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Nov 24 2021

I canti dell’Eden: Purgatorio XXVIII. La figura di Matelda

 

A Matilde, Per, Even

 

Purgatorio XXVIII

[3] = numero dei versi.  5, 1 = collegamento ipertestuale all’esegesi, nella Lectura di Olivi, di capitolo e versetto dell’Apocalisse [Ap].  Not. III collegamento ipertestuale all’esegesi contenuta nei tredici notabilia del prologo della Lectura.

Qui di seguito viene esposto Purgatorio XXVIII con i corrispondenti legami ipertestuali con i luoghi della Lectura super Apocalipsim ai quali i versi si riferiscono. L’intero poema è esposto nella Topografia spirituale della Commedia (PDF; introduzione in html). I colori seguono l’attribuzione ivi data a ogni singolo stato o gruppo di materia esegetica; nel testo riportato nelle tabelle, per maggiore evidenza, possono  essere invece utilizzati in forma diversa.

Vago già di cercar dentro e dintorno   5, 1 (VI sigillum); 4, 6
la divina foresta spessa e viva,   12, 6; 22, 1
ch’a li occhi temperava il novo giorno, [3]   Not. III; 10, 1

sanza più aspettar, lasciai la riva,   15, 8; 22, 2
prendendo la campagna lento lento   6, 2
su per lo suol che d’ogne parte auliva. [6]

Un’aura dolce, sanza mutamento   14, 2; 4, 3
avere in sé, mi feria per la fronte

non di più colpo che soave vento; [9]

per cui le fronde, tremolando, pronte   4, 3
tutte quante piegavano a la parte   14, 2
u’ la prim’ ombra gitta il santo monte; [12]   22, 2

non però dal loro esser dritto sparte   6, 5
tanto, che li augelletti per le cime
lasciasser d’operare ogne lor arte; [15]   14, 2; 22, 2

ma con piena letizia l’ore prime,   7, 2
cantando, ricevieno intra le foglie,   3, 7.12; 22, 2
che tenevan bordone a le sue rime, [18]

tal qual di ramo in ramo si raccoglie   Not. V; 20, 8
per la pineta in su ’l lito di Chiassi,

quand’ Ëolo scilocco fuor discioglie. [21]

Già m’avean trasportato i lenti passi
dentro a la selva antica tanto, ch’io   12, 6
non potea rivedere ond’ io mi ’ntrassi; [24]   3, 3

ed ecco più andar mi tolse un rio,   22, 1
che ’nver’ sinistra con sue picciole onde   22, 2
piegava l’erba che ’n sua ripa uscìo. [27]   4, 3; 22, 2

Tutte l’acque che son di qua più monde,   21, 11.18.21; 2, 1 (V ecclesia)

parrieno avere in sé mistura alcuna
verso di quella, che nulla nasconde, [30]   21, 21

avvegna che si mova bruna bruna

sotto l’ombra perpetüa, che mai   22, 2
raggiar non lascia sole ivi né luna. [33]

Coi piè ristetti e con li occhi passai   2, 18; Not. III
di là dal fiumicello, per mirare   2, 1 (V ecclesia); 22, 1

la gran varïazion d’i freschi mai; [36]

e là m’apparve, sì com’ elli appare
subitamente cosa che disvia
per maraviglia tutto altro pensare, [39]   17, 6-7

una donna soletta che si gia   12, 14; 2, 18; 1, 4 (Ps 92, 4)
e cantando e scegliendo fior da fiore
ond’ era pinta tutta la sua via. [42]

« Deh, bella donna, che a’ raggi d’amore   2, 1 (V ecclesia); 2, 18
ti scaldi, s’i’ vo’ credere a’ sembianti

che soglion esser testimon del core, [45]

vegnati in voglia di trarreti avanti »,   22, 17; 1, 4 (gradiens)
diss’ io a lei, « verso questa rivera,   22, 1
tanto ch’io possa intender che tu canti. [48]   2, 18

Tu mi fai rimembrar dove e qual era   3, 3
Proserpina nel tempo che perdette   3, 2
la madre lei, ed ella primavera ». [51]   3, 3

Come si volge, con le piante strette

a terra e intra sé, donna che balli,
e piede innanzi piede a pena mette, [54]   2, 18; 1, 4

volsesi in su i vermigli e in su i gialli
fioretti verso me, non altrimenti
che vergine che li occhi onesti avvalli; [57]   2, 18; 2, 1 (V ecclesia)

e fece i prieghi miei esser contenti,   8, 3-4
sì appressando sé, che ’l dolce suono   2, 18
veniva a me co’ suoi intendimenti. [60]

Tosto che fu là dove l’erbe sono   4, 3
bagnate già da l’onde del bel fiume,   2, 1 (V ecclesia); 22, 1
di levar li occhi suoi mi fece dono. [63]   2, 18;
(Matelda) 1, 4

Non credo che splendesse tanto lume   1, 16-17
sotto le ciglia a Venere, trafitta   12, 4
dal figlio fuor di tutto suo costume. [66]

Ella ridea da l’altra riva dritta,   1, 16; 6, 5
trattando più color con le sue mani,   2, 18
che l’alta terra sanza seme gitta. [69]   1, 4

Tre
passi ci facea il fiume lontani;   
9, 1-2
ma Elesponto, là ’ve passò Serse,   1, 4.9
ancora freno a tutti orgogli umani, [72]   9, 1-2

più odio da Leandro non sofferse

per mareggiare intra Sesto e Abido,   1, 4.9
che quel da me perch’ allor non s’aperse. [75]   9, 1-2

« Voi siete nuovi, e forse perch’ io rido »,   1, 16
cominciò ella, « in questo luogo eletto   1, 4.9
a l’umana natura per suo nido, [78]

maravigliando tienvi alcun sospetto;
ma luce rende il salmo Delectasti,   2, 18; 8, 3-4
che puote disnebbiar vostro intelletto. [81]   5, 1 (VII sigillum)

E tu che se’ dinanzi e mi pregasti,   8, 3
dì s’altro vuoli udir; ch’i’ venni presta   2, 18
ad ogne tua question tanto che basti ». [84]

« L’acqua », diss’ io, « e ’l suon de la foresta
impugnan dentro a me novella fede   7, 3
di cosa ch’io udi’ contraria a questa ». [87]   5, 1 (VII sigillum)

Ond’ ella: « Io dicerò come procede
per sua cagion ciò ch’ammirar ti face,   17, 6-7
e purgherò la nebbia che ti fiede. [90]   16, 17

Lo sommo ben, che solo esso a sé piace,

fé l’uom buono e a bene, e questo loco   1, 4-9
diede per arr’ a lui d’etterna pace. [93]   (Matelda1, 4; Not. VII

Per sua difalta qui dimorò poco;

per sua difalta in pianto e in affanno
cambiò onesto riso e dolce gioco. [96]   Not. VII; 1, 16

Perché ’l turbar che sotto da sé fanno

l’essalazion de l’acqua e de la terra,   10, 9
che quanto posson dietro al calor vanno, [99]

a l’uomo non facesse alcuna guerra,
questo monte salìo verso ’l ciel tanto,   1, 4.9
e libero n’è d’indi ove si serra. [102]

Or perché in circuito tutto quanto   4, 3
l’aere si volge con la prima volta,

se non li è rotto il cerchio d’alcun canto, [105]   2, 12

in questa altezza ch’è tutta disciolta   1, 4
ne l’aere vivo, tal moto percuote,   4, 3; 22, 1
e fa sonar la selva perch’ è folta; [108]

e la percossa pianta tanto puote,   4, 3
che de la sua virtute l’aura impregna
e quella poi, girando, intorno scuote; [111]

e l’altra terra, secondo ch’è degna   2, 1 (V ecclesia); 3, 1
per sé e per suo ciel, concepe e figlia

di diverse virtù diverse legna. [114]   21, 12-13; 22, 2

Non parrebbe di là poi maraviglia,   17, 7
udito questo, quando alcuna pianta

sanza seme palese vi s’appiglia. [117]   3, 1

E saper dei che la campagna santa   
6, 2
dove tu se’, d’ogne semenza è piena,   3, 1
e frutto ha in sé che di là non si schianta. [120]

L’acqua che vedi non surge di vena
che ristori vapor che gel converta,
come fiume ch’acquista e perde lena; [123]   18, 10.19

ma esce di fontana salda e certa,

che tanto dal voler di Dio riprende,
quant’ ella versa da due parti aperta. [126]   21, 4

Da questa parte con virtù discende

che toglie altrui memoria del peccato;   7, 17; 21, 4
da l’altra d’ogne ben fatto la rende. [129]   3, 14; 21, 4

Quinci Letè; così da l’altro lato

Eünoè si chiama, e non adopra   3, 14
se quinci e quindi pria non è gustato: [132]

a tutti altri sapori esto è di sopra.
E avvegna ch’assai possa esser sazia
la sete tua perch’ io più non ti scuopra, [135]   7, 17

darotti un corollario ancor per grazia; (Matelda1, 4
né credo che ’l mio dir ti sia men caro,

se oltre promession teco si spazia. [138]   7, 7 (Levi)

Quelli ch’anticamente poetaro   7, 4
l’età de l’oro e suo stato felice,   3, 3
forse in Parnaso esto loco sognaro. [141]

Qui fu innocente l’umana radice;
qui primavera sempre e ogne frutto;   3, 3
nettare è questo di che ciascun dice ». [144]

Io mi rivolsi ’n dietro allora tutto
a’ miei poeti, e vidi che con riso   1, 16
udito avëan l’ultimo costrutto;

poi a la bella donna torna’ il viso. [148]   2, 1 (V ecclesia)


Abbreviazioni e avvertenze

Ap : APOCALYPSIS IOHANNIS.

LSA : PIETRO DI GIOVANNI OLIVI, Lectura super Apocalipsim.

Concordia : JOACHIM VON FIORE, Concordia Novi ac Veteris Testamenti. Herausgegeben von A. PATSCHOVSKY, Wiesbaden 2017 (Monumenta Germaniae Historica. Quellen zur Geistesgeschichte des  Mittelalters, 28. Band), Teil 2 (lib. I-IV), Teil 3 (lib. V).

Expositio : GIOACCHINO DA FIORE, Expositio in Apocalypsim, in Edibus Francisci Bindoni ac Maphei Pasini, Venetiis 1527, ristampa anastatica Minerva, Frankfurt a. M. 1964.

Olivi opera spesso una sintesi del testo di Gioacchino da Fiore. Le « » precedono e chiudono un’effettiva citazione. Diversamente, viene posto un asterisco (*) o una nota in apice al termine della parte riferibile a Gioacchino.

In Ap : RICCARDO DI SAN VITTORE, In Apocalypsim libri septem, PL 196, coll. 683-888.

Tutte le citazioni della Lectura super Apocalipsim presenti nei saggi o negli articoli pubblicati su questo sito sono tratte dalla trascrizione, corredata di note e indici, del ms. Paris, Bibliothèque nationale de France, lat. 713, a disposizione fin dal 2009 sul sito medesimo. I passi scritturali ai quali si riferisce l’esegesi sono in tondo compresi tra “ ”; per le fonti diverse da quelle indicate si rinvia all’edizione in rete. Non viene presa in considerazione l’edizione critica a cura di W. LEWIS (Franciscan Institute Publications, St. Bonaventure – New York, 2015) per le problematiche da essa poste, che sono discusse in A. FORNI – P. VIAN, A proposito dell’edizione di Warren Lewis della Lectura super Apocalipsim di Pietro di Giovanni Olivi. Alcune osservazioni, in “Archivum Franciscanum Historicum”, 109 (2016), pp. 99-161.
Il testo della Commedia citato è in Dante Alighieri, La Commedia secondo l’antica vulgata, a cura di G. PETROCCHI, Firenze 1994.


INDICE

 

1. L’edenica Gerusalemme celeste. 2. La verdeggiante sede divina. 3. L’alta Grecia. 4. Principio di bellezza. 5. Il “lume” di Venere. 6. Vita attiva e vita contemplativa. 7. Pia avvocata. 8. La “religïone de la montagna”. 9. La Gran Contessa francescana. Appendice.

 

 

Sottrarre Dante alla retorica scolastica equivale a rendere un servizio non da poco a tutta la cultura europea. Io spero che non occorreranno, per questo, fatiche secolari; eppure, solo mediante concordi sforzi che vadano oltre le singole nazioni, si riuscirà nell’impresa di creare un genuino anticommento al lavorio di generazioni e generazioni di scolastici, di striscianti filologi e di pseudobiografi. La mancanza di rispetto per una materia poetica che si lascia attingere soltanto attraverso l’atto dell’esecuzione, soltanto attraverso il volo del direttore d’orchestra – è stata questa, appunto, la causa della generale cecità nei confronti di Dante, sommo padrone e amministratore di tutta questa materia, sommo direttore d’orchestra dell’arte europea, che ha precorso di molti secoli la formazione di un’orchestra adeguata – a che cosa? – all’integrale della bacchetta del direttore d’orchestra …

                                                                                                                      Osip Mandel’štam *


Matelda, creatura di fantasia o personaggio storico? Chi o cosa significa il nome della “bella donna” che accompagna i passi di Dante nel paradiso terrestre? Può trattarsi della contessa Matilde, sostentatrice del patrimonium sancti Petri, considerata la netta posizione separatista fra Impero e Papato, quanto ai fini proposti all’uomo dalla Provvidenza, propugnata nella Monarchia? E se non lei, chi altri potrebbe essere? Scriveva Benedetto Croce, nel 1920, separando la poesia della figura femminile dalle allegorie con le quali viene gravata:

E qui accetteremo semplicemente quella ventina di terzine su Matelda come una delle molte – ma delle più belle – espressioni della vaghezza che trae l’uomo a comporre in immaginazione paesaggi incantevoli, animati da incantevoli figure femminili. Tanti di questi giardini, boschetti, selvette, pratelli e pastorelle e pulzellette belle e coglienti fiori e danzanti e cantanti si erano avuti anche di recente nella lirica provenzale e italiana; e Dante ripiglia il comune motivo e lo svolge, con gran diletto, in una nuova forma di squisita perfezione, in cui il fascino della gioventù, della bellezza, dell’amore e del riso si esalta in ogni immagine […]. Non c’è altro; perché già nella seconda parte del canto [Purg. XXVIII] Matelda compie ufficio d’informatrice […], e poi è chiamata ad altri gravi uffici, più o meno allegorici, che non hanno nulla da vedere con la ispirazione poetica ond’ella fu generata e apparve per la prima volta [1].                                                         

Lo stesso Croce, vent’anni dopo, avvertiva però il lettore di Dante di rendersi anzitutto familiare con “le linee fondamentali dell’edifizio medievale” e di vivere “dentro questa figurazione, grandiosamente conclusa in sé ma a noi per ogni verso estranea” [2]. Per vivere non da estraneo in quel grandioso edificio, e per far da guida agli altri, lo storico deve prima di tutto porsi dalla parte dei lettori di allora. La Commedia è libro scritto “dentro e fuori”, come tutta la Scrittura, come l’Apocalisse (Ap 5, 1: “Et vidi in dextera sedentis super thronum librum scriptum intus et foris”). L’intensa parodica elaborazione della Lectura super Apocalispim del francescano Pietro di Giovanni Olivi, condotta per tutto il “poema sacro”, consente oggi allo studioso di leggere i canti dell’Eden, nei quali opera Matelda, oltre il significato letterale, cogliendo quei significati allotri, che la lettera dei versi registra come variazioni continue su temi del commento apocalittico oliviano, indirizzati a un preciso gruppo di riformatori della Chiesa e predicatori, gli Spirituali francescani. Si potrà cogliere, almeno in parte, il volo del sommo direttore d’orchestra nell’atto dell’esecuzione.

* OSIP MANDEL’šTAM, Conversazione su Dante (1933), a cura di Remo Faccani, Genova 1994, pp. 147-148.

[1]
BENEDETTO CROCE, La poesia di Dante, Bari 19527 [19201] (Scritti di storia letteraria e politica, XVII), pp. 121-122 [corsivo nostro].

[2] BENEDETTO CROCE, Due postille alla critica dantesca, in “La Critica. Rivista di Letteratura, Storia e Filosofia”, 39 (1941), pp. 133-141: p. 136.

Il medesimo “panno” della Lectura super Apocalipsim è servito, variando i temi, per cucire più parti della “gonna”. Per questo motivo, esaminando un canto della Commedia, si deve tornare su passi esegetici già considerati. Lo si farà anche in questo caso, riproponendo quando utile le tabelle pubblicate su questo sito in altra sede, oppure rinviando ad essa per maggiori approfondimenti. La figura di Matelda, già esaminata nel 2014, vien qui posta in nuova luce nel quadro di una lettura di Purgatorio XXVIII.


1. L’edenica Gerusalemme celeste

La città superna descritta nella settima visione apocalittica, “quella Roma onde Cristo è romano”, non è, come la Città del Sole di Campanella, una città ideale compiutamente terrena, magari posta al di là di Taprobane, a segnare un’esigenza di riforma politico-religiosa. Per Dante la città discende in terra, e in terra si frantuma in mille rivi. Chiunque vive, pellegrino, nell’“aiuola che ci fa tanto feroci” ne custodisce un pezzo, ne è fossato, muro, porta, angolo o misura, strada o casa; da virtuale cittadino della “vera città” contribuisce alla ricostruzione dell’edificio di Dio o di quello di Dite.

Il capitolo XXII dell’Apocalisse si apre con la visione del nobilissimo fiume che scorre nel mezzo della città celeste. È lo stesso Spirito Santo, ovvero la gloria che da Dio affluisce sui beati: fiume di acqua viva, o di vita eterna, da cui deriva tutta la sostanza della Trinità. Fiume di splendore e luce per sapienza, che ha due rive o due parti (destra e sinistra, superiore e inferiore), designanti le due nature, divina e umana, di Cristo-lignum vitae che dà perpetui frutti. Il lignum vitae, l’albero che sta nel mezzo, con le sue foglie getta un’ombra sacramentale, di verità superiori, su entrambe le rive, l’umana e la divina, perché non solo il cielo, ma anche la terra è ripiena della gloria di Dio.
L’esegesi di Ap 22, 1-2 offre una ricchezza tematica riaffiorante in numerosi luoghi della Commedia. Può inoltre essere considerata in collazione con altri passi del testo sacro, come Ap 21, 11 (la forma della città, ‘idea’ dello splendore divino) e Ap 21, 18.21.

Se riferita al fiume, l’esegesi conduce ai due fiumi dell’Eden (il Lete e l’Eunoè) che si dipartono da un’unica fontana, e al fiume di luce dell’Empireo (Ap 22, 1-2). Il tessuto dell’Eden è in parte segnato dai temi del fiume celeste, scomposti e assegnati a più immagini. Si dice in parte perché innumerevoli sono i segni che rinviano ad altri raggruppamenti tematici; qui se ne isola uno solo. Si noti la rima diriva / ravviva, per l’Eunoè (Purg. XXXIII, 127-129); ma viva è anche “la divina foresta”, in rima con riva intesa come margine in corrispondenza dell’ultimo gradino della scala (Purg. XXVIII, 1-3), quasi anticipazione della ripa verdeggiante e ombrata del Lete. Questo “rio, / che ’nver’ sinistra con sue picciole onde / piegava l’erba che ’n sua ripa uscìo” (vv. 25-27), la cui acqua toglie la memoria del peccato, costituisce la riva sinistra del fiume celeste, mentre l’Eunoè, il cui gusto “a tutti altri sapori … è di sopra” (v. 133), corrisponde all’altra riva, destra e superiore. Entrambi i fiumi nascono da un’unica sorgente, “al fin d’un’ombra smorta, / qual sotto foglie verdi e rami nigri / sovra suoi freddi rivi l’alpe porta” (Purg. XXXIII, 109-111). I signacula provengono tutti dalla medesima parte di esegesi, ma sono assegnati alcuni a un fiume altri all’altro, altri a entrambi: la ripa e la qualità di “fiume sacro” al Lete, il derivare e l’essere l’acqua viva all’Eunoè; è comune l’ombra delle foglie. Dalle singole parti così contrassegnate, come per sineddoche, l’esperto lettore può ricostruire il tutto, cioè la dottrina che proviene dall’esegesi del testo sacro. Certo questo ‘tutto’ egli già lo conosce in latino, ma è cosa diversa ritrovarselo in volgare, figurato in tante immagini, utile per l’edificazione personale e la predicazione.
Non sono solo i due fiumi dell’Eden ad essere fasciati dalla sacra pagina e dalla sua esposizione. Perfino Beatrice vi partecipa. Anche la donna ha due bellezze, gli occhi e la bocca. Alla prima si perviene con le virtù cardinali (le quali lì accompagnano Dante), ma si guarda nel suo profondo solo con le virtù teologali e per preghiera di queste, congiunta con la grazia gratuitamente data, si ottiene la seconda bellezza. Nel suo svelarsi, Beatrice è “isplendor di viva luce etterna” che sta fra cielo e terra, “là dove armonizzando il ciel t’adombra”. Per lei non si parla di ‘fiume’ o di ‘acqua’, ma assume alcune fondamentali prerogative di Cristo centro della Gerusalemme celeste, della sua irrigazione e dunque della storia umana (Purg. XXXI, 139-145). La donna ha anche nelle sue vesti una zona superiore (il velo candido, “sopra” il quale è “cinta d’uliva”) e una inferiore (“sotto verde manto”), cioè la veste rossa, indelebile memoria dell’umana Beatrice descritta con “vestimenta sanguigne” nella Vita Nova (1. 4, 15; 28. 1; Purg. XXX, 31-33). Il suo disvelarsi è una vera e propria messa in versi della parola “apocalisse”, rivelazione per grazia dell’arcano. L’ombra del velo verrà completamente tolta nella gloria di Cristo quando, nel sesto e nel settimo stato, la luce della luna sarà, come quella del sole, splendente della luce di sette giorni, secondo Isaia 30, 26 che è incipit della Lectura super Apocalipsim.

I due fiumi dell’Eden sono figura in terra dell’unico luminoso fiume dell’Empireo: “fulvido di fulgore, intra due rive / dipinte di mirabil primavera”, dal quale escono “faville vive”, è “onda / che si deriva” da Dio; ma il fiume, le faville (“li topazi / ch’entrano ed escono”) e il verdeggiante “rider de l’erbe” sono “umbriferi prefazi”, cioè ombra sacramentale del vero, adombranti il primo una forma circolare e non lineare, le seconde gli angeli, il terzo i beati (Par. XXX, 61 sgg.). Non è detto, ma è facile deduzione dal confronto con gli elementi semantici che segnano l’esegesi scritturale e i versi, che il fiume di luce, come linearmente appare al poeta che non ha “viste ancor tanto superbe”, designi nelle sue due rive la doppia natura di Cristo, umana e divina, volta verso la terra e il cielo. Ma sono entrambe rive di un unico fiume di “luce intellettüal, piena d’amore” (lo Spirito Santo: Dante ne beve l’acqua con gli occhi), per cui dalla Trinità deriva ai beati, ad essi comunicata, tutta la sostanza della grazia e della gloria. Sazietà ed ebbrezza sono alla porta meridionale della città, che apre l’ardente carità di Cristo (Ap 21, 13); le “faville vive” sono “come inebrïate da li odori”, è opportuno che Dante “si sazi” dell’acqua del fiume (vv. 67, 74).
“Li topazi / ch’entrano ed escono” rinviano ad altri luoghi dell’esegesi della Gerusalemme celeste. L’entrata e l’uscita dalla città è misuratamente regolato da un angelo con la canna d’oro (Ap 21, 15). Le fondamenta della città sono ornate con dodici pietre preziose: diaspro, zaffiro, calcedonio, smeraldo, sardonice, cornalina, crisòlito, berillo, topazio, crisopazio, giacinto, ametista (Ap 21, 19-20). Queste gemme sono virtù, le loro qualità sono variamente distribuite. Il topazio – che secondo Gregorio Magno deriva da “pan, quod est omne, pro eo quod omni colore resplendet” e designa la perfetta vita contemplativa – è impersonato in Cacciaguida (Par. XV, 85-86); pervade sia la scala d’oro vista nel cristallino cielo di Saturno (Par. XXI, 28-33) come il velo tanto ghiacciato di Cocito “che se Tambernicchi / vi fosse sù caduto, o Pietrapana (la Pania delle Alpi Apuane, in cui pan è come incastonato), / non avria pur da l’orlo fatto cricchi” (Inf. XXXII, 28-30).

All’estremo infernale dell’Empireo sta Cocito, nella cui Tolomea si registra uno stare dell’anima (superiore e ‘viva’) e del corpo (inferiore e terreno) distorto rispetto a quello di Cristo centro fra le due rive: ivi infatti i traditori degli ospiti stanno dannati con l’anima ancor prima della morte corporale, essendo il corpo governato da un demonio che lo fa apparire “vivo ancor di sopra” (Inf. XXXIII, 154-157).
Ma l’archetipo figurale del nobilissimo fiume di luce dell’Empireo è il “bel fiumicello” che ‘difende’ il “nobile castello” del Limbo (Inf. IV, 106-108) anch’esso, con gli “spiriti magni” che vi albergano, primo nucleo dell’edificio santo che tanto si svilupperà attraverso i sette stati della storia, antica e nuova.

In questa esegesi del fiume di una città immateriale, perché tale è la Gerusalemme celeste, Dante poteva specchiare quanto la sua mente aveva elaborato sulle due beatitudini, poste come fini all’uomo dalla Provvidenza: la beatitudine di questa vita (raffigurata nel paradiso terrestre), alla quale si perviene sotto il regime dell’imperatore, attraverso la filosofia e la pratica delle virtù morali e intellettuali; la beatitudine della vita eterna (consistente nella visione di Dio), alla quale si perviene tramite le virtù teologali e sotto la guida del romano pontefice (cfr. Monarchia, III, xv, 7-10). Entrambe le beatitudini, come le loro guide, discendono senza intermediari dall’unico Fonte dell’universale autorità (ibid., xv, 15). Corrispondono alle due rive, umana e divina, dell’unico fiume della grazia e della gloria, all’umanità e alla divinità di Cristo. Beatrice, figura di Cristo, è nell’Eden cerniera: gli occhi partecipano sia dell’una come dell’altra, la bocca svelata adombra la visione di Dio.
Nel “poema sacro / al quale ha posto mano e cielo e terra” (Par. XXV, 1-2; cfr. l’esegesi di Ap 10, 5-7, considerata altrove), per il quale la Grazia deriva da entrambe le rive dell’unico fiume celeste, l’esegesi di Ap 22, 1-2 torna con insistenza, e in modo insospettabile. Ad esempio, voto religioso e impero sono nel Paradiso trattati rispettivamente nei primi due cieli, entrambi, nelle “sacre bende” o nelle “sacre penne”, “ombra” sacramentale di verità superiori che discendono dal fiume luminoso dell’Empireo, che ha due rive, una divina e l’altra umana (cfr. Par. III, 114; VI, 7; “sacramento” è “sacro segno” ad Ap 1, 20 e 17, 7). C’è una ragione precisa del tanto spazio dato da Beatrice in Par. V alla questione dell’alienabilità dei voti. Alcuni fondamentali attributi del voto evangelico, così come delineati dall’Olivi, appaiono infatti applicabili anche alla Monarchia: la stabilità, l’immutabilità, l’indissolubilità, il divieto assoluto di alienazione. Così lo stato di altissima povertà, a causa dell’immutabilità del voto, produce su chi lo professa gli stessi effetti della giurisdizione del Monarca: il non poter desiderare di più, la rimozione della cupidigia, la carità, la pace.
Si direbbe che la stessa poesia derivi la sua linfa da quel fiume di grazia e di gloria (Ap 22, 1-2). Essa, nel descrivere il “regno santo”, è umbratile, sacramentale figurazione di verità superiori; si corona delle lauree foglie del “diletto legno” del “buono Appollo” utilizzando ambedue i gioghi di Parnaso, quello abitato dalle Muse e quello sede di Apollo, come su ambedue le rive, umana e divina, stanno le foglie di Cristo-lignum vitae con il loro sacro ombreggiare (Par. I, 16-18, 22-27).

 

Tab. I

[LSA, cap. XXI, Ap 21, 11 (VIIa visio)] Formam autem tangit tam quoad eius splendorem quam quoad partium eius dispositionem et dimensionem, unde subdit: “a Deo habentem claritatem Dei” (Ap 21, 10-11). “Dei” dicit, quia est similis increate luci Dei tamquam imago et participatio eius. Dicit etiam “a Deo”, quia ab ipso datur et efficitur. Sicut enim ferrum in igne et sub igne et ab igne caloratur et ignis speciem sumit, non autem a se, sic et sancta ecclesia accipit a Deo “claritatem”, id est preclaram et gloriosam formam et imaginem Dei, quam et figuraliter specificat subdens: “Et lumen eius simile lapidi pretioso, tamquam lapidi iaspidis, sicut cristallum”. Lux gemmarum est eis firmissime et quasi indelebiliter incorporata, et est speculariter seu instar speculi polita et variis coloribus venustata et visui plurimum gratiosa. Iaspis vero est coloris viridis; color vero seu claritas cristalli est quasi similis lune seu aque congelate et perspicue. Sic etiam lux glorie et gratie est sensibus cordis intime et solide incorporata et variis virtutum coloribus adornata et divina munde et polite et speculariter representans et omnium virtutum temperie virens. Est etiam perspicua et transparens non cum fluxibili vanitate, sed cum solida et humili veritate. Obscuritas enim lune humilitatem celestium mentium designat.

[LSA, cap. XXI, Ap 21, 18.21 (VIIa visio)] Postquam autem dixit quod materia muri erat ex iaspide, dicit (Ap 21, 18): “Ipsa vero civitas”, scilicet erat “aurum mundum simile vitro mundo”. Et infra, postquam egit de materia portarum, subdit (Ap 21, 21): “Et platea civitatis”, scilicet erat, “aurum mundum, tamquam vitrum perlucidum”. Et forte secundum litteram primum dixit de domibus ex quibus constabat civitas, ultimum vero de toto fundo seu planitie intra muros contenta. Per utrumque autem designatur generalis ecclesia et principaliter contemplativorum, sicut per muros militia martirum et pugilum seu defensorum interioris ecclesie, que est per unitatem concordie “civitas”, id est civium unitas, et per fulgorem divine caritatis et sapientie aurea, et per puram confessionem veritatis propria peccata clare et humiliter confitentis et nichil falso simulantis est “similis vitro mundo” […] Inferiores etiam mi[ni]sterialiter iuvabuntur per intermediam gloriam superiorum, quasi per specula clara et quasi per vitrum perspicuum et quasi per portas intrent in clariorem et altiorem actum visionis et fruitionis Dei. Qualiter autem hoc sit et esse possit declaravi plenius in lectura super librum angelice hierarchie prefate.

 

[LSA, cap. XXII, Ap 22, 1-2 (VIIa visio)] “Et ostendit michi fluvium” (Ap 22, 1). Hic sub figura nobilissimi fluminis currentis per medium civitatis describit affluentiam glorie manantis a Deo in beatos. Fluvius enim iste procedens a “sede”, id est a maiestate “Dei et Agni”, est ipse Spiritus Sanctus et tota substantia gratie et glorie per quam et in qua tota substantia summe Trinitatis dirivatur seu communicatur omnibus sanctis et precipue beatis, que quidem ab Agno etiam secundum quod homo meritorie et dispensative procedit. Dicit autem “fluvium” propter copiositatem et continuitatem, et “aque” quia refrigerat et lavat et reficit, et “vive” quia, secundum Ricardum, numquam deficit sed semper fluit*. Quidam habent “vite”, quia vere est vite eterne. Dicit etiam “splendidum tamquam cristallum”, quia in eo est lux omnis et summe sapientie, et summa soliditas et perspicuitas quasi cristalli solidi et transparentis. Dicit etiam “in medio platee eius” (Ap 22, 2), id est in intimis cordium et in tota plateari latitudine et spatiositate ipsorum.
“Ex utraque parte fluminis lignum vite”. Ricardus construit hoc cum immediate premisso, dicens quod hoc “lignum” est “in medio platee”**. Et certe tam fluvius quam lignum vite, id est Christus, est “in medio eius”, id est civitatis, iuxta quod Genesis II° dicitur quod “lignum vite” erat “in medio paradisi” (Gn 2, 9). Una autem pars seu ripa fluminis est ripa seu status meriti quasi a sinistris, dextera vero pars est status premii; utrobique autem occurrit Christus, nos fruct[u] vite divine et foliis sancte doctrine et sacramentorum reficiens et sanans. Per folia enim designantur verba divina, tum quia veritate virescunt, tum quia fructum bonorum operum sub se tenent et protegunt, tum quia quoad vocem transitoria sunt. Sacramenta etiam Christi sunt folia, quia sua similitudine obumbrant fructus et effectus gratie quos significant et quia arborem ecclesie ornant. Vel una pars fluminis est suprema, altera vero pertingit usque ad infimum sensuum et corporum.
Nam non solum celum, sed etiam terra plena est gloria et maiestate Dei, unde beatis ex utraque parte occurrit Deus et specialiter Christus homo, qui secundum corpus se visibilem exhibet in ripa inferiori et suam deitatem et animam in ripa superiori.

*In Ap VII, vii (PL 196, col. 875 C).
** Ibid., col. 876 A.

Par. XXX, 61-69, 73-78, 85-87                                       

e vidi lume in forma di rivera
fulvido di fulgore, intra  due rive   fluvido
dipinte di mirabil primavera.
Di tal fiumana uscian faville vive,
e d’ogne parte si mettien ne’ fiori,
quasi rubin che oro circunscrive;
poi, come inebrïate da li odori,
riprofondavan sé nel miro gurge,
e s’una intrava, un’altra n’uscia fori.

“ma di quest’ acqua convien che tu bei,
prima che tanta sete in te si sazi”:
così mi disse il sol de li occhi miei.
Anche soggiunse: “Il fiume e li topazi
ch’entrano ed escono e ’l rider de l’erbe
son di lor vero umbriferi prefazi.                       

come fec’ io, per far migliori spegli
ancor de li occhi, chinandomi a l’onda
che si deriva perché vi s’immegli

[LSA, cap. XXI, Ap 21, 13 (VIIa visio)] Sunt etiam tres (porte) a meridie, ad aperiendum ardentem Christi caritatem, et eius superexcessivam et incomprehensibilem claritatem, et ineffabilem et immensam iocunditatem et felicitatem et satietatem et ebrietatem. Hec enim sunt tria meridionalia, que Canticorum I° petit sponsa cum ait: “Indica michi ubi pascas, ubi cubes in meridie” (Cn 1, 6).

Par. XXI, 25-33

Dentro al cristallo che ’l vocabol porta,
cerchiando il mondo, del suo caro duce
sotto cui giacque ogne malizia morta,
di color d’oro in che raggio traluce
vid’ io uno scaleo eretto in suso
tanto, che nol seguiva la mia luce.
Vidi anche per li gradi scender giuso
tanti splendor, ch’io pensai ch’ogne lume
che par nel ciel, quindi fosse diffuso.

[LSA, cap. XXI, Ap 21, 15 (VIIa visio)] Per hanc autem metiuntur civitatem et murum et portas, tum quia docent horum regularem et virtualem mensuram, tum quia sub certa discretionis regula et mensura regunt totam ecclesiam et eius introitus et exitus et mirabilem clausuram.

[LSA, cap. XXI, Ap 21, 20 (VIIa visio)] “Topazius”, qui similis est auro purissimo et serenissimo celo, et super ceteros lapides splendens maxime cum tangitur solis splendore, et qui secundum Gregorium dicitur a «pan», quod est omne, pro eo quod omni colore resplendet, designat perfectam contem-plativam.
[Cfr. S. Gregorii Magni, Moralia in Iob, libri XI-XXII (CCSL, CXLIII A), lib. XVIII, cap. LII, 14-17 (n. 84), p. 947 (= PL 76, col. 89 A)].
[…] Sunt autem et alie proprietates istarum gemmarum, quibus omnibus sanctorum merita multiformiter figurantur.

Inf. XXXII, 28-30 

com’ era quivi; che se Tambernicchi
vi fosse sù caduto, o Pietrapana,
non avria pur da l’orlo fatto cricchi. 

Par. XV, 13-24, 85-87; XVII, 121-123

Quale per li seren tranquilli e puri
discorre ad ora ad or sùbito foco,
movendo li occhi che stavan sicuri,
e pare stella che tramuti loco,
se non che da la parte ond’ e’ s’accende
nulla sen perde, ed esso dura poco:
tale dal corno che ’n destro si stende
a piè di quella croce corse un astro
de la costellazion che lì resplende;
né si partì la gemma dal suo nastro,
ma per la lista radïal trascorse,
che parve foco dietro ad alabastro. 

Ben supplico io a te, vivo topazio
che questa gioia prezïosa ingemmi,
perché mi facci del tuo nome sazio.

La luce in che rideva il mio tesoro
ch’io trovai lì, si fé prima corusca,
quale a raggio di sole specchio d’oro

Tab. I bis

Purg. XXXI, 1-3, 139-145

“O tu che se’ di là dal fiume sacro”,
volgendo suo parlare a me per punta,
che pur per taglio m’era paruto acro

O isplendor di viva luce etterna,
chi palido si fece sotto l’ombra
sì di Parnaso, o bevve in sua cisterna,

che non paresse aver la mente ingombra,
tentando a render te qual tu paresti
là dove armonizzando il ciel t’adombra,
quando ne l’aere aperto ti solvesti?

Par. XXV, 1-3

Se mai continga che ’l poema sacro
al quale ha posto mano e cielo e terra,

sì che m’ha fatto per molti anni macro

[LSA, cap. X, Ap 10, 5-7 (IIIa visio, VIa tuba)] Nota etiam quod sicut nos iuramus levando et ponendo manum super altare vel super librum evangeliorum, tamquam protestantes nos per sanctitatem altaris vel evangelii iurare, sic iste angelus iurat levando manum ad celum, id est per altam protestationem celestis ecclesie et Dei habitantis in ea, et etiam quia demonstratio celestis mansionis et eternitatis multum confirmat tempus huius seculi [c]eleriter transiturum. Hinc etiam est quod iurat “per viventem” in eternum, ubi etiam signanter specificat tria per ipsum creata, scilicet “celum”, tamquam electis querendum et tamquam locum in quo est eorum gloria consumanda; deinde “terram” cum existentibus in ea, et tertio “mare” cum existentibus in eo, quasi dicat: iuro per eum qui creavit terram fidelium et mare nationum infidelium, quibus utrisque nunc ego predico ed ad eternam gloriam invito. Unde et tenebat pedem unum super terram et alium super mare.

Par. I, 16-18, 22-27

Infino a qui l’un giogo di Parnaso
assai mi fu, ma or con amendue
m’è uopo intrar ne l’aringo rimaso.

O divina virtù, se mi ti presti
tanto che l’ombra del beato regno
segnata nel mio capo io manifesti,
vedra’mi al piè del tuo diletto legno
venire, e coronarmi de le foglie
che la materia e tu mi farai degno.

Par. III, 109-114

E quest’ altro splendor che ti si mostra
da la mia destra parte e che s’accende
di tutto il lume de la spera nostra,
ciò ch’io dico di me, di sé intende;
sorella fu, e così le fu tolta
di capo l’ombra de le sacre bende.

Par. VI, 7-9, 31-33

e sotto l’ombra de le sacre penne
governò ’l mondo lì di mano in mano,
e, sì cangiando, in su la mia pervenne.

perché tu veggi con quanta ragione
si move contr’ al sacrosanto segno
e chi ’l  s’appropria e chi a lui s’oppone.

Par. XIII, 19-21

e avrà quasi l’ombra de la vera
costellazione e de la doppia danza

che circulava il punto dov’ io era

[LSA, cap. XXII, Ap 22, 1-2 (VIIa visio)] “Et ostendit michi fluvium” (Ap 22, 1). Hic sub figura nobilissimi fluminis currentis per medium civitatis describit affluentiam glorie manantis a Deo in beatos. Fluvius enim iste procedens a “sede”, id est a maiestate “Dei et Agni”, est ipse Spiritus Sanctus et tota substantia gratie et glorie per quam et in qua tota substantia summe Trinitatis dirivatur seu communicatur omnibus sanctis et precipue beatis, que quidem ab Agno etiam secundum quod homo meritorie et dispensative procedit. Dicit autem “fluvium” propter copiositatem et continuitatem, et “aque” quia refrigerat et lavat et reficit, et “vive” quia, secundum Ricardum, numquam deficit sed semper fluit*. Quidam habent “vite”, quia vere est vite eterne. Dicit etiam “splendidum tamquam cristallum”, quia in eo est lux omnis et summe sapientie, et summa soliditas et perspicuitas quasi cristalli solidi et transparentis. Dicit etiam “in medio platee eius” (Ap 22, 2), id est in intimis cordium et in tota plateari latitudine et spatiositate ipsorum.
“Ex utraque parte fluminis lignum vite”. Ricardus construit hoc cum immediate premisso, dicens quod hoc “lignum” est “in medio platee”**. Et certe tam fluvius quam lignum vite, id est Christus, est “in medio eius”, id est civitatis, iuxta quod Genesis II° dicitur quod “lignum vite” erat “in medio paradisi” (Gn 2, 9). Una autem pars seu ripa fluminis est ripa seu status meriti quasi a sinistris, dextera vero pars est status premii; utrobique autem occurrit Christus, nos fruct[u] vite divine et foliis sancte doctrine et sacramentorum reficiens et sanans. Per folia enim designantur verba divina, tum quia veritate virescunt, tum quia fructum bonorum operum sub se tenent et protegunt, tum quia quoad vocem transitoria sunt. Sacramenta etiam Christi sunt folia, quia sua similitudine obumbrant fructus et effectus gratie quos significant et quia arborem ecclesie ornant. Vel una pars fluminis est suprema, altera vero pertingit usque ad infimum sensuum et corporum.
Nam non solum celum, sed etiam terra plena est gloria et maiestate Dei, unde beatis ex utraque parte occurrit Deus et specialiter Christus homo, qui secundum corpus se visibilem exhibet in ripa inferiori et suam deitatem et animam in ripa superiori.

*In Ap VII, vii (PL 196, col. 875 C).
** Ibid., col. 876 A.

 

Purg. XXVIII, 1-4, 10-18, 25-36, 46-48, 61-63, 106-108; XXIX, 7-11, 61-62, 70-71, 88-90

Vago già di cercar dentro e dintorno
la divina foresta spessa e viva,
ch’a li occhi temperava il novo giorno,
sanza più aspettar, lasciai la riva

per cui le fronde, tremolando, pronte
tutte quante piegavano a la parte
u’ la prim’ ombra gitta il santo monte;
non però dal loro esser dritto sparte
tanto, che li augelletti per le cime
lasciasser d’operare ogne lor arte;
ma con piena letizia l’ore prime,
cantando, ricevieno intra le foglie,
che tenevan bordone a le sue rime

ed ecco più andar mi tolse un rio,
che ’nver’ sinistra con sue picciole onde
piegava l’erba che ’n sua ripa uscìo.
Tutte l’acque che son di qua più monde,
parrieno avere in sé mistura alcuna
verso di quella, che nulla nasconde,
avvegna che si mova bruna bruna
sotto l’ombra perpetüa, che mai
raggiar non lascia sole ivi né luna.
Coi piè ristetti e con li occhi passai
di là dal fiumicello, per mirare
la gran varïazion d’i freschi mai

“vegnati in voglia di trarreti avanti”,
diss’ io a lei, “verso questa rivera,
tanto ch’io possa intender che tu canti”.

Tosto che fu là dove l’erbe sono
bagnate già da l’onde del bel fiume,
di levar li occhi suoi mi fece dono.

in questa altezza ch’è tutta disciolta
ne l’aere vivo, tal moto percuote,
e fa sonar la selva perch’ è folta

allor si mosse contra ’l fiume, andando
su per la riva; e io pari di lei,
picciol passo con picciol seguitando.
Non eran cento tra ’ suoi  passi e ’ miei,
quando le ripe igualmente dier volta

La donna mi sgridò: “Perché pur ardi
sì ne l’affetto de le vive luci …”

Quand’ io da la mia riva ebbi tal posta,
che solo il fiume mi facea distante

Poscia che i fiori e l’altre fresche erbette
a rimpetto di me da l’altra sponda
libere fuor da quelle genti elette

Par. XXX, 61-66, 76-87

e vidi lume in forma di rivera
fulvido di fulgore, intra due rive
dipinte di mirabil primavera.

Di tal fiumana uscian faville vive,
e d’ogne parte si mettien ne’ fiori,
quasi rubin che oro circunscrive

Anche soggiunse: “Il fiume e li topazi
ch’entrano ed escono e ’l rider de l’erbe
son di lor vero umbriferi prefazi.
Non che da sé sian queste cose acerbe;
ma è difetto da la parte tua,
che non hai viste ancor tanto superbe”.
Non è fantin che sì sùbito rua
col volto verso il latte, se si svegli
molto tardato da l’usanza sua,
come fec’ io, per far migliori spegli
ancor de li occhi, chinandomi a l’onda
che si deriva perché vi s’immegli

Inf. IV, 106-108

Venimmo al piè d’un nobile castello,
sette volte cerchiato d’alte mura,
difeso intorno d’un bel fiumicello.

Inf. XXXIII, 154-157

Ché col peggiore spirto di Romagna
trovai di voi un tal, che per sua opra
in anima in Cocito già si bagna,
e in corpo par vivo ancor di sopra.

PurgXXXII, 43-45; XXXIII, 106-111, 127-129

Beato se’, grifon, che non discindi
col becco d’esto legno dolce al gusto,
poscia che mal si torce il ventre quindi.

quando s’affisser, sì come s’affigge
chi va dinanzi a gente per iscorta
se trova novitate o sue vestigge,
le sette donne al fin d’un’ombra smorta,
qual sotto foglie verdi e rami nigri
sovra suoi freddi rivi l’alpe porta.

Ma vedi Eünoè che là diriva:
menalo ad esso, e come tu se’ usa,
la tramortita sua virtù ravviva.

 

 

[LSA, cap. I, Ap 1, 20 (Ia visio)] Misterium dicitur omne signum figurale figurans aliquod grande secretum, et aliquando stat pro tali occulto significato.
Littera Ricardi habet “sacramentum”, quam exponit dicens: «Sacramentum est sacre rei signum, ubi scilicet aliud videatur et aliud intelligatur, sicut hic ubi stelle et candelabra videbantur et episcopi et ecclesie intelligebantur». [In Ap I, iv (PL 196, col. 712 B)]

[LSA, cap. XVII, Ap 17, 7 (VIa visio)] Responsio tamen angeli plus videtur tendere ad secundum modum per Ioachim datum. Nam ipse exponit Iohanni misterium huius predicte imaginis mulieris tamquam nescienti illud et tamquam miranti quid significaret. Unde subdit: “Ego tibi dicam sacramentum” (Ap 17, 7), id est sacram et secretam significationem, “mulieris et bestie que portat eam” et cetera. Pro primo tamen modo Ricardi facit quia paulo post dicitur quod mali, qui non sunt in libro vite scripti, mirabuntur quando videbunt bestiam que fuit et non est (Ap 17, 8).
Nota quod licet res seu malitia gentis per mulierem et bestiam significata sit mala, ipsum tamen signum et eius activa significatio a Deo per angelum data et presentata erat et est quid sacrum, et ideo dicitur “sacramentum”, id est sacrum signum.

* Expositio, pars VI, distinctio I, f. 195vb.

* In Ap V, ix (PL 196, coll. 833 D-834 A).

Inf. III, 21; VIII, 86-87

mi mise dentro a le segrete cose

E ’l savio mio maestro fece segno
di voler lor parlar segretamente.

Par. VII, 55-57, 61-63

Tu dici: “Ben discerno ciò ch’i’ odo;
ma perché Dio volesse, m’è occulto,
a nostra redenzion pur questo modo”.

Veramente, però ch’a questo segno
molto si mira e poco si discerne,

dirò perché tal modo fu più degno.


■ La città celeste, unita nei suoi cittadini, i quali ivi coabitano con Cristo che porge loro, stretti a Lui come in un tabernacolo, la beatitudine, è qualcosa di arduo a concepirsi, tanto che a Giovanni viene, ancora una volta (già ad Ap 1, 11 e 1, 19), ingiunto di scrivere, quasi a significare l’autenticità di quanto visto (Ap 21, 2-5).
Il tema del “tabernacolo” (Ap 21, 3), dell’eterna “societas seu cohabitatio” con Dio, che nella sua città comunica la propria presenza e beatitudine, è cantato da Beatrice, la quale nell’Eden promette al suo amico: “e sarai meco sanza fine cive / di quella Roma onde Cristo è romano” (cfr. l’esegesi di Ap 17, 18, nella quale la “Roma” di Cristo non sarà, dopo la morte dell’Anticristo, necessariamente coincidente con la Roma storica), ingiungendogli poi di scrivere le visioni delle vicissitudini del carro-Chiesa, come a Giovanni viene poco dopo (ad Ap 21, 5) ingiunto di scrivere in modo autentico e duraturo quanto visto (Purg. XXXII, 100-105). La patria celeste è chiamata “deserto”, sia perché vuota fino alla Redenzione, sia perché il “tabernacolo” era tipico del deserto attraversato dagli Ebrei, figura della Chiesa peregrinante. Nella Lectura “selva” equivale a “deserto” (cfr. Ap 12, 6), per cui Beatrice introduce con le parole: “Qui (cioè nell’Eden, “sì passeggiando l’alta selva vòta, / colpa di quella ch’al serpente crese” [Purg. XXXII, 31-32], che sta in terra, dove la Chiesa è ancora militante e peregrinante) sarai tu poco tempo silvano”. La selva dell’Eden, foresta fiorita e campagna santa (ad Ap 6, 2 Cristo esce “in campo” su un cavallo bianco), si oppone alla “selva selvaggia” che il poeta fugge all’inizio del poema (l’ostinata Giudea persecutrice di Cristo), mentre s’ingiglia il “deserto” dei Gentili, al quale la donna (la Chiesa) vola con le due ali di una grande aquila (Ap 12, 14).
Le qualità del tabernacolo, “quod non est ita magnum sicut urbs vel palatium”, sono proprie anche della “natural burella” – la caverna che Virgilio e Dante percorrono una volta lasciato Lucifero ed entrati nell’altro emisfero -: ivi, infatti, “non era camminata di palagio” (Inf. XXXIV, 97-99; cfr., in dissonanza, Purg. X, 67-69). Questa grotta, ora “loco vòto” come l’Eden, era prima riempito della terra che, per paura di Lucifero, “sù ricorse” a formare la montagna sulla cui cima sta appunto l’Eden (vv. 124-126). Il tabernacolo non è solo angusto, ma anche segregato e occulto; così, al termine della “natural burella”, inizia il “luogo … remoto … quel cammino ascoso” per il quale i due poeti escono “a riveder le stelle” (vv. 127-139).
La beatitudine, come affermato nell’esegesi di Ap 21, 3-5, consta di due parti. La prima consiste nell’avere ogni bene (lo stare con Cristo come in un tabernacolo), la seconda nella rimozione di ogni male. Tali sono le virtù dei due fiumi Lete ed Eunoè, i quali, come i paradisiaci “Ëufratès e Tigri”, escono nell’Eden “d’una fontana” la quale “versa da due parti aperta” l’acqua che discende dalla volontà divina. Alla seconda parte della beatitudine corrisponde l’acqua del primo fiume, il Lete, “che toglie altrui memoria del peccato”; alla prima parte l’acqua dell’Eunoè, che “d’ogne ben fatto la rende” (Purg. XXVIII, 121-133; XXXIII, 112-114).
Nel paradiso terrestre dantesco ci sono solo due fiumi (Eufrate e Tigri), anziché i quattro del Genesi (dove si aggiungono Tison e Geon). Quanto Dante trovava nella Consolatio di Boezio (V, carm. 1, vv. 3-4), sui due fiumi gemelli che scaturiscono da un’unica sorgente, concorda con l’esegesi del fiume luminoso dell’Empireo, dalle due rive, corrispondenti alla duplice natura, umana e divina, di Cristo.


Tab. I ter

[LSA, cap. XVII, Ap 17, 18 (VIa visio)] Deinde breviter insinuat que est hec mulier de qua et propter quam tanta dixit, unde subdit: “Et mulier, quam vidisti, est civitas magna, que habet regnum super reges terre”. Nimis constat quod Roma et gens Romanorum imperabat toti orbi tempore Iohannis et huius visionis, et etiam quod per totum tempus plenitudinis gentium usque ad Antichristum seu usque ad tempus istorum decem regum fixit Christus in ea principalem et universalem sedem et potestatem imperii sui super omnes ecclesias et super totum orbem. An autem post Antichristum hec urbs iterum reparetur, ut ibi usque ad finem seculi stet principalis sedes Christi sicut fuit a tempore Christi et citra, aut Christus post Antichristum reducat sedem suam ad locum unde manavit ad urbem Romam, puta in Iherusalem vel alibi, sue dispositioni est relinquendum. Neutrum enim horum potest certificari ex sacro textu nec ex aliquo certo et catholico dogmate fidei christiane.

Purg. XXXII, 100-106

“Qui sarai tu poco tempo silvano;
e sarai meco sanza fine cive
di quella Roma onde Cristo è romano.
Però, in pro del mondo che mal vive,
al carro tieni or li occhi, e quel che vedi,
ritornato di là, fa che tu scrive”.          1, 11
Così Beatrice …………………… 

Purg. XXXII, 31-33

Sì passeggiando l’alta selva vòta,   14, 2
colpa di quella ch’al serpente crese,
temprava i passi un’angelica nota.

[LSA, cap. XXI, Ap 21, 2-5 (VIIa visio)] Secundo agit de gloria civitatis Dei, id est universitatis omnium electorum, cum subdit: “Et ego Iohannes vidi civitatem sanctam Iherusalem” (Ap 21, 2). Et in hac primo describit eius gloriam breviter, secundo describitur sibi per angelum plenius, ibi: “Et venit unus de septem angelis” (Ap 21, 9). […] Vocatur autem “civitas” (Ap 21, 2), quia ibi est mira unitas omnium sanctorum tamquam concivium. […]
“Ecce tabernaculum Dei cum hominibus” (Ap 21, 3), id est, secundum Ricardum, manifestum deitatis contubernium cum salvatis. Et quia illa societas seu cohabitatio Dei cum eis non erit transitoria sed eterna, ideo subdit: “et habitabit in eis”, id est cum eis semper. Cuius societatis vinculum magis declarat, cum subdit: “Et ipsi populus eius erunt”, sibi scilicet fidelissime adherendo ipsumque colendo et semper laudando et sibi obediendo; “et ipse Deus cum eis erit eorum Deus”, suam scilicet presentiam et beatitudinem ipsis ineffabiliter communicando et ipsos numquam deserendo. Nunc enim in hoc mundo quasi non est cum suis, quia non se presentat eis visibiliter et facialiter, sed speculariter quasi absens*.
Nota quod quia stantes in eodem tabernaculo, quod non est ita magnum sicut urbs vel palatium, sunt sibi valde presentes, ideo intimam presentiam Dei designavit per homines esse cum ipso in eodem tabernaculo eius, quam intimitatem fortius expressit dicendo: “et habitabit in eis”, id est intra corda ipsorum. Sicut autem celestis patria vocatur desertum, cum per Isaiam dicitur quod “multi filii deserte” (Is 54, 1), et cum Christus dicit se reliquisse nonaginta novem oves in deserto (Lc 15, 4), quia a toto humano genere fuit usque ad Christi mortem deserta, et etiam ab angelis ante ipsorum glorificationem, sic mansio eius vocatur “tabernaculum”, quod est proprie in deserto; prout tamen est viatorum et peregrinantium, designat ecclesiam militantem et peregrinantem. Ipsa etiam deitas Dei, in quantum est super omnia et ab omnibus supersubstantialiter segregata et occulta, vocatur desertum, ac per consequens et mansio Dei in ipsa est Dei tabernaculum.
Secundo ostenditur esse ab omni malo immunis, cum subditur: “Et absterget Deus omnem lacrimam” et cetera (Ap 21, 4). Hoc satis expositum est supra, VII° capitulo circa finem. Dicit autem: “Que prima abierunt”, id est precesserunt, et hoc sic quod iam preterierunt, quasi dicat: quia huiusmodi penalia sancti patienter et victoriose prius toleraverunt, ideo meruerunt omnino liberari ab eis.
Nota quod sicut in prima parte ponitur una pars beatitudinis, que est habere omne bonum, sic in hac ponitur altera, que est esse absque omni malo. Quia vero in hiis duobus est plena renovatio, ideo subditur (Ap 21, 5): “Et dixit qui sedebat in trono:”, quasi dicat: ille qui est summe autenticus et credendus, “Ecce nova facio omnia”.
Quia etiam hec sunt ad credendum arduissima et tamen necessarissima, ideo pro eorum firma et indubitabili fide dignitate subditur (Ap 21, 5): “Et dixit michi: Scribe”, scilicet hec in libro autentico, “quia hec verba fidelissima sunt et vera”, quasi dicat: non solum verbo, sed etiam scripto autentico et diu duraturo hec ex mea auctoritate imprime et confirma in cordibus discipulorum.

* In Ap VII, ii (PL 196, coll. 860 D-861 A). 

[LSA, cap. VII, Ap 7, 16-17 (IIa visio, apertio VIi sigilli)] “Non esurient neque sitient amplius” (Ap 7, 16), scilicet respectu corporalis cibi et potus et respectu cuiuscumque penalis desiderii aut cuiuscumque desiderii non habentis plene et indistanter quod optat. Alias enim semper esuriunt et sitiunt Deum suum et gloriam eius. […] “Et absterget Deus omnem lacrimam ab oculis eorum”, id est omnem dolorem preteritum et omnia penalia signa et omnem penalem memoriam eius perfecte et totaliter amovebit ab eis.

Purg. XXVIII, 121-136

L’acqua che vedi non surge di vena
che ristori vapor che gel converta,
come fiume ch’acquista e perde lena;
ma esce di fontana salda e certa,
che tanto dal voler di Dio riprende,
quant’ ella versa da due parti aperta.
Da questa parte con virtù discende
che toglie altrui memoria del peccato;
da l’altra d’ogne ben fatto la rende.
Quinci Letè; così da l’altro lato
Eünoè si chiama, e non adopra
se quinci e quindi pria non è gustato:
a tutti altri sapori esto è di sopra.
E avvegna ch’assai possa esser sazia
la sete tua perch’ io più non ti scuopra,
darotti un corollario ancor per grazia

Inf. XXXIV, 97-99, 133-134

Non era camminata di palagio
là ’v’ eravam, ma natural burella
ch’avea mal suolo e di lume disagio.

Lo duca e io per quel cammino ascoso
intrammo a ritornar nel chiaro mondo

Purg. X, 67-69

Di contra, effigïata ad una vista
d’un gran palazzo, Micòl ammirava
sì come donna dispettosa e trista


2. La verdeggiante sede divina

La sede divina descritta nella seconda visione apocalittica – i cui temi sono appropriati agli “spiriti magni”, che stanno nel nobile castello del Limbo e riaffiorano nella visione finale della Trinità e dell’incarnazione – è circondata dall’iride, simile allo smeraldo, cioè alla gemma incomparabilmente più verde (Ap 4, 3). In essa il colore verde supera in intensità quello delle erbe e delle fronde e impregna l’aria ripercossa, riempie gli occhi al solo sguardo e non lo sazia, tanto è grazioso a vedersi. Per quanto il colore verde sia più appariscente e grazioso, l’iride ha vari colori, secondo la densità o rarità della nube acquosa percossa dai raggi del sole: nella densa è rosso, nella più densa ceruleo (verde e nero, è il colore del mare profondo) oppure di colore livido oppure purpureo (commisto di nero e rosso), nella densissima nero; nella rara verde, nella più rara croceo, nella rarissima bianco [1]. L’iride designa la grazia che preesiste causalmente ed esemplarmente in Dio e che si diffonde in giro a ornamento della sede della Chiesa celeste e subceleste: essa ha il colore della fiamma per la carità, il nero o il livido per l’umiltà, il verde per la sobrietà, il bianco per la chiarezza che proviene dalla sapienza.
Il tema dello smeraldo che impregna l’aria intorno di color verde fa parte della spiegazione che Matelda dà sull’origine del vento che spira nel paradiso terrestre (Purg. XXVIII, 103-120). L’aria si muove in cerchio con il Primo Mobile (la “prima volta”, che corrisponde all’essere “in circuitu”) e percuote l’alta selva (l’“alta eminentia” della sede: Ap 4, 2; cfr. infra) facendone stormire le fronde, cosicché le piante impregnano del loro seme l’aria che lo diffonde nell’altra terra, cioè nel mondo abitato dagli uomini, il quale, secondo disposizione, concepisce e produce da diversi semi diverse piante. Anche se nessun colore viene indicato, non è difficile scorgere in questo circuire dell’aria a percuotere la selva e nel suo secondo girare, impregnata di riflesso dai semi delle piante percosse che essa diffonde, un valore assai simile a quello dell’iride, multiforme grazia che preesiste in Dio causa ed esempio e da lui emana su tutta la sede celeste e subceleste attorno alla quale gira. Da notare che l’“aura dolce” spirante nell’Eden è “sanza mutamento / avere in sé” (vv. 7-8), come nella verdeggiante sede Dio appare in trono fermo e immutabile nella sua giustizia (Ap 4, 3).
Una variazione dei temi dell’iride è nella spiegazione che Stazio dà dei corpi aerei, per cui l’aria che circonda l’anima assume la figura in essa impressa dalla virtù formativa che raggia intorno, come l’aria pregna di umidità, riflettendo i raggi del sole, si adorna dei colori dell’iride (Purg. XXV, 88-96).
L’iride, del quale dice Matelda senza nominarlo, è esplicitato nel corso della successiva processione, allorché le sette fiammelle dei candelabri, quasi “tratti pennelli”, lasciano “dietro a sé l’aere dipinto … sì che lì sopra rimanea distinto / di sette liste, tutte in quei colori / onde fa l’arco il Sole e Delia il cinto”, colori che designano, come nell’esegesi della sede divina, i sette doni dello Spirito (Purg. XXIX, 73-78).
Sempre nel paradiso terrestre, di smeraldo sembrano fatte le carni e le ossa della speranza, seconda delle tre donne che vengono danzando dalla destra ruota del carro e che simboleggiano le virtù teologali (Purg. XXIX, 124-125). “Li smeraldi / ond’ Amor già ti trasse le sue armi” sono gli occhi di Beatrice, ai quali viene condotto il poeta dalle quattro virtù cardinali (Purg. XXXI, 115-117). In questo caso il significato dello smeraldo proprio dell’iride (il saziare lo sguardo con il grazioso verdeggiare) cede ai motivi che appartengono al diaspro, sia ad Ap 4, 3 (riferiti a colui che siede) come nei passi simmetrici ad Ap 21, 11-12 (riferiti al lume della Gerusalemme celeste descritta nella settima visione). Il diaspro incorpora in modo fermo e incancellabile, al modo di uno specchio, la luce, come la città celeste e i cuori dei beati incorporano la luce che è gloriosa forma e immagine di Dio (Ap 21, 11). Così gli “occhi rilucenti” di Beatrice stanno saldi sul grifone-Cristo che li irradia e lo riflettono “come in lo specchio il sol” (Purg. XXXI, 119-123). Il diaspro sta a indicare la solida virtù dei santi che difendono la Chiesa contro i nemici (sono il muro della città celeste, Ap 21, 12), ed è a questo tipo di armi, promotrici di virtù, che alludono gli strali di Amore.
Il colore livido della pietra compare nel secondo girone del purgatorio, dove gli invidiosi ‘siedono’ con manti anch’essi color pietra (il manto è tema della terza perfezione di Cristo come sommo pastore, Ap 1, 13). La durezza, che è motivo appropriato alla pietra (il tema presente ad Ap 4, 2), si stempera nella compassione del poeta allorché si rende conto della pena che li affligge (Purg. XIII, 8-9, 47-48, 52-54).
Nella bolgia dei ladri, “livido e nero (altro colore dell’iride) come gran di pepe” è il serpentello (Francesco dei Cavalcanti) che trafigge Buoso (Inf. XXV, 84).
I colori dell’iride si ritrovano pure nei tre gradini che precedono la porta del purgatorio: bianco il primo come marmo pulito e terso da specchiarvisi (cfr. Ap 21, 11), il secondo nero di pietra “ruvida e arsiccia”, di porfido fiammeggiante come sangue il terzo. L’angelo che siede “in su la soglia” sembrava a Dante “pietra di diamante”, come Colui che siede “quasi sub specie regis sedentis super solium” sembrava a Giovanni pietra di diaspro (Purg. IX, 94-105).

 

Tab. II

Purg. XXVIII, 7-12, 25-27, 61-63, 103-114

Un’aura dolce, sanza mutamento
avere in sé, mi feria per la fronte

non di più colpo che soave vento;
per cui le fronde, tremolando, pronte
tutte quante piegavano a la parte
u’ la prim’ ombra gitta il santo monte

ed ecco più andar mi tolse un rio,
che ’nver’ sinistra con sue picciole onde
piegava l’erba che ’n sua ripa uscìo.

Tosto che fu là dove l’erbe sono
bagnate già da l’onde del bel fiume,
di levar li occhi suoi mi fece dono.

Or perché in circuito tutto quanto
l’aere si volge con la prima volta,
se non li è rotto il cerchio d’alcun canto,
in questa altezza ch’è tutta disciolta
ne l’aere vivo, tal moto percuote,
e fa sonar la selva perch’ è folta;
e la percossa pianta tanto puote,
che de la sua virtute l’aura impregna
e quella poi, girando, intorno scuote;
e l’altra terra, secondo ch’è degna
per sé e per suo ciel, concepe e figlia
di diverse virtù diverse legna.

Purg. XXV, 88-93

Tosto che loco lì la circunscrive,
a virtù formativa raggia intorno
così e quanto ne le membra vive.
E come l’aere, quand’ è ben pïorno,
per l’altrui raggio che ’n sé si reflette,
di diversi color diventa addorno ……

 

[LSA, cap. IV, Ap 4, 2-4 (radix IIe visionis)] Dicit ergo (Ap 4, 2): “Et ecce sedes posita erat in celo, et supra sedem sedens”, scilicet erat. Deus enim Pater apparebat ei quasi sub specie regis sedentis super solium. […] “Et qui sedebat, similis erat aspectui”, id est aspectibili seu visibili forme, “lapidis iaspidis et sardini” (Ap 4, 3). Lapidi dicitur similis, quia Deus est per naturam firmus et immutabilis et in sua iustitia solidus et stabilis, et firmiter regit et statuit omnia per potentiam infrangibilem proprie virtutis.
Lapidi vero pretioso dicitur similis, quia quicquid est in Deo est pretiosissimum super omnia. Sicut autem iaspis est viridis, sardius vero rubeus et coloris sanguinei, sic Deus habet in se immarcescibilem decorem et virorem delectabilissimum electis, gratioso virori gemmarum et herbarum assimilatum. Rubet etiam caritate et pietate ad electos et fervida iracundia seu odio ad reprobos. Rubet etiam in eo quod voluit et fecit suum Filium pro nobis sanguine rubificari.
“Et iris erat in circuitu sedis similis visioni [s]maragdine”, id est viridis coloris smaragdi. Smaragdus enim est gemma cui, secundum Isidorum et Papiam, nichil viridius comparatur. Nam virentes herbas et frondes exsuperat et intingit circa se viriditate repercussum aerem, soloque intuitu implet oculos nec satiat, est enim gratiosissima visui. Iris autem est archus viridis et splendidus, generatus in nube aquosa et rorida ex radiosa repercussione solis, et secundum quosdam dicitur iris quasi aeris, quia per aera descendit ad terram. Cuius radii in parte nubis densa faciunt rubeum colorem, in densiori ceruleum, id est commixtum ex nigro et viridi, qualis est color maris profundi (est enim color lividus vel etiam purpureus, quasi ex fusco et rubeo commixtus), in densissima vero nigrum, in rara vero viridem, in rariori croceum, in rarissima album. Color tamen viridis est in iride apparentior et gratiosior, unde et hic magis specificatur cum dicitur similis smaragdo.
Per hanc autem iridem designatur multiformis gratia Dei in ipso causaliter et exemplariter preexistens et tandem in sedem ecclesie celestis et subcelestis manans totamque circuiens et adornans, que quidem est caritate flammea, humilitate autem nigra seu livida, sobrietate virens et sapientie claritate albescens.

[LSA, cap. XXI, Ap 21, 11 (VIIa visio)] Formam autem tangit tam quoad eius splendorem quam quoad partium eius dispositionem et dimensionem, unde subdit: “a Deo habentem claritatem Dei” (Ap 21, 10-11). “Dei” dicit, quia est similis increate luci Dei tamquam imago et participatio eius. Dicit etiam “a Deo”, quia ab ipso datur et efficitur. Sicut enim ferrum in igne et sub igne et ab igne caloratur et ignis speciem sumit, non autem a se, sic et sancta ecclesia accipit a Deo “claritatem”, id est preclaram et gloriosam formam et imaginem Dei, quam et figuraliter specificat subdens: “Et lumen eius simile lapidi pretioso, tamquam lapidi iaspidis, sicut cristallum”. Lux gemmarum est eis firmissime et quasi indelebiliter incorporata, et est speculariter seu instar speculi polita et variis coloribus venustata et visui plurimum gratiosa. Iaspis vero est coloris viridis; color vero seu claritas cristalli est quasi similis lune seu aque congelate et perspicue. Sic etiam lux glorie et gratie est sensibus cordis intime et solide incorporata et variis virtutum coloribus adornata et divina munde et polite et speculariter representans et omnium virtutum temperie virens. Est etiam perspicua et transparens non cum fluxibili vanitate, sed cum solida et humili veritate. Obscuritas enim lune humilitatem celestium men-tium designat.

[LSA, Ap 21, 12 (VIIa visio)] Dicit ergo: “Et habebat murum magnum et altum” (Ap 21, 12). Per magnum intelligit longum et latum, seu totum eius circuitum. Sicut autem murus opponitur exterioribus et defendit et abscondit interiora, sic sancti martires et zelativi doctores et pugiles, qui opposuerunt se hostibus et eorum impugnationibus in defensionem fidei et ecclesie, fuerunt murus ecclesie magnus et altus. Virtutes etiam hiis officiis dedicate sunt murus animarum sanctarum, qui quidem murus est ex lapide propter solidam virtutem sanctorum, et “ex lapide iaspide” (cfr. Ap 21, 18) propter virorem vive fidei, propter quam sunt zelati et passi et fortes effecti.

Purg. XIII, 8-9, 47-48

parsi la ripa e parsi la via schietta
col livido color de la petraia.

guarda’mi innanzi, e vidi ombre con manti
al color de la pietra non diversi.

Inf. XXV, 82-84

sì pareva, venendo verso l’epe
de li altri due, un serpentello acceso,
livido e nero come gran di pepe

Purg. IX, 94-105

Là ne venimmo; e lo scaglion primaio
bianco marmo era sì pulito e terso,
ch’io mi specchiai in esso qual io paio.
Era il secondo tinto più che perso,
d’una petrina ruvida e arsiccia,
crepata per lo lungo e per traverso.
Lo terzo, che di sopra s’ammassiccia,
porfido mi parea, sì fiammeggiante
come sangue che fuor di vena spiccia.
Sovra questo tenëa ambo le piante
l’angel di Dio sedendo in su la soglia
che mi sembiava pietra di diamante.

Purg. XXXI, 115-123

Disser: “Fa che le viste non risparmi;
posto t’avem dinanzi a li smeraldi
ond’ Amor già ti trasse le sue armi”.
Mille disiri più che fiamma caldi
strinsermi li occhi a li occhi rilucenti,
che pur sopra ’l grifone stavan saldi.
Come in lo specchio il sol, non altrimenti
la doppia fiera dentro vi raggiava,
or con altri, or con altri reggimenti.

Purg. XXIX, 34-35, 73-78, 121-132

dinanzi a noi, tal quale un foco acceso,
ci si fé l’aere sotto i verdi rami

e vidi le fiammelle andar davante,
lasciando dietro a sé l’aere dipinto,
e di tratti pennelli avean sembiante;
sì che lì sopra rimanea distinto
di sette liste, tutte in quei colori
onde fa l’arco il Sole e Delia il cinto.

Tre donne in giro da la destra rota
venian danzando; l’una tanto rossa
ch’a pena fora dentro al foco nota;
l’altr’ era come se le carni e l’ossa
fossero state di smeraldo fatte;
la terza parea neve testé mossa;
e or parëan da la bianca tratte,
or da la rossa; e dal canto di questa
l’altre toglien l’andare e tarde e ratte.
Da la sinistra quattro facean festa,
in porpore vestite, dietro al modo
d’una di lor ch’avea tre occhi in testa.


“Vago già di cercar dentro e dintorno / la divina foresta spessa e viva”

In mezzo e intorno alla sede Giovanni vede quattro animali, o meglio quattro esseri viventi, il primo simile a un leone, il secondo a un vitello (o bue), il terzo con l’aspetto di uomo e il quarto simile a un’aquila (Ap 4, 6-7). Si tratta dei quattro animali coronati di verde fronda che nella processione dell’Eden segnano lo spazio entro cui si contiene il carro (Purg. XXIX, 91-108). Questi animali sono presenti anche nella visione di Ezechiele, ma disposti con ordine diverso e diversi anche nel numero delle ali per il quale Dante, che ne assegna sei anziché quattro, è con l’autore dell’Apocalisse anziché con l’antico profeta (vv. 103-105).
Gli animali stanno “in mezzo e intorno alla sede”, nel senso che se si colloca un trono rotondo o quadrato sopra quattro animali, questi terranno verso l’interno il tergo e quasi tutto il corpo, in modo da toccare il centro; il capo e la faccia verso l’esterno, in modo da stare intorno, rispettivamente davanti, dietro, a destra e a sinistra.
Questi animali sono il muro che cinge e difende la Chiesa, per la quale si oppongono come pugili ai nemici esterni, e tuttavia sono sempre nel mezzo, cioè all’interno, perché intimi ad essa per la carità: tutta la Chiesa tende infatti ad essi come al centro. Sono nel mezzo a motivo del loro raccogliersi; sono intorno nel predicare e governare. Raggiungono il centro nel penetrare per quanto possibile l’intima maestà di Dio e nel quietarsi nel suo seno; stanno attorno per l’impossibilità di raggiungere l’immensa, incomprensibile e semplicissima luce, limitandosi solo al suo lato esterno, cingendo quanto è conoscibile all’intelletto creato.
Gli animali sono pieni d’occhi (che in Purg. XXIX, 95-96 vengono paragonati agli occhi di Argo): davanti (per la piena scienza del futuro, per la prudenza nell’agire, per lo sguardo diretto ai premi eterni) e dietro (per la scienza del passato, per il timorato considerare i giudizi divini, per il disprezzo delle cose temporali e caduche). Gli occhi designano anche (Ap 4, 8) lo sguardo perspicace e circospetto con cui scrutano l’esterno e l’interno di Dio, della Chiesa e della Scrittura. Stanno attorno circuendo per prevenire i nemici empi e le insidie diaboliche, come un leone si aggira in cerca di preda. Esaminano inoltre il proprio interno per correggere i difetti e ordinare i beni.
Invitato da Virgilio a seguire i dettami del proprio libero arbitrio (Purg. XXVII, 139-141), Dante è “vago” di esplorare “dentro e dintorno / la divina foresta spessa e viva” (XXVIII, 1-2). “Dentro” equivale, come si dice nell’esegesi, a stare “in mezzo” (intus in medio); per quanto inoltratosi nella selva tanto da non poterne rivedere l’ingresso (vv. 22-24), il poeta si troverà al centro solo dopo aver passato il Lete ed essere pervenuto all’“albero robusto”, pianta dispogliata che “poi si rinovella” (XXXII, 37-60). Il “lignum vitae” si trova infatti nel mezzo della Gerusalemme celeste, della quale l’Eden è proiezione in terra, fra le due rive, l’umana e la divina, del fiume luminoso che designa la grazia che procede dalla Trinità (Ap 22, 1-2).
Esempio di utilizzazione infernale dei temi della sede, i giganti stanno intorno al pozzo come le torri che coronano la cerchia tonda di Monteriggioni (Inf. XXXI, 40-45). La “cerchia tonda” del castello della Val d’Elsa, che “si corona”, è immagine che traduce i motivi dei quattro animali che stanno “in circuitu”, dell’alta eminenza della sede, dell’essere i seniori coronati (Ap 4, 4). Il torreggiare dei giganti “di mezza la persona”, poiché la ripa li cinge dal mezzo in giù facendogli da perizoma, mostrandone la parte dalla cintola in su, rende il motivo dei quattro animali che stanno “in mezzo e intorno”, cioè dentro e fuori. Il minacciare di Giove “del cielo ancora quando tuona” appartiene al gruppo tematico dei lampi, voci e tuoni che emanano dalla sede, considerato ad Ap 4, 5.
Il canto XIV del Paradiso si apre con l’immagine dell’acqua che in un vaso rotondo si muove dal centro alla circonferenza oppure da questa al centro, a seconda che il vaso venga percosso all’esterno o all’interno (vv. 1-3): tale immagine, che riprende il motivo degli animali “in medio et in circuitu sedis”, si presenta a Dante allorché, nel cielo del Sole, tace Tommaso d’Aquino e inizia a parlare Beatrice. Dante e Beatrice formano il centro attorno a cui sta la doppia cerchia dei beati sapienti, nella minore delle quali riluce l’Aquinate (cfr. Par. X, 64-66).
Il motivo del penetrare per quanto possibile nella luce divina passa nell’invito di san Bernardo, prima di rivolgere la preghiera alla Vergine, affinché Dante indirizzi gli occhi al primo amore (Par. XXXII, 142-144). L’espressione “tamquam eius intima pro posse penetrantes”, nel testo esegetico riferita ai quattro esseri viventi, viene appropriata a Dante con le parole di Bernardo “sì che, guardando verso lui, penètri / quant’ è possibil per lo suo fulgore” (vv. 142-145), mentre quanto segue sulla necessità di impetrare grazia “ne forse tu t’arretri, / movendo l’ali tue, credendo oltrarti” (vv. 145-147), può alludere ad altra prerogativa dei quattro esseri, cioè a non andare mai oltre le facoltà assegnate [2].

 

Tab. II bis

Inf. XXXI, 40-45

però che, come su la cerchia tonda
Montereggion di torri si corona,
così  la proda che ’l pozzo circonda
torreggiavan di mezza la persona
li orribili giganti, cui minaccia
Giove del cielo ancora quando tuona.

Par. X, 64-66; XIV, 1-3

Io vidi più folgór vivi e vincenti
far di noi centro e di sé far corona,
più dolci in voce che in vista lucenti

Dal centro al cerchio, e sì dal cerchio al centro
movesi l’acqua in un ritondo vaso,
secondo ch’è percosso fuori o dentro

[Ap 4, 4] Per coronas autem aureas designantur principatus seu prelationis auctoritas et premii ac meriti sanctorum dignitas.

[Ap 4, 5] “Et de trono procedebant” (Ap 4, 5), vel secundum aliam litteram “procedunt”, “fulgura et voces et tonitrua”, quia tam a Deo quam ab eius ecclesia et quam a sanctis, qui sunt sedes Dei, procedunt “fulgura” miraculorum, quorum claritas longe lateque coruscat sicut fulgura discurrentia; et “voces” rationabilis ac temperate predicationis, “et tonitruaterribilium comminationum, vel toni-trua altiorum et spiritualium documentorum, que competunt perfectioribus. Voces enim in terra fiunt, tonitrua vero in celo seu ethere, vocesque sunt modice respectu tonitruorum.

 

[LSA, cap. IV, Ap 4, 6 (radix IIe visionis)] Septimo ex quattuor animalium sedem Dei portantium stupenda forma et iubilatoria laudum Dei resonantia, et iterum ex dictorum seniorum concord[i] ad laudem animalium correspondentia, ibi: “Et in medio sedis” (Ap 4, 6). […] “Et in medio sedis et in circuitu sedis quattuor animalia”. […]
Dicit autem ea esse “in medio et in circuitu sedis”. Primo quidem ut servet naturam methafore. Si enim ponas unam sedem rotundam vel quadratam super quattuor animalia, tenebunt tergum et quasi totum corpus interius, ita quod in medio se contingent; caput vero seu faciem tenebunt extra in circuitu, unum scilicet ante, aliud retro, et aliud a dextris et aliud a sinistris.
Secundo in misterium quod ecclesiam Dei defendunt quasi murus, ipsam circumdantes, et quasi pugiles, seu hostibus forinsecis se primo obicientes; et nichilominus sunt in medio eius tamquam per caritatem ei intimi, et quia tota ecclesia intendit in eos quasi in suum medium centrum. Sunt etiam per sui recollectionem semper intus in medio, et per predicationem et gubernationem discursivam ad exteros circumquaque sunt quasi in circuitu.
Sumendo etiam stabilitatem maiestatis Dei per sedem, tunc sunt in medio eius tamquam eius intima pro posse penetrantes et in eius sinu intimo quiescentes, et tamen sunt in circuitu tamquam eius immensam et incomprehensibilem et simplicissimam lucem totaliter penetrare et pertingere nequeuntes, sed quasi sola eius forinseca, id est creat[o] intellectui noscibilia, circumambientes.
Sunt etiam “plena oculis ante” per plenam scientiam futurorum, “et retro” per plenam scientiam preteritorum.
Item “ante” per plenam prudentiam agendorum, “et retro” per timoratam considerationem divinorum iudiciorum.
Item “ante” per aspectum ad eterna premia directum, “et retro” ad caduca et temporalia spernenda et relinquenda exacutum. […]

[Ap 4, 8] Sequitur: “Et in circuitu et intus plena sunt oculis” (Ap 4, 8), id est perspicaciter et circumspecte vident sua interiora et exteriora, et etiam interiora et exteriora Dei et ecclesie et scripture sacre. Precavent etiam hostes impios in circuitu ambulantes et insidias diaboli, qui tamquam leo circuit querens quem devoret. Discutiunt etiam sua interiora, ut corrigant defectus et ordinent bona.

Purg. XXVIII, 1-3

Vago già di cercar dentro e dintorno
la divina foresta spessa e viva,
ch’a li occhi temperava il novo giorno

Purg. XXIX, 91-105

sì come luce luce in ciel seconda,
vennero appresso lor quattro animali,
coronati ciascun di verde fronda.
Ognuno era pennuto di sei ali;
le penne piene d’occhi; e li occhi d’Argo,
se fosser vivi, sarebber cotali.
A descriver lor forme più non spargo
rime, lettor; ch’altra spesa mi strigne,
tanto ch’a questa non posso esser largo;
ma leggi Ezechïel, che li dipigne
come li vide da la fredda parte
venir con vento e con nube e con igne;
e quali i troverai ne le sue carte,
tali eran quivi, salvo ch’a le penne
Giovanni è meco e da lui si diparte.

Par. XXXII, 142-147

e drizzeremo li occhi al primo amore,
sì che, guardando verso lui, penètri
quant’  è possibil per lo suo fulgore.
Veramente, ne forse tu t’arretri
movendo l’ali tue, credendo oltrarti,
orando grazia conven che s’impetri

[Ap 4, 7] “Et animal primum simile leoni” et cetera (Ap 4, 7). Sed quare hec animalia ordinantur hic aliter quam Ezechielis I°: ibi enim ponitur facies hominis primo, secundo leonis, tertio vituli (Ez 1, 10). Ad hoc potest triplex ratio dari ad presens. […]

 


“la divina foresta spessa e viva, /
ch’a li occhi temperava il novo giorno

La selva dell’Eden “temperava” agli occhi la luce del “novo giorno” (Purg. XXVIII, 3). Anticipo della “temperanza di vapori” che permetterà all’occhio di sostenere a lungo “nel cominciar del giorno” la luce del sole al momento dell’apparizione di Beatrice (Purg. XXX, 22-28), il temperamento è proprio del quinto stato, allorché alla solare ma troppo ardua e rigida vita dei contemplativi anacoreti del quarto stato subentra un periodo aperto alla vita associata delle moltitudini, il quale “intendit fidei et eius scientie … contemperande, unicuique scilicet secundum suam proportionem” (prologo, Notabile III).
San Francesco viene assimilato all’angelo del capitolo X, che la faccia come il sole; nel suo discendere dal cielo è avvolto da una nube la quale designa, oltre che la povertà, la scienza delle Scritture. Come infatti la nube, sopra tra noi e il cielo, riceve i raggi del sole e ce li tempera, ed effonde moderatamente per la fruttificazione delle sementi le acque piovane che fecondano, così la Scrittura sarà spiritualmente nella carità e nella sapienza di Dio come il sole che irradia alla fine tutta la terra formando il giorno solare del terzo generale stato del mondo (Ap 10, 1). Così la piena conoscenza della Scrittura (il “novo giorno”) è temperato dalla selva acquosa (“l’acqua … e ’l suon de la foresta”: Purg. XXVIII, 85), e la faccia del sole nasce coperta d’ombra e temprata per vapori all’apparizione di Beatrice.
I temi del temperare e del variare (altro tema proprio del quinto stato, e precisamente della quinta chiesa; cfr. infra) sono insieme nel guardare all’ingiù dalla costellazione dei Gemelli, quando fra i sette pianeti il poeta vede Giove, la sesta stella “temprata” tra il freddo del padre Saturno e il caldo del figlio Marte e ha chiaro il “variare” delle loro posizioni (Par. XXII, 145-147).
Temperare (quinto stato) e suggellare (sesto; prologo, Notabile III) sono congiunti a Par. I, 40-42 con riferimento al sole; temperare (quinto stato) e discernere (terzo, ai dottori di questo periodo è appropriata la “discretio”) lo sono, nel medesimo canto (vv. 76-78), in relazione al provvedere divino. Il temperamento (di un’“angelica nota”) accompagna i passi verso l’“albero robusto” (i “passi” alludono ai patimenti), a Purg. XXXII, 31-33; dopo le parole di Cacciaguida Dante tempera l’acerbo del suo patire nel dover lasciare Firenze con il dolce della fama che gli viene riservata (Par. XVIII, 1-3).
Ad Ap 1, 14 i capelli di Cristo sono assimilati al candido biancore della neve, che lo sguardo non sopporta (la rigida giustizia; tema, a Par. XIV, 76-78 appropriato allo sfavillare dello Spirito Santo), e a quello della lana (la pietas che tempera). Il passo contiene temi soggetti a molteplici variazioni, dall’immagine del sole quando “i crin sotto l’Aquario tempra” in principio di Inf. XXIV al contrasto tra la “regalmente ne l’atto ancor proterva” Beatrice e le “dolci tempre” degli angeli che partecipano della tribolazione di Dante in Purg. XXX.

Tab. II ter

Par. I, 40-42, 76-78

con miglior corso e con migliore stella
esce congiunta, e la mondana cera
più a suo modo tempera e suggella.

Quando la rota che tu sempiterni
desiderato, a sé mi fece atteso
con l’armonia che temperi e discerni 2, 1 (III exerc.)

[LSA, cap. I, Ap 1, 9] “Et particeps in tribulatione et regno” (quidam habent “et socius”, sed non est de textu), id est qui vobiscum comparticipo in istis. Premisit autem tribulationem regno, sicut meritum ante premium et sicut medicinam ante sanitatem et sicut certamen ante triumphum.

 

 

Purg. XXVIII, 1-3; XXX, 22-28, 94-96; XXXII, 31-36

Vago già di cercar dentro e dintorno
la divina foresta spessa e viva,
ch’a li occhi temperava il novo giorno

Io vidi già nel cominciar del giorno
la parte orïental tutta rosata,
e l’altro ciel di bel sereno addorno;
e la faccia del sol nascere ombrata,
sì che per temperanza di vapori
l’occhio la sostenea lunga fïata:
così dentro una nuvola di fiori ……

ma poi che ’ntesi ne le dolci tempre
lor compartire a me, par che se detto
avesser: ‘Donna, perché sì lo stempre?’

Sì passeggiando l’alta selva vòta,
colpa di quella ch’al serpente crese,
temprava i passi un’angelica nota.
Forse in tre voli tanto spazio prese
disfrenata saetta, quanto eramo
rimossi, quando Bëatrice scese.

[LSA, prologus, Notabile III] De tertio etiam patet. Nam magistralis tuba seu expositio intendit fidei et eius scientie seminande (I), et deinde radicande seu roborande (II), deinde explicande (III), deinde amplexande (IV), deinde contemperande, uni-cuique scilicet secundum suam proportionem (V); intendit etiam finaliter eam imprimere et sigillare (VI) et tandem glorificare seu glorificatam exhibere (VII). Et patet correspondentia primi ad primum statum et secundi ad secundum et sic de aliis.

[LSA, cap. X, Ap 10, 1 (IIIa visio, VIa tuba)] Sicut enim nubes est supra inter nos et celum suscipiens solis radios et contemperans nobis eos, et est purgans aquis pluvialibus et fecundis ipsasque ad fructificationem terre nascentium moderate effun-dens, sic est hec scriptura sacra spiritualiter; in caritate etiam et sapientia Dei erit ut sol ad irradiandum finaliter totum orbem et ad formandum solarem diem tertii generalis status mundi.

Par. XIV, 76-78

Oh vero sfavillar del Santo Spiro!
come si fece sùbito e candente
a li occhi miei che, vinti, nol soffriro!

Inf. XXIV, 1-6

In quella parte del giovanetto anno
che ’l sole i crin sotto l’Aquario tempra
e già le notti al mezzo dì sen vanno,
quando la brina in su la terra assempra
l’imagine di sua sorella bianca,
ma poco dura a la sua penna tempra

Inf. XXVII, 7-9

Come ’l bue cicilian che mugghiò prima
col pianto di colui, e ciò fu dritto,
che l’avea temperato con sua lima

Par. XVIII, 1-3, 64-69; XXII, 145-147

Già si godeva solo del suo verbo
quello specchio beato, e io gustava
lo mio, temprando col dolce l’acerbo   

E qual è ’l trasmutare in picciol varco
di tempo in bianca donna, quando  ’l volto
suo si discarchi di vergogna il carco,
tal fu ne li occhi miei, quando fui vòlto,
per lo candor de la temprata stella
sesta, che dentro a sé m’avea ricolto.   Not. V 

Quindi m’apparve il temperar di Giove
tra ’l padre e ’l figlio; e quindi mi fu chiaro
il varïar che fanno di lor dove   Sardis

Inf. XXIX, 124-126

Onde l’altro lebbroso, che m’intese,
rispuose al detto mio: “Tra’mene Stricca
che seppe far le temperate spese …”

[LSA, cap. I, Ap 1, 14 (Ia visio, radix)] Quarta est reverenda et preclara sapientie et consilii maturitas per senilem et gloriosam canitiem capitis et crinium designata, unde subdit: “caput autem eius et capilli erant candidi tamquam lana alba et tamquam nix” (Ap 1, 14). Per caput vertex mentis et sapientie, per capillos autem multitudo et ornatus subtilissimorum et spiritualissimorum cogitatuum et affectuum seu plenitudo donorum Spiritus Sancti verticem mentis adornantium designatur.
Sicut autem in lana est calor fomentativus et mollities corpori se applicans, et candor contemperatior et suavior quam in nive, sic in nive est frigiditatis et congelationis algor et rigor et candor intensior nostroque visui intolerabilior, est etiam humor sordium purgativus et terre impinguativus. Per que designatur quod Christi sapientia est partim nobis condescensiva et sui ad nos contemperativa nostrique fomentativa et sua pietate calefactiva, partim autem est a nobis abstracta et nobis rigida nimisque intensa, nostrarumque sordium purgativa nostreque hereditatis impinguativa.

Ad Ap 15, 8 si afferma che il “tempio”, cioè la comprensione spirituale della Scrittura, viene progressivamente aperto. Molte sono infatti le illuminazioni che segnano la storia della Chiesa. La possibilità che alcuni santi possano comunque entrare nel tempio, al termine dei gradi di purgazione, senza aspettare temporalmente il settimo tempo della Chiesa, perché questo è in essi virtualmente o spiritualmente compiuto come se avessero raggiunto il tempo e le opere del settimo stato, è appropriata a Dante, al quale Virgilio ha detto sulla soglia dell’Eden: “Non aspettar mio dir più né mio cenno; / libero, dritto e sano è tuo arbitrio”, ormai compiutamente signore di se stesso e perciò procede lentamente per “la campagna” (Purg. XXVII, 139-142; XXVIII, 4). Per lui l’Apocalisse è consumata.
All’“aura dolce” che le colpisce come soave vento, le fronde della foresta spessa e viva dell’Eden piegano pronte tremolando verso ponente, ma nel far ciò non si discostano troppo dalla loro normale posizione (“dal loro esser dritto”, tema della retta misura da Ap 6, 5; cfr. l’uso di questo tema nella terza bolgia) così da dar modo agli “augelletti per le cime … d’operare ogne lor arte” (Purg. XXVIII, 7-15). In questo concordare gli atti in modo proporzionato (cfr. Ap 14, 2), gli uccelli “con piena letizia l’ore prime, / cantando, ricevieno intra le foglie, / che tenevan bordone a le sue rime” (vv. 16-18).
È da notare come agli uccelli venga attribuito sia l’operare come il ricevere, qualità che rimandano alla distinzione tra il “pati seu recipere”, proprio del sesto stato, e l’“agere vel dare” proprio degli stati precedenti, e soprattutto del quarto (ad Ap 3, 7). “L’ore prime” introducono il tema dell’angelo del sesto sigillo, che sale al mattino da oriente (Ap 7, 2; cfr. Inf. I, 37-40; Par. X, 139-141).
Il raccogliersi dello stormire delle fronde, che tengono “bordone” al canto degli uccelli, paragonato a quello che si forma “per la pineta in su ’l lito di Chiassi, / quand’ Ëolo scilocco fuor discioglie” (Purg. XXVIII, 19-21), può essere ricondotto alla tematica del raccogliere la Chiesa nella sede romana, operato da Carlo Magno, nel quinto stato dopo le devastazioni saracene in oriente, una Chiesa già dispersa nel tempo dei martiri (secondo stato) e riunita da Costantino (terzo). Si può anche richiamare il tema del raccogliersi della Gerusalemme celeste, o dei collegi e dei monasteri di vita spirituale ed evangelica, al talamo e all’amplesso contemplativo di Cristo (Ap 20, 8).
Le foglie le quali, accompagnando il canto degli uccelli, tengono “bordone” (una canna che con suono basso e uguale accompagnava il canto liturgico), sembrano rinviare all’angelo che con la canna d’oro misura la Gerusalemme celeste, designante i dottori dotati della sapienza della Scrittura, i quali umilmente insegnano con il suono della predicazione (Ap 22, 15).
Lo scirocco è vento che proviene da sud, e dei quattro venti di cui ad Ap 7, 1, interpretati come le quattro ispirazioni dello Spirito Santo, il quarto viene dal meriggio della carità e della gloria di Cristo a noi promessa. È lo stesso vento, che spira “la terra che perde ombra”, al cui caldo soffiare è paragonato lo sciogliersi in spirito e acqua, al dolce canto dei pii angeli, il gelo stretto intorno al cuore di Dante dopo i rimproveri di Beatrice (Purg. XXX, 85-99).
 

 

Tab. II quater (Nota esplicativa)

[LSA, cap. XII, Ap 12, 14.17 (IVa visio)] Nota quod hanc persecutionem dicit factam esse contra mulierem, id est contra ecclesiam, sicut primam dicit fieri contra Christum filium eius et secundam contra angelicum exercitum Christi, quia ecclesia per totum tempus martir[um] usque ad conversionem Constantini imperatoris fuit sic dispersa et oppressa quod non habuit sic apparentem unitatem et potestatem in toto orbe sicut habuit tempore Constantini, exclusa idolatria et paganismo et data sibi undique pace, quando et plenius apparuit romanam ecclesiam esse universalem matrem omnium membrorum Christi. […] Videtur tamen quod post Christum et martires ubique dispersos egit de ecclesia post Constantinum in unum collecta et duabus alis, id est duobus ordinibus doctorum scilicet et anachoritarum altivolis, adornata et in altum sublevata, et tam in deserto gentilitatis quam in deserto contemplative solitudinis alimentum sue refectionis habente.

Inf. XIII, 139-142; XIV, 1-3

Ed elli a noi: “O anime che giunte
siete a veder lo strazio disonesto
c’ha le mie fronde da me disgiunte,
raccoglietele al piè del tristo cesto”.

Poi che la carità del natio loco
mi strinse, raunai le fronde sparte
e rende’le a colui, ch’era già fioco.

Inf. XX, 88-91

Li uomini poi che ’ntorno erano sparti
s’accolsero a quel loco, ch’era forte
per lo pantan ch’avea da tutte parti.
Fer la città sovra quell’ ossa morte

Purg. XII, 31-33

Vedea Timbreo, vedea Pallade e Marte,
armati ancora, intorno al padre loro,
mirar le membra d’i Giganti sparte.

[LSA, prologus, Notabile V] Quia vero ecclesia Christi usque ad finem seculi non debet omnino extingui, ideo oportuit eam in quibusdam suis reliquiis tunc specialiter a Deo defendi et in unam partem terre recolligi, qua nulla congruentior sede Petri et sede romani imperii, que est principalis sedes Christi. Ideo in quinto tempore, quod cepit a Karolo, facta est defensio et recollectio ista, tuncque congrue instituta est vita condescensiva, ut nequeuntibus in arduis perdurare daretur locus gratie in mediocri statu.

[LSA, prologus, Notabile III] De tertio (dono) etiam patet. Nam magistralis tuba seu expositio intendit fidei et eius scientie seminande (I), et deinde radicande seu roborande (II), deinde explicande (III), deinde amplexande (IV), deinde contemperande unicuique scilicet secundum suam proportionem (V) […]

[LSA, prologus, Notabile XIII] In quinto vero tempore fuerunt spiritualiores monachi quasi aves volantes, clerici vero gentibus commixti fuerunt quasi pisces in aquis. […] Attamen notandum quod in quinta die creata sunt munda pariter et immunda: sunt enim pisces secundum legem mundi et immundi, avesque similiter.

[LSA, cap. XIII, Ap 13, 1] Multi enim bestiales pisces et rapaces aves facte sunt in quinta die, puta cete magna in mari […]

[LSA, prologus, Notabile XIII] Sicut etiam in quinta etate, destructa Iudea et Iherusalem per Caldeos et prius decem tribubus per Assirios, restitutus est populus Iuda in terram suam, nec ex tunc pullulavit in eis spina idolatrie sicut ante, sic destructis orientalibus ecclesiis per Sarracenos et latina ecclesia fere vastata per eos et etiam per Longobardos prius paganos et factos postmodum arrianos, restitutus est latinus populus per Karolum imperantem, nec ex tunc idola [priorum] magnarum heresum inundaverunt in eis sicut inundaverunt ante, quamvis sicut tunc circa finem fuit secta heresis Saduceorum, sic circa finem huius quinti temporis [serpit] secta heresis Manicheorum.

Purg. XXVI, 133-135

Poi, forse per dar luogo altrui secondo
che presso avea, disparve per lo foco,
come per l’acqua il pesce andando al fondo.

Par
. XXIII, 85-87

O benigna vertù che sì li  ’mprenti,
sù t’essaltasti per largirmi loco
a li occhi lì che non t’eran possenti.

Inf. III, 109-111, 118-120

Caron dimonio, con occhi di bragia
loro accennando, tutte le raccoglie;
batte col remo qualunque s’adagia.

Così sen vanno su per l’onda bruna,
e avanti che sien di là discese,
anche di qua nuova schiera s’auna.

Inf. XIV, 22-23; XXVII, 79-84

Supin giacea in terra alcuna gente,
alcuna si sedea tutta raccolta

Quando mi vidi giunto in quella parte
di mia etade ove ciascun dovrebbe
calar le vele e raccoglier le sarte,
ciò che pria mi piacëa, allor m’increbbe,
e pentuto e confesso mi rendei;
ahi miser lasso! e giovato sarebbe.

[LSA, prologus, Notabile III V status] Item (zelus) est septiformis prout fertur […] quinto contra senectutem remissam […] quinto in laxationem et remissionem.

Inf. XXIV, 103-105

e poi che fu a terra distrutto,
la polver si raccolse per sé stessa
e ’n quel medesmo ritornò di butto.

[LSA, cap. VII, Ap 7, 7] Ad zelum etiam tria exiguntur. Primo scilicet benigne miserationis pia condescensio, et hoc est Simeon, id est audiens merorem.

Inf. XXXI, 16-21, 52-54

Dopo la dolorosa rotta, quando
Carlo Magno perdé la santa gesta,
non sonò sì terribilmente Orlando.
Poco portäi in là volta la testa,
che me parve veder molte alte torri;
ond’ io: “Maestro, dì, che terra è questa?”.

E s’ella d’elefanti e di balene
non si pente, chi guarda sottilmente,
più giusta e più discreta la ne tene

Par. XVIII, 43-45

Così per Carlo Magno e per Orlando
due ne seguì lo mio attento sguardo,
com’ occhio segue suo falcon volando.

[LSA, prologus, Notabile XIII V status] Sacramentum vero penitentie expedit et congruit infirmitatibus quinti status.

Par. VI, 94-96

E quando il dente longobardo morse
la Santa Chiesa, sotto le sue ali
Carlo Magno, vincendo, la soccorse.

Purg. II, 100-105

Ond’ io, ch’era ora a la marina vòlto
dove l’acqua di Tevero s’insala,
benignamente fu’ da lui ricolto.
A quella foce ha elli or dritta l’ala,
però che sempre quivi si ricoglie
qual verso Acheronte non si cala.

 

Purg. XXVIII, 19-21

tal qual di ramo in ramo si raccoglie
per la pineta in su ’l lito di Chiassi,
quand’ Ëolo scilocco fuor discioglie.

Tab. II quinquies

[LSA, cap. XX, Ap 20, 8 (VIIa visio)] Et subdit: «Quod vero ait: “Et ascenderunt super [la]titudinem terre, et circuierunt castra sanctorum et civitatem dilectam” (Ap 20, 8), non ad unum locum venisse vel venturi esse significati sunt, quasi in uno loco futura sint castra sanctorum et dilecta civitas, cum hec non sit nisi Christi ecclesia toto orbe diffusa; ac per hoc ubicumque tunc erit, que in omnibus gentibus erit, quod significatur per latitudinem terre, ibi erunt castra sanctorum et civitas Deo dilecta, ibique a suis inimicis cingetur, id est in angustias tribulationis artabitur et concludetur». Hec Augustinus (De civ. Dei, XX, 11). […] Nota autem quod dicit “circuierunt castra sanctorum et civitatem dilectam” (Ap 20, 8), ut monstret quod ecclesia erit tunc ad militarem et pervigilem pugnam instar castrensis exercitus ordinata, et nichilominus ad Christi contemplativum cubiculum et amplexum instar sponse dilecte et civitatis unice recollecta, et etiam ad monstrandum quod, preter castrensem fortitudinem contra suos hostes, aderit sibi singularis custodia Christi tamquam ipsam singulariter diligentis. Vel per “castra sanctoum” intelligit spiritualia collegia et monasteria evangelicorum religiosorum illius tem-poris, per “civitatem” vero ecclesiam generalem.

[LSA, cap. XXI, Ap 21, 12 (VIIa visio)] Deinde subdit de dispositione partium eius: “Et habebat murum” et cetera (Ap 21, 12). Ubi nota quod in describendo formalem dispositionem partium, incipit ab ultimo per medium ad primum, id est a muro per eius portas ad fundamentum; ubi vero agit de materia, incipit a muro ac deinde agit de fundamento et postmodum de portis, tamquam ab extremis veniens ad medium (cfr. Ap 21, 18-21); utrobique autem incipit a muro, tamquam ab eo quod intrantibus vel extra aspicientibus occurrit primo. Deinde vero agit de tota interiori civitate.
Nota etiam quod ad hedificandam urbem primo invenitur locus et fodiuntur fossata, secundo ibi ponuntur fundamenta et hedificantur muri, tertio statuuntur porte et hedificantur domus.

Inf. XIX, 16-18, 40-42 

Non mi parean men ampi né maggiori
che que’ che son nel mio bel San Giovanni,
fatti per loco d’i battezzatori 

Allor venimmo in su l’argine quarto;
volgemmo e discendemmo a mano stanca
là giù nel fondo foracchiato e arto.

Inf. III, 16-18 

Noi siam venuti al loco ov’ i’ t’ho detto
che tu vedrai le genti dolorose
c’hanno perduto il ben de l’intelletto. 

Inf. VIII, 79-81

Non sanza prima far grande aggirata,
venimmo in parte dove il nocchier forte
“Usciteci”, gridò: “qui è l’intrata”. 

Inf. XII, 1-3 

Era lo loco ov’ a scender la riva    22, 2
venimmo, alpestro e, per quel che v’er’ anco,
tal, ch’ogne vista ne sarebbe schiva. 

Inf. XVIII, 10-21 

Quale, dove per guardia de le mura
più e più fossi cingon li castelli,
la parte dove son rende figura,
tale imagine quivi facean quelli;
e come a tai fortezze da’ lor sogli
a la ripa di fuor son ponticelli,     22, 2
così da imo de la roccia scogli
movien che ricidien li argini e ’ fossi
infino al pozzo che i tronca e raccogli.
In questo luogo, de la schiena scossi
di Gerïon, trovammoci; e ’l poeta
tenne a sinistra, e io dietro mi mossi.

 

Inf. XX, 88-93

Li uomini poi che ’ntorno erano sparti
s’accolsero a quel loco, ch’era forte
per lo pantan ch’avea da tutte parti.
Fer la città sovra quell’ ossa morte;
e per colei che l loco prima elesse,
Mantüa l’appellar sanz’ altra sorte.

Inf. XXXIII, 85-87

Che se ’l conte Ugolino aveva voce
d’aver tradita te de le castella,
non dovei tu i figliuoi porre a tal croce.

Purg. XX, 97-99

Ciò ch’io dicea di quell’ unica sposa
de lo Spirito Santo e che ti fece
verso me volger per alcuna chiosa

 

Purg. XXVIII, 19-21

tal qual di ramo in ramo si raccoglie
per la pineta in su ’l lito di Chiassi,
quand’ Ëolo scilocco fuor discioglie.

Par. XXII, 97-99

Così mi disse, e indi si raccolse
al suo collegio, e ’l collegio si strinse;
poi, come turbo, in sù tutto s’avvolse.

Par. XXIX, 67-69

Omai dintorno a questo consistorio
puoi contemplare assai, se le parole
mie son ricolte, sanz’ altro aiutorio.

[1] Cfr. UGUCCIONE DA PISA, Derivationes, E 112 [3-5], edizione critica princeps a cura di Enzo Cecchini, II, Firenze 2004 (Edizione Nazionale dei Testi Mediolatini, II, Serie I, 6), p. 390: “Et nota quod iris nichil aliud est quam nubes soli opposita, radiis solis multipliciter informata; ea enim est natura luminosi corporis ut semper in oppositam partem radios dirigat; sol ergo, cum sit luminosum corpus, radios suos mittit in partem oppositam, in qua quandoque nubem invenit que in una sui parte est densa, in alia densior, in alia densissima, item in aliqua sui parte est rara, in alia rarior, in alia rarissima. In illa que est densa solares radii, tamquam in utre conclusi, rubrum colorem faciunt, in densiori ceruleum, in densissima nigrum; item in rara faciunt viridem, in rariori croceum, in rarissima album; et ita, secundum maiorem densitatem illius nubis, magis accedit ad colores nigredini affines, secundum maiorem raritatem magis accedit ad colores albedini affines. Preterea nubes illa quoddam corpus est compositum ex quattuor elementis et aquosum, que, radiis solaribus accensa, a quattuor elementis et quadripertitum contrahit colorem, ab igne rubrum, ab aere ceruleum sive lucidum vel purpureum, ab aqua viridem, a terra nigrum”.

[2] Cfr. le varie interpretazioni date alle sei ali di Ap 4, 8 (esposte in apposita tabella sinottica nell’edizione della Lectura super Apocalipsim; PDF, p. 209): “per duas alas tegentes caput designatur ipsorum reverentia ad nullatenus perscrutandum altiora sua facultate; per alas vero medias, quibus semper volabant, monstratur eorum incessabilis et altivola motio operationum imitativarum Dei, mensuram facultatis sue non excedentium nec ab illa deficientium; per duas alas tegentes pedes designatur eorum reverentia ad non perscrutandum nimis profunda (è l’interpretazione dello pseudo Dionigi nel De coelesti hierarchia) […] Vel per duas alas tegentes caput significantur aspectus, intellectus et affectus elevati ad contemplandum et venerandum altitudinem divine maiestatis; per duas vero tegentes pedes contemplatio et veneratio profundorum iudiciorum Dei; per medias vero, cum quibus volabant, contemplatio propriorum et interiorum suorum (è l’interpretazione di Olivi)”.

 

3. L’alta Grecia

Varia come i rami fioriti da cui sceglie fior da fiore, Matelda contiene in sé tanta ricchezza di significati spirituali da rendere apparentemente del tutto trascurabile il problema dell’identificazione con un personaggio storico. Muove i passi propri nell’Eden, luogo di questo mondo segnato dai temi della Gerusalemme celeste e della sede divina. Si tratta di un luogo remoto, quieto e adatto alla contemplazione delle cose divine, libero da piaceri e da ricchezze carnali, come l’isola di Patmos da cui Giovanni scrive alle sette chiese d’Asia (Ap 1, 9). Patmos viene interpretata come “separazione dai nemici” (separati hostes) o “separazione dei blandimenti” (separatio palpantium), perché nella contemplazione vengono separati i nemici dello spirito e le lusinghe sensuali e carnali. Un’altra interpretazione è quella di “stretto di mare” (fretum) o “gorgo” (vorago).
Le prime parole della bella donna, rivolte a Dante, Virgilio e Stazio, nuovi del luogo e forse sorpresi e dubbiosi del suo ridere – «“Voi siete nuovi, e forse perch’ io rido”, / cominciò ella, “in questo luogo eletto / a l’umana natura per suo nido, / maravigliando tienvi alcun sospetto; / ma luce rende il salmo Delectasti, / che puote disnebbiar vostro intelletto”» (Purg. XXVIII, 76-81) – citano il Salmo 91, 5: “Quia delectasti me, Domine, in factura tua, et in operibus manuum tuarum exultabo”. Il Salmo, che veniva recitato nel giorno di sabato, esulta per le mirabili opere di Dio, e Matelda ride perché esulta con esso, nonostante il luogo rievochi la memoria della prima colpa.
L’Asia (minore), dove scrive Giovanni (Ap 1, 4) e che in Dante è figurata dal paradiso in terra, viene da Olivi interpretata come “altezza” (elatio). Collocato sulla sommità del monte ov’è il purgatorio, che “salìo verso ’l ciel tanto” (Purg. XXVIII, 101), l’Eden è “l’alta terra” (v. 69), “questa altezza ch’è tutta disciolta / ne l’aere vivo” (vv. 106-107). Si è visto come le siano appropriati i temi della sede divina, che si distingue per l’“alta eminentia” (Ap 4, 2).
Questo mondo, che contiene le chiese degli eletti, si eleva in altezza su di essi, secondo quanto scritto nel Salmo 92, 4: “Mirabile elevarsi del mare”, nel senso che se mirabile è l’elevarsi del mare, dei fiumi e delle acque, più mirabile è l’elevarsi di Dio. “Asia” viene interpretata anche come “colei che muove il passo” (gradiens), perché le chiese sono in via nel loro tendere alla patria e anche perché questo mondo procede in modo transitorio e defettivo. Per Asia si può intendere, in modo estensivo, la Grecia, regione intermedia tra la Giudea, luogo della prima fondazione della Chiesa, e Roma, terza sua ramificazione.
“A vocibus aquarum multarum mirabiles elationes maris; mirabilis in altis Dominus”: il salmo 92 è scritto per la creazione dell’uomo, avvenuta nel sesto giorno precedente il sabato: “in die ante sabbatum quando inhabitata est terra”, come recita la Vulgata. Da Agostino [1] in poi, la pericope significava che la malizia, le pressure e i turbamenti del mondo non avrebbero prevalso contro l’altezza di Dio. Gregorio VII l’aveva usata contro quanti stoltamente sostenevano che l’imperatore non potesse essere scomunicato dal papa: “ut elationes maris et superbie fluctus comprimere valeant, arma humilitatis Deo auctore providere curamus” [2]. San Bernardo l’aveva citata per mettere forza in Melisenda, la regina di Gerusalemme vedova nel 1143 di Folco d’Angiò, affinché, agendo “in spiritu consilii et fortitudinis”, mostrasse nella donna la parte virile: “Scio, filia, scio, quia magna sunt haec; sed et hoc scio quia, etsi mirabiles elationes maris, mirabilis in altis dominus. Magna sunt haec, sed magnus dominus noster et magna virtus eius[3]. L’aveva ancora prima proposta a Ugo, monaco cluniacense diventato nel 1128 vescovo di Rouen, invitandolo ad essere paziente e pacifico con il suo nuovo gregge [4]. Sui pericoli del mare del mondo, che mai sta fermo, predicò san Bernardino ai Senesi nel 1427 [5]. Con un senso pregno di profetismo escatologico, di attesa di un nuovo avvento di Cristo e di una conversione universale dei popoli, Cristoforo Colombo avrebbe annotato il versetto davidico sulla sua Cosmographia di Tolomeo [6].
Il versetto contiene la radice del nome della misteriosa donna: M(irabiles)  ELAT (elationes) → ATEL  DA(ntis), che significa quanto scritto nel salmo 92, 4 sul mirabile levarsi di Dio sopra il levarsi del mare, unitamente all’immagine di Dio come “Colui che dà” presente nel salutare di Giovanni ad Ap 1, 4. Dio ha infatti creato il monte, su cui sta l’Eden, tanto alto, liberandolo dalle turbolenze causate dalle alterazioni terrestri (il ‘levarsi del mare’ del Salmo, che corrisponde al fatto che le esalazioni dell’acqua e della terra tendono a salire dietro al calore del sole) per dare il luogo posto sulla sua sommità, come anticipo dell’eterna pace, all’uomo creato a operare il bene [7]. Il monte, al di sopra della scaletta di tre gradini per cui si accede alla porta, è infatti libero da ogni alterazione terrestre dovuta alla pioggia, alla grandine, alla neve, alla rugiada, alla brina, alle nuvole, alla folgore, all’arcobaleno, al vento, al terremoto (Purg. XXI, 43-57). Il vento che fa stormire le fronde della selva e l’acqua del Lete e dell’Eunoè non sono generati da vapori terrestri o da precipitazioni atmosferiche (Purg. XXVIII, 103-133). Il riferimento al dare, contenuto nell’ultima parte del nome di Matelda, lega la figura di costei al poeta, il cui nome – Dante, cioè colui che riceve la rivelazione per darla ad altri – verrà registrato “di necessità” nei versi al richiamo di Beatrice appena apparsa nell’Eden (Purg. XXX, 55-63).
Giovanni ‘saluta’ le sette chiese d’Asia specificando il bene augurato: “grazia a voi e pace” (Ap 1, 4). Dice “grazia” per la gratuita origine, in quanto data da Dio gratuitamente e non perché dovuta, oppure perché ci rende grati a Dio. Dice “pace” rispetto all’oggetto fruibile, cioè allo stato quieto e finale della mente e della grazia nel quale si verifica l’unione con Dio. La grazia designa l’inizio non ancora perfetto, la pace il fine compiuto. All’augurio Giovanni aggiunge l’indicazione di colui dal quale desidera vengano date la grazia e la pace: “da Colui che è, che era e che verrà, dai sette spiriti che stanno davanti al suo trono, e da Gesù Cristo”. Così pone un triplice modo proprio di “Colui che dà”: Dio, che esiste in sé in modo assoluto ed eterno; la virtù spirituale ordinata negli influssi dei vari doni in cui è partecipata e quasi moltiplicata; Cristo che, in quanto uomo, merita, impetra e dispensa tali doni.
Matelda canta i motivi della grazia, della pace, del dare, propri della salutazione dell’evangelista. Dopo aver spiegato perché nella foresta dell’Eden ci siano acqua e vento, aggiunge qualcosa che non era stato chiesto da Dante, affermando che i poeti antichi, nel descrivere l’età dell’oro, “forse in Parnaso esto loco sognaro”. Introduce questa aggiunta combinando il tema della grazia con quello del dare: “darotti un corollario ancor per grazia[8], oltre quanto promesso, e dunque in modo gratuito (Purg. XXVIII, 136-141). Nel descrivere le opere di Dio, dice che il sommo bene, nel creare l’uomo buono e a bene, “questo loco / diede per arr’ a lui d’etterna pace[9], combinando i motivi del dare e della pace (vv. 92-93).
Come l’alta Grecia è separata nella contemplazione dalla carne, così nella foresta dell’Eden tre soli passi separano Dante da Matelda, che sta al di là del fiumicello; eppure l’Ellesponto, molto più largo del Lete, non fu oggetto di maggiore odio da parte di Leandro, quando il mareggiare gli impediva di raggiungere di notte l’amata Ero (Purg. XXVIII, 70-75). Il riferimento a Serse, “ancora freno a tutti orgogli umani”, in quanto passò l’Ellesponto per portare guerra ai Greci e lo riattraversò sconfitto, non è solo reminiscenza storica tratta dall’Ormista (II, x, 8-11) che s’innesta sulle Heroides di Ovidio (18-19), perché il fiumicello che separa il poeta dalla bella donna è il freno che non viene aperto o sciolto dai prelati che curano il gregge (Ap 9, 1-2). Come dirà più avanti Beatrice, non si può passare il Lete senza pentimento delle proprie colpe (Purg. XXX, 142-145). L’uso di questo tema conferma Matelda, bella donna che fa rimembrare un ‘prima’ perduto, come depositaria della disciplina propria dei prelati dell’inizio del quinto stato, il cui bel principio designa l’età dell’oro sognata in Parnaso dagli antichi poeti (cfr. infra). Il poeta sta per affrontare il duro giudizio di Beatrice, e sgorgherà in lacrime di pentimento; per il momento recita la parte del ‘nemico’ della contemplazione, da tenere separato, non del tutto liberato dalla sensualità.
Se l’Asia è interpretata come “gradiens”, alla figura di Matelda si addice il tema del ‘muovere il passo’: è “una donna soletta che si gia” (Purg. XXVIII, 40), il poeta la invita ad avanzare (“vegnati in voglia di trarreti avanti”, v. 46) [10], ella si volge verso di lui mettendo “piede innanzi piede” (v. 54), si muove lungo il Lete “come ninfe che si givan sole / per le salvatiche ombre” (Purg. XXIX, 4-5), Dante procede “pari di lei, / picciol passo con picciol seguitando” (vv. 8-9), è “conducitrice” dei passi del poeta lungo il fiume (Purg. XXXII, 83-84), nel trarlo in esso tirandoselo dietro “sen giva / sovresso l’acqua lieve come scola” (Purg. XXXI, 94-96), con Dante e Stazio segue la ruota destra del carro “passeggiando l’alta selva vòta” (Purg. XXXII, 28-33), conduce i due poeti a bere l’acqua di Eunoè (Purg. XXXIII, 127-129, 133-135).

Matelda, che appare a Dante nell’Eden assimilato all’alta Grecia, in un luogo lontano dalle turbolenze dei sensi come l’isola di Patmos, rappresenta la congiunzione tra la sapienza pagana e quella cristiana. Dopo le prime cinque età del mondo (corrispondenti all’Antico Testamento, la gioachimita età del Padre), che hanno segnato la discesa a spirale per i cinque cicli settenari dell’Inferno, con il Purgatorio inizia la sesta età, quella di Cristo (l’età del Figlio), che ha sette stati, corrispondenti ai sette stati della Chiesa. Dapprima, nel cosiddetto “antipurgatorio”, si registrano in successione temi prevalenti dei primi cinque stati. Il sesto stato della sesta età (con cui si apre l’età dello Spirito) inizia con l’apertura della “porta di san Pietro” (la porta del purgatorio). Questo sesto stato procede anch’esso con andamento settenario, per cui ha sette momenti, corrispondenti principalmente a un girone della montagna, ma non del tutto, perché sempre l’ordine spirituale del poema rompe i confini letterali e le divisioni materiali, concatenando i temi di uno stato prevalente con quelli dello stato che precede e con quelli dello stato che segue e intrecciandoli con temi di tutti gli altri stati. È spiegato nel Notabile VII del prologo della Lectura che il sesto stato della Chiesa è il secondo stato di Cristo e ha i suoi sette tempi per cui la Chiesa, come fosse una sfera, si ricongiunge circolarmente al primo apostolico tempo. Il settimo dei sette momenti del sesto stato della Chiesa coincide con il settimo stato generale della Chiesa, che nel poema corrisponde in parte all’ultimo girone della montagna (il settimo, dove si purgano i lussuriosi) e in parte all’Eden, con cui si chiude la seconda cantica. Il settimo stato, infatti, si svolge parte in questa vita (come pregustazione in terra della gloria eterna, cioè fin sulla cima della montagna), parte nell’altra (nel senso della quiete delle anime beate in attesa della resurrezione, che è la materia del Paradiso).
Il Purgatorio dunque, secondo il senso spirituale, è la storia della Chiesa che corre verso il suo sesto stato, periodo di novità per il secondo avvento di Cristo nei suoi discepoli spirituali e punto di riferimento di tutte le vicende umane, antiche e moderne, che ad esso cooperano. Non è casuale che nel sesto girone della montagna sia chiarificata e riconosciuta, per bocca di Bonagiunta da Lucca, la poetica delle “nove rime” di Dante.
La seconda cantica, poi, realizza quel tempo che san Paolo nella Lettera ai Romani chiama tempo della “pienezza delle genti” (Rm 11, 25-26), che secondo Olivi si concluderà nel sesto stato con la conversione delle reliquie dei Gentili, cioè degli infedeli, e poi dei Giudei, i quali per ultimi si volgeranno a Cristo. La montagna del purgatorio possiede le caratteristiche del “deserto” della Gentilità, nel quale si rifugia la donna (la Chiesa), fuggendo la “selva” dei Giudei (Ap 12, 6). L’aggettivo “gentile” vi ricorre sette volte (più la forma sostantivata a Purg. VI, 110), contro quattro occorrenze nell’Inferno e nessuna nel Paradiso (se si esclude l’altra forma sostantivata a Par. XX, 104). Dante vi rimane tre giorni e mezzo (la seconda cantica si chiude al meriggio del quarto giorno), cioè un periodo di tempo assimilabile al numero 1260, corrispondente alla permanenza della donna nel deserto [11]. La spiaggia che circonda in basso la montagna è “lito diserto, / che mai non vide navicar sue acque / omo, che di tornar sia poscia esperto” (Purg. I, 130-132). Questo è detto con riferimento a Ulisse, che non volle negare a sé, nella sua solitudine (“sol con un legno”), e ai suoi pochi compagni (“quella compagna / picciola da la qual non fui diserto”), l’esperienza del “mondo sanza gente”, cioè deserto fino all’arrivo di Cristo, allorché la Giudea si farà selvaggia e il deserto dei Gentili fiorirà (Inf. XXVI, 100-102; 114-117). Prima di quel lido finì il viaggio dell’eroe greco: “quando n’apparve una montagna, bruna / per la distanza” (vv. 133-134). Ulisse volle sperimentare con i sensi il “mondo sanza gente”. La terra proibita alla ragione umana – alla sapienza di questo mondo che la croce avrebbe dimostrato stolta – non era solo una terra senza abitanti, l’“extra notum nobis orbem” di cui scrive Seneca (Epist. LXXXVIII), era figura della terra che sarebbe stata data ai Gentili, luogo della loro conversione a Cristo, che si sarebbe compiuta solo nel sesto stato della Chiesa. L’ultimo viaggio dell’eroe greco fu un andare sensibilmente al sesto stato, un viaggio nel tempo futuro verso un lido allora noto unicamente a Dio, andata che solo un uomo evangelico del 1300 avrebbe potuto compiere.
Come la prima sede di Pietro fu Gerusalemme, poi traslata ad Antiochia e infine a Roma, così rispetto al corso della storia della salvezza proposta dalla Lectura super Apocalipsim, parodiata nella Commedia, l’Inferno corrisponde alla petrosa e selvatica Giudea, ostinata persecutrice di Cristo e della donna (la Chiesa), che la fugge; il Purgatorio, con in cima la selva fiorita dell’Eden-Asia/Grecia, agli sviluppi della Chiesa fino al suo ‘rinovellarsi’ nel sesto periodo; il Paradiso a “quella Roma onde Cristo è romano” (Purg. XXXII, 102), dove le anime beate attendono la resurrezione.
Nel sesto periodo della storia della Chiesa si verifica un secondo avvento di Cristo, non come il primo nella carne e molto prima del terzo, che sarà nel giudizio finale, ma nello Spirito, cioè nei suoi discepoli spirituali. I segni della divina provvidenza sono pervenuti fino ai tempi moderni, nei quali sta già operando una palingenesi nelle coscienze che porterà a un novum saeculum. Per quanto Olivi sia molto cauto nell’uso degli autori pagani, c’è una perfetta concordanza spirituale, e anche letterale, fra quanto afferma di questa renovatio e la quarta egloga virgiliana. Le espressioni di Olivi relative al sesto stato – “quoddam sollempne initium novi seculirenovaretur et consumaretur seculum” -, nel quale il sacerdozio apostolico “redeat et assurgat ad ordinem primum”, la “nova Ierusalem” – interpretata come “visione di pace” – viene vista “descendere de celo” e la Chiesa descritta come la donna vestita di sole con la sua “virginea proles”, sono la veste spirituale dei versi virgiliani che celebrano la rinnovata età dell’oro, anche se il francescano non li cita esplicitamente: “Magnus ab integro saeclorum nascitur ordo / iam redit et Virgo; redeunt Saturnia regna; / iam nova progenies caelo demittitur alto” (Egloga IV, 5-7). Quel felicissimo stato segnato dalla pace sotto il divo Augusto, che rese l’umanità disposta al primo avvento di Cristo, si rinnova nei versi con i quali Stazio dichiara il suo debito verso Virgilio: “Per te poeta fui, per te cristiano” (Purg. XXII, 64-73). Se tra i due poeti sta il mistero della predestinazione per cui uno fu toccato dalla Grazia e l’altro no, qui Virgilio è non solo profeta del primo avvento di Cristo ma anche della seconda e altrettanto grande “renovatio”, quella del sesto stato, in cui ha luogo la conversione delle genti e del popolo d’Israele fino allora escluso [12].
Ad Ap 7, 4, Olivi ricorda che quanto più letteralmente il senso dell’esegesi riguarda i beni o i fatti finali, tanto è più spirituale dei sensi allegorici che lo precedono, per cui più letteralmente e propriamente si dice che Dio è vita, sapienza, sommo bene piuttosto che leone o sole o rugiada; il detto più letterale è più spirituale e perfetto di quello traslato e allegorico [13]. Ad esempio, Elia si presenta come un uomo spirituale vòlto alla conversione universale e alla generale restituzione di uno stato precedente, precursore dei tre avventi di Cristo in tre differenti persone, due allegoriche (Giovanni Battista e Francesco) e una letterale (Elia in persona, prima del terzo avvento che coincide con il giudizio finale). Virgilio, parlando del “veltro” (assimilabile ad  Elia), si esprime allegoricamente; dicendo “sapienza, amore e virtute” usa il senso letterale.
Così, nel “corollario” dato da Matelda, – Quelli ch’anticamente poetaro / l’età de l’oro e suo stato felice, / forse in Parnaso esto loco sognaro (Purg. XXVIII, 139-141) -, la quale con la sua bellezza fa segno dell’edenico principio dell’umana specie, il senso letterale del luogo dove si trovano Virgilio e Stazio richiama i precedenti allegorici e li rinnova di novelle sacre fronde.

 

[1] Enarrationes in Psalmos, Ps 92, 7-8 (PL 36, coll. 1187-1189).

[2] Das Register Gregors VII., in MGH, Epistolae selectae, herausgegeben von Erich Caspar, Berolini 1920, VIII, 21 (Romae, 15 mar. 1081, Herimanno Metensi episcopo).

[3] Sancti Bernardi Opera, ed. Jean Leclercq – Henri-Maria Rochais, Rome 1979, vol. viii, ep. 354.

[4] La lettera è anche citata nel Chronicon di Elinando di Froidmont (PL 212, coll. 1028 D-1029 A-C).

[5] BERNARDINO DA SIENA, Prediche volgari sul Campo di Siena 1427, a cura di Carlo Delcorno, Milano 1989 (Classici italiani per l’uomo del nostro tempo), I, pp. 350-361, predica XI (25 agosto, lunedì).

[6] Cfr. BORTOLO MARTINELLI, A modo di epilogo. Una citazione di Cristoforo Colombo (Ps. 92, 4), in Giornata bresciana di studi colombiani nel V centenario della scoperta dell’America. Atti del Convegno di Studi, 18 dicembre 1992, Brescia 1994 (Ateneo di scienze lettere e arti. Brescia), pp. 280-287.

[7] L’opinione che il paradiso terrestre si elevasse fino al cielo della luna risale a Beda e alla Glossa ordinaria di Valafredo Strabo: cfr. BRUNO NARDI, Il mito dell’Eden (1922), in Saggi di filosofia dantesca, Firenze 1967, pp. 324-329.

[8] Elargire oltre quanto sperato è fra i significati connessi con la tribù di Levi (Ap 7, 7).

[9] Il tema del patto (“arra”) fa riferimento al prologo, notabile VII.

[10] L’espressione “vegnati in voglia di trarreti avanti”, detto da Dante e Matelda (Purg. XXVIII, 46), rinvia alla tematica dell’invito dello Spirito a venire con desiderio e volontario consenso di Ap 22, 17.

[11] Ad Ap 12, 16 (quarta visione apocalittica) si dice che la donna trova nel deserto dei Gentili, della fede e della contemplazione cristiana, “il luogo preparato da Dio per esservi nutrita per 1260 giorni”. Il suo, afferma Olivi, è un pasto spirituale, con il quale incorpora i Gentili nella fede di Cristo. La durata temporale di questo nutrirsi nel deserto viene riproposta, sempre nella quarta visione, al momento della terza e quarta guerra (che sono riunite in un’unica trattazione), allorché viene detto che alla donna “furono date le due ali della grande aquila”, per volare nel deserto ed esservi nutrita “per un tempo, tempi e la metà di un tempo” cioè per tre anni e mezzo (Ap 12, 14; “tempo” equivale a un anno, “tempi”, che rende il duale greco, a due anni), ovvero per 1260 anni, computando i giorni come anni (30 giorni al mese per 42 mesi). Anziché tre anni e mezzo, Dante rimane nell’Eden per tre giorni e mezzo.

[12] L’incontro tra Stazio e Virgilio è un rinnovarsi dell’antico; il tema della “gentilitas”, toccato nel Limbo e poi con Anfiarao, Tiresia, Arunte, Manto, Euripilo nella quarta bolgia infernale, ha una sua ripresa più elevata nell’incontro tra i due alti tragici, il primo dei quali ebbe come madre e nutrice l’Eneide e si convertì per i versi del “cantor de’ buccolici carmi”.

[13] [LSA, cap. VII, Ap 7, 4] Nec mireris si sensus allegoricus, quoad impletionem in effectu, precedat hic litteralem, quia hoc alibi invenies. Quod enim Malachie ultimo dicitur Helias mittendus “antequam veniat dies Domini” (Ml 4, 5-6), dicit autem Christus Matthei XVII° (Mt 17, 11-13) hoc iam impletum esse in Iohanne Baptista, et nichilominus ad litteram implendum esse in ipso Helia. Constat autem quod Iohannes non fuit Helias nisi mistice et allegorice. Sepe etiam a Christo et a prophetis dicuntur plura litteralius respicientia statum eterne glorie vel extremi iudicii, que tamen allegorice prius implentur in precursoriis gratiis vel iudiciis. Attamen quando litteralior sensus sic respicit finaliora bona vel facta, tunc ipse est spiritualior quam sint allegorici ipsum precurrentes, iuxta quod litteralius [et] magis proprie dicitur Deus esse vita et sapientia et summum bonum quam dicatur esse leo vel sol vel ros et mel, et tamen primum litteralius dictum est spiritualius et perfectius quam sit secundum dictum, quod est translativum et allegoricum.

Tab. III

[LSA, cap. I, Ap 1, 4 (Salutatio)] “Iohannes septem ecclesiis” (Ap 1, 4). Premisso titulo subditur salutatio, in qua ostendit quis est qui librum hunc scribit et mittit, scilicet “Iohannes”. Licet enim supra ostendisset sibi hoc esse revelatum, non tamen dixerat quod ab ipso scriberetur et mitteretur; posset enim per alium scribi et mitti. Ostenditur etiam quibus scribitur et mittitur, scilicet “septem ecclesiis que sunt in Asia”, scilicet minori, que est quedam pars Asie maioris. […]
Signanter autem dicit: “que sunt in Asia”. Primo ratione interpretationis, quia Asia interpretatur elatio. Mundus autem hic continens ecclesias electorum super ipsos elatione sustollitur, secundum illud Psalmi: “Mirabiles EL ATiones maris” (Ps 92, 4). Interpretatur etiam gradiens, quia ecclesie sunt hic in via tendendi ad patriam, et etiam mundus hic semper graditur ad transitum et defectum.
Secundo ratione regionis. Fuit enim conveniens quod sicut Greci erant medii inter Iudeam et terram Latinorum sic, prima fundatione ecclesie facta in Iudea, secunda ramificatio fieret in Grecia et tertia esset in Roma et Latinorum terra.
Deinde specificat bonum quod eis optat, scilicet “gratia vobis et pax”.
Gratia” sumitur per respectum ad suam gratuitam originem, quia non ex debito sed gratis datur a Deo. Sumitur etiam per respectum ad formalem actum gratificandi, quia reddit nos gratos Deo.
Pax” vero sumitur per respectum ad obiectum fruibile, et ad statum quietum et finalem mentis et gratie, et ad mutuam confederationem Dei et suorum cum mente et mentis cum ipso et suis. Unde et gratia potest stare pro initio nondum perfecto, pax vero pro eius fine perfecto.
Deinde subdit a quo optat eam dari, insinuans trinam habitudinem esse DAntis.
Prima est Deus, ut in se ipso absolute et eternaliter existens.
Secunda est eius spiritualis virtus, prout est ad varios influxus donorum spiritualium indistantissime ordinata et in ipsis participata et quasi multiplicata.
Tertia est Christus in quantum homo, predicta dona nobis promerens et impetrans et dispensans.

[1, 4] Signanter autem dicit: “que sunt in Asia”. Primo ratione interpretationis, quia Asia interpretatur elatio.

[LSA, cap. I, Ap 1, 9 (premittit septem generales et laudabiles circumstantias visionum sequentium)] Secunda circumstantia est idoneitas loci, unde subdit: “Fui in insula que appellatur Patmos”. Ecce quod locus erat divinis contemplationibus et visionibus aptus, tamquam remotus et quietus et secretus ac deliciis et divitiis carnalibus vacuus. Est autem Patmos insula Grecie et interpretatur separati hostes, vel separatio palpantium, et congruit huic misterio quia in excessu contemplationis sunt hostes spiritus et palpantes, id est sensuales et carnales, separati. Secundum Papiam autem interpretatur fretum vel vorago, quia fervor et vorago persecutionum multum confert ad suble-vationem spiritus in divina.

[1, 4] Signanter autem dicit: “que sunt in Asia”. Primo ratione interpretationis, quia Asia inter-pretatur elatio. Mundus autem hic continens ecclesias electorum super ipsos elatione sustollitur, secundum illud Psalmi: “Mirabiles EL ATiones maris” (Ps 92, 4). Interpretatur etiam gradiens, quia ecclesie sunt hic in via tendendi ad patriam, et etiam mundus hic semper graditur ad transitum et defectum.
Secundo ratione regionis. Fuit enim conveniens quod sicut Greci erant medii inter Iudeam et terram Latinorum sic, prima fundatione ecclesie facta in Iudea, secunda ramificatio fieret in Grecia et tertia esset in Roma et Latinorum terra.
Deinde specificat bonum quod eis optat, scilicet “gratia vobis et pax”.
Gratia” sumitur per respectum ad suam gratuitam originem, quia non ex debito sed gratis datur a Deo. Sumitur etiam per respectum ad formalem actum gratificandi, quia reddit nos gratos Deo.
Pax” vero sumitur per respectum ad obiectum fruibile, et ad statum quietum et finalem mentis et gratie, et ad mutuam confederationem Dei et suorum cum mente et mentis cum ipso et suis. Unde et gratia potest stare pro initio nondum perfecto, pax vero pro eius fine perfecto.
Deinde subdit a quo optat eam dari, insinuans trinam habitudinem esse DAntis.
Prima est Deus, ut in se ipso absolute et eternaliter existens.
Secunda est eius spiritualis virtus, prout est ad varios influxus donorum spiritualium indistantissime ordi-nata et in ipsis participata et quasi multiplicata.
Tertia est Christus in quantum homo, predicta dona nobis promerens et impetrans et dispensans.

Purg. XXVIII, 40-42, 46, 54; XXIX, 4-5, 7-9; XXXI, 94-96 (gradiens)

Interpretatur etiam gradiens, quia ecclesie sunt hic in via tendendi ad patriam, et etiam mundus hic semper graditur ad transitum et defectum.

una donna soletta che si gia
e cantando e scegliendo fior da fiore
ond’ era pinta tutta la sua via. ……
vegnati in voglia di trarreti avanti ……
e piede innanzi piede a pena mette ……

E come ninfe che si givan sole
per le salvatiche ombre ………..
allor si mosse contra ’l fiume, andando
su per la riva; e io pari di lei,
picciol passo con picciol seguitando.

Tratto m’avea nel fiume infin la gola,
e tirandosi me dietro sen giva
sovresso l’acqua lieve come scola.

Purg. XXVIII, 67-78, 97-102, 106-107

Ella ridea da l’altra riva dritta,
trattando più color con le sue mani,
che l’alta terra sanza seme gitta.
Tre passi ci facea il fiume lontani;
ma Elesponto, là ’ve passò Serse,
ancora freno a tutti orgogli umani,
più odio da Leandro non sofferse
per mareggiare intra Sesto e Abido,
che quel da me perch’ allor non s’aperse.
“Voi siete nuovi, e forse perch’ io rido”,
cominciò ella, “in questo luogo eletto
a l’umana natura per suo nido …”.

Perché  ’l turbar che sotto da sé fanno
l’essalazion de l’acqua e de la terra,
che quanto posson dietro al calor vanno,
a l’uomo non facesse alcuna guerra,
questo monte salìo verso ’l ciel tanto,
e libero n’è d’indi ove si serra.

in questa altezza ch’è tutta disciolta
ne l’aere vivo, tal moto percuote

M   AT  EL   DA (NTIS)

Purg. XXVIII, 61-63, 91-93, 136-138

Tosto che fu là dove l’erbe sono
bagnate già da l’onde del bel fiume,
di levar li occhi suoi mi fece dono.

Lo sommo ben, che solo esso a sé piace,
fé l’uom buono e a bene, e questo loco
diede per arr’ a lui d’etterna pace.

darotti un corollario ancor per grazia;
né credo che ’l mio dir ti sia men caro,
se oltre promession teco si spazia.

Purg. XXVIII, 82-84; XXXIII, 118-119

E tu che se’ dinanzi e mi pregasti,   8, 3
dì s’altro vuoli udir; ch’i’ venni presta
ad ogne tua question tanto che basti.

Per cotal priego detto mi fu: “Priega
M   AT  EL   DA che ’l ti dica”. ……………

Par. XXXII, 147-148

orando grazia conven che s’impetri
grazia da quella che puote aiutarti

Purg. XXX, 55-57, 62-63                 

DAnte, perché Virgilio se ne vada,
non pianger anco, non piangere ancora;
ché pianger ti conven per altra spada”.

quando mi volsi al suon del nome mio,
che di necessità qui si registra

Purg. XXXII, 28-31, 82-84; XXXIII, 127-128, 134 (gradiens)

La bella donna che mi trasse al varco
e Stazio e io seguitavam la rota
che fé l’orbita sua con minore arco.
passeggiando l’alta selva vòta ……
tal torna’ io, e vidi quella pia
sovra me starsi che conducitrice
fu de’ miei passi lungo ’l fiume pria.

Ma vedi Eünoè che là diriva:
menalo ad esso …………….
la bella donna mossesi …………………


4. Principio di bellezza

Ad Ap 3, 3 il vescovo di Sardi, la quinta chiesa d’Asia, viene invitato a ricordare con la mente quale fosse la “prima grazia” e il suo stato e a conservarla facendo penitenza, cioè la grazia ricevuta da Dio e ascoltata tramite la predicazione evangelica. Da quanto gli viene detto, si deduce che costui era tanto intorpidito nell’ozio da non ricordare più il primo stato di grazia e di perfezione. Se non si ravvedrà vigilando, il giudizio divino verrà da lui come un ladro. Cos’è questo ‘prima’ che il vescovo di Sardi viene invitato a ripensare? Sta nel nome della sua chiesa, Sardis, interpretato come “principio di bellezza” (principium pulchritudinis), sia perché nei pochi rimasti integri consegue la singolare gloria della bellezza, essendo cosa ardua e difficile mantenersi mondi tra tanta lussuria, sia per lo zelo mostrato dai primi istitutori del quinto stato. Costoro ordinarono le diverse membra e i diversi uffici dei propri collegi con una regola ispirata all’unità ma anche condiscendente in modo proporzionato alle membra stesse, conseguendo una forma di mirabile bellezza che è propria della Chiesa, la quale è come una regina ornata di una veste aurea per la carità che unisce e circondata dalla varietà nei vari doni e nelle varie grazie delle diverse membra (ad Ap 2, 1).
Cristo si propone alla chiesa di Sardi (Ap 3, 1) come “colui che possiede i sette spiriti di Dio e le sette stelle”, possiede cioè lo spirito increato di Dio, semplice per natura e settiforme nella grazia partecipata e corrispondente ai sette stati della Chiesa, e insieme ‘tiene’ (cioè ha in sua potestà) i prelati di tutte le chiese, designati con le “sette stelle”. Questa universalità di spiriti, doni, stelle, rettori, uffici viene proposta perché il quinto stato si pone come generale rispetto ai precedenti, affinché il vescovo della quinta chiesa abbia chiaro che tali doni erano stati preparati dal divino provvedere per lui e per la sua discendenza nel caso fossero risultati degni. Il quinto stato, che è assimilato alla Chiesa romana (storicamente inizia con l’incoronazione di Carlo Magno o con il soccorso recato da suo padre Pipino al papa contro i Longobardi; dura circa cinquecento anni, cioè perviene fino al 1300), fu dunque bello nel suo principio, in cui ebbe la pienezza delle perfezioni, condiscendente secondo le esigenze delle moltitudini e del vivere associato rispetto all’arduo, alto e solitario stato degli anacoreti che lo precedette, ma si è poi corrotto per rilassatezza, tanto che il suo vescovo ha una fama usurpata di essere buono. Così, secondo Riccardo di San Vittore, l’interpretazione di Sardi come “principio di bellezza” significa che essa ha avuto solo il principio buono, ma non anche la fine. Il vescovo di Sardi viene pertanto invitato a ricordare con la mente quale fosse la “prima grazia” e a conservarla (Ap 3, 3). Bisogna anche aggiungere che, proprio per questa rilassatezza, il primato del quinto stato viene traslato al sesto, stato del nuovo avvento di Cristo nei discepoli di Francesco, come il primato della vecchia Sinagoga venne traslato alla Chiesa di Cristo e degli apostoli (questa “translatio”, applicata da Dante alla propria poetica rispetto a quella che si “ritenne / di qua dal dolce stil novo” [Purg. XXIV, 49-63], e in generale a “la gloria de la lingua” [Purg. XI, 97-99], assume tale importanza da richiedere una trattazione separata).

Il tema della bellezza, unito ad altri del quinto stato nel suo inizio – condiscendere, contemperare, esser mondo, il mirabile variare – percorre in Purg. XXVIII la descrizione dell’Eden, al quale, in quanto luogo di felicità dell’umana radice da esso poi sbandita, si addice il significato della chiesa di Sardi come “principium pulchritudinis”: la “divina foresta spessa e viva” che tempera agli occhi lo splendore del nuovo giorno, l’acqua monda del Lete, il mirabile variare dei “freschi mai”, cioè dei rami fioriti; l’apparizione della “bella donna”, il volgersi di Matelda come vergine che “avvalli” con condiscendenza gli occhi onesti.
Ricordare ciò che venne ‘prima’, congiunto con il tema della bellezza degli inizi di uno stato poi corrottosi, si trasforma nel ricordo di quella che per i poeti antichi fu “l’età de l’oro e suo stato felice” (Purg. XXVIII, 139-144), de “lo secol primo, quant’ oro fu bello”, di cui dice la voce entro le fronde dell’albero che taglia la strada sulla soglia del sesto girone della montagna (Purg. XXII, 148-150). Così l’apparizione di Matelda nell’Eden fa ricordare a Dante quale era Proserpina allorché, rapita da Plutone, perdette la “prima-vera”, cioè i fiori raccolti assimilati alla prima grazia (Purg. XXVIII, 49-51; da notare la corrispondenza tra “qualiter” e “qual era”). È questo un uso della parola “primavera” che Dante ha già proposto nella Vita Nova, applicandola a Monna Vanna, la donna del suo “primo amico” Guido Cavalcanti, la quale nell’incedere viene prima della sua donna, Monna Bice, come Giovanni Battista venne prima di Cristo, come l’apparizione di Matelda nell’Eden precede quella di Beatrice. Nella figura di Matelda la presenza del “perpetuum ver” della regione di Enna di cui canta Ovidio nelle Metamorfosi (V, 391) è innegabile ma, come sempre nel poema, qualunque ricordo classico si armonizza con la teologia che lo consacra. Notabile è che i versi “Quelli ch’anticamente poetaro / l’età de l’oro e suo stato felice”, di cui dice Matelda, corrispondano nella prosa a “fidem et gratiam et statum eius, prout a me et a ceteris tibi predicantibus audivisti”: gli antichi poeti, vestiti da antesignani dei predicatori della fede e di un prossimo novum saeculum nella storia della Chiesa, sono forse l’espressione più alta raggiunta da Dante nello sforzo di conciliare la “felicitas” aristotelica con il cristianesimo.
Da notare, ancora, come la citazione delle prime parole del Libro della Sapienza – “Diligite iustitiam … qui iudicatis terram” -, formate dagli spiriti giusti nel cielo di Giove, si accompagni, nel contesto, con parole-chiave riferite al quinto stato della storia della Chiesa: cinque, sette, notai, quinto, rimasero e nella stessa seconda parte della citazione (Par. XVIII, 88-96). Cristo si presenta alla chiesa e al vescovo di Sardi come colui che giudica secondo i sette doni dello Spirito, o le sette stelle, messi in ogni parte della terra.

Prefigurazione di Matelda è Lia (la vita attiva), sognata da Dante poco prima dell’alba del “novo giorno” in cui gli appaiono Matelda e poi Beatrice: le sono appropriati i motivi del ‘prima’, riferito al raggiare di Venere nella montagna, e della bellezza (Purg. XXVII, 94-99).
Ricordare un ‘prima’ bello che non si ritrova più perché mutato in meglio si verifica nel riconoscimento di Piccarda. Nel rivelarsi, la donna invita il poeta a ricordare con mente attenta i “primi concetti” che ebbe di lei, cioè la prima immagine conosciuta in terra, e Dante replica che questi “primi” sono tanto trasfigurati dallo splendore divino da non avergli consentito un immediato riconoscimento senza l’aiuto delle parole del suo interlocutore (Par. III, 47-49, 58-63).
Il ricordare (‘porre mente’) e la bellezza sono motivi congiunti anche nell’incontro con Manfredi: “pon mente … biondo era e bello … vadi a mia bella figlia” (Purg. III, 103-108, 115-116). Le prerogative della Chiesa, edenica nel suo principio, sono estese alle curie regali.
Un altro esempio di un ‘prima’ legato a uno stato di innocenza originaria, con l’inserimento del tema del vegliare proposto al vescovo di Sardi ma con l’esclusione del ritornare alla mente, è l’immagine della donna fiorentina del tempo antico rimpianto da Cacciaguida, che vegliava la culla usando il giocoso linguaggio infantile, “l’idïoma / che prima i padri e le madri trastulla” (Par. XV, 121-123; vegliare è motivo proprio dello stesso Cacciaguida, v. 64). Il “bello / viver di cittadini” della Firenze antica è assimilato alla vita dell’uomo nell’Eden, bella nei suoi inizi e poi corrottasi (vv. 130-131).
Il discendere (tema tipico del quinto stato) e la bellezza sono nella Lavagna, la “fiumana bella” che “intra Sïestri e Chiaveri s’adima”, vantata da Adriano V, tardo nella conversione come il quinto vescovo (Purg. XIX, 100-101, 106: si è appunto nel ‘quinto’ girone della montagna).
Belacqua, il pigro liutaio “che mostra sé più negligente / che se pigrizia fosse sua serocchia”, nel momento in cui si volge a Dante e a Virgilio “puose mente”, cioè riguardò con la mente come deve fare l’intorpidito vescovo di Sardi (Purg. IV, 109-112); fu anch’egli tardivo nella conversione (v. 132).


Tab. IV

[LSA, cap. III, Ap 3, 1 (Ia visio, Va ecclesia)]Hiis autem premittitur Christus loquens, cum dicitur (Ap 3, 1): “Hec dicit qui habet septem spiritus Dei et septem stellas”, id est qui occulta omnium videt et fervido zelo spiritus iudicat tamquam habens “septem spiritus Dei”, qui prout infra dicitur “in omnem terram sunt missi” (cfr. Ap 5, 6); et etiam qui potest omnes malos quantumcumque potentes punire tamquam in sua manu, id est sub sua potentia, habens “septem stellas”, id est universos prelatos omnium ecclesiarum. Quid per septem spiritus significetur tactum est supra, capitulo primo, super prohemio huius libri. Talem ergo se proponit huic episcopo, quia habebat nomen boni cum esset malus, nec videbatur futurum iudicium formidare, et etiam quia Christus ostendit se nosse quosdam sanctos huius ecclesie occultos et paucos, tamquam omnibus spiritualiter presens et omnia potestative continens. Respectu vero quinti status ecclesiastici, talem se proponit quia quintus status est respectu quattuor statuum precedentium generalis, et ideo universitatem spirituum seu donorum et stellarum seu rectorum et officiorum se habere testatur, ut qualis debeat esse ipsius ordinis institutio tacite innotescat. […]

Par. XVIII, 88-96

Mostrarsi dunque in cinque volte sette
vocali e consonanti; e io notai
le parti sì, come mi parver dette.
DILIGITE IUSTITIAM’, primai
fur verbo e nome di tutto ’l dipinto;
QUI IUDICATIS TERRAM’, fur sezzai.
Poscia ne l’emme del vocabol quinto
rimasero ordinate; sì che Giove   12, 17
pareva argento lì d’oro distinto.

 

[LSA, cap. II, Ap 2, 1 (Va ecclesia)] Vocatur autem congrue hec ecclesia Sardis, id est principium pulchritudinis, tum quia in suis paucis incoinquinatis habet singularem gloriam pulchritudinis, quia difficillimum et arduissimum est inter tot suorum luxuriantes se omnino servare mundum; tum quia primi institutores quinti status fuerunt in se et in suis omnis munditie singulares zelatores, suorumque collegiorum regularis institutio, diversa membra et officia conectens et secundum suas proportiones ordinans sub regula unitatis condescendente proportioni membrorum, habet mire pulchritudinis formam toti generali ecclesie competentem, que est sicut regina aurea veste unitive caritatis ornata et in variis donis et gratiis diversorum membrorum circumdata varietate.

[LSA, cap. III, Ap 3, 2-3 (Ia visio, Va ecclesia)] “Esto vigilans” (Ap 3, 2), id est non torpens vel dormiens, sed attente sollicitus de salute tua. Ille enim dormit, qui in peccatis quiescit quasi sopitus et negligit curare de salute anime sue. Quia vero iste, tamquam episcopus, tenebatur sollicite curare non solum de sua salute sed etiam subditorum suorum, ideo pro utroque monetur ut vigilet. […] Sunt enim nonnulli qui ea quibus apud homines videntur magni magis diligunt, et ea sine quibus in conspectu Dei iustificari non possunt parvipendunt, querentes de minimo crescere et de maximo minui. Qui autem maiora coram Deo negligit, minora etiam coram hominibus iuste perdit. […]
In mente ergo habe” (Ap 3, 3), id est attente recogita, “qualiter acceperis”, scilicet a Deo priorem gratiam, “et audieris”, ab homine scilicet per predicationem evangelicam, “et serva”, scilicet illa que per predicationem audisti et per influxum gratie a Deo primitus accepisti. Vel recogita qualiter per proprium consensum accepisti fidem et gratiam et statum eius, prout a me et a ceteris tibi predicantibus audivisti. “Et serva” ea “et penitentiam age”, scilicet de tuis malis, quasi dicat: si digne recogitaveris gratiam tibi prius impensam et qualiter prius accepisti eandem, servabis eam et penitentiam ages.
Innuit etiam per hoc quod sic fuit otiosus et torpens, quod in mente non habuit qualiter acceperit et audierit statum et gratiam sue perfectionis, et quod ideo sic corruit. Que quidem nimis correspondenter patent in hoc cursu novissimo quinti temporis ecclesiastici.
Deinde comminatur eidem iudicium sibi occulte et inopinate superventurum si non se correxerit, unde subdit: “Si ergo non vigilaveris, veniam ad te tamquam fur”, qui scilicet venit latenter et ex improviso ut bona auferat et possessorem occidat. Unde subdit: “et horam nescies qua veniam ad te”. Iustum enim est ut qui se ipsum per negligentiam et torporem nescit, nesciat horam iudicii sui et exterminii. Talis etiam propter suas tenebras non videt lucem, ac erronee credit et optat se diu in prosperitate victurum et Dei iudicium diu esse tardandum, et etiam spe presumptuosa sperat se esse finaliter salvandum, propter quod Ia ad Thessalonicenses V° dicit Apostolus quod “dies Domini veniet in nocte sicut fur. Cum enim dixerint: pax et securitas, tunc superveniet eis repentinus interitus” (1 Th 5, 2-3).

Purg. XXVII, 94-99, 136-138

Ne l’ora, credo, che de l’orïente
prima raggiò nel monte Citerea,
che di foco d’amor par sempre ardente,
giovane e bella in sogno mi parea
donna vedere andar per una landa
cogliendo fiori; e cantando dicea

Mentre che vegnan lieti li occhi belli
che, lagrimando, a te venir mi fenno,
seder ti puoi e puoi andar tra elli.

 

Purg. XXVIII, 28-30, 34-36, 43-51, 55-57, 61-63, 139-144, 148

Tutte l’acque che son di qua più monde,
parrieno avere in sé mistura alcuna
verso di quella, che nulla nasconde

Coi piè ristetti e con li occhi passai
di là dal fiumicello, per mirare
la gran varïazion d’i freschi mai

“Deh, bella donna, che a’ raggi d’amore
ti scaldi, s’i’ vo’ credere a’ sembianti
che soglion esser testimon del core,
vegnati in voglia di trarreti avanti”,
diss’ io a lei, “verso questa rivera,
tanto ch’io possa intender che tu canti.
Tu mi fai rimembrar dove e qual era
Proserpina nel tempo che perdette
la madre lei, ed ella primavera”.

volsesi in su i vermigli e in su i gialli
fioretti verso me, non altrimenti
che vergine che li occhi onesti avvalli

Tosto che fu là dove l’erbe sono
bagnate già da l’onde del bel fiume,
di levar li occhi suoi mi fece dono.

“Quelli ch’anticamente poetaro
l’età de l’oro e suo stato felice,
forse in Parnaso esto loco sognaro.
Qui fu innocente l’umana radice;
qui primavera sempre e ogne frutto;
nettare è questo di che ciascun dice”.

poi a la bella donna torna’ il viso.

Inf. XIX, 16-18, 55-57

Non mi parean men ampi né maggiori
che que’ che son nel mio bel San Giovanni,
fatti per loco d’i battezzatori

Se’ tu sì tosto di quell’ aver sazio
per lo qual non temesti tòrre a ’nganno
la bella donna, e poi di farne strazio?

Purg
. IV, 109-114, 130-132

“O dolce segnor mio”, diss’ io, “adocchia
colui che mostra sé più negligente
che se pigrizia fosse sua serocchia”.
Allor si volse a noi e puose mente,
movendo ’l viso pur su per la coscia,
e disse: “Or va tu sù, che se’ valente!”.

Prima convien che tanto il ciel m’aggiri
di fuor da essa, quanto fece in vita,
perch’io ’ndugiai al fine i buon sospiri

Purg. XXII, 148-150

Lo secol primo, quant’ oro fu bello,
fé savorose con fame le ghiande,
e nettare con sete ogne ruscello.

Purg. III, 103-108, 115-116, 136-141

E un di loro incominciò: “Chiunque
tu se’, così andando, volgi ’l viso:
pon mente se di là mi vedesti unque”.
Io mi volsi ver’ lui e guardail fiso:
biondo era e bello e di gentile aspetto,
ma l’un de’ cigli un colpo avea diviso.

vadi a mia bella figlia, genitrice
de l’onor di Cicilia e d’Aragona

Vero è che quale in contumacia more
di Santa Chiesa, ancor ch’al fin si penta,
star li convien da questa ripa in fore,
per ognun tempo ch’elli è stato, trenta,
in sua presunzïon, se tal decreto
più corto per buon prieghi non diventa.

Par. III, 1-3, 47-49, 58-63

Quel sol che pria d’amor mi scaldò ’l petto,
di bella verità m’avea scoverto,
provando e riprovando, il dolce aspetto

e se la mente tua benriguarda,
non mi ti celerà l’esser più bella,
ma riconoscerai ch’i’ son Piccarda

Ond’ io a lei: “Ne’ mirabili aspetti
vostri risplende non so che divino
che vi trasmuta da’ primi concetti:
però non fui a rimembrar festino;
ma or m’aiuta ciò che tu mi dici,
sì che raffigurar m’è più latino”.

Par. XV, 64-66, 121-123, 130-133

ma perché ’l sacro amore in che io veglio
con perpetüa vista e che m’asseta
di dolce disïar, s’adempia meglio

L’una vegghiava a studio de la culla,
e, consolando, usava l’idïoma
che prima i padri e le madri trastulla

A così riposato, a così bello
viver di cittadini, a così fida
cittadinanza, a così dolce ostello,
Maria mi diè, chiamata in alte grida

Purg. XIX, 100-102, 106-108

Intra Sïestri e Chiaveri s’adima
una fiumana bella, e del suo nome
lo titol del mio sangue fa sua cima.

La mia conversïone, omè!, fu tarda;
ma, come fatto fui roman pastore,
così scopersi la vita bugiarda.

 

La rosa dei temi contenuti nell’esegesi di Ap 3, 2-3 percorre il poema con multiformi variazioni. Smarrirsi (“Ille enim dormit, qui in peccatis quiescit quasi sopitus … sic fuit otiosus et torpens, quod in mente non habuit qualiter acceperit et audierit statum et gratiam sue perfectionis, et quod ideo sic corruit”), non sapere («“et horam nescies qua veniam ad te” … qui se ipsum per negligentiam et torporem nescit»), tardare (“optat se diu in prosperitate victurum et Dei iudicium diu esse tardandum”), ripensare attentamente un primo stato di grazia, qual era («“In mente ergo habe”, id est attente recogita, “qualiter acceperis”, scilicet a Deo priorem gratiam … si digne recogitaveris gratiam tibi prius impensam et qualiter prius accepisti eandem»), udire (“illa que per predicationem audisti et per influxum gratie a Deo primitus accepisti”), vigilare (“Si ergo non vigilaveris … Igitur non dormiamus sicut et ceteri, sed vigilemus et sobrii simus”), serbare la fede acquisita per proprio consenso («Vel recogita qualiter per proprium consensum accepisti fidem et gratiam et statum eius … “Et serva”»): sono temi che si ritrovano alternati, intrecciati e variati in più luoghi della Commedia. Si rinvengono nello smarrimento di Dante nella “selva oscura” (Inf. I, 1-12) e nella “diserta piaggia”, di cui ha udito Beatrice che teme di aver tardato nel soccorso (Inf. II, 61-66); si registrano nell’ascoltare Virgilio (Inf. V, 70-72; XIII, 20-24) o il “parlar … nemico” di Farinata (Inf. X, 121-129), o ancora di fronte al folgorante sguardo di Beatrice (Par. IV, 139-142) o nella visione finale di fronte al raggio divino (Par. XXXIII, 76-81). Sono appropriati a dannati antichi (Nembrot, Purg. XII, 34-36) e moderni (Vanni Fucci, Inf. XXIV, 112-117), ai purganti nella valletta dei principi (Purg. VIII, 58-63); sono ancora presenti nell’appello ai lettori di Par. II, 1-15.
Il torpore di cui è accusato il vescovo di Sardi è lo stesso di Dante, ignaro del suo essersi ritrovato nella selva oscura, descritto in apertura del poema: “Io non so ben ridir com’i’ v’intrai, / tant’ era pien di sonno a quel punto / che la verace via abbandonai” (Inf. I, 10-12). “Vago” è il poeta di percorrere la divina foresta dell’Eden (Purg. XXVIII, 1-2). Ma non si tratta di un cammino come quello da cui si volse Ulisse, “dove, per lui, perduto, a morir gissi” (Inf. XXVI, 84), né di uno smarrirsi nella selva (nonostante la simmetria tra “tanto, ch’io / non potea rivedere ond’ io mi ’ntrassi” e “Io non so ben ridir com’i’ v’intrai, / tant’ era pien di sonno a quel punto / che la verace via abbandonai”), perché, dopo aver visto “il temporal foco e l’etterno”, il suo arbitrio è “libero, dritto e sano” e può prendere per guida il proprio piacere (Purg. XXVII, 131), che non è più la “dulcis voluptas” delle cose mondane di cui era piena la “dolce serena” apparsagli nel secondo sogno fatto sulla montagna (cfr. infra).

Si consideri, in particolare, la dottrina del libero arbitrio esposta da Virgilio (Purg. XVIII, 46-75). “Principio là onde si piglia /  ragion di meritare in voi”, il libero arbitrio è virtù innata “che consiglia, / e de l’assenso de’ tener la soglia”; è “nobile virtù” alla quale bisogna sempre ripensare affinché ogni atto volitivo “si raccoglia” alla “prima voglia”, innata per grazia divina. È dunque assimilato allo stato edenico da ricordare, e non a caso Virgilio, sulla soglia del paradiso terrestre, dice a Dante: “libero, dritto e sano è tuo arbitrio, / e fallo fora non fare a suo senno” (Purg. XXVII, 140-141). Da confrontare quanto detto del libero arbitrio (“e de l’assenso de’ tener la soglia”) con l’assenso dato per Domenico dalla madrina in occasione del battesimo (Par. XII, 64): in entrambi i casi, della fede e della prima voglia, c’è una grazia data gratuitamente sulla quale deve esercitarsi il consenso (“Vel recogita qualiter per proprium consensum accepisti fidem et gratiam et statum eius”).
All’esegesi di Ap 3, 3 – ricordare, non sapere, udire, la bellezza – rinvia anche l’officio penitenziale svolto da Matelda, la quale trae Dante nel Lete affinché ne beva l’acqua: “Quando fui presso a la beata riva, / ‘Asperges me’ sì dolcemente udissi, / che nol so rimembrar, non ch’io lo scriva. / La bella donna ne le braccia aprissi; / abbracciommi la testa e mi sommerse / ove convenne ch’io l’acqua inghiottissi” (Purg. XXXI, 97-102). Il Salmo 50, 9, che si recitava quando il sacerdote spargeva l’acqua benedetta sul peccatore, è incastonato nei temi della prima grazia, che si rinnova bevendo nel luogo della primordiale bellezza. La funzione di Matelda è di giustificazione e redenzione; il Salmo 50, 9  – “Asparges me hysopo et mundabor; lavabis me et super nivem dealbabor” – rinvia infatti al quinto primato di Cristo in quanto uomo, per cui egli ci lava dai peccati:

[LSA, cap. I, Ap 1, 5 (septem notabiles primatus Christi secundum quod homo)] Quinto primatum nostre iustificationis et redemptionis, quam iustificationem tangit dicendo: “et lavit nos a peccatis nostris”; redemptionem vero cum subdit: “in sanguine suo”, id est in merito sue passionis et mortis cuius modum et speciem exprimit sanguis effusus. Servat autem methaforam leprosorum, qui per balneum sanguinis mundi et calidi expurgantur et sanantur. Premisit autem “qui dilexit nos”, ad monstrandum quod ipse nos redemit et lavit non ex sua necessitate vel utilitate, vel ex debito vel ex timore aut ex coactione, sed ex sua sola misericordia et gratuita caritate.

Dunque con la medesima esegesi di Ap 3, 2-3 è vestita Matelda sia nell’apparire in quanto simbolo della bellezza primigenia come poi quando è chiamata a quegli altri gravi uffici, i quali, secondo Benedetto Croce, “non hanno nulla da vedere con la ispirazione poetica ond’ella fu generata e apparve per la prima volta”. La Matelda “primavera” non è dissonante dall’officiale che immerge Dante nel Lete: in entrambi i casi si tratta dell’intervento della prima grazia, da Dio gratuitamente data, e del ricordo penitenziale di essa, come Cristo dice al vescovo di Sardi: “si digne recogitaveris gratiam tibi prius impensam et qualiter prius accepisti eandem, servabis eam et penitentiam ages“.

Gli stessi motivi servono a Beatrice per affermare la resurrezione dei corpi (Par. VII, 145-148). Dante, dice la donna, deve ripensare “come l’umana carne fessi allora / che li primi parenti intrambo fensi”. A differenza della tradizione teologica, Dante afferma che il corpo è stato creato immortale e lo è per sua stessa natura (poi corrotta dal peccato), e non per privilegio preternaturale conferitogli per virtù dell’anima. Indipendentemente da quelle che possono essere le posizioni dell’Olivi al riguardo, la creazione della carne umana è fasciata dai temi, tratti dalla Lectura super Apocalipsim, relativi a uno stato di grazia e di perfezione da ben riguardare con la mente, utilizzati da Virgilio per descrivere l’origine del libero arbitrio.
Ripensare la prima grazia, oppure qualcosa che si è ascoltato prima: “se tu ripensi / come l’umana carne fessi allora / che li primi parenti intrambo fensi (Par. VII, 146-148) … come i pastor che prima udir quel canto (Purg. XX, 140)”. Ancora sullo stesso panno teologico sono cuciti sia l’invito di Beatrice a ripensare la creazione dell’uomo sia il ricordo dei pastori che per primi ascoltarono il Gloria in excelsis Deo cantato dagli angeli sulla stalla di Betlemme, canto che si rinnova al momento in cui Virgilio e Dante lasciano il quinto girone della montagna, in cammino verso il sesto, grido che accompagna il forte terremoto, anch’esso ripetizione della sconvolgente predicazione di Cristo e segno dell’apertura del sesto sigillo, del libero ascendere interiore e, politicamente, del ritorno del seme di Federico II, vittorioso sul regno di Francia.
Dalla stessa Beatrice, i motivi sono invece appropriati a Dio in senso negativo: “né prima quasi torpente si giacque”, né ebbe un “prima” o un poi, nel suo “discorrer … sovra quest’ acque” (Par. XXIX, 19-21).

 

Tab. IV bis

[LSA, cap. II, Ap 2, 1 (Va ecclesia)] Vocatur autem congrue hec ecclesia Sardis, id est principium pulchritudinis, tum quia in suis paucis incoinquinatis habet singularem gloriam pulchritudinis […]

[LSA, cap. III, Ap 3, 2-3 (Ia visio, Va ecclesia)] “Esto vigilans” (Ap 3, 2), id est non torpens vel dormiens, sed attente sollicitus de salute tua. Ille enim dormit, qui in peccatis quiescit quasi sopitus et negligit curare de salute anime sue. Quia vero iste, tamquam episcopus, tenebatur sollicite curare non solum de sua salute sed etiam subditorum suorum, ideo pro utroque monetur ut vigilet. […] Sunt enim nonnulli qui ea quibus apud homines videntur magni magis diligunt, et ea sine quibus in conspectu Dei iustificari non possunt parvipendunt, querentes de minimo crescere et de maximo minui. Qui autem maiora coram Deo negligit, minora etiam coram hominibus iuste perdit. […]
In mente ergo habe” (Ap 3, 3), id est attente recogita, “qualiter acceperis”, scilicet a Deo priorem gratiam, “et audieris”, ab homine scilicet per predicationem evangelicam, “et serva”, scilicet illa que per predicationem audisti et per influxum gratie a Deo primitus accepisti. Vel recogita qualiter per proprium consensum accepisti fidem et gratiam et statum eius, prout a me et a ceteris tibi predicantibus audivisti. “Et serva” ea “et penitentiam age”, scilicet de tuis malis, quasi dicat: si digne recogitaveris gratiam tibi prius impensam et qualiter prius accepisti eandem, servabis eam et penitentiam ages.
Innuit etiam per hoc quod sic fuit otiosus et torpens, quod in mente non habuit qualiter acceperit et audierit statum et gratiam sue perfectionis, et quod ideo sic corruit. Que quidem nimis correspondenter patent in hoc cursu novissimo quinti temporis ecclesiastici.
Deinde comminatur eidem iudicium sibi occulte et inopinate superventurum si non se correxerit, unde subdit: “Si ergo non vigilaveris, veniam ad te tamquam fur”, qui scilicet venit latenter et ex improviso ut bona auferat et possessorem occidat. Unde subdit: “et horam nescies qua veniam ad te”. Iustum enim est ut qui se ipsum per negligentiam et torporem nescit, nesciat horam iudicii sui et exterminii. Talis etiam propter suas tenebras non videt lucem, ac erronee credit et optat se diu in prosperitate victurum et Dei iudicium diu esse tardandum, et etiam spe presumptuosa sperat se esse finaliter salvandum, propter quod Ia ad Thessalonicenses V° dicit Apostolus quod “dies Domini veniet in nocte sicut fur. Cum enim dixerint: pax et securitas, tunc superveniet eis repentinus interitus” (1 Th 5, 2-3). Quibus autem, scilicet sanctis, et quare non veniet sicut fur ostendit subdens: “Vos autem, fratres, non estis in tenebris, ut vos dies illa tamquam fur comprehendat; omnes enim vos estis filii lucis et diei. Igitur non dormiamus sicut et ceteri, sed vigilemus et sobrii simus. Qui enim dormiunt nocte dormiunt” et cetera (ibid., 5, 4-7).

Inf. I, 1-12; XX, 127-129

Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura,
ché la diritta via era smarrita.
Ahi quanto a dir qual era è cosa dura
esta selva selvaggia e aspra e forte
che nel pensier rinova la paura!
Tant’ è amara che poco è più morte;
ma per trattar del ben ch’i’ vi trovai,
dirò de l’altre cose ch’i’ v’ho scorte.
Io non so ben ridir com’ i’  v’intrai,
tant’ era pien di sonno
a quel punto

che la verace via abbandonai.

e già iernotte fu la luna tonda:
ben ten de’ ricordar, ché non ti nocque
alcuna volta per la selva fonda.

Inf. II, 61-66; V, 70-72; X, 121-129

l’amico mio, e non de la ventura,
ne la diserta piaggia è impedito
sì nel cammin, che vòlt’ è per paura;
e temo che non sia già smarrito,
ch’io mi sia tardi al soccorso levata,

per quel ch’i’ ho di lui nel cielo udito.

Poscia ch’io ebbi ’l mio dottore udito
nomar le donne antiche e ’ cavalieri,
pietà mi giunse, e fui quasi smarrito.

Indi s’ascose; e io inver’ l’antico
poeta volsi i passi, ripensando
a quel parlar che mi parea nemico.

Elli si mosse; e poi, così andando,
mi disse: “Perché se’  tu  sì smarrito?”.
E io li sodisfeci al suo dimando.
La mente tua conservi quel ch’udito
hai contra te”, mi comandò quel saggio;
“e ora attendi qui”, e drizzò ’l dito

Inf. XIII, 20-24

“Però riguarda ben; sì vederai
cose che torrien fede al mio sermone”.
Io sentia d’ogne parte trarre guai
e non vedea persona che ’l facesse;
per ch’io tutto smarrito m’arrestai.

Inf. XV, 49-51

“Là sù di sopra, in la vita serena”,
rispuos’ io lui, “mi smarri’ in una valle,
avanti che l’età mia fosse piena”.

Inf. XXIV, 112-117; XXV, 88-90, 145-147

E qual è quel che cade, e non sa como,
per forza di demon ch’a terra il tira,
o d’altra oppilazion che lega l’omo,
quando si leva, che ’ntorno si mira
tutto smarrito de la grande angoscia
ch’elli ha sofferta, e guardando sospira

Lo trafitto ’l mirò, ma nulla disse;
anzi, co’ piè fermati, sbadigliava
pur come sonno o febbre l’assalisse.

E avvegna che li occhi miei confusi 
fossero alquanto e l’animo smagato,
non poter quei fuggirsi tanto chiusi

Par. II, 1-15

O voi che siete in piccioletta barca,
desiderosi d’ascoltar, seguiti
dietro al mio legno che cantando varca,
tornate a riveder li vostri liti:
non vi mettete in pelago, ché forse,
perdendo me, rimarreste smarriti.
L’acqua ch’io prendo già mai non si corse;
Minerva spira, e conducemi Appollo,
e nove Muse mi dimostran l’Orse.
Voialtri pochi che drizzaste il collo
per tempo al pan de li angeli, del quale
vivesi qui ma non sen vien satollo,
metter potete ben per l’alto sale
vostro navigio, servando mio solco
dinanzi a l’acqua che ritorna equale.

Par. XXIX, 19-21

Né prima quasi torpente si giacque;
ché né prima né poscia procedette
lo discorrer di Dio sovra quest’ acque.

Purg. XX, 139-141

No’ istavamo immobili e sospesi
come i pastor che prima udir quel canto,
fin che ’l tremar cessò ed el compiési.

Purg. XXII, 148-150

Lo secol primo, quant’ oro fu bello,
fé savorose con fame le ghiande,
e nettare con sete ogne ruscello.

Purg. XXVIII, 22-24, 49-51

Già m’avean trasportato i lenti passi
dentro a la selva antica  tanto, ch’io
non potea rivedere ond’ io mi ’ntrassi

Tu mi fai rimembrar dove e qual era
Proserpina nel tempo che perdette
la madre lei, ed ella primavera”.

Purg. XXXI, 97-111

Quando fui presso a la beata riva,
Asperges me’ sì dolcemente udissi,
che nol so rimembrar, non ch’io lo scriva.
La bella donna ne le braccia aprissi;
abbracciommi la testa e mi sommerse
ove convenne ch’io l’acqua inghiottissi.
Indi mi tolse, e bagnato m’offerse   8, 3
dentro a la danza de le quattro belle;   3, 1
e ciascuna del braccio mi coperse.
“Noi siam qui ninfe e nel ciel siamo stelle;
pria che Beatrice discendesse al mondo,
fummo ordinate a lei per sue ancelle.
Merrenti a li occhi suoi; ma nel giocondo
lume ch’è dentro aguzzeranno i tuoi
le tre di là, che miran più profondo”.

Par. XII, 61-69

Poi che le sponsalizie fuor compiute
al sacro fonte intra lui e la Fede,
u’ si dotar di mutüa salute,
la donna che per lui l’assenso diede,
vide nel sonno il mirabile frutto
ch’uscir dovea di lui e de le rede;
e perché fosse qual era  in costrutto,
quinci si mosse spirito a nomarlo
del possessivo di cui era tutto.

Purg. XVIII, 55-66, 73-81

Però, là onde vegna lo ’ntelletto
de le prime notizie, omo non sape,
e de’ primi appetibili l’affetto,
che sono in voi sì come studio in ape
di far lo mele; e questa prima voglia
merto di lode o di biasmo non cape.
Or perché a questa ogn’ altra si raccoglia,
innata v’è la virtù che consiglia,
e de l’assenso de’ tener la soglia.
Quest’ è ’l principio là onde si piglia
ragion di meritare in voi, secondo
che buoni e rei amori accoglie e viglia.

La nobile virtù Beatrice intende
per lo libero arbitrio, e però guarda
che
l’abbi a mente
, s’a parlar ten prende.

La luna, quasi a mezza notte tarda,
facea le stelle a noi parer più rade,
fatta com’ un secchion che tuttor arda;
e correa contra ’l ciel per quelle strade
che ’l sole infiamma allor che quel da Roma
tra ’ Sardi e ’ Corsi il vede quando cade.

Par. VII, 145-148

E quinci puoi argomentare ancora
vostra resurrezion, se tu ripensi
come l’umana carne fessi allora

che li primi parenti intrambo fensi.

Purg. VIII, 58-63

“Oh!”, diss’ io lui, “per entro i luoghi tristi
venni stamane, e sono in prima vita,
ancor che l’altra, sì andando, acquisti”.
E come fu la mia risposta udita,
Sordello ed elli in dietro si raccolse
come gente di sùbito smarrita.

Purg. XII, 34-36

Vedea Nembròt a piè del gran lavoro
quasi smarrito, e riguardar le genti
che ’n Sennaàr con lui superbi fuoro.

Par. IV, 139-142

Beatrice mi guardò con li occhi pieni
di faville d’amor così divini,
che, vinta, mia virtute diè le reni,
e quasi mi perdei con li occhi chini.

Par. XXXIII, 76-81

Io credo, per l’acume ch’io soffersi
del vivo raggio, ch’i’ sarei smarrito,
se li occhi miei da lui fossero aversi.
E’ mi ricorda ch’io fui più ardito
per questo a sostener, tanto ch’i’ giunsi
l’aspetto mio col valore infinito.

 

Per concludere la digressione sui temi aggregati attorno alla perfezione stellare di Sardi, la quinta chiesa, si mostrano alcune variazioni nelle quali intervengono anche temi dell’esegesi della quinta vittoria (Ap 3, 5).
I ‘condiscendenti’ vittoriosi del quinto stato non verranno cancellati dal libro della vita, cioè dalla predestinazione e dalla gloria divina, anzi verranno scritti in esso in modo chiaro. Poiché vissero in mezzo alla moltitudine degli infermi come fossero sepolti o innominati senza avere il nome o la fama dei sommi perfetti, sarà dato loro il singolare nome nella gloria divina, raccomandato da Cristo di fronte a tutta la curia celeste. Olivi nota che l’essere cancellati dal libro della vita non presuppone alcuna mutazione o corruzione in Dio. Alcuni vi si trovano scritti in quanto, secondo la presente giustizia divina, sono degni della vita eterna e ad essa ordinati in modo tale che, se non cadono dalla grazia, non possono fallire dal conseguirla.
È quanto dice Brunetto a Dante (Inf. XV, 55-57): “Ed elli a me: “Se tu segui tua stella (cioè la virtù dei Gemelli, corrispondente alla perfezione stellare della chiesa di Sardi ad Ap 3, 1), / non puoi fallire a glorïoso porto (infallibiliter assequerentur), / se ben m’accorsi ne la vita bella” (il tema del “principium pulchritudinis”, prerogativa della quinta chiesa nei suoi inizi)”. Anche i tre Fiorentini sodomiti augurano al poeta di tornare a rivedere “le belle stelle” (Inf. XVI, 82-84).
Al quinto vescovo e alla sua semenza gli stellari doni dello Spirito sono preparati da Dio, qualora si mantengano degni. Così Cacciaguida, che nel suo discendere dalla croce luminosa “pare stella che tramuti loco”, dice come prima cosa: “Benedetto sia tu … trino e uno, / che nel mio seme se’ tanto cortese!” (Par. XV, 16, 47-48).
Ma gli stessi temi erano ben diversamente risuonati nel rimprovero di Beatrice: “e se ’l sommo piacer sì ti fallio (da confrontare con il non puoi fallire di Brunetto Latini) / per la mia morte, qual cosa mortale / dovea poi trarre te nel suo disio?” (Purg. XXXI, 52-54).
L’Eden, che è figura del quinto stato nel suo bel principio di pienezza stellare e di doni dello Spirito, è “campagna santa … d’ogne semenza … piena”, da cui “l’altra terra (quella abitata dagli uomini), secondo ch’è degna / per sé e per suo ciel, concepe e figlia / di diverse virtù diverse legna” (Purg. XXVIII, 112-120). Di questa saggezza temperata “diversa membra et officia conectens et secundum suas proportiones ordinans sub regula unitatis condescendente proportioni membrorum”, propria degli zelanti istitutori del quinto stato (Ap 2, 1), sono pregne le parole di Beatrice relative a Dante prima della caduta: “Non pur per ovra de le rote magne, / che drizzan ciascun seme ad alcun fine / secondo che le stelle son compagne” (Purg. XXX, 109-111). Non sarà poi casuale che il ‘fallire’ di Dante, dopo la morte della sua donna, sia assimilato, per il medesimo panno su cui sono cucite le parole di Beatrice, alla caduta dell’uomo nel peccato originale: allora la natura umana, che si avvantaggiava “di tutte queste dote” (i doni dello Spirito), “peccò tota / nel seme suo” rendendosi indegna (Par. VII, 76-87).
Risolvendo il dubbio di Dante sul fatto che una preghiera di suffragio per le anime purganti possa modificare i decreti di Dio, Virgilio spiega (utilizzando l’esegesi di Ap 3, 5) che l’altezza del giudizio divino “non s’avvalla”, cioè non ‘condiscende’ corrompendosi, per il fatto che un atto di carità come la preghiera dia soddisfazione per la colpa. Di conseguenza “non falla” la speranza di quanti pregano affinché altri preghino per loro (Purg. VI, 25-48).
L’interpretazione data da Riccardo di San Vittore del nome della quinta chiesa – «“Sardis”, id est principium pulchritudinis, quia scilicet sola initia boni non autem consumationem habuit» – risuona in bocca a san Pietro dopo l’invettiva contro “Caorsini e Guaschi” che si apprestano a bere il sangue della Chiesa: “o buon principio, / a che vil fine convien che tu caschi!” (Par. XXVII, 59-60, dove il “vil fine” è un filo tratto dal Notabile V, sempre relativo al quinto stato). Il medesimo tema è appropriato a Dante, che, offeso da viltà, consuma nel dubbio l’impresa di compiere il viaggio, da principio prontamente accettata (Inf. II, 41-42).
“Belle … stelle” sono le quattro virtù cardinali che nell’Eden conducono il poeta agli occhi di Beatrice, nei quali però potrà vedere solo per intervento delle tre virtù teologali, “che miran più profondo” (Purg. XXXI, 103-111). In apertura della seconda cantica, il poeta ‘pone mente’ al polo antartico, e vede “quattro stelle / non viste mai fuor ch’a la prima gente” (le quattro virtù cardinali, Purg. I, 22-24; le tre teologali, anch’esse stelle, saliranno al posto delle prime a Purg. VIII, 89-93): nei versi è presente il tema del ripensare a un ‘prima’ (la prima grazia) secondo l’invito fatto al vescovo di Sardi (Ap 3, 3).


Tab. IV ter

Purg. XXVIII, 112-120

e l’altra terra, secondo ch’è degna
per sé e per suo ciel, concepe e figlia
di diverse virtù diverse legna.
Non parrebbe di là poi maraviglia,
udito questo, quando alcuna pianta
sanza seme palese vi s’appiglia.
E saper dei che la campagna santa
dove tu se’, d’ogne semenza è piena,
e frutto ha in sé che di là non si schianta.

Par. XV, 16-18, 46-48

e pare stella che tramuti loco,
se non che da la parte ond’ e’ s’accende
nulla sen perde, ed esso dura poco

la prima cosa che per me s’intese,
“Benedetto sia tu”, fu, “trino e uno,
che nel mio seme se’ tanto cortese!”.

Purg. XXX, 109-111

Non pur per ovra de le rote magne,
che drizzan ciascun seme ad alcun fine
secondo che le stelle son compagne

Purg. XXXI, 49-54, 103-111

Mai non t’appresentò natura o arte
piacer, quanto le belle membra in ch’io
rinchiusa fui, e che so’ ’n terra sparte;
e se ’l sommo piacer sì ti fallio
per la mia morte, qual cosa mortale
dovea poi trarre te nel suo disio?

Indi mi tolse, e bagnato m’offerse   8, 3
dentro a la danza de le quattro belle;
e ciascuna del braccio mi coperse.
“Noi siam qui ninfe e nel ciel siamo stelle;
pria che Beatrice discendesse al mondo,
fummo ordinate a lei per sue ancelle.
Merrenti a li occhi suoi; ma nel giocondo
lume ch’è dentro aguzzeranno i tuoi
le tre di là, che miran più profondo”.

[LSA, cap. II, Ap 2, 1 (Ia visio, Va ecclesia)] Vocatur autem congrue hec ecclesia Sardis, id est principium pulchritudinis, tum quia in suis paucis incoinquinatis habet singularem gloriam pulchritudinis, quia difficillimum et arduissimum est inter tot suorum luxuriantes se omnino servare mundum; tum quia primi institutores quinti status fuerunt in se et in suis omnis munditie singulares zelatores, suorumque collegiorum regularis institutio, diversa membra et officia conectens et secundum suas proportiones ordinans sub regula unitatis condescendente proportioni membrorum, habet mire pulchritudinis formam toti generali ecclesie competentem, que est sicut regina aurea veste unitive caritatis ornata et in variis donis et gratiis diversorum membrorum circumdata varietate.

[LSA, cap. III, Ap 3, 1 (Ia visio, Va ecclesia)] Hiis autem premittitur Christus loquens, cum dicitur (Ap 3, 1): “Hec dicit qui habet septem spiritus Dei et septem stellas”, id est qui occulta omnium videt et fervido zelo spiritus iudicat tamquam habens “septem spiritus Dei”, qui prout infra dicitur “in omnem terram sunt missi” (cfr. Ap 5, 6); et etiam qui potest omnes malos quantumcumque potentes punire tamquam in sua manu, id est sub sua potentia, habens “septem stellas”, id est universos prelatos omnium ecclesiarum. Quid per septem spiritus significetur tactum est supra, capitulo primo, super prohemio huius libri. Talem ergo se proponit huic episcopo, quia habebat nomen boni cum esset malus, nec videbatur futurum iudicium formidare, et etiam quia Christus ostendit se nosse quosdam sanctos huius ecclesie occultos et paucos, tamquam omnibus spiritualiter presens et omnia potestative continens.
Respectu vero quinti status ecclesiastici, talem se proponit quia quintus status est respectu quattuor statuum precedentium generalis, et ideo universitatem spirituum seu donorum et stellarum seu rectorum et officiorum se habere testatur, ut qualis debeat esse ipsius ordinis institutio tacite innotescat. Diciturque hec ei non quia dignus erat muneribus ipsis, sed quia ipsi et semini eius erant, si dignus esset, divinitus preparata. Unde et Ricardus dat aliam rationem quare hec ecclesia dicta est “Sardis”, id est principium pulchritudinis, quia scilicet sola initia boni non autem consumationem habuit, et solum nomen sanctitatis potius quam rem. Supra vero fuit alia ratio data. Respectu etiam prave multitudinis tam huius quinte ecclesie quam quinti status, prefert se habere “septem spiritus Dei et septem stellas”, id est fontalem plenitudinem donorum et gratiarum Spiritus Sancti et continentiam omnium sanctorum episcoporum quasi stellarum, tum ut istos de predictorum carentia et de sua opposita immunditia plus confundat, tum ut ad eam rehabendam fortius attrahat.

[LSA, cap. III, Ap 3, 5 (Ia visio, Va victoria)] Super quo nota quod deleri de libro vite non ponit in Deo aliquam mutationem vel corruptionem, sed solum ex parte obiecti. Quidam enim sunt ibi scripti secundum presentem iustitiam suam, per quam sunt digni vita eterna et a Deo ordinati ad illam, ita quod si non caderent a gratia infallibiliter assequerentur illam. Pro quanto autem per casum ab illa deletur hec ordinatio, pro tanto dicuntur deleri de libro vite; et per contrarium quanto magis crescunt et perseverant in gratia, tanto magis dicuntur scribi in libro vite.

Purg. VI, 34-39

Ed elli a me: “La mia scrittura è piana;
e la speranza di costor non falla,
se ben si guarda con la mente sana;
ché cima di giudicio non s’avvalla
perché foco d’amor compia in un punto
ciò che de’ sodisfar chi qui s’astalla”

Inf. II, 37-42

E qual è quei che disvuol ciò che volle
e per novi pensier cangia proposta,
sì che dal cominciar tutto si tolle,
tal mi fec’ ïo ’n quella oscura costa,
perché,  pensando, consumai la ’mpresa
che fu nel cominciar cotanto tosta.

Par. XXVII, 58-60

Del sangue nostro Caorsini e Guaschi
s’apparecchian di bere: o buon principio,
a che vil fine convien che tu caschi!

Inf. XV, 55-57; XVI, 82-84

Ed elli a me: “Se tu segui tua stella,
non puoi fallire a glorïoso porto,
se ben m’accorsi ne la vita bella

Però, se campi d’esti luoghi bui
e torni a riveder le belle stelle,
quando ti gioverà dicere “I’ fui”

Par. VII, 76-87

Di tutte queste dote s’avvantaggia
l’umana creatura, e s’una manca,
di sua nobilità convien che caggia.
Solo il peccato è quel che la disfranca
e falla dissimìle al sommo bene,
per che del lume suo poco s’imbianca;
e in sua dignità mai non rivene,
se non rïempie, dove colpa vòta,
contra mal dilettar con giuste pene.
Vostra natura, quando peccò tota
nel seme suo, da queste dignitadi,
come di paradiso, fu remota

[LSA, prologus, Notabile V (V status)] Et quia contra non servantes mediocria et condescensiva digne prosiliit zelus correctionis severus, idcirco in eodem statu sancti patres severo zelo moti sunt contra suos subditos regulares. Quia etiam condescensionis gratia multi de facili abutuntur in laxationes, que postquam intrant cito crescunt et crescendo enormiter excedunt, idcirco circa finem quinti temporis crevit enormiter laxatio omnimoda et fere in omnes, propter quod digno iudicio permissi sunt ruere in vilissimam fecem heresis Mani-cheorum.

 

5. Il “lume” di Venere

Non credo che splendesse tanto lume
sotto le ciglia a Venere, trafitta 
dal figlio fuor di tutto suo costume.
Ella ridea da l’altra riva dritta

(Purg. XXVIII, 64-67)

La decima perfezione di Cristo in quanto sommo pastore consiste nell’incomprensibile gloria che gli deriva dalla chiarezza e dalla virtù, per cui si dice: “e la sua faccia riluce come il sole in tutta la sua virtù” (Ap 1, 16). Il sole riluce in tutta la sua virtù nel mezzogiorno, quando l’aere è sereno, fugata ogni nebbia o vapore grosso. Allora il viso corporeo di Cristo ha incomparabilmente più luce e vigore, e ciò designa l’ineffabile chiarezza e virtù della sua divinità e della sua mente. Lo splendore del volto indica l’aperta e fulgida conoscenza della Sacra Scrittura, che deve raggiare in modo più chiaro nel sesto stato, prefigurata dalla trasfigurazione sul monte avvenuta dopo sei giorni e designata dall’angelo che, al suono della sesta tromba, ha la faccia come il sole (cfr. Ap 10, 1).
L’undecima perfezione, conseguenza della precedente, sta nell’imprimere negli inferiori, di fronte a tante sublimità, un sentimento di umiliazione, di tremore e di adorazione, per cui si dice: “e vedendolo”, cioè tanto e tale, “caddi ai suoi piedi come morto” (Ap 1, 17). Il cadere (è da intendere che Giovanni cadde col viso a terra in atto di adorazione, perché il cadere supino è segno di disperazione) è causato sia dall’intollerabile eccesso dell’oggetto visto, sia dall’influsso dell’angelo o dell’assistente divino che incute terrore e provoca un sentimento di mutazione, sia dalla materiale fragilità del soggetto o dell’organo visivo. Proprio il senso di intimo mutare rende colui che vede esperto del fatto che si tratta di una visione ardua, divina e derivata da cause supreme. Sentirsi annullato predispone a ricevere le visioni divine in modo più umile e timorato, e significa che la virtù e la perfezione dei santi provoca tremore e umiliazione negli inferiori. Significa anche che l’ascesa alla contemplazione divina avviene unicamente tramite l’oblio, la negazione, la mortificazione di sé stessi e la privazione di ogni cosa.
I signacula di questa esegesi del volto di Cristo che irradia, nel sesto stato, più luce e più rivelazione della Scrittura, percorrono tutta la terza cantica a partire dal principio, dove quello che nell’esegesi è concentrato unicamente su Cristo e sullo splendore del suo volto (“splendor faciei”) viene frantumato su più soggetti. Beatrice, in primo luogo, con il suo sorriso, il ridere che corrisponde allo “splendor faciei” del solare volto di Cristo. Nel testo della Lectura Dante trovava corrispondenza con quanto da lui affermato nel Convivio, del ridere come “una corruscazione della dilettazione dell’anima, cioè uno lume apparente di fuori secondo sta dentro” (III, viii, 11). Lo splendor faciei di Cristo, che si incarna nel sorriso della donna, discorre per tutto il Paradiso, con variazioni della rosa semantica che lo costella: l’essere più lucente, la troppa luce, il mettere in oblio, l’intimo accorgersi di più ardua visione (emerge in filigrana solo in un punto dell’Inferno [V, 133-136, 142], nel quale i temi della decima e undecima perfezione del sommo pastore formano l’armatura del “riso” di Ginevra, il “punto” della lettura del libro ‘galeotto’ che “vinse” Francesca e Paolo). All’esegesi di queste due perfezioni di Cristo sommo pastore rimandano le parole incastonate nei versi come pietre miliari, a ricordare una dottrina poeticamente rivestita. Le variazioni, inoltre, non sono solo interne al ristretto passo esegetico (Ap 1, 16-17), ma coinvolgono altri luoghi della Lectura. Un lettore ‘spirituale’, di fronte al ridere di Beatrice, avrebbe senz’altro rammentato l’esegesi del volto solare di Cristo. Non nel senso di una reale identificazione, ma della conformità che nasce dal seguirlo.
L’esame compiuto di questa esegesi è stato condotto altrove; qui si considerano unicamente gli aspetti relativi ai canti dell’Eden confrontati con Par. XXIII e XXX.

■ Beatrice, nell’attesa che le schiere del trionfo di Cristo discendano dall’Empireo al Cielo stellato, “stava eretta / e attenta, rivolta inver’ la plaga / sotto la quale il sol mostra men fretta” (Par. XXIII, 10-12), cioè verso mezzoggiorno quando, secondo l’esegesi di Ap 1, 16, il volto di Cristo si mostra, come il sole, di più luminoso splendore in tutta la sua virtù e chiarezza. È un sole che accende “migliaia di lucerne”, “quale ne’ plenilunïi sereni / Trivïa ride tra le ninfe etterne / che dipingon lo ciel per tutti i seni” (vv. 25-30). La luna che ride e accende le stelle appare con lo stesso splendore del sole-Cristo che illumina i beati; la similitudine raffigura il passo di Isaia 30, 26 “Erit lux lune sicut lux solis”, incipit della Lectura super Apocalipsim.
All’arrivo delle schiere, Beatrice dice a Dante di guardarla – “Apri li occhi e riguarda qual son io” -, perché egli ha veduto tali cose – “la lucente sustanza tanto chiara / nel viso mio, che non la sostenea”, cioè Cristo, che “è virtù da cui nulla si ripara” – che hanno reso la sua facoltà visiva disposta a sostenere il proprio sorriso (Par. XXIII, 31-36, 46-48). Il poeta è “come quei che si risente / di visïone oblita e che s’ingegna / indarno di ridurlasi a la mente” (vv. 49-51), deve rinunciare a cantare “il santo riso” (il sacro poema lo ‘salta’ nel descrivere il paradiso) perché il suo è omero mortale che si fa carico del “ponderoso tema”, e chi questo pensasse “nol biasmerebbe se sott’ esso trema” (vv. 55-69). Nei versi si ritrovano motivi da Ap 1, 16-17: la “claritas” e la “virtus” di Cristo, sole che accende migliaia di lucerne, cioè di anime luminose; l’ “aperta et superfulgida notitia scripture sacre” raggiante nel sesto stato della Chiesa, che corrisponde all’invito di Beatrice al poeta di aprire gli occhi; lo “splendor faciei”, che è lo stesso sorriso della donna, come nella similitudine di Trivia; la fragilità dell’organo visivo; l’ “oblivio sui”, sperimentato da Dante alle parole di Beatrice che lo richiamano dalla visione di Cristo che lo aveva fatto uscir di mente; la “tremefactio intuentium”, per cui il poeta trema nel tentativo, cui dice di rinunciare, di cantare l’aspetto della sua donna; l’arditezza della visione, che si traspone nell’ “ardita prora” del poema sacro.
La “lucente sustanza”, che “per la viva luce trasparea” (Par. XXIII, 31-32), deriva da Ap 22, 1, dall’esegesi del fiume che scorre nel mezzo della Gerusalemme celeste, il quale indica la sostanza della grazia e della gloria della somma Trinità che viene comunicata a tutti i beati e che procede ed è dispensata dal Cristo uomo e fa trasparire nelle sue acque vive, come in un cristallo solido e perspicuo, la luce della somma sapienza.
Fanno da contrappunto ad Ap 1, 16-17 anche le proprietà di almeno quattro delle dodici tribù d’Israele da cui proverranno i segnati all’apertura del sesto sigillo (Ap 7, 6-8; qui Olivi segue l’interpretazione delle dodici porte dei quattro lati della Gerusalemme celeste data da Bonaventura nelle Collationes in Hexaëmeron, XXIII, 15-31 a proposito dell’anima gerarchizzata nella contemplazione), quasi a voler significare una graduale ascesa alla perfezione “ad perfectum … nexum amoris”: la quarta tribù, Aser (“amor ad superna elavatus”): beatus, pinguisBëatrice, più pingue; la quinta, Neptalim (“amor ad fraterna dilatatus”: la virtù per cui ci si dilata all’eterno da ciò che è temporale, cosicché questo sia specchio dell’altro): se … dilatat per dilatarsi; la sesta, Manasse (“amor inferiorum oblitus”: una volta passati all’intellettuale dal sensibile, sopravviene l’oblio di questo come una liberazione da veli tenebrosi): oblitusoblita (hapax nella Commedia). Si aggiunge anche Isachar, la nona tribù rappresentante l’assiduo e fervido sospirare verso la ricompensa dell’eterna gloria che per essa si sottopone a ogni servizio di Dio e dei suoi: omni servituti Dei et suorum se subiciens … subposuit humerum suum ad portandum in che gravi labor li sono aggratie l’omero mortal che se ne carca.

 

La stessa materia offerta da Ap 1, 16-17 e da Ap 22, 1, appropriata nell’ottavo cielo a Cristo e al riso di Beatrice, è stata già utilizzata, nell’Eden, per lo svelamento della donna “ne l’aere aperto” e, ancor prima, per descrivere il riflettersi del grifone-Cristo nei suoi occhi (Purg. XXXI, 121-126, 139-145). Nell’Eden, che sta in terra, Beatrice è “luce ” e “gloria de la gente umana” (Purg. XXXIII, 115), prerogative del sommo pastore nella sua decima perfezione.
Matelda, che viene prima di Beatrice, splende ridendo con gli occhi assai più di quanto capitò a Venere trafitta per errore dal figlio Cupido (Purg. XXVIII, 64-67): anche la “bella donna” si fregia dello “splendor faciei” di Cristo (Ap 1, 16).

■ I temi da Ap 1, 16-17 fasciano ancora il senso di annullamento e di oblio provato da Dante, sulla soglia dell’Empireo, di fronte alla bellezza di Beatrice, alla quale egli è tornato con gli occhi dopo l’estinguersi alla sua vista del trionfo dei cori angelici attorno al punto luminoso “che mi vinse”. Il solo ricordo “del dolce riso” – il ridere rende lo “spendor faciei” di Ap 1, 16 – annulla le facoltà della sua mente: “ché, come sole in viso che più trema, / così lo rimembrar del dolce riso / la mente mia da me medesmo scema” (Par. XXX, 25-27). L’espressione “come sole in viso che più trema” cuce i temi della decima perfezione di Cristo (“sicut sol”) e dell’undecima (la “tremefactio intuentium”), con il “più” trasferito dalla luce dell’una al render tremanti dell’altra. È da notare il riferimento all’ora sesta, cioè meridana, che “ferve” (vv. 1-2)  e al trasmodare della bellezza della donna (vv. 19-21, “si trasmoda” è hapax nel poema), che corrispondono al sesto stato e alla trasfigurazione avvenuta dopo sei giorni. Il poeta si dichiara vinto: “Da questo passo vinto mi concedo / più che già mai da punto di suo tema / soprato fosse comico o tragedo” (vv. 22-24).

Tab. V

[LSA, cap. I, Ap 1, 16-17 (radix Ie visionis)] Decima (perfectio summo pastori condecens) est sue claritatis et virtutis incomprehensibilis gloria, unde subdit: “et facies eius sicut sol lucet in virtute sua”. Sol  in tota virtute sua lucet in meridie, et precipue quando aer est serenus expulsa omni nube et grosso vapore, et quidem corporalis facies Christi plus incomparabiliter lucet et viget. Per hoc tamen designatur ineffabilis claritas et virtus sue divinitatis et etiam sue mentis. Splendor etiam iste sue faciei designat apertam et superfulgidam notitiam scripture sacre et faciei, ita quod in sexta etate et precipue in eius sexto statu debet preclarius radiare. In cuius signum Christus post sex dies transfiguratus est in monte in faciem solis (cfr. Mt 17, 1-8), et sub sexto angelo tuba canente videtur angelus habens faciem solis et tenens librum apertum (cfr. Ap 10, 1-2).
Undecima est ex predictis sublimitatibus impressa in subditos summa humiliatio et tremefactio et adoratio, unde subdit: “et cum vidissem eum”, scilicet tantum ac talem, “cecidi ad pedes eius tamquam mortuus” (Ap 1, 17). Et est intelligendum quod cecidit in faciem prostratus, quia talis competit actui adorandi; casus vero resupinus est signum desperationis et desperate destitutionis. Huius casus sumitur ratio partim ex intolerabili superexcessu obiecti, partim ex terrifico et immutativo influxu assistentis Dei vel angeli, partim ex materiali fragilitate subiecti seu organi ipsius videntis.
Est etiam huius ratio ex causa finali, tum quia huiusmodi immutatio intimius et certius facit ipsum videntem experiri visionem esse arduam et divinam et a causis supremis, tum quia per eam quasi sibi ipsi annichilatus humilius et timoratius visiones suscipit divinas, tum quia valet ad significandum quod sanctorum excessiva virtus et perfectio tremefacit et humiliat et sibi subicit animos subditorum et etiam ceterorum intuentium. Significat etiam quod in divine contemplationis superexcessum non ascenditur nisi per sui oblivionem et abnegationem et mortificationem et per omnium privationem.

[LSA, cap. XXII, Ap 22, 1 (VIIa visio)] “Et ostendit michi fluvium” (Ap 22, 1). Hic sub figura nobilissimi fluminis currentis per medium civitatis describit affluentiam glorie manantis a Deo in beatos. Fluvius enim iste procedens a “sede”, id est a maiestate “Dei et Agni”, est ipse Spiritus Sanctus et tota substantia gratie et glorie per quam et in qua tota substantia summe Trinitatis dirivatur seu communicatur omnibus sanctis et precipue beatis, que quidem ab Agno etiam secundum quod homo meritorie et dispensative procedit. Dicit autem “fluvium” propter copiositatem et continuitatem, et “aque” quia refrigerat et lavat et reficit, et “vive” quia, secundum Ricardum, numquam deficit sed semper fluit. Quidam habent “vite”, quia vere est vite eterne. Dicit etiam “splendidum tamquam cristallum”, quia in eo est lux omnis et summe sapientie, et summa soliditas et perspicuitas quasi cristalli solidi et transparentis. Dicit etiam “in medio platee eius” (Ap 22, 2), id est in intimis cordium et in tota plateari latitudine et spatiositate ipsorum.

Par. XXIII, 10-12, 25-72 (cfr. incipit)

così la donna mïa stava eretta
e attenta, rivolta inver’ la plaga
sotto la quale il sol  mostra men fretta

Quale ne’ plenilunïi sereni
Trivïa ride tra le ninfe etterne

che dipingon lo ciel per tutti i seni,
vid’ i’ sopra migliaia di lucerne
un sol che tutte quante l’accendea,
come fa ’l nostro le viste superne;
e per la viva luce trasparea
la lucente sustanza tanto chiara
nel viso  mio, che non la sostenea.

Oh Bëatrice, dolce guida e cara!         IV
Ella mi disse: “Quel che ti sobranza
è virtù da cui nulla si ripara.
Quivi è la sapïenza e la possanza
ch’aprì le strade tra ’l cielo e la terra,
onde fu già sì lunga disïanza”.
Come foco di nube si diserra
per dilatarsi sì che non vi cape,           V
e fuor di sua natura in giù s’atterra,
la mente mia così, tra quelle dape
fatta più grande, di sé stessa uscìo,
e che si fesse rimembrar non sape.
Apri li occhi e riguarda qual son io;
tu hai vedute cose, che possente
se’ fatto a sostener lo riso mio”.
Io era come quei che si risente
di visïone  oblita e che s’ingegna         VI
indarno di ridurlasi a la mente,
quand’ io udi’ questa proferta, degna
di tanto grato, che mai non si stingue
del libro che ’l preterito rassegna.
Se mo sonasser tutte quelle lingue
che Polimnïa con le suore fero
del latte lor dolcissimo più pingue,
per aiutarmi, al millesmo del vero
non si verria, cantando il santo riso
e quanto il santo aspetto facea mero;

e così, figurando il paradiso,
convien saltar lo sacrato poema,
come chi trova suo cammin riciso.
Ma chi pensasse il ponderoso tema
e l’omero mortal che se ne carca,             IX
nol biasmerebbe se sott’ esso trema :
non è pareggio da picciola barca
quel che fendendo va l’ardita prora,
né da nocchier ch’a sé medesmo parca.
“Perché la faccia  mia sì t’innamora,
che tu non ti rivolgi al bel giardino
che sotto i raggi di Cristo s’infiora? ”

[LSA, cap. VII, Ap 7, 6 (IIa visio, apertio VIi sigilli); cfr. Bonaventura, Collationes in Hexaëmeron, XXIII, 15-31]

[IV-Aser] Quarto exigitur patientia glorians et gaudens in tribulationibus, quam designat Aser, qui interpretatur beatus et de quo dicitur: “Aser pinguis panis eius, tingat in oleo pedem suum” (Gn 49, 20; Dt 33, 24). Quid enim beatius et pinguius aut magis fortificativum cordis quam sic se habere in adversis ac si suavi oleo inungeretur?

[V-Neptalim] Quinto exigitur virtus sciens ex omnibus sensibilibus se comparative transferre ad spiritualia et eterna, ita quod numquam assumit sensibilia et temporalia nisi ut signa et specula intellectualium, et ex innumera multiformitate sensibilium se multiformiter dilatat in contem-platione intellectualium. Hec autem designatur per Neptalim, qui interpretatur comparatio vel conversio, scilicet translativa, vel latitudo.

[VI-Manasse] Sexto exigitur oblivio ipsorum sensibilium. Postquam enim ex eis tamquam ex relativis signis et speculis ascendimus ad intellectualia, debemus oblivisci ipsorum ut denudemur ab eis tamquam a velaminibus tenebrosis, et hoc designatur per Manasse, qui interpretatur oblivio. […] Ad perfectum autem nexum amoris exiguntur tria, scilicet amor ad superna elavatus et ad fraterna dilatatus et inferiorum oblitus.

Par. XXX, 1-2, 10-15, 19-21, 25-27

Forse semilia miglia di lontano
ci ferve l’ora sesta  ………………

Non altrimenti il trïunfo che lude
sempre dintorno al punto che mi vinse,
parendo inchiuso da quel ch’elli  ’nchiude,
a poco a poco al mio veder si stinse:
per che tornar con li occhi a Bëatrice
nulla vedere e amor mi costrinse.

La bellezza ch’io vidi  si trasmoda
non pur di là da noi, ma certo io credo

che solo il suo fattor tutta la goda.

ché, come sole in viso che più  trema,
così lo rimembrar del dolce riso
la mente mia da me medesmo scema.

Purg. XXXI, 121-126, 139-145

Come  in lo specchio il sol, non altrimenti
la doppia fiera dentro vi raggiava,
or con altri, or con altri reggimenti.
Pensa, lettor, s’io mi maravigliava,
quando vedea la cosa in sé star queta,
e ne l’idolo suo si trasmutava.

O isplendor di viva luce etterna,
chi palido si fece sotto l’ombra
sì di Parnaso, o bevve in sua cisterna,
che non paresse aver la mente ingombra,
tentando a render te qual tu paresti
là dove armonizzando il ciel t’adombra,
quando ne l’aere aperto ti solvesti?

Purg. XXXII, 9-12; XXXIII, 115-117

perch’ io udi’ da loro un “Troppo fiso!”;
e la disposizion ch’a veder èe
ne li occhi pur testé dal sol percossi,

sanza la vista alquanto esser mi fée.

O luce, o gloria de la gente umana,
che acqua è questa che qui si dispiega
da un principio e sé da sé lontana?

 

Purg. XXVIII, 64-69, 76-78, 94-96, 145-147

Non credo che splendesse tanto lume
sotto le ciglia a Venere, trafitta
dal figlio fuor di tutto suo costume.
Ella ridea da l’altra riva dritta,
trattando più color con le sue mani,
che l’alta terra sanza seme gitta.

“Voi siete nuovi, e forse perchio rido,
cominciò ella, “in questo luogo eletto
a l’umana natura per suo nido …”

Per sua difalta qui dimorò poco;
per sua difalta in pianto e in affanno
cambiò onesto riso e dolce gioco.

Io mi rivolsi ’n dietro allora tutto
a’ miei poeti, e vidi che con riso
udito avëan l’ultimo costrutto

[IX-Isachar] Nono exigitur assidua et fervens suspiratio ad mercedem eterne glorie omni servituti Dei et suorum se subiciens pro illa, et hanc designat Isachar, qui interpretatur merces, de quo dicit Iacob: “Isachar asinus fortis; vidit requiem quod esset bona, et terram quod optima, et subposuit humerum suum ad portandum”, scilicet omne honus propter illam, “factusque est tributis serviens” (Gn 49, 14-15).

……………….. a Venere, trafitta 
dal figlio fuor di tutto suo costume.

(Purg. XXVIII, 65-66)

Ad Ap 12, 4 il drago sta dinanzi alla donna, che è in procinto di partorire, per divorarne il figlio, cioè per trarlo in dannazione come gli altri uomini. Non si tratta del parto naturale della Vergine, che avvenne senza dolore, ma del parto spirituale di Cristo e dei suoi discepoli, e quindi della Chiesa come corpo mistico, accompagnato da sommo dolore nella croce e nelle tentazioni. Olivi pone qui la questione se il diavolo sapesse che Cristo era Dio o comunque senza peccato e non soggetto a dannazione. Viene citata la posizione di Gregorio Magno, contenuta nei Moralia su Giobbe 40, 19 – “nei suoi occhi lo prenderà come con l’amo”. Secondo Gregorio, il diavolo sapeva trattarsi del Figlio di Dio incarnato per la nostra redenzione ma non conosceva l’ordine della redenzione stessa, per cui Cristo morendo sulla croce lo avrebbe trafitto. Olivi corregge Gregorio e sostiene che il diavolo prima della morte di Cristo non sapeva con certezza e senza dubbi che Cristo fosse il Figlio di Dio a lui consustanziale, né tanto meno che fosse senza peccato, altrimenti non lo avrebbe mai tentato, prima nel deserto e poi al momento della passione. Come afferma san Paolo (1 Cor 2, 7-8), nessuno dei prìncipi di questo mondo conobbe la sapienza divina; se l’avessero conosciuta, non avrebbero mai crocifisso o istigato alla crocifissione il Signore della gloria. Il diavolo pertanto non conobbe la divinità di Cristo, ma solo la sua mortale umanità. Questa, come afferma lo stesso Gregorio, era però un amo che ostendeva un’esca dentro la quale stava occulto un aculeo. Così, mentre il diavolo era attratto dall’esca corporea costituita dal corpo infermo per umanità, veniva trafitto, per occulta virtù, dall’aculeo della divinità (maggiori indicazioni su questa esegesi vengono fornite altrove).
La situazione del diavolo di fronte a Cristo è la medesima di Dante di fronte a Beatrice non più veduta da tanto tempo. Come l’avversario del Redentore venne attratto dall’esca del Cristo uomo, così il poeta crede di sentire con lo spirito la donna conosciuta in vita (“E lo spirito mio … d’antico amor sentì la gran potenza”). Ma come l’aculeo della divinità del Figlio di Dio trafigge per occulta virtù l’antico nemico, così “per occulta virtù che da lei mosse” vengono trafitti gli occhi di Dante da una donna ormai salita di carne a spirito, cresciuta in bellezza e virtù (Purg. XXX, 34-42). Egli riprova, a un livello superiore, l’esperienza de “l’alta virtù che già m’avea trafitto / prima ch’io fuor di püerizia fosse”. Il tema ritorna all’inizio di Purg. XXXII, con il poeta assorto nella contemplazione del “santo riso” di Beatrice appena svelata, che trae a sé gli occhi del poeta “con l’antica rete”, uno stato dal quale egli viene distolto per forza dalle tre virtù teologali, rimanendo per un po’ senza facoltà visiva. È direttamente riferito al diavolo in Purg. XIV, 145-146, a proposito degli esempi di invidia punita che dovrebbero essere il “duro camo”, cioè il freno agli uomini i quali invece, attirati dall’esca, sono presi dall’amo dell’antico avversario.
Come Dante è stato trafitto, nella sua umana infermità, dall’aculeo del Figlio di Dio pieno di occulta virtù, così il ridere di Matelda (che splende come il volto di Cristo: Ap 1, 16) ricorda al poeta, ma con maggior fervore amoroso, Venere trafitta dal figlio Cupido, parodia dell’altro e maggior Figlio: “Non credo che splendesse tanto lume / sotto le ciglia a Venere, trafitta / dal figlio fuor di tutto suo costume” (Purg. XXVIII, 64-66). I versi ovidiani (Metam. X, 525-528) che descrivono Cupido il quale, mentre bacia la madre, la ferisce al petto senza volerlo (inscius) e l’inganna con la ferita (primoque fefellerat ipsam) facendola innamorare di Adone sembrano concordare con l’esegesi di quanto cantato da Venanzio Fortunato nell’inno Pange, lingua, gloriosi proelium certaminis citato nell’esegesi di Ap 12, 4, nell’inciso “quod nostre salutis ordo depoposcerat ut ars Christi falleret artem multiformis proditoris, de quo in versu priori premisit quod per pomum ligni fraudulenter fefellerat prothoplaustrum, id est primum hominem” [1].
Il ritrovare Beatrice, con la contestuale sparizione di Virgilio, segna per Dante il passaggio dal vecchio al nuovo, l’essere venuto, per una sorta di superiore astuzia, dall’umano al divino della sua donna, quell’umano che con Matelda procede in terra ordinatamente verso l’immortale felicità.

Il diavolo, sostiene Olivi, sapeva che Cristo era figlio di Dio per grazia; a questo aspetto si riferisce il Salmo 81, 6, citato ad Ap 12, 4: “Ego dixi: dii estis et filii excelsi omnes”. Ma non per questo sapeva che era figlio di Dio per natura. Nel cielo di Mercurio, Beatrice invita Dante a rivolgersi con sicurezza agli “spirti pii”, credendo loro “come a dii” (Par. V, 121-123). Il non sapere, nell’episodio citato, è proprio di Dante, che non sa chi sia lo spirito che gli ha parlato né perché manifesti la propria beatitudine nel secondo cielo (vv. 127-129). L’anima è quella di Giustiniano, e forse non a caso si insinua nei versi il tema dell’essere figlio di Dio per natura tratto da Ap 12, 4, considerato che, nella metamorfosi poetica dell’esegesi del terzo stato (dei dottori, il cui simbolo è la spada) e del quarto stato (i contemplativi, che con vita divina si dedicano al “pasto” spirituale), i due soli, l’impero e il papato, sono equiparati alle due nature di Dio, umana e divina, che non possono essere ridotte a una, come è invece successo allorché uno dei due soli ha spento l’altro, congiungendo la spada al pastorale. Con coerenza Giustiniano premette al suo discorso sull’Impero il racconto della propria errata fede monofisita, che riconosceva in Cristo una sola natura, quella divina, prima che il benedetto papa Agapito lo riportasse alla fede sincera (Par. VI, 13-22). Dante, quindi, sapeva che lo spirito che gli aveva parlato era figlio di Dio per grazia (in quanto già beato), ma non per natura, cioè non sapeva che si trattava di un imperatore, assimilabile al Figlio di Dio. Così non aveva dubitato che la sua donna fosse beata, ma non aveva sospettato della sua natura divina.

[1] Cfr. Pange, lingua, gloriosi proelium certaminis di Venanzio Fortunato (Carmina, lib. II, 2), vv. 4-9: “De parentis protoplasti fraude factor condolens, / quando pomi noxialis morte morsu corruit, / ipse lignum tunc notavit, damna ligni ut solveret. / Hoc opus nostrae salutis ordo depoposcerat / multiformis perditoris arte ut artem falleret / et medellam ferret inde, hostis unde laeserat” (cfr. Venanzio Fortunato, Opere/1, a cura di Stefano Di Brazzano, Roma 2001 [Scrittori della Chiesa di Aquileia, VIII/1], p. 148 = MGH, Auctores Antiquissimi, IV/1, rec. Friedrich Leo, Berolini 1881, p. 28). Il carme “nel rito romano tradizionale era cantato come inno al mattino e alle lodi nelle due settimane del tempo di Passione, nonché durante l’adorazione della Croce nell’azione liturgica pomeridiana del Venerdì santo” (Di Brazzano, p. 148, nt. 4). Il rimedio recato con lo stesso oggetto con cui venne inferto il torto, cioè il “lignum”, coincide con l’atto con cui nell’Eden il grifone-Cristo lega il timone del carro-Chiesa all’albero che così rifiorisce: “e quel di lei a lei lasciò legato” (Purg. XXXII, 51: viene così confermata l’interpretazione del Buti, fondata sulla leggenda che la croce derivasse dallo stesso albero della scienza del bene e del male; il timone della Chiesa è dunque la croce). Si stabilisce così un sottile legame tra il nome “Adamo”, mormorato dai personaggi della processione prima di porsi in cerchio attorno all’albero spoglio (vv. 37-39), e il carro (il “plaustro”, v. 95, hapax in Dante; Adamo è “protoplaustrum”), tra la colpa e la redenzione.

Tab. V bis

[LSA, cap. XII, Ap 12, 4 (IVa visio, Ium prelium)] Sequitur de primo prelio: “Et dracho stetit ante mulierem” (Ap 12, 4), id est ante ecclesiam, “que erat paritura”, scilicet Christum in cruce et in suis primis discipulis. Non enim videtur hic agi de virginali et corporali partu Christi, quia Virgo tunc non parturivit illum cum dolore. In cruce tamen et in omnibus temptationibus Christum peperit cum summo dolore.
“Stetit”, inquam, “dracho ante” eam, “ut, cum peperisset, filium eius devoraret”, id est in mortem eternam seu in infernum sicut ceteros homines traheret.
Ex hoc aperte videtur quod diabolus non scivit Christum esse Deum aut impeccabilem et indampnabilem. Sed contra hoc esse videtur Gregorius, libro Moralium XXXIII° super illud Iob: “In oculis eius quasi hamo capiet eum” (Jb 40, 19): «Et quid[e]m», inquit, «Behemot iste Filium Dei incarnatum noverat, sed redemptionis nostre ordinem nesciebat. Sciebat enim quod pro redemptione nostra incarnatus Dei Filius fuerat, sed omnino quod isdem redemptor noster illum moriendo transfigeret nesciebat. Unde et bene dicitur: “In oculis eius quasi hamo capi[e]t eum”. In oculis quippe habere dicimur quod coram nobis positum videmus. Antiquus vero hostis redemptorem ante se positum vidit, quem confitendo pertimuit dicens: “Quid nobis et tibi, fili Dei? Venisti ante tempus torquere nos” (Mt 8, 29)». Hec Gregorius. […]
Preterea ex verbo prefato, scilicet “in oculis eius quasi hamo capiet eum”, potius habetur quod non noverat Christi deitatem sed solum eius mortalem humanitatem, prout enim ibi Gregorius dicit: «In hamo esca ostenditur, sed aculeus occultatur. In hamo ergo incarnationis Christi captus est, quia dum in illo appetit escam corporis, transfixus est aculeo deitatis. Ibi enim erat aperta infirmitas que provocaret, et occulta virtus que raptoris faucem transfigeret». Hec ipsemet Gregorius ibi dicit.
Non ergo dicitur capi in oculis eius ex hoc quod deitas videretur a diabolo, sed solum ex hoc quod escam humanitatis Christi habuit visibiliter coram oculis suis, non autem aculeum sue deitatis. Unde et Ambrosius super Lucam dicit quod ideo Virgo fuit desponsata Iosep, ut sacramentum incarnationis Christi diabolo celaretur. Et ecclesia, in imno passionis Christi, cantat quod nostre salutis ordo depoposcerat ut ars Christi falleret artem multiformis proditoris, de quo in versu priori premisit quod per pomum ligni fraudulenter fefellerat prothoplaustrum, id est primum hominem.
Preterea si, prout Gregorius opinatur, sciebat ipsum esse Deum et pro nostra redemptione incarnatum, quomodo simul cum hoc poterat ignorare quod mors et passio Christi non esset supra modum meritoria et utilis redemptioni nostre, ac per consequens quod moriendo transfigeret spem et intentum diaboli?
Ad id autem quod Gregorius pro se allegat, diabolum dixisse “quid nobis et tibi, fili Dei?”, est duplex responsio.
Prima est quod licet opinaretur seu opinative coniceret Christum esse Dei Filium, et ex hac opinione diceret illa verba, non propter hoc sequitur quod sciret hoc indubitabiliter.
Secunda est quod licet sciret et diceret ipsum esse Filium Dei per gratiam, iuxta illud Psalmi: “Ego dixi: Dii estis et filii excelsi omnes” (Ps 81, 6), nonpropter hoc sequitur quod sciret ipsum esse Dei Filium per naturam.

Purg. XXX, 34-43

E lo spirito mio, che già cotanto
tempo era stato ch’a la sua presenza
non era di stupor, tremando, affranto,
sanza de li occhi aver più conoscenza,
per occulta virtù che da lei mosse,
d’antico amor sentì la gran potenza.
Tosto che ne la vista mi percosse
l’alta virtù che già m’avea trafitto
prima ch’io fuor di püerizia fosse,

volsimi a la sinistra …………….

[LSA, cap. XII, Ap 12, 3 (IVa visio)] “Et ecce dracho”, id est diabolus per calliditatem “dracho”, per elationem et per grandem potentiam “magnus” […]

Purg. XXXII, 1-12

Tant’ eran li occhi miei fissi e attenti
a disbramarsi la decenne sete,
che li altri sensi m’eran tutti spenti.
Ed essi quinci e quindi avien parete
di non caler – così lo santo riso
a sé traéli con l’antica rete! -;
quando per forza mi fu vòlto il viso
ver’ la sinistra mia da quelle dee,
perch’ io udi’ da loro un “Troppo fiso!”;
e la disposizion ch’a veder èe
ne li occhi pur testé dal sol percossi,
sanza la vista alquanto esser mi fée.

Par. XXVII, 91-93

e se natura o arte fé pasture
da pigliare occhi, per aver la mente,
in carne umana o ne le sue pitture

Purg. XXVIII, 64-66

Non credo che splendesse tanto lume
sotto le ciglia a Venere, trafitta
dal figlio fuor di tutto suo costume.

Metam. X, 525-528

Namque pharetratus dum dat puer oscula matri,
inscius exstanti destrinxit harundine pectus:
laesa manu natum dea reppulit; altius actum
vulnus erat specie primoque fefellerat ipsam.

Purg. XIV, 145-147

Ma voi prendete l’esca, sì che l’amo
de l’antico avversaro a sé vi tira;

e però poco val freno o richiamo.

Par. V, 121-129

Così da un di quelli spirti pii
detto mi fu; e da Beatrice: “Dì, dì
sicuramente, e credi come a dii”.
“Io veggio ben sì come tu t’annidi
nel proprio lume, e che de li occhi il traggi,
perch’ e’ corusca sì come tu ridi;
ma non so chi tu se, né perché aggi,
anima degna, il grado de la spera
che si vela a’ mortai con altrui raggi”.

Par. XXVIII, 10-12

così la mia memoria si ricorda
ch’io feci riguardando ne’ belli occhi
onde a pigliarmi fece Amor la corda.


6. Vita attiva e vita contemplativa

Il quarto stato (storicamente conchiuso fra Giustiniano e le prime conquiste arabe), proprio degli anacoreti o contemplativi, è caratterizzato dal fuggire il mondo fino ai suoi estremi, dalla vita santa, celestiale, alta e contemplativa designata dall’aquila che, come si afferma ad Ap 8, 13 (quarta tromba), vola prima e più alto degli altri per i sentieri delle allegorie come per le ardue vie del cielo. Il termine anacoreti non deve però ingannare. Il quarto periodo si distingue pure nella vita attiva, quando tutte le forze del corpo e della mente sono dedicate in modo assiduo e totale alle perfette opere di virtù, né si allentano per il lungo continuare, ma anzi intendono, si rafforzano e crescono nel salire a forti opere. È dunque per eccellenza lo stato delle res gestae. Imperare è prerogativa dei contemplativi del quarto stato, ai quali è dato reggere le genti “in virga ferrea” e frantumarne i vizi (quarta vittoria: Ap 2, 26-28). Il loro agire senza tregua li conduce a un “victoriosus effectus”, di virtù e insieme di conoscenza delle cose sublimi (si ricordi “l’alto effetto” uscito dalla “vittoria” di Enea). Ma tanto alto e arduo stato non può durare a lungo, per cui viene volto in basso dalle devastazioni saracene. Ad esso subentra uno stato meno duro e solitario, aperto alla vita associata delle moltitudini, il quinto, pietoso e condiscendente.
Questi diversi aspetti del quarto stato sono ben evidenziati nell’istruzione data a Tiatira, la quarta chiesa d’Asia (Ap 2, 1.18). Il vescovo e la chiesa vengono infatti lodati sia per il fervore della fede e della carità, sia per l’umiltà nel ministrare, sia per la pazienza e la perfezione dell’operare nella vita attiva. Gli anacoreti, infatti, sempre si preparavano ad ascendere agli atti contemplativi di fede e di carità con le opere manuali, con la lettura, con il salmodiare, con l’assidua macerazione del corpo conseguita tramite il digiuno e altre austerità. Così Cristo, rispetto alla prima lodata qualità si propone al vescovo della quarta chiesa come colui che ha gli occhi lucidi e ardenti (che designano il fervore e la luce della contemplazione infuocata), rispetto alla seconda come il Figlio dell’uomo (che designa l’umiltà), rispetto alla terza come colui che ha i piedi simili all’oricalco (che designa la perfezione della vita attiva).
A tali prerogative si addice il nome Tiatira, che significa “illuminata” o “infiammata” o “vittima vivente”, poiché come tale costoro si offrono a Dio nella luce e nella fiamma della devota contemplazione.
I principali temi del quarto stato sono compendiati nei versi che descrivono, fino al sogno del poeta, la ripresa della salita verso la sommità della montagna, dov’è l’Eden, dopo il passaggio del muro di fuoco che Virgilio, Dante e Stazio hanno attraversato nell’ultimo girone del purgatorio (Purg. XXVII, 64-93). La salita, come è consueta regola della montagna, è impedita nel corso della notte (tema della quarta tromba, Ap 8, 12). La “notte”, illuminata dalla luna e dalle stelle, designa la plebe secolare, più rude e imperfetta di quella figurata dal giorno, che non è predisposta per essere illuminata, accesa ed eccitata al bene dall’alta vita e dalla contemplazione dei solari, che prova anzi orrore e quasi disperazione nel vederli e ascoltarli: costoro sono più facilmente stimolati e istruiti da maestri inferiori, proporzionati alla loro inferiorità. Il chiarore notturno designa altresì il sostenere con pazienza le avversità, come pure il buon governo temporale o i buoni costumi o le opere della vita attiva [1]. Il sopraggiungere della notte è un ‘dispensare’ – “e notte avesse tutte sue dispense” –, che corrisponde al ministrare o dispensare ai poveri e ai sottoposti per cui è lodato il vescovo di Tiatira (Ap 2, 19).
I poeti si fanno letto di un gradino della scala (il “lectus quietis” da Ap 2, 22, che contrasta con il “lectus doloris” in cui è messa Gezabele, la falsa profetessa), affranti dalla natura del monte che fiacca la forza e il desiderio di salire (l’eccesso di contemplazione frange il corpo, come spiegato nell’esegesi del quarto esercizio ad Ap 2, 1; si può ricordare anche il languore proprio dell’apertura del quarto sigillo ad Ap 6, 8).
Come le capre – le quali, dopo essere “state rapide e proterve / sovra le cime (esprimono l’arditezza e la protervia dell’alto stato dei contemplativi, lo stare pertinace contro il quale si appunta lo zelo nel quarto stato [prologo, Notabile III], come dice la voce al v. 62: “non v’arrestate”) avante che sien pranse (la cura pastorale, caratteristica precipua del primo stato, attende nel quarto al pasto e al nutrimento del gregge: Notabile III; al pasto eucaristico è assimilato il quarto stato: Notabile XIII)”, stanno “tacite a l’ombra, mentre che ’l sol ferve (a Tiatira appartiene il fervore infiammato della carità: Ap 2, 18; il sole è tra i motivi della quarta tromba), / guardate dal pastor, che ’n su la verga (il reggere con virtù, come con una verga di ferro, è tema della quarta vittoria: Ap 2, 26-28) / poggiato s’è e lor di posa serve” (cioè ministra con umiltà) -; e come il mandriano – che “lungo il pecuglio suo queto pernotta” (ancora il “lectus quietis”), guardandolo dalle fiere (l’espressione “perché fiera non lo sperga” può alludere alla Chiesa, dispersa e oppressa prima che, a partire da Costantino, venissero date alla donna due ali di una grande aquila, cioè i dottori del terzo stato e gli anacoreti del quarto: Ap 12, 14) -, così Dante sta come capra e Stazio e Virgilio come pastori (il poeta assume qui il ruolo della “plebs secularior et rudior et imperfectior” di cui ad Ap 8, 12, nell’esegesi della notte illuminata dalla luna e dalle stelle).
Per quel poco che poteva vedere “lì del di fori”, fasciato com’era “quinci e quindi d’alta grotta”, il poeta scorgeva “le stelle / di lor solere e più chiare e maggiori”, richiamo della “claritas plusquam stellaris” della quarta vittoria che consegue la chiara intelligenza della Scrittura (Ap 2, 26-28). Dante è preso dal “sonno che sovente, / anzi che ’l fatto sia, sa le novelle”, come l’aquila del quarto sigillo vede le cose, come in uno specchio, prima che avvengano (Ap 6, 8).
Poco prima dell’alba – “Ne l’ora, credo, che de l’orïente / prima raggiò nel monte Citerea (il pianeta Venere, che è la “stella matutina” della quarta vittoria), / che di foco d’amor par sempre ardente” (il fervore della fede e della carità proprio della quarta chiesa, per cui Cristo ad Ap 2, 18 si presenta con gli occhi ardenti come fiamma) -, appare in sogno al poeta Lia, simbolo della vita attiva, che coglie fiori, canta e muove le belle mani per fare una ghirlanda: la bella e giovane donna è trasposizione di quella perfezione dell’operare propria del quarto stato degli anacoreti, “qui partim opere manuum, partim lectione, partim vocali psalmodia … se semper preparabant et sursum agebant ad contemplativos actus fidei et caritatis” (Ap 2, 1.18). Lia dice di sua sorella Rachele, simbolo della vita contemplativa, che “mai non si smaga / dal suo miraglio, e siede tutto giorno”, cioè mai cessa dal contemplare. Rachele è sempre desiderosa di guardare i suoi occhi allo specchio (corrispondono agli occhi di Cristo, infuocati per la fiammeggiante luce della contemplazione speculativa), Lia è invece appagata dall’adornarsi con le mani (la perfezione della vita attiva, anch’essa propria del quarto stato). Vita attiva e vita contemplativa sono distinte in Lia e in Rachele: la prima va cogliendo fiori e cantando, opera con le mani; la seconda è appagata dal vedere degli occhi. Ma il raggiare di Citerea nell’ora mattutina del sogno, “che di foco d’amor par sempre ardente”, riguarda entrambe le donne, quasi a indicare che la vita attiva è ordinata alla contemplazione (Purg. XXVII, 94-108). A entrambe, per le mani o per gli occhi, è appropriato il tema della bellezza, proprio della quinta chiesa (Ap 3, 3). Tema che torna, con altri motivi collaterali (il principio, la stella), con “la bella Ciprigna” in apertura di Par. VIII.

Si è visto come Matelda sia segnata dai temi del quinto stato, nel suo bel principio: la mirabile bellezza, la varietà dei doni della Grazia, il ricordare un prima, la condiscendenza (Ap 3, 3). Delle prerogative della quarta chiesa (Ap 2, 1.18), assimilate nella descrizione del sogno a Lia e a Rachele, ne mostra di più fra quelle che si riferiscono alla vita attiva: cantare,  scegliere fior da fiore, mettere piede innanzi piede, trattare colore con le mani, salmodiare. Le è proprio, nel suo venir “presta”, anche il ministrare, nonché l’umiltà, nel procedere con “picciol passo” [2]. Tuttavia, come Lia era illuminata da Citerea, così anche Matelda si scalda ai raggi d’amore. Per quanto “li occhi onesti avvalli” con condiscendenza, fa dono di levarli per mostrare quanto lume vi splende. È donna “soletta”, si muove “come ninfe che si givan sole”, e ciò corrisponde alla solitudine degli anacoreti, ma in essa, al modo degli attivi del quarto stato, si prepara per levarsi più su, verso la contemplazione (cfr. la tematica del quarto stato nella faticosa salita descritta in Purg. IV). In quanto riassume le sette chiese d’Asia che tendono alla patria celeste (significate dai sottostanti sette gironi della montagna, uno per ognuno dei sette stati della storia della Chiesa), è immagine della Chiesa militante in terra (l’Asia è interpretata come gradiens; la “bella donna” è colei che per antonomasia ‘muove il passo’; Ap 1, 4). La stessa Beatrice, la ‘nuova’ Rachele, si mostra nell’Eden assai attiva, “quasi ammiraglio” (Purg. XXX, 58-60). Questo genere, tra vita attiva e contemplativa, è quello di cui si dice al termine della Monarchia: “cum mortalis ista felicitas quodammodo ad inmortalem felicitatem ordinetur” (III, xv, 17). Matelda procede lungo il Lete, la riva umana del fiume che scorre in mezzo alla Gerusalemme celeste, ma poi lo passa e perviene fino all’Eunoè, cioè alla riva divina. Partecipa di entrambe le parti della beatitudine, consistenti nell’essere senza la penale memoria di ogni male e nell’avere ogni bene (Ap 21, 4; 22, 1-2).
Rispetto a Lia e Rachele, delle quali assomma le prerogative, Matelda si propone come un incremento, nel corso di un viaggio che di per sé procede arricchendo, nel realismo del racconto, le qualità spirituali e ideali del personaggio-autore e del consapevole lettore.

La “femmina balba”, che appare in sogno al poeta nel quarto girone della montagna (Purg. XIX, 1-33), difetta di tutti gli attributi con cui Cristo si propone ai santi contemplativi, e per i quali viene lodato il vescovo di Tiatira, la quarta chiesa d’Asia: è “ne li occhi guercia”, anziché con gli occhi lucidi e ardenti; “sovra i piè distorta”, anziché con i piedi simili ad oricalco; “con le man monche”, impedita cioè nel ministrare e nelle opere manuali in cui anche eccellono gli anacoreti; “e di colore scialba”, che corrisponde al colore pallido del cavallo del quarto sigillo, simile nel languore al colore della morte (Ap 6, 8). L’essere distorta sui piedi e monca nelle mani deriva da motivi del terzo stato (l ’“intorta acceptio scripture” da Ap 6, 5 e il tagliare da Ap 2, 12). Si presenta come l’immagine perversa ed erronea di Matelda, è “femmina” e non “donna” (“femina”, nell’esegesi, è Gezabele, la falsa profetessa), non canta salmodie ma per ammaliare sensualmente i naviganti, non interviene al cominciare del “novo giorno” ma sotto l’egida della fredda luna, simbolo di ciò che è mondano; non si scalda ai raggi d’amore ma si colora di ipocrita amore allo sguardo del poeta. Non sarà casuale che, a rendere confusa questa immagine, si direbbe di Anticristo, intervenga – nel sogno – “una donna … santa e presta” (Purg. XIX, 25-27) come sarà fra le prerogative di Matelda: “ch’i’ venni presta / ad ogne tua question tanto che basti” (Purg. XXVIII, 83-84). Reminiscenza dell’intervento di Beatrice contro la Donna Gentile o Pietosa della Vita Nova – “adversario della Ragione … desiderio malvagio e vana tentatione” -, le parole “una donna” sono riferimento alla donna vestita di sole di Ap 12, 1, che designa la Chiesa come corpo mistico di Cristo e, secondo Gioacchino da Fiore, la Chiesa dei contemplativi e delle vergini che indica il cammino ai naviganti (Ap 12, 14).

[1] Alla luna piena, che non nocque ma giovò a Dante nella selva oscura (il chiarore notturno inteso nell’esegesi in senso positivo), fa riferimento Virgilio nel lasciare la quarta bolgia degli indovini (dove la tematica del quarto stato è prevalente; Inf. XX, 124-129).

[2] Anche il rivolgersi a Dante chiamandolo “frate” (Purg. XXIX, 15), come fa Giovanni ai destinatari dell’Apocalisse (Ap 1, 4) e Ulisse ai suoi compagni (Inf. XXVI, 112), è indizio di umiltà. Altro indizio è a Purg. XXXII, 28-33, allorché Matelda, Stazio e Dante seguono la ruota destra del carro-Chiesa tirato dal grifone-Cristo che, volgendosi verso destra, descrive nel suo girare un arco minore della ruota sinistra: “seguitavam la rota / che fé l’orbita sua con minore arco”. Nell’“alta selva vòta … temprava i passi un’angelica nota”. Il piegare più stretto “con minore arco”, nonché l’essere la selva “vòta”, è allusione alla “vacuitas cithare” di cui dice Gioacchino da Fiore nella citazione oliviana ad Ap 14, 2, che designa nel suo essere concavo la povertà volontaria e la lode di Dio che risuona bene se proceda da una mente umile e svuotata delle cose terrene (“vòta” rima con “nota”). Ciò indipendentemente dal senso letterale, per cui l’essere “vòta” la selva dell’Eden si intende ‘vuota di uomini’, per “colpa di quella ch’al serpente crese”.
Da notare il modo di parlare di Matelda – “continüò col fin di sue parole” (Purg. XXIX, 2) -, proprio anche di Farinata (Inf. X, 76) e di Beatrice (Purg. XXX, 71; XXXI, 4; Par. V, 16-18): le parole ‘continuano’, quasi a sottolineare la necessità di cose che debbono avvenire presto, come spiegato ad Ap 1, 1: «… “que oportet fieri cito” … quia indistanter sunt inchoanda et absque interpolatione continuanda et consumanda». Simmetrico ad Ap 1, 1 è Ap 22, 10, dove alla fine del libro Cristo afferma la prossimità del suo avvento e giudizio. Ivi è ripreso il tema del continuare senza posa un discorso: “et continuat se ad immediate premissum”. Cristo dice anche (Ap 22, 12) che verrà presto a portare, “tamquam dantis”, la propria mercede a ciascuno secondo le sue opere, cioè ai buoni i premi e ai malvagi le pene. Che è poi quello che si propone la Commedia. Il tema della visione mostrata a Giovanni, degna persona cui è concesso di manifestarla ad altri (Ap 1-2), si traspone sul poeta.
Matelda, come donna innamorata e ninfa desiderosa (Purg. XXIX, 1, 5-6), rinvia ad Ap 5, 8, esegesi soggetta a molte variazioni.


Tab. VI

[LSA, cap. II, Ap 2, 1.18 (Ia visio, IVa ecclesia)] Quarta autem commendatur de superhabundanti et perseveranti et superexcrescenti supererogatione sanctorum operum et de perfectione fidei et caritatis, que utique competunt quarto statui, scilicet anachoritarum, qui partim opere manuum, partim lectione, partim vocali psalmodia, cum assidua maceratione corporis per ieiunia et per alias austeritates, se semper preparabant et sursum agebant ad contemplativos actus fidei et caritatis. Unde bene vocatur Tyatira, id est illuminata vel inflammata vel vivens hostia, quia tales per lucem et flammam contemplative devotionis se offerunt Deo hostiam viventem. […]
Hiis autem premittitur preceptum de scribendo hec huic episcopo et eius ecclesie et introductio Christi loquentis, cum subdit: “Hec dicit Filius hominis, qui habet oculos tamquam flamma[m] ignis et pedes eius similes auricalco” (Ap 2, 18). Quia episcopus et ecclesia cui Christus loquitur laudatur de fervore fidei et caritatis, et de humilitate ministrandi et patientie, et de perfectione operum sive vite active, ideo respectu primi Christus proponitur ut habens oculos lucidos et ardentes sicut est flamma ignis, respectu vero secundi proponitur ut Filius hominis, respectu vero tertii proponitur habere pedes similes auricalco, id est eri nitidissimo quod est simillimum auro. Correspondet etiam hoc quarto statui anachoritarum humillimorum et valde activorum multumque contemplativorum. Dictum est enim supra quod per Filium hominis designatur humilitas, per oculos autem flammeos fervor et lux contemplationis ignite, per pedes vero similes auricalco perfectio vite active. […]
Nota quod quia fides sine operibus mortua est (cfr. Jc 2, 20) et caritas perficitur et probatur in opere, ideo premisit opera fidei caritati. Quia etiam episcopi est ministrare seu dispensare pauperibus et precipue suis subditis bona ecclesie tamquam communia et tamquam bona pauperum, ideo subdit: “et ministerium tuum”, quamvis etiam possit stare pro ministerio verbi Dei; utroque enim modo sumitur Actuum VI° (Ac 6, 1-7). […]

[LSA, cap. II, Ap 2, 1.22 (Ia visio, IVa ecclesia)] (Ap 2, 1) Solitarii enim et contemplativi negligere solent correctionem aliorum, tamquam iudicantes soli sibi esse vacandum. Quidam etiam ex eis, propter excessus contemplationis et macerationis corpore fracti, de facili solent a sociis suaderi ut indulgeant sue carni, ita quod ex hoc plus debito delicatis utantur. […]
(Ap 2, 22) Nota quod est lectus quietis, et de hoc non loquitur hic; et est lectus doloris, de quo in Psalmo XL° dicitur (Ps 40, 4): “Dominus opem ferat illi super lectum doloris eius”, et de hoc loquitur hic.

Purg. XXVII, 61-108

“Lo sol sen va”, soggiunse, “e vien la sera;
non v’arrestate, ma studiate il passo,
mentre che l’occidente non si annera”.
Dritta salia la via per entro ’l sasso
verso tal parte ch’io toglieva i raggi
dinanzi a me del sol ch’era già basso.
E di pochi scaglion levammo i saggi,
che ’l sol corcar, per l’ombra che si spense,
sentimmo dietro e io e li miei saggi.
E pria che ’n tutte le sue parti immense
fosse orizzonte fatto d’uno aspetto,
e notte avesse tutte sue dispense,
ciascun di noi d’un grado fece letto;
ché la natura del monte ci affranse
la possa del salir più e ’l diletto.
Quali si stanno ruminando manse
le capre, state rapide e proterve
sovra le cime avante che sien pranse,
tacite a l’ombra, mentre che ’l sol ferve,
guardate dal pastor, che ’n su la verga
poggiato s’è e lor di posa serve;
e quale il mandrïan che fori alberga,
lungo il pecuglio suo queto pernotta,
guardando perché fiera non lo sperga;
tali eravamo tutti e tre allotta,
io come capra, ed ei come pastori,
fasciati quinci e quindi d’alta grotta.
Poco parer potea lì del di fori;
ma, per quel poco, vedea io le stelle
di lor solere e più chiare e maggiori.
Sì ruminando e sì mirando in quelle,
mi prese il sonno; il sonno che sovente,
anzi che ’l fatto sia, sa le novelle.
Ne l’ora, credo, che de l’orïente
prima raggiò nel monte Citerea,
che di foco d’amor par sempre ardente,
giovane e bella in sogno mi parea
donna vedere andar per una landa
cogliendo fiori; e cantando dicea:
“Sappia qualunque il mio nome dimanda
ch’i’ mi son Lia, e vo movendo intorno
le belle mani a farmi una ghirlanda.
Per piacermi a lo specchio, qui m’addorno;
ma mia suora Rachel mai non si smaga
dal suo miraglio, e siede tutto giorno.
Ell’ è d’i suoi belli occhi veder vaga
com’ io de l’addornarmi con le mani;
lei lo vedere, e me l’ovrare appaga”.

[LSA, prologus, Notabile III] Item (zelus) est septiformis prout fertur contra quorundam ecclesie primitive fatuam infantiam (I), ac deinde contra pueritiam inexpertam (II), et tertio contra adolescentiam levem et in omnem ventum erroris agitatam (III), et quarto contra pertinaciam quasi in loco virilis et stabilis etatis se firmantem (IV), quinto contra senectutem remissam (V), sexto contra senium decrepitum ac frigidum [et] defluxum (VI), septimo contra mortis exitum desperatum et sui oblitum (VII).

[LSA, prologus, Notabile III] Patet enim hoc de primo dono. Nam pastoralis cura insistit […] Quarto earum pascuali refectioni. […] Constat autem quod propagatio appropriatur prime plantationi ecclesie sub apostolis (I), defensio vero militari pugne martirum (II), directio vero eruditioni doctorum (III), refectio autem studiose et refective devotioni anachoritarum (IV), et sic de aliis.
[Notabile XIII] Refectio vero eucharistie congruit devotioni anachoritarum.

[LSA, cap. II, Ap 2, 1; 26-28 (IVa victoria)] (Ap 2, 1) […] habebitur, et potestativum dominium super omnes dampnandos et claritas plusquam stellaris. […] Quarta est victoriosus effectus, quando scilicet omnes vires corporis et mentis assidue et totaliter perfectis virtutum operibus dedicantur, nec ex longa continuatione operis remittuntur sed potius intenduntur et roborantur et ad fortia opera superexcrescunt, qualis fuit in exercitiis perfectorum anachoritarum, quibus competit premium de quo quarte ecclesie dicitur: “Qui vicerit et custodierit usque in finem opera mea”, id est qualia ego feci et precepi vel consului, “dabo illi potestatem super gentes et reg[et] [eas] in virga ferrea, et tamquam vas figuli confri[n]gentur, sicut ego accepi a Patre meo, et dabo illi stellam matutinam” (Ap 2, 26-28).
Secundum quosdam hic promittitur quarto ordini perfectio sexti et septimi status, quia ordo quartus est in fine seculi consumandus et visurus confractionem statue Nabucodonosor et superaturus gentes et regna et Christi cultui subiugaturus. Est etiam accepturus claram intelligentiam scripturarum et future diei eterne quasi stellam matutinam, que gratiose solem pronuntiat et precurrit. Generaliter tamen hic significatur quod quicumque sunt sic operosi sunt digni super principatum ecclesie sublimari et accipere virtutem rectam et inflexibilem et insuperabilem, quasi virgam ferream ad faciliter confringendum terrestria vitia gentium, et accipere plenitudinem sapientie celestis ad regendum ec-clesiam et ad celestia contemplanda.

[LSA, cap. VIII, Ap 8, 12 (IIIa visio, IVa tuba)] Per “noctem” vero, a luna et stellis illuminata[m], videtur intelligi plebs secularior et rudior et imperfectior quam illa que designatur per diem, unde nec est apta illuminari et accendi et ad bonum excitari a superexcessiva vita et contemplatione solarium, immo potius horrent et quasi desperant in aspectu et auditu illorum; facilius autem excitantur et erudiuntur a magistris inferioribus eorum inferioritati magis proportionatis. […] et “diei” et “noctis”, id est diurne claritatis christianitatis, que est in fide et cultu Trinitatis et Christi redemptoris, et nocturne claritatis ipsius, que est in patientia adversorum et in bono regimine temporalium et in bonis moribus seu operibus active.

[LSA, cap. VI, Ap 6, 8 (IIa visio, apertio IVi sigilli)] Speculari igitur hoc antequam fieret, et post factum contemplari rationes tanti iudicii, ad oculos volantis aquile spectat.

[LSA, cap. XII, Ap 12, 14.17 (IVa visio, IVum prelium)] […] quia ecclesia per totum tempus martir[um] usque ad conversionem Constantini imperatoris fuit sic dispersa et oppressa quod non habuit sic apparentem unitatem et potestatem in toto orbe sicut habuit tempore Constantini, exclusa idolatria et paganismo et data sibi undique pace, quando et plenius apparuit romanam ecclesiam esse universalem matrem omnium membrorum Christi. […] Videtur tamen quod post Christum et martires ubique dispersos egit de ecclesia post Constantinum in unum collecta et duabus alis, id est duobus ordinibus doctorum scilicet et anachoritarum altivolis, adornata et in altum sublevata, et tam in deserto gentilitatis quam in deserto contemplative solitudinis alimentum sue refectionis habente.


Tab. VI bis

[LSA, cap. II, Ap 2, 1.18 (Ia visio, IVa ecclesia)] Quarta autem commendatur de superhabundanti et perseveranti et superexcrescenti supererogatione sanctorum operum et de perfectione fidei et caritatis, que utique competunt quarto statui, scilicet anachoritarum, qui partim opere manuum, partim lectione, partim vocali psalmodia, cum assidua maceratione corporis per ieiunia et per alias austeritates, se semper preparabant et sursum agebant ad contemplativos actus fidei et caritatis. Unde bene vocatur Tyatira, id est illuminata vel inflammata vel vivens hostia, quia tales per lucem et flammam contemplative devotionis se offerunt Deo hostiam viventem. […]
Hiis autem premittitur preceptum de scribendo hec huic episcopo et eius ecclesie et introductio Christi loquentis, cum subdit: “Hec dicit Filius hominis, qui habet oculos tamquam flamma[m] ignis et pedes eius similes auricalco” (Ap 2, 18). Quia episcopus et ecclesia cui Christus loquitur laudatur de fervore fidei et caritatis, et de humilitate ministrandi et patientie, et de perfectione operum sive vite active, ideo respectu primi Christus proponitur ut habens oculos lucidos et ardentes sicut est flamma ignis, respectu vero secundi proponitur ut Filius hominis, respectu vero tertii proponitur habere pedes similes auricalco, id est eri nitidissimo quod est simillimum auro. Correspondet etiam hoc quarto statui anachoritarum humillimorum et valde activorum multumque contemplativorum. Dictum est enim supra quod per Filium hominis designatur humilitas, per oculos autem flammeos fervor et lux contemplationis ignite, per pedes vero similes auricalco perfectio vite active.

Purg. XXVII, 94-108

Ne l’ora, credo, che de l’orïente
prima raggiò nel monte Citerea,
che di foco d’amor par sempre ardente,
giovane e bella in sogno mi parea
donna vedere andar per una landa
cogliendo fiori; e cantando dicea:
“Sappia qualunque il mio nome dimanda
ch’i’ mi son Lia, e vo movendo intorno
le belle mani a farmi una ghirlanda.
Per piacermi a lo specchio, qui m’addorno;
ma mia suora Rachel mai non si smaga
dal suo miraglio, e siede tutto giorno.
Ell’ è d’i suoi belli occhi veder vaga   5, 1
com’ io de l’addornarmi con le mani;
lei lo vedere, e me l’ovrare appaga”.

Par. VIII, 1-12                                

Solea creder lo mondo in suo periclo
che la bella Ciprigna il folle amore
raggiasse, volta nel terzo epiciclo;
per che non pur a lei faceano onore
di sacrificio e di votivo grido
le genti antiche ne l’antico errore;
ma Dïone onoravano e Cupido,
quella per madre sua, questo per figlio,
e dicean ch’el sedette in grembo a Dido;
e da costei ond’ io principio piglio
pigliavano il vocabol de la stella
che ’l sol vagheggia or da coppa or da ciglio.   5, 1

[LSA, cap. II, Ap 2, 1; 3, 1.3 (Ia visio, Va ecclesia)] (Ap 2, 1) Vocatur autem congrue hec ecclesia Sardis, id est principium pulchritudinis, tum quia in suis paucis incoinquinatis habet singularem gloriam pulchritudinis, quia difficillimum et arduissimum est inter tot suorum luxuriantes se omnino servare mundum; tum quia primi institutores quinti status fuerunt in se et in suis omnis munditie singulares zelatores, suorumque collegiorum regularis institutio, diversa membra et officia conectens et secundum suas proportiones ordinans sub regula unitatis condescendente proportioni membrorum, habet mire pulchritudinis formam toti generali ecclesie competentem, que est sicut regina aurea veste unitive caritatis ornata et in variis donis et gratiis diversorum membrorum circumdata varietate. […]
(Ap 3, 1) Unde et Ricardus dat aliam rationem quare hec ecclesia dicta est “Sardis”, id est principium pulchritudinis, quia scilicet sola initia boni non autem consumationem habuit, et solum nomen sanctitatis potius quam rem*. Supra vero fuit alia ratio data. Respectu etiam prave multitudinis tam huius quinte ecclesie quam quinti status, prefert se habere “septem spiritus Dei et septem stellas”, id est fontalem plenitudinem donorum et gratiarum Spiritus Sancti et continentiam omnium sanctorum episcoporum quasi stellarum, tum ut istos de predictorum carentia et de sua opposita immunditia plus confundat, tum ut ad eam rehabendam fortius attrahat. […]

* In Ap I, xi (PL 196, col. 742 C).

Purg. XXVII, 94-108

Ne l’ora, credo, che de l’orïente
prima raggiò nel monte Citerea,
che di foco d’amor par sempre ardente,
giovane e bella in sogno mi parea
donna vedere andar per una landa
cogliendo fiori; e cantando dicea:
“Sappia qualunque il mio nome dimanda
ch’i’ mi son Lia, e vo movendo intorno
le belle mani a farmi una ghirlanda.
Per piacermi a lo specchio, qui m’addorno;
ma mia suora Rachel mai non si smaga
dal suo miraglio, e siede tutto giorno.

Ell’ è d’i suoi belli occhi veder vaga
com’ io de l’addornarmi con le mani;
lei lo vedere, e me l’ovrare appaga”.

Purg. XXVIII, 40-48, 52-54, 79-84

una donna soletta che si gia   12, 14
e cantando e scegliendo fior da fiore
ond’ era pinta tutta la sua via.
“Deh, bella donna, che a’ raggi d’amore
ti scaldi, s’i’ vo’ credere a’ sembianti

che soglion esser testimon del core,
vegnati in voglia di trarreti avanti”,
diss’ io a lei, “verso questa rivera,
tanto ch’io possa intender che tu canti“.

Come si volge, con le piante strette
a terra e intra sé, donna che balli,
e piede innanzi piede a pena mette 

maravigliando tienvi alcun sospetto;
ma luce rende il salmo Delectasti,
che puote disnebbiar vostro intelletto.
E tu che se’ dinanzi e mi pregasti,
dì s’altro vuoli udir; ch’i’ venni presta
ad ogne tua question tanto che basti.

[LSA, cap. VI, Ap 6, 8 (IIa visio, apertio IVi sigilli)] “Et ecce equus pallidus” (Ap 6, 8), id est, secundum Ricardum, ypocritarum cetus per nimiam carnis macerationem pallidus et moribundus. “Et qui sedebat super eum”, scilicet diabolus, qui per pravam intentionem ypocritarum sedet in eis et per eos malitiam suam exercet, “nomen illi mors”. Hoc enim nomen bene diabolo convenit, quia per eum mors incepit et alios ad mortem trahere non cessat. “Et infernus”, id est omnes in inferno dampnandi, “sequeb[atur] eum”, quia omnes tales eum imitantur*. […] Sciendum tamen quod in tertio et quarto tempore ecclesie non reperitur ypocrisis fecisse tantam plagam quantam hic insinuatur, nisi prout fides fuit iuncta heresi; prout autem fuit heresi adiuncta, fuit summe pestifera quoad hereses quodam sanctitatis pallio in oculis plebium sensualium colorandas et diffundendas et affir-mandas.

* In Ap II, vii (PL 196, col. 767 C-D).

Purg. XIX, 7-18, 25-27

mi venne in sogno una femmina balba,
ne li occhi guercia, e sovra i piè distorta,   6, 5
con le man monche, e di colore scialba.   2, 12
Io la mirava; e come ’l sol conforta
le fredde membra che la notte aggrava,
così lo sguardo mio le facea scorta
la lingua, e poscia tutta la drizzava
in poco d’ora, e lo smarrito volto,
com’ amor vuol, così le colorava.
Poi ch’ell’ avea ’l parlar così disciolto,
cominciava a cantar sì, che con pena
da lei avrei mio intento rivolto.

Ancor non era sua bocca richiusa,
quand’ una donna apparve santa e presta   12, 14
lunghesso me per far colei confusa. 

[LSA, cap. II, Ap 2, 1.18.21 (Ia visio, IVa ecclesia)] Quarta autem commendatur de superhabundanti et perseveranti et superexcrescenti supererogatione sanctorum operum et de perfectione fidei et caritatis, que utique competunt quarto statui, scilicet anachoritarum, qui partim opere manuum, partim lectione, partim vocali psalmodia, cum assidua maceratione corporis per ieiunia et per alias austeritates, se semper preparabant et sursum agebant ad contemplativos actus fidei et caritatis. Unde bene vocatur Tyatira, id est illuminata vel inflammata vel vivens hostia, quia tales per lucem et flammam contemplative devotionis se offerunt Deo hostiam viventem. […]
Hiis autem premittitur preceptum de scribendo hec huic episcopo et eius ecclesie et introductio Christi loquentis, cum subdit: “Hec dicit Filius hominis, qui habet oculos tamquam flamma[m] ignis et pedes eius similes auricalco” (Ap 2, 18). Quia episcopus et ecclesia cui Christus loquitur laudatur de fervore fidei et caritatis, et de humilitate ministrandi et patientie, et de perfectione operum sive vite active, ideo respectu primi Christus proponitur ut habens oculos lucidos et ardentes sicut est flamma ignis, respectu vero secundi proponitur ut Filius hominis, respectu vero tertii proponitur habere pedes similes auricalco, id est eri nitidissimo quod est simillimum auro. Correspondet etiam hoc quarto statui anachoritarum humillimorum et valde activorum multumque contemplativorum. Dictum est enim supra quod per Filium hominis designatur humilitas, per oculos autem flammeos fervor et lux contemplationis ignite, per pedes vero similes auricalco perfectio vite active. […]
Exaggerat autem huius femine impenitentiam, subdens (Ap 2, 21): “Et dedi illi tempus ut penitentiam ageret”, id est ob hoc distuli ipsam occidere et dampnare, “et non vult penitere a fornicatione sua”.

 

Tab. VI ter

Purg. IV, 22-33, 43-45

che non era la calla onde salìne
lo duca mio, e io appresso, soli,
come da noi la schiera si partìne.
Vassi in Sanleo e discendesi in Noli,
montasi su in Bismantova e ’n Cacume
con esso i piè; ma qui convien ch’om voli;
dico con l’ale snelle e con le piume
del gran disio, di retro a quel condotto
che speranza mi dava e facea lume.
Noi salavam per entro ’l sasso rotto,
e d’ogne lato ne stringea lo stremo,
e piedi e man volea il suol di sotto.

 

Io era lasso, quando cominciai:
“O dolce padre, volgiti, e rimira
com’ io rimango sol, se non restai”.

[LSA, cap, II, Ap 2, 1] Quartum (exercitium) est contemplativa abstractio et solitudo, et assidua sui ad illam per austera et laboriosa opera preparatio.

[LSA, prologus, Notabile III] Item (zelus) est septiformis prout fertur contra quorundam ecclesie primitive fatuam infantiam (I), ac deinde contra pueritiam inexpertam (II), et tertio contra adolescentiam levem et in omnem ventum erroris agitatam (III), et quarto contra pertinaciam quasi in loco virilis et stabilis etatis se firmantem (IV), quinto contra senectutem remissam (V), sexto contra senium decrepitum ac frigidum [et] defluxum (VI), septimo contra mortis exitum desperatum et sui oblitum (VII).
Item est septiformis quia est contra initium mali intrinsecum (I) et extrinsecum (II); et contra medium terminum, scilicet ascendens (III) stans (IV) et declinans (V); et contra terminum intrinsecum (VI) et extrinsecum (VII).

[Ap 2, 1.18 (Ia visio, IVa ecclesia)] Quarta autem commendatur de superhabundanti et perseveranti et superexcrescenti supererogatione sanctorum operum et de perfectione fidei et caritatis, que utique competunt quarto statui, scilicet anachoritarum, qui partim opere manuum, partim lectione, partim vocali psalmodia, cum assidua maceratione corporis per ieiunia et per alias austeritates, se semper preparabant et sursum agebant ad contemplativos actus fidei et caritatis. Unde bene vocatur Tyatira, id est illuminata vel inflammata vel vivens hostia, quia tales per lucem et flammam contemplative devotionis se offerunt Deo hostiam viventem. […]
Hiis autem premittitur preceptum de scribendo hec huic episcopo et eius ecclesie et introductio Christi loquentis, cum subdit: “Hec dicit Filius hominis, qui habet oculos tamquam flamma[m] ignis et pedes eius similes auricalco” (Ap 2, 18). Quia episcopus et ecclesia cui Christus loquitur laudatur de fervore fidei et caritatis, et de humilitate ministrandi et patientie, et de perfectione operum sive vite active, ideo respectu primi Christus proponitur ut habens oculos lucidos et ardentes sicut est flamma ignis, respectu vero secundi proponitur ut Filius hominis, respectu vero tertii proponitur habere pedes similes auricalco, id est eri nitidissimo quod est simillimum auro. Correspondet etiam hoc quarto statui anachoritarum humillimorum et valde activorum multumque contemplativorum. Dictum est enim supra quod per Filium hominis designatur humilitas, per oculos autem flammeos fervor et lux contemplationis ignite, per pedes vero similes auricalco perfectio vite active.

***

qui partim opere manuum
sciegliendo fior da fiore (Purg. XXVIII, v. 41) /
trattando più color con le sue mani (v. 68)

partim vocali psalmodia
cantando (v. 41; XXIX, 1) / tu canti (v. 48) / ’l dolce suono (v. 59) /
ma luce rende il salmo Delectasti [Ps 91, 5] (v. 80)

et de perfectione operum sive vite active
per pedes vero similes auricalco perfectio vite active
coi piè (v. 34) / e piede innanzi piede a pena mette (v. 54)

et de humilitate ministrandi
ch’i’ venni presta (v. 83) / picciol passo (XXIX, 9)

se semper preparabant et sursum agebant ad contemplativos actus fidei et caritatis
de fervore fidei et caritatis
ut habens
oculos lucidos et ardentes sicut est flamma ignis
per oculos autem flammeos fervor et lux contemplationis ignite

con li occhi passai (v. 34) / a’ raggi d’amore ti scaldi (vv. 43-44) / che li occhi onesti (v. 57)  / di levar li occhi suoi (v. 63) / tanto lume (v. 64)

Purg. XXVIII, 34-69, 76-84

Coi piè ristetti e con li occhi passai
di là dal fiumicello, per mirare
la gran varïazion d’i freschi mai;
e là m’apparve, sì com’ elli appare
subitamente cosa che disvia
per maraviglia tutto altro pensare,
una donna soletta che si gia
e cantando e scegliendo fior da fiore
ond’ era pinta tutta la sua via.
“Deh, bella donna, che a’ raggi d’amore
ti scaldi, s’i’ vo’ credere a’ sembianti
che soglion esser testimon del core,
vegnati in voglia di trarreti avanti”,
diss’ io a lei, “verso questa rivera,
tanto ch’io possa intender che tu canti.
Tu mi fai rimembrar dove e qual era
Proserpina nel tempo che perdette
la madre lei, ed ella primavera”.
Come si volge, con le piante strette
a terra e intra sé, donna che balli,
e piede innanzi piede a pena mette,
volsesi in su i vermigli e in su i gialli
fioretti verso me, non altrimenti
che vergine che li occhi onesti avvalli;
e fece i prieghi miei esser contenti,
sì appressando sé, che ’l dolce suono
veniva a me co’ suoi intendimenti.
Tosto che fu là dove l’erbe sono
bagnate già da l’onde del bel fiume,
di levar li occhi suoi mi fece dono.
Non credo che splendesse tanto lume
sotto le ciglia a Venere, trafitta
dal figlio fuor di tutto suo costume.
Ella ridea da l’altra riva dritta,
trattando più color con le sue mani,
che l’alta terra sanza seme gitta.

“Voi siete nuovi, e forse perch’ io rido”,
cominciò ella, “in questo luogo eletto
a l’umana natura per suo nido,
maravigliando tienvi alcun sospetto;
ma luce rende il salmo Delectasti,
che puote disnebbiar vostro intelletto.
E tu che se’ dinanzi e mi pregasti,
dì s’altro vuoli udir; ch’i’ venni presta
ad ogne tua question tanto che basti”.

Inf. XIII, 55-57; XXVI, 112-113

E ’l tronco: “Sì col dolce dir m’adeschi,
ch’i’ non posso tacere; e voi non gravi
perch’ ïo un poco a ragionar m’inveschi”. 

O frati”, dissi, “che per cento milia
 perigli siete giunti a l’occidente …”

[LSA, cap. II, Ap 2, 1 (Va ecclesia)] Vocatur autem congrue hec ecclesia Sardis, id est principium pulchritudinis, tum quia in suis paucis incoin-quinatis habet singularem gloriam pulchritudinis, quia difficillimum et arduissimum est inter tot suorum luxuriantes se omnino servare mundum; tum quia primi institutores quinti status fuerunt in se et in suis omnis munditie singulares zelatores, suorumque collegiorum regularis institutio, diversa membra et officia conectens et secundum suas proportiones ordinans sub regula unitatis conde-scendente proportioni membrorum, habet mire pulchritudinis formam toti generali ecclesie competentem, que est sicut regina aurea veste unitive caritatis ornata et in variis donis et gratiis diversorum membrorum circumdata varietate.

[LSA, cap. III, Ap 3, 3 (Ia visio, Va ecclesia)] “In mente ergo habe” (Ap 3, 3), id est attente recogita, “qualiter acceperis”, scilicet a Deo priorem gratiam, “et audieris”, ab homine scilicet per predicationem evangelicam, “et serva”, scilicet illa que per predicationem audisti et per influxum gratie a Deo primitus accepisti. Vel recogita qualiter per proprium consensum accepisti fidem et gratiam et statum eius, prout a me et a ceteris tibi predicantibus audivisti. “Et serva” ea “et penitentiam age”, scilicet de tuis malis, quasi dicat: si digne recogitaveris gratiam tibi prius impensam et qualiter prius accepisti eandem, servabis eam et penitentiam ages.

[LSA, cap, II, Ap 2, 1] Quartum (exercitium) est contemplativa abstractio et solitudo, et assidua sui ad illam per austera et laboriosa opera preparatio.

Purg. XXVIII, 40; XXIX, 1-15

una donna soletta che si gia

Cantando come donna innamorata,
continüò col fin di sue parole:
Beati quorum tecta sunt peccata!’.
E come ninfe che si givan sole
per le salvatiche ombre, disïando
qual di veder, qual di fuggir lo sole,
allor si mosse contra ’l fiume, andando
su per la riva; e io pari di lei,
picciol passo con picciol seguitando.
Non eran cento tra ’ suoi  passi e ’ miei,
quando le ripe igualmente dier volta,
per modo ch’a levante mi rendei.
Né ancor fu così nostra via molta,
quando la donna tutta a me si torse,
dicendo: “Frate mio, guarda e ascolta”.

[LSA, cap. I, Ap 1, 9] “Ego Iohannes” (Ap 1, 9). Hic post prohemium incipit narratio visionum. Et primo premittit septem generales et laudabiles circumstantias visionum sequentium. Prima est proprietas et dignitas persone videntis, unde ait: “Ego Iohannes frater vester”, quasi dicat: hanc prophetiam gratanter debetis audire et perficere, quia “ego Iohannes”, a Christo singulariter dilectus et in apostolum et evangelistam electus, eam vidi et scripsi ad vestram informationem et utilitatem.
“Frater vester”, scilicet tam per naturam quam per gratiam, nec solum in Adam sed etiam in Christo et per regenerationem ipsius, quasi dicat: eo libentius debetis illam accipere quod non tantum a noto et amico, sed etiam a fratre eam vobis directam auditis. Et nota quod cum posset dicere ‘magist[er]’ propter prelationem, dixit “frater” propter humilitatem, ut propter humilitatem et dulcedinem fraternitatis facilius eos alliceret et persuaderet.

[Ap 1, 1] Dicit autem “cito”, tum quia indistanter sunt inchoanda et absque interpolatione continuanda et consumanda, tum quia totum tempus eternitati comparatum est sicut momentum, tum quia respectu priorum seculorum computatur totum tempus nove legis pro una hora novissima, secundum illud Iohannis epistule prime sue capitulo secundo: “novissima hora est” (1 Jo, 2, 18).

Purg. XXIX, 1-9 

Cantando come donna innamorata,   5, 8
continüò col fin di sue parole:
Beati quorum tecta sunt peccata!’. Ps 31, 1
E come ninfe che si givan sole
per le salvatiche ombre, disïando
qual di veder, qual di fuggir lo sole,
allor si mosse contra ’l fiume, andando
su per la riva; e io pari di lei,
picciol passo con picciol seguitando.

Par. XXI, 52-57

E io incominciai: “La mia mercede
non mi fa degno de la tua risposta;
ma per colei che ’l chieder mi concede,
vita beata che ti stai nascosta
dentro a la tua letizia, fammi nota
la cagion che sì presso mi t’ha posta …”

[LSA, cap. XXII, Ap 22, 10-12 (finalis conclusio totius libri)] Loquitur autem Christus primo ut contestator propinquitatis sui adventus ad iudicium, de quo paulo ante dixit angelus: “Tempus enim prope est” (Ap 22, 10). Et continuat se ad immediate premissum, ac si ironice contra malos dictum sit: “Qui nocet noceat”, quia “ecce venio cito” (Ap 22, 11-12), quasi dicat: in penam suam hoc faciet, quia ego cito veniam ad iudicandum. “Et merces mea mecum est, reddere unicuique secundum opera sua” (Ap 22, 12), id est bonis condigna premia et malis condigna supplicia. “Mea” dicit, quia merces ista est eius tamquam dantis, hominis vero est tamquam promerentis eam et recipientis. Dicit etiam “mecum”, quia causaliter seu per vim causalem est in ipso et quasi in manu eius; respectu etiam premii est in ipso substantia principalis obiecti.

Inf. X, 76; Purg. XXX, 70-72; XXXI, 1-4; Par. V, 16-18

e sé continüando al primo detto

regalmente ne l’atto ancor proterva
continüò come colui che dice
e ’l più caldo parlar dietro reserva

“O tu che se’ di là dal fiume sacro”,
volgendo suo parlare a me per punta,
che pur per taglio m’era paruto acro,
ricominciò, seguendo sanza cunta

Sì cominciò Beatrice questo canto;
 e sì com’ uom che suo parlar non spezza,
 continüò così ’l processo santo:

[LSA, cap. I, Ap 1, 1-2] Nota etiam quod ex hoc quod dicit eam sibi esse datam “palam facere”, docet duo. Primum est quod multa dantur et revelantur non ad ali[is] revelandum nec cum auctoritate propalandi ea, immo cum precepto vel debito ea secrete servandi.
Secundum est quod illa que hic revelantur sunt sic archana et incomprehensibilia, quod ex singulari gratia datum et concessum est Christo a Deo quod ipse propalaret ea suis. Nota etiam quod dicit “servis suis”, quasi dicat: non est datum ea revelare superbis Phariseis, nec incredulis Iudeis, nec perversis christianis. Non enim debent sancta canibus dari vel porcis (cfr. Mt 7, 6).
Subditur etiam fide dignitas persone Iohannis, ut sibi facilius et firmius credatur. Unde ait (Ap 1, 2): “Qui testimonium perhibuit verbo Dei”, id est deitati et eterne generationi Filii Dei, “et testimonium Ihesu Christi”, scilicet quoad eius humanitatem, testificando scilicet “quecumque vidit”, scilicet de Christo. Et hoc sive visu corporali sive spirituali. Oculis enim carnis “vidit” opera corporalia et miracula Christi, oculis vero contemplationis mentalis “vidit”, id est intellexit, deitatem eius, quasi dicat: illi et per illum sunt hec revelata, qui tamquam Christi apostolus per evidentiam facti ecclesiis, quibus scribit, expertam et notam fideliter predicavit veritatem utriusque nature Christi, divine scilicet et humane, ac gestorum vite et doctrine Christi.

 

Tab. VI quater

[LSA, cap. XII, Ap 12, 1-2 (IVa visio, radicalia)] Generalis etiam ecclesia, et precipue illa que instar Virginis est per perfectionem evangelicam “sole”, id est solari sapientia et caritate et contemplatione maiestatis Christi, vestita, et “lunam”, id est temporalia instar lune mutabilia et de se umbrosa, et figuralem corticem legis et sinagoge, ac mundanam scientiam et prudentiam instar lune mutabilem et nocturnam et frigidam seu infrigidativam, tenens “sub pedibus”, id est partim eam spernens et conculcans et partim suo famulatui eam subiciens, et vitam ac precellentiam duodecim apostolorum habens quasi “coronam duodecim stellarum in” suo “capite”, id est in suo initio et supremo […]. Secundum autem Ioachim, libro V° Concordie, ubi tangit misterium operis quarte diei, scilicet solis et lune et stellarum, applicans hoc ad quartum statum ecclesie dicit quod una mulier amicta sole cum luna et stellis unum designat ordinem contemplantium tripertita varietate distinctum. Cuius caput sunt prelati monachorum quasi stelle, que in capite emicant mulieris, quia Christi locum tenent in cenobiis. Pedes vero sunt monachi eis subiecti, qui sub eorum disciplina perfecte et regulariter vivunt, in quo lune perfecte sub pedibus mulieris stantis similitudinem servant. Contemplatoribus autem precipuis ascribitur sol. [Concordia, V 1, c. 12; Patschovsky 3, pp. 553, 7-554, 3]

 

Purg. XXVIII, 37-42

e là m’apparve, sì com’ elli appare
subitamente cosa che disvia
per maraviglia tutto altro pensare,
una donna soletta che si gia
e cantando e scegliendo fior da fiore
ond’ era pinta tutta la sua via.

Purg. XIX, 1-3, 19-27

Ne l’ora che non può ’l calor dïurno
intepidar più ’l freddo de la luna,
vinto da terra, e talor da Saturno

“Io son”, cantava, “io son dolce serena,
che ’ marinari in mezzo mar dismago;
tanto son di piacere a sentir piena!
Io volsi Ulisse del suo cammin vago
al canto mio; e qual meco s’ausa,
rado sen parte; sì tutto l’appago!”.
Ancor non era sua bocca richiusa,
quand’ una donna apparve santa e presta
lunghesso me per far colei confusa.

[LSA, cap. XII, Ap 12, 14 (IVa visio, III-IVum prelium)] Nota etiam quod, secundum Ioachim, libro V° Concordie, sicut de opere quarte diei, scilicet de sole et luna et stellis, dicitur quod “sint in signa et tempora et dies et annos” (Gn 1, 14), sic in quarta visione huius libri, in qua describitur mulier in celo existens et adornata sole et luna et stellis, proponitur fuisse in “signum magnum” et distinguitur tempus eius in “tempus et tempora”, signanterque hoc reperitur ubi agitur de quarto statu ecclesie. Consimiliter enim sub quarto signaculo veteris testamenti fuit Helias et Heliseus et filii prophetarum quasi sol et luna et stelle, ubi et idem numerus ponitur, scilicet tres anni et dimidius absconsionis Helie a facie Iesabel (3 Rg 18, 1ss) et subtractionis pluvie a gente peccatrice*. Et subdit: «quare hic misterialis numerus potius est scriptus sub quarto tempore quam sub alio, nisi quia quartum tempus est tribus temporibus precedentibus totidemque sequentibus veluti ex equo coniunctum, ita ut utrique participare videatur? Nempe et ecclesia ipsa virginum, que in muliere significatur, est mater et nutrix fidelium, quia Virgo portavit Christum in utero, Virgo peperit et lactavit?** Tales etiam viri et mulieres in signa fuere, quia sicut stelle celi in signa sunt navigantibus, ita et vita iustorum est in exemplum fidelium data, ut sciant quo ire debeant omnes qui considerant eos»***. Hec Ioachim.

* Concordia, V 1, c. 12; Patschovsky 3, pp. 556, 12-18, 22-25; 557, 1-3.

** Ibid., p. 557, 15-21.

*** Ibid., p. 556, 19-22.


7. Pia avvocata

Dei tre modi divini del dare (Ap 1, 4), a Matelda si addice quello relativo a Cristo uomo, che impetra e dispensa i doni dello Spirito. È infatti figura del Figlio, sacerdote e offerente al Padre, come avvocato e mediatore, le preghiere altrui stando dinanzi all’altare. Le parole-chiave che rinviano a questa esegesi, parte proemiale o radicale della terza visione apocalittica (Ap 8, 3-4), si rinvengono in molti luoghi del poema, dall’immortale canto dei quattro fanciulli nell’episodio del conte Ugolino alle “ombre che pregar pur ch’altri prieghi” di Purg. VI, da Catone al quale Virgilio prega in nome della sua Marzia alla preghiera di san Bernardo alla Vergine (gli esempi riportati qui di seguito vengono spiegati altrove unitamente all’intera parte di esegesi).
Matelda svolge, come Cristo, la funzione di mediatrice, avvocato e offerente alla quale vengono indirizzate preghiere. Dante prega la bella donna di trarsi innanzi verso il fiume in modo che possa intendere le parole del suo canto. Matelda accetta la preghiera del poeta e si dichiara in seguito pronta a rispondere a ogni domanda (Purg. XXVIII, 43-60, 82-84). Le orationes delectabiles sono accettate, e non a caso mi pregasti, riferito al poeta, rima con Delectasti, il Salmo cantato dalla donna (vv. 80-82).
Matelda – “quella pia” (Purg. XXXII, 82), che spiega come gli antichi poeti sognassero allegoricamente nel Parnaso “l’età de l’oro e suo stato felice”, (Purg. XXVIII, 139-141) – è anche figura dei santi padri che precedettero Cristo e giovano con la loro fede e i loro meriti perché, come riporta l’esegesi gioachimita dell’“altare” di Ap 8, 3, Cristo nelle opere di pietà li vuole avere consorti.
La “bella donna” offre Dante, “bagnato” dell’acqua del Lete, “dentro a la danza de le quattro belle” (Purg. XXXI, 103-105), cioè lo offre alle virtù cardinali che lo conducono agli occhi di Beatrice senza fargli però penetrare “nel giocondo lume ch’è dentro”. Si tratta delle virtù morali e intellettuali che regolano la felicità terrena (Monarchia, III, xv, 8) e che i ‘nuovi’ padri del Limbo, quelli che come Virgilio non potettero vestirsi delle virtù teologali, “sanza vizio / conobber … e seguir tutte quante” (Purg. VII, 34-36); corrispondono alle “quattro stelle / non viste mai fuor ch’a la prima gente” di Purg. I, 23-24, che fregiano di lume il volto del pagano Catone.
Di Cristo-Beatrice (la quale, guardando il grifone, riflette in sé le due nature di Cristo, divina e umana: Purg. XXXI, 121-126), di cui precede la venuta, Matelda è ministra, assimilata al Cristo uomo. A Dante che prega Beatrice di spiegargli l’origine dell’acqua del Lete e dell’Eunoè che esce da un’unica fonte, la donna risponde di pregare Matelda (Purg. XXXIII, 118-119). Così il nome Matelda, che sta sulla 40a terzina (Purg. XXXIII, 119), è in piena simmetria nel numero del verso con “quello avvocato de’ tempi cristiani” (Orosio) di Par. X: entrambi infatti sono stati o vengono pregati da altri (da Dante e da sant’Agostino).
L’ufficio di mediatrice svolto da Matelda sarà manifesto indizio della realtà storica della sua controversa figura.


Tab. VII [l’esame dettagliato della tabella è stato condotto altrove]

 

Purg. XXVIII, 58-59, 79-84; XXXI, 103-104; XXXII, 82-84; XXXIII, 118-121

e fece i prieghi miei esser contenti,
sì appressando sé ……………….

maravigliando tienvi alcun sospetto;
ma luce rende il salmo Delectasti,
che puote disnebbiar vostro intelletto.
E tu che se’ dinanzi e mi pregasti,
dì s’altro vuoli udir; ch’i’ venni presta
ad ogne tua question tanto che basti.

Indi mi tolse, e bagnato m’offerse
dentro a la danza de le quattro belle

tal torna’ io, e vidi quella pia
sovra me starsi che conducitrice

fu de’ miei passi lungo ’l fiume pria.

Per cotal priego detto mi fu: “Priega
Matelda
che ’l ti dica”. E qui rispuose,  119
come fa chi da colpa si dislega,
la bella donna …………………………………

Inf. XIII, 85-90

Perciò ricominciò: “Se l’om ti faccia
liberamente ciò che ’l tuo dir priega,
spirito incarcerato, ancor ti piaccia
di dirne come l’anima si lega

in questi nocchi; e dinne, se tu puoi,
s’alcuna mai di tai membra si spiega”.

Inf. XV, 31-36

E quelli: “O figliuol mio, non ti dispiaccia
se Brunetto Latino un poco teco

ritorna ’n dietro e lascia andar la traccia”.
I’ dissi lui: “Quanto posso, ven preco;
e se volete che con voi m’asseggia,
faròl, se piace a costui che vo seco”.

Inf. XXVI, 70-72; Par. XIV, 91-93

Ed elli a me: “La tua preghiera è degna
di molta loda, e io però l’accetto;
ma fa che la tua lingua si sostegna.”

E non er’ anco del mio petto essausto
l’ardor del sacrificio, ch’io conobbi
esso litare stato accetto e fausto

Inf. XXVIII, 89-90

poi farà sì, ch’al vento di Focara
non sarà lor mestier voto preco.

PurgXXX, 28-30, 100-102; XXXI, 112-114, 118-120, 124-126

così dentro una nuvola di fiori
che da le mani angeliche saliva
e ricadeva in giù dentro e di fori ……

Ella, pur ferma in su la detta coscia
del carro stando, a le sustanze pie
volse le sue parole così poscia

Così cantando cominciaro; e poi
al petto del grifon seco menarmi,
ove Beatrice stava volta a noi. ……
Mille disiri più che fiamma caldi
strinsermi li occhi a li occhi rilucenti,
che pur sopra ’l grifone stavan saldi. ……
Pensa, lettor, s’io mi maravigliava,
quando vedea la cosa in sé star queta,
e ne l’idolo suo si trasmutava.

Par. X, 118-120

Ne l’altra piccioletta luce ride
quello avvocato de’ tempi cristiani   119
del cui latino Augustin si provide.

[Ap 8, 3] “Et data sunt illi incensa multa”, id est orationes Deo delectabiles. Data quidem sunt ei ab ipsis orantibus, se et sua vota sibi tamquam nostro mediatori et advocato committentibus et per ipsum ea offerri Deo postulantibus.

Purg. VI, 25-42, 61-63, 67-68

Come libero fui da tutte quante
quell’ ombre che pregar pur ch’altri prieghi,
sì che s’avacci lor divenir sante,
io cominciai: “El par che tu mi nieghi,
o luce mia, espresso in alcun testo
che decreto del cielo orazion pieghi;
e questa gente prega pur di questo:
sarebbe dunque loro speme vana,
o non m’è ’l detto tuo ben manifesto?”.
Ed elli a me: “La mia scrittura è piana;
e la speranza di costor non falla,
se ben si guarda con la mente sana;
ché cima di giudicio non s’avvalla
perché foco d’amor compia in un punto

ciò che de’ sodisfar chi qui s’astalla;
e là dov’ io fermai cotesto punto,
non s’ammendava, per pregar, difetto,
perché ’l priego da Dio era disgiunto.

Venimmo a lei: o anima lombarda,
come ti stavi altera e disdegnosa
e nel mover de li occhi onesta e tarda!

Pur Virgilio si trasse a lei, pregando
che ne mostrasse la miglior salita

Par. III, 100-102

perché fino al morir si vegghi e dorma
con quello sposo ch’ogne voto accetta
che caritate a suo piacer conforma.

[LSA, cap. VIII, Ap 8, 3-5 (radix IIIe visionis)] “Et alius angelus” et cetera (Ap 8, 3). Angelus iste, qui obtulit omnium sanctorum incensum et sacrificium Deo Patri, est Christus sacerdos magnus et pontifex, qui tam natur[a] sue deitatis quam gratia singularis sanctitatis et dignitatis et auctoritatis est longe alius a septem angelis, id est ab universitate doctorum et sanctorum. Qui “venit”, per nature humane et mortalis assumptionem, “et stetit ante altare”, id est ante curiam seu hierarchiam celestem. Pro quanto enim, secundum carnis sue passibilitatem, minoratus est paulo minus ab angelis (cfr. Heb 2, 7; Ps 8, 6), habuit eos quasi ante se.
Vel, secundum Ricardum, altare hoc est eius humanitas, que nobis est altare in quo nostra vota et sacrificia offeruntur et fiunt acceptabilia Deo, de quo typice scriptum est: “Altare de terra”, scilicet humilis carnis Christi, “facietis michi” (Ex 20, 24). Stare autem pertinet ad deitatis Christi immutabilitatem, que “stetit”, id est immutabiliter permansit, “ante altare” sue humanitatis, quia sua humanitate prior et sublimior fuit*.
Vel, secundum Ioachim, hoc altare est parvus ille numerus sanctorum prophetarum et patrum qui ante Christi adventum collectus erat, super quibus vota et orationes iustorum oblate sunt quasi super altari, quia non solum passio Christi profuit nobis ad impetrandum misericordiam Dei, sed etiam fides et meritum precedentium sanctorum. Non quod non sufficiat ad omnia Christus, sed quia in opere pietatis vult sanctos patres habere consortes*.
Vel altare hoc est solida veritas fidei seu maiestas Dei, super quam nostra vota et sacrificia debent fundari et offerri. Ante hoc autem altare stat Christus in quantum homo, sicut pontifex se et nos super ipso oblaturus Deo, nec mireris si Deus gerit in se multas rationes, scilicet altaris et etiam eius cui offeruntur oblata super altare.
Sequitur (Ap 8, 3): “habens turibulum aureum in manu sua”, id est corpus suum purissimum omni gratia Deo gratum et incenso sacre et odorifere devotionis repletum. Secundum etiam Ricardum, hoc turibulum sunt sancti apostoli, qui ad electorum preces Deo offerenda[s] sunt principaliter constituti**.
“Et data sunt illi incensa multa”, id est orationes Deo delectabiles. Data quidem sunt ei ab ipsis orantibus, se et sua vota sibi tamquam nostro mediatori et advocato committentibus et per ipsum ea offerri Deo postulantibus.
Data etiam sunt sibi a Deo Patre, unde Iohannis XVII° dicit ipse Patri (Jo 17, 6/11): “Tui erant, et michi eos dedisti. Pater sancte, serva eos in nomine tuo, quos dedisti michi”. Et in Psalmo dicitur: “Ascendisti in altum” et “accepisti dona in hominibus” (Ps 67, 19). In quantum enim sumus membra eius, ipse acc[i]pit in nobis dona gratie que dantur nobis.
“Data”, inquam, “sunt” ei “ut daret de orationibus sanctorum omnium super altare aureum, quod est ante tronum Dei”, id est ut daret et offerret eas Deo super propriis meritis sue humanitatis, seu super fundamentali ara divine veritatis et maiestatis, seu super coadiunctis meritis angelice hierarchie vel sanctorum precedentium patrum.
“Et ascendit fumus incensorum” (Ap 8, 4), id est spiritualis fragrantia devotionum, “de orationibus sanctorum”, scilicet manans. Ascendit”, inquam, “de manu angeli coram Deo”, id est merito et intercessione Christi eas offerentis facte sunt acceptabiles Deo et acceptate sunt ab eo et etiam, cooperante influxu et ministerio gratie Christi in mente sanctorum, elevate sunt in altum usque ad Deum.
“Et accepit angelus turibulum” aureum (Ap 8, 5), id est in resurrectione resumpsit seu reunivit sue anime corpus suum, “et implevit illud de igne altaris”. Sicut in baptismo dicitur Spiritus Sanctus in specie columbe descendisse in e[um], quia tunc per illud signum innotuit quod Spiritus Sanctus erat singulariter in eo, et sicut post resurrectionem dicit: “Data est michi omnis potestas” (Mt 28, 18), quia tunc per gloriam resurrectionis innotuit quod omnem potestatem habebat et quia ex tunc erat congrue ordinata ad exequendum opera in eius ecclesia et in mundo fienda, sic tunc dicitur misisse ignem Spiritus Sancti in sua[m] humanitate[m], quando per gloriam resurrectionis et per effusionem Spiritus Sancti in apostolos evidenter apparuit ipsum esse plenum igne Spiritus Sancti. Altare autem, unde ignem illum accepit, fuit deitas. Vel prout per turib[u]lum intelligitur apostolicus cetus, quia sicut per auctoritatem apostolicam et per Spiritus Sancti gratiam eis copiosius datam fecit eos pontifices ad offerendum Deo electorum preces, sic eos ad zelum predicationis et inflammationis animarum accendit et ignivit et spiritali et ignita sapientia illustravit, quando de igne Spiritus Sancti, quo ipse erat fontaliter plenus, eos implevit. Et secundum hoc ipsemet est altare de quo ignem derivavit in illos, “et misit in terram”, scilicet per eos predicantes, et non solum per verba sed per miracula et per sanctitatis exempla et caritatis beneficia corda gentium inflammantes. Vel secundum primum modum, “misit in terram” quando in ipsos prius idiotas et animales Spiritum effudit, et per eorum ministerium in ceteros.

* In Ap III, i (PL 196, coll. 776 D-777 A).

* Expositio, pars III, f. [124]va-b.

** In Ap III, i (PL 196, col. 777 A).

[LSA, cap. IV, Ap 4, 3 (radix IIe visionis)] “Et qui sedebat, similis erat aspectui”, id est aspectibili seu visibili forme, “lapidis iaspidis et sardini” (Ap 4, 3). Lapidi dicitur similis, quia Deus est per naturam firmus et immutabilis et in sua iustitia solidus et stabilis, et firmiter regit et statuit omnia per potentiam infrangibilem proprie virtutis.

[LSA, cap. V, Ap 5, 8 (radix IIe visionis)] Phiale [igitur] iste sunt corda sanctorum per sapientiam lucida, per caritatem dilatata, et per contemplationem splendidam et flammeam aurea, et per devotarum orationum redundantiam odoramentis plena. Sicut enim odoramenta per ignem elicata sursum ascendunt totamque domum replent suo odore, sic devote orationes ad Dei presentiam ascendunt et pertingunt, eique suavissime placent et etiam toti curie celesti et subcelesti. Sicut [etiam] diffusio odoris spiratur invisibiliter ab odoramentis, sic devote affectiones orantium spirantur invisibiliter et latissime diffunduntur ad varias rationes dilecti et ad varias rationes sancti amoris, prout patet ex multiformi varietate sanctorum affectuum qui exprimuntur et exercentur in psalmis.

Purg. I, 31-33, 52-54, 70-93

vidi presso di me un veglio solo,
degno di tanta reverenza in vista,
che più non dee a padre alcun figliuolo.

Poscia rispuose lui: “Da me non venni:
donna scese del ciel, per li cui prieghi
de la mia compagnia costui sovvenni”.

“Or ti piaccia gradir la sua venuta:
libertà va cercando, ch’è sì cara,
come sa chi per lei vita rifiuta.
Tu ’l sai, ché non ti fu per lei amara
in Utica la morte, ove lasciasti
la vesta ch’al gran dì  sarà sì chiara.  16, 13-14
Non son li editti etterni per noi guasti,
ché questi vive e Minòs me non lega;
ma son del cerchio ove son li occhi casti
di Marzia tua, che ’n vista ancor ti priega,
o santo petto, che per tua la tegni:
per lo suo amore adunque a noi ti piega.
Lasciane andar per li tuoi sette regni;
grazie riporterò di te a lei,
se d’esser mentovato là giù degni”.
“Marzïa piacque tanto a li occhi miei
mentre ch’i’ fu’ di là”, diss’ elli allora,
“che quante grazie volse da me, fei.
Or che di là dal mal fiume dimora,
più muover non mi può, per quella legge
che fatta fu quando me n’usci’ fora.
Ma se donna del ciel ti move e regge,
come tu di’, non c’è mestier lusinghe:
bastisi ben che per lei mi richegge”.

Convivio, IV, xxviii, 17: E dice Marzia: «Dammi li patti delli antichi letti, dammi lo nome solo del maritaggio»; che è a dire che la nobile anima dice a Dio: ‘Dammi, Signor mio, omai lo riposo di te; dammi almeno che io in questa tanta vita sia chiamata tua’.

Par. XXIV, 28-33

“O santa suora mia che sì ne prieghe
divota
, per lo tuo ardente affetto
da quella bella spera mi disleghe”.

Poscia fermato, il foco benedetto
a la mia donna dirizzò lo spiro,
che favellò così com’ i’ ho detto.

[Ap 8, 3] “Et data sunt illi incensa multa”, id est orationes Deo delectabiles. Data quidem sunt ei ab ipsis orantibus, se et sua vota sibi tamquam nostro mediatori et advocato committentibus et per ipsum ea offerri Deo postulantibus.

Par. XXXI, 43-45, 94-96, 100-102

E quasi peregrin che si ricrea
nel tempio del suo voto riguardando,
e spera già ridir com’ ello stea

E ’l santo sene: “Acciò che tu assommi
perfettamente”,  disse, “il tuo cammino,
a che priego e amor santo mandommi …”

E la regina del cielo, ond’ ïo ardo
tutto d’amor, ne farà ogne grazia,
però ch’i’ sono il suo fedel Bernardo.

Par. XXXII, 1-3, 151; XXXIII, 22-42

Affetto al suo piacer, quel contemplante
libero officio di dottore assunse,

e cominciò queste parole sante:

E cominciò questa santa orazione:

“Or questi, che da l’infima lacuna
de l’universo infin qui ha vedute
le vite spiritali ad una ad una,
supplica a te, per grazia, di virtute
tanto, che possa con li occhi levarsi
più alto verso l’ultima salute.
E io, che mai per mio veder non arsi
più ch’i’ fo per lo suo, tutti miei prieghi
ti porgo
, e priego che non sieno scarsi,

perché tu ogne nube li disleghi
di sua mortalità co’ prieghi tuoi,
sì che ’l sommo piacer li si dispieghi.
Ancor ti priego, regina, che puoi
ciò che tu vuoli, che conservi sani,
dopo tanto veder, li affetti suoi.
Vinca tua guardia i movimenti umani:
vedi Beatrice con quanti beati
per li miei prieghi
  ti chiudon le mani!”.

Li occhi da Dio diletti e venerati,
fissi ne l’orator, ne dimostraro
quanto i devoti prieghi le son grati

[Ap 8, 3] Data etiam sunt sibi a Deo Patre, unde Iohannis XVII° dicit ipse Patri (Jo 17, 6/11): “Tui erant, et michi eos dedisti. Pater sancte, serva eos in nomine tuo, quos dedisti michi”. Et in Psalmo dicitur: “Ascendisti in altum” et “accepisti dona in hominibus” (Ps 67, 19). In quantum enim sumus membra eius, ipse acc[i]pit in nobis dona gratie que dantur nobis.

Inf. X, 22-24, 73-75, 94-96, 115-117

O Tosco che per la città del foco
vivo ten vai così parlando onesto,
piacciati di restare in questo loco.

Ma quell’ altro magnanimo, a cui posta
restato m’era, non mutò aspetto,
né mosse collo, né piegò sua costa

“Deh, se riposi mai vostra semenza”,
prega’ io lui, “solvetemi quel nodo
che qui ha ’nviluppata mia sentenza”.

E già ’l maestro mio mi richiamava;
per ch’i’ pregai lo spirto più avaccio
che mi dicesse chi con lu’ istava.

Par. XX, 49-54

E quel che segue in la circunferenza
di che ragiono, per l’arco superno,
morte indugiò per vera penitenza:
ora conosce che ’l giudicio etterno
non si trasmuta, quando degno preco
fa crastino là giù de l’odïerno.

Purg. II, 85-87

Soavemente disse ch’io posasse;
allor conobbi chi era, e pregai
che, per parlarmi, un poco s’arrestasse.

Purg. XI, 22-24

Quest’ ultima preghiera, segnor caro,
già non si fa per noi, ché non bisogna,
ma per color che dietro a noi  restaro.

 

 

Purg. XXX, 100-102

Ella, pur ferma in su la detta coscia
del carro stando, a le sustanze pie
volse le sue parole così poscia:

Purg
. XVI, 7-9, 16-18, 49-51

che l’occhio stare aperto non sofferse;
onde la scorta mia saputa e fida
mi s’accostò e l’omero m’offerse.

Io sentia voci, e ciascuna pareva
pregar per pace e per misericordia
l’Agnel di Dio che le peccata leva.

“Per montar sù dirittamente vai”.
Così rispuose, e soggiunse: “I’ ti prego
che per me prieghi
quando sù sarai”.

Purg. XXV, 28-33

Ma perché dentro a tuo voler t’adage,
ecco qui Stazio; e io lui chiamo e prego
che sia or sanator de le tue piage.

“Se la veduta etterna li dislego”,
rispuose Stazio, “là dove tu sie,
discolpi me non potert’ io far nego”.

Purg. XXVI, 46-53

l’una gente sen va, l’altra sen vene;
e tornan, lagrimando, a’ primi canti
e al gridar che più lor si convene;
e raccostansi a me, come davanti,
essi medesmi che m’avean pregato,
attenti ad ascoltar ne’ lor sembianti.
Io, che due volte avea visto lor grato,
incominciai: …………………………….. 

Purg. XXVII, 43-48

Ond’ ei crollò la fronte e disse: “Come!
volenci star di qua?”; indi sorrise
come al fanciul si fa ch’è vinto al pome.
Poi dentro al foco innanzi mi si mise,
pregando Stazio che venisse retro,
che pria per lunga strada ci divise.


8. La “religïone de la montagna”

Nell’esegesi dell’apertura del sesto sigillo (Ap 7, 3), Olivi chiarisce con dieci “rationes” per quale motivo, prima dello sterminio temporale della nuova Babilonia, la verità della vita evangelica debba essere solennemente impugnata e condannata dai reprobi e, per converso, debba essere più fervidamente difesa e osservata dagli uomini spirituali allora suscitati e più chiaramente compresa e predicata, perché appunto allora vi sia il solenne inizio della sesta apertura. Olivi, che pure ha udito da diversi testimoni fededegni che il santo padre Francesco più volte ha predetto questa tentazione, persino che debba essere malignamente e principalmente esercitata da quanti professano il suo stato, aggiunge qualche breve ragione.
La nona “ratio” è tratta dai semi di errori già piantati e radicati nella Chiesa. Infatti quasi tutti i chierici e i regolari che possiedono qualcosa in comune sembrano non sentire nulla della rinuncia evangelica ai beni comuni. Molti poi, pur optando per questa rinuncia – effettiva o apparente -, amano e stimano a tal punto la vita rilassata arrivando a sostenere che l’uso povero, o moderatamente ristretto, delle cose debba essere escluso dal voto di perfezione evangelica. Tutti costoro e altri ancora sembrano così ambire gli alti e opulenti offici ecclesiastici, sembrano così anelare a ottenere e procurare privilegi che dispensano dalle restrizioni regolari istituite all’inizio, che è veramente cieco chi non si accorge che da simile radice del serpe esce il basilisco che divora il volatile (cfr. Isaia 14, 29), cioè il volo della vita evangelica e di molti che volano con le sue ali.
I motivi della nona “ratio” – la vita rilassata e l’uso povero – sono appropriati, in modo ironico, a Belacqua, il pigro liutaio che siede lasso all’ombra di “un gran petrone”, anch’egli al rifugio di una pietra o di un sasso secondo quanto si verifica all’apertura del sesto sigillo (Ap 6, 15-16; Purg. IV, 97-135). La sua voce suona verso il poeta, angosciato dall’affannosa salita: “Forse / che di sedere in pria avrai distretta!”. Belacqua si presenta come una figura del quinto stato: appare dopo la faticosa ascesa al primo balzo (segnata dai temi del quarto stato, di cui è propria l’ardua vita degli anacoreti), sta seduto (al quinto stato appartiene il motivo della “sede” romana), è “lasso” e negligente (come il vescovo della chiesa di Sardi, ozioso e intorpidito: Ap 3, 3); l’angelo di Dio, che siede sulla porta del purgatorio, non lo lascerebbe andare ai tormenti poiché si è pentito solo in fin di vita (la porta del purgatorio, aperta a Dante, è segno del sesto stato: Ap 3, 8-9; il ritardare il pentimento in fin di vita è un altro motivo dell’istruzione alla quinta chiesa). La domanda di Dante – “ma dimmi: perché assiso / quiritto se’? attendi tu iscorta, / o pur lo modo usato t’ha’ ripriso?” – è una burlesca sul tema dell’usus pauper, come lo è la “distretta” di sedere insinuata da Belacqua nei confronti del poeta “lasso” per la salita (“in pria … distretta”, che nei versi significa ‘necessità’, corrisponde nel testo esegetico alle “regulares restrictiones primitus institutas”, cioè alla severità originaria della vita religiosa dalla quale i rilassati anelano a farsi dispensare).

 

Matelda è inviata a spiegare e a preparare Dante sulla “novella fede” – la “religïone de la montagna”, fondata sull’usus pauper, che non riceve alcuna alterazione esterna – ‘impugnata’ da qualcosa che appare diverso (la presenza del vento e dell’acqua nell’Eden), al modo con cui i futuri predicatori spirituali debbono essere preparati a subire le subdole tentazioni dell’Anticristo. Come da lei spiegato disnebbiando l’intelletto del poeta (cfr. Ap 5, 1; 16, 17), il vento che fa stormire le fronde della selva e l’acqua del Lete e dell’Eunoè non sono infatti generati da vapori terrestri o da precipitazioni atmosferiche (Purg. XXVIII, 103-133). Questo aspetto di Matelda, tutt’altro che secondario, avrebbe dovuto essere ben chiaro a uno Spirituale. Si tratta infatti di un preciso richiamo con inequivocabili parole-segni all’usus pauper, l’evangelico divieto di possedere beni mondani, grande tema dell’Olivi che Dante estende dall’Ordine francescano all’universale mondanità. Su questo punto, il discorso l’aveva cominciato Stazio, spiegando i motivi del terremoto che ha scosso la montagna, la cui “religione” non è mai “fuor d’usanza” (Purg. XXI, 40-45); lo continuerà Beatrice nel rimproverare Dante del suo errore, cioè del suo traviamento nelle virtù morali e intellettuali (Purg. XXX, 118-120, 127-129).
L’espressione “come tu se’ usa”, detta da Beatrice nei confronti di Matelda (Purg. XXXIII, 128), non è dunque da intendere nel senso che la donna dal nome misterioso sia sempre stata nell’Eden e svolga ivi i suoi uffici per ogni anima che ha scontato la pena (lo fa, quanto al bagno nel Lete, solo per Dante e non anche per Stazio). Ci si può invece chiedere se altra volta abbia ravvivato la “tramortita … virtù” del poeta e se, per questo, non sia da identificare con la “donna … santa e presta” che sveglia Dante dal vago sogno della “femmina balba” sulla soglia del quarto girone della montagna (Purg. XIX, 26). “Una donna”, “presta” appunto come Matelda, la quale, riassumendo i sette stati della Chiesa designati dai sette gironi della montagna, fa segno dell’unità della Chiesa ab initio saeculi, cioè dall’inizio della storia nel corso della quale si è sviluppata in ciclici settenari.

 

Tab. VIII

[LSA, cap. VII, Ap 7, 3 (IIa visio, apertio VIi sigilli)] Ex predictis autem patent alique rationes quare ante temporale exterminium nove Babilonis sit veritas evangelice vite a reprobis sollempniter impugnanda et condempnanda, et e contra a spiritalibus suscitandis ferventius defendenda et observanda et attentius et clarius intelligenda et predicanda, ut merito ibi sit quoddam sollempne initium sexte apertionis. Quamvis autem a pluribus fide dignis audiverim sanctum patrem nostrum Franciscum hanc temptationem pluries predixisse, et etiam quod per eius status professores esset malignius et principalius exercenda, nichilominus quasdam rationes breviter subinsinuo. […]

[nona ratio] Nona ratio sumitur ex errorum seminibus iam in ecclesia plantatis et radicatis. Nam fere omnes clerici et regulares possidentes aliquid in communi videntur minus bene sentire de evangelica abrenuntiatione huiuscemodi communium. Multi etiam, abrenuntiationem hanc secundum rem vel secundum apparentiam preferentes, sic amant et estimant laxam vitam quod usum pauperem seu moderate restrictum a voto perfectionis evangelice dicunt esse exclusum et etiam debere excludi. Omnes autem hii et alii sic videntur ambire prelationes ecclesie altas et opulentas, sicque anelare ad habenda et procuranda privilegia dispensative laxantia regulares restrictiones primitus institutas, quod cecus est qui non videt quod de tanta radice colubri egredietur regulus absorbens volucrem, id est volatum evangelice vite et plures volantes cum alis ipsius (cfr. Is 14, 29).

Purg. XXVIII, 85-87; XXXIII, 127-132

“L’acqua”, diss’ io, “e ’l suon de la foresta
impugnan dentro a me novella fede
di cosa ch’io udi’ contraria a questa”.

“Ma vedi Eünoè che là diriva:
menalo ad esso, e come tu se’ usa,
la tramortita sua virtù ravviva”.
Come anima gentil, che non fa scusa,
ma fa sua voglia de la voglia altrui
tosto che è per segno fuor dischiusa

Purg. XXX, 118-120, 127-129

Ma tanto più maligno e più silvestro
si fa ’l terren col mal seme e non cólto,
quant’ elli ha più di buon vigor terrestro.

Quando di carne a spirto era salita,
e bellezza e virtù cresciuta m’era,
fu’ io a lui men cara e men gradita

Purg. XXI, 40-45; XXII, 124-126

Quei cominciò: “Cosa non è che sanza
ordine senta la religïone
de la montagna, o che sia fuor d’usanza.
Libero è qui da ogne alterazione:
di quel che ’l ciel da sé in sé riceve
esser ci puote, e non d’altro, cagione”.

Così l’usanza fu lì nostra insegna,        7, 3-4
e prendemmo la via con men sospetto
per l’assentir di quell’ anima degna.

Purg. IV, 97-108, 121-126

E com’ elli ebbe sua parola detta,
una voce di presso sonò: “Forse
che di sedere in pria avrai distretta!”.
Al suon di lei ciascun di noi si torse,
e vedemmo a mancina un gran petrone,   6, 15-16
del qual né io né ei prima s’accorse.
Là ci traemmo; e ivi eran persone
che si stavano a l’ombra dietro al sasso
come l’uom per negghienza a star si pone.
E un di lor, che mi sembiava lasso,
sedeva e abbracciava le ginocchia,
tenendo ’l viso giù tra esse basso.

Li atti suoi pigri e le corte parole
mosser le labbra mie un poco a riso;
poi cominciai: “Belacqua, a me non dole
di te omai; ma dimmi: perché assiso
quiritto se’? attendi tu iscorta,
o pur lo modo usato t’ha’ ripriso?”.

 

Tab. VIII bis

[LSA, Ap 5, 1 (clausura VIIi sigilli)] Tertia ratio septem sigillorum quoad librum veteris testamenti sumitur ex septem apparenter in eius cortice apparentibus. […] Septimum est sensuum veteris scripture fluctuans volubilitas et involucrorum seu tegumentorum figuralium umbrositas et obscura multiformitas, unde e[s]t sicut mare procellosum et vertiginosum et voraginosum et quasi non habens fundamentum seu fundum. Est etiam sicut nubes densa et tetra, nuncque rubescens nunc vero pallescens, nunc virens nunc albens, et nunc in uno loco et nunc in alio. Hanc autem aperit intellectualis nuditas et simplicitas fidei et sapientie Christi, prout Apostolus IIa ad Corinthios III° docet. Hanc autem plenius aperiet Christus, cum implebitur illud quod sub sexto angelo tuba canente iurat et clamat angelus tenens librum apertum, scilicet quod “in diebus septimi angeli, cum ceperit tuba canere, consumabitur”, id est ad plenum implebitur et explicabitur, “misterium Dei sicut evangelizavit per servos suos prophetas” (Ap 10, 6-7). Tunc enim omnis litigatio et contradictio inter vetus et novum omnino silebit, prout notat apertio septima (cfr. Ap 8, 1).

Par. II, 106-111

Or, come ai colpi de li caldi rai
de la neve riman nudo il suggetto
e dal colore e dal freddo primai,
così rimaso te ne l’intelletto
voglio informar di luce sì vivace,
che ti tremolerà nel suo aspetto.

Purg. XXVIII, 80-81, 85-90

ma luce rende il salmo Delectasti,
che puote disnebbiar vostro intelletto.

“L’acqua”, diss’ io, “e ’l suon de la foresta
impugnan dentro a me novella fede
di cosa ch’io udi’ contraria a questa”.
Ond’ ella: “Io dicerò come procede
per sua cagion ciò ch’ammirar ti face,
e purgherò la nebbia che ti fiede”. 

[LSA, cap. XVI, Ap 16, 17 (Va visio, VIIa phiala)] Et sicut aer purgatus a grossis et fumosis vaporibus et nubibus et tranquillatus a ventorum tempestatibus est pervius radiis solis et stellarum et visui hominum, sic septimus status ecclesie, post plenam sui purgationem in effusione septime phiale consumandam, erit serenus et tranquillus et pervius seu perspicuus ad contemplativos radios solis eterni et totius celestis et subcelestis hierarchie, ita quod tunc totus cultus templi Dei et tota sedes et maiestas Dei clamabit magnifice et evidenter Dei opera esse consumata. Et hoc quidem in hac vita, sumendo statum septimum prout erit in hac vita.

 

9. La Gran Contessa francescana

Matelda è figura polisemica, cioè con più sensi, come afferma Dante stesso del suo “poema sacro” (Epistola XIII, 20 [7]). Le parole di cui sono contesti i versi che la riguardano esprimono nella lettera “il fascino della gioventù, della bellezza, dell’amore e del riso”, come voleva Benedetto Croce. Ma le stesse parole, nate dalla medesima ispirazione poetica, sono precisi segni mnemonici che avrebbero dovuto rinviare il lettore più esperto al contenuto del libro-vessillo di una riforma della Chiesa che mai avvenne, perché gli Spirituali francescani erano votati alla sconfitta e il loro libro, la Lectura super Apocalipsim, al nascondimento.
La parodia che operava nei versi una metamorfosi semantica di questo libro, prestando all’esegesi “e piedi e mano” con personaggi ed episodi, antichi e moderni, del mondo reale, aveva creato una figura la cui gioventù e bellezza,
vestita dei panni ovidiani di Proserpina e Flora [1], designava la condizione dell’uomo prima della colpa, l’antica età dell’oro sulla quale era scesa Astrea, la giustizia [2]. Fin qui il senso letterale.
Molteplici erano i significati spirituali. Matelda è attiva nell’Eden, figura in terra della Gerusalemme celeste con il suo fiume dalle due rive (l’umanità e la divinità di Cristo) e della verdeggiante sede divina circondata dall’iride. L’Eden stesso viene assimilato all’alta Grecia, e all’isola di Patmos, luogo eletto per la contemplazione, lontano dai turbamenti dei sensi. In esso Matelda designa la Chiesa, che riassume le singole sette chiese d’Asia (corrispondenti ai sette gironi della montagna); muove i passi in quanto pellegrina sulla via della patria celeste. Il nome stesso della bella donna si rispecchia nel Salmo 92, 4 – “
mirabiles elationes maris, mirabilis in altis Dominus”-, poiché fa segno del mirabile levarsi di Dio sopra il levarsi del mare, cioè delle turbolenze terrene, unitamente all’immagine di “Colui che dà”. Matelda canta i motivi della grazia, della pace, del dare, propri della salutazione dell’evangelista (Ap 1, 4). Per antonomasia raffigura la rimembranza di un “prima” dimenticato, cioè della prima grazia gratuitamente data e accettata per assenso, alla quale bisogna sempre porre mente facendo penitenza. Con questi temi è vestita la donna sia nell’apparire in quanto simbolo della bellezza primigenia sia quando poi svolge i suoi uffici che apparentemente la rendono un personaggio diverso, almeno in parte, dai primordi. Il suo operatocantare,  scegliere fior da fiore, mettere piede innanzi piede, trattare colore con le mani, salmodiare, ministrare con umiltà – corrisponde più alla vita attiva che alla contemplativa. Tuttavia, come Lia era illuminata da Citerea, così anche Matelda si scalda ai raggi d’amore. Fregiandosi dello “splendor faciei” di Cristo come sommo pastore (Ap 1, 16), splende ridendo con gli occhi della contemplazione assai più di quanto capitò a Venere trafitta per errore dal figlio Cupido. È “una donna” (la “mulier amicta sole” di Ap 12, 1) all’opposto della “femmina balba” resa confusa dall’intervento di “una donna … santa e presta”. Ancora svolge, come Cristo uomo, la funzione di mediatrice, avvocato e offerente alla quale vengono indirizzate preghiere (Ap 8, 3-4). È, infine, inviata a spiegare e a preparare Dante sulla “novella fede” – la “religïone de la montagna”, fondata sull’usus pauper, che non riceve alcuna alterazione esterna – ‘impugnata’ da qualcosa che appare diverso (la presenza del vento e dell’acqua nell’Eden), al modo con cui i futuri predicatori spirituali debbono essere preparati a subire le subdole tentazioni dell’Anticristo.
Di Matelda restò la figura dal misterioso senso letterale e si perdette il linguaggio spirituale. La stesura della Commedia coincise con la fine del millenarismo medievale e della storia della salvezza collettiva, rappresentata ancora dall’ultima opera dell’Olivi. Nell’“autunno del Medioevo” prevalsero gli “ideali laici della dignità dell’uomo, della potenza creativa dell’individuo, della cultura concepita come mezzo di perfezionamento spirituale, propri della nuova età del Rinascimento” [3].
Gravata di significati allotri e mitici, come doveva apparire al lettore più profondo, Matelda è davvero solo una figura di fantasia, priva di ogni legame con un personaggio storico? [4] Per lo studioso moderno si tratterebbe di un problema, perché unico caso nella Commedia.
Il nome era troppo importante, come avvertirono i primi commentatori. Se mai doveva designare qualcuno, non poteva trattarsi che della contessa Matilde.
Sostenitrice dell’identificazione Matelda / Matilde è stata, fin dal 1987, Claudia Villa. Analizzando l’immagine della Contessa presente ai contemporanei di Dante, la quale “con le sue  vicende politiche e la tradizione del suo speciale rapporto con il pontefice romano, fu […] persona assai familiare ai lettori del primo Trecento”; considerato che la sua leggenda venne alimentata, nei letterati fra XI e XII secolo, dal recupero di temi biblici come i due personaggi di Lia e Rachele simboli della vita attiva della “donna forte” e di quella contemplativa, personaggi presenti nel sogno dantesco che precede il “novo giorno” nel quale appaiono Matelda (Lia) e Beatrice (Rachele); sottolineato quanto nell’ambiente canossiano fosse apprezzata la sapienza salomonica dei Salmi e del Cantico dei Cantici, un aspetto consegnato al ricordo dell’età di Dante nelle “tradizioni, esili ma ben radicate nella regione del basso corso del Po, degli scritti prodotti per la ‘biblioteca’ della Gran Contessa, ancora consultabili all’inizio del Trecento”; ricordato che “l’immagine della Chiesa corrotta dalla simonia e dal concubinaggio, che si propone lucidamente nei canti del Paradiso terrestre”, fu “ossessione della società gregoriana”, la studiosa conclude:

Se gli ultimi canti del Purgatorio contribuiscono a fissare, con più ampia riflessione sulla storia della Chiesa, i temi condensati in Inf. XIX, là dove Dante, già piegatosi sui papi simoniaci – come il frate confessore presso un assassino – aveva rampognato, in prima persona, le azioni di Niccolò III, di Bonifacio VIII e di Clemente V, rei di aver reso puttana la sponsa Dei, ormai preda, in Purgatorio, del gigante monarchico, la presenza di Matilde / Matelda appare coerente con le funzioni esercitate in vita. […] Con il poeta, la Gran Contessa, che a Canossa rappacificò papa e imperatore, può riconoscere, nella processione e nei suoi esiti, la proiezione della storia della Chiesa nei suoi rapporti con la Monarchia, secondo il giudizio politico di Dante […] [5].

Un accorto lettore “spirituale”, con la chiave della Lectura super Apocalipsim, avrebbe potuto penetrare ogni parola relativa alla “bella donna” dell’Eden, con i suoi sensi mistici. In lei avrebbe riconosciuto l’immagine dell’alta Chiesa la quale, pellegrina in terra, assomma le singole chiese ad essa sottostanti; la figura della Chiesa nel suo bel principio di grazia donata, poi corrottosi, come l’uomo a causa del peccato. Emblema della vita attiva che si prepara alla contemplazione, Matelda opera con le mani, salmodiando e ministrando. Figura del Cristo uomo, riceve le preghiere, è avvocata e mediatrice. Chi altri, se non la Gran Contessa, sponsa Christi e altera Martha, mediatrice tra papato e impero, quel lettore avrebbe potuto accostare mentalmente al nome Matelda? Non l’avrebbe dunque intesa come astratta figura, come pura allegoria. Gli avrebbe ricordato la contessa Matilde, però nell’umile veste francescana con cui Salimbene aveva descritto Mabilia di Marchesopulo, moglie di Azzo VII d’Este, bella, saggia, pia, umile, pronta a dispensare ai poveri:

Domina Mabilia similiter mea devota fuit et omnium religiosorum et specialiter fratrum Minorum, cum quibus confitebatur et quorum ecclesiasticum offitium semper dicebat, et in quorum loco apud Ferrariam iuxta virum suum tumulata in pace quiescit. Multa bona fecit in vita sua et multas helemosinas in morte dispersit et dedit pauperibus de possessionibus quas dimiserat ei pater suus in villa Soragne. Septem annis habitavi Ferarie, ubi et ipsa similiter habitabat. Pulchra domina fuit, sapiens, clemens, benigna, curialis, honesta et pia, humilis, patiens et pacifica et semper Deo devota. Non erat avara de bonis suis, sed libenter pauperibus dabat. Habebat fornacem in palatio suo in loco secreto, ut vidi oculis meis, et ibi ipsamet faciebat aquam rosaceam et dabat infirmis. Et ex hoc medici, stationarii et apotecarii specierum minus diligebant eam. Sed nichil sibi cure erat de talibus, dummodo subveniret infirmis et conspectui placeret divino. Multis annis vixit cum viro suo et semper sterilis fuit. Post mortem vero viri sui fecit sibi fieri domum iuxta locum fratrum Minorum de Feraria et ibi in viduitate mansit, quousque in loco fratrum Minorum de Feraria iuxta virum suum, ut dictum est, fuit sepulta. Cuius anima per misericordiam Dei requiescat in pace, quia bona domina fuit. Verum post mortem marchionis venit Parmam, ut vidi, et habitavit iuxta maiorem ecclesiam, ut audivi ab ea, et mirabiliter erat ibi consolata, eo quod esset iuxta locum fratrum Minorum et iuxta ecclesiam Virginis Gloriose. Nunquam vidi dominam aliquam que ita michi representaret comitissam Matildim, sicut ista, secundum ea que de illa per scripturam cognovi [6].

Quel lettore non avrebbe pensato a qualcuna delle “fiorentinelle” (secondo l’espressione del Barbi) del tempo della Vita Nova o alle “monacelle” (per dirla col Parodi) sassoni (Matilde di Hackeborn, Matilde di Magdeburgo) [7], ma alla contessa “proba, savia e vertudiosa” come nella chiosa del Lana, alla “probissima mulier” come in Pietro di Dante e “liberalissima in amicos” come nell’elogio del Petrarca [8] citato da Benvenuto nel suo commento.

[1] Cfr. STEFANO CARRAI, Matelda, Proserpina e Flora, in Dante e l’Antico. L’emulazione dei classici nella «Commedia», Firenze 2012, pp. 99-117.

[2] Cfr. CHARLES S. SINGLETON, La poesia della Divina Commedia, trad. it., Bologna 1978, pp.  359-375.

[3] RAFFAELLO MORGHEN, Medioevo cristiano, Bari 19744, pp. 263-264.

[4] Così intende BERNHARD KÖNIG, Canto XXVIII, in Lectura Dantis Turicensis. Purgatorio, a cura di Georges Güntert e Michelangelo Picone, Firenze 2001, pp. 435-445: 438-439.

[5] Cfr. CLAUDIA VILLA, Matelda / Matilde: in favore della Gran Contessa (Purg. XXVIII), in La protervia di Beatrice. Studi per la Biblioteca di Dante, Firenze 2009, pp. 133-161: 140, 153, 157, 159-160.

[6] SALIMBENE DE ADAM, Cronica, ed. Giuseppe Scalia, I, Bari 1966 (Scrittori d’Italia), p. 546 [a. 1250, corsivo nostro].

[7] Cfr. BARBARA NEWMAN, The Seven Storey Mountain: Mechthild of Hackeborn and Dante’s Matelda, in “Dante Studies”, 136 (2018), pp. 62-92. Le somiglianze con Dante del Liber specialis gratiae sono esteriori: una montagna sormontata dall’Eden; sette gradi di purificazione dai vizi e di acquisizione di virtù; presenza di angeli; digressione intermedia nel corso dell’ascesa; accompagnamento delle anime; soprattutto, non si parla di ‘purgatorio’. Di Matilde, morta nel 1298, si ha forse la prima evidenza in Toscana, nei laudesi a Santa Maria Novella, con Boccaccio intorno al 1353; che Dante ne abbia sentito in un sermone a Roma è ipotesi non suffragata (p. 71). Dante scrive per un pubblico, diversificato che sia; si dovrebbe pensare che, se intendeva riferirsi alla mistica tedesca, qualcuno avrebbe dovuto pur comprendere, ma per qualsiasi tipo di pubblico il pensiero sarebbe andato alla Contessa.

[8] Familiares XXI, 8.

 

APPENDICE

Nelle tabelle che seguono sono stati raccolti alcuni esempi di variazione sul tema del “vagus”.

I. Una delle cause che rendono chiuso il sesto sigillo è lo straniarsi remoto e difforme da tutto ciò che è spirituale e deiforme, l’esser vago, l’alienarsi (ad Ap 5, 1). Per questo Cristo parla del giovane vago che se ne andò a perdersi in una regione lontana (Luca 15, 13), e degli erranti figli di Israele dice il profeta Isaia che “si sono volti indietro” (Is 1, 4), e nel Salmo è scritto: “Sui fiumi di Babilonia sedevamo piangendo, e ai salici sospendemmo le nostre cetre dicendo: come canteremo il cantico del Signore in una terra straniera?”, cioè in Babilonia (Ps 136, 1-4), e il profeta Baruc: “Perché, Israele, ti trovi nella terra dei nemici e sei invecchiata in una terra straniera?” (Bar 3, 10-11). All’aprirsi del sigillo, Babilonia, la sposa adultera che si era alienata da Cristo, viene scossa da un grande terremoto e dall’ira dell’Agnello, cui fa seguito la “signatio” della nuova milizia di Cristo.
La “femmina balba”, apparsa in sogno al poeta sulla soglia del quarto girone della montagna, si trasforma in “dolce serena” che col piacere del suo canto distoglie i naviganti dal loro cammino: “Io volsi Ulisse del suo cammin vago / al canto mio” (Purg. XIX, 22-23). L’aggettivo “vago” può essere variamente concordato (con Ulisse, nel senso di ‘desideroso di seguire il suo cammino’; con il cammino, nel senso di ‘errante’, oppure legato al canto che ‘invaghisce’); ha comunque un carattere che deriva dall’esegesi del sesto sigillo proposta in apertura del capitolo quinto: la difformità e il lontanissimo estraniarsi da ciò che è spirituale rendono chiuso il sigillo, onde Cristo parla del giovane vago (l’aggettivo non è del testo sacro) che se ne andò in una terra lontana (Lc 15, 13) e Isaia dei figli vaghi che si sono volti indietro (Is 1, 4). Dei temi da Ap 5, 1 sono presenti nei versi l’essere vago e il canto dal Salmo 136, 4 (il canto dell’esiliato in terra straniera), per cui è più probabile che Ulisse si sia volto dal suo cammino perché invaghito del canto della sirena. Ad Ulisse e ai suoi compagni, lontani da casa e “vecchi e tardi” (Inf. XXVI, 106), ben si addice anche l’apostrofe di Baruc 3, 10-11 rivolta a Israele che invecchia in terra straniera.
Nei versi 19, 21 di Purg. XIX e 143 del canto precedente sono presenti anche parole-chiave (“vaneggiai”, “dolce”, “piacere”) che rinviano all’esegesi morale della terza tromba (in fine del cap. XI). Dopo la sollecitudine per la propria vita (contro cui si appunta la seconda tromba), interviene la sollecitudine del sapere, che si vanifica nella curiosità e nell’errore: contro di essa risuona la terza tromba, sopra l’acqua della sapienza cui l’intelligenza si ribella divenendo come una stella cadente nell’errore, designato dalla terza parte delle acque. Buona e dolce è l’acqua della scienza che concerne ciò che è vero e ciò che è utile: la scienza speculativa delle cose divine e la prudenza che regge le azioni costituiscono le due parti buone delle acque. Ma l’eccesso di sollecitudine verso sé stessi provoca la caduta di persone sante, che pure apparivano lucenti come stelle e ardenti come fiaccole, nelle acque del piacere carnale, messo da parte il piacere delle cose divine e il piacere che deriva dalle virtù e dalle sante opere.
Il riferimento del capitolo XI alla “cura sciendi”, cioè alla sollecitudine che deriva dal desiderio di sapere, ma che poi diventa colpevole curiosità errante, potrebbe suggerire l’interpretazione per cui Ulisse, nel suo cammino “a divenir del mondo esperto / e de li vizi umani e del valore”, sia stato portato lontano e reso “vago” dal canto della sirena, che non è quella del racconto omerico e nemmeno Circe, ma l’ansia di sapere fine a sé stessa che spinge a varcare i limiti imposti da Dio alla conoscenza umana, la quale invece per quei tempi era aperta all’esperienza dei costumi umani, dei vizi e delle virtù, della quale Orazio rende modello il greco, e che avrebbe dovuto essergli sufficiente, mantenendolo nel campo dell’intelligenza morale, di “color che ragionando andaro al fondo” e lasciarono “moralità” al mondo (Purg. XVIII, 67-69).
Non diversamente la spada di Beatrice si appunta su Dante colpevole di aver ascoltato, errando, le sirene, mentre avrebbe dovuto muoversi “in contraria parte” (Purg. XXXI, 43-48). Uno “straniarsi” (la “semotissima extraneitas” da tutto ciò che è spirituale, ad Ap 5, 1) dalla sua donna che il poeta non ricorda più avendo bevuto l’acqua del Lete (Purg. XXXIII, 91-93; cfr., ai vv. 67-69, i signacula che rinviano all’esegesi della cura sciendi). È probabile che in entrambi i casi ad essere condannata, per quanto avvolta con reticenza in un comune riferimento ai beni terreni, sia la ragione (la filosofia) quando travalica i propri limiti. Se lo straniarsi appartiene alla Babilonia storica, non bisogna dimenticare che ciascuno di noi ha una propria Babilonia interiore che, come afferma Olivi, deve essere bruciata e uccisa per poter cantare alleluia ed entrare alle nozze dell’Agnello (Ap 19, 10). Il Salmo 136, 1-4 – “Sui fiumi di Babilonia sedevamo piangendo, e ai salici sospendemmo le nostre cetre (“organa”) dicendo: come canteremo il cantico del Signore in una terra straniera?” – si incarna in Dante stesso, nel momento del rimprovero di Beatrice; la sua virtù è confusa come in Babilonia e la voce (il canto) si spegne prima di uscire “dai suoi organi” (Purg. XXXI, 7-9).
Da notare come gli stessi temi siano appropriati all’allontanarsi dei Domenicani dai precetti del fondatore quali pecore remote e vagabonde (Par. XI, 124-129 con l’accostamento: difformitas, semotissima, vagus [Ap 5, 1] – diversi, remote, vagabunde; nel canto precedente la rima vagheggia / vaneggiavagus, evanescit [Ap 5, 1; cap. XI]).
Sulla soglia del quarto girone della montagna, i motivi del vaneggiare (vaneggiai) per la vaghezza fra i diversi pensieri sono premessa al momento dell’addormentarsi (Purg. XVIII, 139-145). Interviene qui il tema del torpore e del sonno, proprio della quinta chiesa d’Asia. Al vescovo di Sardi, così ozioso e intorpidito da non avere più in mente il suo primo stato di grazia, viene minacciato il repentino giudizio divino che verrà su di lui come un ladro, che arriva di nascosto all’improvviso, senza che si sappia l’ora della venuta (Ap 3, 2-3). Il torpore di cui è accusato il vescovo di Sardi è lo stesso di Dante, ignaro del suo essersi ritrovato nella selva oscura, descritto in apertura del poema: “Io non so ben ridir com’i’ v’intrai, / tant’ era pien di sonno a quel punto / che la verace via abbandonai” (Inf. I, 10-12; da notare al v. 125 l’aggettivo “ribellante” che Virgilio, simbolo dell’umana ragione, appropria a sé stesso: è metamorfosi dell’“intelligentia rebellans” al suono della terza tromba).
“Vago” è il poeta di percorrere la divina foresta dell’Eden (Purg. XXVIII, 1-2). Ma non si tratta di un cammino come quello da cui si volse Ulisse, “dove, per lui, perduto, a morir gissi” (Inf. XXVI, 84), né di uno smarrirsi nella selva (nonostante la simmetria tra “tanto, ch’io / non potea rivedere ond’ io mi ’ntrassi” e “Io non so ben ridir com’i’ v’intrai, / tant’ era pien di sonno a quel punto / che la verace via abbandonai”), perché, dopo aver visto “il temporal foco e l’etterno”, il suo arbitrio è “libero, dritto e sano” e può prendere per guida il proprio piacere (Purg. XXVII, 131), che non è più la “dulcis voluptas” delle cose mondane di cui era piena la “dolce serena” apparsagli nel secondo sogno fatto sulla montagna.
Il drago che nelle vicissitudini del carro-Chiesa se ne va “vago vago” (Purg. XXXII, 130-135) mostra anch’esso il tema dello straniarsi remoto e difforme da tutto ciò che è spirituale e deiforme, l’esser vago, l’alienarsi. Dopo le due discese dell’aquila (la prima delle quali corrisponde al secondo stato, dei martiri), intervallate dall’avvento di una volpe messa in fuga da Beatrice (terzo stato, dei dottori che confutano le eresie), apertasi la terra tra le due ruote del carro, il drago ne esce figgendo la coda su di esso e, ritraendola “come vespa che ritragge l’ago”, ne strappa e porta con sé una parte del fondo. Come già interpretarono i contemporanei di Dante, si tratta dei Saraceni, che a partire dal quarto stato occuparono in oriente molti territori dove prima fioriva la fede cristiana e in particolare la santa vita degli anacoreti. La bestia saracena, come si sostiene ad Ap 6, 3, è “diversa” dalle altre; così l’esser vago del drago allude alla legge di Maometto, contraria a Cristo più di quanto fossero la legge dei Giudei e quella dei Gentili, che poi sparirono e contro le quali si poteva argomentare con le nostre scritture. La “difformitas et semotissima extraneitas … ad omnia spiritualiora et deiformiora opposita” di Ap 5, 1 si congiunge con l’essere dissimile della quarta bestia, che corrisponde al cavallo pallido che si mostra all’apertura del quarto sigillo (Ap 6, 8), designante Maometto e la sua mortifera legge, motivo già utilizzato per la lupa. Anche i pensieri “diversi”, tra i quali vaneggia la mente del poeta tanto “che li occhi per vaghezza ricopersi, / e ’l pensamento in sogno trasmutai” (Purg. XVIII, 139-145), alludono alla quarta bestia dissimile; la “femmina balba” che viene in sogno è tessuta con i fili di Gezabele, la profetessa falsa e carnale come la legge di Maometto, descritta nell’istruzione a Tiatira, la quarta delle chiese d’Asia.
Tra le vicende allegoriche del carro, la meretrice che siede sopra di esso appare al poeta “con le ciglia intorno pronte”, e gli rivolge “l’occhio cupido e vagante” suscitando il sospetto e l’ira del gigante che vigila su di essa (la casa di Francia che vigila sul papato, Purg. XXXII, 148-160).

II. Il vagheggiare è connesso all’adolescenza, perché Cristo parla del giovane vago che andò a perdersi in una regione lontana (Luca 15, 13; ad Ap 5, 1). L’adolescenza è congiunta con l’errore: nel Notabile III del prologo si dice che lo zelo si appunta, nel terzo stato, “contra adolescentiam levem et in omnem ventum erroris agitatam”, dopo che nel primo ha contrastato la “fatua infantia” e nel secondo la “pueritia inexperta”. Ad Ap 6, 5 (apertura del terzo sigillo), colui che siede sopra il cavallo nero – designa gli imperatori o i vescovi ariani – ha in mano una bilancia. La stadera misura la quantità dei pesi, e sta ad indicare la misurazione degli articoli di fede. Quando la misurazione avviene secondo la retta e infallibile regola di Cristo, allora il peso è giusto; quando invece la misurazione si fonda sull’errore e sul falso e intorto accoglimento della Scrittura, allora la stadera è dolosa. Sono temi presenti nelle parole di Marco Lombardo, allorché dice dell’anima che esce dalle mani del Creatore, “a lui che la vagheggia / prima che sia, a guisa di fanciulla / che piangendo e ridendo pargoleggia”, la quale, “semplicetta che sa nulla”, s’inganna correndo dietro questo o quel bene materiale, se la legge non le ponesse un freno (Purg. XVI, 85-96; da notare l’uso del verbo torcere in senso positivo, all’opposto di Ap 6, 5). Sul vagheggiare da parte del Creatore è da considerare anche quanto dice Beatrice di Adamo a Par. XXVI, 82-84, dove intervengono temi dall’istruzione a Laodicea, la settima delle chiese d’Asia (Ap 3, 14).
Il terzo stato (i dottori) percorre con i suoi motivi l’intero terzo girone degli iracondi. I temi – che rappresentano il massimo sviluppo loro dato nella Commedia – occupano una vasta zona: affiorano già in Purg. XV, commisti nel passaggio dal secondo al terzo girone con quelli del secondo stato, e proseguono fino a Purg. XVIII, allorché nel quarto girone il riferimento astronomico ai versi 76-81 segna il pieno passaggio al quarto stato degli anacoreti (con temi provenienti dalla quarta tromba e dalla quarta chiesa).
I temi della fantasia e dell’errore, precipui della terza vittoria (che consiste nella vittoriosa ascesa al di sopra della fantasia che muove dal senso, causa di errore e di eresia; Ap 2, 17), emergono con evidenza. Cessate le visioni estatiche di mansuetudine, che precedono l’episodio di Marco Lombardo, il poeta, tornato con l’anima “a le cose che son fuor di lei vere”, riconosce che le cose da lui viste erano “non falsi errori”, errori in quanto non esistenti nella realtà, non falsi come esperienza di visione soggettiva (Purg. XV, 115-117).
Andando a ritroso nei versi, si registra un anticipo dell’anima “a guisa di fanciulla, / che piangendo e ridendo pargoleggia” (Purg. XVI, 85-87) nello scherzare del sole a guisa di fanciullo nelle prime tre ore del giorno, che è sviluppo della “pueritia inexperta” che il Notabile III del prologo assegna al secondo stato, quello dei martiri (Purg. XV, 1-6; tutto il secondo girone del Purgatorio registra la prevalenza dei temi del secondo stato). Oltre che riferimento astronomico alle oscillazioni del suo moto apparente fra i due tropici, sarà pertanto da intendere nel senso di un’allusione alla luminosità non ancora matura, “quae semper tremulat et est in motu, sicut puer ludendo” come lo intendeva Pietro di Dante, oppure che cresce via via fino al meriggio (che corrisponde alla maturità). Il tema della puerizia, congiunto con quello del combattimento, è nella visione estatica del martirio di santo Stefano, “un giovinetto … in tanta guerra”, che compare nel terzo girone del purgatorio tra gli esempi di mansuetudine (Purg. XV, 106-114).
Vagheggiare ed errore sono compresenti in principio di Par. VIII: Venere è “la stella / che ’l sol vagheggia or da coppa or da ciglio”, la quale “le genti antiche ne l’antico errore” onoravano insieme alla madre (Dione) e al figlio (Cupido, nel quale si annida il tema dell’adolescenza). Il sole che vagheggia la stella “or da coppa or da ciglio” (in simmetria con Dio che vagheggia l’anima “che piangendo e ridendo pargoleggia” a Purg. XVI, 85-87; cfr. Elice che vagheggia il figlio Arcade a Par. XXXI, 33, Eco vaga di Narciso a Par. XII, 14-15) può essere ricondotto a quanto, ancora ad Ap 5, 1, si dice sulla terza causa della chiusura dei sigilli determinata dal libro dell’Antico Testamento, che sul suo involucro mostra sette apparenze. La settima sta nella fluttuante volubilità della vecchia Scrittura (il tempo de “le genti antiche ne l’antico errore”), involuta nelle ombre oscure delle figure che la coprono, come un mare procelloso e vertiginoso la cui voragine non ha fondo, o come una nube densa e tetra che ora si tinge di rosso ora appare pallida o verde o bianca, ora in un luogo ora in un altro (la coppa o il ciglio di Venere). Questa oscurità viene aperta dal nudo intelletto e dalla semplicità della fede e della sapienza di Cristo, cosicché taccia ogni contraddizione o litigio tra Vecchio e Nuovo Testamento. È da notare che a Venere sono appropriati temi della quinta delle chiese d’Asia, Sardi, bella nel suo principio, allorché possedeva tutte le perfezioni stellari, poi corrottasi.
Altra variazione sui temi del vagheggiare e dell’errare è in Par. X. Il poeta invita il lettore a levare con lui lo sguardo “a l’alte rote” dei cieli, “dritto a quella parte / dove l’un moto e l’altro si percuote”, cioè agli equinozi, punti di incontro dei due opposti movimenti rotatori, quello diurno equatoriale di tutti i corpi celesti da est a ovest, e quello annuo zodiacale (o dell’eclittica) dei pianeti da ovest a est (vv. 7-9). L’arte del divino maestro, che ama la propria opera creata e che il lettore deve cominciare a “vagheggiar”, provvede alla sua conservazione. Così lo zodiaco, in cui si muovono le orbite del sole e degli altri pianeti, è “oblico”, ossia inclinato, rispetto al piano (il “dritto”) dell’equatore celeste di circa 23° e mezzo. Questa inclinazione dello zodiaco rispetto all’equatore viene incontro ai bisogni della vita sulla terra, essa è un giusto ‘torcersi’ dal “dritto”, secondo quanto esposto ad Ap 6, 5 sulla misura della retta o intorta interpretazione della Scrittura. Se infatti la strada percorsa dalle orbite dei pianeti, cioè lo zodiaco, “non fosse torta, / molta virtù nel ciel sarebbe in vano, / e quasi ogne potenza qua giù morta”; e se poi “dal dritto più o men lontano (cfr., ad Ap 5, 1, “dicitur … abisse in regionem longinquam”) / fosse ’l partire”, se cioè il divergere dello zodiaco dall’equatore fosse maggiore o minore di quello che è, ne conseguirebbero manchevolezze nell’ordine del mondo, in terra e in cielo, con grave alterazione dei climi (vv. 10-21). Questo torcersi obliquamente dei pianeti, che si allontanano dal dritto in modo equilibrato (tema della bilancia, da Ap 6, 5), avviene “per sodisfare al mondo che li chiama”, e corrisponde al ‘declinare’ della vita della grazia che condiscende verso le moltitudini dopo l’ardua e a lungo insostenibile vita solitaria degli anacoreti, che è tema proprio del quinto stato. Da notare, in Par. X, 26-27, l’appropriazione dei motivi (già utilizzati per i simoniaci!), ancora da Ap 6, 5, del ‘torcere’ e della ‘scrittura’ al poeta, che invita il lettore a cibarsi da solo della materia che gli ha messo innanzi, “ché a sé torce tutta la mia cura / quella materia ond’ io son fatto scriba”.
Al suonare dell’alto corno di Nembrot, il poeta crede di vedere “molte alte torri”, ma Virgilio gli
spiega, “acciò che ’l fatto men ti paia strano” che, poiché “’l senso s’inganna di lontano”, egli male discerne (“nel maginare abborri”) scambiando per torri quelli che sono giganti. Man mano che s’avvicina e vede meglio come per nebbia che si dissipa, in Dante fugge l’errore (il mettere in fuga la nebbia e l’errore è tema della terza vittoria: Ap 2, 17) e cresce la paura (Inf. XXXI, 19-39). “Lontano” rima con “strano”: entrambi i termini si trovano nell’esegesi ad Ap 5, 1, il cui tema principale, ora taciuto, è il vagheggiare. La stessa domanda di Dante – “Maestro, dì, che terra è questa?” – ricorda quella di Baruc 3, 10: “Quid est, Israel, quod in terra inimicorum es?”.
C’è anche un esser vago che non erra, ché anzi si giustifica per la verità. Bonagiunta da Lucca, che purga la gola nel sesto girone della montagna, è “anima … che par sì vaga / di parlar”, e se le parole su Gentucca, la donna che farà piacere Lucca al poeta fiorentino, insinuano “errore”, cioè il dubbio, questo verrà sciolto dai veri fatti (Purg. XXIV, 40-48). Piccarda è “l’ombra che parea più vaga / di ragionar”, e Beatrice invita l’amico a parlare, “ché la verace luce che le appaga / da sé non lascia lor torcer li piedi”, cioè non consente che errino (Par. III, 31-36).

III.  Il riferimento del Salmo 136, 4 al pianto dei figli d’Israele, vaghi nell’esilio (la citazione ad Ap 5, 1 è completata da quella ad Ap 14, 8) è nell’essere gli occhi del poeta vaghi di piangere di fronte alla “molta gente” e alle “diverse piaghe” della nona bolgia (Inf. XXIX, 1-3). “Diverse” è da intendere nel senso di ‘strane’ (Ap 5, 1) o ‘dissimili’ (Ap 6, 3), al modo della “sì diversa cennamella” usata da Barbariccia per dare un cenno di partenza alla schiera dei Malebranche (Inf. XXII, 9; nello stesso canto l’essere “invaghito” è appropriato a Calcabrina, v. 134). E veramente le piaghe inferte ai seminatori di scandalo e di scisma, rotti e tagliati nelle membra, li rendono lontanissimi dalla compiuta figura umana, che si realizza nel sesto stato, allorché si rinnova la vita evangelica e con essa l’uomo, fatto a immagine e somiglianza di Dio nel sesto giorno della creazione, assomiglia in modo più perfetto al suo esemplare. Nello stesso canto, la “vaghezza” è attribuita ad Albero da Siena, che mandò al rogo il suo familiare Griffolino d’Arezzo solo perché questi non gli insegnò come volare dopo essersi vantato di saperlo fare. Anche questa “vaghezza e senno poco” indica la lontananza da ciò che è deiforme, perché l’uomo creato nel sesto giorno è uomo razionale (il “senno poco” di Inf. XXIX, 114  corrisponde alla “mente torta” di Ecuba ad Inf. XXX, 21).
Il tema della difformità e dello straniarsi, unito a quello del pianto e del lamento (presente anche nella sesta coppa, ad Ap 16, 16, dove le lamentazioni di Geremia per la morte del re Giosia sono assimilate al pianto sulla morte di Cristo), risuona nei “lamenti in su li alberi strani” fatti dalle Arpie nella selva dei suicidi (Inf. XIII, 15). I “lamenti … strani” sottolineano anche qui la difformità rispetto a quanto è deiforme, perché l’anima feroce dei peccatori puniti in quella selva si è divisa essa stessa dal proprio corpo. Anche qui l’uomo razionale, creato nel sesto giorno assimilato al sesto stato, è stato offeso: “Uomini fummo, e or siam fatti sterpi”, dice Pier della Vigna (v. 37), mentre le “brutte Arpie” designano gli uccelli immondi creati nel quinto giorno assimilato al quinto stato, prima dell’uomo. Questi “lamenti strani” si accomunano alle “diverse piaghe” della nona bolgia, ed è contiguità non solo apparente, perché il confronto dei testi consente di affermare che suicidi e seminatori di scandalo e di scisma sono tessuti sulla stessa parte di panno, quella che riunisce i temi del terzo stato, proprio dei dottori che confutarono le eresie che divisero la Chiesa. Così, al termine del quarta zona dell’Inferno in cui i temi del terzo stato sono prevalenti (che comprende la nona bolgia, dove sono puniti i seminatori di scandalo e di scisma), il motivo dello straniarsi risuona ancora sulla soglia della successiva e ultima bolgia, dove sono puniti i falsari: “lamenti saettaron me diversi, / che di pietà ferrati avean li strali” (Inf. XXIX, 43-44), prima che la descrizione delle pene dia luogo ai temi del quarto stato.
Se i “lamenti … strani” sono all’opposto dell’umano e del razionale e rendono chiuso il sesto sigillo, la cui apertura è segnata dalla più chiara intelligenza della Scrittura e dalle maggiori illuminazioni spirituali, i “versi strani” di Inf. IX, 63 sono i più lontani da quell’intelligenza e da quelle illuminazioni, e per questo il poeta fa appello a coloro che hanno “li ’ntelletti sani” affinché mirino la dottrina di Cristo che si nasconde sotto il loro velame, che non è ancora tempo di aprire di fronte ai malvagi e agli indisposti. È da notare che ai “lamenti … diversi” di Inf. XXIX, 43 consegue una chiusura (“ond’ io li orecchi con le man copersi”), come i “versi strani” di Inf. IX, 63, i quali chiusi nascondono la dottrina di Cristo che solo quanti hanno “li ’ntelletti sani” possono scorgere, sono preceduti dalla chiusura, da parte di Virgilio, degli occhi di Dante alla venuta della Gorgone (vv. 59-60: “e non si tenne a le mie mani, / che con le sue ancor non mi chiudessi”).
Essere vago e piangere sono congiunti; il pianto è anche desiderio di apertura del libro, cosa che solo Cristo può fare. Così ad Ap 5, 4 Giovanni piange a nome di tutti i santi padri, che sospirano con desiderio, poiché non si trova alcuno degno di aprire il libro. Sono congiunti nell’esegesi anche l’essere vago e il sospendere. Nel cielo ottavo Beatrice attende l’arrivo delle schiere del trionfo di Cristo, rivolta verso il meridiano come l’uccello innanzi l’alba “previene il tempo in su aperta frasca, / e con ardente affetto il sole aspetta”. L’attendere è tema proprio del quinto sigillo (Ap 6, 11), l’aprirsi e l’alba sono motivi del sesto stato. La donna “stava eretta / e attenta” (sesta vittoria: Ap 3, 12), “sospesa e vaga” (motivi che segnano la chiusura del sesto sigillo; la vaghezza, qui come a Par. XXXI, 33, ha un valore positivo, sinonimo di desiderio), mentre anche il poeta si fa desideroso: “fecimi qual è quei che disïando / altro vorria, e sperando s’appaga” (Par. XXIII, 1-15). Da notare il valore ambiguo dell’essere “sospesi”, che da una parte indica il desiderio di qualcosa che non si ha, dall’altra lo stare assorti nella contemplazione, un’ambiguità di cui sono pregni “color che son sospesi” nel Limbo (cfr. Purg. X, 104;  XV, 84; XXVII, 106).
Desiderio ed esser vago sono appropriati  a Dante, bramoso di vedere attuffato nella palude Filippo Argenti (Inf. VIII, 52-57), anche se nel caso il tema del desiderio è da ricondurre al desiderio di vendetta dei santi all’apertura del quinto sigillo (Ap 6, 10) piuttosto che al desiderio di Giovanni da Ap 5, 4, o almeno è con questo contaminato.

 

Tab. App. I

Inf. XXVI, 83-84, 106-108

non vi movete; ma l’un di voi dica
dove, per lui, perduto a morir gissi.

Io e ’ compagni eravam vecchi e tardi
quando venimmo a quella foce stretta
dov’ Ercule segnò li suoi riguardi

 

Par. X, 91-96; XI, 124-129

Tu vuo’ saper di quai piante s’infiora
questa ghirlanda che ’ntorno vagheggia
la bella donna ch’al ciel t’avvalora.
Io fui de li agni de la santa greggia
che Domenico mena per cammino
u’ ben s’impingua se non si vaneggia.

Ma ’l suo pecuglio di nova vivanda
è fatto ghiotto, sì ch’esser non puote
che per diversi salti non si spanda;
e quanto le sue pecore remote
e vagabunde più da esso vanno,
più tornano a l’ovil di latte vòte.

[LSA, cap. V, Ap 5, 1 (VIum sigillum)] Prima (causa) est quia septem sunt defectus in nobis claudentes nobis intelligentiam huius libri. […] Sextus est ad omnia spiritualiora et deiformiora opposita difformitas et semotissima extraneitas, propter quod adolescens vagus dicitur a Christo abisse “in regionem longinquam” (Lc 15, 13), et de filiis vagis dicitur Isaie I° quod “[ab]alienati sunt retrorsum” (Is 1, 4), et in Psalmo dicitur: “Quomodo cantabimus canticum Domini in terra aliena?” (Ps 136, 4), scilicet in Babilone, que confusio interpretatur; et Baruch III° dicitur: “Quid est, Israel, quod in terra inimicorum es; inveterasti in terra aliena?” (Bar 3, 10-11).

Purg. XVIII, 139-145; XIX, 19-24

Poi quando fuor da noi tanto divise
quell’ ombre, che veder più non potiersi,
novo pensiero dentro a me si mise,
del qual più altri nacquero e diversi;
e tanto d’uno in altro vaneggiai,
che li occhi per vaghezza ricopersi,
e ’l pensamento in sogno trasmutai.   3, 2-3 

“Io son”, cantava, “io son dolce serena,
che ’ marinari in mezzo mar dismago;
tanto son di piacere a sentir piena!
Io volsi Ulisse del suo cammin vago
al canto mio; e qual meco s’ausa,
rado sen parte; sì tutto l’appago!”.

Purg. XXXIII, 67-72, 91-93

E se stati non fossero acqua d’Elsa
li pensier vani intorno a la tua mente,
e ’l piacer loro un Piramo a la gelsa,
per tante circostanze solamente
la giustizia di Dio, ne l’interdetto,
conosceresti a l’arbor moralmente.

Ond’ io rispuosi lei: “Non mi ricorda
ch’i’ stranïasse me già mai da voi,
né honne coscïenza che rimorda”.

Purg. XXVII, 130-132; XXVIII, 1-3, 22-24

Tratto t’ho qui con ingegno e con arte;
lo tuo piacere omai prendi per duce;
fuor se’ de l’erte vie, fuor se’ de l’arte.

Vago già di cercar dentro e dintorno
la divina foresta spessa e viva,
ch’a li occhi temperava il novo giorno

Già m’avean trasportato i lenti passi
dentro a la selva antica  tanto, ch’io   3, 2-3
non potea rivedere ond’ io mi ’ntrassi

[LSA, cap. XI (IIIa tubicinatio moraliter exposita)] Quia vero post curam proprie vite sequitur cura sciendi, que cum evanescit fit curiosa et erronea, ideo tertium tubicinium fit super aquas sapientie, cui intelligentia rebellans est quasi stella cadens in varios errores, qui sunt tertia pars aquarum. Dulcis enim et bona aqua scientie est de veris et utilibus, seu de prudentia regitiva actionum et de scientia speculativa divinorum, et hee partes aquarum sunt bone. Vel quia nimia cura sui facit etiam sanctos lucentes ut stellas et ardentes ut faculas cadere in aquas voluptatis carnalis, relicta duplici parte aquarum bonarum, scilicet voluptatis habite de Deo et voluptatis habite de gratiis et virtutibus et sanctis operibus Dei et sanctorum, idcirco tertium tubi-cinium est contra tertiam partem aquarum et pro promotione duarum.

Purg. XXXII, 130-135, 154-156

Poi parve a me che la terra s’aprisse
tr’ambo le ruote, e vidi uscirne un drago
che per lo carro sù la coda fisse;
e come vespa che ritragge l’ago,
a sé traendo la coda maligna,
trasse del fondo, e gissen vago vago.

Ma perché l’occhio cupido e vagante
a me rivolse, quel feroce drudo
la flagellò dal capo infin le piante

Inf. I, 10-12, 124-126

Io non so ben ridir com’ i’ v’intrai,
tant’ era pien di sonno a quel punto  3, 2-3
che la verace via abbandonai.

ché quello imperador che là sù regna,
perch’ i’ fu’ ribellante a la sua legge,
non vuol che ’n sua città per me si vegna.

 

 

[LSA, cap. VI, Ap 6, 3 (IIa visio, in apertione IIi sigilli)] Sicut etiam per equum pallidum, cuius sessor est mors, designatur Sarracenorum populus et eius propheta mortiferus, scilicet Mahomet, sic et per quartam bestiam dissimilem ceteris. Hec enim est dissimilis ceteris in tribus. Primo scilicet quia Iudeorum regnum et paganorum et hereticorum confluxerunt ad tempus cum fidelibus Christi et tandem disperierunt, sed bestia sarracenica surgens in quarto tempore confligit et perdurat in toto quinto et pertinget usque ad sectam Antichristi, propter quod hic dicitur quod “infernus”, id est infernalis secta Antichristi, “sequebatur eum”, scilicet equum pallidum et sessorem eius (Ap 6, 8).  Secundo est eis dissimilis quia prima tria regna non habuerunt novam legem contrariam Christo. Nam lex Iudeorum, scilicet lex vetus, non fuit realiter contraria Christo, immo potius eius, nec lex nova quam heretici fingunt se sequi. Pagani autem legem non habuerunt quasi a Deo datam, sed solum legem naturalem in civilibus civiliter explicatam. Sarraceni autem habent legem carnalem et falsam a Mahomet, quasi a Dei propheta, datam. Tertio est dissimilis quia contra istam non possunt fideles arguere per scripturas sacras sicut possunt contra Iudeos et contra hereticos, quia ista nostras scripturas non recipit, nec per rationem naturalem potest sic faciliter et evidenter convinci sicut poterat idolatria paganorum, quia isti non idola nec plures deos sed solum unum deum colunt. Et insuper sapientes eorum ab antiquo philosophicis vacant et specialiter philosophie Aristotelis, unde et christiani latini acceperunt ab eis comenta super libros Aristotelis et plura alia de scientia medicinali, et etiam de quadrivio et specialiter de astronomia, ita ut iam multa scripta theologorum latinorum sunt Sarracenorum auctoritatibus farcita et fedata, in quo satis est signum quod infernus sequatur sectam illam. Preterea bestia hec non sustinet fidem Christi inter eos predicari aut aliquid contra eorum legem dici, immo statim morte punitur. Non sic autem fuit in tribus primis.

 

Tab. App. II

[LSA, Ap 5, 1 (clausura VIIi sigilli)] Tertia ratio septem sigillorum quoad librum veteris testamenti sumitur ex septem apparenter in eius cortice apparentibus. […] Septimum est sensuum veteris scripture fluctuans volubilitas et involucrorum seu tegumentorum figuralium umbrositas et obscura multiformitas, unde e[s]t sicut mare procellosum et vertiginosum et voraginosum et quasi non habens fundamentum seu fundum. Est etiam sicut nubes densa et tetra, nuncque rubescens nunc vero pallescens, nunc virens nunc albens, et nunc in uno loco et nunc in alio. Hanc autem aperit intellectualis nuditas et simplicitas fidei et sapientie Christi, prout Apostolus IIa ad Corinthios III° docet. Hanc autem plenius aperiet Christus, cum implebitur illud quod sub sexto angelo tuba canente iurat et clamat angelus tenens librum apertum, scilicet quod “in diebus septimi angeli, cum ceperit tuba canere, consumabitur”, id est ad plenum implebitur et explicabitur, “misterium Dei sicut evangelizavit per servos suos prophetas” (Ap 10, 6-7). Tunc enim omnis litigatio et contradictio inter vetus et novum omnino silebit, prout notat apertio septima (cfr. Ap 8, 1).

Purg. XV, 1-6, 115-117; XVI, 85-93; Par. XXVI, 85-87

Quando tra l’ultimar de l’ora terza
e ’l principio del dì par de la spera
che sempre a guisa di fanciullo scherza,
tanto pareva già inver’ la sera
essere al sol del suo corso rimaso;
vespero là, e qui mezza notte era. ……
Quando l’anima mia tornò di fori
a le cose che son fuor di lei vere,
io riconobbi i miei non falsi errori.

Esce di mano a lui che la vagheggia
prima che sia, a guisa di fanciulla
che piangendo e ridendo pargoleggia,
l’anima semplicetta che sa nulla,
salvo che, mossa da lieto fattore,
volontier torna a ciò che la trastulla.
Di picciol bene in pria sente sapore;
quivi s’inganna, e dietro ad esso corre,
se guida o fren non torce suo amore.

E la mia donna: “Dentro da quei rai
vagheggia il suo fattor l’anima prima
che la prima virtù creasse mai”.

Par. VIII, 1-12

Solea creder lo mondo in suo periclo
che la bella Ciprigna il folle amore   3, 3
raggiasse, volta nel terzo epiciclo;
per che non pur a lei faceano onore
di sacrificio e di votivo grido
le genti antiche ne l’antico errore;
ma Dïone onoravano e Cupido,
quella per madre sua, questo per figlio,
e dicean ch’el sedette in grembo a Dido;
e da costei ond’ io principio piglio
pigliavano il vocabol de la stella
che ’l sol vagheggia or da coppa or da ciglio. 

Par. X, 7-21

Leva dunque, lettore, a l’alte rote
meco la vista, dritto a quella parte
dove l’un moto e l’altro si percuote;
e lì comincia a vagheggiar ne l’arte
di quel maestro che dentro a sé l’ama,
tanto che mai da lei l’occhio non parte.
Vedi come da indi si dirama
l’oblico cerchio che i pianeti porta,
per sodisfare al mondo che li chiama.
Che se la strada lor non fosse torta,
molta virtù nel ciel sarebbe in vano,
e quasi ogne potenza qua giù morta;
e se dal dritto più o men lontano
fosse ’l partire, assai sarebbe manco
e giù e sù de l’ordine mondano.

[LSA, cap. V, Ap 5, 1 (VIum sigillum)] Prima (causa) est quia septem sunt defectus in nobis claudentes nobis intelligentiam huius libri. […] Sextus est ad omnia spiritualiora et deiformiora opposita difformitas et semotissima extraneitas, propter quod adolescens vagus dicitur a Christo abisse “in regionem longinquam (Lc 15, 13), et de filiis vagis dicitur Isaie I° quod “[ab]alienati sunt retrorsum” (Is 1, 4), et in Psalmo dicitur: “Quomodo cantabimus canticum Domini in terra aliena?” (Ps 136, 4), scilicet in Babilone, que confusio interpretatur; et Baruch III° dicitur: “Quid est, Israel, quod in terra inimicorum es; inveterasti in terra aliena?” (Bar 3, 10-11).

[LSA, prologus, Notabile III] Item (zelus) est septiformis prout fertur contra quorundam ecclesie primitive fatuam infantiam (I), ac deinde contra pueritiam inexpertam (II), et tertio contra adolescentiam levem et in omnem ventum erroris agitatam (III), et quarto contra pertinaciam quasi in loco virilis et stabilis etatis se firmantem (IV), quinto contra senectutem remissam (V), sexto contra senium decrepitum ac frigidum [et] defluxum (VI), septimo contra mortis exitum desperatum et sui oblitum (VII).

[LSA, cap. VI, Ap 6, 5 (IIa visio, apertio IIIii sigilli)] “Et qui sedebat super eum”, scilicet imperatores et episcopi arriani, “habebat stateram in manu sua”. Cum statera mensuratur quantitas ponderum, et ideo per stateram designatur hic mensuratio articulorum fidei, que quando fit per rectam et infallibilem regulam Christi et scripturarum suarum est recta statera, de qua Proverbiorum XVI° dicitur: “Pondus et statera iudicia Domini sunt” (Pro 16, 11), et Ecclesiastici XXI°: “Verba prudentium statera ponderabuntur” (Ecli 21, 28); quando vero fit per rationem erroneam et per falsam et intortam acceptionem scripture est statera dolosa, de qua Proverbiorum XI° dicitur: “Statera dolosa abhominatio est apud Deum” (Pro 11, 1), et in Psalmo: “Mendaces filii hominum in stateris” (Ps 61, 10), et Michee VI°: “Numquid iustificabo stateram impiam et sac[c]elli pondera dolosa” (Mic 6, 11).

Purg. XXIV, 40-48

“O anima”, diss’ io, “che par sì vaga
di parlar meco, fa sì ch’io t’intenda,
e te e me col tuo parlare appaga”.
“Femmina è nata, e non porta ancor benda”,
cominciò el, “che ti farà piacere
la mia città, come ch’om la riprenda.
Tu te n’andrai con questo antivedere:
se nel mio mormorar prendesti errore,
dichiareranti ancor le cose vere”.

Par. III, 31-36

“Però parla con esse e odi e credi;
ché la verace luce che le appaga
da sé non lascia lor torcer li piedi”.
E io a l’ombra che parea più vaga
di ragionar, drizza’mi, e cominciai,
quasi com’ uom cui troppa voglia smaga:

Inf. XXXI, 19-33, 37-39                  

Poco portäi in là volta la testa,
che me parve veder molte alte torri;
ond’ io: “Maestro, dì, che terra è questa?”.
Ed elli a me: “Però che tu trascorri
per le tenebre troppo da la lungi,
avvien che poi nel maginare abborri.
Tu vedrai ben, se tu là ti congiungi,
quanto ’l senso s’inganna di lontano;
però alquanto più te stesso pungi”.
Poi caramente mi prese per mano
e disse: “Pria che noi siam più avanti,
acciò che ’l fatto men ti paia strano,
sappi che non son torri, ma giganti,
e son nel pozzo intorno da la ripa
da l’umbilico in giuso tutti quanti”.

così forando l’aura grossa e scura,
più e più appressando ver’ la sponda,
fuggiemi errore e cresciemi paura

 

Tab. App. III

Purg. XXXI, 7-9

Era la mia virtù tanto confusa,
che la voce si mosse, e pria si spense
che da li organi suoi fosse dischiusa.

[LSA, cap. XIV, Ap 14, 8 (IVa visio, VIum prelium)] Secundus autem angelus seu doctor predicat amotionem precipui impedimenti ad agendum predicta seu expeditionem intrinseci et domestici obstaculi. Predicat enim casum Babilonis, id est ecclesie carnalis, dicens: “Cecidit, cecidit Babilon illa magna” (Ap 14, 8).
Ecclesia carnalis ideo vocatur “Babilon” hic et infra XVII° et XVIII° (Ap 17, 5; 18, 2/10/21), et tam ibi quam capitulo XIX° vocatur ‘meretrix magna’ (Ap 17, 1; 19, 2), tum quia ordo virtutum est in ipsa per deordinationem vitiorum enormiter confusus (Babilon enim confusio interpretatur), tum quia in malo non solum intensive sed etiam extensive est magna, ita quod boni sic sunt in ea sicut pauca grana auri intra immensos acervos arene et sicut pauca grana tritici sub immenso cumulo palearum seu quisquiliarum vel scopiliarum; tum quia sicut filii Israel fuerunt in Babilone captivati et vehementer oppressi, ita et ut David prophetice dicat: “Super flumina Babilonis illic sedimus et flevimus”, et “in salicibus eius suspendimus organa nostra”, dicentes: “Quomodo cantabimus canticum Domini in terra aliena?” (Ps 136, 1-2, 4), sic spiritus iustorum huius temporis supra modum angustiatur et opprimitur a principatu et predominio et innumerabili multitudine ecclesie carnalis cui oportet eos velint nolint servire; tum quia publice et impudentissime adulteratur a suo sponso Christo, prout infra plenius tangetur.

[LSA, cap. V, Ap 5, 1 (VIum sigillum)] Prima (causa) est quia septem sunt defectus in nobis claudentes nobis intelligentiam huius libri. […] Sextus est ad omnia spiritualiora et deiformiora opposita difformitas et semotissima extraneitas, propter quod adolescens vagus dicitur a Christo abisse “in regionem longinquam” (Lc 15, 13), et de filiis vagis dicitur Isaie I° quod “[ab]alienati sunt retrorsum” (Is 1, 4), et in Psalmo dicitur: “Quomodo cantabimus canticum Domini in terra aliena?” (Ps 136, 4), scilicet in Babilone, que confusio interpretatur; et Baruch III° dicitur: “Quid est, Israel, quod in terra inimicorum es; inveterasti in terra aliena?” (Bar 3, 10-11).

[LSA, cap. V, Ap 5, 4 (radix IIe visionis)] Quartum est vehemens desiderium Iohannis de libri apertione grandi fletu ipsius ostensum, ibi: “Et ego flebam multum” (Ap 5, 4). […] Deinde subditur gemitus Iohannis procedens ex desiderio apertionis et ex visa impossibilitate et indignitate omnium ad ipsam complendam. Ait enim: “Et ego flebam multum, quoniam nemo dignus inventus est aperire librum nec videre illum”. Iohannes tenet hic typum omnium sanctorum patrum salvatorem et divine gratie et glorie promeritorem et impetratorem et largitorem desiderantium et pro eius dilatione et inaccessibilitate gementium. Hic autem gemitus pro tanto est in sanctis post Christi adventum pro quanto ad ipsum pro consumatione totius ecclesie et pro gratia et gloria per ipsum impetranda et largienda toto corde suspirant, et pro quanto cum humili gemitu recognoscunt nullum ad hoc fuisse potentem et dignum nisi solum Christum; potissime tamen designat cetum et statum contemplativorum, qui pre ceteris altius et viscerosius ad istud suspirant. […] Item fletus hic quantus fuit in sanctis patribus ante Christum; cum etiam essent in limbo inferni, quanto desiderio suspirabant ut liber vite aperiretur eis et omnibus cultoribus Dei!

[LSA, cap. IV, Ap 4, 7-8 (radix IIe visionis)] Dividit (Ioachim) enim viginti quattuor legiones in quattuor partes secundum quattuor animalia, ita ut in leone accipiamus fortes in fide, in vitulo autem robustos in patientia, in homine preditos scientia, in aquila contemplatione suspensos.

Inf. IV, 25-27, 40-45

Quivi, secondo che per ascoltare,
non avea pianto mai che di sospiri
che l’aura etterna facevan tremare

“Per tai difetti, non per altro rio,
semo perduti, e sol di tanto offesi
che sanza speme vivemo in disio”.
Gran duol mi prese al cor quando lo ’ntesi,
però che gente di molto valore
conobbi che ’n quel limbo eran sospesi.

Par
. XXIII, 13-15
                                  

sì che, veggendola io sospesa e vaga,   3, 12
fecimi qual è quei che disïando
altro vorria, e sperando s’appaga.

Par. XII, 10-15

Come si volgon per tenera nube
due archi paralelli e concolori,
quando Iunone a sua ancella iube,
nascendo di quel d’entro quel di fori,
a guisa del parlar di quella vaga
ch’amor consunse come sol vapori

Par. XXXI, 31-33

Se i barbari, venendo da tal plaga
che ciascun giorno d’Elice si cuopra,
rotante col suo figlio ond’ ella è vaga

Inf. VIII, 52-57

E io: “Maestro, molto sarei vago
di vederlo attuffare in questa broda
prima che noi uscissimo del lago”.
Ed elli a me: “Avante che la proda
ti si lasci veder, tu sarai sazio:
di tal disïo convien che tu goda”.

 

[LSA, cap. VI, Ap 6, 10 (apertio Vi sigilli)] “Et clamabant voce magna” (Ap 6, 10), id est eorum martiria evidentissime et vehementissime, secundum ordinem iustitie, apud Deum exigebant dampna-tionem malorum nolentium eos sequi;  vel, secun-dum absolutum ordinem divine iustitie, magno voto et desiderio hoc expetebant; “dicentes: Usquequo, Domine, sanctus et verus non iudicas et vindicas sanguinem nostrum de hiis qui habitant in terra?”, scilicet non solum per corporalem mansionem, sed etiam per terrenum amorem.

 

Tab. App. IV

[LSA, cap. V, Ap 5, 1 (VIum sigillum)] Prima (causa) est quia septem sunt defectus in nobis claudentes nobis intelligentiam huius libri. […] Sextus est ad omnia spiritualiora et deiformiora opposita difformitas et semotissima extraneitas, propter quod adolescens vagus dicitur a Christo abisse “in regionem longinquam” (Lc 15, 13), et de filiis vagis dicitur Isaie I° quod “[ab]alienati sunt retrorsum” (Is 1, 4), et in Psalmo dicitur: “Quomodo cantabimus canticum Domini in terra aliena?” (Ps 136, 4), scilicet in Babilone, que confusio interpretatur; et Baruch III° dicitur: “Quid est, Israel, quod in terra inimicorum es; inveterasti in terra aliena?” (Bar 3, 10-11).

Inf. IX, 58-63

Così disse ’l maestro; ed elli stessi
mi volse, e non si tenne a le mie mani,
che con le sue ancor non mi chiudessi.
O voi ch’avete li ’ntelletti sani,
mirate la dottrina che s’asconde
sotto ’l velame de li versi strani.

Inf
. XIII, 15

fanno lamenti in su li alberi strani

Inf. XXII, 9-11

e con cose nostrali e con istrane;
né già con sì diversa cennamella
cavalier vidi muover né pedoni

Inf. XXIX, 1-3, 43-45, 112-114

La molta gente e le diverse piaghe
avean le luci mie sì inebrïate,
che de lo stare a piangere eran vaghe.

lamenti saettaron me diversi,
che di pietà ferrati avean li strali;
ond’ io li orecchi con le man copersi.

Vero è ch’i’ dissi lui, parlando a gioco:
‘I’ mi saprei levar per l’aere a volo’;
e quei, ch’avea vaghezza e senno poco

[LSA, cap. XVI, Ap 16, 16 (Va visio, VIa phiala)] Vel forte scriptura sacra voluit hoc bellum assimilare illi bello in quo rex Iosias est in Magedon occisus, prout dicitur IIII° Regum XXIII° (4 Rg 23, 29) et II° Paralipomenon XXXV° (2 Par 35, 20-25), ubi et dicitur quod Ieremias cum tota Iudea et Iherusalem vehementissime planxit eum et fecit lamentationes super eum, cui quidem planctui assimilatur planctus mortis Christi a tribubus Israel convertendis fiendus, prout dicitur Zacharie XII° (Zac 12, 11-14). Et secundum hoc, [huic] nom[ini] Magedon, quod interpretatur temptatio, adiungitur ar, quod interpretatur suscitatio vel vigilie; vel her, quod interpretatur vigilans vel consurgens vel effusio, ut sic scriptura insinuet quod in magno prelio Antichristi et regum suorum re[nov]abitur magnus planctus crucis Christi et martirum eius, et consurget magna effusio temptationis in qua diabolus Antichristus cum suis attente pervigilabit.