A Matilde, Per, Even
Purgatorio XXVIII |
[3] = numero dei versi. 5, 1 = collegamento ipertestuale all’esegesi, nella Lectura di Olivi, di capitolo e versetto dell’Apocalisse [Ap]. Not. III = collegamento ipertestuale all’esegesi contenuta nei tredici notabilia del prologo della Lectura.Qui di seguito viene esposto Purgatorio XXVIII con i corrispondenti legami ipertestuali con i luoghi della Lectura super Apocalipsim ai quali i versi si riferiscono. L’intero poema è esposto nella Topografia spirituale della Commedia (PDF; introduzione in html). I colori seguono l’attribuzione ivi data a ogni singolo stato o gruppo di materia esegetica; nel testo riportato nelle tabelle, per maggiore evidenza, possono essere invece utilizzati in forma diversa. |
Vago già di cercar dentro e dintorno 5, 1 (VI sigillum); 4, 6
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Abbreviazioni e avvertenze
Ap : APOCALYPSIS IOHANNIS.
LSA : PIETRO DI GIOVANNI OLIVI, Lectura super Apocalipsim.
Concordia : JOACHIM VON FIORE, Concordia Novi ac Veteris Testamenti. Herausgegeben von A. PATSCHOVSKY, Wiesbaden 2017 (Monumenta Germaniae Historica. Quellen zur Geistesgeschichte des Mittelalters, 28. Band), Teil 2 (lib. I-IV), Teil 3 (lib. V).
Expositio : GIOACCHINO DA FIORE, Expositio in Apocalypsim, in Edibus Francisci Bindoni ac Maphei Pasini, Venetiis 1527, ristampa anastatica Minerva, Frankfurt a. M. 1964.
Olivi opera spesso una sintesi del testo di Gioacchino da Fiore. Le « » precedono e chiudono un’effettiva citazione. Diversamente, viene posto un asterisco (*) o una nota in apice al termine della parte riferibile a Gioacchino.
In Ap : RICCARDO DI SAN VITTORE, In Apocalypsim libri septem, PL 196, coll. 683-888.
Tutte le citazioni della Lectura super Apocalipsim presenti nei saggi o negli articoli pubblicati su questo sito sono tratte dalla trascrizione, corredata di note e indici, del ms. Paris, Bibliothèque nationale de France, lat. 713, a disposizione fin dal 2009 sul sito medesimo. I passi scritturali ai quali si riferisce l’esegesi sono in tondo compresi tra “ ”; per le fonti diverse da quelle indicate si rinvia all’edizione in rete. Non viene presa in considerazione l’edizione critica a cura di W. LEWIS (Franciscan Institute Publications, St. Bonaventure – New York, 2015) per le problematiche da essa poste, che sono discusse in A. FORNI – P. VIAN, A proposito dell’edizione di Warren Lewis della Lectura super Apocalipsim di Pietro di Giovanni Olivi. Alcune osservazioni, in “Archivum Franciscanum Historicum”, 109 (2016), pp. 99-161.
Il testo della Commedia citato è in Dante Alighieri, La Commedia secondo l’antica vulgata, a cura di G. PETROCCHI, Firenze 1994.
INDICE
1. L’edenica Gerusalemme celeste. 2. La verdeggiante sede divina. 3. L’alta Grecia. 4. Principio di bellezza. 5. Il “lume” di Venere. 6. Vita attiva e vita contemplativa. 7. Pia avvocata. 8. La “religïone de la montagna”. 9. La Gran Contessa francescana. Appendice.
Sottrarre Dante alla retorica scolastica equivale a rendere un servizio non da poco a tutta la cultura europea. Io spero che non occorreranno, per questo, fatiche secolari; eppure, solo mediante concordi sforzi che vadano oltre le singole nazioni, si riuscirà nell’impresa di creare un genuino anticommento al lavorio di generazioni e generazioni di scolastici, di striscianti filologi e di pseudobiografi. La mancanza di rispetto per una materia poetica che si lascia attingere soltanto attraverso l’atto dell’esecuzione, soltanto attraverso il volo del direttore d’orchestra – è stata questa, appunto, la causa della generale cecità nei confronti di Dante, sommo padrone e amministratore di tutta questa materia, sommo direttore d’orchestra dell’arte europea, che ha precorso di molti secoli la formazione di un’orchestra adeguata – a che cosa? – all’integrale della bacchetta del direttore d’orchestra …Osip Mandel’štam * |
Matelda, creatura di fantasia o personaggio storico? Chi o cosa significa il nome della “bella donna” che accompagna i passi di Dante nel paradiso terrestre? Può trattarsi della contessa Matilde, sostentatrice del patrimonium sancti Petri, considerata la netta posizione separatista fra Impero e Papato, quanto ai fini proposti all’uomo dalla Provvidenza, propugnata nella Monarchia? E se non lei, chi altri potrebbe essere? Scriveva Benedetto Croce, nel 1920, separando la poesia della figura femminile dalle allegorie con le quali viene gravata:
E qui accetteremo semplicemente quella ventina di terzine su Matelda come una delle molte – ma delle più belle – espressioni della vaghezza che trae l’uomo a comporre in immaginazione paesaggi incantevoli, animati da incantevoli figure femminili. Tanti di questi giardini, boschetti, selvette, pratelli e pastorelle e pulzellette belle e coglienti fiori e danzanti e cantanti si erano avuti anche di recente nella lirica provenzale e italiana; e Dante ripiglia il comune motivo e lo svolge, con gran diletto, in una nuova forma di squisita perfezione, in cui il fascino della gioventù, della bellezza, dell’amore e del riso si esalta in ogni immagine […]. Non c’è altro; perché già nella seconda parte del canto [Purg. XXVIII] Matelda compie ufficio d’informatrice […], e poi è chiamata ad altri gravi uffici, più o meno allegorici, che non hanno nulla da vedere con la ispirazione poetica ond’ella fu generata e apparve per la prima volta [1].
Lo stesso Croce, vent’anni dopo, avvertiva però il lettore di Dante di rendersi anzitutto familiare con “le linee fondamentali dell’edifizio medievale” e di vivere “dentro questa figurazione, grandiosamente conclusa in sé ma a noi per ogni verso estranea” [2]. Per vivere non da estraneo in quel grandioso edificio, e per far da guida agli altri, lo storico deve prima di tutto porsi dalla parte dei lettori di allora. La Commedia è libro scritto “dentro e fuori”, come tutta la Scrittura, come l’Apocalisse (Ap 5, 1: “Et vidi in dextera sedentis super thronum librum scriptum intus et foris”). L’intensa parodica elaborazione della Lectura super Apocalispim del francescano Pietro di Giovanni Olivi, condotta per tutto il “poema sacro”, consente oggi allo studioso di leggere i canti dell’Eden, nei quali opera Matelda, oltre il significato letterale, cogliendo quei significati allotri, che la lettera dei versi registra come variazioni continue su temi del commento apocalittico oliviano, indirizzati a un preciso gruppo di riformatori della Chiesa e predicatori, gli Spirituali francescani. Si potrà cogliere, almeno in parte, il volo del sommo direttore d’orchestra nell’atto dell’esecuzione.
* OSIP MANDEL’šTAM, Conversazione su Dante (1933), a cura di Remo Faccani, Genova 1994, pp. 147-148.
[1] BENEDETTO CROCE, La poesia di Dante, Bari 19527 [19201] (Scritti di storia letteraria e politica, XVII), pp. 121-122 [corsivo nostro].
[2] BENEDETTO CROCE, Due postille alla critica dantesca, in “La Critica. Rivista di Letteratura, Storia e Filosofia”, 39 (1941), pp. 133-141: p. 136.
Il medesimo “panno” della Lectura super Apocalipsim è servito, variando i temi, per cucire più parti della “gonna”. Per questo motivo, esaminando un canto della Commedia, si deve tornare su passi esegetici già considerati. Lo si farà anche in questo caso, riproponendo quando utile le tabelle pubblicate su questo sito in altra sede, oppure rinviando ad essa per maggiori approfondimenti. La figura di Matelda, già esaminata nel 2014, vien qui posta in nuova luce nel quadro di una lettura di Purgatorio XXVIII.
1. L’edenica Gerusalemme celeste
La città superna descritta nella settima visione apocalittica, “quella Roma onde Cristo è romano”, non è, come la Città del Sole di Campanella, una città ideale compiutamente terrena, magari posta al di là di Taprobane, a segnare un’esigenza di riforma politico-religiosa. Per Dante la città discende in terra, e in terra si frantuma in mille rivi. Chiunque vive, pellegrino, nell’“aiuola che ci fa tanto feroci” ne custodisce un pezzo, ne è fossato, muro, porta, angolo o misura, strada o casa; da virtuale cittadino della “vera città” contribuisce alla ricostruzione dell’edificio di Dio o di quello di Dite.
Il capitolo XXII dell’Apocalisse si apre con la visione del nobilissimo fiume che scorre nel mezzo della città celeste. È lo stesso Spirito Santo, ovvero la gloria che da Dio affluisce sui beati: fiume di acqua viva, o di vita eterna, da cui deriva tutta la sostanza della Trinità. Fiume di splendore e luce per sapienza, che ha due rive o due parti (destra e sinistra, superiore e inferiore), designanti le due nature, divina e umana, di Cristo-lignum vitae che dà perpetui frutti. Il lignum vitae, l’albero che sta nel mezzo, con le sue foglie getta un’ombra sacramentale, di verità superiori, su entrambe le rive, l’umana e la divina, perché non solo il cielo, ma anche la terra è ripiena della gloria di Dio.
L’esegesi di Ap 22, 1-2 offre una ricchezza tematica riaffiorante in numerosi luoghi della Commedia. Può inoltre essere considerata in collazione con altri passi del testo sacro, come Ap 21, 11 (la forma della città, ‘idea’ dello splendore divino) e Ap 21, 18.21.
■ Se riferita al fiume, l’esegesi conduce ai due fiumi dell’Eden (il Lete e l’Eunoè) che si dipartono da un’unica fontana, e al fiume di luce dell’Empireo (Ap 22, 1-2). Il tessuto dell’Eden è in parte segnato dai temi del fiume celeste, scomposti e assegnati a più immagini. Si dice in parte perché innumerevoli sono i segni che rinviano ad altri raggruppamenti tematici; qui se ne isola uno solo. Si noti la rima diriva / ravviva, per l’Eunoè (Purg. XXXIII, 127-129); ma viva è anche “la divina foresta”, in rima con riva intesa come margine in corrispondenza dell’ultimo gradino della scala (Purg. XXVIII, 1-3), quasi anticipazione della ripa verdeggiante e ombrata del Lete. Questo “rio, / che ’nver’ sinistra con sue picciole onde / piegava l’erba che ’n sua ripa uscìo” (vv. 25-27), la cui acqua toglie la memoria del peccato, costituisce la riva sinistra del fiume celeste, mentre l’Eunoè, il cui gusto “a tutti altri sapori … è di sopra” (v. 133), corrisponde all’altra riva, destra e superiore. Entrambi i fiumi nascono da un’unica sorgente, “al fin d’un’ombra smorta, / qual sotto foglie verdi e rami nigri / sovra suoi freddi rivi l’alpe porta” (Purg. XXXIII, 109-111). I signacula provengono tutti dalla medesima parte di esegesi, ma sono assegnati alcuni a un fiume altri all’altro, altri a entrambi: la ripa e la qualità di “fiume sacro” al Lete, il derivare e l’essere l’acqua viva all’Eunoè; è comune l’ombra delle foglie. Dalle singole parti così contrassegnate, come per sineddoche, l’esperto lettore può ricostruire il tutto, cioè la dottrina che proviene dall’esegesi del testo sacro. Certo questo ‘tutto’ egli già lo conosce in latino, ma è cosa diversa ritrovarselo in volgare, figurato in tante immagini, utile per l’edificazione personale e la predicazione.
Non sono solo i due fiumi dell’Eden ad essere fasciati dalla sacra pagina e dalla sua esposizione. Perfino Beatrice vi partecipa. Anche la donna ha due bellezze, gli occhi e la bocca. Alla prima si perviene con le virtù cardinali (le quali lì accompagnano Dante), ma si guarda nel suo profondo solo con le virtù teologali e per preghiera di queste, congiunta con la grazia gratuitamente data, si ottiene la seconda bellezza. Nel suo svelarsi, Beatrice è “isplendor di viva luce etterna” che sta fra cielo e terra, “là dove armonizzando il ciel t’adombra”. Per lei non si parla di ‘fiume’ o di ‘acqua’, ma assume alcune fondamentali prerogative di Cristo centro della Gerusalemme celeste, della sua irrigazione e dunque della storia umana (Purg. XXXI, 139-145). La donna ha anche nelle sue vesti una zona superiore (il velo candido, “sopra” il quale è “cinta d’uliva”) e una inferiore (“sotto verde manto”), cioè la veste rossa, indelebile memoria dell’umana Beatrice descritta con “vestimenta sanguigne” nella Vita Nova (1. 4, 15; 28. 1; Purg. XXX, 31-33). Il suo disvelarsi è una vera e propria messa in versi della parola “apocalisse”, rivelazione per grazia dell’arcano. L’ombra del velo verrà completamente tolta nella gloria di Cristo quando, nel sesto e nel settimo stato, la luce della luna sarà, come quella del sole, splendente della luce di sette giorni, secondo Isaia 30, 26 che è incipit della Lectura super Apocalipsim.
■ I due fiumi dell’Eden sono figura in terra dell’unico luminoso fiume dell’Empireo: “fulvido di fulgore, intra due rive / dipinte di mirabil primavera”, dal quale escono “faville vive”, è “onda / che si deriva” da Dio; ma il fiume, le faville (“li topazi / ch’entrano ed escono”) e il verdeggiante “rider de l’erbe” sono “umbriferi prefazi”, cioè ombra sacramentale del vero, adombranti il primo una forma circolare e non lineare, le seconde gli angeli, il terzo i beati (Par. XXX, 61 sgg.). Non è detto, ma è facile deduzione dal confronto con gli elementi semantici che segnano l’esegesi scritturale e i versi, che il fiume di luce, come linearmente appare al poeta che non ha “viste ancor tanto superbe”, designi nelle sue due rive la doppia natura di Cristo, umana e divina, volta verso la terra e il cielo. Ma sono entrambe rive di un unico fiume di “luce intellettüal, piena d’amore” (lo Spirito Santo: Dante ne beve l’acqua con gli occhi), per cui dalla Trinità deriva ai beati, ad essi comunicata, tutta la sostanza della grazia e della gloria. Sazietà ed ebbrezza sono alla porta meridionale della città, che apre l’ardente carità di Cristo (Ap 21, 13); le “faville vive” sono “come inebrïate da li odori”, è opportuno che Dante “si sazi” dell’acqua del fiume (vv. 67, 74).
“Li topazi / ch’entrano ed escono” rinviano ad altri luoghi dell’esegesi della Gerusalemme celeste. L’entrata e l’uscita dalla città è misuratamente regolato da un angelo con la canna d’oro (Ap 21, 15). Le fondamenta della città sono ornate con dodici pietre preziose: diaspro, zaffiro, calcedonio, smeraldo, sardonice, cornalina, crisòlito, berillo, topazio, crisopazio, giacinto, ametista (Ap 21, 19-20). Queste gemme sono virtù, le loro qualità sono variamente distribuite. Il topazio – che secondo Gregorio Magno deriva da “pan, quod est omne, pro eo quod omni colore resplendet” e designa la perfetta vita contemplativa – è impersonato in Cacciaguida (Par. XV, 85-86); pervade sia la scala d’oro vista nel cristallino cielo di Saturno (Par. XXI, 28-33) come il velo tanto ghiacciato di Cocito “che se Tambernicchi / vi fosse sù caduto, o Pietrapana (la Pania delle Alpi Apuane, in cui pan è come incastonato), / non avria pur da l’orlo fatto cricchi” (Inf. XXXII, 28-30).
■ All’estremo infernale dell’Empireo sta Cocito, nella cui Tolomea si registra uno stare dell’anima (superiore e ‘viva’) e del corpo (inferiore e terreno) distorto rispetto a quello di Cristo centro fra le due rive: ivi infatti i traditori degli ospiti stanno dannati con l’anima ancor prima della morte corporale, essendo il corpo governato da un demonio che lo fa apparire “vivo ancor di sopra” (Inf. XXXIII, 154-157).
Ma l’archetipo figurale del nobilissimo fiume di luce dell’Empireo è il “bel fiumicello” che ‘difende’ il “nobile castello” del Limbo (Inf. IV, 106-108) anch’esso, con gli “spiriti magni” che vi albergano, primo nucleo dell’edificio santo che tanto si svilupperà attraverso i sette stati della storia, antica e nuova.
■ In questa esegesi del fiume di una città immateriale, perché tale è la Gerusalemme celeste, Dante poteva specchiare quanto la sua mente aveva elaborato sulle due beatitudini, poste come fini all’uomo dalla Provvidenza: la beatitudine di questa vita (raffigurata nel paradiso terrestre), alla quale si perviene sotto il regime dell’imperatore, attraverso la filosofia e la pratica delle virtù morali e intellettuali; la beatitudine della vita eterna (consistente nella visione di Dio), alla quale si perviene tramite le virtù teologali e sotto la guida del romano pontefice (cfr. Monarchia, III, xv, 7-10). Entrambe le beatitudini, come le loro guide, discendono senza intermediari dall’unico Fonte dell’universale autorità (ibid., xv, 15). Corrispondono alle due rive, umana e divina, dell’unico fiume della grazia e della gloria, all’umanità e alla divinità di Cristo. Beatrice, figura di Cristo, è nell’Eden cerniera: gli occhi partecipano sia dell’una come dell’altra, la bocca svelata adombra la visione di Dio.
Nel “poema sacro / al quale ha posto mano e cielo e terra” (Par. XXV, 1-2; cfr. l’esegesi di Ap 10, 5-7, considerata altrove), per il quale la Grazia deriva da entrambe le rive dell’unico fiume celeste, l’esegesi di Ap 22, 1-2 torna con insistenza, e in modo insospettabile. Ad esempio, voto religioso e impero sono nel Paradiso trattati rispettivamente nei primi due cieli, entrambi, nelle “sacre bende” o nelle “sacre penne”, “ombra” sacramentale di verità superiori che discendono dal fiume luminoso dell’Empireo, che ha due rive, una divina e l’altra umana (cfr. Par. III, 114; VI, 7; “sacramento” è “sacro segno” ad Ap 1, 20 e 17, 7). C’è una ragione precisa del tanto spazio dato da Beatrice in Par. V alla questione dell’alienabilità dei voti. Alcuni fondamentali attributi del voto evangelico, così come delineati dall’Olivi, appaiono infatti applicabili anche alla Monarchia: la stabilità, l’immutabilità, l’indissolubilità, il divieto assoluto di alienazione. Così lo stato di altissima povertà, a causa dell’immutabilità del voto, produce su chi lo professa gli stessi effetti della giurisdizione del Monarca: il non poter desiderare di più, la rimozione della cupidigia, la carità, la pace.
Si direbbe che la stessa poesia derivi la sua linfa da quel fiume di grazia e di gloria (Ap 22, 1-2). Essa, nel descrivere il “regno santo”, è umbratile, sacramentale figurazione di verità superiori; si corona delle lauree foglie del “diletto legno” del “buono Appollo” utilizzando ambedue i gioghi di Parnaso, quello abitato dalle Muse e quello sede di Apollo, come su ambedue le rive, umana e divina, stanno le foglie di Cristo-lignum vitae con il loro sacro ombreggiare (Par. I, 16-18, 22-27).
Tab. I
Tab. I bis
Purg. XXXI, 1-3, 139-145“O tu che se’ di là dal fiume sacro”,
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Par. I, 16-18, 22-27Infino a qui l’un giogo di Parnaso
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[LSA, cap. XXII, Ap 22, 1-2 (VIIa visio)] “Et ostendit michi fluvium” (Ap 22, 1). Hic sub figura nobilissimi fluminis currentis per medium civitatis describit affluentiam glorie manantis a Deo in beatos. Fluvius enim iste procedens a “sede”, id est a maiestate “Dei et Agni”, est ipse Spiritus Sanctus et tota substantia gratie et glorie per quam et in qua tota substantia summe Trinitatis dirivatur seu communicatur omnibus sanctis et precipue beatis, que quidem ab Agno etiam secundum quod homo meritorie et dispensative procedit. Dicit autem “fluvium” propter copiositatem et continuitatem, et “aque” quia refrigerat et lavat et reficit, et “vive” quia, secundum Ricardum, numquam deficit sed semper fluit*. Quidam habent “vite”, quia vere est vite eterne. Dicit etiam “splendidum tamquam cristallum”, quia in eo est lux omnis et summe sapientie, et summa soliditas et perspicuitas quasi cristalli solidi et transparentis. Dicit etiam “in medio platee eius” (Ap 22, 2), id est in intimis cordium et in tota plateari latitudine et spatiositate ipsorum.
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Par. XXX, 61-66, 76-87e vidi lume in forma di rivera
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[LSA, cap. I, Ap 1, 20 (Ia visio)] Misterium dicitur omne signum figurale figurans aliquod grande secretum, et aliquando stat pro tali occulto significato.
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Inf. III, 21; VIII, 86-87mi mise dentro a le segrete coseE ’l savio mio maestro fece segno
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Par. VII, 55-57, 61-63Tu dici: “Ben discerno ciò ch’i’ odo;
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■ La città celeste, unita nei suoi cittadini, i quali ivi coabitano con Cristo che porge loro, stretti a Lui come in un tabernacolo, la beatitudine, è qualcosa di arduo a concepirsi, tanto che a Giovanni viene, ancora una volta (già ad Ap 1, 11 e 1, 19), ingiunto di scrivere, quasi a significare l’autenticità di quanto visto (Ap 21, 2-5).
Il tema del “tabernacolo” (Ap 21, 3), dell’eterna “societas seu cohabitatio” con Dio, che nella sua città comunica la propria presenza e beatitudine, è cantato da Beatrice, la quale nell’Eden promette al suo amico: “e sarai meco sanza fine cive / di quella Roma onde Cristo è romano” (cfr. l’esegesi di Ap 17, 18, nella quale la “Roma” di Cristo non sarà, dopo la morte dell’Anticristo, necessariamente coincidente con la Roma storica), ingiungendogli poi di scrivere le visioni delle vicissitudini del carro-Chiesa, come a Giovanni viene poco dopo (ad Ap 21, 5) ingiunto di scrivere in modo autentico e duraturo quanto visto (Purg. XXXII, 100-105). La patria celeste è chiamata “deserto”, sia perché vuota fino alla Redenzione, sia perché il “tabernacolo” era tipico del deserto attraversato dagli Ebrei, figura della Chiesa peregrinante. Nella Lectura “selva” equivale a “deserto” (cfr. Ap 12, 6), per cui Beatrice introduce con le parole: “Qui (cioè nell’Eden, “sì passeggiando l’alta selva vòta, / colpa di quella ch’al serpente crese” [Purg. XXXII, 31-32], che sta in terra, dove la Chiesa è ancora militante e peregrinante) sarai tu poco tempo silvano”. La selva dell’Eden, foresta fiorita e campagna santa (ad Ap 6, 2 Cristo esce “in campo” su un cavallo bianco), si oppone alla “selva selvaggia” che il poeta fugge all’inizio del poema (l’ostinata Giudea persecutrice di Cristo), mentre s’ingiglia il “deserto” dei Gentili, al quale la donna (la Chiesa) vola con le due ali di una grande aquila (Ap 12, 14).
Le qualità del tabernacolo, “quod non est ita magnum sicut urbs vel palatium”, sono proprie anche della “natural burella” – la caverna che Virgilio e Dante percorrono una volta lasciato Lucifero ed entrati nell’altro emisfero -: ivi, infatti, “non era camminata di palagio” (Inf. XXXIV, 97-99; cfr., in dissonanza, Purg. X, 67-69). Questa grotta, ora “loco vòto” come l’Eden, era prima riempito della terra che, per paura di Lucifero, “sù ricorse” a formare la montagna sulla cui cima sta appunto l’Eden (vv. 124-126). Il tabernacolo non è solo angusto, ma anche segregato e occulto; così, al termine della “natural burella”, inizia il “luogo … remoto … quel cammino ascoso” per il quale i due poeti escono “a riveder le stelle” (vv. 127-139).
La beatitudine, come affermato nell’esegesi di Ap 21, 3-5, consta di due parti. La prima consiste nell’avere ogni bene (lo stare con Cristo come in un tabernacolo), la seconda nella rimozione di ogni male. Tali sono le virtù dei due fiumi Lete ed Eunoè, i quali, come i paradisiaci “Ëufratès e Tigri”, escono nell’Eden “d’una fontana” la quale “versa da due parti aperta” l’acqua che discende dalla volontà divina. Alla seconda parte della beatitudine corrisponde l’acqua del primo fiume, il Lete, “che toglie altrui memoria del peccato”; alla prima parte l’acqua dell’Eunoè, che “d’ogne ben fatto la rende” (Purg. XXVIII, 121-133; XXXIII, 112-114).
Nel paradiso terrestre dantesco ci sono solo due fiumi (Eufrate e Tigri), anziché i quattro del Genesi (dove si aggiungono Tison e Geon). Quanto Dante trovava nella Consolatio di Boezio (V, carm. 1, vv. 3-4), sui due fiumi gemelli che scaturiscono da un’unica sorgente, concorda con l’esegesi del fiume luminoso dell’Empireo, dalle due rive, corrispondenti alla duplice natura, umana e divina, di Cristo.
Tab. I ter
[LSA, cap. XVII, Ap 17, 18 (VIa visio)] Deinde breviter insinuat que est hec mulier de qua et propter quam tanta dixit, unde subdit: “Et mulier, quam vidisti, est civitas magna, que habet regnum super reges terre”. Nimis constat quod Roma et gens Romanorum imperabat toti orbi tempore Iohannis et huius visionis, et etiam quod per totum tempus plenitudinis gentium usque ad Antichristum seu usque ad tempus istorum decem regum fixit Christus in ea principalem et universalem sedem et potestatem imperii sui super omnes ecclesias et super totum orbem. An autem post Antichristum hec urbs iterum reparetur, ut ibi usque ad finem seculi stet principalis sedes Christi sicut fuit a tempore Christi et citra, aut Christus post Antichristum reducat sedem suam ad locum unde manavit ad urbem Romam, puta in Iherusalem vel alibi, sue dispositioni est relinquendum. Neutrum enim horum potest certificari ex sacro textu nec ex aliquo certo et catholico dogmate fidei christiane. |
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Purg. XXXII, 100-106“Qui sarai tu poco tempo silvano;
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Purg. XXXII, 31-33Sì passeggiando l’alta selva vòta, 14, 2
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[LSA, cap. XXI, Ap 21, 2-5 (VIIa visio)] Secundo agit de gloria civitatis Dei, id est universitatis omnium electorum, cum subdit: “Et ego Iohannes vidi civitatem sanctam Iherusalem” (Ap 21, 2). Et in hac primo describit eius gloriam breviter, secundo describitur sibi per angelum plenius, ibi: “Et venit unus de septem angelis” (Ap 21, 9). […] Vocatur autem “civitas” (Ap 21, 2), quia ibi est mira unitas omnium sanctorum tamquam concivium. […]
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Inf. XXXIV, 97-99, 133-134Non era camminata di palagio
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2. La verdeggiante sede divina
La sede divina descritta nella seconda visione apocalittica – i cui temi sono appropriati agli “spiriti magni”, che stanno nel nobile castello del Limbo e riaffiorano nella visione finale della Trinità e dell’incarnazione – è circondata dall’iride, simile allo smeraldo, cioè alla gemma incomparabilmente più verde (Ap 4, 3). In essa il colore verde supera in intensità quello delle erbe e delle fronde e impregna l’aria ripercossa, riempie gli occhi al solo sguardo e non lo sazia, tanto è grazioso a vedersi. Per quanto il colore verde sia più appariscente e grazioso, l’iride ha vari colori, secondo la densità o rarità della nube acquosa percossa dai raggi del sole: nella densa è rosso, nella più densa ceruleo (verde e nero, è il colore del mare profondo) oppure di colore livido oppure purpureo (commisto di nero e rosso), nella densissima nero; nella rara verde, nella più rara croceo, nella rarissima bianco [1]. L’iride designa la grazia che preesiste causalmente ed esemplarmente in Dio e che si diffonde in giro a ornamento della sede della Chiesa celeste e subceleste: essa ha il colore della fiamma per la carità, il nero o il livido per l’umiltà, il verde per la sobrietà, il bianco per la chiarezza che proviene dalla sapienza.
Il tema dello smeraldo che impregna l’aria intorno di color verde fa parte della spiegazione che Matelda dà sull’origine del vento che spira nel paradiso terrestre (Purg. XXVIII, 103-120). L’aria si muove in cerchio con il Primo Mobile (la “prima volta”, che corrisponde all’essere “in circuitu”) e percuote l’alta selva (l’“alta eminentia” della sede: Ap 4, 2; cfr. infra) facendone stormire le fronde, cosicché le piante impregnano del loro seme l’aria che lo diffonde nell’altra terra, cioè nel mondo abitato dagli uomini, il quale, secondo disposizione, concepisce e produce da diversi semi diverse piante. Anche se nessun colore viene indicato, non è difficile scorgere in questo circuire dell’aria a percuotere la selva e nel suo secondo girare, impregnata di riflesso dai semi delle piante percosse che essa diffonde, un valore assai simile a quello dell’iride, multiforme grazia che preesiste in Dio causa ed esempio e da lui emana su tutta la sede celeste e subceleste attorno alla quale gira. Da notare che l’“aura dolce” spirante nell’Eden è “sanza mutamento / avere in sé” (vv. 7-8), come nella verdeggiante sede Dio appare in trono fermo e immutabile nella sua giustizia (Ap 4, 3).
Una variazione dei temi dell’iride è nella spiegazione che Stazio dà dei corpi aerei, per cui l’aria che circonda l’anima assume la figura in essa impressa dalla virtù formativa che raggia intorno, come l’aria pregna di umidità, riflettendo i raggi del sole, si adorna dei colori dell’iride (Purg. XXV, 88-96).
L’iride, del quale dice Matelda senza nominarlo, è esplicitato nel corso della successiva processione, allorché le sette fiammelle dei candelabri, quasi “tratti pennelli”, lasciano “dietro a sé l’aere dipinto … sì che lì sopra rimanea distinto / di sette liste, tutte in quei colori / onde fa l’arco il Sole e Delia il cinto”, colori che designano, come nell’esegesi della sede divina, i sette doni dello Spirito (Purg. XXIX, 73-78).
Sempre nel paradiso terrestre, di smeraldo sembrano fatte le carni e le ossa della speranza, seconda delle tre donne che vengono danzando dalla destra ruota del carro e che simboleggiano le virtù teologali (Purg. XXIX, 124-125). “Li smeraldi / ond’ Amor già ti trasse le sue armi” sono gli occhi di Beatrice, ai quali viene condotto il poeta dalle quattro virtù cardinali (Purg. XXXI, 115-117). In questo caso il significato dello smeraldo proprio dell’iride (il saziare lo sguardo con il grazioso verdeggiare) cede ai motivi che appartengono al diaspro, sia ad Ap 4, 3 (riferiti a colui che siede) come nei passi simmetrici ad Ap 21, 11-12 (riferiti al lume della Gerusalemme celeste descritta nella settima visione). Il diaspro incorpora in modo fermo e incancellabile, al modo di uno specchio, la luce, come la città celeste e i cuori dei beati incorporano la luce che è gloriosa forma e immagine di Dio (Ap 21, 11). Così gli “occhi rilucenti” di Beatrice stanno saldi sul grifone-Cristo che li irradia e lo riflettono “come in lo specchio il sol” (Purg. XXXI, 119-123). Il diaspro sta a indicare la solida virtù dei santi che difendono la Chiesa contro i nemici (sono il muro della città celeste, Ap 21, 12), ed è a questo tipo di armi, promotrici di virtù, che alludono gli strali di Amore.
Il colore livido della pietra compare nel secondo girone del purgatorio, dove gli invidiosi ‘siedono’ con manti anch’essi color pietra (il manto è tema della terza perfezione di Cristo come sommo pastore, Ap 1, 13). La durezza, che è motivo appropriato alla pietra (il tema presente ad Ap 4, 2), si stempera nella compassione del poeta allorché si rende conto della pena che li affligge (Purg. XIII, 8-9, 47-48, 52-54).
Nella bolgia dei ladri, “livido e nero (altro colore dell’iride) come gran di pepe” è il serpentello (Francesco dei Cavalcanti) che trafigge Buoso (Inf. XXV, 84).
I colori dell’iride si ritrovano pure nei tre gradini che precedono la porta del purgatorio: bianco il primo come marmo pulito e terso da specchiarvisi (cfr. Ap 21, 11), il secondo nero di pietra “ruvida e arsiccia”, di porfido fiammeggiante come sangue il terzo. L’angelo che siede “in su la soglia” sembrava a Dante “pietra di diamante”, come Colui che siede “quasi sub specie regis sedentis super solium” sembrava a Giovanni pietra di diaspro (Purg. IX, 94-105).
Tab. II
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Purg. XXV, 88-93Tosto che loco lì la circunscrive,
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[LSA, cap. IV, Ap 4, 2-4 (radix IIe visionis)] Dicit ergo (Ap 4, 2): “Et ecce sedes posita erat in celo, et supra sedem sedens”, scilicet erat. Deus enim Pater apparebat ei quasi sub specie regis sedentis super solium. […] “Et qui sedebat, similis erat aspectui”, id est aspectibili seu visibili forme, “lapidis iaspidis et sardini” (Ap 4, 3). Lapidi dicitur similis, quia Deus est per naturam firmus et immutabilis et in sua iustitia solidus et stabilis, et firmiter regit et statuit omnia per potentiam infrangibilem proprie virtutis.
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[LSA, cap. XXI, Ap 21, 11 (VIIa visio)] Formam autem tangit tam quoad eius splendorem quam quoad partium eius dispositionem et dimensionem, unde subdit: “a Deo habentem claritatem Dei” (Ap 21, 10-11). “Dei” dicit, quia est similis increate luci Dei tamquam imago et participatio eius. Dicit etiam “a Deo”, quia ab ipso datur et efficitur. Sicut enim ferrum in igne et sub igne et ab igne caloratur et ignis speciem sumit, non autem a se, sic et sancta ecclesia accipit a Deo “claritatem”, id est preclaram et gloriosam formam et imaginem Dei, quam et figuraliter specificat subdens: “Et lumen eius simile lapidi pretioso, tamquam lapidi iaspidis, sicut cristallum”. Lux gemmarum est eis firmissime et quasi indelebiliter incorporata, et est speculariter seu instar speculi polita et variis coloribus venustata et visui plurimum gratiosa. Iaspis vero est coloris viridis; color vero seu claritas cristalli est quasi similis lune seu aque congelate et perspicue. Sic etiam lux glorie et gratie est sensibus cordis intime et solide incorporata et variis virtutum coloribus adornata et divina munde et polite et speculariter representans et omnium virtutum temperie virens. Est etiam perspicua et transparens non cum fluxibili vanitate, sed cum solida et humili veritate. Obscuritas enim lune humilitatem celestium men-tium designat.
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[LSA, Ap 21, 12 (VIIa visio)] Dicit ergo: “Et habebat murum magnum et altum” (Ap 21, 12). Per magnum intelligit longum et latum, seu totum eius circuitum. Sicut autem murus opponitur exterioribus et defendit et abscondit interiora, sic sancti martires et zelativi doctores et pugiles, qui opposuerunt se hostibus et eorum impugnationibus in defensionem fidei et ecclesie, fuerunt murus ecclesie magnus et altus. Virtutes etiam hiis officiis dedicate sunt murus animarum sanctarum, qui quidem murus est ex lapide propter solidam virtutem sanctorum, et “ex lapide iaspide” (cfr. Ap 21, 18) propter virorem vive fidei, propter quam sunt zelati et passi et fortes effecti.
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Purg. IX, 94-105Là ne venimmo; e lo scaglion primaio
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Purg. XXIX, 34-35, 73-78, 121-132dinanzi a noi, tal quale un foco acceso,
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“Vago già di cercar dentro e dintorno / la divina foresta spessa e viva”
In mezzo e intorno alla sede Giovanni vede quattro animali, o meglio quattro esseri viventi, il primo simile a un leone, il secondo a un vitello (o bue), il terzo con l’aspetto di uomo e il quarto simile a un’aquila (Ap 4, 6-7). Si tratta dei quattro animali coronati di verde fronda che nella processione dell’Eden segnano lo spazio entro cui si contiene il carro (Purg. XXIX, 91-108). Questi animali sono presenti anche nella visione di Ezechiele, ma disposti con ordine diverso e diversi anche nel numero delle ali per il quale Dante, che ne assegna sei anziché quattro, è con l’autore dell’Apocalisse anziché con l’antico profeta (vv. 103-105).
Gli animali stanno “in mezzo e intorno alla sede”, nel senso che se si colloca un trono rotondo o quadrato sopra quattro animali, questi terranno verso l’interno il tergo e quasi tutto il corpo, in modo da toccare il centro; il capo e la faccia verso l’esterno, in modo da stare intorno, rispettivamente davanti, dietro, a destra e a sinistra.
Questi animali sono il muro che cinge e difende la Chiesa, per la quale si oppongono come pugili ai nemici esterni, e tuttavia sono sempre nel mezzo, cioè all’interno, perché intimi ad essa per la carità: tutta la Chiesa tende infatti ad essi come al centro. Sono nel mezzo a motivo del loro raccogliersi; sono intorno nel predicare e governare. Raggiungono il centro nel penetrare per quanto possibile l’intima maestà di Dio e nel quietarsi nel suo seno; stanno attorno per l’impossibilità di raggiungere l’immensa, incomprensibile e semplicissima luce, limitandosi solo al suo lato esterno, cingendo quanto è conoscibile all’intelletto creato.
Gli animali sono pieni d’occhi (che in Purg. XXIX, 95-96 vengono paragonati agli occhi di Argo): davanti (per la piena scienza del futuro, per la prudenza nell’agire, per lo sguardo diretto ai premi eterni) e dietro (per la scienza del passato, per il timorato considerare i giudizi divini, per il disprezzo delle cose temporali e caduche). Gli occhi designano anche (Ap 4, 8) lo sguardo perspicace e circospetto con cui scrutano l’esterno e l’interno di Dio, della Chiesa e della Scrittura. Stanno attorno circuendo per prevenire i nemici empi e le insidie diaboliche, come un leone si aggira in cerca di preda. Esaminano inoltre il proprio interno per correggere i difetti e ordinare i beni.
Invitato da Virgilio a seguire i dettami del proprio libero arbitrio (Purg. XXVII, 139-141), Dante è “vago” di esplorare “dentro e dintorno / la divina foresta spessa e viva” (XXVIII, 1-2). “Dentro” equivale, come si dice nell’esegesi, a stare “in mezzo” (intus in medio); per quanto inoltratosi nella selva tanto da non poterne rivedere l’ingresso (vv. 22-24), il poeta si troverà al centro solo dopo aver passato il Lete ed essere pervenuto all’“albero robusto”, pianta dispogliata che “poi si rinovella” (XXXII, 37-60). Il “lignum vitae” si trova infatti nel mezzo della Gerusalemme celeste, della quale l’Eden è proiezione in terra, fra le due rive, l’umana e la divina, del fiume luminoso che designa la grazia che procede dalla Trinità (Ap 22, 1-2).
Esempio di utilizzazione infernale dei temi della sede, i giganti stanno intorno al pozzo come le torri che coronano la cerchia tonda di Monteriggioni (Inf. XXXI, 40-45). La “cerchia tonda” del castello della Val d’Elsa, che “si corona”, è immagine che traduce i motivi dei quattro animali che stanno “in circuitu”, dell’alta eminenza della sede, dell’essere i seniori coronati (Ap 4, 4). Il torreggiare dei giganti “di mezza la persona”, poiché la ripa li cinge dal mezzo in giù facendogli da perizoma, mostrandone la parte dalla cintola in su, rende il motivo dei quattro animali che stanno “in mezzo e intorno”, cioè dentro e fuori. Il minacciare di Giove “del cielo ancora quando tuona” appartiene al gruppo tematico dei lampi, voci e tuoni che emanano dalla sede, considerato ad Ap 4, 5.
Il canto XIV del Paradiso si apre con l’immagine dell’acqua che in un vaso rotondo si muove dal centro alla circonferenza oppure da questa al centro, a seconda che il vaso venga percosso all’esterno o all’interno (vv. 1-3): tale immagine, che riprende il motivo degli animali “in medio et in circuitu sedis”, si presenta a Dante allorché, nel cielo del Sole, tace Tommaso d’Aquino e inizia a parlare Beatrice. Dante e Beatrice formano il centro attorno a cui sta la doppia cerchia dei beati sapienti, nella minore delle quali riluce l’Aquinate (cfr. Par. X, 64-66).
Il motivo del penetrare per quanto possibile nella luce divina passa nell’invito di san Bernardo, prima di rivolgere la preghiera alla Vergine, affinché Dante indirizzi gli occhi al primo amore (Par. XXXII, 142-144). L’espressione “tamquam eius intima pro posse penetrantes”, nel testo esegetico riferita ai quattro esseri viventi, viene appropriata a Dante con le parole di Bernardo “sì che, guardando verso lui, penètri / quant’ è possibil per lo suo fulgore” (vv. 142-145), mentre quanto segue sulla necessità di impetrare grazia “ne forse tu t’arretri, / movendo l’ali tue, credendo oltrarti” (vv. 145-147), può alludere ad altra prerogativa dei quattro esseri, cioè a non andare mai oltre le facoltà assegnate [2].
Tab. II bis
“la divina foresta spessa e viva, / ch’a li occhi temperava il novo giorno”
La selva dell’Eden “temperava” agli occhi la luce del “novo giorno” (Purg. XXVIII, 3). Anticipo della “temperanza di vapori” che permetterà all’occhio di sostenere a lungo “nel cominciar del giorno” la luce del sole al momento dell’apparizione di Beatrice (Purg. XXX, 22-28), il temperamento è proprio del quinto stato, allorché alla solare ma troppo ardua e rigida vita dei contemplativi anacoreti del quarto stato subentra un periodo aperto alla vita associata delle moltitudini, il quale “intendit fidei et eius scientie … contemperande, unicuique scilicet secundum suam proportionem” (prologo, Notabile III).
San Francesco viene assimilato all’angelo del capitolo X, che la faccia come il sole; nel suo discendere dal cielo è avvolto da una nube la quale designa, oltre che la povertà, la scienza delle Scritture. Come infatti la nube, sopra tra noi e il cielo, riceve i raggi del sole e ce li tempera, ed effonde moderatamente per la fruttificazione delle sementi le acque piovane che fecondano, così la Scrittura sarà spiritualmente nella carità e nella sapienza di Dio come il sole che irradia alla fine tutta la terra formando il giorno solare del terzo generale stato del mondo (Ap 10, 1). Così la piena conoscenza della Scrittura (il “novo giorno”) è temperato dalla selva acquosa (“l’acqua … e ’l suon de la foresta”: Purg. XXVIII, 85), e la faccia del sole nasce coperta d’ombra e temprata per vapori all’apparizione di Beatrice.
I temi del temperare e del variare (altro tema proprio del quinto stato, e precisamente della quinta chiesa; cfr. infra) sono insieme nel guardare all’ingiù dalla costellazione dei Gemelli, quando fra i sette pianeti il poeta vede Giove, la sesta stella “temprata” tra il freddo del padre Saturno e il caldo del figlio Marte e ha chiaro il “variare” delle loro posizioni (Par. XXII, 145-147).
Temperare (quinto stato) e suggellare (sesto; prologo, Notabile III) sono congiunti a Par. I, 40-42 con riferimento al sole; temperare (quinto stato) e discernere (terzo, ai dottori di questo periodo è appropriata la “discretio”) lo sono, nel medesimo canto (vv. 76-78), in relazione al provvedere divino. Il temperamento (di un’“angelica nota”) accompagna i passi verso l’“albero robusto” (i “passi” alludono ai patimenti), a Purg. XXXII, 31-33; dopo le parole di Cacciaguida Dante tempera l’acerbo del suo patire nel dover lasciare Firenze con il dolce della fama che gli viene riservata (Par. XVIII, 1-3).
Ad Ap 1, 14 i capelli di Cristo sono assimilati al candido biancore della neve, che lo sguardo non sopporta (la rigida giustizia; tema, a Par. XIV, 76-78 appropriato allo sfavillare dello Spirito Santo), e a quello della lana (la pietas che tempera). Il passo contiene temi soggetti a molteplici variazioni, dall’immagine del sole quando “i crin sotto l’Aquario tempra” in principio di Inf. XXIV al contrasto tra la “regalmente ne l’atto ancor proterva” Beatrice e le “dolci tempre” degli angeli che partecipano della tribolazione di Dante in Purg. XXX.
Tab. II ter
Par. I, 40-42, 76-78con miglior corso e con migliore stella
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[LSA, prologus, Notabile III] De tertio etiam patet. Nam magistralis tuba seu expositio intendit fidei et eius scientie seminande (I), et deinde radicande seu roborande (II), deinde explicande (III), deinde amplexande (IV), deinde contemperande, uni-cuique scilicet secundum suam proportionem (V); intendit etiam finaliter eam imprimere et sigillare (VI) et tandem glorificare seu glorificatam exhibere (VII). Et patet correspondentia primi ad primum statum et secundi ad secundum et sic de aliis. |
[LSA, cap. X, Ap 10, 1 (IIIa visio, VIa tuba)] Sicut enim nubes est supra inter nos et celum suscipiens solis radios et contemperans nobis eos, et est purgans aquis pluvialibus et fecundis ipsasque ad fructificationem terre nascentium moderate effun-dens, sic est hec scriptura sacra spiritualiter; in caritate etiam et sapientia Dei erit ut sol ad irradiandum finaliter totum orbem et ad formandum solarem diem tertii generalis status mundi. |
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Par. XIV, 76-78Oh vero sfavillar del Santo Spiro!
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Par. XVIII, 1-3, 64-69; XXII, 145-147Già si godeva solo del suo verbo
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[LSA, cap. I, Ap 1, 14 (Ia visio, radix)] Quarta est reverenda et preclara sapientie et consilii maturitas per senilem et gloriosam canitiem capitis et crinium designata, unde subdit: “caput autem eius et capilli erant candidi tamquam lana alba et tamquam nix” (Ap 1, 14). Per caput vertex mentis et sapientie, per capillos autem multitudo et ornatus subtilissimorum et spiritualissimorum cogitatuum et affectuum seu plenitudo donorum Spiritus Sancti verticem mentis adornantium designatur.
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Ad Ap 15, 8 si afferma che il “tempio”, cioè la comprensione spirituale della Scrittura, viene progressivamente aperto. Molte sono infatti le illuminazioni che segnano la storia della Chiesa. La possibilità che alcuni santi possano comunque entrare nel tempio, al termine dei gradi di purgazione, senza aspettare temporalmente il settimo tempo della Chiesa, perché questo è in essi virtualmente o spiritualmente compiuto come se avessero raggiunto il tempo e le opere del settimo stato, è appropriata a Dante, al quale Virgilio ha detto sulla soglia dell’Eden: “Non aspettar mio dir più né mio cenno; / libero, dritto e sano è tuo arbitrio”, ormai compiutamente signore di se stesso e perciò procede lentamente per “la campagna” (Purg. XXVII, 139-142; XXVIII, 4). Per lui l’Apocalisse è consumata.
All’“aura dolce” che le colpisce come soave vento, le fronde della foresta spessa e viva dell’Eden piegano pronte tremolando verso ponente, ma nel far ciò non si discostano troppo dalla loro normale posizione (“dal loro esser dritto”, tema della retta misura da Ap 6, 5; cfr. l’uso di questo tema nella terza bolgia) così da dar modo agli “augelletti per le cime … d’operare ogne lor arte” (Purg. XXVIII, 7-15). In questo concordare gli atti in modo proporzionato (cfr. Ap 14, 2), gli uccelli “con piena letizia l’ore prime, / cantando, ricevieno intra le foglie, / che tenevan bordone a le sue rime” (vv. 16-18).
È da notare come agli uccelli venga attribuito sia l’operare come il ricevere, qualità che rimandano alla distinzione tra il “pati seu recipere”, proprio del sesto stato, e l’“agere vel dare” proprio degli stati precedenti, e soprattutto del quarto (ad Ap 3, 7). “L’ore prime” introducono il tema dell’angelo del sesto sigillo, che sale al mattino da oriente (Ap 7, 2; cfr. Inf. I, 37-40; Par. X, 139-141).
Il raccogliersi dello stormire delle fronde, che tengono “bordone” al canto degli uccelli, paragonato a quello che si forma “per la pineta in su ’l lito di Chiassi, / quand’ Ëolo scilocco fuor discioglie” (Purg. XXVIII, 19-21), può essere ricondotto alla tematica del raccogliere la Chiesa nella sede romana, operato da Carlo Magno, nel quinto stato dopo le devastazioni saracene in oriente, una Chiesa già dispersa nel tempo dei martiri (secondo stato) e riunita da Costantino (terzo). Si può anche richiamare il tema del raccogliersi della Gerusalemme celeste, o dei collegi e dei monasteri di vita spirituale ed evangelica, al talamo e all’amplesso contemplativo di Cristo (Ap 20, 8).
Le foglie le quali, accompagnando il canto degli uccelli, tengono “bordone” (una canna che con suono basso e uguale accompagnava il canto liturgico), sembrano rinviare all’angelo che con la canna d’oro misura la Gerusalemme celeste, designante i dottori dotati della sapienza della Scrittura, i quali umilmente insegnano con il suono della predicazione (Ap 22, 15).
Lo scirocco è vento che proviene da sud, e dei quattro venti di cui ad Ap 7, 1, interpretati come le quattro ispirazioni dello Spirito Santo, il quarto viene dal meriggio della carità e della gloria di Cristo a noi promessa. È lo stesso vento, che spira “la terra che perde ombra”, al cui caldo soffiare è paragonato lo sciogliersi in spirito e acqua, al dolce canto dei pii angeli, il gelo stretto intorno al cuore di Dante dopo i rimproveri di Beatrice (Purg. XXX, 85-99).
Tab. II quater (Nota esplicativa)
[LSA, cap. XII, Ap 12, 14.17 (IVa visio)] Nota quod hanc persecutionem dicit factam esse contra mulierem, id est contra ecclesiam, sicut primam dicit fieri contra Christum filium eius et secundam contra angelicum exercitum Christi, quia ecclesia per totum tempus martir[um] usque ad conversionem Constantini imperatoris fuit sic dispersa et oppressa quod non habuit sic apparentem unitatem et potestatem in toto orbe sicut habuit tempore Constantini, exclusa idolatria et paganismo et data sibi undique pace, quando et plenius apparuit romanam ecclesiam esse universalem matrem omnium membrorum Christi. […] Videtur tamen quod post Christum et martires ubique dispersos egit de ecclesia post Constantinum in unum collecta et duabus alis, id est duobus ordinibus doctorum scilicet et anachoritarum altivolis, adornata et in altum sublevata, et tam in deserto gentilitatis quam in deserto contemplative solitudinis alimentum sue refectionis habente. |
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Inf. XIII, 139-142; XIV, 1-3Ed elli a noi: “O anime che giunte
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Inf. XX, 88-91Li uomini poi che ’ntorno erano sparti
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[LSA, prologus, Notabile V] Quia vero ecclesia Christi usque ad finem seculi non debet omnino extingui, ideo oportuit eam in quibusdam suis reliquiis tunc specialiter a Deo defendi et in unam partem terre recolligi, qua nulla congruentior sede Petri et sede romani imperii, que est principalis sedes Christi. Ideo in quinto tempore, quod cepit a Karolo, facta est defensio et recollectio ista, tuncque congrue instituta est vita conde–scensiva, ut nequeuntibus in arduis perdurare daretur locus gratie in mediocri statu.[LSA, prologus, Notabile III] De tertio (dono) etiam patet. Nam magistralis tuba seu expositio intendit fidei et eius scientie seminande (I), et deinde radicande seu roborande (II), deinde explicande (III), deinde amplexande (IV), deinde contemperande unicuique scilicet secundum suam proportionem (V) […][LSA, prologus, Notabile XIII] In quinto vero tempore fuerunt spiritualiores monachi quasi aves volantes, clerici vero gentibus commixti fuerunt quasi pisces in aquis. […] Attamen notandum quod in quinta die creata sunt munda pariter et immunda: sunt enim pisces secundum legem mundi et immundi, avesque similiter.[LSA, cap. XIII, Ap 13, 1] Multi enim bestiales pisces et rapaces aves facte sunt in quinta die, puta cete magna in mari […] |
[LSA, prologus, Notabile XIII] Sicut etiam in quinta etate, destructa Iudea et Iherusalem per Caldeos et prius decem tribubus per Assirios, restitutus est populus Iuda in terram suam, nec ex tunc pullulavit in eis spina idolatrie sicut ante, sic destructis orientalibus ecclesiis per Sarracenos et latina ecclesia fere vastata per eos et etiam per Longobardos prius paganos et factos postmodum arrianos, restitutus est latinus populus per Karolum imperantem, nec ex tunc idola [priorum] magnarum heresum inundaverunt in eis sicut inundaverunt ante, quamvis sicut tunc circa finem fuit secta heresis Saduceorum, sic circa finem huius quinti temporis [serpit] secta heresis Manicheorum.
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Inf. III, 109-111, 118-120Caron dimonio, con occhi di bragia
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Inf. XXXI, 16-21, 52-54Dopo la dolorosa rotta, quando
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Purg. XXVIII, 19-21tal qual di ramo in ramo si raccoglie
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Tab. II quinquies
[LSA, cap. XX, Ap 20, 8 (VIIa visio)] Et subdit: «Quod vero ait: “Et ascenderunt super [la]titudinem terre, et circuierunt castra sanctorum et civitatem dilectam” (Ap 20, 8), non ad unum locum venisse vel venturi esse significati sunt, quasi in uno loco futura sint castra sanctorum et dilecta civitas, cum hec non sit nisi Christi ecclesia toto orbe diffusa; ac per hoc ubicumque tunc erit, que in omnibus gentibus erit, quod significatur per latitudinem terre, ibi erunt castra sanctorum et civitas Deo dilecta, ibique a suis inimicis cingetur, id est in angustias tribulationis artabitur et concludetur». Hec Augustinus (De civ. Dei, XX, 11). […] Nota autem quod dicit “circuierunt castra sanctorum et civitatem dilectam” (Ap 20, 8), ut monstret quod ecclesia erit tunc ad militarem et pervigilem pugnam instar castrensis exercitus ordinata, et nichilominus ad Christi contemplativum cubiculum et amplexum instar sponse dilecte et civitatis unice recollecta, et etiam ad monstrandum quod, preter castrensem fortitudinem contra suos hostes, aderit sibi singularis custodia Christi tamquam ipsam singulariter diligentis. Vel per “castra sanctoum” intelligit spiritualia collegia et monasteria evangelicorum religiosorum illius tem-poris, per “civitatem” vero ecclesiam generalem. |
[LSA, cap. XXI, Ap 21, 12 (VIIa visio)] Deinde subdit de dispositione partium eius: “Et habebat murum” et cetera (Ap 21, 12). Ubi nota quod in describendo formalem dispositionem partium, incipit ab ultimo per medium ad primum, id est a muro per eius portas ad fundamentum; ubi vero agit de materia, incipit a muro ac deinde agit de fundamento et postmodum de portis, tamquam ab extremis veniens ad medium (cfr. Ap 21, 18-21); utrobique autem incipit a muro, tamquam ab eo quod intrantibus vel extra aspicientibus occurrit primo. Deinde vero agit de tota interiori civitate.
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Inf. III, 16-18Noi siam venuti al loco ov’ i’ t’ho detto
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Inf. XX, 88-93Li uomini poi che ’ntorno erano sparti
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Purg. XXVIII, 19-21tal qual di ramo in ramo si raccoglie
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Par. XXII, 97-99
Così mi disse, e indi si raccolse
al suo collegio, e ’l collegio si strinse;
poi, come turbo, in sù tutto s’avvolse.
Par. XXIX, 67-69
Omai dintorno a questo consistorio
puoi contemplare assai, se le parole
mie son ricolte, sanz’ altro aiutorio.
[1] Cfr. UGUCCIONE DA PISA, Derivationes, E 112 [3-5], edizione critica princeps a cura di Enzo Cecchini, II, Firenze 2004 (Edizione Nazionale dei Testi Mediolatini, II, Serie I, 6), p. 390: “Et nota quod iris nichil aliud est quam nubes soli opposita, radiis solis multipliciter informata; ea enim est natura luminosi corporis ut semper in oppositam partem radios dirigat; sol ergo, cum sit luminosum corpus, radios suos mittit in partem oppositam, in qua quandoque nubem invenit que in una sui parte est densa, in alia densior, in alia densissima, item in aliqua sui parte est rara, in alia rarior, in alia rarissima. In illa que est densa solares radii, tamquam in utre conclusi, rubrum colorem faciunt, in densiori ceruleum, in densissima nigrum; item in rara faciunt viridem, in rariori croceum, in rarissima album; et ita, secundum maiorem densitatem illius nubis, magis accedit ad colores nigredini affines, secundum maiorem raritatem magis accedit ad colores albedini affines. Preterea nubes illa quoddam corpus est compositum ex quattuor elementis et aquosum, que, radiis solaribus accensa, a quattuor elementis et quadripertitum contrahit colorem, ab igne rubrum, ab aere ceruleum sive lucidum vel purpureum, ab aqua viridem, a terra nigrum”.
[2] Cfr. le varie interpretazioni date alle sei ali di Ap 4, 8 (esposte in apposita tabella sinottica nell’edizione della Lectura super Apocalipsim; PDF, p. 209): “per duas alas tegentes caput designatur ipsorum reverentia ad nullatenus perscrutandum altiora sua facultate; per alas vero medias, quibus semper volabant, monstratur eorum incessabilis et altivola motio operationum imitativarum Dei, mensuram facultatis sue non excedentium nec ab illa deficientium; per duas alas tegentes pedes designatur eorum reverentia ad non perscrutandum nimis profunda (è l’interpretazione dello pseudo Dionigi nel De coelesti hierarchia) […] Vel per duas alas tegentes caput significantur aspectus, intellectus et affectus elevati ad contemplandum et venerandum altitudinem divine maiestatis; per duas vero tegentes pedes contemplatio et veneratio profundorum iudiciorum Dei; per medias vero, cum quibus volabant, contemplatio propriorum et interiorum suorum (è l’interpretazione di Olivi)”.
3. L’alta Grecia
■ Varia come i rami fioriti da cui sceglie fior da fiore, Matelda contiene in sé tanta ricchezza di significati spirituali da rendere apparentemente del tutto trascurabile il problema dell’identificazione con un personaggio storico. Muove i passi propri nell’Eden, luogo di questo mondo segnato dai temi della Gerusalemme celeste e della sede divina. Si tratta di un luogo remoto, quieto e adatto alla contemplazione delle cose divine, libero da piaceri e da ricchezze carnali, come l’isola di Patmos da cui Giovanni scrive alle sette chiese d’Asia (Ap 1, 9). Patmos viene interpretata come “separazione dai nemici” (separati hostes) o “separazione dei blandimenti” (separatio palpantium), perché nella contemplazione vengono separati i nemici dello spirito e le lusinghe sensuali e carnali. Un’altra interpretazione è quella di “stretto di mare” (fretum) o “gorgo” (vorago).
Le prime parole della bella donna, rivolte a Dante, Virgilio e Stazio, nuovi del luogo e forse sorpresi e dubbiosi del suo ridere – «“Voi siete nuovi, e forse perch’ io rido”, / cominciò ella, “in questo luogo eletto / a l’umana natura per suo nido, / maravigliando tienvi alcun sospetto; / ma luce rende il salmo Delectasti, / che puote disnebbiar vostro intelletto”» (Purg. XXVIII, 76-81) – citano il Salmo 91, 5: “Quia delectasti me, Domine, in factura tua, et in operibus manuum tuarum exultabo”. Il Salmo, che veniva recitato nel giorno di sabato, esulta per le mirabili opere di Dio, e Matelda ride perché esulta con esso, nonostante il luogo rievochi la memoria della prima colpa.
L’Asia (minore), dove scrive Giovanni (Ap 1, 4) e che in Dante è figurata dal paradiso in terra, viene da Olivi interpretata come “altezza” (elatio). Collocato sulla sommità del monte ov’è il purgatorio, che “salìo verso ’l ciel tanto” (Purg. XXVIII, 101), l’Eden è “l’alta terra” (v. 69), “questa altezza ch’è tutta disciolta / ne l’aere vivo” (vv. 106-107). Si è visto come le siano appropriati i temi della sede divina, che si distingue per l’“alta eminentia” (Ap 4, 2).
Questo mondo, che contiene le chiese degli eletti, si eleva in altezza su di essi, secondo quanto scritto nel Salmo 92, 4: “Mirabile elevarsi del mare”, nel senso che se mirabile è l’elevarsi del mare, dei fiumi e delle acque, più mirabile è l’elevarsi di Dio. “Asia” viene interpretata anche come “colei che muove il passo” (gradiens), perché le chiese sono in via nel loro tendere alla patria e anche perché questo mondo procede in modo transitorio e defettivo. Per Asia si può intendere, in modo estensivo, la Grecia, regione intermedia tra la Giudea, luogo della prima fondazione della Chiesa, e Roma, terza sua ramificazione.
“A vocibus aquarum multarum mirabiles elationes maris; mirabilis in altis Dominus”: il salmo 92 è scritto per la creazione dell’uomo, avvenuta nel sesto giorno precedente il sabato: “in die ante sabbatum quando inhabitata est terra”, come recita la Vulgata. Da Agostino [1] in poi, la pericope significava che la malizia, le pressure e i turbamenti del mondo non avrebbero prevalso contro l’altezza di Dio. Gregorio VII l’aveva usata contro quanti stoltamente sostenevano che l’imperatore non potesse essere scomunicato dal papa: “ut elationes maris et superbie fluctus comprimere valeant, arma humilitatis Deo auctore providere curamus” [2]. San Bernardo l’aveva citata per mettere forza in Melisenda, la regina di Gerusalemme vedova nel 1143 di Folco d’Angiò, affinché, agendo “in spiritu consilii et fortitudinis”, mostrasse nella donna la parte virile: “Scio, filia, scio, quia magna sunt haec; sed et hoc scio quia, etsi mirabiles elationes maris, mirabilis in altis dominus. Magna sunt haec, sed magnus dominus noster et magna virtus eius” [3]. L’aveva ancora prima proposta a Ugo, monaco cluniacense diventato nel 1128 vescovo di Rouen, invitandolo ad essere paziente e pacifico con il suo nuovo gregge [4]. Sui pericoli del mare del mondo, che mai sta fermo, predicò san Bernardino ai Senesi nel 1427 [5]. Con un senso pregno di profetismo escatologico, di attesa di un nuovo avvento di Cristo e di una conversione universale dei popoli, Cristoforo Colombo avrebbe annotato il versetto davidico sulla sua Cosmographia di Tolomeo [6].
Il versetto contiene la radice del nome della misteriosa donna: M(irabiles) ELAT (elationes) → ATEL DA(ntis), che significa quanto scritto nel salmo 92, 4 sul mirabile levarsi di Dio sopra il levarsi del mare, unitamente all’immagine di Dio come “Colui che dà” presente nel salutare di Giovanni ad Ap 1, 4. Dio ha infatti creato il monte, su cui sta l’Eden, tanto alto, liberandolo dalle turbolenze causate dalle alterazioni terrestri (il ‘levarsi del mare’ del Salmo, che corrisponde al fatto che le esalazioni dell’acqua e della terra tendono a salire dietro al calore del sole) per dare il luogo posto sulla sua sommità, come anticipo dell’eterna pace, all’uomo creato a operare il bene [7]. Il monte, al di sopra della scaletta di tre gradini per cui si accede alla porta, è infatti libero da ogni alterazione terrestre dovuta alla pioggia, alla grandine, alla neve, alla rugiada, alla brina, alle nuvole, alla folgore, all’arcobaleno, al vento, al terremoto (Purg. XXI, 43-57). Il vento che fa stormire le fronde della selva e l’acqua del Lete e dell’Eunoè non sono generati da vapori terrestri o da precipitazioni atmosferiche (Purg. XXVIII, 103-133). Il riferimento al dare, contenuto nell’ultima parte del nome di Matelda, lega la figura di costei al poeta, il cui nome – Dante, cioè colui che riceve la rivelazione per darla ad altri – verrà registrato “di necessità” nei versi al richiamo di Beatrice appena apparsa nell’Eden (Purg. XXX, 55-63).
Giovanni ‘saluta’ le sette chiese d’Asia specificando il bene augurato: “grazia a voi e pace” (Ap 1, 4). Dice “grazia” per la gratuita origine, in quanto data da Dio gratuitamente e non perché dovuta, oppure perché ci rende grati a Dio. Dice “pace” rispetto all’oggetto fruibile, cioè allo stato quieto e finale della mente e della grazia nel quale si verifica l’unione con Dio. La grazia designa l’inizio non ancora perfetto, la pace il fine compiuto. All’augurio Giovanni aggiunge l’indicazione di colui dal quale desidera vengano date la grazia e la pace: “da Colui che è, che era e che verrà, dai sette spiriti che stanno davanti al suo trono, e da Gesù Cristo”. Così pone un triplice modo proprio di “Colui che dà”: Dio, che esiste in sé in modo assoluto ed eterno; la virtù spirituale ordinata negli influssi dei vari doni in cui è partecipata e quasi moltiplicata; Cristo che, in quanto uomo, merita, impetra e dispensa tali doni.
Matelda canta i motivi della grazia, della pace, del dare, propri della salutazione dell’evangelista. Dopo aver spiegato perché nella foresta dell’Eden ci siano acqua e vento, aggiunge qualcosa che non era stato chiesto da Dante, affermando che i poeti antichi, nel descrivere l’età dell’oro, “forse in Parnaso esto loco sognaro”. Introduce questa aggiunta combinando il tema della grazia con quello del dare: “darotti un corollario ancor per grazia” [8], oltre quanto promesso, e dunque in modo gratuito (Purg. XXVIII, 136-141). Nel descrivere le opere di Dio, dice che il sommo bene, nel creare l’uomo buono e a bene, “questo loco / diede per arr’ a lui d’etterna pace” [9], combinando i motivi del dare e della pace (vv. 92-93).
Come l’alta Grecia è separata nella contemplazione dalla carne, così nella foresta dell’Eden tre soli passi separano Dante da Matelda, che sta al di là del fiumicello; eppure l’Ellesponto, molto più largo del Lete, non fu oggetto di maggiore odio da parte di Leandro, quando il mareggiare gli impediva di raggiungere di notte l’amata Ero (Purg. XXVIII, 70-75). Il riferimento a Serse, “ancora freno a tutti orgogli umani”, in quanto passò l’Ellesponto per portare guerra ai Greci e lo riattraversò sconfitto, non è solo reminiscenza storica tratta dall’Ormista (II, x, 8-11) che s’innesta sulle Heroides di Ovidio (18-19), perché il fiumicello che separa il poeta dalla bella donna è il freno che non viene aperto o sciolto dai prelati che curano il gregge (Ap 9, 1-2). Come dirà più avanti Beatrice, non si può passare il Lete senza pentimento delle proprie colpe (Purg. XXX, 142-145). L’uso di questo tema conferma Matelda, bella donna che fa rimembrare un ‘prima’ perduto, come depositaria della disciplina propria dei prelati dell’inizio del quinto stato, il cui bel principio designa l’età dell’oro sognata in Parnaso dagli antichi poeti (cfr. infra). Il poeta sta per affrontare il duro giudizio di Beatrice, e sgorgherà in lacrime di pentimento; per il momento recita la parte del ‘nemico’ della contemplazione, da tenere separato, non del tutto liberato dalla sensualità.
Se l’Asia è interpretata come “gradiens”, alla figura di Matelda si addice il tema del ‘muovere il passo’: è “una donna soletta che si gia” (Purg. XXVIII, 40), il poeta la invita ad avanzare (“vegnati in voglia di trarreti avanti”, v. 46) [10], ella si volge verso di lui mettendo “piede innanzi piede” (v. 54), si muove lungo il Lete “come ninfe che si givan sole / per le salvatiche ombre” (Purg. XXIX, 4-5), Dante procede “pari di lei, / picciol passo con picciol seguitando” (vv. 8-9), è “conducitrice” dei passi del poeta lungo il fiume (Purg. XXXII, 83-84), nel trarlo in esso tirandoselo dietro “sen giva / sovresso l’acqua lieve come scola” (Purg. XXXI, 94-96), con Dante e Stazio segue la ruota destra del carro “passeggiando l’alta selva vòta” (Purg. XXXII, 28-33), conduce i due poeti a bere l’acqua di Eunoè (Purg. XXXIII, 127-129, 133-135).
■ Matelda, che appare a Dante nell’Eden assimilato all’alta Grecia, in un luogo lontano dalle turbolenze dei sensi come l’isola di Patmos, rappresenta la congiunzione tra la sapienza pagana e quella cristiana. Dopo le prime cinque età del mondo (corrispondenti all’Antico Testamento, la gioachimita età del Padre), che hanno segnato la discesa a spirale per i cinque cicli settenari dell’Inferno, con il Purgatorio inizia la sesta età, quella di Cristo (l’età del Figlio), che ha sette stati, corrispondenti ai sette stati della Chiesa. Dapprima, nel cosiddetto “antipurgatorio”, si registrano in successione temi prevalenti dei primi cinque stati. Il sesto stato della sesta età (con cui si apre l’età dello Spirito) inizia con l’apertura della “porta di san Pietro” (la porta del purgatorio). Questo sesto stato procede anch’esso con andamento settenario, per cui ha sette momenti, corrispondenti principalmente a un girone della montagna, ma non del tutto, perché sempre l’ordine spirituale del poema rompe i confini letterali e le divisioni materiali, concatenando i temi di uno stato prevalente con quelli dello stato che precede e con quelli dello stato che segue e intrecciandoli con temi di tutti gli altri stati. È spiegato nel Notabile VII del prologo della Lectura che il sesto stato della Chiesa è il secondo stato di Cristo e ha i suoi sette tempi per cui la Chiesa, come fosse una sfera, si ricongiunge circolarmente al primo apostolico tempo. Il settimo dei sette momenti del sesto stato della Chiesa coincide con il settimo stato generale della Chiesa, che nel poema corrisponde in parte all’ultimo girone della montagna (il settimo, dove si purgano i lussuriosi) e in parte all’Eden, con cui si chiude la seconda cantica. Il settimo stato, infatti, si svolge parte in questa vita (come pregustazione in terra della gloria eterna, cioè fin sulla cima della montagna), parte nell’altra (nel senso della quiete delle anime beate in attesa della resurrezione, che è la materia del Paradiso).
Il Purgatorio dunque, secondo il senso spirituale, è la storia della Chiesa che corre verso il suo sesto stato, periodo di novità per il secondo avvento di Cristo nei suoi discepoli spirituali e punto di riferimento di tutte le vicende umane, antiche e moderne, che ad esso cooperano. Non è casuale che nel sesto girone della montagna sia chiarificata e riconosciuta, per bocca di Bonagiunta da Lucca, la poetica delle “nove rime” di Dante.
La seconda cantica, poi, realizza quel tempo che san Paolo nella Lettera ai Romani chiama tempo della “pienezza delle genti” (Rm 11, 25-26), che secondo Olivi si concluderà nel sesto stato con la conversione delle reliquie dei Gentili, cioè degli infedeli, e poi dei Giudei, i quali per ultimi si volgeranno a Cristo. La montagna del purgatorio possiede le caratteristiche del “deserto” della Gentilità, nel quale si rifugia la donna (la Chiesa), fuggendo la “selva” dei Giudei (Ap 12, 6). L’aggettivo “gentile” vi ricorre sette volte (più la forma sostantivata a Purg. VI, 110), contro quattro occorrenze nell’Inferno e nessuna nel Paradiso (se si esclude l’altra forma sostantivata a Par. XX, 104). Dante vi rimane tre giorni e mezzo (la seconda cantica si chiude al meriggio del quarto giorno), cioè un periodo di tempo assimilabile al numero 1260, corrispondente alla permanenza della donna nel deserto [11]. La spiaggia che circonda in basso la montagna è “lito diserto, / che mai non vide navicar sue acque / omo, che di tornar sia poscia esperto” (Purg. I, 130-132). Questo è detto con riferimento a Ulisse, che non volle negare a sé, nella sua solitudine (“sol con un legno”), e ai suoi pochi compagni (“quella compagna / picciola da la qual non fui diserto”), l’esperienza del “mondo sanza gente”, cioè deserto fino all’arrivo di Cristo, allorché la Giudea si farà selvaggia e il deserto dei Gentili fiorirà (Inf. XXVI, 100-102; 114-117). Prima di quel lido finì il viaggio dell’eroe greco: “quando n’apparve una montagna, bruna / per la distanza” (vv. 133-134). Ulisse volle sperimentare con i sensi il “mondo sanza gente”. La terra proibita alla ragione umana – alla sapienza di questo mondo che la croce avrebbe dimostrato stolta – non era solo una terra senza abitanti, l’“extra notum nobis orbem” di cui scrive Seneca (Epist. LXXXVIII), era figura della terra che sarebbe stata data ai Gentili, luogo della loro conversione a Cristo, che si sarebbe compiuta solo nel sesto stato della Chiesa. L’ultimo viaggio dell’eroe greco fu un andare sensibilmente al sesto stato, un viaggio nel tempo futuro verso un lido allora noto unicamente a Dio, andata che solo un uomo evangelico del 1300 avrebbe potuto compiere.
Come la prima sede di Pietro fu Gerusalemme, poi traslata ad Antiochia e infine a Roma, così rispetto al corso della storia della salvezza proposta dalla Lectura super Apocalipsim, parodiata nella Commedia, l’Inferno corrisponde alla petrosa e selvatica Giudea, ostinata persecutrice di Cristo e della donna (la Chiesa), che la fugge; il Purgatorio, con in cima la selva fiorita dell’Eden-Asia/Grecia, agli sviluppi della Chiesa fino al suo ‘rinovellarsi’ nel sesto periodo; il Paradiso a “quella Roma onde Cristo è romano” (Purg. XXXII, 102), dove le anime beate attendono la resurrezione.
Nel sesto periodo della storia della Chiesa si verifica un secondo avvento di Cristo, non come il primo nella carne e molto prima del terzo, che sarà nel giudizio finale, ma nello Spirito, cioè nei suoi discepoli spirituali. I segni della divina provvidenza sono pervenuti fino ai tempi moderni, nei quali sta già operando una palingenesi nelle coscienze che porterà a un novum saeculum. Per quanto Olivi sia molto cauto nell’uso degli autori pagani, c’è una perfetta concordanza spirituale, e anche letterale, fra quanto afferma di questa renovatio e la quarta egloga virgiliana. Le espressioni di Olivi relative al sesto stato – “quoddam sollempne initium novi seculi … renovaretur et consumaretur seculum” -, nel quale il sacerdozio apostolico “redeat et assurgat ad ordinem primum”, la “nova Ierusalem” – interpretata come “visione di pace” – viene vista “descendere de celo” e la Chiesa descritta come la donna vestita di sole con la sua “virginea proles”, sono la veste spirituale dei versi virgiliani che celebrano la rinnovata età dell’oro, anche se il francescano non li cita esplicitamente: “Magnus ab integro saeclorum nascitur ordo / iam redit et Virgo; redeunt Saturnia regna; / iam nova progenies caelo demittitur alto” (Egloga IV, 5-7). Quel felicissimo stato segnato dalla pace sotto il divo Augusto, che rese l’umanità disposta al primo avvento di Cristo, si rinnova nei versi con i quali Stazio dichiara il suo debito verso Virgilio: “Per te poeta fui, per te cristiano” (Purg. XXII, 64-73). Se tra i due poeti sta il mistero della predestinazione per cui uno fu toccato dalla Grazia e l’altro no, qui Virgilio è non solo profeta del primo avvento di Cristo ma anche della seconda e altrettanto grande “renovatio”, quella del sesto stato, in cui ha luogo la conversione delle genti e del popolo d’Israele fino allora escluso [12].
Ad Ap 7, 4, Olivi ricorda che quanto più letteralmente il senso dell’esegesi riguarda i beni o i fatti finali, tanto è più spirituale dei sensi allegorici che lo precedono, per cui più letteralmente e propriamente si dice che Dio è vita, sapienza, sommo bene piuttosto che leone o sole o rugiada; il detto più letterale è più spirituale e perfetto di quello traslato e allegorico [13]. Ad esempio, Elia si presenta come un uomo spirituale vòlto alla conversione universale e alla generale restituzione di uno stato precedente, precursore dei tre avventi di Cristo in tre differenti persone, due allegoriche (Giovanni Battista e Francesco) e una letterale (Elia in persona, prima del terzo avvento che coincide con il giudizio finale). Virgilio, parlando del “veltro” (assimilabile ad Elia), si esprime allegoricamente; dicendo “sapienza, amore e virtute” usa il senso letterale.
Così, nel “corollario” dato da Matelda, – Quelli ch’anticamente poetaro / l’età de l’oro e suo stato felice, / forse in Parnaso esto loco sognaro (Purg. XXVIII, 139-141) -, la quale con la sua bellezza fa segno dell’edenico principio dell’umana specie, il senso letterale del luogo dove si trovano Virgilio e Stazio richiama i precedenti allegorici e li rinnova di novelle sacre fronde.
[1] Enarrationes in Psalmos, Ps 92, 7-8 (PL 36, coll. 1187-1189).
[2] Das Register Gregors VII., in MGH, Epistolae selectae, herausgegeben von Erich Caspar, Berolini 1920, VIII, 21 (Romae, 15 mar. 1081, Herimanno Metensi episcopo).
[3] Sancti Bernardi Opera, ed. Jean Leclercq – Henri-Maria Rochais, Rome 1979, vol. viii, ep. 354.
[4] La lettera è anche citata nel Chronicon di Elinando di Froidmont (PL 212, coll. 1028 D-1029 A-C).
[5] BERNARDINO DA SIENA, Prediche volgari sul Campo di Siena 1427, a cura di Carlo Delcorno, Milano 1989 (Classici italiani per l’uomo del nostro tempo), I, pp. 350-361, predica XI (25 agosto, lunedì).
[6] Cfr. BORTOLO MARTINELLI, A modo di epilogo. Una citazione di Cristoforo Colombo (Ps. 92, 4), in Giornata bresciana di studi colombiani nel V centenario della scoperta dell’America. Atti del Convegno di Studi, 18 dicembre 1992, Brescia 1994 (Ateneo di scienze lettere e arti. Brescia), pp. 280-287.
[7] L’opinione che il paradiso terrestre si elevasse fino al cielo della luna risale a Beda e alla Glossa ordinaria di Valafredo Strabo: cfr. BRUNO NARDI, Il mito dell’Eden (1922), in Saggi di filosofia dantesca, Firenze 1967, pp. 324-329.
[8] Elargire oltre quanto sperato è fra i significati connessi con la tribù di Levi (Ap 7, 7).
[9] Il tema del patto (“arra”) fa riferimento al prologo, notabile VII.
[10] L’espressione “vegnati in voglia di trarreti avanti”, detto da Dante e Matelda (Purg. XXVIII, 46), rinvia alla tematica dell’invito dello Spirito a venire con desiderio e volontario consenso di Ap 22, 17.
[11] Ad Ap 12, 16 (quarta visione apocalittica) si dice che la donna trova nel deserto dei Gentili, della fede e della contemplazione cristiana, “il luogo preparato da Dio per esservi nutrita per 1260 giorni”. Il suo, afferma Olivi, è un pasto spirituale, con il quale incorpora i Gentili nella fede di Cristo. La durata temporale di questo nutrirsi nel deserto viene riproposta, sempre nella quarta visione, al momento della terza e quarta guerra (che sono riunite in un’unica trattazione), allorché viene detto che alla donna “furono date le due ali della grande aquila”, per volare nel deserto ed esservi nutrita “per un tempo, tempi e la metà di un tempo” cioè per tre anni e mezzo (Ap 12, 14; “tempo” equivale a un anno, “tempi”, che rende il duale greco, a due anni), ovvero per 1260 anni, computando i giorni come anni (30 giorni al mese per 42 mesi). Anziché tre anni e mezzo, Dante rimane nell’Eden per tre giorni e mezzo.
[12] L’incontro tra Stazio e Virgilio è un rinnovarsi dell’antico; il tema della “gentilitas”, toccato nel Limbo e poi con Anfiarao, Tiresia, Arunte, Manto, Euripilo nella quarta bolgia infernale, ha una sua ripresa più elevata nell’incontro tra i due alti tragici, il primo dei quali ebbe come madre e nutrice l’Eneide e si convertì per i versi del “cantor de’ buccolici carmi”.
[13] [LSA, cap. VII, Ap 7, 4] Nec mireris si sensus allegoricus, quoad impletionem in effectu, precedat hic litteralem, quia hoc alibi invenies. Quod enim Malachie ultimo dicitur Helias mittendus “antequam veniat dies Domini” (Ml 4, 5-6), dicit autem Christus Matthei XVII° (Mt 17, 11-13) hoc iam impletum esse in Iohanne Baptista, et nichilominus ad litteram implendum esse in ipso Helia. Constat autem quod Iohannes non fuit Helias nisi mistice et allegorice. Sepe etiam a Christo et a prophetis dicuntur plura litteralius respicientia statum eterne glorie vel extremi iudicii, que tamen allegorice prius implentur in precursoriis gratiis vel iudiciis. Attamen quando litteralior sensus sic respicit finaliora bona vel facta, tunc ipse est spiritualior quam sint allegorici ipsum precurrentes, iuxta quod litteralius [et] magis proprie dicitur Deus esse vita et sapientia et summum bonum quam dicatur esse leo vel sol vel ros et mel, et tamen primum litteralius dictum est spiritualius et perfectius quam sit secundum dictum, quod est translativum et allegoricum.
Tab. III
[LSA, cap. I, Ap 1, 4 (Salutatio)] “Iohannes septem ecclesiis” (Ap 1, 4). Premisso titulo subditur salutatio, in qua ostendit quis est qui librum hunc scribit et mittit, scilicet “Iohannes”. Licet enim supra ostendisset sibi hoc esse revelatum, non tamen dixerat quod ab ipso scriberetur et mitteretur; posset enim per alium scribi et mitti. Ostenditur etiam quibus scribitur et mittitur, scilicet “septem ecclesiis que sunt in Asia”, scilicet minori, que est quedam pars Asie maioris. […]
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[1, 4] Signanter autem dicit: “que sunt in Asia”. Primo ratione interpretationis, quia Asia interpretatur elatio.[LSA, cap. I, Ap 1, 9 (premittit septem generales et laudabiles circumstantias visionum sequentium)] Secunda circumstantia est idoneitas loci, unde subdit: “Fui in insula que appellatur Patmos”. Ecce quod locus erat divinis contemplationibus et visionibus aptus, tamquam remotus et quietus et secretus ac deliciis et divitiis carnalibus vacuus. Est autem Patmos insula Grecie et interpretatur separati hostes, vel separatio palpantium, et congruit huic misterio quia in excessu contemplationis sunt hostes spiritus et palpantes, id est sensuales et carnales, separati. Secundum Papiam autem interpretatur fretum vel vorago, quia fervor et vorago persecutionum multum confert ad suble-vationem spiritus in divina.
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Purg. XXVIII, 67-78, 97-102, 106-107Ella ridea da l’altra riva dritta,
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[LSA, cap. I, Ap 1, 9 (premittit septem generales et laudabiles circumstantias visionum sequentium)] Secunda circumstantia est idoneitas loci, unde sub-dit: “Fui in insula que appellatur Patmos”. Ecce quod locus erat divinis contemplationibus et visionibus aptus, tamquam remotus et quietus et secretus ac deliciis et divitiis carnalibus vacuus. Est autem Patmos insula Grecie et interpretatur separati hostes, vel separatio palpantium, et congruit huic misterio quia in excessu contemplationis sunt hostes spiritus et palpantes, id est sensuales et carnales, separati. Secundum Papiam autem interpretatur fretum vel vorago, quia fervor et vorago persecutionum multum confert ad sublevationem spiritus in divina. |
Inf. XXXIV, 127-129Luogo è là giù da Belzebù remoto
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4. Principio di bellezza
Ad Ap 3, 3 il vescovo di Sardi, la quinta chiesa d’Asia, viene invitato a ricordare con la mente quale fosse la “prima grazia” e il suo stato e a conservarla facendo penitenza, cioè la grazia ricevuta da Dio e ascoltata tramite la predicazione evangelica. Da quanto gli viene detto, si deduce che costui era tanto intorpidito nell’ozio da non ricordare più il primo stato di grazia e di perfezione. Se non si ravvedrà vigilando, il giudizio divino verrà da lui come un ladro. Cos’è questo ‘prima’ che il vescovo di Sardi viene invitato a ripensare? Sta nel nome della sua chiesa, Sardis, interpretato come “principio di bellezza” (principium pulchritudinis), sia perché nei pochi rimasti integri consegue la singolare gloria della bellezza, essendo cosa ardua e difficile mantenersi mondi tra tanta lussuria, sia per lo zelo mostrato dai primi istitutori del quinto stato. Costoro ordinarono le diverse membra e i diversi uffici dei propri collegi con una regola ispirata all’unità ma anche condiscendente in modo proporzionato alle membra stesse, conseguendo una forma di mirabile bellezza che è propria della Chiesa, la quale è come una regina ornata di una veste aurea per la carità che unisce e circondata dalla varietà nei vari doni e nelle varie grazie delle diverse membra (ad Ap 2, 1).
Cristo si propone alla chiesa di Sardi (Ap 3, 1) come “colui che possiede i sette spiriti di Dio e le sette stelle”, possiede cioè lo spirito increato di Dio, semplice per natura e settiforme nella grazia partecipata e corrispondente ai sette stati della Chiesa, e insieme ‘tiene’ (cioè ha in sua potestà) i prelati di tutte le chiese, designati con le “sette stelle”. Questa universalità di spiriti, doni, stelle, rettori, uffici viene proposta perché il quinto stato si pone come generale rispetto ai precedenti, affinché il vescovo della quinta chiesa abbia chiaro che tali doni erano stati preparati dal divino provvedere per lui e per la sua discendenza nel caso fossero risultati degni. Il quinto stato, che è assimilato alla Chiesa romana (storicamente inizia con l’incoronazione di Carlo Magno o con il soccorso recato da suo padre Pipino al papa contro i Longobardi; dura circa cinquecento anni, cioè perviene fino al 1300), fu dunque bello nel suo principio, in cui ebbe la pienezza delle perfezioni, condiscendente secondo le esigenze delle moltitudini e del vivere associato rispetto all’arduo, alto e solitario stato degli anacoreti che lo precedette, ma si è poi corrotto per rilassatezza, tanto che il suo vescovo ha una fama usurpata di essere buono. Così, secondo Riccardo di San Vittore, l’interpretazione di Sardi come “principio di bellezza” significa che essa ha avuto solo il principio buono, ma non anche la fine. Il vescovo di Sardi viene pertanto invitato a ricordare con la mente quale fosse la “prima grazia” e a conservarla (Ap 3, 3). Bisogna anche aggiungere che, proprio per questa rilassatezza, il primato del quinto stato viene traslato al sesto, stato del nuovo avvento di Cristo nei discepoli di Francesco, come il primato della vecchia Sinagoga venne traslato alla Chiesa di Cristo e degli apostoli (questa “translatio”, applicata da Dante alla propria poetica rispetto a quella che si “ritenne / di qua dal dolce stil novo” [Purg. XXIV, 49-63], e in generale a “la gloria de la lingua” [Purg. XI, 97-99], assume tale importanza da richiedere una trattazione separata).
Il tema della bellezza, unito ad altri del quinto stato nel suo inizio – condiscendere, contemperare, esser mondo, il mirabile variare – percorre in Purg. XXVIII la descrizione dell’Eden, al quale, in quanto luogo di felicità dell’umana radice da esso poi sbandita, si addice il significato della chiesa di Sardi come “principium pulchritudinis”: la “divina foresta spessa e viva” che tempera agli occhi lo splendore del nuovo giorno, l’acqua monda del Lete, il mirabile variare dei “freschi mai”, cioè dei rami fioriti; l’apparizione della “bella donna”, il volgersi di Matelda come vergine che “avvalli” con condiscendenza gli occhi onesti.
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Prefigurazione di Matelda è Lia (la vita attiva), sognata da Dante poco prima dell’alba del “novo giorno” in cui gli appaiono Matelda e poi Beatrice: le sono appropriati i motivi del ‘prima’, riferito al raggiare di Venere nella montagna, e della bellezza (Purg. XXVII, 94-99).
Ricordare un ‘prima’ bello che non si ritrova più perché mutato in meglio si verifica nel riconoscimento di Piccarda. Nel rivelarsi, la donna invita il poeta a ricordare con mente attenta i “primi concetti” che ebbe di lei, cioè la prima immagine conosciuta in terra, e Dante replica che questi “primi” sono tanto trasfigurati dallo splendore divino da non avergli consentito un immediato riconoscimento senza l’aiuto delle parole del suo interlocutore (Par. III, 47-49, 58-63).
Il ricordare (‘porre mente’) e la bellezza sono motivi congiunti anche nell’incontro con Manfredi: “pon mente … biondo era e bello … vadi a mia bella figlia” (Purg. III, 103-108, 115-116). Le prerogative della Chiesa, edenica nel suo principio, sono estese alle curie regali.
Un altro esempio di un ‘prima’ legato a uno stato di innocenza originaria, con l’inserimento del tema del vegliare proposto al vescovo di Sardi ma con l’esclusione del ritornare alla mente, è l’immagine della donna fiorentina del tempo antico rimpianto da Cacciaguida, che vegliava la culla usando il giocoso linguaggio infantile, “l’idïoma / che prima i padri e le madri trastulla” (Par. XV, 121-123; vegliare è motivo proprio dello stesso Cacciaguida, v. 64). Il “bello / viver di cittadini” della Firenze antica è assimilato alla vita dell’uomo nell’Eden, bella nei suoi inizi e poi corrottasi (vv. 130-131).
Il discendere (tema tipico del quinto stato) e la bellezza sono nella Lavagna, la “fiumana bella” che “intra Sïestri e Chiaveri s’adima”, vantata da Adriano V, tardo nella conversione come il quinto vescovo (Purg. XIX, 100-101, 106: si è appunto nel ‘quinto’ girone della montagna).
Belacqua, il pigro liutaio “che mostra sé più negligente / che se pigrizia fosse sua serocchia”, nel momento in cui si volge a Dante e a Virgilio “puose mente”, cioè riguardò con la mente come deve fare l’intorpidito vescovo di Sardi (Purg. IV, 109-112); fu anch’egli tardivo nella conversione (v. 132).
[LSA, cap. III, Ap 3, 1 (Ia visio, Va ecclesia)]Hiis autem premittitur Christus loquens, cum dicitur (Ap 3, 1): “Hec dicit qui habet septem spiritus Dei et septem stellas”, id est qui occulta omnium videt et fervido zelo spiritus iudicat tamquam habens “septem spiritus Dei”, qui prout infra dicitur “in omnem terram sunt missi” (cfr. Ap 5, 6); et etiam qui potest omnes malos quantumcumque potentes punire tamquam in sua manu, id est sub sua potentia, habens “septem stellas”, id est universos prelatos omnium ecclesiarum. Quid per septem spiritus significetur tactum est supra, capitulo primo, super prohemio huius libri. Talem ergo se proponit huic episcopo, quia habebat nomen boni cum esset malus, nec videbatur futurum iudicium formidare, et etiam quia Christus ostendit se nosse quosdam sanctos huius ecclesie occultos et paucos, tamquam omnibus spiritualiter presens et omnia potestative continens. Respectu vero quinti status ecclesiastici, talem se proponit quia quintus status est respectu quattuor statuum precedentium generalis, et ideo universitatem spirituum seu donorum et stellarum seu rectorum et officiorum se habere testatur, ut qualis debeat esse ipsius ordinis institutio tacite innotescat. […] |
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Par. XVIII, 88-96Mostrarsi dunque in cinque volte sette
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[LSA, cap. II, Ap 2, 1 (Va ecclesia)] Vocatur autem congrue hec ecclesia Sardis, id est principium pulchritudinis, tum quia in suis paucis incoinquinatis habet singularem gloriam pulchritudinis, quia difficillimum et arduissimum est inter tot suorum luxuriantes se omnino servare mundum; tum quia primi institutores quinti status fuerunt in se et in suis omnis munditie singulares zelatores, suorumque collegiorum regularis institutio, diversa membra et officia conectens et secundum suas proportiones ordinans sub regula unitatis condescendente proportioni membrorum, habet mire pulchritudinis formam toti generali ecclesie competentem, que est sicut regina aurea veste unitive caritatis ornata et in variis donis et gratiis diversorum membrorum circumdata varietate.[LSA, cap. III, Ap 3, 2-3 (Ia visio, Va ecclesia)] “Esto vigilans” (Ap 3, 2), id est non torpens vel dormiens, sed attente sollicitus de salute tua. Ille enim dormit, qui in peccatis quiescit quasi sopitus et negligit curare de salute anime sue. Quia vero iste, tamquam episcopus, tenebatur sollicite curare non solum de sua salute sed etiam subditorum suorum, ideo pro utroque monetur ut vigilet. […] Sunt enim nonnulli qui ea quibus apud homines videntur magni magis diligunt, et ea sine quibus in conspectu Dei iustificari non possunt parvipendunt, querentes de minimo crescere et de maximo minui. Qui autem maiora coram Deo negligit, minora etiam coram hominibus iuste perdit. […]
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Purg. XXVII, 94-99, 136-138Ne l’ora, credo, che de l’orïente
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Purg. XXVIII, 28-30, 34-36, 43-51, 55-57, 61-63, 139-144, 148Tutte l’acque che son di qua più monde,
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Purg. XXIX, 52-54, 82-84
Di sopra fiammeggiava il bello arnese
più chiaro assai che luna per sereno
di mezza notte nel suo mezzo mese.
Sotto così bel ciel com’ io diviso,
ventiquattro seniori, a due a due,
coronati venien di fiordaliso.
Inf. XIX, 16-18, 55-57
Non mi parean men ampi né maggiori
che que’ che son nel mio bel San Giovanni,
fatti per loco d’i battezzatori
Se’ tu sì tosto di quell’ aver sazio
per lo qual non temesti tòrre a ’nganno
la bella donna, e poi di farne strazio?
Purg. IV, 109-114, 130-132
“O dolce segnor mio”, diss’ io, “adocchia
colui che mostra sé più negligente
che se pigrizia fosse sua serocchia”.
Allor si volse a noi e puose mente,
movendo ’l viso pur su per la coscia,
e disse: “Or va tu sù, che se’ valente!”.
Prima convien che tanto il ciel m’aggiri
di fuor da essa, quanto fece in vita,
perch’io ’ndugiai al fine i buon sospiri
Purg. XXII, 148-150
Lo secol primo, quant’ oro fu bello,
fé savorose con fame le ghiande,
e nettare con sete ogne ruscello.
Purg. III, 103-108, 115-116, 136-141
E un di loro incominciò: “Chiunque
tu se’, così andando, volgi ’l viso:
pon mente se di là mi vedesti unque”.
Io mi volsi ver’ lui e guardail fiso:
biondo era e bello e di gentile aspetto,
ma l’un de’ cigli un colpo avea diviso.
vadi a mia bella figlia, genitrice
de l’onor di Cicilia e d’Aragona
Vero è che quale in contumacia more
di Santa Chiesa, ancor ch’al fin si penta,
star li convien da questa ripa in fore,
per ognun tempo ch’elli è stato, trenta,
in sua presunzïon, se tal decreto
più corto per buon prieghi non diventa.
Par. III, 1-3, 47-49, 58-63
Quel sol che pria d’amor mi scaldò ’l petto,
di bella verità m’avea scoverto,
provando e riprovando, il dolce aspetto
e se la mente tua ben sé riguarda,
non mi ti celerà l’esser più bella,
ma riconoscerai ch’i’ son Piccarda
Ond’ io a lei: “Ne’ mirabili aspetti
vostri risplende non so che divino
che vi trasmuta da’ primi concetti:
però non fui a rimembrar festino;
ma or m’aiuta ciò che tu mi dici,
sì che raffigurar m’è più latino”.
Par. XV, 64-66, 121-123, 130-133
ma perché ’l sacro amore in che io veglio
con perpetüa vista e che m’asseta
di dolce disïar, s’adempia meglio
L’una vegghiava a studio de la culla,
e, consolando, usava l’idïoma
che prima i padri e le madri trastulla
A così riposato, a così bello
viver di cittadini, a così fida
cittadinanza, a così dolce ostello,
Maria mi diè, chiamata in alte grida
Purg. XIX, 100-102, 106-108
Intra Sïestri e Chiaveri s’adima
una fiumana bella, e del suo nome
lo titol del mio sangue fa sua cima.
La mia conversïone, omè!, fu tarda;
ma, come fatto fui roman pastore,
così scopersi la vita bugiarda.
La rosa dei temi contenuti nell’esegesi di Ap 3, 2-3 percorre il poema con multiformi variazioni. Smarrirsi (“Ille enim dormit, qui in peccatis quiescit quasi sopitus … sic fuit otiosus et torpens, quod in mente non habuit qualiter acceperit et audierit statum et gratiam sue perfectionis, et quod ideo sic corruit”), non sapere («“et horam nescies qua veniam ad te” … qui se ipsum per negligentiam et torporem nescit»), tardare (“optat se diu in prosperitate victurum et Dei iudicium diu esse tardandum”), ripensare attentamente un primo stato di grazia, qual era («“In mente ergo habe”, id est attente recogita, “qualiter acceperis”, scilicet a Deo priorem gratiam … si digne recogitaveris gratiam tibi prius impensam et qualiter prius accepisti eandem»), udire (“illa que per predicationem audisti et per influxum gratie a Deo primitus accepisti”), vigilare (“Si ergo non vigilaveris … Igitur non dormiamus sicut et ceteri, sed vigilemus et sobrii simus”), serbare la fede acquisita per proprio consenso («Vel recogita qualiter per proprium consensum accepisti fidem et gratiam et statum eius … “Et serva”»): sono temi che si ritrovano alternati, intrecciati e variati in più luoghi della Commedia. Si rinvengono nello smarrimento di Dante nella “selva oscura” (Inf. I, 1-12) e nella “diserta piaggia”, di cui ha udito Beatrice che teme di aver tardato nel soccorso (Inf. II, 61-66); si registrano nell’ascoltare Virgilio (Inf. V, 70-72; XIII, 20-24) o il “parlar … nemico” di Farinata (Inf. X, 121-129), o ancora di fronte al folgorante sguardo di Beatrice (Par. IV, 139-142) o nella visione finale di fronte al raggio divino (Par. XXXIII, 76-81). Sono appropriati a dannati antichi (Nembrot, Purg. XII, 34-36) e moderni (Vanni Fucci, Inf. XXIV, 112-117), ai purganti nella valletta dei principi (Purg. VIII, 58-63); sono ancora presenti nell’appello ai lettori di Par. II, 1-15.
Il torpore di cui è accusato il vescovo di Sardi è lo stesso di Dante, ignaro del suo essersi ritrovato nella selva oscura, descritto in apertura del poema: “Io non so ben ridir com’i’ v’intrai, / tant’ era pien di sonno a quel punto / che la verace via abbandonai” (Inf. I, 10-12). “Vago” è il poeta di percorrere la divina foresta dell’Eden (Purg. XXVIII, 1-2). Ma non si tratta di un cammino come quello da cui si volse Ulisse, “dove, per lui, perduto, a morir gissi” (Inf. XXVI, 84), né di uno smarrirsi nella selva (nonostante la simmetria tra “tanto, ch’io / non potea rivedere ond’ io mi ’ntrassi” e “Io non so ben ridir com’i’ v’intrai, / tant’ era pien di sonno a quel punto / che la verace via abbandonai”), perché, dopo aver visto “il temporal foco e l’etterno”, il suo arbitrio è “libero, dritto e sano” e può prendere per guida il proprio piacere (Purg. XXVII, 131), che non è più la “dulcis voluptas” delle cose mondane di cui era piena la “dolce serena” apparsagli nel secondo sogno fatto sulla montagna (cfr. infra).
Si consideri, in particolare, la dottrina del libero arbitrio esposta da Virgilio (Purg. XVIII, 46-75). “Principio là onde si piglia / ragion di meritare in voi”, il libero arbitrio è virtù innata “che consiglia, / e de l’assenso de’ tener la soglia”; è “nobile virtù” alla quale bisogna sempre ripensare affinché ogni atto volitivo “si raccoglia” alla “prima voglia”, innata per grazia divina. È dunque assimilato allo stato edenico da ricordare, e non a caso Virgilio, sulla soglia del paradiso terrestre, dice a Dante: “libero, dritto e sano è tuo arbitrio, / e fallo fora non fare a suo senno” (Purg. XXVII, 140-141). Da confrontare quanto detto del libero arbitrio (“e de l’assenso de’ tener la soglia”) con l’assenso dato per Domenico dalla madrina in occasione del battesimo (Par. XII, 64): in entrambi i casi, della fede e della prima voglia, c’è una grazia data gratuitamente sulla quale deve esercitarsi il consenso (“Vel recogita qualiter per proprium consensum accepisti fidem et gratiam et statum eius”).
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Gli stessi motivi servono a Beatrice per affermare la resurrezione dei corpi (Par. VII, 145-148). Dante, dice la donna, deve ripensare “come l’umana carne fessi allora / che li primi parenti intrambo fensi”. A differenza della tradizione teologica, Dante afferma che il corpo è stato creato immortale e lo è per sua stessa natura (poi corrotta dal peccato), e non per privilegio preternaturale conferitogli per virtù dell’anima. Indipendentemente da quelle che possono essere le posizioni dell’Olivi al riguardo, la creazione della carne umana è fasciata dai temi, tratti dalla Lectura super Apocalipsim, relativi a uno stato di grazia e di perfezione da ben riguardare con la mente, utilizzati da Virgilio per descrivere l’origine del libero arbitrio.
Ripensare la prima grazia, oppure qualcosa che si è ascoltato prima: “se tu ripensi / come l’umana carne fessi allora / che li primi parenti intrambo fensi (Par. VII, 146-148) … come i pastor che prima udir quel canto (Purg. XX, 140)”. Ancora sullo stesso panno teologico sono cuciti sia l’invito di Beatrice a ripensare la creazione dell’uomo sia il ricordo dei pastori che per primi ascoltarono il Gloria in excelsis Deo cantato dagli angeli sulla stalla di Betlemme, canto che si rinnova al momento in cui Virgilio e Dante lasciano il quinto girone della montagna, in cammino verso il sesto, grido che accompagna il forte terremoto, anch’esso ripetizione della sconvolgente predicazione di Cristo e segno dell’apertura del sesto sigillo, del libero ascendere interiore e, politicamente, del ritorno del seme di Federico II, vittorioso sul regno di Francia.
Dalla stessa Beatrice, i motivi sono invece appropriati a Dio in senso negativo: “né prima quasi torpente si giacque”, né ebbe un “prima” o un poi, nel suo “discorrer … sovra quest’ acque” (Par. XXIX, 19-21).
Tab. IV bis
[LSA, cap. II, Ap 2, 1 (Va ecclesia)] Vocatur autem congrue hec ecclesia Sardis, id est principium pulchritudinis, tum quia in suis paucis incoinquinatis habet singularem gloriam pulchritudinis […][LSA, cap. III, Ap 3, 2-3 (Ia visio, Va ecclesia)] “Esto vigilans” (Ap 3, 2), id est non torpens vel dormiens, sed attente sollicitus de salute tua. Ille enim dormit, qui in peccatis quiescit quasi sopitus et negligit curare de salute anime sue. Quia vero iste, tamquam episcopus, tenebatur sollicite curare non solum de sua salute sed etiam subditorum suorum, ideo pro utroque monetur ut vigilet. […] Sunt enim nonnulli qui ea quibus apud homines videntur magni magis diligunt, et ea sine quibus in conspectu Dei iustificari non possunt parvipendunt, querentes de minimo crescere et de maximo minui. Qui autem maiora coram Deo negligit, minora etiam coram hominibus iuste perdit. […]
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Inf. I, 1-12; XX, 127-129Nel mezzo del cammin di nostra vita
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Purg. XVIII, 55-66, 73-81Però, là onde vegna lo ’ntelletto
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Per concludere la digressione sui temi aggregati attorno alla perfezione stellare di Sardi, la quinta chiesa, si mostrano alcune variazioni nelle quali intervengono anche temi dell’esegesi della quinta vittoria (Ap 3, 5).
I ‘condiscendenti’ vittoriosi del quinto stato non verranno cancellati dal libro della vita, cioè dalla predestinazione e dalla gloria divina, anzi verranno scritti in esso in modo chiaro. Poiché vissero in mezzo alla moltitudine degli infermi come fossero sepolti o innominati senza avere il nome o la fama dei sommi perfetti, sarà dato loro il singolare nome nella gloria divina, raccomandato da Cristo di fronte a tutta la curia celeste. Olivi nota che l’essere cancellati dal libro della vita non presuppone alcuna mutazione o corruzione in Dio. Alcuni vi si trovano scritti in quanto, secondo la presente giustizia divina, sono degni della vita eterna e ad essa ordinati in modo tale che, se non cadono dalla grazia, non possono fallire dal conseguirla.
È quanto dice Brunetto a Dante (Inf. XV, 55-57): “Ed elli a me: “Se tu segui tua stella (cioè la virtù dei Gemelli, corrispondente alla perfezione stellare della chiesa di Sardi ad Ap 3, 1), / non puoi fallire a glorïoso porto (infallibiliter assequerentur), / se ben m’accorsi ne la vita bella” (il tema del “principium pulchritudinis”, prerogativa della quinta chiesa nei suoi inizi)”. Anche i tre Fiorentini sodomiti augurano al poeta di tornare a rivedere “le belle stelle” (Inf. XVI, 82-84).
Al quinto vescovo e alla sua semenza gli stellari doni dello Spirito sono preparati da Dio, qualora si mantengano degni. Così Cacciaguida, che nel suo discendere dalla croce luminosa “pare stella che tramuti loco”, dice come prima cosa: “Benedetto sia tu … trino e uno, / che nel mio seme se’ tanto cortese!” (Par. XV, 16, 47-48).
Ma gli stessi temi erano ben diversamente risuonati nel rimprovero di Beatrice: “e se ’l sommo piacer sì ti fallio (da confrontare con il non puoi fallire di Brunetto Latini) / per la mia morte, qual cosa mortale / dovea poi trarre te nel suo disio?” (Purg. XXXI, 52-54).
L’Eden, che è figura del quinto stato nel suo bel principio di pienezza stellare e di doni dello Spirito, è “campagna santa … d’ogne semenza … piena”, da cui “l’altra terra (quella abitata dagli uomini), secondo ch’è degna / per sé e per suo ciel, concepe e figlia / di diverse virtù diverse legna” (Purg. XXVIII, 112-120). Di questa saggezza temperata “diversa membra et officia conectens et secundum suas proportiones ordinans sub regula unitatis condescendente proportioni membrorum”, propria degli zelanti istitutori del quinto stato (Ap 2, 1), sono pregne le parole di Beatrice relative a Dante prima della caduta: “Non pur per ovra de le rote magne, / che drizzan ciascun seme ad alcun fine / secondo che le stelle son compagne” (Purg. XXX, 109-111). Non sarà poi casuale che il ‘fallire’ di Dante, dopo la morte della sua donna, sia assimilato, per il medesimo panno su cui sono cucite le parole di Beatrice, alla caduta dell’uomo nel peccato originale: allora la natura umana, che si avvantaggiava “di tutte queste dote” (i doni dello Spirito), “peccò tota / nel seme suo” rendendosi indegna (Par. VII, 76-87).
Risolvendo il dubbio di Dante sul fatto che una preghiera di suffragio per le anime purganti possa modificare i decreti di Dio, Virgilio spiega (utilizzando l’esegesi di Ap 3, 5) che l’altezza del giudizio divino “non s’avvalla”, cioè non ‘condiscende’ corrompendosi, per il fatto che un atto di carità come la preghiera dia soddisfazione per la colpa. Di conseguenza “non falla” la speranza di quanti pregano affinché altri preghino per loro (Purg. VI, 25-48).
L’interpretazione data da Riccardo di San Vittore del nome della quinta chiesa – «“Sardis”, id est principium pulchritudinis, quia scilicet sola initia boni non autem consumationem habuit» – risuona in bocca a san Pietro dopo l’invettiva contro “Caorsini e Guaschi” che si apprestano a bere il sangue della Chiesa: “o buon principio, / a che vil fine convien che tu caschi!” (Par. XXVII, 59-60, dove il “vil fine” è un filo tratto dal Notabile V, sempre relativo al quinto stato). Il medesimo tema è appropriato a Dante, che, offeso da viltà, consuma nel dubbio l’impresa di compiere il viaggio, da principio prontamente accettata (Inf. II, 41-42).
“Belle … stelle” sono le quattro virtù cardinali che nell’Eden conducono il poeta agli occhi di Beatrice, nei quali però potrà vedere solo per intervento delle tre virtù teologali, “che miran più profondo” (Purg. XXXI, 103-111). In apertura della seconda cantica, il poeta ‘pone mente’ al polo antartico, e vede “quattro stelle / non viste mai fuor ch’a la prima gente” (le quattro virtù cardinali, Purg. I, 22-24; le tre teologali, anch’esse stelle, saliranno al posto delle prime a Purg. VIII, 89-93): nei versi è presente il tema del ripensare a un ‘prima’ (la prima grazia) secondo l’invito fatto al vescovo di Sardi (Ap 3, 3).
Tab. IV ter
Par. XV, 16-18, 46-48
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Purg. XXX, 109-111Non pur per ovra de le rote magne,
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[LSA, cap. II, Ap 2, 1 (Ia visio, Va ecclesia)] Vocatur autem congrue hec ecclesia Sardis, id est principium pulchritudinis, tum quia in suis paucis incoinquinatis habet singularem gloriam pulchritudinis, quia difficillimum et arduissimum est inter tot suorum luxuriantes se omnino servare mundum; tum quia primi institutores quinti status fuerunt in se et in suis omnis munditie singulares zelatores, suorumque collegiorum regularis institutio, diversa membra et officia conectens et secundum suas proportiones ordinans sub regula unitatis condescendente proportioni membrorum, habet mire pulchritudinis formam toti generali ecclesie competentem, que est sicut regina aurea veste unitive caritatis ornata et in variis donis et gratiis diversorum membrorum circumdata varietate.[LSA, cap. III, Ap 3, 1 (Ia visio, Va ecclesia)] Hiis autem premittitur Christus loquens, cum dicitur (Ap 3, 1): “Hec dicit qui habet septem spiritus Dei et septem stellas”, id est qui occulta omnium videt et fervido zelo spiritus iudicat tamquam habens “septem spiritus Dei”, qui prout infra dicitur “in omnem terram sunt missi” (cfr. Ap 5, 6); et etiam qui potest omnes malos quantumcumque potentes punire tamquam in sua manu, id est sub sua potentia, habens “septem stellas”, id est universos prelatos omnium ecclesiarum. Quid per septem spiritus significetur tactum est supra, capitulo primo, super prohemio huius libri. Talem ergo se proponit huic episcopo, quia habebat nomen boni cum esset malus, nec videbatur futurum iudicium formidare, et etiam quia Christus ostendit se nosse quosdam sanctos huius ecclesie occultos et paucos, tamquam omnibus spiritualiter presens et omnia potestative continens.
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[LSA, cap. III, Ap 3, 5 (Ia visio, Va victoria)] Super quo nota quod deleri de libro vite non ponit in Deo aliquam mutationem vel corruptionem, sed solum ex parte obiecti. Quidam enim sunt ibi scripti secundum presentem iustitiam suam, per quam sunt digni vita eterna et a Deo ordinati ad illam, ita quod si non caderent a gratia infallibiliter assequerentur illam. Pro quanto autem per casum ab illa deletur hec ordinatio, pro tanto dicuntur deleri de libro vite; et per contrarium quanto magis crescunt et perseverant in gratia, tanto magis dicuntur scribi in libro vite.
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Inf. XV, 55-57; XVI, 82-84Ed elli a me: “Se tu segui tua stella,
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5. Il “lume” di Venere
Non credo che splendesse tanto lume
sotto le ciglia a Venere, trafitta
dal figlio fuor di tutto suo costume.
Ella ridea da l’altra riva dritta
(Purg. XXVIII, 64-67)
La decima perfezione di Cristo in quanto sommo pastore consiste nell’incomprensibile gloria che gli deriva dalla chiarezza e dalla virtù, per cui si dice: “e la sua faccia riluce come il sole in tutta la sua virtù” (Ap 1, 16). Il sole riluce in tutta la sua virtù nel mezzogiorno, quando l’aere è sereno, fugata ogni nebbia o vapore grosso. Allora il viso corporeo di Cristo ha incomparabilmente più luce e vigore, e ciò designa l’ineffabile chiarezza e virtù della sua divinità e della sua mente. Lo splendore del volto indica l’aperta e fulgida conoscenza della Sacra Scrittura, che deve raggiare in modo più chiaro nel sesto stato, prefigurata dalla trasfigurazione sul monte avvenuta dopo sei giorni e designata dall’angelo che, al suono della sesta tromba, ha la faccia come il sole (cfr. Ap 10, 1).
L’undecima perfezione, conseguenza della precedente, sta nell’imprimere negli inferiori, di fronte a tante sublimità, un sentimento di umiliazione, di tremore e di adorazione, per cui si dice: “e vedendolo”, cioè tanto e tale, “caddi ai suoi piedi come morto” (Ap 1, 17). Il cadere (è da intendere che Giovanni cadde col viso a terra in atto di adorazione, perché il cadere supino è segno di disperazione) è causato sia dall’intollerabile eccesso dell’oggetto visto, sia dall’influsso dell’angelo o dell’assistente divino che incute terrore e provoca un sentimento di mutazione, sia dalla materiale fragilità del soggetto o dell’organo visivo. Proprio il senso di intimo mutare rende colui che vede esperto del fatto che si tratta di una visione ardua, divina e derivata da cause supreme. Sentirsi annullato predispone a ricevere le visioni divine in modo più umile e timorato, e significa che la virtù e la perfezione dei santi provoca tremore e umiliazione negli inferiori. Significa anche che l’ascesa alla contemplazione divina avviene unicamente tramite l’oblio, la negazione, la mortificazione di sé stessi e la privazione di ogni cosa.
I signacula di questa esegesi del volto di Cristo che irradia, nel sesto stato, più luce e più rivelazione della Scrittura, percorrono tutta la terza cantica a partire dal principio, dove quello che nell’esegesi è concentrato unicamente su Cristo e sullo splendore del suo volto (“splendor faciei”) viene frantumato su più soggetti. Beatrice, in primo luogo, con il suo sorriso, il ridere che corrisponde allo “splendor faciei” del solare volto di Cristo. Nel testo della Lectura Dante trovava corrispondenza con quanto da lui affermato nel Convivio, del ridere come “una corruscazione della dilettazione dell’anima, cioè uno lume apparente di fuori secondo sta dentro” (III, viii, 11). Lo splendor faciei di Cristo, che si incarna nel sorriso della donna, discorre per tutto il Paradiso, con variazioni della rosa semantica che lo costella: l’essere più lucente, la troppa luce, il mettere in oblio, l’intimo accorgersi di più ardua visione (emerge in filigrana solo in un punto dell’Inferno [V, 133-136, 142], nel quale i temi della decima e undecima perfezione del sommo pastore formano l’armatura del “riso” di Ginevra, il “punto” della lettura del libro ‘galeotto’ che “vinse” Francesca e Paolo). All’esegesi di queste due perfezioni di Cristo sommo pastore rimandano le parole incastonate nei versi come pietre miliari, a ricordare una dottrina poeticamente rivestita. Le variazioni, inoltre, non sono solo interne al ristretto passo esegetico (Ap 1, 16-17), ma coinvolgono altri luoghi della Lectura. Un lettore ‘spirituale’, di fronte al ridere di Beatrice, avrebbe senz’altro rammentato l’esegesi del volto solare di Cristo. Non nel senso di una reale identificazione, ma della conformità che nasce dal seguirlo.
L’esame compiuto di questa esegesi è stato condotto altrove; qui si considerano unicamente gli aspetti relativi ai canti dell’Eden confrontati con Par. XXIII e XXX.
■ Beatrice, nell’attesa che le schiere del trionfo di Cristo discendano dall’Empireo al Cielo stellato, “stava eretta / e attenta, rivolta inver’ la plaga / sotto la quale il sol mostra men fretta” (Par. XXIII, 10-12), cioè verso mezzoggiorno quando, secondo l’esegesi di Ap 1, 16, il volto di Cristo si mostra, come il sole, di più luminoso splendore in tutta la sua virtù e chiarezza. È un sole che accende “migliaia di lucerne”, “quale ne’ plenilunïi sereni / Trivïa ride tra le ninfe etterne / che dipingon lo ciel per tutti i seni” (vv. 25-30). La luna che ride e accende le stelle appare con lo stesso splendore del sole-Cristo che illumina i beati; la similitudine raffigura il passo di Isaia 30, 26 “Erit lux lune sicut lux solis”, incipit della Lectura super Apocalipsim.
All’arrivo delle schiere, Beatrice dice a Dante di guardarla – “Apri li occhi e riguarda qual son io” -, perché egli ha veduto tali cose – “la lucente sustanza tanto chiara / nel viso mio, che non la sostenea”, cioè Cristo, che “è virtù da cui nulla si ripara” – che hanno reso la sua facoltà visiva disposta a sostenere il proprio sorriso (Par. XXIII, 31-36, 46-48). Il poeta è “come quei che si risente / di visïone oblita e che s’ingegna / indarno di ridurlasi a la mente” (vv. 49-51), deve rinunciare a cantare “il santo riso” (il sacro poema lo ‘salta’ nel descrivere il paradiso) perché il suo è omero mortale che si fa carico del “ponderoso tema”, e chi questo pensasse “nol biasmerebbe se sott’ esso trema” (vv. 55-69). Nei versi si ritrovano motivi da Ap 1, 16-17: la “claritas” e la “virtus” di Cristo, sole che accende migliaia di lucerne, cioè di anime luminose; l’ “aperta et superfulgida notitia scripture sacre” raggiante nel sesto stato della Chiesa, che corrisponde all’invito di Beatrice al poeta di aprire gli occhi; lo “splendor faciei”, che è lo stesso sorriso della donna, come nella similitudine di Trivia; la fragilità dell’organo visivo; l’ “oblivio sui”, sperimentato da Dante alle parole di Beatrice che lo richiamano dalla visione di Cristo che lo aveva fatto uscir di mente; la “tremefactio intuentium”, per cui il poeta trema nel tentativo, cui dice di rinunciare, di cantare l’aspetto della sua donna; l’arditezza della visione, che si traspone nell’ “ardita prora” del poema sacro.
La “lucente sustanza”, che “per la viva luce trasparea” (Par. XXIII, 31-32), deriva da Ap 22, 1, dall’esegesi del fiume che scorre nel mezzo della Gerusalemme celeste, il quale indica la sostanza della grazia e della gloria della somma Trinità che viene comunicata a tutti i beati e che procede ed è dispensata dal Cristo uomo e fa trasparire nelle sue acque vive, come in un cristallo solido e perspicuo, la luce della somma sapienza.
Fanno da contrappunto ad Ap 1, 16-17 anche le proprietà di almeno quattro delle dodici tribù d’Israele da cui proverranno i segnati all’apertura del sesto sigillo (Ap 7, 6-8; qui Olivi segue l’interpretazione delle dodici porte dei quattro lati della Gerusalemme celeste data da Bonaventura nelle Collationes in Hexaëmeron, XXIII, 15-31 a proposito dell’anima gerarchizzata nella contemplazione), quasi a voler significare una graduale ascesa alla perfezione “ad perfectum … nexum amoris”: la quarta tribù, Aser (“amor ad superna elavatus”): beatus, pinguis → Bëatrice, più pingue; la quinta, Neptalim (“amor ad fraterna dilatatus”: la virtù per cui ci si dilata all’eterno da ciò che è temporale, cosicché questo sia specchio dell’altro): se … dilatat → per dilatarsi; la sesta, Manasse (“amor inferiorum oblitus”: una volta passati all’intellettuale dal sensibile, sopravviene l’oblio di questo come una liberazione da veli tenebrosi): oblitus → oblita (hapax nella Commedia). Si aggiunge anche Isachar, la nona tribù rappresentante l’assiduo e fervido sospirare verso la ricompensa dell’eterna gloria che per essa si sottopone a ogni servizio di Dio e dei suoi: omni servituti Dei et suorum se subiciens … subposuit humerum suum ad portandum → in che gravi labor li sono aggrati … e l’omero mortal che se ne carca.
■ La stessa materia offerta da Ap 1, 16-17 e da Ap 22, 1, appropriata nell’ottavo cielo a Cristo e al riso di Beatrice, è stata già utilizzata, nell’Eden, per lo svelamento della donna “ne l’aere aperto” e, ancor prima, per descrivere il riflettersi del grifone-Cristo nei suoi occhi (Purg. XXXI, 121-126, 139-145). Nell’Eden, che sta in terra, Beatrice è “luce ” e “gloria de la gente umana” (Purg. XXXIII, 115), prerogative del sommo pastore nella sua decima perfezione.
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■ I temi da Ap 1, 16-17 fasciano ancora il senso di annullamento e di oblio provato da Dante, sulla soglia dell’Empireo, di fronte alla bellezza di Beatrice, alla quale egli è tornato con gli occhi dopo l’estinguersi alla sua vista del trionfo dei cori angelici attorno al punto luminoso “che mi vinse”. Il solo ricordo “del dolce riso” – il ridere rende lo “spendor faciei” di Ap 1, 16 – annulla le facoltà della sua mente: “ché, come sole in viso che più trema, / così lo rimembrar del dolce riso / la mente mia da me medesmo scema” (Par. XXX, 25-27). L’espressione “come sole in viso che più trema” cuce i temi della decima perfezione di Cristo (“sicut sol”) e dell’undecima (la “tremefactio intuentium”), con il “più” trasferito dalla luce dell’una al render tremanti dell’altra. È da notare il riferimento all’ora sesta, cioè meridana, che “ferve” (vv. 1-2) e al trasmodare della bellezza della donna (vv. 19-21, “si trasmoda” è hapax nel poema), che corrispondono al sesto stato e alla trasfigurazione avvenuta dopo sei giorni. Il poeta si dichiara vinto: “Da questo passo vinto mi concedo / più che già mai da punto di suo tema / soprato fosse comico o tragedo” (vv. 22-24).
Tab. V
[LSA, cap. I, Ap 1, 16-17 (radix Ie visionis)] Decima (perfectio summo pastori condecens) est sue claritatis et virtutis incomprehensibilis gloria, unde subdit: “et facies eius sicut sol lucet in virtute sua”. Sol in tota virtute sua lucet in meridie, et precipue quando aer est serenus expulsa omni nube et grosso vapore, et quidem corporalis facies Christi plus incomparabiliter lucet et viget. Per hoc tamen designatur ineffabilis claritas et virtus sue divinitatis et etiam sue mentis. Splendor etiam iste sue faciei designat apertam et superfulgidam notitiam scripture sacre et faciei, ita quod in sexta etate et precipue in eius sexto statu debet preclarius radiare. In cuius signum Christus post sex dies transfiguratus est in monte in faciem solis (cfr. Mt 17, 1-8), et sub sexto angelo tuba canente videtur angelus habens faciem solis et tenens librum apertum (cfr. Ap 10, 1-2).
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Par. XXIII, 10-12, 25-72 (cfr. incipit)così la donna mïa stava eretta
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Par. XXX, 1-2, 10-15, 19-21, 25-27Forse semilia miglia di lontano
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Purg. XXVIII, 64-69, 76-78, 94-96, 145-147Non credo che splendesse tanto lume
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[IX-Isachar] Nono exigitur assidua et fervens suspiratio ad mercedem eterne glorie omni servituti Dei et suorum se subiciens pro illa, et hanc designat Isachar, qui interpretatur merces, de quo dicit Iacob: “Isachar asinus fortis; vidit requiem quod esset bona, et terram quod optima, et subposuit humerum suum ad portandum”, scilicet omne honus propter illam, “factusque est tributis serviens” (Gn 49, 14-15).
……………….. a Venere, trafitta
dal figlio fuor di tutto suo costume.
(Purg. XXVIII, 65-66)
Ad Ap 12, 4 il drago sta dinanzi alla donna, che è in procinto di partorire, per divorarne il figlio, cioè per trarlo in dannazione come gli altri uomini. Non si tratta del parto naturale della Vergine, che avvenne senza dolore, ma del parto spirituale di Cristo e dei suoi discepoli, e quindi della Chiesa come corpo mistico, accompagnato da sommo dolore nella croce e nelle tentazioni. Olivi pone qui la questione se il diavolo sapesse che Cristo era Dio o comunque senza peccato e non soggetto a dannazione. Viene citata la posizione di Gregorio Magno, contenuta nei Moralia su Giobbe 40, 19 – “nei suoi occhi lo prenderà come con l’amo”. Secondo Gregorio, il diavolo sapeva trattarsi del Figlio di Dio incarnato per la nostra redenzione ma non conosceva l’ordine della redenzione stessa, per cui Cristo morendo sulla croce lo avrebbe trafitto. Olivi corregge Gregorio e sostiene che il diavolo prima della morte di Cristo non sapeva con certezza e senza dubbi che Cristo fosse il Figlio di Dio a lui consustanziale, né tanto meno che fosse senza peccato, altrimenti non lo avrebbe mai tentato, prima nel deserto e poi al momento della passione. Come afferma san Paolo (1 Cor 2, 7-8), nessuno dei prìncipi di questo mondo conobbe la sapienza divina; se l’avessero conosciuta, non avrebbero mai crocifisso o istigato alla crocifissione il Signore della gloria. Il diavolo pertanto non conobbe la divinità di Cristo, ma solo la sua mortale umanità. Questa, come afferma lo stesso Gregorio, era però un amo che ostendeva un’esca dentro la quale stava occulto un aculeo. Così, mentre il diavolo era attratto dall’esca corporea costituita dal corpo infermo per umanità, veniva trafitto, per occulta virtù, dall’aculeo della divinità (maggiori indicazioni su questa esegesi vengono fornite altrove).
La situazione del diavolo di fronte a Cristo è la medesima di Dante di fronte a Beatrice non più veduta da tanto tempo. Come l’avversario del Redentore venne attratto dall’esca del Cristo uomo, così il poeta crede di sentire con lo spirito la donna conosciuta in vita (“E lo spirito mio … d’antico amor sentì la gran potenza”). Ma come l’aculeo della divinità del Figlio di Dio trafigge per occulta virtù l’antico nemico, così “per occulta virtù che da lei mosse” vengono trafitti gli occhi di Dante da una donna ormai salita di carne a spirito, cresciuta in bellezza e virtù (Purg. XXX, 34-42). Egli riprova, a un livello superiore, l’esperienza de “l’alta virtù che già m’avea trafitto / prima ch’io fuor di püerizia fosse”. Il tema ritorna all’inizio di Purg. XXXII, con il poeta assorto nella contemplazione del “santo riso” di Beatrice appena svelata, che trae a sé gli occhi del poeta “con l’antica rete”, uno stato dal quale egli viene distolto per forza dalle tre virtù teologali, rimanendo per un po’ senza facoltà visiva. È direttamente riferito al diavolo in Purg. XIV, 145-146, a proposito degli esempi di invidia punita che dovrebbero essere il “duro camo”, cioè il freno agli uomini i quali invece, attirati dall’esca, sono presi dall’amo dell’antico avversario.
Come Dante è stato trafitto, nella sua umana infermità, dall’aculeo del Figlio di Dio pieno di occulta virtù, così il ridere di Matelda (che splende come il volto di Cristo: Ap 1, 16) ricorda al poeta, ma con maggior fervore amoroso, Venere trafitta dal figlio Cupido, parodia dell’altro e maggior Figlio: “Non credo che splendesse tanto lume / sotto le ciglia a Venere, trafitta / dal figlio fuor di tutto suo costume” (Purg. XXVIII, 64-66). I versi ovidiani (Metam. X, 525-528) che descrivono Cupido il quale, mentre bacia la madre, la ferisce al petto senza volerlo (inscius) e l’inganna con la ferita (primoque fefellerat ipsam) facendola innamorare di Adone sembrano concordare con l’esegesi di quanto cantato da Venanzio Fortunato nell’inno Pange, lingua, gloriosi proelium certaminis citato nell’esegesi di Ap 12, 4, nell’inciso “quod nostre salutis ordo depoposcerat ut ars Christi falleret artem multiformis proditoris, de quo in versu priori premisit quod per pomum ligni fraudulenter fefellerat prothoplaustrum, id est primum hominem” [1].
Il ritrovare Beatrice, con la contestuale sparizione di Virgilio, segna per Dante il passaggio dal vecchio al nuovo, l’essere venuto, per una sorta di superiore astuzia, dall’umano al divino della sua donna, quell’umano che con Matelda procede in terra ordinatamente verso l’immortale felicità.
Il diavolo, sostiene Olivi, sapeva che Cristo era figlio di Dio per grazia; a questo aspetto si riferisce il Salmo 81, 6, citato ad Ap 12, 4: “Ego dixi: dii estis et filii excelsi omnes”. Ma non per questo sapeva che era figlio di Dio per natura. Nel cielo di Mercurio, Beatrice invita Dante a rivolgersi con sicurezza agli “spirti pii”, credendo loro “come a dii” (Par. V, 121-123). Il non sapere, nell’episodio citato, è proprio di Dante, che non sa chi sia lo spirito che gli ha parlato né perché manifesti la propria beatitudine nel secondo cielo (vv. 127-129). L’anima è quella di Giustiniano, e forse non a caso si insinua nei versi il tema dell’essere figlio di Dio per natura tratto da Ap 12, 4, considerato che, nella metamorfosi poetica dell’esegesi del terzo stato (dei dottori, il cui simbolo è la spada) e del quarto stato (i contemplativi, che con vita divina si dedicano al “pasto” spirituale), i due soli, l’impero e il papato, sono equiparati alle due nature di Dio, umana e divina, che non possono essere ridotte a una, come è invece successo allorché uno dei due soli ha spento l’altro, congiungendo la spada al pastorale. Con coerenza Giustiniano premette al suo discorso sull’Impero il racconto della propria errata fede monofisita, che riconosceva in Cristo una sola natura, quella divina, prima che il benedetto papa Agapito lo riportasse alla fede sincera (Par. VI, 13-22). Dante, quindi, sapeva che lo spirito che gli aveva parlato era figlio di Dio per grazia (in quanto già beato), ma non per natura, cioè non sapeva che si trattava di un imperatore, assimilabile al Figlio di Dio. Così non aveva dubitato che la sua donna fosse beata, ma non aveva sospettato della sua natura divina.
[1] Cfr. Pange, lingua, gloriosi proelium certaminis di Venanzio Fortunato (Carmina, lib. II, 2), vv. 4-9: “De parentis protoplasti fraude factor condolens, / quando pomi noxialis morte morsu corruit, / ipse lignum tunc notavit, damna ligni ut solveret. / Hoc opus nostrae salutis ordo depoposcerat / multiformis perditoris arte ut artem falleret / et medellam ferret inde, hostis unde laeserat” (cfr. Venanzio Fortunato, Opere/1, a cura di Stefano Di Brazzano, Roma 2001 [Scrittori della Chiesa di Aquileia, VIII/1], p. 148 = MGH, Auctores Antiquissimi, IV/1, rec. Friedrich Leo, Berolini 1881, p. 28). Il carme “nel rito romano tradizionale era cantato come inno al mattino e alle lodi nelle due settimane del tempo di Passione, nonché durante l’adorazione della Croce nell’azione liturgica pomeridiana del Venerdì santo” (Di Brazzano, p. 148, nt. 4). Il rimedio recato con lo stesso oggetto con cui venne inferto il torto, cioè il “lignum”, coincide con l’atto con cui nell’Eden il grifone-Cristo lega il timone del carro-Chiesa all’albero che così rifiorisce: “e quel di lei a lei lasciò legato” (Purg. XXXII, 51: viene così confermata l’interpretazione del Buti, fondata sulla leggenda che la croce derivasse dallo stesso albero della scienza del bene e del male; il timone della Chiesa è dunque la croce). Si stabilisce così un sottile legame tra il nome “Adamo”, mormorato dai personaggi della processione prima di porsi in cerchio attorno all’albero spoglio (vv. 37-39), e il carro (il “plaustro”, v. 95, hapax in Dante; Adamo è “protoplaustrum”), tra la colpa e la redenzione.
Tab. V bis
[LSA, cap. XII, Ap 12, 4 (IVa visio, Ium prelium)] Sequitur de primo prelio: “Et dracho stetit ante mulierem” (Ap 12, 4), id est ante ecclesiam, “que erat paritura”, scilicet Christum in cruce et in suis primis discipulis. Non enim videtur hic agi de virginali et corporali partu Christi, quia Virgo tunc non parturivit illum cum dolore. In cruce tamen et in omnibus temptationibus Christum peperit cum summo dolore.
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Purg. XXX, 34-43E lo spirito mio, che già cotanto
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Purg. XIV, 145-147Ma voi prendete l’esca, sì che l’amo
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6. Vita attiva e vita contemplativa
Il quarto stato (storicamente conchiuso fra Giustiniano e le prime conquiste arabe), proprio degli anacoreti o contemplativi, è caratterizzato dal fuggire il mondo fino ai suoi estremi, dalla vita santa, celestiale, alta e contemplativa designata dall’aquila che, come si afferma ad Ap 8, 13 (quarta tromba), vola prima e più alto degli altri per i sentieri delle allegorie come per le ardue vie del cielo. Il termine anacoreti non deve però ingannare. Il quarto periodo si distingue pure nella vita attiva, quando tutte le forze del corpo e della mente sono dedicate in modo assiduo e totale alle perfette opere di virtù, né si allentano per il lungo continuare, ma anzi intendono, si rafforzano e crescono nel salire a forti opere. È dunque per eccellenza lo stato delle res gestae. Imperare è prerogativa dei contemplativi del quarto stato, ai quali è dato reggere le genti “in virga ferrea” e frantumarne i vizi (quarta vittoria: Ap 2, 26-28). Il loro agire senza tregua li conduce a un “victoriosus effectus”, di virtù e insieme di conoscenza delle cose sublimi (si ricordi “l’alto effetto” uscito dalla “vittoria” di Enea). Ma tanto alto e arduo stato non può durare a lungo, per cui viene volto in basso dalle devastazioni saracene. Ad esso subentra uno stato meno duro e solitario, aperto alla vita associata delle moltitudini, il quinto, pietoso e condiscendente.
Questi diversi aspetti del quarto stato sono ben evidenziati nell’istruzione data a Tiatira, la quarta chiesa d’Asia (Ap 2, 1.18). Il vescovo e la chiesa vengono infatti lodati sia per il fervore della fede e della carità, sia per l’umiltà nel ministrare, sia per la pazienza e la perfezione dell’operare nella vita attiva. Gli anacoreti, infatti, sempre si preparavano ad ascendere agli atti contemplativi di fede e di carità con le opere manuali, con la lettura, con il salmodiare, con l’assidua macerazione del corpo conseguita tramite il digiuno e altre austerità. Così Cristo, rispetto alla prima lodata qualità si propone al vescovo della quarta chiesa come colui che ha gli occhi lucidi e ardenti (che designano il fervore e la luce della contemplazione infuocata), rispetto alla seconda come il Figlio dell’uomo (che designa l’umiltà), rispetto alla terza come colui che ha i piedi simili all’oricalco (che designa la perfezione della vita attiva).
A tali prerogative si addice il nome Tiatira, che significa “illuminata” o “infiammata” o “vittima vivente”, poiché come tale costoro si offrono a Dio nella luce e nella fiamma della devota contemplazione.
I principali temi del quarto stato sono compendiati nei versi che descrivono, fino al sogno del poeta, la ripresa della salita verso la sommità della montagna, dov’è l’Eden, dopo il passaggio del muro di fuoco che Virgilio, Dante e Stazio hanno attraversato nell’ultimo girone del purgatorio (Purg. XXVII, 64-93). La salita, come è consueta regola della montagna, è impedita nel corso della notte (tema della quarta tromba, Ap 8, 12). La “notte”, illuminata dalla luna e dalle stelle, designa la plebe secolare, più rude e imperfetta di quella figurata dal giorno, che non è predisposta per essere illuminata, accesa ed eccitata al bene dall’alta vita e dalla contemplazione dei solari, che prova anzi orrore e quasi disperazione nel vederli e ascoltarli: costoro sono più facilmente stimolati e istruiti da maestri inferiori, proporzionati alla loro inferiorità. Il chiarore notturno designa altresì il sostenere con pazienza le avversità, come pure il buon governo temporale o i buoni costumi o le opere della vita attiva [1]. Il sopraggiungere della notte è un ‘dispensare’ – “e notte avesse tutte sue dispense” –, che corrisponde al ministrare o dispensare ai poveri e ai sottoposti per cui è lodato il vescovo di Tiatira (Ap 2, 19).
I poeti si fanno letto di un gradino della scala (il “lectus quietis” da Ap 2, 22, che contrasta con il “lectus doloris” in cui è messa Gezabele, la falsa profetessa), affranti dalla natura del monte che fiacca la forza e il desiderio di salire (l’eccesso di contemplazione frange il corpo, come spiegato nell’esegesi del quarto esercizio ad Ap 2, 1; si può ricordare anche il languore proprio dell’apertura del quarto sigillo ad Ap 6, 8).
Come le capre – le quali, dopo essere “state rapide e proterve / sovra le cime (esprimono l’arditezza e la protervia dell’alto stato dei contemplativi, lo stare pertinace contro il quale si appunta lo zelo nel quarto stato [prologo, Notabile III], come dice la voce al v. 62: “non v’arrestate”) avante che sien pranse (la cura pastorale, caratteristica precipua del primo stato, attende nel quarto al pasto e al nutrimento del gregge: Notabile III; al pasto eucaristico è assimilato il quarto stato: Notabile XIII)”, stanno “tacite a l’ombra, mentre che ’l sol ferve (a Tiatira appartiene il fervore infiammato della carità: Ap 2, 18; il sole è tra i motivi della quarta tromba), / guardate dal pastor, che ’n su la verga (il reggere con virtù, come con una verga di ferro, è tema della quarta vittoria: Ap 2, 26-28) / poggiato s’è e lor di posa serve” (cioè ministra con umiltà) -; e come il mandriano – che “lungo il pecuglio suo queto pernotta” (ancora il “lectus quietis”), guardandolo dalle fiere (l’espressione “perché fiera non lo sperga” può alludere alla Chiesa, dispersa e oppressa prima che, a partire da Costantino, venissero date alla donna due ali di una grande aquila, cioè i dottori del terzo stato e gli anacoreti del quarto: Ap 12, 14) -, così Dante sta come capra e Stazio e Virgilio come pastori (il poeta assume qui il ruolo della “plebs secularior et rudior et imperfectior” di cui ad Ap 8, 12, nell’esegesi della notte illuminata dalla luna e dalle stelle).
Per quel poco che poteva vedere “lì del di fori”, fasciato com’era “quinci e quindi d’alta grotta”, il poeta scorgeva “le stelle / di lor solere e più chiare e maggiori”, richiamo della “claritas plusquam stellaris” della quarta vittoria che consegue la chiara intelligenza della Scrittura (Ap 2, 26-28). Dante è preso dal “sonno che sovente, / anzi che ’l fatto sia, sa le novelle”, come l’aquila del quarto sigillo vede le cose, come in uno specchio, prima che avvengano (Ap 6, 8).
Poco prima dell’alba – “Ne l’ora, credo, che de l’orïente / prima raggiò nel monte Citerea (il pianeta Venere, che è la “stella matutina” della quarta vittoria), / che di foco d’amor par sempre ardente” (il fervore della fede e della carità proprio della quarta chiesa, per cui Cristo ad Ap 2, 18 si presenta con gli occhi ardenti come fiamma) -, appare in sogno al poeta Lia, simbolo della vita attiva, che coglie fiori, canta e muove le belle mani per fare una ghirlanda: la bella e giovane donna è trasposizione di quella perfezione dell’operare propria del quarto stato degli anacoreti, “qui partim opere manuum, partim lectione, partim vocali psalmodia … se semper preparabant et sursum agebant ad contemplativos actus fidei et caritatis” (Ap 2, 1.18). Lia dice di sua sorella Rachele, simbolo della vita contemplativa, che “mai non si smaga / dal suo miraglio, e siede tutto giorno”, cioè mai cessa dal contemplare. Rachele è sempre desiderosa di guardare i suoi occhi allo specchio (corrispondono agli occhi di Cristo, infuocati per la fiammeggiante luce della contemplazione speculativa), Lia è invece appagata dall’adornarsi con le mani (la perfezione della vita attiva, anch’essa propria del quarto stato). Vita attiva e vita contemplativa sono distinte in Lia e in Rachele: la prima va cogliendo fiori e cantando, opera con le mani; la seconda è appagata dal vedere degli occhi. Ma il raggiare di Citerea nell’ora mattutina del sogno, “che di foco d’amor par sempre ardente”, riguarda entrambe le donne, quasi a indicare che la vita attiva è ordinata alla contemplazione (Purg. XXVII, 94-108). A entrambe, per le mani o per gli occhi, è appropriato il tema della bellezza, proprio della quinta chiesa (Ap 3, 3). Tema che torna, con altri motivi collaterali (il principio, la stella), con “la bella Ciprigna” in apertura di Par. VIII.
Si è visto come Matelda sia segnata dai temi del quinto stato, nel suo bel principio: la mirabile bellezza, la varietà dei doni della Grazia, il ricordare un prima, la condiscendenza (Ap 3, 3). Delle prerogative della quarta chiesa (Ap 2, 1.18), assimilate nella descrizione del sogno a Lia e a Rachele, ne mostra di più fra quelle che si riferiscono alla vita attiva: cantare, scegliere fior da fiore, mettere piede innanzi piede, trattare colore con le mani, salmodiare. Le è proprio, nel suo venir “presta”, anche il ministrare, nonché l’umiltà, nel procedere con “picciol passo” [2]. Tuttavia, come Lia era illuminata da Citerea, così anche Matelda si scalda ai raggi d’amore. Per quanto “li occhi onesti avvalli” con condiscendenza, fa dono di levarli per mostrare quanto lume vi splende. È donna “soletta”, si muove “come ninfe che si givan sole”, e ciò corrisponde alla solitudine degli anacoreti, ma in essa, al modo degli attivi del quarto stato, si prepara per levarsi più su, verso la contemplazione (cfr. la tematica del quarto stato nella faticosa salita descritta in Purg. IV). In quanto riassume le sette chiese d’Asia che tendono alla patria celeste (significate dai sottostanti sette gironi della montagna, uno per ognuno dei sette stati della storia della Chiesa), è immagine della Chiesa militante in terra (l’Asia è interpretata come gradiens; la “bella donna” è colei che per antonomasia ‘muove il passo’; Ap 1, 4). La stessa Beatrice, la ‘nuova’ Rachele, si mostra nell’Eden assai attiva, “quasi ammiraglio” (Purg. XXX, 58-60). Questo genere, tra vita attiva e contemplativa, è quello di cui si dice al termine della Monarchia: “cum mortalis ista felicitas quodammodo ad inmortalem felicitatem ordinetur” (III, xv, 17). Matelda procede lungo il Lete, la riva umana del fiume che scorre in mezzo alla Gerusalemme celeste, ma poi lo passa e perviene fino all’Eunoè, cioè alla riva divina. Partecipa di entrambe le parti della beatitudine, consistenti nell’essere senza la penale memoria di ogni male e nell’avere ogni bene (Ap 21, 4; 22, 1-2).
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La “femmina balba”, che appare in sogno al poeta nel quarto girone della montagna (Purg. XIX, 1-33), difetta di tutti gli attributi con cui Cristo si propone ai santi contemplativi, e per i quali viene lodato il vescovo di Tiatira, la quarta chiesa d’Asia: è “ne li occhi guercia”, anziché con gli occhi lucidi e ardenti; “sovra i piè distorta”, anziché con i piedi simili ad oricalco; “con le man monche”, impedita cioè nel ministrare e nelle opere manuali in cui anche eccellono gli anacoreti; “e di colore scialba”, che corrisponde al colore pallido del cavallo del quarto sigillo, simile nel languore al colore della morte (Ap 6, 8). L’essere distorta sui piedi e monca nelle mani deriva da motivi del terzo stato (l ’“intorta acceptio scripture” da Ap 6, 5 e il tagliare da Ap 2, 12). Si presenta come l’immagine perversa ed erronea di Matelda, è “femmina” e non “donna” (“femina”, nell’esegesi, è Gezabele, la falsa profetessa), non canta salmodie ma per ammaliare sensualmente i naviganti, non interviene al cominciare del “novo giorno” ma sotto l’egida della fredda luna, simbolo di ciò che è mondano; non si scalda ai raggi d’amore ma si colora di ipocrita amore allo sguardo del poeta. Non sarà casuale che, a rendere confusa questa immagine, si direbbe di Anticristo, intervenga – nel sogno – “una donna … santa e presta” (Purg. XIX, 25-27) come sarà fra le prerogative di Matelda: “ch’i’ venni presta / ad ogne tua question tanto che basti” (Purg. XXVIII, 83-84). Reminiscenza dell’intervento di Beatrice contro la Donna Gentile o Pietosa della Vita Nova – “adversario della Ragione … desiderio malvagio e vana tentatione” -, le parole “una donna” sono riferimento alla donna vestita di sole di Ap 12, 1, che designa la Chiesa come corpo mistico di Cristo e, secondo Gioacchino da Fiore, la Chiesa dei contemplativi e delle vergini che indica il cammino ai naviganti (Ap 12, 14).
[1] Alla luna piena, che non nocque ma giovò a Dante nella selva oscura (il chiarore notturno inteso nell’esegesi in senso positivo), fa riferimento Virgilio nel lasciare la quarta bolgia degli indovini (dove la tematica del quarto stato è prevalente; Inf. XX, 124-129).
[2] Anche il rivolgersi a Dante chiamandolo “frate” (Purg. XXIX, 15), come fa Giovanni ai destinatari dell’Apocalisse (Ap 1, 4) e Ulisse ai suoi compagni (Inf. XXVI, 112), è indizio di umiltà. Altro indizio è a Purg. XXXII, 28-33, allorché Matelda, Stazio e Dante seguono la ruota destra del carro-Chiesa tirato dal grifone-Cristo che, volgendosi verso destra, descrive nel suo girare un arco minore della ruota sinistra: “seguitavam la rota / che fé l’orbita sua con minore arco”. Nell’“alta selva vòta … temprava i passi un’angelica nota”. Il piegare più stretto “con minore arco”, nonché l’essere la selva “vòta”, è allusione alla “vacuitas cithare” di cui dice Gioacchino da Fiore nella citazione oliviana ad Ap 14, 2, che designa nel suo essere concavo la povertà volontaria e la lode di Dio che risuona bene se proceda da una mente umile e svuotata delle cose terrene (“vòta” rima con “nota”). Ciò indipendentemente dal senso letterale, per cui l’essere “vòta” la selva dell’Eden si intende ‘vuota di uomini’, per “colpa di quella ch’al serpente crese”.
Da notare il modo di parlare di Matelda – “continüò col fin di sue parole” (Purg. XXIX, 2) -, proprio anche di Farinata (Inf. X, 76) e di Beatrice (Purg. XXX, 71; XXXI, 4; Par. V, 16-18): le parole ‘continuano’, quasi a sottolineare la necessità di cose che debbono avvenire presto, come spiegato ad Ap 1, 1: «… “que oportet fieri cito” … quia indistanter sunt inchoanda et absque interpolatione continuanda et consumanda». Simmetrico ad Ap 1, 1 è Ap 22, 10, dove alla fine del libro Cristo afferma la prossimità del suo avvento e giudizio. Ivi è ripreso il tema del continuare senza posa un discorso: “et continuat se ad immediate premissum”. Cristo dice anche (Ap 22, 12) che verrà presto a portare, “tamquam dantis”, la propria mercede a ciascuno secondo le sue opere, cioè ai buoni i premi e ai malvagi le pene. Che è poi quello che si propone la Commedia. Il tema della visione mostrata a Giovanni, degna persona cui è concesso di manifestarla ad altri (Ap 1-2), si traspone sul poeta.
Matelda, come donna innamorata e ninfa desiderosa (Purg. XXIX, 1, 5-6), rinvia ad Ap 5, 8, esegesi soggetta a molte variazioni.
Tab. VI
[LSA, cap. II, Ap 2, 1.18 (Ia visio, IVa ecclesia)] Quarta autem commendatur de superhabundanti et perseveranti et superexcrescenti supererogatione sanctorum operum et de perfectione fidei et caritatis, que utique competunt quarto statui, scilicet anachoritarum, qui partim opere manuum, partim lectione, partim vocali psalmodia, cum assidua maceratione corporis per ieiunia et per alias austeritates, se semper preparabant et sursum agebant ad contemplativos actus fidei et caritatis. Unde bene vocatur Tyatira, id est illuminata vel inflammata vel vivens hostia, quia tales per lucem et flammam contemplative devotionis se offerunt Deo hostiam viventem. […]
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Purg. XXVII, 61-108“Lo sol sen va”, soggiunse, “e vien la sera;
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[LSA, prologus, Notabile III] Item (zelus) est septiformis prout fertur contra quorundam ecclesie primitive fatuam infantiam (I), ac deinde contra pueritiam inexpertam (II), et tertio contra adolescentiam levem et in omnem ventum erroris agitatam (III), et quarto contra pertinaciam quasi in loco virilis et stabilis etatis se firmantem (IV), quinto contra senectutem remissam (V), sexto contra senium decrepitum ac frigidum [et] defluxum (VI), septimo contra mortis exitum desperatum et sui oblitum (VII).[LSA, prologus, Notabile III] Patet enim hoc de primo dono. Nam pastoralis cura insistit […] Quarto earum pascuali refectioni. […] Constat autem quod propagatio appropriatur prime plantationi ecclesie sub apostolis (I), defensio vero militari pugne martirum (II), directio vero eruditioni doctorum (III), refectio autem studiose et refective devotioni anachoritarum (IV), et sic de aliis.
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[LSA, cap. VIII, Ap 8, 12 (IIIa visio, IVa tuba)] Per “noctem” vero, a luna et stellis illuminata[m], videtur intelligi plebs secularior et rudior et imperfectior quam illa que designatur per diem, unde nec est apta illuminari et accendi et ad bonum excitari a superexcessiva vita et contemplatione solarium, immo potius horrent et quasi desperant in aspectu et auditu illorum; facilius autem excitantur et erudiuntur a magistris inferioribus eorum inferioritati magis proportionatis. […] et “diei” et “noctis”, id est diurne claritatis christianitatis, que est in fide et cultu Trinitatis et Christi redemptoris, et nocturne claritatis ipsius, que est in patientia adversorum et in bono regimine temporalium et in bonis moribus seu operibus active.[LSA, cap. VI, Ap 6, 8 (IIa visio, apertio IVi sigilli)] Speculari igitur hoc antequam fieret, et post factum contemplari rationes tanti iudicii, ad oculos volantis aquile spectat.[LSA, cap. XII, Ap 12, 14.17 (IVa visio, IVum prelium)] […] quia ecclesia per totum tempus martir[um] usque ad conversionem Constantini imperatoris fuit sic dispersa et oppressa quod non habuit sic apparentem unitatem et potestatem in toto orbe sicut habuit tempore Constantini, exclusa idolatria et paganismo et data sibi undique pace, quando et plenius apparuit romanam ecclesiam esse universalem matrem omnium membrorum Christi. […] Videtur tamen quod post Christum et martires ubique dispersos egit de ecclesia post Constantinum in unum collecta et duabus alis, id est duobus ordinibus doctorum scilicet et anachoritarum altivolis, adornata et in altum sublevata, et tam in deserto gentilitatis quam in deserto contemplative solitudinis alimentum sue refectionis habente. |
Tab. VI bis
[LSA, cap. II, Ap 2, 1.18 (Ia visio, IVa ecclesia)] Quarta autem commendatur de superhabundanti et perseveranti et superexcrescenti supererogatione sanctorum operum et de perfectione fidei et caritatis, que utique competunt quarto statui, scilicet anachoritarum, qui partim opere manuum, partim lectione, partim vocali psalmodia, cum assidua maceratione corporis per ieiunia et per alias austeritates, se semper preparabant et sursum agebant ad contemplativos actus fidei et caritatis. Unde bene vocatur Tyatira, id est illuminata vel inflammata vel vivens hostia, quia tales per lucem et flammam contemplative devotionis se offerunt Deo hostiam viventem. […]
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Purg. XXVII, 94-108Ne l’ora, credo, che de l’orïente
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Par. VIII, 1-12Solea creder lo mondo in suo periclo
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[LSA, cap. II, Ap 2, 1; 3, 1.3 (Ia visio, Va ecclesia)] (Ap 2, 1) Vocatur autem congrue hec ecclesia Sardis, id est principium pulchritudinis, tum quia in suis paucis incoinquinatis habet singularem gloriam pulchritudinis, quia difficillimum et arduissimum est inter tot suorum luxuriantes se omnino servare mundum; tum quia primi institutores quinti status fuerunt in se et in suis omnis munditie singulares zelatores, suorumque collegiorum regularis institutio, diversa membra et officia conectens et secundum suas proportiones ordinans sub regula unitatis condescendente proportioni membrorum, habet mire pulchritudinis formam toti generali ecclesie competentem, que est sicut regina aurea veste unitive caritatis ornata et in variis donis et gratiis diversorum membrorum circumdata varietate. […]
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Purg. XXVII, 94-108Ne l’ora, credo, che de l’orïente
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[LSA, cap. VI, Ap 6, 8 (IIa visio, apertio IVi sigilli)] “Et ecce equus pallidus” (Ap 6, 8), id est, secundum Ricardum, ypocritarum cetus per nimiam carnis macerationem pallidus et moribundus. “Et qui sedebat super eum”, scilicet diabolus, qui per pravam intentionem ypocritarum sedet in eis et per eos malitiam suam exercet, “nomen illi mors”. Hoc enim nomen bene diabolo convenit, quia per eum mors incepit et alios ad mortem trahere non cessat. “Et infernus”, id est omnes in inferno dampnandi, “sequeb[atur] eum”, quia omnes tales eum imitantur*. […] Sciendum tamen quod in tertio et quarto tempore ecclesie non reperitur ypocrisis fecisse tantam plagam quantam hic insinuatur, nisi prout fides fuit iuncta heresi; prout autem fuit heresi adiuncta, fuit summe pestifera quoad hereses quodam sanctitatis pallio in oculis plebium sensualium colorandas et diffundendas et affir-mandas.* In Ap II, vii (PL 196, col. 767 C-D).Purg. XIX, 7-18, 25-27
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[LSA, cap. II, Ap 2, 1.18.21 (Ia visio, IVa ecclesia)] Quarta autem commendatur de superhabundanti et perseveranti et superexcrescenti supererogatione sanctorum operum et de perfectione fidei et caritatis, que utique competunt quarto statui, scilicet anachoritarum, qui partim opere manuum, partim lectione, partim vocali psalmodia, cum assidua maceratione corporis per ieiunia et per alias austeritates, se semper preparabant et sursum agebant ad contemplativos actus fidei et caritatis. Unde bene vocatur Tyatira, id est illuminata vel inflammata vel vivens hostia, quia tales per lucem et flammam contemplative devotionis se offerunt Deo hostiam viventem. […]
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Tab. VI ter
Purg. IV, 22-33, 43-45che non era la calla onde salìne
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[LSA, cap, II, Ap 2, 1] Quartum (exercitium) est contemplativa abstractio et solitudo, et assidua sui ad illam per austera et laboriosa opera preparatio.
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[Ap 2, 1.18 (Ia visio, IVa ecclesia)] Quarta autem commendatur de superhabundanti et perseveranti et superexcrescenti supererogatione sanctorum operum et de perfectione fidei et caritatis, que utique competunt quarto statui, scilicet anachoritarum, qui partim opere manuum, partim lectione, partim vocali psalmodia, cum assidua maceratione corporis per ieiunia et per alias austeritates, se semper preparabant et sursum agebant ad contemplativos actus fidei et caritatis. Unde bene vocatur Tyatira, id est illuminata vel inflammata vel vivens hostia, quia tales per lucem et flammam contemplative devotionis se offerunt Deo hostiam viventem. […]
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Inf. XIII, 55-57; XXVI, 112-113E ’l tronco: “Sì col dolce dir m’adeschi,
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[LSA, cap. II, Ap 2, 1 (Va ecclesia)] Vocatur autem congrue hec ecclesia Sardis, id est principium pulchritudinis, tum quia in suis paucis incoin-quinatis habet singularem gloriam pulchritudinis, quia difficillimum et arduissimum est inter tot suorum luxuriantes se omnino servare mundum; tum quia primi institutores quinti status fuerunt in se et in suis omnis munditie singulares zelatores, suorumque collegiorum regularis institutio, diversa membra et officia conectens et secundum suas proportiones ordinans sub regula unitatis conde-scendente proportioni membrorum, habet mire pulchritudinis formam toti generali ecclesie competentem, que est sicut regina aurea veste unitive caritatis ornata et in variis donis et gratiis diversorum membrorum circumdata varietate.[LSA, cap. III, Ap 3, 3 (Ia visio, Va ecclesia)] “In mente ergo habe” (Ap 3, 3), id est attente recogita, “qualiter acceperis”, scilicet a Deo priorem gratiam, “et audieris”, ab homine scilicet per predicationem evangelicam, “et serva”, scilicet illa que per predicationem audisti et per influxum gratie a Deo primitus accepisti. Vel recogita qualiter per proprium consensum accepisti fidem et gratiam et statum eius, prout a me et a ceteris tibi predicantibus audivisti. “Et serva” ea “et penitentiam age”, scilicet de tuis malis, quasi dicat: si digne recogitaveris gratiam tibi prius impensam et qualiter prius accepisti eandem, servabis eam et penitentiam ages.
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[LSA, cap. I, Ap 1, 9] “Ego Iohannes” (Ap 1, 9). Hic post prohemium incipit narratio visionum. Et primo premittit septem generales et laudabiles circumstantias visionum sequentium. Prima est proprietas et dignitas persone videntis, unde ait: “Ego Iohannes frater vester”, quasi dicat: hanc prophetiam gratanter debetis audire et perficere, quia “ego Iohannes”, a Christo singulariter dilectus et in apostolum et evangelistam electus, eam vidi et scripsi ad vestram informationem et utilitatem.
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[Ap 1, 1] Dicit autem “cito”, tum quia indistanter sunt inchoanda et absque interpolatione continuanda et consumanda, tum quia totum tempus eternitati comparatum est sicut momentum, tum quia respectu priorum seculorum computatur totum tempus nove legis pro una hora novissima, secundum illud Iohannis epistule prime sue capitulo secundo: “novissima hora est” (1 Jo, 2, 18).Purg. XXIX, 1-9Cantando come donna innamorata, 5, 8
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[LSA, cap. XXII, Ap 22, 10-12 (finalis conclusio totius libri)] Loquitur autem Christus primo ut contestator propinquitatis sui adventus ad iudicium, de quo paulo ante dixit angelus: “Tempus enim prope est” (Ap 22, 10). Et continuat se ad immediate premissum, ac si ironice contra malos dictum sit: “Qui nocet noceat”, quia “ecce venio cito” (Ap 22, 11-12), quasi dicat: in penam suam hoc faciet, quia ego cito veniam ad iudicandum. “Et merces mea mecum est, reddere unicuique secundum opera sua” (Ap 22, 12), id est bonis condigna premia et malis condigna supplicia. “Mea” dicit, quia merces ista est eius tamquam dantis, hominis vero est tamquam promerentis eam et recipientis. Dicit etiam “mecum”, quia causaliter seu per vim causalem est in ipso et quasi in manu eius; respectu etiam premii est in ipso substantia principalis obiecti.
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[LSA, cap. I, Ap 1, 1-2] Nota etiam quod ex hoc quod dicit eam sibi esse datam “palam facere”, docet duo. Primum est quod multa dantur et revelantur non ad ali[is] revelandum nec cum auctoritate propalandi ea, immo cum precepto vel debito ea secrete servandi.
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Tab. VI quater
[LSA, cap. XII, Ap 12, 1-2 (IVa visio, radicalia)] Generalis etiam ecclesia, et precipue illa que instar Virginis est per perfectionem evangelicam “sole”, id est solari sapientia et caritate et contemplatione maiestatis Christi, vestita, et “lunam”, id est temporalia instar lune mutabilia et de se umbrosa, et figuralem corticem legis et sinagoge, ac mundanam scientiam et prudentiam instar lune mutabilem et nocturnam et frigidam seu infrigidativam, tenens “sub pedibus”, id est partim eam spernens et conculcans et partim suo famulatui eam subiciens, et vitam ac precellentiam duodecim apostolorum habens quasi “coronam duodecim stellarum in” suo “capite”, id est in suo initio et supremo […]. Secundum autem Ioachim, libro V° Concordie, ubi tangit misterium operis quarte diei, scilicet solis et lune et stellarum, applicans hoc ad quartum statum ecclesie dicit quod una mulier amicta sole cum luna et stellis unum designat ordinem contemplantium tripertita varietate distinctum. Cuius caput sunt prelati monachorum quasi stelle, que in capite emicant mulieris, quia Christi locum tenent in cenobiis. Pedes vero sunt monachi eis subiecti, qui sub eorum disciplina perfecte et regulariter vivunt, in quo lune perfecte sub pedibus mulieris stantis similitudinem servant. Contemplatoribus autem precipuis ascribitur sol. [Concordia, V 1, c. 12; Patschovsky 3, pp. 553, 7-554, 3] |
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Purg. XIX, 1-3, 19-27Ne l’ora che non può ’l calor dïurno
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[LSA, cap. XII, Ap 12, 14 (IVa visio, III-IVum prelium)] Nota etiam quod, secundum Ioachim, libro V° Concordie, sicut de opere quarte diei, scilicet de sole et luna et stellis, dicitur quod “sint in signa et tempora et dies et annos” (Gn 1, 14), sic in quarta visione huius libri, in qua describitur mulier in celo existens et adornata sole et luna et stellis, proponitur fuisse in “signum magnum” et distinguitur tempus eius in “tempus et tempora”, signanterque hoc reperitur ubi agitur de quarto statu ecclesie. Consimiliter enim sub quarto signaculo veteris testamenti fuit Helias et Heliseus et filii prophetarum quasi sol et luna et stelle, ubi et idem numerus ponitur, scilicet tres anni et dimidius absconsionis Helie a facie Iesabel (3 Rg 18, 1ss) et subtractionis pluvie a gente peccatrice*. Et subdit: «quare hic misterialis numerus potius est scriptus sub quarto tempore quam sub alio, nisi quia quartum tempus est tribus temporibus precedentibus totidemque sequentibus veluti ex equo coniunctum, ita ut utrique participare videatur? Nempe et ecclesia ipsa virginum, que in muliere significatur, est mater et nutrix fidelium, quia Virgo portavit Christum in utero, Virgo peperit et lactavit?** Tales etiam viri et mulieres in signa fuere, quia sicut stelle celi in signa sunt navigantibus, ita et vita iustorum est in exemplum fidelium data, ut sciant quo ire debeant omnes qui considerant eos»***. Hec Ioachim.* Concordia, V 1, c. 12; Patschovsky 3, pp. 556, 12-18, 22-25; 557, 1-3.** Ibid., p. 557, 15-21.*** Ibid., p. 556, 19-22. |
7. Pia avvocata
Dei tre modi divini del dare (Ap 1, 4), a Matelda si addice quello relativo a Cristo uomo, che impetra e dispensa i doni dello Spirito. È infatti figura del Figlio, sacerdote e offerente al Padre, come avvocato e mediatore, le preghiere altrui stando dinanzi all’altare. Le parole-chiave che rinviano a questa esegesi, parte proemiale o radicale della terza visione apocalittica (Ap 8, 3-4), si rinvengono in molti luoghi del poema, dall’immortale canto dei quattro fanciulli nell’episodio del conte Ugolino alle “ombre che pregar pur ch’altri prieghi” di Purg. VI, da Catone al quale Virgilio prega in nome della sua Marzia alla preghiera di san Bernardo alla Vergine (gli esempi riportati qui di seguito vengono spiegati altrove unitamente all’intera parte di esegesi).
Matelda svolge, come Cristo, la funzione di mediatrice, avvocato e offerente alla quale vengono indirizzate preghiere. Dante prega la bella donna di trarsi innanzi verso il fiume in modo che possa intendere le parole del suo canto. Matelda accetta la preghiera del poeta e si dichiara in seguito pronta a rispondere a ogni domanda (Purg. XXVIII, 43-60, 82-84). Le orationes delectabiles sono accettate, e non a caso mi pregasti, riferito al poeta, rima con Delectasti, il Salmo cantato dalla donna (vv. 80-82).
Matelda – “quella pia” (Purg. XXXII, 82), che spiega come gli antichi poeti sognassero allegoricamente nel Parnaso “l’età de l’oro e suo stato felice”, (Purg. XXVIII, 139-141) – è anche figura dei santi padri che precedettero Cristo e giovano con la loro fede e i loro meriti perché, come riporta l’esegesi gioachimita dell’“altare” di Ap 8, 3, Cristo nelle opere di pietà li vuole avere consorti.
La “bella donna” offre Dante, “bagnato” dell’acqua del Lete, “dentro a la danza de le quattro belle” (Purg. XXXI, 103-105), cioè lo offre alle virtù cardinali che lo conducono agli occhi di Beatrice senza fargli però penetrare “nel giocondo lume ch’è dentro”. Si tratta delle virtù morali e intellettuali che regolano la felicità terrena (Monarchia, III, xv, 8) e che i ‘nuovi’ padri del Limbo, quelli che come Virgilio non potettero vestirsi delle virtù teologali, “sanza vizio / conobber … e seguir tutte quante” (Purg. VII, 34-36); corrispondono alle “quattro stelle / non viste mai fuor ch’a la prima gente” di Purg. I, 23-24, che fregiano di lume il volto del pagano Catone.
Di Cristo-Beatrice (la quale, guardando il grifone, riflette in sé le due nature di Cristo, divina e umana: Purg. XXXI, 121-126), di cui precede la venuta, Matelda è ministra, assimilata al Cristo uomo. A Dante che prega Beatrice di spiegargli l’origine dell’acqua del Lete e dell’Eunoè che esce da un’unica fonte, la donna risponde di pregare Matelda (Purg. XXXIII, 118-119). Così il nome Matelda, che sta sulla 40a terzina (Purg. XXXIII, 119), è in piena simmetria nel numero del verso con “quello avvocato de’ tempi cristiani” (Orosio) di Par. X: entrambi infatti sono stati o vengono pregati da altri (da Dante e da sant’Agostino).
L’ufficio di mediatrice svolto da Matelda sarà manifesto indizio della realtà storica della sua controversa figura.
Tab. VII [l’esame dettagliato della tabella è stato condotto altrove]
Inf. XIII, 85-90Perciò ricominciò: “Se l’om ti faccia
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Purg. XXX, 28-30, 100-102; XXXI, 112-114, 118-120, 124-126così dentro una nuvola di fiori
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[LSA, cap. VIII, Ap 8, 3-5 (radix IIIe visionis)] “Et alius angelus” et cetera (Ap 8, 3). Angelus iste, qui obtulit omnium sanctorum incensum et sacrificium Deo Patri, est Christus sacerdos magnus et pontifex, qui tam natur[a] sue deitatis quam gratia singularis sanctitatis et dignitatis et auctoritatis est longe alius a septem angelis, id est ab universitate doctorum et sanctorum. Qui “venit”, per nature humane et mortalis assumptionem, “et stetit ante altare”, id est ante curiam seu hierarchiam celestem. Pro quanto enim, secundum carnis sue passibilitatem, minoratus est paulo minus ab angelis (cfr. Heb 2, 7; Ps 8, 6), habuit eos quasi ante se.
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Purg. I, 31-33, 52-54, 70-93vidi presso di me un veglio solo,
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Par. XXXI, 43-45, 94-96, 100-102E quasi peregrin che si ricrea
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Inf. X, 22-24, 73-75, 94-96, 115-117
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Purg. XXX, 100-102Ella, pur ferma in su la detta coscia
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8. La “religïone de la montagna”
Nell’esegesi dell’apertura del sesto sigillo (Ap 7, 3), Olivi chiarisce con dieci “rationes” per quale motivo, prima dello sterminio temporale della nuova Babilonia, la verità della vita evangelica debba essere solennemente impugnata e condannata dai reprobi e, per converso, debba essere più fervidamente difesa e osservata dagli uomini spirituali allora suscitati e più chiaramente compresa e predicata, perché appunto allora vi sia il solenne inizio della sesta apertura. Olivi, che pure ha udito da diversi testimoni fededegni che il santo padre Francesco più volte ha predetto questa tentazione, persino che debba essere malignamente e principalmente esercitata da quanti professano il suo stato, aggiunge qualche breve ragione.
La nona “ratio” è tratta dai semi di errori già piantati e radicati nella Chiesa. Infatti quasi tutti i chierici e i regolari che possiedono qualcosa in comune sembrano non sentire nulla della rinuncia evangelica ai beni comuni. Molti poi, pur optando per questa rinuncia – effettiva o apparente -, amano e stimano a tal punto la vita rilassata arrivando a sostenere che l’uso povero, o moderatamente ristretto, delle cose debba essere escluso dal voto di perfezione evangelica. Tutti costoro e altri ancora sembrano così ambire gli alti e opulenti offici ecclesiastici, sembrano così anelare a ottenere e procurare privilegi che dispensano dalle restrizioni regolari istituite all’inizio, che è veramente cieco chi non si accorge che da simile radice del serpe esce il basilisco che divora il volatile (cfr. Isaia 14, 29), cioè il volo della vita evangelica e di molti che volano con le sue ali.
I motivi della nona “ratio” – la vita rilassata e l’uso povero – sono appropriati, in modo ironico, a Belacqua, il pigro liutaio che siede lasso all’ombra di “un gran petrone”, anch’egli al rifugio di una pietra o di un sasso secondo quanto si verifica all’apertura del sesto sigillo (Ap 6, 15-16; Purg. IV, 97-135). La sua voce suona verso il poeta, angosciato dall’affannosa salita: “Forse / che di sedere in pria avrai distretta!”. Belacqua si presenta come una figura del quinto stato: appare dopo la faticosa ascesa al primo balzo (segnata dai temi del quarto stato, di cui è propria l’ardua vita degli anacoreti), sta seduto (al quinto stato appartiene il motivo della “sede” romana), è “lasso” e negligente (come il vescovo della chiesa di Sardi, ozioso e intorpidito: Ap 3, 3); l’angelo di Dio, che siede sulla porta del purgatorio, non lo lascerebbe andare ai tormenti poiché si è pentito solo in fin di vita (la porta del purgatorio, aperta a Dante, è segno del sesto stato: Ap 3, 8-9; il ritardare il pentimento in fin di vita è un altro motivo dell’istruzione alla quinta chiesa). La domanda di Dante – “ma dimmi: perché assiso / quiritto se’? attendi tu iscorta, / o pur lo modo usato t’ha’ ripriso?” – è una burlesca sul tema dell’usus pauper, come lo è la “distretta” di sedere insinuata da Belacqua nei confronti del poeta “lasso” per la salita (“in pria … distretta”, che nei versi significa ‘necessità’, corrisponde nel testo esegetico alle “regulares restrictiones primitus institutas”, cioè alla severità originaria della vita religiosa dalla quale i rilassati anelano a farsi dispensare).
Matelda è inviata a spiegare e a preparare Dante sulla “novella fede” – la “religïone de la montagna”, fondata sull’usus pauper, che non riceve alcuna alterazione esterna – ‘impugnata’ da qualcosa che appare diverso (la presenza del vento e dell’acqua nell’Eden), al modo con cui i futuri predicatori spirituali debbono essere preparati a subire le subdole tentazioni dell’Anticristo. Come da lei spiegato disnebbiando l’intelletto del poeta (cfr. Ap 5, 1; 16, 17), il vento che fa stormire le fronde della selva e l’acqua del Lete e dell’Eunoè non sono infatti generati da vapori terrestri o da precipitazioni atmosferiche (Purg. XXVIII, 103-133). Questo aspetto di Matelda, tutt’altro che secondario, avrebbe dovuto essere ben chiaro a uno Spirituale. Si tratta infatti di un preciso richiamo con inequivocabili parole-segni all’usus pauper, l’evangelico divieto di possedere beni mondani, grande tema dell’Olivi che Dante estende dall’Ordine francescano all’universale mondanità. Su questo punto, il discorso l’aveva cominciato Stazio, spiegando i motivi del terremoto che ha scosso la montagna, la cui “religione” non è mai “fuor d’usanza” (Purg. XXI, 40-45); lo continuerà Beatrice nel rimproverare Dante del suo errore, cioè del suo traviamento nelle virtù morali e intellettuali (Purg. XXX, 118-120, 127-129).
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Tab. VIII
[LSA, cap. VII, Ap 7, 3 (IIa visio, apertio VIi sigilli)] Ex predictis autem patent alique rationes quare ante temporale exterminium nove Babilonis sit veritas evangelice vite a reprobis sollempniter impugnanda et condempnanda, et e contra a spiritalibus suscitandis ferventius defendenda et observanda et attentius et clarius intelligenda et predicanda, ut merito ibi sit quoddam sollempne initium sexte apertionis. Quamvis autem a pluribus fide dignis audiverim sanctum patrem nostrum Franciscum hanc temptationem pluries predixisse, et etiam quod per eius status professores esset malignius et principalius exercenda, nichilominus quasdam rationes breviter subinsinuo. […][nona ratio] Nona ratio sumitur ex errorum seminibus iam in ecclesia plantatis et radicatis. Nam fere omnes clerici et regulares possidentes aliquid in communi videntur minus bene sentire de evangelica abrenuntiatione huiuscemodi communium. Multi etiam, abrenuntiationem hanc secundum rem vel secundum apparentiam preferentes, sic amant et estimant laxam vitam quod usum pauperem seu moderate restrictum a voto perfectionis evangelice dicunt esse exclusum et etiam debere excludi. Omnes autem hii et alii sic videntur ambire prelationes ecclesie altas et opulentas, sicque anelare ad habenda et procuranda privilegia dispensative laxantia regulares restrictiones primitus institutas, quod cecus est qui non videt quod de tanta radice colubri egredietur regulus absorbens volucrem, id est volatum evangelice vite et plures volantes cum alis ipsius (cfr. Is 14, 29). |
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Purg. XXX, 118-120, 127-129Ma tanto più maligno e più silvestro
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Purg. XXI, 40-45; XXII, 124-126Quei cominciò: “Cosa non è che sanza
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Tab. VIII bis
[LSA, Ap 5, 1 (clausura VIIi sigilli)] Tertia ratio septem sigillorum quoad librum veteris testamenti sumitur ex septem apparenter in eius cortice apparentibus. […] Septimum est sensuum veteris scripture fluctuans volubilitas et involucrorum seu tegumentorum figuralium umbrositas et obscura multiformitas, unde e[s]t sicut mare procellosum et vertiginosum et voraginosum et quasi non habens fundamentum seu fundum. Est etiam sicut nubes densa et tetra, nuncque rubescens nunc vero pallescens, nunc virens nunc albens, et nunc in uno loco et nunc in alio. Hanc autem aperit intellectualis nuditas et simplicitas fidei et sapientie Christi, prout Apostolus IIa ad Corinthios III° docet. Hanc autem plenius aperiet Christus, cum implebitur illud quod sub sexto angelo tuba canente iurat et clamat angelus tenens librum apertum, scilicet quod “in diebus septimi angeli, cum ceperit tuba canere, consumabitur”, id est ad plenum implebitur et explicabitur, “misterium Dei sicut evangelizavit per servos suos prophetas” (Ap 10, 6-7). Tunc enim omnis litigatio et contradictio inter vetus et novum omnino silebit, prout notat apertio septima (cfr. Ap 8, 1).
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[LSA, cap. XVI, Ap 16, 17 (Va visio, VIIa phiala)] Et sicut aer purgatus a grossis et fumosis vaporibus et nubibus et tranquillatus a ventorum tempestatibus est pervius radiis solis et stellarum et visui hominum, sic septimus status ecclesie, post plenam sui purgationem in effusione septime phiale consumandam, erit serenus et tranquillus et pervius seu perspicuus ad contemplativos radios solis eterni et totius celestis et subcelestis hierarchie, ita quod tunc totus cultus templi Dei et tota sedes et maiestas Dei clamabit magnifice et evidenter Dei opera esse consumata. Et hoc quidem in hac vita, sumendo statum septimum prout erit in hac vita. |
9. La Gran Contessa francescana
Matelda è figura polisemica, cioè con più sensi, come afferma Dante stesso del suo “poema sacro” (Epistola XIII, 20 [7]). Le parole di cui sono contesti i versi che la riguardano esprimono nella lettera “il fascino della gioventù, della bellezza, dell’amore e del riso”, come voleva Benedetto Croce. Ma le stesse parole, nate dalla medesima ispirazione poetica, sono precisi segni mnemonici che avrebbero dovuto rinviare il lettore più esperto al contenuto del libro-vessillo di una riforma della Chiesa che mai avvenne, perché gli Spirituali francescani erano votati alla sconfitta e il loro libro, la Lectura super Apocalipsim, al nascondimento.
La parodia che operava nei versi una metamorfosi semantica di questo libro, prestando all’esegesi “e piedi e mano” con personaggi ed episodi, antichi e moderni, del mondo reale, aveva creato una figura la cui gioventù e bellezza, vestita dei panni ovidiani di Proserpina e Flora [1], designava la condizione dell’uomo prima della colpa, l’antica età dell’oro sulla quale era scesa Astrea, la giustizia [2]. Fin qui il senso letterale.
Molteplici erano i significati spirituali. Matelda è attiva nell’Eden, figura in terra della Gerusalemme celeste con il suo fiume dalle due rive (l’umanità e la divinità di Cristo) e della verdeggiante sede divina circondata dall’iride. L’Eden stesso viene assimilato all’alta Grecia, e all’isola di Patmos, luogo eletto per la contemplazione, lontano dai turbamenti dei sensi. In esso Matelda designa la Chiesa, che riassume le singole sette chiese d’Asia (corrispondenti ai sette gironi della montagna); muove i passi in quanto pellegrina sulla via della patria celeste. Il nome stesso della bella donna si rispecchia nel Salmo 92, 4 – “mirabiles elationes maris, mirabilis in altis Dominus”-, poiché fa segno del mirabile levarsi di Dio sopra il levarsi del mare, cioè delle turbolenze terrene, unitamente all’immagine di “Colui che dà”. Matelda canta i motivi della grazia, della pace, del dare, propri della salutazione dell’evangelista (Ap 1, 4). Per antonomasia raffigura la rimembranza di un “prima” dimenticato, cioè della prima grazia gratuitamente data e accettata per assenso, alla quale bisogna sempre porre mente facendo penitenza. Con questi temi è vestita la donna sia nell’apparire in quanto simbolo della bellezza primigenia sia quando poi svolge i suoi uffici che apparentemente la rendono un personaggio diverso, almeno in parte, dai primordi. Il suo operato – cantare, scegliere fior da fiore, mettere piede innanzi piede, trattare colore con le mani, salmodiare, ministrare con umiltà – corrisponde più alla vita attiva che alla contemplativa. Tuttavia, come Lia era illuminata da Citerea, così anche Matelda si scalda ai raggi d’amore. Fregiandosi dello “splendor faciei” di Cristo come sommo pastore (Ap 1, 16), splende ridendo con gli occhi della contemplazione assai più di quanto capitò a Venere trafitta per errore dal figlio Cupido. È “una donna” (la “mulier amicta sole” di Ap 12, 1) all’opposto della “femmina balba” resa confusa dall’intervento di “una donna … santa e presta”. Ancora svolge, come Cristo uomo, la funzione di mediatrice, avvocato e offerente alla quale vengono indirizzate preghiere (Ap 8, 3-4). È, infine, inviata a spiegare e a preparare Dante sulla “novella fede” – la “religïone de la montagna”, fondata sull’usus pauper, che non riceve alcuna alterazione esterna – ‘impugnata’ da qualcosa che appare diverso (la presenza del vento e dell’acqua nell’Eden), al modo con cui i futuri predicatori spirituali debbono essere preparati a subire le subdole tentazioni dell’Anticristo.
Di Matelda restò la figura dal misterioso senso letterale e si perdette il linguaggio spirituale. La stesura della Commedia coincise con la fine del millenarismo medievale e della storia della salvezza collettiva, rappresentata ancora dall’ultima opera dell’Olivi. Nell’“autunno del Medioevo” prevalsero gli “ideali laici della dignità dell’uomo, della potenza creativa dell’individuo, della cultura concepita come mezzo di perfezionamento spirituale, propri della nuova età del Rinascimento” [3].
Gravata di significati allotri e mitici, come doveva apparire al lettore più profondo, Matelda è davvero solo una figura di fantasia, priva di ogni legame con un personaggio storico? [4] Per lo studioso moderno si tratterebbe di un problema, perché unico caso nella Commedia.
Il nome era troppo importante, come avvertirono i primi commentatori. Se mai doveva designare qualcuno, non poteva trattarsi che della contessa Matilde.
Sostenitrice dell’identificazione Matelda / Matilde è stata, fin dal 1987, Claudia Villa. Analizzando l’immagine della Contessa presente ai contemporanei di Dante, la quale “con le sue vicende politiche e la tradizione del suo speciale rapporto con il pontefice romano, fu […] persona assai familiare ai lettori del primo Trecento”; considerato che la sua leggenda venne alimentata, nei letterati fra XI e XII secolo, dal recupero di temi biblici come i due personaggi di Lia e Rachele simboli della vita attiva della “donna forte” e di quella contemplativa, personaggi presenti nel sogno dantesco che precede il “novo giorno” nel quale appaiono Matelda (Lia) e Beatrice (Rachele); sottolineato quanto nell’ambiente canossiano fosse apprezzata la sapienza salomonica dei Salmi e del Cantico dei Cantici, un aspetto consegnato al ricordo dell’età di Dante nelle “tradizioni, esili ma ben radicate nella regione del basso corso del Po, degli scritti prodotti per la ‘biblioteca’ della Gran Contessa, ancora consultabili all’inizio del Trecento”; ricordato che “l’immagine della Chiesa corrotta dalla simonia e dal concubinaggio, che si propone lucidamente nei canti del Paradiso terrestre”, fu “ossessione della società gregoriana”, la studiosa conclude:
Se gli ultimi canti del Purgatorio contribuiscono a fissare, con più ampia riflessione sulla storia della Chiesa, i temi condensati in Inf. XIX, là dove Dante, già piegatosi sui papi simoniaci – come il frate confessore presso un assassino – aveva rampognato, in prima persona, le azioni di Niccolò III, di Bonifacio VIII e di Clemente V, rei di aver reso puttana la sponsa Dei, ormai preda, in Purgatorio, del gigante monarchico, la presenza di Matilde / Matelda appare coerente con le funzioni esercitate in vita. […] Con il poeta, la Gran Contessa, che a Canossa rappacificò papa e imperatore, può riconoscere, nella processione e nei suoi esiti, la proiezione della storia della Chiesa nei suoi rapporti con la Monarchia, secondo il giudizio politico di Dante […] [5].
Un accorto lettore “spirituale”, con la chiave della Lectura super Apocalipsim, avrebbe potuto penetrare ogni parola relativa alla “bella donna” dell’Eden, con i suoi sensi mistici. In lei avrebbe riconosciuto l’immagine dell’alta Chiesa la quale, pellegrina in terra, assomma le singole chiese ad essa sottostanti; la figura della Chiesa nel suo bel principio di grazia donata, poi corrottosi, come l’uomo a causa del peccato. Emblema della vita attiva che si prepara alla contemplazione, Matelda opera con le mani, salmodiando e ministrando. Figura del Cristo uomo, riceve le preghiere, è avvocata e mediatrice. Chi altri, se non la Gran Contessa, sponsa Christi e altera Martha, mediatrice tra papato e impero, quel lettore avrebbe potuto accostare mentalmente al nome Matelda? Non l’avrebbe dunque intesa come astratta figura, come pura allegoria. Gli avrebbe ricordato la contessa Matilde, però nell’umile veste francescana con cui Salimbene aveva descritto Mabilia di Marchesopulo, moglie di Azzo VII d’Este, bella, saggia, pia, umile, pronta a dispensare ai poveri:
Domina Mabilia similiter mea devota fuit et omnium religiosorum et specialiter fratrum Minorum, cum quibus confitebatur et quorum ecclesiasticum offitium semper dicebat, et in quorum loco apud Ferrariam iuxta virum suum tumulata in pace quiescit. Multa bona fecit in vita sua et multas helemosinas in morte dispersit et dedit pauperibus de possessionibus quas dimiserat ei pater suus in villa Soragne. Septem annis habitavi Ferarie, ubi et ipsa similiter habitabat. Pulchra domina fuit, sapiens, clemens, benigna, curialis, honesta et pia, humilis, patiens et pacifica et semper Deo devota. Non erat avara de bonis suis, sed libenter pauperibus dabat. Habebat fornacem in palatio suo in loco secreto, ut vidi oculis meis, et ibi ipsamet faciebat aquam rosaceam et dabat infirmis. Et ex hoc medici, stationarii et apotecarii specierum minus diligebant eam. Sed nichil sibi cure erat de talibus, dummodo subveniret infirmis et conspectui placeret divino. Multis annis vixit cum viro suo et semper sterilis fuit. Post mortem vero viri sui fecit sibi fieri domum iuxta locum fratrum Minorum de Feraria et ibi in viduitate mansit, quousque in loco fratrum Minorum de Feraria iuxta virum suum, ut dictum est, fuit sepulta. Cuius anima per misericordiam Dei requiescat in pace, quia bona domina fuit. Verum post mortem marchionis venit Parmam, ut vidi, et habitavit iuxta maiorem ecclesiam, ut audivi ab ea, et mirabiliter erat ibi consolata, eo quod esset iuxta locum fratrum Minorum et iuxta ecclesiam Virginis Gloriose. Nunquam vidi dominam aliquam que ita michi representaret comitissam Matildim, sicut ista, secundum ea que de illa per scripturam cognovi [6].
Quel lettore non avrebbe pensato a qualcuna delle “fiorentinelle” (secondo l’espressione del Barbi) del tempo della Vita Nova o alle “monacelle” (per dirla col Parodi) sassoni (Matilde di Hackeborn, Matilde di Magdeburgo) [7], ma alla contessa “proba, savia e vertudiosa” come nella chiosa del Lana, alla “probissima mulier” come in Pietro di Dante e “liberalissima in amicos” come nell’elogio del Petrarca [8] citato da Benvenuto nel suo commento.
[1] Cfr. STEFANO CARRAI, Matelda, Proserpina e Flora, in Dante e l’Antico. L’emulazione dei classici nella «Commedia», Firenze 2012, pp. 99-117.
[2] Cfr. CHARLES S. SINGLETON, La poesia della Divina Commedia, trad. it., Bologna 1978, pp. 359-375.
[3] RAFFAELLO MORGHEN, Medioevo cristiano, Bari 19744, pp. 263-264.
[4] Così intende BERNHARD KÖNIG, Canto XXVIII, in Lectura Dantis Turicensis. Purgatorio, a cura di Georges Güntert e Michelangelo Picone, Firenze 2001, pp. 435-445: 438-439.
[5] Cfr. CLAUDIA VILLA, Matelda / Matilde: in favore della Gran Contessa (Purg. XXVIII), in La protervia di Beatrice. Studi per la Biblioteca di Dante, Firenze 2009, pp. 133-161: 140, 153, 157, 159-160.
[6] SALIMBENE DE ADAM, Cronica, ed. Giuseppe Scalia, I, Bari 1966 (Scrittori d’Italia), p. 546 [a. 1250, corsivo nostro].
[7] Cfr. BARBARA NEWMAN, The Seven Storey Mountain: Mechthild of Hackeborn and Dante’s Matelda, in “Dante Studies”, 136 (2018), pp. 62-92. Le somiglianze con Dante del Liber specialis gratiae sono esteriori: una montagna sormontata dall’Eden; sette gradi di purificazione dai vizi e di acquisizione di virtù; presenza di angeli; digressione intermedia nel corso dell’ascesa; accompagnamento delle anime; soprattutto, non si parla di ‘purgatorio’. Di Matilde, morta nel 1298, si ha forse la prima evidenza in Toscana, nei laudesi a Santa Maria Novella, con Boccaccio intorno al 1353; che Dante ne abbia sentito in un sermone a Roma è ipotesi non suffragata (p. 71). Dante scrive per un pubblico, diversificato che sia; si dovrebbe pensare che, se intendeva riferirsi alla mistica tedesca, qualcuno avrebbe dovuto pur comprendere, ma per qualsiasi tipo di pubblico il pensiero sarebbe andato alla Contessa.
[8] Familiares XXI, 8.
APPENDICE
Nelle tabelle che seguono sono stati raccolti alcuni esempi di variazione sul tema del “vagus”.
I. Una delle cause che rendono chiuso il sesto sigillo è lo straniarsi remoto e difforme da tutto ciò che è spirituale e deiforme, l’esser vago, l’alienarsi (ad Ap 5, 1). Per questo Cristo parla del giovane vago che se ne andò a perdersi in una regione lontana (Luca 15, 13), e degli erranti figli di Israele dice il profeta Isaia che “si sono volti indietro” (Is 1, 4), e nel Salmo è scritto: “Sui fiumi di Babilonia sedevamo piangendo, e ai salici sospendemmo le nostre cetre dicendo: come canteremo il cantico del Signore in una terra straniera?”, cioè in Babilonia (Ps 136, 1-4), e il profeta Baruc: “Perché, Israele, ti trovi nella terra dei nemici e sei invecchiata in una terra straniera?” (Bar 3, 10-11). All’aprirsi del sigillo, Babilonia, la sposa adultera che si era alienata da Cristo, viene scossa da un grande terremoto e dall’ira dell’Agnello, cui fa seguito la “signatio” della nuova milizia di Cristo.
La “femmina balba”, apparsa in sogno al poeta sulla soglia del quarto girone della montagna, si trasforma in “dolce serena” che col piacere del suo canto distoglie i naviganti dal loro cammino: “Io volsi Ulisse del suo cammin vago / al canto mio” (Purg. XIX, 22-23). L’aggettivo “vago” può essere variamente concordato (con Ulisse, nel senso di ‘desideroso di seguire il suo cammino’; con il cammino, nel senso di ‘errante’, oppure legato al canto che ‘invaghisce’); ha comunque un carattere che deriva dall’esegesi del sesto sigillo proposta in apertura del capitolo quinto: la difformità e il lontanissimo estraniarsi da ciò che è spirituale rendono chiuso il sigillo, onde Cristo parla del giovane vago (l’aggettivo non è del testo sacro) che se ne andò in una terra lontana (Lc 15, 13) e Isaia dei figli vaghi che si sono volti indietro (Is 1, 4). Dei temi da Ap 5, 1 sono presenti nei versi l’essere vago e il canto dal Salmo 136, 4 (il canto dell’esiliato in terra straniera), per cui è più probabile che Ulisse si sia volto dal suo cammino perché invaghito del canto della sirena. Ad Ulisse e ai suoi compagni, lontani da casa e “vecchi e tardi” (Inf. XXVI, 106), ben si addice anche l’apostrofe di Baruc 3, 10-11 rivolta a Israele che invecchia in terra straniera.
Nei versi 19, 21 di Purg. XIX e 143 del canto precedente sono presenti anche parole-chiave (“vaneggiai”, “dolce”, “piacere”) che rinviano all’esegesi morale della terza tromba (in fine del cap. XI). Dopo la sollecitudine per la propria vita (contro cui si appunta la seconda tromba), interviene la sollecitudine del sapere, che si vanifica nella curiosità e nell’errore: contro di essa risuona la terza tromba, sopra l’acqua della sapienza cui l’intelligenza si ribella divenendo come una stella cadente nell’errore, designato dalla terza parte delle acque. Buona e dolce è l’acqua della scienza che concerne ciò che è vero e ciò che è utile: la scienza speculativa delle cose divine e la prudenza che regge le azioni costituiscono le due parti buone delle acque. Ma l’eccesso di sollecitudine verso sé stessi provoca la caduta di persone sante, che pure apparivano lucenti come stelle e ardenti come fiaccole, nelle acque del piacere carnale, messo da parte il piacere delle cose divine e il piacere che deriva dalle virtù e dalle sante opere.
Il riferimento del capitolo XI alla “cura sciendi”, cioè alla sollecitudine che deriva dal desiderio di sapere, ma che poi diventa colpevole curiosità errante, potrebbe suggerire l’interpretazione per cui Ulisse, nel suo cammino “a divenir del mondo esperto / e de li vizi umani e del valore”, sia stato portato lontano e reso “vago” dal canto della sirena, che non è quella del racconto omerico e nemmeno Circe, ma l’ansia di sapere fine a sé stessa che spinge a varcare i limiti imposti da Dio alla conoscenza umana, la quale invece per quei tempi era aperta all’esperienza dei costumi umani, dei vizi e delle virtù, della quale Orazio rende modello il greco, e che avrebbe dovuto essergli sufficiente, mantenendolo nel campo dell’intelligenza morale, di “color che ragionando andaro al fondo” e lasciarono “moralità” al mondo (Purg. XVIII, 67-69).
Non diversamente la spada di Beatrice si appunta su Dante colpevole di aver ascoltato, errando, le sirene, mentre avrebbe dovuto muoversi “in contraria parte” (Purg. XXXI, 43-48). Uno “straniarsi” (la “semotissima extraneitas” da tutto ciò che è spirituale, ad Ap 5, 1) dalla sua donna che il poeta non ricorda più avendo bevuto l’acqua del Lete (Purg. XXXIII, 91-93; cfr., ai vv. 67-69, i signacula che rinviano all’esegesi della cura sciendi). È probabile che in entrambi i casi ad essere condannata, per quanto avvolta con reticenza in un comune riferimento ai beni terreni, sia la ragione (la filosofia) quando travalica i propri limiti. Se lo straniarsi appartiene alla Babilonia storica, non bisogna dimenticare che ciascuno di noi ha una propria Babilonia interiore che, come afferma Olivi, deve essere bruciata e uccisa per poter cantare alleluia ed entrare alle nozze dell’Agnello (Ap 19, 10). Il Salmo 136, 1-4 – “Sui fiumi di Babilonia sedevamo piangendo, e ai salici sospendemmo le nostre cetre (“organa”) dicendo: come canteremo il cantico del Signore in una terra straniera?” – si incarna in Dante stesso, nel momento del rimprovero di Beatrice; la sua virtù è confusa come in Babilonia e la voce (il canto) si spegne prima di uscire “dai suoi organi” (Purg. XXXI, 7-9).
Da notare come gli stessi temi siano appropriati all’allontanarsi dei Domenicani dai precetti del fondatore quali pecore remote e vagabonde (Par. XI, 124-129 con l’accostamento: difformitas, semotissima, vagus [Ap 5, 1] – diversi, remote, vagabunde; nel canto precedente la rima vagheggia / vaneggia – vagus, evanescit [Ap 5, 1; cap. XI]).
Sulla soglia del quarto girone della montagna, i motivi del vaneggiare (vaneggiai) per la vaghezza fra i diversi pensieri sono premessa al momento dell’addormentarsi (Purg. XVIII, 139-145). Interviene qui il tema del torpore e del sonno, proprio della quinta chiesa d’Asia. Al vescovo di Sardi, così ozioso e intorpidito da non avere più in mente il suo primo stato di grazia, viene minacciato il repentino giudizio divino che verrà su di lui come un ladro, che arriva di nascosto all’improvviso, senza che si sappia l’ora della venuta (Ap 3, 2-3). Il torpore di cui è accusato il vescovo di Sardi è lo stesso di Dante, ignaro del suo essersi ritrovato nella selva oscura, descritto in apertura del poema: “Io non so ben ridir com’i’ v’intrai, / tant’ era pien di sonno a quel punto / che la verace via abbandonai” (Inf. I, 10-12; da notare al v. 125 l’aggettivo “ribellante” che Virgilio, simbolo dell’umana ragione, appropria a sé stesso: è metamorfosi dell’“intelligentia rebellans” al suono della terza tromba).
“Vago” è il poeta di percorrere la divina foresta dell’Eden (Purg. XXVIII, 1-2). Ma non si tratta di un cammino come quello da cui si volse Ulisse, “dove, per lui, perduto, a morir gissi” (Inf. XXVI, 84), né di uno smarrirsi nella selva (nonostante la simmetria tra “tanto, ch’io / non potea rivedere ond’ io mi ’ntrassi” e “Io non so ben ridir com’i’ v’intrai, / tant’ era pien di sonno a quel punto / che la verace via abbandonai”), perché, dopo aver visto “il temporal foco e l’etterno”, il suo arbitrio è “libero, dritto e sano” e può prendere per guida il proprio piacere (Purg. XXVII, 131), che non è più la “dulcis voluptas” delle cose mondane di cui era piena la “dolce serena” apparsagli nel secondo sogno fatto sulla montagna.
Il drago che nelle vicissitudini del carro-Chiesa se ne va “vago vago” (Purg. XXXII, 130-135) mostra anch’esso il tema dello straniarsi remoto e difforme da tutto ciò che è spirituale e deiforme, l’esser vago, l’alienarsi. Dopo le due discese dell’aquila (la prima delle quali corrisponde al secondo stato, dei martiri), intervallate dall’avvento di una volpe messa in fuga da Beatrice (terzo stato, dei dottori che confutano le eresie), apertasi la terra tra le due ruote del carro, il drago ne esce figgendo la coda su di esso e, ritraendola “come vespa che ritragge l’ago”, ne strappa e porta con sé una parte del fondo. Come già interpretarono i contemporanei di Dante, si tratta dei Saraceni, che a partire dal quarto stato occuparono in oriente molti territori dove prima fioriva la fede cristiana e in particolare la santa vita degli anacoreti. La bestia saracena, come si sostiene ad Ap 6, 3, è “diversa” dalle altre; così l’esser vago del drago allude alla legge di Maometto, contraria a Cristo più di quanto fossero la legge dei Giudei e quella dei Gentili, che poi sparirono e contro le quali si poteva argomentare con le nostre scritture. La “difformitas et semotissima extraneitas … ad omnia spiritualiora et deiformiora opposita” di Ap 5, 1 si congiunge con l’essere dissimile della quarta bestia, che corrisponde al cavallo pallido che si mostra all’apertura del quarto sigillo (Ap 6, 8), designante Maometto e la sua mortifera legge, motivo già utilizzato per la lupa. Anche i pensieri “diversi”, tra i quali vaneggia la mente del poeta tanto “che li occhi per vaghezza ricopersi, / e ’l pensamento in sogno trasmutai” (Purg. XVIII, 139-145), alludono alla quarta bestia dissimile; la “femmina balba” che viene in sogno è tessuta con i fili di Gezabele, la profetessa falsa e carnale come la legge di Maometto, descritta nell’istruzione a Tiatira, la quarta delle chiese d’Asia.
Tra le vicende allegoriche del carro, la meretrice che siede sopra di esso appare al poeta “con le ciglia intorno pronte”, e gli rivolge “l’occhio cupido e vagante” suscitando il sospetto e l’ira del gigante che vigila su di essa (la casa di Francia che vigila sul papato, Purg. XXXII, 148-160).
II. Il vagheggiare è connesso all’adolescenza, perché Cristo parla del giovane vago che andò a perdersi in una regione lontana (Luca 15, 13; ad Ap 5, 1). L’adolescenza è congiunta con l’errore: nel Notabile III del prologo si dice che lo zelo si appunta, nel terzo stato, “contra adolescentiam levem et in omnem ventum erroris agitatam”, dopo che nel primo ha contrastato la “fatua infantia” e nel secondo la “pueritia inexperta”. Ad Ap 6, 5 (apertura del terzo sigillo), colui che siede sopra il cavallo nero – designa gli imperatori o i vescovi ariani – ha in mano una bilancia. La stadera misura la quantità dei pesi, e sta ad indicare la misurazione degli articoli di fede. Quando la misurazione avviene secondo la retta e infallibile regola di Cristo, allora il peso è giusto; quando invece la misurazione si fonda sull’errore e sul falso e intorto accoglimento della Scrittura, allora la stadera è dolosa. Sono temi presenti nelle parole di Marco Lombardo, allorché dice dell’anima che esce dalle mani del Creatore, “a lui che la vagheggia / prima che sia, a guisa di fanciulla / che piangendo e ridendo pargoleggia”, la quale, “semplicetta che sa nulla”, s’inganna correndo dietro questo o quel bene materiale, se la legge non le ponesse un freno (Purg. XVI, 85-96; da notare l’uso del verbo torcere in senso positivo, all’opposto di Ap 6, 5). Sul vagheggiare da parte del Creatore è da considerare anche quanto dice Beatrice di Adamo a Par. XXVI, 82-84, dove intervengono temi dall’istruzione a Laodicea, la settima delle chiese d’Asia (Ap 3, 14).
Il terzo stato (i dottori) percorre con i suoi motivi l’intero terzo girone degli iracondi. I temi – che rappresentano il massimo sviluppo loro dato nella Commedia – occupano una vasta zona: affiorano già in Purg. XV, commisti nel passaggio dal secondo al terzo girone con quelli del secondo stato, e proseguono fino a Purg. XVIII, allorché nel quarto girone il riferimento astronomico ai versi 76-81 segna il pieno passaggio al quarto stato degli anacoreti (con temi provenienti dalla quarta tromba e dalla quarta chiesa).
I temi della fantasia e dell’errore, precipui della terza vittoria (che consiste nella vittoriosa ascesa al di sopra della fantasia che muove dal senso, causa di errore e di eresia; Ap 2, 17), emergono con evidenza. Cessate le visioni estatiche di mansuetudine, che precedono l’episodio di Marco Lombardo, il poeta, tornato con l’anima “a le cose che son fuor di lei vere”, riconosce che le cose da lui viste erano “non falsi errori”, errori in quanto non esistenti nella realtà, non falsi come esperienza di visione soggettiva (Purg. XV, 115-117).
Andando a ritroso nei versi, si registra un anticipo dell’anima “a guisa di fanciulla, / che piangendo e ridendo pargoleggia” (Purg. XVI, 85-87) nello scherzare del sole a guisa di fanciullo nelle prime tre ore del giorno, che è sviluppo della “pueritia inexperta” che il Notabile III del prologo assegna al secondo stato, quello dei martiri (Purg. XV, 1-6; tutto il secondo girone del Purgatorio registra la prevalenza dei temi del secondo stato). Oltre che riferimento astronomico alle oscillazioni del suo moto apparente fra i due tropici, sarà pertanto da intendere nel senso di un’allusione alla luminosità non ancora matura, “quae semper tremulat et est in motu, sicut puer ludendo” come lo intendeva Pietro di Dante, oppure che cresce via via fino al meriggio (che corrisponde alla maturità). Il tema della puerizia, congiunto con quello del combattimento, è nella visione estatica del martirio di santo Stefano, “un giovinetto … in tanta guerra”, che compare nel terzo girone del purgatorio tra gli esempi di mansuetudine (Purg. XV, 106-114).
Vagheggiare ed errore sono compresenti in principio di Par. VIII: Venere è “la stella / che ’l sol vagheggia or da coppa or da ciglio”, la quale “le genti antiche ne l’antico errore” onoravano insieme alla madre (Dione) e al figlio (Cupido, nel quale si annida il tema dell’adolescenza). Il sole che vagheggia la stella “or da coppa or da ciglio” (in simmetria con Dio che vagheggia l’anima “che piangendo e ridendo pargoleggia” a Purg. XVI, 85-87; cfr. Elice che vagheggia il figlio Arcade a Par. XXXI, 33, Eco vaga di Narciso a Par. XII, 14-15) può essere ricondotto a quanto, ancora ad Ap 5, 1, si dice sulla terza causa della chiusura dei sigilli determinata dal libro dell’Antico Testamento, che sul suo involucro mostra sette apparenze. La settima sta nella fluttuante volubilità della vecchia Scrittura (il tempo de “le genti antiche ne l’antico errore”), involuta nelle ombre oscure delle figure che la coprono, come un mare procelloso e vertiginoso la cui voragine non ha fondo, o come una nube densa e tetra che ora si tinge di rosso ora appare pallida o verde o bianca, ora in un luogo ora in un altro (la coppa o il ciglio di Venere). Questa oscurità viene aperta dal nudo intelletto e dalla semplicità della fede e della sapienza di Cristo, cosicché taccia ogni contraddizione o litigio tra Vecchio e Nuovo Testamento. È da notare che a Venere sono appropriati temi della quinta delle chiese d’Asia, Sardi, bella nel suo principio, allorché possedeva tutte le perfezioni stellari, poi corrottasi.
Altra variazione sui temi del vagheggiare e dell’errare è in Par. X. Il poeta invita il lettore a levare con lui lo sguardo “a l’alte rote” dei cieli, “dritto a quella parte / dove l’un moto e l’altro si percuote”, cioè agli equinozi, punti di incontro dei due opposti movimenti rotatori, quello diurno equatoriale di tutti i corpi celesti da est a ovest, e quello annuo zodiacale (o dell’eclittica) dei pianeti da ovest a est (vv. 7-9). L’arte del divino maestro, che ama la propria opera creata e che il lettore deve cominciare a “vagheggiar”, provvede alla sua conservazione. Così lo zodiaco, in cui si muovono le orbite del sole e degli altri pianeti, è “oblico”, ossia inclinato, rispetto al piano (il “dritto”) dell’equatore celeste di circa 23° e mezzo. Questa inclinazione dello zodiaco rispetto all’equatore viene incontro ai bisogni della vita sulla terra, essa è un giusto ‘torcersi’ dal “dritto”, secondo quanto esposto ad Ap 6, 5 sulla misura della retta o intorta interpretazione della Scrittura. Se infatti la strada percorsa dalle orbite dei pianeti, cioè lo zodiaco, “non fosse torta, / molta virtù nel ciel sarebbe in vano, / e quasi ogne potenza qua giù morta”; e se poi “dal dritto più o men lontano (cfr., ad Ap 5, 1, “dicitur … abisse in regionem longinquam”) / fosse ’l partire”, se cioè il divergere dello zodiaco dall’equatore fosse maggiore o minore di quello che è, ne conseguirebbero manchevolezze nell’ordine del mondo, in terra e in cielo, con grave alterazione dei climi (vv. 10-21). Questo torcersi obliquamente dei pianeti, che si allontanano dal dritto in modo equilibrato (tema della bilancia, da Ap 6, 5), avviene “per sodisfare al mondo che li chiama”, e corrisponde al ‘declinare’ della vita della grazia che condiscende verso le moltitudini dopo l’ardua e a lungo insostenibile vita solitaria degli anacoreti, che è tema proprio del quinto stato. Da notare, in Par. X, 26-27, l’appropriazione dei motivi (già utilizzati per i simoniaci!), ancora da Ap 6, 5, del ‘torcere’ e della ‘scrittura’ al poeta, che invita il lettore a cibarsi da solo della materia che gli ha messo innanzi, “ché a sé torce tutta la mia cura / quella materia ond’ io son fatto scriba”.
Al suonare dell’alto corno di Nembrot, il poeta crede di vedere “molte alte torri”, ma Virgilio gli
spiega, “acciò che ’l fatto men ti paia strano” che, poiché “’l senso s’inganna di lontano”, egli male discerne (“nel maginare abborri”) scambiando per torri quelli che sono giganti. Man mano che s’avvicina e vede meglio come per nebbia che si dissipa, in Dante fugge l’errore (il mettere in fuga la nebbia e l’errore è tema della terza vittoria: Ap 2, 17) e cresce la paura (Inf. XXXI, 19-39). “Lontano” rima con “strano”: entrambi i termini si trovano nell’esegesi ad Ap 5, 1, il cui tema principale, ora taciuto, è il vagheggiare. La stessa domanda di Dante – “Maestro, dì, che terra è questa?” – ricorda quella di Baruc 3, 10: “Quid est, Israel, quod in terra inimicorum es?”.
C’è anche un esser vago che non erra, ché anzi si giustifica per la verità. Bonagiunta da Lucca, che purga la gola nel sesto girone della montagna, è “anima … che par sì vaga / di parlar”, e se le parole su Gentucca, la donna che farà piacere Lucca al poeta fiorentino, insinuano “errore”, cioè il dubbio, questo verrà sciolto dai veri fatti (Purg. XXIV, 40-48). Piccarda è “l’ombra che parea più vaga / di ragionar”, e Beatrice invita l’amico a parlare, “ché la verace luce che le appaga / da sé non lascia lor torcer li piedi”, cioè non consente che errino (Par. III, 31-36).
III. Il riferimento del Salmo 136, 4 al pianto dei figli d’Israele, vaghi nell’esilio (la citazione ad Ap 5, 1 è completata da quella ad Ap 14, 8) è nell’essere gli occhi del poeta vaghi di piangere di fronte alla “molta gente” e alle “diverse piaghe” della nona bolgia (Inf. XXIX, 1-3). “Diverse” è da intendere nel senso di ‘strane’ (Ap 5, 1) o ‘dissimili’ (Ap 6, 3), al modo della “sì diversa cennamella” usata da Barbariccia per dare un cenno di partenza alla schiera dei Malebranche (Inf. XXII, 9; nello stesso canto l’essere “invaghito” è appropriato a Calcabrina, v. 134). E veramente le piaghe inferte ai seminatori di scandalo e di scisma, rotti e tagliati nelle membra, li rendono lontanissimi dalla compiuta figura umana, che si realizza nel sesto stato, allorché si rinnova la vita evangelica e con essa l’uomo, fatto a immagine e somiglianza di Dio nel sesto giorno della creazione, assomiglia in modo più perfetto al suo esemplare. Nello stesso canto, la “vaghezza” è attribuita ad Albero da Siena, che mandò al rogo il suo familiare Griffolino d’Arezzo solo perché questi non gli insegnò come volare dopo essersi vantato di saperlo fare. Anche questa “vaghezza e senno poco” indica la lontananza da ciò che è deiforme, perché l’uomo creato nel sesto giorno è uomo razionale (il “senno poco” di Inf. XXIX, 114 corrisponde alla “mente torta” di Ecuba ad Inf. XXX, 21).
Il tema della difformità e dello straniarsi, unito a quello del pianto e del lamento (presente anche nella sesta coppa, ad Ap 16, 16, dove le lamentazioni di Geremia per la morte del re Giosia sono assimilate al pianto sulla morte di Cristo), risuona nei “lamenti in su li alberi strani” fatti dalle Arpie nella selva dei suicidi (Inf. XIII, 15). I “lamenti … strani” sottolineano anche qui la difformità rispetto a quanto è deiforme, perché l’anima feroce dei peccatori puniti in quella selva si è divisa essa stessa dal proprio corpo. Anche qui l’uomo razionale, creato nel sesto giorno assimilato al sesto stato, è stato offeso: “Uomini fummo, e or siam fatti sterpi”, dice Pier della Vigna (v. 37), mentre le “brutte Arpie” designano gli uccelli immondi creati nel quinto giorno assimilato al quinto stato, prima dell’uomo. Questi “lamenti strani” si accomunano alle “diverse piaghe” della nona bolgia, ed è contiguità non solo apparente, perché il confronto dei testi consente di affermare che suicidi e seminatori di scandalo e di scisma sono tessuti sulla stessa parte di panno, quella che riunisce i temi del terzo stato, proprio dei dottori che confutarono le eresie che divisero la Chiesa. Così, al termine del quarta zona dell’Inferno in cui i temi del terzo stato sono prevalenti (che comprende la nona bolgia, dove sono puniti i seminatori di scandalo e di scisma), il motivo dello straniarsi risuona ancora sulla soglia della successiva e ultima bolgia, dove sono puniti i falsari: “lamenti saettaron me diversi, / che di pietà ferrati avean li strali” (Inf. XXIX, 43-44), prima che la descrizione delle pene dia luogo ai temi del quarto stato.
Se i “lamenti … strani” sono all’opposto dell’umano e del razionale e rendono chiuso il sesto sigillo, la cui apertura è segnata dalla più chiara intelligenza della Scrittura e dalle maggiori illuminazioni spirituali, i “versi strani” di Inf. IX, 63 sono i più lontani da quell’intelligenza e da quelle illuminazioni, e per questo il poeta fa appello a coloro che hanno “li ’ntelletti sani” affinché mirino la dottrina di Cristo che si nasconde sotto il loro velame, che non è ancora tempo di aprire di fronte ai malvagi e agli indisposti. È da notare che ai “lamenti … diversi” di Inf. XXIX, 43 consegue una chiusura (“ond’ io li orecchi con le man copersi”), come i “versi strani” di Inf. IX, 63, i quali chiusi nascondono la dottrina di Cristo che solo quanti hanno “li ’ntelletti sani” possono scorgere, sono preceduti dalla chiusura, da parte di Virgilio, degli occhi di Dante alla venuta della Gorgone (vv. 59-60: “e non si tenne a le mie mani, / che con le sue ancor non mi chiudessi”).
Essere vago e piangere sono congiunti; il pianto è anche desiderio di apertura del libro, cosa che solo Cristo può fare. Così ad Ap 5, 4 Giovanni piange a nome di tutti i santi padri, che sospirano con desiderio, poiché non si trova alcuno degno di aprire il libro. Sono congiunti nell’esegesi anche l’essere vago e il sospendere. Nel cielo ottavo Beatrice attende l’arrivo delle schiere del trionfo di Cristo, rivolta verso il meridiano come l’uccello innanzi l’alba “previene il tempo in su aperta frasca, / e con ardente affetto il sole aspetta”. L’attendere è tema proprio del quinto sigillo (Ap 6, 11), l’aprirsi e l’alba sono motivi del sesto stato. La donna “stava eretta / e attenta” (sesta vittoria: Ap 3, 12), “sospesa e vaga” (motivi che segnano la chiusura del sesto sigillo; la vaghezza, qui come a Par. XXXI, 33, ha un valore positivo, sinonimo di desiderio), mentre anche il poeta si fa desideroso: “fecimi qual è quei che disïando / altro vorria, e sperando s’appaga” (Par. XXIII, 1-15). Da notare il valore ambiguo dell’essere “sospesi”, che da una parte indica il desiderio di qualcosa che non si ha, dall’altra lo stare assorti nella contemplazione, un’ambiguità di cui sono pregni “color che son sospesi” nel Limbo (cfr. Purg. X, 104; XV, 84; XXVII, 106).
Desiderio ed esser vago sono appropriati a Dante, bramoso di vedere attuffato nella palude Filippo Argenti (Inf. VIII, 52-57), anche se nel caso il tema del desiderio è da ricondurre al desiderio di vendetta dei santi all’apertura del quinto sigillo (Ap 6, 10) piuttosto che al desiderio di Giovanni da Ap 5, 4, o almeno è con questo contaminato.
Tab. App. I
Inf. XXVI, 83-84, 106-108non vi movete; ma l’un di voi dica
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Par. X, 91-96; XI, 124-129Tu vuo’ saper di quai piante s’infiora
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[LSA, cap. V, Ap 5, 1 (VIum sigillum)] Prima (causa) est quia septem sunt defectus in nobis claudentes nobis intelligentiam huius libri. […] Sextus est ad omnia spiritualiora et deiformiora opposita difformitas et semotissima extraneitas, propter quod adolescens vagus dicitur a Christo abisse “in regionem longinquam” (Lc 15, 13), et de filiis vagis dicitur Isaie I° quod “[ab]alienati sunt retrorsum” (Is 1, 4), et in Psalmo dicitur: “Quomodo cantabimus canticum Domini in terra aliena?” (Ps 136, 4), scilicet in Babilone, que confusio interpretatur; et Baruch III° dicitur: “Quid est, Israel, quod in terra inimicorum es; inveterasti in terra aliena?” (Bar 3, 10-11). |
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Purg. XVIII, 139-145; XIX, 19-24Poi quando fuor da noi tanto divise
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Purg. XXVII, 130-132; XXVIII, 1-3, 22-24Tratto t’ho qui con ingegno e con arte;
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[LSA, cap. XI (IIIa tubicinatio moraliter exposita)] Quia vero post curam proprie vite sequitur cura sciendi, que cum evanescit fit curiosa et erronea, ideo tertium tubicinium fit super aquas sapientie, cui intelligentia rebellans est quasi stella cadens in varios errores, qui sunt tertia pars aquarum. Dulcis enim et bona aqua scientie est de veris et utilibus, seu de prudentia regitiva actionum et de scientia speculativa divinorum, et hee partes aquarum sunt bone. Vel quia nimia cura sui facit etiam sanctos lucentes ut stellas et ardentes ut faculas cadere in aquas voluptatis carnalis, relicta duplici parte aquarum bonarum, scilicet voluptatis habite de Deo et voluptatis habite de gratiis et virtutibus et sanctis operibus Dei et sanctorum, idcirco tertium tubi-cinium est contra tertiam partem aquarum et pro promotione duarum.
Purg. XXXII, 130-135, 154-156
Poi parve a me che la terra s’aprisse
tr’ambo le ruote, e vidi uscirne un drago
che per lo carro sù la coda fisse;
e come vespa che ritragge l’ago,
a sé traendo la coda maligna,
trasse del fondo, e gissen vago vago.
Ma perché l’occhio cupido e vagante
a me rivolse, quel feroce drudo
la flagellò dal capo infin le piante
Inf. I, 10-12, 124-126
Io non so ben ridir com’ i’ v’intrai,
tant’ era pien di sonno a quel punto 3, 2-3
che la verace via abbandonai.
ché quello imperador che là sù regna,
perch’ i’ fu’ ribellante a la sua legge,
non vuol che ’n sua città per me si vegna.
[LSA, cap. VI, Ap 6, 3 (IIa visio, in apertione IIi sigilli)] Sicut etiam per equum pallidum, cuius sessor est mors, designatur Sarracenorum populus et eius propheta mortiferus, scilicet Mahomet, sic et per quartam bestiam dissimilem ceteris. Hec enim est dissimilis ceteris in tribus. Primo scilicet quia Iudeorum regnum et paganorum et hereticorum confluxerunt ad tempus cum fidelibus Christi et tandem disperierunt, sed bestia sarracenica surgens in quarto tempore confligit et perdurat in toto quinto et pertinget usque ad sectam Antichristi, propter quod hic dicitur quod “infernus”, id est infernalis secta Antichristi, “sequebatur eum”, scilicet equum pallidum et sessorem eius (Ap 6, 8). Secundo est eis dissimilis quia prima tria regna non habuerunt novam legem contrariam Christo. Nam lex Iudeorum, scilicet lex vetus, non fuit realiter contraria Christo, immo potius eius, nec lex nova quam heretici fingunt se sequi. Pagani autem legem non habuerunt quasi a Deo datam, sed solum legem naturalem in civilibus civiliter explicatam. Sarraceni autem habent legem carnalem et falsam a Mahomet, quasi a Dei propheta, datam. Tertio est dissimilis quia contra istam non possunt fideles arguere per scripturas sacras sicut possunt contra Iudeos et contra hereticos, quia ista nostras scripturas non recipit, nec per rationem naturalem potest sic faciliter et evidenter convinci sicut poterat idolatria paganorum, quia isti non idola nec plures deos sed solum unum deum colunt. Et insuper sapientes eorum ab antiquo philosophicis vacant et specialiter philosophie Aristotelis, unde et christiani latini acceperunt ab eis comenta super libros Aristotelis et plura alia de scientia medicinali, et etiam de quadrivio et specialiter de astronomia, ita ut iam multa scripta theologorum latinorum sunt Sarracenorum auctoritatibus farcita et fedata, in quo satis est signum quod infernus sequatur sectam illam. Preterea bestia hec non sustinet fidem Christi inter eos predicari aut aliquid contra eorum legem dici, immo statim morte punitur. Non sic autem fuit in tribus primis.
Tab. App. II
[LSA, Ap 5, 1 (clausura VIIi sigilli)] Tertia ratio septem sigillorum quoad librum veteris testamenti sumitur ex septem apparenter in eius cortice apparentibus. […] Septimum est sensuum veteris scripture fluctuans volubilitas et involucrorum seu tegumentorum figuralium umbrositas et obscura multiformitas, unde e[s]t sicut mare procellosum et vertiginosum et voraginosum et quasi non habens fundamentum seu fundum. Est etiam sicut nubes densa et tetra, nuncque rubescens nunc vero pallescens, nunc virens nunc albens, et nunc in uno loco et nunc in alio. Hanc autem aperit intellectualis nuditas et simplicitas fidei et sapientie Christi, prout Apostolus IIa ad Corinthios III° docet. Hanc autem plenius aperiet Christus, cum implebitur illud quod sub sexto angelo tuba canente iurat et clamat angelus tenens librum apertum, scilicet quod “in diebus septimi angeli, cum ceperit tuba canere, consumabitur”, id est ad plenum implebitur et explicabitur, “misterium Dei sicut evangelizavit per servos suos prophetas” (Ap 10, 6-7). Tunc enim omnis litigatio et contradictio inter vetus et novum omnino silebit, prout notat apertio septima (cfr. Ap 8, 1). |
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Purg. XV, 1-6, 115-117; XVI, 85-93; Par. XXVI, 85-87Quando tra l’ultimar de l’ora terza
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Par. VIII, 1-12Solea creder lo mondo in suo periclo
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[LSA, cap. V, Ap 5, 1 (VIum sigillum)] Prima (causa) est quia septem sunt defectus in nobis claudentes nobis intelligentiam huius libri. […] Sextus est ad omnia spiritualiora et deiformiora opposita difformitas et semotissima extraneitas, propter quod adolescens vagus dicitur a Christo abisse “in regionem longinquam“ (Lc 15, 13), et de filiis vagis dicitur Isaie I° quod “[ab]alienati sunt retrorsum” (Is 1, 4), et in Psalmo dicitur: “Quomodo cantabimus canticum Domini in terra aliena?” (Ps 136, 4), scilicet in Babilone, que confusio interpretatur; et Baruch III° dicitur: “Quid est, Israel, quod in terra inimicorum es; inveterasti in terra aliena?” (Bar 3, 10-11). |
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[LSA, prologus, Notabile III] Item (zelus) est septiformis prout fertur contra quorundam ecclesie primitive fatuam infantiam (I), ac deinde contra pueritiam inexpertam (II), et tertio contra adolescentiam levem et in omnem ventum erroris agitatam (III), et quarto contra pertinaciam quasi in loco virilis et stabilis etatis se firmantem (IV), quinto contra senectutem remissam (V), sexto contra senium decrepitum ac frigidum [et] defluxum (VI), septimo contra mortis exitum desperatum et sui oblitum (VII). |
[LSA, cap. VI, Ap 6, 5 (IIa visio, apertio IIIii sigilli)] “Et qui sedebat super eum”, scilicet imperatores et episcopi arriani, “habebat stateram in manu sua”. Cum statera mensuratur quantitas ponderum, et ideo per stateram designatur hic mensuratio articulorum fidei, que quando fit per rectam et infallibilem regulam Christi et scripturarum suarum est recta statera, de qua Proverbiorum XVI° dicitur: “Pondus et statera iudicia Domini sunt” (Pro 16, 11), et Ecclesiastici XXI°: “Verba prudentium statera ponderabuntur” (Ecli 21, 28); quando vero fit per rationem erroneam et per falsam et intortam acceptionem scripture est statera dolosa, de qua Proverbiorum XI° dicitur: “Statera dolosa abhominatio est apud Deum” (Pro 11, 1), et in Psalmo: “Mendaces filii hominum in stateris” (Ps 61, 10), et Michee VI°: “Numquid iustificabo stateram impiam et sac[c]elli pondera dolosa” (Mic 6, 11). |
Purg. XXIV, 40-48“O anima”, diss’ io, “che par sì vaga
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Inf. XXXI, 19-33, 37-39Poco portäi in là volta la testa,
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Tab. App. III
Purg. XXXI, 7-9Era la mia virtù tanto confusa,
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[LSA, cap. XIV, Ap 14, 8 (IVa visio, VIum prelium)] Secundus autem angelus seu doctor predicat amotionem precipui impedimenti ad agendum predicta seu expeditionem intrinseci et domestici obstaculi. Predicat enim casum Babilonis, id est ecclesie carnalis, dicens: “Cecidit, cecidit Babilon illa magna” (Ap 14, 8).
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[LSA, cap. V, Ap 5, 1 (VIum sigillum)] Prima (causa) est quia septem sunt defectus in nobis claudentes nobis intelligentiam huius libri. […] Sextus est ad omnia spiritualiora et deiformiora opposita difformitas et semotissima extraneitas, propter quod adolescens vagus dicitur a Christo abisse “in regionem longinquam” (Lc 15, 13), et de filiis vagis dicitur Isaie I° quod “[ab]alienati sunt retrorsum” (Is 1, 4), et in Psalmo dicitur: “Quomodo cantabimus canticum Domini in terra aliena?” (Ps 136, 4), scilicet in Babilone, que confusio interpretatur; et Baruch III° dicitur: “Quid est, Israel, quod in terra inimicorum es; inveterasti in terra aliena?” (Bar 3, 10-11). |
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[LSA, cap. V, Ap 5, 4 (radix IIe visionis)] Quartum est vehemens desiderium Iohannis de libri apertione grandi fletu ipsius ostensum, ibi: “Et ego flebam multum” (Ap 5, 4). […] Deinde subditur gemitus Iohannis procedens ex desiderio apertionis et ex visa impossibilitate et indignitate omnium ad ipsam complendam. Ait enim: “Et ego flebam multum, quoniam nemo dignus inventus est aperire librum nec videre illum”. Iohannes tenet hic typum omnium sanctorum patrum salvatorem et divine gratie et glorie promeritorem et impetratorem et largitorem desiderantium et pro eius dilatione et inaccessibilitate gementium. Hic autem gemitus pro tanto est in sanctis post Christi adventum pro quanto ad ipsum pro consumatione totius ecclesie et pro gratia et gloria per ipsum impetranda et largienda toto corde suspirant, et pro quanto cum humili gemitu recognoscunt nullum ad hoc fuisse potentem et dignum nisi solum Christum; potissime tamen designat cetum et statum contemplativorum, qui pre ceteris altius et viscerosius ad istud suspirant. […] Item fletus hic quantus fuit in sanctis patribus ante Christum; cum etiam essent in limbo inferni, quanto desiderio suspirabant ut liber vite aperiretur eis et omnibus cultoribus Dei!
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Inf. IV, 25-27, 40-45
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Par. XII, 10-15Come si volgon per tenera nube
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Inf. VIII, 52-57E io: “Maestro, molto sarei vago
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[LSA, cap. VI, Ap 6, 10 (apertio Vi sigilli)] “Et clamabant voce magna” (Ap 6, 10), id est eorum martiria evidentissime et vehementissime, secundum ordinem iustitie, apud Deum exigebant dampna-tionem malorum nolentium eos sequi; vel, secun-dum absolutum ordinem divine iustitie, magno voto et desiderio hoc expetebant; “dicentes: Usquequo, Domine, sanctus et verus non iudicas et vindicas sanguinem nostrum de hiis qui habitant in terra?”, scilicet non solum per corporalem mansionem, sed etiam per terrenum amorem. |
Tab. App. IV
[LSA, cap. V, Ap 5, 1 (VIum sigillum)] Prima (causa) est quia septem sunt defectus in nobis claudentes nobis intelligentiam huius libri. […] Sextus est ad omnia spiritualiora et deiformiora opposita difformitas et semotissima extraneitas, propter quod adolescens vagus dicitur a Christo abisse “in regionem longinquam” (Lc 15, 13), et de filiis vagis dicitur Isaie I° quod “[ab]alienati sunt retrorsum” (Is 1, 4), et in Psalmo dicitur: “Quomodo cantabimus canticum Domini in terra aliena?” (Ps 136, 4), scilicet in Babilone, que confusio interpretatur; et Baruch III° dicitur: “Quid est, Israel, quod in terra inimicorum es; inveterasti in terra aliena?” (Bar 3, 10-11). |
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Inf. IX, 58-63Così disse ’l maestro; ed elli stessi
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Inf. XXIX, 1-3, 43-45, 112-114La molta gente e le diverse piaghe
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[LSA, cap. XVI, Ap 16, 16 (Va visio, VIa phiala)] Vel forte scriptura sacra voluit hoc bellum assimilare illi bello in quo rex Iosias est in Magedon occisus, prout dicitur IIII° Regum XXIII° (4 Rg 23, 29) et II° Paralipomenon XXXV° (2 Par 35, 20-25), ubi et dicitur quod Ieremias cum tota Iudea et Iherusalem vehementissime planxit eum et fecit lamentationes super eum, cui quidem planctui assimilatur planctus mortis Christi a tribubus Israel convertendis fiendus, prout dicitur Zacharie XII° (Zac 12, 11-14). Et secundum hoc, [huic] nom[ini] Magedon, quod interpretatur temptatio, adiungitur ar, quod interpretatur suscitatio vel vigilie; vel her, quod interpretatur vigilans vel consurgens vel effusio, ut sic scriptura insinuet quod in magno prelio Antichristi et regum suorum re[nov]abitur magnus planctus crucis Christi et martirum eius, et consurget magna effusio temptationis in qua diabolus Antichristus cum suis attente pervigilabit. |