Alla memoria di Luca Serianni
“mostrò ciò che potea la lingua nostra” (Purg. VII, 17)
Questo saggio è stato preparato per una Summer School, organizzata dall’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum (Cattedra Marco Arosio) e dalla Fondazione Città di Orvieto sul tema “Dante e il Francescanesimo”. La notizia della morte di Luca Serianni ha indotto a presentarlo su questo sito, per rendere omaggio all’uomo e allo studioso. Insieme con Ovidio Capitani e Guglielmo Gorni, Luca Serianni è stato fra i pochissimi accademici a prendere sul serio una ricerca che rinnova gli studi danteschi e, al tempo stesso, rende più grande e attuale il poeta. Che Dante nella Commedia abbia scelto di parodiare un’altra opera, la Lectura super Apocalipsim di Pietro di Giovanni Olivi, non è cosa inverosimile ma accertata filologicamente; per essa il fiorentino si colloca accanto a illustri esempi del genere quali Corneille, Balzac, Flaubert, Proust, Joyce, Thomas Mann, Borges.
Il poeta ha sempre tenuti fissi gli occhi al latino come a modello ideale di una nuova lingua universale. Il latino dell’esegesi biblica è vicino al volgare, ed è forse l’effetto più evidente del confronto testuale. Lavorando su questo sermo humilis, Dante diede al volgare la “gloria de la lingua”, nuova “lingua gratiae” come fu l’ebraico, la lingua parlata dal Redentore.
Scrisse Mazzini che Dante ci insegna come si vive nelle angustie. Il suo più profondo messaggio etico è tuttavia l’invito a non “perder viver tra coloro / che questo tempo chiameranno antico”, e per questo a non essere timidi amici della verità (Par. XVII, 118-120). Di ciò testimonia l’opera di Serianni, che darà conforto a molti.
Opera enim illorum, id est premia seu retributiones operum que in hac vita fecerunt,
sequuntur illos, scilicet in eternitate glorie (dal commento di Olivi ad Apocalisse 14, 13).
■ Il rapporto intertestuale tra Commedia e Lectura si configura come parodia. Una ventennale ricerca, pubblicata su questo sito, registra le norme che regolano il rapporto parodico fra il “poema sacro” e la Lectura super Apocalipsim (= LSA), ultima opera del francescano (conclusa nel 1297-1298): rispondenze semantiche in rose di parole-chiave entro spazi testuali ristretti, con accostamenti non banali o scontati; parole-chiave, riferibili alla medesima pagina esegetica, che si riscontrano in più punti del poema; collazione di più passi della Lectura, secondo un procedimento analogico tipico delle distinctiones ad uso dei predicatori; elaborazione di una struttura semantica interna al poema, “topograficamente” articolata secondo i sette stati della storia della Chiesa, cioè secondo le categorie in base alle quali Olivi espone l’Apocalisse.
Nella relazione fra l’ipertesto B (la Commedia) e l’ipotesto anteriore A (la Lectura super Apocalipsim), l’ordine è quello della metamorfosi, cioè della trasformazione: B non parla affatto di A, ma non esiste senza A, nel senso che l’autore lo ha scelto per trasformarlo dalla prosa latina nei versi in volgare.
■Struttura della Lectura super Apocalipsim. Olivi commenta progressivamente i ventidue capitoli dell’Apocalisse con le sette visioni ivi descritte, ma nell’ampio Prologo introduce categorie estranee al testo sacro – la divisione della storia della Chiesa in sette periodi (status) – in modo che sotto ciascuno di essi possa essere materialmente raggruppata l’esegesi dei singoli elementi settenari in cui sono divise le visioni. Un libro (la Lectura) contiene dunque princìpi e criteri affinché l’accorto lettore possa trarne un altro libro, fatto con lo stesso materiale ma ricomposto in forma diversa, trasformato in una teologia della storia.
■ Fonti della Lectura super Apocalipsim. Fra le auctoritates citate nella Lectura molte appartengono alla tradizione altomedievale: Agostino, Girolamo, Gregorio Magno, Beda, Cassiano, lo Pseudo Dionigi. I due autori principali sono però Riccardo di San Vittore e Gioacchino da Fiore, le esegesi apocalittiche dei quali vengono sistematicamente confrontate. Dante conobbe e utilizzò nella Commedia le opere di Gioacchino da Fiore non in modo diretto, ma attraverso le numerose citazioni della Concordia e dell’Expositio contenute nella Lectura, che le incorpora nella teologia della storia francescana.
■ La Commedia come poema polisemico rivolto a un pubblico diversificato. L’arte della memoria. Il senso letterale della Commedia contiene parole che sono chiave di accesso a un altro testo, la Lectura super Apocalipsim dell’Olivi. Si tratta di un procedimento di arte della memoria: le parole-chiave operano sul lettore come imagines agentes che lo sollecitano verso un’opera di ampia dottrina, da lui già conosciuta, ma che rilegge mentalmente parafrasata in volgare, profondamente aggiornata secondo gli intenti propri del poeta, in versi che le prestano “e piedi e mano” e la dotano di exempla contemporanei e noti. La Lectura non è per la Commedia una fonte fra le altre; è piuttosto il canovaccio spirituale del poema, l’armatura nella cui maglia sono incastonate le altre, molteplici fonti.
Nell’Epistola a Cangrande l’autore afferma che il suo poema è “polisemos, hoc est plurium sensuum”, cioè ha più significati e dunque si rivolge a un pubblico variegato. Dante mirava non solo a un pubblico di laici o, in generale, di chierici, ma anche di predicatori e riformatori della Chiesa: agli Spirituali francescani, a coloro che con la predicazione avrebbero potuto riformare la Chiesa e convertire il mondo con il suo volgare, nuova lingua universale quanto lo fu il latino. Questo pubblico di religiosi non si formò, perché gli Spirituali (non un gruppo organizzato, ma di sensibilità comune) furono perseguitati e il loro libro-vessillo, censurato nel 1318-1319 e condannato nel 1326, fu votato alla clandestinità e quasi alla sparizione.
È da sottolineare il fatto che, come testimonia la tradizione antica del testo, la Lectura oliviana venne copiata e diffusa anche in ambito religioso diverso da quello francescano, ad esempio fra gli Agostiniani di Toulouse. Olivi, se ritiene che l’Ordine finale – il quale secondo Gioacchino da Fiore governerà in pace “a mari usque ad mare et a flumine usque ad terminos orbis terrarum” – sarà formato dai Minori rinnovati per mezzo dello Spirito di Cristo, sottolinea però la possibilità che sussistano diversi offici (predicazione contro i vizi dei cristiani, contemplativi, predicazione agli infedeli) nell’unica professione evangelica. Dunque l’Ordine finale, che pure ha la sua pianta in Francesco e nella sua Regola, potrà mostrarsi diversamente articolato e più Ordini potranno concorrervi. La Lectura fu scritta non solo per il popolo francescano ma con lo sguardo rivolto a tutti i raggi della Chiesa, sfera che ha nel mezzo Cristo centro del tempo. Questa prospettiva universale e di riforma fu ben presente a Dante.
■ “come buon sartore / che com’ elli ha del panno fa la gonna”. La persistenza di un “panno” – cioè di un altro testo da cui trarre i significati spirituali del poema, materialmente elaborati attraverso le parole – è servita a mantenere l’unità e la coerenza interna dell’ordito, della “gonna”, per usare l’immagine di san Bernardo a Par. XXXII, 139-141. Che il poema sia stato pubblicato per gruppi di canti, non più modificabili, oppure per cantiche riviste, sempre stava innanzi all’autore la medesima esegesi teologica con le innumerevoli possibilità di variazioni tematiche e di sviluppi.
■ Dante profeta. Parodiando la Lectura oliviana, il poeta si fece profeta, non tanto per la previsione di eventi futuri, quanto nel trasferire gli eventi particolari su un piano universale per poi tornare al particolare; un trascorrere fra io e noi proprio di Isaia, Ezechiele e di Cristo stesso, che dalla prima terzina (“Nel mezzo del cammin di nostra vita / mi ritrovai per una selva oscura”) dà la movenza profetica all’intero poema, nuova Apocalisse scritta da un nuovo Giovanni.
■ Nuovi punti fermi per la biografia di Dante. La conoscenza della Lectura super Apocalipsim, pervenuta in Italia poco dopo la morte di Olivi a Narbonne (1298) – Ubertino da Casale l’aveva accanto a sé quando scriveva a La Verna l’Arbor vitae nel 1305 -, avvenne nell’esilio, fra il 1307 e il 1309. Tuttavia Dante, prima di lasciare Firenze, nella stesura della Vita Nova e delle “nove rime”, elaborò, sempre in forma parodica, altre opere di Olivi, in particolare la Lectura super Lucam e l’Expositio in Canticum Canticorum. La conoscenza dell’esegesi oliviana fu dunque precedente la frequentazione delle “scuole delli religiosi” per studiarvi filosofia (a partire circa dalla metà del 1293) e risale agli anni di insegnamento del francescano a Santa Croce (1287-1289), immediatamente precedenti la morte di Beatrice (1290).
■ L’Apocalisse, ovvero la storia che corre verso un’umanità rinnovata. Nella parodia dantesca si riscontrano i valori positivi insiti nella concezione francescana dell’Apocalisse. Passi che nel testo sacro appaiono sotto una luce negativa vengono voltati in bonam partem: la testa della bestia che sembrava uccisa e invece rivive (Ap 13, 3), o la bestia che “fu e non è” (Ap 17, 8), si trasformano nel risorgere delle luci degli spiriti giusti a formare l’aquila; dei tre spiriti immondi al modo delle rane (Ap 16, 13-14) fanno segno sia i falsari di Romena o i ladri fiorentini come la prima famiglia francescana.
L’Apocalisse secondo Olivi è la storia dei segni della divina provvidenza pervenuti fino ai tempi moderni (il sesto stato della Chiesa), nei quali sta già operando una palingenesi nelle coscienze che porterà a un novum saeculum.
In questa età rinnovata per lo Spirito di Cristo, tanto attesa come quella augustea, una rivoluzione interiore viene compiuta con la parola che converte e rompe la durezza dei cuori, che l’interno dettatore spira nei predicatori aprendo la loro volontà al dire. Su questa età ‘sesta’ ricade tutta la sapienza e la malizia del passato. Se finora Cristo, in quanto uomo, ha insegnato con la voce esteriore e, in quanto Verbo, con la luce intellettuale, d’ora in poi insegnerà tramite l’esperienza del gusto d’amore proprio del suo Spirito (Ap 2, 7).
La sinossi fra la Commedia di Dante e la Lectura super Apocalipsim di Olivi consente di far rivivere il sentimento escatologico dell’attesa di una nuova era di pace e giustizia, dopo le tentazioni inflitte nel martirio psicologico dall’Anticristo. I moderni martiri soffrono non nel corpo, come i primi testimoni della fede, ma nel dubbio, il loro è un “certamen dubitationis” di fronte alla sottigliezza degli argomenti filosofici, alle distorte testimonianze scritturali, all’ipocrita simulazione di santità, alla falsa immagine dell’autorità divina o papale, in quanto falsi pontefici insorgono, come Anna e Caifa insorsero contro Cristo. Per rendere più intenso il martirio, i carnefici stessi operano miracoli. La tribolazione del martire pietoso degli ultimi tempi, che ha dinanzi a sé una mirabile ma falsa immagine di vero che lo scuote, si riscontra più volte nel poema, in primo luogo nell’incontro con Francesca; il medesimo passo dei Moralia di Gregorio Magno presente nel Notabile X del prologo della Lectura era già stato utilizzato da Olivi nell’Expositio in Canticum Canticorum e si riflette sulla Donna Gentile o Pietosa della Vita Nova.
■ Storia della Chiesa e “saeculum humanum”. Quanto Olivi scrive della storia della Chiesa e della gloria di Cristo viene nella Commedia diffuso su tutte le persone e le forme, antiche e nuove, del nostro mondo con le sue passioni. Dante fece uscire, aggiornandola, la Lectura dal mondo francescano per riversarne i valori sul “saeculum humanum” e sulle sue nuove esigenze – la lingua, la filosofia, la dimensione politica, la valorizzazione degli autori classici – su quelli che sarebbero stati gli ideali laici del Rinascimento, mentre veniva meno il senso di una storia sacra della salvezza collettiva, della quale la Lectura fu l’estrema espressione. Fra gli innumerevoli esempi: in più luoghi del poema, di differente tenore, si rinvengono i temi dell’esegesi della “signatio” dell’esercito di Cristo (Ap 7, 3-4); Romeo di Villanova impersona la Roma dei giusti che cammina insieme alla Roma dei malvagi (Ap 17, 1); lo splendore del volto di Cristo si incarna nel ridere di Beatrice (Ap 1, 16-17); la lupa, la cupidigia universale, rispecchia la bestia saracena (Ap 6, 8).
■ Monarchia e Chiesa: due istituti universali e indefettibili [1].
[Tab. A] In Par. V Beatrice risponde al dubbio di Dante, “se l’uom può sodisfarvi / ai voti manchi sì con altri beni, / ch’a la vostra statera non sien parvi”, se cioè il voto possa essere commutato (Par. IV, 136-138), ovvero, come ribadisce la donna nel suo cominciare, “se con altro servigio, / per manco voto, si può render tanto / che l’anima sicuri di letigio” (Par. V, 13-15).
Beatrice prima afferma che il libero arbitrio è il maggiore dono dato alle creature intelligenti (uomini e angeli) dalla liberalità di Dio, il più conforme alla sua bontà e quello che più apprezza. Soggiunge che il voto ha un alto valore, perché è un patto tra Dio e l’uomo in cui la libera volontà si offre a Dio con proprio atto. Conclude che il voto non può essere ricompensato con alcunché: pensare di poter usare ancora del libero volere, già tutto offerto a Dio, sarebbe come voler fare opere di carità servendosi di denaro mal acquistato (“di maltolletto vuo’ far buon lavoro”; Par. V, 19-33).
Le parole, e soprattutto l’idea che Beatrice ha del voto (il “maggior punto”, v. 34), si ritrovano nella quaestio An sit melius aliquid facere ex voto quam sine voto, la quinta quaestio de perfectione evangelica dell’Olivi. La volontà è il maggior dono dato da Dio: “Sed nihil sub Deo est nobis ita dilectum et carum sicut libertas et dominium voluntatis nostrae. Hoc enim infinite appretiamur; appretiamur enim illud plus quam omnia quae Deus posset facere, quae sunt infinita, et plus quam aliquid quod sit in nobis”. Il voto è offerta della volontà a Dio, per cui essa “altissime tota fertur in Deum”: “et istius per votum donatio est super omnia, supra naturam et quodammodo contra naturam voluntatis nostrae […] Ergo istud donum super omne aliud a nobis datum vel donabile praeponderat in infinitum”. Dunque il voto non può essere ricompensato: “Hoc autem nullo modo posset per aliquid huius vitae appretiari nec recompensari”.
Si ricorderà quanto Virgilio dice a Catone di Dante: “libertà va cercando, ch’è sì cara, / come sa chi per lei vita rifiuta” (Purg. I, 71-72), dove per “libertà” si intende il pieno dominio della volontà. Si potrebbe affermare che il suicidio di Catone, sacrificio della vita terrena per il libero arbitrio, fu a suo modo anch’esso un voto. È la libertà che il poeta consegue sulla soglia dell’Eden (“libero, dritto e sano è tuo arbitrio, / e fallo fora non fare a suo senno”, Purg. XXVII, 140-141), per cui si ottiene “quel dolce pome che per tanti rami / cercando va la cura de’ mortali” (vv. 115-116), cioè la felicità terrena, di cui si dice nella Monarchia: “quia per ipsum hic felicitamur ut homines” (Mon. I, xii, 6). Catone, con il suo atto, si sforzò di accrescere il bene pubblico, e si propose dunque il fine del diritto: “ut mundo libertatis amores accenderet, quanti libertas esset ostendit dum e vita liber decedere maluit quam sine libertate manere in illa” (Mon. II, v, 15). Si tratta della “summa libertas” di chi volontariamente ubbidisce alle leggi, rinfacciata nel 1311 agli “scelestissimi Florentini” dominati dalla cupidigia (Epistola VI, 22-23). Catone, il Gentile degno di significare Dio più di qualsiasi altro uomo terreno (Convivio, IV, xxviii, 15), fu salvato e posto da Dio a custodia della legge della montagna del purgatorio.
Alle parole di Beatrice sul voto in Par. V, 19-22 rinvia Monarchia I, xii, 6. Il libero arbitrio, “maximum donum humane nature a Deo collatum” si realizza sommamente sotto il monarca (se il rinvio sia stato presente nell’archetipo, sia tarda aggiunta dantesca o glossa subentrata non importa ai fini del presente discorso; i due luoghi sono comunque simmetrici).
È assai significativo che Dante sia concettualmente e testualmente tanto vicino all’Olivi allorché nel Paradiso tratta del voto, cioè del sommo atto di libertà, luogo citato nella contemporanea Monarchia. Bisogna però prestare attenzione a un punto fondamentale: sulla libertà della volontà la posizione di Dante è assai diversa da quella di Olivi. Per il poeta si tratta del libero giudizio dell’intelletto, dal quale il teologo francescano prescinde del tutto. Tra Tommaso d’Aquino, per il quale la radice di tutta la libertà si situa nella ragione, e Olivi, che pone la libertà solo nella volontà che muove sé stessa, Dante opera una concordia vicina alla posizione di Bonaventura, per il quale il libero arbitrio inizia con l’intelletto e si perfeziona nella volontà [2]. L’indubbia parodia che le parole di Beatrice operano sulla quaestio di Olivi non deve ingannare: quelle parole non possono essere assunte in modo assoluto, quasi portino Dante a farsi fautore del volontarismo francescano; esse sono state precedute dalla dottrina intellettualistica del libero arbitrio esposta da Virgilio in Purg. XVIII, 40-75. Anche se perfino in quei versi non mancano parole-chiave che rinviano alla Lectura super Apocalipsim incastonando però concetti diversi, pregni del naturalismo aristotelico e secondo Bruno Nardi di concezioni averroiste [3], nell’apocalittica storia dei segni divini.
Inoltre Olivi fa riferimento al voto evangelico, di altissima povertà; Beatrice non specifica di quale voto ella stia parlando. Olivi aborrisce ogni idea di dispensa; Beatrice invece, subito dopo, affronta tale tema (Par. V, 34-60), anche se poi conclude: “Però qualunque cosa tanto pesa / per suo valor che tragga ogne bilancia, / sodisfar non si può con altra spesa” (vv. 61-63).
[Tab. B] Dante applica all’Impero la concezione che Olivi ha della Chiesa. La storia di Roma è la manifestazione dei segni di Dio, che attuano in terra la sua volontà, una con quella del cielo e con quella di Roma stessa: “divina voluntas per signa querenda est” (Monarchia II, ii, 8). Questi segni, nelle parole di Giustiniano in Par. VI, hanno un andamento settenario, quello proprio dei sette stati della Chiesa, per cui quanto anticamente avvenuto prima di Cristo si mostra come ordinata e progressiva prefigurazione della nuova storia, che è insieme della Chiesa e dell’Impero.
Come la Chiesa, l’Impero passa di mano in mano, può rimanere temporaneamente “sanza reda” (Purg. XXXIII, 37-38), ma di per sé è immutabile, tunica inconsutile. Tale per Olivi è l’Ecclesia spiritualis (Lectura super Apocalipsim, 9, 14). Lo stesso voto evangelico – l’“altissima paupertas” – secondo Olivi e la monarchia secondo Dante hanno qualcosa di essenziale in comune: la stabilità, l’immutabilità o la non trasmutabilità, l’indissolubilità. Come il voto evangelico non può essere dispensato o commutato a uno stato inferiore, neppure dal papa, che diversamente sarebbe da trattare come eretico e scismatico – secondo quanto sostiene Olivi nella Quaestio de votis dispensandis – [4], così la monarchia – come afferma Dante contro i sostenitori della Donatio Constantini – non può essere alienata né minorata, neppure dall’imperatore, perché la giurisdizione precede il suo giudice (Monarchia, III, x, 10-12). Chi professa il voto evangelico, fondato sui consigli dati da Cristo, mira al bene universale [5]; così il monarca, il quale è “universalissima causa inter mortales ut homines bene vivant” (I, xi, 18).
[Tab. C] Il voto evangelico colloca chi lo professa in uno stato di altissima povertà, al quale il francescano dedica un’apposita quaestio. L’immutabilità del voto toglie ogni occasione, motivo o desiderio di conseguire dignità o fama che si fondino sulle ricchezze: nulla smorza l’appetito di qualcosa come l’impossibilità di ottenerla. Il voto evangelico è dunque all’opposto della concupiscenza [6]. Anche al monarca non resta nulla da desiderare. L’effetto è il medesimo, le ragioni sono però opposte, perché il monarca possiede tutto, in quanto la sua giurisdizione “terminatur Occeano solum”, mentre chi si trova nello stato di altissima povertà nulla possiede né può sperare di possedere. Ma per entrambi risulta “remota cupiditate omnino”, con la conseguenza che prevale la carità, la quale per Dante dà vigore alla giustizia e alla “recta dilectio” degli uomini da parte del monarca. Ancora, rimuovendo la cupidigia, l’altissima povertà realizza una società comune e pacifica e accende ardente carità [7] , come il monarca, per mezzo della giustizia corroborata dalla carità, realizza il vivere in pace, “inter alia bona hominis potissimum” (Monarchia, I, xi, 11-14; cfr. le parole di Piccarda – carità, assenza di ulteriori desideri, pace – a Par. III, 70-87).
[Tab. D] Il capitolo XXII dell’Apocalisse si apre con la visione del nobilissimo fiume che scorre nel mezzo della Gerusalemme celeste. È lo stesso Spirito Santo, ovvero la gloria che da Dio affluisce sui beati: fiume di acqua viva, o di vita eterna, da cui deriva tutta la sostanza della Trinità. Fiume di splendore e luce per sapienza, che ha due rive o due parti (destra e sinistra, superiore e inferiore), designanti le due nature, divina e umana, di Cristo-lignum vite che dà perpetui frutti. Il lignum vite, l’albero che sta nel mezzo, con le sue foglie getta un’ombra sacramentale, di verità superiori, su entrambe le rive, l’umana e la divina, perché non solo il cielo, ma anche la terra è ripiena della gloria di Dio.
L’esegesi di Ap 22, 1-2 offre una ricchezza tematica riaffiorante in numerosi luoghi della Commedia. Essa conduce ai due fiumi dell’Eden (il Lete e l’Eunoè) che si dipartono da un’unica fontana. Non sono solo i due fiumi dell’Eden ad essere fasciati dalla sacra pagina e dalla sua esposizione. Perfino Beatrice vi partecipa. Anche la donna ha due bellezze, gli occhi e la bocca. Alla prima si perviene con le virtù cardinali (le quali lì accompagnano Dante), ma si guarda nel suo profondo solo con le virtù teologali e per preghiera di queste, congiunta con la grazia gratuitamente data, si ottiene la seconda bellezza. Nel suo svelarsi, Beatrice è “isplendor di viva luce etterna” che sta fra cielo e terra, “là dove armonizzando il ciel t’adombra”. Per lei non si parla di ‘fiume’ o di ‘acqua’, ma assume alcune fondamentali prerogative di Cristo centro della Gerusalemme celeste, della sua irrigazione e dunque della storia umana (Purg. XXXI, 139-145).
I due fiumi dell’Eden sono figura in terra dell’unico luminoso fiume dell’Empireo: “fulvido di fulgore, intra due rive / dipinte di mirabil primavera”, dal quale escono “faville vive”, è “onda / che si deriva” da Dio; ma il fiume, le faville (“li topazi / ch’entrano ed escono”) e il verdeggiante “rider de l’erbe” sono “umbriferi prefazi”, cioè ombra sacramentale del vero, adombranti il primo una forma circolare e non lineare, le seconde gli angeli, il terzo i beati (Par. XXX, 61ss.).
Nel “poema sacro / al quale ha posto mano e cielo e terra” (Par. XXV, 1-2; cfr. il giurare dell’angelo ad Ap 10, 5-7), sull’esegesi del fiume di una città immateriale, perché tale è la Gerusalemme celeste, Dante poteva rispecchiare quanto la sua mente aveva elaborato sulle due beatitudini, poste come fini all’uomo dalla Provvidenza: la beatitudine di questa vita (raffigurata nel paradiso terrestre), alla quale si perviene sotto il regime dell’Imperatore, attraverso la filosofia e la pratica delle virtù morali e intellettuali; la beatitudine della vita eterna (consistente nella visione di Dio), alla quale si perviene tramite le virtù teologali e sotto la guida del romano pontefice (cfr. Monarchia, III, xv, 7-10). Entrambe le beatitudini, come le loro guide, discendono senza intermediari dall’unico Fonte dell’universale autorità (ibid., xv, 15). Corrispondono alle due rive, umana e divina, dell’unico fiume della grazia e della gloria, all’umanità e alla divinità di Cristo. Beatrice, figura di Cristo, è nell’Eden cerniera: gli occhi partecipano sia dell’una come dell’altra, la bocca svelata adombra la visione di Dio.
Non a caso l’ombra sacramentale di verità superiori si riverbera sia sull’“ombra de le sacre penne” dell’aquila imperiale, di cui dice Giustiniano (Par. VI, 7) come sull’“ombra de le sacre bende” proprie della vita religiosa ed evangelica di cui parla Piccarda (Par. III, 114), cioè sul voto come spiegato da Beatrice in Par. V, ombre che designano i due fini di beatitudine assegnati all’uomo dalla Provvidenza. Le “penne” corrispondono all’intellettualistica dottrina d’amore esposta da Virgilio a Par. XVIII, 40-75; le “bende” alla volontà di cui parla Beatrice a Par. V, 19-24 portando a compimento l’esposizione di Virgilio, secondo quando afferma l’antico poeta: “Quanto ragion qui vede, / dir ti poss’ io; da indi in là t’aspetta / pur a Beatrice, ch’è opra di fede” (Purg. XVIII, 46-48).
[Tab. E] Nella prospettiva storica oliviana, da Dante adeguatamente aggiornata, l’Impero trova un luogo autonomo. Alla donna (la Chiesa) nel deserto dei Gentili vengono date due ali di una grande aquila (Ap 12, 14; quarta visione), interpretate come il terzo stato dei dottori (che confutano le eresie con la ragione e la spada e danno le leggi) e il quarto degli anacoreti (dalla santa e divina vita fondata sull’affetto, dedita al devoto pasto eucaristico). Alle loro prerogative – si tratta di due stati concorrenti, entrambi di solare sapienza – possono venire assimilati Impero e Papato, spada e pastorale, i “due soli” di Marco Lombardo (Purg. XVI, 106-114).
Il periodo storico rimpianto da Marco, in cui il “pasturale” (il potere spirituale) non aveva spento e congiunto a sé la “spada” (il potere temporale), corrisponde alla concorrenza nel tempo di due periodi distinti, il terzo e il quarto, infiammanti per due diverse strade il meriggio dell’universo (gli status oliviani sono al tempo stesso epoche storiche e modi di essere, habitus, degli individui). Quell’improprio congiungere da parte del potere spirituale è eresia assimilabile a quella di Ario, che divise il Figlio dal Padre ritenendolo non consustanziale, a livello di creatura, o, ancor meglio, a quella di Sabellio, che unificò il Padre e il Figlio nella stessa persona (cfr. Ap 2, 12).
[Tab. F] “Partito da una proposizione filosofica, inoltratosi tra i rovi di una disputa giuridica e teologica, Dante giunge alla conclusione senza accorgersi di essersi spostato sul piano della pura spiritualità, sul quale soltanto è possibile intendere il senso ultimo della Monarchia” (Gustavo Vinay, Interpretazione della “Monarchia” di Dante, Firenze 1962, p. 73).
A conclusione della Monarchia (III, xv, 18), Dante parla della reverenza che Cesare deve a Pietro come quella del figlio primogenito verso il padre. La controversa espressione – “ut romanus Princeps in aliquo romano Pontifici non subiaceat” (ibidem, 17) -, alla quale è speculare il parlare di Giustiniano in Par. VI, 84 – “per lo regno mortal ch’a lui soggiace” -, non denota soggezione politica dell’uno all’altro, ma tensione della parte mortale verso ciò che è immortale, “mentre che ’l nostro immortale col mortale è mischiato” (Convivio, II, viii, 15). Anche Cristo fu soggetto al Padre per la sua mortale umanità, ma non per questo gli fu meno consustanziale ed eguale. Gli angeli lo trascendono rispetto alla sua carne passibile, secondo il Salmo 8, 6 – “Tu l’hai fatto poco minore che li angeli” -, che Dante applica all’uomo, medio tra ciò che è corruttibile e ciò che è incorruttibile, operante in modo quasi divino (cfr. Convivio, IV, xix, 7; Monarchia, I, iv, 2; III, xv, 3-4) [8]. Nel momento in cui l’Impero diventa consorte in cielo della Chiesa, discendente dalla medesima fonte, partecipa a pieno titolo non solo dei doni e delle prerogative dello Spirito ma anche dei misteri della Trinità e dell’Incarnazione, cioè dell’eterna generazione del Verbo e del suo farsi carne. Il Figlio che deve reverenza al Padre non è un figlio qualunque, è il Figlio dell’uomo al quale il romano Principe è assimilato.
Fra umano e divino vi è concordia, pur in apparente contraddizione: così avviene nel Primo Mobile, il luogo dove il tempo ha le sue radici, fra i cerchi corporali e quelli angelici, fra “l’essemplo” e “l’essemplare” i quali “non vanno d’un modo” (cfr. Par. XXVIII, 55-56). La “felicitas civilis” aristotelica, fondata sulle virtù, assume così una veste sacra, pari a quella propria della “felicitas contemplativa”, l’altro fine che la Provvidenza ha proposto all’uomo.
■ Dante e il Francescanesimo. Partita da una fonte francescana (la quaestio oliviana sul voto), che in Par. V permea le parole di Beatrice sul medesimo argomento, la ricerca ne ha seguito le tracce nella Monarchia, essemplo umano dell’essemplare divino del voto. In tal modo è stato possibile registrare l’intima metamorfosi per la quale la storia sacra della Chiesa si travasa nello stato umano con le sue passioni, sull’“aiuola che ci fa tanto feroci”. Tale deve essere il senso di uno studio su “Dante e il Francescanesimo”: non è sufficiente l’individuazione di fonti più o meno probabili, è necessario mostrare come Dante le abbia, parodiandole, diversamente appropriate in ambiti e su soggetti che non potevano più dirsi francescani. Quanto Olivi nella Lectura super Apocalipsim scrive della storia della Chiesa e della gloria di Cristo, con riferimento principale all’Ordine dei Minori, viene nella Commedia diffuso parodicamente sul saeculum humanum, con le sue nuove esigenze. Delle due nature dell’anima di Dante, duplice come quella di Faust – per usare una celebre definizione di Benedetto Croce [9] -, “divisa tra Medioevo persistente e incipiente Rinascimento”, deve essere messa in luce la metamorfosi dell’antica nella nuova.
■ Gli Antichi. Il poeta trova nell’esegesi giustificato il connubio fra tempo pagano e tempo cristiano, acqua del medesimo fiume, una parte della quale può essere riferita al tutto, come in una sineddoche (Ap 17, 6).
Ad Aristotele, fra gli “spiriti magni” che albergano nel “nobile castello” del Limbo, è data la veste di Colui che siede sul trono circondato e onorato dai seniori, che tiene nella destra il libro segnato da sette sigilli, non ancora aperto da Cristo ed è primo depositario di “gubernationes et documenta” che poi “per magistrorum consilium descendunt ad nos quasi a pastore uno” (cfr. Ecclesiaste, 12, 11; Ap 4, 3). Inseriti nella storia provvidenziale, agli Antichi viene attribuita una sacralità fino allora propria solo della Chiesa in sé.
■ I papi simoniaci. [Tab. G; cfr. nota relativa] Nella terza bolgia, Dante sta di fronte a Niccolò III (il quale crede trattarsi di Bonifacio VIII venuto a prendere il suo posto nel foro della pietra) come sta un dottore della Chiesa, che possiede la verità evangelica scritta e imposta da Cristo, di fronte a un eresiarca. Ancor più, parla a un pontefice romano in quanto depositario di quella “prima et vera lingua et confessio fidei” che avrebbe dovuto essere custodita “in domo Petri”. Virgilio partecipa di quest’alto patrimonio nell’imporre al discepolo la retta risposta, come Cristo impose ai discepoli la regola evangelica. Lo “scritto”, che “di parecchi anni” ha mentito a Niccolò III (Inf. XIX, 54), non è solo il libro del futuro nel quale leggono i dannati, oppure un vaticinio anti-Orsini come Genus nequam [10]. I simoniaci – usando l’“intorta statera” tenuta in mano dagli eresiarchi designati dal cavallo nero in apertura del terzo sigillo (Ap 6, 5) – hanno male pesato la regola evangelica, quella osservata da Cristo, imposta agli apostoli e scritta nel Vangelo. Virgilio dice a Dante di seguirlo “per loco etterno” con le parole – «“Sequere me”, scilicet ad crucem» – dette da Cristo a san Pietro (Inf. I, 112-117) e le rinfaccia al simoniaco Niccolò III (Inf. XIX, 90-93).
“Non il Francesco povero è generato dal pensiero politico di Dante, ma è il pensiero dantesco – nella sua ispirazione originaria – che nasce dalla tradizione culturale del francescanesimo” (Anna Maria Chiavacci Leonardi, Commento al “Paradiso”, Milano 2007, p. 304).
Il frate e il poeta hanno la stessa idea della Chiesa, esemplata sulla persona e sulla vita di Cristo: “Christi persona et vita fuit exemplar totius ecclesie future”, scrive Olivi nella Lectura super Apocalipsim [11]; e Dante nella Monarchia (III, xiv, 3): “Forma autem Ecclesie nichil aliud est quam vita Cristi […] vita enim ipsius ydea fuit et exemplar militantis Ecclesie […]”.
Il primo verso del “poema sacro” – “Nel mezzo del cammin di nostra vita” – non è semplice indicazione anagrafica dei trentacinque anni di età dell’autore; è testimonianza resa a Cristo mediatore, la cui vita deve essere dalla nostra perfettamente imitata e partecipata.
Tab. A
OLIVI, An sit melius aliquid facere ex voto quam sine voto, ed. A. Emmen, La dottrina dell’Olivi sul valore religioso dei voti, in Studi Francescani 63 (1966), pp. 97-98.Si enim aspiciamus ad id quod per votum Deo datur et redditur, inveniemus quod per votum non solum datur ipsum opus dum est, sed etiam tota libertas nostra et totum dominium voluntatis nostrae respectu talis operis. Absque voto autem datur solum ipsum opus dum fit, non autem plene pro tempore pro quo erit antequam fiat, nec datur libertas et dominium voluntatis respectu talis operis. Tantum ergo praeponderat votum super simplex propositum, quantum valet libertas et dominium voluntatis, et hoc respectu totius futuri temporis. Hoc autem nullo modo posset per aliquid huius vitae appretiari nec recompensari. Haec autem libertas non solum datur in hora qua votum emittitur, sed omni tempore quo placet sibi vovisse, et in quo cum hac complacentia votum implet. Si ergo votum in sua emissione addebat quamdam valoris et meriti infinitatem, et hoc per totum tempus sequens replicatur et multiplicatur, ergo votum continuatum superaddit multiplicem infinitatem.
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Par. V, 19-33Lo maggior don che Dio per sua larghezza
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Epistola VI, 22-23 (ed. A. Frugoni – G. Brugnoli, in Dante Alighieri, Opere minori, II, Milano-Napoli 1979, p. 558).Nec advertitis dominantem cupidinem, quia cecis estis, venenoso susurrio blandientem, minis frustra-toriis cohibentem, nec non captivantem vos in lege peccati, ac sacratissimis legibus que iustitie naturalis imitantur ymaginem, parere vetantem; observantia quarum, si leta, si libera, non tantum non servitus esse probatur, quin ymo perspicaciter intuenti liquet ut est ipsa summa libertas. Nam quid aliud hec nisi liber cursus voluntatis in actum quem suis leges mansuetis expediunt? Itaque solis existentibus liberis qui voluntarie legi obediunt, quos vos esse censebitis qui, dum pretenditis libertatis affectum, contra leges universas in legum principem cons-piratis? |
Monarchia, I, xii, 1-2, 5-7 (ed. a cura di B. Nardi, in Dante Alighieri, Opere minori, II, Milano-Napoli 1979)
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Tab. B
Tab. C
OLIVI, Quaestio de altissima paupertate [ed. J. Schlageter, Das Heil der Armen und das Verderben der Reichen. Petrus Johannis Olivi OFM. Die Frage nach der höchsten Armut, Werl/Westfalen 1989 (Franziskanische Forschungen, 34)].[Responsio principalis, I.1.3, p. 88] Professori autem huius paupertatis per voti immobilitatem aufertur occasio et omnis ratio ambiendi seu appetendi omnem dignitatem et famam quae in divitiis fundatur, quia non solum abstulit sibi divitias, sed etiam omnem possibilitatem habendi eas seu omne ius acquirendi et habendi eas. Et per hoc etiam abstulit sibi occasionem praesumptionis et gloriae inanis quae surgere potest ex divitiis, non solum pro praesenti tempore, sed etiam pro omni futuro. Nihil autem ita exstinguit et macerat appetitum alicuius rei sicut impossibilitas seu desperatio obtinendi illam. […] Et sic discurrendo per omnia videbis quod spes et facilitas obtinendi desiderabilia vehementissime inter omnia accendit hominis appetitum. […][I.6, pp. 98-99] Valet etiam sexto [paupertas altissima] ad communem et pacificam societatem. Aufert enim maximam materiam discordiae et divisionis, invidiae et contentionis seu litigationis et causidicationis et ciuiuscumque fraudulentae supplantationis et multiplicis suspicionis. […] Et breviter: nisi totaliter tollatur amor iurisdictionis temporalis et temporalium a cordibus hominum, non potest esse aliqua communitas sine praedictis malis.[I.11.1, p. 109] Valet etiam undecimo ad ardentissimam caritatem, et primo quidem per hoc quod cupiditatem et amorem temporalium miro modo exstinguit, et hoc tollendo rerum ipsarum materiam et ius accedendi ad eas et etiam includendo in se voluntatem non possidendi divitias. Contraria enim cupiditatem accendunt.[I.11.5, p. 110] Quod etiam ex ordine eorum quae sunt ad finem, ad suum finem et econverso probari potest. Quicumque enim propter aliquem finem maiora et difficiliora facit ceteris paribus, praedictum finem amplius diligit, cum voluntas finis sit tota causa voluntatis eorum quae propter finem volumus. Ergo qui propter Dei amorem altitudinem et difficultatem tantae paupertatis assumit, amplius incoparabiliter Deum diligere comprobatur quam ille qui ad hoc non assurgit, nisi forte in aliquo alio huic aequivalenti excedat. Paupertas igitur haec pro Deo assumpta altissimum gradum divini amoris videtur in se includere sicut effectus suam causam et altissimum gradum divini amoris exercitare sicut amor eorum quae sunt ad finem, propter ipsum finem exercitat ad amorem ipsius finis.OLIVI, An sit melius aliquid facere ex voto quam sine voto [ed. A. Emmen, in Studi francescani 63 (1966), p. 99].Quarto hoc patet attendendo ad ea, quae in vovente ex voto et voti occasione sequuntur. Sequitur enim ex hoc maior firmitas in bono: desperatio enim habendi aliquam rem multum minuit et tollit concupiscentiam illius rei. Propter quod auferre sibi spem alicuius delectabilis, multum minuit concupiscentiam eius. Certum est enim quod spes et facultas adipiscendi aliquid, augent concupiscentiam: voluntas enim aut non fertur, aut exiliter fertur circa impossibilia et desperata. Sed homo per votum auferendo sibi licentiam habendi illud quod per votum relinquitur, seu relinquendi illud quod per votum datur, aufert quodammodo spem illorum […]. |
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Monarchia, I, xi, 11-14[11] Ad evidentiam primi notandum quod iustitie maxime contrariatur cupiditas, ut innuit Aristotiles in quinto ad Nicomacum. Remota cupiditate omnino, nichil iustitie restat adversum; unde sententia Phylosophi est ut que lege determinari possunt nullo modo iudici relinquantur. Et hoc metu cupiditatis fieri oportet, de facili mentes hominum detorquentis. Ubi ergo non est quod possit optari, inpossibile est ibi cupiditatem esse: destructis enim obiectis, passiones esse non possunt.
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Par. III, 64-87“Ma dimmi: voi che siete qui felici,
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Tab. D
[LSA, cap. XXII, Ap 22, 1-2 (VIIa visio)] Hic sub figura nobilissimi fluminis currentis per medium civitatis describit affluentiam glorie manantis a Deo in beatos. Fluvius enim iste procedens a “sede”, id est a maiestate “Dei et Agni”, est ipse Spiritus Sanctus et tota substantia gratie et glorie per quam et in qua tota substantia summe Trinitatis dirivatur seu communicatur omnibus sanctis et precipue beatis, que quidem ab Agno etiam secundum quod homo meritorie et dispensative procedit. Dicit autem “fluvium” propter copiositatem et continuitatem, et “aque” quia refrigerat et lavat et reficit, et “vive” quia, secundum Ricardum, numquam deficit sed semper fluit. Quidam habent “vite”, quia vere est vite eterne. Dicit etiam “splendidum tamquam cristallum”, quia in eo est lux omnis et summe sapientie, et summa soliditas et perspicuitas quasi cristalli solidi et transparentis. Dicit etiam “in medio platee eius” (Ap 22, 2), id est in intimis cordium et in tota plateari latitudine et spatiositate ipsorum.
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Par. XXX, 61-66, 76-78, 85-87e vidi lume in forma di rivera
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Purg. XXXI, 1-3, 139-145“O tu che se’ di là dal fiume sacro”,
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Par. III, 109-114E quest’ altro splendor che ti si mostra
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Par. VI, 7-9e sotto l’ombra de le sacre penne
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[LSA, cap. X, Ap 10, 5-7 (IIIa visio, VIa tuba)] Nota etiam quod sicut nos iuramus levando et ponendo manum super altare vel super librum evangeliorum, tamquam protestantes nos per sanctitatem altaris vel evangelii iurare, sic iste angelus iurat levando manum ad celum, id est per altam protestationem celestis ecclesie et Dei habitantis in ea, et etiam quia demonstratio celestis mansionis et eternitatis multum confirmat tempus huius seculi <c>eleriter transiturum. Hinc etiam est quod iurat “per viventem” in eternum, ubi etiam signanter specificat tria per ipsum creata, scilicet “celum”, tamquam electis querendum et tamquam locum in quo est eorum gloria consumanda; deinde “terram” cum existentibus in ea, et tertio “mare” cum existentibus in eo, quasi dicat: iuro per eum qui creavit terram fidelium et mare nationum infidelium, quibus utrisque nunc ego predico ed ad eternam gloriam invito. Unde et tenebat pedem unum super terram et alium super mare. |
Tab. E
[LSA, prologus, Notabile X; III–IV status] Ideo autem quartus status concurrit eodem tempore cum tertio, quia sicut affectus exigit notitiam intellectus, nec ista notitia est sancta absque sancto affectu, sic affectualis exercitatio et contemplatio anachoritarum et sanctorum illitteratorum eguit preclaro lumine doctorum, nec illud preclarum esse potuit absque precellentia vite. Unde ad mutuum obsequium et ad meridiem universi orbis tunc ad fidem conversi simul clarificandam et inflammandam debuerunt illi duo status concurrere simul. Sicut autem notitia preit amorem, quia non potest amari nisi cognitum, sic status doctorum in hoc libro premittitur ante statum anachoritarum; in quarta tamen visione ostenduntur simul concurrere, ubi dicitur quod “date sunt mulieri due ale aquile magne ut volaret in desertum” (Ap 12, 14). |
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Inf. XXXIV, 46-48, 72-73Sotto ciascuna uscivan due grand’ ali,
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Par. XIX, 1-3Parea dinanzi a me con l’ali aperte
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[LSA, cap. XII, Ap 12, 14 (IVa visio, III–IVum prelium)] Antequam autem hic explicetur qualis fuit hec persecutio, ostendit duplicem virtutem tunc datam ecclesie ad triumphandum de hac gemina persecutione. Unde subdit: “Et date sunt mulieri due ale aquile magne”, id est sublimis sapientia sanctorum doctorum et sublimis vita et caritas sanctorum anachoritarum et ceterorum regularium illius temporis. Hec enim sunt “due <ale> aquile magne”, id est Christi et sue contemplative ecclesie in apostolis primo fundate. Nonne enim Iohannes vel Paulus fuit aquila magna habens has duas alas? Item potestas imperialis seu temporalis et potestas spiritualis super totum orbem sunt due ale. Licet enim prius secundum rem haberet potestatem spiritualem, non tamen sic evidenter et efficaciter sicut cum imperium romanum fuit sibi famulatorie et devote subiectum. |
[LSA, cap. VIII, Ap 8, 12 (IIIa visio, IVa tuba)] Per “solem” videtur hic designari solaris vita et contemplatio summorum anachoritarum, qui fuerunt patres et exempla aliorum, vel solaris sapientia et doctrina summorum doctorum.Purg. XVI, 106-112Soleva Roma, che ’l buon mondo feo,
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spada (terzo stato)[LSA, cap. II, Ap 2, 12 (Ia visio, IIIa ecclesia)] Hiis autem premittuntur duo, scilicet preceptum de scribendo hec sibi et introductio Christi loquentis, cum subdit: “Hec dicit qui habet rumpheam”, id est spatam, “ex utraque parte acutam”. Hoc congruit ei, quod infra dicit: “pugnabo cum illis in gladio oris mei” (Ap 2, 16). Unde contra doctores pestiferos erronee doctrine et secte ingerit se ut terribilem confutatorem et condempnatorem ipsorum per incisivam doctrinam et condempnativam sententiam oris sui. Dicit autem “ex utraque parte”, non solum quia absque acceptione personarum omnia vitia scindit et resecat vel condempnat, sed etiam quia contrarios errores destruit. Arrius enim, quasi ex uno latere, errat dicendo Dei Filium esse substantialiter diversum a Patre tamquam eius creaturam. Sabellius vero, quasi ab opposito latere, dicit quod eadem persona est Pater et Filius. Fides autem Christi utrumque scindit et resecat. |
pasturale (quarto stato)[LSA, prologus, Notabile III] Patet enim hoc de primo dono. Nam pastoralis cura insistit primo ovium propagationi. Secundo earum defensioni ab imbribus et lupis et consimilibus. Tertio earum directioni seu deductioni ad exteriora. Quarto earum pascuali refectioni. […] Constat autem quod propagatio appropriatur prime plantationi ecclesie sub apostolis, defensio vero militari pugne martirum, directio vero eruditioni doctorum, refectio autem studiose et refective devotioni anachoritarum et sic de aliis.[LSA, prologus, Notabile XIII] Refectio vero eucharistie congruit devotioni anachoritarum.Monarchia, III, xv, 18: Illa igitur reverentia Cesar utatur ad Petrum qua primogenitus filius debet uti ad patrem: ut luce paterne gratie illustratus virtuosius orbem terre irradiet, cui ab Illo solo prefectus est, qui est omnium spiritualium et temporalium gubernator. |
Tab. F
Monarchia, III, xv, 16-18[16] Et iam satis videor metam actigisse propositam. Enucleata nanque veritas est questionis illius qua querebatur utrum ad bene esse mundi necessarium esset Monarche offitium, ac illius qua querebatur an romanus populus de iure Imperium sibi asciverit, nec non illius ultime qua querebatur an Monarche auctoritas a Deo vel ab alio dependeret immediate.
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[LSA, cap. II, Ap 2, 7] Dicit autem Dei mei quia Christus in quantum homo minor est Deo Patre, ita quod in quantum homo habet Patrem pro Deo et Domino et etiam totam Trinitatem. […][LSA, cap. III, Ap 3, 12] Quod Christus hic vel alibi dicit Dei mei vel a Deo meo, non dicit nisi tantum ratione sue humanitatis, secundum quam est subiectus Patri et toti Trinitati tamquam Deo suo. […][LSA, cap. III, Ap 8, 3] Qui venit, per nature humane et mortalis assumptionem, et stetit ante altare, id est ante curiam seu hierarchiam celestem. Pro quanto enim, secundum carnis sue passibilitatem, minoratus est paulo minus ab angelis (cfr. Heb 2, 7; Ps 8, 6), habuit eos quasi ante se. […][LSA, cap. XIV, Ap 14, 18] Per illum vero angelum qui clamat ad alterum ut vindemiet dicit designari angelos bonos, qui non solum de templo sed etiam de altari exeunt quia non tantum ecclesiam electorum sed etiam Christum, qui est nostrum altare, respectu sue carnis trans-cendunt, secundum illud Psalmi (Ps 8, 6): Minuisti eum paulo minus ab angelis. |
Tab. G
[LSA, prologus, Notabile I (III status)] Tertius (status) est confessorum seu doctorum, homini rationali appropriatus. […] In tertio (statu) sonus predicationis seu eruditionis et tuba magistralis.[LSA, prologus, Notabile XIII (III status)] Sicut etiam tunc propter superbiam turris Babel confuse et divise sunt lingue, remanente recta et prima lingua in domo Heber et Hebreorum, ac deinde linguis ceteris in idolatriam demonum ruentibus in sola domo Abraam fides et cultus unius veri Dei remansit, sic propter superbiam plurium ad fidem intro-ductorum lingua et confessio unius vere fidei Christi est in plures hereses divisa et confusa, remanente prima et vera lingua et confessione fidei in domo Petri.[LSA, cap. II, Ap 2, 1 (IIIa ecclesia)] Tertia autem commendatur de servando et confitendo fidem inter magistros erroris, in quibus quasi in cathedra pestilentie Sathanas sedet. Increpatur tamen quia ex quorundam suorum negligentia quosdam hereticos habebat. Competunt autem hec tempori tertio, scilicet doctorum. Tunc enim aliqui catholici nimis participabant cum aliquibus hereticis, quamvis ceteri essent constantissimi contra eos. Hec autem ecclesia congrue vocatur Pergamus, id est dividens cornua, quia superbam potentiam et scissuram hereticorum potentissime frangebat et dissolvebat. |
Inf. XIX, 5-6, 49-50, 58-60, 70-72, 121-123or convien che per voi suoni la tromba,
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[LSA, cap. VI, Ap 6, 5 (IIa visio, apertio IIIii sigilli)] “Et cum aperuisset sigillum tertium, audivi tertium animal” (Ap 6, 5), scilicet quod habebat faciem hominis, “dicens: Veni”, scilicet per maiorem attentionem vel per imitationem fidei doctorum hic per hominem designatorum, “et vide. Et ecce equus niger”, id est hereticorum et precipue arrianorum exercitus astutia fallaci obscurus et erroribus luci Christi contrariis denigratus. “Et qui sedebat super eum”, scilicet imperatores et episcopi arriani, “habebat stateram in manu sua”. Cum statera mensuratur quantitas ponderum, et ideo per stateram designatur hic mensuratio articulorum fidei, que quando fit per rectam et infallibilem regulam Christi et scripturarum suarum est recta statera, de qua Proverbiorum XVI° dicitur: “Pondus et statera iudicia Domini sunt” (Pro 16, 11), et Ecclesiastici XXI°: “Verba prudentium statera ponderabuntur” (Ecli 21, 28); quando vero fit per rationem erroneam et per falsam et intortam acceptionem scripture est statera dolosa, de qua Proverbiorum XI° dicitur: “Statera dolosa abhominatio est apud Deum” (Pro 11, 1), et in Psalmo: “Mendaces filii hominum in stateris” (Ps 61, 10), et Michee VI°: “Numquid iustificabo stateram impiam et sac<c>elli pondera dolosa” (Mic 6, 11).Inf. II, 3-6, 8
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Inf. XIX, 25-27, 34-36, 52-54, 61-64, 70-72, 88-89Le piante erano a tutti accese intrambe;
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[LSA, prologus, Notabile VII] Secunda (ratio) est eius singularis et exemplaris vita, quam apostolis imposuit et in se ipso exemplavit et in libris evangelicis sollempniter scribi fecit. Huius autem vite perfecta imitatio et participatio est et debet esse finis totius nostre actionis et vite.[LSA, cap. VI, Ap 6, 12 (IIa visio, apertio VIi sigilli)] Ad evidentiam autem huius sexte apertionis est primo ad memoriam reducendum quod supra in principio est in tredecim notabilibus prenotatum, et specialiter illa in quibus est monstratum quia vita Christi erat in sexto et septimo statu ecclesie singulariter glorificanda et in finali consumatione ecclesie et in omnis Israelis ac totius orbis conversione magnificanda. Ex quo igitur, per romane ecclesie autenticam testificationem et confirmationem, constat regulam Minorum, per beatum Franciscum editam, esse vere et proprie illam evangelicam quam Christus in se ipso servavit et apostolis imposuit et in evangeliis suis conscribi fecit, et nichilominus constat hoc per irrefragabilia testimonia librorum evangelicorum et ceterarum scripturarum sanctarum et per sanctos expositores earum, prout alibi est superhabunde monstratum, constat etiam hoc per indubitabile testimonium sanctissimi Francisci ineffabili sanctitate et innumeris Dei miraculis confirmatum. Et precipue gloriosissimis stigmatibus sibi a Christo impressis patet ipsum fore angelum apertionis sexti signaculi “habentem signum Dei vivi”, signum scilicet plagarum Christi crucifixi, et etiam signum totalis transformationis et configurationis ipsius ad Christum et in Christum. Et hoc ipsum per claram et fide dignam revelationem est habitum, prout a fratre Bonaventura, sollempnissimo sacre theologie magistro ac nostri ordinis quondam generali ministro, fuit Parisius in fratrum minorum capitulo me audiente sollempniter predicatum. |
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[LSA, cap. VI, Ap 7, 2 (IIa visio, apertio VIi sigilli)] Sequitur tertia pars, scilicet prohibitio predicti impedimenti per subscriptum angelum facta (Ap 7, 2): “Et vidi alterum angelum”, alterum scilicet a quattuor iam premissis, et alterum non tantum in persona sed etiam in virtute et officio. Nam illi mali et impeditivi boni, iste vero in utroque contrarius eis. De hoc dicit hic Ioachim: Angelus iste est ille, quem Christus per concordiam respicit, futurus in principio tertii status. «Ascendet autem “ab ortu solis”, quia ut casus presentis vite non timeatur, predicabit certis indiciis veri solis adventum et vicinam iustorum omnium resurrectionem. Ad cuius clamoris virtutem adversarie potestates quiescent, et gaudium quod in sexta parte libri inter casum Babilonis et inter prelium bestie et regum terre contra sedentem in equo albo demonstratur futurum permittent fieri vel inviti, quatinus fideles acies, signo crucis instructe ad complendum numerum electorum, quod reliquum erit prelii expedire percurrant. [→] |
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[→] Sicut et Petrus, post piscationem centum quinquaginta trium piscium magnorum, vocatus est ad prandium Christi sed mox, peracto prandio, audivit Christum dicentem sibi: “Sequere me”, scilicet ad crucem (cfr. Jo 21, 3-19). Nox enim illa in qua frustra usque mane piscatus est Petrus designat tribulationem primam, prandium autem quod post piscationem celebratum est mane designat gaudium quod noctis huius <tribulationem> sequetur, quo consumato mox incipiet prelium illud magnum de quo in sexta parte libri, capitulo scilicet XIX°, dicitur: “Vidi bestiam et reges terre et exercitus eorum congregatos ad faciendum prelium cum illo, qui sedebat in equo, et cum exercitu eius” (Ap 19, 19)». Usque huc Ioachim*.
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[→] Sequitur: “habentem signum Dei vivi”, tam scilicet in stigmatibus sibi a Christo impressis quam in tota vita interiori et exteriori, et in statu professionis et in concordia temporis et officii singulariter Christo assimilatum et eius similitudini consignatum. […] Signatio hec (Ap 7, 3) fit per administrationem fidei et caritatis et per assumptionem ac professionem sacramentorum Christi distinctivam fidelium ab infidelibus. In hac etiam signatione includitur fides et devotio ad Christi passionem adorandam et imitandam et exaltandam. Fit autem “in frontibus”, quando signatis datur constans et magnanimis libertas ad Christi fidem publice confitendam et observandam et predicandam et defendendam. In fronte enim apparet signum audacie et strenuitatis vel formidolositatis et inhertie, et signum gloriationis vel erubescentie. […]
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Nota alla Tab. G
■All’apertura del terzo sigillo (seconda visione apocalittica), mostratagli dal terzo animale, quello che ha il volto di uomo, Giovanni vede un cavallo nero, che designa l’esercito degli eretici, oscuro per fallace astuzia e fatto nero per gli errori contrari alla luce di Cristo (LSA, Ap 6, 5). Colui che siede sopra di esso – designante gli imperatori o i vescovi ariani – ha in mano una bilancia. La stadera misura la quantità dei pesi, e qui sta a indicare la misurazione degli articoli di fede. Quando la misurazione avviene secondo la retta e infallibile regola di Cristo, allora il peso è giusto, come si dice nei Proverbi: “Il peso e la bilancia sono i giudizi del Signore” (Pro 16, 11) e nell’Ecclesiastico: “Le parole dei prudenti sono pesate sulla bilancia” (Ecli 21, 28). Quando invece la misurazione si fonda sull’errore e sul falso e torto accoglimento della Scrittura, allora la stadera è dolosa, e a questa si riferiscono i Proverbi: “La bilancia falsa è in abominio al Signore” (Pro 11, 1), i Salmi: “Sono una menzogna tutti gli uomini sulla bilancia” (Ps 61, 10) e Michea: “Potrò giustificare le false bilance e la borsa dei pesi falsi?” (Mic 6, 11).
Nella terza bolgia, le gambe dei simoniaci confitti a capo in giù nei fori della pietra guizzano così forte, per la fiamma che si muove sulle piante dei piedi, “che spezzate averien ritorte e strambe”, cioè legami attorcigliati o funi (Inf. XIX, 25-27). Dante domanda chi sia colui che si cruccia guizzando più degli altri, e Virgilio risponde che, una volta portato là giù nel fondo della bolgia, “da lui” saprà “di sé e de’ suoi torti” (v. 36). Invitata dal poeta a parlare, l’anima confitta di Niccolò III (Giovanni Gaetano Orsini, papa dal 1277 al 1280), che erroneamente crede sia arrivato Bonifacio VIII a prendere il suo posto, grida proseguendo le variazioni del tema della retta e torta misurazione della Scrittura: «Ed el gridò: “Se’ tu già costì ritto, / se’ tu già costì ritto, Bonifazio? / Di parecchi anni mi mentì lo scritto”» (vv. 52-54). Lo stare “ritto”, che nell’esegesi scritturale corrisponde al giusto peso che misura secondo la retta e infallibile regola di Cristo (ma “lo scritto” ha mentito al papa Orsini), si contrappone alla pena comminata per i “torti”, e il tema viene ripreso poco dopo dallo spirito che, chiarito l’equivoco in seguito alla risposta di Dante imposta da Virgilio, “tutti storse i piedi” (v. 64). Nella bolgia è punita la borsa (saccellus) dei pesi falsi di cui dice il profeta Michea (Mic 6, 11), come confermato da Niccolò III: “che sù l’avere e qui me misi in borsa” (v. 72).
Lo “scritto” menzognero non è solo, come si è soliti interpretare, il libro del futuro nel quale i dannati leggono l’avvenire, oppure un vaticinio anti-Orsini come Genus nequam [*]. Questa probabile conoscenza di Dante è ‘armata’ da ben altra corazza. I simoniaci – usando l’“intorta statera” tenuta in mano dagli eresiarchi designati dal cavallo nero in apertura del terzo sigillo (Ap 6, 5) – hanno male pesato la regola evangelica, quella osservata da Cristo, imposta agli apostoli e scritta nel Vangelo (cfr. prologo, Notabile VII). Questa regola o scritto è quella francescana, come solennemente attestato dalla Lectura nell’esordio dell’esegesi relativa all’apertura del sesto sigillo (Ap 6, 12, passo simmetrico ad Ap 6, 5 per il comune riferimento alla vera scrittura o regola di Cristo). L’angelo del sesto sigillo, che sale da oriente e che ha il segno del Dio vivente (Ap 7, 2), viene infatti identificato con Francesco piagato dalle stimmate, totalmente trasformato in Cristo e a lui configurato, secondo una tradizione che Olivi ascoltò da san Bonaventura predicante nel 1266 a Parigi nel capitolo generale dei Frati minori. Che la regola di Francesco sia quella veramente evangelica risulta da inconfutabili testimonianze dei libri del Vangelo e delle altre sante scritture. Ne consegue che l’imporre agli apostoli la regola evangelica, come detto ad Ap 6, 12, si trasforma nell’imporre di Virgilio a Dante la risposta a Niccolò III che ripristina la verità dello scritto: «Allor Virgilio disse: “Dilli tosto: / ‘Non son colui, non son colui che credi’ ”; / e io rispuosi come a me fu imposto» (Inf. XIX, 61-63). Più avanti sarà Dante a rispondere all’Orsini “a questo metro” (v. 89), con la giusta misura cantandogli “cotai note” (v. 118).
■ Nella terza età del mondo (prefigurazione del terzo stato della Chiesa), a causa della superba torre di Babele, le lingue furono confuse e divise e la lingua prima e retta rimase nella casa di Eber e degli Ebrei, e poi, mentre le altre lingue precipitavano nell’idolatria diabolica, la fede e il culto di un solo vero Dio rimase nella casa di Abramo. Così nel terzo stato della Chiesa, a causa della superbia di molti fedeli, la lingua e la confessione della sola vera fede di Cristo venne divisa e confusa in più eresie, mentre la prima e vera lingua e confessione rimase nella casa di Pietro (LSA, prologo, Notabile XIII). Rispondendo a Niccolò III, il poeta prorompe in “parole … gravi” contro i papi simoniaci: il cantare tali note al pontefice, che fu in vita “veramente … figliuol de l’orsa”, è “suon de le parole vere espresse” (Inf. XIX, 70, 103, 123), confessione dell’unica fede di Cristo nella lingua vera che è quella che rimase nella casa di Eber, poi in quella di Abramo, e che avrebbe dovuto essere custodita nella casa romana di Pietro.
È proprio dei dottori del terzo stato della Chiesa suonare la tromba (LSA, prologo, Notabile I), e ai simoniaci che stanno nella terza bolgia il poeta dichiara che “or convien che per voi suoni la tromba” (Inf. XIX, 1-6).
È probabile che alla stessa tematica appartengano l’atteggiarsi di Dante, piegato col capo sul dannato confitto come palo nel foro della pietra, a frate confessore del “perfido assessin*” e il suo restare ‘scornato’, cioè confuso, alle prime incomprensibili parole di Niccolò che l’ha scambiato per Bonifacio VIII arrivato a prendere il suo posto prima del tempo (vv. 49-51, 58-60). “Scornati” è infatti termine singolarmente consonante con l’interpretazione (“dividens cornua”) del nome (Pergamo) della terza chiesa d’Asia, la chiesa dello stato dei dottori che confondono, appunto, l’eresia.
■ Dante, alter Iohannes, si fregia anche delle prerogative dell’angelo che sale da oriente (“ascendens ab ortu solis”) all’apertura del sesto sigillo (Ap 7, 2), che Olivi identifica in Francesco. Tema così importante, che lo si ritrova già nei primi versi del poema. Segna la salita di Dante al “dilettoso monte”, “quasi al cominciar de l’erta”, lì dove la lonza gli impedisce il cammino: l’ora è il “principio del mattino” («“ascendens ab ortu solis”, id est ab illa vita quam Christus sol mundi in suo “ortu”, id est in primo suo adventu, attulit nobis. Nam decem umbratiles lineas orologii Acaz Christus in Francisco reascendit usque ad illud mane in quo Christus est ortus [4 Rg 20, 9-11; Is 38, 8]»); il sole sorge (“montava ’n sù” rende “ascendens”) nel segno primaverile dell’Ariete, costellazione che si riteneva occupasse anche al momento della creazione, “quando l’amor divino / mosse di prima quelle cose belle” (Inf. I, 37-40).
Secondo Gioacchino da Fiore, l’angelo del sesto sigillo designa un momento di gaudio e di quiete tra due tribolazioni, cioè tra la caduta di Babylon e il combattimento della bestia e dei re della terra contro colui che siede sul cavallo bianco (Ap 19, 19). San Pietro, dice l’abate calabrese citato da Olivi ad Ap 7, 2, ha trascorso una notte senza pescare, e ciò indica la prima tribolazione: Dante ha trascorso nella selva oscura una notte d’angoscia, “la notte ch’i’ passai con tanta pieta” (Inf. I, 21). Al mattino Pietro celebra il banchetto dopo la pesca miracolosa, e ciò indica il gaudio che segue la notte: arrivato al termine di “quella valle / che m’avea di paura il cor compunto”, il poeta quieta la sua paura nel vedere le spalle del colle “vestite già de’ raggi del pianeta / che mena dritto altrui per ogne calle” (vv. 13-21); riposa “un poco il corpo lasso” prima di riprendere la via (v. 28); di fronte alla prima fiera è animato da buona speranza a motivo de “l’ora del tempo e la dolce stagione” (vv. 41-43). Consumato il banchetto, Pietro sente Cristo che gli dice “seguimi”, cioè verso la croce (cfr. Jo 21, 3-19: «“Sequere me”, scilicet ad crucem»), e questo indica la seconda tribolazione, perché incomincia subito il combattimento della bestia e dei re della terra contro Cristo: Dante, impedito definitivamente dalla lupa (v. 94: “questa bestia, per la qual tu gride”) nella salita del “dilettoso monte”, viene invitato da Virgilio, nel frattempo apparsogli nella “diserta piaggia”, a seguirlo – “Ond’ io per lo tuo me’ penso e discerno / che tu mi segui, e io sarò tua guida (l’angelo, nell’interpretazione di Gioacchino da Fiore, è “novus dux”), / e trarrotti di qui per loco etterno; / ove udirai le disperate strida, / vedrai li antichi spiriti dolenti, / ch’a la seconda morte ciascun grida” (vv. 112-117) -, un viaggio che il poeta accetta e al quale si prepara “a sostener la guerra / sì del cammino e sì de la pietate, / che ritrarrà la mente che non erra”, cioè nella vera ‘scrittura’, come fu quella di “Livïo … che non erra” (Inf. II, 3-6, 8; cfr. Inf. XXVIII, 12).
Il motivo del seguire Cristo da parte di Pietro è rinfacciato dallo stesso Dante al simoniaco Niccolò III (Inf. XIX, 90-93): «Deh, or mi dì: quanto tesoro volle / Nostro Segnore in prima da san Pietro / ch’ei ponesse le chiavi in sua balìa? / Certo non chiese se non “Viemmi retro”». Come si è mostrato sopra, Dante sta di fronte al papa simoniaco come sta un dottore della Chiesa, che possiede la verità evangelica scritta e imposta da Cristo, di fronte a un eresiarca; parla a un pontefice romano in quanto depositario di quella “prima et vera lingua et confessio fidei” che avrebbe dovuto essere custodita “in domo Petri”.
L’angelo del sesto sigillo, ascendendo (Ap 7, 2), rimuove un impedimento (Ap 7, 1). Questo è frapposto dai quattro angeli che stanno sopra i quattro angoli della terra: designano i demoni i quali, dopo il giudizio e lo sterminio della Chiesa carnale intervenuti con il terremoto nell’apertura del sigillo (Ap 6, 12-17), cercano di impedire ai quattro venti di soffiare, cioè di impedire la predicazione della fede, la conversione delle genti e anche il conservarsi dei fedeli nella fede già accolta. Possono anche designare gli angeli buoni, che trattengono il soffiare della grazia per esigenza della giustizia divina. In quanto demoni, prestano panno a Caronte, Minosse, Cerbero, Pluto.
Rimosso l’impedimento, il segno è posto sulla fronte, non vergognosa ma liberamente magnanima, degli eletti amici di Dio, difensori della fede fino al martirio da lui conosciuti per nome e ascritti alla più alta milizia dei baroni, dei decurioni, dei cavalieri che si distingue da quella volgare dei fanti (Ap 7, 3-4). Questa esegesi, nella quale il sesto stato corrisponde agli ultimi sei anni della costruzione del Tempio dopo la cattività in Babilonia, è una sacra sinfonia militare i cui temi trascorrono in più luoghi della Commedia: dalla “signatio” poetica di Dante, amico di Beatrice e “sesto tra cotanto senno” nella schiera dei sommi poeti del Limbo, alla “signatio” apostolica nelle virtù teologali di fronte a Pietro, Giacomo e Giovanni; dall’impossibile amicizia con Dio di Francesca e Paolo (anch’essi in una schiera) alle famiglie fiorentine, menzionate da Cacciaguida, che portano la “bella insegna” del marchese Ugo di Toscana, assunte a una milizia più alta rispetto a Giano della Bella, l’autore dei famosi Ordinamenti di giustizia (1293) anch’egli di essa insignito (la quale “fascia col fregio”), ma che oggi si raduna col popolo, corrispondente alla volgare e pedestre milizia che viene dopo i segnati. Questi eletti ‘sesti’ amati da Dio sono lo sviluppo sacro di coloro (De vulgari eloquentia, II, iv, 10-11) che Virgilio, nel sesto dell’Eneide, definisce “Dei dilectos”, i poeti tragici innalzati al cielo per ardente virtù (Aen., VI, 129-131: “Pauci, quos aequus amavit / Iuppiter”), designati dall’ “astripeta aquila”. Ecco che, nei primi canti del poema, non poche parole-chiave rinviano anche ad Ap 7, 3-4.
Il tema dell’amicizia divina contrapposto alla volgare milizia è presente nelle accorate parole con cui Lucia invita Beatrice a soccorrere Dante, “ch’uscì per te de la volgare schiera” dei poeti (Inf. II, 103-105), che la stessa Beatrice, rivolgendosi a Virgilio, definisce “l’amico mio, e non de la ventura” (v. 61; da notare, nello stesso canto [vv. 44-45], il contrasto tra il “magnanimo” Virgilio e la “viltade” da cui è offesa l’anima di Dante). Virgilio, mosso da Beatrice, rimuove l’“impedimento” frapposto dalla lupa a Dante nel salire il “dilettoso monte”; svolge anch’egli in qualche modo la funzione dell’angelo del sesto sigillo.
Il tema della “signatio” sulla fronte degli eletti e amici di Dio, difensori pubblici della fede, si mostra anche nel primo canto del poema, nella “vergognosa fronte” con cui Dante risponde a Virgilio (Inf. I, 81; cfr. III, 79). Anche l’espressione di Virgilio al v. 129 – “oh felice colui cu’ ivi elegge!” – fa parte del gruppo tematico.
■ Il capitolo 2 dell’Epistola a Cangrande, un trattato sull’amicizia – come osservò Giorgio Brugnoli -, quella che Dante manifesta allo Scaligero e alla quale tiene “quasi thesaurum carissimum”, intende dimostrare che vi può essere amicizia fra persone di diverso stato, fra eminenti e inferiori (tale si sente l’autore, dall’oscura fortuna ma di chiara onestà, di fronte all’illustre principe). Come potrebbe la distanza sociale impedire l’amicizia fra gli uomini quando è data amicizia fra Dio e l’uomo, cioè fra quanto vi è di più distante? L’ignoranza del volgo (“imperitia vulgi”) crede al contrario che affermare ciò sia presuntuoso, ma colui al quale è dato il libero arbitrio non deve calcare le orme delle pecore ed è svincolato da ogni consuetudine.
Due temi fondamentali dell’Epistola, l’amicizia di Dio (fondamento di ogni libera amicizia) e il differenziarsi dal volgo, sono alla base del viaggio di Dante verso Beatrice nella Commedia. Temi presenti nelle parole dette da Beatrice a Virgilio e, prima ancora, da Lucia a Beatrice; versi da confrontare con l’esegesi di Ap 7, 4:
Epistola XIII [2]. Nec reor amici nomen assumens, ut nonnulli forsitan obiectarent, reatum presumptionis incurrere, cum non minus dispares connectantur quam pares amicitie sacramento. Nam si delectabiles et utiles amicitias inspicere libeat, illis persepius inspicienti patebit preheminentes inferioribus coniugari personas. Et si ad veram ac per se amicitiam torqueatur intuitus, nonne summorum illustriumque principum plerunque viros fortuna obscuros, honestate preclaros, amicos fuisse constabit? Quidni, cum etiam Dei et hominis amicitia nequaquam impediatur excessu? Quod si cuiquam quod asseritur nunc videretur indignum, Spiritum Sanctum audiat, amicitie sue participes quosdam homines profitentem; nam in Sapientia de sapientia legitur “quoniam infinitus thesaurus est hominibus, quo qui usi sunt, participes facti sunt amicitie Dei“. Sed habet imperitia vulgi sine discretione iudicium; et quemadmodum solem pedalis magnitudinis arbitratur, sic et circa mores vana credulitate decipitur. Nos autem quibus optimum quod est in nobis noscere datum est, gregum vestigia sectari non decet, quin ymo suis erroribus obviare tenemur. Nam intellectu ac ratione degentes, divina quadam libertate dotati, nullis consuetudinibus astringuntur; nec mirum, cum non ipsi legibus, sed ipsis leges potius dirigantur. Liquet igitur quod superius dixi, me scilicet esse devotissimum et amicum, nullatenus esse presumptum. |
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Inf. II, 61-63, 103-105l’amico mio, e non de la ventura,
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[LSA, cap. VII, Ap 7, 4 (apertio VIi sigilli)] Igitur per hunc numerum, prout est certus et diffinitus, designatur singularis dignitas signatorum. Hii enim, qui sub certo nomine et numero et scriptura a regibus ad suam militiam vel curiam aut ad sua grandia vel dona ascribuntur, sunt digniores ceteris, qui absque scriptura et numero ad vulgarem et pedestrem militiam vel familiam eliguntur. Sicut etiam Deus, in signum familiarissime notitie et amicitie, Exodi XXXIII° (Ex 33, 17) dicit Moysi: “Novi te ex nomine”, cum tamen omnes electos suos communiter noverit ut amicos et hoc modo solos reprobos dicatur nescire, sic per hanc specialem et prefixam numerationem et consignationem designatur familiarior signatio et notitia et amicitia apud Deum. |
Chi altri, se non Dante, avrebbe potuto accostare questi due temi fondamentali – l’amicizia di Dio e il differenziarsi dal volgo -, in quella che è una vera e propria reminiscenza degli inizi del poema sacro, applicata a una situazione diversa? Fin dal capitolo 2, il “fatale andare” è ben presente alla mente dell’autore dell’Epistola, per cui, almeno per questa parte, non v’è da dubitare della sua autenticità.
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* Quanto nell’esegesi è attribuito polemicamente all’Islam viene da Dante rovesciato sui Cristiani. La lupa – la cupidigia universale, ma in primo luogo cristiana – possiede tutte le caratteristiche della quarta delle bestie della visione di Daniele (Dn 7, 7), interpretata come la bestia saracena o il cavallo pallido e macerato per l’ipocrisia che appare all’apertura del quarto sigillo (Ap 6, 8). Così con la perfidia dei Saraceni viene vestito il simoniaco papa Orsini, “lo perfido assessin”. Cfr. LSA, cap. XIII, Ap 13, 3: “Sarracenorum vero ex tot annis inchoata perfidia perseverat in malo et ubique christianum nomen impugnare pro viribus non desistit. Caput istud mori non potuit usque ad presens. Et subdit (Ioachim) quod ideo Iohannes dicit se illud vidisse quasi mortuum, quia forte futurum est quod ipsum christiani predicando magis quam preliando occidant, convertendo scilicet ipsum ad Christum et occidendo in eis errorem suum, et quod iterum resumptis viribus resurgat ad malum et ad pristinam redeat firmitatem”.
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