“Scio, anima mea, quia vita tua amor est” [*]
(Ugo di San Vittore)
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Introduzione. 1. Martirio e pietà: la Donna Gentile (o Pietosa) e Francesca. 2. Amore sulla via di Emmaus. 3. “Chi è costui che vene?”. 4.“Apparve prima la gloriosa donna della mia mente”. 5. “Incipit Vita Nova”. 6. Le “nove rime”. 7. Punti fermi e problemi aperti. 8. Il libro della memoria nella Commedia.
Abstract
Introduzione
La ricerca sin qui condotta, ormai quasi da un quarto di secolo, esposta fin dai suoi primordi in pubblicazioni a stampa e soprattutto su questo sito, ha rivelato un fatto del tutto nuovo e insospettabile: Dante ha scritto la Commedia elaborando materialmente, dal latino in volgare, la Lectura super Apocalipsim di Pietro di Giovanni Olivi, libro-vessillo degli Spirituali francescani completato a Narbonne nel 1298, poco prima della morte del suo autore. Questa intertestualità diffusa per tutto il “poema sacro”, regolata da precise norme la cui costanza non consente dubbio sul fatto in sé, lascia aperto il campo alle interpretazioni delle possibili cause di tanta tecnica e intima rispondenza dei due testi. Per il momento si affacciano tre ipotesi:
a) Il senso letterale della Commedia contiene parole che sono chiave di accesso a un altro testo, la Lectura super Apocalipsim dell’Olivi. Si tratta di un procedimento di arte della memoria: le parole-chiave operano sul lettore come imagines agentes che lo sollecitano verso un’opera di ampia dottrina, che già conosce, ma che rilegge mentalmente parafrasata in volgare, profondamente aggiornata secondo gli intenti propri del poeta, in versi che le prestano “e piedi e mano” e la dotano di exempla contemporanei e noti. Nel senso letterale del “poema sacro” sono incardinati gli altri sensi interpretativi: allegorico, morale, anagogico (che Dante, nell’Epistola a Cangrande, definisce collettivamente “mistici” o “allegorici”). Dante mirava non solo a un pubblico di laici, ma anche di predicatori e riformatori della Chiesa – agli Spirituali francescani, e forse non solo ad essi, se la Lectura si fosse diffusa anche presso altri Ordini -, a coloro cioè che con la predicazione avrebbero potuto riformare la Chiesa e con la “lingua erudita” – il suo volgare – convertire il mondo. Questo pubblico di chierici non si formò, perché gli Spirituali (non un gruppo organizzato, ma di sensibilità comune), i quali dovevano conoscere la Lectura oliviana, furono perseguitati e il loro libro-vessillo, censurato nel 1318-1319 e condannato nel 1326, fu votato alla clandestinità e quasi alla sparizione.
b) Più luoghi della Commedia rinviano, tramite parole-chiave, a un medesimo luogo dell’esegesi esposta nella Lectura. Ciò significa che la medesima esegesi in un punto del commento scritturale oliviano è stata utilizzata in momenti diversi della stesura del poema. La persistenza di un “panno” – cioè di un altro testo da cui trarre i significati spirituali del poema, materialmente elaborati attraverso le parole – è servita a mantenere l’unità e la coerenza interna dell’ordito, della “gonna”, per usare l’immagine di san Bernardo a Par. XXXII, 139-141. Che il poema sia stato pubblicato per gruppi di canti, non più modificabili, oppure per cantiche riviste, sempre stava innanzi all’autore la medesima esegesi teologica con le innumerevoli possibilità di variazioni tematiche e di sviluppi.
c) Come terza ipotesi si può ricordare quanto affermò Charles Southward Singleton nell’annunciare la scoperta del numero sette come numero centrale della Commedia, rivelatore di una mirabile struttura nascosta ancora tutta da decifrare. Come nella cattedrale di Chartres gli scalpellini lasciarono bellissimi fregi a grande altezza, dove occhio umano non sarebbe potuto arrivare, così l’ordine e l’intelligenza interiore del poema non furono concepiti solo per la vista degli uomini: “quel disegno, qualunque fosse il suo posto nella struttura, l’avrebbe veduto Colui che tutto vede, Colui che ha creato il mondo con meraviglioso ordine, in pondere, numero, mensura; e l’avrebbe certo guardato come prova che l’architetto umano aveva imitato l’universo che Egli, divino architetto, aveva creato innanzi tutto per la propria contemplazione, e poi, per la contemplazione degli angeli e degli uomini” [1]. La struttura semiotico-spirituale del “poema sacro”, espressione dell’io del pellegrino, sarebbe stata concepita solo “al servigio dell’Altissimo”.
La prima ipotesi è la più probabile. In primo luogo, perché la Commedia mostra un ordine interno diverso da quello che appare al comune lettore che non conosce la Lectura super Apocalipsim. Il viaggio di Dante ha un andamento ‘topografico’ di ciclici settenari, che corrispondono ai sette stati della storia della Chiesa, cioè alle categorie con cui l’Olivi organizza la materia esegetica. È un ordine registrabile per zone progressive del poema dove prevale la semantica riferibile a un singolo stato, dirompente i confini letterali stabiliti dai canti e da tutte le divisioni materiali per cerchi, gironi, cieli. Questo andamento ciclico per stati risponde a un percorso interiore, di progressiva illuminazione della verità, che non è riservato al solo autore.
In secondo luogo, perché la collocazione delle parole-chiave, che sollecitano la memoria verso l’ampia dottrina apocalittica, è tale da richiedere la collaborazione del lettore consapevole, facendo appello al suo ingegno. Si veda per tutti il caso della “signatio”.
In terzo luogo, perché nel “poema sacro” che si propone come nuova Apocalisse, scritta da un nuovo Giovanni, all’allegoria intesa come “una veritade ascosa sotto bella menzogna” (Convivio II, i, 3), cioè sotto la lettera della poesia che diletta, si sostituisce la metafora della Scrittura, che Tommaso d’Aquino riteneva necessaria, utile e occulta per esercitare nello studio e contro le irrisioni degli infedeli (Summa Theologiae, I, qu. I, a. 9), e dunque i “sensi mistici”, come nella Bibbia, sono rivolti a un pubblico che può intenderli [2].
Come questa ars memorandi poteva essere utile al pubblico degli Spirituali? In primo luogo, il “poema sacro” si proponeva come speculum per quel gruppo riformatore. Non solo avrebbero potuto predicarlo, ma sarebbe stato guida nella conduzione del gregge affidato. Un pastore devoto vicino al popolo cristiano, che lasci “seder Cesare in la sella”, non impegnato a discettare da opposti estremismi di rilassati e rigoristi, non timoroso della classicità tanto da riconoscere in Aristotele il “maestro di color che sanno”, ma con la non secondaria clausola di concordarlo con la visione apocalittica dell’Olivi (che riassume l’intera Scrittura); pronto ad ammettere gli antichi e i moderni poeti come figure del nuovo poeta “sesto tra cotanto senno” e della sua vera visione; convinto che la conversione della “terra prava italica” debba essere recata ad esempio universale della futura conversione finale delle genti e di Israele.
In secondo luogo, l’arte della memoria sarebbe stata utile per la predicazione. La Commedia è un viaggio per exempla. Se grazie alla Commedia Dante fosse tornato a Firenze “con altra voce omai, con altro vello”, quanti predicatori non l’avrebbero citata dai pergami cittadini? Il che poi effettivamente si verificò con la popolarità di Dante negli ambienti della predicazione mendicante, anche se il messaggio escatologico non era più comprensibile per la sparizione di chi avrebbe potuto comprenderlo.
In terzo luogo, quanti erano votati alla riforma della Chiesa avevano a disposizione una nuova lingua, il volgare, universale quanto lo era stato il latino. Il principio secondo il quale clerus vulgaria tempnit, per usare le parole di Giovanni del Virgilio nel carmen indirizzato a Dante, veniva smentito.
Per quanto la prima ipotesi sia la più probabile, le tre prospettive non si escludono: Dante avrebbe individuato un particolare tipo di pubblico – il che non contrasta con il voluto carattere polisemico del “poema sacro”, secondo quanto l’autore stesso afferma nell’Epistola a Cangrande (Ep. XIII, 20) -; il messaggio indirizzato a questo pubblico costituiva la struttura interiore della Commedia, permanente nella sua stesura; l’elaborazione della Lectura dell’Olivi confermava il poeta nella sua coscienza di essere il nuovo Giovanni, autore della nuova Apocalisse esprimente una vera visione, inviato come l’evangelista a predicare di nuovo al mondo, dopo gli apostoli, per la conversione universale.
L’arte della memoria per parole-chiave poteva servire al pubblico degli Spirituali come all’autore. Il fatto che gruppi di terzine numericamente corrispondenti, a diversi stadi della Commedia, contengano parole-chiave che conducono alla medesima pagina esegetica della Lectura indica che queste parole, se dovevano essere per il lettore spirituale signacula mnemonici di un altro testo, erano per il poeta anche segni del numero dei versi, ‘luogo’ dove collocare i medesimi signacula in forma e contesto diversi.
Con l’esegesi dell’ultimo libro canonico, esposta in una teologia della storia che comprende per settenari tutta la Scrittura, la quale a sua volta è forma, esempio e fine di ogni scienza, concorda ogni conoscenza, ogni esperienza, ogni soluzione indipendente data a questioni dottrinali. La Lectura non è una fonte; è il liber concordiae nel quale qualsiasi fonte trova la sua collocazione nella storia delle illuminazioni sapienziali.
Quanto avviene nei tempi moderni, che Olivi fa coincidere con il sesto stato della storia della Chiesa, caratterizzato dal libero parlare per dettato interiore che apre i cuori, è singolarmente consonante con la poetica di Dante. Tale viene definita nel sesto girone del Purgatorio nell’incontro con Bonagiunta da Lucca: una poetica fondata sullo spirare di Amore, interno “dittator”, e sul notare significando in modo stretto i suoi dettati, quasi fossero quelli di una regola evangelica imposta e accettata (Purg. XXIV, 49-63).
Come all’apertura del sesto sigillo i segnati si distinguono, perché amici di Dio, dalla volgare milizia, così Dante per l’amica Beatrice è uscito dalla “volgare schiera” dei poeti. Come l’angelo ingiunge a Giovanni di predicare ancora senza timore a tutto il mondo dopo gli Apostoli, inviscerando il libro dal sapore amaro e dolce insieme, così a Dante, quasi alter Iohannes, viene ingiunto da Cacciaguida di rendere manifesta la sua visione nel “poema sacro”, nuova Apocalisse, anch’essa, come quella di Giovanni, amara nel primo gusto ma poi salutare. Anche nella Commedia, come nell’Apocalisse secondo Olivi, le realtà divine e intellettuali vengono comprese per mezzo di similitudini sensibili e corporali [3]. Come l’insegnamento del Cristo uomo, per mezzo della voce esteriore, lascia il posto al gusto interiore dettato dallo Spirito, così Virgilio lascia il campo nell’Eden all’arrivo di Beatrice. L’ascesa del poeta al cielo – un sentimento simile a quello provato da Glauco, il pescatore di Ovidio, “nel gustar de l’erba / che ’l fé consorto in mar de li altri dèi” – è reale applicazione del vedere la verità “non solum simplici intelligentia, sed etiam gustativa et palpativa experientia”. La prova della pietà di fronte ai dannati, ingannati da una falsa Scrittura (come Francesca e Paolo) o da una falsa autorità papale (come Guido da Montefeltro), equivale per Dante al martirio psicologico degli ultimi tempi inferto dal dubbio. Come al vescovo di Filadelfia, la sesta chiesa d’Asia, è data la “porta aperta”, cioè la capacità di aprire i cuori con la parola, così nella dura roccia infernale i dannati parlano per dettato interiore, interrompendo la pena. Se Dante non rinuncia ad Aristotele e ai “filosofici argomenti” dell’intelletto, la libertà della volontà è però il più grande dono fatto da Dio all’uomo, come afferma Beatrice parlando sul voto in Paradiso V. Proprio la concezione oliviana del voto evangelico si rispecchia, in modo sorprendente, nella Monarchia [4].
Ciò che Olivi scrive della storia della Chiesa e della gloria di Cristo viene nella Commedia diffuso su tutte le persone e le forme, antiche e nuove, del nostro mondo. Il saeculum humanum rivendica la propria libertà nella sfera della lingua, delle leggi della natura, della ragione, nella definizione del regime politico, nell’uso degli autori classici, ma nel “poema sacro” lo spirito profetico della nuova Apocalisse inserisce ancora il particolare in un processo storico universale che manifesta i segni della volontà divina.
Il frate e il poeta hanno la stessa idea della Chiesa, esemplata sulla persona e sulla vita di Cristo: “Christi persona et vita fuit exemplar totius ecclesie future”, scrive Olivi nella Lectura super Apocalipsim (ad Ap 6, 12); e Dante nella Monarchia (III, xiv, 3): “Forma autem Ecclesie nichil aliud est quam vita Cristi […] vita enim ipsius ydea fuit et exemplar militantis Ecclesie”. Il primo verso del “poema sacro” – “Nel mezzo del cammin di nostra vita” – non è semplice indicazione anagrafica dei trentacinque anni di età dell’autore; è testimonianza resa a Cristo mediatore, la cui vita deve essere dalla nostra perfettamente imitata e partecipata.
Le espressioni di Olivi relative al sesto stato – “quoddam sollempne initium novi seculi … renovaretur et consumaretur seculum”, nel quale il sacerdozio apostolico “redeat et assurgat ad ordinem primum”, la “nova Ierusalem” viene vista “descendere de celo” e la Chiesa descritta come la donna vestita di sole con la sua “virginea proles” – sono la veste spirituale dei versi della quarta egloga virgiliana che celebrano la rinnovata età dell’oro: “Magnus ab integro saeclorum nascitur ordo / iam redit et Virgo; redeunt Saturnia regna; / Iam nova progenies caelo demittitur alto” (Egloga IV, 5-7). Quel felicissimo stato segnato dalla pace sotto il divo Augusto, che rese l’umanità disposta al primo avvento di Cristo, si rinnova. Scrive Arsenio Frugoni sul giubileo del 1300, definito da Raffaello Morghen la “sagra del Medioevo”: “ … quell’escatologismo, oltre che ideologia di lotta e di riforma del gruppo spirituale, era anche un vero e proprio sentimento storico … una tensione di rinnovamento, una ansia di salvezza, che nel 1300, l’anno centenario della Natività, aveva trovato come una attivazione, in un senso di pienezza dei tempi, cui doveva corrispondere un fatto, un accadere meraviglioso e nuovo”. La sinossi fra la Commedia di Dante e la Lectura super Apocalipsim dell’Olivi consente di far rivivere tale sentimento storico.
Il rapporto tra Dante e Olivi non si esaurisce con la Commedia. Nella “poema sacro” il trarre fuori “le nove rime, cominciando / ‘Donne ch’avete intelletto d’amore’ ” (Purg. XXIV, 49-51), si colloca, con l’episodio di Bonagiunta, in una zona del poema dove prevalgono i temi, per eccellenza oliviani, del sesto stato, che è stato di novità. Ci si può legittimamente chiedere se, accertato sulla base dei testi un incontro virtuale tra l’esule e il frate già morto, probabilmente per il tramite di Ubertino da Casale, non si debba presupporre un altro incontro, non virtuale ma reale, tra i due, datato al momento in cui uscirono le “nove rime”, cioè poco prima della morte di Beatrice (1290), un periodo singolarmente coincidente con l’insegnamento di Olivi a Santa Croce (1287-1289). Diversamente bisognerebbe dedurre che Dante dia nella Commedia un’interpretazione dei propri albori di poeta diversa dalla realtà, che verrebbe così fasciata da una mistificazione. Questo momento precederebbe quello descritto in Convivio II, xii, 7, allorché, per studiare la filosofia, “cominciai ad andare là dov’ella si dimostrava veracemente, cioè ne le scuole de li religiosi e a le disputazioni de li filosofanti”.
Se l’esegesi dell’Olivi, tanto decisiva per il “poema sacro”, abbia avuto parte nella stesura delle “nove rime”; se essa abbia influenzato la formazione intellettuale e spirituale di Dante, è oggetto della presente ricerca, della quale qui si mostrano i primi risultati, inizio di un nuovo, lungo cammino.
1. Martirio e pietà: la Donna Gentile (o Pietosa) e Francesca
Secondo il principio della concorrenza fra gli stati, affermato nel Notabile X del prologo della Lectura super Apocalipsim, il sesto stato – iniziato con Francesco d’Assisi, è il periodo nel quale vivono Olivi e Dante – concorre con il secondo, per antonomasia lo stato dei martiri, non per connessione temporale (questo inizia infatti con la persecuzione di Nerone o con la lapidazione di santo Stefano o con la passione di Cristo e dura fino a Costantino), ma a motivo della quantità dei testimoni della fede. Il tipo di martirio è tuttavia diverso. I martiri del sesto stato soffrono nel dubbio, il loro è un “certamen dubitationis” che i primi testimoni della fede non provarono per l’evidenza dell’errore in cui incorrevano gli idolatri pagani. Nel sesto stato il martire non prova soltanto il tormento del corpo, viene anche spinto (“propulsabuntur martires”) dalla sottigliezza degli argomenti filosofici, dalle distorte testimonianze scritturali, dall’ipocrita simulazione di santità, dalla falsa immagine dell’autorità divina o papale, in quanto falsi pontefici insorgono, come Anna e Caifa insorsero contro Cristo. Per rendere più intenso il martirio, i carnefici stessi operano miracoli. Tutto ciò appartiene alla tribolazione del tempo dell’Anticristo, alla tentazione che induce in errore persino gli eletti, come testimoniato da Cristo nella grande pagina escatologica di Matteo 24: “dabunt signa magna et prodigia, ita ut in errorem inducantur, si fieri potest, etiam electi (cfr. Mt 24, 24)”. Scrive Gregorio Magno, commentando Giobbe 40, 12 – “stringe (nel senso di tendere) la sua coda come un cedro” -: “ora i nostri fedeli fanno miracoli nel patire perversioni, allora i seguaci di Behemot faranno miracoli anche nell’infliggerle. Pensiamo perciò quale sarà la tentazione della mente umana allorché il pio martire sottoporrà il corpo ai tormenti mentre davanti ai suoi occhi il carnefice opererà miracoli”.
Questo passo è stato più volte esaminato nel corso della ricerca [5]. Del tema del martirio inferto dal dubbio è pregno, in Inf. V, l’episodio di Francesca e Paolo, d’altronde principalmente ordito su temi del secondo stato, all’esegesi dei quali rinvia. I “dubbiosi disiri” vengono conosciuti mentre i due amanti leggono “di Lancialotto come amor lo strinse”, quella lettura “per più fïate li occhi ci sospinse”. Vinti dalla passione, essi non arrivano a sostenere fino in fondo il loro “certamen dubitationis”. Se è vero che al secondo e al sesto stato spetta il martirio e al tempo stesso la dolcezza del conforto e della promessa (ad Ap 3, 11), i “dolci sospiri” dei due amanti sono stati da loro male interpretati, nel senso dell’amore carnale e non dell’“amore acceso di virtù” di cui Virgilio avrebbe parlato a Dante nel purgatorio (cf. Purg. XVIII, 13-75; XXII, 10-12). Al momento della prova, i due vengono sospinti dalla lettura di un libro (“Galeotto fu ’l libro e chi lo scrisse”) verso un punto che li vince, non diversamente da come i nuovi martiri vengono sospinti dagli “intorta testimonia scripturarum”. Ma il martirio non è stato inferto solo ai “due cognati” in vita, perché anche Dante sta dinanzi alle loro anime come un martire del sesto stato: prova pietà del loro male perverso, è tristo e pio fino alle lacrime dinanzi ai martìri, prova un’angoscia che chiude la mente. Perfino la domanda di Virgilio dopo le prime parole di Francesca – “Che pense? ” – sembra ricalcare l’invito di Gregorio Magno a riflettere sulla singolarità della tentazione: “… tunc autem Behemot huius satellites, etiam cum perversa inferunt, mira facturi sunt. Pensemus ergo que erit humane mentis illa temptatio, quando pius martir corpus tormentis subicit, et tamen ante eius oculos miracula tortor facit”. Il passo del Notabile X del prologo della Lectura super Apocalipsim tocca molti altri punti del poema.
Lo stesso passo dei Moralia di Gregorio Magno su Giobbe 40, 12, citato nel Notabile X del prologo della Lectura super Apocalipsim, era già stato utilizzato dall’Olivi nell’Expositio in Canticum Canticorum (sicuramente precedente, poiché la Lectura venne completata nel 1298, anno della morte) [6]. La sposa dice allo sposo: “ti darò una coppa di vino aromatico, e il succo del mio melograno” (Cn 8, 2). Anche in questo caso Olivi fa riferimento alla tribolazione del tempo dell’Anticristo, alla tentazione che induce in errore gli eletti, allorché il pio martire è scosso nel profondo della mente dalle cose mirabili (ma erronee) che vede dinanzi ai propri occhi. In quei tempi la sposa (la Chiesa) offrirà a Cristo non solo il “dulcor contemplationis”, ma anche l’“expressum mustum difficillimorum et acerbissimorum martyriorum”. Come scritto in Matteo 24, 21-24, «tunc enim teste Christo “erit tanta tribulatio, ut si fieri potest, in errorem inducantur electi”». L’Olivi fu lettore in teologia nello “studium” di Santa Croce di Firenze fra il 1287 e il 1289, inviato dal nuovo Ministro generale Matteo d’Acquasparta, eletto nel capitolo generale di Montpellier il 25 maggio 1287. Due anni, dunque, prima del richiamo a Montpellier, che portarono a Firenze molte sue opere esegetiche. Una di queste opere, il commento al Libro delle Lamentazioni di Geremia, fu probabilmente scritta a Santa Croce [7]. È nota la parafrasi di Lamentationes I, 12 nel sonetto O voi che per la via d’Amor passate (Vita Nova 2.14-17).
Come vari luoghi del poema rinviano alla citazione di Gregorio Magno incastonata nell’esegesi della Lectura super Apocalipsim, così sull’Expositio in Canticum Canticorum è tessuta la Donna Gentile o Pietosa della Vita Nova, l’antagonista di Beatrice. L’esame, qui solo superficialmente avviato, è sicuramente da approfondire, ma un occhio esperto potrà vedere come non sia temerario affrontare Cn 8, 2 con Vita Nova 24-28 [XXXV-XXXIX] [8]. Potrà facilmente ritrovare la tribolazione del martire pietoso degli ultimi tempi, che ha dinanzi a sé una mirabile ma falsa immagine di vero che lo scuote, nel poeta pensoso e travagliato nella “battaglia de’ pensieri”, che ha dinanzi agli occhi e alla mente un viso di donna preso come mai “così mirabilmente” da “color d’amore e di pietà sembianti”, dalla cui vista “era sommosso”. La donna, “quella pietosa / che si turbava de’ nostri martiri”, è in realtà un subdolo martirio, passionato “adversario della Ragione … desiderio malvagio e vana tentatione” contro il quale si leva l’immagine di Beatrice: “Si direbbe – scrive Gorni – che la Donna Pietosa, in questo suo agire così affabile che risulta essere, alla riprova, un modo caricaturale d’imitazione della donna ideale, sia una vera e propria figura di Anticristo, sinistramente perversa nella sua colpevole indulgenza” [9]. A questa vera affermazione l’Olivi consente di togliere il condizionale. Anche qui, come nel poema, non c’è calco o riscrittura, ma metamorfosi di elementi semantici. L’essere pietoso, che nell’esegesi è proprio del martire, è proiettato sulla donna-carnefice. Nella vicenda della Gentile, il conflitto tra le due antagoniste è solo nella mente di Dante [10], come nel martirio interiore descritto dall’Olivi, di quelli che sono scossi “ab ipso cogitationis fundo”.
Se la Donna Gentile o Pietosa è un fantasma interiore, un quasi-Anticristo, una falsa immagine di bene, di realtà che paiono vere, tentano e mettono in dubbio proprio per la loro parvente verità, erroneo ricordo nel color d’amore della nobilissima donna del poeta, bisognerà presupporre un vero che sia tale, che possa essere ristabilito come meta nella quale l’intelletto, da questo vero illuminato, si posi “come fera in lustra” una volta che l’ha raggiunto. Come dopo “lo ymaginar fallace” di “madonna morta”, che l’ha ingannato per “erronea fantasia” e “vana ymaginatione”, il poeta immagina venire “la mirabile Beatrice” preceduta da Giovanna-Primavera, e questo è vero immaginare (un ‘non falso errore’, come quelli delle visioni estatiche recanti esempi di mansuetudine a Purg. XV, 85-117), così dopo il “desiderio malvagio e vana tentatione”, a cui la Gentile ha sospinto i suoi occhi, generando in lui il dubbio e le sue battaglie, il poeta immagina vedere “questa gloriosa Beatrice” che scaccia dal suo cuore “questo adversario della Ragione”.
Francesca è singolarmente vicina alla Gentile. Una parte della sua “gonna” è tessuta con fili provenienti dallo stesso “panno”, per quanto l’ordito esegetico sia nei due casi diverso, in quanto appartenente a due differenti opere del medesimo autore. Elementi lessicali comuni sono pietà (Inf. V, 93); che pense? (111); martìri (116); pio (117); lo strinse (128); occhi (130); mente (Inf. VI, 1); pietà (2). In Inf. V altri si aggiungono, rispecchiando il medesimo passo dei Moralia di Gregorio Magno ma parzialmente diverso nella stesura, che contiene considerazioni proprie di Olivi: perverso (93); dubbiosi (120); sospinse (130); scrisse (137).
Questa intimità semantica e tematica fra Francesca della Commedia e la Gentile del “libello” induce a spostare più avanti nel tempo la compiuta stesura della Vita Nova? Questa si suole datare attorno al 1294. L’episodio di Francesca, per converso, si colloca nel “poema sacro”, quindi dopo l’esilio (1302); è segnato, come tutti gli altri luoghi della Commedia, da una “topografia spirituale” che rinvia all’esegesi dei sette stati della storia della Chiesa (nel caso, principalmente al secondo, proprio dei martiri) come descritti nella Lectura super Apocalipsim. Questa, terminata a Narbonne poco prima della morte del suo autore (1298), arrivò in Italia ai primi del ’300; Ubertino da Casale l’aveva con sé a La Verna quando scriveva l’Arbor vitae (1305). L’episodio di Francesca, in quanto presuppone la conoscenza da parte di Dante della Lectura oliviana, non può essere anteriore al 1307-1308 [11].
I paragrafi 24-28 [XXXV-XXXIX] della Vita Nova, con la vicenda della Gentile confrontata con la donna-Filosofia del Convivio, sono, come è noto, il fulcro della “questione spinosissima” sulla possibile duplice redazione dell’opera, se cioè, come scrive Gorni, “le modifiche che il libello ha subito sono più estese e radicali di quanto si pensa, proprio per fare entrare, con alquanti pretesti, la nuova donna in un libro che ne celebra un’altra” [12]. È esistita una “Ur-Vita Nova” formata dai primi 27 paragrafi, dove la numerologia mistica (3 [parti principali] x 9 [paragrafi]) appartiene tutta a Beatrice? Per ora è possibile registrare la persistenza di un medesimo “panno” (il passo dei Moralia di Gregorio Magno) nell’elaborazione della Gentile, lo stesso canovaccio che verrà utilizzato per Francesca, però nei due casi tramite due distinti commenti di Olivi, al Cantico dei Cantici e all’Apocalisse, il primo dei quali Dante poté conoscere prima dell’esilio, il secondo solo dopo.
Si può pensare, inoltre, che la semantica che travasa, nei due episodi, dal latino al volgare formi in questo dei signacula mnemonici. Ma mentre Inf. V è inserito in una “topografia spirituale”, cioè in un viaggio per la storia umana, per cui rinvia a uno status della storia della Chiesa, in un contesto in cui sono elaborati molti altri motivi tratti dalla Lectura oliviana, i paragrafi relativi alla Gentile sembrano suggerire un’ars memorandi per gruppi di parole, volta a creare una silloge di temi fra loro collegati. Nel primo caso, per l’estensione e la vastità del fenomeno, e per il costante rinvio a un’unica opera (la Lectura super Apocalipsim), si può ben presupporre l’esistenza di un pubblico accorto. Nel secondo caso, l’arte della memoria sembra, almeno per il momento, concepita solo ad uso dell’autore.
Né Cn 8, 2 pare rispecchiato solo in Vita Nova 24-28 [XXXV-XXXIX]. Si confronti, ad esempio, Vita Nova 6 [XIII] con Inf. V: “la donna, per cui Amore ti stringe così … Noi leggiavamo un giorno per diletto / di Lancialotto come amor lo strinse”. In entrambi i casi Dante aveva presente Giobbe 40, 12, nell’esegesi di Gregorio Magno applicata dall’Olivi in senso escatologico: «“Stringit caudam suam quasi cedrum” praemittens quod per caudam illam Antichristus significetur». Il paragrafo 6 [XIII] del “libello” è tutto contesto di temi che variano quelli che si trovano in Cn 8, 2, simmetrico al passo contenuto nel Notabile X del prologo della Lectura (un po’ più esteso del precedente): il “combattere” e “tentare” dei “molti e diversi pensamenti”; passare “dolorosi puncti” (sarà il “doloroso passo” dei “due cognati”: il ‘passo’ ha sempre un valore di passione, sofferenza, prova); mettersi per via nemica “nelle braccia della Pietà”. L’“amorosa erranza” che ne deriva, per quanto trattata con cortese levità, corrisponde al cadere in errore degli eletti negli ultimi tempi.
L’esegesi di Cn 8, 2 non è neppure estranea, in Donna pietosa, al “tanto smarrimento”, all’errare degli “spirti miei”, a “lo ymaginar fallace” che “mi condusse a veder madonna morta” (Vita Nova 14; cfr. anche il sonetto Morte villana : ibid., 3.8-9), tanto più se lo si confronta con la grande pagina escatologica di Matteo 24, 24-26 nel commento di Olivi, pur nell’indubbia combinazione dantesca di diversi passi scritturali. Se “la materia tragica ed elegiaca assume anche un andamento da commedia, per il gioco incrociato di equivoci e di false agnizioni” [13], essa trasforma con leggiadria un tema sinistro, la predicazione con segni fallaci dell’ipocrita Anticristo. Come pure, nel contrasto tra la morte che scolorisce e la bellezza, si può leggere il motivo “Nigra sum, sed formosa … quia decoloravit me sol” (Cn 1, 4-5), interpretato da Olivi come momento di tribolazione e di tentazione della sposa.
Né si può dire che Cn 8, 2 sia il solo passo del commento oliviano ad essere stato presente all’autore della Vita Nova. La “compassiva memoria sanguinis Christi et electorum suorum” (Cn 7, 5) è desiderio di martirio che reca un colore purpureo (Cn 3, 10 [il trono del re]; 7, 5 [le chiome della sposa]), uno dei colori di Beatrice, la quale, ripresentandosi “con quelle vestimenta sanguigne colle quali apparve prima agli occhi miei”, fa pentire del vile desiderio della Gentile e riaccende i sospiri che rendono gli occhi desiderosi di piangere, per cui “dintorno a.lloro si facea uno colore purpureo, lo quale suole apparire per alcuno martirio che altri riceva” (Vita Nova 28.1-4). Desiderio di martirio che è prima di tutto desiderio di memoria, “che sola fa rivivere per Dante la sua donna” (Vita Nova 27.6: “però che maggiore desiderio era lo mio ancora di ricordarmi della gentilissima donna mia, che di vedere costei”) [14].
L’amore per la Gentile della Vita Nova, che sarebbe apparsa il 21 agosto 1293 (1168 giorni dalla morte di Beatrice, l’8 giugno 1290), non ha nulla di contraddittorio con l’amore per “la bellissima e onestissima figlia dello Imperadore dell’universo, alla quale Pittagora puose nome Filosofia”, celebrata nel Convivio (II, ii, 1) come allegoria di “quella gentile donna [di] cui feci menzione nella fine della Vita Nova” [15]. Per sentire la dolcezza della Filosofia Dante era andato “là dov’ella si dimostrava veracemente, cioè nelle scuole delli religiosi e alle disputazioni delli filosofanti” (Convivio, II, xii, 7; per trenta mesi, quindi a partire dalla metà circa del 1291). Certo, le due donne vengono presentate in modo assai diverso, quella falsa e dubbiosa, questa piena di certezza nelle sue dimostrazioni e libera da dubbi. Il passaggio per il certamen dubitationis è però ineliminabile anche per la Filosofia, come scritto nella canzone Voi che ’ntendendo il terzo ciel movete (legata alla presenza di Carlo Martello a Firenze nel marzo 1294): “Chi veder vuol la salute, / faccia che li occhi d’esta donna miri, / sed e’ non teme angoscia di sospiri”. Questa “angoscia di sospiri” consiste in “labore di studio e lite di dubitazioni, le quali dal principio delli sguardi di questa donna multiplicatamente surgono, e poi, continuando la sua luce, caggiono quasi come nebulette matutine alla faccia del sole; e rimane libero e pieno di certezza lo familiare intelletto, sì come l’aere dalli raggi meridiani purgato e illustrato” (Convivio, II, xv, 5). Sono appunto “penseri … sì angosciosi” e “molti sospiri” ad accompagnare il pentimento che il cuore del poeta, ricordandosi di Beatrice “secondo l’ordine del tempo passato”, fa “dello desiderio a cui sì vilmente s’avea lasciato possedere alquanti die contra la constanzia della Ragione” (cfr. Vita Nova, 28). Ma il dubbio, e dunque anche la vista del falso che pare vero, resta necessario alla Filosofia venuta a consolare la vedovata vita del poeta.
È da notare che se la fallace immaginazione di Beatrice morta avviene a occhi chiusi (Vita Nova, 14.4), la più sottile tentazione della Gentile avviene per gli occhi, ma è sempre parvenza (“tutta la pietà parea in lei accolta”, ibid., 24.2). Occhi che corrispondono alle dimostrazioni, in questo caso dubitose, della Filosofia, “le quali, dritte nelli occhi dello ’ntelletto, innamorano l’anima liberata nelle [sue] condizioni” (Convivio, II, xv, 4). La pietà passionata del primo incontro con la Gentile diventerà poi più virilmente e in tempo assai breve, sull’esempio virgiliano del pietoso Enea, “una nobile disposizione d’animo, apparecchiata di ricevere amore, misericordia ed altre caritative passioni” (ibid., II, x, 5-6).
Come Francesca e Paolo, “sanza alcun sospetto” nei loro “dubbiosi disiri” (lì dove sarebbe stato necessario dubitare a fondo), sono stati ingannati da una falsa ‘scrittura’, e la loro vista da dannati accora di pietà, così è accaduto a Dante con la Gentile, e non è casuale, come sopra ricordato, che i due episodi sviluppino in parte i medesimi concetti teologici, per quanto attinti da distinte opere. Nel caso dei “due cognati”, la ragione è stata sottomessa al “talento”, cioè alla lussuria; nel caso della Gentile alla ‘viltà’ che deriva da una condizione dubbiosa e ingannatrice, disperativa e inducente in un cader supino, “come corpo morto cade”. Ancor più che a Francesca, la Gentile si avvicina alla “femmina balba”, la cui immagine, colorata nel sogno “com’ amor vuol” e poi rivelatasi fetida per intervento su Virgilio di una donna “santa e presta”, fa ancora andare Dante, dopo il risveglio, “con tanta sospeccion”, vòlto “pur inver’ la terra” (Purg. XIX, 52-57).
Tra la Gentile della Vita Nova e quella del Convivio non c’è più contraddizione di quanta possa esservi tra il visitare il secondo cerchio dell’Inferno, dove stanno i lussuriosi, e l’ascoltare la dottrina d’amore esposta da Virgilio sulla soglia del quarto girone della montagna, secondo la quale non è vero che sia “ciascun amore in sé laudabil cosa” (Purg. XVIII, 34-36). Dante ha taciuto una parte della verità, perché nella Vita Nova la Gentile non viene identificata con la Filosofia (non avendola interpretata allegoricamente, come nel Convivio), ma non ha detto falsità o non si è contraddetto, perché l’agone del dubbio si è svolto tutto dentro di lui, non in re. A guardar bene, l’“adversario della Ragione”, contro il quale si leva Beatrice, è il “gentil pensero che parla di voi”, il quale sta nella mente del poeta che vede la Gentile in modo troppo passionato [16]. Il dubbio “nasce … a guisa di rampollo, a piè del vero” (Par. IV, 130-132), ma come può spingere “di collo in collo” verso quel vero, così può deprimere nella battaglia e indurre in errore.
A questo punto bisogna esaminare ancora il commento di Olivi al Cantico dei Cantici e vedere se e quanto esso sia stato presente, forse insieme ad altre opere esegetiche dello stesso autore, nella stesura della Vita Nova. Ci si potrà, poi, interrogare se la frequentazione per circa trenta mesi “nelle scuole delli religiosi e alle disputazioni delli filosofanti” fino all’apparizione della Donna Gentile-Filosofia non sia stata accompagnata da una solida preparazione teologica nel campo dell’esegesi, e se questa non sia stata addirittura precedente la morte di Beatrice, negli anni in cui Olivi insegnava a Santa Croce.
Tab. I.1
Tab. I.2
Vita Nova 25 [XXXVI]Avenne poi che là ovunque questa donna mi vedea, si facea d’una vista pietosa e d’un colore palido quasi come d’amore; onde molte fiate mi ricordava della mia nobilissima donna, che di simile colore si mostrava tuttavia. [2] E certo molte volte non potendo lagrimare né disfogare la mia tristitia, io andava per vedere questa pietosa donna, la quale parea che tirasse le lagrime fuori delli miei occhi per la sua vista. [3] E però mi venne volontà di dire anche parole parlando a.llei, e dissi questo sonetto, lo quale comincia Colore d’amore ; ed è piano sanza dividerlo, per la sua precedente ragione.[4-5]Color d’amore e di pietà sembianti
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Cn 8, 2, pp. 302, 304[326] “Ibi me docebis” doctrina scilicet altiori et experimentaliori, “et dabo tibi poculum ex vino condito” scilicet aromaticis speciebus, “et mustum malogranatorum meorum” (2cd). Nota quod usquemodo non fecit mentionem de “vino condito” nec de “musto malogranatorum”, sed solum de vino simplici et de arboribus ac fructibus et germinibus malorum punicorum. Dulcor enim contemplationis et expressum “mustum” difficillimorum et acerbissimorum martyriorum circa tempus conversionis Iudaeorum et circa tempus Antichristi debent Christo ab ecclesia singularius ministrari. Tunc enim teste Christo “erit tanta tribulatio, ut si fieri potest, in errorem inducantur electi” (cfr. Mt 24, 21-24). Et Gregorius Moralium trigesimo secundo super illud Iob: “Stringit caudam suam quasi cedrum” (Iob 40, 12) praemittens quod per caudam illam Antichristus significetur, subdit causam, quare tribulatio electorum sub eo erit maior quam praecedens dicens: «Nunc enim fideles nostri mira faciunt, cum perversa patiuntur, tunc autem Behemoth huius satellites etiam cum perversa inferunt, mira facturi sunt. Pensemus ergo quae erit humanae mentis illa tentatio: pius martyr et corpus tormentis subiicit et tamen ante eius oculos miracula tortor facit. Cuius tunc virtus non ab ipso cogitationum fundo quatiatur, quando is qui flagris cruciat, signis coruscat?» Haec Gregorius. Item Moralium trigesimo quinto super illud Iob ultimo: “Addidit Dominus omnia quaecumque fuerant Iob, duplicia” (Iob 42, 10) dicit: «Sancta quippe ecclesia etsi multos nunc percussione tentationis amittit, in fine tamen huius saeculi ea quae sua sunt, duplicia recipiet, quando susceptis ad plenum gentibus ad eius fidem currere omnis quae tunc inventa fuerit, etiam Iudaea consentit. Hinc namque in evangelio veritas dicit: “Elias veniet et ille restituet omnia”» (Mt 17, 11).Vita Nova 26 [XXXVII][6-8]«L’amaro lagrimar che voi faceste,
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Tab. I.3
Vita Nova 27 [XXXVIII]Ricoverai la vista di questa donna in sì nuova conditione, che molte volte ne pensava sì come di persona che troppo mi piacesse, e pensava di lei così: «Questa è una donna gentile, bella, giovane e savia, ed è apparita forse per volontà d’Amore acciò che la mia vita si riposi». E molte volte pensava più amorosamente, tanto che lo cuore consentia in lui, cioè nel suo ragionare. [2] E quando io avea consentito ciò, e io mi ripensava sì come dalla Ragione mosso e dicea fra me medesimo: «Deh, che pensero è questo, che in così vile modo vuole consolar me, e non mi lascia quasi altro pensare?». [3] Poi si rilevava un altro pensero e diceami: «Or tu se’ stato in tanta tribulatione ; perché non vuoli tu ritrarre te da tanta amaritudine? Tu vedi che questo è uno spiramento d’Amore, che ne reca li disiri d’amore dinanzi , ed è mosso da così gentil parte com’è quella degli occhi della donna che tanto pietosa ci s’àe mostrata». [4] Onde io, avendo così più volte combattuto in me medesimo, ancora ne volli dire alquante parole. E però che la battaglia de’ pensieri vinceano coloro che per lei parlavano, mi parve che si convenisse di parlare a.llei, e dissi questo sonetto, lo quale comincia Gentile pensero ; e dico «Gentile» in quanto ragionava di gentil donna, ché peraltro era vilissimo. [5] In questo sonetto fo due parti di me, secondo che li miei pensieri erano divisi. L’una parte chiamo core, cioè l’appetito; l’altra chiamo anima, cioè la Ragione; e dico come l’uno dice coll’altro. E che degno sia di chiamare l’appetito cuore, e la Ragione anima, assai è manifesto a coloro a cui mi piace che ciò sia aperto. [6] Vero è che nel precedente sonetto io fo la parte del cuore contra quella degli occhi, e ciò pare contrario di quello che io dico nel presente; e però dico che ivi lo cuore anche intendo per lo appetito, però che maggiore desiderio era lo mio ancora di ricordarmi della gentilissima donna mia, che di vedere costei, avegna che alcuno appetito n’avessi già, ma leggiero parea: onde appare che l’uno decto non è contrario all’altro. [7] Questo sonetto à tre parti. Nella prima comincio a dire a questa donna come lo mio desiderio si volge tutto verso lei; nella seconda dico come l’anima, cioè la Ragione, dice al cuore, cioè all’appetito; nella terza dico com’e’ le risponde. La seconda parte comincia quivi L’anima dice; la terza quivi Ei le risponde.[8-10]Gentil pensero che parla di voi
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Cn 8, 2, pp. 302, 304[326] “Ibi me docebis” doctrina scilicet altiori et experimentaliori, “et dabo tibi poculum ex vino condito” scilicet aromaticis speciebus, “et mustum malogranatorum meorum” (2cd). Nota quod usquemodo non fecit mentionem de “vino condito” nec de “musto malogranatorum”, sed solum de vino simplici et de arboribus ac fructibus et germinibus malorum punicorum. Dulcor enim contemplationis et expressum “mustum” difficillimorum et acerbissimorum martyriorum circa tempus conversionis Iudaeorum et circa tempus Antichristi debent Christo ab ecclesia singularius ministrari. Tunc enim teste Christo “erit tanta tribulatio, ut si fieri potest, in errorem inducantur electi” (cfr. Mt 24, 21-24). Et Gregorius Moralium trigesimo secundo super illud Iob: “Stringit caudam suam quasi cedrum” (Iob 40, 12) praemittens quod per caudam illam Antichristus significetur, subdit causam, quare tribulatio electorum sub eo erit maior quam praecedens dicens: «Nunc enim fideles nostri mira faciunt, cum perversa patiuntur, tunc autem Behemoth huius satellites etiam cum perversa inferunt, mira facturi sunt. Pensemus ergo quae erit humanae mentis illa tentatio : pius martyr et corpus tormentis subiicit et tamen ante eius oculos miracula tortor facit. Cuius tunc virtus non ab ipso cogitationum fundo quatiatur, quando is qui flagris cruciat, signis coruscat?» Haec Gregorius. Item Moralium trigesimo quinto super illud Iob ultimo: “Addidit Dominus omnia quaecumque fuerant Iob, duplicia” (Iob 42, 10) dicit: «Sancta quippe ecclesia etsi multos nunc percussione tentationis amittit, in fine tamen huius saeculi ea quae sua sunt, duplicia recipiet, quando susceptis ad plenum gentibus ad eius fidem currere omnis quae tunc inventa fuerit, etiam Iudaea consentit. Hinc namque in evangelio veritas dicit: “Elias veniet et ille restituet omnia”» (Mt 17, 11).Vita Nova 28 [XXXIX]Contra questo adversario della Ragione si levòe un die, quasi nell’ora della nona, una forte ymaginatione in me, che mi parve vedere questa gloriosa Beatrice con quelle vestimenta sanguigne colle quali apparve prima agli occhi miei, e pareami giovane in simile etade in quale prima la vidi. [2] Allora cominciai a pensare di lei, e ricordandomi di lei secondo l’ordine del tempo passato, lo mio cuore cominciò dolorosamente a pentere dello desiderio a cui sì vilmente s’avea lasciato possedere alquanti die contra la constanzia della Ragione: e discacciato questo cotale malvagio desiderio, si rivolsero tutti li miei pensamenti alla loro gentilissima Beatrice. […] [6] Onde io, volendo che cotale desiderio malvagio e vana tentatione paresse distructo sì che alcuno dubbio non potessero inducere le rimate parole che io avea dette dinanzi, propuosi di fare uno sonetto nel quale io comprendessi la sententia di questa ragione, e dissi allora Lasso, per forza di molti sospiri. E dissi «Lasso» in quanto mi vergognava di ciò che li miei occhi aveano così vaneggiato. [7] Questo sonetto non divido, però che assai lo manifesta la sua ragione.[8-10]Lasso, per forza di molti sospiri,
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Tab. I.4
Inf. IV, 16-22E io, che del color mi fui accorto,
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Par. IV, 130-132Nasce per quello, a guisa di rampollo,
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[Lectura super Apocalipsim (= LSA), prologus, Notabile X] Sextus (status) vero concurrit cum secundo non in eodem tempore sed in celebri multitudine martiriorum, prout in apertione quinti signaculi aperte docetur (cfr. Ap 6, 9), quamvis in modo martirii quoad aliqua differant. Nam martiria a paganis et idolatris facta nullum certamen dubitationis inferebant martiribus, aut probabilis rationis, propter nimiam evidentiam paganici erroris. Non sic autem fuit de martiriis per hereticos, unum Deum et unum Christum confitentes, inflictis. In sexto autem tempore non solum propulsabuntur martires per tormenta corporum, aut per subtilitatem rationum philosophicarum, aut per intorta testimonia scripturarum sanctarum, aut per simulationem sanctitatis ypocritarum, immo etiam per miracula a tortoribus facta. Nam, teste Christo, “dabunt signa et prodigia magna” (Mt 24, 24). Unde Gregorius, XXXII° Moralium super illud Iob: “stringit caudam suam quasi cedrum” (Jb 40, 12), dicit: « Nunc fideles nostri mira faciunt, cum perversa patiuntur ; tunc autem Behemot huius satellites, etiam cum perversa inferunt, mira facturi sunt. Pensemus ergo que erit humane mentis illa temptatio, quando pius martir corpus tormentis subicit, et tamen ante eius oculos miracula tortor facit ». Propulsabit etiam eos per falsam imaginem divine et pontificalis auctoritatis. Sic enim tunc surgent pseudochristi et pseudochristus contra electos, sicut Annas et Caiphas pontifices insurrexerunt in Christum. Erunt ergo tunc tormenta intensive maiora, tempore autem paganorum fuerunt extensive pluriora: nam plusquam per ducentos annos duraverunt. |
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Inf. V, 91-93, 109-120, 124-132, 137; VI, 1-2se fosse amico il re de l’universo,
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Inf. XX, 7-30e vidi gente per lo vallon tondo
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Vita Nova 6 [XIII]. 1-7Apresso di questa soprascripta visione, avendo già dette le parole che Amore m’avea imposte a dire, mi cominciaro molti e diversi pensamenti a combattere e a tentare, ciascuno quasi indefensibilemente; tra li quali pensamenti, quatro mi parea che ingombrassero più lo riposo della vita. [2] L’uno delli quali era questo: buona è la signoria d’Amore, però che trae lo ’ntendimento del suo fedele da tutte le vili cose. [3] L’altro era questo: non buona è la signoria d’Amore, però che quanto lo suo fedele più fede li porta, tanto più gravi e dolorosi puncti li conviene passare. [4] L’altro era questo: lo nome d’Amore è sì dolce a udire, che impossibile mi pare che la sua propria operatione sia nelle più cose altro che dolce, con ciò sia cosa che li nomi seguitino le nominate cose, sì come è scripto: «Nomina sunt consequentia rerum». [5] Lo quarto era questo: la donna, per cui Amore ti stringe così, non è come l’altre donne, che leggieramente si muova del suo core. [6] E ciascuno mi combattea tanto, che mi facea stare quasi come colui che non sa per qual via pigli lo suo camino, e che vuole andare e non sa onde sen vada; e se io pensava di volere cercare una comune via di costoro, cioè là ove tutti s’accordassero, questa via era molto inimica verso me, cioè di chiamare e di mettermi nelle braccia della Pietà. [7] E in questo stato dimorando mi giunse volontà di scrivere parole rimate; e dissine allora questo sonetto, lo quale comincia Tutti li miei.Cn 8, 2, pp. 302, 304[326] […] Et Gregorius Moralium trigesimo secundo super illud Iob: “Stringit caudam suam quasi cedrum” (Iob 40, 12) praemittens quod per caudam illam Antichristus significetur, subdit causam, quare tribulatio electorum sub eo erit maior quam praecedens dicens: «Nunc enim fideles nostri mira faciunt, cum perversa patiuntur, tunc autem Behemoth huius satellites etiam cum perversa inferunt, mira facturi sunt. Pensemus ergo quae erit humanae mentis illa tentatio : pius martyr et corpus tormentis subiicit et tamen ante eius oculos miracula tortor facit. Cuius tunc virtus non ab ipso cogitationum fundo quatiatur, quando is qui flagris cruciat, signis coruscat?» Haec Gregorius. Item Moralium trigesimo quinto super illud Iob ultimo: “Addidit Dominus omnia quaecumque fuerant Iob, duplicia” (Iob 42, 10) dicit: «Sancta quippe ecclesia etsi multos nunc percussione tentationis amittit, in fine tamen huius saeculi ea quae sua sunt, duplicia recipiet, quando susceptis ad plenum gentibus ad eius fidem currere omnis quae tunc inventa fuerit, etiam Iudaea consentit. Hinc namque in evangelio veritas dicit: “Elias veniet et ille restituet omnia”» (Mt 17, 11). |
Tab. I.5
Vita Nova 6 [XIII]Apresso di questa soprascripta visione, avendo già dette le parole che Amore m’avea imposte a dire, mi cominciaro molti e diversi pensamenti a combattere e a tentare, ciascuno quasi indefensibilemente; tra li quali pensamenti, quatro mi parea che ingombrassero più lo riposo della vita. [2] L’uno delli quali era questo: buona è la signoria d’Amore, però che trae lo ’ntendimento del suo fedele da tutte le vili cose. [3] L’altro era questo: non buona è la signoria d’Amore, però che quanto lo suo fedele più fede li porta, tanto più gravi e dolorosi puncti li conviene passare. [4] L’altro era questo: lo nome d’Amore è sì dolce a udire, che impossibile mi pare che la sua propria operatione sia nelle più cose altro che dolce, con ciò sia cosa che li nomi seguitino le nominate cose, sì come è scripto: «Nomina sunt consequentia rerum». [5] Lo quarto era questo: la donna, per cui Amore ti stringe così, non è come l’altre donne, che leggieramente si muova del suo core. [6] E ciascuno mi combattea tanto, che mi facea stare quasi come colui che non sa per qual via pigli lo suo camino, e che vuole andare e non sa onde sen vada; e se io pensava di volere cercare una comune via di costoro, cioè là ove tutti s’accordassero, questa via era molto inimica verso me, cioè di chiamare e di mettermi nelle braccia della Pietà. [7] E in questo stato dimorando mi giunse volontà di scrivere parole rimate; e dissine allora questo sonetto, lo quale comincia Tutti li miei.[8-9]Tutti li miei pensier’ parlan d’Amore,
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Cn 8, 2, pp. 302, 304[326] “Ibi me docebis” doctrina scilicet altiori et experimentaliori, “et dabo tibi poculum ex vino condito” scilicet aromaticis speciebus, “et mustum malogranatorum meorum” (2cd). Nota quod usquemodo non fecit mentionem de “vino condito” nec de “musto malogranatorum”, sed solum de vino simplici et de arboribus ac fructibus et germinibus malorum punicorum. Dulcor enim contemplationis et expressum “mustum” difficillimorum et acerbissimorum martyriorum circa tempus conversionis Iudaeorum et circa tempus Antichristi debent Christo ab ecclesia singularius ministrari. Tunc enim teste Christo “erit tanta tribulatio, ut si fieri potest, in errorem inducantur electi” (cfr. Mt 24, 21-24). Et Gregorius Moralium trigesimo secundo super illud Iob: “Stringit caudam suam quasi cedrum” (Iob 40, 12) praemittens quod per caudam illam Antichristus significetur, subdit causam, quare tribulatio electorum sub eo erit maior quam praecedens dicens: «Nunc enim fideles nostri mira faciunt, cum perversa patiuntur, tunc autem Behemoth huius satellites etiam cum perversa inferunt, mira facturi sunt. Pensemus ergo quae erit humanae mentis illa tentatio : pius martyr et corpus tormentis subiicit et tamen ante eius oculos miracula tortor facit. Cuius tunc virtus non ab ipso cogitationum fundo quatiatur, quando is qui flagris cruciat, signis coruscat?» Haec Gregorius. Item Moralium trigesimo quinto super illud Iob ultimo: “Addidit Dominus omnia quaecumque fuerant Iob, duplicia” (Iob 42, 10) dicit: «Sancta quippe ecclesia etsi multos nunc percussione tentationis amittit, in fine tamen huius saeculi ea quae sua sunt, duplicia recipiet, quando susceptis ad plenum gentibus ad eius fidem currere omnis quae tunc inventa fuerit, etiam Iudaea consentit. Hinc namque in evangelio veritas dicit: “Elias veniet et ille restituet omnia”» (Mt 17, 11).Cn 1, 4, p. 128[44] “Nigra” etiam “sum” “sicut pelles Salomonis” (cfr. 4b). Quod in templo Salomonis pelles fuerint nigrae, non legimus, sed in tabernaculo a Moyse facto fuerunt saga cilicina de pilis caprarum, et illa erant nigra. Fuerunt etiam ibi pelles arietum rubricatae (Ex 26, 7-14). Et forte has vocat “pelles Salomonis”; tum quia sub ipso finaliter fuerunt; tum ut duplici mysterio denigrationis sponsae deserviat. Fuit enim cultus tabernaculi Dei in transitu deserti et tandem in terra promissionis et in Ierusalem. Et tunc sub Salomone fuit in maiori pace et gloria. Et secundum hoc sponsa Dei est in duplici statu, scilicet in laborioso transitu ad contemplationis apicem et quietem et in ipso apice seu in ipso termino quietante. In primo sponsa bellis tentationum et laboriosis macerationibus et exercitiis et suspiriosis desideriis exterius mortificatur. In secundo vero vitae carnali funditus moritur, et ideo tunc velut mortua huic mundo videtur. Vult ergo dicere sponsa: etsi exterius me videtis despectam et mortuam, attendite tamen meam intelligibilem seu virtualem formam et venustatem.Cn 1, 5c-d, p. 132[52] Vel forte hic vult ostendere quod eis noluit consentire in custodia vinearum suarum, quam ut bene exaggerative loquatur, dicit in singulari “vineam” et appropriative “meam”, ut ostendat quod nec universitas et unitas status prioris potuit ad hoc trahere nec ipsius paternitas et maternitas, qua intra eam et ex ea fuerat progenita et propter quam prius habuerat eam ut ‘suam’. Quia vero ista tentatio gravis est, ideo petit a sponso refugium directivum subdens: […]. |
Tab. I.6
Cn, 8, 2martyria ; tanta tribulatio ; in errorem inducantur ; stringit ; patiuntur ; mira ; pensemus ; mentis illa temptatio ; pius martyr ; ante eius oculos ; miracula ; ab ipso cogitationum fundo quatiatur ; percussione tentationis |
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Vita Nova 24molto stava pensoso ; e con dolorosi pensamenti tanto [§ 1]travagliare [2]pietosamente [2]; pietà [2]; pietade [3]; pietosa [3]d’inanzi dagli occhi [3]
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Vita Nova 25pietosa [1, 2]occhi [2]
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Vita Nova 26occhi [1]pensero [2]
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Vita Nova 27ne pensava [1]tanta tribulatione [3]dinanzi [3]pietosa [3]battaglia de’ pensieri [4]
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Vita Nova 28pensare [2]tentatione [6]
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Vita Nova 6pensamenti [1]tentare [1]passare [3]ti stringe [5]Pietà [6]
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LSA, prologus, notabile X (in blu sono indicati i nuovi elementi rispetto a Cn 8, 2 o alla Vita Nova)martiria ; certamen dubitationis ; propulsabuntur , propulsabit ; subtilitatem ; intorta ; tortor ; scripturarum ; stringit ; perversa ; patiuntur ; mira facturi sunt ; pensemus ; mentis illa temptatio ; pius martir ; tormentis ; ante eius oculos ; miracula … facit ; imaginem |
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(Inf. V)pietà (v. 93); perverso (93); che pense? (111); martìri (116); pio (117); dubbiosi (120); lo strinse (128); occhi ; sospinse (130); scrisse (137)(Inf. VI)mente (1); pietà (2)(Par. XIX)dubbio (33); s’assottiglia (82); Scrittura (83); dubitar ; a maraviglia (84)(Par. XX)dubbiar (79); patio (81); mi pinse (83); ti fa maravigliar (101)(Par. XXXII)dubbi tu ; dubitando (49); ti stringon ; pensier sottili (51) |
(Inf. IV)dubbiare (18); quella pietà (21); sospigne (22)(Inf. XX)pensa (20); imagine (22); torta (23); pietà (28); passion (30)(Purg. III)si strinser (70); stretti (71); dubbiando (72)(Purg. X)tormento (116); occhi ; tencione (117)(Purg. XII)mirar farieno ; sottile (66)(Par. IV)dubbio (131); pinge (132) |
Tab. I.7
Vita Nova 1.4, 15 [II 3, III 4][4] Apparve vestita di nobilissimo colore umile e onesto sanguigno, cinta e ornata alla guisa che alla sua giovanissima etade si convenia. […]
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Cn 3, 10, p. 186 [sponsi solium sive thronum describit][161] Quinto ex eius interscalari “ascensu” qui fuit “purpureus” (10b), id est: colore purpureo intinctus vel operimento purpureo adornatus. Ascensus enim eius est per desiderium martyriorum et per sufferentias tribulationum iuxta illud: “Per multas tribulationes oportet nos intrare in regnum caelorum (Ac 14, 21)”. Et ideo hic est tinctura sanguinis effusi; nam purpura fit ex sanguine quorumdam conchylium.Cn 7, 5, pp. 282, 284[297] Decimo de ‘comis’ eius dicit quod sunt “sicut purpura regis iuncta canalibus” (5). Per ‘purpuram’ litteraliter significatur aut sanguis cuiusdam conchylis purpureus aut mataxa sericorum filorum sanguine purpureo canalibus intinctorum. Per utrumque autem horum significatur quod grandes et multiplices et oblongi pili seu crines, id est: meditationes et affectus sponsae, sunt compassiva memoria sanguinis Christi et electorum suorum et desiderio martyrii sunt intincti et ad hanc intinctionem plenius recipiendam concavis pietatis et humilitatis canalibus applicati. Dicit autem: “purpura regis”, tum ad notandum huius purpurae singularem pretiositatem et dignitatem, tum quia est vere sanguis Christi regis nostri. Per ‘canales’ etiam possunt intelligi scripturae sacrae vel eorum doctores Christi passionem mystice vel historice exprimentes. Vel per huius sanguinis ‘canales’ intelliguntur quaecumque intermedia specula vel memorialia passionis Christi quibus crines cordis nostri, id est: eius cogitatus et affectus, sunt iungendi, ut intingantur eius viscerosa compassione et eius imitatoria passione.Vita Nova 27 [XXXVIII]. 6[6] Vero è che nel precedente sonetto io fo la parte del cuore contra quella degli occhi, e ciò pare contrario di quello che io dico nel presente; e però dico che ivi lo cuore anche intendo per lo appetito, però che maggiore desiderio era lo mio ancora di ricordarmi della gentilissima donna mia, che di vedere costei, avegna che alcuno appetito n’avessi già, ma leggiero parea: onde appare che l’uno decto non è contrario all’altro. |
Tab. I.8
Cn 1, 4-5, p. 128[44] (“Nigra” etiam “sum”) “sicut pelles Salomonis” (cfr. 4b). Quod in templo Salomonis pelles fuerint nigrae, non legimus, sed in tabernaculo a Moyse facto fuerunt saga cilicina de pilis caprarum, et illa erant nigra. Fuerunt etiam ibi pelles arietum rubricatae (cfr. Ex 26, 7.14). Et forte has vocat “pelles Salomonis”; tum quia sub ipso finaliter fuerunt; tum ut duplici mysterio denigrationis sponsae deserviat. Fuit enim cultus tabernaculi Dei in transitu deserti et tandem in terra promissionis et in Ierusalem. Et tunc sub Salomone fuit in maiori pace et gloria. Et secundum hoc sponsa Dei est in duplici statu, scilicet in laborioso transitu ad contemplationis apicem et quietem et in ipso apice seu in ipso termino quietante. In primo sponsa bellis tentationum et laboriosis macerationibus et exercitiis et suspiriosis desideriis exterius mortificatur. In secundo vero vitae carnali funditus moritur, et ideo tunc velut mortua huic mundo videtur. Vult ergo dicere sponsa: etsi exterius me videtis despectam et mortuam, attendite tamen meam intelligibilem seu virtualem formam et venustatem.
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Vita Nova 14 [XXIII].17-26, vv. 1-6, 21-70Donna pietosa e di novella etate,
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Cn 8, 2, pp. 302, 304[326] “Ibi me docebis” doctrina scilicet altiori et experimentaliori, “et dabo tibi poculum ex vino condito” scilicet aromaticis speciebus, “et mustum malogranatorum meorum” (2cd). Nota quod usquemodo non fecit mentionem de “vino condito” nec de “musto malogranatorum”, sed solum de vino simplici et de arboribus ac fructibus et germinibus malorum punicorum. Dulcor enim contemplationis et expressum “mustum” difficillimorum et acerbissimorum martyriorum circa tempus conversionis Iudaeorum et circa tempus Antichristi debent Christo ab ecclesia singularius ministrari. Tunc enim teste Christo “erit tanta tribulatio, ut si fieri potest, in errorem inducantur electi” (cfr. Mt 24, 21-24). Et Gregorius Moralium trigesimo secundo super illud Iob: “Stringit caudam suam quasi cedrum” (Iob 40, 12) praemittens quod per caudam illam Antichristus significetur, subdit causam, quare tribulatio electorum sub eo erit maior quam praecedens dicens: «Nunc enim fideles nostri mira faciunt, cum perversa patiuntur, tunc autem Behemoth huius satellites etiam cum perversa inferunt, mira facturi sunt. Pensemus ergo quae erit humanae mentis illa tentatio: pius martyr et corpus tormentis subiicit et tamen ante eius oculos miracula tortor facit. Cuius tunc virtus non ab ipso cogitationum fundo quatiatur, quando is qui flagris cruciat, signis coruscat?» Haec Gregorius. Item Moralium trigesimo quinto super illud Iob ultimo: “Addidit Dominus omnia quaecumque fuerant Iob, duplicia” (Iob 42, 10) dicit: «Sancta quippe ecclesia etsi multos nunc percussione tentationis amittit, in fine tamen huius saeculi ea quae sua sunt, duplicia recipiet, quando susceptis ad plenum gentibus ad eius fidem currere omnis quae tunc inventa fuerit, etiam Iudaea consentit. Hinc namque in evangelio veritas dicit: “Elias veniet et ille restituet omnia”» (Mt 17, 11).Vita Nova 3 [VIII].8-9, vv. 1-12Morte villana, di Pietà nemica,
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PETRI IOHANNIS OLIVI Lectura super Matthaeum, Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, ms. Vat. lat. 10900, ff. 165va, 166ra.[f. 165va; Mt 24, 24] “Ita ut in errorem inducantur si fieri potest etiam electi”, Gregorius Moralium triginta uno dicit quod quia electorum cor concutietur, eorum tamen constantia ad malum non movebitur, ideo Christus una sententia complexus est utrumque: quasi enim iam errare est in cogitatione titubare. Sed “si fieri potest” subiungitur, quia fieri non potest ut in errorem electi capiantur. Ad litteram autem sensus est quod tantus erit temptationis excessus quod electi fere in errorem cadent et caderent, nisi singulari Dei gratia custodirentur. Rabanus tamen legit hic de electis secundum apparentiam, dicens quod non ideo hoc dicit quod electio divina frustretur, sed qui humano iudicio electi videbantur, illi in errorem mittentur. Et secundum hoc debet legi “si fieri potest”, scilicet quod sint electi. […]
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2. Amore sulla via di Emmaus
■ Si prenda l’esegesi di Cn 5, 6. Come esempio del fatto che nella contemplazione, talvolta, Dio si sottrae all’improvviso, prima che la sua visita sia compiuta, Olivi cita l’incontro di Cristo “in specie peregrini” con i discepoli sulla via di Emmaus (Luca XXIV, 13-35). Appena riconosciuto, Cristo “subito avolavit ab eis”. Difficile non scorgere questi motivi in Amore trovato “in mezzo della via / in abito leggier di peregrino”, che poi “disparve, e non m’accorsi come”, descritto in Cavalcando l’altrier per un camino (Vita Nova 4).
Amore (solo nella prosa) “mi parea sbigottito e guardava la terra, salvo che talora li suoi occhi mi parea che si volgessero ad un fiume bello e corrente e chiarissimo, lo qual sen gia lungo questo camino là ov’io era” (Vita Nova 4.4). Il sintagma occhi / fiume si trova a Cn 5, 12, dove la sposa dice in lode dello sposo: “Oculi eius sicut columbae super rivos aquarum quae lacte sunt lotae et resident iuxta fluenta plenissima”: il fiume, abissale e ridondante d’acqua, è l’immensa sapienza divina; le colombe, bianche e nitide come latte, designano la sincerità e lo splendore dell’aspetto divino che contempla (gli “occhi”) i rivi, cioè le sapienziali derivazioni nelle sue creature. Sarà appunto uno “rivo chiaro molto” (Vita Nova 10.12 [XIX 1]) quello presso il quale verrà concepita la canzone Donne ch’avete intellecto d’amore, inizio delle “nove rime”, come riconosciuto da Bonagiunta Orbicciani da Lucca a Purg. XXIV, 49-51.
Il rinvio a Luca XXIV induce a considerare il grande commento di Olivi al relativo Vangelo e a confrontarne i passi con Vita Nova 4 [17]. Anche in questo caso Cristo si presenta ai due discepoli “in tali specie uestium et forma eundi, ex qua quasi peregrinus et pauper estimari posset” (“come peregrino leggieramente vestito e di vili drappi – in abito leggier di peregrino. / Nella sembianza mi parea meschino”). Al termine dell’incontro si verifica la «subita Christi disparitio, unde subditur: “et ipse euanuit”, id est disparuit, “ex oculis eorum”» (“disparve questa mia ymaginatione tutta subitamente – ch’elli disparve, e non m’accorsi come”). I due pellegrini sulla via di Emmaus sono tristi, perché si dolgono della morte di Cristo; Dante è angosciato, “però ch’io mi dilungava dalla mia beatitudine”.
Alla sùbita scomparsa di Cristo fa seguito il riconoscimento dei discepoli di essere stati infiammati dall’amore divino, prova che di Lui si trattasse; dicono infatti fra loro, “in tanta accensione ardoris”: “Nonne cor nostrum ardens erat in nobis, dum loqueretur nobis in via et aperiret nobis scripturas? (Luca XXIV, 31-32)”. Corrisponde all’ardore suscitato da Amore e alla sua improvvisa sparizione: “disparve questa mia ymaginatione tutta subitamente per la grandissima parte che mi parve che Amore mi desse di sé – Allora presi di lui sì gran parte, / ch’elli disparve, e non m’accorsi come” (Vita Nova 4.7, 12).
Così, prosegue Olivi, avviene alla sposa del Cantico dei Cantici, liquefatta nell’anima dal colloquio con lo sposo subito però troncato, perché la mente non presuma di conoscere cose troppo alte, ma dubiti, tema e sia umiliata. Questi temi (il cuore che arde, l’umile temere o dubitare) sono nella “donna della salute” che “paventosa umilmente pascea” del cuore ardente del poeta nella “maravigliosa visione” avuta da Dante dopo la nuova apparizione della gentilissima (Vita Nova 1.15-17, 23). Così la donna “involta mi parea in uno drappo sanguigno leggieramente” (1.15), come Amore “apparve come peregrino leggieramente vestito e di vili drappi” (4.3); in entrambi i casi (nella prosa) con riferimento all’umiltà.
Nel sonetto A ciascun’alma, il confronto con l’esegesi si limita a pochi elementi, a tutto vantaggio della prosa (cfr. qui di seguito). Nel sonetto Cavalcando, la ripresa dalla pastorella di Giraut de Borneil (L’altrer, lo primer jorn d’aost), con l’immagine del poeta che cavalca con l’aria triste [18], concorda in modo più evidente con l’esegesi scritturale esplicativa dell’incontro con Cristo sulla via di Emmaus.
■ La Lectura super Lucam, XXIV, 13-35 contiene ulteriori motivi. Il primo luogo la simulazione, per quanto questa abbia contenuto diverso. Cristo, invece di entrare nella casa dei pellegrini e di sedere alla loro mensa, simula di andare più lontano di Emmaus. Amore, che reca con sé il cuore dell’amante di cui Beatrice si era cibata, va alla ricerca di una nuova donna-schermo alla quale recapitarlo dopo la partenza della prima “bella difesa”, per “lo simulato amore” che Dante deve mostrare a queste donne, “schermo della veritade”, cioè della sua beatitudine dalla quale esse lo allontanano. Olivi espone ampiamente i motivi per i quali la simulazione messa in atto da Cristo non è finzione falsa o peccaminosa. In primo luogo, non si deve essere importuni nell’entrare nella casa e alla mensa altrui; in secondo luogo, Cristo aspetta di essere invitato come pellegrino e povero; in terzo luogo, perché attraverso le opere di misericordia si perviene a più piena e familiare conoscenza della sapienza divina.
■ Cosa significa Amore, “che si presenta all’immaginazione dantesca camuffato da peregrino leggieramente vestito e di vili drappi” ? Scrive Gorni:
Sarà un travestimento fatto da Amore per garantirsi, né più né meno, la segretezza? o perché, trattandosi di simulato amore, conviene a chi lo rappresenta di mascherarsi (D’Ancona)? oppure, come proponeva il Carducci, la figura di pellegrino e l’abito leggero alludono all’errare da un amore all’altro, con volubile cuore? Certo Amore qui è come un pellegrino sviato dalla sua meta, in attesa di un santuario illustre da onorare con la sua visita. E a quel punto ci si avvede anche che il traguardo del pellegrino è sempre funebre, corpo venerato o reliquia: meta sacra, ma di morte [19].
Amore pellegrino designa uno stadio del processo contemplativo. Nell’ascesa alla contemplazione divina, il desiderio e l’attendere alle cose spirituali deve essere sicuro e ben difeso (Emmaus è definita “castrum”, “oportet … illum desiderium … quod sit robustum et tutum et bene munitum”); deve anche trovarsi a debita distanza dalla meta (Emmaus si trova a sessanta stadi da Gerusalemme, sede della contemplazione e del culto divino, interpretata come “visio pacis”). L’amore simulato delle donne-schermo è “bella difesa”; Dante incontra Amore pellegrino allontanandosi da Beatrice (“mi dilungava dalla mia beatitudine”); sessanta sono “le più belle donne della cittade” per le quali il poeta ha già composto “una pìstola sotto forma di serventese”, nel tempo in cui si era celato con la prima “gentil donna schermo della veritade” (Vita Nova, 2.8, 11). Nel Cantico dei Cantici il numero sessanta designa le “reginae” (Cn 6, 7), quante cioè, congiunte a Dio nella carità, generano figli spirituali e reggono sempre in meglio i cinque sensi sotto il dodici, numero apostolico abbondante che cresce nelle sue parti divisibili. Designa anche i “forti”, che difendono la castità della sposa (Cn 3, 7-8). Altrove (Cn 4, 4) il “collo” della sposa, che è “medium” fra capo e corpo, viene assimilato alla torre di David, alla quale sono appesi mille scudi, cioè un numero perfetto per la difesa che indica anche “per memoriae diligentiam” gli esempi di perfezione dei santi. La prima donna-schermo, “bella difesa”, “mezzo era stata nella linea recta che movea dalla gentilissima Beatrice e terminava negli occhi miei”; a Dante viene voglia di “ricordare” i nomi delle sessanta donne.
Alle sessanta “reginae” di Cn 6, 7 seguono le ottanta “concubinae” e le “adolescentulae” delle quali non è dato numero, poiché quanti seguono ancora le vanità adolescenziali non sono scritti e numerati nel “libro della vita”. Così, nel “libro della memoria” (che è appunto, il “liber vite” di Ap 20, 12), Dante tralascia di “soprastare alle passioni e acti di tanta gioventudine” per pervenire “a quelle parole le quali sono scripte nella mia memoria sotto maggiori paragrafi” (Vita Nova, 1.1, 10-11). Se sessanta sono le “reginae”, “una” è detta la sposa in grado superlativo (Cn 6, 8): così, al termine del suo pellegrinaggio, il poeta “vede una donna che riceve onore” (Vita Nova 30.11).
■ Cristo si presenta ai discepoli di Emmaus, ai loro occhi lacrimosi e semichiusi all’inizio del cammino contemplativo, sotto figure sensibili (“sub figuris valde peregrinis”). La sua umanità è infatti in qualche modo pellegrina rispetto alla divinità, che in questa vita può essere vista, come afferma san Paolo, solo “per speculum in enigmate” (1 Cor 13, 12). Le donne-schermo di Beatrice sono appunto “specula”. Poi Cristo simula di recarsi più lontano per non essere importuno e stimolare alle opere di misericordia, i due lo invitano a restare, egli spezza il pane e lo porge loro. Nell’ascesa contemplativa, tralasciate le figure sensibili, Cristo apre le proprie viscere e le dà in pasto alla virtù gustativa della mente (motivi trasferiti nella visione di Beatrice che mangia il cuore dell’amato a Vita Nova 1.15-17, 23). La verità, “relictis figuris”, inizia a essere intellettualmente riconosciuta, come avvenuto nei due discepoli che dapprima nel pellegrino non avevano riconosciuto Cristo. Amore ricompare nel sogno di Dante dopo che Beatrice gli ha negato il saluto in seguito alle chiacchiere sul suo rapporto con la nuova donna-schermo (Vita Nova 5.10-11). Sta accanto al poeta “uno giovane vestito di bianchissime vestimenta”, che gli dice: «“Fili mi, tempus est ut pretermictantur simulacra nostra”. Allora mi parea che io il conoscessi … » – “Et tunc ueritas, relictis figuris, incipit intellectualiter et quasi in propria specie recognosci ”, cioè il poeta, nel cammino della contemplazione, ha raggiunto uno stato più alto, intellettuale, non sensibile. Amore poi si definisce: “Ego tanquam centrum circuli, cui simili modo se habent circumferentie partes; tu autem non sic”. Ampiamente esposta in uno dei Principia in Sacram Scripturam di Olivi (De doctrina Scripturae), l’immagine di Cristo centro rispetto al cerchio, “mezzo” (cioè mediatore) la cui esemplare vita deve essere dalla nostra perfettamente imitata e partecipata e porsi come fine di ogni nostra azione, risulterà fondamentale nella Commedia, a cominciare dal primo verso. La stessa contemplazione è intesa come circolo, in quanto da Dio discende per ritornare alla superna Gerusalemme. Nel De doctrina Scripturae, come esempio della centralità di Cristo, si adducono le umili parole dette ai discepoli al momento della Cena, nella discussione su chi sia il più grande, riportate in Luca XXII, 27: “Ego autem in medio vestrum sum sicut qui ministrat”. Al versetto 26 Cristo afferma: “Vos autem non sic”, cioè non dovete essere come i governanti oppressori e quanti si fanno chiamare benefattori. Così Amore, “centrum circuli”, dice appropriando a Dante in modo diverso la citazione scritturale: “Tu autem non sic”.
■ L’esegesi oliviana di Luca XXIV, 13-35 non è stata “panno” solo per fare la “gonna” del sonetto Cavalcando con la relativa prosa (Vita Nova 4). Vi è ritagliato anche il sonetto Deh, peregrini, che pensosi andate (Vita Nova 29.9-10). Le prerogative di Amore-Cristo pellegrino, presenti nel primo caso, vengono scomposte e travasate su più soggetti nella seconda, più tarda, composizione.
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La “coitineratio” di Cristo, “quasi peregrinus”, con i discepoli sulla via di Emmaus si trasforma nell’andare dei pellegrini a vedere la Veronica, figura di Cristo, contemplata da Beatrice in gloria: “in quel tempo che molta gente va per vedere quella ymagine benedecta la quale Gesocristo lasciò a.nnoi per exemplo della Sua bellissima figura, la quale vede la mia donna gloriosamente …│Deh, peregrini, che pensosi andate”.
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Cristo si presenta ai discepoli come se venisse di lontano: “se habuit quasi a remotis ueniens” – “Io vegno di lontana parte” (dice Amore); ora sono i romei ad apparire tali: “mi paiono di lontana parte │venite voi da sì lontana gente / (com’alla vista voi ne dimostrate)”.
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Cristo si rivolge ai discepoli come ad estranei, quasi ignaro dei loro discorsi (conversavano di quello che era accaduto, forse dubbiosi delle parole circa la resurrezione di Cristo dette dall’angelo alle tre donne al sepolcro): “Nam locutus est ad eos quasi ad extraneos, et quasi nesciens de quo loquerentur ”; assente in Cavalcando, il motivo è parzialmente appropriato a Dante e riferito alla mente dei romei: “Deh, peregrini, che pensosi andate / forse di cosa che non v’è presente”.
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I pellegrini che vanno a Emmaus sono tristi perché pensano alla morte di Cristo: “Bene autem additur de tristitia, ad monstrandum quod confortatore egebant, et etiam quod confortari promerebantur, quia de Christi morte dolebant ”. Amore pellegrino “mi parea sbigottito e guardava la terra│come avesse perduta signoria; / e sospirando pensoso venia”; la tristezza assale anche Dante: “E tutto ch’io fossi alla compagnia di molti, quanto alla vista l’andare mi dispiacea sì, che quasi li sospiri non poteano disfogare l’angoscia che ’l cuore sentia, però ch’io mi dilungava dalla mia beatitudine.│pensoso dell’andar che mi sgradia”. L’incontro con Amore pellegrino in Vita Nova 4 è preceduto (Vita Nova 3) dall’episodio della morte della compagna di Beatrice: “il lamento per lei è una sorta di anticipazione, in tono minore, del futuro compianto per Beatrice” [20]. Anche i romei vanno pensosi, su di essi Dante vuole trasferire l’angoscia sua e della “dolorosa cittade”: “che non piangete quando voi passate / per lo suo mezzo la città dolente … Ell’à perduta la sua beatrice”.
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Amore pellegrino, cioè Cristo mediatore fra Dio e gli uomini, si fa trovare “in mezzo della via”; i pellegrini che vanno a Roma per vedere la sua benedetta immagine passano “per lo suo mezzo la città dolente”.
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I discepoli si rivolgono a Cristo pellegrino; ora è il poeta che parla a quelli che vanno a vedere il volto di Cristo: “quasi ad peregrinum loquuntur – propuosi di dire come se io avessi parlato a.lloro; e dissi questo sonetto, lo quale comincia Deh, peregrini ”.
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I discepoli dicono a Cristo: « “Tu solus peregrinus es in Ierusalem?” Ex hoc uidetur quod Christus tunc eis uidebatur de Ierusalem illo die uenire sicut et ipsi, et est sensus: ita famosa et manifesta sunt illa que circa Christum ibi nudius tertius contigerunt, quod etiam peregrini tunc ibidem existentes, aut ibi postmodum uenientes, hoc nequeunt ignorare ». Dante si rivolge ai romei: “come quelle persone che neente / par che ’ntendesser la sua gravitate?”. Una simile domanda gli era stata rivolta quando “lo ymaginar fallace / mi condusse a veder madonna morta” in Donna pietosa e di novella etate : “Or non sai? la tua mirabile donna è partita di questo secolo.│… Che fai? non sai novella? / mort’ è la donna tua, ch’era sì bella” (Vita Nova 14.5, 24).
■ Il campo di scavi si è esteso. Il confronto con l’esegesi oliviana del Cantico dei Cantici non conduce solo all’episodio della Donna Gentile (o Pietosa), scritto nella fase finale della redazione della Vita Nova (1294-1296) [21], ma anche ad altri luoghi dell’opera. Non si tratta, poi, solo del commento al libro salomonico, ma anche della Lectura super Lucam [22]. Sono coinvolti due sonetti presumibilmente fra i più antichi, poi accolti nel “libello”: A ciascun’ alma presa (1283, inizio dell’amicizia con Cavalcanti) e Cavalcando l’altrier per un camino (1285 ?) [23]. In entrambi i casi, temi della poesia cortese (il cuore mangiato nel primo [24], la pastorella di Giraut de Borneil nel secondo [25]) si sposano con l’esegesi scritturale, del Cantico o di Luca. Ci si chiede se l’esegesi sia intervenuta solo nella stesura della prosa o anche delle rime più antiche, e quando, il che sembra dubbio per A ciascun’alma, assai più verosimile per Cavalcando. Ancora, se la scelta delle rime da inserire nella Vita Nova non sia stata fatta in base alla maggior concordia di alcune piuttosto che di altre con l’esegesi assunta come canovaccio. Ciò spiegherebbe, ad esempio, l’esclusione della canzone E’ m’incresce di me, riferita sì all’apparizione della donna, ma “a una Beatrice troppo donna, non ancora sublimata” [26].
Tab. II.1
Tab. II.1 bis
Tab. II.2
Tab. II.3
Tab. II.4
Tab. II.5
3. “Chi è costui che vene? ”
L’esclamazione ammirativa “Quae est ista quae ascendit ?” compare tre volte nel Cantico dei Cantici, in conclusione delle tre parti principali del libro salomonico, a sottolineare i tre stadi dell’ascesa contemplativa: Cn 3, 6; 6, 9; 8, 5. La fiamma d’Amore è radice, rami e frutti dell’albero della contemplazione e delle sue mirabili visioni.
■ Nel primo stadio la sposa ascende “per desertum”, cioè per un luogo solitario; “sicut virgula fumi”, come colonna di fumo, perché Dio si manifesta solo in una nuvola: la “caligo ignis” nella quale Mosè vide Dio, la “nebula” attraverso la quale il pontefice deve entrare nel santuario (Levitico 16, 2). Il passaggio dalle cose sensibili a ciò che è intellettuale avviene “virtute ignis liquefactivi et resolutivi … ex incensione ignea”.
Dante, ricevuto il primo saluto di Beatrice, si ritira nella sua camera (“mi partio dalle genti, e ricorso al solingo luogo d’una mia camera”); sopragiunto dal sonno, ha una “maravigliosa visione. Che mi parea vedere nella mia camera una nebula di colore di fuoco, dentro alla quale io discernea una figura d’uno signore, di pauroso aspecto a chi la guardasse; e pareami con tanta letitia quanto a.ssé, che mirabile cosa era; e nelle sue parole dicea molte cose, le quali io non intendea se non poche, tra le quali io intendea queste: ‘Ego Dominus tuus’ ” (Vita Nova 1.13-14). Amore gli appare come Dio si manifestò a Mosè.
Nelle sue braccia dorme nuda la donna della salute, “e nell’una delle mani mi parea che questi tenesse una cosa la quale ardesse tutta; e pareami che mi dicesse queste parole: ‘Vide cor tuum!’ ”. Poi sveglia la donna e “le facea mangiare questa cosa che in mano li ardea, la quale ella mangiava dubitosamente” (Vita Nova 1.15-17). Il cuore ardente è consono al fuoco liquefattivo della prima fase contemplativa; è comunque da ricondurre alle parole dei discepoli che hanno incontrato Cristo sulla via di Emmaus: “Nonne cor nostrum ardens erat in nobis, dum loqueretur nobis in via et aperiret nobis scripturas?” (Luca XXIV, 32; cfr. supra). Passo citato da Olivi a Cn 5, 6, dove la sposa lamenta la scomparsa del suo diletto. Anche in questo caso si tratta degli inizi del percorso contemplativo. Come la sposa si mostra dubbiosa nell’aprire allo sposo che le parla (“aperire distulit quasi dubitans”; Beatrice si pasce del cuore “dubitosamente”), e poi si accerta sentendo la propria anima liquefarsi, così i discepoli non riconoscono dapprima Cristo ma poi, dopo la sua improvvisa sparizione, ne sono consapevoli rammentando l’ardore provato nel cuore alle sue parole. Nella contemplazione, per quanto alta, la mente non deve presumere, ma umiliarsi e temere (“ut mens quantumcumque alta addiscat non praesumere, sed humiliari et ut in his quae caute egit, formidet aliquam culpam sibi absconsam inesse”); nel sonetto A ciascun’alma presa, che la prosa spiega con maggiore elaborazione dell’esegesi, si dice di Beatrice: “d’esto core ardendo / lei paventosa umilmente pascea” (anche Amore nella nuvola è “di pauroso aspecto a chi la guardasse”). Per inciso è da ricordare che, prima di scomparire, Cristo ha spezzato il pane e lo ha dato ai discepoli incontrati sulla via di Emmaus: il pane della sua umanità spezzato per la passione e morte, come spiega Olivi glossando Luca XXIV, 30.
Dal fumo esalano mirra e incenso. La mirra, che è amara, designa l’“amaritudo compunctionis et mortificationis et compassionis”. La letizia iniziale di Amore “si convertia in amarissimo pianto”; prende la donna fra le braccia e si rivolge al cielo (Vita Nova 1.18). Il primo stadio della contemplazione è lieto: “prae nimia exultatione non valente se intra se nec infra mensuram suorum communium limitum continere”. Ma alla letizia è accostata la mirra amara, che designa compunzione, mortificazione, compassione. Il pianto di Amore, considerato che il cuore ardente rinvia a Luca XXIV, 32, può forse anche rammentare il pianto di Cristo su Gerusalemme di Luca XIX, 41-42. Come Gerusalemme sarà distrutta dai Romani, così Firenze, per la morte di Beatrice, sarà “quasi vedova dispogliata da ogni dignitade” (Vita Nova 19.8; a 5.11 Amore-Cristo piangerà “pietosamente” prima di definirsi “centrum circuli”, in un contesto che attinge ancora al vangelo di Luca; cfr. supra).
Nei primordi dell’ascesa contemplativa, accanto alla mirra, l’incenso designa la preghiera (“devotio orationis”). Olivi adduce due passi dell’Apocalisse ai quali rinvieranno numerosi luoghi della Commedia : le coppe (“phialae”) auree in mano ai seniori di Ap 5, 8 e l’offerta sull’altare delle preghiere di Ap 8, 3. La prosa di Vita Nova 1 termina con la preghiera ai “famosi trovatori in quel tempo”, i “fedeli d’Amore … pregandoli che giudicassero la mia visione”, riassunta nel sonetto A ciascun’alma presa.
■ Il secondo stadio dell’ascesa contemplativa è segnato dalla luce – “sub metaphora luminis ascendentis seu excrescentis usque ad summum” (Cn 6, 10). Le “mirae illuminationes” nell’“ascensus sponsae” vengono espresse con la luce del sole (“sicut sol ”, in forma graduale: aurora, luna illuminata, sole); la sposa stessa viene definita “terribilis ut castrorum acies ordinata”, inciso con il quale sono compresi tutti i pianeti e le stelle illuminati da un’unica luce solare. La mente, per l’altezza delle cose viste e mirate, esce alienata fuor di sé (“prae nimietate admirationis visionum et apprehensionum stupendarum mentem totaliter suspendentium in res visas et miras et per quandam excessivam obstupefactionem ipsam alienantium a seipsa”).
Nel sonetto Oltre la spera che più larga gira (Vita Nova 30.10-13), oltre i pianeti e le stelle, il poeta “vede una donna che riceve onore, / e luce sì, che per lo suo splendore / lo peregrino spirito la mira” (se sessanta sono le “reginae”, “una” è detta la sposa in grado superlativo: Cn 6, 8). La mente, uscita di sé stessa nell’eccesso, al ritorno non ricorda più: “Vedela tal, che quando ’l mi ridice, / io no.llo ’ntendo”. Nella prosa si precisa l’ascesa contemplativa e si introduce l’immagine del sole: “dico come elli la vede tale, cioè in tale qualitate, che io no.llo posso intendere, cioè a dire che lo mio pensero sale nella qualità di costei in grado che lo mio intellecto nol può comprendere; con ciò sia cosa che lo nostro intellecto s’abbia a quelle benedecte anime sì come l’occhio debole al sole : e ciò dice lo Phylosofo nel secondo della Metafisica” (Vita Nova 30.6).
■ Il terzo e ultimo grado dell’ascesa contemplativa segna il transito da questa vita all’altra (Cn 8, 5). L’“excessus mentis” diventa “ebrietas mentis”, dominata dal gusto d’amore, dolce e consolatore: “prae nimietate dulcoris et gaudii mentem inebriantis et nihil aliud sentire aut cogitare sinentis nisi solum dilectum et iucunditatem sui solacii ac tenerrimi et superdulcis amoris”.
Questi temi sono espressi nelle due quartine del sonetto Gentil pensero che parla di voi (Vita Nova 27.8-9), riferite alla Donna Gentile: «e ragiona d’amor sì dolcemente … L’anima dice al cor: “Chi è costui, / che vene a consolar la nostra mente, / ed è la sua virtù tanto possente, / ch’altro penser non lascia star con noi?”», dove Chi è costui riprende Quae est ista di Cn 8, 5.
L’albero della contemplazione, dai rami espansi, ha prodotto i frutti. Nella mirabile visione, lo sposo viene visto nella sua piena maturità. Di lui è stato detto alla madre: “Benedetto il frutto del tuo grembo” (Luca 1, 42) («Et hic est sponsus in sua expressa et plena forma et maturitate inventus. Hic est enim de quo matri dictum est: “Et benedictus fructus ventris tui”»).
L’accostamento del “benedictus” alla “mirabilis visio” è al termine della Vita Nova, quando appare a Dante “una mirabile visione, nella quale io vidi cose che mi fecero proporre di non dire più di questa benedecta infino a tanto che io potessi più degnamente tractare di lei”. Il poeta si impegna per poter dire con piena maturità: “E di venire a.cciò io studio quanto posso, sì com’ella sae, veracemente”. Una trattazione più “temperata e virile”, che non deroghi al libello ma anzi giovi a quell’opera “fervida e passionata … all’entrata de la mia gioventute …” (Convivio I, i, 16-17).
L’esclamazione del Cantico dei Cantici “Quae est ista quae ascendit ?” è parodiata anche da Cavalcanti in Chi è questa che vèn. Se Cavalcanti fu il destinatario della Vita Nova (19.10 [XXX.3]), come poté accogliere un’opera pregna, ben oltre la parodia, di temi salomonici e della loro esegesi francescana? La reminiscenza della risposta data dal “primo delli miei amici” al sonetto Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io (S’io fosse quelli che d’amor fu degno) traspare in controluce, in ben altro contesto spirituale, con ben altra guida, in Purg. XXI, 19-24.
Tab. III.1
Tab. III.2
Tab. III.3
4. “Apparve prima la gloriosa donna della mia mente”
Effetto degli occhi micidiali e feri oppure piani, soavi e dolci della donna della salute o dall’angelica figura, il contrasto tra la paura che fa tremare lo spirito e venir meno la vita e il successivo riconfortarsi, tra il martirio e la pietà, è tema frequentissimo negli stilnovisti.
L’apparizione dell’angelo a Zaccaria in Luca 1, 11ss. provoca nel sacerdote una condizione psicologica messa a fuoco dall’Olivi nella Lectura super Lucam. Zaccaria è ‘turbato’, cioè atterrito, viene preso da un timore improvviso, rapido e impetuoso, che opprime le forze, assale potente dall’alto e sottomette al proprio dominio. A una visione così subitanea, insolita e troppo trascendente, dall’aspetto terribile e quasi intollerabile, si spaventano i sensi e la fantasia, per natura infermi e pusillanimi. Lo Spirito, che si manifesta nella specie assunta, agita occultamente, come vuole, il cervello, i nervi, le viscere e tutti i sensi dell’uomo, scuote e opprime quanto e come gli piace. Così egli imprime in modo più forte l’esperienza vera della sua apparizione, umilia il cuore di chi vede e umiliandolo lo dispone alle cose alte e divine: l’uomo alienato da sé stesso per il terrore e privo di forze sente dapprima la forza e la severità della virtù superna; poi, per i conforti e le consolazioni che seguono, sente meglio la dolcezza, la pietà, la clemenza e la soavità. A Zaccaria viene detto pertanto di non temere (Lc 1, 13), perché la sua preghiera, di avere il Salvatore, è stata esaudita e la moglie Elisabetta gli darà un figlio che egli chiamerà Giovanni. L’angelo che appare a Zaccaria si palesa come Gabriele (Lc 1, 19), che viene interpretato “fortitudo Dei”, e dice al vecchio sacerdote: “Ed ecco, sarai muto e non potrai parlare fino al giorno in cui queste cose avverranno, perché non hai creduto alle mie parole, le quali si adempiranno a loro tempo” (Lc 1, 20). Il diventare muto di Zaccaria è figura del tacere della vecchia legge, carnale e letterale, fino al momento in cui, con la venuta di Cristo, viene aperto l’intelletto spirituale [27].
L’effetto dell’apparizione di Gabriele a Zaccaria è il medesimo provocato in Dante dall’apparizione dell’“angiola giovanissima” Beatrice: lo spirito della vita, che dimora nel cuore, comincia a tremare fortemente, il che appare “nelli menomi polsi orribilmente”, e tremando dice “Ecce Deus fortior me, qui veniens dominabitur michi!” (Vita Nova 1.5). Da allora Amore signoreggia a suo piacere l’anima del poeta, a lui sposata (1.8) [28].
Tremare e ammutolire – “ch’ogne lingua deven tremando muta” – sono effetti dell’apparizione di Beatrice, donna della salute, in Tanto gentile e tanto onesta pare (Vita Nova 17.5).
Si potrebbe risalire fino alla sorgente delle “nove rime”. Di essa scrive il Gorni:
Ma la lingua non si scioglie e l’ispirazione tarda: la nuova poesia non è figlia della volontà, che pure la prepara, e neppure di quell’inesauribile ragionar di sé stesso e dei propri dolori. Il verso risolutivo, cominciamento del nuovo stile, è un dono travolgente e improvviso, forte come il fiato divino della grazia: la mia lingua parlò quasi come per sé stessa mossa e disse: “Donne ch’avete intellecto d’Amore” […] Non l’angelo dell’Annunciazione reca quelle decisive parole, né altra voce dall’alto; eppure la reazione del poeta è quella stessa di Maria al cospetto di Gabriele, nel racconto del vangelo di Luca: Queste parole io ripuosi nella mente con grande letitia, pensando di prenderle per mio cominciamento […] [29].
Il riferimento non è tanto all’Annunciazione, quanto alla facoltà di parlare data al muto e tremefatto Zaccaria, nell’imporre al figlio il nome Giovanni, dopo averlo scritto su una tavoletta (Luca 1, 63-64). Il nome viene dettato interiormente, segno di lode a Dio e nello stesso tempo di apertura all’intelligenza spirituale di molti Giudei. Non è casuale che sul versetto successivo (Lc 1, 65: “et super omnia montana Iudaeae divulgabantur omnia verba haec”), come sottolineato dal Gorni, sia ricalcata l’espressione “Apresso che questa canzone fue alquanto divulgata tra le genti” (Vita Nova 11.1) [30].
La reazione evocata dal Gorni, la stessa di Maria in cospetto di Gabriele, opera altrove, in Dante muto di stupore nel contemplare, nell’Empireo, i gradi del “sicuro e gaudïoso regno”. I versi di Par. XXXI, 37-39, con la triplice antitesi – “ïo, che al divino da l’umano, / a l’etterno dal tempo era venuto, / e di Fiorenza in popol giusto e sano” -, conducono ad altra opera dell’Olivi, la prima quaestio de domina (de consensu virginali pro Annuntiatione). Ivi il francescano spiega su un piano psicologico il passaggio della Vergine dallo stato precedente la maternità al nuovo stato incominciato con l’assenso dato alla divina concezione. Come nel venire a un alto stato religioso, o nell’ascendere al culmine della contemplazione dalla vita attiva, o nel passare all’altra vita da questo secolo, un fedele prova un’ardua trascendenza, un estraniarsi e un’inusitata novità che pervadono di stupore ogni sentimento, e per questo si sente come morire al suo stato precedente, tanto più Maria, nell’ora dell’assenso, provò quasi un ineffabile morire al suo stato precedente passando a uno stato sovramondano e a una regione inusitata, nella quale doveva venire assorbita in modo radicale e irrevocabile dagli eccelsi abissi degli arcani divini. Di tutti i sentimenti provati dalla Vergine e fatti propri dal poeta, che perviene a ricrearsi “nel tempio del suo voto riguardando”, solo il morire non è espresso in modo esplicito. Anche lo straniarsi è reso col vagheggiare Arcade da parte della madre Elice, entrambi mutati da Giunone e trasformati nel superiore stato di costellazioni (le due Orse). Nella descrizione del “ciel ch’è pura luce”, si insinua dunque il motivo del consenso dato dalla Vergine all’opera della Redenzione, così come presentato dall’Olivi.
A Gabriele il quale, nell’alto preconio di Maria, riferisce umilmente ogni lode a Dio, è da riportare anche il tono del parlare di Salomone a Par. XIV, 34-37: “E io udi’ ne la luce più dia / del minor cerchio una voce modesta, / forse qual fu da l’angelo a Maria, / risponder …” [31].
Se Dante aveva presente il commento a Luca di Olivi nel redigere la prosa di Vita Nova 1.5-8, che narra dell’apparizione di Beatrice, si comprende perché abbia scartato la canzone E’ m’incresce di me, concludendo invece il paragrafo con il sonetto A ciascun’alma, che meglio si inseriva nelle maglie dell’armatura esegetica. Nella canzone Dante afferma di aver ‘profeticamente’ provato, nel giorno della nascita di Beatrice, gli effetti degli “occhi micidiali” della donna che gli sarebbe poi apparsa nella sua bellezza: la paura, la luce ch’atterra, il tremore simile a morte [32]. Anche Zaccaria provò dapprima questi sentimenti all’apparizione dell’angelo, ma fu poi confortato in modo dolce e soave. Il salutare di Beatrice fa sì “ch’ogne lingua deven tremando muta”, ma poi “… dà per gli occhi una dolcezza al core”.
Tab. IV.1
5. “Incipit Vita Nova”
■ Dante aveva a disposizione i testi della grande tradizione di interpretazione spirituale del Cantico dei Cantici avviata con Origene: da Bernardo di Clairvaux ai Vittorini – Ugo, Riccardo e Tommaso Gallo. Tradizione nella quale Olivi si inserisce per sua esplicita ammissione [33]. Ma se il passo di Gregorio Magno, sopra esaminato, sulle tentazioni finali dell’Anticristo è peculiare dell’Olivi (in un’opera dove, in modo inconsueto, il frate non utilizza in modo sistematico le categorie dei sette stati della Chiesa), e se su di esso Dante ha tessuto la trama della Donna Gentile (o Pietosa) della Vita Nova, come poi, ritrovatolo nella Lectura super Apocalipsim, vi avrebbe tessuta la ‘gentile’ Francesca, allora non è inverosimile che l’intero commento oliviano al Cantico dei Cantici abbia svolto un ruolo traente e di apporto dei temi di quella tradizione. In modo non dissimile, come dimostra il confronto tra i testi, la Lectura super Apocalipsim è stata filtro per il poeta di non pochi autori, primi fra tutti Riccardo di San Vittore [34] e Gioacchino da Fiore. Di conseguenza, acquistano significato confronti come quelli qui proposti.
Fin dal principio, la Vita Nova è pregna di elementi semantici che recano al “libello” temi salomonici:
Si igitur quaeras libri huius materiam, ipsa est nuptialis amor Dei et animae seu universalis ecclesiae sibi desponsatae [Cn prologus] │Amore segnoreggiò la mia anima, la quale fu sì tosto a.llui disponsata … [Vita Nova 1.8].
apparent eius propagines crescere in gemmas ac deinde in flores [Cn prologus] … “Flores apparuerunt in terra nostra” [Cn 2, 12] … in mente sponsae vel in ecclesia incipiunt apparere novi “flores” │apparve prima la gloriosa donna della mia mente … sì che quasi dal principio del suo anno nono apparve a me … Apparve vestita di nobilissimo colore … [Vita Nova 1.2-4].
[Cn 2, 11] appropinquatio solis … divinae visitationis solaris adventus … sic pro tempore Christi Apostolus clamat: “Nox praecessit, dies autem appropinquavit ” (Rom 13, 12) et: “Ecce nunc tempus acceptabile, ecce nunc dies salutis” (2 Cor 6, 2) │nell’ultimo di questi dì avenne che questa mirabile donna apparve a me … mi salutòe virtuosamente tanto … E quando ella fosse alquanto propinqua al salutare … [Vita Nova 1.12-13, 5.5].
Motivi che, come è noto [35], si ritroveranno nell’Epistola V, indirizzata (dopo il 1° settembre 1310) ai Signori d’Italia affinché gli “incole Latiales” sorgano incontro al proprio sposo Arrigo VII. Non sono stati, in precedenza, neanche estranei al primo canto del poema, nella salita del “dilettoso monte” piena di primaverili speranze prima della perdita dell’“altezza” (Inf. I, 37-45).
[Cn 1, 1] “Quia meliora sunt ubera tua vino”, quasi dicat: praedictam tui unionem sic desidero, quia ineffabilis exuberantia suavitatum a te manat … [Cn 7, 12] “Ibi dabo tibi ubera mea” id est: ibi in filiis tuis lac ipsorum in te et tui in ipsis nutritivum libere propinabo. Tunc enim animarum rectores libenter salutarem doctrinam eis infundunt, quando ipsos debite proficere et Dei gratiam et providentiam eis abunde cooperari et assistere vident. Vel: “Ibi dabo tibi ubera mea”, id est: tunc cum hoc videro totam dulcedinem cogitatuum et affectuum pectoris mei, in te prae gaudio et devotione cum gratiarum actione effundam …│e per la sua ineffabile cortesia, la quale è oggi meritata nel grande secolo, mi salutòe virtuosamente tanto, che mi parve allora vedere tutti li termini della beatitudine. L’ora che lo suo dolcissimo salutare mi giunse, era fermamente nona di quel giorno [Vita Nova 1.12-13].
Se Dante ha tessuto il “libello” sul panno dell’Expositio oliviana, allora vita nova, oltre al senso paolino, cioè della vita secondo Cristo illuminata dalla grazia di Beatrice [36], significa anche ‘Amore nuovo’:
Si igitur quaeras libri huius materiam, ipsa est nuptialis amor Dei et animae seu universalis ecclesiae sibi desponsatae, et hic amor per vitem optime designatur. Amor enim vita quaedam est; unde Hugo De Arrha Sponsae: “Scio” – inquit – “anima mea, quia vita tua amor est” [37]. Et Augustinus nono De Trinitate dicit quod “amor est vita duo quaedam copulans aut copulare appetens, scilicet amantem et amatum” [38]. Et Christus Lucae decimo loquendo de mandato divini amoris subiunxit: “Hoc fac et vives” (Lc 10, 28) [Cn prologus, p. 94].
[Cn prologus] Amor enim vita quaedam est … [Cn 2, 11-12] Veris ergo temperies et serenitas de se grata, sed propter praeeuntem pressuram hiemis et propter suam novitatem gratiosior … in mente sponsae vel in ecclesia incipiunt apparere novi “flores”│Incipit Vita Nova. [Vita Nova 1.1].
■ I motivi dei fiori (i concetti radiosi, sinceri e graziosi della contemplazione divina sui quali la sposa, languida di desiderio e sospirante, vuole giacere e appoggiare il capo e il corpo: Cn 2, 5), dei fiori nuovi che appaiono sulla terra e del nuovo sospiro della tortora (Cn 2, 12), dell’avvento angelico paragonato a un cerbiatto “quia venit sub modo et affectu supramodum humili ac simplici et tenello” (Cn 2, 8-9), del mettersi al nostro interno per sottili aditi, percorrono come cellule musicali due ballate: Per una ghirlandetta, che è la prima ballata di Dante (Rime, 10 [LVI]), e I’ mi son pargoletta bella e nova (34 [LXXXVII]).
“Flos”, nota Olivi a Cn 2, 1 (“Ego flos campi et lilium convallium”) traduce l’ebraico “viola”, che designa l’umiltà. Ecco che gli stessi temi sopra indicati (con l’aggiunta della speranza di beni futuri indotta dai fiori) si mostrano in controluce nella ballata Deh, Vïoletta, che in ombra d’Amore (Rime, 12 [LVIII]). Ancora una volta il tessuto esegetico congiunge due donne, la Fioretta della prima ballata e, appunto, Violetta. Reminiscenze e ulteriori variazioni su Cn 2, 3 (“Sub umbra illius”) si ritrovano nella ‘petrosa’ invernale sestina Al poco giorno e al gran cerchio d’ombra (Rime, 44 [CI]) [39].
■ Con esclusivo riferimento a Cn 2, 11-12, a luoghi cioè che sembrano fortemente segnare l’inizio della Vita Nova, si è operato un duplice confronto del testo dell’Olivi (altri confronti sono ovviamente possibili). Da una parte con le Postille al Cantico di Remigio de’ Girolami [40], il domenicano che insegnava a Santa Maria Novella allorché Dante andò, dopo la morte di Beatrice, alle “scuole delli religiosi e alle disputazioni delli filosofanti” (Convivio, II, xii, 7): in questo caso, i due testi sono assai distanti. Dall’altra con i Sermones di san Bernardo, che mostrano quanta tradizione sia passata in Olivi. Ma in Bernardo non c’è la dimensione escatologica, di prova e di sofferenza data dal francescano all’esegesi del libro salomonico, della quale è esempio il passo dei Moralia di Gregorio Magno su Giobbe 40, 12 utilizzato a Cn 8, 2 (assente nel “doctor marianus”, almeno nei sermoni pervenuti) [41]. La citazione paolina “Ecce nunc tempus acceptabile, ecce nunc dies salutis” (2 Cor 6, 2), è in Bernardo più legata al “tempus putationis” [42], cioè al momento idoneo in cui l’anima o le chiese, che sono come vigne intellettuali, si spogliano dei vizi, che a una fase nuova e inusitata della Chiesa. Salomone prefigura, secondo Olivi, il primo avvento di Cristo e, anche se non è esplicitamente detto, il secondo avvento nello Spirito proprio del sesto stato: “Et sic de similibus temporibus consimilia intuere”. Passarono le oscurità al tempo dell’antico re, sono passate quelle della Sinagoga, passeranno anche quelle moderne. Il versetto “Vox turturis audita est in terra nostra” (Cn 2, 12c) è per il francescano chiamata al combattimento per l’apertura del sesto sigillo, come dimostra la citazione nella lettera spirituale (18 maggio 1295) [43] ai tre figli di Carlo II d’Angiò prigionieri dal 1288 degli Aragonesi per scambio col padre. Dei quattro figli di Carlo II – Carlo Martello, Ludovico, Roberto e Raimondo Berengario – il primo fu subito sostituito nella prigionia dal quartogenito; venne a Firenze nel marzo 1294 dove incontrò Dante con il quale nacque grande amicizia (Par. VIII, 34-37, 55-57); morì prematuramente nell’agosto 1295.
■ La quantità dei temi esegetici, la loro idoneità ad essere rivissuti da un singolo individuo e appropriati ad altri [44], la contiguità nello spazio testuale, la peculiarità per cui l’Olivi non può essere confuso con altri autori insinuano il serio e legittimo dubbio che l’Expositio in Canticum Canticorum del frate di Sérignan sia stata il “panno” per la “gonna” del “libello” giovanile come, più tardi, la Lectura super Apocalipsim lo sarebbe stata per il “poema sacro”. Un lavorio intertestuale ancora acerbo, commisto con altre fonti (non escluse altre opere dello stesso Olivi), volutamente criptico, e tuttavia segnante il decisivo passaggio dalla spersonalizzata e astorica esperienza stilnovistica [45] al suo inserimento in un’organica storia, universale (perché tale è la storia di Cristo e della Chiesa) e insieme dell’individuo. La storia del nuovo amore per Beatrice, imitatrice di Cristo, e delle prove e battaglie interiori sostenute dall’anima del poeta ‘disponsata’ ad Amore, sarebbe diventata la storia del viaggio verso di lei, del nuovo visionario Giovanni che avrebbe predicato ancora al mondo le cose, che s’affrettano, necessarie alla salute.
Tab. V.1
Tab. V.2
Cn 2, 5, p. 152[94] Nota autem quod tunc amor incipit superexcedere, quando totam mentem elanguescere facit, ita quod prae nimietate desiderii seu suspirii et languoris seipsam sustinere non valet. In hunc ergo gradum sponsa sublevata subdit:
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Rime [ed. a cura di G. Contini, Torino 1995] 10 (LVI)Per una ghirlandetta
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Rime 34 (LXXXVII)«I’ mi son pargoletta bella e nova,
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Tab. V.3
Cn 2, 1.3-5, pp. 150, 152[89] “Ego flos campi et lilium convallium” (1) […] Secundum quosdam, ubi nos habemus “flos”, est in hebraeo nomen significans ‘violam’ quae est singularis flos camporum sive pratorum. Et tunc commendat se de gratiositate humilitatis in ‘viola’ et puritatis in ‘lilio’, sic tamen quod humilitas iuncta est pulchrae latitudini et aequalitati et viriditati camporum et puritas humilitati convallium. […]
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Cn 2, 8-9.11-12, pp. 158, 162[105] Pro primo nota, quod alta et vehemens ac repentina divinae visitationis seu illapsus irruitio ingerit se menti ut valde sonoram iuxta illud Actuum secundo: “Et factus est repente de caelo sonus tamquam advenientis spiritus vehementis” (Ac 2, 2). Et hoc significat sponsa, cum ait: “Vox dilecti mei” (8a). […]
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Rime 12 (LVIII)Deh, Vïoletta, che in ombra d’Amore
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Rime 44 (CI), 1-18Al poco giorno e al gran cerchio d’ombra
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Tab. V.4
Remigio dei Girolami OP († 1319), Postille super Cantica Canticorum (ante 1315, Firenze, Laur., Conv. soppr. 516, ff. 221r-266v) ed. E. Panella, http://www.e-theca.net/emiliopanella/remigio3/canti23.htmCirca secundum facit duo secundum duas rationes quas assignat, quia primo assignat unam rationem per exclusionem impedimentorum et secundo assignat aliam per allegationem iuvamentorum, ibi, flores [2, 12]. […] Vult ergo dicere quantum ad fundamentum (?) methaphore: Veni mecum spatiari ad recreationem preteriti langoris tui et non tardes quia modo tempus non est molestum ex frigore vel luto, quod posset cito contingere, sed est amenum omnibus sensibus scilicet visui et tactui, ut homo libere possit transire per vineas putatas – non enim est tempus putandi eas quando florent -; et auditui quia turtur annu<n>tiat initium veris, secundum Glosam; et gustui propter spem futuri cibi, et olfactui. Quasi dicat: ‘Est tempus pulcrum et liberum et canorum et fructiferum et odoriferum, sicut est tempus vernum’.
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Olivi, Cn 2, 11-12, pp. 162, 164[112] Secundo nota quod ex vernalis temporis proprietate septem inducentia ad accessum sibi proponit (cfr. 11-13), et possunt mystice ad internas sponsae proprietates aptari. Quia sicut appropinquatio solis ad regionem nostram in vere praedictas proprietates adducit, sic et divinae visitationis solaris adventus consimiles in spiritum proprietates inducit ex quibus sponsa habet merito festinare et currere ad sponsi amplexum. Possunt etiam aptari ad exteriorem statum ecclesiae illius temporis, quia tunc proprie formatur haec sponsa. Et tunc magis plene est tempus ipsius, quando Deus aliquem nobilem statum est in ecclesia formaturus, quale in synagoga fuit tempore editionis huius libri sub Salomone templum aedificante et Dei cultum praeclarius et felicius solemnizante, et quale fuit tempore Christi ac Constantini et sic de aliis.
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Bernardi Opera, Sermones super Cantica Canticorum … recensuerunt J. Leclercq, C. H. Talbot, H. M. Rochais, II, Romae 1958, sermo LVIII, II. 3-4, pp. 128-1293. Nunc iam videamus quid istiusmodi quasi historico schemate spiritualiter nobis innuatur intelligendum. Et vineas quidem animas esse, vel ecclesias, simulque huius rei rationem quaenam sit, dixi vobis, et audistis, nec opus habetis iterato audire. Ad has itaque revisendas, corrigendas, instruendas, salvandas, anima perfectior invitatur, quae tamen id ministerii sortita sit, non sua ambitione, sed vocata a Deo tamquam Aaron. Porro invitatio ipsa quid est, nisi intima quaedam stimulatio caritatis, pie nos sollicitantis aemulari fraternam salutem, aemulari decorem domus Domini, incrementa lucrorum eius, incrementa frugum iustitiae eius, laudem et gloriam nominis eius? Istiusmodi itaque circa Deum religionis affectibus, quoties is qui animas regere aut studio praedicationis ex officio intendere habet, hominem suum interiorem senserit permoveri, toties pro certo Sponsum adesse intelligat, toties se ab illo ad vineas invitari. Ad quid, nisi ut evellat et destruat, et aedificet et plantet?
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6. Le “nove rime”
L’Expositio in Canticum Canticorum dell’Olivi non è stata una ‘fonte’ qualunque per la Vita Nova. Non si tratta forse dell’unica opera di Olivi utilizzata, perché molto potrebbero dire in proposito i commenti ai Vangeli di Matteo, di Giovanni (inediti) e, come si è visto, di Luca. Solo un esame sistematico e approfondito – qui la questione viene soltanto delibata – potrà valutare la sua effettiva incidenza sulle varie parti, liriche o in prosa, e considerare se il confronto testuale sia di aiuto nel far conoscere meglio la genesi del “libello”. Per il momento ci si limita a mostrare i risultati di alcuni sondaggi.
La semantica e i concetti dell’esegesi oliviana al libro salomonico, cioè i segni e i significati, percorrono Donne ch’avete intellecto d’amore, la canzone-manifesto delle “nove rime” e la prosa relativa (Vita Nova 10).
■ (Tab. VI.1) Nel Cantico lo sposo loda la sposa come in una canzone amorosa (“Hic describitur et laudatur sponsus a sponsa et sicut in amativis cantionibus fieri solet [Cn 5, 10] … dum praedicta praeconia dicit vel finit [Cn 5, 17] – E però propuosi di prendere per matera del mio parlare sempre mai quello che fosse loda di questa gentilissima … cominciai una canzone …│i’ vo’ con voi della mia donna dire, / non perch’io creda sua laude finire”.
La sposa e lo sposo parlano l’uno dell’altro, secondo il variare degli affetti e degli sguardi, o in seconda (col ‘tu’) o in terza persona (Cn 1, 1). Se la sposa parla dello sposo in terza persona, lo fa in quanto la sua lode serve a informare le “adulescentulae”, cioè le compagne della sposa nel cammino della contemplazione (cfr. Cn 1, 1). Dante dice della sua donna in terza persona, rivolgendosi a “donne” in seconda (col ‘voi’).
Se la sposa parla in terza persona, lo fa perché non ardisce rivolgersi direttamente allo sposo, ma solo esprimere in modo assoluto il proprio desiderio (“sponsa non fuit ausa illud directe a sponso petere, sed solum absolute desiderium suum exprimere” [Cn 1, 1]); la mente timorata non deve presumere cose troppo alte, ma umiliarsi (ut mens quantumcumque alta addiscat non praesumere, sed humiliari et ut in his quae caute egit, formidet aliquam culpam sibi absconsam inesse [Cn 5, 6]). Così Dante: “pareami avere impresa troppo alta matera quanto a me, sì che non ardia di cominciare. E così dimorai alquanti dì, con disiderio di dire e con paura di cominciare│ma ragionar per isfogar la mente … E io non vo’ parlar sì altamente, / ch’io divenissi per temenza vile”.
Quando i santi dottori intendono spiegare agli altri le cose divine e incitarli a domandare, soccorrono repentini concetti e risposte dettate interiormente (“subito multa ab eis quaesita vel alios docenda doctori occurrunt quae ipsi numquam praecogitarunt nec aestimant quod eis alibi occurrisset” [Cn 5, 17]). Così capita a Dante, per virtù di un interno dettatore: “Allora dico che la mia lingua parlò quasi come per sé stessa mossa e disse: ‘Donne ch’avete intellecto d’amore’ ” (si ricordi anche l’imposizione del nome del figlio, fatta dal muto Zaccaria; Luca 1, 63-64).
Come i dottori vengono dotati di sùbiti concetti e risposte, così la sposa sente improvvisamente lo sposo discendere (“repentinos conceptus et responsiones eis divinitus ministratos … ipsa repente ipsum infra se sentiens descendisse” [Cn 5, 17]); Dante: “Io dico che pensando ’l suo valore / Amor sì dolce mi si fa sentire”.
■ (Tab. VI.2) Il nome di Cristo-sposo è “desiderato” – “desideratus cunctis gentibus”, come scrive il profeta Aggeo (Ag 2, 8, a Cn 5, 16). “Madonna è disïata in sommo cielo” (Vita Nova 10.20, v. 29; cfr. “la rota che tu sempiterni / desiderato” di Par. I, 76-77); “Questa gentilissima donna, di cui ragionato è nelle precedenti parole, venne in tanta gratia delle genti” (Vita Nova 17.1).
La sposa, che designa la Chiesa contemplativa, è posta a governare (“Posuerunt me custodem in vineis”: Cn 1, 5; “della cittade ove la mia donna fu posta dall’Altissimo Sire”: Vita Nova 2.11); non si sente adatta al compito (“se in regimine desolatam asserit … ex defectu quem in seipsa invenit”: Cn 6, 11; “ancora lagrimando in questa desolata cittade”: Vita Nova 19.8). Per questo le viene chiesto a gran voce di tornare al governo: “instanter requiritur sponsa ad regiminis onus reverti … ad requisitionis grandem instantiam fortius exprimendam … requiritur … a sponso et a suis angelis” (Cn 6, 12). Così avviene per Madonna: “Angelo clama … Lo cielo, che non àve altro difecto / che d’aver lei, al suo Segnor la chiede, / e ciascun sancto ne grida merzede” (Vita Nova 10.18, vv. 15-21). Dio stesso ha detto di aver sperimentato le dolcezze della sposa, e l’ha additata ad esempio agli angeli e ai santi; la sola sua visione è di utilità agli uomini: “Quis autem digne valeat admirari tantam dignationem summi Dei et Domini nostri? Quod ipse in tantum dicat se refici et delectari in fructibus et dulcoribus sponsae, quod tamquam inde inebriatus totus in ea condormiat et consoporetur. Et quod ipsum suum soporem amicis suis, angelis scilicet et ceteris sanctis, praebeat in exemplum … (Cn 5, 2) … utilitas exempli quam inferiores ex sola visione suae sanctitatis et vitae accipient (Cn 6, 12)” – “nel mondo si vede … che parla Dio, che di madonna intende … e qual soffrisse di starl’ a vedere … per exemplo di lei bieltà si prova” (vv. 16, 23, 35, 50). Le necessità del governo della Chiesa sono riservate al beneplacito divino: “sic etiam expedit quod suam sufficientiam et ecclesiae regendae necessitatem et Dei super hoc praeceptum vel beneplacitum recognoscant” (Cn 6, 12) – “quanto Mi piace” (v. 25).
Sotto il regime di Beatrice non c’è solo Dante, governato tramite Amore con “lo fedele consiglio della Ragione” (Vita Nova 1.10), ma tutta Firenze, desolata per la sua morte, come pure l’intera Chiesa, quella peregrinante in terra (perché mai l’amico avrebbe scritto “alli principi della terra” in merito alla sua città “quasi vedova dispogliata da ogni dignitade” [Vita Nova 19.8] ?) e quella trionfante in cielo.
■(Tab. VI.3) Lo sposo loda la sposa perché senza macchia di peccato mortale: “eam commendat … quomodo dicit … loquitur de sola macula mortali (Cn 4, 7) – “Dice di lei Amor: «Cosa mortale / come esser può …” (vv. 43-44). La sposa loda le parti del corpo dello sposo, cominciando dal colore misuratamente proporzionato fra la purezza del bianco e la vivida rossa fiamma della carità: “ex colore … colorum proportionata permixtio seu connexio … plenus candore puritatis et sapientialis claritatis et flammeo rubore vividae caritatis” (Cn 5, 10) – “sì pura … Color di perle à quasi … non for misura … Degli occhi suoi … escono spirti d’amore inflammati ” (vv. 44, 47-48, 51-52; il bianco e il rosso sono i colori di Beatrice: Vita Nova 1.4, 12, 15; 28.1). La sposa è esempio per gli inferiori che vedono la sua santa vita : “utilitas exempli quam inferiores ex sola visione suae sanctitatis et vitae accipient” (Cn 6, 12) – “per exemplo di lei …” (v. 50).
■ (Tab. VI.4) La sposa (Cn 6, 10-7, 1), che per le sue virtù (“ex suis virtutibus”) è idonea a generare ed educare una prole spirituale (“ad prolem fortem et nobilem procreandam et educandam”), e questa sua capacità viene mostrata secondo le parti del corpo (“in speciali et quasi per partes … ex generosa dispositione corporis muliebris”), incede in modo regale, nobilmente calzata con regola e disciplina, non con materia vile, mirabilmente ornata di bellezza nel procedere dei suoi atti (“quam pulchre et decenter incedunt … nec de vili et inordinata materia calceantur … Per hoc autem spiritualiter designatur perfecta compositio ac restrictio et moderatio regularis disciplinae quae instar calceamentorum nobilium fundamentales processus nostrorum affectuum et actuum mirabiliter pulchrificant et adornant ”) – “maraviglia nell’acto che procede … or vo’ di sua virtù farvi sapere. / Dico, qual vuol gentil donna parere / vada con lei, che quando va per via / gitta nei cor’ villan’ d’amore un gelo … diverria nobil cosa o si morria. … sì adorna …│dico di lei quanto dalla parte … delle sue virtudi … che … procedeano … quanto dalla [parte della] nobilità del suo corpo … secondo determinata parte della persona” (vv. 17, 30-33, 36, 44; 10.29-30).
■ (Tab. VI.5) Il “monile ornamentum” al quale è assimilato il collo della sposa (Cn 1, 9b) ha un valore di ‘ammonimento’, perché le fibule muliebri “monent seu arcent viros, ne inserant manus suas infra sinum earum”, nel caso della nobile sposa, di belle e generose forme, e tanto ornata da sdegnare “insipientiam et vilem vitam bestialium plebium” (Cn 1, 10). Una sposa atta a procreare e nutrire figli spirituali dediti alle lodi divine (Cn 6). Così il poeta congeda la sua canzone-manifesto, Donne ch’avete intellecto d’amore : “Or t’amonisco, poi ch’io t’ò allevata / per figliuola d’Amor giovane e piana … E se non vòli andar sì come vana, / non restare ove sia gente villana” (Vita Nova 10.24-25, vv. 59-60, 64-65); anche nella canzone Amor che nella mente mi ragiona la seconda parte principale si chiude “sotto colore d’ammonire altrui”, cfr. Convivio, III, viii, 21). Come la sposa dice: “Indica mihi … ubi pascas … ne vagari incipiam” (Cn 1, 6a), così la canzone deve dire pregando: “Insegnatemi gir, ch’io son mandata / a quella di cui laude io so’ adornata” (cfr. ancora il congedo di Voi che ’ntendendo il terzo ciel movete, e il relativo commento a Convivio II, xi, con l’esegesi di Cn 1, 7ab: “Ponete mente almen com’io son bella ! … Si bene vis considerare tuae spiritualis pulchritudinis praeeminentiam”).
■ (Tab. VI.5 bis) Tributo ai modi ancora operanti nella Rettorica di Brunetto Latini [46] o alla tecnica dei commenti universitari [47], le “divisioni” contentute nella Vita Nova rispechiano anche l’esegesi scritturale, nella quale esse sono l’espressione della struttura del testo che si vuole commentare. Lo stesso prosimetro potrebbe risponde a un’idea precisa della Scrittura, che ha un’intelligenza interiore e un’eloquenza esteriore, l’oro della sapienza divina e l’argento delle similitudini, in un ornato di distinzioni artificiose e rubricate. Come accade per i sacramenti, dentro è la grazia invisibile, fuori la specie sensibile. Poiché la sposa designa la Chiesa, questo ornamento ha un suo sviluppo storico, per cui l’artificio è maggiore man mano che si procede. Così Olivi interpreta Cn 1, 10a “Murenulas aureas faciemus tibi vermiculatas argento”. Nella Commedia, le due funzioni, esterna e interna, di prosa e lirica, saranno congiunte nei versi dal doppio linguaggio.
■ (Tab. VI.6) Nel paragrafo successivo (Vita Nova 11), su richiesta di un amico che aveva ascoltato Donne ch’avete intellecto d’amore, viene esposto cosa sia Amore (Amore e ’l cor gentile). I dettami guinizelliani incastonati secondo Gorni in una “prosa carica di grevi intenzioni filosofiche”, che “recupera quel sapere a fini cortesi” [48], non mancano di concordare anche con l’esegesi del Cantico dei Cantici. Lo sposo, ristorato dei frutti della sposa, vuole che ne fruiscano pure gli amici (Cn 5, 1). Olivi sottolinea più volte la coralità dell’amicizia presente nel libro salomonico e il ruolo svolto dagli amici dello sposo o della sposa nel mutuo partecipare del loro amore.
Cn 2, 1, p. 148 [88] Nota autem quod per haec mutua colloquia designatur quod in illa unione sponsi et sponsae nobis ineffabili sunt quaedam internae locutiones in quibus evidenter exprimitur, quomodo se amant et appretiantur et quomodo ad invicem sunt sibi cari, iucundi, pulchri et gratiosi. Quia vero haec non solum sibi mutuo ostendunt, sed etiam aliis, ideo tamquam ad alios seipsos commendantes subdunt – et primo sponsus de seipso dicit: “Ego flos campi et lilium convallium (Cn 2, 1)”.
Poi lo sposo, inducendo gli amici al sopore estatico, afferma: “Ego dormio et cor meum vigilat” (Cn 5, 2); egli cioè si riposa e al tempo stesso veglia col cuore, e con questo star sveglio si trova “in suo actu supremo”. Così, nel sonetto, Amore viene a riposarsi nel cuore gentile e, svegliandosi per il “disio della cosa piacente”, passa (come scolasticamente spiegato nella prosa) dalla potenza all’atto. Altrove (Cn 2, 13-14) si parla delle “spirituales et secretae mansiones solidae veritatis et aeternitatis Dei quas sponsa subintrans quiescit ibi cum sponso … tuarum potentiarum et voluntatum capacia loca et desideria” (“Amor per sire e ’l cor per sua magione … nasce un disio della cosa piacente” … dico come questa potentia si riduce in acto”).
■ (Vita Nova 15 – Tab. VI.7) La sposa viene svegliata dallo sposo, ma è come se avesse sempre vegliato (Cn 2, 8: “a somno praefato iam ad alios actus evigilasset”). Dante perviene a “una ymaginatione d’Amore” dopo altra “vana ymaginatione” nella quale, ad occhi chiusi, ha visto Beatrice morta; quasi questa seconda fantasia fosse la continuazione della prima: “così come se io fossi stato presente a questa donna.│Io mi senti’ svegliar dentro allo core / un spirito amoroso che dormia”. La sposa sente una voce, quella dello sposo, primo segno del suo venire, per cui bisogna prepararsi al suo arrivo: «“Vox dilecti mei” … ex eius voce eius adventum primo deprehenderit … Ecce dominus venit, paremus cito domum et nos ipsos». Dante vede venire Amore, poi monna Vanna che precede monna Bice; la donna di Cavalcanti si chiama “Primavera”, nome che Amore interpreta “Prima–verrà”, come il precursore Giovanni Battista disse di Cristo : «“Ego vox clamantis in deserto: parate viam Domini (Matteo 3, 3)”│guardando in quella parte onde venia, / io vidi monna Vanna e monna Bice / venire inver’ lo loco là ov’io era». È primavera, stagione di novità; in essa Dio intende formare nella Chiesa una nuova, nobile situazione e rendere più solenne, felice e gioioso il proprio culto, come avvenne ai tempi di Salomone e di Cristo (Cn 2, 11): “ex vernalis temporis proprietate … in vere praedictas proprietates adducit … quando Deus aliquem nobilem statum est in ecclesia formaturus … et Dei cultum praeclarius et felicius solemnizante … Veris ergo temperies et serenitas de se grata, sed propter praeeuntem pressuram hiemis et propter suam novitatem gratiosior … ut tunc quietius et iucundius sapientiae divinae vacaret”. Amore dice lietamente al lieto e rinnovato cuore di Dante di fargli onore, cioè di rendergli il dovuto culto; monna Vanna-Primavera è “una gentil (nobile) donna”: «e pareami che lietamente mi dicesse nel cuor mio … E certo me parea avere lo cuore sì lieto, che me non parea che fosse lo mio cuore, per la sua nuova conditione … io vidi venire verso me una gentil donna … imposto l’era nome Primavera │e poi vidi venir da lungi Amore / allegro sì, che appena il conoscea, / dicendo: “Or pensa pur di farmi onore” … Amor mi disse: “Quell’è Primavera …”». Lo sposo chiama la sposa con vari nomi, il primo fra questi è preso dall’amicizia o dall’amore (Cn 2, 10): «sponsus multis nominibus amorosis vocat sponsam … Primum tamen nomen proprie sumitur ab amicitia vel amore – una gentil donna, la quale era di famosa bieltade e fue già molto donna di questo mio primo amico … Quella prima è nominata Primavera … quella Beatrice chiamerebbe Amore │Amor mi disse: “Quell’è Primavera, / e quell’à nome Amor, sì mi somiglia”».
Da notare come il versetto di Matteo 3, 3 – “Ego vox clamantis in deserto: parate viam Domini” – è attratto nella prosa dall’esegesi di Cn 2, 8 – «“Vox dilecti mei”… Ecce dominus venit, paremus cito domum et nos ipsos» -, secondo un metodo con il quale nella Commedia le citazioni dei Salmi, prescelte in modo autonomo, saranno concordate con l’esegesi della Lectura super Apocalipsim [49].
■ (Tab. VI.8) La semantica del Cantico dei Cantici percorre anche Vita Nova 17, sia i due sonetti (Tanto gentile e Vede perfectamente) come la prosa. Si registrano gli attributi di lode della sposa verso lo sposo – dolcezza al core, soave – (Cn 1, 1b); il cui nome è desiderabilis, secondo quanto scrive di Cristo il profeta Aggeo: “desideratus cunctis gentibus” (Cn 5, 16) – venne in tanta gratia delle genti ; la nobiltà (gentilezza), propria di una terra d’Oriente, dello sposo e della sposa, atta a procreare una nobile prole (Cn 1, 2a; 7, 1b; nella morte di Beatrice, la dipartita dell’“anima sua nobilissima” è computata, oltre che “secondo l’usanza nostra”, “secondo l’usanza d’Arabia … e secondo l’usanza di Siria”: Vita Nova 19.4); la ridondanza, nello sposo, delle perfezioni divine e di ogni virtù (Cn 1, 2a) – virtuosamente, virtute, perfectamente ogne ; l’incedere bello e decoroso della sposa, nel mirabile procedere dei suoi atti (Cn 7, 1b) – Ella si va (viene chiamata «“filia principis”, id est Dei »; Beatrice “non parea figliuola d’uomo mortale, ma di Dio”: Vita Nova 1.9), mirabili cose da.llei procedevano, sua beltate, ne procede, negli acti ; soave non è solo lo sposo, ma anche la memoria del suo nome (Cn 1, 2b) – non fa sola sé … la si può recare a mente, ricordandosi di lei ; la sovità dello sposo si espande coralmente sulla famiglia della sposa (“sponsae” e “adulescentulae”, cioè sui perfetti e sugli incipienti nel percorso contemplativo; Cn 1, 2c) – quelle che vanno con lei ; lo sposo mostra la propria compiacenza negli occhi della sposa (Cn 6, 4a) – mostrasi sì piacente … che dà per gli occhi ….; la invita a non guardarlo oltre le proprie forze – e gli occhi no l’ardiscon di guardare -, perché proverebbe l’impossibilità di intenderlo – che ’ntender no.lla può chi no.lla prova.
Si noterà che più passi esegetici vengono collazionati fra loro per arricchire la semantica, secondo una tecnica che nella Lectura super Apocalipsim Olivi definisce “mutua collatio” di singole parti di esegesi (cfr. infra); lo stesso testo salomonico la suggerisce, sottoponendo più volte all’esegeta il medesimo termine: si veda il caso di “labia” (Cn 4, 3.11; 5, 13), che attira anche “guttur” (Cn 5, 16), inteso “pro toto palatu et ore”.
Tab. VI.1
PETRI IOHANNIS OLIVI Expositio in Canticum Canticorum [ = Cn], ed. J. Schlageter, Ad Claras Aquas Grottaferrata 1999 (Collectio Oliviana, II) [le citazioni scritturali, anziché in corsivo, sono state poste fra “ ”]Cn 5, 10, p. 234[233] “Dilectus meus” (10a). Hic describitur et laudatur sponsus a sponsa et sicut in amativis cantionibus fieri solet, in principio et in fine commendat eum breviter et in summa. […]Cn 1, 1, pp. 122, 124[34] Nota etiam quod supra loquebatur ad sponsum in secunda persona, hic loquitur de eo in tertia, acsi suis adolescentulis haec glorianter sive informatorie loquatur. Et breviter: secundum quod variantur in sponsa modi affectuum et aspectuum, sic et modi locutionum suarum. Et consimiliter est de sponso. Unde et supra incepit a tertia persona dicens: “osculetur me” (1a), et tamen statim flectit se ad secundam subdens: “quia meliora sunt ubera tua” (1b) etc. Quod – ut credo – factum est ad ostendendum quod sponsa non fuit ausa illud directe a sponso petere, sed solum absolute desiderium suum exprimere. |
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Vita Nova 10.10-17 (vv. 1-14)[10] Onde io, pensando a queste parole, quasi vergognoso mi partio da.lloro e venia dicendo fra me medesimo: «Poi che è tanta beatitudine in quelle parole che lodano la mia donna, perché altro parlare è stato lo mio?». [11] E però propuosi di prendere per matera del mio parlare sempre mai quello che fosse loda di questa gentilissima; e pensando molto a.cciò, pareami avere impresa troppo alta matera quanto a me, sì che non ardia di cominciare. E così dimorai alquanti dì, con disiderio di dire e con paura di cominciare. [12] Avenne poi che passando per uno camino lungo lo quale sen gia uno rivo chiaro molto, a me giunse tanta volontà di dire, che io cominciai a pensare lo modo che io tenessi; e pensai che parlare di lei non si convenia che io facesse, se io non parlassi a donne in seconda persona, e non a ogni donna, ma solamente a coloro che sono gentili e che non sono pure femine. [13] Allora dico che la mia lingua parlò quasi come per sé stessa mossa e disse: «Donne ch’avete intellecto d’amore». [14] Queste parole io ripuosi nella mente con grande letitia, pensando di prenderle per mio cominciamento. Onde poi, ritornato alla sopradecta cittade, pensando alquanti die cominciai una canzone con questo cominciamento, ordinata nel modo che si vedrà di sotto nella sua divisione. La canzone comincia Donne ch’avete.[15-17]Donne ch’avete intellecto d’amore,
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Cn 5, 6, pp. 228, 230[226] “Anima mea liquefacta est, ut dilectus locutus est” (cfr. 6c). Ecce quod quae tunc, dum sibi sponsus loqueretur, aperire distulit quasi dubitans, an esset ipse aut an esset sibi utile aperire, nunc certitudinaliter animadvertit se tunc ex locutione sponsi prae nimio amoris resolventis ardore liquefactam fuisse. Tum sicut in contemplationis primordiis expedit sponsi illapsus aliquantulum diutius immorari, ut mens in contemplationis amore et in contemplativo statu fundetur atque firmetur, sic postquam est multum sublimata, expedit huiusmodi illapsus aliquando detruncari, ut mens quantumcumque alta addiscat non praesumere, sed humiliari et ut in his quae caute egit, formidet aliquam culpam sibi absconsam inesse. […]Cn 5, 17-6, 1, pp. 244, 246[243] “Quo abiit dilectus tuus, o pulcherrima mulierum?” (17a). Secundo tamquam ex praedictis ad quaerendum eum accensi subdunt: “Quo declinavit dilectus tuus? et quaeremus eum tecum” (17b). Quoniam autem sponsus non solum praefatum sponsae desiderium attendens, sed etiam multitudinis memoratae et etiam suae praeconizationis seu magnificae praedicationis zelum quo sponsa totis viribus eum nititur in omnium cordibus imprimere et magnificare, idcirco repente dum praedicta praeconia dicit vel finit, sponsus sic plene descendit in eam quod ipsa non potest hoc abscondere vel celare multitudini quaerentium illum. Est autem huius rei frequens exemplum et experimentum quo, dum viri sancti zelanter conantur alios divina docere, ita ut illos incitent ad quaerendum, subito multa ab eis quaesita vel alios docenda doctori occurrunt quae ipsi numquam praecogitarunt nec aestimant quod eis alibi occurrisset. Propter quod admirative et cum gratiarum actionibus recognoscunt huiusmodi repentinos conceptus et responsiones eis divinitus ministratos. Hoc est igitur quod hic completius ostenditur et impletur; quia cum illi dicerent: “Quo declinavit? et quaeremus eum tecum” (17b), ipsa repente ipsum infra se sentiens descendisse respondet:
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Tab. VI.2
Vita Nova 10.18-21 (vv. 15-42)Angelo clama in Divino Intellecto
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Cn 5, 2a, p. 220[213] Quis autem digne valeat admirari tantam dignationem summi Dei et Domini nostri? Quod ipse in tantum dicat se refici et delectari in fructibus et dulcoribus sponsae, quod tamquam inde inebriatus totus in ea condormiat et consoporetur. Et quod ipsum suum soporem amicis suis, angelis scilicet et ceteris sanctis, praebeat in exemplum, ut et ipsi in eadem consimiliter consoporentur!Cn 6, 11-12, pp. 264, 266, 268, 270[272] “Nescivi” (11a). Ubi se in regimine desolatam asserit ex duplici causa. Prima est ex defectu quem in seipsa invenit, et pro hoc dicit: “nescivi”, scilicet hoc onus regiminis tam grave et tam discriminosum esse, sicut nunc probavi. […]
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Tab. VI.3
Cn 4, 7, p. 200[181] “Tota pulchra es, amica mea, et macula non est in te” (7), ubi positive simul et negative eam commendat. Sed cum in hac vita nullus sit absque peccato iuxta illud primae canonicae Iohannis capitulo primo: “Si dixerimus quoniam peccatum non habemus, ipsi nos seducimus” (cfr. 1 Io 1, 8); quomodo dicit, quod “macula non est in te” (7)? Ad hoc est triplex responsio: Prima est, ut loquitur de sola macula mortali.
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Vita Nova 10.22-23 (vv. 43-56)Dice di lei Amor: «Cosa mortale
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Cn 5, 10, pp. 234, 236[233] “Dilectus meus” (10a). Hic describitur et laudatur sponsus a sponsa et sicut in amativis cantionibus fieri solet, in principio et in fine commendat eum breviter et in summa. In intermedio vero processu commendat eum specialius et distincte per partes sequens ordinem partium corporis virilis quem modum et ordinem sponsus supra in laudibus sponsae servavit (cfr. Cn 4, 1-11). Primo ergo commendat eum in summa tam absolute quam respective, absolute quidem ex colore qui in pulchritudine corporali tamquam primo visibili multum praefertur. Dicit ergo quod est “candidus et rubicundus” (10a). Horum enim colorum proportionata permixtio seu connexio est in corpore humano prae ceteris coloribus pulchra et grata. Per hoc autem significatur quod est plenus candore puritatis et sapientialis claritatis et flammeo rubore vividae caritatis. Respective autem commendat eum dicendo quod est electus “ex millibus” (10b), id est: prae omnibus in omni virtute et decore praecellens et praeelectus. |
Tab. VI.4
Vita Nova 1.9[9] Elli mi comandava molte volte che io cercassi per vedere questa angiola giovanissima; onde io nella mia pueritia molte volte l’andai cercando, e vedeala di sì nobili e laudabili portamenti, che certo di lei si potea dire quella parola del poeta Homero: “Ella non parea figliuola d’uomo mortale, ma di Dio”.Vita Nova 10.18 (vv. 15-18); 20 (vv. 30-36); 22 (vv. 43-44)Angelo clama in Divino Intellecto
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Cn 7, 1, p. 274[283] Deinde ostenditur ei sua sufficientia in speciali et quasi per partes. Et sumitur hic metaphora sive tropus ex generosa dispositione corporis muliebris ex qua est apta et fortis ad prolem fortem et nobilem procreandam et educandam. Et quia partus est ad inferiora, ideo hic incipit ab inferioribus membris ascendens per ordinem usque ad supremum. Ac deinde ibi: “quam pulchra es” (6) redit suo more ad generalem commendationem suae sufficientis dispositionis proli expedientis.
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Cn 6, 10, p. 260[266] “Descendi in hortum meum” (10a). Haec est pars tertia principalis in qua agitur de nuptiali amore, prout est prolis spiritualis procreationi et gubernationi insistens. Et haec habet tres partes principales; quia primo ostenditur, quomodo ex suis virtutibus et conatibus est ad hoc idonea et exercitata et quomodo per hoc ad finalem fructum divinae prolis pertingit […] |
Tab. VI.5
Cn 1, 2, p. 118[19] “Ideo adolescentulae”, id est: sociae ipsius sponsae ad contemplationis suae apicem nondum attingentes, in Dei tamen notitia iam paulatim crescentes, “dilexerunt te” (2c). Quasi diceret: tanta est tua suavitas et ita longe se effundens, quod non solum ad tui amorem allicit sponsas, animas scilicet perfectiores, sed etiam adolescentulas, animas scilicet in tui notitia minus provectas.
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Cn 1, 9-10, pp. 138, 140[75] “Collum tuum sicut monilia” (9b) […] Hoc igitur ‘collum’ in sponsa est pulchrum “sicut monilia”. Est enim ‘monile’ ornamentum per quod pectora virginum seu matronarum clauduntur. Inde dicta, quia monent seu arcent viros, ne inserant manus suas infra sinum earum, et sunt quasi quaedam magnae fibulae instar colli circulares. In toto igitur versu praedicto hoc intenditur quod sponsa habet decorem amoris castissimi cum sinceritate desiderii aeterni. Et per haec duo merito potest retrahi a sequendo vias “gregum” (7b) et praedictorum “pastorum” (7c). […]
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Vita Nova 10.24-25 [XIX 13-14]Canzone, io so che tu girai parlando
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Tab. VI.5 bis
Cn 1, 10, pp. 138, 140[76] “Murenulas aureas faciemus tibi” (10a). Sunt autem ‘murenulae’ catenae latae et spissae, de auro mire factae quae a capite defluentes ad cervicem ornandam aptantur, et haec virgulis auri et argenti artificiose distinctis et commixtis sunt contextae, dictae a quodam pisce nomine ‘murena’, quia consimiles distinctiones et commixtiones colorum habet in cute sua vel quia capta vertit se in circulum; et secundum Gregorium huiusmodi murenulis seu catenis monilia collo ligantur. Et haec propter virgularum argentearum insertiones dicuntur “vermiculatae”, id est rubricatae, “argento” (10b), id est desuper versibus et reticulationibus argenteis exornatae et circumtextae, sicut in picturis quaedam virgulae rubeae solent colori albo superinseri vel econverso. Per hoc igitur potest intelligi ornamentum disciplinae vel sapientiae vel sacramentalis gratiae. Habet enim sponsa disciplinam moralem quasi auream, et aliquam caeremonialem priori desuper seu deforis insertam que est velut argentum. Eius etiam sapientia habet theorias de divinis quasi aureas et tropos similitudinum sensibilium et figuralium quasi virgulas argenteas. Et hoc modo est edita scriptura sacra seu sapientia sponsae. Constat ex intelligentia interiori et eloquentia exteriori. Sacramenta etiam eius habent interius gratiam invisibilem et exterius speciem sensibilem. Haec autem non dantur a principio ipsi sponsae in tanta affluentia et evidentia, sicut fit postmodum exigente hoc necessitate suorum certaminum. Unde et ecclesia in initio sui ortus non habuit ita distinctum ornatum sacramentorum et sacramentalium mysteriorum nec tantam affluentiam scripturarum et magistralium seu disciplinalium institutorum, sicut habuit postmodum. Est ergo sensus: O sponsa, tanta tibi dabitur copia sapientiae et eloquentiae et scripturae sacrae et tantus ornatus seu cultus sacramentorum et virtualis disciplinae quod omnino dedignaberis sequi insipientiam et vilem vitam bestialium plebium. |
Vita Nova 1.1 [I 1]In quella parte del libro della mia memoria dinanzi alla quale poco si potrebbe leggere, si trova una rubrica la quale dice Incipit Vita Nova. Sotto la quale rubrica io trovo scripte le parole le quali è mio intendimento d’asemplare in questo libello, e se non tutte, almeno la loro sententia.Vita Nova 10.26, 33 [XIX 15, 22][26] Questa canzone, acciò che sia meglio intesa, la dividerò più artificiosamente che l’altre cose di sopra. […] [33] Dico bene che a più aprire lo ’ntendimento di questa canzone si converrebbe usare di più minute divisioni; ma tuttavia chi non è di tanto ingegno, che per queste che sono facte la possa intendere, a me non dispiace se la mi lascia stare, ché certo io temo d’avere a troppi comunicato lo suo intendimento pur per queste divisioni che facte sono, s’elli avenisse che molti le potessero udire.Vita Nova 7.13 [XIV 13]Questo sonetto non divido in parti, però che la divisione non si fa se non per aprire la sententia della cosa divisa; onde con ciò sia cosa che per la sua ragionata cagione assai sia manifesto, non à mestiere di divisione. |
Tab. VI.6
Vita Nova 11Apresso che questa canzone fue alquanto divulgata tra le genti, con ciò fosse cosa che alcuno amico l’udisse, volontade lo mosse a pregare me che io li dovessi dire che è Amore, avendo forse per l’udite parole speranza di me oltre che degna. [2] Onde io, pensando che apresso di cotale tractato bello era tractare alquanto d’Amore, e pensando che l’amico era da servire, propuosi di dire parole nelle quali io tractassi d’Amore; e allora dissi questo sonetto, lo quale comincia Amore e ’l cor gentile.[3-5]Amore e ’l cor gentile sono una cosa,
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Cn 5, 1-2, p. 220[211] Quia vero non sufficit sponso se solum refici ex fructibus sponsae, nisi et eius amici inde reficiantur et hoc usque ad summum; ideo subdit: “Comedite, amici, et bibite”, et hoc non semiplene, sed usque ad summum. Unde et subdit: “et inebriamini, carissimi” (1e). Dicit etiam: “comedite” (1e) etc., ut ostendat permaximam abundantiam fructuum sponsae sufficientem omnibus amicis suis non solum ad necessitatem reficiendis, sed etiam inebriandis.
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Cn 2, 13-14, pp. 166, 168[119] Pro quarto, id est: pro secunda invitatione, nota primo quod ex supradictis causis replicando tria nomina sponsae non in medio sicut prius, sed ultimo ponit nomen “columbae” (13c), quia sibi litteralius competit esse “in foraminibus” (14a) rupium et parietum ad quod sponsus hic eam invitat, quamvis et in hoc servetur tropus assumptus ex corporalibus sponsis quae ad spatiandum se cum sponso in vernantibus vineis aliquando convocantur. Et quia fertiles vineae plerumque sunt in locis prominentibus et saxosis in quibus sunt aliquae cavernae secreto amplexui sponsi et sponsae idoneae, idcirco sub hoc tropo sponsa hic invitatur.
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Tab. VI.7
Cn 2, 8.10-11, pp. 156, 160, 162[101] “Vox dilecti mei” (8a) Primae partis principalis parte prima terminata, hic subditur secunda. Sicut enim in praecedenti ostensum est quomodo sponsa per conatum proprium tracta est ad sponsi amplexum, sic in hac secunda ostenditur quomodo ad hoc trahitur per sponsi repentinum et vehementissimum illapsum seu adventum. Est autem subintelligendum quod sponsa a somno praefato iam ad alios actus evigilasset ac per consequens quod sponsus quantum ad apicem contemplativae praesentiae ab ea abscessisset et quod modo vocem ipsius iam redeuntis audiat: Unde dicit:
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Vita Nova 15Apresso questa vana ymaginatione, avenne uno die che sedendo io pensoso in alcuna parte, e io mi senti’ cominciare un terremuoto nel cuore, così come se io fossi stato presente a questa donna. [2] Allora dico che mi giunse una ymaginatione d’Amore: che mi parve vederlo venire da quella parte ove la mia donna stava, e pareami che lietamente mi dicesse nel cuor mio: «Pensa di benedicere lo dì che io ti presi, però che tu lo dêi fare». E certo me parea avere lo cuore sì lieto, che me non parea che fosse lo mio cuore, per la sua nuova conditione. [3] E poco dopo queste parole, che lo cuore mi disse colla lingua d’Amore, io vidi venire verso me una gentil donna, la quale era di famosa bieltade e fue già molto donna di questo mio primo amico. E lo nome di questa donna era Giovanna, salvo che per la sua bieltate, secondo che altri crede, imposto l’era nome Primavera, e così era chiamata. E apresso lei guardando vidi venire la mirabile Beatrice. [4] Queste donne andaro presso di me così, l’una apresso l’altra, e parve che Amore mi parlasse nel cuore e dicesse: «Quella prima è nominata Primavera solo per questa venuta d’oggi; ché io mossi lo imponitore del nome a chiamarla così Primavera, cioè Prima-verrà lo die che Beatrice si mosterrà dopo la ymaginatione del suo fedele. E se anche vòli considerare lo primo nome suo, tanto è quanto dire Primavera, però che lo suo nome Giovanna è da quello Giovanni lo quale precedette la verace luce dicendo: “Ego vox clamantis in deserto: parate viam Domini”». [5] E anche mi parve che mi dicesse dopo queste parole: «E chi volesse sottilmente considerare, quella Beatrice chiamerebbe Amore per molte simiglianze che à meco». [6] Onde io poi ripensando propuosi di scrivere per rima allo mio primo amico (tacendomi certe parole, le quali pareano da tacere), credendo io che ancora lo suo cuore mirasse la bieltade di questa Primavera gentile. E dissi questo sonetto, lo quale comincia Io mi senti’ svegliare.[7-9]Io mi senti’ svegliar dentro allo core
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Tab. VI.8
Tab. VI.9 (in rosso le parti in prosa)
Cn 4, 7 (sponsus) |
Vita Nova 10.22, vv. 43-44 (Amor) |
eam commendatquomodo dicitde sola macula mortali |
di leidice … comemortale |
Cn 5, 10 (sponsa) |
Vita Nova 10.22, vv. 47, 48; 23, v. 52 (Dante) |
ex colorecandore puritatisproportionataflammeo rubore vividae caritatis |
colorpura … di perlenon for misuraspirti d’amore inflammati |
Cn 6, 12 (requisitio sponsae) |
Vita Nova 10.22, v. 50 (Dante) |
utilitas exempli |
per exemplo di lei |
Cn 6, 10; 7, 1(de nuptiali amore, prout est prolis spiritualis procreationi et gubernationi insistens) |
Vita Nova 10.18, v. 17; 20, vv. 30-33, 36; 22, v. 44; 29 |
ex suis virtutibusper partesprocessus … actuumex generosa dispositione corporis muliebrisad prolem fortem et nobilem procreandam et educandamquam pulchre et decenter inceduntnec de vili et inordinata materia calceantur … restrictio et moderatio regularis disciplinaemirabiliter pulchrificant et adornant |
sue virtudi, sua virtùdalla partenell’acto che procede … procedeanonobilità del suo corpoDico, qual vuol gentil donna parere … diverria nobil cosaquando va per viagitta nei cor’ villan’ d’amore un gelo
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Cn 1, 1-2 |
Vita Nova 17 |
dulce … in cordaineffabilis exuberantia suavitatum … suaviaomnes divinae perfectiones … superexcrescentia divinarum perfectionuminstar nobilium terrae orientalis … ut nobilis et regiaimmensa multitudo omnium virtutumNon solum tu … sed etiam sola memoria tui noministanta est tua suavitas |
dolcezza, dolcezza (2) … al coresoaveperfectamente ogne
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Cn 6, 10; 7, 1(de nuptiali amore, prout est prolis spiritualis procreationi et gubernationi insistens) |
Vita Nova 17 |
ex suis virtutibusprocessus … actuumad prolem fortem et nobilem procreandam et educandamquam pulchre et decenter inceduntmirabiliter pulchrificantiuncturis feminum |
virtuosamente (2) … la sua virtute … virtuteprocedevano … ne procede … negli actigentilezzaquando passava per via … Ella si va … quelle che vannouna maraviglia … mirabilemente (2) … mirabile/i (4) … beltategiugnea (2) … femina |
Cn 6, 4 |
Vita Nova 17 |
volens laudem “oculorum” … monstrare … ad exprimendum excessivam gratiositatem “oculorum” … et excessivam complacentiam …ut scilicet experimento probares quod non potes me comprehendere |
si mostrava … li piaceri … Mostrasi sì piacente … che dà per gli occhi
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Cn 5, 16 |
Vita Nova 17 |
“desideratus cunctis gentibus” |
venne in tanta gratia delle genti |
Tab. VI.10
Cn 4, 3.11, pp. 196, 208[172, laus sponsae] Per “labia” vero instar ‘vittae coccinae’ (cfr. 3a) rubentia significantur virtutes Deo et hominibus affabiles et benignae et quasi ad dulcia Dei et proximi oscula aptae. Per ipsa etiam designantur virtutes divinorum sermonum prolativae et interpretativae quae igne divini amoris debent valde rubere, ut scilicet totum quod loquuntur, sit spiritualis amor et ardor et dulcor -iuxta quod Christus Iohannis sexto dicit: “Verba quae loquor vobis, spiritus et vita sunt” (Io 6, 64). Haec autem ‘vittae coccinae’ comparat non solum ratione ruboris ignei designati in cocco, id est: in vermiculo sive rubro, sed etiam ratione ‘vittae’ qua sponsarum crines et genae vinciuntur sive ligantur, quia caritativum eloquium omnia ligat in unum. […][194, laus sponsae] Pro quinto dicit quod “labia tua” sunt “favus distillans”, scilicet mel divinorum eloquiorum, et “mel et lac sub lingua tua” (11ab). Sicut enim Emmanuel butyrum et mel comedet (cfr. Is 7, 15), sic sponsa eius ‘mel’ divinae et angelicae sapientiae et dilectionis et ‘lac’ purae sanctorum vitae et innocentiae habet sub lingua suorum eloquiorum quibus filios suos nutrit. ‘Mel’ enim per apis solertiam ex roridis floribus colligitur, ‘lac’ vero ex ovibus emungitur; ideo per ‘mel’ sapientia superior, per ‘lac’ vero inferior designatur.Vita Nova 17.7 [vv. 5-6, 9-14]Ella si va, sentendosi laudare,
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Cn 5, 13, p. 240[236, laus sponsi] “Labia eius” sunt “distillantia myrrham primam” (13b), id est: docentia et in auditoribus diffundentia summam et praecipuam puritatem iuxta illud Psalmi: “Eloquia Domini eloquia casta” (Ps 11, 7) etc.Cn 5, 16, pp. 242, 244[241] “Guttur illius suavissimum” (16). Guttur est radicalis pars faucium, ubi radicaliter consistit vis gustativa ciborum. Unde secundum Papiam gustus a ‘gutture’ dicitur. [242] Potest autem generaliter sumi pro toto palatu et ore, ut sic propter tropum nuptialis osculi significetur non solum esse “suavissimum” in se, sed etiam sponsae. “Et totus desiderabilis” (16a), hoc est vere proprium et praeconiale nomen sponsi solum Deum amantibus et gustantibus notum. Nihil enim potest in Christo dilecto occurrere, quin sit summe desiderabile. Unde et ab Aggaeo Propheta vocatur “desideratus cunctis gentibus” (Agg 2, 8). […]Cn 2, 5, p. 152[94] Nota autem quod tunc amor incipit superexcedere, quando totam mentem elanguescere facit, ita quod prae nimietate desiderii seu suspirii et languoris seipsam sustinere non valet. In hunc ergo gradum sponsa sublevata subdit: [95] “Fulcite me floribus, stipate me malis”, id est: pomorum ramis vel fructibus, “quia amore langueo” (5).Vita Nova 17.1, 3Questa gentilissima donna, di cui ragionato è nelle precedenti parole, venne in tanta gratia delle genti, che quando passava per via, le persone correvano per vedere lei, onde mirabile letitia me ne giugnea nel cuore. […] [3] Io dico che ella si mostrava sì gentile e sì piena di tutti li piaceri, che quelli che la miravano comprendeano in loro una dolcezza onesta e soave tanto, che ridire no.llo sapeano; né alcuno era lo quale potesse mirare lei, che nel principio nol convenisse sospirare. |
labia eiusbenignaedulcialoquuntur, loquor, linguaspiritualisamorsuavissimumincipitsuspirii |
sua labbiabenignamentedolcezzache va dicendoun spiritoamoresoavenel principiosospirare, sospira |
7. Punti fermi e problemi aperti
I passi proposti, per quanto frutto di estesi sondaggi, hanno un valore significativo ma limitato. Non escludono l’utilizzazione dell’esegesi di altri luoghi del Cantico dei Cantici né di ulteriori opere esegetiche (sopra si è vista l’incidenza della Lectura super Lucam di Olivi). In quanto si è mostrato, non si tratta di coincidenze casuali, perché troppo numerose: la quantità è in questo caso qualità primaria. Non si tratta di un rapporto con il solo libro salomonico, perché la semantica proviene per la maggior parte non dal testo biblico, ma dalla sua esegesi. Non si tratta di una qualunque possibile esegesi, perché alcuni passi (come la citazione dei Moralia di Gregorio Magno a Cn 8, 2, tanto influente sull’episodio della Gentile o Pietosa) sono tipicamente oliviani.
Brevemente, qui di seguito, alcuni punti fermi sui quali riflettere nel proseguire lo scavo della Vita Nova, concernenti il metodo dell’autore come fin qui si è palesato, i suoi scopi e i problemi che le nuove scoperte pongono allo studioso.
Metodo
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L’esegesi si presenta come “panno” su cui fare la “gonna”; l’autore cerca in essa l’unità interna dell’opera; il riferimento è a un testo principale (l’Expositio in Canticum Canticorum di Olivi), con l’innesto di altri che con il primo concordano.
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Si registrano metodi propri dei predicatori: la collatio, cioè il confronto, fra più passi; la distinctio, raccolta analogica di parole dai vari significati.
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Su quanto raccolto si esercita per la poesia l’“arte musaica” di legar parole (Convivio IV vi 4); l’autore costruisce in modo autonomo il racconto in prosa che non è calco del commento scritturale; alcuni termini, o rose di essi, operano come signacula dell’esegesi.
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Ciò che in Olivi è teologicamente inteso in senso assoluto e concentrato su Cristo, lo sposo, la sposa, viene isolato e separato in più affluenti, facendo risuonare ora l’uno ora l’altro tema su più soggetti [50].
Scopi
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Una vicenda personale e cittadina viene inserita in una storia universale, quella di Cristo (lo sposo) e della sua imitazione da parte di Beatrice e di Dante, tramite la sua donna. Nella Commedia, lo spirito profetico, che non è soltanto previsione di eventi futuri, avrebbe dato alle vicende un valore esemplare. Tutti i tre più gravi peccati capitali – superbia, invidia e avarizia -, affermerà Ciacco, cooperano alle divisioni di Firenze, e ne sono concausa (Inf. VI, 74-75). Un particolare fatto cittadino sarebbe stato elevato a modello di male universale, e questo espandersi verso l’universale al di là del proprio particolare, per poi ritornarvi, è una caratteristica del modo tenuto dai grandi profeti, Isaia o Ezechiele e da Cristo stesso. Così si potrà ancora dire della fama di Firenze che “si spande” per tutto l’inferno (Inf. XXVI, 1-3), o che la città “è pianta” di Lucifero (Par. IX, 127-128).
Nella Vita Nova (19.8) la desolazione di Firenze per la morte di Beatrice è degna di essere comunicata “alli principi della terra”. L’episodio del gabbo (Vita Nova 7), nel quale – osserva Gorni – “la piccola cerchia, industriosa e intelligentissima, dell’innominata Firenze assiste a una scena corale di crudeltà femminile ai danni del poeta” (alla quale partecipa anche Beatrice) [51], rispecchia le tribolazioni della sposa mortificata e disprezzata da parte delle “filiae Ierusalem”, cioè delle molte donne imperfette nel seguire la “lex divini amoris” (Cn 1, 3-4). Eppure la sposa, “ad Dei imaginem … reformata”, le invita a considerare la causa del suo essere scolorita – “nigra sum, sed formosa” – e come morta al mondo. Mutata, trasformata, essa è resuscitata da morte tramite la croce di Cristo, del quale ripete la passione e la derisione (Cn 8, 2.5-6). Così Dante viene schernito (“a così dischernevole vista”: Vita Nova 8.1) da molte donne a motivo della “transfigurazione” patita nel vedere fra esse Beatrice; a costei si rivolge nel sonetto Con l’altre donne, per spiegare la causa della sua derisa mutazione.
Il risultato non è un libro devozionale né un trattato sulla contemplazione – un nuovo Benjamin emulo di Riccardo di San Vittore -, ma una storia reale assurta a storia sacra della salvezza collettiva. La legge di Cristo, di cui dice Olivi esponendo Matteo 11, 4-6, è la legge di Beatrice, non una ‘santa’ qualsiasi, ma la vera imitatrice del Redentore:In hac etiam responsione comprehenditur universalis seu ordinaria Christi doctrina, quia in ea ostenditur quod Christi persona seu Christi doctrina et lex est lex veritatis cecos illuminantis, et equitatis tortos gressus rectificantis, et puritatis carnis immunditias abstergentis, et imperiositatis facientis sibi obedire duros et surdos, et vite seu vivacitatis vivificantis mortuos, et summe paupertatis seu libertatis et humilitatis pauperes singulariter honorantis, est etiam lex summe felicitatis miseros beatificantis. Sicut autem opera miraculorum exteriora sensibus hominum clamant ipsum esse Christum redemptorem hominum, sic septem predicta opera intellectualiter clamant ipsum esse Deum salvatorem animarum (PETRI IOHANNIS OLIVI Lectura super Matthaeum, Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, ms. Vat. lat. 10900, f. 92va).
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Il fine principale di così intensa intertestualità è, però, cavare il volgare dal latino; lo sarà anche nella Commedia.
Problemi
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Dante, che Cola di Rienzo chiamò “theologus magnus” ma che in vita si definì “phylosophorum minimus”, non parla mai della sua formazione teologica, ma solo di quella filosofica. Filosofia e teologia sono materie pertinenti a cieli diversi: la prima al Cielo stellato (Fisica e Metafisica) e al Primo Mobile (Morale Filosofia), la seconda all’Empireo (Convivio II xiv, 1-21). Tanto che Michele Barbi, contro quanti già ai suoi tempi accampavano influenze di Olivi e degli Spirituali francescani, riteneva che gli bastasse la Bibbia. Il confronto testuale attesta invece quanto intensa sia stata l’elaborazione dell’esegesi. Non a caso la teologia nel Convivio viene definita “una” come la sposa-colomba, preferita alle sessanta regine, alle ottanta amiche concubine e alle ancelle adolescenti delle quali non è numero, secondo il Cantico dei Cantici 6, 7-8, già ispiratore della “pìstola sotto forma di serventese” menzionata nella Vita Nova 2.11 [VI 2], nella quale Beatrice si collocava al nono posto dei sessanta. Quando Dante cominciò a interessarsi all’esegesi? Probabilmente prima della sua frequentazione “nelle scuole delli religiosi e alle disputazioni delli filosofanti” (Convivio, II, xii, 7; a partire dalla metà circa del 1291), anche se in quella sede avrà avuto modo di studiare ancora la sacra pagina. Quanto prima? Non è possibile rispondere con precisione; se il sonetto Cavalcando mostra i segni di questo interesse, la maggiore accentuazione sembra concentrarsi attorno al 1290, anno della morte di Beatrice: nel 1289 Olivi aveva lasciato Santa Croce, unico luogo dove Dante poteva vedere a Firenze i suoi scritti.
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Il confronto con l’esegesi, una volta completato, potrà forse aiutare a comprendere meglio le fasi di composizione dell’opera. Per il momento, alla domanda se sia esistita una Ur-Vita Nova alla quale l’episodio della Donna Gentile (o Pietosa) sia stato aggiunto in un secondo momento, la risposta sembra essere negativa. Il “panno” di Cn 8, 2 non è servito infatti solo per i paragrafi della Gentile (cfr. Vita Nova 6; 14). D’altronde, se il modello è la vita di Cristo e la sua imitazione, dopo la vita (Beatrice), i miracoli (intellettuali) e la passione e morte per la nostra salute subentrano le persecuzioni, i martìri dei suoi discepoli rimasti in terra (Dante): i paragrafi relativi alla Gentile rispecchiano proprio l’esegesi di Cn 8, 2, relativa al moderno martirio psicologico. Terza fase della storia della Chiesa, considerata dall’Olivi in sette stati, sono i dottori che confutano le eresie, cioè la filosofia.
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Da considerare anche in modo nuovo il rapporto tra poesia (che si presume precedere nel tempo) e prosa (che si presume seguire), perché anche la poesia (in particolare alcune rime precedenti la morte di Beatrice) appare segnata da un rapporto con l’esegesi. La scelta delle rime da inserire nel “libello” è stata forse determinata dall’intensità o dalla sussistenza di questo rapporto.
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Nella Commedia, i segni (le parole-chiave), imagines agentes che sollecitano la memoria del lettore accorto verso un altro testo (la Lectura super Apocalipsim), determinano anche dei significati per un preciso pubblico (gli Spirituali francescani). Fra i destinatari fiorentini della Vita Nova, al di là dei rimatori e dei conoscenti [52], c’erano forse anche i francescani di Santa Croce?
Tab. VII.1
Cn 1, 3-4, pp. 124, 126, 128[37] “Recti diligunt te” (3f). Ostenso quomodo per conatum desideriorum sponsa ascendit, hic ostendit quomodo per fortem sufferentiam tribulationum seu proeliorum. Et in hac primo praemittit causam huius sufferentiae quae est zelus iustitiae propter Dei amorem. Et ideo primo ostendit quod zelatores seu observatores rectitudinis seu iustitiae sunt sponsi amatores. Secundo: mortificationem et pugnam quam ex zelo sui amoris etiam a suis fratribus sustinuerit, subnectit ostendendo quod huiusmodi mortificatio et despectio non est in ea contemnenda, ibi: “nigra sum” (4a). […]
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Vita Nova 7 [XIV]. 7-14[7] Io dico che molte di queste donne, accorgendosi della mia transfiguratione, si cominciaro a maravigliare, e ragionando si gabbavano di me con questa gentilissima. Onde lo ingannato amico di buona fede mi prese per la mano, e traendomi fuori della veduta di queste donne mi domandò che io avesse. [8] Allora io riposato alquanto, e resurressiti li morti spiriti miei e li discacciati rivenuti alle loro possessioni, dissi a questo mio amico queste parole: «Io tenni li piedi in quella parte della vita di là dalla quale non si puote ire più per intendimento di ritornare». [9] E partitomi da.llui, mi ritornai nella camera delle lagrime, nella quale piangendo e vergognandomi fra me stesso dicea: «Se questa donna sapesse la mia conditione, io non credo che così gabbasse la mia persona, anzi credo che molta pietà le ne verrebbe». [10] E in questo pianto stando propuosi di dire parole, nelle quali parlando a.llei significassi la cagione del mio trasfiguramento, e dicessi che io so bene ch’ella non è saputa, e che se fosse saputa, io credo che pietà ne giugnerebbe altrui; e propuosile di dire disiderando che venissero per aventura nella sua audienza. E allora dissi questo sonetto, lo quale comincia Con l’altre.[11-12]Con l’altre donne mia vista gabbate,
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Cn 8, 2.5-6, pp. 300, 308, 310[322] “Apprehendam te”, scilicet cum te invenero mihi datum in fratrem modo praedicto, “et ducam in domum matris meae” (2ab). Haec supra tertio, in fine scilicet primae partis principalis, sunt satis exposita (cfr. Cn 3, 4).
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8. Il libro della memoria nella Commedia
La Vita Nova è un paragrafo (una “rubrica”), cioè una “parte del libro della mia memoria”: Il libro della memoria è il libro della vita, che richiama il versetto famoso di Apocalisse 20, 12. Poiché la Commedia rinvia sistematicamente alla Lectura super Apocalipsim dell’Olivi, vediamo quanto risulta dal confronto dei versi con l’esegesi, fondata soprattutto su Agostino, ma con posizioni autonome di Olivi.
“Furono aperti dei libri. Fu aperto un altro libro, che è il libro della vita, e i morti vennero giudicati in base a ciò che era scritto nel libro, secondo le proprie opere”. Secondo Agostino (De civitate Dei, XX, 14) i libri indicati per prima designano i santi del Vecchio e del Nuovo Testamento, poiché i malvagi verranno giudicati nel paragone coi giusti. Secondo Riccardo di San Vittore, i “morti” qui designano i reprobi. Il “libro della vita”, secondo Agostino, è una forza divina per cui avviene che a ciascuno siano richiamate alla memoria tutte le proprie opere, buone o cattive, e che siano riconosciute con mirabile celerità dall’intuito della mente in modo che la consapevolezza accusi o scusi la coscienza. Questa forza divina ha preso il nome di “libro” perché in essa, in un certo senso, si legge tutto quello che per suo mezzo viene ricordato. Olivi aggiunge che con l’apertura dei libri viene pure designato l’aprirsi della coscienza o della memoria di tutti coloro che devono essere giudicati, che avviene con una forza o un potere divino che riconduce ogni cosa alla chiara e quasi visibile memoria dei singoli, e anzi dimostra in modo tanto chiaro a tutti ogni bene o male operato da chiunque, come se tutti vedessero leggendo nei cuori di ciascuno ogni male o bene mai compiuto. Il “libro della vita” è l’increata scienza e giustizia divina, che allora verrà aperto alla vista di tutti i predestinati alla vita eterna per il conferimento finale della gloria, e verrà aperto ai dannati per l’evidenza dell’effetto esteriore e del giudizio. Secondo questo libro, cioè secondo l’eterna e inerrabile scienza divina, verranno principalmente giudicati tutti; secondariamente lo saranno attraverso il giudizio della propria coscienza e di tutte le altre che saranno contestimoni, lo vogliano o meno, insieme al principale libro della giustizia di Dio. Pertanto i libri indicati per prima si porranno come accusatori e testimoni, il “libro della vita” si porrà come “sententiator”, cioè come quello che contiene ed esprime le sentenze giudiziarie e le loro motivazioni [53].
Nel cielo di Giove, dove albergano gli spiriti giusti, il tema dell’apertura del “libro della vita”, in cui ciascuno verrà giudicato secondo le proprie opere, è premesso dall’aquila all’elenco dei cattivi principi cristiani: tutti, anche l’infedele etiope o persiano, potranno condannare i falsi cristiani, “come vedranno quel volume aperto / nel qual si scrivon tutti suoi dispregi”, nel quale si potranno vedere le opere di costoro, come quella per cui Alberto d’Asburgo renderà nel 1304 “diserto” il regno di Boemia (Par. XIX, 112-117).
Oltre all’aquila anche Beatrice, nell’accingersi a spiegare “come giusta vendetta giustamente / punita fosse” – come cioè la giusta vendetta divina del peccato originale, operata per mezzo dei Giudei che crocifissero Cristo, fosse poi punita negli stessi Giudei con la distruzione di Gerusalemme compiuta da Tito -, parla tramite i motivi del “libro della vita”, che esprime l’inerrabile scienza divina e contiene le sentenze della sua giustizia: “Secondo mio infallibile avviso / … ché le mie parole / di gran sentenza ti faran presente” (Par. VII, 19-24).
I motivi dell’“apertio conscientiarum” e del ricondurre alla memoria ritornano di fronte al muro di fuoco che il poeta deve attraversare prima di completare l’ascesa della montagna sulla cui cima è Beatrice (Purg. XXVII, 16-42). Dante, spaventato, sta “pur fermo e contra coscïenza”. Virgilio prima gli richiama alla mente l’averlo già guidato salvo nel volo sulla groppa di Gerione – “Ricorditi, ricorditi!” -, poi gli fa il nome di Beatrice, dalla quale il fuoco lo separa, e allora, “udendo il nome / che ne la mente sempre mi rampolla”, la durezza del poeta si fa molle, e si apre come si aprirono gli occhi morenti di Piramo al nome di Tisbe. Nei versi si riscontra, congiunto per collazione con quelli di Ap 20, 12 (“in memoriam revocentur et mentis intuitu mira celeritate cernantur”), il tema del riguardare con la mente proprio della quinta chiesa (Ap 3, 3: “In mente ergo habe qualiter acceperis et audieris … que per predicationem audisti et per influxum gratie a Deo primitus accepisti … si digne recogitaveris gratiam tibi prius impensam”). Si tratta di un procedimento di collazione o accostamento analogico di parti diverse di esegesi, spesso collegate da parole o significati chiave (in questo caso il revocare alla mente). Un metodo, senza il quale non si comprende il rapporto testuale fra Commedia e Lectura super Apocalipsim, simile a quello delle distinctiones ad uso dei predicatori, con le quali i differenti significati di una parola commentata, riuniti insieme, forniscono un insegnamento dottrinale [54]. Il vescovo di Sardi, la quinta delle sette chiese d’Asia alle quali Giovanni scrive nella prima visione, viene invitato a ricordare con la mente quale fosse la “prima grazia” e a conservarla, cioè la grazia ricevuta da Dio e ascoltata tramite la predicazione evangelica. Da quanto gli viene detto, si deduce che costui era tanto intorpidito nell’ozio da non ricordare più il primo stato di grazia e di perfezione. Se non si ravvedrà il giudizio divino verrà da lui come un ladro [55]. “Udendo il nome / che ne la mente sempre mi rampolla”, Dante si ricorda della “prima grazia”, cioè della sua donna.
La congiunzione dei due gruppi tematici di Ap 3, 3 e 20, 12 si mostra in Par. XXIII, 46-54, allorché Beatrice dice a Dante di guardarla: «“Apri li occhi e riguarda qual son io (la prima grazia da Ap 3, 3); / tu hai vedute cose, che possente / se’ fatto a sostener lo riso mio”. / Io era come quei che si risente / di visïone oblita (rende l’essere “torpens” di Ap 3, 3) e che s’ingegna / indarno di ridurlasi a la mente (si insinua il tema del ricondurre alla mente da Ap 20, 12), / quand’ io udi’ questa proferta, degna / di tanto grato, che mai non si stingue / del libro che ’l preterito rassegna (cioè il libro della vita, tema principale di Ap 20, 12)».
Un’altra variazione è a Par. XXVIII, 10-12: “così la mia memoria si ricorda (tema del libro della vita) / ch’io feci riguardando ne’ belli occhi / onde a pigliarmi fece Amor la corda” (tema del “principium pulchritudinis”, secondo l’interpretazione di Sardi, la quinta chiesa d’Asia). Il tema del libro della vita è poi appropriato al Primo Mobile, definito equivocamente “quel volume” (ibid., 14).
L’attento ascoltare e il richiamare alla memoria quanto detto, senza riferimento esplicito al “prima”, sono elementi del discorso di Tommaso d’Aquino in Par. XI, 134-135. In questo caso l’espressione “se ciò ch’è detto a la mente revoche” conduce al confronto di Ap 3, 3 (chiesa di Sardi) con Ap 20, 12, luogo della settima visione dove si parla del libro della vita. L’invito paolino a non giudicare prima del tempo (1 Cor 4, 5), contenuto nell’esegesi di Ap 20, 12 passa nelle parole dell’Aquinate a Par. XIII, 130-132, 139-142 (cfr. Par. XX, 133-135).
La tematica offerta insieme da Ap 3, 3 e Ap 20, 12 percorre, in Inf. XI, la descrizione dell’ordinamento dell’Inferno data da Virgilio: l’aver chiaro qualcosa alla mente – «E io: “Maestro, assai chiara procede / la tua ragione …”» (vv. 67-68) -; il richiamare alla mente o il ricordarsi – “Non ti rimembra di quelle parole … e rechiti a la mente … se tu ti rechi a mente / lo Genesì dal principio” (vv. 79, 86, 106-107: è da notare l’espressione “dal principio”, che allude alla “prima grazia” o al “bel principio”) -; il verso “Se tu riguardi ben questa sentenza” (v. 85), che richiama il “libro della vita” contenente le sentenze giudiziarie, che in questo caso coincide con l’Etica nicomachea, la quale “pertratta / le tre disposizion che ’l ciel non vole, / incontenenza, malizia e la matta / bestialitade” (vv. 80-84). È un esempio di conciliazione della filosofia di Aristotele con la teologia dell’Olivi, entrambe presenti alla mente del poeta.
I motivi da Ap 20, 12 si ritrovano anche nel parlare di Venedico Caccianemico (Inf. XVIII, 52-63), al quale la “chiara favella” di Dante “fa sovvenir del mondo antico”. La chiarezza della propria coscienza è augurata agli invidiosi del secondo girone della montagna (Purg. XIII, 88-90).
Tab. VIII.1
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[*] HUGO DE SANCTO VICTORE, Soliloquium de arrha animae (PL 176, 951; ed. K. Müller, Bonn 1913 [= Kleine Texte für (theologische und philologische) Übungen 123] 3). La citazione di Olivi è in SCHLAGETER (cfr. infra, nt. 6), p. 94 e nt. 4.
[1] Ch. S. SINGLETON, La poesia della Divina Commedia, trad. it., Bologna 1978, pp. 461-462.
[2] Alcuni, non sapendo trovare altri argomenti degni di scienza, hanno scorto in questa ricerca un ritorno dei Fedeli d’Amore. Per costoro, i quali scambiano l’ars memorandi e l’intertestualità per esoterismo, valgono le parole di Alberto Asor Rosa: “Dante […] non si sarebbe mai sognato di non poter essere compreso. Che sia tanto difficile farlo, non dovrebbe condurci a rinunciarvi in favore di un arbitrio tutto calato nel punto di vista del lector. L’ermeneutica non può prescindere da un’ontologia della creazione poetica: se ne prescinde, è lettura del nulla. Questo è l’unico ma grandioso mistero, con cui ha a che fare ogni lettore di Dante (incomparabile con quei misteriucci da quattro soldi, con cui si sono misurati gli Aroux e i Guénon): il mistero del segno, o di quel sistema di segni, che ha racchiuso un mondo intero in un insieme d’immagini plurisense. Con questo mistero dobbiamo fare i conti” (A. ASOR ROSA, postfazione a L’idea deforme. Interpretazioni esoteriche di Dante, a cura di M. P. Pozzato, Milano 1989, p. 316). Questo mistero, una vera e propria “Pompei dei segni”, è racchiuso nel confronto fra la Commedia e la Lectura super Apocalipsim.
[3] Cfr. La settima visione (la Gerusalemme celeste, Apocalisse XX-XXII), Appendice.
[4] Cfr. A. FORNI, Pietro di Giovanni Olivi nella penisola italiana: immagine e influssi tra letteratura e storia in Pietro di Giovanni Olivi frate minore. Atti del XLIII Convegno Internazionale. Assisi 16-18 ottobre 2015, Spoleto 2016 (Società Internazionale di Studi Francescani – Centro Interuniversitario di Studi Francescani), pp. 428-430 (trad. ingl. Petrus Iohannis Olivi in the Italian Peninsula. Images and Influences between Literature and History, pp. 22-23).
[5] Cfr., a stampa: FORNI, Pietro di Giovanni Olivi nella penisola italiana, p. 425, nt. 55 (trad. ingl. Petrus Iohannis Olivi in the Italian Peninsula, pp. 20-21, nt. 55); Dante e il Giubileo (II): Bonifacio VIII, in Collectanea Franciscana 86 (2016), pp. 574-576; su questo sito: L’agone del dubbio, ovvero il martirio moderno (Francesca e la «Donna Gentile», 1.1, 3; «In mensura et numero et pondere», 2.5; Dante e Bonifacio VIII, 4.2.
[6] PETRI IOHANNIS OLIVI Expositio in Canticum Canticorum, ed. J. SCHLAGETER, Ad Claras Aquas Grottaferrata 1999 (Collectio Oliviana, II [= Cn]).
[7] La caduta di Gerusalemme. Il commento al Libro delle Lamentazioni di Pietro di Giovanni Olivi, a cura di M. BARTOLI, Roma 1991 (Istituto Storico Italiano per il Medio Evo. Nuovi studi storici – 12), pp. xliv-xlvi.
[8] Dante Alighieri, Vita Nova, a cura di G. GORNI, Torino 1996 (= Vita Nova ; fra [ ] la paragrafazione dell’edizione Barbi).
[9] Ibid., p. 273.
[10] Ibid., p. 205, nt. a le pesa.
[11] L’appellativo “gentile”, però, nella Commedia, ha cambiato senso rispetto alla Vita Nova. Accanto al significato di ‘nobile’, ‘cortese’ o ‘liberale’ si fa sempre più forte il senso di ‘gente’ alla stregua degli antichi pagani tumultuosa e affannata nel cuore per brutali passioni e conflitti intestini, la cui vita non sta senza guerra, fluttuante come il mare in tempesta. A questo nuovo e negativo valore appartiene “la bufera infernal che mai non resta” che porta in eterno Francesca e Paolo, la cui vita spense “Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende”. Beatrice, la “gentilissima” del “libello” giovanile, non è fregiata nella Commedia con tale prerogativa. Il mutato valore della gentilezza, che accanto ai significati già cari a Dante acquista uno spessore storico proprio della Gentilità idolatra e irrazionale applicato ai tempi moderni, segna come la ‘linea d’ombra’ di Dante verso la cultura letteraria del tempo, pregna di “donne antiche e ’ cavalieri” dannati in eterno a causa di Amore. Cfr. L’agone del dubbio, cap. 7 (Gentilezza, Gentilità, affanni, cortesia).
[12] G. GORNI, La Vita Nova dalla Donna Gentile a Beatrice, con un excursus sulla doppia redazione del libello, in Deutsches Dante-Jahrbuch 81 (2006), pp. 7-26: 15.
[13] Vita Nova, p. 263.
[14] Ibid., p. 211, nt. a ricordarmi …vedere.
[15] M. SANTAGATA, L’io e il mondo. Un’interpretazione di Dante, Bologna 2011, p.117, ritiene che “le discrepanze tra i due racconti, che molto hanno fatto discutere gli interpreti, si appianano in gran parte se, invece di leggerli in successione, li leggiamo in parallelo”. Seguiamo le datazioni proposte dall’autore. Il testo del Convivio è citato dall’edizione a cura di F. Brambilla Ageno, Firenze 1995 (Le opere di Dante Alighieri. Edizione Nazionale a cura della Società Dantesca Italiana).
[16] Non c’è reale contrasto tra Beatrice e la Gentile (o Pietosa). La seconda “non mira voi – rimprovera il poeta ai suoi occhi vani -, se non in quanto le pesa della gloriosa donna di cui piangere solete” (Vita Nova, 26.2). Nota il GORNI, p. 205, nt. a “le pesa”: “Questa particolarità conferisce una valenza tutta speciale alla vicenda della Donna pietosa, perché le due antagoniste non appaiono in conflitto se non nella mente del soggetto, e la seconda è mossa dalla pietà per la prima”. La distinzione non contraddittoria tra un racconto psicologico, dato nel libello, e una prospettiva allegorico-morale volta a scienza e a virtù, data nel Convivio, era stata sostenuta sin dal 1951 dal Bosco, come ricordato da G. PETROCCHI nella voce Donna gentile in Enciclopedia Dantesca, II, Roma 19842, p. 576. Cfr. SANTAGATA, p. 178: “Di una vicenda raccontata per ben cinque paragrafi e altrettanti componimenti poetici manca qualunque testimone esterno, così come manca ogni allusione a occasioni di vita sociale. Una storia fino a quel momento vissuta ‘in pubblico’ improvvisamente si trasforma in un evento del tutto privato, centrato interamente (se non vogliamo considerare il ruolo di Beatrice defunta) su un rapporto a due”.
[17] PETRI IOHANNIS OLIVI Lectura super Lucam, ed. crit. a cura di F. IOZZELLI, Ad Claras Aquas, Grottaferrata 2010 (Collectio Oliviana, V), pp. 649-668.
[18] SANTAGATA, pp. 158-160.
[19] Vita Nova, pp. 249-250.
[20] Ibid., p. 249.
[21] SANTAGATA, p. 118.
[22] Le ipotesi sulla datazione della Lectura super Lucam coprono un arco di tempo così ampio (fra il 1279-1280 e il 1295) che nulla esclude che fosse già stata scritta quando Olivi giunse a Firenze: cfr. IOZZELLI, pp. 41-42. Il confronto con la Vita Nova mostra con certezza che fu redatta prima del 1289.
[23] SANTAGATA, pp. 144-153, 157-161.
[24] Vita Nova 1.17, p. 20, nt. a ella mangiava.
[25] SANTAGATA, pp. 158-160.
[26] DANTE ALIGHIERI, Rime, a cura di G. CONTINI, Torino 1939 e 1995, p. 60; SANTAGATA, pp. 146-147.
[27] L’imposizione di tacere e l’autorizzazione a parlare hanno rilievo nella Commedia, secondo quanto viene detto nell’Apocalisse a Giovanni, dapprima di non riferire la visione (Ap 10, 4) e poi di divulgarla (Ap 22, 10); al vescovo di Filadelfia, la sesta chiesa d’Asia, è data la porta aperta al parlare (Ap 3, 8).
[28] Il contrasto tra l’arditezza della visione, che genera in chi vede tremore e mutazione interiore, e il successivo riconfortarsi è, nella Lectura super Apocalipsim, proprio dell’esegesi di Ap 1, 16-17 (prima visione: decima, undecima e dodicesima prerogativa di Cristo sommo pastore). Dello “splendor faciei” di Cristo (Ap 1, 16-17), che si trasforma nel divino riso di Beatrice, e del rapporto tra umano e divino nella donna, si è già diffusamente trattato (cfr. Il Cristo di Dante, 2).
[29] Vita Nova, p. 257.
[30] Cfr. Ibid., p. 106, nt. a divulgata tra le genti (divulgata è un hapax in Dante).
[31] Sull’equivoca figura di Salomone cfr. Dante all’“alta guerra” tra latino e volgare, 3.6 (“Il libro scritto dentro e fuori”), tab. XLII; FORNI, Pietro di Giovanni Olivi nella penisola italiana cit., pp. 431-432 (trad. ingl. Petrus Iohannis Olivi in the Italian Peninsula, pp. 24, 47-48).
[32] SANTAGATA, pp. 146-147.
[33] Cfr. SCHLAGETER, p. 37. Uno studio sul rapporto di Dante con questa tradizione è in P. NASTI, Favole d’amore e “saver profondo”. La tradizione salomonica in Dante, Ravenna 2007.
[34] Sul punto cfr. A. FORNI, L’aquila fissa nel sole. Un confronto tra Riccardo di San Vittore, Pietro di Giovanni Olivi e Dante, in Scritti per Isa. Raccolta di studi offerti a Isa Lori Sanfilippo, a cura di A. Mazzon, Roma, 2008 (Nuovi studi storici, 76), pp. 431-473; Lectura super Apocalipsim e Commedia. Le norme del rispondersi, 2010, cap. 2.
[35] Cfr. NASTI, pp. 137-138. L. PERTILE ha sostenuto che “la tradizione del Cantico ha una posizione di prima grandezza, che illumina di luce inedita la paradossale continuità del pensiero del poeta dalle dolcezze dello stilnovo alle asprezze dell’impegno politico-religioso” (La puttana e il gigante. Dal “Cantico dei Cantici” al Paradiso Terrestre di Dante, Ravenna 1998, p. 9).
[36] Vita Nova, p. 3 nt. a Incipit Vita Nova.
[37] HUGO DE SANCTO VICTORE, Soliloquium de arrha animae (PL 176, 951; ed. K. Müller, Bonn 1913 [= Kleine Texte für (theologische und philologische) Übungen 123] 3); SCHLAGETER, p. 94 e nt. 4.
[38] AUGUSTINUS, De Trinitate, lib. 8 (!), c. 10, n. 14 (PL 42, 960; CChr. SL 50, 290); ibid., p. 94 e nt. 5.
[39] Cfr. NASTI, pp. 87-89.
[40] Edite on line da E. PANELLA.
[41] Le differenze con Bernardo si possono ritrovare anche in altri luoghi, tenendo conto che il cisterciense non procede, come l’Olivi, ad un commento sistematico. Altrettanto profonde sono le differenze con Tommaso Gallo, autore pur carissimo all’Olivi per l’impostazione dionisiana della sua esegesi del Cantico (cfr. SCHLAGETER, p. 36), anch’egli privo della prospettiva storico-agonale della Chiesa su cui insiste Olivi.
[42] Su questo punto cfr. quanto scrive l’Olivi (SCHLAGETER, nri 115-116, p. 164): «Quartum (tempus) est resecationis superfluorum utilis et fecunda opportunitas; unde subdit: “Tempus putationis advenit” (Cn 2, 12b). Amputatio enim omnium superfluorum etiam connaturalium est aliquando nociva et sterilis. Quando ergo sponsa tam in se quam in generali ecclesia experimentaliter sentit fructuosam opportunitatem amputationum perfectarum venisse, tunc attingit ad omnia tam a se quam ab aliis plenius amputanda. Quintum est duplex exemplaritas vitae contemplativae illis temporibus inchoatae quarum prima est solitariae castitatis et devotionis clamorosum suspirium, et pro hoc dicit: “Vox turturis”, avis scilicet castae et solitudinum deserta amantis cuius vox seu cantus est gemitus, “audita est in terra nostra” (12c). Quando enim in quibusdam modo novo et inusitato incipit hoc solemniter apparere, tunc est quintum inductivum». Si può forse ritrovare questa esegesi a Vita Nova 5.10-12, allorché il “Signore della nobiltade” (“uno giovane vestito di bianchissime vestimenta”) “pareami che sospirando mi chiamasse, e diceami queste parole: ‘Fili mi, tempus est ut pretermictantur simulacra nostra’ … e riguardandolo pareami che piangesse pietosamente … E quelli mi dicea in parole volgari: ‘Non dimandare più che utile ti sia’” (cfr. anche supra).
[43] “Eya ergo milites generosi, accingite vos ad pugnam; tempus enim putationis advenit voxque turturis suspirantis et gemitum pro cantu habentis audita est in terra nostra” (ed. F. EHRLE, in Archiv für Litteratur- und Kirchengeschichte des Mittelalters, 3[1887], p. 537).
[44] Quanto si dice delle membra della sposa e dello sposo del Cantico dei Cantici può essere applicato a chiunque; cfr. SCHLAGETER, p. 330, nr. 368: “Rursus sciendum quod membra sponsae et sponsi praeter modum supra expositum aut aliquem alterum sibi consimilem, possunt aptari ad diversas personas diversorum statuum vel officiorum aut diversarum praerogativarum secundum aliquas speciales virtutes aut etiam ad diversa officia eiusdem personae, iuxta quod Paulus fuit apostolus et propheta et doctor et martyr et activus et contemplativus, et iuxta quod aliquis habet simul omnes ordines, est enim diaconus, sacerdos et episcopus; et sic de aliis”.
[45] Cfr. G. CONTINI, Poeti del Duecento, II/2, Dolce stil novo, Milano-Napoli 1995, p. 443: “L’ispirazione è oggettiva e assoluta, e perciò, se il contenuto normale della lirica stilnovistica è il fatto amoroso minuziosamente analizzato e poi ipostatizzato nei suoi elementi, quest’analisi non va già riferita all’individuo empirico, ma, al di là di questa sua avventura iniziale, a un esemplare universale di uomo: a un individuo, anch’esso, oggettivo e assoluto […] S’intende che, in questo clima di paradiso terrestre, anteriore alla storia, se dal lato di Adamo esistono alcuni uomini in carne ed ossa, la minor clientela femminile ha il solo cómpito di sottolineare Eva, e vive per metafora di quegli amici attorno al poeta. Resta che, come costui, il personaggio che parla in prima persona, è l’‘individuo assoluto’, anche la donna perde ogni attributo storico, ogni possibilità di autentica pluralità. E se si estende man mano il campo d’osservazione, si constata che l’intera esperienza dello stilnovista è spersonalizzata, si trasferisce in un ordine universale: persa qualsiasi memoria delle occasioni, cristallizza immediatamente”.
[46] G. GORNI, Dante. Storia di un visionario, Bari 2008, pp. 142-143.
[47] SANTAGATA, p. 122.
[48] Vita Nova, p. 259.
[49] Cfr. «In mensura et numero et pondere», cap. 4 (Salmi polisensi).
[50] Cfr. G. CONTINI, Filologia ed esegesi dantesca (1965) in Un’idea di Dante. Saggi danteschi, Torino 1970 e 1976, p. 135: “Di fronte, se mi si passa il traslato, all’integralismo teologico di Francesco sta la mondanità discretiva del Dante della Commedia, «unicuique suum»”.
[51] Vita Nova, p. 254.
[52] SANTAGATA, pp. 188-191.
[53] Il libro della vita di Ap 20, 12 può essere collazionato con il “libro scritto dentro e fuori” di Ap 5, 1, tema fondamentale nel’esegesi dell’Olivi: cfr. Dante all’«alta guerra» tra latino e volgare, 2.8, tab. XIV.
[54] Sul metodo della distinctio, che in Olivi fa ricorso a categorie numeriche, cfr. G. DAHAN, Interpréter la Bible au Moyen Âge. Cinq écrits du XIIIe siècle sur l’exégèse de la Bible traduits en français, Paris 2009, pp. 84-86. Sottolinea l’autore come questo principio richieda la collaborazione del lettore dell’esegesi.
[55] Sull’esegesi dell’istruzione data alla chiesa di Sardi cfr. Il sesto sigillo, 1d [La venuta del ladro (Ap 3, 3; 16, 15)]; 2b [La perfezione stellare della “prima” grazia (Ap 3, 3)].
ABSTRACT
A Poet’s Love and Life. The Vita Nova and the imitation of Christ
According to Olivi, as exposed in the Lectura super Apocalipsim, the sixth period (status) of the Church’s history corresponds to modern times upon which all the enlightenment and the malice of the past falls. The second advent of Christ in the sixth period of the Church (the advent in the Spirit, after the first advent in the flesh and long before the third in the judgement) brings a vita nova to His spiritual disciples. A spiritual rebirth leads to a novum saeculum. Although Olivi is very cautious about using pagan authors, his statement concerning this renovatio and Virgil’s Fourth Eclogue spiritually and even literally correspond perfectly.
In the sixth period of the Church, spiritual men are sent to prophesy again to many nations as in the apostolic days of Saint John. However the new “John” does not denote only an Order, since Olivi don’t not exclude individual revelations to “singulares personae” who perfectly imitate Christ and are devoted to the conversion of all the nations with their “learned tongue” (“lingua erudita”).
Olivi’s sixth period of the history of the Church, characterised by freedom to speak given to the preachers, as dictated from within in order to open hearts, is remarkably consonant with Dantesque poetics, as shown in the sixth terrace of Purgatory during the meeting with Bonagiunta Orbicciani from Lucca. Dante’s poetics is based on the ‘breath of Love’ and ‘noting’, meaning closely following what he within ‘dictates’, almost as if an evangelical rule had been imposed and accepted (Purg. XXIV, 52-54: “I’ mi son un che, quando / Amor mi spira, noto, e a quel modo / ch’e’ ditta dentro vo significando”).
This essay, beginning a new research field, demonstrates how the Biblical exegesis – particularly Olivi’s Expositio in Canticum Canticorum and Lectura super Lucam – highly influenced the inception of Dante’s “nove rime” in 1290 circa, when Beatrice died. Vita Nova is a story about a new advent of Christ, the “miracle” Beatrice, who was much admired by the people whose hearts she filled with wonder. Beatrice was an intellectual rather than a physical “miracle”, beheld by those who had “intelletto d’amore”. It is by no means casual that Dante’s “nove rime” were published around or immediatly after the time when Olivi was teaching theology in Florence at the studium of Santa Croce between 1287 and 1289.
The angel who appeared to Zachary, described in Olivi’s Lectura super Lucam as a divine power whose terrifying and dumbfounding qualities made people tremble, is also found in the apparition of the “angiola giovanissima” whose virtue made Dante’s heart tremble almost at the end of his ninth year.
According to Gregory the Great’s assertions quoted in Olivi’s commentary on the Canticle of Canticles, the admirable, albeit false, idea of truth arising from the Antichrist’s subtle deception shakes the compassionate modern martyrs. Their tribulations are found again in the poet’s pensive and troubled “battaglia de’ pensieri”, when the Donna Gentile of his mind – “quella pietosa / che si turbava de’ nostri martiri” – appears before his eyes (Vita Nova, 27.4,10). This Donna, which Guglielmo Gorni defined as “a real figure of the Antichrist, sinisterly perverse”, is a truly fervent “adversario della Ragione … desiderio malvagio e vana tentatione” against which the image of Beatrice arose (ibid., 28).
The same quotation from the Moralia in Iob by Gregory the Great, contained in Olivi’s commentary on the Canticle of Canticles, is found in the notabile X of the prologue of Lectura super Apocalipsim (completed in 1298, year of Olivi’s death). This allows a comparison between the “Donna Gentile” (or the “Donna Pietosa”) in the Vita Nova and Francesca in the Commedia (Inferno V): both tempt Dante with pity and cause him to doubt.
Hence, Dante came across Olivi’s Scriptural exegesis in Santa Croce of Florence before he attended philosophy lessons at the “scuole delli religiosi” after the death of Beatrice (Convivio II, xii, 7). The exegesis became the poet’s ‘guide’ to concurring human knowledge: perhaps Guido Cavalcanti’s “disdegno” for this guide separated Dante from his first friend.
This explains the astonishing intertextual relationship – the main subject of the research published on this website – that Dante created between his “sacred poem” and the Lectura super Apocalipsim during his exile. The literal meaning of the Commedia contains keywords that, through a technique of the art of memory, refer those who should have reformed the Church by preaching to Olivi’s commentary.