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Mar 21 2020

Francesco e Domenico sulla soglia di una nuova era. Il tessuto apocalittico di Paradiso XI e XII

 

 

1. La missione di Francesco e Domenico nell’Apocalisse moderna. 2. Angeli, uomini e prìncipi. 3. L’angelo del sesto sigillo (Ap 7, 2) e l’angelo dal volto solare (Ap 10, 1-3). 4. Il suono della voce di Cesare. 5. Francesco e Povertà: un matrimonio sublime e grottesco. 5.1. Maria rimase giuso. 5.2. L’arco della carità. 5.3. Al modo delle rane. 5.4. Il Monarca “povero”. 6. Viltà e regalità. 7. Sete di martirio di fronte al Signore della terra. 8. L’italica erba. 9. ‘Pusilli’ e ‘grandi’. 10. Secoli in forma di lettere: «’ ben s’impingua, se non si vaneggia». 11. La “voce di molte acque”. 12. Risplendere sorridendo. 13. L’essercito di Cristo. 14. Le “novelle fronde” di Europa. 15. Ab utero matris. 16. Le nozze con la Fede. 17. Felice, Giovanna, Domenico. 18. Contro al mondo errante. 19. Quasi torrente ch’alta vena preme. 20. Bonaventura e la Regola male interpretata. 21. Sempre pospuosi la sinistra cura. 22. Gioacchino da Fiore, profeta della nuova età. La misteriosa terza ghirlanda. 23. Invidiare con cortesia. 24. Quo vadis, Dantes ?Appendice. Note sulla “topografia spirituale” della Commedia.

 

Inferno I, 103-108

Questi non ciberà terra né peltro,
ma sapïenza, amore e virtute,
e sua nazion sarà tra feltro e feltro.
Di quella umile Italia fia salute
per cui morì la vergine Cammilla,
Eurialo e Turno e Niso di ferute.

Paradiso XI, 103-108

e per trovare a conversione acerba
troppo la gente e per non stare indarno,
redissi al frutto de l’italica erba,
nel crudo sasso intra Tevero e Arno
da Cristo prese l’ultimo sigillo,
che le sue membra due anni portarno.

 

SI UNANIMES OMNES … PRO YTALIA NOSTRA … VIRILITER PROPUGNETIS

(ex Epistola XI)

Queste parole, indirizzate nel 1314 ai Cardinali italiani riuniti nel conclave di Carpentras, quando la gravità del momento riguardava la Chiesa, l’Italia e il mondo, sono, nell’ora presente della prova e della sofferenza per la nostra Nazione, un invito a combattere uniti e a sperare in un futuro migliore. Dante molto sofferse, spese per la sua patria vita e intelletto affinché l’ “italica erba”, cara a san Francesco, tornasse a verdeggiare e a dare frutti quale “giardin de lo imperio”; fu profeta del rinnovamento universale. Il modo migliore per onorarlo è, come scrisse Giuseppe Mazzini, apprendere da lui “come si serva alla terra natìa, finché l’oprare non è vietato; come si viva nella sciagura”.

 

[collegamenti ipertestuali: es. Lectura super Apocalipsim]

1. La missione di Francesco e Domenico nell’Apocalisse moderna

■ I canti XI e XII del Paradiso nei quali, con reciproca e infiammata cortesia, Tommaso d’Aquino e Bonaventura tessono l’elogio dei fondatori dell’altro Ordine, Francesco e Domenico, riprovando al contempo la decadenza del proprio, contengono, come avviene in tutta la Commedia, parole-chiave che rinviano alla Lectura super Apocalipsim di Pietro di Giovanni Olivi. Incardinate nel senso letterale, parole che sono segni di dottrina inseriscono persone reali nella storia dei disegni provvidenziali, espressa dall’Apocalisse e dalla sua esegesi. “Divina voluntas per signa querenda est”, scriveva, quasi contemporaneamente, Dante nella Monarchia (II, ii, 8).
Il realismo dantesco, tanto caro alla critica novecentista, fa sì che “l’altro mondo è reso sensibile e leggibile con le forme del nostro mondo” [1] ma, armonizzando “e cielo e terra”, nel “poema sacro” le forme del nostro mondo sono inserite in un processo storico che manifesta i segni della volontà divina. Questa storia universale della salvezza è contenuta nella Lectura super Apocalipsim dell’Olivi.
Per questo nella narrazione della vita di Francesco e Domenico la missione prevale sulla persona, come osservava Erich Auerbach, la concezione generale sui singoli fatti o aneddoti, dei quali invece abbondano altre fonti, come ad esempio il Sacrum Commercium [2]. Qualcosa di simile era già avvenuto nella Vita Nova. Povero di riferimenti precisi a persone e luoghi [3], il “libello” giovanile non è un libro devozionale né un trattato sulla contemplazione, ma una storia reale, quella di Beatrice e di Dante, assurta a storia sacra della salvezza collettiva.

■ Quanto nella Lectura è concentrato su Francesco e il suo Ordine, viene da Dante, che aggiorna l’Olivi secondo i propri intenti, diffuso globalmente sull’intero mondo umano con le sue nuove esigenze legate alla lingua volgare, alla filosofia, al regime politico; nella storia dei segni divini entrano gli autori classici.
Dall’esame delle tabelle sinottiche, si noterà come a un medesimo luogo esegetico della Lectura conducono, tramite la compresenza delle parole, più luoghi della Commedia. Per spiegare i significati spirituali dei versi di Paradiso XI e XII si dovrà fare riferimento anche ad altri canti, più o meno numerosi, del poema. Ciò significa che la medesima esegesi di un passo dell’Apocalisse è stata utilizzata in momenti diversi della stesura del poema.
La persistenza di un “panno” – cioè di un altro testo da cui trarre i significati spirituali del poema, materialmente elaborati attraverso le parole – è servita a mantenere l’unità e la coerenza interna dell’ordito, della “gonna”, per usare l’immagine di san Bernardo a Par. XXXII, 139-141. Che il poema sia stato pubblicato per gruppi di canti, non più modificabili, oppure per cantiche riviste, sempre stava innanzi all’autore la medesima esegesi teologica con le innumerevoli possibilità di sviluppare variazioni tematiche.
Da un punto di vista dei significati spirituali, il tessuto di fondo consente di estendere le prerogative di Cristo o dei vari angeli o uomini angelici a Lui riconducibili. L’esegesi dell’angelo del sesto sigillo, che sale da oriente (Ap 7, 2), la si può ritrovare appropriata a Dante nella salita del “dilettoso monte”, o a Virgilio che rimuove gli impedimenti posti dalla lupa e dagli antichi demoni, o a Beatrice nel suo apparire nell’Eden, o infine dove sarebbe più naturale trovarla secondo gli intenti di Olivi, cioè nell’elogio di Francesco tessuto da Tommaso d’Aquino nel cielo del Sole. Non solo, anche Domenico se ne fregia, e così si dica dell’altro grande angelo apocalittico, che al suono della sesta tromba ha la faccia come il sole (Ap 10, 1-3).
Sullo stesso “panno”, dunque, è tessuta la “gonna” di Francesco e Domenico [4]. Si può pensare che Dante nutra maggiori simpatie per Francesco [5]. Di fatto egli ha scelto come canovaccio del suo poema un’opera francescana, ma bisogna dire che non poteva trovare qualcosa di simile nell’altro campo, e che il rapporto fra la Lectura e la Commedia passò per una profonda metamorfosi del commento apocalittico oliviano, segnandone l’uscita dalla cerchia dei Frati Minori verso il secolo umano. A questo va aggiunta la nostra sensibilità moderna, poco incline a sentire il valore della crudezza  di Domenico, che si mosse “quasi torrente ch’alta vena preme” contro l’eresia albigese.

■  Scriveva Auerbach sulla capacità di Dante nel formare un pubblico che non esisteva ancora:

Il comune patrimonio moderno cristiano ed europeo, il cui organo per tanto tempo era stato il latino, cominciava allora a rivelarsi come un’unità in una nuova scissione nazionale. Ma quel patrimonio comune aveva, come sua essenza più intima e sua proprietà più cara e più peculiare, la storia umanissima dell’incarnazione e della passione di Cristo; e questa storia era attorniata da tante altre storie, che la annunciavano prefigurandola o la confermavano imitandola [6].

Il latino era una lingua per pochi, non bastava più per tutte le necessità espressive: il latino dell’esegesi è vicino al volgare; a questo latino non aulico rinviano i versi del poema. Secondo Étienne Gilson “[…] nessun linguaggio è a Dante più familiare di quello della Scrittura” [7]. Si può precisare che nessun linguaggio è più familiare al volgare di Dante del latino dell’esegesi scritturale. Si tratta del sermo humilis il quale, come affermò Auerbach, “insegna le profondità della vita ai semplici” [8]. È la favella “soave e piana” con la quale Beatrice, umiliatasi a scendere all’“uscio d’i morti”, si rivolge “con angelica voce” all’alta tragedia figurata in Virgilio (Inf. II, 55-57). In questo volgare, nuova lingua universale elaborata sull’umile latino dell’esegesi, un pubblico specifico, quello degli Spirituali francescani votati alla riforma della Chiesa e alla conversione universale a Cristo, avrebbe letto la vita sommamente cristiforme di Francesco e Domenico, e nello stesso tempo la memoria sarebbe stata indirizzata alla dottrina apocalittica contenuta nel loro libro-vessillo alla quale il “poverel di Dio” e il “santo atleta” fornivano “e piedi e mano” (cfr. Par. IV, 43-45).

■ La storia della Chiesa, secondo Olivi, segue i princìpi della propagazione naturale. La Chiesa è come un individuo che cresce e si sviluppa nei suoi sette periodi (status). Al primo, apostolico periodo, succede il secondo dei martiri; poi, al tempo di Giustiniano, il terzo stato dei dottori che confutano con l’intelletto le eresie concorre con il quarto stato degli affettuosi anacoreti devoti al pasto eucaristico, alti per la contemplazione ma anche attivi come reggitori delle genti; a partire da Carlo Magno subentra il quinto stato aperto alla vita associata delle moltitudini, bello nel principio ma poi corrottosi fino a trasformare quasi tutta la Chiesa in una nuova Babilonia; la riforma interviene, a partire da Francesco, con il cristiforme sesto stato, fino alla sconfitta dell’Anticristo; subentra infine il silenzio e la quiete del pacifico settimo stato. Gli stati sono interconnessi fra loro per concurrentia al modo dell’umana generazione: il periodo che segue inizia prima della fine di quello che precede come il feto si forma e si nutre nell’utero materno prima di nascere e come un fanciullo viene educato nella casa del padre prima di diventarne l’erede. La storia è segnata da tre momenti di novità corrispondenti ai tre avventi di Cristo: nella carne, nello Spirito – corrisponde al sesto stato della Chiesa -, nel giudizio finale.
L’intenso travaso semantico dalla Lectura nella Commedia si accompagna a un fatto strutturale. Il poema mostra un ordine interno diverso da quello che appare al lettore: il viaggio di Dante ha un andamento di ciclici settenari, che corrispondono ai sette stati della storia della Chiesa, cioè alle categorie con cui Olivi organizza la materia esegetica. È un ordine registrabile per zone progressive del poema dove prevale la semantica riferibile a un singolo stato, ordine dirompente i confini letterali stabiliti dai canti e da tutte le divisioni materiali per cerchi, gironi, cieli. Ogni stato, che ha differenti inizi, è concatenato per concurrentia, come le maglie di un’armatura, con quello che precede e con quello che segue. Ciascuno stato ha in sé una grande ricchezza di motivi e contiene inoltre temi di tutti gli altri stati, consentendo innumerevoli intrecci e variazioni (cfr. Appendice).

■ La Lectura portava al sommo l’escatologismo il quale, per citare Arsenio Frugoni, “oltre che ideologia di lotta e di riforma del gruppo spirituale, era anche un vero e proprio sentimento storico […] una tensione di rinnovamento, una ansia di salvezza, che nel 1300, l’anno centenario della Natività, aveva trovato come una attivazione, in un senso di pienezza dei tempi, cui doveva corrispondere un fatto, un accadere meraviglioso e nuovo” [9].
Nel sesto periodo (status) della storia della Chiesa – corrispondente alla terza età di Gioacchino da Fiore – si verifica un secondo avvento di Cristo, non come il primo nella carne e molto prima del terzo, che sarà nel giudizio finale, ma nello Spirito, cioè nei suoi discepoli spirituali. I segni della divina provvidenza sono pervenuti fino ai tempi moderni (il sesto stato), nei quali sta già operando una palingenesi nelle coscienze che porterà a un novum saeculum. Per quanto Olivi sia molto cauto nell’uso degli autori pagani, c’è una perfetta concordanza spirituale, e anche letterale, fra quanto afferma di questa renovatio e la quarta egloga virgiliana. In questa età rinnovata per lo Spirito di Cristo, tanto attesa come quella augustea, una rivoluzione interiore viene compiuta con la parola che converte e rompe la durezza dei cuori, che l’interno dettatore spira nei predicatori aprendo la loro volontà al dire. Su questa età ‘sesta’ ricade tutta la sapienza e la malizia del passato. Se finora Cristo, in quanto uomo, ha insegnato con la voce esteriore, e in quanto Verbo con la luce intellettuale, d’ora in poi insegnerà anche tramite il gusto d’amore proprio del suo Spirito. Alla preparazione della dottrina esteriore subentra il dettato interiore.
Con Francesco, angelo del sesto sigillo nato ad Assisi-Oriente, nella città del Sole di Isaia 19, 18 (Ap 7, 2), inizia il sesto stato (Par. XI, 52-54); stato di apertura, vi partecipa anche Domenico, nato ad Occidente, ma “in quella parte ove surge ad aprire / Zefiro dolce le novelle fronde / di che si vede Europa rivestire” (Par. XII, 46-48). Entrambi operano nel XIII secolo, che viene misticamente designato con la lettera U, perché al suo termine Babylon, la Chiesa carnale, spirerà. Il sesto periodo della Chiesa porta al livello più alto le qualità degli stati precedenti. Francesco e Domenico concorrono, con i loro Ordini, come terzo e quarto stato, quello dei dottori che confutano le eresie con la spada e quello dei contemplativi dalla santa e devota vita dedita al “pastus” eucaristico: sono due stati di solare sapienza che concorrono con mutua cortesia a infiammare il mezzogiorno dell’universo. Così Tommaso d’Aquino e Bonaventura recitano con “infiammata cortesia”, nel cielo del Sole, l’elogio del fondatore dell’altro Ordine. Francesco e Domenico sono la sublimazione dei “due soli”, il papa (il “pastorale”) e l’imperatore (la “spada”), rimpianti da Marco Lombardo a Purg. XVI, 106-114. Il sesto stato, nei suoi inizi, concorre ancora con il quinto, nel quale è preminente la pietas, recata all’acme dalla “viscerosa caritas” di Francesco; ad essa non è estraneo Domenico, “benigno a’ suoi”.
Profeta del sesto stato fu Gioacchino da Fiore, che lo previde concependolo in spirito nella sua terza età. Anche l’abate calabrese si manifesta nel cielo del Sole, presentato da Bonaventura. Nel Paradiso trionfano i temi del sesto stato, che coincide (insieme con il settimo) con l’età dello Spirito di Gioacchino. Questa è già operante e non profeticamente futura; tutti i beati, in modo differenziato, vi partecipano, anche Francesco e Domenico.

■ Sul senso allegorico, nel Convivio Dante aveva avvisato che “li teologi questo senso prendono altrimenti che li poeti”, anche se entrambi considerano il senso letterale precedente gli altri sensi, in quello inchiusi (Cv II, i, 2-15). Nella Commedia l’allegoria non è più “una veritade ascosa sotto bella menzogna”, cioè sotto la lettera della poesia, bensì corrisponde al teologico vedere le vicende di Cristo e della Chiesa come prefigurate nei fatti e nei detti dei profeti dell’Antico Testamento. Per i teologi, ha valore storico non solo la lettera, che non può essere quindi una finzione, lo ha anche l’allegoria con riferimento alla storia antica, ‘figura’ della nuova [10]. Così intende Tommaso d’Aquino delle metafore nella Scrittura; esse non sono esornative e dilettevoli come nei poeti, ma necessarie e talora opportunamente occulte [11]. Elia fu figura di Cristo nel suo primo avvento nella carne; prefigurò Francesco (rapito come il profeta sul carro) nel secondo avvento nello Spirito; Francesco e i suoi discepoli spirituali operano nel sesto stato, quello più conforme a Cristo. L’esegesi insiste sempre su Francesco, Dante vi accoppia Domenico, il quale “ben parve messo e famigliar di Cristo”: Povertà, sposata a Francesco, fu per il primo amore per il “santo atleta” di Calaruega (Par. XII, 73-75).

■ L’angelo del sesto sigillo (Ap 7, 2) rimuove un impedimento (i quattro angeli nocivi che tengono i quattro venti: Ap 7, 1), dopo di che il segno è posto sulla fronte, non vergognosa e gravata di viltà ma liberamente magnanima, degli eletti amici di Dio, difensori della fede fino al martirio, da Lui conosciuti per nome e ascritti alla più alta milizia dei baroni, dei decurioni, dei cavalieri che si distingue da quella volgare dei fanti. I cavalieri, configurati in Cristo crocifisso, designati dai 144.000 segnati eletti dalle dodici tribù d’Israele (Ap 7, 3-6), guidano la “turba magna, quam dinumerare nemo poterat” dei fedeli al trono dell’Agnello attraverso le grandi tribolazioni (Ap 7, 13-17).
La tematica riguarda per Olivi principalmente l’Ordine dei Minori, ma Dante diffonde questa sacra sinfonia militare, con cellule semantiche, sull’intero poema. Quanto Bonaventura dice dell’esercito di Cristo, che “dietro a la ’nsegna / si movea tardo, sospeccioso e raro”, nuovamente riarmato con i due campioni Francesco e Domenico, veri baroni, decurioni e cavalieri che guidano i fanti, estende all’intera Chiesa motivi da Olivi appropriati al proprio Ordine, il cui spirito era “tepefactus et quasi extinctus seu consopitus” (Ap 7, 3). È questa, come sostiene Raoul Manselli,

una concezione ecclesiologica che non si può davvero ricondurre a quella, in fondo abbastanza soddisfatta di sé, che aveva la gerarchia. Bisogna invece collocarla in quella concezione critica della Chiesa ch’è propria d’una parte – forse la più viva – del Francescanesimo, che aveva dalle concezioni gioachimitiche ricavato le basi per una inquadratura storica provvidenziale e di S. Francesco e di tutto il movimento minoritico [12].

La “signatio” sulla fronte è indice di magnanimità – la “magnanimis libertas” di confessare e difendere pubblicamente la fede -, che si oppone alla vile pusillanimità. Per essa Francesco non mostrò “viltà di cuor” per le sue umili origini, ma “regalmente” aprì a Innocenzo III la sua dura intenzione di vita, per averne il primo, verbale sigillo (Par. XI, 88-93). All’opposto agì “l’ombra di colui / che fece per viltade il gran rifiuto” (Inf. III, 59-60), cioè Celestino V, anch’egli di umili origini, ma che non seppe levarsi alla magnanimità dei segnati.

■ Al sesto stato, quello più conforme a Cristo, si addice il sacramento del matrimonio, designato dalle nozze dell’Agnello con la Chiesa di cui si dice ad Ap 19, 7 (prologo, Notabile XIII). Il tema è presente in modo esplicito e insistente nel cielo del Sole (Par. X, 139-141; XI, 31-33, 84; XII, 42, 61-63). La sublime immagine della sposa che va verso lo sposo racchiude tutta la storia universale successiva a Cristo [13] e segna i due campioni del sesto stato. Francesco si unisce a Povertà, Domenico alla Fede. Strano matrimonio, tuttavia, quello di Francesco. Dante non parla dello svestimento e della rinuncia all’eredità, come fanno le fonti. Sottolinea invece l’aspetto odioso e abietto della sposa (“dispetta e scura”), che mostra le qualità della morte (“a cui, come a la morte, / la porta del piacer nessun diserra … sicura … costante … feroce … ella con Cristo pianse in su la croce”); per averla lo sposo “in guerra del padre corse”; i due sono “amanti” prima che sposi; i primi compagni corrono anch’essi, osserva Auerbach, in amoroso inseguimento della donna di un altro. Povertà è la loro “pace”, l’apice della contemplazione che si consegue nella Gerusalemme celeste, interpretata come “visio pacis”. La poesia trascorre dal registro sublime a quello grottesco [14]. Non a caso i versi esprimono la più alta conformità con Cristo, quella della famiglia francescana, per mezzo di una metamorfosi in positivo dell’esegesi di quanto possa essere da Lui più difforme, quella dei tre spiriti immondi al modo delle rane, messi dell’Anticristo e famigliari dei demoni (Ap 16, 13-14).

■ Il frate e il poeta hanno la stessa idea della Chiesa, esemplata sulla persona e sulla vita di Cristo:
 

LSA, cap. VI, Ap 6, 12

Sexta (ratio) est quia sicut Christi persona et vita fuit exemplar totius ecclesie future, sic decuit quod prima pars huius ordinis usque ad excidium Babilonis esset typica imago totius partis sequentis, ut scilicet principium corresponderet principio et medium medio et terminus termino.

Monarchia, III, xiv, 3

Forma autem Ecclesie nichil aliud est quam vita Cristi, tam in dictis quam in factis comprehensa: vita enim ipsius ydea fuit et exemplar militantis Ecclesie.

Il primo verso del “poema sacro” – “Nel mezzo del cammin di nostra vita” – non è semplice indicazione anagrafica dei trentacinque anni di età dell’autore; è testimonianza resa a Cristo mediatore, la cui vita deve essere dalla nostra perfettamente imitata e partecipata.
Il principio della povertà, che Olivi applica all’Ordine francescano, è da Dante esteso non solo a tutta la Chiesa ma all’insieme dei fedeli: Ugo Capeto loda per la povertà Maria insieme al buon Fabrizio; “poverel di Dio” è Francesco, ma anche Romeo di Villanova si dipartì povero dalla corte provenzale. Il pescatore Amiclate, imperturbabile al suono della voce di Cesare, fu figura antica di Francesco.
La povertà, il primo dei consigli dati da Cristo, è fondamento del pensiero politico di Dante. Gli attributi del voto evangelico, l’“altissima paupertas” delineata dall’Olivi, appaiono applicabili anche al Monarca.

■ L’immagine dell’Italia, “giardin de lo ’mperio” fattosi “diserto” per incuria imperiale (Purg. VI, 105), avrebbe condotto un lettore spirituale alla Giudea, già terra eletta per dedicarsi al culto divino, separata dalle acque e fiorente di erbe e frutti ma poi inaridita (Ap 8, 7). La stessa esegesi gli sarebbe occorsa leggendo di Francesco che, per trovare troppo acerba alla conversione la gente saracena, “redissi al frutto de l’italica erba” (Par. XI, 105). L’ “umile Italia” (Inf. I, 106), nuovo regno di Giuda soggetto a tante fortune, la “misera Ytalia” di cui scriveva Salimbene [15], si convertirà da ultimo, come lo sarà la Giudea, umilmente condotta a Cristo. Leggendo “del bel paese là dove ’l suona” (Inf. XXXIII, 80), quel lettore non avrebbe mancato di concordare mentalmente la particella affermativa con l’«“Amen”, id est vere sic sit et fiat» cantato dai seniori e dai quattro esseri viventi dinanzi al trono divino (Ap 7, 12).
Se Dante guarda a Francesco “come l’incarnazione del genio religioso, nello stesso tempo civile e umano, del quale l’Italia recava in sé il germe” [16], anch’egli, come il “poverel di Dio”, porta su di sé dei sigilli che lo rendono cristiforme. Sale la montagna del purgatorio con segnate sulla fronte le sette “P”, che sono “piaghe”, come l’angelo del sesto sigillo, che Olivi identifica con Francesco, sale da Oriente: «“habentem signum Dei vivi”, signum scilicet plagarum Christi crucifixi».

■ È possibile dare una risposta alla fondamentale obiezione in merito ai rapporti fra Dante e gli Spirituali francescani: come poté seguirli tanto da concepire per loro un viaggio dottrinale interiore, considerato il giudizio negativo che Bonaventura dà di Ubertino da Casale, loro maggior punto di riferimento, a Par. XII, 124-126? La risposta sta nel separare gli opposti estremismi riprovati da Bonaventura – coartare la Regola da parte del rigorista Ubertino oppure fuggirla da parte del rilassato Matteo d’Acquasparta – dalla sua vera interpretazione data dall’Olivi. Nell’ultima fase della stesura del poema l’autore – “homme d’ordre et de gouvernement”, come lo definiva Paul Sabatier [17] – volle con nettezza distinguersi dall’estremista Ubertino da Casale, che pure attorno al 1307, in un periodo nel quale la riforma della Chiesa era ancora possibile, fu probabilmente colui che gli diede in mano la Lectura super Apocalipsim perché la volgarizzasse nei suoi modi poetici [18]. Questo cambiamento intervenne dopo il Concilio di Vienne (1311-1312) e la “magna disceptatio” che lacerò l’Ordine francescano fra i seguaci dell’una e dell’altra parte [19]. Alle parole di Bonaventura contro estremisti e rilassati nell’Ordine si potrebbe aggiungere che l’uno e l’altro estremo contrastano con gli insegnamenti di frate Pietro di Giovanni Olivi il quale, con salomonico equilibrio, condannò la rilassata gerarchia dell’Ordine ma pure si oppose all’estremismo degli Spirituali italiani. Il francescanesimo di Dante, come intuì Raoul Manselli, è quello di Olivi [20].

■ È bene chiarire il rapporto fra il commento apocalittico oliviano e le altre fonti, perché qualcuno non pensi che si voglia ridurre Dante a vir unius libri. La Lectura super Apocalipsim non è una fonte, bensì il libro della storia delle illuminazioni sapienziali con cui tutto deve concordare. Con l’esegesi dell’ultimo libro canonico, esposta in una teologia della storia che comprende per settenari tutta la Scrittura, la quale a sua volta è forma, esempio e fine di ogni scienza, concorda ogni conoscenza, ogni esperienza, ogni soluzione indipendente data a questioni dottrinali. Virgilio, Ovidio o Lucano, Boezio, Aristotele, Alberto Magno o Tommaso d’Aquino, la stessa Scrittura in quanto tale, le più svariate esperienze poetiche o le conoscenze di astronomia sono, nel poema, tutte fonti ordinate alla Lectura. Il principio vale anche per i canti di Francesco e di Domenico, dove fonti come Ubertino da Casale o il Sacrum Commercium non sono escluse, ma incastonate nelle maglie del commento apocalittico oliviano.

■ Chi intenda approfondire lo stato della ricerca può consultare su questo sito:

  • Amore e vita di poeta. La Vita Nova e l’imitazione di Cristo, dove si mostra come l’incontro fra Dante e le opere esegetiche dell’Olivi (in particolare l’Expositio in Canticum Canticorum e la Lectura super Lucam) risalga a prima dell’esilio, al tempo dell’uscita delle “nove rime”.

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[1] G. INGLESE, in Dante Alighieri, Inferno. Revisione del testo e commento, Roma 2007, p. 9.

[2] E. AUERBACH, Francesco d’Assisi nella “Commedia” (1944), in ID., Studi su Dante, trad. it., Milano 19744, pp. 221-235: 231-232.

[3] M. SANTAGATA, L’io e il mondo. Un’interpretazione di Dante, Bologna 2011, p. 172: “[…] da questo libro nomi di persona e toponimi sono banditi”.

[4] Cfr. L. ROSSI, Canto XI, in Lectura Dantis Turicensis, a cura di G. GÜNTERT e M. PICONE, III, Paradiso, Firenze 2002, pp. 167-179: 168: “Entrambi i testi [i canti XI e XII] si fondano […] su un medesimo tessuto metaforico: quasi un gergo per iniziati”.

[5] F. BAUSI, Dante fra scienza e sapienza. Esegesi del canto XII del Paradiso, Firenze 2009 («Saggi di Lettere italiane», LXVI), pp. 27-36. Sui rapporti fra Dante e i Francescani cfr. N. HAVELY, Dante and the Franciscans. Poverty and the Papacy in the ‘Commedia’, Cambridge University Press, 2004; Dante and the Franciscans, edited by S. CASCIANI, Leiden-Boston 2006 (The Medieval Franciscans, 3).

[6] E. AUERBACH, Lingua letteraria e pubblico nella tarda antichità latina e nel Medioevo, Milano 19743, pp. 282-283, 287-288.

[7] É. GILSON, Dante e  la Filosofia (1972), trad. it., Milano, 19962 (Biblioteca di cultura medievale), pp. 74-75. Dante, infatti, “[…] disponeva del tesoro della lingua e della letteratura latina alla quale la parlata fiorentina era singolarmente più vicina di quella di Parigi” [É. GILSON, Dante e Beatrice. Saggi danteschi (1974), a cura di B. GARAVELLI, Milano, 2004, p. 105].

[8] E. AUERBACH, Sacrae Scripturae sermo humilis (1941), in ID., Studi su Dante (cfr. nt. 2), pp. 165-173: 173.

[9] A. FRUGONI, La Roma di Dante, tra il tempo e l’eterno, in ID., Pellegrini a Roma nel 1300. Cronache del primo Giubileo, presentazione di C. FRUGONI, a cura e con Introduzione di F. ACCROCCA, Casale Monferrato 1999, pp. 102-103.

[10] Cfr. E. AUERBACH, Figura (1938), in ID., Studi su Dante (cfr. nt. 2), pp. 174-221, dove l’interpretazione tipologica dell’Antico Testamento è dimostrata decisiva per Dante.

[11] TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, I, qu. I, a. 9: “Convenit etiam sacrae Scripturae, quae communiter omnibus proponitur (secundum illud ad Rom. I, [14]: sapientibus et insipientibus debitor sum), ut spiritualia sub similitudinibus corporalium proponantur; ut saltem vel sic rudes eam capiant, qui ad intelligibilia secundum se capienda non sunt idonei. Ad primum ergo dicendum quod poeta utitur metaphoris propter repraesentationem: repraesentatio enim naturaliter homini delectabilis est. Sed sacra doctrina utitur metaphoris propter necessitatem et utilitatem, ut dictum est. Ad secundum dicendum quod radius divinae revelationis non destruitur propter figuras sensibiles quibus circumvelatur, ut dicit Dionysius, sed remanet in sua veritate; ut mentes quibus fit revelatio, non permittat in similitudinibus permanere, sed elevet eas ad cognitionem intelligibilium; et per eos quibus revelatio facta est, alii etiam circa haec instruantur. Unde ea quae in uno loco Scripturae traduntur sub metaphoris, in aliis locis expressius exponuntur. Et ipsa etiam occultatio figurarum utilis est, ad exercitium studiosorum, et contra irrisiones infidelium, de quibus dicitur, Matth. 7, [6]: nolite sanctum dare canibus”.

[12] R. MANSELLI, Il canto XII del Paradiso, in Nuove letture dantesche, VI, Firenze 1973, pp. 107-128: 111, ripubblicato in ID., Da Gioacchino da Fiore a Cristoforo Colombo. Studi sul francescanesimo spirituale, sull’ecclesiologia e sull’escatologisno bassomedievali, introduzione e cura di P. VIAN, Roma 1997 (Nuovi studi storici, 36), pp. 213-230: 216.

[13] AUERBACH, Francesco d’Assisi (cfr. nt. 2), p. 227.

[14] Ibid., pp. 228-230.

[15] SALIMBENE De ADAM, Cronica, ed. G. SCALIA, I, Bari 1966 (Scrittori d’Italia, 232), pp. 299-301 (a. 1247).

[16] P. SABATIER, Saint François d’Assise et Dante. Simples notes à propos des sources qui ont inspiré l’allégorie des noces mystiques du Saint avec la Pauvreté, in Dante. Mélanges de critique et d’érudition françaises publiés à l’occasion du VIe Centenaire de la mort du Poète MCCCXXI MCMXXI, Paris 1921 (Union Intellectuelle Franco-Italienne), pp. 23-35: 25.

[17] Ibid., p. 24.

[18] Nel 1307, l’anno in cui Napoleone Orsini (insieme al suo cappellano Ubertino da Casale) si adoperò per il rientro a Firenze dei Guelfi bianchi esiliati [cfr. C. M. MARTÍNEZ RUIZ, De la dramatización de los acontecimientos de la Pascua a la Cristología: el cuarto libro del Arbor Vitae Crucifixae Iesu de Ubertino de Casale, Roma 2000 (Studia Antoniana, 41), p. 240], Dante si trovava tra la Lunigiana (nell’ottobre 1306 era procuratore di pace presso il vescovo di Luni per conto dei suoi ospiti Malaspina, e anche questa pace rafforzava la possibilità di un rientro) e il Casentino, forse ospite del conte Guido di Batifolle. Fu un anno decisivo, come riconosciuto dal Petrocchi: “Lo spazio bianco che intercorre tra la chiosa al commiato di Le dolci rime [la canzone commentata nel IV trattato del Convivio] e i primi versi dell’Inferno, è enorme quanto al salto di qualità, al timbro espressivo, alle scansioni passionali, alla presa in carico di un materiale smisuratamente più gravoso, ma fu forse bruciato in un tempo rapidissimo, se non si vuol dar credito a ipotesi più affascinante per palati moderni: che le due fatiche, finale l’una e iniziale l’altra, si siano addirittura accavallate per un lasso di tempo che sono i mesi intermedi dell’anno 1307. Peraltro il problema non può essere ridotto meramente a un mutamento di programma letterario; occorre cercare qualche motivazione più profonda, che si ricolleghi a eventi della spiritualità di Dante, poiché in questo settore forse è dato cogliere il fenomeno più nuovo che presenti l’incipit dell’Inferno rispetto alle battute finali dei due trattati. La rivoluzione poetica e stilistica in nulla, d’altronde, può contrastare un totale commovimento etico-religioso, quale ben oltre la visione allegorica della Vita Nuova irrompe nelle prime terzine dell’Inferno. […] Il mondo del profetismo gioachimita e celestiniano del Duecento crea nuovi temi e interrogativi all’animo del poeta; l’uomo-Dante si ritrae e analizza nelle sue esitazioni morali e nel suo bisogno di sacrificio e di redenzione, con una forte percezione del peccato che l’ha macchiato e con ardente volontà di purificarsi. D’ora in poi la vita politica e quella intellettuale dell’Alighieri s’identificheranno totalmente nel titanico sforzo di portare avanti, canto per canto, il sogno mistico della ‘divina’ Commedia” [G. PETROCCHI, Biografia. Attività politica e letteraria, in Enciclopedia Dantesca, Roma 1984(Istituto della Enciclopedia Italiana), Appendice, pp. 34-35, 41].

[19] Cfr. B. NARDI, Il canto di S. Francesco (Paradiso, XI), in “L’Alighieri”, V (1964), 2, pp. 9-20, ripubblicato in ID., «Lecturae» e altri studi danteschi, a cura di R. ABARDO, Firenze 1990 (Quaderni degli Studi danteschi, 6), pp. 173-184: 176: “Di tutte queste discettazioni ideologiche Dante ha avuto il buon senso di far piazza pulita, nel momento in cui dava vita poetica a questo campione di Cristo che la povertà insegnò ad amare non con parole e con astruse e lambiccate ideologie, ma con l’esempio di una vita povera sinceramente accettata e cristianamente vissuta, a quotidiano contatto con la povera gente del popolo che della società cristiana è sempre stata la parte migliore, più sincera e più sana”.

[20] MANSELLI, Il canto XII del Paradiso (cfr. nt. 12), pp. 126-127 [228-229].

 


Abbreviazioni e avvertenze

Ap : APOCALYPSIS IOHANNIS.

LSA : PIETRO DI GIOVANNI OLIVI, Lectura super Apocalipsim.

Concordia : JOACHIM VON FIORE, Concordia Novi ac Veteris Testamenti. Herausgegeben von A. PATSCHOVSKY, Wiesbaden 2017 (Monumenta Germaniae Historica. Quellen zur Geistesgeschichte des  Mittelalters, 28. Band), Teil 2 (lib. I-IV), Teil 3 (lib. V).

Expositio : GIOACCHINO DA FIORE, Expositio in Apocalypsim, in Edibus Francisci Bindoni ac Maphei Pasini, Venetiis 1527, ristampa anastatica Minerva, Frankfurt a. M. 1964.

Olivi opera spesso una sintesi del testo di Gioacchino da Fiore. Le « » precedono e chiudono un’effettiva citazione. Diversamente, viene posto un asterisco (*) o una nota in apice al termine della parte riferibile a Gioacchino.

In Ap : RICCARDO DI SAN VITTORE, In Apocalypsim libri septem, PL 196, coll. 683-888.

Tutte le citazioni della Lectura super Apocalipsim presenti nei saggi o negli articoli pubblicati su questo sito sono tratte dalla trascrizione, corredata di note e indici, del ms. Paris, Bibliothèque nationale de France, lat. 713, a disposizione fin dal 2009 sul sito medesimo. I passi scritturali ai quali si riferisce l’esegesi sono in tondo compresi tra “ ”; per le fonti diverse da Gioacchino da Fiore e Riccardo di San Vittore si rinvia all’edizione in rete. Non viene presa in considerazione l’edizione critica a cura di W. LEWIS (Franciscan Institute Publications, St. Bonaventure – New York, 2015) per le problematiche da essa poste, che sono discusse in A. FORNI – P. VIAN, A proposito dell’edizione di Warren Lewis della Lectura super Apocalipsim di Pietro di Giovanni Olivi. Alcune osservazioni, in “Archivum Franciscanum Historicum”, 109 (2016), pp. 99-161.
Il testo della Commedia citato è in Dante Alighieri, La Commedia secondo l’antica vulgata, a cura di G. PETROCCHI, Firenze 1994.

2. Angeli, uomini e prìncipi

■ Le perfezioni che il libro dell’Apocalisse attribuisce a Cristo possono essere appropriate per analogia alle persone, non solo ai prelati, ma anche alle membra di cui Cristo è il capo mistico, secondo i loro uffici: gli occhi sono i contemplativi, i piedi gli attivi, la bocca o la voce i dottori o i giudici. Ciò vale anche per le qualità dei vari angeli descritti nell’Apocalisse, ai quali Cristo presiede ordinando però sotto di sé degli angelici homines (Ap 10, 1). La posizione di Olivi, per cui l’angelo condivide con l’uomo una composizione ilomorfica, in quanto dotato come l’anima dell’uomo di una materia spirituale [1], avvicina molto angeli e uomini. Il principio vale anche per i seniori assistenti al soglio divino in principio della seconda visione, che possono designare i più sapienti in ogni tempo (Ap 4, 4). Allo stesso modo, le membra della sposa e dello sposo del Cantico dei Cantici possono essere applicate “ad diversas personas diversorum statuum vel officiorum”. Così avviene per i due testimoni di Ap 11, 3. Dante non condivide la tesi oliviana di una materia spiritualis comune agli angeli e agli uomini (per lui le intelligenze angeliche sono pura forma: cfr. Par. XXIX, 31-36). Tuttavia diffonde, come inteso dall’esegeta francescano, le qualità di Cristo, degli angeli e degli altri personaggi dell’Apocalisse sull’intero universo. Da un “panno” strettamente francescano è dunque fatta la “gonna” per più soggetti.

■ Elia ed Enoch sono, nel capitolo undecimo dell’Apocalisse (LSA, Ap 11, 3-13), i due testimoni dati per compiere la loro missione di profeti, al termine della quale vengono uccisi in apparenza dalla bestia che sale dall’abisso per resuscitare dopo tre giorni e mezzo e ascendere al cielo sotto lo sguardo dei nemici, mentre un grande terremoto distrugge un decimo della città, fa perire settemila persone e costringe gli altri a dare gloria a Dio.
Contro Gioacchino da Fiore, che identifica i testimoni con Elia e Mosè, i quali apparvero con Cristo sul monte della trasfigurazione, Olivi si schiera accanto ad Agostino, Gregorio Magno, Riccardo di San Vittore e Bonaventura, secondo i quali i due sono Elia ed Enoch. Di Enoch è scritto, nel Genesi  (5, 22-24) e nella Lettera agli Ebrei  (11, 5), che venne trasportato via, in modo da non vedere la morte. Di Mosè si sa invece che morì, e non è logico che ora risorga per morire di nuovo per mano della bestia, mentre si può dire che Enoch sia stato riservato per qualche compito solenne per la fede e per la Chiesa, assolto il quale possa poi morire. Accanto a Cristo trasfigurato sul monte apparve, accanto a Elia, Mosè perché i discepoli di Cristo erano nati dalla stirpe di Israele, e dunque a essi era più adatto, in quanto legislatore di somma autorità. Al tempo dell’Anticristo, al momento della conversione di tutto il mondo, accanto a Elia, adatto agli Ebrei perché della stirpe di Israele, nato sotto la legge mosaica, uomo evangelico il cui avvento è stato promesso dai profeti, dovrà comparire Enoch il quale, per essere stato contemporaneo di Adamo primo padre e padre di tutti i popoli nati da Noè dopo il diluvio, e per essere nato sotto la legge naturale, sarà molto più adatto per i Gentili da convertire, oltre che per gli stessi Ebrei. Gioacchino argomenta ancora che tra i segni in potere dei due testimoni ci sono il convertire l’acqua in sangue e il percuotere la terra con ogni sorta di piaga (Ap 11, 5-6), che sono attributi propri di Mosè, ma Olivi ribatte che ciò non toglie possano essere propri anche di Enoch. Gioacchino infine propone in subordine che i testimoni siano in realtà tre – Elia, Mosè e Enoch -, ma Olivi sottolinea che se in altri luoghi scritturali prevale il mistero trinitario, in questo caso, come in molti altri, la lettera conferma trattarsi di un mistero fondato sul numero due.
Elia ed Enoch hanno caratteristiche differenti. Così risulta dalla collazione di Ap 11, 3 (i due testimoni) con Ap 14, 14.17 (i due angeli con la falce, il primo simile al Figlio dell’uomo, l’altro uscente dal tempio che è in cielo). Elia è più dedito al governo e ai patimenti, come san Pietro; Enoch (oppure Mosè, secondo Gioacchino da Fiore, del quale è citata l’esegesi), come san Giovanni, alla contemplazione e alla pace. Il primo è ardente e feroce nello zelo contro i reprobi, il secondo più mite e soave nel raccogliere la messe degli eletti. Uno è occulto eremita che negli arcani del cielo imita la vita degli angeli e, allorché se ne distacca, scuote i cuori con il timore. L’altro rappresenta l’ordine di coloro che imitano la vita di Cristo ed è dato alle genti in modo manifesto per la loro utilità ed erudizione. Uno è fuoco ardente nell’amore e nello zelo divino, l’altro pioggia che riga la superficie terrestre nella perfezione della carità fraterna. Lo sdoppiamento ripete quanto detto a proposito dell’angelo del capitolo decimo, che ha la faccia come il sole (Ap 10, 1). A questi due testimoni Olivi aggiunge comunque un terzo elemento, l’ordine dei santi evangelici, rappresentati da Giovanni che riceve il libro e viene destinato a predicare ai popoli e alle genti e a misurare il tempio, ossia a governare la Chiesa (Ap 10, 11; 11, 1-2). Così Enoch designa la legge naturale, Elia quella mosaica e Giovanni il tempo della grazia.
Come avviene con l’angelo del sesto sigillo (Ap 7, 2) e con l’angelo che ha la faccia come il sole (Ap 10, 1-3) anche nel caso dei due testimoni i temi, nella trasformazione poetica, non vengono concentrati su un unico personaggio, ma variamente diffusi e appropriati. Se Elia, uomo evangelico ardente e feroce nel segare i reprobi vendemmiando, si avvicina al Veltro che caccerà la lupa e la rimetterà nell’inferno, Dante, che assume su di sé il compito di Giovanni e dell’ordine evangelico di predicare di nuovo ai popoli e alle genti (Ap 10, 11), ha almeno due prerogative proprie di Enoch, l’altro testimone. Come di costui è scritto, nel Genesi  (5, 24) e nella Lettera agli Ebrei  (11, 5), che venne trasportato via in modo da non vedere la morte, perché riservato ad alto officio alla fine dei tempi, così del poeta dice Virgilio a Catone: “Questi non vide mai l’ultima sera” (Purg. I, 58), essendogli stata riservata un’onorata impresa alla fine dei tempi. Enoch fu contemporaneo di Adamo, e Dante nel cielo delle stelle fisse incontra “l’anima prima / che la prima virtù creasse mai” (Par. XXVI, 80-142).
Dei due testimoni si dice (Ap 11, 3) che «“prophetabunt amicti saccis”, id est vestibus cilicinis vel asperis et pauperculis», a significare l’austerità della vita religiosa. Essi sono (Ap 11, 4) “due olive”, pingui di carità e ripieni dell’unzione divina e di soavità, “et duo candelabra lucentia” spandenti per tutta la Chiesa il lume della sapienza divina che portano in modo alto e preclaro, “in conspectu Domini terre stantes”, cioè assistono sempre Dio sia per la singolare contemplazione che per il servigio di una pronta obbedienza e ossequio. Secondo Gioacchino da Fiore, sia qui come in Zaccaria 4, 14 si dice di costoro che ‘stanno nel cospetto del Signore della terra’ perché sono venuti per questo, e andranno davanti al volto di Cristo per annunziare la venuta di un tempo nel quale è necessario che il Figlio di Dio regni su tutta la terra, cosicché gli uomini siano illuminati come da candelabri luminosi e il cuore degli eletti venga unto dalla grazia e dalla dottrina spirituale come da lampade colme di olio santo. Con il “Signore della terra” può essere anche designato l’Anticristo, che allora dominerà da usurpatore la terra e i terreni, di fronte al quale i due resisteranno con costanza ammonendolo da parte di Dio, come fecero Mosè e Aronne di fronte al Faraone e Pietro e Paolo di fronte a Nerone. Inoltre vengono detti stare nel cospetto del Signore come due candelabri luminosi o due luci stanno davanti a un signore o dinanzi all’altare di Dio uno a destra e l’altro a sinistra, o come due prìncipi e consiglieri che stanno e incedono uno a destra e uno a sinistra al cospetto di un gran re. Il loro insegnamento sarà così alto e umile da non poter piacere ai carnali, i quali non potranno gustarlo e, conseguentemente, neppure intenderlo. Con la loro dottrina e vita accenderanno gli avversari di invidia e di indignazione, cosicché non potranno apprezzarle e amarle, ma piuttosto disprezzarle e impugnarle. La loro virtù sarà efficace contro gli avversari, in quanto potranno operare segni e prodigi (Ap 11, 5-6).
Olivi osserva (Ap 10, 1) che alcuni (Riccardo di San Vittore) dicono che l’angelo dal volto solare (di cui si tratta nel capitolo X) deve essere Cristo perché solo a lui spetta aprire il libro, come è detto al capitolo quinto (Ap 5, 2-3). Non si nega, afferma il francescano, che sia lui il principale rivelatore del libro, in particolare in quanto è Dio che illumina interiormente le menti; nondimeno ordinò sotto di sé degli spiriti e degli uomini angelici per illuminare, come suoi ministri, gli esseri inferiori. Al modo con cui i sette angeli che suonano la tromba vanno interpretati come gli uomini angelici e i dottori e anche come gli spiriti angelici che presiedono ad essi, sebbene sia Cristo principalmente a insegnare tutte quelle cose significate col suono della tromba, così si deve intendere a proposito dell’angelo con la faccia come il sole.
Il testo di Olivi conduce a Par. XI, 35-36, dove si parla dei due prìncipi – Francesco e Domenico – ordinati dalla Provvidenza a guida della Chiesa. È da notare che se si collaziona il testo del capitolo X (Ap 10, 1) con quello del capitolo XI dove i due testimoni, Enoch ed Elia, sono definiti due candelabri luminosi che stanno al cospetto di Dio, come due prìncipi e consiglieri che stanno e incedono uno a destra e uno a sinistra al cospetto di un gran re (Ap 11, 4), si ritrovano complessivamente, tradotte dal latino in volgare, alcune parole contenute nei versi danteschi. Però il medesimo passo del capitolo X si accosta pure ad Inf. VII, 77-78, dove si dice che la Fortuna è “general ministra e duce” ordinata “a li splendor mondani”.

■ Francesco e Domenico, i “due prìncipi” dalla Provvidenza ordinati a guida della Chiesa, sono dunque assimilati ai due testimoni, Elia ed Enoch. Olivi assegna a Francesco la parte di Elia, apparso, come il profeta levatosi al cielo, trasfigurato nella luce del sole su un carro di fuoco. Non diversamente fa Ubertino da Casale nel quinto libro dell’Arbor vitae, che è probabile fonte di Dante per la celebre terzina:

 

Par. XI, 37-39

L’un fu tutto serafico in ardore;
l’altro per sapïenza in terra fue
di cherubica luce uno splendore.

UBERTINO DA CASALE, Arbor vitae crucifixae Iesu, V 3, (Venetiis 1485, rist. anast. a cura di C. T. Davis, Torino 1961, p. 421b).

Inter quos in typo Helie et Enoch, Franciscus et Dominicus singulariter claruerunt. Quorum primus seraphico calculo purgatus et ardore celico inflammatus totum mundum incendere videbatur. Secundus vero ut cherub extensus et protegens, lumine sapientiae clarus et verbo predicationis fecundus super mundi tenebras clarius radiavit.

In proposito sono da notare due aspetti.

  • In primo luogo, se nella terzina la citazione dell’Arbor vitae sembra probabile, essa concorda con l’esegesi della Lectura super Apocalipsim nei luoghi dove si distinguono i serafini dai cherubini (a partire da Ap 4, 8, dove si tratta delle ali piene di occhi dei quattro esseri viventi che circondano la sede divina descritta ad Ap 4, 4). L’esegesi oliviana offre ai versi molta più materia da sviluppare di quanta se ne possa trarre dall’Arbor vitae. Gli occhi, ad esempio, appropriati ai cherubini, designano il circuire e difendere la Chiesa, prerogativa appropriata a Domenico. La semantica di Ap 4, 4 (nella parte proemiale della seconda visione), dove vengono descritti i ventiquattro seniori che circondano la sede divina come principi, dodici da sinistra e dodici da destra, ordinati come muro e come servitori alla difesa della Chiesa (designano la “plenitudo gentium” e la conversione finale delle Genti e di Israele), reca altre suggestioni: la difesa della Chiesa da parte dei due campioni nelle parole di san Bonaventura (Par. XII, 106-107); il circuire la vigna proprio di Domenico (ibid., 86-87; cfr. l’ ‘aggirarsi’ dei diavoli alla difesa entro le mura della Città di Dite a Inf. VIII, 123); l’essere ordinate le virtù cardinali, ninfe nell’Eden, come ancelle a Beatrice, che nel caso rappresenta la Chiesa (Purg. XXXI, 106-108); Iride (tema sia della sede, ad Ap 4, 3, come dell’angelo solare di Ap 10, 1) ancella di Giunone (Par. XII, 10-12). Ventiquattro sono pure gli spiriti sapienti che circondano nel cielo del Sole, con due corone concentriche, Dante e Beatrice (Par. XII, 96). I seniori che circondano la sede divina ad Ap 4, 4 sono, secondo Gioacchino da Fiore, i dodici apostoli per i quali i Gentili entrarono in Cristo e i dodici futuri evangelici per i quali Israele e l’intero orbe si convertiranno a Cristo (cfr. qui di seguito).
    Ancora, Dante dice di Domenico: “l’altro per sapïenza in terra fue / di cherubica luce uno splendore” (Par. XI, 38-39). I dottori del terzo stato della Chiesa i quali, come Domenico, combatterono le eresie con la ‘spada’, operarono sulla “terra” (termine non presente nell’Arbor vitae), cioè sul luogo dei fedeli (il “mare” è invece il luogo degli infedeli o dei Gentili). Essi furono come fiumi irriganti la terra con la loro dottrina (Ap 8, 10). Da Domenico “si fecer poi diversi rivi / onde l’orto catolico si riga” (Par. XII, 104-105).
    Ubertino da Casale e Dante fecero un uso diverso della Lectura super Apocalipsim. Il primo ne trascrisse diversi brani nel V libro dell’Arbor vitae crucifixae Jesu, opera composta nel 1305 a La Verna. Si è sempre sostenuto che Dante conoscesse l’Arbor, e ciò non è certo escluso. Fatto sta che l’esame intertestuale fra Commedia e Lectura mostra chiaramente come Dante abbia elaborato anche i passi (numerosi) che Ubertino non aveva incluso nel V libro dell’Arbor. Si tratta dei passi strettamente esegetici, che spesso si estendono per parecchi fogli dell’opera oliviana e non sono secondari nell’economia di questa. È pertanto fuorviante fare riferimento all’Arbor vitae senza considerare la principale fonte del suo quinto libro, la Lectura super Apocalipsim che Dante scelse come canovaccio del proprio poema.

  • In secondo luogo, a differenza di Olivi e Ubertino, che assegnano a Francesco la parte di Elia (Ubertino completa la coppia collegando Domenico a Enoch), per Dante il carro della Chiesa (la “biga”) ha due ruote appropriate a due distinte persone, Francesco e Domenico appunto, che però partecipano entrambi delle qualità sia di Elia come di Enoch. Francesco è ardente come Elia, angelico eremita negli arcani del cielo, ma scuotere i cuori con il timore e segare con ferocia i reprobi vendemmiando si addice a Domenico, “benigno a’ suoi e a’ nemici crudo”; Francesco è asssimilabile a Enoch in quanto dedito alla contemplazione e alla pace (Domenico a Elia per la capacità di governo come l’ebbe san Pietro); entrambi imitano la vita di Cristo, ma istruire le genti (Enoch) sembra piuttosto appartenere a Domenico, al quale lo zelo (Elia) si addice più che al suo collega, perfetto nella carità fraterna (Enoch); la predicazione ai popoli, propria di Giovanni (e di Dante, tramite il suo poema) accomuna entrambi.
    Accanto alla preminenza francescana, in Olivi sembra presente (cfr. Ap 10, 1) quella visione complementare degli ordini che “in uno studii proposito et voto concurrent”, già propria, alla metà del secolo, del Super Hieremiam [2]. D’altronde lo stesso francescano afferma di aver sentito, novizio nel convento di Béziers, Raimondo Barravi predicare quanto udito a Parigi da san Domenico, il quale constatata personalmente ad Assisi la vita senza possessi dei Minori, ne avrebbe seguito l’esempio per i suoi [3]. Bonaventura aveva scritto di “religiones pauperculae” suscitate dallo Spirito [4]. Questa concurrentia si ritrova nei versi danteschi relativi ai due campioni della Chiesa.

[1] Cfr. T. SUAREZ-NANI, Pierre de Jean Olivi et la subjectivité angélique, in “Archives d’histoire doctrinale et littéraire du Moyen Age”, 70 (2003), pp. 233-316: 297-309; O. RIBORDY, Materia spiritualis. Implications anthropologiques de la doctrine de la matière développée par Pierre de Jean Olivi, in Pierre de Jean Olivi – Philosophe et théologien. Actes du colloque de Philosophie médiévale. 24-25 octobre 2008, Université de Fribourg, édité par C. KÖNIG-PRALONG, O. RIBORDY, T. SUAREZ-NANI, Göttingen 2010 (Scrinium Friburgense, 29), pp. 181-227: 225-226.

[2] Cfr. F. SIMONI, Il Super Hieremiam e il gioachimismo francescano, in “Bullettino dell’Istituto Storico Italiano per il Medio Evo e Archivio Muratoriano”, 82 (1970), pp. 44-46.

[3] L’episodio è narrato nella Lectura super Lucam, cap. 1, ed. F. IOZZELLI, Grottaferrata 2010 (Collectio Oliviana, V), pp. 230-231; cfr. D. PACETTI, Petrus Ioannis Olivi O. F. M., Quaestiones quatuor de domina, Quaracchi, Florentiae, 1954 (Bibliotheca Franciscana Ascetica Medii Aevi, VIII), p. 37, nt. 1.

[4] Cfr. BONAVENTURA, Quaestiones disputatae de perfectione evangelica, q. 2, a. 3, ad 12, in Opera omnia, V, Ad Claras Aquas (Quaracchi) prope Florentiam 1891, p. 164 b): “Et quia Ecclesiae iam ditatae magis indigebant spiritualibus operariis quam vinitoribus et agricolis; hinc est, quod Spiritus sanctus religiones pauperculas suscitavit, quarum sollicitudo et cura tota esset ad signandos servos Dei in frontibus eorum signo Dei vivi [cfr. Ap 7, 2-4], vocando ad poenitentiam et ad gratiam Spiritus sancti”.

Tab. 2.1

[LSA, cap. X, Ap 10, 1 (IIIa visio, VIa tuba)] Quod autem quidam dicunt hunc angelum esse Christum, quia solius ipsius est aperire librum, prout dicitur supra capitulo quinto (Ap 5, 2-3.9)*, non negamus quin ipse sit principalis reserator libri et precipue in quantum est Deus illuminans interius mentes, sed nichilominus ordinavit sub se angelicos spiritus et angelicos homines ad ministerialiter illuminandum inferiores. Qua ergo ratione per septem angelos tuba canentes intelliguntur angelici homines et doctores et etiam spiritus angelici eis presidentes, quamquam Christus principaliter doceat omnia que per tubicinationes angelorum docentur, eadem ratione debet consimiliter intelligi in proposito.

Inf. VII, 77-81

Similemente a li splendor mondani
ordinò general ministra e duce
che permutasse a tempo li ben vani
di gente in gente e d’uno in altro sangue,
oltre la difension d’i senni umani

* Cfr. Riccardo di San Vittore, In Ap III, vii (PL 196, col. 788 D).

[LSA, cap. XI, Ap 11, 4 (IIIa visio, VIa tuba)] Preterea hic dicuntur stare in conspectu Domini sicut duo candelabra lucentia seu duo luminaria stant coram uno Domino seu coram altari Dei unum a dextris et aliud a sinistris, vel sicut duo principes vel consiliarii unius magni regis stant et incedunt coram eo unus a dextris et alius a sinistris.

Par. XI, 28-36

La provedenza, che governa il mondo
con quel consiglio nel quale ogne aspetto
creato è vinto pria che vada al fondo,
però che andasse ver’ lo suo diletto
la sposa di colui ch’ad alte grida
disposò lei col sangue benedetto,
in sé sicura e anche a lui più fida,
due principi ordinò in suo favore,
che quinci e quindi le fosser per guida.

UBERTINO DA CASALE, Arbor vitae crucifixae Iesu, V 3, (Venetiis 1485, rist. anast. a cura di C. T. Davis, Torino 1961, p. 421b).

Inter quos in typo Helie et Enoch, Franciscus et Dominicus singulariter claruerunt. Quorum primus seraphico calculo purgatus et ardore celico inflammatus totum mundum incendere videbatur. Secundus vero ut cherub extensus et protegens, lumine sapientiae clarus et verbo predicationis fecundus super mundi tenebras clarius radiavit.

[LSA, cap. IV, Ap 4, 8 (radix IIe visionis)] Item moraliter per sex alas animalium designantur sex virtutes. […] Due vero quibus volant sunt fides et spes. Caritas enim est ignis seraphicus quo sancta animalia sunt plena; sunt enim ignita quasi carbones et lampades ardentes, prout dicitur Ezechielis I° (Ez 1, 13).

[LSA, cap. IV, Ap 4, 5 (radix IIe visionis)] “Et septem lampades ardentes ante tronum”, scilicet erant, “que sunt septem spiritus Dei”. Spiritus enim Sanctus, in suis septem donis seu in universitate suorum donorum per septenarium designata participatus et quasi multiplic[a]tus, facit ipsa et sanctos ipsis repletos ardere et lucere ad illuminationem et inflammationem ecclesie, que est tronus Dei, et etiam ad cultum divine maiestatis, in qua Deus stabiliter quiescit sicut in propria essentia sua.

Par. XI, 37-39

L’un fu tutto serafico in ardore;
l’altro per sapïenza in terra fue
di cherubica luce uno splendore.

[LSA, cap. IV, Ap 4, 8 (radix IIe visionis)] Sequitur: “Et in circuitu et intus plena sunt oculis” (Ap 4, 8), id est perspicaciter et circumspecte vident sua interiora et exteriora, et etiam interiora et exteriora Dei et ecclesie et scripture sacre. Precavent etiam hostes impios in circuitu ambulantes et insidias diaboli, qui tamquam leo circuit querens quem devoret. Discutiunt etiam sua interiora, ut corrigant defectus et ordinent bona. Nota quod plenitudo oculorum appropriatur ordini cherubin secundum Dionysium; trinus autem ordo alarum seu valde esse alatum appropriatur seraphin secundum ipsum, sicut et expansio et volatus amoris. […]

[LSA, cap. I, Ap 1, 14 (radix Ie visionis)] Quinta (perfectio summo pastori condecens) est contemplationis speculative et practice zelativus et perspicax fervor et splendor, omnes actus et intentiones et nutus ecclesiarum circumspiciens, unde subdit: “et oculi eius velut flamma ignis”.

[LSA, cap. XIX, Ap 19, 12 (VIa visio)] “Oculi autem eius sicut flamma ignis” (Ap 19, 12), scilicet propter ardorem zeli ad faciendum iudicium et iustitiam de impiis et ad liberandum suos ab eis et ad inflammandum et illuminandum eos igne caritatis et amative sapientie.

ignis seraphicus

 

cherubin

caritas (Ap 4, 8)
carbones et lampades ardentes

(4, 5)

plenitudo oculorum in circuitu ambulantes (Ap 4, 8)

“Et in circuitu sedis sedilia viginti quattuor” (Ap 4, 4) … “in circuitu sedis”, quia ad defensionem et protectionem sancte matris ecclesie ordinati sunt quasi murus eius et etiam sicut famuli eius.

“et oculi eius velut flamma ignis” (Ap 1, 14)
splendor
circumspicientes

(19, 12)

“Et septem lampades ardentes ante tronum” (Ap 4, 5)

 ardere ad inflammationem

lucere ad illuminationem

Oculi autem eius sicut flamma ignis” (Ap 19, 12)

propter ardorem zeli ad inflammandum igne caritatis

propter ardorem zeli ad faciendum iudicium et iustitiam de impiis et ad illuminandum igne amative sapientie

[LSA, cap. XI, Ap 11, 3-4 (IIIa visio, VIa tuba)] Sequitur (Ap 11, 3): “Et dabo duobus testibus meis”, scilicet officium predicationis, “et prophetabunt”, id est predicabunt, “diebus mille ducentis sexaginta”, id est, secundum Ricardum, toto tempore quo regnabit Antichristus*. […] Secundum Augustinum et Gregorium et Ricardum, hii duo testes sunt ad litteram Helias et Enoch, et hoc communiter tenetur, quamvis et per eos designentur duo ordines predicantium. Quorum unus magis erit exteriori regimini et passionibus mancipatus, unde et Iohannis ultimo allegorice designatur per [Petrum], cui di[c]itChristus: “Pasce oves meas”, et “cum senueris, extendes manus tuas”, scilicet in cruce, et “sequere me”, scilicet ad crucem (Jo 21, 17-19). Alter vero magis erit datus contemplationi et paci, unde et designatur ibidem per Iohannem, de quo dicit Christus: “Sic eum volo manere donec veniam” (Jo 21, 22). Nec oportet istos duos ordines testium esse diverse professionis seu religionis, sicut nec Petrus et Iohannes fuerunt, immo uterque fuit eiusdem professionis apostolice et evangelice, nec tamen per hoc nego quin ordines diversarum professionum in hoc concurrant sicut et iam fere per centum annos simul cucurrerunt duo. […]
“Hii sunt due olive” (Ap 11, 4), id est pinguedine caritatis et divine unctionis et suavitatis pleni; “et duo candelabra lucentia”, id est lumen divine sapientie in se alte et preclare gestantes et toti ecclesie expandentes.

* In Ap III, vii (PL 196, col. 792 B).

[LSA, Ap 14, 14.17 (IVa visio, opinio Ioachim de duobus angelis habentibus falces
cfr. Expositio, pars IV, distinctio VII, f. 175va-176rb)]

primus erit mitior et suavior ad colligendas segetes electorum quasi in spiritu Moysi

secundus vero erit ardentior et ferocior ad secandam vindemiam reproborum ac si in spiritu Helie

in primo intelligendus est aliquis ordo futurus perfectorum virorum servantium vitam Christi et apostolorum

in secundo vero alius ordo heremitarum emulantium vitam angelorum, unde et dicitur egressus esse “de templo quod est in celo”.

Primus enim manifestus apparet, quia illi qui militant Deo ad utilitatem et eruditionem plebium sunt in conspectu ipsarum dati, ut accipiant ab illis salutis monita et pie conversationis exempla.

Alius vero de celo, ubi manebat occultus, est repente egressus, quia qui solitudinis remotiora et secretiora petunt, si quando egrediuntur ad homines, veluti de archanis celorum advenisse putantur, adeo ut multorum corda timore concutiantur admirantium tam perfectionem vite quam novitatem presentie.

vita priorum erit quasi imber ad irrigandum superficiem terre in omni perfectione caritatis fraterne

vita autem anachoritarum seu secundorum erit quasi ignis ardens in amore et zelo Dei ad comburendum tribulos et spinas, ne mali abutantur amplius patientia Dei.

[Olivi] Attamen sciendum quod, prout superius dixi (cfr. Ap 11, 3), non est necesse istos esse diverse professionis, sicut nec Petrus nec Iohannes fuerunt aut Helias et Heliseus, quamvis Helias plus vacaverit vite heremitice et severe, Heliseus vero plus vite [et] congregationi communi et zelo mitiori.

[LSA, cap. IV, Ap 4, 4 (radix IIe visionis)] “Et in circuitu sedis sedilia viginti quattuor” (Ap 4, 4), scilicet erant, nobiles quidem sedes prima tamen longe inferiores; “et super sedilia”, scilicet erant, “viginti quattuor seniores sedentes, circumamicti stolis albis, et in capitibus eorum corone auree”. […] Per istos igitur anagogice designantur celestes angeli et potissime supremi; allegorice autem prophete et apostoli ceterique prelati, per quorum documenta et consilia a Deo accepta regitur universa ecclesia. Vel secundum Ioachim, duodecim apostoli per quos ecclesia de gentibus intravit ad Christum, et alii duodecim futuri evangelici per quos omnis Israel et iterum totus orbis convertetur ad Christum*.
Dicuntur autem esse “in circuitu sedis”, quia ad defensionem et protectionem sancte matris ecclesie ordinati sunt quasi murus eius et etiam sicut famuli eius. Sicut enim sedes Dei integratur ex ecclesia plenitudinis gentium et ex finali ecclesia reliquiarum Iudeorum et gentium tamquam ex parte sinistra et dextera, sic duodecim principes unius partis stant ad sinistram sedis et duodecim principes alterius partis stant ad dexteram eius.

* Expositio, pars II, f. 103ra-b.

Inf. VIII, 121-123

E a me disse: “Tu, perch’ io m’adiri,
non sbigottir, ch’io vincerò la prova,
qual ch’a la difension dentro s’aggiri.”

Purg. XXXI, 106-108

Noi siam qui ninfe e nel ciel siamo stelle;
pria che Beatrice discendesse al mondo,
fummo ordinate a lei per sue ancelle.

 

Par. XII, 10-12, 85-108

Come si volgon per tenera nube
due archi paralelli e concolori,
quando Iunone a sua ancella iube

in picciol tempo gran dottor si feo;
tal che si mise a circüir  la vigna
che tosto imbianca, se ’l vignaio è reo.
E a la sedia che fu già benigna
più a’ poveri giusti, non per lei,
ma per colui che siede, che traligna,
non dispensare o due o tre per sei,
non la fortuna di prima vacante,
non decimas, quae sunt pauperum Dei,
addimandò, ma contro al mondo errante
licenza di combatter per lo seme
del qual ti fascian ventiquattro piante.
Poi, con dottrina e con volere insieme,   1, 15
con l’officio appostolico si mosse
quasi torrente ch’alta vena preme;
e ne li sterpi eretici percosse
l’impeto suo, più vivamente quivi
dove le resistenze eran più grosse.
Di lui si fecer poi diversi rivi
onde l’orto catolico si riga,
sì che i suoi arbuscelli stan più vivi.
Se tal fu l’una rota de la biga
in che la Santa Chiesa si difese
e vinse in campo la sua civil briga

[LSA, cap. VIII, Ap 8, 10 (IIIa visio, IIIa tuba)] Sicut per “terram” designatur supra locus fidelium (cfr. Ap 8, 7) et per “mare” locus infidelium seu plebs gentilis (cfr. Ap 8, 8), sic per “fontes” et “flumina” terram irrigantia et potum dulcem hominibus et iumentis prebentia designatur sacra doctrina et doctores eius. […]

Par. XI, 37-39

L’un fu tutto serafico in ardore;
l’altro per sapïenza in terra fue
di cherubica luce uno splendore.

 

■ e vinse in campo la sua civil briga (Par. XII, 108).

All’apertura del primo sigillo appare Cristo resuscitato, seduto su un cavallo bianco (Ap 6, 2). Si mostra cioè nel suo corpo glorioso e nella Chiesa primitiva resa bianca dalla grazia della rigenerazione e irradiata dalla luce della sua resurrezione. Sedendo su di essa, Cristo uscì nel “campo” del mondo non pavido o infermo, ma con somma magnanimità e insuperabile virtù. Condusse infatti nel mondo i suoi Apostoli come leoni animosi e potenti nell’operare miracoli. In essi aveva l’arco della predicazione capace di saettare e di penetrare i cuori. Gli era stata data anche la corona regale, secondo quanto si dice in Matteo 28, 18: “Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra”. La corona riguarda anche i suoi Apostoli, che aveva fatto principi e re spirituali di tutta la Chiesa e di tutto il mondo. Con l’arco saetta i reprobi con sentenze di condanna, con la corona glorifica i buoni. Cristo “uscì vittorioso per vincere”, cioè, secondo Riccardo di San Vittore, convertendo quelli tra i Giudei che aveva eletto per vincere, per mezzo di essi, i Gentili che aveva predestinato. Nella sua stessa uscita nel mondo apparve vittorioso come se avesse già vinto tutto.
Con san Domenico, una delle due ruote, insieme a san Francesco, della biga della Chiesa, questa “si difese / e vinse in campo la sua civil briga”, ossia la lotta contro gli eretici (Par. XII, 106-108). San Giacomo avvampa d’amore verso la speranza, che non lo abbandonò mai “infin la palma e a l’uscir del campo”, cioè dalla battaglia terrena, variazione dell’uscire vittorioso di Cristo, come se avesse già vinto, nel campo del mondo (Par. XXV, 82-84).
Nei versi di Par. XXV fa da contrappunto un altro tema, quello paolino del vincere il premio correndo nello stadio, proprio della settima visione (Ap 21, 16). La misura della città celeste è di 12.000 stadi. Lo stadio è lo spazio al cui termine si sosta o “si posa” per respirare e lungo il quale si corre per conseguire il premio. Esso designa il percorso del merito che ottiene il premio in modo trionfale, secondo quanto scrive san Paolo ai Corinzi: “Non sapete che tutti corrono nello stadio, ma di costoro uno solo prende il premio?” (1 Cor 9, 24). Ciò concorda con il fatto che lo stadio è l’ottava parte del miglio, e in questo senso designa l’ottavo giorno di resurrezione. L’ottava parte del miglio corrisponde a 125 passi, che rappresentano lo stato di perfezione apostolica che adempie i precetti del decalogo (12 apostoli x 10 comandamenti), cui si aggiunge la pienezza dei cinque sensi e delle cinque chiese patriarcali.
“Poi si rivolse, e parve di coloro / che corrono a Verona il drappo verde / per la campagna; e parve di costoro / quelli che vince, non colui che perde”. Così Brunetto Latini lascia la compagnia del suo discepolo (Inf. XV, 121-124). Più che raggiungere la sua schiera, così da sfuggire alla pena di giacere cent’anni sotto la pioggia di fuoco senza potersi far schermo con le mani, il premio che Brunetto consegue è la fama del suo Tesoro che ha raccomandato a Dante. In ogni caso, può essere curioso notare che il paragone con il palio di Verona chiude il canto e il riferimento alla vittoria sta nel 124° verso, uno in meno dello “stadio” paolino. Uscire in campo apparendo vittorioso, non pavido o infermo, è tema proprio di Cristo all’apertura del primo sigillo (Ap 6, 2). Dal confronto è possibile rilevare più di un aspetto, nel rispondersi fra i due testi: la compresenza di elementi semantici, la collazione di passi simmetrici della Lectura (da Ap 6, 2), una figura retorica (la perissologia, cioè un’affermazione seguita dalla negazione del suo contrario: “e parve di costoro / quelli che vince, non colui che perde”) suggerita dalla prosa (apparuit in ipso exitu totus victoriosus et ac si iam totus vicisset […] exivit in campum totius orbis non quasi pavidus aut infirmus), l’appropriazione a Brunetto, che è un dannato, di motivi propri di Cristo.
L’arrivo al cielo della Luna è tanto veloce quanto il ‘posarsi’ di una freccia (“un quadrel”, per concordare con l’ambito tematico della città celeste, posta appunto “in quadro”) che vola dopo essersi staccata dalla balestra (Par. II, 23-25). Dal momento in cui inizia la descrizione dell’ascesa al cielo (con il verso 43 del primo canto del Paradiso), fino al congiungersi con la prima stella (che coincide con il 25° verso del secondo canto), sono esattamente 125 versi, come i passi dello stadio paolino.
Ancora in Par. XXV, 79-81, a san Giacomo è appropriato anche il tema della folgorante luce di Cristo (dal Notabile XII del prologo: “dentro al vivo seno / di quello incendio tremolava un lampo / sùbito e spesso a guisa di baleno”). Da notare la presenza del verbo respirare (che è hapax nel poema: “vuol ch’io respiri a te che ti dilette / di lei”, vv. 85-86), richiamato dal posarsi nella descrizione finale del quietarsi del suono, dolcemente mischiato, delle voci dei tre apostoli Pietro, Giacomo e Giovanni, come i remi che “per cessar fatica o rischio … tutti si posano al sonar d’un fischio”, i quali prima percuotevano l’acqua (vv. 130-135). Respirare e posarsi sono segno del conseguimento del premio, dopo il correre nello stadio. Il tema del posarsi è congiunto con quello della quiete e della pace proprio del settimo stato, libero da ogni fatica o opera servile (prologo, Notabile XIII, Ap 10, 5-7).

Tab. 2.2

[LSA, cap. VI, Ap 6, 2 (IIa visio, apertio Ii sigilli)] In prima autem apertione apparet Christus resuscitatus sedens in equo albo, id est in suo corpore glorioso et in primitiva ecclesia per regenerationis gratiam dealbata et per lucem resurrectionis Christi irradiata, in qua Christus sedens exivit  in campum totius orbis non quasi pavidus aut infirmus, sed cum summa magnanimitate et insuperabili virtute. Nam suos apostolos deduxit in mundum quasi leones animosissimos et ad mirabilia facienda potentissimos, et “habebat” in eis “archum” predicationis valide ad corda sagittanda et penetranda. […] “Et exivit vincens ut vinceret”, id est, secundum Ricardum, vincens quos de Iudeis elegit ipsos convertendo ut per eosdem vinceret, id est converteret gentiles quos predestinaverat*. Vel per hoc designatur quod, quando exivit ut mundum vinceret, apparuit in ipso exitu totus victoriosus et ac si iam totus vicisset.

[LSA, prologus, Notabile XII] Dicendum quod diffusio fidei per apostolos in orbem universum debuit esse velox instar lucis solaris ab oriente in occidentem subito procedentis et instar fulguris universa subito discurrentis. Hoc enim fuit in gloriam Christi et lucis sue, unde in apertione primi signaculi dicitur exissevincens ut vinceret (cfr. Ap 6, 2).

[LSA, cap. XXI, Ap 21, 16 (VIIa visio)] “Et civitas in quadro posita est”, id est habens quattuor latera muri sub figura quadranguli iuncta, per quod designatur solida quadratura virtutum. […] “Et mensus est civitatem Dei cum arundine per stadia duodecim milia” (Ap 21, 16). Stadium est spatium in cuius termino statur vel pro respirando pausatur, et per quod curritur ut bravium acquiratur, secundum illud Apostoli Ia ad Corinthios, capitulo IX°: “Nescitis quod hii, qui in stadio currunt, omnes quidem currunt, sed unus accipit bravium?” (1 Cor 9, 24), et ideo significat iter meriti triumphaliter obtinentis premium. Cui et congruit quod stadium est octava pars miliarii, unde designat octavam resurrectionis. Octava autem pars miliarii, id est mille passuum, sunt centum viginti quinque passus, qui faciunt duodecies decem et ultra hoc quinque; in quo designatur status continens perfectionem apostolicam habundanter implentem decalogum legis, et ultra hoc plenitudinem quinque spiritualium sensuum et quinque patriarchalium ecclesiarum.

* In Ap II, iv (PL 196, col. 762 B-C).

Par. XII, 106-108; XXV, 79-87, 130-135

Se tal fu l’una rota de la biga
in che la Santa Chiesa si difese
e vinse  in campo la sua civil briga

Mentr’ io diceva, dentro al vivo seno
di quello incendio tremolava un lampo
sùbito e spesso a guisa di baleno.
Indi spirò: “L’amore ond’ ïo avvampo
ancor ver’ la virtù che mi seguette    14, 4
infin la palma e a l’uscir  del campo,
vuol ch’io respiri a te che ti dilette
di lei; ed emmi a grato che tu diche
quello che la speranza ti ’mpromette”.

A questa voce l’infiammato giro
si quïetò con esso il dolce mischio
che si facea nel suon del trino spiro,
sì come, per cessar fatica o rischio,
li remi, pria ne l’acqua ripercossi,
tutti si posano al sonar d’un fischio.

Inf. XV, 121-124

Poi si rivolse, e parve di coloro
che corrono a Verona il drappo verde
per la campagna; e parve di costoro
quelli che vince, non colui che perde.

Par. II, 22-25 (Par. I, 43-142 + II, 1-25 = 125)

Beatrice in suso, e io in lei guardava;
e forse in tanto in quanto un quadrel posa
e vola e da la noce si dischiava,
giunto mi vidi ove mirabil cosa

[LSA, prologus, Notabile XIII] Dies vero septimus erit benedictus et sanctificatus et liber ab omni opere et labore servili et fruens pace que exsuperat omnem sensum (cfr. Gn 2, 1-3). […] Sicut etiam septima etas, a sabbato quietis Christi initiata, continet in quiete et pace sanctas animas defunctorum, sic in septimo statu complebitur id quod scribitur in hoc libro (Ap 14, 13): “Beati qui in Domino moriuntur. Dicit” enim “Spiritus ut amodo requiescant a laboribus suis”, tamquam scilicet mundo et mundanis omnino defuncti.

[LSA, cap. X, Ap 10, 5-7 (IIIa visio, VIa tuba)] Sumendo vero tubicinium septimi angeli respectu pacis que erit in ecclesia post mortem Antichristi, tunc est sensus quod tempus afflictionis et laboris sex priorum statuum, quasi sex dierum quibus laborare et operari oportet, cessabit in sabbato et requie septimi status, tuncque “consumabitur misterium” per prophetas [pre]nuntiatum quantum in hac vita consumari debet. Et sic exponit hoc Ioachim, subdens quod post tempus sex apertionum huius sexte etatis manet «tempus, ut ait angelus Danieli, quale non fuit ex eo tempore quo ceperunt homines esse in terra (cfr. Dn 12, 1), tempus utique septimi angeli, cui benedicet Dominus dans in eo pacem et letitiam sustinentibus se».

 

3. L’angelo del sesto sigillo (Ap 7, 2) e l’angelo dal volto solare (Ap 10, 1-3)

■ (Ap 7, 2) Un lettore spirituale avrebbe ben afferrato la successione tematica tra quarto, quinto e sesto stato nei versi con cui Tommaso d’Aquino inizia in Par. XI l’elogio di san Francesco. Ivi all’ “alto monte” Subasio, che fa segno dell’arduo quarto stato proprio degli alti anacoreti, avrebbe visto contrapporsi “l’acqua (del Chiascio) che discende / del colle eletto dal beato Ubaldo” e la “fertile costa” che pende e spezza la “rattezza” del monte: segni del quinto stato sotto il cui regime Francesco formò il suo Ordine, periodo condiscendente, pietoso e tenero verso le moltitudini associate, di cui è figura la bella costa sottratta al forte e solitario Adamo, che Dio nel creare Eva riempì di pietas (prologo, notabile VII). Luogo dunque predisposto, nel quinto stato, alla nascita di “un sole”; esso, piuttosto che Ascesi, dovrebbe chiamarsi Oriente (Francesco è l’angelo del sesto sigillo, ascendens ab ortu solis; l’espressione si riflette nel forte latinismo “Non era ancor molto lontan da l’orto”). L’angelo del sesto sigillo (Ap 7, 2) sale da oriente perché Francesco assunse come fondamento della sua ascesa verso Dio la sede romana, che tra le cinque principali chiese è sede principale e città del sole, della quale è detto allegoricamente in Isaia 19, 18: “In quel giorno ci saranno cinque città nell’Egitto. Una di esse si chiamerà Città del Sole”. Le città citate nei versi danteschi sono cinque: Perugia, Nocera, Gualdo, Ascesi, Oriente e una sola, l’ultima, può dirsi realmente civitas solis (“ma Orïente, se proprio dir vuole”). Il rapporto tra le cinque città  si colloca fra la stabilità solare di “Oriente” cui si ascende (Ascesi), l’instabilità di Perugia (la quale “sente freddo e caldo da Porta Sole”, cioè dalla porta che si apre a oriente, verso il Subasio), e il “grave giogo” che fa piangere Nocera e Gualdo Tadino, poste dietro al Subasio e per questo sottratte alla luce rispetto agli altri luoghi.
Il medesimo lettore si sarebbe poi ricordato della pietosa costa che frange l’alto monte nelle parole di san Benedetto, il quale portò per primo su “quel monte a cui Cassino è ne la costa” il nome di Cristo (Par. XXII, 37-45); avrebbe così accostato i due monti, il Cairo e il Subasio, e i due santi, Benedetto e Francesco, aperti alla vita associata nel quinto stato.
Ancora, l’immagine dell’orologio di Acaz (la meridiana portata da Dio indietro di dieci gradi, in segno della guarigione di Ezechia, il quale “morte indugiò per vera penitenza”: cfr. Par. XX, 49-54), che Cristo nuovamente ascende in Francesco sino al mattino (Ap 7, 2: con Francesco inizia il sesto stato, cioè il secondo avvento di Cristo nello Spirito, e la Chiesa, come una sfera, ritorna ai primordi), si ritrova al termine di Par. X, ove l’orologio che chiama al mattutino è appropriato alla prima corona delle anime sapienti, tra le quali è Tommaso d’Aquino che nel canto successivo tesse l’elogio di Francesco. La reminiscenza indubbia dal Cantico dei Cantici – “Indi, come orologio (hapax nel poema) che ne chiami / ne l’ora che la sposa di Dio surge / a mattinar lo sposo perché l’ami” – è, qui come altrove, incastonata nelle maglie del grande commento apocalittico, con cui concorda e grazie al quale assume un valore storico, non di citazione ma di metafora che si invera in un processo sacro (e altri temi della Lectura entrano in gioco nel finale del canto).

■ (Ap 10, 1-3) A rafforzare i motivi dell’angelo del sesto sigillo (Ap 7, 2) intervengono quelli dell’angelo della sesta tromba, anch’esso identificato con Francesco, trattato nel capitolo X. Di questo angelo dice il testo scritturale: “Vidi poi un altro angelo, forte, discendere dal cielo, avvolto in una nube, il capo cinto da un arcobaleno; aveva la faccia come il sole e i piedi come colonna di fuoco. Nella mano teneva un piccolo libro aperto. E pose il piede destro sul mare e il sinistro sulla terra e gridò a gran voce come leone che ruggisce” (Ap 10, 1-3).
Francesco fu singolarmente “forte” in ogni virtù, in ogni opera di Dio; per la somma umiltà e il riconoscimento della prima origine di ogni natura e grazia fu sempre “discendente dal cielo”; per l’aerea e sottile o spirituale leggerezza spogliata da ogni peso terrestre, fu “avvolto in una nube”, avvolto cioè dall’altissima povertà ripiena delle acque celesti, ossia del supremo possesso e assorbimento delle grazie divine.
Gli stessi concetti vengono ripetuti più avanti, allorché Olivi parla del discendere spirituale di Cristo, del suo servo Francesco e dell’angelico gruppo dei suoi discepoli contro tutti gli errori e le malizie del mondo, contro tutto l’esercito dei demoni e degli uomini malvagi, nel momento della solenne contestazione e condanna della vita evangelica e della Regola, che sarà fatta al tempo dell’Anticristo mistico e sarà più ampiamente consumata al tempo dell’Anticristo proprio. Francesco discenderà costante, forte, impavido come il leone, sia per attaccare che per difendersi. Per la sua profondissima umiliazione, per l’umile riconoscimento della sua origine da Dio, per il suo pietoso condiscendere verso gli inferiori, discenderà dal cielo e sarà avvolto, come da una nube, dalla scienza delle Scritture, non terrene e false ma celesti e purissime, e anche dalla agilissima, altissima e insieme feconda e oscura o umile povertà. Tutto ciò viene detto poiché apparirà chiaramente nelle sue future opere e nei suoi discepoli.
Gioacchino da Fiore dice a questo riguardo: “Chiunque sia questo predicatore della verità, è descritto come “forte” perché sarà robusto nella fede; “discenderà dal cielo”, cioè dalla vita contemplativa a quella attiva; sarà “avvolto in una nube” perché ricoperto dalla scrittura dei profeti, e avrà “l’arcobaleno sul capo” perché nella sua mente sarà lo Spirito Santo e l’intelligenza mistica o spirituale delle Scritture. Come infatti l’arcobaleno appare unito alle nubi del cielo, così alle scritture dei profeti bisogna unire l’intelligenza mistica per convincere gli avversari.
Nell’elogio fatto da Tommaso d’Aquino, dal capitolo X provengono “l’acqua che discende / del colle eletto dal beato Ubaldo”, cioè il Chiascio (il discendere del sesto stato concorda con quello pietoso del quinto segnalato dalla “costa”; il “colle” sopra Gubbio allude ad uno stato mediocre, quale il quinto, rispetto al quarto designato dall’ “alto monte”); la “gran virtute” di Francesco sentita dalla terra; il riferimento alla “spirital corte” (nell’esegesi oliviana è la spirituale leggerezza; nei versi la curia episcopale di Assisi, dinanzi alla quale, presente il padre, il santo si unisce con Povertà) e tre aggettivi di questa (“scura”, “costante”, “feroce”, cioè impavida).
Come la nube, che sta tra noi e il cielo, riceve i raggi del sole e li tempera, effondendo in misura dovuta le acque piovane feconde per la fruttificazione delle sementi, così la Sacra Scrittura sarà spiritualmente nella carità e nella sapienza di Dio come il sole che irradia alla fine tutta la terra formando il giorno solare del terzo stato generale del mondo (la terza età di Gioacchino da Fiore, iniziata con il sesto stato della Chiesa, e dunque con Francesco). Questa rosa di motivi  è contenuta nel conforto che la terra sente per la grande virtù di Francesco e viene anticipata dall’essere “fertile” la costa ove nacque.
Il canovaccio di Ap 10, 1-3 (che non esclude altre fonti di consueto addotte a commento, ma le arma) non è recitato solo da Tommaso d’Aquino nel narrare la vita di Francesco. Lo si ritrova, variato, nell’elogio di san Domenico che Bonaventura pronuncia nel canto seguente. Anche per il santo atleta si parla di “viva vertute” infusa da Dio nella sua mente al momento della creazione (Par. XII, 58-60). In questi versi, riferiti all’essere perciò la madre di Domenico resa profeta del futuro del figlio, sono presenti anche i motivi, da Ap 13, 11, offerti dalla questione se l’Anticristo verrà o meno guidato dal diavolo fin dal ventre materno, e ciò per decisione della prescienza divina, non unico caso nel poema di metamorfosi in bonam partem di temi negativi nell’esegesi teologica.
Se l’angelo del capitolo X sarà impavido come un leone, sia per attaccare (“ad invadendum”) che per difendere (“ad patiendum”), il luogo di nascita di Domenico, Calaruega, si trova sotto la protezione dello scudo di Castiglia, in cui è rappresentato un leone che sovrasta ed insieme soggiace a un castello (Par. XII, 52-54). La “fortunata Calaroga” siede “in quella parte ove surge ad aprire / Zefiro dolce le novelle fronde / di che si vede Europa rivestire” (ibid., 46-48), terzina che contiene il tema del rinnovamento della vita evangelica proprio del sesto stato (Ap 6, 12), del quale è tipico il motivo dell’aprire.
Essere forte nella virtù e nelle opere e libero da ogni peso temporale, prerogative dell’angelo della sesta tromba, che ha la faccia come il sole (Ap 10, 1), sono motivi attribuiti da Cacciaguida a Cangrande, impresso da una stella “forte” (quella di Marte) che renderà “notabili” le sue opere, anche se finora le genti non si sono accorte di lui “per la novella età”. La sua virtù, di cui “parran faville”, consisterà “in non curar d’argento né d’affanni”, cioè nel disprezzo delle ricchezze e delle sollecitudini temporali (Par. XVII, 76-84; cfr. qui di seguito). Le qualità dell’angelo – “ab omni pondere terrenorum excussam … “fortis” in omni virtute et opere Dei in caritate etiam et sapientia Dei” – sono proprie anche del Veltro: “Questi non ciberà terra né peltro, / ma sapïenza, amore e virtute” (Inf. I, 103-104).
Le prerogative dei due angeli (Ap 7, 2 e 10, 1-3) da Francesco, al quale Olivi le attribuisce, vengono dunque travasate su più soggetti [1]. Sta qui la “mondanità discretiva del Dante della Commedia” di cui scriveva Gianfranco Contini [2].

[1] I temi dei due angeli si ritrovano anche nell’apparizione di Beatrice nell’Eden: cfr. Il sesto sigillo, cap. 2c.

[2] Cfr. G. CONTINI, Filologia ed esegesi dantesca (1965) in Un’idea di Dante. Saggi danteschi, Torino 1970 e 1976, p. 135: “Di fronte, se mi si passa il traslato, all’integralismo teologico di Francesco sta la mondanità discretiva del Dante della Commedia, « unicuique suum »”.

 

Tab. 3.1

[LSA, cap. X, Ap 10, 1-3 (IIIa visio, VIa tuba)] “(Ap 10, 1) Et vidi alium angelum fortem, descendentem de celo, amictum nube, et iris in capite eius, et facies eius erat ut sol, et pedes eius tamquam columpna ignis, (Ap 10, 2) et habebat in manu sua libellum apertum, et posuit pedem suum dextrum supra mare, sinistrum vero super terram, (Ap 10, 3) et clamavit voce magna, quemadmodum leo rugit”. […] Ioachim dicit hic: «Quicumque erit iste predicator veritatis, “fortis” esse describitur, quia robustus erit in fide; et “de celo” descendet, id est de vita contemplativa ad activam; et “amictus” erit “nube”, quia indutus erit scriptura prophetarum; et “irim in capite”, quia Spiritum Sanctum et misticum seu spiritalem intellectum scripturarum habebit in mente. Sicut enim archus celestis apparet iunctus nubibus celi, sic scripturis prophetarum iungendus est misticus intellectus ad adversarios convincendos». Et subdit: «Ego autem angelum istum secundum litteram aut Enoch fore puto aut Heliam. Verum, prout hoc Deus melius novit, unum dico pro certo, quod hic angelus significat personaliter magnum aliquem  predicatorem, quamvis spiritaliter ad multos viros spiritales tunc temporis futuros competenter valeat intorqueri. Sane facies angeli similis est soli, quia in hoc sexto tempore oportet Dei contemplationem in modum solis splendescere et perduci ad notitiam eorum qui designantur in Petro et Iacobo et Iohanne, id est Latinorum et Grecorum et Hebreorum, primo quidem Latinorum, deinde Grecorum, tertio Hebreorum, ut fiant novissimi qui erant primi et e contrario». Hec Ioachim. [Expositio, pars III, f. 137ra-va]
[…] Ipse enim fuit singulariter “fortis” in omni virtute et opere Dei (Ap 10, 1), et per summam humilitatem et recognitionem prime originis omnis nature et gratie semper “descendens de celo”, et per aeream et per subtilem seu spiritualem levitatem ab omni pondere terrenorum excussam fuit “amictus nube”, id est altissima paupertate aquis celestibus plena, id est suprema possessione et imbibitione celestium divitiarum. […]
Quia vero hec et sequentia in futuris eius operibus et discipulis clarius innotescent, idcirco sciendum quod a tempore sollempnis impugnationis et condempnationis evangelice vite et regule, sub mistico Antichristo fiende et sub magno amplius consumande, spiritaliter descendet Christus et eius servus Franciscus et angelicus discipulorum eius cetus contra omnes errores et malitias mundi et contra totum exercitum demonum et pravorum hominum constans et fortis et impavidus sicut leo, tam ad invadendum quam ad patiendum. Et per profundissimam sui humiliationem et per sue originis a Deo humilem recognitionem et per sui ad inferiores piam condescensionem descendet “de celo”, eritque scientia scripturarum non terrestrium et falsarum sed celestium et purissimarum quasi “nube amictus”, et etiam agillima et altissima et fecunda simul et obscura seu humili paupertate.
Sicut enim nubes est supra inter nos et celum suscipiens solis radios et contemperans nobis eos, et est purgans aquis pluvialibus et fecundis ipsasque ad fructificationem terre nascentium moderate effundens, sic est hec scriptura sacra spiritualiter; in caritate etiam et sapientia Dei erit ut sol ad irradiandum finaliter totum orbem et ad formandum solarem diem tertii generalis status mundi.

[LSA, prologus, Notabile VII] Prima (responsio) est quia licet condescensio quinti status in infirmis, pro quibus fit, sit imperfectior, in sanctis tamen, arduas perfectiones priorum statuum in habitu mentis tenentibus et ex sola caritate et infirmorum utilitate condescendentibus, est ipsa condescensio ad perfectionis augmentum, prout patet in Christo infirmis condescendente. Unde et Ade subtracta est fortis costa ad formationem Eve, “et replevit” Deus “carnem pro ea” (Gn 2, 21), id est pietatem condescensionis pro robore solitarie austeritatis.

Par. X, 139-141; XI, 43-72

Indi, come orologio che ne chiami
ne l’ora che la sposa di Dio surge
a mattinar lo sposo perché l’ami

Intra Tupino e l’acqua che discende
del colle eletto dal beato Ubaldo,
fertile costa d’alto monte pende,
onde Perugia sente freddo e caldo
da Porta Sole; e di rietro le piange
per grave giogo Nocera con Gualdo.
Di questa costa, là dov’ ella frange
più sua rattezza, nacque al mondo un sole,
come fa questo talvolta di Gange.
Però chi d’esso loco fa parole,
non dica Ascesi, ché direbbe corto,   Ascesi
ma Orïente, se proprio dir vuole.        Orïente
Non era ancor molto lontan da l’orto,
ch’el cominciò a far sentir la terra
de la sua gran virtute alcun conforto;
ché per tal donna, giovinetto, in guerra
del padre corse, a cui, come a la morte,
la porta del piacer nessun diserra;
e dinanzi a la sua spirital corte
e coram patre le si fece unito;
poscia di dì in dì l’amò più forte.
Questa, privata del primo marito,
millecent’ anni e più dispetta e scura
fino a costui si stette sanza invito;
né valse udir che la trovò sicura
con Amiclate, al suon de la sua voce,
colui ch’a tutto ’l mondo fé paura;
né valse esser costanteferoce,
sì che, dove Maria rimase giuso,
ella con Cristo pianse in su la croce.

Inf. I, 100-105

Molti son li animali a cui s’ammoglia,
e più saranno ancora, infin che ’l veltro
verrà, che la farà morir con doglia.
Questi non ciberà terra né peltro,
ma sapïenza, amore e virtute,
e sua nazion sarà tra feltro e feltro

[LSA, cap. VII, Ap 7, 2 (IIa visio, apertio VIi sigilli)] Sequitur tertia pars, scilicet prohibitio predicti impedimenti per subscriptum angelum facta (Ap 7, 2): “Et vidi alterum angelum”, alterum scilicet a quattuor iam premissis, et alterum non tantum in persona sed etiam in virtute et officio. […]
Hic ergo angelus est Franciscus, evangelice vite et regule sexto et septimo tempore propagande et magnificande renovator et summus post Christum et eius matrem observator, “ascendens ab ortu solis”, id est ab illa vita quam Christus sol mundi  in suo “ortu”, id est in primo suo adventu, attulit nobis. Nam decem umbratiles lineas orologii Acaz Christus in Francisco reascendit usque ad illud mane in quo Christus est ortus (4 Rg 20, 9-11; Is 38, 8).
Ascendit etiam “ab ortu solis”, quia sui ascensus in Deum fundamentum et initium cepit a sede romana, que inter quinque patriarchales ecclesias est principaliter sedes et civitas solis, id est Christi et fidei eius, de qua typice dicitur Isaie XIX°: “In die illa erunt quinque civitates in terra Egipti” et cetera, “civitas solis vocabitur una” (Is 19, 18).
Ascendit etiam “ab ortu solis”, id est circa initium solaris diei sexte et septime apertionis seu tertii generalis status mundi.

Par. XII, 52-54, 58-60

siede la fortunata Calaroga
sotto la protezion del grande scudo
in che soggiace il leone e soggioga

e come fu creata, fu repleta
la sua mente di viva vertute,
che, ne la madre, lei fece profeta.

Par. XVII, 76-84

Con lui vedrai colui che ’mpresso fue,
nascendo, sì da questa stella forte,
che notabili fier l’opere sue.
Non se ne son le genti ancora accorte
per la novella età, ché pur nove anni
son queste rote intorno di lui torte;
ma pria che ’l Guasco l’alto Arrigo inganni,
parran faville de la sua virtute
in non curar d’argento né d’affanni.

 

■ fertile costa d’alto monte pende (Par. XI, 45)

La “costa” e lo “scendere” sono temi del quinto stato, il declinante momento della pia condescensione verso la vita associata che frange l’ardua, ripida e solitaria altezza dello stato precedente degli anacoreti. Nel Notabile VII del prologo della Lectura super Apocalipsim si recano gli esempi di Cristo che condiscese agli infermi e di Adamo al quale venne sottratta una forte “costa” (simbolo della solitudine austera degli anacoreti del quarto stato), che Dio nel creare Eva riempì di pietas (cfr. Par. XIII, 37-38, 47-48, dove la “bella costa” tratta dal “petto” di Adamo è accostata alla “quinta luce” fra gli spiriti sapienti della prima ghirlanda). Più volte nel poema la “costa” della ripa infernale, o della montagna del purgatorio, che giace o che è corta o che cala o che pende, si abbina allo “scendere” in modo da far via in giù o in su, indicando la rottura della solitaria arditezza, del luogo “alpestro” a vantaggio del condiscendere pietoso, del dar via.
Ne è esempio la scesa dal “loco … alpestro” verso il settimo cerchio infernale, nella fossa del Flegetonte (Inf. XII, 1-10). Viene paragonata a “quella ruina che nel fianco (equivalente alla “costa”) / di qua da Trento l’Adice percosse, / o per tremoto o per sostegno manco”; ivi “è sì la roccia discoscesa, / ch’alcuna via darebbe a chi sù fosse” (“ut nequeuntibus in arduis perdurare daretur locus gratie in mediocri statu”: prologo, Notabile V); tale è quella che consente a Virgilio e Dante il passaggio dal monte al piano. Altro caso è la fuga dei due poeti i quali, inseguiti dai Malebranche, grazie alla “costa” che giace riescono a scendere dalla quinta alla sesta bolgia (Inf. XXIII, 31-33); oppure il passaggio dalla sesta bolgia alla successiva, facilitato dal fatto che il pendere, cioè l’inclinare, di Malebolge verso il pozzo centrale fa sì “che l’una costa surge e l’altra scende” (Inf. XXIV, 34-42). Nel dipartirsi dal male dell’inferno, Virgilio si appiglia “a le vellute coste” di Lucifero facendo scala del pelo e scendendo in giù “di vello in vello” (Inf. XXXIV, 73-75). Non è estranea al motivo della ‘costa condiscendente’ l’iniziale rigidità di Farinata (Inf. X, 75: “né piegò sua costa”).
I dubbi sulla propria inadeguatezza spingono dapprima Dante a rinunciare al viaggio: “tal mi fec’ ïo ’n quella oscura costa, / perché, pensando, consumai la ’mpresa / che fu nel cominciar cotanto tosta” (Inf. II, 40-42), applicando a sé stesso l’interpretazione data da Riccardo di San Vittore del nome della quinta chiesa d’Asia – Sardi -, bella nei suoi inizi non però alla fine (Ap 3, 1).
In Par. XXIII, 85-87 – nell’esaltarsi della divina virtù di Cristo, cioè nel suo sollevarsi in alto verso l’Empireo, per dare agli occhi del poeta, che non erano possenti, la possibilità di guardare – il “largirmi loco” proviene ancora dall’inciso “tuncque congrue instituta est vita condescensiva, ut nequeuntibus in arduis perdurare daretur locus gratie in mediocri statu” del Notabile V del prologo, (è una forma di “condescensio” che Cristo opera innalzandosi). Una variazione del tema è a Purg. V, 22-27, 55-57, con l’aggiunta di motivi penitenziali propri del quinto stato (prologo, Notabile XIII).
Altrove è la montagna del Purgatorio, “roccia sì erta”, a calare nella “costa” e a rompere la propria arditezza per consentire l’erta salita, impossibile a chi va senz’ali (Purg. III, 46-54; IV, 19-33; XI, 40-42) o, allentando la ripa che precipita, a fare scale come quelle che consentono di mitigare “l’ardita foga” della salita di San Miniato, “la chiesa che soggioga / la ben guidata sopra Rubaconte” (Purg. XII, 100-108). La valletta dei prìncipi si apre “dove la costa face di sé grembo … in fianco de la lacca” e ivi, condotti da Sordello “tra erto e piano” (che corrisponde allo stato mediocre) per “un sentiero schembo” (tema dell’essere inclinato), Virgilio e Dante scendono (‘avvallano’) e attendono il nuovo giorno (tema del quinto sigillo, da Ap 6, 9-11, ove ai santi si dice di aspettare fino al completamento del numero degli eletti; Purg. VII, 67-72; VIII, 43-44, 46).
Trovarsi in uno stato mediocre (il quinto) viene appropriato sul piano politico a Cesena in Inf. XXVII, 52-54, nella risposta che il poeta dà a Guido da Montefeltro sulla sua Romagna: “E quella cu’ il Savio bagna il fianco (la “costa”), / così com’ ella sie’ tra ’l piano e ’l monte, / tra tirannia si vive e stato franco”, dove la tirannia è assimilata all’ardua e oltre una certa misura insostenibile vita degli anacoreti (il quarto stato). I versi relativi a Cesena insinuano il dubbio che anche quanto Tommaso d’Aquino, a Par. XI, 47-48, dice del “grave giogo” che fa piangere “Nocera con Gualdo”, abbia un risvolto politico, intendendo cioè il dominio di Perugia sulle due città.
Del quarto stato, “stans” (prologo, Notabile III), è proprio il fermo governare le genti “in virga ferrea”, il “victoriosus effectus” che deriva dalle res gestae degli operosi anacoreti. Nel quinto stato, “contra medium terminum … declinans” (Notabile III), limitato alla Chiesa latina, si provvede a ricevere le moltitudini – “post tam altos status expedit multitudinem condescensive recipi et primos secundum proportionem suarum virium sequi” (Notabile V) – e si apprestano le medicine che ne curino i morbi. Così la cascata del Flegetonte rimbomba verso Malebolge come quella di San Benedetto dell’Alpe “per cadere ad una scesa / ove dovea per mille esser recetto” (Inf. XVI, 100-102), si tratti del mai realizzato castello dei conti Guidi per riunirvi i villaggi circostanti, o della grande badia camaldolese vuota di monaci. Così, nella nona bolgia, l’oscuro Pier da Medicina, che vissuto “in su terra latina” concorda perfino nel nome con il ‘medicinale’ quinto stato, ricorda con nostalgia la pianura padana: “se mai torni a veder lo dolce piano / che da Vercelli a Marcabò dichina” (Inf. XXVIII, 70-75). La pianura ai piedi della montagna del purgatorio “dichina a’ suoi termini bassi” (Purg. I, 113-114).
Il quinto stato, del quale è proprio il condiscendere e il declinare o pendere, è anche assimilato alla sede romana: se il luogo di nascita di Francesco fu dove “fertile costa d’alto monte pende” (Par. XI, 45, 49-50), quello di Domenico fu dove “siede la fortunata Calaroga”, nome anch’esso ‘condiscendente’ (Par. XII, 52).

Tab. 3.2.1

[LSA, prologus, Notabile VII (V status)] Si autem contra hanc rationem obicias quod perfectio quinti status non est superior perfectionibus quattuor priorum statuum neque altius et propinquius ascendens ad finalem et supremam perfectionem, immo secundum supradicta videtur esse inferior et distantior, triplex est ad hoc responsio. Prima est quia licet condescensio quinti status in infirmis, pro quibus fit, sit imperfectior, in sanctis tamen, arduas perfectiones priorum statuum in habitu mentis tenentibus et ex sola caritate et infirmorum utilitate condescendentibus, est ipsa condescensio ad perfectionis augmentum, prout patet in Christo infirmis condescendente. Unde et Ade subtracta est fortis costa ad formationem Eve, “et replevit” Deus “carnem pro ea” (Gn 2, 21), id est pietatem condescensionis pro robore solitarie austeritatis.

[LSA, prologus, Notabile III (V status); de quinto dono (zelus severus in phialis designatus est septiformis)] Item est septiformis quia est contra initium mali intrinsecum (I) et extrinsecum (II); et contra medium terminum, scilicet ascendens (III) stans (IV) et declinans (V); et contra terminum intrinsecum (VI) et extrinsecum (VII).

Par. XI, 43-54

Intra Tupino e l’acqua che discende
del colle eletto dal beato Ubaldo,

fertile costa d’alto monte pende,
onde Perugia sente freddo e caldo

da Porta Sole; e di rietro le piange
per grave giogo Nocera con Gualdo.
Di questa costa, là dov’ ella frange
più sua rattezza, nacque al mondo un sole,

come fa questo talvolta di Gange.
Però chi d’esso loco fa parole,
non dica Ascesi, ché direbbe corto,
ma Orïente, se proprio dir vuole.

Inf. VII, 103-108; XII, 1-10, 25-27, 58-62; XIV, 141-142

L’acqua era buia assai più che persa;
e noi, in compagnia de l’onde bige,
intrammo giù per una via diversa.
In la palude va c’ha nome Stige
questo tristo ruscel, quand’ è disceso
al piè de le maligne piagge grige. 

Era lo loco ov’ a scender la riva
venimmo, alpestro e, per quel che v’er’ anco,
tal, ch’ogne vista ne sarebbe schiva.
Qual è quella ruina che nel fianco
di qua da Trento l’Adice percosse,

o per tremoto o per sostegno manco,
che da cima del monte, onde si mosse,
al piano è sì la roccia discoscesa,
ch’alcuna via darebbe a chi sù fosse:
cotal di quel burrato era la scesa

vid’ io lo Minotauro far cotale;
e quello accorto gridò: “Corri al varco;
mentre ch’e’ ’nfuria, è buon che tu ti cale”.

Veggendoci calar, ciascun ristette,
e de la schiera tre si dipartiro
con archi e asticciuole prima elette;
e l’un gridò da lungi:  “A qual martiro
venite voi che scendete la costa?”

li margini fan via, che non son arsi,
e sopra loro ogne vapor si spegne.

Purg. III, 46-54; V, 22-27, 55-57; VII, 67-72; VIII, 43-47

Noi divenimmo intanto a piè del monte;
quivi trovammo la roccia erta,
che ’ndarno vi sarien le gambe pronte.
Tra Lerice e Turbìa la più diserta,
la più rotta ruina è una scala,
verso di quella, agevole e aperta.
“Or chi sa da qual man la costa cala”,
disse ’l maestro mio fermando ’l passo,
“sì che possa salir chi va sanz’ ala?”.

E ’ntanto per la costa di traverso
venivan genti innanzi a noi un poco,
cantando ‘Miserere’ a verso a verso.
Quando s’accorser ch’i’ non dava loco
per lo mio corpo al trapassar d’i raggi,

mutar lor canto in un “oh!” lungo e roco ……
sì che, pentendo e perdonando, fora
di vita uscimmo a Dio pacificati,
che del disio di sé veder n’accora.

“Colà”, disse quell’ ombra, “n’anderemo
dove la costa face di sé grembo;
e là il novo giorno attenderemo”.                    6, 11
Tra erto e piano era un sentiero schembo,

che ne condusse in fianco de la lacca,
là dove più ch’a mezzo muore il lembo.

E Sordello anco: “Or avvalliamo omai
tra le grandi ombre, e parleremo ad esse;
grazïoso fia lor vedervi assai”.
Solo tre passi credo ch’i’ scendesse,
e fui di sotto ………………………

[LSA, prologus, Notabile XIII (V status)] Sacramentum vero penitentie expedit et congruit infirmitatibus quinti status. […]

Inf. XXVIII, 73-75

rimembriti di Pier da Medicina,
se mai torni a veder lo dolce piano
che da Vercelli a Marcabò dichina”.

[LSA, prologus, Notabile III (V status)] Patet enim hoc de primo dono. Nam pastoralis cura insistit primo ovium propagationi (I). Secundo earum defensioni ab imbribus et lupis et consimilibus (II). Tertio earum directioni seu deductioni ad exteriora (III). Quarto earum pascuali refectioni (IV). Quinto morborum et morbidarum medicinali extirpationi (V). Sexto ipsarum plene reformationi (VI). Septimo ipsarum in suum ovile reductioni et recollectioni (VII).

[LSA, prologus, Notabile III (V status); de quinto dono (zelus severus in phialis designatus est septiformis)] Item est septiformis quia est contra initium mali intrinsecum (I) et extrinsecum (II); et contra medium terminum, scilicet ascendens (III) stans (IV) et declinans (V); et contra terminum intrinsecum (VI) et extrinsecum (VII).

[LSA, prologus, Notabile V (V status)] Quia etiam post tam altos status expedit multitudinem condescensive recipi et primos secundum proportionem suarum virium sequi, idcirco in quinto tempore condescensivi status capaces multitudinis refulserunt.

Inf. XVI, 94-105

Come quel fiume c’ha proprio cammino
prima dal Monte Viso ’nver’ levante,
da la sinistra costa d’Apennino,
che si chiama Acquacheta suso, avante
che si divalli giù nel basso letto,
e a Forlì di quel nome è vacante,
rimbomba là sovra San Benedetto
de l’Alpe per cadere ad una scesa
ove dovea per mille esser recetto;
così, giù d’una ripa discoscesa,
trovammo risonar quell’ acqua tinta,
sì che ’n poc’ ora avria l’orecchia offesa.

Par. XXII, 37-39

Quel monte a cui Cassino è ne la costa
fu frequentato già in su la cima

da la gente ingannata e mal disposta

Inf. XXVII, 31-33, 52-54

Io era in giuso ancora attento e chino,
quando il mio duca mi tentò di costa,
dicendo: “Parla tu; questi è latino”.

E quella cu’ il Savio bagna il fianco,
così com’ ella sie’ tra ’l piano e ’l monte,
tra tirannia si vive e stato franco.

Purg. XI, 40-42; XII, 100-108

mostrate da qual mano inver’ la scala
si va più corto; e se c’è più d’un varco,
quel ne ’nsegnate che men erto cala

Come a man destra, per salire al monte
dove siede la chiesa che soggioga
la ben guidata sopra Rubaconte,
si rompe del montar l’ardita foga
per le scalee che si fero ad etade

ch’era sicuro il quaderno e la doga;
così s’allenta la ripa che cade
quivi ben ratta da l’altro girone;
ma quinci e quindi l’alta pietra rade.

[LSA, prologus, Notabile V (V status)] […] tuncque congrue instituta est vita condescensiva, ut nequeuntibus in arduis perdurare daretur locus gratie in mediocri statu.

Par. XXIII, 85-87

O benigna vertù che sì li ’mprenti,
sù t’essaltasti per largirmi loco
a li occhi lì che non t’eran possenti.

Par. XIII, 37-48

Tu credi che nel petto onde la costa
si trasse per formar la bella guancia

il cui palato a tutto ’l mondo costa,
e in quel che, forato da la lancia,
e prima e poscia tanto sodisfece,
che d’ogne colpa vince la bilancia,
quantunque a la natura umana lece
aver di lume, tutto fosse infuso
da quel valor che l’uno e l’altro fece;
e però miri a ciò ch’io dissi suso,
quando narrai che non ebbe ’l secondo
lo ben che ne la quinta luce è chiuso.

Inf. X, 73-75

Ma quell’ altro magnanimo, a cui posta
restato m’era, non mutò aspetto,
né mosse collo, né piegò sua costa

Inf. XXI, 10-12; XXII, 118-120, 145-148

ché navicar non ponno – in quella vece
chi fa suo legno novo e chi ristoppa
le coste a quel che più vïaggi fece

O tu che leggi, udirai nuovo ludo:
ciascun da l’altra costa li occhi volse,
quel prima, ch’a ciò fare era più crudo

Barbariccia, con li altri suoi dolente,
quattro ne fé volar da l’altra costa
con tutt’ i raffi, e assai prestamente
di qua, di là discesero a la posta

Inf. XXIII, 31-33, 43-45, 136-141

S’elli è che sì la destra costa giaccia,
che noi possiam ne l’altra bolgia scendere,
noi fuggirem l’imaginata caccia.

e giù dal collo de la ripa dura
supin si diede a la pendente roccia,
che l’un de’ lati a l’altra bolgia tura.

“salvo che ’n questo è rotto e nol coperchia;
montar potrete su per la ruina,
che giace in costa e nel fondo soperchia”.
Lo duca stette un poco a testa china;
poi disse: “Mal contava la bisogna
colui che i peccator di qua uncina”.

Inf. XXIV, 34-40

E se non fosse che da quel precinto
più che da l’altro era la costa corta,
non so di lui, ma io sarei ben vinto.
Ma perché Malebolge inver’ la porta
del bassissimo pozzo tutta pende,
lo sito di ciascuna valle porta
che l’una costa surge e l’altra scende

Inf. XXXIV, 73-75, 130-132

appigliò sé a le vellute coste;
di vello in vello giù discese poscia
tra ’l folto pelo e le gelate croste. … …
d’un ruscelletto che quivi discende
per la buca d’un sasso, ch’elli ha roso,
col corso ch’elli avvolge, e poco pende.

Purg. I, 112-114

El cominciò: “Figliuol, segui i miei passi:
volgianci in dietro, ché di qua dichina
questa pianura a’ suoi termini bassi”.

Inf. II, 40-42

tal mi fec’ ïo ’n quella oscura costa,
perché, pensando, consumai  la ’mpresa
che fu nel cominciar cotanto tosta.

[LSA, cap. III, Ap 3, 1 (Ia visio, Va ecclesia] Respectu vero quinti status ecclesiastici, talem se proponit quia quintus status est respectu quattuor statuum precedentium generalis, et ideo universitatem spirituum seu donorum et stellarum seu rectorum et officiorum se habere testatur, ut qualis debeat esse ipsius ordinis institutio tacite innotescat. Diciturque hec ei non quia dignus erat muneribus ipsis, sed quia ipsi et semini eius erant, si dignus esset, divinitus preparata. Unde et Ricardus dat aliam rationem quare hec ecclesia dicta est “Sardis”, id est principium pulchritudinis, quia scilicet sola initia boni non autem consumationem habuit, et solum nomen sanctitatis potius quam rem*.

* In Ap I, xi (PL 196, col. 742 C).

Tab. 3.2.2

[LSA, prologus, Notabile VII (V status)] Si autem contra hanc rationem obicias quod perfectio quinti status non est superior perfectionibus quattuor priorum statuum neque altius et propinquius ascendens ad finalem et supremam perfectionem, immo secundum supradicta videtur esse inferior et distantior, triplex est ad hoc responsio. Prima est quia licet condescensio quinti status in infirmis, pro quibus fit, sit imperfectior, in sanctis tamen, arduas perfectiones priorum statuum in habitu mentis tenentibus et ex sola caritate et infirmorum utilitate condescendentibus, est ipsa condescensio ad perfectionis augmentum, prout patet in Christo infirmis condescendente. Unde et Ade subtracta est fortis costa ad formationem Eve, “et replevit” Deus “carnem pro ea” (Gn 2, 21), id est pietatem condescensionis pro robore solitarie austeritatis.

[LSA, prologus, Notabile III (V status); de quinto dono (zelus severus in phialis designatus est septiformis)] Item est septiformis quia est contra initium mali intrinsecum (I) et extrinsecum (II); et contra medium terminum, scilicet ascendens (III) stans (IV) et declinans (V); et contra terminum intrinsecum (VI) et extrinsecum (VII).

[LSA, prologus, Notabile XII (V status)] Quintus vero status pluribus ex causis debuit diu durare. Prima est quia eius condescensio potuit in multitudine diutius perdurare tamquam eius infirmitati proportionalis. […] Sexta, secundum Ioachim, est quia quintus status post quattuor animalia, id est post quattuor ordines perfectorum, tenuit typum generalis sedis, et ideo debuit in multitudine habundare*.

* Concordia, III 1, c. 2; Patschovsky 2, p. 209, 4-19.

Par. XI, 43-51

Intra Tupino e l’acqua che discende
del colle eletto dal beato Ubaldo,

fertile costa d’alto monte pende,
onde Perugia sente freddo e caldo

da Porta Sole; e di rietro le piange
per grave giogo Nocera con Gualdo.
Di questa costa, là dov’ ella frange
più sua rattezza, nacque al mondo un sole,
come fa questo talvolta di Gange.


Par
. XII, 52-54

siede la fortunata Calaroga
sotto la protezion del grande scudo
in che soggiace il leone e soggioga

■ Ad Ap 11, 12 Olivi spiega che due sono i modi di illuminazione divina. Come infatti ricade nella gloria di Dio che talvolta si nasconda ingegnosamente a quanti sono giustamente da accecare e ci dimostri con ciò la prudenza del suo ingegno e un ordinato procedere da una radice occulta, tramite un tronco stretto, a un ampio e alto distendersi dei rami, così è proprio della sua gloria un’improvvisa manifestazione di potenza che confonde gli avversari e converte a sé e illumina molti, con il che ci dimostra un altro ordine, che procede dall’alto verso gli inferiori per cui la luce del sole dalla sorgente subito diffonde in modo aperto, espanso e chiaro i suoi raggi su tutto l’universo. Il primo modo si è manifestato nell’ascensione di Cristo, che non fu vista dai suoi nemici ma solo dai suoi discepoli, poiché allora i Giudei dovevano essere accecati e Cristo doveva essere loro nascosto per venire invece predicato e manifestato ai Gentili; allorché invece la conversione riguarderà tutto il mondo e l’Anticristo, con i suoi complici, verrà confuso e piagato, sarà più opportuno il secondo modo. Nelle opere divine c’è una concordia tra due elementi conformi, e c’è una concordia, altrettanto bella e piacente, tra due elementi contrapposti.
Al primo modo sembra accostabile, a Par. XII, 49-51, il nascondersi del sole “per la lunga foga” estiva dietro le onde dell’oceano: la descrizione di Calaruega, il luogo di nascita di san Domenico, si contrappone nello stesso numero di versi ad Assisi, dove “nacque al mondo un sole, / come fa questo talvolta di Gange” (Par. XI, 50-51), dove cioè il sole si manifestò con improvvisa illuminazione.
Al secondo modo rinvia il più vivace raggiare dell’ “ardor santo” nell’uomo, più a Dio conforme perché creato “sanza mezzo” (Par. VII, 70-75; cfr. XIX, 88-90), come pure il raggiare “insieme tutto / sanza distinzïone in essordire” nel “triforme effetto” di “forma e materia, congiunte e purette” (Par. XXIX, 22-30).
Poco prima, ad Ap 11, 8, è detto che la città, sulla cui piazza rimarranno esposti i corpi dei due testimoni vinti e uccisi in apparenza dalla bestia che sale dall’abisso, si chiama spiritualmente “Sodoma”, cioè muta, ed “Egitto”, cioè tenebrosa. Essa sarà infatti muta nella confessione della vera fede e tenebrosa per pravità, oppure Sodoma per lussuria ed Egitto per soverchia e maligna persecuzione contro Israele, il cui popolo fu crudelmente afflitto dal Faraone allorché Dio gli ordinò di uscire dalla terra d’Egitto. Risorti dopo tre giorni e mezzo, i due testimoni saliranno al cielo in una nube sotto gli sguardi dei loro nemici (Ap 11, 12).
Questi motivi sono appropriati a Cangrande. Come afferma Cacciaguida, le genti non si sono ancora accorte di lui “per la novella età” (e questo nascondersi corrisponde al primo modo dell’illuminazione divina), ma presto saranno conosciute le sue magnificenze, tanto che i suoi nemici “non ne potran tener le lingue mute” (Par. XVII, 79-87; e questo confondere gli avversari corrisponde al secondo modo). Ma Cangrande, nelle parole dell’avo di Dante, è segnato soprattutto dai riferimenti all’angelo dal volto solare descritto nel capitolo X, che Olivi identifica con Francesco.

Tab. 3.2.3

[LSA, cap. XI, Ap 11, 8.12 (IIIa visio, VIa tuba)] “Que”, scilicet civitas, “spiritaliter”, id est secundum spiritalem intelligentiam, “vocatur Sodoma”, id est muta, “et Egiptus” (Ap 11, 8), id est tenebrosa, quia muta erit ad confessionem vere fidei et tenebrosa per ignorantiam et pravam actionem. Vel per excessum luxurie erit quasi Sodoma et per excessum maligne persecutionis Israel, id est sanctorum, erit quasi Egiptus. Egiptus enim et Pharao rex eius afflixit crudeliter populum Dei, et precipue ex quo iussu Dei habuit de Egipto exire. Ibi etiam erat tunc summa idolatria et avaritia, sic et hic erit magna idolatria errorum et abhominanda adoratio Antichristi. […]
“Et viderunt eos inimici eorum” (Ap 11, 12), scilicet corporaliter ascendentes in celum. Adverte hic et ubique sumi preteritum pro futuro. Nota etiam quod inimici Christi non viderunt Christum ascendentem in celum, sed soli eius discipuli, quia tunc erant Iudei excecandi et Christus abscondendus ab eis et postmodum sub alio congruo ordine erat per apostolos gentibus predicandus et manifestandus. Nunc vero totus orbis erit convertendus et Antichristus cum suis complicibus erit ex sanctorum gloria confundendus et plagandus. Sicut enim gloriosum est Deo quod aliquando iuste excecandis se ingeniose abscondat et prudentiam sui ingenii nobis in hoc ipso demonstret, et etiam ordinem procedendi ab occulta radice per strictum stipitem ad ramorum latam et altam spansionem, sic in gloriam Dei cedit quod aliquando per subitam manifestationem sue potentie et glorie con[ter]at et confundat adversarios suos et ad se convertat et illuminet multos, in quo et monstrat alium ordinem procedendi a superiori ad inferiora et a fontali et patula luce solis ad expansam et claram et subitam diffusionem radiorum suorum in totum orbem. Tuncque per quandam pulchram contrapositionem correspondent ultima primis. Sicut enim correspondentia concordie similis et conformis est pulchra et placens, sic et correspondentia per decentem contrapositionem. Et ideo in operibus Dei non semper est querenda correspondentia prima.

Par. XII, 49-52

non molto lungi al percuoter de l’onde
dietro a le quali, per la lunga foga,
lo sol talvolta ad ogne uom si nasconde,
siede la fortunata Calaroga

Par. VII, 73-77, 112-117; XXIX, 25-30

Più l’è conforme, e però più le piace ;
ché l’ardor santo ch’ogne cosa raggia,
ne la più somigliante è più vivace.
Di tutte queste dote s’avvantaggia
l’umana creatura …………………………

Né tra l’ultima notte e ’l primo die
sì alto o sì magnifico processo,
o per l’una o per l’altra, fu o fie:
ché più largo fu Dio a dar sé stesso
per far l’uom sufficiente a rilevarsi,
che s’elli avesse sol da sé dimesso

E come in vetro, in ambra o in cristallo
raggio resplende sì, che dal venire
a l’esser tutto non è intervallo,
così ’l triforme effetto del suo sire
ne l’esser suo raggiò insieme tutto
sanza distinzïone in essordire.

Par. XI, 49-51

Di questa costa, là dov’ ella frange
più sua rattezza, nacque al mondo un sole,
come fa questo talvolta di Gange.

Par. XIX, 88-90

Cotanto è giusto quanto a lei consuona:
nullo creato bene a sé la tira,
ma essa, radïando, lui cagiona.

[LSA, cap. I, Ap 1, 13 (Ia visio)] Secunda (perfectio summo pastori condecens) est nature humane conformitas seu condescensiva ad subditos humilitas et humanitas, propter quod dicit: “similem Filio hominis”. Ex hoc autem quod non dicit “Filium hominis”, sed “similem Filio hominis”, arguit Ricardus quod angelum vidit, qui in persona et similitudine Christi demonstrabat sibi omnia, qui eo amplius habuit auctoritatis quod apparuit in ipsa similitudine salvatoris*.

In Ap I, iv (PL 196, coll. 705 D-706 A).

 

Inf. IV, 152; V, 28

E vegno in parte ove non è che luca.

Io venni in loco d’ogne luce muto

[LSA, cap. X, Ap 10, 1 (IIIa visio, VIa tuba)] Ipse enim fuit singulariter “fortis” in omni virtute et opere Dei (Ap 10, 1), et per summam humilitatem et recognitionem prime originis omnis nature et gratie semper “descendens de celo”, et per aeream et per subtilem seu spiritualem levitatem ab omni pondere terrenorum excussam fuit “amictus nube”, id est altissima paupertate aquis celestibus plena, id est suprema possessione et imbibitione celestium divitiarum.

Par. XVII, 76-93

“Con lui vedrai colui che ’mpresso fue,
nascendo, sì da questa stella forte,
che notabili fier l’opere sue.
Non se ne son le genti ancora accorte
per la novella età, ché pur nove anni
son queste rote intorno di lui torte;
ma pria che ’l Guasco l’alto Arrigo inganni,
parran faville de la sua virtute
in non curar d’argento né d’affanni.
Le sue magnificenze conosciute
saranno ancora, sì che ’ suoi nemici
non ne potran tener le lingue mute.
A lui t’aspetta e a’ suoi benefici;
per lui fia trasmutata molta gente,
cambiando condizion ricchi e mendici;
e portera’ne scritto ne la mente
di lui, e nol dirai”; e disse cose
incredibili a quei che fier presente. 10, 5-7

 

■ Francesco, Benedetto e Augustino (Par. XXXII, 35)

San Benedetto e san Francesco sono accomunati dalla “costa”, cioè dal pietoso e condiscendente aprirsi dell’erta solitudine verso le moltitudini e la vita associata proprio del quinto stato – un valore femminile, si direbbe, che tempera la mascolinità. I due santi stanno insieme anche nell’Empireo, dove Dante li vede “con imagine scoverta”; li accompagna Agostino: i nomi dei tre formano un endecasillabo (Par. XXXII, 35). La triade, pur non appartenendo storicamente allo stesso periodo, designa la vita monastica e canonicale che si è sviluppata intensamente nel quinto stato (il quale formalmente inizia con il soccorso recato alla Chiesa romana da Carlo Magno o da suo padre Pipino).
Gli stati della Chiesa sono interconnessi fra loro per concurrentia al modo dell’umana generazione: il periodo che segue inizia prima della fine di quello che precede come il feto si forma e si nutre nell’utero materno prima di nascere e come un fanciullo viene educato nella casa del padre prima di diventarne l’erede. Per la “concurrentia” fra gli stati (prologo, Notabile X) le regole benedettina e agostiniana, istituite nel quarto stato (dei contemplativi), fiorirono nel quinto e Francesco iniziò il sesto stato sotto il regime del precedente periodo. E nell’Empireo fa da guida il contemplativo san Bernardo, che al quinto stato appartiene di diritto e ne reca tutta la tenerezza: “Diffuso era per li occhi e per le gene / di benigna letizia, in atto pio / quale a tenero padre si convene (Par. XXXI, 61-63; Dante si rivolge a san Benedetto chiamandolo “padre”: Par. XXII, 58) │Unde quamvis vita monachorum quarti temporis fuerit clarior, non tamen fecundior nec sic habens sensum vivum et tenerum pietatis (prologo, Notabile XIII)”.
Quarto stato (designato da Fonte Avellana) e quinto (indicato con “la casa / di Nostra Donna in sul lito adriano”) sono ben distinti da Pier Damiani, l’anima che Dante incontra prima di san Benedetto nel cielo di Saturno, sia che con “Pietro Damiano” e “Pietro Peccator” debba intendersi la stessa persona (il Damiani anacoreta e canonico) o due distinti soggetti (Par. XXI, 121-123). Questa differenza fra i monaci del quarto stato, nei quali “nulla erat possessio aut possessionum anxietas sicut est in temporibus istis, sed summa et una omnibus paupertatis voluntas”, e i più imperfetti monaci o canonici del quinto viene affermata da Gioacchino da Fiore citato da Olivi nel Notabile XII del prologo, “ne forte cum de monachis quinti temporis sermo succedet, vel de illis clericis qui canonice vivunt, alterum occurat pro altero et nominum idemptitas intellectum obscuret”.

Tab. 3.3

[LSA, prologus, Notabile I] Quartus vero proprie cepit a tempore magni Antonii anachorite, seu a tempore Pauli primi heremite; vel, secundum Ioachim, a tempore Iustiniani augusti de quo infra in decimo notabili amplius tangetur.

[LSA, prologus, Notabile X] Secundum tamen Ioachim, libro III° Concordie sue, quartus status ecclesie non sumitur proprie a primo tempore priorum anachoritarum sed solum a tempore Iustiniani augusti usque ad tempus Karoli*. Subponit enim quod illo tempore in sollempniori multitudine claruit status ille quam claruerit in primo. Nam tempore Iustiniani multum fuit attrita heresis Arrianorum et ceterorum et multo amplius paulo post tempore Gregorii Magni, quando gens Gothorum in Ispania conversa est ab heresi arriana, et ideo hereticis ab Africa et Ispania et ab oriente pro magna parte purgatis, potuit copiosius multiplicari et clarificari religio christiana. Secundum hoc autem, satis tempore et statu distinguitur status quartus a tertio. Posset etiam, secundum hoc, tertius status vocari doctrine et ardue vite cum hereticis commixte et ab eis inquietate; quartus vero doctrine et vite ab illis purgate ac per consequens magis quiete et clarificate. […]
Debuit enim sequens status inchoari ante decisionem prioris, tum propter maiorem connexionem statuum, tum quia sicut infans formatur et nutritur in utero matris antequam per exitum distinguatur ab ea, et sicut parvulus prius nutritur et docetur a patre antequam ipso mortuo fiat heres eius et rector domus sue, sic expedit sequentem statum formari et nutriri in utero prioris et a principio regi ab eo quasi a tutore vel patre. […] Sic etiam status monachorum sancti Benedicti et canonicorum regule sancti Augustini, in quinto tempore multiplicatus, cepit sub quarto tempore. Nam sanctus Benedictus floruit ante tempus Iustiniani imperatoris circa tempus Theodorici regis Gothorum et Boetii ab ipso occisi et circa initium sexti centenarii Christi. Augustinus autem floruit longe ante, scilicet circa finem quarti centenarii incarnationis Christi.
Sic etiam sextus status a beato Francisco est inchoatus, durante adhuc quinto et concurrente cum ipso iam fere per centum annos.

* Concordia, III 2, c. 4; Patschovsky 2, p. 322, 1-10.

Par. XXXII, 34-36

e sotto lui così cerner sortiro
Francesco, Benedetto e Augustino
e altri fin qua giù di giro in giro.

 

■ Il quinto stato corrisponde al quinto giorno della creazione, nel quale Dio disse agli uccelli (i monaci, più spirituali) e ai pesci (i chierici, commisti alle genti): “crescete e moltiplicatevi” (Genesi 1, 22). Così i monasteri e le chiese si sono propagati nella chiesa occidentale, e la vita, pur non tanto chiara per fama come nel quarto stato, si è svolta però con un “senso vivo e tenero della pietà”, al modo con cui gli uccelli e i pesci sono più dotati nel sentire dei “luminaria celi”, cioè del sole, della luna e delle stelle assimilati ai contemplativi del quarto tempo (prologo, Notabile XIII: questa esegesi è tratta da Gioacchino da Fiore).
Di qui, nella narrazione che Virgilio fa delle origini di Mantova, “Peschiera”, che “siede” (il quinto stato è assimilato alla ‘sede’ romana) dove “più discese” la riva del Benaco (il quinto stato è dei condescensivi). Anche l’essere “bello” appartiene al quinto stato, nel suo bel principio, mentre l’appellativo “forte arnese” è proprio del quarto stato (Inf. XX, 70-72; cfr. Il terzo stato. La ragione contro l’errore, Appendice). Virgilio, “quell’ ombra gentil per cui si noma / Pietola più che villa mantoana” (Purg. XVIII, 82-83), è un alto rappresentante della pietas del quinto stato.
Altra “peschiera”, nome comune, si mostra a Par. V, 100. Ma il “panno” (prologo, Notabile XIII) è il medesimo per entrambi i luoghi della “gonna”, però diversamente cuciti. Nel cielo di Mercurio i beati, definiti “spirti pii” (v. 121), appaiono in moltitudine (“più di mille splendori”), accorrendo quasi pesci verso il pasto “come ’n peschiera ch’è tranquilla e pura” e dicendo: “Ecco chi crescerà li nostri amori”, allusione al “crescite et multiplicamini” del Genesi  (vv. 100-105).
È ancora da notare la simmetria variata del verso “Come ’n peschiera ch’è tranquilla e pura”, relativo agli “spirti pii” del secondo cielo, con quello “Quale per li seren tranquilli e puri” con cui inizia, nel cielo di Marte, la discesa di Cacciaguida dal braccio destro al piede della croce, porgendosi in modo pio come aveva fatto negli Elisi l’ombra di Anchise verso il figlio Enea (Par. XV, 13-27): entrambi i versi (Par. V, 100; XV, 13) contengono temi propri della settima coppa (Ap 16, 17), in entrambi i casi connessi con la pietas propria del condiscendente quinto stato.
Non avere alcuno spirito di pietà viene rimproverato da Pier della Vigna a Dante, che su istigazione di Virgilio ha colto un rametto dal gran pruno in cui il suicida è incarcerato (Inf. XIII, 35-39). L’espressione “uomini fummo” e il riferimento alle “anime di serpi” contengono temi propri della creazione nel sesto stato, nel quale furono prima creati gli animali irrazionali come i serpenti e poi l’uomo (prologo, Notabile XIII). Sugli “alberi strani” della selva dei suicidi fanno i loro nidi “le brutte Arpie”, che corrispondono agli uccelli immondi creati nel quinto stato (ibid., 10-15, 100-102).
Dietro a Francesco “la gente poverella crebbe” (Par. XI, 94-95); l’Ordine dei Minori, quasi fosse un individuo, attua il “crescite et multiplicamini” di Genesi  1, 22. Quella che è forse la più singolare prerogativa del quinto stato, la pietas, raggiunge l’acme nel sesto stato con la carità di Francesco, che si dilata ad arco, come l’iride sul capo dell’angelo dal volto solare, verso gli uomini: «Habuit etiam “irim in capite”, id est arcualem refulgentiam solis, quia viscerosa caritas Christi ad nostras inferiores miserias aperta et arcualiter dilatata fuit assidue et intime impressa menti Francisci» (Ap 10, 1) [1].

 

[1] Sull’ “excessus pietatis” in Francesco cfr. P. PÉANO, La «Quaestio fr. Petri Iohannis Olivi» sur l’indulgence de la Portiuncule, in “Archivum Franciscanum Historicum”, 74 (1981), pp. 33-76: 68. In questo senso è da intendere l’affermazione di Raoul Manselli circa il brano del XIII Notabile relativo alla pietas: “Anche se il nome dell’Ordine francescano non è espressamente fatto, ci sembra difficile porre in dubbio che l’Olivi, in quella caratterizzazione, non pensi al suo Ordine”: cfr. R. MANSELLI, La “Lectura super Apocalipsim” di Pietro di Giovanni Olivi. Ricerche sull’escatologismo medioevale, Roma 1955 (Istituto Storico Italiano per il Medio Evo. Studi storici, 19-21), p. 216, nt. 1. Il sesto stato riceve infatti e porta a compimento tutte le prerogative degli stati precedenti.

 

Tab. 3.4

[LSA, prologus, Notabile XIII; Vus status] In quinto vero tempore fuerunt spiritualiores monachi quasi aves volantes, clerici vero gentibus commixti fuerunt quasi pisces in aquis (cfr. Gn 1, 20-21). In hac autem die primo dictum est: “Crescite et multiplicamini” et cetera (Gn 1, 22), quia numquam in preteritis temporibus sic monasteria vel ecclesie in tali vita, que conveniret pluribus, ordinate fuere quomodo in tempore quinto, quia non tantum clericorum et monachorum, verum etiam ecclesiarum et monasteriorum que sunt propagata in tempore quinto in hac occidentali ecclesia colligere numerum non est facile. Unde quamvis vita monachorum quarti temporis fuerit clarior, non tamen fecundior nec sic habens sensum vivum et tenerum pietatis. Aves enim et pisces prehabundant in sensu luminaribus celi. Attamen notandum quod in quinta die creata sunt munda pariter et immunda. Sunt enim pisces secundum legem mundi et immundi, avesque similiter *.

[LSA, cap. II, Ap 2, 1 (Ia visio, Va ecclesia)] Vocatur autem congrue hec ecclesia Sardis, id est principium pulchritudinis, tum quia in suis paucis incoinquinatis habet singularem gloriam pulchritudinis, quia difficillimum et arduissimum est inter tot suorum luxuriantes se omnino servare mundum; tum quia primi institutores quinti status fuerunt in se et in suis omnis munditie singulares zelatores, suorumque collegiorum regularis institutio, diversa membra et officia conectens et secundum suas proportiones ordinans sub regula unitatis condescendente proportioni membrorum, habet mire pulchritudinis formam toti generali ecclesie competentem, que est sicut regina aurea veste unitive caritatis ornata et in variis donis et gratiis diversorum membrorum circumdata varietate.

[LSA, prologus, Notabile XIIVus status] Quintus vero status pluribus ex causis debuit diu durare. Prima est quia eius condescensio potuit in multitudine diutius perdurare tamquam eius infirmitati proportionalis. […] Sexta, secundum Ioachim, est quia quintus status post quattuor animalia, id est post quattuor ordines perfectorum, tenuit typum generalis sedis, et ideo debuit in multitudine habundare**.

* Cfr. Concordia, V 1, c. 13; Patschovsky 3, p. 561, 10-11; p. 563, 4-15; p. 565, 3-4 (Olivi sintetizza più passi di Gioacchino, è comunque sua l’espressione nec sic habens sensum vivum et tenerum pietatis).

**
 Concordia, III 1, c. 2; Patschovsky 2, p. 209, 4-19.

Inf. XX, 70-72

Siede Peschiera, bello e forte arnese
da fronteggiar Bresciani e Bergamaschi,
ove la riva ’ntorno più discese.

Inf. XIII, 10, 34-39

Quivi le brutte Arpie lor nidi fanno

Da che fatto fu poi di sangue bruno,
ricominciò a dir: “Perché mi scerpi?
non hai tu spirto di pietade alcuno?
Uomini fummo, e or siam fatti sterpi:
ben dovrebb’ esser la tua man più pia,
se state fossimo anime di serpi”.

Par. XI, 94-96

Poi che la gente poverella crebbe
dietro a costui, la cui mirabil vita
meglio in gloria del ciel si canterebbe

[LSA, prologus, Notabile XIII; VI status] In sexto autem die seu tempore primo creata sunt animalia irrationalia, scilicet iumenta et reptilia et bestie, et post hoc creatus est homo ad imaginem Dei cum muliere ex ipso formata (cfr. Gn 1, 24-28). Bestie enim et reptilia sunt regna paganorum et secte pseudoprophetarum, que sexto ecclesie tempore contra ipsam atrocius permittentur sevire. Iumenta vero sunt simplices ad obedientiam prompti et ad honera active. Ordo autem evangelicus est tamquam homo rationalis ad imaginem Dei factus, et ipse subiciet bestias et omnem terram et preerit piscibus et avibus, id est omnibus ordinibus quinto tempore formatis; distinguetur autem in prelatos et collegium subditorum, quasi in virum et uxorem.

Par. V, 100-105, 121-123

Come ’n peschiera ch’è tranquilla e pura
traggonsi i pesci a ciò che vien di fori
per modo che lo stimin lor pastura,
 vid’ io ben più di mille splendori
trarsi ver’ noi, e in ciascun s’udia:
“Ecco chi crescerà li nostri amori”.

Così da un di quelli spirti pii
detto mi fu; e da Beatrice: “Dì, dì
sicuramente, e credi come a dii”.

Par. XV, 13-16, 22-27

Quale per li seren tranquilli e puri
discorre ad ora ad or sùbito foco,
movendo li occhi che stavan sicuri,
e pare stella che tramuti loco

né si partì la gemma dal suo nastro,
ma per la lista radïal trascorse,
che parve foco dietro ad alabastro.
pïa l’ombra d’Anchise si porse,
se fede merta nostra maggior musa,
quando in Eliso del figlio s’accorse.

[LSA, cap. XVI, Ap 16, 17 (Va visio, VIIa phiala)] Secundum autem Ioachim, septima phiala effunditur super “aerem”, id est super electos, ut si que eis macule adheserunt de communione Babilonis, purgentur et dealbentur super nivem, et in percussione septima cessat plaga Domini a populo Dei*. […] Et quidem congrue per “aerem” intelligitur contemplativus status in hac vita, quia sic stat in medio inter vitam beatam et terrenam sicut aer inter celum et terram. Et sicut aer purgatus a grossis et fumosis vaporibus et nubibus et tranquillatus a ventorum tempestatibus est pervius radiis solis et stellarum et visui hominum, sic septimus status ecclesie, post plenam sui purgationem in effusione septime phiale consumandam, erit serenus et tranquillus et pervius seu perspicuus ad contemplativos radios solis eterni et totius celestis et subcelestis hierarchie, ita quod tunc totus cultus templi Dei et tota sedes et maiestas Dei clamabit magnifice et evidenter Dei opera esse consumata. Et hoc quidem in hac vita, sumendo statum septimum prout erit in hac vita.

Expositio, pars V, f. 191va.

 

■ Francesco e Domenico si collocano all’inizio del sesto stato, periodo di apertura di nuove fronde; concorrono ancora con la fase finale del quinto, pietoso, condiscendente, con i loro Ordini che crescono come individui, aperti alle moltitudini associate dopo l’ardua e per certi versi insostenibile vita degli alti anacoreti. I due campioni però partecipano (e con essi anche Tommaso d’Aquino e Bonaventura, che ne tessono le lodi) anche degli altri stati della storia della Chiesa: del primo, perché con loro la Chiesa ritornò alle sue umili origini; del secondo, per la sete di martirio di Francesco e di combattimento di Domenico. Essi si manifestano nel cielo del Sole; concorrono infatti come due soli ad impersonare il terzo stato dei dottori, che combattono le eresie, e il quarto stato degli anacoreti o contemplativi, dall’eccellente vita (a costoro è dedicato il cielo di Saturno).

Il terzo stato dei dottori concorre con il quarto degli anacoreti, è anzi il più evidente esempio del fenomeno per cui un periodo storico continua nel successivo, come questo ha radici nel precedente (prologo, Notabile X). La trattazione della terza e della quarta guerra (Ap 12, 13-16) avviene infatti congiuntamente, e in essa alla donna, figura della Chiesa, vengono date due ali di una grande aquila, per combattere da una parte le eresie con il lume dei dottori, dall’altra l’affluenza dei beni temporali con la santità di vita degli anacoreti. Le cronache dimostrano la loro concorrenza. Ad esempio, l’anacoreta Antonio e il dottore Atanasio fiorirono entrambi al tempo di Costantino. Ilario e Ambrogio furono contemporanei di Macario e di altri anacoreti. San Basilio, grande dottore, visse nello stesso periodo di Gregorio Nazianzeno, anch’egli grande dottore e autore di una regola monastica assai rigida. Così al tempo di Gregorio Magno molti furono gli austeri anacoreti.
Come l’affetto presuppone la “notitia intellectus”, cioè la conoscenza, poiché non si può amare se non ciò che è già conosciuto, ma questa conoscenza non è santa senza un santo affetto, così il chiaro lume dei dottori precede l’esercizio degli affetti e la contemplazione degli anacoreti, ma non può essere chiaro senza l’eccellenza della vita propria di questi. Pertanto i due stati, entrambi di solare sapienza, concorrono, con mutuo ossequio, ad illuminare e ad infiammare l’orbe convertito nel mezzogiorno.
Nella domanda di Dante a Francesca – “a che e come concedette amore / che conosceste i dubbiosi disiri?” (Inf. V, 119-120) – viene premesso il conoscere al desiderio, l’intelletto all’affetto. I peccatori carnali sono quelli “che la ragion sommettono al talento”, cioè pospongono l’intelletto all’affetto o al desiderio (ibid., 39): nella sua domanda il poeta sembra voler ripristinare il corretto ordine. La risposta di Francesca – “Ma s’a conoscer la prima radice / del nostro amor tu hai cotanto affetto, / dirò come colui che piange e dice” (ibid., 124-126) – fa riferimento sia alla conoscenza come al desiderio, ma sembra accentuare quest’ultimo (“cotanto affetto”).
In Inf. VII, 52-54, a Dante che vorrebbe riconoscere qualcuno fra gli avari e i prodighi, Virgilio risponde che “la sconoscente vita che i fé sozzi, / ad ogne conoscenza or li fa bruni”: l’espressione “sconoscente vita”, cioè la vita priva dell’intelletto che discerne, contiene in sé i motivi dell’intelletto e dell’affetto (la santa vita) propri rispettivamente dei dottori e degli anacoreti. Alle schiere degli avari e dei prodighi è inoltre assegnata una pena per cui percorrono, facendo rotolare pesi col petto, la metà del quarto cerchio fino al punto in cui cozzano insieme scambiandosi ingiurie, per poi tornare indietro a ripercuotersi nel punto diametralmente opposto. I due punti del cerchio, che distinguono la loro pena, segnano anche la concorrenza delle due schiere, quasi entrambe abbiano un solo orizzonte e diversi emisferi, non molto diversamente da quanto avviene nella posizione astronomica di Gerusalemme e della montagna del Purgatorio, poste agli antipodi e nel mezzo di due emisferi opposti, come descritta da Virgilio in Purg. IV, 61-75 (cfr. Inf. XX, 124-126).
L’intelletto e l’affetto sono complementari nell’episodio dell’incontro con Casella (che, come quello di Francesca, registra la prevalenza dei temi del secondo stato dei martiri): “Io vidi una di lor trarresi avante / per abbracciarmi, con sì grande affetto … Soavemente disse ch’io posasse; / allor conobbi chi era …”. L’affetto di Casella precede l’agnizione da parte di Dante, che è seguita da nuova manifestazione di affetto: «Rispuosemi: “Così com’ io t’amai / nel mortal corpo, così t’amo sciolta”» (Purg. II, 76-90).
Il precedere della  “notitia intellectus”, cioè della conoscenza, rispetto all’affetto, poiché non si può amare se non quanto si è preventivamente conosciuto, trova un’applicazione nelle parole con cui Beatrice, spiegando nel Primo Mobile le gerarchie angeliche, afferma che la beatitudine si fonda “ne l’atto che vede, / non in quel ch’ama, che poscia seconda” (Par. XXVIII, 109-111; cfr. XXIX, 139-141), asserzione che solo apparentemente accetta la dottrina tomista in contrasto col volontarismo francescano (ad Ap 21, 22 si afferma che se il lume della visione è l’ultimo termine della beatitudine, esso non può prescidendere dall’ “actus caritatis”).
Ancora, “lo ’ntelletto / de le prime notizie” e “de’ primi appetibili l’affetto”, cioè la disposizione a conoscere e ad amare, sono innate nell’uomo (nell’uomo razionale: prologo, Notabile I), come detto da Virgilio nella spiegazione razionale data del rapporto tra amore e libero arbitrio (Purg. XVIII, 55-60).
La concorrenza tra il lume dei dottori e la santa ed eccellente vita degli anacoreti è impersonata in Carlo Martello, “la vita di quel lume santo” (Par. IX, 7). I temi sono poi ripresi e variati da Cunizza: “vedi se far si dee l’omo eccellente, / sì ch’altra vita la prima relinqua” (ibid., 41-42), nel senso che l’uomo razionale, che designa i dottori, deve avere vita santa, propria degli anacoreti. Ciò è detto di Folchetto, trovatore e vescovo di Tolosa, di cui rimase “grande fama” per l’uno e per l’altro operare, concorrendo in questo il chiaro lume dell’intelletto e la santa vita affettiva.

Si tratta di motivi che vengono variamente appropriati nel cielo del Sole: Tommaso d’Aquino è “luce” che narra la “mirabil vita” di Francesco, “anima preclara” (Par. XI, 115), “poverel di Dio” (Par. XIII, 32-33), verso la cui “eccellenza” l’Aquinate “fu sì cortese” (Par. XII, 109-111). Tale “infiammata cortesia” muove “la vita” di Bonaventura ad elogiare (“inveggiar”, da invidiare nel senso di emulari in bono, come nell’esegesi di Ap 3, 19) san Domenico (ibid., 142-145). Nel reciproco elogio dei fondatori del proprio ordine, Tommaso e Bonaventura concorrono anch’essi “ad mutuum obsequium (la “cortesia”) et ad meridiem universi orbis tunc ad fidem conversi simul clarificandam et inflammandam”. Nel Paradiso terrestre, allorché il sole tiene il cerchio di mezzogiorno “più corusco e con più lenti passi”, Dante ha visto i due fiumi “Ëufratès e Tigri” uscire da una sorgente e dipartirsi pigri come due amici che si lasciano (Purg. XXXIII, 103-114).

Tab. 3.5

[LSA, prologus, Notabile X] Prout vero status ab invicem per certam propriorum donorum et officiorum preeminentiam ac multitudinis personarum in ipsis concurrentium distinguuntur, sic concurrit tertius cum quarto non quidem in eodem statu sed in eodem tempore. […] Ideo autem quartus status concurrit eodem tempore cum tertio, quia sicut affectus exigit notitiam intellectus, nec ista notitia est sancta absque sancto affectu, sic affectualis exercitatio et contemplatio anachoritarum et sanctorum illitteratorum eguit preclaro lumine doctorum, nec illud preclarum esse potuit absque precellentia vite. Unde ad mutuum obsequium et ad meridiem universi orbis tunc ad fidem conversi simul clarificandam et inflammandam debuerunt illi duo status concurrere simul. Sicut autem notitia preit amorem, quia non potest amari nisi cognitum, sic status doctorum in hoc libro premittitur ante statum anachoritarum; in quarta tamen visione ostenduntur simul concurrere, ubi dicitur quod “date sunt mulieri due ale aquile magne ut volaret in desertum” (Ap 12, 14). Quod autem de facto insimul concurrant, patet ex cronicis. […]

[LSA, prologus, Notabile VII] Rursus sicut omnis dies habet mane, meridiem et vesperam, sic et omnis status populi Dei in hac vita. Nam in eterna erit semper meridies absque nocte. Ergo tempus plenitudinis gentium sub Christo debuit ante conversionem alterius populi, scilicet iudaici, habere mane et meridiem et vesperam. Et sic quasi iam vidimus esse completum et a Iohanne in hoc libro descriptum. Nam eius mane commixtum tenebris idolatrie fuit ab initio conversionis gentium usque ad Constantinum (I-II). Eius vero meridies fuit in preclara doctrina et contemplatione et vita doctorum et anachoritarum (IIIIV). Eius vero vespera circa finem quinti temporis nimis apparet (V). Et cum Babilon meretrix et bestia portans eam erit in suo summo, tunc erit nox eius tenebrosissima, de qua in Psalmo dictum est: “Posuisti tenebras et facta est nox, in ipsa pertransibunt omnes bestie silve” (Ps 103, 20). Ipse sunt et bestie sexto die formate, post quas et formatus est homo ad imaginem Dei, quia post has convertetur Israel cum reliquiis gentium et apparebit christiformis vita et imago Christi (VI).

Inf. V, 118-120, 124-126

Ma dimmi: al tempo d’i dolci sospiri,
a che e come concedette amore
che conosceste i dubbiosi disiri?

Ma s’a conoscer la prima radice
del nostro amor tu hai cotanto affetto,
dirò come colui che piange e dice.

Inf. VII, 31-35, 43-45, 53-54

Così tornavan per lo cerchio tetro
da ogne mano a l’opposito punto,
gridandosi anche loro ontoso metro;
poi si volgea ciascun, quand’ era giunto,
per lo suo mezzo cerchio a l’altra giostra.

Assai la voce lor chiaro l’abbaia,
quando vegnono a’ due punti del cerchio
dove colpa contraria li dispaia.

la sconoscente vita che i fé sozzi,
ad ogne conoscenza or li fa bruni.

Par. IX, 7, 37-42; XI, 115-116; XII, 97-98, 109-111, 127-128, 142-144; XIII, 31-33

E già la vita di quel lume santo ……
Di questa luculenta e cara gioia
del nostro cielo che più m’è propinqua,
grande fama rimase; e pria che moia,
questo centesimo anno ancor s’incinqua:
vedi se far si dee l’omo eccellente,
sì ch’altra vita la prima relinqua.

e del suo grembo l’anima preclara
mover si volle ………………………….

Poi, con dottrina e con volere insieme,
con l’officio appostolico si mosse ……
ben ti dovrebbe assai esser palese
l’eccellenza de l’altra, di cui Tomma
dinanzi al mio venir fu sì cortese. …… 22, 17
Io son la vita di Bonaventura
da Bagnoregio ……………………….
Ad inveggiar cotanto paladino
mi mosse l’infiammata cortesia
di fra Tommaso e ’l discreto latino

Ruppe il silenzio ne’ concordi numi
poscia la luce in che mirabil vita
del poverel di Dio narrata fumi

Purg. XVIII, 55-57

Però, là onde vegna lo ’ntelletto
de le prime notizie, omo non sape,
e de’ primi appetibili l’affetto

[LSA, prologus, Notabile I] (III) Tertius (status) est confessorum seu doctorum, homini rationali appro-priatus.

Purg. II, 76-78, 85-90

Io vidi una di lor trarresi avante
per abbracciarmi, con sì grande affetto,
che mosse me a far lo somigliante.

Soavemente disse ch’io posasse;
allor conobbi chi era, e pregai
che, per parlarmi, un poco s’arrestasse.
Rispuosemi: “Così com’ io t’amai
nel mortal corpo, così t’amo sciolta:
però m’arresto; ma tu perché vai?”.

Inf. XX, 124-126

Ma vienne omai, ché già tiene ’l confine
d’amendue li emisperi e tocca l’onda
sotto Sobilia Caino e le spine

Purg. IV, 67-75, 137-139

Come ciò sia, se ’l vuoi poter pensare,
dentro raccolto, imagina Sïòn
con questo monte in su la terra stare
sì, ch’amendue hanno un solo orizzòn
e diversi emisperi; onde la strada
che mal non seppe carreggiar Fetòn,
vedrai come a costui convien che vada
da l’un, quando a colui da l’altro fianco,
se lo ’ntelletto tuo ben chiaro bada. ………
e dicea: “Vienne omai; vedi ch’è tocco
meridïan dal sole, e a la riva
cuopre la notte già col piè Morrocco”.

Purg. XXXIII, 103-104, 112-114

E più corusco e con più lenti passi
teneva il sole il cerchio di merigge ……
Dinanzi ad esse Ëufratès e Tigri
veder mi parve uscir d’una fontana,
e, quasi amici, dipartirsi pigri.

Par. XXVIII, 109-111

Quinci si può veder come si fonda
l’esser beato ne l’atto che vede,
non in quel ch’ama, che poscia seconda

[LSA, cap. XXI, Ap 21, 22 (VIIa visio)] “Et templum non vidi in ea” et cetera. Hic agit de sacro cultu et lumine quo civitas beatorum colit Deum et videt ipsum et omnia in ipso. Prius enim egit de formali et intrinseca luce et claritate eius (Ap 21, 11), hic vero de fontali obiecto et radio in quo Deum et omnia videbit. Que quidem visio est summa et ultimata illuminatio beatorum; beatificus autem actus caritatis spectat magis proprie ad cultum et sacrificium templi, quamvis utrumque in utroque comprehendatur, quia neutrum absque altero est perfectum etiam in propria specie sua.

Par. XXIX, 139-141

Onde, però che a l’atto che concepe
segue l’affetto, d’amar la dolcezza
diversamente in essa ferve e tepe.

Par. XXX, 70-72

L’alto disio che mo t’infiamma e urge,
d’aver notizia di ciò che tu vei,
tanto mi piace più quanto più turge

 

4. Il suono della voce di Cesare

All’inizio della parte narrativa della sua esposizione, Giovanni precisa sette circostanze generali e degne di lode proprie delle visioni successivamente descritte. La sesta circostanza (Ap 1, 10-11) consiste nel fatto che all’evangelista viene ingiunto solennemente di scrivere la visione e di inviarla alle chiese d’Asia, come intendesse dire: non per mia iniziativa, ma per speciale comando divino ho scritto ed invio. Per cui soggiunge: “E udii una voce dietro di me” (et audivi post me vocem magnam tamquam tubae dicentis: quod vides scribe in libro … et conversus sum ut viderem vocem quae loquebatur mecum).
Il comando proviene da una voce udita dietro le spalle. Stare dietro può essere inteso nel senso che Giovanni era in quel momento dedito alla quiete della contemplazione, lontano dalla sollecitudine derivante dall’attività pastorale, che aveva lasciata alle spalle: la voce dunque lo richiama dalla visione delle cose supreme, che gli stanno dinanzi, alla cura d’anime che sta dietro (è l’interpretazione di Riccardo di San Vittore). Oppure (è l’interpretazione di Olivi), considerando che le cose che ci stanno dietro sono invisibili e pertanto superiori, si può intendere che Giovanni ascolti una voce alle spalle che lo elevi e riconduca verso l’alto, mentre con il volto è rivolto in basso, verso cose inferiori. In questo senso, nel Vangelo di Giovanni, si dice che Maria Maddalena, volta indietro, vide Gesù (Jo 20, 14).
Ricevuto il comando di scrivere il libro e di mandarlo alle sette chiese, delle quali viene specificato il nome, Giovanni si volta per vedere attentamente da quale persona provenga la voce (è la settima circostanza, Ap 1, 12). Questo vedere può essere inteso come un apprendimento totale: sebbene abbia già appreso la voce al momento del suo primo ascolto, ora si converte più fortemente ad essa per apprenderla in modo compiuto.
Il parlare dietro le spalle, di cui si tratta ad Ap 1, 10-12, è anche quello che proviene dalla propria guida, che sta dietro come custode e conducitrice della sua cavalcatura, per cui in Ezechiele si dice: “uno spirito mi sollevò e dietro a me udii una voce” (Ez 3, 12). È “vox magna”, in quanto il suono esce da una persona di grande virtù, eccitando mirabilmente Giovanni; è “come una tromba”, sia perché esorta alla guerra contro i vizi e contro l’esercito dei reprobi, sia perché invita a banchetti di gloria. La tromba designa inoltre la predicazione, la quale fu come occulta fino al tempo dei profeti, più manifesta nel periodo che va da Isaia a Giovanni Battista e infine compiuta nel coro degli apostoli, per cui, secondo san Paolo ai Romani, “in ogni terra uscì il loro suono” (Rm 10, 18; cfr. Ps 18, 5).
L’esegesi di questi passi (altrove considerata in modo più ampio) si mostra fondamentale per le agnizioni nel poema; è inoltre collazionabile con altri luoghi parzialmente analoghi.
Si può collazionare Ap 1, 10-12 (la gran voce come una tromba udita dietro le spalle) con quanto detto ad Ap 19, 6 sulla “voce di molte acque”. Questa, nella gaudiosa festa delle nozze di Cristo con la Chiesa, è anche come la voce di una grande tromba e come la voce di grandi tuoni che dice “alleluia”. Secondo Gioacchino da Fiore, ad iniziare la lode è un santo, quasi fosse la grande tromba di Dio, alla cui voce la lode subito risuona su molte bocche come la voce di molte acque, la quale, fatta più ampia nel suo estremo quasi quella di grandi tuoni, perviene fino ai confini della terra. Alla triplice specie della voce corrisponde una triplice proprietà o perfezione della lode: è efficace nel muovere come la voce di una grande tromba, irriga con la multiforme devozione e compunzione come la voce di molte acque, aliena nello stupore estatico quasi assorbendo la mente e scuotendo nell’intimo come la voce di grandi tuoni.
Nel Notabile XII del prologo della Lectura, la diffusione della fede nel mondo ad opera degli apostoli viene paragonata alla velocità della luce del sole, che procede subitamente da oriente verso occidente e percorre come folgore l’universo. Analogo motivo ad Ap 1, 7, con la citazione da Matteo 24, 27: “Come la folgore proviene da oriente e appare a occidente, così sarà la venuta del Figlio dell’uomo”.
Il procedere come una folgore muovendo da oriente verso occidente è proprio di Cesare, che dalla Troade si scosse contro Tolomeo, e dall’Egitto “scese folgorando a Iuba”, in Mauritania, per poi volgersi “nel vostro occidente”, nella Spagna, “ove sentia la pompeana tuba” (Par. VI, 67-72).
Cesare “si volse” come sentendo una voce dietro di sé, “vox tamquam tube”; e certo il richiamo a sconfiggere a Munda i seguaci di Pompeo dovette essere, come quello di Giovanni, un revocare a cose più alte dopo la vittoria a Tapso su Giuba, re di Mauritania, su cui “scese folgorando” (come verso cose inferiori). Le folgoranti imprese di Cesare precedono la venuta di Cristo, di cui sono “figura” e preparazione. Come afferma Gioacchino da Fiore, citato ad Ap 16, 18, il folgorare è segno del nuovo che Dio intende fare sulla terra: “quando Deus vult mutare statum ecclesie precedunt ante per aliquot annos fulgura miraculorum et voces exhortationum et tonitrua spiritualium eloquiorum, ut homines excitentur et intelligant quod novum aliquid facturus sit Dominus super terram”.
Nell’elogio di san Francesco pronunciato da Tommaso d’Aquino, Povertà, impersonata nel pescatore Amiclate descritto da Lucano (Phars., V, 519-531), venne trovata imperturbabile da Cesare in persona, al suono della cui voce tutto il mondo era scosso di paura, variazione del tema paolino del suono della voce che perviene fino ai confini della terra, “efficax ad movendum sicut est vox magne tube” (Par. XI, 67-69). Anche il suono della fama delle opere volpine di Guido da Montefeltro si diffuse fino agli estremi del mondo (Inf. XXVII, 76-78).
La voce tubicinante, ascoltata da Giovanni, lo invita a banchetti di gloria; il suono della voce di Cesare non serve a Povertà, la quale resta “sanza invito” fino a Francesco (Par. XI, 64-66).

 

Tab. 4

[LSA, cap. I, Ap 1, 10 (VIa circumstantia visionum)] Sexta circumstantia est sollempnis iussio sibi facta ut visiones has sollempniter scribat et septem ecclesiis Asie mittat, quasi dicat: non meo motu, sed Dei speciali iussu hec scripsi et mitto. Unde subdit: “et audivi post me vocem” (Ap 1, 10).
Secundum Ricardum, ideo post se audivit vocem in signum quod a subditis elongatus et quieti deditus omnem pastoralem sollicitudinem post se longe reliquerat, et ideo dum nunc ad subditorum eruditionem a supernis reducitur, quasi de anterioribus ad posteriora revocatur*.
Vel pro quanto ea que sunt post nos sunt nobis invisibilia, et conversis secundum faciem ad inferiora sunt ea que post tergum nobis superiora, pro tanto vocem post se audit quia ad invisibilia et superiora ipsum sublevat et reducit. Unde et in huius signum, Iohannis XX°, Maria conversa retrorsum dicitur vidisse Ihesum (Jo 20, 14).
Item per hoc significatur quod loquens erat dux eius, quasi post tergum eius existens more custodis et ductoris sui equi vel iumenti, unde Ezechielis III° dicitur: “Assumpsit me spiritus et audivi post me vocem” et cetera. (Ez 3, 12).
Dicit autem “magnam”, tum quia magna significabat, tum quia a magna persona et virtute exibat et Iohannem magnifice ex[c]itabat. Dicit etiam “tamquam tube”, tum quia ad bellum contra vitia et contra exercitus reproborum exhortabatur, tum quia ad epulas glorie invitabat et ad audiendum Dei et angelorum consilium convocabat, tum quia forma tube gerit typum predicatorum ecclesie. In quibus a principio usque ad tempora prophetarum fuit predicatio quasi occulta, a diebus vero Isaie manifestior esse cepit usque ad Iohannem Baptistam, ibique consumata est in apostolico choro: “in omnem” enim “terram exivit sonus eorum” (Ps 18, 5; Rm 10, 18). Consimiliter autem intellige de sexto statu ecclesie.

[LSA, cap. XIX, Ap 19, 6 (VIa visio)] Sequitur de festivo gaudio regni Christi et nuptiarum eius et ecclesie: “Et audivi quasi vocem tube magne et sicut vocem aquarum multarum et sicut vocem tonitruorum magnorum, dicentium: Alleluia”.
Secundum Ioachim, inchoante hanc laudem aliquo magno sancto, quasi magna tuba Dei, statim resonabit laus in ore multorum, que erit quasi vox aquarum multarum; ad extremum autem maior effecta, quasi tonitruorum magnorum, perveniet usque ad fines terre*.
Item per hanc trinam speciem vocis designatur triplex proprietas et perfectio huius laudis. Erit enim efficax ad movendum, sicut est vox magne tube; et ad irrigandum multiformibus devotionibus et compunctionibus, quasi vox aquarum multarum; et ad extatice stupefaciendum et alienandum et quasi ad cordis cerebrum absorbendum et funditus concutiendum, quasi vox tonitruorum magnorum.

In Ap I, iv (PL 196, coll. 704 D-705 A).

* Expositio, pars VI, distinctio II, f. 204vb.

Par. VI, 67-72

Antandro e Simeonta, onde si mosse,
rivide e là dov’ Ettore si cuba;
e mal per Tolomeo poscia si scosse.
Da indi scese folgorando a Iuba;
onde si volse nel vostro occidente,
ove sentia la pompeana tuba.

Par. XXV, 79-81

Mentr’ io diceva, dentro al vivo seno
di quello incendio tremolava un lampo
sùbito
e spesso a guisa di baleno.

Par. XI, 64-69

Questa, privata del primo marito,
millecent’ anni e più dispetta e scura
fino a costui si stette sanza invito;
né valse udir che la trovò sicura
con Amiclate, al suon de la sua voce,
colui ch’a tutto ’l mondo fé paura

Inf. XXVII, 76-78

Li accorgimenti e le coperte vie
io seppi tutte, e sì menai lor arte,
ch’ al fine de la terra il suono uscie.

[LSA, prologus, Notabile XII] Dicendum quod diffusio fidei per apostolos in orbem universum debuit esse velox instar lucis solaris ab oriente in occidentem subito procedentis et instar fulguris universa subito discurrentis. Hoc enim fuit in gloriam Christi et lucis sue, unde in apertione primi signaculi dicitur exisse vincens ut vinceret (cfr. Ap 6, 2).

[LSA, Ap 1, 7 (VIIus primatus Christi secundum quod homo)] “Et videbit eum omnis oculus”, scilicet bonorum et malorum. Non quod eius deitatem videant, sed corpus assumptum in quo omnibus visibiliter et manifeste apparebit. Unde Matthei XXIIII° dicit: “Sicut fulgur exit ab oriente et apparet in occidente, ita erit adventus Filii hominis” (Mt 24, 27). Per hoc autem monstrat eum iudicaturum omnes tam bonos quam malos.

[LSA, cap. I, Ap 1, 10 (VIa circumstantia visionum)] Sexta circumstantia est sollempnis iussio sibi facta ut visiones has sollempniter scribat et septem ecclesiis Asie mittat, quasi dicat: non meo motu, sed Dei speciali iussu hec scripsi et mitto. Unde subdit: “et audivi post me vocem” (Ap 1, 10). […]
Dicit autem “magnam”, tum quia magna significabat, tum quia a magna persona et virtute exibat et Iohannem magnifice ex[c]itabat. Dicit etiam “tamquam tube”, tum quia ad bellum contra vitia et contra exercitus reproborum exhortabatur, tum quia ad epulas glorie invitabat et ad audiendum Dei et angelorum consilium convocabat, tum quia forma tube gerit typum predicatorum ecclesie. In quibus a principio usque ad tempora prophetarum fuit predicatio quasi occulta, a diebus vero Isaie manifestior esse cepit usque ad Iohannem Baptistam, ibique consumata est in apostolico choro: “in omnem” enim “terram exivit sonus eorum” (Ps 18, 5; Rm 10, 18). Consimiliter autem intellige de sexto statu ecclesie.

Par. XI, 64-69

Questa, privata del primo marito,
millecent’ anni e più dispetta e scura
fino a costui si stette sanza invito;
né valse udir che la trovò sicura
con Amiclate, al suon de la sua voce,
colui ch’a tutto ’l mondo fé paura

LUCANO, Pharsalia, V, 519-531

Haec Caesar bis terque manu quassantia tectum
limina commovit. Molli consurgit Amyclas,
quem dabat alga, toto. «Quisnam mea naufragus» inquit
«tecta petit? Aut quem nostrae Fortuna coegit
auxilium sperare casae?» Sic fatus ab alto
aggere iam tepidae sublato fune favillae
scintillam tenuem commotos pavit in ignes
securus belli; praedam civilibus armis
scit non esse casas. O vitae tuta facultas
pauperis angustique lares! O munera nondum
intellecta Deum! Quibus hoc contingere templis
aut potuit muris, nullo trepidare tumultu,
Caesarea pulsante manu?

[Convivio IV, xiii, 12] E ciò vuol dire Lucano nel quinto libro, quando commenda la povertà di sicuranza, dicendo: «Oh sicura facultà della povera vita! oh stretti abitaculi e masserizie! oh non ancora intese ricchezze delli Dèi! A quali tempî o a quali muri poteo questo avenire, cioè non temere con alcuno tumulto, bussando la mano di Cesare?». E quello dice Lucano quando ritrae come Cesare di notte a la casetta del pescatore Amiclas venne, per passare lo mare Adriano.

 

5. Francesco e Povertà: un matrimonio sublime e grottesco

Scrivendo nel 1944 su Francesco d’Assisi nella Commedia, Erich Auerbach notava nella descrizione del matrimonio con Povertà la compresenza di stili, dal sublime al grottesco. In una cornice didascalica e scolastica, dove l’allegoria viene attratta nella realtà storica ma la persona è subordinata all’ufficio o alla missione, per cui la concezione generale prevale su singoli fatti o aneddoti, la poesia trascorre dal registro più alto a quello più degradato. Da una parte la ripetuta immagine della sposa e dello sposo. Ma si tratta di uno strano matrimonio, di un’unione per la quale Dante non parla dello svestimento di Francesco e della sua rinuncia all’eredità, come fanno molte fonti. Francesco si unisce con una donna da tutti disprezzata, dopo la “guerra” col padre, in una cerimonia odiosa dipinta con colori stridenti sotto il segno dell’abiezione. Anzi, le apre “la porta del piacere”, con allusione sessuale secondo Auerbach. Poi i ‘bizzarri’ versi nei quali si descrive Povertà che sale sulla croce di Cristo o il modo ‘espressionistico’ con il quale furono acquistati i primi compagni, rappresentato alla stregua di un amoroso inseguimento della donna di un altro. Ma Bernardo di Quintavalle “dietro a tanta pace corse”, e la “pace” è la vittoria conseguita dai contemplativi. Tutto ciò per dire la conformità di Francesco con Cristo, il quale del poverel di Dio fu “figura” che nella storia si rinnova.

Con Francesco inizia il sesto stato della Chiesa, per Olivi quello più cristiforme. Una palingenesi sta operando, il secolo si rinnova nel secondo avvento di Cristo, non nella carne, ma nello Spirito, cioè nei suoi discepoli spirituali inviati, come un tempo Giovanni, l’autore dell’Apocalisse, a predicare a tutto il mondo. Dei sacramenti appropriati ai sette stati, il matrimonio è quello che più si addice al sesto stato. Vediamo ora come l’esegesi apocalittica oliviana permei i versi danteschi.

 

5.1. Maria rimase giuso

È il momento più pieno del francescanesimo del poeta. Gli venga dal Commercium, dallo Speculum, dall’Arbor o da quale si voglia altro libro; lo abbia raccolto dalla voce degli Spirituali sperduti per gli eremi dell’Appennino; il fatto che importa è che in quel matrimonio di Francesco con la Povertà egli vede l’intima parentela di lui con Gesù, e perciò la superiorità del movimento da lui originato sopra ogni altro della storia cristiana (U. COSMO, L’ultima ascesa. Introduzione alla lettura del Paradiso, Bari 1936, p. 161).

Nel celebre confronto fra Maria, che “rimase giuso”, e Povertà, che “con Cristo pianse in su la croce”, Dante sembra aver contaminato l’Arbor vitae crucifixae Iesu di Ubertino da Casale per la prima con il Sacrum commercium per la seconda:

UBERTINO DA CASALE, Arbor vitae crucifixae Iesu, V, 3 (Venetiis 1485, rist. anast. a cura di C. T. Davis, Torino 1961, p. 426a).

Sed et fidelissima consorcia dum ad bellum nostre redemptionis accederes, te est comitata fideliter, et in ipso passionis conflictu indiuiduus armiger astitit, et discipulis recedentibus et negantibus nomen tuum ipsa non discessit, sed te tunc cum toto comitatu suorum principum fidelibus sociauit; immo ipsa matre, propter altitudinem crucis, que tamen te sola tunc fideliter coluit, et affectu anxio tuis passionibus iuncta fuit, ipsa inquam tali matre te non ualente contingere, domina Paupertas cum omnibus suis penuriis tamquam tibi gratissimus domicellus te plus quam unquam fuit strictius amplexata et tuo cruciatu precordialius iuncta […].

Sacrum commercium sancti Francisci cum domina Paupertate, cap. 6, 9-13 (ed. S. Brufani, S. Maria degli Angeli, Assisi 1990, p. 142).

Tu autem, fidelissima sponsa, amatrix dulcissima, nec ad momentum discessisti ab eo, immo tunc magis sibi adherebas, cum magis eum ab omnibus contemni videbas. Nam, si cum eo non fuisses, numquam sic despici ab omnibus potuisset.
Secum eras in conviciis Iudeorum, in insultationibus Phariseorum, in exprobrationibus principum sacerdotum; secum in colaphis, secum in sputis, secum in flagellis. Reverendus ab omnibus, subsannatus ab omnibus erat, et tu sola solatiabaris ei. Non reliquisti eum usque ad mortem, mortem autem crucis (cfr. Philp 2, 8). Et in ipsa cruce, denudato iam corpore, extensiis brachiis, manibus et pedibus confixis, patiebaris secum, ita ut nil in eo te gloriosius appareret.

Par. XI, 70-72

  né valse esser costante né feroce,
sì che, dove Maria rimase giuso,
ella con Cristo pianse in su la croce.

Il verbo rimanere non c’è tuttavia in Ubertino. Considerato quanto si è mostrato fin qui sull’intima corrispondenza fra Lectura e Commedia, è necessario, per così dire, ritrovarne i solchi nella grande cava dei significati spirituali. Si tratta di un verbo spesso abbinato nel poema a Maria:

 

Purg. III, 37-45

“State contenti, umana gente, al quia;
ché, se potuto aveste veder tutto,
mestier non era parturir Maria ;
e disïar vedeste sanza frutto
tai che sarebbe lor disio quetato,
ch’etternalmente è dato lor per lutto:
io dico d’Aristotile e di Plato
e di molt’ altri”; e qui chinò la fronte,
e più non disse, e rimase turbato.

Purg. V, 100-102

Quivi perdei la vista e la parola;
nel nome di Maria fini’, e quivi
caddi, e rimase la mia carne sola.

Par. XI, 70-72

né valse esser costante né feroce,
sì che, dove Maria rimase giuso,
ella con Cristo pianse in su la croce.

Par. XXIII, 121-135

E come fantolin che ’nver’ la mamma
tende le braccia, poi che ’l latte prese,
per l’animo che ’nfin di fuor s’infiamma;
ciascun di quei candori in sù si stese
con la sua cima, sì che l’alto affetto
ch’elli avieno a Maria mi fu palese.
Indi rimaser lì nel mio cospetto,
Regina celi’ cantando sì dolce,
che mai da me non si partì ’l diletto.
Oh quanta è l’ubertà che si soffolce
in quelle arche ricchissime che fuoro
a seminar qua giù buone bobolce!
Quivi si vive e gode del tesoro
che s’acquistò piangendo ne lo essilio
di Babillòn, ove si lasciò l’oro.

Il riferimento è a una limitata parte dell’esegesi oliviana, quella relativa ad Ap 12, 17. Un accurato esame mostra come le maglie significanti di questa esegesi si dilatino ovunque nei versi, ad abbracciare qualsiasi altra possibile fonte, palese o meno, che con essa concorda [1].
La quinta guerra viene condotta dal drago contro le rimanenze (le reliquie) del seme della donna [2], rappresentate da coloro che custodiscono i precetti divini e danno testimonianza di Cristo (Ap 12, 17). Secondo Gioacchino da Fiore, il seme della donna è Cristo rapito in cielo con i suoi martiri, e questo è seme che precede; quello che rimane viene designato con l’evangelista Giovanni (cfr. Jo 21, 22), cioè con i contemplativi propri del quarto stato. Olivi ritiene tuttavia che il testo sacro, nella quarta visione, dopo aver trattato le guerre sostenute in primo luogo da Cristo (Ap 12, 4-6), in secondo luogo dai martiri (Ap 12, 7-12) e in terzo e quarto luogo dalla Chiesa, prima dispersa e poi riunita da Costantino e dotata come un’aquila delle ali dei dottori e degli anacoreti per volare nel deserto dei Gentili e in quello della vita contemplativa (Ap 12, 13-16), si riferisca ora in parte ad eventi successivi allo stato degli anacoreti (il quarto), e precisamente a quanti di essi rimasero sopravvivendo alle distruzioni operate dai Saraceni e, comunque, alle reliquie lasciate al quinto stato. In entrambi i casi si parla di “reliquie” poiché, come in un vaso di vino purissimo rimangono, una volta bevuta la parte superiore, maggiore e più pura, solo poche reliquie vicine alle impurità e quasi con esse mescolate, così della pienezza e purezza del vino dei dottori e degli anacoreti del terzo e del quarto stato prima rimasero solo le reliquie, al momento della devastazione saracena, poi, nel quinto stato, occupate molte chiese dai Saraceni e separatisi i Greci dalla fede romana, rimase solo la Chiesa latina come reliquia della Chiesa che prima era diffusa in tutto l’orbe.
Mentre Maria “rimase” con Giovanni (“semen mulieris”) ai piedi della croce, Povertà fu martire con Cristo.
La rosa tematica offerta dall’esegesi di Ap 12, 17 si presta a molteplici variazioni nel poema sacro, la cui ricchezza è paragonabile ai molti altri luoghi della Lectura che si mostrano essere stati fornitori di panno per l’intera stesura della gonna.

[1] Quelle di ambito francescano non sono certo, nelle mistiche nozze di Francesco, le uniche fonti. P. NASTI, Favole d’amore e «saver profondo». La tradizione salomonica in Dante, Ravenna 2007, pp. 180-193, sottolinea l’importanza dell’esegesi del Cantico dei Cantici. Quanto questa sia stata decisiva per le “nove rime” è stato mostrato altrove.

[2] La donna vestita di sole, di cui parla la quarta visione (Ap 12, 1-14, 20), e che sostiene sette guerre, è la Vergine Madre che partorisce il corpo mistico di Cristo, e quindi anche la Chiesa, in special modo quella primitiva; cfr. ad Ap 12, 1-2: «Quartum (radicale) vero, huic annexum, est ad Christum tam verum quam misticum in eius spiritali utero conceptum et in gloriam pariendum fortis cruciatio. Unde de eius adornatione subditur (Ap 12, 1): “Et signum magnum apparuit in celo”, id est in celesti statu Christi, scilicet “mulier amicta sole, et luna sub pedibus eius, et in capite eius coronam stellarum duodecim”. De parturitionis autem cruciatu subditur (Ap 12, 2): “Et in utero habens et clamat parturiens et cruciatur ut pariat”. Mulier ista, per singularem anthonomasiam et per specialem intelligentiam, est virgo Maria Dei genitrix. Per generalem vero intelligentiam, hec mulier est generalis ecclesia et specialiter primitiva. Virgo enim Maria et in utero corporis et in utero mentis Christum caput concepit et habuit, et in utero cordis totum corpus Christi misticum habuit  sicut mater suam prolem».

 

Tab. 5.1

[LSA, cap. XII, Ap 12, 17 (IVa visio, Vum prelium)] Dicit ergo: “Et iratus est dracho in mulierem” (Ap 12, 17). Nota quod quanto plus et pluries videt se vinci ab ecclesia et prole eius, tanto maiori ira exardescit ad illam fortius temptandam et deiciendam.
“Et abiit facere bellum cum reliquis de semine eius, qui custodiunt mandata Dei et habent testimonium Ihesu”, id est fidelem confessionem Christi per quam testimonium perhibent de Christo. Duo ponit necessaria ad salutem, scilicet observantiam mandatorum et fidem Christi exteriori professione et confessione expressam.
Ioachim dicit quod semen mulieris est Christus raptus ad tronum cum martiribus suis, et istud semen precesserat; aliud autem remanserat designatum in Iohanne evangelista, scilicet ordo monachorum quarti temporis meridianam plagam incolentium. Et ideo vocat eos reliquos seu residuos de semine mulieris*.
Videtur tamen quod post Christum et martires ubique dispersos egit de ecclesia post Constantinum in unum collecta et duabus alis, id est duobus ordinibus doctorum scilicet et anachoritarum altivolis, adornata et in altum sublevata, et tam in deserto gentilitatis quam in deserto contemplative solitudinis alimentum sue refectionis habente. Post hoc autem restabat agere de reliquis tam predicti temporis quam de reliquis in quinto statu relictis. Utrique enim signanter vocantur reliqui seu reliquie, quia sicut bibita superiori et puriori et maiori parte vini vasis magni restant pauce reliquie cum fecibus quibus sunt propinque et quasi commixte, sic de plenitudine purissimi vini doctorum et anachoritarum tertii et quarti temporis remanserunt reliquie circa tempora Sarracenorum; ac deinde pluribus ecclesiis per Sarracenos vastatis et occupatis, Grecisque a romana ecclesia separatis, remansit in quinto tempore sola latina ecclesia tamquam reliquie prioris ecclesie per totum orbem diffuse. De utrisque ergo reliquiis simul agit, tum quia in utrisque remissio habundavit respectu perfectionis priorum, tum quia bestia sarracenica contra utrosque pugnavit quamvis primo contra primos.

* Expositio, pars IV, distinctio IV, ff. 161vb-162ra, 163vb-164ra.

Par. XI, 70-72

né valse esser costante né feroce,
sì che, dove Maria  rimase giuso,
ella con Cristo pianse in su la croce.

Par. XXII, 68-69, 73-75

e nostra scala infino ad essa varca,
onde così dal viso ti s’invola.

Ma, per salirla, mo nessun diparte
da terra i piedi, e la regola mia
rimasa è per danno de le carte.

Par. XII, 112-114, 121-123

Ma l’orbita che fé la parte somma
di sua circunferenza, è derelitta,
sì ch’è la muffa dov’ era la gromma.

Ben dico, chi cercasse a foglio a foglio
nostro volume, ancor troveria carta
u’ leggerebbe “I’ mi son quel ch’i’ soglio”

Inf. XVIII, 106-108

Le ripe eran grommate d’una muffa,
per l’alito di giù che vi s’appasta,
che con li occhi e col naso facea zuffa.

 

5.2. L’arco della carità

Olivi applica a Francesco la figura dell’angelo del sesto sigillo (Ap 7, 2); a Francesco e a Domenico quella dell’angelo dal volto solare (sesta tromba: Ap 10, 1-3): cfr. supra.
Un importante passo di Gioacchino da Fiore, relativo all’angelo dal volto solare, viene utilizzato da Dante in tutt’altro contesto (Purg. XXXII, 70ss.).
A questo passo Olivi fa seguire l’immagine del carro di Elia come segno figurale di Francesco trasfigurato nel vero sole, cioè in Cristo, alla quale rinvia, in modo apparentemente dissonante, la similitudine di Inf. XXVI, 34-42 (cfr. Ulisse perduto. Un viaggio nel futuro, PDF, pp. 154-156, 159-161).
La “biga” con due ruote (Francesco e Domenico: Par. XII, 106-111) è prefigurata nell’Eden dal “carro, in su due ruote, trïunfale” (la Chiesa militante) tirato dal grifone-Cristo (Purg. XXIX, 106-108), a sua volta prefigurato dagli antichi carri trionfali della Roma di Scipione e di Augusto o dallo stesso carro del Sole (ibid., 115-117).
L’angelo della sesta tromba, che ha la faccia come il sole, discende lievemente dal cielo, avvolto in una nube («per aeream et per subtilem seu spiritualem levitatem ab omni pondere terrenorum excussam fuit “amictus nube”, id est altissima paupertate aquis celestibus plena, id est suprema possessione et imbibitione celestium divitiarum»), il capo cinto da un arcobaleno. La nube designa la scienza delle Scritture, oppure (Gioacchino da Fiore) la scienza dei profeti, oppure la contemplazione estatica (designata, secondo lo Pseudo Dionigi, dalla nube nella quale Dio parlava a Mosè); la nube inoltre contempera i raggi del sole e irriga. L’iride designa l’intelligenza spirituale della Scrittura (Gioacchino), oppure l’arcuale rifulgenza del sole, perché la carità viscerale di Cristo aperta e dilatata come un arco verso le miserie umane fu continuamente, intimamente impressa nella mente di Francesco (Ap 10, 1).
Questi motivi si trovano insieme nel paragone del chinarsi del gigante Anteo verso il fondo dell’inferno con la Carisenda pendente verso chi la guarda dal basso quando una nuvola vi passi sopra (Inf. XXXI, 136-145). Il pozzo attorno a cui sono legati i giganti fa parte di una zona in cui prevalgono i temi del quinto stato. Il pozzo stesso è uno dei temi principali della quinta tromba (Ap 9, 1-2); Fialte dal collo in giù è avvinto dalla catena “infino al giro quinto” (Inf. XXXI, 88-90); Anteo esce fuori dalla roccia, senza la testa, “ben cinque alle” (ibid., 113-114). Anche il “declinare” (equivale a ‘pendere’), come il “condiscendere”, fa parte dei temi del quinto stato (prologo, Notabile III: lo zelo severo, il quinto dei doni dello Spirito, è nel quinto periodo “declinans”). Il sesto sigillo si apre con un grande terremoto (Ap 6, 12), ed è preannunciato dal “tremoto … tanto rubesto” con cui si scuote Fialte (Inf. XXXI, 106-108). Anteo, sciolto rispetto agli altri (tema da Ap 9, 14: il sesto angelo che suona la tromba scioglie i quattro angeli incatenati nel fiume Eufrate), assume su di sé caratteristiche del sesto stato, per quanto queste si possano ritrovare nell’inferno. Il suo chinarsi “lievemente” ha qualcosa della “viscerosa caritas Christi” di Francesco che discende col capo coperto dalla nube dilatato ad arco verso le miserie umane (cfr. anche, a Inf. XXII, 19-24, la similitudine dei delfini che fanno “arco” per segnalare ai marinai l’arrivo di una tempesta con i barattieri della quinta bolgia che mostrano il dorso sopra la pece “ad alleggiar la pena”). La nube (che in questo caso, fra i vari significati, designerà nel senso di Gioacchino da Fiore la scienza delle scritture profetiche, perché Anteo prefigura Scipione, a sua volta prefigurazione del soccorso dell’ “alta provedenza” preconizzata da san Pietro nell’ottavo cielo a Par. XXVII, 61-63) è appropriata alla Carisenda, e il nome della bolognese torre pendente appare singolarmente consonante con la caritas verso gli inferiori, nonostante il timore di Dante. Lo stesso chinarsi senza ‘fare dimora’ sul “fondo che divora / Lucifero con Giuda” ha un significato spirituale, in quanto Anteo si comporta a suo modo come quei santi perfetti del quinto stato che condiscendono solo per la carità e l’utilità degli infermi senza per questo macchiarsi di impurità, nel caso senza contaminarsi coi traditori e gli apostati (prologo, Notabile VII). Questi perfetti non verranno cancellati dal libro della vita, riceveranno anzi gloria e fama (Ap 3, 5: quinta vittoria). Ed è proprio la fama che Virgilio promette al gigante (Inf. XXXI, 124-129). Il levarsi di questi “come albero in nave” allude ai prelati, alti come alberi nella scienza divina e nel frutto delle loro opere (Ap 8, 7), preposti ai monasteri e cenobi considerati navi spirituali (Ap 18, 17). Ad Anteo sono anche appropriati i temi della vittoria di Cristo sull’Anticristo (Ap 19, 11-16).
Così, con una variazione dissonante, ad Anteo è appropriato il motivo del matrimonio, il sacramento per eccellenza del sesto stato (prologo, Notabile XIII) che appartiene a Francesco e a Povertà: “Ma lievemente al fondo che divora / Lucifero con Giuda, ci sposò … e dinanzi a la sua spirital corte / e coram patre le si fece unito”.
Gioacchino da Fiore afferma che come l’arcobaleno appare unito alle nubi del cielo, così alle scritture dei profeti bisogna unire l’intelligenza mistica per convincere gli avversari. L’accostamento della nube e dell’arcobaleno si trova in Par. XII, 10-12, nel momento in cui una seconda corona di spiriti sapienti, in cui è Bonaventura, si aggiunge alla prima, nella quale è Tommaso d’Aquino. L’iride, in questo caso, è doppia, perché due sono i prìncipi ordinati (cfr. Ap 4, 4; 11, 4), Francesco e Domenico, di cui sono tessute le lodi. È da notare che la nube è “tenera”, aggettivo che significa un motivo del quinto stato, “habens sensum vivum et tenerum pietatis” (prologo, Notabile XIII; cfr. quanto detto a Par. XXXI, 61-63 di san Bernardo, il quale al quinto stato appartiene di diritto: “in atto pio / quale a tenero padre si convene”).

Tab. 5.2

[LSA, cap. X, Ap 10, 1 (IIIa visio, VIa tuba] Ioachim dicit hic: «Quicumque erit iste predicator veritatis, “fortis” esse describitur, quia robustus erit in fide; et “de celo” descendet, id est de vita contemplativa ad activam; et “amictus” erit “nube”, quia indutus erit scriptura prophetarum; et “irim in capite”, quia Spiritum Sanctum et misticum seu spiritalem intellectum scripturarum habebit in mente. Sicut enim archus celestis apparet iunctus nubibus celi, sic scripturis prophetarum iungendus est misticus intellectus ad adversarios convincendos»*.

[segue Ap 10, 1] Et subdit: «Ego autem angelum istum secundum litteram aut Enoch fore puto aut Heliam. Verum, prout hoc Deus melius novit, unum dico pro certo, quod hic angelus significat personaliter magnum aliquem  predicatorem, quamvis spiritaliter ad multos viros spiritales tunc temporis futuros competenter valeat intorqueri. Sane facies angeli similis est soli, quia in hoc sexto tempore oportet Dei contemplationem in modum solis splendescere et perduci ad notitiam eorum qui designantur in Petro et Iacobo et Iohanne, id est Latinorum et Grecorum et Hebreorum, primo quidem Latinorum, deinde Grecorum, tertio Hebreorum, ut fiant novissimi qui erant primi et e contrario». Hec Ioachim**

Purg. XXXII, 70-78

Però trascorro a quando mi svegliai,
e dico ch’un splendor mi squarciò ’l velo
del sonno, e un chiamar: “Surgi: che fai?”.
Quali a veder de’ fioretti del melo
che del suo pome li angeli fa ghiotti
e perpetüe nozze fa nel cielo,
Pietro e Giovanni e Iacopo condotti
e vinti, ritornaro a la parola
da la qual furon maggior sonni rotti

* Expositio, pars III, f. 137ra-b.

** Ibid., f. 137rb-va.

[segue Ap 10, 1] Sciendum etiam quod sicut sanctissimus pater noster Franciscus est post Christum et sub Christo primus et principalis fundator et initiator et exemplator sexti status et evangelice regule eius, sic ipse post Christum designatur primo per angelum istum. Unde et in huius signum in curru igneo apparuit transfiguratus in solem, ut monstraretur venisse in spiritu et imagine Helie (cfr. 4 Rg 2, 11) et simul cum hoc gerere perfectam imaginem veri solis, scilicet Christi.

Par. XII, 106-111

Se tal fu l’una rota de la biga
in che la Santa Chiesa si difese
e vinse in campo la sua civil briga,
ben ti dovrebbe assai esser palese
l’eccellenza de l’altra, di cui Tomma
dinanzi al mio venir fu sì cortese.

[LSA, Ap 7, 2; IIa visio, apertio VIi sigilli] Ascendit etiam “ab ortu solis”, quia sui ascensus in Deum fundamentum et initium cepit a sede romana, que inter quinque patriarchales ecclesias est principaliter sedes et civitas solis, id est Christi et fidei eius, de qua typice dicitur Isaie XIX°: “In die illa erunt quinque civitates in terra Egipti” et cetera, “civitas solis vocabitur una” (Is 19, 18).

Inf. XXVI, 34-42, 46-48

E qual colui che si vengiò con li orsi
vide ’l carro d’Elia al dipartire,
quando i cavalli al cielo erti levorsi,
che nol potea sì con li occhi seguire,
ch’el vedesse altro che la fiamma sola,
sì come nuvoletta, in sù salire:
tal si move ciascuna per la gola
del fosso, ché nessuna mostra ’l furto,
e ogne fiamma un peccatore invola.

E ’l duca, che mi vide tanto atteso,
disse: “Dentro dai fuochi son li spirti;
catun si fascia di quel ch’elli è inceso”.

Purg. XXIX, 106-108, 115-117

Lo spazio dentro a lor quattro contenne
un carro, in su due ruote, trïunfale,
ch’al collo d’un grifon tirato venne. ……
Non che Roma di carro così bello
rallegrasse Affricano, o vero Augusto,
ma quel del Sol saria pover con ello

[Ap 10, 1Ioachim dicit hic: «Quicumque erit iste predicator veritatis, “fortis” esse describitur, quia robustus erit in fide; et “de celo” descendet, id est de vita contemplativa ad activam; et “amictus” erit “nube”, quia indutus erit scriptura prophetarum; et “irim in capite”, quia Spiritum Sanctum et misticum seu spiritalem intellectum scripturarum habebit in mente. Sicut enim archus celestis apparet iunctus nubibus celi, sic scripturis prophetarum iungendus est misticus intellectus ad adversarios convincendos». […]
Ipse enim fuit singulariter “fortis” in omni virtute et opere Dei, et per summam humilitatem et recognitionem prime originis omnis nature et gratie semper “descendens de celo”, et per aeream et per subtilem seu spiritualem levitatem ab omni pondere terrenorum excussam fuit “amictus nube”, id est altissima paupertate aquis celestibus plena, id est suprema possessione et imbibitione celestium divitiarum. Fuit etiam “amictus nube”, id est extatice contemplationis caligine, quam secundum Dionysium, libro de mistica theologia, designabat caliginosa nubes in qua Deus apparebat et loquebatur Moysi (cfr. Ex 24, 18).
Habuit etiam “irim in capite”, id est arcualem refulgentiam solis, quia viscerosa caritas Christi ad nostras inferiores miserias aperta et arcualiter dilatata fuit assidue et intime impressa menti Francisci.

[LSA, prologus, Notabile XIII (VI status)] Matrimonium vero nuptiarum Christi et ecclesie congruit sexto statui , unde in sexta visione pro ipso dicitur: “Gaudeamus et exultemus, quia venerunt nuptie Agni et uxor eius preparavit se” (Ap 19, 7).

Par. XI, 43-45, 58-63

Intra Tupino e l’acqua che discende
del colle eletto dal beato Ubaldo,
fertile costa d’alto monte pende

ché per tal donna, giovinetto, in guerra
del padre corse, a cui, come a la morte,
la porta del piacer nessun diserra;
e dinanzi a la sua spirital corte
e coram patre le si fece unito ;
poscia di dì in dì l’amò più forte.

Par. XII, 10-12

Come si volgon per tenera  nube
due archi paralelli e concolori,
quando Iunone a sua ancella  iube

Par. XXXI, 61-63

Diffuso era per li occhi e per le gene
di benigna letizia, in atto pio
quale a tenero padre si convene.

Inf. XXXI, 124-127, 136-145

Non ci fare ire a Tizio né a Tifo:
questi può dar di quel che qui si brama;
però ti china e non torcer lo grifo.
Ancor ti può nel mondo render fama

Qual pare a riguardar la Carisenda
sotto ’l chinato, quando un nuvol vada
sovr’ essa sì, ched ella incontro penda:
tal parve Antëo a me che stava a bada
di vederlo chinare, e fu tal ora
ch’i’ avrei voluto ir per altra strada.
Ma lievemente al fondo che divora
Lucifero con Giuda, ci sposò ;
né, chinato, lì fece dimora,
e come albero in nave si levò.

Inf. XXII, 19-24

Come i dalfini, quando fanno segno
a’ marinar con l’arco de la schiena
che s’argomentin di campar loro legno,
talor così, ad alleggiar la pena,
mostrav’ alcun de’ peccatori ’l dosso
e nascondea in men che non balena.

[LSA, prologus, Notabile III (V status)] Item (zelus) est septiformis quia est contra initium mali intrinsecum (I) et extrinsecum (II); et contra medium terminum, scilicet ascendens (III) stans (IV) et declinans (V); et contra terminum intrinsecum (VI) et extrinsecum (VII).

[LSA, prologus, Notabile VII (V status)] Prima (responsio) est quia licet condescensio quinti status in infirmis, pro quibus fit, sit imperfectior, in sanctis tamen, arduas perfectiones priorum statuum in habitu mentis tenentibus et ex sola caritate et infirmorum utilitate condescendentibus, est ipsa condescensio ad perfectionis augmentum, prout patet in Christo infirmis condescendente. Unde et Ade subtracta est fortis costa ad formationem Eve, “et replevit” Deus “carnem pro ea” (Gn 2, 21), id est pietatem condescensionis pro robore solitarie austeritatis.

[LSA, prologus, Notabile XIII (V status)] In quinto vero tempore fuerunt spiritualiores monachi quasi aves volantes, clerici vero gentibus commixti fuerunt quasi pisces in aquis (cfr. Gn 1, 20-21). In hac autem die primo dictum est: “Crescite et multiplicamini” et cetera (Gn 1, 22), quia numquam in preteritis temporibus sic monasteria vel ecclesie in tali vita, que conveniret pluribus, ordinate fuere quomodo in tempore quinto, quia non tantum clericorum et monachorum, verum etiam ecclesiarum et monasteriorum que sunt propagata in tempore quinto in hac occidentali ecclesia colligere numerum non est facile. Unde quamvis vita monachorum quarti temporis fuerit clarior, non tamen fecundior nec sic habens sensum vivum et tenerum pietatis.

[LSA, cap. III, Ap 3, 5 (Va victoria)] Quinta est victoriosus descensus ad opera condescensionis et pietatis, qui tunc est victoriosus quando nichil sordis vel imperfectionis accipit ex consortio infirmorum quibus condescendit nec ex sua condescensione, immo inter carnales et laxos et immundos vivit sic immaculate et sancte ac si esset in solitudine vel inter austerrimos et perfectos, quod quidem patet tunc arduissimum tam in puritate quam in pietate misericordi et competit perfectis patribus quinti status […] quia isti ex multitudine immundorum, inter quos quasi sepulti et innominati vixerunt, et ex condescensione ad eos, visi sunt quasi infirmi et nulli, unde nec habuerunt nomen seu famam summe perfectorum, ideo digni sunt habere singulare nomen in gloria Dei et quod singulariter commendentur a Christo coram tota curia celi.

 

5.3. Al modo delle rane

■ Il sesto angelo (Ap 16, 12) versa la coppa (quinta visione) per prosciugare le acque del grande fiume Eufrate, che scorreva a difesa dell’antica Babilonia, interpretate da Gioacchino da Fiore come la milizia mondana dell’impero, romano o cristiano, per togliere cioè a questo la funzione di baluardo contro i re e i tiranni che dalla provincia orientale vengono coi loro eserciti a distruggere la nuova Babilonia. Olivi aggiunge l’opinione di alcuni che ritengono che la forza di questo deterrente si secchi per le lotte intestine fra i regni cristiani, e che ciò sia preparazione alla distruzione della Chiesa carnale e del suo principato ad opera dei dieci re e dell’undecimo che li comanda (Ap 17, 10.12.16; cfr. Dn 7, 24).
Al momento in cui la coppa viene versata, Giovanni vede “tre spiriti immondi al modo delle rane”. Si tratta di “spiriti di demoni che operano segni e che vanno a radunare i re di tutta la terra per la guerra del gran giorno di Dio onnipotente” (Ap 16, 13-14). Questi tre spiriti designano sia le suggestioni astute, sottili e quasi spirituali che i demoni inducono e suggeriscono, direttamente o per la bocca di uomini maligni, sia alcuni uomini astuti e fraudolenti i quali, nunzi e ambasciatori dell’Anticristo, vanno a radunare i re affinché corrano in guerra contro Babilonia, cioè contro la Chiesa carnale.
In quanto tre, e uscenti concordemente da tre bocche (del drago, della bestia e del falso profeta), i tre spiriti immondi simili a rane rappresentano una trinità pessima opposta a quella santa delle persone divine e delle loro virtù. Verranno mandati dalle due genti o dalle due teste delle quali il drago, o il diavolo, sarà terzo e come il primo motore, cioè dal re dei pagani o dei Saraceni e dal falso papa o dal principe dei falsi profeti. Designano anche le tre categorie dei guerrieri (inviati dalla bestia), dei falsi maestri, dottori o predicatori (inviati dal falso profeta) e dei falsi religiosi (inviati per antonomasia dal drago), nei quali maggiore è la falsità, l’ipocrisia e la frode. Secondo Gioacchino da Fiore – che nell’esegesi di Ap 16, 13-14 non è fonte prevalente, ma giustapposta a Riccardo di San Vittore -, il drago sta qui per l’Anticristo, nella cui adorazione sarà ricompresa quella del drago e attraverso il quale il drago principalmente parlerà e opererà; con la bestia viene designata la gente pagana o il loro monarca.
Di questi tre spiriti si dice che sono “immondi al modo delle rane” per mostrare la viltà, il fetore e la sussurratoria garrulità che promana da essi e dalle loro suggestioni. Essi sono “spiriti di demoni che operano segni”, poiché i demoni saranno tanto familiari a quei nunzi, per mezzo dei quali faranno prodigi, o quelli ai demoni tramite i quali opereranno, da fare in modo che si possa sensibilmente attribuire i segni agli spiriti demoniaci. Si può anche intendere che i nunzi opereranno prodigi per mezzo dei soli falsi profeti, e allora essi stessi saranno falsi profeti inviati dalle tre bocche del drago, della bestia e del falso profeta per concorde consiglio e beneplacito di questi tre.
Il tema della pessima trinità si configura con una certa frequenza nella prima cantica, dalle “tre furïe infernal di sangue tinte” (Inf. IX, 38) ai tre centauri Chirone, Nesso e Folo che si staccano dalla schiera alla vista dei due poeti (Inf. XII, 59-60: il motivo trinitario deriva anche da altro tema tratto da Ap 1, 8), dalle tre ombre dei sodomiti fiorentini che si dipartono insieme nell’arena dalla torma che passa sotto la pioggia di fuoco (Inf. XVI, 4-6) ai tre spiriti dei ladri fiorentini che si apprestano a trasmutarsi con altri due (Inf. XXV, 35).
Una variante è costituita da Gerione, che è “fiera pessima” e triplice (“pessima” è hapax): uomo nel volto, leone (o drago) nelle zampe artigliate, serpente nel resto con una coda simile a quella dello scorpione. Come i tre spiriti immondi si preparano alla guerra contro Babilonia, così Gerione si presenta come il “bivero”, il castoro che “tra li Tedeschi lurchi … s’assetta a far sua guerra” ai pesci (Inf. XVII, 21-24). Nel mentre Virgilio parla con Gerione, Dante va in visita agli usurai, “su per la strema testa di quel settimo cerchio” (ibid., 34-78). Ne vede tre, con le armi di famiglia che segnano una tasca che pende loro dal collo (i Gianfigliazzi, gli Obriachi, gli Scrovegni), provenienti da due città (Firenze, Padova) in attesa di altri due (il padovano Vitaliano del Dente e “ ’l cavalier sovrano”, cioè il fiorentino Gianni Buiamonti). Il rapporto numerico tra due e tre è proprio degli spiriti immondi simili a rane (che sono tre, ma inviati dalle due teste delle quali il drago è il primo motore). I tre spiriti, dice Olivi, sono “corretarii Antichristi”, cioè aiutanti del grande usuraio.
Questo rapporto numerico si ritrova nelle anime che morirono di morte violenta e che si pentirono all’ultima ora meritando di stare nel secondo balzo dell’Antipurgatorio. Due di loro corrono incontro ai poeti “in forma di messaggi”, cioè di nunzi, per chiedere della loro condizione (Purg. V, 28-30), ma poi sono in tre a parlare: Iacopo del Cassero, Buonconte da Montefeltro e la Pia. Oltre al motivo dell’annunziare, di queste anime è proprio anche quello del sussurrare in modo garrulo per la meraviglia suscitata dal poeta che, essendo vivo, fa ombra col proprio corpo. Di qui il rimprovero di Virgilio a non prestare attenzione al mormorio: “che ti fa ciò che quivi si pispiglia?” (ibid., 12). Un motivo non del tutto estraneo ai casi infernali sopra considerati, visto che le Furie piangono e gridano alto, Chirone parla coi suoi compagni dei piedi di Dante che, poiché muovono ciò che toccano, non possono essere piedi di un morto; i tre sodomiti stanno nel luogo dove l’acqua del Flegetonte che cade nel girone sottostante rimbomba come ronzio di api dentro gli alveari; i tre ladri si chiamano l’un l’altro per nome.
La tematica dei tre spiriti immondi e istigatori, familiari dell’Anticristo, percorre in Inf. XXX l’episodio di maestro Adamo, il quale accusa i tre fratelli conti di Romena di averlo indotto a falsificare i fiorini. Anche Romena, il castello dei conti Guidi, per la singolare concordia nel suono con l’impero romano, su cui viene versata la sesta coppa, sembra partecipare della metamorfosi poetica dei motivi presenti nell’esegesi di Ap 16, 12-14.

Secundum Ioachim, per flumen Eufraten, quod influebat in Babilonem antiquam ispamque non modicum muniebat, designatur hic romani seu christiani imperii militia mundana … De quorum adductione, et per quorum suggestionem adducentur, ostendit subdens: “(Ap 16, 13) Et vidi de ore drachonis et de ore bestie et de ore pseudoprophete tres spiritus immundos exire in modum ranarum. … ”. Per hos autem tres spiritus designantur tam suggestiones astute et subtiles et quasi spiritales, quam demones per se et per ora malignorum hominum suggerentes et inducentes … Per hoc autem quod dicit quod “sunt spiritus demoniorum facientes signa”, ostendit quod demones erunt sic familiares illis nuntiis per quos facient signa, seu illi per ipsos demones, quod quasi sensibiliter totum poterit ascribi ipsis spiritibus demonum”.

“Ivi è Romena, là dov’ io falsai / la lega suggellata del Batista; / per ch’io il corpo sù arso lasciai. / Ma s’io vedessi qui l’anima trista / di Guido o d’Alessandro o di lor frate, / per Fonte Branda non darei la vista. … Io son per lor tra sì fatta famiglia ; / e’ m’indussero a batter li fiorini / ch’avevan tre carati di mondiglia” (Inf. XXX, 73-78, 88-90; “mondiglia” è hapax nella Commedia).

■ Il tema del correre alla guerra da parte dei re radunati dai tre spiriti immondi passa in Francesco che, giovinetto, per Povertà “in guerra / del padre corse” (Par. XI, 58-59); il motivo della concordia dei tre che inviano i nunzi – il drago, la bestia e il falso profeta – è nel concordare di Francesco con la sua donna più cara (“La lor concordia e i lor lieti sembianti”, ibid., 76), mentre correre è proprio anche dei suoi seguaci che per primi si scalzarono, che sono tre – il venerabile Bernardo, Egidio e Silvestro – come i tre spiriti immondi (ibid., 79-84). L’andare (il verbo “vadere” riferito ai nunzi immondi, l’ “indi sen va” a Francesco) è attribuito al padre e maestro, alla sua donna e alla “famiglia (altro tema appartenente ai nunzi, familiari ai demoni) / che già legava l’umile capestro” (Par. XI, 85-87). Nel Notabile IX del prologo è esposto il tema del correre con desiderio verso il sesto e settimo stato, a motivo dei beni della grazia che li inondano e di cui ridondano e per cui contrastano con gli stati precedenti pieni di mali (eco del “cucurrit alacriter” di Bernardo di Quintavalle dietro a Francesco come descritto nella Vita di Tommaso da Celano). Essere messo e famigliare appartiene sia a Domenico (Par. XII, 73-75; cfr. ibid., 34-35: “s’induca … ad una militaro – inducentes … unanimius ad bellum conveniant ”) come all’angelo che invia dal secondo al terzo girone della montagna (Purg. XV, 28-30).
Se, nella settima bolgia dei ladri dove uomini e serpenti si trasmutano a vicenda, si confrontano i versi conclusivi di Inf. XXV con le parole dell’Aquinate sulla prima famiglia francescana in Par. XI, si può osservare come queste, per quanto siano cantate con ben diverso registro, abbiano molto in comune con la descrizione dei ladri fiorentini. Ai “tre compagni / che venner prima”, dei cinque ladri – Agnolo Brunelleschi, Buoso, Puccio Sciancato (Inf. XXV, 149-150) – corrispondono i primi tre compagni di Francesco, che prima si scalzarono: “’l venerabile Bernardo … Egidio … Silvestro” (Par. XI, 79-80, 83). Se a questi si aggiungono Francesco e Povertà, si consegue il numero cinque, il medesimo dei ladri, integrando i tre primi con Cianfa e il Guercio Cavalcanti (“quel che tu, Gaville, piagni”), già fatti serpenti (cfr. quanto sopra detto sul rapporto numerico fra due e tre) [1].
Indipendentemente dalle parti del panno che li unisce (ad esempio il correre del ladro Buoso, non però da uomo, ma “carpon” una volta divenuto serpente: Inf. XXV, 140-141), Inf. XXV e Par. XI mostrano singolari corrispondenze: il “non poter quei fuggirsi tanto chiusi” (Inf. XXV, 147) dei ladri trova eco nell’espressione “Ma perch’ io non proceda troppo chiuso”, detto degli amanti Francesco e Povertà (Par. XI, 73); “e l’altro dietro a lui parlando sputa”, detto del serpente fatto uomo (Inf. XXV, 138) è avvicinabile al correre di Bernardo “dietro a tanta pace” e degli altri “dietro a lo sposo” (Par. XI, 80-81, 84).
Olivi afferma nel Notabile XIII del prologo: “Ordo autem evangelicus est tamquam homo rationalis ad imaginem Dei factus, et ipse subiciet bestias et omnem terram et preerit piscibus et avibus, id est omnibus ordinibus quinto tempore formatis; distinguetur autem in prelatos et collegium subditorum, quasi in virum et uxorem”. Fra i ladri della settima bolgia, Dante trova l’uomo razionale regredito a bestia, incapace di mantenere stabilmente la forma di uomo, quella più conforme a Cristo, tornando alla natura e alla forma del serpente creato prima dell’uomo.
Se nel sesto stato l’uomo razionale, creato nel sesto giorno, si configura di più a Cristo suo esemplare, perché uomo evangelico, chi meglio di Francesco potrebbe rappresentarlo? L’odioso matrimonio con Povertà, da tutti rifiutata, e il grottesco correre dei tre primi compagni dietro la sposa di un altro, sono, come intendeva Auerbach, una sublime degradazione. I versi esprimono la più alta conformità con Cristo, quella della famiglia francescana, per mezzo di una metamorfosi in positivo dell’esegesi dei tre spiriti immondi al modo delle rane, nunzi dell’Anticristo e famigliari dei demoni [2].

[1] Il rapporto tra cinque e tre, così come presentato nell’esempio della montagna del Notabile XIII del prologo, è quello che intercorre tra le prime cinque età del mondo (antecedenti la sesta età, segnata dal primo avvento di Cristo) o i primi cinque stati della Chiesa (prima che, nel sesto, con il secondo avvento di Cristo si formi l’uomo razionale ed evangelico) – cinque età e cinque stati che concordano tra loro – e i tre avventi di Cristo verso cui corre lo spirito profetico. Cfr. Il sesto sigillo, cap. 2d.2, tab. XIX-1. Altri aspetti dell’esegesi di Ap 16, 12-14 vengono esaminati altrove.

[2] Rovesciare in senso positivo il pessimismo apocalittico è innovazione tipicamente francescana, a cominciare dal Cantico di frate Sole. Cfr. N. PASERO, «Laudes Creaturarum». Il canto di Francesco d’Assisi, Parma 1992; ROSSI, Canto XI, p. 171 e nt.10.

 

Tab. 5.3

Inf. IX, 37-38; XII, 58-60; XVI, 4-6; XXV, 34-37

dove in un punto furon dritte ratto
tre furïe infernal di sangue tinte

Veggendoci calar, ciascun ristette,
e de la schiera tre si dipartiro
con archi e asticciuole prima elette

quando tre ombre insieme si partiro,
correndo, d’una torma che passava
sotto la pioggia de l’aspro martiro.

Mentre che sì parlava, ed el trascorse,
e tre spiriti venner sotto noi,
de’ quai né io né ’l duca mio s’accorse,
se non quando gridar: “Chi siete voi?”

Inf. XVII, 19-24

Come talvolta stanno a riva i burchi,
che parte sono in acqua e parte in terra,
e come là tra li Tedeschi lurchi
lo bivero s’assetta a far sua guerra,
così la fiera pessima si stava
su l’orlo ch’è di pietra e ’l sabbion serra. 

Inf. XXX, 73-78, 88-90

Ivi è Romena, là dov’ io falsai
la lega suggellata del Batista;
per ch’io il corpo sù arso lasciai.
Ma s’io vedessi qui l’anima trista
di Guido o d’Alessandro o di lor frate,
per Fonte Branda non darei la vista.

Io son per  lor tra sì fatta famiglia;
e’ m’indussero a batter li fiorini
ch’avevan tre carati di mondiglia.

[LSA, cap. XVI, Ap 16, 12-14 (Va visio, VIa phiala)] “Et sextus angelus effudit phialam suam in flumen magnum Eufraten et siccavit aquas eius, ut preparetur via regibus ab ortu solis” (Ap 16, 12). Secundum Ioachim, per flumen Eufraten, quod influebat in Babilonem antiquam ispamque non modicum muniebat, designatur hic romani seu christiani imperii militia mundana, unde et infra XVII° dicitur quod “aque”, super quas “meretrix sedet, sunt populi et gentes” (Ap 17, 15), quas oportet siccari et debilitari, ut non sit qui resistat regibus et tirannis ad destruendam novam Babilonem venturis, prout in capitulo sequenti dicitur (cfr. Ap 17, 16)*. […] Hec igitur erit preparatio ad facilius producendum carnalem ecclesiam in errores Antichristi magni et orientalium regum. De quorum adductione, et per quorum suggestionem adducentur, ostendit subdens: “(Ap 16, 13) Et vidi de ore drachonis et de ore bestie et de ore pseudoprophete tres spiritus immundos exire in modum ranarum. (Ap 16, 14) Sunt enim spiritus demoniorum facientes signa et procedunt ad reges totius terre congregare illos in prelium ad diem magnum Dei omnipotentis”.
Per hos autem tres spiritus designantur tam suggestiones astute et subtiles et quasi spiritales, quam demones per se et per ora malignorum hominum suggerentes et inducentes, quam [qui]dam homines astut[i] et dolos[i] Antichristi nunti[i] et imbaxatores et quasi corretari[i] ad congregandum hos reges mundi ut veniant in prelium contra Babilonem, id est contra ecclesiam carnalem.
Dicuntur autem tres a trino ore exire, tum in misterium trinitatis pessime, sancte trinitati personarum Dei et virtutum eius opposite; tum quia a duplici gente seu a duobus capitibus eius, in quibus dracho seu diabolus erit principalis et primus motor, mittentur, scilicet a rege gentis pagane vel sarracenice et a pseudopapa vel a pseudopropheta principe pseudoprophetarum; tum quia tres species nuntiorum et suggestorum in hoc concurrent, scilicet milites seu militares (et hii exibunt seu mittentur a bestia), et falsi magistri seu doctores vel predicatores (et hii mittentur a pseudopropheta), inter hos autem erunt quidam pseudoreligiosi drachonis fallacia et ypocrisis fraudulentia magis pleni (et hii per quandam anthonomasiam mittentur a drachone).
Vel, secundum Ioachim, dracho stat hic pro Antichristo**, in quo dracho quasi unus cum eo adorabitur et per quem principalius et familiarius loquetur et operabitur. Per bestiam vero, rex monarcha et paganus vel ipsa gens paganica.
Dicit etiam “immundos ad modum ranarum”, ut monstret vilitatem et feditatem et susurratoriam garrulitatem istorum spirituum seu nuntiorum et suarum suggestionum.
Per hoc autem quod dicit quod “sunt spiritus demoniorum facientes signa”, ostendit quod demones erunt sic familiares illis nuntiis per quos facient signa, seu illi per ipsos demones, quod quasi sensibiliter totum poterit ascribi ipsis spiritibus demonum. Si etiam per solos pseudoprophetas facient signa, tunc videtur quod nuntii a drachone et bestia et pseudopropheta missi erunt pseudoprophete, et secundum hoc dicuntur ex trino ore ipsorum exire, quia ex ipsorum trium concordi consilio et beneplacito ibunt.
Item ex hoc quod dicit eos ire ad congregandos reges, videtur quod antequam congregaverint eos non essent illi reges omnino subiecti Antichristo, nisi forte vadant ad reges ad hoc, ut libentius et animosius et unanimius ad bellum conveniant et concurrant.
Puto autem quod respectu diversorum temporum utrumque sit verum. Unde et quidam putant quod tam Antichristus misticus quam proprius et magnus erit pseudopapa caput pseudoprophetarum, et quod per eius et suorum pseudoprophetarum consilia et cooperationes acquiretur imperium illi regi per quem statuetur in suo falso papatu, sed ille rex qui statuet magnum faciet ipsum ultra hoc adorari ut Deum.

* Expositio, pars V, f. 190va.

** Ibid., pars V, f. 190va-b.

Purg. V, 12, 28-30

che ti fa ciò che quivi si pispiglia?

e due di loro, in forma di messaggi,
corsero incontr’ a noi e dimandarne:
“Di vostra condizion fatene saggi”.

Par. XI, 58-60

ché per tal donna, giovinetto, in guerra
del padre corse, a cui, come a la morte,
la porta del piacer nessun diserra

Inf. XXX, 88-90

Io son per  lor tra sì fatta famiglia;
e’ m’indussero a batter li fiorini
ch’avevan tre carati di mondiglia.

Purg. XV, 28-30

“Non ti maravigliar s’ancor t’abbaglia
la famiglia del cielo”, a me rispuose:
messo è che viene ad invitar ch’om saglia.”

Par. XII, 34-36, 73-75

Degno è che, dov’ è l’un, l’altro s’induca:
sì che, com’ elli ad una militaro,
così la gloria loro insieme luca.

Ben parve messo e famigliar di Cristo:
ché  ’l primo amor che ’n lui fu manifesto,
fu al primo consiglio che diè Cristo.

[LSA, cap. XVI, Ap 16, 12-14 (Va visio, VIa phiala)] Hec igitur erit preparatio ad facilius producendum carnalem ecclesiam in errores Antichristi magni et orientalium regum. De quorum adductione, et per quorum suggestionem adducentur, ostendit subdens: “(Ap 16, 13) Et vidi de ore drachonis et de ore bestie et de ore pseudoprophete tres spiritus immundos exire in modum ranarum. (Ap 16, 14) Sunt enim spiritus demoniorum facientes signa et procedunt ad reges totius terre congregare illos in prelium ad diem magnum Dei omnipotentis”.
Per hos autem tres spiritus designantur tam suggestiones astute et subtiles et quasi spiritales, quam demones per se et per ora malignorum hominum suggerentes et inducentes, quam [qui]dam homines astut[i] et dolos[i] Antichristi nunti[i] et imbaxatores et quasi corretari[i] ad congregandum hos reges mundi ut veniant in prelium contra Babilonem, id est contra ecclesiam carnalem.
Dicuntur autem tres a trino ore exire, tum in misterium trinitatis pessime, sancte trinitati personarum Dei et virtutum eius opposite; tum quia a duplici gente seu a duobus capitibus eius, in quibus dracho seu diabolus erit principalis et primus motor, mittentur, scilicet a rege gentis pagane vel sarracenice et a pseudopapa vel a pseudopropheta principe pseudoprophetarum; tum quia tres species nuntiorum et suggestorum in hoc concurrent, scilicet milites seu militares (et hii exibunt seu mittentur a bestia), et falsi magistri seu doctores vel predicatores (et hii mittentur a pseudopropheta), inter hos autem erunt quidam pseudoreligiosi drachonis fallacia et ypocrisis fraudulentia magis pleni (et hii per quandam anthonomasiam mittentur a drachone).
Vel, secundum Ioachim, dracho stat hic pro Antichristo, in quo dracho quasi unus cum eo adorabitur et per quem principalius et familiarius loquetur et operabitur. Per bestiam vero, rex monarcha et paganus vel ipsa gens paganica.
Dicit etiam “immundos ad modum ranarum”, ut monstret vilitatem et feditatem et susurratoriam garrulitatem istorum spirituum seu nuntiorum et suarum suggestionum.
Per hoc autem quod dicit quod “sunt spiritus demoniorum facientes signa”, ostendit quod demones erunt sic familiares illis nuntiis per quos facient signa, seu illi per ipsos demones, quod quasi sensibiliter totum poterit ascribi ipsis spiritibus demonum. Si etiam per solos pseudoprophetas facient signa, tunc videtur quod nuntii a drachone et bestia et pseudopropheta missi erunt pseudoprophete, et secundum hoc dicuntur ex trino ore ipsorum exire, quia ex ipsorum trium concordi consilio et beneplacito ibunt.
Item ex hoc quod dicit eos ire ad congregandos reges, videtur quod antequam congregaverint eos non essent illi reges omnino subiecti Antichristo, nisi forte vadant ad reges ad hoc, ut libentius et animosius et unanimius ad bellum conveniant et concurrant. […]

[LSA, prologus, Notabile IX] Ut autem sextus et septimus status ecclesie amplius commendentur et ut ad ipsos desiderabilius curratur, idcirco quinque priores status sepe describuntur ut quasi solis malis pene vel culpe commixti; in sexto vero describitur reiectio commixtionis malorum culpe cum inundantia bonorum gratie; in septimo vero reiectio malorum culpe et pene cum redundantia bonorum eis oppositorum.

[THOMAS DE CELANO, Vita Beati Francisci, X, 24, in La Letteratura francescana, II, Le Vite antiche di san Francesco, a cura di C. Leonardi. Commento di D. Solvi, Milano 2005, p. 68]
Post hunc frater Bernardus, pacis legationem amplectens, ad mercandum regnum caelorum post sanctum Dei cucurrit alacriter.

Inf. XXV, 34-36, 136-151; XXVI, 1-6

Mentre che sì parlava, ed el trascorse,
e tre spiriti venner sotto noi,
de’ quai né io né ’l duca mio s’accorse

L’anima ch’era fiera divenuta,
suffolando si fugge per la valle,
e l’altro dietro a lui parlando sputa.
Poscia li volse le novelle spalle,
e disse a l’altro: “I’ vo’ che Buoso corra,
com’ ho fatt’ io, carpon per questo calle”.
Così vid’ io la settima zavorra
mutare e trasmutare; e qui mi scusi
la novità se fior la penna abborra.
E avvegna che li occhi miei confusi
fossero alquanto e l’animo smagato,
non poter quei fuggirsi tanto chiusi,
ch’i’ non scorgessi ben Puccio Sciancato;
ed era quel che sol, di tre compagni
che venner prima, non era mutato;
l’altr’ era quel che tu, Gaville, piagni.

Godi, Fiorenza, poi che se’ sì grande
che per mare e per terra batti l’ali,
e per lo ’nferno tuo nome si spande!
Tra li ladron trovai cinque cotali
tuoi cittadini onde mi ven vergogna,
e tu in grande orranza non ne sali.

Par. XI, 58-60, 73-87

ché per tal donna, giovinetto, in guerra
del padre corse, a cui, come a la morte,
la porta del piacer nessun diserra

Ma perch’ io non proceda troppo chiuso,
Francesco e Povertà per questi amanti
prendi oramai nel mio parlar diffuso.
La lor concordia e i lor lieti sembianti,
amore e maraviglia e dolce sguardo
facieno esser cagion di pensier santi;
tanto che ’l venerabile Bernardo
si scalzò prima, e dietro a tanta pace
corse e, correndo, li parve esser tardo.
Oh ignota ricchezza! oh ben ferace!
Scalzasi Egidio, scalzasi Silvestro
dietro a lo sposo, sì la sposa piace.
Indi sen va quel padre e quel maestro
con la sua donna e con quella famiglia
che già legava l’umile capestro.

Par. XII, 34-36, 73-75

Degno è che, dov’ è l’un, l’altro s’induca:
sì che, com’ elli ad una militaro,
così la gloria loro insieme luca.

Ben parve messo e famigliar di Cristo:
ché  ’l primo amor che ’n lui fu manifesto,
fu al primo consiglio che diè Cristo.

 

5.4. Il Monarca “povero”

Non il Francesco povero è generato dal pensiero politico di Dante, ma è il pensiero dantesco – nella sua ispirazione originaria – che nasce dalla tradizione culturale del francescanesimo (ANNA MARIA CHIAVACCI LEONARDI) [1].

L’idea di povertà coinvolge la Monarchia. Dante applica all’Impero la concezione che l’Olivi ha della Chiesa: passa di mano in mano, può rimanere temporaneamente “sanza reda”, ma di per sé è immutabile, tunica inconsutile.
Lo stesso voto evangelico secondo Olivi e la monarchia secondo Dante hanno qualcosa di essenziale in comune: la stabilità, l’immutabilità o la non trasmutabilità, l’indissolubilità. Come il voto evangelico non può essere dispensato, neppure dal papa, che diversamente sarebbe da trattare come eretico e scismatico – secondo quanto sostiene Olivi nella Quaestio de votis dispensandis -, così la monarchia non può essere alienata, neppure dall’imperatore, perché la giurisdizione precede il suo giudice (Monarchia, III, x, 10-12). Chi professa il voto evangelico, fondato sui consigli dati da Cristo, mira al bene universale; così il monarca, il quale è “universalissima causa inter mortales ut homines bene vivant” (ibid., I, xi, 18).
Il voto evangelico colloca chi lo professa in uno stato di altissima povertà, al quale il francescano dedica un’apposita quaestio. L’immutabilità del voto toglie ogni occasione, motivo o desiderio di conseguire dignità o fama che si fondino sulle ricchezze: nulla smorza l’appetito di qualcosa come l’impossibilità di ottenerla. Il voto evangelico è dunque all’opposto della concupiscenza. Anche al monarca non resta nulla da desiderare. L’effetto è il medesimo, le ragioni sono però opposte, perché il monarca possiede tutto, in quanto la sua giurisdizione “terminatur Occeano solum”, mentre chi si trova nello stato di altissima povertà nulla possiede né può sperare di possedere. Ma per entrambi risulta “remota cupiditate omnino”, con la conseguenza che prevale la carità, la quale per Dante dà vigore alla giustizia e alla “recta dilectio” degli uomini da parte del monarca (cfr. le parole di Piccarda a Par. III, 70-72). Ancora, rimuovendo la cupidigia, l’altissima povertà realizza una società comune e pacifica, come il monarca, per mezzo della giustizia corroborata dalla carità, realizza il vivere in pace, “inter alia bona hominis potissimum” (Monarchia, I, xi, 11-14).
In Par. V Beatrice risponde al dubbio di Dante (“un’altra verità che m’è oscura”), “se l’uom può sodisfarvi / ai voti manchi sì con altri beni, / ch’a la vostra statera non sien parvi”, se cioè il voto possa essere commutato (Par. IV, 135-138), ovvero, come ribadisce la donna nel suo cominciare, “se con altro servigio, / per manco voto, si può render tanto / che l’anima sicuri di letigio” (Par. V, 13-15).
Beatrice prima afferma che il libero arbitrio è il maggiore dono dato alle creature intelligenti (uomini e angeli) dalla liberalità di Dio, il più conforme alla sua bontà e quello che più apprezza. Soggiunge che il voto ha un alto valore, perché è un patto tra Dio e l’uomo in cui la libera volontà si offre a Dio con proprio atto. Conclude che il voto non può essere ricompensato con alcunché: pensare di poter usare ancora del libero volere, già tutto offerto a Dio, sarebbe come voler fare opere di carità servendosi di denaro mal acquistato (“di maltolletto vuo’ far buon lavoro”) (Par. V, 19-33).
Le parole, e soprattutto l’idea che Beatrice ha del voto (il “maggior punto”), si ritrovano nella quaestio An sit melius aliquid facere ex voto quam sine voto, la quinta quaestio de perfectione evangelica di Olivi. La volontà è il maggior dono dato da Dio: “Sed nihil sub Deo est nobis ita dilectum et carum sicut libertas et dominium voluntatis nostrae. Hoc enim infinite appretiamur; appretiamur enim illud plus quam omnia quae Deus posset facere, quae sunt infinita, et plus quam aliquid quod sit in nobis” (da notare il verbo ‘apprezzare’, nei versi attribuito a Dio, nella prosa all’uomo). Il voto è offerta della volontà a Dio, per cui essa “altissime tota fertur in Deum”:  “et istius per votum donatio est super omnia, supra naturam et quodammodo contra naturam voluntatis nostrae […] Ergo istud donum super omne aliud a nobis datum vel donabile praeponderat in infinitum” (la parola ‘dono’ in poesia riguarda la volontà, nell’esegesi il voto). Dunque il voto non può essere ricompensato: “Hoc autem nullo modo posset per aliquid huius vitae appretiari nec recompensari”.
Si ricorderà quanto Virgilio dice a Catone di Dante: “libertà va cercando, ch’è sì cara, / come sa chi per lei vita rifiuta” (Purg. I, 71-72), dove per “libertà” si intende il pieno dominio della volontà. Si potrebbe affermare che il suicidio di Catone, sacrificio della vita terrena per il libero arbitrio, fu a suo modo anch’esso un voto. È la libertà che il poeta consegue sulla soglia dell’Eden (“libero, dritto e sano è tuo arbitrio, / e fallo fora non fare a suo senno”, Purg. XXVII, 140-141), per cui si ottiene “quel dolce pome che per tanti rami / cercando va la cura de’ mortali” (ibid., 115-116), cioè la felicità terrena, di cui si dice nella Monarchia : “quia per ipsum hic felicitamur ut homines” (Mon. I, xii, 6; con autocitazione da Par. V). Catone, con il suo atto, si sforzò di accrescere il bene pubblico, e si propose dunque il fine del diritto: “ut mundo libertatis amores accenderet, quanti libertas esset ostendit dum e vita liber decedere maluit quam sine libertate manere in illa” (Mon. II, v, 15). Si tratta della “summa libertas”  di chi volontariamente ubbidisce alle leggi, rinfacciata nel 1311 agli “scelestissimi Florentini” dominati dalla cupidigia (Epistola VI, 22-23). Catone, il Gentile degno di significare Dio più di qualsiasi altro uomo terreno (Convivio, IV, xxviii, 15), fu salvato e posto da Dio a custodia della legge della montagna del purgatorio.
Nella prospettiva storica oliviana, da Dante adeguatamente aggiornata, l’Impero trova un luogo autonomo. Se alla donna (la Chiesa) nel deserto dei Gentili vengono date due ali di una grande aquila (Ap 12, 14) interpretate come il terzo stato dei dottori (che confutano le eresie con la ragione e la spada) e il quarto degli anacoreti (dediti al devoto pasto eucaristico), ecco che alle loro prerogative – si tratta di due stati di solare sapienza – possono venire assimilati Impero e Papato, spada e pastorale, i “due soli” di Marco Lombardo. E poiché il fiume luminoso che scorre nel mezzo della Gerusalemme celeste ha due rive, l’umana e la divina con al centro Cristo-lignum vitae che ombreggia entrambe (Ap 22, 1-2), quell’ombra sacramentale di verità superiori si riverbera sia sull’ “ombra de le sacre penne” dell’aquila imperiale, di cui dice Giustiniano (Par. VI, 7) come sull’ “ombra de le sacre bende” proprie della vita religiosa ed evangelica di cui parla Piccarda (Par. III, 114), cioè sui due fini di beatitudine assegnati all’uomo dalla Provvidenza (cfr. Monarchia, III, xv, 7). Diventato consorte in cielo della Chiesa, l’Impero partecipa a pieno titolo dell’eterna generazione del Verbo e del suo farsi carne. Come Cristo fu soggetto al Padre per la sua mortale umanità, ma non per questo gli fu meno consustanziale ed uguale [2], così il romano Principe, assimilato al Figlio dell’uomo, deve rendere reverenza al Padre e soggiacergli “in aliquo” (come scritto al termine della Monarchia) senza per questo essere meno a Lui uguale [3].

[1] A. M. CHIAVACCI LEONARDI, Commento al “Paradiso”, Milano 2007, p. 304.

[2] Nella Lectura super Apocalipsim Olivi sottolinea in più luoghi la soggezione del Figlio al Padre, a motivo della sua mortale umanità: «(Ap 2, 7) Dicit autem “Dei mei” quia Christus in quantum homo minor est Deo Patre, ita quod in quantum homo habet Patrem pro Deo et Domino et etiam totam Trinitatem. […] (Ap 3, 12) Quod Christus hic vel alibi dicit “Dei mei” vel “a Deo meo”, non dicit nisi tantum ratione sue humanitatis, secundum quam est subiectus Patri et toti Trinitati tamquam Deo suo. […] (Ap 8, 3) Qui “venit”, per nature humane et mortalis assumptionem, “et stetit ante altare”, id est ante curiam seu hierarchiam celestem. Pro quanto enim, secundum carnis sue passibilitatem, minoratus est paulo minus ab angelis (cfr. Heb 2, 7; Ps 8, 6), habuit eos quasi ante se. […] (Ap 14, 18) Per illum vero angelum qui clamat ad alterum ut vindemiet dicit designari angelos bonos, qui non solum de templo sed etiam de altari exeunt quia non tantum ecclesiam electorum sed etiam Christum, qui est nostrum altare, respectu sue carnis transcendunt, secundum illud Psalmi (Ps 8, 6): “Minuisti eum paulo minus ab angelis”».

[3] G. VINAY, Interpretazione della “Monarchia” di Dante, Firenze 1962, p. 73, osserva: “Partito da una proposizione filosofica, inoltratosi tra i rovi di una disputa giuridica e teologica, Dante giunge alla conclusione senza accorgersi di essersi spostato sul piano della pura spiritualità, sul quale soltanto è possibile intendere il senso ultimo della Monarchia”.

 

Tab. 5.4.1

OLIVI, Quaestio de altissima paupertate [ed. J. Schlageter, Das Heil der Armen und das Verderben der Reichen. Petrus Johannis Olivi OFM. Die Frage nach der höchsten Armut, Werl/Westfalen 1989 (Franziskanische Forschungen, 34)].

[Responsio principalis, I.1.3, p. 88] Professori autem huius paupertatis per voti immobilitatem aufertur occasio et omnis ratio ambiendi seu appetendi omnem dignitatem et famam quae in divitiis fundatur, quia non solum abstulit sibi divitias, sed etiam omnem possibilitatem habendi eas seu omne ius acquirendi et habendi eas. Et per hoc etiam abstulit sibi occasionem praesumptionis et gloriae inanis quae surgere potest ex divitiis, non solum pro praesenti tempore, sed etiam pro omni futuro. Nihil autem ita exstinguit et macerat appetitum alicuius rei sicut impossibilitas seu desperatio obtinendi illam. […] Et sic discurrendo per omnia videbis quod spes et facilitas obtinendi desiderabilia vehementissime inter omnia accendit hominis appetitum. […]

[I.6, pp. 98-99] Valet etiam sexto [paupertas altissima] ad communem et pacificam societatem. Aufert enim maximam materiam discordiae et divisionis, invidiae et contentionis seu litigationis et causidicationis et ciuiuscumque fraudulentae supplantationis et multiplicis suspicionis. […] Et breviter: nisi totaliter tollatur amor iurisdictionis temporalis et temporalium a cordibus hominum, non potest esse aliqua communitas sine praedictis malis.

[I.11.1, p. 109] Valet etiam undecimo ad ardentissimam caritatem, et primo quidem per hoc quod cupiditatem et amorem temporalium miro modo exstinguit, et hoc tollendo rerum ipsarum materiam et ius accedendi ad eas et etiam includendo in se voluntatem non possidendi divitias. Contraria enim cupiditatem accendunt.

[I.11.5, p. 110] Quod etiam ex ordine eorum quae sunt ad finem, ad suum finem et econverso probari potest. Quicumque enim propter aliquem finem maiora et difficiliora facit ceteris paribus, praedictum finem amplius diligit, cum voluntas finis sit tota causa voluntatis eorum quae propter finem volumus. Ergo qui propter Dei amorem altitudinem et difficultatem tantae paupertatis assumit, amplius incoparabiliter Deum diligere comprobatur quam ille qui ad hoc non assurgit, nisi forte in aliquo alio huic aequivalenti excedat. Paupertas igitur haec pro Deo assumpta altissimum gradum divini amoris videtur in se includere sicut effectus suam causam et altissimum gradum divini amoris exercitare sicut amor eorum quae sunt ad finem, propter ipsum finem exercitat ad amorem ipsius finis.

OLIVI, An sit melius aliquid facere ex voto quam sine voto [ed. A. Emmen, in “Studi francescani”, 63 (1966), p. 99].

Quarto hoc patet attendendo ad ea, quae in vovente ex voto et voti occasione sequuntur. Sequitur enim ex hoc maior firmitas in bono: desperatio enim habendi aliquam rem multum minuit et tollit concupiscentiam illius rei. Propter quod auferre sibi spem alicuius delectabilis, multum minuit concupiscentiam eius. Certum est enim quod spes et facultas adipiscendi aliquid, augent concupiscentiam: voluntas enim aut non fertur, aut exiliter fertur circa impossibilia et desperata. Sed homo per votum auferendo sibi licentiam habendi illud quod per votum relinquitur, seu relinquendi illud quod per votum datur, aufert quodammodo spem illorum […].

Monarchia, I, xi, 11-14 (ed. a cura di B. Nardi, in Dante Alighieri, Opere minori, II, Milano-Napoli 1979).

Ad evidentiam primi notandum quod iustitie maxime contrariatur cupiditas, ut innuit Aristotiles in quinto ad Nicomacum. Remota cupiditate omnino, nichil iustitie restat adversum; unde sententia Phylosophi est ut que lege determinari possunt nullo modo iudici relinquantur. Et hoc metu cupiditatis fieri oportet, de facili mentes hominum detorquentis. Ubi ergo non est quod possit optari, inpossibile est ibi cupiditatem esse: destructis enim obiectis, passiones esse non possunt. Sed Monarcha non habet quod possit optare: sua nanque iurisdictio terminatur Oceano solum: quod non contingit principibus aliis, quorum principatus ad alios terminantur, ut puta regis Castelle ad illum qui regis Aragonum. Ex quo sequitur quod Monarcha sincerissimum inter mortales iustitie possit esse subiectum. Preterea, quemadmodum cupiditas habitualem iustitiam quodammodo, quantumcumque pauca, obnubilat, sic karitas seu recta dilectio illam acuit atque dilucidat. Cui ergo maxime recta dilectio inesse potest, potissimum locum in illo potest habere iustitia; huiusmodi est Monarcha: ergo, eo existente, iustitia potissima est vel esse potest. Quod autem recta dilectio faciat quod dictum est, hinc haberi potest: cupiditas nanque, perseitate hominum spreta, querit alia; karitas vero, spretis aliis omnibus, querit Deum et hominem, et per consequens bonum hominis. Cumque inter alia bona hominis potissimum sit in pace vivere – ut supra dicebatur – et hoc operetur maxime atque potissime iustitia, karitas maxime iustitiam vigorabit et potior potius.

Par. III, 64-87

“Ma dimmi: voi che siete qui felici,
disiderate voi più alto loco
per più vedere e per più farvi amici?”.
Con quelle altr’ ombre pria sorrise un poco;
da indi mi rispuose tanto lieta,
ch’arder parea d’amor nel primo foco:
“Frate, la nostra volontà quïeta
virtù di carità, che fa volerne
sol quel ch’avemo, e d’altro non ci
                                               [asseta
.
Se disïassimo esser più superne,
foran discordi li nostri disiri
dal voler di colui che qui ne cerne;
che vedrai non capere in questi giri,
s’essere in carità è qui necesse,
e se la sua natura ben rimiri.
Anzi è formale ad esto beato esse
tenersi dentro a la divina voglia,
per ch’una fansi nostre voglie stesse;
sì che, come noi sem di soglia in soglia
per questo regno, a tutto il regno piace
com’ a lo re che ’n suo voler ne ’nvoglia.
E ’n la sua volontade è nostra pace:
ell’ è quel mare al qual tutto si move
ciò ch’ella crïa o che natura face”.

 

Tab. 5.4.2

OLIVI, An sit melius aliquid facere ex voto quam sine voto, ed. A. Emmen, La dottrina dell’Olivi sul valore religioso dei voti, in “Studi Francescani”, 63 (1966), pp. 97-98.

Si enim aspiciamus ad id quod per votum Deo datur et redditur, inveniemus quod per votum non solum datur ipsum opus dum est, sed etiam tota libertas nostra et totum dominium voluntatis nostrae respectu talis operis. Absque voto autem datur solum ipsum opus dum fit, non autem plene pro tempore pro quo erit antequam fiat, nec datur libertas et dominium voluntatis respectu talis operis. Tantum ergo praeponderat votum super simplex propositum, quantum valet libertas et dominium voluntatis, et hoc respectu totius futuri temporis. Hoc autem nullo modo posset per aliquid huius vitae appretiari nec recompensari. Haec autem libertas non solum datur in hora qua votum emittitur, sed omni tempore quo placet sibi vovisse, et in quo cum hac complacentia votum implet. Si ergo votum in sua emissione addebat quamdam valoris et meriti infinitatem, et hoc per totum tempus sequens replicatur et multiplicatur, ergo votum continuatum superaddit multiplicem infinitatem.
Praeterea, tantum Deus appretiatur omne a nobis sibi datum, quantum nobis est dilectum et carum, et quanto ipsa donatio est magis supra naturam voluntatis nostrae. Sed nihil sub Deo est nobis ita dilectum et carum sicut libertas et dominium voluntatis nostrae. Hoc enim infinite appretiamur; appretiamur enim illud plus quam omnia quae Deus posset facere, quae sunt infinita, et plus quam aliquid quod sit in nobis; et istius per votum donatio est super omnia, supra naturam et quodammodo contra naturam voluntatis nostrae. Per hoc enim funditus seipsam abnegat et obliviscitur et a seipsa quodammodo totaliter separatur; et per hoc seipsam totaliter subiugando et se plenissime Deo dando, super se totaliter et altissime tota fertur in Deum. Ergo istud donum super omne aliud a nobis datum vel donabile praeponderat in infinitum.

Par. V, 19-33

Lo maggior don che Dio per sua larghezza
fesse creando, e a la sua bontate
più conformato, e quel ch’e’ più apprezza,
fu de la volontà la libertate;
di che le creature intelligenti,
e tutte e sole, fuoro e son dotate.
Or ti parrà, se tu quinci argomenti,
l’alto valor del voto, s’è sì fatto
che Dio consenta quando tu consenti;
ché, nel fermar tra Dio e l’omo il patto,
vittima fassi di questo tesoro,
tal quale io dico; e fassi col suo atto.
Dunque che render puossi per ristoro?
Se credi bene usar quel c’hai offerto,
di maltolletto vuo’ far buon lavoro.

Purg. I, 70-72

Or ti piaccia gradir la sua venuta:
libertà va cercando, ch’è sì cara,
come sa chi per lei vita rifiuta.

Epistola VI, 22-23 (ed. A. Frugoni – G. Brugnoli, in Dante Alighieri, Opere minori, II, Milano-Napoli 1979, p. 558).

Nec advertitis dominantem cupidinem, quia cecis estis, venenoso susurrio blandientem, minis frustratoriis cohibentem, nec non captivantem vos in lege peccati, ac sacratissimis legibus que iustitie naturalis imitantur ymaginem, parere vetantem; observantia quarum, si leta, si libera, non tantum non servitus esse probatur, quin ymo perspicaciter intuenti liquet ut est ipsa summa libertas. Nam quid aliud hec nisi liber cursus voluntatis in actum quem suis leges mansuetis expediunt? Itaque solis existentibus liberis qui voluntarie legi obediunt, quos vos esse censebitis qui, dum pretenditis libertatis affectum, contra leges universas in legum principem conspiratis?

Monarchia, I, xii, 1-2, 5-7: Et humanum genus potissime liberum optime se habet. Hoc erit manifestum, si principium pateat libertatis. Propter quod sciendum quod principium primum nostre libertatis est libertas arbitrii, quam multi habent in ore, in intellectu vero pauci. Veniunt namque usque ad hoc: ut dicant liberum arbitrium esse liberum de voluntate iudicium. Et verum dicunt; sed importatum per verba longe est ab eis […] Et hinc etiam patere potest quod substantie intellectuales, quarum sunt inmutabiles voluntates, necnon anime separate bene hinc abeuntes, libertatem arbitrii ob inmutabilitatem voluntatis non amictunt, sed perfectissime atque potissime hoc retinent.
Hoc viso, iterum manifestum esse potest quod hec libertas sive principium hoc totius nostre libertatis est maximum donum humane nature a Deo collatum – sicut in Paradiso Comedie iam dixi – quia per ipsum hic felicitamur ut homines, per ipsum alibi felicitamur ut dii. Quod si ita est, quis erit qui humanum genus optime se habere non dicat, cum potissime hoc principio possit uti ? Sed existens sub Monarcha est potissime liberum.

 

6. Viltà e regalità

Pur essendo Francesco di umili origini, ‘vile’ in quanto figlio di un mercante, e umile perché “dispetto” per l’oscura povertà, non “li gravò viltà di cuor le ciglia” ma aprì regalmente la sua dura intenzione a Innocenzo III, dal quale ottenne la prima approvazione della sua religione (Par. XI, 88-93). Si tratta di una variazione di temi in parte presenti anche nella descrizione del martirio di santo Stefano, tra le visioni estatiche di mansuetudine nel terzo girone della montagna (Purg. XV, 106-114). La morte aggrava il martire verso la terra, ma egli fa degli occhi porte al cielo; la viltà derivata dall’origine non grava le ciglia di Francesco, che apre il suo intento al papa. Si confronti ancora l’atteggiamento di Francesco con quello, opposto, di Dante nella selva: “quando chinavi, a rovinar, le ciglia”, come gli dice san Bernardo a Par. XXXII, 138.
Qui di seguito sono proposti i possibili fili intrecciati nel passo della vita del “poverel di Dio” narrata da Tommaso d’Aquino. La viltà che proviene dall’umile origine si trova ad Ap 7, 1 (apertura del sesto sigillo) appropriata a quello, dei quattro venti dello Spirito, che viene da oriente, luogo dell’umile incarnazione di Cristo e della nostra umile origine. Il tema è ripreso da Carlo Martello, che ricorda le vili origini di Romolo, per cui ne fu attribuita la paternità a Marte (Par. VIII, 131-132). Ad Ap 10, 2 l’angelo che, al suono della sesta tromba, ha la faccia come il sole (per Olivi si identifica con Francesco) pone sotto i suoi piedi la terra e il mare in quanto la sua altissima povertà e umiltà conculca ogni ricchezza e onore mondano senza vilmente sottoporvisi. Il ‘parer dispetto’ di Ap 1, 5 è proprio della fragilità del Cristo uomo nella passione e morte. Gravare il cuore è ad Ap 4, 2 il duro e lapideo peso della lettera che grava sul cuore degli uomini, il senso chiuso alle illuminazioni spirituali, simboleggiato dalla porta che chiude il sepolcro di Cristo aperta con la resurrezione. L’aprire regale coincide con l’apertura del primo sigillo da parte del leone (Ap 6, 1): Francesco stesso ad Ap 10, 3 appare costante, forte e impavido come un leone ruggente. L’apertura della porta a Cristo consegue nella settima e ultima vittoria il premio di sedere regalmente con Cristo (Ap 3, 20-21).
L’aprirsi dunque si contrappone alla viltà. Ciò avviene in Francesco: “Né li gravò viltà di cuor le ciglia … ma regalmente sua dura intenzione / ad Innocenzio aperse” – come in Dante, dopo i dubbi sul fare il viaggio nel ritenersi di scarsa virtù: “perché tanta viltà nel core allette … Quali fioretti dal notturno gelo / chinati e chiusi, poi che ’l sol li ’mbianca, / si drizzan tutti aperti in loro stelo” (Inf. II, 121-132).
Francesco, non gravato da viltà, ebbe tre ‘sigilli’ sulla sua Regola. Il primo fu l’approvazione orale da parte di Innocenzo III (1210), al quale “regalmente sua dura intenzione … aperse”. Il secondo fu l’approvazione scritta, nel 1223, tramite la bolla di Onorio III. Il terzo e ultimo fu il sigillo impresso da Cristo con le stimmate, “nel crudo sasso intra Tevero e Arno”, due anni prima della morte, nel 1224.
Si noterà come nei tre sigilli l’intervento dello Spirito Santo operi sul secondo, quello di Cristo sul terzo. Le tre impressioni sembrano corrispondere ai tre fini della storia umana designati dai tre avventi di Cristo, secondo la celebre similitudine con la montagna che è una alla vista distante, ma trina nei suoi dossi e nelle sue viste per chi la salga, proposta da Olivi nel Notabile XIII del prologo. Il primo avvento è nella carne, il secondo nello Spirito, il terzo nel giudizio. D’altronde, come afferma Olivi ad Ap 7, 2, Francesco ha ripercorso il cammino di Cristo fin dal mattino della sua nascita. Nell’impressione del primo sigillo, la durezza dell’intenzione si apre, di fronte a Innocenzo III, verso un processo storico, uno sviluppo: è qui da ricordare l’esegesi di Ap 4, 1-2, dove la durezza lapidea dell’Antico Testamento, cioè di qualcosa chiuso nell’utero prima del parto [1] (nel caso appropriata all’intenzione di Francesco, cioè alla durezza della regola) si apre al nuovo recato da Cristo (al pontefice romano, che di Cristo è sposo). Immessa nello sviluppo storico, anche “la gente poverella crebbe / dietro a costui”, come avviene agli individui. Il crescere e moltiplicarsi è un tema di Gioacchino da Fiore, tratto dal Genesi (1, 22) nella descrizione delle opere del quinto giorno, che Olivi applica con insistenza al quinto stato, cioè al momento in cui si discende da un’ardua e solitaria condizione (quale fu quella del quarto stato, dei troppo alti anacoreti), alla condiscendente pietas verso gli inferiori e le moltitudini, verso le esigenze della vita associata: un tema ben presente a Francesco (cfr. supra). Una crescita avvenuta “dietro a costui”, seguendo le orme di Francesco, e dunque esente dai vizi che inficiano la parte finale del quinto stato, allorché la famiglia francescana sarà “tanto volta”, come affermato nel canto successivo da Bonaventura (Par. XII, 115-126). Dopo la crescita (momento quinto), il coronamento della regola (“la santa voglia”: al sesto stato appartiene l’apertura della volontà) “per Onorio da l’Etterno Spiro” (con il sesto stato inizia l’età dello Spirito, o la terza età di Gioacchino da Fiore). Gli stati, è bene ricordarlo, sono periodi storici in cui si inverano i doni dello Spirito di Cristo, e insieme momenti perennemente presenti all’agire degli individui.
Gravata da viltà, a differenza di Francesco, fu “l’ombra di colui /che fece per viltade il gran rifiuto” (Inf. III, 59-60; cfr. Il sesto sigillo, cap. 7b). Il confronto con il santo iniziatore del sesto stato e della gioachimita età dello Spirito toglie ogni dubbio che l’innominato ignavo sia Celestino V, non certo Esaù, Pilato, Diocleziano o altre improponibili figure. Certamente la viltà che generò “il gran rifiuto” fu determinata non solo da un pusillanime senso di inadeguatezza, ma anche dalla viltà di origine, dalla “matrice contadina” che “caratterizza tutta la vita di Pietro del Morrone” [2]. Il tema del rapporto tra la viltà e il suo contrario, la nobiltà, tra imperfezione e perfezione di una cosa, è discusso nel IV Trattato del Convivio, scritto in tempi ravvicinatissimi, se non contemporanei, alla decisione di compiere il viaggio indotta dall’incontro con la Lectura super Apocalipsim dell’Olivi. Non è casuale che l’esegesi relativa a Laodicea, la settima chiesa d’Asia rimproverata per la sua tepidezza, sia appropriata oltre che agli ignavi, in un diverso e positivo contesto, all’ignaro villanello della similitudine in principio di Inf. XXIV, memore de “lo più vile villano di tutta la contrada” di cui si parla nel Convivio, che sul Falterona ritrovò per caso zappando un antico tesoro (IV, xi, 8). Ma nel Convivio (IV, xx, 3-6) vi è pure la distinzione tra nobiltà di schiatta e nobiltà d’elezione da parte di Dio, “appo cui non è scelta di persone, sì come le divine Scritture manifestano”, il quale rende dèi chi vuole eleggere, distinzione che ben s’incontra con la “signatio” all’alta milizia degli eletti amici di Dio che avviene all’apertura del sesto sigillo, la cui esegesi distingue appunto la magnanimità dei segnati sulla fronte dalla volgare schiera. La viltà d’origine può essere superata, come mostra l’esempio del magnanimo Francesco che si apre a Innocenzo III e del fondatore di Roma, Quirino, che “vien … / da sì vil padre, che si rende a Marte”. Così avviene anche per la viltà d’animo, come mostra l’esempio di Dante, eletto degli ultimi tempi, il quale, superando con l’aiuto di Virgilio il dubbio che gli offendeva l’animo di viltà, si prepara alla guerra delle tentazioni (Inf. II, 127ss.).
Dante non entra nel dibattito se la rinuncia di Celestino V sia stata canonicamente possibile (Olivi, è noto, la considerò tale in una celebre quaestio); il “gran rifiuto” che lo condanna fu quello di un eletto del sesto stato della Chiesa che, trovandosi nell’angustia della persecuzione dei nuovi martiri, lì dove era chiamato a testimoniare la regola evangelica dal suo alto stato, non si aprì al cielo, abbandonando la guerra come Anfiarao, che “non restò di ruinare a valle / fino a Minòs che ciascheduno afferra” (Inf. XX, 31-36). Ingannato, forse, da quello stesso Caetani che poi da papa avrebbe ingannato Guido da Montefeltro, altro eletto (perché si fece francescano in tarda età) decaduto nella prova del dubbio.

[1] Cfr. LSA (incipit): Hec enim septem sunt velut septem dies solaris doctrine Christi, que sub velamine scripta et absconsa fuerunt in lege et prophetis. Eo ipso autem quod doctrina novi testamenti probat se ipsam contineri in veteri sicut nucleum in testa et pullum in ovo et fructum in semine vel radice et sicut lumen in lucerna lucente in loco caliginoso, eo ipso promovetur luna, id est vetus lex et scriptura, in lucem solis. […] (Ap 11, 19) Idem autem est aperiri vetus testamentum quod videre novum in veteri. Sicut enim pullus est in ovo et corpus hominis in sepulcro vel proles concepta in utero matris, sic spiritalis intelligentia novi testamenti erat et latebat in littera veteris et in exteriori cortice sinagoge.

[2] Cfr. P. GOLINELLI, Ancora di colui «che fece per viltade il gran rifiuto» (Inf. III, 60), in “Rivista di Storia e Letteratura Religiosa”, 31 (1995/3), pp. 443-460.

Tab. 6

[LSA, cap. IV, Ap 4, 2 (radix IIe visionis)] Nota etiam quod hec sibi sic monstrantur et sic nobis scribuntur, quod sint apta ad misteria nobis et principali materie huius libri convenientia. Unde per celum designatur hic ecclesia et scriptura sacra, et precipue eius spiritalis intelligentia. Sicut autem in hostio monumenti Christi erat superpositus magnus lapis et ponderosus, qui Christo resurgente et de sepulcro exeunte est inde amotus, sic in scriptura erat durus cortex littere, pondere sensibilium et carnalium figurarum gravatus, claudens hostium, id est [aditum] intelligentie spiritalis. In humanis etiam cordibus erat lapidea durities sensus obtusi, claudens introitum divinarum illuminationum.
Item absentia seu potius non existentia magnorum operum in ecclesia fiendorum erat nobis magna clausura hostii ad fabricam ecclesie contemplandam. Primus autem apertor huius hostii et prima vox nos in celum ascendere faciens est Christus et eius illuminatio et doctrina. Nam vox priorum prophetarum potius clausit hostium sub figuris, et sub terrenis promissionibus carnalem sensum Iudeorum depressit potius quam levavit.

Par. XI, 88-93

li gravò viltà di cuor le ciglia
per esser fi’ di Pietro Bernardone,
né per parer dispetto a maraviglia;
ma regalmente sua dura intenzione
ad Innocenzio aperse, e da lui ebbe
primo sigillo a sua religïone.

Purg. XV, 109-114

E lui vedea chinarsi, per la morte
che l’aggravava già, inver’ la terra,
ma de li occhi facea sempre al ciel porte,
orando a l’alto Sire, in tanta guerra,
che perdonasse a’ suoi persecutori,
con quello aspetto che pietà diserra.

[LSA, cap. VII, Ap 7, 1 (IIa visio, apertio VIi sigilli)] Item per hos quattuor ventos intelliguntur omnes spirationes Spiritus Sancti, secundum illud Ezechielis XXXVII°: “A quattuor ventis veni, spiritus, et insuffla super interfectos istos et reviviscant” (Ez 37, 9). Unus enim ventus est ab oriente humilis incarnationis Christi et nostre vilis originis. Alius vero est ab occidente mortis Christi et nostre miserabilis mortis. Alius vero ab aquilone temptationum Christi et nostrarum. Quartus vero est a meridie caritatis et glorie Christi nobis promisse.

Par. VIII, 131-132

…………………..…… e vien Quirino
da sì vil padre che si rende a Marte.

Inf. III, 58-60

Poscia ch’io v’ebbi alcun riconosciuto,
vidi e conobbi l’ombra di colui
che fece per viltade il gran rifiuto.

[LSA, cap. X, Ap 10, 1-2 (IIIa visio, VIa tuba)] Quia vero hec et sequentia in futuris eius operibus et discipulis clarius innotescent, idcirco sciendum quod a tempore sollempnis impugnationis et condempnationis evangelice vite et regule, sub mistico Antichristo fiende et sub magno amplius consumande, spiritaliter descendet Christus et eius servus Franciscus et angelicus discipulorum eius cetus contra omnes errores et malitias mundi et contra totum exercitum demonum et pravorum hominum constans et fortis et impavidus sicut leo, tam ad invadendum quam ad patiendum. Et per profundissimam sui humiliationem et per sue originis a Deo humilem recognitionem et per sui ad inferiores piam condescensionem descendet “de celo”, eritque scientia scripturarum non terrestrium et falsarum sed celestium et purissimarum quasi “nube amictus”, et etiam agillima et altissima et fecunda simul et obscura seu humili paupertate. […]
Habuit etiam “in manu”, id est in pleno opere et in plena possessione et potestate, “libellum” evangelii Christi “apertum (Ap 10, 2), sicut patet ex regula quam servavit et scripsit et ex statu evangelico quem instituit. […] Et nota quod hic angelus non posuit supra se mare et terram, sed potius sub pedibus suis, quia per altissimam paupertatem et austeritatem et humilitatem omnes mundanas divitias et honores et delicias sub suis pedibus conculcavit, nullique adulatorie aut pro mundano questu se carnaliter seu viliter subdens.

[LSA, cap. III, Ap 3, 20-21; Ia visio, VIIa victoria] Septima est victoriosus cum Christo convictus, quando scilicet quis Christo incorporatus obtinuit sibi familiariter cum Christo convivere et concenare, ut impleatur illud quod septime ecclesie dicitur: “Si quis aperuerit michi ianuam, intrabo ad illum et cenabo cum illo, et ipse mecum” (Ap 3, 20). Huic autem competit premium conregnandi et regaliter consedendi cum Christo, unde ibidem subditur (Ap 3, 21): “Qui vicerit, dabo ei sedere mecum in trono meo, sicut et ego vici et sedi cum Patre meo in trono eius”.

[LSA, cap. VI, Ap 6, 1 (IIa visio, apertio Ii sigilli)] Duplici ex causa leo demonstrat visa prime apertionis. Prima est quia leo signat primum ordinem ecclesie, scilicet pastorum seu apostolorum; ipsorum autem proprie fuit monstrare primum statum ecclesie in eis et sub eis formatum. Secunda est quia per leonem Christi resurgentis triumphalis et regalis potestas et gloria designatur.

[LSA, cap. I, Ap 1, 5] Pro tertio dicit: “Et a Ihesu Christo” (Ap 1, 5). Ne autem propter fragilitatem passionis et mortis quam tunc passus fuerat et propter contemptum quo tunc ab infidelibus spernebatur ubique crederetur esse fragilis et despectus, ideo septem notabiles primatus sibi singulariter ascribit, scilicet primatum attestationis salutaris veritatis Dei, cum dicit: “qui est testis fidelis”.

[LSA, cap. V, Ap 5, 1 (radix IIe visionis)] Secunda causa seu ratio septem sigillorum libri est quia in Christo crucifixo fuerunt septem secundum humanum sensum et estimationem abiecta, que claudunt hominibus sapientiam libri eius.

 

7. Sete di martirio di fronte al Signore della terra

■ Di Francesco si afferma nell’esegesi, che occupa l’intero capitolo X, dell’angelo che, al suono della sesta tromba, ha la faccia come il sole:

Pose il piede destro sul mare (Ap 10, 2) perché tentò per ben tre volte con tutto l’impegno e il fervore di recarsi presso i Saraceni per convertirli e per ricevere da loro il martirio, come è descritto nel nono capitolo della sua vita [cfr. Bonaventura, Legenda maior, IX]: nel sesto anno della sua conversione [avvenuta nel 1206] come angelo del sesto sigillo e come segno che per mezzo del suo Ordine nel sesto stato della Chiesa essi devono essere convertiti a Cristo; poi, di nuovo, per una terza volta, nel tredicesimo anno della sua conversione [1219], come segno che nel tredicesimo secolo dalla passione e dalla resurrezione di Cristo i Saraceni e gli altri infedeli devono essere convertiti per mezzo del suo Ordine con molti martìri; per questo anche nella sua Regola stabilì similmente il modo di andare a predicare ai Saraceni e agli altri infedeli [cfr. Regula bullata, XII].
Come infatti, nel tredicesimo giorno dalla nascita, Cristo apparve ai re dell’oriente (cfr. Mt 2, 1ss.) e in simile giorno fu battezzato (cfr. Mt 3, 13ss.; Mc 1, 19ss.; Lc 3, 21ss.) e trasformò l’acqua in vino (Gv 2, 1ss.) e nel tredicesimo anno si allontanò dalla madre e fu ritrovato da lei nel tempio (cfr. Lc 2, 40ss.), così nel tredicesimo secolo dalla nascita di Cristo apparve Francesco e il suo Ordine evangelico ma anche, nel tredicesimo secolo dalla morte e dall’ascensione di Cristo, sarà esaltato in croce e la sua gloria ascenderà su tutto il mondo, come dimostra quanto è stato scritto, specialmente quanto sarà trattato nella quarta visione di questo libro (traduzione di P. VIAN, in Pietro di Giovanni Olivi. Scritti scelti, Roma 1989, pp. 136-137).

■ Nel capitolo XI della Lectura si parla dei due testimoni dati da Dio, Enoch ed Elia, che verranno uccisi dalla bestia per poi risorgere dopo tre giorni e mezzo (corrispondenti a “un tempo, due tempi e la metà di un tempo” di Ap 12, 14, ovvero ai tre anni e mezzo in cui regnerà l’Anticristo). Di essi si dice che “profetizzeranno vestiti di sacco”, cioè di cilici e di vesti povere e aspre, a significare l’austerità della loro vita religiosa (Ap 11, 3). Essi sono “due olivi” pingui di carità e ripieni dell’unzione divina e di soavità, e “due candelabri lucenti”, i quali spandono per tutta la Chiesa il lume della sapienza divina che portano in modo alto e preclaro, “che stanno nel cospetto del Signore”, cioè assistono sempre Dio sia per la singolare contemplazione che per il servigio di una pronta obbedienza e ossequio (Ap 11, 4; cfr. anche supra).
Secondo Gioacchino da Fiore, sia qui come in Zaccaria 4, 14 si dice di costoro “che stanno nel cospetto del Signore della terra” perché sono venuti per questo, e andranno davanti al volto di Cristo per annunziare la venuta di un tempo nel quale è necessario che il Figlio di Dio regni su tutta la terra, cosicché gli uomini siano illuminati come da candelabri luminosi e il cuore degli eletti venga unto dalla grazia e dalla dottrina spirituale come da lampade colme di olio santo. Con il “Signore della terra” può essere anche designato l’Anticristo, che allora dominerà da usurpatore la terra e i terreni, di fronte al quale i due resisteranno con costanza ammonendolo da parte di Dio, come fecero Mosè e Aronne di fronte al Faraone e Pietro e Paolo di fronte a Nerone.
Al passo di Ap 11, 4, relativo ai due testimoni e al loro stare “in cospetto del Signore della terra” (che può essere il Figlio di Dio oppure l’Anticristo), rinvia lo stare di Francesco, assetato di martirio, “ne la presenza del Soldan superba” ove “predicò Cristo e li altri che ’l seguiro” (Par. XI, 100-102). Che il Sultano sia inteso come “Dominus terre” si ricava anche dalle parole di Virgilio relative a Semiramìs (“tenne la terra che ’l Soldan corregge”, Inf. V, 60). I due testimoni “verranno per questo”, cioè per stare in presenza di Cristo “Dominus terre” e per annunciare essere prossimo il tempo in cui il Figlio di Dio regnerà sull’universa terra: il tema entra nella narrazione che Bonaventura fa della vita di Domenico: “Spesse fïate fu tacito e desto / trovato in terra da la sua nutrice, / come dicesse: ‘Io son venuto a questo’ ” (Par. XII, 76-78). D’altronde ad Ap 11, 4 (passo in collazione con Ap 10, 1) conduce anche Par. XI, 35-36, dove si parla appunto dei due principi – Francesco e Domenico – ordinati dalla Provvidenza a guida della Chiesa, come nell’esegesi si dice (Ap 10, 1) che Dio ha ordinato uomini angelici che illuminano gli inferiori e (Ap 11, 4) che i due testimoni, Enoch ed Elia, sono due candelabri luminosi che stanno al cospetto di Dio, come due principi e consiglieri stanno e incedono uno a destra e uno a sinistra al cospetto di un gran re (Ap 11, 4; cfr. anche supra).

■ Il tema dell’Anticristo che usurpa il dominio terreno si ritrova nel cielo ottavo, delle stelle fisse, allorché san Pietro pronuncia l’invettiva contro “quelli ch’usurpa in terra il luogo mio, / il luogo mio, il luogo mio che vaca / ne la presenza del Figliuol di Dio” (Par. XXVII, 22-24). Si tratta di Bonifacio VIII, pontefice regnante nel 1300, e l’appellativo di usurpatore, nelle parole del principe degli apostoli che dichiara altresì essere vacante il suo seggio in terra, sembra alludere all’illegittimità dell’elezione del Caetani. Si può rispondere con Arsenio Frugoni, che le parole di Pietro non possono essere intese come denuncia di un’illegittimità canonica di Bonifacio, “ma bensì di un’indegnità totale di colui che ha tolto ‘a ’nganno / la bella donna’ e ne fa ‘strazio’ (Inf. XIX, 56-57), sicché per quell’alleato di Satana il Papato è di fatto vacante, anche se così non appare agli uomini, nel giudizio del Figlio di Dio” (Celestino V, in Enciclopedia Dantesca, I, p. 906).
Il tema del vacare moralmente dinanzi a Dio è presente ad Ap 3, 1-2. Il vescovo di Sardi, la quinta delle sette chiese d’Asia alle quali Giovanni scrive nella prima visione, viene rimproverato di avere fama di essere giusto e di vivere la vita della grazia, mentre invece è morto per colpa mortale: “nomen habes quod vivas et tamen mortuus es”. Viene invitato a vigilare e a confermare le sue opere che stanno per estinguersi, per cui Cristo gli dice: “non trovo le tue opere piene di fronte a Dio” cioè, spiega Olivi, anche se dinanzi agli uomini appaiono piene di virtù e di carità, vacano (nel senso di ‘sono vuote’) di fronte a Dio. Così per Boni facio, pontefice legittimo per i terreni ma non per Dio, singolarmente consonante nel nome con l’esegesi relativa al vescovo della quinta chiesa, “quia habebat nomen boni cum esset malus”. I versi pronunciati da san Pietro cuciono insieme i temi della quinta chiesa – le opere vacanti “coram Deo” – con quelli della sesta tromba da Ap 11, 4 – i due testimoni che stanno “in conspectu Domini terre” -, presente quest’ultimo con la duplice appropriazione all’usurpatore Anticristo (“Quelli ch’usurpa in terra”) e a Cristo (“ne la presenza del Figliuol di Dio”).
La situazione di Bonifacio VIII è parzialmente illuminata da altro luogo del poema. Si tratta della descrizione della cascata del Flegetonte che precipita dal settimo all’ottavo cerchio infernale. Il fiume di sangue è paragonato al Montone che all’inizio, nel suo alto corso, “prima dal Monte Viso ’nver’ levante, / da la sinistra costa d’Apennino” ha proprio cammino e proprio nome (Acquacheta; ad Ap 3, 4 il “proprium nomen” è il “proprium donum gratie” dato a ciascuno), nome che diventa “vacante” allorché il fiume, dopo la cascata di San Benedetto dell’Alpe, è sceso nella piana di Forlì e si chiama appunto Montone (Inf. XVI, 94-105; cfr. a Purg. V, 97 le parole di Buonconte da Montefeltro sullo sfociare in Arno dell’ “Archian rubesto”: “Là ’ve ’l vocabol suo diventa vano”). Questi versi di apparente indicazione geografica sono in realtà pregni di motivi spirituali. Il tema principale è la caduta rovinosa (la cascata) del fiume, corrispondente al precipitoso rovinare nella fase estrema del quinto stato condescensivo e rilassato. Così il fiume ha dapprima un nome di vita, “avante / che si divalli giù nel basso letto” (prima che ‘condiscenda’), e poi lo perde, come la chiesa di Sardi ha avuto un principio bello e poi l’ha perduto ritrovandosi con un nome vacante di fronte a Dio. Tutta la zona che precede la descrizione della cascata del Flegetonte – i sodomiti – è pervasa dai temi del quinto stato (da notare le ultime parole di ser Brunetto ad Inf. XV, 119-120: “Sieti raccomandato il mio Tesoro, / nel qual io vivo ancora”, cioè ho nome). Nel burrone in cui precipita il Flegetonte Virgilio getta la corda della quale Dante era cinto, e questo è “novo cenno” – che segna il passaggio al sesto stato -, per cui Gerione viene di sopra per portare Dante in volo nel fondo di “quell’alto burrato”, ubbidendo al comando di Virgilio che lo ha ‘fatto venire’, come Cristo promette alla sesta chiesa che le farà venire quelli della sinagoga di Satana, per sottoporli al suo magistero (Ap 3, 9).
Se il ‘vacare’ della sede romana è un filo tratto dall’esegesi della quinta chiesa, la quale ebbe un principio bello poi corrottosi rendendo il proprio nome vacuo di fronte a Dio, l’intenzione di san Pietro non è di dire che Bonifacio VIII è stato eletto in modo illegittimo, ma che si è reso apostata da quell’alto stato (che pertanto “usurpa” occupandone il “luogo”), come l’Anticristo il quale, precisa Olivi ad Ap 13, 11, non sarà educato ed edotto dal diavolo fin dall’infanzia o dal ventre materno ma, nuovo Lucifero, sarà apostata e cadrà di sua volontà dall’altissimo e giustissimo stato in cui era stato creato.

Tab. 7

[LSA, cap. X, Ap 10, 1-2 (IIIa visio, VIa tuba)] Quod autem quidam dicunt hunc angelum esse Christum, quia solius ipsius est aperire librum, prout dicitur supra capitulo quinto (Ap 5, 2-3/9), non negamus quin ipse sit principalis reserator libri et precipue in quantum est Deus illuminans interius mentes, sed nichilominus ordinavit sub se angelicos spiritus et angelicos homines ad ministerialiter illuminandum inferiores. Qua ergo ratione per septem angelos tuba canentes intelliguntur angelici homines et doctores et etiam spiritus angelici eis presidentes, quamquam Christus principaliter doceat omnia que per tubicinationes angelorum docentur, eadem ratione debet consimiliter intelligi in proposito. […]
“Posuit” etiam “pedem dextrum sup[ra] mare” (Ap 10, 2), quia ad Sarracenos convertendos et ad martirium accipiendum ab eis cum summo studio et fervore laboravit ter ire ad eos, prout scribitur IX° capitulo vite sue, scilicet sexto anno a conversione sua tamquam angelus sexti signaculi et in signum quod per eius ordinem sunt in sexto statu ecclesie convertendi ad Christum, et iterum tertio in tertio decimo anno conversionis sue, in signum quod in tertio decimo centenario, a passione et resurrectione Christi inchoando, sunt Sarraceni et ceteri infideles scilicet per eius ordinem cum multis martiriis convertendi. Unde et in sua regula similiter instituit modum eundi ad predicandum Sarracenos et alios infideles.
Sicut enim in tertia decima die a nativitate Christus apparuit regibus orientis (Mt 2, 1ss.) et in consimili die baptizatus est (Mt 3, 13ss.; Mr 1, 4ss.; Lc 3, 21ss.) et aquam convertit in vinum (Jo 2, 1-11), et in tertio decimo anno absentatus a matre est ab ea inventus in templo (Lc 2, 40-50), sic in tertio decimo centenario a Christi ortu apparuit Franciscus et eius evangelicus ordo, sed in tertio decimo a Christi morte et ascensione exaltabitur in cruce et ascendet ei[us] gloria super totum orbem, prout pie conicitur ex scripturis et specialiter ex hiis que tanguntur infra in quarta visione huius libri.

[LSA, cap. XI, Ap 11, 4 (IIIa visio, VIa tuba)] “In conspectu Domini terre stantes”, id est tam per singularem contemplationem quam per prompte obedientie et obsequii famulatum semper Deo assistentes.
Et secundum Ioachim, ideo tam hic quam in Zacharia, capitulo scilicet IIII° (Zc 4, 14), dicitur de istis quod sunt “in conspectu Domini terre stantes”, quia ad hoc venturi sunt et ante faciem Christi ituri, ut annuntient advenisse tempus in quo oportet regnare Filium Dei in universa terra, ita ut tamquam de candelabris lucentibus illuminentur homines et tamquam de lampadibus oleo sancto plenis inungantur corda electorum spiritali gratia et doctrina*.
Vel si per “dominum terre” intelligatur Antichristus tunc usurpatorie dominans terre et terrenis, constat quod isti stabunt coram eo tamquam sibi constanter resistentes et tamquam ipsum auctorizabiliter ex parte Dei monentes, sicut Moyses et Aaron steterunt coram Pharaone et Petrus et Paulus coram Nerone imperatore*. Primum tamen videtur magis de mente littere, quia in scriptura non est consuetum quod sancti dicantur stare in conspectu regis mundani, et tamen consuetum est dici stare eos in conspectu Dei.
Preterea hic dicuntur stare in conspectu Domini sicut duo candelabra lucentia seu duo luminaria stant coram uno Domino seu coram altari Dei unum a dextris et aliud a sinistris, vel sicut duo principes vel consiliarii unius magni regis stant et incedunt coram eo unus a dextris et alius a sinistris.

* Expositio, pars III, f. 149ra.

Inf. XV, 119-120

Sieti raccomandato il mio Tesoro,
nel qual io vivo ancora, e più non cheggio.

Inf. XVI, 94-105

Come quel fiume c’ha proprio cammino
prima dal Monte Viso ’nver’ levante,
da la sinistra costa d’Apennino,
che si chiama Acquacheta suso, avante
che si divalli giù nel basso letto,
e a Forlì di quel nome è vacante,
rimbomba là sovra San Benedetto
de l’Alpe per cadere ad una scesa
ove dovea per mille esser recetto;
così, giù d’una ripa discoscesa,
trovammo risonar quell’ acqua tinta,
sì che ’n poc’ ora avria l’orecchia offesa.

Inf. XIX, 52-54

Ed el gridò: “Se’ tu già costì ritto,
se’ tu già costì ritto, Boni fazio?
Di parecchi anni mi mentì lo scritto.”

Purg. V, 97-99

Là ’ve ’l vocabol suo diventa vano,
arriva’ io forato ne la gola,
fuggendo a piede e sanguinando il piano.

Inf. V, 58-60

Ell’ è Semiramìs, di cui si legge
che succedette a Nino e fu sua sposa:
tenne la terra che ’l Soldan corregge.

Par. XXVII, 22-24

Quelli ch’usurpa in terra il luogo mio,
il luogo mio, il luogo mio che vaca
ne la presenza del Figliuol di Dio 

Par. XI, 34-36, 100-102

in sé sicura e anche a lui più fida,
due principi ordinò in suo favore,
che quinci e quindi le fosser per guida.

E poi che, per la sete del martiro,
ne la presenza del Soldan superba
predicò Cristo e li altri che ’l seguiro

Par. XII, 76-78

Spesse fïate fu tacito e desto
trovato in terra da la sua nutrice,
come dicesse: Io son venuto a questo.

[LSA, cap. III, Ap 3, 1-2.4 (Ia visio, Va ecclesia)] Talem ergo se proponit huic episcopo, quia habebat nomen boni cum esset malus, nec videbatur futurum iudicium formidare, et etiam quia Christus ostendit se nosse quosdam sanctos huius ecclesie occultos et paucos, tamquam omnibus spiritualiter presens et omnia potestative continens. […] Increpans ergo eam dicit: “Scio opera tua” (Ap 3, 1). Non ponitur hic “scio” pro ‘approbo’ sicut in precedentibus ponebatur, sed solum pro illa scientia qua infallibiliter scit omnia mala. “Quia nomen habes quod vivas”, id est famam habes in vulgo quod sis iustus et per vitam gratie vivus, “et tamen mortuus es”, scilicet per culpam mortalem. Vel si erat aperte malus, est sensus quod habebat nomen christiani, quod est nomen vite sancte, non tamen habebat rem eius sed potius oppositum, scilicet mortem culpe. […]
(Ap 3, 2) Quare autem monet eum vigilare et moritura opera confirmare, ostendit subdens: “Non enim invenio opera tua plena coram Deo meo”, id est etsi coram hominibus videntur plena virtute et caritate, sunt tamen istis vacua coram Deo. […]
Deinde a predicto defectu excipit quosdam illius ecclesie, subdens: “Sed habes pauca nomina in Sardis” (Ap 3, 4). Nomina sumit pro personis quarum nomina sunt. Per nomina etiam intelligit personas merito sue sanctitatis notas Christo. Item proprium donum gratie, quod unusquisque accepit, dat cuique viro quasi proprium nomen ut cognoscatur ex nomine. Caritas autem Dei, in quantum communis omnibus bonis, dat commune nomen sanctis ut vocentur cives Iherusalem.

 

8. L’italica erba

Par. XI, 103-108

e per trovare a conversione acerba
troppo la gente e per non stare indarno,
redissi al frutto de l’italica erba,
nel crudo sasso intra Tevero e Arno
da Cristo prese l’ultimo sigillo,
che le sue membra due anni portarno.

 

■ [Tab. 8.1] In così alta retorica del significante, viene in rilievo la simmetria fra terzine nella numerazione dei versi di singoli canti, o meglio il numero stesso della terzina. Non può essere infatti casuale che l’Italia sia due volte collocata sull’ultimo verso della 35a terzina (vv. 103-105) a Purg. VI (“che ’l giardin de lo ’mperio sia diserto”) e a Par. XI (“redissi al frutto de l’italica erba”).

La semantica rinvia ad Ap 8, 7 (terza visione, prima tromba) e ad Ap 12, 6 (quarta visione, prima guerra), dove si tratta della Giudea, un tempo fiorente giardino poi divenuta deserto per il suo indurirsi contro Cristo. Da essa la donna (la Chiesa) fugge nella solitudine del deserto dei Gentili (il “lito diserto” della montagna del purgatorio), che fiorisce, mentre la Giudea si fa “selva selvaggia” («“in saltum” seu silvam “reputabitur”, id est silvestrescet»). Ma nel sesto stato la Giudea, dopo la conversione delle reliquie delle genti, si volgerà umilmente per ultima a Cristo come promesso al vescovo di Filadelfia, la sesta chiesa d’Asia (Ap 3, 9).
Quando Virgilio profetizza del Veltro: “Di quella umile Italia fia salute” (Inf. I, 106; 36a terzina: il senso spirituale è ben diverso dalla pur presente reminiscenza virgiliana “humilemque videmus Italiam” di Aen., III, 523-524), pronuncia parole che aprono la memoria del canto di lode della moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni gente, tribù, popolo e lingua, confermata dagli angeli, dai seniori e dai quattro animali che stanno intorno al trono (Ap 7, 10-12): «“dicentes: Salus Deo nostro”, id est salus nostra non nobis ascribatur … scilicet se profunde humiliando Deo, “et adoraverunt Deum (Ap 7, 12) dicentes: Amen”, id est vere sic sit et fiat sicut hec sancta turba decantat et orat”». L’Italia, “’l giardin de lo ’mperio”, la fruttuosa “erba” alla quale torna Francesco, la nuova Giudea, è terra d’umiltà: “per … herbas virentes designantur simplices, humilitatem et virorem fidei et vite honeste et pie servantes” (Ap 9, 4, quinta tromba: passo simmetrico ad Ap 8, 7 per il “fenum”); è pure il “bel paese là dove ’l sì suona”, dove cioè si conferma in terra il sovranazionale canto di lode che gira la sede divina in cielo: «“dicentes: Amen”, id est vere sic sit et fiat ».
La stessa esegesi, da Ap 8, 7 (prima tromba) e 9, 4 (quinta tromba) segna anche, a Purg. I (35a terzina), gli umili giunchi sulla riva del purgatorio (è da notare, ancora, come degli stessi temi si faccia segno nelle terzine 44a e 45a di Purg. I, VII – che hanno lo stesso numero di versi – e XXVII).
La turba immensa, non di una sola gente o lingua, ma di ogni gente, tribù, popolo e lingua, che sta davanti al trono e nel cospetto dell’Agnello, avvolta in vesti candide e con le palme nelle mani, designa coloro che sono venuti alla gloria dalla passione, dalla sofferenza e dal martirio, come affermato dal vegliardo (Ap 7, 14). Sono coloro che ad Ap 12, 10-11, al termine della seconda battaglia vinta per intervento di Michele (il secondo stato è quello dei martiri, cui si addice il combattere e la tribolazione), esultano e lodano Dio per la salvezza intervenuta; hanno vinto il diavolo “per mezzo del sangue dell’Agnello”; “non hanno amato le loro anime”, ossia le loro vite corporee, “fino alla morte”, esponendosi per Cristo ad ogni passione. Nella profezia del Veltro, il non essere di una sola gente, tribù, popolo o lingua coloro che stanno dinanzi al trono si adatta ai due versi relativi all’umile Italia, “per cui morì la vergine Cammilla, / Eurialo e Turno e Niso di ferute” (Inf. I, 107-108), nei quali non si fa distinzione tra l’appartenenza di campo dei caduti nella guerra combattuta nel Lazio da Enea, che rientra nel piano provvidenziale, ne “l’alto effetto” per il quale il troiano “fu de l’alma Roma e di suo impero / ne l’empireo ciel per padre eletto” (Inf. II, 16-24).
Di fronte a tanto profondi significati che aprono prospettive di una storia della salvezza collettiva, quale senso ha che l’Italia stia due volte sulla 35a terzina? Forse la risposta si trova nell’esegesi di Ap 12, 6, relativa allo scambiarsi fra selva e deserto fiorito. Esegesi i cui signacula si rinvengono in molti versi fra i quali (ancora una volta la 35a terzina) Purg. VII, 105, riferito con variazione dissonante alla morte nel 1285 di Filippo III l’Ardito in fuga dagli Aragonesi: «“Et mulier”, id est ecclesia, “fugit in solitudinem” … De hac autem solitudine dicitur Isaie … Et capitulo XXXV° (Is 35, 1-2): “Letabitur deserta et invia, exultabit solitudo et florebit quasi lilium”.│morì fuggendo e disfiorando il giglio». Questo deserto che fiorisce è quello profetizzato da Isaia, più volte citato ad Ap 12, 6. Ivi fiorirà la giustizia (“et habitabit in solitudine iudicium et iustitia”, Is 32, 16). Il numero 35 è menzionato nel poema allorché, nel cielo di Giove, a Dante si mostra la scritta dipinta “Diligite iustitiam, qui iudicatis terram”, cioè il primo versetto del libro della Sapienza formato da 35 lettere (“Mostrarsi dunque in cinque volte sette / vocali e consonanti”; Par. XVIII, 88-93). Dante pensava che l’Italia sarebbe stata un giorno la sede della giustizia.
Si noterà che sulla 35a terzina di Inf. I e Purg. IX stanno rispettivamente l’“umile Italia”, della quale il Veltro “fia salute”, e l’umiltà di Dante nel chiedere all’angelo, vicario di Pietro, l’apertura della porta del purgatorio. Non significa che Dante e il Veltro coincidano, ma che quando scriveva i versi che riguardavano la sua conversione interiore, il poeta pensava a una renovatio universale.
“Nel crudo sasso intra Tevero e Arno” (Par. XI, 106). Il riferimento a La Verna, dove il serafino impresse le stimmate su Francesco, fa ancora segno della durezza giudaica, lapidea e legata al solo senso letterale della Scrittura, che sarebbe stata aperta da Cristo con “l’ultimo sigillo”. Nella parte proemiale della seconda visione, dedicata appunto all’apertura dei sette sigilli (Ap 4, 1-2), Olivi afferma che come sulla porta della tomba di Cristo era posta una pietra grande e pesante che fu rimossa al momento della resurrezione e dell’uscita dal sepolcro, così il duro involucro del senso letterale, gravato dal peso di figure sensibili e carnali, chiudeva nell’Antico Testamento la porta della Scrittura impedendo l’accesso all’intelligenza spirituale. Nei cuori degli uomini era lapidea durezza e sentimento ottuso, chiuso alle illuminazioni divine. Colui che per primo aprì la porta e diede la prima voce che ci fece salire al cielo fu Cristo, con la sua illuminazione e dottrina. La rupe alverniate fu per Francesco, che con il sesto stato iniziò un nuovo avvento di Cristo nello Spirito, come il sepolcro di Cristo, della cui vita fu perfetto imitatore.

Tab. 8.1

[LSA, cap. II, Ap 2, 1 (VIa ecclesia)] Sexta (ecclesia) autem dicitur habere hostium scripturarum [ac] predicationis et cordium convertendorum apertum, et quod Iudei debent ad eam cum summa humilitate adduci, et quod est servanda ne cadat in temptationem toti orbi venturam, quia Dei consilia et mandata longanimiter et patienter servavit, que utique competunt statui sexto. Unde et congrue vocatur Philadelphia, id est salvans hereditatem, quia in regula evangelica, quasi in archa Noe, salvabitur semen fidei et electorum a diluvio Antichristi tam mistici quam aperti.

[LSA, cap. VII, Ap 7, 9 (IIa visio, apertio VIi sigilli)] Sequitur: “Post hec vidi turbam magnam” (Ap 7, 9). […] “Quam dinumerare nemo poterat” […] “Turbam”, inquam, non solum ex una gente vel lingua existente[m], sed “ex omnibus gentibus et tribubus et populis et linguis stantes ante tronum”, id est ante regiam dignitatem divine maiestatis designatam per tronum. Vel “ante tronum”, id est ante generalem ecclesiam Dei, vel ante supercelestem, vel ante priorem ecclesiam sanctorum. “In conspectu Agni”, id est coram Christo homine tamquam ipsum colentes, et sicut servi stant coram Domino suo ad ipsum serviendum et honorandum. “Amicti stolis albis”, per candorem munditie et gratie et glorie. Nam hec turba videtur hic describi quasi iam per fidem et martirium perducta ad gloriam Dei. “Et palme in manibus eorum”, id est triumphalis gloria de victoria hostium erat et evidenter apparebat in eis.

[LSA, cap. III, Ap 3, 9 (Ia visio, VIa ecclesia)] Unde subdit: “Ecce faciam illos”, scilicet tales esse, “ut veniant”, id est per influxum mee gratie tantam immutationem cordis faciam in eos ut veniant. Vel sensus est: “faciam” ut illi “veniant et adorent ante pedes tuos”, scilicet querendo humillime et devotissime a te doceri et baptizari et regi. Adorare sumitur hic pro vehementer ipsum venerari et cum signis maxime subiectionis et humiliationis, puta prosternendo se ante pedes eius. Vel potest esse sensus: “et adorent”, scilicet me, “ante pedes tuos”, id est prostrati ante te confitebuntur se credere in me.

Inf. XXXIII, 79-80

Ahi Pisa, vituperio de le genti
del bel paese là dove ’l sì  suona

[LSA, cap. VII, Ap 7, 10-12.14 (IIa visio, apertio VIi sigilli)] “Et clamabant voce magna” (Ap 7, 10), id est magna devotione, “dicentes: Salus Deo nostro”, id est salus nostra non nobis ascribatur, quia non est a nobis, sed ascribatur illi a quo est, scilicet “Deo nostro, qui sedet super tronum”, id est divinitati magnifice regnanti, “et Agno”, id est Christo homini. […] “Et omnes angeli stabant in circuitu troni” (Ap 7, 11), tamquam scilicet famulantes regie maiestati Dei, et quasi eius exteriorem superficiem apprehendentes potius quam totalem immensitatem sue infinite et incomprehensibilis profunditatis, vel “in circuitu troni”, id est ad custodiam et protectionem ecclesie; “et seniorum et quattuor animalium, et ceciderunt in conspectu troni in facies suas”, scilicet se profunde humiliando Deo, “et adoraverunt Deum (Ap 7, 12) dicentes: Amen”, id est vere sic sit et fiat sicut hec sancta turba decantat et orat. Dicunt enim “Amen” confirmando laudem sancte turbe et ei iocunde correspondendo et congratulando et Deum pariter conlaudando. […] (Ap 7, 14) “Et dixit michi: hii sunt qui venerunt”, scilicet ad tantam gloriam, “de tribulatione magna”, id est pro magnis tribulationibus, quas ab impiis et etiam a seipis contra suas concupiscentias concertantibus pro Christo passi sunt. “Et laverunt stolas suas”, id est corpora et animas, “et dealbaverunt eas”, scilicet candore perfecte gratie, “in sanguine Agni”, id est in merito passionis Christi per fidem et baptismum et per penitentiales mortificationes et tandem per martirium participato.

Purg. IX, 103-108 (35-36)

Sovra questo tenëa ambo le piante
l’angel di Dio sedendo in su la soglia
che mi sembiava pietra di diamante.
Per li tre gradi sù di buona voglia
mi trasse il duca mio, dicendo: “Chiedi
umilemente
che ’l serrame scioglia”.

Inf. I, 103-108 (35-36)

Questi non ciberà terra né peltro,
ma sapïenza, amore e virtute,
e sua nazion sarà tra feltro e feltro.
Di quella umile Italia fia  salute
per cui morì la vergine Cammilla,
Eurialo e Turno e Niso di ferute.

Aen. III, 522-524

Iamque rubescebat stellis Aurora fugatis,
cum procul obscuros collis humilemque videmus
Italiam. Italiam primus conclamat Achates,
Italiam laeto socii clamore salutant.

Purg. VI, 103-105 (35) 

Ch’avete tu e ’l tuo padre sofferto,
per cupidigia di costà distretti,
che ’l giardin de lo ’mperio sia diserto.

Par. XI, 103-108 (35-36)

e per trovare a conversione acerba
troppo la gente e per non stare indarno,
redissi al frutto de l’italica erba,
nel crudo sasso intra Tevero e Arno
da Cristo prese l’ultimo sigillo,
che le sue membra due anni portarno.

Purg. I, 103-105 (35), 133-136 (45)

null’ altra pianta che facesse fronda
o indurasse, vi puote aver vita,
però ch’a le percosse non seconda.

Quivi mi cinse sì com’ altrui piacque:
oh maraviglia! ché qual elli scelse
l’umile pianta, cotal si rinacque
subitamente là onde l’avelse.

Purg. VII103-105 (35)

E quel nasetto che stretto a consiglio
par con colui c’ha sì benigno aspetto,
morì fuggendo e disfiorando il giglio

Purg. VII, 130-136 (44-45)

Vedete il re de la semplice vita
seder là solo, Arrigo d’Inghilterra:
questi ha ne’ rami suoi migliore uscita.
Quel che più basso tra costor s’atterra,
guardando in suso, è Guiglielmo marchese,
per cui e Alessandria e la sua guerra
fa pianger Monferrato e Canavese.

Purg. XXVII, 133-135 (45)

 

 

Vedi lo sol che ’n fronte ti riluce;
vedi l’erbette, i fiori e li arbuscelli
che qui la terra sol da sé produce.

[LSA, cap. VIII, Ap 8, 7 (IIIa visio, Ia tuba)] “Grando” significat duritiam et pertinaciam Iudeorum, que ad predicationem Christi et apostolorum fuit fortius congelata et indurata, sicut ad Moysi verba et signa Pharao fortius induravit cor suum. […] Per “terram” autem significatur hic Iudea, quia sicut terra habitabilis fuit segregata a mari et discooperta aquis, ut posset homo habitare in ea et ut ipsa ad usum hominis posset fructificare et herbas et arbores fructiferas ferre, sic Deus mare infidelium nationum et gentium separaverat a terra et plebe Iudeorum, ut quiete colerent Deum et facerent fructum bonorum operum, et ut essent ibi simplices in bono virentes ut herbe, et perfecti essent ut arbores grandes [et] solide et fructuose. […] Per “fenum” vero “viride” designantur simpliciores et imbecilliores, qui per bonam vitam virides videbantur et forsitan prius erant.

[LSA, cap. IX, Ap 9, 4 (IIIa visio, Va tuba)] Deinde de cohibitione subdit: “et preceptum est illis ne lederent fenum terre neque omn[e] viride neque omnem arborem, nisi tantum homines, qui non habent signum Dei in frontibus suis” (Ap 9, 4). Per “fenum” et per ceteras herbas virentes designantur simplices, humilitatem et virorem fidei et vite honeste et pie servantes; per “arbores” vero perfectos et solidiores facientes magnos fructus. Non permittit ergo Deus istos ledi, nisi ipsi prius per pravum consensum se ipsos lederent et reprobarent. Quamdiu autem in sua bonitate permanendo illis non consentiunt, tota temptatio et tribulatio quam ab illis patiuntur proficit eis ad meritum et premium et ad virtuosum exercitium, et ideo non nocet eis, immo per accidens seu materialiter prodest.

[LSA, cap. XII, Ap 12, 6 (IVa visio, Ium prelium)] “Et mulier”, id est ecclesia, “fugit in solitudinem”. […] De hac autem solitudine dicitur Isaie XXXII° (Is 32, 15-16): “Erit desertum in Chermel”, id est [sic] pinguis in gratiis sicut prius fuerat Iudea, “et Chermel”, id est Iudea, “in saltum” seu silvam “reputabitur”, id est silvestrescet, “et habitabit in solitudine iudicium et iustitia” et cetera. Et capitulo XXXV° (Is 35, 1-2): “Letabitur deserta et invia, exultabit solitudo et florebit quasi lilium. Gloria Libani data est ei, et decor Carmeli et Sa[r]on”. Et capitulo XLI° (Is 41, 19): “Dabo in solitudine cedrum et spinam et mirtum et lignum olive, ponam in desertum abietem” et cetera. Et capitulo LIIII° (Is 54, 1): “Letare, sterilis que non paris, quia multi filii deserte magis quam eius que habet virum”.

[LSA, cap. IV, Ap 4, 1-2 (radix IIe visionis)] Nota etiam quod hec sibi sic monstrantur et sic nobis scribuntur, quod sint apta ad misteria nobis et principali materie huius libri convenientia. Unde per celum designatur hic ecclesia et scriptura sacra, et precipue eius spiritalis intelligentia. Sicut autem in hostio monumenti Christi erat superpositus magnus lapis et ponderosus, qui Christo resurgente et de sepulcro exeunte est inde amotus, sic in scriptura erat durus cortex littere, pondere sensibilium et carnalium figurarum gravatus, claudens hostium, id est [ad]itum intelligentie spiritalis. In humanis etiam cordibus erat lapidea durities sensus obtusi, claudens introitum divinarum illuminationum.
Item absentia seu potius non existentia magnorum operum in ecclesia fiendorum erat nobis magna clausura hostii ad fabricam ecclesie contemplandam. Primus autem apertor huius hostii et prima vox nos in celum ascendere faciens est Christus et eius illuminatio et doctrina. Nam vox priorum prophetarum potius clausit hostium sub figuris, et sub terrenis promissionibus carnalem sensum Iudeorum depressit potius quam levavit.

■ [Tab. 8. 2] Prima di procedere all’esegesi dell’apertura del sesto sigillo (Ap 6, 12), Olivi ricorda quanto già affermato nei notabilia del prologo, che cioè la vita di Cristo nel sesto e settimo stato verrà glorificata e magnificata nella conversione di tutto il mondo e di tutto Israele. Per attestazione autentica e conferma della Chiesa romana, consta che la regola dei Minori data dal beato Francesco è veramente e propriamente la regola evangelica, quella osservata da Cristo, imposta agli apostoli e scritta nel Vangelo. Ciò consta per inconfutabili testimonianze dei libri scritturali e dei loro espositori. Consta per la testimonianza dello stesso Francesco, confermata dalla sua indicibile santità e da innumerevoli miracoli di Dio, e soprattutto dalle gloriosissime stimmate impresse da Cristo, che dimostrano come egli sia l’angelo che apre il sesto sigillo (Ap 7, 2), il quale ha il segno del Dio vivente, cioè delle piaghe di Cristo crocifisso, e della totale trasformazione e configurazione in Cristo, secondo una tradizione, chiara e degna di fede, ascoltata dall’Olivi nel 1266 da san Bonaventura predicante a Parigi in modo solenne nel capitolo generale dei Frati minori.
Sullo stesso panno dell’esegesi di Ap 6, 12, dove Olivi dichiara che Francesco è angelo del sesto sigillo, sono ritagliate le parole che designano i “sette P” descritti nella fronte del poeta con la punta della spada dall’angelo portinaio dei sette gironi della montagna. Essi sono “piaghe”, “segni” che rendono il poeta conforme all’angelo che ha il «“signum Dei vivi”, signum scilicet plagarum Christi crucifixi”». Non è casuale che, nei versi in cui Virgilio spiega a Stazio che chi porta quei segni “coi buon convien ch’e’ regni”, compaia il verbo ‘imporre’, appropriato a Cloto che “la conocchia … impone a ciascuno e compila”, che cioè, letteralmente, compone e aggiusta sulla rocca la quantità di fibra filata da Lachesi (Purg. XXI, 22-30). La regola evangelica imposta agli apostoli equivale alla vita di Cristo, che deve essere da noi perfettamente imitata e partecipata come fine della nostra vita (prologo, Notabile VII). Anche la parca che “impone” la conocchia della vita, grazie all’esegesi dell’Olivi, diventa ancella di Cristo perché la nostra vita non può essere che trasformazione e configurazione in lui. Da notare l’espressione “venendo sù”, che traspone il tema dell’angelo del sesto sigillo, che sale da Oriente (Ap 7, 2); da confrontare, ancora, i “segni che questi porta” (Purg. XXI, 22-23) con le stimmate che le membra di Francesco “due anni portarno” (Par. XI, 106-108). Dante si fa imitatore di Francesco, precipuo imitatore di Cristo.
Quando Dante scriveva i versi di Purg. XXI, 19-33, aveva in mente una vicenda letterale, l’incontro tra due poeti, Virgilio e Stazio, uno pagano ma il cui calore giovò, illuminando, alla poesia e alla conversione dell’altro; l’altro cristiano, ma chiuso per tepidezza. Il confronto con la Lectura mostra come Dante avesse in mente anche molti significati spirituali, relativi ai tempi moderni designati dal sesto stato, “novum seculum” per Francesco e il suo Ordine come lo fu l’età di Augusto per il primo avvento di Cristo. Uno di questi significati spirituali risiede nella necessità di una guida, nel non poter far da soli, e ciò congiunge i versi ad altri luoghi del poema, tra i quali ce n’è uno memorabile, la risposta data al padre di Guido Cavalcanti a Inf. X, 61-63: «E io a lui: “Da me stesso non vegno: / colui ch’attende là, per qui mi mena / forse cui Guido vostro ebbe a disdegno”». Così, accanto alla lettera e allo spirito, dai versi che narrano l’incontro tra il poeta mantovano e quello “tolosano” emerge la memoria del “primo delli miei amici”: «S’io fosse quelli che d’amor fu degno  –  se voi siete ombre che Dio sù non degni │E tu, che se’ de l’amoroso regno  …  riguarda se ’l mi’ spirito ha pesanza: / ch’un prest’ arcier di lui ha fatto segno – E ’l dottor mio: “Se tu riguardi a’ segni / che questi porta e che l’angel profila, / ben vedrai che coi buon convien ch’e’ regni ”». Si tratta della risposta di Cavalcanti al sonetto Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io, il cui andar per mare senza impedimento “al voler vostro e mio” si ritrova nel salire veloce, per libera volontà, ancora di tre: Virgilio, Stazio e Dante. Quello che nel sonetto è “il motivo sentimentale principe del dolce stile in quanto ‘scuola’, cioè a dire la necessità corale dell’amicizia, che non può scompagnarsi dall’amore cortese” (Contini) si trasforma nel poema nell’amore fraterno che segna la “renovatio” moderna; il desiderio di evasione diventa anelito a una compiuta libertà dell’arbitrio e della parola che liberamente è “quasi come per sé stessa mossa”. La memoria del cominciare delle “nove rime” è ben presente nella zona del poema (a partire dal terremoto che scuote la montagna) dove più che in ogni altra prevalgono i temi del sesto stato dell’Olivi, che è stato di novità. È questo solo un modo di interpretare la propria poetica a tanti anni di distanza, oppure anche quell’inizio, apparentemente spontaneo, mischiò le sue acque con il grande fiume della teologia dell’Olivi, lettore della materia a Santa Croce nei tre anni che precedettero la morte di Beatrice?

Tab. 8.2

Rime, 9 [LII]
Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io
fossimo presi per incantamento,
e messi in un vasel ch’ad ogni vento
per mare andasse al voler  vostro e mio,
sí che fortuna od altro tempo rio
non ci potesse dare impedimento,
anzi, vivendo sempre in un talento,
di stare insieme crescesse ’l disio.
E monna Vanna e monna Lagia poi
con quella ch’è sul numer de le trenta
con noi ponesse il buono incantatore:
e quivi ragionar sempre d’amore,
e ciascuna di lor fosse contenta,
sí come i’ credo che saremmo noi.
[Cfr. Dante Alighieri, Rime, a cura di Gianfranco Contini, Torino 19952, pp. 34-36. La risposta di Cavalcanti è in Poeti del Duecento, II/2 (Dolce Stil Novo), a cura di G. Contini, Milano-Napoli 19952, p. 545.]
Guido Cavalcanti, XXXVIII [xxxix]
S’io fosse quelli che d’amor fu degno,
del qual non trovo sol che rimembranza,
e la donna tenesse altra sembianza,
assai mi piaceria siffatto legno.
E tu, che se’ de l’amoroso regno
là onde di merzé nasce speranza,
riguarda se ’l mi’ spirito ha pesanza:
ch’un prest’ arcier di lui ha fatto segno
e tragge l’arco, che li tese Amore,
sì lietamente, che la sua persona
par che di gioco porti signoria.
Or odi maraviglia ch’el disia:
lo spirito fedito li perdona,
vedendo che li strugge il suo valore.
Purg. IX, 112-114
Sette P ne la fronte mi descrisse
col punton de la spada, e “Fa che lavi,
quando se’ dentro, queste piaghe” disse.
Par. XI, 106-108
nel crudo sasso intra Tevero e Arno
da Cristo prese l’ultimo sigillo,
che le sue membra due anni portarno.
Purg. XXI, 16-33, 58-69
Poi cominciò: “Nel beato concilio
ti ponga in pace la verace corte
che me rilega ne l’etterno essilio”.
“Come!”, diss’ elli, e parte andavam forte:
se voi siete ombre che Dio sù non degni,
chi v’ha per la sua scala tanto scorte?”.
E ’l dottor mio: “Se tu riguardi a’ segni
che questi porta e che l’angel profila,
ben vedrai che coi buon convien ch’e’ [regni.
Ma perché lei che dì e notte fila
non li avea tratta ancora la conocchia
che Cloto impone a ciascuno e compila,
l’anima sua, ch’è tua e mia serocchia,
venendo sù, non potea venir sola,
però ch’al nostro modo non adocchia.
Ond’ io fui tratto fuor de l’ampia gola
d’inferno per mostrarli, e mosterrolli
oltre, quanto ’l potrà menar mia scola.”
Tremaci quando alcuna anima monda
sentesi, sì che surga o che si mova
per salir sù; e tal grido seconda.
De la mondizia sol voler  fa prova,
che, tutto libero a mutar convento,
l’alma sorprende, e di voler le giova.
Prima vuol  ben, ma non lascia il talento
che divina giustizia, contra voglia,
come fu al peccar, pone al tormento.
E io, che son giaciuto a questa doglia
cinquecent’ anni e più, pur mo sentii
libera volontà di miglior soglia ……

[LSA, prologus, notabile VII] Secunda (ratio) est eius singularis et exemplaris vita, quam apostolis imposuit et in se ipso exemplavit et in libris evangelicis sollempniter scribi fecit. Huius autem vite perfecta imitatio et participatio est et debet esse finis totius nostre actionis et vite.

[LSA, cap. VI, Ap 6, 12 (IIa visio, apertio VIi sigilli)] Ad evidentiam autem huius sexte apertionis est primo ad memoriam reducendum quod supra in principio est in tredecim notabilibus prenotatum, et specialiter illa in quibus est monstratum quia vita Christi  erat in sexto et septimo statu ecclesie singulariter glorificanda et in finali consumatione ecclesie et in omnis Israelis ac totius orbis conversione magnificanda.  Ex quo igitur, per romane ecclesie autenticam testificationem et confirmationem, constat regulam Minorum, per beatum Franciscum editam, esse vere et proprie illam evangelicam quam Christus in se ipso servavit et apostolis imposuit et in evangeliis suis conscribi fecit, et nichilominus constat hoc per irrefragabilia testimonia librorum evangelicorum et ceterarum scripturarum sanctarum et per sanctos expositores earum, prout alibi est superhabunde monstratum, constat etiam hoc per indubitabile testimonium sanctissimi Francisci ineffabili sanctitate et innumeris Dei miraculis confirmatum. Et precipue gloriosissimis stigmatibus sibi a Christo impressis patet ipsum fore angelum apertionis sexti signaculi “habentem signum Dei vivi”, signum scilicet plagarum Christi crucifixi, et etiam signum totalis transformationis et configurationis ipsius ad Christum et in Christum. Et hoc ipsum per claram et fide dignam revelationem est habitum, prout a fratre Bonaventura, sollempnissimo sacre theologie magistro ac nostri ordinis quondam generali ministro, fuit Parisius in fratrum minorum capitulo me audiente sollempniter predicatum.

 

9. ‘Pusilli’ e ‘grandi’

  • Fra i tanti temi della Lectura trasformati dalla poesia, si noti, dall’esegesi della settima tromba (Ap 11, 18), quello dei santi “grandi” – profeti e dottori – e “pusilli”, che ricevono mercede (sono “i minori e ’ grandi / di questa vita” dei quali dice Cacciaguida a Par. XV, 61-63). È tema appropriato in modo disgiunto sia a Francesco, che “nel suo farsi pusillo” meritò di essere tratto “a la mercede” (Par. XI, 109-111), come a Domenico, che “in picciol tempo gran dottor si feo” (Par. XII, 85; la virtù infusa nella mente di Domenico nel grembo materno “lei fece profeta”: vv. 58-60). Il verbo fare (“suo farsi”, “si feo”) è comune a entrambi, secondo le parole di Cristo: “Chi opererà e insegnerà, costui sarà considerato grande nel regno dei cieli” (Matteo, 5, 19). Da notare come “pusillo”, forte latinismo hapax nel poema, sia contestualmente accompagnato da “mercede”, elemento presente anche nella ristretta porzione di esegesi oliviana (fenomeno che si verifica in centinaia di casi).

  • Gioacchino da Fiore identifica (nell’Expositio) il cavallo pallido, che si mostra all’apertura del quarto sigillo (Ap 6, 7-8), con il regno dei Saraceni, che corrisponde per concordia al regno degli Assiri, i quali sotto il quarto sigillo dell’Antico Testamento devastarono e resero schiave le dieci tribù di Israele e quasi fecero lo stesso con il regno di Giuda, come all’apertura del quarto sigillo nel Nuovo Testamento furono devastate le chiese orientali – le nuove dieci tribù – e quasi la stessa sorte toccò alla chiesa latina, assimilata al regno di Giuda poiché, come in questo fu la vera e principale sede del culto divino (della vera lingua), così lo è nella chiesa latina o romana. Come allora, aggiunge Olivi, la tribù di Beniamino venne congiunta al regno di Giuda, così Paolo, della tribù di Beniamino, si congiunse in Roma con Pietro, che nel principato della fede fu un altro Davide e, tra gli apostoli, patriarca della nostra fede. Fu come il patriarca Giuda, al quale fu detto: “non sarà tolto lo scettro da Giuda” (Genesi 49, 10), poiché a lui Cristo disse: “io ho pregato per te, Pietro, perché non venga meno la tua fede” (Luca 22, 32.34) e “le porte degli inferi non prevarranno contro di essa”, contro cioè la Chiesa fermata sopra la tua fede (Matteo 16, 18).
    La barca di Pietro, afferma Tommaso d’Aquino nel cielo del Sole (Par. XI, 118-121), fu degnamente mantenuta “in alto mar per dritto segno” da due ‘colleghi’, Francesco e Domenico. Chiama Domenico “il nostro patrïarca”, appellativo che nell’esegesi scritturale è dato a Pietro, nuovo Giuda patriarca della fede tra gli apostoli, la fede che Domenico sposò e per la quale combatté contro il mondo errante. Non è espresso nei versi, ma si può dedurre, che Francesco sia da assimilare a Beniamino e a Paolo, apostolo delle genti – il “tuo caro frate / che mise teco Roma nel buon filo”, come dice Dante a san Pietro a Par. XXIV, 61-63.

  • Le parole dell’Aquinate che seguono, relative all’essersi il proprio Ordine allontanato dagli insegnamenti di Domenico, rinviano all’esegesi di due delle dodici tribù d’Israele dalle quali provengono i 144.000 segnati dell’esercito di Cristo che guidano la folla innumerevole alle fonti delle acque della vita (Ap 7, 3-17). La prima è la tribù di Aser (IV): «beatuspinguis … “beatus vir qui timet Dominum, in mandatis eius” (Salmo 111, 1) – per che qual segue lui, com’ el comanda Ben son di quelle che temono ’l danno … “U’ ben s’impingua, se non si vaneggia”» (Par. XI, 122, 130, 139) [1]. La seconda è la tribù di Isachar (IX): «vidit requiem quod esset bona, et terram quod optima, et subposuit humerum suum ad portandum, scilicet omne honus propter illam – discerner puoi che buone merce carca» (Par. XI, 123). A Isachar rinviano anche versi relativi a Gerione e ai Malebranche nella quinta bolgia dei barattieri (Inf. XVII, 40-42; XXI, 34-42).

  • Le “vagabunde” (hapax) pecore domenicane, sparse “per diversi salti … remote” (Par. XI, 124-129), sono come il giovane “vagus” perduto in una terra lontana di cui parla Cristo in Luca 15, 13. Nel sesto stato della Chiesa, quello più conforme a Cristo, l’opposta “difformitas et semotissima extraneitas” da Cristo (e da chi guida il suo esercito) è indice di massima chiusura del sesto sigillo, quello che apre, nella storia, le maggiori illuminazioni spirituali (ad Ap 5, 1).

  • Ma Tommaso, che si trova nella ghirlanda che “vagheggia” Beatrice (il verbo dà un significato positivo al “vagus” di Ap 5, 1), è “de li agni de la santa greggia / che Domenico mena per cammino / u’ ben s’impingua se non si vaneggia … Ben parve messo e famigliar di Cristo (Par. X, 94-96; XII, 73). Nel sesto stato, questa manifesta appartenenza alla famiglia e al gregge che Cristo conduce si oppone all’apparente inimicizia per la quale Dio ha voluto che il suo unico figlio si conciliasse con l’uomo esclusivamente per mezzo di tanta sofferenza (ad Ap 5, 1).
    Il motivo dell’apparente inimicizia – la sesta causa per cui la prudenza umana tiene chiuso il libro segnato da sette sigilli (ad Ap 5, 1) – è nel ripensare del poeta al parlare di Farinata che, nel preannunziargli l’esilio, “mi parea nemico” (Inf. X, 121-123). Così il tanto patire voluto da Dio nei confronti del Figlio è nella preghiera delle tre virtù teologali a Beatrice perché sveli la sua bocca volgendo gli occhi santi al suo fedele che, per vederla, “ha mossi passi tanti”: il ‘passo’, qui come spesso altrove nel poema, assume valore di patimento e di prova (Purg. XXXI, 133-135). Il tema è amaramente appropriato al maestro Brunetto Latini, il quale – nella “schiera” dei sodomiti, “cotal famiglia” e “greggia” (Inf. XV, 16, 22, 37) -, non appartiene alla singolare famiglia e al domestico gregge delle pecore di Cristo da ascrivere alla gloriosa milizia dei segnati nella sesta apertura.

  • Nella penultima terzina di Par. XI (133-135), nelle parole di Tommaso a Dante, l’attento ascoltare (“audienza” è hapax) , e il richiamare alla memoria quanto detto, conducono all’invito fatto al vescovo di Sardi, la quinta chiesa d’Asia della prima visione (Ap 3, 3; cfr. infra).

[1] Cfr. I. BALDELLI, Paradiso, Canto XI, in ID., Studi Danteschi, a cura di L. SERIANNI e U. VIGNUZZI, Spoleto 2015 (Medioevo Francescano. Saggi, 16), pp. 335-354: 338. S’impingua è “parasinteto verbale, intensamente realistico, costruito su pingue, forse creato dallo stesso Dante”. Ma impinguativus è nell’esegesi di Ap 1, 14“Per que designatur quod Christi sapientia est partim nobis condescensiva et sui ad nos contemperativa nostrique fomentativa et sua pietate calefactiva, partim autem est a nobis abstracta et nobis rigida nimisque intensa, nostrarumque sordium purgativa nostreque hereditatis impinguativa”.

Tab. 9

Par. XI, 109-111; XII, 58-60, 85; XV, 61-63

Quando a colui ch’a tanto ben sortillo
piacque di trarlo suso a la mercede
ch’el meritò nel suo farsi  pusillo

e come fu creata, fu repleta
sì la sua mente di viva vertute,
che, ne la madre, lei fece profeta. ……
in picciol tempo gran dottor si feo

Tu credi ’l vero; ché i minori e ’ grandi
di questa vita miran ne lo speglio
in che, prima che pensi, il pensier pandi

[LSA, cap. XI, Ap 11, 18 (IIIa visio, VIIa tuba)] Unde pro iudicio premiandorum subdit: “et reddere mercedem”, scilicet  glorie, “servis tuis prophetis”, id est sanctis maioribus qui aliquos docuerunt et rexerunt, “et sanctis et timentibus nomen tuum”, id est sanctis minoribus. Vel hoc secundum dicit communiter pro omnibus sanctis, quos subdividit in maiores et minores dicens: “pusillis et magnis”. Vel, secundum Ricardum, hoc exponendo subiunxit*. Nam le “pusillis” correspondet “timentibus”, et le “magnis” dicitur pro “prophetis”, id est pro sanctis doctoribus, secundum illud Matthei V°: “Qui fecerit et docuerit, hic magnus vocabitur in regno celorum” (Mt 5, 19).

* In Ap III, viii (PL 196, col. 796 D).

Par. XI, 118-121

Pensa oramai qual fu colui che degno
collega fu a mantener la barca
di Pietro in alto mar per dritto segno;
e questo fu il nostro patrïarca;

 

 

[LSA, cap. VI, Ap 6, 7-8 (IIa visio, apertio IVi sigilli)] Et hinc est quod abbas Ioachim dicit per equum pallidum intelligi reg[num] Sarracenorum, cui per concordiam [correspondet] regnum Assiriorum, sub quarto signaculo veteris testamenti devastans et captivans regnum decem tribuum Israel et fere regnum Iude, sicut sub apertione quarti sigilli vastate sunt quasi decem tribus ecclesiarum orientalium* et fere ecclesia latina, que assimilata est regno Iude, quia sicut ibi fuit vera et principalis sedes divini cultus sic est et in ecclesia latina seu romana. Sicut etiam tribus Beniamin fuit tunc iuncta regno Iude, sic Paulus de tribu Beniamin est in Roma iunctus Petro, qui in principatu fidei fuit alter David et inter apostolos nostre fidei patriarcha. Fuit quasi Iudas patriarcha, cui dictum est: “Non auferetur sceptrum de Iuda” (Gn 49, 10), sicut et Petro dixit Christus: “Ego pro te rogavi, Petre, ut non deficiat fides tua” (Lc 22, 32.34) et quod “porte inferi non prevalebunt adversus” ecclesiam super tua fide fundatam (Mt 16, 18).

* Expositio, pars II, f. 116ra.

Par. XI, 122-123, 130-132, 138-139

per che qual segue lui, com’ el comanda,
discerner puoi che buone merce carca.

Ben son di quelle che temono ’l danno
e stringonsi al pastor; ma son sì poche,
che le cappe fornisce poco panno.

e vedra’ il corrègger che argomenta
‘U’ ben s’impingua, se non si vaneggia’.

IV. Aser [Ap 7, 7] Quarto exigitur patientia glorians et gaudens in tribulationibus, quam designat Aser, qui interpretatur beatus et de quo dicitur: “Aser pinguis panis eius, tingat in oleo pedem suum” (Gn 49, 20; Dt 33, 24). Quid enim beatius et pinguius aut magis fortificativum cordis quam sic se habere in adversis ac si suavi oleo inungeretur? […]
Primum est Aser, id est beatus, quia “beatus vir qui timet Dominum, in mandatis eius volet nimis” (Ps 111, 1).

IX. Isachar [LSA, cap. VII, Ap 7, 7 (IIa visio, apertio VIi sigilli)] Nono exigitur assidua et fervens suspiratio ad mercedem eterne glorie omni servituti Dei et suorum se subiciens pro illa, et hanc designat Isachar, qui interpretatur merces, de quo dicit Iacob: “Isachar asinus fortis; vidit requiem quod esset bona, et terram quod optima, et subposuit humerum suum ad portandum”, scilicet omne honus propter illam, “factusque est tributis serviens” (Gn 49, 14-15).

Inf. XVII, 40-42; XXI, 34-42

Li tuoi ragionamenti sian là corti;
mentre che torni, parlerò con questa,
che ne conceda i suoi omeri forti.

L’omero suo, ch’era aguto e superbo,
carcava un peccator con ambo l’anche,
e quei tenea de’ piè ghermito ’l nerbo.
Del nostro ponte disse: “O Malebranche,
ecco un de li anzïan di Santa Zita!
Mettetel sotto, ch’ i’ torno per anche
a quella terra, che n’è ben fornita :
ogn’ uom v’è barattier, fuor che Bonturo;
del no, per li denar, vi si fa ita”.

Par. XI, 124-129

Ma ’l suo pecuglio di nova vivanda
è fatto ghiotto, sì ch’esser non puote
che per diversi salti non si spanda;
e quanto le sue pecore remote
e vagabunde più da esso vanno,
più tornano a l’ovil di latte vòte.

 

[LSA, cap. V, Ap 5, 1 (radix IIe visionis)] Prima (causa) est quia septem sunt defectus in nobis claudentes nobis intelligentiam huius libri. […] Sextus est ad omnia spiritualiora et deiformiora opposita difformitas et semotissima extraneitas, propter quod adolescens vagus dicitur a Christo abisse in regionem longinquam (Lc 15, 13), et de filiis vagis dicitur Isaie I° quod “[ab]alienati sunt retrorsum” (Is 1, 4), et in Psalmo dicitur: “Quomodo cantabimus canticum Domini in terra aliena?” (Ps 136, 4), scilicet in Babilone, que confusio interpretatur; et Baruch III° dicitur: “Quid est, Israel, quod in terra inimicorum es; inveterasti in terra aliena?” (Bar 3, 10-11).

Par. XI, 133-139

Or, se le mie parole non son fioche,
se la tua audïenza è stata attenta,
se ciò ch’è detto a la mente revoche,
in parte fia la tua voglia contenta,
perché vedrai la pianta onde si scheggia,
e vedra’ il corrègger che argomenta
“U’ ben s’impingua, se non si vaneggia”.

[LSA, cap. III, Ap 3, 3 (Ia visio, Va ecclesia)] “In mente ergo habe” (Ap 3, 3), id est attente recogita, “qualiter acceperis”, scilicet a Deo priorem gratiam, “et audieris”, ab homine scilicet per predicationem evangelicam, “et serva”, scilicet illa que per predicationem audisti et per influxum gratie a Deo primitus accepisti. Vel recogita qualiter per proprium consensum accepisti fidem et gratiam et statum eius, prout a me et a ceteris tibi predicantibus audivisti. “Et serva” ea “et penitentiam age”, scilicet de tuis malis, quasi dicat: si digne recogitaveris gratiam tibi prius impensam et qualiter prius accepisti eandem, servabis eam et penitentiam ages.

[LSA, cap. V, Ap 5, 1 (VIum sigillum)] Secunda causa seu ratio septem sigillorum libri est quia in Christo crucifixo fuerunt septem secundum humanum sensum et estimationem abiecta, que claudunt hominibus sapientiam libri eius.
In eius enim cruce et morte apparet humano sensui summa impotentia (I) et angustia (II) et stultitia (III) et inopia (IV) et ignominia (V) et inimicitia (VI) et sevitia (VII). […]
(VI-VII) Quod etiam Deus velit suum unigenitum tanta pati, nec aliter velit reconciliari homini quem creavit, pretendit summam inimicitiam et etiam sevitiam. […]
Contra autem apparentem inimicitiam est excessivus et singularis caritatis ardor in reconciliativa consignatione duodecim tribuum Israelis ad altam et gloriosam militiam Christi, et ad hoc ut manifeste appareant esse de singulari familia et domestico grege ovium Christi, et in adductione omnium nationum ad tronum Dei et templum, et ex inhabitatione Dei in illis et familiaritate Agni Dei ad eos, de qua ibi dicitur quod “Agnus, qui in medio troni est, reget illos et deducet eos ad font[es] vite” et cetera (Ap 7, 17), que omnia continet apertio sexta. Nam dampnatio adultere Babilonis ibi premissa respicit ultionem contemptus et ignominie per eam Christo illate; respicit etiam zelum et fervorem amoris coniugalis nequeuntis absque summa ira et zelotipia et vindicta tolerare publica adulteria coniugis sue.

Inf. X, 121-123

Indi s’ascose; e io inver’ l’antico
poeta volsi i passi, ripensando
a quel parlar che mi parea nemico.

Inf. XV, 16-24, 37-39, 46-48

quando incontrammo d’anime una schiera
che venian lungo l’argine, e ciascuna
ci riguardava come suol da sera
guardare uno altro sotto nuova luna;
e sì ver’ noi aguzzavan le ciglia
come ’l vecchio sartor fa ne la cruna.
Così adocchiato da cotal famiglia,
fui conosciuto da un, che mi prese
per lo lembo e gridò: “Qual maraviglia!”.

“O figliuol”, disse, “qual di questa greggia
 s’arresta punto, giace poi cent’ anni
sanz’ arrostarsi quando ’l foco il feggia.

El cominciò: “Qual fortuna o destino
anzi l’ultimo dì qua giù ti mena?
e chi è questi che mostra ’l cammino?”.

Purg. XXXI, 133-135

“Volgi, Beatrice, volgi li occhi santi”,
era la sua canzone, “al tuo fedele
che, per vederti, ha mossi passi tanti!”

Par. X, 91-96; XII, 73

Tu vuo’ saper di quai piante s’infiora
questa ghirlanda che ’ntorno vagheggia     5, 1
la bella donna ch’al ciel t’avvalora.
Io fui de li agni de la santa greggia
che Domenico mena per cammino
u’ ben s’impingua se non si vaneggia.

Ben parve messo e famigliar di Cristo

[LSA, cap. XIV, Ap 14, 4 (IVa visio, VIum prelium)] Unde et sextum preconium prerogative ipsorum est indivisibilis et indistans ipsorum ad Christum familiaritas, propter quod subditur: “Et sequuntur Agnum quocumque ierit”. Quantum unusquisque Deum imitatur et participat, in tantum sequitur eum. Qui ergo pluribus et altioribus seu maioribus perfectionibus ipsum imitantur et possident altius et multo fortius ipsum sequuntur. Qui ergo secundum omnes sublimes et supererogativas perfectiones mandatorum et consiliorum Christi ipsum prout est hominibus huius vite possibile participant, “hii sequuntur Agnum quocumque ierit”, id est ad omnes actus perfectionum et meritorum ac premiorum eis correspondentium, ad quos Christus tamquam dux et exemplator itineris ipsos deducit.
Item “sequuntur” ipsum “quocumque ierit”, quia sic semper dirigunt et tenent suum aspectum in ipsum quod ipsum semper et ubique presentialiter vident vel speculantur quasi presentem.

 

10. Secoli in forma di lettere: «’ ben s’impingua, se non si vaneggia».

Nell’esegesi del capitolo XX, Olivi riferisce vari modi di computo in relazione ai mille anni nei quali il diavolo sta incatenato nell’abisso, rilevando come non abbiano in sé nulla di certo e servano solo a mostrare, con i testi scritturali, che a partire dal sesto e dal settimo stato il giudizio finale si può considerare imminente e come alle porte. Gioacchino da Fiore, ad esempio (nell’opera De semine scripturarum, che gli veniva attribuita), afferma che la lingua degli Ebrei rimase nella casa di Eber, dopo la confusione babilonica delle lingue, per ventidue secoli fino a Cristo, numero che corrisponde alle ventidue lettere dell’alfabeto ebraico. È da notare come il numero ventidue compaia nell’Inferno per designare l’estensione in miglia della nona bolgia, che è quella dei seminatori di scandalo e di scisma dove prevalgono i temi del terzo stato dei dottori che scindono e tagliano con la spada le eresie, prefigurate nell’Antico Testamento dalla divisione babilonica dell’unica e vera lingua (Inf. XXIX, 8-9; diversamente, la presenza di questo numero sarebbe del tutto arbitraria).
Allo stesso modo, secondo le ventitré lettere dell’alfabeto latino, trascorreranno ventitré secoli dalla fondazione di Roma, principale sede dei Latini e della Chiesa di Cristo, depositaria anch’essa, come la casa di Eber, dell’unica e vera lingua, cioè dell’unica e vera fede. Ciò è prefigurato in Daniele, allorché l’angelo dice: “Fino a duemilatrecento sere e mattine: poi il santuario sarà purificato” (Dn 8, 14). Se si considerano i giorni come anni, si ottengono ventitré secoli. Al tempo di Daniele (secondo il computo dato da Olivi) erano trascorsi cento anni dalla fondazione di Roma, per cui il profeta si trovava nel secondo centenario designato con la lettera b. Il primo secolo iniziò al tempo della cattività delle dieci tribù, allorché il santuario di Dio iniziò ad essere profanato.
Cristo venne nell’ottavo centenario designato con h, la quale non è propriamente una lettera, ma una “aspirationis nota”, perché venne, concepito e nato da una vergine, non per opera umana ma per ispirazione dello Spirito Santo (sono da ricordare le parole di Dante a Bonagiunta: “I’ mi son un che, quando / Amor mi spira, noto”, Purg. XXIV, 52-53).
Il XIII secolo, al termine del quale Olivi scrive la Lectura, è designato con u, poiché si pronuncia aspirando sull’estremo delle labbra, e alla fine del secolo Babylon, la Chiesa carnale, spirerà (cfr. la citazione del salmo 50, 17 – “Labïa mëa, Domine” – a Purg. XXIII, 10-12; poco prima, nel medesimo girone dei golosi purganti, la voce che esce dalle fronde dell’albero capovolto utilizza, a Purg. XXII, 145-148, alcune parole dell’esegesi accostando “le Romane antiche” a “Danïello”).
Non sono forse estranee a tale senso le parole di Folchetto da Marsiglia che concludono Par. IX, profetando un “Uaticano” (tale la grafia nei codici) presto liberato dall’adulterio della Chiesa carnale. “Uaticano” (il cimitero di san Pietro), come “Laterano”, è parola formata da quattro sillabe ed allude alle mura quadrate, designanti i martiri e i difensori della fede, della Gerusalemme celeste, che in terra fu “templo / che si murò di segni e di martìri” (Par. XVIII, 122-123).
Il secolo seguente – il XIV –, nel quale verrà rinnovata ed esaltata la croce di Cristo, è designato con x, cioè con una lettera che ha forma di croce, la quale venne introdotta da Augusto al tempo della venuta di Cristo.
Ad essa faranno seguito le lettere che i Latini presero dai Greci, designanti la dilatatio della Chiesa ai Greci e a tutte le genti.
Nel cielo del Sole, Tommaso d’Aquino parla utilizzando con frequenza (per sei volte; Bonaventura, l’altro oratore, lo usa due volte: otto occorrenze sulle sedici nel poema) l’avverbio della parlata toscana (non fiorentina) u’ (che sta per ‘dove’): i due campioni della Chiesa, Francesco e Domenico, sono appunto venuti nel XIII secolo, il secolo designato con u, “a mantener la barca / di Pietro in alto mar per dritto segno” (da notare l’accostamento di “in ultimo labiorum” con “l’ultima parola” dell’Aquinate a Par. XII, 1).
Al cielo del Sole succede quello di Marte, nel quale Dante vede una croce greca (“il venerabil segno / che fan giunture di quadranti in tondo”), che designa “chi prende sua croce e segue Cristo” (Par. XIV, 100-108): dalla croce trascorre in giù Cacciaguida, il quale profetizza a Dante l’esilio che, datato al 1302, si colloca nel XIV secolo.
Poi, nel cielo di Giove, i lumi volano cantando e formando dapprima le lettere D, I, L, l’inizio di trentacinque fra vocali e consonanti che successivamente si precisano nella scritta “Diligite iustitiam, qui iudicatis terram” (Sap 1, 1), ma che sono anche le prime tre lettere della parola “dilatatio” (Par. XVIII, 76-78). Le lettere, insieme ad altre luci, si trasformano nella figura di un’aquila nel cui occhio rifulgono David come pupilla, circondato dalle luci di Traiano, Ezechia, Costantino, Guglielmo II il Buono e Rifeo troiano. Gentili (Rifeo, Traiano), e Israele antico (David, Ezechia) e nuovo (Costantino, Guglielmo II), l’ultimo a convertirsi.
Trattando ad Ap 13, 18 del “numero del nome” della bestia – il DCLXVI (“sescenti sexaginta sex”) – Olivi, osservato che in greco i numeri si indicano per mezzo delle lettere dell’alfabeto e che il numero di un nome è il totale delle lettere, asserisce che esistono solo tre nomi greci corrispondenti al DCLXVI: Antemos (“contrarius”), Arnoyme, Teitan. Il nome latino è “diclvx”, scomponendo il numero della bestia in sei numeri corrispondenti a lettere: D (cinquecento), I (uno), C (cento), L (cinquanta), V (cinque), X (dieci) [Sull’argomento cfr. «Un cinquecento diece e cinque» (Purg. XXXIII, 43)].
Olivi osserva ancora che se a “diclvx” si aggiungono due lettere – “or” – si ottengono due espressioni, cioè “dicor lvx” e “doli crvx”. Rinvia quindi per ulteriori chiarimenti ad una delle sue Quaestiones de perfectione evangelica. La quaestio interessata riguarda la possibilità che nella professione di povertà evangelica e apostolica si possa lecitamente vivere dei possessi e dei redditi affidati dal papa o dai principi temporali a dei procuratori stabiliti, in modo che a coloro che hanno fatto voto di povertà non spetti né la proprietà né il diritto d’uso ma solo il semplice uso connesso alla sussistenza quotidiana. Olivi si scaglia con veemenza contro questa posizione, ritenendola dolosa e fallace, anzi identificabile con lo stesso Anticristo mistico. Spiega così che dal numero della bestia si può trarre il falso nome “dicor lux”, che indica l’ipocrita presentarsi dell’Anticristo come luce del mondo, e insieme il vero nome “doli crux”, cioè croce dolosa. Le due lettere non numerali aggiunte – O e R – hanno anch’esse un proprio significato, falso e ipocrita (“omnium resurrectio”, “omnium reparatio”), oppure verace (“omnium ruina”, “omnium retrogradatio”, “omnium rabies”). Un ulteriore significato di OR è “aurum”, nel senso in cui Pietro dichiarò di non averne e Cristo proibì di possederne.
Da notare che le tre lettere D, I , L sono congiunte con l’avverbio or  (letteralmente: ora, ma riferito a “omnium resurrectio”) e che esse sono “come augelli surti di rivera”, come pure “resurger parver quindi più di mille / luci e salir” a formare l’aquila (Par. XVIII, 73, 76-78, 103-104). Or ha dunque un valore positivo, secondo un metodo che trasforma in un senso di prossimo rinnovamento luoghi che nel testo dell’Apocalisse vengono appropriati a figure o a situazioni negative.
Il valore negativo si trova in principio di Purg. XXXIII, quando le sette virtù alternano “or tre or quattro” il Salmo 78, “Deus, venerunt gentes”. Il significato più idoneo, in questo caso, è quello di “omnium ruina”, considerato che si tratta appunto della rovina di Gerusalemme.
Nelle “parole … gravi” pronunciate dal poeta nella terza bolgia contro il simoniaco Niccolò III, or serve, tramite allitterazioni, a rinfacciare al papa Orsini quanto detto da Cristo e da Pietro sul possesso di oro e argento: “Deh, or mi dì: quanto tesoro volle / Nostro Segnore in prima da san Pietro / ch’ei ponesse le chiavi in sua balìa? / Certo non chiese se non ‘Viemmi retro’ (ma Niccolò III è andato dietro nel senso della retrogradatio, cioè del cadere in giù nelle fessure della pietra). / Né Pier né li altri tolsero a Matia / oro od argento, quando fu sortito (or nel senso di “omnium resurrectio”) / al loco che perdé l’anima ria” (Inf. XIX, 90-96).

Tab. 10

Inf. XXIX, 7-9

Tu non hai fatto sì a l’altre bolge;
pensa, se tu annoverar le credi,
che miglia ventidue  la valle volge.

 

Purg. XXII, 145-148

E le Romane antiche, per lor bere,
contente furon d’acqua; e Danïello
dispregiò cibo e acquistò savere.
Lo secol primo, quant’ oro fu bello

[LSA, cap. XX, Ap 20, 2-3 (VIIa visio)] Ioachim vero, in libro de seminibus scripturarum*, dicit quod sicut secundum viginti duas litteras Hebreorum fuerunt viginti duo centenarii annorum ab Heber, in quo divisis linguis remansit lingua hebrea, usque ad Christum, sic secundum viginti tres litteras Latinorum erunt viginti tria centenaria annorum a constructione urbis Rome, in qua est principalis sedes Latinorum et ecclesie Christi. Et inter cetera sumit hoc mistice ex Danielis VIII°, ubi dicit angelus: “Usque ad vesperam et mane, die[s] duo milia trecent[i], et mundabitur sanctuarium” (Dn 8, 14). Sumendo enim diem pro anno, sunt viginti tria centenaria annorum. Tempore autem Danielis fluxerant centum anni urbis Rome, unde Daniel erat tunc in secundo centenario eius designato per b. Primus autem centenarius cepit circa tempus captivationis decem tribuum, per quam cepit Dei sanctuarium conculcari. Quamvis secundum litteram per hoc designentur sex anni et menses tres et dies viginti qui et fluxerunt ab ingressu Antiochi in Iherusalem usque ad mundationem templi factam a Iuda Machabeo, sic tamen quod terminentur in CXLIX° anno regni Grecorum, in quo obiit Antiochus, prout dicitur I° Machabeorum VI° (1 Mc 6, 16). Nam aliter non sunt ibi etiam sex anni completi. Nam CXLIII° anno ascendit Antiochus in Iherusalem, prout dicitur I° Machabeorum I° (1 Mc 1, 21), et CXLV°, XXVa die mensis casleu, id est nostri decembris, edificavit abhominandum idolum super altare Dei (1 Mc 1, 57/62). Deinde post tres annos, id est anno CXLVIII°, eadem XXVa die mensis casleu, mundavit Iudas sanctuarium, prout dicitur I° Machabeorum IIII° (1 Mc 4, 52-59).
Predicti vero dicunt quod due littere grece adiuncte litteris latinis non designant annos latine urbis Rome et regni eius, sed solum littere latine. Et secundum hoc a tempore raptus seu ascensionis Christi ad tronum celestem seu a fuga mulieris, id est ecclesie, in desertum gentilitatis (cfr. Ap 12, 5-6) usque ad centenarium designatum per x sunt secundum latinas litteras anni circiter mille ducenti sexaginta, ut in x sit crucifixio ecclesie sub tribulationibus duplicis Antichristi. Christus enim venit in VIII° centenario designato, secundum Ioachim, per h, quod non est proprie littera sed aspirationis nota, sicut et Christus non per humanum opus sed per aspirationem Spiritus Sancti est de virgine conceptus et natus. Nos autem sumus in XX° centenario urbis Rome et in XIII° Christi designato secundum eum per u, quod in ultimo labiorum quasi aspirando profertur, unde et secundum eum designat quod in fine huius centenarii carnalis ecclesia seu Babilon expirabit, ut in sequenti centenario designato per x  litteram, que habet formam crucis et fuit per Cesarem Augustum circa Christi adventum inventa, renovetur et exaltetur crux Christi, et post hoc sequantur littere a Grecis ad Latinos deducte designantes d i l atationem ecclesie ad Grecos et ad omnes gentes.
Hoc breviter recitavi nichil habens hic certum nec etiam aliquam rationem ad hoc vel oppositum magno nomine dignam, nisi quod scriptura more suo nobis utiliter designat a tempore sexti et septimi status extremum iudicium imminere et quasi in ianuis esse.

Cfr. ARNALDI DE VILLANOVA Introductio in librum [Ioachim] ‘De semine scripturarum’Allocutio super significatione nominis Tetragrammaton, curante J. Perarnau, Barcelona 2004 [Corpus Scriptorum Cataloniae. Series A: Scriptores. Arnaldi de Villanova Opera Theologica Omnia (AVOThO III)].

Purg. XVI, 64-66 

Alto sospir, che duolo strinse in “uhi!”,
mise fuor prima; e poi cominciò: “Frate,
lo mondo è cieco, e tu vien ben da lui.” 

Purg. XXIII, 10-11

Ed ecco piangere e cantar s’udìe
Labïa mëa, Domine’ …………..

Purg. XXIV, 52-54

E io a lui: “I’ mi son un che, quando
Amor mi spira, noto, e a quel modo
ch’e’ ditta dentro vo significando”.

Par. XIV, 100-102 (Marte)

sì costellati facean nel profondo
Marte quei raggi il venerabil segno
che fan giunture di quadranti in tondo
.

Par. XVIII, 76-78 (Giove)

sì dentro ai lumi sante creature
volitando cantavano, e faciensi
or D, or I , or L in sue figure.   13, 18

Par. IX, 139-142

Ma Uaticano e l’altre parti elette
di Roma che son state cimitero
a la milizia che Pietro seguette,
tosto libere fien de l’avoltero.

(u’Inf.: 3; Purg.: 2; Par.: 11 / totale: 16)

Par. X, 87, 96, 112-113; XI, 25-26, 139; XII, 1-2, 63, 122-123  (cielo del Sole : 8 volte su 16)

u’  sanza risalir nessun discende …
u’  ben s’impingua se non si vaneggia …
entro v’è l’alta mente u’  sì profondo
saver fu messo ……………………

ove dinanzi dissi: “U’  ben s’impingua”,
e là u’  dissi: “Non nacque il secondo” …
U’  ben s’impingua, se non si vaneggia …

Sì tosto come l’ultima parola
la benedetta fiamma per dir tolse …
u’  si dotar di mutüa salute …
…………………. ancor troveria carta
u’  leggerebbe “I’ mi son quel ch’i’ soglio”

[LSA, cap. XIII, Ap 13, 18 (IVa visio, VIum prelium)] In quadam vero questione de paupertate evangelica posui duo nomina latina, scilicet ‘dicor lux’ et ‘doli crux’, in quibus ultra litteras numerales est una sillaba duarum litterarum, scilicet ‘or’: que quid significet ibidem exposui.

[LSA, cap. XX, Ap 20, 2-3 (VIIa visio)] Nos autem sumus in XX° centenario urbis Rome et in XIII° Christi designato secundum eum per u, quod in ultimo labiorum quasi aspirando profertur, unde et secundum eum designat quod in fine huius centenarii carnalis ecclesia seu Babilon expirabit, ut in sequenti centenario designato per x litteram, que habet formam crucis et fuit per Cesarem Augustum circa Christi adventum inventa, renovetur et exaltetur crux Christi, et post hoc sequantur littere a Grecis ad Latinos deducte designantes d i l atationem ecclesie ad Grecos et ad omnes gentes.

Par. XVIII, 73, 76-78, 103-104

E come augelli surti di rivera …

sì dentro ai lumi sante creature
volitando cantavano, e faciensi
or D, or I, or L in sue figure.

resurger parver quindi più di mille
luci e salir …………………….

Purg. XXXIII, 1-3
Ps 78, 1
Deus, venerunt gentes’, alternando
or tre or quattro dolce salmodia,
le donne incomiciaro, e lagrimando

Inf. XIX, 88-96

Io non so s’i’ mi fui qui troppo folle,
ch’i’ pur rispuosi lui a questo metro:
“Deh, or mi dì: quanto tesoro volle
Nostro Segnore in prima da san Pietro
ch’ei ponesse le chiavi in sua balìa?
Certo non chiese se non ‘Viemmi retro’.
Né Pier né li altri tolsero a Matia
oro od argento, quando fu sortito
al loco che perdé l’anima ria.”

Quaestio de possessionibus procuratoribus commissis pro fratrum necessitatibus (XVI «quaestio de perfectione evangelica»), ed. D. Burr – D. Flood, Peter Olivi: On Poverty and Revenue, in “Franciscan Studies”, 40 (1980) pp. 18-58: 34, 37-38: «Quaeritur an professio paupertatis evangelicae et apostolicae possit licite ad talem modum vivendi reduci quod amodo sufficienter vivat de possessionibus et reditibus a papa vel mundanis principibus certis procuratoribus commissis qui vice et auctoritate papae vel principum eas teneant ita quod nec dominium nec ius utendi nec usus ipsarum possessionum ad professores evangelicos spectet nisi solum simplex usus eius quod inde de facto pro victu cotidiano recipiunt. […] Respondeo quod modus praefatus est omni dolo et fallacia plenus et nisi fallar ipse est ille de quo sanctus pater Franciscus suis sociis in revelatione prophetica est locutus. Et ad istum modum sub miranda astutia introducendum in orbem inimicus homo longo iam tempore semina zizaniorum bono semini superseminavit dormitantibus in idipsum servis evangelici status (Mt 13, 25). Iste enim modus sub miro dolo omnes radices et fructus evangelicae paupertatis enervat. Et in summa fallacia divitiis abutitur divitiarumque statum exaltat et Christi consilia ad interitum ducit. Et in mira fraude mutat tempora et leges evangelici status. Et est ut aestimo praecursor novissimi Antichristi existens et ipse mystice Antichristus. Propter quod numerus et nomen bestiae merito competit sibi (Ap 13, 18), ut scilicet vere nominetur DOLI CRUX, falso vero et hypocritaliter DICOR LUX. In utroque enim praedictorum nominum litterae numerales significant DCLXVI. Et ultra hoc in quolibet restat syllaba duarum litterarum scilicet OR, seu duae litterae scilicet O et R. Modus enim praefatus hypocritaliter fortasse dicetur OMNIUM RESURRECTIO sive OMNIUM REPARATIO. Veraciter tamen erit OMNIUM RUINA sive OMNIUM RETROGRADATIO sive OMNIUM RABIES. Quid enim aliud est iste modus nisi crux dolosa, et tamen arroganter dicet se lucem mundi. Ipsaque syllaba supra numerales litteras restans scilicet OR optime apud plures significat AURUM, quod se non habere fatetur Petrus ecclesiae fundamentum quando ait: Argentum et aurum non est mihi (Ac 3, 6). Ipsumque Christus singulariter inhibet quando ait : Nolite possidere aurum (Mt 10, 9)».

 

11. La “voce di molte acque”

Una delle norme su cui si fonda il rapporto tra Commedia e Lectura super Apocalipsim consiste nel fatto che più luoghi della Lectura possono essere collazionati tra loro, secondo un procedimento analogico tipico delle “distinctiones” ad uso dei predicatori [1]. La scelta non è arbitraria. Vi predispone lo stesso testo scritturale, poiché l’Apocalisse contiene espressioni, come Leitmotive, che ritornano più volte. È determinata da parole-chiave che collegano i passi da collazionare. È suggerita dallo stesso Olivi, nel prologo, per una migliore intelligenza del testo. La “mutua collatio” di parti della Lectura arricchisce il significato legato alle parole e consente uno sviluppo tematico.
La parola-chiave vox collega alcuni passi dell’esegesi apocalittica oliviana: Ap 1, 10-12 (la voce udita da Giovanni dietro le spalle); 1, 15; 14, 2; 19, 6 (tre luoghi connessi per l’espressione: vox aquarum multarum); poi ancora 14, 2 (la voce dei suonatori d’arpa). A questi gruppi tematici fanno riferimento (nel senso che sollecitano verso di essi la memoria del lettore consapevole) numerosi luoghi della Commedia. Fra questi sono i versi che descrivono la concorde danza delle due ghirlande di spiriti sapienti (Par. XII, 1-9, 19-27), oltre ad altri luoghi, contigui o distanti.
Le tabelle relative sono state spiegate altrove: Tab. 11.1Tab. 11.2Tab. 11.3.

[1] Sulle distinctiones cfr. L.-J. BATAILLON, Les images dans les sermons du XIIIe siècle, in “Freiburger Zeitschrift für Philosophie und Theologie”, 37/3 (1990), pp. 327-395; The Tradition of Nicholas of Biard’s Distinctiones, in “Viator. Medieval and Renaissance Studies”, 25 (1994), pp. 245-288.

Tab. 11.1

[LSA, cap. XIV, Ap 14, 2 (IVa visio, VIum prelium)] Quarto erat suavissima et iocundissima et artificiose et proportionaliter modulata, unde subdit: “et vocem, quam audivi, sicut citharedorum citharizantium cum citharis suis”.
Secundum Ioachim, vacuitas cithare significat voluntariam paupertatem. Sicut enim vas musicum non bene resonat nisi sit concavum, sic nec laus bene coram Deo resonat nisi a mente humili et a terrenis evacuata procedat*.
Corde vero cithare sunt diverse virtutes, que non sonant nisi sint extense, nec concorditer nisi sint ad invicem proportionate et nisi sub consimili proportione pulsentur. Oportet enim affectus virtuales ad suos fines et ad sua obiecta fixe et attente protendi et sub debitis circumstantiis unam virtutem et eius actus aliis virtutibus et earum actibus proportionaliter concordare et concorditer coherere, ita quod rigor iustitie non excludat nec perturbet dulcorem misericordie nec e contrario, nec mititatis lenitas impediat debitum zelum sancte correctionis et ire nec e contrario, et sic de aliis.
Cithara etiam est ipse Deus, cuius quelibet perfectio, per affectuales considerationes contemplantis tacta et pulsata, reddit cum aliis resonantiam mire iocunditatis.
Cithara etiam est totum universum operum Dei, cuius quelibet pars sollempnis est corda una a contemplatore et laudatore divinorum operum pulsata.
Dicit autem “sicut citharedorum”, quia citharedus non dicitur nisi per artem et frequentem usum, sicut magister artificiose citharizandi. Reliqui enim discordanter et rusticaliter seu inartificialiter citharizant, et si aliquando pulsant bene casualiter contingit, unde ascribitur casui potius quam prudentie artis.

* Expositio, pars IV, distinctio IV, f. 172ra.

Par. X, 7-12, 43-45, 139-148

Leva dunque, lettore, a l’alte rote
meco la vista, dritto a quella parte
dove l’un moto e l’altro si percuote;
e lì comincia a vagheggiar ne l’arte
di quel maestro che dentro a sé l’ama,
tanto che mai da lei l’occhio non parte.

Perch’  io lo ’ngegno e l’arte e l’uso chiami,
sì nol direi che mai s’imaginasse;
ma creder puossi e di veder si brami.

Indi, come orologio che ne chiami    7, 2
ne l’ora che la sposa di Dio surge
a mattinar lo sposo perché l’ami,      7, 2
che l’una parte e l’altra  tira e urge,
tin tin sonando con sì dolce nota,
che ’l ben disposto spirto d’amor turge;
così vid’ ïo la gloriosa rota
muoversi e render voce a voce in tempra
e in dolcezza ch’esser non pò nota
se non colà dove gioir s’insempra.

[LSA, cap. V, Ap 5, 9 (radix IIe visionis)] Si pulsatio et resonantia cithare in hoc cantico includatur, tunc designat omnium virtutum affectus et actus pulsari et resonare cum iubilo huius laudis. Plena enim seu perfecta iubilatio pulsat omnes virtutes et ex omnibus trahit resonantiam laudis. Quelibet enim virtus est una corda cithare, id est mentis iubilative. Per citharam etiam designatur scriptura sacra, vel tota universitas divinorum operum, quorum cordas varias contemplativi tangunt et pulsant et ex eis divine laudis iubilum formant: quot modi autem sunt tangendi tot sunt modi iubilandi et cantandi.

[LSA, cap. V, Ap 5, 8 (radix IIe visionis)] Phiale [igitur] iste sunt corda sanctorum per sapientiam lucida, per caritatem dilatata, et per contemplationem splendidam et flammeam aurea, et per devotarum orationum redundantiam odoramentis plena. Sicut enim odoramenta per ignem elicata sursum ascendunt totamque domum replent suo odore, sic devote orationes ad Dei presentiam ascendunt et pertingunt, eique suavissime placent et etiam toti curie celesti et subcelesti. Sicut [etiam] diffusio odoris spiratur invisibiliter ab odoramentis, sic devote affectiones orantium spirantur invisibiliter et latissime diffunduntur ad varias rationes dilecti et ad varias rationes sancti amoris, prout patet ex multiformi varietate sanctorum affectuum qui exprimuntur et exercentur in psalmis.
Patet autem, secundum modum Ricardi, quare citharas premisit ante phialas, quia activa communiter precedit contemplativam. Sequendo etiam alterum modum, premittit convenienter citharas, quia nisi corde virtutum sint in cithara mentis disposite prout congruit laudi Dei, non potest haberi phiala cordis plena devotis desideriis et suspiriis et meditationibus ignitis et odoriferis, sicut nec iubilatio laudis potest perfecte exerceri nisi preeat plenitudo odoramentorum.

Tab. 11.2

Par. XII, 1-9, 19-27

Sì tosto come l’ultima parola
la benedetta fiamma per dir tolse,
a rotar cominciò la santa mola;
e nel suo giro tutta non si volse
prima ch’un’altra di cerchio la chiuse,
e moto a moto e canto a canto colse;
canto che tanto vince nostre muse,
nostre serene in quelle dolci tube,
quanto primo splendor quel ch’e’ refuse.

così di quelle sempiterne rose
volgiensi circa noi le due ghirlande,
e sì l’estrema a l’intima rispuose.
Poi che ’l tripudio e l’altra festa grande,
sì del cantare e sì del fiammeggiarsi
luce con luce gaudïose e blande,
insieme a punto e a voler quetarsi,
pur come li occhi ch’al piacer che i move
conviene insieme chiudere e levarsi

Purg. XXXII, 28-33

La bella donna che mi trasse al varco
e Stazio e io seguitavam la rota
che fé l’orbita sua con minore arco.
Sì passeggiando l’alta selva vòta,
colpa di quella ch’al serpente crese,
temprava i passi un’angelica nota.

Par. XX, 142-148

E come a buon cantor buon citarista
fa seguitar lo guizzo de la corda,
in che più di piacer lo canto acquista,
sì, mentre ch’e’ parlò, sì mi ricorda
ch’io vidi le due luci benedette,
pur come batter d’occhi si concorda,
con le parole mover le fiammette.

[LSA, cap. XIV, Ap 14, 2 (IVa visio, VIum prelium)] Secundo quod erat irrig[u]a et fecunda et ex magno et multo collegio sanctorum et plurium virtualium affectuum ipsorum procedens et concorditer unita, cum dicit: “tamquam vocem aquarum multarum”. Vox enim magne et multe pluvie est ex multis et quasi innumerabilibus guttis, proceditque quasi tamquam unus sonus et quasi ab uno sonante, et idem est de sono aquarum maris vel fluminis. Sonat etiam quasi cum irriguo pinguium et lavantium et refrigerantium lacrimarum et rugientium suspiriorum. […]
Quarto erat suavissima et iocundissima et artificiose et proportionaliter modulata, unde subdit: “et vocem, quam audivi, sicut citharedorum citharizantium cum citharis suis”.
Secundum Ioachim, vacuitas cithare significat voluntariam paupertatem. Sicut enim vas musicum non bene resonat nisi sit concavum, sic nec laus bene coram Deo resonat nisi a mente humili et a terrenis evacuata procedat*.
Corde vero cithare sunt diverse virtutes, que non sonant nisi sint extense, nec concorditer nisi sint ad invicem proportionate et nisi sub consimili proportione pulsentur. Oportet enim affectus virtuales ad suos fines et ad sua obiecta fixe et attente protendi et sub debitis circumstantiis unam virtutem et eius actus aliis virtutibus et earum actibus proportionaliter concordare et concorditer coherere, ita quod rigor iustitie non excludat nec perturbet dulcorem misericordie nec e contrario, nec mititatis lenitas impediat debitum zelum sancte correctionis et ire nec e contrario, et sic de aliis.
Cithara etiam est ipse Deus, cuius quelibet perfectio, per affectuales considerationes contemplantis tacta et pulsata, reddit cum aliis resonantiam mire iocunditatis.
Cithara etiam est totum universum operum Dei, cuius quelibet pars sollempnis est corda una a contemplatore et laudatore divinorum operum pulsata.
Dicit autem “sicut citharedorum”, quia citharedus non dicitur nisi per artem et frequentem usum, sicut magister artificiose citharizandi. Reliqui enim discordanter et rusticaliter seu inartificialiter citharizant, et si aliquando pulsant bene casualiter contingit, unde ascribitur casui potius quam prudentie artis.

* Expositio, pars IV, distinctio IV, f. 172ra.

[LSA, cap. XVIII, Ap 18, 22-23 (VIa visio)] Deinde ostendit quomodo (Babilon) omni iocundo cantico seu gaudio, et omni utili et etiam curioso opere et artificio, et iocunda luce et nuptiis erit ex tunc omnino et in eternum privata, unde subdit: “Et vox citharedorum” et cetera; “et vox”, id est sonus, “mole”, molentis scilicet triticum vel alia utilia, et cetera; “et vox sponsi et sponse”, id est letitia nuptiarum, “non audietur adhuc”, id est amplius seu de cetero, “in te”.

[LSA, cap. IX, Ap 9, 9 (IIIa visio, Va tuba)] Pro septima (mala proprietate locustarum) dicit (Ap 9, 9): “Et vox alarum earum sicut vox curruum equorum multorum currentium in bellum”, id est fama et sonus tumultuosi volatus e[a]rum ad sua opera maligna est sicut tumultuosus sonus quadrigarum et equestrium exercituum magnorum et mult[o]rum impetuosissime currentium ad bellum. […] “Vox” autem “alarum” (Ap 9, 9), id est suarum sententiarum quas altissimas et prevolantes esse presumunt, est sicut vox rotarum et tumultuosi exercitus currentis in bellum contra omnem sententiam contrariam quantumcumque veram.

[LSA, cap. XIII, Ap 14, 3 (IVa visio, VIum prelium)] Septimo quia tante erat precellentie quod nullus alius poterat pertingere ad hunc canticum, unde subdit: “Et nemo poterat dicere canticum, nisi illa centum quadraginta quattuor milia”.

[LSA, cap. V, Ap 5, 9 (radix IIe visionis)] Si pulsatio et resonantia cithare in hoc cantico includatur, tunc designat omnium virtutum affectus et actus pulsari et resonare cum iubilo huius laudis. Plena enim seu perfecta iubilatio pulsat omnes virtutes et ex omnibus trahit resonantiam laudis. Quelibet enim virtus est una corda cithare, id est mentis iubilative. Per citharam etiam designatur scriptura sacra, vel tota universitas divinorum operum, quorum cordas varias contemplativi tangunt et pulsant et ex eis divine laudis iubilum formant: quot modi autem sunt tangendi tot sunt modi iubilandi et cantandi.

Par. IX, 64-72

Qui si tacette; e fecemi sembiante
che fosse ad altro volta, per la rota
in che si mise com’ era davante.
L’altra letizia, che m’era già nota
per cara cosa, mi si fece in vista
qual fin balasso in che lo sol percuota.
Per letiziar là sù fulgor s’acquista,
sì come riso qui; ma giù s’abbuia
l’ombra di fuor, come la mente è trista.

Par. XIV, 19-27

Come, da più letizia pinti e tratti,
a la fïata quei che vanno a rota
levan la voce e rallegrano li atti,
così, a l’orazion pronta e divota,
li santi cerchi mostrar nova gioia
nel torneare e ne la mira nota.
Qual si lamenta perché qui si moia
per viver colà sù, non vide quive
lo refrigerio de l’etterna ploia.

Par. XVIII, 40-42

E al nome de l’alto Macabeo
vidi moversi un altro roteando,
e letizia era ferza del paleo.

Tab. 11.3

[LSA, cap. I, Ap 1, 16 (Ia visio)] Octava (perfectio summo pastori condecens) est potestativa presidentia et continentia non solum ecclesiarum sed etiam suorum rectorum, unde subdit: “et habebat in dextera sua septem stellas” (Ap 1, 16), per quas ut infra dicetur (cfr. Ap 1, 20) designantur septem episcopi ecclesiarum. Episcopus enim debet sic super ecclesiam sibi subiectam lucere et presidere sicut lux lucerne stabat quasi stella super candelabrum sanctuarii (cfr. Ex 25, 37). Sicut etiam inferiora illuminantur et reguntur per stellas, sic ecclesie per sanctos episcopos.

Par. XI, 13-18

Poi che ciascuno fu tornato ne lo
punto del cerchio in che avanti s’era,
fermossi, come a candellier candelo.
E io senti’ dentro a quella lumera
che pria m’avea parlato, sorridendo
incominciar, faccendosi più mera:

[LSA, cap. III, Ap 3, 12 (Ia visio, VIa victoria] Columpna autem, sic stans, est longa et a fundo usque ad tectum erecta et solida ac sufficienter densa, et rotunda communiter vel quadrata, et firmiter fixa templique sustentativa et decorativa. Sic autem stat in Dei ecclesia vel religione vir evangelicus Christo totus configuratus, sic etiam suo modo stat in celesti curia. […] Et attende quomodo a Deo incipiens et in eius civitatem descendens, reascendit et finit in se ipsum, quia contemplatio incipit in Deo et per Dei civitatem ascendit in Christum eius regem, in quo et per quem consumatissime redit et reintrat in Deum, et sic fit circulus gloriosus.

 

12. Risplendere sorridendo

All’esegesi di Ap 1, 16-17 (decima e undecima perfezione di Cristo sommo pastore), relativa allo spendore del volto di Cristo che si imprime in chi riceve la visione, generando oblio e tremore, fa riferimento, in più luoghi del poema, il sorridere (ad esempio di Tommaso d’Aquino, a Par. XI, 16-21, uno dei punti in cui la poesia, secondo Ignazio Baldelli, è “musica della luce”; ridere, sorridere corrispondono allo “splendor faciei” di Cristo).

La tabella 12.1 è stata spiegata altrove.

Tab. 12.1

[LSA, cap. I, Ap 1, 16-17 (radix Ie visionis)] Decima (perfectio summo pastori condecens) est sue claritatis et virtutis incomprehensibilis gloria, unde subdit: “et facies eius sicut sol lucet in virtute sua”. Sol in tota virtute sua lucet in meridie, et precipue quando aer est serenus expulsa omni nube et grosso vapore, et quidem corporalis facies Christi plus incomparabiliter lucet et viget. Per hoc tamen designatur ineffabilis claritas et virtus sue divinitatis et etiam sue mentis. Splendor etiam iste sue faciei designat apertam et superfulgidam notitiam scripture sacre et faciei, ita quod in sexta etate et precipue in eius sexto statu debet preclarius radiare. In cuius signum Christus post sex dies transfiguratus est in monte in faciem solis (cfr. Mt 17, 1-8), et sub sexto angelo tuba canente videtur angelus habens faciem solis et tenens librum apertum (cfr. Ap 10, 1-2).
Undecima est ex predictis sublimitatibus impressa in subditos summa humiliatio et tremefactio et adoratio, unde subdit: “et cum vidissem eum”, scilicet tantum ac talem, “cecidi ad pedes eius tamquam mortuus” (Ap 1, 17). Et est intelligendum quod cecidit in faciem prostratus, quia talis competit actui adorandi; casus vero resupinus est signum desperationis et desperate destitutionis. Huius casus sumitur ratio partim ex intolerabili superexcessu obiecti, partim ex terrifico et immutativo influxu assistentis Dei vel angeli, partim ex materiali fragilitate subiecti seu organi ipsius videntis. Est etiam huius ratio ex causa finali, tum quia huiusmodi immutatio intimius et certius facit ipsum videntem experiri visionem esse arduam et divinam et a causis supremis, tum quia per eam quasi sibi ipsi annichilatus humilius et timoratius visiones suscipit divinas, tum quia valet ad significandum quod sanctorum excessiva virtus et perfectio tremefacit et humiliat et sibi subicit animos subditorum et etiam ceterorum intuentium. Significat etiam quod in divine contemplationis superexcessum non ascenditur nisi per sui oblivionem et abnegationem et mortificationem et per omnium privationem.

[LSA, cap. I, Ap 1, 7 (Salutatio)] “Et videbit eum omnis oculus”, scilicet bonorum et malorum. Non quod eius deitatem videant, sed corpus assumptum in quo omnibus visibiliter et manifeste apparebit. Unde Matthei XXIIII° dicitur: “Sicut fulgur exit ab oriente et apparet in occidente, ita erit adventus Filii hominis” (Mt 24, 27). Per hoc autem monstrat eum iudicaturum omnes tam bonos quam malos.

[LSA, cap. IV, Ap 4, 5 (radix IIe visionis)] “Et de trono procedebant” (Ap 4, 5), vel secundum aliam litteram “procedunt”, “fulgura et voces et tonitrua”, quia tam a Deo quam ab eius ecclesia et quam a sanctis, qui sunt sedes Dei, procedunt “fulgura” miraculorum, quorum claritas longe lateque coruscat sicut fulgura discurrentia; et “voces” rationabilis ac temperate predicationis, “et tonitrua” terribilium comminationum, vel tonitrua altiorum et spiritualium documentorum, que competunt perfectioribus. Voces enim in terra fiunt, tonitrua vero in celo seu ethere, vocesque sunt modice respectu tonitruorum.

[LSA, cap. VIII, Ap 8, 5 (radix IIIe visionis)] “Et facta sunt tonitrua” (Ap 8, 5), scilicet illius altioris doctrine quam Apostolus loquebatur solis perfectis, vel “tonitrua” grandium comminationum; “et voces”, scilicet doctrine rationalis et quasi humane; “et fulgura”, scilicet coruscantium et stupendorum miraculorum, vel superfervidorum eloquiorum sic penetrantium et scindentium et incendentium corda sicut fulgur terrena penetrat et scindit, vel “fulgura” iudiciorum terribilium, ut cum Ananias et Saphira repente occisi sunt ad sententiam Petri, prout scribitur Actuum quinto (Ac 5, 1-11).

[LSA, cap. XI, Ap 11, 19 (radix IVe visionis)] […] “et voces”, id est et suaves ac rationabiles persuasiones et predicationes sunt facte.

Par. X, 58-69

come a quelle parole mi fec’ io;
e sì tutto ’l mio amore in lui si mise,
che Bëatrice eclissò ne l’oblio.
Non le dispiacque, ma sì se ne rise,
che lo splendor de li occhi suoi ridenti
mia mente unita in più cose divise.
Io vidi più folgór  vivi e vincenti
far di noi centro e di sé far corona,
più dolci in voce che in vista lucenti:
così cinger la figlia di Latona
vedem talvolta, quando l’aere è pregno,
sì che ritenga il fil che fa la zona.

Par. V, 94-108, 124-126, 130-137

Quivi la donna mia vid’ io sì lieta,
come nel lume di quel ciel si mise,
che più lucente se ne fé ’l pianeta.
E se la stella si cambiò e rise,
qual mi fec’ io che pur da mia natura
trasmutabile son per tutte guise!
Come ’n peschiera ch’è tranquilla e pura
traggonsi i pesci a ciò che vien di fori
per modo che lo stimin lor pastura,
sì vid’ io ben più di mille splendori
trarsi ver’ noi, e in ciascun s’udia:
“Ecco chi crescerà li nostri amori”.
E sì come ciascuno a noi venìa,
vedeasi l’ombra piena di letizia
nel folgór chiaro che di lei uscia.

Io veggio ben sì come tu t’annidi
nel proprio lume, e che de li occhi il traggi,
perch’ e’ corusca sì come tu ridi

Questo diss’ io diritto a la lumera
che pria m’avea parlato; ond’ ella fessi
lucente più assai di quel ch’ell’ era.
Sì come il sol che si cela elli stessi
per troppa luce, come ’l caldo ha róse
le temperanze d’i vapori spessi,
per più letizia sì mi si nascose
dentro al suo raggio la figura santa

Par. XI, 16-21

E io senti’ dentro a quella lumera
che pria m’avea parlato, sorridendo
incominciar, faccendosi più mera:
“Così com’ io del suo raggio resplendo,
sì, riguardando ne la luce etterna,
li tuoi pensieri onde cagioni apprendo.”

Par. XXI, 4-12

E quella non ridea; ma “S’io ridessi ”,
mi cominciò, “tu ti faresti quale
fu Semelè quando di cener fessi:
ché la bellezza mia, che per le scale
de l’etterno palazzo più s’accende,
com’ hai veduto, quanto più si sale,
se non si temperasse, tanto splende,
che ’l tuo mortal podere, al suo fulgore,
sarebbe fronda che trono scoscende.”

Par. XVI, 28-33

Come s’avviva a lo spirar d’i venti
carbone in fiamma, così vid’ io quella
luce risplendere a’ miei blandimenti;
e come a li occhi miei si fé più bella,
così con voce più dolce e soave,
ma non con questa moderna favella

Par. XVII, 121-123

La luce in che rideva il mio tesoro
ch’io trovai lì, si fé prima corusca,
quale a raggio di sole specchio d’oro

 

13. L’essercito di Cristo

L’angelo del sesto sigillo (Ap 7, 2) rimuove un impedimento (i quattro angeli nocivi che tengono i quattro venti: Ap 7, 1), dopo di che il segno è posto sulla fronte, non vergognosa e gravata di viltà ma liberamente magnanima, degli eletti amici di Dio, difensori della fede fino al martirio da lui conosciuti per nome e ascritti alla più alta milizia dei baroni, dei decurioni, dei cavalieri che si distingue da quella volgare dei fanti. I cavalieri, configurati in Cristo crocifisso, designati dai 144.000 segnati eletti dalle dodici tribù d’Israele (Ap 7, 3-6), guidano la “turba magna, quam dinumerare nemo poterat” dei fedeli al trono dell’Agnello attraverso le grandi tribolazioni (Ap 7, 13-17).
Fra gli scritti di “direzione spirituale” di Olivi, il Miles armatus è un manuale per sfuggire i lacci e i pericoli degli ultimi tempi, nei quali i generosi cavalieri devono prepararsi al combattimento prima che, all’imminente apertura del sesto sigillo, il sole e la luna si oscurino, le stelle cadano dal cielo, un violento terremoto faccia muovere monti e isole, secondo quanto scritto dal frate provenzale nel 1295 ai figli di Carlo II d’Angiò prigionieri degli Aragonesi [1]. Espressione significativa dell’assunzione da parte della spiritualità francescana dell’allegoria militare, forse anche per un’influenza degli scritti in materia tattico-strategica del tempo [2], il Miles armatus sarà ripreso, in tutt’altro contesto storico e spirituale, da Bernardino da Siena nel De pugna et saccomanno Paradisi sive caelestis Jerusalem [3].
Questa esegesi, nella quale il sesto stato corrisponde agli ultimi sei anni della costruzione del Tempio dopo la cattività in Babilonia, è una sacra sinfonia militare i cui temi trascorrono in più luoghi: dalla “signatio” poetica di Dante, amico di Beatrice, per la quale “uscì … de la volgare schiera” e “sesto tra cotanto senno” nella schiera dei sommi poeti del Limbo, alla “signatio” apostolica nelle virtù teologali di fronte a Pietro, Giacomo e Giovanni; dall’impossibile amicizia con Dio di Francesca e Paolo (anch’essi in una schiera) alle famiglie fiorentine, menzionate da Cacciaguida, che portano la “bella insegna” del marchese Ugo di Toscana, assunte a una milizia più alta rispetto a Giano della Bella, l’autore dei famosi Ordinamenti di giustizia (1293) anch’egli di essa insignito (la quale “fascia col fregio”), ma che oggi si raduna col popolo, corrispondente alla volgare e pedestre milizia che viene dopo i segnati. Questi eletti ‘sesti’ amati da Dio sono lo sviluppo sacro di coloro (De vulgari eloquentia, II, iv, 10-11) che Virgilio, nel sesto dell’Eneide, definisce “Dei dilectos”, i poeti tragici innalzati al cielo per ardente virtù (Aen., VI, 129-131: “Pauci, quos aequus amavit / Iuppiter”), designati dall’ “astripeta aquila”. La lettura dell’esegesi dell’angelo del sesto sigillo (che si estende ben oltre la parte relativa alla “signatio”) forse segnò la decisione di fare il viaggio, ascrivendo la poesia, in tutti i suoi stili, a un’alta milizia.
Qui di seguito sono riportate le tabelle, che sono state descritte altrove nei singoli significati. Scorrendole, non si mancherà di notare i tanti luoghi della Commedia che rinviano la memoria del lettore spirituale alla medesima esegesi di un passo dell’Apocalisse, utilizzata dunque in momenti diversi della stesura del poema (nella sinossi presentata sono stati toccati punti di almeno 25 canti, e altri potrebbero trovarsi). Si tratta di una costante che si ripete per molti altri passi della Lectura oliviana.
L’arte della memoria per parole-chiave non doveva servire soltanto agli Spirituali. Il fatto che gruppi di terzine numericamente corrispondenti, a diversi stadi della Commedia, contengano parole-chiave che conducono alla medesima pagina esegetica sembra indicare che queste parole, se dovevano essere per il lettore spirituale signacula mnemonici di un altro testo, erano per il poeta anche segni del numero dei versi, “luogo” dove collocare i medesimi signacula in forma e contesto diversi. Ap 7, 3-4 è solo un esempio, perché altri luoghi della Lectura si propongono a riaffermare la medesima norma.
Nel cielo del Sole, Bonaventura utilizza il tema dei ‘segnati’ introducendo la narrazione della vita di san Domenico. “L’essercito di Cristo, che sì caro / costò a rïarmar”, afferma il maestro dell’Olivi, “dietro a la ’nsegna / si movea tardo, sospeccioso e raro”. Dio provvide pertanto alla milizia, che era in forse, con i due campioni Domenico e Francesco (Par. XII, 37-45). Bonaventura ripete quello che Olivi scrive (Ap 7, 3) dello spirito che, negli uomini evangelici “tepefactus et quasi extinctus seu consopitus”, deve essere suscitato e riacceso per poter essere disposto e spinto a sostenere e vincere le fortissime tentazioni che insorgeranno con l’Anticristo. Tra gli spiriti sapienti della ghirlanda in cui parla san Bonaventura sono Illuminato da Rieti e Augustino d’Assisi, tra i primi seguaci di Francesco, che nel capestro della Regola si fecero amici di Dio. C’è anche Pietro Ispano (papa nel 1276 come Giovanni XXI), autore delle Summulae logicales che nel mondo rilucono in dodici libelli: il dodici fa parte della tematica dei segnati, provenendo questi dalle dodici tribù d’Israele ed essendo il loro numero 144.000, ossia dodici volte dodicimila (Par. XII, 130-135). Da notare ancora le rime “degno / segno” (Par. XI, 118/120), “ ’nsegna / degna” (Par. XII, 38/42), significanti la “dignitas signatorum”.

[1] Cfr. PIETRO DI GIOVANNI OLIVI, Scritti scelti, a cura di P. VIAN, Roma 1989 (Fonti cristiane per il terzo millennio, 3), pp. 145-169: 166-169 (traduzione italiana de Il Cavaliere armato).

[2] Cfr. F. CARDINI, Nel nome di Gesù. Bernardino da Siena e la battaglia mistica, Città di Castello 2012, p. 41.

[3] S. BERNARDINI SENENSIS Ordinis Fratrum Minorum Opera omnia, vol. II, Ad Claras Aquas, Quaracchi, Florentiae, 1950, Quadragesimale de christiana religione, sermo LXVI, pp. 452-471.

Tab. 13.1

[LSA, cap. VII, Ap 7, 3 (apertio VIi sigilli)] Clamat ergo (Ap 7, 3): “Nolite”, id est non audeatis; vel si ad bonos angelos loquitur, dicit “nolite” quia, ex quo ipse prohibuit, non debuerunt velle; “nocere”, scilicet per effrenatam temptationem vel per predicationis et gratie impeditionem, “terre et mari neque arboribus, quoadusque signemus servos Dei nostri in frontibus eorum”.
Signatio hec fit per administrationem fidei et caritatis et per assumptionem ac professionem sacramentorum Christi distinctivam fidelium ab infidelibus. In hac etiam signatione includitur fides et devotio ad Christi passionem adorandam et imitandam et exaltandam. Fit autemin frontibus”, quando signatis datur constans et magnanimis libertas ad Christi fidem publice confitendam et observandam et predicandam et defendendam. In fronte enim apparet signum audacie et strenuitatis vel formidolositatis et inhertie, et signum gloriationis vel erubescentie.
Item prout in eodem exercitu eiusdem regis distinguuntur equites a peditibus et barones seu duces vel centuriones et decuriones a simplicibus militibus, sic videntur hic distingui signati ex duodecim tribubus a turba innumerabili fidelium post ipsos subiuncta. Designatur enim per hanc signationem specialis assumptio ipsorum ad professionem perfectionis evangelice et altioris militie christiane et ad maiorem configurationem et transformationem ipsorum in Christum crucifixum et, secundum Ioachim, ad passionem martiriorum in eis complendam. Sicut enim post transmigrationem Babilonis, quod deerat in constructione templi, in quadraginta sex annis facta, completum est in sex ultimis annis, ita nunc sub sexta apertione ordo sanctorum martirum consumationem accipiet. Unde in die illo qui [erit] medius inter utramque tribulationem, scilicet Babilonis et Antichristi, signabuntur multi Iudeorum et gentium signaculo sancte Trinitatis, ad complendum numerum sanctorum martirum infra scriptum et illam gloriosam multitudinem cuius est numerus infinitus. Hec Ioachim*.

[Ap 7, 4] Igitur per hunc numerum, prout est certus et diffinitus, designatur singularis dignitas signatorum. Hii enim, qui sub certo nomine et numero et scriptura a regibus ad suam militiam vel curiam aut ad sua grandia vel dona ascribuntur, sunt digniores ceteris, qui absque scriptura et numero ad vulgarem et pedestrem militiam vel familiam eliguntur. Sicut etiam Deus, in signum familiarissime notitie  et amicitie, Exodi XXXIII° (Ex 33, 17) dicit Moysi: “Novi te ex nomine”, cum tamen omnes electos suos communiter noverit ut amicos et hoc modo solos reprobos dicatur nescire, sic per hanc specialem et prefixam numerationem et consignationem designatur familiarior signatio et notitia et amicitia apud Deum.

* Expositio, pars II, f. 121ra-b.

Par. XXIV, 52-60, 115-117

“Dì, buon Cristiano, fatti manifesto:
fede che è?”. Ond’ io levai la fronte
in quella luce onde spirava questo;
poi mi volsi a Beatrice, ed essa pronte
sembianze femmi perch’ ïo spandessi
l’acqua di fuor del mio interno fonte.
“La Grazia che mi dà  ch’io mi confessi”,
comincia’ io, “da l’alto primipilo,
faccia li miei concetti bene espressi”.

E quel baron che sì di ramo in ramo,
essaminando, già tratto m’avea,
che a l’ultime fronde appressavamo

Par. XXV, 10-18, 40-42, 52-57, 88-90, 112-114

però che ne la fede, che fa conte
l’anime a Dio, quivi intra’ io, e poi
Pietro per lei sì mi girò la fronte.
Indi si mosse un lume verso noi 
di quella spera ond’ uscì la primizia   schiera
che lasciò Cristo d’i vicari suoi;
e la mia donna, piena di letizia,
mi disse: “Mira, mira: ecco il barone
per cui là giù si vicita Galizia”.

“Poi che per grazia vuol che tu t’affronti
lo nostro Imperadore, anzi la morte,
ne l’aula più secreta co’ suoi conti ” ……

“La Chiesa militante alcun figliuolo
non ha con più speranza, com’ è scritto
nel Sol che raggia tutto nostro stuolo:
però li è conceduto che d’Egitto
vegna in Ierusalemme per vedere,
anzi che l militar li sia prescritto. ”

E io: “Le nove e le scritture antiche
pongon lo segno, ed esso lo mi addita,
de l’anime che Dio s’ha fatte amiche.”

“Questi è colui che giacque sopra ’l petto
del nostro pellicano, e questi fue
di su la croce al grande officio eletto”.

Par. IX, 139-142

Ma Vaticano e l’altre parti elette
di Roma che son state cimitero
a la milizia che Pietro seguette,
tosto libere fien de l’avoltero.

Inf. XXXIII, 31-33

Con cagne magre, studïose e conte
Gualandi con Sismondi e con Lanfranchi
s’avea messi dinanzi da la fronte.

Par. VI, 100-105

L’uno al pubblico segno i gigli gialli
oppone, e l’altro appropria quello a parte,
sì ch’è forte a veder chi più si falli.
Faccian li Ghibellin, faccian lor arte
sott’ altro segno, ché mal segue quello
sempre chi la giustizia e lui diparte

Par. XV, 139-141, 148; XVI, 22-27, 40-42, 127-132, 148-150

Poi seguitai lo ’mperador Currado;
ed el mi cinse de la sua milizia,
tanto per bene ovrar li venni in grado.

e venni dal martiro a questa pace.

Ditemi dunque, cara mia primizia,
quai fuor li vostri antichi e quai fuor li anni
che si segnaro in vostra püerizia;
ditemi de l’ovil di San Giovanni
quanto era allora, e chi eran le genti
tra esso degne di più alti scanni.

Li antichi miei e io nacqui nel loco
dove si truova pria l’ultimo sesto
da quei che corre il vostro annüal gioco.

Ciascun che de la bella insegna porta
del gran barone il cui nome e ’l cui pregio
la festa di Tommaso riconforta,
da esso ebbe milizia e privilegio;
avvegna che con popol si rauni
oggi colui che la fascia col fregio.

Con queste genti, e con altre con esse,
vid’ io Fiorenza in sì fatto riposo,
che non avea cagione onde piangesse.

[LSA, cap. XXI, Ap 21, 16 (VIIa visio)] “Et civitas in quadro posita est”, id est habens quattuor latera muri sub figura quadranguli iuncta, per quod designatur solida quadratura virtutum. […] “Et mensus est civitatem Dei cum arundine per stadia duodecim milia” (Ap 21, 16). Stadium est spatium in cuius termino statur vel pro respirando pausatur, et per quod curritur ut bravium acquiratur, secundum illud Apostoli Ia ad Corinthios, capitulo IX°: “Nescitis quod hii, qui in stadio currunt, omnes quidem currunt, sed unus accipit bravium?” (1 Cor 9, 24), et ideo significat iter meriti triumphaliter obtinentis premium. Cui et congruit quod stadium est octava pars miliarii, unde designat octavam resurrectionis. Octava autem pars miliarii, id est mille passuum, sunt centum viginti quinque passus, qui faciunt duodecies decem et ultra hoc quinque; in quo designatur status continens perfectionem apostolicam habundanter implentem decalogum legis, et ultra hoc plenitudinem quinque spiritualium sensuum et quinque patriarchalium ecclesiarum.

Par. XII, 130-135

Illuminato e Augustin son quici,
che fuor de’ primi scalzi poverelli
che nel capestro a Dio si fero amici.
Ugo da San Vittore è qui con elli,
e Pietro Mangiadore e Pietro Spano,
lo qual giù luce in dodici libelli 

Par. XVIII, 121-126

sì ch’un’altra fïata omai s’adiri
del comperare e vender dentro al templo
che si murò di segni e di martìri.
O milizia del ciel cu’ io contemplo,
adora per color che sono in terra
tutti svïati dietro al malo essemplo!

Tab. 13.2

[Ap 7, 3] Clamat ergo (Ap 7, 3): “Nolite”, id est non audeatis; vel si ad bonos angelos loquitur, dicit “nolite” quia, ex quo ipse prohibuit, non debuerunt velle; “nocere”, scilicet per effrenatam temptationem vel per predicationis et gratie impeditionem, “terre et mari neque arboribus, quoadusque signemus servos Dei nostri in frontibus eorum”.
Signatio hec fit per administrationem fidei et caritatis et per assumptionem ac professionem sacramentorum Christi distinctivam fidelium ab infidelibus. In hac etiam signatione includitur fides et devotio ad Christi passionem adorandam et imitandam et exaltandam. Fit autem “in frontibus”, quando signatis datur constans et magnanimis libertas ad Christi fidem publice confitendam et observandam et predicandam et defendendam. In fronte enim apparet signum audacie et strenuitatis vel formidolositatis et inhertie, et signum gloriationis vel erubescentie.
Item prout in eodem exercitu eiusdem regis distinguuntur equites a peditibus et barones seu duces vel centuriones et decuriones a simplicibus militibus, sic videntur hic distingui signati ex duodecim tribubus a turba innumerabili fidelium post ipsos subiuncta. Designatur enim per hanc signationem specialis assumptio ipsorum ad professionem perfectionis evangelice et altioris militie christiane et ad maiorem configurationem et transformationem ipsorum in Christum crucifixum et, secundum Ioachim, ad passionem martiriorum in eis complendam. Sicut enim post transmigrationem Babilonis, quod deerat in constructione templi, in quadraginta sex annis facta, completum est in sex ultimis annis, ita nunc sub sexta apertione ordo sanctorum martirum consumationem accipiet. Unde in die illo qui [erit] medius inter utramque tribulationem, scilicet Babilonis et Antichristi, signabuntur multi Iudeorum et gentium signaculo sancte Trinitatis, ad complendum numerum sanctorum martirum infra scriptum et illam gloriosam multitudinem cuius est numerus infinitus. Hec Ioachim.

[Ap 7, 4] Igitur per hunc numerum, prout est certus et diffinitus, designatur singularis dignitas signatorum. Hii enim, qui sub certo nomine et numero et scriptura a regibus ad suam militiam vel curiam aut ad sua grandia vel dona ascribuntur, sunt digniores ceteris, qui absque scriptura et numero ad vulgarem et pedestrem militiam vel familiam eliguntur. Sicut etiam Deus, in signum familiarissime notitie et amicitie, Exodi XXXIII° (Ex 33, 17) dicit Moysi: “Novi te ex nomine”, cum tamen omnes electos suos communiter noverit ut amicos et hoc modo solos reprobos dicatur nescire, sic per hanc specialem et prefixam numerationem et consignationem designatur familiarior signatio et notitia et amicitia apud Deum.

Purg. XXIII, 70-75; XXIV, 10-12, 16-18, 25-33, 94-99

E non pur una volta, questo spazzo
girando, si rinfresca nostra pena:
io dico pena, e dovria dir sollazzo,
ché quella voglia a li alberi ci mena
che menò Cristo lieto a dire ‘Elì’,
quando ne liberò con la sua vena.

“Ma dimmi, se tu sai, dov’ è Piccarda;
dimmi s’io veggio da notar  persona
tra questa gente che sì mi riguarda. ”

Sì disse prima; e poi: “Qui non si vieta
di nominar ciascun, da ch’è sì munta
nostra sembianza via per la dïeta.”

Molti altri mi nomò ad uno ad uno;
e del nomar parean tutti contenti,
sì ch’io però non vidi un atto bruno.
Vidi per fame a vòto usar li denti
Ubaldin da la Pila e Bonifazio
che pasturò col rocco molte genti.
Vidi messer Marchese, ch’ebbe spazio
già di bere a Forlì con men secchezza,
e sì fu tal, che non si sentì sazio.

Qual esce alcuna volta di gualoppo
lo cavalier di schiera che cavalchi,
e va per farsi onor del primo intoppo,
tal si partì da noi con maggior valchi;
e io rimasi in via con esso i due
che fuor del mondo sì gran marescalchi.

Purg. XXI, 19-24

“Come!”, diss’ elli, e parte andavam forte:
“se voi siete ombre che Dio sù non degni,
chi v’ha per la sua scala tanto scorte?”.
E ’l dottor mio: “Se tu riguardi a’ segni
che questi porta e che l’angel profila,
ben vedrai che coi buon convien ch’e’ regni.”

Purg. XXIX, 151-154; XXXII, 16-24

E quando il carro a me fu a rimpetto,
un tuon s’udì, e quelle genti degne
parvero aver l’andar più interdetto,
fermandosi ivi con le prime insegne.

vidi ’n sul braccio destro esser rivolto
lo glorïoso essercito, e tornarsi
col sole e con le sette fiamme al volto.
Come sotto li scudi per salvarsi
volgesi schiera, e sé gira col segno,
prima che possa tutta in sé mutarsi;
quella milizia del celeste regno
che procedeva, tutta trapassonne
pria che piegasse il carro il primo legno.

Par. XI, 118-123

Pensa oramai qual fu colui che degno
collega fu a mantener la barca
di Pietro in alto mar per dritto segno;
e questo fu il nostro patrïarca;
per che qual segue lui, com’ el comanda,
discerner puoi che buone merce carca.

Par. XII, 37-42

L’essercito di Cristo, che sì caro
costò a rïarmar, dietro a la ’nsegna
si movea tardo, sospeccioso e raro,
quando lo ’mperador che sempre regna
provide a la milizia, ch’era in forse,
per sola grazia, non per esser degna

 

 

[Ap 7, 3] Ex predictis autem patent alique rationes quare ante temporale exterminium nove Babilonis sit veritas evangelice vite a reprobis sollempniter impugnanda et condempnanda, et e contra a spiritalibus suscitandis ferventius defendenda et observanda et attentius et clarius intelligenda et predicanda, ut merito ibi sit quoddam sollempne initium sexte apertionis. Quamvis autem a pluribus fide dignis audiverim sanctum patrem nostrum Franciscum hanc temptationem pluries predixisse, et etiam quod per eius status professores esset malignius et principalius exercenda, nichilominus quasdam rationes breviter subinsinuo. […] Tertio ut spiritus in viris evangelicis tepefactus et quasi extinctus seu consopitus suscitetur et fortissime accendatur, et per hoc disponantur et etiam promereantur ad potenter sustinendum et triumphaliter devincendum subsequentem temptationem sub magno Antichristo venturam. Quarto quia expedit veritatem evangelice vite et regule per concertationem validam prius clarificari et exaltari ante magni Antichristi adventum, quia aliter non posset sibi triumphaliter resistere nec esset dare tunc plures perfectos Christi milites ab ipso martirizandos.

Tab. 13.3

[Ap 7, 3] Clamat ergo (Ap 7, 3): “Nolite”, id est non audeatis; vel si ad bonos angelos loquitur, dicit “nolite” quia, ex quo ipse prohibuit, non debuerunt velle; “nocere”, scilicet per effrenatam temptationem vel per predicationis et gratie impeditionem, “terre et mari neque arboribus, quoadusque signemus servos Dei nostri in frontibus eorum”.
Signatio hec fit per administrationem fidei et caritatis et per assumptionem ac professionem sacramentorum Christi distinctivam fidelium ab infidelibus. In hac etiam signatione includitur fides et devotio ad Christi passionem adorandam et imitandam et exaltandam. Fit autem “in frontibus”, quando signatis datur constans et magnanimis libertas ad Christi fidem publice confitendam et observandam et predicandam et defendendam. In fronte enim apparet signum audacie  et strenuitatis vel formidolositatis  et inhertie, et signum gloriationis  vel erubescentie.
Item prout in eodem exercitu eiusdem regis distinguuntur equites a peditibus et barones seu duces vel centuriones et decuriones a simplicibus militibus, sic videntur hic distingui signati ex duodecim tribubus a turba innumerabili fidelium post ipsos subiuncta. Designatur enim per hanc signationem specialis assumptio ipsorum ad professionem perfectionis evangelice et altioris militie christiane et ad maiorem configurationem et transformationem ipsorum in Christum crucifixum et, secundum Ioachim, ad passionem martiriorum in eis complendam. Sicut enim post transmigrationem Babilonis, quod deerat in constructione templi, in quadraginta sex annis facta, completum est in sex ultimis annis, ita nunc sub sexta apertione ordo sanctorum martirum consumationem accipiet. Unde in die illo qui [erit] medius inter utramque tribulationem, scilicet Babilonis et Antichristi, signabuntur multi Iudeorum et gentium signaculo sancte Trinitatis, ad complendum numerum sanctorum martirum infra scriptum et illam gloriosam multitudinem cuius est numerus infinitus. Hec Ioachim.

[Ap 7, 4] Igitur per hunc numerum, prout est certus et diffinitus, designatur singularis dignitas signatorum. Hii enim, qui sub certo nomine et numero et scriptura a regibus ad suam militiam vel curiam aut ad sua grandia vel dona ascribuntur, sunt digniores ceteris, qui absque scriptura et numero ad vulgarem et pedestrem militiam vel familiam eliguntur. Sicut etiam Deus, in signum familiarissime notitie et amicitie, Exodi XXXIII° (Ex 33, 17) dicit Moysi: “Novi te ex nomine”, cum tamen omnes electos suos communiter noverit ut amicos et hoc modo solos reprobos dicatur nescire, sic per hanc specialem et prefixam numerationem et consignationem designatur familiarior signatio et notitia et amicitia apud Deum.

Inf. X, 35, 73-74, 93

ed el s’ergea col petto e con la fronte

Ma quell’ altro magnanimo, a cui posta
restato m’era ………………………

colui che la difesi a viso aperto

Inf. I, 81, 129

rispuos’ io lui con vergognosa  fronte.

oh felice colui cu’ ivi elegge!

Inf. II, 43-45, 61-63, 103-105, 121-125

“S’i’ ho ben la parola tua intesa”,
rispuose del magnanimo quell’ ombra,
“l’anima tua è da viltade offesa”

l’amico mio, e non de la ventura,
ne la diserta piaggia è impedito
sì nel cammin, che vòlt’ è per paura

Disse: – Beatrice, loda di Dio vera,
ché non soccorri quei che t’amò tanto,
ch’uscì per te de la volgare schiera?

Dunque: che è? perché, perché restai,
perché tanta viltà nel core allette,
perché ardire e franchezza non hai,
poscia che tai tre donne benedette
curan di te ne la corte del cielo

Inf. IV, 100-102

e più d’onore ancora assai mi fenno,
ch’e’ sì mi fecer de la loro schiera,
sì ch’io fui sesto  tra cotanto senno.

Inf. V, 85-87, 91-93

cotali uscir  de la schiera ov’ è Dido,
a noi venendo per l’aere maligno,
sì forte fu l’affettüoso grido.

se fosse amico il re de l’universo,
noi pregheremmo lui de la tua pace,
poi c’hai pietà del nostro mal perverso.

Purg. XXVII, 133, 139-140

Vedi lo sol che ’n fronte ti riluce ……

Non aspettar mio dir più né mio cenno;
libero, dritto e sano è tuo arbitrio

Purg. XI, 133-135

“Quando vivea più glorïoso”, disse,
liberamente nel Campo di Siena,
ogne vergogna diposta, s’affisse”

Purg. XIII, 103-105, 142-147

“Spirto”, diss’ io, “che per salir ti dome,
se tu se’ quelli che mi rispondesti,
fammiti conto o per luogo o per nome”.

“E vivo sono; e però mi richiedi,
spirito eletto, se tu vuo’ ch’i’ mova
di là per te ancor li mortai piedi”.
“Oh, questa è a udir sì cosa nuova”,
rispuose, “che gran segno è che Dio t’ami;
però col priego tuo talor mi giova.”

Inf. III, 52-60, 79

E io, che riguardai, vidi una ’nsegna
che girando correva tanto ratta,
che d’ogne posa mi parea indegna;
e dietro le venìa sì lunga tratta    7, 9
di gente
, ch’i’ non averei creduto
che morte tanta n’avesse disfatta.
Poscia ch’io v’ebbi alcun riconosciuto,
vidi e conobbi l’ombra di colui
che fece per viltade  il gran rifiuto.

Allor con li occhi vergognosi  e bassi

Inf. XXI, 64-66; XXII, 73-75

Poscia passò di là dal co del ponte;
e com’ el giunse in su la ripa sesta,
mestier li fu d’aver sicura fronte.

Draghignazzo anco i volle dar di piglio
giuso a le gambe; onde ’l decurio loro
si volse intorno intorno con mal piglio.

Tab. 13.4

[Ap 7, 3] Clamat ergo (Ap 7, 3): “Nolite”, id est non audeatis; vel si ad bonos angelos loquitur, dicit “nolite” quia, ex quo ipse prohibuit, non debuerunt velle; “nocere”, scilicet per effrenatam temptationem vel per predicationis et gratie impeditionem, “terre et mari neque arboribus, quoadusque signemus servos Dei nostri in frontibus eorum”.
Signatio hec fit per administrationem fidei et caritatis et per assumptionem ac professionem sacramentorum Christi distinctivam fidelium ab infidelibus. In hac etiam signatione includitur fides et devotio ad Christi passionem adorandam et imitandam et exaltandam. Fit autemin frontibus”, quando signatis datur constans et magnanimis libertas ad Christi fidem publice confitendam et observandam et predicandam et defendendam. In fronte enim apparet signum audacie et strenuitatis vel formidolositatis et inhertie, et signum gloriationis vel erubescentie.
Item prout in eodem exercitu eiusdem regis distinguuntur equites a peditibus et barones seu duces vel centuriones et decuriones a simplicibus militibus, sic videntur hic distingui signati ex duodecim tribubus a turba innumerabili fidelium post ipsos subiuncta. Designatur enim per hanc signationem specialis assumptio ipsorum ad professionem perfectionis evangelice et altioris militie christiane et ad maiorem configurationem et transformationem ipsorum in Christum crucifixum et, secundum Ioachim, ad passionem martiriorum in eis complendam. Sicut enim post transmigrationem Babilonis, quod deerat in constructione templi, in quadraginta sex annis facta, completum est in sex ultimis annis, ita nunc sub sexta apertione ordo sanctorum martirum consumationem accipiet. Unde in die illo qui [erit] medius inter utramque tribulationem, scilicet Babilonis et Antichristi, signabuntur multi Iudeorum et gentium signaculo sancte Trinitatis, ad complendum numerum sanctorum martirum infra scriptum et illam gloriosam multitudinem cuius est numerus infinitus. Hec Ioachim.

[Ap 7, 4] Igitur per hunc numerum, prout est certus et diffinitus, designatur singularis dignitas signatorum. Hii enim, qui sub certo nomine et numero et scriptura a regibus ad suam militiam vel curiam aut ad sua grandia vel dona ascribuntur, sunt digniores ceteris, qui absque scriptura et numero ad vulgarem et pedestrem militiam vel familiam eliguntur. Sicut etiam Deus, in signum familiarissime notitie et amicitie, Exodi XXXIII° (Ex 33, 17) dicit Moysi: “Novi te ex nomine”, cum tamen omnes electos suos communiter noverit ut amicos et hoc modo solos reprobos dicatur nescire, sic per hanc specialem et prefixam numerationem et consignationem designatur familiarior signatio et notitia et amicitia apud Deum.

 

Purg. XXIV, 10-18 (4-6)

“Ma dimmi, se tu sai, dov’ è Piccarda;
dimmi s’io veggio da notar  persona
tra questa gente che sì mi riguarda. ”
“La mia sorella, che tra bella e buona
non so qual fosse più, trïunfa lieta
ne l’alto Olimpo già di sua corona”.
Sì disse prima; e poi: “Qui non si vieta
di nominar ciascun, da ch’è sì munta
nostra sembianza via per la dïeta.”

Par. XXV, 10-18

però che ne la fede, che fa conte
l’anime a Dio, quivi intra’ io, e poi
Pietro per lei sì mi girò la fronte.
Indi si mosse un lume verso noi
di quella spera ond’ uscì la primizia    schiera
che lasciò Cristo d’i vicari suoi;
e la mia donna, piena di letizia,
mi disse: “Mira, mira: ecco il barone
per cui là giù si vicita Galizia”.

Purg. XXI, 19-24 (7-8)

 

 

“Come!”, diss’ elli, e parte andavam forte:
“se voi siete ombre che Dio sù non degni,
chi v’ha per la sua scala tanto scorte?”.
E ’l dottor mio: “Se tu riguardi a’ segni
che questi porta e che l’angel profila,
ben vedrai che coi buon convien ch’e’ regni.”

 

 

 

Inf. XVIII, 28-33 (10-11)

come i Roman per l’essercito molto,
l’anno del giubileo, su per lo ponte
hanno a passar la gente modo colto,
che da l’un lato tutti hanno la fronte
verso ’l castello e vanno a Santo Pietro,
da l’altra sponda vanno verso ’l monte. 

Purg. XXXII, 16-24 (6-8)

vidi ’n sul braccio destro esser rivolto
lo glorïoso essercito, e tornarsi
col sole e con le sette fiamme al volto.
Come sotto li scudi per salvarsi
volgesi schiera, e sé gira col segno,
prima che possa tutta in sé mutarsi;
quella milizia del celeste regno
che procedeva, tutta trapassonne
pria che piegasse il carro il primo legno.

 

 

 

Inf. XXXIII, 31-33 (11)

 

 

Con cagne magre, studïose e conte
Gualandi con Sismondi e con Lanfranchi
s’avea messi dinanzi da la fronte.

Par. XVI, 22-27 (8-9)

 

 

 

 

Ditemi dunque, cara mia primizia,
quai fuor li vostri antichi e quai fuor li anni
che si segnaro in vostra püerizia;
ditemi de l’ovil di San Giovanni
quanto era allora, e chi eran le genti
tra esso degne di più alti scanni.

[Ap 7, 3] Clamat ergo (Ap 7, 3): “Nolite”, id est non audeatis; vel si ad bonos angelos loquitur, dicit “nolite” quia, ex quo ipse prohibuit, non debuerunt velle; “nocere”, scilicet per effrenatam temptationem vel per predicationis et gratie impeditionem, “terre et mari neque arboribus, quoadusque signemus servos Dei nostri in frontibus eorum”.
Signatio hec fit per administrationem fidei et caritatis et per assumptionem ac professionem sacramentorum Christi distinctivam fidelium ab infidelibus. In hac etiam signatione includitur fides et devotio ad Christi passionem adorandam et imitandam et exaltandam. Fit autemin frontibus”, quando signatis datur constans et magnanimis libertas ad Christi fidem publice confitendam et observandam et predicandam et defendendam. In fronte enim apparet signum audacie et strenuitatis vel formidolositatis et inhertie, et signum gloriationis vel erubescentie.
Item prout in eodem exercitu eiusdem regis distinguuntur equites a peditibus et barones seu duces vel centuriones et decuriones a simplicibus militibus, sic videntur hic distingui signati ex duodecim tribubus a turba innumerabili fidelium post ipsos subiuncta. Designatur enim per hanc signationem specialis assumptio ipsorum ad professionem perfectionis evangelice et altioris militie christiane et ad maiorem configurationem et transformationem ipsorum in Christum crucifixum et, secundum Ioachim, ad passionem martiriorum in eis complendam. Sicut enim post transmigrationem Babilonis, quod deerat in constructione templi, in quadraginta sex annis facta, completum est in sex ultimis annis, ita nunc sub sexta apertione ordo sanctorum martirum consumationem accipiet. Unde in die illo qui [erit] medius inter utramque tribulationem, scilicet Babilonis et Antichristi, signabuntur multi Iudeorum et gentium signaculo sancte Trinitatis, ad complendum numerum sanctorum martirum infra scriptum et illam gloriosam multitudinem cuius est numerus infinitus. Hec Ioachim.

[Ap 7, 4] Igitur per hunc numerum, prout est certus et diffinitus, designatur singularis dignitas signatorum. Hii enim, qui sub certo nomine et numero et scriptura a regibus ad suam militiam vel curiam aut ad sua grandia vel dona ascribuntur, sunt digniores ceteris, qui absque scriptura et numero ad vulgarem et pedestrem militiam vel familiam eliguntur. Sicut etiam Deus, in signum familiarissime notitie et amicitie, Exodi XXXIII° (Ex 33, 17) dicit Moysi: “Novi   te ex nomine”, cum tamen omnes electos suos communiter noverit ut amicos et hoc modo solos reprobos dicatur nescire, sic per hanc specialem et prefixam numerationem et consignationem designatur familiarior signatio et notitia et amicitia apud Deum.

 

Par. XII, 37-42 (13-14)

L’essercito di Cristo, che sì caro
costò a rïarmar, dietro a la ’nsegna
si movea tardo, sospeccioso e raro,
quando lo ’mperador che sempre regna
provide a la milizia, ch’era in forse,
per sola grazia, non per esser degna
Par. XVI, 40-42 (14)

 

 

Li antichi miei e io nacqui nel loco
dove si truova pria l’ultimo sesto
da quei che corre il vostro annüal gioco.

 Par. XXV, 40-42 (14)

 

 

“Poi che per grazia vuol che tu t’affronti
lo nostro Imperadore, anzi la morte,
ne l’aula più secreta co’ suoi conti

 

Inf. III, 52-60 (18-20)

E io, che riguardai, vidi una ’nsegna
che girando correva tanto ratta,
che d’ogne posa mi parea indegna;
e dietro le venìa sì lunga tratta
di gente, ch’i’ non averei creduto
che morte tanta n’avesse disfatta.
Poscia ch’io v’ebbi alcun riconosciuto,
vidi e conobbi l’ombra di colui
che fece per viltade  il gran rifiuto.

Par. XXIV, 52-60 (18-20)

“Dì, buon Cristiano, fatti manifesto:
fede che è?”. Ond’ io levai la fronte
in quella luce onde spirava questo;
poi mi volsi a Beatrice, ed essa pronte
sembianze femmi perch’ ïo spandessi
l’acqua di fuor del mio interno fonte.
“La Grazia che mi dà  ch’io mi confessi”,
comincia’ io, “da l’alto primipilo,
faccia li miei concetti bene espressi”.

 

 Par. XXV, 52-57 (18-19)

“La Chiesa militante alcun figliuolo
non ha con più speranza, com’ è scritto
nel Sol che raggia tutto nostro stuolo:
però li è conceduto che d’Egitto
vegna in Ierusalemme per vedere,
anzi che l militar li sia prescritto.”

Inf. X, 73-74 (25)

Ma quell’ altro magnanimo, a cui posta
restato m’era ………………………..

Inf. XXII, 73-75

Draghignazzo anco i volle dar di piglio
giuso a le gambe; onde ’l decurio loro
si volse intorno intorno con mal piglio.

 

Inf. IV, 100-102 (34); II, 103-105 (35)

e più d’onore ancora assai mi fenno,
ch’e’ sì mi fecer de la loro schiera,
sì ch’io fui sesto tra cotanto senno.

Disse: – Beatrice, loda di Dio vera,
ché non soccorri quei che t’amò tanto,
ch’uscì per te de la volgare schiera?

Purg. XIII, 103-105 (35)

 

 

“Spirto”, diss’ io, “che per salir ti dome,
se tu se’ quelli che mi rispondesti,
fammiti conto  o per luogo o per nome

Par. VI, 100-105 (34-35)

L’uno al pubblico  segno i gigli gialli
oppone, e l’altro appropria quello a parte,
sì ch’è forte a veder chi più si falli.

Faccian li Ghibellin, faccian lor arte
sott’ altro segno, ché mal segue quello
sempre chi la giustizia e lui diparte

[Ap 7, 3] Clamat ergo (Ap 7, 3): “Nolite”, id est non audeatis; vel si ad bonos angelos loquitur, dicit “nolite” quia, ex quo ipse prohibuit, non debuerunt velle; “nocere”, scilicet per effrenatam temptationem vel per predicationis et gratie impeditionem, “terre et mari neque arboribus, quoadusque signemus servos Dei nostri in frontibus eorum”.
Signatio hec fit per administrationem fidei et caritatis et per assumptionem ac professionem sacramentorum Christi distinctivam fidelium ab infidelibus. In hac etiam signatione includitur fides et devotio ad Christi passionem adorandam et imitandam et exaltandam. Fit autem “in frontibus”, quando signatis datur constans et magnanimis libertas ad Christi fidem publice confitendam et observandam et predicandam et defendendam. In fronte enim apparet signum audacie et strenuitatis vel formidolositatis et inhertie, et signum gloriationis  vel erubescentie.
Item prout in eodem exercitu eiusdem regis distinguuntur equites a peditibus et barones seu duces vel centuriones et decuriones a simplicibus militibus, sic videntur hic distingui signati ex duodecim tribubus a turba innumerabili fidelium post ipsos subiuncta. Designatur enim per hanc signationem specialis assumptio ipsorum ad professionem perfectionis evangelice et altioris militie christiane et ad maiorem configurationem et transformationem ipsorum in Christum crucifixum et, secundum Ioachim, ad passionem martiriorum in eis complendam. Sicut enim post transmigrationem Babilonis, quod deerat in constructione templi, in quadraginta sex annis facta, completum est in sex ultimis annis, ita nunc sub sexta apertione ordo sanctorum martirum consumationem accipiet. Unde in die illo qui [erit] medius inter utramque tribulationem, scilicet Babilonis et Antichristi, signabuntur multi Iudeorum et gentium signaculo sancte Trinitatis, ad complendum numerum sanctorum martirum infra scriptum et illam gloriosam multitudinem cuius est numerus infinitus. Hec Ioachim.

[Ap 7, 4] Igitur per hunc numerum, prout est certus et diffinitus, designatur singularis dignitas signatorum. Hii enim, qui sub certo nomine et numero et scriptura a regibus ad suam militiam vel curiam aut ad sua grandia vel dona ascribuntur, sunt digniores ceteris, qui absque scriptura et numero ad vulgarem et pedestrem militiam vel familiam eliguntur. Sicut etiam Deus, in signum familiarissime notitie et amicitie, Exodi XXXIII° (Ex 33, 17) dicit Moysi: “Novi te ex nomine”, cum tamen omnes electos suos communiter noverit ut amicos et hoc modo solos reprobos dicatur nescire, sic per hanc specialem et prefixam numerationem et consignationem designatur familiarior signatio et notitia et amicitia apud Deum.

 

Inf. II, 121-126 (41-42)

Dunque: che è? perché, perché restai,
perché tanta viltà  nel core allette,
perché ardire  e franchezza non hai,
poscia che tai tre donne benedette
curan di te ne la corte del cielo,
e ’l mio parlar tanto ben ti promette?

 

Purg. XI, 133-135 (45)

 

 

“Quando vivea più glorïoso”, disse,
 “liberamente nel Campo di Siena,
ogne vergogna  diposta, s’affisse”

 

Purg. XXVII, 139-142 (47)

Non aspettar mio dir più né mio cenno;
libero, dritto e sano è tuo arbitrio,
e fallo fora non fare a suo senno:
per ch’io te sovra te corono e mitrio.

Par. XVIII, 121-126

sì ch’un’altra fïata omai s’adiri
del comperare e vender dentro al templo
che si murò di segni e di martìri.
O milizia del ciel cu’ io contemplo,
adora per color che sono in terra
tutti svïati dietro al malo essemplo!

 

Par. XII, 130-135 (44-45)

Illuminato e Augustin son quici,
che fuor de’ primi scalzi poverelli
che nel capestro a Dio si fero amici.
Ugo da San Vittore è qui con elli,
e Pietro Mangiadore e Pietro Spano,
lo qual giù luce in dodici  libelli

 

Par. IX, 139-142 (47)

Ma Vaticano e l’altre parti elette
di Roma che son state cimitero
a la milizia che Pietro seguette,
tosto libere fien de l’avoltero.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Par. XV, 139-141 (47)


Poi seguitai lo ’mperador Currado;
ed el mi cinse de la sua milizia,
tanto per bene ovrar li venni in grado.

 

14. Le “novelle fronde” di Europa

■ In quella parte ove surge ad aprire / Zefiro dolce le novelle fronde (Par. XII, 46-47)

L’apertura del sesto sigillo, come detto ad Ap 6, 12, avviene in quattro tempi diversi. C’è un inizio profetico in Gioacchino da Fiore e forse in alcuni altri suoi contemporanei ai quali è stata rivelata la terza età generale del mondo, che contiene il sesto e il settimo stato. C’è un inizio in Francesco, padre e pianta del suo Ordine e della sua regola. Un altro inizio coincide con la nuova fioritura dovuta al risvegliarsi dello Spirito di Cristo in alcuni predicatori, nel momento in cui la regola francescana viene impugnata e condannata dalla Chiesa carnale. Il quarto inizio è segnato dalla distruzione di Babilonia ad opera dei dieci re, inizio per cui il sesto stato si distingue in modo chiaro dal quinto. Questi quattro inizi non sono in contraddizione, ma concordi fra loro. Così si verifica nei Vangeli: Luca inizia infatti dal sacerdozio di Zaccaria, al quale venne profeticamente rivelata la venuta di Cristo, e da Giovanni Battista, suo immediato precursore; Matteo inizia dall’umana generazione di Cristo, Marco dalla predicazione di Cristo e di Giovanni, Giovanni dall’eternità del Verbo e dall’eterna generazione. Così, nei profeti, si può trovare diversità di inizio nel computo dei settant’anni della cattività babilonese e della desolazione del Tempio ad opera dei Caldei, o delle settanta settimane di Daniele (Dn 9, 24).
Il primo inizio profetico del sesto stato, visto in spirito da Gioacchino da Fiore, è ricordato da Bonaventura nel cielo del Sole: “e lucemi dallato / il calavrese abate Giovacchino / di spirito profetico dotato” (Par. XII, 139-141).
Il secondo inizio si rispecchia nell’elogio di Francesco fatto da Tommaso d’Aquino nel cielo del Sole (Par. XI). Ma il tema della prima fioritura è da Dante appropriato a Domenico, come appare dalle parole di Bonaventura relative alla Spagna: “In quella parte ove surge ad aprire / Zefiro dolce le novelle fronde” (Par. XII, 46-47). Viene dunque estesa a Domenico la prerogativa di avere iniziato il sesto stato.
Il terzo inizio – la nuova fioritura operata dalla predicazione degli spirituali – è nel rinnovarsi e rifiorire del grande albero dell’Eden (Purg. XXXII, 52-60), ma anche nell’essere il poeta, dopo aver bevuto l’acqua dell’Eunoè, “rifatto sì come piante novelle / rinovellate di novella fronda, / puro e disposto a salire a le stelle” (Purg. XXXIII, 142-145).
Il quarto inizio – la distruzione storica di Babylon, con il terremoto che l’accompagna – non si realizza nel corso del viaggio, che la brucia virtualmente (ma cfr., a Purg. XX, come il terremoto che sconvolge la montagna sia segno della fine del regno di Francia). L’uccisione della prostituta da parte di “un cinquecento diece e cinque” è però profetizzato come imminente da Beatrice nell’Eden (Purg. XXXIII, 43-45). Nel Paradiso l’invettiva di Pier Damiani contro “li moderni pastori” è confermato dai lumi degli spiriti contemplativi con “un grido di sì alto suono”, preghiera di vendetta che ‘muove’ di stupore il poeta, proprio come in un terremoto interiore (Par. XXI, 136-142; XXII, 1-18).
Nei versi relativi all’albero dell’Eden si rinvengono altri fondamentali temi del sesto stato. Filadelfia, la sesta chiesa d’Asia, è interpretata sia come “amor fratris” che come “salvans hereditatem”, arca evangelica del seme della fede nel diluvio dell’Anticristo mistico e di quello aperto: «Così dintorno a l’albero robusto / gridaron li altri; e l’animal binato: / “Sì si conserva il seme d’ogne giusto”» (Purg. XXXII, 46-48; il passo di Matteo 3, 15 – “Sic enim decet nos implere omnem iustitiam” -, di solito citato come fonte, non reca in sé il tema del conservare il seme). Tipico della sesta chiesa, oltre al rinnovarsi, è avere la porta aperta; così “men che di rose e più che di vïole / colore aprendo, s’innovò la pianta” (ibid., 58-59). Ma rinnovamento ed eredità salvata non sono solo della Chiesa, rappresentata dall’ “albero robusto” perché, come afferma Beatrice, “non sarà tutto tempo sanza reda / l’aguglia che lasciò le penne al carro, / per che divenne mostro e poscia preda” (Purg. XXXIII, 37-39). Anche l’Impero partecipa della stessa indefettibilità della Chiesa, per cui non può mai estinguersi fino alla fine dei secoli, anche nei momenti in cui appare non esserci.

di che si vede Europa rivestire (Par. XII, 48)

Nella sesta delle sette coppe dell’ira divina, che vengono versate nella quinta visione, è esposto, fra gli altri, il tema del venire di Dio al giudizio con la subitaneità di un ladro, sottolineato dall’avverbio “ecce” e dal presente “venio” al posto del futuro ‘veniam’ per togliere ogni possibile stima dell’indugiare e per rendere più attenti, vigili e timorati: “Ecce venio sicut fur” (Ap 16, 15). Un passo simmetrico, di più ampia esegesi, si trova ad Ap 3, 3 nell’istruzione data alla chiesa di Sardi, la quinta delle sette chiese d’Asia alle quali Giovanni scrive nella prima visione. Il senso è che se il vescovo della chiesa di Sardi, accusato di essere negligente, intorpidito e ozioso, non vigilerà correggendosi, il giudizio divino verrà da lui come un ladro, che nel tempo notturno arriva di nascosto all’improvviso, senza che si sappia l’ora della venuta. Dalla collazione dei due passi deriva una rosa semantica che si riflette in molti luoghi del poema [cfr. Il sesto sigillo, 1d].
Qui si dà conto in breve unicamente dell’inciso, che si trova solo ad Ap 16, 15 – «“Beatus qui vigilat et custodit vestimenta sua”, scilicet virtutes et bona opera, “ne nudus ambulet”, id est virtutibus spoliatus; “et videant”, scilicet omnes tam boni quam mali, “turpitudinem eius”» -, articolato negli elementi vestimentavirtutesspoliatusvideant (il primo e il quarto del testo scritturale, il secondo e il terzo dell’esegeta).
Inf. III, 112-114, la terzina descrive il volontario gettarsi nella barca di Caronte del “mal seme d’Adamo”: “Come d’autunno si levan le foglie / l’una appresso de l’altra, fin che ’l ramo / vede a la terra tutte le sue spoglie”. È da notare l’accostamento del vedere, appropriato al ramo, con lo spogliarsi, motivi non presenti nella reminiscenza virgiliana – “Quam multa in silvis autumni frigore primo / Lapsa cadunt folia …” (Aen. VI, 309-310) -, e che sono invece nell’esegesi di Ap 16, 15. L’estrema variazione del tema sarà a Par. XXVIII, 115-117: “in questa primavera sempiterna / che notturno Arïete non dispoglia” (l’Ariete è visibile di notte in autunno, di notte arriva il ladro a spogliare; ad Ap 3, 3 è esposto il tema paolino, dalla prima lettera ai Tessalonicesi 5, 2-3, del notturno sopravvenire del “fur” assimilato all’inopinato giudizio divino; partecipano i motivi, dalla settima visione, di Ap 21, 22-25, relativi alla Gerusalemme celeste che non conosce notte).
Nella selva dei suicidi, Pier della Vigna spiega che dopo la resurrezione i suicidi andranno anch’essi nella valle di Giosafat per riprendervi i propri corpi (le “nostre spoglie”) senza però rivestirsene, perché questi saranno da loro trascinati per la selva e appesi ciascuno al pruno che incarcera l’anima (Inf. XIII, 103-108). Il corpo non è in questo caso “la carne glorïosa e santa … rivestita” (cfr. Par. XIV, 43-44), bensì ‘spoglia’, cioè carne spogliata di virtù, “ché non è giusto aver ciò ch’om si toglie”.
Inf. XXVII, 127-129, il tema del “fur” è nel “foco furo” che fascia Guido da Montefeltro, che va “sì vestito”, perché gli altri lo vedano (“et videant” / “là dove vedi”): sono tutti motivi da Ap 16, 15.
Nel colloquio con Sordello, anche Virgilio usa il motivo del vestirsi di virtù e di buone opere (Purg. VII, 25-27). Egli ha perduto il cielo “non per far, ma per non fare”, cioè “per non aver fé” in quel Dio “che fu tardi per me conosciuto”. Il “non fare” corrisponde ai «“vestimenta sua”, scilicet virtutes et bona opera», e per questo il poeta pagano aggiunge: “quivi sto io con quei che le tre sante / virtù non si vestiro, e sanza vizio / conobber l’altre e seguir tutte quante” (vv. 34-36). Virgilio distingue tra le virtù cardinali, di cui si rivestì, e quelle teologali, di cui non poté rivestirsi. Qui il tardare non è peccato, perché solo la prescienza divina poteva stabilire il tempo della redenzione; designa un fatto ineluttabile e doloroso. A Virgilio non appartiene comunque l’essere ‘spogliato’ di virtù.
A questi temi (congiunti con la citazione di Giovanni 17, 6.11 nell’esegesi di Ap 8, 3) sono interessati anche i celebri versi: “Tu ne vestisti / queste misere carni, e tu le spoglia” (Inf. XXXIII, 62-63) [considerati in L’agone del dubbio, ovvero il martirio moderno, 2 (Il dubbio che tenta e inganna: Guido da Montefeltro, conte Ugolino e altri casi), tab. V-1].
Ad Ap 16, 15 si riferisce ancora Bonaventura nell’elogio di Domenico: “le novelle fronde / di che si vede Europa rivestire”, aperte da Zefiro, dove i temi dell’aprire e dell’essere nuovo sono tipici del sesto stato (Par. XII, 48).

■ Ap 16, 15 non è l’unica pagina esegetica cui si riferiscono i versi di Inf. XXVII che narrano della contesa per l’anima di Guido da Montefeltro fra Francesco e il diavolo “loico”. Le parole di costui a Francesco – «li disse: “Non portar; non mi far torto”» (Inf. XXVII, 113-114) – contengono ancora motivi del secondo stato (dalla seconda tromba, i cui i temi sono diffusi su tutto il canto), nel riferimento a quei fedeli dottori che con le parole, con l’esempio, con i suffragi e con pia dedizione portavano e conducevano gli altri come navi per il mare dei gentili, la terza parte dei quali, incapaci di sostenere le tentazioni, perì nel mare (Ap 8, 9). Già però si mostra la tematica dello stato che segue, il terzo, che troverà compiuta esplicazione nel canto seguente, fra i seminatori di scandalo e di scisma puniti nella nona bolgia col taglio della spada.
All’apertura del terzo sigillo, mostratagli dal terzo animale, quello che ha il volto di uomo, Giovanni vede un cavallo nero, che designa l’esercito degli eretici, oscuro per fallace astuzia e fatto nero per gli errori contrari alla luce di Cristo (Ap 6, 5). Colui che siede sopra di esso – designante gli imperatori o i vescovi ariani – ha in mano una bilancia. La stadera misura la quantità dei pesi, e qui sta ad indicare la misurazione degli articoli di fede. Quando la misurazione avviene secondo la retta e infallibile regola di Cristo, allora il peso è giusto, come si dice nei Proverbi: “Il peso e la bilancia sono i giudizi del Signore” (Pro 16, 11) e nell’Ecclesiastico: “Le parole dei prudenti sono pesate sulla bilancia” (Ecli 21, 28). Quando invece la misurazione si fonda sull’errore e sul falso e torto accoglimento della Scrittura, allora la stadera è dolosa, e a questa si riferiscono i Proverbi: “La bilancia falsa è in abominio al Signore” (Pro 11, 1), i Salmi: “Sono una menzogna tutti gli uomini sulla bilancia” (Ps 61, 10) e Michea: “Potrò giustificare le false bilance e il sacchetto dei pesi falsi?” (Mic 6, 11) [1].
All’apertura del terzo sigillo (Ap 6, 5) appartengono, a Inf. XXVII, 113-114, sia “un d’i neri cherubini” (allusione al cavallo nero) come il “non mi far torto” (l’ “intorta acceptio scripture” designata dalla falsa bilancia). Il diavolo sembra dire a Francesco: ‘non pesare falsamente la tua stessa regola, che è quella osservata da Cristo, imposta agli apostoli e scritta nel Vangelo’. Torcere è proprio sia della coda di Minosse al qaule Guido viene portato, sia dell’acuto corno del “foco furo” che fascia il Montefeltrano (Inf. XXVII, 124-125, 132).
Gli stessi temi sono presenti nella terza bolgia. Le gambe dei simoniaci confitti a capo in giù nei fori della pietra guizzano così forte, per la fiamma che si muove sulle piante dei piedi, “che spezzate averien ritorte e strambe”, cioè legami attorcigliati o funi (Inf. XIX, 25-27). Dante domanda chi sia colui che si cruccia guizzando più degli altri, e Virgilio risponde che, una volta portato là giù nel fondo della bolgia, da lui saprà “di sé e de’ suoi torti ” (ibid., 36). Invitata dal poeta a parlare, l’anima confitta di Niccolò III, che crede erroneamente sia arrivato Bonifacio VIII a prendere il suo posto, grida proseguendo le variazioni del tema della retta e torta misurazione della Scrittura: «Ed el gridò: “Se’ tu già costì ritto, / se’ tu già costì ritto, Bonifazio? / Di parecchi anni mi mentì lo scritto”» (ibid., 52-54). Stare “ritto”, che nell’esegesi teologica corrisponde al giusto peso che misura secondo la retta e infallibile regola di Cristo (ma “lo scritto” ha mentito al papa Orsini), si contrappone alla pena comminata per i “torti”, e il tema viene ripreso poco dopo dallo spirito che, chiarito l’equivoco in seguito alla risposta di Dante imposta da Virgilio, “tutti storse i piedi” (ibid., 64). I simoniaci hanno male pesato la regola evangelica, quella osservata da Cristo, imposta agli apostoli e scritta nel Vangelo. Questa regola è, per antonomasia, quella francescana: tanto è rinfacciato, nella terza bolgia, a Niccolò III e a Bonifacio VIII che sta per arrivare; altrettanto è ricordato, nell’ottava bolgia, a Francesco dal diavolo “loico” che argomenta come un dottore della Chiesa del terzo stato.
Il tema dell’ “ira magna” del diavolo, che nella seconda guerra si vede gettato a terra (Ap 12, 12; cfr. la “rabies iracundie” ad Ap 9, 17.19), è appropriato a Minosse, il quale vedendo l’anima del consigliere fraudolento portatagli dal nero cherubino, si morde “per gran rabbia” la coda attorta otto volte al dosso duro (Inf. XXVII, 124-126). Ad Ap 9, 5 (quinta tromba) la puntura delle locuste induce il ‘rimorso’ della coscienza per l’offesa e il danno, unitamente all’ira. Ma il vero motivo del gesto di Minosse sta ad Ap 16, 10-11 (quinta coppa), poiché si comporta come quelli che per il dolore del cuore si mangiano la propria lingua in quanto non possono ottenere ciò che desiderano cioè, nel caso, di poter punire anche Bonifacio VIII, istigatore al peccato di Guido.

[1] Michea 6, 3: «Popule meus, quid feci tibi?» costituiva l’incipit di una lettera perduta di Dante, ricordata dal Bruni.

 

Tab. 14

Inf. VIII, 124-127

Questa lor tracotanza non è nova;
ché già l’usaro a men segreta porta,
la qual sanza serrame ancor si trova. 
Sovr’ essa vedestù la scritta morta

Inf. XXI, 106-108, 124-126

Poi disse a noi: “Più oltre andar per questo
iscoglio non si può, però che giace
tutto spezzato al fondo l’arco sesto”.

Cercate ’ntorno le boglienti pane;
costor sian salvi infino a l’altro scheggio
che tutto intero va sovra le tane.

Inf. IX, 88-90

Ahi quanto mi parea pien di disdegno!
Venne a la porta e con una verghetta
l’aperse, che non v’ebbe alcun ritegno.

Purg. XXVII, 22-24, 37-39

Ricorditi, ricorditi! E se io
sovresso Gerïon ti guidai salvo,
che farò ora presso più a Dio?

Come al nome di Tisbe aperse il ciglio
Piramo in su la morte, e riguardolla,
allor che ’l gelso diventò vermiglio

[LSA, cap. II, Ap 2, 1] Sexta (ecclesia) autem dicitur habere hostium scripturarum [ac] predicationis et cordium convertendorum apertum, et quod Iudei debent ad eam cum summa humilitate adduci, et quod est servanda ne cadat in temptationem toti orbi venturam, quia Dei consilia et mandata longanimiter et patienter servavit, que utique competunt statui sexto. Unde et congrue vocatur Philadelphia, id est salvans hereditatem, quia in regula evangelica, quasi in archa Noe, salvabitur semen fidei et electorum a diluvio Antichristi tam mistici quam aperti.

[LSA, cap. VI, Ap 6, 12 (IIIa visio, apertio VIi sigilli)] Sciendum autem quattuor sententias predictas sane assumptas non esse sibi contrarias, sed concordes. Sicut enim Luchas inchoat Christi evangelium a sacerdotio Zacharie, cui facta est prophetica revelatio de Christo statim venturo et de Iohanne eius immediato precursore; Mattheus vero ab humana Christi generatione; Marchus vero a Christi et Iohannis predicatione; Iohannes vero a Verbi eternitate et eterna generatione, sic hec sexta apertio sumpsit quoddam prophetale initium a revelatione abbatis et consimilium; a renovatione vero regule evangelice per servum eius Franciscum sumpsit sue generationis et plantationis initium; a predicatione vero spiritualium suscitandorum et a nova Babilone reprobandorum sumet initium refloritionis seu repullulationis; a destructione vero Babilonis sumet initium sue clare distinctionis a quinto statu et sue distincte clarificationis, iuxta quod et dicimus legalia quantum ad obligationem necessariam fuisse mortificata in Christi passione et resurrectione et tandem sepulta et effecta mortifera in evangelii pl[e]na promulgatione et in templi legalis per Titum et Vespasianum destructione.

Purg. XXXII, 46-60; XXXIII, 142-145

Così dintorno a l’albero robusto
gridaron li altri; e l’animal binato:
“Sì si conserva il seme d’ogne giusto”.
E vòlto al temo ch’elli avea tirato,
trasselo al piè de la vedova frasca,
e quel di lei a lei lasciò legato.
Come le nostre piante, quando casca
giù la gran luce mischiata con quella
che raggia dietro a la celeste lasca,
turgide fansi, e poi si rinovella
di suo color ciascuna, pria che ’l sole
giunga li suoi corsier sotto altra stella;
men che di rose e più che di vïole
colore aprendo, s’innovò la pianta,
che prima avea le ramora sì sole.

Io ritornai da la santissima onda
rifatto sì come piante novelle
rinovellate di novella
fronda,
puro e disposto a salire a le stelle.

Par. XII, 46-48

In quella parte ove surge ad aprire
Zefiro dolce le novelle fronde
di che si vede Europa rivestire

[LSA, cap. XVI, Ap 16, 15 (Va visio, VIa phiala)] Quia vero Deus tunc ex improviso et subito faciet hec iudicia, ideo subdit: “Ecce venio sicut fur” (Ap 16, 15). Fur enim venit latenter ad furandum, ne advertat hoc dominus cuius sunt res quas furatur. Non autem dicit ‘veniam’ sed “venio”, et hoc cum adverbio demonstrandi, ut per hoc estimationem de sua mora nobis tollat et ad adventum suum nos attentiores et vigilantiores et timoratiores reddat. Ad quod etiam ultra hoc inducit per promissionem premii et comminationem sui oppositi, unde subdit: “Beatus qui vigilat et custodit vestimenta sua”, scilicet virtutes et bona opera, “ne nudus ambulet ”, id est virtutibus spoliatus; “et videant”, scilicet omnes tam boni quam mali, “turpitudinem eius”, id est sua turpissima peccata et suam confusibilem penam in die iudicii sibi infligendam.

Inf. XXXIII, 55-63

Come un poco di raggio si fu messo
nel doloroso carcere, e io scorsi
per quattro visi il mio aspetto stesso,
ambo le man per lo dolor mi morsi;
ed ei, pensando ch’io ’l fessi per voglia
di manicar, di sùbito levorsi
e disser: “Padre, assai ci fia men doglia
se tu mangi di noi: tu ne vestisti
queste misere carni, e tu le spoglia”.

[LSA, cap. VIII, Ap 8, 3 (radix IIIe visionis)] Data etiam sunt sibi a Deo Patre, unde Iohannis XVII° dicit ipse Patri (Jo 17, 6/11): “Tui erant, et michi eos dedisti. Pater sancte, serva eos in nomine tuo, quos dedisti michi”. Et in Psalmo dicitur: “Ascendisti in altum” et “accepisti dona in hominibus” (Ps 67, 19). In quantum enim sumus membra eius, ipse acc[i]pit in nobis dona gratie que dantur nobis.

Inf. III, 113-114; XIII, 103-104; XXVII, 127-129; Purg. VII, 34-35; Par. XII, 47-48

………………………..fin che ’l ramo
vede a la terra tutte le sue spoglie

Come l’altre verrem per nostre spoglie,
ma non però ch’alcuna sen rivesta

“disse: ‘Questi è d’i rei del foco furo‘;
per ch’io là dove vedi son perduto,
e sì vestito, andando, mi rancuro”. 

quivi sto io con quei che le tre sante
virtù
non si vestiro …………………….

………………….le novelle fronde
di che si vede Europa rivestire

Par. XXVIII, 115-117

L’altro ternaro, che così germoglia
in questa primavera sempiterna
che notturno Arïete non dispoglia

Inf. III, 112-114

Come d’autunno si levan le foglie
l’una appresso de l’altra, fin che ’l ramo
vede a la terra tutte le sue spoglie

Aen. VI, 309-310

quam multa in silvis autumni frigore primo
lapsa cadunt folia ………………………………..

[LSA, cap. III, Ap 3, 3; (Ia visio, Va ecclesia)] Deinde comminatur eidem iudicium sibi occulte et inopinate superventurum si non se correxerit, unde subdit: “Si ergo non vigilaveris, veniam ad te tamquam fur”, qui scilicet venit latenter et ex improviso ut bona auferat et possessorem occidat. Unde subdit: “et horam nescies qua veniam ad te”. Iustum enim est ut qui se ipsum per negligentiam et torporem nescit, nesciat horam iudicii sui et exterminii. Talis etiam propter suas tenebras non videt lucem, ac erronee credit et optat se diu in prosperitate victurum et Dei iudicium diu esse tardandum, et etiam spe presumptuosa sperat se esse finaliter salvandum, propter quod Ia ad Thessalonicenses V° dicit Apostolus quod “dies Domini veniet in nocte sicut fur. Cum enim dixerint: pax et securitas, tunc superveniet eis repentinus interitus” (1 Th 5, 2-3). Quibus autem, scilicet sanctis, et quare non veniet sicut fur ostendit subdens: “Vos autem, fratres, non estis in tenebris, ut vos dies illa tamquam fur comprehendat; omnes enim vos estis filii lucis et diei. Igitur non dormiamus sicut et ceteri, sed vigilemus et sobrii simus. Qui enim dormiunt nocte dormiunt” et cetera (ibid., 5, 4-7).

[LSA, cap. XXI, Ap 21, 22-25 (VIIa visio)] Quod autem circa finem huius seculi amplius innotescat solaris lux sapientie Christi docet expresse Gregorius, libro IX° Moralium super illud Iob IX° (Jb 9, 9) “Qui facit Arturum et Orionem et Iadas”, dicens: «Dum, diebus singulis magis magisque scientia celestis ostenditur, quasi interni nobis luminis vernum tempus aperitur, ut novus sol nostris mentibus rutilet et doctorum verbis nobis cognitus se ipso cotidie clarior lucet. Urgente enim mundi fine superna scientia proficit et largius cum tempore excrescit. Hinc namque per Danielem dicitur: “Pertransibunt plurimi et multiplex erit scientia” (Dn 12, 4). Hinc Iohanni in priori parte revelationis angelus dicit: “Signa que locuta sunt septem tonitrua” (Ap 10, 4). Cui tamen in eiusdem revelationis termino precipit dicens: “Ne signaveris verba prophetie libri huius” (Ap 22, 10). Pars quippe revelationis anterior signari precipitur, terminus prohibetur, quia quicquid in sancte ecclesie initiis latuit, finis cotidie ostendit»*. Idem etiam docet libro IIII° Dialogorum, capitulo XLIII°**.
Et ambulabunt gentes in lumine eius” et cetera (Ap 21, 24). Simile huius partis et precedentis habes Isaie LX°. Per “gentes” autem et “reges” earum intelligit totam universitatem electorum de gentibus et earum regibus, que existens in gloria in predicto lumine ambulabit, id est diriget et faciet actus suos beatos, et totam gloriam, quam a Deo acceperunt, reddent et offerent Deo et etiam toti sancte civitati beatorum tamquam matri et cooperatrici et comministre meriti eorum et adductioni[s] eorum ad gratiam et gloriam Dei. Possunt etiam per reges intelligi spiritales prelati.
“Et porte eius non claudentur per diem” (Ap 21, 25), quasi dicat: nec timore hostium nec invidia aut avaritia vel quocumque privato amore vel ob culpam alicuius civium claudentur, immo omnia erunt patula et aperta beatis. Hic enim clauduntur quando vel predicatio iuste subtrahitur, vel aliquis pro culpa sua ab introitu ecclesie arcetur.
Quare autem non dixerit portas eius per noctem non claudi, sicut ait eas non claudi per diem, ipse declarat dicens: “Nox enim non erit illic”, id est nullus defectus lucis vel gaudii vel alicuius boni nec aliqua adversitas.

S. GREGORII MAGNI Moralia in Iob, libri I-X, cura et studio M. Adriaen, Turnholti 1979 (Corpus Christianorum. Series Latina, CXLIII), lib. IX, cap. XI, 88-100 (n. 15), p. 467 (= PL 75, col. 867 C-D).

** Cfr. GREGORII MAGNI Dialogi libri IV, a cura di U. Moricca, Roma 1924 (Fonti per la storia d’Italia, 57. Scrittori. Secolo VI), l. IV, XLIII, pp. 300-301 (= PL 77, coll. 397 D, 400 A).

Par. XXX, 124-126

Nel giallo de la rosa sempiterna,
che si digrada e dilata e redole
odor di lode al sol che sempre verna

Par. XXXI, 46-48

su per la viva luce passeggiando,
menava ïo li occhi per li gradi,
mo sù, mo giù e mo recirculando.

[LSA, cap. VI, Ap 6, 5 (IIa visio, apertio IIIii sigilli)] “Et cum aperuisset sigillum tertium, audivi tertium animal” (Ap 6, 5), scilicet quod habebat faciem hominis, “dicens: Veni”, scilicet per maiorem attentionem vel per imitationem fidei doctorum hic per hominem designatorum, “et vide. Et ecce equus niger”, id est hereticorum et precipue arrianorum exercitus astutia fallaci obscurus et erroribus luci Christi contrariis denigratus. “Et qui sedebat super eum”, scilicet imperatores et episcopi arriani, “habebat stateram in manu sua”. Cum statera mensuratur quantitas ponderum, et ideo per stateram designatur hic mensuratio articulorum fidei, que quando fit per rectam et infallibilem regulam Christi et scripturarum suarum est recta statera, de qua Proverbiorum XVI° dicitur: “Pondus et statera iudicia Domini sunt” (Pro 16, 11), et Ecclesiastici XXI°: “Verba prudentium statera ponderabuntur” (Ecli 21, 28); quando vero fit per rationem erroneam et per falsam et intortam acceptionem scripture est statera dolosa, de qua Proverbiorum XI° dicitur: “Statera dolosa abhominatio est apud Deum” (Pro 11, 1), et in Psalmo: “Mendaces filii hominum in stateris” (Ps 61, 10), et Michee VI°: “Numquid iustificabo stateram impiam et sac[c]elli pondera dolosa” (Mic 6, 11).

Inf. XXVII, 112-114, 124-132

“Francesco venne poi, com’ io fu’ morto,
per me; ma un d’i neri cherubini
li disse: ‘Non portar; non mi far torto.’

A Minòs mi portò; e quelli attorse
otto volte la coda al dosso duro;
e poi che per gran rabbia la si morse,
disse: ‘Questi è d’i rei del foco furo’;      16, 15
per ch’io là dove vedi son perduto,
e sì vestito, andando, mi rancuro”.
Quand’ elli ebbe ’l suo dir così compiuto,
la fiamma dolorando si partio,
torcendo e dibattendo ’l corno aguto.

[LSA, cap. IX, Ap 9, 5 (IIIa visio, Va tuba)] Per cruciatum autem designatur hic pungitivus remorsus conscientie et timor gehenne, qui fidelibus in gravia peccata cadentibus non potest de facili deesse. Designat etiam iram et offensam quam temporaliter dampnificati et iniuriati a predictis locustis habent contra eas […].

Inf.  XIX, 25-27, 34-36, 52-54, 61-64, 118-120

Le piante erano a tutti accese intrambe;
per che sì forte guizzavan le giunte,
che spezzate averien ritorte e strambe.

Ed elli a me: “Se tu vuo’ ch’i’ ti porti
là giù per quella ripa che più giace,
da lui saprai di sé e de’ suoi torti ”.

Ed el gridò: “Se’ tu già costì ritto,
se’ tu già costì ritto, Bonifazio?
Di parecchi anni mi mentì lo scritto.”

Allor Virgilio disse: “Dilli tosto:
‘Non son colui, non son colui che credi’ ”;
e io rispuosi come a me fu imposto.
Per che lo spirto tutti storse i piedi

E mentr’ io li cantava cotai note,
o ira o coscïenza che ’l mordesse,
forte spingava con ambo le piote.

[LSA, cap. XVI, Ap 16, 10-11 (Va visio, Va phiala)] Quia etiam tales, quando a viris spiritualibus impediti non possunt obtinere quod cupiunt, pre dolore cordis in detractionem eorum, qui se increpant, protinus erumpunt, ideo sequitur: “Et commanducaverunt linguas suas pre dolore” (Ap 16, 10). Lingue, secundum Ioachim, dicuntur hii qui habent ignem zeli Dei et ardorem loquendi contra iniurias Dei, quas increpati ab eis commanducant cum non metuunt detrahere ipsis. Vel, secundum Ricardum, linguas suas pre dolore comedunt quia proprium sermonem per invidiam et detractionem corrumpunt. Vel linguam propriam comedunt, quia intra se pre livore invidie tabescunt et se ipsos ac sui gaudii quietum saporem omnino destruunt et corrodunt. […]
“Et non egerunt penitentiam ex operibus suis” (Ap 16, 11) scilicet malis, immo, supple, amplius obstinati sunt in illis peragendis. Potest etiam effusio huius phiale exponi de pluribus corporalibus bellis et exterminiis temporalis regni ecclesie in hoc quinto tempore factis, ex quo multi per impatientiam se corroserunt et Deum blasphemaverunt.

[LSA, cap. VIII, Ap 8, 9 (IIIa visio, IIa tuba)] “Et mortua est tertia pars creature eorum, que habebant animas in mari” (Ap 8, 9), id est illa pars simplicium gentilium, qui credendo in Christum habebant animam, id est vitam gratie cum quadam tamen animalitate, et que non valuit tantam temptationem portare et vincere, “et mortua est” a vita fidei apostatando ab ea.
“Et tertia pars navium interiit”, scilicet illa pars fidelium doctorum, qui verbo et exemplo et elemosinarum suffragio vel aliis piis obsequiis portabant et deducebant alios per mare gentilium quasi naves eorum, que nequivit vel noluit tantam persecutionem pati, interiit apostatando a fide.
Vel, secundum Ricardum, per habentes animas intelliguntur hii qui inter gentiles videbantur magis rationales; per naves vero hii qui aliorum erant vectores et sustentatores, qui quidem fidem respuendo et in infidelitate permanendo eterne morti deputati disperierunt.

[LSA, cap. IX, Ap 9, 17.19 (IIIa visio, VIa tuba)] “Et capita equorum erant quasi capita leonum” […] Rabies vero iracundie terribilis et crudelis et comminationum eius est apta ad flectendum et subiciendum omnes pusillanimes ad illorum votum et sectam.

[LSA, cap. XII, Ap 12, 12 (IVa visio, IIum prelium)] Deinde explicat augmentum mali quod ex prefata diaboli deiectione subsequuntur terrestres et tempestuosi, unde subdit: “Ve terre”, id est terrenis et terrena amantibus, “et mari”, id est infidelibus vel quibuscumque tempestuosis per varia vitia fluctuantibus et per sevitiam amaris, “quia descendit diabolus ad vos”, scilicet per ampliorem potestatem vos temptandi sibi iuste permissam, quia scilicet tempore tante salutis et victorie per Christum et eius martires obtente, et manifesto exemplo et documento orbi toti ostense, aut nullatenus aut non sufficienter estis eos secuti. “Descendit” etiam “ad vos diabolus” plusquam ante, propter maiorem voluntatem et conatum vos gravius temptandi. Unde subditur: “habens iram magnam”, scilicet se ulciscendi de sua tanta deiectione facta a Christo et a sanctis, et quia non potest se ulcisci in eis vult saltem se ulcisci in nos. Habet etiam “iram magnam” ad hoc ut omne malum implendum, tamquam “sciens quod modicum tempus habet”, scilicet ad temptandum, id est quia scit tempus extremi iudicii cito venturum, et etiam quia scit magnam potestatem temptandi sibi interim super electos esse ablatam usque prope seculi finem, quo est iterum solvendus.

 

15. Ab utero matris

I subdoli inganni insinuati nei fedeli, nuovi martiri che soffrono nel dubbio sulle verità di fede, non scusano la caduta nella colpa, che è sempre volontaria. Il grande Anticristo sarà, come Lucifero, apostata volontario da un alto stato, dotato di sottile astuzia nell’escogitare frodi. In tal modo Olivi esclude l’opinione di quanti, come Adso Dervensis o Ildegarda di Bingen, lo avevano ritenuto corrotto dal diavolo “ab utero matris”, quasi scusando per acrasia e necessità la sua colpa [1].
Come sopra considerato, il canovaccio di Ap 10, 1-3 non è recitato solo da Tommaso d’Aquino nel narrare la vita di Francesco. Lo si ritrova, variato, nell’elogio di san Domenico che Bonaventura pronuncia nel canto seguente. Anche per il santo atleta si parla di “viva vertute” infusa da Dio nella sua mente al momento della creazione (Par. XII, 58-60). In questi versi, riferiti all’essere perciò la madre di Domenico resa profeta del futuro del figlio, sono presenti anche i motivi, da Ap 13, 11, offerti dalla questione se l’Anticristo verrà o meno guidato dal diavolo fin dal ventre materno, e ciò per decisione della prescienza divina, non unico caso nel poema di metamorfosi in bonam partem di temi negativi nell’esegesi teologica.
Gli stessi temi, in senso negativo, sono appropriati all’astuto Guido da Montefeltro (Inf. XXVII, 73-78).

[1] Cfr. ADSO DERVENSIS, De ortu et tempore Antichristi … edidit D. Verhelst, Turnholti 1976 (Corpus Christianorum. Continuatio Mediaevalis, XLV), p. 23, ll. 34-38; HILDEGARDIS Scivias, pars III, visio XI, 25 («De Antichristo et matre eius»), ed. A. Führkötter – A. Carlevaris, Turnholti 1978 (CCCM, XLIIIa), p. 590 (= PL 197, col. 717); MANSELLI, La «Lectura super Apocalipsim»pp. 71-72.

Tab. 15

[LSA, cap. XIII, Ap 13, 11 (IVa visio, VIum prelium)] Michi autem non est cure magne an ille, qui proprie erit Antichristus et qui adorabitur ut Deus et qui dicet se messiam Iudeorum, sit rex vel pseudopapa vel simul utrumque. Sufficit enim michi scire quod erit fallax et Christo contrarius.
Quod autem quidam opinati sunt et scripserunt, istum ab infantia et ab utero matris esse a diabolo educandum et edocendum et quasi a diabolo esse ab initio replendum et habitandum, et quod Deus hoc permittet tamquam prescius sue future malitie, non videtur quibusdam esse verisimile.
Primo quidem quia hoc esset in magnam excusationem et alleviationem suorum peccatorum, quia secundum hoc non quasi ex se sed tamquam ab utero totus a diabolo actus faceret malum. Ex hoc autem sequeretur quod ipse non esset unus de summe culpabilibus, cuius contrarium sancti tenent.
Secundo quia non decet Deum permittere quod sic ab utero matris totus quasi necessario seducatur et ad tanta mala perpetranda impellatur.
Tertio quia secundum hoc non esset eius culpa simillima culpe Luciferi, qui ab altissimo et rectissimo statu in quo conditus fuerat voluntarie apostatavit et apostatice corruit. Et ideo non improbabiliter a doctoribus estimatur quod ipse erit apostata a statu christianitatis et altissime religionis, propter quod callidius sciet simulare multa ad religionem spectantia et subtilius excogitare fraudulentos errores sue astutissime et dolosissime doctrine et legis. Huic autem opinioni consonat verbum Apostoli IIa ad Thessalonicenses II° (2 Th 2, 3). Nam ubi nostra littera habet: “nisi venerit discessio primum, et revelatus fuerit homo peccati” et cetera, secundum Ieronimum [ad] Algasiam, questione XIa, habetur in greco: “nisi venerit apostasia primum”. Et alia littera habet: “nisi venerit refuga primum”.

Inf. XXVII, 73-78

Mentre ch’io forma fui d’ossa e di polpe
che la madre mi diè, l’opere mie
non furon leonine, ma di volpe.
Li accorgimenti e le coperte vie
io seppi tutte
, e sì menai lor arte,
ch’al fine de la terra il suono uscie.

Par. XII, 58-60

e come fu creata, fu repleta
sì la sua mente di viva vertute
che, ne la madre, lei fece profeta.

 

 

16. Le nozze con la Fede

■ Francesco si unì a Povertà, Domenico sposò la Fede. Il matrimonio è il sacramento proprio del sesto stato della Chiesa (prologo, Notabile XIII). Questa, come una sfera, ritorna al suo apostolico principio, dotata di tutte le illuminazioni degli stati precedenti, allorché la luce della luna diventa uguale a quella del sole, secondo il passo di Isaia 30, 26 che costituisce l’incipit della Lectura.

Tab. 16.1

[LSA, prologus, Notabile XIII] Matrimonium vero nuptiarum Christi et ecclesie congruit sexto statui, unde in sexta visione pro ipso dicitur: “Gaudeamus et exultemus, quia venerunt nuptie Agni et uxor eius preparavit se” (Ap 19, 7).

Par. XI, 61-63

e dinanzi a la sua spirital corte
e coram patre le si fece unito ;
poscia di dì in dì l’amò più forte.

Par. XII, 61-63

Poi che le sponsalizie fuor compiute
al sacro fonte intra lui e la Fede,
u’ si dotar di mutüa salute

[LSA, prologus] Septimum est quare sextus status semper describitur ut notabiliter preeminens quinque primis et sicut finis priorum et tamquam initium novi seculi evacuans quoddam vetus seculum, sicut status Christi evacuavit vetus testamentum et vetustatem humani generis, unde et quasi circulariter sic iungitur primo tempori Christi ac si tota ecclesia sit una spera et ac si in sexto eius statu secundo incipiat status Christi habens sua septem tempora sicut habet totus decursus ecclesie, sic tamen quod septimus status sexti sit idem cum septimo statu totius ecclesie. Et iterum quare sexta et septima visio principaliter describunt solum finalem statum ecclesie, coannexe vero et quasi non ex principali intento describunt tempora priorum quinque statuum.

■ Appartiene al sesto stato salvare l’eredità, cioè il seme della fede (Ap 2, 1); il nome della sesta chiesa d’Asia, Filadelfia, è interpretato come “amor fratris” (Ap 3, 7). La Fede non fu solo appannaggio di Domenico il quale, da questa salvato, la salvò a sua volta combattendo per il “semen fidei” (Par. XII, 61-63, 94-96). Anche Francesco, prima di morire, “a’ frati suoi, sì com’ a giuste rede, / raccomandò la donna sua più cara, / e comandò che l’amassero a fede” (Par. XI, 112-114). Fidelis, iustitia, heres : sono attributi di Cristo vittorioso sull’Anticristo (Ap 19, 11.16): le qualità vengono ripartite fra i seguaci di Francesco (“giuste rede”) e di Domenico (“il mirabile frutto / ch’uscir dovea di lui e de le rede”: Par. XII, 65-66).

Tab. 16.2

[LSA, cap. II, Ap 2, 1 (Ia visio, VIa ecclesia)] Sexta (ecclesia) autem dicitur habere hostium scripturarum [ac] predicationis et cordium convertendorum apertum, et quod Iudei debent ad eam cum summa humilitate adduci, et quod est servanda ne cadat in temptationem toti orbi venturam, quia Dei consilia et mandata longanimiter et patienter servavit, que utique competunt statui sexto. Unde et congrue vocatur Philadelphia, id est salvans hereditatem, quia in regula evangelica, quasi in archa Noe, salvabitur semen fidei et electorum a diluvio Antichristi tam mistici quam aperti.

[LSA, cap. III, Ap 3, 7; Ia visio, VIa ecclesia] Unde congrue nomen huius sexte ecclesie, scilicet Philadelphia, non solum interpretatur salvans hereditatem, prout tactum est supra, sed etiam amor fratris, prout dicit Ricardus*. Nam in sexto statu, qui est tertius generalis status populi Dei, anthonomasice complebitur illud quod in tertia parte Cantici Canticorum dicit sponsa ad sponsum (Cn 8, 1-2): “Quis michi det te fratrem meum suggentem ubera matris mee, ut inveniam te solum foris et [de]obsculer? Apprehendam te et ducam in domum matris mee”, scilicet sinagoge tunc temporis convertende.

In Ap I, xi (PL 196, col. 742 C).

[LSA, cap. XIX, Ap 19, 11 (VIa visio)] “Et qui sedebat super eum”, scilicet per personalem unionem et presidentiam, “vocabatur fidelis et verax”, scilicet in  attendendo promissa et in docendo vera absque omni fraude et mendacio. […]
“Et habet in vestimento et femore suo scriptum: Rex regum et Dominus dominantium” (Ap 19, 16). In vestimento designatur iustitia ; in femore autem propagatio prolis, seu vis equitativa et processiva. Quidam enim dominantur quia dignis operibus hoc iuste promerentur, quidam vero quia sunt filii et heredes regum aut quia per fortem et [strenuam] potentiam regnum victoriose obtinuerunt. Utroque autem modo competit Christo esse regem regum. Nam ipse est consubstantialis Filius Dei Patris et naturalis heres omnium bonorum eius. Ipse etiam per passionem meruit nomen quod est super omne nomen, et per triumphalem potentiam hoc victoriose obtinuit. Item in vestimento sue humanitatis et in femore sue carnis inscripsit Deus regiam maiestatem et potestatem deitatis et persone Filii, quando ipsam personaliter univit sue humanitati et carni.

Par. XI, 112-114

a’ frati suoi, sì com’ a giuste rede,
raccomandò la donna sua più cara,
e comandò che l’amassero a fede 

ParXII, 61-66, 94-96

Poi che le sponsalizie fuor compiute
al sacro fonte intra lui e la Fede,
u’ si dotar di mutüa salute,
la donna che per lui l’assenso diede,
vide nel sonno il mirabile frutto
ch’uscir dovea di lui e de le rede

addimandò, ma contro al mondo errante
licenza di combatter per lo seme
del qual ti fascian ventiquattro piante.

 

■ la donna che per lui l’assenso diede (Par. XII, 64)

Ad Ap 3, 2-3 il vescovo di Sardi, la quinta chiesa d’Asia (prima visione) viene invitato a ricordare con la mente quale fosse la “prima grazia” e il suo stato e a conservarla, cioè la grazia ricevuta da Dio e ascoltata tramite la predicazione evangelica. Da quanto gli viene detto, si deduce che costui era tanto intorpidito nell’ozio da non ricordare più il primo stato di grazia e di perfezione. Se non si ravvedrà vigilando, il giudizio divino verrà da lui come un ladro. [Per un esame compiuto di questa esegesi, cfr. Il sesto sigillo, cap. 2b].

La rosa dei temi contenuti nell’esegesi di Ap 3, 2-3 percorre il poema con multiformi variazioni. Smarrirsi (“Ille enim dormit, qui in peccatis quiescit quasi sopitus … sic fuit otiosus et torpens, quod in mente non habuit qualiter acceperit et audierit statum et gratiam sue perfectionis, et quod ideo sic corruit”), non sapere («“et horam nescies qua veniam ad te” … qui se ipsum per negligentiam et torporem nescit»), tardare (“optat se diu in prosperitate victurum et Dei iudicium diu esse tardandum”), ripensare attentamente un primo stato di grazia, qual era («“In mente ergo habe”, id est attente recogita, “qualiter acceperis”, scilicet a Deo priorem gratiam … si digne recogitaveris gratiam tibi prius impensam et qualiter prius accepisti eandem»), udire (“illa que per predicationem audisti et per influxum gratie a Deo primitus accepisti”), vigilare (“Si ergo non vigilaveris … Igitur non dormiamus sicut et ceteri, sed vigilemus et sobrii simus”), serbare la fede acquisita per proprio consenso («Vel recogita qualiter per proprium consensum accepisti fidem et gratiam et statum eius … “Et serva”»): sono temi che si ritrovano alternati, intrecciati e variati in più luoghi della Commedia. Si rinvengono nello smarrimento di Dante nella “selva oscura” (Inf. I, 1-12) e nella “diserta piaggia”, di cui ha udito Beatrice che teme di aver tardato nel soccorso (Inf. II, 61-66); si registrano nell’ascoltare Virgilio (Inf. V, 70-72; XIII, 20-24) o il “parlar … nemico” di Farinata (Inf. X, 121-129), o ancora di fronte al folgorante sguardo di Beatrice (Par. IV, 139-142) o nella visione finale di fronte al raggio divino (Par. XXXIII, 76-81). Sono appropriati a dannati antichi (Nembrot, Purg. XII, 34-36) e moderni (Vanni Fucci, Inf. XXIV, 112-117), ai purganti nella valletta dei principi (Purg. VIII, 58-63); sono ancora presenti nell’appello ai lettori di Par. II, 1-15.

Ricordare ciò che venne ‘prima’, congiunto con il tema della bellezza degli inizi di uno stato poi corrottosi (Sardi, la chiesa del quinto stato, viene interpretata come “principium pulchritudinis”), si trasforma nel ricordo di quella che per i poeti antichi fu “l’età de l’oro e suo stato felice” (Purg. XXVIII, 139-144), de “lo secol primo, quant’ oro fu bello”, di cui dice la voce entro le fronde dell’albero che taglia la strada sulla soglia del sesto girone della montagna (Purg. XXII, 148-150). Così l’apparizione di Matelda nell’Eden fa ricordare a Dante quale era Proserpina allorché, rapita da Plutone, perdette la «prima-vera», cioè i fiori raccolti assimilati alla prima grazia (Purg. XXVIII, 49-51; da notare la corrispondenza tra “qualiter” e “qual era”).

Si consideri, in particolare, la dottrina del libero arbitrio esposta da Virgilio (Purg. XVIII, 46-75). “Principio là onde si piglia /  ragion di meritare in voi”, il libero arbitrio è virtù innata “che consiglia, / e de l’assenso de’ tener la soglia”; è “nobile virtù” alla quale bisogna sempre ripensare affinché ogni atto volitivo “si raccoglia” alla “prima voglia”, innata per grazia divina. È dunque assimilato allo stato edenico da ricordare, e non a caso Virgilio, sulla soglia del Paradiso terrestre, dice a Dante: “libero, dritto e sano è tuo arbitrio, / e fallo fora non fare a suo senno” (Purg. XXVII, 140-141). Da confrontare quanto detto del libero arbitrio (“e de l’assenso de’ tener la soglia”) con l’assenso dato per Domenico dalla madrina in occasione del battesimo (Par. XII, 64): in entrambi i casi, della fede e della prima voglia, c’è una grazia data gratuitamente sulla quale deve esercitarsi il consenso (“Vel recogita qualiter per proprium consensum accepisti fidem et gratiam et statum eius”).

Gli stessi motivi servono a Beatrice per affermare la resurrezione dei corpi (Par. VII, 145-148). Dante, dice la donna, deve ripensare “come l’umana carne fessi allora / che li primi parenti intrambo fensi”. A differenza della tradizione teologica, Dante afferma che il corpo è stato creato immortale e lo è per sua stessa natura (poi corrotta dal peccato), e non per privilegio preternaturale conferitogli per virtù dell’anima. Indipendentemente da quelle che possono essere le posizioni dell’Olivi al riguardo, la creazione della carne umana è fasciata dai temi, tratti dalla Lectura super Apocalipsim, relativi a uno stato di grazia e di perfezione da ben riguardare con la mente, utilizzati da Virgilio per descrivere l’origine del libero arbitrio.
Ripensare la prima grazia, oppure qualcosa che si è ascoltato prima: “se tu ripensi / come l’umana carne fessi allora /che li primi parenti intrambo fensi (Par. VII, 146-148) … come i pastor che prima udir quel canto (Purg. XX, 140)”. Ancora sullo stesso panno teologico sono cuciti sia l’invito di Beatrice a ripensare la creazione dell’uomo sia il ricordo dei pastori che per primi ascoltarono il Gloria in excelsis Deo cantato dagli angeli sulla stalla di Betlemme, canto che si rinnova al momento in cui Virgilio e Dante lasciano il quinto girone della montagna, in cammino verso il sesto, grido che accompagna il forte terremoto, anch’esso ripetizione della sconvolgente predicazione di Cristo e segno dell’apertura del sesto sigillo, del libero ascendere interiore e, politicamente, del ritorno del seme di Federico II, vittorioso sul regno di Francia.
Dalla stessa Beatrice, i motivi sono invece appropriati a Dio in senso negativo: “né prima quasi torpente si giacque”, né ebbe un “prima” o un poi, nel suo “discorrer … sovra quest’ acque” (Par. XXIX, 19-21).

Tab. 16.3

[LSA, cap. III, Ap 3, 2-3 (Ia visio, Va ecclesia)] “Esto vigilans” (Ap 3, 2), id est non torpens vel dormiens, sed attente sollicitus de salute tua. Ille enim dormit, qui in peccatis quiescit quasi sopitus et negligit curare de salute anime sue. Quia vero iste, tamquam episcopus, tenebatur sollicite curare non solum de sua salute sed etiam subditorum suorum, ideo pro utroque monetur ut vigilet. […]
In mente ergo habe” (Ap 3, 3), id est attente recogita, “qualiter acceperis”, scilicet a Deo priorem gratiam, “et audieris”, ab homine scilicet per predicationem evangelicam, “et serva”, scilicet illa que per predicationem audisti et per influxum gratie a Deo primitus accepisti. Vel recogita qualiter per proprium consensum accepisti fidem et gratiam et statum eius, prout a me et a ceteris tibi predicantibus audivisti. “Et serva” ea “et penitentiam age”, scilicet de tuis malis, quasi dicat: si digne recogitaveris gratiam tibi prius impensam et qualiter prius accepisti eandem, servabis eam et penitentiam ages.
Innuit etiam per hoc quod sic fuit otiosus et torpens, quod in mente non habuit qualiter acceperit et audierit statum et gratiam sue perfectionis, et quod ideo sic corruit. Que quidem nimis correspondenter patent in hoc cursu novissimo quinti temporis ecclesiastici.
Deinde comminatur eidem iudicium sibi occulte et inopinate superventurum si non se correxerit, unde subdit: “Si ergo non vigilaveris, veniam ad te tamquam fur”, qui scilicet venit latenter et ex improviso ut bona auferat et possessorem occidat. Unde subdit: “et horam nescies qua veniam ad te”. Iustum enim est ut qui se ipsum per negligentiam et torporem nescit, nesciat horam iudicii sui et exterminii. Talis etiam propter suas tenebras non videt lucem, ac erronee credit et optat se diu in prosperitate victurum et Dei iudicium diu esse tardandum, et etiam spe presumptuosa sperat se esse finaliter salvandum, propter quod Ia ad Thessalonicenses V° dicit Apostolus quod “dies Domini veniet in nocte sicut fur. Cum enim dixerint: pax et securitas, tunc superveniet eis repentinus interitus” (1 Th 5, 2-3). Quibus autem, scilicet sanctis, et quare non veniet sicut fur ostendit subdens: “Vos autem, fratres, non estis in tenebris, ut vos dies illa tamquam fur comprehendat; omnes enim vos estis filii lucis et diei. Igitur non dormiamus sicut et ceteri, sed vigilemus et sobrii simus. Qui enim dormiunt nocte dormiunt” et cetera (ibid., 5, 4-7).

Inf. I, 1-12; XX, 127-129

Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura,
ché la diritta via era smarrita.
Ahi quanto a dir qual era è cosa dura
esta selva selvaggia e aspra e forte
che nel pensier rinova la paura!
Tant’ è amara che poco è più morte;
ma per trattar del ben ch’i’ vi trovai,
dirò de l’altre cose ch’i’ v’ho scorte.
Io non so ben ridir com’ i’  v’intrai,
tant’ era pien di sonno
a quel punto
che la verace via abbandonai.

e già iernotte fu la luna tonda:
ben ten de’ ricordar, ché non ti nocque
alcuna volta per la selva fonda.

Inf. II, 61-66; V, 70-72; X, 121-129

l’amico mio, e non de la ventura,
ne la diserta piaggia è impedito
sì nel cammin, che vòlt’ è per paura;
e temo che non sia già smarrito,
ch’io mi sia tardi al soccorso levata,
per quel ch’i’ ho di lui nel cielo udito.

Poscia ch’io ebbi ’l mio dottore udito
nomar le donne antiche e ’ cavalieri,
pietà mi giunse, e fui quasi smarrito.

Indi s’ascose; e io inver’ l’antico
poeta volsi i passi, ripensando
a quel parlar che mi parea nemico.
Elli si mosse; e poi, così andando,
mi disse: “Perché se’  tu  sì smarrito?”.
E io li sodisfeci al suo dimando.
La mente tua conservi quel ch’udito
hai contra te”, mi comandò quel saggio;
“e ora attendi qui”, e drizzò ’l dito

Inf. XIII, 20-24

“Però riguarda ben; sì vederai
cose che torrien fede al mio sermone”.
Io sentia d’ogne parte trarre guai
e non vedea persona che ’l facesse;
per ch’io tutto smarrito m’arrestai.

Inf. XXIV, 112-117

E qual è quel che cade, e non sa como,
per forza di demon ch’a terra il tira,
o d’altra oppilazion che lega l’omo,
quando si leva, che ’ntorno si mira
tutto smarrito de la grande angoscia
ch’elli ha sofferta, e guardando sospira

Par. II, 1-15

O voi che siete in piccioletta barca,
desiderosi d’ascoltar, seguiti
dietro al mio legno che cantando varca,
tornate a riveder li vostri liti:
non vi mettete in pelago, ché forse,
perdendo me, rimarreste smarriti.
L’acqua ch’io prendo già mai non si corse;
Minerva spira, e conducemi Appollo,
e nove Muse mi dimostran l’Orse.
Voialtri pochi che drizzaste il collo
per tempo al pan de li angeli, del quale
vivesi qui ma non sen vien satollo,
metter potete ben per l’alto sale
vostro navigio, servando mio solco
dinanzi a l’acqua che ritorna equale.

Par. XXIX, 19-21

Né prima quasi torpente si giacque;
ché né prima né poscia procedette
lo discorrer di Dio sovra quest’ acque.

 

Purg. XVIII, 55-66, 73-76

Però, là onde vegna lo ’ntelletto
de le prime notizie, omo non sape,
e de’ primi appetibili l’affetto,
che sono in voi sì come studio in ape
di far lo mele; e questa prima voglia
merto di lode o di biasmo non cape.
Or perché a questa ogn’ altra si raccoglia,
innata v’è la virtù che consiglia,
e de l’assenso de’ tener la soglia.
Quest’ è ’l principio là onde si piglia
ragion di meritare in voi, secondo
che buoni e rei amori accoglie e viglia.

La nobile virtù Beatrice intende
per lo libero arbitrio, e però guarda
che l’abbi a mente
, s’a parlar ten prende.
La luna, quasi a mezza notte tarda ……

Par. XII, 61-69

Poi che le sponsalizie fuor compiute
al sacro fonte intra lui e la Fede,
u’ si dotar di mutüa salute,
la donna che per lui l’assenso diede,
vide nel sonno il mirabile frutto
ch’uscir dovea di lui e de le rede;
e perché fosse qual era  in costrutto,
quinci si mosse spirito a nomarlo
del possessivo di cui era tutto.

Par. VII, 145-148

E quinci puoi argomentare ancora
vostra resurrezion, se tu ripensi
come l’umana carne fessi allora
che li primi parenti intrambo fensi.

Purg. VIII, 58-63

“Oh!”, diss’ io lui, “per entro i luoghi tristi
venni stamane, e sono in prima vita,
ancor che l’altra, sì andando, acquisti”.
E come fu la mia risposta udita,
Sordello ed elli in dietro si raccolse
come gente di sùbito smarrita.

Purg. XII, 34-36

Vedea Nembròt a piè del gran lavoro
quasi smarrito, e riguardar le genti
che ’n Sennaàr con lui superbi fuoro.

Purg. XX, 139-141

No’ istavamo immobili e sospesi
come i pastor che prima udir quel canto,
fin che ’l tremar cessò ed el compiési.

Purg. XXII, 148-150

Lo secol primo, quant’ oro fu bello,
fé savorose con fame le ghiande,
e nettare con sete ogne ruscello.

Purg. XXVIII, 22-24, 49-51

Già m’avean trasportato i lenti passi
dentro a la selva antica  tanto, ch’io
non potea rivedere ond’ io mi ’ntrassi

Tu mi fai rimembrar dove e qual era
Proserpina nel tempo che perdette
la madre lei, ed ella primavera”.

Par. IV, 139-142

Beatrice mi guardò con li occhi pieni
di faville d’amor così divini,
che, vinta, mia virtute diè le reni,
e quasi mi perdei con li occhi chini.

Par. XXXIII, 76-81

Io credo, per l’acume ch’io soffersi
del vivo raggio, ch’i’ sarei smarrito,
se li occhi miei da lui fossero aversi.
E’ mi ricorda ch’io fui più ardito
per questo a sostener, tanto ch’i’ giunsi
l’aspetto mio col valore infinito.

 

■ È stata rilevata l’importanza del tema della fede e del battesimo, per Domenico e per Dante stesso: a sottolineare la missione di entrambi, viene usato il termine fonte (per Domenico appropriato alle nozze con la Fede) [1].
Ad Ap 21, 12.21, nell’esegesi della disposizione delle parti della Gerusalemme celeste [2], è detto che l’ingresso nella fede è avvenuto attraverso le porte di Cristo e degli apostoli; avverrà ancora attraverso i dottori del sesto stato della Chiesa: “Sicut enim apostolis magis competit esse cum Christo fundamenta totius ecclesie et fidei christiane, sic istis plus competet esse portas apertas et apertores seu explicatores sapientie christiane” (Ap 21, 21). Questo tipo di ingresso vale per Domenico e per Dante, che hanno ripetuto nel sesto stato il battesimo, sacramento speculare al primo stato di fondazione della Chiesa (prologo, Notabile XIII): “Poi che le sponsalizie fuor compiute / al sacro fonte intra lui e la Fede, u’ si dotar di mutüa salute” –  “e in sul fonte / del mio battesmo prenderò ’l cappello; / però che ne la fede, che fa conte / l’anime a Dio, quivi intra’ io, e poi / Pietro per lei sì mi girò la fronte” (Par. XII, 61-63; XXV, 8-11). Il rinnovato battesimo reca le vestigia della “signatio” sulla fronte, che avviene in apertura del sesto sigillo (Ap 7, 3).
La fede, come la Chiesa, ha un suo sviluppo secondo gli stati. Ciascun dono dello Spirito può essere distinto in sette parti. Il terzo dono, la “tuba magistralis”, espone la fede secondo sette parti (prologo, Notabile III). La prima parte, volta a seminare la fede, corrisponde al sacramento del battesimo: in questo senso sono da intendere, a Inf. IV, 36, le parole di Virgilio sul battesimo “ch’è parte de la fede che tu credi” (dove tutti i codici, salvo il Cortonese, su revisione, nell’edizione dell’antica vulgata del Petrocchi, recano parte e non porta, come reca invece lo stesso editore). Parte è da interpretare come ‘prerogativa’, ‘qualità’, propria dei singoli sette doni dello Spirito increato, uno semplicissimo ma ‘partito’ nella storia della Chiesa, divisa secondo sette stati. Si è pertanto, in questo caso, di fronte a un significato diverso da quello di ‘ingresso nella fede’ recato da Par. XXV, 8-11 (cfr. Par. XXXII, 19-21, dove il termine muro, accostato a fede, presuppone un’entrata).

 

[1] Cfr. G. LEDDA, S. Domenico e l’Ordine dei predicatori nella Commedia di Dante, in “Memorie Domenicane”, 39 (2008), 243-270 : 257-258, 265-266.

[2] Per questa esegesi, alla quale rinviano numerosi luoghi del poema, cfr. La settima visione, I.2.

Tab. 16.4

[LSA, cap. XXI, Ap 21, 12 (VIIa visio)] Nota etiam quod ad hedificand[a]m urbem primo invenitur locus et fodiuntur fossata, secundo ibi ponuntur fundamenta et hedificantur muri, tertio statuuntur porte et hedificantur domus. Primum autem horum pertinet ad primum statum, qui fuit ante Christum humanatum; secundum vero ad secundum, tertium autem ad tertium. Primo enim electus est populus Israel, ut fieret in eo preparatio huius nobilis civitatis. Secundo in adventu Domini electi sunt duodecim apostoli, ut essent in fundamentis civitatis, et post ipsos filii in fide de populo gentili, ut transirent in muros civitatis. Cum autem venerit tempus conversionis Israel et iterum totius orbis, tunc statuentur duodecim porte duodecim apostolis similes, per quas universus populus fidelis intret civitatem. Attamen in quolibet statu possunt omnes partes civitatis mistice adaptari, nec mirum, quia sicut diversa possunt significari per idem, sic unum et idem potest per plura significari. Nam Christus est fundamentum secundum Apostolum, Ia ad Corinthios III° (1 Cor 3, 10-11); et porta seu hostium et etiam hostiarius, prout dicitur Iohannis X° (Jo 10, 3/9); et murus et antemurale, prout dicitur Isaie XXVI° (Is 26, 1). Apostoli etiam fuerunt fundamenta ecclesie, prout dicitur ad Ephesios II° (Eph 2, 20); fuerunt etiam porte per quas infideles intraverunt ad fidem et ecclesiam Christi. Sed ad presens sufficit predictum modum tamquam principaliorem breviter exponere. Dicit ergo: “Et habebat murum magnum et altum” (Ap 21, 12). […]
(Ap 21, 21) Sciendum igitur quod, licet per apostolos et per alios sanctos secundi status generalis ecclesie intraverit multitudo populorum ad Christum tamquam per portas civitatis Dei, nichilominus magis appropriate competit hoc principalibus doctoribus tertii generalis status, per quos omnis Israel et iterum totus orbis intrabit ad Christum. Sicut enim apostolis magis competit esse cum Christo fundamenta totius ecclesie et fidei christiane, sic istis plus competet esse portas apertas et apertores seu explicatores sapientie christiane.

Inf. IV, 34-36

ch’ei non peccaro; e s’elli hanno mercedi,
non basta, perché non ebber battesmo,
ch’è porta de la fede che tu credi
         parte

Par. XXV, 8-11; XXXII, 19-21

…………………..e in sul fonte
del mio battesmo prenderò ’l cappello;
però che ne la fede, che fa conte
l’anime a Dio, quivi intra’ io ……

perché, secondo lo sguardo che fée
la fede in Cristo, queste sono il muro
a che si parton le sacre scalee.

[LSA, prologus, Notabile III] Quarta ratio est quia quodlibet predictorum septem donorum potest subdistingui in septem partes sive proprietates, ita quod prima a proprietate correspondet primo statui et secunda secundo et sic de aliis, ut sic sint septies septem. […] De tertio (dono) etiam patet. Nam magistralis tuba seu expositio intendit fidei et eius scientie seminande (I), et deinde radicande seu roborande (II), deinde explicande (III), deinde amplexande (IV), deinde contemperande, unicuique scilicet secundum suam proportionem (V); intendit etiam finaliter eam imprimere et sigillare (VI) et tandem glorificare seu glorificatam exhibere (VII). Et patet correspondentia primi ad primum statum et secundi ad secundum et sic de aliis.

[LSA, prologus, Notabile XIII] Quia primus status fundationis ecclesie conformatur baptismali regenerationi.

 

17. Felice, Giovanna, Domenico

Beatrice è nome di alto significato: la beatitudo è infatti la causa finale del libro dell’Apocalisse (Ap 1, 3). La donna di Dante significa anche alleluia, cioè “loda di Dio vera”, come la chiama Lucia (Inf. II, 103). A lei sono dunque appropriati due nomi per tradizione non interpretabili: apocalipsis e alleluia. I genitori di Domenico richiamano anch’essi l’esegesi iniziale del libro. Felice equivale a beato; Giovanna, “se, interpretata, val come si dice”, significa “gratia Dei”, come per grazia di Dio furono rivelate a Giovanni le cose che debbono avvenire presto (Ap 1, 1). Domenico è poi nome che rinvia al giorno dell’ “apocalisse”, poiché Giovanni ebbe la visione “in dominica die” (Ap 1, 10).
L’esegesi dei primi versetti dell’Apocalisse è stata esaminata altrove.

Tab. 17

[LSA, cap. I, Ap 1, 1] “Apocalipsis Ihesu Christi” (Ap 1, 1). Liber iste dividitur in exordium seu prohemium et narrationem et conclusionem. Narratio autem incipit ibi (Ap 1, 9): “Ego Iohannes frater vester”. Conclusio vero circa finem libri, ibi (Ap 22, 6): “Et dixit michi: Hec verba fidelissima sunt et vera”. In prohemio autem et conclusione commendat et magnificat prophetiam huius libri, ut sit susceptibilior et fide dignior et ut attentius et amabilius ac timoratius suscipiatur.
In titulo autem explicatur quadruplex causa huius libri, scilicet formalis, quia est per revelationem traditus propter quod vocatur “apocalipsis”, et est nomen grecum et est idem quod revelatio latine (ab apo, quod est re, et calipso, quod est velo seu operio).
Potest autem hic sumi revelatio tam pro actu revelantis quam pro actu suscipientis seu videntis quam pro obiecto, id est pro re visa et revelata in quantum subest tali actui, id est in quantum est revelata.
Nota etiam quod potius dicit revelatio quam visio, quia magis significat donum et gratiam revelantis et archanam occultationem eius, nisi dono Dei eius velamen auferatur seu aperiatur.
Nota etiam quod hoc nomen grecum, scilicet “apocalipsis”, remansit hic non interpretatum latine in signum singularis arduitatis et reverentie huius revelationis, sicut ‘amen’ et ‘alleluia’ non sunt apud nos ex hebreo in latinum interpretata in signum sacre reverentie eorum.
Tangit etiam causam efficientem quadruplicem. Principalis enim est Deus, secundaria Christus in quantum homo, media vero angelus, proxima vero Iohannes. Et ideo dicit quod est “apocalipsis Ihesu Christi” (Ap 1, 1), id est a Ihesu Christo facta, “quam dedit illi Deus”, scilicet Pater et tota Trinitas; “dedit”, inquam, non solum ut eam sciret, sed etiam “palam facere”, id est ad manifestandum, “servis suis que oportet fieri cito”.

Purg. XXXI, 133-145

“Volgi, Beatrice, volgi li occhi santi”,
era la sua canzone, “al tuo fedele
che, per vederti, ha mossi passi tanti!
Per grazia fa noi grazia che disvele
a lui la bocca tua, sì che discerna
la seconda bellezza che tu cele”.
O isplendor di viva luce etterna,
chi palido si fece sotto l’ombra
sì di Parnaso, o bevve in sua cisterna,
che non paresse aver la mente ingombra,
tentando a render te qual tu paresti
là dove armonizzando il ciel t’adombra,
quando ne l’aere aperto ti solvesti?

Par. XII, 79-81

Oh padre suo veramente Felice!
oh madre sua veramente Giovanna,
se, interpretata, val come si dice!

Par. XVII, 127-128; XXV, 94-96

Ma nondimen, rimossa ogne menzogna,
tutta tua visïon fa manifesta

e ’l tuo fratello assai vie più digesta,
là dove tratta de le bianche stole,
questa revelazion ci manifesta.

Par. III, 46-48

I’ fui nel mondo vergine sorella;
e se la mente tua ben sé riguarda,
non mi ti celerà l’esser più bella

Par. VII, 7-16

ed essa e l’altre mossero a sua danza,
e quasi velocissime faville
mi si velar di sùbita distanza.
Io dubitava e dicea ‘Dille, dille!’
fra me, ‘dille’ dicea, ‘a la mia donna
che mi diseta con le dolci stille’.
Ma quella reverenza che s’indonna       19, 10
di tutto me, pur per Be e per ice,
mi richinava come l’uom ch’assonna.
Poco sofferse me cotal Beatrice ……      1, 3

Par. XXIX, 130-135

Questa natura sì oltre s’ingrada
in numero, che mai non fu loquela
né concetto mortal che tanto vada;
e se tu guardi quel che si revela
per Danïel, vedrai che ’n sue migliaia
determinato numero si cela.

Par. XXX, 34-36

Cotal qual io la lascio a maggior bando
che quel de la mia tuba, che deduce
l’ardüa sua matera terminando

[LSA, cap. I, Ap 1, 3] Ostensa igitur causa formali et effectiva et materiali, subdit de causa finali, que est beatitudo per doctrine huius libri intelligentiam et observantiam obtinenda. Unde subdit (Ap 1, 3): “Beatus qui legit” et cetera. Quantum ad ea que proprio visu vel per propriam investigationem addiscimus, dicit: “qui legit”; quantum vero ad ea que per auditum et alterius eruditionem addiscimus, dicit: “qui audit”. Primum etiam magis spectat ad litteratos vel ad doctores, qui aliis legunt et exponunt; secundum vero ad laicos vel auditores.
Quia vero ad salutem non sufficit solum addiscere vel scire, nisi serventur in affectu et opere, ideo subdit: “et servat ea”. Quedam enim ibi scribuntur ut a nobis agenda, quedam vero ut credenda et speranda vel metuenda, et sic omnia sunt a nobis servanda vel agendo illa vel credendo ea cum caritate et spe vel timore. Quod autem talis beatus sit, nunc in spe et merito et tandem cito in premio, ostendit subdens: “Tempus enim”, scilicet future retributionis, “prope est”, quasi dicat: observans cito remunerabitur, et non observans cito dampnabitur, et ideo quoad utrumque beatus est qui hec observat.

Inf. XIV, 16-18

O vendetta di Dio, quanto tu dei
esser temuta
da ciascun che legge
ciò che fu manifesto a li occhi miei!

Purg. III, 124-126, 142-144

Se ’l pastor di Cosenza, che a la caccia
di me fu messo per Clemente allora,
avesse in Dio ben letta questa faccia

Vedi oggimai se tu mi puoi far lieto,
revelando a la mia buona Costanza
come m’hai visto, e anco esto divieto 

Par. X,  124-126

Per vedere ogne ben dentro vi gode
l’anima santa che ’l mondo fallace
fa manifesto a chi di lei ben ode.

[LSA, cap. I, Ap 1, 9-10] Hic post prohemium incipit narratio visionum. Et primo premittit septem generales et laudabiles circumstantias visionum sequentium. […] Quinta est dignitas temporis seu diei, unde subdit: “in dominica die” (Ap 1, 10), quam scilicet christiani colunt quia Christus die tali resurrexit. Unde et dicitur “dominica”, id est Domini vel Domino dedicata, quasi dicat: sanctitas diei erat huic revelationi convenientior, que in luce glorie resurrectionis Christi est facta et que est de statu ecclesie Christi resurrectionem sequente et colente et ad ipsam participandam tendente. Sicut enim Christus tali die resurrexit a mortuis et de sepulcro exivit, sic designavit intelligentiam spiritalem ex tunc excitari et de sepulcro littere processuram. Unde et e[a]dem die a[pe]ruit discipulis sensum ut intelligerent scripturas.

Par. XII, 67-70

e perché fosse qual era in costrutto,
quinci si mosse spirito a nomarlo
del possessivo di cui era tutto.
Domenico fu detto ………………

 

18. Contro al mondo errante

La terza tromba suona contro la “cura sciendi”, per la quale si vaneggia nell’errante acqua del piacere mondano (cap. XI; cfr. il rimprovero di Beatrice a Dante a Purg. XXXIII, 67-69). “Non per lo mondo, per cui mo s’affanna / di retro ad Ostïense e a Taddeo, / ma per amor de la verace manna / in picciol tempo gran dottor si feo” (Par. XII, 82-85; cfr. tab. 9). A Domenico, che per amore della divina sapienza combatté gli Albigesi, appartengono per antonomasia i temi del terzo stato, quello dei dottori confutanti le eresie. Nella terza vittoria, ai dottori viene data la manna, cioè la sapienza di Dio, che secondo san Paolo è nascosta nel mistero (1 Cor 2, 7), e l’intelligenza spirituale, rorida e arcana, della fede e delle Scritture. La manna infatti proveniva dalla rugiada discesa per l’aria. Viene dato loro anche il lucido lapillo, umile e solido come ferma fede, sul quale è scritto il nuovo nome di Dio fatto uomo, datosi a questi per amore (Ap 2, 17; per un esame dettagliato, che coinvolge altri temi, come ad esempio il “valore”, cfr. Il terzo stato. La ragione contro l’errore, tab. II.5 bis). A questa manna non guarda ora la famiglia domenicana, come lamenta Tommaso d’Aquino: “Ma ’l suo pecuglio di nova vivanda / è fatto ghiotto …”, dove “nova”, se richiama il “nomen novum” di Ap 2, 17, assume un sapore amaro (Par. XI, 124-129).
Gran dottore dall’acqua prorompente e irrigativa dell’ “orto catolico”, da Domenico derivarono i “diversi rivi” del suo Ordine (Par. XII, 103-105): anche i fiumi che irrigano la terra sono propri del terzo stato (terza visione, terza tromba, Ap 8, 10).
I dottori, ai quali è dato dispensare l’acqua della Scrittura e della dottrina cattolica, versano la terza coppa (quinta visione) sugli eretici, che vengono giustamente puniti con pene crudeli (Ap 16, 5-7; alla stessa esegesi fanno riferimento le parole di san Pietro a Par. XXVII, 58-59). Così Domenico, “benigno a’ suoi e a’ nemici crudo” (Par. XII, 57). Dispensare ai poveri i beni della Chiesa, “tamquam communia et tamquam bona pauperum” è invece proprio del vescovo di Tiatira, la quarta chiesa d’Asia (Ap 2, 19). “E a la sedia che fu già benigna / più a’ poveri giusti” e che non lo è ora a causa del papa “che traligna” sviando dal retto cammino, Domenico domandò “non dispensare o due o tre per sei”, di distribuire cioè meno denaro del dovuto ai poveri, “non decimas, quae sunt pauperum Dei ” ma chiese licenza di combattere “contro al mondo errante”, cioè contro l’erronea dottrina albigese (Par. XII, 88-96).
La benignità “a’ suoi” di Domenico è motivo del quinto stato, pietoso e condiscendente (cfr. supra).

Tab. 18

[LSA, cap. XI, IIIa tubicinatio moraliter exposita] Quia vero post curam proprie vite sequitur cura sciendi, que cum evanescit fit curiosa et erronea, ideo tertium tubicinium fit super aquas sapientie, cui intelligentia rebellans est quasi stella cadens in varios errores, qui sunt tertia pars aquarum. Dulcis enim et bona aqua scientie est de veris et utilibus, seu de prudentia regitiva actionum et de scientia speculativa divinorum, et hee partes aquarum sunt bone. Vel quia nimia cura sui facit etiam sanctos lucentes ut stellas et ardentes ut faculas cadere in aquas voluptatis carnalis, relicta duplici parte aquarum bonarum, scilicet voluptatis habite de Deo et voluptatis habite de gratiis et virtutibus et sanctis operibus Dei et sanctorum, idcirco tertium tubicinium est contra tertiam partem aquarum et pro promotione duarum.

Par. XII, 82-96

Non per lo mondo, per cui mo s’affanna
di retro ad Ostïense e a Taddeo,
ma per amor de la verace manna
in picciol tempo gran dottor si feo;
tal che si mise a circüir la vigna
che tosto imbianca, se ’l vignaio è reo.
E a la sedia che fu già benigna
più a’ poveri giusti, non per lei,
ma per colui che siede, che traligna,
non dispensare o due o tre per sei,
non la fortuna di prima vacante,
non decimas, quae sunt pauperum Dei,
addimandò, ma contro al mondo errante
licenza di combatter per lo seme
del qual ti fascian ventiquattro piante.  4, 4

Par. X, 91-96

Tu vuo’ saper di quai piante s’infiora
questa ghirlanda che ’ntorno vagheggia
la bella donna ch’al ciel t’avvalora.
Io fui de li agni de la santa greggia
che Domenico mena per cammino
u’ ben s’impingua se non si vaneggia.

Purg. XXXIII, 67-69

E se stati non fossero acqua d’Elsa
li pensier vani intorno a la tua mente,
e ’l piacer loro un Piramo a la gelsa

[LSA, cap. II, Ap 2, 17 (IIIa victoria)] Tertia est victoriosus ascensus super phantasmata suorum sensuum, quorum sequela est causa errorum et heresum. Hic autem ascensus fit per prudentiam effugantem illorum nubila et errores ac impetus precipites et temerarios ac tempestuosos. Hoc autem competit doctoribus phantasticos hereticorum errores expugnantibus, quibus et competit premium singularis apprehensionis et degustationis archane sapientie Dei, de quo tertie ecclesie dicitur: “Vincenti dabo manna absconditum, et dabo ei calculum lucidum, et in calculo nomen novum scriptum, quod nemo novit, nisi qui accipit” (Ap 2, 17).
Manna hoc est sapientia Dei, que secundum Apostolum “in misterio abscondita est” (1 Cor 2, 7), et spiritalis intelligentia fidei et scripturarum rorida et archana. Nam manna erat de rore occulte per aera descendente.
Calculus autem, id est lapillus parvulus et solidus, pedibus sepe calcatus, est homo Christus pro nobis humiliatus et exinanitus, luce gratie et glorie et deitatis [per]fusus, in quo est nomen novum. Nichil enim magis novum quam quod Deus sit homo et homo Deus, et quod Deus tantum amaverit hominem lapsum et ab ipso iuste dampnatum quod dederit se ei in fratrem, socium et sponsum, et [in] pretium et in cibum et in premium. Hoc tamen nomen nemo affectualiter et experimentaliter novit nisi accipiat ipsum in visceribus sui amoris; non etiam intelligit ipsum nisi per fidem firmam et claram accipiat ipsum.

[lSA, cap. V, Ap 5, 1; IIIum sigillum] (III) Deum autem humanari ac sperni et mori, ut Deomet satisfiat de iniuriis sibi ab alio factis, et ut illos tali pretio redimeret, qui simpliciter erant sub dominio suo et quos per solam potentiam salvare poterat, pretendit summam stultitiam. […] Contra stultitiam vero, est mercationum doctrine Christi lucrosus et incomparabilis valor. Nam pro denario unius et simplicis fidei habetur impretiabile triticum et ordeum et vinum et oleum, prout in tertia apertione monstratur (cfr. Ap 6, 6).

Inf. IV, 43-48

Gran duol mi prese al cor quando lo ’ntesi,
però che gente di molto valore
conobbi che ’n quel limbo eran sospesi.
“Dimmi, maestro mio, dimmi, segnore”,
comincia’ io per volere esser certo
di quella fede che vince ogne errore: ”

Par. XI, 124-129

Ma ’l suo pecuglio di nova vivanda
è fatto ghiotto, sì ch’esser non puote
che per diversi salti non si spanda;
e quanto le sue pecore remote
e vagabunde più da esso vanno,  5, 1
più tornano a l’ovil di latte vòte.

Purg. XV, 67-72; Par. XIV, 37-42

Quello infinito e ineffabil bene
che là sù è, così corre ad amore
com’ a lucido corpo raggio vene.
Tanto si dà quanto trova d’ardore;
sì che, quantunque carità si stende,
cresce sovr’ essa l’etterno valore.

risponder: “Quanto fia lunga la festa
di paradiso, tanto il nostro amore
si raggerà dintorno cotal vesta.
La sua chiarezza séguita l’ardore;
l’ardor la visïone, e quella è tanta,
quant’ ha di grazia sovra suo valore.”

[LSA, cap. II, Ap 2, 19 (Ia visio, IVa ecclesia)] Laudat autem hunc episcopum de sex. Primo scilicet de operibus sue inchoationis, ibi: “Novi opera tua” (Ap 2, 19). Secundo de fide, ibi: “et fidem”. Tertio de caritate, ibi: “et caritatem”. Quarto de ministrando pauperibus bona sua vel quecumque pietatis obsequia, ibi: “et ministerium tuum”. Quinto de patientia in adversis, ibi: “et patientiam tuam”. Sexto de superexcessu suorum postremorum operum, ibi: “et opera tua novissima plura prioribus”. Ex quo patet quod superius laudavit opera inchoationis, hic vero opera consumationis. Nota quod quia fides sine operibus mortua est (cfr. Jc 2, 20) et caritas perficitur et probatur in opere, ideo premisit opera fidei caritati. Quia etiam episcopi est ministrare seu dispensare pauperibus et precipue suis subditis bona ecclesie tamquam communia et tamquam bona pauperum, ideo subdit: “et ministerium tuum”, quamvis etiam possit stare pro ministerio verbi Dei; utroque enim modo sumitur Actuum VI° (Ac 6, 1-7). Nota etiam quod per huiusmodi laudem intendit monstrare aliquam notabilem precellentiam quam hic episcopus habebat in bonis istis, et idem est de ceteris supra vel infra laudatis.

Par. XII, 82-96

Non per lo mondo, per cui mo s’affanna
di retro ad Ostïense e a Taddeo,
ma per amor de la verace manna
in picciol tempo gran dottor si feo;
tal che si mise a circüir la vigna
che tosto imbianca, se ’l vignaio è reo.
E a la sedia che fu già benigna
più a’ poveri giusti, non per lei,
ma per colui che siede, che traligna,
non dispensare o due o tre per sei,
non la fortuna di prima vacante,
non decimas, quae sunt pauperum Dei,
addimandò, ma contro al mondo errante

licenza di combatter per lo seme
del qual ti fascian ventiquattro piante.

Par. XXII, 82-84

ché quantunque la Chiesa guarda, tutto
è de la gente che per Dio dimanda
;
non di parenti né d’altro più brutto.

Par. XII, 55-57

dentro vi nacque l’amoroso drudo
de la fede cristiana, il santo atleta
benigno a’ suoi e a’ nemici crudo

[LSA, cap. XVI, Ap 16, 5-7 (Va visio, IIIa phiala)] “Et audivi angelum aquarum” (Ap 16, 5), id est cetum spiritalium doctorum, quorum est fideliter custodire et dispensare seu exponere aquas sacre scripture et catholice doctrine, “dicentem: Iustus es Domine, qui es et qui eras; sanctus, et qui hec iudicasti”, id est qui predictam plagam sanguinis eis tuo iudicio intulisti. Subditque rationem propter quam hoc fuit iustum, scilicet (Ap 16, 6) “quia sanguinem sanctorum”, scilicet martirum, “et prophetarum”, id est sanctorum maiorum seu doctorum, “fuderunt”. Sicut enim dixi, multos fideles ubique terrarum martirizaverunt. “Et” ideo “sanguinem”, id est doctrinam impiam et mortiferam et abhominabilem, “eis dedisti bibere, ut digni sunt”.
Secundum enim Ioachim, humanum est aliquando incidere in errorem, sed persequi catholicos pro defensione erroris et effundere eorum sanguinem, sicut fecerunt Arriani, est diabolicum. Et ideo propter hanc culpam accidit excecatio eorum ut biberent potum doctrine sanguinee et carnalis, contra quam dictum est Petro : “Caro et sanguis non revelavit tibi” (Mt 16, 17)*.
Secundum autem Ricardum, “sanguinem” dedit “eis bibere”, id est acerbas penas et occisiones per quas eos exterminavit prout digni erant*.
“Et audivi alterum” (Ap 16, 7), scilicet angelum, id est secundum Ricardum subiectorum cetum, “dicentem”, id est magistrorum dicta confirmantem: “Etiam”, id est verum est quod dixit precedens angelus, id est cetus magistrorum nostrorum, quia quod magistri clamant discipuli confirmant. “Dicentem” inquam: “Etiam, Domine Deus omnipotens, vera et iusta iudicia tua”, scilicet sunt; “vera” quidem [quia] efficiunt quod promittunt, “iusta” autem quia unicuique secundum quod meruit reddunt. Iustum enim est ut qui crudeliter agit crudeliter puniatur. Et subdit Ricardus quod tam discipuli quam magistri ex magna affectione et zelo convertunt sermonem ad Deum**.

* Expositio, pars V, ff. 188vb-189ra.

* In Ap V, v (PL 196, col. 825 D). ** Ibid. coll. 825 D-826 A.

Par. VII, 40-42

La pena dunque che la croce porse
s’a la natura assunta si misura,
nulla già mai sì giustamente morse

Par. XXVII, 58-59

Del sangue nostro Caorsini e Guaschi
s’apparecchian di bere ………………..

VII. Simeon [LSA, cap. VII, Ap 7, 7 (IIIa visio, apertio VIi sigilli)] Ad zelum etiam tria exiguntur. Primo scilicet benigne miserationis pia condescensio, et hoc est Simeon, id est audiens merorem.

[LSA, cap. V, Ap 5, 1 (V status)] Tertia ratio septem sigillorum quoad librum veteris testamenti sumitur ex septem apparenter in eius cortice apparentibus. (…) Quintum est severitas preceptorum et iudiciorum, quia precipit “non concupisces” et “diliges Deum ex toto corde” (Dt 5, 21; 6, 5), et multa alia infirmitati humani generis ex se impossibilia, et tamen dat sententiam maledictionis omnibus qui non permanserint in omnibus verbis legis. Hanc autem temperat et exponit condescensiva Christi pietas indulgens multa infirmitatibus nostris, sicut mater infantulo suo. Et hoc notatur in quinta apertione, cum expetentibus iustitiam respondetur “ut requiescerent adhuc” per “tempus modicum, donec compleantur conservi eorum et fratres” (Ap 6, 11), id est ut propter pietatem fraterne salutis patienter differant et prolongent iudicia ultionis.

[LSA, prologus, Notabile XIII (V status)] In quinto vero tempore fuerunt spiritualiores monachi quasi aves volantes, clerici vero gentibus commixti fuerunt quasi pisces in aquis (cfr. Gn 1, 20-21). In hac autem die primo dictum est: “Crescite et multiplicamini” et cetera (Gn 1, 22), quia numquam in preteritis temporibus sic monasteria vel ecclesie in tali vita, que conveniret pluribus, ordinate fuere quomodo in tempore quinto, quia non tantum clericorum et monachorum, verum etiam ecclesiarum et monasteriorum que sunt propagata in tempore quinto in hac occidentali ecclesia colligere numerum non est facile. Unde quamvis vita monachorum quarti temporis fuerit clarior, non tamen fecundior nec sic habens sensum vivum et tenerum pietatis.

Par. XII, 55-57, 88-90

dentro vi nacque l’amoroso drudo
de la fede cristiana, il santo atleta
benigno a’ suoi e a’ nemici crudo

E a la sedia che fu già benigna

più a’ poveri giusti, non per lei,
ma per colui che siede, che traligna

Par. XXXI, 61-63

Diffuso era per li occhi e per le gene
di benigna letizia, in atto pio
quale a tenero padre si convene.

 

19. Quasi torrente ch’alta vena preme

La parte finale della settima guerra, nella quarta visione apocalittica, vede l’angelo gettare l’uva vendemmiata nel grande tino (“lacus”) dell’ira divina. Il “lago” è “calcato” fuori della città di Dio, cioè fuori del luogo e del collegio dei beati, nella valle di Giosafat posta tra il monte Sion e il monte degli Ulivi, in cui staranno gli empi il giorno del giudizio. Dice Isaia (Is 30, 33) che la valle Tofet, che sta fuori Gerusalemme, è “preparata, profonda e larga” e che in essa “fuoco e legna abbondano e il soffio del Signore come torrente di zolfo” per incendiarvi il re degli Assiri col suo esercito. Dal “lago” “uscì sangue fino al morso dei cavalli per una distanza di 1600 stadi”. Secondo Gioacchino da Fiore, il salire del livello del sangue fino al morso dei cavalli indica che, come un fiume non più guadabile mette a repentaglio non solo le piccole cavalcature ma anche i cavalli, così la malizia è divenuta intollerabile. Allora Dio, che ha tollerato il torrente di malizia finché lo hanno sostenuto anche i cavalli, non può più differire la punizione degli empi. Sono due i motivi che rendono la malizia intollerabile: l’immensità della colpa e la sua continuità nel tempo. La prima viene indicata con l’altezza del sangue che raggiunge il morso dei cavalli, la seconda con la lunghezza del torrente che arriva fino a 1600 stadi.
Appena deposto dalle mani di Anteo sul fondo dell’inferno, Dante ode una voce che lo supplica di camminare con attenzione, in modo da non ‘calcare’ con le piante dei piedi le teste dei dannati immersi fino al collo nel “lago” ghiacciato di Cocito (Inf. XXXII, 19-24). Il ‘calcare’ di Ap 14, 19-20 ha un passo simmetrico ad Ap 19, 15, dove nella battaglia contro l’Anticristo il Verbo di Dio “calca nel tino il vino dell’ira furiosa del Dio onnipotente”, cioè “preme” gli empi con pene mortifere. Il verbo ‘premere’, che rientra nella tematica del vendemmiare, è presente nell’esordio di Inf. XXXII, dove Dante dichiara che solo con rime “aspre e chiocce”, adatte al triste pozzo su cui gravano tutti gli altri cerchi rocciosi, sarebbe in grado di ‘premere’ il succo di quanto ha visto. I traditori dei congiunti stanno nel ghiaccio “come a gracidar si sta la rana / col muso fuor de l’acqua, quando sogna / di spigolar sovente la villana” (Inf. XXXII, 31-33), cioè nel periodo estivo, e il tema della mietitura caratterizza i versetti precedenti del XIV capitolo, lì dove un angelo esce dal tempio e grida all’altro angelo seduto sulla nube bianca di mietere perché la messe della terra è matura (Ap 14, 15).
Il motivo del ‘lago’ e quello del sangue sono congiunti nel centauro Caco, che sotto il monte Aventino, dove abitava, “di sangue fece spesse volte laco” (Inf. XXV, 25-27). In questo caso i temi presenti ad Ap 14, 19-20 offrono l’armatura spirituale al virgiliano “semperque recenti / caede tepebat humus” (Aen. VIII, 195-196). Interviene ancora la tematica di Ap 19, 15 (che è collegato ad Ap 14, 19-20 dal ‘calcare’), lì dove si afferma che il Verbo di Dio “governerà con scettro di ferro” le genti, cioè con inflessibile giustizia. Quanti non vogliono convertirsi a seguito di atti blandi e umili sentiranno la severità e la forza della sua disciplina così da essere sottoposti, per quanto tardivamente, al suo scettro. Così Caco, le cui opere scellerate cessarono nel sentire i colpi della mazza di Ercole (Inf. XXV, 31-33).
Ancora il sangue e il ‘lago’ caratterizzano il racconto della propria fine reso da Iacopo del Cassero (Purg. V, 73-84): il sangue “uscì” dai “profondi fóri”, di esso si fece “laco” in terra. Anche l’inciso riferito al mandante dell’omicidio, Azzo VIII d’Este – il quale, dice Iacopo, “m’avea in ira / assai più là che dritto non volea” – ha la sua origine, per variazione in contrario, nel vendemmiare dell’angelo uscito dal tempio che è in cielo di cui si parla ad Ap 14, 17. Con il “tempio” si indica la provenienza dell’angelo dalla contemplazione e dall’orazione santissima e celeste, che cioè la sua severità non può attribuirsi a un’ira ingiusta. Qui è anche l’origine della risposta di Dante a Farinata che gli chiede perché il popolo fiorentino sia “sì empio”, cioè spietato, nei confronti della propria famiglia esiliata, esclusa da ogni editto di condono (Inf. X, 82-87). Il ricordo della strage di Montaperti, dice il poeta, “tal orazion fa far nel nostro tempio”, cioè lo zelo contro gli Uberti non è ingiusto, ma santo in quanto ‘proviene dal tempio’. L’orazione a Cristo da parte dei santi affinché tolga dalla terra gli “empi” viene figurata ad Ap 14, 15, secondo l’interpretazione di Riccardo di San Vittore, con l’angelo (che pure esce dal tempio) che grida all’altro seduto sulla nube di mietere. L’espressione “che fece l’Arbia colorata in rosso”, dove si rinvia a un inciso dell’esegesi di Ap 4, 3, si inserisce bene nella tematica del torrente di sangue (per questi temi cfr. Lectura Dantis, Inferno X).
Il motivo del ‘premere’, congiunto con quello del ‘torrente’, è cantato da Bonaventura nel panegirico di Domenico, che muove e percuote il proprio impeto contro gli eretici “quasi torrente ch’alta vena preme”, verso in cui, secondo Pirandello, v’è “efficacia d’ogni parola nella similitudine” (Par. XII, 97-102) [1]. Verso pregno dell’esegesi di Gioacchino da Fiore citata da Olivi ad Ap 14, 20. “Quasi torrente”  rinvia a “sicut torrens sulphuris” nella citazione di Isaia 30, 33; “preme” segue l’esegesi (“premit ”) del “calcatus/calcat” scritturale ad Ap 14, 20/19, 15, dove è presente (nel secondo versetto) anche il ‘percuotere’ le genti con la spada acuta che esce dalla bocca del Verbo di Dio “ut in ipso percutiat gentes – e ne li sterpi eretici percosse / l’impeto suo”. L’ “alta vena” può riferirsi alla profondità della sorgente (la valle Tofet, in cui scorre il torrente sulfureo, è anche “profunda”), oppure, poiché “vena” è connessa con “sangue”, all’altezza del sangue nel torrente di malizia (“in altitudine sanguinis usque ad frenos equorum”). Ciò significherebbe che l’impeto di Domenico negli sterpi ereticali prorompe da una situazione di malizia – l’alto sangue – che non può più essere tollerata.
Nei versi, parole-chiave rinviano ad altri luoghi esegetici: dottrina, impeto, si riga (vv. 97, 101, 104) alla “vox aquarum multarum” di
Ap 1, 15, interpretata come dottrina che irriga alla stregua di un fiume impetuoso (cfr. Ap 8, 10); vincere le resistenze (v. 102) è proprio dell’angelo dal volto solare di Ap 10, 3, che ruggisce come un leone.
“Dal lago uscì sangue fino al morso dei cavalli per una distanza di 1600 stadi” (Ap 14, 19-20). Il numero MDC, in cui sono compresi il sei, il cento e il mille, che sono numeri designanti la perfezione, indica il livello di perfezione del tormento dei dannati, minore, mediocre o perfetto. Significa pure che le pene dei dannati sono varie e adattabili in modo multiforme.
Nel Flegetonte, “riviera del sangue” (cfr. come anche la descrizione del “Bulicame”, a Inf. XIV, 76-81, contenga parole-chiave afferenti ad Ap 14, 19-20), i violenti contro il prossimo hanno la pena graduata secondo l’altezza del sangue in cui sono immersi: i tiranni, violenti contro le persone e le cose, stanno sotto “infino al ciglio” (Inf. XII, 103-105); gli omicidi, violenti solo contro le persone, fino alla gola (ibid., 115-117); altri dannati, con pena via via meno grave (feritori, guastatori, predoni), tengono fuori del sangue bollente la testa e il busto o tutto il corpo salvo i piedi (ibid., 121-125). Come spiega Nesso nel portare Dante sulla groppa, se da una parte il “bulicame” si riduce progressivamente in profondità, dall’altra “preme” sempre più il suo fondo (il ‘premere’ della pena di Ap 19, 15) fino a raggiungere la massima altezza nel luogo dove sono puniti i tiranni (ibid., 127-132).
Simile gradualità della pena si verifica anche nel “lago” di Cocito, per quanto in progressione ascendente rispetto a quella discendente registrata nel Flegetonte: i traditori dei parenti e i traditori della patria stanno immersi nel ghiaccio fino al collo col viso rivolto in giù, rispettivamente nella Caina e nell’Antenora (Inf. XXXII, 31-39); i traditori degli ospiti giacciono nella Tolomea col viso rivolto verso l’alto (Inf. XXXIII, 91-93); i traditori dei benefattori sono infine tutti coperti dal ghiaccio, in varie posizioni, nella Giudecca (Inf. XXXIV, 10-15).
Anche le arche roventi degli eresiarchi sono differenziate: “e i monimenti son più e men caldi” (Inf. IX, 131).
L’uscita del sangue dal “lago”, ad Ap 14, 20, indica pure l’uscita del dolore provocato dalla violenza dei tormenti, come se tutto il sangue e tutti i visceri dei dannati fossero effusi fuori così da ridondare in un grande fiume o in un mare di amarissimo dolore. La compresenza dei motivi da Ap 14, 20 (l’uscita del dolore, il tormento, l’amaro, le varie proprietà delle pene dei dannati) conduce allo spettacolo che si presenta al poeta una volta varcata la porta della città di Dite (Inf. IX, 109-123). La “grande campagna” è “piena di duolo e di tormento rio”; il luogo è reso “varo”, cioè disuguale, dai sepolcri come accade nelle necropoli di Arles e di Pola, ma in modo “più amaro” per la presenza delle fiamme che li arroventano; dai coperchi sospesi dei monumenti “fuor n’uscivan sì duri lamenti”. Nel canto seguente, Virgilio afferma che i sepolcri verranno chiusi quando le anime avranno ripreso i propri corpi il giorno del giudizio, che avverrà nella valle di Giosafat, citata anch’essa nell’esegesi scritturale (Inf. X, 10-12).

[1] L. PIRANDELLO, Chiose al “Paradiso” di Dante. Edizione critica, introduzione e note di G. Bolognese, Alba 1996, p. 101.

 

Tab. 19

[LSA, cap. XIV, Ap 14, 19-20 (IVa visio, VIIum prelium)] De quo lacu subditur (Ap 14, 19): “Et misit in lacum ire Dei magnum”. Lacus inferni dicitur lacus ire Dei, quia ibi in penis impletur effectus ire et vindicte Dei. Magnus vero dicitur, quia omnes dampnatos, qui erunt quasi innumerabiles, intra se capiet.
“Et calcatus est lacus extra civitatem” (Ap 14, 20), id est extra locum et collegium beatorum, propter quod et a Christo Matthei VIII° et XXII° (Mt 8, 12; 22, 13) tenebre huius laci vocantur ‘tenebre exteriores’. Et Matthei XIII° (Mt 13, 49-50) dicitur: “Exibunt angeli et separabunt malos de medio iustorum et mittent eos in caminum ignis”. Sequitur autem tropum civitatis Iherusalem quia extra ipsam est vallis Iosaphat, que secundum Ieronimum est inter montem Sion et montem Oliveti, in qua stabunt impii in die iudicii*. Et etiam Isaie XXX° (Is 30, 33) dicitur quod vallis Tophet, que est extra Iherusalem, “est preparata, profunda et dilatata”, in qua est “ignis et ligna multa” et “flatus Domini sicut torrens sulphuris”, in qua incendi debebat rex Assiriorum cum exercitu suo.
Sequitur: “Et exivit sanguis de lacu usque ad frenos equorum per stadia mille sescenta”. Secundum Ioachim, per hoc quod dicit sanguinem ascendere usque ad frenos equorum designat, per proportionem pene istorum dampnatorum ad culpas eorum, declarari quod malitia culpe eorum fuit intolerabilis et non amplius differenda puniri. In parvo enim flumine etiam parvus asinus transit; ex quo vero tangit frenos equorum, est discrimen non modicum transeunti. Quia  vero duo sunt que excedunt modum ut non debeant tolerari, scilicet immensitas culpe et eius diuturnitas, ideo primum designatur in altitudine sanguinis usque ad frenos equorum, secundum vero in longitudine sui torrentis procedentis usque ad stadia mille sescenta. Sustinet enim Deus hunc torrentem malitie quamdiu equi ipsius ferre poterunt; quando autem non solum aselli sed etiam equi videntur periclitari, ita ut regnante Antichristo in errorem ducantur, si fieri potest, etiam electi (cfr. Mt 24, 24), non debet iudicium impiorum ulterius differri sed potius ad Deum clamari: “Exurge, Domine, non confortetur homo” (Ps 9, 20). Quia vero hoc erit in fine sexte etatis per sescenta stadia designate et post priores quinque etates, que in mille stadiis designantur propter plenitudinem temporis in quo Christus venit in mundum, ideo longitudo seu diuturnitas malitie reproborum ab initio seculi usque ad Antichristum designatur per stadia mille sescenta*.

Commentariorum in Joelem prophetam (Jl 3, 1-3), in S. Hieronymi Presbyteri Opera. Pars I. Opera exegetica, 6, Commentarii in prophetas minores, cur. M. Adriaen, Turnholti 1969 (Corpus Christianorum. Series Latina, LXXVI), pp. 198-199 (= PL 25, coll. 979 D-980 A).

Expositio, pars IV, distinctio VII, ff. 176vb-177rb.

Inf. XXXII, 1-5, 19-24, 31-33

S’ïo avessi le rime aspre e chiocce,
come si converrebbe al tristo buco
sovra ’l qual pontan tutte l’altre rocce,
io premerei di mio concetto il suco
più pienamente ………………………

dicere udi’mi: “Guarda come passi:
va sì, che tu non calchi con le piante
le teste de’ fratei miseri lassi”.
Per ch’io mi volsi, e vidimi davante
e sotto i piedi un lago che per gelo
avea di vetro e non d’acqua sembiante.

E come a gracidar si sta la rana
col muso fuor de l’acqua, quando sogna
di spigolar sovente la villana

Inf. XIV, 76-81

Tacendo divenimmo là ’ve spiccia
fuor de la selva un picciol fiumicello,
lo cui rossore ancor mi raccapriccia.
Quale del Bulicame  esce ruscello
che parton poi tra lor le peccatrici,
tal per la rena giù sen giva quello.

Purg. V, 73-84

Quindi fu’ io; ma li profondi fóri
ond’ uscì ’l sangue in sul quale io sedea,
fatti mi fuoro in grembo a li Antenori,
là dov’ io più sicuro esser credea:
quel da Esti il fé far, che m’avea in ira
assai più là che dritto non volea.
Ma s’io fosse fuggito inver’ la Mira,
quando fu’ sovragiunto ad Orïaco,
ancor sarei di là dove si spira.
Corsi al palude, e le cannucce e ’l braco
m’impigliar sì ch’i’ caddi; e lì vid’ io
de le mie vene farsi in terra laco.

[LSA, cap. XIV, Ap 14, 15.17-18; IVa visio, VIIum prelium] Per angelum vero clamantem priori ut metat (Ap 14, 15), (Ricardus) dicit significari sanctos, qui non iubendo sed orando clamant ad Christum ut suo tempore tollat de terra impios*. […] Nota etiam quod ille qui vindemiat reprobos dicitur exivisse “de templo quod est in celo” (Ap 14, 17), id est de contemplatione seu oratione sanctissima et celesti, ne eius severitas possit male et iniuste ire ascribi et non potius sanctissimo et altissimo zelo glorie et iustitie Dei.

* In Ap IV, viii (PL 196, col. 816 A-B).

Inf. XXV, 25-27, 31-33

Lo mio maestro disse: “Questi è Caco,
che, sotto ’l sasso di monte Aventino,
di sangue fece spesse volte laco.

onde cessar le sue opere biece
sotto la mazza d’Ercule, che forse
gliene diè cento, e non sentì le diece.”

Purg. XIII, 70-72, 82-84

ché a tutti un fil di ferro i cigli fóra
e cusce sì, come a sparvier selvaggio
si fa però che queto non dimora.

da l’altra parte m’eran le divote
ombre, che per l’orribile costura
premevan sì, che bagnavan le gote.

[LSA, cap. I, Ap 1, 15 (Ia visio)] Septima (perfectio summo pastori condecens) est sue doctrine celebris resonantia et irrigatio fecunda, unde subdit: “et vox illius  tamquam vox aquarum multarum”, id est sicut vox pluviarum inundantium et impetus fluminum et marinorum fluctuum et rugituum, sic enim ab ipso et ab eius scripturis et doctoribus manat vox predicationis irrigantis et comminantis.

[LSA, cap. VIII, Ap 8, 10 (IIIa visio, IIIa tuba)] Sicut per “terram” designatur supra locus fidelium (cfr. Ap 8, 7) et per “mare” locus infidelium seu plebs gentilis (cfr. Ap 8, 8), sic per “fontes” et “flumina” terram irrigantia et potum dulcem hominibus et iumentis prebentia designatur sacra doctrina et doctores eius. […]

[LSA, cap. XIX, Ap 19, 15 (VIa visio)] “Et de ore eius procedit gladius acutus” (Ap 19, 15), id est sententia subtilis et rigida (quidam habent “ex utraque parte”, sed antiqui non habent hic “ex utraque parte” neque Ricardus, sed supra capitulo I° [Ap 1, 16]), “ut in ipso percutiat gentes”, quasdam scilicet in eternum interitum, quasdam vero ad correctionem et ad vitiorum suorum extinctionem.
“Et ipse reget eas in virga ferrea”, id est in inflexibili iustitia. Qui enim nolunt converti blanditiis et humilitate necesse est ut tunc temporis sentiant severitatem et fortitudinem discipline eius, ut saltem sero subiciantur sceptro ipsius. Rebelles autem sentient furorem eius, unde subditur : “Et ipse calcat torcular vini furoris ire Dei omnipotentis”, id est ipse premit impios penis mortiferis quas Deus Trinitas quasi furibundus et iratus propinat eis.

Par. XII, 97-105

Poi, con dottrina e con volere insieme,
con l’officio appostolico si mosse
quasi torrente ch’alta vena preme;
e ne li sterpi eretici percosse
l’impeto suo, più vivamente quivi
dove le resistenze eran più grosse.    10, 3
Di lui si fecer poi diversi rivi
onde l’orto catolico si riga,
sì che i suoi arbuscelli stan più vivi.

[Ap 14, 20] Et etiam Isaie XXX° (Is 30, 33) dicitur quod vallis Tophet, que est extra Iherusalem, “est preparata, profunda et dilatata”, in qua est “ignis et ligna multa” et “flatus Domini sicut torrens sulphuris”, in qua incendi debebat rex Assiriorum cum exercitu suo. […] Quia vero duo sunt que excedunt modum ut non debeant tolerari, scilicet immensitas culpe et eius diuturnitas, ideo primum designatur in altitudine sanguinis usque ad frenos equorum, secundum vero in longitudine sui torrentis procedentis usque ad stadia mille sescenta.

[LSA, cap. XIV, Ap 14, 20 (IVa visio, VIIum prelium) – segue] Secundum vero Ricardum, per exitum sanguinis usque ad frenos equorum designatur quod crudelitas eterne dampnationis non tantum cruciabit pravos homines, qui sunt equi demonum, sed etiam ipsos demones, qui sunt rectores eorum*. Per stadia vero mille sescenta, id est quater quadringenta, designatur quod eorum culpa est diffusa per quattuor partes mundi et per quattuor tempora anni et contra precepta quadriformis evangelii. Et etiam in senario et centenario et millenario stadiorum sanguinis designatur minor et mediocris et perfectissima perfectio cruciatus dampnatorum, quia isti numeri perfectionem significant, ut sic per hunc numerum simul describatur omnium dampnatio ut singulis in suo gradu competat proportionaliter et perfecte**.
Vel potest dici quod primo in genere designavit per hec duo penam dampnatorum esse excessive et intensive altam seu profundam usque quasi ad suffocationem ipsorum, per quam ora, id est appetitus eorum, totaliter infrenantur, vel per quam sancti, qui sunt equi Dei, ipsam considerantes firmius et cautius infrenantur divino timore; et iterum esse excessive extensam. Nam mille sescenta stadia faciunt ducenta miliaria. Octo enim stadia faciunt miliare, ducenta autem miliaria faciunt sexaginta sex leucas et fere septimam, et loquor de nostra leuca que communiter continet tria miliaria.

* In Ap IV, viii (PL 196, col. 817 D).

** Ibid., coll. 817 D- 818 A.

Per exitum autem sanguinis designatur emissio mortiferi doloris per vim tormentorum educti, ac si totus sanguis et omnia viscera dampnatorum violenter effunderentur extra, ita quod redundaret in magnum flumen seu mare doloris amarissimi.
In speciali vero, per varias proprietates numeri hic positi secundum varias compositiones ipsius designantur varie proprietates pene dampnatorum, que secundum varios mi[steri]andi modos possunt multiformiter coaptari.

Inf. IX, 109-123, 130-131; X, 10-12

com’ io fui dentro, l’occhio intorno invio:
e veggio ad ogne man grande campagna,
piena di duolo e di tormento rio.
Sì come ad Arli, ove Rodano stagna,
sì com’ a Pola, presso del Carnaro
ch’Italia chiude e suoi termini bagna,
fanno i sepulcri tutt’ il loco varo,
così facevan quivi d’ogne parte,
salvo che ’l modo v’era più amaro;
ché tra li avelli fiamme erano sparte,
per le quali eran sì del tutto accesi,
che ferro più non chiede verun’ arte.
Tutti li lor coperchi eran sospesi,
e fuor n’uscivan sì duri lamenti,
che ben parean di miseri e d’offesi.

Simile qui con simile è sepolto,
e i monimenti son più e men caldi.

E quelli a me: “Tutti saran serrati
quando di Iosafàt qui torneranno
coi corpi che là sù hanno lasciati.”

 

20. Bonaventura e la Regola male interpretata

Le parole di Bonaventura riferite a Ubertino da Casale e a Matteo d’Acquasparta, secondo la comune interpretazione, legano Ubertino con il verbo ‘coartare’ e Matteo con il verbo ‘fuggire’ la “Scrittura” (la Regola francescana), nel senso di restringerne il significato o di allontanarsene. Bonaventura, dunque, biasimerebbe per eccessi opposti sia gli Spirituali rigoristi (figurati in Ubertino) sia la Comunità rilassata (figurata in Matteo).

D. G. PARK [The Good, the Bad, and the Ugly: What Dante says about Bonaventure of Bagnoregio, Matthew of Acquasparta, and Ubertino da Casale, in “Dante Studies”, CXXXII (2014), pp. 267-312] sostiene la contraria appropriazione dei verbi:

  • Ubertino è legato al ‘fuggire’; nel 1317 diventò infatti benedettino. Dante (attraverso Bonaventura) non gli rimprovera un atteggiamento troppo rigido riguardo alla povertà (l’idea di povertà nel poeta era infatti molto più estesa che nel frate, poiché non valeva solo per i Minori ma per tutta la Chiesa), gli rimprovera invece di aver abbandonato la “navicella”, di essere diventato un vagabundus [p. 289].

  • Matteo è legato al ‘coartare’. Questo verbo non è il contrario di ‘relaxare’, ma ha il senso di ‘cambiare forzando’ la Regola aggiungendovi dispense. Così nell’Expositio quatuor magistrorum. Questo senso è confermato nella Lectura super Apocalipsim di Olivi dove, ad Ap 9, 3, si afferma che le locuste hanno potere coercitivo (“potestatem coarctatam”). Matteo sarebbe pertanto assimilabile a una ‘locusta’ che perverte la Regola usando potere coercitivo (“power to compel”) negli affari temporali invece di seguire la via di san Francesco [pp. 292-293].

Deplorando la fuga di Ubertino dall’Ordine e il temporalismo di Matteo, Bonaventura (cioè Dante) non intende colpire le due opposte fazioni (gli Spirituali e la Comunità), ma due diversi modi di abbandono della Regola. Soprattutto, non rimprovera a Ubertino la sua insistenza sulla povertà: perché avrebbe dovuto farlo, visto che la povertà è uno dei punti che gli stanno più a cuore? [pp. 294-295].

Consideriamo la questione dal punto di vista del senso letterale e del senso spirituale.

A) Secondo il senso letterale.

È difficile non considerare la posizione chiastica delle parole che lega “da Casal” con “la coarta” e “d’Acquasparta” con “la fugge”. La figura retorica è ben presente altrove, e anche in punti ravvicinati come a Par. XIX, 109-111, dove l’aquila associa chiaramente i “tai Cristian” al collegio eternamente “inòpe”, e “l’Etïòpe” a quello “ricco”. Per quanto in Dante vi sia grande varietà di forme, è assai più probabile che Bonaventura parli ‘chiasticamente’.

 

Par. XII, 124-126

ma non fia da Casal né d’Acquasparta,
là onde vegnon tali a la scrittura,
ch’uno la fugge e altro la coarta.

Par. XIX, 109-111

e tai Cristian dannerà l’Etïòpe,
quando si partiranno i due collegi,
l’uno in etterno ricco e l’altro inòpe.

 

B) Secondo il senso spirituale.

La ‘chiave’ dei “sensi mistici” (allegorico, morale, anagogico) della Commedia è la Lectura super Apocalipsim dell’Olivi. Nel “poema sacro” il senso letterale, che è alla portata di tutti, contiene parole-chiave che rinviano alla Lectura oliviana; questi signacula sono marcatori di memoria, imagines agentes per i predicatori che già conoscevano la Lectura e che avrebbero trovato la sua dottrina dotata in volgare di “e piedi e mano”, di exempla contemporanei e vicini. Non si tratta di semplice trasposizione, ma di metamorfosi, perché quanto l’Olivi concentra sulla storia della Chiesa o sull’Ordine dei Minori viene da Dante diffuso sul ‘saeculum humanum’, per cui nella storia sacra dei segni provvidenziali entrano i classici e quanto (la lingua, la filosofia, la monarchia) è utile al “viver bene” dell’“omo in terra”.
Come ovunque nel poema (cfr. la Topografia spirituale della Commedia dove per quasi ogni verso, o gruppo di versi, collegamenti ipertestuali conducono al “panno” esegetico fornito dalla Lectura super Apocalipsim, sul quale il “buon sartore” ha fatto “la gonna”), anche nelle parole di Bonaventura il lettore ‘spirituale’ avrebbe trovato numerosi signacula della più ampia dottrina esposta nell’esegesi apocalittica oliviana.

■ In questa lettura del poema per signa alterius libri, a quale pagina esegetica avrebbero rinviato le parole di Bonaventura a Par. XII, 124-126? Ivi il verbo ‘coartare’ (hapax nella Commedia) è accostato a “Scrittura”: lo è anche nel Notabile XI del prologo della Lectura. Olivi, per spiegare come le visioni dell’Apocalisse, o parte di esse, possano essere adattate a tempi diversi, paragona la Scrittura sacra a una mano o a una veste che vengano ora ristrette ora allargate. Come il significato di un termine può essere assunto talora in un senso largo e talora in uno stretto, così la Scrittura e le sue figure possono essere ora coartate, cioè ristrette rispetto al loro pieno senso, ora estese oltre quanto consenta la lettera. Ciò non avviene per falsa interpretazione, ma a motivo della forza e della varietà della Scrittura. Il lettore ‘spirituale’, che già altre volte era stato rinviato allo stesso passo esegetico (anche nel canto precedente, nelle parole di Tommaso d’Aquino a Par. XI, 22-24, in principio del quale l’esclamazione “O insensata cura de’ mortali” rinvia alla citazione paolina “O insensati Galathe”, sempre nel Notabile XI[1], avrebbe inteso ‘coartare la Scrittura’ nel senso di restringerne il significato e ‘fuggire’ nel senso di estenderlo. Vero è che il verbo ‘fuggire’, a differenza del verbo ‘coartare’, non compare nel testo del Notabile XI, ma si tratta di una sostituzione per analogia all’eccessive extendere. Chi “fugge” e chi “coarta” la Regola opera ai due estremi opposti, che eccedono entrambi la misura (proprio il verbo ‘fuggire’ userà Cacciaguida parlando della sua Firenze antica: “Non faceva, nascendo, ancor paura / la figlia al padre, ché ’l tempo e la dote / non fuggien quinci e quindi la misura”; Par. XV, 103-105). Chi leggeva i sensi interiori, assimilava il ‘fuggire’ la Regola (nel senso di estenderla) all’interpretazione rilassata: “anelare ad habenda et procuranda privilegia dispensative laxantia regulares restrictiones primitus institutas”, come scrive Olivi ad Ap 7, 3. Queste “restrictiones” riguardavano certamente l’usus pauper, ma questo, scrive ancora Olivi, deve essere “moderate restrictum”. Di qui il valore negativo che Bonaventura attribuisce al ‘coartare’, cioè al troppo restringere. Non che Dante sia contrario all’usus pauper, anzi non pochi signacula gli sono dedicati nel Purgatorio, dove la “religïone de la montagna” (Purg. XXI, 40-42) è la vita evangelica [2], ma fa riprendere da Bonaventura gli opposti eccessi e probabilmente anche gli scandali e le liti che ne sono derivate. E sul voto, di cui parla Beatrice in Par. V, se riporta alla lettera le parole di una quaestio dell’Olivi, Dante si mantiene sulle generali e non specifica alcun tipo di voto, ammette una moderata dispensa papale e solo cripticamente sembra alludere al voto di povertà allorché la donna dice: “Però qualunque cosa tanto pesa / per suo valor che tragga ogne bilancia, / sodisfar non si può con altra spesa” (Par. V, 61-63) [3]. Ma tutto avviene nel segno della moderazione e dell’equilibrio, e non è casuale che il tema della “recta statera” (Ap 6, 5) [4] sia ben presente nelle parole di Beatrice. Dante non vuole entrare nella litigiosità francescana, che appunto Bonaventura riprova; il bilanciato equilibrio fra gli opposti è sempre fondamentale per il Poeta.
Il lettore ‘spirituale’ avrebbe ancora associato chiasticamente i due verbi alle due persone, grazie all’alta retorica del significante a cui Dante l’aveva abituato. I nomi dei due francescani, espressi con i luoghi di provenienza, non sono scelti a caso. “Casale” si lega con “coarta” analogo di ‘stringere’, quasi fosse un tenere la Regola dentro sé, impedendone qualsiasi estensione; al contrario, “Acquasparta” si lega con “fugge” analogo di ‘espandere’, ‘estendere’, quasi fosse un disperdere la Regola. I medesimi signacula compaiono anche altrove, in situazioni del tutto diverse (il fiorentino suicida in fine di Inf. XIII e nel principio del XIV: “fuggendo, case, strinse, sparte”; la “fuga” alla montagna in fine di Purg. II e in principio del III: “fuga, dispergesse, ristrinsi ”).
Delle undici occorrenze del verbo coartare nella Lectura super Apocalipim nessuna si addice meglio alle parole di Bonaventura della doppia occorrenza contenuta nel Notabile XI. Nella generale metamorfosi dantesca trovano luogo altri esempi connessi con diversi luoghi della Lectura. Il clero dei Greci che non vuole sottomettersi alla Chiesa di Roma (“nolens coartari sub disciplina universalis episcopi”; Ap 11, 1-2) si ritrova nei “Greci” Ulisse e Diomede – “ch’ei sarebbero schivi, / perch’ e’ fuor greci, forse del tuo detto” (Inf. XXVI, 74-75: “schivi” equivale a ‘fuggitivi’, il contrario di farsi coartare) -, ai quali parla Virgilio, vero ‘vescovo universale’ dotato della “lingua erudita” (il “calamus” dato a Giovanni ad Ap 11, 1), al quale sono appropriati motivi tratti dall’istruzione data al vescovo di Efeso, metropolita delle sette chiese d’Asia (Ap 2, 2-3) [5]. Ancora, l’immagine della Chiesa ‘coartata’, cioè ristretta a Roma e alla terra latina (Ap 8, 12) trova corrispondenza nella “potestas Romanorum”, che non può essere ‘coartata’ nei limiti d’Italia o della tricorne Europa, di cui Dante scrive ad Enrico VII (Epistola VII, 11-13). In una citazione di Gioacchino da Fiore, ‘coartare’ significa restringere il discorso, ma il verbo è inserito nella ben più importante esegesi di Ap 12, 6.
Infine, ad Ap 9, 4 (quinta tromba), le locuste hanno una “potestas coartata”, cioè è ad esse proibito di nuocere (sia ai buoni come ai carnali, affiché possano pentirsi), non una ‘potestas coartandi’ come sembra intendere il Park (“power to compel”). Matteo d’Acquasparta è certamente persona che “ne’ grandi offici” non ha, come Bonaventura, posposto “la sinistra cura”, ma non è, per il lettore spirituale, assimilabile a una locusta. Di locuste è  pieno il  poema, dai barattieri (nella quinta bolgia nulla possono i Malebranche dinanzi alla “sicura fronte” di Virgilio) ai malvagi Capetingi di cui parla il loro capostipite nel quinto girone della montagna, ma il tema non riguarda Matteo.
Coartare, inoltre, è il verbo utilizzato nelle fonti francescane per chi “determina restringendo” la Regola.
In merito alla possibilità che Bonaventura attribuisca il fuggire la Regola a Ubertino, in quanto transfuga dall’Ordine, si osserva che ciò presuppone che Dante sapesse della ‘fuga’ di Ubertino ai Benedettini di Gembloux. Se lo sapeva (cosa di per sé plausibile), avrebbe dovuto anche sapere che quella ‘fuga’ era in realtà una fictio concordata con Giovanni XXII per difenderlo dai confratelli [6], e avrebbe potuto ben considerarla come un male minore nel senso di cui parla in Par. IV Beatrice a proposito di Piccarda (Clarissa a Monticelli) e di Costanza d’Altavilla rapite dal chiostro contro la loro volontà. Ubertino, di certo, restò sempre francescano nel cuore e nell’abito.
Per comprendere, infine, il senso delle parole di Bonaventura, bisogna inquadrarle nel contesto del cielo del Sole. Il quadro è quello di mutua cortesia fra Domenicani e Francescani, di pacificazione delle liti e delle controversie terrene per cui Sigieri di Brabante e Gioacchino da Fiore stanno accanto a Tommaso d’Aquino e a Bonaventura. Nel cielo del Sole, la luce di Salomone è la più fulgida fra gli spiriti sapienti – riluce più di Boezio, di Bonaventura e dello stesso Aquinate -, esempio dei reggitori per la sua “regal prudenza”. Ma viene presentata in modo equivoco da Tommaso d’Aquino, prima senza nominarla (Par. X, 109-114) e con precisazione solo tre canti dopo (Par. XIII, 88-111). La reticenza iniziale di Tommaso sul nome della quinta luce in Par. X – della quale “tutto ’l mondo / là giù ne gola di saper novella” -, giustifica il dubbio che il desiderio del mondo di sapere sulla salvezza o sulla dannazione dell’innominato non riguardi unicamente la lussuria senile di Salomone, ma pure la dottrina dell’Olivi, oggetto in terra di acerrima controversia, sulla quale l’Aquinate in cielo esprime la sentenza divina. Salomone splende di umiltà: dalla “luce più dia del minor cerchio” esce “una voce modesta, / forse qual fu da l’angelo a Maria” (Par. XIV, 34-36). Non designa solo il tipo del re prudente, ma anche la sapienza contenuta nel libro dell’Apocalisse scritto dentro e fuori e contenente gli “intellegibilia Dei”, alla cui esegesi, ad Ap 5, 1, rinviano le parole di Tommaso: “entro v’è l’alta mente u’ sì profondo / saver fu messo, che, se ’l vero è vero, / a veder tanto non surse il secondo” [7].
Ciò dimostra come Dante, nell’ancorare alla Lectura super Apocalipsim, aggiornandola secondo i propri intenti, il suo “legno che cantando varca”, non giudicasse il frate di Linguadoca un ribelle o un dissidente, o peggio un radicale – come lo ritengono alcuni studiosi moderni – ma il vero equilibrato interprete della Regola di Francesco. Scrive in proposito Raoul Manselli:

“[…] la condanna perciò che Dante pronuncia di Matteo d’Acquasparta e di Ubertino da Casale era perfettamente in corrispondenza con quella che proprio l’Olivi aveva pronunciato contro la gerarchia dell’Ordine, di cui era stato appunto parte Matteo, e non meno in relazione con l’altra condanna che ancora e sempre l’Olivi aveva rivolto agli Spirituali d’Italia – e fra questi era anche ed appunto Ubertino – per le loro esagerazioni polemiche, che li portavano a non riconoscere la validità canonica dell’elezione di Bonifazio VIII. Se tale è davvero il francescanesimo di Dante, avremo anche la chiave per intendere tutta la sua concezione del Cristianesimo e della Chiesa stringendo in unità tutta una serie di elementi, che sembrano disparati e, a volte, persino contraddittori” [8].

■ Quando Bonaventura riprova, a Par. XII, 112-114, la decadenza dell’Ordine francescano, usa l’esegesi di Ap 12, 17 (quarta visione, quinta guerra). L’immagine del vaso di vino purissimo di cui nel quinto stato rimangono, una volta bevuta la parte superiore, maggiore e più pura, solo poche reliquie vicine alle impurità e quasi con esse mescolate corrisponde alla “muffa” subentrata alla “gromma” (che favorisce la conservazione del vino), nell’ “orbita” tracciata dalla “parte somma” della ruota che ora “è derelitta”, cioè abbandonata (l’“orbita” consuona con l’essere stata la Chiesa diffusa, prima delle devastazioni saracene, “per totum orbem”; “la parte somma” della ruota traduce la parte superiore del vino – “sicut bibita superiori et puriori et maiori parte vini vasis magni” -; “derelitta” contiene in radice le “reliquie”); in poche carte del volume francescano è infatti ancora possibile leggere “I’ mi son quel ch’i’ soglio” (le poche reliquie, ibid., 121-123). A questa esegesi – per la quale la parola-chiave principe è il verbo ‘rimanere’ – rinviano numerosi luoghi della Commedia, a cominciare dalle parole di Tommaso d’Aquino su Povertà: “sì che, dove Maria rimase giuso, / ella con Cristo pianse in su la croce” (Par. XI, 71-72). Verbo usato anche da san Benedetto: “e la regola mia / rimasa è per danno de le carte” (Par. XXII, 74-75).
Bonaventura lamenta che la famiglia francescana, mossasi dapprima rettamente coi piedi dietro alle orme del fondatore, “è tanto volta, / che quel dinanzi a quel di retro gitta” (Par. XII, 115-117). Si tratta di un’espressione di incerta interpretazione già presso i commentatori antichi, ma che è comunque variazione del tema del volgersi indietro permutando il proprio oro in argento tratto da Luca 9, 62 come nella citazione ad Ap 2, 5 (prima visione, prima chiesa; anche in questo caso all’esegesi, assai estesa e complessa, rinviano molti altri punti del poema). Alla chiesa di Efeso viene minacciato il ‘muoversi del candelabro dal proprio luogo’, cioè la translatio del primato di cui va superba [9]. Questa translatio viene espressa con il togliere e sradicare (“evellere”) dalla fede e con il gettare nella morte eterna (“iactare”) la chiesa (e il suo vescovo), che volgendosi indietro non ha recuperato l’oro della prima carità. Il gittare trova corrispondenza nello iactare in mortem eternam che accompagna il movere candelabrum : “quel dinanzi a quel di retro gitta” può avere pertanto il significato che ‘quello che è dinanzi si muove all’indietro’ e, se il soggetto del muovere è il piede, significa, come propose per primo il Barbi, che nel camminare il piede anteriore si muove verso quello posteriore, secondo l’immagine dei “retrosi passi” di Purg. X, 123 [10]. Questa interpretazione è coerente con il valore assunto dal muovere il piede nella sesta perfezione di Cristo sommo pastore trattata nella prima visione, del quale si dice: “e i suoi piedi simili all’oricalco, come nel crogiolo ardente” (Ap 1, 15). L’oricalco è assai simile all’oro, nel crogiolo si liquefa, è nitido, fiammeggiante, scintillante: designa gli atti corporei di Cristo, che procedono fiammeggianti per la carità verso Dio e verso di noi, scintillanti in modo esemplare, provati durante la vita terrena nel crogiolo delle tentazioni e assai simili all’oro della sua interna e suprema carità.
Bonaventura precisa poi che è imminente il momento del raccolto: “e tosto si vedrà de la ricolta / de la mala coltura, quando il loglio / si lagnerà che l’arca li sia tolta” (Par. XII, 118-120). Il togliere corrisponde all’evellere nello spostamento del candelabro da parte di Cristo, e significa che alla zizzania, cioè ai frati che si sono allontanati da Francesco, verrà tolta l’arca riservata al grano buono. Non è pensabile, come interpretò il Cosmo, che l’arca si intenda tolta solo ai fautori radicali della Regola, cioè agli Spirituali, e che l’espressione si riferisca alle bolle di scomunica di Giovanni XXII contro di essi. Né, come sostenuto dal Tocco, togliere l’arca può essere inteso in senso favorevole agli Spirituali, come allusione ai decreti del Concilio di Vienne che prescrissero l’usus pauper, condannando quelle riserve che il loglio, o la parte rilasciata, soleva accumulare nei granai e nelle cantine. In realtà l’arca tolta fa parte della metafora formata dalla sequenza tempio-altare-adoranti-atrio, che ad Ap 11, 1-2 serve a designare la religione evangelica, il cui atrio, al momento della separazione del grano dalla paglia (il “loglio”) sotto le tribolazioni inferte dall’Anticristo, verrà calpestato dalle genti. Ad Ap 11, 19, al principio della quarta visione, l’arca che sta nel tempio designa il Nuovo Testamento nascosto nel Vecchio, e quindi anche la nuova legge e le nuove promesse di grazia e di gloria eterna, nonché il nuovo ed eterno patto della nostra redenzione. Poiché l’arca occupa uno spazio minore del tempio, rappresenta pure l’umiltà e la povertà evangelica. Non è neppure estraneo ad arca il senso di “horreum Domini”, il granaio in cui verrà riposta la buona semente una volta separata dalla zizzania al momento del giudizio, secondo la parabola esposta in Matteo 13, 24-30 e citata nella Lectura ad Ap 14, 15-16, nell’esegesi dell’angelo uscito dal tempio che grida all’altro angelo seduto sulla nube di gettare la falce e di mietere. Il loglio, pertanto, che comprende i pravi religiosi di ogni fazione che deviano dalla Regola (che Bonaventura definisce la “Scrittura”; Benedetto parlerà di “regola”), verrà escluso dall’arca, calpestato nell’atrio e gettato nella morte eterna.

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[1] Per un esame compiuto cfr. Dante all’«alta guerra» tra latino e volgare. Postilla alle ricerche di Gustavo Vinay sul De vulgari eloquentia, cap. 2.10.

[2] Cfr. Il sesto sigillo, cap. 10 (Matelda), tab. C-CIII.

[3] Cfr. Il terzo stato, tab. II. 5.

[4] Ibid., tab. II, 4.

[5] Cfr.“Lectura super Apocalipsim” e “Commedia”: le norme del rispondersi, cap. 2, tab. 2.2.

[6] Cfr. P. VIAN, «Noster familiaris solicitus et discretus»: Napoleone Orsini e Ubertino da Casale, in Ubertino da Casale. Atti del XLI Convegno Internazionale. Assisi 18-20 ottobre 2013, Spoleto 2014 (Società Internazionale di Studi Francescani – Centro Interuniversitario di Studi Francescani), pp. 217-298: 262-263.

[7] Sull’equivoca figura di Salomone cfr. Dante all’«alta guerra» tra latino e volgare, 3.6 (“Il libro scritto dentro e fuori”), tab. XLII; A. FORNI, Pietro di Giovanni Olivi nella penisola italiana: immagine e influssi tra letteratura e storia in Pietro di Giovanni Olivi frate minore. Atti del XLIII Convegno Internazionale. Assisi 16-18 ottobre 2015, Spoleto 2016 (Società Internazionale di Studi Francescani – Centro Interuniversitario di Studi Francescani), pp. 395-437: 431-432 (trad. ingl. Petrus Iohannis Olivi in the Italian Peninsula, pp. 24, 47-48).

[8] MANSELLI, Il canto XII del Paradiso, pp. 228-229.

[9] Non a caso a questa esegesi rinviano i versi relativi alla prima cornice della montagna (Purg. X-XI), con le celebri traslazioni del primato nella miniatura da Oderisi da Gubbio a Franco Bolognese, nella pittura da Cimabue a Giotto e nella “gloria de la lingua” da Guido Guinizzelli a Guido Cavalcanti e da questi ad altri. Nella tabella vengono esposti solo alcuni dei numerosi luoghi del poema che rinviano ad Ap 2, 5. Per un esame dettagliato, cfr. “Lectura super Apocalipsim” e “Commedia”. Le norme del rispondersi, cap. 2 (Scendere e risalire per gradi: l’istruzione al vescovo di Efeso (Ap 2, 2-7) secondo Riccardo di San Vittore e Pietro di Giovanni Olivi). Dante, nel cadere giù diminuendo nell’amore per Beatrice, “si tolse” a lei per darsi ad altri (Purg. XXX, 124-126): il togliersi è variazione in senso riflessivo dell’ “evellere”, in un contesto che appare segnato dalla tematica della prima chiesa, alla quale viene minacciata la traslazione del candelabro, in difetto di correzione. A una traslazione fa riferimento l’espressione di Virgilio relativa al proprio corpo sepolto in terra: “Napoli l’ha, e da Brandizio è tolto”, di lì traslato per volontà di Augusto (Purg. III, 25-27). Poiché subito dopo il poeta pagano ricorda Aristotele, Platone e molt’altri che non stettero “contenti … al quia” e desiderarono invano conoscere tutto con la ragione umana, desiderio loro dato come pena nel Limbo, è possibile che la traslazione delle ossa di Virgilio, tolte a Brindisi e sepolte a Napoli, sia allusione a un primato perduto, ben più grave nel caso degli antichi sapienti. Un altro esempio dell’uso di “evellere” è nell’espressione “tòrre via Fiorenza” posta in bocca a Farinata (Inf. X, 91-92). Molti dei temi relativi alla prima chiesa sono poi racchiusi nei versi che descrivono il volo di Gerione, in groppa al quale Dante e Virgilio discendono verso Malebolge (Inf. XVII, 79-136). Per ordine di Virgilio, il fiero animale si muove e si toglie dal luogo dove stava: “Gerïon, moviti omai … Come la navicella esce di loco … sì quindi si tolse”, che è variazione da «“et movebo candelabrum tuum de loco suo, nisi penitentiam egeris”, id est evellam a me et a fide mea in quo es fundata». La bestia va “in dietro in dietro” dalla riva e, quando si sente a suo agio nel muoversi, “là ’v’ era ’l petto, la coda rivolse”, muove questa tesa come anguilla “e con le branche l’aere a sé raccolse”: ad essere variato è il tema del respicere retro e del commutare tratto da Luca 9, 62.

[10] M. BARBI, Problemi di critica dantesca. Prima serie (1893-1918), Firenze 1934, p. 287.

Tab. 20.1

[LSA, prologus, Notabile XI] Quantum ad undecimum, quomodo scilicet prefate visiones et earum partes possunt ad alia diversa tempora coaptari, ita quod septimus status potest coaptari ad quamlibet maiorem partem cuiuslibet status.
Sciendum quod sicut significatio unius dictionis sumitur aliquando large et aliquando stricte et proprie, et sicut manum vel vestem aliquando coartamus et aliquando in totam suam quantitatem explicamus, et aliquando quasi ultra proportionem sui status excessive extendimus, sic scripturas sacras et earum figuras aliquando coartamus a suo pleno sensu et aliquando ultra exigentiam litteralis proprietatis quasi extendimus, non quidem falso sed propter vim specialem et variam quam in se habent. […] Sub hiis autem modis possunt visiones huius libri particulariter vel totaliter ad alia tempora coaptari […].

Inf. V, 40-41, 46-47

E come li stornei ne portan l’ali
nel freddo tempo, a schiera larga e piena

E come i gru van cantando lor lai,
faccendo in aere di sé lunga riga

Inf. VI, 25-27

E ’l duca mio distese le sue spanne,
prese la terra, e con piene le pugna
la gittò dentro a le bramose canne.

Inf. XVI, 130-136

ch’i’ vidi per quell’ aere grosso e scuro
venir notando una figura in suso,
maravigliosa ad ogne cor sicuro,
sì come torna colui che va giuso
talora a solver l’àncora ch’aggrappa
o scoglio o altro che nel mare è chiuso,
che ’n sù si stende e da piè si rattrappa.

Inf. XXV, 55-57, 103-105

li deretani a le cosce distese,
e miseli la coda tra ’mbedue
e dietro per le ren sù la ritese.

Insieme si rispuosero a tai norme,
che ’l serpente la coda in forca fesse,
e ’l feruto ristrinse insieme l’orme.

Inf. XXXI, 130-132

Così disse ’l maestro; e quelli in fretta
le man distese, e prese ’l duca mio,
ond’ Ercule sentì già grande stretta.

Inf. XXXIII, 148-150

Ma distendi oggimai in qua la mano;
aprimi li occhi”. E io non gliel’ apersi;
e cortesia fu lui esser villano.

Par. XI, 22-24

Tu dubbi, e hai voler che si ricerna
in sì aperta e ’n sì distesa lingua
lo dicer mio, ch’al tuo sentir si sterna

Purg. IX, 46-48

“Non aver tema”, disse il mio segnore;
“fatti sicur, ché noi semo a buon punto;
non stringer, ma rallarga ogne vigore”.

Purg. XXIV, 64-66, 118-120, 130-132

Come li augei che vernan lungo ’l Nilo,
alcuna volta in aere fanno schiera,
poi volan più a fretta e vanno in filo

Sì tra le frasche non so chi diceva;
per che Virgilio e Stazio e io, ristretti,
oltre andavam dal lato che si leva.

Poi, rallargati per la strada sola,
ben mille passi e più ci portar oltre,
contemplando ciascun sanza parola.

Purg. XXIX, 97-99

A descriver lor forme più non spargo
rime, lettor; ch’altra spesa mi strigne,
tanto ch’a questa non posso esser largo

Purg. III, 1-4, 12-15

Avvegna che la subitana fuga
dispergesse color per la campagna,

rivolti al monte ove ragion ne fruga,
i’ mi ristrinsi a la fida compagna

la mente mia, che prima era ristretta,
lo ’ntento rallargò, sì come vaga,
e diedi ’l viso mio incontr’ al poggio
che ’nverso ’l ciel più alto si dislaga.

Purg. XXII, 16-21, 43-45, 73-75, 136-138; XXIII, 61-63, 67-69

mia benvoglienza inverso te fu quale
più strinse mai di non vista persona,
sì ch’or mi parran corte queste scale.
Ma dimmi, e come amico mi perdona
se troppa sicurtà m’allarga il freno,
e come amico omai meco ragiona:

Allor m’accorsi che troppo aprir l’ali
potean le mani a spendere, e pente’mi
così di quel come de li altri mali.

Per te poeta fui, per te cristiano:
ma perché veggi mei ciò ch’io disegno,
a colorare stenderò la mano.

Dal lato onde ’l cammin nostro era chiuso,
cadea de l’alta roccia un liquor chiaro
e si spandeva per le foglie suso.

Ed elli a me: “De l’etterno consiglio
cade vertù ne l’acqua e ne la pianta
rimasa dietro, ond’ io sì m’assottiglio ….
Di bere e di mangiar n’accende cura
l’odor ch’esce del pomo e de lo sprazzo
che si distende su per sua verdura”.

[LSA, prologus, Notabile XI] Sciendum quod sicut significatio unius dictionis sumitur aliquando large et aliquando stricte et proprie, et sicut manum vel vestem aliquando coartamus et aliquando in totam suam quantitatem explicamus, et aliquando quasi ultra proportionem sui status excessive extendimus, sic scripturas sacras et earum figuras aliquando coartamus a suo pleno sensu et aliquando ultra exigentiam litteralis proprietatis quasi extendimus, non quidem falso sed propter vim specialem et variam quam in se habent. […] Sub hiis autem modis possunt visiones huius libri particulariter vel totaliter ad alia tempora coaptari […].

Inf. XIII, 115-117, 151; XIV, 1-2

Ed ecco due da la sinistra costa,
nudi e graffiati, fuggendo sì forte,
che de la selva rompieno ogne rosta.

Io fei gibetto a me de le mie case.

Poi che la carità del natio loco
mi strinse, raunai le fronde sparte

Purg. III, 1-4

Avvegna che la subitana fuga
dispergesse color per la campagna,

rivolti al monte ove ragion ne fruga,
i’ mi ristrinsi a la fida compagna

Par. XII, 124-126

ma non fia da Casal né d’Acquasparta,
là onde vegnon tali a la scrittura,
ch’uno la fugge e altro la coarta.

[segue Notabile XI] Sub hiis autem modis possunt visiones huius libri particulariter vel totaliter ad alia tempora coaptari, ita quod tote ad unumquemque predictorum statuum, vel etiam ad unam partem ipsorum, possunt applicari. Ut, verbi gratia, Christus resurgens et Spiritum Sanctum discipulis mittens fuit tamquam eques in equo albo ad omnes vincendos triumphaliter in eis exiens (cfr. Ap 6, 2). Potentia vero Iudeorum contra ipsos inseviens fuit quasi equus rufus (cfr. Ap 6, 4). Versutia vero Scribarum fuit quasi equus niger (cfr. Ap 6, 5). Ypocrisis vero pseudoapostolorum fuit quasi equus pallidus (cfr. Ap 6, 8). Animalitas vero plurium gentilium tunc conversorum, contra quos scribit Paulus, expetebat in eis ultionem sanguinis Christi pro eis effusi et etiam laboris apostolorum pro eis assumpti, unde Paulus contra Galathas exclamat: “O insensati Galathe, quis vos fa[scin]avit non obedire veritati, ante quorum oculos Ihesus Christus proscriptus est et in vobis crucifixus?” (Gal 3, 1). Deinde per Neronem, misso contra Iudeam Vespasiano et Thito, factus est terremotus sinagogam quasi alteram Babilonem subvertens (cfr. Ap 6, 12), tuncque per martiria signati sunt ex duodecim tribubus apostolicis milites Christi (cfr. Ap 7, 3-4), ad quorum constantiam [et] miracula conversa est turba innumerabilis (cfr. Ap 7, 9), ita ut sub Constantino, vel etiam sub Iohanne de Patmos in Asiam gloriose reducto, sit “factum silentium” pacis “quasi media hora” et quasi septimus status (cfr. Ap 8, 1).

Par. XI, 1-3

O insensata cura de’ mortali,
quanto son difettivi silogismi
quei che ti fanno in basso batter l’ali!

[LSA, cap. IX, Ap 9, 3 (IIIa visio, Va tuba] Vocantur autem “locuste”, tum quia ad modum locuste alte saliunt per elationem, et hoc postremis cruribus quia vanam gloriam in omnibus finaliter intendunt, et ad terram recidunt per cupiditatem; tum quia instar locustarum postremis cruribus saliunt, proponendo scilicet in fine penitentiam agere et sic sperant ad gloriam eternam salire, pedibus vero anterioribus et toto ore terre adherent virentia cuncta rodentes; tum quia locusta est animal parvum et secundum legem mundum, habetque alas non ad altum et diuturnum volatum sed ad infimum et modicum. Et ideo partim designat ypocritas humilitatis et munditie et contemplativi volatus simulatores aliorum vitam detractionibus corrodentes et aliorum bona temporalia devorantes […]; partim etiam designat leves et volatiles clericos et monachos carnalia sectantes et per [ea] multis nocentes.

 

Tab. 20.2

[LSA, cap. II, Ap 2, 4.5 (Ia visio, Ia ecclesia)] In gratia enim accepta nimis secure vixerat et quedam negligenter egerat, et ideo de culmine sue perfectionis ceciderat ad minorationem sue perfectionis. Sed Dominus eum consulendo admonet ut penitendo gradum amissum recuperet, dicens (Ap 2, 5): “Memor esto itaque unde excideris, et age penitentiam et prima opera fac”. Quasi dicat: attende quod de fastigio tue perfectionis excideris et ad infimum perfectionis decideris, et age penitentiam de negligentia, et prima opera faciendo recupera primam gratiam». Hec Ricardus*. […] Item Ricardus, super Danielem, in expositione sompnii Nabucodonosor, ostendit […] Bonum est argento huiusmodi habundare, sed non minus stultum aurum suum in argentum mutare: “mittens enim manum ad aratrum et respiciens retro non est aptus regno Dei” (Lc 9, 62). Unde sermo divinus per increpationem ferit eum qui aureum opus in argentum commutat. […]**
Deinde, si non se correxerit, comminatur ei casum totalem dicens (Ap 2, 5): “Sin autem, venio tibi”, id est contra te. Dicit autem “venio”, non ‘veniam’, ut ex imminenti propinquitate sui adventus ipsum fortius terreat.
Et movebo candelabrum tuum de loco suo, nisi penitentiam egeris”, id est evellam a me et a fide mea in quo es fundata, secundum illud Apostoli Ia ad Corinthios III°: “Fundamentum aliud nemo potest ponere, preter id quod positum est, quod est Christus Ihesus” (1 Cor 3, 11).
Item per amotionem candelabri intelligit iactationem eorum in mortem eternam. Sicut enim finis virtualiter continetur in hiis que sunt ad finem, sic ultimum iudicium et ultimus Christi adventus ad ipsum in iudiciis precurrentibus subintelligitur.
Nota quod hanc comminationem subinfert triplici ratione. Prima est quia talis casus, scilicet a maiori bono in minus bonum et cum multis bonis adhuc restantibus, solet parvipendi. Per hanc autem comminationem ostendit quod non est parvipendendus, immo valde formidandus.

* In Ap I, v (PL 196, col. 716 C-D). ** De eruditione hominis interioris, I, xxiii (PL 196, coll. 1270 C-1271 C).

Inf. X, 91-92

Ma fu’ io solo, là dove sofferto
fu per ciascun di tòrre via Fiorenza 

Inf. XVII, 100-101, 106-107, 121, 125-126

Come la navicella esce di loco
in dietro in dietro, sì quindi si tolse

Maggior paura non credo che fosse
quando Fetonte abbandonò li freni

Allor fu’ io più timido a lo stoscio

lo scendere e ’l girar per li gran mali
che s’appressavan da diversi canti.

Inf. XX, 37-45

Mira c’ha fatto petto de le spalle;
perché volse veder troppo davante,
di retro guarda e fa retroso calle.
Vedi Tiresia, che mutò sembiante
quando di maschio femmina divenne,
cangiandosi le membra tutte quante;
e prima, poi, ribatter  li convenne
li duo serpenti avvolti, con la verga,
che rïavesse le maschili penne.

Purg. III, 25- 27; XI, 97-99; XXX, 124-126

Vespero è già colà dov’ è sepolto
lo corpo dentro al quale io facea ombra;
Napoli l’ha, e da Brandizio è tolto.

Così ha tolto l’uno a l’altro Guido           2, 5
la gloria de la lingua; e forse è nato
chi l’uno e l’altro caccerà del nido.

Sì tosto come in su la soglia fui
di mia seconda etade e mutai vita,
questi si tolse a me, e diessi altrui.

Par. XII, 112-120

Ma l’orbita che fé la parte somma        12, 17          
di sua circunferenza, è derelitta,
sì ch’è la muffa dov’ era la gromma.
La sua famiglia, che si mosse dritta
coi piedi a le sue orme, è tanto volta,
che quel dinanzi a quel di retro gitta;
e tosto si vedrà de la ricolta
de la mala coltura, quando il loglio
si lagnerà che l’arca li sia tolta.

[LSA, cap. XI, Ap 11, 19 (radix IVe visionis)] “Et visa est archa testamenti”, id est humanitatis Christi continentis in se totum novum testamentum, id est legem novam et novas promissiones eterne glorie et gratie et nova et eterna pacta nostre redemptionis. “Visa”, inquam, “est in templo eius”, id est [in] intimo et immenso sanctuario maiestatis Dei. Vel per “templum” intelligitur vetus testamentum et per “archam” novum, quod est evangelica humilitate et paupertate et carnis ac generationis carnalis restrictione minus quam vetus, sicut archa erat multo minor templo.

[LSA, cap. XI, Ap 11, 1-2 (IIIa visio, VIa tuba)] Sicut enim in trituratione messium multitudo palee segregatur a grano, sic in illa cribratione et trituratione ecclesie separabuntur publice ab electis palee et quisquilie, et hoc tam per vim tribulationis paleas dispergentis et palam apostatare seu veritati repugnare facientis, tum quia tunc spiritales et precipue eorum rectores summe studebunt se et suos sequestrare a carnalibus et a quibuscumque non consentaneis evangelice veritati et puritati.
Potest etiam per “templum” designari religio evangelica, per “altare” vero veritas fidei catholice seu ipse Christus aut perfectiores sancti religionis prefate, per “adorantes” vero Deum “in eo” omnes fideles sectatores religionis predicte eius fidei et cultui devote et fideliter innitentes.

[LSA, cap. XIV, Ap 14, 13.15-16 (IVa visio, VIIum prelium] “Et audivi vocem” (Ap 14, 13). Que sequuntur possunt referri ad beatam requiem eterne glorie vel illius spiritalis pacis quam post Antichristum sancti, huic mundo spiritaliter mortui, participabunt. Et consimiliter subscripta messio et vindemiatio potest referri vel ad extremum iudicium in quo electi colligentur ut triticum in horreum Dei, reprobi vero velut uve calcabuntur in lacu inferni, vel potest referri ad collectionem electorum fiendam tempore Antichristi et post et ad dampnationem Antichristi et suorum. […] Quod etiam “messis” non pro palea vel pro zizaniis, sed pro grano tritici sumatur hic in bono, satis probatur ex hoc quod Christus Matthei XIII° (Mt 13, 30) dicit, quod messores, collectis zizaniis ad comburendum, congregabunt triticum in horreum Domini.

 

21Sempre pospuosi la sinistra cura

Bonaventura dichiara di aver sempre posposto la “sinistra cura” nei grandi offici, cioè di aver privilegiato il potere spirituale sul temporale (Par. XII, 127-129). San Pietro afferma che non fu intenzione sua e dei primi pontefici dividere il popolo cristiano parte alla destra e parte alla sinistra mano, alludendo al favore dato dal papato ai Guelfi contro i Ghibellini (Par. XXVII, 46-48). Per comprendere le parole di Bonaventura bisogna esaminare il significato di “destra” e “sinistra” nel poema.

E poi ch’a la man destra si fu vòlto (Inf. IX, 132). “Fatto nuovo” – osservava lo Scartazzini (1893), dandogli un senso ripreso nel commento (1991) di Anna Maria Chiavacci Leonardi (eretici e fraudolenti indicano ipocrisia e falsità; a destra sta la rettitudine che le combatte) – volutamente notato in questo caso, all’ingresso del cerchio degli eretici, e nell’andare verso Gerione ipocrita per antonomasia (Inf. XVII, 31): i soli due casi destrorsi nella prima cantica, dove per regola ci si volge sempre a sinistra. “Il significato allegorico della mossa non trova, nell’antica esegesi, una decifrazione minimamente plausibile”: così nel commento (2007) di Giorgio Inglese.
Non sembra tuttavia che l’interpretazione scartazziniana regga a un confronto con i ben diversi significati suggeriti dalla Lectura super Apocalipsim, collazionando i passi dove si tratta della ‘mano destra’.
Fra le dodici perfezioni di Cristo sommo pastore trattate nella prima visione, l’ottava consiste nel potere di presiedere e contenere non solo le chiese ma anche i loro rettori, cioè i vescovi, che rilucono sopra le chiese come una lucerna o una stella sopra il candelabro del santuario. Per questo si dice: “e aveva nella sua destra sette stelle” (Ap 1, 16). Un vescovo deve sempre avere in sé “potestative, exemplariter et causaliter”, come Cristo, tutte le perfezioni stellari dei prelati inferiori e le deve tenere nella mano destra, cioè dalla parte che designa il potere spirituale, mentre la mano sinistra designa il potere temporale e mondano.
Alla chiesa di Efeso (la chiesa del primo stato) Cristo si propone ancora come colui che tiene nella sua destra le sette stelle, che cioè ha potestà sui vescovi, e che cammina nel mezzo dei candelabri, cioè delle chiese (Ap 2, 1). Lo fa per tre motivi. In primo luogo per mostrare che egli conosce intimamente ogni male  e bene operato dai vescovi, ogni loro atto o pensiero, tenendoli, stando nel loro mezzo, visitandoli continuamente, scrutandoli, penetrandoli, osservandoli. Egli è infatti colui che percorre e visita tutte le chiese presenti e future. In secondo luogo per mostrare che essi debbono temere le minacce, i giudizi, i moniti da lui fatti, osservare i suoi precetti e le sue parole, amarlo e sperare in lui, in quanto egli è il loro giudice e signore che ha potestà su di essi e li scruta con la massima circospezione. È anche il pio pastore che li protegge e li custodisce. In terzo luogo perché il vescovo metropolitano (tale è la sede di Efeso) ha potestà e cura sulle altre chiese.
Nel capitolo quinto il libro appare a Giovanni nella destra di Dio, sia perché è nella sua potenza e facoltà l’aprirlo, sia perché contiene le promesse di grazia e di gloria fatte da Cristo e anche le elargizioni e le preparazioni che spettano alla mano destra come le avversità e le cose temporali spettano alla sinistra (Ap 5, 1).

La mano destra indica dunque il potere di colui che guida e regge, penetra i pensieri altrui, si volge secondo i disegni divini, minaccia, tiene. Questi motivi spiegano perché nell’inferno Dante e Virgilio si volgono sempre a sinistra, salvo che verso Farinata e verso Gerione (Inf. IX, 132; XVII, 31-33). Nei due casi l’andare a destra, tra le arche roventi o nel torcersi della via verso la bestia, non ha alcuna attinenza con gli eretici o con la frode. Virgilio, come Cristo, tiene nella destra le sette stelle, cioè ha piena potestà sulle chiese che visita. Nel primo caso, subito dopo aver notato che la direzione è la destra, Dante si rivolge alla sua guida definendola “virtù somma, che per li empi giri / mi volvi … com’ a te piace” (Inf. X, 4-5). Virgilio conosce il desiderio celato da Dante di vedere Farinata, come un vescovo conosce ogni atto o pensiero dei suoi sottoposti (ibid., 18).
Nell’episodio della corda, per la quale Gerione viene in su dall’abisso di Malebolge, Virgilio è considerato fra “color che non veggion pur l’ovra, / ma per entro i pensier miran col senno” (Inf. XVI, 118-120). Così, nell’andare verso la bestia, lo scendere “a la destra mammella” indica la potestà che Virgilio ha su di essa, che pure possiede tutte le caratteristiche dell’Anticristo. All’ordine di montare in groppa al fiero animale Dante si sente come il malarico che prova ribrezzo del freddo, ma lo minaccia la vergogna, che rende il servo forte sull’esempio del suo signore valoroso (Inf. XVII, 85-90). Una volta salito, Virgilio l’abbraccia e lo sostiene (ibid., 94-96). A Virgilio, come a un perfetto prelato, sono pertanto adattate per analogia alcuni aspetti delle proprietà di Cristo sommo pastore, secondo quanto scritto da Olivi ad Ap 1, 18:

Notandum autem quod perfectiones predicte possunt anologice coaptari perfectis prelatis sub Christo, ita quod eorum perfectiones ascribantur Christo sicut cause efficienti et exemplari. Possunt sibi etiam ascribi tamquam capiti corporis mistici, et tunc per membra Christi hic posita possunt significari diversi electi, qui sunt mistica membra Christi, puta per oculos contemplativi, per pedes activi, per os autem seu per vocem doctores et iudices seu correctores.

Questo vestire di panni vescovili i personaggi, imitatori di Cristo, è sintomo di come il “saeculum humanum” e il sapere classico abbiano conquistato la propria autonomia partecipando alla storia sacra e appropriandosi di sacre prerogative. Non solo Virgilio, per il quale Beatrice riporterà lodi a Dio (Inf. II, 73-74), ma, per converso, anche “l’anime più nere” fra le quali è Farinata (cfr. Inf. VI, 85-87). Ad Ap 2, 1 si dice che i sette vescovi d’Asia vengono lodati, rimproverati o istruiti non solo per sé ma anche per le chiese cui sovraintendono. Ciò è reso evidente sia dall’espressione, che si applica a ogni chiesa e non è rivolta solo ai vescovi, “chi ha orecchio ascolti quello che lo Spirito dice alle chiese” (cfr. Ap 2, 7), sia dal fatto che nella quinta chiesa si eccettuano pochi nomi di buoni (Ap 3, 4), sia dal rivolgersi alla quarta chiesa – “dico questo a voi e agli altri che siete di Tiàtira” (Ap 2, 24), sia dal fatto che la pena del trasferimento del candelabro minacciata al primo vescovo, di Efeso, cioè di passare ad altra chiesa il primato, riguarda tanto il vescovo quanto la chiesa che partecipa della colpa attribuita al suo primate (Ap 2, 5). Il tema della compartecipazione della chiesa con il vescovo, che non è il solo a operare il bene o il male, è nelle parole di Farinata a Dante che gli ha spiegato come le spietate leggi fiorentine contro gli Uberti siano conseguenza del ricordo della strage di Montaperti, “lo strazio e ’l grande scempio / che fece l’Arbia colorata in rosso”: non fu solo lui, capo della parte ghibellina, a muovere, lo fece con gli altri. Non fu un muovere senza ragione, e in questo il magnanimo forse recita il tema che ad Ap 16, 1 è proprio degli angeli ministri del giudizio divino, che muovono all’esecuzione del proprio officio di versare le coppe, per punire o purgare, non per propria volontà o animosità ma per compiere un mandato superiore (Inf. X, 88-90), come nel caso di Cesare, che si mosse “per voler di Roma” (Par. VI, 55-57).
In precedenza, il tema si trova nelle parole di Ciacco, che non è la sola “anima trista” ad essere fiaccata dalla pioggia, “ché tutte queste a simil pena stanno / per simil colpa”, espressione probabilmente memore della bestia ottava di Ap 17, 11, la quale “similter peccat et similiter punietur” come le altre sette (Inf. VI, 55-57; cfr. Inf. IX, 130-131: “Simile qui con simile è sepolto”). Una variazione del tema è in Ugo Capeto, che tra gli avari purganti non è il solo a dire del bene, cioè degli esempi virtuosi ripetuti nel girone durante il giorno (Purg. XX, 121-123).

La mano destra designa anche il pieno possesso delle perfezioni stellari (Ap 1, 16: da intendere come i doni dello Spirito, ai quali presiedono i sette vescovi), unitamente alle elargizioni di grazia divina (promesse contenute nel libro, ad Ap 5, 1 tenuto nella destra di Colui che siede sul trono, chiuso da sette sigilli che Cristo, nella storia, progressivamente apre).
Nel suo ultimo viaggio Ulisse si lascia alla mano destra “Sibilia” (Inf. XXVI, 110). Da un punto di vista geografico si tratta di Siviglia. “Sibilia” tuttavia può contenere un’allusione, per concordanza di suono, alla Sibilla cumana, ossia all’andata di Enea “ad immortale secolo” dove “intese cose che furon cagione / di sua vittoria e del papale ammanto” (cfr. Inf. II, 13-27): la mano destra contiene infatti le promesse di grazia e di gloria fatte da Cristo. Passate le colonne d’Ercole, il viaggio prosegue verso sinistra (“sempre acquistando dal lato mancino”), cioè verso sud-ovest, mentre nelle notti appaiono tutte le stelle dell’altro emisfero (Inf. XXVI, 126-128): la perfezione stellare, nel caso di Ulisse, è tenuta nella mano sbagliata. All’opposto è Dante, il quale, uscito dall’aura morta infernale, si volge “a man destra” verso il polo australe e vede “quattro stelle / non viste mai fuor ch’a la prima gente” (Purg. I, 22-24): esse designano le quattro virtù cardinali; le altre tre (le virtù teologali) saliranno al posto delle prime allorché il poeta si troverà nella valletta dei principi (Purg. VIII, 88-93). Così di Dante si può dire che abbia anch’egli, come Cristo, nella sua destra sette stelle.
A Dante sono ancora appropriati, nelle parole di rimprovero pronunciate da Beatrice nell’Eden, i motivi connessi alla “destra di Dio” che contiene le elargizioni della grazia provenienti dall’alta mente divina (“che sì alti vapori hanno a lor piova, / che nostre viste là non van vicine”), a lui date “ne la sua vita nova” (l’espressione si trova ad Ap 5, 9, nell’esegesi del “canticum novum”) prima che il “mal seme e non cólto” lo facesse cadere, dopo la morte della sua donna, tanto in basso (Purg. XXX, 109-117). Elargizioni stellari attestate infine, senza riferimento esplicito alla ‘destra’, nell’invocazione ai Gemelli (Par. XXII, 112-120).

Tab. 21

[LSA, cap. V, Ap 5, 1 (radix IIe visionis)] Visus autem est “in dexteraDei, tum quia est in eius plena potentia et facultate, tum quia continet promissiones Christi gratie et glorie et etiam largitiones et preparationes, que dicuntur spectare ad dexteram sicut adversa vel bona temporalia dicuntur spectare ad sinistram. Erat etiam “in dextera sedentis super tronum”, tum quia continet leges et precepta summi imperatoris et sententias et iudicia summi iudicis, tum quia altam et stabilem et maturam et quietam ac recollectam mentem requirit ad hoc quod intellectualiter haberi et intelligi possit, unde et talis est intelligentia Dei.

[LSA, cap. I, Ap 1, 16 (radix Ie visionis)] Octava (perfectio summo pastori condecens) est potestativa presidentia et continentia non solum ecclesiarum sed etiam suorum rectorum, unde subdit: “et habebat in dextera sua septem stellas” (Ap 1, 16), per quas ut infra dicetur (cfr. Ap 1, 20) designantur septem episcopi ecclesiarum. Episcopus enim debet sic super ecclesiam sibi subiectam lucere et presidere sicut lux lucerne stabat quasi stella super candelabrum sanctuarii (cfr. Ex 25, 37). Sicut etiam inferiora illuminantur et reguntur per stellas, sic ecclesie per sanctos episcopos.
Quia vero dextera manus est potentior quam sinistra, ideo dicit quod Christus habet eas “in dextera sua”, tamquam eius summe potentie subiectissimas. Quia etiam dextera designat potentiora bona et potentiorem partem, ideo dicuntur esse in dextera Christi quia spiritualem potestatem et statum dedit episcopis, temporalem vero regibus mundi, et ideo illi sunt quasi in sinistra Christi. Nota etiam per hoc innui quod superior prelatus debet potestative et exemplariter et causaliter in se habere omnes stellares perfectiones inferiorum prelatorum, quod utique Christus plenissime habet.

Inf. IX, 132-133; X, 1-6, 16-18; XVII, 31-33, 83, 89-90, 94-96

E poi ch’a la man destra si fu vòlto,
passammo tra i martìri e li alti spaldi.

Ora sen va per un secreto calle,
tra ’l muro de la terra e li martìri,
lo mio maestro, e io dopo le spalle.
“O virtù somma, che per li empi giri
mi volvi”, cominciai, “com’ a te piace,
parlami, e sodisfammi a’ miei disiri. ……
“Però a la dimanda che mi faci
quinc’ entro satisfatto sarà tosto,
e al disio ancor che tu mi taci”.

Però scendemmo a la destra mammella,
e diece passi femmo in su lo stremo,
per ben cessar la rena e la fiammella. ……
monta dinanzi, ch’i’ voglio esser mezzo ……
ma vergogna mi fé le sue minacce,
che innanzi a buon segnor fa servo forte. ……
Ma esso, ch’altra volta mi sovvenne
ad altro forse, tosto ch’i’ montai
con le braccia m’avvinse e mi sostenne

Inf. XXVI, 110-111, 126-128

da la man destra mi lasciai Sibilia,
da l’altra già m’avea lasciata Setta.

sempre acquistando dal lato mancino.
Tutte le stelle già de l’altro polo
vedea la notte ……………………..

Par. XII, 127-129

Io son la vita di Bonaventura
da Bagnoregio, che ne’ grandi offici
sempre pospuosi la sinistra cura.

Purg. I, 22-24

I’ mi volsi a man destra, e puosi mente
a l’altro polo, e vidi quattro stelle
non viste mai fuor ch’a la prima gente.

Purg. XXX, 112-117

ma per larghezza di grazie divine,
che sì alti vapori hanno a lor piova,
che nostre viste là non van vicine,
questi fu tal ne la sua vita nova
virtüalmente, ch’ogne abito destro
fatto averebbe in lui mirabil prova.

[Ap 5, 9] Et ideo tertius vel, secundum Ricardum, quartus actus est decantatio laudis. Unde subditur (Ap 5, 9): “Et cantabant canticum novum”. Novum quidem, tum quia omnia que de Christo cantantur sunt nova, est enim novus homo et nova eius lex et vita et familia et gloria; tum quia numquam veterascit nec est de aliquo veteri et caduco et cito interituro, sed de eternis aut ad eternitatem ordinatis; tum quia renovat et in novitate divina conservat suos cantatores.

Par. XXII, 112-120

O glorïose stelle, o lume pregno
di gran virtù, dal quale io riconosco
tutto, qual che si sia, il mio ingegno,
con voi nasceva e s’ascondeva vosco
quelli ch’è padre d’ogne mortal vita,
quand’ io senti’ di prima l’aere tosco;
e poi, quando mi fu grazia largita
ne l’alta rota che vi gira,
la vostra regïon mi fu sortita.

Par. XXVII, 46-48

Non fu nostra intenzion ch’a destra mano
d’i nostri successor parte sedesse,
parte da l’altra del popol cristiano

[LSA, cap. II, Ap 2, 1 (Ia visio, Ia ecclesia)] Secundum est Christi alloquentis hanc ecclesiam et eius episcopum introductio, cum subditur (Ap 2, 1): “Hec dicit qui tenet septem stellas in dextera sua, qui ambulat in medio septem candelabrorum aureorum”. Utitur autem tentione stellarum, id est episcoporum, et perambulatione candelabrorum, id est ecclesiarum, triplici ex causa. Prima est ut ostendat se intime scire omnia bona et mala ipsorum, quasi diceret: ille qui bene scit omnes vestros actus et cogitatus, tamquam infra se immediate vos omnes tenens et tamquam in medio vestrum existens et omnia vestra continue perambulans et perscrutans et immediate percurrens seu conspiciens, dicit vobis hec que sequuntur. Secunda est ad monstrandum quod merito habent ipsum et eius minas et iudicia metuere eiusque monita et precepta servare, et etiam quod habent ipsum amare et in ipso sperare et ex eius amore et spe omnia verba eius servare, quia ipse est eorum iudex et dominus ipsos prepotenter tenens et circumspectissime examinans. Ipse etiam est pius pastor eos protegens et custodiens, et pro eorum custodia eos semper tenens et visitans. Tertia est quia metropolitano episcopo et eius metropoli ceteras ecclesias sub se habenti hic loquitur, et ideo significat se habere potestatem et curam super omnes septem episcopos et eorum ecclesias. Tentio enim significat potestatem et perambulatio vero curam. […] Ad humiliationem autem sue superbie et manifestationem primatus Christi super legalia et super omnia secula valet quod premittitur Christus tenere in sua dextera “septem stellas” (Ap 2, 1), id est omnes preclaros principes et prelatos omnium ecclesiarum presentialiter precurrere ac visitare omnes ecclesias presentes et futuras. Ex quo patet quod Christus est summus rex et pontifex, et quod multe alie sollempnes ecclesie preter Ierosolimitanam ecclesiam sunt et esse debebant sub Christo, ita quod non oportebat eam superbire de suo primatu (cfr. Ap 2, 5).

 

22. Gioacchino da Fiore, profeta della nuova età.

La misteriosa terza ghirlanda.

■ L’apertura del sesto sigillo (Ap 6, 12) avviene in quattro diversi momenti temporali:

1) un inizio profetico, con Gioacchino da Fiore (e altri a lui contemporanei), al quale fu rivelato in spirito il sesto stato, cioè la terza età: corrisponde al Vangelo di Luca, che inizia dal sacerdozio di Zaccaria, al quale fu rivelato l’avvento di Cristo e del suo precursore Giovanni Battista;

2) un inizio generazionale – “sue generationis et plantationis initium” – con il rinnovamento della regola evangelica fatto da Francesco: corrisponde al Vangelo di Matteo, che inizia dall’umana generazione di Cristo;

3) un inizio di nuova fioritura della pianta dovuta al risvegliarsi dello Spirito di Cristo e di Francesco in alcuni predicatori, nel momento in cui la regola francescana viene impugnata e condannata da Babylon, la Chiesa carnale – “a suscitatione spiritus seu quorundam ad spiritum Christi et Francisci … a predicatione vero spiritualium suscitandorum et a nova Babilone reprobandorum sumet initium refloritionis seu repullulationis”: corrisponde al Vangelo di Marco, che inizia dalla predicazione di Cristo e Giovanni Battista;

4) l’ultimo inzio dalla distruzione di Babylon, allorché non ci sarà più concurrentia fra quinto e sesto stato (iniziato con Francesco ancora sotto l’egida del quinto) e il sesto si distinguerà con chiarezza dallo stato precedente: corrisponde al Vangelo di Giovanni, che inizia dall’eternità del Verbo e dalla sua eterna generazione.

“Rabano è qui, e lucemi dallato / il calavrese abate Giovacchino / di spirito profetico dotato” (Par. XII, 139-141). Per quanto le parole di Bonaventura possano essere memori dell’antifona dei Vespri della liturgia florense, spesso citata in proposito – “Beatus Ioachim, / spiritu dotatus prophetico” -, dal confronto con la Lectura Gioacchino appare in primo luogo, per Olivi e Dante, il profeta del sesto stato, del novum saeculum, della rinnovata età augustea. Il sesto e il settimo stato della Chiesa coincidono, per Olivi, con la terza età di Gioacchino da Fiore. Non si tratta tuttavia di uno “status Spiritus sancti” come quello contestato da Tommaso d’Aquino all’abate calabrese [1]; lo Spirito che vi opera è infatti lo Spirito di Cristo – “per Spiritum suum” -, il quale “non inaugura … un’epoca nuova ma porta a compimento e a pienezza il tempo della Chiesa nel Nuovo Testamento” [2]. Per il francescano l’età dello Spirito non è appropriazione a una persona della Trinità, ma manifestazione compiuta dello Spirito di Cristo, interno dettatore che subentra alla voce esteriore della sua umanità (per altro non completamente abbandonata).

Il confronto testuale fra Commedia e Lectura super Apocalipsim risolve il problema, a lungo dibattuto, del rapporto tra Dante e Gioacchino da Fiore. Dante conobbe Gioacchino solo attraverso l’Olivi e le sue circa centocinquanta citazioni nella Lectura. Dal confronto si vede come i testi dell’abate calabrese passino in Olivi e di qui, con in più quel che è proprio del francescano, in Dante. Gioacchino da Fiore è dunque presente nella Commedia in modo diffuso, perché le numerose sue citazioni nella Lectura sono inserite nella generale metamorfosi di questa.

[1] Cfr. l’obiezione mossa da TOMMASO D’AQUINO a quanti, come Gioacchino da Fiore, dicevano si dovesse attendere uno “status tertius Spiritus Sancti, in quo spirituales viri principabuntur”: “Alio modo status hominum variari potest secundum quod homines diversimode se habent ad eandem legem, vel perfectius vel minus perfecte. Et sic status veteris legis frequenter fuit mutatus: cum quandoque leges optime custodirentur, quandoque omnino praetermitterentur. Sic etiam status novae legis diversificatur, secundum diversa loca et tempora et personas, inquantum gratia Spiritus Sancti perfectius vel minus perfecte ab aliquibus habetur. Non est tamen expectandum quod sit aliquis status futurus in quo perfectius gratia Spiritus Sancti habeatur quam hactenus habita fuerit, maxime ab Apostolis, qui primitias Spiritus acceperunt, idest et tempore prius et ceteris abundantius, ut Glossa dicit Rom. 8, [23]” (Summa theologiae, Ia IIae, q. 106, a. 4: Utrum lex nova sit duratura usque ad finem mundi).

[2] P. VIAN, Fra Gioacchino da Fiore e lo spiritualismo francescano: Lo Spirito Santo nella Lectura super Apocalipsim di Pietro di Giovanni Olivi, in Lo Spirito Santo, in “Parola spirito e vita. Quaderni di lettura biblica”, 38 (1998/2), p. 248.

Tab. 22.1

[LSA, cap. VI, Ap 6, 12 (IIa visio, apertio VIi sigilli)] Hoc igitur commemorato, est adhuc notandum a quo tempore debeat sumi initium huius sexte apertionis.

Videtur enim quibusdam quod ab initio ordinis et regule sancti patris prefati;

aliis vero quod a sollempni revelatione tertii status generalis continentis sextum et septimum statum ecclesie facta abbati Ioachim, et forte quibusdam aliis sibi contemporaneis;

aliis vero quod ab exterminio Babilonis, id est ecclesie carnalis, per decem cornua bestie, id est per decem reges, fiendo (cfr. Ap 17, 12/16);

aliis vero quod a suscitatione spiritus seu quorundam ad spiritum Christi et Francisci, tempore quo eius regula est a pluribus nequiter et sophistice impugnanda et condempnanda ab ecclesia carnalium et superborum, sicut Christus condempnatus fuit a sinagoga reproba Iudeorum. Hoc enim oportet preire temporale exterminium Babilonis, sicut Christi et suorum condempnatio a Iudeis preivit temporale exterminium sinagoge.

Sciendum autem quattuor sententias predictas sane assumptas non esse sibi contrarias, sed concordes. Sicut enim Luchas inchoat Christi evangelium a sacerdotio Zacharie, cui facta est prophetica revelatio de Christo statim venturo et de Iohanne eius immediato precursore; Mattheus vero ab humana Christi generatione; Marchus vero a Christi et Iohannis predicatione; Iohannes vero a Verbi eternitate et eterna generatione, sic hec sexta apertio sumpsit quoddam prophetale initium a revelatione abbatis et consimilium; a renovatione vero regule evangelice per servum eius Franciscum sumpsit sue generationis et plantationis initium; a predicatione vero spiritualium suscitandorum et a nova Babilone reprobandorum sumet initium refloritionis seu repullulationis; a destructione vero Babilonis sumet initium sue clare distinctionis a quinto statu et sue distincte clarificationis, iuxta quod et dicimus legalia quantum ad obligationem necessariam fuisse mortificata in Christi passione et resurrectione et tandem sepulta et effecta mortifera in evangelii pl[e]na promulgatione et in templi legalis per Titum et Vespasianum destructione.

Par. XII, 139-141

Rabano è qui, e lucemi dallato
il calavrese abate Giovacchino
di spirito profetico dotato.

Par. XIV, 67-81

Ed ecco intorno, di chiarezza pari,
nascere un lustro sopra quel che v’era,
per guisa d’orizzonte che rischiari.
E sì come al salir di prima sera
comincian per lo ciel nove parvenze,
sì che la vista pare e non par vera,
parvemi lì novelle sussistenze
cominciare a vedere, e fare un giro
di fuor da l’altre due circunferenze.   3 x 12 = 36
Oh vero sfavillar del Santo Spiro!
come si fece sùbito e candente
a li occhi miei che, vinti, nol soffriro!
Ma Bëatrice sì bella e ridente
mi si mostrò, che tra quelle vedute
si vuol lasciar che non seguir la mente.

 

■ Al termine della sua permanenza nel cielo del Sole, quando la “voce modesta” di Salomone ha cessato di parlare, Dante vede una terza ghirlanda, di pari luminosità, circondare le altre due nelle quali si sono mostrati i 24 nominati spiriti sapienti. Questi crescono dunque di numero fino a 36. I 12 della terza ghirlanda non sono però nominati. Si tratta, come qualcuno ha ritenuto, dei futuri sapienti della terza età di Gioacchino da Fiore, e ciò sarebbe confermato dall’esclamazione che segue tale vista: “Oh vero sfavillar del santo Spiro!” (Par. XIV, 67-78) [3]. Ma in nessun modo le prime due ghirlande possono riferirsi rispettivamente alla prima età gioachimita (del Padre) e alla seconda (del Figlio): ivi si mostrano infatti mischiati personaggi sia del Vecchio come del Nuovo Testamento [4]. Inoltre nel Paradiso trionfano i temi del sesto stato, che è parte dell’età dello Spirito di Gioacchino; questa è già operante e non profeticamente futura; tutti i beati, in modo differenziato, vi partecipano. La terza corona, invece, fa segno del valore del numero 24, che cresce in 36, numero indice di maturità e sapienza.

Ad Ap 4, 4 Olivi si sofferma sul numero 24, proprio dei seniori circondanti la sede divina, numero che corrisponde ai 144.000 segnati (Ap 7, 4) uniti ai 144.000 compagni dell’Agnello (Ap 14, 1), in modo che ciascun seniore sia preposto a una schiera di 12.000, che forma come il suo seggio. Il numero 24, che è quello dei pontefici e delle classi o sorti stabilite da Davide, è numero copioso, in quanto cresce di 12. È infatti divisibile per 1, 2, 3, 4, 6, 8, 12, che insieme fanno 36. È pertanto un numero che si addice all’abbondanza della maturità e della sapienza dei consiglieri del sommo giudice. È integrato da 2 x 12 e da 12 x 2, perché contiene la perfezione apostolica che concorda con la doppia carità (verso Dio e verso il prossimo). Sorge da 3 x 8, indicando in tal modo la gloria della resurrezione (Cristo risorse nell’ottavo giorno) che nelle tre età generali del mondo viene data ai santi e ai cultori della Trinità.

A questa esegesi rinvia l’elenco degli “spiriti magni” che stanno nel “nobile castello” del Limbo: da “I’ vidi Eletra con molti compagni” (Inf. IV, 121) a “Averoìs che ’l gran comento feo” (ibid., 144) è infatti compreso in 24 versi (otto terzine). I personaggi sono divisi in due gruppi: il primo (in tre terzine: vv. 121-129) comprende gli eroi che si distinsero nella vita attiva; il secondo (vv. 130-144) annovera i contemplativi, cioè filosofi, moralisti e scienziati. Nel primo gruppo sono nominati 14 personaggi, di cui 2 seduti, il re Latino e sua figlia Lavinia. Il re Latino è collocato al centro, in quanto il suo nome compare nel quinto dei nove versi che ritraggono il gruppo. Tolte le due figure sedute e regali, restano 12 nomi (Elettra, Ettore, Enea, Cesare, Camilla, Pentesilea, Bruto, Lucrezia, Julia, Marzia, Cornelia, il Saladino “solo, in parte”). Il secondo gruppo, collocato un po’ più in alto del primo, ha come centro la triade formata da Aristotele che siede e Socrate e Platone che gli stanno più vicino degli altri (due terzine: vv. 130-135). Seguono 18 personaggi (tre terzine: vv. 136-144). Se a questi si aggiunge “la sesta compagnia”, cioè i sei poeti (Omero, Orazio, Ovidio, Lucano, Virgilio, Dante) si ottiene il numero 24, che sommato ai primi 12 ‘assistenti’ al trono di Latino e Lavinia dà 36.

Anche le parole con le quali san Bernardo descrive i “gran patrici” che siedono sugli “scanni” dell’Empireo sono articolate, come l’elenco degli “spiriti magni” che stanno nel “nobile castello” del Limbo, in 24 versi (otto terzine) a Par. XXXII, 115-138. La ‘figura’ terrestre ha così la sua consumazione nel cielo da cui discende “la provedenza, che governa il mondo / con quel consiglio nel quale ogne aspetto / creato è vinto pria che vada al fondo” (Par. XI, 28-30).

[3] Così M. PICONE, Canto XIV, in Lectura Dantis Turicensis. Paradiso, pp. 203-217: 210-212.

[4] Cfr. F. BAUSI, Dante fra scienza e sapienza, pp. 108-110.

Tab. 22.2

[LSA, cap. IV, Ap 4, 4 (radix IIe visionis)] Dicuntur autem esse “in circuitu sedis”, quia ad defensionem et protectionem sancte matris ecclesie ordinati sunt quasi murus eius et etiam sicut famuli eius. Sicut enim sedes Dei integratur ex ecclesia plenitudinis gentium et ex finali ecclesia reliquiarum Iudeorum et gentium tamquam ex parte sinistra et dextera, sic duodecim principes unius partis stant ad sinistram sedis et duodecim principes alterius partis stant ad dexteram eius. Per eorum autem sedilia designantur ecclesie eis subiecte. Infra autem ponuntur CXLIIII milia signati (Ap 7, 4) et iterum CXLIIII milia agni (Ap 14, 1), ut sic XXIV senioribus subiaceant bis CXLIIII milia, unicuique scilicet seniorum una legio habens XII milia, unaqueque legio autem est sedile senioris sibi presidentis sicut tota universalis ecclesia est sedes Dei. Sive autem sic sive aliter, mistica tamen ratio numeri seniorum hic positi sumitur ex proprietatibus ipsius numeri et ex XXIV pontificibus eorumque XXIV sortibus per regem David constitutis, de quibus habetur I° Paralipomenon XXIIII° (1 Par 24, 1-19).
Prefatus enim numerus est habundans. Nam eius parte[s] aliquote, simul sumpte, ultra ipsum superexcrescunt in duodecim. Habet enim partes septem aliquotas, scilicet unum, duo, tria, quattuor, sex, octo, duodecim, que faciunt XXXVI. Et ideo predictus numerus congruit superhabundanti maturitati et sapientie seniorum, qualem condecet esse in consiliis et iudiciis summi Dei. Integratur etiam ex duobus duodenariis et ex duodecim binariis, tamquam continens perfectionem apostolicam in concordia gemine caritatis. Consurgit etiam ex tribus octonariis, tamquam resurrectionis gloriam sanctis trium temporum et sancte Trinitatis cultoribus dandam esse designans.

Inf. IV, 121-144 = 24 versi 8 terzine

I’ vidi Eletra con molti compagni,          v. 121
tra ’ quai conobbi Ettòr ed Enea,
Cesare armato con li occhi grifagni.
Vidi Cammilla e la Pantasilea;                 6
da l’altra parte vidi ’l re Latino
che con Lavina sua figlia sedea.
Vidi quel Bruto che cacciò Tarquino,
Lucrezia, Iulia, Marzïa e Corniglia;
e solo, in parte, vidi ’l Saladino.              6                                                                                                                                                       [12]
Poi ch’innalzai un poco più le ciglia,
vidi ’l maestro di color che sanno
seder tra filosofica famiglia.
Tutti lo miran, tutti onor li fanno:
quivi vid’ ïo Socrate e Platone,
che ’nnanzi a li altri più presso li stanno;

Democrito che ’l mondo a caso pone,   18
Dïogenès, Anassagora e Tale,
Empedoclès, Eraclito e Zenone;
e vidi il buono accoglitor del quale,
Dïascoride dico; e vidi Orfeo,
Tulïo e Lino e Seneca morale;
Euclide geomètra e Tolomeo,
Ipocràte, Avicenna e Galïeno,
Averoìs che  ’l gran comento feo.       v. 144

La sesta compagnia in due si scema …                                                                            6
_____________________________________
                                                                    36

Inf. IV, 121-144 = 24 versi

I’ vidi Eletra con molti compagni,
tra ’ quai conobbi Ettòr ed Enea,
Cesare armato con li occhi grifagni.
Vidi Cammilla e la Pantasilea;
da l’altra parte vidi ’l re Latino
che con Lavina sua figlia sedea.
Vidi quel Bruto che cacciò Tarquino,
Lucrezia, Iulia, Marzïa e Corniglia;
e solo, in parte, vidi ’l Saladino.
Poi ch’innalzai un poco più le ciglia,
vidi ’l maestro di color che sanno
seder tra filosofica famiglia.
Tutti lo miran, tutti onor li fanno:
quivi vid’ ïo Socrate e Platone,
che ’nnanzi a li altri più presso li stanno;
Democrito che ’l mondo a caso pone,
Dïogenès, Anassagora e Tale,
Empedoclès, Eraclito e Zenone;
e vidi il buono accoglitor del quale,
Dïascoride dico; e vidi Orfeo,
Tulïo e Lino e Seneca morale;
Euclide geomètra e Tolomeo,
Ipocràte, Avicenna e Galïeno,
Averoìs che  ’l gran comento feo.

Par. XXXII, 115-138 = 24 versi

Ma vieni omai con li occhi sì com’ io
andrò parlando, e nota i gran patrici
di questo imperio giustissimo e pio.
Quei due che seggon là sù più felici
per esser propinquissimi ad Agusta,
son d’esta rosa quasi due radici:
colui che da sinistra le s’aggiusta
è ’l padre per lo cui ardito gusto
l’umana specie tanto amaro gusta;
dal destro vedi quel padre vetusto
di Santa Chiesa a cui Cristo le chiavi
raccomandò di questo fior venusto.
E quei che vide tutti i tempi gravi,
pria che morisse, de la bella sposa
che s’acquistò con la lancia e coi clavi,
siede lungh’ esso, e lungo l’altro posa
quel duca sotto cui visse di manna
la gente ingrata, mobile e retrosa.
Di contr’ a Pietro vedi sedere Anna,
tanto contenta di mirar sua figlia,
che non move occhio per cantare osanna;
e contro al maggior padre di famiglia
siede Lucia, che mosse la tua donna
quando chinavi, a rovinar, le ciglia.


23
. Invidiare con cortesia

■ Per meglio indurre il vescovo di Laodicea (la settima chiesa d’Asia) a correggere i propri difetti, Cristo mostra come il rimprovero derivi dall’amore singolare che gli porta. Gli dice infatti: “Io tutti quelli che amo li rimprovero e li castigo” (Ap 3, 19). Lo stimola quindi a imitare i santi esempi usando un verbo – “Emulare ergo … Et penitentiam age” – che ha più significati. Da una parte designa l’invidiare, come nella lettera ai Romani: “non in contese ed emulazioni” (Rm 13, 13). Dall’altra indica l’indignazione che deriva dallo zelo, come nel profeta Ezechiele: “era collocato l’idolo dello zelo, a provocare emulazione” (Ez 8, 3). Oppure sta a significare il grande zelo che deriva dall’amore e desidera il bene altrui, secondo quanto scrive l’apostolo ai Corinzi – “Io provo infatti per voi un’emulazione divina” (2 Cor 11, 2) – e ai Romani – “hanno zelo per Dio” (Rm 10, 2). Talora designa l’imitare per zelo, come nei Proverbi – “Non invidiare l’uomo ingiusto” (Pro 3, 31) – e nella lettera ai Galati – “zelate sempre nel bene”, cioè per l’uomo buono (Gal 4, 18). In quest’ultimo senso viene rivolto l’invito al vescovo di Laodicea.

Agli ignavi, “che ’nvidïosi son d’ogne altra sorte”, è appropriato il primo senso di emulari (Inf. III, 48; agli ignavi sono appropriati molti temi dell’esegesi di Laodicea). Il rimproverare per “buon zelo” appartiene al poeta, il quale di fronte alla dolce melodia che percorre l’aria luminosa dell’Eden si sente di riprendere l’ardire di Eva, la quale, se avesse obbedito a Dio “là dove ubidia la terra e ’l cielo” (l’obbedienza è tema proposto ad Ap 3, 18), avrebbe consentito agli uomini di sentire quelle ineffabili delizie dalla nascita e per tutta la vita (Purg. XXIX, 22-30). Il “buon zelo” è ricordato da Beatrice dopo che gli spiriti contemplanti del settimo cielo hanno confermato con un altissimo grido l’invettiva di Pier Damiani contro la corruzione dei moderni prelati (Par. XXII, 8-9).

Emulari, nel senso positivo di invidiare, cioè imitare per zelo, è anche nel linguaggio di Bonaventura: “Ad inveggiar cotanto paladino / mi mosse l’infiammata cortesia / di fra Tommaso e ’l discreto latino; / e mosse meco questa compagnia” (Par. XII, 142-145; negativo è invece il senso di “inveggia” a Purg. VI, 20). Il “paladino” non deve dunque riferirsi a Domenico, del quale Bonaventura ha narrato la vita, bensì a Tommaso lodatore di Francesco, che il maestro francescano ha ‘imitato’. L’ampia gamma di interpretazioni offerta dalla Lectura per il verbo emulari esclude la variante inegiar recata da un solo codice della tradizione antica.

■ “Mi mosse l’infiammata cortesia / di fra Tommaso e ’l discreto latino” (Par. XII, 143-144). Muoversi a seguito di alte e folgoranti parole dei divini dottori è nell’esegesi di Ap 8, 5 relativa al “terremoto” che muove i cuori.

■  “Io son la vita di Bonaventura / da Bagnoregio” (Par. XII, 127-128). Lume e vita sono signacula della concorrenza, rispettivamente, del terzo e del quarto stato (prologo, notabile X). Come l’affetto presuppone la “notitia intellectus”, cioè la conoscenza, poiché non si può amare se non ciò che è già conosciuto, ma questa conoscenza non è santa senza un santo affetto, così il chiaro lume dei dottori precede l’esercizio degli affetti e la contemplazione degli anacoreti, ma non può essere chiaro senza l’eccellenza della vita propria di questi. Pertanto i due stati concorrono, con mutuo ossequio, a illuminare e a infiammare l’orbe convertito nel mezzogiorno. Si tratta di motivi che vengono variamente appropriati nel cielo del Sole: Tommaso d’Aquino è “luce” che narra la “mirabil vita” di Francesco, “poverel di Dio” (Par. XIII, 32-33), verso la cui “eccellenza” l’Aquinate “fu sì cortese” (Par. XII, 109-111). Tale “infiammata cortesia” muove Bonaventura ad imitare per buon zelo (“inveggiar”) Tommaso (ibid., 142-145). Nel reciproco elogio dei fondatori dei due Ordini, Tommaso e Bonaventura concorrono anch’essi “ad mutuum obsequium (la “cortesia”) et ad meridiem universi orbis tunc ad fidem conversi simul clarificandam et inflammandam”. Così nel Paradiso terrestre, allorché “più corusco e con più lenti passi / teneva il sole il cerchio di merigge”, Dante ha visto i due fiumi “Ëufratès e Tigri” uscire da una sorgente e “dipartirsi pigri” come due amici che si lasciano (Purg. XXXIII, 103-114).

La “cortesia”, oltre che all’esegesi esposta nel Notabile X del prologo, fa riferimento anche a quella di Ap 22, 17, relativa all’invito dello sposo (Cristo) e della sposa (la Chiesa) affinché si venga alla gloriosa cena delle nozze dell’Agnello. Invito d’amore liberale e gratuito, ma al quale si deve aderire con desiderio e volontario consenso. I numerosi luoghi del poema che richiamano questa esegesi (fra i quali si registrano le parole di Tommaso d’Aquino e di Bonaventura) sono esposti in L’agone del dubbio, ovvero il martirio moderno (Francesca e la « Donna Gentile »), cap. 7, tab. XXX-XXXI.

Tab. 23.1

[LSA, cap. III, Ap 3, 19 (Ia visio, VIIa ecclesia)] Deinde ut ipsum efficacius inducat et trahat ad ista, ostendit se ex singulari amore ipsum corripere et alios, quos consimiliter corripit et emendat, in exemplum imitandum proponere sibi, unde subdit (Ap 3, 19): “Ego quos amo corrigo et castigo”, id est verbis reprehensionis obiurgo et penis castigo seu castifico et emendo.
“Emulare ergo”, scilicet illos bonos et eorum sancta exempla, quos ego amo et castigo.
Emulari sumitur aliquando pro invidere, ut ad Romanos [XIII°] (Rm 13, 13): “Non in contentione et emulatione”; aliquando autem pro zelotipe indignari, ut Ezechielis VIII° (Ez 8, 3): “Erat statutum idolum zeli ad provocandum emulationem”; aliquando pro ex magno amore zelari seu ex magno zelo optare bonum alteri, ut IIa ad Corinthios XI° (2 Cor 11, 2): “Emulor enim vos Dei emulatione”, et ad Romanos X° (Rm 10, 2): “Emulationem” quidem “Dei habent”; aliquando vero sumitur pro zelatorie imitari, ut Proverbiorum III° (Pro 3, 31): “Ne emuleris hominem iniustum”, [et] ad Galatas IIII° (Gal 4, 18): “Bonum”, scilicet hominem, “emulamini in bono semper”, et sic sumitur hic.
“Et penitentiam age”, quasi dicat, secundum Ricardum: «si suasio premissa non potest te de tuo tepore excitare, animadverte diligenter me verbis arguere et flagellis castigare illos quos amo, ipsosque mea verba et flagella libenter accipere, et ab illis exemplum sume ipsosque imitando in bono emulare».
Vel sensus est: “Emulare ergo”, id est ad exemplum mei et zelo amoris mei et tue salutis irascere et indignare contra tua vitia, “et” ad castigandum ea “penitentiam age”.

Inf. III, 46-48

Questi non hanno speranza di morte,
e la lor cieca vita è tanto bassa,            3, 17
che ’nvidïosi son d’ogne altra sorte.

Purg. XXIX, 23-27; Par. XXII, 8-9

………………….……. onde buon zelo
mi fé riprender l’ardimento d’Eva,

che là dove ubidia la terra e ’l cielo,
femmina, sola e pur testé formata,
non sofferse di star sotto alcun velo

e non sai tu che ’l cielo è tutto santo,
e ciò che ci si fa vien da buon zelo?

[LSA, cap. III, Ap 3, 19 (Ia visio, VIIa ecclesia)] Emitur autem (aurum ignitum et probatum), cum se et omnia sua abdicat quis, et abnegat pro ipso habendo, seu cum se et totum cor suum offert et dedicat servituti et obedientie Dei pro ipso et eius caritate habenda.

Purg. VI, 19-21

Vidi conte Orso e l’anima divisa
dal corpo suo per astio e per inveggia,
com’ e’ dicea, non per colpa commisa

[LSA, cap. VIII, Ap 8, 5 (radix IIIe visionis)] “Et terremotus”, quia visis tot signis et miraculis et sanctitatis exemplis, et auditis tam altis tamque discretis et fulgurativis Dei eloquiis, mota sunt corda hominum ad compunctionem, et mutata vita priori conversi sunt ad Christum; in pertinacibus vero, factus est terremotus peioris subversionis et iracunde commotionis et persecutionis fidei Christi et doctorum eius. Possunt etiam predicta de missione ignis et de tonitruis et terremot[u] referri ad ignitam predicationem Christi que magnum terremotum causavit in tota Iudea, unde Luche XXIII° (Lc 23, 5) principes sacerdotum contra ipsum allegant: “Commovet populum docens per universam Iudeam” et cetera. Usquequo enim Christus baptizatus est et predicavit, non apparuit implevisse de igne altaris turibulum sue humanitatis.

Par. XII, 142-145

Ad inveggiar cotanto paladino
mi mosse l’infiammata cortesia
di fra Tommaso e l discreto latino;
e mosse meco questa compagnia.

Inf. XXV, 97-99

Taccia di Cadmo e d’Aretusa Ovidio,
ché se quello in serpente e quella in fonte
converte poetando, io non lo ’nvidio

 

Tab. 23.2

[LSA, cap. XXII, Ap 22, 17 (finalis conclusio totius libri)] Septimo loquitur ut invitator omnium ad prefatam gloriam, et hoc tam per se quam per ecclesiam et eius doctores, unde subdit: “Et sponsus”, id est, secundum Ricardum*, Christus (quidam tamen habent “Spiritus”, et quidam correctores dicunt quod sic habent antiqui et Greci, ut sic Christus tam per se quam per Spiritum suum et eius internam inspirationem ostendat se invitare), “et sponsa”, id est generalis ecclesia tam beata quam peregrinans vel contemplativa ecclesia, “dicunt: veni ”, scilicet ad nuptias. Ideo enim dixit “sponsa”, ut innueret nos invitari ad gloriosam cenam nuptiarum Agni. “Et qui audit”, scilicet hanc nostram invitationem, id est qui est de hiis sufficienter doctus; vel “qui audit”, id est recte et obedienter credit et opere perficit, “dicat”, scilicet unicuique vocandorum: “veni ”, scilicet ad cenam et civitatem beatam.
Deinde ipse Christus per se liberaliter invitat et offert, dicens: “Et qui sitit veniat, et qui vult accipiat aquam vite gratis”. Quia nullus cogitur nec potest venire nisi per desiderium et voluntarium consensum, ideo dicit “qui sitit et qui vult”. Idem autem est venire quod accipere “aquam vite”, id est gratiam vite refectivam et vivificam et perducentem in vitam eternam. Dicit autem “gratis”, tum quia absque omni pretio venali et exteriori datur et accipitur, tum quia prima gratia datur absque omni previo merito et tamquam principium et caus[a] meriti, ac per consequens totum premium et augmentum gratie quod per primam gratiam acquiritur gratia reputatur. Dicit etiam “gratis”, quia tota a summa caritate Christi et summe gratuita et liberali predestinatur et offertur et datur.

* In Ap VII, viii (PL 196, col. 882 D).

Inf. V, 73-87

I’ cominciai: “Poeta, volontieri
parlerei a quei due che ’nsieme vanno,
e paion sì al vento esser leggeri”.
Ed elli a me: “Vedrai quando saranno
più presso a noi; e tu allor li priega
per quello amor che i mena, ed ei verranno”.
Sì tosto come il vento a noi li piega,
mossi la voce: “O anime affannate,
venite a noi parlar, s’altri nol niega!”.
Quali colombe dal disio chiamate
con l’ali alzate e ferme al dolce nido
vegnon per l’aere, dal voler portate;
cotali uscir de la schiera ov’ è Dido,
a noi venendo per l’aere maligno,
sì forte fu l’affettüoso grido.

Inf. XVI, 13-15, 64-69

A le lor grida il mio dottor s’attese;
volse ’l viso ver’ me, e “Or aspetta”,
disse, “a costor si vuole esser cortese.”

“Se lungamente l’anima conduca
le membra tue”, rispuose quelli ancora,
“e se la fama tua dopo te luca,
cortesia e valor dì se dimora
ne la nostra città sì come suole,
o se del tutto se n’è gita fora …”

Inf. XXXIII, 127-129, 148-150

“E perché tu più volontier mi rade
le ’nvetrïate lagrime dal volto,
sappie che, tosto che l’anima trade …”

“Ma distendi oggimai in qua la mano;
aprimi li occhi”. E io non gliel’ apersi;
e cortesia fu lui esser villano.

Par. XII, 109-111, 142-145; XIII, 34-36

ben ti dovrebbe assai esser palese
l’eccellenza de l’altra, di cui Tomma
dinanzi al mio venir  fu sì cortese.

Ad inveggiar cotanto paladino
mi mosse l’infiammata cortesia
di fra Tommaso e ’l discreto latino;
e mosse meco questa compagnia.

e disse: “Quando l’una paglia è trita,
quando la sua semenza è già riposta,
a batter l’altra dolce amor m’invita.”

Purg. V, 64-72

E uno incominciò: “Ciasun si fida
del beneficio tuo sanza giurarlo,
pur che ’l voler nonpossa non ricida.
Ond’ io, che solo innanzi a li altri parlo,
ti priego, se mai vedi quel paese
che siede tra Romagna e quel di Carlo,
che tu mi sie di tuoi prieghi cortese
in Fano, sì che ben per me s’adori
pur ch’i’ possa purgar le gravi offese.”

Purg. IX, 91-93

“Ed ella i passi vostri in bene avanzi”,
ricominciò il cortese portinaio:
Venite dunque a’ nostri gradi innanzi”.

Purg. XXVI, 136-147

Io mi fei al mostrato innanzi un poco,
e dissi ch’al suo nome il mio disire
apparecchiava grazïoso loco.
El cominciò liberamente a dire:
Tan m’abellis vostre cortes deman,
qu’ieu no me puesc ni voill a vos cobrire.
Ieu sui Arnaut, que plor e vau cantan;
consiros vei la passada folor,
e vei jausen lo joi qu’esper, denan.
Ara vos prec, per aquella valor
que vos guida al som de l’escalina,
sovenha vos a temps de ma dolor! ”.

Par. XXI, 73-78

“Io veggio ben”, diss’ io, “sacra lucerna,
come libero amore in questa corte
basta a seguir la provedenza etterna;
ma questo è quel ch’a cerner mi par forte,
perché predestinata fosti sola
a questo officio tra le tue consorte”.

Purg. XIV, 109-111

le donne e ’ cavalier, li affanni e li agi
che ne ’nvogliava  amore e cortesia
 là dove i cuor son fatti sì malvagi.

 

24. Quo vadis, Dantes ?

 

■ Un tempo si guardava alla filosofia medievale, come si guarda il profilo incerto di monti lontani, velati di nebbia, all’estremo confine dell’orizzonte. Ma se il viandante s’avvicina ad essi, cominciano a distinguersi gioghi e vertici separati da valli e diversi fra loro d’altezza e d’aspetto, gli uni verdeggianti di boschi, gli altri brulli e rocciosi. Se poi s’addentra per quelle valli e tenta l’erta di quei gioghi, ne scopre altri ed altri ancora, con sua non piccola meraviglia, e discerne catene variamente disposte staccarsi dall’asse principale del sistema. […] Per riprendere l’immagine di cui mi son servito, oserei dire che il pensiero dantesco sta, tra molte catene e giogaie, come uno scosceso picco dolomitico che s’erge sovra di quelle, scintillante nel sole, e invita e tenta: a chi dura la fatica dell’erta è concesso di godere di lassù del più vasto panorama e d’udire la celeste armonia che diletta l’udito di quanti hanno saputo elevarsi sul mondo terreno dei sensi [1].

Quanto, nel 1942, Bruno Nardi scriveva della filosofia dantesca, può essere applicato a tutta l’opera dell’Alighieri, e in particolare alla Commedia. Scosceso picco dolomitico che invita e tenta, offre all’alpinista vari versanti. La ricerca pubblicata su questo sito apre una nuova via alla vetta; per essa si possono cogliere vedute nuove e diverse. Non che tutte le viste, che per settecento anni hanno contraddistinto l’ascesa degli altri versanti, siano fallaci. Ma esse riguardano, prevalentemente, il senso letterale della Commedia, l’interpretazione umanista del “poema sacro” come fatto letterario e modello retorico, come fictio, a scapito del Dante profeta e visonario di una vera visione, o meglio del Dante storico, della “sua carica vitale ed umana” [2]. Fu un’interpretazione non solo umanista – iniziata già dai primi commentatori -, anche la Chiesa la fece propria [3]. Oggi, di fronte alla riscoperta della Lectura super Apocalipsim di Pietro di Giovanni Olivi, e al suo eccezionale rispondersi intertestuale con la Commedia, l’ ‘essoterismo’ del senso letterale, affermato dalla critica del Novecento contro l’ ‘esoterismo’ crittografico e allegorico, appare tutt’altro che “non revocabile” [4]. Pur avendo prodotto aurei e alti risultati, anche recenti, non ha risolto i tanti problemi che affliggono gli studi contemporanei su Dante. Questi sono ben lontani dal comprendere “come si compongono concretamente la ‘crittografia’ allegorica (Croce) e l’enunciazione letterale” [5]. Permane la selva delle interpretazioni arbitrarie, per cui si moltiplicano le presunte fonti di Dante. Né sembrano profilarsi all’orizzonte opere organiche sulla vita e il pensiero del poeta, che ne rispettino la straordinaria varietà e complessità. La celeste armonia udita da Nardi non si ode più, avvolta com’è da babilonica confusione. “C’è spazio per qualche sorpresa a rileggere Inferno XXVI? C’è ancora un punto che possa turbare il lettore smaliziato e accorto?”, si chiedeva, non molti anni fa, Guglielmo Gorni [6]. Se gli studi non si rinnoveranno, verificando, accettando e incorporando la nuova scoperta, in breve la ‘dantistica’ mostrerà di fondarsi, come la statua del sogno svelato dal profeta Daniele, su un piede di terracotta.
“Egli discese di Paradiso portando seco le chiavi dell’altro mondo, e le gettò nell’abisso del passato: niuno le ha più ritrovate”, scriveva Carducci [7]. Nell’abisso del passato lo storico deve ritrovarle. Nella sua biografia di Dante, Gorni ha premesso l’intento di non voler ordinare una bibliografia sterminata, ma di avere “un’idea forte dell’autore: tendenziosa magari, ma moderna e nuova” [8]. Dal confronto qui proposto esce un’idea non tendenziosa, forse moderna, certamente forte e nuova. Bisogna richiedere infatti al lettore, come invitava Benedetto Croce, “che anzitutto si renda familiari le linee fondamentali dell’edifizio medievale e viva dentro questa figurazione, grandiosamente conclusa in sé ma a noi per ogni verso estranea” [9]. Restituire un Dante tutto ‘medievale’ è forte e nuovo, come pure far rivivere un linguaggio destinato ai predicatori di una riforma della Chiesa che non fu fatta. Ma la fatica, per il moderno lettore, sarà compensata dal constatare concretamente nel “poema sacro” come il saeculum humanum rivendicò l’autonomia nell’uso del volgare, nella definizione del regime politico, nell’ambito della natura e della ragione, nella valorizzazione degli autori classici, mentre veniva meno il senso di una storia sacra della salvezza collettiva, della quale la Lectura super Apocalipsim fu l’estrema espressione. Questa storia sacra della Chiesa, per intima metamorfosi, si travasò nello stato umano, sull’ “aiuola che ci fa tanto feroci”. La caduta del millenarismo medievale creò dunque “il presupposto morale, per il cui tramite le esperienze fondamentali della interiorità cristiana dovevano mutarsi negli ideali laici della dignità dell’uomo, della potenza creativa dell’individuo, della cultura concepita come mezzo di perfezionamento spirituale, propri della nuova età del Rinascimento” [10].

“Dante” è nome di alto significato, come intendeva Boccaccio nella Vita :

[…] e partorí uno figliuolo, il quale di comune consentimento col padre di lui per nome chiamaron Dante: e meritamente, percioché ottimamente, sí come si vedrá procedendo, seguí al nome l’effetto [11].

E nell’Accessus delle Esposizioni :

Ma del suo nome resta alcuna cosa da recitare, e pria del suo significato, il quale assai per se medesimo si dimostra, per ciò che ciascuna persona, la quale con liberale animo dona di quelle cose, le quali egli ha di grazia ricevute da Dio, puote essere meritamente appellato “Dante”. E che costui ne desse volentieri, l’effetto nol nasconde. Esso, a tutti coloro che prender ne vorranno, ha messo davanti questo suo singulare e caro tesoro, nel quale parimente onesto diletto e salutevole utilità si truova da ciascuno che con caritevole ingegno cercare ne vuole.

A tanto nome, proprio di colui che dà la moderna rivelazione, forse non segue un effetto compiuto? “E noi – si chiedeva Luigi Pietrobono – ci dovremmo astenere dal cercar di penetrare sotto il velame de’ suoi versi, che impenetrabile di sicuro non sarà una volta ch’egli medesimo ci dice: ‘Mirate’? Somiglieremmo ai figli che del testamento paterno leggono avidamente ciò che torna gradito, e del rimanente non si curano” [12]. “Dante  – asserisce Alberto Asor Rosa – […] non si sarebbe mai sognato di non poter essere compreso. Che sia tanto difficile farlo, non dovrebbe condurci a rinunciarvi in favore di un arbitrio tutto calato nel punto di vista del lector. L’ermeneutica non può prescindere da un’ontologia della creazione poetica: se ne prescinde, è lettura del nulla. Questo è l’unico ma grandioso mistero, con cui ha a che fare ogni lettore di Dante (incomparabile con quei misteriucci da quattro soldi, con cui si sono misurati gli Aroux e i Guénon): il mistero del segno, o di quel sistema di segni, che ha racchiuso un mondo intero in un insieme d’immagini plurisense. Con questo mistero dobbiamo fare i conti” [13].
C’è un libro della Scrittura al quale la Commedia è stata accostata anche da autori, come Michele Barbi e Bruno Nardi, restii a scorgervi influenze dirette dell’esegesi contemporanea: l’Apocalisse. Il primo dei due maestri non aveva alcun dubbio che il poema fosse una profezia, una rivelazione, anche se poi escludeva categoricamente qualsiasi influsso dei sogni del monaco calabrese o degli Spirituali, seminatori di discordie nell’ordine francescano, perché al poeta poteva bastare il solo testo della Bibbia con i suoi profeti veri [14]. Il secondo, commentando la figura di Francesco, evocava addirittura un’apocalisse francescana:

Così il Poeta ha tratto la figura di Francesco dall’umile sfera della leggenda popolare all’altezza del suo poema; che altro non è se non una francescana profetica visione concessa a lui, Dante, per grazia speciale di Dio, perché mettesse la sua arte, cioè l’unica cosa che gli era rimasta del suo doloroso vagabondaggio, al servizio del rinnovamento religioso ed umano che Francesco aveva iniziato [15].

Anche Nardi, però, denunciava come innaturale voler far coincidere le idee di Dante con quelle dei gioachimiti:

Nelle loro aspirazioni c’era qualcosa del romanticismo anarchico che di quando in quando vediamo tornare ad affermarsi, nel corso della storia, come reazione ad una vita politico-sociale agitata, turbolenta, tirannica. Dante aveva studiato troppo il suo Aristotele e il suo Virgilio per svalutare fino a questo punto la vita terrena. Ed aveva troppo lottato, troppo amato, troppo sofferto, per dimenticare anche nella luce dei cieli “l’aiuola che ci fa tanto feroci” e in essa Firenze [16].

Dante però concordò il suo Aristotele e il suo Virgilio con l’esegesi apocalittica oliviana, libro-vessillo degli Spirituali che aggiornò secondo i suoi intenti. Per bocca di Bonaventura condannò il “romanticismo anarchico” degli Spirituali estremisti, esattamente come aveva fatto Olivi.
Scriveva Benedetto Croce:

In mancanza della chiave, della espressa dichiarazione di chi ha formato l’allegoria, si può, fondandosi sopra altri luoghi dell’autore e dei libri che egli leggeva, giungere, nel miglior caso, a una probabilità d’interpretazione, che per altro non si converte mai in certezza: per la certezza ci vuole, a rigor di termini, l’ipse dixit [17].

Il mistero del segno evocato da Asor Rosa, e in qualche modo l’ipse dixit di cui Croce rilevava l’assenza, sono racchiusi nel confronto fra Commedia e Lectura super Apocalipsim.

■ L’intertestualità (o meglio l’intensa elaborazione del volgare sull’umile latino dell’esegsi) che accompagnò l’intera stesura del “poema sacro”, con un procedimento analogico su singole parti della Lectura assimilabile alle “distinctiones” dei predicatori, costituisce anche un eccezionale esempio di arte della memoria, per cui le singole parole si leggono, nel contesto dei versi, come segni che conducono all’altro testo dottrinale consentendo così il passaggio dal senso letterale, che è per tutti, a quelli mistici in esso racchiusi, riservati ai depositari della chiave di sì alta crittografia.
Conoscendo i fili teologici del “panno” con i quali i versi sono stati tessuti, con diversa intensità nel corso del lungo fare la “gonna”, ci si può figurare in modo più chiaro quanto sembra in essi ermeticamente rinchiuso, far rivivere quella parte di poesia che è morta e che al De Sanctis sembrava non più possibile disseppellire [18], ritrovare quel rispondersi nel poema “a parte a parte” intuito dal Pascoli, pervenire a una critica dell’inespresso di cui scriveva Gramsci a proposito di Inferno X [19], meglio percepire quelli che Contini definiva “echi di Dante entro Dante” [20]. Viene meno la necessità di distinguere, come fatto da Croce, tra poesia vera e struttura, perché i concetti teologici sono anch’essi principio informatore della poesia che vi aderisce e li trasforma spargendoli sull’ “aiuola che ci fa tanto feroci”.
Con la comprensione storica indotta dal confronto fra i testi, svanisce l’esoterismo variamente attribuito al poeta fiorentino, concetto d’altronde, alla stregua del suo fiero oppositore, l’essoterismo portato al sommo dalla critica novecentista, del tutto estraneo alla mente del poeta. Gli Spirituali francescani non subentrano ai Fedeli d’Amore; riemerge invece l’alta retorica del significante [21], alla quale Dante non fu certo estraneo [22], e il suo destinatario storico. Questo messaggio ai riformatori abortì con la loro altrettanto prematura scomparsa.
Viene meno la principale obiezione a siffatta interpretazione, cioè l’assenza di criteri precisi che escludano arbìtri nell’individuazione dei sensi interni. Il libro che contiene tali criteri esiste ed è riscontrabile. Una “chiave” che non è l’ipse dixit voluto a rigore da Croce, ma che consente di afferrare, quasi diario intimo, tante allusioni e di ricostruire intorno a Dante, come inteso da Osip Mandel’štam, una cultura [23]. Dante e il suo tempo, insomma, secondo la formula cara agli storici romantici. Anche se si tratta di un lato caduco rispetto alla fortuna postuma nel modo di leggere il poema, per cui la Commedia primigenia – affermò il Carducci – antica già nel Trecento, “non ebbe successori in integro” [24].
La sinossi fra la Commedia di Dante e la Lectura super Apocalipsim dell’Olivi consente di far rivivere quella tensione di rinnovamento, quell’ansia di salvezza, quel senso di pienezza dei tempi che, per citare Arsenio Frugoni, “oltre che ideologia di lotta e di riforma del gruppo spirituale, era anche un vero e proprio sentimento storico” [25].
La ricerca rovescia la vecchia regoletta del loicare, che Nardi adduceva a proposito delle presunte fonti dantesche [26]: “a posse ad esse non datur illatio”. Non formula ipotesi ma mostra testi, non forzandoli né dolcemente sollecitandoli. Sono i testi, nel loro esse, ad argomentare e a provare. I risultati vengono dall’accostamento di due testi studiati in ambiti disciplinari diversi e ignari l’uno dell’altro: la Commedia e la Lectura super Apocalipsim.
La ricerca, che è appena agli inizi, solitario lavoro di scavo, non intende comprendere Dante con una sola formula, ma esplorare un nuovo versante. Chi durerà la fatica dell’erta, riascolterà la celeste armonia udita da Nardi e godrà del più vasto panorama. Scrisse Michele Barbi, evocando con un proverbio le nuove generazioni: “A tela ordita Dio manda il filo” [27].

[1] B. NARDI, Dante e la cultura medievale. Nuovi saggi di filosofia dantesca, Bari 1942 (Biblioteca di cultura moderna), pp. XI-XII.

[2] G. PADOAN, Dante di fronte all’umanesimo letterario, in “Lettere Italiane”, XVII (1965), pp. 237-257, ripubblicato in Atti del Congresso Internazionale di Studi Danteschi …  (20-27 aprile 1965), II, Firenze 1966, pp. 377-400 e in ID., Il pio Enea, l’empio Ulisse. Tradizione classica e intendimento medievale in Dante, Ravenna 1977, pp. 7-29: 28-29.

[3] Cfr. T. BAROLINI, “Why did Dante write the Commedia? or The Vision Thing, in “Dante Studies” (Panel Discussion at the 1993 annual meeting of the Society in Cambridge), CXI (1993), pp. 1-8: 3: “Despite Augustine’s understanding that rhetorical prowess and access to truth can coincide [see De doctrina christiana 4.16.33], the Church on the whole (with a few telling exceptions like the Dominican ban of 1335) was willing to bracket Dante as a poet, a maker of  fictio”.

[4] Come sostiene G. INGLESE, in Dante Alighieri, Inferno. Revisione del testo e commento, Roma 2007, Premessa, p. 9.

[5] Ibid.

[6] G. GORNI, Né Bice né monna Vanna. Circe nel canto di Ulisse (Inferno XXVI), in ID., Guido Cavalcanti. Dante e il suo “primo amico”, Roma 2009 (Dantesca, 1), pp. 107-125: 108.

[7] G. CARDUCCI, Dello svolgimento della letteratura nazionale, Discorso terzo, v.

[8] G. GORNI, Dante. Storia di un visionario, Bari 2008, p. IX.

[9] B. CROCE, Due postille alla critica dantesca,  in “La Critica. Rivista di Letteratura, Storia e Filosofia”, 39 (1941), pp. 133-141: 136.

[10] R. MORGHEN, Medioevo cristiano, Bari 19744, pp. 263-264.

[11] G. BOCCACCIO, Vita di Dante, II, in Il Comento alla Divina Commedia e gli altri scritti intorno a Dante, a cura di D. GUERRI, I, Bari 1918 (Scrittori d’Italia. G. Boccaccio, Opere volgari, XII), p. 8.

[12] L. PIETROBONO, Struttura allegoria e poesia nella Divina Commedia, in ID., Nuovi saggi danteschi, Torino s.d. [1954], p. 246.

[13] A. ASOR ROSA, postfazione a L’idea deforme. Interpretazioni esoteriche di Dante, a cura di M. P. POZZATO, Milano 1989, p. 316.

[14] Cfr. la replica a Barbi di R. MANSELLI, Dante e l’ “Ecclesia Spiritualis”, in Dante e Roma. Atti del Convegno di studio a cura della “Casa di Dante”, sotto gli auspici del Comune di Roma, in collaborazione con l’Istituto di Studi Romani, Roma 8-9-10 aprile 1965, Firenze 1965, pp. 115-135, ripubblicato in ID., Da Gioacchino da Fiore a Cristoforo Colombo, pp. 55-78: 69 nt. 38.

[15] NARDI, Il canto di S. Francesco, p. 184.

[16] NARDI, Dante e la cultura medievale (cfr. nt. 1), pp. 270-271.

[17] B. CROCE, La poesia di Dante (Scritti di storia letteraria e politica, XVII), Bari 19527 (19201), p. 7.

[18] F. DE SANCTIS, Il Farinata di Dante [maggio 1869], in Saggi critici, a cura di L. RUSSO, II, Bari 1965, p. 340.

[19] A. GRAMSCI, Quaderni del carcere, I, Torino 1975, pp. 517-519 [4 (XIII), 1930-1932].

[20] G. CONTINI, Un’interpretazione di Dante (1965-1966), in Un’idea di Dante, p. 91.

[21] Cfr. G. GORNI, Dante prima della Commedia, Fiesole 2001, p. 36: “Forse la nostra critica letteraria diffida del significante ed è spesso così sorda alle sue ragioni per fare postuma ammenda dell’alta retorica che ha imperato nelle nostre lettere, in tutta la loro storia. E così anche le ali dell’Alighieri possono essere scambiate per un cerebrale abuso di senso o per una facezia, e sono invece – ne sono persuaso – la firma interna, e più, un simbolo dell’autore”.

[22] Cfr. U. ECO, Introduzione a L’idea deforme (cfr. nt. 13), p. 36.

[23] O. MANDEL’ŠTAM, Conversazione su Dante, a cura di R. FACCANI, Genova 1994 (1933), p. 51: “La cultura è una scuola di associazioni rapidissime. Afferri al volo, sei pronto a cogliere le allusioni: ecco l’elogio preferito di Dante”.

[24] Cfr. supra, nt. 7.

[25] Cfr. supra.

[26] B. NARDI, Dal “Convivio” alla “Commedia”. Sei saggi danteschi, Roma 1960 (Istituto Storico Italiano per il Medio Evo. Studi storici, 35-39), p. 356.

[27] M. BARBI, La nuova filologia e l’edizione dei nostri scrittori da Dante al Manzoni, Firenze 1973 (1938), p. XLI.

Appendice

Note sulla “topografia spirituale” della Commedia

Per quanto segua l’ordine dei ventidue capitoli dell’Apocalisse, Olivi suggerisce un metodo differente di comprensione e di aggregazione del testo esegetico, fondato sui sette stati, cioè sui periodi nei quali si articola la storia della Chiesa. L’Antico Testamento corrisponde alle prime cinque età del mondo, secondo la divisione tradizionale [1]: è l’età del Padre secondo Gioacchino da Fiore. Con il primo avvento di Cristo, nella carne, inizia la sesta età (l’età del Figlio), nella quale la Chiesa, come fosse un individuo, cresce e si sviluppa in sette stati. Al primo, apostolico periodo, succede il secondo dei martiri; poi, al tempo di Giustiniano, il terzo stato dei dottori che confutano con l’intelletto le eresie concorre con il quarto stato degli affettuosi anacoreti devoti al pasto eucaristico, alti per la contemplazione ma anche attivi come reggitori delle genti; a partire da Carlo Magno subentra il quinto stato aperto alla vita associata delle moltitudini, bello nel principio ma poi corrottosi fino a trasformare quasi tutta la Chiesa in una nuova Babilonia; la riforma interviene, a partire da Francesco, con il cristiforme sesto stato, fino alla sconfitta dell’Anticristo; subentra infine il silenzio e la quiete del pacifico settimo stato. Il sesto e il settimo stato (la terza età di Gioacchino da Fiore) coincidono con il secondo avvento di Cristo, nello Spirito, cioè nei suoi discepoli spirituali inviati a convertire il mondo con la predicazione; al termine del settimo stato ci sarà il terzo avvento, nel giudizio.
L’Apocalisse si articola in sette visioni: le sette chiese d’Asia, i sette sigilli, le sette trombe, la donna vestita di sole (le sette guerre sostenute dalla Chiesa), le sette coppe, il giudizio di Babylon nelle sette teste del drago, la Gerusalemme celeste. Le prime sei visioni possono essere a loro volta divise in sette momenti, ciascuno dei quali riferibile a uno dei sette stati. Assembrando, per le prime sei visioni, tutti i primi elementi (chiesa, sigillo, tromba, guerra, coppa, momento del giudizio di Babylon), tutti i secondi, i terzi e così di seguito, si ottengono sette gruppi di materia teologica, corrispondenti al complesso dei temi afferenti a ciascuno dei sette stati [2]. A questi sette gruppi se ne aggiungono altri due: l’esegesi della settima visione (senza articolazioni interne) e l’esegesi di capitoli del testo scritturale, o di parti di essi, introduttivi delle successive specificazioni delle singole visioni per settenari, che Olivi definisce “radicalia” o “fontalia”. Si ottengono in tal modo nove gruppi: le parti proemiali, i sette assembramenti di settenari e la settima visione. Il grande prologo della Lectura, articolato in tredici notabilia, può essere anch’esso aggregato nelle sue parti secondo i sette stati.

L’intenso travaso di parole-temi dalla Lectura nella Commedia si accompagna a un fatto strutturale. La Commedia mostra un ordine interno diverso da quello che appare al lettore: il viaggio di Dante ha un andamento di ciclici settenari, che corrispondono ai sette stati oliviani. È un ordine registrabile per zone progressive del poema dove prevalgono i temi di un singolo stato, che rompe i confini letterali stabiliti dai canti e da tutte le divisioni materiali per cerchi, gironi, cieli. Ogni stato, che ha differenti inizi, è concatenato per “concurrentia”, come le maglie di un’armatura, con quello che precede e con quello che segue. Ciascuno stato ha in sé una grande ricchezza di motivi e contiene inoltre temi di tutti gli altri, consentendo innumerevoli intrecci e variazioni. La Commedia appare, come l’Apocalisse, “libro scritto dentro e fuori” (Ap 5, 1), con duplice struttura, linguaggio e senso, letterale e spirituale. Il viaggio di Dante e la visione di Giovanni hanno la stessa causa finale, che è la beatitudine, alla quale si perviene con diverse guide, per gradi segnati da visioni sempre più nuove e ardue delle precedenti, attraverso una sempre maggiore apertura dell’arcano coperto dal velame dei sette sigilli fino al punto più alto in cui, in questa vita, è possibile vedere la verità.
Tutti i modi del linguaggio interiore al poema esprimono un processo, un viaggio dal più chiuso al più aperto, e in questo andare hanno una loro precisa collocazione ‘topografica’, uno ‘stato’ (nel senso di momento storico che ricade sulla coscienza individuale) al quale appartenere. Si possono in tal modo stendere vere e proprie mappe tematiche che comprendano l’ordine spirituale di tutta la Commedia, che aderisce a una precisa teologia della storia, sia pure modificandone profondamente le prospettive. La ciclicità dei temi permette di stabilire collegamenti inusitati tra le diverse zone; il procedere per gradi dell’illuminazione divina fa sì che episodi oscuri e quasi ermeticamente chiusi si chiariscano poi, aprendosi all’intelligenza in modo più alto.
A ogni gruppo è arbitrariamente assegnato un diverso colore: Radici (verde), I stato (verde acqua), II stato (rosso), III stato (nero), IV stato (viola), V stato (marrone), VI stato (blu), VII stato (indaco), VII visione (fucsia). Dei gruppi sono stati integralmente studiati il terzo stato e la settima visione.

 

INFERNO

(le prime cinque età del mondo)

La ‘topografia spirituale’ del poema mostra nell’Inferno cinque cicli settenari corrispondenti agli stati della Chiesa descritti da Olivi e ai loro temi contenuti nella Lectura. Questi cinque cicli designano le prime cinque età del mondo (riunite a loro volta nel primo stato generale, che corrisponde all’età del Padre di Gioacchino da Fiore), in quanto prefigurazione del primo avvento di Cristo e della Chiesa.
I cinque cicli settenari che si susseguono nell’Inferno a partire dal quarto canto (i primi tre canti hanno una tematica particolare) sono preceduti da cinque zone che possono essere definite ‘snodi’, dove cioè confluiscono temi provenienti da più stati, intrecciati insieme ad altri ad avviare il procedere settenario. Il centro di questi ‘snodi’ coincide con un canto (Inf. IV, X, XVII, XXVI, XXXII), ma la zona è più vasta e supera l’ambito dato dalla divisione letterale del poema.

 

Inf. I-III: da considerare al di fuori dei cicli: I primi due canti dell’Inferno sono profondamente segnati dai temi del sesto stato: cfr. Il sesto sigillo, cap. 1c, Tab. VI-3; 2a, Tab. IX, X. Inf. III è riferibile al settimo stato (per gli ignavi) e in parte al quinto (per l’episodio di Caronte): cfr. ibid., cap. 7a, Tab. XLIV-XLV.

canti

I ciclo

stati

cerchi

IV

Limbo

Radici, I (I snodo)

I

V

lussuriosi

II

II

VI

golosi

III

III

VII

avari e prodighi, Palude Stigia

(iracondi e accidiosi)

IIIIVV

IV-V

VIII

Palude Stigia, Città di Dite

V

V

IX

apertura della porta della Città di Dite

VVI

 

canti

II ciclo

stati

cerchi

IX-X-XI

eretici, ordinamento dell’Inferno

I (II snodo)

VI

XII

violenti contro il prossimo

II

VII (girone 1)

XIII

violenti contro sé

III

        (girone 2)

XIV

violenti contro Dio: bestemmiatori

IV

        (girone 3)

XV-XVI

violenti contro Dio: sodomiti

V

XVI

XVII

ascesa di Gerione

Gerione,  violenti contro Dio: usurai

VI

canti

III ciclo

stati

cerchi

XVII

volo verso Malebolge

I (III snodo)

 

XVIII

ruffiani, lusingatori

Radici II

VIII (bolgia 1, 2)

XIX

simoniaci

III

(bolgia 3)

XX

indovini

IV

(bolgia 4)

XXI-XXII

barattieri

V

(bolgia 5)

XXIII

ipocriti

VVI

(bolgia 6)

XXIV-XXV

ladri

VI

(bolgia 7)

canti

IV ciclo

stati

cerchi

XXVI

consiglieri di frode (greci)

I (IV snodo)

(bolgia 8)

XXVII

consiglieri di frode (latini)

II

XXVIII-XXIX

seminatori di scandalo e di scisma

III

(bolgia 9)

XXIX

falsatori

IV

  (bolgia 10)

XXX

falsatori

IVV

XXXI

giganti

VVI

 

canti

V ciclo

stati

cerchi

XXXII

Cocito: Caina, Antenora

I (V snodo)

IX

XXXIII

Antenora, Tolomea

II

XXXIV

Giudecca

IIIIVV

XXXIV

volgersi di Virgilio sull’anca di Lucifero

VI

 

Il sesto stato è per Olivi la fase più importante nella costruzione dell’edificio della Chiesa. In esso “renovabitur Christi lex et vita et crux”. Corrisponde ai tempi moderni. Ha quattro diversi inizi temporali: uno profetico, con Gioacchino da Fiore, il quale lo vide in spirito concependo la sua terza età; il secondo con la conversione di Francesco (1206), che seminò la pianta; il terzo con la predicazione degli uomini spirituali, per la quale la pianta si rinnovella; il quarto con la distruzione storica di Babylon. Dura fino alla sconfitta dell’Anticristo, il cui avvento si collocherebbe, secondo i numeri della profezia di Daniele 12, 11-12 combinati con Ap 12, 6 e 14, fra il 1290 e il giubileo di pace del 1335.
Una ‘vita nuova’ si instaura nel sesto stato, per eccellenza il momento dell’imitazione di Cristo. I rami dell’albero si dilatano producendo il frutto della carità, l’acqua che proviene da Cristo-fonte attraverso il condotto che percorre i primi cinque stati della Chiesa si effonde in un lago; è il tempo, assimilato al sacramento del matrimonio, della letizia nuziale, della familiarità, dell’amicizia. Corrisponde al sesto giorno della creazione, in cui vennero creati prima i rettili e le bestie irrazionali, poi l’uomo razionale che, come l’ordine evangelico, è fatto a immagine e somiglianza di Dio e domina tutti gli animali.
Le espressioni di Olivi relative al sesto stato – “quoddam sollempne initium novi seculirenovaretur et consumaretur seculum”, nel quale il sacerdozio apostolico “redeat et assurgat ad ordinem primum”, la “nova Ierusalem”, interpretata come “visione di pace”, viene vista “descendere de celo” e la Chiesa descritta come la donna vestita di sole con la sua “virginea proles” – sono la veste spirituale dei versi della quarta egloga virgiliana che celebrano la rinnovata età dell’oro: “Magnus ab integro saeclorum nascitur ordo / iam redit et Virgo; redeunt Saturnia regna; / Iam nova progenies caelo demittitur alto” (Egloga IV, 5-7). Olivi completa la Lectura super Apocalipsim nel 1298, poco prima di morire, il 14 marzo, a Narbonne. Quel felicissimo stato segnato dalla pace sotto il divo Augusto, che rese l’umanità disposta al primo avvento di Cristo, si sta rinnovando nel sesto stato della Chiesa, nel secondo avvento nello Spirito. Scrive Arsenio Frugoni: “[…] quell’escatologismo, oltre che ideologia di lotta e di riforma del gruppo spirituale, era anche un vero e proprio sentimento storico […] una tensione di rinnovamento, una ansia di salvezza, che nel 1300, l’anno centenario della Natività, aveva trovato come una attivazione, in un senso di pienezza dei tempi, cui doveva corrispondere un fatto, un accadere meraviglioso e nuovo” [3].
All’apertura del sesto sigillo, l’eletta schiera dei riformatori – i 144.000 segnati dalle dodici tribù d’Israele – guida la turba innumerevole di ogni gente, tribù, popolo e lingua (Ap 7, 3-4.13). Questi eletti e magnanimi duci, separati dalla volgare schiera per più alta milizia, vengono destinati a difendere liberamente la fede – ad essi è data la “plena libertas ad innovandam christianam religionem” -; sono gli amici di Dio a lui noti per nome, configurati in Cristo crocifisso e votati al martirio.
All’interno della Chiesa del sesto stato, l’Ordine dei Minori – “ordo plurium personarum” – è  assimilabile alla persona umana di Cristo. Come questa si sviluppò fino all’età virile, così dovrà essere per l’ordo evangelicus piantato da Francesco, che avrà bisogno (a differenza di Cristo che stette poco tempo nel mondo) di due o tre generazioni per svilupparsi prima di subire una condanna simile a quella di Cristo [4]. La sua maturità coincide, verso il 1300, con il terzo inizio del sesto stato, cioè con il rinnovarsi per opera dello Spirito di Cristo, nel suo secondo avvento, della pianta seminata da Francesco. Questa concezione dell’Ordine francescano come individuo in sviluppo che, perfettamente maturato, diventa il novus ordo preconizzato da Gioacchino da Fiore per l’età dello Spirito, si differenzia da quella di Bonaventura, che aveva invece distinto i Francescani del proprio tempo – e quindi anche gli Spirituali – dall’Ordine finale che dominerà fino ai confini della terra. Alla terza apertura del sesto sigillo nuovi san Giovanni vengono inviati a predicare al mondo come al tempo degli Apostoli. Ma Giovanni non designa solo un Ordine, perché Olivi lascia aperta la possibilità di rivelazioni individuali, avute da “singulares persone”, perfetti imitatori di Cristo votati, con la loro “lingua erudita”, al compito della conversione universale.

[LSA, cap. X, Ap 10, 11] “Et dixit michi: Oportet te iterum prophetare in gentibus et populis et linguis et regibus multis”. In ipsa sapientia libri expresse continetur quod oportet iterum predicari evangelium in toto orbe, et Iudeis et gentibus, et totum orbem finaliter converti ad Christum. Sed quod per istum hoc esset implendum non poterat sciri nisi per spiritualem revelationem, et hoc dico prout per Iohannem designantur hic singulares persone quia, prout per ipsum designatur in communi ordo evangelicus et contemplativus, scitur ex ipsa intelligentia libri quod per illum ordinem debet hoc impleri.

Nei cinque cicli settenari della prima cantica il sesto stato è segnato dall’apertura della porta della Città di Dite (Inf. IX, 89-90); dall’ascesa di Gerione dall’abisso (Inf. XVI, 106-136); dal precipitoso passaggio dalla quinta alla sesta bolgia (Inf. XXIII, 1-57) e poi dalle trasformazioni della settima, dove i ladri fiorentini si mutano in serpenti e viceversa (Inf. XXIV-XXV); dal chinarsi di Anteo sul fondo dell’inferno (Inf. XXXI, 136-145); dal passaggio del centro della terra, con la conversione di Virgilio sull’anca di Lucifero, passaggio verso la sesta età, quella della Chiesa, descritta nel Purgatorio.
Ma i temi propri del sesto stato sono diffusi ovunque, intrecciati con quelli degli altri stati, e alla loro esegesi rinviano precise parole-chiave incardinate nel senso letterale dei versi. L’esegesi dell’angelo del sesto sigillo è già centrale nel primo canto del poema.
La novità che il sesto stato, per eccellenza stato di rinnovamento di questo secolo, arreca nell’inferno è una novità fittizia: l’apertura della porta della Città di Dite non è vera novità, perché essa è stata chiusa dall’ostinazione dei diavoli, recidivi dopo l’apertura della porta dell’inferno da parte di Cristo prefigurata dalla venuta di Ercole all’Ade, per cui Cerbero “ne porta ancor pelato il mento e ’l gozzo”; Gerione viene su ad un “novo cenno” di Virgilio, ma è figura della frode dalla velenosa coda aculeata; il nuovo prodotto dalle trasformazioni reciproche di serpenti e uomini è qualcosa di incompiuto perché l’uomo razionale, creato nel sesto stato, regredisce allo stato precedente.
L’Inferno è il luogo della durezza lapidea, dell’impetrarsi, del parlare duro di cose dure a dirsi, del duro giudizio, del senso duro della scritta al sommo della porta, dei duri lamenti, dei duri demoni, dei duri veli del gelo, della gravezza. Nell’Inferno vige l’imposizione data a Daniele dall’angelo sotto il sesto sigillo dell’Antico Testamento: “Ora tu, Daniele, chiudi queste parole e sigilla questo libro fino al tempo stabilito” (Dn 12, 4), che era la sesta età nella quale apparve Cristo e in particolare il sesto stato della sua Chiesa nella quale il libro doveva essere più pienamente aperto, non però ai malevoli e ai maldisposti. Questa durezza è rotta dall’invito di Dante ai dannati perché parlino. Far parlare liberamente, per dettato interiore, è la principale prerogativa del sesto stato – la nuova età che tanto s’aspetta, quella che ode del “dolce stil novo” e delle “nove rime” -, ed è tema che la poesia canta per intero, sia pure per un attimo, anche nella vecchia roccia infernale. Appartiene alla sesta chiesa il parlare liberamente di Cristo – ad essa è dato l’ “ostium apertum”, che è “ostium sermonis” – , il sentire per dettato interiore, l’aprirsi della volontà. Appartiene alla sesta chiesa anche il far venire quelli che si dicono Giudei senza esserlo, mutati nel cuore e disposti a farsi battezzare e governare. Questo far venire a parlare equivale all’invito dello Spirito di Cristo a convivare, a venire con desiderio e volontario consenso, con “disio” e con “velle”, in una pausa di pace nell’eterna dannazione. All’ “affettüoso grido” del poeta le ombre di Francesca e Paolo vengono “dal voler portate” verso un momento di mutazione, sebbene limitata al successivo colloquio. Tutto l’Inferno è un contrappunto fra la durezza del giudizio e l’apertura per la parola dirompente, fin che essa dura, la pena. Un’apertura che si esprime in varie forme: muoversi sospirando nel Farinata prima immobile, ‘crollarsi’ quasi per terremoto interiore dello ‘schivo’ Ulisse, convertirsi del vento in voce in Guido da Montefeltro, tornare indietro nel cammino assegnato o separarsi dai compagni di pena, essere sforzati a parlare anche malvolentieri, non poterlo negare o mostrare fretta di farlo, arrestarsi obliando il martirio, levarsi per poi ricadere, sollevarsi da atti bestiali per ritornare a essi dopo aver parlato, come nel conte Ugolino. In tante lingue, che parlano come per sé stesse mosse, sta un solo desiderio, il vivere ancora nel libro che è stato altrui aperto.
Se nell’Inferno il sesto stato non si realizza mai compiutamente, anche il settimo, che gli è strettamente connesso, non può trovare un luogo autonomo. Ciò non toglie che temi del settimo stato (e della settima visione) siano ben presenti in modo diffuso. Ad esempio, quelli relativi alla settima chiesa assumono particolare rilievo nella descrizione degli ignavi a Inf. III. Tempo del silenzio, della serena pace, del riposo dalle ansiose fatiche, il settimo stato subentra dopo le terribili tentazioni inferte, con un martirio non corporale ma psicologico, dai carnefici dell’Anticristo nel sesto. Come ogni momento della storia umana partecipa dell’imitazione di Cristo, che raggiunge l’acme nel sesto stato, così in ogni periodo si verifica una sua “quietatio”, una pausa di pace, di quiete, di silenzio propria del settimo. Così Francesca parla e ascolta “mentre che ’l vento, come fa, ci tace”. Il vento – “la bufera infernal, che mai non resta” – designa il fluttuare tempestoso delle passioni nel cuore.

PURGATORIO

(sesta età del mondo)

Dopo le prime cinque età del mondo (corrispondenti all’Antico Testamento, la gioachimita età del Padre), che hanno segnato la discesa a spirale per i cinque cicli settenari dell’Inferno, con il Purgatorio inizia la sesta età, quella di Cristo (l’età del Figlio), che ha sette stati, corrispondenti ai sette stati della Chiesa. Dapprima, nel cosiddetto ‘antipurgatorio’, si registrano in successione temi prevalenti dei primi cinque stati. Il sesto stato della sesta età (con cui si apre l’età dello Spirito) inizia con l’apertura della porta di san Pietro (la porta del Purgatorio). Questo sesto stato procede anch’esso con andamento settenario, per cui ha sette momenti, coincidenti principalmente con un girone della montagna, ma non del tutto, perché sempre l’ordine spirituale del poema rompe i confini letterali e le divisioni materiali, concatenando i temi di uno stato prevalente con quelli dello stato che precede e con quelli dello stato che segue e intrecciandoli con temi di tutti gli altri stati.
È spiegato nel Notabile VII del prologo della Lectura che il sesto stato della Chiesa è il secondo stato di Cristo e ha i suoi sette tempi per cui la Chiesa, come fosse una sfera, si ricongiunge circolarmente al primo apostolico tempo. Il settimo dei sette momenti del sesto stato della Chiesa coincide con il settimo stato generale della Chiesa, che nel poema corrisponde in parte all’ultimo girone della montagna (il settimo, dove si purgano i lussuriosi) e in parte all’Eden, con cui si chiude la seconda cantica.
Il Purgatorio dunque, secondo il senso spirituale, è la storia della Chiesa che corre verso il suo sesto stato, punto di riferimento di tutte le vicende umane, antiche e moderne, che ad esso cooperano. Non è casuale che nel sesto girone della montagna sia chiarificata e riconosciuta, nel colloquio con Bonagiunta da Lucca, la poetica delle “nove rime” di Dante, già “sesto tra cotanto senno” cooptato nella “bella scola” dei poeti del Limbo.
La vasta zona dedicata al sesto momento del sesto stato della Chiesa ha il suo inizio nel forte terremoto che scuote la montagna mentre Dante e Virgilio si trovano ancora nel quinto girone (Purg. XX, 124-141). Essa è stata compiutamente esaminata altrove.
Il settimo stato dell’Olivi si realizza parte in questa vita (come pregustazione in terra della gloria eterna, cioè fin sulla cima della montagna) e in parte nella futura (nel senso della quiete delle anime beate in attesa della resurrezione, che è la materia del Paradiso).

canti

I ciclo – fino al sesto sato

stati

 

I

Catone

Radici, I

 

II

angelo nocchiero, Casella

–  II

 

III

scomunicati

III

“Antipurgatorio”

IV

salita al primo balzo, Belacqua

IV  –  V

V

negligenti morti per violenza

V

VI

Sordello

V

VII-VIII

valletta dei principi

V

IX

apertura della porta

VI sesto stato

 

 

canti

II ciclo – il sesto stato della sesta età

stati

gironi

X-XII

superbi

I

I

XIII-XIV-XV

invidiosi

II

II

XV-XVIII

iracondi

ordinamento del Purgatorio,

amore e libero arbitrio

III

III

IV

XVIII-XIX

accidiosi

IV

IV

XIX-XX

avari e prodighi

V

V

XX (terremoto)  -XXV

Stazio, golosi, generazione dell’uomo

VI

VI

XXV-XXVI

lussuriosi

VII – settimo stato

VII

XXVII

XXVIII-XXXIII

 muro di fuoco

notte stellata, termine dell’ascesa

Eden

 

 

PARADISO

(settimo stato della Chiesa)

Il Primo Mobile è il nono e penultimo cielo, ma è il sesto se si parte dal cielo del Sole. È anche il cielo più segnato dal tema del “punto”, cui è assimilato il sesto stato. Questo consente di ricostruire l’ordine spirituale del Paradiso ponendo la cerniera nel quarto cielo del Sole. Con il terzo cielo di Venere termina infatti il cono d’ombra gettato dalla terra, secondo la dottrina di Alfragano (Par. IX, 118-119), mentre prima di descrivere l’ascesa al cielo del Sole il poeta invita il lettore a rivolgersi “a l’alte rote” (Par. X, 7-27). Senza la cesura recisa che, nella prima cantica, divide i dannati puniti all’interno della Città di Dite da quelli che ne stanno fuori e, nella seconda cantica, separa le anime purganti nei sette gironi della montagna dalle anime che attendono fuori della porta (il cosiddetto ‘antipurgatorio’), anche nel Paradiso gli spiriti che si manifestano nei primi tre cieli della Luna, di Mercurio e di Venere (spiriti che mancarono ai voti, spiriti che furono attivi per conseguire onore e fama, spiriti amanti) si distinguono per minore perfezione rispetto a quelli che appaiono nei cieli seguenti.
I dieci cieli del Paradiso si mostrano pertanto ordinati in due gruppi di settenari, corrispondenti agli stati della Chiesa (e alle loro prerogative) secondo Olivi, parzialmente combacianti (da 1 a 7 e da 4 a 10: coincidono gli ultimi quattro numeri del primo gruppo e i primi quattro del secondo).

I  Se si considera il primo settenario, nel primo cielo della Luna si affronta la questione dell’inadempienza dei voti, che ha corrispondenza con i temi propri della prima chiesa di Efeso, il cui nome, se interpretato, oscilla tra la fervida volontà iniziale e la remissione (l’essenza del voto consiste nella volontà).

II  Nel secondo cielo di Mercurio, le battaglie sostenute dal “sacrosanto segno” dell’aquila corrispondono allo stato dei martiri, che è dei combattenti, e anche la dottrina dell’incarnazione e della passione di Cristo, esposta successivamente da Beatrice, fa parte della tematica, perché l’intera Chiesa, fondata sulla passione di Cristo, imita con i martiri la sua croce, e questo giova assai al suo radicamento.

III  Nel terzo cielo di Venere, Carlo Martello spiega al modo di un dottore del terzo stato la diversità delle indoli umane e come gli uomini, non assecondandole, errino; nello stesso cielo compare Folchetto di Marsiglia, che da vescovo di Tolosa combatté l’eresia albigese.

IV – I  Al quarto cielo del Sole, primo del secondo gruppo di settenari per l’esaltazione della vita apostolica (propria del primo stato e rinnovata nel sesto), si può connettere il tema stesso del sole inteso nell’esegesi della quarta tromba (Ap 8, 12): “Per solem videtur hic designari solaris vita et contemplatio summorum anachoritarum, qui fuerunt patres et exempla aliorum, vel solaris sapientia et doctrina summorum doctorum”. Sapienza e contemplazione, dottori del terzo e anacoreti del quarto stato, concorrono, come Domenico e Francesco – “L’un fu tutto serafico in ardore; / l’altro per sapïenza in terra fue / di cherubica luce uno splendore” (Par. XI, 37-39) – con mutua cortesia a infiammare il meriggio dell’universo.

V – II  Il quinto cielo di Marte, secondo (come il secondo stato dei martiri) per l’esaltazione della croce di Cristo formata dai lumi dei combattenti per la fede, reca in sé il tema del condiscendere proprio del quinto stato sia nel pio discendere per la croce di Cacciaguida verso Dante, sia nella decadenza degli “alti Fiorentini”, cioè delle antiche famiglie, assimilate agli anacoreti, un tempo alti e poi vòlti in basso.

VI – III  Il sesto cielo di Giove, terzo (come il terzo stato dei dottori) per la spiegazione di profonde verità di fede, sviluppa il motivo, proprio della sesta chiesa, della “porta aperta”. Aprire la porta significa illuminare e rendere acuto l’intelletto che penetra nell’occulto delle Scritture, e anche dare efficacia spirituale a penetrare nel cuore di chi ascolta: così l’aquila apre la “latebra” di Dante, così l’occhio di Rifeo Troiano fu da Dio aperto alla futura redenzione.

VII – IV Nel settimo cielo di Saturno, quarto (come il quarto stato degli anacoreti), “si tace … la dolce sinfonia di paradiso” (Par. XXI, 58-60), e il tacere è tema del settimo stato. Ivi si mostrano gli spiriti contemplativi, principali soggetti del quarto stato, proprio degli anacoreti: se si conta a partire dal quarto cielo del Sole, considerando questo come primo ovvero come nuovo avvio del ciclo settenario, il cielo di Saturno è appunto quarto.

VIII (V) Il settimo cielo di Saturno è seguito dal cielo delle Stelle fisse – ottavo e quinto -, dove si mostrano le schiere del trionfo di Cristo che discendono dall’Empireo (il quinto stato è caratterizzato dalla “condescensio”) e si celebra il trionfo di Maria (sviluppo del tema, proprio della quinta chiesa, della mirabile bellezza della Chiesa, regina ornata di veste aurea per la carità che unisce e circondata dalla varietà nei doni e nelle grazie delle diverse membra). È inoltre ricapitolazione dei precedenti sette, secondo un’interpretazione più volte presente nella Lectura dell’essere ‘ottavo’. Per questo Dante, stando nel segno dei Gemelli, riguarda in giù e torna col viso per tutte quante le sette precedenti sfere (Par. XXII, 124-154).

IX (VI) Segue il Primo Mobile o Cristallino – nono e sesto cielo –, dove il poeta vede il punto luminosissimo – Dio – da cui dipende il cielo e la terra, circondato dai nove cerchi di fuoco (Par. XXVIII, 16-18, 40-42, 94-96). Il sesto stato, secondo quanto Olivi afferma nel Notabile VIII, è il “punto” da cui dipendono gli altri stati, perché appare nel testo dell’Apocalisse in modo più evidente degli altri, che da esso assumono chiarezza quanto alla loro manifestazione nella storia, come l’intelligenza delle cose ordinate ad un fine dipende dal fine.

X (VII) La quiete e l’immobilità dell’Empireo, decimo cielo – il “ciel de la divina pace” -, corrispondono al settimo stato, di cui è propria la “quietatio”, il silenzio (tema anticipato dal tacere di Beatrice in apertura del canto XXIX), e la pace.

Il Paradiso avrebbe pertanto un ordine spirituale del seguente tipo:

cielo

stato

cielo

I

LUNA

I

II

MERCURIO

II

III

VENERE

III

IV

SOLE

IV

I

SOLE

V

MARTE

V

II

MARTE

VI

GIOVE

VI

III

GIOVE

VII

SATURNO

VII

IV

SATURNO

VIII

V

STELLE FISSE

IX

VI

PRIMO MOBILE

X

VII

EMPIREO

Oltre ai luoghi sopra indicati, i temi del sesto e del settimo stato si rinvengono in più punti, intrecciati con altri.

Con un procedimento di arte della memoria, il senso letterale della Commedia contiene parole-chiave che rinviano al commento apocalittico dell’Olivi. Queste parole-chiave, vere e proprie imagines agentes, sollecitano la memoria del lettore verso un testo dottrinale che già conosce, ma che rilegge parafrasato in volgare e profondamente aggiornato secondo gli intenti del poeta, nei versi che prestano “e piedi e mano” alla dottrina e la vestono con esempi contemporanei e familiari. Il senso letterale, rivolto a chiunque, ne racchiude altri ‘mistici’ rivolti a un preciso pubblico – agli Spirituali francescani, e forse non solo ad essi, se la Lectura si fosse diffusa anche presso altri Ordini -, a coloro cioè che con la predicazione avrebbero potuto riformare la Chiesa e con la “lingua erudita” – il volgare di Dante – convertire il mondo. La riforma, come pure il ristretto pubblico che avrebbe dovuto attuarla, non si realizzò, per le note vicende che travolsero gli Spirituali e il loro stesso libro-vessillo.
Nella Topografia spirituale della Commedia, per quasi ogni verso, o gruppo di versi, collegamenti ipertestuali conducono al “panno” esegetico fornito dalla Lectura super Apocalipsim, sul quale il “buon sartore” ha fatto “la gonna” (Par. XXXII, 139-141).
La persistenza di un “panno” – cioè di un altro testo da cui trarre i significati spirituali del poema, materialmente elaborati attraverso le parole – è anche servita a mantenere l’unità e la coerenza interna dell’ordito. Si può supporre che il poema sia stato pubblicato per gruppi di canti, non più modificabili [5]: sempre stava innanzi al poeta la medesima esegesi teologica con le innumerevoli possibilità di variazioni tematiche e di sviluppi.

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[1] Cfr. LSA, cap. XVII, Ap 17, 9: «Et subdit Ricardus quod per septem reges, et per septem capita designatos, designatur hic universus populus malorum, qui secundum septem status huius seculi determinantur. Primus scilicet ab Adam usque ad Noe. Secundus a Noe usque ad Abraam. Tertius ab Abraam usque ad Moysen. Quartus a Moys[e] usque ad David. Quintus a David usque ad Christum. Sextus a Christo usque ad Antichristum. Septimus autem sub Antichristo attribuitur». Cfr. PETRI IOHANNIS OLIVI Lectura super Lucam, Lc 1, 26, ed. F. IOZZELLI, Grottaferrata 2010 (Collectio Oliviana, V), pp. 187-188: «Signanter autem dicitur in sexto mense, quia Christus uenit in sexta mundi etate, et iterum post quinque notabiles synagoge decursus: nam primo, cum sola circumcisione fuit sub patribus per quadringentos annos; secundo, accepta lege, fuit sub iudicibus per tantumdem temporis; tertio, proficiens in regnum, fuit sub regibus; quarto, assumpto plenius spiritu prophetico, fuit sub prophetis sollempnioribus, scilicet sub Elia, Ysaia et Yeremia etc.; quinto, restituto templo et urbe, fuit sub pontificibus quibus, per Aggeum et Zachariam et Malachiam iterata prophetia de Christo et eius precursore Elia, factum est silentium prophetarum, ita quod obmutuit cetus sacerdotum usque ad Iohannis ortum; et iterum in eiusdem quinti temporis sexto centenario conceptus est Christus. Sicut etiam sexto die factus est homo ad ymaginem Dei, sic conuenienter sub consimili senario factus est Christus homo, plenior Dei ymago: nam et perfectio numeri senarii, que ex omnibus partibus suis aliquotis et iterum ex ternario cum suis partibus, scilicet binario et unitate, consurgit, competit sibi et etiam reflexio ternarii per binarium, id est cultus fidei et Trinitatis per geminam caritatem».

[2] Il principio è chiaramente affermato nel notabile VIII del prologo della LSA: «[…] si omnia prima membra visionum ad invicem conferas et consimiliter omnia secunda et sic de aliis, aperte videbis omnia prima ad idem primum concorditer referri et consimiliter omnia secunda ad idem secundum et sic de aliis. Et hoc in tantum quod plena intelligentia eiusdem primi multum clarificatur ex mutua collatione omnium primorum, et idem est de omnibus secundis et tertiis et sic de aliis».

[3] A. FRUGONI, La Roma di Dante, tra il tempo e l’eterno, pp. 102-103.

[4] LSA, cap. VI, Ap 6, 12: «Secunda ratio est quia persone Christi correspondet in sexta apertione unus ordo plurium personarum sic secundum suam proportionem augendus, sicut Christus secundum suum corpus fuit usque ad perfectam etatem viriliter auctus. […] Quarta est quia, prout super evangelia ostendi, Christus parvo tempore debuit inter nos vivere et pauciori predicare […]. Nisi autem ordo evangelicus, per Franciscum renovatus, esset in multis et saltem sub duabus vel tribus generationibus propagatus et sollempnizatus, non esset nec ipse nec populus ab eo ducendus sufficienter dispositus ad tam autenticam condempnationem condempnationi Christi consimilem subeundam».

[5] Cfr. G. PADOAN, Il lungo cammino del “poema sacro”. Studi danteschi, Firenze 1993 (Biblioteca dell’ “Archivum Romanicum”, Ser. I, vol. 250), passim.