1. La missione di Francesco e Domenico nell’Apocalisse moderna. 2. Angeli, uomini e prìncipi. 3. L’angelo del sesto sigillo (Ap 7, 2) e l’angelo dal volto solare (Ap 10, 1-3). 4. Il suono della voce di Cesare. 5. Francesco e Povertà: un matrimonio sublime e grottesco. 5.1. Maria rimase giuso. 5.2. L’arco della carità. 5.3. Al modo delle rane. 5.4. Il Monarca “povero”. 6. Viltà e regalità. 7. Sete di martirio di fronte al Signore della terra. 8. L’italica erba. 9. ‘Pusilli’ e ‘grandi’. 10. Secoli in forma di lettere: «U ’ ben s’impingua, se non si vaneggia». 11. La “voce di molte acque”. 12. Risplendere sorridendo. 13. L’essercito di Cristo. 14. Le “novelle fronde” di Europa. 15. Ab utero matris. 16. Le nozze con la Fede. 17. Felice, Giovanna, Domenico. 18. Contro al mondo errante. 19. Quasi torrente ch’alta vena preme. 20. Bonaventura e la Regola male interpretata. 21. Sempre pospuosi la sinistra cura. 22. Gioacchino da Fiore, profeta della nuova età. La misteriosa terza ghirlanda. 23. Invidiare con cortesia. 24. Quo vadis, Dantes ?. Appendice. Note sulla “topografia spirituale” della Commedia.
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Inferno I, 103-108Questi non ciberà terra né peltro,
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Paradiso XI, 103-108e per trovare a conversione acerba
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SI UNANIMES OMNES … PRO YTALIA NOSTRA … VIRILITER PROPUGNETIS
(ex Epistola XI)
Queste parole, indirizzate nel 1314 ai Cardinali italiani riuniti nel conclave di Carpentras, quando la gravità del momento riguardava la Chiesa, l’Italia e il mondo, sono, nell’ora presente della prova e della sofferenza per la nostra Nazione, un invito a combattere uniti e a sperare in un futuro migliore. Dante molto sofferse, spese per la sua patria vita e intelletto affinché l’”italica erba”, cara a san Francesco, tornasse a verdeggiare e a dare frutti quale “giardin de lo imperio”; fu profeta del rinnovamento universale. Il modo migliore per onorarlo è, come scrisse Giuseppe Mazzini, apprendere da lui “come si serva alla terra natìa, finché l’oprare non è vietato; come si viva nella sciagura”.
[collegamenti ipertestuali: es. Lectura super Apocalipsim]
1. La missione di Francesco e Domenico nell’Apocalisse moderna
■ I canti XI e XII del Paradiso nei quali, con reciproca e infiammata cortesia, Tommaso d’Aquino e Bonaventura tessono l’elogio dei fondatori dell’altro Ordine, Francesco e Domenico, riprovando al contempo la decadenza del proprio, contengono, come avviene in tutta la Commedia, parole-chiave che rinviano alla Lectura super Apocalipsim di Pietro di Giovanni Olivi. Incardinate nel senso letterale, parole che sono segni di dottrina inseriscono persone reali nella storia dei disegni provvidenziali, espressa dall’Apocalisse e dalla sua esegesi. “Divina voluntas per signa querenda est”, scriveva, quasi contemporaneamente, Dante nella Monarchia (II, ii, 8).
Il realismo dantesco, tanto caro alla critica novecentista, fa sì che “l’altro mondo è reso sensibile e leggibile con le forme del nostro mondo” [1] ma, armonizzando “e cielo e terra”, nel “poema sacro” le forme del nostro mondo sono inserite in un processo storico che manifesta i segni della volontà divina. Questa storia universale della salvezza è contenuta nella Lectura super Apocalipsim dell’Olivi.
Per questo nella narrazione della vita di Francesco e Domenico la missione prevale sulla persona, come osservava Erich Auerbach, la concezione generale sui singoli fatti o aneddoti, dei quali invece abbondano altre fonti, come ad esempio il Sacrum Commercium [2]. Qualcosa di simile era già avvenuto nella Vita Nova. Povero di riferimenti precisi a persone e luoghi [3], il “libello” giovanile non è un libro devozionale né un trattato sulla contemplazione, ma una storia reale, quella di Beatrice e di Dante, assurta a storia sacra della salvezza collettiva.
■ Quanto nella Lectura è concentrato su Francesco e il suo Ordine, viene da Dante, che aggiorna l’Olivi secondo i propri intenti, diffuso globalmente sull’intero mondo umano con le sue nuove esigenze legate alla lingua volgare, alla filosofia, al regime politico; nella storia dei segni divini entrano gli autori classici.
Dall’esame delle tabelle sinottiche, si noterà come a un medesimo luogo esegetico della Lectura conducono, tramite la compresenza delle parole, più luoghi della Commedia. Per spiegare i significati spirituali dei versi di Paradiso XI e XII si dovrà fare riferimento anche ad altri canti, più o meno numerosi, del poema. Ciò significa che la medesima esegesi di un passo dell’Apocalisse è stata utilizzata in momenti diversi della stesura del poema.
La persistenza di un “panno” – cioè di un altro testo da cui trarre i significati spirituali del poema, materialmente elaborati attraverso le parole – è servita a mantenere l’unità e la coerenza interna dell’ordito, della “gonna”, per usare l’immagine di san Bernardo a Par. XXXII, 139-141. Che il poema sia stato pubblicato per gruppi di canti, non più modificabili, oppure per cantiche riviste, sempre stava innanzi all’autore la medesima esegesi teologica con le innumerevoli possibilità di sviluppare variazioni tematiche.
Da un punto di vista dei significati spirituali, il tessuto di fondo consente di estendere le prerogative di Cristo o dei vari angeli o uomini angelici a Lui riconducibili. L’esegesi dell’angelo del sesto sigillo, che sale da oriente (Ap 7, 2), la si può ritrovare appropriata a Dante nella salita del “dilettoso monte”, o a Virgilio che rimuove gli impedimenti posti dalla lupa e dagli antichi demoni, o a Beatrice nel suo apparire nell’Eden, o infine dove sarebbe più naturale trovarla secondo gli intenti di Olivi, cioè nell’elogio di Francesco tessuto da Tommaso d’Aquino nel cielo del Sole. Non solo, anche Domenico se ne fregia, e così si dica dell’altro grande angelo apocalittico, che al suono della sesta tromba ha la faccia come il sole (Ap 10, 1-3).
Sullo stesso “panno”, dunque, è tessuta la “gonna” di Francesco e Domenico [4]. Si può pensare che Dante nutra maggiori simpatie per Francesco [5]. Di fatto egli ha scelto come canovaccio del suo poema un’opera francescana, ma bisogna dire che non poteva trovare qualcosa di simile nell’altro campo, e che il rapporto fra la Lectura e la Commedia passò per una profonda metamorfosi del commento apocalittico oliviano, segnandone l’uscita dalla cerchia dei Frati Minori verso il secolo umano. A questo va aggiunta la nostra sensibilità moderna, poco incline a sentire il valore della crudezza di Domenico, che si mosse “quasi torrente ch’alta vena preme” contro l’eresia albigese.
■ Scriveva Auerbach sulla capacità di Dante nel formare un pubblico che non esisteva ancora:
Il comune patrimonio moderno cristiano ed europeo, il cui organo per tanto tempo era stato il latino, cominciava allora a rivelarsi come un’unità in una nuova scissione nazionale. Ma quel patrimonio comune aveva, come sua essenza più intima e sua proprietà più cara e più peculiare, la storia umanissima dell’incarnazione e della passione di Cristo; e questa storia era attorniata da tante altre storie, che la annunciavano prefigurandola o la confermavano imitandola [6].
Il latino era una lingua per pochi, non bastava più per tutte le necessità espressive: il latino dell’esegesi è vicino al volgare; a questo latino non aulico rinviano i versi del poema. Secondo Étienne Gilson “[…] nessun linguaggio è a Dante più familiare di quello della Scrittura” [7]. Si può precisare che nessun linguaggio è più familiare al volgare di Dante del latino dell’esegesi scritturale. Si tratta del sermo humilis il quale, come affermò Auerbach, “insegna le profondità della vita ai semplici” [8]. È la favella “soave e piana” con la quale Beatrice, umiliatasi a scendere all’“uscio d’i morti”, si rivolge “con angelica voce” all’alta tragedia figurata in Virgilio (Inf. II, 55-57). In questo volgare, nuova lingua universale elaborata sull’umile latino dell’esegesi, un pubblico specifico, quello degli Spirituali francescani votati alla riforma della Chiesa e alla conversione universale a Cristo, avrebbe letto la vita sommamente cristiforme di Francesco e Domenico, e nello stesso tempo la memoria sarebbe stata indirizzata alla dottrina apocalittica contenuta nel loro libro-vessillo alla quale il “poverel di Dio” e il “santo atleta” fornivano “e piedi e mano” (cfr. Par. IV, 43-45).
■ La storia della Chiesa, secondo Olivi, segue i princìpi della propagazione naturale. La Chiesa è come un individuo che cresce e si sviluppa nei suoi sette periodi (status). Al primo, apostolico periodo, succede il secondo dei martiri; poi, al tempo di Giustiniano, il terzo stato dei dottori che confutano con l’intelletto le eresie concorre con il quarto stato degli affettuosi anacoreti devoti al pasto eucaristico, alti per la contemplazione ma anche attivi come reggitori delle genti; a partire da Carlo Magno subentra il quinto stato aperto alla vita associata delle moltitudini, bello nel principio ma poi corrottosi fino a trasformare quasi tutta la Chiesa in una nuova Babilonia; la riforma interviene, a partire da Francesco, con il cristiforme sesto stato, fino alla sconfitta dell’Anticristo; subentra infine il silenzio e la quiete del pacifico settimo stato. Gli stati sono interconnessi fra loro per concurrentia al modo dell’umana generazione: il periodo che segue inizia prima della fine di quello che precede come il feto si forma e si nutre nell’utero materno prima di nascere e come un fanciullo viene educato nella casa del padre prima di diventarne l’erede. La storia è segnata da tre momenti di novità corrispondenti ai tre avventi di Cristo: nella carne, nello Spirito – corrisponde al sesto stato della Chiesa -, nel giudizio finale.
L’intenso travaso semantico dalla Lectura nella Commedia si accompagna a un fatto strutturale. Il poema mostra un ordine interno diverso da quello che appare al lettore: il viaggio di Dante ha un andamento di ciclici settenari, che corrispondono ai sette stati della storia della Chiesa, cioè alle categorie con cui Olivi organizza la materia esegetica. È un ordine registrabile per zone progressive del poema dove prevale la semantica riferibile a un singolo stato, ordine dirompente i confini letterali stabiliti dai canti e da tutte le divisioni materiali per cerchi, gironi, cieli. Ogni stato, che ha differenti inizi, è concatenato per concurrentia, come le maglie di un’armatura, con quello che precede e con quello che segue. Ciascuno stato ha in sé una grande ricchezza di motivi e contiene inoltre temi di tutti gli altri stati, consentendo innumerevoli intrecci e variazioni (cfr. Appendice).
■ La Lectura portava al sommo l’escatologismo il quale, per citare Arsenio Frugoni, “oltre che ideologia di lotta e di riforma del gruppo spirituale, era anche un vero e proprio sentimento storico […] una tensione di rinnovamento, una ansia di salvezza, che nel 1300, l’anno centenario della Natività, aveva trovato come una attivazione, in un senso di pienezza dei tempi, cui doveva corrispondere un fatto, un accadere meraviglioso e nuovo” [9].
Nel sesto periodo (status) della storia della Chiesa – corrispondente alla terza età di Gioacchino da Fiore – si verifica un secondo avvento di Cristo, non come il primo nella carne e molto prima del terzo, che sarà nel giudizio finale, ma nello Spirito, cioè nei suoi discepoli spirituali. I segni della divina provvidenza sono pervenuti fino ai tempi moderni (il sesto stato), nei quali sta già operando una palingenesi nelle coscienze che porterà a un novum saeculum. Per quanto Olivi sia molto cauto nell’uso degli autori pagani, c’è una perfetta concordanza spirituale, e anche letterale, fra quanto afferma di questa renovatio e la quarta egloga virgiliana. In questa età rinnovata per lo Spirito di Cristo, tanto attesa come quella augustea, una rivoluzione interiore viene compiuta con la parola che converte e rompe la durezza dei cuori, che l’interno dettatore spira nei predicatori aprendo la loro volontà al dire. Su questa età ‘sesta’ ricade tutta la sapienza e la malizia del passato. Se finora Cristo, in quanto uomo, ha insegnato con la voce esteriore, e in quanto Verbo con la luce intellettuale, d’ora in poi insegnerà anche tramite il gusto d’amore proprio del suo Spirito. Alla preparazione della dottrina esteriore subentra il dettato interiore.
Con Francesco, angelo del sesto sigillo nato ad Assisi-Oriente, nella città del Sole di Isaia 19, 18 (Ap 7, 2), inizia il sesto stato (Par. XI, 52-54); stato di apertura, vi partecipa anche Domenico, nato ad Occidente, ma “in quella parte ove surge ad aprire / Zefiro dolce le novelle fronde / di che si vede Europa rivestire” (Par. XII, 46-48). Entrambi operano nel XIII secolo, che viene misticamente designato con la lettera U, perché al suo termine Babylon, la Chiesa carnale, spirerà. Il sesto periodo della Chiesa porta al livello più alto le qualità degli stati precedenti. Francesco e Domenico concorrono, con i loro Ordini, come terzo e quarto stato, quello dei dottori che confutano le eresie con la spada e quello dei contemplativi dalla santa e devota vita dedita al “pastus” eucaristico: sono due stati di solare sapienza che concorrono con mutua cortesia a infiammare il mezzogiorno dell’universo. Così Tommaso d’Aquino e Bonaventura recitano con “infiammata cortesia”, nel cielo del Sole, l’elogio del fondatore dell’altro Ordine. Francesco e Domenico sono la sublimazione dei “due soli”, il papa (il “pastorale”) e l’imperatore (la “spada”), rimpianti da Marco Lombardo a Purg. XVI, 106-114. Il sesto stato, nei suoi inizi, concorre ancora con il quinto, nel quale è preminente la pietas, recata all’acme dalla “viscerosa caritas” di Francesco; ad essa non è estraneo Domenico, “benigno a’ suoi”.
Profeta del sesto stato fu Gioacchino da Fiore, che lo previde concependolo in spirito nella sua terza età. Anche l’abate calabrese si manifesta nel cielo del Sole, presentato da Bonaventura. Nel Paradiso trionfano i temi del sesto stato, che coincide (insieme con il settimo) con l’età dello Spirito di Gioacchino. Questa è già operante e non profeticamente futura; tutti i beati, in modo differenziato, vi partecipano, anche Francesco e Domenico.
■ Sul senso allegorico, nel Convivio Dante aveva avvisato che “li teologi questo senso prendono altrimenti che li poeti”, anche se entrambi considerano il senso letterale precedente gli altri sensi, in quello inchiusi (Cv II, i, 2-15). Nella Commedia l’allegoria non è più “una veritade ascosa sotto bella menzogna”, cioè sotto la lettera della poesia, bensì corrisponde al teologico vedere le vicende di Cristo e della Chiesa come prefigurate nei fatti e nei detti dei profeti dell’Antico Testamento. Per i teologi, ha valore storico non solo la lettera, che non può essere quindi una finzione, lo ha anche l’allegoria con riferimento alla storia antica, ‘figura’ della nuova [10]. Così intende Tommaso d’Aquino delle metafore nella Scrittura; esse non sono esornative e dilettevoli come nei poeti, ma necessarie e talora opportunamente occulte [11]. Elia fu figura di Cristo nel suo primo avvento nella carne; prefigurò Francesco (rapito come il profeta sul carro) nel secondo avvento nello Spirito; Francesco e i suoi discepoli spirituali operano nel sesto stato, quello più conforme a Cristo. L’esegesi insiste sempre su Francesco, Dante vi accoppia Domenico, il quale “ben parve messo e famigliar di Cristo”: Povertà, sposata a Francesco, fu per il primo amore per il “santo atleta” di Calaruega (Par. XII, 73-75).
■ L’angelo del sesto sigillo (Ap 7, 2) rimuove un impedimento (i quattro angeli nocivi che tengono i quattro venti: Ap 7, 1), dopo di che il segno è posto sulla fronte, non vergognosa e gravata di viltà ma liberamente magnanima, degli eletti amici di Dio, difensori della fede fino al martirio, da Lui conosciuti per nome e ascritti alla più alta milizia dei baroni, dei decurioni, dei cavalieri che si distingue da quella volgare dei fanti. I cavalieri, configurati in Cristo crocifisso, designati dai 144.000 segnati eletti dalle dodici tribù d’Israele (Ap 7, 3-6), guidano la “turba magna, quam dinumerare nemo poterat” dei fedeli al trono dell’Agnello attraverso le grandi tribolazioni (Ap 7, 13-17).
La tematica riguarda per Olivi principalmente l’Ordine dei Minori, ma Dante diffonde questa sacra sinfonia militare, con cellule semantiche, sull’intero poema. Quanto Bonaventura dice dell’esercito di Cristo, che “dietro a la ’nsegna / si movea tardo, sospeccioso e raro”, nuovamente riarmato con i due campioni Francesco e Domenico, veri baroni, decurioni e cavalieri che guidano i fanti, estende all’intera Chiesa motivi da Olivi appropriati al proprio Ordine, il cui spirito era “tepefactus et quasi extinctus seu consopitus” (Ap 7, 3). È questa, come sostiene Raoul Manselli,
una concezione ecclesiologica che non si può davvero ricondurre a quella, in fondo abbastanza soddisfatta di sé, che aveva la gerarchia. Bisogna invece collocarla in quella concezione critica della Chiesa ch’è propria d’una parte – forse la più viva – del Francescanesimo, che aveva dalle concezioni gioachimitiche ricavato le basi per una inquadratura storica provvidenziale e di S. Francesco e di tutto il movimento minoritico [12].
La “signatio” sulla fronte è indice di magnanimità – la “magnanimis libertas” di confessare e difendere pubblicamente la fede -, che si oppone alla vile pusillanimità. Per essa Francesco non mostrò “viltà di cuor” per le sue umili origini, ma “regalmente” aprì a Innocenzo III la sua dura intenzione di vita, per averne il primo, verbale sigillo (Par. XI, 88-93). All’opposto agì “l’ombra di colui / che fece per viltade il gran rifiuto” (Inf. III, 59-60), cioè Celestino V, anch’egli di umili origini, ma che non seppe levarsi alla magnanimità dei segnati.
■ Al sesto stato, quello più conforme a Cristo, si addice il sacramento del matrimonio, designato dalle nozze dell’Agnello con la Chiesa di cui si dice ad Ap 19, 7 (prologo, Notabile XIII). Il tema è presente in modo esplicito e insistente nel cielo del Sole (Par. X, 139-141; XI, 31-33, 84; XII, 42, 61-63). La sublime immagine della sposa che va verso lo sposo racchiude tutta la storia universale successiva a Cristo [13] e segna i due campioni del sesto stato. Francesco si unisce a Povertà, Domenico alla Fede. Strano matrimonio, tuttavia, quello di Francesco. Dante non parla dello svestimento e della rinuncia all’eredità, come fanno le fonti. Sottolinea invece l’aspetto odioso e abietto della sposa (“dispetta e scura”), che mostra le qualità della morte (“a cui, come a la morte, / la porta del piacer nessun diserra … sicura … costante … feroce … ella con Cristo pianse in su la croce”); per averla lo sposo “in guerra del padre corse”; i due sono “amanti” prima che sposi; i primi compagni corrono anch’essi, osserva Auerbach, in amoroso inseguimento della donna di un altro. Povertà è la loro “pace”, l’apice della contemplazione che si consegue nella Gerusalemme celeste, interpretata come “visio pacis”. La poesia trascorre dal registro sublime a quello grottesco [14]. Non a caso i versi esprimono la più alta conformità con Cristo, quella della famiglia francescana, per mezzo di una metamorfosi in positivo dell’esegesi di quanto possa essere da Lui più difforme, quella dei tre spiriti immondi al modo delle rane, messi dell’Anticristo e famigliari dei demoni (Ap 16, 13-14).
■ Il frate e il poeta hanno la stessa idea della Chiesa, esemplata sulla persona e sulla vita di Cristo:
LSA, cap. VI, Ap 6, 12Sexta (ratio) est quia sicut Christi persona et vita fuit exemplar totius ecclesie future, sic decuit quod prima pars huius ordinis usque ad excidium Babilonis esset typica imago totius partis sequentis, ut scilicet principium corresponderet principio et medium medio et terminus termino. |
Monarchia, III, xiv, 3Forma autem Ecclesie nichil aliud est quam vita Cristi, tam in dictis quam in factis comprehensa: vita enim ipsius ydea fuit et exemplar militantis Ecclesie. |
Il primo verso del “poema sacro” – “Nel mezzo del cammin di nostra vita” – non è semplice indicazione anagrafica dei trentacinque anni di età dell’autore; è testimonianza resa a Cristo mediatore, la cui vita deve essere dalla nostra perfettamente imitata e partecipata.
Il principio della povertà, che Olivi applica all’Ordine francescano, è da Dante esteso non solo a tutta la Chiesa ma all’insieme dei fedeli: Ugo Capeto loda per la povertà Maria insieme al buon Fabrizio; “poverel di Dio” è Francesco, ma anche Romeo di Villanova si dipartì povero dalla corte provenzale. Il pescatore Amiclate, imperturbabile al suono della voce di Cesare, fu figura antica di Francesco.
La povertà, il primo dei consigli dati da Cristo, è fondamento del pensiero politico di Dante. Gli attributi del voto evangelico, l’“altissima paupertas” delineata dall’Olivi, appaiono applicabili anche al Monarca.
■ L’immagine dell’Italia, “giardin de lo ’mperio” fattosi “diserto” per incuria imperiale (Purg. VI, 105), avrebbe condotto un lettore spirituale alla Giudea, già terra eletta per dedicarsi al culto divino, separata dalle acque e fiorente di erbe e frutti ma poi inaridita (Ap 8, 7). La stessa esegesi gli sarebbe occorsa leggendo di Francesco che, per trovare troppo acerba alla conversione la gente saracena, “redissi al frutto de l’italica erba” (Par. XI, 105). L’ “umile Italia” (Inf. I, 106), nuovo regno di Giuda soggetto a tante fortune, la “misera Ytalia” di cui scriveva Salimbene [15], si convertirà da ultimo, come lo sarà la Giudea, umilmente condotta a Cristo. Leggendo “del bel paese là dove ’l sì suona” (Inf. XXXIII, 80), quel lettore non avrebbe mancato di concordare mentalmente la particella affermativa con l’«“Amen”, id est vere sic sit et fiat» cantato dai seniori e dai quattro esseri viventi dinanzi al trono divino (Ap 7, 12).
Se Dante guarda a Francesco “come l’incarnazione del genio religioso, nello stesso tempo civile e umano, del quale l’Italia recava in sé il germe” [16], anch’egli, come il “poverel di Dio”, porta su di sé dei sigilli che lo rendono cristiforme. Sale la montagna del purgatorio con segnate sulla fronte le sette “P”, che sono “piaghe”, come l’angelo del sesto sigillo, che Olivi identifica con Francesco, sale da Oriente: «“habentem signum Dei vivi”, signum scilicet plagarum Christi crucifixi».
■ È possibile dare una risposta alla fondamentale obiezione in merito ai rapporti fra Dante e gli Spirituali francescani: come poté seguirli tanto da concepire per loro un viaggio dottrinale interiore, considerato il giudizio negativo che Bonaventura dà di Ubertino da Casale, loro maggior punto di riferimento, a Par. XII, 124-126? La risposta sta nel separare gli opposti estremismi riprovati da Bonaventura – coartare la Regola da parte del rigorista Ubertino oppure fuggirla da parte del rilassato Matteo d’Acquasparta – dalla sua vera interpretazione data dall’Olivi. Nell’ultima fase della stesura del poema l’autore – “homme d’ordre et de gouvernement”, come lo definiva Paul Sabatier [17] – volle con nettezza distinguersi dall’estremista Ubertino da Casale, che pure attorno al 1307, in un periodo nel quale la riforma della Chiesa era ancora possibile, fu probabilmente colui che gli diede in mano la Lectura super Apocalipsim perché la volgarizzasse nei suoi modi poetici [18]. Questo cambiamento intervenne dopo il Concilio di Vienne (1311-1312) e la “magna disceptatio” che lacerò l’Ordine francescano fra i seguaci dell’una e dell’altra parte [19]. Alle parole di Bonaventura contro estremisti e rilassati nell’Ordine si potrebbe aggiungere che l’uno e l’altro estremo contrastano con gli insegnamenti di frate Pietro di Giovanni Olivi il quale, con salomonico equilibrio, condannò la rilassata gerarchia dell’Ordine ma pure si oppose all’estremismo degli Spirituali italiani. Il francescanesimo di Dante, come intuì Raoul Manselli, è quello di Olivi [20].
■ È bene chiarire il rapporto fra il commento apocalittico oliviano e le altre fonti, perché qualcuno non pensi che si voglia ridurre Dante a vir unius libri. La Lectura super Apocalipsim non è una fonte, bensì il libro della storia delle illuminazioni sapienziali con cui tutto deve concordare. Con l’esegesi dell’ultimo libro canonico, esposta in una teologia della storia che comprende per settenari tutta la Scrittura, la quale a sua volta è forma, esempio e fine di ogni scienza, concorda ogni conoscenza, ogni esperienza, ogni soluzione indipendente data a questioni dottrinali. Virgilio, Ovidio o Lucano, Boezio, Aristotele, Alberto Magno o Tommaso d’Aquino, la stessa Scrittura in quanto tale, le più svariate esperienze poetiche o le conoscenze di astronomia sono, nel poema, tutte fonti ordinate alla Lectura. Il principio vale anche per i canti di Francesco e di Domenico, dove fonti come Ubertino da Casale o il Sacrum Commercium non sono escluse, ma incastonate nelle maglie del commento apocalittico oliviano.
■ Chi intenda approfondire lo stato della ricerca può consultare su questo sito:
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Pietro di Giovanni Olivi e Dante. Un progetto di ricerca, in “Collectanea Franciscana”, 82 (2012), pp. 87-156 – ENG
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Amore e vita di poeta. La Vita Nova e l’imitazione di Cristo, dove si mostra come l’incontro fra Dante e le opere esegetiche dell’Olivi (in particolare l’Expositio in Canticum Canticorum e la Lectura super Lucam) risalga a prima dell’esilio, al tempo dell’uscita delle “nove rime”.
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[1] G. INGLESE, in Dante Alighieri, Inferno. Revisione del testo e commento, Roma 2007, p. 9.
[2] E. AUERBACH, Francesco d’Assisi nella “Commedia” (1944), in ID., Studi su Dante, trad. it., Milano 19744, pp. 221-235: 231-232.
[3] M. SANTAGATA, L’io e il mondo. Un’interpretazione di Dante, Bologna 2011, p. 172: “[…] da questo libro nomi di persona e toponimi sono banditi”.
[4] Cfr. L. ROSSI, Canto XI, in Lectura Dantis Turicensis, a cura di G. GÜNTERT e M. PICONE, III, Paradiso, Firenze 2002, pp. 167-179: 168: “Entrambi i testi [i canti XI e XII] si fondano […] su un medesimo tessuto metaforico: quasi un gergo per iniziati”.
[5] F. BAUSI, Dante fra scienza e sapienza. Esegesi del canto XII del Paradiso, Firenze 2009 («Saggi di Lettere italiane», LXVI), pp. 27-36. Sui rapporti fra Dante e i Francescani cfr. N. HAVELY, Dante and the Franciscans. Poverty and the Papacy in the ‘Commedia’, Cambridge University Press, 2004; Dante and the Franciscans, edited by S. CASCIANI, Leiden-Boston 2006 (The Medieval Franciscans, 3).
[6] E. AUERBACH, Lingua letteraria e pubblico nella tarda antichità latina e nel Medioevo, Milano 19743, pp. 282-283, 287-288.
[7] É. GILSON, Dante e la Filosofia (1972), trad. it., Milano, 19962 (Biblioteca di cultura medievale), pp. 74-75. Dante, infatti, “[…] disponeva del tesoro della lingua e della letteratura latina alla quale la parlata fiorentina era singolarmente più vicina di quella di Parigi” [É. GILSON, Dante e Beatrice. Saggi danteschi (1974), a cura di B. GARAVELLI, Milano, 2004, p. 105].
[8] E. AUERBACH, Sacrae Scripturae sermo humilis (1941), in ID., Studi su Dante (cfr. nt. 2), pp. 165-173: 173.
[9] A. FRUGONI, La Roma di Dante, tra il tempo e l’eterno, in ID., Pellegrini a Roma nel 1300. Cronache del primo Giubileo, presentazione di C. FRUGONI, a cura e con Introduzione di F. ACCROCCA, Casale Monferrato 1999, pp. 102-103.
[10] Cfr. E. AUERBACH, Figura (1938), in ID., Studi su Dante (cfr. nt. 2), pp. 174-221, dove l’interpretazione tipologica dell’Antico Testamento è dimostrata decisiva per Dante.
[11] TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, I, qu. I, a. 9: “Convenit etiam sacrae Scripturae, quae communiter omnibus proponitur (secundum illud ad Rom. I, [14]: sapientibus et insipientibus debitor sum), ut spiritualia sub similitudinibus corporalium proponantur; ut saltem vel sic rudes eam capiant, qui ad intelligibilia secundum se capienda non sunt idonei. Ad primum ergo dicendum quod poeta utitur metaphoris propter repraesentationem: repraesentatio enim naturaliter homini delectabilis est. Sed sacra doctrina utitur metaphoris propter necessitatem et utilitatem, ut dictum est. Ad secundum dicendum quod radius divinae revelationis non destruitur propter figuras sensibiles quibus circumvelatur, ut dicit Dionysius, sed remanet in sua veritate; ut mentes quibus fit revelatio, non permittat in similitudinibus permanere, sed elevet eas ad cognitionem intelligibilium; et per eos quibus revelatio facta est, alii etiam circa haec instruantur. Unde ea quae in uno loco Scripturae traduntur sub metaphoris, in aliis locis expressius exponuntur. Et ipsa etiam occultatio figurarum utilis est, ad exercitium studiosorum, et contra irrisiones infidelium, de quibus dicitur, Matth. 7, [6]: nolite sanctum dare canibus”.
[12] R. MANSELLI, Il canto XII del Paradiso, in Nuove letture dantesche, VI, Firenze 1973, pp. 107-128: 111, ripubblicato in ID., Da Gioacchino da Fiore a Cristoforo Colombo. Studi sul francescanesimo spirituale, sull’ecclesiologia e sull’escatologisno bassomedievali, introduzione e cura di P. VIAN, Roma 1997 (Nuovi studi storici, 36), pp. 213-230: 216.
[13] AUERBACH, Francesco d’Assisi (cfr. nt. 2), p. 227.
[14] Ibid., pp. 228-230.
[15] SALIMBENE De ADAM, Cronica, ed. G. SCALIA, I, Bari 1966 (Scrittori d’Italia, 232), pp. 299-301 (a. 1247).
[16] P. SABATIER, Saint François d’Assise et Dante. Simples notes à propos des sources qui ont inspiré l’allégorie des noces mystiques du Saint avec la Pauvreté, in Dante. Mélanges de critique et d’érudition françaises publiés à l’occasion du VIe Centenaire de la mort du Poète MCCCXXI MCMXXI, Paris 1921 (Union Intellectuelle Franco-Italienne), pp. 23-35: 25.
[17] Ibid., p. 24.
[18] Nel 1307, l’anno in cui Napoleone Orsini (insieme al suo cappellano Ubertino da Casale) si adoperò per il rientro a Firenze dei Guelfi bianchi esiliati [cfr. C. M. MARTÍNEZ RUIZ, De la dramatización de los acontecimientos de la Pascua a la Cristología: el cuarto libro del Arbor Vitae Crucifixae Iesu de Ubertino de Casale, Roma 2000 (Studia Antoniana, 41), p. 240], Dante si trovava tra la Lunigiana (nell’ottobre 1306 era procuratore di pace presso il vescovo di Luni per conto dei suoi ospiti Malaspina, e anche questa pace rafforzava la possibilità di un rientro) e il Casentino, forse ospite del conte Guido di Batifolle. Fu un anno decisivo, come riconosciuto dal Petrocchi: “Lo spazio bianco che intercorre tra la chiosa al commiato di Le dolci rime [la canzone commentata nel IV trattato del Convivio] e i primi versi dell’Inferno, è enorme quanto al salto di qualità, al timbro espressivo, alle scansioni passionali, alla presa in carico di un materiale smisuratamente più gravoso, ma fu forse bruciato in un tempo rapidissimo, se non si vuol dar credito a ipotesi più affascinante per palati moderni: che le due fatiche, finale l’una e iniziale l’altra, si siano addirittura accavallate per un lasso di tempo che sono i mesi intermedi dell’anno 1307. Peraltro il problema non può essere ridotto meramente a un mutamento di programma letterario; occorre cercare qualche motivazione più profonda, che si ricolleghi a eventi della spiritualità di Dante, poiché in questo settore forse è dato cogliere il fenomeno più nuovo che presenti l’incipit dell’Inferno rispetto alle battute finali dei due trattati. La rivoluzione poetica e stilistica in nulla, d’altronde, può contrastare un totale commovimento etico-religioso, quale ben oltre la visione allegorica della Vita Nuova irrompe nelle prime terzine dell’Inferno. […] Il mondo del profetismo gioachimita e celestiniano del Duecento crea nuovi temi e interrogativi all’animo del poeta; l’uomo-Dante si ritrae e analizza nelle sue esitazioni morali e nel suo bisogno di sacrificio e di redenzione, con una forte percezione del peccato che l’ha macchiato e con ardente volontà di purificarsi. D’ora in poi la vita politica e quella intellettuale dell’Alighieri s’identificheranno totalmente nel titanico sforzo di portare avanti, canto per canto, il sogno mistico della ‘divina’ Commedia” [G. PETROCCHI, Biografia. Attività politica e letteraria, in Enciclopedia Dantesca, Roma 19842 (Istituto della Enciclopedia Italiana), Appendice, pp. 34-35, 41].
[19] Cfr. B. NARDI, Il canto di S. Francesco (Paradiso, XI), in “L’Alighieri”, V (1964), 2, pp. 9-20, ripubblicato in ID., «Lecturae» e altri studi danteschi, a cura di R. ABARDO, Firenze 1990 (Quaderni degli Studi danteschi, 6), pp. 173-184: 176: “Di tutte queste discettazioni ideologiche Dante ha avuto il buon senso di far piazza pulita, nel momento in cui dava vita poetica a questo campione di Cristo che la povertà insegnò ad amare non con parole e con astruse e lambiccate ideologie, ma con l’esempio di una vita povera sinceramente accettata e cristianamente vissuta, a quotidiano contatto con la povera gente del popolo che della società cristiana è sempre stata la parte migliore, più sincera e più sana”.
[20] MANSELLI, Il canto XII del Paradiso (cfr. nt. 12), pp. 126-127 [228-229].
Abbreviazioni e avvertenze
Ap : APOCALYPSIS IOHANNIS.
LSA : PIETRO DI GIOVANNI OLIVI, Lectura super Apocalipsim.
Concordia : JOACHIM VON FIORE, Concordia Novi ac Veteris Testamenti. Herausgegeben von A. PATSCHOVSKY, Wiesbaden 2017 (Monumenta Germaniae Historica. Quellen zur Geistesgeschichte des Mittelalters, 28. Band), Teil 2 (lib. I-IV), Teil 3 (lib. V).
Expositio : GIOACCHINO DA FIORE, Expositio in Apocalypsim, in Edibus Francisci Bindoni ac Maphei Pasini, Venetiis 1527, ristampa anastatica Minerva, Frankfurt a. M. 1964.
Olivi opera spesso una sintesi del testo di Gioacchino da Fiore. Le « » precedono e chiudono un’effettiva citazione. Diversamente, viene posto un asterisco (*) o una nota in apice al termine della parte riferibile a Gioacchino.
In Ap : RICCARDO DI SAN VITTORE, In Apocalypsim libri septem, PL 196, coll. 683-888.
Tutte le citazioni della Lectura super Apocalipsim presenti nei saggi o negli articoli pubblicati su questo sito sono tratte dalla trascrizione, corredata di note e indici, del ms. Paris, Bibliothèque nationale de France, lat. 713, a disposizione fin dal 2009 sul sito medesimo. I passi scritturali ai quali si riferisce l’esegesi sono in tondo compresi tra “ ”; per le fonti diverse da Gioacchino da Fiore e Riccardo di San Vittore si rinvia all’edizione in rete. Non viene presa in considerazione l’edizione critica a cura di W. LEWIS (Franciscan Institute Publications, St. Bonaventure – New York, 2015) per le problematiche da essa poste, che sono discusse in A. FORNI – P. VIAN, A proposito dell’edizione di Warren Lewis della Lectura super Apocalipsim di Pietro di Giovanni Olivi. Alcune osservazioni, in “Archivum Franciscanum Historicum”, 109 (2016), pp. 99-161.
Il testo della Commedia citato è in Dante Alighieri, La Commedia secondo l’antica vulgata, a cura di G. PETROCCHI, Firenze 1994.
2. Angeli, uomini e prìncipi
■ Le perfezioni che il libro dell’Apocalisse attribuisce a Cristo possono essere appropriate per analogia alle persone, non solo ai prelati, ma anche alle membra di cui Cristo è il capo mistico, secondo i loro uffici: gli occhi sono i contemplativi, i piedi gli attivi, la bocca o la voce i dottori o i giudici. Ciò vale anche per le qualità dei vari angeli descritti nell’Apocalisse, ai quali Cristo presiede ordinando però sotto di sé degli angelici homines (Ap 10, 1). La posizione di Olivi, per cui l’angelo condivide con l’uomo una composizione ilomorfica, in quanto dotato come l’anima dell’uomo di una materia spirituale [1], avvicina molto angeli e uomini. Il principio vale anche per i seniori assistenti al soglio divino in principio della seconda visione, che possono designare i più sapienti in ogni tempo (Ap 4, 4). Allo stesso modo, le membra della sposa e dello sposo del Cantico dei Cantici possono essere applicate “ad diversas personas diversorum statuum vel officiorum”. Così avviene per i due testimoni di Ap 11, 3. Dante non condivide la tesi oliviana di una materia spiritualis comune agli angeli e agli uomini (per lui le intelligenze angeliche sono pura forma: cfr. Par. XXIX, 31-36). Tuttavia diffonde, come inteso dall’esegeta francescano, le qualità di Cristo, degli angeli e degli altri personaggi dell’Apocalisse sull’intero universo. Da un “panno” strettamente francescano è dunque fatta la “gonna” per più soggetti.
■ Elia ed Enoch sono, nel capitolo undecimo dell’Apocalisse (LSA, Ap 11, 3-13), i due testimoni dati per compiere la loro missione di profeti, al termine della quale vengono uccisi in apparenza dalla bestia che sale dall’abisso per resuscitare dopo tre giorni e mezzo e ascendere al cielo sotto lo sguardo dei nemici, mentre un grande terremoto distrugge un decimo della città, fa perire settemila persone e costringe gli altri a dare gloria a Dio.
Contro Gioacchino da Fiore, che identifica i testimoni con Elia e Mosè, i quali apparvero con Cristo sul monte della trasfigurazione, Olivi si schiera accanto ad Agostino, Gregorio Magno, Riccardo di San Vittore e Bonaventura, secondo i quali i due sono Elia ed Enoch. Di Enoch è scritto, nel Genesi (5, 22-24) e nella Lettera agli Ebrei (11, 5), che venne trasportato via, in modo da non vedere la morte. Di Mosè si sa invece che morì, e non è logico che ora risorga per morire di nuovo per mano della bestia, mentre si può dire che Enoch sia stato riservato per qualche compito solenne per la fede e per la Chiesa, assolto il quale possa poi morire. Accanto a Cristo trasfigurato sul monte apparve, accanto a Elia, Mosè perché i discepoli di Cristo erano nati dalla stirpe di Israele, e dunque a essi era più adatto, in quanto legislatore di somma autorità. Al tempo dell’Anticristo, al momento della conversione di tutto il mondo, accanto a Elia, adatto agli Ebrei perché della stirpe di Israele, nato sotto la legge mosaica, uomo evangelico il cui avvento è stato promesso dai profeti, dovrà comparire Enoch il quale, per essere stato contemporaneo di Adamo primo padre e padre di tutti i popoli nati da Noè dopo il diluvio, e per essere nato sotto la legge naturale, sarà molto più adatto per i Gentili da convertire, oltre che per gli stessi Ebrei. Gioacchino argomenta ancora che tra i segni in potere dei due testimoni ci sono il convertire l’acqua in sangue e il percuotere la terra con ogni sorta di piaga (Ap 11, 5-6), che sono attributi propri di Mosè, ma Olivi ribatte che ciò non toglie possano essere propri anche di Enoch. Gioacchino infine propone in subordine che i testimoni siano in realtà tre – Elia, Mosè e Enoch -, ma Olivi sottolinea che se in altri luoghi scritturali prevale il mistero trinitario, in questo caso, come in molti altri, la lettera conferma trattarsi di un mistero fondato sul numero due.
Elia ed Enoch hanno caratteristiche differenti. Così risulta dalla collazione di Ap 11, 3 (i due testimoni) con Ap 14, 14.17 (i due angeli con la falce, il primo simile al Figlio dell’uomo, l’altro uscente dal tempio che è in cielo). Elia è più dedito al governo e ai patimenti, come san Pietro; Enoch (oppure Mosè, secondo Gioacchino da Fiore, del quale è citata l’esegesi), come san Giovanni, alla contemplazione e alla pace. Il primo è ardente e feroce nello zelo contro i reprobi, il secondo più mite e soave nel raccogliere la messe degli eletti. Uno è occulto eremita che negli arcani del cielo imita la vita degli angeli e, allorché se ne distacca, scuote i cuori con il timore. L’altro rappresenta l’ordine di coloro che imitano la vita di Cristo ed è dato alle genti in modo manifesto per la loro utilità ed erudizione. Uno è fuoco ardente nell’amore e nello zelo divino, l’altro pioggia che riga la superficie terrestre nella perfezione della carità fraterna. Lo sdoppiamento ripete quanto detto a proposito dell’angelo del capitolo decimo, che ha la faccia come il sole (Ap 10, 1). A questi due testimoni Olivi aggiunge comunque un terzo elemento, l’ordine dei santi evangelici, rappresentati da Giovanni che riceve il libro e viene destinato a predicare ai popoli e alle genti e a misurare il tempio, ossia a governare la Chiesa (Ap 10, 11; 11, 1-2). Così Enoch designa la legge naturale, Elia quella mosaica e Giovanni il tempo della grazia.
Come avviene con l’angelo del sesto sigillo (Ap 7, 2) e con l’angelo che ha la faccia come il sole (Ap 10, 1-3) anche nel caso dei due testimoni i temi, nella trasformazione poetica, non vengono concentrati su un unico personaggio, ma variamente diffusi e appropriati. Se Elia, uomo evangelico ardente e feroce nel segare i reprobi vendemmiando, si avvicina al Veltro che caccerà la lupa e la rimetterà nell’inferno, Dante, che assume su di sé il compito di Giovanni e dell’ordine evangelico di predicare di nuovo ai popoli e alle genti (Ap 10, 11), ha almeno due prerogative proprie di Enoch, l’altro testimone. Come di costui è scritto, nel Genesi (5, 24) e nella Lettera agli Ebrei (11, 5), che venne trasportato via in modo da non vedere la morte, perché riservato ad alto officio alla fine dei tempi, così del poeta dice Virgilio a Catone: “Questi non vide mai l’ultima sera” (Purg. I, 58), essendogli stata riservata un’onorata impresa alla fine dei tempi. Enoch fu contemporaneo di Adamo, e Dante nel cielo delle stelle fisse incontra “l’anima prima / che la prima virtù creasse mai” (Par. XXVI, 80-142).
Dei due testimoni si dice (Ap 11, 3) che «“prophetabunt amicti saccis”, id est vestibus cilicinis vel asperis et pauperculis», a significare l’austerità della vita religiosa. Essi sono (Ap 11, 4) “due olive”, pingui di carità e ripieni dell’unzione divina e di soavità, “et duo candelabra lucentia” spandenti per tutta la Chiesa il lume della sapienza divina che portano in modo alto e preclaro, “in conspectu Domini terre stantes”, cioè assistono sempre Dio sia per la singolare contemplazione che per il servigio di una pronta obbedienza e ossequio. Secondo Gioacchino da Fiore, sia qui come in Zaccaria 4, 14 si dice di costoro che ‘stanno nel cospetto del Signore della terra’ perché sono venuti per questo, e andranno davanti al volto di Cristo per annunziare la venuta di un tempo nel quale è necessario che il Figlio di Dio regni su tutta la terra, cosicché gli uomini siano illuminati come da candelabri luminosi e il cuore degli eletti venga unto dalla grazia e dalla dottrina spirituale come da lampade colme di olio santo. Con il “Signore della terra” può essere anche designato l’Anticristo, che allora dominerà da usurpatore la terra e i terreni, di fronte al quale i due resisteranno con costanza ammonendolo da parte di Dio, come fecero Mosè e Aronne di fronte al Faraone e Pietro e Paolo di fronte a Nerone. Inoltre vengono detti stare nel cospetto del Signore come due candelabri luminosi o due luci stanno davanti a un signore o dinanzi all’altare di Dio uno a destra e l’altro a sinistra, o come due prìncipi e consiglieri che stanno e incedono uno a destra e uno a sinistra al cospetto di un gran re. Il loro insegnamento sarà così alto e umile da non poter piacere ai carnali, i quali non potranno gustarlo e, conseguentemente, neppure intenderlo. Con la loro dottrina e vita accenderanno gli avversari di invidia e di indignazione, cosicché non potranno apprezzarle e amarle, ma piuttosto disprezzarle e impugnarle. La loro virtù sarà efficace contro gli avversari, in quanto potranno operare segni e prodigi (Ap 11, 5-6).
Olivi osserva (Ap 10, 1) che alcuni (Riccardo di San Vittore) dicono che l’angelo dal volto solare (di cui si tratta nel capitolo X) deve essere Cristo perché solo a lui spetta aprire il libro, come è detto al capitolo quinto (Ap 5, 2-3). Non si nega, afferma il francescano, che sia lui il principale rivelatore del libro, in particolare in quanto è Dio che illumina interiormente le menti; nondimeno ordinò sotto di sé degli spiriti e degli uomini angelici per illuminare, come suoi ministri, gli esseri inferiori. Al modo con cui i sette angeli che suonano la tromba vanno interpretati come gli uomini angelici e i dottori e anche come gli spiriti angelici che presiedono ad essi, sebbene sia Cristo principalmente a insegnare tutte quelle cose significate col suono della tromba, così si deve intendere a proposito dell’angelo con la faccia come il sole.
Il testo di Olivi conduce a Par. XI, 35-36, dove si parla dei due prìncipi – Francesco e Domenico – ordinati dalla Provvidenza a guida della Chiesa. È da notare che se si collaziona il testo del capitolo X (Ap 10, 1) con quello del capitolo XI dove i due testimoni, Enoch ed Elia, sono definiti due candelabri luminosi che stanno al cospetto di Dio, come due prìncipi e consiglieri che stanno e incedono uno a destra e uno a sinistra al cospetto di un gran re (Ap 11, 4), si ritrovano complessivamente, tradotte dal latino in volgare, alcune parole contenute nei versi danteschi. Però il medesimo passo del capitolo X si accosta pure ad Inf. VII, 77-78, dove si dice che la Fortuna è “general ministra e duce” ordinata “a li splendor mondani”.
■ Francesco e Domenico, i “due prìncipi” dalla Provvidenza ordinati a guida della Chiesa, sono dunque assimilati ai due testimoni, Elia ed Enoch. Olivi assegna a Francesco la parte di Elia, apparso, come il profeta levatosi al cielo, trasfigurato nella luce del sole su un carro di fuoco. Non diversamente fa Ubertino da Casale nel quinto libro dell’Arbor vitae, che è probabile fonte di Dante per la celebre terzina:
Par. XI, 37-39L’un fu tutto serafico in ardore;
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UBERTINO DA CASALE, Arbor vitae crucifixae Iesu, V 3, (Venetiis 1485, rist. anast. a cura di C. T. Davis, Torino 1961, p. 421b).Inter quos in typo Helie et Enoch, Franciscus et Dominicus singulariter claruerunt. Quorum primus seraphico calculo purgatus et ardore celico inflammatus totum mundum incendere videbatur. Secundus vero ut cherub extensus et protegens, lumine sapientiae clarus et verbo predicationis fecundus super mundi tenebras clarius radiavit. |
In proposito sono da notare due aspetti.
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In primo luogo, se nella terzina la citazione dell’Arbor vitae sembra probabile, essa concorda con l’esegesi della Lectura super Apocalipsim nei luoghi dove si distinguono i serafini dai cherubini (a partire da Ap 4, 8, dove si tratta delle ali piene di occhi dei quattro esseri viventi che circondano la sede divina descritta ad Ap 4, 4). L’esegesi oliviana offre ai versi molta più materia da sviluppare di quanta se ne possa trarre dall’Arbor vitae. Gli occhi, ad esempio, appropriati ai cherubini, designano il circuire e difendere la Chiesa, prerogativa appropriata a Domenico. La semantica di Ap 4, 4 (nella parte proemiale della seconda visione), dove vengono descritti i ventiquattro seniori che circondano la sede divina come principi, dodici da sinistra e dodici da destra, ordinati come muro e come servitori alla difesa della Chiesa (designano la “plenitudo gentium” e la conversione finale delle Genti e di Israele), reca altre suggestioni: la difesa della Chiesa da parte dei due campioni nelle parole di san Bonaventura (Par. XII, 106-107); il circuire la vigna proprio di Domenico (ibid., 86-87; cfr. l’ ‘aggirarsi’ dei diavoli alla difesa entro le mura della Città di Dite a Inf. VIII, 123); l’essere ordinate le virtù cardinali, ninfe nell’Eden, come ancelle a Beatrice, che nel caso rappresenta la Chiesa (Purg. XXXI, 106-108); Iride (tema sia della sede, ad Ap 4, 3, come dell’angelo solare di Ap 10, 1) ancella di Giunone (Par. XII, 10-12). Ventiquattro sono pure gli spiriti sapienti che circondano nel cielo del Sole, con due corone concentriche, Dante e Beatrice (Par. XII, 96). I seniori che circondano la sede divina ad Ap 4, 4 sono, secondo Gioacchino da Fiore, i dodici apostoli per i quali i Gentili entrarono in Cristo e i dodici futuri evangelici per i quali Israele e l’intero orbe si convertiranno a Cristo (cfr. qui di seguito).
Ancora, Dante dice di Domenico: “l’altro per sapïenza in terra fue / di cherubica luce uno splendore” (Par. XI, 38-39). I dottori del terzo stato della Chiesa i quali, come Domenico, combatterono le eresie con la ‘spada’, operarono sulla “terra” (termine non presente nell’Arbor vitae), cioè sul luogo dei fedeli (il “mare” è invece il luogo degli infedeli o dei Gentili). Essi furono come fiumi irriganti la terra con la loro dottrina (Ap 8, 10). Da Domenico “si fecer poi diversi rivi / onde l’orto catolico si riga” (Par. XII, 104-105).
Ubertino da Casale e Dante fecero un uso diverso della Lectura super Apocalipsim. Il primo ne trascrisse diversi brani nel V libro dell’Arbor vitae crucifixae Jesu, opera composta nel 1305 a La Verna. Si è sempre sostenuto che Dante conoscesse l’Arbor, e ciò non è certo escluso. Fatto sta che l’esame intertestuale fra Commedia e Lectura mostra chiaramente come Dante abbia elaborato anche i passi (numerosi) che Ubertino non aveva incluso nel V libro dell’Arbor. Si tratta dei passi strettamente esegetici, che spesso si estendono per parecchi fogli dell’opera oliviana e non sono secondari nell’economia di questa. È pertanto fuorviante fare riferimento all’Arbor vitae senza considerare la principale fonte del suo quinto libro, la Lectura super Apocalipsim che Dante scelse come canovaccio del proprio poema.
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In secondo luogo, a differenza di Olivi e Ubertino, che assegnano a Francesco la parte di Elia (Ubertino completa la coppia collegando Domenico a Enoch), per Dante il carro della Chiesa (la “biga”) ha due ruote appropriate a due distinte persone, Francesco e Domenico appunto, che però partecipano entrambi delle qualità sia di Elia come di Enoch. Francesco è ardente come Elia, angelico eremita negli arcani del cielo, ma scuotere i cuori con il timore e segare con ferocia i reprobi vendemmiando si addice a Domenico, “benigno a’ suoi e a’ nemici crudo”; Francesco è asssimilabile a Enoch in quanto dedito alla contemplazione e alla pace (Domenico a Elia per la capacità di governo come l’ebbe san Pietro); entrambi imitano la vita di Cristo, ma istruire le genti (Enoch) sembra piuttosto appartenere a Domenico, al quale lo zelo (Elia) si addice più che al suo collega, perfetto nella carità fraterna (Enoch); la predicazione ai popoli, propria di Giovanni (e di Dante, tramite il suo poema) accomuna entrambi.
Accanto alla preminenza francescana, in Olivi sembra presente (cfr. Ap 10, 1) quella visione complementare degli ordini che “in uno studii proposito et voto concurrent”, già propria, alla metà del secolo, del Super Hieremiam [2]. D’altronde lo stesso francescano afferma di aver sentito, novizio nel convento di Béziers, Raimondo Barravi predicare quanto udito a Parigi da san Domenico, il quale constatata personalmente ad Assisi la vita senza possessi dei Minori, ne avrebbe seguito l’esempio per i suoi [3]. Bonaventura aveva scritto di “religiones pauperculae” suscitate dallo Spirito [4]. Questa concurrentia si ritrova nei versi danteschi relativi ai due campioni della Chiesa.
[1] Cfr. T. SUAREZ-NANI, Pierre de Jean Olivi et la subjectivité angélique, in “Archives d’histoire doctrinale et littéraire du Moyen Age”, 70 (2003), pp. 233-316: 297-309; O. RIBORDY, Materia spiritualis. Implications anthropologiques de la doctrine de la matière développée par Pierre de Jean Olivi, in Pierre de Jean Olivi – Philosophe et théologien. Actes du colloque de Philosophie médiévale. 24-25 octobre 2008, Université de Fribourg, édité par C. KÖNIG-PRALONG, O. RIBORDY, T. SUAREZ-NANI, Göttingen 2010 (Scrinium Friburgense, 29), pp. 181-227: 225-226.
[2] Cfr. F. SIMONI, Il Super Hieremiam e il gioachimismo francescano, in “Bullettino dell’Istituto Storico Italiano per il Medio Evo e Archivio Muratoriano”, 82 (1970), pp. 44-46.
[3] L’episodio è narrato nella Lectura super Lucam, cap. 1, ed. F. IOZZELLI, Grottaferrata 2010 (Collectio Oliviana, V), pp. 230-231; cfr. D. PACETTI, Petrus Ioannis Olivi O. F. M., Quaestiones quatuor de domina, Quaracchi, Florentiae, 1954 (Bibliotheca Franciscana Ascetica Medii Aevi, VIII), p. 37, nt. 1.
[4] Cfr. BONAVENTURA, Quaestiones disputatae de perfectione evangelica, q. 2, a. 3, ad 12, in Opera omnia, V, Ad Claras Aquas (Quaracchi) prope Florentiam 1891, p. 164 b): “Et quia Ecclesiae iam ditatae magis indigebant spiritualibus operariis quam vinitoribus et agricolis; hinc est, quod Spiritus sanctus religiones pauperculas suscitavit, quarum sollicitudo et cura tota esset ad signandos servos Dei in frontibus eorum signo Dei vivi [cfr. Ap 7, 2-4], vocando ad poenitentiam et ad gratiam Spiritus sancti”.
Tab. 2.1
[LSA, cap. X, Ap 10, 1 (IIIa visio, VIa tuba)] Quod autem quidam dicunt hunc angelum esse Christum, quia solius ipsius est aperire librum, prout dicitur supra capitulo quinto (Ap 5, 2-3.9)*, non negamus quin ipse sit principalis reserator libri et precipue in quantum est Deus illuminans interius mentes, sed nichilominus ordinavit sub se angelicos spiritus et angelicos homines ad ministerialiter illuminandum inferiores. Qua ergo ratione per septem angelos tuba canentes intelliguntur angelici homines et doctores et etiam spiritus angelici eis presidentes, quamquam Christus principaliter doceat omnia que per tubicinationes angelorum docentur, eadem ratione debet consimiliter intelligi in proposito.Inf. VII, 77-81Similemente a li splendor mondani
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[LSA, cap. XI, Ap 11, 4 (IIIa visio, VIa tuba)] Preterea hic dicuntur stare in conspectu Domini sicut duo candelabra lucentia seu duo luminaria stant coram uno Domino seu coram altari Dei unum a dextris et aliud a sinistris, vel sicut duo principes vel consiliarii unius magni regis stant et incedunt coram eo unus a dextris et alius a sinistris.Par. XI, 28-36La provedenza, che governa il mondo
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UBERTINO DA CASALE, Arbor vitae crucifixae Iesu, V 3, (Venetiis 1485, rist. anast. a cura di C. T. Davis, Torino 1961, p. 421b).Inter quos in typo Helie et Enoch, Franciscus et Dominicus singulariter claruerunt. Quorum primus seraphico calculo purgatus et ardore celico inflammatus totum mundum incendere videbatur. Secundus vero ut cherub extensus et protegens, lumine sapientiae clarus et verbo predicationis fecundus super mundi tenebras clarius radiavit. |
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[LSA, cap. IV, Ap 4, 8 (radix IIe visionis)] Item moraliter per sex alas animalium designantur sex virtutes. […] Due vero quibus volant sunt fides et spes. Caritas enim est ignis seraphicus quo sancta animalia sunt plena; sunt enim ignita quasi carbones et lampades ardentes, prout dicitur Ezechielis I° (Ez 1, 13).[LSA, cap. IV, Ap 4, 5 (radix IIe visionis)] “Et septem lampades ardentes ante tronum”, scilicet erant, “que sunt septem spiritus Dei”. Spiritus enim Sanctus, in suis septem donis seu in universitate suorum donorum per septenarium designata participatus et quasi multiplic[a]tus, facit ipsa et sanctos ipsis repletos ardere et lucere ad illuminationem et inflammationem ecclesie, que est tronus Dei, et etiam ad cultum divine maiestatis, in qua Deus stabiliter quiescit sicut in propria essentia sua. |
Par. XI, 37-39L’un fu tutto serafico in ardore;
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[LSA, cap. I, Ap 1, 14 (radix Ie visionis)] Quinta (perfectio summo pastori condecens) est contemplationis speculative et practice zelativus et perspicax fervor et splendor, omnes actus et intentiones et nutus ecclesiarum circumspiciens, unde subdit: “et oculi eius velut flamma ignis”. |
[LSA, cap. XIX, Ap 19, 12 (VIa visio)] “Oculi autem eius sicut flamma ignis” (Ap 19, 12), scilicet propter ardorem zeli ad faciendum iudicium et iustitiam de impiis et ad liberandum suos ab eis et ad inflammandum et illuminandum eos igne caritatis et amative sapientie. |
ignis seraphicus
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cherubin |
caritas (Ap 4, 8)
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plenitudo oculorum – in circuitu ambulantes (Ap 4, 8)↓“Et in circuitu sedis sedilia viginti quattuor” (Ap 4, 4) … “in circuitu sedis”, quia ad defensionem et protectionem sancte matris ecclesie ordinati sunt quasi murus eius et etiam sicut famuli eius.“et oculi eius velut flamma ignis” (Ap 1, 14)
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“Et septem lampades ardentes ante tronum” (Ap 4, 5) |
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ardere ad inflammationem |
lucere ad illuminationem |
“Oculi autem eius sicut flamma ignis” (Ap 19, 12) |
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propter ardorem zeli ad inflammandum igne caritatis |
propter ardorem zeli ad faciendum iudicium et iustitiam de impiis et ad illuminandum igne amative sapientie |
[LSA, cap. XI, Ap 11, 3-4 (IIIa visio, VIa tuba)] Sequitur (Ap 11, 3): “Et dabo duobus testibus meis”, scilicet officium predicationis, “et prophetabunt”, id est predicabunt, “diebus mille ducentis sexaginta”, id est, secundum Ricardum, toto tempore quo regnabit Antichristus*. […] Secundum Augustinum et Gregorium et Ricardum, hii duo testes sunt ad litteram Helias et Enoch, et hoc communiter tenetur, quamvis et per eos designentur duo ordines predicantium. Quorum unus magis erit exteriori regimini et passionibus mancipatus, unde et Iohannis ultimo allegorice designatur per [Petrum], cui di[c]itChristus: “Pasce oves meas”, et “cum senueris, extendes manus tuas”, scilicet in cruce, et “sequere me”, scilicet ad crucem (Jo 21, 17-19). Alter vero magis erit datus contemplationi et paci, unde et designatur ibidem per Iohannem, de quo dicit Christus: “Sic eum volo manere donec veniam” (Jo 21, 22). Nec oportet istos duos ordines testium esse diverse professionis seu religionis, sicut nec Petrus et Iohannes fuerunt, immo uterque fuit eiusdem professionis apostolice et evangelice, nec tamen per hoc nego quin ordines diversarum professionum in hoc concurrant sicut et iam fere per centum annos simul cucurrerunt duo. […]
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[LSA, Ap 14, 14.17 (IVa visio, opinio Ioachim de duobus angelis habentibus falces
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primus erit mitior et suavior ad colligendas segetes electorum quasi in spiritu Moysi |
secundus vero erit ardentior et ferocior ad secandam vindemiam reproborum ac si in spiritu Helie |
in primo intelligendus est aliquis ordo futurus perfectorum virorum servantium vitam Christi et apostolorum |
in secundo vero alius ordo heremitarum emulantium vitam angelorum, unde et dicitur egressus esse “de templo quod est in celo”. |
Primus enim manifestus apparet, quia illi qui militant Deo ad utilitatem et eruditionem plebium sunt in conspectu ipsarum dati, ut accipiant ab illis salutis monita et pie conversationis exempla. |
Alius vero de celo, ubi manebat occultus, est repente egressus, quia qui solitudinis remotiora et secretiora petunt, si quando egrediuntur ad homines, veluti de archanis celorum advenisse putantur, adeo ut multorum corda timore concutiantur admirantium tam perfectionem vite quam novitatem presentie. |
vita priorum erit quasi imber ad irrigandum superficiem terre in omni perfectione caritatis fraterne |
vita autem anachoritarum seu secundorum erit quasi ignis ardens in amore et zelo Dei ad comburendum tribulos et spinas, ne mali abutantur amplius patientia Dei. |
[Olivi] Attamen sciendum quod, prout superius dixi (cfr. Ap 11, 3), non est necesse istos esse diverse professionis, sicut nec Petrus nec Iohannes fuerunt aut Helias et Heliseus, quamvis Helias plus vacaverit vite heremitice et severe, Heliseus vero plus vite [et] congregationi communi et zelo mitiori. |
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[LSA, cap. IV, Ap 4, 4 (radix IIe visionis)] “Et in circuitu sedis sedilia viginti quattuor” (Ap 4, 4), scilicet erant, nobiles quidem sedes prima tamen longe inferiores; “et super sedilia”, scilicet erant, “viginti quattuor seniores sedentes, circumamicti stolis albis, et in capitibus eorum corone auree”. […] Per istos igitur anagogice designantur celestes angeli et potissime supremi; allegorice autem prophete et apostoli ceterique prelati, per quorum documenta et consilia a Deo accepta regitur universa ecclesia. Vel secundum Ioachim, duodecim apostoli per quos ecclesia de gentibus intravit ad Christum, et alii duodecim futuri evangelici per quos omnis Israel et iterum totus orbis convertetur ad Christum*.
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Par. XII, 10-12, 85-108 Come si volgon per tenera nube
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[LSA, cap. VIII, Ap 8, 10 (IIIa visio, IIIa tuba)] Sicut per “terram” designatur supra locus fidelium (cfr. Ap 8, 7) et per “mare” locus infidelium seu plebs gentilis (cfr. Ap 8, 8), sic per “fontes” et “flumina” terram irrigantia et potum dulcem hominibus et iumentis prebentia designatur sacra doctrina et doctores eius. […] |
Par. XI, 37-39L’un fu tutto serafico in ardore;
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■ e vinse in campo la sua civil briga (Par. XII, 108).
All’apertura del primo sigillo appare Cristo resuscitato, seduto su un cavallo bianco (Ap 6, 2). Si mostra cioè nel suo corpo glorioso e nella Chiesa primitiva resa bianca dalla grazia della rigenerazione e irradiata dalla luce della sua resurrezione. Sedendo su di essa, Cristo uscì nel “campo” del mondo non pavido o infermo, ma con somma magnanimità e insuperabile virtù. Condusse infatti nel mondo i suoi Apostoli come leoni animosi e potenti nell’operare miracoli. In essi aveva l’arco della predicazione capace di saettare e di penetrare i cuori. Gli era stata data anche la corona regale, secondo quanto si dice in Matteo 28, 18: “Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra”. La corona riguarda anche i suoi Apostoli, che aveva fatto principi e re spirituali di tutta la Chiesa e di tutto il mondo. Con l’arco saetta i reprobi con sentenze di condanna, con la corona glorifica i buoni. Cristo “uscì vittorioso per vincere”, cioè, secondo Riccardo di San Vittore, convertendo quelli tra i Giudei che aveva eletto per vincere, per mezzo di essi, i Gentili che aveva predestinato. Nella sua stessa uscita nel mondo apparve vittorioso come se avesse già vinto tutto.
Con san Domenico, una delle due ruote, insieme a san Francesco, della biga della Chiesa, questa “si difese / e vinse in campo la sua civil briga”, ossia la lotta contro gli eretici (Par. XII, 106-108). San Giacomo avvampa d’amore verso la speranza, che non lo abbandonò mai “infin la palma e a l’uscir del campo”, cioè dalla battaglia terrena, variazione dell’uscire vittorioso di Cristo, come se avesse già vinto, nel campo del mondo (Par. XXV, 82-84).
Nei versi di Par. XXV fa da contrappunto un altro tema, quello paolino del vincere il premio correndo nello stadio, proprio della settima visione (Ap 21, 16). La misura della città celeste è di 12.000 stadi. Lo stadio è lo spazio al cui termine si sosta o “si posa” per respirare e lungo il quale si corre per conseguire il premio. Esso designa il percorso del merito che ottiene il premio in modo trionfale, secondo quanto scrive san Paolo ai Corinzi: “Non sapete che tutti corrono nello stadio, ma di costoro uno solo prende il premio?” (1 Cor 9, 24). Ciò concorda con il fatto che lo stadio è l’ottava parte del miglio, e in questo senso designa l’ottavo giorno di resurrezione. L’ottava parte del miglio corrisponde a 125 passi, che rappresentano lo stato di perfezione apostolica che adempie i precetti del decalogo (12 apostoli x 10 comandamenti), cui si aggiunge la pienezza dei cinque sensi e delle cinque chiese patriarcali.
“Poi si rivolse, e parve di coloro / che corrono a Verona il drappo verde / per la campagna; e parve di costoro / quelli che vince, non colui che perde”. Così Brunetto Latini lascia la compagnia del suo discepolo (Inf. XV, 121-124). Più che raggiungere la sua schiera, così da sfuggire alla pena di giacere cent’anni sotto la pioggia di fuoco senza potersi far schermo con le mani, il premio che Brunetto consegue è la fama del suo Tesoro che ha raccomandato a Dante. In ogni caso, può essere curioso notare che il paragone con il palio di Verona chiude il canto e il riferimento alla vittoria sta nel 124° verso, uno in meno dello “stadio” paolino. Uscire in campo apparendo vittorioso, non pavido o infermo, è tema proprio di Cristo all’apertura del primo sigillo (Ap 6, 2). Dal confronto è possibile rilevare più di un aspetto, nel rispondersi fra i due testi: la compresenza di elementi semantici, la collazione di passi simmetrici della Lectura (da Ap 6, 2), una figura retorica (la perissologia, cioè un’affermazione seguita dalla negazione del suo contrario: “e parve di costoro / quelli che vince, non colui che perde”) suggerita dalla prosa (apparuit in ipso exitu totus victoriosus et ac si iam totus vicisset […] exivit in campum totius orbis non quasi pavidus aut infirmus), l’appropriazione a Brunetto, che è un dannato, di motivi propri di Cristo.
L’arrivo al cielo della Luna è tanto veloce quanto il ‘posarsi’ di una freccia (“un quadrel”, per concordare con l’ambito tematico della città celeste, posta appunto “in quadro”) che vola dopo essersi staccata dalla balestra (Par. II, 23-25). Dal momento in cui inizia la descrizione dell’ascesa al cielo (con il verso 43 del primo canto del Paradiso), fino al congiungersi con la prima stella (che coincide con il 25° verso del secondo canto), sono esattamente 125 versi, come i passi dello stadio paolino.
Ancora in Par. XXV, 79-81, a san Giacomo è appropriato anche il tema della folgorante luce di Cristo (dal Notabile XII del prologo: “dentro al vivo seno / di quello incendio tremolava un lampo / sùbito e spesso a guisa di baleno”). Da notare la presenza del verbo respirare (che è hapax nel poema: “vuol ch’io respiri a te che ti dilette / di lei”, vv. 85-86), richiamato dal posarsi nella descrizione finale del quietarsi del suono, dolcemente mischiato, delle voci dei tre apostoli Pietro, Giacomo e Giovanni, come i remi che “per cessar fatica o rischio … tutti si posano al sonar d’un fischio”, i quali prima percuotevano l’acqua (vv. 130-135). Respirare e posarsi sono segno del conseguimento del premio, dopo il correre nello stadio. Il tema del posarsi è congiunto con quello della quiete e della pace proprio del settimo stato, libero da ogni fatica o opera servile (prologo, Notabile XIII, Ap 10, 5-7).
Tab. 2.2
[LSA, cap. VI, Ap 6, 2 (IIa visio, apertio Ii sigilli)] In prima autem apertione apparet Christus resuscitatus sedens in equo albo, id est in suo corpore glorioso et in primitiva ecclesia per regenerationis gratiam dealbata et per lucem resurrectionis Christi irradiata, in qua Christus sedens exivit in campum totius orbis non quasi pavidus aut infirmus, sed cum summa magnanimitate et insuperabili virtute. Nam suos apostolos deduxit in mundum quasi leones animosissimos et ad mirabilia facienda potentissimos, et “habebat” in eis “archum” predicationis valide ad corda sagittanda et penetranda. […] “Et exivit vincens ut vinceret”, id est, secundum Ricardum, vincens quos de Iudeis elegit ipsos convertendo ut per eosdem vinceret, id est converteret gentiles quos predestinaverat*. Vel per hoc designatur quod, quando exivit ut mundum vinceret, apparuit in ipso exitu totus victoriosus et ac si iam totus vicisset.[LSA, prologus, Notabile XII] Dicendum quod diffusio fidei per apostolos in orbem universum debuit esse velox instar lucis solaris ab oriente in occidentem subito procedentis et instar fulguris universa subito discurrentis. Hoc enim fuit in gloriam Christi et lucis sue, unde in apertione primi signaculi dicitur exisse “vincens ut vinceret” (cfr. Ap 6, 2).[LSA, cap. XXI, Ap 21, 16 (VIIa visio)] “Et civitas in quadro posita est”, id est habens quattuor latera muri sub figura quadranguli iuncta, per quod designatur solida quadratura virtutum. […] “Et mensus est civitatem Dei cum arundine per stadia duodecim milia” (Ap 21, 16). Stadium est spatium in cuius termino statur vel pro respirando pausatur, et per quod curritur ut bravium acquiratur, secundum illud Apostoli Ia ad Corinthios, capitulo IX°: “Nescitis quod hii, qui in stadio currunt, omnes quidem currunt, sed unus accipit bravium?” (1 Cor 9, 24), et ideo significat iter meriti triumphaliter obtinentis premium. Cui et congruit quod stadium est octava pars miliarii, unde designat octavam resurrectionis. Octava autem pars miliarii, id est mille passuum, sunt centum viginti quinque passus, qui faciunt duodecies decem et ultra hoc quinque; in quo designatur status continens perfectionem apostolicam habundanter implentem decalogum legis, et ultra hoc plenitudinem quinque spiritualium sensuum et quinque patriarchalium ecclesiarum.* In Ap II, iv (PL 196, col. 762 B-C). |
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Par. XII, 106-108; XXV, 79-87, 130-135Se tal fu l’una rota de la biga
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Inf. XV, 121-124Poi si rivolse, e parve di coloro
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[LSA, prologus, Notabile XIII] Dies vero septimus erit benedictus et sanctificatus et liber ab omni opere et labore servili et fruens pace que exsuperat omnem sensum (cfr. Gn 2, 1-3). […] Sicut etiam septima etas, a sabbato quietis Christi initiata, continet in quiete et pace sanctas animas defunctorum, sic in septimo statu complebitur id quod scribitur in hoc libro (Ap 14, 13): “Beati qui in Domino moriuntur. Dicit” enim “Spiritus ut amodo requiescant a laboribus suis”, tamquam scilicet mundo et mundanis omnino defuncti.[LSA, cap. X, Ap 10, 5-7 (IIIa visio, VIa tuba)] Sumendo vero tubicinium septimi angeli respectu pacis que erit in ecclesia post mortem Antichristi, tunc est sensus quod tempus afflictionis et laboris sex priorum statuum, quasi sex dierum quibus laborare et operari oportet, cessabit in sabbato et requie septimi status, tuncque “consumabitur misterium” per prophetas [pre]nuntiatum quantum in hac vita consumari debet. Et sic exponit hoc Ioachim, subdens quod post tempus sex apertionum huius sexte etatis manet «tempus, ut ait angelus Danieli, quale non fuit ex eo tempore quo ceperunt homines esse in terra (cfr. Dn 12, 1), tempus utique septimi angeli, cui benedicet Dominus dans in eo pacem et letitiam sustinentibus se». |
3. L’angelo del sesto sigillo (Ap 7, 2) e l’angelo dal volto solare (Ap 10, 1-3)
■ (Ap 7, 2) Un lettore spirituale avrebbe ben afferrato la successione tematica tra quarto, quinto e sesto stato nei versi con cui Tommaso d’Aquino inizia in Par. XI l’elogio di san Francesco. Ivi all’ “alto monte” Subasio, che fa segno dell’arduo quarto stato proprio degli alti anacoreti, avrebbe visto contrapporsi “l’acqua (del Chiascio) che discende / del colle eletto dal beato Ubaldo” e la “fertile costa” che pende e spezza la “rattezza” del monte: segni del quinto stato sotto il cui regime Francesco formò il suo Ordine, periodo condiscendente, pietoso e tenero verso le moltitudini associate, di cui è figura la bella costa sottratta al forte e solitario Adamo, che Dio nel creare Eva riempì di pietas (prologo, notabile VII). Luogo dunque predisposto, nel quinto stato, alla nascita di “un sole”; esso, piuttosto che Ascesi, dovrebbe chiamarsi Oriente (Francesco è l’angelo del sesto sigillo, ascendens ab ortu solis; l’espressione si riflette nel forte latinismo “Non era ancor molto lontan da l’orto”). L’angelo del sesto sigillo (Ap 7, 2) sale da oriente perché Francesco assunse come fondamento della sua ascesa verso Dio la sede romana, che tra le cinque principali chiese è sede principale e città del sole, della quale è detto allegoricamente in Isaia 19, 18: “In quel giorno ci saranno cinque città nell’Egitto. Una di esse si chiamerà Città del Sole”. Le città citate nei versi danteschi sono cinque: Perugia, Nocera, Gualdo, Ascesi, Oriente e una sola, l’ultima, può dirsi realmente civitas solis (“ma Orïente, se proprio dir vuole”). Il rapporto tra le cinque città si colloca fra la stabilità solare di “Oriente” cui si ascende (Ascesi), l’instabilità di Perugia (la quale “sente freddo e caldo da Porta Sole”, cioè dalla porta che si apre a oriente, verso il Subasio), e il “grave giogo” che fa piangere Nocera e Gualdo Tadino, poste dietro al Subasio e per questo sottratte alla luce rispetto agli altri luoghi.
Il medesimo lettore si sarebbe poi ricordato della pietosa costa che frange l’alto monte nelle parole di san Benedetto, il quale portò per primo su “quel monte a cui Cassino è ne la costa” il nome di Cristo (Par. XXII, 37-45); avrebbe così accostato i due monti, il Cairo e il Subasio, e i due santi, Benedetto e Francesco, aperti alla vita associata nel quinto stato.
Ancora, l’immagine dell’orologio di Acaz (la meridiana portata da Dio indietro di dieci gradi, in segno della guarigione di Ezechia, il quale “morte indugiò per vera penitenza”: cfr. Par. XX, 49-54), che Cristo nuovamente ascende in Francesco sino al mattino (Ap 7, 2: con Francesco inizia il sesto stato, cioè il secondo avvento di Cristo nello Spirito, e la Chiesa, come una sfera, ritorna ai primordi), si ritrova al termine di Par. X, ove l’orologio che chiama al mattutino è appropriato alla prima corona delle anime sapienti, tra le quali è Tommaso d’Aquino che nel canto successivo tesse l’elogio di Francesco. La reminiscenza indubbia dal Cantico dei Cantici – “Indi, come orologio (hapax nel poema) che ne chiami / ne l’ora che la sposa di Dio surge / a mattinar lo sposo perché l’ami” – è, qui come altrove, incastonata nelle maglie del grande commento apocalittico, con cui concorda e grazie al quale assume un valore storico, non di citazione ma di metafora che si invera in un processo sacro (e altri temi della Lectura entrano in gioco nel finale del canto).
■ (Ap 10, 1-3) A rafforzare i motivi dell’angelo del sesto sigillo (Ap 7, 2) intervengono quelli dell’angelo della sesta tromba, anch’esso identificato con Francesco, trattato nel capitolo X. Di questo angelo dice il testo scritturale: “Vidi poi un altro angelo, forte, discendere dal cielo, avvolto in una nube, il capo cinto da un arcobaleno; aveva la faccia come il sole e i piedi come colonna di fuoco. Nella mano teneva un piccolo libro aperto. E pose il piede destro sul mare e il sinistro sulla terra e gridò a gran voce come leone che ruggisce” (Ap 10, 1-3).
Francesco fu singolarmente “forte” in ogni virtù, in ogni opera di Dio; per la somma umiltà e il riconoscimento della prima origine di ogni natura e grazia fu sempre “discendente dal cielo”; per l’aerea e sottile o spirituale leggerezza spogliata da ogni peso terrestre, fu “avvolto in una nube”, avvolto cioè dall’altissima povertà ripiena delle acque celesti, ossia del supremo possesso e assorbimento delle grazie divine.
Gli stessi concetti vengono ripetuti più avanti, allorché Olivi parla del discendere spirituale di Cristo, del suo servo Francesco e dell’angelico gruppo dei suoi discepoli contro tutti gli errori e le malizie del mondo, contro tutto l’esercito dei demoni e degli uomini malvagi, nel momento della solenne contestazione e condanna della vita evangelica e della Regola, che sarà fatta al tempo dell’Anticristo mistico e sarà più ampiamente consumata al tempo dell’Anticristo proprio. Francesco discenderà costante, forte, impavido come il leone, sia per attaccare che per difendersi. Per la sua profondissima umiliazione, per l’umile riconoscimento della sua origine da Dio, per il suo pietoso condiscendere verso gli inferiori, discenderà dal cielo e sarà avvolto, come da una nube, dalla scienza delle Scritture, non terrene e false ma celesti e purissime, e anche dalla agilissima, altissima e insieme feconda e oscura o umile povertà. Tutto ciò viene detto poiché apparirà chiaramente nelle sue future opere e nei suoi discepoli.
Gioacchino da Fiore dice a questo riguardo: “Chiunque sia questo predicatore della verità, è descritto come “forte” perché sarà robusto nella fede; “discenderà dal cielo”, cioè dalla vita contemplativa a quella attiva; sarà “avvolto in una nube” perché ricoperto dalla scrittura dei profeti, e avrà “l’arcobaleno sul capo” perché nella sua mente sarà lo Spirito Santo e l’intelligenza mistica o spirituale delle Scritture. Come infatti l’arcobaleno appare unito alle nubi del cielo, così alle scritture dei profeti bisogna unire l’intelligenza mistica per convincere gli avversari.
Nell’elogio fatto da Tommaso d’Aquino, dal capitolo X provengono “l’acqua che discende / del colle eletto dal beato Ubaldo”, cioè il Chiascio (il discendere del sesto stato concorda con quello pietoso del quinto segnalato dalla “costa”; il “colle” sopra Gubbio allude ad uno stato mediocre, quale il quinto, rispetto al quarto designato dall’ “alto monte”); la “gran virtute” di Francesco sentita dalla terra; il riferimento alla “spirital corte” (nell’esegesi oliviana è la spirituale leggerezza; nei versi la curia episcopale di Assisi, dinanzi alla quale, presente il padre, il santo si unisce con Povertà) e tre aggettivi di questa (“scura”, “costante”, “feroce”, cioè impavida).
Come la nube, che sta tra noi e il cielo, riceve i raggi del sole e li tempera, effondendo in misura dovuta le acque piovane feconde per la fruttificazione delle sementi, così la Sacra Scrittura sarà spiritualmente nella carità e nella sapienza di Dio come il sole che irradia alla fine tutta la terra formando il giorno solare del terzo stato generale del mondo (la terza età di Gioacchino da Fiore, iniziata con il sesto stato della Chiesa, e dunque con Francesco). Questa rosa di motivi è contenuta nel conforto che la terra sente per la grande virtù di Francesco e viene anticipata dall’essere “fertile” la costa ove nacque.
Il canovaccio di Ap 10, 1-3 (che non esclude altre fonti di consueto addotte a commento, ma le arma) non è recitato solo da Tommaso d’Aquino nel narrare la vita di Francesco. Lo si ritrova, variato, nell’elogio di san Domenico che Bonaventura pronuncia nel canto seguente. Anche per il santo atleta si parla di “viva vertute” infusa da Dio nella sua mente al momento della creazione (Par. XII, 58-60). In questi versi, riferiti all’essere perciò la madre di Domenico resa profeta del futuro del figlio, sono presenti anche i motivi, da Ap 13, 11, offerti dalla questione se l’Anticristo verrà o meno guidato dal diavolo fin dal ventre materno, e ciò per decisione della prescienza divina, non unico caso nel poema di metamorfosi in bonam partem di temi negativi nell’esegesi teologica.
Se l’angelo del capitolo X sarà impavido come un leone, sia per attaccare (“ad invadendum”) che per difendere (“ad patiendum”), il luogo di nascita di Domenico, Calaruega, si trova sotto la protezione dello scudo di Castiglia, in cui è rappresentato un leone che sovrasta ed insieme soggiace a un castello (Par. XII, 52-54). La “fortunata Calaroga” siede “in quella parte ove surge ad aprire / Zefiro dolce le novelle fronde / di che si vede Europa rivestire” (ibid., 46-48), terzina che contiene il tema del rinnovamento della vita evangelica proprio del sesto stato (Ap 6, 12), del quale è tipico il motivo dell’aprire.
Essere forte nella virtù e nelle opere e libero da ogni peso temporale, prerogative dell’angelo della sesta tromba, che ha la faccia come il sole (Ap 10, 1), sono motivi attribuiti da Cacciaguida a Cangrande, impresso da una stella “forte” (quella di Marte) che renderà “notabili” le sue opere, anche se finora le genti non si sono accorte di lui “per la novella età”. La sua virtù, di cui “parran faville”, consisterà “in non curar d’argento né d’affanni”, cioè nel disprezzo delle ricchezze e delle sollecitudini temporali (Par. XVII, 76-84; cfr. qui di seguito). Le qualità dell’angelo – “ab omni pondere terrenorum excussam … “fortis” in omni virtute et opere Dei … in caritate etiam et sapientia Dei” – sono proprie anche del Veltro: “Questi non ciberà terra né peltro, / ma sapïenza, amore e virtute” (Inf. I, 103-104).
Le prerogative dei due angeli (Ap 7, 2 e 10, 1-3) da Francesco, al quale Olivi le attribuisce, vengono dunque travasate su più soggetti [1]. Sta qui la “mondanità discretiva del Dante della Commedia” di cui scriveva Gianfranco Contini [2].
[1] I temi dei due angeli si ritrovano anche nell’apparizione di Beatrice nell’Eden: cfr. Il sesto sigillo, cap. 2c.
[2] Cfr. G. CONTINI, Filologia ed esegesi dantesca (1965) in Un’idea di Dante. Saggi danteschi, Torino 1970 e 1976, p. 135: “Di fronte, se mi si passa il traslato, all’integralismo teologico di Francesco sta la mondanità discretiva del Dante della Commedia, « unicuique suum »”.
Tab. 3.1
■ fertile costa d’alto monte pende (Par. XI, 45)
La “costa” e lo “scendere” sono temi del quinto stato, il declinante momento della pia condescensione verso la vita associata che frange l’ardua, ripida e solitaria altezza dello stato precedente degli anacoreti. Nel Notabile VII del prologo della Lectura super Apocalipsim si recano gli esempi di Cristo che condiscese agli infermi e di Adamo al quale venne sottratta una forte “costa” (simbolo della solitudine austera degli anacoreti del quarto stato), che Dio nel creare Eva riempì di pietas (cfr. Par. XIII, 37-38, 47-48, dove la “bella costa” tratta dal “petto” di Adamo è accostata alla “quinta luce” fra gli spiriti sapienti della prima ghirlanda). Più volte nel poema la “costa” della ripa infernale, o della montagna del purgatorio, che giace o che è corta o che cala o che pende, si abbina allo “scendere” in modo da far via in giù o in su, indicando la rottura della solitaria arditezza, del luogo “alpestro” a vantaggio del condiscendere pietoso, del dar via.
Ne è esempio la scesa dal “loco … alpestro” verso il settimo cerchio infernale, nella fossa del Flegetonte (Inf. XII, 1-10). Viene paragonata a “quella ruina che nel fianco (equivalente alla “costa”) / di qua da Trento l’Adice percosse, / o per tremoto o per sostegno manco”; ivi “è sì la roccia discoscesa, / ch’alcuna via darebbe a chi sù fosse” (“ut nequeuntibus in arduis perdurare daretur locus gratie in mediocri statu”: prologo, Notabile V); tale è quella che consente a Virgilio e Dante il passaggio dal monte al piano. Altro caso è la fuga dei due poeti i quali, inseguiti dai Malebranche, grazie alla “costa” che giace riescono a scendere dalla quinta alla sesta bolgia (Inf. XXIII, 31-33); oppure il passaggio dalla sesta bolgia alla successiva, facilitato dal fatto che il pendere, cioè l’inclinare, di Malebolge verso il pozzo centrale fa sì “che l’una costa surge e l’altra scende” (Inf. XXIV, 34-42). Nel dipartirsi dal male dell’inferno, Virgilio si appiglia “a le vellute coste” di Lucifero facendo scala del pelo e scendendo in giù “di vello in vello” (Inf. XXXIV, 73-75). Non è estranea al motivo della ‘costa condiscendente’ l’iniziale rigidità di Farinata (Inf. X, 75: “né piegò sua costa”).
I dubbi sulla propria inadeguatezza spingono dapprima Dante a rinunciare al viaggio: “tal mi fec’ ïo ’n quella oscura costa, / perché, pensando, consumai la ’mpresa / che fu nel cominciar cotanto tosta” (Inf. II, 40-42), applicando a sé stesso l’interpretazione data da Riccardo di San Vittore del nome della quinta chiesa d’Asia – Sardi -, bella nei suoi inizi non però alla fine (Ap 3, 1).
In Par. XXIII, 85-87 – nell’esaltarsi della divina virtù di Cristo, cioè nel suo sollevarsi in alto verso l’Empireo, per dare agli occhi del poeta, che non erano possenti, la possibilità di guardare – il “largirmi loco” proviene ancora dall’inciso “tuncque congrue instituta est vita condescensiva, ut nequeuntibus in arduis perdurare daretur locus gratie in mediocri statu” del Notabile V del prologo, (è una forma di “condescensio” che Cristo opera innalzandosi). Una variazione del tema è a Purg. V, 22-27, 55-57, con l’aggiunta di motivi penitenziali propri del quinto stato (prologo, Notabile XIII).
Altrove è la montagna del Purgatorio, “roccia sì erta”, a calare nella “costa” e a rompere la propria arditezza per consentire l’erta salita, impossibile a chi va senz’ali (Purg. III, 46-54; IV, 19-33; XI, 40-42) o, allentando la ripa che precipita, a fare scale come quelle che consentono di mitigare “l’ardita foga” della salita di San Miniato, “la chiesa che soggioga / la ben guidata sopra Rubaconte” (Purg. XII, 100-108). La valletta dei prìncipi si apre “dove la costa face di sé grembo … in fianco de la lacca” e ivi, condotti da Sordello “tra erto e piano” (che corrisponde allo stato mediocre) per “un sentiero schembo” (tema dell’essere inclinato), Virgilio e Dante scendono (‘avvallano’) e attendono il nuovo giorno (tema del quinto sigillo, da Ap 6, 9-11, ove ai santi si dice di aspettare fino al completamento del numero degli eletti; Purg. VII, 67-72; VIII, 43-44, 46).
Trovarsi in uno stato mediocre (il quinto) viene appropriato sul piano politico a Cesena in Inf. XXVII, 52-54, nella risposta che il poeta dà a Guido da Montefeltro sulla sua Romagna: “E quella cu’ il Savio bagna il fianco (la “costa”), / così com’ ella sie’ tra ’l piano e ’l monte, / tra tirannia si vive e stato franco”, dove la tirannia è assimilata all’ardua e oltre una certa misura insostenibile vita degli anacoreti (il quarto stato). I versi relativi a Cesena insinuano il dubbio che anche quanto Tommaso d’Aquino, a Par. XI, 47-48, dice del “grave giogo” che fa piangere “Nocera con Gualdo”, abbia un risvolto politico, intendendo cioè il dominio di Perugia sulle due città.
Del quarto stato, “stans” (prologo, Notabile III), è proprio il fermo governare le genti “in virga ferrea”, il “victoriosus effectus” che deriva dalle res gestae degli operosi anacoreti. Nel quinto stato, “contra medium terminum … declinans” (Notabile III), limitato alla Chiesa latina, si provvede a ricevere le moltitudini – “post tam altos status expedit multitudinem condescensive recipi et primos secundum proportionem suarum virium sequi” (Notabile V) – e si apprestano le medicine che ne curino i morbi. Così la cascata del Flegetonte rimbomba verso Malebolge come quella di San Benedetto dell’Alpe “per cadere ad una scesa / ove dovea per mille esser recetto” (Inf. XVI, 100-102), si tratti del mai realizzato castello dei conti Guidi per riunirvi i villaggi circostanti, o della grande badia camaldolese vuota di monaci. Così, nella nona bolgia, l’oscuro Pier da Medicina, che vissuto “in su terra latina” concorda perfino nel nome con il ‘medicinale’ quinto stato, ricorda con nostalgia la pianura padana: “se mai torni a veder lo dolce piano / che da Vercelli a Marcabò dichina” (Inf. XXVIII, 70-75). La pianura ai piedi della montagna del purgatorio “dichina … a’ suoi termini bassi” (Purg. I, 113-114).
Il quinto stato, del quale è proprio il condiscendere e il declinare o pendere, è anche assimilato alla sede romana: se il luogo di nascita di Francesco fu dove “fertile costa d’alto monte pende” (Par. XI, 45, 49-50), quello di Domenico fu dove “siede la fortunata Calaroga”, nome anch’esso ‘condiscendente’ (Par. XII, 52).
Tab. 3.2.1
[LSA, prologus, Notabile VII (V status)] Si autem contra hanc rationem obicias quod perfectio quinti status non est superior perfectionibus quattuor priorum statuum neque altius et propinquius ascendens ad finalem et supremam perfectionem, immo secundum supradicta videtur esse inferior et distantior, triplex est ad hoc responsio. Prima est quia licet condescensio quinti status in infirmis, pro quibus fit, sit imperfectior, in sanctis tamen, arduas perfectiones priorum statuum in habitu mentis tenentibus et ex sola caritate et infirmorum utilitate condescendentibus, est ipsa condescensio ad perfectionis augmentum, prout patet in Christo infirmis condescendente. Unde et Ade subtracta est fortis costa ad formationem Eve, “et replevit” Deus “carnem pro ea” (Gn 2, 21), id est pietatem condescensionis pro robore solitarie austeritatis.[LSA, prologus, Notabile III (V status); de quinto dono (zelus severus in phialis designatus est septiformis)] Item est septiformis quia est contra initium mali intrinsecum (I) et extrinsecum (II); et contra medium terminum, scilicet ascendens (III) stans (IV) et declinans (V); et contra terminum intrinsecum (VI) et extrinsecum (VII). |
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Par. XI, 43-54Intra Tupino e l’acqua che discende
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Par. XXII, 37-39Quel monte a cui Cassino è ne la costa
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Tab. 3.2.2
[LSA, prologus, Notabile VII (V status)] Si autem contra hanc rationem obicias quod perfectio quinti status non est superior perfectionibus quattuor priorum statuum neque altius et propinquius ascendens ad finalem et supremam perfectionem, immo secundum supradicta videtur esse inferior et distantior, triplex est ad hoc responsio. Prima est quia licet condescensio quinti status in infirmis, pro quibus fit, sit imperfectior, in sanctis tamen, arduas perfectiones priorum statuum in habitu mentis tenentibus et ex sola caritate et infirmorum utilitate condescendentibus, est ipsa condescensio ad perfectionis augmentum, prout patet in Christo infirmis condescendente. Unde et Ade subtracta est fortis costa ad formationem Eve, “et replevit” Deus “carnem pro ea” (Gn 2, 21), id est pietatem condescensionis pro robore solitarie austeritatis.[LSA, prologus, Notabile III (V status); de quinto dono (zelus severus in phialis designatus est septiformis)] Item est septiformis quia est contra initium mali intrinsecum (I) et extrinsecum (II); et contra medium terminum, scilicet ascendens (III) stans (IV) et declinans (V); et contra terminum intrinsecum (VI) et extrinsecum (VII).[LSA, prologus, Notabile XII (V status)] Quintus vero status pluribus ex causis debuit diu durare. Prima est quia eius condescensio potuit in multitudine diutius perdurare tamquam eius infirmitati proportionalis. […] Sexta, secundum Ioachim, est quia quintus status post quattuor animalia, id est post quattuor ordines perfectorum, tenuit typum generalis sedis, et ideo debuit in multitudine habundare*.* Concordia, III 1, c. 2; Patschovsky 2, p. 209, 4-19. |
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Par. XI, 43-51Intra Tupino e l’acqua che discende
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■ Ad Ap 11, 12 Olivi spiega che due sono i modi di illuminazione divina. Come infatti ricade nella gloria di Dio che talvolta si nasconda ingegnosamente a quanti sono giustamente da accecare e ci dimostri con ciò la prudenza del suo ingegno e un ordinato procedere da una radice occulta, tramite un tronco stretto, a un ampio e alto distendersi dei rami, così è proprio della sua gloria un’improvvisa manifestazione di potenza che confonde gli avversari e converte a sé e illumina molti, con il che ci dimostra un altro ordine, che procede dall’alto verso gli inferiori per cui la luce del sole dalla sorgente subito diffonde in modo aperto, espanso e chiaro i suoi raggi su tutto l’universo. Il primo modo si è manifestato nell’ascensione di Cristo, che non fu vista dai suoi nemici ma solo dai suoi discepoli, poiché allora i Giudei dovevano essere accecati e Cristo doveva essere loro nascosto per venire invece predicato e manifestato ai Gentili; allorché invece la conversione riguarderà tutto il mondo e l’Anticristo, con i suoi complici, verrà confuso e piagato, sarà più opportuno il secondo modo. Nelle opere divine c’è una concordia tra due elementi conformi, e c’è una concordia, altrettanto bella e piacente, tra due elementi contrapposti.
Al primo modo sembra accostabile, a Par. XII, 49-51, il nascondersi del sole “per la lunga foga” estiva dietro le onde dell’oceano: la descrizione di Calaruega, il luogo di nascita di san Domenico, si contrappone nello stesso numero di versi ad Assisi, dove “nacque al mondo un sole, / come fa questo talvolta di Gange” (Par. XI, 50-51), dove cioè il sole si manifestò con improvvisa illuminazione.
Al secondo modo rinvia il più vivace raggiare dell’ “ardor santo” nell’uomo, più a Dio conforme perché creato “sanza mezzo” (Par. VII, 70-75; cfr. XIX, 88-90), come pure il raggiare “insieme tutto / sanza distinzïone in essordire” nel “triforme effetto” di “forma e materia, congiunte e purette” (Par. XXIX, 22-30).
Poco prima, ad Ap 11, 8, è detto che la città, sulla cui piazza rimarranno esposti i corpi dei due testimoni vinti e uccisi in apparenza dalla bestia che sale dall’abisso, si chiama spiritualmente “Sodoma”, cioè muta, ed “Egitto”, cioè tenebrosa. Essa sarà infatti muta nella confessione della vera fede e tenebrosa per pravità, oppure Sodoma per lussuria ed Egitto per soverchia e maligna persecuzione contro Israele, il cui popolo fu crudelmente afflitto dal Faraone allorché Dio gli ordinò di uscire dalla terra d’Egitto. Risorti dopo tre giorni e mezzo, i due testimoni saliranno al cielo in una nube sotto gli sguardi dei loro nemici (Ap 11, 12).
Questi motivi sono appropriati a Cangrande. Come afferma Cacciaguida, le genti non si sono ancora accorte di lui “per la novella età” (e questo nascondersi corrisponde al primo modo dell’illuminazione divina), ma presto saranno conosciute le sue magnificenze, tanto che i suoi nemici “non ne potran tener le lingue mute” (Par. XVII, 79-87; e questo confondere gli avversari corrisponde al secondo modo). Ma Cangrande, nelle parole dell’avo di Dante, è segnato soprattutto dai riferimenti all’angelo dal volto solare descritto nel capitolo X, che Olivi identifica con Francesco.
Tab. 3.2.3
[LSA, cap. XI, Ap 11, 8.12 (IIIa visio, VIa tuba)] “Que”, scilicet civitas, “spiritaliter”, id est secundum spiritalem intelligentiam, “vocatur Sodoma”, id est muta, “et Egiptus” (Ap 11, 8), id est tenebrosa, quia muta erit ad confessionem vere fidei et tenebrosa per ignorantiam et pravam actionem. Vel per excessum luxurie erit quasi Sodoma et per excessum maligne persecutionis Israel, id est sanctorum, erit quasi Egiptus. Egiptus enim et Pharao rex eius afflixit crudeliter populum Dei, et precipue ex quo iussu Dei habuit de Egipto exire. Ibi etiam erat tunc summa idolatria et avaritia, sic et hic erit magna idolatria errorum et abhominanda adoratio Antichristi. […]
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Par. XII, 49-52non molto lungi al percuoter de l’onde
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Par. XI, 49-51Di questa costa, là dov’ ella frange
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[LSA, cap. X, Ap 10, 1 (IIIa visio, VIa tuba)] Ipse enim fuit singulariter “fortis” in omni virtute et opere Dei (Ap 10, 1), et per summam humilitatem et recognitionem prime originis omnis nature et gratie semper “descendens de celo”, et per aeream et per subtilem seu spiritualem levitatem ab omni pondere terrenorum excussam fuit “amictus nube”, id est altissima paupertate aquis celestibus plena, id est suprema possessione et imbibitione celestium divitiarum. |
Par. XVII, 76-93“Con lui vedrai colui che ’mpresso fue,
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■ Francesco, Benedetto e Augustino (Par. XXXII, 35)
San Benedetto e san Francesco sono accomunati dalla “costa”, cioè dal pietoso e condiscendente aprirsi dell’erta solitudine verso le moltitudini e la vita associata proprio del quinto stato – un valore femminile, si direbbe, che tempera la mascolinità. I due santi stanno insieme anche nell’Empireo, dove Dante li vede “con imagine scoverta”; li accompagna Agostino: i nomi dei tre formano un endecasillabo (Par. XXXII, 35). La triade, pur non appartenendo storicamente allo stesso periodo, designa la vita monastica e canonicale che si è sviluppata intensamente nel quinto stato (il quale formalmente inizia con il soccorso recato alla Chiesa romana da Carlo Magno o da suo padre Pipino).
Gli stati della Chiesa sono interconnessi fra loro per concurrentia al modo dell’umana generazione: il periodo che segue inizia prima della fine di quello che precede come il feto si forma e si nutre nell’utero materno prima di nascere e come un fanciullo viene educato nella casa del padre prima di diventarne l’erede. Per la “concurrentia” fra gli stati (prologo, Notabile X) le regole benedettina e agostiniana, istituite nel quarto stato (dei contemplativi), fiorirono nel quinto e Francesco iniziò il sesto stato sotto il regime del precedente periodo. E nell’Empireo fa da guida il contemplativo san Bernardo, che al quinto stato appartiene di diritto e ne reca tutta la tenerezza: “Diffuso era per li occhi e per le gene / di benigna letizia, in atto pio / quale a tenero padre si convene (Par. XXXI, 61-63; Dante si rivolge a san Benedetto chiamandolo “padre”: Par. XXII, 58) │Unde quamvis vita monachorum quarti temporis fuerit clarior, non tamen fecundior nec sic habens sensum vivum et tenerum pietatis (prologo, Notabile XIII)”.
Quarto stato (designato da Fonte Avellana) e quinto (indicato con “la casa / di Nostra Donna in sul lito adriano”) sono ben distinti da Pier Damiani, l’anima che Dante incontra prima di san Benedetto nel cielo di Saturno, sia che con “Pietro Damiano” e “Pietro Peccator” debba intendersi la stessa persona (il Damiani anacoreta e canonico) o due distinti soggetti (Par. XXI, 121-123). Questa differenza fra i monaci del quarto stato, nei quali “nulla erat possessio aut possessionum anxietas sicut est in temporibus istis, sed summa et una omnibus paupertatis voluntas”, e i più imperfetti monaci o canonici del quinto viene affermata da Gioacchino da Fiore citato da Olivi nel Notabile XII del prologo, “ne forte cum de monachis quinti temporis sermo succedet, vel de illis clericis qui canonice vivunt, alterum occurat pro altero et nominum idemptitas intellectum obscuret”.
Tab. 3.3
■ Il quinto stato corrisponde al quinto giorno della creazione, nel quale Dio disse agli uccelli (i monaci, più spirituali) e ai pesci (i chierici, commisti alle genti): “crescete e moltiplicatevi” (Genesi 1, 22). Così i monasteri e le chiese si sono propagati nella chiesa occidentale, e la vita, pur non tanto chiara per fama come nel quarto stato, si è svolta però con un “senso vivo e tenero della pietà”, al modo con cui gli uccelli e i pesci sono più dotati nel sentire dei “luminaria celi”, cioè del sole, della luna e delle stelle assimilati ai contemplativi del quarto tempo (prologo, Notabile XIII: questa esegesi è tratta da Gioacchino da Fiore).
Di qui, nella narrazione che Virgilio fa delle origini di Mantova, “Peschiera”, che “siede” (il quinto stato è assimilato alla ‘sede’ romana) dove “più discese” la riva del Benaco (il quinto stato è dei condescensivi). Anche l’essere “bello” appartiene al quinto stato, nel suo bel principio, mentre l’appellativo “forte arnese” è proprio del quarto stato (Inf. XX, 70-72; cfr. Il terzo stato. La ragione contro l’errore, Appendice). Virgilio, “quell’ ombra gentil per cui si noma / Pietola più che villa mantoana” (Purg. XVIII, 82-83), è un alto rappresentante della pietas del quinto stato.
Altra “peschiera”, nome comune, si mostra a Par. V, 100. Ma il “panno” (prologo, Notabile XIII) è il medesimo per entrambi i luoghi della “gonna”, però diversamente cuciti. Nel cielo di Mercurio i beati, definiti “spirti pii” (v. 121), appaiono in moltitudine (“più di mille splendori”), accorrendo quasi pesci verso il pasto “come ’n peschiera ch’è tranquilla e pura” e dicendo: “Ecco chi crescerà li nostri amori”, allusione al “crescite et multiplicamini” del Genesi (vv. 100-105).
È ancora da notare la simmetria variata del verso “Come ’n peschiera ch’è tranquilla e pura”, relativo agli “spirti pii” del secondo cielo, con quello “Quale per li seren tranquilli e puri” con cui inizia, nel cielo di Marte, la discesa di Cacciaguida dal braccio destro al piede della croce, porgendosi in modo pio come aveva fatto negli Elisi l’ombra di Anchise verso il figlio Enea (Par. XV, 13-27): entrambi i versi (Par. V, 100; XV, 13) contengono temi propri della settima coppa (Ap 16, 17), in entrambi i casi connessi con la pietas propria del condiscendente quinto stato.
Non avere alcuno spirito di pietà viene rimproverato da Pier della Vigna a Dante, che su istigazione di Virgilio ha colto un rametto dal gran pruno in cui il suicida è incarcerato (Inf. XIII, 35-39). L’espressione “uomini fummo” e il riferimento alle “anime di serpi” contengono temi propri della creazione nel sesto stato, nel quale furono prima creati gli animali irrazionali come i serpenti e poi l’uomo (prologo, Notabile XIII). Sugli “alberi strani” della selva dei suicidi fanno i loro nidi “le brutte Arpie”, che corrispondono agli uccelli immondi creati nel quinto stato (ibid., 10-15, 100-102).
Dietro a Francesco “la gente poverella crebbe” (Par. XI, 94-95); l’Ordine dei Minori, quasi fosse un individuo, attua il “crescite et multiplicamini” di Genesi 1, 22. Quella che è forse la più singolare prerogativa del quinto stato, la pietas, raggiunge l’acme nel sesto stato con la carità di Francesco, che si dilata ad arco, come l’iride sul capo dell’angelo dal volto solare, verso gli uomini: «Habuit etiam “irim in capite”, id est arcualem refulgentiam solis, quia viscerosa caritas Christi ad nostras inferiores miserias aperta et arcualiter dilatata fuit assidue et intime impressa menti Francisci» (Ap 10, 1) [1].
[1] Sull’ “excessus pietatis” in Francesco cfr. P. PÉANO, La «Quaestio fr. Petri Iohannis Olivi» sur l’indulgence de la Portiuncule, in “Archivum Franciscanum Historicum”, 74 (1981), pp. 33-76: 68. In questo senso è da intendere l’affermazione di Raoul Manselli circa il brano del XIII Notabile relativo alla pietas: “Anche se il nome dell’Ordine francescano non è espressamente fatto, ci sembra difficile porre in dubbio che l’Olivi, in quella caratterizzazione, non pensi al suo Ordine”: cfr. R. MANSELLI, La “Lectura super Apocalipsim” di Pietro di Giovanni Olivi. Ricerche sull’escatologismo medioevale, Roma 1955 (Istituto Storico Italiano per il Medio Evo. Studi storici, 19-21), p. 216, nt. 1. Il sesto stato riceve infatti e porta a compimento tutte le prerogative degli stati precedenti.
Tab. 3.4
[LSA, prologus, Notabile XIII; Vus status] In quinto vero tempore fuerunt spiritualiores monachi quasi aves volantes, clerici vero gentibus commixti fuerunt quasi pisces in aquis (cfr. Gn 1, 20-21). In hac autem die primo dictum est: “Crescite et multiplicamini” et cetera (Gn 1, 22), quia numquam in preteritis temporibus sic monasteria vel ecclesie in tali vita, que conveniret pluribus, ordinate fuere quomodo in tempore quinto, quia non tantum clericorum et monachorum, verum etiam ecclesiarum et monasteriorum que sunt propagata in tempore quinto in hac occidentali ecclesia colligere numerum non est facile. Unde quamvis vita monachorum quarti temporis fuerit clarior, non tamen fecundior nec sic habens sensum vivum et tenerum pietatis. Aves enim et pisces prehabundant in sensu luminaribus celi. Attamen notandum quod in quinta die creata sunt munda pariter et immunda. Sunt enim pisces secundum legem mundi et immundi, avesque similiter *.[LSA, cap. II, Ap 2, 1 (Ia visio, Va ecclesia)] Vocatur autem congrue hec ecclesia Sardis, id est principium pulchritudinis, tum quia in suis paucis incoinquinatis habet singularem gloriam pulchritudinis, quia difficillimum et arduissimum est inter tot suorum luxuriantes se omnino servare mundum; tum quia primi institutores quinti status fuerunt in se et in suis omnis munditie singulares zelatores, suorumque collegiorum regularis institutio, diversa membra et officia conectens et secundum suas proportiones ordinans sub regula unitatis condescendente proportioni membrorum, habet mire pulchritudinis formam toti generali ecclesie competentem, que est sicut regina aurea veste unitive caritatis ornata et in variis donis et gratiis diversorum membrorum circumdata varietate.[LSA, prologus, Notabile XII, Vus status] Quintus vero status pluribus ex causis debuit diu durare. Prima est quia eius condescensio potuit in multitudine diutius perdurare tamquam eius infirmitati proportionalis. […] Sexta, secundum Ioachim, est quia quintus status post quattuor animalia, id est post quattuor ordines perfectorum, tenuit typum generalis sedis, et ideo debuit in multitudine habundare**.* Cfr. Concordia, V 1, c. 13; Patschovsky 3, p. 561, 10-11; p. 563, 4-15; p. 565, 3-4 (Olivi sintetizza più passi di Gioacchino, è comunque sua l’espressione nec sic habens sensum vivum et tenerum pietatis).
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Inf. XX, 70-72Siede Peschiera, bello e forte arnese
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Par. V, 100-105, 121-123Come ’n peschiera ch’è tranquilla e pura
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[LSA, cap. XVI, Ap 16, 17 (Va visio, VIIa phiala)] Secundum autem Ioachim, septima phiala effunditur super “aerem”, id est super electos, ut si que eis macule adheserunt de communione Babilonis, purgentur et dealbentur super nivem, et in percussione septima cessat plaga Domini a populo Dei*. […] Et quidem congrue per “aerem” intelligitur contemplativus status in hac vita, quia sic stat in medio inter vitam beatam et terrenam sicut aer inter celum et terram. Et sicut aer purgatus a grossis et fumosis vaporibus et nubibus et tranquillatus a ventorum tempestatibus est pervius radiis solis et stellarum et visui hominum, sic septimus status ecclesie, post plenam sui purgationem in effusione septime phiale consumandam, erit serenus et tranquillus et pervius seu perspicuus ad contemplativos radios solis eterni et totius celestis et subcelestis hierarchie, ita quod tunc totus cultus templi Dei et tota sedes et maiestas Dei clamabit magnifice et evidenter Dei opera esse consumata. Et hoc quidem in hac vita, sumendo statum septimum prout erit in hac vita.* Expositio, pars V, f. 191va. |
■ Francesco e Domenico si collocano all’inizio del sesto stato, periodo di apertura di nuove fronde; concorrono ancora con la fase finale del quinto, pietoso, condiscendente, con i loro Ordini che crescono come individui, aperti alle moltitudini associate dopo l’ardua e per certi versi insostenibile vita degli alti anacoreti. I due campioni però partecipano (e con essi anche Tommaso d’Aquino e Bonaventura, che ne tessono le lodi) anche degli altri stati della storia della Chiesa: del primo, perché con loro la Chiesa ritornò alle sue umili origini; del secondo, per la sete di martirio di Francesco e di combattimento di Domenico. Essi si manifestano nel cielo del Sole; concorrono infatti come due soli ad impersonare il terzo stato dei dottori, che combattono le eresie, e il quarto stato degli anacoreti o contemplativi, dall’eccellente vita (a costoro è dedicato il cielo di Saturno).
Il terzo stato dei dottori concorre con il quarto degli anacoreti, è anzi il più evidente esempio del fenomeno per cui un periodo storico continua nel successivo, come questo ha radici nel precedente (prologo, Notabile X). La trattazione della terza e della quarta guerra (Ap 12, 13-16) avviene infatti congiuntamente, e in essa alla donna, figura della Chiesa, vengono date due ali di una grande aquila, per combattere da una parte le eresie con il lume dei dottori, dall’altra l’affluenza dei beni temporali con la santità di vita degli anacoreti. Le cronache dimostrano la loro concorrenza. Ad esempio, l’anacoreta Antonio e il dottore Atanasio fiorirono entrambi al tempo di Costantino. Ilario e Ambrogio furono contemporanei di Macario e di altri anacoreti. San Basilio, grande dottore, visse nello stesso periodo di Gregorio Nazianzeno, anch’egli grande dottore e autore di una regola monastica assai rigida. Così al tempo di Gregorio Magno molti furono gli austeri anacoreti.
Come l’affetto presuppone la “notitia intellectus”, cioè la conoscenza, poiché non si può amare se non ciò che è già conosciuto, ma questa conoscenza non è santa senza un santo affetto, così il chiaro lume dei dottori precede l’esercizio degli affetti e la contemplazione degli anacoreti, ma non può essere chiaro senza l’eccellenza della vita propria di questi. Pertanto i due stati, entrambi di solare sapienza, concorrono, con mutuo ossequio, ad illuminare e ad infiammare l’orbe convertito nel mezzogiorno.
Nella domanda di Dante a Francesca – “a che e come concedette amore / che conosceste i dubbiosi disiri?” (Inf. V, 119-120) – viene premesso il conoscere al desiderio, l’intelletto all’affetto. I peccatori carnali sono quelli “che la ragion sommettono al talento”, cioè pospongono l’intelletto all’affetto o al desiderio (ibid., 39): nella sua domanda il poeta sembra voler ripristinare il corretto ordine. La risposta di Francesca – “Ma s’a conoscer la prima radice / del nostro amor tu hai cotanto affetto, / dirò come colui che piange e dice” (ibid., 124-126) – fa riferimento sia alla conoscenza come al desiderio, ma sembra accentuare quest’ultimo (“cotanto affetto”).
In Inf. VII, 52-54, a Dante che vorrebbe riconoscere qualcuno fra gli avari e i prodighi, Virgilio risponde che “la sconoscente vita che i fé sozzi, / ad ogne conoscenza or li fa bruni”: l’espressione “sconoscente vita”, cioè la vita priva dell’intelletto che discerne, contiene in sé i motivi dell’intelletto e dell’affetto (la santa vita) propri rispettivamente dei dottori e degli anacoreti. Alle schiere degli avari e dei prodighi è inoltre assegnata una pena per cui percorrono, facendo rotolare pesi col petto, la metà del quarto cerchio fino al punto in cui cozzano insieme scambiandosi ingiurie, per poi tornare indietro a ripercuotersi nel punto diametralmente opposto. I due punti del cerchio, che distinguono la loro pena, segnano anche la concorrenza delle due schiere, quasi entrambe abbiano un solo orizzonte e diversi emisferi, non molto diversamente da quanto avviene nella posizione astronomica di Gerusalemme e della montagna del Purgatorio, poste agli antipodi e nel mezzo di due emisferi opposti, come descritta da Virgilio in Purg. IV, 61-75 (cfr. Inf. XX, 124-126).
L’intelletto e l’affetto sono complementari nell’episodio dell’incontro con Casella (che, come quello di Francesca, registra la prevalenza dei temi del secondo stato dei martiri): “Io vidi una di lor trarresi avante / per abbracciarmi, con sì grande affetto … Soavemente disse ch’io posasse; / allor conobbi chi era …”. L’affetto di Casella precede l’agnizione da parte di Dante, che è seguita da nuova manifestazione di affetto: «Rispuosemi: “Così com’ io t’amai / nel mortal corpo, così t’amo sciolta”» (Purg. II, 76-90).
Il precedere della “notitia intellectus”, cioè della conoscenza, rispetto all’affetto, poiché non si può amare se non quanto si è preventivamente conosciuto, trova un’applicazione nelle parole con cui Beatrice, spiegando nel Primo Mobile le gerarchie angeliche, afferma che la beatitudine si fonda “ne l’atto che vede, / non in quel ch’ama, che poscia seconda” (Par. XXVIII, 109-111; cfr. XXIX, 139-141), asserzione che solo apparentemente accetta la dottrina tomista in contrasto col volontarismo francescano (ad Ap 21, 22 si afferma che se il lume della visione è l’ultimo termine della beatitudine, esso non può prescidendere dall’ “actus caritatis”).
Ancora, “lo ’ntelletto / de le prime notizie” e “de’ primi appetibili l’affetto”, cioè la disposizione a conoscere e ad amare, sono innate nell’uomo (nell’uomo razionale: prologo, Notabile I), come detto da Virgilio nella spiegazione razionale data del rapporto tra amore e libero arbitrio (Purg. XVIII, 55-60).
La concorrenza tra il lume dei dottori e la santa ed eccellente vita degli anacoreti è impersonata in Carlo Martello, “la vita di quel lume santo” (Par. IX, 7). I temi sono poi ripresi e variati da Cunizza: “vedi se far si dee l’omo eccellente, / sì ch’altra vita la prima relinqua” (ibid., 41-42), nel senso che l’uomo razionale, che designa i dottori, deve avere vita santa, propria degli anacoreti. Ciò è detto di Folchetto, trovatore e vescovo di Tolosa, di cui rimase “grande fama” per l’uno e per l’altro operare, concorrendo in questo il chiaro lume dell’intelletto e la santa vita affettiva.
Si tratta di motivi che vengono variamente appropriati nel cielo del Sole: Tommaso d’Aquino è “luce” che narra la “mirabil vita” di Francesco, “anima preclara” (Par. XI, 115), “poverel di Dio” (Par. XIII, 32-33), verso la cui “eccellenza” l’Aquinate “fu sì cortese” (Par. XII, 109-111). Tale “infiammata cortesia” muove “la vita” di Bonaventura ad elogiare (“inveggiar”, da invidiare nel senso di emulari in bono, come nell’esegesi di Ap 3, 19) san Domenico (ibid., 142-145). Nel reciproco elogio dei fondatori del proprio ordine, Tommaso e Bonaventura concorrono anch’essi “ad mutuum obsequium (la “cortesia”) et ad meridiem universi orbis tunc ad fidem conversi simul clarificandam et inflammandam”. Nel Paradiso terrestre, allorché il sole tiene il cerchio di mezzogiorno “più corusco e con più lenti passi”, Dante ha visto i due fiumi “Ëufratès e Tigri” uscire da una sorgente e dipartirsi pigri come due amici che si lasciano (Purg. XXXIII, 103-114).
Tab. 3.5
[LSA, prologus, Notabile X] Prout vero status ab invicem per certam propriorum donorum et officiorum preeminentiam ac multitudinis personarum in ipsis concurrentium distinguuntur, sic concurrit tertius cum quarto non quidem in eodem statu sed in eodem tempore. […] Ideo autem quartus status concurrit eodem tempore cum tertio, quia sicut affectus exigit notitiam intellectus, nec ista notitia est sancta absque sancto affectu, sic affectualis exercitatio et contemplatio anachoritarum et sanctorum illitteratorum eguit preclaro lumine doctorum, nec illud preclarum esse potuit absque precellentia vite. Unde ad mutuum obsequium et ad meridiem universi orbis tunc ad fidem conversi simul clarificandam et inflammandam debuerunt illi duo status concurrere simul. Sicut autem notitia preit amorem, quia non potest amari nisi cognitum, sic status doctorum in hoc libro premittitur ante statum anachoritarum; in quarta tamen visione ostenduntur simul concurrere, ubi dicitur quod “date sunt mulieri due ale aquile magne ut volaret in desertum” (Ap 12, 14). Quod autem de facto insimul concurrant, patet ex cronicis. […][LSA, prologus, Notabile VII] Rursus sicut omnis dies habet mane, meridiem et vesperam, sic et omnis status populi Dei in hac vita. Nam in eterna erit semper meridies absque nocte. Ergo tempus plenitudinis gentium sub Christo debuit ante conversionem alterius populi, scilicet iudaici, habere mane et meridiem et vesperam. Et sic quasi iam vidimus esse completum et a Iohanne in hoc libro descriptum. Nam eius mane commixtum tenebris idolatrie fuit ab initio conversionis gentium usque ad Constantinum (I-II). Eius vero meridies fuit in preclara doctrina et contemplatione et vita doctorum et anachoritarum (III–IV). Eius vero vespera circa finem quinti temporis nimis apparet (V). Et cum Babilon meretrix et bestia portans eam erit in suo summo, tunc erit nox eius tenebrosissima, de qua in Psalmo dictum est: “Posuisti tenebras et facta est nox, in ipsa pertransibunt omnes bestie silve” (Ps 103, 20). Ipse sunt et bestie sexto die formate, post quas et formatus est homo ad imaginem Dei, quia post has convertetur Israel cum reliquiis gentium et apparebit christiformis vita et imago Christi (VI). |
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Inf. V, 118-120, 124-126Ma dimmi: al tempo d’i dolci sospiri,
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Purg. II, 76-78, 85-90Io vidi una di lor trarresi avante
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4. Il suono della voce di Cesare
All’inizio della parte narrativa della sua esposizione, Giovanni precisa sette circostanze generali e degne di lode proprie delle visioni successivamente descritte. La sesta circostanza (Ap 1, 10-11) consiste nel fatto che all’evangelista viene ingiunto solennemente di scrivere la visione e di inviarla alle chiese d’Asia, come intendesse dire: non per mia iniziativa, ma per speciale comando divino ho scritto ed invio. Per cui soggiunge: “E udii una voce dietro di me” (et audivi post me vocem magnam tamquam tubae dicentis: quod vides scribe in libro … et conversus sum ut viderem vocem quae loquebatur mecum).
Il comando proviene da una voce udita dietro le spalle. Stare dietro può essere inteso nel senso che Giovanni era in quel momento dedito alla quiete della contemplazione, lontano dalla sollecitudine derivante dall’attività pastorale, che aveva lasciata alle spalle: la voce dunque lo richiama dalla visione delle cose supreme, che gli stanno dinanzi, alla cura d’anime che sta dietro (è l’interpretazione di Riccardo di San Vittore). Oppure (è l’interpretazione di Olivi), considerando che le cose che ci stanno dietro sono invisibili e pertanto superiori, si può intendere che Giovanni ascolti una voce alle spalle che lo elevi e riconduca verso l’alto, mentre con il volto è rivolto in basso, verso cose inferiori. In questo senso, nel Vangelo di Giovanni, si dice che Maria Maddalena, volta indietro, vide Gesù (Jo 20, 14).
Ricevuto il comando di scrivere il libro e di mandarlo alle sette chiese, delle quali viene specificato il nome, Giovanni si volta per vedere attentamente da quale persona provenga la voce (è la settima circostanza, Ap 1, 12). Questo vedere può essere inteso come un apprendimento totale: sebbene abbia già appreso la voce al momento del suo primo ascolto, ora si converte più fortemente ad essa per apprenderla in modo compiuto.
Il parlare dietro le spalle, di cui si tratta ad Ap 1, 10-12, è anche quello che proviene dalla propria guida, che sta dietro come custode e conducitrice della sua cavalcatura, per cui in Ezechiele si dice: “uno spirito mi sollevò e dietro a me udii una voce” (Ez 3, 12). È “vox magna”, in quanto il suono esce da una persona di grande virtù, eccitando mirabilmente Giovanni; è “come una tromba”, sia perché esorta alla guerra contro i vizi e contro l’esercito dei reprobi, sia perché invita a banchetti di gloria. La tromba designa inoltre la predicazione, la quale fu come occulta fino al tempo dei profeti, più manifesta nel periodo che va da Isaia a Giovanni Battista e infine compiuta nel coro degli apostoli, per cui, secondo san Paolo ai Romani, “in ogni terra uscì il loro suono” (Rm 10, 18; cfr. Ps 18, 5).
L’esegesi di questi passi (altrove considerata in modo più ampio) si mostra fondamentale per le agnizioni nel poema; è inoltre collazionabile con altri luoghi parzialmente analoghi.
Si può collazionare Ap 1, 10-12 (la gran voce come una tromba udita dietro le spalle) con quanto detto ad Ap 19, 6 sulla “voce di molte acque”. Questa, nella gaudiosa festa delle nozze di Cristo con la Chiesa, è anche come la voce di una grande tromba e come la voce di grandi tuoni che dice “alleluia”. Secondo Gioacchino da Fiore, ad iniziare la lode è un santo, quasi fosse la grande tromba di Dio, alla cui voce la lode subito risuona su molte bocche come la voce di molte acque, la quale, fatta più ampia nel suo estremo quasi quella di grandi tuoni, perviene fino ai confini della terra. Alla triplice specie della voce corrisponde una triplice proprietà o perfezione della lode: è efficace nel muovere come la voce di una grande tromba, irriga con la multiforme devozione e compunzione come la voce di molte acque, aliena nello stupore estatico quasi assorbendo la mente e scuotendo nell’intimo come la voce di grandi tuoni.
Nel Notabile XII del prologo della Lectura, la diffusione della fede nel mondo ad opera degli apostoli viene paragonata alla velocità della luce del sole, che procede subitamente da oriente verso occidente e percorre come folgore l’universo. Analogo motivo ad Ap 1, 7, con la citazione da Matteo 24, 27: “Come la folgore proviene da oriente e appare a occidente, così sarà la venuta del Figlio dell’uomo”.
Il procedere come una folgore muovendo da oriente verso occidente è proprio di Cesare, che dalla Troade si scosse contro Tolomeo, e dall’Egitto “scese folgorando a Iuba”, in Mauritania, per poi volgersi “nel vostro occidente”, nella Spagna, “ove sentia la pompeana tuba” (Par. VI, 67-72).
Cesare “si volse” come sentendo una voce dietro di sé, “vox tamquam tube”; e certo il richiamo a sconfiggere a Munda i seguaci di Pompeo dovette essere, come quello di Giovanni, un revocare a cose più alte dopo la vittoria a Tapso su Giuba, re di Mauritania, su cui “scese folgorando” (come verso cose inferiori). Le folgoranti imprese di Cesare precedono la venuta di Cristo, di cui sono “figura” e preparazione. Come afferma Gioacchino da Fiore, citato ad Ap 16, 18, il folgorare è segno del nuovo che Dio intende fare sulla terra: “quando Deus vult mutare statum ecclesie precedunt ante per aliquot annos fulgura miraculorum et voces exhortationum et tonitrua spiritualium eloquiorum, ut homines excitentur et intelligant quod novum aliquid facturus sit Dominus super terram”.
Nell’elogio di san Francesco pronunciato da Tommaso d’Aquino, Povertà, impersonata nel pescatore Amiclate descritto da Lucano (Phars., V, 519-531), venne trovata imperturbabile da Cesare in persona, al suono della cui voce tutto il mondo era scosso di paura, variazione del tema paolino del suono della voce che perviene fino ai confini della terra, “efficax ad movendum sicut est vox magne tube” (Par. XI, 67-69). Anche il suono della fama delle opere volpine di Guido da Montefeltro si diffuse fino agli estremi del mondo (Inf. XXVII, 76-78).
La voce tubicinante, ascoltata da Giovanni, lo invita a banchetti di gloria; il suono della voce di Cesare non serve a Povertà, la quale resta “sanza invito” fino a Francesco (Par. XI, 64-66).
Tab. 4
5. Francesco e Povertà: un matrimonio sublime e grottesco
Scrivendo nel 1944 su Francesco d’Assisi nella “Commedia”, Erich Auerbach notava nella descrizione del matrimonio con Povertà la compresenza di stili, dal sublime al grottesco. In una cornice didascalica e scolastica, dove l’allegoria viene attratta nella realtà storica ma la persona è subordinata all’ufficio o alla missione, per cui la concezione generale prevale su singoli fatti o aneddoti, la poesia trascorre dal registro più alto a quello più degradato. Da una parte la ripetuta immagine della sposa e dello sposo. Ma si tratta di uno strano matrimonio, di un’unione per la quale Dante non parla dello svestimento di Francesco e della sua rinuncia all’eredità, come fanno molte fonti. Francesco si unisce con una donna da tutti disprezzata, dopo la “guerra” col padre, in una cerimonia odiosa dipinta con colori stridenti sotto il segno dell’abiezione. Anzi, le apre “la porta del piacere”, con allusione sessuale secondo Auerbach. Poi i ‘bizzarri’ versi nei quali si descrive Povertà che sale sulla croce di Cristo o il modo ‘espressionistico’ con il quale furono acquistati i primi compagni, rappresentato alla stregua di un amoroso inseguimento della donna di un altro. Ma Bernardo di Quintavalle “dietro a tanta pace corse”, e la “pace” è la vittoria conseguita dai contemplativi. Tutto ciò per dire la conformità di Francesco con Cristo, il quale del poverel di Dio fu “figura” che nella storia si rinnova.
Con Francesco inizia il sesto stato della Chiesa, per Olivi quello più cristiforme. Una palingenesi sta operando, il secolo si rinnova nel secondo avvento di Cristo, non nella carne, ma nello Spirito, cioè nei suoi discepoli spirituali inviati, come un tempo Giovanni, l’autore dell’Apocalisse, a predicare a tutto il mondo. Dei sacramenti appropriati ai sette stati, il matrimonio è quello che più si addice al sesto stato. Vediamo ora come l’esegesi apocalittica oliviana permei i versi danteschi.
5.1. Maria rimase giuso
È il momento più pieno del francescanesimo del poeta. Gli venga dal Commercium, dallo Speculum, dall’Arbor o da quale si voglia altro libro; lo abbia raccolto dalla voce degli Spirituali sperduti per gli eremi dell’Appennino; il fatto che importa è che in quel matrimonio di Francesco con la Povertà egli vede l’intima parentela di lui con Gesù, e perciò la superiorità del movimento da lui originato sopra ogni altro della storia cristiana (U. COSMO, L’ultima ascesa. Introduzione alla lettura del Paradiso, Bari 1936, p. 161).
Nel celebre confronto fra Maria, che “rimase giuso”, e Povertà, che “con Cristo pianse in su la croce”, Dante sembra aver contaminato l’Arbor vitae crucifixae Iesu di Ubertino da Casale per la prima con il Sacrum commercium per la seconda:
UBERTINO DA CASALE, Arbor vitae crucifixae Iesu, V, 3 (Venetiis 1485, rist. anast. a cura di C. T. Davis, Torino 1961, p. 426a).Sed et fidelissima consorcia dum ad bellum nostre redemptionis accederes, te est comitata fideliter, et in ipso passionis conflictu indiuiduus armiger astitit, et discipulis recedentibus et negantibus nomen tuum ipsa non discessit, sed te tunc cum toto comitatu suorum principum fidelibus sociauit; immo ipsa matre, propter altitudinem crucis, que tamen te sola tunc fideliter coluit, et affectu anxio tuis passionibus iuncta fuit, ipsa inquam tali matre te non ualente contingere, domina Paupertas cum omnibus suis penuriis tamquam tibi gratissimus domicellus te plus quam unquam fuit strictius amplexata et tuo cruciatu precordialius iuncta […]. |
Sacrum commercium sancti Francisci cum domina Paupertate, cap. 6, 9-13 (ed. S. Brufani, S. Maria degli Angeli, Assisi 1990, p. 142).Tu autem, fidelissima sponsa, amatrix dulcissima, nec ad momentum discessisti ab eo, immo tunc magis sibi adherebas, cum magis eum ab omnibus contemni videbas. Nam, si cum eo non fuisses, numquam sic despici ab omnibus potuisset.
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Par. XI, 70-72 né valse esser costante né feroce,
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Il verbo rimanere non c’è tuttavia in Ubertino. Considerato quanto si è mostrato fin qui sull’intima corrispondenza fra Lectura e Commedia, è necessario, per così dire, ritrovarne i solchi nella grande cava dei significati spirituali. Si tratta di un verbo spesso abbinato nel poema a Maria:
Purg. III, 37-45“State contenti, umana gente, al quia;
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Par. XI, 70-72né valse esser costante né feroce,
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Il riferimento è a una limitata parte dell’esegesi oliviana, quella relativa ad Ap 12, 17. Un accurato esame mostra come le maglie significanti di questa esegesi si dilatino ovunque nei versi, ad abbracciare qualsiasi altra possibile fonte, palese o meno, che con essa concorda [1].
La quinta guerra viene condotta dal drago contro le rimanenze (le reliquie) del seme della donna [2], rappresentate da coloro che custodiscono i precetti divini e danno testimonianza di Cristo (Ap 12, 17). Secondo Gioacchino da Fiore, il seme della donna è Cristo rapito in cielo con i suoi martiri, e questo è seme che precede; quello che rimane viene designato con l’evangelista Giovanni (cfr. Jo 21, 22), cioè con i contemplativi propri del quarto stato. Olivi ritiene tuttavia che il testo sacro, nella quarta visione, dopo aver trattato le guerre sostenute in primo luogo da Cristo (Ap 12, 4-6), in secondo luogo dai martiri (Ap 12, 7-12) e in terzo e quarto luogo dalla Chiesa, prima dispersa e poi riunita da Costantino e dotata come un’aquila delle ali dei dottori e degli anacoreti per volare nel deserto dei Gentili e in quello della vita contemplativa (Ap 12, 13-16), si riferisca ora in parte ad eventi successivi allo stato degli anacoreti (il quarto), e precisamente a quanti di essi rimasero sopravvivendo alle distruzioni operate dai Saraceni e, comunque, alle reliquie lasciate al quinto stato. In entrambi i casi si parla di “reliquie” poiché, come in un vaso di vino purissimo rimangono, una volta bevuta la parte superiore, maggiore e più pura, solo poche reliquie vicine alle impurità e quasi con esse mescolate, così della pienezza e purezza del vino dei dottori e degli anacoreti del terzo e del quarto stato prima rimasero solo le reliquie, al momento della devastazione saracena, poi, nel quinto stato, occupate molte chiese dai Saraceni e separatisi i Greci dalla fede romana, rimase solo la Chiesa latina come reliquia della Chiesa che prima era diffusa in tutto l’orbe.
Mentre Maria “rimase” con Giovanni (“semen mulieris”) ai piedi della croce, Povertà fu martire con Cristo.
La rosa tematica offerta dall’esegesi di Ap 12, 17 si presta a molteplici variazioni nel poema sacro, la cui ricchezza è paragonabile ai molti altri luoghi della Lectura che si mostrano essere stati fornitori di panno per l’intera stesura della gonna.
[1] Quelle di ambito francescano non sono certo, nelle mistiche nozze di Francesco, le uniche fonti. P. NASTI, Favole d’amore e «saver profondo». La tradizione salomonica in Dante, Ravenna 2007, pp. 180-193, sottolinea l’importanza dell’esegesi del Cantico dei Cantici. Quanto questa sia stata decisiva per le “nove rime” è stato mostrato altrove.
[2] La donna vestita di sole, di cui parla la quarta visione (Ap 12, 1-14, 20), e che sostiene sette guerre, è la Vergine Madre che partorisce il corpo mistico di Cristo, e quindi anche la Chiesa, in special modo quella primitiva; cfr. ad Ap 12, 1-2: «Quartum (radicale) vero, huic annexum, est ad Christum tam verum quam misticum in eius spiritali utero conceptum et in gloriam pariendum fortis cruciatio. Unde de eius adornatione subditur (Ap 12, 1): “Et signum magnum apparuit in celo”, id est in celesti statu Christi, scilicet “mulier amicta sole, et luna sub pedibus eius, et in capite eius coronam stellarum duodecim”. De parturitionis autem cruciatu subditur (Ap 12, 2): “Et in utero habens et clamat parturiens et cruciatur ut pariat”. Mulier ista, per singularem anthonomasiam et per specialem intelligentiam, est virgo Maria Dei genitrix. Per generalem vero intelligentiam, hec mulier est generalis ecclesia et specialiter primitiva. Virgo enim Maria et in utero corporis et in utero mentis Christum caput concepit et habuit, et in utero cordis totum corpus Christi misticum habuit sicut mater suam prolem».
Tab. 5.1
[LSA, cap. XII, Ap 12, 17 (IVa visio, Vum prelium)] Dicit ergo: “Et iratus est dracho in mulierem” (Ap 12, 17). Nota quod quanto plus et pluries videt se vinci ab ecclesia et prole eius, tanto maiori ira exardescit ad illam fortius temptandam et deiciendam.
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Par. XI, 70-72né valse esser costante né feroce,
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Par. XII, 112-114, 121-123Ma l’orbita che fé la parte somma
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5.2. L’arco della carità
Olivi applica a Francesco sia la figura dell’angelo del sesto sigillo (Ap 7, 2) come quella dell’angelo dal volto solare (sesta tromba: Ap 10, 1-3): cfr. supra.
Un importante passo di Gioacchino da Fiore, relativo all’angelo dal volto solare, viene utilizzato da Dante in tutt’altro contesto (Purg. XXXII, 70ss.).
A questo passo Olivi fa seguire l’immagine del carro di Elia come segno figurale di Francesco trasfigurato nel vero sole, cioè in Cristo, alla quale rinvia, in modo apparentemente dissonante, la similitudine di Inf. XXVI, 34-42 (cfr. Ulisse perduto. Un viaggio nel futuro, PDF, pp. 154-156, 159-161).
La “biga” con due ruote (Francesco e Domenico: Par. XII, 106-111) è prefigurata nell’Eden dal “carro, in su due ruote, trïunfale” (la Chiesa militante) tirato dal grifone-Cristo (Purg. XXIX, 106-108), a sua volta prefigurato dagli antichi carri trionfali della Roma di Scipione e di Augusto o dallo stesso carro del Sole (ibid., 115-117).
L’angelo della sesta tromba, che ha la faccia come il sole, discende lievemente dal cielo, avvolto in una nube («per aeream et per subtilem seu spiritualem levitatem ab omni pondere terrenorum excussam fuit “amictus nube”, id est altissima paupertate aquis celestibus plena, id est suprema possessione et imbibitione celestium divitiarum»), il capo cinto da un arcobaleno. La nube designa la scienza delle Scritture, oppure (Gioacchino da Fiore) la scienza dei profeti, oppure la contemplazione estatica (designata, secondo lo Pseudo Dionigi, dalla nube nella quale Dio parlava a Mosè); la nube inoltre contempera i raggi del sole e irriga. L’iride designa l’intelligenza spirituale della Scrittura (Gioacchino), oppure l’arcuale rifulgenza del sole, perché la carità viscerale di Cristo aperta e dilatata come un arco verso le miserie umane fu continuamente, intimamente impressa nella mente di Francesco (Ap 10, 1).
Questi motivi si trovano insieme nel paragone del chinarsi del gigante Anteo verso il fondo dell’inferno con la Carisenda pendente verso chi la guarda dal basso quando una nuvola vi passi sopra (Inf. XXXI, 136-145). Il pozzo attorno a cui sono legati i giganti fa parte di una zona in cui prevalgono i temi del quinto stato. Il pozzo stesso è uno dei temi principali della quinta tromba (Ap 9, 1-2); Fialte dal collo in giù è avvinto dalla catena “infino al giro quinto” (Inf. XXXI, 88-90); Anteo esce fuori dalla roccia, senza la testa, “ben cinque alle” (ibid., 113-114). Anche il “declinare” (equivale a ‘pendere’), come il “condiscendere”, fa parte dei temi del quinto stato (prologo, Notabile III: lo zelo severo, il quinto dei doni dello Spirito, è nel quinto periodo “declinans”). Il sesto sigillo si apre con un grande terremoto (Ap 6, 12), ed è preannunciato dal “tremoto … tanto rubesto” con cui si scuote Fialte (Inf. XXXI, 106-108). Anteo, sciolto rispetto agli altri (tema da Ap 9, 14: il sesto angelo che suona la tromba scioglie i quattro angeli incatenati nel fiume Eufrate), assume su di sé caratteristiche del sesto stato, per quanto queste si possano ritrovare nell’inferno. Il suo chinarsi “lievemente” ha qualcosa della “viscerosa caritas Christi” di Francesco che discende col capo coperto dalla nube dilatato ad arco verso le miserie umane (cfr. anche, a Inf. XXII, 19-24, la similitudine dei delfini che fanno “arco” per segnalare ai marinai l’arrivo di una tempesta con i barattieri della quinta bolgia che mostrano il dorso sopra la pece “ad alleggiar la pena”). La nube (che in questo caso, fra i vari significati, designerà nel senso di Gioacchino da Fiore la scienza delle scritture profetiche, perché Anteo prefigura Scipione, a sua volta prefigurazione del soccorso dell’ “alta provedenza” preconizzata da san Pietro nell’ottavo cielo a Par. XXVII, 61-63) è appropriata alla Carisenda, e il nome della bolognese torre pendente appare singolarmente consonante con la caritas verso gli inferiori, nonostante il timore di Dante. Lo stesso chinarsi senza ‘fare dimora’ sul “fondo che divora / Lucifero con Giuda” ha un significato spirituale, in quanto Anteo si comporta a suo modo come quei santi perfetti del quinto stato che condiscendono solo per la carità e l’utilità degli infermi senza per questo macchiarsi di impurità, nel caso senza contaminarsi coi traditori e gli apostati (prologo, Notabile VII). Questi perfetti non verranno cancellati dal libro della vita, riceveranno anzi gloria e fama (Ap 3, 5: quinta vittoria). Ed è proprio la fama che Virgilio promette al gigante (Inf. XXXI, 124-129). Il levarsi di questi “come albero in nave” allude ai prelati, alti come alberi nella scienza divina e nel frutto delle loro opere (Ap 8, 7), preposti ai monasteri e cenobi considerati navi spirituali (Ap 18, 17). Ad Anteo sono anche appropriati i temi della vittoria di Cristo sull’Anticristo (Ap 19, 11-16).
Così, con una variazione dissonante, ad Anteo è appropriato il motivo del matrimonio, il sacramento per eccellenza del sesto stato (prologo, Notabile XIII) che appartiene a Francesco e a Povertà: “Ma lievemente al fondo che divora / Lucifero con Giuda, ci sposò … e dinanzi a la sua spirital corte / e coram patre le si fece unito”.
Gioacchino da Fiore afferma che come l’arcobaleno appare unito alle nubi del cielo, così alle scritture dei profeti bisogna unire l’intelligenza mistica per convincere gli avversari. L’accostamento della nube e dell’arcobaleno si trova in Par. XII, 10-12, nel momento in cui una seconda corona di spiriti sapienti, in cui è Bonaventura, si aggiunge alla prima, nella quale è Tommaso d’Aquino. L’iride, in questo caso, è doppia, perché due sono i prìncipi ordinati (cfr. Ap 4, 4; 11, 4), Francesco e Domenico, di cui sono tessute le lodi. È da notare che la nube è “tenera”, aggettivo che significa un motivo del quinto stato, “habens sensum vivum et tenerum pietatis” (prologo, Notabile XIII; cfr. quanto detto a Par. XXXI, 61-63 di san Bernardo, il quale al quinto stato appartiene di diritto: “in atto pio / quale a tenero padre si convene”).
Tab. 5.2
[LSA, cap. X, Ap 10, 1 (IIIa visio, VIa tuba] Ioachim dicit hic: «Quicumque erit iste predicator veritatis, “fortis” esse describitur, quia robustus erit in fide; et “de celo” descendet, id est de vita contemplativa ad activam; et “amictus” erit “nube”, quia indutus erit scriptura prophetarum; et “irim in capite”, quia Spiritum Sanctum et misticum seu spiritalem intellectum scripturarum habebit in mente. Sicut enim archus celestis apparet iunctus nubibus celi, sic scripturis prophetarum iungendus est misticus intellectus ad adversarios convincendos»*. |
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[segue Ap 10, 1] Et subdit: «Ego autem angelum istum secundum litteram aut Enoch fore puto aut Heliam. Verum, prout hoc Deus melius novit, unum dico pro certo, quod hic angelus significat personaliter magnum aliquem predicatorem, quamvis spiritaliter ad multos viros spiritales tunc temporis futuros competenter valeat intorqueri. Sane facies angeli similis est soli, quia in hoc sexto tempore oportet Dei contemplationem in modum solis splendescere et perduci ad notitiam eorum qui designantur in Petro et Iacobo et Iohanne, id est Latinorum et Grecorum et Hebreorum, primo quidem Latinorum, deinde Grecorum, tertio Hebreorum, ut fiant novissimi qui erant primi et e contrario». Hec Ioachim. ** |
Purg. XXXII, 70-78Però trascorro a quando mi svegliai,
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[segue Ap 10, 1] Sciendum etiam quod sicut sanctissimus pater noster Franciscus est post Christum et sub Christo primus et principalis fundator et initiator et exemplator sexti status et evangelice regule eius, sic ipse post Christum designatur primo per angelum istum. Unde et in huius signum in curru igneo apparuit transfiguratus in solem, ut monstraretur venisse in spiritu et imagine Helie (cfr. 4 Rg 2, 11) et simul cum hoc gerere perfectam imaginem veri solis, scilicet Christi.Par. XII, 106-111Se tal fu l’una rota de la biga
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Inf. XXVI, 34-42, 46-48E qual colui che si vengiò con li orsi
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[Ap 10, 1] Ioachim dicit hic: «Quicumque erit iste predicator veritatis, “fortis” esse describitur, quia robustus erit in fide; et “de celo” descendet, id est de vita contemplativa ad activam; et “amictus” erit “nube”, quia indutus erit scriptura prophetarum; et “irim in capite”, quia Spiritum Sanctum et misticum seu spiritalem intellectum scripturarum habebit in mente. Sicut enim archus celestis apparet iunctus nubibus celi, sic scripturis prophetarum iungendus est misticus intellectus ad adversarios convincendos». […]
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Par. XI, 43-45, 58-63Intra Tupino e l’acqua che discende
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Inf. XXXI, 124-127, 136-145Non ci fare ire a Tizio né a Tifo:
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[LSA, prologus, Notabile III (V status)] Item (zelus) est septiformis quia est contra initium mali intrinsecum (I) et extrinsecum (II); et contra medium terminum, scilicet ascendens (III) stans (IV) et declinans (V); et contra terminum intrinsecum (VI) et extrinsecum (VII).[LSA, prologus, Notabile VII (V status)] Prima (responsio) est quia licet condescensio quinti status in infirmis, pro quibus fit, sit imperfectior, in sanctis tamen, arduas perfectiones priorum statuum in habitu mentis tenentibus et ex sola caritate et infirmorum utilitate condescendentibus, est ipsa condescensio ad perfectionis augmentum, prout patet in Christo infirmis condescendente. Unde et Ade subtracta est fortis costa ad formationem Eve, “et replevit” Deus “carnem pro ea” (Gn 2, 21), id est pietatem condescensionis pro robore solitarie austeritatis.[LSA, prologus, Notabile XIII (V status)] In quinto vero tempore fuerunt spiritualiores monachi quasi aves volantes, clerici vero gentibus commixti fuerunt quasi pisces in aquis (cfr. Gn 1, 20-21). In hac autem die primo dictum est: “Crescite et multiplicamini” et cetera (Gn 1, 22), quia numquam in preteritis temporibus sic monasteria vel ecclesie in tali vita, que conveniret pluribus, ordinate fuere quomodo in tempore quinto, quia non tantum clericorum et monachorum, verum etiam ecclesiarum et monasteriorum que sunt propagata in tempore quinto in hac occidentali ecclesia colligere numerum non est facile. Unde quamvis vita monachorum quarti temporis fuerit clarior, non tamen fecundior nec sic habens sensum vivum et tenerum pietatis.[LSA, cap. III, Ap 3, 5 (Va victoria)] Quinta est victoriosus descensus ad opera condescensionis et pietatis, qui tunc est victoriosus quando nichil sordis vel imperfectionis accipit ex consortio infirmorum quibus condescendit nec ex sua condescensione, immo inter carnales et laxos et immundos vivit sic immaculate et sancte ac si esset in solitudine vel inter austerrimos et perfectos, quod quidem patet tunc arduissimum tam in puritate quam in pietate misericordi et competit perfectis patribus quinti status […] quia isti ex multitudine immundorum, inter quos quasi sepulti et innominati vixerunt, et ex condescensione ad eos, visi sunt quasi infirmi et nulli, unde nec habuerunt nomen seu famam summe perfectorum, ideo digni sunt habere singulare nomen in gloria Dei et quod singulariter commendentur a Christo coram tota curia celi. |
5.3. Al modo delle rane
■ Il sesto angelo (Ap 16, 12) versa la coppa (quinta visione) per prosciugare le acque del grande fiume Eufrate, che scorreva a difesa dell’antica Babilonia, interpretate da Gioacchino da Fiore come la milizia mondana dell’impero, romano o cristiano, per togliere cioè a questo la funzione di baluardo contro i re e i tiranni che dalla provincia orientale vengono coi loro eserciti a distruggere la nuova Babilonia. Olivi aggiunge l’opinione di alcuni che ritengono che la forza di questo deterrente si secchi per le lotte intestine fra i regni cristiani, e che ciò sia preparazione alla distruzione della Chiesa carnale e del suo principato ad opera dei dieci re e dell’undecimo che li comanda (Ap 17, 10.12.16; cfr. Dn 7, 24).
Al momento in cui la coppa viene versata, Giovanni vede “tre spiriti immondi al modo delle rane”. Si tratta di “spiriti di demoni che operano segni e che vanno a radunare i re di tutta la terra per la guerra del gran giorno di Dio onnipotente” (Ap 16, 13-14). Questi tre spiriti designano sia le suggestioni astute, sottili e quasi spirituali che i demoni inducono e suggeriscono, direttamente o per la bocca di uomini maligni, sia alcuni uomini astuti e fraudolenti i quali, nunzi e ambasciatori dell’Anticristo, vanno a radunare i re affinché corrano in guerra contro Babilonia, cioè contro la Chiesa carnale.
In quanto tre, e uscenti concordemente da tre bocche (del drago, della bestia e del falso profeta), i tre spiriti immondi simili a rane rappresentano una trinità pessima opposta a quella santa delle persone divine e delle loro virtù. Verranno mandati dalle due genti o dalle due teste delle quali il drago, o il diavolo, sarà terzo e come il primo motore, cioè dal re dei pagani o dei Saraceni e dal falso papa o dal principe dei falsi profeti. Designano anche le tre categorie dei guerrieri (inviati dalla bestia), dei falsi maestri, dottori o predicatori (inviati dal falso profeta) e dei falsi religiosi (inviati per antonomasia dal drago), nei quali maggiore è la falsità, l’ipocrisia e la frode. Secondo Gioacchino da Fiore – che nell’esegesi di Ap 16, 13-14 non è fonte prevalente, ma giustapposta a Riccardo di San Vittore -, il drago sta qui per l’Anticristo, nella cui adorazione sarà ricompresa quella del drago e attraverso il quale il drago principalmente parlerà e opererà; con la bestia viene designata la gente pagana o il loro monarca.
Di questi tre spiriti si dice che sono “immondi al modo delle rane” per mostrare la viltà, il fetore e la sussurratoria garrulità che promana da essi e dalle loro suggestioni. Essi sono “spiriti di demoni che operano segni”, poiché i demoni saranno tanto familiari a quei nunzi, per mezzo dei quali faranno prodigi, o quelli ai demoni tramite i quali opereranno, da fare in modo che si possa sensibilmente attribuire i segni agli spiriti demoniaci. Si può anche intendere che i nunzi opereranno prodigi per mezzo dei soli falsi profeti, e allora essi stessi saranno falsi profeti inviati dalle tre bocche del drago, della bestia e del falso profeta per concorde consiglio e beneplacito di questi tre.
Il tema della pessima trinità si configura con una certa frequenza nella prima cantica, dalle “tre furïe infernal di sangue tinte” (Inf. IX, 38) ai tre centauri Chirone, Nesso e Folo che si staccano dalla schiera alla vista dei due poeti (Inf. XII, 59-60: il motivo trinitario deriva anche da altro tema tratto da Ap 1, 8), dalle tre ombre dei sodomiti fiorentini che si dipartono insieme nell’arena dalla torma che passa sotto la pioggia di fuoco (Inf. XVI, 4-6) ai tre spiriti dei ladri fiorentini che si apprestano a trasmutarsi con altri due (Inf. XXV, 35).
Una variante è costituita da Gerione, che è “fiera pessima” e triplice (“pessima” è hapax): uomo nel volto, leone (o drago) nelle zampe artigliate, serpente nel resto con una coda simile a quella dello scorpione. Come i tre spiriti immondi si preparano alla guerra contro Babilonia, così Gerione si presenta come il “bivero”, il castoro che “tra li Tedeschi lurchi … s’assetta a far sua guerra” ai pesci (Inf. XVII, 21-24). Nel mentre Virgilio parla con Gerione, Dante va in visita agli usurai, “su per la strema testa di quel settimo cerchio” (ibid., 34-78). Ne vede tre, con le armi di famiglia che segnano una tasca che pende loro dal collo (i Gianfigliazzi, gli Obriachi, gli Scrovegni), provenienti da due città (Firenze, Padova) in attesa di altri due (il padovano Vitaliano del Dente e “ ’l cavalier sovrano”, cioè il fiorentino Gianni Buiamonti). Il rapporto numerico tra due e tre è proprio degli spiriti immondi simili a rane (che sono tre, ma inviati dalle due teste delle quali il drago è il primo motore). I tre spiriti, dice Olivi, sono “corretarii Antichristi”, cioè aiutanti del grande usuraio.
Questo rapporto numerico si ritrova nelle anime che morirono di morte violenta e che si pentirono all’ultima ora meritando di stare nel secondo balzo dell’Antipurgatorio. Due di loro corrono incontro ai poeti “in forma di messaggi”, cioè di nunzi, per chiedere della loro condizione (Purg. V, 28-30), ma poi sono in tre a parlare: Iacopo del Cassero, Buonconte da Montefeltro e la Pia. Oltre al motivo dell’annunziare, di queste anime è proprio anche quello del sussurrare in modo garrulo per la meraviglia suscitata dal poeta che, essendo vivo, fa ombra col proprio corpo. Di qui il rimprovero di Virgilio a non prestare attenzione al mormorio: “che ti fa ciò che quivi si pispiglia?” (ibid., 12). Un motivo non del tutto estraneo ai casi infernali sopra considerati, visto che le Furie piangono e gridano alto, Chirone parla coi suoi compagni dei piedi di Dante che, poiché muovono ciò che toccano, non possono essere piedi di un morto; i tre sodomiti stanno nel luogo dove l’acqua del Flegetonte che cade nel girone sottostante rimbomba come ronzio di api dentro gli alveari; i tre ladri si chiamano l’un l’altro per nome.
La tematica dei tre spiriti immondi e istigatori, familiari dell’Anticristo, percorre in Inf. XXX l’episodio di maestro Adamo, il quale accusa i tre fratelli conti di Romena di averlo indotto a falsificare i fiorini. Anche Romena, il castello dei conti Guidi, per la singolare concordia nel suono con l’impero romano, su cui viene versata la sesta coppa, sembra partecipare della metamorfosi poetica dei motivi presenti nell’esegesi di Ap 16, 12-14.
Secundum Ioachim, per flumen Eufraten, quod influebat in Babilonem antiquam ispamque non modicum muniebat, designatur hic romani seu christiani imperii militia mundana … De quorum adductione, et per quorum suggestionem adducentur, ostendit subdens: “(Ap 16, 13) Et vidi de ore drachonis et de ore bestie et de ore pseudoprophete tres spiritus immundos exire in modum ranarum. … ”. Per hos autem tres spiritus designantur tam suggestiones astute et subtiles et quasi spiritales, quam demones per se et per ora malignorum hominum suggerentes et inducentes … Per hoc autem quod dicit quod “sunt spiritus demoniorum facientes signa”, ostendit quod demones erunt sic familiares illis nuntiis per quos facient signa, seu illi per ipsos demones, quod quasi sensibiliter totum poterit ascribi ipsis spiritibus demonum”.
“Ivi è Romena, là dov’ io falsai / la lega suggellata del Batista; / per ch’io il corpo sù arso lasciai. / Ma s’io vedessi qui l’anima trista / di Guido o d’Alessandro o di lor frate, / per Fonte Branda non darei la vista. … Io son per lor tra sì fatta famiglia ; / e’ m’indussero a batter li fiorini / ch’avevan tre carati di mondiglia” (Inf. XXX, 73-78, 88-90; “mondiglia” è hapax nella Commedia).
■ Il tema del correre alla guerra da parte dei re radunati dai tre spiriti immondi passa in Francesco che, giovinetto, per Povertà “in guerra / del padre corse” (Par. XI, 58-59); il motivo della concordia dei tre che inviano i nunzi – il drago, la bestia e il falso profeta – è nel concordare di Francesco con la sua donna più cara (“La lor concordia e i lor lieti sembianti”, ibid., 76), mentre correre è proprio anche dei suoi seguaci che per primi si scalzarono, che sono tre – il venerabile Bernardo, Egidio e Silvestro – come i tre spiriti immondi (ibid., 79-84). L’andare (il verbo “vadere” riferito ai nunzi immondi, l’ “indi sen va” a Francesco) è attribuito al padre e maestro, alla sua donna e alla “famiglia (altro tema appartenente ai nunzi, familiari ai demoni) / che già legava l’umile capestro” (Par. XI, 85-87). Nel Notabile IX del prologo è esposto il tema del correre con desiderio verso il sesto e settimo stato, a motivo dei beni della grazia che li inondano e di cui ridondano e per cui contrastano con gli stati precedenti pieni di mali (eco del “cucurrit alacriter” di Bernardo di Quintavalle dietro a Francesco come descritto nella Vita di Tommaso da Celano). Essere messo e famigliare appartiene sia a Domenico (Par. XII, 73-75; cfr. ibid., 34-35: “s’induca … ad una militaro – inducentes … unanimius ad bellum conveniant ”) come all’angelo che invia dal secondo al terzo girone della montagna (Purg. XV, 28-30).
Se, nella settima bolgia dei ladri dove uomini e serpenti si trasmutano a vicenda, si confrontano i versi conclusivi di Inf. XXV con le parole dell’Aquinate sulla prima famiglia francescana in Par. XI, si può osservare come queste, per quanto siano cantate con ben diverso registro, abbiano molto in comune con la descrizione dei ladri fiorentini. Ai “tre compagni / che venner prima”, dei cinque ladri – Agnolo Brunelleschi, Buoso, Puccio Sciancato (Inf. XXV, 149-150) – corrispondono i primi tre compagni di Francesco, che prima si scalzarono: “’l venerabile Bernardo … Egidio … Silvestro” (Par. XI, 79-80, 83). Se a questi si aggiungono Francesco e Povertà, si consegue il numero cinque, il medesimo dei ladri, integrando i tre primi con Cianfa e il Guercio Cavalcanti (“quel che tu, Gaville, piagni”), già fatti serpenti (cfr. quanto sopra detto sul rapporto numerico fra due e tre) [1].
Indipendentemente dalle parti del panno che li unisce (ad esempio il correre del ladro Buoso, non però da uomo, ma “carpon” una volta divenuto serpente: Inf. XXV, 140-141), Inf. XXV e Par. XI mostrano singolari corrispondenze: il “non poter quei fuggirsi tanto chiusi” (Inf. XXV, 147) dei ladri trova eco nell’espressione “Ma perch’ io non proceda troppo chiuso”, detto degli amanti Francesco e Povertà (Par. XI, 73); “e l’altro dietro a lui parlando sputa”, detto del serpente fatto uomo (Inf. XXV, 138) è avvicinabile al correre di Bernardo “dietro a tanta pace” e degli altri “dietro a lo sposo” (Par. XI, 80-81, 84).
Olivi afferma nel Notabile XIII del prologo: “Ordo autem evangelicus est tamquam homo rationalis ad imaginem Dei factus, et ipse subiciet bestias et omnem terram et preerit piscibus et avibus, id est omnibus ordinibus quinto tempore formatis; distinguetur autem in prelatos et collegium subditorum, quasi in virum et uxorem”. Fra i ladri della settima bolgia, Dante trova l’uomo razionale regredito a bestia, incapace di mantenere stabilmente la forma di uomo, quella più conforme a Cristo, tornando alla natura e alla forma del serpente creato prima dell’uomo.
Se nel sesto stato l’uomo razionale, creato nel sesto giorno, si configura di più a Cristo suo esemplare, perché uomo evangelico, chi meglio di Francesco potrebbe rappresentarlo? L’odioso matrimonio con Povertà, da tutti rifiutata, e il grottesco correre dei tre primi compagni dietro la sposa di un altro, sono, come intendeva Auerbach, una sublime degradazione. I versi esprimono la più alta conformità con Cristo, quella della famiglia francescana, per mezzo di una metamorfosi in positivo dell’esegesi dei tre spiriti immondi al modo delle rane, nunzi dell’Anticristo e famigliari dei demoni [2].
[1] Il rapporto tra cinque e tre, così come presentato nell’esempio della montagna del Notabile XIII del prologo, è quello che intercorre tra le prime cinque età del mondo (antecedenti la sesta età, segnata dal primo avvento di Cristo) o i primi cinque stati della Chiesa (prima che, nel sesto, con il secondo avvento di Cristo si formi l’uomo razionale ed evangelico) – cinque età e cinque stati che concordano tra loro – e i tre avventi di Cristo verso cui corre lo spirito profetico. Cfr. Il sesto sigillo, cap. 2d.2, tab. XIX-1. Altri aspetti dell’esegesi di Ap 16, 12-14 vengono esaminati altrove.
[2] Rovesciare in senso positivo il pessimismo apocalittico è innovazione tipicamente francescana, a cominciare dal Cantico di frate Sole. Cfr. N. PASERO, «Laudes Creaturarum». Il canto di Francesco d’Assisi, Parma 1992; ROSSI, Canto XI, p. 171 e nt.10.
Tab. 5.3
Inf. IX, 37-38; XII, 58-60; XVI, 4-6; XXV, 34-37dove in un punto furon dritte ratto
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Inf. XVII, 19-24Come talvolta stanno a riva i burchi,
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5.4. Il Monarca “povero”
Non il Francesco povero è generato dal pensiero politico di Dante, ma è il pensiero dantesco – nella sua ispirazione originaria – che nasce dalla tradizione culturale del francescanesimo (ANNA MARIA CHIAVACCI LEONARDI) [1].
L’idea di povertà coinvolge la Monarchia. Dante applica all’Impero la concezione che l’Olivi ha della Chiesa: passa di mano in mano, può rimanere temporaneamente “sanza reda”, ma di per sé è immutabile, tunica inconsutile.
Lo stesso voto evangelico secondo Olivi e la monarchia secondo Dante hanno qualcosa di essenziale in comune: la stabilità, l’immutabilità o la non trasmutabilità, l’indissolubilità. Come il voto evangelico non può essere dispensato, neppure dal papa, che diversamente sarebbe da trattare come eretico e scismatico – secondo quanto sostiene Olivi nella Quaestio de votis dispensandis -, così la monarchia non può essere alienata, neppure dall’imperatore, perché la giurisdizione precede il suo giudice (Monarchia, III, x, 10-12). Chi professa il voto evangelico, fondato sui consigli dati da Cristo, mira al bene universale; così il monarca, il quale è “universalissima causa inter mortales ut homines bene vivant” (ibid., I, xi, 18).
Il voto evangelico colloca chi lo professa in uno stato di altissima povertà, al quale il francescano dedica un’apposita quaestio. L’immutabilità del voto toglie ogni occasione, motivo o desiderio di conseguire dignità o fama che si fondino sulle ricchezze: nulla smorza l’appetito di qualcosa come l’impossibilità di ottenerla. Il voto evangelico è dunque all’opposto della concupiscenza. Anche al monarca non resta nulla da desiderare. L’effetto è il medesimo, le ragioni sono però opposte, perché il monarca possiede tutto, in quanto la sua giurisdizione “terminatur Occeano solum”, mentre chi si trova nello stato di altissima povertà nulla possiede né può sperare di possedere. Ma per entrambi risulta “remota cupiditate omnino”, con la conseguenza che prevale la carità, la quale per Dante dà vigore alla giustizia e alla “recta dilectio” degli uomini da parte del monarca (cfr. le parole di Piccarda a Par. III, 70-72). Ancora, rimuovendo la cupidigia, l’altissima povertà realizza una società comune e pacifica, come il monarca, per mezzo della giustizia corroborata dalla carità, realizza il vivere in pace, “inter alia bona hominis potissimum” (Monarchia, I, xi, 11-14).
In Par. V Beatrice risponde al dubbio di Dante (“un’altra verità che m’è oscura”), “se l’uom può sodisfarvi / ai voti manchi sì con altri beni, / ch’a la vostra statera non sien parvi”, se cioè il voto possa essere commutato (Par. IV, 135-138), ovvero, come ribadisce la donna nel suo cominciare, “se con altro servigio, / per manco voto, si può render tanto / che l’anima sicuri di letigio” (Par. V, 13-15).
Beatrice prima afferma che il libero arbitrio è il maggiore dono dato alle creature intelligenti (uomini e angeli) dalla liberalità di Dio, il più conforme alla sua bontà e quello che più apprezza. Soggiunge che il voto ha un alto valore, perché è un patto tra Dio e l’uomo in cui la libera volontà si offre a Dio con proprio atto. Conclude che il voto non può essere ricompensato con alcunché: pensare di poter usare ancora del libero volere, già tutto offerto a Dio, sarebbe come voler fare opere di carità servendosi di denaro mal acquistato (“di maltolletto vuo’ far buon lavoro”) (Par. V, 19-33).
Le parole, e soprattutto l’idea che Beatrice ha del voto (il “maggior punto”), si ritrovano nella quaestio An sit melius aliquid facere ex voto quam sine voto, la quinta quaestio de perfectione evangelica di Olivi. La volontà è il maggior dono dato da Dio: “Sed nihil sub Deo est nobis ita dilectum et carum sicut libertas et dominium voluntatis nostrae. Hoc enim infinite appretiamur; appretiamur enim illud plus quam omnia quae Deus posset facere, quae sunt infinita, et plus quam aliquid quod sit in nobis” (da notare il verbo ‘apprezzare’, nei versi attribuito a Dio, nella prosa all’uomo). Il voto è offerta della volontà a Dio, per cui essa “altissime tota fertur in Deum”: “et istius per votum donatio est super omnia, supra naturam et quodammodo contra naturam voluntatis nostrae […] Ergo istud donum super omne aliud a nobis datum vel donabile praeponderat in infinitum” (la parola ‘dono’ in poesia riguarda la volontà, nell’esegesi il voto). Dunque il voto non può essere ricompensato: “Hoc autem nullo modo posset per aliquid huius vitae appretiari nec recompensari”.
Si ricorderà quanto Virgilio dice a Catone di Dante: “libertà va cercando, ch’è sì cara, / come sa chi per lei vita rifiuta” (Purg. I, 71-72), dove per “libertà” si intende il pieno dominio della volontà. Si potrebbe affermare che il suicidio di Catone, sacrificio della vita terrena per il libero arbitrio, fu a suo modo anch’esso un voto. È la libertà che il poeta consegue sulla soglia dell’Eden (“libero, dritto e sano è tuo arbitrio, / e fallo fora non fare a suo senno”, Purg. XXVII, 140-141), per cui si ottiene “quel dolce pome che per tanti rami / cercando va la cura de’ mortali” (ibid., 115-116), cioè la felicità terrena, di cui si dice nella Monarchia : “quia per ipsum hic felicitamur ut homines” (Mon. I, xii, 6; con autocitazione da Par. V). Catone, con il suo atto, si sforzò di accrescere il bene pubblico, e si propose dunque il fine del diritto: “ut mundo libertatis amores accenderet, quanti libertas esset ostendit dum e vita liber decedere maluit quam sine libertate manere in illa” (Mon. II, v, 15). Si tratta della “summa libertas” di chi volontariamente ubbidisce alle leggi, rinfacciata nel 1311 agli “scelestissimi Florentini” dominati dalla cupidigia (Epistola VI, 22-23). Catone, il Gentile degno di significare Dio più di qualsiasi altro uomo terreno (Convivio, IV, xxviii, 15), fu salvato e posto da Dio a custodia della legge della montagna del purgatorio.
Nella prospettiva storica oliviana, da Dante adeguatamente aggiornata, l’Impero trova un luogo autonomo. Se alla donna (la Chiesa) nel deserto dei Gentili vengono date due ali di una grande aquila (Ap 12, 14) interpretate come il terzo stato dei dottori (che confutano le eresie con la ragione e la spada) e il quarto degli anacoreti (dediti al devoto pasto eucaristico), ecco che alle loro prerogative – si tratta di due stati di solare sapienza – possono venire assimilati Impero e Papato, spada e pastorale, i “due soli” di Marco Lombardo. E poiché il fiume luminoso che scorre nel mezzo della Gerusalemme celeste ha due rive, l’umana e la divina con al centro Cristo-lignum vitae che ombreggia entrambe (Ap 22, 1-2), quell’ombra sacramentale di verità superiori si riverbera sia sull’ “ombra de le sacre penne” dell’aquila imperiale, di cui dice Giustiniano (Par. VI, 7) come sull’ “ombra de le sacre bende” proprie della vita religiosa ed evangelica di cui parla Piccarda (Par. III, 114), cioè sui due fini di beatitudine assegnati all’uomo dalla Provvidenza (cfr. Monarchia, III, xv, 7). Diventato consorte in cielo della Chiesa, l’Impero partecipa a pieno titolo dell’eterna generazione del Verbo e del suo farsi carne. Come Cristo fu soggetto al Padre per la sua mortale umanità, ma non per questo gli fu meno consustanziale ed uguale [2], così il romano Principe, assimilato al Figlio dell’uomo, deve rendere reverenza al Padre e soggiacergli “in aliquo” (come scritto al termine della Monarchia) senza per questo essere meno a Lui uguale [3].
[1] A. M. CHIAVACCI LEONARDI, Commento al “Paradiso”, Milano 2007, p. 304.
[2] Nella Lectura super Apocalipsim Olivi sottolinea in più luoghi la soggezione del Figlio al Padre, a motivo della sua mortale umanità: «(Ap 2, 7) Dicit autem “Dei mei” quia Christus in quantum homo minor est Deo Patre, ita quod in quantum homo habet Patrem pro Deo et Domino et etiam totam Trinitatem. […] (Ap 3, 12) Quod Christus hic vel alibi dicit “Dei mei” vel “a Deo meo”, non dicit nisi tantum ratione sue humanitatis, secundum quam est subiectus Patri et toti Trinitati tamquam Deo suo. […] (Ap 8, 3) Qui “venit”, per nature humane et mortalis assumptionem, “et stetit ante altare”, id est ante curiam seu hierarchiam celestem. Pro quanto enim, secundum carnis sue passibilitatem, minoratus est paulo minus ab angelis (cfr. Heb 2, 7; Ps 8, 6), habuit eos quasi ante se. […] (Ap 14, 18) Per illum vero angelum qui clamat ad alterum ut vindemiet dicit designari angelos bonos, qui non solum de templo sed etiam de altari exeunt quia non tantum ecclesiam electorum sed etiam Christum, qui est nostrum altare, respectu sue carnis transcendunt, secundum illud Psalmi (Ps 8, 6): “Minuisti eum paulo minus ab angelis”».
[3] G. VINAY, Interpretazione della “Monarchia” di Dante, Firenze 1962, p. 73, osserva: “Partito da una proposizione filosofica, inoltratosi tra i rovi di una disputa giuridica e teologica, Dante giunge alla conclusione senza accorgersi di essersi spostato sul piano della pura spiritualità, sul quale soltanto è possibile intendere il senso ultimo della Monarchia”.
Tab. 5.4.1
Tab. 5.4.2
OLIVI, An sit melius aliquid facere ex voto quam sine voto, ed. A. Emmen, La dottrina dell’Olivi sul valore religioso dei voti, in “Studi Francescani”, 63 (1966), pp. 97-98.Si enim aspiciamus ad id quod per votum Deo datur et redditur, inveniemus quod per votum non solum datur ipsum opus dum est, sed etiam tota libertas nostra et totum dominium voluntatis nostrae respectu talis operis. Absque voto autem datur solum ipsum opus dum fit, non autem plene pro tempore pro quo erit antequam fiat, nec datur libertas et dominium voluntatis respectu talis operis. Tantum ergo praeponderat votum super simplex propositum, quantum valet libertas et dominium voluntatis, et hoc respectu totius futuri temporis. Hoc autem nullo modo posset per aliquid huius vitae appretiari nec recompensari. Haec autem libertas non solum datur in hora qua votum emittitur, sed omni tempore quo placet sibi vovisse, et in quo cum hac complacentia votum implet. Si ergo votum in sua emissione addebat quamdam valoris et meriti infinitatem, et hoc per totum tempus sequens replicatur et multiplicatur, ergo votum continuatum superaddit multiplicem infinitatem.
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Par. V, 19-33Lo maggior don che Dio per sua larghezza
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Epistola VI, 22-23 (ed. A. Frugoni – G. Brugnoli, in Dante Alighieri, Opere minori, II, Milano-Napoli 1979, p. 558).Nec advertitis dominantem cupidinem, quia cecis estis, venenoso susurrio blandientem, minis frustratoriis cohibentem, nec non captivantem vos in lege peccati, ac sacratissimis legibus que iustitie naturalis imitantur ymaginem, parere vetantem; observantia quarum, si leta, si libera, non tantum non servitus esse probatur, quin ymo perspicaciter intuenti liquet ut est ipsa summa libertas. Nam quid aliud hec nisi liber cursus voluntatis in actum quem suis leges mansuetis expediunt? Itaque solis existentibus liberis qui voluntarie legi obediunt, quos vos esse censebitis qui, dum pretenditis libertatis affectum, contra leges universas in legum principem conspiratis? |
Monarchia, I, xii, 1-2, 5-7: Et humanum genus potissime liberum optime se habet. Hoc erit manifestum, si principium pateat libertatis. Propter quod sciendum quod principium primum nostre libertatis est libertas arbitrii, quam multi habent in ore, in intellectu vero pauci. Veniunt namque usque ad hoc: ut dicant liberum arbitrium esse liberum de voluntate iudicium. Et verum dicunt; sed importatum per verba longe est ab eis […] Et hinc etiam patere potest quod substantie intellectuales, quarum sunt inmutabiles voluntates, necnon anime separate bene hinc abeuntes, libertatem arbitrii ob inmutabilitatem voluntatis non amictunt, sed perfectissime atque potissime hoc retinent.
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6. Viltà e regalità
Pur essendo Francesco di umili origini, ‘vile’ in quanto figlio di un mercante, e umile perché “dispetto” per l’oscura povertà, non “li gravò viltà di cuor le ciglia” ma aprì regalmente la sua dura intenzione a Innocenzo III, dal quale ottenne la prima approvazione della sua religione (Par. XI, 88-93). Si tratta di una variazione di temi in parte presenti anche nella descrizione del martirio di santo Stefano, tra le visioni estatiche di mansuetudine nel terzo girone della montagna (Purg. XV, 106-114). La morte aggrava il martire verso la terra, ma egli fa degli occhi porte al cielo; la viltà derivata dall’origine non grava le ciglia di Francesco, che apre il suo intento al papa. Si confronti ancora l’atteggiamento di Francesco con quello, opposto, di Dante nella selva: “quando chinavi, a rovinar, le ciglia”, come gli dice san Bernardo a Par. XXXII, 138.
Qui di seguito sono proposti i possibili fili intrecciati nel passo della vita del “poverel di Dio” narrata da Tommaso d’Aquino. La viltà che proviene dall’umile origine si trova ad Ap 7, 1 (apertura del sesto sigillo) appropriata a quello, dei quattro venti dello Spirito, che viene da oriente, luogo dell’umile incarnazione di Cristo e della nostra umile origine. Il tema è ripreso da Carlo Martello, che ricorda le vili origini di Romolo, per cui ne fu attribuita la paternità a Marte (Par. VIII, 131-132). Ad Ap 10, 2 l’angelo che, al suono della sesta tromba, ha la faccia come il sole (per Olivi si identifica con Francesco) pone sotto i suoi piedi la terra e il mare in quanto la sua altissima povertà e umiltà conculca ogni ricchezza e onore mondano senza vilmente sottoporvisi. Il ‘parer dispetto’ di Ap 1, 5 è proprio della fragilità del Cristo uomo nella passione e morte. Gravare il cuore è ad Ap 4, 2 il duro e lapideo peso della lettera che grava sul cuore degli uomini, il senso chiuso alle illuminazioni spirituali, simboleggiato dalla porta che chiude il sepolcro di Cristo aperta con la resurrezione. L’aprire regale coincide con l’apertura del primo sigillo da parte del leone (Ap 6, 1): Francesco stesso ad Ap 10, 3 appare costante, forte e impavido come un leone ruggente. L’apertura della porta a Cristo consegue nella settima e ultima vittoria il premio di sedere regalmente con Cristo (Ap 3, 20-21).
L’aprirsi dunque si contrappone alla viltà. Ciò avviene in Francesco: “Né li gravò viltà di cuor le ciglia … ma regalmente sua dura intenzione / ad Innocenzio aperse” – come in Dante, dopo i dubbi sul fare il viaggio nel ritenersi di scarsa virtù: “perché tanta viltà nel core allette … Quali fioretti dal notturno gelo / chinati e chiusi, poi che ’l sol li ’mbianca, / si drizzan tutti aperti in loro stelo” (Inf. II, 121-132).
Francesco, non gravato da viltà, ebbe tre ‘sigilli’ sulla sua Regola. Il primo fu l’approvazione orale da parte di Innocenzo III (1210), al quale “regalmente sua dura intenzione … aperse”. Il secondo fu l’approvazione scritta, nel 1223, tramite la bolla di Onorio III. Il terzo e ultimo fu il sigillo impresso da Cristo con le stimmate, “nel crudo sasso intra Tevero e Arno”, due anni prima della morte, nel 1224.
Si noterà come nei tre sigilli l’intervento dello Spirito Santo operi sul secondo, quello di Cristo sul terzo. Le tre impressioni sembrano corrispondere ai tre fini della storia umana designati dai tre avventi di Cristo, secondo la celebre similitudine con la montagna che è una alla vista distante, ma trina nei suoi dossi e nelle sue viste per chi la salga, proposta da Olivi nel Notabile XIII del prologo. Il primo avvento è nella carne, il secondo nello Spirito, il terzo nel giudizio. D’altronde, come afferma Olivi ad Ap 7, 2, Francesco ha ripercorso il cammino di Cristo fin dal mattino della sua nascita. Nell’impressione del primo sigillo, la durezza dell’intenzione si apre, di fronte a Innocenzo III, verso un processo storico, uno sviluppo: è qui da ricordare l’esegesi di Ap 4, 1-2, dove la durezza lapidea dell’Antico Testamento, cioè di qualcosa chiuso nell’utero prima del parto [1] (nel caso appropriata all’intenzione di Francesco, cioè alla durezza della regola) si apre al nuovo recato da Cristo (al pontefice romano, che di Cristo è sposo). Immessa nello sviluppo storico, anche “la gente poverella crebbe / dietro a costui”, come avviene agli individui. Il crescere e moltiplicarsi è un tema di Gioacchino da Fiore, tratto dal Genesi (1, 22) nella descrizione delle opere del quinto giorno, che Olivi applica con insistenza al quinto stato, cioè al momento in cui si discende da un’ardua e solitaria condizione (quale fu quella del quarto stato, dei troppo alti anacoreti), alla condiscendente pietas verso gli inferiori e le moltitudini, verso le esigenze della vita associata: un tema ben presente a Francesco (cfr. supra). Una crescita avvenuta “dietro a costui”, seguendo le orme di Francesco, e dunque esente dai vizi che inficiano la parte finale del quinto stato, allorché la famiglia francescana sarà “tanto volta”, come affermato nel canto successivo da Bonaventura (Par. XII, 115-126). Dopo la crescita (momento quinto), il coronamento della regola (“la santa voglia”: al sesto stato appartiene l’apertura della volontà) “per Onorio da l’Etterno Spiro” (con il sesto stato inizia l’età dello Spirito, o la terza età di Gioacchino da Fiore). Gli stati, è bene ricordarlo, sono periodi storici in cui si inverano i doni dello Spirito di Cristo, e insieme momenti perennemente presenti all’agire degli individui.
Gravata da viltà, a differenza di Francesco, fu “l’ombra di colui /che fece per viltade il gran rifiuto” (Inf. III, 59-60; cfr. Il sesto sigillo, cap. 7b). Il confronto con il santo iniziatore del sesto stato e della gioachimita età dello Spirito toglie ogni dubbio che l’innominato ignavo sia Celestino V, non certo Esaù, Pilato, Diocleziano o altre improponibili figure. Certamente la viltà che generò “il gran rifiuto” fu determinata non solo da un pusillanime senso di inadeguatezza, ma anche dalla viltà di origine, dalla “matrice contadina” che “caratterizza tutta la vita di Pietro del Morrone” [2]. Il tema del rapporto tra la viltà e il suo contrario, la nobiltà, tra imperfezione e perfezione di una cosa, è discusso nel IV Trattato del Convivio, scritto in tempi ravvicinatissimi, se non contemporanei, alla decisione di compiere il viaggio indotta dall’incontro con la Lectura super Apocalipsim dell’Olivi. Non è casuale che l’esegesi relativa a Laodicea, la settima chiesa d’Asia rimproverata per la sua tepidezza, sia appropriata oltre che agli ignavi, in un diverso e positivo contesto, all’ignaro villanello della similitudine in principio di Inf. XXIV, memore de “lo più vile villano di tutta la contrada” di cui si parla nel Convivio, che sul Falterona ritrovò per caso zappando un antico tesoro (IV, xi, 8). Ma nel Convivio (IV, xx, 3-6) vi è pure la distinzione tra nobiltà di schiatta e nobiltà d’elezione da parte di Dio, “appo cui non è scelta di persone, sì come le divine Scritture manifestano”, il quale rende dèi chi vuole eleggere, distinzione che ben s’incontra con la “signatio” all’alta milizia degli eletti amici di Dio che avviene all’apertura del sesto sigillo, la cui esegesi distingue appunto la magnanimità dei segnati sulla fronte dalla volgare schiera. La viltà d’origine può essere superata, come mostra l’esempio del magnanimo Francesco che si apre a Innocenzo III e del fondatore di Roma, Quirino, che “vien … / da sì vil padre, che si rende a Marte”. Così avviene anche per la viltà d’animo, come mostra l’esempio di Dante, eletto degli ultimi tempi, il quale, superando con l’aiuto di Virgilio il dubbio che gli offendeva l’animo di viltà, si prepara alla guerra delle tentazioni (Inf. II, 127ss.).
Dante non entra nel dibattito se la rinuncia di Celestino V sia stata canonicamente possibile (Olivi, è noto, la considerò tale in una celebre quaestio); il “gran rifiuto” che lo condanna fu quello di un eletto del sesto stato della Chiesa che, trovandosi nell’angustia della persecuzione dei nuovi martiri, lì dove era chiamato a testimoniare la regola evangelica dal suo alto stato, non si aprì al cielo, abbandonando la guerra come Anfiarao, che “non restò di ruinare a valle / fino a Minòs che ciascheduno afferra” (Inf. XX, 31-36). Ingannato, forse, da quello stesso Caetani che poi da papa avrebbe ingannato Guido da Montefeltro, altro eletto (perché si fece francescano in tarda età) decaduto nella prova del dubbio.
[1] Cfr. LSA (incipit): Hec enim septem sunt velut septem dies solaris doctrine Christi, que sub velamine scripta et absconsa fuerunt in lege et prophetis. Eo ipso autem quod doctrina novi testamenti probat se ipsam contineri in veteri sicut nucleum in testa et pullum in ovo et fructum in semine vel radice et sicut lumen in lucerna lucente in loco caliginoso, eo ipso promovetur luna, id est vetus lex et scriptura, in lucem solis. […] (Ap 11, 19) Idem autem est aperiri vetus testamentum quod videre novum in veteri. Sicut enim pullus est in ovo et corpus hominis in sepulcro vel proles concepta in utero matris, sic spiritalis intelligentia novi testamenti erat et latebat in littera veteris et in exteriori cortice sinagoge.
[2] Cfr. P. GOLINELLI, Ancora di colui «che fece per viltade il gran rifiuto» (Inf. III, 60), in “Rivista di Storia e Letteratura Religiosa”, 31 (1995/3), pp. 443-460.
Tab. 6
7. Sete di martirio di fronte al Signore della terra
■ Di Francesco si afferma nell’esegesi, che occupa l’intero capitolo X, dell’angelo che, al suono della sesta tromba, ha la faccia come il sole:
Pose il piede destro sul mare (Ap 10, 2) perché tentò per ben tre volte con tutto l’impegno e il fervore di recarsi presso i Saraceni per convertirli e per ricevere da loro il martirio, come è descritto nel nono capitolo della sua vita [cfr. Bonaventura, Legenda maior, IX]: nel sesto anno della sua conversione [avvenuta nel 1206] come angelo del sesto sigillo e come segno che per mezzo del suo Ordine nel sesto stato della Chiesa essi devono essere convertiti a Cristo; poi, di nuovo, per una terza volta, nel tredicesimo anno della sua conversione [1219], come segno che nel tredicesimo secolo dalla passione e dalla resurrezione di Cristo i Saraceni e gli altri infedeli devono essere convertiti per mezzo del suo Ordine con molti martìri; per questo anche nella sua Regola stabilì similmente il modo di andare a predicare ai Saraceni e agli altri infedeli [cfr. Regula bullata, XII].
Come infatti, nel tredicesimo giorno dalla nascita, Cristo apparve ai re dell’oriente (cfr. Mt 2, 1ss.) e in simile giorno fu battezzato (cfr. Mt 3, 13ss.; Mc 1, 19ss.; Lc 3, 21ss.) e trasformò l’acqua in vino (Gv 2, 1ss.) e nel tredicesimo anno si allontanò dalla madre e fu ritrovato da lei nel tempio (cfr. Lc 2, 40ss.), così nel tredicesimo secolo dalla nascita di Cristo apparve Francesco e il suo Ordine evangelico ma anche, nel tredicesimo secolo dalla morte e dall’ascensione di Cristo, sarà esaltato in croce e la sua gloria ascenderà su tutto il mondo, come dimostra quanto è stato scritto, specialmente quanto sarà trattato nella quarta visione di questo libro (traduzione di P. VIAN, in Pietro di Giovanni Olivi. Scritti scelti, Roma 1989, pp. 136-137).
■ Nel capitolo XI della Lectura si parla dei due testimoni dati da Dio, Enoch ed Elia, che verranno uccisi dalla bestia per poi risorgere dopo tre giorni e mezzo (corrispondenti a “un tempo, due tempi e la metà di un tempo” di Ap 12, 14, ovvero ai tre anni e mezzo in cui regnerà l’Anticristo). Di essi si dice che “profetizzeranno vestiti di sacco”, cioè di cilici e di vesti povere e aspre, a significare l’austerità della loro vita religiosa (Ap 11, 3). Essi sono “due olivi” pingui di carità e ripieni dell’unzione divina e di soavità, e “due candelabri lucenti”, i quali spandono per tutta la Chiesa il lume della sapienza divina che portano in modo alto e preclaro, “che stanno nel cospetto del Signore”, cioè assistono sempre Dio sia per la singolare contemplazione che per il servigio di una pronta obbedienza e ossequio (Ap 11, 4; cfr. anche supra).
Secondo Gioacchino da Fiore, sia qui come in Zaccaria 4, 14 si dice di costoro “che stanno nel cospetto del Signore della terra” perché sono venuti per questo, e andranno davanti al volto di Cristo per annunziare la venuta di un tempo nel quale è necessario che il Figlio di Dio regni su tutta la terra, cosicché gli uomini siano illuminati come da candelabri luminosi e il cuore degli eletti venga unto dalla grazia e dalla dottrina spirituale come da lampade colme di olio santo. Con il “Signore della terra” può essere anche designato l’Anticristo, che allora dominerà da usurpatore la terra e i terreni, di fronte al quale i due resisteranno con costanza ammonendolo da parte di Dio, come fecero Mosè e Aronne di fronte al Faraone e Pietro e Paolo di fronte a Nerone.
Al passo di Ap 11, 4, relativo ai due testimoni e al loro stare “in cospetto del Signore della terra” (che può essere il Figlio di Dio oppure l’Anticristo), rinvia lo stare di Francesco, assetato di martirio, “ne la presenza del Soldan superba” ove “predicò Cristo e li altri che ’l seguiro” (Par. XI, 100-102). Che il Sultano sia inteso come “Dominus terre” si ricava anche dalle parole di Virgilio relative a Semiramìs (“tenne la terra che ’l Soldan corregge”, Inf. V, 60). I due testimoni “verranno per questo”, cioè per stare in presenza di Cristo “Dominus terre” e per annunciare essere prossimo il tempo in cui il Figlio di Dio regnerà sull’universa terra: il tema entra nella narrazione che Bonaventura fa della vita di Domenico: “Spesse fïate fu tacito e desto / trovato in terra da la sua nutrice, / come dicesse: ‘Io son venuto a questo’ ” (Par. XII, 76-78). D’altronde ad Ap 11, 4 (passo in collazione con Ap 10, 1) conduce anche Par. XI, 35-36, dove si parla appunto dei due principi – Francesco e Domenico – ordinati dalla Provvidenza a guida della Chiesa, come nell’esegesi si dice (Ap 10, 1) che Dio ha ordinato uomini angelici che illuminano gli inferiori e (Ap 11, 4) che i due testimoni, Enoch ed Elia, sono due candelabri luminosi che stanno al cospetto di Dio, come due principi e consiglieri stanno e incedono uno a destra e uno a sinistra al cospetto di un gran re (Ap 11, 4; cfr. anche supra).
■ Il tema dell’Anticristo che usurpa il dominio terreno si ritrova nel cielo ottavo, delle stelle fisse, allorché san Pietro pronuncia l’invettiva contro “quelli ch’usurpa in terra il luogo mio, / il luogo mio, il luogo mio che vaca / ne la presenza del Figliuol di Dio” (Par. XXVII, 22-24). Si tratta di Bonifacio VIII, pontefice regnante nel 1300, e l’appellativo di usurpatore, nelle parole del principe degli apostoli che dichiara altresì essere vacante il suo seggio in terra, sembra alludere all’illegittimità dell’elezione del Caetani. Si può rispondere con Arsenio Frugoni, che le parole di Pietro non possono essere intese come denuncia di un’illegittimità canonica di Bonifacio, “ma bensì di un’indegnità totale di colui che ha tolto ‘a ’nganno / la bella donna’ e ne fa ‘strazio’ (Inf. XIX, 56-57), sicché per quell’alleato di Satana il Papato è di fatto vacante, anche se così non appare agli uomini, nel giudizio del Figlio di Dio” (Celestino V, in Enciclopedia Dantesca, I, p. 906).
Il tema del vacare moralmente dinanzi a Dio è presente ad Ap 3, 1-2. Il vescovo di Sardi, la quinta delle sette chiese d’Asia alle quali Giovanni scrive nella prima visione, viene rimproverato di avere fama di essere giusto e di vivere la vita della grazia, mentre invece è morto per colpa mortale: “nomen habes quod vivas et tamen mortuus es”. Viene invitato a vigilare e a confermare le sue opere che stanno per estinguersi, per cui Cristo gli dice: “non trovo le tue opere piene di fronte a Dio” cioè, spiega Olivi, anche se dinanzi agli uomini appaiono piene di virtù e di carità, vacano (nel senso di ‘sono vuote’) di fronte a Dio. Così per Boni facio, pontefice legittimo per i terreni ma non per Dio, singolarmente consonante nel nome con l’esegesi relativa al vescovo della quinta chiesa, “quia habebat nomen boni cum esset malus”. I versi pronunciati da san Pietro cuciono insieme i temi della quinta chiesa – le opere vacanti “coram Deo” – con quelli della sesta tromba da Ap 11, 4 – i due testimoni che stanno “in conspectu Domini terre” -, presente quest’ultimo con la duplice appropriazione all’usurpatore Anticristo (“Quelli ch’usurpa in terra”) e a Cristo (“ne la presenza del Figliuol di Dio”).
La situazione di Bonifacio VIII è parzialmente illuminata da altro luogo del poema. Si tratta della descrizione della cascata del Flegetonte che precipita dal settimo all’ottavo cerchio infernale. Il fiume di sangue è paragonato al Montone che all’inizio, nel suo alto corso, “prima dal Monte Viso ’nver’ levante, / da la sinistra costa d’Apennino” ha proprio cammino e proprio nome (Acquacheta; ad Ap 3, 4 il “proprium nomen” è il “proprium donum gratie” dato a ciascuno), nome che diventa “vacante” allorché il fiume, dopo la cascata di San Benedetto dell’Alpe, è sceso nella piana di Forlì e si chiama appunto Montone (Inf. XVI, 94-105; cfr. a Purg. V, 97 le parole di Buonconte da Montefeltro sullo sfociare in Arno dell’ “Archian rubesto”: “Là ’ve ’l vocabol suo diventa vano”). Questi versi di apparente indicazione geografica sono in realtà pregni di motivi spirituali. Il tema principale è la caduta rovinosa (la cascata) del fiume, corrispondente al precipitoso rovinare nella fase estrema del quinto stato condescensivo e rilassato. Così il fiume ha dapprima un nome di vita, “avante / che si divalli giù nel basso letto” (prima che ‘condiscenda’), e poi lo perde, come la chiesa di Sardi ha avuto un principio bello e poi l’ha perduto ritrovandosi con un nome vacante di fronte a Dio. Tutta la zona che precede la descrizione della cascata del Flegetonte – i sodomiti – è pervasa dai temi del quinto stato (da notare le ultime parole di ser Brunetto ad Inf. XV, 119-120: “Sieti raccomandato il mio Tesoro, / nel qual io vivo ancora”, cioè ho nome). Nel burrone in cui precipita il Flegetonte Virgilio getta la corda della quale Dante era cinto, e questo è “novo cenno” – che segna il passaggio al sesto stato -, per cui Gerione viene di sopra per portare Dante in volo nel fondo di “quell’alto burrato”, ubbidendo al comando di Virgilio che lo ha ‘fatto venire’, come Cristo promette alla sesta chiesa che le farà venire quelli della sinagoga di Satana, per sottoporli al suo magistero (Ap 3, 9).
Se il ‘vacare’ della sede romana è un filo tratto dall’esegesi della quinta chiesa, la quale ebbe un principio bello poi corrottosi rendendo il proprio nome vacuo di fronte a Dio, l’intenzione di san Pietro non è di dire che Bonifacio VIII è stato eletto in modo illegittimo, ma che si è reso apostata da quell’alto stato (che pertanto “usurpa” occupandone il “luogo”), come l’Anticristo il quale, precisa Olivi ad Ap 13, 11, non sarà educato ed edotto dal diavolo fin dall’infanzia o dal ventre materno ma, nuovo Lucifero, sarà apostata e cadrà di sua volontà dall’altissimo e giustissimo stato in cui era stato creato.
Tab. 7
8. L’italica erba
Par. XI, 103-108e per trovare a conversione acerba
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■ [Tab. 8.1] In così alta retorica del significante, viene in rilievo la simmetria fra terzine nella numerazione dei versi di singoli canti, o meglio il numero stesso della terzina. Non può essere infatti casuale che l’Italia sia due volte collocata sull’ultimo verso della 35a terzina (vv. 103-105) a Purg. VI (“che ’l giardin de lo ’mperio sia diserto”) e a Par. XI (“redissi al frutto de l’italica erba”).
La semantica rinvia ad Ap 8, 7 (terza visione, prima tromba) e ad Ap 12, 6 (quarta visione, prima guerra), dove si tratta della Giudea, un tempo fiorente giardino poi divenuta deserto per il suo indurirsi contro Cristo. Da essa la donna (la Chiesa) fugge nella solitudine del deserto dei Gentili (il “lito diserto” della montagna del purgatorio), che fiorisce, mentre la Giudea si fa “selva selvaggia” («“in saltum” seu silvam “reputabitur”, id est silvestrescet»). Ma nel sesto stato la Giudea, dopo la conversione delle reliquie delle genti, si volgerà umilmente per ultima a Cristo come promesso al vescovo di Filadelfia, la sesta chiesa d’Asia (Ap 3, 9).
Quando Virgilio profetizza del Veltro: “Di quella umile Italia fia salute” (Inf. I, 106; 36a terzina: il senso spirituale è ben diverso dalla pur presente reminiscenza virgiliana “humilemque videmus Italiam” di Aen., III, 523-524), pronuncia parole che aprono la memoria del canto di lode della moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni gente, tribù, popolo e lingua, confermata dagli angeli, dai seniori e dai quattro animali che stanno intorno al trono (Ap 7, 10-12): «“dicentes: Salus Deo nostro”, id est salus nostra non nobis ascribatur … scilicet se profunde humiliando Deo, “et adoraverunt Deum (Ap 7, 12) dicentes: Amen”, id est vere sic sit et fiat sicut hec sancta turba decantat et orat”». L’Italia, “’l giardin de lo ’mperio”, la fruttuosa “erba” alla quale torna Francesco, la nuova Giudea, è terra d’umiltà: “per … herbas virentes designantur simplices, humilitatem et virorem fidei et vite honeste et pie servantes” (Ap 9, 4, quinta tromba: passo simmetrico ad Ap 8, 7 per il “fenum”); è pure il “bel paese là dove ’l sì suona”, dove cioè si conferma in terra il sovranazionale canto di lode che gira la sede divina in cielo: «“dicentes: Amen”, id est vere sic sit et fiat ».
La stessa esegesi, da Ap 8, 7 (prima tromba) e 9, 4 (quinta tromba) segna anche, a Purg. I (35a terzina), gli umili giunchi sulla riva del purgatorio (è da notare, ancora, come degli stessi temi si faccia segno nelle terzine 44a e 45a di Purg. I, VII – che hanno lo stesso numero di versi – e XXVII).
La turba immensa, non di una sola gente o lingua, ma di ogni gente, tribù, popolo e lingua, che sta davanti al trono e nel cospetto dell’Agnello, avvolta in vesti candide e con le palme nelle mani, designa coloro che sono venuti alla gloria dalla passione, dalla sofferenza e dal martirio, come affermato dal vegliardo (Ap 7, 14). Sono coloro che ad Ap 12, 10-11, al termine della seconda battaglia vinta per intervento di Michele (il secondo stato è quello dei martiri, cui si addice il combattere e la tribolazione), esultano e lodano Dio per la salvezza intervenuta; hanno vinto il diavolo “per mezzo del sangue dell’Agnello”; “non hanno amato le loro anime”, ossia le loro vite corporee, “fino alla morte”, esponendosi per Cristo ad ogni passione. Nella profezia del Veltro, il non essere di una sola gente, tribù, popolo o lingua coloro che stanno dinanzi al trono si adatta ai due versi relativi all’umile Italia, “per cui morì la vergine Cammilla, / Eurialo e Turno e Niso di ferute” (Inf. I, 107-108), nei quali non si fa distinzione tra l’appartenenza di campo dei caduti nella guerra combattuta nel Lazio da Enea, che rientra nel piano provvidenziale, ne “l’alto effetto” per il quale il troiano “fu de l’alma Roma e di suo impero / ne l’empireo ciel per padre eletto” (Inf. II, 16-24).
Di fronte a tanto profondi significati che aprono prospettive di una storia della salvezza collettiva, quale senso ha che l’Italia stia due volte sulla 35a terzina? Forse la risposta si trova nell’esegesi di Ap 12, 6, relativa allo scambiarsi fra selva e deserto fiorito. Esegesi i cui signacula si rinvengono in molti versi fra i quali (ancora una volta la 35a terzina) Purg. VII, 105, riferito con variazione dissonante alla morte nel 1285 di Filippo III l’Ardito in fuga dagli Aragonesi: «“Et mulier”, id est ecclesia, “fugit in solitudinem” … De hac autem solitudine dicitur Isaie … Et capitulo XXXV° (Is 35, 1-2): “Letabitur deserta et invia, exultabit solitudo et florebit quasi lilium”.│morì fuggendo e disfiorando il giglio». Questo deserto che fiorisce è quello profetizzato da Isaia, più volte citato ad Ap 12, 6. Ivi fiorirà la giustizia (“et habitabit in solitudine iudicium et iustitia”, Is 32, 16). Il numero 35 è menzionato nel poema allorché, nel cielo di Giove, a Dante si mostra la scritta dipinta “Diligite iustitiam, qui iudicatis terram”, cioè il primo versetto del libro della Sapienza formato da 35 lettere (“Mostrarsi dunque in cinque volte sette / vocali e consonanti”; Par. XVIII, 88-93). Dante pensava che l’Italia sarebbe stata un giorno la sede della giustizia.
Si noterà che sulla 35a terzina di Inf. I e Purg. IX stanno rispettivamente l’“umile Italia”, della quale il Veltro “fia salute”, e l’umiltà di Dante nel chiedere all’angelo, vicario di Pietro, l’apertura della porta del purgatorio. Non significa che Dante e il Veltro coincidano, ma che quando scriveva i versi che riguardavano la sua conversione interiore, il poeta pensava a una renovatio universale.
“Nel crudo sasso intra Tevero e Arno” (Par. XI, 106). Il riferimento a La Verna, dove il serafino impresse le stimmate su Francesco, fa ancora segno della durezza giudaica, lapidea e legata al solo senso letterale della Scrittura, che sarebbe stata aperta da Cristo con “l’ultimo sigillo”. Nella parte proemiale della seconda visione, dedicata appunto all’apertura dei sette sigilli (Ap 4, 1-2), Olivi afferma che come sulla porta della tomba di Cristo era posta una pietra grande e pesante che fu rimossa al momento della resurrezione e dell’uscita dal sepolcro, così il duro involucro del senso letterale, gravato dal peso di figure sensibili e carnali, chiudeva nell’Antico Testamento la porta della Scrittura impedendo l’accesso all’intelligenza spirituale. Nei cuori degli uomini era lapidea durezza e sentimento ottuso, chiuso alle illuminazioni divine. Colui che per primo aprì la porta e diede la prima voce che ci fece salire al cielo fu Cristo, con la sua illuminazione e dottrina. La rupe alverniate fu per Francesco, che con il sesto stato iniziò un nuovo avvento di Cristo nello Spirito, come il sepolcro di Cristo, della cui vita fu perfetto imitatore.
Tab. 8.1
[LSA, cap. II, Ap 2, 1 (VIa ecclesia)] Sexta (ecclesia) autem dicitur habere hostium scripturarum [ac] predicationis et cordium convertendorum apertum, et quod Iudei debent ad eam cum summa humilitate adduci, et quod est servanda ne cadat in temptationem toti orbi venturam, quia Dei consilia et mandata longanimiter et patienter servavit, que utique competunt statui sexto. Unde et congrue vocatur Philadelphia, id est salvans hereditatem, quia in regula evangelica, quasi in archa Noe, salvabitur semen fidei et electorum a diluvio Antichristi tam mistici quam aperti.[LSA, cap. VII, Ap 7, 9 (IIa visio, apertio VIi sigilli)] Sequitur: “Post hec vidi turbam magnam” (Ap 7, 9). […] “Quam dinumerare nemo poterat” […] “Turbam”, inquam, non solum ex una gente vel lingua existente[m], sed “ex omnibus gentibus et tribubus et populis et linguis stantes ante tronum”, id est ante regiam dignitatem divine maiestatis designatam per tronum. Vel “ante tronum”, id est ante generalem ecclesiam Dei, vel ante supercelestem, vel ante priorem ecclesiam sanctorum. “In conspectu Agni”, id est coram Christo homine tamquam ipsum colentes, et sicut servi stant coram Domino suo ad ipsum serviendum et honorandum. “Amicti stolis albis”, per candorem munditie et gratie et glorie. Nam hec turba videtur hic describi quasi iam per fidem et martirium perducta ad gloriam Dei. “Et palme in manibus eorum”, id est triumphalis gloria de victoria hostium erat et evidenter apparebat in eis. |
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[LSA, cap. III, Ap 3, 9 (Ia visio, VIa ecclesia)] Unde subdit: “Ecce faciam illos”, scilicet tales esse, “ut veniant”, id est per influxum mee gratie tantam immutationem cordis faciam in eos ut veniant. Vel sensus est: “faciam” ut illi “veniant et adorent ante pedes tuos”, scilicet querendo humillime et devotissime a te doceri et baptizari et regi. Adorare sumitur hic pro vehementer ipsum venerari et cum signis maxime subiectionis et humiliationis, puta prosternendo se ante pedes eius. Vel potest esse sensus: “et adorent”, scilicet me, “ante pedes tuos”, id est prostrati ante te confitebuntur se credere in me.Inf. XXXIII, 79-80Ahi Pisa, vituperio de le genti
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[LSA, cap. VII, Ap 7, 10-12.14 (IIa visio, apertio VIi sigilli)] “Et clamabant voce magna” (Ap 7, 10), id est magna devotione, “dicentes: Salus Deo nostro”, id est salus nostra non nobis ascribatur, quia non est a nobis, sed ascribatur illi a quo est, scilicet “Deo nostro, qui sedet super tronum”, id est divinitati magnifice regnanti, “et Agno”, id est Christo homini. […] “Et omnes angeli stabant in circuitu troni” (Ap 7, 11), tamquam scilicet famulantes regie maiestati Dei, et quasi eius exteriorem superficiem apprehendentes potius quam totalem immensitatem sue infinite et incomprehensibilis profunditatis, vel “in circuitu troni”, id est ad custodiam et protectionem ecclesie; “et seniorum et quattuor animalium, et ceciderunt in conspectu troni in facies suas”, scilicet se profunde humiliando Deo, “et adoraverunt Deum (Ap 7, 12) dicentes: Amen”, id est vere sic sit et fiat sicut hec sancta turba decantat et orat. Dicunt enim “Amen” confirmando laudem sancte turbe et ei iocunde correspondendo et congratulando et Deum pariter conlaudando. […] (Ap 7, 14) “Et dixit michi: hii sunt qui venerunt”, scilicet ad tantam gloriam, “de tribulatione magna”, id est pro magnis tribulationibus, quas ab impiis et etiam a seipis contra suas concupiscentias concertantibus pro Christo passi sunt. “Et laverunt stolas suas”, id est corpora et animas, “et dealbaverunt eas”, scilicet candore perfecte gratie, “in sanguine Agni”, id est in merito passionis Christi per fidem et baptismum et per penitentiales mortificationes et tandem per martirium participato. |
Purg. IX, 103-108 (35-36)Sovra questo tenëa ambo le piante
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Inf. I, 103-108 (35-36)Questi non ciberà terra né peltro,
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Purg. VI, 103-105 (35)Ch’avete tu e ’l tuo padre sofferto,
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Par. XI, 103-108 (35-36)e per trovare a conversione acerba
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Purg. I, 103-105 (35), 133-136 (45)null’ altra pianta che facesse fronda
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Purg. VII, 103-105 (35)E quel nasetto che stretto a consiglio
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Purg. VII, 130-136 (44-45)Vedete il re de la semplice vita
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Purg. XXVII, 133-135 (45)
Vedi lo sol che ’n fronte ti riluce;
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[LSA, cap. VIII, Ap 8, 7 (IIIa visio, Ia tuba)] “Grando” significat duritiam et pertinaciam Iudeorum, que ad predicationem Christi et apostolorum fuit fortius congelata et indurata, sicut ad Moysi verba et signa Pharao fortius induravit cor suum. […] Per “terram” autem significatur hic Iudea, quia sicut terra habitabilis fuit segregata a mari et discooperta aquis, ut posset homo habitare in ea et ut ipsa ad usum hominis posset fructificare et herbas et arbores fructiferas ferre, sic Deus mare infidelium nationum et gentium separaverat a terra et plebe Iudeorum, ut quiete colerent Deum et facerent fructum bonorum operum, et ut essent ibi simplices in bono virentes ut herbe, et perfecti essent ut arbores grandes [et] solide et fructuose. […] Per “fenum” vero “viride” designantur simpliciores et imbecilliores, qui per bonam vitam virides videbantur et forsitan prius erant.[LSA, cap. IX, Ap 9, 4 (IIIa visio, Va tuba)] Deinde de cohibitione subdit: “et preceptum est illis ne lederent fenum terre neque omn[e] viride neque omnem arborem, nisi tantum homines, qui non habent signum Dei in frontibus suis” (Ap 9, 4). Per “fenum” et per ceteras herbas virentes designantur simplices, humilitatem et virorem fidei et vite honeste et pie servantes; per “arbores” vero perfectos et solidiores facientes magnos fructus. Non permittit ergo Deus istos ledi, nisi ipsi prius per pravum consensum se ipsos lederent et reprobarent. Quamdiu autem in sua bonitate permanendo illis non consentiunt, tota temptatio et tribulatio quam ab illis patiuntur proficit eis ad meritum et premium et ad virtuosum exercitium, et ideo non nocet eis, immo per accidens seu materialiter prodest.[LSA, cap. XII, Ap 12, 6 (IVa visio, Ium prelium)] “Et mulier”, id est ecclesia, “fugit in solitudinem”. […] De hac autem solitudine dicitur Isaie XXXII° (Is 32, 15-16): “Erit desertum in Chermel”, id est [sic] pinguis in gratiis sicut prius fuerat Iudea, “et Chermel”, id est Iudea, “in saltum” seu silvam “reputabitur”, id est silvestrescet, “et habitabit in solitudine iudicium et iustitia” et cetera. Et capitulo XXXV° (Is 35, 1-2): “Letabitur deserta et invia, exultabit solitudo et florebit quasi lilium. Gloria Libani data est ei, et decor Carmeli et Sa[r]on”. Et capitulo XLI° (Is 41, 19): “Dabo in solitudine cedrum et spinam et mirtum et lignum olive, ponam in desertum abietem” et cetera. Et capitulo LIIII° (Is 54, 1): “Letare, sterilis que non paris, quia multi filii deserte magis quam eius que habet virum”.[LSA, cap. IV, Ap 4, 1-2 (radix IIe visionis)] Nota etiam quod hec sibi sic monstrantur et sic nobis scribuntur, quod sint apta ad misteria nobis et principali materie huius libri convenientia. Unde per celum designatur hic ecclesia et scriptura sacra, et precipue eius spiritalis intelligentia. Sicut autem in hostio monumenti Christi erat superpositus magnus lapis et ponderosus, qui Christo resurgente et de sepulcro exeunte est inde amotus, sic in scriptura erat durus cortex littere, pondere sensibilium et carnalium figurarum gravatus, claudens hostium, id est [ad]itum intelligentie spiritalis. In humanis etiam cordibus erat lapidea durities sensus obtusi, claudens introitum divinarum illuminationum.
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■ [Tab. 8. 2] Prima di procedere all’esegesi dell’apertura del sesto sigillo (Ap 6, 12), Olivi ricorda quanto già affermato nei notabilia del prologo, che cioè la vita di Cristo nel sesto e settimo stato verrà glorificata e magnificata nella conversione di tutto il mondo e di tutto Israele. Per attestazione autentica e conferma della Chiesa romana, consta che la regola dei Minori data dal beato Francesco è veramente e propriamente la regola evangelica, quella osservata da Cristo, imposta agli apostoli e scritta nel Vangelo. Ciò consta per inconfutabili testimonianze dei libri scritturali e dei loro espositori. Consta per la testimonianza dello stesso Francesco, confermata dalla sua indicibile santità e da innumerevoli miracoli di Dio, e soprattutto dalle gloriosissime stimmate impresse da Cristo, che dimostrano come egli sia l’angelo che apre il sesto sigillo (Ap 7, 2), il quale ha il segno del Dio vivente, cioè delle piaghe di Cristo crocifisso, e della totale trasformazione e configurazione in Cristo, secondo una tradizione, chiara e degna di fede, ascoltata dall’Olivi nel 1266 da san Bonaventura predicante a Parigi in modo solenne nel capitolo generale dei Frati minori.
Sullo stesso panno dell’esegesi di Ap 6, 12, dove Olivi dichiara che Francesco è angelo del sesto sigillo, sono ritagliate le parole che designano i “sette P” descritti nella fronte del poeta con la punta della spada dall’angelo portinaio dei sette gironi della montagna. Essi sono “piaghe”, “segni” che rendono il poeta conforme all’angelo che ha il «“signum Dei vivi”, signum scilicet plagarum Christi crucifixi”». Non è casuale che, nei versi in cui Virgilio spiega a Stazio che chi porta quei segni “coi buon convien ch’e’ regni”, compaia il verbo ‘imporre’, appropriato a Cloto che “la conocchia … impone a ciascuno e compila”, che cioè, letteralmente, compone e aggiusta sulla rocca la quantità di fibra filata da Lachesi (Purg. XXI, 22-30). La regola evangelica imposta agli apostoli equivale alla vita di Cristo, che deve essere da noi perfettamente imitata e partecipata come fine della nostra vita (prologo, Notabile VII). Anche la parca che “impone” la conocchia della vita, grazie all’esegesi dell’Olivi, diventa ancella di Cristo perché la nostra vita non può essere che trasformazione e configurazione in lui. Da notare l’espressione “venendo sù”, che traspone il tema dell’angelo del sesto sigillo, che sale da Oriente (Ap 7, 2); da confrontare, ancora, i “segni che questi porta” (Purg. XXI, 22-23) con le stimmate che le membra di Francesco “due anni portarno” (Par. XI, 106-108). Dante si fa imitatore di Francesco, precipuo imitatore di Cristo.
Quando Dante scriveva i versi di Purg. XXI, 19-33, aveva in mente una vicenda letterale, l’incontro tra due poeti, Virgilio e Stazio, uno pagano ma il cui calore giovò, illuminando, alla poesia e alla conversione dell’altro; l’altro cristiano, ma chiuso per tepidezza. Il confronto con la Lectura mostra come Dante avesse in mente anche molti significati spirituali, relativi ai tempi moderni designati dal sesto stato, “novum seculum” per Francesco e il suo Ordine come lo fu l’età di Augusto per il primo avvento di Cristo. Uno di questi significati spirituali risiede nella necessità di una guida, nel non poter far da soli, e ciò congiunge i versi ad altri luoghi del poema, tra i quali ce n’è uno memorabile, la risposta data al padre di Guido Cavalcanti a Inf. X, 61-63: «E io a lui: “Da me stesso non vegno: / colui ch’attende là, per qui mi mena / forse cui Guido vostro ebbe a disdegno”». Così, accanto alla lettera e allo spirito, dai versi che narrano l’incontro tra il poeta mantovano e quello “tolosano” emerge la memoria del “primo delli miei amici”: «S’io fosse quelli che d’amor fu degno – se voi siete ombre che Dio sù non degni │E tu, che se’ de l’amoroso regno … riguarda se ’l mi’ spirito ha pesanza: / ch’un prest’ arcier di lui ha fatto segno – E ’l dottor mio: “Se tu riguardi a’ segni / che questi porta e che l’angel profila, / ben vedrai che coi buon convien ch’e’ regni ”». Si tratta della risposta di Cavalcanti al sonetto Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io, il cui andar per mare senza impedimento “al voler vostro e mio” si ritrova nel salire veloce, per libera volontà, ancora di tre: Virgilio, Stazio e Dante. Quello che nel sonetto è “il motivo sentimentale principe del dolce stile in quanto ‘scuola’, cioè a dire la necessità corale dell’amicizia, che non può scompagnarsi dall’amore cortese” (Contini) si trasforma nel poema nell’amore fraterno che segna la “renovatio” moderna; il desiderio di evasione diventa anelito a una compiuta libertà dell’arbitrio e della parola che liberamente è “quasi come per sé stessa mossa”. La memoria del cominciare delle “nove rime” è ben presente nella zona del poema (a partire dal terremoto che scuote la montagna) dove più che in ogni altra prevalgono i temi del sesto stato dell’Olivi, che è stato di novità. È questo solo un modo di interpretare la propria poetica a tanti anni di distanza, oppure anche quell’inizio, apparentemente spontaneo, mischiò le sue acque con il grande fiume della teologia dell’Olivi, lettore della materia a Santa Croce nei tre anni che precedettero la morte di Beatrice?
Tab. 8.2
Rime, 9 [LII]Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io
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Guido Cavalcanti, XXXVIII [xxxix]S’io fosse quelli che d’amor fu degno,
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Purg. XXI, 16-33, 58-69Poi cominciò: “Nel beato concilio
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[LSA, prologus, notabile VII] Secunda (ratio) est eius singularis et exemplaris vita, quam apostolis imposuit et in se ipso exemplavit et in libris evangelicis sollempniter scribi fecit. Huius autem vite perfecta imitatio et participatio est et debet esse finis totius nostre actionis et vite.[LSA, cap. VI, Ap 6, 12 (IIa visio, apertio VIi sigilli)] Ad evidentiam autem huius sexte apertionis est primo ad memoriam reducendum quod supra in principio est in tredecim notabilibus prenotatum, et specialiter illa in quibus est monstratum quia vita Christi erat in sexto et septimo statu ecclesie singulariter glorificanda et in finali consumatione ecclesie et in omnis Israelis ac totius orbis conversione magnificanda. Ex quo igitur, per romane ecclesie autenticam testificationem et confirmationem, constat regulam Minorum, per beatum Franciscum editam, esse vere et proprie illam evangelicam quam Christus in se ipso servavit et apostolis imposuit et in evangeliis suis conscribi fecit, et nichilominus constat hoc per irrefragabilia testimonia librorum evangelicorum et ceterarum scripturarum sanctarum et per sanctos expositores earum, prout alibi est superhabunde monstratum, constat etiam hoc per indubitabile testimonium sanctissimi Francisci ineffabili sanctitate et innumeris Dei miraculis confirmatum. Et precipue gloriosissimis stigmatibus sibi a Christo impressis patet ipsum fore angelum apertionis sexti signaculi “habentem signum Dei vivi”, signum scilicet plagarum Christi crucifixi, et etiam signum totalis transformationis et configurationis ipsius ad Christum et in Christum. Et hoc ipsum per claram et fide dignam revelationem est habitum, prout a fratre Bonaventura, sollempnissimo sacre theologie magistro ac nostri ordinis quondam generali ministro, fuit Parisius in fratrum minorum capitulo me audiente sollempniter predicatum. |
9. ‘Pusilli’ e ‘grandi’
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Fra i tanti temi della Lectura trasformati dalla poesia, si noti, dall’esegesi della settima tromba (Ap 11, 18), quello dei santi “grandi” – profeti e dottori – e “pusilli”, che ricevono mercede (sono “i minori e ’ grandi / di questa vita” dei quali dice Cacciaguida a Par. XV, 61-63). È tema appropriato in modo disgiunto sia a Francesco, che “nel suo farsi pusillo” meritò di essere tratto “a la mercede” (Par. XI, 109-111), come a Domenico, che “in picciol tempo gran dottor si feo” (Par. XII, 85; la virtù infusa nella mente di Domenico nel grembo materno “lei fece profeta”: vv. 58-60). Il verbo fare (“suo farsi”, “si feo”) è comune a entrambi, secondo le parole di Cristo: “Chi opererà e insegnerà, costui sarà considerato grande nel regno dei cieli” (Matteo, 5, 19). Da notare come “pusillo”, forte latinismo hapax nel poema, sia contestualmente accompagnato da “mercede”, elemento presente anche nella ristretta porzione di esegesi oliviana (fenomeno che si verifica in centinaia di casi).
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Gioacchino da Fiore identifica (nell’Expositio) il cavallo pallido, che si mostra all’apertura del quarto sigillo (Ap 6, 7-8), con il regno dei Saraceni, che corrisponde per concordia al regno degli Assiri, i quali sotto il quarto sigillo dell’Antico Testamento devastarono e resero schiave le dieci tribù di Israele e quasi fecero lo stesso con il regno di Giuda, come all’apertura del quarto sigillo nel Nuovo Testamento furono devastate le chiese orientali – le nuove dieci tribù – e quasi la stessa sorte toccò alla chiesa latina, assimilata al regno di Giuda poiché, come in questo fu la vera e principale sede del culto divino (della vera lingua), così lo è nella chiesa latina o romana. Come allora, aggiunge Olivi, la tribù di Beniamino venne congiunta al regno di Giuda, così Paolo, della tribù di Beniamino, si congiunse in Roma con Pietro, che nel principato della fede fu un altro Davide e, tra gli apostoli, patriarca della nostra fede. Fu come il patriarca Giuda, al quale fu detto: “non sarà tolto lo scettro da Giuda” (Genesi 49, 10), poiché a lui Cristo disse: “io ho pregato per te, Pietro, perché non venga meno la tua fede” (Luca 22, 32.34) e “le porte degli inferi non prevarranno contro di essa”, contro cioè la Chiesa fermata sopra la tua fede (Matteo 16, 18).
La barca di Pietro, afferma Tommaso d’Aquino nel cielo del Sole (Par. XI, 118-121), fu degnamente mantenuta “in alto mar per dritto segno” da due ‘colleghi’, Francesco e Domenico. Chiama Domenico “il nostro patrïarca”, appellativo che nell’esegesi scritturale è dato a Pietro, nuovo Giuda patriarca della fede tra gli apostoli, la fede che Domenico sposò e per la quale combatté contro il mondo errante. Non è espresso nei versi, ma si può dedurre, che Francesco sia da assimilare a Beniamino e a Paolo, apostolo delle genti – il “tuo caro frate / che mise teco Roma nel buon filo”, come dice Dante a san Pietro a Par. XXIV, 61-63. -
Le parole dell’Aquinate che seguono, relative all’essersi il proprio Ordine allontanato dagli insegnamenti di Domenico, rinviano all’esegesi di due delle dodici tribù d’Israele dalle quali provengono i 144.000 segnati dell’esercito di Cristo che guidano la folla innumerevole alle fonti delle acque della vita (Ap 7, 3-17). La prima è la tribù di Aser (IV): «beatus … pinguis … “beatus vir qui timet Dominum, in mandatis eius” (Salmo 111, 1) – per che qual segue lui, com’ el comanda … Ben son di quelle che temono ’l danno … “U’ ben s’impingua, se non si vaneggia”» (Par. XI, 122, 130, 139) [1]. La seconda è la tribù di Isachar (IX): «vidit requiem quod esset bona, et terram quod optima, et subposuit humerum suum ad portandum, scilicet omne honus propter illam – discerner puoi che buone merce carca» (Par. XI, 123). A Isachar rinviano anche versi relativi a Gerione e ai Malebranche nella quinta bolgia dei barattieri (Inf. XVII, 40-42; XXI, 34-42).
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Le “vagabunde” (hapax) pecore domenicane, sparse “per diversi salti … remote” (Par. XI, 124-129), sono come il giovane “vagus” perduto in una terra lontana di cui parla Cristo in Luca 15, 13. Nel sesto stato della Chiesa, quello più conforme a Cristo, l’opposta “difformitas et semotissima extraneitas” da Cristo (e da chi guida il suo esercito) è indice di massima chiusura del sesto sigillo, quello che apre, nella storia, le maggiori illuminazioni spirituali (ad Ap 5, 1).
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Ma Tommaso, che si trova nella ghirlanda che “vagheggia” Beatrice (il verbo dà un significato positivo al “vagus” di Ap 5, 1), è “de li agni de la santa greggia / che Domenico mena per cammino / u’ ben s’impingua se non si vaneggia … Ben parve messo e famigliar di Cristo (Par. X, 94-96; XII, 73). Nel sesto stato, questa manifesta appartenenza alla famiglia e al gregge che Cristo conduce si oppone all’apparente inimicizia per la quale Dio ha voluto che il suo unico figlio si conciliasse con l’uomo esclusivamente per mezzo di tanta sofferenza (ad Ap 5, 1).
Il motivo dell’apparente inimicizia – la sesta causa per cui la prudenza umana tiene chiuso il libro segnato da sette sigilli (ad Ap 5, 1) – è nel ripensare del poeta al parlare di Farinata che, nel preannunziargli l’esilio, “mi parea nemico” (Inf. X, 121-123). Così il tanto patire voluto da Dio nei confronti del Figlio è nella preghiera delle tre virtù teologali a Beatrice perché sveli la sua bocca volgendo gli occhi santi al suo fedele che, per vederla, “ha mossi passi tanti”: il ‘passo’, qui come spesso altrove nel poema, assume valore di patimento e di prova (Purg. XXXI, 133-135). Il tema è amaramente appropriato al maestro Brunetto Latini, il quale – nella “schiera” dei sodomiti, “cotal famiglia” e “greggia” (Inf. XV, 16, 22, 37) -, non appartiene alla singolare famiglia e al domestico gregge delle pecore di Cristo da ascrivere alla gloriosa milizia dei segnati nella sesta apertura.
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Nella penultima terzina di Par. XI (133-135), nelle parole di Tommaso a Dante, l’attento ascoltare (“audienza” è hapax) , e il richiamare alla memoria quanto detto, conducono all’invito fatto al vescovo di Sardi, la quinta chiesa d’Asia della prima visione (Ap 3, 3; cfr. infra).
[1] Cfr. I. BALDELLI, Paradiso, Canto XI, in ID., Studi Danteschi, a cura di L. SERIANNI e U. VIGNUZZI, Spoleto 2015 (Medioevo Francescano. Saggi, 16), pp. 335-354: 338. S’impingua è “parasinteto verbale, intensamente realistico, costruito su pingue, forse creato dallo stesso Dante”. Ma impinguativus è nell’esegesi di Ap 1, 14: “Per que designatur quod Christi sapientia est partim nobis condescensiva et sui ad nos contemperativa nostrique fomentativa et sua pietate calefactiva, partim autem est a nobis abstracta et nobis rigida nimisque intensa, nostrarumque sordium purgativa nostreque hereditatis impinguativa”.
Tab. 9
Par. XI, 109-111; XII, 58-60, 85; XV, 61-63Quando a colui ch’a tanto ben sortillo
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[LSA, cap. XI, Ap 11, 18 (IIIa visio, VIIa tuba)] Unde pro iudicio premiandorum subdit: “et reddere mercedem”, scilicet glorie, “servis tuis prophetis”, id est sanctis maioribus qui aliquos docuerunt et rexerunt, “et sanctis et timentibus nomen tuum”, id est sanctis minoribus. Vel hoc secundum dicit communiter pro omnibus sanctis, quos subdividit in maiores et minores dicens: “pusillis et magnis”. Vel, secundum Ricardum, hoc exponendo subiunxit*. Nam le “pusillis” correspondet “timentibus”, et le “magnis” dicitur pro “prophetis”, id est pro sanctis doctoribus, secundum illud Matthei V°: “Qui fecerit et docuerit, hic magnus vocabitur in regno celorum” (Mt 5, 19).* In Ap III, viii (PL 196, col. 796 D). |
Par. XI, 118-121Pensa oramai qual fu colui che degno
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[LSA, cap. VI, Ap 6, 7-8 (IIa visio, apertio IVi sigilli)] Et hinc est quod abbas Ioachim dicit per equum pallidum intelligi reg[num] Sarracenorum, cui per concordiam [correspondet] regnum Assiriorum, sub quarto signaculo veteris testamenti devastans et captivans regnum decem tribuum Israel et fere regnum Iude, sicut sub apertione quarti sigilli vastate sunt quasi decem tribus ecclesiarum orientalium* et fere ecclesia latina, que assimilata est regno Iude, quia sicut ibi fuit vera et principalis sedes divini cultus sic est et in ecclesia latina seu romana. Sicut etiam tribus Beniamin fuit tunc iuncta regno Iude, sic Paulus de tribu Beniamin est in Roma iunctus Petro, qui in principatu fidei fuit alter David et inter apostolos nostre fidei patriarcha. Fuit quasi Iudas patriarcha, cui dictum est: “Non auferetur sceptrum de Iuda” (Gn 49, 10), sicut et Petro dixit Christus: “Ego pro te rogavi, Petre, ut non deficiat fides tua” (Lc 22, 32.34) et quod “porte inferi non prevalebunt adversus” ecclesiam super tua fide fundatam (Mt 16, 18).* Expositio, pars II, f. 116ra. |
Par. XI, 122-123, 130-132, 138-139per che qual segue lui, com’ el comanda,
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IX. Isachar [LSA, cap. VII, Ap 7, 7 (IIa visio, apertio VIi sigilli)] Nono exigitur assidua et fervens suspiratio ad mercedem eterne glorie omni servituti Dei et suorum se subiciens pro illa, et hanc designat Isachar, qui interpretatur merces, de quo dicit Iacob: “Isachar asinus fortis; vidit requiem quod esset bona, et terram quod optima, et subposuit humerum suum ad portandum”, scilicet omne honus propter illam, “factusque est tributis serviens” (Gn 49, 14-15).Inf. XVII, 40-42; XXI, 34-42Li tuoi ragionamenti sian là corti;
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Par. XI, 124-129Ma ’l suo pecuglio di nova vivanda
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[LSA, cap. V, Ap 5, 1 (radix IIe visionis)] Prima (causa) est quia septem sunt defectus in nobis claudentes nobis intelligentiam huius libri. […] Sextus est ad omnia spiritualiora et deiformiora opposita difformitas et semotissima extraneitas, propter quod adolescens vagus dicitur a Christo abisse in regionem longinquam (Lc 15, 13), et de filiis vagis dicitur Isaie I° quod “[ab]alienati sunt retrorsum” (Is 1, 4), et in Psalmo dicitur: “Quomodo cantabimus canticum Domini in terra aliena?” (Ps 136, 4), scilicet in Babilone, que confusio interpretatur; et Baruch III° dicitur: “Quid est, Israel, quod in terra inimicorum es; inveterasti in terra aliena?” (Bar 3, 10-11). |
Par. XI, 133-139Or, se le mie parole non son fioche,
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[LSA, cap. III, Ap 3, 3 (Ia visio, Va ecclesia)] “In mente ergo habe” (Ap 3, 3), id est attente recogita, “qualiter acceperis”, scilicet a Deo priorem gratiam, “et audieris”, ab homine scilicet per predicationem evangelicam, “et serva”, scilicet illa que per predicationem audisti et per influxum gratie a Deo primitus accepisti. Vel recogita qualiter per proprium consensum accepisti fidem et gratiam et statum eius, prout a me et a ceteris tibi predicantibus audivisti. “Et serva” ea “et penitentiam age”, scilicet de tuis malis, quasi dicat: si digne recogitaveris gratiam tibi prius impensam et qualiter prius accepisti eandem, servabis eam et penitentiam ages. |
[LSA, cap. V, Ap 5, 1 (VIum sigillum)] Secunda causa seu ratio septem sigillorum libri est quia in Christo crucifixo fuerunt septem secundum humanum sensum et estimationem abiecta, que claudunt hominibus sapientiam libri eius.
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Inf. X, 121-123Indi s’ascose; e io inver’ l’antico
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Purg. XXXI, 133-135“Volgi, Beatrice, volgi li occhi santi”,
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[LSA, cap. XIV, Ap 14, 4 (IVa visio, VIum prelium)] Unde et sextum preconium prerogative ipsorum est indivisibilis et indistans ipsorum ad Christum familiaritas, propter quod subditur: “Et sequuntur Agnum quocumque ierit”. Quantum unusquisque Deum imitatur et participat, in tantum sequitur eum. Qui ergo pluribus et altioribus seu maioribus perfectionibus ipsum imitantur et possident altius et multo fortius ipsum sequuntur. Qui ergo secundum omnes sublimes et supererogativas perfectiones mandatorum et consiliorum Christi ipsum prout est hominibus huius vite possibile participant, “hii sequuntur Agnum quocumque ierit”, id est ad omnes actus perfectionum et meritorum ac premiorum eis correspondentium, ad quos Christus tamquam dux et exemplator itineris ipsos deducit.
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10. Secoli in forma di lettere: «U ’ ben s’impingua, se non si vaneggia».
Nell’esegesi del capitolo XX, Olivi riferisce vari modi di computo in relazione ai mille anni nei quali il diavolo sta incatenato nell’abisso, rilevando come non abbiano in sé nulla di certo e servano solo a mostrare, con i testi scritturali, che a partire dal sesto e dal settimo stato il giudizio finale si può considerare imminente e come alle porte. Gioacchino da Fiore, ad esempio (nell’opera De semine scripturarum, che gli veniva attribuita), afferma che la lingua degli Ebrei rimase nella casa di Eber, dopo la confusione babilonica delle lingue, per ventidue secoli fino a Cristo, numero che corrisponde alle ventidue lettere dell’alfabeto ebraico. È da notare come il numero ventidue compaia nell’Inferno per designare l’estensione in miglia della nona bolgia, che è quella dei seminatori di scandalo e di scisma dove prevalgono i temi del terzo stato dei dottori che scindono e tagliano con la spada le eresie, prefigurate nell’Antico Testamento dalla divisione babilonica dell’unica e vera lingua (Inf. XXIX, 8-9; diversamente, la presenza di questo numero sarebbe del tutto arbitraria).
Allo stesso modo, secondo le ventitré lettere dell’alfabeto latino, trascorreranno ventitré secoli dalla fondazione di Roma, principale sede dei Latini e della Chiesa di Cristo, depositaria anch’essa, come la casa di Eber, dell’unica e vera lingua, cioè dell’unica e vera fede. Ciò è prefigurato in Daniele, allorché l’angelo dice: “Fino a duemilatrecento sere e mattine: poi il santuario sarà purificato” (Dn 8, 14). Se si considerano i giorni come anni, si ottengono ventitré secoli. Al tempo di Daniele (secondo il computo dato da Olivi) erano trascorsi cento anni dalla fondazione di Roma, per cui il profeta si trovava nel secondo centenario designato con la lettera b. Il primo secolo iniziò al tempo della cattività delle dieci tribù, allorché il santuario di Dio iniziò ad essere profanato.
Cristo venne nell’ottavo centenario designato con h, la quale non è propriamente una lettera, ma una “aspirationis nota”, perché venne, concepito e nato da una vergine, non per opera umana ma per ispirazione dello Spirito Santo (sono da ricordare le parole di Dante a Bonagiunta: “I’ mi son un che, quando / Amor mi spira, noto”, Purg. XXIV, 52-53).
Il XIII secolo, al termine del quale Olivi scrive la Lectura, è designato con u, poiché si pronuncia aspirando sull’estremo delle labbra, e alla fine del secolo Babylon, la Chiesa carnale, spirerà (cfr. la citazione del salmo 50, 17 – “Labïa mëa, Domine” – a Purg. XXIII, 10-12; poco prima, nel medesimo girone dei golosi purganti, la voce che esce dalle fronde dell’albero capovolto utilizza, a Purg. XXII, 145-148, alcune parole dell’esegesi accostando “le Romane antiche” a “Danïello”).
Non sono forse estranee a tale senso le parole di Folchetto da Marsiglia che concludono Par. IX, profetando un “Uaticano” (tale la grafia nei codici) presto liberato dall’adulterio della Chiesa carnale. “Uaticano” (il cimitero di san Pietro), come “Laterano”, è parola formata da quattro sillabe ed allude alle mura quadrate, designanti i martiri e i difensori della fede, della Gerusalemme celeste, che in terra fu “templo / che si murò di segni e di martìri” (Par. XVIII, 122-123).
Il secolo seguente – il XIV –, nel quale verrà rinnovata ed esaltata la croce di Cristo, è designato con x, cioè con una lettera che ha forma di croce, la quale venne introdotta da Augusto al tempo della venuta di Cristo.
Ad essa faranno seguito le lettere che i Latini presero dai Greci, designanti la dilatatio della Chiesa ai Greci e a tutte le genti.
Nel cielo del Sole, Tommaso d’Aquino parla utilizzando con frequenza (per sei volte; Bonaventura, l’altro oratore, lo usa due volte: otto occorrenze sulle sedici nel poema) l’avverbio della parlata toscana (non fiorentina) u’ (che sta per ‘dove’): i due campioni della Chiesa, Francesco e Domenico, sono appunto venuti nel XIII secolo, il secolo designato con u, “a mantener la barca / di Pietro in alto mar per dritto segno” (da notare l’accostamento di “in ultimo labiorum” con “l’ultima parola” dell’Aquinate a Par. XII, 1).
Al cielo del Sole succede quello di Marte, nel quale Dante vede una croce greca (“il venerabil segno / che fan giunture di quadranti in tondo”), che designa “chi prende sua croce e segue Cristo” (Par. XIV, 100-108): dalla croce trascorre in giù Cacciaguida, il quale profetizza a Dante l’esilio che, datato al 1302, si colloca nel XIV secolo.
Poi, nel cielo di Giove, i lumi volano cantando e formando dapprima le lettere D, I, L, l’inizio di trentacinque fra vocali e consonanti che successivamente si precisano nella scritta “Diligite iustitiam, qui iudicatis terram” (Sap 1, 1), ma che sono anche le prime tre lettere della parola “dilatatio” (Par. XVIII, 76-78). Le lettere, insieme ad altre luci, si trasformano nella figura di un’aquila nel cui occhio rifulgono David come pupilla, circondato dalle luci di Traiano, Ezechia, Costantino, Guglielmo II il Buono e Rifeo troiano. Gentili (Rifeo, Traiano), e Israele antico (David, Ezechia) e nuovo (Costantino, Guglielmo II), l’ultimo a convertirsi.
Trattando ad Ap 13, 18 del “numero del nome” della bestia – il DCLXVI (“sescenti sexaginta sex”) – Olivi, osservato che in greco i numeri si indicano per mezzo delle lettere dell’alfabeto e che il numero di un nome è il totale delle lettere, asserisce che esistono solo tre nomi greci corrispondenti al DCLXVI: Antemos (“contrarius”), Arnoyme, Teitan. Il nome latino è “diclvx”, scomponendo il numero della bestia in sei numeri corrispondenti a lettere: D (cinquecento), I (uno), C (cento), L (cinquanta), V (cinque), X (dieci) [Sull’argomento cfr. «Un cinquecento diece e cinque» (Purg. XXXIII, 43)].
Olivi osserva ancora che se a “diclvx” si aggiungono due lettere – “or” – si ottengono due espressioni, cioè “dicor lvx” e “doli crvx”. Rinvia quindi per ulteriori chiarimenti ad una delle sue Quaestiones de perfectione evangelica. La quaestio interessata riguarda la possibilità che nella professione di povertà evangelica e apostolica si possa lecitamente vivere dei possessi e dei redditi affidati dal papa o dai principi temporali a dei procuratori stabiliti, in modo che a coloro che hanno fatto voto di povertà non spetti né la proprietà né il diritto d’uso ma solo il semplice uso connesso alla sussistenza quotidiana. Olivi si scaglia con veemenza contro questa posizione, ritenendola dolosa e fallace, anzi identificabile con lo stesso Anticristo mistico. Spiega così che dal numero della bestia si può trarre il falso nome “dicor lux”, che indica l’ipocrita presentarsi dell’Anticristo come luce del mondo, e insieme il vero nome “doli crux”, cioè croce dolosa. Le due lettere non numerali aggiunte – O e R – hanno anch’esse un proprio significato, falso e ipocrita (“omnium resurrectio”, “omnium reparatio”), oppure verace (“omnium ruina”, “omnium retrogradatio”, “omnium rabies”). Un ulteriore significato di OR è “aurum”, nel senso in cui Pietro dichiarò di non averne e Cristo proibì di possederne.
Da notare che le tre lettere D, I , L sono congiunte con l’avverbio or (letteralmente: ora, ma riferito a “omnium resurrectio”) e che esse sono “come augelli surti di rivera”, come pure “resurger parver quindi più di mille / luci e salir” a formare l’aquila (Par. XVIII, 73, 76-78, 103-104). Or ha dunque un valore positivo, secondo un metodo che trasforma in un senso di prossimo rinnovamento luoghi che nel testo dell’Apocalisse vengono appropriati a figure o a situazioni negative.
Il valore negativo si trova in principio di Purg. XXXIII, quando le sette virtù alternano “or tre or quattro” il Salmo 78, “Deus, venerunt gentes”. Il significato più idoneo, in questo caso, è quello di “omnium ruina”, considerato che si tratta appunto della rovina di Gerusalemme.
Nelle “parole … gravi” pronunciate dal poeta nella terza bolgia contro il simoniaco Niccolò III, or serve, tramite allitterazioni, a rinfacciare al papa Orsini quanto detto da Cristo e da Pietro sul possesso di oro e argento: “Deh, or mi dì: quanto tesoro volle / Nostro Segnore in prima da san Pietro / ch’ei ponesse le chiavi in sua balìa? / Certo non chiese se non ‘Viemmi retro’ (ma Niccolò III è andato dietro nel senso della retrogradatio, cioè del cadere in giù nelle fessure della pietra). / Né Pier né li altri tolsero a Matia / oro od argento, quando fu sortito (or nel senso di “omnium resurrectio”) / al loco che perdé l’anima ria” (Inf. XIX, 90-96).
Tab. 10
11. La “voce di molte acque”
Una delle norme su cui si fonda il rapporto tra Commedia e Lectura super Apocalipsim consiste nel fatto che più luoghi della Lectura possono essere collazionati tra loro, secondo un procedimento analogico tipico delle “distinctiones” ad uso dei predicatori [1]. La scelta non è arbitraria. Vi predispone lo stesso testo scritturale, poiché l’Apocalisse contiene espressioni, come Leitmotive, che ritornano più volte. È determinata da parole-chiave che collegano i passi da collazionare. È suggerita dallo stesso Olivi, nel prologo, per una migliore intelligenza del testo. La “mutua collatio” di parti della Lectura arricchisce il significato legato alle parole e consente uno sviluppo tematico.
La parola-chiave vox collega alcuni passi dell’esegesi apocalittica oliviana: Ap 1, 10-12 (la voce udita da Giovanni dietro le spalle); 1, 15; 14, 2; 19, 6 (tre luoghi connessi per l’espressione: vox aquarum multarum); poi ancora 14, 2 (la voce dei suonatori d’arpa). A questi gruppi tematici fanno riferimento (nel senso che sollecitano verso di essi la memoria del lettore consapevole) numerosi luoghi della Commedia. Fra questi sono i versi che descrivono la concorde danza delle due ghirlande di spiriti sapienti (Par. XII, 1-9, 19-27), oltre ad altri luoghi, contigui o distanti.
Le tabelle relative sono state spiegate altrove: Tab. 11.1 – Tab. 11.2 – Tab. 11.3.
[1] Sulle distinctiones cfr. L.-J. BATAILLON, Les images dans les sermons du XIIIe siècle, in “Freiburger Zeitschrift für Philosophie und Theologie”, 37/3 (1990), pp. 327-395; The Tradition of Nicholas of Biard’s Distinctiones, in “Viator. Medieval and Renaissance Studies”, 25 (1994), pp. 245-288.
Tab. 11.1
[LSA, cap. XIV, Ap 14, 2 (IVa visio, VIum prelium)] Quarto erat suavissima et iocundissima et artificiose et proportionaliter modulata, unde subdit: “et vocem, quam audivi, sicut citharedorum citharizantium cum citharis suis”.
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Par. X, 7-12, 43-45, 139-148Leva dunque, lettore, a l’alte rote
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[LSA, cap. V, Ap 5, 9 (radix IIe visionis)] Si pulsatio et resonantia cithare in hoc cantico includatur, tunc designat omnium virtutum affectus et actus pulsari et resonare cum iubilo huius laudis. Plena enim seu perfecta iubilatio pulsat omnes virtutes et ex omnibus trahit resonantiam laudis. Quelibet enim virtus est una corda cithare, id est mentis iubilative. Per citharam etiam designatur scriptura sacra, vel tota universitas divinorum operum, quorum cordas varias contemplativi tangunt et pulsant et ex eis divine laudis iubilum formant: quot modi autem sunt tangendi tot sunt modi iubilandi et cantandi.[LSA, cap. V, Ap 5, 8 (radix IIe visionis)] Phiale [igitur] iste sunt corda sanctorum per sapientiam lucida, per caritatem dilatata, et per contemplationem splendidam et flammeam aurea, et per devotarum orationum redundantiam odoramentis plena. Sicut enim odoramenta per ignem elicata sursum ascendunt totamque domum replent suo odore, sic devote orationes ad Dei presentiam ascendunt et pertingunt, eique suavissime placent et etiam toti curie celesti et subcelesti. Sicut [etiam] diffusio odoris spiratur invisibiliter ab odoramentis, sic devote affectiones orantium spirantur invisibiliter et latissime diffunduntur ad varias rationes dilecti et ad varias rationes sancti amoris, prout patet ex multiformi varietate sanctorum affectuum qui exprimuntur et exercentur in psalmis.
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Tab. 11.2
Tab. 11.3
[LSA, cap. I, Ap 1, 16 (Ia visio)] Octava (perfectio summo pastori condecens) est potestativa presidentia et continentia non solum ecclesiarum sed etiam suorum rectorum, unde subdit: “et habebat in dextera sua septem stellas” (Ap 1, 16), per quas ut infra dicetur (cfr. Ap 1, 20) designantur septem episcopi ecclesiarum. Episcopus enim debet sic super ecclesiam sibi subiectam lucere et presidere sicut lux lucerne stabat quasi stella super candelabrum sanctuarii (cfr. Ex 25, 37). Sicut etiam inferiora illuminantur et reguntur per stellas, sic ecclesie per sanctos episcopos.Par. XI, 13-18Poi che ciascuno fu tornato ne lo
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[LSA, cap. III, Ap 3, 12 (Ia visio, VIa victoria] Columpna autem, sic stans, est longa et a fundo usque ad tectum erecta et solida ac sufficienter densa, et rotunda communiter vel quadrata, et firmiter fixa templique sustentativa et decorativa. Sic autem stat in Dei ecclesia vel religione vir evangelicus Christo totus configuratus, sic etiam suo modo stat in celesti curia. […] Et attende quomodo a Deo incipiens et in eius civitatem descendens, reascendit et finit in se ipsum, quia contemplatio incipit in Deo et per Dei civitatem ascendit in Christum eius regem, in quo et per quem consumatissime redit et reintrat in Deum, et sic fit circulus gloriosus. |
12. Risplendere sorridendo
All’esegesi di Ap 1, 16-17 (decima e undecima perfezione di Cristo sommo pastore), relativa allo spendore del volto di Cristo che si imprime in chi riceve la visione, generando oblio e tremore, fa riferimento, in più luoghi del poema, il sorridere (ad esempio di Tommaso d’Aquino, a Par. XI, 16-21, uno dei punti in cui la poesia, secondo Ignazio Baldelli, è “musica della luce”; ridere, sorridere corrispondono allo “splendor faciei” di Cristo).
La tabella 12.1 è stata spiegata altrove.
Tab. 12.1
[LSA, cap. I, Ap 1, 16-17 (radix Ie visionis)] Decima (perfectio summo pastori condecens) est sue claritatis et virtutis incomprehensibilis gloria, unde subdit: “et facies eius sicut sol lucet in virtute sua”. Sol in tota virtute sua lucet in meridie, et precipue quando aer est serenus expulsa omni nube et grosso vapore, et quidem corporalis facies Christi plus incomparabiliter lucet et viget. Per hoc tamen designatur ineffabilis claritas et virtus sue divinitatis et etiam sue mentis. Splendor etiam iste sue faciei designat apertam et superfulgidam notitiam scripture sacre et faciei, ita quod in sexta etate et precipue in eius sexto statu debet preclarius radiare. In cuius signum Christus post sex dies transfiguratus est in monte in faciem solis (cfr. Mt 17, 1-8), et sub sexto angelo tuba canente videtur angelus habens faciem solis et tenens librum apertum (cfr. Ap 10, 1-2).
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[LSA, cap. I, Ap 1, 7 (Salutatio)] “Et videbit eum omnis oculus”, scilicet bonorum et malorum. Non quod eius deitatem videant, sed corpus assumptum in quo omnibus visibiliter et manifeste apparebit. Unde Matthei XXIIII° dicitur: “Sicut fulgur exit ab oriente et apparet in occidente, ita erit adventus Filii hominis” (Mt 24, 27). Per hoc autem monstrat eum iudicaturum omnes tam bonos quam malos.[LSA, cap. IV, Ap 4, 5 (radix IIe visionis)] “Et de trono procedebant” (Ap 4, 5), vel secundum aliam litteram “procedunt”, “fulgura et voces et tonitrua”, quia tam a Deo quam ab eius ecclesia et quam a sanctis, qui sunt sedes Dei, procedunt “fulgura” miraculorum, quorum claritas longe lateque coruscat sicut fulgura discurrentia; et “voces” rationabilis ac temperate predicationis, “et tonitrua” terribilium comminationum, vel tonitrua altiorum et spiritualium documentorum, que competunt perfectioribus. Voces enim in terra fiunt, tonitrua vero in celo seu ethere, vocesque sunt modice respectu tonitruorum. |
[LSA, cap. VIII, Ap 8, 5 (radix IIIe visionis)] “Et facta sunt tonitrua” (Ap 8, 5), scilicet illius altioris doctrine quam Apostolus loquebatur solis perfectis, vel “tonitrua” grandium comminationum; “et voces”, scilicet doctrine rationalis et quasi humane; “et fulgura”, scilicet coruscantium et stupendorum miraculorum, vel superfervidorum eloquiorum sic penetrantium et scindentium et incendentium corda sicut fulgur terrena penetrat et scindit, vel “fulgura” iudiciorum terribilium, ut cum Ananias et Saphira repente occisi sunt ad sententiam Petri, prout scribitur Actuum quinto (Ac 5, 1-11).[LSA, cap. XI, Ap 11, 19 (radix IVe visionis)] […] “et voces”, id est et suaves ac rationabiles persuasiones et predicationes sunt facte. |
Par. X, 58-69come a quelle parole mi fec’ io;
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Par. XI, 16-21E io senti’ dentro a quella lumera
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13. L’essercito di Cristo
L’angelo del sesto sigillo (Ap 7, 2) rimuove un impedimento (i quattro angeli nocivi che tengono i quattro venti: Ap 7, 1), dopo di che il segno è posto sulla fronte, non vergognosa e gravata di viltà ma liberamente magnanima, degli eletti amici di Dio, difensori della fede fino al martirio da lui conosciuti per nome e ascritti alla più alta milizia dei baroni, dei decurioni, dei cavalieri che si distingue da quella volgare dei fanti. I cavalieri, configurati in Cristo crocifisso, designati dai 144.000 segnati eletti dalle dodici tribù d’Israele (Ap 7, 3-6), guidano la “turba magna, quam dinumerare nemo poterat” dei fedeli al trono dell’Agnello attraverso le grandi tribolazioni (Ap 7, 13-17).
Fra gli scritti di “direzione spirituale” di Olivi, il Miles armatus è un manuale per sfuggire i lacci e i pericoli degli ultimi tempi, nei quali i generosi cavalieri devono prepararsi al combattimento prima che, all’imminente apertura del sesto sigillo, il sole e la luna si oscurino, le stelle cadano dal cielo, un violento terremoto faccia muovere monti e isole, secondo quanto scritto dal frate provenzale nel 1295 ai figli di Carlo II d’Angiò prigionieri degli Aragonesi [1]. Espressione significativa dell’assunzione da parte della spiritualità francescana dell’allegoria militare, forse anche per un’influenza degli scritti in materia tattico-strategica del tempo [2], il Miles armatus sarà ripreso, in tutt’altro contesto storico e spirituale, da Bernardino da Siena nel De pugna et saccomanno Paradisi sive caelestis Jerusalem [3].
Questa esegesi, nella quale il sesto stato corrisponde agli ultimi sei anni della costruzione del Tempio dopo la cattività in Babilonia, è una sacra sinfonia militare i cui temi trascorrono in più luoghi: dalla “signatio” poetica di Dante, amico di Beatrice, per la quale “uscì … de la volgare schiera” e “sesto tra cotanto senno” nella schiera dei sommi poeti del Limbo, alla “signatio” apostolica nelle virtù teologali di fronte a Pietro, Giacomo e Giovanni; dall’impossibile amicizia con Dio di Francesca e Paolo (anch’essi in una schiera) alle famiglie fiorentine, menzionate da Cacciaguida, che portano la “bella insegna” del marchese Ugo di Toscana, assunte a una milizia più alta rispetto a Giano della Bella, l’autore dei famosi Ordinamenti di giustizia (1293) anch’egli di essa insignito (la quale “fascia col fregio”), ma che oggi si raduna col popolo, corrispondente alla volgare e pedestre milizia che viene dopo i segnati. Questi eletti ‘sesti’ amati da Dio sono lo sviluppo sacro di coloro (De vulgari eloquentia, II, iv, 10-11) che Virgilio, nel sesto dell’Eneide, definisce “Dei dilectos”, i poeti tragici innalzati al cielo per ardente virtù (Aen., VI, 129-131: “Pauci, quos aequus amavit / Iuppiter”), designati dall’ “astripeta aquila”. La lettura dell’esegesi dell’angelo del sesto sigillo (che si estende ben oltre la parte relativa alla “signatio”) forse segnò la decisione di fare il viaggio, ascrivendo la poesia, in tutti i suoi stili, a un’alta milizia.
Qui di seguito sono riportate le tabelle, che sono state descritte altrove nei singoli significati. Scorrendole, non si mancherà di notare i tanti luoghi della Commedia che rinviano la memoria del lettore spirituale alla medesima esegesi di un passo dell’Apocalisse, utilizzata dunque in momenti diversi della stesura del poema (nella sinossi presentata sono stati toccati punti di almeno 25 canti, e altri potrebbero trovarsi). Si tratta di una costante che si ripete per molti altri passi della Lectura oliviana.
L’arte della memoria per parole-chiave non doveva servire soltanto agli Spirituali. Il fatto che gruppi di terzine numericamente corrispondenti, a diversi stadi della Commedia, contengano parole-chiave che conducono alla medesima pagina esegetica sembra indicare che queste parole, se dovevano essere per il lettore spirituale signacula mnemonici di un altro testo, erano per il poeta anche segni del numero dei versi, “luogo” dove collocare i medesimi signacula in forma e contesto diversi. Ap 7, 3-4 è solo un esempio, perché altri luoghi della Lectura si propongono a riaffermare la medesima norma.
Nel cielo del Sole, Bonaventura utilizza il tema dei ‘segnati’ introducendo la narrazione della vita di san Domenico. “L’essercito di Cristo, che sì caro / costò a rïarmar”, afferma il maestro dell’Olivi, “dietro a la ’nsegna / si movea tardo, sospeccioso e raro”. Dio provvide pertanto alla milizia, che era in forse, con i due campioni Domenico e Francesco (Par. XII, 37-45). Bonaventura ripete quello che Olivi scrive (Ap 7, 3) dello spirito che, negli uomini evangelici “tepefactus et quasi extinctus seu consopitus”, deve essere suscitato e riacceso per poter essere disposto e spinto a sostenere e vincere le fortissime tentazioni che insorgeranno con l’Anticristo. Tra gli spiriti sapienti della ghirlanda in cui parla san Bonaventura sono Illuminato da Rieti e Augustino d’Assisi, tra i primi seguaci di Francesco, che nel capestro della Regola si fecero amici di Dio. C’è anche Pietro Ispano (papa nel 1276 come Giovanni XXI), autore delle Summulae logicales che nel mondo rilucono in dodici libelli: il dodici fa parte della tematica dei segnati, provenendo questi dalle dodici tribù d’Israele ed essendo il loro numero 144.000, ossia dodici volte dodicimila (Par. XII, 130-135). Da notare ancora le rime “degno / segno” (Par. XI, 118/120), “ ’nsegna / degna” (Par. XII, 38/42), significanti la “dignitas signatorum”.
[1] Cfr. PIETRO DI GIOVANNI OLIVI, Scritti scelti, a cura di P. VIAN, Roma 1989 (Fonti cristiane per il terzo millennio, 3), pp. 145-169: 166-169 (traduzione italiana de Il Cavaliere armato).
[2] Cfr. F. CARDINI, Nel nome di Gesù. Bernardino da Siena e la battaglia mistica, Città di Castello 2012, p. 41.
[3] S. BERNARDINI SENENSIS Ordinis Fratrum Minorum Opera omnia, vol. II, Ad Claras Aquas, Quaracchi, Florentiae, 1950, Quadragesimale de christiana religione, sermo LXVI, pp. 452-471.
Tab. 13.1
[LSA, cap. VII, Ap 7, 3 (apertio VIi sigilli)] Clamat ergo (Ap 7, 3): “Nolite”, id est non audeatis; vel si ad bonos angelos loquitur, dicit “nolite” quia, ex quo ipse prohibuit, non debuerunt velle; “nocere”, scilicet per effrenatam temptationem vel per predicationis et gratie impeditionem, “terre et mari neque arboribus, quoadusque signemus servos Dei nostri in frontibus eorum”.
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Par. XXIV, 52-60, 115-117“Dì, buon Cristiano, fatti manifesto:
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Par. XV, 139-141, 148; XVI, 22-27, 40-42, 127-132, 148-150Poi seguitai lo ’mperador Currado;
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Tab. 13.2
Tab. 13.3
Tab. 13.4
[Ap 7, 3] Clamat ergo (Ap 7, 3): “Nolite”, id est non audeatis; vel si ad bonos angelos loquitur, dicit “nolite” quia, ex quo ipse prohibuit, non debuerunt velle; “nocere”, scilicet per effrenatam temptationem vel per predicationis et gratie impeditionem, “terre et mari neque arboribus, quoadusque signemus servos Dei nostri in frontibus eorum”.
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Purg. XXIV, 10-18 (4-6)
“Ma dimmi, se tu sai, dov’ è Piccarda; |
Par. XXV, 10-18
però che ne la fede, che fa conte |
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Purg. XXI, 19-24 (7-8)
“Come!”, diss’ elli, e parte andavam forte:
Inf. XVIII, 28-33 (10-11) come i Roman per l’essercito molto, |
Purg. XXXII, 16-24 (6-8)
vidi ’n sul braccio destro esser rivolto
Inf. XXXIII, 31-33 (11)
Con cagne magre, studïose e conte |
Par. XVI, 22-27 (8-9)
Ditemi dunque, cara mia primizia, |
[Ap 7, 3] Clamat ergo (Ap 7, 3): “Nolite”, id est non audeatis; vel si ad bonos angelos loquitur, dicit “nolite” quia, ex quo ipse prohibuit, non debuerunt velle; “nocere”, scilicet per effrenatam temptationem vel per predicationis et gratie impeditionem, “terre et mari neque arboribus, quoadusque signemus servos Dei nostri in frontibus eorum”.
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Par. XII, 37-42 (13-14) L’essercito di Cristo, che sì caro costò a rïarmar, dietro a la ’nsegna si movea tardo, sospeccioso e raro, quando lo ’mperador che sempre regna provide a la milizia, ch’era in forse, per sola grazia, non per esser degna |
Par. XVI, 40-42 (14)
Li antichi miei e io nacqui nel loco |
Par. XXV, 40-42 (14)
“Poi che per grazia vuol che tu t’affronti |
Inf. III, 52-60 (18-20)
E io, che riguardai, vidi una ’nsegna |
Par. XXIV, 52-60 (18-20)
“Dì, buon Cristiano, fatti manifesto:
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Par. XXV, 52-57 (18-19)
“La Chiesa militante alcun figliuolo |
Inf. X, 73-74 (25)
Ma quell’ altro magnanimo, a cui posta |
Inf. XXII, 73-75
Draghignazzo anco i volle dar di piglio
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Inf. IV, 100-102 (34); II, 103-105 (35)
e più d’onore ancora assai mi fenno, Disse: – Beatrice, loda di Dio vera, |
Purg. XIII, 103-105 (35)
“Spirto”, diss’ io, “che per salir ti dome, |
Par. VI, 100-105 (34-35)
L’uno al pubblico segno i gigli gialli Faccian li Ghibellin, faccian lor arte |
[Ap 7, 3] Clamat ergo (Ap 7, 3): “Nolite”, id est non audeatis; vel si ad bonos angelos loquitur, dicit “nolite” quia, ex quo ipse prohibuit, non debuerunt velle; “nocere”, scilicet per effrenatam temptationem vel per predicationis et gratie impeditionem, “terre et mari neque arboribus, quoadusque signemus servos Dei nostri in frontibus eorum”.
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Inf. II, 121-126 (41-42)
Dunque: che è? perché, perché restai,
Purg. XI, 133-135 (45)
“Quando vivea più glorïoso”, disse,
Purg. XXVII, 139-142 (47) Non aspettar mio dir più né mio cenno; |
Par. XVIII, 121-126
sì ch’un’altra fïata omai s’adiri
Par. XII, 130-135 (44-45) Illuminato e Augustin son quici,
Par. IX, 139-142 (47) Ma Vaticano e l’altre parti elette |
Par. XV, 139-141 (47)
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14. Le “novelle fronde” di Europa
■ In quella parte ove surge ad aprire / Zefiro dolce le novelle fronde (Par. XII, 46-47)
L’apertura del sesto sigillo, come detto ad Ap 6, 12, avviene in quattro tempi diversi. C’è un inizio profetico in Gioacchino da Fiore e forse in alcuni altri suoi contemporanei ai quali è stata rivelata la terza età generale del mondo, che contiene il sesto e il settimo stato. C’è un inizio in Francesco, padre e pianta del suo Ordine e della sua regola. Un altro inizio coincide con la nuova fioritura dovuta al risvegliarsi dello Spirito di Cristo in alcuni predicatori, nel momento in cui la regola francescana viene impugnata e condannata dalla Chiesa carnale. Il quarto inizio è segnato dalla distruzione di Babilonia ad opera dei dieci re, inizio per cui il sesto stato si distingue in modo chiaro dal quinto. Questi quattro inizi non sono in contraddizione, ma concordi fra loro. Così si verifica nei Vangeli: Luca inizia infatti dal sacerdozio di Zaccaria, al quale venne profeticamente rivelata la venuta di Cristo, e da Giovanni Battista, suo immediato precursore; Matteo inizia dall’umana generazione di Cristo, Marco dalla predicazione di Cristo e di Giovanni, Giovanni dall’eternità del Verbo e dall’eterna generazione. Così, nei profeti, si può trovare diversità di inizio nel computo dei settant’anni della cattività babilonese e della desolazione del Tempio ad opera dei Caldei, o delle settanta settimane di Daniele (Dn 9, 24).
Il primo inizio profetico del sesto stato, visto in spirito da Gioacchino da Fiore, è ricordato da Bonaventura nel cielo del Sole: “e lucemi dallato / il calavrese abate Giovacchino / di spirito profetico dotato” (Par. XII, 139-141).
Il secondo inizio si rispecchia nell’elogio di Francesco fatto da Tommaso d’Aquino nel cielo del Sole (Par. XI). Ma il tema della prima fioritura è da Dante appropriato a Domenico, come appare dalle parole di Bonaventura relative alla Spagna: “In quella parte ove surge ad aprire / Zefiro dolce le novelle fronde” (Par. XII, 46-47). Viene dunque estesa a Domenico la prerogativa di avere iniziato il sesto stato.
Il terzo inizio – la nuova fioritura operata dalla predicazione degli spirituali – è nel rinnovarsi e rifiorire del grande albero dell’Eden (Purg. XXXII, 52-60), ma anche nell’essere il poeta, dopo aver bevuto l’acqua dell’Eunoè, “rifatto sì come piante novelle / rinovellate di novella fronda, / puro e disposto a salire a le stelle” (Purg. XXXIII, 142-145).
Il quarto inizio – la distruzione storica di Babylon, con il terremoto che l’accompagna – non si realizza nel corso del viaggio, che la brucia virtualmente (ma cfr., a Purg. XX, come il terremoto che sconvolge la montagna sia segno della fine del regno di Francia). L’uccisione della prostituta da parte di “un cinquecento diece e cinque” è però profetizzato come imminente da Beatrice nell’Eden (Purg. XXXIII, 43-45). Nel Paradiso l’invettiva di Pier Damiani contro “li moderni pastori” è confermato dai lumi degli spiriti contemplativi con “un grido di sì alto suono”, preghiera di vendetta che ‘muove’ di stupore il poeta, proprio come in un terremoto interiore (Par. XXI, 136-142; XXII, 1-18).
Nei versi relativi all’albero dell’Eden si rinvengono altri fondamentali temi del sesto stato. Filadelfia, la sesta chiesa d’Asia, è interpretata sia come “amor fratris” che come “salvans hereditatem”, arca evangelica del seme della fede nel diluvio dell’Anticristo mistico e di quello aperto: «Così dintorno a l’albero robusto / gridaron li altri; e l’animal binato: / “Sì si conserva il seme d’ogne giusto”» (Purg. XXXII, 46-48; il passo di Matteo 3, 15 – “Sic enim decet nos implere omnem iustitiam” -, di solito citato come fonte, non reca in sé il tema del conservare il seme). Tipico della sesta chiesa, oltre al rinnovarsi, è avere la porta aperta; così “men che di rose e più che di vïole / colore aprendo, s’innovò la pianta” (ibid., 58-59). Ma rinnovamento ed eredità salvata non sono solo della Chiesa, rappresentata dall’ “albero robusto” perché, come afferma Beatrice, “non sarà tutto tempo sanza reda / l’aguglia che lasciò le penne al carro, / per che divenne mostro e poscia preda” (Purg. XXXIII, 37-39). Anche l’Impero partecipa della stessa indefettibilità della Chiesa, per cui non può mai estinguersi fino alla fine dei secoli, anche nei momenti in cui appare non esserci.
■ di che si vede Europa rivestire (Par. XII, 48)
Nella sesta delle sette coppe dell’ira divina, che vengono versate nella quinta visione, è esposto, fra gli altri, il tema del venire di Dio al giudizio con la subitaneità di un ladro, sottolineato dall’avverbio “ecce” e dal presente “venio” al posto del futuro ‘veniam’ per togliere ogni possibile stima dell’indugiare e per rendere più attenti, vigili e timorati: “Ecce venio sicut fur” (Ap 16, 15). Un passo simmetrico, di più ampia esegesi, si trova ad Ap 3, 3 nell’istruzione data alla chiesa di Sardi, la quinta delle sette chiese d’Asia alle quali Giovanni scrive nella prima visione. Il senso è che se il vescovo della chiesa di Sardi, accusato di essere negligente, intorpidito e ozioso, non vigilerà correggendosi, il giudizio divino verrà da lui come un ladro, che nel tempo notturno arriva di nascosto all’improvviso, senza che si sappia l’ora della venuta. Dalla collazione dei due passi deriva una rosa semantica che si riflette in molti luoghi del poema [cfr. Il sesto sigillo, 1d].
Qui si dà conto in breve unicamente dell’inciso, che si trova solo ad Ap 16, 15 – «“Beatus qui vigilat et custodit vestimenta sua”, scilicet virtutes et bona opera, “ne nudus ambulet”, id est virtutibus spoliatus; “et videant”, scilicet omnes tam boni quam mali, “turpitudinem eius”» -, articolato negli elementi vestimenta, virtutes, spoliatus, videant (il primo e il quarto del testo scritturale, il secondo e il terzo dell’esegeta).
A Inf. III, 112-114, la terzina descrive il volontario gettarsi nella barca di Caronte del “mal seme d’Adamo”: “Come d’autunno si levan le foglie / l’una appresso de l’altra, fin che ’l ramo / vede a la terra tutte le sue spoglie”. È da notare l’accostamento del vedere, appropriato al ramo, con lo spogliarsi, motivi non presenti nella reminiscenza virgiliana – “Quam multa in silvis autumni frigore primo / Lapsa cadunt folia …” (Aen. VI, 309-310) -, e che sono invece nell’esegesi di Ap 16, 15. L’estrema variazione del tema sarà a Par. XXVIII, 115-117: “in questa primavera sempiterna / che notturno Arïete non dispoglia” (l’Ariete è visibile di notte in autunno, di notte arriva il ladro a spogliare; ad Ap 3, 3 è esposto il tema paolino, dalla prima lettera ai Tessalonicesi 5, 2-3, del notturno sopravvenire del “fur” assimilato all’inopinato giudizio divino; partecipano i motivi, dalla settima visione, di Ap 21, 22-25, relativi alla Gerusalemme celeste che non conosce notte).
Nella selva dei suicidi, Pier della Vigna spiega che dopo la resurrezione i suicidi andranno anch’essi nella valle di Giosafat per riprendervi i propri corpi (le “nostre spoglie”) senza però rivestirsene, perché questi saranno da loro trascinati per la selva e appesi ciascuno al pruno che incarcera l’anima (Inf. XIII, 103-108). Il corpo non è in questo caso “la carne glorïosa e santa … rivestita” (cfr. Par. XIV, 43-44), bensì ‘spoglia’, cioè carne spogliata di virtù, “ché non è giusto aver ciò ch’om si toglie”.
A Inf. XXVII, 127-129, il tema del “fur” è nel “foco furo” che fascia Guido da Montefeltro, che va “sì vestito”, perché gli altri lo vedano (“et videant” / “là dove vedi”): sono tutti motivi da Ap 16, 15.
Nel colloquio con Sordello, anche Virgilio usa il motivo del vestirsi di virtù e di buone opere (Purg. VII, 25-27). Egli ha perduto il cielo “non per far, ma per non fare”, cioè “per non aver fé” in quel Dio “che fu tardi per me conosciuto”. Il “non fare” corrisponde ai «“vestimenta sua”, scilicet virtutes et bona opera», e per questo il poeta pagano aggiunge: “quivi sto io con quei che le tre sante / virtù non si vestiro, e sanza vizio / conobber l’altre e seguir tutte quante” (vv. 34-36). Virgilio distingue tra le virtù cardinali, di cui si rivestì, e quelle teologali, di cui non poté rivestirsi. Qui il tardare non è peccato, perché solo la prescienza divina poteva stabilire il tempo della redenzione; designa un fatto ineluttabile e doloroso. A Virgilio non appartiene comunque l’essere ‘spogliato’ di virtù.
A questi temi (congiunti con la citazione di Giovanni 17, 6.11 nell’esegesi di Ap 8, 3) sono interessati anche i celebri versi: “Tu ne vestisti / queste misere carni, e tu le spoglia” (Inf. XXXIII, 62-63) [considerati in L’agone del dubbio, ovvero il martirio moderno, 2 (Il dubbio che tenta e inganna: Guido da Montefeltro, conte Ugolino e altri casi), tab. V-1].
Ad Ap 16, 15 si riferisce ancora Bonaventura nell’elogio di Domenico: “le novelle fronde / di che si vede Europa rivestire”, aperte da Zefiro, dove i temi dell’aprire e dell’essere nuovo sono tipici del sesto stato (Par. XII, 48).
■ Ap 16, 15 non è l’unica pagina esegetica cui si riferiscono i versi di Inf. XXVII che narrano della contesa per l’anima di Guido da Montefeltro fra Francesco e il diavolo “loico”. Le parole di costui a Francesco – «li disse: “Non portar; non mi far torto”» (Inf. XXVII, 113-114) – contengono ancora motivi del secondo stato (dalla seconda tromba, i cui i temi sono diffusi su tutto il canto), nel riferimento a quei fedeli dottori che con le parole, con l’esempio, con i suffragi e con pia dedizione portavano e conducevano gli altri come navi per il mare dei gentili, la terza parte dei quali, incapaci di sostenere le tentazioni, perì nel mare (Ap 8, 9). Già però si mostra la tematica dello stato che segue, il terzo, che troverà compiuta esplicazione nel canto seguente, fra i seminatori di scandalo e di scisma puniti nella nona bolgia col taglio della spada.
All’apertura del terzo sigillo, mostratagli dal terzo animale, quello che ha il volto di uomo, Giovanni vede un cavallo nero, che designa l’esercito degli eretici, oscuro per fallace astuzia e fatto nero per gli errori contrari alla luce di Cristo (Ap 6, 5). Colui che siede sopra di esso – designante gli imperatori o i vescovi ariani – ha in mano una bilancia. La stadera misura la quantità dei pesi, e qui sta ad indicare la misurazione degli articoli di fede. Quando la misurazione avviene secondo la retta e infallibile regola di Cristo, allora il peso è giusto, come si dice nei Proverbi: “Il peso e la bilancia sono i giudizi del Signore” (Pro 16, 11) e nell’Ecclesiastico: “Le parole dei prudenti sono pesate sulla bilancia” (Ecli 21, 28). Quando invece la misurazione si fonda sull’errore e sul falso e torto accoglimento della Scrittura, allora la stadera è dolosa, e a questa si riferiscono i Proverbi: “La bilancia falsa è in abominio al Signore” (Pro 11, 1), i Salmi: “Sono una menzogna tutti gli uomini sulla bilancia” (Ps 61, 10) e Michea: “Potrò giustificare le false bilance e il sacchetto dei pesi falsi?” (Mic 6, 11) [1].
All’apertura del terzo sigillo (Ap 6, 5) appartengono, a Inf. XXVII, 113-114, sia “un d’i neri cherubini” (allusione al cavallo nero) come il “non mi far torto” (l’ “intorta acceptio scripture” designata dalla falsa bilancia). Il diavolo sembra dire a Francesco: ‘non pesare falsamente la tua stessa regola, che è quella osservata da Cristo, imposta agli apostoli e scritta nel Vangelo’. Torcere è proprio sia della coda di Minosse al quale Guido viene portato, sia dell’acuto corno del “foco furo” che fascia il Montefeltrano (Inf. XXVII, 124-125, 132).
Gli stessi temi sono presenti nella terza bolgia. Le gambe dei simoniaci confitti a capo in giù nei fori della pietra guizzano così forte, per la fiamma che si muove sulle piante dei piedi, “che spezzate averien ritorte e strambe”, cioè legami attorcigliati o funi (Inf. XIX, 25-27). Dante domanda chi sia colui che si cruccia guizzando più degli altri, e Virgilio risponde che, una volta portato là giù nel fondo della bolgia, da lui saprà “di sé e de’ suoi torti ” (ibid., 36). Invitata dal poeta a parlare, l’anima confitta di Niccolò III, che crede erroneamente sia arrivato Bonifacio VIII a prendere il suo posto, grida proseguendo le variazioni del tema della retta e torta misurazione della Scrittura: «Ed el gridò: “Se’ tu già costì ritto, / se’ tu già costì ritto, Bonifazio? / Di parecchi anni mi mentì lo scritto”» (ibid., 52-54). Stare “ritto”, che nell’esegesi teologica corrisponde al giusto peso che misura secondo la retta e infallibile regola di Cristo (ma “lo scritto” ha mentito al papa Orsini), si contrappone alla pena comminata per i “torti”, e il tema viene ripreso poco dopo dallo spirito che, chiarito l’equivoco in seguito alla risposta di Dante imposta da Virgilio, “tutti storse i piedi” (ibid., 64). I simoniaci hanno male pesato la regola evangelica, quella osservata da Cristo, imposta agli apostoli e scritta nel Vangelo. Questa regola è, per antonomasia, quella francescana: tanto è rinfacciato, nella terza bolgia, a Niccolò III e a Bonifacio VIII che sta per arrivare; altrettanto è ricordato, nell’ottava bolgia, a Francesco dal diavolo “loico” che argomenta come un dottore della Chiesa del terzo stato.
Il tema dell’ “ira magna” del diavolo, che nella seconda guerra si vede gettato a terra (Ap 12, 12; cfr. la “rabies iracundie” ad Ap 9, 17.19), è appropriato a Minosse, il quale vedendo l’anima del consigliere fraudolento portatagli dal nero cherubino, si morde “per gran rabbia” la coda attorta otto volte al dosso duro (Inf. XXVII, 124-126). Ad Ap 9, 5 (quinta tromba) la puntura delle locuste induce il ‘rimorso’ della coscienza per l’offesa e il danno, unitamente all’ira. Ma il vero motivo del gesto di Minosse sta ad Ap 16, 10-11 (quinta coppa), poiché si comporta come quelli che per il dolore del cuore si mangiano la propria lingua in quanto non possono ottenere ciò che desiderano cioè, nel caso, di poter punire anche Bonifacio VIII, istigatore al peccato di Guido.
[1] Michea 6, 3: «Popule meus, quid feci tibi?» costituiva l’incipit di una lettera perduta di Dante, ricordata dal Bruni.
Tab. 14
Inf. VIII, 124-127Questa lor tracotanza non è nova;
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Inf. IX, 88-90Ahi quanto mi parea pien di disdegno!
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[LSA, cap. II, Ap 2, 1] Sexta (ecclesia) autem dicitur habere hostium scripturarum [ac] predicationis et cordium convertendorum apertum, et quod Iudei debent ad eam cum summa humilitate adduci, et quod est servanda ne cadat in temptationem toti orbi venturam, quia Dei consilia et mandata longanimiter et patienter servavit, que utique competunt statui sexto. Unde et congrue vocatur Philadelphia, id est salvans hereditatem, quia in regula evangelica, quasi in archa Noe, salvabitur semen fidei et electorum a diluvio Antichristi tam mistici quam aperti.[LSA, cap. VI, Ap 6, 12 (IIIa visio, apertio VIi sigilli)] Sciendum autem quattuor sententias predictas sane assumptas non esse sibi contrarias, sed concordes. Sicut enim Luchas inchoat Christi evangelium a sacerdotio Zacharie, cui facta est prophetica revelatio de Christo statim venturo et de Iohanne eius immediato precursore; Mattheus vero ab humana Christi generatione; Marchus vero a Christi et Iohannis predicatione; Iohannes vero a Verbi eternitate et eterna generatione, sic hec sexta apertio sumpsit quoddam prophetale initium a revelatione abbatis et consimilium; a renovatione vero regule evangelice per servum eius Franciscum sumpsit sue generationis et plantationis initium; a predicatione vero spiritualium suscitandorum et a nova Babilone reprobandorum sumet initium refloritionis seu repullulationis; a destructione vero Babilonis sumet initium sue clare distinctionis a quinto statu et sue distincte clarificationis, iuxta quod et dicimus legalia quantum ad obligationem necessariam fuisse mortificata in Christi passione et resurrectione et tandem sepulta et effecta mortifera in evangelii pl[e]na promulgatione et in templi legalis per Titum et Vespasianum destructione. |
Purg. XXXII, 46-60; XXXIII, 142-145Così dintorno a l’albero robusto
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[LSA, cap. XVI, Ap 16, 15 (Va visio, VIa phiala)] Quia vero Deus tunc ex improviso et subito faciet hec iudicia, ideo subdit: “Ecce venio sicut fur” (Ap 16, 15). Fur enim venit latenter ad furandum, ne advertat hoc dominus cuius sunt res quas furatur. Non autem dicit ‘veniam’ sed “venio”, et hoc cum adverbio demonstrandi, ut per hoc estimationem de sua mora nobis tollat et ad adventum suum nos attentiores et vigilantiores et timoratiores reddat. Ad quod etiam ultra hoc inducit per promissionem premii et comminationem sui oppositi, unde subdit: “Beatus qui vigilat et custodit vestimenta sua”, scilicet virtutes et bona opera, “ne nudus ambulet ”, id est virtutibus spoliatus; “et videant”, scilicet omnes tam boni quam mali, “turpitudinem eius”, id est sua turpissima peccata et suam confusibilem penam in die iudicii sibi infligendam. |
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Inf. XXXIII, 55-63Come un poco di raggio si fu messo
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Inf. III, 113-114; XIII, 103-104; XXVII, 127-129; Purg. VII, 34-35; Par. XII, 47-48………………………..fin che ’l ramo
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Par. XXVIII, 115-117L’altro ternaro, che così germoglia
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Inf. III, 112-114Come d’autunno si levan le foglie
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[LSA, cap. III, Ap 3, 3; (Ia visio, Va ecclesia)] Deinde comminatur eidem iudicium sibi occulte et inopinate superventurum si non se correxerit, unde subdit: “Si ergo non vigilaveris, veniam ad te tamquam fur”, qui scilicet venit latenter et ex improviso ut bona auferat et possessorem occidat. Unde subdit: “et horam nescies qua veniam ad te”. Iustum enim est ut qui se ipsum per negligentiam et torporem nescit, nesciat horam iudicii sui et exterminii. Talis etiam propter suas tenebras non videt lucem, ac erronee credit et optat se diu in prosperitate victurum et Dei iudicium diu esse tardandum, et etiam spe presumptuosa sperat se esse finaliter salvandum, propter quod Ia ad Thessalonicenses V° dicit Apostolus quod “dies Domini veniet in nocte sicut fur. Cum enim dixerint: pax et securitas, tunc superveniet eis repentinus interitus” (1 Th 5, 2-3). Quibus autem, scilicet sanctis, et quare non veniet sicut fur ostendit subdens: “Vos autem, fratres, non estis in tenebris, ut vos dies illa tamquam fur comprehendat; omnes enim vos estis filii lucis et diei. Igitur non dormiamus sicut et ceteri, sed vigilemus et sobrii simus. Qui enim dormiunt nocte dormiunt” et cetera (ibid., 5, 4-7).[LSA, cap. XXI, Ap 21, 22-25 (VIIa visio)] Quod autem circa finem huius seculi amplius innotescat solaris lux sapientie Christi docet expresse Gregorius, libro IX° Moralium super illud Iob IX° (Jb 9, 9) “Qui facit Arturum et Orionem et Iadas”, dicens: «Dum, diebus singulis magis magisque scientia celestis ostenditur, quasi interni nobis luminis vernum tempus aperitur, ut novus sol nostris mentibus rutilet et doctorum verbis nobis cognitus se ipso cotidie clarior lucet. Urgente enim mundi fine superna scientia proficit et largius cum tempore excrescit. Hinc namque per Danielem dicitur: “Pertransibunt plurimi et multiplex erit scientia” (Dn 12, 4). Hinc Iohanni in priori parte revelationis angelus dicit: “Signa que locuta sunt septem tonitrua” (Ap 10, 4). Cui tamen in eiusdem revelationis termino precipit dicens: “Ne signaveris verba prophetie libri huius” (Ap 22, 10). Pars quippe revelationis anterior signari precipitur, terminus prohibetur, quia quicquid in sancte ecclesie initiis latuit, finis cotidie ostendit»*. Idem etiam docet libro IIII° Dialogorum, capitulo XLIII°**.
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Par. XXX, 124-126Nel giallo de la rosa sempiterna,
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Par. XXXI, 46-48su per la viva luce passeggiando,
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[LSA, cap. VI, Ap 6, 5 (IIa visio, apertio IIIii sigilli)] “Et cum aperuisset sigillum tertium, audivi tertium animal” (Ap 6, 5), scilicet quod habebat faciem hominis, “dicens: Veni”, scilicet per maiorem attentionem vel per imitationem fidei doctorum hic per hominem designatorum, “et vide. Et ecce equus niger”, id est hereticorum et precipue arrianorum exercitus astutia fallaci obscurus et erroribus luci Christi contrariis denigratus. “Et qui sedebat super eum”, scilicet imperatores et episcopi arriani, “habebat stateram in manu sua”. Cum statera mensuratur quantitas ponderum, et ideo per stateram designatur hic mensuratio articulorum fidei, que quando fit per rectam et infallibilem regulam Christi et scripturarum suarum est recta statera, de qua Proverbiorum XVI° dicitur: “Pondus et statera iudicia Domini sunt” (Pro 16, 11), et Ecclesiastici XXI°: “Verba prudentium statera ponderabuntur” (Ecli 21, 28); quando vero fit per rationem erroneam et per falsam et intortam acceptionem scripture est statera dolosa, de qua Proverbiorum XI° dicitur: “Statera dolosa abhominatio est apud Deum” (Pro 11, 1), et in Psalmo: “Mendaces filii hominum in stateris” (Ps 61, 10), et Michee VI°: “Numquid iustificabo stateram impiam et sac[c]elli pondera dolosa” (Mic 6, 11). |
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Inf. XXVII, 112-114, 124-132“Francesco venne poi, com’ io fu’ morto,
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Inf. XIX, 25-27, 34-36, 52-54, 61-64, 118-120Le piante erano a tutti accese intrambe;
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[LSA, cap. XVI, Ap 16, 10-11 (Va visio, Va phiala)] Quia etiam tales, quando a viris spiritualibus impediti non possunt obtinere quod cupiunt, pre dolore cordis in detractionem eorum, qui se increpant, protinus erumpunt, ideo sequitur: “Et commanducaverunt linguas suas pre dolore” (Ap 16, 10). Lingue, secundum Ioachim, dicuntur hii qui habent ignem zeli Dei et ardorem loquendi contra iniurias Dei, quas increpati ab eis commanducant cum non metuunt detrahere ipsis. Vel, secundum Ricardum, linguas suas pre dolore comedunt quia proprium sermonem per invidiam et detractionem corrumpunt. Vel linguam propriam comedunt, quia intra se pre livore invidie tabescunt et se ipsos ac sui gaudii quietum saporem omnino destruunt et corrodunt. […]
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[LSA, cap. VIII, Ap 8, 9 (IIIa visio, IIa tuba)] “Et mortua est tertia pars creature eorum, que habebant animas in mari” (Ap 8, 9), id est illa pars simplicium gentilium, qui credendo in Christum habebant animam, id est vitam gratie cum quadam tamen animalitate, et que non valuit tantam temptationem portare et vincere, “et mortua est” a vita fidei apostatando ab ea.
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[LSA, cap. IX, Ap 9, 17.19 (IIIa visio, VIa tuba)] “Et capita equorum erant quasi capita leonum” […] Rabies vero iracundie terribilis et crudelis et comminationum eius est apta ad flectendum et subiciendum omnes pusillanimes ad illorum votum et sectam.[LSA, cap. XII, Ap 12, 12 (IVa visio, IIum prelium)] Deinde explicat augmentum mali quod ex prefata diaboli deiectione subsequuntur terrestres et tempestuosi, unde subdit: “Ve terre”, id est terrenis et terrena amantibus, “et mari”, id est infidelibus vel quibuscumque tempestuosis per varia vitia fluctuantibus et per sevitiam amaris, “quia descendit diabolus ad vos”, scilicet per ampliorem potestatem vos temptandi sibi iuste permissam, quia scilicet tempore tante salutis et victorie per Christum et eius martires obtente, et manifesto exemplo et documento orbi toti ostense, aut nullatenus aut non sufficienter estis eos secuti. “Descendit” etiam “ad vos diabolus” plusquam ante, propter maiorem voluntatem et conatum vos gravius temptandi. Unde subditur: “habens iram magnam”, scilicet se ulciscendi de sua tanta deiectione facta a Christo et a sanctis, et quia non potest se ulcisci in eis vult saltem se ulcisci in nos. Habet etiam “iram magnam” ad hoc ut omne malum implendum, tamquam “sciens quod modicum tempus habet”, scilicet ad temptandum, id est quia scit tempus extremi iudicii cito venturum, et etiam quia scit magnam potestatem temptandi sibi interim super electos esse ablatam usque prope seculi finem, quo est iterum solvendus. |
15. Ab utero matris
I subdoli inganni insinuati nei fedeli, nuovi martiri che soffrono nel dubbio sulle verità di fede, non scusano la caduta nella colpa, che è sempre volontaria. Il grande Anticristo sarà, come Lucifero, apostata volontario da un alto stato, dotato di sottile astuzia nell’escogitare frodi. In tal modo Olivi esclude l’opinione di quanti, come Adso Dervensis o Ildegarda di Bingen, lo avevano ritenuto corrotto dal diavolo “ab utero matris”, quasi scusando per acrasia e necessità la sua colpa [1].
Come sopra considerato, il canovaccio di Ap 10, 1-3 non è recitato solo da Tommaso d’Aquino nel narrare la vita di Francesco. Lo si ritrova, variato, nell’elogio di san Domenico che Bonaventura pronuncia nel canto seguente. Anche per il santo atleta si parla di “viva vertute” infusa da Dio nella sua mente al momento della creazione (Par. XII, 58-60). In questi versi, riferiti all’essere perciò la madre di Domenico resa profeta del futuro del figlio, sono presenti anche i motivi, da Ap 13, 11, offerti dalla questione se l’Anticristo verrà o meno guidato dal diavolo fin dal ventre materno, e ciò per decisione della prescienza divina, non unico caso nel poema di metamorfosi in bonam partem di temi negativi nell’esegesi teologica.
Gli stessi temi, in senso negativo, sono appropriati all’astuto Guido da Montefeltro (Inf. XXVII, 73-78).
[1] Cfr. ADSO DERVENSIS, De ortu et tempore Antichristi … edidit D. Verhelst, Turnholti 1976 (Corpus Christianorum. Continuatio Mediaevalis, XLV), p. 23, ll. 34-38; HILDEGARDIS Scivias, pars III, visio XI, 25 («De Antichristo et matre eius»), ed. A. Führkötter – A. Carlevaris, Turnholti 1978 (CCCM, XLIIIa), p. 590 (= PL 197, col. 717); MANSELLI, La «Lectura super Apocalipsim», pp. 71-72.
Tab. 15
[LSA, cap. XIII, Ap 13, 11 (IVa visio, VIum prelium)] Michi autem non est cure magne an ille, qui proprie erit Antichristus et qui adorabitur ut Deus et qui dicet se messiam Iudeorum, sit rex vel pseudopapa vel simul utrumque. Sufficit enim michi scire quod erit fallax et Christo contrarius.
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Inf. XXVII, 73-78Mentre ch’io forma fui d’ossa e di polpe
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Par. XII, 58-60e come fu creata, fu repleta
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16. Le nozze con la Fede
■ Francesco si unì a Povertà, Domenico sposò la Fede. Il matrimonio è il sacramento proprio del sesto stato della Chiesa (prologo, Notabile XIII). Questa, come una sfera, ritorna al suo apostolico principio, dotata di tutte le illuminazioni degli stati precedenti, allorché la luce della luna diventa uguale a quella del sole, secondo il passo di Isaia 30, 26 che costituisce l’incipit della Lectura.
Tab. 16.1
[LSA, prologus, Notabile XIII] Matrimonium vero nuptiarum Christi et ecclesie congruit sexto statui, unde in sexta visione pro ipso dicitur: “Gaudeamus et exultemus, quia venerunt nuptie Agni et uxor eius preparavit se” (Ap 19, 7). |
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Par. XI, 61-63e dinanzi a la sua spirital corte
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Par. XII, 61-63Poi che le sponsalizie fuor compiute
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[LSA, prologus] Septimum est quare sextus status semper describitur ut notabiliter preeminens quinque primis et sicut finis priorum et tamquam initium novi seculi evacuans quoddam vetus seculum, sicut status Christi evacuavit vetus testamentum et vetustatem humani generis, unde et quasi circulariter sic iungitur primo tempori Christi ac si tota ecclesia sit una spera et ac si in sexto eius statu secundo incipiat status Christi habens sua septem tempora sicut habet totus decursus ecclesie, sic tamen quod septimus status sexti sit idem cum septimo statu totius ecclesie. Et iterum quare sexta et septima visio principaliter describunt solum finalem statum ecclesie, coannexe vero et quasi non ex principali intento describunt tempora priorum quinque statuum. |
■ Appartiene al sesto stato salvare l’eredità, cioè il seme della fede (Ap 2, 1); il nome della sesta chiesa d’Asia, Filadelfia, è interpretato come “amor fratris” (Ap 3, 7). La Fede non fu solo appannaggio di Domenico il quale, da questa salvato, la salvò a sua volta combattendo per il “semen fidei” (Par. XII, 61-63, 94-96). Anche Francesco, prima di morire, “a’ frati suoi, sì com’ a giuste rede, / raccomandò la donna sua più cara, / e comandò che l’amassero a fede” (Par. XI, 112-114). Fidelis, iustitia, heres : sono attributi di Cristo vittorioso sull’Anticristo (Ap 19, 11.16): le qualità vengono ripartite fra i seguaci di Francesco (“giuste rede”) e di Domenico (“il mirabile frutto / ch’uscir dovea di lui e de le rede”: Par. XII, 65-66).
Tab. 16.2
[LSA, cap. II, Ap 2, 1 (Ia visio, VIa ecclesia)] Sexta (ecclesia) autem dicitur habere hostium scripturarum [ac] predicationis et cordium convertendorum apertum, et quod Iudei debent ad eam cum summa humilitate adduci, et quod est servanda ne cadat in temptationem toti orbi venturam, quia Dei consilia et mandata longanimiter et patienter servavit, que utique competunt statui sexto. Unde et congrue vocatur Philadelphia, id est salvans hereditatem, quia in regula evangelica, quasi in archa Noe, salvabitur semen fidei et electorum a diluvio Antichristi tam mistici quam aperti. |
[LSA, cap. III, Ap 3, 7; Ia visio, VIa ecclesia] Unde congrue nomen huius sexte ecclesie, scilicet Philadelphia, non solum interpretatur salvans hereditatem, prout tactum est supra, sed etiam amor fratris, prout dicit Ricardus*. Nam in sexto statu, qui est tertius generalis status populi Dei, anthonomasice complebitur illud quod in tertia parte Cantici Canticorum dicit sponsa ad sponsum (Cn 8, 1-2): “Quis michi det te fratrem meum suggentem ubera matris mee, ut inveniam te solum foris et [de]obsculer? Apprehendam te et ducam in domum matris mee”, scilicet sinagoge tunc temporis convertende.* In Ap I, xi (PL 196, col. 742 C). |
[LSA, cap. XIX, Ap 19, 11 (VIa visio)] “Et qui sedebat super eum”, scilicet per personalem unionem et presidentiam, “vocabatur fidelis et verax”, scilicet in attendendo promissa et in docendo vera absque omni fraude et mendacio. […]
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Par. XI, 112-114a’ frati suoi, sì com’ a giuste rede,
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Par. XII, 61-66, 94-96Poi che le sponsalizie fuor compiute
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■ la donna che per lui l’assenso diede (Par. XII, 64)
Ad Ap 3, 2-3 il vescovo di Sardi, la quinta chiesa d’Asia (prima visione) viene invitato a ricordare con la mente quale fosse la “prima grazia” e il suo stato e a conservarla, cioè la grazia ricevuta da Dio e ascoltata tramite la predicazione evangelica. Da quanto gli viene detto, si deduce che costui era tanto intorpidito nell’ozio da non ricordare più il primo stato di grazia e di perfezione. Se non si ravvedrà vigilando, il giudizio divino verrà da lui come un ladro. [Per un esame compiuto di questa esegesi, cfr. Il sesto sigillo, cap. 2b].
La rosa dei temi contenuti nell’esegesi di Ap 3, 2-3 percorre il poema con multiformi variazioni. Smarrirsi (“Ille enim dormit, qui in peccatis quiescit quasi sopitus … sic fuit otiosus et torpens, quod in mente non habuit qualiter acceperit et audierit statum et gratiam sue perfectionis, et quod ideo sic corruit”), non sapere («“et horam nescies qua veniam ad te” … qui se ipsum per negligentiam et torporem nescit»), tardare (“optat se diu in prosperitate victurum et Dei iudicium diu esse tardandum”), ripensare attentamente un primo stato di grazia, qual era («“In mente ergo habe”, id est attente recogita, “qualiter acceperis”, scilicet a Deo priorem gratiam … si digne recogitaveris gratiam tibi prius impensam et qualiter prius accepisti eandem»), udire (“illa que per predicationem audisti et per influxum gratie a Deo primitus accepisti”), vigilare (“Si ergo non vigilaveris … Igitur non dormiamus sicut et ceteri, sed vigilemus et sobrii simus”), serbare la fede acquisita per proprio consenso («Vel recogita qualiter per proprium consensum accepisti fidem et gratiam et statum eius … “Et serva”»): sono temi che si ritrovano alternati, intrecciati e variati in più luoghi della Commedia. Si rinvengono nello smarrimento di Dante nella “selva oscura” (Inf. I, 1-12) e nella “diserta piaggia”, di cui ha udito Beatrice che teme di aver tardato nel soccorso (Inf. II, 61-66); si registrano nell’ascoltare Virgilio (Inf. V, 70-72; XIII, 20-24) o il “parlar … nemico” di Farinata (Inf. X, 121-129), o ancora di fronte al folgorante sguardo di Beatrice (Par. IV, 139-142) o nella visione finale di fronte al raggio divino (Par. XXXIII, 76-81). Sono appropriati a dannati antichi (Nembrot, Purg. XII, 34-36) e moderni (Vanni Fucci, Inf. XXIV, 112-117), ai purganti nella valletta dei principi (Purg. VIII, 58-63); sono ancora presenti nell’appello ai lettori di Par. II, 1-15.
Ricordare ciò che venne ‘prima’, congiunto con il tema della bellezza degli inizi di uno stato poi corrottosi (Sardi, la chiesa del quinto stato, viene interpretata come “principium pulchritudinis”), si trasforma nel ricordo di quella che per i poeti antichi fu “l’età de l’oro e suo stato felice” (Purg. XXVIII, 139-144), de “lo secol primo, quant’ oro fu bello”, di cui dice la voce entro le fronde dell’albero che taglia la strada sulla soglia del sesto girone della montagna (Purg. XXII, 148-150). Così l’apparizione di Matelda nell’Eden fa ricordare a Dante quale era Proserpina allorché, rapita da Plutone, perdette la «prima-vera», cioè i fiori raccolti assimilati alla prima grazia (Purg. XXVIII, 49-51; da notare la corrispondenza tra “qualiter” e “qual era”).
Si consideri, in particolare, la dottrina del libero arbitrio esposta da Virgilio (Purg. XVIII, 46-75). “Principio là onde si piglia / ragion di meritare in voi”, il libero arbitrio è virtù innata “che consiglia, / e de l’assenso de’ tener la soglia”; è “nobile virtù” alla quale bisogna sempre ripensare affinché ogni atto volitivo “si raccoglia” alla “prima voglia”, innata per grazia divina. È dunque assimilato allo stato edenico da ricordare, e non a caso Virgilio, sulla soglia del Paradiso terrestre, dice a Dante: “libero, dritto e sano è tuo arbitrio, / e fallo fora non fare a suo senno” (Purg. XXVII, 140-141). Da confrontare quanto detto del libero arbitrio (“e de l’assenso de’ tener la soglia”) con l’assenso dato per Domenico dalla madrina in occasione del battesimo (Par. XII, 64): in entrambi i casi, della fede e della prima voglia, c’è una grazia data gratuitamente sulla quale deve esercitarsi il consenso (“Vel recogita qualiter per proprium consensum accepisti fidem et gratiam et statum eius”).
Gli stessi motivi servono a Beatrice per affermare la resurrezione dei corpi (Par. VII, 145-148). Dante, dice la donna, deve ripensare “come l’umana carne fessi allora / che li primi parenti intrambo fensi”. A differenza della tradizione teologica, Dante afferma che il corpo è stato creato immortale e lo è per sua stessa natura (poi corrotta dal peccato), e non per privilegio preternaturale conferitogli per virtù dell’anima. Indipendentemente da quelle che possono essere le posizioni dell’Olivi al riguardo, la creazione della carne umana è fasciata dai temi, tratti dalla Lectura super Apocalipsim, relativi a uno stato di grazia e di perfezione da ben riguardare con la mente, utilizzati da Virgilio per descrivere l’origine del libero arbitrio.
Ripensare la prima grazia, oppure qualcosa che si è ascoltato prima: “se tu ripensi / come l’umana carne fessi allora /che li primi parenti intrambo fensi (Par. VII, 146-148) … come i pastor che prima udir quel canto (Purg. XX, 140)”. Ancora sullo stesso panno teologico sono cuciti sia l’invito di Beatrice a ripensare la creazione dell’uomo sia il ricordo dei pastori che per primi ascoltarono il Gloria in excelsis Deo cantato dagli angeli sulla stalla di Betlemme, canto che si rinnova al momento in cui Virgilio e Dante lasciano il quinto girone della montagna, in cammino verso il sesto, grido che accompagna il forte terremoto, anch’esso ripetizione della sconvolgente predicazione di Cristo e segno dell’apertura del sesto sigillo, del libero ascendere interiore e, politicamente, del ritorno del seme di Federico II, vittorioso sul regno di Francia.
Dalla stessa Beatrice, i motivi sono invece appropriati a Dio in senso negativo: “né prima quasi torpente si giacque”, né ebbe un “prima” o un poi, nel suo “discorrer … sovra quest’ acque” (Par. XXIX, 19-21).
Tab. 16.3
[LSA, cap. III, Ap 3, 2-3 (Ia visio, Va ecclesia)] “Esto vigilans” (Ap 3, 2), id est non torpens vel dormiens, sed attente sollicitus de salute tua. Ille enim dormit, qui in peccatis quiescit quasi sopitus et negligit curare de salute anime sue. Quia vero iste, tamquam episcopus, tenebatur sollicite curare non solum de sua salute sed etiam subditorum suorum, ideo pro utroque monetur ut vigilet. […]
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Inf. I, 1-12; XX, 127-129Nel mezzo del cammin di nostra vita
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Purg. XVIII, 55-66, 73-76Però, là onde vegna lo ’ntelletto
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■ È stata rilevata l’importanza del tema della fede e del battesimo, per Domenico e per Dante stesso: a sottolineare la missione di entrambi, viene usato il termine fonte (per Domenico appropriato alle nozze con la Fede) [1].
Ad Ap 21, 12.21, nell’esegesi della disposizione delle parti della Gerusalemme celeste [2], è detto che l’ingresso nella fede è avvenuto attraverso le porte di Cristo e degli apostoli; avverrà ancora attraverso i dottori del sesto stato della Chiesa: “Sicut enim apostolis magis competit esse cum Christo fundamenta totius ecclesie et fidei christiane, sic istis plus competet esse portas apertas et apertores seu explicatores sapientie christiane” (Ap 21, 21). Questo tipo di ingresso vale per Domenico e per Dante, che hanno ripetuto nel sesto stato il battesimo, sacramento speculare al primo stato di fondazione della Chiesa (prologo, Notabile XIII): “Poi che le sponsalizie fuor compiute / al sacro fonte intra lui e la Fede, u’ si dotar di mutüa salute” – “e in sul fonte / del mio battesmo prenderò ’l cappello; / però che ne la fede, che fa conte / l’anime a Dio, quivi intra’ io, e poi / Pietro per lei sì mi girò la fronte” (Par. XII, 61-63; XXV, 8-11). Il rinnovato battesimo reca le vestigia della “signatio” sulla fronte, che avviene in apertura del sesto sigillo (Ap 7, 3).
La fede, come la Chiesa, ha un suo sviluppo secondo gli stati. Ciascun dono dello Spirito può essere distinto in sette parti. Il terzo dono, la “tuba magistralis”, espone la fede secondo sette parti (prologo, Notabile III). La prima parte, volta a seminare la fede, corrisponde al sacramento del battesimo: in questo senso sono da intendere, a Inf. IV, 36, le parole di Virgilio sul battesimo “ch’è parte de la fede che tu credi” (dove tutti i codici, salvo il Cortonese, su revisione, nell’edizione dell’antica vulgata del Petrocchi, recano parte e non porta, come reca invece lo stesso editore). Parte è da interpretare come ‘prerogativa’, ‘qualità’, propria dei singoli sette doni dello Spirito increato, uno semplicissimo ma ‘partito’ nella storia della Chiesa, divisa secondo sette stati. Si è pertanto, in questo caso, di fronte a un significato diverso da quello di ‘ingresso nella fede’ recato da Par. XXV, 8-11 (cfr. Par. XXXII, 19-21, dove il termine muro, accostato a fede, presuppone un’entrata).
[1] Cfr. G. LEDDA, S. Domenico e l’Ordine dei predicatori nella Commedia di Dante, in “Memorie Domenicane”, 39 (2008), 243-270 : 257-258, 265-266.
[2] Per questa esegesi, alla quale rinviano numerosi luoghi del poema, cfr. La settima visione, I.2.
Tab. 16.4
[LSA, cap. XXI, Ap 21, 12 (VIIa visio)] Nota etiam quod ad hedificand[a]m urbem primo invenitur locus et fodiuntur fossata, secundo ibi ponuntur fundamenta et hedificantur muri, tertio statuuntur porte et hedificantur domus. Primum autem horum pertinet ad primum statum, qui fuit ante Christum humanatum; secundum vero ad secundum, tertium autem ad tertium. Primo enim electus est populus Israel, ut fieret in eo preparatio huius nobilis civitatis. Secundo in adventu Domini electi sunt duodecim apostoli, ut essent in fundamentis civitatis, et post ipsos filii in fide de populo gentili, ut transirent in muros civitatis. Cum autem venerit tempus conversionis Israel et iterum totius orbis, tunc statuentur duodecim porte duodecim apostolis similes, per quas universus populus fidelis intret civitatem. Attamen in quolibet statu possunt omnes partes civitatis mistice adaptari, nec mirum, quia sicut diversa possunt significari per idem, sic unum et idem potest per plura significari. Nam Christus est fundamentum secundum Apostolum, Ia ad Corinthios III° (1 Cor 3, 10-11); et porta seu hostium et etiam hostiarius, prout dicitur Iohannis X° (Jo 10, 3/9); et murus et antemurale, prout dicitur Isaie XXVI° (Is 26, 1). Apostoli etiam fuerunt fundamenta ecclesie, prout dicitur ad Ephesios II° (Eph 2, 20); fuerunt etiam porte per quas infideles intraverunt ad fidem et ecclesiam Christi. Sed ad presens sufficit predictum modum tamquam principaliorem breviter exponere. Dicit ergo: “Et habebat murum magnum et altum” (Ap 21, 12). […]
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Inf. IV, 34-36ch’ei non peccaro; e s’elli hanno mercedi,
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Par. XXV, 8-11; XXXII, 19-21…………………..e in sul fonte
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[LSA, prologus, Notabile III] Quarta ratio est quia quodlibet predictorum septem donorum potest subdistingui in septem partes sive proprietates, ita quod prima a proprietate correspondet primo statui et secunda secundo et sic de aliis, ut sic sint septies septem. […] De tertio (dono) etiam patet. Nam magistralis tuba seu expositio intendit fidei et eius scientie seminande (I), et deinde radicande seu roborande (II), deinde explicande (III), deinde amplexande (IV), deinde contemperande, unicuique scilicet secundum suam proportionem (V); intendit etiam finaliter eam imprimere et sigillare (VI) et tandem glorificare seu glorificatam exhibere (VII). Et patet correspondentia primi ad primum statum et secundi ad secundum et sic de aliis.[LSA, prologus, Notabile XIII] Quia primus status fundationis ecclesie conformatur baptismali regenerationi. |
17. Felice, Giovanna, Domenico
Beatrice è nome di alto significato: la beatitudo è infatti la causa finale del libro dell’Apocalisse (Ap 1, 3). La donna di Dante significa anche alleluia, cioè “loda di Dio vera”, come la chiama Lucia (Inf. II, 103). A lei sono dunque appropriati due nomi per tradizione non interpretabili: apocalipsis e alleluia. I genitori di Domenico richiamano anch’essi l’esegesi iniziale del libro. Felice equivale a beato; Giovanna, “se, interpretata, val come si dice”, significa “gratia Dei”, come per grazia di Dio furono rivelate a Giovanni le cose che debbono avvenire presto (Ap 1, 1). Domenico è poi nome che rinvia al giorno dell’ “apocalisse”, poiché Giovanni ebbe la visione “in dominica die” (Ap 1, 10).
L’esegesi dei primi versetti dell’Apocalisse è stata esaminata altrove.
Tab. 17
[LSA, cap. I, Ap 1, 1] “Apocalipsis Ihesu Christi” (Ap 1, 1). Liber iste dividitur in exordium seu prohemium et narrationem et conclusionem. Narratio autem incipit ibi (Ap 1, 9): “Ego Iohannes frater vester”. Conclusio vero circa finem libri, ibi (Ap 22, 6): “Et dixit michi: Hec verba fidelissima sunt et vera”. In prohemio autem et conclusione commendat et magnificat prophetiam huius libri, ut sit susceptibilior et fide dignior et ut attentius et amabilius ac timoratius suscipiatur.
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Purg. XXXI, 133-145“Volgi, Beatrice, volgi li occhi santi”,
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Par. III, 46-48I’ fui nel mondo vergine sorella;
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[LSA, cap. I, Ap 1, 3] Ostensa igitur causa formali et effectiva et materiali, subdit de causa finali, que est beatitudo per doctrine huius libri intelligentiam et observantiam obtinenda. Unde subdit (Ap 1, 3): “Beatus qui legit” et cetera. Quantum ad ea que proprio visu vel per propriam investigationem addiscimus, dicit: “qui legit”; quantum vero ad ea que per auditum et alterius eruditionem addiscimus, dicit: “qui audit”. Primum etiam magis spectat ad litteratos vel ad doctores, qui aliis legunt et exponunt; secundum vero ad laicos vel auditores.
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Inf. XIV, 16-18O vendetta di Dio, quanto tu dei
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[LSA, cap. I, Ap 1, 9-10] Hic post prohemium incipit narratio visionum. Et primo premittit septem generales et laudabiles circumstantias visionum sequentium. […] Quinta est dignitas temporis seu diei, unde subdit: “in dominica die” (Ap 1, 10), quam scilicet christiani colunt quia Christus die tali resurrexit. Unde et dicitur “dominica”, id est Domini vel Domino dedicata, quasi dicat: sanctitas diei erat huic revelationi convenientior, que in luce glorie resurrectionis Christi est facta et que est de statu ecclesie Christi resurrectionem sequente et colente et ad ipsam participandam tendente. Sicut enim Christus tali die resurrexit a mortuis et de sepulcro exivit, sic designavit intelligentiam spiritalem ex tunc excitari et de sepulcro littere processuram. Unde et e[a]dem die a[pe]ruit discipulis sensum ut intelligerent scripturas. |
Par. XII, 67-70e perché fosse qual era in costrutto,
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18. Contro al mondo errante
La terza tromba suona contro la “cura sciendi”, per la quale si vaneggia nell’errante acqua del piacere mondano (cap. XI; cfr. il rimprovero di Beatrice a Dante a Purg. XXXIII, 67-69). “Non per lo mondo, per cui mo s’affanna / di retro ad Ostïense e a Taddeo, / ma per amor de la verace manna / in picciol tempo gran dottor si feo” (Par. XII, 82-85; cfr. tab. 9). A Domenico, che per amore della divina sapienza combatté gli Albigesi, appartengono per antonomasia i temi del terzo stato, quello dei dottori confutanti le eresie. Nella terza vittoria, ai dottori viene data la manna, cioè la sapienza di Dio, che secondo san Paolo è nascosta nel mistero (1 Cor 2, 7), e l’intelligenza spirituale, rorida e arcana, della fede e delle Scritture. La manna infatti proveniva dalla rugiada discesa per l’aria. Viene dato loro anche il lucido lapillo, umile e solido come ferma fede, sul quale è scritto il nuovo nome di Dio fatto uomo, datosi a questi per amore (Ap 2, 17; per un esame dettagliato, che coinvolge altri temi, come ad esempio il “valore”, cfr. Il terzo stato. La ragione contro l’errore, tab. II.5 bis). A questa manna non guarda ora la famiglia domenicana, come lamenta Tommaso d’Aquino: “Ma ’l suo pecuglio di nova vivanda / è fatto ghiotto …”, dove “nova”, se richiama il “nomen novum” di Ap 2, 17, assume un sapore amaro (Par. XI, 124-129).
Gran dottore dall’acqua prorompente e irrigativa dell’ “orto catolico”, da Domenico derivarono i “diversi rivi” del suo Ordine (Par. XII, 103-105): anche i fiumi che irrigano la terra sono propri del terzo stato (terza visione, terza tromba, Ap 8, 10).
I dottori, ai quali è dato dispensare l’acqua della Scrittura e della dottrina cattolica, versano la terza coppa (quinta visione) sugli eretici, che vengono giustamente puniti con pene crudeli (Ap 16, 5-7; alla stessa esegesi fanno riferimento le parole di san Pietro a Par. XXVII, 58-59). Così Domenico, “benigno a’ suoi e a’ nemici crudo” (Par. XII, 57). Dispensare ai poveri i beni della Chiesa, “tamquam communia et tamquam bona pauperum” è invece proprio del vescovo di Tiatira, la quarta chiesa d’Asia (Ap 2, 19). “E a la sedia che fu già benigna / più a’ poveri giusti” e che non lo è ora a causa del papa “che traligna” sviando dal retto cammino, Domenico domandò “non dispensare o due o tre per sei”, di distribuire cioè meno denaro del dovuto ai poveri, “non decimas, quae sunt pauperum Dei ” ma chiese licenza di combattere “contro al mondo errante”, cioè contro l’erronea dottrina albigese (Par. XII, 88-96).
La benignità “a’ suoi” di Domenico è motivo del quinto stato, pietoso e condiscendente (cfr. supra).
Tab. 18
[LSA, cap. XI, IIIa tubicinatio moraliter exposita] Quia vero post curam proprie vite sequitur cura sciendi, que cum evanescit fit curiosa et erronea, ideo tertium tubicinium fit super aquas sapientie, cui intelligentia rebellans est quasi stella cadens in varios errores, qui sunt tertia pars aquarum. Dulcis enim et bona aqua scientie est de veris et utilibus, seu de prudentia regitiva actionum et de scientia speculativa divinorum, et hee partes aquarum sunt bone. Vel quia nimia cura sui facit etiam sanctos lucentes ut stellas et ardentes ut faculas cadere in aquas voluptatis carnalis, relicta duplici parte aquarum bonarum, scilicet voluptatis habite de Deo et voluptatis habite de gratiis et virtutibus et sanctis operibus Dei et sanctorum, idcirco tertium tubicinium est contra tertiam partem aquarum et pro promotione duarum. |
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Par. XII, 82-96Non per lo mondo, per cui mo s’affanna
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Par. X, 91-96Tu vuo’ saper di quai piante s’infiora
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[LSA, cap. II, Ap 2, 17 (IIIa victoria)] Tertia est victoriosus ascensus super phantasmata suorum sensuum, quorum sequela est causa errorum et heresum. Hic autem ascensus fit per prudentiam effugantem illorum nubila et errores ac impetus precipites et temerarios ac tempestuosos. Hoc autem competit doctoribus phantasticos hereticorum errores expugnantibus, quibus et competit premium singularis apprehensionis et degustationis archane sapientie Dei, de quo tertie ecclesie dicitur: “Vincenti dabo manna absconditum, et dabo ei calculum lucidum, et in calculo nomen novum scriptum, quod nemo novit, nisi qui accipit” (Ap 2, 17).
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Inf. IV, 43-48Gran duol mi prese al cor quando lo ’ntesi,
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Purg. XV, 67-72; Par. XIV, 37-42Quello infinito e ineffabil bene
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[LSA, cap. II, Ap 2, 19 (Ia visio, IVa ecclesia)] Laudat autem hunc episcopum de sex. Primo scilicet de operibus sue inchoationis, ibi: “Novi opera tua” (Ap 2, 19). Secundo de fide, ibi: “et fidem”. Tertio de caritate, ibi: “et caritatem”. Quarto de ministrando pauperibus bona sua vel quecumque pietatis obsequia, ibi: “et ministerium tuum”. Quinto de patientia in adversis, ibi: “et patientiam tuam”. Sexto de superexcessu suorum postremorum operum, ibi: “et opera tua novissima plura prioribus”. Ex quo patet quod superius laudavit opera inchoationis, hic vero opera consumationis. Nota quod quia fides sine operibus mortua est (cfr. Jc 2, 20) et caritas perficitur et probatur in opere, ideo premisit opera fidei caritati. Quia etiam episcopi est ministrare seu dispensare pauperibus et precipue suis subditis bona ecclesie tamquam communia et tamquam bona pauperum, ideo subdit: “et ministerium tuum”, quamvis etiam possit stare pro ministerio verbi Dei; utroque enim modo sumitur Actuum VI° (Ac 6, 1-7). Nota etiam quod per huiusmodi laudem intendit monstrare aliquam notabilem precellentiam quam hic episcopus habebat in bonis istis, et idem est de ceteris supra vel infra laudatis. |
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Par. XII, 82-96Non per lo mondo, per cui mo s’affanna
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Par. XXII, 82-84ché quantunque la Chiesa guarda, tutto
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[LSA, cap. XVI, Ap 16, 5-7 (Va visio, IIIa phiala)] “Et audivi angelum aquarum” (Ap 16, 5), id est cetum spiritalium doctorum, quorum est fideliter custodire et dispensare seu exponere aquas sacre scripture et catholice doctrine, “dicentem: Iustus es Domine, qui es et qui eras; sanctus, et qui hec iudicasti”, id est qui predictam plagam sanguinis eis tuo iudicio intulisti. Subditque rationem propter quam hoc fuit iustum, scilicet (Ap 16, 6) “quia sanguinem sanctorum”, scilicet martirum, “et prophetarum”, id est sanctorum maiorum seu doctorum, “fuderunt”. Sicut enim dixi, multos fideles ubique terrarum martirizaverunt. “Et” ideo “sanguinem”, id est doctrinam impiam et mortiferam et abhominabilem, “eis dedisti bibere, ut digni sunt”.
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Par. VII, 40-42La pena dunque che la croce porse
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Par. XXVII, 58-59Del sangue nostro Caorsini e Guaschi
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VII. Simeon [LSA, cap. VII, Ap 7, 7 (IIIa visio, apertio VIi sigilli)] Ad zelum etiam tria exiguntur. Primo scilicet benigne miserationis pia condescensio, et hoc est Simeon, id est audiens merorem.[LSA, cap. V, Ap 5, 1 (V status)] Tertia ratio septem sigillorum quoad librum veteris testamenti sumitur ex septem apparenter in eius cortice apparentibus. (…) Quintum est severitas preceptorum et iudiciorum, quia precipit “non concupisces” et “diliges Deum ex toto corde” (Dt 5, 21; 6, 5), et multa alia infirmitati humani generis ex se impossibilia, et tamen dat sententiam maledictionis omnibus qui non permanserint in omnibus verbis legis. Hanc autem temperat et exponit condescensiva Christi pietas indulgens multa infirmitatibus nostris, sicut mater infantulo suo. Et hoc notatur in quinta apertione, cum expetentibus iustitiam respondetur “ut requiescerent adhuc” per “tempus modicum, donec compleantur conservi eorum et fratres” (Ap 6, 11), id est ut propter pietatem fraterne salutis patienter differant et prolongent iudicia ultionis.[LSA, prologus, Notabile XIII (V status)] In quinto vero tempore fuerunt spiritualiores monachi quasi aves volantes, clerici vero gentibus commixti fuerunt quasi pisces in aquis (cfr. Gn 1, 20-21). In hac autem die primo dictum est: “Crescite et multiplicamini” et cetera (Gn 1, 22), quia numquam in preteritis temporibus sic monasteria vel ecclesie in tali vita, que conveniret pluribus, ordinate fuere quomodo in tempore quinto, quia non tantum clericorum et monachorum, verum etiam ecclesiarum et monasteriorum que sunt propagata in tempore quinto in hac occidentali ecclesia colligere numerum non est facile. Unde quamvis vita monachorum quarti temporis fuerit clarior, non tamen fecundior nec sic habens sensum vivum et tenerum pietatis. |
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Par. XII, 55-57, 88-90dentro vi nacque l’amoroso drudo
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Par. XXXI, 61-63Diffuso era per li occhi e per le gene
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19. Quasi torrente ch’alta vena preme
La parte finale della settima guerra, nella quarta visione apocalittica, vede l’angelo gettare l’uva vendemmiata nel grande tino (“lacus”) dell’ira divina. Il “lago” è “calcato” fuori della città di Dio, cioè fuori del luogo e del collegio dei beati, nella valle di Giosafat posta tra il monte Sion e il monte degli Ulivi, in cui staranno gli empi il giorno del giudizio. Dice Isaia (Is 30, 33) che la valle Tofet, che sta fuori Gerusalemme, è “preparata, profonda e larga” e che in essa “fuoco e legna abbondano e il soffio del Signore come torrente di zolfo” per incendiarvi il re degli Assiri col suo esercito. Dal “lago” “uscì sangue fino al morso dei cavalli per una distanza di 1600 stadi”. Secondo Gioacchino da Fiore, il salire del livello del sangue fino al morso dei cavalli indica che, come un fiume non più guadabile mette a repentaglio non solo le piccole cavalcature ma anche i cavalli, così la malizia è divenuta intollerabile. Allora Dio, che ha tollerato il torrente di malizia finché lo hanno sostenuto anche i cavalli, non può più differire la punizione degli empi. Sono due i motivi che rendono la malizia intollerabile: l’immensità della colpa e la sua continuità nel tempo. La prima viene indicata con l’altezza del sangue che raggiunge il morso dei cavalli, la seconda con la lunghezza del torrente che arriva fino a 1600 stadi.
Appena deposto dalle mani di Anteo sul fondo dell’inferno, Dante ode una voce che lo supplica di camminare con attenzione, in modo da non ‘calcare’ con le piante dei piedi le teste dei dannati immersi fino al collo nel “lago” ghiacciato di Cocito (Inf. XXXII, 19-24). Il ‘calcare’ di Ap 14, 19-20 ha un passo simmetrico ad Ap 19, 15, dove nella battaglia contro l’Anticristo il Verbo di Dio “calca nel tino il vino dell’ira furiosa del Dio onnipotente”, cioè “preme” gli empi con pene mortifere. Il verbo ‘premere’, che rientra nella tematica del vendemmiare, è presente nell’esordio di Inf. XXXII, dove Dante dichiara che solo con rime “aspre e chiocce”, adatte al triste pozzo su cui gravano tutti gli altri cerchi rocciosi, sarebbe in grado di ‘premere’ il succo di quanto ha visto. I traditori dei congiunti stanno nel ghiaccio “come a gracidar si sta la rana / col muso fuor de l’acqua, quando sogna / di spigolar sovente la villana” (Inf. XXXII, 31-33), cioè nel periodo estivo, e il tema della mietitura caratterizza i versetti precedenti del XIV capitolo, lì dove un angelo esce dal tempio e grida all’altro angelo seduto sulla nube bianca di mietere perché la messe della terra è matura (Ap 14, 15).
Il motivo del ‘lago’ e quello del sangue sono congiunti nel centauro Caco, che sotto il monte Aventino, dove abitava, “di sangue fece spesse volte laco” (Inf. XXV, 25-27). In questo caso i temi presenti ad Ap 14, 19-20 offrono l’armatura spirituale al virgiliano “semperque recenti / caede tepebat humus” (Aen. VIII, 195-196). Interviene ancora la tematica di Ap 19, 15 (che è collegato ad Ap 14, 19-20 dal ‘calcare’), lì dove si afferma che il Verbo di Dio “governerà con scettro di ferro” le genti, cioè con inflessibile giustizia. Quanti non vogliono convertirsi a seguito di atti blandi e umili sentiranno la severità e la forza della sua disciplina così da essere sottoposti, per quanto tardivamente, al suo scettro. Così Caco, le cui opere scellerate cessarono nel sentire i colpi della mazza di Ercole (Inf. XXV, 31-33).
Ancora il sangue e il ‘lago’ caratterizzano il racconto della propria fine reso da Iacopo del Cassero (Purg. V, 73-84): il sangue “uscì” dai “profondi fóri”, di esso si fece “laco” in terra. Anche l’inciso riferito al mandante dell’omicidio, Azzo VIII d’Este – il quale, dice Iacopo, “m’avea in ira / assai più là che dritto non volea” – ha la sua origine, per variazione in contrario, nel vendemmiare dell’angelo uscito dal tempio che è in cielo di cui si parla ad Ap 14, 17. Con il “tempio” si indica la provenienza dell’angelo dalla contemplazione e dall’orazione santissima e celeste, che cioè la sua severità non può attribuirsi a un’ira ingiusta. Qui è anche l’origine della risposta di Dante a Farinata che gli chiede perché il popolo fiorentino sia “sì empio”, cioè spietato, nei confronti della propria famiglia esiliata, esclusa da ogni editto di condono (Inf. X, 82-87). Il ricordo della strage di Montaperti, dice il poeta, “tal orazion fa far nel nostro tempio”, cioè lo zelo contro gli Uberti non è ingiusto, ma santo in quanto ‘proviene dal tempio’. L’orazione a Cristo da parte dei santi affinché tolga dalla terra gli “empi” viene figurata ad Ap 14, 15, secondo l’interpretazione di Riccardo di San Vittore, con l’angelo (che pure esce dal tempio) che grida all’altro seduto sulla nube di mietere. L’espressione “che fece l’Arbia colorata in rosso”, dove si rinvia a un inciso dell’esegesi di Ap 4, 3, si inserisce bene nella tematica del torrente di sangue (per questi temi cfr. Lectura Dantis, Inferno X).
Il motivo del ‘premere’, congiunto con quello del ‘torrente’, è cantato da Bonaventura nel panegirico di Domenico, che muove e percuote il proprio impeto contro gli eretici “quasi torrente ch’alta vena preme”, verso in cui, secondo Pirandello, v’è “efficacia d’ogni parola nella similitudine” (Par. XII, 97-102) [1]. Verso pregno dell’esegesi di Gioacchino da Fiore citata da Olivi ad Ap 14, 20. “Quasi torrente” rinvia a “sicut torrens sulphuris” nella citazione di Isaia 30, 33; “preme” segue l’esegesi (“premit ”) del “calcatus/calcat” scritturale ad Ap 14, 20/19, 15, dove è presente (nel secondo versetto) anche il ‘percuotere’ le genti con la spada acuta che esce dalla bocca del Verbo di Dio “ut in ipso percutiat gentes – e ne li sterpi eretici percosse / l’impeto suo”. L’ “alta vena” può riferirsi alla profondità della sorgente (la valle Tofet, in cui scorre il torrente sulfureo, è anche “profunda”), oppure, poiché “vena” è connessa con “sangue”, all’altezza del sangue nel torrente di malizia (“in altitudine sanguinis usque ad frenos equorum”). Ciò significherebbe che l’impeto di Domenico negli sterpi ereticali prorompe da una situazione di malizia – l’alto sangue – che non può più essere tollerata.
Nei versi, parole-chiave rinviano ad altri luoghi esegetici: dottrina, impeto, si riga (vv. 97, 101, 104) alla “vox aquarum multarum” di Ap 1, 15, interpretata come dottrina che irriga alla stregua di un fiume impetuoso (cfr. Ap 8, 10); vincere le resistenze (v. 102) è proprio dell’angelo dal volto solare di Ap 10, 3, che ruggisce come un leone.
“Dal lago uscì sangue fino al morso dei cavalli per una distanza di 1600 stadi” (Ap 14, 19-20). Il numero MDC, in cui sono compresi il sei, il cento e il mille, che sono numeri designanti la perfezione, indica il livello di perfezione del tormento dei dannati, minore, mediocre o perfetto. Significa pure che le pene dei dannati sono varie e adattabili in modo multiforme.
Nel Flegetonte, “riviera del sangue” (cfr. come anche la descrizione del “Bulicame”, a Inf. XIV, 76-81, contenga parole-chiave afferenti ad Ap 14, 19-20), i violenti contro il prossimo hanno la pena graduata secondo l’altezza del sangue in cui sono immersi: i tiranni, violenti contro le persone e le cose, stanno sotto “infino al ciglio” (Inf. XII, 103-105); gli omicidi, violenti solo contro le persone, fino alla gola (ibid., 115-117); altri dannati, con pena via via meno grave (feritori, guastatori, predoni), tengono fuori del sangue bollente la testa e il busto o tutto il corpo salvo i piedi (ibid., 121-125). Come spiega Nesso nel portare Dante sulla groppa, se da una parte il “bulicame” si riduce progressivamente in profondità, dall’altra “preme” sempre più il suo fondo (il ‘premere’ della pena di Ap 19, 15) fino a raggiungere la massima altezza nel luogo dove sono puniti i tiranni (ibid., 127-132).
Simile gradualità della pena si verifica anche nel “lago” di Cocito, per quanto in progressione ascendente rispetto a quella discendente registrata nel Flegetonte: i traditori dei parenti e i traditori della patria stanno immersi nel ghiaccio fino al collo col viso rivolto in giù, rispettivamente nella Caina e nell’Antenora (Inf. XXXII, 31-39); i traditori degli ospiti giacciono nella Tolomea col viso rivolto verso l’alto (Inf. XXXIII, 91-93); i traditori dei benefattori sono infine tutti coperti dal ghiaccio, in varie posizioni, nella Giudecca (Inf. XXXIV, 10-15).
Anche le arche roventi degli eresiarchi sono differenziate: “e i monimenti son più e men caldi” (Inf. IX, 131).
L’uscita del sangue dal “lago”, ad Ap 14, 20, indica pure l’uscita del dolore provocato dalla violenza dei tormenti, come se tutto il sangue e tutti i visceri dei dannati fossero effusi fuori così da ridondare in un grande fiume o in un mare di amarissimo dolore. La compresenza dei motivi da Ap 14, 20 (l’uscita del dolore, il tormento, l’amaro, le varie proprietà delle pene dei dannati) conduce allo spettacolo che si presenta al poeta una volta varcata la porta della città di Dite (Inf. IX, 109-123). La “grande campagna” è “piena di duolo e di tormento rio”; il luogo è reso “varo”, cioè disuguale, dai sepolcri come accade nelle necropoli di Arles e di Pola, ma in modo “più amaro” per la presenza delle fiamme che li arroventano; dai coperchi sospesi dei monumenti “fuor n’uscivan sì duri lamenti”. Nel canto seguente, Virgilio afferma che i sepolcri verranno chiusi quando le anime avranno ripreso i propri corpi il giorno del giudizio, che avverrà nella valle di Giosafat, citata anch’essa nell’esegesi scritturale (Inf. X, 10-12).
[1] L. PIRANDELLO, Chiose al “Paradiso” di Dante. Edizione critica, introduzione e note di G. Bolognese, Alba 1996, p. 101.
Tab. 19
[LSA, cap. XIV, Ap 14, 19-20 (IVa visio, VIIum prelium)] De quo lacu subditur (Ap 14, 19): “Et misit in lacum ire Dei magnum”. Lacus inferni dicitur lacus ire Dei, quia ibi in penis impletur effectus ire et vindicte Dei. Magnus vero dicitur, quia omnes dampnatos, qui erunt quasi innumerabiles, intra se capiet.
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Inf. XXXII, 1-5, 19-24, 31-33S’ïo avessi le rime aspre e chiocce,
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Inf. XIV, 76-81Tacendo divenimmo là ’ve spiccia
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[LSA, cap. XIV, Ap 14, 15.17-18; IVa visio, VIIum prelium] Per angelum vero clamantem priori ut metat (Ap 14, 15), (Ricardus) dicit significari sanctos, qui non iubendo sed orando clamant ad Christum ut suo tempore tollat de terra impios*. […] Nota etiam quod ille qui vindemiat reprobos dicitur exivisse “de templo quod est in celo” (Ap 14, 17), id est de contemplatione seu oratione sanctissima et celesti, ne eius severitas possit male et iniuste ire ascribi et non potius sanctissimo et altissimo zelo glorie et iustitie Dei.* In Ap IV, viii (PL 196, col. 816 A-B). |
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Inf. XXV, 25-27, 31-33Lo mio maestro disse: “Questi è Caco,
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[LSA, cap. XIX, Ap 19, 15 (VIa visio)] “Et de ore eius procedit gladius acutus” (Ap 19, 15), id est sententia subtilis et rigida (quidam habent “ex utraque parte”, sed antiqui non habent hic “ex utraque parte” neque Ricardus, sed supra capitulo I° [Ap 1, 16]), “ut in ipso percutiat gentes”, quasdam scilicet in eternum interitum, quasdam vero ad correctionem et ad vitiorum suorum extinctionem.
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[LSA, cap. XIV, Ap 14, 20 (IVa visio, VIIum prelium) – segue] Secundum vero Ricardum, per exitum sanguinis usque ad frenos equorum designatur quod crudelitas eterne dampnationis non tantum cruciabit pravos homines, qui sunt equi demonum, sed etiam ipsos demones, qui sunt rectores eorum*. Per stadia vero mille sescenta, id est quater quadringenta, designatur quod eorum culpa est diffusa per quattuor partes mundi et per quattuor tempora anni et contra precepta quadriformis evangelii. Et etiam in senario et centenario et millenario stadiorum sanguinis designatur minor et mediocris et perfectissima perfectio cruciatus dampnatorum, quia isti numeri perfectionem significant, ut sic per hunc numerum simul describatur omnium dampnatio ut singulis in suo gradu competat proportionaliter et perfecte**.
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Per exitum autem sanguinis designatur emissio mortiferi doloris per vim tormentorum educti, ac si totus sanguis et omnia viscera dampnatorum violen-ter effunderentur extra, ita quod redundaret in magnum flumen seu mare doloris amarissimi.
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Inf. IX, 109-123, 130-131; X, 10-12com’ io fui dentro, l’occhio intorno invio:
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20. Bonaventura e la Regola male interpretata
Le parole di Bonaventura riferite a Ubertino da Casale e a Matteo d’Acquasparta, secondo la comune interpretazione, legano Ubertino con il verbo ‘coartare’ e Matteo con il verbo ‘fuggire’ la “Scrittura” (la Regola francescana), nel senso di restringerne il significato o di allontanarsene. Bonaventura, dunque, biasimerebbe per eccessi opposti sia gli Spirituali rigoristi (figurati in Ubertino) sia la Comunità rilassata (figurata in Matteo).
D. G. PARK [The Good, the Bad, and the Ugly: What Dante says about Bonaventure of Bagnoregio, Matthew of Acquasparta, and Ubertino da Casale, in “Dante Studies”, CXXXII (2014), pp. 267-312] sostiene la contraria appropriazione dei verbi:
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Ubertino è legato al ‘fuggire’; nel 1317 diventò infatti benedettino. Dante (attraverso Bonaventura) non gli rimprovera un atteggiamento troppo rigido riguardo alla povertà (l’idea di povertà nel poeta era infatti molto più estesa che nel frate, poiché non valeva solo per i Minori ma per tutta la Chiesa), gli rimprovera invece di aver abbandonato la “navicella”, di essere diventato un vagabundus [p. 289].
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Matteo è legato al ‘coartare’. Questo verbo non è il contrario di ‘relaxare’, ma ha il senso di ‘cambiare forzando’ la Regola aggiungendovi dispense. Così nell’Expositio quatuor magistrorum. Questo senso è confermato nella Lectura super Apocalipsim di Olivi dove, ad Ap 9, 3, si afferma che le locuste hanno potere coercitivo (“potestatem coarctatam”). Matteo sarebbe pertanto assimilabile a una ‘locusta’ che perverte la Regola usando potere coercitivo (“power to compel”) negli affari temporali invece di seguire la via di san Francesco [pp. 292-293].
Deplorando la fuga di Ubertino dall’Ordine e il temporalismo di Matteo, Bonaventura (cioè Dante) non intende colpire le due opposte fazioni (gli Spirituali e la Comunità), ma due diversi modi di abbandono della Regola. Soprattutto, non rimprovera a Ubertino la sua insistenza sulla povertà: perché avrebbe dovuto farlo, visto che la povertà è uno dei punti che gli stanno più a cuore? [pp. 294-295].
Consideriamo la questione dal punto di vista del senso letterale e del senso spirituale.
A) Secondo il senso letterale.
È difficile non considerare la posizione chiastica delle parole che lega “da Casal” con “la coarta” e “d’Acquasparta” con “la fugge”. La figura retorica è ben presente altrove, e anche in punti ravvicinati come a Par. XIX, 109-111, dove l’aquila associa chiaramente i “tai Cristian” al collegio eternamente “inòpe”, e “l’Etïòpe” a quello “ricco”. Per quanto in Dante vi sia grande varietà di forme, è assai più probabile che Bonaventura parli ‘chiasticamente’.
Par. XII, 124-126ma non fia da Casal né d’Acquasparta,
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Par. XIX, 109-111e tai Cristian dannerà l’Etïòpe,
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B) Secondo il senso spirituale.
La ‘chiave’ dei “sensi mistici” (allegorico, morale, anagogico) della Commedia è la Lectura super Apocalipsim dell’Olivi. Nel “poema sacro” il senso letterale, che è alla portata di tutti, contiene parole-chiave che rinviano alla Lectura oliviana; questi signacula sono marcatori di memoria, imagines agentes per i predicatori che già conoscevano la Lectura e che avrebbero trovato la sua dottrina dotata in volgare di “e piedi e mano”, di exempla contemporanei e vicini. Non si tratta di semplice trasposizione, ma di metamorfosi, perché quanto l’Olivi concentra sulla storia della Chiesa o sull’Ordine dei Minori viene da Dante diffuso sul ‘saeculum humanum’, per cui nella storia sacra dei segni provvidenziali entrano i classici e quanto (la lingua, la filosofia, la monarchia) è utile al “viver bene” dell’“omo in terra”.
Come ovunque nel poema (cfr. la Topografia spirituale della Commedia dove per quasi ogni verso, o gruppo di versi, collegamenti ipertestuali conducono al “panno” esegetico fornito dalla Lectura super Apocalipsim, sul quale il “buon sartore” ha fatto “la gonna”), anche nelle parole di Bonaventura il lettore ‘spirituale’ avrebbe trovato numerosi signacula della più ampia dottrina esposta nell’esegesi apocalittica oliviana.
■ In questa lettura del poema per signa alterius libri, a quale pagina esegetica avrebbero rinviato le parole di Bonaventura a Par. XII, 124-126? Ivi il verbo ‘coartare’ (hapax nella Commedia) è accostato a “Scrittura”: lo è anche nel Notabile XI del prologo della Lectura. Olivi, per spiegare come le visioni dell’Apocalisse, o parte di esse, possano essere adattate a tempi diversi, paragona la Scrittura sacra a una mano o a una veste che vengano ora ristrette ora allargate. Come il significato di un termine può essere assunto talora in un senso largo e talora in uno stretto, così la Scrittura e le sue figure possono essere ora coartate, cioè ristrette rispetto al loro pieno senso, ora estese oltre quanto consenta la lettera. Ciò non avviene per falsa interpretazione, ma a motivo della forza e della varietà della Scrittura. Il lettore ‘spirituale’, che già altre volte era stato rinviato allo stesso passo esegetico (anche nel canto precedente, nelle parole di Tommaso d’Aquino a Par. XI, 22-24, in principio del quale l’esclamazione “O insensata cura de’ mortali” rinvia alla citazione paolina “O insensati Galathe”, sempre nel Notabile XI) [1], avrebbe inteso ‘coartare la Scrittura’ nel senso di restringerne il significato e ‘fuggire’ nel senso di estenderlo. Vero è che il verbo ‘fuggire’, a differenza del verbo ‘coartare’, non compare nel testo del Notabile XI, ma si tratta di una sostituzione per analogia all’eccessive extendere. Chi “fugge” e chi “coarta” la Regola opera ai due estremi opposti, che eccedono entrambi la misura (proprio il verbo ‘fuggire’ userà Cacciaguida parlando della sua Firenze antica: “Non faceva, nascendo, ancor paura / la figlia al padre, ché ’l tempo e la dote / non fuggien quinci e quindi la misura”; Par. XV, 103-105). Chi leggeva i sensi interiori, assimilava il ‘fuggire’ la Regola (nel senso di estenderla) all’interpretazione rilassata: “anelare ad habenda et procuranda privilegia dispensative laxantia regulares restrictiones primitus institutas”, come scrive Olivi ad Ap 7, 3. Queste “restrictiones” riguardavano certamente l’usus pauper, ma questo, scrive ancora Olivi, deve essere “moderate restrictum”. Di qui il valore negativo che Bonaventura attribuisce al ‘coartare’, cioè al troppo restringere. Non che Dante sia contrario all’usus pauper, anzi non pochi signacula gli sono dedicati nel Purgatorio, dove la “religïone de la montagna” (Purg. XXI, 40-42) è la vita evangelica [2], ma fa riprendere da Bonaventura gli opposti eccessi e probabilmente anche gli scandali e le liti che ne sono derivate. E sul voto, di cui parla Beatrice in Par. V, se riporta alla lettera le parole di una quaestio dell’Olivi, Dante si mantiene sulle generali e non specifica alcun tipo di voto, ammette una moderata dispensa papale e solo cripticamente sembra alludere al voto di povertà allorché la donna dice: “Però qualunque cosa tanto pesa / per suo valor che tragga ogne bilancia, / sodisfar non si può con altra spesa” (Par. V, 61-63) [3]. Ma tutto avviene nel segno della moderazione e dell’equilibrio, e non è casuale che il tema della “recta statera” (Ap 6, 5) [4] sia ben presente nelle parole di Beatrice. Dante non vuole entrare nella litigiosità francescana, che appunto Bonaventura riprova; il bilanciato equilibrio fra gli opposti è sempre fondamentale per il Poeta.
Il lettore ‘spirituale’ avrebbe ancora associato chiasticamente i due verbi alle due persone, grazie all’alta retorica del significante a cui Dante l’aveva abituato. I nomi dei due francescani, espressi con i luoghi di provenienza, non sono scelti a caso. “Casale” si lega con “coarta” analogo di ‘stringere’, quasi fosse un tenere la Regola dentro sé, impedendone qualsiasi estensione; al contrario, “Acquasparta” si lega con “fugge” analogo di ‘espandere’, ‘estendere’, quasi fosse un disperdere la Regola. I medesimi signacula compaiono anche altrove, in situazioni del tutto diverse (il fiorentino suicida in fine di Inf. XIII e nel principio del XIV: “fuggendo, case, strinse, sparte”; la “fuga” alla montagna in fine di Purg. II e in principio del III: “fuga, dispergesse, ristrinsi ”).
Delle undici occorrenze del verbo coartare nella Lectura super Apocalipim nessuna si addice meglio alle parole di Bonaventura della doppia occorrenza contenuta nel Notabile XI. Nella generale metamorfosi dantesca trovano luogo altri esempi connessi con diversi luoghi della Lectura. Il clero dei Greci che non vuole sottomettersi alla Chiesa di Roma (“nolens coartari sub disciplina universalis episcopi”; Ap 11, 1-2) si ritrova nei “Greci” Ulisse e Diomede – “ch’ei sarebbero schivi, / perch’ e’ fuor greci, forse del tuo detto” (Inf. XXVI, 74-75: “schivi” equivale a ‘fuggitivi’, il contrario di farsi coartare) -, ai quali parla Virgilio, vero ‘vescovo universale’ dotato della “lingua erudita” (il “calamus” dato a Giovanni ad Ap 11, 1), al quale sono appropriati motivi tratti dall’istruzione data al vescovo di Efeso, metropolita delle sette chiese d’Asia (Ap 2, 2-3) [5]. Ancora, l’immagine della Chiesa ‘coartata’, cioè ristretta a Roma e alla terra latina (Ap 8, 12) trova corrispondenza nella “potestas Romanorum”, che non può essere ‘coartata’ nei limiti d’Italia o della tricorne Europa, di cui Dante scrive ad Enrico VII (Epistola VII, 11-13). In una citazione di Gioacchino da Fiore, ‘coartare’ significa restringere il discorso, ma il verbo è inserito nella ben più importante esegesi di Ap 12, 6.
Infine, ad Ap 9, 4 (quinta tromba), le locuste hanno una “potestas coartata”, cioè è ad esse proibito di nuocere (sia ai buoni come ai carnali, affiché possano pentirsi), non una ‘potestas coartandi’ come sembra intendere il Park (“power to compel”). Matteo d’Acquasparta è certamente persona che “ne’ grandi offici” non ha, come Bonaventura, posposto “la sinistra cura”, ma non è, per il lettore spirituale, assimilabile a una locusta. Di locuste è pieno il poema, dai barattieri (nella quinta bolgia nulla possono i Malebranche dinanzi alla “sicura fronte” di Virgilio) ai malvagi Capetingi di cui parla il loro capostipite nel quinto girone della montagna, ma il tema non riguarda Matteo.
Coartare, inoltre, è il verbo utilizzato nelle fonti francescane per chi “determina restringendo” la Regola.
In merito alla possibilità che Bonaventura attribuisca il fuggire la Regola a Ubertino, in quanto transfuga dall’Ordine, si osserva che ciò presuppone che Dante sapesse della ‘fuga’ di Ubertino ai Benedettini di Gembloux. Se lo sapeva (cosa di per sé plausibile), avrebbe dovuto anche sapere che quella ‘fuga’ era in realtà una fictio concordata con Giovanni XXII per difenderlo dai confratelli [6], e avrebbe potuto ben considerarla come un male minore nel senso di cui parla in Par. IV Beatrice a proposito di Piccarda (Clarissa a Monticelli) e di Costanza d’Altavilla rapite dal chiostro contro la loro volontà. Ubertino, di certo, restò sempre francescano nel cuore e nell’abito.
Per comprendere, infine, il senso delle parole di Bonaventura, bisogna inquadrarle nel contesto del cielo del Sole. Il quadro è quello di mutua cortesia fra Domenicani e Francescani, di pacificazione delle liti e delle controversie terrene per cui Sigieri di Brabante e Gioacchino da Fiore stanno accanto a Tommaso d’Aquino e a Bonaventura. Nel cielo del Sole, la luce di Salomone è la più fulgida fra gli spiriti sapienti – riluce più di Boezio, di Bonaventura e dello stesso Aquinate -, esempio dei reggitori per la sua “regal prudenza”. Ma viene presentata in modo equivoco da Tommaso d’Aquino, prima senza nominarla (Par. X, 109-114) e con precisazione solo tre canti dopo (Par. XIII, 88-111). La reticenza iniziale di Tommaso sul nome della quinta luce in Par. X – della quale “tutto ’l mondo / là giù ne gola di saper novella” -, giustifica il dubbio che il desiderio del mondo di sapere sulla salvezza o sulla dannazione dell’innominato non riguardi unicamente la lussuria senile di Salomone, ma pure la dottrina dell’Olivi, oggetto in terra di acerrima controversia, sulla quale l’Aquinate in cielo esprime la sentenza divina. Salomone splende di umiltà: dalla “luce più dia del minor cerchio” esce “una voce modesta, / forse qual fu da l’angelo a Maria” (Par. XIV, 34-36). Non designa solo il tipo del re prudente, ma anche la sapienza contenuta nel libro dell’Apocalisse scritto dentro e fuori e contenente gli “intellegibilia Dei”, alla cui esegesi, ad Ap 5, 1, rinviano le parole di Tommaso: “entro v’è l’alta mente u’ sì profondo / saver fu messo, che, se ’l vero è vero, / a veder tanto non surse il secondo” [7].
Ciò dimostra come Dante, nell’ancorare alla Lectura super Apocalipsim, aggiornandola secondo i propri intenti, il suo “legno che cantando varca”, non giudicasse il frate di Linguadoca un ribelle o un dissidente, o peggio un radicale – come lo ritengono alcuni studiosi moderni – ma il vero equilibrato interprete della Regola di Francesco. Scrive in proposito Raoul Manselli:
“[…] la condanna perciò che Dante pronuncia di Matteo d’Acquasparta e di Ubertino da Casale era perfettamente in corrispondenza con quella che proprio l’Olivi aveva pronunciato contro la gerarchia dell’Ordine, di cui era stato appunto parte Matteo, e non meno in relazione con l’altra condanna che ancora e sempre l’Olivi aveva rivolto agli Spirituali d’Italia – e fra questi era anche ed appunto Ubertino – per le loro esagerazioni polemiche, che li portavano a non riconoscere la validità canonica dell’elezione di Bonifazio VIII. Se tale è davvero il francescanesimo di Dante, avremo anche la chiave per intendere tutta la sua concezione del Cristianesimo e della Chiesa stringendo in unità tutta una serie di elementi, che sembrano disparati e, a volte, persino contraddittori” [8].
■ Quando Bonaventura riprova, a Par. XII, 112-114, la decadenza dell’Ordine francescano, usa l’esegesi di Ap 12, 17 (quarta visione, quinta guerra). L’immagine del vaso di vino purissimo di cui nel quinto stato rimangono, una volta bevuta la parte superiore, maggiore e più pura, solo poche reliquie vicine alle impurità e quasi con esse mescolate corrisponde alla “muffa” subentrata alla “gromma” (che favorisce la conservazione del vino), nell’ “orbita” tracciata dalla “parte somma” della ruota che ora “è derelitta”, cioè abbandonata (l’“orbita” consuona con l’essere stata la Chiesa diffusa, prima delle devastazioni saracene, “per totum orbem”; “la parte somma” della ruota traduce la parte superiore del vino – “sicut bibita superiori et puriori et maiori parte vini vasis magni” -; “derelitta” contiene in radice le “reliquie”); in poche carte del volume francescano è infatti ancora possibile leggere “I’ mi son quel ch’i’ soglio” (le poche reliquie, ibid., 121-123). A questa esegesi – per la quale la parola-chiave principe è il verbo ‘rimanere’ – rinviano numerosi luoghi della Commedia, a cominciare dalle parole di Tommaso d’Aquino su Povertà: “sì che, dove Maria rimase giuso, / ella con Cristo pianse in su la croce” (Par. XI, 71-72). Verbo usato anche da san Benedetto: “e la regola mia / rimasa è per danno de le carte” (Par. XXII, 74-75).
Bonaventura lamenta che la famiglia francescana, mossasi dapprima rettamente coi piedi dietro alle orme del fondatore, “è tanto volta, / che quel dinanzi a quel di retro gitta” (Par. XII, 115-117). Si tratta di un’espressione di incerta interpretazione già presso i commentatori antichi, ma che è comunque variazione del tema del volgersi indietro permutando il proprio oro in argento tratto da Luca 9, 62 come nella citazione ad Ap 2, 5 (prima visione, prima chiesa; anche in questo caso all’esegesi, assai estesa e complessa, rinviano molti altri punti del poema). Alla chiesa di Efeso viene minacciato il ‘muoversi del candelabro dal proprio luogo’, cioè la translatio del primato di cui va superba [9]. Questa translatio viene espressa con il togliere e sradicare (“evellere”) dalla fede e con il gettare nella morte eterna (“iactare”) la chiesa (e il suo vescovo), che volgendosi indietro non ha recuperato l’oro della prima carità. Il gittare trova corrispondenza nello iactare in mortem eternam che accompagna il movere candelabrum : “quel dinanzi a quel di retro gitta” può avere pertanto il significato che ‘quello che è dinanzi si muove all’indietro’ e, se il soggetto del muovere è il piede, significa, come propose per primo il Barbi, che nel camminare il piede anteriore si muove verso quello posteriore, secondo l’immagine dei “retrosi passi” di Purg. X, 123 [10]. Questa interpretazione è coerente con il valore assunto dal muovere il piede nella sesta perfezione di Cristo sommo pastore trattata nella prima visione, del quale si dice: “e i suoi piedi simili all’oricalco, come nel crogiolo ardente” (Ap 1, 15). L’oricalco è assai simile all’oro, nel crogiolo si liquefa, è nitido, fiammeggiante, scintillante: designa gli atti corporei di Cristo, che procedono fiammeggianti per la carità verso Dio e verso di noi, scintillanti in modo esemplare, provati durante la vita terrena nel crogiolo delle tentazioni e assai simili all’oro della sua interna e suprema carità.
Bonaventura precisa poi che è imminente il momento del raccolto: “e tosto si vedrà de la ricolta / de la mala coltura, quando il loglio / si lagnerà che l’arca li sia tolta” (Par. XII, 118-120). Il togliere corrisponde all’evellere nello spostamento del candelabro da parte di Cristo, e significa che alla zizzania, cioè ai frati che si sono allontanati da Francesco, verrà tolta l’arca riservata al grano buono. Non è pensabile, come interpretò il Cosmo, che l’arca si intenda tolta solo ai fautori radicali della Regola, cioè agli Spirituali, e che l’espressione si riferisca alle bolle di scomunica di Giovanni XXII contro di essi. Né, come sostenuto dal Tocco, togliere l’arca può essere inteso in senso favorevole agli Spirituali, come allusione ai decreti del Concilio di Vienne che prescrissero l’usus pauper, condannando quelle riserve che il loglio, o la parte rilasciata, soleva accumulare nei granai e nelle cantine. In realtà l’arca tolta fa parte della metafora formata dalla sequenza tempio-altare-adoranti-atrio, che ad Ap 11, 1-2 serve a designare la religione evangelica, il cui atrio, al momento della separazione del grano dalla paglia (il “loglio”) sotto le tribolazioni inferte dall’Anticristo, verrà calpestato dalle genti. Ad Ap 11, 19, al principio della quarta visione, l’arca che sta nel tempio designa il Nuovo Testamento nascosto nel Vecchio, e quindi anche la nuova legge e le nuove promesse di grazia e di gloria eterna, nonché il nuovo ed eterno patto della nostra redenzione. Poiché l’arca occupa uno spazio minore del tempio, rappresenta pure l’umiltà e la povertà evangelica. Non è neppure estraneo ad arca il senso di “horreum Domini”, il granaio in cui verrà riposta la buona semente una volta separata dalla zizzania al momento del giudizio, secondo la parabola esposta in Matteo 13, 24-30 e citata nella Lectura ad Ap 14, 15-16, nell’esegesi dell’angelo uscito dal tempio che grida all’altro angelo seduto sulla nube di gettare la falce e di mietere. Il loglio, pertanto, che comprende i pravi religiosi di ogni fazione che deviano dalla Regola (che Bonaventura definisce la “Scrittura”; Benedetto parlerà di “regola”), verrà escluso dall’arca, calpestato nell’atrio e gettato nella morte eterna.
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[1] Per un esame compiuto cfr. Dante all’«alta guerra» tra latino e volgare. Postilla alle ricerche di Gustavo Vinay sul De vulgari eloquentia, cap. 2.10.
[2] Cfr. Il sesto sigillo, cap. 10 (Matelda), tab. C-CIII.
[3] Cfr. Il terzo stato, tab. II. 5.
[4] Ibid., tab. II, 4.
[5] Cfr.“Lectura super Apocalipsim” e “Commedia”: le norme del rispondersi, cap. 2, tab. 2.2.
[6] Cfr. P. VIAN, «Noster familiaris solicitus et discretus»: Napoleone Orsini e Ubertino da Casale, in Ubertino da Casale. Atti del XLI Convegno Internazionale. Assisi 18-20 ottobre 2013, Spoleto 2014 (Società Internazionale di Studi Francescani – Centro Interuniversitario di Studi Francescani), pp. 217-298: 262-263.
[7] Sull’equivoca figura di Salomone cfr. Dante all’«alta guerra» tra latino e volgare, 3.6 (“Il libro scritto dentro e fuori”), tab. XLII; A. FORNI, Pietro di Giovanni Olivi nella penisola italiana: immagine e influssi tra letteratura e storia in Pietro di Giovanni Olivi frate minore. Atti del XLIII Convegno Internazionale. Assisi 16-18 ottobre 2015, Spoleto 2016 (Società Internazionale di Studi Francescani – Centro Interuniversitario di Studi Francescani), pp. 395-437: 431-432 (trad. ingl. Petrus Iohannis Olivi in the Italian Peninsula, pp. 24, 47-48).
[8] MANSELLI, Il canto XII del Paradiso, pp. 228-229.
[9] Non a caso a questa esegesi rinviano i versi relativi alla prima cornice della montagna (Purg. X-XI), con le celebri traslazioni del primato nella miniatura da Oderisi da Gubbio a Franco Bolognese, nella pittura da Cimabue a Giotto e nella “gloria de la lingua” da Guido Guinizzelli a Guido Cavalcanti e da questi ad altri. Nella tabella vengono esposti solo alcuni dei numerosi luoghi del poema che rinviano ad Ap 2, 5. Per un esame dettagliato, cfr. “Lectura super Apocalipsim” e “Commedia”. Le norme del rispondersi, cap. 2 (Scendere e risalire per gradi: l’istruzione al vescovo di Efeso (Ap 2, 2-7) secondo Riccardo di San Vittore e Pietro di Giovanni Olivi). Dante, nel cadere giù diminuendo nell’amore per Beatrice, “si tolse” a lei per darsi ad altri (Purg. XXX, 124-126): il togliersi è variazione in senso riflessivo dell’ “evellere”, in un contesto che appare segnato dalla tematica della prima chiesa, alla quale viene minacciata la traslazione del candelabro, in difetto di correzione. A una traslazione fa riferimento l’espressione di Virgilio relativa al proprio corpo sepolto in terra: “Napoli l’ha, e da Brandizio è tolto”, di lì traslato per volontà di Augusto (Purg. III, 25-27). Poiché subito dopo il poeta pagano ricorda Aristotele, Platone e molt’altri che non stettero “contenti … al quia” e desiderarono invano conoscere tutto con la ragione umana, desiderio loro dato come pena nel Limbo, è possibile che la traslazione delle ossa di Virgilio, tolte a Brindisi e sepolte a Napoli, sia allusione a un primato perduto, ben più grave nel caso degli antichi sapienti. Un altro esempio dell’uso di “evellere” è nell’espressione “tòrre via Fiorenza” posta in bocca a Farinata (Inf. X, 91-92). Molti dei temi relativi alla prima chiesa sono poi racchiusi nei versi che descrivono il volo di Gerione, in groppa al quale Dante e Virgilio discendono verso Malebolge (Inf. XVII, 79-136). Per ordine di Virgilio, il fiero animale si muove e si toglie dal luogo dove stava: “Gerïon, moviti omai … Come la navicella esce di loco … sì quindi si tolse”, che è variazione da «“et movebo candelabrum tuum de loco suo, nisi penitentiam egeris”, id est evellam a me et a fide mea in quo es fundata». La bestia va “in dietro in dietro” dalla riva e, quando si sente a suo agio nel muoversi, “là ’v’ era ’l petto, la coda rivolse”, muove questa tesa come anguilla “e con le branche l’aere a sé raccolse”: ad essere variato è il tema del respicere retro e del commutare tratto da Luca 9, 62.
[10] M. BARBI, Problemi di critica dantesca. Prima serie (1893-1918), Firenze 1934, p. 287.
Tab. 20.1
[LSA, prologus, Notabile XI] Quantum ad undecimum, quomodo scilicet prefate visiones et earum partes possunt ad alia diversa tempora coaptari, ita quod septimus status potest coaptari ad quamlibet maiorem partem cuiuslibet status.
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Inf. V, 40-41, 46-47E come li stornei ne portan l’ali
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Purg. XXIV, 64-66, 118-120, 130-132Come li augei che vernan lungo ’l Nilo,
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[LSA, prologus, Notabile XI] Sciendum quod sicut significatio unius dictionis sumitur aliquando large et aliquando stricte et proprie, et sicut manum vel vestem aliquando coartamus et aliquando in totam suam quantitatem explicamus, et aliquando quasi ultra proportionem sui status excessive extendimus, sic scripturas sacras et earum figuras aliquando coartamus a suo pleno sensu et aliquando ultra exigentiam litteralis proprietatis quasi extendimus, non quidem falso sed propter vim specialem et variam quam in se habent. […] Sub hiis autem modis possunt visiones huius libri particulariter vel totaliter ad alia tempora coaptari […]. |
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Inf. XIII, 115-117, 151; XIV, 1-2Ed ecco due da la sinistra costa,
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Purg. III, 1-4Avvegna che la subitana fuga
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[segue Notabile XI] Sub hiis autem modis possunt visiones huius libri particulariter vel totaliter ad alia tempora coaptari, ita quod tote ad unumquemque predictorum statuum, vel etiam ad unam partem ipsorum, possunt applicari. Ut, verbi gratia, Christus resurgens et Spiritum Sanctum discipulis mittens fuit tamquam eques in equo albo ad omnes vincendos triumphaliter in eis exiens (cfr. Ap 6, 2). Potentia vero Iudeorum contra ipsos inseviens fuit quasi equus rufus (cfr. Ap 6, 4). Versutia vero Scribarum fuit quasi equus niger (cfr. Ap 6, 5). Ypocrisis vero pseudoapostolorum fuit quasi equus pallidus (cfr. Ap 6, 8). Animalitas vero plurium gentilium tunc conversorum, contra quos scribit Paulus, expetebat in eis ultionem sanguinis Christi pro eis effusi et etiam laboris apostolorum pro eis assumpti, unde Paulus contra Galathas exclamat: “O insensati Galathe, quis vos fa[scin]avit non obedire veritati, ante quorum oculos Ihesus Christus proscriptus est et in vobis crucifixus?” (Gal 3, 1). Deinde per Neronem, misso contra Iudeam Vespasiano et Thito, factus est terremotus sinagogam quasi alteram Babilonem subvertens (cfr. Ap 6, 12), tuncque per martiria signati sunt ex duodecim tribubus apostolicis milites Christi (cfr. Ap 7, 3-4), ad quorum constantiam [et] miracula conversa est turba innumerabilis (cfr. Ap 7, 9), ita ut sub Constantino, vel etiam sub Iohanne de Patmos in Asiam gloriose reducto, sit “factum silentium” pacis “quasi media hora” et quasi septimus status (cfr. Ap 8, 1).Par. XI, 1-3O insensata cura de’ mortali,
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Tab. 20.2
[LSA, cap. II, Ap 2, 4.5 (Ia visio, Ia ecclesia)] In gratia enim accepta nimis secure vixerat et quedam negligenter egerat, et ideo de culmine sue perfectionis ceciderat ad minorationem sue perfectionis. Sed Dominus eum consulendo admonet ut penitendo gradum amissum recuperet, dicens (Ap 2, 5): “Memor esto itaque unde excideris, et age penitentiam et prima opera fac”. Quasi dicat: attende quod de fastigio tue perfectionis excideris et ad infimum perfectionis decideris, et age penitentiam de negligentia, et prima opera faciendo recupera primam gratiam». Hec Ricardus*. […] Item Ricardus, super Danielem, in expositione sompnii Nabucodonosor, ostendit […] Bonum est argento huiusmodi habundare, sed non minus stultum aurum suum in argentum mutare: “mittens enim manum ad aratrum et respiciens retro non est aptus regno Dei” (Lc 9, 62). Unde sermo divinus per increpationem ferit eum qui aureum opus in argentum commutat. […]**
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Inf. X, 91-92Ma fu’ io solo, là dove sofferto
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Purg. III, 25- 27; XI, 97-99; XXX, 124-126Vespero è già colà dov’ è sepolto
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[LSA, cap. XI, Ap 11, 1-2 (IIIa visio, VIa tuba)] Sicut enim in trituratione messium multitudo palee segregatur a grano, sic in illa cribratione et trituratione ecclesie separabuntur publice ab electis palee et quisquilie, et hoc tam per vim tribulationis paleas dispergentis et palam apostatare seu veritati repugnare facientis, tum quia tunc spiritales et precipue eorum rectores summe studebunt se et suos sequestrare a carnalibus et a quibuscumque non consentaneis evangelice veritati et puritati.
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21. Sempre pospuosi la sinistra cura
Bonaventura dichiara di aver sempre posposto la “sinistra cura” nei grandi offici, cioè di aver privilegiato il potere spirituale sul temporale (Par. XII, 127-129). San Pietro afferma che non fu intenzione sua e dei primi pontefici dividere il popolo cristiano parte alla destra e parte alla sinistra mano, alludendo al favore dato dal papato ai Guelfi contro i Ghibellini (Par. XXVII, 46-48). Per comprendere le parole di Bonaventura bisogna esaminare il significato di “destra” e “sinistra” nel poema.
E poi ch’a la man destra si fu vòlto (Inf. IX, 132). “Fatto nuovo” – osservava lo Scartazzini (1893), dandogli un senso ripreso nel commento (1991) di Anna Maria Chiavacci Leonardi (eretici e fraudolenti indicano ipocrisia e falsità; a destra sta la rettitudine che le combatte) – volutamente notato in questo caso, all’ingresso del cerchio degli eretici, e nell’andare verso Gerione ipocrita per antonomasia (Inf. XVII, 31): i soli due casi destrorsi nella prima cantica, dove per regola ci si volge sempre a sinistra. “Il significato allegorico della mossa non trova, nell’antica esegesi, una decifrazione minimamente plausibile”: così nel commento (2007) di Giorgio Inglese.
Non sembra tuttavia che l’interpretazione scartazziniana regga a un confronto con i ben diversi significati suggeriti dalla Lectura super Apocalipsim, collazionando i passi dove si tratta della ‘mano destra’.
Fra le dodici perfezioni di Cristo sommo pastore trattate nella prima visione, l’ottava consiste nel potere di presiedere e contenere non solo le chiese ma anche i loro rettori, cioè i vescovi, che rilucono sopra le chiese come una lucerna o una stella sopra il candelabro del santuario. Per questo si dice: “e aveva nella sua destra sette stelle” (Ap 1, 16). Un vescovo deve sempre avere in sé “potestative, exemplariter et causaliter”, come Cristo, tutte le perfezioni stellari dei prelati inferiori e le deve tenere nella mano destra, cioè dalla parte che designa il potere spirituale, mentre la mano sinistra designa il potere temporale e mondano.
Alla chiesa di Efeso (la chiesa del primo stato) Cristo si propone ancora come colui che tiene nella sua destra le sette stelle, che cioè ha potestà sui vescovi, e che cammina nel mezzo dei candelabri, cioè delle chiese (Ap 2, 1). Lo fa per tre motivi. In primo luogo per mostrare che egli conosce intimamente ogni male e bene operato dai vescovi, ogni loro atto o pensiero, tenendoli, stando nel loro mezzo, visitandoli continuamente, scrutandoli, penetrandoli, osservandoli. Egli è infatti colui che percorre e visita tutte le chiese presenti e future. In secondo luogo per mostrare che essi debbono temere le minacce, i giudizi, i moniti da lui fatti, osservare i suoi precetti e le sue parole, amarlo e sperare in lui, in quanto egli è il loro giudice e signore che ha potestà su di essi e li scruta con la massima circospezione. È anche il pio pastore che li protegge e li custodisce. In terzo luogo perché il vescovo metropolitano (tale è la sede di Efeso) ha potestà e cura sulle altre chiese.
Nel capitolo quinto il libro appare a Giovanni nella destra di Dio, sia perché è nella sua potenza e facoltà l’aprirlo, sia perché contiene le promesse di grazia e di gloria fatte da Cristo e anche le elargizioni e le preparazioni che spettano alla mano destra come le avversità e le cose temporali spettano alla sinistra (Ap 5, 1).
La mano destra indica dunque il potere di colui che guida e regge, penetra i pensieri altrui, si volge secondo i disegni divini, minaccia, tiene. Questi motivi spiegano perché nell’inferno Dante e Virgilio si volgono sempre a sinistra, salvo che verso Farinata e verso Gerione (Inf. IX, 132; XVII, 31-33). Nei due casi l’andare a destra, tra le arche roventi o nel torcersi della via verso la bestia, non ha alcuna attinenza con gli eretici o con la frode. Virgilio, come Cristo, tiene nella destra le sette stelle, cioè ha piena potestà sulle chiese che visita. Nel primo caso, subito dopo aver notato che la direzione è la destra, Dante si rivolge alla sua guida definendola “virtù somma, che per li empi giri / mi volvi … com’ a te piace” (Inf. X, 4-5). Virgilio conosce il desiderio celato da Dante di vedere Farinata, come un vescovo conosce ogni atto o pensiero dei suoi sottoposti (ibid., 18).
Nell’episodio della corda, per la quale Gerione viene in su dall’abisso di Malebolge, Virgilio è considerato fra “color che non veggion pur l’ovra, / ma per entro i pensier miran col senno” (Inf. XVI, 118-120). Così, nell’andare verso la bestia, lo scendere “a la destra mammella” indica la potestà che Virgilio ha su di essa, che pure possiede tutte le caratteristiche dell’Anticristo. All’ordine di montare in groppa al fiero animale Dante si sente come il malarico che prova ribrezzo del freddo, ma lo minaccia la vergogna, che rende il servo forte sull’esempio del suo signore valoroso (Inf. XVII, 85-90). Una volta salito, Virgilio l’abbraccia e lo sostiene (ibid., 94-96). A Virgilio, come a un perfetto prelato, sono pertanto adattate per analogia alcuni aspetti delle proprietà di Cristo sommo pastore, secondo quanto scritto da Olivi ad Ap 1, 18:
Notandum autem quod perfectiones predicte possunt anologice coaptari perfectis prelatis sub Christo, ita quod eorum perfectiones ascribantur Christo sicut cause efficienti et exemplari. Possunt sibi etiam ascribi tamquam capiti corporis mistici, et tunc per membra Christi hic posita possunt significari diversi electi, qui sunt mistica membra Christi, puta per oculos contemplativi, per pedes activi, per os autem seu per vocem doctores et iudices seu correctores.
Questo vestire di panni vescovili i personaggi, imitatori di Cristo, è sintomo di come il “saeculum humanum” e il sapere classico abbiano conquistato la propria autonomia partecipando alla storia sacra e appropriandosi di sacre prerogative. Non solo Virgilio, per il quale Beatrice riporterà lodi a Dio (Inf. II, 73-74), ma, per converso, anche “l’anime più nere” fra le quali è Farinata (cfr. Inf. VI, 85-87). Ad Ap 2, 1 si dice che i sette vescovi d’Asia vengono lodati, rimproverati o istruiti non solo per sé ma anche per le chiese cui sovraintendono. Ciò è reso evidente sia dall’espressione, che si applica a ogni chiesa e non è rivolta solo ai vescovi, “chi ha orecchio ascolti quello che lo Spirito dice alle chiese” (cfr. Ap 2, 7), sia dal fatto che nella quinta chiesa si eccettuano pochi nomi di buoni (Ap 3, 4), sia dal rivolgersi alla quarta chiesa – “dico questo a voi e agli altri che siete di Tiàtira” (Ap 2, 24), sia dal fatto che la pena del trasferimento del candelabro minacciata al primo vescovo, di Efeso, cioè di passare ad altra chiesa il primato, riguarda tanto il vescovo quanto la chiesa che partecipa della colpa attribuita al suo primate (Ap 2, 5). Il tema della compartecipazione della chiesa con il vescovo, che non è il solo a operare il bene o il male, è nelle parole di Farinata a Dante che gli ha spiegato come le spietate leggi fiorentine contro gli Uberti siano conseguenza del ricordo della strage di Montaperti, “lo strazio e ’l grande scempio / che fece l’Arbia colorata in rosso”: non fu solo lui, capo della parte ghibellina, a muovere, lo fece con gli altri. Non fu un muovere senza ragione, e in questo il magnanimo forse recita il tema che ad Ap 16, 1 è proprio degli angeli ministri del giudizio divino, che muovono all’esecuzione del proprio officio di versare le coppe, per punire o purgare, non per propria volontà o animosità ma per compiere un mandato superiore (Inf. X, 88-90), come nel caso di Cesare, che si mosse “per voler di Roma” (Par. VI, 55-57).
In precedenza, il tema si trova nelle parole di Ciacco, che non è la sola “anima trista” ad essere fiaccata dalla pioggia, “ché tutte queste a simil pena stanno / per simil colpa”, espressione probabilmente memore della bestia ottava di Ap 17, 11, la quale “similter peccat et similiter punietur” come le altre sette (Inf. VI, 55-57; cfr. Inf. IX, 130-131: “Simile qui con simile è sepolto”). Una variazione del tema è in Ugo Capeto, che tra gli avari purganti non è il solo a dire del bene, cioè degli esempi virtuosi ripetuti nel girone durante il giorno (Purg. XX, 121-123).
La mano destra designa anche il pieno possesso delle perfezioni stellari (Ap 1, 16: da intendere come i doni dello Spirito, ai quali presiedono i sette vescovi), unitamente alle elargizioni di grazia divina (promesse contenute nel libro, ad Ap 5, 1 tenuto nella destra di Colui che siede sul trono, chiuso da sette sigilli che Cristo, nella storia, progressivamente apre).
Nel suo ultimo viaggio Ulisse si lascia alla mano destra “Sibilia” (Inf. XXVI, 110). Da un punto di vista geografico si tratta di Siviglia. “Sibilia” tuttavia può contenere un’allusione, per concordanza di suono, alla Sibilla cumana, ossia all’andata di Enea “ad immortale secolo” dove “intese cose che furon cagione / di sua vittoria e del papale ammanto” (cfr. Inf. II, 13-27): la mano destra contiene infatti le promesse di grazia e di gloria fatte da Cristo. Passate le colonne d’Ercole, il viaggio prosegue verso sinistra (“sempre acquistando dal lato mancino”), cioè verso sud-ovest, mentre nelle notti appaiono tutte le stelle dell’altro emisfero (Inf. XXVI, 126-128): la perfezione stellare, nel caso di Ulisse, è tenuta nella mano sbagliata. All’opposto è Dante, il quale, uscito dall’aura morta infernale, si volge “a man destra” verso il polo australe e vede “quattro stelle / non viste mai fuor ch’a la prima gente” (Purg. I, 22-24): esse designano le quattro virtù cardinali; le altre tre (le virtù teologali) saliranno al posto delle prime allorché il poeta si troverà nella valletta dei principi (Purg. VIII, 88-93). Così di Dante si può dire che abbia anch’egli, come Cristo, nella sua destra sette stelle.
A Dante sono ancora appropriati, nelle parole di rimprovero pronunciate da Beatrice nell’Eden, i motivi connessi alla “destra di Dio” che contiene le elargizioni della grazia provenienti dall’alta mente divina (“che sì alti vapori hanno a lor piova, / che nostre viste là non van vicine”), a lui date “ne la sua vita nova” (l’espressione si trova ad Ap 5, 9, nell’esegesi del “canticum novum”) prima che il “mal seme e non cólto” lo facesse cadere, dopo la morte della sua donna, tanto in basso (Purg. XXX, 109-117). Elargizioni stellari attestate infine, senza riferimento esplicito alla ‘destra’, nell’invocazione ai Gemelli (Par. XXII, 112-120).
Tab. 21
[LSA, cap. V, Ap 5, 1 (radix IIe visionis)] Visus autem est “in dextera” Dei, tum quia est in eius plena potentia et facultate, tum quia continet promissiones Christi gratie et glorie et etiam largitiones et preparationes, que dicuntur spectare ad dexteram sicut adversa vel bona temporalia dicuntur spectare ad sinistram. Erat etiam “in dextera sedentis super tronum”, tum quia continet leges et precepta summi imperatoris et sententias et iudicia summi iudicis, tum quia altam et stabilem et maturam et quietam ac recollectam mentem requirit ad hoc quod intellectualiter haberi et intelligi possit, unde et talis est intelligentia Dei.[LSA, cap. I, Ap 1, 16 (radix Ie visionis)] Octava (perfectio summo pastori condecens) est potestativa presidentia et continentia non solum ecclesiarum sed etiam suorum rectorum, unde subdit: “et habebat in dextera sua septem stellas” (Ap 1, 16), per quas ut infra dicetur (cfr. Ap 1, 20) designantur septem episcopi ecclesiarum. Episcopus enim debet sic super ecclesiam sibi subiectam lucere et presidere sicut lux lucerne stabat quasi stella super candelabrum sanctuarii (cfr. Ex 25, 37). Sicut etiam inferiora illuminantur et reguntur per stellas, sic ecclesie per sanctos episcopos.
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Inf. IX, 132-133; X, 1-6, 16-18; XVII, 31-33, 83, 89-90, 94-96E poi ch’a la man destra si fu vòlto,
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Purg. I, 22-24I’ mi volsi a man destra, e puosi mente
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[LSA, cap. II, Ap 2, 1 (Ia visio, Ia ecclesia)] Secundum est Christi alloquentis hanc ecclesiam et eius episcopum introductio, cum subditur (Ap 2, 1): “Hec dicit qui tenet septem stellas in dextera sua, qui ambulat in medio septem candelabrorum aureorum”. Utitur autem tentione stellarum, id est episcoporum, et perambulatione candelabrorum, id est ecclesiarum, triplici ex causa. Prima est ut ostendat se intime scire omnia bona et mala ipsorum, quasi diceret: ille qui bene scit omnes vestros actus et cogitatus, tamquam infra se immediate vos omnes tenens et tamquam in medio vestrum existens et omnia vestra continue perambulans et perscrutans et immediate percurrens seu conspiciens, dicit vobis hec que sequuntur. Secunda est ad monstrandum quod merito habent ipsum et eius minas et iudicia metuere eiusque monita et precepta servare, et etiam quod habent ipsum amare et in ipso sperare et ex eius amore et spe omnia verba eius servare, quia ipse est eorum iudex et dominus ipsos prepotenter tenens et circumspectissime examinans. Ipse etiam est pius pastor eos protegens et custodiens, et pro eorum custodia eos semper tenens et visitans. Tertia est quia metropolitano episcopo et eius metropoli ceteras ecclesias sub se habenti hic loquitur, et ideo significat se habere potestatem et curam super omnes septem episcopos et eorum ecclesias. Tentio enim significat potestatem et perambulatio vero curam. […] Ad humiliationem autem sue superbie et manifestationem primatus Christi super legalia et super omnia secula valet quod premittitur Christus tenere in sua dextera “septem stellas” (Ap 2, 1), id est omnes preclaros principes et prelatos omnium ecclesiarum presentialiter precurrere ac visitare omnes ecclesias presentes et futuras. Ex quo patet quod Christus est summus rex et pontifex, et quod multe alie sollempnes ecclesie preter Ierosolimitanam ecclesiam sunt et esse debebant sub Christo, ita quod non oportebat eam superbire de suo primatu (cfr. Ap 2, 5). |
22. Gioacchino da Fiore, profeta della nuova età.
La misteriosa terza ghirlanda.
■ L’apertura del sesto sigillo (Ap 6, 12) avviene in quattro diversi momenti temporali:
1) un inizio profetico, con Gioacchino da Fiore (e altri a lui contemporanei), al quale fu rivelato in spirito il sesto stato, cioè la terza età: corrisponde al Vangelo di Luca, che inizia dal sacerdozio di Zaccaria, al quale fu rivelato l’avvento di Cristo e del suo precursore Giovanni Battista;
2) un inizio generazionale – “sue generationis et plantationis initium” – con il rinnovamento della regola evangelica fatto da Francesco: corrisponde al Vangelo di Matteo, che inizia dall’umana generazione di Cristo;
3) un inizio di nuova fioritura della pianta dovuta al risvegliarsi dello Spirito di Cristo e di Francesco in alcuni predicatori, nel momento in cui la regola francescana viene impugnata e condannata da Babylon, la Chiesa carnale – “a suscitatione spiritus seu quorundam ad spiritum Christi et Francisci … a predicatione vero spiritualium suscitandorum et a nova Babilone reprobandorum sumet initium refloritionis seu repullulationis”: corrisponde al Vangelo di Marco, che inizia dalla predicazione di Cristo e Giovanni Battista;
4) l’ultimo inzio dalla distruzione di Babylon, allorché non ci sarà più concurrentia fra quinto e sesto stato (iniziato con Francesco ancora sotto l’egida del quinto) e il sesto si distinguerà con chiarezza dallo stato precedente: corrisponde al Vangelo di Giovanni, che inizia dall’eternità del Verbo e dalla sua eterna generazione.
“Rabano è qui, e lucemi dallato / il calavrese abate Giovacchino / di spirito profetico dotato” (Par. XII, 139-141). Per quanto le parole di Bonaventura possano essere memori dell’antifona dei Vespri della liturgia florense, spesso citata in proposito – “Beatus Ioachim, / spiritu dotatus prophetico” -, dal confronto con la Lectura Gioacchino appare in primo luogo, per Olivi e Dante, il profeta del sesto stato, del novum saeculum, della rinnovata età augustea. Il sesto e il settimo stato della Chiesa coincidono, per Olivi, con la terza età di Gioacchino da Fiore. Non si tratta tuttavia di uno “status Spiritus sancti” come quello contestato da Tommaso d’Aquino all’abate calabrese [1]; lo Spirito che vi opera è infatti lo Spirito di Cristo – “per Spiritum suum” -, il quale “non inaugura … un’epoca nuova ma porta a compimento e a pienezza il tempo della Chiesa nel Nuovo Testamento” [2]. Per il francescano l’età dello Spirito non è appropriazione a una persona della Trinità, ma manifestazione compiuta dello Spirito di Cristo, interno dettatore che subentra alla voce esteriore della sua umanità (per altro non completamente abbandonata).
Il confronto testuale fra Commedia e Lectura super Apocalipsim risolve il problema, a lungo dibattuto, del rapporto tra Dante e Gioacchino da Fiore. Dante conobbe Gioacchino solo attraverso l’Olivi e le sue circa centocinquanta citazioni nella Lectura. Dal confronto si vede come i testi dell’abate calabrese passino in Olivi e di qui, con in più quel che è proprio del francescano, in Dante. Gioacchino da Fiore è dunque presente nella Commedia in modo diffuso, perché le numerose sue citazioni nella Lectura sono inserite nella generale metamorfosi di questa.
[1] Cfr. l’obiezione mossa da TOMMASO D’AQUINO a quanti, come Gioacchino da Fiore, dicevano si dovesse attendere uno “status tertius Spiritus Sancti, in quo spirituales viri principabuntur”: “Alio modo status hominum variari potest secundum quod homines diversimode se habent ad eandem legem, vel perfectius vel minus perfecte. Et sic status veteris legis frequenter fuit mutatus: cum quandoque leges optime custodirentur, quandoque omnino praetermitterentur. Sic etiam status novae legis diversificatur, secundum diversa loca et tempora et personas, inquantum gratia Spiritus Sancti perfectius vel minus perfecte ab aliquibus habetur. Non est tamen expectandum quod sit aliquis status futurus in quo perfectius gratia Spiritus Sancti habeatur quam hactenus habita fuerit, maxime ab Apostolis, qui primitias Spiritus acceperunt, idest et tempore prius et ceteris abundantius, ut Glossa dicit Rom. 8, [23]” (Summa theologiae, Ia IIae, q. 106, a. 4: Utrum lex nova sit duratura usque ad finem mundi).
[2] P. VIAN, Fra Gioacchino da Fiore e lo spiritualismo francescano: Lo Spirito Santo nella Lectura super Apocalipsim di Pietro di Giovanni Olivi, in Lo Spirito Santo, in “Parola spirito e vita. Quaderni di lettura biblica”, 38 (1998/2), p. 248.
Tab. 22.1
■ Al termine della sua permanenza nel cielo del Sole, quando la “voce modesta” di Salomone ha cessato di parlare, Dante vede una terza ghirlanda, di pari luminosità, circondare le altre due nelle quali si sono mostrati i 24 nominati spiriti sapienti. Questi crescono dunque di numero fino a 36. I 12 della terza ghirlanda non sono però nominati. Si tratta, come qualcuno ha ritenuto, dei futuri sapienti della terza età di Gioacchino da Fiore, e ciò sarebbe confermato dall’esclamazione che segue tale vista: “Oh vero sfavillar del santo Spiro!” (Par. XIV, 67-78) [3]. Ma in nessun modo le prime due ghirlande possono riferirsi rispettivamente alla prima età gioachimita (del Padre) e alla seconda (del Figlio): ivi si mostrano infatti mischiati personaggi sia del Vecchio come del Nuovo Testamento [4]. Inoltre nel Paradiso trionfano i temi del sesto stato, che è parte dell’età dello Spirito di Gioacchino; questa è già operante e non profeticamente futura; tutti i beati, in modo differenziato, vi partecipano. La terza corona, invece, fa segno del valore del numero 24, che cresce in 36, numero indice di maturità e sapienza.
Ad Ap 4, 4 Olivi si sofferma sul numero 24, proprio dei seniori circondanti la sede divina, numero che corrisponde ai 144.000 segnati (Ap 7, 4) uniti ai 144.000 compagni dell’Agnello (Ap 14, 1), in modo che ciascun seniore sia preposto a una schiera di 12.000, che forma come il suo seggio. Il numero 24, che è quello dei pontefici e delle classi o sorti stabilite da Davide, è numero copioso, in quanto cresce di 12. È infatti divisibile per 1, 2, 3, 4, 6, 8, 12, che insieme fanno 36. È pertanto un numero che si addice all’abbondanza della maturità e della sapienza dei consiglieri del sommo giudice. È integrato da 2 x 12 e da 12 x 2, perché contiene la perfezione apostolica che concorda con la doppia carità (verso Dio e verso il prossimo). Sorge da 3 x 8, indicando in tal modo la gloria della resurrezione (Cristo risorse nell’ottavo giorno) che nelle tre età generali del mondo viene data ai santi e ai cultori della Trinità.
A questa esegesi rinvia l’elenco degli “spiriti magni” che stanno nel “nobile castello” del Limbo: da “I’ vidi Eletra con molti compagni” (Inf. IV, 121) a “Averoìs che ’l gran comento feo” (ibid., 144) è infatti compreso in 24 versi (otto terzine). I personaggi sono divisi in due gruppi: il primo (in tre terzine: vv. 121-129) comprende gli eroi che si distinsero nella vita attiva; il secondo (vv. 130-144) annovera i contemplativi, cioè filosofi, moralisti e scienziati. Nel primo gruppo sono nominati 14 personaggi, di cui 2 seduti, il re Latino e sua figlia Lavinia. Il re Latino è collocato al centro, in quanto il suo nome compare nel quinto dei nove versi che ritraggono il gruppo. Tolte le due figure sedute e regali, restano 12 nomi (Elettra, Ettore, Enea, Cesare, Camilla, Pentesilea, Bruto, Lucrezia, Julia, Marzia, Cornelia, il Saladino “solo, in parte”). Il secondo gruppo, collocato un po’ più in alto del primo, ha come centro la triade formata da Aristotele che siede e Socrate e Platone che gli stanno più vicino degli altri (due terzine: vv. 130-135). Seguono 18 personaggi (tre terzine: vv. 136-144). Se a questi si aggiunge “la sesta compagnia”, cioè i sei poeti (Omero, Orazio, Ovidio, Lucano, Virgilio, Dante) si ottiene il numero 24, che sommato ai primi 12 ‘assistenti’ al trono di Latino e Lavinia dà 36.
Anche le parole con le quali san Bernardo descrive i “gran patrici” che siedono sugli “scanni” dell’Empireo sono articolate, come l’elenco degli “spiriti magni” che stanno nel “nobile castello” del Limbo, in 24 versi (otto terzine) a Par. XXXII, 115-138. La ‘figura’ terrestre ha così la sua consumazione nel cielo da cui discende “la provedenza, che governa il mondo / con quel consiglio nel quale ogne aspetto / creato è vinto pria che vada al fondo” (Par. XI, 28-30).
[3] Così M. PICONE, Canto XIV, in Lectura Dantis Turicensis. Paradiso, pp. 203-217: 210-212.
[4] Cfr. F. BAUSI, Dante fra scienza e sapienza, pp. 108-110.
Tab. 22.2
[LSA, cap. IV, Ap 4, 4 (radix IIe visionis)] Dicuntur autem esse “in circuitu sedis”, quia ad defensionem et protectionem sancte matris ecclesie ordinati sunt quasi murus eius et etiam sicut famuli eius. Sicut enim sedes Dei integratur ex ecclesia plenitudinis gentium et ex finali ecclesia reliquiarum Iudeorum et gentium tamquam ex parte sinistra et dextera, sic duodecim principes unius partis stant ad sinistram sedis et duodecim principes alterius partis stant ad dexteram eius. Per eorum autem sedilia designantur ecclesie eis subiecte. Infra autem ponuntur CXLIIII milia signati (Ap 7, 4) et iterum CXLIIII milia agni (Ap 14, 1), ut sic XXIV senioribus subiaceant bis CXLIIII milia, unicuique scilicet seniorum una legio habens XII milia, unaqueque legio autem est sedile senioris sibi presidentis sicut tota universalis ecclesia est sedes Dei. Sive autem sic sive aliter, mistica tamen ratio numeri seniorum hic positi sumitur ex proprietatibus ipsius numeri et ex XXIV pontificibus eorumque XXIV sortibus per regem David constitutis, de quibus habetur I° Paralipomenon XXIIII° (1 Par 24, 1-19).
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Inf. IV, 121-144 = 24 versi 8 terzineI’ vidi Eletra con molti compagni, v. 121
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Inf. IV, 121-144 = 24 versi
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Par. XXXII, 115-138 = 24 versiMa vieni omai con li occhi sì com’ io
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23. Invidiare con cortesia
■ Per meglio indurre il vescovo di Laodicea (la settima chiesa d’Asia) a correggere i propri difetti, Cristo mostra come il rimprovero derivi dall’amore singolare che gli porta. Gli dice infatti: “Io tutti quelli che amo li rimprovero e li castigo” (Ap 3, 19). Lo stimola quindi a imitare i santi esempi usando un verbo – “Emulare ergo … Et penitentiam age” – che ha più significati. Da una parte designa l’invidiare, come nella lettera ai Romani: “non in contese ed emulazioni” (Rm 13, 13). Dall’altra indica l’indignazione che deriva dallo zelo, come nel profeta Ezechiele: “era collocato l’idolo dello zelo, a provocare emulazione” (Ez 8, 3). Oppure sta a significare il grande zelo che deriva dall’amore e desidera il bene altrui, secondo quanto scrive l’apostolo ai Corinzi – “Io provo infatti per voi un’emulazione divina” (2 Cor 11, 2) – e ai Romani – “hanno zelo per Dio” (Rm 10, 2). Talora designa l’imitare per zelo, come nei Proverbi – “Non invidiare l’uomo ingiusto” (Pro 3, 31) – e nella lettera ai Galati – “zelate sempre nel bene”, cioè per l’uomo buono (Gal 4, 18). In quest’ultimo senso viene rivolto l’invito al vescovo di Laodicea.
Agli ignavi, “che ’nvidïosi son d’ogne altra sorte”, è appropriato il primo senso di emulari (Inf. III, 48; agli ignavi sono appropriati molti temi dell’esegesi di Laodicea). Il rimproverare per “buon zelo” appartiene al poeta, il quale di fronte alla dolce melodia che percorre l’aria luminosa dell’Eden si sente di riprendere l’ardire di Eva, la quale, se avesse obbedito a Dio “là dove ubidia la terra e ’l cielo” (l’obbedienza è tema proposto ad Ap 3, 18), avrebbe consentito agli uomini di sentire quelle ineffabili delizie dalla nascita e per tutta la vita (Purg. XXIX, 22-30). Il “buon zelo” è ricordato da Beatrice dopo che gli spiriti contemplanti del settimo cielo hanno confermato con un altissimo grido l’invettiva di Pier Damiani contro la corruzione dei moderni prelati (Par. XXII, 8-9).
Emulari, nel senso positivo di invidiare, cioè imitare per zelo, è anche nel linguaggio di Bonaventura: “Ad inveggiar cotanto paladino / mi mosse l’infiammata cortesia / di fra Tommaso e ’l discreto latino; / e mosse meco questa compagnia” (Par. XII, 142-145; negativo è invece il senso di “inveggia” a Purg. VI, 20). Il “paladino” non deve dunque riferirsi a Domenico, del quale Bonaventura ha narrato la vita, bensì a Tommaso lodatore di Francesco, che il maestro francescano ha ‘imitato’. L’ampia gamma di interpretazioni offerta dalla Lectura per il verbo emulari esclude la variante inegiar recata da un solo codice della tradizione antica.
■ “Mi mosse l’infiammata cortesia / di fra Tommaso e ’l discreto latino” (Par. XII, 143-144). Muoversi a seguito di alte e folgoranti parole dei divini dottori è nell’esegesi di Ap 8, 5 relativa al “terremoto” che muove i cuori.
■ “Io son la vita di Bonaventura / da Bagnoregio” (Par. XII, 127-128). Lume e vita sono signacula della concorrenza, rispettivamente, del terzo e del quarto stato (prologo, notabile X). Come l’affetto presuppone la “notitia intellectus”, cioè la conoscenza, poiché non si può amare se non ciò che è già conosciuto, ma questa conoscenza non è santa senza un santo affetto, così il chiaro lume dei dottori precede l’esercizio degli affetti e la contemplazione degli anacoreti, ma non può essere chiaro senza l’eccellenza della vita propria di questi. Pertanto i due stati concorrono, con mutuo ossequio, a illuminare e a infiammare l’orbe convertito nel mezzogiorno. Si tratta di motivi che vengono variamente appropriati nel cielo del Sole: Tommaso d’Aquino è “luce” che narra la “mirabil vita” di Francesco, “poverel di Dio” (Par. XIII, 32-33), verso la cui “eccellenza” l’Aquinate “fu sì cortese” (Par. XII, 109-111). Tale “infiammata cortesia” muove Bonaventura ad imitare per buon zelo (“inveggiar”) Tommaso (ibid., 142-145). Nel reciproco elogio dei fondatori dei due Ordini, Tommaso e Bonaventura concorrono anch’essi “ad mutuum obsequium (la “cortesia”) et ad meridiem universi orbis tunc ad fidem conversi simul clarificandam et inflammandam”. Così nel Paradiso terrestre, allorché “più corusco e con più lenti passi / teneva il sole il cerchio di merigge”, Dante ha visto i due fiumi “Ëufratès e Tigri” uscire da una sorgente e “dipartirsi pigri” come due amici che si lasciano (Purg. XXXIII, 103-114).
La “cortesia”, oltre che all’esegesi esposta nel Notabile X del prologo, fa riferimento anche a quella di Ap 22, 17, relativa all’invito dello sposo (Cristo) e della sposa (la Chiesa) affinché si venga alla gloriosa cena delle nozze dell’Agnello. Invito d’amore liberale e gratuito, ma al quale si deve aderire con desiderio e volontario consenso. I numerosi luoghi del poema che richiamano questa esegesi (fra i quali si registrano le parole di Tommaso d’Aquino e di Bonaventura) sono esposti in L’agone del dubbio, ovvero il martirio moderno (Francesca e la « Donna Gentile »), cap. 7, tab. XXX-XXXI.
Tab. 23.1
[LSA, cap. III, Ap 3, 19 (Ia visio, VIIa ecclesia)] Deinde ut ipsum efficacius inducat et trahat ad ista, ostendit se ex singulari amore ipsum corripere et alios, quos consimiliter corripit et emendat, in exemplum imitandum proponere sibi, unde subdit (Ap 3, 19): “Ego quos amo corrigo et castigo”, id est verbis reprehensionis obiurgo et penis castigo seu castifico et emendo.
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Inf. III, 46-48Questi non hanno speranza di morte,
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[LSA, cap. VIII, Ap 8, 5 (radix IIIe visionis)] “Et terremotus”, quia visis tot signis et miraculis et sanctitatis exemplis, et auditis tam altis tamque discretis et fulgurativis Dei eloquiis, mota sunt corda hominum ad compunctionem, et mutata vita priori conversi sunt ad Christum; in pertinacibus vero, factus est terremotus peioris subversionis et iracunde commotionis et persecutionis fidei Christi et doctorum eius. Possunt etiam predicta de missione ignis et de tonitruis et terremot[u] referri ad ignitam predicationem Christi que magnum terremotum causavit in tota Iudea, unde Luche XXIII° (Lc 23, 5) principes sacerdotum contra ipsum allegant: “Commovet populum docens per universam Iudeam” et cetera. Usquequo enim Christus baptizatus est et predicavit, non apparuit implevisse de igne altaris turibulum sue humanitatis.Par. XII, 142-145Ad inveggiar cotanto paladino
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Tab. 23.2
[LSA, cap. XXII, Ap 22, 17 (finalis conclusio totius libri)] Septimo loquitur ut invitator omnium ad prefatam gloriam, et hoc tam per se quam per ecclesiam et eius doctores, unde subdit: “Et sponsus”, id est, secundum Ricardum*, Christus (quidam tamen habent “Spiritus”, et quidam correctores dicunt quod sic habent antiqui et Greci, ut sic Christus tam per se quam per Spiritum suum et eius internam inspirationem ostendat se invitare), “et sponsa”, id est generalis ecclesia tam beata quam peregrinans vel contemplativa ecclesia, “dicunt: veni ”, scilicet ad nuptias. Ideo enim dixit “sponsa”, ut innueret nos invitari ad gloriosam cenam nuptiarum Agni. “Et qui audit”, scilicet hanc nostram invitationem, id est qui est de hiis sufficienter doctus; vel “qui audit”, id est recte et obedienter credit et opere perficit, “dicat”, scilicet unicuique vocandorum: “veni ”, scilicet ad cenam et civitatem beatam.
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Inf. V, 73-87I’ cominciai: “Poeta, volontieri
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Purg. V, 64-72E uno incominciò: “Ciasun si fida
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24. Quo vadis, Dantes ?
■ Un tempo si guardava alla filosofia medievale, come si guarda il profilo incerto di monti lontani, velati di nebbia, all’estremo confine dell’orizzonte. Ma se il viandante s’avvicina ad essi, cominciano a distinguersi gioghi e vertici separati da valli e diversi fra loro d’altezza e d’aspetto, gli uni verdeggianti di boschi, gli altri brulli e rocciosi. Se poi s’addentra per quelle valli e tenta l’erta di quei gioghi, ne scopre altri ed altri ancora, con sua non piccola meraviglia, e discerne catene variamente disposte staccarsi dall’asse principale del sistema. […] Per riprendere l’immagine di cui mi son servito, oserei dire che il pensiero dantesco sta, tra molte catene e giogaie, come uno scosceso picco dolomitico che s’erge sovra di quelle, scintillante nel sole, e invita e tenta: a chi dura la fatica dell’erta è concesso di godere di lassù del più vasto panorama e d’udire la celeste armonia che diletta l’udito di quanti hanno saputo elevarsi sul mondo terreno dei sensi [1].
Quanto, nel 1942, Bruno Nardi scriveva della filosofia dantesca, può essere applicato a tutta l’opera dell’Alighieri, e in particolare alla Commedia. Scosceso picco dolomitico che invita e tenta, offre all’alpinista vari versanti. La ricerca pubblicata su questo sito apre una nuova via alla vetta; per essa si possono cogliere vedute nuove e diverse. Non che tutte le viste, che per settecento anni hanno contraddistinto l’ascesa degli altri versanti, siano fallaci. Ma esse riguardano, prevalentemente, il senso letterale della Commedia, l’interpretazione umanista del “poema sacro” come fatto letterario e modello retorico, come fictio, a scapito del Dante profeta e visonario di una vera visione, o meglio del Dante storico, della “sua carica vitale ed umana” [2]. Fu un’interpretazione non solo umanista – iniziata già dai primi commentatori -, anche la Chiesa la fece propria [3]. Oggi, di fronte alla riscoperta della Lectura super Apocalipsim di Pietro di Giovanni Olivi, e al suo eccezionale rispondersi intertestuale con la Commedia, l’ ‘essoterismo’ del senso letterale, affermato dalla critica del Novecento contro l’ ‘esoterismo’ crittografico e allegorico, appare tutt’altro che “non revocabile” [4]. Pur avendo prodotto aurei e alti risultati, anche recenti, non ha risolto i tanti problemi che affliggono gli studi contemporanei su Dante. Questi sono ben lontani dal comprendere “come si compongono concretamente la ‘crittografia’ allegorica (Croce) e l’enunciazione letterale” [5]. Permane la selva delle interpretazioni arbitrarie, per cui si moltiplicano le presunte fonti di Dante. Né sembrano profilarsi all’orizzonte opere organiche sulla vita e il pensiero del poeta, che ne rispettino la straordinaria varietà e complessità. La celeste armonia udita da Nardi non si ode più, avvolta com’è da babilonica confusione. “C’è spazio per qualche sorpresa a rileggere Inferno XXVI? C’è ancora un punto che possa turbare il lettore smaliziato e accorto?”, si chiedeva, non molti anni fa, Guglielmo Gorni [6]. Se gli studi non si rinnoveranno, verificando, accettando e incorporando la nuova scoperta, in breve la ‘dantistica’ mostrerà di fondarsi, come la statua del sogno svelato dal profeta Daniele, su un piede di terracotta.
“Egli discese di Paradiso portando seco le chiavi dell’altro mondo, e le gettò nell’abisso del passato: niuno le ha più ritrovate”, scriveva Carducci [7]. Nell’abisso del passato lo storico deve ritrovarle. Nella sua biografia di Dante, Gorni ha premesso l’intento di non voler ordinare una bibliografia sterminata, ma di avere “un’idea forte dell’autore: tendenziosa magari, ma moderna e nuova” [8]. Dal confronto qui proposto esce un’idea non tendenziosa, forse moderna, certamente forte e nuova. Bisogna richiedere infatti al lettore, come invitava Benedetto Croce, “che anzitutto si renda familiari le linee fondamentali dell’edifizio medievale e viva dentro questa figurazione, grandiosamente conclusa in sé ma a noi per ogni verso estranea” [9]. Restituire un Dante tutto ‘medievale’ è forte e nuovo, come pure far rivivere un linguaggio destinato ai predicatori di una riforma della Chiesa che non fu fatta. Ma la fatica, per il moderno lettore, sarà compensata dal constatare concretamente nel “poema sacro” come il saeculum humanum rivendicò l’autonomia nell’uso del volgare, nella definizione del regime politico, nell’ambito della natura e della ragione, nella valorizzazione degli autori classici, mentre veniva meno il senso di una storia sacra della salvezza collettiva, della quale la Lectura super Apocalipsim fu l’estrema espressione. Questa storia sacra della Chiesa, per intima metamorfosi, si travasò nello stato umano, sull’ “aiuola che ci fa tanto feroci”. La caduta del millenarismo medievale creò dunque “il presupposto morale, per il cui tramite le esperienze fondamentali della interiorità cristiana dovevano mutarsi negli ideali laici della dignità dell’uomo, della potenza creativa dell’individuo, della cultura concepita come mezzo di perfezionamento spirituale, propri della nuova età del Rinascimento” [10].
■ “Dante” è nome di alto significato, come intendeva Boccaccio nella Vita :
[…] e partorí uno figliuolo, il quale di comune consentimento col padre di lui per nome chiamaron Dante: e meritamente, percioché ottimamente, sí come si vedrá procedendo, seguí al nome l’effetto [11].
E nell’Accessus delle Esposizioni :
Ma del suo nome resta alcuna cosa da recitare, e pria del suo significato, il quale assai per se medesimo si dimostra, per ciò che ciascuna persona, la quale con liberale animo dona di quelle cose, le quali egli ha di grazia ricevute da Dio, puote essere meritamente appellato “Dante”. E che costui ne desse volentieri, l’effetto nol nasconde. Esso, a tutti coloro che prender ne vorranno, ha messo davanti questo suo singulare e caro tesoro, nel quale parimente onesto diletto e salutevole utilità si truova da ciascuno che con caritevole ingegno cercare ne vuole.
A tanto nome, proprio di colui che dà la moderna rivelazione, forse non segue un effetto compiuto? “E noi – si chiedeva Luigi Pietrobono – ci dovremmo astenere dal cercar di penetrare sotto il velame de’ suoi versi, che impenetrabile di sicuro non sarà una volta ch’egli medesimo ci dice: ‘Mirate’? Somiglieremmo ai figli che del testamento paterno leggono avidamente ciò che torna gradito, e del rimanente non si curano” [12]. “Dante – asserisce Alberto Asor Rosa – […] non si sarebbe mai sognato di non poter essere compreso. Che sia tanto difficile farlo, non dovrebbe condurci a rinunciarvi in favore di un arbitrio tutto calato nel punto di vista del lector. L’ermeneutica non può prescindere da un’ontologia della creazione poetica: se ne prescinde, è lettura del nulla. Questo è l’unico ma grandioso mistero, con cui ha a che fare ogni lettore di Dante (incomparabile con quei misteriucci da quattro soldi, con cui si sono misurati gli Aroux e i Guénon): il mistero del segno, o di quel sistema di segni, che ha racchiuso un mondo intero in un insieme d’immagini plurisense. Con questo mistero dobbiamo fare i conti” [13].
C’è un libro della Scrittura al quale la Commedia è stata accostata anche da autori, come Michele Barbi e Bruno Nardi, restii a scorgervi influenze dirette dell’esegesi contemporanea: l’Apocalisse. Il primo dei due maestri non aveva alcun dubbio che il poema fosse una profezia, una rivelazione, anche se poi escludeva categoricamente qualsiasi influsso dei sogni del monaco calabrese o degli Spirituali, seminatori di discordie nell’ordine francescano, perché al poeta poteva bastare il solo testo della Bibbia con i suoi profeti veri [14]. Il secondo, commentando la figura di Francesco, evocava addirittura un’apocalisse francescana:
Così il Poeta ha tratto la figura di Francesco dall’umile sfera della leggenda popolare all’altezza del suo poema; che altro non è se non una francescana profetica visione concessa a lui, Dante, per grazia speciale di Dio, perché mettesse la sua arte, cioè l’unica cosa che gli era rimasta del suo doloroso vagabondaggio, al servizio del rinnovamento religioso ed umano che Francesco aveva iniziato [15].
Anche Nardi, però, denunciava come innaturale voler far coincidere le idee di Dante con quelle dei gioachimiti:
Nelle loro aspirazioni c’era qualcosa del romanticismo anarchico che di quando in quando vediamo tornare ad affermarsi, nel corso della storia, come reazione ad una vita politico-sociale agitata, turbolenta, tirannica. Dante aveva studiato troppo il suo Aristotele e il suo Virgilio per svalutare fino a questo punto la vita terrena. Ed aveva troppo lottato, troppo amato, troppo sofferto, per dimenticare anche nella luce dei cieli “l’aiuola che ci fa tanto feroci” e in essa Firenze [16].
Dante però concordò il suo Aristotele e il suo Virgilio con l’esegesi apocalittica oliviana, libro-vessillo degli Spirituali che aggiornò secondo i suoi intenti. Per bocca di Bonaventura condannò il “romanticismo anarchico” degli Spirituali estremisti, esattamente come aveva fatto Olivi.
Scriveva Benedetto Croce:
In mancanza della chiave, della espressa dichiarazione di chi ha formato l’allegoria, si può, fondandosi sopra altri luoghi dell’autore e dei libri che egli leggeva, giungere, nel miglior caso, a una probabilità d’interpretazione, che per altro non si converte mai in certezza: per la certezza ci vuole, a rigor di termini, l’ipse dixit [17].
Il mistero del segno evocato da Asor Rosa, e in qualche modo l’ipse dixit di cui Croce rilevava l’assenza, sono racchiusi nel confronto fra Commedia e Lectura super Apocalipsim.
■ L’intertestualità (o meglio l’intensa elaborazione del volgare sull’umile latino dell’esegsi) che accompagnò l’intera stesura del “poema sacro”, con un procedimento analogico su singole parti della Lectura assimilabile alle “distinctiones” dei predicatori, costituisce anche un eccezionale esempio di arte della memoria, per cui le singole parole si leggono, nel contesto dei versi, come segni che conducono all’altro testo dottrinale consentendo così il passaggio dal senso letterale, che è per tutti, a quelli mistici in esso racchiusi, riservati ai depositari della chiave di sì alta crittografia.
Conoscendo i fili teologici del “panno” con i quali i versi sono stati tessuti, con diversa intensità nel corso del lungo fare la “gonna”, ci si può figurare in modo più chiaro quanto sembra in essi ermeticamente rinchiuso, far rivivere quella parte di poesia che è morta e che al De Sanctis sembrava non più possibile disseppellire [18], ritrovare quel rispondersi nel poema “a parte a parte” intuito dal Pascoli, pervenire a una critica dell’inespresso di cui scriveva Gramsci a proposito di Inferno X [19], meglio percepire quelli che Contini definiva “echi di Dante entro Dante” [20]. Viene meno la necessità di distinguere, come fatto da Croce, tra poesia vera e struttura, perché i concetti teologici sono anch’essi principio informatore della poesia che vi aderisce e li trasforma spargendoli sull’ “aiuola che ci fa tanto feroci”.
Con la comprensione storica indotta dal confronto fra i testi, svanisce l’esoterismo variamente attribuito al poeta fiorentino, concetto d’altronde, alla stregua del suo fiero oppositore, l’essoterismo portato al sommo dalla critica novecentista, del tutto estraneo alla mente del poeta. Gli Spirituali francescani non subentrano ai Fedeli d’Amore; riemerge invece l’alta retorica del significante [21], alla quale Dante non fu certo estraneo [22], e il suo destinatario storico. Questo messaggio ai riformatori abortì con la loro altrettanto prematura scomparsa.
Viene meno la principale obiezione a siffatta interpretazione, cioè l’assenza di criteri precisi che escludano arbìtri nell’individuazione dei sensi interni. Il libro che contiene tali criteri esiste ed è riscontrabile. Una “chiave” che non è l’ipse dixit voluto a rigore da Croce, ma che consente di afferrare, quasi diario intimo, tante allusioni e di ricostruire intorno a Dante, come inteso da Osip Mandel’štam, una cultura [23]. Dante e il suo tempo, insomma, secondo la formula cara agli storici romantici. Anche se si tratta di un lato caduco rispetto alla fortuna postuma nel modo di leggere il poema, per cui la Commedia primigenia – affermò il Carducci – antica già nel Trecento, “non ebbe successori in integro” [24].
La sinossi fra la Commedia di Dante e la Lectura super Apocalipsim dell’Olivi consente di far rivivere quella tensione di rinnovamento, quell’ansia di salvezza, quel senso di pienezza dei tempi che, per citare Arsenio Frugoni, “oltre che ideologia di lotta e di riforma del gruppo spirituale, era anche un vero e proprio sentimento storico” [25].
La ricerca rovescia la vecchia regoletta del loicare, che Nardi adduceva a proposito delle presunte fonti dantesche [26]: “a posse ad esse non datur illatio”. Non formula ipotesi ma mostra testi, non forzandoli né dolcemente sollecitandoli. Sono i testi, nel loro esse, ad argomentare e a provare. I risultati vengono dall’accostamento di due testi studiati in ambiti disciplinari diversi e ignari l’uno dell’altro: la Commedia e la Lectura super Apocalipsim.
La ricerca, che è appena agli inizi, solitario lavoro di scavo, non intende comprendere Dante con una sola formula, ma esplorare un nuovo versante. Chi durerà la fatica dell’erta, riascolterà la celeste armonia udita da Nardi e godrà del più vasto panorama. Scrisse Michele Barbi, evocando con un proverbio le nuove generazioni: “A tela ordita Dio manda il filo” [27].
[1] B. NARDI, Dante e la cultura medievale. Nuovi saggi di filosofia dantesca, Bari 1942 (Biblioteca di cultura moderna), pp. XI-XII.
[2] G. PADOAN, Dante di fronte all’umanesimo letterario, in “Lettere Italiane”, XVII (1965), pp. 237-257, ripubblicato in Atti del Congresso Internazionale di Studi Danteschi … (20-27 aprile 1965), II, Firenze 1966, pp. 377-400 e in ID., Il pio Enea, l’empio Ulisse. Tradizione classica e intendimento medievale in Dante, Ravenna 1977, pp. 7-29: 28-29.
[3] Cfr. T. BAROLINI, “Why did Dante write the Commedia?” or The Vision Thing, in “Dante Studies” (Panel Discussion at the 1993 annual meeting of the Society in Cambridge), CXI (1993), pp. 1-8: 3: “Despite Augustine’s understanding that rhetorical prowess and access to truth can coincide [see De doctrina christiana 4.16.33], the Church on the whole (with a few telling exceptions like the Dominican ban of 1335) was willing to bracket Dante as a poet, a maker of fictio”.
[4] Come sostiene G. INGLESE, in Dante Alighieri, Inferno. Revisione del testo e commento, Roma 2007, Premessa, p. 9.
[5] Ibid.
[6] G. GORNI, Né Bice né monna Vanna. Circe nel canto di Ulisse (Inferno XXVI), in ID., Guido Cavalcanti. Dante e il suo “primo amico”, Roma 2009 (Dantesca, 1), pp. 107-125: 108.
[7] G. CARDUCCI, Dello svolgimento della letteratura nazionale, Discorso terzo, v.
[8] G. GORNI, Dante. Storia di un visionario, Bari 2008, p. IX.
[9] B. CROCE, Due postille alla critica dantesca, in “La Critica. Rivista di Letteratura, Storia e Filosofia”, 39 (1941), pp. 133-141: 136.
[10] R. MORGHEN, Medioevo cristiano, Bari 19744, pp. 263-264.
[11] G. BOCCACCIO, Vita di Dante, II, in Il Comento alla Divina Commedia e gli altri scritti intorno a Dante, a cura di D. GUERRI, I, Bari 1918 (Scrittori d’Italia. G. Boccaccio, Opere volgari, XII), p. 8.
[12] L. PIETROBONO, Struttura allegoria e poesia nella Divina Commedia, in ID., Nuovi saggi danteschi, Torino s.d. [1954], p. 246.
[13] A. ASOR ROSA, postfazione a L’idea deforme. Interpretazioni esoteriche di Dante, a cura di M. P. POZZATO, Milano 1989, p. 316.
[14] Cfr. la replica a Barbi di R. MANSELLI, Dante e l’ “Ecclesia Spiritualis”, in Dante e Roma. Atti del Convegno di studio a cura della “Casa di Dante”, sotto gli auspici del Comune di Roma, in collaborazione con l’Istituto di Studi Romani, Roma 8-9-10 aprile 1965, Firenze 1965, pp. 115-135, ripubblicato in ID., Da Gioacchino da Fiore a Cristoforo Colombo, pp. 55-78: 69 nt. 38.
[15] NARDI, Il canto di S. Francesco, p. 184.
[16] NARDI, Dante e la cultura medievale (cfr. nt. 1), pp. 270-271.
[17] B. CROCE, La poesia di Dante (Scritti di storia letteraria e politica, XVII), Bari 19527 (19201), p. 7.
[18] F. DE SANCTIS, Il Farinata di Dante [maggio 1869], in Saggi critici, a cura di L. RUSSO, II, Bari 1965, p. 340.
[19] A. GRAMSCI, Quaderni del carcere, I, Torino 1975, pp. 517-519 [4 (XIII), 1930-1932].
[20] G. CONTINI, Un’interpretazione di Dante (1965-1966), in Un’idea di Dante, p. 91.
[21] Cfr. G. GORNI, Dante prima della Commedia, Fiesole 2001, p. 36: “Forse la nostra critica letteraria diffida del significante ed è spesso così sorda alle sue ragioni per fare postuma ammenda dell’alta retorica che ha imperato nelle nostre lettere, in tutta la loro storia. E così anche le ali dell’Alighieri possono essere scambiate per un cerebrale abuso di senso o per una facezia, e sono invece – ne sono persuaso – la firma interna, e più, un simbolo dell’autore”.
[22] Cfr. U. ECO, Introduzione a L’idea deforme (cfr. nt. 13), p. 36.
[23] O. MANDEL’ŠTAM, Conversazione su Dante, a cura di R. FACCANI, Genova 1994 (1933), p. 51: “La cultura è una scuola di associazioni rapidissime. Afferri al volo, sei pronto a cogliere le allusioni: ecco l’elogio preferito di Dante”.
[24] Cfr. supra, nt. 7.
[25] Cfr. supra.
[26] B. NARDI, Dal “Convivio” alla “Commedia”. Sei saggi danteschi, Roma 1960 (Istituto Storico Italiano per il Medio Evo. Studi storici, 35-39), p. 356.
[27] M. BARBI, La nuova filologia e l’edizione dei nostri scrittori da Dante al Manzoni, Firenze 1973 (1938), p. XLI.
Appendice
Note sulla “topografia spirituale” della Commedia
Per quanto segua l’ordine dei ventidue capitoli dell’Apocalisse, Olivi suggerisce un metodo differente di comprensione e di aggregazione del testo esegetico, fondato sui sette stati, cioè sui periodi nei quali si articola la storia della Chiesa. L’Antico Testamento corrisponde alle prime cinque età del mondo, secondo la divisione tradizionale [1]: è l’età del Padre secondo Gioacchino da Fiore. Con il primo avvento di Cristo, nella carne, inizia la sesta età (l’età del Figlio), nella quale la Chiesa, come fosse un individuo, cresce e si sviluppa in sette stati. Al primo, apostolico periodo, succede il secondo dei martiri; poi, al tempo di Giustiniano, il terzo stato dei dottori che confutano con l’intelletto le eresie concorre con il quarto stato degli affettuosi anacoreti devoti al pasto eucaristico, alti per la contemplazione ma anche attivi come reggitori delle genti; a partire da Carlo Magno subentra il quinto stato aperto alla vita associata delle moltitudini, bello nel principio ma poi corrottosi fino a trasformare quasi tutta la Chiesa in una nuova Babilonia; la riforma interviene, a partire da Francesco, con il cristiforme sesto stato, fino alla sconfitta dell’Anticristo; subentra infine il silenzio e la quiete del pacifico settimo stato. Il sesto e il settimo stato (la terza età di Gioacchino da Fiore) coincidono con il secondo avvento di Cristo, nello Spirito, cioè nei suoi discepoli spirituali inviati a convertire il mondo con la predicazione; al termine del settimo stato ci sarà il terzo avvento, nel giudizio.
L’Apocalisse si articola in sette visioni: le sette chiese d’Asia, i sette sigilli, le sette trombe, la donna vestita di sole (le sette guerre sostenute dalla Chiesa), le sette coppe, il giudizio di Babylon nelle sette teste del drago, la Gerusalemme celeste. Le prime sei visioni possono essere a loro volta divise in sette momenti, ciascuno dei quali riferibile a uno dei sette stati. Assembrando, per le prime sei visioni, tutti i primi elementi (chiesa, sigillo, tromba, guerra, coppa, momento del giudizio di Babylon), tutti i secondi, i terzi e così di seguito, si ottengono sette gruppi di materia teologica, corrispondenti al complesso dei temi afferenti a ciascuno dei sette stati [2]. A questi sette gruppi se ne aggiungono altri due: l’esegesi della settima visione (senza articolazioni interne) e l’esegesi di capitoli del testo scritturale, o di parti di essi, introduttivi delle successive specificazioni delle singole visioni per settenari, che Olivi definisce “radicalia” o “fontalia”. Si ottengono in tal modo nove gruppi: le parti proemiali, i sette assembramenti di settenari e la settima visione. Il grande prologo della Lectura, articolato in tredici notabilia, può essere anch’esso aggregato nelle sue parti secondo i sette stati.
L’intenso travaso di parole-temi dalla Lectura nella Commedia si accompagna a un fatto strutturale. La Commedia mostra un ordine interno diverso da quello che appare al lettore: il viaggio di Dante ha un andamento di ciclici settenari, che corrispondono ai sette stati oliviani. È un ordine registrabile per zone progressive del poema dove prevalgono i temi di un singolo stato, che rompe i confini letterali stabiliti dai canti e da tutte le divisioni materiali per cerchi, gironi, cieli. Ogni stato, che ha differenti inizi, è concatenato per “concurrentia”, come le maglie di un’armatura, con quello che precede e con quello che segue. Ciascuno stato ha in sé una grande ricchezza di motivi e contiene inoltre temi di tutti gli altri, consentendo innumerevoli intrecci e variazioni. La Commedia appare, come l’Apocalisse, “libro scritto dentro e fuori” (Ap 5, 1), con duplice struttura, linguaggio e senso, letterale e spirituale. Il viaggio di Dante e la visione di Giovanni hanno la stessa causa finale, che è la beatitudine, alla quale si perviene con diverse guide, per gradi segnati da visioni sempre più nuove e ardue delle precedenti, attraverso una sempre maggiore apertura dell’arcano coperto dal velame dei sette sigilli fino al punto più alto in cui, in questa vita, è possibile vedere la verità.
Tutti i modi del linguaggio interiore al poema esprimono un processo, un viaggio dal più chiuso al più aperto, e in questo andare hanno una loro precisa collocazione ‘topografica’, uno ‘stato’ (nel senso di momento storico che ricade sulla coscienza individuale) al quale appartenere. Si possono in tal modo stendere vere e proprie mappe tematiche che comprendano l’ordine spirituale di tutta la Commedia, che aderisce a una precisa teologia della storia, sia pure modificandone profondamente le prospettive. La ciclicità dei temi permette di stabilire collegamenti inusitati tra le diverse zone; il procedere per gradi dell’illuminazione divina fa sì che episodi oscuri e quasi ermeticamente chiusi si chiariscano poi, aprendosi all’intelligenza in modo più alto.
A ogni gruppo è arbitrariamente assegnato un diverso colore: Radici (verde), I stato (verde acqua), II stato (rosso), III stato (nero), IV stato (viola), V stato (marrone), VI stato (blu), VII stato (indaco), VII visione (fucsia). Dei gruppi sono stati integralmente studiati il terzo stato e la settima visione.
INFERNO
(le prime cinque età del mondo)
La ‘topografia spirituale’ del poema mostra nell’Inferno cinque cicli settenari corrispondenti agli stati della Chiesa descritti da Olivi e ai loro temi contenuti nella Lectura. Questi cinque cicli designano le prime cinque età del mondo (riunite a loro volta nel primo stato generale, che corrisponde all’età del Padre di Gioacchino da Fiore), in quanto prefigurazione del primo avvento di Cristo e della Chiesa.
I cinque cicli settenari che si susseguono nell’Inferno a partire dal quarto canto (i primi tre canti hanno una tematica particolare) sono preceduti da cinque zone che possono essere definite ‘snodi’, dove cioè confluiscono temi provenienti da più stati, intrecciati insieme ad altri ad avviare il procedere settenario. Il centro di questi ‘snodi’ coincide con un canto (Inf. IV, X, XVII, XXVI, XXXII), ma la zona è più vasta e supera l’ambito dato dalla divisione letterale del poema.
Inf. I-III: da considerare al di fuori dei cicli: I primi due canti dell’Inferno sono profondamente segnati dai temi del sesto stato: cfr. Il sesto sigillo, cap. 1c, Tab. VI-3; 2a, Tab. IX, X. Inf. III è riferibile al settimo stato (per gli ignavi) e in parte al quinto (per l’episodio di Caronte): cfr. ibid., cap. 7a, Tab. XLIV-XLV. |
|||
canti |
I ciclo |
stati |
cerchi |
IV |
Limbo |
Radici, I (I snodo) |
I |
V |
lussuriosi |
II |
II |
VI |
golosi |
III |
III |
VII |
avari e prodighi, Palude Stigia(iracondi e accidiosi) |
III–IV–V |
IV-V |
VIII |
Palude Stigia, Città di Dite |
V |
V |
IX |
apertura della porta della Città di Dite |
V–VI |
|
canti |
II ciclo |
stati |
cerchi |
IX-X-XI |
eretici, ordinamento dell’Inferno |
I (II snodo) |
VI |
XII |
violenti contro il prossimo |
II |
VII (girone 1) |
XIII |
violenti contro sé |
III |
(girone 2) |
XIV |
violenti contro Dio: bestemmiatori |
IV |
(girone 3) |
XV-XVI |
violenti contro Dio: sodomiti |
V |
|
XVIXVII |
ascesa di GerioneGerione, violenti contro Dio: usurai |
VI |
canti |
III ciclo |
stati |
cerchi |
XVII |
volo verso Malebolge |
I (III snodo) |
|
XVIII |
ruffiani, lusingatori |
Radici – II |
VIII (bolgia 1, 2) |
XIX |
simoniaci |
III |
(bolgia 3) |
XX |
indovini |
IV |
(bolgia 4) |
XXI-XXII |
barattieri |
V |
(bolgia 5) |
XXIII |
ipocriti |
V–VI |
(bolgia 6) |
XXIV-XXV |
ladri |
VI |
(bolgia 7) |
canti |
IV ciclo |
stati |
cerchi |
XXVI |
consiglieri di frode (greci) |
I (IV snodo) |
(bolgia 8) |
XXVII |
consiglieri di frode (latini) |
II |
|
XXVIII-XXIX |
seminatori di scandalo e di scisma |
III |
(bolgia 9) |
XXIX |
falsatori |
IV |
(bolgia 10) |
XXX |
falsatori |
IV–V |
|
XXXI |
giganti |
V–VI |
|
canti |
V ciclo |
stati |
cerchi |
XXXII |
Cocito: Caina, Antenora |
I (V snodo) |
IX |
XXXIII |
Antenora, Tolomea |
II |
|
XXXIV |
Giudecca |
III–IV–V |
|
XXXIV |
volgersi di Virgilio sull’anca di Lucifero |
VI |
|
Il sesto stato è per Olivi la fase più importante nella costruzione dell’edificio della Chiesa. In esso “renovabitur Christi lex et vita et crux”. Corrisponde ai tempi moderni. Ha quattro diversi inizi temporali: uno profetico, con Gioacchino da Fiore, il quale lo vide in spirito concependo la sua terza età; il secondo con la conversione di Francesco (1206), che seminò la pianta; il terzo con la predicazione degli uomini spirituali, per la quale la pianta si rinnovella; il quarto con la distruzione storica di Babylon. Dura fino alla sconfitta dell’Anticristo, il cui avvento si collocherebbe, secondo i numeri della profezia di Daniele 12, 11-12 combinati con Ap 12, 6 e 14, fra il 1290 e il giubileo di pace del 1335.
Una ‘vita nuova’ si instaura nel sesto stato, per eccellenza il momento dell’imitazione di Cristo. I rami dell’albero si dilatano producendo il frutto della carità, l’acqua che proviene da Cristo-fonte attraverso il condotto che percorre i primi cinque stati della Chiesa si effonde in un lago; è il tempo, assimilato al sacramento del matrimonio, della letizia nuziale, della familiarità, dell’amicizia. Corrisponde al sesto giorno della creazione, in cui vennero creati prima i rettili e le bestie irrazionali, poi l’uomo razionale che, come l’ordine evangelico, è fatto a immagine e somiglianza di Dio e domina tutti gli animali.
Le espressioni di Olivi relative al sesto stato – “quoddam sollempne initium novi seculi … renovaretur et consumaretur seculum”, nel quale il sacerdozio apostolico “redeat et assurgat ad ordinem primum”, la “nova Ierusalem”, interpretata come “visione di pace”, viene vista “descendere de celo” e la Chiesa descritta come la donna vestita di sole con la sua “virginea proles” – sono la veste spirituale dei versi della quarta egloga virgiliana che celebrano la rinnovata età dell’oro: “Magnus ab integro saeclorum nascitur ordo / iam redit et Virgo; redeunt Saturnia regna; / Iam nova progenies caelo demittitur alto” (Egloga IV, 5-7). Olivi completa la Lectura super Apocalipsim nel 1298, poco prima di morire, il 14 marzo, a Narbonne. Quel felicissimo stato segnato dalla pace sotto il divo Augusto, che rese l’umanità disposta al primo avvento di Cristo, si sta rinnovando nel sesto stato della Chiesa, nel secondo avvento nello Spirito. Scrive Arsenio Frugoni: “[…] quell’escatologismo, oltre che ideologia di lotta e di riforma del gruppo spirituale, era anche un vero e proprio sentimento storico […] una tensione di rinnovamento, una ansia di salvezza, che nel 1300, l’anno centenario della Natività, aveva trovato come una attivazione, in un senso di pienezza dei tempi, cui doveva corrispondere un fatto, un accadere meraviglioso e nuovo” [3].
All’apertura del sesto sigillo, l’eletta schiera dei riformatori – i 144.000 segnati dalle dodici tribù d’Israele – guida la turba innumerevole di ogni gente, tribù, popolo e lingua (Ap 7, 3-4.13). Questi eletti e magnanimi duci, separati dalla volgare schiera per più alta milizia, vengono destinati a difendere liberamente la fede – ad essi è data la “plena libertas ad innovandam christianam religionem” -; sono gli amici di Dio a lui noti per nome, configurati in Cristo crocifisso e votati al martirio.
All’interno della Chiesa del sesto stato, l’Ordine dei Minori – “ordo plurium personarum” – è assimilabile alla persona umana di Cristo. Come questa si sviluppò fino all’età virile, così dovrà essere per l’ordo evangelicus piantato da Francesco, che avrà bisogno (a differenza di Cristo che stette poco tempo nel mondo) di due o tre generazioni per svilupparsi prima di subire una condanna simile a quella di Cristo [4]. La sua maturità coincide, verso il 1300, con il terzo inizio del sesto stato, cioè con il rinnovarsi per opera dello Spirito di Cristo, nel suo secondo avvento, della pianta seminata da Francesco. Questa concezione dell’Ordine francescano come individuo in sviluppo che, perfettamente maturato, diventa il novus ordo preconizzato da Gioacchino da Fiore per l’età dello Spirito, si differenzia da quella di Bonaventura, che aveva invece distinto i Francescani del proprio tempo – e quindi anche gli Spirituali – dall’Ordine finale che dominerà fino ai confini della terra. Alla terza apertura del sesto sigillo nuovi san Giovanni vengono inviati a predicare al mondo come al tempo degli Apostoli. Ma Giovanni non designa solo un Ordine, perché Olivi lascia aperta la possibilità di rivelazioni individuali, avute da “singulares persone”, perfetti imitatori di Cristo votati, con la loro “lingua erudita”, al compito della conversione universale.
[LSA, cap. X, Ap 10, 11] “Et dixit michi: Oportet te iterum prophetare in gentibus et populis et linguis et regibus multis”. In ipsa sapientia libri expresse continetur quod oportet iterum predicari evangelium in toto orbe, et Iudeis et gentibus, et totum orbem finaliter converti ad Christum. Sed quod per istum hoc esset implendum non poterat sciri nisi per spiritualem revelationem, et hoc dico prout per Iohannem designantur hic singulares persone quia, prout per ipsum designatur in communi ordo evangelicus et contemplativus, scitur ex ipsa intelligentia libri quod per illum ordinem debet hoc impleri.
Nei cinque cicli settenari della prima cantica il sesto stato è segnato dall’apertura della porta della Città di Dite (Inf. IX, 89-90); dall’ascesa di Gerione dall’abisso (Inf. XVI, 106-136); dal precipitoso passaggio dalla quinta alla sesta bolgia (Inf. XXIII, 1-57) e poi dalle trasformazioni della settima, dove i ladri fiorentini si mutano in serpenti e viceversa (Inf. XXIV-XXV); dal chinarsi di Anteo sul fondo dell’inferno (Inf. XXXI, 136-145); dal passaggio del centro della terra, con la conversione di Virgilio sull’anca di Lucifero, passaggio verso la sesta età, quella della Chiesa, descritta nel Purgatorio.
Ma i temi propri del sesto stato sono diffusi ovunque, intrecciati con quelli degli altri stati, e alla loro esegesi rinviano precise parole-chiave incardinate nel senso letterale dei versi. L’esegesi dell’angelo del sesto sigillo è già centrale nel primo canto del poema.
La novità che il sesto stato, per eccellenza stato di rinnovamento di questo secolo, arreca nell’inferno è una novità fittizia: l’apertura della porta della Città di Dite non è vera novità, perché essa è stata chiusa dall’ostinazione dei diavoli, recidivi dopo l’apertura della porta dell’inferno da parte di Cristo prefigurata dalla venuta di Ercole all’Ade, per cui Cerbero “ne porta ancor pelato il mento e ’l gozzo”; Gerione viene su ad un “novo cenno” di Virgilio, ma è figura della frode dalla velenosa coda aculeata; il nuovo prodotto dalle trasformazioni reciproche di serpenti e uomini è qualcosa di incompiuto perché l’uomo razionale, creato nel sesto stato, regredisce allo stato precedente.
L’Inferno è il luogo della durezza lapidea, dell’impetrarsi, del parlare duro di cose dure a dirsi, del duro giudizio, del senso duro della scritta al sommo della porta, dei duri lamenti, dei duri demoni, dei duri veli del gelo, della gravezza. Nell’Inferno vige l’imposizione data a Daniele dall’angelo sotto il sesto sigillo dell’Antico Testamento: “Ora tu, Daniele, chiudi queste parole e sigilla questo libro fino al tempo stabilito” (Dn 12, 4), che era la sesta età nella quale apparve Cristo e in particolare il sesto stato della sua Chiesa nella quale il libro doveva essere più pienamente aperto, non però ai malevoli e ai maldisposti. Questa durezza è rotta dall’invito di Dante ai dannati perché parlino. Far parlare liberamente, per dettato interiore, è la principale prerogativa del sesto stato – la nuova età che tanto s’aspetta, quella che ode del “dolce stil novo” e delle “nove rime” -, ed è tema che la poesia canta per intero, sia pure per un attimo, anche nella vecchia roccia infernale. Appartiene alla sesta chiesa il parlare liberamente di Cristo – ad essa è dato l’ “ostium apertum”, che è “ostium sermonis” – , il sentire per dettato interiore, l’aprirsi della volontà. Appartiene alla sesta chiesa anche il far venire quelli che si dicono Giudei senza esserlo, mutati nel cuore e disposti a farsi battezzare e governare. Questo far venire a parlare equivale all’invito dello Spirito di Cristo a convivare, a venire con desiderio e volontario consenso, con “disio” e con “velle”, in una pausa di pace nell’eterna dannazione. All’ “affettüoso grido” del poeta le ombre di Francesca e Paolo vengono “dal voler portate” verso un momento di mutazione, sebbene limitata al successivo colloquio. Tutto l’Inferno è un contrappunto fra la durezza del giudizio e l’apertura per la parola dirompente, fin che essa dura, la pena. Un’apertura che si esprime in varie forme: muoversi sospirando nel Farinata prima immobile, ‘crollarsi’ quasi per terremoto interiore dello ‘schivo’ Ulisse, convertirsi del vento in voce in Guido da Montefeltro, tornare indietro nel cammino assegnato o separarsi dai compagni di pena, essere sforzati a parlare anche malvolentieri, non poterlo negare o mostrare fretta di farlo, arrestarsi obliando il martirio, levarsi per poi ricadere, sollevarsi da atti bestiali per ritornare a essi dopo aver parlato, come nel conte Ugolino. In tante lingue, che parlano come per sé stesse mosse, sta un solo desiderio, il vivere ancora nel libro che è stato altrui aperto.
Se nell’Inferno il sesto stato non si realizza mai compiutamente, anche il settimo, che gli è strettamente connesso, non può trovare un luogo autonomo. Ciò non toglie che temi del settimo stato (e della settima visione) siano ben presenti in modo diffuso. Ad esempio, quelli relativi alla settima chiesa assumono particolare rilievo nella descrizione degli ignavi a Inf. III. Tempo del silenzio, della serena pace, del riposo dalle ansiose fatiche, il settimo stato subentra dopo le terribili tentazioni inferte, con un martirio non corporale ma psicologico, dai carnefici dell’Anticristo nel sesto. Come ogni momento della storia umana partecipa dell’imitazione di Cristo, che raggiunge l’acme nel sesto stato, così in ogni periodo si verifica una sua “quietatio”, una pausa di pace, di quiete, di silenzio propria del settimo. Così Francesca parla e ascolta “mentre che ’l vento, come fa, ci tace”. Il vento – “la bufera infernal, che mai non resta” – designa il fluttuare tempestoso delle passioni nel cuore.
PURGATORIO
(sesta età del mondo)
Dopo le prime cinque età del mondo (corrispondenti all’Antico Testamento, la gioachimita età del Padre), che hanno segnato la discesa a spirale per i cinque cicli settenari dell’Inferno, con il Purgatorio inizia la sesta età, quella di Cristo (l’età del Figlio), che ha sette stati, corrispondenti ai sette stati della Chiesa. Dapprima, nel cosiddetto ‘antipurgatorio’, si registrano in successione temi prevalenti dei primi cinque stati. Il sesto stato della sesta età (con cui si apre l’età dello Spirito) inizia con l’apertura della porta di san Pietro (la porta del Purgatorio). Questo sesto stato procede anch’esso con andamento settenario, per cui ha sette momenti, coincidenti principalmente con un girone della montagna, ma non del tutto, perché sempre l’ordine spirituale del poema rompe i confini letterali e le divisioni materiali, concatenando i temi di uno stato prevalente con quelli dello stato che precede e con quelli dello stato che segue e intrecciandoli con temi di tutti gli altri stati.
È spiegato nel Notabile VII del prologo della Lectura che il sesto stato della Chiesa è il secondo stato di Cristo e ha i suoi sette tempi per cui la Chiesa, come fosse una sfera, si ricongiunge circolarmente al primo apostolico tempo. Il settimo dei sette momenti del sesto stato della Chiesa coincide con il settimo stato generale della Chiesa, che nel poema corrisponde in parte all’ultimo girone della montagna (il settimo, dove si purgano i lussuriosi) e in parte all’Eden, con cui si chiude la seconda cantica.
Il Purgatorio dunque, secondo il senso spirituale, è la storia della Chiesa che corre verso il suo sesto stato, punto di riferimento di tutte le vicende umane, antiche e moderne, che ad esso cooperano. Non è casuale che nel sesto girone della montagna sia chiarificata e riconosciuta, nel colloquio con Bonagiunta da Lucca, la poetica delle “nove rime” di Dante, già “sesto tra cotanto senno” cooptato nella “bella scola” dei poeti del Limbo.
La vasta zona dedicata al sesto momento del sesto stato della Chiesa ha il suo inizio nel forte terremoto che scuote la montagna mentre Dante e Virgilio si trovano ancora nel quinto girone (Purg. XX, 124-141). Essa è stata compiutamente esaminata altrove.
Il settimo stato dell’Olivi si realizza parte in questa vita (come pregustazione in terra della gloria eterna, cioè fin sulla cima della montagna) e in parte nella futura (nel senso della quiete delle anime beate in attesa della resurrezione, che è la materia del Paradiso).
canti |
I ciclo – fino al sesto sato |
stati |
|
I |
Catone |
Radici, I |
|
II |
angelo nocchiero, Casella |
I – II |
|
III |
scomunicati |
III |
“Antipurgatorio” |
IV |
salita al primo balzo, Belacqua |
IV – V |
|
V |
negligenti morti per violenza |
V |
|
VI |
Sordello |
V |
|
VII-VIII |
valletta dei principi |
V |
|
IX |
apertura della porta |
VI – sesto stato |
|
canti |
II ciclo – il sesto stato della sesta età |
stati |
gironi |
X-XII |
superbi |
I |
I |
XIII-XIV-XV |
invidiosi |
II |
II |
XV-XVIII |
iracondiordinamento del Purgatorio,amore e libero arbitrio |
III |
IIIIV |
XVIII-XIX |
accidiosi |
IV |
IV |
XIX-XX |
avari e prodighi |
V |
V |
XX (terremoto) -XXV |
Stazio, golosi, generazione dell’uomo |
VI |
VI |
XXV-XXVI |
lussuriosi |
VII – settimo stato |
VII |
XXVIIXXVIII-XXXIII |
muro di fuoconotte stellata, termine dell’ascesaEden |
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PARADISO
(settimo stato della Chiesa)
Il Primo Mobile è il nono e penultimo cielo, ma è il sesto se si parte dal cielo del Sole. È anche il cielo più segnato dal tema del “punto”, cui è assimilato il sesto stato. Questo consente di ricostruire l’ordine spirituale del Paradiso ponendo la cerniera nel quarto cielo del Sole. Con il terzo cielo di Venere termina infatti il cono d’ombra gettato dalla terra, secondo la dottrina di Alfragano (Par. IX, 118-119), mentre prima di descrivere l’ascesa al cielo del Sole il poeta invita il lettore a rivolgersi “a l’alte rote” (Par. X, 7-27). Senza la cesura recisa che, nella prima cantica, divide i dannati puniti all’interno della Città di Dite da quelli che ne stanno fuori e, nella seconda cantica, separa le anime purganti nei sette gironi della montagna dalle anime che attendono fuori della porta (il cosiddetto ‘antipurgatorio’), anche nel Paradiso gli spiriti che si manifestano nei primi tre cieli della Luna, di Mercurio e di Venere (spiriti che mancarono ai voti, spiriti che furono attivi per conseguire onore e fama, spiriti amanti) si distinguono per minore perfezione rispetto a quelli che appaiono nei cieli seguenti.
I dieci cieli del Paradiso si mostrano pertanto ordinati in due gruppi di settenari, corrispondenti agli stati della Chiesa (e alle loro prerogative) secondo Olivi, parzialmente combacianti (da 1 a 7 e da 4 a 10: coincidono gli ultimi quattro numeri del primo gruppo e i primi quattro del secondo).
I Se si considera il primo settenario, nel primo cielo della Luna si affronta la questione dell’inadempienza dei voti, che ha corrispondenza con i temi propri della prima chiesa di Efeso, il cui nome, se interpretato, oscilla tra la fervida volontà iniziale e la remissione (l’essenza del voto consiste nella volontà).
II Nel secondo cielo di Mercurio, le battaglie sostenute dal “sacrosanto segno” dell’aquila corrispondono allo stato dei martiri, che è dei combattenti, e anche la dottrina dell’incarnazione e della passione di Cristo, esposta successivamente da Beatrice, fa parte della tematica, perché l’intera Chiesa, fondata sulla passione di Cristo, imita con i martiri la sua croce, e questo giova assai al suo radicamento.
III Nel terzo cielo di Venere, Carlo Martello spiega al modo di un dottore del terzo stato la diversità delle indoli umane e come gli uomini, non assecondandole, errino; nello stesso cielo compare Folchetto di Marsiglia, che da vescovo di Tolosa combatté l’eresia albigese.
IV – I Al quarto cielo del Sole, primo del secondo gruppo di settenari per l’esaltazione della vita apostolica (propria del primo stato e rinnovata nel sesto), si può connettere il tema stesso del sole inteso nell’esegesi della quarta tromba (Ap 8, 12): “Per solem videtur hic designari solaris vita et contemplatio summorum anachoritarum, qui fuerunt patres et exempla aliorum, vel solaris sapientia et doctrina summorum doctorum”. Sapienza e contemplazione, dottori del terzo e anacoreti del quarto stato, concorrono, come Domenico e Francesco – “L’un fu tutto serafico in ardore; / l’altro per sapïenza in terra fue / di cherubica luce uno splendore” (Par. XI, 37-39) – con mutua cortesia a infiammare il meriggio dell’universo.
V – II Il quinto cielo di Marte, secondo (come il secondo stato dei martiri) per l’esaltazione della croce di Cristo formata dai lumi dei combattenti per la fede, reca in sé il tema del condiscendere proprio del quinto stato sia nel pio discendere per la croce di Cacciaguida verso Dante, sia nella decadenza degli “alti Fiorentini”, cioè delle antiche famiglie, assimilate agli anacoreti, un tempo alti e poi vòlti in basso.
VI – III Il sesto cielo di Giove, terzo (come il terzo stato dei dottori) per la spiegazione di profonde verità di fede, sviluppa il motivo, proprio della sesta chiesa, della “porta aperta”. Aprire la porta significa illuminare e rendere acuto l’intelletto che penetra nell’occulto delle Scritture, e anche dare efficacia spirituale a penetrare nel cuore di chi ascolta: così l’aquila apre la “latebra” di Dante, così l’occhio di Rifeo Troiano fu da Dio aperto alla futura redenzione.
VII – IV Nel settimo cielo di Saturno, quarto (come il quarto stato degli anacoreti), “si tace … la dolce sinfonia di paradiso” (Par. XXI, 58-60), e il tacere è tema del settimo stato. Ivi si mostrano gli spiriti contemplativi, principali soggetti del quarto stato, proprio degli anacoreti: se si conta a partire dal quarto cielo del Sole, considerando questo come primo ovvero come nuovo avvio del ciclo settenario, il cielo di Saturno è appunto quarto.
VIII (V) Il settimo cielo di Saturno è seguito dal cielo delle Stelle fisse – ottavo e quinto -, dove si mostrano le schiere del trionfo di Cristo che discendono dall’Empireo (il quinto stato è caratterizzato dalla “condescensio”) e si celebra il trionfo di Maria (sviluppo del tema, proprio della quinta chiesa, della mirabile bellezza della Chiesa, regina ornata di veste aurea per la carità che unisce e circondata dalla varietà nei doni e nelle grazie delle diverse membra). È inoltre ricapitolazione dei precedenti sette, secondo un’interpretazione più volte presente nella Lectura dell’essere ‘ottavo’. Per questo Dante, stando nel segno dei Gemelli, riguarda in giù e torna col viso per tutte quante le sette precedenti sfere (Par. XXII, 124-154).
IX (VI) Segue il Primo Mobile o Cristallino – nono e sesto cielo –, dove il poeta vede il punto luminosissimo – Dio – da cui dipende il cielo e la terra, circondato dai nove cerchi di fuoco (Par. XXVIII, 16-18, 40-42, 94-96). Il sesto stato, secondo quanto Olivi afferma nel Notabile VIII, è il “punto” da cui dipendono gli altri stati, perché appare nel testo dell’Apocalisse in modo più evidente degli altri, che da esso assumono chiarezza quanto alla loro manifestazione nella storia, come l’intelligenza delle cose ordinate ad un fine dipende dal fine.
X (VII) La quiete e l’immobilità dell’Empireo, decimo cielo – il “ciel de la divina pace” -, corrispondono al settimo stato, di cui è propria la “quietatio”, il silenzio (tema anticipato dal tacere di Beatrice in apertura del canto XXIX), e la pace.
Il Paradiso avrebbe pertanto un ordine spirituale del seguente tipo:
cielo |
stato |
cielo |
||
I |
LUNA |
I |
||
II |
MERCURIO |
II |
||
III |
VENERE |
III |
||
IV |
SOLE |
IV |
I |
SOLE |
V |
MARTE |
V |
II |
MARTE |
VI |
GIOVE |
VI |
III |
GIOVE |
VII |
SATURNO |
VII |
IV |
SATURNO |
VIII |
V |
STELLE FISSE |
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IX |
VI |
PRIMO MOBILE |
||
X |
VII |
EMPIREO |
Oltre ai luoghi sopra indicati, i temi del sesto e del settimo stato si rinvengono in più punti, intrecciati con altri.
Con un procedimento di arte della memoria, il senso letterale della Commedia contiene parole-chiave che rinviano al commento apocalittico dell’Olivi. Queste parole-chiave, vere e proprie imagines agentes, sollecitano la memoria del lettore verso un testo dottrinale che già conosce, ma che rilegge parafrasato in volgare e profondamente aggiornato secondo gli intenti del poeta, nei versi che prestano “e piedi e mano” alla dottrina e la vestono con esempi contemporanei e familiari. Il senso letterale, rivolto a chiunque, ne racchiude altri ‘mistici’ rivolti a un preciso pubblico – agli Spirituali francescani, e forse non solo ad essi, se la Lectura si fosse diffusa anche presso altri Ordini -, a coloro cioè che con la predicazione avrebbero potuto riformare la Chiesa e con la “lingua erudita” – il volgare di Dante – convertire il mondo. La riforma, come pure il ristretto pubblico che avrebbe dovuto attuarla, non si realizzò, per le note vicende che travolsero gli Spirituali e il loro stesso libro-vessillo.
Nella Topografia spirituale della Commedia, per quasi ogni verso, o gruppo di versi, collegamenti ipertestuali conducono al “panno” esegetico fornito dalla Lectura super Apocalipsim, sul quale il “buon sartore” ha fatto “la gonna” (Par. XXXII, 139-141).
La persistenza di un “panno” – cioè di un altro testo da cui trarre i significati spirituali del poema, materialmente elaborati attraverso le parole – è anche servita a mantenere l’unità e la coerenza interna dell’ordito. Si può supporre che il poema sia stato pubblicato per gruppi di canti, non più modificabili [5]: sempre stava innanzi al poeta la medesima esegesi teologica con le innumerevoli possibilità di variazioni tematiche e di sviluppi.
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[1] Cfr. LSA, cap. XVII, Ap 17, 9: «Et subdit Ricardus quod per septem reges, et per septem capita designatos, designatur hic universus populus malorum, qui secundum septem status huius seculi determinantur. Primus scilicet ab Adam usque ad Noe. Secundus a Noe usque ad Abraam. Tertius ab Abraam usque ad Moysen. Quartus a Moys[e] usque ad David. Quintus a David usque ad Christum. Sextus a Christo usque ad Antichristum. Septimus autem sub Antichristo attribuitur». Cfr. PETRI IOHANNIS OLIVI Lectura super Lucam, Lc 1, 26, ed. F. IOZZELLI, Grottaferrata 2010 (Collectio Oliviana, V), pp. 187-188: «Signanter autem dicitur in sexto mense, quia Christus uenit in sexta mundi etate, et iterum post quinque notabiles synagoge decursus: nam primo, cum sola circumcisione fuit sub patribus per quadringentos annos; secundo, accepta lege, fuit sub iudicibus per tantumdem temporis; tertio, proficiens in regnum, fuit sub regibus; quarto, assumpto plenius spiritu prophetico, fuit sub prophetis sollempnioribus, scilicet sub Elia, Ysaia et Yeremia etc.; quinto, restituto templo et urbe, fuit sub pontificibus quibus, per Aggeum et Zachariam et Malachiam iterata prophetia de Christo et eius precursore Elia, factum est silentium prophetarum, ita quod obmutuit cetus sacerdotum usque ad Iohannis ortum; et iterum in eiusdem quinti temporis sexto centenario conceptus est Christus. Sicut etiam sexto die factus est homo ad ymaginem Dei, sic conuenienter sub consimili senario factus est Christus homo, plenior Dei ymago: nam et perfectio numeri senarii, que ex omnibus partibus suis aliquotis et iterum ex ternario cum suis partibus, scilicet binario et unitate, consurgit, competit sibi et etiam reflexio ternarii per binarium, id est cultus fidei et Trinitatis per geminam caritatem».
[2] Il principio è chiaramente affermato nel notabile VIII del prologo della LSA: «[…] si omnia prima membra visionum ad invicem conferas et consimiliter omnia secunda et sic de aliis, aperte videbis omnia prima ad idem primum concorditer referri et consimiliter omnia secunda ad idem secundum et sic de aliis. Et hoc in tantum quod plena intelligentia eiusdem primi multum clarificatur ex mutua collatione omnium primorum, et idem est de omnibus secundis et tertiis et sic de aliis».
[3] A. FRUGONI, La Roma di Dante, tra il tempo e l’eterno, pp. 102-103.
[4] LSA, cap. VI, Ap 6, 12: «Secunda ratio est quia persone Christi correspondet in sexta apertione unus ordo plurium personarum sic secundum suam proportionem augendus, sicut Christus secundum suum corpus fuit usque ad perfectam etatem viriliter auctus. […] Quarta est quia, prout super evangelia ostendi, Christus parvo tempore debuit inter nos vivere et pauciori predicare […]. Nisi autem ordo evangelicus, per Franciscum renovatus, esset in multis et saltem sub duabus vel tribus generationibus propagatus et sollempnizatus, non esset nec ipse nec populus ab eo ducendus sufficienter dispositus ad tam autenticam condempnationem condempnationi Christi consimilem subeundam».
[5] Cfr. G. PADOAN, Il lungo cammino del “poema sacro”. Studi danteschi, Firenze 1993 (Biblioteca dell’ “Archivum Romanicum”, Ser. I, vol. 250), passim.