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Introduzione. 1. Martirio e pietà: la Donna Gentile (o Pietosa) e Francesca. 2. Amore sulla via di Emmaus. 3. “Chi è costui che vene?”. 4.“Apparve prima la gloriosa donna della mia mente”. 5. “Incipit Vita Nova”. 6. Le “nove rime”. 7. Punti fermi e problemi aperti. Appendice: Il Libro di Giobbe e le sue metamorfosi. Fonti.
ABSTRACT
This essay, beginning a new research field, demonstrates how the parody of Biblical exegesis – particularly Petrus Iohannis Olivi’s Expositio in Canticum Canticorum and Lectura super Lucam – highly influenced the inception of Dante’s “nove rime” in 1290 circa, when Beatrice died. Vita Nova is a story about a new advent of Christ, the “miracle” Beatrice, who was much admired by the people whose hearts she filled with wonder. Beatrice was an intellectual rather than a physical “miracle”, beheld by those who had “intelletto d’amore”. It is by no means casual that Dante’s “nove rime” were published around or immediatly after the time when Olivi was teaching theology in Florence at the franciscan Studium of Santa Croce between 1287 and 1289.
The angel who appeared to Zachary, described in Olivi’s Lectura super Lucam as a divine power whose terrifying and dumbfounding qualities made people tremble, is also found in the apparition of the “angiola giovanissima” whose virtue made Dante’s heart tremble almost at the end of his ninth year.
According to Gregory the Great’s assertions quoted in Olivi’s commentary on the Canticle of Canticles, the admirable, albeit false, image of truth arising from the Antichrist’s subtle deception shakes the compassionate modern martyrs. Their tribulations are found again in the poet’s pensive and troubled “battaglia de’ pensieri”, when the Donna Gentile of his mind – “quella pietosa / che si turbava de’ nostri martiri” – appears before his eyes (Vita Nova, 27 [xxxviii].4,10). This Donna, which Guglielmo Gorni defined as “a real figure of the Antichrist, sinisterly perverse”, is a truly fervent “adversario della Ragione … desiderio malvagio e vana tentatione” against which the image of Beatrice arose (ibid., 28 [xxxix]).
The same quotation from the Moralia in Iob by Gregory the Great, contained in Olivi’s commentary on the Canticle of Canticles, is found in the notabile X of the prologue of Lectura super Apocalipsim (completed in 1298, year of Olivi’s death). This allows a comparison between the “Donna Gentile” (or the “Donna Pietosa”) in the Vita Nova and Francesca in the Commedia (Inferno V): both tempt Dante with pity and cause him to doubt.
Hence, Dante came across Olivi’s Scriptural exegesis in Santa Croce of Florence before he attended philosophy lessons at the “scuole delli religiosi” after the death of Beatrice (Convivio II, xii, 7). The exegesis became the poet’s ‘guide’ to concurring human knowledge: perhaps Guido Cavalcanti’s “disdegno” (Inf. X, 63) for this guide separated Dante from his first friend.
This explains the astonishing relationship of parody – the main subject of the research published on this website – that Dante created between his “sacred poem” and the Lectura super Apocalipsim during his exile. The literal meaning of the Commedia contains keywords that, through a technique of the art of memory, refer those who – the Spiritual Franciscans – should have reformed the Church by preaching.
According to Olivi, as exposed in the Lectura super Apocalipsim, the sixth period (status) of the Church’s history corresponds to modern times upon which all the enlightenment and the malice of the past falls. The second advent of Christ in the sixth period of the Church (the advent in the Spirit, after the first advent in the flesh and long before the third in the judgement) brings a vita nova to His spiritual disciples. A spiritual rebirth leads to a novum saeculum. Although Olivi is very cautious about using pagan authors, his statement concerning this renovatio and Virgil’s Fourth Eclogue spiritually and even literally correspond perfectly.
In the sixth period of the Church, spiritual men are sent to prophesy again to many nations as in the apostolic days of Saint John. However the new “John”, author of a new Revelation, does not denote only an Order, since Olivi don’t not exclude individual revelations to “singulares personae” who perfectly imitate Christ and are devoted to the conversion of all the nations with their “learned tongue” (“lingua erudita”).
Olivi’s sixth period of the history of the Church, characterised by freedom to speak given to the preachers, as dictated from within in order to open hearts, is remarkably consonant with Dantesque poetics, as shown in the sixth terrace of Purgatory during the meeting with Bonagiunta Orbicciani from Lucca. Dante’s poetics is based on the ‘breath of Love’ and ‘noting’, meaning closely following what he within ‘dictates’, almost as if an evangelical rule had been imposed and accepted (Purg. XXIV, 52-54: “I’ mi son un che, quando / Amor mi spira, noto, e a quel modo / ch’e’ ditta dentro vo significando”).
Introduzione
1293: “nelle scuole delli religiosi”. Nel dodicesimo capitolo del secondo trattato del Convivio (II, xii, 2-7) Dante scrive che, dopo la morte di Beatrice (8 giugno 1290) – “come per me fu perduto lo primo diletto della mia anima” -, preso da sconforto – “io rimasi di tanta tristizia punto, che conforto non mi valea alcuno” -, si consolò leggendo, “dopo alquanto tempo”, Boezio e il Laelius de amicitia di Cicerone. La lettura lo portò a considerare “che la filosofia, che era donna di questi autori, di queste scienze e di questi libri, fosse somma cosa. Ed imaginava lei fatta come una donna gentile …”. Così cominciò “ad andare là dov’ella si dimostrava veracemente, cioè nelle scuole delli religiosi e alle disputazioni delli filosofanti”. Nel secondo capitolo del medesimo trattato del Convivio (II, ii, 1-2), Dante asserisce che dalla morte di Beatrice erano passate due rivoluzioni di Venere, cioè 1168 giorni (3 anni e 72 giorni), “quando quella gentile donna [di] cui feci menzione nella fine della Vita Nova, parve primamente, acompagnata d’Amore, alli occhi miei e prese luogo alcuno nella mia mente”. L’incontro con la filosofia sarebbe dunque avvenuto nell’estate 1293 (i calcoli conducono al 21 agosto di quell’anno); ad esso sarebbe seguita la frequentazione delle “scuole delli religiosi”, che a Firenze erano la domenicana a Santa Maria Novella e la francescana a Santa Croce.
Dante continua (II, ii, 3-5) affermando che l’amore per la filosofia richiese tempo per maturare: “Ma però che non subitamente nasce amore e fassi grande e viene perfetto, ma vuole tempo alcuno e nutrimento di pensieri, massimamente là dove sono pensieri contrari che lo ’mpediscano, convenne, prima che questo nuovo amore fosse perfetto, molta battaglia [essere] intra lo pensiero del suo nutrimento e quello che li era contrario, lo quale per quella gloriosa Beatrice tenea ancora la rocca della mia mente”. Il poeta si riferisce certamente alla sua “battaglia de’ pensieri”, per la Gentile o per Beatrice, descritta nei paragrafi 24 [xxxv] – 27 [xxxviii] della Vita Nova, al termine della quale la “Beatrice beata” prevale sul “desiderio malvagio e vana tentatione” che la Gentile rappresenta (paragrafi 28 [xxxix] – 31 [xlii]). Nel Convivio invece a vincere è la filosofia, il “nuovo pensiero, che era virtuosissimo sì come vertù celestiale”; e il frutto della vittoria la canzone Voi che ’ntendendo il terzo ciel movete, composta (II, xii, 7) circa trenta mesi dopo l’inizio della frequentazione delle “scuole delli religiosi”, cioè nei primi mesi del 1296. Nel periodo che va dall’incontro con la filosofia (agosto 1293) alla vittoria di questa (febbraio? 1296; un possibile anticipo al 1294 è dato dall’incontro a Firenze con Carlo Martello avvenuto nel marzo di quell’anno e ricordato dallo stesso re, citando la canzone, a Par. VIII, 37) sarebbero state pertanto scritte le parti della Vita Nova riguardanti la Donna Gentile [1].
Prima del 1293: la questione dell’incontro con Olivi a Santa Croce (1287-1289). L’autobiografia dantesca esposta nel Convivio, con i problemi interpretativi che comporta, riguarda esclusivamente l’incontro con la filosofia, inizialmente appresa leggendo Boezio e Cicerone, poi approfondita nelle “scuole delli religiosi”. Dante parla anche di una sua formazione nell’“arte di grammatica” (Cv II, xii, 4); tace sull’apprendimento della teologia, la “notitia Dei” fondata sull’esegesi della Scrittura, materia che pure lo renderà presso i contemporanei poeta theologus per eccellenza [2].
Già nel 1929, Alois Dempf accostava, in Sacrum Imperium, la Lectura super Apocalipsim del francescano Pietro di Giovanni Olivi, terminata poco prima della morte dell’autore nel 1298, alla Commedia, iniziata intorno al 1307-1309, come due “Apocalissi gioachimite” [3]. Nel 1932, nel saggio Dante und Joachim von Fiore, Herbert Grundmann riteneva ragionevole supporre che, per quanto non esistano prove documentarie al riguardo, Dante avesse frequentato, insieme a Ubertino da Casale, le lezioni di Olivi, lettore di teologia nello Studium francescano di Santa Croce tra il 1287 e il 1289, tanto forte fu la vicinanza spirituale del poeta con i due frati minori [4]. Più decisamente due anni dopo, in Ecclesia Spiritualis, Ernst Benz asseriva che Dante apprese delle attese escatologiche “dalla bocca dello stesso Olivi” [5]. Charles Till Davis, che negli anni ’60 aveva iniziato le ricerche sulla biblioteca di Santa Croce, esprimeva il dubbio che, se pure poté studiare anche la teologia alle “scuole delli religiosi” (cioè dopo la morte di Beatrice, quando vi andò per la filosofia), Dante avesse ben avvertito, “prima del 1290, il vigore del forte movimento degli spirituali di Firenze” [6]. E a partire dal 1965 Raoul Manselli, in numerosi saggi sull’argomento, spostava il problema del rapporto di Dante con la persona di Olivi alla sua relazione con un ambiente e con un mondo di idee pregno della testimonianza lasciata a Santa Croce dal frate di Sérignan: Olivi e Ubertino potevano non essere stati una fonte di Dante ma erano voci dell’Ecclesia spiritualis, di cui Dante aveva condiviso le speranze fondamentali [7]. Si trattava, in ogni caso, di ipotesi seriamente fondate, ma sul contenuto della Commedia, nella quale appare evidente la consonanza del poeta con gli Spirituali francescani, non però sulle opere scritte a Firenze prima dell’esilio o comunque precedenti il “poema sacro”. Una recente ricerca ha proseguito le indagini del Davis sulla biblioteca di Santa Croce; nel suo ambito, per quanto riguarda Dante, sono stati studiati i quodlibetales del francescano Petrus de Trabibus come esempio di disputazione teologica al tempo in cui il poeta frequentava quello Studium e scriveva la Vita Nova; il rapporto con Olivi e la sua straordinaria esegesi biblica, autorevolmente supposto nel passato, è stato dichiarato indimostrabile [8].
1307/1309-1321: la “Commedia” come parodia della “Lectura super Apocalipsim”. La ricerca sin qui condotta, pubblicata su questo sito e in parte a stampa, rivela un fatto del tutto nuovo e insospettabile: Dante ha scritto la Commedia elaborando materialmente, dal latino in volgare, la Lectura super Apocalipsim di Pietro di Giovanni Olivi, libro-vessillo degli Spirituali francescani completato a Narbonne poco prima della morte del suo autore, nel 1298. Questa intertestualità, che meglio può essere definita parodia, diffusa per tutto il “poema sacro”, regolata da precise norme la cui costanza non consente dubbio sul fatto in sé, lascia aperto il campo alle interpretazioni circa le possibili cause di tanta tecnica e intima rispondenza dei due testi. Per il momento si affacciano tre ipotesi:
a) Il senso letterale della Commedia contiene parole che sono chiave di accesso a un altro testo, la Lectura super Apocalipsim dell’Olivi. Si tratta di un procedimento di arte della memoria: le parole-chiave operano sul lettore come imagines agentes che lo sollecitano verso un’opera di ampia dottrina, che già conosce, ma che rilegge mentalmente parafrasata in volgare, profondamente aggiornata secondo gli intenti propri del poeta, in versi che le prestano “e piedi e mano” e la dotano di exempla contemporanei e noti. Nel senso letterale del “poema sacro” sono incardinati gli altri sensi interpretativi: allegorico, morale, anagogico (che Dante, nell’Epistola a Cangrande, definisce collettivamente “mistici” o “allegorici”). Dante mirava non solo a un pubblico di laici, o genericamente di chierici, ma anche di predicatori e riformatori della Chiesa – agli Spirituali francescani, e forse non solo ad essi, se la Lectura si fosse diffusa anche presso altri Ordini -, a coloro cioè che con la predicazione avrebbero potuto riformare la Chiesa e con la “lingua erudita” – il suo volgare – convertire il mondo. Questo pubblico di religiosi non si formò, perché gli Spirituali (non un gruppo organizzato, ma di sensibilità comune), i quali dovevano conoscere la Lectura oliviana, furono perseguitati e il loro libro-vessillo, censurato nel 1318-1319 e condannato nel 1326, fu votato alla clandestinità e quasi alla sparizione.
b) Più luoghi della Commedia rinviano, tramite parole-chiave, a un medesimo luogo dell’esegesi esposta nella Lectura. Ciò significa che quella stessa esegesi è stata utilizzata in momenti diversi della stesura del poema. La persistenza di un “panno” – cioè di un altro testo da cui trarre i significati spirituali del poema, materialmente elaborati attraverso le parole – è servita a mantenere l’unità e la coerenza interna dell’ordito, della “gonna”, per usare l’immagine di san Bernardo a Par. XXXII, 140-141. Che il poema sia stato pubblicato per gruppi di canti, non più modificabili, oppure per cantiche riviste, sempre stava innanzi all’autore la medesima esegesi teologica con le innumerevoli possibilità di variazioni tematiche e di sviluppi semantici.
c) Come terza ipotesi si può ricordare quanto affermò Charles Southward Singleton nell’annunciare la scoperta del numero sette come centrale della Commedia, rivelatore di una mirabile struttura nascosta ancora tutta da decifrare. Come nella cattedrale di Chartres gli scalpellini lasciarono bellissimi fregi a grande altezza, dove occhio umano non sarebbe potuto arrivare, così l’ordine e l’intelligenza interiore del poema non furono concepiti solo per la vista degli uomini: “quel disegno, qualunque fosse il suo posto nella struttura, l’avrebbe veduto Colui che tutto vede, Colui che ha creato il mondo con meraviglioso ordine, in pondere, numero, mensura; e l’avrebbe certo guardato come prova che l’architetto umano aveva imitato l’universo che Egli, divino architetto, aveva creato innanzi tutto per la propria contemplazione, e poi, per la contemplazione degli angeli e degli uomini” [9]. La struttura semiotico-spirituale del “poema sacro”, espressione dell’io del pellegrino, sarebbe stata concepita solo “al servigio dell’Altissimo”.
La prima ipotesi è la più probabile. In primo luogo, perché la Commedia mostra un ordine interno diverso da quello che appare al comune lettore che non conosce la Lectura super Apocalipsim. Il viaggio di Dante ha un andamento ‘topografico’ di ciclici settenari, che corrispondono ai sette stati o periodi della storia della Chiesa, cioè alle categorie con le quali Olivi organizza la materia esegetica. È un ordine registrabile per zone progressive del poema dove prevale la semantica riferibile a un singolo stato, dirompente i confini letterali stabiliti dai canti e da tutte le divisioni materiali per cerchi, gironi, cieli. Questo andamento ciclico per stati risponde a un percorso interiore, di progressiva illuminazione della verità, che non è riservato al solo autore.
In secondo luogo, perché la collocazione delle parole-chiave, che sollecitano la memoria verso l’ampia dottrina apocalittica, è tale da richiedere la collaborazione del lettore consapevole, facendo appello al suo ingegno. Si veda per tutti il caso della “signatio”.
In terzo luogo, perché nel “poema sacro” che si propone come nuova Apocalisse, scritta da un nuovo Giovanni, all’allegoria intesa come “una veritade ascosa sotto bella menzogna” (Convivio II, i, 3), cioè sotto la lettera della poesia che diletta, si sostituisce la metafora della Scrittura, che Tommaso d’Aquino riteneva necessaria, utile e occulta per esercitare nello studio e contro le irrisioni degli infedeli (Summa Theologiae, I, qu. I, a. 9), e dunque i “sensi mistici”, come nella Bibbia, sono rivolti a un pubblico che può intenderli [10].
Per quanto la prima ipotesi sia la più probabile, le tre prospettive non si escludono: Dante avrebbe individuato un particolare tipo di pubblico – il che non contrasta con il voluto carattere polisemico del “poema sacro”, secondo quanto l’autore stesso afferma nell’Epistola a Cangrande (Ep. XIII, 20) -; il messaggio indirizzato a questo pubblico costituiva la struttura interiore della Commedia, permanente nella sua stesura; l’elaborazione della Lectura dell’Olivi confermava il poeta nella sua coscienza di essere il nuovo Giovanni, autore della nuova Apocalisse esprimente una vera visione, inviato come l’evangelista a predicare di nuovo al mondo, dopo gli apostoli, per la conversione universale.
L’arte della memoria per parole-chiave poteva servire al pubblico degli Spirituali come all’autore. Il fatto che gruppi di terzine numericamente corrispondenti, a diversi stadi della Commedia, contengano parole-chiave che conducono alla medesima pagina esegetica della Lectura indica che queste parole, se dovevano essere per il lettore spirituale signacula mnemonici di un altro testo, erano per il poeta anche segni del numero dei versi, luogo dove collocare i medesimi signacula in forma e contesto diversi (esempi: Ap 5, 8; 7, 3-4; 7, 13-14).
Con l’esegesi dell’ultimo libro canonico, esposta in una teologia della storia che comprende per settenari tutta la Scrittura, la quale a sua volta è forma, esempio e fine di ogni scienza, concorda ogni conoscenza, ogni esperienza, ogni soluzione indipendente data a questioni dottrinali. La Lectura non è una fonte; è il liber concordiae nel quale qualsiasi fonte trova la sua collocazione nella storia dei disegni divini e delle illuminazioni sapienziali.
Ciò che Olivi scrive della storia della Chiesa e della gloria di Cristo viene nella Commedia diffuso su tutte le persone e le forme, antiche e nuove, del nostro mondo. Il saeculum humanum rivendica la propria libertà nella sfera della lingua, delle leggi della natura, della ragione, nella definizione del regime politico, nell’uso degli autori classici; nel “poema sacro” lo spirito profetico della nuova Apocalisse inserisce il particolare in un processo storico universale che manifesta i segni della volontà divina.
La sistematica parodia della Lectura non portò Dante ‘a farsi frate’, fu una metamorfosi che estese laicamente i temi dell’escatologia francescana e gioachimita al saeculum humanum e alle sue nuove esigenze. Che si tratti dell’esercito di Cristo o dell’Anticristo con il quale combatte, sono gli individui ad appropriarsi del campo. Il particolare, con le passioni umane e i dissidi cittadini, viene inserito in una storia universale dei disegni divini. La storia di Roma narrata dall’aquila per bocca di Giustiniano e, in generale, gli “antichi” partecipano della sacralità della Chiesa la cui storia si fa umanistica (cfr. la parodia dell’esegesi in Enea, Virgilio, negli “spiriti magni” del Limbo, oppure nell’“umile Italia”). Beatrice parla della libera volontà parodiando quanto scritto da Olivi sul voto evangelico. Il rapporto di parodia sacra che la Commedia instaura con la Lectura, ultima grande espressione dell’escatologismo medievale, è segno dell’inizio dell’“autunno del Medioevo”.
Tra Lunigiana e Casentino, 1306-1309. Dopo la morte di Olivi a Narbonne (14 marzo 1298), la Lectura super Apocalipsim si diffuse subito in Italia. Bonifacio VIII (morto l’11 ottobre 1303) ne affidò all’agostiniano Egidio Romano una confutazione non pervenutaci; Ubertino da Casale, tra marzo e settembre 1305, l’aveva accanto a sé mentre scriveva a La Verna l’Arbor vitae crucifixae Jesu riportandone nel quinto libro interi ed estesi brani. L’anno dopo Ubertino divenne cappellano del cardinale Napoleone Orsini il quale, fra le varie legazioni affidategli da Clemente V, nel 1306 e 1307 si adoperò per il ritorno a Firenze degli esiliati, azione che fallì dopo il mancato scontro a Gargonza tra i Neri e le truppe del Cardinale, ospite dei conti Guidi [11]. Nell’ottobre 1306 Dante era in Lunigiana come procuratore di pace con il vescovo di Luni per conto dei Malaspina; nel 1307, o nell’autunno 1308, si trovava in Casentino, da dove inviò a Moroello la canzone “montanina” [12]. Dopo la delusione seguita alla sconfitta dei Bianchi alla Lastra nel 1304, il poeta era aperto ai tentativi di riconciliazione. Negli stessi anni, e in luoghi contigui se non coincidenti, Dante e Ubertino lavoravano per la pace, e si può ben immaginare quanto l’attività del frate e del cardinale stesse a cuore al poeta. Fu quella l’ultima possibilità che Dante ebbe di rientrare a Firenze prima dell’inizio della stesura della Commedia.
Dante lasciò incompiuto il Convivio per dedicarsi al “poema sacro”, un’opera radicalmente diversa, come scrisse Giorgio Petrocchi: “un totale commovimento etico-religioso, […] ben oltre la visione allegorica della Vita Nuova, irrompe nelle prime terzine dell’Inferno” [13]. Cosa gli fece cambiare idea tra il 1307 e il 1309? Asserì Antonino Pagliaro: “Perché Dante abbia scritto la Commedia, nessuno potrà mai dire con certezza, giacché, né le circostanze esterne della sua vita, né lo sviluppo della sua arte, come si può cogliere dalla Vita Nuova alle canzoni filosofiche e alla loro interpretazione nel Convivio, appaiono come presupposti, condizioni necessarie al grandioso discorso con se stesso e con gli uomini, che egli inizia come all’improvviso” [14]. Un fatto incontrovertibile, la parodia della Lectura super Apocalipsim di Olivi condotta per l’intero poema, ipertesto che elabora un ipotesto, consente di formulare nuove ipotesi. Si può supporre che Dante, in un momento imprecisabile ma successivo all’autunno 1306, abbia avuto il testo della Lectura da Ubertino. Tale testo, prima di essere parodiato, dovette essere dal poeta sottoposto a una riorganizzazione. Il commento apocalittico procedeva infatti seguendo i capitoli del testo canonico. Ma esso, sulla base delle indicazioni date nel prologo dallo stesso Olivi, poteva essere più utilmente ricomposto aggregando la materia attribuibile ai singoli stati o periodi della storia della Chiesa: si sarebbe così trasformato un testo esegetico in una teologia della storia. Poi, seguendo il principio applicato nelle distinctiones ad uso dei predicatori, nel testo si potevano raccogliere lemmi analogicamente collazionati. La “mutua collatio” di parti della Lectura arricchiva semanticamente il significato legato alle parole e consentiva uno sviluppo tematico amplificato. Si vedano, ad esempio, le variazioni eseguite sul tema della “voce” o sull’espressione “in medio”, temi più volte iterati nel sacro testo, oppure il modo con cui Ap 1, 16-17 (l’esegesi della decima e undecima prefezione di Cristo come sommo pastore) percorre i versi in collazione con altri passi. Nel frattempo continuava la stesura del Convivio, segnato nel IV trattato dalla “grandiosa novità” dell’adesione alla monarchia universale voluta e preparata da Dio nei due popoli, ebraico e gentile, all’Impero dei romani preconizzato da Virgilio: “A costoro […] né termine di cose né di tempo pongo; a loro ho dato imperio sanza fine” (Cv IV, iv, 11) [15]. Interrotto, in un momento imprecisabile (autunno 1308?), il Convivio per un temporaneo ritorno alle canzoni d’amore con la “montanina”, inviata a Moroello Malaspina accompagnata dall’Epistola IV, sopraggiunge la la notizia dell’incoronazione ad Aquisgrana, il 6 gennaio 1309, di Enrico VII di Lussemburgo il quale avrebbe valicato le Alpi giungendo a Susa il 23 ottobre dell’anno seguente. A questo punto lo spirito profetico che soffia nella Lectura super Apocalipsim di Olivi detta al poeta l’abbandono del Convivio. Il commento apocalittico diventa il canovaccio del “poema sacro” per tutti i suoi 14233 versi, “panno” sul quale viene cucita la “gonna” (cfr. Par. XXXII, 140-141). Nelle maglie dell’armatura sacra viene inserita, concordandola con l’esegesi, ogni possibile fonte; in essa vengono compresi anche versi composti prima della decisione di parodiare sistematicamente la Lectura. Ripercorrere la storia dell’umanità; ritrovare, nei tempi moderni, l’Antico Testamento; fare il viaggio con due guide, Virgilio e Beatrice, il suo autore e la sua donna, impersonanti rispettivamente gli insegnamenti esteriori del Cristo uomo e il gusto d’amore proprio dello Spirito; inserire, come è proprio dello spirito profetico, il particolare del miscrocosmo toscano e italico nell’universale macrocosmo dei disegni divini; esprimere l’ansia escatologica di rinnovamento; confrontarsi con centinaia di citazioni di Gioacchino da Fiore alle quali prestare “e piedi e mano” nei versi per farsi lui stesso iniziatore della “nuova terza teologia” [16]; parlare e far parlare i morti per dettato interiore, spinti dal desiderio di essere scritti nel libro della vita; narrare in esilio con exempla e similitudini, come fece Giovanni a Patmos, una visione intellettuale; sentirsi nobile e fuori della “volgare schiera” non per lignaggio ma per elezione quale amico di Dio, a conferma di quanto aveva scritto nel Convivio (IV, xx, 3-6): queste le suggestioni che la Lectura super Apocalipsim offriva a Dante. Inoltre, disporre di un ordito sul quale tessere la trama dell’intero poema avrebbe garantito l’uniformità del risultato.
A Firenze, prima dell’esilio: si riapre, con nuovi indizi, il caso dell’incontro con Olivi. Nel poema la parodia dantesca non si limita alla Lectura oliviana. Conosce del frate almeno alcune quaestiones, come ad esempio, nel cielo della Luna, mostrano le parole di Piccarda e di Beatrice sul voto; a queste ultime rinvia la Monarchia. Oppure i versi di Par. XXXI, 37-39, che descrivono lo stupore del poeta arrivato all’Empireo, la Roma celeste.
Il frate e il poeta hanno la stessa idea della Chiesa, esemplata sulla persona e sulla vita di Cristo: “Christi persona et vita fuit exemplar totius ecclesie future”, scrive Olivi nella Lectura super Apocalipsim (ad Ap 6, 12); e Dante nella Monarchia (III, xiv, 3): “Forma autem Ecclesie nichil aliud est quam vita Cristi […] vita enim ipsius ydea fuit et exemplar militantis Ecclesie”. Il primo verso del “poema sacro” – “Nel mezzo del cammin di nostra vita” – non è semplice indicazione anagrafica dei trentacinque anni di età dell’autore; è testimonianza resa a Cristo mediatore, la cui vita deve essere dalla nostra perfettamente imitata e partecipata.
Nel “poema sacro”, il trarre fuori “le nove rime, cominciando / ‘Donne ch’avete intelletto d’amore’” (Purg. XXIV, 49-51), si colloca, con l’episodio di Bonagiunta, in una zona del poema dove prevalgono i temi, per eccellenza oliviani, del sesto stato o periodo della Chiesa, che è stato di novità. Tutto ciò conduce a riproporre il vecchio dubbio espresso da Dempf, Grundmann, Davis e Manselli. Del tutto inutile è porsi la domanda se Dante abbia assistito alle lezioni di Olivi tra il 1287 e il 1289; importante, e decisivo per la sua biografia intellettuale, è invece verificare se a quella data ne conoscesse le opere e le parodiasse sistematicamente come avvenuto poi con la Commedia. Questo momento precederebbe quello descritto in Convivio II, xii, 7, allorché a partire dall’estate del 1293, per studiare la filosofia, “cominciai ad andare là dov’ella si dimostrava veracemente, cioè ne le scuole de li religiosi e a le disputazioni de li filosofanti”. Inoltre, perché Dante avrebbe vestito nel poema la sua donna con i panni dell’esegesi oliviana se questa non fosse stata presente già all’inizio delle “nove rime”? Diversamente bisognerebbe dedurre che Dante dia nella Commedia un’intima interpretazione dei propri albori di poeta diversa dalla realtà, che verrebbe così fasciata da una mistificazione.
Firenze, 1287-1289. Nella “città partita” la quale, da “tanta discordia assalita”, muta di continuo la propria costituzione voltandosi nel letto di dolore come un’inferma [17], la tensione fra Magnati e Popolani porta a un allargamento democratico nei consigli comunali, aperti anche ai rappresentanti delle arti medie [18]. Si lavora da tre anni alla nuova cerchia delle mura. Fervono i preparativi della guerra contro Arezzo, che si concluderà due anni dopo con la vittoria di Campaldino. È vescovo Andrea de’ Mozzi, la “tigna” sodomita ricordata nell’Inferno da Brunetto Latini [19]. Il più autorevole filosofo della città, Remigio de’ Girolami, discepolo a Parigi di Tommaso d’Aquino, insegna nello studio domenicano di Santa Maria Novella da più di dieci anni [20]. A Santa Croce, edificio ancora modesto prima della rifondazione nel 1294 per opera di Arnolfo di Cambio, arriva, come lettore di teologia dello Studium francescano, il frate provenzale Pietro di Giovanni Olivi, punto di riferimento degli Spirituali. Vi rimane fino al 1289, quando viene inviato allo Studium di Montpellier [21].
Nato circa il 1248 a Sérignan, novizio a dodici anni nel convento di Béziers, nella città che nel 1209 aveva visto i massacri di Simone di Montfort nella crociata contro gli Albigesi; discepolo a Parigi di Bonaventura nel 1266; presente a Roma e ad Assisi nel 1279, per collaborare alla redazione della Exiit qui seminat, la costituzione con la quale Nicolò III aveva cercato di risolvere i dissidi all’interno dell’Ordine francescano, Olivi al suo arrivo a Firenze aveva già composto numerose opere filosofiche e commentato quasi tutta la Scrittura. Alcune sue quaestiones avevano suscitato accuse da parte dei membri dell’Ordine, dove era stato definito “caput superstitiosae sectae et divisionis et plurium errorum”. Ma non erano di questo parere il nuovo Ministro generale Matteo d’Acquasparta, eletto nel capitolo di Montpellier il 25 maggio 1287, e perfino il papa Nicolò IV, che lo destinarono a Firenze [22].
L’insegnamento di Olivi a Santa Croce fu la premessa di un più stretto rapporto fra le due anime, provenzale e italiana, dello spiritualismo francescano, originariamente segnate da considerevoli differenze [23]. Come scrisse Raoul Manselli, gli Spirituali non erano “un partito o una fazione ma un fermento di vita fra i Minori, una presa di coscienza, la ferma rivendicazione della peculiarità dell’Ordine, una ‘attitude critique’, un ‘mouvement d’espérance’; e di tutto questo Olivi è colui che sa meglio cogliere il valore e il senso religioso, storico e umano” [24]. Volevano il ritorno alla Regola di san Francesco, mantenendo uno stato di povertà assoluta all’interno dell’Ordine.
Il francescano Ubertino da Casale ascoltò le lezioni di Olivi, l’effetto fu dirompente: “qui me modico tempore … sic introduxit ad altas perfectiones anime dilecti Iesu … et ad profunda scripture et ad intima tertii status mundi et renovationis vite Christi, ut iam ex tunc in novum hominem mente transiverim” [25]. Lo spirito di Cristo fermentava anche in altri, come nel terziario senese Pier Pettinaio, ricordato da Sapìa nel secondo girone del purgatorio di Dante come colui che le aveva, con le sue preghiere, abbreviato la penitenza (Purg. XIII, 127-129).
Quale il contenuto di un insegnamento tanto sconvolgente? Fortemente antiaristotelica e antitomista, la visione di Olivi è cristocentrica come quella di Bonaventura. L’esemplare vita di Cristo – o la sua legge (la Regola è per il francescano sinonimo di “vita”) [26] -, imposta agli Apostoli e scritta nei Vangeli, deve essere dalla nostra vita perfettamente imitata e partecipata e porsi come fine di ogni nostra azione [27]. “Caput universale omnis temporis”, Cristo è centro del tempo [28]. Persona mediana della Trinità, mediatore tra Dio e l’uomo al quale indica il cammino, è il punto sul quale convergono i raggi della sfera-Chiesa nella sua storia passata, presente e futura [29]. Per quanto concerne la persona umana, Olivi è strenuo fautore del libero arbitrio, comprovato dall’intimo sentire con il quale la volontà, riflessa su di sé, sperimenta l’esistere [30].
Sul piano storico, Olivi ritiene di vivere un periodo – il sesto dei sette stati o epoche della Chiesa – nel quale sta fermentando un novum saeculum, una palingenesi universale che porterà infine alla conversione a Cristo degli infedeli e degli Ebrei (non diversamente la pensava il suo confratello e contemporaneo Raimondo Lullo) [31]. Su questo sesto stato, che per Olivi corrisponde ai tempi moderni e, unitamente al settimo e ultimo periodo, coincide con l’età dello Spirito di Gioacchino da Fiore, ricadono tutte le illuminazioni e anche tutto il male delle epoche passate. Nel sesto stato, il secondo avvento di Cristo nello Spirito (dopo il primo, nella carne, e molto prima del terzo, nella parusia) reca nei suoi discepoli, siano essi membri di un ordine religioso o singole persone [32], una vita nova. L’homo novus sente gli insegnamenti che vengono da Cristo interno dettatore, è testimone di miracoli non corporali, come nei primi tempi della Chiesa, ma intellettuali; gli è serbata l’esperienza di gustare in questa vita il divino [33]. In siffatta età rinnovata per lo Spirito di Cristo, tanto attesa come quella augustea preconizzata nella quarta egloga di Virgilio, una rivoluzione interiore viene compiuta con la parola che converte e rompe la durezza dei cuori, che l’interno dettatore spira nei predicatori aprendo la loro volontà al dire [34]. Se finora Cristo, in quanto uomo, ha insegnato con la dottrina esteriore, e in quanto Verbo con la luce intellettuale, d’ora in poi insegnerà anche tramite il gusto d’amore proprio del suo Spirito [35].
Prima che la pace e la giustizia trionfino, l’uomo del sesto stato dovrà affrontare terribili prove e sofferenze, indotte dall’Anticristo e dai suoi seguaci. I nuovi martiri non provano soltanto il tormento del corpo, sono soprattutto tormentati dal dubbio sulla vera fede, suggestionati dalla sottigliezza degli argomenti filosofici, da ingannevoli Scritture, dall’ipocrita simulazione di santità, dalla falsa immagine dell’autorità papale, in quanto falsi pontefici insorgono, come Anna e Caifa insorsero contro Cristo. Per rendere più intenso questo martirio psicologico, i carnefici stessi operano miracoli. La tentazione induce in errore persino gli eletti, come testimoniato da Cristo nella grande pagina escatologica di Matteo XXIV [36].
La poetica dell’interno dettatore. Dov’è Dante negli anni dell’insegnamento santacrociano di Olivi? Entro il 1287 è probabilmente a Bologna: a tale anno risale infatti la più antica trascrizione di un testo del poeta, il sonetto della Garisenda registrato in un Memoriale notarile. L’11 giugno 1289 Dante combatte come feditore a Campaldino, nello scontro che vede i fiorentini vittoriosi su Arezzo; il mese dopo assiste alla capitolazione del castello di Caprona. Quegli anni vedono l’uscita delle “nove rime”, alcune inserite nella Vita Nova dopo la morte di Beatrice, avvenuta l’8 giugno 1290. Non sappiamo se Dante abbia frequentato le lezioni di Olivi a Santa Croce. Non si può tuttavia non rilevare che la teologia oliviana relativa ai tempi moderni, coincidenti con il sesto stato della storia della Chiesa, caratterizzato dal libero parlare per dettato interiore che apre i cuori, è singolarmente consonante con la poetica del contemporaneo Dante. Tale viene definita nel sesto girone del purgatorio nell’incontro con Bonagiunta da Lucca: una poetica fondata sullo spirare di Amore, interno “dittator”, e sul notare significando in modo stretto i suoi dettati, quasi fossero quelli di una regola evangelica imposta e accettata (Purg. XXIV, 49-63). L’inizio delle “nove rime” dantesche avvenne per virtù di un interno dettatore: “Allora dico che la mia lingua parlò quasi come per sé stessa mossa e disse: ‘Donne ch’avete intellecto d’amore’” (Vita Nova, 10.13 [xix 2]). La Vita Nova è la storia di un nuovo avvento di Cristo, del “miracolo” Beatrice, venuta in tanta grazia delle genti da operare mirabilmente in esse.
Se l’esegesi biblica dell’Olivi, tanto decisiva per il “poema sacro”, abbia avuto parte nella stesura delle “nove rime”; se essa abbia influenzato l’iniziale formazione intellettuale e spirituale di Dante, è oggetto della presente ricerca, della quale qui si mostrano i primi risultati, inizio di un nuovo, lungo cammino. Si verifica se esista intertestualità, se questa si configuri come parodia e se essa, al modo con il quale la Commedia elabora la Lectura super Apocalipsim, intenda instaurare un’ars memorandi nei confronti di un pubblico oppure serva all’autore per rendere “sacra” la sua opera.
[1] Si segue la cronologia proposta da GIORGIO INGLESE, Vita di Dante. Una biografia possibile, Roma 2015, pp. 52-57.
[2] Giovanni del Virgilio così iniziò il suo epitaffio per la tomba del poeta fiorentino: “Theologus Dantes, nullius dogmatis expers / quod foveat claro phylosophya sinu”. E Cola di Rienzo, fuggitivo in Boemia, scriveva: “Hic Dans theologus magnus fuit, phylosophus clarus, poeta quidem eximius, civis plebeio genere florentinus, ex plaga ytalica, provincia tuscia” [P. G. Ricci, Il commento di Cola di Rienzo alla Monarchia di Dante, in “Studi medievali”, S. III, 6 (1965), p. 679; Cola di Rienzo, In Monarchiam Dantis Commentarium. Commento alla Monarchia di Dante, a cura di P. d’Alessandro, premessa di G. Ravasi, Città del Vaticano 2015 (Littera antiqua, 20), p. 48].
[3] ALOIS DEMPF, Sacrum Imperium. Geschichts- und Staatsphilosophie des Mittelalters und der politischen Renaissance, Darmstadt 1954 (München-Berlin 1929), p. 293: “[…] und er (Olivi) schrieb 1295 seine Postille zur Apokalypse, die Parallele zur Johannesapokalypse, vielleicht in dem ganz tiefen Sinn, daß auch diese ein visionärer Kommentar zu prophetischen und apokryphen Weltendschriften gewesen ist. […] Und kurz danach schrieb der größte Dichter an der Wende der beiden Äonen, Dante, seine divina commedia, auch sie eine joachitische Apokalypse. Nur sollte bei ihm nach dem Renaissancekopf seines Janushauptes halb ein philosophischer Weltkaiser und halb der spiritualistische Dux die neue Friedenszeit bringen”.
[4] HERBERT GRUNDMANN, Dante und Joachim von Flore. Zu Paradiso X-XII (1932), in IDEM, Ausgewählte Aufsätze, 2, Joachim von Fiore, Stuttgart 1977 (Schriften der Monumenta Germaniae Historica, Band 25.2), pp. 166-210: 188 nt. 41: “Der große Spiritualen-Führer Petrus Johannis Olivi († 1298) war in den Jahren 1287/9 Lektor des Ordensstudiums in Santa Croce in Florenz, und auch sein bedeutendster Nachfolger Ubertin von Casale lebte und lernte in den Jahren 1285-1289 in Santa Croce. Für eine persönliche Bekanntschaft Dantes mit diesen beiden Franziskanern gibt es keine Zeugnisse, aber die Möglichkeit ist jedenfalls gegeben und die Vermutung liegt nahe, daß er diese ihm in vieler Hinsischt geistesverwandten Männer gekannt, daß er vielleicht mit Ubertin gemeinsam an Olivis Unterricht teilgenommen hat”.
[5] ERNST BENZ, Ecclesia Spiritualis. Kirchenidee und Geschichtstheologie der Franziskanischen Reformation, Stuttgart 1934, pp. 201-205: 203: “Das Leben des Heiligen Franziskus selbst, von Thomas von Aquin besungen, zeigt bereits das ins Messianische erhobene endzeitliche Franzbild des Spiritualenkreises, wie es sich in der Apokalypsenpostille Olivis findet und wie es Dante aus dem Munde Olivis selbst dem Sinne nach gehört haben mochte”.
[6] CHARLES TILL DAVIS, Dante’s Italy and Other Essays, Philadelphia 1984, trad. it., L’Italia di Dante, Bologna 1988, pp. 151-153.
[7] RAOUL MANSELLI, Dante e l’«Ecclesia Spiritualis», in Dante e Roma. Atti del Convegno di studio, Roma 8-10 aprile 1965, Firenze 1965, pp. 115-135: 123, ripubblicato in IDEM, Da Gioacchino da Fiore a Cristoforo Colombo. Studi sul francescanesimo spirituale, sull’ecclesiologia e sull’escatologisno bassomedievali, a cura di P. Vian, Roma 1997 (Istituto Storico Italiano per il Medio Evo. Nuovi Studi Storici, 36), pp. 55-78: 69. L’ormai plurisecolare storiografia sui rapporti tra Dante e gli Spirituali francescani viene ripercorsa, a partire da Ignaz von Döllinger fino ad Alberto Forni, nel saggio di PAOLO VIAN, Dante, Pietro di Giovanni Olivi e lo spiritualismo minoritico: fra ipotesi e certezze, in Dante, Francesco e i Frati Minori. Atti del XLIX Convegno internazionale. Assisi, 14-16 ottobre 2021, Spoleto 2022 (Società Internazionale di Studi Francescani – Centro Interuniversitario di Studi Francescani), pp. 101-151: 132-140 (sulle posizioni di Manselli).
[8] Dal 18 al 20 dicembre 2023, presso l’Università degli Studi Roma Tre e la University of Notre Dame – Rome Global Gateway, si è tenuto il convegno La cultura di Santa Croce nell’età di Dante: teologia, predicazione, immagini. Cfr. LORENZO DELL’OSO, Dante, Peter of Trabibus, and the ‘Schools of the Religious Orders’ in Florence, in “Italian Studies”, 77/3 (2022), pp. 211-229; ANNA PEGORETTI, Lamentazioni fiorentine: Cavalcanti, Dante, Olivi, in “L’Alighieri”, LXIII (60 [2022]), pp. 125-137: 137: «[…] men che meno sarà il caso di avventurarsi nell’immaginare una frequentazione anticipata delle “scuole dei religiosi”, estesa magari anche a Cavalcanti: un’ipotesi indimostrabile, che avrebbe l’unico effetto di rinfocolare irrisolvibili polemiche di carattere biografico».
[9] CHARLES SOUTHWARD SINGLETON, La poesia della Divina Commedia, trad. it., Bologna 1978, pp. 461-462.
[10] TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, I, qu. I, a. 9: “Convenit etiam sacrae Scripturae, quae communiter omnibus proponitur (secundum illud ad Rom. I, [14]: sapientibus et insipientibus debitor sum), ut spiritualia sub similitudinibus corporalium proponantur; ut saltem vel sic rudes eam capiant, qui ad intelligibilia secundum se capienda non sunt idonei. Ad primum ergo dicendum quod poeta utitur metaphoris propter repraesentationem: repraesentatio enim naturaliter homini delectabilis est. Sed sacra doctrina utitur metaphoris propter necessitatem et utilitatem, ut dictum est. Ad secundum dicendum quod radius divinae revelationis non destruitur propter figuras sensibiles quibus circumvelatur, ut dicit Dionysius, sed remanet in sua veritate; ut mentes quibus fit revelatio, non permittat in similitudinibus permanere, sed elevet eas ad cognitionem intelligibilium; et per eos quibus revelatio facta est, alii etiam circa haec instruantur. Unde ea quae in uno loco Scripturae traduntur sub metaphoris, in aliis locis expressius exponuntur. Et ipsa etiam occultatio figurarum utilis est, ad exercitium studiosorum, et contra irrisiones infidelium, de quibus dicitur, Matth. 7, [6]: nolite sanctum dare canibus”.
[11] DINO COMPAGNI, Cronica delle cose occorrenti ne’ tempi suoi, introduzione e note di G. Bezzola, Milano 1995, l. III, capp. XV-XVIII, pp. 210-217; GIOVANNI VILLANI, Nuova Cronica, a cura di G. Porta, Parma 1991, tomo II, libro IX, cap. 85 (1306), pp. 653-654; cap. 89 (1307), pp. 657-659; (p. 653, anno 1306): “il quale (cardinale messer Napoleone degli Orsini dal Monte, legato e paciaro generale in Italia) si partì da Leone sopra Rodano, e passò i monti, e mandando a’ Fiorentini che voleva venire in Firenze per fare pace e concordia da loro e i loro usciti […]”. Cfr. PAOLO VIAN, «Noster familiaris solicitus et discretus»: Napoleone Orsini e Ubertino da Casale, in Ubertino da Casale. Atti del XLI Convegno Internazionale. Assisi 18-20 ottobre 2013, Spoleto 2014 (Società Internazionale di Studi Francescani – Centro Interuniversitario di Studi Francescani), pp. 217-298: 246-249.
[12] La datazione dell’Epistola IV non è certa; secondo alcuni sarebbe da assegnare al 1307 (Santagata, pp. 293-294); altri la posticipano all’autunno 1308 (Inglese, pp. 100-101). Nel primo caso le “meditationes” circa “celestia et terrestria”, interrotte dalla composizione della canzone “montanina”, che la lettera accompagna e illustra, consuonano con il “poema sacro / al quale ha posto mano e cielo e terra”; nel secondo caso si riferiscono ai trattati del Convivio temporaneamente interrotti con il ritorno ai canti d’amore.
[13] Cfr. GIORGIO PETROCCHI, Biografia, in Enciclopedia Dantesca, Appendice, p. 41.
[14] Cfr. ANTONINO PAGLIARO, Ulisse. Ricerche semantiche sulla Divina Commedia, I, Messina-Firenze 1967 (Biblioteca di cultura contemporanea, XCIII), pp. 1-2.
[15] Cfr. INGLESE, Vita di Dante, p. 87.
[16] Cfr. HANS URS VON BALTHASAR, Gloria. Una estetica teologica, III, Stili laicali, trad. it., Milano 2017, p. 4.
[17] Cfr. Inf. VI, 61-63; Purg. VI, 148-151.
[18] Cfr. GAETANO SALVEMINI, Magnati e popolani in Firenze dal 1280 al 1295, a cura di E. Sestan, Milano 1974, pp. 121-123.
[19] Cfr. Inf. XV, 110-114.
[20] Cfr. SONIA GENTILI, Girolami, Remigio de’, in Dizionario Biografico degli Italiani, 56 (2001).
[21] La notizia è contenuta nello scritto Sanctitati apostolicae di Ubertino da Casale (1311), in FRANZ EHRLE, Zur Vorgeschichte des Concils von Vienne, in “Archiv für Litteratur- und Kirchengeschichte des Mittelalters”, 2 (1886), p. 389: “Nam per dominum N[icolaum] IIII non solum nunquam fuit condempnatus ipse vel eius doctrina, sed fuit multipliciter commendatus ab eo et de eius voluntate primo per dominum fratrem Matheum tunc generalem factus est lector Florentiae in studio generali quoad ordinem nostrum et postmodum per fratrem Raymundum Gaufridi lector Montispessulanus”.
[22] Come introduzione alla biografia e all’opera del francescano provenzale cfr. Pietro di Giovanni Olivi, Scritti scelti, a cura di PAOLO VIAN, Roma 1989 (Fonti cristiane per il terzo millennio, 3).
[23] Cfr. DAVID BURR, The Spiritual Franciscans. From Protest to Persecution in the Century after Saint Francis, University Park, 2001, pp. 47, 62. Sulle differenze fra provenzali e italiani, cfr. RAOUL MANSELLI, Divergences parmi les Mineurs d’Italie et de France méridionale, in Les mendiants en pays d’Oc au XIIIe siècle, Toulouse, 1973 (Cahiers de Fanjeaux, VIII), pp. 355-373 [ripubblicato in ID., Da Gioacchino da Fiore a Cristoforo Colombo, pp. 243-256].
[24] Cfr. PAOLO VIAN, “Se il chicco di grano …”. Raoul Manselli, Pietro di Giovanni Olivi e il francescanesimo spirituale. Nuovi appunti di lettura, in “Nisi granum frumenti…”. Raoul Manselli e gli studi francescani, a cura di F. Accrocca, Roma, Istituto Storico dei Cappuccini, 2011 (Bibliotheca Seraphico-Capuccina, 93), pp. 9-55: 30-33.
[25] UBERTINO DA CASALE, Arbor vitae crucifixae Iesu, Venetiis 1485, rist. anast. a cura di C. T. Davis, Torino 1961, prologus I, f. 4a-b.
[26] Cfr. PETRUS IOHANNIS OLIVI, Expositio super Regulam Fratrum Minorum, ed. D. Flood, Peter Olivi’s Rule Commentary, Wiesbaden 1972 (Veröffentlichungen des Instituts für Europäische Geschichte Mainz, 67), cap. I, p. 117: “Circa definitionem vero nota primo quam perfecte et proprie nomen sui definiti praemittitur dicendo: Regula et vita fratrum minorum, vocans eam non solum regulam sed et vitam, ut sit sensus quod est regula, id est, recta lex et forma vivendi et regula vivifica ad Christi vitam inducens; et iterum quod potius consistit in actu et opere vitae quam in charta vel littera aut in intellectu vel lingua”.
[27] PETRUS IOHANNIS OLIVI, Lectura super Apocalipsim (d’ora in poi: LSA), prologus, notabile VII: “Huius (Christi) autem vite perfecta imitatio et participatio est et debet esse finis totius nostre actionis et vite”.
[28] PETRUS IOHANNIS OLIVI, Quaestio de altissima paupertate, ed. J. Schlageter, Das Heil der Armen und das Verderben der Reichen. Petrus Johannis Olivi OFM. Die Frage nach der höchsten Armut, Werl/Westfalen 1989 (Franziskanische Forschungen, 34), in quinta parte responsionis, pp. 151-152: “Si tamen quis contra hoc dicat quod secundum hoc status Christi et Apostolorum qui fuerunt in primo tempore ecclesiae, esset inferior statu sexti et septimi temporis: scire debet qui hoc dicit, quod Christus secundum aliquid est quasi pars, si tamen pars prioris temporis, secundum aliquid vero finalis temporis, simpliciter tamen ipse est caput universale omnis temporis”.
[29] LSA, cap. I, Ap 1, 13: «[…] propter quod (Christus) apparuit “in medio septem candelabrorum” […] sicut centrum, in medio spere existens, exhibet se toti spere […]»; cap. II, Ap 2, 1: «“Hec dicit qui tenet septem stellas in dextera sua, qui ambulat in medio septem candelabrorum aureorum” […] tamquam infra se immediate vos omnes tenens et tamquam in medio vestrum existens et omnia vestra continue perambulans et perscrutans et immediate percurrens seu conspiciens […]»; cap. V, Ap 5, 6: «[…] ipse est totius ecclesie mediator et quasi centrale medium ad quod tota spera ecclesie et omnes linee electorum suorum aspiciunt sicut ad medium centrum. […] “et in medio quattuor animalium”, id est vite et doctrine evangelice […]»; cap. VII, Ap 7, 17: «“Quoniam Agnus, qui in medio troni est” […] vel in intimo ecclesie quasi centrum ipsius […]»; cap. XIV, Ap 14, 4: «[…] ad quos Christus tamquam dux et exemplator itineris ipsos deducit».
[30] “[…] sentit intra se intima reflexione consistere”: cfr. Fr. PETRUS IOHANNIS OLIVI O. F. M., Quaestiones in secundum librum Sententiarum, ed. B. Jansen, Ad Claras Aquas, prope Florentiam, 1922-1926 (Bibliotheca Franciscana Scholastica Medii Aevi, IV-VI), II, p. 334 (q. LVII, An in homine sit liberum arbitrium).
[31] Le espressioni di Olivi relative al sesto stato – “quoddam sollempne initium novi seculi … renovaretur et consumaretur seculum” (LSA, prologus, notabilia VI, VII), nel quale il sacerdozio apostolico “redeat et assurgat ad ordinem primum” (LSA, prologus, notabile VII), la “nova Ierusalem” – interpretata come “visione di pace” – viene vista “descendere de celo” (LSA, cap. II, Ap 3, 12) e la Chiesa descritta come la donna vestita di sole con la sua “virginea proles” (LSA, cap. XII, Ap 12, 7) – sono la veste spirituale dei versi della quarta egloga virgiliana che celebrano la rinnovata età dell’oro, anche se il francescano non la cita esplicitamente: “Magnus ab integro saeclorum nascitur ordo / iam redit et Virgo; redeunt Saturnia regna; / Iam nova progenies caelo demittitur alto” (Egloga IV, 5-7). Quel felicissimo stato segnato dalla pace sotto il divo Augusto, che rese l’umanità disposta al primo avvento di Cristo, si rinnova. Scrive Arsenio Frugoni a proposito del giubileo del 1300, definito da Raffaello Morghen la “sagra del Medioevo”: “… quell’escatologismo, oltre che ideologia di lotta e di riforma del gruppo spirituale, era anche un vero e proprio sentimento storico … una tensione di rinnovamento, una ansia di salvezza, che nel 1300, l’anno centenario della Natività, aveva trovato come una attivazione, in un senso di pienezza dei tempi, cui doveva corrispondere un fatto, un accadere meraviglioso e nuovo” (RAFFAELLO MORGHEN, Medioevo cristiano, Bari 19744 (19511), pp. 265-282: 281; ARSENIO FRUGONI, La Roma di Dante, tra il tempo e l’eterno, in ID., Pellegrini a Roma nel 1300. Cronache del primo Giubileo, presentazione di C. Frugoni, a cura e con Introduzione di F. Accrocca, Casale Monferrato 1999, pp. 102-103). La sinossi fra la Commedia di Dante e la Lectura super Apocalipsim dell’Olivi consente di far rivivere tale sentimento storico.
[32] LSA, cap. X, Ap 10, 11: «Sequitur: “Et dixit michi: Oportet te iterum prophetare in gentibus et populis et linguis et regibus multis”. In ipsa sapientia libri expresse continetur quod oportet iterum predicari evangelium in toto orbe, et Iudeis et gentibus, et totum orbem finaliter converti ad Christum. Sed quod per istum hoc esset implendum non poterat sciri nisi per spiritualem revelationem, et hoc dico prout per Iohannem designantur hic singulares persone quia, prout per ipsum designatur in communi ordo evangelicus et contemplativus, scitur ex ipsa intelligentia libri quod per illum ordinem debet hoc impleri».
[33] Ciò appartiene al sesto periodo (status) della Chiesa, che con il settimo corrisponde alla terza età, quella dello Spirito, di Gioacchino da Fiore; cfr. LSA, cap. III, Ap 3, 7: «Significatur etiam per hoc proprium donum et singularis proprietas tertii status mundi sub sexto statu ecclesie inchoandi et Spiritui Sancto per quandam anthonomasiam appropriati. […] Sicut etiam in primo tempore exhibuit se Deus Pater ut terribilem et metuendum, unde tunc claruit eius timor, sic in secundo exhibuit se Deus Filius ut magistrum et reseratorem et ut Verbum expressivum sapientie sui Patris, sic in tertio tempore Spiritus Sanctus exhibebit se ut flammam et fornacem divini amoris et ut cellarium spiritualis ebrietatis et ut apothecam divinorum aromatum et spiritualium unctionum et unguentorum et ut tripudium spiritualium iubilationum et iocunditatum, per que non solum simplici intelligentia, sed etiam gustativa et palpativa experientia videbitur omnis veritas sapientie Verbi Dei incarnati et potentie Dei Patris. Christus enim promisit quod “cum venerit ille Spiritus veritatis, docebit vos omnem veritatem” et “ille me clarificabit” et cetera (Jo 16, 13-14)». Il più alto grado del gusto d’amore è raggiunto in terra con il serotino convivio che segue la sconfitta dell’Anticristo. Cfr. LSA, cap. XIX, Ap 19, 17-18: «“Et vidi unum angelum stantem in sole”. Iste designat altissimos et preclarissimos contemplativos doctores illius temporis, quorum mens et vita et contemplatio erit tota infixa in solari luce Christi et scripturarum sanctarum, et secundum Ioachim inter ceteros precipue designat Heliam. “Et clamavit voce magna omnibus avibus que volabant per medium celi”, id est omnibus evangelicis et contemplativis illius temporis: “Venite, congregamini ad cenam Dei magnam”, id est ad spirituale et serotinum convivium Christi, in quo quidem devorabitur universitas moriture carnis, ut transeat quod carnale est et maneat quod spirituale est. […] Quibus autem verbis explicari posset quanto gaudio et amore et dulcore reficientur sancti de conversione omnium gentium et Iudeorum post mortem Antichristi fienda […]».
[34] LSA, cap. III, Ap 3, 8: «“Ecce dedi coram te hostium apertum”. Hostium aperitur cum intellectus illuminatur et exacuitur ad scripturarum occulta expedite et faciliter penetranda et videnda, et cum predicationi datur spiritalis efficacia ad corda audientium penetranda, et cum incredulorum corda divinitus aperiuntur ad credendum et implendum Christi legem et fidem que predicatur eis, et etiam cum spiritus predicantium sentit ordinationem et assistentiam Christi ad aperiendum corda gentium per sermonem ipsius. Nam predicta Christi ordinatio seu voluntas est primum hostium seu prima apertio sue voluntatis et gratie dande auditoribus et sermoni predicantis. […] “Dedi”, inquam sic tibi “apertum”, “quia modicam habes virtutem”, scilicet ad miracula vel ad corporalia fortis active opera, que sensuales homines plus admirantur et estimant quam intellectualia et interna […]».
[35] LSA, cap. II, Ap 2, 7: «[…] Secunda (causa) est ut intelligatur duplex modus docendi. Quorum primus est per vocem exteriorem, secundus vero per inspirationem et suggestionem interiorem. Prima autem competit Christo in quantum homo; secunda vero eius deitati, appropriatur tamen Spiritui Sancto. Prima autem disponit ad secundam sicut ad suum finem et est inutilis sine illa. […] Item Christo, in quantum est Verbum et verbalis sapientia Patris, appropriatur interna locutio que fit per lucem simplicis intelligentie. Illa vero que fit per amoris gustum et sensum appropriatur Spiritui Sancto. Prima autem se habet ad istam sicut materialis dispositio ad ultimam formam. […] Quarta est ut ex duplici auctoritate duorum tam sollempnium testium et magistrorum fortius moveremur, et prima quidem moveret iterum per evidens exemplum operum Christi nobis in sua humanitate visibiliter ostensorum; secunda vero ulterius moveret per spiritualem flammam et efficaciam Spiritus Sancti».
[36] Cfr. LSA, prologus, notabile X: «Sextus vero concurrit cum secundo non in eodem tempore sed in celebri multitudine martiriorum, prout in apertione quinti signaculi aperte docetur (cfr. Ap 6, 9), quamvis in modo martirii quoad aliqua differant. Nam martiria a paganis et idolatris facta nullum certamen dubitationis inferebant martiribus, aut probabilis rationis, propter nimiam evidentiam paganici erroris. Non sic autem fuit de martiriis per hereticos, unum Deum et unum Christum confitentes, inflictis. In sexto autem tempore non solum propulsabuntur martires per tormenta corporum, aut per subtilitatem rationum philosophicarum, aut per intorta testimonia scripturarum sanctarum, aut per simulationem sanctitatis ypocritarum, immo etiam per miracula a tortoribus facta. Nam, teste Christo, “dabunt signa et prodigia magna” (Mt 24, 24). Unde Gregorius, XXXII° Moralium super illud Iob: “stringit caudam suam quasi cedrum” (Jb 40, 12), dicit: ‘Nunc fideles nostri mira faciunt, cum perversa patiuntur; tunc autem Behemot huius satellites, etiam cum perversa inferunt, mira facturi sunt. Pensemus ergo que erit humane mentis illa temptatio, quando pius martir corpus tormentis subicit, et tamen ante eius oculos miracula tortor facit’. Propulsabit etiam eos per falsam imaginem divine et pontificalis auctoritatis. Sic enim tunc surgent pseudochristi et pseudochristus contra electos, sicut Annas et Caiphas pontifices insurrexerunt in Christum. Erunt ergo tunc tormenta intensive maiora, tempore autem paganorum fuerunt extensive pluriora: nam plusquam per ducentos annos duraverunt».
1. Martirio e pietà: la Donna Gentile (o Pietosa) e Francesca
Il moderno martirio del dubbio. Secondo il principio della concorrenza fra gli stati, affermato nel Notabile X del prologo della Lectura super Apocalipsim, il sesto stato – iniziato con Francesco d’Assisi, è il periodo nel quale vivono Olivi e Dante – concorre con il secondo, per antonomasia lo stato dei martiri, non per connessione temporale (questo inizia infatti con la persecuzione di Nerone o con la lapidazione di santo Stefano o con la passione di Cristo e dura fino a Costantino), ma a motivo della quantità dei testimoni della fede. Il tipo di martirio è tuttavia diverso. I martiri del sesto stato, cioè dei tempi moderni, soffrono nel dubbio, il loro è un “certamen dubitationis” che i primi testimoni della fede non provarono per l’evidenza dell’errore in cui incorrevano gli idolatri pagani. Nel sesto stato il martire non prova soltanto il tormento del corpo, viene anche spinto a dubitare (“propulsabuntur martires”) dalla sottigliezza degli argomenti filosofici, dalle distorte testimonianze scritturali, dall’ipocrita simulazione di santità, dalla falsa immagine dell’autorità divina o papale, in quanto falsi pontefici insorgono, come Anna e Caifa insorsero contro Cristo. Per rendere più intenso il martirio, i carnefici stessi operano miracoli. Tutto ciò appartiene alla tribolazione del tempo dell’Anticristo, alla tentazione che induce in errore persino gli eletti, come testimoniato da Cristo nella grande pagina escatologica di Matteo 24: “dabunt signa magna et prodigia, ita ut in errorem inducantur, si fieri potest, etiam electi (cfr. Mt 24, 24)”. Scrive Gregorio Magno nei Moralia, commentando Giobbe 40, 12 – “stringe (nel senso di tendere) la sua coda come un cedro” -: “ora i nostri fedeli fanno miracoli nel patire perversioni, allora i seguaci di Behemot faranno miracoli anche nell’infliggerle. Pensiamo perciò quale sarà la tentazione della mente umana allorché il pio martire sottoporrà il corpo ai tormenti mentre davanti ai suoi occhi il carnefice opererà miracoli”.
Francesca. Questo passo è stato più volte esaminato nel corso della ricerca [1]. Del tema del martirio inferto dal dubbio è pregno, in Inf. V, l’episodio di Francesca e Paolo, d’altronde principalmente ordito su temi del secondo stato della Chiesa, all’esegesi dei quali rinvia. I “dubbiosi disiri” vengono conosciuti mentre i due amanti leggono “di Lancialotto come amor lo strinse”, quella lettura “per più fïate li occhi ci sospinse”. Vinti dalla passione, essi non arrivano a sostenere fino in fondo il loro “certamen dubitationis”. Se è vero che al secondo e al sesto stato spetta il martirio e al tempo stesso la dolcezza del conforto e della promessa (ad Ap 3, 11), i “dolci sospiri” dei due amanti sono stati da loro male interpretati, nel senso dell’amore carnale e non dell’“amore acceso di virtù” di cui Virgilio avrebbe parlato a Dante nel purgatorio (cf. Purg. XVIII, 13-75; XXII, 10-12). Al momento della prova, i due vengono sospinti dalla lettura di un libro (“Galeotto fu ’l libro e chi lo scrisse”) verso un punto che li vince, non diversamente da come i nuovi martiri vengono sospinti dagli “intorta testimonia scripturarum”. Ma il martirio non è stato inferto solo ai “due cognati” in vita, perché anche Dante sta dinanzi alle loro anime come un martire del sesto stato: prova pietà del loro male perverso, è tristo e pio fino alle lacrime dinanzi ai martìri, prova un’angoscia che chiude la mente. Perfino la domanda di Virgilio dopo le prime parole di Francesca – “Che pense?” – sembra parodiare l’invito di Gregorio Magno a riflettere sulla singolarità della tentazione: “… tunc autem Behemot huius satellites, etiam cum perversa inferunt, mira facturi sunt. Pensemus ergo que erit humane mentis illa temptatio, quando pius martir corpus tormentis subicit, et tamen ante eius oculos miracula tortor facit”. Il passo del Notabile X del prologo della Lectura super Apocalipsim tocca molti altri punti del poema.
La Donna Gentile. Lo stesso passo dei Moralia di Gregorio Magno su Giobbe 40, 12, citato nel Notabile X del prologo della Lectura super Apocalipsim, era già stato utilizzato dall’Olivi nell’Expositio in Canticum Canticorum (sicuramente precedente, poiché la Lectura venne completata nel 1297, l’anno prima della morte) [2]. La sposa dice allo sposo: “ti darò una coppa di vino aromatico, e il succo del mio melograno” (Cn 8, 2). Anche in questo caso Olivi fa riferimento alla tribolazione del tempo dell’Anticristo, alla tentazione che induce in errore gli eletti, allorché il pio martire è scosso nel profondo della mente dalle cose mirabili (ma erronee) che vede dinanzi ai propri occhi. In quei tempi la sposa (la Chiesa) offrirà a Cristo non solo il “dulcor contemplationis”, ma anche l’“expressum mustum difficillimorum et acerbissimorum martyriorum”. Come scritto in Matteo 24, 21-24, «tunc enim teste Christo “erit tanta tribulatio, ut si fieri potest, in errorem inducantur electi”». Olivi fu lettore in teologia nello Studium di Santa Croce di Firenze fra il 1287 e il 1289, inviato dal nuovo Ministro generale Matteo d’Acquasparta, eletto nel capitolo generale di Montpellier il 25 maggio 1287. Due anni, dunque, prima del richiamo a Montpellier, che portarono a Firenze molte sue opere esegetiche. Una di queste opere, il commento al Libro delle Lamentazioni di Geremia, fu probabilmente scritta a Santa Croce [3]. È nota la parafrasi di Lamentationes I, 12 nel sonetto O voi che per la via d’Amor passate (Vita Nova 2.14-17 [vii.3-6]).
Come vari luoghi del poema rinviano alla citazione di Gregorio Magno incastonata nell’esegesi della Lectura super Apocalipsim, così sull’Expositio in Canticum Canticorum è tessuta la Donna Gentile o Pietosa della Vita Nova, l’antagonista di Beatrice. L’esame, qui solo superficialmente avviato, è sicuramente da approfondire, ma un occhio esperto potrà vedere come non sia temerario affrontare Cn 8, 2 con Vita Nova 24-28 [xxxv-xxxix] [4]. Potrà facilmente ritrovare la tribolazione del martire pietoso degli ultimi tempi, che ha dinanzi a sé una mirabile ma falsa immagine di vero che lo scuote, nel poeta pensoso e travagliato nella “battaglia de’ pensieri”, che ha dinanzi agli occhi e alla mente un viso di donna preso come mai “così mirabilmente” da “color d’amore e di pietà sembianti”, dalla cui vista “era sommosso”. La donna, “quella pietosa / che si turbava de’ nostri martiri”, è in realtà un subdolo martirio, passionato “adversario della Ragione … desiderio malvagio e vana tentatione” contro il quale si leva l’immagine di Beatrice: “Si direbbe – scrive Gorni – che la Donna Pietosa, in questo suo agire così affabile che risulta essere, alla riprova, un modo caricaturale d’imitazione della donna ideale, sia una vera e propria figura di Anticristo, sinistramente perversa nella sua colpevole indulgenza” [5]. A questa vera affermazione l’Olivi consente di togliere il condizionale. Anche qui, come nel poema, non c’è calco o riscrittura, ma metamorfosi di elementi semantici, cioè parodia. Essere pietoso, che nell’esegesi è proprio del martire, è proiettato sulla donna-carnefice. Nella vicenda della Gentile, il conflitto tra le due antagoniste è solo nella mente di Dante [6], come nel martirio interiore descritto da Olivi, sofferto da coloro che sono scossi “ab ipso cogitationis fundo”.
Se la Donna Gentile o Pietosa è un fantasma interiore, un quasi-Anticristo, una falsa immagine di bene, di realtà che paiono vere, tentano e mettono in dubbio proprio per la loro parvente verità, erroneo ricordo nel color d’amore della nobilissima donna del poeta, bisognerà presupporre un vero che sia tale, che possa essere ristabilito come meta nella quale l’intelletto, da questo vero illuminato, si posi “come fera in lustra” una volta che l’ha raggiunto. Come dopo “lo ymaginar fallace” di “madonna morta”, che l’ha ingannato per “erronea fantasia” e “vana ymaginatione”, il poeta immagina venire “la mirabile Beatrice” preceduta da Giovanna-Primavera [7], e questo è vero immaginare (un ‘non falso errore’, come quelli delle visioni estatiche recanti esempi di mansuetudine a Purg. XV, 85-117), così dopo il “desiderio malvagio e vana tentatione”, a cui la Gentile ha sospinto i suoi occhi, generando in lui il dubbio e le sue battaglie, il poeta immagina vedere “questa gloriosa Beatrice” che scaccia dal suo cuore “questo adversario della Ragione” [8].
Uno stesso “panno” per la “gonna” di due donne [9]. Francesca è singolarmente vicina alla Gentile. Una parte della sua “gonna” è tessuta con fili provenienti dallo stesso “panno”, per quanto l’ordito esegetico sia nei due casi diverso, in quanto appartenente a due differenti opere del medesimo autore. Elementi lessicali comuni sono pietà (Inf. V, 93); che pense? (111); martìri (116); pio (117); lo strinse (128); occhi (130); mente (Inf. VI, 1); pietà (2). In Inf. V altri si aggiungono, rispecchiando il medesimo passo dei Moralia di Gregorio Magno ma parzialmente diverso nella stesura, che contiene anche considerazioni proprie di Olivi: perverso (93); dubbiosi (120); sospinse (130); scrisse (137).
Questa intimità semantica e tematica fra Francesca della Commedia e la Gentile del “libello” induce a spostare più avanti nel tempo la compiuta stesura della Vita Nova? Questa si suole datare attorno al 1294. L’episodio di Francesca, per converso, si colloca nel “poema sacro”, quindi dopo l’esilio (1302); è segnato, come tutti gli altri luoghi della Commedia, da una “topografia spirituale” che rinvia all’esegesi dei sette stati della storia della Chiesa (nel caso, principalmente al secondo, proprio dei martiri) come descritti nella Lectura super Apocalipsim. Questa, terminata a Narbonne poco prima della morte del suo autore (1298), arrivò in Italia ai primi del ’300; Ubertino da Casale l’aveva con sé a La Verna quando scriveva l’Arbor vitae (1305). L’episodio di Francesca, in quanto presuppone la conoscenza da parte di Dante della Lectura oliviana, non può essere anteriore al 1307-1309 (cfr. supra) [10].
Una Ur-Vita Nova? I paragrafi 24-28 [xxxv-xxxix] della Vita Nova, con la vicenda della Gentile confrontata con la donna-Filosofia del Convivio, sono, come è noto, il fulcro della “questione spinosissima” sulla possibile duplice redazione dell’opera, se cioè, come scrive Gorni, “le modifiche che il libello ha subito sono più estese e radicali di quanto si pensa, proprio per fare entrare, con alquanti pretesti, la nuova donna in un libro che ne celebra un’altra” [11]. È esistita una “Ur-Vita Nova” tutta dedicata a Beatrice senza i paragrafi relativi alla Gentile? Fin qui è stato possibile registrare la persistenza di un medesimo “panno” (il passo dei Moralia di Gregorio Magno) nell’elaborazione della Gentile e di Francesca, però nei due casi tramite due distinti commenti di Olivi, al Cantico dei Cantici e all’Apocalisse, il primo dei quali Dante poté conoscere prima dell’esilio, il secondo solo dopo. Si può ancora notare che l’Expositio in Canticum Canticorum, contenente a Cn 8, 2 il passo gregoriano, non è stata utilizzata soltanto nei paragrafi del “libello” relativi alla Donna Gentile.
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L’esegesi di Cn 8, 2 non pare infatti rispecchiata solo in Vita Nova 24-28 [xxxv-xxxix]. Si confronti, ad esempio, Vita Nova 6 [xiii] con Inf. V: “la donna, per cui Amore ti stringe così – Noi leggiavamo un giorno per diletto / di Lancialotto come amor lo strinse”. In entrambi i casi Dante aveva presente Giobbe 40, 12, nell’esegesi di Gregorio Magno applicata dall’Olivi in senso escatologico: «“Stringit caudam suam quasi cedrum” praemittens quod per caudam illam Antichristus significetur». Il paragrafo 6 [xiii] del “libello” è tutto contesto di temi che variano quelli che si trovano in Cn 8, 2, simmetrico al passo contenuto nel Notabile X del prologo della Lectura (questo un po’ più esteso del precedente): “combattere” e “tentare” fra i “molti e diversi pensamenti”; “dolorosi puncti li conviene passare” (sarà il “doloroso passo” dei “due cognati”: il ‘passo’ ha sempre un valore di passione, sofferenza, prova); mettersi per via nemica “nelle braccia della Pietà”. L’“amorosa erranza” che ne deriva, per quanto trattata con cortese levità, corrisponde al cadere in errore degli eletti negli ultimi tempi.
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L’esegesi di Cn 8, 2 non è neppure estranea, in Donna pietosa, al “tanto smarrimento”, all’errare degli “spirti miei”, a “lo ymaginar fallace” che “mi condusse a veder madonna morta” (Vita Nova 14 [xxiii]; cfr. anche il sonetto Morte villana: ibid., 3 [viii].8-9), tanto più se lo si confronta con la grande pagina escatologica di Matteo 24, 24-26 nel commento dello stesso Olivi. Se, come afferma Gorni, “la materia tragica ed elegiaca assume anche un andamento da commedia, per il gioco incrociato di equivoci e di false agnizioni” [12], essa trasforma con leggiadria un tema sinistro, la predicazione con segni fallaci dell’ipocrita Anticristo. Come pure, nel contrasto tra la morte che scolorisce e la bellezza, si può leggere il motivo “Nigra sum, sed formosa … quia decoloravit me sol” (Cn 1, 4-5), interpretato da Olivi come momento di tribolazione e di tentazione della sposa. Costei deve sostenere la battaglia delle tentazioni con sospiri pieni di desiderio, un dissidio interiore accostabile alla “battaglia de’ pensieri” divisi tra il ricordo di Beatrice e la nuova vista della Gentile (Vita Nova, 27 [xxxviii].4).
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Né si può dire che Cn 8, 2 sia il solo passo del commento oliviano ad essere stato presente all’autore della Vita Nova. La “compassiva memoria sanguinis Christi et electorum suorum” (Cn 7, 5) è desiderio di martirio che reca un colore purpureo (Cn 3, 10 [il trono del re]; 7, 5 [le chiome della sposa]), uno dei colori di Beatrice, la quale, ripresentandosi “con quelle vestimenta sanguigne colle quali apparve prima agli occhi miei”, fa pentire del vile desiderio della Gentile e riaccende i sospiri che rendono gli occhi desiderosi di piangere, per cui “dintorno a.lloro si facea uno colore purpureo, lo quale suole apparire per alcuno martirio che altri riceva” (Vita Nova 28 [xxxix].1-4). Desiderio di martirio che è prima di tutto desiderio di memoria, “che sola fa rivivere per Dante la sua donna” (Vita Nova 27 [xxxviii].6: “però che maggiore desiderio era lo mio ancora di ricordarmi della gentilissima donna mia, che di vedere costei”) [13].
Parodia e arte della memoria. Si può pensare che la semantica che travasa, nell’episodio della Gentile e in quello di Francesca, dal latino al volgare si cristallizzi in questo con dei signacula mnemonici. Si osserva tuttavia che mentre Inf. V è inserito in una “topografia spirituale”, cioè in un viaggio per la storia umana, per cui le parole incastonate nel senso letterale rinviano a concetti teologici propri di uno status o periodo della storia della Chiesa (il secondo), in un contesto in cui sono elaborati molti altri motivi tratti dalla Lectura super Apocalipsim oliviana, i paragrafi della Vita Nova relativi alla Gentile sembrano suggerire un’ars memorandi per gruppi di parole, volta a creare una silloge di temi fra loro connessi, che la parodia appropria liberamente all’autore del “libello” o alla Gentile. Nel primo caso, per l’estensione e la vastità del fenomeno, e per il costante rinvio parodico a un unico ipotesto-canovaccio, si può ben presupporre l’esistenza di un pubblico accorto, quello degli Spirituali francescani, per i quali il commento all’Apocalisse di Olivi era un vero e proprio libro-vessillo. Nel secondo caso, invece, l’arte della memoria sembrerebbe concepita solo ad uso dell’autore. Guido Cavalcanti, il primo destinatario della Vita Nova, poteva bene intendere che le parole “e però, temendo di non mostrare la mia vile vita, mi parti’ d’inanzi agli occhi di questa gentile” (Vita Nova 24.3 [xxxv.3]) erano una risposta al proprio sonetto I’ vegno ’l giorno a te ’nfinite volte, che ricordava all’amico “la vil tua vita” nel pensare e nell’animo [14]. Guido, tuttavia, non poteva anche intuire l’ipotesto esegetico parodiato per dar vita alla Donna Gentile, a meno di non averne già conoscenza.
Due “Donne Gentili” in contrasto? L’amore per la Gentile della Vita Nova, che sarebbe apparsa il 21 agosto 1293 (1168 giorni dalla morte di Beatrice, avvenuta l’8 giugno 1290), non ha nulla di contraddittorio con l’amore per “la bellissima e onestissima figlia dello Imperadore dell’universo, alla quale Pittagora puose nome Filosofia”, celebrata nel Convivio (II, ii, 1; xv, 12) come allegoria di “quella gentile donna [di] cui feci menzione nella fine della Vita Nova” [15]. Per sentire la dolcezza della Filosofia, apparsagli nell’agosto 1293, Dante era andato “là dov’ella si dimostrava veracemente, cioè nelle scuole delli religiosi e alle disputazioni delli filosofanti” per trenta mesi, quindi fino agli inizi del 1296 (Convivio, II, xii, 7). Le due donne vengono presentate in modo assai diverso nel libello e nel Convivio, quella falsa e dubbiosa, questa piena di certezza nelle sue dimostrazioni e libera da dubbi. Il passaggio per il “certamen dubitationis” è però ineliminabile anche per la Filosofia, come scritto nella canzone Voi che ’ntendendo il terzo ciel movete (legata alla presenza di Carlo Martello a Firenze nel marzo 1294): «e dice: “Chi veder vuol la salute, / faccia che li occhi d’esta donna miri, / sed e’ non teme angoscia di sospiri”». Questa “angoscia di sospiri” consiste in “labore di studio e lite di dubitazioni, le quali dal principio delli sguardi di questa donna multiplicatamente surgono, e poi, continuando la sua luce, caggiono quasi come nebulette matutine alla faccia del sole; e rimane libero e pieno di certezza lo familiare intelletto, sì come l’aere dalli raggi meridiani purgato e illustrato” (Convivio, II, xv, 5). Sono appunto “penseri … sì angosciosi” e “molti sospiri” ad accompagnare il pentimento che il cuore del poeta, ricordandosi di Beatrice “secondo l’ordine del tempo passato”, fa “dello desiderio a cui sì vilmente s’avea lasciato possedere alquanti die contra la constanzia della Ragione” (cfr. Vita Nova, 28 [xxxix]). Ma il dubbio, e dunque anche la vista del falso che pare vero, resta necessario alla Filosofia venuta a consolare la vedovata vita del poeta.
È da notare che se la fallace immaginazione di Beatrice morta avviene a occhi chiusi (Vita Nova, 14 [xxiii].4), la più sottile tentazione della Gentile avviene per gli occhi, ma è sempre parvenza (“tutta la pietà parea in lei accolta”, ibid., 24 [xxxv].2). Occhi che corrispondono alle dimostrazioni, in questo caso dubitose, della Filosofia, “le quali, dritte nelli occhi dello ’ntelletto, innamorano l’anima liberata nelle [sue] condizioni” (Convivio, II, xv, 4). La pietà passionata del primo incontro con la Gentile diventerà poi più virilmente e in tempo assai breve, sull’esempio virgiliano del pietoso Enea, “una nobile disposizione d’animo, apparecchiata di ricevere amore, misericordia ed altre caritative passioni” (ibid., II, x, 5-6).
Come Francesca e Paolo, “sanza alcun sospetto” nei loro “dubbiosi disiri” (lì dove era necessario dubitare a fondo), sono stati ingannati da una falsa ‘scrittura’, e la loro vista da dannati accora di pietà, così è accaduto a Dante con la Gentile, e non è casuale, come sopra ricordato, che i due episodi sviluppino in parte, parodiandoli, i medesimi concetti teologici, per quanto attinti da distinte opere. Nel caso dei “due cognati”, la ragione è stata sottomessa al “talento”, cioè alla lussuria; nel caso della Gentile alla ‘viltà’ che deriva da una condizione dubbiosa e ingannatrice, disperativa e inducente in un cader supino, “come corpo morto cade”. Ancor più che a Francesca, la Gentile si avvicina alla “femmina balba”, la cui immagine, colorata nel sogno “com’ amor vuol” e poi rivelatasi fetida per intervento su Virgilio di una donna “santa e presta”, fa ancora andare Dante, dopo il risveglio, “con tanta sospeccion”, vòlto “pur inver’ la terra” (Purg. XIX, 52-57).
L’agone del dubbio, nella scelta tra Beatrice e la Donna Gentile, si è svolto tutto dentro la mente del poeta, dove rampolla il “gentil pensero che parla di voi” (Vita Nova, 27 [xxxviii].8) della seconda figura, la quale “passionata di tanta misericordia si dimostrava sopra la mia vedovata vita” (Convivio, II, ii, 2) [16]. Il dubbio “nasce … a guisa di rampollo, / a piè del vero” (Par. IV, 130-132), ma come può spingere “di collo in collo” verso quel vero, salendo dalla passione d’amore alla nobile e virtuosa disposizione d’animo (ibid., II, xii, 8), così può deprimere nella battaglia e indurre in errore.
Tra la Gentile della Vita Nova e quella del Convivio non c’è più contraddizione di quanta possa esservi tra il visitare il secondo cerchio dell’inferno, dove stanno i lussuriosi, e l’ascoltare la dottrina d’amore esposta da Virgilio sulla soglia del quarto girone della montagna, secondo la quale non è vero che sia “ciascun amore in sé laudabil cosa” (Purg. XVIII, 34-36).
A questo punto bisogna esaminare ancora il commento di Olivi al Cantico dei Cantici e vedere se e quanto esso sia stato presente, forse insieme ad altre opere di esegesi biblica dello stesso autore, nella stesura della Vita Nova. Ci si potrà, poi, interrogare se la frequentazione per circa trenta mesi “nelle scuole delli religiosi e alle disputazioni delli filosofanti” fino al prevalere della Donna Gentile-Filosofia non sia stata accompagnata, oltre che da insegnamenti strettamente filosofici, anche da una solida preparazione teologica nel campo dell’esegesi biblica, e se questa non sia stata addirittura precedente la morte di Beatrice, negli anni in cui Olivi insegnava a Santa Croce.
[1] Cfr., a stampa: A. FORNI, Pietro di Giovanni Olivi nella penisola italiana, p. 425, nt. 55 (trad. ingl. Petrus Iohannis Olivi in the Italian Peninsula, pp. 20-21, nt. 55); Dante e il Giubileo (II): Bonifacio VIII, in “Collectanea Franciscana”, 86 (2016), pp. 574-576 (cfr., sul sito, 4.2); su questo sito: L’agone del dubbio, ovvero il martirio moderno (Francesca e la «Donna Gentile», 1.1, 3; «In mensura et numero et pondere». Nella fucina della Commedia: storia, poesia e arte della memoria, 2.5; Inferno V.
[2] PETRI IOHANNIS OLIVI Expositio in Canticum Canticorum, curavit JOHANNES SCHLAGETER, Ad Claras Aquas Grottaferrata 1999 (Collectio Oliviana, II [= Cn]).
[3] La caduta di Gerusalemme. Il commento al Libro delle Lamentazioni di Pietro di Giovanni Olivi, a cura di MARCO BARTOLI, Roma 1991 (Istituto Storico Italiano per il Medio Evo. Nuovi studi storici – 12), pp. xliv-xlvi.
[4] Dante Alighieri, Vita Nova, a cura di GUGLIELMO GORNI, Torino 1996 (= Vita Nova; fra [ ] la paragrafazione dell’edizione Barbi).
[5] Ibid., p. 273.
[6] Ibid., p. 205, nt. a le pesa.
[7] Vita Nova, 14-15 [xxiii-xxiv].
[8] Ibid., 28 [xxxix].
[9] Si parafrasano le parole di san Bernardo a Par. XXXII, 140-141.
[10] L’appellativo “gentile”, nella Commedia, ha cambiato senso rispetto alla Vita Nova. Accanto al significato di ‘nobile’, ‘cortese’ o ‘liberale’ si fa sempre più forte il senso di ‘gente’ alla stregua degli antichi pagani tumultuosa e affannata nel cuore per brutali passioni e conflitti intestini, la cui vita non sta senza guerra, fluttuante come il mare in tempesta. A questo nuovo e negativo valore appartiene “la bufera infernal che mai non resta” che porta in eterno Francesca e Paolo, la cui vita spense “Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende”. Beatrice, la “gentilissima” del “libello” giovanile, non è fregiata nella Commedia con tale prerogativa. Il mutato valore della gentilezza, che accanto ai significati già cari a Dante acquista uno spessore storico proprio della Gentilità idolatra e irrazionale applicato ai tempi moderni, segna come la ‘linea d’ombra’ di Dante verso la cultura letteraria del tempo, pregna di “donne antiche e ’ cavalieri” dannati in eterno a causa di Amore. Cfr. L’agone del dubbio, cap. 7 (Gentilezza, Gentilità, affanni, cortesia).
[11] GUGLIELMO GORNI, La Vita Nova dalla Donna Gentile a Beatrice, con un excursus sulla doppia redazione del libello, in “Deutsches Dante-Jahrbuch”, 81 (2006), pp. 7-26: 15.
[12] Vita Nova, p. 263.
[13] Ibid., p. 211, nt. a ricordarmi …vedere.
[14] Una risposta postuma a Cavalcanti la reciterà Virgilio rivolgendosi a Stazio a Purg. XXI, 20-24 con il parodiare il sonetto di Guido S’io fosse quelli che d’amor fu degno, a sua volta replica al sonetto di Dante Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io.
[15] MARCO SANTAGATA, L’io e il mondo. Un’interpretazione di Dante, Bologna 2011, p.117, ritiene che “le discrepanze tra i due racconti, che molto hanno fatto discutere gli interpreti, si appianano in gran parte se, invece di leggerli in successione, li leggiamo in parallelo”. Il testo del Convivio è citato dall’edizione a cura di F. Brambilla Ageno, Firenze 1995 (Le opere di Dante Alighieri. Edizione Nazionale a cura della Società Dantesca Italiana).
[16] Non c’è reale contrasto tra Beatrice e la Gentile (o Pietosa). La seconda “non mira voi – rimprovera il poeta ai suoi occhi vani -, se non in quanto le pesa della gloriosa donna di cui piangere solete” (Vita Nova, 26.2). Nota il GORNI, p. 205, nt. a “le pesa”: “Questa particolarità conferisce una valenza tutta speciale alla vicenda della Donna pietosa, perché le due antagoniste non appaiono in conflitto se non nella mente del soggetto, e la seconda è mossa dalla pietà per la prima”. La distinzione non contraddittoria tra un racconto psicologico, dato nel libello, e una prospettiva allegorico-morale volta a scienza e a virtù, data nel Convivio, era stata sostenuta sin dal 1951 dal Bosco, come ricordato da GIORGIO PETROCCHI nella voce Donna gentile in Enciclopedia Dantesca, II, Roma 19842, p. 576. Cfr. SANTAGATA, L’io e il mondo, p. 178: “Di una vicenda raccontata per ben cinque paragrafi e altrettanti componimenti poetici manca qualunque testimone esterno, così come manca ogni allusione a occasioni di vita sociale. Una storia fino a quel momento vissuta ‘in pubblico’ improvvisamente si trasforma in un evento del tutto privato, centrato interamente (se non vogliamo considerare il ruolo di Beatrice defunta) su un rapporto a due”.
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Tab. I.2
Tab. I.3
Vita Nova 27 [xxxviii]Ricoverai la vista di questa donna in sì nuova conditione, che molte volte ne pensava sì come di persona che troppo mi piacesse, e pensava di lei così: «Questa è una donna gentile, bella, giovane e savia, ed è apparita forse per volontà d’Amore acciò che la mia vita si riposi». E molte volte pensava più amorosamente, tanto che lo cuore consentia in lui, cioè nel suo ragionare. [2] E quando io avea consentito ciò, e io mi ripensava sì come dalla Ragione mosso e dicea fra me medesimo: «Deh, che pensero è questo, che in così vile modo vuole consolar me, e non mi lascia quasi altro pensare?». [3] Poi si rilevava un altro pensero e diceami: «Or tu se’ stato in tanta tribulatione; perché non vuoli tu ritrarre te da tanta amaritudine? Tu vedi che questo è uno spiramento d’Amore, che ne reca li disiri d’amore dinanzi, ed è mosso da così gentil parte com’è quella degli occhi della donna che tanto pietosa ci s’àe mostrata». [4] Onde io, avendo così più volte combattuto in me medesimo, ancora ne volli dire alquante parole. E però che la battaglia de’ pensieri vinceano coloro che per lei parlavano, mi parve che si convenisse di parlare a.llei, e dissi questo sonetto, lo quale comincia Gentile pensero; e dico «Gentile» in quanto ragionava di gentil donna, ché peraltro era vilissimo. [5] In questo sonetto fo due parti di me, secondo che li miei pensieri erano divisi. L’una parte chiamo core, cioè l’appetito; l’altra chiamo anima, cioè la Ragione; e dico come l’uno dice coll’altro. E che degno sia di chiamare l’appetito cuore, e la Ragione anima, assai è manifesto a coloro a cui mi piace che ciò sia aperto. [6] Vero è che nel precedente sonetto io fo la parte del cuore contra quella degli occhi, e ciò pare contrario di quello che io dico nel presente; e però dico che ivi lo cuore anche intendo per lo appetito, però che maggiore desiderio era lo mio ancora di ricordarmi della gentilissima donna mia, che di vedere costei, avegna che alcuno appetito n’avessi già, ma leggiero parea: onde appare che l’uno decto non è contrario all’altro. [7] Questo sonetto à tre parti. Nella prima comincio a dire a questa donna come lo mio desiderio si volge tutto verso lei; nella seconda dico come l’anima, cioè la Ragione, dice al cuore, cioè all’appetito; nella terza dico com’e’ le risponde. La seconda parte comincia quivi L’anima dice; la terza quivi Ei le risponde.Gentil pensero che parla di voi [8]
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Cn 8, 2, pp. 302, 304[326] “Ibi me docebis” doctrina scilicet altiori et experimentaliori, “et dabo tibi poculum ex vino condito” scilicet aromaticis speciebus, “et mustum malogranatorum meorum” (2cd). Nota quod usque-modo non fecit mentionem de “vino condito” nec de “musto malogranatorum”, sed solum de vino simplici et de arboribus ac fructibus et germinibus malorum punicorum. Dulcor enim contemplationis et expres-sum “mustum” difficillimorum et acerbissimorum martyriorum circa tempus conversionis Iudae-orum et circa tempus Antichristi debent Christo ab ecclesia singularius ministrari. Tunc enim teste Christo “erit tanta tribulatio, ut si fieri potest, in errorem inducantur electi” (cfr. Mt 24, 21.24). Et Gregorius Moralium trigesimo secundo super illud Iob: “Stringit caudam suam quasi cedrum” (Iob 40, 12) praemittens quod per caudam illam Antichristus significetur, subdit causam, quare tribulatio electo-rum sub eo erit maior quam praecedens dicens: «Nunc enim fideles nostri mira faciunt, cum perversa patiuntur, tunc autem Behemoth huius satellites etiam cum perversa inferunt, mira facturi sunt. Pensemus ergo quae erit humanae mentis illa tentatio: pius martyr et corpus tormentis subiicit et tamen ante eius oculos miracula tortor facit. Cuius tunc virtus non ab ipso cogitationum fundo quatiatur, quando is qui flagris cruciat, signis coruscat?» Haec Gregorius. Item Moralium trigesimo quinto super illud Iob ultimo: “Addidit Dominus omnia quaecumque fuerant Iob, duplicia” (Iob 42, 10) dicit: «Sancta quippe ecclesia etsi multos nunc percussione tentationis amittit, in fine tamen huius saeculi ea quae sua sunt, duplicia recipiet, quando susceptis ad plenum gentibus ad eius fidem currere omnis quae tunc inventa fuerit, etiam Iudaea consentit. Hinc namque in evangelio veritas dicit: “Elias veniet et ille restituet omnia”» (Mt 17, 11).Vita Nova 28 [xxxix]Contra questo adversario della Ragione si levòe un die, quasi nell’ora della nona, una forte ymaginatione in me, che mi parve vedere questa gloriosa Beatrice con quelle vestimenta sanguigne colle quali apparve prima agli occhi miei, e pareami giovane in simile etade in quale prima la vidi. [2] Allora cominciai a pensare di lei, e ricordandomi di lei secondo l’or-dine del tempo passato, lo mio cuore cominciò dolorosamente a pentere dello desiderio a cui sì vilmente s’avea lasciato possedere alquanti die contra la constanzia della Ragione: e discacciato questo cotale malvagio desiderio, si rivolsero tutti li miei pensamenti alla loro gentilissima Beatrice. […] [6] Onde io, volendo che cotale desiderio malvagio e vana tentatione paresse distructo sì che alcuno dubbio non potessero inducere le rimate parole che io avea dette dinanzi, propuosi di fare uno sonetto nel quale io comprendessi la sententia di questa ragione, e dissi allora Lasso, per forza di molti sospiri. E dissi «Lasso» in quanto mi vergognava di ciò che li miei occhi aveano così vaneggiato. [7] Questo sonetto non divido, però che assai lo manifesta la sua ragione.Lasso, per forza di molti sospiri, [8]
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Tab. I.4
Inf. IV, 16-22E io, che del color mi fui accorto,
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Par. IV, 130-132Nasce per quello, a guisa di rampollo,
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[Lectura super Apocalipsim (= LSA), prologus, Notabile X] Sextus (status) vero concurrit cum secundo non in eodem tempore sed in celebri multitudine martiriorum, prout in apertione quinti signaculi aperte docetur (cfr. Ap 6, 9), quamvis in modo martirii quoad aliqua differant. Nam martiria a paganis et idolatris facta nullum certamen dubitationis inferebant martiribus, aut probabilis rationis, propter nimiam evidentiam paganici erroris. Non sic autem fuit de martiriis per hereticos, unum Deum et unum Christum confitentes, inflictis. In sexto autem tempore non solum propulsabuntur martires per tormenta corporum, aut per subtilitatem rationum philosophicarum, aut per intorta testimonia scripturarum sanctarum, aut per simulationem sanctitatis ypocritarum, immo etiam per miracula a tortoribus facta. Nam, teste Christo, “dabunt signa et prodigia magna” (Mt 24, 24). Unde Gregorius, XXXII° Moralium super illud Iob: “stringit caudam suam quasi cedrum” (Jb 40, 12), dicit: «Nunc fideles nostri mira faciunt, cum perversa patiuntur; tunc autem Behemot huius satellites, etiam cum perversa inferunt, mira facturi sunt. Pensemus ergo que erit humane mentis illa temptatio, quando pius martir corpus tormentis subicit, et tamen ante eius oculos miracula tortor facit». Propulsabit etiam eos per falsam imaginem divine et pontificalis auctoritatis. Sic enim tunc surgent pseudochristi et pseudochristus contra electos, sicut Annas et Caiphas pontifices insurrexerunt in Christum. Erunt ergo tunc tormenta intensive maiora, tempore autem paganorum fuerunt extensive pluriora: nam plusquam per ducentos annos duraverunt. |
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Inf. V, 91-93, 109-120, 124-132, 137; VI, 1-2se fosse amico il re de l’universo,
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Inf. XX, 7-30e vidi gente per lo vallon tondo
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Vita Nova 6 [xiii]. 1-7Apresso di questa soprascripta visione, avendo già dette le parole che Amore m’avea imposte a dire, mi cominciaro molti e diversi pensamenti a combattere e a tentare, ciascuno quasi indefensibilemente; tra li quali pensamenti, quatro mi parea che ingombrassero più lo riposo della vita. [2] L’uno delli quali era questo: buona è la signoria d’Amore, però che trae lo ’ntendimento del suo fedele da tutte le vili cose. [3] L’altro era questo: non buona è la signoria d’Amore, però che quanto lo suo fedele più fede li porta, tanto più gravi e dolorosi puncti li conviene passare. [4] L’altro era questo: lo nome d’Amore è sì dolce a udire, che impossibile mi pare che la sua propria operatione sia nelle più cose altro che dolce, con ciò sia cosa che li nomi seguitino le nominate cose, sì come è scripto: «Nomina sunt consequentia rerum». [5] Lo quarto era questo: la donna, per cui Amore ti stringe così, non è come l’altre donne, che leggieramente si muova del suo core. [6] E ciascuno mi combattea tanto, che mi facea stare quasi come colui che non sa per qual via pigli lo suo camino, e che vuole andare e non sa onde sen vada; e se io pensava di volere cercare una comune via di costoro, cioè là ove tutti s’accordassero, questa via era molto inimica verso me, cioè di chiamare e di mettermi nelle braccia della Pietà. [7] E in questo stato dimorando mi giunse volontà di scrivere parole rimate; e dissine allora questo sonetto, lo quale comincia Tutti li miei.
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Tab. I.5
Vita Nova 6 [xiii]Apresso di questa soprascripta visione, avendo già dette le parole che Amore m’avea imposte a dire, mi cominciaro molti e diversi pensamenti a combatte-re e a tentare, ciascuno quasi indefensibilemente; tra li quali pensamenti, quatro mi parea che ingom-brassero più lo riposo della vita. [2] L’uno delli quali era questo: buona è la signoria d’Amore, però che trae lo ’ntendimento del suo fedele da tutte le vili cose. [3] L’altro era questo: non buona è la signoria d’Amore, però che quanto lo suo fedele più fede li porta, tanto più gravi e dolorosi puncti li conviene passare. [4] L’altro era questo: lo nome d’Amore è sì dolce a udire, che impossibile mi pare che la sua propria operatione sia nelle più cose altro che dolce, con ciò sia cosa che li nomi seguitino le nominate cose, sì come è scripto: «Nomina sunt consequentia rerum». [5] Lo quarto era questo: la donna, per cui Amore ti stringe così, non è come l’altre donne, che leggieramente si muova del suo core. [6] E ciascuno mi combattea tanto, che mi facea stare quasi come colui che non sa per qual via pigli lo suo camino, e che vuole andare e non sa onde sen vada; e se io pensava di volere cercare una comune via di costoro, cioè là ove tutti s’accordassero, questa via era molto inimica verso me, cioè di chiamare e di mettermi nelle braccia della Pietà. [7] E in questo stato dimorando mi giunse volontà di scrivere parole rimate; e dissine allora questo sonetto, lo quale comincia Tutti li miei.Tutti li miei pensier’ parlan d’Amore, [8]
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Cn 8, 2, pp. 302, 304[326] “Ibi me docebis” doctrina scilicet altiori et experimentaliori, “et dabo tibi poculum ex vino condito” scilicet aromaticis speciebus, “et mustum malogranatorum meorum” (2cd). Nota quod usquemodo non fecit mentionem de “vino condito” nec de “musto malogranatorum”, sed solum de vino simplici et de arboribus ac fructibus et germinibus malorum punicorum. Dulcor enim contemplationis et expressum “mustum” difficillimorum et acerbissi-morum martyriorum circa tempus conversionis Iudaeorum et circa tempus Antichristi debent Christo ab ecclesia singularius ministrari. Tunc enim teste Christo “erit tanta tribulatio, ut si fieri potest, in errorem inducantur electi” (cfr. Mt 24, 21.24). Et Gregorius Moralium trigesimo secundo super illud Iob: “Stringit caudam suam quasi cedrum” (Iob 40, 12) praemittens quod per caudam illam Antichristus significetur, subdit causam, quare tribulatio electorum sub eo erit maior quam praecedens dicens: «Nunc enim fideles nostri mira faciunt, cum perversa patiuntur, tunc autem Behemoth huius satellites etiam cum perversa inferunt, mira facturi sunt. Pensemus ergo quae erit humanae mentis illa tentatio : pius martyr et corpus tormentis subiicit et tamen ante eius oculos miracula tortor facit. Cuius tunc virtus non ab ipso cogitationum fundo quatiatur, quando is qui flagris cruciat, signis coruscat?» Haec Gregorius. Item Moralium trigesimo quinto super illud Iob ultimo: “Addidit Dominus omnia quaecumque fuerant Iob, duplicia” (Iob 42, 10) dicit: «Sancta quippe ecclesia etsi multos nunc percussione tentationis amittit, in fine tamen huius saeculi ea quae sua sunt, duplicia recipiet, quando susceptis ad plenum gentibus ad eius fidem currere omnis quae tunc inventa fuerit, etiam Iudaea consentit. Hinc namque in evangelio veritas dicit: “Elias veniet et ille restituet omnia”» (Mt 17, 11).Cn 1, 4, p. 128[44] “Nigra” etiam “sum”, “sicut pelles Salomonis” (cfr. 4b). Quod in templo Salomonis pelles fuerint nigrae, non legimus, sed in tabernaculo a Moyse facto fuerunt saga cilicina de pilis caprarum, et illa erant nigra. Fuerunt etiam ibi pelles arietum rubricatae (Ex 26, 7.14). Et forte has vocat “pelles Salomonis”; tum quia sub ipso finaliter fuerunt; tum ut duplici mysterio denigrationis sponsae deserviat. Fuit enim cultus tabernaculi Dei in transitu deserti et tandem in terra promissionis et in Ierusalem. Et tunc sub Salomone fuit in maiori pace et gloria. Et secundum hoc sponsa Dei est in duplici statu, scilicet in laborioso transitu ad contemplationis apicem et quietem et in ipso apice seu in ipso termino quietante. In primo sponsa bellis tentationum et laboriosis macerationibus et exercitiis et suspiriosis desideriis exterius mortificatur. In secundo vero vitae carnali funditus moritur, et ideo tunc velut mortua huic mundo videtur. Vult ergo dicere sponsa: etsi exterius me videtis despectam et mortuam, attendite tamen meam intelligibilem seu virtualem formam et venustatem.Cn 1, 5d, pp. 130, 132[49] “Vineam meam non custodivi” […] [52] Vel forte hic vult ostendere quod eis noluit consentire in custodia vinearum suarum, quam ut bene exag-gerative loquatur, dicit in singulari “vineam” et appropriative “meam”, ut ostendat quod nec uni-versitas et unitas status prioris potuit ad hoc trahere nec ipsius paternitas et maternitas, qua intra eam et ex ea fuerat progenita et propter quam prius habuerat eam ut ‘suam’. Quia vero ista tentatio gravis est, ideo petit a sponso refugium directivum subdens: […]. |
Tab. I.6
Cn, 8, 2martyria; tanta tribulatio; in errorem inducantur; stringit; patiuntur; mira; pensemus; mentis illa temptatio; pius martyr; ante eius oculos; miracula; ab ipso cogitationum fundo quatiatur; percussione tentationis |
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Vita Nova 24 [xxxv]molto stava pensoso; e con dolorosi pensamenti tanto [§ 1]travagliare [2]pietosamente [2]; pietà [2]; pietade [3]; pietosa [3]d’inanzi dagli occhi [3]
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Vita Nova 25 [xxxvi]pietosa [1, 2]occhi [2]
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Vita Nova 26 [xxxvii]occhi [1]pensero [2]vi mira [2]—————————————————————–
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Vita Nova 27 [xxxviii]ne pensava [1]tanta tribulatione [3]dinanzi [3]pietosa [3]battaglia de’ pensieri [4]
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Vita Nova 28 [xxxix]pensare [2]tentatione [6]
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Vita Nova 6 [xiii]pensamenti [1]tentare [1]tanto … passare [3]ti stringe [5]Pietà [6, 9]
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LSA, prologus, notabile X (in blu sono indicati i nuovi elementi rispetto a Cn 8, 2 ripresi nella Vita Nova)martiria; certamen dubitationis; propulsabuntur, propulsabit; subtilitatem; intorta; tortor; scripturarum; stringit; perversa; patiuntur; mira facturi sunt; pensemus; mentis illa temptatio; pius martir; tormentis; ante eius oculos; miracula … facit; imaginem |
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(Inf. V)pietà (v. 93); perverso (93); che pense? (111); martìri (116); pio (117); dubbiosi (120); strinse (128); occhi; sospinse (130); scrisse (137)(Inf. VI)mente (1); pietà (2)(Par. XIX)dubbio (33); s’assottiglia (82); Scrittura (83); dubitar; a maraviglia (84)(Par. XX)dubbiar (79); patio (81); mi pinse (83); ti fa maravigliar (101)(Par. XXXII)dubbi tu; dubitando (49); ti stringon; pensier sottili (51) |
(Inf. IV)dubbiare (18); quella pietà (21); sospigne (22)(Inf. XX)pensa (20); imagine (22); torta (23); pietà (28); passion (30)(Purg. III)si strinser (70); stretti (71); dubbiando (72)(Purg. X)tormento (116); occhi; tencione (117)(Purg. XII)mirar farieno; sottile (66)(Par. IV)dubbio (131); pinge (132) |
Tab. I.7
Tab. I.8
Cn 1, 4-5, p. 128[44] “Nigra” etiam “sum”, “sicut pelles Salomonis” (cfr. 4b). Quod in templo Salomonis pelles fuerint nigrae, non legimus, sed in tabernaculo a Moyse facto fuerunt saga cilicina de pilis caprarum, et illa erant nigra. Fuerunt etiam ibi pelles arietum rubricatae (cfr. Ex 26, 7.14). Et forte has vocat “pelles Salomonis”; tum quia sub ipso finaliter fuerunt; tum ut duplici mysterio denigrationis sponsae deserviat. Fuit enim cultus tabernaculi Dei in transitu deserti et tandem in terra promissionis et in Ierusalem. Et tunc sub Salomone fuit in maiori pace et gloria. Et secundum hoc sponsa Dei est in duplici statu, scilicet in laborioso transitu ad contemplationis apicem et quietem et in ipso apice seu in ipso termino quietante. In primo sponsa bellis tentationum et laboriosis macerationibus et exercitiis et suspiriosis desideriis exterius mortificatur. In secundo vero vitae carnali funditus moritur, et ideo tunc velut mortua huic mundo videtur. Vult ergo dicere sponsa: etsi exterius me videtis despectam et mortuam, attendite tamen meam intelligibilem seu virtualem formam et venustatem.
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Vita Nova 14 [xxiii].17-26, vv. 1-6, 20-70Donna pietosa e di novella etate,
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Cn 8, 2, pp. 302, 304[326] “Ibi me docebis” doctrina scilicet altiori et experimentaliori, “et dabo tibi poculum ex vino condito” scilicet aromaticis speciebus, “et mustum malogranatorum meorum” (2cd). Nota quod usquemodo non fecit mentionem de “vino condito” nec de “musto malogranatorum”, sed solum de vino simplici et de arboribus ac fructibus et germinibus malorum punicorum. Dulcor enim contemplationis et expressum “mustum” difficillimorum et acerbissi-morum martyriorum circa tempus conversionis Iudaeorum et circa tempus Antichristi debent Christo ab ecclesia singularius ministrari. Tunc enim teste Christo “erit tanta tribulatio, ut si fieri potest, in errorem inducantur electi” (cfr. Mt 24, 21.24). Et Gregorius Moralium trigesimo secundo super illud Iob: “Stringit caudam suam quasi cedrum” (Iob 40, 12) praemittens quod per caudam illam Antichristus significetur, subdit causam, quare tribulatio electorum sub eo erit maior quam praecedens dicens: «Nunc enim fideles nostri mira faciunt, cum perversa patiuntur, tunc autem Behemoth huius satellites etiam cum perversa inferunt, mira facturi sunt. Pensemus ergo quae erit humanae mentis illa tentatio: pius martyr et corpus tormentis subiicit et tamen ante eius oculos miracula tortor facit. Cuius tunc virtus non ab ipso cogitationum fundo quatiatur, quando is qui flagris cruciat, signis coruscat?» Haec Gregorius. Item Moralium trigesimo quinto super illud Iob ultimo: “Addidit Dominus omnia quaecumque fuerant Iob, duplicia” (Iob 42, 10) dicit: «Sancta quippe ecclesia etsi multos nunc percussione tentationis amittit, in fine tamen huius saeculi ea quae sua sunt, duplicia recipiet, quando susceptis ad plenum gentibus ad eius fidem currere omnis quae tunc inventa fuerit, etiam Iudaea consentit. Hinc namque in evangelio veritas dicit: “Elias veniet et ille restituet omnia”» (Mt 17, 11).Vita Nova 3 [viii].8-9, vv. 1-12Morte villana, di Pietà nemica,
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PETRI IOHANNIS OLIVI Lectura super Matthaeum, Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, ms. Vat. lat. 10900, ff. 165va, 166ra.[f. 165va; Mt 24, 24] “Ita ut in errorem inducantur si fieri potest etiam electi”. Gregorius Moralium triginta uno dicit quod quia electorum cor concutietur, eorum tamen constantia ad malum non movebitur, ideo Christus una sententia complexus est utrumque: quasi enim iam errare est in cogitatione titubare. Sed “si fieri potest” subiungitur, quia fieri non potest ut in errorem electi capiantur. Ad litteram autem sensus est quod tantus erit temptationis excessus quod electi fere in errorem cadent et caderent, nisi singulari Dei gratia custodirentur. Rabanus tamen legit hic de electis secundum apparentiam, dicens quod non ideo hoc dicit quod electio divina frustretur, sed qui humano iudicio electi videbantur, illi in errorem mittentur. Et secundum hoc debet legi “si fieri potest”, scilicet quod sint electi. […]
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2. Amore sulla via di Emmaus
■ Dall’Expositio in Canticum Canticorum di Olivi si prenda l’esegesi di Cn 5, 6. Come esempio del fatto che nella contemplazione, talvolta, Dio si sottrae all’improvviso, prima che la sua visita sia compiuta, Olivi cita l’incontro di Cristo “in specie peregrini” con i discepoli sulla via di Emmaus (Luca XXIV, 13-35). Appena riconosciuto, Cristo “subito avolavit ab eis”. Difficile non scorgere questi motivi in Amore trovato “in mezzo della via / in abito leggier di peregrino”, che poi “disparve, e non m’accorsi come”, descritto in Cavalcando l’altrier per un camino (Vita Nova 4 [ix]).
Amore (solo nella prosa) “mi parea sbigottito e guardava la terra, salvo che talora li suoi occhi mi parea che si volgessero ad un fiume bello e corrente e chiarissimo, lo qual sen gia lungo questo camino là ov’io era” (Vita Nova 4 [ix].4). Il sintagma occhi / fiume si trova a Cn 5, 12, dove la sposa dice in lode dello sposo: “Oculi eius sicut columbae super rivos aquarum quae lacte sunt lotae et resident iuxta fluenta plenissima”: il fiume, abissale e ridondante d’acqua, è l’immensa sapienza divina; le colombe, bianche e nitide come latte, designano la sincerità e lo splendore dell’aspetto divino che contempla (gli “occhi”) i rivi, cioè le sapienziali derivazioni nelle sue creature. Sarà appunto uno “rivo chiaro molto” (Vita Nova 10.12 [xix 1]) quello presso il quale verrà concepita la canzone Donne ch’avete intellecto d’amore, inizio delle “nove rime”, come riconosciuto da Bonagiunta Orbicciani da Lucca a Purg. XXIV, 49-51.
Il rinvio a Luca XXIV induce a considerare il grande commento di Olivi al relativo Vangelo e a confrontarne i passi con Vita Nova 4 [ix] [1]. Anche in questo caso Cristo si presenta ai due discepoli “in tali specie uestium et forma eundi, ex qua quasi peregrinus et pauper estimari posset” (“come peregrino leggieramente vestito e di vili drappi – in abito leggier di peregrino. / Nella sembianza mi parea meschino”). Al termine dell’incontro si verifica la «subita Christi disparitio, unde subditur: “et ipse euanuit”, id est disparuit, “ex oculis eorum”» (“disparve questa mia ymaginatione tutta subitamente – ch’elli disparve, e non m’accorsi come”). I due pellegrini sulla via di Emmaus sono tristi, perché si dolgono della morte di Cristo; Dante è angosciato, “però ch’io mi dilungava dalla mia beatitudine”.
Alla sùbita scomparsa di Cristo fa seguito il riconoscimento, da parte dei discepoli, di essere stati infiammati dall’amore divino, prova che di Lui si trattasse; dicono infatti fra loro, “in tanta accensione ardoris”: “Nonne cor nostrum ardens erat in nobis, dum loqueretur nobis in via et aperiret nobis Scripturas? (Luca XXIV, 31-32)”. Ciò corrisponde all’ardore suscitato da Amore e alla sua improvvisa sparizione: “disparve questa mia ymaginatione tutta subitamente per la grandissima parte che mi parve che Amore mi desse di sé – Allora presi di lui sì gran parte, / ch’elli disparve, e non m’accorsi come” (Vita Nova 4 [ix].7, 12).
Così, prosegue Olivi, avviene alla sposa del Cantico dei Cantici, liquefatta nell’anima dal colloquio con lo sposo subito però troncato, perché la mente non presuma di conoscere cose troppo alte, ma dubiti, tema e sia umiliata. Questi temi (il cuore che arde, l’umile temere o dubitare) sono nella “donna della salute” che “paventosa umilmente pascea” del cuore ardente del poeta nella “maravigliosa visione” avuta da Dante dopo la nuova apparizione della gentilissima (Vita Nova 1.15-17, 23 [iii 4-6, 12]). Così la donna “involta mi parea in uno drappo sanguigno leggieramente” (1.15), come Amore “apparve peregrino leggieramente vestito e di vili drappi” (4.3); in entrambi i casi (nella prosa) con riferimento all’umiltà.
Nel sonetto A ciascun’alma presa e gentil core, il confronto con l’esegesi si limita a pochi elementi, a tutto vantaggio della prosa (cfr. qui di seguito). Nel sonetto Cavalcando, la ripresa dalla pastorella di Giraut de Borneil (L’altrer, lo primer jorn d’aost), con l’immagine del poeta che cavalca con l’aria triste [2], concorda in modo più evidente con l’esegesi scritturale esplicativa dell’incontro con Cristo sulla via di Emmaus.
■ La Lectura super Lucam, XXIV, 13-35 contiene ulteriori motivi. In primo luogo la simulazione, per quanto questa abbia contenuto diverso. Cristo, invece di entrare nella casa dei pellegrini e di sedere alla loro mensa, simula di andare più lontano di Emmaus. Amore, che reca con sé il cuore dell’amante di cui Beatrice si era cibata, va alla ricerca di una nuova donna-schermo alla quale recapitarlo dopo la partenza della prima “bella difesa”, per “lo simulato amore” che Dante deve mostrare, “schermo della veritade”, cioè della sua beatitudine (Vita Nova 2.8 [v 3]). Olivi espone ampiamente i motivi per i quali la simulazione messa in atto da Cristo non è finzione falsa o peccaminosa. In primo luogo, non si deve essere importuni nell’entrare nella casa e alla mensa altrui; in secondo luogo, Cristo aspetta di essere invitato come pellegrino e povero; in terzo luogo, perché attraverso le opere di misericordia si perviene a più piena e familiare conoscenza della sapienza divina.
■ Cosa significa Amore, “che si presenta all’immaginazione dantesca camuffato da peregrino leggieramente vestito e di vili drappi”? Scrive Gorni:
Sarà un travestimento fatto da Amore per garantirsi, né più né meno, la segretezza? o perché, trattandosi di simulato amore, conviene a chi lo rappresenta di mascherarsi (D’Ancona)? oppure, come proponeva il Carducci, la figura di pellegrino e l’abito leggero alludono all’errare da un amore all’altro, con volubile cuore? Certo Amore qui è come un pellegrino sviato dalla sua meta, in attesa di un santuario illustre da onorare con la sua visita. E a quel punto ci si avvede anche che il traguardo del pellegrino è sempre funebre, corpo venerato o reliquia: meta sacra, ma di morte [3].
Amore pellegrino designa uno stadio del processo contemplativo. Nell’ascesa alla contemplazione divina, il desiderio e l’attendere alle cose spirituali deve essere sicuro e ben difeso (Emmaus è definita “castrum”, “oportet … illum desiderium … quod sit robustum et tutum et bene munitum”); deve anche trovarsi a debita distanza dalla meta (Emmaus si trova a sessanta stadi da Gerusalemme, sede della contemplazione e del culto divino, interpretata come “visio pacis”). L’amore simulato delle donne-schermo è “bella difesa”; Dante incontra Amore pellegrino allontanandosi da Beatrice (“mi dilungava dalla mia beatitudine”); sessanta sono “le più belle donne della cittade” per le quali il poeta ha già composto “una pìstola sotto forma di serventese”, nel tempo in cui si era celato con la prima “gentil donna schermo della veritade” (Vita Nova, 2.8, 11 [v 3; vi 1]). Nel Cantico dei Cantici il numero sessanta designa le “reginae” (Cn 6, 7), quante cioè, congiunte a Dio nella carità, generano figli spirituali e reggono sempre in meglio i cinque sensi sotto il dodici, numero apostolico abbondante che cresce nelle sue parti divisibili. Designa anche i “forti”, che difendono la castità della sposa (Cn 3, 7-8). Altrove (Cn 4, 4) il “collo” della sposa, che è “medium” fra capo e corpo, viene assimilato alla torre di David, alla quale sono appesi mille scudi, cioè un numero perfetto per la difesa che indica anche “per memoriae diligentiam” gli esempi di perfezione dei santi. La prima donna-schermo, “bella difesa”, “mezzo era stata nella linea recta che movea dalla gentilissima Beatrice e terminava negli occhi miei”; a Dante viene voglia di “ricordare” i nomi delle sessanta donne.
Alle sessanta “reginae” di Cn 6, 7 si aggiungono le ottanta “concubinae” e le “adolescentulae” delle quali non è dato numero, poiché quanti seguono ancora le vanità adolescenziali non sono scritti e numerati nel “libro della vita”. Così, nel “libro della memoria” (che è appunto, il “liber vite” di Ap 20, 12), Dante tralascia di “soprastare alle passioni e acti di tanta gioventudine” per pervenire “a quelle parole le quali sono scripte nella mia memoria sotto maggiori paragrafi” (Vita Nova, 1.1, 11 [i 1; ii 10]). Se sessanta sono le “reginae”, “una” è detta la sposa in grado superlativo (Cn 6, 8): così, al termine del suo pellegrinaggio, il poeta “vede una donna che riceve onore” (Vita Nova 30.11 [xli 11]).
■ Cristo si presenta ai discepoli di Emmaus, ai loro occhi lacrimosi e semichiusi all’inizio del cammino contemplativo, sotto figure sensibili (“sub figuris quasi sensibilibus … valde peregrinis”). La sua umanità è infatti in qualche modo pellegrina rispetto alla divinità, che in questa vita può essere vista, come afferma san Paolo, solo “per speculum in enigmate” (1 Cor 13, 12). Le donne-schermo di Beatrice sono appunto “specula”. Poi Cristo simula di recarsi più lontano per non essere importuno e stimolare alle opere di misericordia, i due lo invitano a restare, egli spezza il pane e lo porge loro. Nell’ascesa contemplativa, tralasciate le figure sensibili, Cristo apre le proprie viscere e le dà in pasto alla virtù gustativa della mente (motivi trasferiti nella visione di Beatrice che mangia il cuore dell’amato a Vita Nova 1.15-17, 23 [iii 4-6, 12]). La verità, “relictis figuris”, inizia a essere intellettualmente riconosciuta, come avvenuto nei due discepoli che dapprima nel pellegrino non avevano riconosciuto Cristo. Amore ricompare nel sogno di Dante dopo che Beatrice gli ha negato il saluto in seguito alle chiacchiere sul suo rapporto con la nuova donna-schermo (Vita Nova 5.10-11 [xii 3-4]). Sta accanto al poeta “uno giovane vestito di bianchissime vestimenta”, che gli dice: «“Fili mi, tempus est ut pretermictantur simulacra nostra”. Allora mi parea che io il conoscessi … » – “Et tunc ueritas, relictis figuris, incipit intellectualiter et quasi in propria specie recognosci”, cioè il poeta, nel cammino della contemplazione, ha raggiunto uno stato più alto, intellettuale, non sensibile. Amore poi si definisce: “Ego tanquam centrum circuli, cui simili modo se habent circumferentie partes; tu autem non sic”. Ampiamente esposta in uno dei Principia in Sacram Scripturam di Olivi (De doctrina Scripturae), l’immagine di Cristo centro rispetto al cerchio, “mezzo” (cioè mediatore) la cui esemplare vita deve essere dalla nostra perfettamente imitata e partecipata e porsi come fine di ogni nostra azione, risulterà fondamentale nella Commedia, a cominciare dal primo verso. La stessa contemplazione è intesa come circolo, in quanto da Dio discende per ritornare alla superna Gerusalemme. Nel De doctrina Scripturae, come esempio della centralità di Cristo, si adducono le umili parole dette ai discepoli al momento della Cena, nella discussione su chi sia il più grande, riportate in Luca XXII, 27: “Ego autem in medio vestrum sum sicut qui ministrat”. Al versetto 26 Cristo afferma: “Vos autem non sic”, cioè non dovete essere come i governanti oppressori e quanti si fanno chiamare benefattori. Così Amore, “centrum circuli”, dice appropriando a Dante in modo diverso la citazione scritturale: “Tu autem non sic”.
■ L’esegesi oliviana di Luca XXIV, 13-35 non è stata “panno” solo per fare la “gonna” del sonetto Cavalcando con la relativa prosa (Vita Nova 4 [ix]). Vi è ritagliato anche il sonetto Deh, peregrini, che pensosi andate (Vita Nova 29 [xl].9-10). Le prerogative di Amore-Cristo pellegrino, presenti nel primo caso, vengono scomposte e travasate su più soggetti nella seconda, più tarda, composizione.
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La “coitineratio” di Cristo, “quasi peregrinus”, con i discepoli sulla via di Emmaus si trasforma nell’andare dei pellegrini a vedere la Veronica, figura di Cristo, contemplata da Beatrice in gloria: “in quel tempo che molta gente va per vedere quella ymagine benedecta la quale Gesocristo lasciò a.nnoi per exemplo della Sua bellissima figura, la quale vede la mia donna gloriosamente …│Deh, peregrini, che pensosi andate”.
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Cristo si presenta ai discepoli come se venisse di lontano: “se habuit quasi a remotis ueniens” – “Io vegno di lontana parte” (dice Amore); ora sono i romei ad apparire tali: “mi paiono di lontana parte│venite voi da sì lontana gente / (com’alla vista voi ne dimostrate)”.
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Cristo si rivolge ai discepoli come ad estranei, quasi ignaro dei loro discorsi (conversavano di quello che era accaduto, forse dubbiosi delle parole circa la resurrezione di Cristo dette dall’angelo alle tre donne al sepolcro): “Nam locutus est ad eos quasi ad extraneos, et quasi nesciens de quo loquerentur”; assente in Cavalcando, il motivo è parzialmente appropriato a Dante e riferito alla mente dei romei: “Deh, peregrini, che pensosi andate / forse di cosa che non v’è presente”.
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I pellegrini che vanno a Emmaus sono tristi perché pensano alla morte di Cristo: “Bene autem additur de tristitia, ad monstrandum quod confortatore egebant, et etiam quod confortari promerebantur, quia de Christi morte dolebant”. Amore pellegrino “mi parea sbigottito e guardava la terra│come avesse perduta signoria; / e sospirando pensoso venia”; la tristezza assale anche Dante: “E tutto ch’io fossi alla compagnia di molti, quanto alla vista l’andare mi dispiacea sì, che quasi li sospiri non poteano disfogare l’angoscia che ’l cuore sentia, però ch’io mi dilungava dalla mia beatitudine.│pensoso dell’andar che mi sgradia”. L’incontro con Amore pellegrino in Vita Nova 4 [ix] è preceduto (Vita Nova 3 [viii]) dall’episodio della morte della compagna di Beatrice: “il lamento per lei è una sorta di anticipazione, in tono minore, del futuro compianto per Beatrice” [4]. Anche i romei vanno pensosi, su di essi Dante vuole trasferire l’angoscia sua e della “dolorosa cittade”: “che non piangete quando voi passate / per lo suo mezzo la città dolente … Ell’à perduta la sua beatrice”.
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Amore pellegrino, cioè Cristo mediatore tra Dio e gli uomini, si fa trovare “in mezzo della via”; i pellegrini che vanno a Roma per vedere la sua benedetta immagine passano “per lo suo mezzo la città dolente”.
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I discepoli si rivolgono a Cristo pellegrino; ora è il poeta che parla a quelli che vanno a vedere il volto di Cristo: “quasi ad peregrinum loquuntur – propuosi di dire come se io avessi parlato a.lloro; e dissi questo sonetto, lo quale comincia Deh, peregrini”.
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I discepoli dicono a Cristo: «“Tu solus peregrinus es in Ierusalem?” Ex hoc uidetur quod Christus tunc eis uidebatur de Ierusalem illo die uenire sicut et ipsi, et est sensus: ita famosa et manifesta sunt illa que circa Christum ibi nudius tertius contigerunt, quod etiam peregrini tunc ibidem existentes, aut ibi postmodum uenientes, hoc nequeunt ignorare». Dante si rivolge ai romei: “come quelle persone che neente / par che ’ntendesser la sua gravitate?”. Una simile domanda gli era stata rivolta quando “lo ymaginar fallace / mi condusse a veder madonna morta” in Donna pietosa e di novella etate: “Or non sai? la tua mirabile donna è partita di questo secolo.│… Che fai? non sai novella? / mort’ è la donna tua, ch’era sì bella” (Vita Nova 14 [xxiii].5, 24).
■ Il campo di scavi si è esteso. Il confronto con l’esegesi oliviana del Cantico dei Cantici non conduce solo all’episodio della Donna Gentile (o Pietosa), scritto nella fase finale della redazione della Vita Nova (1294-1296) [5], ma anche ad altri luoghi dell’opera. Non si tratta, poi, solo del commento al libro salomonico, ma anche della Lectura super Lucam [6]. Sono coinvolti due sonetti presumibilmente fra i più antichi, poi accolti nel “libello”: A ciascun’alma presa e gentil core (inizio dell’amicizia con Cavalcanti) e Cavalcando l’altrier per un camino [7]. In entrambi i casi, temi della poesia cortese (il cuore mangiato nel primo [8], la pastorella di Giraut de Borneil nel secondo [9]) si sposano con l’esegesi scritturale, del Cantico o di Luca. Ci si chiede se l’esegesi sia intervenuta solo nella stesura della prosa o anche delle rime più antiche e in quale momento, il che sembra dubbio per A ciascun’alma, assai più verosimile per Cavalcando. Ancora, se la scelta delle rime da inserire nella Vita Nova non sia stata fatta in base alla maggior concordia di alcune rispetto ad altre con l’esegesi assunta come canovaccio da parodiare. Ciò spiegherebbe, ad esempio, l’esclusione della canzone E’ m’incresce di me sì duramente, riferita sì all’apparizione della donna, ma “a una Beatrice troppo donna, non ancora sublimata” [10].
[1] PETRI IOHANNIS OLIVI Lectura super Lucam, ed. crit. a cura di FORTUNATO IOZZELLI, Ad Claras Aquas, Grottaferrata 2010 (Collectio Oliviana, V), pp. 649-668.
[2] SANTAGATA, pp. 158-160.
[3] Vita Nova, pp. 249-250.
[4] Ibid., p. 249.
[5] SANTAGATA, p. 118.
[6] Le ipotesi sulla datazione della Lectura super Lucam coprono un arco di tempo così ampio (fra il 1279-1280 e il 1295) che nulla esclude che fosse già stata scritta quando Olivi giunse a Firenze: cfr. IOZZELLI, pp. 41-42. Il confronto con la Vita Nova mostra con certezza che fu redatta prima del 1289, quando Olivi si trasferì a Montpellier.
[7] SANTAGATA, pp. 144-153, 157-161.
[8] Vita Nova 1.17, p. 20, nt. a ella mangiava.
[9] SANTAGATA, pp. 158-160.
[10] DANTE ALIGHIERI, Rime, a cura di GIANFRANCO CONTINI, Torino 1939 e 1995, p. 60 (cit.); SANTAGATA, pp. 146-147.
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3. “Chi è costui che vene?”
L’esclamazione ammirativa “Quae est ista quae ascendit?” compare tre volte nel Cantico dei Cantici, in conclusione delle tre parti principali del libro salomonico, a sottolineare i tre stadi dell’ascesa contemplativa: Cn 3, 6; 6, 9; 8, 5. La fiamma d’Amore è radice, rami e frutti dell’albero della contemplazione e delle sue mirabili visioni.
■ Nel primo stadio (Cn 3, 6) la sposa ascende “per desertum”, cioè per un luogo solitario; “sicut virgula fumi”, come colonna di fumo, perché Dio si manifesta solo in una nuvola: la “caligo ignis” nella quale Mosè vide Dio, la “nebula” attraverso la quale il pontefice deve entrare nel santuario (Levitico 16, 2). Il passaggio dalle cose sensibili a ciò che è intellettuale avviene “virtute ignis liquefactivi et resolutivi … ex incensione ignea”.
Dante, ricevuto il primo saluto di Beatrice, si ritira nella sua camera (“mi partio dalle genti, e ricorso al solingo luogo d’una mia camera”); sopraggiunto dal sonno, ha una “maravigliosa visione. Che mi parea vedere nella mia camera una nebula di colore di fuoco, dentro alla quale io discernea una figura d’uno signore, di pauroso aspecto a chi la guardasse; e pareami con tanta letitia quanto a.ssé, che mirabile cosa era; e nelle sue parole dicea molte cose, le quali io non intendea se non poche, tra le quali io intendea queste: ‘Ego Dominus tuus’” (Vita Nova 1.13-14 [iii 2-3]). Amore gli appariva come Dio si manifestò a Mosè.
Nelle braccia di Amore dormiva nuda la donna della salute, “e nell’una delle mani mi parea che questi tenesse una cosa la quale ardesse tutta; e pareami che mi dicesse queste parole: ‘Vide cor tuum!’”. Poi svegliava la donna e “le facea mangiare questa cosa che in mano li ardea, la quale ella mangiava dubitosamente” (Vita Nova 1.15-17 [iii 4-6]). Il cuore ardente è consono al fuoco liquefattivo della prima fase contemplativa; è comunque da ricondurre alle parole dei discepoli che hanno incontrato Cristo sulla via di Emmaus: “Nonne cor nostrum ardens erat in nobis, dum loqueretur nobis in via et aperiret nobis scripturas?” (Luca XXIV, 32). Passo citato da Olivi a Cn 5, 6, dove la sposa lamenta la scomparsa del suo diletto. Anche in questo caso si tratta degli inizi del percorso contemplativo. Come la sposa si mostra dubbiosa nell’aprire allo sposo che le parla (“aperire distulit quasi dubitans”; Beatrice si pasce del cuore “dubitosamente”), e poi si accerta sentendo la propria anima liquefarsi, così i discepoli non riconoscono dapprima Cristo ma poi, dopo la sua improvvisa sparizione, ne sono consapevoli rammentando l’ardore provato nel cuore alle sue parole. Nella contemplazione, per quanto alta, la mente non deve presumere, ma umiliarsi e temere (“ut mens quantumcumque alta addiscat non praesumere, sed humiliari et ut in his quae caute egit, formidet aliquam culpam sibi absconsam inesse”); nel sonetto A ciascun’alma presa e gentil core, che la prosa spiega con maggiore elaborazione dell’esegesi, si dice di Beatrice: “e d’esto core ardendo / lei paventosa umilmente pascea” (anche Amore nella nuvola è “di pauroso aspecto a chi la guardasse”). Per inciso è da ricordare che, prima di scomparire, Cristo ha spezzato il pane e lo ha dato ai discepoli incontrati sulla via di Emmaus: il pane della sua umanità spezzato per la passione e morte, come spiega Olivi glossando Luca XXIV, 30.
Dal fumo esalano mirra e incenso. La mirra, che è amara, designa l’“amaritudo compunctionis et mortificationis et compassionis”. La letizia iniziale di Amore “si convertia in amarissimo pianto”; prendeva la donna fra le braccia e pareva andarsene verso il cielo (Vita Nova 1.18 [iii 7]). Il primo stadio della contemplazione è lieto: “prae nimia exultatione non valente se intra se nec infra mensuram suorum communium limitum continere”. Ma alla letizia è accostata la mirra amara, che designa compunzione, mortificazione, compassione. Il pianto di Amore, considerato che il cuore ardente rinvia a Luca XXIV, 32, può forse anche rammentare il pianto di Cristo su Gerusalemme di Luca XIX, 41-42. Come Gerusalemme sarà distrutta dai Romani, così Firenze, per la morte di Beatrice, sarà “quasi vedova dispogliata da ogni dignitade” (Vita Nova 19.8 [xxx 1]; a 5.11 [xii 4] Amore-Cristo piangerà “pietosamente” prima di definirsi “centrum circuli”, in un contesto che attinge ancora al Vangelo di Luca).
Nei primordi dell’ascesa contemplativa, accanto alla mirra, l’incenso designa la preghiera (“devotio orationis”). Olivi adduce due passi dell’Apocalisse ai quali rinvieranno numerosi luoghi della Commedia : le coppe (“phialae”) auree in mano ai seniori di Ap 5, 8 e l’offerta sull’altare delle preghiere di Ap 8, 3. La prosa di Vita Nova 1.20 [iii 9] termina con la preghiera ai “famosi trovatori in quel tempo”, i “fedeli d’Amore … pregandoli che giudicassero la mia visione”, riassunta nel sonetto A ciascun’alma presa e gentil core.
■ Il secondo stadio dell’ascesa contemplativa è segnato dalla luce – “sub metaphora luminis ascendentis seu excrescentis usque ad summum” (Cn 6, 9). Le “mirae illuminationes” nell’“ascensus sponsae” vengono espresse con la luce del sole (“sicut sol”, in forma graduale: aurora, luna illuminata, sole); la sposa stessa viene definita “terribilis ut castrorum acies ordinata”, inciso con il quale sono compresi tutti i pianeti e le stelle illuminati da un’unica luce solare. La mente, per l’altezza delle cose viste e mirate, esce alienata fuor di sé (“prae nimietate admirationis visionum et apprehensionum stupendarum mentem totaliter suspendentium in res visas et miras et per quandam excessivam obstupefactionem ipsam alienantium a seipsa”).
Nel sonetto Oltre la spera che più larga gira (Vita Nova 30 [xli].10-13), oltre i pianeti e le stelle, il poeta “vede una donna che riceve onore, / e luce sì, che per lo suo splendore / lo peregrino spirito la mira” (se sessanta sono le “reginae”, “una” è detta la sposa in grado superlativo: Cn 6, 8). La mente, uscita di sé stessa nell’eccesso, al ritorno non ricorda più: “Vedela tal, che quando ’l mi ridice, / io no.llo ’ntendo”. Nella prosa si precisa l’ascesa contemplativa e si introduce l’immagine del sole: “dico come elli la vede tale, cioè in tale qualitate, che io no.llo posso intendere, cioè a dire che lo mio pensero sale nella qualità di costei in grado che lo mio intellecto nol può comprendere; con ciò sia cosa che lo nostro intellecto s’abbia a quelle benedecte anime sì come l’occhio debole al sole: e ciò dice lo Phylosofo nel secondo della Metafisica” (Vita Nova 30 [xli].6) [1].
■ Il terzo e ultimo grado dell’ascesa contemplativa segna il transito da questa vita all’altra (Cn 8, 5). L’“excessus mentis” diventa “ebrietas mentis”, dominata dal gusto d’amore, dolce e consolatore: “prae nimietate dulcoris et gaudii mentem inebriantis et nihil aliud sentire aut cogitare sinentis nisi solum dilectum et iucunditatem sui solacii ac tenerrimi et superdulcis amoris”.
Questi temi sono espressi nelle due quartine del sonetto Gentil pensero che parla di voi (Vita Nova 27 [xxxviii].8-9), riferite alla Donna Gentile: «e ragiona d’amor sì dolcemente … L’anima dice al cor: “Chi è costui, / che vene a consolar la nostra mente, / ed è la sua virtù tanto possente, / ch’altro penser non lascia star con noi?”», dove Chi è costui riprende Quae est ista di Cn 8, 5.
L’albero della contemplazione, dai rami espansi, ha prodotto i frutti. Nella mirabile visione, lo sposo viene visto nella sua piena maturità. Di lui è stato detto alla madre: “Benedetto il frutto del tuo grembo” (Luca 1, 42) («Et hic est sponsus in sua expressa et plena forma et maturitate inventus. Hic est enim de quo matri dictum est: “Et benedictus fructus ventris tui”»).
L’accostamento del “benedictus” alla “mirabilis visio” è al termine della Vita Nova, quando appare a Dante “una mirabile visione, nella quale io vidi cose che mi fecero proporre di non dire più di questa benedecta infino a tanto che io potessi più degnamente tractare di lei”. Il poeta si impegna per rendere il suo dire pienamente maturo: “E di venire a.cciò io studio quanto posso, sì com’ella sae, veracemente”. Una trattazione più “temperata e virile”, che non deroghi al libello ma anzi giovi a quell’opera “fervida e passionata … all’entrata de la mia gioventute …” (Convivio I, i, 16-17).
L’esclamazione del Cantico dei Cantici “Quae est ista quae ascendit?” è parodiata anche da Guido Cavalcanti in Chi è questa che vèn. Se Cavalcanti fu il destinatario della Vita Nova (19.10 [xxx.3]), come poté accogliere un’opera pregna, ben oltre la limitata parodia del suo sonetto, di temi salomonici e della loro esegesi francescana? La reminiscenza della risposta data dal “primo delli miei amici” al sonetto Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io (S’io fosse quelli che d’amor fu degno) traspare in controluce, in ben altro contesto spirituale, con ben altra guida, in Purg. XXI, 19-24.
[1] Il tema, topico nelle fiorentine “scuole delli religiosi” (cfr. DELL’OSO, pp. 10-16), concorda con il percorso contemplativo esposto nell’esegesi biblica.
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4. “Apparve prima la gloriosa donna della mia mente”
Effetto degli occhi micidiali e feri oppure piani, soavi e dolci della donna della salute o dall’angelica figura, il contrasto tra la paura che fa tremare lo spirito e venir meno la vita e il successivo riconfortarsi, tra il martirio e la pietà, è tema frequentissimo negli stilnovisti.
L’apparizione dell’angelo a Zaccaria in Luca 1, 11ss. provoca nel sacerdote una condizione psicologica messa a fuoco dall’Olivi nella Lectura super Lucam. Zaccaria è ‘turbato’, cioè atterrito, viene preso da un timore improvviso, rapido e impetuoso, che opprime le forze, assale potente dall’alto e sottomette al proprio dominio. A una visione così subitanea, insolita e troppo trascendente, dall’aspetto terribile e quasi intollerabile, si spaventano i sensi e la fantasia, per natura infermi e pusillanimi. Lo Spirito, che si manifesta nella specie assunta, agita occultamente, come vuole, il cervello, i nervi, le viscere e tutti i sensi dell’uomo, scuote e opprime quanto e come gli piace. Così egli imprime in modo più forte l’esperienza vera della sua apparizione, umilia il cuore di chi vede e umiliandolo lo dispone alle cose alte e divine: l’uomo alienato da sé stesso per il terrore e privo di forze sente dapprima la forza e la severità della virtù superna; poi, per i conforti e le consolazioni che seguono, sente meglio la dolcezza, la pietà, la clemenza e la soavità. A Zaccaria viene detto pertanto di non temere (Lc 1, 13), perché la sua preghiera, di avere il Salvatore, è stata esaudita e la moglie Elisabetta gli darà un figlio che egli chiamerà Giovanni. L’angelo che appare a Zaccaria si palesa come Gabriele (Lc 1, 19), che viene interpretato “fortitudo Dei”, e dice al vecchio sacerdote: “Ed ecco, sarai muto e non potrai parlare fino al giorno in cui queste cose avverranno, perché non hai creduto alle mie parole, le quali si adempiranno a loro tempo” (Lc 1, 20). Il diventare muto di Zaccaria è figura del tacere della vecchia legge, carnale e letterale, fino al momento in cui, con la venuta di Cristo, viene aperto l’intelletto spirituale [1].
L’effetto dell’apparizione di Gabriele a Zaccaria è il medesimo provocato in Dante dall’apparizione dell’“angiola giovanissima” Beatrice: lo spirito della vita, che dimora nel cuore, comincia a tremare fortemente, il che appare “nelli menomi polsi orribilmente”, e tremando dice “Ecce Deus fortior me, qui veniens dominabitur michi!” (Vita Nova 1.5 [ii 4]). Da allora Amore signoreggia a suo piacere l’anima del poeta, a lui sposata (1.8 [ii 7]) [2].
Tremare e ammutolire – “ch’ogne lingua deven tremando muta” – sono effetti dell’apparizione di Beatrice, donna della salute, in Tanto gentile e tanto onesta pare (Vita Nova 17 [xxvi].5).
Si potrebbe risalire fino alla sorgente delle “nove rime”. Di essa scrive il Gorni:
Ma la lingua non si scioglie e l’ispirazione tarda: la nuova poesia non è figlia della volontà, che pure la prepara, e neppure di quell’inesauribile ragionar di sé stesso e dei propri dolori. Il verso risolutivo, cominciamento del nuovo stile, è un dono travolgente e improvviso, forte come il fiato divino della grazia: la mia lingua parlò quasi come per sé stessa mossa e disse: “Donne ch’avete intellecto d’Amore” […] Non l’angelo dell’Annunciazione reca quelle decisive parole, né altra voce dall’alto; eppure la reazione del poeta è quella stessa di Maria al cospetto di Gabriele, nel racconto del vangelo di Luca: Queste parole io ripuosi nella mente con grande letitia, pensando di prenderle per mio cominciamento […] [3].
Il riferimento non è tanto all’Annunciazione, quanto alla facoltà di parlare data al muto e tremefatto Zaccaria, nell’imporre al figlio il nome Giovanni, dopo averlo scritto su una tavoletta (Luca 1, 63-64). Il nome viene dettato interiormente, segno di lode a Dio e nello stesso tempo di apertura all’intelligenza spirituale di molti Giudei. Non è casuale che sul versetto successivo (Lc 1, 65: “et super omnia montana Iudeae divulgabantur omnia verba haec”), come sottolineato dal Gorni, sia ricalcata l’espressione “Apresso che questa canzone fue alquanto divulgata tra le genti” (Vita Nova 11 [xx].1) [4].
La reazione evocata dal Gorni, la stessa di Maria in cospetto di Gabriele, opera altrove, in Dante muto di stupore nel contemplare, nell’Empireo, i gradi del “sicuro e gaudïoso regno”. I versi di Par. XXXI, 37-39, con la triplice antitesi – “ïo, che al divino da l’umano, / a l’etterno dal tempo era venuto, / e di Fiorenza in popol giusto e sano” -, conducono ad altra opera dell’Olivi, la prima quaestio de domina (de consensu virginali pro Annuntiatione). Ivi il francescano spiega su un piano psicologico il passaggio della Vergine dallo stato precedente la maternità al nuovo stato incominciato con l’assenso dato alla divina concezione. Come nel venire a un alto stato religioso, o nell’ascendere al culmine della contemplazione dalla vita attiva, o nel passare all’altra vita da questo secolo, un fedele prova un’ardua trascendenza, un estraniarsi e un’inusitata novità che pervadono di stupore ogni sentimento, e per questo si sente come morire al suo stato precedente, tanto più Maria, nell’ora dell’assenso, provò quasi un ineffabile morire al suo stato precedente passando a uno stato sovramondano e a una regione inusitata, nella quale doveva venire assorbita in modo radicale e irrevocabile dagli eccelsi abissi degli arcani divini. Di tutti i sentimenti provati dalla Vergine e fatti propri dal poeta, che perviene a ricrearsi “nel tempio del suo voto riguardando”, solo il morire non è espresso in modo esplicito. Anche lo straniarsi è reso col vagheggiare Arcade da parte della madre Elice, entrambi mutati da Giunone e trasformati nel superiore stato di costellazioni (le due Orse). Nella descrizione del “ciel ch’è pura luce”, si insinua dunque il motivo del consenso dato dalla Vergine all’opera della Redenzione, così come presentato dall’Olivi.
A Gabriele il quale, nell’alto preconio di Maria, riferisce umilmente ogni lode a Dio, è da riportare anche il tono del parlare di Salomone a Par. XIV, 34-37: “E io udi’ ne la luce più dia / del minor cerchio una voce modesta, / forse qual fu da l’angelo a Maria, / risponder …” [5].
Se Dante aveva presente il commento a Luca di Olivi nel redigere la prosa di Vita Nova 1.5-8, che narra dell’apparizione di Beatrice, si comprende perché abbia scartato la canzone E’ m’incresce di me, concludendo invece il paragrafo con il sonetto A ciascun’alma, che meglio si inseriva nelle maglie dell’armatura esegetica. Nella canzone Dante afferma di aver ‘profeticamente’ provato, nel giorno della nascita di Beatrice, gli effetti degli “occhi micidiali” della donna che gli sarebbe poi apparsa nella sua bellezza: la paura, la luce ch’atterra, il tremore simile a morte [6]. Anche Zaccaria provò dapprima questi sentimenti all’apparizione dell’angelo, ma fu poi confortato in modo dolce e soave. Il salutare di Beatrice fa sì “ch’ogne lingua deven tremando muta”, ma poi “… dà per gli occhi una dolcezza al core”.
[1] L’imposizione di tacere e l’autorizzazione a parlare hanno rilievo nella Commedia, secondo quanto viene detto nell’Apocalisse a Giovanni, dapprima di non riferire la visione (Ap 10, 4) e poi di divulgarla (Ap 22, 10); al vescovo di Filadelfia, la sesta chiesa d’Asia, è data la porta aperta al parlare (Ap 3, 8).
[2] Il contrasto tra l’arditezza della visione, che genera in chi vede tremore e mutazione interiore, e il successivo riconfortarsi è, nella Lectura super Apocalipsim, proprio dell’esegesi di Ap 1, 16-17 (prima visione: decima, undecima e dodicesima prerogativa di Cristo sommo pastore). Dello “splendor faciei” di Cristo (Ap 1, 16-17), che si trasforma nel divino riso di Beatrice, e del rapporto tra umano e divino nella donna, si è già diffusamente trattato.
[3] Vita Nova, p. 257.
[4] Cfr. Ibid., p. 106, nt. a divulgata tra le genti (divulgata è un hapax in Dante).
[5] Sull’equivoca figura di Salomone cfr. quanto scritto altrove.
[6] SANTAGATA, pp. 146-147.
Tab. IV.1
PETRI IOHANNIS OLIVI Lectura super Lucam [ = LSL] I, 11-13, 19-20, 25, pp. 175-177, 180-181, 184<11> “Apparuit autem illi angelus Domini stans a dextris altaris incensi” […]
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Vita Nova 1.2-10, 13 [ii 1-9; iii 2][2] Nove fiate già apresso lo mio nasci-mento era tornato lo cielo della luce quasi a uno medesimo puncto quanto alla sua propria giratione, quando alli miei occhi apparve prima la gloriosa donna della mia mente, la quale fu chiamata da molti Beatrice, li quali non sapeano che si chiamare. [3] Ella era già in questa vita stata tanto, che nel suo tempo lo Cielo Stellato era mosso verso la parte d’oriente delle dodici parti l’una d’un grado, sì che quasi dal principio del suo anno nono apparve a me, e io la vidi quasi dalla fine del mio nono. [4] Apparve vestita di nobi-lissimo colore umile e onesto sanguigno, cinta e ornata alla guisa che alla sua giovanissima etade si convenia. [5] In quel puncto dico veracemente che lo spirito della vita, lo quale dimora nella secre-tissima camera del cuore, cominciò a tremare sì fortemente, che apparia nelli menomi polsi orribilmente; e tremando disse queste parole: «Ecce Deus fortior me, qui veniens dominabitur michi!». [6] In quel puncto lo spirito animale, lo quale dimora nell’alta camera nella quale tutti li spiriti sensitivi portano le loro perce-ptioni, si cominciò a maravigliare molto, e parlando spetialmente alli spiriti del viso, disse queste parole: «Apparuit iam beati-tudo vestra!». [7] In quel puncto lo spirito naturale, lo quale dimora in quella parte ove si ministra lo nutrimento nostro, cominciò a piangere, e piangendo disse queste parole: «Heu, miser, quia frequen-ter impeditus ero deinceps!». [8] D’allora innanzi, dico che Amore segnoreggiò la mia anima, la quale fu sì tosto a.llui disponsata, e cominciò a prendere sopra me tanta sicurtade e tanta signoria per la virtù che li dava la mia ymaginatione, che me convenia fare tutti li suoi piaceri compiutamente. [9] Elli mi comandava molte volte che io cercassi per vedere questa angiola giovanissima; onde io nella mia pueritia molte volte l’andai cercando, e vedeala di sì nobili e laudabili portamenti, che certo di lei si potea dire quella parola del poeta Homero: «Ella non parea figliuola d’uomo mortale, ma di Dio». [10] E avegna che la sua ymagine, la quale continuatamente meco stava, fosse baldanza d’Amore a signoreggiare me, tuttavia era di sì nobilissima virtù, che nulla volta sofferse che Amore mi reggesse sanza lo fedele consiglio della Ragione in quelle cose là dove cotale consiglio fosse utile a udire. […] [13] L’ora che lo suo dolcissimo salutare mi giunse, era ferma-mente nona di quel giorno. E però che quella fu la prima volta che le sue parole si mossero per venire alli miei orecchi, presi tanta dolcezza, che come inebriato mi partio dalle genti, e ricorso al solingo luogo d’una mia camera, puosimi a pen-sare di questa cortesissima.Vita Nova 17 [xxvi].5Tanto gentile e tanto onesta pare
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LSL I, 63-66, pp. 232-234<63> “Et postulans pugillarem”, id est tabellulam uel calamum siue pennam: utrumque enim dicitur pugillaris, quia pugillo scriptoris tenetur. “Iohannes est nomen eius”: non dixit erit, sed “est”, quasi dicat secundum Ambrosium: «Non ei nos nomen imponimus, quia iam a Deo nomen accepit». “Et mirati sunt uniuersi”, “mirati” scilicet tam de insolita singularitate impo-sitionis nominis, quam de hoc quod pater mutus et surdus cum matre circa nomen pueri concordauit. Secundum autem Chryso-stomum, quia per supernaturale miraculum gratie potius quam priori uirtute nature fuerat eis datus, idcirco congruum fuit eum non uocari aliquo nomine sui generis naturalis, sed potius nomine gratiam designante.
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Vita Nova 10.11-13 [xviii 9, xix 1-2][11] E però propuosi di prendere per matera del mio parlare sempre mai quello che fosse loda di questa gentilissima; e pensando molto a.cciò, pareami avere impresa troppo alta matera quanto a me, sì che non ardia di cominciare. E così dimorai alquanti dì, con disiderio di dire e con paura di cominciare. [12] Avenne poi che passando per uno camino lungo lo quale sen gia uno rivo chiaro molto, a me giunse tanta volontà di dire, che io cominciai a pensare lo modo che io tenessi; e pensai che parlare di lei non si convenia che io facesse, se io non parlassi a donne in seconda persona, e non a ogni donna, ma solamente a coloro che sono gentili e che non sono pure femine. [13] Allora dico che la mia lingua parlò quasi come per sé stessa mossa e disse: «Donne ch’avete intellecto d’amore».Vita Nova 11 [xx].1-2Apresso che questa canzone fue alquanto divulgata tra le genti, con ciò fosse cosa che alcuno amico l’udisse, volontade lo mosse a pregare me che io li dovessi dire che è Amore, avendo forse per l’udite parole speranza di me oltre che degna. [2] Onde io, pensando che apresso di cotale tractato bello era tractare alquanto d’Amore, e pensando che l’amico era da servire, propuosi di dire parole nelle quali io tractassi d’Amore; e allora dissi questo sonetto, lo quale comincia Amore e ’l cor gentile.Par. XIV, 34-37E io udi’ ne la luce più dia
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5. “Incipit Vita Nova”
■ Dante aveva a disposizione i testi della grande tradizione di interpretazione spirituale del Cantico dei Cantici avviata con Origene: da Bernardo di Clairvaux ai Vittorini – Ugo, Riccardo e Tommaso Gallo. Tradizione nella quale Olivi si inserisce per sua esplicita ammissione [1]. Ma se il passo di Gregorio Magno, sopra esaminato, sulle tentazioni finali dell’Anticristo è peculiare dell’Olivi (in un’opera dove, in modo inconsueto, il frate non utilizza in modo sistematico le categorie dei sette stati della Chiesa), e se su di esso Dante ha tessuto la trama della Donna Gentile (o Pietosa) della Vita Nova, come poi, ritrovatolo nella Lectura super Apocalipsim, vi avrebbe tessuta la ‘gentile’ Francesca, allora non è inverosimile che l’intero commento oliviano al Cantico dei Cantici abbia svolto un ruolo traente e di apporto dei temi di quella tradizione. In modo non dissimile, come dimostra il confronto tra i testi, la Lectura super Apocalipsim è stata filtro per il poeta di non pochi autori, primi fra tutti Riccardo di San Vittore [2] e Gioacchino da Fiore. Di conseguenza, acquistano significato confronti come quelli qui proposti.
Fin dal principio, la Vita Nova è pregna di elementi semantici che recano al “libello” temi salomonici:
Si igitur quaeras libri huius materiam, ipsa est nuptialis amor Dei et animae seu universalis ecclesiae sibi desponsatae [Cn prologus] – Amore segnoreggiò la mia anima, la quale fu sì tosto a.llui disponsata … [Vita Nova 1.8 (ii.7)].
apparent eius propagines crescere in gemmas ac deinde in flores [Cn prologus] … “Flores apparuerunt in terra nostra” [Cn 2, 12] … in mente sponsae vel in ecclesia incipiunt apparere novi “flores” – apparve prima la gloriosa donna della mia mente … sì che quasi dal principio del suo anno nono apparve a me … Apparve vestita di nobilissimo colore … [Vita Nova 1.2-4 (ii.1-3)].
[Cn 2, 11] appropinquatio solis … divinae visitationis solaris adventus … sic pro tempore Christi Apostolus clamat: “Nox praecessit, dies autem appropinquavit” (Rom 13, 12) et: “Ecce nunc tempus acceptabile, ecce nunc dies salutis” (2 Cor 6, 2) – nell’ultimo di questi dì avenne che questa mirabile donna apparve a me … mi salutòe virtuosamente tanto … E quando ella fosse alquanto propinqua al salutare … [Vita Nova 1.12 (iii.1), 5.5 (xi.2)].
Motivi che, come è noto [3], si ritroveranno nell’Epistola V, indirizzata (dopo il 1° settembre 1310) ai Signori d’Italia affinché gli “incole Latiales” sorgano incontro al proprio sposo Arrigo VII. Non sono neppure estranei al primo canto del poema, nella salita del “dilettoso monte” piena di primaverili speranze prima della perdita dell’“altezza” (Inf. I, 37-45).
[Cn 1, 1] “Quia meliora sunt ubera tua vino”, quasi dicat: praedictam tui unionem sic desidero, quia ineffabilis exuberantia suavitatum a te manat … [Cn 7, 12] “Ibi dabo tibi ubera mea” id est: ibi in filiis tuis lac ipsorum in te et tui in ipsis nutritivum libere propinabo. Tunc enim animarum rectores libenter salutarem doctrinam eis infundunt, quando ipsos debite proficere et Dei gratiam et providentiam eis abunde cooperari et assistere vident. Vel: “Ibi dabo tibi ubera mea”, id est: tunc cum hoc videro totam dulcedinem cogitatuum et affectuum pectoris mei, in te prae gaudio et devotione cum gratiarum actione effundam … – e per la sua ineffabile cortesia, la quale è oggi meritata nel grande secolo, mi salutòe virtuosamente tanto, che mi parve allora vedere tutti li termini della beatitudine. L’ora che lo suo dolcissimo salutare mi giunse, era fermamente nona di quel giorno [Vita Nova 1.12-13 (iii.1-2)].
Se Dante ha tessuto il “libello” sul panno dell’Expositio oliviana, allora vita nova, oltre al senso paolino, cioè della vita secondo Cristo illuminata dalla grazia di Beatrice [4], significa anche ‘Amore nuovo’:
[Cn prologus, p. 94] Si igitur quaeras libri huius materiam, ipsa est nuptialis amor Dei et animae seu universalis ecclesiae sibi desponsatae, et hic amor per vitem optime designatur. Amor enim vita quaedam est; unde Hugo De Arrha Sponsae: “Scio” – inquit – “anima mea, quia vita tua amor est” [5]. Et Augustinus nono De Trinitate dicit quod “amor est vita duo quaedam copulans aut copulare appetens, scilicet amantem et amatum” [6]. Et Christus Lucae decimo loquendo de mandato divini amoris subiunxit: “Hoc fac et vives” (Lc 10, 28).
[Cn prologus] Amor enim vita quaedam est … [Cn 2, 11-12] Veris ergo temperies et serenitas de se grata, sed propter praeeuntem pressuram hiemis et propter suam novitatem gratiosior … in mente sponsae vel in ecclesia incipiunt apparere novi “flores” – Incipit Vita Nova. [Vita Nova 1.1].
■ I motivi dei fiori (i concetti radiosi, sinceri e graziosi della contemplazione divina sui quali la sposa, languida di desiderio e sospirante, vuole giacere e appoggiare il capo e il corpo: Cn 2, 5), dei fiori nuovi che appaiono sulla terra e del nuovo sospiro della tortora (Cn 2, 12), dell’avvento angelico paragonato a un cerbiatto “quia venit sub modo et affectu supramodum humili ac simplici et tenello” (Cn 2, 8-9), del mettersi al nostro interno per sottili aditi, percorrono come cellule musicali due ballate: Per una ghirlandetta, che è la prima ballata di Dante (Rime, 10 [lvi]), e I’ mi son pargoletta bella e nova (34 [lxxxvii]).
“Flos”, nota Olivi a Cn 2, 1 (“Ego flos campi et lilium convallium”), traduce un termine ebraico che significa “viola”, designante l’umiltà. Ecco che gli stessi temi sopra indicati (con l’aggiunta della speranza di beni futuri indotta dai fiori) si mostrano in controluce nella ballata Deh, Vïoletta, che in ombra d’Amore (Rime, 12 [lviii]). Ancora una volta il tessuto esegetico congiunge due donne, la Fioretta della prima ballata e, appunto, Violetta. Reminiscenze e ulteriori variazioni su Cn 2, 3 (“Sub umbra illius”) si ritrovano nella ‘petrosa’ invernale sestina Al poco giorno e al gran cerchio d’ombra (Rime, 44 [ci]) [7].
■ Con esclusivo riferimento a Cn 2, 11-12, a luoghi cioè che sembrano fortemente segnare l’inizio della Vita Nova, si è operato un duplice confronto del testo dell’Olivi (altri confronti sono ovviamente possibili). Da una parte con le Postille al Cantico di Remigio de’ Girolami [8], il domenicano che insegnava a Santa Maria Novella allorché Dante andò, dopo la morte di Beatrice, alle “scuole delli religiosi e alle disputazioni delli filosofanti” (Convivio, II, xii, 7): in questo caso, i due testi sono assai distanti. Dall’altra con i Sermones di san Bernardo, che mostrano quanta tradizione sia passata in Olivi. Ma in Bernardo non c’è la dimensione escatologica, di prova e di sofferenza, data dal francescano all’esegesi del libro salomonico, della quale è esempio il passo dei Moralia di Gregorio Magno su Giobbe 40, 12 utilizzato a Cn 8, 2, assente nel “doctor marianus”, almeno nei sermoni pervenuti [9]. La citazione paolina “Ecce nunc tempus acceptabile, ecce nunc dies salutis” (2 Cor 6, 2), è in Bernardo legata al “tempus putationis” [10], cioè al momento idoneo in cui l’anima o le chiese, che sono come vigne intellettuali, si spogliano dei vizi, piuttosto che a una fase nuova e inusitata della Chiesa. Salomone prefigura, secondo Olivi, il primo avvento di Cristo e, anche se non è esplicitamente detto, il secondo avvento nello Spirito proprio del sesto stato della Chiesa (il tempo di Olivi e di Dante): “Et sic de similibus temporibus consimilia intuere”. Passarono le oscurità al tempo dell’antico re, sono passate quelle della Sinagoga, passeranno anche quelle moderne. Il versetto “Vox turturis audita est in terra nostra” (Cn 2, 12c) è per il francescano chiamata al combattimento per l’apertura del sesto sigillo, come dimostra la citazione nella lettera spirituale (18 maggio 1295) ai tre figli di Carlo II d’Angiò prigionieri dal 1288 degli Aragonesi per scambio col padre [11]. Dei quattro figli di Carlo II – Carlo Martello, Ludovico, Roberto e Raimondo Berengario – il primo fu subito sostituito nella prigionia dal quartogenito; venne a Firenze nel marzo 1294 dove incontrò Dante con il quale nacque grande amicizia (Par. VIII, 34-37, 55-57); morì prematuramente nell’agosto 1295.
■ La quantità dei temi esegetici, la loro idoneità ad essere rivissuti da un singolo individuo e appropriati ad altri nella parodia [12], la contiguità nello spazio testuale, la peculiarità per cui l’Olivi non può essere confuso con altri autori insinuano il serio e legittimo dubbio che l’Expositio in Canticum Canticorum del frate di Sérignan sia stata il “panno” per la “gonna” del “libello” giovanile come, più tardi, la Lectura super Apocalipsim lo sarebbe stata per il “poema sacro”. Un lavorio parodico ancora acerbo, commisto con altre fonti (non escluse altre opere dello stesso Olivi), volutamente criptico, e tuttavia segnante il decisivo passaggio dalla spersonalizzata e astorica esperienza stilnovistica [13] al suo inserimento in un’organica storia, universale (perché tale è la storia di Cristo e della Chiesa) e insieme dell’individuo. La storia del nuovo amore per Beatrice, imitatrice di Cristo, e delle prove e battaglie interiori sostenute dall’anima del poeta ‘disponsata’ ad Amore, sarebbe diventata la storia del viaggio verso di lei, del nuovo visionario Giovanni che avrebbe predicato ancora al mondo le cose, che s’affrettano, necessarie alla salute.
[1] Cfr. SCHLAGETER, p. 37. Sul rapporto di Dante con questa tradizione cfr. PAOLA NASTI, Favole d’amore e “saver profondo”. La tradizione salomonica in Dante, Ravenna 2007; I morsi della carità. Dante e la Bibbia, Ravenna 2024, pp. 57-95 e passim.
[2] Cfr. A. FORNI, L’aquila fissa nel sole. Un confronto tra Riccardo di San Vittore, Pietro di Giovanni Olivi e Dante, in Scritti per Isa. Raccolta di studi offerti a Isa Lori Sanfilippo, a cura di A. Mazzon, Roma, 2008 (Nuovi studi storici, 76), pp. 431-473; Lectura super Apocalipsim e Commedia. Le norme del rispondersi, 2010, cap. 2.
[3] Cfr. NASTI, Favole d’amore, pp. 137-138. LINO PERTILE ha sostenuto che “la tradizione del Cantico ha una posizione di prima grandezza, che illumina di luce inedita la paradossale continuità del pensiero del poeta dalle dolcezze dello stilnovo alle asprezze dell’impegno politico-religioso” (La puttana e il gigante. Dal “Cantico dei Cantici” al Paradiso Terrestre di Dante, Ravenna 1998, p. 9).
[4] Vita Nova, p. 3 nt. a Incipit Vita Nova.
[5] HUGO DE SANCTO VICTORE, Soliloquium de arrha animae [PL 176, 951; ed. K. Müller, Bonn 1913 (Kleine Texte für theologische und philologische Übungen 123), 3]; SCHLAGETER, p. 94 e nt. 4.
[6] AUGUSTINUS, De Trinitate, lib. 8, c. 10, n. 14 (PL 42, 960; CChr. SL 50, 290); ibid., p. 94 e nt. 5.
[7] Cfr. NASTI, Favole d’amore, pp. 87-89.
[8] Edite on line da EMILIO PANELLA.
[9] Le differenze con Bernardo si possono ritrovare anche in altri luoghi, tenendo conto che il cisterciense non procede, come l’Olivi, ad un commento sistematico. Altrettanto profonde sono le differenze con Tommaso Gallo, autore pur carissimo all’Olivi per l’impostazione dionisiana della sua esegesi del Cantico (cfr. SCHLAGETER, p. 36), anch’egli privo della prospettiva storico-agonale della Chiesa su cui insiste il francescano.
[10] Su questo punto cfr. quanto scrive l’Olivi (SCHLAGETER, nri 115-116, p. 164): «Quartum (tempus) est resecationis superfluorum utilis et fecunda opportunitas; unde subdit: “Tempus putationis advenit” (Cn 2, 12b). Amputatio enim omnium superfluorum etiam connaturalium est aliquando nociva et sterilis. Quando ergo sponsa tam in se quam in generali ecclesia experimentaliter sentit fructuosam opportunitatem amputationum perfectarum venisse, tunc attingit ad omnia tam a se quam ab aliis plenius amputanda. Quintum est duplex exemplaritas vitae contemplativae illis temporibus inchoatae quarum prima est solitariae castitatis et devotionis clamorosum suspirium, et pro hoc dicit: “Vox turturis”, avis scilicet castae et solitudinum deserta amantis cuius vox seu cantus est gemitus, “audita est in terra nostra” (12c). Quando enim in quibusdam modo novo et inusitato incipit hoc solemniter apparere, tunc est quintum inductivum». Si può forse ritrovare questa esegesi a Vita Nova 5.10-12 [xii.3-5], allorché il “Signore della nobiltade” (“uno giovane vestito di bianchissime vestimenta”) «pareami che sospirando mi chiamasse, e diceami queste parole: “Fili mi, tempus est ut pretermictantur simulacra nostra” … e riguardandolo pareami che piangesse pietosamente … E quelli mi dicea in parole volgari: “Non dimandare più che utile ti sia”» (cfr. anche supra).
[11] “Eya ergo milites generosi, accingite vos ad pugnam; tempus enim putationis advenit voxque turturis suspirantis et gemitum pro cantu habentis audita est in terra nostra” (ed. F. EHRLE, in “Archiv für Litteratur- und Kirchengeschichte des Mittelalters”, 3 [1887], p. 537).
[12] Quanto si dice delle membra della sposa e dello sposo del Cantico dei Cantici può essere applicato a chiunque; cfr. SCHLAGETER, p. 330, nr. 368: “Rursus sciendum quod membra sponsae et sponsi praeter modum supra expositum aut aliquem alterum sibi consimilem, possunt aptari ad diversas personas diversorum statuum vel officiorum aut diversarum praerogativarum secundum aliquas speciales virtutes aut etiam ad diversa officia eiusdem personae, iuxta quod Paulus fuit apostolus et propheta et doctor et martyr et activus et contemplativus, et iuxta quod aliquis habet simul omnes ordines, est enim diaconus, sacerdos et episcopus; et sic de aliis”.
[13] Cfr. GIANFRANCO CONTINI, Poeti del Duecento, II/2, Dolce stil novo, Milano-Napoli 1995, p. 443: “L’ispirazione è oggettiva e assoluta, e perciò, se il contenuto normale della lirica stilnovistica è il fatto amoroso minuziosamente analizzato e poi ipostatizzato nei suoi elementi, quest’analisi non va già riferita all’individuo empirico, ma, al di là di questa sua avventura iniziale, a un esemplare universale di uomo: a un individuo, anch’esso, oggettivo e assoluto […] S’intende che, in questo clima di paradiso terrestre, anteriore alla storia, se dal lato di Adamo esistono alcuni uomini in carne ed ossa, la minor clientela femminile ha il solo cómpito di sottolineare Eva, e vive per metafora di quegli amici attorno al poeta. Resta che, come costui, il personaggio che parla in prima persona, è l’‘individuo assoluto’, anche la donna perde ogni attributo storico, ogni possibilità di autentica pluralità. E se si estende man mano il campo d’osservazione, si constata che l’intera esperienza dello stilnovista è spersonalizzata, si trasferisce in un ordine universale: persa qualsiasi memoria delle occasioni, cristallizza immediatamente”.
Tab. V.1
PETRI IOHANNIS OLIVI Expositio in Canticum Canticorum [ = Cn] |
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Cn, prologus, pp. 92, 94[1] In speculo brevi et apto contueri volentibus continentiam Cantici Canticorum occurrit somnium praepositi pincernarum quod habetur Genesis quadragesimo, quando ait: “Videbam coram me vitem in qua erant tres propagines, crescere paulatim in gemmas, et post flores uvas maturescere, calicemque Pharaonis in manu mea: tuli ergo uvas, et expressi in calicem quem tenebam, et tradidi poculum Pharaoni” (Gn 40, 9-11).
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Cn 2, 11-12, pp. 162, 164[112] Secundo nota quod ex vernalis temporis proprietate septem inducentia ad accessum sibi proponit (cfr. 11-13), et possunt mystice ad internas sponsae proprietates aptari.
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Vita Nova 1.1-4, 8, 12-13 [i 1, ii 1-3. 7, iii 1-2]In quella parte del libro della mia memoria dinanzi alla quale poco si potrebbe leggere, si trova una rubrica la quale dice Incipit Vita Nova. Sotto la quale rubrica io trovo scripte le parole le quali è mio intendimento d’asemplare in questo libello, e se non tutte, almeno la loro sententia. [2] Nove fiate già apresso lo mio nascimento era tornato lo cielo della luce quasi a uno medesimo puncto quanto alla sua propria giratione, quando alli miei occhi apparve prima la gloriosa donna della mia mente, la quale fu chiamata da molti Beatrice, li quali non sapeano che si chiamare. [3] Ella era già in questa vita stata tanto, che nel suo tempo lo Cielo Stellato era mosso verso la parte d’oriente delle dodici parti l’una d’un grado, sì che quasi dal principio del suo anno nono apparve a me, e io la vidi quasi dalla fine del mio nono. [4] Apparve vestita di nobilissimo colore umile e onesto sanguigno, cinta e ornata alla guisa che alla sua giovanissima etade si convenia. […]
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Cn 1, 1, pp. 114, 116[11] Quid autem eam ad hoc alliciat, subdit: “Quia meliora sunt ubera tua vino” (1b), quasi dicat: prae-dictam tui unionem sic desidero, quia ineffabilis exuberantia suavitatum a te manat.
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Cn 7, 12d-13b, p. 292[312] Deinde sponsa tria sponso promittit, scilicet lac suorum ‘uberum’ (12d) et odorem suarum ‘mandra-gorarum’ (13a) seu suas ‘mandragoras’ valde odori-feras et ‘omnia poma sua’ (13b). Pro primo dicit: “Ibi dabo tibi ubera mea” (12d) id est: ibi in filiis tuis lac ipsorum in te et tui in ipsis nutritivum libere propinabo. Tunc enim animarum rectores libenter salutarem doctrinam eis infundunt, quando ipsos debite proficere et Dei gratiam et providentiam eis abunde cooperari et assistere vident. Vel: “Ibi dabo tibi ubera mea” (12c), id est: tunc cum hoc videro totam dulcedinem cogitatuum et affectuum pectoris mei, in te prae gaudio et devotione cum gratiarum actione effundam. |
Tab. V.2
Cn 2, 5, p. 152[94] Nota autem quod tunc amor incipit superexcedere, quando totam mentem elanguescere facit, ita quod prae nimietate desiderii seu suspirii et languoris seipsam sustinere non valet. In hunc ergo gradum sponsa sublevata subdit:
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Rime 10 (lvi)Per una ghirlandetta
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Rime 34 (lxxxvii)«I’ mi son pargoletta bella e nova,
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Tab. V.3
Cn 2, 1.3-5, pp. 150, 152[89] “Ego flos campi et lilium convallium” (1) […] Secundum quosdam, ubi nos habemus “flos”, est in hebraeo nomen significans ‘violam’ quae est singu-laris flos camporum sive pratorum. Et tunc com-mendat se de gratiositate humilitatis in ‘viola’ et puritatis in ‘lilio’, sic tamen quod humilitas iuncta est pulchrae latitudini et aequalitati et viriditati campo-rum et puritas humilitati convallium. […]
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Cn 2, 8-9.11-12, pp. 158, 162[105] Pro primo nota, quod alta et vehemens ac repentina divinae visitationis seu illapsus irruitio ingerit se menti ut valde sonoram iuxta illud Actuum secundo: “Et factus est repente de caelo sonus tamquam advenientis spiritus vehementis” (Ac 2, 2). Et hoc significat sponsa, cum ait: “Vox dilecti mei” (8a). […]
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Rime 12 (lviii)Deh, Vïoletta, che in ombra d’Amore
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Rime 44 (ci), 1-18Al poco giorno e al gran cerchio d’ombra
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Tab. V.4
Remigio dei Girolami OP († 1319), Postille super Cantica Canticorum (ante 1315, Firenze, Laur., Conv. soppr. 516, ff. 221r-266v) ed. E. Panella, http://www.e-theca.net/emiliopanella/remigio3/canti23.htmCirca secundum facit duo secundum duas rationes quas assignat, quia primo assignat unam rationem per exclusionem impedimentorum et secundo assignat aliam per allegationem iuvamentorum, ibi, flores [2, 12]. […] Vult ergo dicere quantum ad fundamentum (?) methaphore: Veni mecum spatiari ad recreationem preteriti langoris tui et non tardes quia modo tempus non est molestum ex frigore vel luto, quod posset cito contingere, sed est amenum omnibus sensibus scilicet visui et tactui, ut homo libere possit transire per vineas putatas – non enim est tempus putandi eas quando florent -; et auditui quia turtur annu<n>tiat initium veris, secundum Glosam; et gustui propter spem futuri cibi, et olfactui. Quasi dicat: ‘Est tempus pulcrum et liberum et canorum et fructiferum et odoriferum, sicut est tempus vernum’.
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Olivi, Cn 2, 11-12, pp. 162, 164[112] Secundo nota quod ex vernalis temporis proprietate septem inducentia ad accessum sibi proponit (cfr. 11-13), et possunt mystice ad internas sponsae proprietates aptari. Quia sicut appropinquatio solis ad regionem nostram in vere praedictas proprietates adducit, sic et divinae visitationis solaris adventus consimiles in spiritum proprietates inducit ex quibus sponsa habet merito festinare et currere ad sponsi amplexum. Possunt etiam aptari ad exteriorem statum ecclesiae illius temporis, quia tunc proprie formatur haec sponsa. Et tunc magis plene est tempus ipsius, quando Deus aliquem nobilem statum est in ecclesia formaturus, quale in synagoga fuit tempore editionis huius libri sub Salomone templum aedificante et Dei cultum praeclarius et felicius solemnizante, et quale fuit tempore Christi ac Constantini et sic de aliis.
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Bernardi Opera, Sermones super Cantica Canticorum … recensuerunt J. Leclercq, C. H. Talbot, H. M. Rochais, II, Romae 1958, sermo LVIII, II. 3-4, pp. 128-1293. Nunc iam videamus quid istiusmodi quasi historico schemate spiritualiter nobis innuatur intelligendum. Et vineas quidem animas esse, vel ecclesias, simulque huius rei rationem quaenam sit, dixi vobis, et audistis, nec opus habetis iterato audire. Ad has itaque revisendas, corrigendas, instruendas, salvandas, anima perfectior invitatur, quae tamen id ministerii sortita sit, non sua ambitione, sed vocata a Deo tamquam Aaron. Porro invitatio ipsa quid est, nisi intima quaedam stimulatio caritatis, pie nos sollicitantis aemulari fraternam salutem, aemulari decorem domus Domini, incrementa lucrorum eius, incrementa frugum iustitiae eius, laudem et gloriam nominis eius? Istiusmodi itaque circa Deum religionis affectibus, quoties is qui animas regere aut studio praedicationis ex officio intendere habet, hominem suum interiorem senserit permoveri, toties pro certo Sponsum adesse intelligat, toties se ab illo ad vineas invitari. Ad quid, nisi ut evellat et destruat, et aedificet et plantet?
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6. Le “nove rime”
L’Expositio in Canticum Canticorum dell’Olivi non è stata una ‘fonte’ qualunque per la Vita Nova. Non si tratta forse dell’unica opera del francescano utilizzata, perché molto potrebbero dire in proposito i commenti ai Vangeli di Matteo, di Giovanni (inediti) e, come si è visto, di Luca. Solo un esame sistematico e approfondito – qui la questione viene soltanto delibata – potrà valutare la sua effettiva incidenza sulle varie parti, liriche o in prosa, e considerare se il confronto testuale sia di aiuto nel far conoscere meglio la genesi del “libello”. Per il momento ci si limita a mostrare i risultati di alcuni sondaggi.
La semantica e i concetti dell’esegesi oliviana al libro salomonico, cioè i segni e i significati, percorrono Donne ch’avete intellecto d’amore, la canzone-manifesto delle “nove rime” e la prosa relativa (Vita Nova 10 [xvii-xix]).
■ (Tab. VI.1) Nel Cantico la sposa loda lo sposo, e viceversa, come in una canzone amorosa (“Hic describitur et laudatur sponsus a sponsa et sicut in amativis cantionibus fieri solet [Cn 5, 10] … dum (sponsus) praedicta praeconia dicit vel finit [Cn 5, 17] – E però propuosi di prendere per matera del mio parlare sempre mai quello che fosse loda di questa gentilissima … cominciai una canzone …│i’ vo’ con voi della mia donna dire, / non perch’io creda sua laude finire”.
La sposa e lo sposo parlano l’uno dell’altro, variando gli affetti e gli sguardi, o in seconda (col ‘tu’) o in terza persona (Cn 1, 1). Se la sposa parla dello sposo in terza persona, lo fa in quanto la sua lode serve a informare le “adulescentulae”, cioè le compagne della sposa nel cammino della contemplazione (cfr. Cn 1, 1). Dante dice della sua donna in terza persona, rivolgendosi a “donne” in seconda (col ‘voi’).
Se la sposa parla in terza persona, lo fa perché non ardisce rivolgersi direttamente allo sposo, ma solo esprimere in modo assoluto il proprio desiderio (“sponsa non fuit ausa illud directe a sponso petere, sed solum absolute desiderium suum exprimere” [Cn 1, 1]); la mente timorata non deve presumere cose troppo alte, ma umiliarsi (ut mens quantumcumque alta addiscat non praesumere, sed humiliari et ut in his quae caute egit, formidet aliquam culpam sibi absconsam inesse [Cn 5, 6]). Così Dante: “pareami avere impresa troppo alta matera quanto a me, sì che non ardia di cominciare. E così dimorai alquanti dì, con disiderio di dire e con paura di cominciare│ma ragionar per isfogar la mente … E io non vo’ parlar sì altamente, / ch’io divenissi per temenza vile”.
Quando i santi dottori intendono spiegare agli altri le cose divine e incitarli a domandare, soccorrono repentini concetti e risposte dettate interiormente (“subito multa ab eis quaesita vel alios docenda doctori occurrunt quae ipsi numquam praecogitarunt nec aestimant quod eis alibi occurrisset” [Cn 5, 17]). Così capita a Dante, per virtù di un interno dettatore: “Allora dico che la mia lingua parlò quasi come per sé stessa mossa e disse: ‘Donne ch’avete intellecto d’amore’” (si ricordi anche l’imposizione del nome del figlio, fatta dal muto Zaccaria; Luca 1, 63-64).
Come i dottori vengono dotati di sùbiti concetti e risposte, così la sposa sente improvvisamente lo sposo discendere (“repentinos conceptus et responsiones eis divinitus ministratos … ipsa repente ipsum infra se sentiens descendisse” [Cn 5, 17]); Dante: “Io dico che pensando ’l suo valore / Amor sì dolce mi si fa sentire”.
■ (Tab. VI.2) Il nome di Cristo-sposo è “desiderato” – “desideratus cunctis gentibus”, come scrive il profeta Aggeo (Ag 2, 8, a Cn 5, 16). “Madonna è disïata in sommo cielo” (Vita Nova 10.20 [xix 9], v. 29; cfr. “la rota che tu sempiterni / desiderato” di Par. I, 76-77); “Questa gentilissima donna, di cui ragionato è nelle precedenti parole, venne in tanta gratia delle genti” (Vita Nova 17.1 [xxvi 1]).
La sposa, che designa la Chiesa contemplativa, è posta a governare (“Posuerunt me custodem in vineis”: Cn 1, 5; “della cittade ove la mia donna fu posta dall’Altissimo Sire”: Vita Nova 2.11 [vi 2]); non si sente adatta al compito (“se in regimine desolatam asserit … ex defectu quem in seipsa invenit”: Cn 6, 11; “ancora lagrimando in questa desolata cittade”: Vita Nova 19.8 [xxx 1]). Per questo le viene chiesto a gran voce di tornare al governo: “instanter requiritur sponsa ad regiminis onus reverti … ad requisitionis grandem instantiam fortius exprimendam … requiritur … a sponso et a suis angelis” (Cn 6, 12). Così avviene per Madonna: “Angelo clama … Lo cielo, che non àve altro difecto / che d’aver lei, al suo Segnor la chiede, / e ciascun sancto ne grida merzede” (Vita Nova 10.18 [xix 7], vv. 15-21). Dio stesso ha detto di aver sperimentato le dolcezze della sposa, e l’ha additata ad esempio agli angeli e ai santi; la sola sua visione è di utilità agli uomini: “Quis autem digne valeat admirari tantam dignationem summi Dei et Domini nostri? Quod ipse in tantum dicat se refici et delectari in fructibus et dulcoribus sponsae, quod tamquam inde inebriatus totus in ea condormiat et consoporetur. Et quod ipsum suum soporem amicis suis, angelis scilicet et ceteris sanctis, praebeat in exemplum … (Cn 5, 2) … utilitas exempli quam inferiores ex sola visione suae sanctitatis et vitae accipient (Cn 6, 12)” – “nel mondo si vede … che parla Dio, che di madonna intende … e qual soffrisse di starl’ a vedere … per exemplo di lei bieltà si prova” (vv. 16, 23, 35, 50). Le necessità del governo della Chiesa sono riservate al beneplacito divino: “sic etiam expedit quod suam sufficientiam et ecclesiae regendae necessitatem et Dei super hoc praeceptum vel beneplacitum recognoscant” (Cn 6, 12) – “quanto Mi piace” (v. 25).
Sotto il regime di Beatrice non c’è solo Dante, governato tramite Amore con “lo fedele consiglio della Ragione” (Vita Nova 1.10 [ii 9]), ma tutta Firenze, desolata per la sua morte, come pure l’intera Chiesa, quella peregrinante in terra (perché mai l’amico avrebbe scritto, laicamente, “alli principi della terra” in merito alla sua città “quasi vedova dispogliata da ogni dignitade” [Vita Nova 19.8]?) e quella trionfante in cielo.
■(Tab. VI.3) Lo sposo loda la sposa perché senza macchia di peccato mortale: “eam commendat … quomodo dicit … loquitur de sola macula mortali (Cn 4, 7) – «Dice di lei Amor: “Cosa mortale / come esser può …”» (vv. 43-44). La sposa loda le parti del corpo dello sposo, cominciando dal colore misuratamente proporzionato fra la purezza del bianco e la vivida rossa fiamma della carità: “ex colore … colorum proportionata permixtio seu connexio … plenus candore puritatis et sapientialis claritatis et flammeo rubore vividae caritatis” (Cn 5, 10) – “sì pura … Color di perle à quasi … non for misura … Degli occhi suoi … escono spirti d’amore inflammati” (vv. 44, 47-48, 51-52; il bianco e il rosso sono i colori di Beatrice: Vita Nova 1.4, 12, 15 [ii 3, iii 1, 4]; 28.1 [xxxix 1]). La sposa è esempio per gli inferiori che vedono la sua santa vita: “utilitas exempli quam inferiores ex sola visione suae sanctitatis et vitae accipient” (Cn 6, 12) – “per exemplo di lei …” (v. 50).
■ (Tab. VI.4) La sposa (Cn 6, 10-7, 1), che per le sue virtù (“ex suis virtutibus”) è idonea a generare ed educare una prole spirituale (“ad prolem fortem et nobilem procreandam et educandam”), e questa sua capacità viene mostrata secondo le parti del corpo (“in speciali et quasi per partes … ex generosa dispositione corporis muliebris”), incede in modo regale, nobilmente calzata con regola e disciplina, non con materia vile, mirabilmente ornata di bellezza nel procedere dei suoi atti (“quam pulchre et decenter incedunt … nec de vili et inordinata materia calceantur … Per hoc autem spiritualiter designatur perfecta compositio ac restrictio et moderatio regularis disciplinae quae instar calceamentorum nobilium fundamentales processus nostrorum affectuum et actuum mirabiliter pulchrificant et adornant”) – “maraviglia nell’acto che procede … or vo’ di sua virtù farvi sapere. / Dico, qual vuol gentil donna parere / vada con lei, che quando va per via / gitta nei cor’ villan’ d’amore un gelo … diverria nobil cosa o si morria. … sì adorna …│dico di lei quanto dalla parte … delle sue virtudi … che … procedeano … quanto dalla [parte della] nobilità del suo corpo … secondo determinata parte della persona” (vv. 17, 30-33, 36, 44; 10.29-30 [xix 18-19]).
■ (Tab. VI.5) Il “monile ornamentum” al quale è assimilato il collo della sposa (Cn 1, 9b) ha un valore di ‘ammonimento’, perché le fibule muliebri “monent seu arcent viros, ne inserant manus suas infra sinum earum”, nel caso della nobile sposa, di belle e generose forme, e tanto ornata da sdegnare “insipientiam et vilem vitam bestialium plebium” (Cn 1, 10). Una sposa atta a procreare e nutrire figli spirituali dediti alle lodi divine (Cn 6, 2). Così il poeta congeda la sua canzone-manifesto, Donne ch’avete intellecto d’amore : “Or t’amonisco, poi ch’io t’ò allevata / per figliuola d’Amor giovane e piana … E se non vòli andar sì come vana, / non restare ove sia gente villana” (vv. 59-60, 64-65); anche nella canzone Amor che nella mente mi ragiona la seconda parte principale si chiude “sotto colore d’ammonire altrui”, cfr. Convivio, III, viii, 21). Come la sposa dice: “Indica mihi … ubi pascas … ne vagari incipiam” (Cn 1, 6a), così la canzone deve dire pregando: “Insegnatemi gir, ch’io son mandata / a quella di cui laude io so’ adornata” (cfr. ancora il congedo di Voi che ’ntendendo il terzo ciel movete, e il relativo commento a Convivio II, xi, con l’esegesi di Cn 1, 7ab: “Ponete mente almen com’io son bella! … Si bene vis considerare tuae spiritualis pulchritudinis praeeminentiam”).
■ (Tab. VI.5 bis) Tributo ai modi ancora operanti nella Rettorica di Brunetto Latini [1] o alla tecnica dei commenti universitari [2], le “divisioni” contentute nella Vita Nova rispechiano anche l’esegesi biblica, nella quale esse sono l’espressione della struttura del testo che si vuole commentare. Lo stesso prosimetro potrebbe risponde a un’idea precisa della Scrittura, che ha un’intelligenza interiore e un’eloquenza esteriore, l’oro della sapienza divina e l’argento delle similitudini, in un ornato di distinzioni artificiose e rubricate. Come accade per i sacramenti, dentro è la grazia invisibile, fuori la specie sensibile. Poiché la sposa designa la Chiesa, questo ornamento ha un suo sviluppo storico, per cui l’artificio è maggiore man mano che si procede. Così Olivi interpreta Cn 1, 10a “Murenulas aureas faciemus tibi vermiculatas argento”. Nella Commedia, le due funzioni, esterna e interna, di prosa e lirica, saranno congiunte nei versi dal doppio linguaggio.
■ (Tab. VI.6) Nel paragrafo successivo (Vita Nova 11 [xx]), su richiesta di un amico che aveva ascoltato Donne ch’avete intellecto d’amore, viene esposto cosa sia Amore (Amore e ’l cor gentile). I dettami guinizzelliani incastonati secondo Gorni in una “prosa carica di grevi intenzioni filosofiche”, che “recupera quel sapere a fini cortesi” [3], non mancano di concordare anche con l’esegesi del Cantico dei Cantici. Lo sposo, ristorato dei frutti della sposa, vuole che ne fruiscano pure gli amici (Cn 5, 1). Olivi sottolinea più volte la coralità dell’amicizia presente nel libro salomonico e il ruolo svolto dagli amici dello sposo o della sposa nel mutuo partecipare del loro amore.
Cn 2, 1, p. 148 [88] Nota autem quod per haec mutua colloquia designatur quod in illa unione sponsi et sponsae nobis ineffabili sunt quaedam internae locutiones in quibus evidenter exprimitur, quomodo se amant et appretiantur et quomodo ad invicem sunt sibi cari, iucundi, pulchri et gratiosi. Quia vero haec non solum sibi mutuo ostendunt, sed etiam aliis, ideo tamquam ad alios seipsos commendantes subdunt – et primo sponsus de seipso dicit: “Ego flos campi et lilium convallium (Cn 2, 1)”.
Poi lo sposo, inducendo gli amici al sopore estatico, afferma: “Ego dormio et cor meum vigilat” (Cn 5, 2); egli cioè si riposa e al tempo stesso veglia col cuore, e con questo star sveglio si trova “in suo actu supremo”. Così, nel sonetto, Amore viene a riposarsi nel cuore gentile e, svegliandosi per “un disio della cosa piacente”, passa (come scolasticamente spiegato nella prosa) dalla potenza all’atto. Altrove (Cn 2, 13-14) si parla delle “spirituales et secretae mansiones solidae veritatis et aeternitatis Dei quas sponsa subintrans quiescit ibi cum sponso … tuarum potentiarum et voluntatum capacia loca et desideria” (“Amor per sire e ’l cor per sua magione … nasce un disio della cosa piacente│dico come questa potentia si riduce in acto”).
■ (Vita Nova 15 [xxiv] – Tab. VI.7) La sposa viene svegliata dallo sposo, ma è come se avesse sempre vegliato (Cn 2, 8: “a somno praefato iam ad alios actus evigilasset”). Dante perviene a “una ymaginatione d’Amore” dopo altra “vana ymaginatione” nella quale, ad occhi chiusi, ha visto Beatrice morta, quasi questa seconda fantasia fosse la continuazione della prima: “così come se io fossi stato presente a questa donna.│Io mi senti’ svegliar dentro allo core / un spirito amoroso che dormia”. La sposa sente una voce, quella dello sposo, primo segno del suo venire, per cui bisogna prepararsi al suo arrivo: «“Vox dilecti mei” … ex eius voce eius adventum primo deprehenderit … Ecce dominus venit, paremus cito domum et nos ipsos». Dante vede venire Amore, poi monna Vanna che precede monna Bice; la donna di Cavalcanti si chiama “Primavera”, nome che Amore interpreta “Prima–verrà”, come il precursore Giovanni Battista disse di Cristo: «“Ego vox clamantis in deserto: parate viam Domini (Matteo 3, 3; Luca 3, 4; Giovanni 1, 23; i passi evangelici sono attratti dall’esegesi di Cn 2, 8)”│guardando in quella parte onde venia, / io vidi monna Vanna e monna Bice / venire inver’ lo loco là ov’io era». È primavera, stagione di novità; in essa Dio intende formare nella Chiesa una nuova, nobile situazione e rendere più solenne, felice e gioioso il proprio culto, come avvenne ai tempi di Salomone e di Cristo (Cn 2, 11): “ex vernalis temporis proprietate … in vere praedictas proprietates adducit … quando Deus aliquem nobilem statum est in ecclesia formaturus … et Dei cultum praeclarius et felicius solemnizante … Veris ergo temperies et serenitas de se grata, sed propter praeeuntem pressuram hiemis et propter suam novitatem gratiosior … ut tunc quietius et iucundius sapientiae divinae vacaret”. Amore dice lietamente al lieto e rinnovato cuore di Dante di fargli onore, cioè di rendergli il dovuto culto; monna Vanna-Primavera è “una gentil (cioè nobile) donna”: «e pareami che lietamente mi dicesse nel cuor mio … E certo me parea avere lo cuore sì lieto, che me non parea che fosse lo mio cuore, per la sua nuova conditione … io vidi venire verso me una gentil donna … imposto l’era nome Primavera │e poi vidi venir da lungi Amore / allegro sì, che appena il conoscea, / dicendo: “Or pensa pur di farmi onore” … Amor mi disse: “Quell’è Primavera …”». Lo sposo chiama la sposa con vari nomi, il primo fra questi è preso dall’amicizia o dall’amore (Cn 2, 10): «sponsus multis nominibus amorosis vocat sponsam … Primum tamen nomen proprie sumitur ab amicitia vel amore – una gentil donna, la quale era di famosa bieltade e fue già molto donna di questo mio primo amico … Quella prima è nominata Primavera … quella Beatrice chiamerebbe Amore│Amor mi disse: “Quell’è Primavera, / e quell’à nome Amor, sì mi somiglia”».
■ (Tab. VI.8) La semantica del Cantico dei Cantici percorre anche Vita Nova 17 [xxvi], sia i due sonetti (Tanto gentile e Vede perfectamente) come la prosa. Si registrano gli attributi di lode della sposa verso lo sposo – dolcezza al core, soave – (Cn 1, 1b); il cui nome è desiderabilis, secondo quanto scrive di Cristo il profeta Aggeo: “desideratus cunctis gentibus” (Cn 5, 16) – venne in tanta gratia delle genti; la nobiltà (gentilezza), propria di una terra d’Oriente, dello sposo e della sposa, atta a procreare una nobile prole (Cn 1, 2a; 7, 1b; nella morte di Beatrice, la dipartita dell’“anima sua nobilissima” è computata, oltre che “secondo l’usanza nostra”, “secondo l’usanza d’Arabia … e secondo l’usanza di Siria”: Vita Nova 19.4 [xxix 1]); la ridondanza, nello sposo, delle perfezioni divine e di ogni virtù (Cn 1, 2a) – virtuosamente, virtute, perfectamente ogne; l’incedere bello e decoroso della sposa, nel mirabile procedere dei suoi atti (Cn 7, 1b) – Ella si va (viene chiamata «“filia principis”, id est Dei»; Beatrice “non parea figliuola d’uomo mortale, ma di Dio” con citazione indiretta di Omero: Vita Nova 1.9 [ii 8]), mirabili cose da.llei procedevano, sua beltate, ne procede, negli acti; soave non è solo lo sposo, ma anche la memoria del suo nome (Cn 1, 2b) – non fa sola sé … la si può recare a mente, ricordandosi di lei; la soavità dello sposo si espande coralmente sulla famiglia della sposa (“sponsae” e “adulescentulae”, cioè sui perfetti e sugli incipienti nel percorso contemplativo; Cn 1, 2c) – quelle che vanno con lei; lo sposo mostra la propria compiacenza negli occhi della sposa (Cn 6, 4a) – mostrasi sì piacente … che dà per gli occhi ….; la invita a non guardarlo oltre le proprie forze – e gli occhi no l’ardiscon di guardare -, perché proverebbe l’impossibilità di intenderlo – che ’ntender no.lla può chi no.lla prova.
Si noterà che più passi esegetici vengono collazionati fra loro per arricchire la semantica, secondo una tecnica che nella Lectura super Apocalipsim Olivi definisce “mutua collatio” di singole parti di esegesi; lo stesso testo salomonico la suggerisce, sottoponendo più volte all’esegeta il medesimo termine: si veda il caso di “labia” (Cn 4, 3.11; 5, 13), che attira anche “guttur” (Cn 5, 16), inteso “pro toto palatu et ore”.
[1] GUGLIELMO GORNI, Dante. Storia di un visionario, Bari 2008, pp. 142-143.
[2] SANTAGATA, p. 122.
[3] Vita Nova, p. 259.
Tab. VI.1
Tab. VI.2
Tab. VI.3
Tab. VI.4
Tab. VI.5
Cn 1, 2, p. 118[19] “Ideo adolescentulae”, id est: sociae ipsius sponsae ad contemplationis suae apicem nondum attingentes, in Dei tamen notitia iam paulatim crescentes, “dilexerunt te” (2c). Quasi diceret: tanta est tua suavitas et ita longe se effundens, quod non solum ad tui amorem allicit sponsas, animas scilicet perfectiores, sed etiam adolescentulas, animas scilicet in tui notitia minus provectas.
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Cn 1, 9-10, pp. 138, 140[75] “Collum tuum sicut monilia” (9b) […] Hoc igitur ‘collum’ in sponsa est pulchrum “sicut monilia”. Est enim ‘monile’ ornamentum per quod pectora virginum seu matronarum clauduntur. Inde dicta, quia monent seu arcent viros, ne inserant manus suas infra sinum earum, et sunt quasi quaedam magnae fibulae instar colli circulares. In toto igitur versu praedicto hoc intenditur quod sponsa habet decorem amoris castissimi cum sinceritate desiderii aeterni. Et per haec duo merito potest retrahi a sequendo vias “gregum” (7b) et praedictorum “pasto-rum” (7c). […]
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Vita Nova 10.24-25 (vv. 57-70) [xix 13-14] Canzone, io so che tu girai parlando [24]
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Tab. VI.5 bis
Cn 1, 10, pp. 138, 140[76] “Murenulas aureas faciemus tibi” (10a). Sunt autem ‘murenulae’ catenae latae et spissae, de auro mire factae quae a capite defluentes ad cervicem ornandam aptantur, et haec virgulis auri et argenti artificiose distinctis et commixtis sunt contextae, dictae a quodam pisce nomine ‘murena’, quia consi-miles distinctiones et commixtiones colorum habet in cute sua vel quia capta vertit se in circulum; et secundum Gregorium huiusmodi murenulis seu catenis monilia collo ligantur. Et haec propter virgu-larum argentearum insertiones dicuntur “vermi-culatae”, id est rubricatae, “argento” (10b), id est desuper versibus et reticulationibus argenteis exor-natae et circumtextae, sicut in picturis quaedam virgulae rubeae solent colori albo superinseri vel econverso. Per hoc igitur potest intelligi ornamentum disciplinae vel sapientiae vel sacramentalis gratiae. Habet enim sponsa disciplinam moralem quasi auream, et aliquam caeremonialem priori desuper seu deforis insertam que est velut argentum. Eius etiam sapientia habet theorias de divinis quasi aureas et tropos similitudinum sensibilium et figuralium quasi virgulas argenteas. Et hoc modo est edita scriptura sacra seu sapientia sponsae. Constat ex intelligentia interiori et eloquentia exteriori. Sacra-menta etiam eius habent interius gratiam invisibilem et exterius speciem sensibilem. Haec autem non dantur a principio ipsi sponsae in tanta affluentia et evidentia, sicut fit postmodum exigente hoc neces-sitate suorum certaminum. Unde et ecclesia in initio sui ortus non habuit ita distinctum ornatum sacra-mentorum et sacramentalium mysteriorum nec tantam affluentiam scripturarum et magistralium seu disciplinalium institutorum, sicut habuit postmo-dum. Est ergo sensus: O sponsa, tanta tibi dabitur copia sapientiae et eloquentiae et scripturae sacrae et tantus ornatus seu cultus sacramentorum et virtualis disciplinae quod omnino dedignaberis sequi insi-pientiam et vilem vitam bestialium plebium. |
Vita Nova 1.1 [i 1]In quella parte del libro della mia memoria dinanzi alla quale poco si potrebbe leggere, si trova una rubrica la quale dice Incipit Vita Nova. Sotto la quale rubrica io trovo scripte le parole le quali è mio intendimento d’asemplare in questo libello, e se non tutte, almeno la loro sententia.Vita Nova 10.26, 33 [xix 15.22][26] Questa canzone, acciò che sia meglio intesa, la dividerò più artificiosamente che l’altre cose di sopra. […] [33] Dico bene che a più aprire lo ’ntendimento di questa canzone si converrebbe usare di più minute divisioni; ma tuttavia chi non è di tanto ingegno, che per queste che sono facte la possa intendere, a me non dispiace se la mi lascia stare, ché certo io temo d’avere a troppi comunicato lo suo intendimento pur per queste divisioni che facte sono, s’elli avenisse che molti le potessero udire.Vita Nova 7.13 [xiv 13]Questo sonetto non divido in parti, però che la divisione non si fa se non per aprire la sententia della cosa divisa; onde con ciò sia cosa che per la sua ragionata cagione assai sia manifesto, non à mestiere di divisione. |
Tab. VI.6
Tab. VI.7
Tab. VI.8
Tab. VI.9 (in rosso le parti in prosa)
Cn 4, 7 (sponsus) |
Vita Nova 10 [xix] (Amor) |
eam commendatquomodo dicitde sola macula mortali |
di lei (10.22, v. 43)dice … come (10.22, vv. 43, 44)mortale (10.22, v. 43) |
Cn 5, 10 (sponsa) |
Vita Nova 10 (Dante) |
ex colorecandore puritatisproportionataflammeo rubore vividae caritatis |
color (10.22, v. 47)pura … di perle (10.22, vv. 44, 47)non for misura (10.22, v. 48)spirti d’amore inflammati (10.23, v. 52) |
Cn 6, 12 (sponsus: requisitio sponsae) |
Vita Nova 10 (Dante) |
utilitas exempli |
per exemplo di lei (10.22, v. 50) |
Cn 6, 10; 7, 1(de nuptiali amore, prout est prolis spiritualis procreationi et gubernationi insistens) |
Vita Nova 10 [xix] |
ex suis virtutibusper partesprocessus … actuum
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sua virtù, sue virtudi (10.20, v. 30. 29)dalla parte (10.29)nell’acto che procede … procedeano (10.18, v. 17. 29)nobilità del suo corpo (10.29)Dico, qual vuol gentil donna parere … diverria nobil cosa (10.20, vv. 31, 36)quando va per via (10.20, v. 32)gitta nei cor’ villan’ d’amore un gelo (10.20, v. 33)
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Cn 1, 1-2 |
Vita Nova 17 [xxvi] |
dulce … in corda
ineffabilis exuberantia suavitatum … suaviaomnes divinae perfectiones … superexcrescentia divi-narum perfectionuminstar nobilium terrae orientalis … ut nobilis et regia
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dolcezza, dolcezza (2) … al core (17.3. 7, v. 10. 13, v. 14)soave (17.7, v. 13)perfectamente ogne (17.10, v. 1)
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Cn 6, 10; 7, 1(de nuptiali amore, prout est prolis spiritualis procreationi et gubernationi insistens) |
Vita Nova 17 |
ex suis virtutibus
processus … actuum
ad prolem fortem et nobilem procreandam et edu-candamquam pulchre et decenter incedunt
mirabiliter pulchrificant
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virtuosamente (2) … la sua virtute … di tanta virtute (17.4.9.11, v. 5.14)procedeano … ne procede … negli acti (17.4.11, v. 6.13, v. 12)gentilezza (17.11, v. 8)
quando passava per via … Ella si va … quelle che vanno (17.1.6, v. 5.10, v. 3)una maraviglia … mirabilemente (2) … mirabile/i (4) … beltate (17.1.2.4.11, v.5, 14.15)giugnea (2) … femina (17.1.2) |
Cn 6, 4 (sponsus) |
Vita Nova 17 |
volens laudem “oculorum” … monstrare … ad exprimendum excessivam gratiositatem “oculorum” … et excessivam complacentiam …ut scilicet experimento probares quod non potes me comprehendere |
si mostrava … li piaceri … Mostrasi sì piacente … che dà per gli occhi (17.3. 7, vv. 9-10)
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Cn 5, 16 (sponsa) |
Vita Nova 17 |
“desideratus cunctis gentibus” |
venne in tanta gratia delle genti (17.1) |
Tab. VI.10
Cn 4, 3.11, pp. 196, 208[172, a sponso commendatur et describitur formo-sitas sponsae] Per “labia” vero instar ‘vittae coccinae’ (cfr. 3a) rubentia significantur virtutes Deo et hominibus affabiles et benignae et quasi ad dulcia Dei et proximi oscula aptae. Per ipsa etiam designantur virtutes divinorum sermonum prolativae et interpretativae quae igne divini amoris debent valde rubere, ut scilicet totum quod loquuntur, sit spiritualis amor et ardor et dulcor – iuxta quod Christus Iohannis sexto dicit: “Verba quae loquor vobis, spiritus et vita sunt” (Io 6, 64). Haec autem ‘vittae coccinae’ comparat non solum ratione ruboris ignei designati in cocco, id est: in vermiculo sive rubro, sed etiam ratione ‘vittae’ qua sponsarum crines et genae vinciuntur sive ligantur, quia carita-tivum eloquium omnia ligat in unum. […][194] Pro quinto dicit quod “labia tua” sunt “favus distillans”, scilicet mel divinorum eloquiorum, et “mel et lac sub lingua tua” (11ab). Sicut enim Emma-nuel butyrum et mel comedet (cf. Is 7, 15), sic sponsa eius ‘mel’ divinae et angelicae sapientiae et dilectionis et ‘lac’ purae sanctorum vitae et innocentiae habet sub lingua suorum eloquiorum quibus filios suos nutrit. ‘Mel’ enim per apis solertiam ex roridis flo-ribus colligitur, ‘lac’ vero ex ovibus emungitur; ideo per ‘mel’ sapientia superior, per ‘lac’ vero inferior designatur.Vita Nova 17 [xxvi].6-7, vv. 5-6, 9-14Ella si va, sentendosi laudare,
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Cn 5, 13, p. 240[236, laudatur sponsus a sponsa] “Labia eius” sunt “distillantia myrrham primam” (13b), id est: docentia et in auditoribus diffundentia summam et praeci-puam puritatem iuxta illud Psalmi: “Eloquia Domini eloquia casta” (Ps 11, 7) etc.Cn 5, 16, pp. 242, 244[241] “Guttur illius suavissimum” (16). Guttur est radicalis pars faucium, ubi radicaliter consistit vis gustativa ciborum. Unde secundum Papiam gustus a ‘gutture’ dicitur. [242] Potest autem generaliter sumi pro toto palatu et ore, ut sic propter tropum nuptialis osculi significetur non solum esse “suavissimum” in se, sed etiam sponsae. “Et totus desiderabilis” (16a), hoc est vere proprium et praeconiale nomen sponsi solum Deum amantibus et gustantibus notum. Nihil enim potest in Christo dilecto occurrere, quin sit summe desiderabile. Unde et ab Aggaeo Propheta vocatur “desideratus cunctis gentibus” (Agg 2, 8). […]Cn 2, 5, p. 152[94] Nota autem quod tunc amor incipit super-excedere, quando totam mentem elanguescere facit, ita quod prae nimietate desiderii seu suspirii et languoris seipsam sustinere non valet. In hunc ergo gradum sponsa sublevata subdit: [95] “Fulcite me floribus, stipate me malis”, id est: pomorum ramis vel fructibus, “quia amore langueo” (5).Vita Nova 17 [xxvi].1, 3Questa gentilissima donna, di cui ragionato è nelle precedenti parole, venne in tanta gratia delle genti, che quando passava per via, le persone correvano per vedere lei, onde mirabile letitia me ne giugnea nel cuore. […] [3] Io dico che ella si mostrava sì gentile e sì piena di tutti li piaceri, che quelli che la miravano comprendeano in loro una dolcezza onesta e soave tanto, che ridire no.llo sapeano; né alcuno era lo quale potesse mirare lei, che nel principio nol convenisse sospirare. |
labia eiusbenignaedulcialoquuntur, loquor, linguaspiritualisamorsuavissimumincipitsuspirii |
sua labbiabenignamentedolcezzache va dicendoun spiritoamoresoavenel principiosospirare, sospira |
7. Punti fermi e problemi aperti
I passi proposti, per quanto frutto di estesi sondaggi, hanno un valore significativo ma limitato. Non escludono l’utilizzazione dell’esegesi di altri luoghi del Cantico dei Cantici né di ulteriori opere esegetiche (sopra si è vista l’incidenza della Lectura super Lucam di Olivi). In quanto si è mostrato non si tratta di coincidenze casuali, perché troppo numerose: la quantità è in questo caso qualità primaria. Né il rapporto si registra con il solo libro salomonico, perché la semantica proviene per la maggior parte non dal testo biblico, ma dalla sua esegesi. Non si tratta di una qualunque possibile esegesi, perché alcuni passi (come la citazione dei Moralia di Gregorio Magno a Cn 8, 2, tanto influente sull’episodio della Gentile o Pietosa) sono tipicamente oliviani.
Brevemente, qui di seguito, si individuano alcuni punti fermi sui quali riflettere nel proseguire lo scavo della Vita Nova, concernenti il metodo dell’autore come fin qui si è palesato, i suoi scopi e i problemi che le nuove scoperte pongono allo studioso.
Metodo
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L’esegesi si presenta come “panno” su cui fare la “gonna”; l’autore cerca in essa l’unità interna dell’opera; il riferimento è a un testo principale (l’Expositio in Canticum Canticorum di Olivi), con l’innesto di altri che con il primo concordano.
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Si registrano metodi propri dei predicatori: la collatio, cioè il confronto, fra più passi; la distinctio, raccolta analogica di parole dai vari significati.
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Su quanto raccolto si esercita per la poesia l’“arte musaica” di legar parole (Convivio IV, vi, 4); l’autore costruisce in modo autonomo il racconto in prosa che non è calco del commento scritturale; alcuni termini, o rose di essi, operano come signacula dell’esegesi. Questa sembra proporsi come una “guida” scelta dall’autore, forse quella che il suo primo amico e destinatario del “libello”, Guido Cavalcanti, “ebbe a disdegno” (cfr. Inf. X, 63).
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Ciò che in Olivi è teologicamente inteso in senso assoluto e concentrato su Cristo, lo sposo, o la sposa, viene isolato e separato in più affluenti, facendo risuonare ora l’uno ora l’altro tema su più soggetti [1]. È il metodo tipico della parodia.
Scopi
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Una vicenda personale e cittadina viene inserita in una storia universale, quella di Cristo (lo sposo) e della sua imitazione da parte di Beatrice e di Dante, tramite la sua donna. Nella Commedia, lo spirito profetico, che non è soltanto previsione di eventi futuri, avrebbe dato alle vicende un valore esemplare. Tutti i tre più gravi peccati capitali – superbia, invidia e avarizia -, affermerà Ciacco, cooperano alle divisioni di Firenze, e ne sono concausa (Inf. VI, 74-75). Un particolare fatto cittadino sarebbe stato elevato a modello di male universale, e questo espandersi verso l’universale al di là del proprio particolare, per poi ritornarvi, è una caratteristica del modo tenuto dai grandi profeti, Isaia o Ezechiele e da Cristo stesso. Così si potrà ancora dire della fama di Firenze che “si spande” per tutto l’inferno (Inf. XXVI, 1-3), o che la città “è pianta” di Lucifero (Par. IX, 127-128).
Nella Vita Nova (19.8 [xxx 1]) la desolazione di Firenze per la morte di Beatrice è degna di essere comunicata “alli principi della terra”. L’episodio del gabbo (Vita Nova 7 [xiv]), nel quale – osserva Gorni – “la piccola cerchia, industriosa e intelligentissima, dell’innominata Firenze assiste a una scena corale di crudeltà femminile ai danni del poeta” (alla quale partecipa anche Beatrice) [2], rispecchia le tribolazioni della sposa mortificata e disprezzata da parte delle “filiae Ierusalem”, cioè delle molte donne imperfette nel seguire la “lex divini amoris” (Cn 1, 3-4). Eppure la sposa, “ad Dei imaginem … reformata”, le invita a considerare la causa del suo essere scolorita – “nigra sum, sed formosa” – e come morta al mondo. Mutata, trasformata, essa è resuscitata da morte tramite la croce di Cristo, del quale ripete la passione e la derisione (Cn 8, 2.5-6). Così Dante viene schernito (“a così dischernevole vista”: Vita Nova 8 [xv].1) da molte donne a motivo della “transfigurazione” patita nel vedere fra esse Beatrice; a costei si rivolge nel sonetto Con l’altre donne mia vista gabbate, per spiegare la causa della sua derisa mutazione.
Il risultato non è un libro devozionale né un trattato sulla contemplazione – un nuovo Benjamin emulo di Riccardo di San Vittore -, ma una storia reale assurta a storia sacra della salvezza collettiva. La legge di Cristo, di cui dice Olivi esponendo Matteo 11, 4-6, è la legge di Beatrice, non una ‘santa’ qualsiasi, ma la vera imitatrice del Redentore:In hac etiam responsione comprehenditur universalis seu ordinaria Christi doctrina, quia in ea ostenditur quod Christi persona seu Christi doctrina et lex est lex veritatis cecos illuminantis, et equitatis tortos gressus rectificantis, et puritatis carnis immunditias abstergentis, et imperiositatis facientis sibi obedire duros et surdos, et vite seu vivacitatis vivificantis mortuos, et summe paupertatis seu libertatis et humilitatis pauperes singulariter honorantis, est etiam lex summe felicitatis miseros beatificantis. Sicut autem opera miraculorum exteriora sensibus hominum clamant ipsum esse Christum redemptorem hominum, sic septem predicta opera intellectualiter clamant ipsum esse Deum salvatorem animarum (PETRI IOHANNIS OLIVI Lectura super Matthaeum, Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, ms. Vat. lat. 10900, f. 92va).
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Il fine principale di così intenso lavorio è, però, cavare il volgare dal latino; lo sarà anche nella Commedia.
Problemi
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Dante, che Cola di Rienzo chiamò “theologus magnus” ma che in vita si definì “phylosophorum minimus”, non parla mai della sua formazione teologica, ma solo di quella filosofica. Filosofia e teologia sono materie pertinenti a cieli diversi: la prima al Cielo stellato (Fisica e Metafisica) e al Primo Mobile (Morale Filosofia), la seconda all’Empireo (Convivio II xiv, 1-21). Michele Barbi, contro quanti già ai suoi tempi accampavano influenze di Olivi e degli Spirituali francescani, riteneva che a Dante potesse bastare la Bibbia. Il confronto testuale attesta invece quanto intensa sia stata l’elaborazione parodica dell’esegesi. Non a caso la teologia nel Convivio viene definita “una” come la sposa-colomba, preferita alle sessanta regine, alle ottanta amiche concubine e alle ancelle adolescenti delle quali non è numero, secondo il Cantico dei Cantici 6, 7-8, già ispiratore della “pìstola sotto forma di serventese” menzionata nella Vita Nova 2.11 [vi 2], nella quale Beatrice si collocava al nono posto dei sessanta. Quando Dante cominciò a interessarsi all’esegesi della Scrittura? Probabilmente prima della sua frequentazione “nelle scuole delli religiosi e alle disputazioni delli filosofanti” (Convivio, II, xii, 7; a partire dall’estate 1293: cfr. supra), anche se in quella sede avrà avuto modo di studiare ancora la sacra pagina. Quanto prima? Non è possibile rispondere con precisione; se il sonetto Cavalcando mostra i segni di questo interesse, la maggiore accentuazione sembra concentrarsi attorno al 1290, anno della morte di Beatrice: nel 1289 Olivi aveva lasciato Santa Croce, unico luogo dove Dante poteva vedere a Firenze i suoi scritti.
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Il confronto con l’esegesi biblica, una volta ancor più esteso e approfondito, potrà forse aiutare a comprendere meglio le fasi di composizione del “libello”. Per il momento, alla domanda se sia esistita una Ur-Vita Nova alla quale l’episodio della Donna Gentile (o Pietosa) sia stato aggiunto in un secondo momento, la risposta sembra essere negativa. Il “panno” di Cn 8, 2 non è servito infatti solo per i paragrafi della Gentile (cfr. Vita Nova 6 [xiii]; 14 [xxiii]). D’altronde, se il modello è la vita di Cristo e la sua imitazione, dopo la vita (Beatrice), i miracoli (intellettuali) e la passione e morte per la nostra salute subentrano le persecuzioni, i martìri dei suoi discepoli rimasti in terra (Dante): i paragrafi relativi alla Gentile rispecchiano proprio l’esegesi di Cn 8, 2, relativa al moderno martirio psicologico. La terza fase della storia della Chiesa, considerata dall’Olivi in sette stati, dopo il periodo apostolico e quello dei martiri è propria dei dottori che confutano le eresie con la spada della ragione, corrisponde cioè alla filosofia. La costante elaborazione di un testo principale (l’Expositio in Canticum Canticorum di Olivi), già utilizzato dall’autore per le rime precedenti la morte di Beatrice (8 giugno 1290), induce a supporre che la Vita Nova sia stata iniziata prima della frequentazione, a partire dall’agosto 1293, delle “scuole delli religiosi”, includendo alcuni di quei componimenti poetici; il crescente fervore per la filosofia, acceso dagli insegnamenti negli Studia fiorentini, avrebbe introdotto un altro personaggio, la Donna Gentile in contrasto con Beatrice. Sopravvenuta quest’ultima a discacciare uno stato troppo appassionato, il supremo atto contemplativo si sarebbe realizzato nel sonetto Oltre la spera che più larga gira, seguito dalla “mirabile visione” che conclude il “libello” ma apre al futuro della figura di Beatrice per “dire di lei quello che mai non fue detto d’alcuna”, trattando di lei “più degnamente”, con più nobile disposizione d’animo, di lingua e di genere letterario. La promessa sarebbe stata mantenuta, la causa occasionale determinata dall’incontro con altra visione, questa volta profetica, rivelata a Giovanni evangelista e commentata in senso escatologico per il moderno lettore spirituale da Pietro di Giovanni Olivi.
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È anche da valutare in modo nuovo il rapporto tra poesia (che si presume precedere nel tempo) e prosa (che si presume seguire), perché anche la poesia (in particolare alcune rime precedenti la morte di Beatrice) appare segnata da un rapporto con l’esegesi biblica. La scelta delle rime da inserire nel “libello” è stata forse determinata dalla sussistenza o dall’intensità di questo rapporto.
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Nella Commedia, i segni (le parole-chiave), imagines agentes che sollecitano la memoria del lettore accorto verso un altro testo (la Lectura super Apocalipsim), determinano anche dei significati per un preciso pubblico (gli Spirituali francescani). Fra i destinatari fiorentini della Vita Nova, al di là dei rimatori e dei conoscenti [3], c’erano forse anche i francescani di Santa Croce?
[1] Cfr. GIANFRANCO CONTINI, Filologia ed esegesi dantesca (1965) in Un’idea di Dante. Saggi danteschi, Torino 1970 e 1976, p. 135: «Di fronte, se mi si passa il traslato, all’integralismo teologico di Francesco sta la mondanità discretiva del Dante della Commedia, “unicuique suum”».
[2] Vita Nova, p. 254.
[3] SANTAGATA, pp. 188-191.
Tab. VII.1
Cn 1, 3-4, pp. 124, 126, 128[37] “Recti diligunt te” (3f). Ostenso quomodo per conatum desideriorum sponsa ascendit, hic ostendit quomodo per fortem sufferentiam tribulationum seu proeliorum. Et in hac primo praemittit causam huius sufferentiae quae est zelus iustitiae propter Dei amorem. Et ideo primo ostendit quod zelatores seu observatores rectitudinis seu iustitiae sunt sponsi amatores. Secundo: mortificationem et pugnam quam ex zelo sui amoris etiam a suis fratribus sustinuerit, subnectit ostendendo quod huiusmodi mortificatio et despectio non est in ea contemnenda, ibi: “nigra sum” (4a). […]
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Vita Nova 7 [xiv]. 7-14[7] Io dico che molte di queste donne, accorgendosi della mia transfiguratione, si cominciaro a maravigliare, e ragionando si gabbavano di me con questa gentilissima. Onde lo ingannato amico di buona fede mi prese per la mano, e traendomi fuori della veduta di queste donne mi domandò che io avesse. [8] Allora io riposato alquanto, e resurressiti li morti spiriti miei e li discacciati rivenuti alle loro possessioni, dissi a questo mio amico queste parole: «Io tenni li piedi in quella parte della vita di là dalla quale non si puote ire più per intendimento di ritornare». [9] E partitomi da.llui, mi ritornai nella camera delle lagrime, nella quale piangendo e vergognandomi fra me stesso dicea: «Se questa donna sapesse la mia conditione, io non credo che così gabbasse la mia persona, anzi credo che molta pietà le ne verrebbe». [10] E in questo pianto stando propuosi di dire parole, nelle quali parlando a.llei significassi la cagione del mio trasfiguramento, e dicessi che io so bene ch’ella non è saputa, e che se fosse saputa, io credo che pietà ne giugnerebbe altrui; e propuosile di dire disiderando che venissero per aventura nella sua audienza. E allora dissi questo sonetto, lo quale comincia Con l’altre.Con l’altre donne mia vista gabbate, [11]
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Cn 8, 2.5-6, pp. 300, 308, 310[322] “Apprehendam te”, scilicet cum te invenero mihi datum in fratrem modo praedicto, “et ducam in domum matris meae” (2ab). Haec supra tertio, in fine scilicet primae partis principalis, sunt satis exposita (cf. Cn 3, 4).
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Appendice
Il Libro di Giobbe e le sue metamorfosi
Scritto prima del 1283 [1], il commento di Olivi al Libro di Giobbe è fra i più estesi e complessi fra quelli pubblicati dal frate di Sérignan. Petrarca, che forse ricevette la Postilla oliviana dal vescovo di Padova Ildebrandino Conti, la parafrasò nella trasposizione latina della Griselda boccaccesca ivi composta nel 1373 (Sen. XVII, 3) [2]. Il testo era probabilmente già noto a Dante; di ciò si individuano per il momento alcuni significativi indizi, preludio a un più approfondito esame.
■ Il tema dell’abbandonarsi alla volontà divina (Jb 1, 21), che sarebbe stato presente alla Griselda petrarchesca, risuona nel sonetto Ne le man vostre, gentil donna mia. Per quanto l’incipit ripeta le parole di Cristo in Luca 23, 46 – “In manus tuas commendo spiritum meum” -, ai versi 7-8 l’espressione “Signore, / qualunque vuoi di me, quel vo’ che sia” rammenta, oltre che Marco 14, 36 – “non quod ego volo, sed quod tu” -, l’adesione di Giobbe, per amore, alla volontà divina: “Cum igitur hoc ex diuino beneplacito processerit, si Deum amat, debet uoluntatem suam conformare”. Giobbe si conformò lodando la volontà divina, non mormorando per impazienza o bestemmiando; tale dovrebbe essere, secondo Virgilio, il comportamento degli uomini di fronte alla Fortuna: “Quest’ è colei ch’è tanto posta in croce / pur da color che le dovrien dar lode, / dandole biasmo a torto e mala voce” (Inf. VII, 91-93).
■ Canzone per eccellenza dell’esilio, Tre donne intorno al cor mi son venute accenna a tratti a una parodia della condizione di Giobbe. Tre amici vengono a consolarlo (Jb 2, 11: “ei condoluerunt et signa doloris ostendunt … tot signa compassionis sibi ostendentibus … venerunt ad eum”); le tre donne che “venute son come a casa d’amico”, al cuore del poeta dove “siede Amore”, paiono la controfigura di Giobbe: «Ciascuna par dolente e sbigottita / come persona discacciata e stanca … Queste così solette … Dolesi l’una … / discinta e scalza, e sol di sé par donna … e son Drittura; / povera, vedi, a panni ed a cintura … dicendo: “A te non duol de gli occhi miei?”». I tre amici siedono con Giobbe (“sederunt cum eo in terra”); le tre venute “seggonsi di fore” del cuore del poeta. All’inizio Giobbe, mentalmente assorto nel dolore, non rivolge parola ai tre amici (“non poterat bono modo loqui aut aliorum allocutiones multum bene percipere”); Amore, alla venuta delle tre donne “a pena del parlar di lor s’aita” perché colpito dal loro dolore non corrispondente alla bellezza (“Tanto son belle e di tanta vertute”). Il dolore di Giobbe si esprime con una pioggia di lacrime («“Et tamquam inundantes aque, sic rugitus meus” … ad designandum quod cum grandi irriguo lacrimarum gemebat et quod in ipso multiplicabantur et redundabant dolores et gemitus, sicut faciunt unde aquarum inundantium» (Jb 3, 24). Tali le lacrime che sgorgano dagli occhi di Drittura: “Dolesi l’una con parole molto … il nudo braccio, di dolor colonna, / sente l’oraggio che cade dal volto; / l’altra man tiene ascosa / la faccia lagrimosa”.
Dopo ciò Giobbe parla (“aperuit os”) non per impulso passionale, ma con pieno dominio di sé (Jb 3, 1: “nulla passio eum impulit ad loquendum, sed potius ipse cum pleno dominio sui ea protulit”). Si rivolge ai tre amici, i quali si condolevano carnalmente con lui quasi avesse perduto grandi beni, come Cristo disse alle donne di Gerusalemme di non piangere su di lui, ma su sé stesse e sui propri figli per le future sventure che sarebbero sopravvenute (Luca 23, 28). La sua morte temporale, per la quale le donne piangevano, avrebbe recato gloriosa e trionfale vittoria (“ad innuendum quod sua mors erat gloriosa et uictoriosa et in triumphalem gloriam ducens”: cfr. la Lecura super Lucam). Pur nel suo dolore terreno, Giobbe aspira alle eterne dimore (“mansiones eterne”) della vita contemplativa, dove vivono re e principi (gli angeli), divinamente ripiene di oro (sapienza e amore) e di argento (dottrina ed eloquenza). Verso le tre donne, che non ha subito riconosciuto, Amore si è mostrato quasi passionato, “pietoso e fello”, sfrontato con gli occhi “che prima furon folli”; parla poi loro con pieno dominio di sé, affermando che altri debbono piangere sulla perdita delle virtù (“Però, se questo è danno, / piangano gli occhi e dolgasi la bocca / de li uomini a cui tocca”), non lui e le tre donne celesti (“non noi, che semo de l’etterna rocca”), la triste situazione attuale si cambierà in nostro favore (“ché, se noi siamo or punti, / noi pur saremo, e pur tornerà gente / che questo dardo farà star lucente”). Amore parla “poi che prese l’uno e l’altro dardo”, dove la reminiscenza ovidiana (Met. I, 468-471) delle due punte aurea e plumbea, l’una che fa innamorare e l’altra che disamora, sembra concordare con i tesori d’oro e d’argento custoditi nelle “mansiones eterne” della vita angelica. Lo stato nel quale versa Giobbe (Jb 3, 4) è paragonabile all’esilio (“clamat sibi exilium carcerale et quasi supplicium gehennale”), la luce diurna si è tramutata in tenebre (“dies illa vertatur in tenebras”); tale è per Amore e le tre donne sconsolate (“così alti dispersi”) unitamente al poeta (“l’essilio che m’è dato, onor mi tegno: / ché, se giudizio o forza di destino / vuol pur che ’l mondo versi / i bianchi fiori in persi, / cader co’ buoni è pur di lode degno”).
■ La visione notturna narrata da Elifaz il Temanita (Jb 4), nella quale lo spirito angelico parla “sub voce leui et suaui”, quasi impercettibile – “ita quod ipse uix potuit percipere illud” – è accostabile a Virgilio apparso a Dante nella selva – “dinanzi a li occhi mi si fu offerto / chi per lungo silenzio parea fioco” (Inf. I, 62-63) – e alle parole rivolte da Beatrice al poeta pagano – “e cominciommi a dir soave e piana, / con angelica voce, in sua favella” (Inf. II, 56-57).
■ L’Epistola IV di Dante, datata al 1307-1308, indirizzata a un Malaspina (Moroello marchese di Villafranca o, più probabilmente, Moroello di Manfredi, marchese di Giovagallo e sposo di Alagia Fieschi) accompagnò la canzone Amor, da che convien pur ch’io mi doglia (la “montanina”). Il poeta racconta che, presso la corrente dell’Arno (in Casentino), all’improvviso una donna apparve come folgore che discende. Allo stupore iniziale subentrò il terrore provocato dal tuono: come ai diurni baleni succedono i tuoni, così al vedere la fiamma di quella bellezza, Amore terribile e imperioso fece suo il poeta e regnò in lui governandolo.
La situazione prospettata nella lettera si ritrova, quasi con le stesse parole, nell’esegesi oliviana di Giobbe 37, 3-4, dove è lodata con timore l’onnipotente sapienza divina: “Il lampo si diffonde sotto tutto il cielo e il suo bagliore perviene ai confini della terra; dietro di esso ruggisce il tuono, tuona con la sua voce possente e non si ritrova da quando si è udita la sua voce”. Il riferimento, identico nell’esegesi e nell’epistola dantesca, del tuono che fa seguito al lampo, sarebbe certo da considerare luogo comune se non fossero identici anche gli aggettivi usati per definire la potenza di Dio/Amore, che viene con oscuro risplendere e suscita terrore: «“voce” … iudicativa terribilis maiestatis sue et producta imperio potentie sue / Amor terribilis et imperiosus me tenuit».
Nella canzone “montanina” (vv. 46-66), il poeta è disfatto dalla ferita di Amore, che l’ha folgorato “in mezzo l’alpi”: come “trono che mi giunse a dosso” che, se pur mosso da dolce riso, lascia la scolorita faccia per lungo tempo oscura, perché lo spirito è privo del conforto rassicurante. La sapienza divina, è detto nel commento oliviano a Giobbe (Jb 37, 22), è «“formidolosa”, id est cum obscura refulgentia et cum quodam terrore maiestatis divine et iudiciorum eius». L’immagine della Filosofia, con la quale si apre la Consolatio di Boezio (I, pr. i), certamente presente a Dante, sembra incontrarsi, per lettura corrente o per reminiscenza, con il commento a Giobbe dell’Olivi.
■ Il primo discorso di Iahve rivolto a Giobbe, al quale manifesta la sua onnipotenza – «“Indica mihi, si nosti omnia” … id est scias ac doceas … “sciebas tunc”, scilicet quando ego creaui lucem et ordinaui uias et mansiones eius» (Jb 38, 19-21) -, introduce a 38, 29-30 il motivo dell’acqua congelata che per il freddo indurisce come la pietra: qualità di donna, aggiunge l’esegeta: «frigus uero quod est causa congelationis est qualitas feminina … “In similitudinem lapidis aque durantur”, scilicet propter uehementiam frigoris congelantis et condensantis eas». Tema parodiato nella petrosa Amor, tu vedi ben che questa donna, lì dove il poeta si rivolge ad Amore: “Segnor, tu sai che per algente freddo / l’acqua diventa cristallina petra … sì che l’acqua è donna / in quella parte per cagion del freddo … Però, vertù che se’ prima che tempo, / prima che moto o che sensibil luce”.
■ Commentando il cap. XXXVIII, Olivi assimila Giobbe all’ordine evangelico, cioè ai Minori. Il periodo della Chiesa – il sesto stato – iniziato con la conversione di Francesco (1206) e perdurante fino alla distruzione di Babylon, la Chiesa carnale, e alla sconfitta dell’Anticristo (è il tempo di Olivi e di Dante) recherà un novum saeculum, una palingenesi segnata dall’universale conversione a Cristo. In quel tempo pioveranno grazie, stillerà rugiada di dolcezze spirituali, si diffonderà la luce della sapienza, arderà la carità, verrà fecondata l’erba delle virtù. Nuovi apostoli saranno inviati, agili e veloci come il cavallo (cfr. Jb 39, 19-25), elevati come l’aquila (39, 27-30), che disprezza le cose terrene e bada ad adescare quelle spirituali. Tornerà Elia, precursore di Cristo nel suo primo avvento nella carne e ora nel secondo, tramite i suoi discepoli spirituali. Il rinnovamento preconizzato da Olivi sembra parodiato nella prima delle “petrose”, Io son venuto al punto de la rota (databile al 1296 se si identifica con Saturno il “pianeta che conforta il gelo”, al 1304 se tale pianeta è la Luna, come riteneva Boccaccio), con il contrasto tra la durezza della pietra, fredda e gelata, e la pioggia d’amore: “Canzone, or che sarà di me ne l’altro / dolce tempo novello, quando piove / amore in terra da tutti li cieli”. La velocità del cavallo e la spiritualità dell’aquila, nel tempo in cui sapienza, amore e virtù regneranno, non può non ricordare il veltro (Inf. I, 100-105); il ritorno di Elia a ristabilire ogni cosa (Matteo 17, 11) e a pacificare padri e figli (Malachia 4, 5-6) è tema centrale nella Lectura super Apocalipsim di Olivi, che Dante avrebbe parodiato nella Commedia.
■I temi del gelo vitreo, della durezza lapidea, della noiosa pioggia saranno un giorno non lontano fra i temi principali dell’Inferno, dove sono fasciati e permeati dai sensi spirituali portati dalla parodiata Lectura super Apocalipsim. Nel commento oliviano a Giobbe, il quale sentiva la propia situazione come uno stare all’inferno e vederne le pene – “clamat sibi exilium carcerale et quasi supplicium gehennale” (Jb 3, 4), l’esiliato Dante poteva trovare non pochi spunti di riflessione: dall’esegesi di versetti come “Antequam vadam ad … terram miserie et tenebrarum” (Jb 10, 21-22) o “In profundissimum infernum descendet omnia mea” (17, 15) o “Nudus est infernus coram illo” (26, 6) o “Numquid aperte tibi sunt porte mortis et hostia tenebrosa vidisti” (38, 17) alla considerazione dello stato quieto nel limbo delle antiche anime (17, 15); dalla descrizione dello stagno di Cocito (21, 32-33) ai giganti che gemono nell’acqua (26, 5-7), fino al corrispondere per “contrapasso” della pena con la colpa (26, 5-7; 27, 19-22).
■ Dal commento a Giobbe di Olivi non si poteva solo raccogliere una silloge di passi riferiti all’inferno; vi si poteva anche leggere cosa significasse essere profeta, pervasi dallo spirito che spira dove e come vuole, al quale non è possibile resistere. Ma la profezia non era cessata nel tempo della Grazia, con la fine dell’Antico Testamento e la venuta di Cristo? No, asseriva il francescano, stiamo vivendo un secondo avvento di Cristo nello Spirito, interno dettatore ai suoi fedeli, e lo Spirito cresce con il tempo, per cui è ancora possibile profetare, sulle cose presenti ancor più che su quelle future. Sulla via dell’esilio Dante ebbe in mano la Lectura super Apocalipsim, narrazione di una profezia delle cose che debbono avvenire presto; la trasformò, parodiandola, nella Commedia.
[1] Cfr. DAVID BURR, The Book of Revelation, Grand Rapids, MI, 2019 ( The Bible in Medieval Tradition), p. 279.
[2] Cfr. VERONICA ALBI, Il Libro di Giobbe nella novella di Griselda tra Boccaccio e Petrarca, in “Studi sul Boccaccio”, 50 (2022), pp. 123-153: 142-145, 149-150.
Tab. app. I
PETRI IOHANNIS OLIVI Postilla super Iob, cura et studio A. Boureau, Turnhout, Brepols, 2015 |
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Jb I
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DOMINVS DEDIT. Hec est secunda ratio in qua ostendit quod nichil est sibi factum unde iuste conqueri aut turbari posset, quia ille abstulit cuius erant, quin potius adhuc restat unde debet gratias agere ei qui abstulit ea, de hoc scilicet quod gratis ea sibi dederat usque ad tempus illud.
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De hoc igitur tempore, quo tecum multo cum honore longe supra omne meritum meum fui, Deo et tibi gratias ago; de reliquo parata sum bono pacatoque animo paternam domum repe-tere atque ubi pueritiam egi senectutem agere et mori, felix semper atque honorabilis vidua, que viri talis uxor fuerim. Nove coniugi volens cedo, que tibi utinam felix adveniat, atque hinc ubi iocundissime degebam, quando ita tibi placitum, non invita discedo. (PETRARCA, Res Seniles, XVII 3, 110-111)*
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Ex prima autem ratione ostenditur quod bona temporalia sunt homini extrinseca, aduenticia et caduca seu transitura et ideo patens est quod ex eorum amissione non debet homo absorberi. Ex secunda ostenditur quod huiusmodi bona dantur et auferuntur homini a Deo, ex quod concluditur quod ex eorum ablatione non potest homo recte conqueri. Ex tertia ostenditur quod hoc non accidit contra Dei uelle, sed potius secundum beneplacitum diuine uoluntatis, ex quo sequitur quod homo debeat inde gaudere pro quanto est Deo beneplacitum. Sicut enim in sumptione medicine sensui amare aliquis secundum rationem gaudet propter spem, licet sensu turbetur, aut sicut ad perpessionem ictuum milites currunt propter amicitiam regis et propter spem uictorie, sic, licet predicta aduersitas ex se esset sensui amara, debebat tamen esse iocunda ex consideratione diuini beneplaciti et utilitatis propter quam Deo placebat. |
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SIT NOMEN DOMINI BENEDICTVM, id est Deus – sepe enim sumitur nomen pro ipsa re – uel nomen Dei in laudem eius assumatur. In hoc autem uerbo Iob innuit quod hoc opus est tale quod Deus debet ab eo inde laudari. Ex quo etiam innuit quod est opus bonum, quia non est quis laudandus nisi de opere bono.
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Inf. VII, 91-93Quest’ è colei ch’è tanto posta in croce
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I confronti tra Petrarca e Olivi sono tratti da V. ALBI, Il Libro di Giobbe nella novella di Griselda tra Boccaccio e Petrarca, in “Studi sul Boccaccio”, 50 (2022), pp. 123-153: 142-145. |
Tab. app. II
Jb II[pp. 49-51, §§ 241-306 (2, 11)] IGITVR AVDIENTES TRES AMICI IOB etc. […] In prima uero primo narratur quomodo ueniunt ad eum uisitandum et consolandum. Secundo quomodo ei condoluerunt et signa doloris ostendunt ibi: CUVMQUE LEVASSENT. Tertio quomodo se ei coassociauerunt ibi: ET SEDERVNT CVM EO. Quarto quomodo et qua causa nullum uerbum ei dederunt ibi: ET NEMO LOQUEBATVR etc.
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[Jb III, pp. 53-56, §§ 55-69, 159-167 (3, 1)] Vnde et in titulo huius planctus signanter premittitur POST HOC APERVIT OS, id est post septem dies continui silentii. In hoc enim aperte innuit quod qui post tantum silentium uerba hec protulit ex magno ordine rationis ea protulit. Vnde et signanter dicitur quod APERVIT OS, scilicet dicens quod nulla passio eum impulit ad loquendum, sed potius ipse cum pleno dominio sui ea protulit. Cum enim aliquis loquitur ex impetu passionis, tunc ipse non uidetur aperire os suum, sed agitur passione ad loquendum. Cum uero ex ratione et secundum rationis ordinem, tunc loquimur ut domini nostri actus et nostre loquele. Vnde consuetudo est scripturarum quod, quando aliquis debet dicere grandia et ex alto et profundo sensu cordis, premittit et aperuit os, sicut patet de Christo, Matth. V. […]
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[Lectura super Lucam, pp. 636-837 (Lc 23, 28)] Tertium est eius a mulieribus ipsum sequentibus lamentatio, ibi: que plangebant. Quartum est lamentationis earum a Christo reiectio et alterius lamentationis ab eis assumende ostensio, ibi: Conuersus autem ad illas Iesus dixit: Filie Ierusalem, nolite flere super me.
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vv. 55-90Fenno i sospiri Amore un poco tardo;
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[Jb III, pp. 66-68, §§ 506-515, 545-549 (3, 4)] Si quis uult uerba huius planctus sub debito sensu breuiter et cito comprehendere, ymaginetur Iob tunc fuisse in tali statu quod tam impulsu diuini spiritus quam excessiuo ardore sue caritatis, quam altitudine sue contemplationis, quam stimulo urgente sui sensibilis doloris et sue totalis aduersitatis in tantum superfertur huic vite et in tantum desiderat alteram, eternam et beatam quod omnia que uidet et circumspicit inferius in hoc mundo sensibili clamat sibi exilium carcerale et quasi supplicium gehennale, ita quod omnia occurrunt sibi ut amara et amaricantia et ut quidam laquei seu cathene. […]
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Tab. app. III
Jb IV[pp. 93-94, §§ 255-272, 286-291 (4, 12-13)] In prima dicit quod tempore nocturno sompnii subito pauor iniuit in eum, ita quod totus usque ad intima ossium cepit contremiscere, et tunc quidam spiritus angelicus cepit coram presentia eius seu coram eo transire, ex quo in tantum territus fuit quod omnes pili carnis sue ceperunt erigi et obrigescere. Cumque sic transisset coram eo, fixit gradum et stetit apparens ei in specie humana, ita tamen quod ex uisu faciei eius non discernebat in singulari quis ille esset, sicut contingit homini quando uidet personam extraneam, cuius formam numquam alias uidit nec per aliorum famam audiuit. Discernebat tamen quod illa forma erat ymago seu ymaginatiua, non autem naturale corpus ipsius spiritus. Hic ergo locutus est ad eum sub uoce leui et suaui, sicut facit homo, quando alicui ualde demisse loquitur ad aurem. Vnde ipse percepit uerba eius raptim et ualde exiliter, ualde secrete, quasi in abscondito, sicut fit, quando aliquis loquitur ad aurem sub silentio et ualde celeriter unum breue uerbum, quemadmodum faciunt fures et susurrantes qui, quando sic inuicem loquuntur, celant se et sua dicta ab aliis siue remotis siue circumstantibus. […] Hec autem omnia dicit ad magnificandum uerbum sibi dictum, ut scilicet ostendat quod fuit uerbum ualde archanum et superintellectualem et ualde singulare, ita quod ipse uix potuit percipere illud. Vunde et multum tenuiter illud percepit et quod fuit a persona multum sublimi, modo simul terribilissimo et familiarissimo sibi dictum. |
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Inf. I, 61-63
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Inf. II, 52-57Io era tra color che son sospesi,
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Tab. app. IV
Tab. app. V
Tab. app. VI
Jb XXXVIII[pp. 548-543, §§ 654-697] Sexto debuit nasci status euangelicus similis Iob qui preter communem spem ecclesie prius dilatate nasciturus erat, cuius tempus et numerum Deus nouit. In hoc autem tempore debet esse magna preparatio et effusio gratiarum. Reuelabuntur enim thesauri scripturarum, in quo sunt thesauri niuis, id est puritatum euangelicarum, et thesauri grandinis, id est iudiciorum finalium, preparati a Deo ad debellandum hostem principalem qui in psalmo dicitur singularis ferus. In illo autem tempore super ecclesiam electorum larga manu effundetur [lux] sapientie et ardor caritatis ut iterum sicut et tempore apostolorum instar uehementissimorum ymbrium et tonitruorum sonantium percurrant deserta nationum infidelium ad fecundandum illas pluuiis gratie et herbis uirtutum uirentium. Et in die illa stillabunt pluuie gratiarum et ros spiritualium dulcorum, ita ut omnes admirentur patrem tante pluuie talisque roris. E contrario uero in reprobis refrigescet tunc caritas, et aque fluxibiles populorum seu cordium humanorum indurabuntur quasi lapis, et superficies multorum infidelium constringetur et indurabitur contra predicationem electorum. Septimo describitur septimus status ecclesie, in quo celestis Ierusalem et admirabilis ac indissolubilis ordo eius per claram contemplationem illucescet et ordo eius imprimetur in terris. Et tunc apparebit quod impossibile est dissipare cursum celestem tam quoad septiformem gratiam Spiritus sancti designatam per lapides, quam quoad acies septiformis Christi exercitus, contra turbines Aquilonis se circumgirantes, designatas per girum Arcturi. Hic etiam apparebit quod sicut in principio nascentis ecclesie produxit Deus Luciferum, id est Iohannem Christi precursorem, sic in fine faciet consurgere Vesperum, id est Eliam et eos qui in Elia mistice designantur, quamuis unusquisque eorum respectu future ecclesie potuerit dici Lucifer et respectu preterite potuerit Vesperus nominari. Tunc igitur ponetur ordo celestis hierarchie in terra. Leuabit enim Deus uocem altissime predicationis in nebula mistice contemplationis, ad quam sequ[e]tur impetus aquarum, id est gratiarum operientium terram. Mittet enim tunc Deus fulgura quasi nouos apostolos, uiros scilicet feruidos, agiles, lucidos, subtiles, acutos, omnia penetrantes et incendentes, qui sic ad exteriora ibunt quod semper per contemplationem et per rectam intentionem Deo assistent et per obedientie promptitudinem dicent Deo assumus. Tunc igitur dabitur homini sapientia mistica et gallo, id est ordini doctorum, celestis cursus seu diuine prouidentie dabitur intelligentia. Et quia per hoc celi ordo ponetur in terra, ideo signanter repetit: quis enarrabit celorum rationem et cantum concordem diuinarum laudum quis cessare faciet?. |
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Rime, 43 (C), 66-72 (Contini, p. 155)Canzone, or che sarà di me ne l’altro
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Inf. I, 100-105Molti son li animali a cui s’ammoglia,
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Jb XXXIX[pp. 564-566, §§ 291-331 (Jb 39, 26-30)] Licet autem in quolibet tempore ecclesie fuerint aliqui ypocrite, quasi strutiones, potissime tamen in fine quinti temporis ecclesiastici mundant et mundabunt colorem quidem et habitum, primis contemplatiuis et doctoribus similes, sed ambitione et inani gloria pennas dissolutas habentes et ideo de salute animarum realiter non curantes et precipue de hiis qui erunt ueri et perfecti filii gratie. Sicut enim synagoga, uelut altera strutio, indurata est contra suos spirituales filios, id est Christum et apostolos, quia [nesciuit] spiritualem sapientiam noue legis, sic ypocritalis ecclesia finalium temporum se habebit ad filios euangelici zeli. Sicut etiam synagoga duabus alis, phariseorum scilicet et scribarum, eleuata derisit Christum hominem et spiritum diuinitatis sue et tandem cetum apostolicum et spiritum ascensorem eorum, sic et illa equum strenue militie in initio sexti et circa finem quinti temporis suscitande pro nichilo ducet. Qualis igitur erit ille equus, optime describitur: erit enim mirabilis robore et efficacia innitus seu doctrine, mirabilis in saltu, quia agiliter petet alta et quasi uolando pertransiet foueas ruinosas. Iste in auditu futurarum tribulationum gloriabitur cum mira letitia et audacia currens ad certamina, nulli terrori aut rationi aut clamori uel passioni cedens, sed feruens et fremens sorbebit terrenos. Hic erit perspicacissimus in discernendo duces capitalium uitiorum, id est septem capita bestie et drachonis, eorumque persuasiones que respectu ululatum bestialis plebis quasi exhortationes rationabiles uidebuntur.
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Tab. app. VII
Tab. app. VIII
Jb III, 26, pp. 81-82, §§ 1022-1041] Spiritus enim diuinus mouet mentes sanctorum prout uult et quomodo uult et quando per efficacissimos sensus et per fortissimos influxus et illapsus medullas cordis agitat et impellit, non est in potestate hominis prohibere spiritum. Vnde Amos III dicitur: dominus Deus locutus est. Quis non prophetabit? Et Ieremias XX° capitulo ait quod, cum ipse uellet cessare a loquendo sermonem Domini, quod factus est in corde suo quasi ignis exestuans claususque in ossibus suis et defecit fere non sustinens. Credendum autem quod uir, cui in uirtute non erat similis in terra, in tam forti tamque diuturno certamine passionum singularissime agebatur et regebatur a diuino spiritu et ideo credendum est quod ex singulari influxu et impetu huius spiritus protulerit uerba ista. Rursus sciendum quod secundum diuersas dispositones diuersosque status persone tam quoad animum sint sancti faciliores et promptiores ad dandum se aliquibus diuinis conceptibus et exercitiis virtualibus quam aliis. Vnde aliquando sunt prompti et feruidi ad deploranda peccata, aliquando ad deplorandum incolatum nostri exilii, aliquando uero ad spiritualem psalmodiam et iubilum de superiocundis et superadmirabilibus bonitatibus et perfectionibus summi Dei et sic de aliis. |
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[Jb IV, 16, pp. 99-100, §§ 457-493] Ad secundum dicendum quod tempore gratie cessauit prophetia respectu primi aduentus Christi qui fuit in carnem, non autem secundi qui est in spiritum – quia hic nondum est plene impletus, sed spiritus de die in die magis impletur – nec respectu ad tertium qui est ad iudicium. Item etsi prophetia, prout est de futuris, quoad quid cessauit, prout tamen est de presenti uel preterito non oportet quod cessauit. Et tamen ab hiis quero an in Apocalipsi et in epistolis Pauli et in euangelio multe prophetie contineantur. Et nisi sint infideles, dicent quod sic. Rursus numquid negabunt omnes uisiones sanctorum quas in libro Dialogorum narrat Gregorius et omnes visiones Francisci, utpote seraphini imprimentis stigmata, et uniuersaliter omnes uisiones sanctorum a tempore Christi et citra? Quis hec omnia neget nisi omnino insanus?
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Fonti
DANTE
Vita Nova, a cura di G. Gorni, Torino, 1996 (viene indicata anche la paragrafazione del Barbi).
Rime, a cura di G. Contini, Torino 1939 e 1995.
Convivio, a cura di F. Brambilla Ageno, Firenze 1995 (Società Dantesca Italiana. Edizione Nazionale).
La Commedia secondo l’antica vulgata, a cura di G. Petrocchi, Firenze 1994.
Epistole, a cura di A. Frugoni-G. Brugnoli, in Dante Alighieri, Opere minori, II, Milano-Napoli 1979, pp. 505-643.
PIETRO DI GIOVANNI OLIVI
On the Bible. Principia quinque in Sacram Scripturam, ed. D. Flood – G. Gál, St. Bonaventure University, New York 1997 (Fran-ciscan Institute Publications, Text Series, 18).
Expositio in Canticum Canticorum, curavit J. Schlageter, Ad Claras Aquas Grottaferrata 1999 (Collectio Oliviana, II).
Postilla super Iob, cura et studio A. Boureau, Turnhout, Brepols, 2015.
Lectura super Matthaeum, Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, ms. Vat. lat. 10900.
Lectura super Lucam et Lectura super Marcum, critice editae a F. Iozzelli OFM, Ad Claras Aquas, Grottaferrata 2010 (Collectio Oliviana, V).
Lectura super Apocalipsim.
Expositio super Regulam Fratrum Minorum, ed. D. Flood, Wiesbaden 1972 (Veröf-fentlichungen des Instituts für Europäische Geschichte Mainz, 67).
Quaestio de altissima paupertate, ed. J. Schlageter, Das Heil der Armen und das Verderben der Reichen. Petrus Johannis Olivi OFM. Die Frage nach der höchsten Armut, Werl/Westfalen 1989 (Franziskanische Forschungen, 34).
Quaestiones in secundum librum Sententiarum, ed. B. Jansen, Ad Claras Aquas, prope Florentiam, 1922-1926 (Bibliotheca Franciscana Scholastica Medii Aevi, IV-VI).