INDICE GENERALE
INTRODUZIONE (II)
II
La preghiera di san Bernardo alla Vergine
[3] = numero dei versi. 12, 1-2 = collegamento ipertestuale all’esegesi, nella Lectura di Olivi, di capitolo e versetto dell’Apocalisse [Ap]. Not. VII = collegamento ipertestuale all’esegesi contenuta nei tredici notabilia del prologo della Lectura.Qui di seguito viene esposto Paradiso XXXIII con i corrispondenti legami ipertestuali con i luoghi della Lectura super Apocalipsim ai quali i versi si riferiscono. L’intero poema è esposto nella Topografia spirituale della Commedia (PDF; introduzione in html). |
Paradiso XXXIII |
« Vergine Madre, figlia del tuo figlio, 12, 1-2; qu. de angelicis influentiis
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- Vergine madre (v. 1; Tab. 15)
Della donna vestita di sole, che tiene la luna sotto i piedi ed è cinta sul capo da una corona di dodici stelle (Ap 12, 1), si dice: “Era incinta e gridava partorendo e si doleva per partorire” (Ap 12, 2). Questa donna è per antonomasia la Vergine Maria genitrice di Dio; in generale designa la Chiesa, soprattutto quella primitiva. La Vergine, infatti, se concepì nell’utero del corpo e della mente Cristo, portò anche nell’utero del cuore l’intero corpo mistico di Cristo, come fosse la sua prole. Costei chiama gridando, sia col gemito dei sospiri sia col suono della predicazione, nel partorire Cristo che sarà crocifisso e che per la croce risorgerà manifestamente nella gloria del Padre, partorendo insieme con grave angustia il corpo mistico del figlio che sarà rigenerato nella grazia e nella gloria di Dio, che è anche il Cristo che si formerà e nascerà nei cuori.
Nel girone degli avari e prodighi purganti, una voce, che si rivelerà essere quella di Ugo Capeto, propone esempi di povertà e liberalità. È una voce che ‘chiama’ nel pianto, “come fa donna che in parturir sia”, e che loda la povertà di Maria, “unica sposa de lo Spirito Santo”, attributo che è proprio anche della Chiesa (Purg. XX, 19-24, 97-99). Nel girone successivo, i golosi piangono e cantano il salmo 50, 17, “‘Labïa mëa, Domine’ per modo / tal, che diletto e doglia parturìe” (Purg. XXIII, 10-12; cfr. Ap 10, 9, dove la passione di Cristo, equivalente agli effetti del libro dato a Giovanni, viene proposta come dolce e amara insieme).
La Vergine Maria, “chiamata in alte grida”, assistette la madre di Cacciaguida nelle doglie del parto (Par. XV, 133).
Essere donna che partorisce Cristo in croce, cioè il suo corpo mistico nella prima generazione e formazione della Chiesa, spetta, afferma Olivi, alla Vergine madre (ad Virginem matrem). Essa fu coronata da dodici stelle, perché in vita sostenne dodici guerre riportando altrettante vittorie (il francescano qui rinvia a una sua quaestio) [1]. Nel cielo Stellato, dove le trionfali schiere di Cristo discendono dall’Empireo, Dante vede la Vergine come “coronata fiamma” dall’“amore angelico”; essa è “viva stella / che là su vince come qua giù vinse” (Par. XXIII, 91-96, 119).
- figlia del tuo figlio (v. 1; Tab. 15)
Si è già accennato alla dottrina dello Pseudo Dionigi, contenuta nel De angelica hierarchia e citata da Olivi ad Ap 21, 21, secondo la quale, sebbene la gloria di tutti i beati provenga da Dio, tuttavia coloro che hanno un grado inferiore per merito si troveranno connessi alla gloria dei loro superiori e si gioveranno del loro aiuto entrando, attraverso la gloria intermedia di questi, quasi per specchi chiari e per vetri tersi e per porte, in un più chiaro e alto atto di contemplazione e di fruizione di Dio.
Nella quaestio de angelicis influentiis, Olivi pone la Vergine al di sopra della gerarchia angelica. La sua mente vede e gusta il Verbo suo figlio, cosa che nessun angelo poté mai sperimentare in sé, ma che ora può sperimentare tramite essa. L’anima della Vergine ama e loda Dio in modo più alto e fervido di qualunque angelo; può, e vuole, pertanto infiammare, esortare e trarre gli angeli a più alto amore e lode. Fa ciò guardando gli angeli, che ama come suoi figli e figli del suo figlio (“quos diligit ut suos filios et ut filios filii sui”).
Se Dante, che aderisce alla dottrina dionisiana proposta da Olivi, fondamento della “dolce vita” differenziata nel Paradiso, ha avuto presente la quaestio de angelicis influentiis, ha trasferito il legame fra la Vergine e gli angeli, ‘figli del suo figlio’, sulla stessa Vergine, “figlia del tuo figlio”, completando in tal modo la scala ascendente. Possibile immagine di come gli angeli, guardando la Vergine, provano amore e giubilo prima sconosciuto (“videntes in ea Dei amorem et iubilum eis ab initio inexpertum”) è l’arcangelo Gabriele, “quell’angel che con tanto gioco / guarda ne li occhi la nostra regina, / innamorato sì che par di foco”, al cui canto “ogne vista sen fé più serena” (Par. XXXII, 94-105).
- termine fisso d’etterno consiglio (v. 3; Tab. 15)
Il capitolo XIV dell’Apocalisse si apre con la descrizione della virtù e della gloria dei santi del sesto stato che hanno vinto le persecuzioni dell’Anticristo e stanno con l’Agnello sul monte Sion. La quarta delle sette prerogative attribuite a questi compagni dell’Agnello consiste nell’eccellenza del cantico di giubilo, a sua volta magnificato in sette modi. Il quarto modo, o proprietà, della voce cantante è di essere oltremodo soave, giocosa, modulata e proporzionata (Ap 14, 2): “e la voce che udii era come quella dei citaristi che si accompagnano nel canto con le loro arpe”. Secondo Gioacchino da Fiore, la parte vuota della cetra designa la povertà volontaria: come infatti un vaso musicale non suona bene se non sia concavo, così neppure la lode di Dio risuona bene se non proceda da una mente umile e svuotata delle cose terrene.
Le corde della cetra – afferma Olivi – sono le diverse virtù, che non suonano se non siano tese, e non concordano se non siano proporzionate l’una con l’altra e non vengano toccate in ugual proporzione. È infatti necessario che gli affetti virtuali siano protesi in modo fisso e attento verso i loro termini e oggetti e che, secondo le dovute circostanze, una virtù e i suoi atti concordino in modo proporzionato con le altre virtù e i loro atti e che essi siano congiunti in modo concorde, cosicché il rigore della giustizia non escluda né venga a turbare la dolcezza della misericordia né al contrario, oppure una lieve mitezza impedisca il dovuto zelo della santa correzione e ira, o al contrario. La cetra è Dio stesso, o l’universa sua opera, della quale ciascuna parte o perfezione è una corda che, toccata dall’affetto del contemplante o del lodatore, rende con le altre una risonanza mirabilmente giocosa. Citarista è solo colui che, da maestro, ha l’arte e il frequente uso (il “magister artificiose citharizandi”). Gli altri suonano in modo discordante e rustico o senz’arte, e se talvolta compulsano bene, ciò è dovuto al caso piuttosto che alla prudenza dell’artista.
Su questo passo del “panno” esegetico la “gonna” mostra molte cuciture. La stessa “dolce vita” differenziata vi s’appiglia, quasi il diverso grado di beatitudine assegnato alle anime in misura del merito fosse un divino suonare la cetra degli affetti nelle sue diverse corde, toccando ora quella della giustizia ora quella della dolce misericordia, come affermato da Giustiniano a Par. VI, 121-126.
“Fissi e attenti” sono gli occhi di Dante nel “caldo … caler” dell’ardente Bernardo, il contemplativo i cui affetti sono tutti protesi verso il suo oggetto – la Vergine – come le corde di una cetra compulsata “per affectuales considerationes contemplantis”: “Affetto al suo piacer, quel contemplante” (Par. XXXI, 139-142; XXXII, 1). I devoti affetti delle orazioni spirano amore dai cuori dei santi designati dalle coppe (“phiale”: Ap 5, 8, passo che subisce numerose variazioni).
La cetra è Dio stesso, l’artista ha teso le sue corde ab aeterno verso l’umana redenzione, per cui la Vergine madre fu “termine fisso d’etterno consiglio”.
Da rilevare, al v. 41 – “Li occhi da Dio diletti e venerati, / fissi ne l’orator …” – la variante fisso, avverbio, recata dall’Ottimo (“Oportet enim affectus virtuales ad suos fines et ad sua obiecta fixe et attente protendi”).
[1] Cfr. la quaestio De duodecim victoriis beatae Virginis habitis in duodecim praeliis tentationum, in PETRUS IOANNIS OLIVI O. F. M., Quaestiones quatuor de domina, ed. D. PACETTI, Quaracchi, Florentiae, 1954 (Bibliotheca Franciscana Ascetica Medii Aevi, VIII), pp. 23-44 (Quaestio II): “(pp. 33-34) Mulier autem amicta sole, id est deitate et solari sapientia et caritate Christi; sub pedibus lunam habens, id est temporalia et creata; stansque in caelo, id est in supercaelestibus mente et contemplatione stabiliter fixa; habensque in utero, id est in viscerali et maternali affectu, Filium Dei et totum Christum mysticum, id est caput cum toto corpore electorum, triumphat de dracone rufo septem capita habente per partus cruciatum et per filii raptum ad Dei thronum et per volatum in desertum alis magnae aquilae sibi datis; ita quod in fine possidet super montem Sion, id est contemplativi ascensus et status, Agnum cum centum quadraginta quatuor milibus agnis in fronte signatis, et citharizantibus in citharis suis, et incoinquinatis et sequentibus Agnum quocumque ierit (cfr. Ap 14, 1-4): quae designant irretentibilem et imperturbabilem raptum et volatum ad obedientiam et ad imitationem, seu participationem et sequelam, et ad laudem et gloriam magni Dei […] (pp. 35-36) Item, in mysteriis procedere ab inferioribus membris ad suprema et a corpore ad caput, non est descendere, immo ascendere; ergo quando dicimus per has mulieres significari Ecclesiam Christi Matri subiectam, ac deinde dicimus per eas significari ipsam Christi Matrem, non descendimus, immo ascendimus et in radice mysteriorum intramus. Et certe mulier amicta sole, habens Christum in utero et pariens ipsum, sic designat Ecclesiam quod multo proprius et singularius exprimit Christi Matrem. Scripturarum enim mysteria sic sunt a Deo artificiose et ingeniose contexta, ut in generalibus includantur specialia, et in communibus propria, et e converso; et ideo saepius transeunt de specie ad genus et de genere ad speciem”.
Tab. 15
[LSA, cap. XII, Ap 12, 1-2 (IVa visio, radicalia)] Tertium radicale est tam corporalis matris Christi quam primitive ecclesie spiritalis matris eius admirabilis adornatio.
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Par. XXIII, 88-96, 118-120Il nome del bel fior ch’io sempre invoco
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Fr. P. I. OLIVI quaestio de angelicis influentiis, ed. F. Delorme, in S. Bonaventurae … Collationes in Hexaëmeron et bonaventuriana quaedam selecta, Ad Claras Aquas, Florentiae, 1934, pp. 402-403.Praeterea, constat secundum fidem Ecclesiae quod Mater Dei est super omnes ordines angelorum exaltata; ergo ipsa prius et immediatius et copiosius suscipit divina secreta et divina lumina quam aliquis eorum; ergo plus potest influere et revelare quam ipsi. – Praeterea, constat quod mens Matris Dei fertur in personam Verbi tamquam in proprium et naturalem filium: amat enim et gustat et videt eum ut filium et videt se ab eo aspici et honorari et amari ut matrem; hoc autem nullus angelus potest aut potuit in se ipso experiri, nunc autem huiusmodi vident et experiuntur in ipsa; sed haec non potest quis videre et amare et experiri quin eo ipso aliquid altius experiatur de secretis divini amoris et splendoris. – Praeterea, constat quod anima Virginis incomparabiliter ferventius et altius amat et laudat Deum quam aliquis angelorum; ergo fortius potest alios inflammare et cohortari et trahere ad hoc ipsum. Nec solum sequitur quod hoc plus possit, sed etiam quod plus hoc facere velit. Numquid enim ipsa aspiciens omnes angelos, quos diligit ut suos filios et ut filios filii sui, invitat et trahit ad laudem et amorem filii sui tam exemplo quam efficaci auxilio? Aut numquid ipsi, videntes in ea Dei amorem et iubilum eis ab initio inexpertum, assurgunt ad aliquam Dei laudem ad quam non assurgebant prius quam hoc experirentur in ea?[LSA, cap. XXI, Ap 21, 18.21 (VIIa visio)] Nota quod, secundum doctrinam Dionysii in libro de angelica hierarchia sane et subtiliter intellectam, hii qui fuerunt fundamenta vel porte in statu meriti seu gratie multo gloriosius hec erunt in statu premii et glorie. Quamvis enim totus habitus glorie inferiorum sit immediate a Deo, sic tamen erit connexus glorie suorum superiorum ac si in ipsa fundetur et conradicetur, sicut secundaria membra corporis quasi fundantur et radicantur in virtute cerebri, cordis et [e]patis. Inferiores etiam mi[ni]sterialiter iuvabuntur per intermediam gloriam superiorum, quasi per specula clara et quasi per vitrum perspicuum et quasi per portas intrent in clariorem et altiorem actum visionis et fruitionis Dei. Qualiter autem hoc sit et esse possit declaravi plenius in lectura super librum angelice hierarchie prefate. |
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[LSA, cap. XIV, Ap 14, 2 (IVa visio, VIum prelium)] Quarto erat suavissima et iocundissima et artificiose et proportionaliter modulata, unde subdit: “et vocem, quam audivi, sicut citharedorum citharizantium cum citharis suis”. Secundum Ioachim, vacuitas cithare significat voluntariam paupertatem. Sicut enim vas musicum non bene resonat nisi sit concavum, sic nec laus bene coram Deo resonat nisi a mente humili et a terrenis evacuata procedat.
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Par. XXXI, 139-142; XXXII, 1-3, 149-151; XXXIII, 1-3, 40-42Bernardo, come vide li occhi miei
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Vergine Madre, figlia del tuo figlio,
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Purg. II, 118-120; XXXII, 1-3
Noi eravam tutti fissi e attenti
a le sue note; ed ecco il veglio onesto
gridando: “Che è ciò, spiriti lenti?”
Tant’ eran li occhi miei fissi e attenti
a disbramarsi la decenne sete,
che li altri sensi m’eran tutti spenti.
Par. VI, 121-126
Quindi addolcisce la viva giustizia
in noi l’affetto sì, che non si puote
torcer già mai ad alcuna nequizia.
Diverse voci fanno dolci note;
così diversi scanni in nostra vita
rendon dolce armonia tra queste rote.
[LSA, cap. V, Ap 5, 8 (radix IIe visionis)] Phiale [igitur] iste sunt corda sanctorum per sapientiam lucida, per caritatem dilatata, et per con-templationem splendidam et flammeam aurea, et per devotarum orationum redundantiam odo-ramentis plena. Sicut enim odoramenta per ignem elicata sursum ascendunt totamque domum replent suo odore, sic devote orationes ad Dei presentiam ascendunt et pertingunt, eique suavissime placent et etiam toti curie celesti et subcelesti. Sicut [etiam] diffusio odoris spiratur invisibiliter ab odoramentis, sic devote affectiones orantium spirantur invisibiliter et latissime diffunduntur ad varias rationes dilecti et ad varias rationes sancti amoris, prout patet ex multiformi varietate sanctorum affectuum qui exprimuntur et exercentur in psalmis.
- umile e alta più che creatura (v. 2) … Tu sei colei che l’umana natura / nobilitasti (vv. 4-5; Tab. 16)
Nella Lectura la riverenza di Giovanni verso l’angelo viene considerata in due punti distinti. Nel primo (Ap 19, 10), riferito al sesto stato (nella trattazione della festa nuziale che si tiene dopo la distruzione di Babylon), l’angelo vieta a Giovanni, che designa i discepoli spirituali che riveriscono in sommo grado i propri santi dottori e in particolare quelli che promettono cose alte e gloriose, di riverirlo e adorarlo non come una creatura adora Dio, ma cadendogli ai piedi come un servo onora il suo padrone creato con servile soggezione: “Allora caddi dinanzi ai suoi piedi per adorarlo”. L’angelo non tollera questo tipo di adorazione (anche se la tollerava nell’Antico Testamento) e ingiunge a Giovanni di non farlo: “ma egli mi disse: Non farlo! Sono conservo tuo”, cioè con te e come te sono servo del medesimo Dio e Signore. Affinché non si creda che dica questo con riferimento al solo Giovanni, a motivo della sua singolare eccellenza, e non anche a tutti gli uomini servi di Cristo, aggiunge: “e (sono conservo) di tutti i tuoi fratelli che custodiscono la testimonianza di Gesù”, che cioè con perfetto cuore testimoniano che Gesù è Dio e Signore di tutti e salvatore e redentore degli uomini. L’angelo specifica chi si debba adorare: “Adora Dio”. Spiega quindi cosa sia la testimonianza di Gesù: “La testimonianza di Gesù è lo spirito della profezia”, cioè la profezia o la predicazione spirituale di Cristo è testimonianza di lui, come dicesse: tutti quelli che servono Cristo predicando tramite il suo Spirito o confessando la sua fede sono servi di Cristo come lo sono io, e perciò siamo tra noi uguali. Oppure testimoniare Cristo significa credere alla sua spirituale profezia e dottrina, perché questa dà testimonianza a Gesù. L’angelo proibisce il modo di adorazione servile, proprio della vecchia legge, sia per la dignità che deriva al genere umano dall’essere l’umana natura di Cristo già esaltata nella sede di Dio, sia perché quel tipo di adorazione compete unicamente a Dio, sia perché nello stato di umiltà evangelica i santi prelati non permettono di essere onorati servilmente dai loro sottoposti, nei confronti dei quali non si pongono come padroni, ma come ministri e servi, secondo l’esempio e la parola di Cristo: “Chi è il più grande tra voi diventi come il più piccolo. Io sto in mezzo a voi come colui che serve” (Luca 22, 26-27). Così Pietro, principe degli apostoli e sommo pontefice della Chiesa, non permise che il centurione Cornelio, inginocchiatosi, lo adorasse servilmente, anzi lo fece levare dicendo: “Anch’io sono uomo come te” (Atti degli Apostoli 10, 26).
Un passo simmetrico è nella settima visione, dopo la dimostrazione della gloria della sposa e della nuova Gerusalemme (Ap 22, 8-9). In entrambi gli stati, il sesto e il settimo, quanto sarà più alta la contemplazione della gloria dello sposo e della sposa, tanto maggiore sarà l’umiliarsi non solo dinanzi a Dio ma anche dinanzi ai dottori spirituali che mostrano tanta gloria. Quanto maggiore sarà l’umiliarsi nei discepoli, tanto maggiore sarà anche nei maestri, cosicché gli angeli saranno letteralmente familiari e come compagni e conservi dei profeti, cioè dei dottori, e dei discepoli “che custodiscono le parole della profezia”, cioè della dottrina, “di questo libro”. Ivi viene sviluppato il tema della gara tra l’essere alto e umile – la “beata contentio evangelice humilitatis” -, per cui i maestri rifuggono dall’onore dato dai discepoli, i quali tuttavia non cessano di onorarli.
Il tema del riverire si ritrova in numerosi punti della Commedia. Ad Ap 19, 10 più di un commentatore ha ricondotto la proibizione di essere riverito fatta da papa Adriano V che purga l’avarizia (Purg. XIX, 127-138). Si può notare, in questo caso, la presenza nelle terzine di temi estranei al testo dell’Apocalisse, ma presenti nel commento dell’Olivi: l’inginocchiarsi (come il centurione Cornelio), la dignità (che Dante, erroneamente, intende quella terrena e non quella esaltata dal Cristo uomo), le parole “conservo sono / teco e con li altri ad una podestate” (il testo scritturale ha solo “conservus tuus sum”). Una variante è “la reverenza de le somme chiavi” che vieta al poeta di usare “parole ancor più gravi” contro il simoniaco Niccolò III (Inf. XIX, 100-103). Da notare che il riverire il papa (l’ufficio, non la persona), sentito e almeno in parte applicato come freno da Dante nella bolgia infernale (“Io non so s’i’ mi fui qui troppo folle, / ch’i’ pur rispuosi a lui a questo metro”, vv. 88-89), è vietato proprio da un papa nel quinto girone del purgatorio, così come nell’Antico Testamento il riverire non è vietato, mentre lo è nel Nuovo. Altra variante è il divieto imposto da Virgilio a Stazio che tenta di abbracciargli i piedi, e in ciò l’antico poeta pagano assume la veste degli umili dottori del sesto stato, “qui tam alta et gloriosa promittunt et docent” (Purg. XXI, 130-132). Stazio risponde con il tema dell’ “amor fratris”, secondo l’interpretazione del nome della sesta chiesa, Filadelfia (vv. 133-136).
Camminando sull’argine che lo protegge dal sabbione su cui piove fuoco, Dante tiene il capo chino, “com’ uom che reverente vada”, verso il suo maestro Brunetto Latini, che tuttavia pare primo nell’umiliarsi dicendo: “Però va oltre: i’ ti verrò a’ panni”, cioè procedendo più in basso col capo che sfiora la veste del poeta (Inf. XV, 40, 43-45). L’umiliarsi di Brunetto è tuttavia obbligato dalla sua pena che lo costringe in basso nel sabbione, mentre il discepolo, portato dai margini di pietra del Flegetonte, è elevato su di lui. Il tema della gara d’umiltà è già presente al momento dell’incontro e del riconoscimento del maestro da parte del discepolo: prima Brunetto, che sta più in basso, prende Dante “per lo lembo”, cioè per la veste, gridando la sua meraviglia, poi Dante china la mano verso la faccia di lui (vv. 22-30). Al maestro che gli promette glorioso porto e tanto onore il poeta si dichiara pronto a ‘serbare’ la profezia fattagli (vv. 88-90).
Virgilio non vieta, anzi impone a Dante il riverire di fronte al messo celeste che apre la porta della Città di Dite (Inf. IX, 86-87), dinanzi a Catone (Purg. I, 49-51) e all’angelo portiere del purgatorio (che tiene le chiavi in luogo di Pietro), il quale però ha il segno dell’umiltà nella veste color cenere o terra secca (Purg. IX, 106-111, 115-116). Passata la porta del purgatorio – vero e proprio accesso al sesto stato della Chiesa -, il primo angelo, quello dell’umiltà, è vestito dei temi della “beata contentio”: egli si appresta a compiere la propria funzione quando “l’ancella sesta” ha compiuto il suo “servigio del dì”, ossia quando è già passato mezzogiorno (e dunque l’angelo, come l’ora, è “conservus”; il meriggio è appunto l’ora del sesto stato), mentre Virgilio invita Dante a riverire la “creatura bella” (Purg. XII, 79ss.).
La riverenza di fronte al nome della sua donna, “pur per Be e per ice”, “s’indonna” di tutto il poeta, che nel dubbio non ha sufficiente ardimento a chiedere (Par. VII, 13-15). È un riverire “sicut servus vehementer et cum servili subiectione honorat suum dominum creatum” -, ma che Beatrice, come l’angelo di Ap 19, 10, tollera per poco tempo (v. 16). Simile atteggiamento è già presente nell’Eden, dove al poeta avviene di non riuscire a tirare fuori la voce dinanzi a Beatrice e di cominciare a parlarle “sanza intero suono”, come capita “a color che troppo reverenti / dinanzi a suo maggior parlando sono”: la donna gli si rivolge per prima con umiltà, chiamandolo “frate” e invitandolo a domandare, poiché vuole che Dante si liberi da timore e da vergogna, “sì che non parli più com’ om che sogna” (Purg. XXXIII, 22-33). L’umiltà di Beatrice è accostabile anche al proporsi di Giovanni, autore del libro, come fratello anziché come maestro, pur avendone diritto, così da attirare i propri interlocutori e persuaderli con l’umiltà e la dolcezza della fraternità (Ap 1, 9).
Nel corso del viaggio, il personaggio-Dante si libera sempre più dal riverire, quasi in un passaggio dal servilismo del Vecchio Testamento alla libertà del Nuovo.
L’accenno nell’esegesi alla “dignitas humani generis” esaltata dall’umanità di Cristo (Ap 19, 10) e il tema della contesa fra l’essere alto e l’umiltà (Ap 22, 8-9) sono accostabili alla preghiera di san Bernardo alla Vergine, “umile e alta più che creatura”, la quale nobilitò la natura umana “sì, che ’l suo fattore / non disdegnò di farsi sua fattura”, cioè di umiliarsi nell’incarnazione (Par. XXXIII, 4-6; cfr. Par. VII, 118-120).
Nella quaestio sulle dodici vittorie di Maria, in precedenza ricordata, un passo è particolarmente significativo. La Vergine si umiliò con il Figlio fin nel profondo inferno, senza essere toccata dalla minima scintilla di concupiscenza o superbia, per poi ascendere altamente in Dio.
Mandatur autem peti contra praedicta duplex signum, in Virgine consummatum, scilicet in profundum inferni (Is. 7, 4) et in excelsum supra (Is. 7, 11), tum quia profundum infernalis concupiscentiae fuit prius in Virgine penitus ligatum et consopitum, et postmodum funditus extinctum et radicitus extirpatum, et summa altitudo superbiae et vanae gloriae, quae ex singulari praerogativa virtutum et meritorum et ex regali et summa dignitate maternitatis Dei oblata poterat occasionaliter Virgini contigisse, non habuit minimam scintillam in ipsa, quin potius turbata est cum audivit ab angelo: Ave, gratia plena (Luc. 1, 28); tum quia sicut eius Filius se ipsum exinanivit et humiliavit (Phil. 2, 7-8) usque ad inferos, ac deinde, infernum spolians, ascendit ad caelos et ad dexteram Dei Patris (cfr. Is. 57, 9; Marc. 16, 19; Eph. 4, 9-10; Col. 2, 15), sic Virgo usque ad inferos se subicit et humiliat Deo, et sic alte ascendit in Deum, ut non solum sua caritate, sed etiam sua carne vestiat eum et incorporet ipsum sibi [1].
Non diversamente Beatrice discese all’“uscio d’i morti” per salvare l’amico senza inquinarsi e poi tornò all’Empireo: “I’ son fatta da Dio, sua mercé, tale, / che la vostra miseria non mi tange, / né fiamma d’esto ’ncendio non m’assale” (Inf. II, 91-93; Purg. XXX, 139).
[1] De duodecim victoriis, pp. 37-38.
Tab. 16
[19, 10] Prima est ad monstrandum dignitatem humani generis, quam in exaltatione humanitatis Christi seu Christi hominis acceperunt, ac si diceret: quia iam supra nos in sede Dei exaltatum Christum hominem video et adoro, ideo amodo me ab homine in Christum credente adorari non permitto. |
[22, 8-9] Nota tamen quod Iohannes bis adoravit, id est humillime prostratus honoravit eum, et bis prohibitus est ab eo: primo scilicet in sexto statu, ubi post destructionem Babilonis agitur de festo et nuptiis sponse; et secundo hic in septimo, postquam ostendit gloriam sponse et nove Iherusalem. In utroque enim statu, quanto erit altior contemplatio glorie sponsi et sponse, tanto erit profundior humiliatio non solum ad Deum, sed etiam ad spiritales doctores et demonstratores tante glorie. |
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[LSA, cap. XIX, Ap 19, 10 (VIa visio)] Quia vero spiritales discipuli, per Iohannem hec ab angelo di[s]centem designati, summe reverentur suos sanctos doctores et precipue illos qui tam alta et gloriosa promittunt et docent, idcirco subditur (Ap 19, 10): “Et cecidi ante pedes eius, ut adorarem eum”, non scilicet sicut creatura Deum, sed sicut servus vehementer et cum servili subiectione honorat suum dominum creatum. Et tamen angelus in veteri testamento se sic ab homine adorari sustinebat, non autem sustinet hic, immo prohibet, unde subditur: “Et dixit michi: Vide ne feceris”, scilicet talem reverentiam michi. Cuius causam subdit dicens: “Conservus tuus sum”, id est tecum et sicut tu sum servus eiusdem Dei et Domini.
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Inf. IX, 85-87Ben m’accorsi ch’elli era da ciel messo,
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Purg. XII, 79-84, 88-90Vedi colà un angel che s’appresta
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- sì che il ’l suo fattore / non disdegnò di farsi sua fattura (vv. 5-6; Tab. 17)
A Laodicea, l’ultima delle sette chiese d’Asia, Cristo si presenta come l’“Amen”, cioè il vero “testimone fedele e verace, che è il principio”, cioè la prima causa, “della creazione di Dio”, che crea ogni cosa dal nulla e ricrea gli eletti infondendo la grazia (Ap 3, 14). I santi vengono chiamati “creature di Dio”, secondo quanto detto nella lettera di san Giacomo – “Di sua volontà egli ci ha generati con una parola di verità, perché noi fossimo l’inizio delle sue creature” (Jc 1, 18) –, e nella lettera di san Paolo agli Efesini – “Siamo sua fattura, creati in Cristo Gesù per le opere buone” (Eph 2, 10). Al vescovo di Laodicea Cristo si propone in modo tale da fargli comprendere che quanto dirà contro di lui deriva da infallibile verità e fedeltà e in modo da ferire e spezzare la sua presunzione, per cui riteneva con arroganza di avere il bene quasi ne fosse lui stesso e non Cristo la prima causa. Egli insegna inoltre all’ultimo periodo della Chiesa, designato da questo vescovo, a ripensare il primo inizio della creazione di tutte le cose e il primo inizio della formazione della Chiesa stessa e la prima causa. Come ai primi viene rappresentato il giudizio finale, così agli ultimi il primo principio, per insegnarci a stare fissi in entrambi, ad umiliarci nella loro contemplazione, a infiammarci d’amore per la somma causa e a rendere grazie del nostro inizio e della finale consumazione.
Il tema della creazione è cantato da Beatrice, “fatta da Dio, sua mercé, tale”, da non essere toccata dalla miseria dei dannati né assalita dal fuoco dell’inferno, al quale non teme di scendere (Inf. II, 91-93): la miseria è uno dei difetti che Cristo rimprovera al vescovo di Laodicea (Ap 3, 15). Il tema si ritrova tra le “parole di colore oscuro” scritte sulla porta dell’inferno: “Giustizia mosse il mio alto fattore; / fecemi la divina podestate …” (Inf. III, 4-6), e con Ciacco: “tu fosti, prima ch’io disfatto, fatto” (Inf. VI, 42). I medesimi motivi del creatore e della creatura, “sua fattura” nel bene operare, sono presenti nel discorso con cui Virgilio spiega, nel quarto girone, l’ordinamento del purgatorio: quando l’amore della creatura si torce al male, o corre al bene con maggiore o minore cura di quel che dovrebbe, allora “contra ’l fattore adovra sua fattura” (Purg. XVII, 100-102). Sono presenti ancora nelle parole con cui Beatrice introduce Adamo, quarto lume nel cielo delle stelle fisse vagheggiato dal suo fattore: “l’anima prima / che la prima virtù creasse mai” (Par. XXVI, 82-84). L’umile riconoscimento verso la prima causa fu propria degli angeli che rimasero fedeli a Dio, i quali “… furon modesti / a riconoscer sé da la bontate / che li avea fatti a tanto intender presti” (Par. XXIX, 58-60). E nella preghiera di san Bernardo, Maria nobilitò l’umana natura “sì, che ’l suo fattore / non disdegnò di farsi sua fattura” (Par. XXXIII, 4-6). Di tanta esegesi sono pregne anche le parole di Ulisse: “fatti non foste a viver come bruti” (Inf. XXVI, 119).
Nella tabella sono mostrate altre variazioni su questa parte di esegesi relativa a Laodicea. Segue infatti la riprovazione del difetto maggiore del vescovo o della chiesa (le istruzioni date alle sette chiese d’Asia sono dirette sia al singolo vescovo come all’intera comunità ecclesiale), che in questo caso è la tepidezza, il non trovarsi né nel calore della carità che esulta in Dio né nel freddo dell’infedeltà triste per i propri peccati: “Magari tu fossi freddo o caldo!” (Ap 3, 15). Il senso è che meglio sarebbe trovarsi freddi infedeli per ignoranza, ma con possibilità di convertirsi all’ardore della vera giustizia, piuttosto che tiepidi rinunciatari di una via di perfezione intrapresa e apostati da un alto stato. L’“utinam frigidus esses” risuona nell’apostrofe contro i traditori che stanno in Cocito, “mal creata plebe” (si è visto che il tema della creazione appartiene anch’esso alla settima chiesa), che meglio sarebbe stata in vita pecore o capre, ossia ignoranti e umili (Inf. XXXII, 13-15).
Al momento del primo sogno di Dante nel purgatorio, è l’ora in cui la rondinella “comincia i tristi lai” ricordando i “suo’ primi guai” (la trasformazione di Filomela in rondine) e in cui la mente, più peregrina dalla carne, è quasi divina nelle visioni (Purg. IX, 13-18). L’immagine traduce il ricordare la prima causa, che è anche vera, da parte dell’ultima chiesa (che corrisponde all’approssimarsi dell’alba), e l’essere contristato dei propri peccati e dunque ‘freddo’ (nei versi il ‘freddo’ dell’ora non è reso esplicito, ma richiamato dai “tristi lai”, perché ‘freddo’ e ‘triste’ sono nell’esegesi equivalenti).
Il rimprovero verso la tepidezza di Laodicea è soprattutto appropriato agli ignavi, e su vasta scala. Ma non solo. Non essere né freddi per la tristezza derivante dalla miseria dei propri peccati né caldi per l’esultare in Dio con fervida devozione è tema che passa nel “misero modo” che “tegnon l’anime triste di coloro / che visser sanza ’nfamia e sanza lodo” (Inf. III, 34-36), ma anche, con ben altro valore, nella sembianza “né trista né lieta” delle quattro grandi ombre di poeti incontrate nel Limbo (Inf. IV, 82-84). Costoro non peccarono, e quindi non possono essere tristi; però, per quante “mercedi” abbiano che li rendono onorati (a differenza degli ignavi), “non adorar debitamente a Dio”, e quindi non possono ora letiziare nella lode divina (vv. 33-42).
La creazione di cui si parla ad Ap 3, 14 non è solo un creare dal nulla, è anche un ricreare gli eletti “per infusionem gratie”, sempre, naturalmente, “in operibus bonis”. Questo è un motivo appropriato all’Eunoè, il secondo dei due fiumi dell’Eden che sgorgano dalla medesima sorgente e che, a differenza del Lete che toglie la memoria del peccato, “adopra” rendendo la memoria “d’ogne ben fatto” (Purg. XXVIII, 121-133). Bere quest’acqua, superiore per sapore a tutte le altre, è una nuova creazione: da essa il poeta ritorna “rifatto sì come piante novelle / rinovellate di novella fronda, / puro e disposto a salire a le stelle” (Par. XXXIII, 142-145). All’ora di mezzogiorno – l’ora in cui culmina il sesto stato – si chiude la seconda cantica (vv. 103-105), con il poeta così “rifatto”. Il sesto stato è di rinnovamento della vita di Cristo e della nuova pianta seminata da Francesco nel suo Ordine. Esso, con l’apertura del sesto sigillo, ha quattro differenti inizi. Dopo un inizio profetico con Gioacchino da Fiore, il quale nella terza età dello Spirito vide per rivelazione in anticipo il sesto stato (“il calavrese abate Giovacchino, / di spirito profetico dotato”, Par. XII, 140-141), si ha un secondo inizio in Francesco, di effettiva generazione della pianta; poi un terzo nell’ordine dei Minori perfettamente disposto e maturato a predicare contro l’Anticristo – “initium refloritionis seu repullulationis” della pianta -; un quarto infine nell’effettiva caduta di Babylon (cfr. l’esegesi di Ap 6, 12). Così il rinnovarsi della grande pianta dell’Eden prima dispogliata, una volta che il grifone vi ha legato il carro (Purg. XXXII, 52-60), è prefigurazione del Dante rinnovato, del nuovo Giovanni inviato a predicare al mondo nel terzo inizio dell’apertura del sesto sigillo.
Tab. 17
[LSA, cap. III, Ap 3, 14-15 (Ia visio, VIIa ecclesia)] Hiis autem, sicut et in ceteris ecclesiis, premittit preceptum de istis scribendis ac deinde proponitur Christus loquens, ibi (Ap 3, 14): “Hec dicit amen”, id est verus seu veritas; vel “amen”, id est vere; “testis fidelis et verus, qui est principium”, id est prima causa, “creature Dei”, et hoc tam creando omnia de nichilo quam recreando electos per infusionem gratie. Sancti enim [anthonomasice] dicuntur creature Dei, secundum illud epistule Iacobi capitulo I° (Jc 1, 18): “Voluntarie genuit nos verbo veritatis, ut simus initium aliquod creature eius”. Et ad Ephesios II° dicit Apostolus (Eph 2, 10): “Ipsius sumus factura, creati in Christo Ihesu in operibus bonis”.
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Inf. II, 91-93; III, 4-8; VI, 40-42I’ son fatta da Dio, sua mercé, tale,
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Par. XXVI, 82-84E la mia donna: “Dentro da quei rai
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Nel ventre tuo si raccese l’amore, / per lo cui caldo ne l’etterna pace / così è germinato questo fiore (vv. 7-9; Tab. 18).
Nella terza età del mondo, appropriata allo Spirito Santo col suo vitale caldo di carità, l’albero della Chiesa, che ha tenuto le radici nella prima età e il tronco nella seconda, produce fiori e frutti (prologo, Notabili VI e VII). Acque pluviali (“germinativorum imbrium”) fecondano la terra rendendola fertile (Ap 4, 6-7; 10, 1; “germinato” è hapax nel poema). I motivi sono già presenti in Francesco, “ch’el cominciò a far sentir la terra / de la sua gran virtute alcun conforto” (Par. XI, 56-57). Benedetto parla “di quel caldo / che fa nascere i fiori e ’ frutti santi”, cioè i contemplativi come Macario e Romualdo, “fuochi tutti contemplanti” (Par. XXII, 46-51, dove intervengono altri temi da Ap 15, 2; fiorire è per antonomasia proprio dei contemplativi dal santo affetto: cfr. prologo, Notabile XII). Accendersi d’amore virtuoso è tipico dell’intelligenza morale della Scrittura (Ap 6, 6).
Tab. 18
[LSA, prologus, Notabile VI] Et ideo sic visiones ut plurimum ordinantur quod prima pars earum est tamquam fons et radix, secunda vero est quasi stipes quinque nodorum seu quasi conductus ex fonte deductus habens quinque respiracula, tertia vero est quasi ramorum diffusio cum floribus et fructibus suis seu quasi emissio aque ex conductu in magnam piscinam seu lacum ex quo tota Dei civitas potatur et irrigatur. Quinque enim status ecclesie describuntur hic quasi per modum stricti stipitis vel conductus. Sextus vero status describitur quasi per modum late et multe expansionis ramorum fructuosorum reiectis virgultis et ramis inutilibus, seu per modum magne et aperte effusionis aque in piscinam vel lacum. Septimus vero status describitur quasi quieta fruitio per esum fructuum et poculum aquarum. Sicque cum septenario statuum refulget hic admirabiliter mi-sterium Trinitatis, quamvis et aliter hic non minus gloriose refulgeat, prout in septimo notabili tangetur.
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[LSA, prologus, Notabile VII] Sancta vero et singularis participatio et sollempnizatio sue sanctissime vite et caritatis in scripturis ubique appropri[atur] Spiritui Sancto a Patre et Filio procedenti et utrumque clarificanti, et ideo congrue representatur per subsequens tempus renovationis orbis per vitam Christi. In quo prior populus Iudeorum, qui fuerat Patris imago, et populus gentium, qui postquam Christum suscepit iam fere totus a Christi integra fide defecit et sub Antichristo plenius deficiet, restituentur et reunientur sub vitali et vivifico calore et lumine vite Christi per unicum et unitivum Spiritum eius et sui Patris. Status vero eterne glorie, tribus temporibus predictis succedens, assimilatur unitati essentie trium personarum, quia ibi er[it] Deus omnia in omnibus et omnia unum in ipso.
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Par. XXII, 46-51Questi altri fuochi tutti contemplanti 15, 2
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[LSA, prologus, Notabile X] Ideo autem quartus status concurrit eodem tempore cum tertio, quia sicut affectus exigit notitiam intellectus, nec ista notitia est sancta absque sancto affectu, sic affectualis exercitatio et contemplatio anachoritarum et sanctorum illitteratorum eguit preclaro lumine doctorum, nec illud preclarum esse potuit absque precellentia vite. Unde ad mutuum obsequium et ad meridiem universi orbis tunc ad fidem conversi simul clarificandam et inflammandam debuerunt illi duo status concurrere simul. Sicut autem notitia preit amorem, quia non potest amari nisi cognitum, sic status doctorum in hoc libro premittitur ante statum anachoritarum; in quarta tamen visione ostenduntur simul concurrere, ubi dicitur quod “date sunt mulieri due ale aquile magne ut volaret in desertum” (Ap 12, 14). Quod autem de facto insimul concurrant, patet ex cronicis. Nam Antonius et doctor Athanasius eodem tempore fuerunt, sicut et ipse A[thana]sius dicit in vita sancti Antonii quam scripsit, et ambo fuerunt tempore Constantini. Circa etiam tempora Ilarii et Ambrosii doctorum floruerunt Macharius et Isidorus et alius Macharius et [E]raclides et Pampo et Moyses et Beniamin et plures alii anachorite et patres anachoritarum. Tempore etiam Ieronimi et Augustini fuerunt plures anachorite, prout patet in scriptis eorum. Basilius, et magnus doctor et contemporaneus Gregorii Nazanzeni magni doctoris, edidit quandam regulam austerrimam monachorum. Tempore etiam Gregorii pape et doctoris fuerunt plures sancti austerrimi et anachoritici, prout ipse in libro Dialogorum docet. |
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Qui se’ a noi meridïana face / di caritate (vv. 10-11)
La decima perfezione di Cristo in quanto sommo pastore (prima visione) consiste nell’incomprensibile gloria che gli deriva dalla chiarezza e dalla virtù, per cui si dice: “e la sua faccia riluce come il sole in tutta la sua virtù” (Ap 1, 16). Il sole risplende in tutta la sua virtù nel mezzogiorno, quando l’aere è sereno, fugata ogni nebbia o vapore grosso. Allora il viso corporeo di Cristo ha incomparabilmente più luce e vigore, e ciò designa l’ineffabile chiarezza e virtù della sua divinità e della sua mente. Lo splendore del volto indica l’aperta e fulgida conoscenza della Sacra Scrittura, che deve raggiare in modo più chiaro nel sesto stato, prefigurata dalla trasfigurazione sul monte avvenuta dopo sei giorni e designata dall’angelo che, al suono della sesta tromba, ha la faccia come il sole (Ap 10, 1). [Questo passo dagli importanti e numerosi sviluppi è stato trattato altrove; cfr. anche infra]
Maria è “la faccia che a Cristo / più si somiglia” (Par. XXXII, 85-87); nella sua chiarezza meridiana, predispone, essa sola, a vedere il figlio.
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Donna, se’ tanto grande e tanto vali, / che qual vuol grazia e a te non ricorre, / sua disïanza vuol volar sanz’ ali. … in te magnificenza … Ancor ti priego, regina, che puoi / ciò che tu vuoli …” (vv. 13-15, 20, 34-35; Tab. 19).
Ad Ap 12, 6 (quarta visione, prima guerra), si dice che la donna (la Vergine Maria, la Chiesa), il cui figlio era stato rapito (Cristo risorto e asceso al cielo, dopo il tentativo del drago di divorarlo al momento del parto, Ap 12, 4), “fuggì in solitudine”. Tre sono i significati della “solitudine”. Il primo è lo stato della professione e della fede cristiana separato dal giudaismo e da ogni altro dopo la morte e l’ascensione di Cristo. Il secondo è la vita e la contemplazione (“conversatio et contemplatio”) spirituale e celeste alla quale fuggì e ascese la Chiesa dopo aver ricevuto con abbondanza lo Spirito Santo, affinché potesse attendere a nutrirsi di sole cose divine nascondendosi e difendendosi dalle tentazioni diaboliche. Il terzo è la terra delle genti, che allora era deserta, priva cioè di Dio e del suo culto, nella quale la Chiesa si rifugiò dall’ostinata incredulità e persecuzione dei Giudei. Di questa solitudine dice il profeta Isaia: “Ci sarà un deserto nel Carmelo”, cioè pingue di grazie come lo era stata prima la Giudea, “e il Carmelo”, cioè la Giudea, “sarà considerato una selva”, cioè diventerà selvaggio, “e nella solitudine abiterà il giudizio e la giustizia” (Is 32, 15-16). E ancora: “Si rallegreranno i deserti e i luoghi inaccessibili, esulterà la solitudine e fiorirà come un giglio. Le è data la gloria del Libano, il decoro del Carmelo e di Saron” (Is 35, 1-2); “Darò alla solitudine il cedro, la spina, il mirto e l’ulivo, porrò nel deserto l’abete” (Is 41, 19); “Allietati, o sterile che non partorisci, poiché più numerosi sono i figli di colei che è stata deserta di colei che è maritata” (Is 54, 1). Questa fuga sottende un futuro dominio universale, perché si dice che il figlio della donna “erat recturus omnes gentes”. [questo passo è stato trattato compiutamente altrove]
Nella terza e quarta guerra, trattate congiuntamente (Ap 12, 14), alla donna (la Chiesa) vengono date due ali di una grande aquila le quali, nella concorrenza del terzo stato dei dottori e del quarto stato degli anacoreti, rappresentano il potere temporale e quello spirituale. La donna non è più fuggitiva dalla durezza giudaica come nella prima guerra, bensì regina che vola in modo magnifico al luogo predestinato come suo, incorporando in sé le genti (cfr. le variazioni dei motivi a Purg. XXVI, 138 e Par. I, 56-57, 92; IV, 81).
I motivi tratti da Ap 12, 6, che percorrono il poema fin dall’inizio, si ritrovano nell’invettiva contro “Alberto tedesco” che abbandona l’Italia, “costei ch’è fatta indomita e selvaggia” e che ha sofferto, col padre Rodolfo, “che ’l giardin de lo ’mperio (la Giudea già verdeggiante) sia diserto” (Purg. VI, 97-105). Nel canto successivo, nella valletta dei principi negligenti, i motivi del fuggire e del giglio sono uniti in Filippo III l’Ardito il quale, distrutta la sua flotta da Ruggero di Lauria, “morì fuggendo e disfiorando il giglio”, disonorando l’insegna della casa reale di Francia (Purg. VII, 103-105; ‘disfiorare il giglio’ è una variante del far sì che il giardino dell’Impero sia un deserto).
I temi offerti da Ap 12, 14 sono suscettibili delle più diverse trasformazioni. Si è detto che le due ali designano il potere imperiale o temporale e il potere spirituale su tutto l’orbe: la Chiesa ebbe dalla sua fondazione il potere spirituale, ma ciò apparve in modo evidente ed efficace solo dal momento in cui l’Impero romano le fu famulo, suddito e devoto. Il motivo della devozione dell’Impero nei confronti della Chiesa viene rovesciato e appropriato a questa, la cui gente dovrebbe “esser devota, / e lasciar seder Cesare in la sella”, invece di metter mano alla briglia dell’indocile cavallo italiano (Purg. VI, 91-96). Che la ‘gente devota’ debba identificarsi coi chierici e non con tutta la gente italica appare confermato dal fatto che altrove (ad esempio nel Notabile XIII del prologo) l’essere devoti è proprio del quarto stato degli anacoreti, che corrisponde al potere spirituale.
Il medesimo motivo, congiunto con quello della donna signora e regina delle genti nel proprio regno, si mostra nelle parole con cui san Bernardo invita Dante a guardare i cerchi di troni della rosa celeste – un “giardino” – “infino al più remoto, / tanto che veggi seder la regina / cui questo regno è suddito e devoto” (Par. XXXI, 97, 100, 115-117). Riaffiora, frammentato e diversamente appropriato, nella preghiera che lo stesso Bernardo rivolge alla regina del cielo: «“Et date sunt mulieri due ale aquile magne” … tamquam gentium domina et regina magnifice volavit – Donna, se’ tanto grande e tanto vali, / che qual vuol grazia e a te non ricorre, / sua disïanza vuol volar sanz’ ali … in te magnificenza … Ancor ti priego, regina, che puoi / ciò che tu vuoli …» (Par. XXXIII, 13-15, 20, 34-35).
Tab. 19
Inf. I, 5, 25, 64-66
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Purg. VI, 91-93, 97-98, 103-105; VII, 103-105Ahi gente che dovresti esser devota,
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[LSA, cap. XII, Ap 12, 6 (IVa visio, Ium prelium)] “Et mulier”, id est ecclesia, “fugit in solitudinem”. […]
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[LSA, cap. XII, Ap 12, 14 (IVa visio, III-IVum prelium)] Antequam autem hic explicetur qualis fuit hec persecutio, ostendit duplicem virtutem tunc datam ecclesie ad triumphandum de hac gemina persecutione. Unde subdit: “Et date sunt mulieri due ale aquile magne”, id est sublimis sapientia sanctorum doctorum et sublimis vita et caritas sanctorum anachoritarum et ceterorum regularium illius temporis. Hec enim sunt “due [ale] aquile magne”, id est Christi et sue contemplative ecclesie in apostolis primo fundate. Nonne enim Iohannes vel Paulus fuit aquila magna habens has duas alas? Item potestas imperialis seu temporalis et potestas spiritualis super totum orbem sunt due ale. Licet enim prius secundum rem haberet potestatem spiritualem, non tamen sic evidenter et efficaciter sicut cum imperium romanum fuit sibi famulatorie et devote subiectum.
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Par. XXXI, 94-102, 115-117E ’l santo sene: “Acciò che tu assommi
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Par. I, 55-57, 91-93Molto è licito là, che qui non lece
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- se’ di speranza fontana vivace … sua disïanza vuol volar sanz’ ali (vv. 12, 15; Tab. 20).
L’esegesi di Ap 4, 6-7 passa in rassegna i vari significati attribuibili ai quattro animali (o ai quattro esseri viventi) che stanno in mezzo e intorno alla sede. Olivi specifica i tre motivi del diverso ordine dato ai quattro animali in Ezechiele e nell’Apocalisse (cfr. Purg. XXIX, 97-105). Ezechiele (Ez 1, 10) descrive Dio che governa il mondo con provvidenza e magnificenza, e per questo premette la matura discrezione della faccia umana alla costanza del leone e alla robusta pazienza del bue (o vitello); Giovanni descrive la divinità di Cristo nel suo trionfale potere di aprire il libro, e perciò premette il leone trionfante seguito dal bue robusto. Ezechiele non distingue gli animali in specie diverse, ma soltanto quattro facce, ciascuna delle quali designa la conoscenza di Cristo impressa nei santi (Cristo si presenta uomo nella faccia inferiore e sensibile, aquila in quella superiore, leone che risorge glorioso nella destra, bue sacrificato in croce nella sinistra); Giovanni distingue gli animali in quattro specie, due che stanno sulla fronte della sede (il leone e l’aquila, che designano la regalità e il trionfo) e due dietro (il vitello e l’animale che ha la faccia come di uomo): così, incominciando dal leone come dalla parte destra della fronte della sede perviene al vitello, quindi all’uomo e infine all’aquila, significando che il desiderio e la speranza della gloria e della resurrezione di Cristo (leone) ci anima e conduce alla tolleranza delle passioni (vitello) da cui, fatti discreti ed esperti (uomo), saliamo al volo della contemplazione e all’amplesso della gloria di Cristo prima desiderata (aquila). Ezechiele, infine, con le quattro facce designa i quattro evangelisti o i quattro Vangeli (Matteo, il primo, esordisce narrando l’umana generazione di Cristo; Marco inizia dal leonino ruggito della predicazione di Cristo; Luca dalla presentazione al tempio come l’offerta di un agnello o di un vitello; Giovanni è come un’aquila); Giovanni con i quattro animali designa principalmente i primi quattro stati o ordini della Chiesa di Dio (che corrispondono all’apertura dei primi quattro sigilli) e la quadruplice perfezione di Cristo secondo la quale sono formati. I quattro animali designano anche i quattro sensi della Scrittura: allegorico (leone), letterale o storico (vitello), morale (uomo), anagogico (aquila). La trattazione più ampia dei quattro sensi della Scrittura è data da Olivi nell’esegesi dell’apertura del terzo sigillo (Ap 6, 6).
Il circuito dei primi quattro stati e dei quattro sensi della Scrittura attraverso gli animali, leone-vitello-uomo-aquila, si ritrova nei versi che descrivono la faticosa ascesa al primo balzo del purgatorio. In Purg. IV, 25-30 si parte dal leone (allegoria), e non è casuale che la similitudine cominci con un nome che vi alluda: “Vassi in Sanleo … Allegoricus (sensus) vero, leoninos triumphos Christi et sanctorum ex gestis et verbis figuralibus trahens”. Per volare come un’aquila verso la contemplazione (senso anagogico) bisogna aver prima acquisito il discernimento che proviene dall’esperienza (senso morale): il poeta perviene al passaggio verso l’alto dopo aver avuto “esperïenza vera”, ascoltando le parole di Manfredi, di come l’anima possa tutta concentrarsi in qualche facoltà sì che “par ch’a nulla potenza più intenda”, tanto da non essersi accorto che “ben cinquanta gradi salito era / lo sole” (vv. 1-18). Virgilio, “condotto” e “lume”, designa il terzo stato, assimilato all’uomo razionale, nel quale rifulge il “lume” dei dottori della Chiesa. Pertanto, l’espressione “ma qui convien ch’om voli” designa il passaggio dal terzo al quarto stato, dall’intelligenza morale a quella anagogica. Il volare (proprio dell’aquila, elemento taciuto) avviene “con l’ale snelle e con le piume / del gran disio”, dal momento che la salita è appena cominciata, e con la “speranza” data da “quel condotto”, cioè da Virgilio, che fa da guida. Così deve avvenire l’ascesa verso l’aquila, a partire dal leone, attraverso il vitello e l’uomo: “desiderium et spes glorie et resurrectionis Christi (leo) nos animat et ducit ad tolerantiam passionum (vitulus), per quarum experientiam facti discreti (facies hominis) ascendimus ad contemplativum volatum et amplexum glorie Christi predesiderate (aquila)” [1].
Da notare la presenza di una parte di questi motivi nella preghiera di san Bernardo alla Vergine: “se’ di speranza fontana vivace … sua disïanza vuol volar sanz’ ali” (Par. XXXIII, 10-15).
[1] Dei quattro animali, l’unico a non essere apparentemente presente per allusione o per senso traslato è il “vitulus”. Ma tutta la descrizione dell’affannosa salita (cfr. Purg. IV, 95) dice della “tolerantia passionum”, mentre i precedenti episodi dell’arrivo dell’angelo nocchiero alla riva della montagna e quello successivo di Casella sono segnati dai temi del secondo stato, quello dei màrtiri. È poi da considerare l’inciso: “discendesi in Noli”. Sulla località e sul significato del nome scriveva Benvenuto: “Noli est quaedam terra antiqua in riperia Ianuae supra mare, subiecta monti altissimo scabroso, ad quam est difficillimus descensus, ita ut Noli videatur recte dicere descendenti: noli ad me accedere, quasi dicat poeta tacite: ego descendi cum pedibus usque in profundum abyssi, sed huc non poteram ascendere sine alis; quia difficilius est ascendere quam descendere”. “Noli” è dunque, secondo il notaio imolese, un nome di località significante, vòlto a formare un calembour con l’imperativo del verbo “nolo” quasi ad ammonire chi voglia discendere per le pareti a picco dei monti che la sovrastano e conchiudono; tale discesa dall’alto verso la cittadina ligure è assimilata alla discesa nell’abisso infernale. “Discendesi in Noli” è però soprattutto una delle espressioni riferite al patire, alle quali il poeta dà veste nei più diversi momenti del viaggio. “Noli” non è riferito, oggettivamente, a un luogo che ammonisce il viaggiatore di non voler discendere ad esso ma, soggettivamente, a Dante stesso che deve invece volere ciò che non vuole. Forse, poiché il viaggio è iniziato con le parole di Virgilio – “Ond’ io per lo tuo me’ penso e discerno / che tu mi segui, e io sarò tua guida” (Inf. I, 112-113) -, memori di quelle dette da Cristo a Pietro – «“et alius te cinget et ducet quo tu non vis … sequere me”, scilicet ad crucem» (Jo 21, 18-19, citato nella Lectura ad Ap 7, 2) -, Noli è anche il disvolere del poeta, dubbioso sulla propria dignità e virtù, di fare il cammino troppo presto accettato (Inf. II, 37-42).
Tab. 20
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La tua benignità non pur soccorre / a chi domanda, ma molte fïate / liberamente al dimandar precorre. / In te misericordia, in te pietate (vv. 16-19; Tab. 21)
■ La tribù di Simeone, la settima fra le dodici d’Israele da cui provengono i segnati all’apertura del sesto sigillo (Ap 7, 7), designa la devota preghiera che, sospirando e gemendo, impetra le grazie superne ed è degna di essere esaudita, oppure la pia condiscendenza della benigna commiserazione. Il nome viene pertanto interpretato come “ascolto” o “esaudibile” o “colui che ascolta il dolore”. Appartiene allo stato dei perfetti; è lo zelo che si manifesta nella “benigne miserationis pia condescensio”, che corrisponde a uno dei temi più importanti del quinto stato, la “pietas” che condiscende verso gli infermi, il “sensum vivum et tenerum pietatis” (prologo, Notabile XIII; con questi motivi viene presentato san Bernardo a Par. XXXI, 61-63).
Fra i vari luoghi del poema che ad essi si riferiscono, i temi della tribù Simeone sono in primo luogo propri di Beatrice: a lei Lucia si rivolge perché ascolti “la pieta” del pianto del suo amico, che poi soccorre “pietosa” (Inf. II, 106, 133); è lei ad ascoltare “sospirosa e pia” il salmo Deus, venerunt gentes cantato lacrimando dalle sette virtù dopo le visioni delle tribolazioni del carro della Chiesa militante (Purg. XXXIII, 4-6; i motivi sono appropriati a Dante a Purg. XX, 16-18), a trarre un “pio sospiro” alla domanda di Dante che non comprende come possa trascendere i corpi lievi (Par. I, 100-102). I temi si mescolano con quelli del quinto stato, momento in cui eccelle il senso vivo della pietà, ad esempio con il tema della pietà con cui la madre indulge al figlio (Ap 5, 1), che corrisponde a “quel sembiante / che madre fa sovra figlio deliro” con il quale Beatrice drizza gli occhi a Dante dopo il “pio sospiro”.
I motivi del discendere, della pietà, dell’ascoltare e del sospirare sono compresenti nel discendere “nel cieco mondo”, allorché il colore smorto del viso di Virgilio suscita preoccupazione in Dante che vede la sua guida impallidire, ma Virgilio lo rassicura che quello è il colore non della paura, ma della pietà per “l’angoscia de le genti / che son qua giù”. Subito all’ingresso del primo cerchio si ode un pianto fatto di sospiri, “che l’aura etterna facevan tremare” (Inf. IV, 13-27).
Per la pace del poeta, “animal grazïoso e benigno” pietoso del loro “mal perverso”, Francesca e Paolo pregherebbero Dio, se fosse loro amico (Inf. V, 88-93; l’aggettivo “grazioso”, che in Convivio IV, xxv, 1 è connesso alla cortesia, concorda con i motivi connessi allo smeraldo, una delle dodici pietre a fondamento della città celeste, che ad Ap 21, 19 designa il grazioso contemperare della pietà e della misericordia). È Dante ad ascoltare il triste lamento: “Di quel che udire e che parlar vi piace, / noi udiremo e parleremo a voi” (vv. 94-95); “tristo e pio”, chiede a Francesca del “tempo d’i dolci sospiri” (vv. 116-118).
■ La tribù successiva, Levi, designa la speranza nei confronti della pietà e liberalità di Dio che elargisce al di là dei voti e meriti, al di là di quanto aspettiamo; Levi significa “aggiunto”.
Se si congiungono le caratteristiche delle due tribù di Simeone e di Levi – benignità, misericordia, pietà da una parte e liberalità dall’altra -, si ottengono alcune delle prerogative della Vergine lodate nella preghiera di san Bernardo (Par. XXXIII, 16-19), la quale rientra nella tematica propria della tribù di Simeone in quanto orazione che impetra grazia e, poiché devota, grata ed esaudita (Par. XXXII, 147-148; XXXIII, 40-42; ma cfr. anche l’esegesi di Ap 8, 3).
I motivi della benignità e della liberalità sono congiunti nella “cortesia del gran Lombardo / che ’n su la scala porta il santo uccello” a Par. XVII, 73-75.
Un esempio dell’andare oltre le speranze sta nella risposta del frate Catalano – “Più che tu non speri” – a Virgilio che gli chiede come uscire dalla sesta bolgia: il muoversi del gran sasso, rotto nel sesto ponte ma che consente la salita all’argine della settima bolgia, è tema che accompagna il terremoto in apertura del sesto sigillo (Inf. XXIII, 133-138).
[LSA, cap. VII, Ap 7, 7 (IIa visio, apertio VIi sigilli)]VII. SimeonSeptimo exigitur devota oratio supernarum gratiarum impetrativa et exauditione digna, quam designat Simeon, qui interpretatur auditio vel exaudibilis.Ad tertium etiam statum, scilicet perfectorum, spectant tria.
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Inf. II, 106, 133Non odi tu la pieta del suo pianto ……Oh pietosa colei che mi soccorse!Inf. V, 88-96, 116-118O animal grazïoso e benigno
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Inf. IV, 13-27“Or discendiam qua giù nel cieco mondo”,
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VIII. LeviOctavo exigitur spes de superfluentia pietatis et liberalitatis Dei supererogantis ultra omnia vota et merita et ultra quam presumamus, et hanc designat Levi, qui interpretatur superadditus.Secundum consiliorum Christi supererogatio, et hoc est Levi, id est additus.Secundo severe dist[ri]ctionis emulatoria rectitudo, et hoc est Levi, id est additus, qui propter zelum contra idolatras accepit sacerdotium, unde et Finees, eiusdem tribus, accepit a Deo pactum sacerdotii eterni, quia zelatus est contra fornicationem cum Madianit[is] (cfr. Nm 25, 10-13). |
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Par. XVII, 70-75Lo primo tuo refugio e ’l primo ostello
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E io, che mai per mio veder non arsi / più ch’i’ fo per lo suo, tutti miei prieghi / ti porgo, e priego che non sieno scarsi, / perché tu ogne nube li disleghi / di sua mortalità co’ prieghi tuoi / sì che ‘l sommo piacer li si dispieghi (vv. 28-33; Tab. 22)
Ad Ap 8, 3, nell’esegesi della “radice” della terza visione, a Cristo, angelo che sta dinanzi all’altare, “furono dati molti incensi”, cioè molte orazioni a Dio piacenti. Gli vengono dati da quanti pregando commettono sé e i propri voti a lui come nostro mediatore e avvocato e gli chiedono di offrirli a Dio. Gli sono pure dati dal Padre, come detto in Giovanni 17, 6.11: “Erano tuoi e li hai dati a me. Padre santo, conserva nel tuo nome coloro che mi hai dato”. E nel Salmo 67, 19 si afferma: “Sei salito in alto e hai ricevuto uomini in dono”. Egli riceve in noi, che siamo le sue membra, i doni della grazia che ci vengono dati. “Gli furono dati molti incensi perché offrisse le preghiere di tutti i santi sull’altare d’oro, posto davanti al trono di Dio”, cioè per offrirle a Dio sopra i meriti derivanti dalla propria umanità, oppure sopra la basilare ara della divina verità e maestà.
Il tema dell’offerta degli uomini da parte di Cristo, mediatore e avvocato, al Padre che glieli ha dati, come detto in Giovanni 17, 6.11: “Erano tuoi e li hai dati a me. Padre santo, conserva nel tuo nome coloro che mi hai dato”, percorre i versi che cantano l’offerta al padre delle proprie carni da parte dei figli del conte Ugolino: “Tui erant, et michi eos dedisti. Pater sancte, serva eos in nomine tuo, quos dedisti michi” – «e disser: “Padre, assai ci fia men doglia / se tu mangi di noi: tu ne vestisti / queste misere carni, e tu le spoglia”» (Inf. XXXIII, 61-63).
Secondo Gioacchino da Fiore, l’altare designa quel piccolo numero di santi padri e profeti che precedettero la venuta di Cristo, sui quali, come sopra un altare, vennero offerte le orazioni e i voti dei giusti. Non solo infatti la passione di Cristo ci giovò nell’impetrare la misericordia divina, ma anche la fede e il merito dei padri che precedettero; non perché Cristo non sia sufficiente a tutto, ma perché nelle opere di pietà vuole avere consorti i santi padri (Ap 8, 3).
Virgilio è l’altare su cui Marzia, la moglie di Catone passata a Ortensio e ritornata al primo marito nell’età estrema della vita, offre la sua preghiera. L’espressione di Virgilio, che sta nel Limbo con la donna dagli occhi casti, riecheggia la preghiera di Cristo al Padre in Giovanni 17, 6.11, citata ad Ap 8, 3: “Tui erant, et michi eos dedisti” – “ma son del cerchio ove son li occhi casti / di Marzia tua, che ’n vista ancor ti priega, / o santo petto, che per tua la tegni: / per lo suo amore adunque a noi ti piega” (Purg. I, 78-81; cfr. Convivio IV, xxviii, 17). È variante rispetto alle parole dette a Ugolino dai figli: “tu ne vestisti / queste misere carni, e tu le spoglia”; anche Catone, rispetto a Dante, è “padre” (v. 33). Il motivo dell’offerta e del pregare altri perché offrano o preghino, già iniziato con il riferimento a Beatrice, “per li cui prieghi / de la mia compagnia costui sovvenni” (vv. 53-54), prosegue con la promessa del poeta pagano di ringraziare Marzia della grazia fatta da Catone di lasciare andare lui e Dante per i sette regni del Purgatorio (“grazie riporterò di te a lei”, v. 83) e con il rifiuto di Catone di accettare una preghiera che è in realtà lusinga. Ai suoi occhi Marzia piacque tanto di là, tanto da farle in vita ogni grazia da lei richiesta. Ora che dimora nel Limbo, “di là dal mal fiume” d’Acheronte, non può più commuovere il marito, a motivo della legge della grazia che lo ha salvato (vv. 85-90). La corretta preghiera, afferma Catone, deve essere fatta in nome di Beatrice, “donna del ciel” (vv, 91-93).
Pregare perché altri preghino, motivo appropriato a Cristo al quale vengono offerti molti incensi affinché li offra sull’altare, è la radice semantico-tematica di molte situazioni nel poema, fra le quali Dante stesso viene a trovarsi, per esempio allorché è assediato dalla calca delle ombre “che pregar pur ch’altri prieghi”, che chiedono cioè suffragi per rendere più breve la loro permanenza nell’antipurgatorio (Purg. VI, 25-27).
L’altare può essere anche interpretato come la solida verità di fede o come la maestà di Dio su cui debbono essere fondati e offerti i nostri voti e sacrifici. Davanti ad esso sta Cristo uomo che, come pontefice, offre sé e noi a Dio. Né bisogna meravigliarsi che Dio rivesta più ruoli, di altare e di colui al quale vengono presentate le offerte.
L’ultima e più alta variazione è in san Bernardo, avvocato che prega perché altri preghi. Negli occhi dell’oratore si fissano quelli, diletti e venerati da Dio, della Vergine per mostrare quanto le siano grate le devote preghiere che poi rivolge a Dio drizzando lo sguardo all’eterno lume (Par. XXXIII, 40-43). Maria, come Cristo, è insieme altare e pontefice, riceve le preghiere e le offre: “Tui erant, et michi eos dedisti. Pater sancte, serva eos in nomine tuo, quos dedisti michi” – “… tutti miei prieghi / ti porgo … perché tu ogne nube li disleghi / di sua mortalità co’ prieghi tuoi … Ancor ti priego, regina, che puoi / ciò che tu vuoli, che conservi sani, / dopo tanto veder, li affetti suoi. / Vinca tua guardia i movimenti umani …” (vv. 29-37).
Per “il suo fedel Bernardo” la regina del cielo “ne farà ogne grazia” (cfr. Par. XXXI, 100-102), lì dove Catone può parlare di Marzia solo al passato, “che quante grazie volse da me, fei” (Purg. I, 85-87).
Ap 8, 4 può essere accostato ad Ap 5, 8 (“radice” della seconda visione), dove si tratta delle coppe poste in mano ai quattro animali e ai ventiquattro seniori che si prostrano dinanzi all’Agnello. Le coppe sono i cuori dei santi, lucenti per la sapienza, dilatati per la carità, splendenti di aurea fiamma per la contemplazione e ripiene di profumi che ridondano dalle devote orazioni. Come i profumi che sprigionano dal fuoco salgono verso l’alto e riempiono di odore tutto l’edificio, così le devote orazioni salgono alla presenza di Dio, lo raggiungono e piacciono per il loro esser soavi a Lui e a tutta la curia celeste e subceleste. È il tema dello spirare d’amore diffuso dai devoti affetti, come il profumo dagli aromi. Della collazione di Ap 5, 8 e 8, 4 sono esempio le due terzine di Par. XXIV, 28-33, riferite a san Pietro che si rivolge a Beatrice; parole chiave si registrano anche in versi relativi a san Bernardo (Par. XXXI, 96; XXXII, 1, 3, 151).
- Vinca tua guardia i movimenti umani (v. 37)
Il verso può essere confrontato con un passo della già citata quaestio oliviana sulle dodici vittorie della Vergine:
Sicut etiam Christus suis omnibus clamat: In mundo pressuram habebitis, sed confidite: ego vici mundum (Ioan. 16, 33); sic in victoriis triumphalibus Matris eius et nostrae confidere possumus et debemus [1].
- vedi Beatrice con quanti beati / per li miei prieghi ti chiudon le mani! (vv. 38-39; tab. 22)
“E il fumo degli incensi” (Ap 8, 4), cioè la spirituale fragranza delle devozioni che emanava dalle preghiere dei santi, “salì dalla mano dell’angelo davanti a Dio”, in quanto per merito e intercessione di Cristo offerente furono rese accettabili e, accettate, elevate in alto, con la cooperazione dell’influsso e del ministero della grazia di Cristo operante nella mente dei santi. Così dice san Bernardo: “vedi Beatrice con quanti beati / per li miei prieghi ti chiudon le mani!” (Par. XXXIII, 38-39). Il turibolo aureo (il corpo di Cristo purissimo o i santi oranti che offrono le preghiere degli eletti) è “omni gratia Deo gratum et incenso sacre et odorifere devotionis repletum”.
Un passo dalla prima quaestio de Domina, quella sul consenso dato dalla Vergine all’umana redenzione, attesta che, nell’ora della salutazione angelica, tutta la gerarchia celeste pregava per l’accettazione di tanto compito da parte di Maria. L’arcangelo Gabriele non agiva da solo, aveva il mandato di tutta la città di Dio.
Sed in hora qua ad Virginem missus est Gabriel angelus, omnes noverunt quod per Virginis consensum erat formandum a Deo caput et principium nostrae salutis, Christus scilicet in quantum homo. Ergo in illa hora tota angelica curia seu hierarchia totis desideriis et conatibus intendebat in Virginem suo ministerio adiuvandam ad tantum opus debite suscipiendum et perficiendum; et hoc tam apud Deum totis viribus pro hac re orando, quam etiam in ipsam secundum proportionem hierarchici ordinis influendo. Nec refert an omnes immediate influerent, an aliquis in virtute omnium. Nec mireris si in virtute omnium plus potuit unus, quam faceret in virtute paucorum aut in sua sola virtute: quia pars illa chordae arcus quae sola immediate tollit et impellit sagittam, iacit eam longe fortius quia operatur in totius arcus virtute, quam faceret per se solam. Sic etiam videmus quod legatus unius magnae communitatis vel urbis, vel cuiuscumque magni et fortis exercitus, multo potentius et fortius movet et trahit corda eorum ad quos mittitur, sive ad timorem sive ad obedientiam vel amorem, quia gerit omnium civium et totius communitatis eorum vicem et auctoritatem, quam faceret si veniret cum auctoritate solius mediae vel tertiae partis aut cum sola propria [2].
Si è visto come il passo della quaestio permei il sentimento di stupore provato da Dante nel trovarsi nella Roma celeste: “al divino da l’umano, / a l’etterno dal tempo era venuto, / e di Fiorenza in popol giusto e sano” (Par. XXXI, 31-42). San Bernardo che prega, sostenuto da Beatrice e dai beati, affinché la Vergine preghi che Dante possa levarsi “verso l’ultima salute”, è vero legato “di quella Roma onde Cristo è romano” (cfr. Purg. XXXII, 102).
[1] De duodecim victoriis, pp. 43-44.
[2] De consensu virginali, pp. 4-5.
Tab. 22
[LSA, cap. VIII, Ap 8, 3-5 (radix IIIe visionis)] “Et alius angelus” et cetera (Ap 8, 3). Angelus iste, qui obtulit omnium sanctorum incensum et sacrificium Deo Patri, est Christus sacerdos magnus et pontifex, qui tam natur[a] sue deitatis quam gratia singularis sanctitatis et dignitatis et auctoritatis est longe alius a septem angelis, id est ab universitate doctorum et sanctorum. Qui “venit”, per nature humane et mortalis assumptionem, “et stetit ante altare”, id est ante curiam seu hierarchiam celestem. Pro quanto enim, secundum carnis sue passibilitatem, minoratus est paulo minus ab angelis (cfr. Heb 2, 7; Ps 8, 6), habuit eos quasi ante se.
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Purg. I, 31-33, 52-54, 70-93vidi presso di me un veglio solo,
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Par. XXXI, 43-45, 94-96, 100-102E quasi peregrin che si ricrea
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Par. XXXII, 1-3, 151; XXXIII, 22-42Affetto al suo piacer, quel contemplante
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[Ap 8, 3] Data etiam sunt sibi a Deo Patre, unde Iohannis XVII° dicit ipse Patri (Jo 17, 6/11): “Tui erant, et michi eos dedisti. Pater sancte, serva eos in nomine tuo, quos dedisti michi”. Et in Psalmo dicitur: “Ascendisti in altum” et “accepisti dona in hominibus” (Ps 67, 19). In quantum enim sumus membra eius, ipse acc[i]pit in nobis dona gratie que dantur nobis.
Inf. XXVI, 64-66
“S’ei posson dentro da quelle faville
parlar”, diss’ io, “maestro, assai ten priego
e ripriego, che ’l priego vaglia mille”
[LSA, cap. V, Ap 5, 8 (radix IIe visionis)] Phiale [igitur] iste sunt corda sanctorum per sapientiam lucida, per caritatem dilatata, et per contemplationem splendidam et flammeam aurea, et per devotarum orationum redundantiam odoramentis plena. Sicut enim odoramenta per ignem elicata sursum ascendunt totamque domum replent suo odore, sic devote orationes ad Dei presentiam ascendunt et pertingunt, eique suavissime placent et etiam toti curie celesti et subcelesti. Sicut [etiam] diffusio odoris spiratur invisibiliter ab odoramentis, sic devote affectiones orantium spirantur invisibiliter et latissime diffunduntur ad varias rationes dilecti et ad varias rationes sancti amoris, prout patet ex multiformi varietate sanctorum affectuum qui exprimuntur et exercentur in psalmis.
Tab. 22 bis (per l’esame di questa tabella cfr. Introduzione – II)
[LSA, prologus, incipit] “Erit lux lune sicut lux solis, et lux solis erit septempliciter sicut lux septem dierum, in die qua alligaverit Dominus vulnus populi sui et percussuram plage eius sanaverit”. In hoc verbo, ex XXX° capitulo Isaie (Is 30, 26) assumpto, litteraliter prophetatur precellentia fulgoris celestium luminarium, quam in fine mundi ad pleniorem universi ornatum Dei dono habebunt. Allegorice vero extollitur gloria Christi et novi testamenti. Novum enim testamentum se habet ad vetus sicut sol ad lunam, unde IIa ad Corinthios III° (2 Cor 3, 7-8) dicit Apostolus: “Quod si ministratio mortis”, id est veteris legis mortem et dampnationem per accidens inducentis, “fuit in gloria, ita ut non possent filii Israel intendere in faciem Moysi propter gloriam vultus eius, que evacuatur”, id est que fuit temporalis et transitoria, “quomodo non magis ministratio spiritus”, id est spiritualis gratie et sapientie Christi, “erit in gloria?”. Tempore autem quo Christus erat nostra ligaturus vulnera sol nove legis debuit septempliciter radiare et lex vetus, que prius erat luna, debuit fieri sicut sol. Nam umbra sui velaminis per lucem Christi et sue legis aufertur secundum Apostolum, capitulo eodem dicentem quod “velamen in lectione veteris testamenti manet non revelatum, quoniam in Christo evacuatur”. Unde “usque in hodiernum diem, cum legitur Moyses”, id est lex Moysi, “velamen est positum super cor” Iudeorum; “cum autem conversus fuerit ad Dominum, auferetur velamen. Nos vero revelata facie gloriam Domini speculantes in eandem imaginem transformamur a claritate in claritatem” (2 Cor 3, 14-16, 18). Et subdit (2 Cor 4, 6): “Quoniam Deus, qui dixit de tenebris lucem splendescere”, id est qui suo verbo et iussu de tenebrosa lege et prophetarum doctrina lucem Christi eduxit, “ipse illuxit in cordibus nostris ad illuminationem scientie et claritatis Dei in faciem Christi Ihesu”, scilicet existentis et refulgentis. |
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Purg. XXV, 25-32, 138-139e se pensassi come, al vostro guizzo,
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Purg. VII, 94-96Rodolfo imperador fu, che potea
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supplica a te, per grazia, di virtute tanto, che possa con li occhi levarsi / più alto verso l’ultima salute (vv. 25-27; Tab. 23)
L’apertura del capitolo IV della Lectura super Apocalipsim, che insieme al V forma la “radice” o parte proemiale della seconda visione, che è dei sette sigilli, consiste nella descrizione della sede divina e nell’apertura del libro che sta nella mano destra di colui che siede sul trono e che solo Cristo è in grado di aprire [1]. In primo luogo viene narrato l’elevarsi spirituale di Giovanni alla visione in seguito descritta. Egli scrive infatti, per indicare un nuovo aprirsi di cose celesti e divine: “Dopo ciò vidi, ed ecco una porta aperta in cielo. La voce che prima avevo udito parlarmi come una tromba diceva: sali quassù”, cioè in cielo, “e ti mostrerò le cose che debbono accadere in seguito”, cioè dopo quelle che, nella prima visione, sono state riferite in senso letterale alle chiese d’Asia (Ap 4, 1). Giovanni aggiunge: “Subito fui in spirito”, ossia in estasi (Ap 4, 2). Si può intendere che Giovanni, dopo la prima visione, sia stato ricondotto a sé e che ora venga elevato di nuovo alla contemplazione estatica, oppure che dalla prima visione venga elevato a una seconda molto più alta, quasi ascendendo al cielo da un luogo subceleste o quasi il suo primo vedere in spirito non lo fosse stato realmente rispetto al secondo. Si può anche dire che la ripetizione di questo elevarsi indica che ogni visione, con i suoi oggetti, ha un proprio essere arduo, che è nuovo rispetto al modo delle visioni precedenti. Ogni illuminazione dispone la mente a riceverne una più alta: così vedere il cielo aprirsi e udire la voce possente come una tromba disponevano e stimolavano Giovanni alle seguenti visioni.
Passando dal secondo al terzo cerchio dell’inferno, il poeta, caduto come corpo morto per la pietà provata verso Francesca e Paolo, “al tornar de la mente” si vede attorno “novi tormenti e novi tormentati” (Inf. VI, 1-6): come Giovanni, ritorna in sé da una visione precedente per sperimentarne una nuova. Così accade dal terzo al quarto cerchio, dove il poeta vede “nove travaglie e pene” (Inf. VII, 19-20; cfr. Inf. XVIII, 22-23, nella prima bolgia). Poiché si tratta di una nuova visione, il poeta tace nel primo caso sul modo del passaggio tra i cerchi.
Il tema dell’elevarsi ad un più alto e nuovo vedere segna il passaggio dal quarto al quinto cielo. Al termine del suo soggiorno nel cielo del Sole, Dante scorge una nuova corona di beati formare un cerchio attorno alle altre due già presenti. I beati gli appaiono “novelle sussistenze”, come le stelle che in cielo di prima sera sono “nove parvenze” indistinte al vedere (Par. XIV, 70-75; il motivo è anticipato dagli stessi due cerchi beati del cielo del Sole, i quali “mostar nova gioia” come coloro che danzando in tondo “levan la voce”, vv. 19-24). Dalla vista di Beatrice il poeta acquista poi vigore per elevarsi e si vede “translato … in più alta salute”, cioè nel successivo cielo di Marte, il cui rosseggiare lo rende esperto di essersi “più levato” (vv. 79-87; ivi i lumi si muovono come corpuscoli di polvere, che vanno “rinovando vista”, v. 113). Variazioni sul motivo del passaggio a più alta visione si registrano a Par. III, 6-7 e XXI, 13.
Il medesimo tema caratterizza la salita sull’argine della settima bolgia (Inf. XXIV, 58-63). Salito sulla punta franata, Dante si siede spossato ma viene stimolato da Virgilio a spoltrirsi in quanto l’attende più lunga scala. Il poeta si leva e dichiara di sentirsi forte e ardito (corrisponde nel testo dell’Olivi all’arditezza della visione che segue) e i due riprendono la via sullo scoglio “erto più assai che quel di pria”.
La visione dell’Incarnazione, l’intelligenza dell’umano e del divino in Cristo, di come possa convenire il diametro con la circonferenza, è per il poeta l’ultima “vista nova”, per cui “indige” (hapax nel poema) del principio geometrico che non ritrova, come Giovanni indigeva di essere elevato ogni volta a più alta visione (Par. XXXIII, 133-136). Per questo ha pregato Bernardo: “che possa con li occhi levarsi / più alto verso l’ultima salute “ (vv. 25-27).
[1] Questa parte è stata esaminata in “Lectura super Apocalipsim” e “Commedia”. Le norme del rispondersi, cap. 2, per mostrare le diversità sul punto fra Riccardo di San Vittore e Olivi, e come il primo passi nella Commedia attraverso il secondo, arriccchito delle posizioni proprie del teologo francescano (e di altre fonti incorporate nella Lectura, come Gioacchino da Fiore).
Tab. 23
[LSA, cap. IV, Ap 4, 1-2 (radix IIe visionis)] “Post hec vidi” (Ap 4, 1). Hic incipit visio secunda, que est de septem apertionibus septem sigillorum libri signati stantis in dextera Dei. In hac igitur primo narratur spiritualis sublevatio Iohannis ad videndum sequentia. Secundo subditur prima pars huius secunde visionis, describens fontalem radicem et causam septem apertionum libri per septem tempora ecclesiastica complendarum, ibi: “Et ecce sedes posita erat in celo” (Ap 4, 2). Tertio subditur propria apertio uniuscuiusque signaculi, capitulo sexto et septimo.
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Par. XXI, 13-15Noi sem levati al settimo splendore,
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Inf. VI, 1-6; VII, 19-20; XVIII, 22-23Al tornar de la mente, che si chiuse
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supplica a te, per grazia, di virtute tanto, che possa con li occhi levarsi / più alto verso l’ultima salute (vv. 25-27; Tab. 24)
Ad Ap 12, 10-11, al termine della seconda guerra sostenuta dalla Chiesa vinta per intervento di Michele (il secondo stato è quello dei martiri, cui si addice il combattere e la tribolazione), i vincitori esultano e lodano Dio per la salvezza intervenuta; hanno vinto il diavolo “per mezzo del sangue dell’Agnello”; “non hanno amato le loro anime”, ossia le loro vite corporee, “fino alla morte”, esponendosi per Cristo ad ogni passione.
Al passo da Ap 12, 10, per la compresenza delle parole – dominatio / donna; spes / speranza; virtus / virtute; potestas / potestate; facta est salus / fatt’ hai sana; gratia / grazia, rinvia la preghiera di ringraziamento che nell’Empireo Dante rivolge a Beatrice, donna della salute (Par. XXXI, 79-90). Altre parole-chiave rinviano ad Ap 15, 3-4, dove si tratta del passaggio dal cantico di Mosè, proprio di servi, al cantico dell’Agnello, proprio di liberi: «Tu m’hai di servo tratto a libertate … per tutte quelle vie … La tua magnificenza in me custodi – … uterque cantavit de pia liberatione electorum et de terribili submersione seu perditione hostium. Differunt autem in hoc, quod canticum Moysi fuit sicut servi, cuius est timere Dominum terribilem in iudiciis; canticum vero Agni fuit vere filii mitissimi … Pro operibus autem seu iudiciis iustitie, subdunt: “Iuste et vere vie tue”, id est opera tua, “rex seculorum. (Ap 15, 4) Quis non timebit te, Domine, et magnificabit nomen tuum?”».
Ad Ap 12, 10 rinviano alcuni luoghi del Paradiso per la rima virtute / salute, talora con l’inserimento di donna (Par. XIV, 82.84; XXVIII, 65.67; XXX, 53.57; XXXIII, 13, 25.27).
Tab. 24
[LSA, cap. XII, Ap 12, 10 (IVa visio, IIum prelium)] Deinde subditur Dei laus et exaltatio ex hoc facta a beatis in celo et a sanctis in ecclesia, que per celestem vitam ac per spem et desiderium celestium est quasi celum. Unde ait (Ap 12, 10): “Et audivi vocem magnam de celo dicentem: Nunc facta est salus et virtus et regnum Dei nostri et potestas Christi eius”, facta scilicet est tum per pleniorem et evidentiorem effectum sue virtutis et dominationis super demones cohercendos et salvationis electorum, “quia proiectus est accusator fratrum nostrorum, qui accusabat illos ante conspectum Dei nostri die ac nocte”. |
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Par. XXX, 52-57“Sempre l’amor che queta questo cielo
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Par. XIV, 82-84Quindi ripreser li occhi miei virtute
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[LSA, cap. XV, Ap 15, 2-4 (Va visio, radix)] Unde subditur: “(Ap 15, 2) Habentes citharas Dei (Ap 15, 3) et cantantes canticum Moysi servi Dei et canticum Agni”. Canticum utriusque in hoc convenit, quod uterque cantavit de pia liberatione electorum et de terribili submersione seu perditione hostium. Differunt autem in hoc, quod canticum Moysi fuit sicut servi, cuius est timere Dominum terribilem in iudiciis; canticum vero Agni fuit vere filii mitissimi, cuius est filialiter amare patrem et consequi eius hereditatem. Ergo isti cantant simul canticum timoris ut servi et amoris ut filii, et hoc ipsum patet ex materia cantici eorum, unde subditur: “dicentes: Magna”, scilicet in se, “et mirabilia”, scilicet contemplantibus, “sunt opera tua, Domine Deus omnipotens”. Pro operibus autem seu iudiciis iustitie, subdunt: “Iuste et vere vie tue”, id est opera tua, “rex seculorum. (Ap 15, 4) Quis non timebit te, Domine, et magnificabit nomen tuum?”. Pro operibus vero misericordie, subdunt: “Quia solus pius es”, scilicet per se et substantialiter et summe; “quoniam omnes gentes venient”, scilicet ad te tamquam a te misericorditer vocate et tracte, “et adorabunt in conspectu tuo, quoniam iudicia tua manifesta sunt”, scilicet per evidentes effectus perditionis Antichristi et suorum et salvationis electorum. |
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Ancor ti priego, regina, che puoi / ciò che tu vuoli, che conservi sani, / dopo tanto veder, li affetti suoi. / Vinca tua guardia i movimenti umani (vv. 34-37; Tab. 25).
Ad Ap 5, 9 – “et cantabant canticum novum” – si tratta il canto dei seniori dopo che l’Agnello ha preso il libro dalla destra di Colui che siede sul trono per scioglierne i sigilli, nella parte ‘radicale’ della seconda visione. Questo canto è “nuovo” perché la sua materia riguarda Cristo in quanto degno di aprire il libro, come uomo nuovo che reca una vita e una legge nuova; né esso mai invecchia, conserva anzi nella novità le virtù affettive di coloro che cantano.
Ad Ap 15, 2-4 viene descritto il canto di coloro che hanno vinto la bestia, la sua immagine e il numero del suo nome e stanno ritti sul mare di cristallo. Essi cantano, accompagnandosi con le cetre, il canto di Mosè e il canto dell’Agnello: il primo celebra la terribile perdizione dei nemici sommersi, il secondo la pia liberazione degli eletti; il primo è proprio del servo che teme i terribili giudizi divini, il secondo del figlio mitissimo che ama il padre e riceve la sua eredità. Cantano pertanto insieme il canto del timore come servi e il canto dall’amore come figli, e ciò si manifesta nella materia del loro canto perché dicono: “Grandi”, cioè in sé, “e mirabili”, cioè a coloro che le contemplano, “sono le tue opere, o Signore Dio onnipotente”. Per le opere di giustizia dicono: “giuste e vere sono le tue vie”, cioè le tue opere, “o re dei secoli! Chi non ti temerà, o Signore, e non magnificherà il tuo nome?”. Per le opere di misericordia aggiungono: “Perché tu solo sei pio”, cioè per sé in modo sostanziale e sommo, “e tutte le genti verranno”, a te come da te chiamate e attratte, “e adoreranno nel tuo cospetto, perché i tuoi giudizi sono manifesti”, nel senso che appare evidente l’effetto della sconfitta dell’Anticristo e della salvezza degli eletti. Al canto fa seguito l’essere disposti da parte dei santi al giusto zelo che punisce i malvagi, ivi: “Dopo ciò vidi aprirsi nel cielo il tempio che contiene il tabernacolo della testimonianza, e dal tempio uscirono i sette angeli che avevano le sette piaghe” (Ap 15, 5-6; altri confronti con questa esegesi sono mostrati altrove).
La collazione dei due passi fornisce panno all’inizio di Inf. XX, che canta una nuova pena, quella degli indovini puniti nella quarta bolgia, ed è canto “de la prima canzon, ch’è d’i sommersi”, cioè dei nemici di Dio ‘sommersi’, come si dice ad Ap 15, 2-3. La disposizione dei santi di cui ad Ap 15, 5-6 appare nei versi subito dopo la prima terzina: “Io era già disposto tutto quanto / a riguardar … / e vidi gente”.
Il tema del conservare i cantanti nella novità divina, unito al motivo degli affetti citato ad Ap 5, 9, conduce all’ultima parte della preghiera di san Bernardo alla Vergine: “Ancor ti priego, regina, che puoi / ciò che tu vuoli, che conservi sani, / dopo tanto veder, li affetti suoi. / Vinca tua guardia i movimenti umani” (Par. XXXIII, 34-37; cfr. la diversa appropriazione dei temi al voto trattato in Par. V, 46-48). È da tener conto anche di Ap 7, 1, dove si parla degli uomini empi che cercano di impedire, oltre che la predicazione della fede e la conversione delle genti, anche la conservazione dei fedeli nella fede ricevuta.
La materia del cantico, che riguarda in primo luogo l’essere Cristo degno di aprire il libro, conduce alla materia che il “buono Appollo” renderà degna (Par. I, 10-12, 25-27).
Olivi, ad Ap 5, 12, sottolinea che nella Scrittura sovente si afferma che qualcosa esiste quando si manifesta esteriormente, cosicché ciò che è “nuovo” non lo è di per sé, ma solo perché diventa noto, al modo con cui diciamo che il sole è ‘nuovo’ nel senso che appare nuovamente alla nostra vista. A questa esegesi, e a quella del “canticum novum”, rinvia a Par. IX il manifestarsi di Cunizza: “(vv.14-15) e ’l suo voler piacermi / significava nel chiarir di fori. … (vv. 22-23) Onde la luce che m’era ancor nova, / del suo profondo, ond’ ella pria cantava …”.
Nella tabella sono mostrati altri esempi di variazioni su questi temi. Il sintagma nuovo/vedere si riscontra nelle parole di Bonagiunta da Lucca, il quale chiede a Dante di manifestarsi: “Ma dì s’i’ veggio qui colui che fore / trasse le nove rime, cominciando / ‘Donne ch’avete intelletto d’amore’” (Purg. XXIV, 49-51). Da notare il verbo “trarre”, che fa segno dell’esegesi del “canticum novum” (Ap 5, 9) e della lode di Dio e di Cristo uomo che ‘trae’ materia da ogni creatura (Ap 5, 12). L’autore d’altronde considerava la sua canzone anche come una lode di Cristo, delle cui prerogative rivestiva la donna amata: “non perch’io creda sua laude finire”. Il canto di Cristo fu “dolce” (Ap 14, 6-9), “nuovo” quello dei suoi lodatori (Ap 5, 9): due aggettivi che concordano con il “dolce stil novo” udito da Bonagiunta.
Tab. 25
[LSA, cap. V, Ap 5, 9 (radix IIe visionis)] Et ideo tertius vel, secundum Ricardum, quartus actus est decantatio laudis*. Unde subditur (Ap 5, 9): “Et cantabant canticum novum”. Novum quidem, tum quia omnia que de Christo cantantur sunt nova, est enim novus homo et nova eius lex et vita et familia et gloria; tum quia numquam veterascit nec est de aliquo veteri et caduco et cito interituro, sed de eternis aut ad eternitatem ordinatis; tum quia renovat et in novitate divina conservat suos cantatores. Si pulsatio et resonantia cithare in hoc cantico includatur, tunc designat omnium virtutum affectus et actus pulsari et resonare cum iubilo huius laudis. Plena enim seu perfecta iubilatio pulsat omnes virtutes et ex omnibus trahit resonantiam laudis. Quelibet enim virtus est una corda cithare, id est mentis iubilative. Per citharam etiam designatur scriptura sacra, vel tota universitas divinorum operum, quorum cordas varias contemplativi tangunt et pulsant et ex eis divine laudis iubilum formant: quot modi autem sunt tangendi tot sunt modi iubilandi et cantandi.
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Inf. XX, 1-9Di nova pena mi conven far versi
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Par. V, 46-48Quest’ ultima già mai non si cancella
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[LSA, cap. XV, Ap 15, 2-6 (radix Ve visionis)] Unde subditur: “(Ap 15, 2) Habentes citharas Dei (Ap 15, 3) et cantantes canticum Moysi servi Dei et canticum Agni”. Canticum utriusque in hoc convenit, quod uterque cantavit de pia liberatione electorum et de terribili submersione seu perditione hostium. Differunt autem in hoc, quod canticum Moysi fuit sicut servi, cuius est timere Dominum terribilem in iudiciis; canticum vero Agni fuit vere filii mitissimi, cuius est filialiter amare patrem et consequi eius hereditatem. Ergo isti cantant simul canticum timoris ut servi et amoris ut filii, et hoc ipsum patet ex materia cantici eorum, unde subditur: “dicentes: Magna”, scilicet in se, “et mirabilia”, scilicet contemplantibus, “sunt opera tua, Domine Deus omnipotens”. Pro operibus autem seu iudiciis iustitie, subdunt: “Iuste et vere vie tue”, id est opera tua, “rex seculorum. (Ap 15, 4) Quis non timebit te, Domine, et magnificabit nomen tuum?”. Pro operibus vero misericordie, subdunt: “Quia solus pius es”, scilicet per se et substantialiter et summe; “quoniam omnes gentes venient”, scilicet ad te tamquam a te misericorditer vocate et tracte, “et adorabunt in conspectu tuo, quoniam iudicia tua manifesta sunt”, scilicet per evidentes effectus perditionis Antichristi et suorum et salvationis electorum.
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[LSA, cap. V, Ap 5, 12 (radix IIe visionis)] Nota autem quod dicunt: “Dignus est Agnus accipere virtutem” et cetera (Ap 5, 12). Intendunt dicere dignum esse quod in eius humanitate manifestetur sic divinitas sue persone et cetere perfectiones soli Deo competentes, quod omnino appareat quod Christus homo est Deus et quod ab hominibus magnificetur ut Deus. Sicut enim more scripture res dicitur aliquando fieri quando de novo incipit innotescere eius fieri seu esse, sic Christus dicitur ista tunc accepisse quando de novo cepit innotescere quod ista acceperat a Deo Patre. Preterea quamvis secundum se tunc non accipiat ea de novo, in nobis tamen tunc accipit ea de novo, sicut et sol tunc incipit esse de novo in visu meo quando a me incipit videri. Sciendum etiam quod illa verba: “Et omnem creaturam” et cetera (Ap 5, 13) possunt construi cum sequentibus, ita quod primo distinguit seu distribuit omnem creaturam in eam “que in celo est et que super terram et que subtus terram et que in mari et que in eis sunt”, deinde collective resumit eas dicendo “omnes audivi in celo dicentes: Sedenti in trono”, id est Deo Patri et etiam toti Trinitati, “et Agno”, id est Christo secundum quod homo, “benedictio et honor et gloria et potestas in secula seculorum”, scilicet sit et est et erit, vel sibi ab omnibus attribuatur. Omnis enim creatura dicitur dicere hanc laudem, tum quia tota essentia earum resonat Dei gloriam et potestatem et se esse Deo et Christo homini subiectam, tum quia ex omnibus trahitur materia et forma huius laudis, tum quia per existentes in celo et terra et sub terra et in mari possunt intelligi rationales creature. Quamvis enim dampnati qui sunt sub terra hanc laudem ex amore non confiteantur, confitentur tamen eam per notitiam evidentem et etiam compulsi per experientiam penarum, in quibus potestatem Christi eas inferentis experiuntur. |
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Par. VII, 70-72Ciò che da essa sanza mezzo piove
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Purg. XXIV, 49-51, 55-63“Ma dì s’i’ veggio qui colui che fore
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- Li occhi da Dio diletti e venerati (v. 40; Tab. 26)
Come negli attivi anacoreti del quarto stato rifulse l’amore verso Cristo, così nei contemplativi del sesto rifulge il loro essere diletti da Cristo, non diversamente da quel che si dice di Pietro, che amò Cristo, e di Giovanni, che fu prediletto da Cristo. In tal modo prerogativa del sesto periodo è di essere disposto a ricevere e a patire, e in ciò si differenzia dagli stati precedenti, e soprattutto dal quarto, disposti a fare e a dare (Ap 3, 7). Così si può dire di Stazio, il quale ha amato Virgilio, ed è stato poi da questi amato (dopo che Giovenale, arrivato nel Limbo, gli ha reso noto l’affetto: Purg. XXII, 13-18), o di Forese che molto amò la sua Nella, diletta da Dio (Purg. XXIII, 91-93; è questo tema che si travasa nell’amore di Carlo Martello verso il poeta – “dilectus a Christo”, per quanto fosse stato anch’egli attivo “Assai m’amasti” – che l’angioino avrebbe portato fino ai frutti se fosse vissuto più a lungo [Par. VIII, 55-57]). Come il contemplativo Giovanni, al quale fu affidata in quanto figlio (“di su la croce al grande officio eletto”, Par. XXV, 114), la Vergine è diletta da Dio (Par. XXXIII, 40).
Nel sesto stato prevale il vincolo dell’amicizia, e tale è il rapporto tra Virgilio e Stazio (“e come amico mi perdona … e come amico omai meco ragiona”: Purg. XXII, 19, 21; cfr., a Purg. XXVI, 32, 37, il “basciarsi” con “accoglienza amica” dei lussuriosi nella fiamma del settimo girone).
Tab. 26
[LSA, cap. III, Ap 3, 7 (Ia visio, VIa ecclesia)] Rursus quia in contemplativis plus refulget dilectio Christi ad eos, in activis vero plus refulget dilectio eorum ad Christum, unde Iohannes, in quo prerogativa contemplationis est designata, potius dicitur predilectus a Christo quam prediligens Christum; Petrus vero, in quo fervor active est presignatus, potius dicitur prediligens Christum quam predilectus, prout patet Iohannis ultimo (Jo, 21, 15/20) et prout Augustinus super eodem loco exponit, idcirco angelus huius sexte ecclesie potius laudatur a Christo dilectus, cum dicitur infra: “quia ego dilexi te” (Ap 3, 9).
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Par. VIII, 55-57Assai m’amasti, e avesti ben onde;
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Par. XXXIII, 40-42Li occhi da Dio diletti e venerati,
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Purg. XXII, 13-18
onde da l’ora che tra noi discese
nel limbo de lo ’nferno Giovenale,
che la tua affezion mi fé palese,
mia benvoglienza inverso te fu quale
più strinse mai di non vista persona,
sì ch’or mi parran corte queste scale.
Purg. XXIII, 91-93
Tanto è a Dio più cara e più diletta
la vedovella mia, che molto amai,
quanto in bene operare è più soletta
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E io ch’al fine di tutt’ i disii / appropinquava, sì com’ io dovea, / l’ardor del desiderio in me finii (vv. 46-48; Tab. 27).
“Non vidi alcun tempio in essa” (Ap 21, 22). Qui Giovanni parla del sacro culto e del lume per cui la città dei beati adora Dio e vede Lui e tutto in Lui. Prima (Ap 21, 11) ha trattato della luce formale e intrinseca e della chiarezza della città; qui tratta del raggio e della fonte in cui si vedrà Dio e tutte le cose. Questa visione è la somma e compiuta illuminazione dei beati, mentre il beatifico atto di carità spetta più propriamente al culto e al sacrificio del tempio, per quanto i due atti siano tanto compenetrati che nessuno possa considerarsi perfetto nella propria specie senza l’altro.
Lì non si vedrà Dio “per specula”, come fosse assente, ma la vista dei beati si affiggerà immediatamente nella stessa luce che è Dio e in essa e per essa vedrà tutte le cose in modo limpidissimo. Lì anche l’affetto sarà tutto e immediatamente e intimamente inviscerato in Dio, e ivi abiterà come nel tempio, offrendosi tutto a Dio senza posa, sempre acceso quale olocausto nel fuoco infinito dell’increata carità divina, e loderà Dio con indicibile giubilo. Per questo è detto (Ap 21, 23) che solo Dio sarà tempio e sole della beata città, la quale non avrà bisogno del sole del Nuovo Testamento o della luna del Vecchio o di qualsivoglia scrittura o dottrina.
Ad entrambi i predetti atti, il beato amore e la beata visione, coopererà fortemente il merito e la gloria di Cristo in quanto uomo: perciò si dice non solo che la divinità di Cristo e di tutta la Trinità è tempio e sole, ma anche che Cristo in quanto uomo è tempio e lucerna dei beati.
Se nello stato peregrinante Cristo uomo si unisce a noi per mezzo dell’eucaristia, ne consegue che in modo incomparabilmente più intimo si unirà a noi nella gloria e noi a Lui, così da poter ben dire che l’Agnello è tempio e lucerna di tutti i beati.
Quanto detto si verifica nella Chiesa, la quale non occupa il luogo arto e corporale del Tempio dell’antica Gerusalemme e della Sinagoga, né ha bisogno della luce cerimoniale e del culto della legge e dei profeti, in quanto Cristo, la sua vita e la sua dottrina sono tempio, sole e lucerna della luce solare della sua divinità. Ciò si realizzerà storicamente, in modo più compiuto, nella Chiesa peregrinante del settimo e ultimo stato, allorché non ci sarà più bisogno di molte dottrine precedenti, poiché nell’eccesso della contemplazione lo Spirito di Cristo le insegnerà ogni verità senza l’ausilio della voce esteriore e, denudata di quanto è temporale, adorerà Dio Padre in spirito e verità (cfr. Giovanni 4, 24), anche se ciò avverrà “secundum quid” e non verrà completamente abbandonato, come nella Chiesa trionfante (dove si verificherà “simpliciter”), ogni uso delle cose temporali o dell’esteriore dottrina e scrittura.
L’Empireo, il “ciel ch’è pura luce” (Par. XXX, 39), il regno che “viso e amore (i due atti beatifici) avea tutto ad un segno” (Par. XXXI, 25-27), è “tempio” del voto del pellegrino (vv. 43-45), tempio però (come nel caso di Giovanni) ‘non visibile’, perché “solo amore e luce ha per confine” (Par. XXVIII, 52-54: detto con riferimento al Primo Mobile, che non ha altro luogo che la mente divina). L’immediatezza della visione è sperimentata da Dante nel rivedere Beatrice seduta accanto a Rachele: la donna sta tanto in alto, e la distanza del poeta è maggiore di quella che intercorre dal più profondo del mare alla regione dove si formano i tuoni, “ma nulla mi facea, ché süa effige / non discendëa a me per mezzo mista” (Par. XXXI, 73-78). Immediato è anche il vedere degli angeli (Par. XXIX, 79-80). Beatrice “si facea corona / reflettendo da sé li etterni rai” (vv. 71-72); dopo la preghiera dell’amico gli sorride e lo riguarda, “poi si tornò a l’etterna fontana” (vv. 91-93), cioè al “fontalis obiectus et radius in quo (civitas beatorum) Deum et omnia videbit” (Ap 21, 22). La stessa immagine di Beatrice, il suo “aspectus”, è definita “effige”, quasi per concordia fonica con l’“immediate figetur in ipsa luce, que est Deus” (v. 77).
Nella sua città, libera dalla legge naturale, al di fuori dello spazio e del tempo, Dio “sanza mezzo governa” (Par. XXX, 121-123). Ivi “la vista mia ne l’ampio e ne l’altezza / non si smarriva, ma tutto prendeva / il quanto e ’l quale di quella allegrezza” (vv. 118-120), perché la lunghezza (la vista), la larghezza (l’ampio, l’allegrezza) e l’altezza dei lati della città sono uguali (cfr. Ap 21, 16). Ma “sanza mezzo” fu pure governata la creazione degli angeli, dei cieli (nella materia e nella virtù informante) e dell’anima (la “vita”) dell’uomo, per cui ciò che dalla divina bontà direttamente “distilla” o “piove” reca senza fine la sua impronta ed è libero dalle influenze dei cieli, cioè dalle cause seconde (Par. VII, 67-72, 142-144). Quanto creato “sanza mezzo” è “ciò che non more” (cfr. Par. XIII, 52), a differenza dei quattro elementi e delle loro misture che si vedono venire a corruzione, e durar poco (Par. VII, 124-129). Se gli elementi verranno a consumazione, e periranno, nella conflagrazione di cui si parla ad Ap 21, 1 (“Et vidi celum novum”), ciò non avverrà per l’umana carne, che Dante ritiene immortale fin dal momento della creazione (Par. VII, 145-148).
L’incorporarsi di Dante nel cielo della Luna, dimensione capace di ricevere e patire un corpo, cioè un’altra dimensione, senza disunirsi (cfr. Ap 21, 11), è cosa che dovrebbe accendere maggiormente il nostro desiderio di ascendere al cielo, “di veder quella essenza in che si vede / come nostra natura e Dio s’unio”, mistero che qui crediamo per fede, mentre “lì si vedrà … non dimostrato, ma fia per sé noto”. I versi (Par. II, 37-45) contengono sia il tema dell’unirsi a Cristo nella gloria, sia del non necessitare, nello stato finale della Chiesa, delle dottrine o scritture esteriori, poiché basterà a ciò lo Spirito di Cristo che tutto insegnerà “in spiritu et veritate”.
Nel Primo Mobile, che anticipa l’Empireo nell’essere tempio non visibile, perché confinante solo con l’amore e la luce dell’ultimo cielo, Dante chiede a Beatrice perché, a differenza delle sfere materiali dei cieli, che sono tanto più veloci e di maggior diametro quanto più si allontanano dal loro centro geometrico costituito dalla terra, i cerchi che rappresentano le gerarchie angeliche siano tanto più veloci e di diametro più stretto quanto più sono vicine al punto, cioè a Dio (Par. XXVIII, 46-78). Nella risposta della donna, “li cerchi corporai”, cioè le sfere materiali, “sono ampi e arti” secondo la virtù per essi diffusa: ad essi sono attribuiti motivi, l’essere corporeo e arto, propri del Tempio dell’antica Gerusalemme e della Sinagoga. ‘Arto’ significa stretto, ma designa pure l’imperfezione e i limiti di questa vita (nella sesta vittoria, ad Ap 3, 12, si distingue tra il tempio, più grosso, e la colonna, che occupa minore spazio).
Solo Dio, luce e carità, è tempio della città beata, che in lui vede e ama (Ap 21, 22). Ad Ap 22, 20-21 si indica il fine di ogni sacro desiderio e di tutta la Scrittura, cioè il beatifico avvento di Cristo, che Giovanni chiede tre volte, e il desiderio che la grazia venga data a tutti. Dante, il nuovo Giovanni, dice dunque a Beatrice nel nono cielo: “Onde, se ’l mio disir dee aver fine / in questo miro e angelico templo / che solo amore e luce ha per confine” (Par. XXVIII, 52-54). Più alta replica sarà data nel decimo cielo, dopo la preghiera alla Vergine di san Bernardo (il quale, come Giovanni, sembra ripetere tre volte la richiesta a Par. XXXIII, 29.30.34: “tutti miei prieghi / ti porgo, e priego che non sieno scarsi / … Ancor ti priego ..”): “E io ch’al fine di tutt’ i disii / appropinquava, sì com’ io dovea, / l’ardor del desiderio in me finii” (vv. 46-48; cfr. il tema dell’appropinquarsi, cioè del sovrastare del tempo vicino, ad Ap 22, 10).
Tab. 27
[LSA, cap. XXII, Ap 22, 20 (VIIa visio)] Deinde subdit duo in quibus est et esse debet finis omnis sacri desiderii et totius sacre scripture, et ideo congrue in ipsis est finis huius libri. Primum autem est beatificus Christi adventus, quem bis et etiam ter petit in signum quod vehementer et incessanter debet hoc desiderium replicari, et etiam in misterium beatissime Trinitatis. Primo ergo dicit: “Venio cito” (Ap 22, 20). Secundo dicit: “Amen”, id est fiat secundum hoc quod peto. Tertio dicit: “Veni, Domine Ihesu”. In primo specificatur accelerationis petitio. In secundo autem eius confirmatio. In tertio autem specificatur reverende dominationis et desiderabilis nominis et salutis Ihesu commemoratio. |
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Par. XXVIII, 52-54, 64-66Onde, se ’l mio disir dee aver fine
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Par. XXXI, 25-27, 43-45, 70-78, 91-93Questo sicuro e gaudïoso regno,
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[LSA, cap. XXI, Ap 21, 22-23 (VIIa visio)] “Et templum non vidi in ea” et cetera (Ap 21, 22). Hic agit de sacro cultu et lumine quo civitas beatorum colit Deum et videt ipsum et omnia in ipso. Prius enim egit de formali et intrinseca luce et claritate eius (cfr. Ap 21, 11), hic vero de fontali obiecto et radio in quo Deum et omnia videbit. Que quidem visio est summa et ultimata illuminatio beatorum; beatificus autem actus caritatis spectat magis proprie ad cultum et sacrificium templi, quamvis utrumque in utroque comprehendatur, quia neutrum absque altero est perfectum etiam in propria specie sua.
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Par. II, 37-45S’io era corpo, e qui non si concepe
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Par. VII, 67-72, 142-144Ciò che da lei sanza mezzo distilla
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