos tamquam flamma[m] ignis et pedes eius similes auricalco” (Ap 2, 18). Quia episcopus et ecclesia cui Christus loquitur laudatur de fervore fidei et caritatis, et de humilitate ministrandi et patientie, et de perfectione operum sive vite active, ideo respectu primi Christus proponitur ut habens oculos lucidos et ardentes sicut est flamma ignis, respectu vero secundi proponitur ut Filius hominis, respectu vero tertii proponitur habere pedes similes auricalco, id est eri nitidissimo quod est simillimum auro. Correspondet etiam hoc quarto statui anachoritarum humillimorum et valde activorum multumque contemplativorum. Dictum est enim supra quod per Filium hominis designatur humilitas, per oculos autem flammeos fervor et lux contemplationis ignite, per pedes vero similes auricalco perfectio vite active.
Laudat autem hunc episcopum de sex. Primo scilicet de operibus sue inchoationis, ibi: “Novi opera tua” (Ap 2, 19). Secundo de fide, ibi: “et fidem”. Tertio de caritate, ibi: “et caritatem”. Quarto de ministrando pauperibus bona sua vel quecumque pietatis obsequia, ibi: “et ministerium tuum”. Quinto de patientia in adversis, ibi: “et patientiam tuam”. Sexto de superexcessu suorum postremorum operum, ibi: “et opera tua novissima plura prioribus”. Ex quo patet quod superius laudavit opera inchoationis, hic vero opera consumationis. Nota quod quia fides sine operibus mortua est (cfr. Jc 2, 20) et caritas perficitur et probatur in opere, ideo premisit opera fidei caritati. Quia etiam episcopi est ministrare seu dispensare pauperibus et precipue suis subditis bona ecclesie tamquam communia et tamquam bona pauperum, ideo subdit: “et ministerium tuum”, quamvis etiam possit stare pro ministerio verbi Dei; utroque enim modo sumitur Actuum VI° (Ac 6, 1-7). Nota etiam quod per huiusmodi laudem intendit monstrare aliquam notabilem precellentiam quam hic episcopus habebat in bonis istis, et idem est de ceteris supra vel infra laudatis. […]
Nota etiam quod omnes hereses, de quibus fit in istis ecclesiis mentio, leguntur dedite voluptati et carnalitati. Nam et de pseudoapotolis dicitur ad Philippenses III° quod “venter est eorum deus et gloria” (Ph 3, 19). Quamvis enim quedam secte hereticorum fingant ad tempus magnam castitatem et austeritatem, finaliter tamen occulte vel publice ad carnalia currunt. Unde IIa ad Timotheum III° dicitur de eis quod erunt “se ipsos amantes” et “voluptatum amatores” (2 Tim 3, 2.4). Et IIa Petri [II°] de ipsis dicitur quod “multi sequentur eorum luxurias, per quos via veritatis blasphemabitur” (2 Pt 2, 2), et infra eodem dicit multa plura de hoc, et idem dicitur in epistula Iude (Ju 1, 12). Nec mirum, quia qui veras et spiritales delicias in Deo et ex Deo non gustant nec hauriunt oportet eos in terrenis et carnalibus querere voluptatem, quamvis propter ambitionem inanis glorie sepe exterius se affligant.
“Et filios eius” (Ap, 2, 23), id est sequaces eius, “interficiam in mortem”, id est sic quod ducam eos ad mortem. Vel talis ingeminatio vehementem aggravationem interfectionis significat.
“Et scient omnes ecclesie”, scilicet per evidentiam facti, “quia”, id est quod, “ego sum scrutans renes et corda”, id est omnes internos cogitatus et affectus mentis et sensualitatis. In renibus enim viget sensualis concupiscentia carnis. Quando enim Deus aperte non punit mala quantum iustitia exigit, videtur ignorare mala et pondus eorum; quando autem iustissime et rigidissime et publicissime punit illa, tunc omnibus de facto patet quod ipse omnia mala quantumcumque occulta intime novit et ponderat, ac si ea profundissime scrutaretur.
Nota autem quam congrue proposuit Christus se habere oculos sicut flammam (cfr. Ap 2, 18), ut pateret quod omnia videt et penetrat et zelo ardenti urit et punit vel corripit, etiam permissionem huius episcopi, que vix crederetur esse peccatum nisi ipse eam increpasset tamquam culpabilem.

Par. XXI, 49-51, 67-72, 82-90

Per ch’ella, che vedëa il tacer mio
nel veder di colui che tutto vede,
mi disse: “Solvi il tuo caldo disio”.

né più amor mi fece esser più presta,
ché più e tanto amor quinci sù ferve,
sì come il fiammeggiar ti manifesta.
Ma l’alta carità, che ci fa serve
pronte al consiglio che ’l mondo governa,
sorteggia qui sì come tu osserve.

poi rispuose l’amor che v’era dentro:
Luce divina sopra me s’appunta,
penetrando per questa in ch’io m’inventro,
la cui virtù, col mio veder congiunta,
mi leva sopra me tanto, ch’i’ veggio
la somma essenza de la quale è munta.
Quinci vien l’allegrezza ond’ io fiammeggio;
per ch’a la vista mia, quant’ ella è chiara,
la chiarità de la fiamma pareggio.”

Purg. XVIII, 103-108

“Ratto, ratto, che ’l tempo non si perda
per poco amor”, gridavan li altri appresso,
“ché studio di ben far grazia rinverda”.
“O gente in cui fervore aguto adesso
ricompie forse negligenza e indugio
da voi per tepidezza in ben far messo …”

Par. XXII, 31-33, 46-55, 73-75, 82-84 

Poi dentro a lei udi’: “Se tu vedessi
com’ io la carità che tra noi arde,
li tuoi concetti sarebbero espressi. ……

Questi altri fuochi tutti contemplanti
uomini fuoro, accesi di quel caldo
che fa nascere i fiori e ’ frutti santi.
Qui è Maccario, qui è Romoaldo,
qui son li frati miei che dentro ai chiostri
fermar li piedi e tennero il cor saldo”.
E io a lui: “L’affetto che dimostri
meco parlando, e la buona sembianza
ch’io veggio e noto in tutti li ardor vostri,
così m’ha dilatata mia fidanza …”

Ma, per salirla, mo nessun diparte
da terra i piedi, e la regola mia
rimasa è per danno de le carte.

ché quantunque la Chiesa guarda, tutto
è de la gente che per Dio dimanda ;
non di parenti né d’altro più brutto.

Par. XII, 88-94

E a la sedia che fu già benigna
più a’ poveri giusti, non per lei,
ma per colui che siede, che traligna,
non dispensare o due o tre per sei,
non la fortuna di prima vacante,
non decimas, quae sunt pauperum Dei,
addimandò ………………………….. 

[LSA, prologus, Notabile X (concurrentia IIIIV status)] Prout vero status ab invicem per certam propriorum donorum et officiorum preeminentiam ac multitudinis personarum in ipsis concurrentium distinguuntur, sic concurrit tertius cum quarto non quidem in eodem statu sed in eodem tempore. […] Ideo autem quartus status concurrit eodem tempore cum tertio, quia sicut affectus exigit notitiam intellectus, nec ista notitia est sancta absque sancto affectu, sic affectualis exercitatio et contemplatio anachoritarum et sanctorum illitteratorum eguit preclaro lumine doctorum, nec illud preclarum esse potuit absque precellentia vite. Unde ad mutuum obsequium et ad meridiem universi orbis tunc ad fidem conversi simul clarificandam et inflammandam debuerunt illi duo status concurrere simul. Sicut autem notitia preit amorem, quia non potest amari nisi cognitum, sic status doctorum in hoc libro premittitur ante statum anachoritarum; in quarta tamen visione ostenduntur simul concurrere, ubi dicitur quod “date sunt mulieri due ale aquile magne ut volaret in desertum” (Ap 12, 14). Quod autem de facto insimul concurrant, patet ex cronicis. […]

[LSA, prologus, Notabile III] De tertio (dono) etiam patet. Nam magistralis tuba seu expositio intendit fidei et eius scientie seminande (I), et deinde radicande seu roborande (II), deinde explicande (III), deinde amplexande (IV), deinde contemperande, unicuique scilicet secundum suam proportionem (V); intendit etiam finaliter eam imprimere et sigillare (VI) et tandem glorificare seu glorificatam exhibere (VII). Et patet correspondentia primi ad primum statum et secundi ad secundum et sic de aliis.

 

Tab. II.4

[LSA, cap. XIV, Ap 14, 1.3-4 (IVa visio)] Primum est eorum ad Christum conformis associatio, seu ipsorum cum Christo sublimis mansio. Stabant enim cum Christo “super montem Sion” (Ap 14, 1). Per montem Sion, que Sion interpretatur specula, designatur alta  et solida eminentia contemplativi status. […]
Quintum autem de prerogativis istorum est ipsorum perfecta et immaculata puritas, unde subdit: “qui empti sunt de terra” (Ap 14, 3), id est sanguine Christi redempti et ab omni terrestri vita et terrenorum amore abstracti et expurgati. “Hii sunt qui cum mulieribus non sunt coinquinati” (Ap 14, 4), id est per nullam muliebrem seu carnalem corruptionem vel mollitiem. “Virgines enim sunt”, scilicet tam mente quam carne. Quamvis sub nomine virginum possint hic designari quicumque sancti post corruptionem carnis castificatissimi, sicut utique Magdalena fuit et apostolus Petrus, qui uxorem et filiam habuit, proprie tamen et anthonomasice videtur hic loqui de sanctis virginibus mente et carne, et precipue de illis qui de tribubus Israel sunt in statu sexto et septimo ad perfectionem evangelicam singulariter eligendi. […]
Septimum est universalis primatus sancte dedicationis eorum ad Dei cultum cum pleniori explicatione quinti, id est immaculate puritatis eorum. Unde subdit: “Hii empti sunt”, id est per gratiam redemptionis Christi abstracti, “ex omnibus”, sive “ex hominibus”. Verior littera dicitur esse “ex hominibus”. Ricardus tamen ponit disiunctive utramque, et est sensus quod a carnali vita hominum et a generali corruptione humani generis sunt per Christi gratiam redemptricem singulariter segregati et ad Dei servitium empti, ut scilicet sint “primitie Deo et Agno”, id est non tempore sed virtutis dignitate primi* ad Dei cultum et ad spiritalia holocausta ipsius. […]
Nota quod cum superius dixit istos cum Christo staresuper montem Sion”, forte ultra sensum ibi tactum voluit insinuare quod post mortem Antichristi, et forte etiam ante mortem, erit sublimissimus cultus Christi ad litteram in monte Sion. Nec mirum si locus nostre redemptionis super omnia loca terre tunc temporis exaltetur, et maxime quia ad conversionem totius orbis et ad gubernationem totius iam conversi ille locus erit congruentior summis rectoribus orbis, tamquam centrale medium terre habitabilis.

* In Ap IV, vi (PL 196, col. 811 C).

Inf. XIV, 94-102

In mezzo mar siede un paese guasto”,
diss’ elli allora, “che s’appella Creta,
sotto ’l cui rege fu già ’l mondo casto.
Una montagna v’è che già fu lieta
d’acqua e di fronde, che si chiamò Ida;
or è diserta come cosa vieta.
Rëa la scelse già per cuna fida
del suo figliuolo, e per celarlo meglio,
quando piangea, vi facea far le grida”.

Purg. IV, 61-63, 67-71

Ond’ elli a me: “Se Castore e Poluce
fossero in compagnia di quello specchio
che sù e giù del suo lume conduce …”

Come ciò sia, se ’l vuoi poter pensare,
dentro raccolto, imagina Sïòn
con questo monte in su la terra stare
sì, ch’amendue hanno un solo orizzòn

e diversi emisperi ………………….”.

[LSA, cap. II, Ap 2, 20 (Ia visio, IVa ecclesia)] Tantum ac talem increpat, dicens (Ap 2, 20): “Sed habeo adversum te, quia permittis mulierem Iesabel, que se dicit propheten”, id est prophetissam (prophetes est communis generis, cuius accusativus est propheten), “permittis”, inquam, “docere et seducere servos meos, fornicari et manducare de idolaticis”, id est de hiis que oblata sunt idolis. […] Posset tamen dici quod episcopus est increpandus si non se opponit forinsecis infidelibus quando nituntur seducere subditos episcopi. Non enim debet permit-tere ipsos seduci ab illis et trahi ad malum.

Par. XXI, 25-27, 106-117; XXII, 37-45

Dentro al cristallo che ’l vocabol porta,
cerchiando il mondo, del suo caro duce
sotto cui giacque ogne malizia morta

Tra ’ due liti d’Italia surgon sassi,
e non molto distanti a la tua patria,
tanto che ’ troni assai suonan più bassi,
e fanno un gibbo che si chiama Catria,
di sotto al quale è consecrato un ermo,
che suole esser disposto a sola latria”.
Così ricominciommi il terzo sermo;
e poi, continüando, disse: “Quivi
al servigio di Dio mi fe’ sì fermo,
che pur con cibi di liquor d’ulivi
lievemente passava caldi e geli,
contento ne’ pensier contemplativi”.

Quel monte a cui Cassino è ne la costa
fu frequentato già in su la cima
da la gente ingannata e mal disposta;

e quel son io che sù vi portai prima
lo nome di colui che ’n terra addusse
la verità che tanto ci soblima;
e tanta grazia sopra me relusse,
ch’io ritrassi  le ville circunstanti
da l’empio cólto che ’l mondo sedusse.

Inf. XVI, 94-96

Come quel fiume c’ha proprio cammino
prima dal Monte Viso ’nver’ levante,
da la sinistra costa d’Apennino

 

3.E solo, in parte, vidi ’l Saladino” (Inf. IV, 129)

Il quarto esercizio della mente che ascende in modo ordinato alla perfezione consiste nella solitudine nella quale ci si astrae alla contemplazione, e nell’assidua preparazione a questa ascesa fatta per mezzo di un austero e laborioso operare (ad Ap 2, 1). Il quarto esercizio è proprio degli anacoreti, dall’operosità senza tregua. Costoro, con il conseguimento della quarta vittoria, sono degni di essere sublimati al principato della Chiesa e di ricevere la virtù retta, inflessibile e insuperabile, come una verga di ferro, per frantumare con facilità i vizi terreni delle genti, insieme alla pienezza della sapienza celeste per governare la Chiesa e per contemplare le cose celesti. Per questo, in Luca 19, 17, a colui che aveva guadagnato dieci mine Cristo dice: “avrai potere sopra dieci città”, e più avanti dice del servo ozioso: “toglietegli la mina e datela a colui che ne ha dieci, poiché a chiunque ha sarà dato, e abbonderà”. Con la mina del servo ozioso viene designato, secondo i santi, il dono della scienza (Ap 2, 26-28; passo considerato altrove, cfr. la sua incidenza sull’ “orazion picciola” di Ulisse: Ulisse perduto. Un viaggio nel futuro, PDF, pp. 21-29).
Chi si prepara da solo a un laborioso operare è Dante, che si accinge al viaggio: “e io sol uno / m’apparecchiava a sostener la guerra / sì del cammino e sì de la pietate”, mentre l’imbrunire sottrae gli esseri viventi alle loro fatiche (Inf. II, 1-6; l’espressione “sostener la guerra” si riferisce al secondo stato, proprio dei martiri).
Sono in condizione di solitudine anche Arrigo III d’Inghilterra, “il re de la semplice vita” che siede nella valletta dei principi negligenti (Purg. VII, 130-131) e Guido di Montfort, isolato per l’orrore causato dal feroce assassinio viterbese del principe Enrico, figlio di Riccardo di Cornovaglia (1272), “un’ombra da l’un canto sola” fra i violenti contro il prossimo nella riviera del sangue bollente (Inf. XII, 118-120). In sdegnosa solitudine è Sordello, “un’anima … posta sola soletta … ombra, tutta in sé romita”, che poi rompe il suo isolamento per abbracciare e far festa al concittadino Virgilio (Purg. VI, 58-59, 72).
Il tema della solitudine austera degli anacoreti è soprattutto appropriato al Saladino, che il poeta vede tra gli “spiriti magni” del Limbo “solo, in parte” (Inf. IV, 129). Il Saladino è “il famosissimo re dei Turchi che poco tempo fa [1187] ha conquistato Gerusalemme, la città dove patì Gesù”, come afferma Gioacchino da Fiore, che lo identifica con il sesto dei sette re che corrispondono alle sette teste della prostituta, del quale si dice ad Ap 17, 10: “unus est”, nel senso che è ancora in vita, mentre i primi cinque sono caduti e l’altro non è ancora venuto, sesto che coincide con l’undicesimo re di Daniele 7, 24.
“E solo, in parte, vidi ’l Saladino”: il quarto stato, dei solitari e alti anacoreti, attivi e contemplativi nel contempo, è segnato dalla laboriosità, dalle “res gestae”, dalle forti opere remunerate dal diritto a reggere le genti e a frantumarne i vizi [14]. Saranno proprio i Saraceni a determinare la fine del quarto stato fattosi superbo e ipocrita, con la distruzione delle chiese orientali, lì dove più fiorirono gli anacoreti. Scrive in proposito Francesco Gabrieli: “con quel solo in parte non solo è espressa l’ovvia differenza di fede e civiltà del grande sultano, ma ne risulta in plastico rilievo l’alta figura. È un omaggio all’uomo per le sue eccezionali qualità morali e sociali (storiche, o credute tali, in quell’epoca), più che alla civiltà di cui egli poteva apparire rappresentante; ma un raggio di quella poetica luce si riverbera anche su di essa, quasi a compenso della cruda rappresentazione di Maometto che seguirà nel poema” [15]. È uno dei momenti in cui Dante si stacca dall’Olivi aggiornandolo, perché insieme al Saladino, al quale appropria le più alte qualità del quarto stato della Chiesa, egli colloca tra gli “spiriti magni” Avicenna e Averroè – “Averoìs, che ’l gran comento feo” (Inf. IV, 144) -, non certo trattati benevolmente dal francescano, considerati anzi, non diversamente da Aristotele, alla stregua di corruttori della teologia cristiana.

Tab. III.1

[LSA, cap. II, Ap 2, 1] Quartum (exercitium) est contemplativa abstractio et solitudo, et assidua sui ad illam per austera et laboriosa opera preparatio.

Inf. IV, 129

e solo, in parte, vidi ’ Saladino.

 

[LSA, cap. XVII, Ap 17, 10-12 (VIa visio)] Item, preter hunc modum, possunt dici accipere potestatem post bestiam quia bestia in aliis regibus suis, ante istos decem, regnavit et potestatem suam exercuit. Unde Ioachim dicit hic quod per sextum regem, de quo dicitur “unus est”, possunt intelligi plures reges, scilicet Saladinus et ceteri usque ad illum de quo dicitur “et alius nondum venit” (Ap 17, 10). Unde subdit quod «illum de quo dicit Iohannes “unus est” puto fuisse Saladinum famosissimum regem Turcorum, a quo capta est nuper illa civitas in qua passus est Ihesus, scilicet Iherusalem, et post eum, sive sint alii medii sive non, surget alius de quo in Daniele dicitur: “et alius surget post eos, et ipse potentior erit prioribus” (Dn 7, 24)»*.

* Expositio , pars VI, distinctio I, f. 197ra.

Inf. II, 1-6

Lo giorno se n’andava, e l’aere bruno
toglieva li animai che sono in terra
da le fatiche loro; e io sol uno
m’apparecchiava
a sostener la guerra
sì del cammino e sì de la pietate,
che ritrarrà la mente che non erra.

Inf. XII, 118-120

Mostrocci un’ombra da l’un canto sola,
dicendo: “Colui fesse in grembo a Dio
lo cor che ’n su Tamisi ancor si cola”.

Purg. VI, 58-60, 70-75

Ma vedi là un’anima che, posta
sola soletta, inverso noi riguarda:
quella ne ’nsegnerà la via più tosta.

ma di nostro paese e de la vita
ci ’nchiese; e ’l dolce duca incominciava
“Mantüa …”, e l’ombra, tutta in sé romita,
surse ver’ lui del loco ove pria stava,
dicendo: “O Mantoano, io son Sordello
de la tua terra!”; e l’un l’altro abbracciava.

Purg. VII, 130-131

Vedete il re de la semplice vita
seder là solo, Arrigo d’Inghilterra

 

Tab. III.2

[LSA, prologus, Notabile I; IV status] Quartus fuit anachoritice vite, mundum usque ad extrema solitudinis fugientis et carnem austerrime macerantis suoque exemplo totam ecclesiam instar solis et stellarum illuminantis. […] Quartus est virginum seu contemplativorum, aquile assimilatus. […] In quarto (preeminent) observatores vite celice.

Inf. XX, 49-51, 82-87

ebbe tra ’ bianchi marmi la spelonca
per sua dimora; onde a guardar le stelle
e ’l mar non li era la veduta tronca.

Quindi passando la vergine cruda
vide terra, nel mezzo del pantano,
sanza coltura e d’abitanti nuda.
Lì, per fuggire ogni consorzio umano,
ristette con suoi servi a far sue arti,
e visse, e vi lasciò suo corpo vano.

Par. III, 46, 103-105

I’ fui nel mondo vergine sorella

Dal mondo, per seguirla, giovinetta
fuggi’mi, e nel suo abito mi chiusi
e promisi la via de la sua setta.

 

4.Orgoglio e dismisura han generata, / Fiorenza, in te, sì che tu già ten piagni ” (Inf. XVI, 74-75)

Il primo difetto che rende chiuso il quarto sigillo (ad Ap 5, 1) è il superbo essere indomito della nostra libertà: nella quarta apertura la morte che siede sul cavallo pallido (Ap 6, 8), cioè sulla carne già morta e impallidita (i Saraceni; cfr. infra), domò e infranse la superba libertà delle chiese orientali che non vollero sottoporsi alla sede e alla fede di Pietro. E certo, afferma Olivi, nulla è più adatto ad infrangere la superbia del nostro potere quanto l’assidua considerazione ed esperienza della fragilità umana e della morte. Per spuntare la superbia umana è infatti detto nell’Ecclesiastico : “A che insuperbisci, terra e cenere?” (Ecli 10, 9) e: “In tutte le tue opere ricordati della tua fine, e non cadrai mai nel peccato” (Ecli 7, 40).
I temi della superbia domata e della considerazione della morte sono appropriati, nella descrizione dell’ultima bolgia, ai Troiani – la cui “altezza … che tutto ardiva” (motivo dell’ardua e alta vita degli anacoreti del quarto stato, distrutta in oriente dai Saraceni) fu volta in basso dalla fortuna, – e a Ecuba, che “forsennata latrò sì come cane”, dopo che si fu accorta dei propri figli morti (Inf. XXX, 13-21). Variazioni dei motivi (la superbia domata, l’esperienza della morte) si registrano in Capaneo (Inf. XIV, 63-64; da notare, al v. 90, “ammorta”, appropriato al Flegetonte, i cui vapori estinguono le falde della pioggia infuocata, salvando i “duri margini” sui quali passano i due poeti) [16], in Fialte (Inf. XXXI, 91-93), in Omberto Aldobrandesco (Purg. XI, 52-54; “doma” è hapax), nelle parole di Beatrice e Pier Damiani nel cielo di Saturno (Par. XXI, 6, 11, 61).
Ecuba è “trista, misera e cattiva”, una troiana furia paragonata ai rabbiosi falsatori di persona (Inf. XXX, 16). I ‘cattivi’ sono i prigionieri fatti dai Saraceni, secondo l’esegesi dell’apertura del quarto sigillo (Ap 6, 8), in cui il cavallo pallido (la morte) designa Maometto e la sua setta, secondo l’interpretazione di Gioacchino da Fiore seguita da Olivi (l’esegesi dell’apertura del quarto sigillo è compiutamente esaminata altrove). Da quando i Saraceni hanno iniziato a devastare la Chiesa non si è mai letto o ascoltato di miracoli fatti dai fedeli uccisi o resi schiavi, né che fosse stato dato il verbo della predicazione per convertire a Cristo gli infedeli e vivificarli o per confermare nella vita della fede i fedeli, ché anzi la maggior parte dei finiti in cattività è convolata alla setta mortifera. Tra i Saraceni non accade – e ciò da più di seicento anni – quanto era avvenuto con i pagani e gli eretici, fra i quali si moltiplicavano i fedeli e molti venivano convertiti alla fede (cfr. le espressioni come “cattivo coro”, “setta d’i cattivi” a Inf. III, 37, 62, riferite rispettivamente agli angeli neutrali e agli ignavi).
La superbia distrutta è nel ricordo di Montaperti, espresso da Oderisi da Gubbio a proposito di Provenzan Salvani, che era signore di Siena “quando fu distrutta / la rabbia fiorentina, che superba / fu a quel tempo sì com’ ora è putta” (Purg. XI, 112-114). L’orgoglio è veramente fiorentino. Con Filippo Argenti: “Quei fu al mondo persona orgogliosa … ’l fiorentino spirito bizzarro” (Inf. VIII, 46-48, 61-63; cfr. infra). Nella risposta di Dante ai tre concittadini sodomiti: “La gente nuova e i sùbiti guadagni / orgoglio e dismisura han generata, / Fiorenza, in te, sì che tu già ten piagni”, Inf. XVI, 73-75). Costituisce un vizio proprio del quarto tempo, allorché – come si afferma nel Notabile XII del prologo con citazione di Gioacchino da Fiore – gli anacoreti contemplativi “fiorirono”, ma poi passarono dalla perfezione al gloriarsi e di qui all’esaltazione e infine alla rovina. Così l’aggettivo ‘fiorentino’ si insinua tra le maglie dell’armatura teologica, scavato nel “visus est floruisse ad horam” a proposito del quarto ordine nella citazione del quinto libro della Concordia.
Questi motivi si ritrovano nel discorso di Cacciaguida in Par. XVI, che utilizza il tema del discendere, proprio del quinto stato, dall’alto e arduo stato precedente (cfr. il Notabile V del prologo), applicandolo a “li alti Fiorentini” (alti come gli anacoreti, secondo l’interpretazione delle “stelle” data ad Ap 8, 12, nell’esegesi della quarta tromba; cfr. infra), da lui conosciuti nel tempo in cui “le palle de l’oro / fiorian Fiorenza in tutt’ i suoi gran fatti”, e poi decaduti.
Il sacrosanto segno dell’aquila “atterrò l’orgoglio de li Aràbi”, vinse cioè i Cartaginesi, che passarono le Alpi dietro ad Annibale (Par. VI, 49-51[17]: la caduta dei nemici di Roma dalla loro superba e ardua altezza è prefigurazione, come quella dei Troiani, della caduta degli anacoreti dall’elevata condizione e della loro distruzione operata dai Saraceni, a sua volta figura della distruzione della “rabbia fiorentina”. Alla caduta dell’orgoglio di Annibale è appropriato anche il cadere delle “molte acque” visto da Giovanni lì dove siede la meretrice (Ap 17, 15): esse designano i popoli, le genti e le lingue che passano e per la loro mortalità defluiscono come acque. La “labilitas” è appropriata al Po, che scende dalle alpestre rocce (“di che tu labi”). Se poi il “defluere” di Ap 17, 15 si combina con lo scivolare a poco a poco nel precipizio del male proprio della chiesa di Efeso (Ap 2, 5), per cui si fa l’esempio, tratto da Giobbe 14, 18-19, del monte che cade scivolando a poco a poco e della terra che viene consumata dall’alluvione, allora anche il nome “Po” – paulatim  viene fasciato dalla tematica del fluire progressivo.

Tab. IV.1

[LSA, prologus, Notabile XII] De quarto autem statu, scilicet anachoritarum, dicit Ioachim, libro V° Concordie, quod «proficiendo decrevit, quia et herba tunc magis proficit cum appropinquat ad messem. Nam tempus eius non tam illud esse dicitur in quo incipit quam illud in quo, peracta messione, grana per trituram separantur a paleis. Ordines enim iustorum propria tempora acceperunt non in quibus inceperunt sed in quibus ad consumationem et perfectionem venerunt. Quod autem diximus ordinem quartum, qui est heremitarum et virginum, proficiendo defecisse, timendum est potius quam dicendum. Aperta enim perfectio gloriationem parit, gloriatio exaltationem, exaltationem vero comitatur ruin[a], quia scriptum est: “ante ruinam exaltatur cor” (Pro 16, 18; 18, 12). Igitur ordo iste quarto tempore claruit, sed mox defecit in illa claritate et in locis illis in quibus visus est floruisse ad horam, et hoc propter malitiam habitantium in eis»*. Preterea fragilitas humane carnis non patitur tantum statum diu in multitudine perdurare.

Concordia, V 1, c. 12; Patschovsky 3, p. 551, 3-20.

[LSA, cap. VIII, Ap 8, 12 (IIIa visio, quarta tuba)] Per “stellas” vero, quidam singulares et alti et solitarii anachorite.

[LSA, prologus, Notabile V] […] tuncque (in quinto statu) congrue instituta est vita condescensiva, ut nequeuntibus in arduis perdurare daretur locus gratie in mediocri statu.

Inf. VIII, 46-48, 61-63

Quei fu al mondo persona orgogliosa;
bontà non è che sua memoria fregi:
così s’è l’ombra sua qui furïosa.

Tutti gridavano: “A Filippo Argenti!”;
e ’l fiorentino spirito bizzarro
in sé medesmo si volvea co’ denti.

Inf. XVI, 73-75 

La gente nuova e i sùbiti guadagni
orgoglio e dismisura han generata,
Fiorenza, in te, sì che tu già ten piagni.

Par. XVI, 85-87, 97-99, 109-111

per che non dee parer mirabil cosa
ciò ch’io dirò de li alti Fiorentini
onde è la fama nel tempo nascosa.

erano i Ravignani, ond’ è disceso
il conte Guido e qualunque del nome
de l’alto Bellincione ha poscia preso.

Oh quali io vidi quei che son disfatti
per lor superbia! e le palle de l’oro
fiorian Fiorenza in tutt’ i suoi gran fatti.

[LSA, cap. V, Ap 5, 1] Quartus (defectus in nobis claudens intelligentiam huius libri) est nostre libertatis superba indomabilitas. […] In quarta (apertione) vero mors sedens in equo pallido, id est in carne quasi iam emortua pallescente, domuit et infregit superbam libertatem orientalium ecclesiarum nolentium subici sedi et fidei Petri. Et certe nichil validius ad infringendam superbiam imperii nostri quam consideratio assidua et experientia humane fragilitatis et mortis, unde Ecclesiastici X° ad retundendam hominis superbiam dicitur: “Quid superbis terra et cinis?” (Ecli 10, 9), et capitulo VII° dicitur: “In omnibus operibus tuis memorare novissima tua et in eternum non peccabis” (Ecli 7, 40).

Inf. XIV, 63-64, 88-90

O Capaneo, in ciò che non s’ammorza
la tua superbia
, se’  tu più punito

cosa non fu da li tuoi occhi scorta
notabile com’ è ’l presente rio,
che sovra sé tutte fiammelle ammorta.

Par. XXI, 4-12, 61-63

E quella non ridea; ma “S’io ridessi”,
mi cominciò, “tu ti faresti quale
fu Semelè quando di cener fessi:
ché la bellezza mia, che per le scale
de l’etterno palazzo più s’accende,
com’ hai veduto, quanto più si sale,
se non si temperasse, tanto splende,
che ’l tuo mortal podere, al suo fulgore,
sarebbe fronda che trono scoscende.”

“Tu hai l’udir mortal sì come il viso”,
rispuose a me; “onde qui non si canta
per quel che Bëatrice non ha riso.”

Purg. XI, 52-54, 112-114

E s’io non fossi impedito dal sasso
che la cervice mia superba doma,
onde portar convienmi il viso basso

ond’ era sire quando fu distrutta
la rabbia fiorentina, che superba
fu a quel tempo sì com’ ora è putta.

Inf. XXX, 13-21

E quando la fortuna volse in basso
l’altezza de’  Troian che tutto ardiva,
sì che ’nsieme col regno il re fu casso,
Ecuba trista, misera e cattiva,
poscia che vide Polissena morta,
e del suo Polidoro in su la riva
del mar si fu la dolorosa accorta,
forsennata latrò sì come cane;
tanto il dolor le fé la mente torta.

Inf. XXXI, 91-93

“Questo superbo volle esser esperto
di sua potenza contra ’l sommo Giove”,
disse ’l mio duca, “ond’ elli ha cotal merto.”

Inf. III, 37-39, 61-63

Mischiate sono a quel cattivo coro
de li angeli che non furon ribelli
né fur fedeli a Dio, ma per sé fuoro.

Incontamente intesi e certo fui
che questa era la setta d’i cattivi,
a Dio spiacenti e a’ nemici sui.

[LSA, cap. VI, Ap 6, 8 (IIa visio, apertio quarti sigilli)] Equus autem sarracenicus dicitur “pallidus”, pallore scilicet tali qualis proprie competit mortuis. Mors etiam dicitur sedere super eum triplici ex causa. […] Tertia est quia, quando a principio tot ecclesias Christi vastavit, non legimus nec audivimus facta tunc fuisse miracula per fideles tunc occisos vel captivatos, nec data vive predicationis verba per que infideles converterentur ad Christum et vivificarentur aut per que fideles in vita fidei confirmarentur, quin potius maior pars captivatorum videtur ad eorum sectam mortiferam convolasse. Non enim, sicut inter paganos et hereticos multiplicabantur fideles et plures convertebantur ad fidem, sic contingit inter Sarracenos, immo contrarium iam per sescentos annos et amplius.

Tab. IV.2

[LSA, prologus, Notabile XII] De quarto autem statu, scilicet anachoritarum, dicit Ioachim, libro V° Concordie, quod «proficiendo decrevit, quia et herba tunc magis proficit cum appropinquat ad messem. Nam tempus eius non tam illud esse dicitur in quo incipit quam illud in quo, peracta messione, grana per trituram separantur a paleis. Ordines enim iustorum propria tempora acceperunt non in quibus inceperunt sed in quibus ad consumationem et perfectionem venerunt. Quod autem diximus ordinem quartum, qui est heremitarum et virginum, proficiendo defecisse, timendum est potius quam dicendum. Aperta enim perfectio gloriationem parit, gloriatio exaltationem, exaltationem vero comitatur ruin[a], quia scriptum est: “ante ruinam exaltatur cor” (Pro 16, 18; 18, 12). Igitur ordo iste quarto tempore claruit, sed mox defecit in illa claritate et in locis illis in quibus visus est floruisse ad horam, et hoc propter malitiam habitantium in eis»*. Preterea fragilitas humane carnis non patitur tantum statum diu in multitudine perdurare.

Concordia, V 1, c. 12; Patschovsky 3, p. 551, 3-20.

[LSA, prologus, Notabile V] Quia vero intelligentia divinorum parum aut nichil prodest absque vita divina, ideo in quarto statu refulsit celestis vita anachoritarum, et precipue in desertis Arabie et Egipti tali vite congruis. Quia vero infectio humani generis et sue carnis non patitur tam arduam vitam diu in hoc seculo perdurare, casus autem a statu tam arduo gravem ypocrisim et remissionem aut apertam apostasiam inducit. Talis autem casus cum primo lapsu perfidarum heresum dignus est iudicio et exterminio grandi, idcirco circa finem quarti status congrue contra hereticos et ypocritas et remissos supervenit secta sarracenica omnia fere devastans et sibi subiugans.

 

Par. VI, 49-51

Esso atterrò l’orgoglio de li Aràbi
che di retro ad Anibale passaro
l’alpestre rocce, Po, di che tu labi.

[LSA, cap. II, Ap 2, 5 (Ia visio, Ia ecclesia)] Sed sunt multi qui in tempore temptationis recedunt, non tamen statim se in infima demergunt, sed primum de bono in minus bonum et dehinc de minus bono in malum et deinde de malo in deterius corruunt, secundum illud Iob: “Mons cadens paulatim defluit, et terra alluvione consumitur” (Jb 14, 18-19).

[LSA, cap. XVII, Ap 17, 15 (VIa visio)] Sequitur: “Aquas”, id est aque casus pro casu, “quas vidisti ubi meretrix sedet”, id est super quas principatur, “sunt populi et gentes et lingue”, quia scilicet sicut aque sua labilitate defluunt ita populi sua mortalitate pertranseunt, et etiam variis moribus seu passionibus fluitant sicut aque.

Si mostra qui di seguito uno sviluppo tematico a partire da Ap 5, 1. Il motivo della fragilità umana consente la collazione tra quanto detto nell’esegesi del quinto capitolo (Ap 5, 1) sulle cause della chiusura del quarto sigillo e Ap 18, 19, passo della sesta visione nel quale i mercanti (i “naviganti”) piangono dolenti la caduta di Babilonia mettendosi la polvere sul capo, riconoscendo la propria fragilità e miseria [18]. La prostituta Babilonia, come si dice ad Ap 17, 16, verrà bruciata e incenerita dai dieci re – designati dalle dieci corna della bestia -, in modo che non rimanga segno del suo precedente stato o della sua gloria: il tema della cenere unisce quindi Ap 17, 6 con 5, 1, dove è presente nella citazione di Ecclesiastico 10, 9.
Questi motivi – la polvere, la cenere, il dolersi della propria miseria, il cadere, la superbia – sono appropriati a Vanni Fucci, il ladro che, trafitto da un serpente, subitamente “s’accese e arse, e cener tutto / convenne che cascando divenisse” e poi la polvere riassunse con altrettanta rapidità la forma primitiva (Inf. XXIV, 100-105). Per il fatto di essere stato colto dal poeta nella miseria della propria pena, il peccatore è assalito da dolore maggiore di quello provato al momento della morte (ibid., 133-135). E nell’invettiva contro Pistoia, “degna tana” del “Vanni Fucci bestia” – lo spirito più superbo contro Dio mai incontrato per i cerchi infernali, più di Capaneo -, il poeta augura alla città di deliberare la propria riduzione in cenere “sì che più non duri”, cioè non ne rimanga più memoria (Inf. XXV, 10-15).
Nel primo girone del Purgatorio, gli esempi di superbia punita sono scolpiti sul pavimento, come le lapidi in terra che recano la figura dei defunti “perché di lor memoria sia” (Purg. XII, 16-18: il tema è vòlto in senso positivo rispetto ad Ap 17, 16): tra essi si vede, come segno basso e vile, “Troia in cenere e in caverne” (ibid., 61-63; cfr. ai versi 67 e 70 l’accostamento dei motivi della superbia e della morte), il “superbo Ilïón … combusto” di Inf. I, 75.
In questi tre passi non è presente alcuna citazione di Gioacchino da Fiore; Ap 5, 1, come si è visto sopra, è però compresente con la citazione di Gioacchino nel Notabile XII del prologo (la superba fioritura degli anacoreti volta in basso) in Purg. XI, 52-54, 112-114 (la superbia domata di Omberto Aldobrandesco, speculare alla superba rabbia fiorentina di cui dice Oderisi).

 

Tab.IV.3

[LSA, cap. XVIII, Ap 18, 19 (VIa visio)] “Et miserunt pulverem super capita sua et clamaverunt flentes et lugentes et dicentes: Ve, ve civitas illa magna, in qua divites facti sunt omnes, qui habebant naves in mari, de pretiis eius”, que scilicet acquirebant pro mercibus quas in ea vendebant. “Ve”, inquam, “civitas” sic “magna”, “quoniam una hora desolata est!”.
Nota quod utrique negotiatores dicunt bis “ve”, reges vero triplicant “ve”, quia sicut reges in eius casu plus perdiderunt et de altiori gloria ceciderunt, sic et gravius plangent et in inferno fortius dolebunt, secundum illud Sapientie VI°: “Iudicium durissimum fiet in hiis qui presunt; exiguo enim conceditur misericordia, potentes autem potenter tormenta patientur” (Sap 6, 6-7).
Nota etiam quod prout hic planctus refertur ad eos qui erunt in inferno cum ipsa, tunc per missionem pulveris in caput designatur recognitio proprie fragilitatis et miserie. Nam, pena cogente, sentient se esse pulvereos et abiectos, qui in hoc mundo supra modum efferebantur.

[LSA, cap. V, Ap 5, 1] Quartus (defectus in nobis claudens intelligentiam huius libri) est nostre libertatis superba indomabilitas. […]
In quarta (apertione) vero mors sedens in equo pallido, id est in carne quasi iam emortua pallescente, domuit et infregit superbam libertatem orientalium ecclesiarum nolentium subici sedi et fidei Petri. Et certe nichil validius ad infringendam superbiam imperii nostri quam consideratio assidua et expe-rientia humane fragilitatis et mortis, unde Eccle-siastici X° ad retundendam hominis superbiam dicitur: “Quid superbis terra et cinis ?” (Ecli 10, 9), et capitulo VII° dicitur: “In omnibus operibus tuis memorare novissima tua et in eternum non peccabis” (Ecli 7, 40).

[LSA, cap. XVII, Ap 17, 16 (VIa visio)] “Et decem cornua, que vidisti, et bestia” (Ap 17, 16), et etiam bestia seu rex bestie seu, secundum Ricardum, “et bestia”, id est diabolus*; “hii”, scilicet decem reges per cornua designati, “odient fornicariam et desolatam facient illam”, scilicet suis aquis seu populis in quibus consolatorie quiescebat, “et nudam”, scilicet suis ornamentis et divitiis, “et carnes eius manducabunt”, <id est crudeliter dilacerabunt et occident, “et ipsam igni concremabunt”,> id est eius urbes et terras cremabunt et incinerabunt, ut quasi non sit memoria vel signum prioris status vel glorie eius.

* In Ap V, ix (PL 196, col. 835 C).

Inf. XXIV, 100-105, 112-114, 133-135; XXV, 10-15

Né O sì tosto mai né I si scrisse,
com’ el s’accese e arse, e cener  tutto
convenne che cascando divenisse;
e poi che fu a terra sì distrutto,
la polver si raccolse per sé stessa
e ’n quel medesmo ritornò di butto.

E qual è quel che cade, e non sa como,
per forza di demon ch’a terra il tira,
o d’altra oppilazion che lega l’omo

poi disse: “Più mi duol che tu m’hai colto
ne la miseria dove tu mi vedi,
che quando fui de l’altra vita tolto”.

Ahi Pistoia, Pistoia, ché non stanzi
d’incenerarti sì che più non duri,
poi che ’n mal fare il seme tuo avanzi?
Per tutt’ i cerchi de lo ’nferno scuri
non vidi spirto in Dio tanto superbo,
non quel che cadde a Tebe giù da’ muri.

Inf. XX, 28-30

Qui vive la pietà quand’ è ben morta;
chi è più scellerato che colui
che al giudicio divin passion comporta?

Inf. I, 73-75

Poeta fui, e cantai di quel giusto
figliuol d’Anchise che venne di Troia,
poi che ’l superbo Ilïón fu combusto.

Purg. XII, 16-18, 61-63, 67-72

Come, perché di lor memoria sia,
sovra i sepolti le tombe terragne
portan segnato quel ch’elli eran pria

Vedeva Troia in cenere e in caverne;
o Ilïón, come te basso e vile
mostrava il segno che lì si discerne!

Morti li morti e i vivi parean vivi:
non vide mei di me chi vide il vero,
quant’ io calcai, fin che chinato givi.
Or superbite, e via col viso altero,
figliuoli d’Eva, e non chinate il volto
sì che veggiate il vostro mal sentero!

Purg. XVIII, 133-135

Di retro a tutti dicean: “Prima fue
morta la gente a cui il mar s’aperse,
che vedesse Iordan le rede sue”.

 

5. Quarta chiesa (Ap 2, 18-29) e quarto sigillo (Ap 6, 7-8): il letto di dolore e gli argini petrosi

 

L’esegesi oliviana dell’apertura del quarto sigillo non dipende unicamente da Gioacchino da Fiore che pure è, nell’Expositio, la fonte prevalente. Ha, come per tutta la Lectura, una sua autonomia. I motivi proposti dall’esegesi del quarto cavallo – il pallore, la macerazione del corpo, l’aridità, il languore, il marcire pestilenziale, il colore della morte, la compagnia bestiale (Ap 6, 8) – sono puntualmente presenti in vari luoghi del poema e in particolare nelle zone in cui prevale la tematica del quarto stato, appropriato storicamente agli anacoreti dall’alta vita ma troppo ardua a mantenersi, e per questo volta in ipocrisia e falsità per poi essere distrutta dai Saraceni nei luoghi (in Oriente e in Africa settentrionale) dove più fiorì. Dei motivi propri del cavallo pallido è intessuta la lupa, come mostrato altrove.
Nell’ultima bolgia, dei falsari, s’accoglie tanto dolore quanto sarebbe se si riunissero tutti insieme in una fossa i malati degli ospedali di Valdichiana, di Maremma e di Sardegna durante l’insalubre periodo estivo: dalla bolgia “tal puzzo n’usciva / qual suol venir de le marcite membre” (Inf. XXIX, 46-51). In quella oscura valle il poeta vede “languir li spirti per diverse biche” (ibid., 66). Il motivo del ‘trarre’, nell’esegesi connesso al diavolo che trae alla morte, passa nei falsatori di metalli, di cui è proprio l’esser “sì guasti” (ibid., 91), ai quali “sì traevan giù l’unghie la scabbia” (ibid., 82), e nel parlare di Capocchio sulla vanità dei Senesi, da cui ironicamente eccettua Stricca e la “brigata” (“Tra’mene … e tra’ne …”, ibid., 125, 130).
I falsatori di persone sono “ombre smorte e nude” (la nudità è attributo degli anacoreti, i protagonisti del quarto stato “nudi et soli”, come si dice ad Ap 5, 1), più crudeli del tebano Atamante nel “punger bestie”, cioè nel tendere le reti alla moglie e ai due figli creduti bestie (la bestialità è uno degli effetti del quarto pallido cavallo), e della troiana Ecuba nel fare altrettanto con “membra umane”, allorché strappò gli occhi all’uccisore del figlio Polidoro. Uno di questi folletti rabbiosi è Gianni Schicchi, che raggiunge Capocchio, lo azzanna sul collo, “sì che, tirando (ancora il ‘trarre’), / grattar li fece il ventre al fondo sodo” (Inf. XXX, 22-30).
Nei versi non passa solo l’esegesi del quarto sigillo (l’apertura dei sette sigilli è oggetto della seconda visione apocalittica). In collazione è anche l’esegesi dell’istruzione data a Tiàtira, la quarta delle sette chiese d’Asia oggetto della prima visione apocalittica. Il vescovo di Tiàtira viene rimproverato per la sua condiscendenza verso Gezabele, che fu moglie di Acab re d’Israele e fautrice dei quattrocento profeti di Baal: “Ma ho da rimproverarti – gli dice Cristo tramite Giovanni – perché permetti che Gezabele, la donna che si spaccia per profetessa, istruisca e seduca i miei servi inducendoli alla fornicazione e a mangiare carni immolate agli idoli” (Ap 2, 20). Questa donna, afferma Olivi, viene qui chiamata Gezabele misticamente, poiché era simile a quella, della quale parlò Ieu ad Acazia re d’Israele (cfr. 4 Rg 9, 22), nel potere e nel simulare false profezie con cui ingannava i servi di Dio. Così questa con la sua falsa profezia e dottrina traeva e seduceva i servi di Cristo, e forse a causa del suo potere temporale il vescovo di Tiàtira non osava riprenderla. Viene quindi sottolineata l’impenitenza di questa donna: “Io le ho dato il tempo per ravvedersi”, indugiando cioè nell’ucciderla e condannarla, “ma essa non vuole pentirsi della sua fornicazione” (Ap 2, 21). Per questo interviene la successiva minaccia: “Ecco, io la metto in un letto, e coloro che commettono adulterio con lei in una grandissima tribolazione” (Ap 2, 22). Il letto di cui si parla non è un letto di quiete, ma di dolore. Parla come se intendesse percuoterla con tante malattie e piaghe da farla sempre giacere inferma e prostrata nel letto, che si contrappone al letto della sua lussuria. È esegesi dalla trama complessa, di cui qui si mostrano solo alcuni fili (i temi appropriati a Gezabele si ritrovano infatti in più punti del poema, e culminano nella “femmina balba” di Purg. XIX, 1-63, sulla quale cfr. Ulisse perduto. Un viaggio nel futuro, Appendice II).
La descrizione dell’ultima bolgia, dove sono puniti i falsari (come Gezabele) – un’ampia zona dove prevale la semantica relativa al quarto stato (qui sopra è stata registrata quella che rinvia all’esegesi del quarto sigillo) -, si apre con un richiamo al dolore e al giacere degli ammalati, paragonati al popolo di Egina reso infermo da Giunone: “Qual dolor fora, se de li spedali …” (Inf. XXIX, 46-69). Il tema del dolore segna ancora l’inizio del canto successivo, con la “dolorosa” Ecuba che latra come cane dopo aver visto la figlia Polissena morta e dopo aver scorto sulla riva del mare, pure morto, suo figlio Polidoro, “tanto il dolor le fé la mente torta” (Inf. XXX, 16-21; la morte è tema precipuo dell’apertura del quarto sigillo, ad Ap 6, 8; cfr. supra). Ad Ap 2, 23 contro Gezabele risuonano le parole di Dio: “Ucciderò a morte i suoi figli”. Lì si afferma anche che tutte le chiese sapranno del giudizio emesso: il falsario maestro Adamo, nella rissa con il falso Sinone “greco di Troia”, ricordando “del cavallo” gli dice: “e sieti reo che tutto il mondo sallo!” (Inf. XXX, 118-120; una variante è nelle parole di Omberto Aldobrandesco a Purg. XI, 64-66: “e sallo in Campagnatico ogne fante”). Anche il riferimento alla “ventraia” e all’aver “infiata l’epa” da parte del falsario di Romena rientra nell’istruzione alla quarta chiesa, poiché ad Ap 2, 22 Olivi cita san Paolo ai Filippesi circa i falsi apostoli: “hanno il loro ventre come Dio e come gloria” (Ph 3, 19), mentre “l’acqua marcia / che ’l ventre innanzi a li occhi sì t’assiepa” fa riferimento al puzzo, al marciume proprio del cavallo pallido all’apertura del quarto sigillo (Inf. XXX, 122-123).
Seguendo Gioacchino da Fiore senza citarlo, Olivi afferma che la situazione di Tiàtira si può adattare misticamente al quarto tempo della Chiesa. Nel terzo tempo (proprio dei dottori), i Goti che occupavano la Grecia aderirono all’eresia ariana tramite i vescovi loro inviati dall’imperatore Valente (364-378): la gente dei Goti diventò così una nuova Gezabele sposa dell’empio re d’Israele Acab. Successivamente, sotto l’imperatore Zenone (474-491), una parte di quella gente (gli Ostrogoti), fattasi quasi una nuova Athalia, figlia di Gezabele, penetrò nel regno di Giuda, cioè in Italia e in Roma, e ivi operò tanto male quanto ne fu fatto in Israele e in Giuda (gli Ostrogoti con Teodorico: 474-526). Ma nel quarto tempo Dio suscitò l’imperatore Giustiniano (527-565) quasi un nuovo Ieu re d’Israele, il quale, convocata la sinodo dei vescovi (536), condannò tutta la discendenza dell’eretico imperatore Anastasio I (491-518) e di tutti gli altri eretici, che erano come i sacerdoti di Baal e, inviato un esercito, distrusse la gente dei Goti con il re che era in Italia (540-552) e lo stesso poi fece coi Vandali ariani che occupavano l’Africa, i quali sarebbero stati in seguito ancor più annientati dai Saraceni.
Si è visto come il tema della considerazione della morte (apertura del quarto sigillo) sia appropriato, nella descrizione dell’ultima bolgia, ai Troiani, la cui “altezza … che tutto ardiva” (motivo dell’ardua e alta vita degli anacoreti) fu volta in basso dalla fortuna, “sì che ’nsieme col regno il re fu casso” (Inf. XXX, 13-15): si noterà la corrispondenza con l’esegesi di Ap 2, 21-22, dove si fa riferimento a Giustiniano, il nuovo Ieu, che distrusse la gente dei Goti col suo re, di cui fu antica figura la distruzione di Troia, “che fé la porta / onde uscì de’ Romani il gentil seme” (Inf. XXVI, 59-60).
Il motivo del letto di dolore su cui giace inferma Gezabele, connesso con quello dell’Italia, nuovo regno di Giuda occupato dai Goti, nuovi adoratori di Baal, percorre il primo verso dell’apostrofe “Ahi serva Italia, di dolore ostello” e gli ultimi, rivolti a Firenze: “vedrai te somigliante a quella inferma / che non può trovar posa in su le piume, / ma con dar volta suo dolore scherma” (Purg. VI, 76, 149-151; e si ricordino le parole di Farinata: «“S’elli han quell’ arte”, disse, “male appresa, / ciò mi tormenta più che questo letto”», Inf. X, 77-78). La tematica si ritrova ancora applicata in parte, nella ‘valletta dei principi’, a Filippo III di Francia ed Enrico di Navarra, che si dolgono di Filippo il Bello, “mal di Francia” (Purg. VII, 107-111).
Ad Ap 2, 23 Cristo dice al vescovo di Tiàtira: “Ucciderò a morte i suoi figli” (di Gezabele, la falsa profetessa), cioè farò in modo di condurli a morte; il raddoppio dell’espressione indica il veemente aggravarsi dell’uccisione. “E tutte le chiese sapranno”, per l’evidenza del fatto, “che io sono colui che scruta le reni e i cuori”, che conosce cioè tutti i pensieri e gli affetti della mente e dei sensi. Un giusto giudizio dal cielo viene invocato dal poeta sul sangue di Alberto d’Asburgo per aver abbandonato l’Italia, “costei ch’è fatta indomita e selvaggia” (Purg. VI, 97-102). Deve essere un giudizio “novo e aperto”, come quello di cui si dice ad Ap 16, 19 (‘radice’ della sesta visione, relativa alla caduta di Babilonia), passo simmetrico ad Ap 2, 23, allorché Dio pare ricordarsi della malizia di Babilonia solo nel momento in cui la punisce. Questo auspicato giudizio – allusione alla morte precoce di Rodolfo, primogenito di Alberto, nel 1307 – deve servire a incutere timore nel successore Enrico VII (Alberto venne assassinato il 1° maggio 1308, il 27 novembre fu eletto Enrico), come ad Ap 2, 22 le infermità minacciate a Gezabele servono ad intimorirla perché si ravveda. Quando Dante scriveva questi versi, poco dopo l’elezione di Arrigo, doveva pensare a un nuovo Iehu o a un nuovo Giustiniano che debellasse i profeti di Baal o le eresie. La domanda del poeta a Dio – “son li giusti occhi tuoi rivolti altrove?” (Purg. VI, 118-120) – contiene il tema dell’apparente oblio del giudizio divino che non punisce apertamente i mali, pur essendosi Cristo proposto con gli occhi fiammeggianti che tutto vedono e penetrano (“la rigida giustizia che mi fruga”, di cui parla maestro Adamo a Inf. XXX, 70). Il rivolgersi al “sommo Giove” crocifisso in terra è anche da collocare nel contesto del veemente chiamare la giustizia divina da parte dei santi all’apertura del quinto sigillo (Ap 6, 9.11).
Nel quarto girone della montagna, l’accidioso abate di San Zeno a Verona utilizza anch’egli questi temi nel suo parlare: la “dolente” Milano, che ragiona ancora del buon Barbarossa; Alberto della Scala, che “ha già l’un piè dentro la fossa” (morto nel settembre 1301; è proprio di Tiàtira, ad Ap 2, 18, il tema dei piedi simili all’oricalco, cioè del buon operare nella vita attiva) e che ha posto come abate di San Zeno “suo figlio, mal del corpo intero, / e de la mente peggio, e che mal nacque”: variazione dell’essere Athalia, figlia di Gezabele, penetrata nel regno di Giuda per operarvi del male, così come sotto l’imperatore Zenone una parte della gente dei Goti, quasi nuova Athalia figlia di Gezabele, sarebbe penetrata nel nuovo regno di Giuda, cioè in Italia (è da notare la singolare concordia fonica di Zenone, nella citazione occulta di Gioacchino da Fiore, con San Zeno) (Purg. XVIII, 118-126). I malanni di Giuseppe, figlio naturale di Alberto della Scala, zoppo nel corpo, difettoso nell’anima corrispondono alle infermità in cui è messa Gezabele. Dante non percepì la citazione oliviana di Gioacchino da Fiore, occultamente incastonata nel testo della Lectura. Scrivendo questi versi antiscaligeri, probabilmente nel 1309-1310 prima della discesa di Arrigo VII in Italia (novembre 1310) e della nomina a vicari imperiali di Alboino e Cangrande (1311), Dante pensò certamente a Iehu re d’Israele e a Giustiniano, prefigurazioni dell’ “imperio del buon Barbarossa, / di cui dolente ancor Milan ragiona”. Vi è una stretta contiguità mentale e temporale fra questi versi e quelli di Purg. VI, 97-102, scritti anch’essi, come sopra si è detto, prima dell’arrivo in Italia di Arrigo. Nel cielo di Mercurio, Giustiniano parlerà di Romeo da Villanova utilizzando una celebre citazione, questa volta esplicita, di Gioacchino da Fiore (Par. VI, 127-142).
Passando a Inf. XIV, la seconda ‘zona quarta’ della prima cantica, si noteranno, dell’esegesi della quarta chiesa, i motivi del letto, del dolore, del giacere (Ap 2, 21-22). La landa infuocata, dove sono puniti i violenti contro Dio, “dal suo letto ogne pianta rimove” ed è inghirlandata dalla “dolorosa selva” (Inf. XIV, 8-11). Essa è occupata da “una rena arida (come gli ipocriti del quarto stato) e spessa”, simile a quella “che fu da’ piè di Caton già soppressa” (ibid., 13-15): il riferimento è alla traversata del deserto libico compiuta dall’esercito di Catone Uticense, di cui parla Lucano (Pharsalia IX, 382ss.), ma la maglia spirituale sono i piedi di Cristo simili all’oricalco proposti alla quarta chiesa (Ap 2, 18). La successiva apostrofe – “O vendetta di Dio, quanto tu dei / esser temuta da ciascun che legge / ciò che fu manifesto a li occhi miei!” (ibid., 16-18) – corrisponde alla volontà di incutere timore in Gezabele con l’uso del tempo presente – “la metto”, non “la metterò” nel letto di dolore -, quasi sottolineato nei versi dal contrasto tra il “tu dei” rivolto al lettore e il “fu manifesto”. Nel letto della rena, supini, giacciono i bestemmiatori (ibid., 22). Nudi come gli anacoreti (Ap 5, 1), i dannati cercano con le mani di allontanare da sé “l’arsura fresca” (ibid., 40-42; cfr. l’esegesi della quarta coppa), come i solitari del quarto stato sono attivi con le opere delle mani (Ap 2, 1). Tutta la zona  rende l’immagine infernale e distorta di Tiàtira, la quarta chiesa d’Asia interpretata come “inflammata”.

Tab. V.1

[LSA, cap. II, Ap 2, 21-22 (Ia visio, IVa ecclesia)] Exaggerat autem huius femine impenitentiam, subdens (Ap 2, 21): “Et dedi illi tempus ut penitentiam ageret”, id est ob hoc distuli ipsam occidere et dampnare, “et non vult penitere a fornicatione sua”. Propter quod comminatur ei, subdens (Ap 2, 22): “Et ecce ego mitto eam in lectum, et qui mecantur cum ea in tribulationem maximam”, scilicet mitto. Quidam habent hic “erunt in tribulatione” in ablativo, sed prima littera verior est et antiquior. Nota quod est lectus quietis, et de hoc non loquitur hic; et est lectus doloris, de quo in Psalmo XL° dicitur (Ps 40, 4): “Dominus opem ferat illi super lectum doloris eius”, et de hoc loquitur hic. Unde, secundum Ricardum, alia translatio habet: “Mitto eam in luctum”. Loquitur autem ac si tot morbis et plagis eam percuteret quod semper infirma et prostrata iaceret in lecto, et loquitur per contrapositionem ad lectum sue luxurie.
Secundum etiam Ricardum, non di[x]it ‘mittam’ sed “mitto”, ut per presentiam temporis incuteret formidinem timoris. Non tamen di[x]it hoc absolute sed sub condicione, scilicet “nisi penitentiam egerit ab operibus suis”. Noluit enim per effrenatum timorem peccatores precipitari in desperationem, sed potius per temperamentum comminationis eos revocare, si penitere vellent, ad confidentiam sue miserationis*.
Quamvis autem, secundum Ricardum, per lectum et tribulationem intelligat eternam dampnationem**, nichilominus per hec intelligitur temporale et visibile exterminium ipsorum, alias non subderet quod omnes ille ecclesie scirent  iudicium super eos immissum.
Potest autem hoc referri mistice ad quartum tempus ecclesie.
*Cum enim, sub tertio tempore, gens Gothorum tempore Valentis imperatoris et arriani intrans in Greciam accepit heresim arrianam per episcopos eis a Valente missos, facta est quasi altera Iesabel, que nupsit Achab impio regi Israel. Unde et post sub Zenone imperatore una pars huius gentis, quasi altera Athalia filia Iesabel, intravit in regnum Iude, id est Rome seu Italie, feceruntque hic et ibi mala qualia ille due fecerunt in Israel et in Iuda. Sed tandem in quarto tempore suscitavit Deus Iustinianum imperatorem, quasi alterum Iheu (cfr. 4 Rg 9, 6-10) qui, congregata synodo episcoporum, tradidit illis condem-pnandam p[osteri]tatem Anastasii imperatoris heretici et aliorum hereticorum, qui erant quasi sacerdotes Baal, sed et gentem Gothorum cum suo rege, misso exercitu armatorum, delevit ex Italia et arrianam gentem Vandalorum ex Africa, et postmodum per Sarracenos plenius sunt deleti*. […]
Nota etiam quod omnes hereses, de quibus fit in istis ecclesiis mentio, leguntur dedite voluptati et carnalitati. Nam et de pseudoapotolis dicitur ad Philippenses III° quod “venter est eorum deus et gloria” (Ph 3, 19). Quamvis enim quedam secte hereticorum fingant ad tempus magnam castitatem et austeritatem, finaliter tamen occulte vel publice ad carnalia currunt.

In Ap I, viii (PL 196, col. 726 C). ** Ibid., col. 726 B-C.

* “Cum enim … sunt deleti” *: cfr. Concordia, III 2, c. 3; IV 1, cc. 13, 14, 18 (Patschovsky 2, pp. 319, rr. 8-12; 393, r. 8 – 394, r. 2; 401, r. 7 – 402, r. 8); Concordia V 6, c. 4 § 4 (Patschovsky 3, p. 970, rr. 10-13).

Inf. XXX, 13-30, 118-123

E quando la fortuna volse in basso
l’altezza de’  Troian che tutto ardiva,
sì che ’nsieme col regno il re fu casso,
Ecuba trista, misera e cattiva,
poscia che vide Polissena morta,
e del suo Polidoro in su la riva
del mar si fu la dolorosa accorta,
forsennata latrò sì come cane;
tanto il dolor le fé la mente torta.
Ma né di Tebe furie né troiane
si vider mäi in alcun tanto crude,
non punger bestie, nonché membra umane,
quant’ io vidi in due ombre smorte e nude,
che mordendo correvan di quel modo
che ’l porco quando del porcil si schiude.
L’una giunse a Capocchio, e in sul nodo
del collo l’assannò, sì che, tirando,
grattar li fece il ventre al fondo sodo.

“Ricorditi, spergiuro, del cavallo”,
rispuose quel ch’avëa infiata l’epa;
“e sieti reo che tutto il mondo sallo !”.
“E te sia rea la sete onde ti crepa”,
disse ’l Greco, “la lingua, e l’acqua marcia
che ’l ventre innanzi a li occhi sì t’assiepa!”.

[LSA, Ap 6, 7-8 (IIa visio, apertio IVi sigilli)] “Et cum aperuisset sigillum quartum, audivi vocem quarti animalis”, scilicet aquile, “dicentis: Veni”, scilicet per imitationem mei et per attentionem ad tibi monstranda, “et vide” (Ap 6, 7).
“Et ecce equus pallidus” (Ap 6, 8), id est, secundum Ricardum, ypocritarum cetus per nimiam carnis macerationem pallidus et moribundus. “Et qui sedebat super eum”, scilicet diabolus, qui per pravam intentionem ypocritarum sedet in eis et per eos malitiam suam exercet, “nomen illi mors”. Hoc enim nomen bene diabolo convenit, quia per eum mors incepit et alios ad mortem trahere non cessat. “Et infernus”, id est omnes in inferno dampnandi, “sequeb[atur] eum”, quia omnes tales eum imitantur. “Et data est illi” id est diabolo, “potestas” scilicet per divinam permissionem, “super quattuor partes terre” id est super omnes terrenis inherentes, “interficere”  eos “gladio” scilicet peccati, “et fame” scilicet verbi Dei, “et morte” id est languore corporis vel pestilentia seu tabe mortifera, “et bestiis” id est a bestialibus moribus. Omnes namque, qui per amorem terrenorum diabolo serviunt, talia ab ipso stipendia accipiunt*. Vel, secundum eundem**, datur diabolo “potestas super quattuor partes terre” dum ei conceditur materiali “gladio et fame et morte et bestiis” affligere bonos per quattuor partes terre dispersos.

* In Ap II, vii (PL 196, col. 767 C-D).

** Ibid., coll. 767 D–768 A. 

Inf. XXIX, 46-51, 58-59, 65-72, 82, 91-92, 124-132

Qual dolor fora, se de li spedali
di Valdichiana tra ’l luglio e ’l settembre
e di Maremma e di Sardigna i mali
fossero in una fossa tutti ’nsembre,
tal era quivi, e tal puzzo n’usciva
qual suol venir de le marcite  membre.

Non credo ch’a veder maggior tristizia
fosse in Egina il popol tutto infermo ……

ch’era a veder per quella oscura valle
languir  li spirti per diverse biche.
Qual sovra ’l ventre e qual sovra le spalle
l’un de l’altro giacea , e qual carpone
si trasmutava per lo tristo calle.
Passo passo andavam sanza sermone,
guardando e ascoltando li ammalati ,
che non potean levar le lor persone.

e sì traevan giù l’unghie la scabbia ……

“Latin siam noi, che tu vedi sì guasti
qui ambedue”, rispuose l’un piangendo ….

Onde l’altro lebbroso, che m’intese,
rispuose al detto mio: “Tra’mene Stricca
che seppe far le temperate spese,
e Niccolò che la costuma ricca
del garofano prima discoverse
ne l’orto dove tal seme s’appicca;
e tra’ne la brigata in che disperse
Caccia d’Ascian la vigna e la gran fonda,
e l’Abbagliato suo senno proferse.”

Purg. XI, 64-66

ogn’ uomo ebbi in despetto tanto avante,
ch’io ne mori’, come i Sanesi sanno,
e sallo  in Campagnatico ogne  fante.

 

Tab. V.2

Inf. X, 77-78 

“S’elli han quell’ arte”, disse, “male appresa,
ciò mi tormenta più che questo letto.”

Inf. XXX, 1-6, 13-21, 70-72

Nel tempo che Iunone era crucciata
per Semelè contra ’l sangue tebano,
come mostrò una e altra fïata,
Atamante divenne tanto insano,
che veggendo la moglie con due figli
andar carcata da ciascuna mano

E quando la fortuna volse in basso
l’altezza de’ Troian che tutto ardiva,
sì che ’nsieme col regno il re fu casso,
Ecuba trista, misera e cattiva,
poscia che vide Polissena morta,
e del suo Polidoro in su la riva
del mar si fu la dolorosa accorta,
forsennata latrò sì come cane;
tanto il dolor le fé la mente torta.

La rigida giustizia che mi fruga
tragge cagion del loco ov’ io peccai
a metter più li miei sospiri in fuga.

Inf. XVII, 106-111

Maggior paura non credo che fosse
quando Fetonte abbandonò li freni,
per che ’l ciel, come pare ancor, si cosse;
né quando Icaro misero le reni
sentì spennar per la scaldata cera,

gridando il padre a lui “Mala via tieni!”

Purg. VI, 76, 97-102, 118-120, 148-151; VII, 107-111

Ahi serva Italia, di dolore ostello

O Alberto tedesco ch’abbandoni
costei ch’è fatta indomita e selvaggia,
e dovresti inforcar li suoi arcioni,
giusto giudicio da le stelle caggia
sovra ’l tuo sangue, e sia novo e aperto,
tal che ’l tuo successor temenza n’aggia!

E se licito m’è, o sommo Giove
che fosti in terra per noi crucifisso,
son li giusti occhi tuoi rivolti altrove?

E se ben ti ricordi e vedi lume,
vedrai te somigliante a quella inferma
che non può trovar posa in su le piume,
ma con dar volta suo dolore scherma.

L’altro vedete c’ha fatto a la guancia
de la sua palma, sospirando, letto.
Padre e suocero son del mal  di Francia:
sanno la vita sua viziata e lorda,
e quindi viene il duol che sì li lancia.

Purg. XXIX, 115-120

Non che Roma di carro così bello
rallegrasse Affricano, o vero Augusto,
ma quel del Sol saria pover con ello;
quel del Sol che, svïando, fu combusto
per l’orazion de la Terra devota, 12, 16
quando fu Giove arcanamente giusto.

[LSA, cap. II, Ap 2, 21-23 (Ia visio, IVa ecclesia)] Exaggerat autem huius femine impenitentiam, subdens (Ap 2, 21): “Et dedi illi tempus ut penitentiam ageret”, id est ob hoc distuli ipsam occidere et dampnare, “et non vult penitere a fornicatione sua”. Propter quod comminatur ei, subdens (Ap 2, 22): “Et ecce ego mitto eam in lectum, et qui mecantur cum ea in tribulationem maximam”, scilicet mitto. Quidam habent hic “erunt in tribulatione” in ablativo, sed prima littera verior est et antiquior. Nota quod est lectus quietis, et de hoc non loquitur hic; et est lectus doloris, de quo in Psalmo XL° dicitur (Ps 40, 4): “Dominus opem ferat illi super lectum doloris eius”, et de hoc loquitur hic. Unde, secundum Ricardum, alia translatio habet: “Mitto eam in luctum”. Loquitur autem ac si tot morbis et plagis eam percuteret quod semper infirma et prostrata iaceret in lecto, et loquitur per contrapositionem ad lectum sue luxurie.
Secundum etiam Ricardum, non di[x]it ‘mittam’ sed “mitto”, ut per presentiam temporis incuteret formidinem timoris. Non tamen di[x]it hoc absolute sed sub condicione, scilicet “nisi penitentiam egerit ab operibus suis”. Noluit enim per effrenatum timorem peccatores precipitari in desperationem, sed potius per temperamentum comminationis eos revocare, si penitere vellent, ad confidentiam sue miserationis*.
Quamvis autem, secundum Ricardum, per lectum et tribulationem intelligat eternam dampnationem**, nichilominus per hec intelligitur temporale et visibile exterminium ipsorum, alias non subderet quod omnes ille ecclesie scirent iudicium super eos immissum.
Potest autem hoc referri mistice ad quartum tempus ecclesie.
* Cum enim, sub tertio tempore, gens Gothorum tempore Valentis imperatoris et arriani intrans in Greciam accepit heresim arrianam per episcopos eis a Valente missos, facta est quasi altera Iesabel, que nupsit Achab impio regi Israel. Unde et post sub Zenone imperatore una pars huius gentis, quasi altera Athalia filia Iesabel, intravit in regnum Iude, id est Rome seu Italie, feceruntque hic et ibi mala qualia ille due fecerunt in Israel et in Iuda. Sed tandem in quarto tempore suscitavit Deus Iustinianum imperatorem, quasi alterum Iheu (cfr. 4 Rg 9, 6-10) qui, congregata synodo episcoporum, tradidit illis condempnandam p[osteri]tatem Anastasii imperatoris heretici et aliorum hereticorum, qui erant quasi sacerdotes Baal, sed et gentem Gothorum cum suo rege, misso exercitu armatorum, delevit ex Italia et arrianam gentem Vandalorum ex Africa, et postmodum per Sarracenos plenius sunt deleti.* […]
Et filios eius” (Ap 2, 23), id est sequaces eius, “interficiam in mortem”, id est sic quod ducam eos ad mortem. Vel talis ingeminatio vehementem aggravationem interfectionis significat.
“Et scient omnes ecclesie”, scilicet per evidentiam facti, “quia”, id est quod, “ego sum scrutans renes et corda”, id est omnes internos cogitatus et affectus mentis et sensualitatis. In renibus enim viget sensualis concupiscentia carnis. Quando enim Deus aperte non punit mala quantum iustitia exigit, videtur ignorare mala et pondus eorum; quando autem iustissime et rigidissime et publicissime punit illa, tunc omnibus de facto patet quod ipse omnia mala quantumcumque occulta intime novit et ponderat, ac si ea profundissime scrutaretur.
Nota autem quam congrue proposuit Christus se habere oculos sicut flammam (cfr. Ap 2, 18), ut pateret quod omnia videt et penetrat et zelo ardenti urit et punit vel corripit, etiam permissionem huius episcopi, que vix crederetur esse peccatum nisi ipse eam increpasset tamquam culpabilem.
“Et dabo” et cetera, id est ex predicto iudicio scient quod ego “dabo”, id est retribuam, “unicuique vestrum secundum opera sua”, id est bonis dabo bona et malis mala. Duos actus iudicii ordinate tangit. Primus est diligens examinatio seu perscrutatio; secundus est [iusta] secundum exigentiam meritorum et demeritorum retributio, et pro hoc secundo dicit: “et dabo” et cetera.

[LSA, cap. XVI, Ap 16, 19 (VIa visio)] “Venit in memoriam ante Deum dare ei”, id est ad dandum ei, “calicem vini indignationis ire eius”. Deus videtur oblitus malitie peccantium quamdiu non punit aperte illam; quando autem aperte illam iudicat et punit tunc videtur recordari ipsius, non quidem ad ipsam glorificandam, sed potius puniendam.

In Ap I, viii (PL 196, col. 726 C). ** Ibid., col. 726 B-C.

* “Cum enim … sunt deleti” *: cfr. Concordia, III 2, c. 3; IV 1, cc. 13, 14, 18 (Patschovsky 2, pp. 319, rr. 8-12; 393, r. 8 – 394, r. 2; 401, r. 7 – 402, r. 8); Concordia V 6, c. 4 § 4 (Patschovsky 3, p. 970, rr. 10-13).

Purg. XVIII, 118-126

Io fui abate in San Zeno a Verona
sotto lo ’mperio del buon Barbarossa,
di cui dolente ancor Milan ragiona.
E tale ha già l’un piè dentro la fossa,
che tosto piangerà quel monastero,
e tristo fia d’avere avuta possa;
perché suo figlio, mal  del corpo intero,
e de la mente peggio, e che mal  nacque,
ha posto in loco di suo pastor vero.

 

Potest autem hoc referri mistice ad quartum tempus ecclesie. * Cum enim, sub tertio tempore, gens Gothorum tempore Valentis imperatoris et arriani intrans in Greciam accepit heresim arrianam per episcopos eis a Valente missos, facta est quasi altera Iesabel, que nupsit Achab impio regi Israel. Unde et post sub Zenone imperatore una pars huius gentis, quasi altera Athalia filia Iesabel, intravit in regnum Iude, id est Rome seu Italie, feceruntque hic et ibi mala qualia ille due fecerunt in Israel et in Iuda. Sed tandem in quarto tempore suscitavit Deus Iustinianum imperatorem, quasi alterum Iheu (cfr. 4 Rg 9, 6-10) qui, congregata synodo episcoporum, tradidit illis condempnandam p[osteri]tatem Anastasii imperatoris heretici et aliorum hereticorum, qui erant quasi sacerdotes Baal, sed et gentem Gothorum cum suo rege, misso exercitu armatorum, delevit ex Italia et arrianam gentem Vandalorum ex Africa, et postmodum per Sarracenos plenius sunt deleti.*

 

Tab. V.3

[LSA, cap. II, Ap 2, 21-22 (Ia visio, IVa ecclesia)] Exaggerat autem huius femine impenitentiam, subdens (Ap 2, 21): “Et dedi illi tempus ut penitentiam ageret”, id est ob hoc distuli ipsam occidere et dampnare, “et non vult penitere a fornicatione sua”. Propter quod comminatur ei, subdens (Ap 2, 22): “Et ecce ego mitto eam in lectum, et qui mecantur cum ea in tribulationem maximam”, scilicet mitto. Quidam habent hic “erunt in tribulatione” in ablativo, sed prima littera verior est et antiquior. Nota quod est lectus quietis, et de hoc non loquitur hic; et est lectus doloris, de quo in Psalmo XL° dicitur (Ps 40, 4): “Dominus opem ferat illi super lectum doloris eius”, et de hoc loquitur hic. Unde, secundum Ricardum, alia translatio habet: “Mitto eam in luctum”. Loquitur autem ac si tot morbis et plagis eam percuteret quod semper infirma et prostrata iaceret in lecto, et loquitur per contrapositionem ad lectum sue luxurie.
Secundum etiam Ricardum, non di[x]it ‘mittam’ sed “mitto”, ut per presentiam temporis incuteret formidinem timoris. Non tamen di[x]it hoc absolute sed sub condicione, scilicet “nisi penitentiam egerit ab operibus suis”. Noluit enim per effrenatum timorem peccatores precipitari in desperationem, sed potius per temperamentum comminationis eos revocare, si penitere vellent, ad confidentiam sue miserationis.

[LSA, cap. V, Ap 5, 1 (IVum sigillum)] Secunda causa seu ratio septem sigillorum libri est quia in Christo crucifixo fuerunt septem secundum humanum sensum et estimationem abiecta, que claudunt hominibus sapientiam libri eius. In eius enim cruce et morte apparet humano sensui summa impotentia (I) et angustia (II) et stultitia (III) et inopia (IV) et ignominia (V) et inimicitia (VI) et sevitia (VII). […] Contra vero inopiam est eiusdem doctrine refectivus et copiosissimus sapor. Sicut enim mercatio sapientie per fidele studium scripturarum refertur ad doctores, et statera dolosi erroris, a recta equilibratione veritatis claudicans, respicit hereticos, sic spiritalis sapor et refectio eiusdem sapientie Christi refertur ad anachoritas, tantam eisdem sufficientiam tribuens ut nichil exterius querere viderentur nec aliquo exteriori egere, propter quod quasi nudi et soli in solitudinibus habitabant spiritalibus divitiis habundantes. […] Vel in quarta apertione designatur copia virtutis et vite anachoritarum per suum contrarium, scilicet per internam mortem et ariditatem ypocritarum in pallido equo, id est corpore exterius apparenter macerato, sedentium (cfr. Ap 6, 8).
Contra vero Christi ignominiam et contemptum est sue equitatis rigor ulciscens se per Sarracenos de contemptoribus suis. Sicut enim in prima apertione fuit subversa Iudea et tota sinagoga infirmitatis Christi contemptrix, sic circa finem quarti status orientalis ecclesia per varias hereses Christi contemptrix subversa est per Sarracenos.

[Ap 2, 1. 18 (Ia visio, IVa ecclesia)] (Ap 2, 1) Quarta autem commendatur de superhabundanti et perseveranti et superexcrescenti supererogatione sanctorum operum et de perfectione fidei et caritatis, que utique competunt quarto statui, scilicet anachoritarum, qui partim opere manuum, partim lectione, partim vocali psalmodia, cum assidua maceratione corporis per ieiunia et per alias austeritates, se semper preparabant et sursum agebant ad contemplativos actus fidei et caritatis. Unde bene vocatur Tyatira, id est illuminata vel inflammata vel vivens hostia, quia tales per lucem et flammam contemplative devotionis se offerunt Deo hostiam viventem. […] Hiis autem premittitur preceptum de scribendo hec huic episcopo et eius ecclesie et introductio Christi loquentis, cum subdit: “Hec dicit Filius hominis, qui habet oculos tamquam flamma[m] ignis et pedes eius similes auricalco” (Ap 2, 18). Quia episcopus et ecclesia cui Christus loquitur laudatur de fervore fidei et caritatis, et de humilitate ministrandi et patientie, et de perfectione operum sive vite active, ideo respectu primi Christus proponitur ut habens oculos lucidos et ardentes sicut est flamma ignis, respectu vero secundi proponitur ut Filius hominis, respectu vero tertii proponitur habere pedes similes auricalco, id est eri nitidissimo quod est simillimum auro. Correspondet etiam hoc quarto statui anachoritarum humillimorum et valde activorum multumque contemplativorum. Dictum est enim supra quod per Filium hominis designatur humilitas, per oculos autem flammeos fervor et lux contemplationis ignite, per pedes vero similes auricalco perfectio vite active.

Inf. XIV, 7-42, 46-48, 65-66, 73-75

A ben manifestar le cose nove,
dico che arrivammo ad una landa
che dal suo letto ogne pianta rimove.
La dolorosa selva l’è ghirlanda
intorno, come ’l fosso tristo ad essa;
quivi fermammo i passi a randa a randa.
Lo spazzo era una rena arida e spessa,
non d’altra foggia fatta che colei
che fu da’ piè di Caton già soppressa.
O vendetta di Dio, quanto tu dei
esser temuta
da ciascun che legge
ciò che fu manifesto a li occhi miei!
D’anime nude vidi molte gregge
che piangean tutte assai miseramente,
e parea posta lor diversa legge.
Supin giacea in terra alcuna gente,
alcuna si sedea tutta raccolta,
e altra andava continüamente.
Quella che giva ’ntorno era più molta,
e quella men che giacëa al tormento,
ma più al duolo avea la lingua sciolta.
Sovra tutto ’l sabbion, d’un cader lento,
piovean di foco dilatate falde,
come di neve in alpe sanza vento.
Quali Alessandro in quelle parti calde     16, 8-9
d’Indïa vide sopra ’l süo stuolo
fiamme cadere infino a terra salde,
per ch’ei provide a scalpitar lo suolo
con le sue schiere, acciò che lo vapore
mei si stingueva mentre ch’era solo:
tale scendeva l’etternale ardore;
onde la rena s’accendea, com’ esca
sotto focile, a doppiar lo dolore.
Sanza riposo mai era la tresca
de le misere mani, or quindi or quinci
escotendo da sé l’arsura fresca.              16, 8-9

chi è quel grande che non par che curi
lo ’ncendio e giace dispettoso e torto,
sì che la pioggia non par che ’l marturi?

nullo martiro, fuor che la tua rabbia,
sarebbe al tuo furor dolor compito

Or mi vien dietro, e guarda che non metti,
ancor, li piedi  ne la rena arsiccia;
ma sempre al bosco tien li piedi  stretti.

 

Il tema del timoroso rifugiarsi presso le pietre misericordiose, del darsi per paura alla roccia, proprio dell’apertura del sesto sigillo (Ap 6, 12-17), può essere confrontato con quanto detto nell’esegesi dell’apertura del quarto sigillo (Ap 6, 8). Gioacchino da Fiore aveva identificato (nell’Expositio in Apocalypsim) il cavallo pallido, che si mostra all’apertura del quarto sigillo, con il regno dei Saraceni, che corrisponde per concordia al regno degli Assiri, i quali sotto il quarto sigillo dell’Antico Testamento devastarono e resero schiave le dieci tribù di Israele e quasi fecero lo stesso con il regno di Giuda, come all’apertura del quarto sigillo nel Nuovo Testamento furono devastate le chiese orientali – le nuove dieci tribù – e quasi la stessa sorte toccò alla chiesa latina, assimilata al regno di Giuda poiché, come in questo fu la vera e principale sede del culto divino (della vera lingua), così lo è nella chiesa latina o romana. Come allora, aggiunge Olivi, la tribù di Beniamino venne congiunta al regno di Giuda, così Paolo, della tribù di Beniamino, si congiunse in Roma con Pietro, che nel principato della fede fu un altro Davide e, tra gli apostoli, patriarca della nostra fede. Fu come il patriarca Giuda, al quale fu detto: “non sarà tolto lo scettro da Giuda” (Genesi  49, 10), poiché a lui Cristo disse: “io ho pregato per te, Pietro, perché non venga meno la tua fede” (Luca  22, 32.34) e “le porte degli inferi non prevarranno contro di essa”, contro cioè la Chiesa fermata sopra la tua fede (Matteo 16, 18).
Dalla selva, che inghirlanda l’ “orribil sabbione” dove stanno i violenti contro Dio, esce un fiumicello rosso sangue, che se ne va giù per la rena. È il Flegetonte: ha il fondo, le pendici e i margini fatti di pietra e per questo consente di attraversare la rena infuocata (Inf. XIV, 82-84). Gli argini del ruscello, infatti, “fan via, che non son arsi” dalla pioggia di fuoco, poiché “sopra loro ogne vapor si spegne” (ibid., 141-142). Nei margini di pietra è il tema della chiesa romana – la sede di Pietro – che non venne meno nella fede e contro la quale non poté prevalere la devastazione dei Saraceni. I “duri margini”, sopra i quali il vapore che si leva dal sangue bollente fa schermo alla pioggia di fuoco, sono simili alle dighe che i Fiamminghi – “temendo ’l fiotto che ’nver’ lor s’avventa” –  tra Wissant e Bruges oppongono come schermo “perché ’l mar si fuggia” (il motivo del fuggire, nel senso di ritirarsi, appropriato non a coloro che temono ma all’oggetto del timore) o a quelle costruite dai Padovani “lungo la Brenta” per difendere le loro città e i loro borghi murati, prima che la Carinzia senta il caldo (motivo del sentir sopravvenire il giudizio divino) che fa sciogliere le nevi e ingrossa i fiumi (Inf. XV, 4-12). Dall’ira di Cristo giudice è dunque salvezza la Chiesa di Pietro.
Ciò è confermato dal fatto che Inf. XIV (i bestemmiatori) si colloca in una zona dove “topograficamente” prevalgono i temi del quarto stato e Inf. XV-XVI (i sodomiti) in una zona dove prevalgono i temi del quinto. Se Dante cammina sui “duri margini” salvo dal fuoco, “Brunetto Latino”, col “cotto aspetto” e col “viso abbrusciato”, è immagine di quella parte della “ecclesia latina” devastata dai Saraceni, con cui concorda singolarmente nel nome e negli effetti (Inf. XV, 25-33). Con lui siamo nel quinto stato, assimilato alla “sede” romana, sola semenza rimasta di una Chiesa una volta diffusa su tutto l’orbe, “sementa santa” che rivive in Dante, come appunto gli dice il suo antico maestro Brunetto (ibid., 73-78). Roma, pur sotto la pioggia di fuoco, resta diga di pietra indefettibile che consente di attraversare i passi infernali. Tra le due menzioni dei margini di pietra si colloca la digressione virgiliana sul Veglio di Creta, che “Roma guarda come süo speglio”, cioè l’umanità invecchiata che anela al rinnovamento (Inf. XIV, 105).
Nel silenzioso andare per l’ultima bolgia fra i falsatori di metalli, guardando e ascoltando gli spiriti ammalati, Dante vede “due sedere a sé poggiati, / com’ a scaldar si poggia tegghia a tegghia”, e Virgilio domanda a uno di essi se vi sia lì con loro qualche “latino”, cioè italiano (Inf. XXIX, 73-74, 85-93). I due, seduti e latini, sono Griffolino d’Arezzo e il fiorentino Capocchio: a essi è appropriato il tema della chiesa latina devastata dai Saraceni (“Latin siam noi, che tu vedi sì guasti”: l’esser ‘guasto’ corrisponde al cavallo pallido del quarto sigillo) e della ‘sede’ romana sostenuta congiuntamente da Pietro e Paolo (Ap 6, 8), che si trasforma nella grottesca immagine delle due teglie collocate sulla brace in modo da sostenersi reciprocamente. Bisogna dire che i falsatori di metalli si collocano in una zona con prevalenza di temi del quarto stato, dopo una zona ‘terza’ (la nona bolgia: Inf. XXVIII) e prima di una zona ‘quinta’, i cui temi si insinuano già in Inf. XXIX per poi sfociare nel canto seguente, dove si mantengono però ancora quelli del quarto. È da notare come ai due falsari – “dal capo al piè di schianze macolati” (ibid., 75) – sia appropriato il tema della chiesa della fine del quinto stato: “a planta pedis usque ad verticem est fere tota ecclesia infecta et confusa et quasi nova Babilon effecta” (prologo, notabile VII; il tema tornerà con la “puttana” flagellata dal gigante “dal capo infin le piante”, Purg. XXXII, 156).
La barca di Pietro, come afferma Tommaso d’Aquino nel cielo del Sole (Par. XI, 118-121), fu degnamente mantenuta “in alto mar per dritto segno” da due colleghi, Francesco e Domenico. Chiama Domenico “il nostro patrïarca”, appellativo che nell’esegesi scritturale è dato a Pietro, nuovo Giuda patriarca della fede tra gli apostoli. Non è espresso nei versi, ma si può dedurre, che Francesco sia da assimilare a Beniamino e a Paolo, apostolo delle genti – il “tuo caro frate / che mise teco Roma nel buon filo”, come dice Dante a san Pietro a Par. XXIV, 61-63.

 

Tab. V.4

[Ap 6, 7-8; IIa visio, apertio IVi sigilli] Et hinc est quod abbas Ioachim dicit per equum pallidum intelligi reg[num] Sarracenorum, cui per concordiam [correspondet] regnum Assiriorum, sub quarto signaculo veteris testamenti devastans et captivans regnum decem tribuum Israel et fere regnum Iude, sicut sub apertione quarti sigilli vastate sunt quasi decem tribus ecclesiarum orientalium* et fere ecclesia latina, que assimilata est regno Iude, quia sicut ibi fuit vera et principalis sedes divini cultus sic est et in ecclesia latina seu romana. Sicut etiam tribus Beniamin fuit tunc iuncta regno Iude, sic Paulus de tribu Beniamin est in Roma iunctus  Petro, qui in principatu fidei fuit alter David et inter apostolos nostre fidei  patriarcha. Fuit quasi Iudas patriarcha, cui dictum est: “Non auferetur sceptrum de Iuda” (Gn 49, 10), sicut et Petro dixit Christus: “Ego pro te rogavi, Petre, ut non deficiat fides tua” (Lc 22, 32/34) et quod “porte inferi non prevalebunt adversus” ecclesiam super tua fide fundatam (Mt 16, 18).

* Expositio, pars II, f. 116ra.

Inf. XIV, 82-84, 141-142; XV, 1-12, 25-33; XVII, 23-24

Lo fondo suo e ambo le pendici
fatt’ era ’n pietra, e ’ margini dallato;
per ch’io m’accorsi che ’l passo era lici.

 li margini fan via, che non son arsi,
e sopra loro ogne vapor si spegne.

Ora cen porta l’un de’ duri margini;
e ’l fummo del ruscel di sopra aduggia,
sì che dal foco salva l’acqua e li argini.
Quali Fiamminghi tra Guizzante e Bruggia,
temendo ’l fiotto che ’nver’ lor s’avventa,
fanno lo schermo perché ’l mar si fuggia;
e quali Padoan lungo la Brenta,
per difender lor ville e lor castelli,
anzi che Carentana il caldo senta:
a tale imagine eran fatti quelli,
tutto che né sì alti né sì grossi,
qual che si fosse, lo maestro félli.

E io, quando ’l suo braccio a me distese,
ficcaï li occhi per lo cotto aspetto,
sì che ’l viso abbrusciato non difese
la conoscenza süa al mio ’ntelletto;
e chinando la mano a la sua faccia,
rispuosi: “Siete voi qui, ser Brunetto?”.
E quelli: “O figliuol mio, non ti dispiaccia
se Brunetto Latino un poco teco
ritorna ’n dietro e lascia andar la traccia”.

così la fiera pessima si stava
su l’orlo ch’è di pietra e ’l sabbion serra.

Inf. XXIX, 73-75, 85-93

Io vidi due sedere a sé poggiati,
com’ a scaldar si poggia  tegghia a tegghia,
dal capo al piè di schianze macolati

“O tu che con le dita ti dismaglie”,
cominciò ’l duca mio a l’un di loro,
“e che fai d’esse talvolta tanaglie,
dinne s’alcun Latino è tra costoro
che son quinc’ entro, se l’unghia ti basti
etternalmente a cotesto lavoro”.
Latin siam noi, che tu vedi sì guasti
qui ambedue”, rispuose l’un piangendo;
“ma tu chi se’ che di noi dimandasti?”.

Par. XI, 118-121

Pensa oramai qual fu colui che degno
collega  fu a mantener la barca
di Pietro in alto mar per dritto segno;
e questo fu il nostro patrïarca

[Notabile VII (prologus)] Ad istum autem reditum valde, quamvis per accidens, cooperabitur non solum multiplex imperfectio in possessione et dispensatione temporalium ecclesie in pluribus comprobata, sed etiam multiplex enormitas superbie et luxurie et symoniarum et causidicationum et litigiorum et fraudum et rapinarum ex ipsis occasionaliter accepta, ex quibus circa finem quinti temporis a planta pedis usque ad verticem est fere tota ecclesia infecta et confusa et quasi nova Babilon effecta.

Par. XXIV, 61-66

E seguitai: “Come  ’l verace stilo
ne scrisse, padre, del tuo caro frate
che mise teco Roma nel buon filo,
fede  è sustanza di cose sperate
e argomento de le non parventi;
e questa pare a me sua quiditate”.

 

6. La quarta coppa (Ap 16, 8-9): “ ’l fiorentino spirito bizzarro ” (Inf. VIII, 62)

 

Nella quinta visione apocalittica, il quarto angelo versa la coppa sul sole, cioè sull’ipocrisia degli anacoreti che i santi dottori del quarto tempo vituperarono e resero confusa. Secondo Gioacchino da Fiore (Expositio), questi ipocriti si ritengono santi e più degni degli altri, e perciò se vengono rimproverati si accendono d’ira e sogliono lamentarsi e narrare la propria vita a quanti vengano a loro, in modo che sappiano che essi sono ripresi non per zelo di giustizia, ma per livore d’odio. Per questo gli uomini cominciano a scaldarsi, una volta che vedono generarsi liti e scandali tra quanti ritenevano santi. Così nel testo si dice: “e gli fu concesso” – al sole piagato dalla coppa versata – “di affliggere gli uomini col calore e col fuoco”, cioè di turbarli e accenderli d’ira contro i santi che li redarguiscono (Ap 16, 8). “E gli uomini si cossero per il gran caldo”, cioè per il grande abbruciamento dovuto al turbamento d’ira, “e bestemmiarono il nome di Dio che ha potere su queste piaghe e non si pentirono per dargli gloria” (Ap 16, 9). Questo perché, secondo Gioacchino, gli uomini ingannati e confusi dall’ipocrisia abbandonano coloro che avevano iniziato a venerare e, mutatisi in peggio, prorompono in blasfemie dicendo che quanti hanno prima seguito non vengono da Dio poiché odiano e perseguitano i suoi santi. Si può anche intendere, aggiunge Olivi, nel senso che quando questi ipocriti furono fatti servi dai Saraceni, riarsero di grandissima ira e impazienza contro Dio bestemmiando come empi e ingiusti i suoi giudizi, per cui erano stati così distrutti, ritenendosi con falsa presunzione santi e giusti. Essi provocarono i propri seguaci alla medesima impazienza, blasfemia e impenitenza, cosicché li fecero acremente scaldare.
Il tema del calore che affligge è presente nelle zone dell’inferno in cui sono preminenti i temi del quarto stato.
L’aggettivo (“solo de’ fiorentini”, secondo Boccaccio) bizzarro, attribuito a Filippo Argenti – “ ’l fiorentino spirito bizzarro” (Inf. VIII, 62) -, rinvia all’esegesi della quarta coppa, il cui versamento provoca l’estuare, cioè lo scaldarsi, in accensioni d’ira: “si increpantur accenduntur in iram … vident lites et scandala generari … tunc exarserunt in summam iram et impatientiam” (Ap 16, 8-9). Il verso successivo – “in sé medesmo si volvea co’ denti” (ibid., 63) – figura uno dei versetti successivi, Ap 16, 11, relativo al versamento della quinta coppa: “Et commanducaverunt liguas suas pre dolore”. L’Argenti “fu al mondo persona orgogliosa … così s’è l’ombra sua qui furïosa” (ibid., 46-48). Come già visto, l’orgoglio costituisce un vizio proprio del quarto tempo, allorché – come si afferma nel Notabile XII del prologo con citazione di Gioacchino da Fiore – gli anacoreti contemplativi ‘fiorirono’ (“’l fiorentino”) ma poi passarono dalla perfezione al gloriarsi e di qui all’esaltazione e infine alla rovina. Ira e orgoglio (superbia, arroganza) sono temi precipui del quarto stato. Precedente nella stessa zona ‘quarta’ (la prima dell’Inferno), dar “biasmo a torto e mala voce” alla Fortuna, invece che lodarla (Inf. VII, 91-93), richiama l’ira, la blasfemia e l’impazienza contro i giudizi di Dio di cui ad Ap 16, 8-9.
La landa (il “letto”) su cui giacciono supini i bestemmiatori, sotto la pioggia infuocata – la seconda zona ‘quarta’ -, viene paragonata a “quelle parti calde d’Indïa”, dove Alessandro Magno vide cadere fiamme dal cielo, che egli provvide a far calpestare al suolo dalle sue schiere, “acciò che lo vapore / mei si stingueva mentre ch’era solo” (Inf. XIV, 31-36, allusione alla solitudine degli anacoreti distrutti dagli Arabi; la “rena arida e spessa” corrisponde all’ipocritale aridità interiore che si mostra col cavallo pallido all’apertura del quarto sigillo). La notizia, tratta da una presunta lettera di Alessandro ad Aristotele citata nei Meteora di Alberto Magno, viene armata dall’esegesi apocalittica oliviana. Esempio degli ipocriti impazienti, blasfemi, ‘scaldati’, riarsi e impenitenti, che si ritengono nel giusto e si lamentano con quanti vengono a loro, Capaneo, “quel grande che non par che curi / lo ’ncendio”, dice di Giove che potrebbe stancare Vulcano e gli altri Ciclopi a fabbricare folgori (‘stancare’ equivale a ‘macerare’, prerogativa della quarta apertura, ad Ap 6, 8), come fece alla battaglia di Flegra, ma “non ne potrebbe aver vendetta allegra” (Inf. XIV, 43-60).
Nella terza zona della prima cantica dedicata al quarto stato, vi è un accenno all’estate, riferito alla zona paludosa che “suol di state talor esser grama”, cioè in secca (Inf. XX, 81), dove si fermò Manto, la quale “cercò per terre molte”.
Nella quarta zona infernale, gli ospedali di Valdichiana, di Maremma e di Sardegna “tra ’l luglio e ’l settembre”, cioè d’estate (che coincide con l’“estuare” di Ap 16, 8-9) sono richiamati nella descrizione della bolgia dei falsari (Inf. XXIX, 46-49), due dei quali stanno seduti a sé poggiati, “com’ a scaldar si poggia tegghia a tegghia” (ibid., 73-74), immagine che grottescamente rinvia all’esegesi del quarto sigillo (Ap 6, 8). Il motivo della lite, congiunto con quello dell’ira, è nelle adirate parole che Virgilio rivolge al discepolo soffermatosi a contemplare la rissa – il “piato” – fra i falsari maestro Adamo e Sinone: “Or pur mira, / che per poco che teco non mi risso!” (Inf. XXX, 131-133; 145-148).
Si è già visto come Inf. XIVInf. XXIX-XXX siano segnati da una semantica che rinvia all’esegesi della quarta chiesa o del quarto sigillo.
Come sempre nel poema, i temi relativi a uno stato possono essere registrati anche in zone diverse da quelle in cui la semantica di quello stato è preminente (ad es., per Ap 16, 8-9, Inf. XVII, 46-51; Par. IV, 12, 14-15; V, 15); viceversa, gli stessi temi prevalenti in una zona possono essere intrecciati analogicamente con quelli riferiti ad altri stati.

 

Tab. VI.1

Inf. VIII, 46-48, 61-63 (cfr. supra)

Quei fu al mondo persona orgogliosa;
bontà non è che sua memoria fregi:
così s’è l’ombra sua qui furïosa.

Tutti gridavano: “A Filippo Argenti!”;
e ’l fiorentino spirito bizzarro
in sé medesmo si volvea co’ denti.

[LSA, prologus, Notabile XII] De quarto autem statu, scilicet anachoritarum, dicit Ioachim, libro V° Concordie, quod «proficiendo decrevit, quia et herba tunc magis proficit cum appropinquat ad messem. Nam tempus eius non tam illud esse dicitur in quo incipit quam illud in quo, peracta messione, grana per trituram separantur a paleis. Ordines enim iustorum propria tempora acceperunt non in quibus inceperunt sed in quibus ad consumationem et perfectionem venerunt. Quod autem diximus ordinem quartum, qui est heremitarum et virginum, proficiendo defecisse, timendum est potius quam dicendum. Aperta enim perfectio gloriationem parit, gloriatio exaltationem, exaltationem vero comitatur ruin[a], quia scriptum est: “ante ruinam exaltatur cor” (Pro 16, 18; 18, 12). Igitur ordo iste quarto tempore claruit, sed mox defecit in illa claritate et in locis illis in quibus visus est floruisse ad horam, et hoc propter malitiam habitantium in eis»*. Preterea fragilitas humane carnis non patitur tantum statum diu in multitudine perdurare. […]

Concordia, V 1, c. 12; Patschovsky 3, p. 551, 3-20.

[LSA, cap. XVI, Ap 16, 8-9 (Va visio, quarta phiala)] “Et quartus angelus effudit phialam suam in solem” (Ap 16, 8), id est super ypocritalem partem anachoritarum seu contemplativorum quarti status, quorum ypocrisim sancti anachorite vel sancti doctores quarti temporis acriter obiurgaverunt et conf[ud]erunt. Quia vero, secundum Ioachim, tales se sanctos et digniores ceteris estimant, ideo si increpantur accenduntur in iram, et deinde solent confluentibus ad eos conqueri et exponere vitam suam ut sciant quod non zelo iustitie sed livore odii arguuntur, propter quod incipiunt homines estuare, quia inter eos quos sanctos putabant vident lites et scandala generari *.
Unde subditur: “et datum est illi”, scilicet soli sic plagato, “affligere homines estu et igne”, id est perturbare et ad iram accendere contra cetum sanctorum redarguentium illos.
“Et estuaverunt homines estu magno” (Ap 16, 9), id est magna adustione perturbationis et ire, “et blasphemaverunt nomen Dei habentis potestatem super has plagas, neque egerunt penitentiam ut darent illi gloriam” quia, secundum Ioachim, homines, sic per ypocritas decepti, confunduntur deserere eos quos semel venerari ceperunt, et non solum non agunt penitentiam sed etiam, deteriores effecti, prorumpunt in blasphemias spiritus dicentes: isti homines non sunt ex Deo, qui sanctos ipsius odiunt et persequuntur **.
Potest etiam dici quod quando ypocrite fuerunt per Sarracenos captivati, tunc exarserunt in summam iram et impatientiam contra Deum et blasphemaverunt iudicia eius tamquam impia et iniusta quia sic fecerat eos exterminari, cum secundum suam falsam presumptionem essent sancti et iusti. Ad hanc autem impatientiam et blasphemiam et impenitentiam provocaverunt suos sequaces, ita quod per vehementem et quasi intolerabilem impatientiam fecerunt eos acriter estuare.

* Expositio, pars V, f. 189rb-va. ** Ibid., f. 189va-b.

Inf. VII, 91-93

Quest’ è colei ch’è tanto posta in croce
pur da color che le dovrien dar lode,
dandole biasmo a torto e mala voce

Inf. XIV, 31-33, 37-42, 49-51

Quali Alessandro in quelle parti calde
d’Indïa vide sopra ’l süo stuolo

fiamme cadere infino a terra salde

tale scendeva l’etternale ardore;
onde la rena s’accendea, com’ esca
sotto focile, a doppiar lo dolore.
Sanza riposo mai era la tresca

de le misere mani, or quindi or quinci
escotendo da sé l’arsura fresca.

E quel medesmo, che si fu accorto
ch’io domandava il mio duca di lui
,

gridò: “Qual io fui vivo, tal son morto”.

Inf. XVII, 46-51

Per li occhi fora scoppiava lor duolo;
di qua, di là soccorrien con le mani
quando a’ vapori, e quando al caldo suolo:
non altrimenti fan di state  i cani
or col ceffo or col piè, quando son morsi
o da pulci o da mosche o da tafani.

Inf. XX, 79-81

Non molto ha corso, ch’el trova una lama,
ne la qual si distende e la ’mpaluda;
e suol di state talor esser grama.

Inf. XXV, 79-84

Come ’l ramarro sotto la gran fersa
dei dì canicular, cangiando sepe,
folgore par se la via attraversa,
sì pareva, venendo verso l’epe
de li altri due, un serpentello acceso,
livido e nero come gran di pepe

Inf. XXIX, 46-49, 73-75

Qual dolor fora, se de li spedali
di Valdichiana tra ’l luglio e ’l settembre
e di Maremma e di Sardigna i mali
fossero in una fossa tutti ’nsembre

Io vidi due sedere a sé poggiati,
com’ a scaldar si poggia tegghia a tegghia,
dal capo al piè di schianze macolati

Inf. XXX, 130-135, 145-148

Ad ascoltarli er’ io del tutto fisso,
quando ’l maestro mi disse: “Or pur mira,
che per poco che teco non mi risso!”.
Quand’ io ’l senti’ a me parlar con ira,
volsimi verso lui con tal vergogna,
ch’ancor per la memoria mi si gira.

“E fa ragion ch’io ti sia sempre allato,
se più avvien che fortuna t’accoglia
dove sien genti in simigliante piato:
ché voler ciò udire è bassa voglia”.

Par. IV, 10-15, V, 13-15

Io mi tacea, ma ’l mio disir dipinto
m’era nel viso, e ’l dimandar con ello,
più caldo assai che per parlar distinto.
Fé sì Beatrice qual fé Danïello,
Nabuccodonosor levando d’ira,
che l’avea fatto ingiustamente fello

Tu vuo’ saper se con altro servigio,
per manco voto, si può render tanto
che l’anima sicuri di letigio.

 


7. La quarta tromba (Ap 8, 12-13)

Al suono della quarta tromba (terza visione, Ap 8, 12) il sole (la solare dottrina dei dottori del terzo stato e la solare vita dei padri contemplativi del quarto: i due stati concorrono, come intelletto e affetto, Impero e Papato, a infiammare il meriggio dell’universo), la luna (i conventuali del quarto stato illuminati dal sole), le stelle (i singoli alti contemplativi), il giorno (la plebe illuminata dal sole) e la notte (i più rudi illuminati dalle stelle) vengono oscurati per la terza parte (gli ipocriti). L’esegesi si avvale di Gioacchino da Fiore in altro punto, ad Ap 12, 1-2 (quarta visione), dove si tratta della donna vestita di sole, che ha sul capo una corona di dodici stelle e tiene la luna sotto i piedi, cioè le cose temporali mutabili e ombrose, o la scienza mondana fredda e notturna. Spiega Gioacchino, nel V libro della Concordia, che si tratta di “una” donna designante un singolo ordine di contemplativi distinto in tre gradi: i più alti contemplativi (il sole), i prelati nei monasteri (che sono a capo, quasi stelle), i loro sottoposti (che vivono in perfetta disciplina, quasi luna sotto i piedi della donna). Olivi sottolinea come i contemplativi del quarto stato non lo furono tutti in modo uguale: alcuni di inferiore grado, assimilabili alla luna, si dedicarono alla vita attiva (prologo, Notabile XIII; Ap 8, 12).
La quarta bolgia, degli indovini, è segnata dalla prevalenza dei temi del quarto stato, per eccellenza dei contemplativi; ivi stanno quanti hanno ecceduto nella contemplazione (vollero “veder troppo davante”). Nel medesimo stato, i contemplativi sono diversi fra loro. Così si presentano gli indovini: dimorano (Aronte), si mutano e tornano alla precedente condizione (Tiresia), vanno via senza fare ritorno e poi si posano dopo molta vita attiva (Manto).
Fra i “bianchi marmi” di Luni ebbe dimora Aronte, l’aruspice etrusco che predisse le sciagure della guerra civile da cui sarebbe conseguita la vittoria di Cesare su Pompeo (Lucano, Pharsalia I, 584ss.; Inf. XX, 46-51). I versi “che ne’ monti di Luni  (per Lucano sono “moenia Lucae”), dove ronca / lo Carrarese che di sotto alberga” rendono l’immagine del cenobio di cui parla Gioacchino da Fiore, con i prelati, precipui contemplativi, assimilabili alle stelle (“onde a guardar le stelle / e ’l mar non li era la veduta tronca”), e i loro sottoposti dediti alla vita attiva, assimilati alla luna. Le “mura di Lucca”, di cui parla Lucano, si sono trasformate nei “monti di Luni”: la reminiscenza della Pharsalia concorda con la Lectura super Apocalipsim.
I monti designano sempre gli alti contemplativi, la sublimità di un modo di vivere arduo ma poco sostenibile dalla fragilità umana (cfr. l’esegesi di Ap 14, 1-5). Per questo, distrutti storicamente gli anacoreti d’Oriente dalle invasioni saracene, a partire da Carlo Magno fu dato un tipo di vita condescensivo per le grandi moltitudini. Così il quinto stato, che alla fine del XIII secolo concorre ancora con il sesto, già iniziato con Francesco, è per antonomasia lo stato della vita associata. All’arditezza solitaria subentra la pietosa costa da cui Dio creò Eva. Perciò nel Subasio “fertile costa d’alto monte pende”, e Cassino è “costa” del monte su cui Benedetto istituì il proprio cenobio (il santo di Norcia fu in qualche modo antesignano del quinto stato con la sua regola; cfr. supra). Ai monti sono pure assimilati i re, cioè le sette teste della bestia sulle quali siede la prostituta (Ap 17, 9), che sono anche tiranni (ad Ap 13, 1: “Sed nichilominus est dicendum quod principales tiranni sunt et vocantur capita bestie, sicut et episcopi, et precipue summi et universales, sunt capita ecclesie”). Non sorprenderà pertanto di ritrovare la distinzione tra quarto e quinto stato appropriata a Cesena: “E quella cu’ il Savio bagna il fianco, / così com’ ella sie’ tra ’l piano (quinto stato) e ’l monte (quarto stato), / tra tirannia si vive e stato franco” (Inf. XXVII, 52-54).
La diversità fra i contemplativi segna altri luoghi del poema. Nell’Inferno, si ritrova nella “diversa legge” imposta ai dannati nel sabbione sotto la pioggia di fuoco (bestemmiatori, sodomiti, usurai: rispettivamente giacciono, vanno “continuamente”, siedono). Oppure nelle “diverse biche” dei falsari, i quali, come nell’immagine di Gioacchino da Fiore, stanno in “chiostra” (giacciono – “qual sovra ’l ventre e qual sovra le spalle / l’un de l’altro” -, o si trasmutano carponi). Oppure nelle ombre della Giudecca, tutte coperte dal ghiaccio (giacciono, stanno erte con la testa o con le piante dei piedi in alto, stanno col volto incurvato all’indietro ad arco verso i piedi). Nel primo e nel secondo caso (Inf. XIV, XXIX) si tratta di zone a prevalenza tematica quarta (del quarto stato), nel terzo (Inf. XXXIV) si intrecciano temi del terzo e quarto stato.
Nel cielo di Saturno, dove si manifestano gli spiriti contemplanti, pregno della tematica del quarto stato, la similitudine delle “pole” a Par. XXI, 34-42 ne manifesta la diversità (“poi altre vanno via sanza ritorno, / altre rivolgon sé onde son mosse, / e altre roteando fan soggiorno”). Si suole addurre come fonte il De gratia contemplationis (Beniamin maior, I, 5) di Riccardo di San Vittore, che paragona i vari atteggiamenti dei contemplanti ai moti degli uccelli: “modo it atque redit, modo se quasi in gyrum flectit, modo autem se quasi ad unum colligit et quasi immobiliter figit”. Non è esclusa una lettura diretta da parte di Dante della fonte vittorina (cfr. Epistola XIII, 28), ma questa fonte, come tutte le altre, concorda con la Lectura. Il cielo delle stelle fisse è “di diversi volti” (Par. II, 64-66); i diversi contemplativi sono anche stelle fisse e solitarie. Altrove si è mostrato come la presenza di Riccardo di San Vittore nella Commedia derivi quasi interamente dalle citazioni contenute nella Lectura super Apocalipsim, proprio come avviene per Gioacchino da Fiore.
La Fortuna permuta senza posa “a tempo li ben vani / di gente in gente e d’uno in altro sangue” (Inf. VII, 79-84, 88), variante applicata agli “splendor mondani” della “mulier amicta sole”, la quale nel tenere sotto i piedi la luna conculca quanto è mondano (Ap 12, 1; cfr., ai vv. 64-66, le “anime stanche” degli avari affannate dietro a “tutto l’oro ch’è sotto la luna”). Nell’elencare le schiatte degli antichi alti Fiorentini volte in basso dalla Fortuna, assimilabili alle instabili generazioni del Vecchio Testamento delle quali parla Gioacchino da Fiore (nella citazione, ad Ap 12, 6, del secondo libro della Concordia), Cacciaguida usa l’immagine delle maree causate dal volgere del cielo della luna, che “cuopre e discuopre i liti sanza posa” (Par. XVI, 82-84; cfr. supra).
Nella profezia di Farinata, Proserpina, cioè la luna, è “la donna che qui regge” (Inf. X, 80). Una situazione inversa rispetto a quella della donna vestita di sole che tiene la luna sotto i piedi si verifica nell’espressione con cui Ulisse indica il trascorrere dei cinque mesi di navigazione dopo l’ingresso “ne l’alto passo”: cinque volte la luce del sole si era nuovamente accesa “di sotto da la luna” e altrettante spenta, il che allude alle continue mutazioni (la luna designa la sapienza mondana, propria di Ulisse); il sole sta “sotto” la luna e non viceversa (Inf. XXVI, 130-132). Un’altra presenza del tema è in Inf. XXIX, 10: “E già la luna è sotto i nostri piedi”. Queste parole, al di là del riferimento astronomico che indica come ora l’una o poco più dopo mezzogiorno, sono dette da Virgilio in un contesto in cui rimprovera Dante di soffermarsi troppo a guardare le ombre tristi e smozzicate dei seminatori di scandalo e di scisma: potrebbero pertanto essere intese come un invito a conculcare e a disprezzare quanto è inutile guardare, visto il poco tempo ancora concesso e le altre cose che restano da vedere. Attraverso il “breve pertugio” della Muda, il conte Ugolino vede “più lune”: il nome della torre dei Gualandi, che è quello del luogo freddo e oscuro dove gli uccelli vanno a mudare, cioè a cambiare le penne, concorda con la mutabilità della luna (Inf. XXXIII, 22-27).
Il secondo sogno di Dante nell’ascesa della montagna, descritto in apertura di Purg. XIX, avviene poco prima del sorgere del sole, nell’ora in cui il “freddo de la luna” non può più essere intiepidito dal calore della terra (cfr. la situazione inversa delle “pole” a Par. XXI, 34-36, le quali “insieme, al cominciar del giorno, / si movono a scaldar le fredde piume”). È l’ora nella quale i geomanti vedono sorgere a oriente “lor Maggior Fortuna”, un gruppo di stelle utile alle predizioni, ma solo per il poco tempo nel quale l’orizzonte rimane ancora scuro. Alla sapienza mondana e instabile dei geomanti corrisponde l’oggetto del sogno del poeta, la “femmina balba”, simbolo dei beni temporali che distolgono l’uomo dall’amore del bene supremo. La “donna santa e presta”, che nel sogno del poeta rende confusa la “femmina balba” attraverso Virgilio, è figura della “mulier amicta sole et luna sub pedibus eius” : “una mulier”, come si afferma nell’esegesi – “una donna”, come scritto nei versi. Virgilio, nello spiegare il significato della “dolce serena”, invita Dante a battere “a terra le calcagne”, ossia a conculcare e disprezzare mettendo sotto i piedi le cose mondane (l’episodio è stato discusso in Lectura Dantis, Inferno XXVI, Appendice II).
Sublimazione del tema del tenere la luna mondana sotto i piedi è a Par. XXII, 124ss., allorché Beatrice, nel segno dei Gemelli, invita Dante a riguardare in basso: “rimira in giù, e vedi quanto mondo / sotto li piedi già esser ti fei”. Il poeta ritorna “col viso … per tutte quante le sette spere”, sorridendo del “vil sembiante” di “questo globo”, cioè della terra (cfr. il passo di Ap 10, 1, simmetrico ad Ap 12, 1). Allora però vede la Luna – “la figlia di Latona” – illuminata senza quell’ombra (l’ombra della vecchia legge) che era stata la causa per cui aveva creduto, con Averroè, che le sue macchie fossero originate dal raro e dal denso della materia. Il passo (congiunto con il trionfo delle schiere di Cristo descritto nel canto seguente) è fortemente segnato dal tema iniziale della Lectura, da Isaia 30, 26, per cui la luce della luna è come quella sole.
La contemplazione (corrispondente al senso anagogico) viene resa con l’immagine dell’aquila: “in aquila (accipiamus) contemplatione suspensos”, si dice infatti nell’esegesi di Ap 4, 7-8, citando Gioacchino da Fiore (Expositio, pars II, f. 108rb) a proposito dei quattro esseri viventi che circondano la sede divina: leone, bue o vitello, uomo, aquila. Di qui il valore equivoco dell’essere “sospesi”, che designa sì lo stato di coloro che, nel Limbo, vivono in eterno nel desiderio di Dio senza speranza di appagamento, ma pure lo stato di chi, contemplando, è capace di vedere più degli altri. Il volare di Omero sopra gli altri fa riferimento all’esegesi della quarta tromba (il quarto stato è per antonomasia quello dei contemplativi): si tratta di un’altra citazione di Gioacchino da Fiore (Expositio, pars III, f. 130rb), relativa a Gregorio Magno che molto scrisse sulla fine del mondo e che seppe meglio di chiunque percorrere i sentieri dell’allegoria, “ardue vie del cielo” (Ap 8, 13): “quique allegoriarum semitas ac si arduas celi vias altius pre ceteris prevolavit … che sovra li altri com’ aquila vola” (Inf. IV, 96).

 

Tab. VII. 1

[LSA, cap. XII, Ap 12, 6 (IVa visio)] Quare autem quadraginta duas generationes a Christo usque ad tempora ista dicit (Ioachim) esse tricenari<as> ostendit libro II°, dicens quod novum testamentum differt a veteri sicut sol a luna, et ideo generationes veteris testamenti ad modum lune crescentis et decrescentis cucurrerunt per dissimiles annos. In novo autem debuerunt esse stabiles sicut sol, quia Christus est sol iustitie qui regnat in populo christiano*.

Concordia, II 1, c. 20; Patschovsky 2, p. 102, 4-8.

Par. XVI, 82-93

E come ’l volger del ciel de la  luna
cuopre e discuopre i liti sanza posa
,

così fa di Fiorenza la Fortuna:
per che non dee parer mirabil cosa
ciò ch’io dirò de li alti Fiorentini
onde è la fama nel tempo nascosa.
Io vidi li Ughi e vidi i Catellini,
Filippi, Greci, Ormanni e Alberichi,
già nel calare, illustri cittadini;
e vidi così grandi come antichi,
con quel de la Sannella, quel de l’Arca,
e Soldanieri e Ardinghi e Bostichi.

[LSA, cap. XII, Ap 12, 1-2 (IVa visio, radicalia)] Generalis etiam ecclesia, et precipue illa que instar Virginis est per perfectionem evangelicam “sole”, id est solari sapientia et caritate et contemplatione maiestatis Christi, vestita, et “lunam”, id est temporalia instar lune mutabilia et de se umbrosa, et figuralem corticem legis et sinagoge, ac mundanam scientiam et prudentiam instar lune mutabilem et nocturnam et frigidam seu infri-gidativam, tenens “sub pedibus”, id est partim eam spernens et conculcans et partim suo famulatui eam subiciens, et vitam ac precellentiam duodecim apostolorum habens quasi “coronam duodecim stellarum in” suo “capite”, id est in suo initio et supremo […].
Secundum autem Ioachim, libro V° Concordie, ubi tangit misterium operis quarte diei, scilicet solis et lune et stellarum, applicans hoc ad quartum statum ecclesie dicit quod una mulier amicta sole cum luna et stellis unum designat ordinem contemplantium tripertita varietate distinctum. Cuius caput sunt prelati monachorum quasi stelle, que in capite emicant mulieris, quia Christi locum tenent in cenobiis. Pedes vero sunt monachi eis subiecti, qui sub eorum disciplina perfecte et regulariter vivunt, in quo lune perfecte sub pedibus mulieris stantis similitudinem servant. Contemplatoribus autem pre-cipuis ascribitur sol *.

* Concordia, V 1, c. 12; Patschovsky 3, pp. 553, 7-554, 3.

[LSA, prologus, Notabile XIII] In quarto vero (statu) fulxerunt anachorite in celo, id est in vita celesti, quasi luminaria celi, quorum patres fuerunt sicut sol, multitudo vero fuit <sicut> stelle in locis suis fixe et solitarie, quidam vero activi et inferiores fuerunt sicut  luna (cfr. Gn 1, 14-19).

[LSA, cap. VIII, Ap 8, 12 (IIIa visio, IVa tuba)] Per “solem” videtur hic designari solaris vita et contemplatio summorum anachoritarum, qui fuerunt patres et exempla aliorum, vel solaris sapientia et doctrina summorum doctorum.
Per “lunam” vero, regularis congregatio conven-tualium quarti temporis a sole predicto illuminata.
Per “stellas” vero, quidam singulares et alti et solitarii anachorite.
In quolibet autem istorum fuit duplex pars bona et tertia mala, quia in quolibet predictorum fuerunt boni maiores et minores. Non enim omnes patres anachoritarum fuerunt equales, nec omnes subditi, nec omnes solitarii, qui proprie non fuerunt aliorum patres vel subditi.

Riccardo di San Vittore, De gratia contem-plationis (Benjamin major), I, 5 (PL 196, col. 68 C-D): Sed cum perspicax ille comtemplationis radius semper ex admirationis magnitudine juxta aliquid suspendatur, non tamen uno modo semper nec uniformiter id agitur. Nam vivacitas illa intelligentiae in contemplantis animo mira agilitate modo it atque redit, modo se quasi in gyrum flectit, modo autem se quasi ad unum colligit, et quasi immobiliter figit. Hujus sane rei formam si recte perpendimus, in coeli volatilibus quotidie videmus.

Inf. VII, 64-66, 73-84, 88-90

ché tutto l’oro ch’è sotto la luna
e che già fu, di quest’ anime stanche

non poterebbe farne posare una.

Colui lo cui saver tutto trascende,
fece li cieli e diè lor chi conduce
sì, ch’ogne parte ad ogne parte splende,
distribuendo igualmente la luce.
Similemente a li splendor mondani
ordinò general ministra e duce
che permutasse a tempo li ben vani
di gente in gente e d’uno in altro sangue,
oltre la difension d’i senni umani;
per ch’una gente impera e l’altra  langue,
seguendo lo giudicio di costei,
che è occulto come in erba l’angue.

Le sue permutazion non hanno triegue:
necessità la fa esser veloce;
sì spesso vien chi vicenda consegue.

Inf.  X, 79-81

Ma non cinquanta volte fia raccesa
la faccia de la donna che qui regge,
che tu saprai quanto quell’ arte pesa. 

Inf. XIV, 19-27

D’anime nude vidi molte gregge
che piangean tutte assai miseramente,
e parea posta lor diversa legge.
Supin giacea in terra alcuna gente,
alcuna si sedea tutta raccolta,
e altra andava continüamente.
Quella che giva ’ntorno era più molta,
e quella men che giacëa al tormento,
ma più al duolo avea la lingua sciolta.

Inf. XXVI, 130-132

Cinque volte racceso e tante casso
lo lume era di sotto da la luna,
poi che ’intrati eravam ne l’alto passo

Inf. XXXIII, 22-27

Breve pertugio dentro da la Muda,
la qual per me ha ’l titol de la fame,
e che conviene ancor ch’altrui si chiuda,
m’avea mostrato per lo suo forame
più lune già, quand’ io feci ’l mal sonno
che del futuro mi squarciò ’l velame.

Inf. XXXIV, 10-15

Già era, e con paura il metto in metro,
là dove l’ombre tutte eran coperte,
e trasparien come festuca in vetro.
Altre sono a giacere; altre stanno erte,
quella col capo e quella con le piante;
altra, com’ arco, il volto a’ piè rinverte.

Purg. XIX, 1-6, 25-30

Ne l’ora che non può ’l calor dïurno
intepidar più ’l freddo de la luna,
vinto da terra, e talor da Saturno
– quando i geomanti lor Maggior Fortuna
veggion in orïente, innanzi a l’alba,
surger per via che poco le sta bruna –

Ancor non era sua bocca richiusa,
quand’ una donna apparve santa e presta
lunghesso me per far colei confusa.
“O Virgilio, Virgilio, chi è questa?”,
fieramente dicea; ed el venìa
con li occhi fitti pur in quella onesta.

Purg. IV, 49-51

Sì mi spronaron le parole sue,
ch’i’ mi sforzai carpando appresso lui,
tanto che ’l cinghio sotto i piè mi fue.

Par. II, 64-66

La spera ottava vi dimostra molti
lumi, li quali e nel quale e nel quanto
notar si posson di diversi volti.

Inf. XX, 40-57, 124-129

Vedi Tiresia, che mutò sembiante
quando di maschio femmina divenne,

cangiandosi le membra tutte quante;
e prima, poi, ribatter  li convenne
li duo serpenti avvolti, con la verga,
che rïavesse le maschili penne.
Aronta è quel ch’al ventre li s’atterga,
che ne’ monti di Luni, dove ronca
lo Carrarese che di sotto alberga,
ebbe tra  bianchi marmi la spelonca 
per sua dimora; onde a guardar le stelle
e ’l mar non li era la veduta tronca.

E quella che ricuopre le mammelle,  1, 13
che tu non vedi, con le trecce sciolte,
e ha di là ogne pilosa pelle,
Manto fu, che cercò per terre molte;
poscia si puose là dove nacqu’ io;
onde un poco mi piace che m’ascolte.

Ma vienne omai, ché già tiene ’l confine
d’amendue li emisperi e tocca l’onda
sotto Sobilia Caino e le spine;
e già iernotte fu la luna tonda:
ben ten de’ ricordar, ché non ti nocque
alcuna volta per la selva fonda.

Inf. XXIX, 10-12, 40-42, 64-69

E già la luna è sotto i nostri piedi;
lo tempo è poco omai che n’è concesso,
e altro è da veder che tu non vedi.

Quando noi fummo sor l’ultima chiostra
di Malebolge, sì che i suoi conversi

potean parere a la veduta nostra

si ristorar di seme di formiche;
ch’era a veder per quella oscura valle
languir li spirti per diverse biche.
Qual sovra ’l ventre e qual sovra le spalle
l’un de l’altro giacea, e qual carpone
si trasmutava per lo tristo calle.

Par. XXI, 34-42

E come, per lo natural costume,
le pole insieme, al cominciar del giorno,
si movono a scaldar le fredde piume;
poi altre  vanno via sanza ritorno,
altre  rivolgon sé onde son mosse,
e altre  roteando fan soggiorno;
tal modo parve me che quivi fosse
in quello sfavillar che ’nsieme venne,
sì come in certo grado si percosse.

Par. XXII, 124-141

“Tu se’ sì presso a l’ultima salute”,
cominciò Bëatrice, “che tu dei
aver le luci tue chiare e acute;
e però, prima che tu più t’inlei,
rimira in giù, e vedi quanto mondo
sotto li piedi già esser ti fei;

sì che ’l tuo cor, quantunque può, giocondo
s’appresenti a la turba trïunfante
che lieta vien per questo etera tondo”.
Col viso ritornai per tutte quante
le sette spere, e vidi questo globo
tal, ch’io sorrisi del suo vil sembiante;
e quel consiglio per migliore approbo
che l’ha per meno; e chi ad altro pensa
chiamar si puote veramente probo.
Vidi la figlia di Latona incensa             Is 30, 26
sanza quell’ ombra che mi fu cagione
per che già la credetti rara e densa.

[LSA, cap. X, Ap 10, 2 (IIIa visio, VIa tuba)] Et nota quod hic angelus non posuit supra se mare et terram, sed potius sub pedibus suis, quia per altissimam paupertatem et austeritatem et humilitatem omnes mundanas divitias et honores et delicias sub suis pedibus conculcavit, nullique adulatorie aut pro mundano questu se carnaliter seu viliter subdens.


8.
La quarta guerra (Ap 12, 13-16)

La terza e la quarta guerra vengono da Olivi trattate congiuntamente (a differenza di Gioacchino da Fiore), in quanto si tratta di due stati della Chiesa concorrenti. La parte principale dell’esegesi riguarda l’espressione “(un) tempo, (due) tempi e la metà di un tempo” (Ap 12, 14), fortemente influenzata da Gioacchino, è stata trattata altrove, come pure l’importante citazione dal libro V della Concordia che la conclude.
La guerra è condotta contro la donna (la Chiesa), fuggita nel deserto dei Gentili dal drago che voleva divorarne il figlio, dove rimane per 1260 anni, un periodo corrispondente all’espressione “tempo, tempi e la metà di un tempo” (Ap 12, 3-6). Alla donna sono date due ali di una grande aquila (Ap 12, 14), cioè la dottrina dei dottori del terzo stato e la devota vita dei contemplativi del quarto, due stati di solare sapienza, interpretati da Olivi anche come intelletto e affetto, Impero e Papato. Ad Ap 12, 15 viene specificato il modo della persecuzione: “Allora il serpente emise dalla sua bocca come un fiume d’acqua dietro alla donna, per farla travolgere dalle acque”. Con l’acqua serpentina viene indicata la dottrina erronea (nella terza guerra diretta contro la sincera e sana dottrina dei santi dottori) e anche la copiosa e voluttuosa affluenza dei beni temporali (nella quarta guerra condotta contro l’austera e povera vita dei santi anacoreti).
Secondo Gioacchino da Fiore, la violenta acqua del fiume non designa in generale le eresie, perché non tutte operarono con violenza, ma in modo specifico la perfidia ariana, la quale tramite imperatori e re perseguitò atrocemente la Chiesa. Così non tutti i beni temporali necessari al sostentamento arrecarono violenza come i possessi, le città, i castelli e i beni preziosi che con Costantino cominciarono a essere dati in offerta alla Chiesa. Poiché il diavolo effuse dolosamente il veleno dell’errore e l’abbondanza delle ricchezze sotto l’apparenza del vero e del bene e quasi fossero in ossequio della Chiesa, per la dottrina della fede e del culto divino, viene detto che il serpente emise il fiume non dinanzi ma dietro alla donna. Lo stare dietro dell’acqua indica anche che il diavolo non poté impedire che quanto essa portava venisse disprezzato dalla santa Chiesa, come cosa che sta dietro e che si lascia dietro le spalle.
“Ma la terra venne in aiuto della donna, aprì la sua bocca e inghiottì il fiume” (Ap 12, 16). Secondo Gioacchino da Fiore, la terra designa il complesso degli uomini peccatori i quali, assorbendo le eresie o i beni temporali, aiutarono la Chiesa in quanto i buoni, di fronte alle gravi cadute dei reprobi, divennero più discreti, cauti e zelanti: la caduta di alcuni scuote infatti di timore gli altri, che cercano di evitare di cadere nella medesima colpa di cui i reprobi sono accusati.
Secondo Riccardo di San Vittore, la moltitudine terrena di quanti assorbono le tentazioni del diavolo aiutò la Chiesa come un dolce fiume, perché il diavolo, impegnato a tentare, attrarre e conservare a sé quella moltitudine, poté dedicarsi meno a tentare gli eletti.
Oppure, sempre secondo Riccardo, l’unione di quanti sono perfetti e stabili nella fede è la terra umile e solida che prega all’unisono contro le tentazioni del diavolo e così con la bocca quasi assorbe o distrugge il fiume.
Olivi aggiunge che se il fiume viene interpretato come l’abbondanza dei beni temporali, allora la terra, cioè gli avari e i cupidi di cose terrene, aiutò la Chiesa perché a causa dell’avarizia diminuì l’offerta di beni e di conseguenza si ridusse il loro possesso. Se il fiume viene interpretato come la dottrina erronea, la terra fu di aiuto in quanto la Chiesa, accortasi che il fiume dell’errore veniva inghiottito solo dai terrestri assai lontani dal cielo e dalla sapienza e dalla vita celeste, fu assai aiutata ad aborrire tale fiume, il cui bere rendeva aridi, terreni, idropici, inflati, lebbrosi e fedi.
Il diavolo che effonde dolosamente l’abbondanza delle ricchezze, sotto l’apparenza del vero e del bene e quasi fossero in ossequio della Chiesa, per la dottrina della fede e del culto divino, è tema che ritorna due volte nel poema a proposito della donazione costantiniana: nella piuma lasciata dall’Aquila che soffoca il carro-Chiesa militante, “offerta / forse con intenzion sana e benigna” (Purg. XXXII, 137-138), e nella “buona intenzion che fé mal frutto”, per cui l’Aquila giustifica la salvezza di Costantino, nonostante il male dedotto dal suo bene operare abbia distrutto il mondo (Par. XX, 55-60). Sulla donazione costantiniana Olivi non concorda del tutto con Gioacchino da Fiore, in quanto nel Notabile VII del prologo della Lectura ritiene utile e ragionevole la condizione temporale della Chiesa a partire da Costantino, dopo il periodo iniziale, apostolico e subapostolico, di povertà (in attesa del ritorno alle origini nel sesto stato): “[…] pontificatus Christi fuit primo stirpi vite evangelice et apostolice in Petro et apostolis datus, ac deinde utiliter et rationabiliter fuit ad statum habentem temporalia commutatus, saltem a tempore Constantini usque ad finem quinti status”. Dante è, come noto, di tutt’altro avviso, che si rispecchia nella citazione di Gioacchino.
Delle varie interpretazioni offerte dall’esegesi di Ap 12, 16 – la terra che venne in aiuto della donna aprendo la bocca e inghiottendo il fiume – la traccia più evidente sta nell’atto di Virgilio che, di fronte alle bocche aperte di Cerbero, “distese le sue spanne, / prese la terra, e con piene le pugna / la gittò dentro a le bramose canne”: al gesto le facce lorde del demonio si racquetano come quella di un cane tutto inteso e affaticato nel divorare il pasto per il quale ha prima abbaiato (Inf. VI, 25-33). Il gesto di Virgilio riecheggia certo quello della Sibilla che getta nelle gole di Cerbero una focaccia soporifera (Aen. VI, 417-425), ma il prendere la terra da parte del poeta pagano e la similitudine del cane sono immagini che trasformano in poesia l’interpretazione data da Riccardo di San Vittore, secondo il quale la terra, cioè la moltitudine terrena di quanti assorbono le tentazioni, aiutò la Chiesa perché il diavolo, impegnato a tentare, ad attrarre e conservare a sé quella moltitudine poté dedicarsi meno a tentare gli eletti, che nel caso sono Virgilio e Dante. Virgilio si aiuta con la stessa terra nauseabonda (che “pute”; la terra è umile, dunque ‘soffre’: cfr. Purg. V, 119-120) la quale assorbe la pioggia che percuote i golosi (un esame più approfondito è in Dante all’«alta guerra» tra latino e volgare, 2. 10). I golosi sono topograficamente collocati nella zona dedicata al terzo stato nel primo dei cinque cicli settenari dell’Inferno.
L’altra interpretazione, quella di Gioacchino da Fiore, per cui la terra designa i peccatori che aiutarono la Chiesa poiché i buoni, di fronte alla loro grave caduta, furono scossi da timore nell’evitare di cadere nella medesima colpa, si trova nello stare di Dante “come l’uom che teme” dopo aver fatto cadere la scheggia rotta dal gran pruno che incarcera Pier della Vigna, dalla quale escono insieme parole e sangue (Inf. XIII, 43-45). Anche in questo caso c’è una presenza virgiliana – il “frigidus horror” provato da Enea nell’episodio di Polidoro (Aen. III, 29-30, 47-48) -; il tema della terra che aiuta è utilizzato nei suoi sviluppi esegetici, non però nel nucleo scritturale, non essendoci nei versi alcun riferimento alla terra o all’aiutare. I suicidi sono topograficamente collocati nella zona dedicata al terzo stato nel secondo dei cinque cicli settenari dell’Inferno.
Secondo Riccardo di San Vittore, l’unione di quanti sono perfetti e stabili nella fede è la terra umile e solida che prega all’unisono contro le tentazioni del diavolo e così con la bocca quasi assorbe o distrugge il fiume. Questa interpretazione del Vittorino è vestita con l’immagine della Terra che devota prega perché Giove intervenga sul carro del Sole ‘sviato’ da Fetonte (fattosi ‘eretico’, Purg. XXIX, 119). E non solo di eresia si tratta, perché la quarta guerra è condotta per mezzo delle ricchezze: le due guerre si rispecchieranno, tre canti più avanti, nella volpe e nella “piuma” lasciata dall’aquila al carro della Chiesa, “offerta / forse con intenzion sana e benigna” (Purg. XXXII, 118-120, 124-129, 137-138).
L’aiutare da parte della terra potrebbe pure ritrovarsi nel gridare “Buon Vulcano, aiuta, aiuta!” da parte di Giove impegnato nella battaglia di Flegra contro i giganti i quali, come i Ciclopi che lavoravano “in Mongibello a la focina negra”, erano “figli della terra” (Inf. XIV, 57; cfr. XXXI, 121). La terra ‘aiutò’ il cielo non inviando Anteo ai campi di Flegra, come ricordato da Lucano (Phars. IV, 596-597).
Il motivo della terra che aiuta la Chiesa degli eletti, “quasi dulce flumen”, conduce alle parole di Manfredi sul proprio corpo trasmutato “a lume spento”, per l’eccesso di zelo da parte del vescovo di Cosenza verso un morto scomunicato, dall’originaria sepoltura: “l’ossa del corpo mio sarieno ancora / in co del ponte presso a Benevento, / sotto la guardia de la grave mora. / Or le bagna la pioggia e move il vento / di fuor dal regno, quasi lungo ’l Verde” (Purg. III, 124-132; l’incontro con Manfredi si colloca nella prima delle due zone del Purgatorio in cui prevalgono i temi del terzo stato). Al di là della sua identificazione geografica, il “Verde” allude al colore verde, graziosissimo agli eletti, che nel quarto capitolo è tema della sede, circondata dall’iride simile allo smeraldo, su cui siede Dio dall’aspetto di pietra di diaspro (Ap 4, 3). L’inciso “quasi lungo ’l Verde”, dopo il riferimento alle ossa bagnate dalla pioggia e mosse dal vento, sembra posto a contrastare gli effetti di una dannazione voluta dal papa e dal vescovo ma non dalla misericordia divina. Il nome del fiume anticipa pertanto il motivo della celebre terzina seguente, in cui lo svevo afferma che la scomunica dei pastori non impedisce il ritorno dell’ “etterno amore, / mentre che la speranza ha fior del verde”.

[L’esame ‘spirituale’ di questi celebri versi richiede una trattazione a parte. Il “beatus qui legit ” (Ap 1, 3) spetta ai chierici, ma il vescovo di Cosenza non l’ha messo in pratica nei confronti dello scomunicato Manfredi: “Se ’l pastor di Cosenza, che a la caccia / di me fu messo per Clemente allora, / avesse in Dio ben letta questa faccia” (Purg. III, 124-126).
Il tema di Cristo “caput anguli et lapis angularis” è nelle parole dello svevo: “l’ossa del corpo mio sarieno ancora / in co del ponte presso a Benevento, / sotto la guardia de la grave mora” (vv. 127-129). Gli angoli delle dodici porte della Gerusalemme celeste (Ap 21, 12) designano la forza, perché nelle case le pareti si congiungono agli angoli. In tal senso si dice di Cristo che è pietra angolare, oppure in Zaccaria si afferma la futura forza del vittorioso regno di Giuda definendolo angolo, palo e arco (“archus prelii”), cioè capace di sostenere (Zc 10, 4). Una variazione del tema è in Virgilio, allorché nella bolgia dei barattieri (la quinta) passa “di là dal co del ponte” (l’ “archus prelii”) per ‘congiungersi’ con la “ripa sesta”, cioè con l’argine fra la quinta e la sesta bolgia, dove viene con successo alla “baratta” coi Malebranche (Inf. XXI, 64-66).
Per “mora” si intende letteralmente il coacervo di pietre gettate dai soldati nemici che coprì la sepoltura dello sconfitto svevo, secondo quanto narrato dal Villani. Spiritualmente, l’espressione “sotto la guardia” contiene un tema dall’apertura del quinto sigillo (Ap 6, 9.11), allorché ai santi del quinto stato viene detto di aspettare ancora per poco tempo perché il numero degli eletti non è completo secondo quanto stabilito dall’eterna predestinazione divina. Nell’attesa, “le anime di coloro che furono uccisi” stanno “sotto” l’altare di Dio. Non si intendono solo le anime dei primi martiri, ma anche di quanti con forte penitenza crocifissero e uccisero i vizi e le concupiscenze della carne. Manfredi intende dire che, dopo il pentimento estremo, il suo corpo sarebbe rimasto nell’attesa (“mora”) della gloria futura sotto la protezione di Cristo. Ma altro è stato il governo delle sue ossa fatto dal vescovo di Cosenza.
“Or le bagna la pioggia e move il vento” (v. 130). La pioggia non è quella “sì spiacente” che batte in eterno Ciacco, è piuttosto un lavacro purgativo. Il vento che muove sembra essere quello dello Spirito, di cui parla Ezechiele citato ad Ap 7, 1: “A quattuor ventis veni, spiritus, et insuffla super interfectos istos et reviviscant” (Ez 37, 9).]

Tab. VIII.1

[LSA, cap. XII, Ap 12, 13.15-16 (IVa visio, IIIIVum prelium)] Sequitur de tertio prelio, in quo diabolus contra ecclesiam effudit flumina errorum seu heresum, et etiam de quarto, in quo ad eam submergendam effudit flumina temporalium divitiarum. Unde subdit: “Et postquam vidit dracho quod proiectus esset in terram, persecutus est mulierem que peperit masculum” (Ap 12, 13). […] Deinde subditur modus quo diabolus tunc persecutus est eam, cum subditur: “Et misit serpens ex ore suo post mulierem aquam tamquam flumen, ut eam faceret trahi a flumine” (Ap 12, 15). Per aquam serpentinam designatur hic doctrina erronea, et etiam temporalium copiosa et voluptuosa affluentia. Primum autem est directius contra sinceram et sanam doctrinam sanctorum doctorum, secundum autem contra austeram et pauperem vitam sanctorum anachoritarum. Secundum autem Ioachim, quia aqua fluminis est violenta, non omnes autem heretici violentiam in sanctam ecclesiam facere potuerunt; ideo hic proprie per aquam fluminis designatur Arrianorum perfidia*, que habens multos imperatores et reges et regna maxima[m] atrocis persecutionis violentiam intulit ecclesie Dei. Sic etiam non quecumque temporalia ad victum necessaria inferunt talem violentiam sicut faciunt ample possessiones et urbes et castra et multa ac pretiosa mobilia, que utique a tempore Constantini ceperunt ecclesie offerri et dari. Quia vero sub quadam specie veri et boni, et quasi in obsequium ecclesie quoad doctrinam fidei et quoad cultum Dei, diabolus latenter et dolose effudit venenum errorum et multorum vitiorum copie temporalium annexorum, ideo non dicitur serpens misisse flumen ante faciem mulieris, sed post mulierem. Dicitur etiam hoc quia non potuit diabolus facere quin a sancta ecclesia spernerentur, quasi posteriora et quasi post tergum reiecta.
Sequitur: “Et adiuvit terra mulierem et aperuit os suum et absorbuit flumen” et cetera (Ap 12, 16). Secundum Ioachim, per terram designatur hic collectio hominum peccatorum, qui absorbendo hereses vel voluptates iuverunt pro tanto ecclesiam pro quanto plurimi errores et lapsus fortius et discretius caventur a bonis, quia enormes casus reproborum ipsos attonitos reddiderunt et cautos et etiam magis zelantes contra malignam et confusibilem enormitatem casus eorum. In alterius enim casu sepe alius timore concutitur et quod arguit in altero in se devitare festinat**.
Vel, secundum Ricardum, terrestris multitudo absorbentium temptationes diaboli quasi dulce flumen iuvit in hoc ecclesiam sanctorum, quia diabolus ex hoc plus habuit vacare illi multitudini temptande et trahende et sub se conservande, ac per consequens minus potuit vacare ad temptandum electos.
Vel, secundum eundem, collectio perfectorum et in fide stabilium est terra humilis et solida que, cum contra temptationes diaboli unanimiter orat, quasi ore absorbet seu destruit flumen, dum orando vincit temptationes*.
Vel, prout flumen sumitur pro copia temporalium, “terra”, id est avari et terrenorum cupidi, absorbendo et sibi vindicando terrena iuverunt ecclesiam sanctorum quia propter illorum avaritiam minorata est oblatio temporalium et etiam prior possessio temporalium sibi data, et sic non potuit ita faciliter absorberi a flumine temporalium.
Sumendo vero flumen serpentis pro doctrina erronea, iuvit terra ecclesiam quia ex hoc quod ecclesia vidit quod a solis terrestribus valde elongatis a celo et a sapientia et vita celesti absorbebatur flumen errorum, fuit ecclesia valde adiuta ad abhominandum tale flumen, et etiam ex hoc quod vidit quod potatio talis fluminis reddidit eos aridos et terrestres et ydropicos et inflatos ac leprosos et fedos.

* Expositio, pars IV, distinctio III, f. 161va.

** Ibid., f. 161vb.

* In Ap IV, iii (PL 196, col. 803 C).

Purg. XXXII, 136-141; Par. XX, 55-57

Quel che rimase, come da gramigna
vivace terra, da la piuma, offerta
forse con intenzion sana e benigna,
si ricoperse, e funne ricoperta
e l’una e l’altra rota e ’l temo, in tanto
che più tiene un sospir la bocca aperta.

L’altro che segue, con le leggi e meco,
sotto buona intenzion che fé mal frutto,
per cedere al pastor si fece greco

Purg. V, 118-120

sì che ’l pregno aere in acqua si converse;
la pioggia cadde, e a’ fossati venne
di lei ciò che la terra non sofferse

[LSA, cap. IV, Ap 4, 6 (radix IIe visionis)] “Et in medio sedis et in circuitu sedis quattuor animalia” (Ap 4, 6). Per hec quattuor animalia anagogice designantur quattuor perfectiones Dei, quibus sustentant totam sedem ecclesie triumphantis et militantis, scilicet omnipotentia magnanimis et insuperabilis, quasi leo; et patientia seu sufferentia humilis omnium defectus quantum decet subportans et tolerans, quasi bos sub iugo vel curru; et prudentia rationalis omnia discrete et mansuete regens et moderans, quasi homo; et perspicacia altivola omniumque visiva et penetrativa et diiudicativa, quasi aquila.

Purg. XXIX, 118-120

quel del Sol che, svïando, fu combusto
per l’orazion de la Terra devota,
quando fu Giove arcanamente giusto.

Inf. VI, 10-12, 25-33

Grandine grossa, acqua tinta e neve
per l’aere tenebroso si riversa;
pute la terra che questo riceve.

E ’l duca mio distese le sue spanne,
prese la terra, e con piene le pugna
la gittò dentro a le bramose canne.
Qual è quel cane ch’abbaiando agogna,
e si racqueta poi che ’l pasto morde,
ché solo a divorarlo intende e pugna
,
cotai si fecer quelle facce lorde
de lo demonio Cerbero, che ’ntrona
l’anime sì, ch’esser vorrebber sorde.

Inf. XIII, 43-45

sì de la scheggia rotta usciva insieme             6, 5
parole e sangue; ond’ io lasciai la cima
cadere, e stetti come l’uom che teme.           Not. I

Inf. XIV, 55-57; XXXI, 119-121

o s’elli stanchi li altri a muta a muta
in Mongibello a la focina negra,
chiamando “Buon Vulcano, aiuta, aiuta!”

e che, se fossi stato a l’alta guerra
de’ tuoi fratelli, ancor par che si creda
ch’avrebber vinto i figli de la terra

Purg. III, 124-132

Se ’l pastor di Cosenza, che a la caccia
di me fu messo per Clemente allora,
avesse in Dio ben letta questa faccia,  1, 3
l’ossa del corpo mio sarieno ancora
in co del ponte presso a Benevento,
sotto la guardia de la grave mora.
Or le bagna la pioggia e move il vento
di fuor dal regno, quasi lungo ’l Verde,
dov’ e’ le trasmutò a lume spento.


9.
Appendice: la terza coppa (Ap 16, 4-7)

 

Le citazioni di Gioacchino da Fiore nell’esegesi oliviana riferita al terzo stato sono assai rade, con l’eccezione della terza coppa, che qui viene esaminata.
Nella quinta visione, si dice che il terzo angelo versò la coppa sopra i fiumi e sopra le fonti delle acque (Ap 16, 4), cioè sopra la dottrina erronea degli eretici, da essi bevuta come dolce acqua e agli altri propinata. L’effusione avvenne sia attraverso la riprovazione, sia attraverso l’anatema e l’esclusione dalla comunione cattolica. “E fu fatto sangue”, cioè la dottrina eretica si palesò mortifera, crudele e abominevole. Gli eretici, con questa piaga, versarono il sangue di molti cattolici. Molto fu anche il sangue degli eretici sparso ad opera degli imperatori e dei principi cattolici e di alcune nazioni gentili.
Il tema del farsi sangue appare nel verso “da che fatto fu poi di sangue bruno”, relativo al ramoscello del “gran pruno” che incarcera Pier della Vigna, strappato da Dante (Inf. XIII, 34), ed entra anche nell’espressione di Ciacco “Dopo lunga tencione / verranno al sangue”, riferita alle due fazioni fiorentine dei Neri e dei Bianchi (Inf. VI, 64-65; un passo simmetrico è ad Ap 16, 3, in relazione al versamento della seconda coppa). Sangue e piaghe indicibili sono viste dal poeta nella nona bolgia dei seminatori di scandalo e di scisma (Inf. XXVIII, 1-3). Qui (ibid., 76-90) Pier da Medicina profetizza l’assassinio di Guido del Cassero e Angiolello di Carignano – i “due miglior da Fano” – da parte di Malatestino da Rimini: per tradimento di questo “tiranno fello”, i due saranno “mazzerati presso a la Cattolica”, gettati cioè in mare legati in un sacco con una pietra grande. Poiché tutto il canto è una variazione dei temi del terzo stato, anche il riferimento geografico “presso a la Cattolica” concorda con il tema del sangue “cattolico” versato dagli eretici. Il crudele Malatestino, d’altronde, è “quel traditor che vede pur con l’uno”, e in questo suo essere monocolo si apparenta, ancorché in vita, a Pier da Medicina che ha una sola orecchia, rimembranza dell’eresia eutichiana (cfr. Il terzo stato. La ragione contro l’errore, PDF, p. 91). Al Mosca “ ’l sangue facea la faccia sozza” (“et factus est sanguis”), come al versamento della terza coppa (ibid., 105).
L’acqua e il sangue sono giustapposti da Beatrice, allorché riprende i “pensier vani” di Dante, definiti “acqua d’Elsa”, cioè impietriti, che recano un piacere che è “un Piramo a la gelsa”, cioè oscuro come il sangue (Purg. XXXIII, 67-69).
Il motivo dei fiumi e delle fonti percorre tutto Par. IX: “In quella parte de la terra prava / italica che siede tra Rïalto / e le fontane di Brenta e di Piava” (il Trentino e il Cadore, vv. 25-27); “E ciò non pensa la turba presente / che Tagliamento e Adice richiude” (la Marca Trevigiana, vv. 43-44); “l’acqua che Vincenza bagna” (il Bacchiglione, v. 47); “e dove Sile e Cagnan s’accompagna” (Treviso, v. 49); “Di quella valle fu’ io litorano / tra Ebro e Macra”, dice Folchetto da Marsiglia che subentra a Cunizza (vv. 88-89). Se i fiumi che irrigano la terra designano i dottori che propinano il dolce bere della sacra pagina (Ap 8, 10-11), il contrario avviene con la dottrina eretica. Il tema dell’acqua che si fa mortifera, crudele e sanguigna al versamento della terza coppa si può ritrovare nella prima delle profezie di Cunizza (Par. IX, 43-48), relativa al mutarsi dell’acqua del Bacchiglione nel sangue dei Padovani, gente “cruda” al dovere, dopo la sconfitta subita nel 1314 dai guelfi ad opera dei ghibellini vicentini alleati con Cangrande della Scala.
“Allora udii l’angelo delle acque”, cioè il ceto dei dottori spirituali che custodisce fedelmente, dispensa ed espone le acque della Sacra Scrittura e della dottrina cattolica, “che diceva: sei giusto, Signore, che sei e che eri; tu santo che hai così giudicato” (Ap 16, 5), inferendo questa piaga del sangue. Viene poi specificato il motivo perché ciò fu giusto (Ap 16, 6): “Essi hanno versato il sangue dei santi”, cioè dei martiri, “e dei profeti”, cioè dei santi maggiori o dei dottori. Essi martirizzarono molti fedeli di ogni paese, e per questo “tu hai dato loro sangue da bere, di cui sono degni”, ossia la loro dottrina empia e abominevole, oppure, secondo Riccardo di San Vittore, le acerbe pene comminate.
Secondo Gioacchino da Fiore, è umano cadere in errore ma è diabolico perseguitare i cattolici spargendo il loro sangue nella difesa dell’errore, come fecero gli Ariani. Per questa colpa vennero accecati così da bere la sanguinosa e carnale dottrina, contro la quale fu detto a san Pietro: “né la carne né il sangue te l’hanno rivelato” (Matteo 16, 17).
Giovanni ode quindi la voce di un altro angelo, che conferma quanto detto dal precedente e superiore, al modo con cui i discepoli confermano quanto proclamato dai maestri. Dice infatti (Ap 16, 7): “Sì, Signore Dio onnipotente, veri e giusti sono i tuoi giudizi”, veri perché mantengono le promesse, giusti perché rendono a ciascuno secondo i propri meriti. È infatti giusto che chi opera con crudeltà venga crudelmente punito. Così, secondo Riccardo, sia i discepoli che i maestri convertono a Dio il proprio discorso, con grande affetto e zelo.
Olivi nota che nel testo scritturale utilizzato da Gioacchino la voce del secondo angelo proviene dall’altare, interpretato come i vescovi cattolici che, riuniti in concilio, confermano gli scritti dei santi dottori e condannano gli eretici: l’altare è infatti formato da pietre separate da altre e insieme “congregate”.
Il tema dell’essere il giudizio divino giusto nei confronti degli eretici e della dottrina erronea compare due volte nella selva dei suicidi, che divisero in sé l’anima dal corpo: il “disdegnoso gusto”, dice Pier della Vigna, “ingiusto fece me contra me giusto” (Inf. XIII, 70-72). Per questo, il giorno del giudizio universale, nessuno dei suicidi rivestirà il proprio corpo, “ché non è giusto aver ciò ch’om si toglie” (ibid., 103-105).
Un riferimento al giusto compartire della virtù divina è nell’esclamazione fatta dal poeta alla vista dall’alto della terza bolgia dei simoniaci (Inf. XIX, 10-12; i simoniaci, come i suicidi, si collocano in una zona riferita al terzo stato). Un’altra occorrenza dei motivi della terza coppa è, ad esempio, in Par. VII, 40-42, dove Beatrice sostiene la compiuta giustezza della pena della croce se commisurata alla natura umana assunta da Cristo (anche il tema della giusta misura, da Ap 6, 5, fa parte del terzo stato). Si trovano, ancora, nelle parole dette da san Bonaventura nel cielo del Sole ad elogio di san Domenico, il quale, “a la sedia che fu già benigna / più a’ poveri giusti” e che non lo è ora a causa del papa che “traligna” sviando dal retto cammino, non domandò di “dispensare o due o tre per sei”, di distribuire cioè meno denaro del dovuto ai poveri, ma chiese licenza di combattere “contro al mondo errante”, cioè contro l’erronea dottrina albigese (Par. XII, 88-96).
San Pietro, al quale non la carne e il sangue hanno rivelato il Cristo ma il Padre che sta nei cieli, come detto in Matteo 16, 17, nell’accesa invettiva contro la corruzione della Chiesa pronunciata nel cielo delle stelle fisse, si appunta contro “Caorsini e Guaschi”, designanti i papi Clemente V e Giovanni XXII, i quali “del sangue nostro … s’apparecchian di bere”, il sangue dei martiri in cui fu allevata la sposa di Cristo per acquistare la letizia celeste non l’oro terreno (Par. XXVII, 58-59).
Il tema dell’altare formato da pietre separate, che secondo Gioacchino da Fiore designa i dottori che in concilio condannano gli eretici, è probabilmente presente in apertura di Inf. XI, allorché i due poeti vengono “in su l’estremità d’un’alta ripa / che facevan gran pietre rotte in cerchio”, dove è l’avello che custodisce l’eretico papa Anastasio II: l’essere “rotte” le pietre appartiene ai temi della terza chiesa (che possiede la “rumphea”, Ap 2, 12), come pure l’avere il diacono Fotino tratto il papa “de la via dritta” riprende il motivo della retta o intorta interpretazione della Scrittura proposto nell’esegesi dell’apertura del terzo sigillo (Ap 6, 5).

Tab. App.1

Inf. XXVIII, 1-3, 76-81, 103-105

Chi poria mai pur con parole sciolte
dicer del sangue e de le piaghe a pieno
ch’i’ ora vidi, per narrar più volte?

E fa sapere a’ due miglior da Fano,
a messer Guido e anco ad Angiolello,
che, se l’antiveder qui non è vano,
gittati saran fuor di lor vasello
e mazzerati presso a la Cattolica
per tradimento d’un tiranno fello.

E un ch’avea l’una e l’altra man mozza,
levando i moncherin per l’aura fosca,
sì che l sangue facea la faccia sozza

Purg. XXXIII, 67-69

E se stati non fossero acqua d’Elsa
li pensier vani intorno a la tua mente,
e ’l piacer loro un Piramo a la gelsa 

Par. IX, 43-51

E ciò non pensa la turba presente
che Tagliamento e Adice richiude,
né per esser battuta ancor si pente;
ma tosto fia che Padova al palude
cangerà  l’acqua che Vincenza bagna,
per essere al dover le genti crude ;
e dove Sile e Cagnan s’accompagna,
tal signoreggia e va con la testa alta,
che già per lui carpir si fa la ragna.

[LSA, cap. XVI, Ap 16, 4 (Va visio, IIIa phiala)] “Et tertius angelus” (Ap 16, 4), id est ordo sanctorum zelatorum tertii temporis, “effudit phialam suam super flumina et super fontes aquarum”, id est super doctrinam erroneam doctorum et episcoporum hereticorum, quam ipsi tamquam dulcem aquam bibebant et aliis propinabant. “Effudit”, inquam, non solum ipsam improbando, sed etiam ipsam et eius sectatores et fautores anathematizando et ab omni communion[e] ecclesie catholice sententialiter excludendo.
Et factus est sanguis”, id est per hanc effusionem apparuit esse mortifera et crudelis et abhominabilis. Vel “factus est sanguis”, quia propter hanc plagam effuderunt sanguinem multorum catholicorum et multas persecutiones catholicis intulerunt. Corporaliter autem fuit ad litteram multorum hereticorum sanguis effusus per aliquos catholicos imperatores et principes, et etiam per aliquas nationes gentilium occupantium terras illorum.

[LSA, cap. XVI, Ap 16, 5-7 (Va visio, IIIa phiala)] “Et audivi angelum aquarum” (Ap 16, 5), id est cetum spiritalium doctorum, quorum est fideliter custodire et dispensare seu exponere aquas sacre scripture et catholice doctrine, “dicentem: Iustus es Domine, qui es et qui eras; sanctus, et qui hec iudicasti”, id est qui predictam plagam sanguinis eis tuo iudicio intulisti. Subditque rationem propter quam hoc fuit iustum, scilicet (Ap 16, 6) “quia sanguinem sanctorum”, scilicet martirum, “et prophetarum”, id est sanctorum maiorum seu doctorum, “fuderunt”. Sicut enim dixi, multos fideles ubique terrarum martirizaverunt. “Et” ideo “sanguinem”, id est doctrinam impiam et mortiferam et abhominabilem, “eis dedisti bibere, ut digni sunt”.
Secundum enim Ioachim, humanum est aliquando incidere in errorem, sed persequi catholicos pro defensione erroris et effundere eorum sanguinem, sicut fecerunt Arriani, est diabolicum. Et ideo propter hanc culpam accidit excecatio eorum ut biberent potum doctrine sanguinee et carnalis, contra quam dictum est Petro: “Caro et sanguis non revelavit tibi” (Mt 16, 17)*.
Secundum autem Ricardum, “sanguinem” dedit “eis bibere”, id est acerbas penas et occisiones per quas eos exterminavit prout digni erant*.
“Et audivi alterum” (Ap 16, 7), scilicet angelum, id est secundum Ricardum subiectorum cetum, “dicentem”, id est magistrorum dicta confirmantem: “Etiam”, id est verum est quod dixit precedens angelus, id est cetus magistrorum nostrorum, quia quod magistri clamant discipuli confirmant. “Dicentem” inquam: “Etiam, Domine Deus omnipotens, vera et iusta iudicia tua”, scilicet sunt; “vera” quidem [quia] efficiunt quod promittunt, “iusta” autem quia unicuique secundum quod meruit reddunt. Iustum enim est ut qui crudeliter agit crudeliter puniatur. Et subdit Ricardus quod tam discipuli quam magistri ex magna affectione et zelo convertunt sermonem ad Deum**.
Ioachim vero ponit aliam litteram, scilicet: “Et audivi alterum angelum ab altari dicentem: Etiam, Domine” et cetera. Quod exponens subdit: «Puto per hunc designari catholicos episcopos in conciliis congregatos, qui confirmantes scripta sanctorum doctorum dampnaverunt hereticos. Altare enim fit de lapidibus segregatis ab aliis et insimul coniunctis», propter quod significat congregationem episcoporum in conciliis**. Primam tamen litteram ponit et exponit Ricardus**.

* Expositio, pars V, ff. 188vb-189ra.

* In Ap V, v (PL 196, col. 825 D). ** Ibid. coll. 825 D-826 A.

** Expositio, pars V, f. 189ra.

Inf. VI, 64-66

E quelli a me: “Dopo lunga tencione
verranno al sangue, e la parte selvaggia
caccerà l’altra con molta offensione.”

Inf. XIII, 34

Da che fatto fu poi di sangue bruno

Par. XXVII, 58-59

Del sangue nostro Caorsini e Guaschi
s’apparecchian di bere ………………..

Inf. XI, 1-9

In su l’estremità d’un’alta ripa
che facevan gran pietre rotte in cerchio,         2, 12
venimmo sopra più crudele stipa;
e quivi, per l’orribile soperchio
del puzzo che ’l profondo abisso gitta,
ci raccostammo, in dietro, ad un coperchio
d’un grand’ avello, ov’ io vidi una scritta         6, 5
che dicea: ‘Anastasio papa guardo,
lo qual trasse Fotin de la via dritta’.                 6, 5

Par. VII, 40-42

La pena dunque che la croce porse
s’a la natura assunta si misura,         6, 5
nulla già mai sì giustamente morse

Inf. XIII, 70-72, 103-105

L’animo mio, per disdegnoso gusto,
credendo col morir fuggir disdegno,
ingiusto fece me contra me giusto.

Come l’altre verrem per nostre spoglie,   16, 15
ma non però ch’alcuna sen rivesta,
ché non è giusto aver ciò ch’om si toglie.

Inf. XIX, 10-12

O somma sapïenza, quanta è l’arte
che mostri in cielo, in terra e nel mal mondo,
e quanto giusto tua virtù comparte! 

Par. XII, 88-96

E a la sedia che fu già benigna
più a’ poveri giusti, non per lei,
ma per colui che siede, che traligna,
non dispensare o due o tre per sei,
non la fortuna di prima vacante,
non decimas, quae sunt pauperum Dei,
addimandò, ma contro al mondo errante
licenza di combatter per lo seme
del qual ti fascian ventiquattro piante.

 

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[1] Cfr. LSA, cap. XVII, Ap 17, 9: «Et subdit Ricardus quod per septem reges, et per septem capita designatos, designatur hic universus populus malorum, qui secundum septem status huius seculi determinantur. Primus scilicet ab Adam usque ad Noe. Secundus a Noe usque ad Abraam. Tertius ab Abraam usque ad Moysen. Quartus a Moys[e] usque ad David. Quintus a David usque ad Christum. Sextus a Christo usque ad Antichristum. Septimus autem sub Antichristo attribuitur». Cfr. PETRI IOHANNIS OLIVI Lectura super Lucam, Lc 1, 26, ed. F. Iozzelli, Grottaferrata 2010 (Collectio Oliviana, V), pp. 187-188: «Signanter autem dicitur in sexto mense, quia Christus uenit in sexta mundi etate, et iterum post quinque notabiles synagoge decursus: nam primo, cum sola circumcisione fuit sub patribus per quadringentos annos; secundo, accepta lege, fuit sub iudicibus per tantumdem temporis; tertio, proficiens in regnum, fuit sub regibus; quarto, assumpto plenius spiritu prophetico, fuit sub prophetis sollempnioribus, scilicet sub Elia, Ysaia et Yeremia etc.; quinto, restituto templo et urbe, fuit sub pontificibus quibus, per Aggeum et Zachariam et Malachiam iterata prophetia de Christo et eius precursore Elia, factum est silentium prophetarum, ita quod obmutuit cetus sacerdotum usque ad Iohannis ortum; et iterum in eiusdem quinti temporis sexto centenario conceptus est Christus. Sicut etiam sexto die factus est homo ad ymaginem Dei, sic conuenienter sub consimili senario factus est Christus homo, plenior Dei ymago: nam et perfectio numeri senarii, que ex omnibus partibus suis aliquotis et iterum ex ternario cum suis partibus, scilicet binario et unitate, consurgit, competit sibi et etiam reflexio ternarii per binarium, id est cultus fidei et Trinitatis per geminam caritatem».

[2] Il principio è chiaramente affermato nel notabile VIII del prologo della LSA: «[…] si omnia prima membra visionum ad invicem conferas et consimiliter omnia secunda et sic de aliis, aperte videbis omnia prima ad idem primum concorditer referri et consimiliter omnia secunda ad idem secundum et sic de aliis. Et hoc in tantum quod plena intelligentia eiusdem primi multum clarificatur ex mutua collatione omnium primorum, et idem est de omnibus secundis et tertiis et sic de aliis».

[3] Cfr. G. PADOAN, Il lungo cammino del “poema sacro”. Studi danteschi, Firenze 1993 (Biblioteca dell’ “Archivum Romanicum”, Ser. I, vol. 250), passim.

[4] La digressione virgiliana sulle origini di Mantova (Inf. XX, 52-102) è esaminata in Il terzo stato. La ragione contro l’errore, Appendice I.

[5] I sette stati non sono solo periodi storici relativi alla Chiesa nel suo complesso, ma anche modi di essere della persona, habitus. In quanto doni del settiforme Spirito increato, e in relazione alla funzione svolta dall’individuo, possono essere tutti compresenti anche in una sola persona in qualsiasi tempo. Ad esempio, Pietro fu pastore (primo stato), martire (secondo), dottore (terzo), austero e solitario (quarto), condescensivo (quinto), professore di vita evangelica (sesto) [LSA, prologo, notabile X]. La povertà della Chiesa, propria del tempo apostolico e subapostolico – nel primo e nel secondo stato -, commutata a partire da Costantino in uno stato di ricchezza e beni temporali, tornerà tale nel sesto stato. Ma nei periodi di ricchezza, i pontefici che preferirono la povertà evangelica ai beni temporali segnarono di nuovo, e in modo raddoppiato, il prevalere del primo ordine, quello del sacerdozio apostolico, anticipando così il sesto stato [LSA, prologo, notabile VII]. Il terzo e il quarto sono due stati di solare sapienza che concorrono a infiammare il meriggio dell’universo. Corrispondono storicamente ai dottori e agli anacoreti, ma pure designano, in ogni tempo, la solare e paritaria concorrenza di ragione e vita devota, di intelletto e affetto, di sapienza e amore, di spada e pasto eucaristico, di Impero e Papato, concorrenza figurata dalle due ali della grande aquila date alla donna per volare come regina nel deserto dei Gentili (Ap 12, 14) [LSA, prologo, notabile X; capp. VIII, Ap 8, 12; XII, Ap 12, 14]. La pietas verso le moltitudini, unita al senso della vita associata, è prerogativa eminente del quinto stato, ma raggiunge il suo compimento nella persona di Francesco, con cui inizia il sesto stato, dilatata ad arco per viscerale carità verso gli inferiori [LSA, prologo, notabile XIII; cap. X, Ap 10, 1].

[6] Mercati in realtà propose di identificare la “casa di Nostra Donna in sul lito adriano” con il monastero di S. Maria di Pomposa.

[7] DANTE ALIGHIERI, La Divina Commedia. Paradiso. Commento di A. M. CHIAVACCI LEONARDI, Milano 1994, pp. 596-597.

[8] DANTE ALIGHIERI, La Divina Commedia, a cura di N. SAPEGNO, Milano-Napoli 1957 (La Letteratura Italiana. Storia e Testi, 4), pp. 1044-1045.

[9] DANTE ALIGHIERI, Commedia. Revisione del testo e commento a cura di G. INGLESE, Paradiso, Roma 2016, p. 277.

[10] «Stupeo et ego, tam conspicuum religione virum inter concives et vestium tantum non operum successores, et in cenobio quod secus adriaticum litus suo opere constructum est et in quo ipse primus sue professionis heremitas instituit Peccatorisque cognomen assumpsit, non aliter cognitum cernens quam a Mauris Lucianum bellovagensem seu armenum Basilium vel quem vetustiorem et exterum magis dicas incognitum».

[11] Così INGLESE (nota 9).

[12] A. FRUGONI, Pier Damiano, in Enciclopedia Dantesca, IV, Roma 19842, p. 490.

[13] SALIMBENE DE ADAM, Cronica, ed. G. Scalia, Bari 1966, I, p. 165, rr. 26-32; cfr. II, p. 709, rr. 4-5.

[14] Uno dei temi del quarto stato – fuggire il mondo per la contemplazione – è appropriato sia alla vita religiosa della clarissa Piccarda sia a Manto. Quest’ultima tuttavia, prima di fondare la città di Virgilio, “cercò per terre molte” e quindi fu molto attiva. La quarta bolgia è fortemente segnata dalla semantica relativa al quarto stato. Gli antichi indovini, che vollero “veder troppo davante”, sono prefigurazione dell’eccesso di contemplazione in cui caddero gli anacoreti cristiani del quarto stato.

[15] F. GABRIELI, Saladino, in Enciclopedia Dantesca, IV, Roma 19842, p. 1073. Maometto, fra i seminatori di scandalo e di scisma puniti nella nona bolgia, è fasciato dai temi del terzo stato che prevalgono in quella ‘zona’ del poema.

[16] Il riferimento all’esegesi del quarto sigillo (Ap 6, 8) nei “duri margini” che consentono a Virgilio e Dante di passare il Flegetonte infuocato è considerato in Il Giubileo di Dante (I). L’anno delle pietre misericordiose. Cfr. anche supra.

[17] La storia di Roma sotto il “sacrosanto segno” dell’aquila, di cui dice Giustiniano, è concepita come prefigurazione dei sette stati della Chiesa. Le guerre puniche (Par. VI, 49-51) occupano il quarto stato. Cfr. Dante all’ “alta guerra” tra latino e volgare, 3. 4, tab. XXXV, 1-2.

[18] Sul passo cfr. Dante all’“alta guerra” tra latino e volgare, 2. 3, tab. IV.