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Dic 12 2018

Dante e Gioacchino da Fiore – IX


IL QUINTO STATO (I CONDESCENSIVI)

 

1. Il quinto stato della storia della Chiesa nella ‘topografia spirituale’ della Commedia. 2. Il quinto sigillo: la Sede di Pietro, gli imperatori tedeschi e i barattieri (Ap 6, 9-11). 3. La quinta tromba (Ap 9, 1-12). 3.1. Le locuste: barattieri e Capetingi (Ap 9, 3). 3.2. Desiderio di morte nel dubbio sulla verità (Ap 9, 5-6): i “pensieri gravi” di Sigieri di Brabante (Par. X, 133-138). 3.3. “Mastro Sighier non andò guari lieto”: dal Paradiso al Fiore. 3.4. Dramma e nostalgia (Purg. VIII, 1-6). 3.5. Il distruttore della vigna (Ap 9, 11). 3.6. Certezze e opinioni di Gioacchino da Fiore secondo Olivi. 4. La quinta guerra (Ap 12, 17-18): il seme che rimane.

INDICE GENERALE – AVVERTENZE

1. Il quinto stato della storia della Chiesa nella ‘topografia spirituale’ della Commedia

 

Per quanto segua l’ordine dei ventidue capitoli dell’Apocalisse, l’Olivi suggerisce un metodo differente di comprensione e di aggregazione del testo esegetico, fondato sui sette stati, cioè sui periodi nei quali si articola la storia della Chiesa. L’Antico Testamento corrisponde alle prime cinque età del mondo, secondo la divisione tradizionale [1]: è l’età del Padre secondo Gioacchino da Fiore. Con il primo avvento di Cristo, nella carne, inizia la sesta età (l’età del Figlio), nella quale la Chiesa, come fosse un individuo, cresce e si sviluppa in sette stati. Al primo, apostolico periodo, succede il secondo dei martiri; poi, al tempo di Giustiniano, il terzo stato dei dottori che confutano con l’intelletto le eresie concorre con il quarto stato degli affettuosi anacoreti devoti al pasto eucaristico, alti per la contemplazione ma anche attivi come reggitori delle genti; a partire da Carlo Magno subentra il quinto stato aperto alla vita associata delle moltitudini, bello nel principio ma poi corrottosi fino a trasformare quasi tutta la Chiesa in una nuova Babilonia; la riforma interviene, a partire da Francesco, con il cristiforme sesto stato, fino alla sconfitta dell’Anticristo; subentra infine il silenzio e la quiete del pacifico settimo stato. Il sesto e il settimo stato (la terza età di Gioacchino da Fiore) coincidono con il secondo avvento di Cristo, nello Spirito, cioè nei suoi discepoli spirituali inviati a convertire il mondo con la predicazione; al termine del settimo stato ci sarà il terzo avvento, nel giudizio.
L’Apocalisse si articola in sette visioni: le sette chiese d’Asia, i sette sigilli, le sette trombe, la donna vestita di sole (le sette guerre sostenute dalla Chiesa), le sette coppe, il giudizio di Babylon nelle sette teste del drago, la Gerusalemme celeste. Le prime sei visioni possono essere a loro volta divise in sette momenti, ciascuno dei quali riferibile a uno dei sette stati. Assembrando, per le prime sei visioni, tutti i primi elementi (chiesa, sigillo, tromba, guerra, coppa, momento del giudizio di Babylon), tutti i secondi, i terzi e così di seguito, si ottengono sette gruppi di materia teologica, corrispondenti al complesso dei temi afferenti a ciascuno dei sette stati [2]. A questi sette gruppi se ne aggiungono altri due: l’esegesi della settima visione (senza articolazioni interne) e l’esegesi di capitoli del testo scritturale, o di parti di essi, introduttivi delle successive specificazioni delle singole visioni per settenari, che l’Olivi definisce “radicalia” o “fontalia”. Si ottengono in tal modo nove gruppi: le parti proemiali, i sette assembramenti di settenari e la settima visione. Il grande prologo della Lectura, articolato in tredici notabilia, può essere anch’esso aggregato nelle sue parti secondo i sette stati.

L’intenso travaso di parole-temi dalla Lectura nella Commedia si accompagna a un fatto strutturale. La Commedia mostra un ordine interno diverso da quello che appare al lettore: il viaggio di Dante ha un andamento di ciclici settenari, che corrispondono ai sette stati oliviani. È un ordine registrabile per zone progressive del poema dove prevalgono i temi di un singolo stato, che rompe i confini letterali stabiliti dai canti e da tutte le divisioni materiali per cerchi, gironi, cieli. Ogni stato, che ha differenti inizi, è concatenato per “concurrentia”, come le maglie di un’armatura, con quello che precede e con quello che segue. Ciascuno stato ha in sé una grande ricchezza di motivi e contiene inoltre temi di tutti gli altri, consentendo innumerevoli intrecci e variazioni. La Commedia appare, come l’Apocalisse, “libro scritto dentro e fuori” (Ap 5, 1), con duplice struttura, linguaggio e senso, letterale e spirituale. Il viaggio di Dante e la visione di Giovanni hanno la stessa causa finale, che è la beatitudine, alla quale si perviene con diverse guide, per gradi segnati da visioni sempre più nuove e ardue delle precedenti, attraverso una sempre maggiore apertura dell’arcano coperto dal velame dei sette sigilli fino al punto più alto in cui, in questa vita, è possibile vedere la verità.
Tutti i modi del linguaggio interiore al poema esprimono un processo, un viaggio dal più chiuso al più aperto, e in questo andare hanno una loro precisa collocazione ‘topografica’, uno ‘stato’ (nel senso di momento storico che ricade sulla coscienza individuale) al quale appartenere. Si possono in tal modo stendere vere e proprie mappe tematiche che comprendano l’ordine spirituale di tutta la Commedia, che aderisce a una precisa teologia della storia, sia pure modificandone profondamente le prospettive. La ciclicità dei temi permette di stabilire collegamenti inusitati tra le diverse zone; il procedere per gradi dell’illuminazione divina fa sì che episodi oscuri e quasi ermeticamente chiusi si chiariscano poi, aprendosi all’intelligenza in modo più alto.
A ogni gruppo è arbitrariamente assegnato un diverso colore: Radici (verde), I stato (verde acqua), II stato (rosso), III stato (nero), IV stato (viola), V stato (marrone), VI stato (blu), VII stato (indaco), VII visione (fucsia). Dei gruppi sono stati integralmente studiati il terzo stato e la settima visione.

 

INFERNO

(le prime cinque età del mondo)

La ‘topografia spirituale’ del poema mostra nell’Inferno cinque cicli settenari corrispondenti agli stati della Chiesa descritti dall’Olivi e ai loro temi contenuti nella Lectura. Questi cinque cicli designano le prime cinque età del mondo (riunite a loro volta nel primo stato generale, che corrisponde all’età del Padre di Gioacchino da Fiore), in quanto prefigurazione del primo avvento di Cristo e della Chiesa.
I cinque cicli settenari che si susseguono nell’Inferno a partire dal quarto canto (i primi tre canti hanno una tematica particolare) sono preceduti da cinque zone che possono essere definite ‘snodi’, dove cioè confluiscono temi provenienti da più stati, intrecciati insieme ad altri ad avviare il procedere settenario. Il centro di questi ‘snodi’ coincide con un canto (Inf. IV, X, XVII, XXVI, XXXII), ma la zona è più vasta e supera l’ambito dato dalla divisione letterale del poema.

 

Inf. I-III: da considerare al di fuori dei cicli: I primi due canti dell’Inferno sono profondamente segnati dai temi del sesto stato: cfr. Il sesto sigillo, cap. 1c, Tab. VI-3; 2a, Tab. IX, X. Inf. III è riferibile al settimo stato (per gli ignavi) e in parte al quinto (per l’episodio di Caronte): cfr. ibid., cap. 7a, Tab. XLIV-XLV.

canti

I ciclo

stati

cerchi

IV

Limbo

Radici, I (I snodo)

I

V

lussuriosi

II

II

VI

golosi

III

III

VII

avari e prodighi, Palude Stigia

(iracondi e accidiosi)

IIIIVV

IV-V

VIII

Palude Stigia, Città di Dite

V

V

IX

apertura della porta della Città di Dite

VVI

 

canti

II ciclo

stati

cerchi

IX-X-XI

eretici, ordinamento dell’Inferno

I (II snodo)

VI

XII

violenti contro il prossimo

II

VII (girone 1)

XIII

violenti contro sé

III

        (girone 2)

XIV

violenti contro Dio: bestemmiatori

IV

        (girone 3)

XV-XVI

violenti contro Dio: sodomiti

V

XVI

XVII

ascesa di Gerione

Gerione,  violenti contro Dio: usurai

VI

canti

III ciclo

stati

cerchi

XVII

volo verso Malebolge

I (III snodo)

 

XVIII

ruffiani, lusingatori

Radici II

VIII (bolgia 1, 2)

XIX

simoniaci

III

(bolgia 3)

XX

indovini

IV

(bolgia 4)

XXI-XXII

barattieri

V

(bolgia 5)

XXIII

ipocriti

VVI

(bolgia 6)

XXIV-XXV

ladri

VI

(bolgia 7)

canti

IV ciclo

stati

cerchi

XXVI

consiglieri di frode (greci)

I (IV snodo)

(bolgia 8)

XXVII

consiglieri di frode (latini)

II

XXVIII-XXIX

seminatori di scandalo e di scisma

III

(bolgia 9)

XXIX

falsatori

IV

  (bolgia 10)

XXX

falsatori

IVV

XXXI

giganti

VVI

 

canti

V ciclo

stati

cerchi

XXXII

Cocito: Caina, Antenora

I (V snodo)

IX

XXXIII

Antenora, Tolomea

II

XXXIV

Giudecca

IIIIVV

XXXIV

volgersi di Virgilio sull’anca di Lucifero

VI

 

 

PURGATORIO

(sesta età del mondo)

Dopo le prime cinque età del mondo (corrispondenti all’Antico Testamento, la gioachimita età del Padre), che hanno segnato la discesa a spirale per i cinque cicli settenari dell’Inferno, con il Purgatorio inizia la sesta età, quella di Cristo (l’età del Figlio), che ha sette stati, corrispondenti ai sette stati della Chiesa. Dapprima, nel cosiddetto ‘antipurgatorio’, si registrano in successione temi prevalenti dei primi cinque stati. Il sesto stato della sesta età (con cui si apre l’età dello Spirito) inizia con l’apertura della porta di san Pietro (la porta del Purgatorio). Questo sesto stato procede anch’esso con andamento settenario, per cui ha sette momenti, coincidenti principalmente con un girone della montagna, ma non del tutto, perché sempre l’ordine spirituale del poema rompe i confini letterali e le divisioni materiali, concatenando i temi di uno stato prevalente con quelli dello stato che precede e con quelli dello stato che segue e intrecciandoli con temi di tutti gli altri stati.
È spiegato nel Notabile VII del prologo della Lectura che il sesto stato della Chiesa è il secondo stato di Cristo e ha i suoi sette tempi per cui la Chiesa, come fosse una sfera, si ricongiunge circolarmente al primo apostolico tempo. Il settimo dei sette momenti del sesto stato della Chiesa coincide con il settimo stato generale della Chiesa, che nel poema corrisponde in parte all’ultimo girone della montagna (il settimo, dove si purgano i lussuriosi) e in parte all’Eden, con cui si chiude la seconda cantica.
Il Purgatorio dunque, secondo il senso spirituale, è la storia della Chiesa che corre verso il suo sesto stato, punto di riferimento di tutte le vicende umane, antiche e moderne, che ad esso cooperano. Non è casuale che nel sesto girone della montagna sia chiarificata e riconosciuta, nel colloquio con Bonagiunta da Lucca, la poetica delle “nove rime” di Dante, già “sesto tra cotanto senno” cooptato nella “bella scola” dei poeti del Limbo.
Il settimo stato dell’Olivi si realizza parte in questa vita (come pregustazione in terra della gloria eterna, cioè fin sulla cima della montagna) e in parte nella futura (nel senso della quiete delle anime beate in attesa della resurrezione, che è la materia del Paradiso).

canti

I ciclo – fino al sesto sato

stati

 

I

Catone

Radici, I

 

II

angelo nocchiero, Casella

–  II

 

III

scomunicati

III

“Antipurgatorio”

IV

salita al primo balzo, Belacqua

IV  –  V

V

negligenti morti per violenza

V

VI

Sordello

V

VII-VIII

valletta dei principi

V

IX

apertura della porta

VI sesto stato

 

 

canti

II ciclo – il sesto stato della sesta età

stati

gironi

X-XII

superbi

I

I

XIII-XIV-XV

invidiosi

II

II

XV-XVIII

iracondi

ordinamento del Purgatorio,

amore e libero arbitrio

III

III

IV

XVIII-XIX

accidiosi

IV

IV

XIX-XX

avari e prodighi

V

V

XX (terremoto)  -XXV

Stazio, golosi, generazione dell’uomo

VI

VI

XXV-XXVI

lussuriosi

VII – settimo stato

VII

XXVII

XXVIII-XXXIII

 muro di fuoco

notte stellata, termine dell’ascesa

Eden

 

 

PARADISO

(settimo stato della Chiesa)

Il Primo Mobile è il nono e penultimo cielo, ma è il sesto se si parte dal cielo del Sole. È anche il cielo più segnato dal tema del “punto”, cui è assimilato il sesto stato. Questo consente di ricostruire l’ordine spirituale del Paradiso ponendo la cerniera nel quarto cielo del Sole. Con il terzo cielo di Venere termina infatti il cono d’ombra gettato dalla terra, secondo la dottrina di Alfragano (Par. IX, 118-119), mentre prima di descrivere l’ascesa al cielo del Sole il poeta invita il lettore a rivolgersi “a l’alte rote” (Par. X, 7-27). Senza la cesura recisa che, nella prima cantica, divide i dannati puniti all’interno della Città di Dite da quelli che ne stanno fuori e, nella seconda cantica, separa le anime purganti nei sette gironi della montagna dalle anime che attendono fuori della porta (il cosiddetto ‘antipurgatorio’), anche nel Paradiso gli spiriti che si manifestano nei primi tre cieli della Luna, di Mercurio e di Venere (spiriti che mancarono ai voti, spiriti che furono attivi per conseguire onore e fama, spiriti amanti) si distinguono per minore perfezione rispetto a quelli che appaiono nei cieli seguenti.
I dieci cieli del Paradiso si mostrano pertanto ordinati in due gruppi di settenari, corrispondenti agli stati della Chiesa (e alle loro prerogative) secondo l’Olivi, parzialmente combacianti (da 1 a 7 e da 4 a 10: coincidono gli ultimi quattro numeri del primo gruppo e i primi quattro del secondo).

I  Se si considera il primo settenario, nel primo cielo della Luna si affronta la questione dell’inadempienza dei voti, che ha corrispondenza con i temi propri della prima chiesa di Efeso, il cui nome, se interpretato, oscilla tra la fervida volontà iniziale e la remissione (l’essenza del voto consiste nella volontà).

II  Nel secondo cielo di Mercurio, le battaglie sostenute dal “sacrosanto segno” dell’aquila corrispondono allo stato dei martiri, che è dei combattenti, e anche la dottrina dell’incarnazione e della passione di Cristo, esposta successivamente da Beatrice, fa parte della tematica, perché l’intera Chiesa, fondata sulla passione di Cristo, imita con i martiri la sua croce, e questo giova assai al suo radicamento.

III  Nel terzo cielo di Venere, Carlo Martello spiega al modo di un dottore del terzo stato la diversità delle indoli umane e come gli uomini, non assecondandole, errino; nello stesso cielo compare Folchetto di Marsiglia, che da vescovo di Tolosa combatté l’eresia albigese.

IV – I  Al quarto cielo del Sole, primo del secondo gruppo di settenari per l’esaltazione della vita apostolica (propria del primo stato e rinnovata nel sesto), si può connettere il tema stesso del sole inteso nell’esegesi della quarta tromba (Ap 8, 12): “Per “solem” videtur hic designari solaris vita et contemplatio summorum anachoritarum, qui fuerunt patres et exempla aliorum, vel solaris sapientia et doctrina summorum doctorum”. Sapienza e contemplazione, dottori del terzo e anacoreti del quarto stato, concorrono, come Domenico e Francesco – “L’un fu tutto serafico in ardore; / l’altro per sapïenza in terra fue / di cherubica luce uno splendore” (Par. XI, 37-39) – con mutua cortesia a infiammare il meriggio dell’universo.

V – II  Il quinto cielo di Marte, secondo (come il secondo stato dei martiri) per l’esaltazione della croce di Cristo formata dai lumi dei combattenti per la fede, reca in sé il tema del condiscendere proprio del quinto stato sia nel pio discendere per la croce di Cacciaguida verso Dante, sia nella decadenza degli “alti Fiorentini”, cioè nella decadenza delle antiche famiglie, assimilate agli anacoreti, un tempo alti e poi vòlti in basso.

VI – III  Il sesto cielo di Giove, terzo (come il terzo stato dei dottori) per la spiegazione di profonde verità di fede, sviluppa il motivo, proprio della sesta chiesa, della “porta aperta”. Aprire la porta significa illuminare e rendere acuto l’intelletto che penetra nell’occulto delle Scritture, e anche dare efficacia spirituale a penetrare nel cuore di chi ascolta: così l’aquila apre la “latebra” di Dante, così l’occhio di Rifeo Troiano fu da Dio aperto alla futura redenzione.

VII – IV Nel settimo cielo di Saturno, quarto (come il quarto stato degli anacoreti), “si tace … la dolce sinfonia di paradiso” (Par. XXI, 58-60), e il tacere è tema del settimo stato. Ivi si mostrano gli spiriti contemplativi, principali soggetti del quarto stato, proprio degli anacoreti: se si conta a partire dal quarto cielo del Sole, considerando questo come primo ovvero come nuovo avvio del ciclo settenario, il cielo di Saturno è appunto quarto.

VIII (V) Il settimo cielo di Saturno è seguito dal cielo delle Stelle fisse – ottavo e quinto -, dove si mostrano le schiere del trionfo di Cristo che discendono dall’Empireo (il quinto stato è caratterizzato dalla “condescensio”) e si celebra il trionfo di Maria (sviluppo del tema, proprio della quinta chiesa, della mirabile bellezza della Chiesa, regina ornata di veste aurea per la carità che unisce e circondata dalla varietà nei doni e nelle grazie delle diverse membra). È inoltre ricapitolazione dei precedenti sette, secondo un’interpretazione più volte presente nella Lectura dell’essere ‘ottavo’. Per questo Dante, stando nel segno dei Gemelli, riguarda in giù e torna col viso per tutte quante le sette precedenti sfere (Par. XXII, 124-154).

IX (VI) Segue il Primo Mobile o Cristallino – nono e sesto cielo –, dove il poeta vede il punto luminosissimo – Dio – da cui dipende il cielo e la terra, circondato dai nove cerchi di fuoco (Par. XXVIII, 16-18, 40-42, 94-96). Il sesto stato, secondo quanto Olivi afferma nel Notabile VIII, è il “punto” da cui dipendono gli altri stati, perché appare nel testo dell’Apocalisse in modo più evidente degli altri, che da esso assumono chiarezza quanto alla loro manifestazione nella storia, come l’intelligenza delle cose ordinate ad un fine dipende dal fine.

X (VII) La quiete e l’immobilità dell’Empireo, decimo cielo – il “ciel de la divina pace” -, corrispondono al settimo stato, di cui è propria la “quietatio”, il silenzio (tema anticipato dal tacere di Beatrice in apertura del canto XXIX), e la pace.

Il Paradiso avrebbe pertanto un ordine spirituale del seguente tipo:

cielo

stato

cielo

I

LUNA

I

II

MERCURIO

II

III

VENERE

III

IV

SOLE

IV

I

SOLE

V

MARTE

V

II

MARTE

VI

GIOVE

VI

III

GIOVE

VII

SATURNO

VII

IV

SATURNO

VIII

V

STELLE FISSE

IX

VI

PRIMO MOBILE

X

VII

EMPIREO

 

Con un procedimento di arte della memoria, il senso letterale della Commedia contiene parole-chiave che rinviano al commento apocalittico dell’Olivi. Queste parole-chiave, vere e proprie imagines agentes, sollecitano la memoria del lettore verso un testo dottrinale che già conosce, ma che rilegge parafrasato in volgare e profondamente aggiornato secondo gli intenti del poeta, nei versi che prestano “e piedi e mano” alla dottrina e la vestono con esempi contemporanei e familiari. Il senso letterale, rivolto a chiunque, ne racchiude altri ‘mistici’ rivolti a un preciso pubblico – agli Spirituali francescani, e forse non solo ad essi, se la Lectura si fosse diffusa anche presso altri Ordini -, a coloro cioè che con la predicazione avrebbero potuto riformare la Chiesa e con la “lingua erudita” – il volgare di Dante – convertire il mondo. La riforma, come pure il ristretto pubblico che avrebbe dovuto attuarla, non si realizzò, per le note vicende che travolsero gli Spirituali e il loro stesso libro-vessillo.
Nella Topografia spirituale della Commedia, per quasi ogni verso, o gruppo di versi, collegamenti ipertestuali conducono al “panno” esegetico fornito dalla Lectura super Apocalipsim, sul quale il “buon sartore” ha fatto “la gonna” (Par. XXXII, 139-141).
La persistenza di un “panno” – cioè di un altro testo da cui trarre i significati spirituali del poema, materialmente elaborati attraverso le parole – è anche servita a mantenere l’unità e la coerenza interna dell’ordito. Si può supporre che il poema sia stato pubblicato per gruppi di canti, non più modificabili [3]: sempre stava innanzi al poeta la medesima esegesi teologica con le innumerevoli possibilità di variazioni tematiche e di sviluppi.
Come riassunto nelle tabelle, nella ‘topografia spirituale’ della Commedia la semantica del quinto stato è prevalente (vi sono comunque intrecciati elementi relativi ad altri stati), nelle seguenti zone:

Inferno

1) cerchio V (iracondi e accidiosi, Palude Stigia).

2) cerchio VII, 3° girone (violenti contro Dio: sodomiti).

3) cerchio VIII, 5a bolgia (barattieri).

4) cerchio VIII, 10a bolgia (falsatori) – Giganti.

5) cerchio IX (discesa per il pelo di Lucifero).

Purgatorio

1) “antipurgatorio”: pigri, negligenti morti per violenza, valletta dei principi.

2) girone 5° (avari e prodighi).

Il numero del girone corrisponde allo stato; concorrono però temi relativi a tutti gli altri stati, a volte in modo significativo.

Paradiso

Cielo di Marte (V), Cielo Stellato (VIII)

Qui di seguito ci si limiterà alle citazioni di Gioacchino da Fiore presenti nella Lectura.

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[1] Cfr. LSA, cap. XVII, Ap 17, 9: «Et subdit Ricardus quod per septem reges, et per septem capita designatos, designatur hic universus populus malorum, qui secundum septem status huius seculi determinantur. Primus scilicet ab Adam usque ad Noe. Secundus a Noe usque ad Abraam. Tertius ab Abraam usque ad Moysen. Quartus a Moys[e] usque ad David. Quintus a David usque ad Christum. Sextus a Christo usque ad Antichristum. Septimus autem sub Antichristo attribuitur». Cfr. PETRI IOHANNIS OLIVI Lectura super Lucam, Lc 1, 26, ed. F. Iozzelli, Grottaferrata 2010 (Collectio Oliviana, V), pp. 187-188: «Signanter autem dicitur in sexto mense, quia Christus uenit in sexta mundi etate, et iterum post quinque notabiles synagoge decursus: nam primo, cum sola circumcisione fuit sub patribus per quadringentos annos; secundo, accepta lege, fuit sub iudicibus per tantumdem temporis; tertio, proficiens in regnum, fuit sub regibus; quarto, assumpto plenius spiritu prophetico, fuit sub prophetis sollempnioribus, scilicet sub Elia, Ysaia et Yeremia etc.; quinto, restituto templo et urbe, fuit sub pontificibus quibus, per Aggeum et Zachariam et Malachiam iterata prophetia de Christo et eius precursore Elia, factum est silentium prophetarum, ita quod obmutuit cetus sacerdotum usque ad Iohannis ortum; et iterum in eiusdem quinti temporis sexto centenario conceptus est Christus. Sicut etiam sexto die factus est homo ad ymaginem Dei, sic conuenienter sub consimili senario factus est Christus homo, plenior Dei ymago: nam et perfectio numeri senarii, que ex omnibus partibus suis aliquotis et iterum ex ternario cum suis partibus, scilicet binario et unitate, consurgit, competit sibi et etiam reflexio ternarii per binarium, id est cultus fidei et Trinitatis per geminam caritatem».

[2] Il principio è chiaramente affermato nel notabile VIII del prologo della LSA: «[…] si omnia prima membra visionum ad invicem conferas et consimiliter omnia secunda et sic de aliis, aperte videbis omnia prima ad idem primum concorditer referri et consimiliter omnia secunda ad idem secundum et sic de aliis. Et hoc in tantum quod plena intelligentia eiusdem primi multum clarificatur ex mutua collatione omnium primorum, et idem est de omnibus secundis et tertiis et sic de aliis».

[3] Cfr. G. PADOAN, Il lungo cammino del “poema sacro”. Studi danteschi, Firenze 1993 (Biblioteca dell’ “Archivum Romanicum”, Ser. I, vol. 250), passim.


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2. Il quinto sigillo: la Sede di Pietro, gli imperatori tedeschi e i barattieri (Ap 6, 9-11)

Il quinto stato corrisponde al quinto giorno della creazione, nel quale Dio disse agli uccelli (i monaci, più spirituali) e ai pesci (i chierici, commisti alle genti) “crescete e moltiplicatevi” (Genesi 1, 22). Così i monasteri e le chiese si sono propagati nella Chiesa occidentale, e la vita, pur non tanto chiara per fama come nel quarto stato, si è svolta però con un “senso vivo e tenero della pietà”, al modo con cui gli uccelli e i pesci sono più dotati nel sentire dei “luminaria celi”, cioè del sole, della luna e delle stelle assimilati ai contemplativi. Nel quinto giorno vennero tuttavia creati insieme animali mondi e immondi, prima che apparisse l’uomo razionale fatto a immagine di Dio, che designa l’ordine evangelico (prologo, Notabile XIII: si tratta di una citazione occulta di Gioacchino da Fiore). Una quantità di uccelli, pesci e altri animali popola la bolgia dei barattieri (Inf. XXII). Da sottolineare l’immagine dei delfini che “fanno segno / a’ marinar con l’arco de la schiena” allorché s’appressa la tempesta in modo che si adoperino per salvare la propria nave, alla quale sono paragonati i peccatori che, per alleviare la pena, mostrano il dosso fuori della pece bollente, per poi subitamente nasconderlo all’appressarsi di Barbariccia (vv. 19-24).
All’apertura del quinto sigillo, le anime stanno in attesa “sotto” l’altare di Dio. Per “anime di coloro che furono uccisi” non si intendono solo le anime dei primi martiri, ma anche di quanti con forte penitenza crocifissero e uccisero i vizi e le concupiscenze della carne. L’altare designa infatti la croce e la passione di Cristo o lo stesso Cristo crocifisso, oppure la verità della sua fede. Sotto questo altare stanno quasi sepolte le anime, riverenti verso la passione di Cristo che le sta sopra proteggendole e nascondendole sotto la custodia delle ali della sua gloria. Esse infatti sono state immolate a causa della testimonianza, nelle parole e nelle opere, della fede in tale altare resa con la devozione, imitazione, predicazione, confessione (Ap 6, 9.11).
Il tema dello “stare sotto” in attesa, del nascondersi, percorre tutta la quinta bolgia dei barattieri, dove trionfano i temi del quinto stato. È quanto il diavolo nero con sull’omero l’“anzian di Santa Zita” dice ai Malebranche – “Mettetel sotto … Là giù ’l buttò” -, mentre che torna a Lucca a prendere altri dannati (Inf. XXI, 39, 43). L’anziano s’attuffa e ritorna su “convolto”, ma i diavoli sarcastici gli ricordano che lì a proteggerlo non c’è il Santo Volto di Lucca, la venerata immagine del Cristo crocifisso (vv. 46-48), come, si può aggiungere, la passione di Cristo protegge sotto di sé i santi in attesa del quinto stato. Il “convolto” potrebbe significare che il dannato piega la schiena ad arco in atto di riverenza verso la passione di Cristo, che per lui è l’immagine del Santo Volto. I diavoli, che a loro volta sono coperti dal ponte, aggiungono che “qui si nuota altrimenti che nel Serchio!” (v. 49), cioè si sta giù coperti e nascosti a ballare e ad accaffare (vv. 53-54). Coi loro raffi inclinati (il “declinare” è proprio del quinto stato: prologo, Notabile III), i diavoli paiono cuochi che ordinano agli sguatteri di attuffare con gli uncini la carne in mezzo alla caldaia perché non galleggi (vv. 55-57): i santi del quinto stato hanno crocifisso la carne con forti penitenze. Dante stesso si nasconde dietro una roccia intanto che Virgilio parla coi diavoli (vv. 58-60; la situazione è analoga a quella che si svolge dinanzi alla città di Dite a Inf. VIII, 106, con la differenza che lì è esplicito il tema dell’attendere, qui invece tace tale tema e si rende esplicito lo stare sotto nascosto). Il richiamo di Virgilio dopo il colloquio con Malacoda – “O tu che siedi / tra li scheggion del ponte quatto quatto” (vv. 88-89) – rinvia ad altro motivo del quinto stato, la “sede” romana, già presente nei bollori della pece, che il poeta vede “gonfiar tutta, e riseder compressa” (v. 21), e reiterato nel canto successivo con le parole del barattiere navarrese: “e io, seggendo in questo luogo stesso” (Inf. XXII, v. 102). Come afferma Gioacchino da Fiore citato da Olivi, il quinto stato, dopo i primi quattro assimilati ai quattro animali o esseri viventi che circondano la sede divina ad Ap 4, 6-7, designa la sede stessa (la sede romana, difesa da Carlo Magno e da suo padre Pipino contro i Longobardi all’inizio del quinto stato, con la restituzione del popolo latino ivi raccoltosi dopo la distruzione delle chiese orientali ad opera dei Saraceni e lo scisma greco: prologo, Notabile V).
Al passaggio di Barbariccia, i peccatori che talora, per alleviare la pena, mostrano la schiena come i delfini, si ritraggono subitamente sotto la pece (Inf. XXII, 19-30). Il nome stesso, Barbariccia, ha attinenza con il quinto stato nel quale, come ricorda Gioacchino da Fiore, citato da Olivi (Ap 6, 9.11) a proposito di quanto avviene nella parte intermedia del periodo iniziato con Carlo Magno e terminato con san Francesco, molte angustie e afflizioni dovette patire la Chiesa latina da parte degli imperatori tedeschi. Gioacchino pensava a conflitti con la Chiesa a partire da Enrico II (1002-1024; cfr. Patschovsky 2, p. 331, nt. 909). Tenendo conto della presenza del tema della “sede”, che è la sede romana, Barbariccia – “decurio” e “gran proposto” dei dieci demoni (Inf. XXII, 74, 94, 123) – non può non ricordare il “buon Barbarossa, / di cui dolente ancor Milan ragiona”, come afferma in Purg. XVIII, 118-120 l’abate di San Zeno a Verona che visse sotto il suo impero (l’accostamento tra il capo della decina dei Malebranche e l’imperatore fu già del Torraca).
Al barattiere navarrese, Ciampolo, vengono attribuiti altri temi del quinto stato: “I’ vidi, e anco ’l cor me n’accapriccia, / uno aspettar così (attendere è tema proprio del quinto sigillo, ad Ap 6, 11), com’ elli ’ncontra / ch’una rana rimane e l’altra spiccia (rimanere è tema della quinta guerra, ad Ap 12, 17)” (Inf. XXII, 31-33); Barbariccia lo ‘chiude’ con le braccia, cioè lo copre con le ali difendendolo dagli altri diavoli, mentre Virgilio gli rivolge le domande (vv. 58-63; all’apertura del quinto sigillo i santi sono sotto la protezione delle ali di Cristo). Abbracciare in modo subdolo è proprio delle locuste che escono dal fumoso pozzo dell’abisso al suono della quinta tromba (Ap 9, 3), come pure addentare (Ap 9, 8) che nei versi è connesso ai “raffi” dei Malebranche (Inf. XXI, 52; cfr. vv. 131, 138). Virgilio chiede a Ciampolo se conosca qualcuno sotto la pece che sia latino (ancora il tema della Chiesa latina; il riferimento è alla quinta guerra, ad Ap 12, 17). Ciampolo risponde che nel venire in su aveva lasciato un tale, frate Gomita di Gallura, che fu di un paese (la Sardegna) vicino all’Italia e si lamenta di non essere rimasto insieme a lui sotto la pece, lontano da unghie e uncini. Sempre secondo Gioacchino da Fiore, la quinta persecuzione ebbe luogo ad opera dei Saraceni in Mauritania e in Spagna nei confronti delle “reliquie” dei cristiani sotto la protezione della Chiesa romana, i quali lasciarono ai fedeli vicini molti e tristi gemiti (Ap 6, 9): Ciampolo nacque nel regno di Navarra, nella regione della “dolorosa rotta, quando / Carlo Magno perdé la santa gesta” (Inf. XXXI, 16-17); promette di far venire sopra la pece “Toschi o Lombardi”, procurando “a’ mia maggior trestizia” (Inf. XXII, 111).

L’interesse è qui concentrato sulle citazioni di Gioacchino da Fiore incastonate nell’esegesi di Olivi e sulle metamorfosi che subiscono nei versi di Dante. Come sempre, però, l’esegesi è assai più ampia e ad essa rinviano numerosi altri luoghi della bolgia dei barattieri, nella quale la semantica del quinto stato è prevalente, ai quali qui di seguito si accenna brevemente.

■ All’esegesi di Ap 9, 1-2 (quinta tromba) rinvia l’oscura bolgia dei barattieri dove Ciampolo, saltando nella pece bollente, si scioglie dalla poco severa sorveglianza del “preposto” Barbariccia (la controfigura grottesca del Barbarossa), come i sudditi dal freno dei rilassati prelati che dovrebbero governarli (Inf. XXI, 4-6; XXII, 121-123).

■ All’apertura del quinto sigillo i santi chiamano affinché la giustizia divina vendichi il loro sangue: rattristati fino alla disperazione per i mali che invadono la Chiesa, chiedono a gran voce che venga fatta subito vendetta contro i carnali del quinto tempo che dispregiano Cristo e i suoi (Ap 6, 9-10). Tuttavia ai santi del quinto stato viene detto di quietarsi e di aspettare le cose grandi che avverranno all’inizio del sesto stato, allorché saranno rivelati segreti fino allora chiusi e si rinnoveranno i gloriosi martìri in modo che il numero degli eletti sia completato. I Malebranche non sono, grottescamente, estranei a tale sentimento. Chinano i loro uncini sul poeta per accoccargli un colpo sul groppone, ma vengono trattenuti da Malacoda (Inf. XXI, 100-102). I “maladetti” invitano Rubicante a scuoiare lo sciagurato Ciampolo ma vengono fermati per intervento di Virgilio, pregato da Dante di fare in modo di conoscerne il nome. Poco dopo, però, Libicocco, ritenendo di aver atteso troppo  – “troppo avem sofferto” – gli porta via con l’uncino un brandello di braccio (Inf. XXII, 40-42, 70-72). Anche Draghignazzo insorge, ma li calma lo sguardo minaccioso di Barbariccia (l’espressione “rappaciati” rinvia alla “pace” data al quinto stato, incentivo ai vizi: prologo, Notabile IX).

■ E’ proprio del quinto stato discendere, declinare (prologo, Notabile I, III), avere una “costa” (Notabile VII, allusione alla costola sottratta ad Adamo che Dio, creando Eva, riempì di “pietas condescensionis” rispetto all’ardua vita dello stato precedente). Anche questi temi sono utilizzati per descrivere i Malebranche. Essi “chinavan li raffi” verso Dante con l’intento di accoccargli sul groppone (Inf. XXI, 100-101). Alichino – nome che contiene in sé il tema del chinare, mentre le ali sono proprie del “volatus contemplationis” dello stato precedente (cfr. Ap 9, 3) – propone a Ciampolo un “nuovo ludo”: se il navarrese si getterà nella pece (“Se tu ti cali”), non gli correrà dietro di galoppo ma volando sulla pece, e per questo invita gli altri a lasciare il “collo”, ossia l’orlo dell’argine che sovrasta la pece della quinta bolgia, per ritirarsi verso l’orlo opposto, più basso, da cui si scende nella sesta bolgia, in modo da restare nascosti dalla ripa (Inf. XXII, 112-117). L’espressione di Alichino “sia la ripa scudo” è variante del tema dello stare nascosti sotto la protezione di Cristo presente all’apertura del quinto sigillo (Ap 6, 9), così il dannato va sotto la pece come l’anatra “giù s’attuffa” all’appressarsi del falcone. I motivi del discendere e della costa segnano ancora la fine dell’episodio: una volta che Alichino e Calcabrina si sono azzuffati cadendo nella pece bollente, Barbariccia, il “decurio” della schiera dei Malebranche, invia quattro dei suoi perché volino “da l’altra costa” e, discendendo, porgano gli uncini verso gli invischiati (vv. 145-150).

■ L’uso malizioso delle braccia da parte delle locuste, pronte come gli scorpioni ad abbracciare davanti e poi a pungere di dietro con la coda (Ap 9, 3), è contenuto nei nomi stessi degli astuti diavoli che riescono a ingannare Virgilio: Malebranche e Malacoda. Barbariccia fa l’atto di proteggere con le braccia Ciampolo dagli uncini, ma il suo linguaggio suona sinistro quando dice: “State in là, mentr’ io lo ’nforco!”, essendo l’ “inforcare” alquanto prossimo alla “venenosa forca” di cui è armata la coda di Gerione (Inf. XXII, 58-60; cfr. XVII, 26).

■ La quinta proprietà delle locuste sta nei denti come quelli dei leoni, in quanto corrodono con la maldicenza la fama e la vita altrui, soprattutto dei loro concorrenti, e agiscono con empia rapacità delle cose temporali (Ap 9, 8). I Malebranche addentano con gli uncini l’“anzian di Santa Zita” (Inf. XXI, 52), digrignano i denti (ibid., 131) tra i quali stringono la lingua per cenno (ibid., 137-138; il mordersi la lingua deriva dalla quinta coppa ad Ap 16, 10). A Ciriatto, “a cui di bocca uscia / d’ogne parte una sanna come a porco”, e che a Ciampolo “li fé sentir come l’una sdruscia”, è applicato il tema della spada acuta che esce dalla bocca da entrambe le parti, proprio delle perfezioni di Cristo che fa sentire la sua severità ad Ap 1, 16 e 19, 15-16 (Inf. XXII, 55-57). Non è escluso che Ciriatto sia nome derivato da Ciro, il re dei Persiani più volte citato nella Lectura come distruttore dell’antica Babilonia. Il suo essere “sannuto” (Inf. XXI, 122) è invece da porre in corrispondenza con il cinghiale – l’“aper de silva” – che ad Ap 9, 11 è presentato come devastatore della vigna.

■ Trattando ad Ap 6, 3 della legge di Maometto, Olivi osserva che i Saraceni seguono una legge carnale e falsa del tutto diversa, che non accetta le Scritture cristiane e contro la quale non è possibile una qualsiasi confutazione sulla base di queste, come avvenne con i Giudei e con gli eretici. Barbariccia, per dare un cenno di partenza alla schiera dei Malebranche, “avea del cul fatto trombetta” (Inf. XXI, 139) e il poeta assicura di non aver mai visto fanti o cavalieri muoversi al suono di “sì diversa cennamella” – la quarta bestia saracena “dissimilis ceteris … quia ista nostras scripturas non recipit” -, pur avendo già udito segnali di trombe, campane, tamburi, fatti con “cose nostrali e con istrane” (Inf. XXII, 1-12).

■ La precipitosa e drammatica fuga dei due poeti dalla quinta alla sesta bolgia è segnata dai temi dell’apertura del sesto sigillo, mischiati con quelli del quinto stato (Inf. XXIII, 19-57). È l’inizio della zona sesta del terzo ciclo settenario.

Aveva ragione Pirandello, contro De Sanctis e Croce, a voler ricercare in Inf. XXI-XXII quanto sta sotto alla rappresentazione, tutt’altro che perspicua, affermando che non si tratta di “una finzione solo esteriormente d’un comico così grottesco, ma sotto, nell’intimo e segreto sentimento del poeta, più che mai drammatica e dolorosa” (LUIGI PIRANDELLO, La Commedia dei diavoli e la tragedia di Dante, in IDEM, Saggi, poesie, scritti varii, a cura di Manlio Lo Vecchio-Musti, Verona 19652, pp. 350-351). I motivi prevalenti della bolgia sono tratti dal quinto stato della storia della Chiesa, allorché questa si corrompe quasi del tutto fino a diventare quasi una nuova Babylon. Tale doloroso dramma universale si invera nel particolare dei barattieri.

I medesimi temi, propri del quinto stato, si possono trovare anche in luoghi della Commedia dove non si registra la prevalenza sugli altri di questo gruppo di materia esegetica.
Ma quella che è forse la più vasta zona dedicata al quinto stato inizia sulla montagna con il pigro liutaio Belacqua (Purg. IV, 97-135), prosegue con i negligenti morti per violenza (Purg. V) e raggiunge l’acme nella valletta descritta in Purg. VII e VIII. L’apertura della porta del purgatorio (la “porta di san Pietro”, Purg. IX, 130 sgg.) segna l’inizio del sesto stato, che a sua volta si articola nei sette gironi corrispondenti a uno stato (con la compresenza di temi di tutti gli altri stati). Non è qui possibile seguire nel dettaglio i numerosi segni che rinviano all’esegesi del quinto stato della storia della Chiesa; lo scopo principale è infatti quello di individuare le citazioni di Gioacchino da Fiore e registarne il riflesso nei versi del poema. Come si è visto, è impossibile considerare tali citazioni indipendentemente dal contesto dell’esegesi in cui sono incastonate.
Limitando il confronto a parte dell’episodio della cosiddetta valletta dei principi negligenti, si potrà osservare come ‘sedere’ (prologo, Notabile XII), ‘attendere’ (Ap 6, 9-11: quinto sigillo), ‘scendere’ (la “condescensio” tipica del quinto stato), ‘di sotto’, ‘star giù’ (quinto sigillo), ‘costa’ (prologo, Notabile VII), ‘rimanere’ (Ap 12, 17: quinta guerra), ‘raccogliersi’ (prologo, Notabile V) sono temi segnati da parole-chiave in parte già registrate nella bolgia dei barattieri. La negligenza è rimproverata a Sardi, la torpida quinta chiesa d’Asia smarrita e tardiva nel pentimento (Ap 3, 3).
Nella valletta dei principi, Dante, Virgilio e Sordello attendono il nuovo giorno. Lì si dimora e si aspetta come le anime sotto l’altare all’apertura del quinto sigillo (Ap 6, 9). Nella valletta i principi negligenti cantano il “Salve Regina” in uno scenario di erba e di colori dove l’unico odore incognito e indistinto che promana da mille profumi soavi riprende il tema della “regina aurea veste unitive caritatis ornata”, cioè della Chiesa nel principio “bello” del quinto stato, ornata di una veste aurea per la carità che unisce e circondata dalla varietà nei vari doni e nelle varie grazie delle diverse membra (Ap 2, 1; Purg. VII, 79-83).
L’inizio di Purg. VIII si svolge in un’atmosfera di attesa. Il pellegrino viene frenato (‘punto’, con riferimento alle locuste della fase finale del quinto stato: Ap 9, 5-6) nel suo cammino dai ricordi e le anime attendono qualcosa guardando in su, dopo che una di loro ha intonato il “Te lucis ante”, con cui si invoca l’aiuto contro le tentazioni notturne. Questo attendere è tema proprio del quinto sigillo (ai santi in attesa vengono date le “bianche stole”: cfr. Purg. VIII, 74), e si risolve nella discesa dall’alto di due angeli verdi e con le spade infuocate ma tronche e private delle punte, che mettono in fuga dalla valle il serpente. Essi scendono “a guardia de la valle”, a protezione delle anime ivi raccolte, come all’apertura del quinto sigillo le anime stanno sotto l’altare, protette dalle ali divine (Ap 6, 9). Il doloroso dramma dei barattieri che si proteggono sotto la pece si è trasformato nello star sotto le ali della gloria di Cristo.

Tab. II.1

[LSA, prologus, Notabile XIII] In quinto vero tempore fuerunt spiritualiores monachi quasi aves volantes, clerici vero gentibus commixti fuerunt quasi pisces in aquis (cfr. Gn 1, 20-21). In hac autem die primo dictum est: “Crescite et multiplicamini” et cetera (Gn 1, 22), quia numquam in preteritis temporibus sic monasteria vel ecclesie in tali vita, que conveniret pluribus, ordinate fuere quomodo in tempore quinto, quia non tantum clericorum et monachorum, verum etiam ecclesiarum et monasteriorum que sunt propagata in tempore quinto in hac occidentali ecclesia colligere numerum non est facile. Unde quamvis vita monachorum quarti temporis fuerit clarior, non tamen fecundior nec sic habens sensum vivum et tenerum pietatis. Aves enim et pisces prehabundant in sensu luminaribus celi. Attamen notandum quod in quinta die creata sunt munda pariter et immunda. Sunt enim pisces secundum legem mundi et immundi, avesque similiter*

*Cfr. Concordia, V 1, c. 13; Patschovsky 3, p. 561, 10-11; p. 563, 4-15; p. 565, 3-4 (Olivi sintetizza più passi di Gioacchino, è comunque sua l’espressione nec sic habens sensum vivum et tenerum pietatis).

Inf. XXII, 19-21, 25-26, 31-36, 96, 130-131, 139

Come i dalfini, quando fanno segno
a’ marinar con l’arco de la schiena
che s’argomentin di campar lor legno

E come a l’orlo de l’acqua d’un fosso
stanno i ranocchi pur col muso fuori

I’ vidi, e anco il cor me n’accapriccia,
uno aspettar così, com’ elli ’ncontra    6, 11
ch’una rana rimane e l’altra spiccia;     12, 17
e Graffiacan, che li era più di contra,
li arruncigliò le ’mpegolate chiome
e trassel sù, che mi parve una lontra.

disse: “Fatti ’n costà, malvagio uccello!”.

non altrimenti l’anitra di botto,
quando ’l falcon s’appressa, giù s’attuffa

Ma l’altro fu bene sparvier grifagno

[LSA, prologus, Notabile XII, Vus status] Quintus vero status pluribus ex causis debuit diu durare. Prima est quia eius condescensio potuit in multitudine diutius perdurare tamquam eius infirmitati proportionalis. […] Sexta, secundum Ioachim, est quia quintus status post quattuor animalia, id est post quattuor ordines perfectorum, tenuit typum generalis sedis, et ideo debuit in multitudine habundare 1.

[LSA, prologus, Notabile IX; Vus status] Et ideo quia quintus status et septimus huius vite pre ceteris erant temporali pace fruituri, ideo in signum quod huiusmodi pax est sepe occasio inundantie peccatorum et penurie virtutum, solos paucos quinte ecclesie dicit esse incoinquinatos et sanctos (cfr. Ap 3, 4), et septimam ecclesiam increpat de nimia presumptione bonorum et de enormi carentia ipsorum (cfr. Ap 3, 17).

[LSA, cap. VI, Ap 6, 9.11 (IIa visio, apertio Vi sigilli)] Secundo responditur executionem predicte iustitie debere differri propter complendum numerum electorum et quia interim sufficit sanctis glorificatio animarum suarum, ibi: “Et date sunt illis” et cetera (Ap 6, 11). Secundum hoc ergo, per “animas interfectorum” “subtus altare Dei” visas intelliguntur anime priorum martirum et etiam ceterorum sanctorum, qui per fortem penitentiam crucifixerunt et occiderunt vitia et concupiscentias carnis. “Altare” autem “Dei” est crux et passio Christi, vel Christus crucifixus vel veritas fidei eius. Nam super hoc nos et nostra bona offerimus Deo Patri.
Dicuntur autem stare sub hoc altari, tum quia vere sunt sub Christo et eius passione et veritate sue fidei et reverentur eam tamquam superiorem, tum quia a Christo et a sue passionis merito proteguntur et custodiuntur, tum quia sub alis sue glorie stant absconse nobis et malis huius mundi quasi infra Christum et sub Christo sepulte, tum quia ob huius altaris fidei devotionem et ad eius imitationem immolate sunt, unde dicit: “animas interfectorum propter verbum Dei”, id est propter predicationem seu confessionem fidei eius factam verbo vel facto. Vel “propter verbum”, id est preceptum, “Dei”, quod in se implebant. “Et testimonium quod habebant”, id est propter testificationem Dei et sue fidei, quam in sua confessione et predicatione habebant, et etiam in corde et opere. […]
Deinde subduntur duo propter que iudicium hoc debet convenienter differri ad tempus.
Primum est sufficiens glorificatio animarum sanctarum, unde subdit (Ap 6, 11): “Et date sunt illis singule stole albe”. Duas quidem stolas albas, id est glorias et quasi vestes gloriosas, sunt habiture, quarum prima et principalissima est in anima, secunda vero erit in earum corpore. De prima ergo loquitur hic.
Secundum est numerus sanctorum martirum et electorum adhuc complendus et nondum completus. Unde subdit: “Et dictum est illis ut requiescerent”, scilicet in gloria preaccepta, “tempus adhuc modicum”, quasi dicat: non multo tempore, sed modico, volo vos expectare hoc iudicium, nec cum aliquo labore vestri, sed cum pura requie et pace quam dedi vobis, “donec impleantur”, id est ad plenum compleantur, “conservi eorum et fratres [eorum], qui interficiendi sunt sicut et illi”.
Referendo autem ista ad medium quinti status, designatur plures pro libertate ecclesie ab imperatoribus theutonicis esse afflictos, et plures pro spiritali puritate monastice vel canonice religionis a concanonicis seu a conregularibus esse graviter persecutos. Unde Ioachim, libro III° Concordie agens de apertione quinti sigilli, dicit eam inchoatam a diebus Zacharie pape, quando ceperunt reges Franchorum romanum imperium obtinere. Sicut autem rex Babilonis qui fuit tempore Ezechie, quem per concordiam respicit Zacharias papa, fuit amicus Ezechie, sic primi reges Franchorum non minus fuerunt amici pontificum romanorum; sed sicut circa finem surrexit alius rex in Babilonia per quem valde humiliata est superbia Iherusalem, sic a diebus [Henrici] primi Alamannorum imperatoris quibusdam intricatis questionibus angustiatur ecclesia. Unde et sub apertione quinti sigilli dictum est: “Vidi sub altar[e] Dei animas interfectorum” et cetera. Dictum est hoc de illis innocentibus, qui occiduntur in sinu matris ecclesie a filiis huius mundi, sive quia nolunt separari a sinu matris ecclesie, sive quia sic creduntur incorporari ut nequeant separari, et aliqui, ne faciant irritum iuramentum et primam fidem, magis eligant mori in simplicitate et trucidari a militibus adverse partis. Et tales quidem martires multos assidue lucratur ecclesia2. Item libro IIII° tangit plura que a diversis imperatoribus theutonicis passa est ecclesia, et precipue a generatione XXXVIIa et deinceps3. Item idem, supra Apocalipsim exponens apertionem huius quinti sigilli, dicit quod «sicut prima persecutio ecclesie concitata est in Iudea, secunda Rome, tertia in Grecia, quarta in Arabia, ita quinta persecutio est in Mauritania et in Ispaniis orta. Fuerunt enim ibi, et sunt usque hodie, reliquie christianorum sub fide et protectione sancte romane ecclesie e quibus, ut sepe relatum est nobis, multi sunt a Sarracenis occisi magnum tristitie gemitum vicinis fidelibus relinquentes»4.

1 Concordia, III 1, c. 2; Patschovsky 2, p. 209, 4-19.

2 Concordia, III 2, c. 5; Patschovsky 2, pp. 330, 6 – 332, 12 (citazione abbreviata).

Cfr. Concordia, IV 1, cc. 29, 33-38; Patschovsky 2, pp. 441-445, 448-455.

4 Expositio, pars II, f. 116rb-va.

Inf. XXI, 19-21, 39-40, 46-49, 52-60, 88-90, 118-120, 130-132

I’ vedea lei, ma non vedëa in essa
mai che le bolle che ’l bollor levava,
e gonfiar tutta, e riseder compressa.

Mettetel sotto, ch’i’ torno per anche
a quella terra, che n’è ben fornita

Quel s’attuffò, e tornò sù convolto ;
ma i demon che del ponte avean coperchio,
gridar: “Qui non ha loco il Santo Volto!
qui si nuota altrimenti che nel Serchio! ”

Poi l’addentar con più di cento raffi,
disser: “Coverto convien che qui balli,
sì che, se puoi, nascosamente accaffi”.
Non altrimenti i cuoci a’ lor vassalli
fanno attuffare in mezzo la caldaia
la carne con li uncin, perché non galli.
Lo buon maestro “Acciò che non si paia
che tu ci sia”, mi disse, “giù t’acquatta
dopo uno scheggio, ch’alcun schermo t’aia …”

E ’l duca mio a me: “O tu che siedi
tra li scheggion del ponte quatto quatto,
sicuramente omai a me ti riedi”.

“Tra’ti avante, Alichino, e Calcabrina”,
cominciò elli a dire, “e tu, Cagnazzo;
e Barbariccia guidi la decina.”

Se tu se’ sì accorto come suoli,
non vedi tu ch’e’ digrignan li denti
e con le ciglia ne minaccian duoli?

[LSA, cap. IX, Ap 9, 8 (IIIa visio, Va tuba)] Pro quinta (proprietate locustarum) dicit: “Et dentes e[a]rum sicut dentes leonum erant”, tum per crudelitatem detractionum vitam et famam alienam corrodentium et precipue suorum emulorum, tum propter impiam rapacitatem temporalium.

Inf. XXII, 19-33, 64-69, 76-78, 100-102, 109-111, 116-117, 127-132

Come i dalfini, quando fanno segno
a’ marinar con l’arco de la schiena
che s’argomentin di campar loro legno,
talor così, ad alleggiar la pena,
mostrav’ alcun de’ peccatori ’l dosso
e nascondea in men che non balena.
E come a l’orlo de l’acqua d’un fosso
stanno i ranocchi pur col muso fuori,
sì che celano i piedi e l’altro grosso,
sì stavan d’ogne parte i peccatori;
ma come s’appressava Barbariccia,
così si ritraén sotto i bollori.
I’ vidi, e anco il cor me n’accapriccia,
uno aspettar così, com’ elli ’ncontra
ch’una rana rimane e l’altra spiccia     12, 17

Lo duca dunque: “Or dì: de li altri rii
conosci tu alcun che sia latino             12, 17
sotto la pece?”. E quelli: “I’ mi partii,
poco è, da un che fu di là vicino.
Così foss’ io ancor con lui coperto,
ch’i’ non temerei unghia né uncino!”.

Quand’ elli un poco rappaciati fuoro,
a lui, ch’ancor mirava sua ferita,
domandò ’l duca mio sanza dimoro:

ma stieno i Malebranche un poco in cesso,
sì ch’ei non teman de le lor vendette;
e io, seggendo in questo loco stesso ……

Ond’ ei, ch’avea lacciuoli a gran divizia,
rispuose: “Malizioso son io troppo,
quand’ io procuro a’ mia maggior trestizia”.

Lascisi ’l collo, e sia la ripa scudo,
a veder se tu sol più di noi vali.

Ma poco i valse: ché l’ali al sospetto
non potero avanzar; quelli andò sotto ,
e quei drizzò volando suso il petto:
non altrimenti l’anitra di botto,
quando ’l falcon s’appressa, giù s’attuffa,
ed ei ritorna sù crucciato e rotto.

Inf. VII, 103-108, 117-118

L’acqua era buia assai più che persa;
e noi, in compagnia de l’onde bige,
intrammo giù per una via diversa.

In la palude va c’ha nome Stige
questo tristo ruscel, quand’ è disceso
al piè de le maligne piagge grige.

e anche vo’ che tu per certo credi
che sotto l’acqua è gente che sospira

Inf. XVI, 46-47

S’i’ fossi stato dal foco coperto,
gittato mi sarei tra lor di sotto 

Inf. XXIV, 46-48

“Omai convien che tu così ti spoltre”,
disse ’l maestro; “ché, seggendo in piuma,
in fama non si vien, né sotto coltre …”

 

Inf. XXVII, 40-42

Ravenna sta come stata è molt’ anni:
l’aguglia da Polenta la si cova,
sì che Cervia ricuopre co’ suoi vanni. 

Inf. XXXI, 122; XXXII, 16-17

mettine giù, e non ten vegna schifo

Come noi fummo giù nel pozzo scuro
sotto i piè del gigante assai più bassi 

Inf. XXXIV, 112-115, 133-134

E se’ or sotto l’emisperio giunto
ch’è contraposto a quel che la gran secca
coverchia, e sotto ’l cui colmo consunto
fu l’uom che nacque e visse sanza pecca

Lo duca e io per quel cammino ascoso
intrammo a ritornar nel chiaro mondo      3, 12

[LSA, prologus, Notabile V; Vus status] Quia vero ecclesia Christi usque ad finem seculi non debet omnino extingui, ideo oportuit eam in quibusdam suis reliquiis tunc specialiter a Deo defendi et in unam partem terre recolligi, qua nulla congruentior sede Petri et sede romani imperii, que est principalis sedes Christi. Ideo in quinto tempore, quod cepit a Karolo, facta est defensio et recollectio ista, tuncque congrue instituta est vita condescensiva, ut nequeuntibus in arduis perdurare daretur locus gratie in mediocri statu.

[LSA, prologus, Notabile XII, Vus status] Quintus vero status pluribus ex causis debuit diu durare. Prima est quia eius condescensio potuit in multitudine diutius perdurare tamquam eius infirmitati proportionalis. […] Sexta, secundum Ioachim, est quia quintus status post quattuor animalia, id est post quattuor ordines perfectorum, tenuit typum generalis sedis, et ideo debuit in multitudine habundare.

[LSA, cap. VI, Ap 6, 9.11 (IIa visio, apertio Vi sigilli)] Secundo responditur executionem predicte iustitie debere differri propter complendum numerum electorum et quia interim sufficit sanctis glorificatio animarum suarum, ibi: “Et date sunt illis” et cetera (Ap 6, 11). Secundum hoc ergo, per “animas interfectorum” “subtus altare Dei” visas intelliguntur anime priorum martirum et etiam ceterorum sanctorum, qui per fortem penitentiam crucifixerunt et occiderunt vitia et concupiscentias carnis. “Altare” autem “Dei” est crux et passio Christi, vel Christus crucifixus vel veritas fidei eius. Nam super hoc nos et nostra bona offerimus Deo Patri.
Dicuntur autem stare sub hoc altari, tum quia vere sunt sub Christo et eius passione et veritate sue fidei et reverentur eam tamquam superiorem, tum quia a Christo et a sue passionis merito proteguntur et custodiuntur, tum quia sub alis sue glorie stant absconse nobis et malis huius mundi quasi infra Christum et sub Christo sepulte, tum quia ob huius altaris fidei devotionem et ad eius imitationem immolate sunt, unde dicit: “animas interfectorum propter verbum Dei”, id est propter predicationem seu confessionem fidei eius factam verbo vel facto. Vel “propter verbum”, id est preceptum, “Dei”, quod in se implebant. “Et testimonium quod habebant”, id est propter testificationem Dei et sue fidei, quam in sua confessione et predicatione habebant, et etiam in corde et opere. […]
Deinde subduntur duo propter que iudicium hoc debet convenienter differri ad tempus.
Primum est sufficiens glorificatio animarum sanctarum, unde subdit (Ap 6, 11): “Et date sunt illis singule stole albe”. Duas quidem stolas albas, id est glorias et quasi vestes gloriosas, sunt habiture, quarum prima et principalissima est in anima, secunda vero erit in earum corpore. De prima ergo loquitur hic.
Secundum est numerus sanctorum martirum et electorum adhuc complendus et nondum completus. Unde subdit: “Et dictum est illis ut requiescerent”, scilicet in gloria preaccepta, “tempus adhuc modicum”, quasi dicat: non multo tempore, sed modico, volo vos expectare hoc iudicium, nec cum aliquo labore vestri, sed cum pura requie et pace quam dedi vobis, “donec impleantur”, id est ad plenum compleantur, “conservi eorum et fratres [eorum], qui interficiendi sunt sicut et illi”.

[LSA, cap. II, Ap 2, 1 (Va ecclesia)] Vocatur autem congrue hec ecclesia Sardis, id est principium pulchritudinis, tum quia in suis paucis incoinquinatis habet singularem gloriam pulchritudinis, quia difficillimum et arduissimum est inter tot suorum luxuriantes se omnino servare mundum; tum quia primi institutores quinti status fuerunt in se et in suis omnis munditie singulares zelatores, suorumque collegiorum regularis institutio, diversa membra et officia conectens et secundum suas proportiones ordinans sub regula unitatis condescendente proportioni membrorum, habet mire pulchritudinis formam toti generali ecclesie competentem, que est sicut regina aurea veste unitive caritatis ornata et in variis donis et gratiis diversorum membrorum circumdata varietate.

Purg. VII, 67-69, 82-93, 115-117                                                 

“Colà”, disse quell’ ombra, “n’anderemo
dove la costa face di sé grembo;                  Not. VII
e là il novo giorno attenderemo”.

Salve, Regina ’ in sul verde e ’n su’ fiori
quindi seder cantando anime vidi,
che per la valle non parean di fuori.
“Prima che ’l poco sole omai s’annidi”,
cominciò ’l Mantoan che ci avea vòlti,
“tra color non vogliate ch’io vi guidi.
Di questo balzo meglio li atti e ’ volti
conoscerete voi di tutti quanti,
che ne la lama giù tra essi accolti.
Colui che più siede alto e fa sembianti
d’aver negletto ciò che far dovea,                   3, 2-3
e che non move bocca a li altrui canti …”

e se re dopo lui fosse rimaso                           12, 17
lo giovanetto che retro a lui siede,
ben andava il valor di vaso in vaso

Purg. XI, 127-129

E io: “Se quello spirito ch’attende,
pria che si penta, l’orlo de la vita,
qua giù dimora e qua sù non ascende …”.

Purg. VIII, 22-27, 37-39, 46-48, 61-66, 73-75, 106-110

Io vidi quello essercito gentile
tacito poscia riguardare in sùe,
quasi aspettando, palido e umìle;
e vidi uscir de l’alto e scender giùe    Not. I, VII
due angeli con due spade affocate,
tronche e private de le punte sue.

“Ambo vegnon del grembo di Maria”,
disse Sordello, “a guardia de la valle,
per lo serpente che verrà vie via”.

Solo tre passi credo ch’i’ scendesse,
e fui di sotto, e vidi un che mirava
pur me, come conoscer mi volesse.

E come fu la mia risposta udita,
Sordello ed elli in dietro si raccolse
come gente di sùbito smarrita.                 3, 3
L’uno a Virgilio e l’altro a un si volse
che sedea lì, gridando: “Sù, Currado!
vieni a veder che Dio per grazia volse”.

Non credo che la sua madre più m’ami,
poscia che trasmutò le bianche bende,
le quai convien che, misera!, ancor brami.

Sentendo fender l’aere a le verdi ali,
fuggì ’l serpente, e li angeli dier volta,
suso a le poste rivolando iguali.
L’ombra che s’era al giudice raccolta
quando chiamò ………………………

 

3. La quinta tromba (Ap 9, 1-12)

3.1. Le locuste: barattieri e Capetingi (Ap 9, 3)

Al suono della quinta tromba, dal pozzo dell’abisso aperto escono le locuste, le quali designano in particolare la prava moltitudine dei chierici, dei monaci, dei giudici e dei curiali che pungono e crucciano. Costoro escono dal fumo del pozzo in quanto traggono occasione di compiere il male dal pravo esempio indotto dal venire meno del freno prima esistente. Come le locuste, saltano verso l’alto con le zampe posteriori poiché hanno come fine la vanagloria e ricadono a terra per la cupidigia. Oppure saltano con le zampe posteriori poiché, proponendosi di fare penitenza alla fine, sperano così di saltare alla gloria eterna, mentre con le zampe anteriori e con la bocca aderiscono alla terra e rodono quanto è verde. Hanno le ali non disposte a un volo alto e diuturno, ma basso e di breve durata. Sono leggeri, volatili e cupidi. Essendo la locusta, secondo la vecchia legge, un animale mondo, qui designa gli ipocriti simulatori dell’umiltà, della purezza e del volo della contemplazione, che rodono la vita altrui con la maldicenza e ne divorano i beni temporali agendo sia in nome dell’autorità ecclesiastica, sia con il pretesto di un’offerta fatta ai santi, o di un lucro giustificato sotto apparenti opere di pietà, o con frode simoniaca o con falsi e iniqui giudizi o con empie esazioni (Ap 9, 3).

Nel quinto girone della montagna, gli avari purganti giacciono a terra bocconi con le mani e i piedi legati. Dicono il Salmo 118, 25 “Adhaesit pavimento anima mea”, e l’aderire alla terra è proprio delle locuste (Purg. XIX, 70-75). Come le locuste tardano a pentirsi e non volano in alto, così Adriano V si convertì tardi scoprendo “la vita bugiarda” una volta diventato papa (1276), considerando che nella vita terrena non si poteva salire più in alto (ibid., 106-111; “salir” rinvia fonicamente a “saliunt”, cioè al corto saltare delle locuste).

Sempre tra gli avari, Ugo Capeto descrive le malefatte della sua dinastia. Profetizza il tempo “che tragge un altro Carlo fuor di Francia” (Carlo di Valois) da dove “sanz’arme n’esce” nel 1301 per venire in Italia, inviato poi da Bonifacio VIII a Firenze come paciere. Così le locuste – cui sono applicati i verbi exire e trahere, il primo riferito all’uscire dal fumo del pozzo dell’abisso (anche l’altro Carlo, lo Zoppo, “già uscì preso di nave”, cioè fu sconfitto e fatto prigioniero dagli Aragonesi nel 1284), il secondo al cattivo esempio che le induce a compiere il male – si presentano pie, socievoli e semplici a quanti tentano di trarre a sé ma che poi trafiggono nel fianco (Ap 9, 5-6; con citazione di Gioacchino da Fiore). E Carlo di Valois, armato solo della lancia di Giuda, cioè della frode, punge e fa scoppiare la pancia a Firenze (Purg. XX, 70-75). Poiché le locuste non solo trafiggono nel fianco, ma anche nelle mani e nei piedi, il loro trafiggere le mani avviene per la violenza della rapina e per la frode (Ap 9, 5-6), qualità che Ugo attribuisce alla sua “mala pianta” dopo che questa ebbe ricevuto nel 1246 “la gran dota provenzale”: “Lì cominciò con forza e con menzogna / la sua rapina”, per cui prese la contea di Ponthieu (“Pontì”, che quasi interno calembour concorda con il ‘pungere’ e con la lancia con la quale Carlo di Valois “ponta” Firenze), la Normandia e la Guascogna (Purg. XX, 64-66). Sulla sua discendenza Ugo Capeto chiede sùbita vendetta a Colui che tutto giudica a nome di Douai, Lille, Gand, Bruges vessate da Filippo il Bello (ibid., 46-48), come i santi del quinto stato dai quali, all’apertura del quinto sigillo, “expetitur instanter et alte iusta vindicta”. Anche le parole di Ugo Capeto sul presunto assassinio dell’Aquinate perpetrato da Carlo d’Angiò, che “poi / ripinse al ciel Tommaso, per ammenda” (Purg. XX, 68-69), sono da connettere allo scorpionale stimolo delle pungenti e subdole locuste, che con pio zelo intendono sottrarre i fedeli dall’errore e ricondurli sulla via della salvezza.

I temi delle locuste ricorrono con frequenza nella bolgia dei barattieri (la quinta). Nell’ “arzanà de’ Viniziani” vengono riparate le navi che non possono navigare, come le locuste non sono capaci di alto volo (Inf. XXI, 7-10). La pece bolle levandosi e gonfiandosi tutta per poi ricadere compressa, come il levarsi e il ricadere dei piccoli animali (ibid., 19-21). Esempio delle locuste “leves et volatiles”, il diavolo nero che porta sull’omero “un de li anzïan di Santa Zita” ha “l’ali aperte” ed è “sovra i piè leggero” (ibid., 33; cfr., a Purg. XX, 78, “quanto più lieve simil danno conta”, riferito a Carlo di Valois e, al v. 93, “portar nel Tempio le cupide vele” da parte di Filippo il Bello). I diavoli ‘escono’ contro Virgilio (come i cani “a dosso al poverello”: Inf. XXI, 67-70) al modo con cui ‘esce’ la mala pianta capetingia dei Carli. Ciampolo, nella gara con Alichino, ferma le piante a terra e salta (atteggiamento proprio delle locuste) sciogliendosi dal controllo di Barbariccia (che recita la parte del prelato incapace di freno, oltre a quella dell’imperatore tedesco che angustia la Chiesa), mentre tutti gli altri diavoli sono ‘compunti’ della propria colpa, ossia sono punti nella coscienza dal rimorso per aver lasciato andare il Navarrese (Inf. XXII, 121-124). Non solo le locuste sono tardive nel pentirsi (Ap 9, 3), ma la loro puntura provoca il rimorso nella coscienza nei fedeli caduti in gravi peccati (Ap 9, 5). Alichino, che già nel nome indica l’incapacità di grandi voli (il “declinare” è uno dei motivi del quinto stato), si getta a capofitto verso la pece, ma le sue ali non possono aver la meglio sulla paura di Ciampolo e così torna in su come un falcone “crucciato e rotto” che ha invano cercato di ghermire un’anatra nascostasi sotto l’acqua (ibid., 125-132). L’essere “crucciato”, nella tematica delle locuste, designa l’ira di chi ha ricevuto un danno e un’offesa (Ap 9, 5). Il cruccio non è solo di Alichino, ma anche di Calcabrina il quale, adirato per l’inganno, si azzuffa con Alichino. I due finiscono col cadere entrambi nella pece bollente dove – altra ricorrenza del tema dell’incapacità di volare delle locuste – le ali invischiate non consentono loro di levarsi (ibid., 133-144). L’ira dei Malebranche per il danno causato dalla beffa è motivo di preoccupazione nel pensiero di Dante una volta lasciata la fiera compagnia dei diavoli: costoro verranno dietro più crudeli del cane alla lepre che sta per azzannare (Inf. XXIII, 13-18; la crudeltà è, ad Ap 9, 8, attributo dei denti delle locuste; cfr., a Purg. XX, 91 “Veggio il novo Pilato sì crudele”, riferito a Filippo il Bello). Il drammatico passaggio alla sesta bolgia è reso coi motivi del sesto stato. La tematica delle locuste è però assunta in senso positivo nella prima terzina del Purgatorio: “Per correr miglior acque alza le vele / omai la navicella del mio ingegno, / che lascia dietro a sé mar sì crudele”.

Tab. III.1

[LSA, cap. IX, Ap 9, 3.8 (IIIa visio, Va tuba)] Tertio tangitur quedam spiritalis plaga quorundam pestiferorum de predicto fumo exeuntium, cum subdit: “et de fumo putei exierunt locuste in terram” (Ap 9, 3). Quamvis per has locustas possint designari omnes mali christiani quorum malitia est multa et publica et multorum lesiva et cruciativa, magis tamen proprie, quoad hunc primum sensum, designat pravam multitudinem clericorum et monachorum et iudicum et ceterorum curialium plurimos spiritaliter et temporaliter pungentium et cruciantium, qui omnes de fumo putei exeunt quia de pravo exemplo effrenationis prefate occasionem et inductivam causam sui mali traxerunt, et etiam quia quasi de puteo inferni cum predicto fumo exempli pessimi videntur exisse. Vocantur autem “locuste”, tum quia ad modum locuste alte saliunt per elationem, et hoc postremis cruribus quia vanam gloriam in omnibus finaliter intendunt, et ad terram recidunt per cupiditatem; tum quia instar locustarum postremis cruribus saliunt, proponendo scilicet in fine penitentiam agere et sic sperant ad gloriam eternam salire, pedibus vero anterioribus et toto ore terre adherent  virentia cuncta rodentes; tum quia locusta est animal parvum et secundum legem mundum, habetque alas non ad altum et diuturnum volatum sed ad infimum et modicum. Et ideo partim designat ypocritas humilitatis et munditie et contemplativi volatus simulatores aliorum vitam detractionibus corrodentes et aliorum bona temporalia devorantes, sive per auctoritatem ecclesiasticam, sive per oblationem quasi sanctis factam, sive per questum quasi sub specie pietatis exactum, sive per symoniacam fraudem, sive per falsa et iniqua iudicia vel per alias impias exactiones; partim etiam designat leves et volatiles clericos et monachos carnalia sectantes et per [ea] multis nocentes. […]
Pro quinta (proprietate) dicit: “Et dentes e[a]rum sicut dentes leonum erant” (Ap 9, 8), tum per crudelitatem detractionum vitam et famam alienam corrodentium et precipue suorum emulorum, tum propter impiam rapacitatem temporalium.

[Ap 9, 5-6] Per cruciatum autem designatur hic pungitivus remorsus conscientie et timor gehenne, qui fidelibus in gravia peccata cadentibus non potest de facili deesse. Designat etiam iram et offensam quam temporaliter dampnificati et iniuriati a predictis locustis habent contra eas. […]
Quod autem ait (Ap 9, 5), “dictum” esse “illis”, id est prohibitum seu non permissum, “ne occiderent eos, sed ut cruciarent mensibus quinque”, dicit Ioachim non esse hoc dictum de morte eterna, sed de totali extinctione fidei*. Quod est intelligendum respectu illorum carnalium quos non omnino in suum errorem trahunt, sed solum suis stimulis in dubium valde cruciativum inducunt, detrahendo scilicet fidelibus et mala exempla clericorum et prelatorum eis ingerendo et contra quasdam difficultates fidei arguendo per sensibiles auctoritates scripture et per quedam exempla plana et sensibilia, et e contra fictam sanctitatem suorum, quos perfectos vocant, eis demonstrando et commendando**. Hoc autem instar scorpii faciunt sub blanda specie et quasi sub pio zelo [eruendi ] eos ab errore et dampnatione et reducendi eos ad viam salutis. […]
In prima enim tribulatione clericales conculcant plebeios, quasi pedes, per fastum arrogantie et per contemptum contumelie seu parvificentie, sed per rapine violentiam et per calumpnie fraudulentiam sunt eorum manus rapientes bona de manibus aliorum […]
(In secunda autem tribulatione) Latus vero transfigunt, tum quia suam vitam et persecutionem iactitant esse similem vite et persecutioni Christi et apostolorum, nos vero comparant Iudeis persequentibus Christum […] tum quia fingunt socialem et pium et simplicem absque dolo affectum ad omnes quos trahere nituntur, unde secundum Apostolum eorum sermo quasi cancer serpit (2 Tm 2, 17).

Expositio, pars III, f. 131va.

** Cfr. ibid., f. 131rb-va (libera interpretazione).

Inf. XXI, 7-10, 19-21, 31-33, 67-72; XXII, 118-124, 127-134, 142-144; XXIII, 13-18

Quale ne l’arzanà de’ Viniziani
bolle l’inverno la tenace pece
a rimpalmare i legni lor non sani,
ché navicar non ponno ………….

I’ vedea lei, ma non vedëa in essa
mai che le bolle che  ’l bollor levava,
e gonfiar tutta, e riseder compressa.

Ahi quant’ elli era ne l’aspetto fero!
e quanto mi parea ne l’atto acerbo,
con l’ali  aperte e sovra i piè leggero !

Con quel furore e con quella tempesta
ch’escono i cani a dosso al poverello
che di sùbito chiede ove s’arresta,
usciron quei di sotto al ponticello,
e volser contra lui tutt’ i runcigli;
ma el gridò: “Nessun di voi sia fello!

 

O tu che leggi, udirai nuovo ludo:
ciascun da l’altra costa li occhi volse,
quel prima, ch’a ciò fare era più crudo.
Lo Navarrese ben suo tempo colse;
fermò le piante a terra, e in un punto
saltò  e dal proposto lor si sciolse.
Di che ciascun di colpa fu compunto

Ma poco i valse: ché l’ali  al sospetto
non potero avanzar; quelli andò sotto,
e quei drizzò volando suso il petto:
non altrimenti l’anitra di botto,
quando ’l falcon s’appressa, giù s’attuffa,
ed ei ritorna sù crucciato e rotto.
Irato Calcabrina de la buffa,
volando dietro li tenne ………………

Lo caldo sghermitor sùbito fue;
ma però di levarsi era neente,
sì avieno inviscate l’ali  sue.

Io pensava così: ‘Questi per noi
sono scherniti con danno e con beffa
sì fatta, ch’assai credo che lor nòi.
Se l’ira sovra ’l mal voler s’aggueffa,
ei ne verranno dietro più crudeli
che ’l cane a quella lievre ch’elli acceffa’.

Purg. XIX, 70-75, 106-111

Com’ io nel quinto giro fui dischiuso,
vidi gente per esso che piangea,
giacendo a terra tutta volta in giuso.
Adhaesit pavimento anima mea’       Ps  118, 25
sentia dir lor con sì alti sospiri,
che la parola a pena s’intendea.

La mia conversïone, omè!,  fu tarda;
ma, come fatto fui roman pastore,
così scopersi la vita bugiarda.
Vidi che lì non s’acquetava il core,
né più salir  potiesi in quella vita;
per che di questa in me s’accese amore.

Purg. XX, 64-81, 91-93

Lì cominciò con forza e con menzogna
la sua rapina; e poscia, per ammenda,
Pontì  e Normandia prese e Guascogna.
Carlo venne in Italia e, per ammenda,
vittima fé di Curradino; e poi
ripinse al ciel Tommaso, per ammenda.
Tempo vegg’ io, non molto dopo ancoi,
che tragge un altro Carlo fuor di Francia,
per far conoscer meglio e sé e ’ suoi.
Sanz’ arme n’esce e solo con la lancia
con la qual giostrò Giuda, e quella ponta
sì, ch’a Fiorenza fa scoppiar la pancia.
Quindi non terra, ma peccato e onta
guadagnerà, per sé tanto più grave,
quanto più lieve  simil danno conta.
L’altro, che già uscì preso di nave,
veggio vender sua figlia e patteggiarne
come fanno i corsar de l’altre schiave.

Veggio il novo Pilato sì crudele,
che ciò nol sazia, ma sanza decreto
portar nel Tempio le cupide vele.

Purg. I, 1-3

Per correr miglior acque alza le vele
omai la navicella del mio ingegno,
che lascia dietro a sé mar sì crudele

 

 

 

 

3.2. Desiderio di morte nel dubbio sulla verità (Ap 9, 5-6):

i “pensieri gravi” di Sigieri di Brabante (Par. X, 133-138)

 

Il tema del dubbio, che contraddistingue il martirio del sesto stato (“certamen dubitationis”: prologo, Notabile X), è proprio anche degli ultimi tempi del quinto stato, che d’altronde concorre con il sesto fino alla caduta di Babylon, momento in cui se ne distingue. Al suono della quinta tromba, tolto il freno che lo teneva chiuso, dal fumoso pozzo dell’abisso (Ap 9, 1-2) escono le locuste (Ap 9, 3). Il grave dolore e il cruccio provocato dalla puntura delle locuste insinua dubbi nella fede, che inducono il timore di errare in qualsivoglia parte, vera o falsa, e che suscitano mestizia e costernazione nel vedere tanti mali, fino al tedio della vita e al desiderio di morire (Ap 9, 5-6). Ma il loro nuocere durerà per breve tempo, “cinque mesi”, al termine dei quali, come dice l’Apostolo a Timoteo, la loro insipienza sarà manifesta (2 Tm 3, 9). I cinque mesi sono variamente interpretati. Secondo alcuni si tratta di 150 anni, assumendo i 30 giorni dei mesi come anni.
Secondo Gioacchino da Fiore, i 150 anni coincidono con il periodo in cui fu in auge la setta dei Manichei (la cui eresia viene ripresa, osserva Olivi, dai Catari, Valdesi e Patarini) [1].
Secondo Riccardo di San Vittore, i “cinque mesi” sono i cinque sensi della carne, appropriati alle locuste che aderiscono alle cose transitorie e terrene [2]. I cinque sensi della carne, aggiunge Olivi, hanno vigore nell’età giovanile, che fiorisce intorno ai trent’anni [3].
Secondo Olivi, i cinque mesi possono designare l’intero quinto stato, non perché la piaga delle locuste sia in esso permanente, ma perché dall’abbondanza dei beni temporali dati nel quinto stato alle chiese e ai monasteri nascono i mali da esse provocati. Oppure stanno a indicare la parte finale di questo periodo, nella quale maggiormente imperversano le locuste [4]. Corrispondono agli ultimi cinque mesi della persecuzione di Cristo, oppure all’anno e mezzo di guerra preparatoria al conflitto che si svolgerà successivamente nel sesto stato e che durerà tre anni e mezzo. Designano anche le cinque piaghe (due nelle mani, due nei piedi e una nel costato) con cui alla fine del quinto stato verranno nuovamente crocifissi e piagati lo spirito e la vita di Cristo [5].
Afferma Gioacchino da Fiore che le locuste, insinuando il dubbio, agiscono in modo subdolo, adducendo il cattivo esempio dei prelati rispetto alla finta santità dei propri, che chiamano ‘perfetti’, e risolvendo alcune difficoltà della fede con esempi che toccano i sensi, quasi che con pio zelo intendano sottrarre i fedeli dall’errore e ricondurli sulla via della salvezza.
Il dubbio assale Dante, lasciato solo da Virgilio recatosi a parlare con i diavoli custodi della città di Dite (“… e io rimagno in forse, / che sì e no nel capo mi tenciona”, Inf. VIII, 109-111), dubbi che persistono al ritorno di Virgilio sconfitto, confermati dalla “parola tronca” della guida – “Pur a noi converrà vincer la punga / … se non …” -, quasi a vacillare sia lo stesso Virgilio (Inf. IX, 7-9). Il “se non” – “sin autem” nell’esegesi scritturale – in effetti traduce uno stato d’animo di costernazione, corrispondendo la situazione dei due poeti a quella degli Israeliti nella tribolazione di Oloferne, allorché essi decisero che se entro cinque giorni (i cinque mesi dell’Apocalisse) non fosse arrivato l’aiuto divino, si sarebbero consegnati ad Oloferne (Jdt 7, 23-25). L’arrivo di Giuditta corrisponde alla discesa del messo celeste che apre la porta della città di Dite. Si tratta dunque del dubbio da cui vengono assaliti nella fase estrema del quinto stato quanti provano la puntura delle locuste. Il messo celeste che apre la porta corrisponde al sesto stato, al quale è data la porta aperta.
Fra Stazio e Virgilio, Dante si trova “d’una parte e d’altra preso”, fra il divieto del secondo di rivelarne l’identità, mentre il primo ha intuito qualcosa nell’ammiccante riso che il suo interlocutore non ha potuto frenare: la soluzione del dubbio, il quale è tema del quinto stato, la dà Virgilio stesso ordinando al discepolo di parlare, ingiunzione che è tema del sesto stato alla cui chiesa (Filadelfia) viene aperta la porta del parlare di Cristo (Purg. XXI, 115-117; variazione è il dubitoso passaggio, nell’ultimo girone della montagna, tra il fuoco che purga i lussuriosi e il precipizio, a Purg. XXV, 115-117).
All’inizio di Par. IV Dante, sospinto da due dubbi di uguale intensità, si paragona a un uomo che si lascerebbe morire di fame prima di recare ai denti uno di due cibi distanti e moventi d’un modo, o a un agnello che teme in modo uguale due lupi, o a un cane attratto da due daini. Allo stesso modo, le parole di Brunetto Latini – “che l’una parte e l’altra avranno fame / di te; ma lungi fia dal becco l’erba” (Inf. XV, 70-72) – sono da intendere come ammonimento a non cedere alla tentazione di seguire qualsivoglia fazione. Come gli dirà Cacciaguida, “sì ch’a te fia bello / averti fatta parte per te stesso” (Par. XVII, 68-69).
Il tema del desiderio di morte nella gravità del dolore causato dall’incertezza tra due tesi – nel dubbio su quale sia la vera per la salvezza: “describit gravitatem doloris … et desiderabunt moritedet eos vivere … in utraque parte, scilicet falsa et vera, timentes errare” – è cantato da Tommaso d’Aquino nel cielo del Sole in lode del suo avversario Sigieri di Brabante: “Questi onde a me ritorna il tuo riguardo, / è ’l lume d’uno spirto che ’n pensieri / gravi a morir li parve venir tardo: / essa è la luce etterna di Sigieri, / che, leggendo nel Vico de li Strami, / silogizzò invidïosi veri” (Par. X, 133-138). Le tesi averroistiche di Sigieri furono condannate dal vescovo di Parigi e confutate dallo stesso Tommaso nel De unitate intellectus contra averroistas (1270). Gli “invidïosi veri” insegnati a Parigi da Sigieri furono causa dei suoi “pensieri gravi”, gravi non perché volti, genericamente, “all’eterno, nelle vicissitudini dell’esistenza” [6], ma perché punti dall’invidia [7] degli avversari, assimilati alle locuste apocalittiche, con il dubbio che le verità insegnate sul piano della ragione umana fossero in contrasto con la fede. Ma di quali “veri” si tratta, considerato che le tesi averroistiche sull’unità dell’intelletto sono state definite da Stazio ‘errori’ a Purg. XXV, 63-66?
In altro punto del poema ricorre il medesimo motivo, nelle parole con cui Marco Lombardo rievoca il valore e la cortesia che soleva trovarsi “in sul paese ch’Adice e Po riga … prima che Federigo avesse briga”, ossia prima dei contrasti tra Federico II e la Chiesa. Valore e cortesia presenti ancora a “tre vecchi” – Corrado da Palazzo, il buon Gherardo da Camino e Guido da Castel (“il semplice Lombardo”) – “in cui rampogna / l’antica età la nova, e par lor tardo / che Dio a miglior vita li ripogna” (Purg. XVI, 115-126).
La fibbia spirituale che tiene uniti i tre vecchi lombardi con Sigieri è tessuta con il dubbio insinuato dalle subdole locuste. Il tempo in cui soleva trovarsi valore e cortesia è, secondo Marco Lombardo, quello in cui un’autorità imperiale sussisteva accanto a una spirituale, quando “soleva Roma, che ’l buon mondo feo, / due soli aver, che l’una e l’altra strada / facean vedere, e del mondo e di Deo”. Ora invece l’autorità papale ha spento quella imperiale, unendo nelle stesse mani spada e pastorale e confondendo i due reggimenti (Purg. XVI, 106-114). Si può ragionevolmente pensare che anche i tre vecchi lombardi fossero, come Marco, sostenitori della diretta derivazione da Dio dei due poteri e che in qualche modo la confusione di questi (che è poi causa dell’essere il mondo “ben così tutto diserto d’ogne virtute”, cioè del doppio dubbio di Dante manifestato ai vv. 52 sgg.) entrasse nelle considerazioni per le quali la morte sembrava a loro tardare. Si suole giustamente commentare le parole di Marco Lombardo sui “due soli” con il finale della Monarchia (III, xv, 7-10), dove si sostiene che la Provvidenza propose all’uomo due fini, la beatitudine di questa vita, che consiste “in operatione proprie virtutis et per terrestrem paradisum figuratur”, e la beatitudine della vita eterna, che consiste “in fruitione divini aspectus” a cui non si può ascendere con la propria virtù priva del lume divino. A questi due diversi fini si perviene per diverse strade. All’uno si giunge attraverso la filosofia (“per phylosophica documenta”), seguendola nell’operare secondo le virtù morali e intellettuali; all’altro attraverso gli insegnamenti spirituali che trascendono la ragione umana, seguendoli nell’operare secondo le virtù teologali (“secundum virtutes theologicas”). Così all’imperatore spetta indirizzare il genere umano alla felicità temporale per mezzo degli insegnamenti filosofici, al papa condurlo alla vita eterna per mezzo della rivelazione. Confondere i due reggimenti significa pertanto confondere filosofia pura e rivelazione, spegnere l’autonomia della prima, tanto cara a Dante, a vantaggio della seconda.
I “veri” dimostrati da Sigieri non sono le tesi averroistiche sull’unità dell’intelletto le quali, come già ricordato, vengono definite da Stazio ‘errori’ a Purg. XXV, 63-66. Sono i “filosofici argomenti” in sé, che Dante ritiene “conoscenza viva” alla pari dell’autorità della Scrittura, secondo le parole dette a san Giovanni a Par. XXVI, 25-27, 61. In questa “conoscenza viva” non c’è conflitto fra i primi e la seconda, perché entrambe derivano direttamente da Dio. Scrive Étienne Gilson:

“… bisogna anzitutto ricordarsi che l’averroismo latino fu nella sua essenza la constatazione di un disaccordo di fatto tra determinate conclusioni della filosofia, considerate come razionalmente necessarie, e determinati insegnamenti della rivelazione cristiana, considerati come veri in virtù dell’autorità della parola di Dio. … Dante … non solo non ha mai professato l’eternità del mondo e l’unità dell’intelletto agente, o negato l’immortalità dell’anima e le sanzioni della vita futura, ma ha sempre ribadito che le conclusioni della filosofia, almeno per quel che essa è competente in questi argomenti, vanno nella medesima direzione degli insegnamenti della Rivelazione cristiana. Si noti bene, peraltro, che Dante non avrebbe potuto pensare altrimenti senza distruggere l’equilibrio della sua propria dottrina: essa infatti si basa interamente sulla assoluta certezza che tutte le autorità, derivate allo stesso modo da Dio, devono svilupparsi ciscuna secondo la sua propria natura per poter essere certe di potersi accordare. … Dante, invece di separare  la teologia dalla filosofia per opporle, le separa per accordarle e unirle. … L’errore è che lo spirituale abbia dei diritti sul temporale; la verità è che la teologia, sapienza spirituale della fede, non ha autorità sull’ordine temporale attraverso la filosofia” [8].

Sigieri non constatò, come Dante, concordia, bensì disaccordo, tra ragione e fede. Fu per lui un tormento interiore indotto dalle condanne e dagli attacchi degli oppositori. Martire della filosofia pura, Sigieri riluce nel cielo del Sole alla sinistra di Tommaso d’Aquino, in un’atmosfera di conciliazione giubilare, di concordia delle controversie terrene e di palinodia dei pungenti dubbi insinuati negli avversari, come, per il medesimo spirito di concordia, Gioacchino da Fiore splende accanto a Bonaventura.
In tutt’altra situazione, il desiderio della morte per sfuggire ai tormenti è proprio dello scialacquatore senese Lano che corre nella selva dei suicidi inseguito da nere cagne (cercò la morte per mano aretina a Pieve del Toppo, nel 1278, per non vivere nella povertà cui si era ridotto), mentre a tardare sono le gambe del suo compagno di fuga Iacopo da Santo Andrea (Inf. XIII, 118-121).
Infine Ugo Capeto. Costui parla dei mali recati dalla sua discendenza con i temi delle subdole pungitive locuste, le quali con pio zelo intendono sottrarre i fedeli dall’errore e ricondurli sulla via della salvezza [9]. Dice infatti, con sarcasmo, di Carlo d’Angiò che “ripinse al ciel Tommaso, per ammenda”, cioè rimise l’Aquinate sulla retta via facendolo avvelenare (Purg. XX, 68-69). E Carlo di Valois, armato solo della lancia di Giuda, cioè della frode, punge (“ponta”) e fa scoppiare la pancia a Firenze (ibid., 73-75).

 

Tab. III.2

Purg. XVI, 52-57, 106-111, 121-129

E io a lui: “Per fede mi ti lego
di far ciò che mi chiedi; ma io scoppio
dentro ad un dubbio, s’io non me ne spiego.
Prima era scempio, e ora è fatto doppio
ne la sentenza tua, che mi fa certo
qui, e altrove, quello ov’ io l’accoppio”.

Soleva Roma, che ’l buon mondo feo,
due soli aver, che l’una e l’altra strada
facean vedere, e del mondo e di Deo.
L’un l’altro ha spento; ed è giunta la spada
col pasturale, e l’un con l’altro insieme
per viva forza mal convien che vada

Ben v’èn tre vecchi ancora in cui rampogna
l’antica età la nova, e par lor tardo
che Dio a miglior vita li ripogna:

Currado da Palazzo e ’l buon Gherardo
e Guido da Castel, che mei si noma,
francescamente, il semplice Lombardo.
Dì oggimai che la Chiesa di Roma,
per confondere in sé due reggimenti,
cade nel fango, e sé brutta e la soma.

Inf. XIII, 118-121

Quel dinanzi: “Or accorri, accorri, morte!”.
E l’altro, cui pareva tardar  troppo,
gridava: “Lano, sì non furo accorte
le gambe tue a le giostre dal Toppo!”.

Par. X, 133-138

Questi onde a me ritorna il tuo riguardo,
è ’l lume d’uno spirto che ’n pensieri
gravi a morir li parve venir tardo:
essa è la luce etterna di Sigieri,
che, leggendo nel Vico de li Strami,
silogizzò invidïosi veri.

[LSA, cap. IX, Ap 9, 5-6 (IIIa visio, Va tuba)] Quinto describit gravitatem doloris predictorum lesuram consequentis et concomitantis, unde subdit: (Ap 9, 5) “sed ut cruciarent mensibus quinque, et cruciatus eorum ut cruciatus scorpii, cum percutit hominem. (Ap 9, 6) Et in diebus illis querent homines mortem et non invenient eam et desiderabunt mori, et fugiet mors ab illis”. […] Per cruciatum autem designatur hic pungitivus remorsus conscientie et timor gehenne, qui fidelibus in gravia peccata cadentibus non potest de facili deesse. Designat etiam iram et offensam quam temporaliter dampnificati et iniuriati a predictis locustis habent contra eas, et designat etiam merorem et consternationem quam multi habent de tantis malis per locustas factis, ita quod tedet eos vivere et maxime quia timent incidere in tantam temptationem et per consequens dampnari. Multi etiam per evasionem tantorum malorum cupiunt et desiderant martiria, sed non inveniunt propter pacem quinto tempori datam. […]
Quod autem ait (Ap 9, 5), “dictum” esse “illis”, id est prohibitum seu non permissum, “ne occiderent eos, sed ut cruciarent mensibus quinque”, dicit Ioachim non esse hoc dictum de morte eterna, sed de totali extinctione fidei*. Quod est intelligendum respectu illorum carnalium quos non omnino in suum errorem trahunt, sed solum suis stimulis in dubium valde cruciativum inducunt, detrahendo scilicet fidelibus et mala exempla clericorum et prelatorum eis ingerendo et contra quasdam difficultates fidei arguendo per sensibiles auctoritates scripture et per quedam exempla plana et sensibilia, et e contra fictam sanctitatem suorum, quos perfectos vocant, eis demonstrando et commendando**.
Hoc autem instar scorpii faciunt sub blanda specie et quasi sub pio zelo [eruendi eos ab errore et dampnatione et reducendi eos ad viam salutis. […] De predictis autem sic scorpionali stimulo et dubio fortiter cruciatis, non tamen in eorum heresim transductis nec a fide vera simpliciter extinctis, subditur quod tales “querent mortem et non invenient” (Ap 9, 6), propter scilicet nimium cruciatum sui dubii, tamquam ex hoc timentes dampnari et in utraque parte, scilicet falsa et vera, timentes errare. […] Ceteros vero hinc inde vacillantes suis venenatis aculeis cruciabunt, quia per hoc in tantam perplexitatem incident quod preeligerent mori. […] Vel per quinque menses designantur quinque anni, ut annus et dimidius precurrens tres annos et dimidium habeat pugnam paratoriam ad illam que ad tres et dimidium spectat; videnturque prefigurari per quinque dies quibus in tribulatione Holofern[is] Israelite, qui erant in [Betulia], decreverunt Dei auxilium expectandum sin autem ex tunc se traderent Holoferni, prout dicitur Iudith VII° (Jdt 7, 23-25). Post illos autem quinque dies, Iudith occidit Holofernem et liberati sunt Israelite. Nam post primum diem illorum quinque, ivit Iudith ad Holofernem; quarto autem die adventus sui ad eum cenavit cum eo, prout dicitur capitulo XII° (Jdt 12, 10ss.); deinde in ipsa nocte occidit eum.

Expositio, pars III, f. 131va.

** Cfr. ibid., f. 131rb-va (libera interpretazione).

Inf. VIII, 109-111

Così sen va, e quivi m’abbandona
lo dolce padre, e io rimagno in forse,
che sì e no nel capo mi tenciona.

Inf. IX, 7-9

“Pur a noi converrà vincer la punga”,
cominciò el, “se non  … Tal ne s’offerse.
Oh quanto tarda a me ch’altri qui giunga!”.

Inf. XV, 70-72 

La tua fortuna tanto onor ti serba,
che l’una parte e l’altra avranno fame
di te; ma lungi fia dal becco l’erba.

Purg. XXV, 115-117

ond’ ir ne convenia dal lato schiuso
ad uno ad uno; e io temëa ’l foco
quinci, e quindi temeva cader giuso.

Inf. XXVIII, 97-99

Questi, scacciato, il dubitar sommerse
in Cesare, affermando che ’l fornito
sempre con danno l’attender sofferse   6, 9.11

Pharsalia I, 280-281

Dum trepidant nullo firmatae robore partes,
tolle moras; semper nocuit differre paratis.

Inf. XXXI, 109-111

Allor temett’ io più che mai la morte,
e non v’era mestier più che la dotta,
s’io non avessi viste le ritorte.

Purg. XX, 67-69, 73-75

Carlo venne in Italia e, per ammenda,
vittima fé di Curradino; e poi
ripinse al ciel Tommaso, per ammenda.

Sanz’ arme n’esce e solo con la lancia
con la qual giostrò Giuda, e quella ponta
sì, ch’a Fiorenza fa scoppiar la pancia.

Purg. XXI, 115-117 

Or son io d’una parte e d’altra preso:
l’una mi fa tacer, l’altra scongiura
ch’io dica; ond’ io sospiro, e sono inteso

Par. IV, 1-9

Intra due cibi, distanti e moventi
d’un modo, prima si morria di fame,
che liber’ omo l’un recasse ai denti;
sì si starebbe un agno intra due brame
di fieri lupi, igualmente temendo;
sì si starebbe un cane intra due dame:
per che, s’i’ mi tacea, me non riprendo,
da li miei dubbi d’un modo sospinto,
poi ch’era necessario, né commendo.

[LSA, cap. IX, Ap 9, 7 (IIIa visio, Va tuba)] Pro prima (mala proprietate locustarum) dicit: “Et similitu-dines”, id est species seu imagines, “locustarum” erant “similes equis paratis in prelium”, id est sunt fortes et animosi et prompti et a demonibus, quasi ab equitibus, agitati ad omnem rixam et vindictam et ad litigia causidicationum et ad ledendum homines tam spiritualiter quam temporaliter. […] Preterea creden-tes illorum sunt de numero locustarum cruciantium, qui et sunt quasi “equi parati in prelium”, quia pro suo errore defendendo et propagando sunt animosis-simi usque ad mortem.

 

3.3. “Mastro Sighier non andò guari lieto”: dal Paradiso al Fiore

 

Dall’esame, effettuato con l’aiuto della ‘chiave’ (la Lectura super Apocalipsim dell’Olivi), dei significati spirituali annidati nei “pensieri gravi” di Sigieri di Brabante (del quale parla Tommaso d’Aquino nel cielo del Sole) si può trarre un nuovo argomento per assegnare a Dante la paternità del Fiore (dove Sigieri è citato al sonetto XCII, 9-11).
Consideriamo dunque i seguenti aspetti:

a) Il dubbio di Sigieri è tessuto sulla parte del “panno” (la Lectura super Apocalipsim) che riguarda il quinto stato (più precisamente: la quinta tromba, Ap 9, 5-6; si tenga conto della complessa articolazione delle aggregazioni settenarie del materiale esegetico).

b) Su questa porzione di “panno” sono tessuti altri luoghi della Commedia. Ciò avviene per uno dei principi fondamentali del rapporto fra i due testi, come già altrove esposto. Un medesimo luogo della Lectura conduce infatti, tramite la compresenza degli elementi semantici in spazi testuali sufficientemente ristretti, a più luoghi della Commedia. Il che significa che la medesima esegesi di un punto del commento scritturale è stata utilizzata in momenti diversi della stesura del poema.
A ciò si deve aggiungere un altro principio. L’intenso travaso di parole-temi dalla Lectura nella Commedia si accompagna a un fatto strutturale. La Commedia mostra un ordine interno diverso da quello che appare al lettore: il viaggio di Dante ha un andamento di ciclici settenari, che corrispondono ai sette stati dell’Olivi. È un ordine, registrabile per zone progressive del poema dove prevalgono i temi di un singolo stato, che rompe i confini letterali stabiliti dai canti e da tutte le divisioni materiali per cerchi, gironi, cieli. Poiché però ciascuno stato, oltre alle sue prerogative, contiene motivi propri di tutti gli altri, gli stessi elementi semantici che in una zona del poema si mostrano prevalenti lo sono altrove in modo incidentale.
Fra questi luoghi, afferenti alla tematica del quinto stato (in modo prevalente o incidentale), ci sono gli episodi di Brunetto Latini (prevalente), di Marco Lombardo (incidentale: la tematica prevalente riguarda infatti il terzo stato) e di Ugo Capeto (prevalente):

b-1) Nel primo caso (Brunetto) si registrano i temi del fumo (Ap 9, 1; Inf. XV, 2-3; 116-117), dell’incerto scegliere fra due parti (riferito ai partiti che avranno fame di Dante: “che l’una parte e l’altra avranno fame / di te “, ibid., 70-72), e soprattutto la corrispondenza fra (si tratta di una citazione oliviana di Gioacchino da Fiore) «[…] “stella de celo” cadens fuit aliquis clericus scientia litterarum imbutus […] sed et multi sacerdotes et religiosi multique principes et milites fuerunt hoc errore infecti ” e “In somma sappi che tutti fur cherci  / e litterati grandi e di gran fama, / d’un peccato medesmo al mondo lerci ” (Inf. XV, 106-108).

b-2) Nel secondo caso (Marco Lombardo) si registra il tema della morte che tarda a venire per i tre vecchi lombardi, ed è lo stesso motivo che permea le parole di Tommaso d’Aquino su Sigieri (“e par lor tardo / che Dio a miglior vita li ripogna … che ’n pensieri / gravi a morir li parve venir tardo”, Purg. XVI, 122-123; Par. X, 134-135).

b-3) Nel terzo caso, le parole di Ugo Capeto sul presunto assassinio dell’Aquinate perpetrato da Carlo d’Angiò, che “poi / ripinse al ciel Tommaso, per ammenda” (Purg. XX, 68-69), sono da connettere allo scorpionale stimolo delle pungenti e subdole locuste, che con pio zelo intendono sottrarre i fedeli dall’errore e ricondurli sulla via della salvezza. Alle quali non è estraneo Carlo di Valois il quale, armato solo della lancia di Giuda, cioè della frode, punge e fa scoppiare la pancia a Firenze (ibid., 73-75).

Bisogna anche dire che in tutti e tre i casi la ‘zona’ del poema, riferibile prevalentemente ad uno degli stati, è assai ampia dal punto di vista dello sviluppo in poesia del materiale esegetico. Mostrarlo richiederebbe l’esame, lungo e complesso, di tutta la materia relativa ad uno stato, per registrare come si adatti a questa o a quell’altra parte del poema. Per ora basti considerare che Inf. XV-XVI (i sodomiti) è ‘zona’ dove prevalgono i temi del quinto stato (naturalmente preceduta da una ‘zona quarta’, con i bestemmiatori, e seguita da una ‘zona sesta’, con l’episodio della corda e l’ascesa dall’abisso di Gerione); che Purg. XX (gli avari e i prodighi) è altrettanto pervaso dal quinto stato, preceduto dal quarto (gli accidiosi), dal terzo (gli iracondi con Marco Lombardo) ecc., e seguito dalla grande ‘zona sesta’ della montagna (a partire dal terremoto, si registrano l’incontro con Stazio, i golosi, la lezione di Stazio sull’umana generazione). I gironi del Purgatorio coincidono all’incirca con uno stato, perché, come si è detto, l’intreccio dei temi rompe ogni limite letterale.
Si rinvia, per un esame dettagliato, alla Topografia spirituale della “Commedia”  (integrata da: Il terzo stato. La ragione contro l’errore ; La settima visione).

c) Elementi semantici e/o congiunture sintattiche, presenti nel poema come indicato sub b – 1, 2, 3), congiunti dal fatto di essere stati elaborati sul medesimo settore della materia teologica fornita dalla Lectura super Apocalipsim (quinta tromba), si trovano identici, ma separati, in alcuni sonetti del Fiore (LXXXVIII, 12: “mi ripogna”; XCII, 6-7, 9: “Che sed e’ vien alcun gra.litterato / Che voglia discovrir il mi’ peccato … Mastro Sighier non andò guari lieto”; CVIII, 14: “E dato â me, che ’n paradiso il pingo”), tutti riferiti a Falsembiante.

d) Presi singolarmente, quegli elementi semantici e/o congiunture sintattiche sono già stati segnalati come ‘prove interne’ di paternità dantesca. Le numerose rispondenze tra Fiore e Commedia testimoniano che “non si tratta più di una semplice somma d’indizi, ma di un organismo mnemonico che è insieme verbale, concettuale (o sinonimico), fonico e ritmico, del tutto assimilabile alla memoria che il Dante della Commedia ha di sé stesso” (Contini) [10], per cui “il Fiore è un testo che Dante, se non ha composto, ha letto e assimilato assai bene” (Gorni) [11].

e) Poiché la Commedia mostra un ordito interiore che lega luoghi diversi fra loro per adesione poetica alla medesima materia teologica che viene trasformata per variazioni e alla quale i versi rinviano con procedimento di ars memorandi, quei punti sopra considerati, che nel Fiore sono disgiunti, appaiono non solo emergenti dalla coscienza dell’autore, nuovamente assunti nel poema in modo sparso – “la memoria che il Dante della Commedia ha di sé stesso”, come afferma Contini -, ma consapevolmente rielaborati : da Inf. XV a Par. X, come sono stati variati i temi offerti dalla Lectura dell’Olivi (in questo caso a partire da alcuni passi dell’esegesi della quinta tromba), così vi sono stati scientemente incastonati i temi dell’antico lavoro di ‘ser Durante’.

È da notare che nel Fiore LXXXVIII, 12-14 Falsembiante, il quale veste “la roba del buon frate Alberto” (e mette in rima “ripogna” e “vergogna” come nel parlare di Marco Lombardo sui tre vecchi a Purg. XVI, 119/123), accenna all’uccisione di Sigieri di Brabante, nel 1282-1283, presso la corte di Orvieto, dove risiedeva il papa Martino IV al quale si era appellato (“a ghiado il fe’ morire a gran dolore”: XCII, 9-11). Ma, nel Paradiso, il suo ‘confratello’ Tommaso d’Aquino  – “glorïosa vita” – esalta quel dolore, in parte da lui stesso provocato, evocando i “pensieri gravi”, cioè dolorosi al punto da fargli desiderare la morte, dell’avversario martire della filosofia pura. E l’esaltazione assume un valore universale perché le parole dell’Aquinate rinviano il lettore spirituale al tormento provocato nei fedeli dalla puntura delle subdole locuste, insinuanti il dubbio su quale sia la via per raggiungere la verità (nel caso, la ragione o la fede), secondo quanto esposto dall’Olivi nell’esegesi della quinta tromba apocalittica.
Sono, questi, sondaggi indicatori di un metodo che potrebbe essere replicato su altri rapporti fra Fiore e Commedia, mostrando quanto sia feconda di implicazioni la serrata sinossi fra Commedia e Lectura super Apocalipsim [12].

Tab. III.3

Fiore, CVIII

(ed. a cura di G. Contini, in Dante Alighieri, Opere minori, I/II, Milano-Napoli 1984)

Ma quand’ i’ truovo un ben ricco usuraio
Infermo, vo’l sovente a vicitare,
Chéd i’ ne credo danari aportare
Non con giomelle, anzi a colmo staio.

E quando posso, e’ non riman danaio
A.ssua famiglia onde possa ingrassare;
Quand’ egli è morto, il convio a sotter[r]are,
Po’ torno e sto più ad agio che gen[n]aio.

E sed i’ sono da nessun biasmato
Perch’io il pover lascio e ’l ric[c]o stringo,
Intender fo che ’l ricco à più peccato,

E perciò sì ’l conforto e sì ’l consiglio,
Insin ch’e’ d’ogne ben s’è spodestato,
E dato â me, che ’ n paradiso il pingo.

Purg. XX, 67-69

Carlo venne in Italia e, per ammenda,
vittima fé di Curradino; e poi
ripinse al ciel Tommaso, per ammenda.

Fiore, LXXXVIII

« Po’ ch’e’ vi piace, ed i’ sì ’l vi diròe »,
Diss’ alor Falsembiante: « or ascoltate,
Chéd i’ sì vi dirò la veritate
De.luogo dov’io uso e dov’i’ stoe.

Alcuna volta per lo secol voe,
Ma dentro a’ chiostri fug[g]o in salvitate,
Ché quivi poss’ io dar le gran ghignate
E tuttor santo tenuto saròe.

Il fatto a’ secolari è troppo aperto:
Lo star guari co.lor no.mmi bisogna,
C[h]’a me convien giucar troppo coperto.

Perch’ i’ la mia malizia mi ripogna,
Vest’ io la roba del buon frate Alberto:
Chi tal rob’ àe, non teme mai vergogna ».

Purg. XVI, 118-126

or può sicuramente indi passarsi
per qualunque lasciasse, per vergogna,
di ragionar coi buoni o d’appressarsi.
Ben v’èn tre vecchi ancora in cui rampogna
l’antica età la nova, e par lor tardo
che Dio a miglior vita
li ripogna :
Currado da Palazzo e ’l buon Gherardo
e Guido da Castel, che mei si noma,
francescamente, il semplice Lombardo.

Fiore, XCII

Color con cuï sto sì ànno il mondo
Sotto da lor sì forte aviluppato,
Ched e’ nonn-è nes[s]un sì gran prelato
C[h]’a lor possanza truovi riva o fondo.

Co.mmio baratto ciaschedun afondo:
Che sed e’ vien alcun gra.litterato
Che voglia discovrir il mi’ peccato,
Co.la forza ch’i’ ò, i’ sì ’l confondo.

Mastro Sighier non andò guari lieto:
A ghiado il fe’ morire a gran dolore
Nella corte di Roma, ad Orbivieto.

Mastro Guiglielmo, il buon di Sant’Amore,
Fec’ i’ di Francia metter in divieto
E sbandir del reame a gran romore.

Inf. XV, 1-3, 70-72, 106-108 

Ora cen porta l’un de’ duri margini;
e ’l fummo del ruscel di sopra aduggia,
sì che dal foco salva l’acqua e li argini. 

La tua fortuna tanto onor ti serba,
che l’una parte e l’altra avranno fame
di te; ma lungi fia dal becco l’erba.

In somma sappi che tutti fur cherci
e litterati grandi e di gran fama,
d’un peccato medesmo al mondo lerci.

Par. X, 133-138

Questi onde a me ritorna il tuo riguardo,
è ’l lume d’uno spirto che ’n pensieri
gravi a morir li parve venir tardo :
essa è la luce etterna di Sigieri,
che, leggendo nel Vico de li Strami,
silogizzò invidïosi veri.

[LSA, cap. IX, Ap 9, 1-2 (IIIa visio, Va tuba)] Deinde pro secunda temptatione, scilicet Manicheorum hereticorum in quinto tempore multiplicatorum, et precipue in Italia et in comitatu tholosano et circa, est expositio Ioachim quod “stella de celo” cadens fuit aliquis clericus scientia litterarum imbutus, qui clavem scientie pravi dogmatis et potestatem investigandi profunda sapientie false et superstitiose, non Dei, a patre mendacii accepit. “Puteus” autem “abissi” est profunditas humane et false sapientie, de qua “fumus” erroris proceditobscurantis solem et aerem, quia non solum plebei sed et multi sacerdotes et religiosi multique principes et milites fuerunt hoc errore infecti (cfr. Ap 9, 2).

* Expositio, pars III, f. 130va.

[LSA, cap. IX, Ap 9, 5-6 (IIIa visio, Va tuba)] Quinto describit gravitatem doloris predictorum lesuram consequentis et concomitantis, unde subdit: (Ap 9, 5) “sed ut cruciarent mensibus quinque, et cruciatus eorum ut cruciatus scorpii, cum percutit hominem. (Ap 9, 6) Et in diebus illis querent homines mortem et non invenient eam et desiderabunt mori, et fugiet mors ab illis”. […] Per cruciatum autem designatur hic pungitivus remorsus conscientie et timor gehenne, qui fidelibus in gravia peccata cadentibus non potest de facili deesse. Designat etiam iram et offensam quam temporaliter dampnificati et iniuriati a predictis locustis habent contra eas, et designat etiam merorem et consternationem quam multi habent de tantis malis per locustas factis, ita quod tedet eos vivere et maxime quia timent incidere in tantam temptationem et per consequens dampnari. Multi etiam per evasionem tantorum malorum cupiunt et desiderant martiria, sed non inveniunt propter pacem quinto tempori datam. […]
Quod autem ait (Ap 9, 5), “dictum” esse “illis”, id est prohibitum seu non permissum, “ne occiderent eos, sed ut cruciarent mensibus quinque”, dicit Ioachim non esse hoc dictum de morte eterna, sed de totali extinctione fidei*. Quod est intelligendum respectu illorum carnalium quos non omnino in suum errorem trahunt, sed solum suis stimulis in dubium valde cruciativum inducunt, detrahendo scilicet fidelibus et mala exempla clericorum et prelatorum eis ingerendo et contra quasdam difficultates fidei arguendo per sensibiles auctoritates scripture et per quedam exempla plana et sensibilia, et e contra fictam sanctitatem suorum, quos perfectos vocant, eis demonstrando et commendando**.
Hoc autem instar scorpii faciunt sub blanda specie et quasi sub pio zelo [eruendieos ab errore et dampnatione et reducendi eos ad viam salutis. […] De predictis autem sic scorpionali stimulo et dubio fortiter cruciatis, non tamen in eorum heresim transductis nec a fide vera simpliciter extinctis, subditur quod tales “querent mortem et non invenient” (Ap 9, 6), propter scilicet nimium cruciatum sui dubii, tamquam ex hoc timentes dampnari et in utraque parte, scilicet falsa et vera, timentes errare. […] Ceteros vero hinc inde vacillantes suis venenatis aculeis cruciabunt, quia per hoc in tantam perplexitatem incident quod preeligerent mori. […]

Expositio, pars III, f. 131va.

** Cfr. ibid., f. 131rb-va (libera interpretazione).

3.4. Dramma e nostalgia (Purg. VIII, 1-6)

A quanto esposto nell’esegesi oliviana di Ap 9, 5-6, sul desiderio di morire provocato dalla puntura delle locuste insinuanti il dubbio su quale sia la vera via della salvezza, rinvia il dramma di Sigieri di Brabante, “che ’n pensieri / gravi a morir li parve venir tardo”, per la contrapposizione fra argomenti filosofici e verità rivelate (Par. X, 133-138).
Un dramma interiore non estraneo in circostanze diverse a Dante, pellegrino verso l’eterno ma ancora vivo e punto dalla rimembranza di quanto ha lasciato indietro (Purg. VIII, 1-6). Egli, scrive Benedetto Croce,

[…] s’immerge nella scena che gli si forma attorno e assiste a un mistero dell’anima, dell’anima che trepida e prega e invoca da Dio l’aiuto nelle tentazioni del male. Questa lotta interiore prende figura nel gruppo delle ombre che sono nella valletta, in quell’«esercito gentile», che recita la preghiera e poi riguarda in su, quasi aspettando, «pallido ed umìle». Timore e speranza, sfiducia e fiducia, senso di debolezza all’insidia e senso di sicurezza, confluiscono in quell’atto; e l’anima si riempie di un misto di dolore e amore, in quell’ora soffusa di malinconia, quando il sole è tramontato e la sera si approssima, l’ora in cui i naviganti e viaggiatori più risentono il desiderio del proprio tetto e dei cari amici, e il cuore si strugge al suono di una campana che chiami a compieta [13].

È il vespro, l’ora del quinto stato (prologo, Notabile VII). Tra le interpretazioni date al “pungere” delle locuste che escono dal pozzo dell’abisso aperto al suono della quinta tromba, due si adattano alla situazione (Ap 9, 5-6.10). La prima è la puntura che provoca il rimorso della coscienza, che penetra acuto e sottile nel cuore. Le locuste insinuano il dubbio, l’incertezza su quale sia la retta via di salvezza; pertanto il rimorso può anche essere inteso, con valore negativo, come un desiderio di tornare indietro sulla strada già intrapresa. La seconda interpretazione è la puntura intesa come offesa temporale: la sottrazione dei beni terreni prediletti viene a volte consentita, come afferma Riccardo di San Vittore, affinché gli afflitti dall’amore delle cose terrene si sollevino alla ricerca dei veri beni. Entrambi i motivi sono presenti nel pungere d’amore, da parte dell’ora, il nuovo pellegrino: il desiderio di tornare indietro dal nuovo viaggio intrapreso e l’amore dei beni terreni sottratti che punge l’animo dell’esule. Si tratta di uno sviluppo dei temi da Ap 9, 5-6, allorché, nella fase estrema del quinto stato, gli uomini, fatti insicuri nella tentazione, desiderano la morte, ma la morte fugge da essi. La puntura penetra sottilmente, attraverso l’udito (“se ode squilla di lontano”), tramite il quale percepiamo cose più sottili di quanto consentano la vista e il tatto (cfr. Ap 9, 16-17 con l’agnizione di Forese a Purg. XXIII, 43-45). Le anime defunte, come il poeta vivo, paiono provare anch’esse la tentazione delle cose terrene che hanno abbandonato, quando il loro desiderio dovrebbe essere rivolto solo a “veder l’alto lume” (cfr. Purg. XIII, 86-87); sentono malinconico tedio della vita come al suono di compieta che segna la fine del giorno, attendono dubbiosamente fra timore e speranza, al modo in cui le anime all’apertura del quinto sigillo (Ap 6, 9) attendono sotto la protezione delle ali di Cristo (gli angeli che volgono in fuga il serpente).
Come all’imbrunire del primo giorno di viaggio il dubbio di non essere all’altezza di compiere un’impresa accettata troppo frettolosamente aveva fatto recedere il poeta dal proposito (Inf. II, 10-42), così nella sera del primo giorno nel purgatorio l’ora intenerisce il suo cuore, gli instilla quel “senso vivo e tenero della pietà” che costituisce uno dei temi più peculiari del quinto stato (prologo, Notabile XIII).
Il principio di Purg. VIII “è forse … il punto in cui Dante più s’accosta al tipo del ‘vago poetico’, nel senso del gusto romantico … Ma anche qui ogni nota è funzionale e si lega alla struttura, preannunziando e insieme riportando a un’unità tonale la varia e sapientemente concertata materia del canto” (Sapegno). La nostalgia del pellegrino non è la Sehnsucht di Mignon, e ciò è percepibile anche fermando la lettura dei versi al loro senso letterale. L’unità tonale più profonda è però quella data dal “panno” dell’esegesi apocalittica oliviana, aderendo alla quale gli episodi della “gonna” assumono valore universale.

 

Tab. III.4

[LSA, prologus, Notabile XIII] In quinto vero tempore fuerunt spiritualiores monachi quasi aves volantes, clerici vero gentibus commixti fuerunt quasi pisces in aquis (cfr. Gn 1, 20-21). In hac autem die primo dictum est: “Crescite et multiplicamini” et cetera (Gn 1, 22), quia numquam in preteritis temporibus sic monasteria vel ecclesie in tali vita, que conveniret pluribus, ordinate fuere quomodo in tempore quinto, quia non tantum clericorum et monachorum, verum etiam ecclesiarum et monasteriorum que sunt propagata in tempore quinto in hac occidentali ecclesia colligere numerum non est facile. Unde quamvis vita monachorum quarti temporis fuerit clarior, non tamen fecundior nec sic habens sensum vivum et tenerum pietatis. Aves enim et pisces prehabundant in sensu luminaribus celi. Attamen notandum quod in quinta die creata sunt munda pariter et immunda. Sunt enim pisces secundum legem mundi et immundi, avesque similiter. *

*Cfr. Concordia, V 1, c. 13; Patschovsky 3, p. 561, 10-11; p. 563, 4-15; p. 565, 3-4 (Olivi sintetizza più passi di Gioacchino, è comunque sua l’espressione nec sic habens sensum vivum et tenerum pietatis).

[LSA, prologus, Notabile VII] Rursus sicut omnis dies habet mane, meridiem et vesperam, sic et omnis status populi Dei in hac vita. Nam in eterna erit semper meridies absque nocte. Ergo tempus plenitudinis gentium sub Christo debuit ante conversionem alterius populi, scilicet iudaici, habere mane et meridiem et vesperam. Et sic quasi iam vidimus esse completum et a Iohanne in hoc libro descriptum. Nam eius mane commixtum tenebris idolatrie fuit ab initio conversionis gentium usque ad Constantinum (III). Eius vero meridies fuit in preclara doctrina et contemplatione et vita doctorum et anachoritarum (III-IV). Eius vero vespera circa finem quinti temporis nimis apparet (V). Et cum Babilon meretrix et bestia portans eam erit in suo summo, tunc erit nox eius tenebrosissima, de qua in Psalmo dictum est: “Posuisti tenebras et facta est nox, in ipsa pertransibunt omnes bestie silve” (Ps 103, 20). Ipse sunt et bestie sexto die formate, post quas et formatus est homo ad imaginem Dei, quia post has convertetur Israel cum reliquiis gentium et apparebit christiformis vita et imago Christi (VI).

Purg. VIII, 1-6

Era già l’ora che volge il disio
ai navicanti e ’ntenerisce il core
lo c’han detto ai dolci amici addio;
e che lo novo peregrin d’amore
punge, se ode squilla di lontano
che paia il giorno pianger che si more

Purg. XII, 19-21

onde lì molte volte si ripiagne
per la puntura de la rimembranza,
che solo a’ pïi dà de le calcagne

[LSA, cap. IX, Ap 9, 5-6.10 (IIIa visio, Va tuba)] Quinto describit gravitatem doloris predictorum lesuram consequentis et concomitantis, unde subdit: (Ap 9, 5) “sed ut cruciarent mensibus quinque, et cruciatus eorum ut cruciatus scorpii, cum percutit hominem. (Ap 9, 6) Et in diebus illis querent homines mortem et non invenient eam et desiderabunt mori, et fugiet mors ab illis”. […] Secundum vero Ricardum, quinque mensibus cruciantur carnales per istos, quia [qui] per quinque sensus corporis adherent transitoriis permittuntur aliquando pro ablatione terrenorum, que diligunt, a reprobis affligi, ut sic afflicti ab amore terrenorum resipiscant et ad vera bona querenda resurgant *.
Vel quia quinque menses sunt pars quinque annorum eis in quinario correspondens, ideo extremam partem quinti temporis, in qua predicta mala precipue inundare debebant, designat per quinque menses. […]
Per cruciatum autem designatur hic pungitivus remorsus conscientie et timor gehenne, qui fidelibus in gravia peccata cadentibus non potest de facili deesse. Designat etiam iram et offensam quam temporaliter dampnificati et iniuriati a predictis locustis habent contra eas, et designat etiam merorem et consternationem quam multi habent de tantis malis per locustas factis, ita quod tedet eos vivere et maxime quia timent incidere in tantam temptationem et per consequens dampnari. Multi  etiam per evasionem tantorum malorum cupiunt et desiderant martiria, sed non inveniunt propter pacem quinto tempori datam. […]
(Ap 9, 10) In caudis igitur locustarum sunt aculei, tum quia subtiliter et acute penetrant corda illorum quibus se familiariter applicant, tum quia puncturam peccati et remorsus in corde illorum relinquunt, tum quia sepe eos in temporalibus astute et subtiliter ledunt.

* In Ap III, vi (PL 196, col. 784 C).

[LSA, cap. IX, Ap 9, 16-17 (IIIa visio, VIa tuba)] Nota quod cum in signum maioris certitudinis voluit dicere quod predictum numerum equitum et equorum percepit tam per auditum angelice vocis quam per visum imaginum equorum et equitum sibi in visione per angelum monstratorum, nichilominus usitato more scripture appropriat auditum numero equitum, visum vero numero equorum. In quo et innuit apprehensionem equitum esse subtiliorem et secretiorem quam apprehensionem equorum; auditu enim percipimus multa intelligibilia que nequeunt a nobis visibiliter sentiri et palpari.

Inf. XXXIV, 127-129

Luogo è là giù da Belzebù remoto
tanto quanto la tomba si distende,
che non per vista, ma per suono è noto 

Purg. XVI, 34-36 

“Io ti seguiterò quanto mi lece”,
rispuose; “e se veder  fummo non lascia,
l’udir ci terrà giunti in quella vece”.

Purg. XXIII, 43-45, 61-63

Mai non  l’avrei riconosciuto al viso ;
ma ne la voce sua mi fu palese
ciò che l’aspetto in sé avea conquiso.

Ed elli a me: “De l’etterno consiglio
cade vertù ne l’acqua e ne la pianta
rimasa dietro, ond’ io sì m’assottiglio.”


3.5. Il distruttore della vigna (Ap 9, 11)

La seconda proprietà delle locuste che, al suono della quinta tromba (terza visione) escono dal pozzo dell’abisso al quale è stato tolto il freno, è la seguente: “e sopra le loro teste” (dei cavalli ai quali le locuste sono assimilate), “come corone simili all’oro”, cioè si gloriano del male fatto e per la superbia, per l’affluenza della gloria temporale e per la vittoria nelle guerre sostenute si ritengono quasi re coronati, anche perché sperano e si promettono premi eterni. È detto “come corone” perché la loro speranza e la loro gloria non è vera ma vana e falsa e non è vero oro, cioè vera gloria, ma falsamente simile (Ap 9, 7).
Il ritenersi gran re è proprio di persone orgogliose come Filippo Argenti (Inf. VIII, 46-51; l’orgoglio è motivo tipico del quarto stato).
Nell’ultima bolgia è punito Capocchio, il fiorentino che rivela la vanità dei senesi, il quale falsò i metalli con l’alchimia e fu “di natura buona scimia”, cioè imitatore. Il nome del falsario concorda nel suono con “caput” e l’essere “scimia” con “similis” (Inf. XXIX, 136-139).
Filippo il Bello, altro falsario denunciato dall’aquila fra i re malvagi – “Lì si vedrà il duol che sovra Senna / induce, falseggiando la moneta” -, fa coniare monete di valore reale inferiore a quello nominale per sostenere le spese della guerra di Fiandra (Par. XIX, 118-120). L’indurre dolore è un altro tema proprio delle locuste (Ap 9, 5-6; da notare la citazione di Gioacchino da Fiore incastonata, come le altre, nell’esegesi propria di Olivi; cfr. supra).

Il sommo re delle locuste, che secondo Gioacchino da Fiore sarà uno pseudopapa – “puto … quod ipse veniat tenere locum Antichristi” -, ha il nome ebraico di “Abaddon”, quello greco di “Apollyon” e quello latino di “Exterminans” in quanto è re di tutti i malvagi sia fra gli Ebrei sia fra le genti, e in ogni lingua viene chiamato “sterminatore” di ciò che è buono (Ap 9, 11). Di lui, nell’esegesi della terza tribolazione, si dice con il Salmo 79: “Hai divelto una vite dall’Egitto e l’hai trapiantata. Perché hai divelto la sua cinta e ogni viandante che passa ne fa vendemmia? L’ha devastata il cinghiale della selva” (Ps 79, 9.13-14), quasi intendendo che se molti eretici, passando e attraversando la via, recarono alla Chiesa danni che potevano essere al momento tollerati, perché anche se essa perdeva i frutti restava tuttavia integra, il cinghiale della selva l’ha distrutta con singolare ferocia tanto da non farla apparire vigna del Signore ma piuttosto sinagoga del diavolo. Questo cinghiale viene identificato con l’Anticristo mistico, assimilato a Caifa, il pontefice che condannò Cristo, e a Erode che lo dileggiò. L’Anticristo aperto, il grande cinghiale, viene invece assimilato a Nerone e a Simon Mago, che si diceva Dio e figlio di Dio.
L’ultimo versetto della quinta tromba recita: “Il primo ‘guai’ è passato, ed ecco rimangono ancora due ‘guai’” (Ap 9, 12). Quella del quinto stato è una tribolazione triplice, i cui elementi agiscono insieme e concorrono e convengono alla fine contro lo spirito di Cristo, come i Sadducei e i Farisei, Pilato ed Erode convennero insieme contro Cristo, per quanto fossero nemici tra loro e appartenenti a sette diverse.
Fra i cattivi principi cristiani enumerati dall’aquila, a Par. XIX, 120 Filippo il Bello è “quel che morrà di colpo di cotenna”, cioè a causa di un cinghiale che, nel novembre 1314, lo farà cadere da cavallo attraversandogli la via. A Filippo il Bello sono pertanto appropriati i temi delle feroci e subdole locuste. Queste infieriscono sulla Chiesa in particolare alla fine del quinto stato, allorché la rilassatezza l’ha trasformata quasi in una nuova Babilonia (tale è la “puttana sciolta” del finale di Purg. XXXII). Alle locuste fa riferimento Ugo Capeto nel narrare le malefatte dei suoi discendenti: una dinastia che “poco valea, ma pur non facea male” fino  a quando “la gran dota provenzale” non le tolse la vergogna (Purg. XX, 61-63), non recava cioè danni irreparabili come capitò alla vigna prima che fosse distrutta dal cinghiale (Ap 9, 11).
Assetati di superbia, Edoardo I d’Inghilterra e Roberto Bruce di Scozia sono insofferenti di restare dentro ai propri confini (Par. XIX, 121-123; “exterminans” ha anche il significato di travalicare i confini; cfr. Convivio IV, iv, 4).
Il motivo del cinghiale della selva è negli scialacquatori che fuggono, come un cinghiale braccato, le nere cagne per la selva della quale rompono ogni cespuglio che si frappone (Inf. XIII, 112-117), in Ciriatto “sannuto” (Inf. XXI, 122; XXII, 55-57), nel correre mordendo con rabbia proprio di Gianni Schicchi e Mirra come il porco cui sia stato aperto il porcile (Inf. XXX, 25-27).
Il motivo della vigna distrutta è appropriato a san Domenico che la circuisce difendendola (Par. XII, 85-87), a Giovanni XXII che scrive atti solo per venderne la cancellazione (Par. XVIII, 130-132), a san Pietro che povero e digiuno seminò la vite ora “fatta pruno”, cioè inselvatichita (Par. XXIV, 109-111), alla “brigata” senese “in che disperse / Caccia d’Ascian la vigna e la gran fonda” (Inf. XXIX, 130-131). Il nome greco del re delle locuste è però assunto in senso positivo nell’invocazione al “buono Appollo” a Par. I, 13.
Nella bolgia degli ipocriti Caifa, crocifisso in terra con tre pali, “attraversato è, nudo, ne la via”, cioè posto di traverso in modo che chiunque passi lo possa calpestare (Inf. XXIII, 109-126). Questa posizione di Caifa corrisponde, per contrapasso, al “transeuntes et pretergredientes viam” di quanti hanno recato danni alla vigna, ossia alla Chiesa (Ap 9, 11). Il tema del convenire contro Cristo – Ap 9, 12: “omnes tres concurrent et convenient in fine contra spiritum Christi […] convenerunt in unum contra Christum” (riferita a Sadducei, Farisei, Pilato ed Erode) – si trasforma nel consiglio dato da Caifa ai Farisei “che convenia / porre un uom per lo popolo a’ martìri” (è da notare il “convenia”, di significato diverso ma identico nel suono a “convenient”).

Tab. III.5.1

[LSA, cap. IX, Ap 9, 5-6 (IIIa visio, Va tuba)] Quinto describit gravitatem doloris predictorum lesuram consequentis et concomitantis, unde subdit: (Ap 9, 5) “sed ut cruciarent mensibus quinque, et cruciatus eorum ut cruciatus scorpii, cum percutit hominem. (Ap 9, 6) Et in diebus illis querent homines mortem et non invenient eam et desiderabunt mori, et fugiet mors ab illis”. Per cruciatum autem designatur hic pungitivus remorsus conscientie […] Quod autem ait (Ap 9, 5), “dictum” esse “illis”, id est prohibitum seu non permissum, “ne occiderent eos, sed ut cruciarent mensibus quinque”, dicit Ioachim non esse hoc dictum de morte eterna, sed de totali extinctione fidei*. Quod est intelligendum respectu illorum carnalium quos non omnino in suum errorem trahunt, sed solum suis stimulis in dubium valde cruciativum inducunt […]

Expositio, pars III, f. 131va.

[LSA, cap. IX, Ap 9, 7 (Va tuba)] Pro secunda (mala proprietate locustarum) dicit: “Et super capita eorum”, scilicet equorum, “tamquam corone similes auro”, id est gloriantur cum male fecerint, et per superbiam et per temporalis glorie affluentiam et per preliorum suorum victoriam reputant se quasi coronatos et reges, et etiam quia sperant et promittunt sibi premia eterna. Dicit autem “tamquam corone”, quia eorum spes et gloria non est vera sed vana et falsa, nec est verum aurum, id est vera gloria, sed falso similis.

[LSA, cap. IX, Ap 9, 11 (Va tuba)] Rex autem harum locustarum recte vocatur “Exterminans” (Ap 9, 11), ut insinuetur esse ille de quo in Psalmo dicitur: “Vineam de Egipto transtulisti”, id est ecclesiam de statu gentilitatis eduxisti, “et plantasti eam; ut quid destruxisti maceriam eius, et vindemiant eam omnes qui pretergrediuntur viam. Exterminavit eam aper de silva ” et cetera (Ps 79, 9/13-14).

Par. XIX, 118-120

Lì si vedrà il duol che sovra Senna
inducefalseggiando la moneta,
quel che morrà di colpo di cotenna.   aper de silva

 

Inf. VIII, 46-51

Quei fu al mondo persona orgogliosa ;
bontà non è che sua memoria fregi:
così s’è l’ombra sua qui furïosa.
Quanti si tegnon or là sù gran regi
che qui staranno come porci in brago,
di sé lasciando orribili dispregi!.

Inf. XXIX, 121-123, 130-139

E io dissi al poeta: “Or fu già mai
gente sì vana come la sanese?
Certo non la francesca sì d’assai!”.

e tra’ne la brigata in che disperse
Caccia d’Ascian la vigna e la gran fonda,
e l’Abbagliato suo senno proferse.
Ma perché sappi chi sì ti seconda
contra i Sanesi, aguzza ver’ me l’occhio,
sì che la faccia mia ben ti risponda:
sì vedrai ch’io son l’ombra di Capocchio,
che falsai li metalli con l’alchìmia;
e te dee ricordar, se ben t’adocchio,
com’ io fui di natura buona scimia”.

 

Tab. III.5.2

Par. I, 13-15

O buono Appollo, a l’ultimo lavoro
fammi del tuo valor sì fatto vaso,
come dimandi a dar l’amato alloro.

Inf. XIII, 112-117

similemente a colui che venire
sente ’l porco e la caccia a la sua posta,
ch’ode le bestie, e le frasche stormire.
Ed ecco due da la sinistra costa,
nudi e graffiati, fuggendo sì forte,
che de la selva rompieno ogne rosta.

Inf. XXX, 22-27

Ma né di Tebe furie né troiane
si vider mäi in alcun tanto crude,
non punger bestie, nonché membra umane,
quant’ io vidi in due ombre smorte e nude,
che mordendo correvan di quel modo
che ’l porco quando del porcil si schiude.

Inf. XXXI, 82-84

Facemmo adunque più lungo vïaggio,
vòlti a sinistra; e al trar d’un balestro
trovammo l’altro assai più fero e maggio.

Inf. XXI, 29-31, 121-123; XXII, 55-57

e vidi dietro a noi un diavol nero
correndo su per lo scoglio venire.
Ahi quant’ elli era ne l’aspetto fero!

Libicocco vegn’ oltre e Draghignazzo,
Cirïatto sannuto e Graffiacane
e Farfarello e Rubicante pazzo.

E Cirïatto, a cui di bocca uscia
d’ogne parte una sanna come a porco,
li fé sentir come l’una sdruscia.

Inf. XXIII, 114-120; XXV, 79-81

e ’l frate Catalan, ch’a ciò s’accorse,
mi disse: “Quel confitto che tu miri,
consigliò i Farisei che convenia
porre un uom per lo popolo a’ martìri.

Attraversato è, nudo, ne la via,
come tu vedi, ed è mestier ch’el senta
qualunque passa, come pesa, pria.

Come ’l ramarro sotto la gran fersa
dei dì canicular, cangiando sepe,
folgore par se la via attraversa

 [LSA, cap. IX, Ap 9, 11-12 (IIIa visio, Va tuba)]

1. Septimo ostendit summum regem istarum. Quia enim sunt fideles, licet moribus pravi, ne ex hoc credantur esse de regno et familia Christi, ideo contra hoc subdit (Ap 9, 11): “Et habebant super se regem angelum abissi”, id est diabolum malitia infernali plenum et in inferno finaliter deputatum, “cui nomen hebraice Abadon, grece autem Apollion et latine habet nomen Exterminans”. Hoc ultimum dicitur addidisse latinus interpres, quod patet quia non est in greco. Ideo autem nomen eius hebraice et grece tradidit ad designandum quod rex est omnium malorum tam de Iudeis, quam de gentibus (qui tam hic quam in epistulis Pauli per grecos designantur); diciturque in omni lingua Exterminans”, quia omne bonum in suis sequacibus pro posse exterminat et quia universaliter exterminare nititur omne bonum et etiam quia suos accendit ad exterminium boni. Potest etiam per hunc angelum designari quicumque precipuus princeps et incensor prefatorum malorum.

2. Habent etiam “super se regem” (cfr. Ap 9, 11), quia unum apostolicum cui omnes obediunt se fatentur habere. Et subdit Ioachim: Puto ego de huiusmodi pseudopapa quod ipse veniat tenere locum Antichristi. Antichristus vero revelabitur manifeste sub sexto angelo tuba canente*, de quo paulo post dicit: Quantum capere queo, tempus sexti angeli initiatum est, et tamen tempus quinti necdum consumationem accepit**. Puto autem quod anno millesimo ducentesimo incarnationis dominice consumationem accipiet***. Hucusque Ioachim.

Expositio, pars III, f. 133ra.   ** Ibid., f. 133va.

*** Cfr. Concordia, III 2, c. 6; Patschovsky 2, pp. 334, 13 – 335, 1.

3. Rex autem harum locustarum recte vocatur “Exterminans” (Ap 9, 11), ut insinuetur esse ille de quo in Psalmo dicitur: “Vineam de Egipto transtulisti”, id est ecclesiam de statu gentilitatis eduxisti, “et plantasti eam; ut quid destruxisti maceriam eius, et vindemiant eam omnes qui pretergrediuntur viam. Exterminavit eam aper de silva” et cetera (Ps 79, 9/13-14), quasi dicat: multi heretici quidem transeuntes et pretergredientes viam intulerunt ecclesie dampna que ad tempus poterant tolerari, quia etsi perdebatur fructus, ipsa tamen in statu suo integra permanebat. Sed ille qui dicitur “aper de silva et singularis ferus” into-lerabiliter “exterminavit eam”, ita ut non videatur esse vinea Dei sed potius sinagoga diaboli*. Iste autem aper sepe dicitur misticus Antichristus, assi-milatus Caiphe pontifici Christum condempnanti et Herodi Christum illudenti. Sequens autem aper, magnus scilicet Antichristus, assimilatur Neroni pagano imperanti toti orbi et Simoni mago dicenti se Deum et filium Dei.
Sequitur (Ap 9, 12): “Ve unum abiit, et ecce veniunt adhuc du[o] ve”, id est due tribulationes maxime. Predictam tribulationem, quamquam iuxta modum predictum sit trina, vocat “unum ve”, quia omnes insimul sunt commixte et quia spectant ad idem quintum tempus et in hoc quinto centenario ab imperio collato Karolo magno omnes tres precipue inundant, et quia secunda et tertia radicaliter manant ex prima et firmantur in ipsa, et etiam quia omnes tres concurrent et convenient in fine contra spiritum Christi, sicut Saducei et Pharisei ac Pilatus et Herodes convenerunt in unum contra Christum, quamvis essent inimici et diversarum sectarum.

* Cfr. Expositio, pars III, f. 133rb.

Purg. XX, 61-63

Mentre che la gran dota provenzale
al sangue mio non tolse la vergogna,
poco valea, ma pur non facea male.

Par. XIX, 118-123

Lì si vedrà il duol che sovra Senna
induce, falseggiando la moneta,
quel che morrà di colpo di cotennaaper de silva
Lì si vedrà la superbia ch’asseta,

che fa lo Scotto e l’Inghilese folle,
sì che non può soffrir dentro a sua meta.                   exterminans (Convivio IV, iv,  4)

Par. XII, 85-87; XVIII, 130-132; XXIV, 109-111

in picciol tempo gran dottor si feo;
tal che si mise a circüir la vigna
che tosto imbianca, se  ’l vignaio è reo.

Ma tu che sol per cancellare scrivi,
pensa che Pietro e Paulo, che moriro
per la vigna che guasti, ancor son vivi.

ché tu intrasti povero e digiuno
in campo, a seminar la buona pianta
che fu già vite e ora è fatta pruno.


3.6.
Certezze e opinioni di Gioacchino da Fiore secondo Olivi

Nell’esegesi della quinta tromba (Ap 9, 11; ma anche in altri luoghi, ad esempio ad Ap 12, 6), Olivi parla delle affermazioni di Gioacchino da Fiore, molte delle quali ritiene non asserzioni ma opinioni. Come per mezzo della naturale luce dell’intelletto conosciamo alcune cose in modo certo, quali i primi princìpi; alcune come necessariamente da essi dedotte, altre invece opiniamo in base a ragioni probabili, e in queste opinioni possiamo errare senza che per questo sia falso il lume dell’intelletto a noi concreato, ma non erriamo in quanto siamo consapevoli che si tratta di opinioni e non di scienza infallibile, così per mezzo del lume dato in virtù della gratuita rivelazione conosciamo alcune cose come princìpi indubitabili, altre come conclusioni necessarie, altre ancora come probabili congetture. Tale fu l’intelligenza della Scrittura e della concordia fra Antico e Nuovo Testamento data per rivelazione, come lui stesso asserisce, a Gioacchino da Fiore.
Come con queste considerazioni sia vestito Virgilio, “di spirito profetico dotato” come l’abate calabrese, è stato mostrato altrove.

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[1] LSA, cap. IX, Ap 9, 5-6: «Per menses quinque secundum quosdam designantur quinque tricenarii dierum, sumendo diem pro anno, id est centum quinquaginta anni quibus, ut dicunt, plaga huius fumi et istarum locustarum erat circa finem quinti status duratura. Ioachim tamen dicit hoc de plaga Manicheorum, quamvis non assertorie» (Expositio, pars III, f. 131va). Sui Patarini (la «plaga Manicheorum») cfr. ibid., f. 131ra-b. Cfr. LSA, prologus, notabile III: «Quinta (pugna) contra fecem et mixturam falsorum christianorum in quinto tempore enormiter multiplicatorum, et etiam contra sectam Patarenorum in eodem quinto tempore vehementius invalescentem».

[2] LSA, cap. IX, Ap 9, 5-6: «Secundum vero Ricardum, quinque mensibus cruciantur carnales per istos, quia [qui] per quinque sensus corporis adherent transitoriis permittuntur aliquando pro ablatione terrenorum, que diligunt, a reprobis affligi, ut sic afflicti ab amore terrenorum resipiscant et ad vera bona querenda resurgant» [In Ap III, vi (PL 196, col. 784 C)].

[3] LSA, cap. IX, Ap 9, 5-6: «Vel quia carnales quinti temporis vacant precipue deliciis et cupiditatibus quinque sensuum in iuven[i]li etate, que maxime floret circa etatem tricenariam, ideo crucia[tum] ex hoc causatum designat per quinarium et tricenarium, [id est] per quinque menses, quia menses solares sunt communiter  triginta dierum».

[4] LSA, cap. IX, Ap 9, 5-6: «Vel per quinque menses voluit designare totum tempus quinti status, quia quinarius quinario correspondet, non quod in toto quinto tempore sic multum inundaverint huiusmodi locuste, sed quia ex copia temporalium ecclesie [et] monasteriis quinti temporis data cepit occasio et incentivum predictorum malorum, et etiam quia semper in eo fuerunt aliqui similes locustis istis. Vel quia quinque menses sunt pars quinque annorum eis in quinario correspondens, ideo extremam partem quinti temporis, in qua predicta mala precipue inundare debebant, designat per quinque menses».

[5] LSA, cap. IX, Ap 9, 5-6: «Forte per quinque menses designantur quinque menses ultimi illorum trium annorum et dimidii quibus hec temptatio in suo fine creditur duratura, in ultimis vero quinque mensibus usque ad summum sevitura, iuxta quod in sex vel quinque ultimis mensibus Christi fuit acerrima persecutio eius, scilicet a festo cenophegie seu tabernaculorum usque ad pascha quod fuit tunc octavo kalendas aprilis. Ex tunc enim, prout Iohannis VII° dicitur, querebant eum Iudei interficere, propter quod noleb[at] “in Iudeam ambulare” (Jo 7, 1). Vel per quinque menses designantur quinque anni, ut annus et dimidius precurrens tres annos et dimidium habeat pugnam paratoriam ad illam que ad tres et dimidium spectat; videnturque prefigurari per quinque dies quibus in tribulatione Holofern[is] Israelite, qui erant in [Betulia], decreverunt Dei auxilium expectandum sin autem ex tunc se traderent Holoferni, prout dicitur Iudith VII° (Jdt 7, 23-25). Post illos autem quinque dies, Iudith occidit Holofernem et liberati sunt Israelite. Nam post primum diem illorum quinque, ivit Iudith ad Holofernem; quarto autem die adventus sui ad eum cenavit cum eo, prout dicitur capitulo XII° (Jdt 12, 10ss.); deinde in ipsa nocte occidit eum. Vel quia in fine quinti status erat spiritus et vita Christi seu Christus in spiritu quasi crucifigendus et quinque plagis plagandus, ideo quelibet tribulatio trium predictarum cruciat quinque plagis quasi quinque mensibus, quarum due in manibus et alie due in pedibus et quinta in latere».

[6] Cfr. Dante Alighieri, Commedia. Revisione del testo e commento a cura di G. INGLESE, Paradiso, Roma 2016, p. 151.

[7] Gli “invidïosi veri” sono, in senso passivo, gli insegnamenti del brabantino che suscitarono astio; l’invidia è designata dal  fumo che al suono della quinta tromba sale dal pozzo dell’abisso, una volta tolto il freno che lo chiude (Ap 9, 1-2), dal fumo escono le pungenti locuste che inducono tormentosi dubbi. Nello stesso cielo del Sole, Bonaventura usa invece ‘invidiare’ nel senso di ‘emulare’, elogiando Domenico e dunque facendosi emulo di Tommaso d’Aquino che ha narrato la vita di Francesco (“ad inveggiar cotanto paladino”: Par. XII, 142-145). Questo secondo senso è esposto nell’esegesi dell’istruzione data a Laodicea, la settima chiesa d’Asia (Ap 3, 19).

[8] É. GILSON, Dante e la filosofia, trad. it. di S. Cristaldi, Milano 1996, pp. 198, 203, 246-247.

[9] «Hoc autem instar scorpii faciunt sub blanda specie et quasi sub pio zelo erudiendi eos ab errore et dampnatione et reducendi eos ad viam salutis», Par. lat. 713, f. 104rb, ms. su cui è condotta la trascrizione della Lectura edita su questo sito. Da notare la variante a testo eruendi recata dal ms. Berlin, Staatsbibliothek, lat. oct. 432, f. 73rb, un codice contemporaneo al parigino.

[10] Cfr. G. CONTINI, Fiore, in Enciclopedia dantesca, II, Roma 19842, p. 900.

[11] Cfr. G. GORNI, Dante. Storia di un visionario, Bari 2008, p. 51.

[12] Altri esempi in L’agone del dubbio, ovvero il martirio moderno (Francesca e la “Donna Gentile”), 5, tab. XXVII, 1-3.

[13] B. CROCE, La poesia di Dante, Bari 19527 (19201), p. 107.

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4. La quinta guerra (Ap 12, 17-18): il seme che rimane

 

La quinta guerra (quarta visione) viene condotta dal drago contro le rimanenze (le reliquie) del seme della donna [1], rappresentate da coloro che custodiscono i precetti divini e danno testimonianza di Cristo (Ap 12, 17). Secondo Gioacchino da Fiore, il seme della donna è Cristo rapito in cielo con i suoi martiri, e questo è seme che precede; quello che rimane viene designato con l’evangelista Giovanni, cioè con i contemplativi propri del quarto stato. Olivi, che sviluppa l’esegesi autonomamente a partire dalla citazione di Gioacchino, ritiene tuttavia che il testo sacro, nella quarta visione, dopo aver trattato le guerre sostenute in primo luogo da Cristo (Ap 12, 4-6), in secondo luogo dai martiri (Ap 12, 7-12) e in terzo e quarto luogo dalla Chiesa, prima dispersa e poi riunita da Costantino e dotata delle ali dei dottori e degli anacoreti (le ali di una grande aquila) per volare nel deserto dei Gentili e in quello della vita contemplativa (Ap 12, 13-16), si riferisca ora in parte ad eventi successivi allo stato degli anacoreti (il quarto), e precisamente a quanti di essi rimasero sopravvivendo alle distruzioni operate dai Saraceni e, comunque, alle reliquie lasciate al quinto stato. In entrambi i casi si parla di “reliquie” poiché, come in un vaso di vino purissimo rimangono, una volta bevuta la parte superiore, maggiore e più pura, solo poche reliquie vicine alle impurità e quasi con esse mescolate, così della pienezza e purezza del vino dei dottori e degli anacoreti del terzo e del quarto stato prima rimasero solo le reliquie, al momento della devastazione saracena, poi, nel quinto stato, occupate molte chiese dai Saraceni e separatisi i Greci dalla fede romana, rimase solo la Chiesa latina come reliquia della Chiesa che prima era diffusa in tutto l’orbe.
La rosa tematica offerta dall’esegesi oliviana di Ap 12, 17 – dove la citazione di Gioacchino da Fiore, fondata sul tema del seme che rimane, subisce un ampio e in parte diverso sviluppo – si presta a molteplici variazioni nel poema sacro, la cui ricchezza è paragonabile ai molti altri luoghi della Lectura che si mostrano essere stati fornitori di panno per l’intera stesura della gonna.

Tab. IV.1 

■ Il tema del seme della donna che rimane è messo in bocca a Brunetto Latini, per il quale “le bestie fiesolane” (i fiorentini) non dovranno toccare Dante, “pianta … in cui riviva la sementa santa / di que’ Roman che vi rimaser quando / fu fatto il nido di malizia tanta” (Inf. XV, 73-78). Nei versi si insinua un altro tema, quello del seme imperiale che rivive, trasformazione in senso positivo della credenza che Federico II e il suo seme sia la testa della bestia che sembrava uccisa e che rivive (Ap 13, 3.18). Dante è pertanto ‘reliquia’ del seme puro che rimane – assimilato alla Chiesa romana – contiguo e quasi commisto al letame delle bestie fiesolane. È da notare che, nelle parole di Brunetto, il “romanus populus … ille sanctus, pius et gloriosus” (Monarchia, II, v, 5), di cui Dante è seme rimasto, è ammantato dalla veste che nell’esegesi scritturale spetta alla Chiesa di Roma, la sola ‘rimasta’ di una Chiesa prima diffusa su tutto l’orbe, della quale il seme degli antichi Romani è dunque prefigurazione. Il tema del purissimo seme della donna che rimane, da Ap 12, 17, è anche singolarmente consonante con quanto affermato in Convivio IV, v, 5-6: “Per che assai è manifesto la divina elezione del romano imperio, per lo nascimento della santa cittade, che fu contemporaneo alla radice della progenie di Maria”, “una progenie santissima”, ordinata a “l’albergo dove ’l celestiale rege intrare dovea”, il quale “convenia essere mondissimo e purissimo”. L’espressione di Brunetto riferita a Dante – “e non tocchin la pianta” – trasforma un tema della sesta vittoria, allorché il nuovo nome di Cristo viene iscritto intendendo “cristiano” come “unto del Signore”, nel senso del Salmo 104, 15: “Non toccate i miei consacrati” (Ap 3, 12).

■ Nell’uso di questi temi, Brunetto è da confrontare con Ulisse, il quale nella sua “orazion picciola” parla di “questa tanto picciola vigilia / d’i nostri sensi ch’è del rimanente”, e invita i compagni a considerare la propria semenza (Inf. XXVI, 114-115, 118). Il greco si è messo “per l’alto mare aperto / sol con un legno e con quella compagna / picciola da la qual non fui diserto” (ibid., 100-102). Il tema delle “pauce reliquie” che restano si mescola con quello del vigilare, proprio della quinta chiesa (Ap 3, 3). Le parole dell’Apostolo ai Tessalonicesi (1 Th 5, 4-7), citate nell’esegesi dell’ammonimento dato all’intorpidito vescovo di Sardi, sono modello per quelle di Ulisse nel rivolgersi ai compagni con la sua “orazion picciola”: “Vos autem, fratres, non estis in tenebris … Igitur non dormiamus sicut et ceteri, sed vigilemus et sobrii simus … / O frati … a questa tanto picciola vigilia / d’i nostri sensi ch’è del rimanente”.
Ulisse mostra però i limiti della scienza umana fondata sull’esperienza sensibile di questo mondo. Il suo ardore è di “divenir del mondo esperto”, la vigilia che rimane e di cui parla ai compagni ha un suo valore (perché vigilare previene il torpore) ma è “vigilia d’i nostri sensi”, vuole conoscere il “mondo sanza gente” ma con uno strumento, la conoscenza sperimentale, fallace perché quel mondo è per l’età in cui il greco vive alterum seculum, al di sopra della natura e dell’intelletto, che gli può essere aperto solo per rivelazione. La sapienza del mondo – l’apprendimento con l’esperienza delle sole cose sensibili di questo mondo – è causa della chiusura del settimo e ultimo sigillo, aperto dalla croce di Cristo e dalla stoltezza della sua predicazione. Nulla dell’altro mondo è possibile qui sperimentare se non venga rivelato tramite gli spiriti superni, e perciò la scienza umana e la ricerca, in quanto assume i suoi primi princìpi dagli elementi di questo mondo, è assai fallace rispetto alle cose soprannaturali, come insegna l’Apostolo ai Colossesi (Col 2, 8) e ai Corinzi (1 Cor 1, 20-21) ai quali dice che “Dio ha dimostrato stolta la sapienza di questo mondo. Poiché infatti nella sapienza di Dio il mondo, con la sua sapienza, non ha conosciuto Dio, piacque a Dio salvare i credenti per mezzo della stoltezza della predicazione”.
Questi temi (che la Lectura propone ad Ap 5, 1, nella rassegna dei motivi che rendono chiusi i sette sigilli), oltre ad essere contenuti – con corrispondenze semantiche – nel parlare di Ulisse, trovano per converso riferimento nell’andare “ad immortale secolo … sensibilmente” che prima dell’arrivo di Cristo venne concesso ad Enea, cui Dio fu cortese per l’alta missione assegnatagli (Inf. II, 13-15).
Ulisse avrebbe dovuto considerare di seguire virtù e conoscenza in senso relativo, per quanto possibile in questa vita, e invece le desiderò assolutamente. L’esperienza dei costumi umani, dei vizi e delle virtù (“de li vizi umani e del valore”), della quale Orazio rende modello il greco, avrebbe dovuto essergli sufficiente, mantenendolo nel campo dell’intelligenza morale, di “color che ragionando andaro al fondo” e lasciarono “moralità” al mondo (Purg. XVIII, 67-69). I temi di riferimento del “divenir … esperto … de li vizi umani e del valore” appartengono al terzo stato oliviano, quello dei dottori. A costoro spetta infatti la prudente discrezione che deriva dall’esperienza (ad Ap 2, 1), ad essi è data la spada acuta che spezza i vizi (Ap 2, 12: esegesi della terza chiesa d’Asia, Pergamo). I quattro animali (o esseri viventi) che stanno in mezzo e intorno alla sede divina (Ap 4, 6-7; cfr. 6, 6) – il primo simile a un leone (che designa il senso allegorico della Scrittura), il secondo a un bue o vitello (il senso letterale o storico), il terzo a un uomo (il senso morale), il quarto a un’aquila volante (il senso anagogico) – sono appropriati ciascuno ai primi quattro stati. Il terzo stato, dei dottori che discernono con l’esperienza i vizi, corrisponde all’uomo razionale. Nel suo ambito antico – quello dell’Etica – avrebbe dovuto mantenersi Ulisse, frenando il “folle volo” verso il senso anagogico o sovrasenso. Quel lido che poté solo intravedere, prima che il turbine percuotesse il suo legno, era “lito diserto, / che mai non vide navicar sue acque / omo, che di tornar sia poscia esperto” (Purg. I, 130-132): “omo” sta per uomo razionale, “esperto” per conoscenza sperimentale di questo mondo, che nulla può apprendere dell’altro, e che anzi si perde se, come fece il greco, forzi la prescienza divina con un viaggio compiuto prima del tempo. L’ultimo viaggio dell’eroe greco fu un andare sensibilmente verso la sesta età del mondo (aperta con il primo avvento di Cristo, figurata dalla montagna del Purgatorio) e verso il sesto stato della Chiesa (il secondo avvento di Cristo nello Spirito, figurato dal sesto girone, il luogo dove viene chiarita la poetica delle “nove rime”), verso un lido allora noto unicamente a Dio, andata che solo un uomo evangelico avrebbe potuto compiere.

Tab. IV.1

[LSA, cap. III, Ap 3, 3 (Ia visio, Va ecclesia)] Deinde comminatur eidem iudicium sibi occulte et inopinate superventurum si non se correxerit, unde subdit: “Si ergo non vigilaveris, veniam ad te tamquam fur”, qui scilicet venit latenter et ex improviso ut bona auferat et possessorem occidat. Unde subdit: “et horam nescies qua veniam ad te”. Iustum enim est ut qui se ipsum per negligentiam et torporem nescit, nesciat horam iudicii sui et exterminii. Talis etiam propter suas tenebras non videt lucem, ac erronee credit et optat se diu in prosperitate victurum et Dei iudicium diu esse tardandum, et etiam spe presumptuosa sperat se esse finaliter salvandum, propter quod Ia ad Thessalonicenses V° dicit Apostolus quod “dies Domini veniet in nocte sicut fur. Cum enim dixerint: pax et securitas, tunc superveniet eis repentinus interitus” (1 Th 5, 2-3). Quibus autem, scilicet sanctis, et quare non veniet sicut fur ostendit subdens: “Vos autem, fratres, non estis in tenebris, ut vos dies illa tamquam fur comprehendat; omnes enim vos estis filii lucis et diei. Igitur non dormiamus sicut et ceteri, sed vigilemus et sobrii simus. Qui enim dormiunt nocte dormiunt” et cetera (ibid., 5, 4-7).

Inf. XV, 73-78

Faccian le bestie fiesolane strame
di lor medesme, e non tocchin la pianta,
s’alcuna surge ancora in lor letame,
in cui riviva la sementa santa
di que’ Roman che vi rimaser quando
fu fatto il nido di malizia tanta.

Inf. XXVI, 100-102, 112-120

ma misi me per l’alto mare aperto
sol con un legno e con quella compagna
picciola da la qual non fui diserto.

O frati ”, dissi, “che per cento milia
perigli siete giunti a l’occidente,
a questa tanto picciola vigilia
d’i nostri sensi ch’è del rimanente         Ap 5, 1
non vogliate negar l’esperïenza,
di retro al sol, del mondo sanza gente.
Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza”.

[LSA, cap. XII, Ap 12, 17 (IVa visio, Vum prelium)] Dicit ergo: “Et iratus est dracho in mulierem” (Ap 12, 17). Nota quod quanto plus et pluries videt se vinci ab ecclesia et prole eius, tanto maiori ira exardescit ad illam fortius temptandam et deiciendam.
“Et abiit facere bellum cum reliquis de semine eius, qui custodiunt mandata Dei et habent testimonium Ihesu”, id est fidelem confessionem Christi per quam testimonium perhibent de Christo. Duo ponit necessaria ad salutem, scilicet observantiam mandatorum et fidem Christi exteriori professione et confessione expressam.
Ioachim dicit quod semen mulieris est Christus raptus ad tronum cum martiribus suis, et istud semen precesserat; aliud autem remanserat designatum in Iohanne evangelista, scilicet ordo monachorum quarti temporis meridianam plagam incolentium. Et ideo vocat eos reliquos seu residuos de semine mulieris*.
Videtur tamen quod post Christum et martires ubique dispersos egit de ecclesia post Constantinum in unum collecta et duabus alis, id est duobus ordinibus doctorum scilicet et anachoritarum altivolis, adornata et in altum sublevata, et tam in deserto gentilitatis quam in deserto contemplative solitudinis alimentum sue refectionis habente. Post hoc autem restabat agere de reliquis tam predicti temporis quam de reliquis in quinto statu relictis. Utrique enim signanter vocantur reliqui seu reliquie, quia sicut bibita superiori et puriori et maiori parte vini vasis magni restant pauce reliquie cum fecibus quibus sunt propinque et quasi commixte, sic de plenitudine purissimi vini doctorum et anachoritarum tertii et quarti temporis remanserunt reliquie circa tempora Sarracenorum; ac deinde pluribus ecclesiis per Sarracenos vastatis et occupatis, Grecisque a romana ecclesia separatis, remansit in quinto tempore sola latina ecclesia tamquam reliquie prioris ecclesie per totum orbem diffuse. De utrisque ergo reliquiis simul agit, tum quia in utrisque remissio habundavit respectu perfectionis priorum, tum quia bestia sarracenica contra utrosque pugnavit quamvis primo contra primos.

Expositio, pars IV, distinctio IV, ff. 161vb-162ra, 163vb-164ra.

[LSA, cap. V, Ap 5, 1 (VII sigillum)] Septimus (defectus in nobis claudens intelligentiam huius libri) est solorum sensibilium huius mundi experimentalis apprehensibilitas. Nichil enim alterius seculi possumus hic experiri nisi per supernos spiritus reveletur, et ideo humana scientia et investigatio sumit sua prima principia ab elementis [huius] mundi, propter quod est respectu supernaturalium et superintellectualium valde fallax, prout docet Apostolus ad Colossenses II° (Col 2, 8) et Ia ad Corinthios I°, ubi dicitur quod “Deus fecit stultam sapientiam huius mundi. Nam, quia in Dei sapientia non cognovit mundus per sapientiam Deum, placuit Deo per stultitiam predicationis salvos facere credentes” (1 Cor 1, 20-21).

Inf. XXVI, 97-99, 114-117

vincer potero dentro a me l’ardore
ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto
e de li vizi umani e del valore

a questa tanto picciola vigilia
d’i nostri sensi ch’è del rimanente
non vogliate negar l’esperïenza,
di retro al sol, del mondo sanza gente.

Inf. II, 13-15

Tu dici che di Silvïo il parente,
corruttibile ancora, ad immortale
secolo andò, e fu sensibilmente.

Purg. I, 130-132

Venimmo poi in sul lito diserto,
che mai non vide navicar sue acque
omo, che di tornar sia poscia esperto.

 

Tab. IV.2

 

■ In Inf. VIII, nell’incontro con Filippo Argenti immerso nella Palude Stigia, il tema del rimanere (Ap 12, 17) è dal poeta appropriato prima a sé stesso (v. 34: «E io a lui: “S’i’ vegno, non rimango”») [2], poi all’orgoglioso fiorentino (vv. 37-38: «E io a lui: “Con piangere e con lutto, / spirito maladetto, ti rimani”»). Nel secondo caso è congiunto con altri due temi propri del quinto stato.
Il primo è il ‘dare lutto’, presente nella quinta parte della sesta visione, che riguarda la caduta della superba gloria di Babylon, verso la quale si dice: “Quantum glorificavit se et in deliciis fuit, tantum date illi tormentum et luctum” (Ap 18, 7; Filippo Argenti “fu al mondo persona orgogliosa” [v. 46]; cfr. infra).
Il secondo tema è quello della maledizione, cioè la durezza dei precetti e dei giudizi della vecchia legge, che commina sentenza di maledizione contro quanti non ne hanno rispettato la lettera in tutte le sue parole, motivo di chiusura del quinto sigillo (ad Ap 5, 1). E certo la durezza lapidea dell’Antico Testamento si addice all’Inferno. Questa durezza viene temperata, all’apertura del quinto sigillo, dalla condescensiva “pietas” del quinto stato, che indulge a molte infermità umane, come la madre al suo bimbo. Non è pertanto casuale che le parole di Dante avverso Filippo Argenti siano seguite da quelle di Virgilio che riprendono il tema della donna (Ap 12, 17) e della madre (ad Ap 5, 1): «e disse: “Alma sdegnosa, / benedetta colei che ’n te s’incinse!”» (vv. 43-45), espressione ricalcata su Luca, 11, 27: “Beatus venter qui te portavit” (da notare come “benedetta colei” si contrapponga a “spirito maladetto”).
Cacciaguida riprenderà a sua volta tale tema, citando esplicitamente il motivo del seme e tacendo quello della donna e madre: «la prima cosa che per me s’intese, / “Benedetto sia tu”, fu, “trino e uno, / che nel mio seme se’ tanto cortese!”» (Par. XV, 46-48). Sono queste, dopo un primo incomprensibile parlare del suo avo, le prime cose intese dal poeta, allorché “’l parlar discese / inver’ lo segno del nostro intelletto” (ibid., 43-45), discesa in cui è insito il tema, precipuo del quinto stato, della “condescensio” da un’alta situazione. Appartiene a Cacciaguida anche il tema della “pietas” propria del quinto stato, nel discendere verso Dante dai bracci della croce: “Sì pïa l’ombra d’Anchise si porse … quando in Eliso del figlio s’accorse” (ibid., 25-27). Nel ricordare la sua nascita, Cacciaguida richiama comunque il tema della donna e quello della madre al v. 133 (“Maria mi diè, chiamata in alte grida”), come a Par. XVI, 34-36, computando secondo l’uso fiorentino gli anni ab incarnatione («dissemi: “Da quel dì che fu detto ‘Ave’ ”») fino al giorno del parto.
I temi che fasciano l’episodio di Filippo Argenti sono ripresi, in Inf. VIII, al momento in cui Virgilio va da solo a parlare con i diavoli piovuti sulle porte della Città di Dite. Il tema del rimanere è appropriato prima a Virgilio (“ché tu qui rimarrai, / che li ha’ iscorta sì buia contrada”), con “parole maladette” (vv. 92-96); poi al poeta che, lasciato solo dalla sua guida, resta nel dubbio: “e io rimagno in forse, / che sì e no nel capo mi tenciona” (vv. 109-111), dove si combina col tema del dubbio insinuato dalle locuste, proprio della quinta tromba (Ap 9, 5-6); poi ancora a Virgilio, “che fuor rimase” allorché i diavoli chiusero le porte (vv. 115-116). Da notare che il motivo dello stare da solo è attribuito sia a Virgilio (“Vien tu solo”, v. 89) come a Dante (“Sol si ritorni”, v. 91), motivo che nell’esegesi della quinta guerra appartiene alla chiesa di Roma, che ‘sola rimase’ dopo le devastazioni operate dai Saraceni nel quarto e nel quinto stato.

■ Il solenne tema del rimanere del seme subisce una grottesca variazione nella bolgia dei barattieri, appropriato a Ciampolo: “I’ vidi … / uno aspettar così, com’ elli ’ncontra / ch’una rana rimane e l’altra spiccia” (Inf. XXII, 31-33), prima che Graffiacane gli ‘arruncigli’ “le ’mpegolate chiome / e trassel sù, che mi parve una lontra”. Nei versi sono intrecciati numerosi temi del quinto stato. Le similitudini tratte prevalentemente dalla vita di uccelli e pesci, che sono diffuse per tutto il canto, corrispondono al quinto giorno della creazione, nel quale Dio disse agli uccelli (i monaci, più spirituali) e ai pesci (i chierici, commisti alle genti) “crescete e moltiplicatevi” (Genesi  1, 22), figura del quinto stato della Chiesa (prologo, Notabile XIII), nel quale i monasteri e le chiese si sono propagati nella Chiesa occidentale dopo l’ardua e solitaria vita degli anacoreti del quarto stato. Del quinto stato è proprio l’attendere, perché il numero degli eletti non è ancora completo (tema dell’apertura del quinto sigillo, Ap 6, 11); nell’attesa le anime stanno “sotto” l’altare di Dio (Ap 6, 9), quasi sepolte, riverenti verso la passione di Cristo che le sta sopra proteggendole e nascondendole sotto la custodia delle ali della sua gloria. I barattieri stanno “sotto i bollori” della pece (Inf. XXII, 30); Ciampolo ‘aspetta’, ma fuori della pece (cosa di cui si pente: “Così foss’ io ancor con lui coperto, / ch’i’ non temerei unghia né uncino!”, vv. 68-69). È rana che “rimane”, come nel quinto stato rimangono le reliquie della Chiesa latina; per questo Virgilio gli chiede, prima che venga disfatto dai Malebranche: “Or dì: de li altri rii / conosci tu alcun che sia latino / sotto la pece?” (vv. 64-66; cfr. infra). È da notare come il motivo del seme (nell’esegesi congiunto con il “rimanere”) sia taciuto, mentre emergono altri motivi della rosa tematica. È presente, come in Inf. VIII, 38, 95, il tema della maledizione, che rende chiuso il quinto sigillo (ad Ap 5, 1): lo sciagurato Navarrese è capitato in mano ai “maladetti” (Inf. XXII, 42). In generale è da dire che nella quinta bolgia dei barattieri (come nella Palude Stigia, fra i sodomiti sotto la pioggia di fuoco, nella valletta dei principi e nel quinto girone del Purgatorio) si assiste a una delle più vaste metamorfosi di temi del quinto stato.

Tab. IV.2

[LSA, cap. XII, Ap 12, 17 (IVa visio, Vum prelium)] Dicit ergo: “Et iratus est dracho in mulierem” (Ap 12, 17). Nota quod quanto plus et pluries videt se vinci ab ecclesia et prole eius, tanto maiori ira exardescit ad illam fortius temptandam et deiciendam.
“Et abiit facere bellum cum reliquis de semine eius, qui custodiunt mandata Dei et habent testimonium Ihesu”, id est fidelem confessionem Christi per quam testimonium perhibent de Christo. Duo ponit necessaria ad salutem, scilicet observantiam mandatorum et fidem Christi exteriori professione et confessione expressam.
Ioachim dicit quod semen mulieris est Christus raptus ad tronum cum martiribus suis, et istud semen precesserat; aliud autem remanserat designatum in Iohanne evangelista, scilicet ordo monachorum quarti temporis meridianam plagam incolentium. Et ideo vocat eos reliquos seu residuos de semine mulieris.
Videtur tamen quod post Christum et martires ubique dispersos egit de ecclesia post Constantinum in unum collecta et duabus alis, id est duobus ordinibus doctorum scilicet et anachoritarum altivolis, adornata et in altum sublevata, et tam in deserto gentilitatis quam in deserto contemplative solitudinis alimentum sue refectionis habente. Post hoc autem restabat agere de reliquis tam predicti temporis quam de reliquis in quinto statu relictis. Utrique enim signanter vocantur reliqui seu reliquie, quia sicut bibita superiori et puriori et maiori parte vini vasis magni restant pauce reliquie cum fecibus quibus sunt propinque et quasi commixte, sic de plenitudine purissimi vini doctorum et anachoritarum tertii et quarti temporis remanserunt reliquie circa tempora Sarracenorum; ac deinde pluribus ecclesiis per Sarracenos vastatis et occupatis, Grecisque a romana ecclesia separatis, remansit in quinto tempore sola latina ecclesia tamquam reliquie prioris ecclesie per totum orbem diffuse. De utrisque ergo reliquiis simul agit, tum quia in utrisque remissio habundavit respectu perfectionis priorum, tum quia bestia sarracenica contra utrosque pugnavit quamvis primo contra primos.

Inf. VIII, 34, 37-38, 43-45, 88-96, 109-111, 115-116

E io a lui: “S’i’ vegno, non rimango

E io a lui: “Con piangere e con lutto,      18, 5-7
spirito maladetto, ti rimani …”

Lo collo poi con le braccia mi cinse;
basciommi  ’l volto e disse: “Alma sdegnosa,
benedetta colei che ’n te s’incinse!”

Allor chiusero un poco il gran disdegno
e disser: “Vien tu solo, e quei sen vada
che sì ardito intrò per questo regno.
Sol si ritorni per la folle strada:
pruovi, se sa; ché tu qui rimarrai,
che li ha’ iscorta sì buia contrada”.
Pensa, lettor, se io mi sconfortai
nel suon de le parole maladette,
ché non credetti ritornarci mai.

Così sen va, e quivi m’abbandona
lo dolce padre, e io rimagno in forse,
che sì e no nel capo mi tenciona. …… 9, 5-6

Chiuser le porte que’ nostri avversari
nel petto al mio segnor, che fuor rimase

Inf. XXII, 31-33, 40-42

I’ vidi, e anco il cor me n’accapriccia,
uno aspettar così, com’ elli  ’ncontra    6, 9-11
ch’una rana rimane e l’altra spiccia

“O Rubicante, fa che tu li metti
li unghioni a dosso, sì che tu lo scuoi!”,
gridavan tutti insieme i maladetti .

Inf. XXIX, 22-24; XXX, 31-33

Allor disse ’l maestro: “Non si franga
lo tuo pensier da qui innanzi sovr’ ello.
Attendi ad altro, ed ei là si rimanga …”. 

E l’Aretin che rimase, tremando
mi disse: “Quel folletto è Gianni Schicchi,
e va rabbioso altrui così conciando”.

Par. XV, 25-27, 43-48

pïa l’ombra d’Anchise si porse,
se fede merta nostra maggior musa,
quando in Eliso del figlio s’accorse.

E quando l’arco de l’ardente affetto
fu sì sfogato, che ’l parlar discese
inver’ lo segno del nostro intelletto,
la prima cosa che per me s’intese,
Benedetto sia tu”, fu, “trino e uno,
che nel mio seme se’ tanto cortese!”.

[LSA, cap. V, Ap 5, 1 (V sigillum)] Tertia ratio septem sigillorum quoad librum veteris testamenti sumitur ex septem apparenter in eius cortice apparentibus. […] Quintum est severitas preceptorum et iudiciorum, quia precipit “non concupisces” et “diliges Deum ex toto corde” (Dt 5, 21; 6, 5), et multa alia infirmitati humani generis ex se impossibilia, et tamen dat sententiam maledictionis omnibus qui non permanserint in omnibus verbis legis. Hanc autem temperat et exponit condescensiva Christi pietas indulgens multa infirmitatibus nostris, sicut mater infantulo suo. Et hoc notatur in quinta apertione, cum expetentibus iustitiam respondetur “ut requiescerent adhuc” per “tempus modicum, donec compleantur conservi eorum et fratres” (Ap 6, 11), id est ut propter pietatem fraterne salutis patienter differant et prolongent iudicia ultionis.

Tab. IV.3

■ Il tema del rimanere (Ap 12, 17) è appropriato da Buonconte da Montefeltro alla propria morte: “Quivi perdei la vista e la parola; / nel nome di Maria fini’, e quivi / caddi, e rimase la mia carne sola” (Purg. V, 100-102). L’anima (che è “di costui l’etterno”), presa dall’angelo, si distingue dal corpo che rimane, del quale il diavolo farà “altro governo”, come Cristo rapito al trono si distingue dal seme purissimo della donna che rimane. La carne, afferma Salomone, sarà “gloriosa e santa” (Par. XIV, 43).
Da notare l’accostamento del tema del rimanere con Maria, perché il seme che rimane è “semen mulieris”, e la donna, appunto, è Maria. Di lei Tommaso d’Aquino, nell’elogio di Francesco tessuto nel cielo del Sole, dice che “rimase giuso”, rispetto a Povertà che “con Cristo pianse in su la croce” (Par. XI, 71-72).
Maria, il rimanere e il seme sono ancora motivi congiunti nel trionfo di Cristo e di Maria che si mostra nel cielo delle stelle fisse, il quinto a partire dal cielo del Sole: il motivo del seme è appropriato sia a Maria, “che si levò appresso sua semenza”, cioè s’innalzò dietro a suo Figlio verso l’Empireo, sia ai lumi dei beati, “quelle arche ricchissime che fuoro / a seminar qua giù buone bobolce” le quali in quel momento, nell’ottavo cielo, “rimaser lì nel mio cospetto” rispetto a Maria levatasi verso l’alto (Par. XXIII, 118-120, 127-132). Uguale è il ‘panno’ rispetto a Par. XI, ma la ‘gonna’ è fatta diversamente: lì Maria rimane, mentre Povertà piange su con Cristo che patisce; qui a rimanere sono i beati che vivono e godono “del tesoro / che s’acquistò piangendo ne lo essilio / di Babillòn, ove si lasciò l’oro” (ibid., 133-135). Se si collaziona Ap 12, 17 (quinta guerra: “semen mulieris est Christus raptus ad tronum cum martiribus suis”, nella citazione di Gioacchino da Fiore) con Ap 12, 5 (prima guerra: «“Et raptus est”, scilicet per resurrectionem et ascensionem, “filius eius ad Deum et ad tronum eius”»), si constata l’equivalenza tra il levarsi e l’essere rapito con possente atto (cfr. l’atteggiamento di Ciacco ad Inf. VI, 37-39): così Maria “si levò”, cioè fu rapita verso l’Empireo, mentre gli occhi di Dante “non ebber … potenza” per seguirla. Da notare l’estendersi verso l’alto della fiamma dei lumi, per affetto verso Maria, “come fantolin che ’nver’ la mamma / tende le braccia, poi che ’l latte prese” (Par. XXIII, 121-126), variante nei termini del tema della condescensiva pietas del quinto stato, che indulge a molte infermità umane come la madre indulge al suo bimbo, propria dell’apertura del quinto sigillo (ad Ap 5, 1). In precedenza, nel medesimo cielo ove era discesa dall’Empireo, la divina virtù di Cristo si è esaltata, sollevata cioè in alto per dare agli occhi del poeta, che non erano possenti, la possibilità di guardare il trionfo di Maria: il “largirmi loco”, che proviene dall’inciso “ut nequeuntibus in arduis perdurare daretur locus gratie in mediocri statu” del Notabile V del prologo, è una forma di “condescensio” che Cristo opera innalzandosi (Par. XXIII, 85-87).

■  A Purg. II, 52 si tratta della turba delle anime che rimane “in su la piaggia”, portata alla riva del Purgatorio dall’angelo nocchiero il quale, invece, è ripartito veloce com’era venuto, cioè “sì ratto, / che ’l muover suo nessun volar pareggia” (ibid., 16-18; 49-51). Anche in questo caso il rimanere, proprio del seme della donna (attribuito alle anime), si contrappone all’essere rapito, proprio di Cristo (attribuito all’angelo).

■ La grande processione dell’Eden è aperta da sette candelabri, dietro ai quali vengono i ventiquattro seniori (il tema dei candelabri, da Ap 1, 12, è sviluppato sia qui come nell’estendersi dei beati verso Maria a Par. XXIII, 121-126). Le fiammelle dei candelabri vanno davanti (il seme che ‘precede’ ad Ap 12, 17) lasciando l’aria dipinta di lunghe liste colorate, “sì che lì sopra rimanea distinto / di sette liste” (Purg. XXIX, 73-78).
Più avanti, al momento dell’apparizione di Beatrice, il tema del rimanere è appropriato a Dante, che dice a Virgilio: “Men che dramma / di sangue m’è rimaso che non tremi” (Purg. XXX, 46-47). Da notare (ibid., 43-45), attribuito a Virgilio che sta per lasciare, la presenza del tema della mamma che indulge al fantolino condiscendente e pietosa, dall’apertura del quinto sigillo (ad Ap 5, 1): un connubio che nella terza cantica verrà applicato ai beati che ‘rimangono’ rispetto a Maria levatasi in alto appresso al Figlio (Par. XXIII, 121-129).

Tab. IV.3

[LSA, prologus, Notabile V (V status)] Quia vero ecclesia Christi usque ad finem seculi non debet omnino extingui, ideo oportuit eam in quibusdam suis reliquiis tunc specialiter a Deo defendi et in unam partem terre recolligi, qua nulla congruentior sede Petri et sede romani imperii, que est principalis sedes Christi. Ideo in quinto tempore, quod cepit a Karolo, facta est defensio et recollectio ista, tuncque congrue instituta est vita condescensiva, ut nequeuntibus in arduis perdurare daretur locus gratie in mediocri statu.

[LSA, cap. V, Ap 5, 1 (V sigillum)] Tertia ratio septem sigillorum quoad librum veteris testamenti sumitur ex septem apparenter in eius cortice apparentibus. […] Quintum est severitas preceptorum et iudiciorum, quia precipit “non concupisces” et “diliges Deum ex toto corde” (Dt 5, 21; 6, 5), et multa alia infirmitati humani generis ex se impossibilia, et tamen dat sententiam maledictionis omnibus qui non permanserint in omnibus verbis legis. Hanc autem temperat et exponit condescensiva Christi pietas indulgens multa infirmitatibus nostris, sicut mater infantulo suo. Et hoc notatur in quinta apertione, cum expetentibus iustitiam respondetur “ut requiescerent adhuc” per “tempus modicum, donec compleantur conservi eorum et fratres” (Ap 6, 11), id est ut propter pietatem fraterne salutis patienter differant et prolongent iudicia ultionis.

Par. XXIII, 85-87, 118-132

O benigna vertù che sì li ’mprenti,
sù t’essaltasti per largirmi loco
a li occhi lì che non t’eran possenti.

però non ebber li occhi miei potenza
di seguitar la coronata fiamma
che si levò appresso sua semenza.
E come fantolin che ’nver’ la mamma
tende le braccia, poi che ’l latte prese,
per l’animo che ’nfin di fuor s’infiamma;
ciascun di quei candori in sù si stese
con la sua cima, sì che l’alto affetto
ch’elli avieno a Maria mi fu palese.
Indi rimaser lì nel mio cospetto,
Regina celi ’ cantando sì dolce,
che mai da me non si partì ’l diletto.
Oh quanta è l’ubertà che si soffolce
in quelle arche ricchissime che fuoro
a seminar qua giù buone bobolce!

[LSA, cap. XII, Ap 12, 5 (IVa visio, Ium prelium)] Sequitur: “Et peperit filium masculum”, masculum quidem non solum sexu corporis sed etiam strenuitate virilis virtutis, “qui recturus erat omnes gentes in virga ferrea”, id est in inflexibili et insuperabili iustitia et potentia. “Et raptus est”, scilicet per resurrectionem et ascensionem, “filius eius ad Deum et ad tronum eius”. Christus secundum deitatem non fuit raptus vel mutatus, sed solum secundum humanitatem, nec per resurrectionem et ascensionem fuit eius humanitas rapta seu elevata, nisi solum in quantum erat passibilis. Nam in initio incarnationis fuit ad unionem personalem Dei et ad mentis substantialem gloriam plenissime elevata. Dicit autem “raptus” ad innuendum supernaturalem vim et repentinam ac prepotentem actionem, per quam de inferis exivit et a morte resurrexit et ascendit ad celos.

[LSA, cap. XII, Ap 12, 17 (IVa visio, Vum prelium)] Dicit ergo: “Et iratus est dracho in mulierem” (Ap 12, 17). Nota quod quanto plus et pluries videt se vinci ab ecclesia et prole eius, tanto maiori ira exardescit ad illam fortius temptandam et deiciendam.
“Et abiit facere bellum cum reliquis de semine eius, qui custodiunt mandata Dei et habent testimonium Ihesu”, id est fidelem confessionem Christi per quam testimonium perhibent de Christo. Duo ponit necessaria ad salutem, scilicet observantiam mandatorum et fidem Christi exteriori professione et confessione expressam.
Ioachim dicit quod semen mulieris est Christus raptus ad tronum cum martiribus suis, et istud semen precesserat; aliud autem remanserat designatum in Iohanne evangelista, scilicet ordo monachorum quarti temporis meridianam plagam incolentium. Et ideo vocat eos reliquos seu residuos de semine mulieris.
Videtur tamen quod post Christum et martires ubique dispersos egit de ecclesia post Constantinum in unum collecta et duabus alis, id est duobus ordinibus doctorum scilicet et anachoritarum altivolis, adornata et in altum sublevata, et tam in deserto gentilitatis quam in deserto contemplative solitudinis alimentum sue refectionis habente. Post hoc autem restabat agere de reliquis tam predicti temporis quam de reliquis in quinto statu relictis. Utrique enim signanter vocantur reliqui seu reliquie, quia sicut bibita superiori et puriori et maiori parte vini vasis magni restant pauce reliquie cum fecibus quibus sunt propinque et quasi commixte, sic de plenitudine purissimi vini doctorum et anachoritarum tertii et quarti temporis remanserunt reliquie circa tempora Sarracenorum; ac deinde pluribus ecclesiis per Sarracenos vastatis et occupatis, Grecisque a romana ecclesia separatis, remansit in quinto tempore sola latina ecclesia tamquam reliquie prioris ecclesie per totum orbem diffuse. De utrisque ergo reliquiis simul agit, tum quia in utrisque remissio habundavit respectu perfectionis priorum, tum quia bestia sarracenica contra utrosque pugnavit quamvis primo contra primos.

Purg. V, 100-102

Quivi perdei la vista e la parola;
nel nome di Maria fini’, e quivi
caddi, e rimase la mia carne sola. 

Purg. XXIX, 73-78; XXX, 43-48

e vidi le fiammelle andar davante,
lasciando dietro a sé l’aere dipinto,
e di tratti pennelli avean sembiante;
sì che lì sopra rimanea distinto
di sette liste, tutte in quei colori
onde fa l’arco il Sole e Delia il cinto.

volsimi a la sinistra col respitto
col quale il fantolin corre a la mamma
quando ha paura o quando elli è afflitto,
per dicere a Virgilio: ‘Men che dramma
di sangue m’è rimaso che non tremi:
conosco i segni de l’antica fiamma’.

Par. XI, 70-72

né valse esser costante né feroce,
sì che, dove Maria  rimase giuso,
ella con Cristo pianse in su la croce.

Purg. II, 16-18, 49-54

cotal m’apparve, s’io ancor lo veggia,
un lume per lo mar venir sì ratto,
che ’l muover suo nessun volar pareggia.

Poi fece il segno lor di santa croce;
ond’ ei si gittar tutti in su la piaggia:
ed el sen gì, come venne, veloce.
La turba che rimase lì, selvaggia
parea del loco, rimirando intorno
come colui che nove cose assaggia.

Inf. VI, 37-39

Elle giacean per terra tutte quante,
fuor d’una ch’a seder si levò, ratto
ch’ella ci vide passarsi davante.

Tab. IV.4

■ Il tema del rimanere si presenta all’inizio di Purg. VI, nel “si riman dolente” di chi ha perduto ai dadi (vv. 1-3). Il contesto è negativo, nel senso del rimanere con lutto rinfacciato a Filippo Argenti (Inf. VIII, 37-38); nei versi sono intrecciati temi propri della caduta di Babylon, con la conseguente perdita dei lucrosi commerci da parte dei mercanti (Ap 18, 10-11).
Da confrontare il “si riman dolente” di chi ha perduto al “gioco de la zara” con il “rimase turbato” proprio di Virgilio, che riconosce l’infruttuoso desiderio della conoscenza umana di arrivare alle ultime cause con le sole forze della ragione, un desiderio inappagato “ch’etternalmente è dato … per lutto”, come pena eterna nel Limbo, ad Aristotele, Platone e a molti altri (Purg. III, 34-45). Il tema del dare lutto proviene dalla quinta parte della sesta visione, che concerne la caduta di Babylon, verso la quale si dice: “Quantum glorificavit se et in deliciis fuit, tantum date illi tormentum et luctum” (Ap 18, 7); il poeta pagano applica altrove a sé il tema della perdita dei lucrosi commerci intrattenuti dai mercanti con Babylon (Inf. IV, 40-42) [3].

■ A Inf. XXVIII, 112 è Dante che ‘rimane’ a riguardare lo stuolo dei seminatori di scandalo e di scisma nella nona bolgia.
Nei versi che precedono (v. 110-111) si registra un altro motivo da Ap 18, 5 (quinta parte della sesta visione). In questo caso, il motivo congiunto al rimanere è quello del ‘cumulo’, cioè il pervenire i peccati di Babilonia “ad tantum et ad tam famosum cumulum” da non poter più essere tollerati. Questo motivo è appropriato al Mosca: “per ch’elli, accumulando duol con duolo, / sen gio come persona trista e matta”.
Nei versi che seguono (vv. 115-117) si insinuano motivi dell’apertura del quinto sigillo. Il tema della coscienza pura che consente di tollerare la compagnia dei pravi (così vengono interpretate le “bianche stole” di Ap 6, 11) precede la descrizione della pena di Bertran de Born, tanto incredibile da non poter essere riferita senza la protezione di una coscienza che sente di dire il vero ed è buona compagnia nell’ispirare coraggio all’uomo.

■ Nella bolgia degli indovini, il riferimento che Virgilio fa alla guerra di Troia – “quando Grecia fu di maschi vòta, / sì ch’a pena rimaser per le cune” (Inf. XX, 108-109) – è da confrontare, vera prefigurazione antica della storia della Chiesa, con le Chiese orientali “vastate” dai Saraceni nel quarto stato e con lo scisma greco, per cui della Chiesa un tempo ovunque diffusa rimasero solo poche reliquie nel quinto [4].
Nella descrizione di Lucifero, il tema del rimanere è prima appropriato a Dante (“Io non mori’ e non rimasi vivo”, Inf. XXXIV, 25; subentra anche il motivo del lutto: cfr. vv. 32, 36), ed è da confrontare con il rimanere in forse di Inf. VIII, 109-111; poi a Giuda, la schiena del quale, graffiata da Dite, “rimanea de la pelle tutta brulla” (Inf. XXXIV, 58-60), e il confronto è con i precedenti di Ciampolo (Inf. XXII, 31-33) e di Griffolino (Inf. XXX, 31-33) [5].

■ A Inf. XXXII, 99, il rimanere è congiunto con il tema dei capelli di Cristo, nel fiero atteggiamento di Dante nei confronti di Bocca degli Abati, il malvagio traditore di Montaperti che non vuole rivelare il proprio nome: «Allor lo presi per la cuticagna / e dissi: “El converrà che tu ti nomi, / o che capel qui sù non ti rimagna”». I capelli, oggetto della quarta perfezione di Cristo come sommo pastore trattata nella prima visione (Ap 1, 14), sostituiscono il tema del vaso di vino purissimo, di cui restano poche reliquie, presente ad Ap 12, 17: accomunano infatti i due passi, quasi parole-chiave, i motivi della “plenitudo” e dell’“ornatus”. I capelli designano la moltitudine e l’ornato dei sottilissimi e spiritualissimi pensieri e affetti, oppure la pienezza dei doni dello Spirito Santo che adornano la cima della mente. Così la Chiesa, prima del quinto stato, era adornata dalle due ali date alla donna (Ap 12, 14: i dottori del terzo stato e gli anacoreti del quarto) e il vaso di vino purissimo era nella sua pienezza. Il non rimanere alcun capello sul capo significa pertanto l’annullamento dell’ornato, di ciò che è spirituale. Il contesto mostra altri temi del quinto stato, come il nome, la fama, l’esser noto (Ap. 3, 1.4-5), qui non trattati.

Tab. IV.4

[LSA, cap. XII, Ap 12, 17 (IVa visio, Vum prelium)] Dicit ergo: “Et iratus est dracho in mulierem” (Ap 12, 17). Nota quod quanto plus et pluries videt se vinci ab ecclesia et prole eius, tanto maiori ira exardescit ad illam fortius temptandam et deiciendam.
“Et abiit facere bellum cum reliquis de semine eius, qui custodiunt mandata Dei et habent testimonium Ihesu”, id est fidelem confessionem Christi per quam testimonium perhibent de Christo. Duo ponit necessaria ad salutem, scilicet observantiam mandatorum et fidem Christi exteriori professione et confessione expressam.
Ioachim dicit quod semen mulieris est Christus raptus ad tronum cum martiribus suis, et istud semen precesserat; aliud autem remanserat designatum in Iohanne evangelista, scilicet ordo monachorum quarti temporis meridianam plagam incolentium. Et ideo vocat eos reliquos seu residuos de semine mulieris.
Videtur tamen quod post Christum et martires ubique dispersos egit de ecclesia post Constantinum in unum collecta et duabus alis, id est duobus ordinibus doctorum scilicet et anachoritarum altivolis, adornata et in altum sublevata, et tam in deserto gentilitatis quam in deserto contemplative solitudinis alimentum sue refectionis habente. Post hoc autem restabat agere de reliquis tam predicti temporis quam de reliquis in quinto statu relictis. Utrique enim signanter vocantur reliqui seu reliquie, quia sicut bibita superiori et puriori et maiori parte vini vasis magni restant pauce reliquie cum fecibus quibus sunt propinque et quasi commixte, sic de plenitudine purissimi vini doctorum et anachoritarum tertii et quarti temporis remanserunt reliquie circa tempora Sarracenorum; ac deinde pluribus ecclesiis per Sarracenos vastatis et occupatis, Grecisque a romana ecclesia separatis, remansit in quinto tempore sola latina ecclesia tamquam reliquie prioris ecclesie per totum orbem diffuse. De utrisque ergo reliquiis simul agit, tum quia in utrisque remissio habundavit respectu perfectionis priorum, tum quia bestia sarracenica contra utrosque pugnavit quamvis primo contra primos.

Inf. VIII, 37-39, 46-48

E io a lui: “Con piangere e con lutto,
spirito maladetto, ti rimani;                     5, 1
ch’i’ ti conosco, ancor sie lordo tutto”.

Quei fu al mondo persona orgogliosa ;
bontà non è che sua memoria fregi:
così s’è l’ombra sua qui furïosa.

Inf. XXVIII, 109-117

E io li aggiunsi: “E morte di tua schiatta”;
per ch’elli, accumulando duol con duolo,
sen gio come persona trista e matta.
Ma io rimasi a riguardar lo stuolo,
e vidi cosa ch’io avrei paura,
sanza più prova, di contarla solo;
se non che coscïenza m’assicura,
la buona compagnia che l’uom francheggia
sotto l’asbergo del sentirsi pura.

[LSA, cap. VI, Ap 6, 11 (IIa visio, apertio Vi sigilli)] Per stolam autem sanctis interim datam, designatur gloria de puritate et securitate conscientie proprie, que interim sufficit eis ad requiem cordis, per quam possunt quiete tolerare pravam societatem et prava exempla repro-borum.

Inf. XXXIV, 25-27, 32-36, 55-60

Io non mori’ e non rimasi vivo;
pensa oggimai per te, s’hai fior d’ingegno,
qual io divenni, d’uno e d’altro privo.

vedi oggimai quant’ esser dee quel tutto
ch’a così fatta parte si confaccia.
S’el fu sì bel com’ elli è ora brutto,
e contra ’l suo fattore alzò le ciglia,
ben dee da lui procedere ogne lutto.

Da ogne bocca dirompea co’ denti
un peccatore, a guisa di maciulla,
sì che tre ne facea così dolenti.
A quel dinanzi il mordere era nulla
verso ’l graffiar, che talvolta la schiena
rimanea de la pelle tutta brulla.

Inf. XX, 106-111

Allor mi disse: “Quel che da la gota
porge la barba in su le spalle brune,
fu – quando Grecia fu di maschi vòta,
sì ch’a pena rimaser per le cune –
augure, e diede ’l punto con Calcanta
in Aulide a tagliar la prima fune.”

Inf. XXXII, 91-99

“Vivo son io, e caro esser ti puote”,
fu mia risposta, “se dimandi fama,
ch’io metta il nome tuo tra l’altre note”.
Ed elli a me: “Del contrario ho io brama.
Lèvati quinci e non mi dar più lagna,
ché mal sai lusingar per questa lama!”.
Allor lo presi per la cuticagna
e dissi: “El converrà che tu ti nomi,
o che capel qui sù non ti rimagna”.

[LSA, cap. I, Ap 1, 14 (Ia visio)] Quarta est reverenda et preclara sapientie et consilii maturitas per senilem et gloriosam canitiem capitis et crinium designata, unde subdit: “caput autem eius et capilli erant candidi tamquam lana alba et tamquam nix”. Per caput vertex mentis et sapientie, per capillos autem multitudo et ornatus subtilissimorum et spiritualissimorum cogitatuum et affectuum seu plenitudo donorum Spiritus Sancti verticem mentis adornantium designatur.

Purg. III, 37-45

“State contenti, umana gente, al quia ;
ché, se potuto aveste veder tutto,
mestier non era parturir Maria;
e disïar vedeste sanza frutto
tai che sarebbe lor disio quetato,
ch’etternalmente è dato lor  per lutto :
io dico d’Aristotile e di Plato
e di molt’ altri”; e qui chinò la fronte,
e più non disse, e rimase turbato.

Purg. VI, 1-3

Quando si parte il gioco de la zara,
colui che perde si riman dolente,
repetendo le volte, e tristo impara

[LSA, cap. XVIII, Ap 18, 5-7 (VIa visio)] Deinde reddit rationem quare sit ab ea exeundum, ne participent in eius delictis et penis, subdens (Ap 18, 5): “Quoniam pervenerunt peccata eius usque ad celum”, id est usque ad summum, seu ad tantum et tam famosum cumulum quod Deus amodo non potest ipsam amplius tolerare. Unde subdit: “et recordatus est Dominus iniquitatum eius”, scilicet ad statim puniendum illas. Per longam enim dissimulationem punitionis videbatur non recordari earum. Quia vero sancti sunt iudicaturi malos tam in extremo iudicio quam in hac vita, predicando et comminando iustam dampnationem ipsorum, ideo pro utroque istorum modorum subdit Deus (Ap 18, 6): “Reddite illi”, scilicet condignas penas, “sicut et ipsa reddidit vobis”, id est sicut per eam estis dure et impie afflicti, sic vos dure et severe seu iuste iudicate eam. “Et duplicate duplicia secundum opera eius”, id est multo maiora supplicia sibi inferte quam ipsa intulerit vobis, quia sic merentur prava opera eius. […] Quia vero non solum punietur pro malis que fecit in sanctos vel in proximos, sed etiam pro hiis quibus se ipsam vanificavit et fedavit, ideo pro hiis subditur (Ap 18, 7): “Quantum glorificavit se et in deliciis fuit, tantum date illi  tormentum et luctum”. Le “tantum” non significat hic absolutam equalitatem quantitatis, sed equalitatem proportionis et iustitie. Signanter autem notat eius culpam de duobus, scilicet de superba gloria et de carnali voluptate, quia hec duo sunt radices omnium aliorum. Nullus enim, secundum Ieronimum, querit divitias nisi pro hiis duobus. In hiis autem [tribus], secundum Iohannem, consistit radicaliter tota malitia mundi (cfr. 1 Jo 2, 16). Quidam habent: “Quantum glorificavit se in deliciis suis”, et satis redit in idem.

Tab. IV.5

 

■ Con il tema del seme che rimane, nel suo sviluppo del vaso di vino purissimo di cui rimangono poche reliquie, viene presentato nella valletta dei principi il figlio (probabilmente il primogenito Alfonso) di Pietro III d’Aragona, morto giovanetto, il quale, “se re dopo lui fosse rimaso”, avrebbe fatto andare “il valor di vaso in vaso” (Purg. VII, 115-117; il riferimento ad Ap 12, 17 non toglie che Dante possa aver avuto in mente anche Geremia 48, 11: “nec transfusus est de vase in vas”). Più avanti si afferma che Carlo II d’Angiò è pianta minore del padre (“del seme suo”) Carlo I, come questi fu inferiore rispetto a Pietro d’Aragona (vv. 127-129), dove il tema del seme, da Ap 12, 17, si congiunge con quello, dall’esegesi della quinta chiesa (Ap 3, 2; non in Tabella), del passaggio dalle opere maggiori, ormai morte, alle minori, che sono pure sul punto di essere perdute se non si confermano risorgendo ai primi beni. Nella valletta si ‘scende’ (la “condescensio” propria del quinto stato) e si attende (l’“expectare” proprio dei santi all’apertura del quinto sigillo); ivi sono i principi negligenti (la negligenza e il torpore rimproverati alla quinta chiesa): si tratta di un’altra zona, molto ampia, dedicata al quinto stato, che si estende da Belacqua fino all’apertura della porta del Purgatorio, con la quale si apre anche il sesto stato della storia della Chiesa.

■ Stazio, nella sua lezione sulla generazione dell’uomo e sull’origine dell’anima umana (Purg. XXV, 31-78), inizia parlando del seme maschile, che deriva da “sangue perfetto, che poi non si beve / da l’assetate vene, e si rimane / quasi alimento che di mensa leve” (vv. 37-39), cioè la parte più pura del sangue, che non nutre il corpo attraverso le vene ma “prende” nel cuore virtù di dare forma a tutte le membra umane (vv. 40-42; cfr. le ultime parole dette a Virgilio: “Men che dramma / di sangue m’è rimaso che non tremi: conosco i segni de l’antica fiamma”, Purg. XXX, 46-48). Questo sangue, “ancor digesto, scende ov’ è più bello / tacer che dire; e quindi poscia geme / sovr’ altrui sangue in natural vasello” (Purg. XXV, 43-45). Nel “natural vasello” femminile si congiungono il sangue della donna, disposto a patire, e il seme maschile disposto a fare, il quale dà vita al coagulo prima prodotto (vv. 46-51).
In questa prima parte della lezione si ritrovano i temi da Ap 12, 17. Il rimanere del seme puro, cioè le poche reliquie del quarto stato che restano nel quinto, è appropriato prima al seme maschile, “sangue perfetto” che “si rimane”. L’immagine del vaso di vino purissimo passa poi nel “natural vasello” femminile, mentre il motivo del bere assume un senso negativo (“quia sicut bibita superiori et puriori et maiori parte vini vasis magni” – “Sangue perfetto, che poi non si beve / da l’assetate vene”). Da notare l’inciso “in altum sublevata, et tam in deserto gentilitatis quam in deserto contemplative solitudinis alimentum sue refectionis habente”, riferito alla Chiesa dopo Costantino, dotata delle due ali di una grande aquila identificate con i dottori del terzo stato e con gli anacoreti del quarto (cfr. Ap 12, 14): i temi, quasi cellule musicali, trascorrono nel verso “quasi alimento che di mensa leve” a sottolineare la purezza del sangue che “si rimane”, come nel quinto stato “de plenitudine purissimi vini doctorum et anachoritarum tertii et quarti temporis remanserunt reliquie”.
Ciò che segue, l’accogliersi “in natural vasello” dell’uno e dell’altro sangue, “l’un disposto a patire, e l’altro a fare” (vv. 46-47), contiene in sé uno dei temi più belli della Lectura, dall’esegesi di Filadelfia, la sesta delle chiese d’Asia (Ap 3, 7). Come negli attivi anacoreti del quarto stato rifulse l’amore verso Cristo, così nei contemplativi del sesto rifulge il loro essere diletti da Cristo, non diversamente da quel che si dice di Pietro, che amò Cristo, e di Giovanni, che fu prediletto da Cristo. In tal modo prerogativa del sesto stato è di essere disposto a ricevere e a patire, e in ciò si differenzia dagli stati precedenti, disposti a fare e a dare. Ad esso è attribuita più la felicità che deriva dalla speranza del premio che la fatica dell’attività per cui si acquistano meriti. Ricevendo più grazie e più segni di familiare amore da parte di Cristo, il sesto stato eccelle sugli altri precedenti, ma nello stesso tempo ad essi si deve maggiormente umiliare. Al sangue maschile, oltre al ‘rimanere’ nel quinto stato, corrisponde dunque il quarto stato, del quale è proprio il “victoriosus effectus” delle “res gestae” (Ap 2, 26-28); al sangue femminile corrisponde il più alto e al tempo stesso il più umile degli stati, il sesto. I due verbi, “ricevere” e “patire”, prerogative del sesto stato, sono appropriati anche al cielo della Luna, “etterna margarita” che ‘riceve’ dentro a sé il poeta come l’acqua riceve un raggio di luce senza dividersi, in modo che la sua dimensione ‘patisca’ un’altra, cioè il corpo di Dante, cosa inconcepibile sulla terra (Par. II, 34-42; il ricevere dentro di sé è tema proprio anche della sesta vittoria: Ap 3, 12).
Con il grande terremoto che scuote la montagna (il terremoto in apertura del sesto sigillo, Purg. XX, 124ss.) inizia la vasta ‘zona sesta’ del Purgatorio dopo l’apertura della “porta di san Pietro”, dove si rinvengono l’incontro con Stazio, i golosi della sesta cornice e l’affermazione della poetica delle “nove rime”, quindi la lezione di Stazio sull’umana generazione. Nel prevalere dei temi del sesto stato si registrano, per “concurrentia”, anche i temi degli altri stati e in particolare del precedente, che ha già raggiunto l’acme con gli avari e i prodighi del quinto girone.
Da notare la presenza dei temi da Ap 12, 17 (quinta guerra) anche in Par. XIII, 52-66, dove Tommaso d’Aquino tratta dell’eterna generazione trinitaria che si riflette sul creato: il rimanere è accostato al seme e al discendere, tema principale del condescensivo quinto stato, con appropriazione alla viva luce del Verbo, che si irradia nei nove ordini angelici “etternalmente rimanendosi una”, e poi “discende a l’ultime potenze” producendo infine solo “brevi contingenze … con seme e sanza seme il ciel movendo”.

■ Il tema del rimanere è accostato in rima a quello del vaso in Par. I, 14, 18, nell’invocazione al “buono Appollo”: il primo riferito a “l’aringo rimaso”, cioè alla parte della materia ancora da trattare, che abbisogna di ambedue i gioghi di Parnaso; il secondo al poeta stesso, che prega Dio di riempirlo del suo valore.
Con una variazione più distante dai temi originali, l’aquila, nel cielo di Giove, afferma che Dio non poté, creando il mondo, imprimere il suo valore “sì … che ’l suo verbo / non rimanesse in infinito eccesso”, per cui ogni creatura, da Lucifero che fu la somma, fino alla infima, “è corto recettacolo (“vaso”) a quel bene / che non ha fine e sé con sé misura” (Par. XIX, 40-51).
Nel successivo cielo di Saturno, Pier Damiani racconta della sua nomina a cardinale: “Poca vita mortal m’era rimasa, / quando fui chiesto e tratto a quel cappello, / che pur di male in peggio si travasa”, ricordando poi la povertà degli apostoli Pietro e Paolo, quest’ultimo – “il gran vasello / de lo Spirito Santo” – fasciato dal tema del vaso di vino purissimo quasi tutto esaurito, cui risponde il mal ‘travasare’ dell’istituto cardinalizio di cui egli è ‘reliquia’ per poca vita (Par. XXI, 124-129). Le parole del Damiani – “Poca vita mortal m’era rimasa” – sono da confrontare con quelle di Ulisse nella sua “orazion picciola”: “a questa tanto picciola vigilia / d’i nostri sensi ch’è del rimanente” (Inf. XXVI, 114-115).

■ Nel primo girone del Purgatorio, Dante, che era andato curvo al passo di Oderisi da Gubbio, si drizza al comando di Virgilio, “avvegna che i pensieri / mi rimanessero e chinati e scemi” (Purg. XII, 7-9), dove lo stare chini ripete il ‘declinare’ proprio del quinto stato (prologo, Notabile III). I motivi tornano alla fine del canto, dopo che l’angelo dell’umiltà ha cancellato il primo dei sette P incisi sulla fronte del poeta : il rimanere è appropriato a “i P che son rimasi”; il levarsi (dall’essere la donna-Chiesa “in altum sublevata”), che corrisponde all’“alimento che di mensa leve” di Purg. XXV, 39, è attribuito al P cancellato per cui Dante si sente più leggero e domanda a Virgilio: “Maestro, dì, qual cosa greve / levata s’è da me …?” (Purg. XII, 118-126).
Nel secondo girone della montagna, il rimanere è accostato al motivo della purezza per quanto dice Guido del Duca sui Pagani, signori di Faenza, che faranno bene a non rifigliare dopo la morte, nel 1302, del loro “demonio” Maghinardo, “ma non però che puro / già mai rimagna d’essi testimonio” (Purg. XIV, 118-120). Tace il tema del vaso (è però presente quello secondario della purezza), mentre il tema del seme, per quanto non esplicito (cfr. tuttavia, al verso 85: “Di mia semente cotal paglia mieto”), percorre tutto il contesto dove si compiange la decadenza dei casati di Romagna. Al principio del canto successivo, il rimanere, tema della quinta guerra, è appropriato al corso del sole e accostato al vespro, l’ora del quinto stato, come si desume dal Notabile VII del prologo (Purg. XV, 5-6).
Nel terzo girone, il rimanere è appropriato al “buon Gherardo” da Camino, di cui parla al poeta Marco Lombardo: “che tu per saggio / di’ ch’è rimaso de la gente spenta, / in rimprovèro del secol selvaggio” (Purg. XVI, 124, 133-135), vicino al senso delle parole con le quali, nel quinto girone, Adriano V dice della sua buona nipote Alagia, moglie di Moroello Malaspina (Purg. XIX, 142-145). A costei, unica reliquia di un seme puro, il successore di Pietro attribuisce anche un tema della quinta delle chiese d’Asia, Sardi, a cui Cristo dice: “Ma hai pochi nomi a Sardi”, cioè ti sono rimasti pochi buoni non coinquinati con gli altri. Alagia è infatti “buona da sé” (Ap 3, 4; non in Tabella).

■ In Par. II, che pure mostra in più punti il tema del rimanere (v. 6, nell’appello ai lettori; vv. 106-111, riferito all’intelletto rimasto libero da concetti), tacciono i motivi correlati del seme e del vaso, ma quelli delle “pauce reliquie” e del cibo si insinuano (vv. 1-18) nella distinzione tra i “voialtri pochi che drizzaste il collo / per tempo al pan de li angeli” e “voi che siete in piccioletta barca” i quali, messisi in pelago, rimarrebbero smarriti (il “pelago”, ad Ap 4, 6, designa la Sacra Scrittura; lo smarrirsi è un tema proprio della quinta chiesa).

■ Il tema del rimanere, congiunto con quello del cibo (“alimentum sue refectionis”, Ap 12, 17) si registra a Par. III, 91-93, nel colloquio con Piccarda, e a Par. X, 22-27, nell’appello al lettore che precede la descrizione della salita al cielo del Sole (il tema del rimanere, questa volta “con sete”, ritorna nelle parole di Tommaso d’Aquino su Boezio al v. 123). Anche in questo caso, la subitanea salita del poeta al quarto cielo (che è come un rapimento: vv. 34-39) si contrappone al rimanere del lettore – “Or ti riman, lettor, sovra ’l tuo banco” -, cibandosi da solo della materia messagli innanzi dal poeta.

Si è già visto come il tema del rimanere del seme subisca una grottesca variazione appropriato a Ciampolo (Inf. XXII, 31-33): “I’ vidi … / uno aspettar così, com’ elli ’ncontra / ch’una rana rimane e l’altra spiccia”, come nel quinto stato rimangono le reliquie della Chiesa latina. Per questo Virgilio gli chiede, prima che venga disfatto dai Malebranche: “Or dì: de li altri rii / conosci tu alcun che sia latino / sotto la pece?” (vv. 64-66). È da notare che il motivo del seme (nell’esegesi di Ap 12, 17 congiunto con il “rimanere”) è taciuto, mentre è presente (v. 67), nella risposta di Ciampolo, quello dello stare ‘vicino’ (“restant pauce reliquie cum fecibus quibus sunt propinque et quasi commixte”), appropriato a frate Gomita, “quel di Gallura”, “un che fu di là vicino”, cioè di Sardegna, vicina alla terra latina, al quale è beffardamente attribuito anche il tema del vaso di vino purissimo (v. 82 : “vasel d’ogne froda”), rispetto al quale Ciampolo è reliquia che rimane.

■ Congiunto con il tema della fama (anch’esso proprio del quinto stato, qui non trattato), il rimanere è appropriato a Folchetto di Marsiglia (Par. IX, 37-42) del quale Cunizza, nel cielo di Venere, dice (senza nominarlo) che “grande fama rimase”, utilizzando anche i motivi dell’essere ‘propinquo’ e il numero – cinquecento (“questo centesimo anno ancor s’incinqua”) – che corrisponde (proiettato nel futuro per il durare della fama) alla durata del quinto stato (a partire da Carlo Magno), secondo quanto affermato nel Notabile XII del prologo della Lectura (è da notare anche la variazione del tema delle “reliquie” nell’espressione “sì ch’altra vita la prima relinqua”).

Tab. IV.5

[LSA, cap. XII, Ap 12, 17 (IVa visio, Vum prelium)] Dicit ergo: “Et iratus est dracho in mulierem” (Ap 12, 17). Nota quod quanto plus et pluries videt se vinci ab ecclesia et prole eius, tanto maiori ira exardescit ad illam fortius temptandam et deiciendam.
“Et abiit facere bellum cum reliquis de semine eius, qui custodiunt mandata Dei et habent testimonium Ihesu”, id est fidelem confessionem Christi per quam testimonium perhibent de Christo. Duo ponit necessaria ad salutem, scilicet observantiam mandatorum et fidem Christi exteriori professione et confessione expressam.
Ioachim dicit quod semen mulieris est Christus raptus ad tronum cum martiribus suis, et istud semen precesserat; aliud autem remanserat designatum in Iohanne evangelista, scilicet ordo monachorum quarti temporis meridianam plagam incolentium. Et ideo vocat eos reliquos seu residuos de semine mulieris.
Videtur tamen quod post Christum et martires ubique dispersos egit de ecclesia post Constantinum in unum collecta et duabus alis, id est duobus ordinibus doctorum scilicet et anachoritarum altivolis, adornata et in altum sublevata, et tam in deserto gentilitatis quam in deserto contemplative solitudinis alimentum sue refectionis habente. Post hoc autem restabat agere de reliquis tam predicti temporis quam de reliquis in quinto statu relictis. Utrique enim signanter vocantur reliqui seu reliquie, quia sicut bibita superiori et puriori et maiori parte vini vasis magni restant pauce reliquie cum fecibus quibus sunt propinque et quasi commixte, sic de plenitudine purissimi vini doctorum et anachoritarum tertii et quarti temporis remanserunt reliquie circa tempora Sarracenorum; ac deinde pluribus ecclesiis per Sarracenos vastatis et occupatis, Grecisque a romana ecclesia separatis, remansit in quinto tempore sola latina ecclesia tamquam reliquie prioris ecclesie per totum orbem diffuse. De utrisque ergo reliquiis simul agit, tum quia in utrisque remissio habundavit respectu perfectionis priorum, tum quia bestia sarracenica contra utrosque pugnavit quamvis primo contra primos.

Purg. XXV, 37-75

Sangue perfetto, che poi non si beve
da l’assetate vene, e si rimane
quasi alimento che di mensa leve,
prende nel core a tutte membra umane
virtute informativa, come quello
ch’a farsi quelle per le vene vane.
Ancor digesto, scende ov’ è più bello
tacer che dire; e quindi poscia geme
sovr’ altrui sangue in natural vasello.
Ivi s’accoglie l’uno e l’altro insieme,
l’un disposto a patire, e l’altro a fare
per lo perfetto loco onde si preme;
e, giunto lui, comincia ad operare
coagulando prima, e poi avviva
ciò che per sua matera fé constare.
Anima fatta la virtute attiva
qual d’una pianta, in tanto differente,
che questa è in via e quella è già a riva,
tanto ovra poi, che già si move e sente,
come spungo marino; e indi imprende
ad organar le posse ond’ è semente.
Or si spiega, figliuolo, or si distende
la virtù ch’è dal cor del generante,
dove natura a tutte membra intende.
Ma come d’animal divegna fante,
non vedi tu ancor: quest’ è tal punto,
che più savio di te fé già errante,
sì che per sua dottrina fé disgiunto
da l’anima il possibile intelletto,
perché da lui non vide organo assunto.
Apri a la verità che viene il petto;
e sappi che, sì tosto come al feto
l’articular del cerebro è perfetto,
lo motor primo a lui si volge lieto
sovra tant’ arte di natura, e spira
spirito novo, di vertù repleto,
che ciò che trova attivo quivi, tira
in sua sustanzia, e fassi un’alma sola,      prol., Not. VII
che vive e sente e sé in sé rigira.

Par. II, 34-42

Per entro sé l’etterna margarita
ne ricevette, com’ acqua recepe
raggio di luce permanendo unita.
S’io era corpo, e qui non si concepe
com’ una dimensione altra patio,
ch’esser convien se corpo in corpo repe,
accender ne dovria più il disio
di veder quella essenza in che si vede
come nostra natura e Dio s’unio.

[LSA, cap. III, Ap 3, 7 (Ia visio, VIa ecclesia)] Hinc etiam est quod Christus plus commendat promissiones suorum donorum factas angelo sexto quam merita ipsius sexti. Consurgitque ex hoc quoddam mirabile et valde notabile, videlicet quod status sextus quanto maior erit precedentibus in susceptione gratiarum et familiarium signorum amoris Christi ad eum, tanto habebit unde plus Christo et statibus precedentibus humilietur, quia potius prefertur eis in pati seu recipere quam in agere vel dare, et potius in felicitate hab[ente] speciem premii quam in laborioso opere habent[e] rationem meriti. Hec tamen per anthonomasiam et per quandam appropriationem sunt intelligenda, alias omnia in viris perfectis omnium statuum reperiuntur. Unde et ista sexta singulariter laudatur de patientia (cfr. Ap 3, 10).

Par. XIII, 52-66

Ciò che non more e ciò che può morire
non è se non splendor di quella idea
che partorisce, amando, il nostro Sire;
ché quella viva luce che sì mea
dal suo lucente, che non si disuna     prol., Not. VII
da lui né da l’amor ch’a lor s’intrea,
per sua bontate il suo raggiare aduna,
quasi specchiato, in nove sussistenze,
etternalmente rimanendosi una.
Quindi discende a l’ultime potenze
giù d’atto in atto, tanto divenendo,
che più non fa che brevi contingenze;
e queste contingenze essere intendo
le cose generate, che produce
con seme e sanza seme il ciel movendo.

[LSA, cap. III, Ap 3, 7 (Ia visio, VIa ecclesia)] Hinc etiam est quod Christus plus commendat promissiones suorum donorum factas angelo sexto quam merita ipsius sexti. Consurgitque ex hoc quoddam mirabile et valde notabile, videlicet quod status sextus quanto maior erit precedentibus in susceptione gratiarum et familiarium signorum amoris Christi ad eum, tanto habebit unde plus Christo et statibus precedentibus humilietur, quia potius prefertur eis in pati seu recipere quam in agere vel dare, et potius in felicitate hab[ente] speciem premii quam in laborioso opere habent[e] rationem meriti. Hec tamen per anthonomasiam et per quandam appropriationem sunt intelligenda, alias omnia in viris perfectis omnium statuum reperiuntur. Unde et ista sexta singulariter laudatur de patientia (cfr. Ap 3, 10).

[LSA, cap. II, Ap 3, 12 (VIa victoria)] Quantum autem ad hoc premium, nota quod quia intrans in Deum recipit intra se Deum, ita quod et Deus intrat in ipsum […]

Par. I, 13-18

O buono Appollo, a l’ultimo lavoro
fammi del tuo valor sì fatto vaso,
come dimandi a dar l’amato alloro.
Infino a qui l’un giogo di Parnaso
assai mi fu; ma or con amendue
m’è uopo intrar ne l’aringo rimaso.

Inf. XXVI, 114-115, 118

a questa tanto picciola vigilia
d’i nostri sensi ch’è del rimanente ……

Considerate la vostra semenza

Par. XXI, 124-129 

Poca vita mortal m’era rimasa,
quando fui chiesto e tratto a quel cappello,
che pur di male in peggio si travasa.
Venne Cefàs e venne il gran vasello
de lo Spirito Santo, magri e scalzi,
prendendo il cibo da qualunque ostello.

Purg. VII, 115-117, 127-129

e se re dopo lui fosse rimaso
lo giovanetto che retro a lui siede,
ben andava il valor di vaso in vaso

Tant’ è del seme suo minor la pianta,
quanto, più che Beatrice e Margherita,
Costanza di marito ancor si vanta.

[LSA, cap. XII, Ap 12, 17 (IVa visio, Vum prelium)] Dicit ergo: “Et iratus est dracho in mulierem” (Ap 12, 17). Nota quod quanto plus et pluries videt se vinci ab ecclesia et prole eius, tanto maiori ira exardescit ad illam fortius temptandam et deiciendam.
“Et abiit facere bellum cum reliquis de semine eius, qui custodiunt mandata Dei et habent testimonium Ihesu”, id est fidelem confessionem Christi per quam testimonium perhibent de Christo. Duo ponit necessaria ad salutem, scilicet observantiam mandatorum et fidem Christi exteriori professione et confessione expressam.
Ioachim dicit quod semen mulieris est Christus raptus ad tronum cum martiribus suis, et istud semen precesserat; aliud autem remanserat designatum in Iohanne evangelista, scilicet ordo monachorum quarti temporis meridianam plagam incolentium. Et ideo vocat eos reliquos seu residuos de semine mulieris.
Videtur tamen quod post Christum et martires ubique dispersos egit de ecclesia post Constantinum in unum collecta et duabus alis, id est duobus ordinibus doctorum scilicet et anachoritarum altivolis, adornata et in altum sublevata, et tam in deserto gentilitatis quam in deserto contemplative solitudinis alimentum sue refectionis habente. Post hoc autem restabat agere de reliquis tam predicti temporis quam de reliquis in quinto statu relictis. Utrique enim signanter vocantur reliqui seu reliquie, quia sicut bibita superiori et puriori et maiori parte vini vasis magni restant pauce reliquie cum fecibus quibus sunt propinque et quasi commixte, sic de plenitudine purissimi vini doctorum et anachoritarum tertii et quarti temporis remanserunt reliquie circa tempora Sarracenorum; ac deinde pluribus ecclesiis per Sarracenos vastatis et occupatis, Grecisque a romana ecclesia separatis, remansit in quinto tempore sola latina ecclesia tamquam reliquie prioris ecclesie per totum orbem diffuse. De utrisque ergo reliquiis simul agit, tum quia in utrisque remissio habundavit respectu perfectionis priorum, tum quia bestia sarracenica contra utrosque pugnavit quamvis primo contra primos.

Inf. XXII, 31-33, 64-69, 79-84

I’ vidi, e anco il cor me n’accapriccia,
uno aspettar così, com’ elli  ’ncontra
ch’una rana rimane e l’altra spiccia

Lo duca dunque: “Or dì: de li altri rii
conosci tu alcun che sia latino
sotto la pece?”.  E quelli: “I’ mi partii,
poco è, da un che fu di là vicino.
Così foss’ io ancor con lui coperto,
ch’i’ non temerei unghia né uncino!” 

“Chi fu colui da cui mala partita
di’ che facesti per venire a proda?”.
Ed ei rispuose: “Fu frate Gomita,
quel di Gallura, vasel d’ogne froda,
ch’ebbe i nemici di suo donno in mano,
e fé sì lor, che ciascun se ne loda.”

Par. III, 91-93; X, 22-27, 121-123

Ma sì com’ elli avvien, s’un cibo sazia
e d’un altro rimane ancor la gola,
che quel si chere e di quel si ringrazia

Or ti riman, lettor, sovra ’l tuo banco,
dietro pensando a ciò che si preliba,
s’esser vuoi lieto assai prima che stanco.
Messo t’ho innanzi: omai per te ti ciba ;
ché a sé torce tutta la mia cura
quella materia ond’ io son fatto scriba.

Or se tu l’occhio de la mente trani
di luce in luce dietro a le mie lode,
già de l’ottava con sete rimani.

Purg. XIV, 118-120; XV, 4-6; XVI, 133-135

Ben faranno i Pagan, da che ’l demonio
lor sen girà; ma non però che puro
già mai rimagna d’essi testimonio.

tanto pareva già inver’ la sera
essere al sol del suo corso rimaso;
vespero là, e qui mezza notte era.     Not. VII

Ma qual Gherardo è quel che tu per saggio
di’ ch’è rimaso de la gente spenta,
in rimprovèro del secol selvaggio?

Purg. XIX, 142-145

Nepote ho io di là c’ha nome Alagia,
buona da sé, pur che la nostra casa
non faccia lei per essempro malvagia;
e questa sola di là m’è rimasa.                             3, 4

Purg. XII, 7-9, 118-126

dritto sì come andar vuolsi rife’mi
con la persona, avvegna che i pensieri
mi rimanessero e chinati  e scemi.          Not. III

Ond’ io: “Maestro, dì, qual cosa greve
levata s’è da me, che nulla quasi
per me fatica, andando, si riceve?”.
Rispuose: “Quando i P che son rimasi
ancor nel volto tuo presso che stinti,
saranno, com’ è l’un, del tutto rasi,
fier li tuoi piè dal buon voler sì vinti,
che non pur non fatica sentiranno,
ma fia diletto loro esser sù pinti”.

Par. XIX, 40-51

Poi cominciò: “Colui che volse il sesto
a lo stremo del mondo, e dentro ad esso
distinse tanto occulto e manifesto,
non poté suo valor sì fare impresso
in tutto l’universo, che ’l suo verbo
non rimanesse in infinito eccesso.
E ciò fa certo che ’l primo superbo,
che fu la somma d’ogne creatura,
per non aspettar lume, cadde acerbo;
e quinci appar ch’ogne minor natura
è corto recettacolo a quel bene
che non ha fine e sé con sé misura.”

Par. II, 1-6, 10-15, 106-111

O voi che siete in piccioletta barca,
desiderosi d’ascoltar, seguiti
dietro al mio legno che cantando varca,
tornate a riveder li vostri liti:
non vi mettete in pelago, ché forse,  
perdendo me, rimarreste smarriti.       3, 3 

Voialtri pochi che drizzaste il collo
per tempo al pan de li angeli, del quale
vivesi qui ma non sen vien satollo,
metter potete ben per l’alto sale
vostro navigio, servando mio solco
dinanzi a l’acqua che ritorna equale.

Or, come ai colpi de li caldi rai
de la neve riman nudo il suggetto
e dal colore e dal freddo primai,
così rimaso te ne l’intelletto
voglio informar di luce sì vivace,
che ti tremolerà nel suo aspetto.

Par. IX, 37-42

Di questa luculenta e cara gioia
del nostro cielo che più m’è propinqua,
grande fama rimase; e pria che moia,
questo centesimo anno ancor s’incinqua:
vedi se far si dee l’omo eccellente,
sì ch’altra vita la prima relinqua.

Tab. IV.6

■ Il tema del rimanere è appropriato alla porta del Purgatorio che gira sui cardini, il cui rugghiare è paragonato allo stridore emesso dai battenti della rupe Tarpea allorché Cesare volle impadronirsi dell’erario pubblico ivi custodito, violenza cui si oppose invano il tribuno Lucio Cecilio Metello: “non rugghiò sì né si mostrò sì acra / Tarpëa, come tolto le fu il buono / Metello, per che poi rimase macra” (Purg. IX, 136-138). Il contrasto è tra la rupe Tarpea, che “rimase”, e Metello, che “tolto le fu”, variante dell’essere rapito proprio di Cristo (quanto detto di Metello è da confrontare con quanto Virgilio dice a Dante circa Lucia che lo ha preso dalla valletta e portato alla porta del Purgatorio: “ella ti tolse e … sen venne suso”, rispetto a Sordello e alle altre anime ‘gentili’ che rimasero, ibid., 58-60). Il fatto narrato da Lucano (Phars. III, 153-168), dove non c’è il verbo remanere, è armato dalle maglie della Lectura e a questa rinvia.
La sottrazione di Metello fatta alla rupe Tarpea, “per che poi rimase macra”, è ancora da confrontare con altro rapimento, quello di Cristo fatto a Maria, di cui dice Tommaso d’Aquino parlando della povertà nell’elogio di Francesco: “sì che, dove Maria rimase giuso, / ella con Cristo pianse in su la croce” (Par. XI, 71-72; al rimanere si contrappone Cristo, rapito nella resurrezione e ascensione “cum martiribus suis”).
Nei versi relativi al “buono Metello” si insinua anche il tema della povertà. Tarpea infatti “rimase macra” dell’erario, cioè povera: “pauperiorque fuit tunc primum Caesare Roma”, scrive Lucano. Un modello di “usus pauper”, così come professato da Olivi, è la montagna del Purgatorio. Alla domanda di Virgilio sulle cause del terremoto e del grido che l’ha sconvolta allorché i due poeti, nel quinto girone, hanno lasciato Ugo Capeto, Stazio risponde che la “religione de la montagna” fa in modo che tutto ciò che avviene non sia “sanza ordine” o “fuor d’usanza”. La montagna, al là della porta, è libera da tutte le alterazioni terrestri e in essa si può far sentire solo l’efficacia causale “di quel che ’l ciel da sé in sé riceve / … e non d’altro” (Purg. XXI, 40-54). E nel canto precedente, prima che si verifichi il terremoto – figura dell’apertura del sesto sigillo – Ugo Capeto dice di Maria: “Povera fosti tanto”, accostandola al desiderio di povertà e di virtù del “buon Fabrizio” (Purg. XX, 19-27). Povera come Roma, allora per la prima volta più povera di Cesare.

■ Virgilio e Stazio, sulla soglia del sesto girone della montagna, tacciono “di novo attenti a riguardar dintorno”, presi dal “sospetto” su quale via prendere, finché Virgilio determina che, come fatto fino allora, si debba prendere a destra volgendo le spalle all’orlo esterno del balzo (Purg. XXII, 115-126). Tacere ed essere “liberi da saliri e da pareti” sono temi del settimo stato, cui appartiene il silenzio e l’essere libero da ogni fatica. L’ora – indicata dal trovarsi le prime quattro “ancelle … del giorno / rimase a dietro, e la quinta al temo, / drizzando pur in sù l’ardente corno”, non ancora a metà della sua parabola ascendente – è fra le dieci e le undici antimeridiane: l’ora del sesto stato è il mezzogiorno, e ciò significa che i tre si trovano prossimi al sesto ma ancora sotto il regime del quinto. Il tema del rimanere, da Ap 12, 17, è in questo caso appropriato ai primi quattro stati. Che la consuetudine tenuta per il passato, di girare verso destra, venga mantenuta nella circostanza – “così l’usanza fu lì nostra insegna” – corrisponde al fatto che ad illuminare il sesto stato coopereranno tutte le illuminazioni degli stati precedenti e la fama di Cristo, della sua fede e della sua Chiesa diffusa per il mondo a partire dal primo stato fino ai tempi odierni. Il “nuovo” è segno del sesto stato, che è di “renovatio” della vita evangelica: così Virgilio e Stazio sono “di novo attenti a riguardar dintorno”. Il sesto girone del Purgatorio è quello dove Dante incontra Bonagiunta da Lucca, il poeta che gli chiede se sia “colui che fore / trasse le nove rime” (Purg. XXIV, 49-51). Non è casuale che, poco prima della determinazione di Virgilio su quale via prendere, Stazio, nel racconto della sua conversione, abbia citato i versi della quarta egloga che celebrano la rinnovata età dell’oro: “… Secol si rinova; / torna giustizia e primo tempo umano, / e progenïe scende da ciel nova” (Purg. XXII, 70-72).
Proseguendo nella salita della montagna, Virgilio, Stazio e Dante percorrono dunque il sesto girone, dove si purgano i golosi. Ad esso già li ha volti l’angelo “dietro a noi rimaso”, dove il tema del rimanere, del quinto stato, contrasta con il numero del girone, che corrisponde al sesto stato (Purg. XXII, 1-2). Nel girone il tema del rimanere ricorre ancora in tre luoghi.
Dapprima nelle parole di Forese, che prega Dante di non badare alla sua pelle disseccata e all’assenza di carne, ma di dirgli della sua condizione: “non rimaner che tu non mi favelle!” (Purg. XXIII, 54). L’“asciutta scabbia” e il “difetto di carne” di cui soffrono i golosi sono metamorfosi della “modica virtus” data alla sesta chiesa, che non ha forza per grandi opere come l’ebbero gli stati precedenti ma, in compenso, ha la porta aperta al parlare (Ap 3, 8). Così Forese, con una forma negativa del verbo rimanere, che appartiene al quinto stato, pare voler dire a Dante che è tempo di parlare, apertosi nel sesto stato. Forese spiega anche che per volontà divina “cade vertù ne l’acqua e ne la pianta / rimasa dietro, ond’ io sì m’assottiglio” (ibid., 61-63), confermando di avere “modica virtus” rispetto a qualcosa (l’albero rovesciato sulla soglia del sesto girone) che precede (che ‘rimane’) cui invece questa virtù è stata data.
Il secondo luogo è la terzina (Purg. XXIII, 127-129) dove Dante spiega a Forese che Virgilio lo accompagnerà fino a Beatrice: “quivi convien che sanza lui rimagna”, nel senso di esserne privato che ad Inf. VIII, 109-110 segna una delle prime variazioni sul tema da Ap 12, 17.
Il terzo luogo è nel congedo di Forese. Il tema del rimanere è appropriato a Dante (Purg. XXIV, 91, 98) mentre a Forese, nel paragone con l’uscita dalla schiera del cavaliere che “va per farsi onor del primo intoppo”, sono attribuiti temi dalla “signatio” dell’esercito di Cristo che avviene all’apertura del sesto sigillo (ibid., 94-99; Ap 7, 3). Il tempo della purgazione fa così avanzare sul poeta vivo, che rimane in via, quello morto – “tal si partì da noi con maggior valchi” – già assunto a una più alta milizia cristiana e a una maggiore configurazione in Cristo crocifisso.

■ Il rimanere (tema del quinto stato) e la novità (tema del sesto stato) si registrano, in modo parzialmente simile a quanto si mostra in Purg. XXII, 115-126, in Inf. XXV, nella settima bolgia dove gli uomini, che furono ladri, e i serpenti trasformano vicendevolmente la propria natura nell’altrui forma. Il sesto stato, si è detto, è stato di novità, ma in questo caso il nuovo – la forma umana –, incapace di mantenersi tale, regredisce allo stato bestiale. Il sesto stato corrisponde al sesto giorno della creazione, in cui vennero creati prima i rettili e le bestie irrazionali, poi l’uomo che, come l’ordine evangelico, è fatto a immagine e somiglianza di Dio e domina tutti gli animali (prologo, Notabile XIII). Il tema del rimanere è appropriato a Cianfa, che i tre spiriti (memori dei tre spiriti immondi simili a rane della sesta coppa, Ap 16, 13-14) ritengono rimasto indietro (Inf. XXV, 43: “Cianfa dove fia rimaso?”), e che invece è il serpente “con sei piè” che s’appiglia ad Agnolo Brunelleschi per mutarsi con lui in un’“imagine perversa”. Più di un riferimento è fatto al nuovo, in questo caso incompiuto, del sesto stato. La conversazione tra Dante e Virgilio si interrompe all’arrivo dei tre spiriti (v. 38: “per che nostra novella si ristette”): il parlare è tema precipuo del ‘nuovo’ sesto stato, al quale è dato dire liberamente di Cristo interno dettatore. Dopo la trasformazione tra il Guercio Cavalcanti (il serpente che diventa uomo) e Buoso (l’anima che diventa fiera), il serpente (che come uomo aveva “la lingua … unita e presta / prima a parlar”, mentre ora l’ha divisa) ‘suffola’, e l’uomo (che come serpente trasformato in uomo ha visto richiudersi la lingua biforcuta: questo richiudersi stride con il parlare proprio del sesto stato, che è sempre un parlare aperto) “parlando sputa” (vv. 133-138). L’espressione “Mentre che ’l fummo l’uno e l’altro vela / di color novo” (vv. 118-119) contiene in sé la contraddizione insita nella trasformazione: se infatti il “color novo” è tema del sesto stato, che è lo stato cristiforme in cui si afferma la novità, il velare del fumo rimanda al precedente vecchio stato, il quinto, dove il fumo è tra i principali temi della quinta tromba (Ap 9, 2). Altri riferimenti ad un’horrenda novitas sono le “novelle spalle” dell’uomo che prima era fiera (v. 139) e il riferimento alla “novità” che scusa il poeta “se fior la penna abborra” (vv. 143-144). Anche i numeri tornano, nell’incompiuto progredire tra quinto e sesto stato, perché il serpente “con sei piè” (Inf. XXV, 50) designa il sesto stato, mentre i ladri fiorentini sono cinque (Inf. XXVI, 4-5).
La simmetria tra la bolgia dei ladri e il sesto girone del Purgatorio mostra, nel passaggio dai temi del quinto a quelli del sesto stato, da una parte il massimo estraniarsi dalla forma umana, che mai viene a stabilità; dall’altra la sua massima configurazione. Non è casuale che nella sesta cornice della montagna, dopo l’incontro con Bonagiunta che riconosce la differenza tra le “nove rime” di Dante e la poesia precedente, Stazio tenga la lezione sulla generazione dell’uomo, “come d’animal divegna fante” grazie allo spirare nel feto, da parte del primo motore, di uno “spirito novo, di vertù repleto” (Purg. XXV, 31-78).

■ Il tema del rimanere, accostato a ciò che è “quinto”, si mostra nella trasformazione in aquila delle luci dei beati, che ha luogo nel cielo di Giove (Par. XVIII, 88-114). Ivi Dante vede dei lumi dentro ai quali sante creature volano cantando e, esprimendosi in segni del parlare umano, formano dapprima successivamente le figure delle lettere D, I, L. Le luci si mostrano quindi in trentacinque (“in cinque volte sette”) tra vocali e consonanti, formando cinque parole che insieme costituiscono il primo versetto del libro della Sapienza : “Diligite iustitiam, qui iudicatis terram”. Poi “rimasero ordinate” nella M della quinta e ultima parola (“terram”, Par. XVIII, 94-96). Il poeta vede quindi scendere altre luci sulla sommità della M, “e lì quetarsi / cantando, credo, il ben ch’a sé le move”. Poi, come le faville che sorgono dai tizzoni arsi quando vengono percossi, dalle quali gli stolti superstiziosi sogliono trarre auspici, così si vedono risorgere dal colmo della M più di mille luci, che salgono più o meno in alto secondo l’ordine assegnato a ciascuna da Dio, sole che le accende e, quietatasi ciascuna nel luogo stabilito, formare la testa e il collo di un’aquila. Gli altri beati, che sembravano prima contenti “d’ingigliarsi a l’emme”, con breve movimento seguono l’impronta data dai precedenti. Nei versi danteschi si possono pertanto distinguere due momenti: uno in cui le luci ‘rimangono’ ordinate nella M dopo aver formato la scritta dipinta, e in cui le altre luci discendono e si quietano sul colmo della stessa lettera; l’altro, successivo all’ordinarsi e al quietarsi, nella resurrezione delle seconde luci seguite dalle prime. Questo secondo momento è comunque nettamente staccato rispetto alla fase precedente, della quale è proprio il rimanere. Se tale tema è precipuo del quinto stato, quanto avviene dopo, con la resurrezione e la metamorfosi delle luci nell’aquila, designa il sesto stato. Ciò è confermato dal fatto che, con sorprendente variazione in senso positivo, i versi relativi al secondo momento sono fasciati dai temi, propri della sesta guerra, della resurrezione della testa della bestia “che fu e non è”, figura dell’Anticristo, quasi ucciso per la perdita del regno e poi risorto (Ap 13, 3). La M della quinta parola del “dipinto” è la lettera iniziale di Monarchia, ma anche di Maria, che già altrove si è vista accostata al rimanere (Par. XI, 71).

■ L’immagine del vaso di vino purissimo di cui rimangono, una volta bevuta la parte superiore, maggiore e più pura, solo poche reliquie vicine alle impurità e quasi con esse mescolate, travasa nella parte del discorso di Bonaventura che nel cielo del Sole descrive la decadenza della famiglia francescana (Par. XII, 112-114): la muffa è subentrata alla gromma (che favorisce la conservazione del vino), l’“orbita” tracciata dalla “parte somma” della ruota è “derelitta”, cioè abbandonata (l’“orbita” consuona con l’essere la Chiesa diffusa, prima delle devastazioni saracene, “per totum orbem”; “la parte somma” della ruota traduce la parte superiore del vino – “sicut bibita superiori et puriori et maiori parte vini vasis magni” -; “derelitta” contiene in radice le “reliquie”); in poche carte del “volume” francescano è ancora possibile leggere “I’ mi son quel ch’i’ soglio” (le poche reliquie, ibid., 121-123).
Una variazione sono le parole di san Benedetto sulla decadenza della sua Regola, che “rimasa è per danno de le carte”, dove il rimanere assume una connotazione negativa rispetto alla scala che “s’invola” dal cielo di Saturno verso l’Empireo, assumendo il motivo dell’essere rapiti che nell’esegesi scritturale si contrappone al rimanere (Par. XXII, 67-69, 73-75). Il successivo riferimento alla “farina ria”, che riempie le cocolle dei monaci (ibid., 76-78), può trovare corrispondenza con l’esegesi del versetto successivo dove, tramite un’importante citazione di Gioacchino da Fiore, si tratta della polverosa e sterile “arena” (Ap 12, 18).

Tab. IV.6

Purg. IX, 22-24, 58-60, 136-138

ed esser mi parea là dove fuoro
abbandonati i suoi da Ganimede,
quando fu ratto al sommo consistoro.

Sordel rimase e l’altre genti forme;
ella ti tolse, e come ’l dì fu chiaro,
sen venne suso; e io per le sue orme.

non rugghiò sì né si mostrò sì acra
Tarpëa, come tolto le fu il buono
Metello, per che poi rimase macra.

Par. XI, 70-72

né valse esser costante né feroce,
sì che, dove Maria  rimase giuso,
ella con Cristo pianse in su la croce.

Par. XII, 112-114, 121-123; XXII, 68-69, 73-75

Ma l’orbita che fé la parte somma
di sua circunferenza, è derelitta,
sì ch’è la muffa dov’ era la gromma.

Ben dico, chi cercasse a foglio a foglio
nostro volume, ancor troveria carta
u’ leggerebbe “I’ mi son quel ch’i’ soglio”

e nostra scala infino ad essa varca,
onde così dal viso ti s’invola.

Ma, per salirla, mo nessun diparte
da terra i piedi, e la regola mia
rimasa è per danno de le carte.

[LSA, cap. XII, Ap 12, 17 (IVa visio, Vum prelium)] Dicit ergo: “Et iratus est dracho in mulierem” (Ap 12, 17). Nota quod quanto plus et pluries videt se vinci ab ecclesia et prole eius, tanto maiori ira exardescit ad illam fortius temptandam et deiciendam.
“Et abiit facere bellum cum reliquis de semine eius, qui custodiunt mandata Dei et habent testimonium Ihesu”, id est fidelem confessionem Christi per quam testimonium perhibent de Christo. Duo ponit necessaria ad salutem, scilicet observantiam mandatorum et fidem Christi exteriori professione et confessione expressam.
Ioachim dicit quod semen mulieris est Christus raptus ad tronum cum martiribus suis, et istud semen precesserat; aliud autem remanserat designatum in Iohanne evangelista, scilicet ordo monachorum quarti temporis meridianam plagam incolentium. Et ideo vocat eos reliquos seu residuos de semine mulieris.
Videtur tamen quod post Christum et martires ubique dispersos egit de ecclesia post Constantinum in unum collecta et duabus alis, id est duobus ordinibus doctorum scilicet et anachoritarum altivolis, adornata et in altum sublevata, et tam in deserto gentilitatis quam in deserto contemplative solitudinis alimentum sue refectionis habente. Post hoc autem restabat agere de reliquis tam predicti temporis quam de reliquis in quinto statu relictis. Utrique enim signanter vocantur reliqui seu reliquie, quia sicut bibita superiori et puriori et maiori parte vini vasis magni restant pauce reliquie cum fecibus quibus sunt propinque et quasi commixte, sic de plenitudine purissimi vini doctorum et anachoritarum tertii et quarti temporis remanserunt reliquie circa tempora Sarracenorum; ac deinde pluribus ecclesiis per Sarracenos vastatis et occupatis, Grecisque a romana ecclesia separatis, remansit in quinto tempore sola latina ecclesia tamquam reliquie prioris ecclesie per totum orbem diffuse. De utrisque ergo reliquiis simul agit, tum quia in utrisque remissio habundavit respectu perfectionis priorum, tum quia bestia sarracenica contra utrosque pugnavit quamvis primo contra primos.

Purg. XXII, 1-6, 115-126

Già era l’angel dietro a noi rimaso,
l’angel che n’avea vòlti al sesto giro,
avendomi dal viso un colpo raso;
e quei c’hanno a giustizia lor disiro
detto n’avea beati, e le sue voci
con ‘sitiunt ’, sanz’ altro, ciò forniro.

Tacevansi ambedue già li poeti,
di novo attenti a riguardar dintorno,
liberi da saliri e da pareti;
e già le quattro ancelle eran del giorno
rimase a dietro, e la quinta era al temo,
drizzando pur in sù l’ardente corno,
quando il mio duca: “Io credo ch’a lo stremo
le destre spalle volger ne convegna,
girando il monte come far solemo”.
Così l’usanza fu lì nostra insegna,
e prendemmo la via con men sospetto     9, 13; 12, 6
per l’assentir di quell’ anima degna.

Purg. IV, 43-45, 79-81

Io era lasso, quando cominciai:
“O dolce padre, volgiti, e rimira
com’ io rimango sol, se non restai”.

che ’l mezzo cerchio del moto superno,
che si chiama Equatore in alcun’ arte,
e che sempre riman tra ’l sole e ’l verno

Par. XVIII, 94-108

Poscia ne l’emme del vocabol quinto
rimasero
ordinate; sì che Giove
pareva argento lì d’oro distinto.
E vidi scendere altre luci dove
era il colmo de l’emme, e lì quetarsi
cantando, credo, il ben ch’a sé le move.
Poi, come nel percuoter d’i ciocchi arsi
surgono innumerabili faville,
onde li stolti sogliono agurarsi,
resurger parver quindi più di mille  13, 3
luci e salir, qual assai e qual poco,
sì come ’l sol che l’accende sortille;
e quïetata ciascuna in suo loco,
la testa e ’l collo d’un’aguglia vidi
rappresentare a quel distinto foco.

Purg. XXIII, 49-54, 61-63, 127-129; XXIV, 91-99

“Deh, non contendere a l’asciutta scabbia
che mi scolora”, pregava, “la pelle,
a difetto di carne ch’io abbia ;        3, 8
ma dimmi il ver di te, dì chi son quelle
due anime che là ti fanno scorta;
non rimaner che tu non mi favelle ! ”.

Ed elli a me: “De l’etterno consiglio
cade vertù ne l’acqua e ne la pianta
rimasa dietro, ond’ io sì m’assottiglio.”

Tanto dice di farmi sua compagna
che io sarò là dove fia Beatrice;
quivi convien che sanza lui rimagna.

“Tu ti rimani omai; ché ’l tempo è caro
in questo regno, sì ch’io perdo troppo
venendo teco sì a paro a paro”.
Qual esce alcuna volta di gualoppo
lo cavalier di schiera che cavalchi,         7, 3
e va per farsi onor del primo intoppo,
tal si partì da noi con maggior valchi;
e io rimasi in via con esso i due
che fuor del mondo sì gran marescalchi.

Inf. XXV, 34-51; XXVI, 4-5

Mentre che sì parlava, ed el trascorse,
e tre spiriti venner sotto noi,                   16, 13-14
de’ quai né io né ’l duca mio s’accorse,
se non quando gridar: “Chi siete voi?”;
per che nostra novella si ristette,
e intendemmo pur ad essi poi.
Io non li conoscea; ma ei seguette,
come suol seguitar per alcun caso,
che l’un nomar un altro convenette,
dicendo: “Cianfa dove fia rimaso?”;
per ch’io, acciò che ’l duca stesse attento,
mi puosi ’l dito su dal mento al naso.
Se tu se’ or, lettore, a creder lento
ciò ch’io dirò, non sarà maraviglia,
ché io che ’l vidi, a pena il mi consento.
Com’ io tenea levate in lor le ciglia,
e un serpente con sei piè si lancia
dinanzi a l’uno, e tutto a lui s’appiglia.

Tra li ladron trovai cinque cotali
tuoi cittadini onde mi ven vergogna

 

Altri aspetti dello sviluppo dell’esegesi di Ap 12, 17 sono trattati altrove.

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[1] La donna vestita di sole, di cui parla la quarta visione (Ap 12, 1-14, 20), la quale sostiene sette guerre, è la Vergine Madre che partorisce il corpo mistico di Cristo, e quindi anche la Chiesa, in special modo quella primitiva; cfr. ad Ap 12, 1-2: «Quartum (radicale) vero, huic annexum, est ad Christum tam verum quam misticum in eius spiritali utero conceptum et in gloriam pariendum fortis cruciatio. Unde de eius adornatione subditur (Ap 12, 1): “Et signum magnum apparuit in celo”, id est in celesti statu Christi, scilicet “mulier amicta sole, et luna sub pedibus eius, et in capite eius coronam stellarum duodecim”. De parturitionis autem cruciatu subditur (Ap 12, 2): “Et in utero habens et clamat parturiens et cruciatur ut pariat”. Mulier ista, per singularem anthonomasiam et per specialem intelligentiam, est virgo Maria Dei genitrix. Per generalem vero intelligentiam, hec mulier est generalis ecclesia et specialiter primitiva. Virgo enim Maria et in utero corporis et in utero mentis Christum caput concepit et habuit, et in utero cordis totum corpus Christi misticum habuit  sicut mater suam prolem».

[2] Nel venire e non rimanere, Dante si comporta come quei santi perfetti del quinto stato che condiscendono solo per la carità e l’utilità degli infermi senza per questo macchiarsi di impurità; essi conseguono la quinta vittoria (Ap 3, 5).

[3] Cfr. Dante all’«alta guerra» tra latino e volgare, 2. 3 (Piangere in ogni lingua), tab. IV.

[4] Alla “superba libertas” delle chiese d’Oriente e alla “superba indomabilitas” degli anacoreti dall’alta e ardua vita, fiorenti nel quarto stato, le une e gli altri distrutti dai Saraceni, è assimilata “l’altezza de’ Troian che tutto ardiva” volta in basso dalla fortuna (Inf. XXX, 13-14).

[5] Il rimanere, appropriato alla pelle di Giuda rimasta spoglia a causa dei graffi di Lucifero – che trasforma il tema di ciò che rimane nel quinto stato dopo le devastazioni subite dal quarto -, si inserisce in un contesto, e ne è come la conseguenza, segnato da una delle metamorfosi dell’espressione “per un tempo, (due) tempi e la metà di un tempo” presente ad Ap 12, 14 nell’esegesi congiunta della terza e della quarta guerra, ossia dei due stati precedenti al quinto, metamorfosi che si ritrova nelle tre facce della testa di Lucifero e nei tre peccatori che maciulla coi denti. I tre anni e mezzo, designati dall’espressione “per un tempo, (due) tempi e la metà di un tempo”, indicano anche il periodo di tribolazione ad opera dell’Anticristo, secondo quanto affermato in Daniele 7, 25 del re undecimo che distruggerà i santi dell’Altissimo.