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Gen 01 2025

La parodia del sacro: alle origini delle “nove rime” di Dante

 

 

 

 

 

 

 

 

Introduzione. 1. Martirio e pietà: la Donna Gentile (o Pietosa) e Francesca. 2. Amore sulla via di Emmaus. 3. Chi è costui che vene?”. 4.“Apparve prima la gloriosa donna della mia mente”. 5. Incipit Vita Nova”. 6. Le “nove rime”. 7. Punti fermi e problemi aperti. Appendice: Il Libro di Giobbe e le sue metamorfosi. Fonti.

ABSTRACT

This essay, beginning a new research field, demonstrates how the parody of Biblical exegesis – particularly Petrus Iohannis Olivi’s Expositio in Canticum Canticorum and Lectura super Lucam – highly influenced the inception of Dante’s “nove rime” in 1290 circa, when Beatrice died. Vita Nova is a story about a new advent of Christ, the “miracle” Beatrice, who was much admired by the people whose hearts she filled with wonder. Beatrice was an intellectual rather than a physical “miracle”, beheld by those who had “intelletto d’amore”.  It is by no means casual that Dante’s “nove rime” were published around or immediatly after the time when Olivi was teaching theology in Florence at the franciscan Studium of Santa Croce between 1287 and 1289.
The angel who appeared to Zachary, described in Olivi’s Lectura super Lucam as a divine power whose terrifying and dumbfounding qualities made people tremble, is also found in the apparition of the “angiola giovanissima” whose virtue made Dante’s heart tremble almost at the end of his ninth year.
According to Gregory the Great’s assertions quoted in Olivi’s commentary on the Canticle of Canticles, the admirable, albeit false, image of truth arising from the Antichrist’s subtle deception shakes the compassionate modern martyrs. Their tribulations are found again in the poet’s pensive and troubled “battaglia de’ pensieri”, when the Donna Gentile of his mind –  “quella pietosa / che si turbava de’ nostri martiri” – appears before his eyes (Vita Nova, 27 [xxxviii].4,10). This Donna, which Guglielmo Gorni defined as “a real figure of the Antichrist, sinisterly perverse”, is a truly fervent “adversario della Ragione … desiderio malvagio e vana tentatione” against which the image of Beatrice arose (ibid., 28 [xxxix]).
The same quotation from the Moralia in Iob by Gregory the Great, contained in Olivi’s commentary on the Canticle of Canticles, is found in the notabile X of the prologue of Lectura super Apocalipsim (completed in 1298, year of Olivi’s death). This allows a comparison between the “Donna Gentile” (or the “Donna Pietosa”) in the Vita Nova and Francesca in the Commedia (Inferno V): both tempt Dante with pity and cause him to doubt.
Hence, Dante came across Olivi’s Scriptural exegesis in Santa Croce of Florence before he attended philosophy lessons at the “scuole delli religiosi” after the death of Beatrice (Convivio II, xii, 7). The exegesis became the poet’s ‘guide’ to concurring human knowledge: perhaps Guido Cavalcanti’s “disdegno” (Inf. X, 63) for this guide separated Dante from his first friend.
This explains the astonishing relationship of parody – the main subject of the research published on this website – that Dante created between his “sacred poem” and the Lectura super Apocalipsim during his exile. The literal meaning of the Commedia contains keywords that, through a technique of the art of memory, refer those who – the Spiritual Franciscans – should have reformed the Church by preaching.
According to Olivi, as exposed in the Lectura super Apocalipsim, the sixth period (status) of the Church’s history corresponds to modern times upon which all the enlightenment and the malice of the past falls. The second advent of Christ in the sixth period of the Church (the advent in the Spirit, after the first advent in the flesh and long before the third in the judgement) brings a vita nova to His spiritual disciples. A spiritual rebirth leads to a novum saeculum. Although Olivi is very cautious about using pagan authors, his statement concerning this renovatio and Virgil’s Fourth Eclogue spiritually and even literally correspond perfectly.
In the sixth period of the Church, spiritual men are sent to prophesy again to many nations as in the apostolic days of Saint John. However the new “John”, author of a new Revelation, does not denote only an Order, since Olivi don’t not exclude individual revelations to “singulares personae” who perfectly imitate Christ and are devoted to the conversion of all the nations with their “learned tongue” (“lingua erudita”).
Olivi’s sixth period of the history of the Church, characterised by freedom to speak given to the preachers, as dictated from within in order to open hearts, is remarkably consonant with Dantesque poetics, as shown in the sixth terrace of Purgatory during the meeting with Bonagiunta Orbicciani from Lucca. Dante’s poetics is based on the ‘breath of Love’ and ‘noting’, meaning closely following what he within ‘dictates’, almost as if an evangelical rule had been imposed and accepted (Purg. XXIV, 52-54: “I’ mi son un che, quando / Amor mi spira, noto, e a quel modo / ch’e’ ditta dentro vo significando”).

Introduzione

1293: “nelle scuole delli religiosi”. Nel dodicesimo capitolo del secondo trattato del Convivio (II, xii, 2-7) Dante scrive che, dopo la morte di Beatrice (8 giugno 1290) – “come per me fu perduto lo primo diletto della mia anima” -, preso da sconforto – “io rimasi di tanta tristizia punto, che conforto non mi valea alcuno” -, si consolò leggendo, “dopo alquanto tempo”, Boezio e il Laelius de amicitia di Cicerone. La lettura lo portò a considerare “che la filosofia, che era donna di questi autori, di queste scienze e di questi libri, fosse somma cosa. Ed imaginava lei fatta come una donna gentile …”. Così cominciò “ad andare là dov’ella si dimostrava veracemente, cioè nelle scuole delli religiosi e alle disputazioni delli filosofanti”. Nel secondo capitolo del medesimo trattato del Convivio (II, ii, 1-2), Dante asserisce che dalla morte di Beatrice erano passate due rivoluzioni di Venere, cioè 1168 giorni (3 anni e 72 giorni), “quando quella gentile donna [di] cui feci menzione nella fine della Vita Nova, parve primamente, acompagnata d’Amore, alli occhi miei e prese luogo alcuno nella mia mente”. L’incontro con la filosofia sarebbe dunque avvenuto nell’estate 1293 (i calcoli conducono al 21 agosto di quell’anno); ad esso sarebbe seguita la frequentazione delle “scuole delli religiosi”, che a Firenze erano la domenicana a Santa Maria Novella e la francescana a Santa Croce.
Dante continua (II, ii, 3-5) affermando che l’amore per la filosofia richiese tempo per maturare: “Ma però che non subitamente nasce amore e fassi grande e viene perfetto, ma vuole tempo alcuno e nutrimento di pensieri, massimamente là dove sono pensieri contrari che lo ’mpediscano, convenne, prima che questo nuovo amore fosse perfetto, molta battaglia [essere] intra lo pensiero del suo nutrimento e quello che li era contrario, lo quale per quella gloriosa Beatrice tenea ancora la rocca della mia mente”. Il poeta si riferisce certamente alla sua “battaglia de’ pensieri”, per la Gentile o per Beatrice, descritta nei paragrafi 24 [xxxv] – 27 [xxxviii] della Vita Nova, al termine della quale la “Beatrice beata” prevale sul “desiderio malvagio e vana tentatione” che la Gentile rappresenta (paragrafi 28 [xxxix] – 31 [xlii]). Nel Convivio invece a vincere è la filosofia, il “nuovo pensiero, che era virtuosissimo sì come vertù celestiale”; e il frutto della vittoria la canzone Voi che ntendendo il terzo ciel movete, composta (II, xii, 7) circa trenta mesi dopo l’inizio della frequentazione delle “scuole delli religiosi”, cioè nei primi mesi del 1296. Nel periodo che va dall’incontro con la filosofia (agosto 1293) alla vittoria di questa (febbraio? 1296; un possibile anticipo al 1294 è dato dall’incontro a Firenze con Carlo Martello avvenuto nel marzo di quell’anno e ricordato dallo stesso re, citando la canzone, a Par. VIII, 37) sarebbero state pertanto scritte le parti della Vita Nova riguardanti la Donna Gentile [1].

Prima del 1293: la questione dell’incontro con Olivi a Santa Croce (1287-1289). L’autobiografia dantesca esposta nel Convivio, con i problemi interpretativi che comporta, riguarda esclusivamente l’incontro con la filosofia, inizialmente appresa leggendo Boezio e Cicerone, poi approfondita nelle “scuole delli religiosi”. Dante parla anche di una sua formazione nell’arte di grammatica” (Cv II, xii, 4); tace sull’apprendimento della teologia, la “notitia Dei” fondata sull’esegesi della Scrittura, materia che pure lo renderà presso i contemporanei poeta theologus per eccellenza [2].
Già nel 1929, Alois Dempf accostava, in Sacrum Imperium, la Lectura super Apocalipsim del francescano Pietro di Giovanni Olivi, terminata poco prima della morte dell’autore nel 1298, alla Commedia, iniziata intorno al 1307-1309, come due “Apocalissi gioachimite” [3]. Nel 1932, nel saggio Dante und Joachim von Fiore, Herbert Grundmann riteneva ragionevole supporre che, per quanto non esistano prove documentarie al riguardo, Dante avesse frequentato, insieme a Ubertino da Casale, le lezioni di
Olivi, lettore di teologia nello Studium francescano di Santa Croce tra il 1287 e il 1289, tanto forte fu la vicinanza spirituale del poeta con i due frati minori [4]. Più decisamente due anni dopo, in Ecclesia Spiritualis, Ernst Benz asseriva che Dante apprese delle attese escatologiche “dalla bocca dello stesso Olivi” [5]. Charles Till Davis, che negli anni ’60 aveva iniziato le ricerche sulla biblioteca di Santa Croce, esprimeva il dubbio che, se pure poté studiare anche la teologia alle “scuole delli religiosi” (cioè dopo la morte di Beatrice, quando vi andò per la filosofia), Dante avesse ben avvertito, “prima del 1290, il vigore del forte movimento degli spirituali di Firenze” [6]. E a partire dal 1965 Raoul Manselli, in numerosi saggi sull’argomento, spostava il problema del rapporto di Dante con la persona di Olivi alla sua relazione con un ambiente e con un mondo di idee pregno della testimonianza lasciata a Santa Croce dal frate di Sérignan: Olivi e Ubertino potevano non essere stati una fonte di Dante ma erano voci dell’Ecclesia spiritualis, di cui Dante aveva condiviso le speranze fondamentali [7]. Si trattava, in ogni caso, di ipotesi seriamente fondate, ma sul contenuto della Commedia, nella quale appare evidente la consonanza del poeta con gli Spirituali francescani, non però sulle opere scritte a Firenze prima dell’esilio o comunque precedenti il “poema sacro”. Una recente ricerca ha proseguito le indagini del Davis sulla biblioteca di Santa Croce; nel suo ambito, per quanto riguarda Dante, sono stati studiati i quodlibetales del francescano Petrus de Trabibus come esempio di disputazione teologica al tempo in cui il poeta frequentava quello Studium e scriveva la Vita Nova; il rapporto con Olivi e la sua straordinaria esegesi biblica, autorevolmente supposto nel passato, è stato dichiarato indimostrabile [8].

1307/1309-1321: la “Commedia” come parodia della “Lectura super Apocalipsim”. La ricerca sin qui condotta, pubblicata su questo sito e in parte a stampa, rivela un fatto del tutto nuovo e insospettabile: Dante ha scritto la Commedia elaborando materialmente, dal latino in volgare, la Lectura super Apocalipsim di Pietro di Giovanni Olivi, libro-vessillo degli Spirituali francescani completato a Narbonne poco prima della morte del suo autore, nel 1298. Questa intertestualità, che meglio può essere definita parodia, diffusa per tutto il “poema sacro”, regolata da precise norme la cui costanza non consente dubbio sul fatto in sé, lascia aperto il campo alle interpretazioni circa le possibili cause di tanta tecnica e intima rispondenza dei due testi. Per il momento si affacciano tre ipotesi:

a) Il senso letterale della Commedia contiene parole che sono chiave di accesso a un altro testo, la Lectura super Apocalipsim dell’Olivi. Si tratta di un procedimento di arte della memoria: le parole-chiave operano sul lettore come imagines agentes che lo sollecitano verso un’opera di ampia dottrina, che già conosce, ma che rilegge mentalmente parafrasata in volgare, profondamente aggiornata secondo gli intenti propri del poeta, in versi che le prestano “e piedi e mano” e la dotano di exempla contemporanei e noti. Nel senso letterale del “poema sacro” sono incardinati gli altri sensi interpretativi: allegorico, morale, anagogico (che Dante, nell’Epistola a Cangrande, definisce collettivamente “mistici” o “allegorici”). Dante mirava non solo a un pubblico di laici, o genericamente di chierici, ma anche di predicatori e riformatori della Chiesa – agli Spirituali francescani, e forse non solo ad essi, se la Lectura si fosse diffusa anche presso altri Ordini -, a coloro cioè che con la predicazione avrebbero potuto riformare la Chiesa e con la “lingua erudita” – il suo volgare – convertire il mondo. Questo pubblico di religiosi non si formò, perché gli Spirituali (non un gruppo organizzato, ma di sensibilità comune), i quali dovevano conoscere la Lectura oliviana, furono perseguitati e il loro libro-vessillo, censurato nel 1318-1319 e condannato nel 1326, fu votato alla clandestinità e quasi alla sparizione.

b) Più luoghi della Commedia rinviano, tramite parole-chiave, a un medesimo luogo dell’esegesi esposta nella Lectura. Ciò significa che quella stessa esegesi è stata utilizzata in momenti diversi della stesura del poema. La persistenza di un “panno” – cioè di un altro testo da cui trarre i significati spirituali del poema, materialmente elaborati attraverso le parole – è servita a mantenere l’unità e la coerenza interna dell’ordito, della “gonna”, per usare l’immagine di san Bernardo a Par. XXXII, 140-141. Che il poema sia stato pubblicato per gruppi di canti, non più modificabili, oppure per cantiche riviste, sempre stava innanzi all’autore la medesima esegesi teologica con le innumerevoli possibilità di variazioni tematiche e di sviluppi semantici.

c) Come terza ipotesi si può ricordare quanto affermò Charles Southward Singleton nell’annunciare la scoperta del numero sette come centrale della Commedia, rivelatore di una mirabile struttura nascosta ancora tutta da decifrare. Come nella cattedrale di Chartres gli scalpellini lasciarono bellissimi fregi a grande altezza, dove occhio umano non sarebbe potuto arrivare, così l’ordine e l’intelligenza interiore del poema non furono concepiti solo per la vista degli uomini: “quel disegno, qualunque fosse il suo posto nella struttura, l’avrebbe veduto Colui che tutto vede, Colui che ha creato il mondo con meraviglioso ordine, in pondere, numero, mensura; e l’avrebbe certo guardato come prova che l’architetto umano aveva imitato l’universo che Egli, divino architetto, aveva creato innanzi tutto per la propria contemplazione, e poi, per la contemplazione degli angeli e degli uomini” [9]. La struttura semiotico-spirituale del “poema sacro”, espressione dell’io del pellegrino, sarebbe stata concepita solo “al servigio dell’Altissimo”.

La prima ipotesi è la più probabile. In primo luogo, perché la Commedia mostra un ordine interno diverso da quello che appare al comune lettore che non conosce la Lectura super Apocalipsim. Il viaggio di Dante ha un andamento ‘topografico’ di ciclici settenari, che corrispondono ai sette stati o periodi della storia della Chiesa, cioè alle categorie con le quali Olivi organizza la materia esegetica. È un ordine registrabile per zone progressive del poema dove prevale la semantica riferibile a un singolo stato, dirompente i confini letterali stabiliti dai canti e da tutte le divisioni materiali per cerchi, gironi, cieli. Questo andamento ciclico per stati risponde a un percorso interiore, di progressiva illuminazione della verità, che non è riservato al solo autore.
In secondo luogo, perché la collocazione delle parole-chiave, che sollecitano la memoria verso l’ampia dottrina apocalittica, è tale da richiedere la collaborazione del lettore consapevole, facendo appello al suo ingegno. Si veda per tutti il caso della “signatio”.
In terzo luogo, perché nel “poema sacro” che si propone come nuova Apocalisse, scritta da un nuovo Giovanni, all’allegoria intesa come “una veritade ascosa sotto bella menzogna” (Convivio II, i, 3), cioè sotto la lettera della poesia che diletta, si sostituisce la metafora della Scrittura, che Tommaso d’Aquino riteneva necessaria, utile e occulta per esercitare nello studio e contro le irrisioni degli infedeli (Summa Theologiae, I, qu. I, a. 9), e dunque i “sensi mistici”, come nella Bibbia, sono rivolti a un pubblico che può intenderli [10].
Per quanto la prima ipotesi sia la più probabile, le tre prospettive non si escludono: Dante avrebbe individuato un particolare tipo di pubblico – il che non contrasta con il voluto carattere polisemico del “poema sacro”, secondo quanto l’autore stesso afferma nell’Epistola a Cangrande (Ep. XIII, 20) -; il messaggio indirizzato a questo pubblico costituiva la struttura interiore della Commedia, permanente nella sua stesura; l’elaborazione della Lectura dell’Olivi confermava il poeta nella sua coscienza di essere il nuovo Giovanni, autore della nuova Apocalisse esprimente una vera visione, inviato come l’evangelista a predicare di nuovo al mondo, dopo gli apostoli, per la conversione universale.
L’arte della memoria per parole-chiave poteva servire al pubblico degli Spirituali come all’autore. Il fatto che gruppi di terzine numericamente corrispondenti, a diversi stadi della Commedia, contengano parole-chiave che conducono alla medesima pagina esegetica della Lectura indica che queste parole, se dovevano essere per il lettore spirituale signacula mnemonici di un altro testo, erano per il poeta anche segni del numero dei versi, luogo dove collocare i medesimi signacula in forma e contesto diversi (esempi: Ap 5, 8; 7, 3-47, 13-14).
Con l’esegesi dell’ultimo libro canonico, esposta in una teologia della storia che comprende per settenari tutta la Scrittura, la quale a sua volta è forma, esempio e fine di ogni scienza, concorda ogni conoscenza, ogni esperienza, ogni soluzione indipendente data a questioni dottrinali. La Lectura non è una fonte; è il liber concordiae nel quale qualsiasi fonte trova la sua collocazione nella storia dei disegni divini e delle illuminazioni sapienziali.
Ciò che Olivi scrive della storia della Chiesa e della gloria di Cristo viene nella Commedia diffuso su tutte le persone e le forme, antiche e nuove, del nostro mondo. Il saeculum humanum rivendica la propria libertà nella sfera della lingua, delle leggi della natura, della ragione, nella definizione del regime politico, nell’uso degli autori classici; nel “poema sacro” lo spirito profetico della nuova Apocalisse inserisce il particolare in un processo storico universale che manifesta i segni della volontà divina.
La sistematica parodia della Lectura non portò Dante ‘a farsi frate’, fu una metamorfosi che estese laicamente i temi dell’escatologia francescana e gioachimita al saeculum humanum e alle sue nuove esigenze. Che si tratti dell’esercito di Cristo o dell’Anticristo con il quale combatte, sono gli individui ad appropriarsi del campo. Il particolare, con le passioni umane e i dissidi cittadini, viene inserito in una storia universale dei disegni divini. La storia di Roma narrata dall’aquila per bocca di Giustiniano e, in generale, gli “antichi” partecipano della sacralità della Chiesa la cui storia si fa umanistica (cfr. la parodia dell’esegesi in Enea, Virgilio, negli “spiriti magni” del Limbo, oppure nell’“umile Italia”). Beatrice parla della libera volontà parodiando quanto scritto da Olivi sul voto evangelico. Il rapporto di parodia sacra che la Commedia instaura con la Lectura, ultima grande espressione dell’escatologismo medievale, è segno dell’inizio dell’“autunno del Medioevo”.

Tra Lunigiana e Casentino, 1306-1309. Dopo la morte di Olivi a Narbonne (14 marzo 1298), la Lectura super Apocalipsim si diffuse subito in Italia. Bonifacio VIII (morto l’11 ottobre 1303) ne affidò all’agostiniano Egidio Romano una confutazione non pervenutaci; Ubertino da Casale, tra marzo e settembre 1305, l’aveva accanto a sé mentre scriveva a La Verna l’Arbor vitae crucifixae Jesu riportandone nel quinto libro interi ed estesi brani. L’anno dopo Ubertino divenne cappellano del cardinale Napoleone Orsini il quale, fra le varie legazioni affidategli da Clemente V, nel 1306 e 1307 si adoperò per il ritorno a Firenze degli esiliati, azione che fallì dopo il mancato scontro a Gargonza tra i Neri e le truppe del Cardinale, ospite dei conti Guidi [11]. Nell’ottobre 1306 Dante era in Lunigiana come procuratore di pace con il vescovo di Luni per conto dei Malaspina; nel 1307, o nell’autunno 1308, si trovava in Casentino, da dove inviò a Moroello la canzone “montanina” [12]. Dopo la delusione seguita alla sconfitta dei Bianchi alla Lastra nel 1304, il poeta era aperto ai tentativi di riconciliazione. Negli stessi anni, e in luoghi contigui se non coincidenti, Dante e Ubertino lavoravano per la pace, e si può ben immaginare quanto l’attività del frate e del cardinale stesse a cuore al poeta. Fu quella l’ultima possibilità che Dante ebbe di rientrare a Firenze prima dell’inizio della stesura della Commedia.
Dante lasciò incompiuto il Convivio per dedicarsi al “poema sacro”, un’opera radicalmente diversa, come scrisse Giorgio Petrocchi: “un totale commovimento etico-religioso, […] ben oltre la visione allegorica della Vita Nuova, irrompe nelle prime terzine dell’Inferno[13]. Cosa gli fece cambiare idea tra il 1307 e il 1309? Asserì Antonino Pagliaro: “Perché Dante abbia scritto la Commedia, nessuno potrà mai dire con certezza, giacché, né le circostanze esterne della sua vita, né lo sviluppo della sua arte, come si può cogliere dalla Vita Nuova alle canzoni filosofiche e alla loro interpretazione nel Convivio, appaiono come presupposti, condizioni necessarie al grandioso discorso con se stesso e con gli uomini, che egli inizia come all’improvviso” [14]. Un fatto incontrovertibile, la parodia della Lectura super Apocalipsim di Olivi condotta per l’intero poema, ipertesto che elabora un ipotesto, consente di formulare nuove ipotesi. Si può supporre che Dante, in un momento imprecisabile ma successivo all’autunno 1306, abbia avuto il testo della Lectura da Ubertino. Tale testo, prima di essere parodiato, dovette essere dal poeta sottoposto a una riorganizzazione. Il commento apocalittico procedeva infatti seguendo i capitoli del testo canonico. Ma esso, sulla base delle indicazioni date nel prologo dallo stesso Olivi, poteva essere più utilmente ricomposto aggregando la materia attribuibile ai singoli stati o periodi della storia della Chiesa: si sarebbe così trasformato un testo esegetico in una teologia della storia. Poi, seguendo il principio applicato nelle distinctiones ad uso dei predicatori, nel testo si potevano raccogliere lemmi analogicamente collazionati. La “mutua collatio” di parti della Lectura arricchiva semanticamente il significato legato alle parole e consentiva uno sviluppo tematico amplificato. Si vedano, ad esempio, le variazioni eseguite sul tema della “voce” o sull’espressione “in medio”, temi più volte iterati nel sacro testo, oppure il modo con cui Ap 1, 16-17 (l’esegesi della decima e undecima prefezione di Cristo come sommo pastore) percorre i versi in collazione con altri passi. Nel frattempo continuava la stesura del Convivio, segnato nel IV trattato dalla “grandiosa novità” dell’adesione alla monarchia universale voluta e preparata da Dio nei due popoli, ebraico e gentile, all’Impero dei romani preconizzato da Virgilio: “A costoro […] né termine di cose né di tempo pongo; a loro ho dato imperio sanza fine” (Cv IV, iv, 11) [15]. Interrotto, in un momento imprecisabile (autunno 1308?), il Convivio per un temporaneo ritorno alle canzoni d’amore con la “montanina”, inviata a Moroello Malaspina accompagnata dall’Epistola IV, sopraggiunge la la notizia dell’incoronazione ad Aquisgrana, il 6 gennaio 1309, di Enrico VII di Lussemburgo il quale avrebbe valicato le Alpi giungendo a Susa il 23 ottobre dell’anno seguente. A questo punto lo spirito profetico che soffia nella Lectura super Apocalipsim di Olivi detta al poeta l’abbandono del Convivio. Il commento apocalittico diventa il canovaccio del “poema sacro” per tutti i suoi 14233 versi, “panno” sul quale viene cucita la “gonna” (cfr. Par. XXXII, 140-141). Nelle maglie dell’armatura sacra viene inserita, concordandola con l’esegesi, ogni possibile fonte; in essa vengono compresi anche versi composti prima della decisione di parodiare sistematicamente la Lectura. Ripercorrere la storia dell’umanità; ritrovare, nei tempi moderni, l’Antico Testamento; fare il viaggio con due guide, Virgilio e Beatrice, il suo autore e la sua donna, impersonanti rispettivamente gli insegnamenti esteriori del Cristo uomo e il gusto d’amore proprio dello Spirito; inserire, come è proprio dello spirito profetico, il particolare del miscrocosmo toscano e italico nell’universale macrocosmo dei disegni divini; esprimere l’ansia escatologica di rinnovamento; confrontarsi con centinaia di citazioni di Gioacchino da Fiore  alle quali prestare “e piedi e mano” nei versi per farsi lui stesso iniziatore della “nuova terza teologia” [16]; parlare e far parlare i morti per dettato interiore, spinti dal desiderio di essere scritti nel libro della vita; narrare in esilio con exempla e similitudini, come fece Giovanni a Patmos, una visione intellettuale; sentirsi nobile e fuori della “volgare schiera” non per lignaggio ma per elezione quale amico di Dio, a conferma di quanto aveva scritto nel Convivio (IV, xx, 3-6): queste le suggestioni che la Lectura super Apocalipsim offriva a Dante. Inoltre, disporre di un ordito sul quale tessere la trama dell’intero poema avrebbe garantito l’uniformità del risultato.

A Firenze, prima dell’esilio: si riapre, con nuovi indizi, il caso dell’incontro con Olivi. Nel poema la parodia dantesca non si limita alla Lectura oliviana. Conosce del frate almeno alcune quaestiones, come ad esempio, nel cielo della Luna, mostrano le parole di Piccarda e di Beatrice sul voto; a queste ultime rinvia la Monarchia. Oppure i versi di Par. XXXI, 37-39, che descrivono lo stupore del poeta arrivato all’Empireo, la Roma celeste.
Il frate e il poeta hanno la stessa idea della Chiesa, esemplata sulla persona e sulla vita di Cristo: “Christi persona et vita fuit exemplar totius ecclesie future”, scrive Olivi nella Lectura super Apocalipsim (ad Ap 6, 12); e Dante nella Monarchia (III, xiv, 3): “Forma autem Ecclesie nichil aliud est quam vita Cristi […] vita enim ipsius ydea fuit et exemplar militantis Ecclesie”. Il primo verso del “poema sacro” – “Nel mezzo del cammin di nostra vita” – non è semplice indicazione anagrafica dei trentacinque anni di età dell’autore; è testimonianza resa a Cristo mediatore, la cui vita deve essere dalla nostra perfettamente imitata e partecipata.
Nel “poema sacro”, il trarre fuori “le nove rime, cominciando / ‘Donne ch’avete intelletto d’amore’” (Purg. XXIV, 49-51), si colloca, con l’episodio di Bonagiunta, in una zona del poema dove prevalgono i temi, per eccellenza oliviani, del sesto stato o periodo della Chiesa, che è stato di novità. Tutto ciò conduce a riproporre il vecchio dubbio espresso da Dempf, Grundmann, Davis e Manselli. Del tutto inutile è porsi la domanda se Dante abbia assistito alle lezioni di Olivi tra il 1287 e il 1289; importante, e decisivo per la sua biografia intellettuale, è invece verificare se a quella data ne conoscesse le opere e le parodiasse sistematicamente come avvenuto poi con la Commedia. Questo momento precederebbe quello descritto in Convivio II, xii, 7, allorché a partire dall’estate del 1293, per studiare la filosofia, “cominciai ad andare là dov’ella si dimostrava veracemente, cioè ne le scuole de li religiosi e a le disputazioni de li filosofanti”. Inoltre, perché Dante avrebbe vestito nel poema la sua donna con i panni dell’esegesi oliviana se questa non fosse stata presente già all’inizio delle “nove rime”? Diversamente bisognerebbe dedurre che Dante dia nella Commedia un’intima interpretazione dei propri albori di poeta diversa dalla realtà, che verrebbe così fasciata da una mistificazione.

Firenze, 1287-1289. Nella “città partita” la quale, da “tanta discordia assalita”, muta di continuo la propria costituzione voltandosi nel letto di dolore come un’inferma [17], la tensione fra Magnati e Popolani porta a un allargamento democratico nei consigli comunali, aperti anche ai rappresentanti delle arti medie [18]. Si lavora da tre anni alla nuova cerchia delle mura. Fervono i preparativi della guerra contro Arezzo, che si concluderà due anni dopo con la vittoria di Campaldino. È vescovo Andrea de’ Mozzi, la “tigna” sodomita ricordata nell’Inferno da Brunetto Latini [19]. Il più autorevole filosofo della città, Remigio de’ Girolami, discepolo a Parigi di Tommaso d’Aquino, insegna nello studio domenicano di Santa Maria Novella da più di dieci anni [20]. A Santa Croce, edificio ancora modesto prima della rifondazione nel 1294 per opera di Arnolfo di Cambio, arriva, come lettore di teologia dello Studium francescano, il frate provenzale Pietro di Giovanni Olivi, punto di riferimento degli Spirituali. Vi rimane fino al 1289, quando viene inviato allo Studium di Montpellier [21].
Nato circa il 1248 a Sérignan, novizio a dodici anni nel convento di Béziers, nella città che nel 1209 aveva visto i massacri di Simone di Montfort nella crociata contro gli Albigesi; discepolo a Parigi di Bonaventura nel 1266; presente a Roma e ad Assisi nel 1279, per collaborare alla redazione della Exiit qui seminat, la costituzione con la quale Nicolò III aveva cercato di risolvere i dissidi all’interno dell’Ordine francescano, Olivi al suo arrivo a Firenze aveva già composto numerose opere filosofiche e commentato quasi tutta la Scrittura. Alcune sue quaestiones avevano suscitato accuse da parte dei membri dell’Ordine, dove era stato definito “caput superstitiosae sectae et divisionis et plurium errorum”. Ma non erano di questo parere il nuovo Ministro generale Matteo d’Acquasparta, eletto nel capitolo di Montpellier il 25 maggio 1287, e perfino il papa Nicolò IV, che lo destinarono a Firenze [22].
L’insegnamento di Olivi a Santa Croce fu la premessa di un più stretto rapporto fra le due anime, provenzale e italiana, dello spiritualismo francescano, originariamente segnate da considerevoli differenze [23]. Come scrisse Raoul Manselli, gli Spirituali non erano “un partito o una fazione ma un fermento di vita fra i Minori, una presa di coscienza, la ferma rivendicazione della peculiarità dell’Ordine, una ‘attitude critique’, un ‘mouvement d’espérance’; e di tutto questo Olivi è colui che sa meglio cogliere il valore e il senso religioso, storico e umano” [24]. Volevano il ritorno alla Regola di san Francesco, mantenendo uno stato di povertà assoluta all’interno dell’Ordine.
Il francescano Ubertino da Casale ascoltò le lezioni di Olivi, l’effetto fu dirompente: “qui me modico tempore … sic introduxit ad altas perfectiones anime dilecti Iesu … et ad profunda scripture et ad intima tertii status mundi et renovationis vite Christi, ut iam ex tunc in novum hominem mente transiverim” [25]. Lo spirito di Cristo fermentava anche in altri, come nel terziario senese Pier Pettinaio, ricordato da Sapìa nel secondo girone del purgatorio di Dante come colui che le aveva, con le sue preghiere, abbreviato la penitenza (Purg. XIII, 127-129).
Quale il contenuto di un insegnamento tanto sconvolgente? Fortemente antiaristotelica e antitomista, la visione di Olivi è cristocentrica come quella di Bonaventura. L’esemplare vita di Cristo – o la sua legge (la Regola è per il francescano sinonimo di “vita”) [26] -, imposta agli Apostoli e scritta nei Vangeli, deve essere dalla nostra vita perfettamente imitata e partecipata e porsi come fine di ogni nostra azione [27]. “Caput universale omnis temporis”, Cristo è centro del tempo [28]. Persona mediana della Trinità, mediatore tra Dio e l’uomo al quale indica il cammino, è il punto sul quale convergono i raggi della sfera-Chiesa nella sua storia passata, presente e futura [29]. Per quanto concerne la persona umana, Olivi è strenuo fautore del libero arbitrio, comprovato dall’intimo sentire con il quale la volontà, riflessa su di sé, sperimenta l’esistere [30].
Sul piano storico, Olivi ritiene di vivere un periodo – il sesto dei sette stati o epoche della Chiesa – nel quale sta fermentando un novum saeculum, una palingenesi universale che porterà infine alla conversione a Cristo degli infedeli e degli Ebrei (non diversamente la pensava il suo confratello e contemporaneo Raimondo Lullo) [31]. Su questo sesto stato, che per Olivi corrisponde ai tempi moderni e, unitamente al settimo e ultimo periodo, coincide con l’età dello Spirito di Gioacchino da Fiore, ricadono tutte le illuminazioni e anche tutto il male delle epoche passate. Nel sesto stato, il secondo avvento di Cristo nello Spirito (dopo il primo, nella carne, e molto prima del terzo, nella parusia) reca nei suoi discepoli, siano essi membri di un ordine religioso o singole persone [32], una vita nova. L’homo novus sente gli insegnamenti che vengono da Cristo interno dettatore, è testimone di miracoli non corporali, come nei primi tempi della Chiesa, ma intellettuali; gli è serbata l’esperienza di gustare in questa vita il divino [33]. In siffatta età rinnovata per lo Spirito di Cristo, tanto attesa come quella augustea preconizzata nella quarta egloga di Virgilio, una rivoluzione interiore viene compiuta con la parola che converte e rompe la durezza dei cuori, che l’interno dettatore spira nei predicatori aprendo la loro volontà al dire [34]. Se finora Cristo, in quanto uomo, ha insegnato con la dottrina esteriore, e in quanto Verbo con la luce intellettuale, d’ora in poi insegnerà anche tramite il gusto d’amore proprio del suo Spirito [35].
Prima che la pace e la giustizia trionfino, l’uomo del sesto stato dovrà affrontare terribili prove e sofferenze, indotte dall’Anticristo e dai suoi seguaci. I nuovi martiri non provano soltanto il tormento del corpo, sono soprattutto tormentati dal dubbio sulla vera fede, suggestionati dalla sottigliezza degli argomenti filosofici, da ingannevoli Scritture, dall’ipocrita simulazione di santità, dalla falsa immagine dell’autorità papale, in quanto falsi pontefici insorgono, come Anna e Caifa insorsero contro Cristo. Per rendere più intenso questo martirio psicologico, i carnefici stessi operano miracoli. La tentazione induce in errore persino gli eletti, come testimoniato da Cristo nella grande pagina escatologica di Matteo XXIV [36].

La poetica dell’interno dettatore. Dov’è Dante negli anni dell’insegnamento santacrociano di Olivi? Entro il 1287 è probabilmente a Bologna: a tale anno risale infatti la più antica trascrizione di un testo del poeta, il sonetto della Garisenda registrato in un Memoriale notarile. L’11 giugno 1289 Dante combatte come feditore a Campaldino, nello scontro che vede i fiorentini vittoriosi su Arezzo; il mese dopo assiste alla capitolazione del castello di Caprona. Quegli anni vedono l’uscita delle “nove rime”, alcune inserite nella Vita Nova dopo la morte di Beatrice, avvenuta l’8 giugno 1290. Non sappiamo se Dante abbia frequentato le lezioni di Olivi a Santa Croce. Non si può tuttavia non rilevare che la teologia oliviana relativa ai tempi moderni, coincidenti con il sesto stato della storia della Chiesa, caratterizzato dal libero parlare per dettato interiore che apre i cuori, è singolarmente consonante con la poetica del contemporaneo Dante. Tale viene definita nel sesto girone del purgatorio nell’incontro con Bonagiunta da Lucca: una poetica fondata sullo spirare di Amore, interno “dittator”, e sul notare significando in modo stretto i suoi dettati, quasi fossero quelli di una regola evangelica imposta e accettata (Purg. XXIV, 49-63). L’inizio delle “nove rime” dantesche avvenne per virtù di un interno dettatore: “Allora dico che la mia lingua parlò quasi come per sé stessa mossa e disse: ‘Donne ch’avete intellecto d’amore’” (Vita Nova, 10.13 [xix 2]). La Vita Nova è la storia di un nuovo avvento di Cristo, del “miracolo” Beatrice, venuta in tanta grazia delle genti da operare mirabilmente in esse.

Se l’esegesi biblica dell’Olivi, tanto decisiva per il “poema sacro”, abbia avuto parte nella stesura delle “nove rime”; se essa abbia influenzato l’iniziale formazione intellettuale e spirituale di Dante, è oggetto della presente ricerca, della quale qui si mostrano i primi risultati, inizio di un nuovo, lungo cammino. Si verifica se esista intertestualità, se questa si configuri come parodia e se essa, al modo con il quale la Commedia elabora la Lectura super Apocalipsim, intenda instaurare un’ars memorandi nei confronti di un pubblico oppure serva all’autore per rendere “sacra” la sua opera.

[1] Si segue la cronologia proposta da GIORGIO INGLESE, Vita di Dante. Una biografia possibile, Roma 2015, pp. 52-57.

[2] Giovanni del Virgilio così iniziò il suo epitaffio per la tomba del poeta fiorentino: “Theologus Dantes, nullius dogmatis expers / quod foveat claro phylosophya sinu”. E Cola di Rienzo, fuggitivo in Boemia, scriveva: “Hic Dans theologus magnus fuit, phylosophus clarus, poeta quidem eximius, civis plebeio genere florentinus, ex plaga ytalica, provincia tuscia” [P. G. Ricci, Il commento di Cola di Rienzo alla Monarchia di Dante, in “Studi medievali”, S. III, 6 (1965), p. 679; Cola di Rienzo, In Monarchiam Dantis Commentarium. Commento alla Monarchia di Dante, a cura di P. d’Alessandro, premessa di G. Ravasi, Città del Vaticano 2015 (Littera antiqua, 20), p. 48].

[3] ALOIS DEMPF, Sacrum Imperium. Geschichts- und Staatsphilosophie des Mittelalters und der politischen Renaissance, Darmstadt 1954 (München-Berlin 1929), p. 293: “[…] und er (Olivi) schrieb 1295 seine Postille zur Apokalypse, die Parallele zur Johannesapokalypse, vielleicht in dem ganz tiefen Sinn, daß auch diese ein visionärer Kommentar zu prophetischen und apokryphen Weltendschriften gewesen ist. […] Und kurz danach schrieb der größte Dichter an der Wende der beiden Äonen, Dante, seine divina commedia, auch sie eine joachitische Apokalypse. Nur sollte bei ihm nach dem Renaissancekopf seines Janushauptes halb ein philosophischer Weltkaiser und halb der spiritualistische Dux die neue Friedenszeit bringen”.

[4] HERBERT GRUNDMANN, Dante und Joachim von Flore. Zu Paradiso X-XII (1932), in IDEM, Ausgewählte Aufsätze, 2, Joachim von Fiore, Stuttgart 1977 (Schriften der Monumenta Germaniae Historica, Band 25.2), pp. 166-210: 188 nt. 41: “Der große Spiritualen-Führer Petrus Johannis Olivi († 1298) war in den Jahren 1287/9 Lektor des Ordensstudiums in Santa Croce in Florenz, und auch sein bedeutendster Nachfolger Ubertin von Casale lebte und lernte in den Jahren 1285-1289 in Santa Croce. Für eine persönliche Bekanntschaft Dantes mit diesen beiden Franziskanern gibt es keine Zeugnisse, aber die Möglichkeit ist jedenfalls gegeben und die Vermutung liegt nahe, daß er diese ihm in vieler Hinsischt geistesverwandten Männer gekannt, daß er vielleicht mit Ubertin gemeinsam an Olivis Unterricht teilgenommen hat”.

[5] ERNST BENZ, Ecclesia Spiritualis. Kirchenidee und Geschichtstheologie der Franziskanischen Reformation, Stuttgart 1934, pp. 201-205: 203: “Das Leben des Heiligen Franziskus selbst, von Thomas von Aquin besungen, zeigt bereits das ins Messianische erhobene endzeitliche Franzbild des Spiritualenkreises, wie es sich in der Apokalypsenpostille Olivis findet und wie es Dante aus dem Munde Olivis selbst dem Sinne nach gehört haben mochte”.

[6] CHARLES TILL DAVIS, Dante’s Italy and Other Essays, Philadelphia 1984, trad. it., L’Italia di Dante, Bologna 1988, pp. 151-153.

[7] RAOUL MANSELLI, Dante e l’«Ecclesia Spiritualis», in Dante e Roma. Atti del Convegno di studio, Roma 8-10 aprile 1965, Firenze 1965, pp. 115-135: 123, ripubblicato in IDEM, Da Gioacchino da Fiore a Cristoforo Colombo. Studi sul francescanesimo spirituale, sull’ecclesiologia e sull’escatologisno bassomedievali, a cura di P. Vian, Roma 1997 (Istituto Storico Italiano per il Medio Evo. Nuovi Studi Storici, 36), pp. 55-78: 69. L’ormai plurisecolare storiografia sui rapporti tra Dante e gli Spirituali francescani viene ripercorsa, a partire da Ignaz von Döllinger fino ad Alberto Forni, nel saggio di PAOLO VIAN, Dante, Pietro di Giovanni Olivi e lo spiritualismo minoritico: fra ipotesi e certezze, in Dante, Francesco e i Frati Minori. Atti del XLIX Convegno internazionale. Assisi, 14-16 ottobre 2021, Spoleto 2022 (Società Internazionale di Studi Francescani – Centro Interuniversitario di Studi Francescani), pp. 101-151: 132-140 (sulle posizioni di Manselli).

[8] Dal 18 al 20 dicembre 2023, presso l’Università degli Studi Roma Tre e la University of Notre Dame – Rome Global Gateway, si è tenuto il convegno La cultura di Santa Croce nell’età di Dante: teologia, predicazione, immagini. Cfr. LORENZO DELL’OSO, Dante, Peter of Trabibus, and the ‘Schools of the Religious Orders’ in Florence, in “Italian Studies”, 77/3 (2022), pp. 211-229; ANNA PEGORETTI, Lamentazioni fiorentine: Cavalcanti, Dante, Olivi, in “L’Alighieri”, LXIII (60 [2022]), pp. 125-137: 137: «[…] men che meno sarà il caso di avventurarsi nell’immaginare una frequentazione anticipata delle “scuole dei religiosi”, estesa magari anche a Cavalcanti: un’ipotesi indimostrabile, che avrebbe l’unico effetto di rinfocolare irrisolvibili polemiche di carattere biografico».

[9] CHARLES SOUTHWARD SINGLETON, La poesia della Divina Commedia, trad. it., Bologna 1978, pp. 461-462.

[10] TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, I, qu. I, a. 9: “Convenit etiam sacrae Scripturae, quae communiter omnibus proponitur (secundum illud ad Rom. I, [14]: sapientibus et insipientibus debitor sum), ut spiritualia sub similitudinibus corporalium proponantur; ut saltem vel sic rudes eam capiant, qui ad intelligibilia secundum se capienda non sunt idonei. Ad primum ergo dicendum quod poeta utitur metaphoris propter repraesentationem: repraesentatio enim naturaliter homini delectabilis est. Sed sacra doctrina utitur metaphoris propter necessitatem et utilitatem, ut dictum est. Ad secundum dicendum quod radius divinae revelationis non destruitur propter figuras sensibiles quibus circumvelatur, ut dicit Dionysius, sed remanet in sua veritate; ut mentes quibus fit revelatio, non permittat in similitudinibus permanere, sed elevet eas ad cognitionem intelligibilium; et per eos quibus revelatio facta est, alii etiam circa haec instruantur. Unde ea quae in uno loco Scripturae traduntur sub metaphoris, in aliis locis expressius exponuntur. Et ipsa etiam occultatio figurarum utilis est, ad exercitium studiosorum, et contra irrisiones infidelium, de quibus dicitur, Matth. 7, [6]: nolite sanctum dare canibus.

[11] DINO COMPAGNI, Cronica delle cose occorrenti ne’ tempi suoi, introduzione e note di G. Bezzola, Milano 1995, l. III, capp. XV-XVIII, pp. 210-217; GIOVANNI VILLANI, Nuova Cronica, a cura di G. Porta, Parma 1991, tomo II, libro IX, cap. 85 (1306), pp. 653-654; cap. 89 (1307), pp. 657-659; (p. 653, anno 1306): “il quale (cardinale messer Napoleone degli Orsini dal Monte, legato e paciaro generale in Italia) si partì da Leone sopra Rodano, e passò i monti, e mandando a’ Fiorentini che voleva venire in Firenze per fare pace e concordia da loro e i loro usciti […]”. Cfr. PAOLO VIAN, «Noster familiaris solicitus et discretus»: Napoleone Orsini e Ubertino da Casale, in Ubertino da Casale. Atti del XLI Convegno Internazionale. Assisi 18-20 ottobre 2013, Spoleto 2014 (Società Internazionale di Studi Francescani – Centro Interuniversitario di Studi Francescani), pp. 217-298: 246-249.

[12] La datazione dell’Epistola IV non è certa; secondo alcuni sarebbe da assegnare al 1307 (Santagata, pp. 293-294); altri la posticipano all’autunno 1308 (Inglese, pp. 100-101). Nel primo caso le “meditationes” circa “celestia et terrestria”, interrotte dalla composizione della canzone “montanina”, che la lettera accompagna e illustra, consuonano con il “poema sacro / al quale ha posto mano e cielo e terra”; nel secondo caso si riferiscono ai trattati del Convivio temporaneamente interrotti con il ritorno ai canti d’amore.

[13] Cfr. GIORGIO PETROCCHI, Biografia, in Enciclopedia Dantesca, Appendice, p. 41.

[14] Cfr. ANTONINO PAGLIARO, Ulisse. Ricerche semantiche sulla Divina Commedia, I, Messina-Firenze 1967 (Biblioteca di cultura contemporanea, XCIII), pp. 1-2.

[15] Cfr. INGLESE, Vita di Dante, p. 87.

[16] Cfr. HANS URS VON BALTHASAR, Gloria. Una estetica teologica, III, Stili laicali, trad. it., Milano 2017, p. 4.

[17] Cfr. Inf. VI, 61-63; Purg. VI, 148-151.

[18] Cfr. GAETANO SALVEMINI, Magnati e popolani in Firenze dal 1280 al 1295, a cura di E. Sestan, Milano 1974, pp. 121-123.

[19] Cfr. Inf. XV, 110-114.

[20] Cfr. SONIA GENTILI, Girolami, Remigio de’, in Dizionario Biografico degli Italiani, 56 (2001).

[21] La notizia è contenuta nello scritto Sanctitati apostolicae di Ubertino da Casale (1311), in FRANZ EHRLE, Zur Vorgeschichte des Concils von Vienne, in “Archiv für Litteratur- und Kirchengeschichte des Mittelalters”, 2 (1886), p. 389: “Nam per dominum N[icolaum] IIII non solum nunquam fuit condempnatus ipse vel eius doctrina, sed fuit multipliciter commendatus ab eo et de eius voluntate primo per dominum fratrem Matheum tunc generalem factus est lector Florentiae in studio generali quoad ordinem nostrum et postmodum per fratrem Raymundum Gaufridi lector Montispessulanus”.

[22] Come introduzione alla biografia e all’opera del francescano provenzale cfr. Pietro di Giovanni Olivi, Scritti scelti, a cura di PAOLO VIAN, Roma 1989 (Fonti cristiane per il terzo millennio, 3).

[23] Cfr. DAVID BURR, The Spiritual Franciscans. From Protest to Persecution in the Century after Saint Francis, University Park, 2001, pp. 47, 62. Sulle differenze fra provenzali e italiani, cfr. RAOUL MANSELLI, Divergences parmi les Mineurs d’Italie et de France méridionale, in Les mendiants en pays d’Oc au XIIIe siècle, Toulouse, 1973 (Cahiers de Fanjeaux, VIII), pp. 355-373 [ripubblicato in ID., Da Gioacchino da Fiore a Cristoforo Colombo, pp. 243-256].

[24] Cfr. PAOLO VIAN, “Se il chicco di grano …”. Raoul Manselli, Pietro di Giovanni Olivi e il francescanesimo spirituale. Nuovi appunti di lettura, in “Nisi granum frumenti…”. Raoul Manselli e gli studi francescani, a cura di F. Accrocca, Roma, Istituto Storico dei Cappuccini, 2011 (Bibliotheca Seraphico-Capuccina, 93), pp. 9-55: 30-33.

[25] UBERTINO DA CASALE, Arbor vitae crucifixae Iesu, Venetiis 1485, rist. anast. a cura di C. T. Davis, Torino 1961, prologus I, f. 4a-b.

[26] Cfr. PETRUS IOHANNIS OLIVI, Expositio super Regulam Fratrum Minorum, ed. D. Flood, Peter Olivi’s Rule Commentary, Wiesbaden 1972 (Veröffentlichungen des Instituts für Europäische Geschichte Mainz, 67), cap. I, p. 117: “Circa definitionem vero nota primo quam perfecte et proprie nomen sui definiti praemittitur dicendo: Regula et vita fratrum minorum, vocans eam non solum regulam sed et vitam, ut sit sensus quod est regula, id est, recta lex et forma vivendi et regula vivifica ad Christi vitam inducens; et iterum quod potius consistit in actu et opere vitae quam in charta vel littera aut in intellectu vel lingua”.

[27] PETRUS IOHANNIS OLIVI, Lectura super Apocalipsim (d’ora in poi: LSA), prologus, notabile VII: “Huius (Christi) autem vite perfecta imitatio et participatio est et debet esse finis totius nostre actionis et vite”.

[28] PETRUS IOHANNIS OLIVI, Quaestio de altissima paupertate, ed. J. Schlageter, Das Heil der Armen und das Verderben der Reichen. Petrus Johannis Olivi OFM. Die Frage nach der höchsten Armut, Werl/Westfalen 1989 (Franziskanische Forschungen, 34), in quinta parte responsionis, pp. 151-152: “Si tamen quis contra hoc dicat quod secundum hoc status Christi et Apostolorum qui fuerunt in primo tempore ecclesiae, esset inferior statu sexti et septimi temporis: scire debet qui hoc dicit, quod Christus secundum aliquid est quasi pars, si tamen pars prioris temporis, secundum aliquid vero finalis temporis, simpliciter tamen ipse est caput universale omnis temporis”.

[29] LSA, cap. I, Ap 1, 13: «[…] propter quod (Christus) apparuit “in medio septem candelabrorum” […] sicut centrum, in medio spere existens, exhibet se toti spere […]»; cap. II, Ap 2, 1: «“Hec dicit qui tenet septem stellas in dextera sua, qui ambulat in medio septem candelabrorum aureorum” […] tamquam infra se immediate vos omnes tenens et tamquam in medio vestrum existens et omnia vestra continue perambulans et perscrutans et immediate percurrens seu conspiciens […]»; cap. V, Ap 5, 6: «[…] ipse est totius ecclesie mediator et quasi centrale medium ad quod tota spera ecclesie et omnes linee electorum suorum aspiciunt sicut ad medium centrum. […] “et in medio quattuor animalium”, id est vite et doctrine evangelice […]»; cap. VII, Ap 7, 17: «“Quoniam Agnus, qui in medio troni est” […] vel in intimo ecclesie quasi centrum ipsius […]»; cap. XIV, Ap 14, 4: «[…] ad quos Christus tamquam dux et exemplator itineris ipsos deducit».

[30] “[…] sentit intra se intima reflexione consistere”: cfr. Fr. PETRUS IOHANNIS OLIVI O. F. M., Quaestiones in secundum librum Sententiarum, ed. B. Jansen, Ad Claras Aquas, prope Florentiam, 1922-1926 (Bibliotheca Franciscana Scholastica Medii Aevi, IV-VI), II, p. 334 (q. LVII, An in homine sit liberum arbitrium).

[31] Le espressioni di Olivi relative al sesto stato – “quoddam sollempne initium novi seculirenovaretur et consumaretur seculum” (LSA, prologus, notabilia VI, VII), nel quale il sacerdozio apostolico “redeat et assurgat ad ordinem primum” (LSA, prologus, notabile VII), la “nova Ierusalem” – interpretata come “visione di pace” – viene vista “descendere de celo” (LSA, cap. II, Ap 3, 12) e la Chiesa descritta come la donna vestita di sole con la sua “virginea proles” (LSA, cap. XII, Ap 12, 7) – sono la veste spirituale dei versi della quarta egloga virgiliana che celebrano la rinnovata età dell’oro, anche se il francescano non la cita esplicitamente: “Magnus ab integro saeclorum nascitur ordo / iam redit et Virgo; redeunt Saturnia regna; / Iam nova progenies caelo demittitur alto” (Egloga IV, 5-7). Quel felicissimo stato segnato dalla pace sotto il divo Augusto, che rese l’umanità disposta al primo avvento di Cristo, si rinnova. Scrive Arsenio Frugoni a proposito del giubileo del 1300, definito da Raffaello Morghen la “sagra del Medioevo”: “… quell’escatologismo, oltre che ideologia di lotta e di riforma del gruppo spirituale, era anche un vero e proprio sentimento storico … una tensione di rinnovamento, una ansia di salvezza, che nel 1300, l’anno centenario della Natività, aveva trovato come una attivazione, in un senso di pienezza dei tempi, cui doveva corrispondere un fatto, un accadere meraviglioso e nuovo” (RAFFAELLO MORGHEN, Medioevo cristiano, Bari 19744 (19511), pp. 265-282: 281; ARSENIO FRUGONI, La Roma di Dante, tra il tempo e l’eterno, in ID., Pellegrini a Roma nel 1300. Cronache del primo Giubileo, presentazione di C. Frugoni, a cura e con Introduzione di F. Accrocca, Casale Monferrato 1999, pp. 102-103). La sinossi fra la Commedia di Dante e la Lectura super Apocalipsim dell’Olivi consente di far rivivere tale sentimento storico.

[32] LSA, cap. X, Ap 10, 11: «Sequitur: “Et dixit michi: Oportet te iterum prophetare in gentibus et populis et linguis et regibus multis”. In ipsa sapientia libri expresse continetur quod oportet iterum predicari evangelium in toto orbe, et Iudeis et gentibus, et totum orbem finaliter converti ad Christum. Sed quod per istum hoc esset implendum non poterat sciri nisi per spiritualem revelationem, et hoc dico prout per Iohannem designantur hic singulares persone quia, prout per ipsum designatur in communi ordo evangelicus et contemplativus, scitur ex ipsa intelligentia libri quod per illum ordinem debet hoc impleri».

[33] Ciò appartiene al sesto periodo (status) della Chiesa, che con il settimo corrisponde alla terza età, quella dello Spirito, di Gioacchino da Fiore; cfr. LSA, cap. III, Ap 3, 7: «Significatur etiam per hoc proprium donum et singularis proprietas tertii status mundi sub sexto statu ecclesie inchoandi et Spiritui Sancto per quandam anthonomasiam appropriati. […] Sicut etiam in primo tempore exhibuit se Deus Pater ut terribilem et metuendum, unde tunc claruit eius timor, sic in secundo exhibuit se Deus Filius ut magistrum et reseratorem et ut Verbum expressivum sapientie sui Patris, sic in tertio tempore Spiritus Sanctus exhibebit se ut flammam et fornacem divini amoris et ut cellarium spiritualis ebrietatis et ut apothecam divinorum aromatum et spiritualium unctionum et unguentorum et ut tripudium spiritualium iubilationum et iocunditatum, per que non solum simplici intelligentia, sed etiam gustativa et palpativa experientia videbitur omnis veritas sapientie Verbi Dei incarnati et potentie Dei Patris. Christus enim promisit quod “cum venerit ille Spiritus veritatis, docebit vos omnem veritatem” et “ille me clarificabit” et cetera (Jo 16, 13-14)». Il più alto grado del gusto d’amore è raggiunto in terra con il serotino convivio che segue la sconfitta dell’Anticristo. Cfr. LSA, cap. XIX, Ap 19, 17-18: «“Et vidi unum angelum stantem in sole”. Iste designat altissimos et preclarissimos contemplativos doctores illius temporis, quorum mens et vita et contemplatio erit tota infixa in solari luce Christi et scripturarum sanctarum, et secundum Ioachim inter ceteros precipue designat Heliam. “Et clamavit voce magna omnibus avibus que volabant per medium celi”, id est omnibus evangelicis et contemplativis illius temporis: “Venite, congregamini ad cenam Dei magnam”, id est ad spirituale et serotinum convivium Christi, in quo quidem devorabitur universitas moriture carnis, ut transeat quod carnale est et maneat quod spirituale est. […] Quibus autem verbis explicari posset quanto gaudio et amore et dulcore reficientur sancti de conversione omnium gentium et Iudeorum post mortem Antichristi fienda […]».

[34] LSA, cap. III, Ap 3, 8: «“Ecce dedi coram te hostium apertum”. Hostium aperitur cum intellectus illuminatur et exacuitur ad scripturarum occulta expedite et faciliter penetranda et videnda, et cum predicationi datur spiritalis efficacia ad corda audientium penetranda, et cum incredulorum corda divinitus aperiuntur ad credendum et implendum Christi legem et fidem que predicatur eis, et etiam cum spiritus predicantium sentit ordinationem et assistentiam Christi ad aperiendum corda gentium per sermonem ipsius. Nam predicta Christi ordinatio seu voluntas est primum hostium seu prima apertio sue voluntatis et gratie dande auditoribus et sermoni predicantis. […] “Dedi”, inquam sic tibi “apertum”, “quia modicam habes virtutem”, scilicet ad miracula vel ad corporalia fortis active opera, que sensuales homines plus admirantur et estimant quam intellectualia et interna […]».

[35] LSA, cap. II, Ap 2, 7: «[…] Secunda (causa) est ut intelligatur duplex modus docendi. Quorum primus est per vocem exteriorem, secundus vero per inspirationem et suggestionem interiorem. Prima autem competit Christo in quantum homo; secunda vero eius deitati, appropriatur tamen Spiritui Sancto. Prima autem disponit ad secundam sicut ad suum finem et est inutilis sine illa. […] Item Christo, in quantum est Verbum et verbalis sapientia Patris, appropriatur interna locutio que fit per lucem simplicis intelligentie. Illa vero que fit per amoris gustum et sensum appropriatur Spiritui Sancto. Prima autem se habet ad istam sicut materialis dispositio ad ultimam formam. […] Quarta est ut ex duplici auctoritate duorum tam sollempnium testium et magistrorum fortius moveremur, et prima quidem moveret iterum per evidens exemplum operum Christi nobis in sua humanitate visibiliter ostensorum; secunda vero ulterius moveret per spiritualem flammam et efficaciam Spiritus Sancti».

[36] Cfr. LSA, prologus, notabile X: «Sextus vero concurrit cum secundo non in eodem tempore sed in celebri multitudine martiriorum, prout in apertione quinti signaculi aperte docetur (cfr. Ap 6, 9), quamvis in modo martirii quoad aliqua differant. Nam martiria a paganis et idolatris facta nullum certamen dubitationis inferebant martiribus, aut probabilis rationis, propter nimiam evidentiam paganici erroris. Non sic autem fuit de martiriis per hereticos, unum Deum et unum Christum confitentes, inflictis. In sexto autem tempore non solum propulsabuntur martires per tormenta corporum, aut per subtilitatem rationum philosophicarum, aut per intorta testimonia scripturarum sanctarum, aut per simulationem sanctitatis ypocritarum, immo etiam per miracula a tortoribus facta. Nam, teste Christo, “dabunt signa et prodigia magna” (Mt 24, 24). Unde Gregorius, XXXII° Moralium super illud Iob: “stringit caudam suam quasi cedrum” (Jb 40, 12), dicit: ‘Nunc fideles nostri mira faciunt, cum perversa patiuntur; tunc autem Behemot huius satellites, etiam cum perversa inferunt, mira facturi sunt. Pensemus ergo que erit humane mentis illa temptatio, quando pius martir corpus tormentis subicit, et tamen ante eius oculos miracula tortor facit’. Propulsabit etiam eos per falsam imaginem divine et pontificalis auctoritatis. Sic enim tunc surgent pseudochristi et pseudochristus contra electos, sicut Annas et Caiphas pontifices insurrexerunt in Christum. Erunt ergo tunc tormenta intensive maiora, tempore autem paganorum fuerunt extensive pluriora: nam plusquam per ducentos annos duraverunt».


 
1. Martirio e pietà: la Donna Gentile (o Pietosa) e Francesca

Il moderno martirio del dubbio. Secondo il principio della concorrenza fra gli stati, affermato nel Notabile X del prologo della Lectura super Apocalipsim, il sesto stato – iniziato con Francesco d’Assisi, è il periodo nel quale vivono Olivi e Dante – concorre con il secondo, per antonomasia lo stato dei martiri, non per connessione temporale (questo inizia infatti con la persecuzione di Nerone o con la lapidazione di santo Stefano o con la passione di Cristo e dura fino a Costantino), ma a motivo della quantità dei testimoni della fede. Il tipo di martirio è tuttavia diverso. I martiri del sesto stato, cioè dei tempi moderni, soffrono nel dubbio, il loro è un “certamen dubitationis” che i primi testimoni della fede non provarono per l’evidenza dell’errore in cui incorrevano gli idolatri pagani. Nel sesto stato il martire non prova soltanto il tormento del corpo, viene anche spinto a dubitare (“propulsabuntur martires”) dalla sottigliezza degli argomenti filosofici, dalle distorte testimonianze scritturali, dall’ipocrita simulazione di santità, dalla falsa immagine dell’autorità divina o papale, in quanto falsi pontefici insorgono, come Anna e Caifa insorsero contro Cristo. Per rendere più intenso il martirio, i carnefici stessi operano miracoli. Tutto ciò appartiene alla tribolazione del tempo dell’Anticristo, alla tentazione che induce in errore persino gli eletti, come testimoniato da Cristo nella grande pagina escatologica di Matteo 24: “dabunt signa magna et prodigia, ita ut in errorem inducantur, si fieri potest, etiam electi (cfr. Mt 24, 24)”. Scrive Gregorio Magno nei Moralia, commentando Giobbe 40, 12 – “stringe (nel senso di tendere) la sua coda come un cedro” -: “ora i nostri fedeli fanno miracoli nel patire perversioni, allora i seguaci di Behemot faranno miracoli anche nell’infliggerle. Pensiamo perciò quale sarà la tentazione della mente umana allorché il pio martire sottoporrà il corpo ai tormenti mentre davanti ai suoi occhi il carnefice opererà miracoli”.

Francesca. Questo passo è stato più volte esaminato nel corso della ricerca [1]. Del tema del martirio inferto dal dubbio è pregno, in Inf. V, l’episodio di Francesca e Paolo, d’altronde principalmente ordito su temi del secondo stato della Chiesa, all’esegesi dei quali rinvia. I “dubbiosi disiri” vengono conosciuti mentre i due amanti leggono “di Lancialotto come amor lo strinse”, quella lettura “per più fïate li occhi ci sospinse”. Vinti dalla passione, essi non arrivano a sostenere fino in fondo il loro “certamen dubitationis”. Se è vero che al secondo e al sesto stato spetta il martirio e al tempo stesso la dolcezza del conforto e della promessa (ad Ap 3, 11), i “dolci sospiri” dei due amanti sono stati da loro male interpretati, nel senso dell’amore carnale e non dell’“amore acceso di virtù” di cui Virgilio avrebbe parlato a Dante nel purgatorio (cf. Purg. XVIII, 13-75; XXII, 10-12). Al momento della prova, i due vengono sospinti dalla lettura di un libro (“Galeotto fu ’l libro e chi lo scrisse”) verso un punto che li vince, non diversamente da come i nuovi martiri vengono sospinti dagli “intorta testimonia scripturarum”. Ma il martirio non è stato inferto solo ai “due cognati” in vita, perché anche Dante sta dinanzi alle loro anime come un martire del sesto stato: prova pietà del loro male perverso, è tristo e pio fino alle lacrime dinanzi ai martìri, prova un’angoscia che chiude la mente. Perfino la domanda di Virgilio dopo le prime parole di Francesca – “Che pense?” – sembra parodiare l’invito di Gregorio Magno a riflettere sulla singolarità della tentazione: “… tunc autem Behemot huius satellites, etiam cum perversa inferunt, mira facturi sunt. Pensemus ergo que erit humane mentis illa temptatio, quando pius martir corpus tormentis subicit, et tamen ante eius oculos miracula tortor facit”. Il passo del Notabile X del prologo della Lectura super Apocalipsim tocca molti altri punti del poema.

La Donna Gentile. Lo stesso passo dei Moralia di Gregorio Magno su Giobbe 40, 12, citato nel Notabile X del prologo della Lectura super Apocalipsim, era già stato utilizzato dall’Olivi nell’Expositio in Canticum Canticorum (sicuramente precedente, poiché la Lectura venne completata nel 1297, l’anno prima della morte) [2]. La sposa dice allo sposo: “ti darò una coppa di vino aromatico, e il succo del mio melograno” (Cn 8, 2). Anche in questo caso Olivi fa riferimento alla tribolazione del tempo dell’Anticristo, alla tentazione che induce in errore gli eletti, allorché il pio martire è scosso nel profondo della mente dalle cose mirabili (ma erronee) che vede dinanzi ai propri occhi. In quei tempi la sposa (la Chiesa) offrirà a Cristo non solo il “dulcor contemplationis”, ma anche l’“expressum mustum difficillimorum et acerbissimorum martyriorum”. Come scritto in Matteo 24, 21-24, «tunc enim teste Christo “erit tanta tribulatio, ut si fieri potest, in errorem inducantur electi”». Olivi fu lettore in teologia nello Studium di Santa Croce di Firenze fra il 1287 e il 1289, inviato dal nuovo Ministro generale Matteo d’Acquasparta, eletto nel capitolo generale di Montpellier il 25 maggio 1287. Due anni, dunque, prima del richiamo a Montpellier, che portarono a Firenze molte sue opere esegetiche. Una di queste opere, il commento al Libro delle Lamentazioni di Geremia, fu probabilmente scritta a Santa Croce [3]. È nota la parafrasi di Lamentationes I, 12 nel sonetto O voi che per la via d’Amor passate (Vita Nova 2.14-17 [vii.3-6]).
Come vari luoghi del poema rinviano alla citazione di Gregorio Magno incastonata nell’esegesi della Lectura super Apocalipsim, così sull’Expositio in Canticum Canticorum è tessuta la Donna Gentile o Pietosa della Vita Nova, l’antagonista di Beatrice. L’esame, qui solo superficialmente avviato, è sicuramente da approfondire, ma un occhio esperto potrà vedere come non sia temerario affrontare Cn 8, 2 con Vita Nova 24-28 [xxxv-xxxix] [4]. Potrà facilmente ritrovare la tribolazione del martire pietoso degli ultimi tempi, che ha dinanzi a sé una mirabile ma falsa immagine di vero che lo scuote, nel poeta pensoso e travagliato nella “battaglia de’ pensieri”, che ha dinanzi agli occhi e alla mente un viso di donna preso come mai “così mirabilmente” da “color d’amore e di pietà sembianti”, dalla cui vista “era sommosso”. La donna, “quella pietosa / che si turbava de’ nostri martiri”, è in realtà un subdolo martirio, passionato “adversario della Ragione … desiderio malvagio e vana tentatione” contro il quale si leva l’immagine di Beatrice: “Si direbbe – scrive Gorni – che la Donna Pietosa, in questo suo agire così affabile che risulta essere, alla riprova, un modo caricaturale d’imitazione della donna ideale, sia una vera e propria figura di Anticristo, sinistramente perversa nella sua colpevole indulgenza” [5]. A questa vera affermazione l’Olivi consente di togliere il condizionale. Anche qui, come nel poema, non c’è calco o riscrittura, ma metamorfosi di elementi semantici, cioè parodia. Essere pietoso, che nell’esegesi è proprio del martire, è proiettato sulla donna-carnefice. Nella vicenda della Gentile, il conflitto tra le due antagoniste è solo nella mente di Dante [6], come nel martirio interiore descritto da Olivi, sofferto da coloro che sono scossi “ab ipso cogitationis fundo”.
Se la Donna Gentile o Pietosa è un fantasma interiore, un quasi-Anticristo, una falsa immagine di bene, di realtà che paiono vere, tentano e mettono in dubbio proprio per la loro parvente verità, erroneo ricordo nel color d’amore della nobilissima donna del poeta, bisognerà presupporre un vero che sia tale, che possa essere ristabilito come meta nella quale l’intelletto, da questo vero illuminato, si posi “come fera in lustra” una volta che l’ha raggiunto. Come dopo “lo ymaginar fallace” di “madonna morta”, che l’ha ingannato per “erronea fantasia” e “vana ymaginatione”, il poeta immagina venire “la mirabile Beatrice” preceduta da Giovanna-Primavera [7], e questo è vero immaginare (un ‘non falso errore’, come quelli delle visioni estatiche recanti esempi di mansuetudine a Purg. XV, 85-117), così dopo il “desiderio malvagio e vana tentatione”, a cui la Gentile ha sospinto i suoi occhi, generando in lui il dubbio e le sue battaglie, il poeta immagina vedere “questa gloriosa Beatrice” che scaccia dal suo cuore “questo adversario della Ragione” [8].

Uno stesso “panno” per la “gonna” di due donne [9]. Francesca è singolarmente vicina alla Gentile. Una parte della sua “gonna” è tessuta con fili provenienti dallo stesso “panno”, per quanto l’ordito esegetico sia nei due casi diverso, in quanto appartenente a due differenti opere del medesimo autore. Elementi lessicali comuni sono pietà  (Inf. V, 93); che pense?  (111); martìri (116); pio (117); lo strinse (128); occhi (130); mente  (Inf. VI, 1); pietà  (2). In Inf. V altri si aggiungono, rispecchiando il medesimo passo dei Moralia di Gregorio Magno ma parzialmente diverso nella stesura, che contiene anche considerazioni proprie di Olivi: perverso (93); dubbiosi (120); sospinse (130); scrisse (137).
Questa intimità semantica e tematica fra Francesca della Commedia e la Gentile del “libello” induce a spostare più avanti nel tempo la compiuta stesura della Vita Nova? Questa si suole datare attorno al 1294. L’episodio di Francesca, per converso, si colloca nel “poema sacro”, quindi dopo l’esilio (1302); è segnato, come tutti gli altri luoghi della Commedia, da una “topografia spirituale” che rinvia all’esegesi dei sette stati della storia della Chiesa (nel caso, principalmente al secondo, proprio dei martiri) come descritti nella Lectura super Apocalipsim. Questa, terminata a Narbonne poco prima della morte del suo autore (1298), arrivò in Italia ai primi del ’300; Ubertino da Casale l’aveva con sé a La Verna quando scriveva l’Arbor vitae (1305). L’episodio di Francesca, in quanto presuppone la conoscenza da parte di Dante della Lectura oliviana, non può essere anteriore al 1307-1309 (cfr. supra) [10].

Una Ur-Vita Nova? I paragrafi 24-28 [xxxv-xxxix] della Vita Nova, con la vicenda della Gentile confrontata con la donna-Filosofia del Convivio, sono, come è noto, il fulcro della “questione spinosissima” sulla possibile duplice redazione dell’opera, se cioè, come scrive Gorni, “le modifiche che il libello ha subito sono più estese e radicali di quanto si pensa, proprio per fare entrare, con alquanti pretesti, la nuova donna in un libro che ne celebra un’altra” [11]. È esistita una “Ur-Vita Nova” tutta dedicata a Beatrice senza i paragrafi relativi alla Gentile? Fin qui è stato possibile registrare la persistenza di un medesimo “panno” (il passo dei Moralia di Gregorio Magno) nell’elaborazione della Gentile e di Francesca, però nei due casi tramite due distinti commenti di Olivi, al Cantico dei Cantici e all’Apocalisse, il primo dei quali Dante poté conoscere prima dell’esilio, il secondo solo dopo. Si può ancora notare che l’Expositio in Canticum Canticorum, contenente a Cn 8, 2 il passo gregoriano, non è stata utilizzata soltanto nei paragrafi del “libello” relativi alla Donna Gentile.

  • L’esegesi di Cn 8, 2 non pare infatti rispecchiata solo in Vita Nova 24-28 [xxxv-xxxix]. Si confronti, ad esempio, Vita Nova 6 [xiii] con Inf. V: “la donna, per cui Amore ti stringe così – Noi leggiavamo un giorno per diletto / di Lancialotto come amor lo strinse”. In entrambi i casi Dante aveva presente Giobbe 40, 12, nell’esegesi di Gregorio Magno applicata dall’Olivi in senso escatologico: «“Stringit caudam suam quasi cedrum” praemittens quod per caudam illam Antichristus significetur». Il paragrafo 6 [xiii] del “libello” è tutto contesto di temi che variano quelli che si trovano in Cn 8, 2, simmetrico al passo contenuto nel Notabile X del prologo della Lectura (questo un po’ più esteso del precedente): “combattere” e “tentare” fra i “molti e diversi pensamenti”; “dolorosi puncti li conviene passare” (sarà il “doloroso passo” dei “due cognati”: il ‘passo’ ha sempre un valore di passione, sofferenza, prova); mettersi per via nemica “nelle braccia della Pietà”. L’“amorosa erranza” che ne deriva, per quanto trattata con cortese levità, corrisponde al cadere in errore degli eletti negli ultimi tempi.

  • L’esegesi di Cn 8, 2 non è neppure estranea, in Donna pietosa, al “tanto smarrimento”, all’errare degli “spirti miei”, a “lo ymaginar fallace” che “mi condusse a veder madonna morta” (Vita Nova 14 [xxiii]; cfr. anche il sonetto Morte villana: ibid., 3 [viii].8-9), tanto più se lo si confronta con la grande pagina escatologica di Matteo 24, 24-26 nel commento dello stesso Olivi. Se, come afferma Gorni, “la materia tragica ed elegiaca assume anche un andamento da commedia, per il gioco incrociato di equivoci e di false agnizioni” [12], essa trasforma con leggiadria un tema sinistro, la predicazione con segni fallaci dell’ipocrita Anticristo. Come pure, nel contrasto tra la morte che scolorisce e la bellezza, si può leggere il motivo “Nigra sum, sed formosa … quia decoloravit me sol” (Cn 1, 4-5), interpretato da Olivi come momento di tribolazione e di tentazione della sposa. Costei deve sostenere la battaglia delle tentazioni con sospiri pieni di desiderio, un dissidio interiore accostabile alla “battaglia de’ pensieri” divisi tra il ricordo di Beatrice e la nuova vista della Gentile (Vita Nova, 27 [xxxviii].4).

  • Né si può dire che Cn 8, 2 sia il solo passo del commento oliviano ad essere stato presente all’autore della Vita Nova. La “compassiva memoria sanguinis Christi et electorum suorum” (Cn 7, 5) è desiderio di martirio che reca un colore purpureo (Cn 3, 10 [il trono del re]; 7, 5 [le chiome della sposa]), uno dei colori di Beatrice, la quale, ripresentandosi “con quelle vestimenta sanguigne colle quali apparve prima agli occhi miei”, fa pentire del vile desiderio della Gentile e riaccende i sospiri che rendono gli occhi desiderosi di piangere, per cui “dintorno a.lloro si facea uno colore purpureo, lo quale suole apparire per alcuno martirio che altri riceva” (Vita Nova 28 [xxxix].1-4). Desiderio di martirio che è prima di tutto desiderio di memoria, “che sola fa rivivere per Dante la sua donna” (Vita Nova 27 [xxxviii].6: “però che maggiore desiderio era lo mio ancora di ricordarmi della gentilissima donna mia, che di vedere costei”) [13].

Parodia e arte della memoria. Si può pensare che la semantica che travasa, nell’episodio della Gentile e in quello di Francesca, dal latino al volgare si cristallizzi in questo con dei signacula mnemonici. Si osserva tuttavia che mentre Inf. V è inserito in una “topografia spirituale”, cioè in un viaggio per la storia umana, per cui le parole incastonate nel senso letterale rinviano a concetti teologici propri di uno status o periodo della storia della Chiesa (il secondo), in un contesto in cui sono elaborati molti altri motivi tratti dalla Lectura super Apocalipsim oliviana, i paragrafi della Vita Nova relativi alla Gentile sembrano suggerire un’ars memorandi per gruppi di parole, volta a creare una silloge di temi fra loro connessi, che la parodia appropria liberamente all’autore del “libello” o alla Gentile. Nel primo caso, per l’estensione e la vastità del fenomeno, e per il costante rinvio parodico a un unico ipotesto-canovaccio, si può ben presupporre l’esistenza di un pubblico accorto, quello degli Spirituali francescani, per i quali il commento all’Apocalisse di Olivi era un vero e proprio libro-vessillo. Nel secondo caso, invece, l’arte della memoria sembrerebbe concepita solo ad uso dell’autore. Guido Cavalcanti, il primo destinatario della Vita Nova, poteva bene intendere che le parole “e però, temendo di non mostrare la mia vile vita, mi parti’ d’inanzi agli occhi di questa gentile” (Vita Nova 24.3 [xxxv.3]) erano una risposta al proprio sonetto I’ vegno ’l giorno a te ’nfinite volte, che ricordava all’amico “la vil tua vita” nel pensare e nell’animo [14]. Guido, tuttavia, non poteva anche intuire l’ipotesto esegetico parodiato per dar vita alla Donna Gentile, a meno di non averne già conoscenza.

Due “Donne Gentili” in contrasto? L’amore per la Gentile della Vita Nova, che sarebbe apparsa il 21 agosto 1293 (1168 giorni dalla morte di Beatrice, avvenuta l’8 giugno 1290), non ha nulla di contraddittorio con l’amore per “la bellissima e onestissima figlia dello Imperadore dell’universo, alla quale Pittagora puose nome Filosofia”, celebrata nel Convivio (II, ii, 1; xv, 12) come allegoria di “quella gentile donna [di] cui feci menzione nella fine della Vita Nova” [15]. Per sentire la dolcezza della Filosofia, apparsagli nell’agosto 1293, Dante era andato “là dov’ella si dimostrava veracemente, cioè nelle scuole delli religiosi e alle disputazioni delli filosofanti” per trenta mesi, quindi fino agli inizi del 1296 (Convivio, II, xii, 7). Le due donne vengono presentate in modo assai diverso nel libello e nel Convivio, quella falsa e dubbiosa, questa piena di certezza nelle sue dimostrazioni e libera da dubbi. Il passaggio per il “certamen dubitationis” è però ineliminabile anche per la Filosofia, come scritto nella canzone Voi che ’ntendendo il terzo ciel movete (legata alla presenza di Carlo Martello a Firenze nel marzo 1294): «e dice: “Chi veder vuol la salute, / faccia che li occhi d’esta donna miri, / sed e’ non teme angoscia di sospiri”». Questa “angoscia di sospiri” consiste in “labore di studio e lite di dubitazioni, le quali dal principio delli sguardi di questa donna multiplicatamente surgono, e poi, continuando la sua luce, caggiono quasi come nebulette matutine alla faccia del sole; e rimane libero e pieno di certezza lo familiare intelletto, sì come l’aere dalli raggi meridiani purgato e illustrato” (Convivio, II, xv, 5). Sono appunto “penseri … sì angosciosi” e “molti sospiri” ad accompagnare il pentimento che il cuore del poeta, ricordandosi di Beatrice “secondo l’ordine del tempo passato”, fa “dello desiderio a cui sì vilmente s’avea lasciato possedere alquanti die contra la constanzia della Ragione” (cfr. Vita Nova, 28 [xxxix]). Ma il dubbio, e dunque anche la vista del falso che pare vero, resta necessario alla Filosofia venuta a consolare la vedovata vita del poeta.
È da notare che se la fallace immaginazione di Beatrice morta avviene a occhi chiusi (Vita Nova, 14 [xxiii].4), la più sottile tentazione della Gentile avviene per gli occhi, ma è sempre parvenza (“tutta la pietà parea in lei accolta”, ibid., 24 [xxxv].2). Occhi che corrispondono alle dimostrazioni, in questo caso dubitose, della Filosofia, “le quali, dritte nelli occhi dello ’ntelletto, innamorano l’anima liberata nelle [sue] condizioni” (Convivio, II, xv, 4). La pietà passionata del primo incontro con la Gentile diventerà poi più virilmente e in tempo assai breve, sull’esempio virgiliano del pietoso Enea, “una nobile disposizione d’animo, apparecchiata di ricevere amore, misericordia ed altre caritative passioni” (ibid., II, x, 5-6).
Come Francesca e Paolo, “sanza alcun sospetto” nei loro “dubbiosi disiri” (lì dove era necessario dubitare a fondo), sono stati ingannati da una falsa ‘scrittura’, e la loro vista da dannati accora di pietà, così è accaduto a Dante con la Gentile, e non è casuale, come sopra ricordato, che i due episodi sviluppino in parte, parodiandoli, i medesimi concetti teologici, per quanto attinti da distinte opere. Nel caso dei “due cognati”, la ragione è stata sottomessa al “talento”, cioè alla lussuria; nel caso della Gentile alla ‘viltà’ che deriva da una condizione dubbiosa e ingannatrice, disperativa e inducente in un cader supino, “come corpo morto cade”. Ancor più che a Francesca, la Gentile si avvicina alla “femmina balba”, la cui immagine, colorata nel sogno “com’ amor vuol” e poi rivelatasi fetida per intervento su Virgilio di una donna “santa e presta”, fa ancora andare Dante, dopo il risveglio, “con tanta sospeccion”, vòlto “pur inver’ la terra” (Purg. XIX, 52-57).
L’agone del dubbio, nella scelta tra Beatrice e la Donna Gentile, si è svolto tutto dentro la mente del poeta, dove rampolla il “gentil pensero che parla di voi” (Vita Nova, 27 [xxxviii].8) della seconda figura, la quale “passionata di tanta misericordia si dimostrava sopra la mia vedovata vita” (Convivio, II, ii, 2) [16]. Il dubbio “nasce … a guisa di rampollo, / a piè del vero” (Par. IV, 130-132), ma come può spingere “di collo in collo” verso quel vero, salendo dalla passione d’amore alla nobile e virtuosa disposizione d’animo (ibid., II, xii, 8), così può deprimere nella battaglia e indurre in errore.
Tra la Gentile della Vita Nova e quella del Convivio non c’è più contraddizione di quanta possa esservi tra il visitare il secondo cerchio dell’inferno, dove stanno i lussuriosi, e l’ascoltare la dottrina d’amore esposta da Virgilio sulla soglia del quarto girone della montagna, secondo la quale non è vero che sia “ciascun amore in sé laudabil cosa” (Purg. XVIII, 34-36).

A questo punto bisogna esaminare ancora il commento di Olivi al Cantico dei Cantici e vedere se e quanto esso sia stato presente, forse insieme ad altre opere di esegesi biblica dello stesso autore, nella stesura della Vita Nova. Ci si potrà, poi, interrogare se la frequentazione per circa trenta mesi “nelle scuole delli religiosi e alle disputazioni delli filosofanti” fino al prevalere della Donna Gentile-Filosofia non sia stata accompagnata, oltre che da insegnamenti strettamente filosofici, anche da una solida preparazione teologica nel campo dell’esegesi biblica, e se questa non sia stata addirittura precedente la morte di Beatrice, negli anni in cui Olivi insegnava a Santa Croce.

[1] Cfr., a stampa: A. FORNI, Pietro di Giovanni Olivi nella penisola italiana, p. 425, nt. 55 (trad. ingl. Petrus Iohannis Olivi in the Italian Peninsula, pp. 20-21, nt. 55); Dante e il Giubileo (II): Bonifacio VIII, in “Collectanea Franciscana”, 86 (2016), pp. 574-576 (cfr., sul sito, 4.2); su questo sito: L’agone del dubbio, ovvero il martirio moderno (Francesca e la «Donna Gentile», 1.1, 3; «In mensura et numero et pondere». Nella fucina della Commedia: storia, poesia e arte della memoria, 2.5; Inferno V.

[2] PETRI IOHANNIS OLIVI Expositio in Canticum Canticorum, curavit JOHANNES SCHLAGETER, Ad Claras Aquas Grottaferrata 1999 (Collectio Oliviana, II [= Cn]).

[3] La caduta di Gerusalemme. Il commento al Libro delle Lamentazioni di Pietro di Giovanni Olivi, a cura di MARCO BARTOLI, Roma 1991 (Istituto Storico Italiano per il Medio Evo. Nuovi studi storici – 12), pp. xliv-xlvi.

[4] Dante Alighieri, Vita Nova, a cura di GUGLIELMO GORNI, Torino 1996 (= Vita Nova; fra [ ] la paragrafazione dell’edizione Barbi).

[5] Ibid., p. 273.

[6] Ibid., p. 205, nt. a le pesa.

[7] Vita Nova, 14-15 [xxiii-xxiv].

[8] Ibid., 28 [xxxix].

[9] Si parafrasano le parole di san Bernardo a Par. XXXII, 140-141.

[10] L’appellativo “gentile”, nella Commedia, ha cambiato senso rispetto alla Vita Nova. Accanto al significato di ‘nobile’, ‘cortese’ o ‘liberale’ si fa sempre più forte il senso di ‘gente’ alla stregua degli antichi pagani tumultuosa e affannata nel cuore per brutali passioni e conflitti intestini, la cui vita non sta senza guerra, fluttuante come il mare in tempesta. A questo nuovo e negativo valore appartiene “la bufera infernal che mai non resta” che porta in eterno Francesca e Paolo, la cui vita spense “Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende”. Beatrice, la “gentilissima” del “libello” giovanile, non è fregiata nella Commedia con tale prerogativa. Il mutato valore della gentilezza, che accanto ai significati già cari a Dante acquista uno spessore storico proprio della Gentilità idolatra e irrazionale applicato ai tempi moderni, segna come la ‘linea d’ombra’ di Dante verso la cultura letteraria del tempo, pregna di  “donne antiche e ’ cavalieri” dannati in eterno a causa di Amore. Cfr. L’agone del dubbio, cap. 7 (Gentilezza, Gentilità, affanni, cortesia).

[11] GUGLIELMO GORNI, La Vita Nova dalla Donna Gentile a Beatrice, con un excursus sulla doppia redazione del libello, in “Deutsches Dante-Jahrbuch”, 81 (2006), pp. 7-26: 15.

[12] Vita Nova, p. 263.

[13] Ibid., p. 211, nt. a ricordarmi …vedere.

[14] Una risposta postuma a Cavalcanti la reciterà Virgilio rivolgendosi a Stazio a Purg. XXI, 20-24 con il parodiare il sonetto di Guido S’io fosse quelli che d’amor fu degno, a sua volta replica al sonetto di Dante Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io.

[15] MARCO SANTAGATA, L’io e il mondo. Un’interpretazione di Dante, Bologna 2011, p.117, ritiene che “le discrepanze tra i due racconti, che molto hanno fatto discutere gli interpreti, si appianano in gran parte se, invece di leggerli in successione, li leggiamo in parallelo”. Il testo del Convivio è citato dall’edizione a cura di F. Brambilla Ageno, Firenze 1995 (Le opere di Dante Alighieri. Edizione Nazionale a cura della Società Dantesca Italiana).

[16] Non c’è reale contrasto tra Beatrice e la Gentile (o Pietosa). La seconda “non mira voi – rimprovera il poeta ai suoi occhi vani -, se non in quanto le pesa della gloriosa donna di cui piangere solete” (Vita Nova, 26.2). Nota il GORNI, p. 205, nt. a “le pesa”: “Questa particolarità conferisce una valenza tutta speciale alla vicenda della Donna pietosa, perché le due antagoniste non appaiono in conflitto se non nella mente del soggetto, e la seconda è mossa dalla pietà per la prima”. La distinzione non contraddittoria tra un racconto psicologico, dato nel libello, e una prospettiva allegorico-morale volta a scienza e a virtù, data nel Convivio, era stata sostenuta sin dal 1951 dal Bosco, come ricordato da GIORGIO PETROCCHI nella voce Donna gentile in Enciclopedia Dantesca, II, Roma 19842, p. 576. Cfr. SANTAGATA, L’io e il mondo, p. 178: “Di una vicenda raccontata per ben cinque paragrafi e altrettanti componimenti poetici manca qualunque testimone esterno, così come manca ogni allusione a occasioni di vita sociale. Una storia fino a quel momento vissuta ‘in pubblico’ improvvisamente si trasforma in un evento del tutto privato, centrato interamente (se non vogliamo considerare il ruolo di Beatrice defunta) su un rapporto a due”.

 

Tab. I.1

Vita Nova, a cura di G. Gorni, Torino, 1996 [viene indicata anche la paragrafazione del Barbi]

Vita Nova 24 [xxxv]

Poi per alquanto tempo, con ciò fosse cosa che io fosse in parte nella quale mi ricordava del passato tempo, molto stava pensoso; e con dolorosi pensamenti tanto, che mi faceano parere di fuori una vista di terribile sbigottimento. [2] Onde io, accorgendomi del mio travagliare, levai gli occhi per vedere se altri mi vedesse. Allora vidi una gentil donna giovane e bella molto, la quale da una finestra mi riguardava pietosamente quanto alla vista, che tutta la pietà parea in lei accolta. [3] Onde con ciò sia cosa che quando li miseri veggiono di loro compassione altrui più tosto si muovono a lagrimare, quasi come di sé stessi avendo pietade, io senti’ allora cominciare li miei occhi a volere piangere; e però, temendo di non mostrare la mia vile vita, mi parti’ d’inanzi dagli occhi di questa gentile. E dicea poi fra me medesimo: «E’ non può essere che con quella pietosa donna non sia nobilissimo amore». [4] E però propuosi di dire uno sonetto nel quale io parlassi a.llei, e conchiudesse in esso tutto ciò che narrato è in questa ragione. E però che per questa ragione è assai manifesto, no.llo dividerò. E comincia Videro gli occhi miei.

Videro gli occhi miei quanta pietate     [5]
era apparita en la vostra figura,

quando guardaste gli acti e la statura
ch’io faccio per dolor molte fïate.
Allor m’accorsi che voi pensavate         [6]
la qualità della mia vita obscura,

sì che mi giunse nello cor paura
di dimostrar con gli occhi mia viltate.
   E tolsimi d’inanzi a voi, sentendo        [7]
che si movean le lagrime dal core,
ch’era sommosso dalla vostra vista.
   Io dicea poscia nell’anima trista:            [8]
«Ben è con quella donna quello Amore
lo qual mi face andar così piangendo».

PETRI IOHANNIS OLIVI Expositio in Canticum Canticorum [ = Cn], curavit J. Schlageter, Ad Claras Aquas Grottaferrata 1999 (Collectio Oliviana, II) [le citazioni scritturali, anziché in corsivo, sono state poste fra “ ”]

Cn 8, 2, pp. 302, 304

[326] “Ibi me docebis” doctrina scilicet altiori et experimentaliori, “et dabo tibi poculum ex vino condito” scilicet aromaticis speciebus, “et mustum malogranatorum meorum” (2cd). Nota quod usque-modo non fecit mentionem de “vino condito” nec de “musto malogranatorum”, sed solum de vino simplici et de arboribus ac fructibus et germinibus malorum punicorum. Dulcor enim contemplationis et expres-sum “mustum” difficillimorum et acerbissimorum martyriorum circa tempus conversionis Iudaeorum et circa tempus Antichristi debent Christo ab ecclesia singularius ministrari. Tunc enim teste Christo “erit tanta tribulatio, ut si fieri potest, in errorem inducantur electi” (cfr. Mt 24, 21.24). Et Gregorius Moralium trigesimo secundo super illud Iob: “Stringit caudam suam quasi cedrum” (Iob 40, 12) praemittens quod per caudam illam Antichristus significetur, subdit causam, quare tribulatio elec-torum sub eo erit maior quam praecedens dicens: «Nunc enim fideles nostri mira faciunt, cum perversa patiuntur, tunc autem Behemoth huius satellites etiam cum perversa inferunt, mira facturi sunt. Pensemus ergo quae erit humanae mentis illa tentatio: pius martyr et corpus tormentis subiicit et tamen ante eius oculos miracula tortor facit. Cuius tunc virtus non ab ipso cogitationum fundo quatiatur, quando is qui flagris cruciat, signis coruscat?» Haec Gregorius*. Item Moralium trige-simo quinto super illud Iob ultimo: “Addidit Dominus omnia quaecumque fuerant Iob, duplicia” (Iob 42, 10) dicit: «Sancta quippe ecclesia etsi multos nunc percussione tentationis amittit, in fine tamen huius saeculi ea quae sua sunt, duplicia recipiet, quando susceptis ad plenum gentibus ad eius fidem currere omnis quae tunc inventa fuerit, etiam Iudaea consentit. Hinc namque in evangelio veritas dicit: “Elias veniet et ille restituet omnia”» (Mt 17, 11)**.

* Gregorius Magnus, Moralium lib. 32, cap. 15, n. 24 (PL 76, 650; CChr. SL 143B, 1648).
** Ibid., lib. 35, cap. 14, n. 24 (PL 76, 762; CChr. SL 143B, 1789).

Convivio, II, x, 5-6 (ed. F. Brambilla Ageno, Firenze 1995): Poi, com’è detto, comanda quello che far dee quest’anima ripresa per venire lei a sé, e lei dice: Mira quant’ell’è pïetosa e umile: ché sono proprio rimedio alla temenza, della qual parea l’anima passionata, due cose, [e] sono queste che, massimamente congiunte, fanno della persona bene sperare, e massimamente la pietade, la quale fa risplendere ogni altra bontade col lume suo. Per che Virgilio, d’Enea parlando, in sua maggiore loda pietoso lo chiama. E non è pietade quella che crede la volgare gente, cioè dolersi dell’altrui male, anzi è questo uno suo speziale effetto, che si chiama misericordia e[d è] passione; ma pietade non è passione, anzi è una nobile disposizione d’animo, apparecchiata di ricevere amore, misericordia ed altre caritative passioni.

 

Tab. I.2

Vita Nova 25 [xxxvi]

Avenne poi che là ovunque questa donna mi vedea, si facea d’una vista pietosa e d’un colore palido quasi come d’amore; onde molte fiate mi ricordava della mia nobilissima donna, che di simile colore si mostrava tuttavia. [2] E certo molte volte non potendo lagrimare né disfogare la mia tristitia, io andava per vedere questa pietosa donna, la quale parea che tirasse le lagrime fuori delli miei occhi per la sua vista. [3] E però mi venne volontà di dire anche parole parlando a.llei, e dissi questo sonetto, lo quale comincia Colore d’amore; ed è piano sanza dividerlo, per la sua precedente ragione.

Color d’amore e di pietà sembianti         [4]
non preser mai così mirabilmente
viso di donna, per veder sovente

occhi gentili o dolorosi pianti,
come lo vostro, qualora davanti
vedetevi la mia labbia dolente;

sì che per voi mi ven cosa alla mente,
ch’io temo forte non lo cor si schianti.
   Io non posso tener gli occhi  distructi   [5]
che non riguardin voi spesse fïate,
per disiderio di pianger ch’elli ànno.
   E voi cresceste sì lor volontate,
che della voglia si consumâr tutti,
ma lagrimar dinanzi a voi  non sanno.

Vita Nova 26 [xxxvii]

Io venni a tanto per la vista di questa donna, che li miei occhi si cominciaro a dilectare troppo di vederla, onde molte volte me ne crucciava nel mio cuore ed aveamene per vile assai. [2] Onde più volte bestemmiava la vanitade degli occhi miei, e dicea loro nel mio pensero: «Or voi solavate fare piangere chi vedea la vostra dolorosa conditione, e ora pare che vogliate dimenticarlo per questa donna che vi mira: che non mira voi, se non in quanto le pesa della gloriosa donna di cui piangere solete. Ma quanto potete, fate: ché io la vi pur rimembrerò molto spesso, maladecti occhi, che mai, se non dopo la morte, non dovrebbero le vostre lagrime avere restate!». [3] E quando così avea detto fra me medesimo alli miei occhi, e li sospiri m’assalivano grandissimi e angosciosi. E acciò che questa battaglia che io avea meco non rimanesse saputa pur dal misero che la sentia, propuosi di fare uno sonetto e di comprendere in esso questa orribile conditione; e dissi questo sonetto, lo quale comincia L’amaro lagrimare ed à due parti. [4] Nella prima parlo agli occhi miei sì come parlava lo mio cuore in me medesimo; nella seconda rimuovo alcuna dubi-tatione, manifestando chi è che così parla: e comincia questa parte quivi Così dice. [5] Potrebbe bene ancora ricevere più divisioni, ma sariano indarno, però ch’è manifesto per la precedente ragione.

Cn 8, 2, pp. 302, 304

[326] “Ibi me docebis” doctrina scilicet altiori et experimentaliori, “et dabo tibi poculum ex vino condito” scilicet aromaticis speciebus, “et mustum malogranatorum meorum” (2cd). Nota quod usque-modo non fecit mentionem de “vino condito” nec de “musto malogranatorum”, sed solum de vino simplici et de arboribus ac fructibus et germinibus malorum punicorum. Dulcor enim contemplationis et expres-sum “mustum” difficillimorum et acerbissimorum martyriorum circa tempus conversionis Iudaeorum et circa tempus Antichristi debent Christo ab ecclesia singularius ministrari. Tunc enim teste Christo “erit tanta tribulatio, ut si fieri potest, in errorem inducantur electi” (cfr. Mt 24, 21.24). Et Gregorius Moralium trigesimo secundo super illud Iob: “Stringit caudam suam quasi cedrum” (Iob 40, 12) praemittens quod per caudam illam Antichristus significetur, subdit causam, quare tribulatio electo-rum sub eo erit maior quam praecedens dicens: «Nunc enim fideles nostri mira faciunt, cum perversa patiuntur, tunc autem Behemoth huius satellites etiam cum perversa inferunt, mira facturi sunt. Pensemus ergo quae erit humanae mentis illa tentatio: pius martyr et corpus tormentis subiicit et tamen ante eius oculos miracula tortor facit. Cuius tunc virtus non ab ipso cogitationum fundo quatiatur, quando is qui flagris cruciat, signis coru-scat?» Haec Gregorius. Item Moralium trigesimo quinto super illud Iob ultimo: “Addidit Dominus omnia quaecumque fuerant Iob, duplicia” (Iob 42, 10) dicit: «Sancta quippe ecclesia etsi multos nunc percussione tentationis amittit, in fine tamen huius saeculi ea quae sua sunt, duplicia recipiet, quando susceptis ad plenum gentibus ad eius fidem currere omnis quae tunc inventa fuerit, etiam Iudaea consentit. Hinc namque in evangelio veritas dicit: “Elias veniet et ille restituet omnia”» (Mt 17, 11).

Vita Nova 26 [xxxvii]

«L’amaro lagrimar che voi faceste,       [6]
oi occhi miei, così lunga stagione,
faceva lagrimar l’altre persone
della pietate, come voi vedeste.
Ora mi par che voi l’oblïereste,               [7]
s’i’ fosse dal mio lato sì fellone
ch’i’ non ven disturbasse ogne cagione,
membrandovi colei cui voi piangeste.
   La vostra vanità mi fa pensare         [8]
e spaventami sì, ch’io temo forte

del viso d’una donna che vi mira.
   Voi non dovreste mai, se non per morte,
la vostra donna ch’è morta oblïare».
Così dice ’l meo core, e poi sospira.

Cn 1, 4, p. 128

[44] “Nigra” etiam “sum”, “sicut pelles Salomonis” (cfr. 4b). Quod in templo Salomonis pelles fuerint nigrae, non legimus, sed in tabernaculo a Moyse facto fuerunt saga cilicina de pilis caprarum, et illa erant nigra. Fuerunt etiam ibi pelles arietum rubricatae (Ex 26, 7.14). Et forte has vocat “pelles Salomonis”; tum quia sub ipso finaliter fuerunt; tum ut duplici mysterio denigrationis sponsae deserviat. Fuit enim cultus tabernaculi Dei in transitu deserti et tandem in terra promissionis et in Ierusalem. Et tunc sub Salomone fuit in maiori pace et gloria. Et secundum hoc sponsa Dei est in duplici statu, scilicet in laborioso transitu ad contemplationis apicem et quietem et in ipso apice seu in ipso termino quietante. In primo sponsa bellis tentationum et laboriosis macerationibus et exercitiis et suspiriosis desideriis exterius mortificatur. In secundo vero vitae carnali funditus moritur, et ideo tunc velut mortua huic mundo videtur. Vult ergo dicere sponsa: etsi exterius me videtis despectam et mortuam, attendite tamen meam intelligibilem seu virtualem formam et venustatem.

 

Tab. I.3

Vita Nova 27 [xxxviii]

Ricoverai la vista di questa donna in sì nuova conditione, che molte volte ne pensava sì come di persona che troppo mi piacesse, e pensava di lei così: «Questa è una donna gentile, bella, giovane e savia, ed è apparita forse per volontà d’Amore acciò che la mia vita si riposi». E molte volte pensava più amorosamente, tanto che lo cuore consentia in lui, cioè nel suo ragionare. [2] E quando io avea consentito ciò, e io mi ripensava sì come dalla Ragione mosso e dicea fra me medesimo: «Deh, che pensero è questo, che in così vile modo vuole consolar me, e non mi lascia quasi altro pensare?». [3] Poi si rilevava un altro pensero e diceami: «Or tu se’ stato in tanta tribulatione; perché non vuoli tu ritrarre te da tanta amaritudine? Tu vedi che questo è uno spiramento d’Amore, che ne reca li disiri d’amore dinanzi, ed è mosso da così gentil parte com’è quella degli occhi della donna che tanto pietosa ci s’àe mostrata». [4] Onde io, avendo così più volte combattuto in me medesimo, ancora ne volli dire alquante parole. E però che la battaglia de’ pensieri vinceano coloro che per lei parlavano, mi parve che si convenisse di parlare a.llei, e dissi questo sonetto, lo quale comincia Gentile pensero; e dico «Gentile» in quanto ragionava di gentil donna, ché peraltro era vilissimo. [5] In questo sonetto fo due parti di me, secondo che li miei pensieri erano divisi. L’una parte chiamo core, cioè l’appetito; l’altra chiamo anima, cioè la Ragione; e dico come l’uno dice coll’altro. E che degno sia di chiamare l’appetito cuore, e la Ragione anima, assai è manifesto a coloro a cui mi piace che ciò sia aperto. [6] Vero è che nel precedente sonetto io fo la parte del cuore contra quella degli occhi, e ciò pare contrario di quello che io dico nel presente; e però dico che ivi lo cuore anche intendo per lo appetito, però che maggiore desiderio era lo mio ancora di ricordarmi della gentilissima donna mia, che di vedere costei, avegna che alcuno appetito n’avessi già, ma leggiero parea: onde appare che l’uno decto non è contrario all’altro. [7] Questo sonetto à tre parti. Nella prima comincio a dire a questa donna come lo mio desiderio si volge tutto verso lei; nella seconda dico come l’anima, cioè la Ragione, dice al cuore, cioè all’appetito; nella terza dico com’e’ le risponde. La seconda parte comincia quivi L’anima dice; la terza quivi Ei le risponde.

Gentil pensero che parla di voi                  [8]
sen vene a dimorar meco sovente,
e ragiona d’amor sì dolcemente,
che face consentir lo cor in lui.
L’anima dice al cor: «Chi è costui,             [9]
che vene a consolar la nostra mente,
ed è la sua virtù tanto possente,
ch’altro penser non lascia star con noi?»
   Ei le risponde: «Oi anima pensosa,      [10]
questi è uno spiritel novo d’Amore,
che reca innanzi me li suoi disiri;
   e la sua vita, e tutto ’l suo valore,
mosse degli occhi di quella pietosa
che si turbava de’ nostri martiri».

Cn 1, 4, p. 128

[44] “Nigra” etiam “sum”, “sicut pelles Salomonis” (cfr. 4b). Quod in templo Salomonis pelles fuerint nigrae, non legimus, sed in tabernaculo a Moyse facto fuerunt saga cilicina de pilis caprarum, et illa erant nigra. Fuerunt etiam ibi pelles arietum rubricatae (cfr. Ex 26, 7.14). Et forte has vocat “pelles Salomonis”; tum quia sub ipso finaliter fuerunt; tum ut duplici mysterio denigrationis sponsae deserviat. Fuit enim cultus tabernaculi Dei in transitu deserti et tandem in terra promissionis et in Ierusalem. Et tunc sub Salomone fuit in maiori pace et gloria. Et secundum hoc sponsa Dei est in duplici statu, scilicet in laborioso transitu ad contemplationis apicem et quietem et in ipso apice seu in ipso termino quietante. In primo sponsa bellis tentationum et laboriosis macerationibus et exercitiis et suspi-riosis desideriis exterius mortificatur. In secundo vero vitae carnali funditus moritur, et ideo tunc velut mortua huic mundo videtur. Vult ergo dicere sponsa: etsi exterius me videtis despectam et mortuam, attendite tamen meam intelligibilem seu virtualem formam et venustatem.

Cn 8, 2, pp. 302, 304

[326] “Ibi me docebis” doctrina scilicet altiori et experimentaliori, “et dabo tibi poculum ex vino condito” scilicet aromaticis speciebus, “et mustum malogranatorum meorum” (2cd). Nota quod usque-modo non fecit mentionem de “vino condito” nec de “musto malogranatorum”, sed solum de vino simplici et de arboribus ac fructibus et germinibus malorum punicorum. Dulcor enim contemplationis et expres-sum “mustum” difficillimorum et acerbissimorum martyriorum circa tempus conversionis Iudae-orum et circa tempus Antichristi debent Christo ab ecclesia singularius ministrari. Tunc enim teste Christo “erit tanta tribulatio, ut si fieri potest, in errorem inducantur electi” (cfr. Mt 24, 21.24). Et Gregorius Moralium trigesimo secundo super illud Iob: “Stringit caudam suam quasi cedrum” (Iob 40, 12) praemittens quod per caudam illam Antichristus significetur, subdit causam, quare tribulatio electo-rum sub eo erit maior quam praecedens dicens: «Nunc enim fideles nostri mira faciunt, cum perversa patiuntur, tunc autem Behemoth huius satellites etiam cum perversa inferunt, mira facturi sunt. Pensemus ergo quae erit humanae mentis illa tentatio: pius martyr et corpus tormentis subiicit et tamen ante eius oculos miracula tortor facit. Cuius tunc virtus non ab ipso cogitationum fundo quatiatur, quando is qui flagris cruciat, signis coruscat?» Haec Gregorius. Item Moralium trigesimo quinto super illud Iob ultimo: “Addidit Dominus omnia quaecumque fuerant Iob, duplicia” (Iob 42, 10) dicit: «Sancta quippe ecclesia etsi multos nunc percussione tentationis amittit, in fine tamen huius saeculi ea quae sua sunt, duplicia recipiet, quando susceptis ad plenum gentibus ad eius fidem currere omnis quae tunc inventa fuerit, etiam Iudaea consentit. Hinc namque in evangelio veritas dicit: “Elias veniet et ille restituet omnia”» (Mt 17, 11).

Vita Nova 28 [xxxix]

Contra questo adversario della Ragione si levòe un die, quasi nell’ora della nona, una forte ymaginatione in me, che mi parve vedere questa gloriosa Beatrice con quelle vestimenta sanguigne colle quali apparve prima agli occhi miei, e pareami giovane in simile etade in quale prima la vidi. [2] Allora cominciai a pensare di lei, e ricordandomi di lei secondo l’or-dine del tempo passato, lo mio cuore cominciò dolorosamente a pentere dello desiderio a cui sì vilmente s’avea lasciato possedere alquanti die contra la constanzia della Ragione: e discacciato questo cotale malvagio desiderio, si rivolsero tutti li miei pensamenti alla loro gentilissima Beatrice. […] [6] Onde io, volendo che cotale desiderio malvagio e vana tentatione paresse distructo sì che alcuno dubbio non potessero inducere le rimate parole che io avea dette dinanzi, propuosi di fare uno sonetto nel quale io comprendessi la sententia di questa ragione, e dissi allora Lasso, per forza di molti sospiri. E dissi «Lasso» in quanto mi vergognava di ciò che li miei occhi aveano così vaneggiato. [7] Questo sonetto non divido, però che assai lo manifesta la sua ragione.

Lasso, per forza di molti sospiri,                    [8]
che nascon de’ pensier’  che son nel core,
gli occhi son vinti, e non ànno valore
di riguardar persona che li miri;
e facti son che paion due disiri                         [9]
di lagrimare e di mostrar dolore,
e spesse volte piangon sì, ch’Amore
li ’ncerchia di corona di martiri.
   Questi penseri, e li sospir’ ch’io gitto,       [10]
diventano nel cor sì angosciosi,
ch’Amor vi tramortisce, sì lien dole;
   però ch’elli ànno in lor, li dolorosi,
quel dolce nome di madonna scripto,
e della morte sua molte parole.

 

Tab. I.4

Inf. IV, 16-22

E io, che del color mi fui accorto,
dissi: “Come verrò, se tu paventi
che suoli al mio dubbiare esser conforto?”.
Ed elli a me: “L’angoscia de le genti
che son qua giù, nel viso mi dipigne
quella pietà che tu per tema senti.
Andiam, ché la via lunga ne sospigne”.

Purg. III, 70-72

quando si strinser tutti ai duri massi
de l’alta ripa, e stetter fermi e stretti
com’ a guardar, chi va dubbiando, stassi.

Purg. X, 115-117

Ed elli a me: “La grave condizione
di lor tormento a terra li rannicchia,
sì che ’ miei occhi pria n’ebber tencione”.

Purg. XII, 64-66

Qual di pennel fu maestro o di stile
che ritraesse l’ombre e ’  tratti ch’ivi
mirar farieno uno ingegno sottile?

Par. IV, 130-132

Nasce per quello, a guisa di rampollo,
a piè del vero il dubbio; ed è natura
ch’al sommo pinge noi di collo in collo.

Par. XIX, 31-33, 82-84; XX, 79-84, 100-102

Sapete come attento io m’apparecchio
ad ascoltar; sapete qual è quello
dubbio che m’è digiun cotanto vecchio.

Certo a colui che meco s’assottiglia,
se la Scrittura sovra voi non fosse,
da dubitar sarebbe a maraviglia.

E avvegna ch’io fossi al dubbiar  mio
lì quasi vetro a lo color ch’el veste,
tempo aspettar tacendo non patio,
ma de la bocca, “Che cose son queste?”,
mi pinse con la forza del suo peso:
per ch’io di coruscar vidi gran feste.

La prima vita del ciglio e la quinta
ti fa maravigliar, perché ne vedi
la regïon de li angeli dipinta.

Par. XXXII, 49-51

Or dubbi tu e dubitando sili;
ma io discioglierò ’l forte legame
in che ti stringon li pensier sottili.

[Lectura super Apocalipsim (= LSA), prologus, Notabile X] Sextus (status) vero concurrit cum secundo non in eodem tempore sed in celebri multitudine martiriorum, prout in apertione quinti signaculi aperte docetur (cfr. Ap 6, 9), quamvis in modo martirii quoad aliqua differant. Nam martiria a paganis et idolatris facta nullum certamen dubitationis inferebant martiribus, aut probabilis rationis, propter nimiam evidentiam paganici erroris. Non sic autem fuit de martiriis per hereticos, unum Deum et unum Christum confitentes, inflictis. In sexto autem tempore non solum propulsabuntur martires per tormenta corporum, aut per subtilitatem rationum philosophicarum, aut per intorta testimonia scripturarum sanctarum, aut per simulationem sanctitatis ypocritarum, immo etiam per miracula a tortoribus facta. Nam, teste Christo, “dabunt signa et prodigia magna” (Mt 24, 24). Unde Gregorius, XXXII° Moralium super illud Iob: “stringit caudam suam quasi cedrum” (Jb 40, 12), dicit: «Nunc fideles nostri mira faciunt, cum perversa patiuntur; tunc autem Behemot huius satellites, etiam cum perversa inferunt, mira facturi sunt. Pensemus ergo que erit humane mentis illa temptatio, quando pius martir corpus tormentis subicit, et tamen ante eius oculos miracula tortor facit». Propulsabit etiam eos per falsam imaginem divine et pontificalis auctoritatis. Sic enim tunc surgent pseudochristi et pseudochristus contra electos, sicut Annas et Caiphas pontifices insurrexerunt in Christum. Erunt ergo tunc tormenta intensive maiora, tempore autem paganorum fuerunt extensive pluriora: nam plusquam per ducentos annos duraverunt.

Inf. V, 91-93, 109-120, 124-132, 137; VI, 1-2

se fosse amico il re de l’universo,
noi pregheremmo lui de la tua pace,
poi ch’hai pietà del nostro mal perverso.

Quand’ io intesi quell’ anime offense,
china’ il viso, e tanto il tenni basso,
fin che ’l poeta mi disse: “Che pense?”.
Quando rispuosi, cominciai: “Oh lasso,
quanti dolci pensier, quanto disio
menò costoro al doloroso passo!”.
Poi mi rivolsi a loro e parla’ io,
e cominciai: “Francesca, i tuoi martìri
a lagrimar mi fanno tristo e pio.

Ma dimmi: al tempo d’i dolci sospiri,
a che e come concedette amore
che conosceste i dubbiosi  disiri?”.

Ma s’a conoscer la prima radice
del nostro amor tu hai cotanto affetto,
dirò come colui che piange e dice.
Noi leggiavamo un giorno per diletto
di Lancialotto come amor  lo strinse;
soli eravamo e sanza alcun sospetto.
Per più fïate li occhi ci sospinse
quella lettura, e scolorocci il viso;
ma solo un punto fu quel che ci vinse.

Galeotto fu  ’l libro e chi lo scrisse

Al tornar de la mente, che si chiuse
dinanzi a la pietà d’i due cognati

Inf. XX, 7-30

e vidi gente per lo vallon tondo
venir, tacendo e lagrimando, al passo
che fanno le letane in questo mondo.

Come ’l viso mi scese in lor più basso,
mirabilmente apparve esser travolto
ciascun tra ’l mento e ’l principio del casso,
ché da le reni era tornato ’l volto,
e in dietro venir li convenia,
perché ’l veder dinanzi era lor tolto.
Forse per forza già di parlasia
si travolse così alcun del tutto;
ma io nol vidi, né credo che sia.
Se Dio ti lasci, lettor, prender frutto
di tua lezione, or pensa per te stesso
com’ io potea tener lo viso asciutto,
quando la nostra imagine di presso
vidi sì torta, che ’l pianto de li occhi
le natiche bagnava per lo fesso.
Certo io piangea, poggiato a un de’ rocchi
del duro scoglio, sì che la mia scorta
mi disse: “Ancor se’ tu de li altri sciocchi?
Qui vive la pietà quand’ è ben morta;
chi è più scellerato che colui
che al giudicio divin passion comporta?”

Vita Nova 6 [xiii]. 1-7

Apresso di questa soprascripta visione, avendo già dette le parole che Amore m’avea imposte a dire, mi cominciaro molti e diversi pensamenti a combattere e a tentare, ciascuno quasi indefensibilemente; tra li quali pensamenti, quatro mi parea che ingombrassero più lo riposo della vita. [2] L’uno delli quali era questo: buona è la signoria d’Amore, però che trae lo ’ntendimento del suo fedele da tutte le vili cose. [3] L’altro era questo: non buona è la signoria d’Amore, però che quanto lo suo fedele più fede li porta, tanto più gravi e dolorosi puncti li conviene passare. [4] L’altro era questo: lo nome d’Amore è sì dolce a udire, che impossibile mi pare che la sua propria operatione sia nelle più cose altro che dolce, con ciò sia cosa che li nomi seguitino le nominate cose, sì come è scripto: «Nomina sunt consequentia rerum». [5] Lo quarto era questo: la donna, per cui Amore ti stringe così, non è come l’altre donne, che leggieramente si muova del suo core. [6] E ciascuno mi combattea tanto, che mi facea stare quasi come colui che non sa per qual via pigli lo suo camino, e che vuole andare e non sa onde sen vada; e se io pensava di volere cercare una comune via di costoro, cioè là ove tutti s’accordassero, questa via era molto inimica verso me, cioè di chiamare e di mettermi nelle braccia della Pietà. [7] E in questo stato dimorando mi giunse volontà di scrivere parole rimate; e dissine allora questo sonetto, lo quale comincia Tutti li miei.

 

Cn 8, 2, pp. 302, 304

[326] […] Et Gregorius Moralium trigesimo secundo super illud Iob: “Stringit caudam suam quasi cedrum” (Iob 40, 12) praemittens quod per caudam illam Antichristus significetur, subdit causam, quare tribulatio electorum sub eo erit maior quam praecedens dicens: «Nunc enim fideles nostri mira faciunt, cum perversa patiuntur, tunc autem Behemoth huius satellites etiam cum perversa inferunt, mira facturi sunt. Pensemus ergo quae erit humanae mentis illa tentatio : pius martyr et corpus tormentis subiicit et tamen ante eius oculos miracula tortor facit. Cuius tunc virtus non ab ipso cogitationum fundo quatiatur, quando is qui flagris cruciat, signis coruscat?» Haec Gregorius. Item Moralium trigesimo quinto super illud Iob ultimo: “Addidit Dominus omnia quaecumque fuerant Iob, duplicia” (Iob 42, 10) dicit: «Sancta quippe ecclesia etsi multos nunc percussione tentationis amittit, in fine tamen huius saeculi ea quae sua sunt, duplicia recipiet, quando susceptis ad plenum gentibus ad eius fidem currere omnis quae tunc inventa fuerit, etiam Iudaea consentit. Hinc namque in evangelio veritas dicit: “Elias veniet et ille restituet omnia”» (Mt 17, 11).

 

Tab. I.5

Vita Nova 6 [xiii]

Apresso di questa soprascripta visione, avendo già dette le parole che Amore m’avea imposte a dire, mi cominciaro molti e diversi pensamenti a combatte-re e a tentare, ciascuno quasi indefensibilemente; tra li quali pensamenti, quatro mi parea che ingom-brassero più lo riposo della vita. [2] L’uno delli quali era questo: buona è la signoria d’Amore, però che trae lo ’ntendimento del suo fedele da tutte le vili cose. [3] L’altro era questo: non buona è la signoria d’Amore, però che quanto lo suo fedele più fede li porta, tanto più gravi e dolorosi puncti li conviene passare. [4] L’altro era questo: lo nome d’Amore è sì dolce a udire, che impossibile mi pare che la sua propria operatione sia nelle più cose altro che dolce, con ciò sia cosa che li nomi seguitino le nominate cose, sì come è scripto: «Nomina sunt consequentia rerum». [5] Lo quarto era questo: la donna, per cui Amore ti stringe così, non è come l’altre donne, che leggieramente si muova del suo core. [6] E ciascuno mi combattea tanto, che mi facea stare quasi come colui che non sa per qual via pigli lo suo camino, e che vuole andare e non sa onde sen vada; e se io pensava di volere cercare una comune via di costoro, cioè là ove tutti s’accordassero, questa via era molto inimica verso me, cioè di chiamare e di mettermi nelle braccia della Pietà. [7] E in questo stato dimorando mi giunse volontà di scrivere parole rimate; e dissine allora questo sonetto, lo quale comincia Tutti li miei.

Tutti li miei pensier’ parlan d’Amore,          [8]
e ànno in lor sì gran varïetate,
ch’altro mi fa voler sua podestate,
altro folle ragiona il suo valore,
altro sperando m’aporta dolzore,
altro pianger mi fa spesse fïate,
e sol s’accordano in cherer pietate,
tremando di paura che è nel core.
   Ond’io non so da qual matera prenda;       [9]
e vorrei dire, e non so ch’io mi dica,
così mi trovo in amorosa erranza.
   E se con tutti voi’ fare accordanza,
convenemi chiamar la mia nemica,
madonna la Pietà, che mi difenda.

[10] Questo sonetto in quatro parti si può dividere. Nella prima dico e soppongo che tutti li miei pensieri sono d’Amore; nella seconda dico che sono diversi, e narro la loro diversitade; nella terza dico in che tutti pare che s’accordino; nella quarta dico che, volendo dire d’Amore, non so da qual parte pigli matera, e se la voglio pigliare da tutti, conviene che io chiami la mia inimica, madonna la Pietà; e dico «madonna» quasi per disdegnoso modo di parlare. La seconda parte comincia quivi e ànno in loro; la terza quivi e sol s’accordano; la quarta quivi Ond’io non so.

Cn 8, 2, pp. 302, 304

[326] “Ibi me docebis” doctrina scilicet altiori et experimentaliori, “et dabo tibi poculum ex vino condito” scilicet aromaticis speciebus, “et mustum malogranatorum meorum” (2cd). Nota quod usquemodo non fecit mentionem de “vino condito” nec de “musto malogranatorum”, sed solum de vino simplici et de arboribus ac fructibus et germinibus malorum punicorum. Dulcor enim contemplationis et expressum “mustum” difficillimorum et acerbissi-morum martyriorum circa tempus conversionis Iudaeorum et circa tempus Antichristi debent Christo ab ecclesia singularius ministrari. Tunc enim teste Christo “erit tanta tribulatio, ut si fieri potest, in errorem inducantur electi” (cfr. Mt 24, 21.24). Et Gregorius Moralium trigesimo secundo super illud Iob: “Stringit caudam suam quasi cedrum” (Iob 40, 12) praemittens quod per caudam illam Antichristus significetur, subdit causam, quare tribulatio electorum sub eo erit maior quam praecedens dicens: «Nunc enim fideles nostri mira faciunt, cum perversa patiuntur, tunc autem Behemoth huius satellites etiam cum perversa inferunt, mira facturi sunt. Pensemus ergo quae erit humanae mentis illa tentatio : pius martyr et corpus tormentis subiicit et tamen ante eius oculos miracula tortor facit. Cuius tunc virtus non ab ipso cogitationum fundo quatiatur, quando is qui flagris cruciat, signis coruscat?» Haec Gregorius. Item Moralium trigesimo quinto super illud Iob ultimo: “Addidit Dominus omnia quaecumque fuerant Iob, duplicia” (Iob 42, 10) dicit: «Sancta quippe ecclesia etsi multos nunc percussione tentationis amittit, in fine tamen huius saeculi ea quae sua sunt, duplicia recipiet, quando susceptis ad plenum gentibus ad eius fidem currere omnis quae tunc inventa fuerit, etiam Iudaea consentit. Hinc namque in evangelio veritas dicit: “Elias veniet et ille restituet omnia”» (Mt 17, 11).

Cn 1, 4, p. 128

[44] “Nigra” etiam “sum”, “sicut pelles Salomonis” (cfr. 4b). Quod in templo Salomonis pelles fuerint nigrae, non legimus, sed in tabernaculo a Moyse facto fuerunt saga cilicina de pilis caprarum, et illa erant nigra. Fuerunt etiam ibi pelles arietum rubricatae (Ex 26, 7.14). Et forte has vocat “pelles Salomonis”; tum quia sub ipso finaliter fuerunt; tum ut duplici mysterio denigrationis sponsae deserviat. Fuit enim cultus tabernaculi Dei in transitu deserti et tandem in terra promissionis et in Ierusalem. Et tunc sub Salomone fuit in maiori pace et gloria. Et secundum hoc sponsa Dei est in duplici statu, scilicet in laborioso transitu ad contemplationis apicem et quietem et in ipso apice seu in ipso termino quietante. In primo sponsa bellis tentationum et laboriosis macerationibus et exercitiis et suspiriosis desideriis exterius mortificatur. In secundo vero vitae carnali funditus moritur, et ideo tunc velut mortua huic mundo videtur. Vult ergo dicere sponsa: etsi exterius me videtis despectam et mortuam, attendite tamen meam intelligibilem seu virtualem formam et venustatem.

Cn 1, 5d, pp. 130, 132

[49] “Vineam meam non custodivi” […] [52] Vel forte hic vult ostendere quod eis noluit consentire in custodia vinearum suarum, quam ut bene exag-gerative loquatur, dicit in singulari “vineam” et appropriative “meam”, ut ostendat quod nec uni-versitas et unitas status prioris potuit ad hoc trahere nec ipsius paternitas et maternitas, qua intra eam et ex ea fuerat progenita et propter quam prius habuerat eam ut ‘suam’. Quia vero ista tentatio gravis est, ideo petit a sponso refugium directivum subdens: […].

 

Tab. I.6

Cn, 8, 2

martyria; tanta tribulatio; in errorem inducantur; stringit; patiuntur; mira; pensemus; mentis illa temptatio; pius martyr; ante eius oculos; miracula; ab ipso cogitationum fundo quatiatur; percussione tentationis

Vita Nova 24 [xxxv]

molto stava pensoso; e con dolorosi pensamenti tanto  [§ 1]

travagliare  [2]

pietosamente  [2]; pietà [2]; pietade  [3]; pietosa  [3]

d’inanzi dagli occhi  [3]
—————————————————————–

pietate  [5]

pensavate  [6]

d’inanzi a voi; sommosso  [7]

Vita Nova 25 [xxxvi]

pietosa  [1, 2]

occhi  [2]
————————————————————

pietà  [4]

mirabilmente  [4]

davanti  [4]

mente  [4]

si schianti [4]

occhi  [5]

dinanzi a voi  [5]

Vita Nova 26 [xxxvii]

occhi  [1]

pensero  [2]

vi mira [2]

—————————————————————–
occhi [6]

pietate  [6]

mi fa pensare  [8]

vi mira [8]

Vita Nova 27 [xxxviii]

ne pensava  [1]

tanta tribulatione  [3]

dinanzi  [3]

pietosa  [3]

battaglia de’ pensieri  [4]
————————————————————
mente [9]

pensosa  [10]

innanzi me  [10]

quella pietosa  [10]

martiri  [10]

Vita Nova 28 [xxxix]

pensare  [2]

tentatione  [6]
—————————————————————–

pensier’ ; penseri  [8, 10]

occhi  [8]

miri  [8]

martiri  [9]

Vita Nova 6 [xiii]

pensamenti  [1]

tentare  [1]

tanto … passare  [3]

ti stringe  [5]

Pietà  [6, 9]
————————————————————

in amorosa erranza [9]

LSA, prologus, notabile X (in blu sono indicati i nuovi elementi rispetto a Cn 8, 2 ripresi nella Vita Nova)

martiria; certamen dubitationis; propulsabuntur, propulsabit; subtilitatem; intorta; tortor; scripturarum; stringit; perversa; patiuntur; mira facturi sunt; pensemus; mentis illa temptatio; pius martir; tormentis; ante eius oculos; miracula … facit; imaginem

(Inf. V)

pietà  (v. 93); perverso  (93); che pense?  (111); martìri (116); pio (117); dubbiosi (120); strinse (128); occhi; sospinse  (130); scrisse  (137)

(Inf. VI)

mente  (1); pietà  (2)

(Par. XIX)

dubbio (33); s’assottiglia  (82); Scrittura (83); dubitar; a maraviglia  (84)

(Par. XX)

dubbiar (79); patio (81); mi pinse (83); ti fa maravigliar  (101)

(Par. XXXII)

dubbi tu; dubitando (49); ti stringonpensier sottili (51)

(Inf. IV)

dubbiare  (18); quella pietà  (21); sospigne  (22)

(Inf. XX)

pensa (20); imagine (22); torta (23); pietà (28); passion (30)

(Purg. III)

si strinser  (70); stretti  (71); dubbiando  (72)

(Purg. X)

tormento  (116); occhitencione  (117)

(Purg. XII)

mirar farieno; sottile  (66)

(Par. IV)

dubbio  (131); pinge  (132)

 

Tab. I.7

Vita Nova 1.4, 15 [ii 3, iii 4]

[4] Apparve vestita di nobilissimo colore umile e onesto sanguigno, cinta e ornata alla guisa che alla sua giovanissima etade si convenia. […]
[15] Nelle sue braccia mi parea vedere una persona dormire nuda, salvo che involta mi parea in uno drappo sanguigno leggieramente; la quale io riguardando molto intentivamente, conobbi ch’era la donna della salute, la quale m’avea lo giorno dinanzi degnato di salutare.

Vita Nova 28 [xxxix]

Contra questo adversario della Ragione si levòe un die, quasi nell’ora della nona, una forte ymaginatione in me, che mi parve vedere questa gloriosa Beatrice con quelle vestimenta sanguigne colle quali apparve prima agli occhi miei, e pareami giovane in simile etade in quale prima la vidi. [2] Allora cominciai a pensare di lei, e ricordandomi di lei secondo l’ordine del tempo passato, lo mio cuore cominciò dolorosamente a pentere dello desiderio a cui sì vilmente s’avea lasciato possedere alquanti die contra la constanzia della Ragione: e discacciato questo cotale malvagio desiderio, si rivolsero tutti li miei pensamenti alla loro gentilissima Beatrice. [3] E dico che d’allora innanzi cominciai a pensare di lei sì con tutto lo vergognoso cuore, che li sospiri manifestavano ciò molte volte, però che quasi tutti diceano nel loro uscire quello che nel cuore si ragionava, cioè lo nome di quella gentilissima, e come si partio da noi. E molte volte avenia che tanto dolore avea in sé alcuno pensero, che io dimenticava lui e là dov’io era. [4] Per questo raccendimento de’ sospiri si raccese lo sollenato lagrimare, in guisa che li miei occhi pareano due cose che desiderassero pur di piangere. E spesso avenia che, per lo lungo continuare del pianto, dintorno a.lloro si facea uno colore purpureo, lo quale suole apparire per alcuno martirio che altri riceva: [5] onde appare che della loro vanitate fuoro degnamente guiderdonati, sì che d’allora innanzi non potero mirare persona che li guardasse sì, che loro potesse trarre a simile intendimento. [6] Onde io, volendo che cotale desiderio malvagio e vana tentatione paresse distructo sì che alcuno dubbio non potessero inducere le rimate parole che io avea dette dinanzi, propuosi di fare uno sonetto nel quale io comprendessi la sententia di questa ragione, e dissi allora Lasso, per forza di molti sospiri. E dissi «Lasso» in quanto mi vergognava di ciò che li miei occhi aveano così vaneggiato. [7] Questo sonetto non divido, però che assai lo manifesta la sua ragione.

Lasso, per forza di molti sospiri,                   [8]
che nascon de’ pensier’ che son nel core,
gli occhi son vinti, e non ànno valore
di riguardar persona che li miri;
e facti son che paion due disiri                    [9]
di lagrimare e di mostrar dolore,

e spesse volte piangon sì, ch’Amore
li ’ncerchia di corona di martiri.
Questi penseri, e li sospir’ ch’io gitto,            [10]
diventano nel cor sì angosciosi,
ch’Amor vi tramortisce, sì lien dole;
però ch’elli ànno in lor, li dolorosi,
quel dolce nome di madonna scripto,
e della morte sua molte parole.

Cn 3, 10, p. 186 [sponsi solium sive thronum describit]

[161] Quinto ex eius interscalari “ascensu” qui fuit “purpureus” (10b), id est: colore purpureo intinctus vel operimento purpureo adornatus. Ascensus enim eius est per desiderium martyriorum et per sufferentias tribulationum iuxta illud: “Per multas tribulationes oportet nos intrare in regnum caelorum (Ac 14, 21)”. Et ideo hic est tinctura sanguinis effusi; nam purpura fit ex sanguine quorumdam conchylium.

Cn 7, 5, pp. 282, 284

[297] Decimo de ‘comis’ eius dicit quod sunt “sicut purpura regis iuncta canalibus” (5). Per ‘pur-puram’ litteraliter significatur aut sanguis cuiusdam conchylis purpureus aut mataxa seri-corum filorum sanguine purpureo canalibus intinctorum. Per utrumque autem horum signi-ficatur quod grandes et multiplices et oblongi pili seu crines, id est: meditationes et affectus spon-sae, sunt compassiva memoria sanguinis Christi et electorum suorum et desiderio martyrii sunt intincti et ad hanc intinctionem plenius recipiendam concavis pietatis et humi-litatis canalibus applicati. Dicit autem: “purpura regis”, tum ad notandum huius purpurae singularem pretiositatem et dignitatem, tum quia est vere sanguis Christi regis nostri. Per ‘canales’ etiam possunt intelligi scripturae sacrae vel eorum doctores Christi passionem mystice vel historice exprimentes. Vel per huius sanguinis ‘canales’ intelliguntur quaecumque intermedia specula vel memorialia passionis Christi quibus crines cordis nostri, id est: eius cogitatus et affectus, sunt iungendi, ut intingantur eius viscerosa compassione et eius imitatoria passione.

Vita Nova 27 [xxxviii].6

[6] Vero è che nel precedente sonetto io fo la parte del cuore contra quella degli occhi, e ciò pare contrario di quello che io dico nel presente; e però dico che ivi lo cuore anche intendo per lo appetito, però che maggiore desiderio era lo mio ancora di ricordarmi della gentilissima donna mia, che di vedere costei, avegna che alcuno appetito n’avessi già, ma leggiero parea: onde appare che l’uno decto non è contrario all’altro.

 

Tab. I.8

Cn 1, 4-5, p. 128

[44] “Nigra” etiam “sum”, “sicut pelles Salomonis” (cfr. 4b). Quod in templo Salomonis pelles fuerint nigrae, non legimus, sed in tabernaculo a Moyse facto fuerunt saga cilicina de pilis caprarum, et illa erant nigra. Fuerunt etiam ibi pelles arietum rubricatae (cfr. Ex 26, 7.14). Et forte has vocat “pelles Salomonis”; tum quia sub ipso finaliter fuerunt; tum ut duplici mysterio denigrationis sponsae deserviat. Fuit enim cultus tabernaculi Dei in transitu deserti et tandem in terra promissionis et in Ierusalem. Et tunc sub Salomone fuit in maiori pace et gloria. Et secundum hoc sponsa Dei est in duplici statu, scilicet in laborioso transitu ad contemplationis apicem et quietem et in ipso apice seu in ipso termino quietante. In primo sponsa bellis tentationum et laboriosis macerationibus et exercitiis et suspiriosis desideriis exterius mortificatur. In secundo vero vitae carnali funditus moritur, et ideo tunc velut mortua huic mundo videtur. Vult ergo dicere sponsa: etsi exterius me videtis despectam et mortuam, attendite tamen meam intelligibilem seu virtualem formam et venustatem.
[46] Et quod praedictam eius abiectionem non debeant despicere, ostendit subdens: “Nolite me considerare, quod fusca sim”, consideratione scilicet contemplativa, “quia decoloravit me sol” (5a), id est: quia ardor divini amoris seu aestus tribulationis quam propter eum sustinui, me denigravit seu obfuscavit. Et ita si attendatis causam, mea obfuscatio erit vobis potius veneranda, amabilis et imitanda quam contemnenda.

Vita Nova 14 [xxiii].17-26, vv. 1-6, 20-70

Donna pietosa e di novella etate,
adorna assai di gentilezze umane,
ch’era là ov’io chiamava spesso Morte,
veggendo gli occhi miei pien’ di pietate
e ascoltando le parole vane,

si mosse con paura a pianger forte. ……

mi fece verso lor volgere Amore.
Elli era tale a veder mio colore,
che facea ragionar di morte altrui.
«Deh consoliam costui»
pregava l’una l’altra umilemente;
e dicevan sovente:
«Che vedestù, che tu non ài valore?».
E quando un poco confortato fui,
io dissi: «Donne, dicerollo a voi.

Mentre io pensava la mia frale vita
e vedea ’l suo durar com’è leggiero,
piansemi Amor nel core, ove dimora;
per che l’anima mia fu sì smarrita,
che sospirando dicea nel pensero:
– Ben converrà che la mia donna mora. –
Io presi tanto smarrimento allora,
ch’io chiusi gli occhi vilmente gravati;
e fuoron sì smagati
li spirti miei, che ciascun giva errando;
e poscia ymaginando
di conoscenza e di verità fora,
visi di donne m’apparver crucciati,
che mi dicean pur: – Morra’ti, morra’ti ! –

Poi vidi cose dubitose molte,
nel vano ymaginare ov’io entrai;
ed esser mi parea non so in qual loco
e veder donne andar per via disciolte,
qual lagrimando e qual traendo guai,
che di tristitia saettavan foco.
Poi mi parve vedere a poco a poco
turbar lo sole e apparir la stella,
e pianger elli ed ella;
cader gli augelli volando per l’âre,
e la terra tremare;
e omo apparve scolorito e fioco
dicendomi: – Che fai? non sai novella?

mort’ è la donna tua, ch’era sì bella. –

Levava gli occhi miei bagnati in pianti
e vedea, che parean pioggia di manna,
gli angeli che tornavan suso in cielo;
e una nuvoletta avean davanti,
dopo la qual gridavan tutti “Osanna!”,
e s’altro avesser detto, a voi dire’lo.
Allor diceva Amor: – Più nol ti celo:
vieni a veder nostra donna che giace. –
Lo ymaginar fallace
mi condusse a veder madonna morta;

e quand’io l’avea scorta,
vedea che donne la covrian d’un velo;
e avea seco Umilità verace,
che parea che dicesse: – Io sono in pace. –

Cn 8, 2, pp. 302, 304

[326] “Ibi me docebis” doctrina scilicet altiori et experimentaliori, “et dabo tibi poculum ex vino condito” scilicet aromaticis speciebus, “et mustum malogranatorum meorum” (2cd). Nota quod usquemodo non fecit mentionem de “vino condito” nec de “musto malogranatorum”, sed solum de vino simplici et de arboribus ac fructibus et germinibus malorum punicorum. Dulcor enim contemplationis et expressum “mustum” difficillimorum et acerbissi-morum martyriorum circa tempus conversionis Iudaeorum et circa tempus Antichristi debent Christo ab ecclesia singularius ministrari. Tunc enim teste Christo “erit tanta tribulatio, ut si fieri potest, in errorem inducantur electi” (cfr. Mt 24, 21.24). Et Gregorius Moralium trigesimo secundo super illud Iob: “Stringit caudam suam quasi cedrum” (Iob 40, 12) praemittens quod per caudam illam Antichristus significetur, subdit causam, quare tribulatio electorum sub eo erit maior quam praecedens dicens: «Nunc enim fideles nostri mira faciunt, cum perversa patiuntur, tunc autem Behemoth huius satellites etiam cum perversa inferunt, mira facturi sunt. Pensemus ergo quae erit humanae mentis illa tentatio: pius martyr et corpus tormentis subiicit et tamen ante eius oculos miracula tortor facit. Cuius tunc virtus non ab ipso cogitationum fundo quatiatur, quando is qui flagris cruciat, signis coruscat?» Haec Gregorius. Item Moralium trigesimo quinto super illud Iob ultimo: “Addidit Dominus omnia quaecumque fuerant Iob, duplicia” (Iob 42, 10) dicit: «Sancta quippe ecclesia etsi multos nunc percussione tentationis amittit, in fine tamen huius saeculi ea quae sua sunt, duplicia recipiet, quando susceptis ad plenum gentibus ad eius fidem currere omnis quae tunc inventa fuerit, etiam Iudaea consentit. Hinc namque in evangelio veritas dicit: “Elias veniet et ille restituet omnia”» (Mt 17, 11).

Vita Nova 3 [viii].8-9, vv. 1-12

Morte villana, di Pietà nemica,
di dolor madre antica,
iuditio incontastabile gravoso,
poi ch’ài data materia al cor doglioso,
ond’io vado pensoso,
di te blasmar la lingua s’afatica.
E s’io di gratia ti vo’ far mendica,
convenesi ch’io dica
lo tuo fallar d’ogni torto tortoso,
non però ch’alla gente sia nascoso,
ma per farne cruccioso
chi d’amor per innanzi si notrica.

PETRI IOHANNIS OLIVI Lectura super Matthaeum, Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, ms. Vat. lat. 10900, ff. 165va, 166ra.

[f. 165va; Mt 24, 24] “Ita ut in errorem inducantur si fieri potest etiam electi”. Gregorius Moralium triginta uno dicit quod quia electorum cor concutietur, eorum tamen constantia ad malum non movebitur, ideo Christus una sententia complexus est utrumque: quasi enim iam errare est in cogitatione titubare. Sed “si fieri potest” subiungitur, quia fieri non potest ut in errorem electi capiantur. Ad litteram autem sensus est quod tantus erit temptationis excessus quod electi fere in errorem cadent et caderent, nisi singulari Dei gratia custodirentur. Rabanus tamen legit hic de electis secundum apparentiam, dicens quod non ideo hoc dicit quod electio divina frustretur, sed qui humano iudicio electi videbantur, illi in errorem mittentur. Et secundum hoc debet legi “si fieri potest”, scilicet quod sint electi. […]
[f. 166ra, Mt 24, 29] “Statim autem post tribulationem dierum illorum sol obscurabitur”. Secundum Ieronimum, respectu vere lucis Christi omnia apparebunt obscura et tenebrosa. Remigius vero dicit quod nichil prohibet intelligi veraciter tunc solem et stellas ad tempus suo lumine privari, sicut de sole factum constat tempore dominice passionis, unde Johel dicit, “sol convertetur in tenebras” et cetera (Jl 2, 31). Dicit etiam quod “stelle cadent de celo”, vel sicut in Marco dicitur “erunt decidentes” (Mc 13, 25), id est suo lumine carentes. Moderni tamen doctores dicunt quod illa in se non obscurabuntur, sed per fumositatem aeris et nubium hominibus tenebrescere videbuntur; vel quia si diffundent radios suos inferius pro tanto obtenebrescent, scilicet in effectu. Stelle autem hominibus videbuntur de celo cadere quia ignes et comete in superiori regione aeris existentes, qui videntur quasi stelle, discurrent per aera versus terram ac si de celo caderent. “Virtutes autem celorum corporales commovebuntur”, secundum eos quia mutabunt aspectus et influentias suas respectu inferiorum turbativos potius quam regitivos. […]

Vita Nova 14 [xxiii].5

Così cominciando ad errare la mia fantasia, venni a quello che io non sapea ove io mi fossi; e vedere mi parea donne andare scapigliate piangendo per via, maravigliosamente triste; e pareami vedere lo sole oscurare, sì che le stelle si mostravano di colore ch’elli mi facea giudicare che piangessero; e pareami che gli uccelli volando per l’aria cadessero morti, e che fossero grandissimi terremuoti. E maravigliandomi in cotale fantasia, e paventando assai, ymaginai alcuno amico che mi venisse a dire: «Or non sai? la tua mirabile donna è partita di questo secolo».


2. Amore sulla via di Emmaus

■ Dall’Expositio in Canticum Canticorum di Olivi si prenda l’esegesi di Cn 5, 6. Come esempio del fatto che nella contemplazione, talvolta, Dio si sottrae all’improvviso, prima che la sua visita sia compiuta, Olivi cita l’incontro di Cristo “in specie peregrini” con i discepoli sulla via di Emmaus (Luca XXIV, 13-35). Appena riconosciuto, Cristo “subito avolavit ab eis”. Difficile non scorgere questi motivi in Amore trovato “in mezzo della via / in abito leggier di peregrino”, che poi “disparve, e non m’accorsi come”, descritto in Cavalcando l’altrier per un camino (Vita Nova 4 [ix]).
Amore (solo nella prosa) “mi parea sbigottito e guardava la terra, salvo che talora li suoi occhi mi parea che si volgessero ad un fiume bello e corrente e chiarissimo, lo qual sen gia lungo questo camino là ov’io era” (Vita Nova 4 [ix].4). Il sintagma occhi / fiume si trova a Cn 5, 12, dove la sposa dice in lode dello sposo: “Oculi eius sicut columbae super rivos aquarum quae lacte sunt lotae et resident iuxta fluenta plenissima”: il fiume, abissale e ridondante d’acqua, è l’immensa sapienza divina; le colombe, bianche e nitide come latte, designano la sincerità e lo splendore dell’aspetto divino che contempla (gli “occhi”) i rivi, cioè le sapienziali derivazioni nelle sue creature. Sarà appunto uno “rivo chiaro molto” (Vita Nova 10.12 [xix 1]) quello presso il quale verrà concepita la canzone Donne ch’avete intellecto d’amore, inizio delle “nove rime”, come riconosciuto da Bonagiunta Orbicciani da Lucca a Purg. XXIV, 49-51.
Il rinvio a Luca XXIV induce a considerare il grande commento di Olivi al relativo Vangelo e a confrontarne i passi con Vita Nova 4 [ix] [1]. Anche in questo caso Cristo si presenta ai due discepoli “in tali specie uestium et forma eundi, ex qua quasi peregrinus et pauper estimari posset” (“come peregrino leggieramente vestito e di vili drappiin abito leggier di peregrino. / Nella sembianza mi parea meschino”). Al termine dell’incontro si verifica la «subita Christi disparitio, unde subditur: “et ipse euanuit”, id est disparuit, “ex oculis eorum”» (“disparve questa mia ymaginatione tutta subitamente – ch’elli disparve, e non m’accorsi come”). I due pellegrini sulla via di Emmaus sono tristi, perché si dolgono della morte di Cristo; Dante è angosciato, “però ch’io mi dilungava dalla mia beatitudine”.
Alla sùbita scomparsa di Cristo fa seguito il riconoscimento, da parte dei discepoli, di essere stati infiammati dall’amore divino, prova che di Lui si trattasse; dicono infatti fra loro, “in tanta accensione ardoris”: “Nonne cor nostrum ardens erat in nobis, dum loqueretur nobis in via et aperiret nobis Scripturas? (Luca XXIV, 31-32)”. Ciò corrisponde all’ardore suscitato da Amore e alla sua improvvisa sparizione: “disparve questa mia ymaginatione tutta subitamente per la grandissima parte che mi parve che Amore mi desse di sé – Allora presi di lui sì gran parte, / ch’elli disparve, e non m’accorsi come” (Vita Nova 4 [ix].7, 12).
Così, prosegue Olivi, avviene alla sposa del Cantico dei Cantici, liquefatta nell’anima dal colloquio con lo sposo subito però troncato, perché la mente non presuma di conoscere cose troppo alte, ma dubiti, tema e sia umiliata. Questi temi (il cuore che arde, l’umile temere o dubitare) sono nella “donna della salute” che “paventosa umilmente pascea” del cuore ardente del poeta nella “maravigliosa visione” avuta da Dante dopo la nuova apparizione della gentilissima (Vita Nova 1.15-17, 23 [iii 4-6, 12]). Così la donna “involta mi parea in uno drappo sanguigno leggieramente” (1.15), come Amore “apparve peregrino leggieramente vestito e di vili drappi” (4.3); in entrambi i casi (nella prosa) con riferimento all’umiltà.
Nel sonetto A ciascun’alma presa e gentil core, il confronto con l’esegesi si limita a pochi elementi, a tutto vantaggio della prosa (cfr. qui di seguito). Nel sonetto Cavalcando, la ripresa dalla pastorella di Giraut de Borneil (L’altrer, lo primer jorn d’aost), con l’immagine del poeta che cavalca con l’aria triste [2], concorda in modo più evidente con l’esegesi scritturale esplicativa dell’incontro con Cristo sulla via di Emmaus.

■ La Lectura super Lucam, XXIV, 13-35 contiene ulteriori motivi. In primo luogo la simulazione, per quanto questa abbia contenuto diverso. Cristo, invece di entrare nella casa dei pellegrini e di sedere alla loro mensa, simula di andare più lontano di Emmaus. Amore, che reca con sé il cuore dell’amante di cui Beatrice si era cibata, va alla ricerca di una nuova donna-schermo alla quale recapitarlo dopo la partenza della prima “bella difesa”, per “lo simulato amore” che Dante deve mostrare, “schermo della veritade”, cioè della sua beatitudine (Vita Nova 2.8 [v 3]). Olivi espone ampiamente i motivi per i quali la simulazione messa in atto da Cristo non è finzione falsa o peccaminosa. In primo luogo, non si deve essere importuni nell’entrare nella casa e alla mensa altrui; in secondo luogo, Cristo aspetta di essere invitato come pellegrino e povero; in terzo luogo, perché attraverso le opere di misericordia si perviene a più piena e familiare conoscenza della sapienza divina.

■ Cosa significa Amore, “che si presenta all’immaginazione dantesca camuffato da peregrino leggieramente vestito e di vili drappi”? Scrive Gorni:

Sarà un travestimento fatto da Amore per garantirsi, né più né meno, la segretezza? o perché, trattandosi di simulato amore, conviene a chi lo rappresenta di mascherarsi (D’Ancona)? oppure, come proponeva il Carducci, la figura di pellegrino e l’abito leggero alludono all’errare da un amore all’altro, con volubile cuore? Certo Amore qui è come un pellegrino sviato dalla sua meta, in attesa di un santuario illustre da onorare con la sua visita. E a quel punto ci si avvede anche che il traguardo del pellegrino è sempre funebre, corpo venerato o reliquia: meta sacra, ma di morte [3].

Amore pellegrino designa uno stadio del processo contemplativo. Nell’ascesa alla contemplazione divina, il desiderio e l’attendere alle cose spirituali deve essere sicuro e ben difeso (Emmaus è definita “castrum”, “oportet … illum desiderium … quod sit robustum et tutum et bene munitum”); deve anche trovarsi a debita distanza dalla meta (Emmaus si trova a sessanta stadi da Gerusalemme, sede della contemplazione e del culto divino, interpretata come “visio pacis”). L’amore simulato delle donne-schermo è “bella difesa”; Dante incontra Amore pellegrino allontanandosi da Beatrice (“mi dilungava dalla mia beatitudine”); sessanta sono “le più belle donne della cittade” per le quali il poeta ha già composto “una pìstola sotto forma di serventese”, nel tempo in cui si era celato con  la prima “gentil donna schermo della veritade” (Vita Nova, 2.8, 11 [v 3; vi 1]). Nel Cantico dei Cantici il numero sessanta designa le “reginae” (Cn 6, 7), quante cioè, congiunte a Dio nella carità, generano figli spirituali e reggono sempre in meglio i cinque sensi sotto il dodici, numero apostolico abbondante che cresce nelle sue parti divisibili. Designa anche i “forti”, che difendono la castità della sposa (Cn 3, 7-8). Altrove (Cn 4, 4) il “collo” della sposa, che è “medium” fra capo e corpo, viene assimilato alla torre di David, alla quale sono appesi mille scudi, cioè un numero perfetto per la difesa che indica anche “per memoriae diligentiam” gli esempi di perfezione dei santi. La prima donna-schermo, “bella difesa”, “mezzo era stata nella linea recta che movea dalla gentilissima Beatrice e terminava negli occhi miei”; a Dante viene voglia di “ricordare” i nomi delle sessanta donne.
Alle sessanta “reginae” di Cn 6, 7 si aggiungono le ottanta “concubinae” e le “adolescentulae” delle quali non è dato numero, poiché quanti seguono ancora le vanità adolescenziali non sono scritti e numerati nel “libro della vita”. Così, nel “libro della memoria” (che è appunto, il “liber vite” di Ap 20, 12), Dante tralascia di “soprastare alle passioni e acti di tanta gioventudine” per pervenire “a quelle parole le quali sono scripte nella mia memoria sotto maggiori paragrafi” (Vita Nova, 1.1, 11 [i 1; ii 10]). Se sessanta sono le “reginae”, “una” è detta la sposa in grado superlativo (Cn 6, 8): così, al termine del suo pellegrinaggio, il poeta “vede una donna che riceve onore” (Vita Nova 30.11 [xli 11]).

■ Cristo si presenta ai discepoli di Emmaus, ai loro occhi lacrimosi e semichiusi all’inizio del cammino contemplativo, sotto figure sensibili (“sub figuris quasi sensibilibus … valde peregrinis”). La sua umanità è infatti in qualche modo pellegrina rispetto alla divinità, che in questa vita può essere vista, come afferma san Paolo, solo “per speculum in enigmate” (1 Cor 13, 12). Le donne-schermo di Beatrice sono appunto “specula”. Poi Cristo simula di recarsi più lontano per non essere importuno e stimolare alle opere di misericordia, i due lo invitano a restare, egli spezza il pane e lo porge loro. Nell’ascesa contemplativa, tralasciate le figure sensibili, Cristo apre le proprie viscere e le dà in pasto alla virtù gustativa della mente (motivi trasferiti nella visione di Beatrice che mangia il cuore dell’amato a Vita Nova 1.15-17, 23 [iii 4-6, 12]). La verità, “relictis figuris”, inizia a essere intellettualmente riconosciuta, come avvenuto nei due discepoli che dapprima nel pellegrino non avevano riconosciuto Cristo. Amore ricompare nel sogno di Dante dopo che Beatrice gli ha negato il saluto in seguito alle chiacchiere sul suo rapporto con la nuova donna-schermo (Vita Nova 5.10-11 [xii 3-4]). Sta accanto al poeta “uno giovane vestito di bianchissime vestimenta”, che gli dice: «“Fili mi, tempus est ut pretermictantur simulacra nostra”. Allora mi parea che io il conoscessi … » – “Et tunc ueritas, relictis figuris, incipit intellectualiter et quasi in propria specie recognosci”, cioè il poeta, nel  cammino della contemplazione, ha raggiunto uno stato più alto, intellettuale, non sensibile. Amore poi si definisce: “Ego tanquam centrum circuli, cui simili modo se habent circumferentie partes; tu autem non sic”. Ampiamente esposta in uno dei Principia in Sacram Scripturam di Olivi (De doctrina Scripturae), l’immagine di Cristo centro rispetto al cerchio, “mezzo” (cioè mediatore) la cui esemplare vita deve essere dalla nostra perfettamente imitata e partecipata e porsi come fine di ogni nostra azione, risulterà fondamentale nella Commedia, a cominciare dal primo verso. La stessa contemplazione è intesa come circolo, in quanto da Dio discende per ritornare alla superna Gerusalemme. Nel De doctrina Scripturae, come esempio della centralità di Cristo, si adducono le umili parole dette ai discepoli al momento della Cena, nella discussione su chi sia il più grande, riportate in Luca XXII, 27: “Ego autem in medio vestrum sum sicut qui ministrat”. Al versetto 26 Cristo afferma: “Vos autem non sic”, cioè non dovete essere come i governanti oppressori e quanti si fanno chiamare benefattori. Così Amore, “centrum circuli”, dice appropriando a Dante in modo diverso la citazione scritturale: “Tu autem non sic”.

L’esegesi oliviana di Luca XXIV, 13-35 non è stata “panno” solo per fare la “gonna” del sonetto Cavalcando con la relativa prosa (Vita Nova 4 [ix]). Vi è ritagliato anche il sonetto Deh, peregrini, che pensosi andate (Vita Nova 29 [xl].9-10). Le prerogative di Amore-Cristo pellegrino, presenti nel primo caso, vengono scomposte e travasate su più soggetti nella seconda, più tarda, composizione.

  • La “coitineratio” di Cristo, “quasi peregrinus”, con i discepoli sulla via di Emmaus si trasforma nell’andare dei pellegrini a vedere la Veronica, figura di Cristo, contemplata da Beatrice in gloria: “in quel tempo che molta gente va per vedere quella ymagine benedecta la quale Gesocristo lasciò a.nnoi per exemplo della Sua bellissima figura, la quale vede la mia donna gloriosamente …│Deh, peregrini, che pensosi andate”.

  • Cristo si presenta ai discepoli come se venisse di lontano: “se habuit quasi a remotis ueniens” – “Io vegno di lontana parte” (dice Amore); ora sono i romei ad apparire tali: “mi paiono di lontana partevenite voi da sì lontana gente / (com’alla vista voi ne dimostrate).

  • Cristo si rivolge ai discepoli come ad estranei, quasi ignaro dei loro discorsi (conversavano di quello che era accaduto, forse dubbiosi delle parole circa la resurrezione di Cristo dette dall’angelo alle tre donne al sepolcro): “Nam locutus est ad eos quasi ad extraneos, et quasi nesciens de quo loquerentur”; assente in Cavalcando, il motivo è parzialmente appropriato a Dante e riferito alla mente dei romei: “Deh, peregrini, che pensosi andate / forse di cosa che non v’è presente”.

  • I pellegrini che vanno a Emmaus sono tristi perché pensano alla morte di Cristo: “Bene autem additur de tristitia, ad monstrandum quod confortatore egebant, et etiam quod confortari promerebantur, quia de Christi morte dolebant”. Amore pellegrino “mi parea sbigottito e guardava la terra│come avesse perduta signoria; / e sospirando pensoso venia”; la tristezza assale anche Dante: “E tutto ch’io fossi alla compagnia di molti, quanto alla vista l’andare mi dispiacea sì, che quasi li sospiri non poteano disfogare l’angoscia che ’l cuore sentia, però ch’io mi dilungava dalla mia beatitudine.│pensoso dell’andar che mi sgradia”. L’incontro con Amore pellegrino in Vita Nova 4 [ix] è preceduto (Vita Nova 3 [viii]) dall’episodio della morte della compagna di Beatrice: “il lamento per lei è una sorta di anticipazione, in tono minore, del futuro compianto per Beatrice” [4]. Anche i romei vanno pensosi, su di essi Dante vuole trasferire l’angoscia sua e della “dolorosa cittade”: “che non piangete quando voi passate / per lo suo mezzo la città dolenteEll’à perduta la sua beatrice.

  • Amore pellegrino, cioè Cristo mediatore tra Dio e gli uomini, si fa trovare “in mezzo della via”; i pellegrini che vanno a Roma per vedere la sua benedetta immagine passano “per lo suo mezzo la città dolente”.

  • I discepoli si rivolgono a Cristo pellegrino; ora è il poeta che parla a quelli che vanno a vedere il volto di Cristo: “quasi ad peregrinum loquunturpropuosi di dire come se io avessi parlato a.lloro; e dissi questo sonetto, lo quale comincia Deh, peregrini”.

  • I discepoli dicono a Cristo: «“Tu solus peregrinus es in Ierusalem?” Ex hoc uidetur quod Christus tunc eis uidebatur de Ierusalem illo die uenire sicut et ipsi, et est sensus: ita famosa et manifesta sunt illa que circa Christum ibi nudius tertius contigerunt, quod etiam peregrini tunc ibidem existentes, aut ibi postmodum uenientes, hoc nequeunt ignorare». Dante si rivolge ai romei: “come quelle persone che neente / par che ’ntendesser la sua gravitate?”. Una simile domanda gli era stata rivolta quando “lo ymaginar fallace / mi condusse a veder madonna morta” in Donna pietosa e di novella etate: “Or non sai? la tua mirabile donna è partita di questo secolo.│… Che fai? non sai novella? / mort’ è la donna tua, ch’era sì bella” (Vita Nova 14 [xxiii].5, 24).

■ Il campo di scavi si è esteso. Il confronto con l’esegesi oliviana del Cantico dei Cantici non conduce solo all’episodio della Donna Gentile (o Pietosa), scritto nella fase finale della redazione della Vita Nova (1294-1296) [5], ma anche ad altri luoghi dell’opera. Non si tratta, poi, solo del commento al libro salomonico, ma anche della Lectura super Lucam [6]. Sono coinvolti due sonetti presumibilmente fra i più antichi, poi accolti nel “libello”: A ciascun’alma presa e gentil core (inizio dell’amicizia con Cavalcanti) e Cavalcando l’altrier per un camino  [7]. In entrambi i casi, temi della poesia cortese (il cuore mangiato nel primo [8], la pastorella di Giraut de Borneil nel secondo [9]) si sposano con l’esegesi scritturale, del Cantico o di Luca. Ci si chiede se l’esegesi sia intervenuta solo nella stesura della prosa o anche delle rime più antiche e in quale momento, il che sembra dubbio per A ciascun’alma, assai più verosimile per Cavalcando. Ancora, se la scelta delle rime da inserire nella Vita Nova non sia stata fatta in base alla maggior concordia di alcune rispetto ad altre con l’esegesi assunta come canovaccio da parodiare. Ciò spiegherebbe, ad esempio, l’esclusione della canzone E’ m’incresce di me sì duramente, riferita sì all’apparizione della donna, ma “a una Beatrice troppo donna, non ancora sublimata” [10].

[1] PETRI IOHANNIS OLIVI Lectura super Lucam, ed. crit. a cura di  FORTUNATO IOZZELLI, Ad Claras Aquas, Grottaferrata 2010 (Collectio Oliviana, V), pp. 649-668.

[2] SANTAGATA, pp. 158-160.

[3] Vita Nova, pp. 249-250.

[4] Ibid., p. 249.

[5] SANTAGATA, p. 118.

[6] Le ipotesi sulla datazione della Lectura super Lucam coprono un arco di tempo così ampio (fra il 1279-1280 e il 1295) che nulla esclude che fosse già stata scritta quando Olivi giunse a Firenze: cfr. IOZZELLI, pp. 41-42. Il confronto con la Vita Nova mostra con certezza che fu redatta prima del 1289, quando Olivi si trasferì a Montpellier.

[7] SANTAGATA, pp. 144-153, 157-161.

[8] Vita Nova 1.17, p. 20, nt. a ella mangiava.

[9] SANTAGATA, pp. 158-160.

[10] DANTE ALIGHIERI, Rime, a cura di GIANFRANCO CONTINI, Torino 1939 e 1995, p. 60 (cit.); SANTAGATA, pp. 146-147.

 

Tab. II.1

Vita Nova 4 [ix].9-12

Cavalcando l’altrier per un camino,          [9]
pensoso dell’andar che mi sgradia,
trovai Amore in mezzo della via
in abito leggier di peregrino.

Nella sembianza mi parea meschino,        [10]
come avesse perduta signoria;
e sospirando pensoso venia,
per non veder la gente, a capo chino.
   Quando mi vide, mi chiamò per nome    [11]
e disse: «Io vegno di lontana parte,
ov’era lo tuo cor per mio volere,
   e recolo a servir novo piacere».
Allora presi di lui sì gran parte,                    [12]
ch’elli disparve, e non m’accorsi come.

Vita Nova 1.15-17, 23 [iii 4-6, 12]

[15] Nelle sue braccia mi parea vedere una persona dormire nuda, salvo che involta mi parea in uno drappo sanguigno leggieramente; la quale io riguar-dando molto intentivamente, conobbi ch’era la donna della salute, la quale m’avea lo giorno dinanzi degnato di salutare. [16] E nell’una delle mani mi parea che questi tenesse una cosa la quale ardesse tutta; e pareami che mi dicesse queste parole: «Vide cor tuum!». [17] E quando elli era stato alquanto, pareami che disvegliasse questa che dormia; e tanto si sforzava per suo ingegno, che le facea mangiare questa cosa che in mano li ardea, la quale ella mangiava dubitosamente. […]

   Allegro mi sembrava Amor tenendo              [23]
meo core  in mano, e nelle braccia avea
madonna involta in un drappo dormendo.
   Poi la svegliava, e d’esto core ardendo
lei paventosa umilmente pascea.

Apresso gir lo ne vedea piangendo.

PETRI IOHANNIS OLIVI Expositio in Canticum Canticorum [ = Cn], ed. J. Schlageter, Ad Claras Aquas Grottaferrata 1999 (Collectio Oliviana, II) [le citazioni scritturali, anziché in corsivo, sono state poste fra “ ”]

Cn 5, 6, pp. 228, 230

[225] Nota quod aliquando Deus mentem incipiens visitare ante consummationem visitationis repente abscedit; tum quia ex hoc desiderium cordis fortius accendit ac in altiora petenda altius suspendit et sublevat et tandem plenius id quod quaerit, obtinet quam obtineret; tum quia mens ex hoc aliquando advertit plenius gratiam et efficaciam visitationis inceptae quam, si perdurasset in ea. Cuius exemplum patet in duobus discipulis euntibus in Emmaus quibus Christus primo apparuit in specie peregrini, et tandem cum coeperunt ipsum cognoscere, subito avolavit ab eis. Ex quo plenius advertentes quid primo in eis fecerat, dixerunt: “Nonne cor nostrum ardens erat in nobis, dum loqueretur nobis in via et aperiret nobis scripturas”? (Lc 24, 31) Et hoc ipsum contingit hic sponsae, unde subdit:
[226] “Anima mea liquefacta est, ut dilectus locutus est” (cfr. 6c). Ecce quod quae tunc, dum sibi sponsus loqueretur, aperire distulit quasi dubitans, an esset ipse aut an esset sibi utile aperire, nunc certi-tudinaliter animadvertit se tunc ex locutione sponsi prae nimio amoris resolventis ardore liquefactam fuisse. Tum sicut in contemplationis primordiis expe-dit sponsi illapsus aliquantulum diutius immorari, ut mens in contemplationis amore et in contemplativo statu fundetur atque firmetur, sic postquam est multum sublimata, expedit huiusmodi illapsus ali-quando detruncari, ut mens quantumcumque alta addiscat non praesumere, sed humiliari et ut in his quae caute egit, formidet aliquam culpam sibi absconsam inesse. Hoc autem ultimum in casu isto et consimilibus proprie habet locum, quia in eo quod sponsa non statim aperuit sponso, culpam potuit merito formidare; quia difficile est quod in talibus non interveniat aliqua culpa.


Tab. II.1 bis

Cn 5, 6, p. 228

[225] Nota quod aliquando Deus mentem incipiens visitare ante consummationem visitationis repente abscedit; tum quia ex hoc desiderium cordis fortius accendit ac in altiora petenda altius suspendit et sublevat et tandem plenius id quod quaerit, obtinet quam obtineret; tum quia mens ex hoc aliquando advertit plenius gratiam et efficaciam visitationis inceptae quam, si perdurasset in ea. Cuius exemplum patet in duobus discipulis euntibus in Emmaus quibus Christus primo apparuit in specie peregrini, et tandem cum coeperunt ipsum cognoscere, subito avolavit ab eis. Ex quo plenius advertentes quid primo in eis fecerat, dixerunt: “Nonne cor nostrum ardens erat in nobis, dum loqueretur nobis in via et aperiret nobis scripturas”? (Lc 24, 31) Et hoc ipsum contingit hic sponsae, unde subdit: “Anima mea liquefacta est, ut dilectus locutus est” […].

PETRI IOHANNIS OLIVI Lectura super Lucam [ = LSL], ed. F. Iozzelli, Ad Claras Aquas, Grottaferrata 2010 (Collectio Oliviana, V) [le citazioni scritturali, anziché in corsivo, sono state poste fra “ ”]

LSL XXIV, 15-18, pp. 650-651; 31b-32, pp. 662-663

<15> Secunda est Christi ad eos sensibilis apropinquatio et coitineratio, ibi: “Et factum est, dum fabularentur”, id est dum colloquerentur, “et secum quererent”, id est de relatis a mulieribus tamquam de dubiis secum inquirerent, “et ipse Iesus apropinquans ibat cum illis”. Ideo dicit “apropinquans”, quia, ne ad modum spiritus subito uenisse et apparuisse uideretur, primo se habuit quasi post eos aliquantulum a remotis ueniens, ac deinde eos attingens.
<16-18> Tertia est defectus recognoscendi, qui ex duobus conflatis innuitur […]. Secundo, ex modis se habendi Christi ad eos tam in loquendo, quam in se presentando. Nam locutus est ad eos quasi ad extraneos, et quasi nesciens de quo loquerentur, attamen uelud compatiens tristitie eorum quam non solum in corde, sed in uultu et uerbis et gestibus pretendebant, unde subditur: “Qui sunt hii sermones” etc. Bene autem additur de tristitia, ad monstrandum quod confortatore egebant, et etiam quod confortari promerebantur, quia de Christi morte dolebant. Presentauit etiam se eis in tali specie uestium et forma eundi, ex qua quasi peregrinus et pauper estimari posset, attamen reuerendus, et ideo hic quasi ad peregrinum loquuntur. Vnde Cleophas qui, prout ex uerbo Hieronymi suprascripto conicitur, uidetur in Emaus domum habuisse, dixit ei: “Tu solus peregrinus es in Ierusalem?” Ex hoc uidetur quod Christus tunc eis uidebatur de Ierusalem illo die uenire sicut et ipsi, et est sensus: ita famosa et manifesta sunt illa que circa Christum ibi nudius tertius contigerunt, quod etiam peregrini tunc ibidem existentes, aut ibi postmodum uenientes, hoc nequeunt ignorare. […]
<31b> Tertium est subita Christi disparitio, unde subditur: “et ipse euanuit”, id est disparuit, “ex oculis eorum”. […]
<32> Quartum est eorum ex premissa recognitione et disparitione ad omnia, que eis contigerant, plenius aduertenda recollectio et incitatio, unde subditur: “Et dixerunt ad inuicem: Nonne cor nostrum ardens erat in nobis, dum loqueretur in uia et aperiret nobis Scripturas?” id est sensum et intelligentiam Scripturarum. Hoc dicunt tamquam ultra ultimo uisa argumentantes quod etiam diuini amoris inflammatio, quam ex eius uerbis ante ipsius recognitionem habuerant et senserant, testatur ipsum et non alium uere fuisse. Dicunt etiam hoc tamquam admirantes quomodo in tanta accensione ardoris et apertione Scripturarum non recognouerant eum, sicut miraretur homo, si solem in claro meridie uidens et eius estum sentiens, non recognouisset ipsum esse solem.

Vita Nova 4 [ix].1-8

Apresso la morte di questa donna alquanti die, avenne cosa per la quale me convenne partire della sopradecta cittade e ire verso quelle parti ov’era la gentil donna ch’era stata mia difesa, avegna che non tanto fosse lontano lo termine del mio andare quanto ella era. [2] E tutto ch’io fossi alla compagnia di molti, quanto alla vista l’andare mi dispiacea sì, che quasi li sospiri non poteano disfogare l’angoscia che ’l cuore sentia, però ch’io mi dilungava dalla mia beatitudine. [3] E però lo dolcissimo signore, lo quale mi signoreggiava per la virtù della gentilissima donna, nella mia ymaginatione apparve come peregrino leggieramente vestito e di vili drappi. [4] Elli mi parea sbigottito e guardava la terra, salvo che talora li suoi occhi mi parea che si volgessero ad un fiume bello e corrente e chiarissimo, lo qual sen gia lungo questo camino là ov’io era. [5] A me parve che Amore mi chiamasse e dicessemi queste parole: «Io vegno da quella donna la quale è stata tua lunga difesa, e so che lo suo rivenire non sarà. E però quello cuore ch’io ti facea avere a.llei, io l’ò meco, e portolo a donna la quale sarà tua difensione, come questa era». E nominollami, sì che io la conobbi bene. [6] «Ma tuttavia, di queste parole che teco ò ragionate, se alcuna cosa ne dicessi, dille nel modo che per loro non si discernesse lo simulato amore che tu ài mostrato a questa e che ti converrà mostrare ad altri». [7] E dette queste parole, disparve questa mia ymaginatione tutta subitamente per la grandissima parte che mi parve che Amore mi desse di sé; e, quasi cambiato nella vista mia, cavalcai quel giorno pensoso molto e accompagnato da molti sospiri. [8] Apresso lo giorno cominciai di ciò questo sonetto, lo quale comincia Cavalcando.

Vita Nova 4 [ix].9-12

Cavalcando l’altrier per un camino,       [9]
pensoso dell’andar che mi sgradia,
trovai Amore in mezzo della via
in abito leggier di peregrino.

Nella sembianza mi parea meschino,            [10]
come avesse perduta signoria;
e sospirando pensoso venia,
per non veder la gente, a capo chino.
   Quando mi vide, mi chiamò per nome       [11]
e disse: «Io vegno di lontana parte,
ov’era lo tuo cor per mio volere,
   e recolo a servir novo piacere».
Allora presi di lui sì gran parte,                    [12]
ch’elli disparve, e non m’accorsi come.

Giraut de Borneil (cfr. P. G. Beltrami, Giraut de Borneil, la pastorella «alla provenzale» e il moralismo cortese, in “Zeitschrift für französische Sprache und Literatur”, 111 [2001], pp. 138-164).

L’altrer, lo primer jorn d’aost,
vinc en Proensa part Alest
e chavalchav’ ab semblant mest,
qu’ira.m tenia sobrera,
can auzi d’una bergera
lo chan jost’ un plaissaditz,
e, car fo suaus lo critz,
don retenti la ribera,
volsi.m lai totz esbaïtz
on amassava falguera.

Cn 5, 10a, 12a-b, pp. 234-238

[233] “Dilectus meus” (10a). Hic describitur et laudatur sponsus a sponsa et sicut in amativis cantionibus fieri solet […].
[235] “Oculi”, id est: contemplativi aspectus, “eius” sunt gratiosi et perspicaces “sicut columbae” existentes “super rivos aquarum (12a)”, id est: super rivos omnium creaturarum, naturarum et gratiarum et scripturarum et super omnes rivos seu derivationes sapientiae Dei super omnia opera Dei supereffusae. “Quae” columbae “lacte sunt lotae” (12b), id est: sunt albae et nitidae sicut lac. Per quod significatur divinorum aspectuum splendor sincerissimus et dulcissimus et recentissimus. “Et resident iuxta fluenta plenissima (12b)”, id est iuxta abyssalia et redundantia flumina immensae sapientiae Dei.


Tab. II.2

Cn 5, 6, p. 228

[225] Nota quod aliquando Deus mentem incipiens visitare ante consummationem visitationis repente abscedit; tum quia ex hoc desiderium cordis fortius accendit ac in altiora petenda altius suspendit et sublevat et tandem plenius id quod quaerit, obtinet quam obtineret; tum quia mens ex hoc aliquando advertit plenius gratiam et efficaciam visitationis inceptae quam, si perdurasset in ea. Cuius exemplum patet in duobus discipulis euntibus in Emmaus quibus Christus primo apparuit in specie peregrini, et tandem cum coeperunt ipsum cognoscere, subito avolavit ab eis. Ex quo plenius advertentes quid primo in eis fecerat, dixerunt: “Nonne cor nostrum ardens erat in nobis, dum loqueretur nobis in via et aperiret nobis scripturas”? (Lc 24, 31) Et hoc ipsum contingit hic sponsae, unde subdit: “Anima mea liquefacta est, ut dilectus locutus est” […].

Cn 5, 10a, 12a-b, pp. 234-238

[233] “Dilectus meus” (10a). Hic describitur et laudatur sponsus a sponsa et sicut in amativis cantionibus fieri solet […].
[235] “Oculi”, id est: contemplativi aspectus, “eius” sunt gratiosi et perspicaces “sicut columbae” existen-tes “super rivos aquarum (12a)”, id est: super rivos omnium creaturarum, naturarum et gratiarum et scripturarum et super omnes rivos seu derivationes sapientiae Dei super omnia opera Dei supereffusae. “Quae” columbae “lacte sunt lotae” (12b), id est: sunt albae et nitidae sicut lac. Per quod significatur divinorum aspectuum splendor sincerissimus et dulcissimus et recentissimus. “Et resident iuxta fluenta plenissima (12b)”, id est iuxta abyssalia et redundantia flumina immensae sapientiae Dei.

Vita Nova, 10.11-13 [xviii 9, xix 1-2]

[11] E però propuosi di prendere per matera del mio parlare sempre mai quello che fosse loda di questa gentilissima; e pensando molto a.cciò, pareami avere impresa troppo alta matera quanto a me, sì che non ardia di cominciare. E così dimorai alquanti dì, con disiderio di dire e con paura di cominciare. [12] Avenne poi che passando per uno camino lungo lo quale sen gia uno rivo chiaro molto, a me giunse tanta volontà di dire, che io cominciai a pensare lo modo che io tenessi; e pensai che parlare di lei non si convenia che io facesse, se io non parlassi a donne in seconda persona, e non a ogni donna, ma solamente a coloro che sono gentili e che non sono pure femine. [13] Allora dico che la mia lingua parlò quasi come per sé stessa mossa e disse: «Donne ch’avete intellecto d’amore».

LSL XXIV, 15-18, pp. 650-651; 31b-32, pp. 662-663

<15> Secunda est Christi ad eos sensibilis apropinquatio et coitineratio, ibi: “Et factum est, dum fabularentur”, id est dum colloquerentur, “et secum quererent”, id est de relatis a mulieribus tamquam de dubiis secum inquirerent, “et ipse Iesus apropinquans ibat cum illis”. Ideo dicit apropinquans, quia, ne ad modum spiritus subito uenisse et apparuisse uideretur, primo se habuit quasi post eos aliquan-tulum a remotis ueniens, ac deinde eos attingens.
<16-18> Tertia est defectus recognoscendi, qui ex duobus conflatis innuitur […]. Secundo, ex modis se habendi Christi ad eos tam in loquendo, quam in se presentando. Nam locutus est ad eos quasi ad extraneos, et quasi nesciens de quo loquerentur, attamen uelud compatiens tristitie eorum quam non solum in corde, sed in uultu et uerbis et gestibus pretendebant, unde subditur: “Qui sunt hii sermones” etc. Bene autem additur de tristitia, ad monstrandum quod confortatore egebant, et etiam quod confortari promerebantur, quia de Christi morte dolebant. Presentauit etiam se eis in tali specie uestium et forma eundi, ex qua quasi peregrinus et pauper estimari posset, attamen reuerendus, et ideo hic quasi ad peregrinum loquuntur. Vnde Cleophas qui, prout ex uerbo Hieronymi suprascripto conicitur, uidetur in Emaus domum habuisse, dixit ei: “Tu solus peregrinus es in Ierusalem?” Ex hoc uidetur quod Christus tunc eis uidebatur de Ierusalem illo die uenire sicut et ipsi, et est sensus: ita famosa et manifesta sunt illa que circa Christum ibi nudius tertius contigerunt, quod etiam peregrini tunc ibidem existentes, aut ibi postmodum uenientes, hoc nequeunt ignorare. […]
<31b> Tertium est subita Christi disparitio, unde subditur: “et ipse euanuit”, id est disparuit, “ex oculis eorum”. […]
<32> Quartum est eorum ex premissa recognitione et disparitione ad omnia, que eis contigerant, plenius aduertenda recollectio et incitatio, unde subditur: “Et dixerunt ad inuicem: Nonne cor nostrum ardens erat in nobis, dum loqueretur in uia et aperiret nobis Scripturas?” id est sensum et intelligentiam Scripturarum. Hoc dicunt tamquam ultra ultimo uisa argumentantes quod etiam diuini amoris inflam-matio, quam ex eius uerbis ante ipsius recognitionem habuerant et senserant, testatur ipsum et non alium uere fuisse. Dicunt etiam hoc tamquam admirantes quomodo in tanta accensione ardoris et apertione Scripturarum non recognouerant eum, sicut mira-retur homo, si solem in claro meridie uidens et eius estum sentiens, non recognouisset ipsum esse solem.

Vita Nova 4 [ix]

Apresso la morte di questa donna alquanti die, avenne cosa per la quale me convenne partire della sopradecta cittade e ire verso quelle parti ov’era la gentil donna ch’era stata mia difesa, avegna che non tanto fosse lontano lo termine del mio andare quanto ella era. [2] E tutto ch’io fossi alla compagnia di molti, quanto alla vista l’andare mi dispiacea sì, che quasi li sospiri non poteano disfogare l’angoscia che ’l cuore sentia, però ch’io mi dilungava dalla mia beatitudine. [3] E però lo dolcissimo signore, lo quale mi signoreggiava per la virtù della gentilissima donna, nella mia ymaginatione apparve come peregrino leggieramente vestito e di vili drappi. [4] Elli mi parea sbigottito e guardava la terra, salvo che talora li suoi occhi mi parea che si volgessero ad un fiume bello e corrente e chiarissimo, lo qual sen gia lungo questo camino là ov’io era. [5] A me parve che Amore mi chiamasse e dicessemi queste parole: «Io vegno da quella donna la quale è stata tua lunga difesa, e so che lo suo rivenire non sarà. E però quello cuore ch’io ti facea avere a.llei, io l’ò meco, e portolo a donna la quale sarà tua difensione, come questa era». E nominollami, sì che io la conobbi bene. [6] «Ma tuttavia, di queste parole che teco ò ragionate, se alcuna cosa ne dicessi, dille nel modo che per loro non si discernesse lo simulato amore che tu ài mostrato a questa e che ti converrà mostrare ad altri». [7] E dette queste parole, disparve questa mia ymaginatione tutta subita-mente per la grandissima parte che mi parve che Amore mi desse di sé; e, quasi cambiato nella vista mia, cavalcai quel giorno pensoso molto e accompagnato da molti sospiri. [8] Apresso lo giorno cominciai di ciò questo sonetto, lo quale comincia Cavalcando.

Vita Nova 29 [xl]

Dopo questa tribulatione avenne, in quel tempo che molta gente va per vedere quella ymagine benedecta la quale Gesocristo lasciò a.nnoi per exemplo della Sua bellissima figura, la quale vede la mia donna gloriosamente, che alquanti peregrini passavano per una via, la quale è quasi mezzo della cittade ove nacque e vivette e morio la gentilissima donna, e andavano, secondo che mi parve, molto pensosi. [2] Onde io pensando a.lloro, dissi fra me medesimo: «Questi peregrini mi paiono di lontana parte, e non credo che anche udissero parlare di questa donna, e non ne sanno niente; anzi li loro pensieri sono d’altre cose che di queste qui, ché forse pensano delli loro amici lontani, li quali noi non conoscemo». [3] Poi dicea fra me medesimo: «Io so che se e’ fossero di propinquo paese, in alcuna vista parrebbero turbati passando per lo mezzo della dolorosa cittade». [4] Poi dicea fra me medesimo: «Se io li potesse tenere alquanto, io li pur farei piangere anzi ch’elli uscissero di questa cittade, però che io direi parole le quali farebbero piangere chiunque le ’ntendesse». [5] Onde, passati costoro dalla mia veduta, propuosi di fare uno sonetto nello quale io manifestasse ciò che io avea detto fra me medesimo; e acciò che più paresse pietoso, propuosi di dire come se io avessi parlato a.lloro; e dissi questo sonetto, lo quale comincia Deh, peregrini. [6] E dissi «peregrini» secondo la larga significatione del vocabolo, ché peregrini si possono intendere in due modi, in uno largo e in uno strecto: in largo, in quanto è peregrino chiunque è fuori della sua patria; in modo strecto non s’intende peregrino se non chi va verso la Casa di Sa’ Iacopo o riede. [7] E però è da sapere che in tre modi si chiamano propriamente le genti che vanno al servigio dell’Altissimo: chiamansi palmieri in quanto vanno Oltremare, là onde molte volte recano la palma; chiamansi peregrini in quanto vanno alla Casa di Galitia, però che la sepultura di Sa’ Iacopo fue più lontana dalla sua patria che d’alcuno altro apostolo; chiamansi romei in quanto vanno a Roma, là ove questi cu’ io chiamo peregrini andavano. [8] Questo sonetto non divido, però che assai lo manifesta la sua ragione.

Cavalcando l’altrier per un camino,          [9]
pensoso dell’andar che mi sgradia,
trovai Amore in mezzo della via
in abito leggier di peregrino.

Nella sembianza mi parea meschino,        [10]
come avesse perduta signoria;
e sospirando pensoso venia,
per non veder la gente, a capo chino.
   Quando mi vide, mi chiamò per nome    [11]
e disse: «Io vegno di lontana parte,
ov’era lo tuo cor per mio volere,
   e recolo a servir novo piacere».
Allora presi di lui sì gran parte,                  [12]
ch’elli disparve, e non m’accorsi come.

[13] Questo sonetto à tre parti. Nella prima parte dico sì come io trovai Amore e quale mi parea; nella seconda dico quello ch’elli mi disse, avegna che non compiutamente, per tema ch’avea di discovrire lo mio secreto; nella terza dico come elli mi disparve. La seconda comincia quivi Quando mi vide; la terza quivi Allora presi.

[LSL XXIV, 16-18] Vnde Cleophas qui, prout ex uerbo Hieronymi suprascripto conicitur, uidetur in Emaus domum habuisse, dixit ei: “Tu solus peregrinus es in Ierusalem?” Ex hoc uidetur quod Christus tunc eis uidebatur de Ierusalem illo die uenire sicut et ipsi, et est sensus: ita famosa et manifesta sunt illa que circa Christum ibi nudius tertius contigerunt, quod etiam peregrini tunc ibidem existentes, aut ibi postmodum uenientes, hoc nequeunt ignorare.

 

Deh, peregrini, che pensosi andate       [9]
forse di cosa che non v’è presente,
venite voi da sì lontana gente
(com’alla vista voi ne dimostrate),
che non piangete quando voi passate
per lo suo mezzo la città dolente,
come quelle persone che neente
par che ’ntendesser la sua gravitate?
   Se voi restate per volerlo audire,             [10]
certo lo cor d’i sospiri mi dice
che lagrimando n’uscireste poi.
   Ell’à perduta la sua beatrice;
e le parole ch’om di lei pò dire
ànno virtù di far piangere altrui.

Vita Nova 14 [xxiii].5-6, 23-24

[5] […] E maravigliandomi in cotale fantasia, e paven-tando assai, ymaginai alcuno amico che mi venisse a dire: «Or non sai?  la tua mirabile donna è partita di questo secolo». [6] Allora cominciai a piangere molto pietosamente; e non solamente piangea nella ymaginatione, ma piangea con gli occhi, bagnandoli di vere lagrime.

Poi vidi cose dubitose molte,                    [23]
nel vano ymaginare ov’io entrai;
ed esser mi parea non so in qual loco
e veder donne andar per via disciolte,
qual lagrimando e qual traendo guai,
che di tristitia saettavan foco.
Poi mi parve vedere a poco a poco           [24]
turbar lo sole e apparir la stella,
e pianger elli ed ella;
cader gli augelli volando per l’âre,
e la terra tremare;
e omo apparve scolorito e fioco
dicendomi: – Che fai? non sai novella?
mort’ è la donna tua, ch’era sì bella.

LSL XXIV, 28, pp. 658-660

Sexta circumstantia est Christi dissimulatio qua, cum esset prope Emaus, “finxit se longius ire”. Hic actus ideo fictio uocatur, quia secundum communem sui cursum pretendebat se in alterum terminum tendere, quam intenderet ipse uadens. Et ideo uidetur significare aliud a cordali intentione motoris; omne autem tale fictionem seu simulationem uocamus. Ut autem scias quod hec fictio fuit et esse potuit absque omni indecentia uel peccato, nota quod, quando fictio habet in se et ex se significationem falsam et ab intentione fallaci et dolosa aut uana uel cupida procedentem, tunc est indecens et illicita. Quando uero nichil horum habet, sed potius opposita, utpote ueritatem altam et utilem in sua significatione, et summam sinceritatem ac pietatem in intentione, et cum hoc auctoritatem celebrem in auctore, et alias decentes congruentias in modo agendi: tunc decentissime currit et ipsimet, cui fit, miro modo complacet, cum sibi postmodum aperitur. Et hoc modo fuit in multis presagiosis et aliquando prodigiosis operibus prophetarum, et sic est in proposito.
Si uero ex predictis obicias quod ymmo erat hic falsitas in significatione et fallacia in intentione, quia exterior deambulatio falso significabat terminum alium ab Emaus et intentionem alterius termini, ipsa etiam intentio, tale falsum signum scienter prebens et faciens, fallax eo ipso esse uidetur: dicendum quod, si opus hoc non habuisset aliquam rationem factibilis nisi solam significationem directe ad hominem ordinatam, sicut habet nostra littera uulgaris et communis locutio, in quantum est internorum conceptuum apud alios expressiua, tunc necessario in sua communi significatione falsitatem aliquam habuisset, nisi noua significatio sibi daretur ab eo, qui legitimam dandi auctoritatem haberet. Quia uero opus deambulationis siue itinerationis habet aliquas principaliores rationes factibilitatis, quam sit significatio sua, idcirco potuit rationabiliter fieri absque applicatione ipsius ad talem significationem.
Rursus, sciendum quod, quando ratio significationis principaliter procedit a uoluntaria hominum institutione et ab agentis uoluntate et intentione, tunc falsitas significationis est principaliter in intentione agentis, nec est in signo, nisi in quantum refertur ad illam tamquam ad suam causam. Quando uero ratio illius significationis sibi solum competit ex sua natura, tunc si qua falsitas ibi fuerit, non potest uoluntarie intentioni agentis ascribi. Tunc etiam, quamuis id quod secundum naturalem consequentiam significat, ex causa alia rationali non sequatur, non propter hoc erit aliqua realis falsitas in naturali significatione ipsius, quia non significat hoc in omnem euentum, sed solum quantum est de communi cursu sue nature. Et ideo si aliquis inde decipitur, aut si significatio illa alicui falsa uidetur, falsitas illa potius est in illius falsa estimatione, quam sit in ipso signo. Sic autem fuit in proposito. Vnde dato quod aliquis pauper, uadens cum diuite usque prope diuitis domum, cupiat inuitari ab eo, sed ex uerecundia uadat aliquantulum ultra, exspectans tamen adhuc inuitari ab eo, et etiam hoc faciens ut ab eo libentius inuitetur: constat quod talis non est in hoc fallax uel falsus, saltem ubi hoc ex sola uirtute sancte et sobrie uerecundie facit et absque omni uitio gulosi uel cupidi appetitus.
Si autem queras, quare Christus hoc fecit, ad hoc est triplex ratio. Prima est, ne importune et improbe se uideretur ingerere hospitio et comestioni illorum, et ut pauperibus daret formam se non improbe ingerendi. Secunda est, ut illi per inuitationem fierent digni eius receptione et tandem clariori manifestatione, unde et potest esse quod Christus decreuerat non intrare cum eis, nisi ipsum tamquam pauperem misericorditer inuitassent; et si hoc sic fuit, tum fictio illa minus habuit de ratione fictionis. Tertia est propter misterium et exemplum: exemplum quidem quod per opera misericordie peruenitur ad pleniorem et familiariorem notitiam Dei et sue sapientie; misterium uero potest multiplex adaptari, et post litteralem expositionem aliquid tangetur.

 

Tab. II.3

LSL XXIV, 35, pp. 664-668

Mistice, in forma et processu huius apparitionis describitur processus et forma contemplatiue sursum-actionis in Deum. Nam primo premictitur eius initialis radix, continens in se sex. – Primum est concordia gemine caritatis, unde sunt “duo”. Secundum est professio status et discipulatus Christi, quia sunt “ex illis”, id est ex Christi discipulis. – Tertium est congruitas contemplatiui temporis, quia “ipsa die”, scilicet resurrectionis Christi et angelice uisionis et allocutionis: ante enim resurrectionem Christi non erat sic ianua celi ad Deum uidendum aperta. – Quartum est accessus ad desiderium tuti consilii et ad robur feruidum festinandi, unde “ibant in castellum nomine Emaus”, quod interpretatur desiderium consilii uel festinans. Qui enim uult ad Dei contemplationem ascendere, oportet eum in desiderio ac studio spiritualium consiliorum seu meditationum esse, et quod illum desiderium sit pre feruore ad celestia pregustanda festinans, et quod sic sit robustum et tutum et bene munitum, quod possit merito dici castrum. – Quintum est, ut ipse accessus sit debito spatio protensus et a sede contemplationis et diuini cultus emanans, scilicet “a Ierusalem”, quae est uisio pacis et que erat tunc sedes diuini cultus. Spatium autem est “sexaginta stadia”, uel septem miliaria et semis: ad castrum enim deuoti et studiosi consilii sancte orationis et meditationis non peruenitur, nisi per experimentalem notitiam diuine legis per decalogum designate, et diuinorum operum sex diebus factorum, aut sex contemplatiuorum graduum, quos tangit Ricardus. Et quod notitia legis cum hoc sit reflexa, et econtrario ut sint sexies decem, id est sexaginta, oportet etiam quod quelibet pars istius sexagenarii sit octaua sicut est stadium, ut scilicet in qualibet lux et gloria resurrectionis refulgeat, que facta est in die octaua et que post septimam etatem est quasi post sabbatum consummanda. Et bene est octaua non incompleti numeri, sed millenarii, quia perfecta pars debet esse perfecti. Unde et bene hoc spatium septem miliaria habet, quia notitia diuine perfectionis in septem mundi etatibus refulgentis, est necessaria consiliis deuotionis, et medietas octaui miliarii, id est aliqua semigustatio resurrectionis beate per octauum miliarium designate. Nec intelligas hoc spatium perfici, nisi concurrente ipsa apparitione et contemplatione, sed intentio et conatus accedendi et perficiendi ad prefatam radicem contemplationis spectat. – Sextum est actualis exercitatio colloquiorum deuotionis et deuoti consilii, in quo potissimum est conferre preterita et presentia et futura; et ideo dicitur quod “colloquebantur ad inuicem de omnibus que acciderant”, et secum quasi meditando querebant.
Deinde subditur contemplationis processus a primordio per medium internum: nam primo incipit sub specie quasi peregrina, tum quia sub figuris quasi sensibilibus; tum quia post sensualia extrinseca occurrit Christi humanitas, que respectu deitatis est ei quemadmodum peregrina; tum quia, secundum Apostolum secunde Ad Corinthios tertio, “dum sumus in corpore, peregrinamur a Domino: per fidem enim ambulamus et non per speciem” [II Cor. 5, 6]; et secundum eundem prime Ad Corinthios decimo tertio, “uidemus nunc per speculum in enigmate” [I Cor. 13, 12].
In hoc autem initio tria per ordinem facit. Primo enim excitat ad plenius commemorandum et replicandum priora de Deo colloquia; in quo et plenius aperit tristitiam, quam colloquentes et pro uiribus ambulantes de absentia clare ueritatis habent. Secundo, ingerit se amplius ad tenebras stulte ignorantie obiurgandas, et ad immictendum radium ueritatis cum Scripturarum et diuinorum operum in eis contentorum reseratione et cum cordis accensione. Tertio, “fingit se longius ire”, id est a mente quasi uelle avolare.
Ex hoc autem sequitur medius profectus, quia mens tunc incipit precibus et inquisitionibus ipsum fortius attrahere et quasi cogere ad familiariorem ingressum et recte ad cenam. Et hec <est> lucta Iacob cum Deo, usquequo benedicatur et uideat faciem eius. Allegaturque ratio Deum ualde inducens, quia scilicet, ipso abscedente, nimis “aduesperascit” et dies sue illuminationis nimis ad defectum descendit.
Terminus autem primus est quia, intrans, sedet ad mensam, exhibendo scilicet intimam et tranquillam et refectiuam sui familiaritatem. Tuncque panem sapientie magnificans, frangit, id est in uarias sui rationes distinguit, et secundum hoc eius interna uiscera aperit ipsumque sic distinctum porrigit ad edendum, id est imprimit gustui et gustatiuis uirtutibus mentis. Et tunc ueritas, relictis figuris, incipit intellectualiter et quasi in propria specie recognosci. Ut autem amplius sursumagat et reascendat, repente disparet, relinquens hominem sibi ipsi. Et tunc resolutorie reditur ad primum principium, a quo tota contemplatio cum sua radice exiuit, scilicet ad Deum, prout est principium omnis gratie, et ad supernam Ierusalem, que est mater nostra, et etiam ad intimum mentis sinum et sedem. Ibique inuenit recollectam multitudinem testium ueritatis fitque mutua hic inde collatio et correlatio testimoniorum, et tunc redit plenior apparitio sicut infra subdetur. Et attende quomodo omnis illuminatio perfecta facit circulum: nam non est perfecta, nisi cum est perfecte reducta in primam originem, a qua manat.
Allegorice uero, describitur hic totus decursus illuminationis populi Dei ab initio seculi usque ad finem. Nam in principio pauci electi fuerunt et, ut ad litteram loquamus, soli duo, Adam scilicet et Eua. Tunc etiam de nouo casu ueritatis in humano genere grandis in eis collocutio et tristitia fuit; et quia in hac tristitia incipit opus reparationis hominis lapsi, ideo hic fit mentio de apropinquatione Iesu, id est Saluatoris. Nam ex tunc, quamuis sub figuris ualde peregrinis, apparet Iesus oculis adhuc lippientibus et semiclausis. A sede autem Creatoris et creationis usque ad angelum magni consilii et usque ad uirginale castrum, in quo nostre redemptionis consilium est per diuinam sapientiam fabricatum, sexaginta sunt stadia, id est sexaginta patres, in quorum quolibet una generationis statio fuit. Ab Adam enim usque ad Ioseph, Virginis sponsum, sexaginta sunt patres, tribus abscisis, quos excludit Mattheus.
In intermedio autem profecit illuminatio per Scripturas Moysi et prophetarum; et quia circa aduentum Christi fuit singularis in synagoga et orbe excecatio introducta, pro eo quod dies precurrentis illuminationis iam quasi perfecerat cursum suum, ideo uisus est tunc “longius ire”, et maxime Iudeis tunc estimantibus aduentum Christi adhuc amplius differendum. Sed Christus propter instantiam sanctorum patrum, et quia dies erat in totali defectu nisi ueniret, coactus est in uirginale castellum intrare, et tunc uenit consiliarius desideratus. Cumque uero panem sue humanitatis per passionem et mortem fregisset, et sanctis patribus in limbo ac discipulis in hoc mundo porrexisset, subito a mundo disparuit, ascendendo in celum. Propter quod Ecclesia electorum per septem miliaria, id est per septem ecclesiastica tempora in septem apparitionibus sigillorum in Apocalypsi descripta, recurrit ad primam originem et hoc duplici modo.
Primo quidem, ut a plenitudine gentium redeat ad israeliticam plebem, a qua Christus ascendens disparuit, et a qua fides gentium primordialiter emanauit. Tunc enim in Ierusalem inuenietur uita apostolica et multitudo discipulorum electa, incomparabiliter plus quam ante resonans preconia ueritatis et glorie Christi, et maxime quia tunc apostolicus designatus in Petro et eius apostolica sedes singulari Christi lumine radiabit in omnes, et tunc iterato Christus in spiritu admirabiliter et iocundissime apparebit, ita ut omnes pre gaudio admirentur.
Deinde sub altero tropo misterii, septenario temporum succinctius repetito, redibitur ad originem creationis et gratie, id est ad essentiam creantis et iustificantis, et ad supernam Ierusalem, per quam ordine ierarchico nostre subcelesti ierarchie omnis gratia administratur. Et ibi ad litteram inuenientur omnes sancti patres radiis et uerbis beatificis acclamantes “quod surrexit Dominus uere”, et pre ceteris “apparuit” summis ierarchis angelice et ecclesiastice ierarchie designatis in Petro. Illisque loquentibus, lux diuine maiestatis assistet tamquam superapparens, ut iuxta Apostolum “sit Deus omnia in omnibus” [I Cor. 15, 28].


Tab. II.4

LSL XXIV, 35, p. 666

Terminus autem primus est quia, intrans, sedet ad mensam, exhibendo scilicet intimam et tranquillam et refectiuam sui familiaritatem. Tuncque panem sapientie magnificans, frangit, id est in uarias sui rationes distinguit, et secundum hoc eius interna uiscera aperit ipsumque sic distinctum porrigit ad edendum, id est imprimit gustui et gustatiuis uirtutibus mentis. Et tunc ueritas, relictis figuris, incipit intellectualiter et quasi in propria specie recognosci. Ut autem amplius sursumagat et reascendat, repente disparet, relinquens hominem sibi ipsi. Et tunc resolutorie reditur ad primum principium, a quo tota contemplatio cum sua radice exiuit, scilicet ad Deum, prout est principium omnis gratie, et ad supernam Ierusalem, que est mater nostra, et etiam ad intimum mentis sinum et sedem. Ibique inuenit recollectam multitudinem testium ueritatis fitque mutua hic inde collatio et correlatio testimoniorum, et tunc redit plenior apparitio sicut infra subdetur. Et attende quomodo omnis illuminatio perfecta facit circulum: nam non est perfecta, nisi cum est perfecte reducta in primam originem, a qua manat.

Vita Nova 5.10-12 [xii 3-5]

[10] Avenne quasi nel mezzo del mio dormire che mi parve vedere nella mia camera lungo me sedere uno giovane vestito di bianchissime vestimenta, e pensando molto quanto alla vista sua, mi riguardava là ov’io giacea. E quando m’avea guardato alquanto, pareami che sospirando mi chiamasse, e diceami queste parole: «Fili mi, tempus est ut pretermictantur simulacra nostra». [11] Allora mi parea che io il conoscessi, però che mi chiamava così come assai fiate nelli miei sonni m’avea già chiamato: e riguardandolo pareami che piangesse pietosamente, e parea che attendesse da me alcuna parola. Onde io assicurandomi cominciai a parlare così con esso: «Signore della nobiltade, e perché piangi tu?». E quelli mi dicea queste parole: «Ego tanquam centrum circuli, cui simili modo se habent circumferentie partes; tu autem non sic». [12] Allora, pensando alle sue parole, mi parea che m’avesse parlato molto oscuramente, sì che io mi sforzava di parlare, e diceali queste parole: «Che è ciò, signore, che mi parli con tanta oscuritade?». E quelli mi dicea in parole volgari: «Non dimandare più che utile ti sia».

LSL XXII, 25-27, pp. 603-604

Contra hoc igitur Christus eos triplici respectu seu ratione informat. Prima ratio est ex opposita proprie-tate status eorum ad statum regum et principum mundanorum, unde subdit: “Reges gentium dominantur eorum”, id est populorum uel gentium, “et qui potestatem habent super eos”, id est principes eorum, “uocantur benefici”; iuxta quod prebendatus per episcopum uel cardinalem hodie communiter dicit: dominus episcopus me creauit et ipse me fecit: omnes enim maioribus libenter adulantur, et adulatorie extollunt et magnificant beneficia ab eis recepta. Vult ergo Christus dicere quod illi habent duplicem modum superbe maioritatis: primus est ex proprio actu, quia scilicet arroganter et tyrannice dominantur subiectis; secundus est ex subditorum adulatorio honore et applausu, quia, quamquam opprimantur a suis dominis, nichilominus uocant eos suos benefactores et recognoscunt se et sua recepisse ab eis, ac si essent creatores eorum. Quia ergo apostolos nequaquam decebat esse tales, ideo aduersatiue subdit: “Vos autem non sic”, scilicet esse debetis, uel non sic sitis.
Secunda ratio est ex suo beneplacito et praecepto, et ideo monitorie et preceptorie subdit: “sed qui maior est in uobis”, scilicet etate et auctoritate, uel dignitate et sanctitate, “fiat sicut minor”, id est ita se subiciat et humiliet omnibus, ac si esset omnium minor et minor, “et qui precessor est”, id est qui alios precedit tamquam dux uel dignior, “fiat sicut ministrator”, id est ita omnibus ministret et seruiat, ac si iure et ex debito esset omnium seruus.
Tertia ratio est ex respectu eorum ad Christum, qui inter eos se habuit ut seruitor, potius quam ut seruitii susceptor; et ideo non se habuit ut “maior”, sed potius tamquam omnium minimus, unde subdit: “Nam quis maior est, qui recumbit”, id est qui sedet ad mensam et seruitur ab alio, “an qui ministrat”, id est qui seruit recumbenti? Et quia constat quod sedens est maior, scilicet in honore et dignitate, ideo subdit: “Nonne qui recumbit?” Hanc igitur partem maioritatis a se repellens et partem minoritatis sibi aproprians, subdit: “Ego autem in medio uestrum sum sicut qui ministrat”. Quamuis Christus ministra-uerit eis ueritatis doctrinam et exemplum et se ipsum in pretium et in cibum, nichilominus uult ultra hoc ad litteram dicere quod etiam in ceteris obsequiis se habuit ad eos quasi ut seruus; unde et ipsa die pedes eis lauit et tersit, et forte more seruorum flexis genibus hoc fecit, quia nec aliter sic expedite uel ydonee officium illud explesset.

PETER OF JOHN OLIVI. On the Bible. Principia quinque in Sacram Scripturam, ed. D. Flood – G. Gál, St. Bonaventure University, New York 1997 (Fran-ciscan Institute Publications, Text Series, 18), III, De doctrina Scripturae, pp. 80-82 [le citazioni scritturali sono poste fra “ ” anziché in corsivo].

9. Ipse etiam est medium virtuosissimum. Unde ipse est tamquam firmamentum in medio aquarum, in-fluens firmitatem omni hierarchiae, tam angelicae quam ecclesiasticae quam omni creaturae, de quo Genesis 1. Et est tamquam “lignum vitae in medio Paradisi”, influens vitam naturae, gratiae et gloriae omni participanti eam secundum capacitatem suam, de quo Genesis 2, 9; et tamquam fluvius aquae vivae splendidus tamquam crystallus, procedens de sede Dei et Agni, in medio plateae eius influens nutri-mentum et rorem coeli, tum omnis sapientiae omnibus habitantibus in plateis civitatis sanctae. Et de hoc Apocalypsis ultimo (22, 1ss.). Ipse etiam secundum Psalmistam (73, 12) operatus est salutem in medio terrae; ut sicut sol in medio planetarum et terra in medio elementorum et cor in medio animalium, sic Christus in medio terrae emitteret virgam virtutis suae dominari in medio inimicorm suorum. Omnes enim rivuli influentiarum ab eo exeuntium continuantur suo modo ad ipsum, sicut lineae circuli ad centrum. Et quoniam medium abstractissimum, necessario sequitur quod sit virtuo-sissimum. […]
10. Est etiam medium profundissimum et summe intrinsecum, et in hoc semper apparet esse humillimum et modicissimum, cum tamen in hoc ipso veraciter sit immensissimum tamquam simpli-cissimum et ab omni divisione et divisibilitate segregatum, unde Lucae 22, 27 dicit discipulis: “Ego autem in medio vestrum sum sicut qui ministrat”. Et eisdem contendentibus de primatu, statuit parvulum in medio eorum, dicens eis quod nisi efficerentur sicut parvulus ille, non intrarent in regnum caelo-rum, prout habetur Matthaei 18, 2. Et tamen hoc regnum est summe immensum. Propter hoc vidit Ioannes in medio throni et quattuor animalium agnum stantem tamquam occisum. Et quod Michaeae 6, 14 dicitur: “Humiliatio tui in medio tui”, huic potest aptari, cuius aspectus et consideratio summe humiliat mentes. Hac sui profundatione saepissime stat pro membris et econverso; et in omnibus membris suis et operibus praesentatur et econverso.
11. Est etiam summe notum. Unde de sapiente dictum est Ecclesiastici 15, 5 quod “in medio Ecclesiae aperuit os eius”, et 50, 6 quod “fuit quasi stella matutina in medio nebulae, et quasi luna plena in diebus suis lucet et quasi sol, et quasi arcus refulgens inter nebulas gloriae”. Et de eo dictum Habacuc 3, 2: “In medio annorum notum facies”, vel secundum aliam litteram bonam: “In medium eorum innotesceris”. Venit enim in medio temporum et annorum ad tempora distinguenda et notificanda. Et fuit tamquam lapis angularis in medio duorum populorum – animalium – ad eos spirituali sapientia imbuendos. Et Ezechielis 1, 16 dicitur quod aspectus rotarum quattuor et opera earum quasi sit rota in medio rotae. Sicut enim centrum est medium ad certam notitiam sumendam de sphaera vel circulo, et quanto aliqua sunt propinquiora centro, tanto citius et evidentius possunt certificari per centrum, sic Christus est tamquam centrum in medio Scriptu-rarum, et circa ipsum immediate exsistit rota ange-licae hierarchiae, et postea rota contemplativae et finalis Ecclesiae; et postea rota Ecclesiae quae de gentibus est, et post hoc synagogae. Et quaelibet quanto medio propinquior, tantum secundum se notior, sicut finis quanto universalior, tanto notior. Ibidem (Ezech. 1, 13) etiam dictum est quod visio discurrens in medio animalium erat ut splendor ignis et de igne fulgor egrediens.


Tab. II.5

Vita Nova 2. 6-7, 10-12 [v 1-2, vi 1-vii 1]

[6] Uno giorno avenne che questa gentilissima sedea in parte ove s’udivano parole della Regina della gloria, e io era in luogo dal quale vedea la mia beatitudine; e nel mezzo di lei e di me per la recta linea sedea una gentil donna di molto piacevole aspecto, la quale mi mirava spesse volte, maravigliandosi del mio sguardare che parea che sopra lei terminasse. [7] Onde molti s’accorsero del suo mirare, e in tanto vi fue posto mente, che partendomi da questo luogo mi sentio dire apresso me: «Vedi come cotale donna distrugge la persona di costui», e nominandola, intesi che dicea di colei che mezzo era stata nella linea recta che movea dalla gentilissima Beatrice e terminava negli occhi miei. […] [10] Dico che in questo tempo che questa donna era schermo di tanto amore quanto dalla mia parte, mi venne una volontà di volere ricordare lo nome di quella gentilissima e acompagnarlo di molti nomi di donne, e spetialmente del nome di questa gentil donna. [11] E presi li nomi di .lx. le più belle donne della cittade ove la mia donna fu posta dall’Altissimo Sire, e compuosi una pìstola sotto forma di serventese, la quale io non scriverò; e non n’avrei facto mentione, se non per dire quello che, componendola, maravigliosamente adivenne, cioè che in alcuno altro numero non sofferse lo nome della mia donna stare se non in su lo nove, tra li nomi di queste donne. [12] La donna colla quale io avea tanto tempo celata la mia volontade convenne che si partisse della sopradecta cittade e andasse in paese molto lontano; per che io, quasi sbigottito della bella difesa che m’era venuta meno, assai me ne disconfortai più che io medesimo non avrei creduto dinanzi.

Cn 3, 7-8, p. 184

[155] Per “sexaginta vero fortes” (7) designantur primo angeli circa Deum excubantes et nostram hierarchiam custodientes qui propter perfectionem divinae legis in seipsis et propter perfectionem operum suorum, quae a nobis in sex diebus hebdomadae fiunt et propter perfectam notitiam divinorum operum in primis sex diebus fundatorum, merito ‘sexaginta’ dicuntur quasi sexies decem vel decies sex. [156] Secundo per hoc designantur omnes ecclesiae pugiles incliti pro eius custodia accincti et mori parati qui eisdem causis ‘sexaginta’ vocantur, aut etiam quia in sex mundi aetatibus currunt et in sexta plenius consistunt, et quia unusquisque eorum in sua sexta aetate, cum iam scilicet est annorum sexaginta, est ad custodiam castitatis sponsae aptior et fortior ac discretior. Non enim debent hic esse nisi castissimi et sensatissimi et in bellis contra luxuriam probatissimi. Unde [157] merito “enses super femur suum” habere dicuntur “propter timores nocturnos” (8b), quia scilicet carnis concupiscentia non perdurante contemplationis die, sed in nocte sensualium operum et negotiorum dat improvisos et repentinos et insidiosos insultus. Quamvis et in hoc ipso omnia tentationum vel maxime insidiosarum genera designentur, contra quae oportet istos esse accinctos et praemunitos, quia aliter lectus regius non potest esse quietus neque securus.

Cn 4, 4a-b, pp. 196, 198

[174] Per “collum” (cf 4a) vero quo caput sustentatur et quod est unitivum medium inter caput et corpus et quo cibus et potus et inspiratio aeris traiiciuntur in corpus et quo spirituum respiratio et sermonum formatio proferuntur ad extra, designatur spiritualis fortitudinis et finalis perseverantiae robur. Unde et hic comparatur “turri David” fortissimis “propugnaculis” circumcinctae, ut non solum de prope, sed etiam procul et de longe sagittas in hostes emittat. [176] Et ad litteram: “Collum” est valde nervosum et forte. In ipso enim omnes nervi a capite in corpus manantes sub forti robore congregantur ad spiritum enim fortiter immittendum et emittendum et ad spirituale cibum virtuose traiiciendum. Et ad hoc quod omnia nostra robuste et alte et finaliter suo supremo capiti et ultimo fini cohaereant et iungantur, opus est fortitudine invincibili et perseveranti. [177] Ex hac autem fortissima “turre” dicit “pendere mille clypeos et etiam omnem armaturam fortium” (cf 4b). Per “mille” qui est numerus perfectus, perfectum numerum “clypeorum” designans, quia ex praefata fortitudine habemus perfecta arma protectionis et defensionis in “clypeis” designata et omnia arma fortis impugnationis quae ambo sunt necessaria in pugna perfecta. Vel praeter hoc haec fortitudo per memoriae diligentiam servat in se perfecta exempla sanctorum et scripturarum quantum ad utrumque genus armorum.

Cn 6, 7a, pp. 254, 256

[258] Deinde rediens ad eius generalem laudem praefert eam omnibus aliis “reginis” et “concubinis” et “adolescentulis” (cf 7) sponsi; tum quia illae sunt multae et magis communes, haec vero est sponso unica et singularis ita quod respectu eius illae non sunt dicendae reginae nec sponsae; tum quia est illis omnibus ineffabiliter admiranda et ab omnibus singulariter et super omnes laudata et venerata. Secundum autem Glossam “reginae” sunt quae ex caritate Deo iunguntur et Deo generant filios spirituales; et ideo “sexaginta” dicuntur, quia dilectionem praeceptorum Dei et perfectionem operum habent vel quia quinque sensus suos regunt sub duodenario qui est numerus apostolicus et abundans, id est: ex suis partibus aliquotis supra seipsum excrescens, id est: sub regula apostolica et perfecta et semper in melius excrescenti.
[259] “Concubinae” (7a) vero sunt quae ob solam temporalem mercedem Christo serviunt potius quam ex sincero et coniugali Dei amore. Et ideo “octoginta” dicuntur, quia octogenarius in malo acceptus temporalium curas et implicamenta designat pro eo quod, sicut cursus huius saeculi quattuor temporibus agitur et in quattuor climatibus consistit et ex quattuor elementis, sic numerus iste quattuor vicenariis continetur. Qui vicenarius in malo acceptus transgressionem Decalogi designat et iterum poenam seu poenae debitum et reatum correspondentem eidem. Vel per ‘sexagenarium’ significatur perfectae aetatis maturitas, per ‘octogenarium’ vero decrepita vetustas vel nimia appropinquatio iuxta illam.

[260] Per ‘adolescentulas’ (7b) vero designantur animae bonum incipientes et in eo crescentes et proficientes aut etiam multitudo vanorum qui sub nomine Christi vanitatem et voluptatem adole-scentiae sive stultitiae suae sequuntur, quorum “non est numerus”: quia non sunt in libro vitae annumerati nec sub aliqua Dei certa et distincta mensura et regula comprehensi aut quia quoad bonos et etiam quoad utrosque sunt innumerabiles, non Deo, sed nobis.

 Vita Nova 1.1, 10-11 [i 1, ii 9-10]

[1] In quella parte del libro della mia memoria dinanzi alla quale poco si potrebbe leggere, si trova una rubrica la quale dice Incipit Vita Nova. […]

[10] E avegna che la sua ymagine, la quale con-tinuatamente meco stava, fosse baldanza d’Amore a signoreggiare me, tuttavia era di sì nobilissima virtù, che nulla volta sofferse che Amore mi reggesse sanza lo fedele consiglio della Ragione in quelle cose là dove cotale consiglio fosse utile a udire. [11] E però che soprastare alle passioni e acti di tanta gioventudine pare alcuno parlare fabuloso, mi partirò da esse, e trapassando molte cose, le quali si potrebbero trarre dello exemplo onde nascono queste, verrò a quelle parole le quali sono scripte nella mia memoria sotto maggiori paragrafi.


3. Chi è costui che vene?

L’esclamazione ammirativa Quae est ista quae ascendit? compare tre volte nel Cantico dei Cantici, in conclusione delle tre parti principali del libro salomonico, a sottolineare i tre stadi dell’ascesa contemplativa: Cn 3, 6; 6, 9; 8, 5. La fiamma d’Amore è radice, rami e frutti dell’albero della contemplazione e delle sue mirabili visioni.

Nel primo stadio (Cn 3, 6) la sposa ascende “per desertum”, cioè per un luogo solitario; “sicut virgula fumi”, come colonna di fumo, perché Dio si manifesta solo in una nuvola: la “caligo ignis” nella quale Mosè vide Dio, la “nebula” attraverso la quale il pontefice deve entrare nel santuario (Levitico 16, 2). Il passaggio dalle cose sensibili a ciò che è intellettuale avviene “virtute ignis liquefactivi et resolutivi … ex incensione ignea”.
Dante, ricevuto il primo saluto di Beatrice, si ritira nella sua camera (“mi partio dalle genti, e ricorso al solingo luogo d’una mia camera”); sopraggiunto dal sonno, ha una “maravigliosa visione. Che mi parea vedere nella mia camera una nebula di colore di fuoco, dentro alla quale io discernea una figura d’uno signore, di pauroso aspecto a chi la guardasse; e pareami con tanta letitia quanto a.ssé, che mirabile cosa era; e nelle sue parole dicea molte cose, le quali io non intendea se non poche, tra le quali io intendea queste: ‘Ego Dominus tuus’” (Vita Nova 1.13-14 [iii 2-3]). Amore gli appariva come Dio si manifestò a Mosè.
Nelle braccia di Amore dormiva nuda la donna della salute, “e nell’una delle mani mi parea che questi tenesse una cosa la quale ardesse tutta; e pareami che mi dicesse queste parole: ‘Vide cor tuum!’”. Poi svegliava la donna e “le facea mangiare questa cosa che in mano li ardea, la quale ella mangiava dubitosamente” (Vita Nova 1.15-17 [iii 4-6]). Il cuore ardente è consono al fuoco liquefattivo della prima fase contemplativa; è comunque da ricondurre alle parole dei discepoli che hanno incontrato Cristo sulla via di Emmaus: “Nonne cor nostrum ardens erat in nobis, dum loqueretur nobis in via et aperiret nobis scripturas?” (Luca XXIV, 32). Passo citato da Olivi a Cn 5, 6, dove la sposa lamenta la scomparsa del suo diletto. Anche in questo caso si tratta degli inizi del percorso contemplativo. Come la sposa si mostra dubbiosa nell’aprire allo sposo che le parla (“aperire distulit quasi dubitans”; Beatrice si pasce del cuore “dubitosamente”), e poi si accerta sentendo la propria anima liquefarsi, così i discepoli non riconoscono dapprima Cristo ma poi, dopo la sua improvvisa sparizione, ne sono consapevoli rammentando l’ardore provato nel cuore alle sue parole. Nella contemplazione, per quanto alta, la mente non deve presumere, ma umiliarsi e temere (“ut mens quantumcumque alta addiscat non praesumere, sed humiliari et ut in his quae caute egit, formidet aliquam culpam sibi absconsam inesse”); nel sonetto A ciascun’alma presa e gentil core, che la prosa spiega con maggiore elaborazione dell’esegesi, si dice di Beatrice: “e d’esto core ardendo / lei paventosa umilmente pascea” (anche Amore nella nuvola è “di pauroso aspecto a chi la guardasse”). Per inciso è da ricordare che, prima di scomparire, Cristo ha spezzato il pane e lo ha dato ai discepoli incontrati sulla via di Emmaus: il pane della sua umanità spezzato per la passione e morte, come spiega Olivi glossando Luca XXIV, 30.
Dal fumo esalano mirra e incenso. La mirra, che è amara, designa l’“amaritudo compunctionis et mortificationis et compassionis”. La letizia iniziale di Amore “si convertia in amarissimo pianto”; prendeva la donna fra le braccia e pareva andarsene verso il cielo (Vita Nova 1.18 [iii 7]). Il primo stadio della contemplazione è lieto: “prae nimia exultatione non valente se intra se nec infra mensuram suorum communium limitum continere”. Ma alla letizia è accostata la mirra amara, che designa compunzione, mortificazione, compassione. Il pianto di Amore, considerato che il cuore ardente rinvia a Luca XXIV, 32, può forse anche rammentare il pianto di Cristo su Gerusalemme di Luca XIX, 41-42. Come Gerusalemme sarà distrutta dai Romani, così Firenze, per la morte di Beatrice,  sarà “quasi vedova dispogliata da ogni dignitade” (Vita Nova 19.8 [xxx 1]; a 5.11 [xii 4] Amore-Cristo piangerà “pietosamente” prima di definirsi “centrum circuli”, in un contesto che attinge ancora al Vangelo di Luca).
Nei primordi dell’ascesa contemplativa, accanto alla mirra, l’incenso designa la preghiera (“devotio orationis”). Olivi adduce due passi dell’Apocalisse ai quali rinvieranno numerosi luoghi della Commedia : le coppe (“phialae”) auree in mano ai seniori di Ap 5, 8 e l’offerta sull’altare delle preghiere di Ap 8, 3. La prosa di Vita Nova 1.20 [iii 9] termina con la preghiera ai “famosi trovatori in quel tempo”, i “fedeli d’Amore … pregandoli che giudicassero la mia visione”, riassunta nel sonetto A ciascun’alma presa e gentil core.

Il secondo stadio dell’ascesa contemplativa è segnato dalla luce – “sub metaphora luminis ascendentis seu excrescentis usque ad summum” (Cn 6, 9). Le “mirae illuminationes” nell’“ascensus sponsae” vengono espresse con la luce del sole (“sicut sol”, in forma graduale: aurora, luna illuminata, sole); la sposa stessa viene definita “terribilis ut castrorum acies ordinata”, inciso con il quale sono compresi tutti i pianeti e le stelle illuminati da un’unica luce solare. La mente, per l’altezza delle cose viste e mirate, esce alienata fuor di sé (“prae nimietate admirationis visionum et apprehensionum stupendarum mentem totaliter suspendentium in res visas et miras et per quandam excessivam obstupefactionem ipsam alienantium a seipsa”).
Nel sonetto Oltre la spera che più larga gira (Vita Nova 30 [xli].10-13), oltre i pianeti e le stelle, il poeta “vede una donna che riceve onore, / e luce sì, che per lo suo splendore / lo peregrino spirito la mira” (se sessanta sono le “reginae”, “una” è detta la sposa in grado superlativo: Cn 6, 8). La mente, uscita di sé stessa nell’eccesso, al ritorno non ricorda più: “Vedela tal, che quando ’l mi ridice, / io no.llo ’ntendo”. Nella prosa si precisa l’ascesa contemplativa e si introduce l’immagine del sole: “dico come elli la vede tale, cioè in tale qualitate, che io no.llo posso intendere, cioè a dire che lo mio pensero sale nella qualità di costei in grado che lo mio intellecto nol può comprendere; con ciò sia cosa che lo nostro intellecto s’abbia a quelle benedecte anime sì come l’occhio debole al sole: e ciò dice lo Phylosofo nel secondo della Metafisica” (Vita Nova 30 [xli].6) [1].

Il terzo e ultimo grado dell’ascesa contemplativa segna il transito da questa vita all’altra (Cn 8, 5). L’“excessus mentis” diventa “ebrietas mentis”, dominata dal gusto d’amore, dolce e consolatore: “prae nimietate dulcoris et gaudii mentem inebriantis et nihil aliud sentire aut cogitare sinentis nisi solum dilectum et iucunditatem sui solacii ac tenerrimi et superdulcis amoris”.
Questi temi sono espressi nelle due quartine del sonetto Gentil pensero che parla di voi (Vita Nova 27 [xxxviii].8-9), riferite alla Donna Gentile: «e ragiona d’amor sì dolcemente … L’anima dice al cor: “Chi è costui, / che vene a consolar la nostra mente, / ed è la sua virtù tanto possente, / ch’altro penser non lascia star con noi?”», dove Chi è costui riprende Quae est ista di Cn 8, 5.
L’albero della contemplazione, dai rami espansi, ha prodotto i frutti. Nella mirabile visione, lo sposo viene visto nella sua piena maturità. Di lui è stato detto alla madre: “Benedetto il frutto del tuo grembo” (Luca 1, 42) («Et hic est sponsus in sua expressa et plena forma et maturitate inventus. Hic est enim de quo matri dictum est: “Et benedictus fructus ventris tui”»).
L’accostamento del “benedictus” alla “mirabilis visio” è al termine della Vita Nova, quando appare a Dante “una mirabile visione, nella quale io vidi cose che mi fecero proporre di non dire più di questa benedecta infino a tanto che io potessi più degnamente tractare di lei”. Il poeta si impegna per rendere il suo dire pienamente maturo: “E di venire a.cciò io studio quanto posso, sì com’ella sae, veracemente”. Una trattazione più “temperata e virile”, che non deroghi al libello ma anzi giovi a quell’opera “fervida e passionata … all’entrata de la mia gioventute …” (Convivio I, i, 16-17).

L’esclamazione del Cantico dei Cantici Quae est ista quae ascendit? è parodiata anche da Guido Cavalcanti in Chi è questa che vèn. Se Cavalcanti fu il destinatario della Vita Nova (19.10 [xxx.3]), come poté accogliere un’opera pregna, ben oltre la limitata parodia del suo sonetto, di temi salomonici e della loro esegesi francescana? La reminiscenza della risposta data dal “primo delli miei amici” al sonetto Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io (S’io fosse quelli che d’amor fu degno) traspare in controluce, in ben altro contesto spirituale, con ben altra guida, in Purg. XXI, 19-24.

[1] Il tema, topico nelle fiorentine “scuole delli religiosi” (cfr. DELL’OSO, pp. 10-16), concorda con il percorso contemplativo esposto nell’esegesi biblica.

Tab. III.1

Cn 3, 6, pp. 178, 180

[146] “Quae est ista quae ascendit?” (6a), scilicet tam singulariter et ineffabiliter. Haec autem admiratio est generaliter omnium attendentium sponsae ascensum saltem attendentium humiliter et devote. Admirantur autem specialiter tria, primo scilicet huius ascensus locum itinerarium, quia “per desertum” (6a), id est: per iter omnibus communiter incedentibus impervium et inexpertum et etiam per iter in quo sponsa deserit omne creatum etiam semetipsam;
[147] secundo huius ascensionis modum, quia ascendit “sicut virgula fumi” (6a). In “virgula” enim notatur quod est humillimus ac simplicissimus seu restrictus et recollectissimus et rectissimus et totus in sursum erectus. In ‘fumo’ vero notatur quod est resolutorius seu resolutus ab effectibus scilicet ad primas et causales rationes eorum et a sensibilibus ad intellectualia et ab his ad superintellectualia, resolutus etiam in subtilissimas amorum et devotionum exhalationes virtute ignis liquefactivi et resolutivi factas.
[148] Nota etiam quod est ecstaticus propter caliginem fumi quae idem significat quod caligo ignis Moysi in qua sola Deus vult videri. Unde Levitici decimo sexto praecipitur quod pontifex non intret in sancta sanctorum sine nebula et vapore incensi operiente oraculum, ne moriatur; “quia in nube” – inquit – “apparebo super oraculum” (Lv 16, 2).
[149] Tertio admirantur huius fumi sic ascendentis multiplicem et pretiosam materiam. Est enim “ex aromatibus” (6b) quae sunt multae fragrantiae et virtutis et facile resolubilia in fumum seu vaporem odoriferum. Sunt autem haec specialiter “myrrhae et thuris” (6b) et generaliter “universi pulveris pigmentarii” (6b), id est: ex omnibus aromaticis speciebus molitis et pulverizatis ex quibus pigmenta varia conficiuntur.
[150] Duo enim in hoc primo et principaliter requiruntur, scilicet amaritudo compunctionis et mortificationis et compassionis quae per ‘myrrham’ amaram et corpora per ipsam condita a corruptione praeservantem designatur, et devotio orationis quae per ‘thuris’ incensum designatur iuxta illud Apocalypsis quinto: “habentes phialas aureas plenas odoramentorum quae sunt orationes sanctorum” (Ap 5, 8); et capitulo octavo: “Habens thuribulum aureum, et data sunt illi incensa multa, ut daret de orationibus sanctorum” (Ap 8, 3) etc. Tertium vero omnes virtutes et earum partes generaliter aggregans est multitudo subtilissimarum meditationum et affectionum per ignem divini amoris concurrentium in idipsum. 

Cn 8, 5, pp. 304, 306, 308

[328] “Quae est ista” (5). Hic subditur tertia exclamatio admirativa ascensus sponsae quas Salomon signanter in fine priorum partium posuit (cfr. Cn 3, 6; 6, 9) ad innuendam distinctionem principalium partium huius libri et ad quandam plenam totalitatem et consummationem praescripti seu praecurrentis ascensus insinuandam. […]
[330] Notandum autem quod, sicut Richardus in Libro De Arca Moysi Mystica dicit, triplici ex causa vel modo ascenditur ad contemplationis excessum:
Primus est prae nimia exultatione non valente se intra se nec infra mensuram suorum communium limitum continere. Quae exultatio ex amoris ignea fervescentia mentis affectus incendente et resolvente et instar unguentorum ebullientium exiliri extra se faciente gignitur. Et ideo prima exclamatio superius facta describit sponsae ascensum sub typo fumi pigmentarii ex incensione ignea resoluti et sursum exhalantis et insilientis (cfr. Cn 3, 6). […]
[331] Amor igitur igneus et superfervidus est radix et stipes solidus et procerus atque ramosus contemplativi ascensus. Admirabilium vero illuminationum et visionum suspensio est eius effloritio radiosa dans ramis expansis et toti arbori mirabile venustatem et quasi regalem gloriam et coronam. Eius vero gaudiosa et superdulcis iubilatio et inebriatio est eius saporissimus et suavissimus ac deliciosissimus fructus. Et hic est sponsus in sua expressa et plena forma et maturitate inventus. Hic est enim de quo matri dictum est: “Et benedictus fructus ventris tui” (Lc 1, 42).

Vita Nova 1.12-20, 23 [iii 1-9, 12]

[12] Poi che fuoro passati tanti dì che a puncto erano compiuti li nove anni apresso l’apparimento soprascripto di questa gentilissima, nell’ultimo di questi dì avenne che questa mirabile donna apparve a me vestita di colore bianchissimo, in mezzo di due gentili donne, le quali erano di più lunga etade; e passando per una via, volse gli occhi verso quella parte ov’io era molto pauroso, e per la sua ineffabile cortesia, la quale è oggi meritata nel grande secolo, mi salutòe virtuosamente tanto, che mi parve allora vedere tutti li termini della beatitudine. [13] L’ora che lo suo dolcissimo salutare mi giunse, era fermamente nona di quel giorno. E però che quella fu la prima volta che le sue parole si mossero per venire alli miei orecchi, presi tanta dolcezza, che come inebriato mi partio dalle genti, e ricorso al solingo luogo d’una mia camera, puosimi a pensare di questa cortesissima. [14] E pensando di lei, mi sopragiunse uno soave sonno, nel quale m’apparve una maravigliosa visione. Che mi parea vedere nella mia camera una nebula di colore di fuoco, dentro alla quale io discernea una figura d’uno signore, di pauroso aspecto a chi la guardasse; e pareami con tanta letitia quanto a.ssé, che mirabile cosa era; e nelle sue parole dicea molte cose, le quali io non intendea se non poche, tra le quali io intendea queste: «Ego Dominus tuus». [15] Nelle sue braccia mi parea vedere una persona dormire nuda, salvo che involta mi parea in uno drappo sanguigno leggieramente; la quale io riguardando molto intentivamente, conobbi ch’era la donna della salute, la quale m’avea lo giorno dinanzi degnato di salutare. [16] E nell’una delle mani mi parea che questi tenesse una cosa la quale ardesse tutta; e pareami che mi dicesse queste parole: «Vide cor  tuum!». [17] E quando elli era stato alquanto, pareami che disvegliasse questa che dormia, e tanto si sforzava per suo ingegno, che le facea mangiare questa cosa che in mano li ardea, la quale ella mangiava dubitosamente. [18] Apresso ciò poco dimorava che la sua letitia si convertia in amarissimo pianto; e così piangendo si ricogliea questa donna nelle sue braccia, e con essa mi parea che si ne gisse verso lo cielo. Onde io sostenea sì grande angoscia, che lo mio deboletto sonno non poteo sostenere, anzi si ruppe e fui disvegliato. [19] E immantanente cominciai a pensare, e trovai che l’ora nella quale m’era questa visione apparita era stata la quarta della nocte, sì che appare manifestamente ch’ella fue la prima ora delle nove ultime ore della nocte. [20] E pensando io a.cciò che m’era apparuto, propuosi di farlo sentire a molti li quali erano famosi trovatori in quel tempo: e con ciò fosse cosa che io avesse già veduto per me medesimo l’arte del dire parole per rima, propuosi di fare uno sonetto, nel quale io salutasse tutti li fedeli d’Amore; e pregandoli che giudicassero la mia visione, scrissi a.lloro ciò che io avea nel mio sonno veduto. E cominciai allora questo sonetto, lo quale comincia A ciascun’alma presa.

   Allegro mi sembrava Amor tenendo            [23]
meo core in mano, e nelle braccia avea
madonna involta in un drappo dormendo.
   Poi la svegliava, e d’esto core ardendo
lei paventosa umilmente pascea.

Apresso gir lo ne vedea piangendo.

Cn 5, 6, pp. 228, 230

[225] Nota quod aliquando Deus mentem incipiens visitare ante consummationem visitationis repente abscedit; tum quia ex hoc desiderium cordis fortius accendit ac in altiora petenda altius suspendit et sublevat et tandem plenius id quod quaerit, obtinet quam obtineret; tum quia mens ex hoc aliquando advertit plenius gratiam et efficaciam visitationis inceptae quam, si perdurasset in ea. Cuius exemplum patet in duobus discipulis euntibus in Emmaus quibus Christus primo apparuit in specie peregrini, et tandem cum coeperunt ipsum cognoscere, subito avolavit ab eis. Ex quo plenius advertentes quid primo in eis fecerat, dixerunt: “Nonne cor nostrum ardens erat in nobis, dum loqueretur nobis in via et aperiret nobis scripturas?” (Lc 24, 31) Et hoc ipsum contingit hic sponsae, unde subdit:
[226] “Anima mea liquefacta est, ut dilectus locutus est” (cfr. 6c). Ecce quod quae tunc, dum sibi sponsus loqueretur, aperire distulit quasi dubitans, an esset ipse aut an esset sibi utile aperire, nunc certitudinaliter animadvertit se tunc ex locutione sponsi prae nimio amoris resolventis ardore liquefactam fuisse. Tum sicut in contemplationis primordiis expedit sponsi illapsus aliquantulum diutius immorari, ut mens in contemplationis amore et in contemplativo statu fundetur atque firmetur, sic postquam est multum sublimata, expedit huiusmodi illapsus aliquando detruncari, ut mens quantumcumque alta addiscat non praesumere, sed humiliari et ut in his quae caute egit, formidet aliquam culpam sibi absconsam inesse. Hoc autem ultimum in casu isto et consimilibus proprie habet locum, quia in eo quod sponsa non statim aperuit sponso, culpam potuit merito formidare; quia difficile est quod in talibus non interveniat aliqua culpa.


Tab. III.2

Vita Nova 30 [xli] 

Poi mandaro due donne gentili a me pregando che io mandassi loro di queste mie parole rimate. Onde io pensando la loro nobilitade, propuosi di mandare loro e di fare una cosa nuova, la quale io mandassi a.lloro con esse, acciò che più onorevolemente adimpiessi li loro prieghi. E dissi allora uno sonetto lo quale narra del mio stato, e manda’lo a.lloro col precedente sonetto accompagnato e con un altro che comincia Venite a ’ntendere. [2] Lo sonetto lo quale io feci allora comincia Oltre la spera, lo quale à in sé cinque parti. [3] Nella prima dico là ove va lo mio pensero, nominandolo per nome d’alcuno suo effecto. [4] Nella seconda dico perché va lassù, cioè chi lo fa così andare. [5] Nella terza dico quello che vide, cioè una donna onorata lassù. E chiamolo allora «spirito peregrino», acciò che spiritualmente va lassù e, sì come peregrino lo quale è fuori della sua patria, vi stae. [6] Nella quarta dico come elli la vede tale, cioè in tale qualitate, che io no.llo posso intendere, cioè a dire che lo mio pensero sale nella qualità di costei in grado che lo mio intellecto nol può comprendere; con ciò sia cosa che lo nostro intellecto s’abbia a quelle benedecte anime sì come l’occhio debole al sole: e ciò dice lo Phylosofo nel secondo della Metafisica. [7] Nella quinta dico che, avegna che io non possa intendere là ove lo pensero mi trae, cioè alla sua mirabile qualitade, almeno intendo questo, cioè che tutto è lo cotale pensare della mia donna, però ch’io sento lo suo nome spesso nel mio pensero: e nel fine di questa quinta parte dico: «donne mie care», a dare ad intendere che sono donne coloro a cui io parlo. [8] La seconda parte comincia quivi intelligenza nova; la terza quivi Quand’elli è giunto; la quarta quivi Vedela tale; la quinta quivi So io che parla. [9] Potrebbesi più sottilmente ancora dividere e più sottilmente fare intendere; ma puotesi passare con questa divisa, e però non mi trametto di più dividerlo.

Oltre la spera che più larga gira                [10]
passa ’l sospiro ch’esce del mio core:
intelligenza nova, che l’Amore
piangendo mette in lui, pur sù lo tira.
Quand’elli è giunto là ove disira,               [11]
vede una donna che riceve onore,
e luce sì, che per lo suo splendore
lo peregrino spirito la mira.
   Vedela tal, che quando ’l mi ridice,      [12]
io no.llo ’ntendo, sì parla sottile
al cor dolente, che lo fa parlare.
   So io che parla di quella gentile,             [13]
però che spesso ricorda Beatrice,
sì ch’io lo ’ntendo ben, donne mie care.

 Cn 6, 8, p. 256

[261] Sponsa autem triplici ex causa dicitur esse “una (8ab) quarum tertia soli competit ecclesiae generali quae non potest esse nisi “una”; quia quaecumque non continetur in ipsa sicut pars in suo uno toto aut sicut membrum in uno hominis corpore, non spectat ad Deum nec ad domesticam familiam eius. Duae vero causae reliquae non solum spectant ad ipsam, sed etiam ad quamlibet animam vel particularem ecclesiam in contemplativae simul et activae perfectionis culmine singulariter praeexcel-lentem. Quae quidem dicitur “una”, quia soli uni sponso unitissime vacat eligens optimam partem Mariae de qua dictum est: “Porro unum est necessarium” (Lc 10, 42).
[262] Dicitur etiam “una”, id est: singularis respectu gradus superlativi, quia scilicet sola respectu aliarum in superlativo gradu et statu existit; et ideo ad singularem et superlativum Dei nuptialem amorem est a Deo assumpta et praeelecta. […]

Cn 8, 5, pp. 304, 306, 308

[328] “Quae est ista” (5). Hic subditur tertia exclamatio admirativa ascensus sponsae quas Salomon signanter in fine priorum partium posuit (cfr. Cn 3, 6; 6, 9) ad innuendam distinctionem principalium partium huius libri et ad quandam plenam totalitatem et consummationem praescripti seu praecurrentis ascensus insinuandam. […]
[330] Notandum autem quod, sicut Richardus in Libro De Arca Moysi Mystica dicit [cfr. Richardus de Sancto Victore, De gratia contemplationis, V, 5; PL 196, 174 ss.], triplici ex causa vel modo ascenditur ad contemplationis excessum: […]
Secundus est prae nimietate admirationis visionum et apprehensionum stupendarum mentem totaliter suspendentium in res visas et miras et per quandam excessivam obstupefactionem ipsam alienantium a seipsa. Et hunc secundum modum exclamatio secunda expresse describit quae miras illuminationes et illuminationum processus admiratur in sponsae ascensu (cfr. Cn 6, 9). 

Cn 6, 9, pp. 256, 258, 260.

[263] “Quae est ista” (9a). Descripto trino ascensu sponsae spectante ad totam secundam partem principalem huius libri subditur hic exclamatio admirativa huius trini ascensus et specialiter tertii tamquam aliorum supremi iuxta quod et in fine primae partis principalis consimilem exclamationem subiecit. Sicut autem illic (cfr. Cn 3, 6) sub metaphora fumi aromatici recte et unite ascendentis in altum expressit illum sponsae ascensum, sic in hoc loco exprimit istum sub metaphora luminis ascendentis seu excrescentis usque ad summum. Ut scilicet primo sit sicut lux ‘aurorae’ (cfr. 9a) celeriter ascendentis et consurgentis super hemisphaerium nostrum, secundo sit sicut lux ‘lunae’ (cfr. 9b) plenae seu in lumine ascendentis usque ad plenilunium suum, tertio sit “sicut sol” (9b), et hic iuxta tropum sumptum ex luminaribus mundi non est dare maius neque aequale, nisi insimul omnia luminaria instar unius magni exercitus comprehendas, quam quidem comprehensionem subdit dicens quod est
[264] “terribilis ut castrorum acies ordinata” (9c). […]
[265] Nota etiam quod semper lucem ‘solis’ posuit, sed gradatim, quia lux ‘aurorae’ est lux ‘solis’ in aere nocturnis tamen tenebris permixta, lux vero ‘lunae’ est lux ‘solis’ lunae immissa. Si etiam per “castrorum acies” accipias solem cum universis planetis et stellis, adhuc solum lumen ‘solis’ ponis, si verum est, sicut verisimile est, omnes illuminari a sole. Per hoc igitur convenienter significantur gradati ascensus illuminationum sponsae, ut primum sit in cognitione sui, secundum in cognitione ecclesiae seu de ecclesia, tertium vero in Dei cognitione seu contemplatione, quartum vero in Dei et omnium universalissima et ordinatissima comprehensione. Vel ut primum sit in sui ascensus initio in quo adhuc aliquarum tentationum et ignorantiarum tenebris est permixta, semper tamen ab illis magis ac magis discedens, secundum vero ut sit in suo profectu, tertium vero et quartum in sua consummatione.


Tab. III.3

Cn 8, 5, pp. 304, 306, 308

[328] “Quae est ista” (5). Hic subditur tertia exclamatio admirativa ascensus sponsae quas Salomon signanter in fine priorum partium posuit (cfr. Cn 3, 6; 6, 9) ad innuendam distinctionem principalium partium huius libri et ad quandam plenam totalitatem et consummationem praescripti seu praecurrentis ascensus insinuandam. In hac vero tertia parte triplici ex causa non ponit hanc exclamationem in ultimo fine suo, in fine videlicet suae tertiae partis, sicut in duabus prioribus fecit. Prima est, quia ultimus ascensus sponsae qui est in ultimo vitae huius, non spectat ad hanc vitam nec ad contemplationem sibi possibilem, sed potius ad aeternam quae erit in alia vita. Et ideo liber iste potius finit in verbo sponsae significante recessum et desiderium recessus et transitus ab hac vita quam in verbo cuiuscumque admirantis contemplativos huius vitae ascensus.
[329] Secunda est, quia introducta Christi incarnatione et eius cum sponsa plena coniunctione non immerito debuit summus huius vitae contemplativus ascensus exclamatione et admiratione et iubilatione describi. Unde et hic non ponitur ascendere quasi sola, sed potius tamquam “innixa” (8, 5) super suum sponsum.
Tertia est, ut sequens pars quae est tertia pars huius tertiae partis, quandam per se totalitatem innueretur habere. Nam recte a Christi passione omnis fundationis et aedificationis cuiuscumque ecclesiae promeritiva inchoat ac deinde primariam fundationem seu initiationem et augmentum intermedium et finalem terminum ecclesiae generalis et quarumcumque specialium quasi in quadam brevi et epilogatoria summa describit.
[330] Notandum autem quod, sicut Richardus in Libro De Arca Moysi Mystica dicit [cfr. Richardus de Sancto Victore, De gratia contemplationis, V, 5; PL 196, 174 ss.], triplici ex causa vel modo ascenditur ad contemplationis excessum:
Primus est prae nimia exultatione non valente se intra se nec infra mensuram suorum communium limitum continere. Quae exultatio ex amoris ignea fervescentia mentis affectus incendente et resolvente et instar unguentorum ebullientium exiliri extra se faciente gignitur. Et ideo prima exclamatio superius facta describit sponsae ascensum sub typo fumi pigmentarii ex incensione ignea resoluti et sursum exhalantis et insilientis (cfr. Cn 3, 6).
Secundus est prae nimietate admirationis visionum et apprehensionum stupendarum mentem totaliter suspendentium in res visas et miras et per quandam excessivam obstupefactionem ipsam alienantium a seipsa. Et hunc secundum modum exclamatio secunda expresse describit quae miras illuminationes et illuminationum processus admiratur in sponsae ascensu (cfr. Cn 6, 9).
Tertius est prae nimietate dulcoris et gaudii mentem inebriantis et nihil aliud sentire aut cogitare sinentis nisi solum dilectum et iucunditatem sui solacii ac tenerrimi et superdulcis amoris. Et hoc proprie traditur in hac tertia exclamatione. Unde sponsa dicitur hic ascendere ut “deliciis” non solum plena, sed “affluens” et ut tota “innixa” seu familiari amplexu appodiata “super dilectum suum” (5).
[331] Amor igitur igneus et superfervidus est radix et stipes solidus et procerus atque ramosus contemplativi ascensus. Admirabilium vero illuminationum et visionum suspensio est eius effloritio radiosa dans ramis expansis et toti arbori mirabile venustatem et quasi regalem gloriam et coronam. Eius vero gaudiosa et superdulcis iubilatio et inebriatio est eius saporissimus et suavissimus ac deliciosissimus fructus. Et hic est sponsus in sua expressa et plena forma et maturitate inventus. Hic est enim de quo matri dictum est: “Et benedictus fructus ventris tui” (Lc 1, 42).

Vita Nova 27 [xxxviii].8-9

Gentil pensero che parla di voi                                [8]
sen vene a dimorar meco sovente,
e ragiona d’amor sì dolcemente,
che face consentir lo cor in lui.
L’anima dice al cor: «Chi è costui,
che vene a consolar la nostra mente,

ed è la sua virtù tanto possente,
ch’altro penser non lascia star con noi?»    [9] 

Cn 8, 5 [328] “Quae est ista” […]

[330] Tertius est prae nimietate dulcoris et gaudii mentem inebriantis et nihil aliud sentire aut cogitare sinentis nisi solum dilectum et iucun-ditatem sui solacii ac tenerrimi et superdulcis amo-ris.

Guido Cavalcanti, IV [ed. G. CONTINI, Poeti del Duecento, II/2, Dolce stil novo, Milano-Napoli 1995, p. 495]

Chi è questa che vèn, ch’ogn’om la mira,
che fa tremar di chiaritate l’âre
e mena seco Amor, sì che parlare
null’ omo pote, ma ciascun sospira?

O Deo, che sembra quando li occhi gira,
dical’ Amor, ch’i’ nol savria contare:
cotanto d’umiltà donna mi pare,
ch’ogn’altra ver’ di lei i’ la chiam’ ira.

Non si poria contar la sua piagenza,
ch’a le’ s’inchin’ ogni gentil vertute,
e la beltate per sua dea la mostra.

Non fu sì alta già la mente nostra
e non si pose n noi tanta salute,
che propiamente n’aviàn canoscenza.

Vita Nova 31 [xlii]

[1] Apresso questo sonetto apparve a me una mirabile visione, nella quale io vidi cose che mi fecero proporre di non dire più di questa benedecta infino a tanto che io potessi più degnamente tractare di lei. [2] E di venire a. cciò io studio quanto posso, sì com’ella sae, veracemente. Sì che, se piacere sarà di Colui a cui tutte le cose vivono, che la mia vita duri per alquanti anni, io spero di dire di lei quello che mai non fue detto d’alcuna. [3] E poi piaccia a colui che è sire della cortesia che la mia anima sen possa gire a vedere la gloria della sua donna, cioè di quella benedecta Beatrice, la quale gloriosamente mira nella faccia di Colui «qui est per omnia secula benedictus».

Vita Nova 15 [xxiv].1-2

Apresso questa vana ymaginatione, avenne uno die che sedendo io pensoso in alcuna parte, e io mi senti’ cominciare un terremuoto nel cuore, così come se io fossi stato presente a questa donna. [2] Allora dico che mi giunse una ymaginatione d’Amore: che mi parve vederlo venire da quella parte ove la mia donna stava, e pareami che lietamente mi dicesse nel cuor mio: «Pensa di benedicere lo dì che io ti presi, però che tu lo dêi fare». E certo me parea avere lo cuore sì lieto, che me non parea che fosse lo mio cuore, per la sua nuova conditione.

[Cn 8, 5 (331)] Amor igitur igneus et superfervidus est radix et stipes solidus et procerus atque ramosus contemplativi ascensus. Admirabilium vero illuminationum et visionum suspensio est eius effloritio radiosa dans ramis expansis et toti arbori mirabile venustatem et quasi regalem gloriam et coronam. Eius vero gaudiosa et superdulcis iubilatio et inebriatio est eius saporissimus et suavissimus ac deliciosissimus fructus. Et hic est sponsus in sua expressa et plena forma et maturitate inventus. Hic est enim de quo matri dictum est: “Et benedictus fructus ventris tui” (Lc 1, 42).

Inf. VIII, 43-45

Lo collo poi con le braccia mi cinse;
basciommi ’l volto e disse: “Alma sdegnosa,
benedetta colei che n te s’incinse!” 

Purg. XXX, 19-21

Tutti dicean: ‘Benedictus qui venis!’,
e fior gittando e di sopra e dintorno,
Manibus, oh, date lilïa plenis!’.

 

4. “Apparve prima la gloriosa donna della mia mente”

Effetto degli occhi micidiali e feri oppure piani, soavi e dolci della donna della salute o dall’angelica figura, il contrasto tra la paura che fa tremare lo spirito e venir meno la vita e il successivo riconfortarsi, tra il martirio e la pietà, è tema frequentissimo negli stilnovisti.
L’apparizione dell’angelo a Zaccaria in Luca 1, 11ss. provoca nel sacerdote una condizione psicologica messa a fuoco dall’Olivi nella Lectura super Lucam. Zaccaria è ‘turbato’, cioè atterrito, viene preso da un timore improvviso, rapido e impetuoso, che opprime le forze, assale potente dall’alto e sottomette al proprio dominio. A una visione così subitanea, insolita e troppo trascendente, dall’aspetto terribile e quasi intollerabile, si spaventano i sensi e la fantasia, per natura infermi e pusillanimi. Lo Spirito, che si manifesta nella specie assunta, agita occultamente, come vuole, il cervello, i nervi, le viscere e tutti i sensi dell’uomo, scuote e opprime quanto e come gli piace. Così egli imprime in modo più forte l’esperienza vera della sua apparizione, umilia il cuore di chi vede e umiliandolo lo dispone alle cose alte e divine: l’uomo alienato da sé stesso per il terrore e privo di forze sente dapprima la forza e la severità della virtù superna; poi, per i conforti e le consolazioni che seguono, sente meglio la dolcezza, la pietà, la clemenza e la soavità. A Zaccaria viene detto pertanto di non temere (Lc 1, 13), perché la sua preghiera, di avere il Salvatore, è stata esaudita e la moglie Elisabetta gli darà un figlio che egli chiamerà Giovanni. L’angelo che appare a Zaccaria si palesa come Gabriele (Lc 1, 19), che viene interpretato “fortitudo Dei”, e dice al vecchio sacerdote: “Ed ecco, sarai muto e non potrai parlare fino al giorno in cui queste cose avverranno, perché non hai creduto alle mie parole, le quali si adempiranno a loro tempo” (Lc 1, 20). Il diventare muto di Zaccaria è figura del tacere della vecchia legge, carnale e letterale, fino al momento in cui, con la venuta di Cristo, viene aperto l’intelletto spirituale [1].
L’effetto dell’apparizione di Gabriele a Zaccaria è il medesimo provocato in Dante dall’apparizione dell’“angiola giovanissima” Beatrice: lo spirito della vita, che dimora nel cuore, comincia a tremare fortemente, il che appare “nelli menomi polsi orribilmente”, e tremando dice “Ecce Deus fortior me, qui veniens dominabitur michi!” (Vita Nova 1.5 [ii 4]). Da allora Amore signoreggia a suo piacere l’anima del poeta, a lui sposata (1.8 [ii 7]) [2].
Tremare e ammutolire – “ch’ogne lingua deven tremando muta” – sono effetti dell’apparizione di Beatrice, donna della salute, in Tanto gentile e tanto onesta pare (Vita Nova 17 [xxvi].5).
Si potrebbe risalire fino alla sorgente delle “nove rime”. Di essa scrive il Gorni:

Ma la lingua non si scioglie e l’ispirazione tarda: la nuova poesia non è figlia della volontà, che pure la prepara, e neppure di quell’inesauribile ragionar di sé stesso e dei propri dolori. Il verso risolutivo, cominciamento del nuovo stile, è un dono travolgente e improvviso, forte come il fiato divino della grazia: la mia lingua parlò quasi come per sé stessa mossa e disse:Donne ch’avete intellecto d’Amore” […] Non l’angelo dell’Annunciazione reca quelle decisive parole, né altra voce dall’alto; eppure la reazione del poeta è quella stessa di Maria al cospetto di Gabriele, nel racconto del vangelo di Luca: Queste parole io ripuosi nella mente con grande letitia, pensando di prenderle per mio cominciamento […] [3].

Il riferimento non è tanto all’Annunciazione, quanto alla facoltà di parlare data al muto e tremefatto Zaccaria, nell’imporre al figlio il nome Giovanni, dopo averlo scritto su una tavoletta (Luca 1, 63-64). Il nome viene dettato interiormente, segno di lode a Dio e nello stesso tempo di apertura all’intelligenza spirituale di molti Giudei. Non è casuale che sul versetto successivo (Lc 1, 65: “et super omnia montana Iudeae divulgabantur omnia verba haec”), come sottolineato dal Gorni, sia ricalcata l’espressione “Apresso che questa canzone fue alquanto divulgata tra le genti” (Vita Nova 11 [xx].1) [4].
La reazione evocata dal Gorni, la stessa di Maria in cospetto di Gabriele, opera altrove, in Dante muto di stupore nel contemplare, nell’Empireo, i gradi del “sicuro e gaudïoso regno”. I versi di Par. XXXI, 37-39, con la triplice antitesi – “ïo, che al divino da l’umano, / a l’etterno dal tempo era venuto, / e di Fiorenza in popol giusto e sano” -, conducono ad altra opera dell’Olivi, la prima quaestio de domina (de consensu virginali pro Annuntiatione). Ivi il francescano spiega su un piano psicologico il passaggio della Vergine dallo stato precedente la maternità al nuovo stato incominciato con l’assenso dato alla divina concezione. Come nel venire a un alto stato religioso, o nell’ascendere al culmine della contemplazione dalla vita attiva, o nel passare all’altra vita da questo secolo, un fedele prova un’ardua trascendenza, un estraniarsi e un’inusitata novità che pervadono di stupore ogni sentimento, e per questo si sente come morire al suo stato precedente, tanto più Maria, nell’ora dell’assenso, provò quasi un ineffabile morire al suo stato precedente passando a uno stato sovramondano e a una regione inusitata, nella quale doveva venire assorbita in modo radicale e irrevocabile dagli eccelsi abissi degli arcani divini. Di tutti i sentimenti provati dalla Vergine e fatti propri dal poeta, che perviene a ricrearsi “nel tempio del suo voto riguardando”, solo il morire non è espresso in modo esplicito. Anche lo straniarsi è reso col vagheggiare Arcade da parte della madre Elice, entrambi mutati da Giunone e trasformati nel superiore stato di costellazioni (le due Orse). Nella descrizione del “ciel ch’è pura luce”, si insinua dunque il motivo del consenso dato dalla Vergine all’opera della Redenzione, così come presentato dall’Olivi.
A Gabriele il quale, nell’alto preconio di Maria, riferisce umilmente ogni lode a Dio, è da riportare anche il tono del parlare di Salomone a Par. XIV, 34-37: “E io udi’ ne la luce più dia / del minor cerchio una voce modesta, / forse qual fu da l’angelo a Maria, / risponder …” [5].
Se Dante aveva presente il commento a Luca di Olivi nel redigere la prosa di Vita Nova 1.5-8, che narra dell’apparizione di Beatrice, si comprende perché abbia scartato la canzone E’ m’incresce di me, concludendo invece il paragrafo con il sonetto A ciascun’alma, che meglio si inseriva nelle maglie dell’armatura esegetica. Nella canzone Dante afferma di aver ‘profeticamente’ provato, nel giorno della nascita di Beatrice, gli effetti degli “occhi micidiali” della donna che gli sarebbe poi apparsa nella sua bellezza: la paura, la luce ch’atterra, il tremore simile a morte [6]. Anche Zaccaria provò dapprima questi sentimenti all’apparizione dell’angelo, ma fu poi confortato in modo dolce e soave. Il salutare di Beatrice fa sì “ch’ogne lingua deven tremando muta”, ma poi “… dà per gli occhi una dolcezza al core”.

[1] L’imposizione di tacere e l’autorizzazione a parlare hanno rilievo nella Commedia, secondo quanto viene detto nell’Apocalisse a Giovanni, dapprima di non riferire la visione (Ap 10, 4) e poi di divulgarla (Ap 22, 10); al vescovo di Filadelfia, la sesta chiesa d’Asia, è data la porta aperta al parlare (Ap 3, 8).

[2] Il contrasto tra l’arditezza della visione, che genera in chi vede tremore e mutazione interiore, e il successivo riconfortarsi è, nella Lectura super Apocalipsim, proprio dell’esegesi di Ap 1, 16-17 (prima visione: decima, undecima e dodicesima prerogativa di Cristo sommo pastore). Dello “splendor faciei” di Cristo (Ap 1, 16-17), che si trasforma nel divino riso di Beatrice, e del rapporto tra umano e divino nella donna, si è già diffusamente trattato.

[3] Vita Nova, p. 257.

[4] Cfr. Ibid., p. 106, nt. a divulgata tra le genti (divulgata è un hapax in Dante).

[5] Sull’equivoca figura di Salomone cfr. quanto scritto altrove.

[6] SANTAGATA, pp. 146-147.

 

Tab. IV.1

PETRI IOHANNIS OLIVI Lectura super Lucam [ = LSL] I, 11-13, 19-20, 25, pp. 175-177, 180-181, 184

<11> “Apparuit autem illi angelus Domini stans a dextris altaris incensi” […]
<12> Quante autem magnificentie et efficacie hec apparitio fuerit, per eius effectum patuit, unde subdit: “Et Zacharias turbatus est”, id est ualde territus, “uidens”, id est ex uisione angeli. Quantus autem hic timor fuerit, subditur: et timor irruit super eum”; in quo significatur quod fuit subitus et rapidus seu impetuosus, et uirium eius oppressiuus, et tamquam ab alto potenter et predominanter in ipsum insiliens sibique subiciens. Cooperatur autem materialiter et dispositiue ad talem timorem nostre fantasie et sensualitatis naturalis infirmitas et pusillanimitas, que ad uisa subita et insolita et nimium transcendentia faciliter expauescit, et maxime quando sub terribili et quasi intolerabili aspectu sibi se ingerunt. Effectiue uero et predominanter prouenit a uoluntaria potestate spiritus in assumpta specie apparentis, qui occulte prout uult cerebrum ac neruos et medullas et totam hominis sensualitatem agitat et concutit et opprimit, quantum et prout sibi placet. Quod quidem ualet ad sui superexcellentiam et ad sue apparitionis ueritatem fortius et experimentalius imprimendam, et etiam ad cor uidentis humiliandum, et humiliando ad diuina altius dispo-nendum, et ut primo per terrorem alienetur homo a se ipso et concidat robur carnis et sentiatur fortitudo et seueritas superne uirtutis, ac demum per subsequentes confortationes et consolationes melius sentiatur eius dulcedo et pietas et cle-mentia et suauitas.
<13> “Ne timeas, Zacharia”: tam sensuali uerbo quam actu occulto assistente ipsi uerbo solent prius perterritos con-fortare, et ideo utrumque est hic supponendum. “Quoniam exaudita est oratio tua”, qua scilicet generaliter pro salute sua et totius populi orans petebat Saluatorem, ac per consequens et illa que Deus ad eius introductionem fieri ordinauerat, inter que utique erat eius precursor; uel eius “oratio”, qua explicite et in speciali sepe a Deo petierat filium ad Dei cultum seruandum et propagandum ydoneum: ex quo erat enim in officio coniugali, non esset sanctus, nisi in tali actu intendisset et optasset fructum prolis, et nisi super hoc Deum sepe orasset. “Pariet tibi”: hoc dicitur, tum ut ostendat quod non ex alio sed ex eo concipiet; tum ut ostendat quod proles genita potius est in ditione patris quam matris. “Et uocabis”: hoc dicitur tam predictorie quam preceptorie. “Nomen eius Iohannem”: nomen specificat, tum ad maiorem certitudinem de futura prole ei exprimendam et imprimendam; tum ad innuendum quod hic filius ex sola gratia Dei dabitur, et gratia singulari replebitur, et status gratie in ipso et eius predicatione tamquam in immediato Christi precursore initiabitur. Nam Iohannes interpretatur in quo est gratia. […]
<19-20> “Ego sum Gabriel”. Quia Zacharias suo dubio angelum sibi apparentem quodammodo paruipenderat et eius parui-pensione dubitauerat, idcirco ad hoc dubium fortius repellen-dum quadrupliciter se ipsum magnificat. Primo scilicet ex proprio nomine, dicens: “Ego sum Gabriel”, qui interpretatur fortitudo Dei, et quem in septima et octaua et nona uisione Danielis Zacharias nouerat nominatum et magnificatum; quasi dicat: ego sum tantus et tante uirtutis, quod mereor dici fortitudo Dei, et sum ille qui mutationem regni Persarum in Grecos, et mala populi tui sub Antiocho tandem facta, et Christum post septuaginta septenas a reedificatione Ierusalem uenturum Danieli exposui et ostendi, et quem sic mea uisione prostraui, ut diceret: “Domine mi, in uisione tua solute sunt compages mee, et nichil in me remansit uirium” (Dn 10, 16). […]
<25> […] Sicut etiam sacerdotium Christi imposuit silentium legali, secundum hoc quod erat carnale et dubium circa Christi aduentum, sic in huius figuram conceptus precursoris fecit obmutescere Zachariam; sed in eius partu, factus spiritualis, pandit spiritualia eius et Christi, sicut et spiritualis intellectus legis et sacerdotii sui per Christum apertus testimonium per-hibet Christo.

DANTE ALIGHIERI, Rime 20 (LXVII)

E’ m’incresce di me sì duramente vv. 57-84

Lo giorno che costei nel mondo venne,
secondo che si trova
nel libro de la mente che vien meno,
la mia persona pargola sostenne
una passïon nova,
tal ch’io rimasi di paura pieno;
ch’a tutte mie virtù fu posto un freno
subitamente, sì ch’io caddi in terra,
per una luce che nel cuor percosse:
e se ’l libro non erra,
lo spirito maggior tremò sì forte
che parve ben che morte
per lui in questo mondo giunta fosse:
ma or ne incresce a quei che questo mosse.

Quando m’apparve poi la gran biltate
che sì mi fa dolere,
donne gentili a cu’ i’ ho parlato,
quella virtù che ha più nobilitate,
mirando nel piacere,
s’accorse ben che ’l suo male era nato;
e conobbe ’l disio ch’era creato
per lo mirare intento ch’ella fece;
sì che piangendo disse a l’altre poi:
«Qui giugnerà, in vece
d’una ch’io vidi, la bella figura,
che già mi fa paura;
che sarà donna sopra tutte noi,
tosto che fia piacer de li occhi suoi».

Vita Nova 1.2-10, 13 [ii 1-9; iii 2]

[2] Nove fiate già apresso lo mio nasci-mento era tornato lo cielo della luce quasi a uno medesimo puncto quanto alla sua propria giratione, quando alli miei occhi apparve prima la gloriosa donna della mia mente, la quale fu chiamata da molti Beatrice, li quali non sapeano che si chiamare. [3] Ella era già in questa vita stata tanto, che nel suo tempo lo Cielo Stellato era mosso verso la parte d’oriente delle dodici parti l’una d’un grado, sì che quasi dal principio del suo anno nono apparve a me, e io la vidi quasi dalla fine del mio nono. [4] Apparve vestita di nobi-lissimo colore umile e onesto sanguigno, cinta e ornata alla guisa che alla sua giovanissima etade si convenia. [5] In quel puncto dico veracemente che lo spirito della vita, lo quale dimora nella secre-tissima camera del cuore, cominciò a tremare sì fortemente, che apparia nelli menomi polsi orribilmente; e tremando disse queste parole: «Ecce Deus fortior  me, qui veniens dominabitur michi!». [6] In quel puncto lo spirito animale, lo quale dimora nell’alta camera nella quale tutti li spiriti sensitivi portano le loro perce-ptioni, si cominciò a maravigliare molto, e parlando spetialmente alli spiriti del viso, disse queste parole: «Apparuit iam beati-tudo vestra!». [7] In quel puncto lo spirito naturale, lo quale dimora in quella parte ove si ministra lo nutrimento nostro, cominciò a piangere, e piangendo disse queste parole: «Heu, miser, quia frequen-ter impeditus ero deinceps!». [8] D’allora innanzi, dico che Amore segnoreggiò la mia anima, la quale fu sì tosto a.llui disponsata, e cominciò a prendere sopra me tanta sicurtade e tanta signoria per la virtù che li dava la mia ymaginatione, che me convenia fare tutti li suoi piaceri compiutamente. [9] Elli mi comandava molte volte che io cercassi per vedere questa angiola giovanissima; onde io nella mia pueritia molte volte l’andai cercando, e vedeala di sì nobili e laudabili portamenti, che certo di lei si potea dire quella parola del poeta Homero: «Ella non parea figliuola d’uomo mortale, ma di Dio». [10] E avegna che la sua ymagine, la quale continuatamente meco stava, fosse baldanza d’Amore a signoreggiare me, tuttavia era di sì nobilissima virtù, che nulla volta sofferse che Amore mi reggesse sanza lo fedele consiglio della Ragione in quelle cose là dove cotale consiglio fosse utile a udire. […] [13] L’ora che lo suo dolcissimo salutare mi giunse, era ferma-mente nona di quel giorno. E però che quella fu la prima volta che le sue parole si mossero per venire alli miei orecchi, presi tanta dolcezza, che come inebriato mi partio dalle genti, e ricorso al solingo luogo d’una mia camera, puosimi a pen-sare di questa cortesissima.

Vita Nova 17 [xxvi].5

Tanto gentile e tanto onesta pare
la donna mia quand’ella altrui saluta,
ch’ogne lingua deven tremando muta
e gli occhi no l’ardiscon di guardare.

LSL I, 63-66, pp. 232-234

<63> “Et postulans pugillarem”, id est tabellulam uel calamum siue pennam: utrumque enim dicitur pugillaris, quia pugillo scriptoris tenetur. “Iohannes est nomen eius”: non dixit erit, sed “est”, quasi dicat secundum Ambrosium: «Non ei nos nomen imponimus, quia iam a Deo nomen accepit». “Et mirati sunt uniuersi”, “mirati” scilicet tam de insolita singularitate impo-sitionis nominis, quam de hoc quod pater mutus et surdus cum matre circa nomen pueri concordauit. Secundum autem Chryso-stomum, quia per supernaturale miraculum gratie potius quam priori uirtute nature fuerat eis datus, idcirco congruum fuit eum non uocari aliquo nomine sui generis naturalis, sed potius nomine gratiam designante.
<64> “Apertum est autem ilico os eius”, ideo statim, tum ut merito et future magnificentie infantis hoc ascriberetur, ac si statim post nomen uocale, a patre per scripturam acceptum, daret sibi uim nomen impositum et Dei laudem promerendi ore et uoce; tum ad insinuandum quod sicut propter incredulitatem uim loquendi amiserat, sic propter fidem, quam iam in conscriptione nominis aperte expresserat, loquelam recuperas-set; tum ad mistice figurandum quod propheticus intellectus de Christo in sacerdotali lege conceptus, et per Iohannem desi-gnatus, debebat in suo partu aperire ora plurium Iudeorum primo dubitantium et tandem credentium.
<65-66> “Et factus est timor”, scilicet concussiui stuporis et uehementis admirationis, uel “timor” grandis reuerentie in Deum et in talem infantem; “factus”, inquam, “super omnes uicinos eorum et super omnia montana Iudee”*: ideo specialiter dicit “super montana Iudee”, quia, sicut supra dictum fuit, urbs in qua Zacharias manebat, erat in montanis Iudee circa Ierusalem, et per hoc uult monstrare quod maioribus Iudeorum in Ierusalem et circa commorantium hec mirabilia innotuerunt. Ne autem putetur huiusmodi gentium admiratio fuisse uolatilis et impressionis superficialis et cito transeuntis, subditur: “Et omnes qui audierant posuerunt”, id est fixerunt et pondere grandis estimationis impresserunt, “in corde suo”, scilicet uerba de infante audita, “dicentes”, scilicet corde et ore: “Quis putas, puer iste erit?” Quasi dicant: quam stupendus et ineffabilis “erit”, cum creuerit, qui iam tante uirtutis in suo infantili ortu apparet! Quod autem causam haberent admirandi et dicendi, astruit Euangelista subdens: “Etenim manus”, id est singularis uirtus et potentia, “Domini erat”, scilicet per effectus euidentes, “cum illo”, tamquam scilicet ei assistens. Deus enim eius conceptum et ortum mirifice magnificauit non solum propter ipsummet Iohannem, sed potius in preconium Christi per ipsum testificandi et manifestandi, et ad tollendam omnem rationem excusationis incredulitatis Iudeorum in Christum.

* Vulg.: “et super omnia montana Iudee divulgabantur omnia verba hec”.

LSL I, 28, p. 196

<28> Et aduerte quod in hoc trino preconio semper tota laus refertur in Deum: nam non dicit eam “plenam” uirtute, sed “gratia”, id est donis gratiosis et gratificis sibi non ex debito nec ex suis meritis, sed ex sola Dei gratia gratis datis. Non etiam dicit: tu tua uirtute ascendisti ad Deum, sed potius quod “Domi-nus” condescensiue est “tecum”. Quod enim de modo conde-scensiuo loquatur, aperte insinuat, quia uocat eum Dominum. Dominus autem non est cum suo famulo uel ancilla tamquam cum superiori uel principali aut coequali, sed tamquam cum suo inferiori. Non etiam dicit: tu es omnibus bonis pre ceteris fecunda et accumulata; sed dicit: tu es “benedicta”, scilicet a Domino Deo tuo, cuius benedicere est bona efficere et bonis replere, iuxta illud Genesis primo: “Benedixit illis, dicens: Crescite et multiplicamini” (Gn 1, 28). Si enim angelus in huiusmodi laudibus Virginis prefatos in Deum respectus non obseruasset, potius censendus fuerat dyabolicus adulator quam diuinus et angelicus consolator.

Vita Nova 10.11-13 [xviii 9, xix 1-2]

[11] E però propuosi di prendere per matera del mio parlare sempre mai quello che fosse loda di questa gentilissima; e pensando molto a.cciò, pareami avere impresa troppo alta matera quanto a me, sì che non ardia di cominciare. E così dimorai alquanti dì, con disiderio di dire e con paura di cominciare. [12] Avenne poi che passando per uno camino lungo lo quale sen gia uno rivo chiaro molto, a me giunse tanta volontà di dire, che io cominciai a pensare lo modo che io tenessi; e pensai che parlare di lei non si convenia che io facesse, se io non parlassi a donne in seconda persona, e non a ogni donna, ma solamente a coloro che sono gentili e che non sono pure femine. [13] Allora dico che la mia lingua parlò quasi come per sé stessa mossa e disse: «Donne ch’avete intellecto d’amore».

Vita Nova 11 [xx].1-2

Apresso che questa canzone fue alquanto divulgata tra le genti, con ciò fosse cosa che alcuno amico l’udisse, volontade lo mosse a pregare me che io li dovessi dire che è Amore, avendo forse per l’udite parole speranza di me oltre che degna. [2] Onde io, pensando che apresso di cotale tractato bello era tractare alquanto d’Amore, e pensando che l’amico era da servire, propuosi di dire parole nelle quali io tractassi d’Amore; e allora dissi questo sonetto, lo quale comincia Amore e ’l cor gentile.

Par. XIV, 34-37

E io udi’ ne la luce più dia
del minor cerchio una voce modesta,
forse qual fu da l’angelo a Maria,

risponder …………………………………..


5. “Incipit Vita Nova”

■ Dante aveva a disposizione i testi della grande tradizione di interpretazione spirituale del Cantico dei Cantici avviata con Origene: da Bernardo di Clairvaux ai Vittorini  – Ugo, Riccardo e Tommaso Gallo. Tradizione nella quale Olivi si inserisce per sua esplicita ammissione [1]. Ma se il passo di Gregorio Magno, sopra esaminato, sulle tentazioni finali dell’Anticristo è peculiare dell’Olivi (in un’opera dove, in modo inconsueto, il frate non utilizza in modo sistematico le categorie dei sette stati della Chiesa), e se su di esso Dante ha tessuto la trama della Donna Gentile (o Pietosa) della Vita Nova, come poi, ritrovatolo nella Lectura super Apocalipsim, vi avrebbe tessuta la ‘gentile’ Francesca, allora non è inverosimile che l’intero commento oliviano al Cantico dei Cantici abbia svolto un ruolo traente e di apporto dei temi di quella tradizione. In modo non dissimile, come dimostra il confronto tra i testi, la Lectura super Apocalipsim è stata filtro per il poeta di non pochi autori, primi fra tutti Riccardo di San Vittore [2] e Gioacchino da Fiore. Di conseguenza, acquistano significato confronti come quelli qui proposti.
Fin dal principio, la Vita Nova è pregna di elementi semantici che recano al “libello” temi salomonici:

Si igitur quaeras libri huius materiam, ipsa est nuptialis amor Dei et animae seu universalis ecclesiae sibi desponsatae [Cn prologus] – Amore segnoreggiò la mia anima, la quale fu sì tosto a.llui disponsata … [Vita Nova 1.8 (ii.7)].

apparent eius propagines crescere in gemmas ac deinde in flores [Cn prologus] … “Flores apparuerunt in terra nostra” [Cn 2, 12] … in mente sponsae vel in ecclesia incipiunt apparere novi “flores” – apparve prima la gloriosa donna della mia mente … sì che quasi dal principio del suo anno nono apparve a me … Apparve vestita di nobilissimo colore … [Vita Nova 1.2-4 (ii.1-3)].

[Cn 2, 11] appropinquatio solis … divinae visitationis solaris adventus … sic pro tempore Christi Apostolus clamat: “Nox praecessit, dies autem appropinquavit” (Rom 13, 12) et: “Ecce nunc tempus acceptabile, ecce nunc dies salutis” (2 Cor 6, 2) – nell’ultimo di questi avenne che questa mirabile donna apparve a me … mi salutòe virtuosamente tanto … E quando ella fosse alquanto propinqua al salutare … [Vita Nova 1.12 (iii.1), 5.5 (xi.2)].

Motivi che, come è noto [3], si ritroveranno nell’Epistola V, indirizzata (dopo il 1° settembre 1310) ai Signori d’Italia affinché gli “incole Latiales” sorgano incontro al proprio sposo Arrigo VII. Non sono neppure estranei al primo canto del poema, nella salita del “dilettoso monte” piena di primaverili speranze prima della perdita dell’“altezza” (Inf. I, 37-45).

[Cn 1, 1] “Quia meliora sunt ubera tua vino”, quasi dicat: praedictam tui unionem sic desidero, quia ineffabilis exuberantia suavitatum a te manat … [Cn 7, 12] “Ibi dabo tibi ubera mea” id est: ibi in filiis tuis lac ipsorum in te et tui in ipsis nutritivum libere propinabo. Tunc enim animarum rectores libenter salutarem doctrinam eis infundunt, quando ipsos debite proficere et Dei gratiam et providentiam eis abunde cooperari et assistere vident. Vel: “Ibi dabo tibi ubera mea”, id est: tunc cum hoc videro totam dulcedinem cogitatuum et affectuum pectoris mei, in te prae gaudio et devotione cum gratiarum actione effundam … – e per la sua ineffabile cortesia, la quale è oggi meritata nel grande secolo, mi salutòe virtuosamente tanto, che mi parve allora vedere tutti li termini della beatitudine. L’ora che lo suo dolcissimo salutare mi giunse, era fermamente nona di quel giorno [Vita Nova 1.12-13 (iii.1-2)].

Se Dante ha tessuto il “libello” sul panno dell’Expositio oliviana, allora vita nova, oltre al senso paolino, cioè della vita secondo Cristo illuminata dalla grazia di Beatrice [4], significa anche ‘Amore nuovo’:

[Cn prologus, p. 94] Si igitur quaeras libri huius materiam, ipsa est nuptialis amor Dei et animae seu universalis ecclesiae sibi desponsatae, et hic amor per vitem optime designatur. Amor enim vita quaedam est; unde Hugo De Arrha Sponsae: “Scio” – inquit – “anima mea, quia vita tua amor est” [5]. Et Augustinus nono De Trinitate dicit quod “amor est vita duo quaedam copulans aut copulare appetens, scilicet amantem et amatum” [6]. Et Christus Lucae decimo loquendo de mandato divini amoris subiunxit: “Hoc fac et vives” (Lc 10, 28).

[Cn prologus] Amor enim vita quaedam est … [Cn 2, 11-12] Veris ergo temperies et serenitas de se grata, sed propter praeeuntem pressuram hiemis et propter suam novitatem gratiosior … in mente sponsae vel in ecclesia incipiunt apparere novi  “flores” – Incipit Vita Nova. [Vita Nova 1.1].

I motivi dei fiori (i concetti radiosi, sinceri e graziosi della contemplazione divina sui quali la sposa, languida di desiderio e sospirante, vuole giacere e appoggiare il capo e il corpo: Cn 2, 5), dei fiori nuovi che appaiono sulla terra e del nuovo sospiro della tortora (Cn 2, 12), dell’avvento angelico paragonato a un cerbiatto “quia venit sub modo et affectu supramodum humili ac simplici et tenello” (Cn 2, 8-9), del mettersi al nostro interno per sottili aditi, percorrono come cellule musicali due ballate: Per una ghirlandetta, che è la prima ballata di Dante (Rime, 10 [lvi]), e I’ mi son pargoletta bella e nova (34 [lxxxvii]).
“Flos”, nota Olivi a Cn 2, 1 (“Ego flos campi et lilium convallium”), traduce un termine ebraico che significa “viola”, designante l’umiltà. Ecco che gli stessi temi sopra indicati (con l’aggiunta della speranza di beni futuri indotta dai fiori) si mostrano in controluce nella ballata Deh, Vïoletta, che in ombra d’Amore (Rime, 12 [lviii]). Ancora una volta il tessuto esegetico congiunge due donne, la Fioretta della prima ballata e, appunto, Violetta. Reminiscenze e ulteriori variazioni su Cn 2, 3 (“Sub umbra illius”) si ritrovano nella ‘petrosa’ invernale sestina Al poco giorno e al gran cerchio d’ombra (Rime, 44 [ci]) [7].

■ Con esclusivo riferimento a Cn 2, 11-12, a luoghi cioè che sembrano fortemente segnare l’inizio della Vita Nova, si è operato un duplice confronto del testo dell’Olivi (altri confronti sono ovviamente possibili). Da una parte con le Postille al Cantico di Remigio de’ Girolami [8], il domenicano che insegnava a Santa Maria Novella allorché Dante andò, dopo la morte di Beatrice, alle “scuole delli religiosi e alle disputazioni delli filosofanti” (Convivio, II, xii, 7): in questo caso, i due testi sono assai distanti. Dall’altra con i Sermones di san Bernardo, che mostrano quanta tradizione sia passata in Olivi. Ma in Bernardo non c’è la dimensione escatologica, di prova e di sofferenza, data dal francescano all’esegesi del libro salomonico, della quale è esempio il passo dei Moralia di Gregorio Magno su Giobbe 40, 12 utilizzato a Cn 8, 2, assente nel “doctor marianus”, almeno nei sermoni pervenuti [9]. La citazione paolina “Ecce nunc tempus acceptabile, ecce nunc dies salutis” (2 Cor 6, 2), è in Bernardo legata al “tempus putationis” [10], cioè al momento idoneo in cui l’anima o le chiese, che sono come vigne intellettuali, si spogliano dei vizi, piuttosto che a una fase nuova e inusitata della Chiesa. Salomone prefigura, secondo Olivi, il primo avvento di Cristo e, anche se non è esplicitamente detto, il secondo avvento nello Spirito proprio del sesto stato della Chiesa (il tempo di Olivi e di Dante): “Et sic de similibus temporibus consimilia intuere”. Passarono le oscurità al tempo dell’antico re, sono passate quelle della Sinagoga, passeranno anche quelle moderne. Il versetto “Vox turturis audita est in terra nostra” (Cn 2, 12c) è per il francescano chiamata al combattimento per l’apertura del sesto sigillo, come dimostra la citazione nella lettera spirituale (18 maggio 1295) ai tre figli di Carlo II d’Angiò prigionieri dal 1288 degli Aragonesi per scambio col padre [11]. Dei quattro figli di Carlo II – Carlo Martello, Ludovico, Roberto e Raimondo Berengario – il primo fu subito sostituito nella prigionia dal quartogenito; venne a Firenze nel marzo 1294 dove incontrò Dante con il quale nacque grande amicizia (Par. VIII, 34-37, 55-57); morì prematuramente nell’agosto 1295.

La quantità dei temi esegetici, la loro idoneità ad essere rivissuti da un singolo individuo e appropriati ad altri nella parodia [12], la contiguità nello spazio testuale, la peculiarità per cui l’Olivi non può essere confuso con altri autori insinuano il serio e legittimo dubbio che l’Expositio in Canticum Canticorum del frate di Sérignan sia stata il “panno” per la “gonna” del “libello” giovanile come, più tardi, la Lectura super Apocalipsim lo sarebbe stata per il “poema sacro”. Un lavorio parodico ancora acerbo, commisto con altre fonti (non escluse altre opere dello stesso Olivi), volutamente criptico, e tuttavia segnante il decisivo passaggio dalla spersonalizzata e astorica esperienza stilnovistica [13] al suo inserimento in un’organica storia, universale (perché tale è la storia di Cristo e della Chiesa) e insieme dell’individuo. La storia del nuovo amore per Beatrice, imitatrice di Cristo, e delle prove e battaglie interiori sostenute dall’anima del poeta ‘disponsata’ ad Amore, sarebbe diventata la storia del viaggio verso di lei, del nuovo visionario Giovanni che avrebbe predicato ancora al mondo le cose, che s’affrettano, necessarie alla salute.

[1] Cfr. SCHLAGETER, p. 37. Sul rapporto di Dante con questa tradizione cfr. PAOLA NASTI, Favole d’amore e “saver profondo”. La tradizione salomonica in Dante, Ravenna 2007; I morsi della carità. Dante e la Bibbia, Ravenna 2024, pp. 57-95 e passim.

[2] Cfr. A. FORNI, L’aquila fissa nel sole. Un confronto tra Riccardo di San Vittore, Pietro di Giovanni Olivi e Dante, in Scritti per Isa. Raccolta di studi offerti a Isa Lori Sanfilippo, a cura di A. Mazzon, Roma, 2008 (Nuovi studi storici, 76), pp. 431-473; Lectura super Apocalipsim e Commedia. Le norme del rispondersi, 2010, cap. 2.

[3] Cfr. NASTI, Favole d’amore, pp. 137-138. LINO PERTILE ha sostenuto che “la tradizione del Cantico ha una posizione di prima grandezza, che illumina di luce inedita la paradossale continuità del pensiero del poeta dalle dolcezze dello stilnovo alle asprezze dell’impegno politico-religioso” (La puttana e il gigante. Dal “Cantico dei Cantici” al Paradiso Terrestre di Dante, Ravenna 1998, p. 9).

[4] Vita Nova, p. 3 nt. a Incipit Vita Nova.

[5] HUGO DE SANCTO VICTORE, Soliloquium de arrha animae [PL 176, 951; ed. K. Müller, Bonn 1913 (Kleine Texte für theologische und philologische Übungen 123), 3]; SCHLAGETER, p. 94 e nt. 4.

[6] AUGUSTINUS, De Trinitate, lib. 8, c. 10, n. 14 (PL 42, 960; CChr. SL 50, 290); ibid., p. 94 e nt. 5.

[7] Cfr. NASTI, Favole d’amore, pp. 87-89.

[8] Edite on line da EMILIO PANELLA.

[9] Le differenze con Bernardo si possono ritrovare anche in altri luoghi, tenendo conto che il cisterciense non procede, come l’Olivi, ad un commento sistematico. Altrettanto profonde sono le differenze con Tommaso Gallo, autore pur carissimo all’Olivi per l’impostazione dionisiana della sua esegesi del Cantico (cfr. SCHLAGETER, p. 36), anch’egli privo della prospettiva storico-agonale della Chiesa su cui insiste il francescano.

[10] Su questo punto cfr. quanto scrive l’Olivi (SCHLAGETER, nri 115-116, p. 164): «Quartum (tempus) est resecationis superfluorum utilis et fecunda opportunitas; unde subdit: “Tempus putationis advenit” (Cn 2, 12b). Amputatio enim omnium superfluorum etiam connaturalium est aliquando nociva et sterilis. Quando ergo sponsa tam in se quam in generali ecclesia experimentaliter sentit fructuosam opportunitatem amputationum perfectarum venisse, tunc attingit ad omnia tam a se quam ab aliis plenius amputanda. Quintum est duplex exemplaritas vitae contemplativae illis temporibus inchoatae quarum prima est solitariae castitatis et devotionis clamorosum suspirium, et pro hoc dicit: “Vox turturis”, avis scilicet castae et solitudinum deserta amantis cuius vox seu cantus est gemitus, “audita est in terra nostra” (12c). Quando enim in quibusdam modo novo et inusitato incipit hoc solemniter apparere, tunc est quintum inductivum». Si può forse ritrovare questa esegesi a Vita Nova 5.10-12 [xii.3-5], allorché il “Signore della nobiltade” (“uno giovane vestito di bianchissime vestimenta”) «pareami che sospirando mi chiamasse, e diceami queste parole: “Fili mi, tempus est ut pretermictantur simulacra nostra” … e riguardandolo pareami che piangesse pietosamente … E quelli mi dicea in parole volgari: “Non dimandare più che utile ti sia» (cfr. anche supra).

[11] “Eya ergo milites generosi, accingite vos ad pugnam; tempus enim putationis advenit voxque turturis suspirantis et gemitum pro cantu habentis audita est in terra nostra” (ed. F. EHRLE, in “Archiv für Litteratur- und Kirchengeschichte des Mittelalters”, 3 [1887], p. 537).

[12] Quanto si dice delle membra della sposa e dello sposo del Cantico dei Cantici può essere applicato a chiunque; cfr. SCHLAGETER, p. 330, nr. 368: “Rursus sciendum quod membra sponsae et sponsi praeter modum supra expositum aut aliquem alterum sibi consimilem, possunt aptari ad diversas personas diversorum statuum vel officiorum aut diversarum praerogativarum secundum aliquas speciales virtutes aut etiam ad diversa officia eiusdem personae, iuxta quod Paulus fuit apostolus et propheta et doctor et martyr et activus et contemplativus, et iuxta quod aliquis habet simul omnes ordines, est enim diaconus, sacerdos et episcopus; et sic de aliis”.

[13] Cfr. GIANFRANCO CONTINI, Poeti del Duecento, II/2, Dolce stil novo, Milano-Napoli 1995, p. 443: “L’ispirazione è oggettiva e assoluta, e perciò, se il contenuto normale della lirica stilnovistica è il fatto amoroso minuziosamente analizzato e poi ipostatizzato nei suoi elementi, quest’analisi non va già riferita all’individuo empirico, ma, al di là di questa sua avventura iniziale, a un esemplare universale di uomo: a un individuo, anch’esso, oggettivo e assoluto […] S’intende che, in questo clima di paradiso terrestre, anteriore alla storia, se dal lato di Adamo esistono alcuni uomini in carne ed ossa, la minor clientela femminile ha il solo cómpito di sottolineare Eva, e vive per metafora di quegli amici attorno al poeta. Resta che, come costui, il personaggio che parla in prima persona, è l’‘individuo assoluto’, anche la donna perde ogni attributo storico, ogni possibilità di autentica pluralità. E se si estende man mano il campo d’osservazione, si constata che l’intera esperienza dello stilnovista è spersonalizzata, si trasferisce in un ordine universale: persa qualsiasi memoria delle occasioni, cristallizza immediatamente”.

Tab. V.1

PETRI IOHANNIS OLIVI Expositio in Canticum Canticorum [ = Cn]

Cn, prologus, pp. 92, 94

[1] In speculo brevi et apto contueri volentibus continentiam Cantici Canticorum occurrit somnium praepositi pincernarum quod habetur Genesis quadragesimo, quando ait: “Videbam coram me vitem in qua erant tres propagines, crescere paulatim in gemmas, et post flores uvas maturescere, calicemque Pharaonis in manu mea: tuli ergo uvas, et expressi in calicem quem tenebam, et tradidi poculum Pharaoni” (Gn 40, 9-11).
[2] Considero enim libri huius materiam et mate-rialem formam, et est quasi vitis habens tres propagines. Considero mysticum eius processum et spiritualem formam, et apparent eius propagines crescere in gemmas ac deinde in flores et sic tandem in uvas maturas. Considero eius finalem fructum et utilitatis suae excellentiam, et est ex uvis expressis in calicem Pharaonis tradere poculum Pharaoni. Considero auctorem principalem, et est verus Ioseph visionis huius interpretator. Considero subprinci-palem, et est Salomon quasi pincerna visionis huius inspector.
[3] Si igitur quaeras libri huius materiam, ipsa est nuptialis amor Dei et animae seu universalis ecclesiae sibi desponsatae, et hic amor per vitem optime designatur. Amor enim vita quaedam est; unde Hugo De Arrha Sponsae: «Scio – inquit – anima mea, quia vita tua amor est»*. Et Augustinus nono De Trinitate dicit quod «amor est vita duo quaedam copulans aut copulare appetens, scilicet amantem et amatum»**. Et Christus Lucae decimo loquendo de mandato divini amoris subiunxit: “Hoc fac et vives” (Lc 10, 28).

Hugo de Sancto Victore, Soliloquium de arrha animae [PL 176, 951; ed. K. Müller, Bonn 1913  (Kleine Texte für theologische und philologische Übungen 123), 3].

** Augustinus, De Trinitate, lib. 8, c. 10, n. 14 (PL 42, 960; CCSL 50, 290).

Cn 2, 11-12, pp. 162, 164

[112] Secundo nota quod ex vernalis temporis proprietate septem inducentia ad accessum sibi proponit (cfr. 11-13), et possunt mystice ad internas sponsae proprietates aptari.
Quia sicut appropinquatio solis ad regionem nostram in vere praedictas proprietates adducit, sic et divinae visitationis solaris adventus consimiles in spiritum proprietates inducit ex quibus sponsa habet merito festinare et currere ad sponsi amplexum. Possunt etiam aptari ad exteriorem statum ecclesiae illius temporis, quia tunc proprie formatur haec sponsa. […] [113] In primis autem duobus proponitur impedimentorum retrahentium amotio. Algor enim hiemalis et procella pluvialis et utriusque horrenda obscuritas solet sponsas retrahere, ne foras domum propriam ire velint. Veris ergo temperies et serenitas de se grata, sed propter praeeuntem pressuram hiemis et propter suam novitatem gratiosior, sponsam debet inducere ad spatiandum cum sponso extra arctitudinem domicilii sui, et ideo dicit: “Iam enim hiems transiit” (11a) etc. Sicut enim sub primo tempore regni Salomonis tempestates et obscuritates priorum temporum a Synagoga recesserant, ut tunc quietius et iucundius sapientiae divinae vacaret, sic pro tempore Christi Apostolus clamat: “Nox prae-cessit, dies autem appropinquavit” (Rom 13, 12) et: “Ecce nunc tempus acceptabile, ecce nunc dies salutis” (II Cor 6, 2). Nam algor et tenebra caeremoniarum carnalium Synagogae et idolatriae gentium longe abscesserant ab ecclesia Christi. Et sic de similibus temporibus consimilia intuere.

Tertium autem est praeludiorum puritatis et contem-plationis visibilis iucunditas, unde subdit:
[114] “Flores apparuerunt in terra nostra” (12a). “Flores” pratorum et arborum sunt quoddam primum iucundum praeludium futurorum fructuum et aes-tatis. Quando ergo in mente sponsae vel in ecclesia incipiunt apparere noviflores” puritatis, tunc est hoc tertium inductivum; quia hoc dat pleniorem spem maiorum et cito futurorum bonorum.

Vita Nova 1.1-4, 8, 12-13 [i 1, ii 1-3. 7, iii 1-2]

In quella parte del libro della mia memoria dinanzi alla quale poco si potrebbe leggere, si trova una rubrica la quale dice Incipit  Vita Nova. Sotto la quale rubrica io trovo scripte le parole le quali è mio intendimento d’asemplare in questo libello, e se non tutte, almeno la loro sententia. [2] Nove fiate già apresso lo mio nascimento era tornato lo cielo della luce quasi a uno medesimo puncto quanto alla sua propria giratione, quando alli miei occhi apparve prima la gloriosa donna della mia mente, la quale fu chiamata da molti Beatrice, li quali non sapeano che si chiamare. [3] Ella era già in questa vita stata tanto, che nel suo tempo lo Cielo Stellato era mosso verso la parte d’oriente delle dodici parti l’una d’un grado, sì che quasi dal principio del suo anno nono apparve a me, e io la vidi quasi dalla fine del mio nono. [4] Apparve vestita di nobilissimo colore umile e onesto sanguigno, cinta e ornata alla guisa che alla sua giovanissima etade si convenia. […]
[8] D’allora innanzi, dico che Amore segnoreggiò la mia anima, la quale fu sì tosto a.llui disponsata, e cominciò a prendere sopra me tanta sicurtade e tanta signoria per la virtù che li dava la mia ymaginatione, che me convenia fare tutti li suoi piaceri compiutamente. […]
[12] Poi che fuoro passati tanti dì che apuncto erano compiuti li nove anni apresso l’apparimento soprascripto di questa gentilissima, nell’ultimo di questi avenne che questa mirabile donna apparve a me vestita di colore bianchissimo, in mezzo di due gentili donne, le quali erano di più lunga etade; e passando per una via, volse gli occhi verso quella parte ov’io era molto pauroso, e per la sua ineffabile cortesia, la quale è oggi meritata nel grande secolo, mi salutòe virtuosamente tanto, che mi parve allora vedere tutti li termini della beatitudine. [13] L’ora che lo suo dolcissimo salutare mi giunse, era fermamente nona di quel giorno. E però che quella fu la prima volta che le sue parole si mossero per venire alli miei orecchi, presi tanta dolcezza, che come inebriato mi partio dalle genti, e ricorso al solingo luogo d’una mia camera, puosimi a pensare di questa cortesissima.

Vita Nova 5.2, 5 [x 2, xi 2]

[2] E per questa cagione, cioè di questa soverchievole boce che parea che mi infamasse vitiosamente, quella gentilissima, la quale fu distruggitrice di tutti li vitii e regina delle vertudi, passando per alcuna parte, mi negò lo suo dolcissimo salutare, nello quale stava tutta la mia beatitudine. […]
[5] E quando ella fosse alquanto propinqua al salutare, uno spirito d’amore, distruggendo tutti gli altri spiriti sensitivi, pingea fuori li deboletti spiriti del viso, e dicea loro: «Andate ad onorare la donna vostra», ed elli si rimanea nel luogo loro. E chi avesse voluto conoscere Amore, fare lo potea mirando lo tremare degli occhi miei.

Cn 1, 1, pp. 114, 116

[11] Quid autem eam ad hoc alliciat, subdit: “Quia meliora sunt ubera tua vino” (1b), quasi dicat: prae-dictam tui unionem sic desidero, quia ineffabilis exuberantia suavitatum a te manat.
[12] Ubera enim sunt in pectore et circa cor, aspectu decora, tactu mollia et suavia et lac dulce ubertim propinantia. Unde per ubera sponsi possunt gene-raliter significari omnes divinae perfectiones a quibus manant stillicidia suavitatum in corda electorum, vel duplex virtus fecunditatis a quibus manant duae personae, scilicet sapientia et amor, vel praedestinatio gratiae et gloriae vel duo Testamenta. […]

Cn 7, 12d-13b, p. 292

[312] Deinde sponsa tria sponso promittit, scilicet lac suorum ‘uberum’ (12d) et odorem suarum ‘mandra-gorarum’ (13a) seu suas ‘mandragoras’ valde odori-feras et ‘omnia poma sua’ (13b). Pro primo dicit: “Ibi dabo tibi ubera mea” (12d) id est: ibi in filiis tuis lac ipsorum in te et tui in ipsis nutritivum libere propinabo. Tunc enim animarum rectores libenter salutarem doctrinam eis infundunt, quando ipsos debite proficere et Dei gratiam et providentiam eis abunde cooperari et assistere vident. Vel: “Ibi dabo tibi ubera mea” (12c), id est: tunc cum hoc videro totam dulcedinem cogitatuum et affectuum pectoris mei, in te prae gaudio et devotione cum gratiarum actione effundam.


Tab. V.2

Cn 2, 5, p. 152

[94] Nota autem quod tunc amor incipit superexcedere, quando totam mentem elanguescere facit, ita quod prae nimietate desiderii seu suspirii et languoris seipsam sustinere non valet. In hunc ergo gradum sponsa sublevata subdit:
[95] “Fulcite me floribus, stipate me malis”, id est: pomorum ramis vel fructibus, “quia amore langueo”. Per “flores” intelligit radiosos ac sinceros et gratiosos conceptus divinae contemplationis in quibus sponsa tamquam sponsi amore languens vult tota iacere et caput et corpus appodiare. Et cum hoc vult undique stipari seu circumcingi vernantibus ramis seu saporosis fructibus virtutum et operum sponsi. Petit autem hoc a sanctis angelis vel modo vehementer desiderantium qui quasi ab omnibus petunt, quod cum languenti desiderio quaerunt. […]

Cn 2, 8-9.11-12, pp. 158, 162, 164

[105] Pro primo nota, quod alta et vehemens ac repentina divinae visitationis seu illapsus irruitio ingerit se menti ut valde sonoram iuxta illud Actuum secundo: “Et factus est repente de caelo sonus tamquam advenientis spiritus vehementis” (Ac 2, 2). Et hoc significat sponsa, cum ait: “Vox dilecti mei” (8a). […] Quia vero ad nos moveri et descendere magis est proprium angelorum et quia eorum descensus est nobis comprehensibilior quam Dei descensus, ideo declarat istum per illum subdens:
[106] “Similis est dilectus meus capreae” (9a), id est: hierarchiae angelicae quae tota salit ad nos sicut mater ad prolem […], “hinnuloque”, id est: tenero pullo “cervorum”. Similem dicit eum “capreae”, quia venit affectu materno, “hinnulo” vero, quia venit sub modo et affectu supramodum humili ac simplici et tenello.
[107] Pro secundo nota quod licet Deus semper nostra interiora prospiciat, non tamen menti semper se ingerit ut prospicientem. Et sicut quando se ingerit ut intra nos habitantem eius interior prospectus non generat erubescentiam, sed fiduciam et gratiosum amorem, sic quando se ingerit ut deforis et tamen ut de vicino non quasi per communem ianuam, sed per subtiliores aditus se subtiliter ac circumspecte et sagaciter nostra intima prospicientem tunc timorem incutit pariter et pudorem. Pro quanto tamen sentitur sponsus ad hoc moveri ex zelativo amore aut etiam ex intentione subintrandi seu contuendi et alloquendi familiariter et secrete, incitat nihilominus ad amorem. […]
[112-114] Secundo nota quod ex vernalis temporis proprietate septem inducentia ad accessum sibi proponit (cfr. 11-13), et possunt mystice ad internas sponsae proprietates aptari. […] Tertium autem est praeludiorum puritatis et contemplationis visibilis iucunditas, unde subdit: “Flores apparuerunt in terra nostra” (12a). “Flores” pratorum et arborum sunt quoddam primum iucundum praeludium futurorum fructuum et aestatis. Quando ergo in mente sponsae vel in ecclesia incipiunt apparere noviflores” puritatis, tunc est hoc tertium inductivum; quia hoc dat pleniorem spem maiorum et cito futurorum bonorum. […]
[116] Quintum est duplex exemplaritas vitae contemplativae illis temporibus inchoatae quarum prima est solitariae castitatis et devotionis clamorosum suspirium, et pro hoc dicit: “Vox turturis”, avis scilicet castae et solitudinum deserta amantis cuius vox seu cantus est gemitus, “audita est in terra nostra” (12c). Quando enim in quibusdam modo novo et inusitato incipit hoc solemniter apparere, tunc est quintum inductivum.

Rime 10 (lvi)

Per una ghirlandetta
ch’io vidi, mi farà

sospirare ogni fiore.

I’ vidi a voi, donna, portare
ghirlandetta di fior gentile,
e sovr’a lei vidi volare
un angiolel d’amore umile;
e ’n suo cantar sottile
dicea: «Chi mi vedrà
lauderà ’l mio signore».

Se io sarò là dove sia
Fioretta mia bella a sentire,
allor dirò la donna mia
che port’in testa i miei sospire.
Ma per crescer disire
mïa donna verrà
coronata da Amore.

Le parolette mie novelle,
che di fiori  fatto han ballata,
per leggiadria ci hanno tolt’elle
una vesta ch’altrui fu data:
però siate pregata,
qual uom la canterà,
che li facciate onore.

Rime 34 (lxxxvii)

«I’ mi son pargoletta bella e nova,
che son venuta per mostrare altrui
de le bellezze del loco ond’io fui.

I’ fui del cielo, e tornerovvi ancora
per dar de la mia luce altrui diletto;
e chi mi vede e non se ne innamora
d’amor non averà mai intelletto,
ché non mi fu in piacer alcun disdetto
quando Natura mi chiese a Colui
che volle, donne, accompagnarmi a vui.

Ciascuna stella ne li occhi mi piove
del lume suo e de la sua vertute;
le mie bellezze sono al mondo nove,
però che di là su mi son venute:
le quai non posson esser canosciute
se non da canoscenza d’omo in cui
Amor si metta per piacer altrui».

Queste parole si leggon nel viso
d’un’angioletta che ci è apparita;
e io, che per veder lei mirai fiso,
ne sono a rischio di perder la vita:
però ch’io ricevetti tal ferita
da un ch’io vidi dentro a li occhi sui,
ch’i’ vo piangendo e non m’acchetai pui.


Tab. V.3

Cn 2, 1.3-5, pp. 150, 152

[89] “Ego flos campi et lilium convallium” (1) […] Secundum quosdam, ubi nos habemus “flos”, est in hebraeo nomen significans ‘violam’ quae est singu-laris flos camporum sive pratorum. Et tunc com-mendat se de gratiositate humilitatis in ‘viola’ et puritatis in ‘lilio’, sic tamen quod humilitas iuncta est pulchrae latitudini et aequalitati et viriditati campo-rum et puritas humilitati convallium. […]
[92] Ostenso igitur quale in cubiculo habuerunt colloquium, ostendit sponsa postmodum qualem ex hoc consecuta sit divini dulcoris et amoris gustum dicens: “Sub umbra illius”, scilicet mali seu pomi, “quem desideraveram, sedi et fructus eius dulcis gutturi meo” (3cd). Sub duplici metaphora significat se consecutam sponsi singularem gustum, primo sub specie cibi, secundo sub specie potus; quia sponsus exhibet se ut cibum solidum et ut potum delicatum. In quolibet autem designat sponsi super se immen-sitatem et contemperativam et refrigerativam ac quietativam virtutem; quia sicut se habet ad hoc “umbra” pulchrae arboris, sic et “cella” (4a) sive cellarium vini. […]
[94] Nota autem quod tunc amor incipit super-excedere, quando totam mentem elanguescere facit, ita quod prae nimietate desiderii seu suspirii et languoris seipsam sustinere non valet. In hunc ergo gradum sponsa sublevata subdit:
[95] “Fulcite me floribus, stipate me malis”, id est: pomorum ramis vel fructibus, “quia amore langueo” (5). Per “flores” intelligit radiosos ac sinceros et gratiosos conceptus divinae contemplationis in qui-bus sponsa tamquam sponsi amore languens vult tota iacere et caput et corpus appodiare. Et cum hoc vult undique stipari seu circumcingi vernantibus ramis seu saporosis fructibus virtutum et operum sponsi. Petit autem hoc a sanctis angelis vel modo vehe-menter desiderantium qui quasi ab omnibus petunt, quod cum languenti desiderio quaerunt. […]

Cn 2, 8-9.11-12, pp. 158, 162

[105] Pro primo nota, quod alta et vehemens ac repentina divinae visitationis seu illapsus irruitio ingerit se menti ut valde sonoram iuxta illud Actuum secundo: “Et factus est repente de caelo sonus tamquam advenientis spiritus vehementis” (Ac 2, 2). Et hoc significat sponsa, cum ait: “Vox dilecti mei” (8a). […]
[107] Pro secundo nota quo licet Deus semper nostra interiora prospiciat, non tamen menti semper se ingerit ut prospicientem. Et sicut quando se ingerit ut intra nos habitantem eius interior prospectus non generat erubescentiam, sed fiduciam et gratiosum amorem, sic quando se ingerit ut deforis et tamen ut de vicino non quasi per communem ianuam, sed per subtiliores aditus se subtiliter ac circumspecte et sagaciter nostra intima prospicientem tunc timorem incutit pariter et pudorem. Pro quanto tamen sentitur sponsus ad hoc moveri ex zelativo amore aut etiam ex intentione subintrandi seu contuendi et alloquendi familiariter et secrete, incitat nihilominus ad amorem. […]
[112] Secundo nota quod ex vernalis temporis proprietate septem inducentia ad accessum sibi pro-ponit (cfr. 11-13), et possunt mystice ad internas sponsae proprietates aptari. […]
[113-114] Tertium autem est praeludiorum puritatis et contemplationis visibilis iucunditas, unde subdit: “Flores apparuerunt in terra nostra” (12a). “Flores” pratorum et arborum sunt quoddam primum iucun-dum praeludium futurorum fructuum et aestatis. Quando ergo in mente sponsae vel in ecclesia incipiunt apparere novi flores puritatis, tunc est hoc tertium inductivum; quia hoc dat pleniorem spem maiorum et cito futurorum bonorum.

Rime 12 (lviii)

Deh, Vïoletta, che in ombra d’Amore
ne gli occhi miei sí subito apparisti,
aggi pietà del cor che tu feristi,
che spera in te e disïando more.

Tu, Vïoletta, in forma più che umana,
foco mettesti dentro in la mia mente
col tuo piacer ch’io vidi;

poi con atto di spirito cocente
creasti speme, che in parte mi sana
là dove tu mi ridi.
Deh, non guardare perché a lei mi fidi,
ma drizza li occhi al gran disio che m’arde,
ché mille donne già per esser tarde
sentiron pena de l’altrui dolore.

Rime 44 (ci), 1-18

Al poco giorno e al gran cerchio d’ombra
son giunto, lasso, ed al bianchir de’colli,
quando si perde lo color ne l’erba:
e ’l mio disio però non cangia il verde,
sì è barbato ne la dura petra
che parla e sente come fosse donna.

Similemente questa nova donna
si sta gelata come neve a l’ombra:
ché non la move, se non come petra,
il dolce tempo che riscalda i colli,
e che li fa tornar di bianco in verde
perché li copre di fioretti e d’erba.

Quand’ella ha in testa una ghirlanda d’erba,
trae de la mente nostra ogn’altra donna:
perché si mischia il crespo giallo e ’l verde
sì bel, ch’Amor lí viene a stare a l’ombra,
che m’ha serrato intra piccioli colli
più forte assai che la calcina petra.

 

Tab. V.4

Remigio dei Girolami OP († 1319), Postille super Cantica Canticorum (ante 1315, Firenze, Laur., Conv. soppr. 516, ff. 221r-266v) ed. E. Panella, http://www.e-theca.net/emiliopanella/remigio3/canti23.htm

Circa secundum facit duo secundum duas rationes quas assignat, quia primo assignat unam rationem per exclusionem impedimentorum et secundo assignat aliam per allegationem iuvamentorum, ibi, flores [2, 12]. […] Vult ergo dicere quantum ad fundamentum (?) methaphore: Veni mecum spatiari ad recreationem preteriti langoris tui et non tardes quia modo tempus non est molestum ex frigore vel luto, quod posset cito contingere, sed est amenum omnibus sensibus scilicet visui et tactui, ut homo libere possit transire per vineas putatas – non enim est tempus putandi eas quando florent -; et auditui quia turtur annu<n>tiat initium veris, secundum Glosam; et gustui propter spem futuri cibi, et olfactui. Quasi dicat: ‘Est tempus pulcrum et liberum et canorum et fructiferum et odoriferum, sicut est tempus vernum’.
Ecclesia vero a quiete contemplationis excitatur ad regendum (vel ?) predicandum idest ad exercitium regiminis vel predicationis, et dicitur ei quod properet propter periculum mortis et corporalis et spiritualis ex brevitate temporis et antiquatione criminis, quod non posset ita de facili expiari. Vocatur autem sic quia predicatores et prelati debent esse amici per caritatem, iuxta illud I Cor. 13[, 1] «Si linguis hominis loquar et angelorum, caritatem autem non habuero, factus sum velut es sonans aut cymbalum tinniens»; et Io. ultimo [21, 15-17] «Symon Iohannis, diligis me plus hiis? etc., pasce oves meas». Secundo debent esse columbini per simplicitatem vel simplicem intentionem, iuxta illud Mt. 10[, 16] «Estote simplices sicut columbe». Tertio debent esse formosi per morum (?) honestatem, iuxta illud Ysa. 52[, 7] «Quam pulcri super montes pedes annuntiantis et predicantis». Dicitur autem ipsi veni quia predicatoribus debetur specialis corona in gloria, iuxta illud Apostoli, II Thim. 4[, 8] «In reliquo reposita est michi corona iustitie». Per hyemem vero, secundum Glosam, intelligitur «congelatio infidelitatis»; per ymber vero «tempestas persecutionis». Glosa: «Ego a mortuis resurgens tranquillitatem reddidi». Tali enim tempore non est predicandum sed potius fugiendum, iuxta illud Mt. 10[, 23] «Si vos persecuti fuerint in una civitate, fugite in aliam».
Flores idest virtuosi de novo conversi apparuerunt in terra nostra [2, 12] idest in ecclesia, qui scilicet possunt aliis convertendis dari in exemplum, ut dicit Glosa. Et ad<venit> tempus putationis scilicet facte idest exterminatio vane religionis in vinea ecclesie, vel putationis faciende scilicet baptizationem peccatorum ut fructificent vinee.
Vox turturis [2, 12b] idest Christi, qui tempore verno incarnatus est et quietem quodammodo intermisit quam habebat in sinu Patris, ut dicit Glosa. Vel turturis idest Spiritus sancti gemere facientis, scilicet in Penthecoste. Et sicut dicit Glosa, quando apparet uni Spiritus sanctus significatur in turture, sicut apparuit Moysi; quando ad notitiam multitudinis sua apparitio pervenit, per columbam assumitur sicut circa Iordanem. Turtur enim est animal solitarium sed columba est consortii hominum amativa. Vel turtur idest apostoli casti contemplativi etc. […]
Quantum vero ad animam supponatur quod aliquis contemplativus sit in aliqua civitate vel huiusmodi loco, et tunc dicitur ipsi veni [2, 10b] scilicet mecum quia sine Christo non esset fructus, iuxta illud I Cor. 15[, 10] «Non autem ego sed gratia Dei mecum». Per hyemem vero intelligatur indevotio populi, per ymbrem habundantia predictorum; ibi non est predicandum sed potius silendum, iuxta illud Eccli. 32[, 6] «Ubi auditus non est, non effundas sermonem». Per flores floride et festive devotiones. Per putationem elargitio elemosinarum. Per turturem preco qui annuntiat festum, sicut turtur tempus vernum. Per ficum habundantia populi concurrentis ad festum. Per prolationem grossorum abiectio hominum se reputentium et immaturorum qui fructum predicationis impediunt. Vel per vocem turturis gemitus compunctionis. Per grossos bonorum operum inchoationes vel eminentes in civitate. Per vineas florentes multe virtuose congregationes. Per odorem fama.
Quantum vero ad patriam, si verbum dicatur ad unam animam beatam, similiter exponatur si mittatur ad visitandum unam civitatem. Si vero dicatur toti congregationi animarum ad resurgendum et corpora resumendum, tunc per hyemem et ymbrem intelligatur tempus tribulationum precedentium iudicium. Per flores numerus electorum in terra idest in celo. Per amputationem sequestratio reproborum ab electis, vel separatio vel amotio omnis miserie. Per turturem Christus qui dixerat, Luc.[, 29-30], quod producente ficulnea ex se fructum tunc prope est estas, idest regnum Dei, scilicet quantum ad glorificationem corporum. Per vineas florentes numerus ecclesiarum electarum. Per odorem notitia bonitatis.

Olivi, Cn 2, 11-12, pp. 162, 164

[112] Secundo nota quod ex vernalis temporis proprietate septem inducentia ad accessum sibi proponit (cfr. 11-13), et possunt mystice ad internas sponsae proprietates aptari. Quia sicut appropinquatio solis ad regionem nostram in vere praedictas proprietates adducit, sic et divinae visitationis solaris adventus consimiles in spiritum proprietates inducit ex quibus sponsa habet merito festinare et currere ad sponsi amplexum. Possunt etiam aptari ad exteriorem statum ecclesiae illius temporis, quia tunc proprie formatur haec sponsa. Et tunc magis plene est tempus ipsius, quando Deus aliquem nobilem statum est in ecclesia formaturus, quale in synagoga fuit tempore editionis huius libri sub Salomone templum aedificante et Dei cultum praeclarius et felicius solemnizante, et quale fuit tempore Christi ac Constantini et sic de aliis.
[113] In primis autem duobus proponitur impedimentorum retrahentium amotio. Algor enim hiemalis et procella pluvialis et utriusque horrenda obscuritas solet sponsas retrahere, ne foras domum propriam ire velint. Veris ergo temperies et serenitas de se grata, sed propter praeeuntem pressuram hiemis et propter suam novitatem gratiosior, sponsam debet inducere ad spatiandum cum sponso extra arctitudinem domicilii sui, et ideo dicit: “Iam enim hiems transiit” (11a) etc. Sicut enim sub primo tempore regni Salomonis tempestates et obscuritates priorum temporum a Synagoga recesserant, ut tunc quietius et iucundius sapientiae divinae vacaret, sic pro tempore Christi Apostolus clamat: “Nox praecessit, dies autem appropinquavit” (Rom 13, 12) et: “Ecce nunc tempus acceptabile, ecce nunc dies salutis” (II Cor 6, 2). Nam algor et tenebra caeremoniarum carnalium Synagogae et idolatriae gentium longe abscesserant ab ecclesia Christi. Et sic de similibus temporibus consimilia intuere.
Tertium autem est praeludiorum puritatis et contemplationis visibilis iucunditas, unde subdit:
[114] “Flores apparuerunt in terra nostra” (12a). “Flores” pratorum et arborum sunt quoddam primum iucundum praeludium futurorum fructuum et aestatis. Quando ergo in mente sponsae vel in ecclesia incipiunt apparere novi “flores” puritatis, tunc est hoc tertium inductivum; quia hoc dat pleniorem spem maiorum et cito futurorum bonorum.
[115] Quartum est resecationis superfluorum utilis et fecunda opportunitas; unde subdit: “Tempus putationis advenit” (12b). Amputatio enim omnium superfluorum etiam connaturalium est aliquando nociva et sterilis. Quando ergo sponsa tam in se quam in generali ecclesia experimentaliter sentit fructuosam opportunitatem amputationum perfectarum venisse, tunc attingit ad omnia tam a se quam ab aliis plenius amputanda.
[116] Quintum est duplex exemplaritas vitae contemplativae illis temporibus inchoatae quarum prima est solitariae castitatis et devotionis clamorosum suspirium, et pro hoc dicit: “Vox turturis”, avis scilicet castae et solitudinum deserta amantis cuius vox seu cantus est gemitus, “audita est in terra nostra” (12c). Quando enim in quibusdam modo novo et inusitato incipit hoc solemniter apparere, tunc est quintum inductivum.

Bernardi Opera, Sermones super Cantica Canticorum … recensuerunt J. Leclercq, C. H. Talbot, H. M. Rochais, II, Romae 1958, sermo LVIII, II. 3-4, pp. 128-129

3. Nunc iam videamus quid istiusmodi quasi historico schemate spiritualiter nobis innuatur intelligendum. Et vineas quidem animas esse, vel ecclesias, simulque huius rei rationem quaenam sit, dixi vobis, et audistis, nec opus habetis iterato audire. Ad has itaque revisendas, corrigendas, instruendas, salvandas, anima perfectior invitatur, quae tamen id ministerii sortita sit, non sua ambitione, sed vocata a Deo tamquam Aaron. Porro invitatio ipsa quid est, nisi intima quaedam stimulatio caritatis, pie nos sollicitantis aemulari fraternam salutem, aemulari decorem domus Domini, incrementa lucrorum eius, incrementa frugum iustitiae eius, laudem et gloriam nominis eius? Istiusmodi itaque circa Deum religionis affectibus, quoties is qui animas regere aut studio praedicationis ex officio intendere habet, hominem suum interiorem senserit permoveri, toties pro certo Sponsum adesse intelligat, toties se ab illo ad vineas invitari. Ad quid, nisi ut evellat et destruat, et aedificet et plantet?
4. Verum, quoniam operi huic, sicut omni rei sub caelo, non omne tempus suppetit et aptum est, addit is qui invitat, tempus putationis advenisse. Adesse hoc noverat qui clamabat: “Ecce nunc tempus acceptabile, ecce nunc dies salutis: nemini dantes ullam offensionem, ut non vituperetur ministerium nostrum” (2 Cor 6, 2-3). Vitiosa sine dubio atque superflua, et omne denique quod offendiculum dare et impedire fructum salutis possit, putari et resecari monebat, sciens quia tempus putationis advenerit. Ideo et aiebat fideli cuidam cultori vinearum: “Argue, increpa, obsecra” (2 Tm 4, 2), in primo et secundo horum putationem vel exstirpationem, in ultimo plantationem indicens. Et haec quidem Sponsus per os Pauli de tempore operandi (cfr. Gal 6, 10). Sed audi quid per proprium os de temporum consideratione, sub alio quidem rerum schemate et nomine, cum nova sponsa locutus sit. “Nonne vos dicitis”, inquit, “quia quatuor menses sunt, et messis venit? Ecce dico vobis: Levate oculos vestros et videte regiones, quia albae sunt iam ad messem” (Jo 4, 35); item: “Messis quidem multa, operarii pauci; rogate Dominum messis, ut mittat operarios in messem suam” (Mt 9, 37-38). Sicut igitur ibi metendi animarum segetes tempus adesse monstrabat, ita et hic vineas aeque intelligibiles, id est animas vel ecclesias, tempus putandi advenisse denuntiat: id forsitan inter utrasque res volens vocabulorum diversitate distingui, ut messes plebes, vineas congregationes sanctorum cohabitantium intelligamus.

 

6. Le “nove rime

L’Expositio in Canticum Canticorum dell’Olivi non è stata una ‘fonte’ qualunque per la Vita Nova. Non si tratta forse dell’unica opera del francescano utilizzata, perché molto potrebbero dire in proposito i commenti ai Vangeli di Matteo, di Giovanni (inediti) e, come si è visto, di Luca. Solo un esame sistematico e approfondito – qui la questione viene soltanto delibata – potrà valutare la sua effettiva incidenza sulle varie parti, liriche o in prosa, e considerare se il confronto testuale sia di aiuto nel far conoscere meglio la genesi del “libello”. Per il momento ci si limita a mostrare i risultati di alcuni sondaggi.
La semantica e i concetti dell’esegesi oliviana al libro salomonico, cioè i segni e i significati, percorrono Donne ch’avete intellecto d’amore, la canzone-manifesto delle “nove rime” e la prosa relativa (Vita Nova 10 [xvii-xix]).

■ (Tab. VI.1) Nel Cantico la sposa loda lo sposo, e viceversa, come in una canzone amorosa (“Hic describitur et laudatur sponsus a sponsa et sicut in amativis cantionibus fieri solet [Cn 5, 10] … dum (sponsus) praedicta praeconia dicit vel finit [Cn 5, 17] – E però propuosi di prendere per matera del mio parlare sempre mai quello che fosse loda di questa gentilissima … cominciai una canzone …│i’ vo’ con voi della mia donna dire, / non perch’io creda sua laude finire”.
La sposa e lo sposo parlano l’uno dell’altro, variando gli affetti e gli sguardi, o in seconda (col ‘tu’) o in terza persona (Cn 1, 1). Se la sposa parla dello sposo in terza persona, lo fa in quanto la sua lode serve a informare le “adulescentulae”, cioè le compagne della sposa nel cammino della contemplazione (cfr. Cn 1, 1). Dante dice della sua donna in terza persona, rivolgendosi a “donne” in seconda (col ‘voi’).
Se la sposa parla in terza persona, lo fa perché non ardisce rivolgersi direttamente allo sposo, ma solo esprimere in modo assoluto il proprio desiderio (“sponsa non fuit ausa illud directe a sponso petere, sed solum absolute desiderium suum exprimere” [Cn 1, 1]); la mente timorata non deve presumere cose troppo alte, ma umiliarsi (ut mens quantumcumque alta addiscat non praesumere, sed humiliari et ut in his quae caute egit, formidet aliquam culpam sibi absconsam inesse [Cn 5, 6]). Così Dante: “pareami avere impresa troppo alta matera quanto a me, sì che non ardia di cominciare. E così dimorai alquanti dì, con disiderio di dire e con paura di cominciare│ma ragionar per isfogar la mente … E io non vo’ parlar sì altamente, / ch’io divenissi per temenza vile”.
Quando i santi dottori intendono spiegare agli altri le cose divine e incitarli a domandare, soccorrono repentini concetti e risposte dettate interiormente (“subito multa ab eis quaesita vel alios docenda doctori occurrunt quae ipsi numquam praecogitarunt nec aestimant quod eis alibi occurrisset” [Cn 5, 17]). Così capita a Dante, per virtù di un interno dettatore: “Allora dico che la mia lingua parlò quasi come per sé stessa mossa e disse: ‘Donne ch’avete intellecto d’amore’” (si ricordi anche l’imposizione del nome del figlio, fatta dal muto Zaccaria; Luca 1, 63-64).
Come i dottori vengono dotati di sùbiti concetti e risposte, così la sposa sente improvvisamente lo sposo discendere (“repentinos conceptus et responsiones eis divinitus ministratos … ipsa repente ipsum infra se sentiens descendisse” [Cn 5, 17]); Dante: “Io dico che pensando ’l suo valore / Amor sì dolce mi si fa sentire”.

■ (Tab. VI.2) Il nome di Cristo-sposo è “desiderato” – “desideratus cunctis gentibus”, come scrive il profeta Aggeo (Ag 2, 8, a Cn 5, 16). “Madonna è disïata in sommo cielo” (Vita Nova 10.20 [xix 9], v. 29; cfr. “la rota che tu sempiterni / desiderato” di Par. I, 76-77); “Questa gentilissima donna, di cui ragionato è nelle precedenti parole, venne in tanta gratia delle genti” (Vita Nova 17.1 [xxvi 1]).
La sposa, che designa la Chiesa contemplativa, è posta a governare (“Posuerunt me custodem in vineis”: Cn 1, 5; “della cittade ove la mia donna fu posta dall’Altissimo Sire”: Vita Nova 2.11 [vi 2]); non si sente adatta al compito (“se in regimine desolatam asserit … ex defectu quem in seipsa invenit”: Cn 6, 11; “ancora lagrimando in questa desolata cittade”: Vita Nova 19.8 [xxx 1]). Per questo le viene chiesto a gran voce di tornare al governo: “instanter requiritur sponsa ad regiminis onus reverti … ad requisitionis grandem instantiam fortius exprimendam … requiritur … a sponso et a suis angelis” (Cn 6, 12). Così avviene per Madonna: “Angelo clama … Lo cielo, che non àve altro difecto / che d’aver lei, al suo Segnor la chiede, / e ciascun sancto ne grida merzede” (Vita Nova 10.18 [xix 7], vv. 15-21). Dio stesso ha detto di aver sperimentato le dolcezze della sposa, e l’ha additata ad esempio agli angeli e ai santi; la sola sua visione è di utilità agli uomini: “Quis autem digne valeat admirari tantam dignationem summi Dei et Domini nostri? Quod ipse in tantum dicat se refici et delectari in fructibus et dulcoribus sponsae, quod tamquam inde inebriatus totus in ea condormiat et consoporetur. Et quod ipsum suum soporem amicis suis, angelis scilicet et ceteris sanctis, praebeat in exemplum … (Cn 5, 2) … utilitas exempli quam inferiores ex sola visione suae sanctitatis et vitae accipient (Cn 6, 12)” – “nel mondo si vede … che parla Dio, che di madonna intende … e qual soffrisse di starl’ a vedere  … per exemplo di lei bieltà si prova” (vv. 16, 23, 35, 50). Le necessità del governo della Chiesa sono riservate al beneplacito divino: “sic etiam expedit quod suam sufficientiam et ecclesiae regendae necessitatem et Dei super hoc praeceptum vel beneplacitum recognoscant” (Cn 6, 12) – “quanto Mi piace” (v. 25).
Sotto il regime di Beatrice non c’è solo Dante, governato tramite Amore con “lo fedele consiglio della Ragione” (Vita Nova 1.10 [ii 9]), ma tutta Firenze, desolata per la sua morte, come pure l’intera Chiesa, quella peregrinante in terra (perché mai l’amico avrebbe scritto, laicamente, “alli principi della terra” in merito alla sua città “quasi vedova dispogliata da ogni dignitade” [Vita Nova 19.8]?) e quella trionfante in cielo.

■(Tab. VI.3) Lo sposo loda la sposa perché senza macchia di peccato mortale: “eam commendat … quomodo dicit … loquitur de sola macula mortali (Cn 4, 7) – «Dice di lei Amor: “Cosa mortale / come esser può …”» (vv. 43-44). La sposa loda le parti del corpo dello sposo, cominciando dal colore misuratamente proporzionato fra la purezza del bianco e la vivida rossa fiamma della carità: “ex colorecolorum proportionata permixtio seu connexio … plenus candore puritatis et sapientialis claritatis et flammeo rubore vividae caritatis” (Cn 5, 10) – “sì puraColor di perle à quasi … non for misura … Degli occhi suoi … escono spirti d’amore inflammati” (vv. 44, 47-48, 51-52; il bianco e il rosso sono i colori di Beatrice: Vita Nova 1.4, 12, 15 [ii 3, iii 1, 4]; 28.1 [xxxix 1]). La sposa è esempio per gli inferiori che vedono la sua santa vita: “utilitas exempli quam inferiores ex sola visione suae sanctitatis et vitae accipient” (Cn 6, 12) – “per exemplo di lei …” (v. 50).

■ (Tab. VI.4) La sposa (Cn 6, 10-7, 1), che per le sue virtù (“ex suis virtutibus”) è idonea a generare ed educare una prole spirituale (“ad prolem fortem et nobilem procreandam et educandam”), e questa sua capacità viene mostrata secondo le parti del corpo (“in speciali et quasi per partes … ex generosa dispositione corporis muliebris”), incede in modo regale, nobilmente calzata con regola e disciplina, non con materia vile, mirabilmente ornata di bellezza nel procedere dei suoi atti (“quam pulchre et decenter incedunt … nec de vili et inordinata materia calceantur … Per hoc autem spiritualiter designatur perfecta compositio ac restrictio et moderatio regularis disciplinae quae instar calceamentorum nobilium fundamentales processus nostrorum affectuum et actuum mirabiliter pulchrificant et adornant”) – “maraviglia nell’acto che procede … or vo’ di sua virtù farvi sapere. / Dico, qual vuol gentil donna parere / vada con lei, che quando va per via / gitta nei cor’ villan’ d’amore un gelo … diverria nobil cosa o si morria. … sì adorna …│dico di lei quanto dalla parte … delle sue virtudi … che … procedeano … quanto dalla [parte della] nobilità del suo corposecondo determinata parte della persona” (vv. 17, 30-33, 36, 44; 10.29-30 [xix 18-19]).

■ (Tab. VI.5) Il “monile ornamentum” al quale è assimilato il collo della sposa (Cn 1, 9b) ha un valore di ‘ammonimento’, perché le fibule muliebri “monent seu arcent viros, ne inserant manus suas infra sinum earum”, nel caso della nobile sposa, di belle e generose forme, e tanto ornata da sdegnare “insipientiam et vilem vitam bestialium plebium” (Cn 1, 10). Una sposa atta a procreare e nutrire figli spirituali dediti alle lodi divine (Cn 6, 2). Così il poeta congeda la sua canzone-manifesto, Donne ch’avete intellecto d’amore : “Or t’amonisco, poi ch’io t’ò allevata / per figliuola d’Amor giovane e piana … E se non vòli andar sì come vana, / non restare ove sia gente villana” (vv. 59-60, 64-65); anche nella canzone Amor che nella mente mi ragiona la seconda parte principale si chiude “sotto colore d’ammonire altrui”, cfr. Convivio, III, viii, 21). Come la sposa dice: “Indica mihi … ubi pascas … ne vagari incipiam” (Cn 1, 6a), così la canzone deve dire pregando: “Insegnatemi gir, ch’io son mandata / a quella di cui laude io so’ adornata” (cfr. ancora il congedo di Voi che ’ntendendo il terzo ciel movete, e il relativo commento a Convivio II, xi, con l’esegesi di Cn 1, 7ab: “Ponete mente almen com’io son bella! … Si bene vis considerare tuae spiritualis pulchritudinis praeeminentiam”).

■ (Tab. VI.5 bis) Tributo ai modi ancora operanti nella Rettorica di Brunetto Latini [1] o alla tecnica dei commenti universitari [2], le “divisioni” contentute nella Vita Nova rispechiano anche l’esegesi biblica, nella quale esse sono l’espressione della struttura del testo che si vuole commentare. Lo stesso prosimetro potrebbe risponde a un’idea precisa della Scrittura, che ha un’intelligenza interiore e un’eloquenza esteriore, l’oro della sapienza divina e l’argento delle similitudini, in un ornato di distinzioni artificiose e rubricate. Come accade per i sacramenti, dentro è la grazia invisibile, fuori la specie sensibile. Poiché la sposa designa la Chiesa, questo ornamento ha un suo sviluppo storico, per cui l’artificio è maggiore man mano che si procede. Così Olivi interpreta Cn 1, 10a “Murenulas aureas faciemus tibi vermiculatas argento”. Nella Commedia, le due funzioni, esterna e interna, di prosa e lirica, saranno congiunte nei versi dal doppio linguaggio.

■ (Tab. VI.6) Nel paragrafo successivo (Vita Nova 11 [xx]), su richiesta di un amico che aveva ascoltato Donne ch’avete intellecto d’amore, viene esposto cosa sia Amore (Amore e ’l cor gentile). I dettami guinizzelliani incastonati secondo Gorni in una “prosa carica di grevi intenzioni filosofiche”, che “recupera quel sapere a fini cortesi” [3], non mancano di concordare anche con l’esegesi del Cantico dei Cantici. Lo sposo, ristorato dei frutti della sposa, vuole che ne fruiscano pure gli amici (Cn 5, 1). Olivi sottolinea più volte la coralità dell’amicizia presente nel libro salomonico e il ruolo svolto dagli amici dello sposo o della sposa nel mutuo partecipare del loro amore.

Cn 2, 1, p. 148 [88] Nota autem quod per haec mutua colloquia designatur quod in illa unione sponsi et sponsae nobis ineffabili sunt quaedam internae locutiones in quibus evidenter exprimitur, quomodo se amant et appretiantur et quomodo ad invicem sunt sibi cari, iucundi, pulchri et gratiosi. Quia vero haec non solum sibi mutuo ostendunt, sed etiam aliis, ideo tamquam ad alios seipsos commendantes subdunt – et primo sponsus de seipso dicit: “Ego flos campi et lilium convallium (Cn 2, 1)”.

Poi lo sposo, inducendo gli amici al sopore estatico, afferma: “Ego dormio et cor meum vigilat” (Cn 5, 2); egli cioè si riposa e al tempo stesso veglia col cuore, e con questo star sveglio si trova “in suo actu supremo”. Così, nel sonetto, Amore viene a riposarsi nel cuore gentile e, svegliandosi per “un disio della cosa piacente”, passa (come scolasticamente spiegato nella prosa) dalla potenza all’atto. Altrove (Cn 2, 13-14) si parla delle “spirituales et secretae mansiones solidae veritatis et aeternitatis Dei quas sponsa subintrans quiescit ibi cum sponso … tuarum potentiarum et voluntatum capacia loca et desideria” (“Amor per sire e ’l cor per sua magione … nasce un disio della cosa piacentedico come questa potentia si riduce in acto”).

■ (Vita Nova 15 [xxiv] – Tab. VI.7) La sposa viene svegliata dallo sposo, ma è come se avesse sempre vegliato (Cn 2, 8: “a somno praefato iam ad alios actus evigilasset”). Dante perviene a “una ymaginatione d’Amore” dopo altra “vana ymaginatione” nella quale, ad occhi chiusi, ha visto Beatrice morta, quasi questa seconda fantasia fosse la continuazione della prima: “così come se io fossi stato presente a questa donna.│Io mi senti’ svegliar dentro allo core / un spirito amoroso che dormia”. La sposa sente una voce, quella dello sposo, primo segno del suo venire, per cui bisogna prepararsi al suo arrivo: «“Vox dilecti mei” … ex eius voce eius adventum primo deprehenderit … Ecce dominus venit, paremus cito domum et nos ipsos». Dante vede venire Amore, poi monna Vanna che precede monna Bice; la donna di Cavalcanti si chiama “Primavera”, nome che Amore interpreta “Primaverrà”, come il precursore Giovanni Battista disse di Cristo: «“Ego vox clamantis in deserto: parate viam Domini (Matteo 3, 3; Luca 3, 4; Giovanni 1, 23; i passi evangelici sono attratti dall’esegesi di Cn 2, 8)”│guardando in quella parte onde venia, / io vidi monna Vanna e monna Bice / venire inver’ lo loco là ov’io era». È primavera, stagione di novità; in essa Dio intende formare nella Chiesa una nuova, nobile situazione e rendere più solenne, felice e gioioso il proprio culto, come avvenne ai tempi di Salomone e di Cristo (Cn 2, 11): “ex vernalis temporis proprietate … in vere praedictas proprietates adducit … quando Deus aliquem nobilem statum est in ecclesia formaturus … et Dei cultum praeclarius et felicius solemnizante … Veris ergo temperies et serenitas de se grata, sed propter praeeuntem pressuram hiemis et propter suam novitatem gratiosior … ut tunc quietius et iucundius sapientiae divinae vacaret”. Amore dice lietamente al lieto e rinnovato cuore di Dante di fargli onore, cioè di rendergli il dovuto culto; monna Vanna-Primavera è “una gentil (cioè nobile) donna”: «e pareami che lietamente mi dicesse nel cuor mio … E certo me parea avere lo cuore sì lieto, che me non parea che fosse lo mio cuore, per la sua nuova conditione … io vidi venire verso me una gentil donna … imposto l’era nome Primavera │e poi vidi venir da lungi Amore / allegro sì, che appena il conoscea, / dicendo: “Or pensa pur di farmi onore” … Amor mi disse: “Quell’è Primavera …”». Lo sposo chiama la sposa con vari nomi, il primo fra questi è preso dall’amicizia o dall’amore (Cn 2, 10): «sponsus multis nominibus amorosis vocat sponsam … Primum tamen nomen proprie sumitur ab amicitia vel amore – una gentil donna, la quale era di famosa bieltade e fue già molto donna di questo mio primo amico … Quella prima è nominata Primavera … quella Beatrice chiamerebbe Amore│Amor mi disse: “Quell’è Primavera, / e quell’à nome Amor, sì mi somiglia”».

■ (Tab. VI.8) La semantica del Cantico dei Cantici percorre anche Vita Nova 17 [xxvi], sia i due sonetti (Tanto gentile e Vede perfectamente) come la prosa. Si registrano gli attributi di lode della sposa verso lo sposo – dolcezza al core, soave – (Cn 1, 1b); il cui nome è desiderabilis, secondo quanto scrive di Cristo il profeta Aggeo: “desideratus cunctis gentibus” (Cn 5, 16) – venne in tanta gratia delle genti; la nobiltà (gentilezza), propria di una terra d’Oriente, dello sposo e della sposa, atta a procreare una nobile prole (Cn 1, 2a; 7, 1b; nella morte di Beatrice, la dipartita dell’“anima sua nobilissima” è computata, oltre che “secondo l’usanza nostra”, “secondo l’usanza d’Arabia … e secondo l’usanza di Siria”: Vita Nova 19.4 [xxix 1]); la ridondanza, nello sposo, delle perfezioni divine e di ogni virtù (Cn 1, 2a) – virtuosamente, virtute, perfectamente ogne; l’incedere bello e decoroso della sposa, nel mirabile procedere dei suoi atti (Cn 7, 1b) – Ella si va (viene chiamata «“filia principis”, id est Dei»; Beatrice “non parea figliuola d’uomo mortale, ma di Dio” con citazione indiretta di Omero: Vita Nova 1.9 [ii 8]), mirabili cose da.llei procedevano, sua beltate, ne procede, negli acti; soave non è solo lo sposo, ma anche la memoria del suo nome (Cn 1, 2b) – non fa sola séla si può recare a mente, ricordandosi di lei; la soavità dello sposo si espande coralmente sulla famiglia della sposa (“sponsae” e “adulescentulae”, cioè sui perfetti e sugli incipienti nel percorso contemplativo; Cn 1, 2c) – quelle che vanno con lei; lo sposo mostra la propria compiacenza negli occhi della sposa (Cn 6, 4a) – mostrasi sì piacente … che dà per gli occhi ….; la invita a non guardarlo oltre le proprie forze – e gli occhi no l’ardiscon di guardare -, perché proverebbe l’impossibilità di intenderlo – che ’ntender no.lla può chi no.lla prova.
Si noterà che più passi esegetici vengono collazionati fra loro per arricchire la semantica, secondo una tecnica che nella Lectura super Apocalipsim Olivi definisce “mutua collatio” di singole parti di esegesi; lo stesso testo salomonico la suggerisce, sottoponendo più volte all’esegeta il medesimo termine: si veda il caso di “labia” (Cn 4, 3.11; 5, 13), che attira anche “guttur” (Cn 5, 16), inteso “pro toto palatu et ore”.

[1] GUGLIELMO GORNI, Dante. Storia di un visionario, Bari 2008, pp. 142-143.

[2] SANTAGATA, p. 122.

[3] Vita Nova, p. 259.

 

Tab. VI.1

PETRI IOHANNIS OLIVI Expositio in Canticum Canticorum [ = Cn], ed. J. Schlageter, Ad Claras Aquas Grottaferrata 1999 (Collectio Oliviana, II) [le citazioni scritturali, anziché in corsivo, sono state poste fra “ ”]

Cn 5, 10, p. 234

[233] “Dilectus meus” (10a). Hic describitur et laudatur sponsus a sponsa et sicut in amativis cantionibus fieri solet, in principio et in fine commendat eum breviter et in summa. […]

Cn 1, 1, pp. 122, 124

[34] Nota etiam quod supra loquebatur ad sponsum in secunda persona, hic vero loquitur de eo in tertia, acsi suis adolescentulis haec glorianter sive informatorie loquatur. Et breviter: secundum quod variantur in sponsa modi affectuum et aspectuum, sic et modi locutionum suarum. Et consimiliter est de sponso. Unde et supra incepit a tertia persona dicens: “osculetur me” (1a), et tamen statim flectit se ad secundam subdens: “quia meliora sunt ubera tua” (1b) etc. Quod – ut credo – factum est ad ostendendum quod sponsa non fuit ausa illud directe a sponso petere, sed solum absolute desiderium suum exprimere.

Vita Nova 10.10-17 (vv. 1-14) [xviii 8 – xix 6]

[10] Onde io, pensando a queste parole, quasi vergo-gnoso mi partio da.lloro e venia dicendo fra me medesimo: «Poi che è tanta beatitudine in quelle parole che lodano la mia donna, perché altro parlare è stato lo mio?». [11] E però propuosi di prendere per matera del mio parlare sempre mai quello che fosse loda di questa gentilissima; e pensando molto a.cciò, pareami avere impresa troppo alta matera quanto a me, sì che non ardia di cominciare. E così dimorai alquanti dì, con disiderio di dire e con paura di cominciare. [12] Avenne poi che passando per uno camino lungo lo quale sen gia uno rivo chiaro molto, a me giunse tanta volontà di dire, che io cominciai a pensare lo modo che io tenessi; e pensai che parlare di lei non si convenia che io facesse, se io non parlassi a donne in seconda persona, e non a ogni donna, ma solamente a coloro che sono gentili e che non sono pure femine. [13] Allora dico che la mia lingua parlò quasi come per sé stessa mossa e disse: «Donne ch’avete intellecto d’amore». [14] Queste parole io ripuosi nella mente con grande letitia, pensando di prenderle per mio cominciamento. Onde poi, ritornato alla sopradecta cittade, pensando alquanti die cominciai una canzone con questo cominciamento, ordinata nel modo che si vedrà di sotto nella sua divisione. La canzone comincia Donne ch’avete.

Donne ch’avete intellecto d’amore,           [15]
i’ vo’ con voi della mia donna dire,
non perch’io creda sua laude finire,
ma ragionar per isfogar la mente.
Io dico che pensando ’l suo valore             [16]
Amor sì dolce mi si fa sentire,
che s’io allora non perdessi ardire
farei parlando innamorar la gente.
E io non vo’ parlar sì altamente,              [17]
ch’io divenissi per temenza vile;
ma tracterò del suo stato gentile
a rispecto di lei leggieramente,
donne e donzelle amorose, con voi,
ché non è cosa da parlarne altrui.

Cn 5, 6, pp. 228, 230

[226] “Anima mea liquefacta est, ut dilectus locutus est” (cfr. 6c). Ecce quod quae tunc, dum sibi sponsus loqueretur, aperire distulit quasi dubitans, an esset ipse aut an esset sibi utile aperire, nunc certi-tudinaliter animadvertit se tunc ex locutione sponsi prae nimio amoris resolventis ardore liquefactam fuisse. Tum sicut in contemplationis primordiis expedit sponsi illapsus aliquantulum diutius immo-rari, ut mens in contemplationis amore et in contemplativo statu fundetur atque firmetur, sic postquam est multum sublimata, expedit huiusmodi illapsus aliquando detruncari, ut mens quantum-cumque alta addiscat non praesumere, sed humiliari et ut in his quae caute egit, formidet aliquam culpam sibi absconsam inesse. […]

Cn 5, 17 – 6, 1, pp. 244, 246

[243] “Quo abiit dilectus tuus, o pulcherrima mulie-rum?” (17a). Secundo tamquam ex praedictis ad quaerendum eum accensi subdunt: “Quo declinavit dilectus tuus? et quaeremus eum tecum” (17b). Quoniam autem sponsus non solum praefatum sponsae desiderium attendens, sed etiam multi-tudinis memoratae et etiam suae praeconizationis seu magnificae praedicationis zelum quo sponsa totis viribus eum nititur in omnium cordibus imprimere et magnificare, idcirco repente dum praedicta praeconia dicit vel finit, sponsus sic plene descendit in eam quod ipsa non potest hoc abscondere vel celare multitudini quaerentium illum. Est autem huius rei frequens exemplum et experimentum quo, dum viri sancti zelanter conantur alios divina docere, ita ut illos incitent ad quaerendum, subito multa ab eis quaesita vel alios docenda doctori occurrunt quae ipsi numquam praecogitarunt nec aestimant quod eis alibi occurrisset. Propter quod admirative et cum gratiarum actionibus recognoscunt huiusmodi repen-tinos conceptus et responsiones eis divinitus mini-stratos. Hoc est igitur quod hic completius ostenditur et impletur; quia cum illi dicerent: “Quo declinavit? et quaeremus eum tecum” (17b), ipsa repente ipsum infra se sentiens descendisse respondet:
[244] “Dilectus meus descendit in hortum suum” (6, 1a). Eius descensus est mentis per speciales conso-lationes visitatio in quibus suam praesentiam experi-mentalius exhibet.


Tab. VI.2

Vita Nova 10.18-21 (vv. 15-42) [xix 7-10]

   Angelo clama in Divino Intellecto              [18]
e dice: «Sire, nel mondo si vede
maraviglia nell’acto che procede

d’un’anima che ’nfin qua sù risplende».
Lo cielo, che non àve altro difecto
che d’aver lei, al suo Segnor la chiede,

e ciascun sancto ne grida merzede.
Sola Pietà nostra parte difende,                        [19]
che parla Dio, che di madonna intende:
«Dilecti miei, or sofferite in pace
che vostra spene sia quanto Mi piace
là ov’è alcun che perder lei s’attende,

e che dirà nello ’Nferno: O mal nati,
io vidi la speranza de’ beati».
   Madonna è disïata in sommo cielo:            [20]
or vo’ di sua virtù farvi savere.
Dico, qual vuol gentil donna parere
vada con lei, che quando va per via
gitta nei cor’ villan’ d’amore un gelo,
per che onne lor pensero aghiaccia e pere;
e qual soffrisse di starl’ a vedere
diverria nobil cosa o si morria.

E quando trova alcun che degno sia                 [21]
di veder lei, quei prova sua vertute,
ché li avèn ciò, che li dona salute,
e sì l’umilia, ch’ogni offesa oblia.
Ancor l’à Dio per maggior gratia dato
che non pò mal finir chi l’ha parlato.

Cn 5, 16, pp. 242, 244

[241] “Guttur illius suavissimum” (16). Guttur est radicalis pars faucium, ubi radicaliter consistit vis gustativa ciborum. Unde secundum Papiam gustus a ‘gutture’ dicitur. [242] Potest autem generaliter sumi pro toto palatu et ore, ut sic propter tropum nuptialis osculi significetur non solum esse “suavissimum” in se, sed etiam sponsae. “Et totus desiderabilis” (16a), hoc est vere proprium et praeconiale nomen sponsi solum Deum amantibus et gustantibus notum. Nihil enim potest in Christo dilecto occurrere, quin sit summe desiderabile. Unde et ab Aggaeo Propheta vocatur “desideratus cunctis gentibus” (Agg 2, 8). Deinde sponsa tamquam de tali sponso glorians gloriatur, ad “filias Ierusalem”, id est: ad communem multitudinem synagogae vel ecclesiae, dicit: “Talis est dilectus meus” (16b) etc.

Cn 5, 2a, p. 220

[213] Quis autem digne valeat admirari tantam dignationem summi Dei et Domini nostri? Quod ipse in tantum dicat se refici et delectari in fructibus et dulcoribus sponsae, quod tamquam inde ine-briatus totus in ea condormiat et consoporetur. Et quod ipsum suum soporem amicis suis, angelis scilicet et ceteris sanctis, praebeat in exemplum, ut et ipsi in eadem consimiliter consoporentur! 

Cn 6, 11-12, pp. 264, 266, 268, 270

[272] “Nescivi” (11a). Ubi se in regimine desolatam asserit ex duplici causa. Prima est ex defectu quem in seipsa invenit, et pro hoc dicit: “nescivi”, scilicet hoc onus regiminis tam grave et tam discriminosum esse, sicut nunc probavi. […]
[276] “Revertere” (12a). Quia ecclesiae Dei non solum expediens, immo et necessarium est, ut a perfectis regatur, quod nequaquam fieret, si solam suam distractionem et insufficientiam et perfectionem in-star Christi in regimine habendam attendentes vacare regimini totaliter formidarent, idcirco sicut in parte bonum est quod periculum timeant, sic etiam expedit quod suam sufficientiam et ecclesiae regendae ne-cessitatem et Dei super hoc praeceptum vel beneplacitum recognoscant. Primo igitur instanter requiritur sponsa ad regiminis onus reverti. Supponitur enim quod iam quasi animo a regimine ipso fugerat.
[279] Dicitur autem sibi quater “revertere” (12ab), tum ad requisitionis grandem instantiam fortius exprimendam, tum quia a quattuor gene-ribus personarum requiritur, scilicet a sponso et a suis angelis et ab ecclesiarum principibus seu principalioribus et ab inferioribus seu popularibus, tum quia quattuor rationibus quibus ipsa moveri debet, requiritur. Prima est, quia est a Deo de captivitate Diaboli eruta et redempta. Secunda est, quia est et esse debet Deo subiecta et in sui redemptoris et salvatoris obsequium captivata. Et ad has duas rationes significandas vocatur “Sunamitis” (12a), id est: captivata seu mortificata, ut scilicet secundum Apostolum secunda ad Corinthios quinto “qui vivunt, iam non sibi vivant, sed ei qui pro ipsis mortuus est” (2 Cor 5, 15). Et secundum hoc bene ante hoc nomen bis dicitur “revertere”. Tertia ratio est utilitas exempli quam inferiores ex sola visione suae sanctitatis et vitae accipient. Quarta est glorificatio Dei qui eam talem fecit ex suae perfectionis pleniori demonstratione et visione in omnibus subsecutura. Et has duas rationes exprimunt cum iterum bis dicto: “revertere”. Subdunt: “ut intueamur te” (12b), id est: tuam sanctitatem et vitam perfectam.


Tab. VI.3

Cn 4, 7, p. 200

[181] “Tota pulchra es, amica mea, et macula non est in te” (7), ubi positive simul et negative eam commendat. Sed cum in hac vita nullus sit absque peccato iuxta illud primae canonicae Iohannis capitulo primo: “Si dixerimus quoniam peccatum non habemus, ipsi nos seducimus” (cfr. 1 Io 1, 8); quomodo dicit, quod “macula non est in te” (7)? Ad hoc est triplex responsio: Prima est, ut loquitur de sola macula mortali.

Vita Nova 10.22-23 (vv. 43-56) [xix 11-12]

Dice di lei Amor: «Cosa mortale                   [22]
come esser può sì adorna e pura?».

Poi la riguarda, e fra sé stesso giura
che Dio ne ’ntenda di far cosa nova.
Color di perle à quasi, in forma quale
convene a donna aver, non for misura:
ella è quanto di ben pò far Natura;
per exemplo di lei bieltà si prova.
Degli occhi suoi, come ch’ella li mova,                [23]
escono spirti d’amore inflammati,
che fèron gli occhi a qual ch’allor la guati,
e passan sì che ’l cor ciascun ritrova.
Voi le vedete Amor pinto nel viso,
là ove non pote alcun mirarla fiso.

Cn 6, 12, p. 270

[279] Tertia ratio est utilitas exempli quam infe-riores ex sola visione suae sanctitatis et vitae accipient. Quarta est glorificatio Dei qui eam talem fecit ex suae perfectionis pleniori demonstratione et visione in omnibus subsecutura. Et has duas rationes exprimunt cum iterum bis dicto: “revertere”. Sub-dunt: “ut intueamur te” (12b), id est: tuam sanc-titatem et vitam perfectam.

Cn 5, 10, pp. 234, 236

[233] “Dilectus meus” (10a). Hic describitur et lau-datur sponsus a sponsa et sicut in amativis cantio-nibus fieri solet, in principio et in fine commendat eum breviter et in summa. In intermedio vero processu commendat eum specialius et distincte per partes sequens ordinem partium corporis virilis quem modum et ordinem sponsus supra in laudibus sponsae servavit (cf. Cn 4, 1-11). Primo ergo com-mendat eum in summa tam absolute quam res-pective, absolute quidem ex colore qui in pul-chritudine corporali tamquam primo visibili multum praefertur. Dicit ergo quod est “candidus et rubicundus” (10a). Horum enim colorum propor-tionata permixtio seu connexio est in corpore humano prae ceteris coloribus pulchra et grata. Per hoc autem significatur quod est plenus candore puritatis et sapientialis claritatis et flammeo rubore vividae caritatis. Respective autem com-mendat eum dicendo quod est electus ex millibus” (10b), id est: prae omnibus in omni virtute et decore praecellens et praeelectus.


Tab. VI.4

Vita Nova 1.9

[9] Elli mi comandava molte volte che io cercassi per vedere questa angiola giovanissima; onde io nella mia pueritia molte volte l’andai cercando, e vedeala di sì nobili e laudabili portamenti, che certo di lei si potea dire quella parola del poeta Homero: “Ella non parea figliuola d’uomo mortale, ma di Dio”.

Vita Nova 10.18 (vv. 15-18), 20 (vv. 30-36), 22 (vv. 43-44), 29, 30 [xix 7.9.11.18.19]

   Angelo clama in Divino Intellecto                   [18]
e dice: «Sire, nel mondo si vede
maraviglia nell’acto che procede
d’un’anima che ’nfin qua sù risplende».

   Madonna è disïata in sommo cielo:                [20]
or vo’ di sua virtù farvi sapere.
Dico, qual vuol gentil donna parere
vada con lei, che quando va per via
gitta nei cor’ villan’ d’amore un gelo,
per che onne lor pensero aghiaccia e pere;
e qual soffrisse di starl’ a vedere
diverria nobil cosa o si morria.

Dice di lei Amor: «Cosa mortale                       [22]
come esser può adorna e sì pura?».

[29] Questa seconda parte si divide in due: che nella prima dico di lei quanto dalla parte della nobilità della sua anima, narrando alquante delle sue virtudi effective che della sua anima procedeano; nella seconda dico di lei quanto dalla [parte della] nobilità del suo corpo, narrando alquante delle sue bellezze, quivi Dice di lei Amore. Questa seconda parte si divide in due: che nella prima dico d’alquante bellezze che sono secondo tutta la persona; nella seconda dico d’alquante bellezze che sono secondo determinata parte della persona, quivi Degli occhi suoi.

Cn 7, 1, p. 274

[283] Deinde ostenditur ei sua sufficientia in speciali et quasi per partes. Et sumitur hic metaphora sive tropus ex generosa dispositione corporis muliebris ex qua est apta et fortis ad prolem fortem et nobilem procreandam et educandam. Et quia partus est ad inferiora, ideo hic incipit ab inferioribus membris ascendens per ordinem usque ad supre-mum. Ac deinde ibi: “quam pulchra es” (6) redit suo more ad generalem commendationem suae suffi-cientis dispositionis proli expedientis.
Primo igitur incipit a pedibus dicens: “O filia principis” (1b), id est: Dei omnibus principantis, id est: O sponsa regiae formae tamquam summi regis filia, “quam pulchri sunt gressus tui in calceamentis” (1b), id est: quam pulchri et decentes sunt tui pedes cum suis pulchris et decentibus calceamentis et quam pulchre et decenter incedunt.
[287] Secundum enim tropum exteriorem in hoc a mundanis multum attenditur gloria et decentia regalium sponsarum et puellarum. Non enim laxe ac rusticaliter et incomposite calceantur et incedunt, sicut faciunt vetulae rusticanae, nec de vili et inordinata materia calceantur, sicut faciunt inopes mulieres, immo de valde pretiosis et pulchris. Per hoc autem spiritualiter designatur perfecta compositio ac restrictio et moderatio regularis disciplinae quae instar calceamentorum nobilium fundamentales processus nostrorum affectuum et actuum mira-biliter pulchrificant et adornant. Vel per hoc possunt designari regulares et exemplares informa-torie praedicationis et visitationis processus iuxta illud Isaiae quadragesimo: “Quam pulchri super montes pedes evangelizantis pacem” (Is 52, 7) et ad Ephesios sexto: “Calceati pedes in praeparatione evangelii pacis” (Eph 6, 15). […]

Cn 1, 7, p. 134

[66] Dicit ergo: “Si ignoras te” (7a), id est: tuam nobilitatem tam naturalem quam gratuitam per quam es pulcherrima inter mulieres, id est: super ceteras animas […].

Cn 6, 10, p. 260

[266] “Descendi in hortum meum” (10a). Haec est pars tertia principalis in qua agitur de nuptiali amore, prout est prolis spiritualis procreationi et gubernationi insistens. Et haec habet tres partes principales; quia primo ostenditur, quomodo ex suis virtutibus et conatibus est ad hoc idonea et exercitata et quomodo per hoc ad finalem fructum divinae prolis pertigit […].


Tab. VI.5

Cn 1, 2, p. 118

[19] “Ideo adolescentulae”, id est: sociae ipsius sponsae ad contemplationis suae apicem nondum attingentes, in Dei tamen notitia iam paulatim crescentes, “dilexerunt te” (2c). Quasi diceret: tanta est tua suavitas et ita longe se effundens, quod non solum ad tui amorem allicit sponsas, animas scilicet perfectiores, sed etiam adolescentulas, animas scilicet in tui notitia minus provectas.
[24] Et nota quod sponsa non describitur hic ut qualiscumque, sed ut nobilis et regia habens multas puellas in sua familia […].

Cn 6, 2, p. 248

[251] Quinta (commendatio) vero quae subditur infra capitulo septimo (Cn 7, 1-8), est ad ingerendum sponsae eius virtutem et idoneitatem ad spiritualem prolem procreandam et regendam et sponso delectabiliter offerendam, ut sic ex hoc assumat maiorem fiduciam et amorem spirituales filios procreandi et nutriendi et divinis laudibus et beneplacitis dedicandi.

Cn 1, 9-10, pp. 138, 140

[75] “Collum tuum sicut monilia” (9b) […] Hoc igitur ‘collum’ in sponsa est pulchrum “sicut monilia”. Est enim ‘monileornamentum per quod pectora virginum seu matronarum clauduntur. Inde dicta, quia monent seu arcent viros, ne inserant manus suas infra sinum earum, et sunt quasi quaedam magnae fibulae instar colli circulares. In toto igitur versu praedicto hoc intenditur quod sponsa habet decorem amoris castissimi cum sinceritate desiderii aeterni. Et per haec duo merito potest retrahi a sequendo vias “gregum” (7b) et praedictorum “pasto-rum” (7c). […]
[76] “Murenulas aureas faciemus tibi” (10a). […] Est ergo sensus: O sponsa, tanta tibi dabitur copia sapientiae et eloquentiae et scripturae sacrae et tantus ornatus seu cultus sacramentorum et virtualis disciplinae quod omnino dedignaberis sequi insipientiam et vilem vitam bestialium plebium.

Cn 1, 6-7, pp. 132, 134

[59] “Indica mihi quem diligit anima mea, ubi pascas, ubi cubes in meridie, ne vagari incipiam post greges sodalium tuorum (1, 6)” […] Quia si illud te praemonstrante continue non inspexero, oportet me vagari “post greges”, id est: post bestiales plebes seu congregationes “sodalium tuorum” (6b). […]
[65] Pro primo igitur dicit: “Si ignoras te, o pulcherrima inter mulieres, egredere (7ab)” etc. Quasi diceret: Si bene vis considerare tuae spiritualis pulchritudinis praeeminentiam qua omnes animas et ecclesias carnales vel imperfectas transcendis, satis habes rationem urgentem ad non sequendam vitam carnalem bestialium populorum aut praelatorum. Et loquitur sub eo typo quo mulieri formae egregiae et generosae solemus loqui, ne sequatur vias vilium feminarum allegando ei suam pulchritudinem et generositatem.
[66] Dicit ergo: “Si ignoras te” (7a), id est: tuam nobilitatem tam naturalem quam gratuitam per quam es pulcherrima inter mulieres, id est: super ceteras animas […].

 Vita Nova 10.24-25 (vv. 57-70) [xix 13-14]

   Canzone, io so che tu girai parlando          [24]
a donne assai, quand’io t’avrò avanzata.
Or t’amonisco, poi ch’io t’ò allevata
per figliuola d’Amor giovane e piana,
che là ove giugni tu dichi pregando:
«Insegnatemi gir, ch’io son mandata
a quella di cui laude io so’ adornata».
E se non vòli andar sì come vana,                [25]
non restare ove sia gente villana:
ingegnati, se puoi, d’esser palese
solo con donne o con omo cortese,
che ti merranno là per via tostana.
Tu troverai Amor con esso lei;
raccomandami a.llui come tu dêi.

Convivio, II, Voi che ’ntendendo il terzo ciel movete, 56-61

Onde, se per ventura elli adivene
che tu dinanzi da persone vadi
che non ti paian d’essa bene acorte,
allor ti priego che ti riconforte,
dicendo lor, diletta mia novella:
Ponete mente almen com’io son bella!”.

ibid., III, viii, 21 (Amor che nella mente mi ragiona)

Ultimamente, quando dico: Però qual donna sente sua bieltate, conchiudo, sotto colore d’ammonire altrui, lo fine a che fatta fue tanta biltade; e dico che qual donna sente per manco [di umilitade] la sua biltade biasimare, guardi in questo perfettissimo essemplo. Dove s’intende che non pur a migliorare lo bene è fatta, ma eziandio a fare della mala cosa buona cosa.

 

Tab. VI.5 bis

Cn 1, 10, pp. 138, 140

[76] “Murenulas aureas faciemus tibi” (10a). Sunt autem ‘murenulae’ catenae latae et spissae, de auro mire factae quae a capite defluentes ad cervicem ornandam aptantur, et haec virgulis auri et argenti artificiose distinctis et commixtis sunt contextae, dictae a quodam pisce nomine ‘murena’, quia consi-miles distinctiones et commixtiones colorum habet in cute sua vel quia capta vertit se in circulum; et secundum Gregorium huiusmodi murenulis seu catenis monilia collo ligantur. Et haec propter virgu-larum argentearum insertiones dicuntur “vermi-culatae”, id est rubricatae, “argento” (10b), id est desuper versibus et reticulationibus argenteis exor-natae et circumtextae, sicut in picturis quaedam virgulae rubeae solent colori albo superinseri vel econverso. Per hoc igitur potest intelligi ornamentum disciplinae vel sapientiae vel sacramentalis gratiae. Habet enim sponsa disciplinam moralem quasi auream, et aliquam caeremonialem priori desuper seu deforis insertam que est velut argentum. Eius etiam sapientia habet theorias de divinis quasi aureas et tropos similitudinum sensibilium et figuralium quasi virgulas argenteas. Et hoc modo est edita scriptura sacra seu sapientia sponsae. Constat ex intelligentia interiori et eloquentia exteriori. Sacra-menta etiam eius habent interius gratiam invisibilem et exterius speciem sensibilem. Haec autem non dantur a principio ipsi sponsae in tanta affluentia et evidentia, sicut fit postmodum exigente hoc neces-sitate suorum certaminum. Unde et ecclesia in initio sui ortus non habuit ita distinctum ornatum sacra-mentorum et sacramentalium mysteriorum nec tantam affluentiam scripturarum et magistralium seu disciplinalium institutorum, sicut habuit postmo-dum. Est ergo sensus: O sponsa, tanta tibi dabitur copia sapientiae et eloquentiae et scripturae sacrae et tantus ornatus seu cultus sacramentorum et virtualis disciplinae quod omnino dedignaberis sequi insi-pientiam et vilem vitam bestialium plebium.

Vita Nova 1.1 [i 1]

In quella parte del libro della mia memoria dinanzi alla quale poco si potrebbe leggere, si trova una rubrica la quale dice Incipit Vita Nova. Sotto la quale rubrica io trovo scripte le parole le quali è mio intendimento d’asemplare in questo libello, e se non tutte, almeno la loro sententia.

Vita Nova 10.26, 33 [xix 15.22]

[26] Questa canzone, acciò che sia meglio intesa, la dividerò più artificiosamente che l’altre cose di sopra. […] [33] Dico bene che a più aprire lo ’ntendimento di questa canzone si converrebbe usare di più minute divisioni; ma tuttavia chi non è di tanto ingegno, che per queste che sono facte la possa intendere, a me non dispiace se la mi lascia stare, ché certo io temo d’avere a troppi comunicato lo suo intendimento pur per queste divisioni che facte sono, s’elli avenisse che molti le potessero udire.

Vita Nova 7.13 [xiv 13]

Questo sonetto non divido in parti, però che la divisione non si fa se non per aprire la sententia della cosa divisa; onde con ciò sia cosa che per la sua ragionata cagione assai sia manifesto, non à mestiere di divisione.


Tab. VI.6

Vita Nova 11 [xx]

Apresso che questa canzone fue alquanto divulgata tra le genti, con ciò fosse cosa che alcuno amico l’udisse, volontade lo mosse a pregare me che io li dovessi dire che è Amore, avendo forse per l’udite parole speranza di me oltre che degna. [2] Onde io, pensando che apresso di cotale tractato bello era tractare alquanto d’Amore, e pensando che l’amico era da servire, propuosi di dire parole nelle quali io tractassi d’Amore; e allora dissi questo sonetto, lo quale comincia Amore e ’l cor gentile.

Amore e ’l cor gentile sono una cosa,            [3]
sì come il saggio in suo dictare pone,
e così esser l’un senza senza l’altro osa,
com’alma rational sanza ragione.
Falli Natura quand’è amorosa,                       [4]
Amor per sire e ’l cor per sua magione,
dentro la qual dormendo si riposa
tal volta poca e tal lunga stagione.
   Biltate appare in saggia donna poi,            [5]
che piace agli occhi sì, che dentro al core
nasce un disio della cosa piacente;
   e tanto dura talora in costui,
che fa svegliar lo spirito d’Amore.
E simil face in donna omo valente.

[6] Questo sonetto si divide in due parti. Nella prima dico di lui in quanto è in potentia; nella seconda dico di lui in quanto di potentia si riduce in acto. La seconda comincia quivi Biltate appare. [7] La prima si divide in due. Nella prima dico in che suggetto sia questa potentia; nella seconda dico come questo suggetto e questa potentia siano producti in essere, e come l’uno guarda l’altro come forma materia. La seconda comincia quivi Falli Natura. [8] Poscia quando dico Biltate appare, dico come questa potentia si riduce in acto; e prima come si riduce in omo, poscia come si riduce in donna, quivi E simil face in donna.

Cn 5, 1-2, p. 220

[211] Quia vero non sufficit sponso se solum refici ex fructibus sponsae, nisi et eius amici inde reficiantur et hoc usque ad summum; ideo subdit: “Comedite, amici, et bibite”, et hoc non semiplene, sed usque ad summum. Unde et subdit: “et inebriamini, carissimi” (1e). Dicit etiam: “comedite” (1e) etc., ut ostendat permaximam abundantiam fructuum sponsae suffi-cientem omnibus amicis suis non solum ad necessitatem reficiendis, sed etiam inebriandis.
[212] Quia vero haec ebrietas inducit et includit ecstaticum et quietum soporem, ideo sponsus huius soporis exemplum in seipso praebet suis amicis dicens “Ego dormio” (2a). Ne tamen credatur, ne huiusmodi sopor tollat perfectissimam vigiliam cordis, quod utique facit noster somnus communis, idcirco subdit: “et cor meum vigilat” (2a). Tunc enim cor est perfectissime in suo actu supremo.

Cn  2, 13-14, pp. 166, 168

[119] Pro quarto, id est: pro secunda invitatione, nota primo quod ex supradictis causis replicando tria nomina sponsae non in medio sicut prius, sed ultimo ponit nomen “columbae” (13c), quia sibi litteralius competit esse “in foraminibus” (14a) rupium et parietum ad quod sponsus hic eam invitat, quamvis et in hoc servetur tropus assumptus ex corporalibus sponsis quae ad spatiandum se cum sponso in vernantibus vineis aliquando convocantur. Et quia fertiles vineae plerumque sunt in locis prominentibus et saxosis in quibus sunt aliquae cavernae secreto amplexui sponsi et sponsae idoneae, idcirco sub hoc tropo sponsa hic invitatur.
Nota autem quod “petra” tam hic quam alibi pluries sumitur pro rupe vel saxo, et sic magis in talibus locis significat nomen hebraeum. “Maceria” autem est secundum Isidorum longus paries quo clauditur vinea. ‘Macron’ enim graece est idem quod ‘longum’. Potest tamen sumi pro quocumque instar parietis clausivo et ab aliis divisivo, et sic potest sumi pro saxeo pariete cavernarum, sicut et Genesis trigesimo octavo de Phares dicitur: “Quare divisa est propter te maceria” (Gn 38, 29), sumitur pro pellicula secundina qua involvitur et clauditur infans in utero matris. Hic igitur per ‘cavernas’ et ‘foramina’ rupis et parietum designantur spirituales et secretae mansiones solidae veritatis et aeternitatis Dei quas sponsa subintrans quiescit ibi cum sponso. Unde Exodi trigesimo tertio Moysi desideranti videre gloriam Dei dicit Deus: “Ecce est locus apud me et stabis supra petram” (Ex 33, 21) seu rupem, “cumque transibit gloria mea, ponam te in foramine petrae” (ibid., 22), id est: in caverna illius rupis, etc.
[126] Per hoc etiam designantur passiones Christi vel patula et profunda capacitas sui amoris ad animas in sui cordis et amoris visceribus collocandas. Et certe talia foramina libentissime debet sponsa intrare et inhabitare. Sic autem sumuntur foramina Ezechielis vigesimo octavo, ubi de Cherub dicitur: “et foramina tua”, id est: tuarum potentiarum et voluntatum capacia loca et desideria, “praeparata sunt” (Ez 28, 13), ad capiendum scilicet divini auri incastraturam.

Vita Nova 5.7 [xi 4]

Sì che appare manifestamente che nelle sue salute abitava la mia beatitudine, la quale molte volte passava e redundava la mia capacitade.


Tab. VI.7

Cn 2, 8.10-11, pp. 156, 160, 162 

[101] “Vox dilecti mei” (8a) Primae partis principalis parte prima terminata, hic subditur secunda. Sicut enim in praecedenti ostensum est quomodo sponsa per conatum proprium tracta est ad sponsi amplexum, sic in hac secunda ostenditur quomodo ad hoc trahitur per sponsi repentinum et vehementissimum illapsum seu adventum. Est autem subintelligendum quod sponsa a somno praefato iam ad alios actus evigilasset ac per consequens quod sponsus quantum ad apicem contemplativae praesentiae ab ea abscessisset et quod modo vocem ipsius iam redeuntis audiat. Unde dicit:
[102] “Vox dilecti mei” (8a), supple: haec est quam audio. Significat enim quod ex eius voce eius adventum primo deprehenderit, in quo et servat tropum communem; quia quando sponsa vel uxor audit vocem viri sui redeuntis, solet ad familiam dicere: Ecce dominus venit, paremus cito domum et nos ipsos. […]
[111] Pro tertio nota primo quod sponsus multis nominibus amorosis vocat sponsam: tum ut ex hoc suum amorem ad eam magis exprimat et imprimat, tum ut eius decorem et gratiositatem plenius commendet, et ex hoc ipsam ad eiusdem gratiositatis observantiam et augmentum incitet, et ut sic ex utriusque fiduciam et festinantiam accedendi ad sponsum fortius assumat. Primum tamen nomen proprie sumitur ab amicitia vel amore, secundum vero a columbina simplicitate quae est venusta, amativa et fecunda, et breviter: omnes gratiosas proprietates columbae in se mysterialiter aggregans; terium vero sumitur ex spiritualis formae speciositate. Semper tamen dicit “mea” (10bc): tum ut totam suam gratiositatem se habere agnoscat a sponso et pro sponso et ad sponsum et sub pleno dominio sponsi, tum quia hoc pronomen “mea” praedictis nominibus adiunctum significat quamdam singularem intimitatem unitatis et proprietatis seu amoris et vinculi unitivi et appropriativi sponsi ad sponsam, et e converso.
[112] Secundo nota quod ex vernalis temporis proprietate septem inducentia ad accessum sibi proponit (11-13), et possunt mystice ad internas sponsae proprietates aptari. Quia sicut appropinquatio solis ad regionem nostram in vere praedictas proprietates adducit, sic et divinae visitationis solaris adventus consimiles in spiritum proprietates inducit ex quibus sponsa habet merito festinare et currere ad sponsi amplexum. Possunt etiam aptari ad exteriorem statum ecclesiae illius temporis, quia tunc proprie formatur haec sponsa. Et tunc magis plene est tempus ipsius, quando Deus aliquem nobilem statum est in ecclesia formaturus, quale in synagoga fuit tempore editionis huius libri sub Salomone templum aedificante et Dei cultum praeclarius et felicius solemnizante, et quale fuit tempore Christi ac Constantini et sic de aliis.
[113] In primis autem duobus proponitur impedimentorum retrahentium amotio. Algor enim hiemalis et procella pluvialis et utriusque horrenda obscuritas solet sponsas retrahere, ne foras domum propriam ire velint. Veris ergo temperies et serenitas de se grata, sed propter praeeuntem pressuram hiemis et propter suam novitatem gratiosior, sponsam debet inducere ad spatiandum cum sponso extra arctitudinem domicilii sui, et ideo dicit: “Iam enim hiems transiit” (11a) etc. Sicut enim sub primo tempore regni Salomonis tempestates et obscuritates priorum temporum a Synagoga recesserant, ut tunc quietius et iucundius sapientiae divinae vacaret, sic pro tempore Christi Apostolus clamat: “Nox praecessit, dies autem appropinquavit” (Rom 13, 12) et: “Ecce nunc tempus acceptabile, ecce nunc dies salutis” (II Cor 6, 2). Nam algor et tenebra caeremoniarum carnalium Synagogae et idolatriae gentium longe abscesserant ab ecclesia Christi. Et sic de similibus temporibus consimilia intuere.

Vita Nova 15 [xxiv]

Apresso questa vana ymaginatione, avenne uno die che sedendo io pensoso in alcuna parte, e io mi senti’ cominciare un terremuoto nel cuore, così come se io fossi stato presente a questa donna. [2] Allora dico che mi giunse una ymaginatione d’Amore: che mi parve vederlo venire da quella parte ove la mia donna stava, e pareami che lietamente mi dicesse nel cuor mio: «Pensa di benedicere lo dì che io ti presi, però che tu lo dêi fare». E certo me parea avere lo cuore sì lieto, che me non parea che fosse lo mio cuore, per la sua nuova conditione. [3] E poco dopo queste parole, che lo cuore mi disse colla lingua d’Amore, io vidi venire verso me una gentil donna, la quale era di famosa bieltade e fue già molto donna di questo mio primo amico. E lo nome di questa donna era Giovanna, salvo che per la sua bieltate, secondo che altri crede, imposto l’era nome Primavera, e così era chiamata. E apresso lei guardando vidi venire la mirabile Beatrice. [4] Queste donne andaro presso di me così, l’una apresso l’altra, e parve che Amore mi parlasse nel cuore e dicesse: «Quella prima è nominata Primavera solo per questa venuta d’oggi; ché io mossi lo imponitore del nome a chiamarla così Primavera, cioè Prima-verrà lo die che Beatrice si mosterrà dopo la ymaginatione del suo fedele. E se anche vòli considerare lo primo nome suo, tanto è quanto dire Primavera, però che lo suo nome Giovanna è da quello Giovanni lo quale precedette la verace luce dicendo: “Ego vox clamantis in deserto: parate viam Domini”». [5] E anche mi parve che mi dicesse dopo queste parole: «E chi volesse sottilmente considerare, quella Beatrice chiamerebbe Amore per molte simiglianze che à meco». [6] Onde io poi ripensando propuosi di scrivere per rima allo mio primo amico (tacendomi certe parole, le quali pareano da tacere), credendo io che ancora lo suo cuore mirasse la bieltade di questa Primavera gentile. E dissi questo sonetto, lo quale comincia Io mi senti’ svegliare.

Io mi senti’ svegliar dentro allo core             [7]
un spirito amoroso che dormia;
e poi vidi venir da lungi Amore
allegro sì, che appena il conoscea,
dicendo: «Or pensa pur di farmi onore»;
e ciascuna parola sua ridea.
E poco stando meco ’l mio signore,                   [8]
guardando in quella parte onde venia,
   io vidi monna Vanna e monna Bice
venire inver’ lo loco là ov’io era,
l’una apresso dell’altra maraviglia;
   e sì come la mente mi ridice,                             [9]
Amor mi disse: «Quell’è Primavera,
e quell’à nome Amor, sì mi somiglia».

[10] Questo sonetto à molte parti, la prima delle quali dice come io mi senti’ svegliare lo tremore usato nel cuore, e come parve che Amore m’apparisse allegro nel mio cuore da lunga parte; la seconda dice come me parea che Amore mi dicesse nel mio cuore, e quale mi parea; la terza dice come, poi che questi fue alquanto stato meco cotale, io vidi e udi’ certe cose. La seconda parte comincia quivi dicendo: Or pensa pur di farmi onore; la terza quivi E poco stando. [11] La terza parte si divide in due. Nella prima dico quello che io vidi; nella seconda dico quello che io udi’. La seconda comincia quivi Amor mi disse.

 

Tab. VI.8

Cn 1, 1-2, pp. 114, 116, 118

[11] Quid autem eam ad hoc alliciat, subdit: “Quia meliora sunt ubera tua vino” (1b), quasi dicat: praedictam tui unionem sic desidero, quia ineffabilis exuberantia suavitatum a te manat.
[12] Ubera enim sunt in pectore et circa cor, aspectu decora, tactu mollia et suavia et lac dulce ubertim propinantia. Unde per ubera sponsi possunt generaliter significari omnes divinae perfectiones a quibus manant stillicidia suavitatum in corda electorum, vel duplex virtus fecunditatis a quibus manant duae personae, scilicet sapientia et amor, vel praedestinatio gratiae et gloriae vel duo Testamenta. […]
[16] “Fragrantia unguentis optimis” (2a). Loquitur instar nobilium terrae orientalis quorum corpora sunt variis unguentis delibuta. Nec est per hoc intelligendum, quod in Deo sit aliquid adventitium aut superinfusum, sed per hoc significatur immensa redundantia et superexcrescentia divinarum perfectionum sibi substantialium. Quia enim per proprietates substantiales seu naturales naturae humanae perfectiones sponsi sufficienter exprimi nequeunt, ideo sponsa per multa quae solent corporibus humanis ad eorum ornatum  adiungi, nititur exprimere redundantiam suavitatum sponsi. Dicitur autem unguentum confectio facta ex oleo et variis pigmentis seu aromaticis speciebus, et ideo fragrantiam magni odoris de se spargunt. In Deo autem absque compositione est immensa multitudo omnium virtutum et suavitatum ineffabilem odoris fragrantiam spargentium in animas sanctas. […]
[19] “Oleum effusum nomen tuum” (2b). Quasi diceret: Non solum tu aut tua ubera sunt delibuta unguentis, sed etiam sola memoria tui nominis est tanquam purum oleum suavitatis, et hoc non qualecumque, sed “effusum”, id est: exterius longe lateque diffusum. Vel per “nomen” potest intelligi ipsa persona sponsi eo modo loquendi quo per signum designamus signatum. Vel potest per “nomen” intelligi personae eius notitia et fama quae tota est suavis et ubique diffusa et super alios liquores seu suavitates superne natans quasi oleum.
“Ideo adolescentulae”, id est: sociae ipsius sponsae ad contemplationis suae apicem nondum attingentes, in Dei tamen notitia iam paulatim crescentes, “dilexerunt te” (2c). Quasi diceret: tanta est tua suavitas et ita longe se effundens, quod non solum ad tui amorem allicit sponsas, animas scilicet perfectiores, sed etiam adolescentulas, animas scilicet in tui notitia minus provectas.
[24] Et nota quod sponsa non describitur hic ut qualiscumque, sed ut nobilis et regia habens multas puellas in sua familia, sicut infra adhuc magis patebit. Et consimiliter sponsus hic describitur habens multos socios et pronubas et amicos.

Cn 8, 6, p. 312

[336] “Pone me ut signaculum” (6a), id est: ut sigillum tibi impressum vel ut signum altum et amabile a te semper inspiciendum, et “ut signaculum super brachium tuum” (6b), id est:  sic me tibi imprime quod intra corde et extra in tuorum brachiorum complexibus semper me baiules sive portes. Vel “super brachium”, id est: super fortitudinem tuorum operum et tuarum potentiarum operativarum.
[337] Ne autem sola ratio debitae gratitudinis allegetur a sponso, subdit rationem aliam utilitatis scilicet ex hoc consequendae. Huiusmodi enim sigillaris memoria seu impressio et fit per amorem et accendit et nutrit et auget amorem quem, ut ostendat non modicum appretiandum, ostendit eius quintuplicem et singularem praecellentiam et efficaciam. Nam in divisivis ac zelativis et punitivis ac illuminativis et incensivis et in perseverativis seu triumphativis et in appretiabilibus seu pretiis et pretiosis tenet admirabilem principatum.

Vita Nova 17 [xxvi]

Questa gentilissima donna, di cui ragionato è nelle precedenti parole, venne in tanta gratia delle genti, che quando passava per via, le persone correvano per vedere lei, onde mirabile letitia me ne giugnea nel cuore. E quando ella fosse presso d’alcuno, tanta onestà giugnea nel cuore di quello, che non ardia di levare gli occhi, né di rispondere al suo saluto. E di questo molti, sì come esperti, mi potrebbono testi-moniare a chi no.llo credesse. [2] Ella coronata e vestita d’umiltà s’andava, nulla gloria mostrando di ciò ch’ella vedea e udia. Diceano molti, poi che passata era: «Questa non è femina, anzi è de’ bellissimi angeli del cielo». E altri diceano: «Questa è una maraviglia; che benedecto sia lo Signore, che sì mirabilemente sa operare!». [3] Io dico che ella si mostravagentile e sì piena di tutti li piaceri, che quelli che la miravano comprendeano in loro una dolcezza onesta e soave tanto, che ridire no.llo sapeano; né alcuno era lo quale potesse mirare lei, che nel principio nol convenisse sospirare. [4] Queste e più mirabili cose da.llei procedeano virtuo-samente. Onde io pensando a.cciò, volendo ripi-gliare lo stilo della sua loda, propuosi di dicere parole nelle quali io dessi ad intendere delle sue mirabili ed excellenti operationi, acciò che non pur coloro che la poteano sensibilemente vedere, ma gli altri sap-piano di lei quello che le parole ne possono fare intendere. Allora dissi questo sonetto Tanto gentile.

Tanto gentile e tanto onesta pare                  [5]
la donna mia quand’ella altrui saluta,
ch’ogne lingua deven tremando muta
e gli occhi no l’ardiscon di guardare.
Ella si va, sentendosi laudare,                           [6]
benignamente d’umiltà vestuta;
e par sia una cosa venuta
da cielo in terra a miracol mostrare.
   Mostrasipiacente a chi la mira,             [7]
che dà per gli occhi una dolcezza al core,
che ’ntender no.lla può chi no.lla prova;
   e par che della sua labbia si mova
un spirito soave pien d’amore,
che va dicendo all’anima: Sospira.

Vita Nova 10.18 (vv. 15-18); 20 (vv. 29-36); 22 (vv. 43-44) [xix 7.9.11]

Angelo clama in Divino Intellecto
e dice: «Sire, nel mondo si vede
maraviglia nell’acto che procede
d’un’anima che ’nfin qua sù risplende».

Madonna è disïata in sommo cielo:
or vo’ di sua virtù farvi savere.
Dico, qual vuol gentil donna parere
vada con lei, che quando va per via
gitta nei cor’ villan d’amore un gelo,
per che onne lor pensero aghiaccia e pere;
e qual soffrisse di starl’ a vedere
diverria nobil cosa o si morria.

Dice di lei Amor: «Cosa mortale
come esser può adorna e sì pura?».

Cn 5, 16, pp. 242, 244

[241] “Guttur illius suavissimum” (16). Guttur est radicalis pars faucium, ubi radicaliter consistit vis gustativa ciborum. Unde secundum Papiam gustus a ‘gutture’ dicitur. [242] Potest autem generaliter sumi pro toto palatu et ore, ut sic propter tropum nuptialis osculi significetur non solum esse “suavissimum” in se, sed etiam sponsae. “Et totus desiderabilis” (16a), hoc est vere proprium et praeconiale nomen sponsi solum Deum amantibus et gustantibus notum. Nihil enim potest in Christo dilecto occurrere, quin sit summe desiderabile. Unde et ab Aggaeo Propheta vocatur “desideratus cunctis gentibus” (Agg 2, 8). Deinde sponsa tamquam de tali sponso glorians gloriatur, ad “filias Ierusalem”, id est: ad communem multitudinem synagogae vel ecclesiae, dicit: “Talis est dilectus meus” (16b) etc.

Vita Nova 17

[8] Questo sonetto è sì piano ad intendere per quello che narrato è dinanzi, che non abisogna d’alcuna divisione. E però, lasciando lui, dico che questa mia donna venne in tanta gratia, che non solamente ella era onorata e laudata, ma per lei erano onorate e laudate molte. [9] Onde io, veggendo ciò e volendo manifestare a chi ciò non vedea, propuosi anche di dire parole nelle quali ciò fosse significato; e dissi allora questo altro sonetto che comincia Vede perfectamente ogne salute, lo quale narra di lei come la sua virtute adoperava nell’altre, sì come appare nella sua divisione.

Vede perfectamente ogne salute              [10]
chi la mia donna tra le donne vede:
quelle che vanno con lei son tenute
di bella gratia a Dio render merzede.
E sua beltate è di tanta virtute,                   [11]
che nulla invidia all’altre ne procede,
anzi le face andar seco vestute
di gentilezza, d’amore e di fede.
   La vista sua fa ogni cosa umile;                    [12]
e non fa sola parer piacente,
ma ciascuna per lei riceve onore.
   Ed è negli acti suoi tanto gentile,           [13]
che nessun la si può recare a mente
che non sospiri in dolcezza d’amore.

[14] Questo sonetto à tre parti. Nella prima dico tra che gente questa donna più mirabile parea; nella seconda dico sì come era gratiosa la sua compagnia; nella terza dico di quelle cose che virtuosamente operava in altrui. La seconda parte comincia quivi quelle che vanno; la terza quivi E sua beltate. [15] Questa ultima parte si divide in tre. Nella prima dico quello che operava nelle donne, cioè per loro medesime; nella seconda dico quello che operava in loro per altrui; nella terza dico come non solamente nelle donne, ma in tutte le persone, e non solamente nella sua presentia, ma ricordandosi di lei, mirabilemente operava. La seconda comincia quivi La vista; la terza quivi Ed è negli acti.

Cn 6, 4a, pp. 250, 252

Deinde volens laudem “oculorum” sponsae ingeniose monstrare, subdit quaedam verba in triplici sensu legenda. Secundum autem primum sensum iubet oculorum suorum aspectus in sponsum moderari, dicens:
[254] “Averte oculos tuos”, id est: oculorum tuorum aspectus, “a me” (4a), id est: ab illa maiestatis et claritatis meae transcendentia tibi inaccessibili et incomprehensibili. Quasi diceret: noli ultra mensuram tuarum virium me et mea arcana inspicere, quia propter hoc a te alias evolavi et abscessi: ut scilicet experimento probares quod non potes me comprehendere, nec per te nisi quantum tibi ex mea gratia condescendo, me attingere, nec quamdiu es in carne corruptibili, mecum semper consolatorie et pro libito immorari. Continetur autem in hoc magna laus “oculorum” sponsae, quia sic sunt in Deum totaliter et excessive intenti quod non oportet sibi dicere: “Averte oculos tuos, ne videant vanitatem” (cf. Ps 118, 37), sed averte eos a nimio mei aspectu. […]
[256] Quantum autem ad tertium sensum est rhetoricus et hyperbolicus ac passionalis modus loquendi quo significat se ita captum esse in gratiosis oculis sponsae, quod quasi expedit sibi quod avertat eos ab ipso; quasi diceret: si essem talis condicionis, sicut utique est homo mortalis, ut expediret mihi a sponsa mea aliquando discedere et ab eius amore nimio me saltem aliquantulum temperare, necesse esset quod aliquando me non inspiceres, sed potius oculos tuos a me absconderes aut quod ego a te avolarem. Hic autem locutionis tropus est optimus ad exprimendum excessivam gratiositatem “oculorum” sponsae et excessivam complacentiam sponsi in eis. Qui etiam praeter modum iam dictum pro tanto verificatur, pro quanto non decet Deum sic se exhibere sponsae, dum ipsa hic vivit. Et cum hoc nec decet quod ipse fugiat et avolet a sponsa tam decora et tantum amante, nisi ipsa ex sua discretione et propria libertate se ad horam subtrahat ab ecstatico sponsi contuitu et contemplatione occupando scilicet se ad horam in aliis necessariis vel condecentibus huic vitae mortali. 

Cn 6, 10, p. 260

[266] “Descendi in hortum meum” (10a). Haec est pars tertia principalis in qua agitur de nuptiali amore, prout est prolis spiritualis procreationi et gubernationi insistens. Et haec habet tres partes principales; quia primo ostenditur, quomodo ex suis virtutibus et conatibus est ad hoc idonea et exercitata et quomodo per hoc ad finalem fructum divinae prolis pertigit […].

Cn 7, 1, pp. 274, 276

[283] […] Primo igitur incipit a pedibus dicens: “O filia principis” (1b), id est: Dei omnibus principantis, id est: O sponsa regiae formae tamquam summi regis filia, “quam pulchri sunt gressus tui in calceamentis” (1b), id est: quam pulchri et decentes sunt tui pedes cum suis pulchris et decentibus calceamentis et quam pulchre et decenter incedunt. […]
[287] Secundum enim tropum exteriorem in hoc a mundanis multum attenditur gloria et decentia regalium sponsarum et puellarum. Non enim laxe ac rusticaliter et incomposite calceantur et incedunt, sicut faciunt vetulae rusticanae, nec de vili et inordinata materia calceantur, sicut faciunt inopes mulieres, immo de valde pretiosis et pulchris. Per hoc autem spiritualiter designatur perfecta compositio ac restrictio et moderatio regularis disciplinae quae instar calceamentorum nobilium fundamentales processus nostrorum affectuum et actuum mirabiliter pulchrificant et adornant. Vel per hoc possunt designari regulares et exemplares informatorie praedicationis et visitationis processus iuxta illud Isaiae quadragesimo: “Quam pulchri super montes pedes evangelizantis pacem” (Is 52, 7) et ad Ephesios sexto: “Calceati pedes in praeparatione evangelii pacis” (Eph 6, 15).
[289] Deinde de ‘iuncturis feminum’ (cf. 1c) seu femorum quae in feminis ‘femina’ vocantur, dicit quod sunt “sicut monilia manu artificis”, id est artificiosissime ‘fabricata’ (cf. 1c). Quod enim homo vel femina stet vel incedat interioribus partibus femorum bene et concorditer ac proportionaliter iunctis, facit ad decorem et stabilitatem, et est signum constantiae et vigoris.

 

Tab. VI.9 (in rosso le parti in prosa)

Cn 4, 7 (sponsus)

Vita Nova 10 [xix] (Amor)

eam commendat

quomodo dicit

de sola macula mortali

di lei (10.22, v. 43)

dice come (10.22, vv. 43, 44)

mortale (10.22, v. 43)

Cn 5, 10 (sponsa)

Vita Nova 10 (Dante)

ex colore

candore puritatis

proportionata

flammeo rubore vividae caritatis

color (10.22, v. 47)

pura di perle (10.22, vv. 44, 47)

non for misura (10.22, v. 48)

spirti d’amore inflammati (10.23, v. 52)

 Cn 6, 12 (sponsus: requisitio sponsae)

Vita Nova 10 (Dante)

 utilitas exempli

per exemplo di lei (10.22, v. 50)

Cn 6, 10; 7, 1

(de nuptiali amore, prout est prolis spiritualis procreationi et gubernationi insistens)

 Vita Nova 10 [xix]

ex suis virtutibus

per partes

processus actuum

ex generosa dispositione corporis muliebris

ad prolem fortem et nobilem procreandam et educan-dam

quam pulchre et decenter incedunt

nec de vili et inordinata materia calceantur … restrictio et moderatio regularis disciplinae

mirabiliter pulchrificant et adornant

sua virtù, sue virtudi (10.20, v. 30. 29)

dalla parte (10.29)

nell’acto che procede procedeano (10.18, v. 17. 29)

nobilità del suo corpo (10.29)

Dico, qual vuol gentil donna parere … diverria nobil cosa (10.20, vv. 31, 36)

quando va per via (10.20, v. 32)

gitta nei cor’ villan’ d’amore un gelo (10.20, v. 33)
 

maravigliasì adorna (10.18, v. 17. 22, v. 44)

Cn 1, 1-2

Vita Nova 17 [xxvi]

dulce in corda

 

ineffabilis exuberantia suavitatum suavia

omnes divinae perfectiones … superexcrescentia divi-narum perfectionum

instar nobilium terrae orientalis … ut nobilis et regia


immensa multitudo omnium virtutum

Non solum tu … sed etiam sola memoria tui nominis

 

tanta est tua suavitas

dolcezza, dolcezza (2) … al core (17.3. 7, v. 10. 13, v. 14)

soave (17.7, v. 13)

perfectamente ogne (17.10, v. 1)
 

gentile, gentile (2), gentilezza (17.3.5, v. 1. 11, v. 8. 13, v. 12)

virtuosamentevirtute (17.4.11, v. 5)

e non fa sola sé … la si può recare a mente … e non solamente nella sua presentia, ma ricordandosi di lei (17.12, v. 10. 13, v. 13. 15)

e soave tanto (17.3)

Cn 6, 10; 7, 1

(de nuptiali amore, prout est prolis spiritualis procreationi et gubernationi insistens)

Vita Nova 17

ex suis virtutibus

 

processus actuum

 

ad prolem fortem et nobilem procreandam et edu-candam

quam pulchre et decenter incedunt

 

mirabiliter pulchrificant

iuncturis feminum

virtuosamente (2) … la sua virtute … di tanta virtute (17.4.9.11, v. 5.14)

procedeanone procedenegli acti (17.4.11, v. 6.13, v. 12)

gentilezza (17.11, v. 8)

 

quando passava per viaElla si va … quelle che vanno (17.1.6, v. 5.10, v. 3)

una maravigliamirabilemente (2) … mirabile/i (4) … beltate (17.1.2.4.11, v.5, 14.15)

giugnea (2) … femina (17.1.2)

 Cn 6, 4 (sponsus)

Vita Nova 17

volens laudem “oculorum” … monstrare … ad exprimendum excessivam gratiositatem “oculorum” … et excessivam complacentiam

ut scilicet experimento probares quod non potes me comprehendere

si mostravali piaceri … Mostrasi  sì piacente … che dà per gli occhi (17.3. 7, vv. 9-10)
 

che ’ntender no.lla può chi no.lla prova (17.7, v. 11)

 Cn 5, 16 (sponsa)

Vita Nova 17

 “desideratus cunctis gentibus

venne in tanta gratia delle genti (17.1)


Tab. VI.10

Cn 4, 3.11, pp. 196, 208

[172, a sponso commendatur et describitur formo-sitas sponsae] Per “labia” vero instar ‘vittae coccinae’ (cfr. 3a) rubentia significantur virtutes Deo et hominibus affabiles et benignae et quasi ad dulcia Dei et proximi oscula aptae. Per ipsa etiam designantur virtutes divinorum sermonum prolativae et interpretativae quae igne divini amoris debent valde rubere, ut scilicet totum quod loquuntur, sit spiritualis amor et ardor et dulcor – iuxta quod Christus Iohannis sexto dicit: “Verba quae loquor vobis, spiritus et vita sunt” (Io 6, 64). Haec autem ‘vittae coccinae’ comparat non solum ratione ruboris ignei designati in cocco, id est: in vermiculo sive rubro, sed etiam ratione ‘vittae’ qua sponsarum crines et genae vinciuntur sive ligantur, quia carita-tivum eloquium omnia ligat in unum. […]

[194] Pro quinto dicit quod “labia tua” sunt “favus distillans”, scilicet mel divinorum eloquiorum, et “mel et lac sub lingua tua” (11ab). Sicut enim Emma-nuel butyrum et mel comedet (cf. Is 7, 15), sic sponsa eius ‘mel’ divinae et angelicae sapientiae et dilectionis et ‘lac’ purae sanctorum vitae et innocentiae habet sub lingua suorum eloquiorum quibus filios suos nutrit. ‘Mel’ enim per apis solertiam ex roridis flo-ribus colligitur, ‘lac’ vero ex ovibus emungitur; ideo per ‘mel’ sapientia superior, per ‘lac’ vero inferior designatur.

Vita Nova 17 [xxvi].6-7, vv. 5-6, 9-14

Ella si va, sentendosi laudare,
benignamente d’umiltà vestuta

   Mostrasi sì piacente a chi la mira,
che dà per gli occhi una dolcezza al core,
che ’ntender no.lla può chi no.lla prova;
   e par che della sua labbia si mova
un spirito soave pien d’amore,
che va dicendo all’anima: Sospira.

Cn 5, 13, p. 240

[236, laudatur sponsus a sponsa] “Labia eius” sunt “distillantia myrrham primam” (13b), id est: docentia et in auditoribus diffundentia summam et praeci-puam puritatem iuxta illud Psalmi: “Eloquia Domini eloquia casta” (Ps 11, 7) etc.

Cn 5, 16, pp. 242, 244

[241] “Guttur illius suavissimum” (16). Guttur est radicalis pars faucium, ubi radicaliter consistit vis gustativa ciborum. Unde secundum Papiam gustus a ‘gutture’ dicitur. [242] Potest autem generaliter sumi pro toto palatu et ore, ut sic propter tropum nuptialis osculi significetur non solum esse “suavissimum” in se, sed etiam sponsae. “Et totus desiderabilis” (16a), hoc est vere proprium et praeconiale nomen sponsi solum Deum amantibus et gustantibus notum. Nihil enim potest in Christo dilecto occurrere, quin sit summe desiderabile. Unde et ab Aggaeo Propheta vocatur “desideratus cunctis gentibus” (Agg 2, 8). […]

Cn 2, 5, p. 152

[94] Nota autem quod tunc amor incipit super-excedere, quando totam mentem elanguescere facit, ita quod prae nimietate desiderii seu suspirii et languoris seipsam sustinere non valet. In hunc ergo gradum sponsa sublevata subdit: [95] “Fulcite me floribus, stipate me malis”, id est: pomorum ramis vel fructibus, “quia amore langueo” (5).

Vita Nova 17 [xxvi].1, 3

Questa gentilissima donna, di cui ragionato è nelle precedenti parole, venne in tanta gratia delle genti, che quando passava per via, le persone correvano per vedere lei, onde mirabile letitia me ne giugnea nel cuore. […] [3] Io dico che ella si mostrava sì gentile e sì piena di tutti li piaceri, che quelli che la miravano comprendeano in loro una dolcezza onesta e soave tanto, che ridire no.llo sapeano; né alcuno era lo quale potesse mirare lei, che nel principio nol convenisse sospirare.

labia eius

benignae

dulcia

loquuntur, loquor, lingua

spiritualis

amor

suavissimum

incipit

suspirii

sua labbia

benignamente

dolcezza

che va dicendo

un spirito

amore

soave

nel principio

sospirare, sospira

 

7. Punti fermi e problemi aperti

I passi proposti, per quanto frutto di estesi sondaggi, hanno un valore significativo ma limitato. Non escludono l’utilizzazione dell’esegesi di altri luoghi del Cantico dei Cantici né di ulteriori opere esegetiche (sopra si è vista l’incidenza della Lectura super Lucam di Olivi). In quanto si è mostrato non si tratta di coincidenze casuali, perché troppo numerose: la quantità è in questo caso qualità primaria. Né il rapporto si registra con il solo libro salomonico, perché la semantica proviene per la maggior parte non dal testo biblico, ma dalla sua esegesi. Non si tratta di una qualunque possibile esegesi, perché alcuni passi (come la citazione dei Moralia di Gregorio Magno a Cn 8, 2, tanto influente sull’episodio della Gentile o Pietosa) sono tipicamente oliviani.
Brevemente, qui di seguito, si individuano alcuni punti fermi sui quali riflettere nel proseguire lo scavo della Vita Nova, concernenti il metodo dell’autore come fin qui si è palesato, i suoi scopi e i problemi che le nuove scoperte pongono allo studioso.

Metodo

  • L’esegesi si presenta come “panno” su cui fare la “gonna”; l’autore cerca in essa l’unità interna dell’opera; il riferimento è a un testo principale (l’Expositio in Canticum Canticorum di Olivi), con l’innesto di altri che con il primo concordano.

  • Si registrano metodi propri dei predicatori: la collatio, cioè il confronto, fra più passi; la distinctio, raccolta analogica di parole dai vari significati.

  • Su quanto raccolto si esercita per la poesia l’“arte musaica” di legar parole (Convivio IV, vi, 4); l’autore costruisce in modo autonomo il racconto in prosa che non è calco del commento scritturale; alcuni termini, o rose di essi, operano come signacula dell’esegesi. Questa sembra proporsi come una “guida” scelta dall’autore, forse quella che il suo primo amico e destinatario del “libello”, Guido Cavalcanti, “ebbe a disdegno” (cfr. Inf. X, 63).

  • Ciò che in Olivi è teologicamente inteso in senso assoluto e concentrato su Cristo, lo sposo, o la sposa, viene isolato e separato in più affluenti, facendo risuonare ora l’uno ora l’altro tema su più soggetti [1]. È il metodo tipico della parodia.

Scopi

  • Una vicenda personale e cittadina viene inserita in una storia universale, quella di Cristo (lo sposo) e della sua imitazione da parte di Beatrice e di Dante, tramite la sua donna. Nella Commedia, lo spirito profetico, che non è soltanto previsione di eventi futuri, avrebbe dato alle vicende un valore esemplare. Tutti i tre più gravi peccati capitali – superbia, invidia e avarizia -, affermerà Ciacco, cooperano alle divisioni di Firenze, e ne sono concausa (Inf. VI, 74-75). Un particolare fatto cittadino sarebbe stato elevato a modello di male universale, e questo espandersi verso l’universale al di là del proprio particolare, per poi ritornarvi, è una caratteristica del modo tenuto dai grandi profeti, Isaia o Ezechiele e da Cristo stesso. Così si potrà ancora dire della fama di Firenze che “si spande” per tutto l’inferno (Inf. XXVI, 1-3), o che la città “è pianta” di Lucifero (Par. IX, 127-128).
    Nella Vita Nova (19.8 [xxx 1]) la desolazione di Firenze per la morte di Beatrice è degna di essere comunicata “alli principi della terra”. L’episodio del gabbo (Vita Nova 7 [xiv]), nel quale – osserva Gorni – “la piccola cerchia, industriosa e intelligentissima, dell’innominata Firenze assiste a una scena corale di crudeltà femminile ai danni del poeta” (alla quale partecipa anche Beatrice) [2], rispecchia le tribolazioni della sposa mortificata e disprezzata da parte delle “filiae Ierusalem”, cioè delle molte donne imperfette nel seguire la “lex divini amoris” (Cn 1, 3-4). Eppure la sposa, “ad Dei imaginem … reformata”, le invita a considerare la causa del suo essere scolorita – “nigra sum, sed formosa” – e come morta al mondo. Mutata, trasformata, essa è resuscitata da morte tramite la croce di Cristo, del quale ripete la passione e la derisione (Cn 8, 2.5-6). Così Dante viene schernito (“a così dischernevole vista”: Vita Nova 8 [xv].1) da molte donne a motivo della “transfigurazione” patita nel vedere fra esse Beatrice; a costei si rivolge nel sonetto Con l’altre donne mia vista gabbate, per spiegare la causa della sua derisa mutazione.
    Il risultato non è un libro devozionale né un trattato sulla contemplazione – un nuovo Benjamin emulo di Riccardo di San Vittore -, ma una storia reale assurta a storia sacra della salvezza collettiva. La legge di Cristo, di cui dice Olivi esponendo Matteo 11, 4-6, è la legge di Beatrice, non una ‘santa’ qualsiasi, ma la vera imitatrice del Redentore:

    In hac etiam responsione comprehenditur universalis seu ordinaria Christi doctrina, quia in ea ostenditur quod Christi persona seu Christi doctrina et lex est lex veritatis cecos illuminantis, et equitatis tortos gressus rectificantis, et puritatis carnis immunditias abstergentis, et imperiositatis facientis sibi obedire duros et surdos, et vite seu vivacitatis vivificantis mortuos, et summe paupertatis seu libertatis et humilitatis pauperes singulariter honorantis, est etiam lex summe felicitatis miseros beatificantis. Sicut autem opera miraculorum exteriora sensibus hominum clamant ipsum esse Christum redemptorem hominum, sic septem predicta opera intellectualiter clamant ipsum esse Deum salvatorem animarum (PETRI IOHANNIS OLIVI Lectura super Matthaeum, Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, ms. Vat. lat. 10900, f. 92va).

  • Il fine principale di così intenso lavorio è, però, cavare il volgare dal latino; lo sarà anche nella Commedia.

Problemi

  • Dante, che Cola di Rienzo chiamò “theologus magnus” ma che in vita si definì “phylosophorum minimus”, non parla mai della sua formazione teologica, ma solo di quella filosofica. Filosofia e teologia sono materie pertinenti a cieli diversi: la prima al Cielo stellato (Fisica e Metafisica) e al Primo Mobile (Morale Filosofia), la seconda all’Empireo (Convivio II xiv, 1-21). Michele Barbi, contro quanti già ai suoi tempi accampavano influenze di Olivi e degli Spirituali francescani, riteneva che a Dante potesse bastare la Bibbia. Il confronto testuale attesta invece quanto intensa sia stata l’elaborazione parodica dell’esegesi. Non a caso la teologia nel Convivio viene definita “una” come la sposa-colomba, preferita alle sessanta regine, alle ottanta amiche concubine e alle ancelle adolescenti delle quali non è numero, secondo il Cantico dei Cantici 6, 7-8, già ispiratore della “pìstola sotto forma di serventese” menzionata nella Vita Nova 2.11 [vi 2], nella quale Beatrice si collocava al nono posto dei sessanta. Quando Dante cominciò a interessarsi all’esegesi della Scrittura? Probabilmente prima della sua frequentazione “nelle scuole delli religiosi e alle disputazioni delli filosofanti” (Convivio, II, xii, 7; a partire dall’estate 1293: cfr. supra), anche se in quella sede avrà avuto modo di studiare ancora la sacra pagina. Quanto prima? Non è possibile rispondere con precisione; se il sonetto Cavalcando mostra i segni di questo interesse, la maggiore accentuazione sembra concentrarsi attorno al 1290, anno della morte di Beatrice: nel 1289 Olivi aveva lasciato Santa Croce, unico luogo dove Dante poteva vedere a Firenze i suoi scritti.

  • Il confronto con l’esegesi biblica, una volta ancor più esteso e approfondito, potrà forse aiutare a comprendere meglio le fasi di composizione del “libello”. Per il momento, alla domanda se sia esistita una Ur-Vita Nova alla quale l’episodio della Donna Gentile (o Pietosa) sia stato aggiunto in un secondo momento, la risposta sembra essere negativa. Il “panno” di Cn 8, 2 non è servito infatti solo per i paragrafi della Gentile (cfr. Vita Nova 6 [xiii]; 14 [xxiii]). D’altronde, se il modello è la vita di Cristo e la sua imitazione, dopo la vita (Beatrice), i miracoli (intellettuali) e la passione e morte per la nostra salute subentrano le persecuzioni, i martìri dei suoi discepoli rimasti in terra (Dante): i paragrafi relativi alla Gentile rispecchiano proprio l’esegesi di Cn 8, 2, relativa al moderno martirio psicologico. La terza fase della storia della Chiesa, considerata dall’Olivi in sette stati, dopo il periodo apostolico e quello dei martiri è propria dei dottori che confutano le eresie con la spada della ragione, corrisponde cioè alla filosofia. La costante elaborazione di un testo principale (l’Expositio in Canticum Canticorum di Olivi), già utilizzato dall’autore per le rime precedenti la morte di Beatrice (8 giugno 1290), induce a supporre che la Vita Nova sia stata iniziata prima della frequentazione, a partire dall’agosto 1293, delle “scuole delli religiosi”, includendo alcuni di quei componimenti poetici; il crescente fervore per la filosofia, acceso dagli insegnamenti negli Studia fiorentini, avrebbe introdotto un altro personaggio, la Donna Gentile in contrasto con Beatrice. Sopravvenuta quest’ultima a discacciare uno stato troppo appassionato, il supremo atto contemplativo si sarebbe realizzato nel sonetto Oltre la spera che più larga gira, seguito dalla “mirabile visione” che conclude il “libello” ma apre al futuro della figura di Beatrice per “dire di lei quello che mai non fue detto d’alcuna”, trattando di lei “più degnamente”, con più nobile disposizione d’animo, di lingua e di genere letterario. La promessa sarebbe stata mantenuta, la causa occasionale determinata dall’incontro con altra visione, questa volta profetica, rivelata a Giovanni evangelista e commentata in senso escatologico per il moderno lettore spirituale da Pietro di Giovanni Olivi.

  • È anche da valutare in modo nuovo il rapporto tra poesia (che si presume precedere nel tempo) e prosa (che si presume seguire), perché anche la poesia (in particolare alcune rime precedenti la morte di Beatrice) appare segnata da un rapporto con l’esegesi biblica. La scelta delle rime da inserire nel “libello” è stata forse determinata dalla sussistenza o dall’intensità di questo rapporto.

  • Nella Commedia, i segni (le parole-chiave), imagines agentes che sollecitano la memoria del lettore accorto verso un altro testo (la Lectura super Apocalipsim), determinano anche dei significati per un preciso pubblico (gli Spirituali francescani). Fra i destinatari fiorentini della Vita Nova, al di là dei rimatori e dei conoscenti [3], c’erano forse anche i francescani di Santa Croce?

    [1] Cfr. GIANFRANCO CONTINI, Filologia ed esegesi dantesca (1965) in Un’idea di Dante. Saggi danteschi, Torino 1970 e 1976, p. 135: «Di fronte, se mi si passa il traslato, all’integralismo teologico di Francesco sta la mondanità discretiva del Dante della Commedia, “unicuique suum».

    [2] Vita Nova, p. 254.

    [3] SANTAGATA, pp. 188-191.

 

Tab. VII.1

Cn 1, 3-4, pp. 124, 126, 128

[37] “Recti diligunt te” (3f). Ostenso quomodo per conatum desideriorum sponsa ascendit, hic ostendit quomodo per fortem sufferentiam tribulationum seu proeliorum. Et in hac primo praemittit causam huius sufferentiae quae est zelus iustitiae propter Dei amorem. Et ideo primo ostendit quod zelatores seu observatores rectitudinis seu iustitiae sunt sponsi amatores. Secundo: mortificationem et pugnam quam ex zelo sui amoris etiam a suis fratribus sustinuerit, subnectit ostendendo quod huiusmodi mortificatio et despectio non est in ea contemnenda, ibi: “nigra sum” (4a). […]
[39] Illi tamen inter istos proprie dicuntur ‘recti’ qui pro observantia divinae veritatis et iustitiae et honoris singulariter zelant, ita quod tam in se quam in aliis nihil possunt iniquitatis pati, quin illud pro viribus impugnent, prout lex divini amoris exigit. Constat autem quod tales tam a seipsis quam ab aliis multipliciter despiciuntur et mortificantur. Et ideo sponsa ut talem se sentiens subdit: “Nigra sum” (4a), id est: exterius despecta et mortificata – nigredo enim est in sponsae corpore color despectus et ex adustione caloris solaris vel laboris et inopiae aliquando proveniens -, “sed formosa”, scilicet per rectitudinem divini amoris, secundum quam ad Dei imaginem sum reformata.
[42] “Filiae Ierusalem” (4a). ‘Filias Ierusalem’ vocat animas muliebres de populo Dei et suo quae solum carnalem et imperfectum cultum Dei attendunt et venerantur de spirituali et superfervido parum aut nihil curantes. Tempore enim Salomonis contemplativae mentes multas tales in Ierusalem passae sunt et tempore Christi et Apostolorum non minus paucas. Et breviter: in omni tempore aliquid simile reperies et praecipue circa initiationem contemplativorum statuum; quia tunc filii ancillae seu carnis persequuntur filios liberae seu spiritus secundum Apostolum ad Galatas quarto (Gal 4, 29). Animales enim non percipiunt, sed despiciunt sapientiam spiritualem, prout docet Apostolus primae ad Corinthios capitulo primo et secundo (1 Cor 1, 18-31; 2, 1-16). […]
[44] “Nigra” etiam “sum”, “sicut pelles Salomonis” (4b). Quod in templo Salomonis pelles fuerint nigrae, non legimus, sed in tabernaculo a Moyse facto fuerunt saga cilicina de pilis caprarum, et illa erant nigra. Fuerunt etiam ibi pelles arietum rubricatae (Ex 26, 7.14). Et forte has vocat “pelles Salomonis”; tum quia sub ipso finaliter fuerunt; tum ut duplici mysterio denigrationis sponsae deserviat. Fuit enim cultus tabernaculi Dei in transitu deserti et tandem in terra promissionis et in Ierusalem. Et tunc sub Salomone fuit in maiori pace et gloria. Et secundum hoc sponsa Dei est in duplici statu, scilicet in laborioso transitu ad contemplationis apicem et quietem et in ipso apice seu in ipso termino quietante. In primo sponsa bellis tentationum et laboriosis macerationibus et exercitiis et suspiriosis desideriis exterius mortificatur. In secundo vero vitae carnali funditus moritur, et ideo tunc velut mortua huic mundo videtur. Vult ergo dicere sponsa: etsi exterius me videtis despectam et mortuam, attendite tamen meam intelligibilem seu virtualem formam et venustatem.
[46] Et quod praedictam eius abiectionem non debeant despicere, ostendit subdens: “Nolite me considerare, quod fusca sim”, consideratione scilicet contemplativa, “quia decoloravit me sol” (5a), id est: quia ardor divini amoris seu aestus tribulationis quam propter eum sustinui, me denigravit seu obfuscavit. Et ita si attendatis causam, mea obfuscatio erit vobis potius veneranda, amabilis et imitanda quam contemnenda.

Vita Nova 7 [xiv]. 7-14

[7] Io dico che molte di queste donne, accorgendosi della mia transfiguratione, si cominciaro a maravigliare, e ragionando si gabbavano di me con questa gentilissima. Onde lo ingannato amico di buona fede mi prese per la mano, e traendomi fuori della veduta di queste donne mi domandò che io avesse. [8] Allora io riposato alquanto, e resurressiti li morti spiriti miei e li discacciati rivenuti alle loro possessioni, dissi a questo mio amico queste parole: «Io tenni li piedi in quella parte della vita di là dalla quale non si puote ire più per intendimento di ritornare». [9] E partitomi da.llui, mi ritornai nella camera delle lagrime, nella quale piangendo e vergognandomi fra me stesso dicea: «Se questa donna sapesse la mia conditione, io non credo che così gabbasse la mia persona, anzi credo che molta pietà le ne verrebbe». [10] E in questo pianto stando propuosi di dire parole, nelle quali parlando a.llei significassi la cagione del mio trasfiguramento, e dicessi che io so bene ch’ella non è saputa, e che se fosse saputa, io credo che pietà ne giugnerebbe altrui; e propuosile di dire disiderando che venissero per aventura nella sua audienza. E allora dissi questo sonetto, lo quale comincia Con l’altre.

Con l’altre donne mia vista gabbate,          [11]
e non pensate, – donna, onde si mova
ch’io vi rasembri sì figura nova
quando riguardo la vostra biltate.
Se lo saveste, non poria Pietate                    [12]
tener più contra me l’usata prova,
ché Amor, quando sì presso a voi mi trova,
prende baldanza e tanta sicurtate,
   che fere tra ’ miei spiriti paurosi,
e quale ancide e qual pinge di fore,
sì che solo rimane a veder voi:
   onde io mi cangio in figura d’altrui,
ma non sì ch’io non senta bene allore
li guai delli scacciati tormentosi.

[13] Questo sonetto non divido in parti, però che la divisione non si fa se non per aprire la sententia della cosa divisa; onde con ciò sia cosa che per la sua ragionata cagione assai sia manifesto, non à mestiere di divisione. [14] Vero è che tra le parole ove si manifesta la cagione di questo sonetto si scrivono dubbiose parole, cioè quando dico che Amore uccide tutti li miei spiriti, e li visivi rimangono in vita salvo che fuori delli strumenti loro. E questo dubbio è impossibile a solvere a chi non fosse in simile grado fedele d’Amore; e a coloro che vi sono è manifesto ciò che solverebbe le dubitose parole. E però non è bene a me di dichiarare cotale dubitatione, acciò che lo mio parlare dichiarando sarebbe indarno overo di soperchio.

Vita Nova 8 [xv].1

Apresso la nova transfiguratione mi giunse uno pensamento forte, lo quale poco si partia da me, anzi continuamente mi riprendea, ed era di cotale ragionamento meco: «Poscia che tu pervieni a così dischernevole vista quando tu se’ presso di questa donna, perché pur cerchi di veder lei? Ecco che tu fossi domandato da.llei, che avresti tu da rispondere, ponendo che tu avessi libera ciascuna tua vertute in quanto tu le rispondessi?».

Cn 8, 2.5-6, pp. 300, 308, 310

[322] “Apprehendam te”, scilicet cum te invenero mihi datum in fratrem modo praedicto, “et ducam in domum matris meae” (2ab). Haec supra tertio, in fine scilicet primae partis principalis, sunt satis exposita (cf. Cn 3, 4).
[324] Sciendum tamen quod signanter ponitur hoc hic et ibi, quod omnis spiritualis sponsa vel ecclesia circa suae spiritualis immutationis et transformationis solemne primordium singulariter afficitur ad consimilem transformationem ecclesiae vel religionis aut etiam parentalis cognationis de qua est naturaliter vel spiritualiter nata. Et idem est circa finem, quia tunc tamquam de hoc mundo cito abitura singularius anxiatur, si antequam abeat, non videat illos secum in Christo. In medio vero sui tanta regali gloria circumfertur et tantum de obduratione parentum iam in sui principio nimis probata diffidit et etiam indignatur, quod non ita curat insistere conversioni ipsorum. […]
[332] “Sub arbore malo” (5a). In hac parte quae est tertia huius tertiae partis, primo ostenditur quomodo sponsa est per Christi crucem a morte suscitata et vivificata […].
In prima autem primo ostendit suscitationem eius causam et veritatem, secundo eius in hoc a sua matre segregatam singularitatem (cf. 5c), tertio exigit ex hoc rememorativam gratitudinem ostendens eius efficaciam et utilitatem, ibi: “Pone me” (6). Dicit ergo:
[333] “Sub arbore malo”, id est pomo, “suscitavi te” (5c). Loquitur, acsi sub umbra illius arboris ipsam dormientem reperisset et eam excitasset. Et est sermo multorum generalium scilicet et specialium mysteriorum crucis aggregativus. Nam Eva mater nostra seu natura humana primorum parentum sub arbore pomifera cuiuscumque speciei vel generis illa essent (!), fuit a Diabolo per peccatum, id est: per esum fructus illius ligni, “corrupta” (5d). Et tunc ibi fuit causaliter mortua omnis anima in ecclesia a Christo redimenda. Et ideo Deus ab aeterno pro illo nunc ordinavit Christum in ligno crucifigendum, et pro tanto quantum ad Dei praedestinativum propositum affuit ibi tunc crux Christi et suscitatio omnis ecclesiae electorum. Rursus: cum synagoga, mater ecclesiae, Christum in ligno crucifixit, est ibi mortua et “corrupta”, et tamen sub umbra et refrigerio crucis omnis praedestinata anima et ecclesia suscitatur a morte culpae et poenae aeternae.
[334] Item prout Christi crux in eius membris est ab initio mundi usque ad finem impressa et imprimenda, reperies ‘matrem ibi corruptam’ (cfr. 5d) et ‘sponsam suscitatam’, ut verbi gratia in Noe, Abraham, Moyse, David, Isaia, Ieremia in suis tribulationibus imitatoribus crucis Christi mortua est generatio deridens crucem eorum et persequens et quasi crucifigens veritatem eorum. […]


Appendice

Il Libro di Giobbe e le sue metamorfosi

Scritto prima del 1283 [1], il commento di Olivi al Libro di Giobbe è fra i più estesi e complessi fra quelli pubblicati dal frate di Sérignan. Petrarca, che forse ricevette la Postilla oliviana dal vescovo di Padova Ildebrandino Conti, la parafrasò nella trasposizione latina della Griselda boccaccesca ivi composta nel 1373 (Sen. XVII, 3) [2]. Il testo era probabilmente già noto a Dante; di ciò si individuano per il momento alcuni significativi indizi, preludio a un più approfondito esame.

■ Il tema dell’abbandonarsi alla volontà divina (Jb 1, 21), che sarebbe stato presente alla Griselda petrarchesca, risuona nel sonetto Ne le man vostre, gentil donna mia. Per quanto l’incipit ripeta le parole di Cristo in Luca 23, 46 – “In manus tuas commendo spiritum meum” -, ai versi 7-8 l’espressione “Signore, / qualunque vuoi di me, quel vo’ che sia” rammenta, oltre che Marco 14, 36 – “non quod ego volo, sed quod tu” -, l’adesione di Giobbe, per amore, alla volontà divina: “Cum igitur hoc ex diuino beneplacito processerit, si Deum amat, debet uoluntatem suam conformare”. Giobbe si conformò lodando la volontà divina, non mormorando per impazienza o bestemmiando; tale dovrebbe essere, secondo Virgilio, il comportamento degli uomini di fronte alla Fortuna: “Quest’ è colei ch’è tanto posta in croce / pur da color che le dovrien dar lode, / dandole biasmo a torto e mala voce” (Inf. VII, 91-93).

■ Canzone per eccellenza dell’esilio, Tre donne intorno al cor mi son venute accenna a tratti a una parodia della condizione di Giobbe. Tre amici vengono a consolarlo (Jb 2, 11: “ei condoluerunt et signa doloris ostendunt … tot signa compassionis sibi ostendentibus … venerunt ad eum”); le tre donne che “venute son come a casa d’amico”, al cuore del poeta dove “siede Amore”, paiono la controfigura di Giobbe: «Ciascuna par dolente e sbigottita / come persona discacciata e stanca … Queste così solette … Dolesi l’una … / discinta e scalza, e sol di sé par donna … e son Drittura; / povera, vedi, a panni ed a cintura … dicendo: “A te non duol de gli occhi miei?”». I tre amici siedono con Giobbe (“sederunt cum eo in terra”); le tre venute “seggonsi di fore” del cuore del poeta. All’inizio Giobbe, mentalmente assorto nel dolore, non rivolge parola ai tre amici (“non poterat bono modo loqui aut aliorum allocutiones multum bene percipere”); Amore, alla venuta delle tre donne “a pena del parlar di lor s’aita” perché colpito dal loro dolore non corrispondente alla bellezza (“Tanto son belle e di tanta vertute”). Il dolore di Giobbe si esprime con una pioggia di lacrime («“Et tamquam inundantes aque, sic rugitus meus” … ad designandum quod cum grandi irriguo lacrimarum gemebat et quod in ipso multiplicabantur et redundabant dolores et gemitus, sicut faciunt unde aquarum inundantium» (Jb 3, 24). Tali le lacrime che sgorgano dagli occhi di Drittura: “Dolesi l’una con parole molto … il nudo braccio, di dolor colonna, / sente l’oraggio che cade dal volto; / l’altra man tiene ascosa / la faccia lagrimosa”.
Dopo ciò Giobbe parla (“aperuit os”) non per impulso passionale, ma con pieno dominio di sé (Jb 3, 1: “
nulla passio eum impulit ad loquendum, sed potius ipse cum pleno dominio sui ea protulit”). Si rivolge ai tre amici, i quali si condolevano carnalmente con lui quasi avesse perduto grandi beni, come Cristo disse alle donne di Gerusalemme di non piangere su di lui, ma su sé stesse e sui propri figli per le future sventure che sarebbero sopravvenute (Luca 23, 28). La sua morte temporale, per la quale le donne piangevano, avrebbe recato gloriosa e trionfale vittoria (“ad innuendum quod sua mors erat gloriosa et uictoriosa et in triumphalem gloriam ducens”: cfr. la Lecura super Lucam). Pur nel suo dolore terreno, Giobbe aspira alle eterne dimore (“mansiones eterne”) della vita contemplativa, dove vivono re e principi (gli angeli), divinamente ripiene di oro (sapienza e amore) e di argento (dottrina ed eloquenza). Verso le tre donne, che non ha subito riconosciuto, Amore si è mostrato quasi passionato, “pietoso e fello”, sfrontato con gli occhi “che prima furon folli”; parla poi loro con pieno dominio di sé, affermando che altri debbono piangere sulla perdita delle virtù (“Però, se questo è danno, / piangano gli occhi e dolgasi la bocca / de li uomini a cui tocca”), non lui e le tre donne celesti (“non noi, che semo de l’etterna rocca”), la triste situazione attuale si cambierà in nostro favore (“ché, se noi siamo or punti, / noi pur saremo, e pur tornerà gente / che questo dardo farà star lucente”). Amore parla “poi che prese l’uno e l’altro dardo”, dove la reminiscenza ovidiana (Met. I, 468-471) delle due punte aurea e plumbea, l’una che fa innamorare e l’altra che disamora, sembra concordare con i tesori d’oro e d’argento custoditi nelle “mansiones eterne” della vita angelica. Lo stato nel quale versa Giobbe (Jb 3, 4) è paragonabile all’esilio (“clamat sibi exilium carcerale et quasi supplicium gehennale”), la luce diurna si è tramutata in tenebre (“dies illa vertatur in tenebras”); tale è per Amore e le tre donne sconsolate (“così alti dispersi”) unitamente al poeta (“l’essilio che m’è dato, onor mi tegno: / ché, se giudizio o forza di destino / vuol pur che ’l mondo versi / i bianchi fiori in persi, / cader co’ buoni è pur di lode degno”).

■ La visione notturna narrata da Elifaz il Temanita (Jb 4), nella quale lo spirito angelico parla “sub voce leui et suaui”, quasi impercettibile – “ita quod ipse uix potuit percipere illud” – è accostabile a Virgilio apparso a Dante nella selva – “dinanzi a li occhi mi si fu offerto / chi per lungo silenzio parea fioco” (Inf. I, 62-63) – e alle parole rivolte da Beatrice al poeta pagano – “e cominciommi a dir soave e piana, / con angelica voce, in sua favella” (Inf. II, 56-57).

■ L’Epistola IV di Dante, datata al 1307-1308, indirizzata a un Malaspina (Moroello marchese di Villafranca o, più probabilmente, Moroello di Manfredi, marchese di Giovagallo e sposo di Alagia Fieschi) accompagnò la canzone Amor, da che convien pur ch’io mi doglia (la “montanina”). Il poeta racconta che, presso la corrente dell’Arno (in Casentino), all’improvviso una donna apparve come folgore che discende. Allo stupore iniziale subentrò il terrore provocato dal tuono: come ai diurni baleni succedono i tuoni, così al vedere la fiamma di quella bellezza, Amore terribile e imperioso fece suo il poeta e regnò in lui governandolo.
La situazione prospettata nella lettera si ritrova, quasi con le stesse parole, nell’esegesi oliviana di Giobbe 37, 3-4, dove è lodata con timore l’onnipotente sapienza divina: “Il lampo si diffonde sotto tutto il cielo e il suo bagliore perviene ai confini della terra; dietro di esso ruggisce il tuono, tuona con la sua voce possente e non si ritrova da quando si è udita la sua voce”. Il riferimento, identico nell’esegesi e nell’epistola dantesca, del tuono che fa seguito al lampo, sarebbe certo da considerare luogo comune se non fossero identici anche gli aggettivi usati per definire la potenza di Dio/Amore, che viene con oscuro risplendere e suscita terrore: «“voce” … iudicativa terribilis maiestatis sue et producta imperio potentie sue / Amor terribilis et imperiosus me tenuit».
Nella canzone “montanina” (vv. 46-66), il poeta è disfatto dalla ferita di Amore, che l’ha folgorato “in mezzo l’alpi”: come “trono che mi giunse a dosso” che, se pur mosso da dolce riso, lascia la scolorita faccia per lungo tempo oscura, perché lo spirito è privo del conforto rassicurante. La sapienza divina, è detto nel commento oliviano a Giobbe (Jb 37, 22), è «“formidolosa”, id est cum obscura refulgentia et cum quodam terrore maiestatis divine et iudiciorum eius». L’immagine della Filosofia, con la quale si apre la Consolatio di Boezio (I, pr. i), certamente presente a Dante, sembra incontrarsi, per lettura corrente o per reminiscenza, con il commento a Giobbe dell’Olivi.

■ Il primo discorso di Iahve rivolto a Giobbe, al quale manifesta la sua onnipotenza – «“Indica mihi, si nosti omnia” … id est scias ac doceas … “sciebas tunc”, scilicet quando ego creaui lucem et ordinaui uias et mansiones eius» (Jb 38, 19-21) -, introduce a 38, 29-30 il motivo dell’acqua congelata che per il freddo indurisce come la pietra: qualità di donna, aggiunge l’esegeta: «frigus uero quod est causa congelationis est qualitas feminina … “In similitudinem lapidis aque durantur”, scilicet propter uehementiam frigoris congelantis et condensantis eas». Tema parodiato nella petrosa Amor, tu vedi ben che questa donna, lì dove il poeta si rivolge ad Amore: “Segnor, tu sai che per algente freddo / l’acqua diventa cristallina petra … sì che l’acqua è donna / in quella parte per cagion del freddo … Però, vertù che se’ prima che tempo, / prima che moto o che sensibil luce”.

■ Commentando il cap. XXXVIII, Olivi assimila Giobbe all’ordine evangelico, cioè ai Minori. Il periodo della Chiesa – il sesto stato – iniziato con la conversione di Francesco (1206) e perdurante fino alla distruzione di Babylon, la Chiesa carnale, e alla sconfitta dell’Anticristo (è il tempo di Olivi e di Dante) recherà un novum saeculum, una palingenesi segnata dall’universale conversione a Cristo. In quel tempo pioveranno grazie, stillerà rugiada di dolcezze spirituali, si diffonderà la luce della sapienza, arderà la carità, verrà fecondata l’erba delle virtù. Nuovi apostoli saranno inviati, agili e veloci come il cavallo (cfr. Jb 39, 19-25), elevati come l’aquila (39, 27-30), che disprezza le cose terrene e bada ad adescare quelle spirituali. Tornerà  Elia, precursore di Cristo nel suo primo avvento nella carne e ora nel secondo, tramite i suoi discepoli spirituali. Il rinnovamento preconizzato da Olivi sembra parodiato nella prima delle “petrose”, Io son venuto al punto de la rota (databile al 1296 se si identifica con Saturno il “pianeta che conforta il gelo”, al 1304 se tale pianeta è la Luna, come riteneva Boccaccio), con il contrasto tra la durezza della pietra, fredda e gelata, e la pioggia d’amore: “Canzone, or che sarà di me ne l’altro / dolce tempo novello, quando piove / amore in terra da tutti li cieli”. La velocità del cavallo e la spiritualità dell’aquila, nel tempo in cui sapienza, amore e virtù regneranno, non può non ricordare il veltro (Inf. I, 100-105); il ritorno di Elia a ristabilire ogni cosa (Matteo 17, 11) e a pacificare padri e figli (Malachia 4, 5-6) è tema centrale nella Lectura super Apocalipsim di Olivi, che Dante avrebbe parodiato nella Commedia.

I temi del gelo vitreo, della durezza lapidea, della noiosa pioggia saranno un giorno non lontano fra i temi principali dell’Inferno, dove sono fasciati e permeati dai sensi spirituali portati dalla parodiata Lectura super Apocalipsim. Nel commento oliviano a Giobbe, il quale sentiva la propia situazione come uno stare all’inferno e vederne le pene – “clamat sibi exilium carcerale et quasi supplicium gehennale” (Jb 3, 4), l’esiliato Dante poteva trovare non pochi spunti di riflessione: dall’esegesi di versetti come “Antequam vadam ad … terram miserie et tenebrarum” (Jb 10, 21-22) o “In profundissimum infernum descendet omnia mea” (17, 15) o “Nudus est infernus coram illo” (26, 6) o “Numquid aperte tibi sunt porte mortis et hostia tenebrosa vidisti” (38, 17) alla considerazione dello stato quieto nel limbo delle antiche anime (17, 15); dalla descrizione dello stagno di Cocito (21, 32-33) ai giganti che gemono nell’acqua (26, 5-7), fino al corrispondere per “contrapasso” della pena con la colpa (26, 5-7; 27, 19-22).

■ Dal commento a Giobbe di Olivi non si poteva solo raccogliere una silloge di passi riferiti all’inferno; vi si poteva anche leggere cosa significasse essere profeta, pervasi dallo spirito che spira dove e come vuole, al quale non è possibile resistere. Ma la profezia non era cessata nel tempo della Grazia, con la fine dell’Antico Testamento e la venuta di Cristo? No, asseriva il francescano, stiamo vivendo un secondo avvento di Cristo nello Spirito, interno dettatore ai suoi fedeli, e lo Spirito cresce con il tempo, per cui è ancora possibile profetare, sulle cose presenti ancor più che su quelle future. Sulla via dell’esilio Dante ebbe in mano la Lectura super Apocalipsim, narrazione di una profezia delle cose che debbono avvenire presto; la trasformò, parodiandola, nella Commedia.

 

[1] Cfr. DAVID BURR, The Book of Revelation, Grand Rapids, MI, 2019 ( The Bible in Medieval Tradition), p. 279.
[2] Cfr.
VERONICA ALBI, Il Libro di Giobbe nella novella di Griselda tra Boccaccio e Petrarca, in “Studi sul Boccaccio”, 50 (2022), pp. 123-153: 142-145, 149-150.

 

Tab. app. I

PETRI IOHANNIS OLIVI Postilla super Iob, cura et studio A. Boureau, Turnhout, Brepols, 2015

Jb I

[pp. 35-37, §§ 870-925 (1, 21-22)] NVDVS EGRESSVS. Hec est prima ratio qua ostendit se debere pacienter hec tolerare, quia ostendit se nichil perdidisse quod communi cursu nature suo tempore non esset perditurus et quo aliquando non caruerit, quia tam ipse quam omnis homo in omnium exteriorum carentia nascitur et moritur. Secundum enim Gregorium “magna consolatio in amissione rerum est illa tempora ad mentem reducere quibus nos contigit res quas perdimus non habuisse”. ILLVC, id est in statum similem ei quem habuit in VTERO MATRIS, ut sic le ‘illuc’ faciat relationem simplicem. Est autem homo mortuus et sepultus pro tanto similis illi statui pro quanto homo est in utero matris mundo absconditus et quasi sepultus, uel per ‘matrem’ et ‘eius uterum’ potest intelligi terra que est communis mater omnium iuxta illud Ecclesiastici XL: occupatio magna creata est omnibus hominibus a die exitu de uentre matris usque in diem sepulture in matrem omnium.

DOMINVS DEDIT. Hec est secunda ratio in qua ostendit quod nichil est sibi factum unde iuste conqueri aut turbari posset, quia ille abstulit cuius erant, quin potius adhuc restat unde debet gratias agere ei qui abstulit ea, de hoc scilicet quod gratis ea sibi dederat usque ad tempus illud.
SICVT DOMINO PLACVIT. Hec est tertia ratio in qua ostendit quod in hoc facto non solum debet esse paciens, sed etiam iocundus et gaudens, quia amici est complacere sibi in beneplacito sui amici et precipue si sic diligitur sicut Deus. Cum igitur hoc ex diuino beneplacito processerit, si Deum amat, debet uoluntatem suam conformare.

DANTE, Rime 19 (LXVI)

Ne le man vostre, gentil donna mia,
raccomando lo spirito che more:
e’ se ne va sí dolente ch’Amore
lo mira con pietà, che ’l manda via.
Voi lo legaste a la sua signoria,
sí che non ebbe poi alcun valore
di poter lui chiamar se non: «Signore,
qualunque vuoi di me, quel vo’ che sia».

Io so che a voi ogni torto dispiace:
però la morte, che non ho servita,
molto piú m’entra ne lo core amara.
Gentil mia donna, mentre ho de la vita,
per tal ch’io mora consolato in pace,
vi piaccia agli occhi miei non esser cara.

De hoc igitur tempore, quo tecum multo cum honore longe supra omne meritum meum fui, Deo et tibi gratias ago; de reliquo parata sum bono pacatoque animo paternam domum repe-tere atque ubi pueritiam egi senectutem agere et mori, felix semper atque honorabilis vidua, que viri talis uxor fuerim. Nove coniugi volens cedo, que tibi utinam felix adveniat, atque hinc ubi iocundissime degebam, quando ita tibi placitum, non invita discedo. (PETRARCA, Res Seniles, XVII 3, 110-111)*

Ex prima autem ratione ostenditur quod bona temporalia sunt homini extrinseca, aduenticia et caduca seu transitura et ideo patens est quod ex eorum amissione non debet homo absorberi. Ex secunda ostenditur quod huiusmodi bona dantur et auferuntur homini a Deo, ex quod concluditur quod ex eorum ablatione non potest homo recte conqueri. Ex tertia ostenditur quod hoc non accidit contra Dei uelle, sed potius secundum beneplacitum diuine uoluntatis, ex quo sequitur quod homo debeat inde gaudere pro quanto est Deo beneplacitum. Sicut enim in sumptione medicine sensui amare aliquis secundum rationem gaudet propter spem, licet sensu turbetur, aut sicut ad perpessionem ictuum milites currunt propter amicitiam regis et propter spem uictorie, sic, licet predicta aduersitas ex se esset sensui amara, debebat tamen esse iocunda ex consideratione diuini beneplaciti et utilitatis propter quam Deo placebat.

SIT NOMEN DOMINI BENEDICTVM, id est Deus – sepe enim sumitur nomen pro ipsa re – uel nomen Dei in laudem eius assumatur. In hoc autem uerbo Iob innuit quod hoc opus est tale quod Deus debet ab eo inde laudari. Ex quo etiam innuit quod est opus bonum, quia non est quis laudandus nisi de opere bono.
NON PECCAVIT IOB. In eo quod non permittitur, non peccauit. Ostendit quod murmurationis seu impaciencie uitium non solum ab opere uel ore sed etiam a corde uitauit. NEQUE STULTVM etc., id est blasphemum, ut scilicet Deum et eius prouidentiam ex hoc blasphemaret. Verbum enim blasphemie uerbum stultum dicitur, tum quia opponitur sapientie que proprie est de diuinis et summis, tum quia ex tali uerbo non acquiritur fructus seu potius dampnum, nec placatur iudex aut Dominus sed potius prouocatur. Illud autem uerbum stultum est et stulte profertur, unde homo auget suum dampnum et iram iudicis suis. Vel stultum uerbum uocat omne uerbum inordinatum et irrationaliter prolatum iuxta illud Ephes. V°: aut stulti-loquium aut scurrilitas etc.

Inf. VII, 91-93

Quest’ è colei ch’è tanto posta in croce
pur da color che le dovrien dar lode,
dandole biasmo a torto e mala voce

I confronti tra Petrarca e Olivi sono tratti da V. ALBI, Il Libro di Giobbe nella novella di Griselda tra Boccaccio e Petrarca, in “Studi sul Boccaccio”, 50 (2022), pp. 123-153: 142-145.


Tab. app. II

Jb II

[pp. 49-51, §§ 241-306 (2, 11)] IGITVR AVDIENTES TRES AMICI IOB etc. […] In prima uero primo narratur quomodo ueniunt ad eum uisitandum et consolandum. Secundo quomodo ei condoluerunt et signa doloris ostendunt ibi: CUVMQUE LEVASSENT. Tertio quomodo se ei coassociauerunt ibi: ET SEDERVNT CVM EO. Quarto quomodo et qua causa nullum uerbum ei dederunt ibi: ET NEMO LOQUEBATVR etc.
THEMANITES. Nota quod cognomina istorum trium sumuntur a locis unde erant, ut Themanites a Theman et sic de aliis. ET CONSOLARENTVR tam presencia sue uisitationis quam exhibicione compassionis et ostensione amoris, quam etiam affatu suauis collocutionis et sapientialis collationis. Hec enim sunt que hominem tribulatum uehementer consolantur. PROCVL. Intelligendum est hoc sub tali mensura longiquitatis sub qua a remotis potest homo cognosci. ET NON COGNOVERVNT EVM. Facies enim eius erat immundata ex ulceribus et habitus et totus cultus corporis ex rerum amissione erat ualde uariatus. IN CELVM, id est quasi in reuerenciam Dei et humiliationem sui ad Deum, uel ad litteram sic spargebant cinerem super caput, quod proiciebant eum sursum uersus celum.
SEDERVUNT CVM EO IN TERRA. Ex hoc patet quod Iob in infimo quasi in nuda terra stabat. SEPTEM DIEBVS. Non est intelligendum quod continue sic cum eo starent, sed congruentibus horis, ita quod in quolibet horum dierum et noctium per aliquam partem temporis cum eo stabant. Est enim mos scripture per synecdochen sumere totum pro parte et aliquando e contra. Gregorius tamen dicit quod an continue totis septem diebus noctibus cum eos sederint, aut crebris horis illorum dierum et noctium; ignoramus.
ET NEMO LOQVEBATVR EI VERBVM. VIDEBANT ENIM. Causam quare ei non loquebantur dicit esse quia uidebant eum uehementi dolore affligi. Sapientes enim non allocuntur aliquem uerbis consolationis, nisi credant eum aliquo modo dispositum uel possiblem ad recipiendum aliquam consolationem per uerba sua. Verum est autem quod Iob quantum ad sensualitatem uehementissime affligebatur, ex quo forte amici eius crediderunt quod consimilter esset in parte superiori sue mentis seu rationis, licet non esset ita secundum rei ueritatem. Sed mirum uidetur quod Iob amicis suis tot signa compassionis sibi ostendentibus non locutus fuerit, saltem uerbis salutationis in principio aduentus eorum. Numquid etiam illi, quando primo uenerunt ad eum, salutauerunt eum? Aut numquid aliquando querebant ab eo quid uellet comedere uel consimilia? Dicendum quod forte scriptura non intendit quin aliqua uerba communia sibi inuicem dixerint, sed solum quod uerba sapientiali collationis, quibus sapientes et amici solent se adinuicem consolari, non dixerint. Vel forte Iob erat tunc in tanto excessu sensualis doloris, quod non poterat bono modo loqui aut aliorum allocutiones multum bene percipere, sicut uidemus de aliquibus grauissime infirmantibus. Vel forte Iob a principio potius uoluit uacare sibi ipsi et mentalibus conceptibus quam exteriori colloquio cuiuscumque. Illi uero e contra metuebant eum grauare et molestare, si ei loquerentur, saltem uerba sapientialis exhortationis.

Rime, 47 (CIV). vv. 1-18

Tre donne intorno al cor mi son venute,
e seggonsi di fore:
ché dentro siede Amore,
lo quale è in segnoria de la mia vita.
Tanto son belle e di tanta vertute
che ’l possente segnore,
dico quel ch’è nel core,
a pena del parlar di loro s’aita.
Ciascuna par dolente e sbigottita,
come persona discacciata e stanca,
cui tutta gente manca
e cui vertute né beltà non vale.
Tempo fu già nel quale,
secondo il lor parlar, furon dilette;
or sono a tutti in ira ed in non cale.
Queste cosí solette
venute son come a casa d’amico:
ché sanno ben che dentro è quel ch’io dico.

[Jb III, pp. 53-56, §§ 55-69, 159-167 (3, 1)] Vnde et in titulo huius planctus signanter premittitur POST HOC APERVIT OS, id est post septem dies continui silentii. In hoc enim aperte innuit quod qui post tantum silentium uerba hec protulit ex magno ordine rationis ea protulit. Vnde et signanter dicitur quod APERVIT OS, scilicet dicens quod nulla passio eum impulit ad loquendum, sed potius ipse cum pleno dominio sui ea protulit. Cum enim aliquis loquitur ex impetu passionis, tunc ipse non uidetur aperire os suum, sed agitur passione ad loquendum. Cum uero ex ratione et secundum rationis ordinem, tunc loquimur ut domini nostri actus et nostre loquele. Vnde consuetudo est scripturarum quod, quando aliquis debet dicere grandia et ex alto et profundo sensu cordis, premittit et aperuit os, sicut patet de Christo, Matth. V. […]
Videtur igitur dicendum quod Iob tam mente quam sensu detestatus est hic uitam suam, non tamen simpliciter et absolute nec per eius rationem, sed solum secundum illos respectus et rationes secundum quas non immerito poterat et debebat sibi esse odibilis. Voluit autem hoc coram amicis suis per illa exprimere, quia forte percepit primo quod amici sibi compatiebantur carnaliter, ac si magna bona perdidisset, sicut ille Christo compatiebantur quibus dixit: Filie Ierusalem, nolite flere super me. […]

[Lectura super Lucam, pp. 636-837 (Lc 23, 28)] Tertium est eius a mulieribus ipsum sequentibus lamentatio, ibi: que plangebant. Quartum est lamentationis earum a Christo reiectio et alterius lamentationis ab eis assumende ostensio, ibi: Conuersus autem ad illas Iesus dixit: Filie Ierusalem, nolite  flere super me.
Se quare cohibet hunc fletum, cum esset in eum pius et compassiuus? Dicendum quia flebant eum sicut hominem purum, omni auxilio destitutum, et ac si non resurrecturum et de morte ac demonibus triumphaturum, et ac si mundum sua morte non redempturum, sed quasi totaliter aut sicut ceteri periturum. Dixit etiam hoc ad cordis sui constantiam ostendendam, et ad monstrandum quod compatientium solacio pro se non egebat, et ad innuendum quod sua mors erat gloriosa et uictoriosa et in triumphalem gloriam ducens.
Sed super uos, id est super miseriis uobis uenturis, flete et super filios uestros. Qualis autem et quanta sit hec niseria, predicit subdens: quoniam ecce, scilicet de propinquo et imminenti, uenient dies, uestre scilicet calamitatis, in quibus dicent, scilicet omnes illam intuentes uel audientes: Beate steriles, id est minus malum esset fuisse steriles, et uentres qui non genuerunt, scilicet sunt beati, respectu scilicet eorum qui genuerunt, quia saltem ille tunc de morte filiorum non dolebunt sicut facient iste, nec habebunt tantum impedimentum fugiendi, quantum habebunt iste ex infantibus suis. Tunc incipiunt dicere montibus: Cadite super nos, quasi dicat: tolerabilius esset eis talem mortem sustinere, quam calamitates quas tunc sunt passure. Quod autem merito tam grauis calamitas debeat eis uenire, et debeat credi quod eueniat, ostendit subdens: Quia, si in uiridi ligno hoc faciunt, in arido quid fiet? Id est si in me, qui sum sicut arbor uirtutibus uiua et uirens et mundo ac Domino fructuosa, hoc, id est tam grauem mortem et passionem, faciunt, diuina scilicet permissione, quid fiet in ligno arido et infructuoso et horti impeditiuo, id est in populo iudayco a Dei gratia et bonis operibus arefacto? Quasi dicat: ita se habebit hoc ad illud, sicut se habet preputatio uitis fructuose ad totalem euulsionem et combustionem uitis mortue et arefacte.

vv. 55-90

Fenno i sospiri Amore un poco tardo;
e poi con gli occhi molli,
che prima furon folli,
salutò le germane sconsolate.
E poi che prese l’uno e l’altro dardo,
disse: «Drizzate i colli:
ecco l’armi ch’io volli;
per non usar, vedete, son turbate.
Larghezza e Temperanza e l’altre nate
del nostro sangue mendicando vanno.
Però, se questo è danno,
piangano gli occhi e dolgasi la bocca
de li uomini a cui tocca,
che sono a’ raggi di cotal ciel giunti;
non noi, che semo de l’etterna rocca:
ché, se noi siamo or punti,
noi pur saremo, e pur tornerà gente
che questo dardo farà star lucente».

E io, che ascolto nel parlar divino
consolarsi e dolersi
così alti dispersi,

l’essilio che m’è dato, onor mi tegno:
ché, se giudizio o forza di destino
vuol pur che il mondo versi
i bianchi fiori in persi,
cader co’ buoni è pur di lode degno.
E se non che de gli occhi miei ’l bel segno
per lontananza m’è tolto dal viso,
che m’àve in foco miso,
lieve mi conterei ciò che m’è grave.
Ma questo foco m’àve
già consumato sì l’ossa e la polpa
che Morte al petto m’ha posto la chiave.
Onde, s’io ebbi colpa,
più lune ha volto il sol poi che fu spenta,

se colpa muore perché l’uom si penta.

[Jb III, pp. 66-68, §§ 506-515, 545-549 (3, 4)] Si quis uult uerba huius planctus sub debito sensu breuiter et cito comprehendere, ymaginetur Iob tunc fuisse in tali statu quod tam impulsu diuini spiritus quam excessiuo ardore sue caritatis, quam altitudine sue contemplationis, quam stimulo urgente sui sensibilis doloris et sue totalis aduersitatis in tantum superfertur huic vite et in tantum desiderat alteram, eternam et beatam quod omnia que uidet et circumspicit inferius in hoc mundo sensibili clamat sibi exilium carcerale et quasi supplicium gehennale, ita quod omnia occurrunt sibi ut amara et amaricantia et ut quidam laquei seu cathene. […]
DIES ILLA VERTATVR IN TENEBRAS. Nota quod diei imprecatur tria, scilicet priuationis omnis luminis et plenitudinem omnis tenebrationis et defectus omnis memorie et celebritatis tam apud Deum quam apud homines ibi: NON REQVIRAT EVM, et habundantiam omnis amaritudinis ibi: ET INVOLVATVR AMARITVDINE. […]

[pp. 72-73, §§ 718-741 (3, 13-15)] Secundum primum modum, silentium et sompnus significant tranquillitatem et infeffabilem pacem uite beate. ‘Reges’ vero et ‘consules’ cum quibus ‘quiescere’ desiderat significant angelos inter quos sunt uarii ordines et principatus tam respectu sui quam respectu nostri. Vnde quidam regunt alios et presunt eis quasi reges, quidam uero docent alios secreta consilia Dei et hii sunt quasi consules. Vel per hoc intelligit sanctos minores. Et si queras quomodo ipse esset ibi, si caruisset ista uita, dicendum quod si ipse caruisset ista uita, solum prout est misera et miserie tam culpe quam pene subiecta, utique ipse participasset de silentio uite beate, uel instar Ade, dum erat in paradiso terrestri, uel modo etiam altiori. QVI EDIFICANT SIBI SOLITVDINES, id est mansiones eternas per merita que hic acquirunt. Que mansiones sunt nobis solitarie, quia non habitantur a nobis. Vel per solitudines intelligit statum uite contemplatiue de qua Tren. 3: sedebit solitarius et tacebit quia leuabit super se. Status enim tam angelorum quam sanctorum Deum contemplantium est totus recollectus in intimo sinu mentis et in sinu diuini secreti. Etiam est omnino sequestratus et segregatus a communi statu inferiorum et hii sunt pleni ‘auro’ diuine sapientie seu diuini amoris et diuini gustus et ‘argento’ spiritualis doctrine et eloquentie, uel generaliter ipsi sunt pleni thesauris gratie et glorie. Vel per solitudines intelligit tranquillum sinum et statum sanctorum patrum qui erant in limbo.

[pp. 77-78, §§ 886-897 (3, 24)] ET TAMQVAM INVNDANTES AQVE, SIC RVGITVS MEVS, id est gemitus mei non sunt leues aut modici, sed sunt magni et asperi, sicut est rugitus seu grandis sonus aque, quando inundat in tempore pluuiarum uel diluuiorum. Vtitur etiam hac methaphora ad designandum quod cum grandi irriguo lacrimarum gemebat et quod in ipso multiplicabantur et redundabant dolores et gemitus, sicut faciunt unde aquarum inundantium. Et hoc precipue patet secundum litteram Gregorii, que habet quasi inundantes aque, unde Moralium V° dicit: “cum Iob rugitum quasi inundantes aquas diceret, illico adiunxit quia timor etc.” In hoc etiam significat quasi leonum rugitus, quia rugire est proprie leonum.

vv. 19-26

Dolesi l’una con parole molto,
e n su la man si posa
come succisa rosa:
il nudo braccio, di dolor colonna,
sente l’oraggio che cade dal volto;
l’altra man tiene ascosa
la faccia lagrimosa:
discinta e scalza, e sol di sé par donna.

 

Tab. app. III

Jb IV 

[pp. 93-94, §§ 255-272, 286-291 (4, 12-13)] In prima dicit quod tempore nocturno sompnii subito pauor iniuit in eum, ita quod totus usque ad intima ossium cepit contremiscere, et tunc quidam spiritus angelicus cepit coram presentia eius seu coram eo transire, ex quo in tantum territus fuit quod omnes pili carnis sue ceperunt erigi et obrigescere. Cumque sic transisset coram eo, fixit gradum et stetit apparens ei in specie humana, ita tamen quod ex uisu faciei eius non discernebat in singulari quis ille esset, sicut contingit homini quando uidet personam extraneam, cuius formam numquam alias uidit nec per aliorum famam audiuit. Discernebat tamen quod illa forma erat ymago seu ymaginatiua, non autem naturale corpus ipsius spiritus. Hic ergo locutus est ad eum sub uoce leui et suaui, sicut facit homo, quando alicui ualde demisse loquitur ad aurem. Vnde ipse percepit uerba eius raptim et ualde exiliter, ualde secrete, quasi in abscondito, sicut fit, quando aliquis loquitur ad aurem sub silentio et ualde celeriter unum breue uerbum, quemadmodum faciunt fures et susurrantes qui, quando sic inuicem loquuntur, celant se et sua dicta ab aliis siue remotis siue circumstantibus. […] Hec autem omnia dicit ad magnificandum uerbum sibi dictum, ut scilicet ostendat quod fuit uerbum ualde archanum et superintellectualem et ualde singulare, ita quod ipse uix potuit percipere illud. Vunde et multum tenuiter illud percepit et quod fuit a persona multum sublimi, modo simul terribilissimo et familiarissimo sibi dictum.

Inf. I, 61-63

Mentre ch’i’ rovinava in basso loco,
dinanzi a li occhi mi si fu offerto
chi per lungo silenzio parea fioco.

Inf. II, 52-57

Io era tra color che son sospesi,
e donna mi chiamò beata e bella,
tal che di comandare io la richiesi.
Lucevan li occhi suoi più che la stella;
e cominciommi a dir soave e piana,
con angelica voce, in sua favella:

 

Tab. app. IV

Jb XXXVII

[pp. 515-516, §§ 1-30 (37, 1-5)] SVPER HOC, id est super tanta seueritate diuinorum iudiciorum seu super tanta profunditate diuinorum operum, EXPAVIT COR MEVM ET EMOTVM EST DE LOCO SVO, id est pre timore fortiter concussum est. Vnde subdit tertium circuitum in quo plenius et distinctius explicat utrumque predictorum operum, primo uidelicet opus terroris iudicialis, secundo opus dulcoris et gratie ibi: ET RVRSVM LATISSIME SVNT AQVE.
Dicit ergo: AVDIET, scilicet homo quicumque, AVDITIONEM IN TERRORE VOCIS EIVS, scilicet Dei, id est audiet auditum uocis terribilis, scilicet tonitrui Dei imperio facti et quod est quasi quedam mistica uox terrinilis ire eius, ET AVDIET SONVM DE ORE ILLIVS PROCEDENTEM – idem est. Deinde agit de coruscationibus et de uniuersali circumspectione diuine scientie per illas designate, subdens: SVBTER OMNES CELOS CONSIDERAT ET LVMEN ILLIVS SVPER TERMINOS TERRE, id est sicut lumen coruscationum suarum subito circumlustrat terminos terre, sic diuina intelligentia semper circumspexit omnia inferiora. Deinde prosequitur amplius de tonitruo, subdens: POST EVM, scilicet post Deum,  RVGIET SONITVS, id est terribiliter tonitruabit. Dicit autem post eum, quia sicut post coruscationem sequitur tonitruum, saltem secundum apparentiam sensus nostri, sic post Dei scientiam peccata hominum antecedentem sequuntur terribiles comminationes et pene. TONABIT VOCE MAGNITVDINIS SVE, indicativa terribilis maiestatis sue et producta imperio potentie sue. ET NON INVESTIGABITVR, CVM AVDITA FVERIT VOX EIVS. Facto enim tonitruo, non apparet uestigium vie eius. Vult ergo dicere quod Deus tam per tonitrua quam per sua grandia iudicia, insonat uerbis terribiliter instar rugitus leonis uel maris et insonat magnifice et imperscrutabiliter. Ex hiis autem tribus sequitur quod et mirabiliter, unde subdit: TONABIT DEVS IN VOCE SVA MIRABILITER et, quia admiratio surgit ex magnitudine transcendente intellectum et imperscrutabilitate causarum rei apprehense, ideo subdit: QVI FACIT MAGNA ET INSCRVTABILIA.

Epistola IV, 2-3 (ed. A. Frugoni-G. Brugnoli, in Dante Alighieri, Opere minori, II, Milano-Napoli 1979, pp. 536-539).

[1]. Ne lateant dominum vincula servi sui, quam affectus gratuitas dominantis, et ne alia relata pro aliis, que falsarum oppinionum seminaria frequentius esse solent, negligentem predicent carceratum, ad conspectum Magnificentie vestre presentis oraculi seriem placuit destinare.
[2]. Igitur michi a limine suspirate postea curie separato, in qua, velud sepe sub admiratione vidistis, fas fuit sequi libertatis officia, cum primum pedes iuxta Sarni fluenta securus et incautus defigerem, subito heu! mulier, ceu fulgur descendens, apparuit, nescio quomodo, meis auspitiis undique moribus et forma conformis. O quam in eius apparitione obstupui! Sed stupor subsequentis tonitrui terrore cessavit. Nam sicut diurnis coruscationibus illico succedunt tonitrua, sic inspecta flamma pulcritudinis huius, Amor terribilis et imperiosus me tenuit. Atque hic ferox, tanquam dominus pulsus a patria post longum exilium sola in sua repatrians, quicquid eius contrarium fuerat in me, vel occidit vel expulit vel ligavit. Occidit ergo propositum illud laudabile quo a mulieribus suisque cantibus abstinebam; ac meditationes assiduas, quibus tam celestia quam terrestria intuebar, quasi suspectas, impie relegavit; et denique, ne contra se amplius anima rebellaret, liberum meum ligavit arbitrium, ut non quo ego, sed quo ille vult, me verti oporteat. Regnat itaque Amor in me, nulla refragante virtute; qualiterque me regat, inferius extra sinum presentium requiratis.

Rime, 53 (CXVI) Amor, da che convien pur ch’io mi doglia, vv. 46-66

Qual io divegno sí feruto, Amore,
sailo tu, e non io,
che rimani a veder me sanza vita;
e se l’anima torna poscia al core,
ignoranza ed oblio
stato è con lei, mentre ch’ella è partita.
Com’io risurgo, e miro la ferita
che mi disfece quand’io fui percosso,
confortar non mi posso
sí ch’io non triemi tutto di paura.
E mostra poi la faccia scolorita
qual fu quel trono che mi giunse a dosso;
che se con dolce riso è stato mosso,
lunga fïata poi rimane oscura,
perché lo spirto non si rassicura.

Cosí m’hai concio, Amore, in mezzo l’alpi,
ne la valle del fiume
lungo il qual sempre sopra me se’ forte:
qui vivo e morto, come vuoi, mi palpi,
merzé del fiero lume
che sfolgorando fa via a la morte.

[p. 521, §§ 200-205 (37, 22)] […] sic ET A DEO VENIT ad nos FORMIDOLOSA LAVDATIO, id est sapientia Dei laudatiua, que est pretiosior omni alia instar auri. Venit tamen formidolosa, id est cum obscura refulgentia et cum quadam [sic!] terrore maiestatis diuine et iudiciorum eius, propter quod homo cum formidine contemplatur diuina, et ita sapientialis cultus Dei in hac uita uenit a Deo, sicut aurum ab aquilone.

 

Tab. app. V

Jb XXXVIII

[pp. 540-543, §§ 384-505 (38, 19-30)] Deinde querit de motu et uia quam percurrit lux existens in luminaribus celi et e contrario de decursu tenebrarum que sunt in emispherio subiacente seu opposito alteri emispherio in quo tunc sunt luminaria; unde subdit: INDICA MIHI, SI NOSTI OMNIA, IN QVA VIA HABITET LVX ET TENEBRARVM, scilicet oppositarum, QVIS LOCVS SIT. Huius enim noticia dependet a noticia prioris. VT DVCAS VNVMQVODQVE, scilicet lucem et tenebras, AD SVOS TERMINOS, id est ut ostendas totam uiam et mansiones eorum a principio usque ad finem, ET INTELLIGAS SEMITAS DOMVS EIVS, scilicet lucis, id est et scias ac doceas uias rectiores et breuiores per quas uaditur ad domum lucis, id est ad luminaria et ad loca celi in quibus lux quasi in propria domo habitat.
Deinde querit a Iob de prescentia sue natiuitatis et perdurationis sue usque ad mortem dicens: SCIEBAS TVNC, scilicet quando ego creaui lucem et ordinaui uias et mansiones eius, QVOD NASCITVRVS ESSES AVT NVMERVM DIERVUM TVORVM NOVERAS?, quasi dicens: “non mirum si nescis illa superiora et primordia creationis eorum et fines perpetue durationis eorum, qui non potuisti scire initium tui ortus et mensuram uite tue.” Quidam dicunt quod hoc ideo subdidit quia motus celi mensurat durationes inferiorum et tempora generationis et corruptionis eorum, quasi dicens: “nec tu, qui nondum eras, nec alius homo ante te existens potuit hoc ex computatione celestium motuum precognoscere quorum certas mensuras ignoras.” Sed licet quoad quid inferiora mensurentur et regantur ab influentia et motu superiorum corporum, pro quanto tamen hominis generatio dependet a libera uoluntate parentum et pro quanto mors per propriam uoluntatem aut per alterius uiolentiam aut diuino iudicio accelerari uel prolongari potest, non dependet hoc a uirtute uel motu corporum superiorum.
NVMQVID INGRESSVS ES THESAVROS NIVIS? Hic agitur de uariis impressionibus factis in aere et pertingentibus usque ad terram et aquam. Sunt enim in hiis multe profunditates nobis inuestigabiles. Vocat autem thesauros niuis et grandinis multitudinem materie eorum existentem in uentre nubium, quasi in quibusdam magnis scriniis uel horreis. Quia autem in profunda loca thesaurorum primo intramus et postmodum ea aspicimus, ideo primo dicit: numquid ingressus es et postmodum NVMQUID ASPEXISTI. Per utrumque autem intelligitur: numquid perscrutatus es et plene comprehendisti totam multitudinem materie niuium et grandinum et occultas causas eorum? QVE PREPARAVI IN TEMPVS HOSTIS, scilicet expugnandi, IN DIE PVGNE ET BELLI, scilicet contra hostes meos exercendi. Nota autem quod, licet sint moralia, ideo tamen hec et similia aliquando subdit, primo ut innuat quod Deus cursum operum naturalium ordinat ad executionem suorum iudiciorum et ad spiritualem salutem uel penam hominum tamquam ad finem suum, secundo ut innuat se in hiis intendere alios sensus spiritualiores qui directius spectant ad iudicia animarum seu naturarum rationalium.
Quia uero post tempestatem sequitur serenitas in qua habunde diffunditur lux et calor, ideo post hoc querit: PER QVAM VIAM SPARGITVR LVX ET DIVIDITVR ESTVS, id est calor magnus, SVPER TERRAM? Vias enim huius diffusionis et distributionis non est nobis possibile perscrutari ad plenum. Quia autem diffusio lucis in diuersis terris, cum aer est serenus, non ita sensibiliter diuersificatur sicut accensio caloris, ideo ‘lucem spargi’ dixit quasi indifferenter effusam, ‘estum’ autem ‘diuidi’ quasi pro diuersitate locorum diuersimode distributum. Deinde de ordinato decursu ymbrium ad terras uarias irrigandas et fecundandas querit a Iob quis est actor huius, quasi dicens: ‘solus Deus’; unde subdit: QVIS DEDIT VEHEMENTISSIMO YMBRI CVRSVM, quem scilicet habet per uentos nubem, unde imber oritur, impellentes, ET VIAM SONANTIS TONITRVI? Sonus enim tonitrui causatur ex uentis impellentibus et agitantibus nubes, propter quod huiusmodi sonus non auditur in uno loco, sed ac si sit sonus alicuius corporis transeuntis, ed ideo dicit uiam sonantis tonitrui. Causam autem finalem predicti decursus ymbrium ostendit subdens: VT PLVERET SVPER TERRAM ABSQVE HOMINE IN DESERTO, id est in deserto quod est absque homine uel ubi pluit absque prouidentia hominis. Facit autem mentionem primo de deserto, quia ibi apparet maior necessitas decursus ymbrium et maior euidentia prouidentie Dei et ideo, si nubes et pluuie non impellerentur a uentis ad loca arida, numquam plueret ibi nec etiam esset ibi irrigatio quam habent aliqua loca ex humana industria; unde subdit: VBI NVLLVS MORTALIVM COMMORATVR. Quare autem uult Deus super terram illam uel aliam pluere, ostendit subdens: VT IMPLERET, scilicet pluuiis, INVIAM, id est terram per quam non potest homo transire, ET DESOLATAM, id est destitutam humana prouidentia, ET PRODVCERET HERBAS VIRENTES, scilicet ad decorem terre et ad pastum siluestrium animalium. Quesito autem quis est principalis motor huiusmodi ymbrium, querit absolute quis est principalis causa eorum, subdens: QVIS EST PLVVIE PATER VEL QVIS GENVIT STILLAS RORIS? Qui ros secundum aliquos non differt a pluuia, nisi secundum multitudinem et paucitatem materie. Puto tamen quod aliqualiter differant in forma et proprietatibus formalibus, dato quod non differant specie. Coniunguntur autem hic tum quia sunt sibi filia, tum quia utrumque est ordinatum ad terram impinguandam et fecundandam. Quia uero huiusmodi fluxus liquidorum aliquando congelantur, ideo querit de auctore huiusmodi gelidorum subdens: DE CVIVS VTERO EGRESSA EST GLACIES ET GELV DE CELO QVIS GENVIT? Quidam dicunt quod ideo in generatione pluuie et roris usus est nomine patris, in generatione autem glaciei usus est nomine uteri quod pertinet ad matrem, quia calor qui est causa resolutionis pluuiarum et roris non permittens congelari uaporem est qualitas masculina, frigus uero quod est causa congelationis est qualitas feminina. Dicunt etiam quod de glacie generata in aere, qualis est pruina de celo, id est de aere, descendens, dixit: quis genuit?, quasi attribuens eam patri, quia in pruina non apparet tanta uis frigoris, sicut apparet in ulteriori glacie generata in inferioribus aquis, de qua subdit: IN SIMILITUDINEM LAPIDIS AQVE DVRANTUR, scilicet propter uehementiam  frigoris congelantis et condensantis eas, SVPERFICIES ABISSI, id est maris, CONSTRIN-GITVR, id est congelatur. Frigus enim aeris extrinsecum non potest irrumpere usque ad maris profundum. Huiusmodi autem congelatio maris non contingit nisi in locis frigidissimis, sicut sunt plage aquilonares. Puto tamen quod in nominatione patris et matris seu uteri materni potius attendit modos methaphoricos et misticos. Methaphoricos quidem, quia enim generatio animalium perfectorum est ex patre et matre et in omnibus concurit causa effectiua quasi pater et materia quasi mater. Ideo ut utrumque modum methaphorice tangeret, more rhetorico combinauit unum uni et reliquum alteri, illud quod in suo exitu est grossius et materialius attribuens partui ex utero, quod uero est in suo exitu subtilius et inuisibilius attribuens patri. Misticos autem, quia per huiusmodi, sicut infra patebit, designatur causa superior et inferior gratiarum uel iudiciorum uel culparum ex Dei iudicio permissarum, in quibus Deus est sicut pater, anima uero sicut mater; uel ut ostendat quod Deus est huiusmodi operum causa extrinseca simul et intrinseca ac effusiua simul et contentiua, aperta et profunda. Vnde dicuntur prodire quasi ex utero Dei, ut ostendat quod in eius exemplaritate et causalitate continentur et hoc profunde et habunde.

Rime, 45 (CII) Amor, tu vedi ben che questa donna, vv. 25-60

Segnor, tu sai che per algente freddo
l’acqua diventa cristallina petra
là sotto tramontana ov’è il gran freddo,
e l’aere sempre in elemento freddo
vi si converte, sì che l’acqua è donna
in quella parte per cagion del freddo:
così dinanzi dal sembiante freddo
mi ghiaccia sopra il sangue d’ogne tempo,
e quel pensiero che m’accorcia il tempo
mi si converte tutto in corpo freddo,
che m’esce poi per mezzo della luce
là ond’entrò la dispietata luce.

In lei s’accoglie d’ogni bieltà luce;
così di tutta crudeltate il freddo
le corre al core, ove non va tua luce:
per che ne li occhi sì bella mi luce
quando la miro, ch’io la veggio in petra,
e po’ in ogni altro ov’io volga mia luce.
Da li occhi suoi mi ven la dolce luce
che mi fa non caler d’ogn’altra donna:
così foss’ella più pietosa donna
ver’ me, che chiamo di notte e di luce,
solo per lei servire, e luogo e tempo.
Né per altro disio viver gran tempo.

Però, vertù che se’ prima che tempo,
prima che moto o che sensibil luce,
increscati di me, ch’ho sì mal tempo;
entrale in core omai, ché ben n’è tempo,

sì che per te se n’esca fuor lo freddo
che non mi lascia aver, com’altri, tempo:
che se mi giunge lo tuo forte tempo
in tale stato, questa gentil petra
mi vedrà coricare in poca petra,
per non levarmi se non dopo il tempo
quando vedrò se mai fu bella donna
nel mondo come questa acerba donna.

 

Tab. app. VI

Jb XXXVIII

[pp. 548-543, §§ 654-697] Sexto debuit nasci status euangelicus similis Iob qui preter communem spem ecclesie prius dilatate nasciturus erat, cuius tempus et numerum Deus nouit. In hoc autem tempore debet esse magna preparatio et effusio gratiarum. Reuelabuntur enim thesauri scripturarum, in quo sunt thesauri niuis, id est puritatum euangelicarum, et thesauri grandinis, id est iudiciorum finalium, preparati a Deo ad debellandum hostem principalem qui in psalmo dicitur singularis ferus. In illo autem tempore super ecclesiam electorum larga manu effundetur [lux] sapientie et ardor caritatis ut iterum sicut et tempore apostolorum instar uehementissimorum ymbrium et tonitruorum sonantium percurrant deserta nationum infidelium ad fecundandum illas pluuiis gratie et herbis uirtutum uirentium. Et in die illa stillabunt pluuie gratiarum et ros spiritualium dulcorum, ita ut omnes admirentur patrem tante pluuie talisque roris. E contrario uero in reprobis refrigescet tunc caritas, et aque fluxibiles populorum seu cordium humanorum indurabuntur quasi lapis, et superficies multorum infidelium constringetur et indurabitur contra predicationem electorum. Septimo describitur septimus status ecclesie, in quo celestis Ierusalem et admirabilis ac indissolubilis ordo eius per claram contemplationem illucescet et ordo eius imprimetur in terris. Et tunc apparebit quod impossibile est dissipare cursum celestem tam quoad septiformem gratiam Spiritus sancti designatam per lapides, quam quoad acies septiformis Christi exercitus, contra turbines Aquilonis se circumgirantes, designatas per girum Arcturi. Hic etiam apparebit quod sicut in principio nascentis ecclesie produxit Deus Luciferum, id est Iohannem Christi precursorem, sic in fine faciet consurgere Vesperum, id est Eliam et eos qui in Elia mistice designantur, quamuis unusquisque eorum respectu future ecclesie potuerit dici Lucifer et respectu preterite potuerit Vesperus nominari. Tunc igitur ponetur ordo celestis hierarchie in terra. Leuabit enim Deus uocem altissime predicationis in nebula mistice contemplationis, ad quam sequ[e]tur impetus aquarum, id est gratiarum operientium terram. Mittet enim tunc Deus fulgura quasi nouos apostolos, uiros scilicet feruidos, agiles, lucidos, subtiles, acutos, omnia penetrantes et incendentes, qui sic ad exteriora ibunt quod semper per contemplationem et per rectam intentionem Deo assistent et per obedientie promptitudinem dicent Deo assumus. Tunc igitur dabitur homini sapientia mistica et gallo, id est ordini doctorum, celestis cursus seu diuine prouidentie dabitur intelligentia. Et quia per hoc celi ordo ponetur in terra, ideo signanter repetit: quis enarrabit celorum rationem et cantum concordem diuinarum laudum quis cessare faciet?.

Rime, 43 (C), 66-72 (Contini, p. 155)

Canzone, or che sarà di me ne l’altro
dolce tempo novello, quando piove
amore in terra da tutti li cieli,
quando per questi geli
amore è solo in me, e non altrove?
Saranne quello ch’è d’un uom di marmo,
se in pargoletta fia per core un marmo.

Inf. I, 100-105

Molti son li animali a cui s’ammoglia,
e più saranno ancora, infin che ’l veltro
verrà, che la farà morir con doglia.
Questi non ciberà terra né peltro,
ma sapïenzaamore e virtute,
e sua nazion sarà tra feltro e feltro.

Jb XXXIX

[pp. 564-566, §§ 291-331 (Jb 39, 26-30)] Licet autem in quolibet tempore ecclesie fuerint aliqui ypocrite, quasi strutiones, potissime tamen in fine quinti temporis ecclesiastici mundant et mundabunt colorem quidem et habitum, primis contemplatiuis et doctoribus similes, sed ambitione et inani gloria pennas dissolutas habentes et ideo de salute animarum realiter non curantes et precipue de hiis qui erunt ueri et perfecti filii gratie. Sicut enim synagoga, uelut altera strutio, indurata est contra suos spirituales filios, id est Christum et apostolos, quia [nesciuit] spiritualem sapientiam noue legis, sic ypocritalis ecclesia finalium temporum se habebit ad filios euangelici zeli. Sicut etiam synagoga duabus alis, phariseorum scilicet et scribarum, eleuata derisit Christum hominem et spiritum diuinitatis sue et tandem cetum apostolicum et spiritum ascensorem eorum, sic et illa equum strenue militie in initio sexti et circa finem quinti temporis suscitande pro nichilo ducet. Qualis igitur erit ille equus, optime describitur: erit enim mirabilis robore et efficacia innitus seu doctrine, mirabilis in saltu, quia agiliter petet alta et quasi uolando pertransiet foueas ruinosas. Iste in auditu futurarum tribulationum gloriabitur cum mira letitia et audacia currens ad certamina, nulli terrori aut rationi aut clamori uel passioni cedens, sed feruens et fremens sorbebit terrenos. Hic erit perspicacissimus in discernendo duces capitalium uitiorum, id est septem capita bestie et drachonis, eorumque persuasiones que respectu ululatum bestialis plebis quasi exhortationes rationabiles uidebuntur.
Post hoc igitur quasi in septimo tempore renouabitur contemplatiua ecclesia, deposita uetustate priorum temporum, quia totis uiribus expandet alas suorum affectuum et mentalium aspectuum ad austrum diuini amoris ac meridiani ardoris. Et tunc eleuabitur aquila, id est contemplatiua ecclesia, quantum huic uite est possibile, relinquens lutea et terrena, tota inhians ad escam spiritualium suauitatum et uenationum, omnia uisu acutissimo et uniuersalissimo perlustrans, cuius pulli nutrientur sanguine Crucifixi, quem sicut mel dulcissimum lambent, et ad Christi corpus, quod post mortem in terra cecidit, semper assistent, iuxta illud Matthei XXIV°: ubicumque fuerit corpus, illuc congregabuntur et aquile. Tunc complebitur illud Apocalipsis XIX°: uidi angelum stantem in sole et clamauit uoce magna omnibus auibus que uolabant per medium celi: ‘uenite, congregamini ad cenam Dei magnam, ut manducetis carnes regum‘ etc., quas quidem manducabunt uel eas incorporando Christo et ecclesie uel reficiendo se de diuinis super eos factis iudiciis.

 

Tab. app. VII

[Jb X,  21-22, pp. 188-189, §§ 422-467] Dicit autem PAVLVLVM, id est hoc breuissimo tempore quod mihi restat, ANTEQVAM VADAM.
Quomodo supponit se iturum ad talem statum, scilicet AD TERRAM MISERIE etc.? Dicendum quod secundum quosdam ipse loquitur hic tantum de statu corporali quem habet post mortem, dum sub terra iacet. Tunc enim stat in loco ‘terre tenebrose’, ubi est VMBRA MORTIS, id est priuatio uite et cogitationis, uel umbra mortificans et qui pro tanto est locus ‘miserie’ et ‘sempiterni horroris’, qui a uiuentibus talis apprehenditur et estimatur. Non est autem ibi ORDO uel natura quoad organizationem membrorum uel dignitatum, quia omnes sunt equales et equaliter priuati omni dignitate. Vel si loquitur de statu anime, tunc loquitur, ac si esset iturus propter dubium et timorem diuini iudicii et penarum illarum, ut etiam hoc sit una causa plangendi, quia timet ne uadat illuc non tamen tali timore qui spem tollat glorie, sed qui cor concutiat suo horrore. Vel per hoc uult significare quod locus ad quem iturus est localiter propinquus penis infernalibus et quoad aliquas conditiones illi statui similis, scilicet quoad carentiam diuine visionis et forte quoad tenebrositatem loci in quo tunc stabant anime sancte. In inferno autem nullus est ordo, quia secundum Gregorium ipsa supplicia inordinate suscipiuntur a corde dampnatorum: “in dolore enimi positi interius exteriusque confunduntur, ut sua confusione deterius crucentur.” Vel secundum eumdem hoc ideo dicitur quia non seruatur ibi ille ordo qui hic: ibi enim ignis ardet, sed non lucet; et ibi dolor non excludit timorem, immo quod timent tolerant et quod tolerant incessanter pertimescunt. Est tamen ibi ordo diuine iusticie penas iuste ordinantis, ita quod fortioribus fortior instat cruciatio et zizania in fasciolis ligantur, id est secundum Gregorium “pares paribus sociantur, ut quos similis culpa inquinat, par etiam pena constringat.” Sunt etiam ibi tenebre tam corporales quam mentales, quia ibi nichil uidetur aut intelligitur nisi quod facit ad penam dampnati et prout facit ad penam eius.
Si tamen queris quomodo ignis possit ibi esse sine luce uel potius quomodo possit simul eos obscurare et ad aliqua penalia uidenda eos illuminare, respondet ad hoc Gregorius Moralium IX° in fine super hoc loco per simile de igne “qui uestimenta trium puerorum non attigit et tamen uincula eorum incendit, ita quod sanctis uiris ad inferendum tormentum flamma friguit et ad solutionis ministerium exarsit.” “Et ita e diuerso gehenne flamma nequaquam lucet ad consolationis gratiam et tamen lucet ad penam, ut ad doloris cumulum qualiter dilecti crucientur, ostendat.” Subditque aliquod exemplum naturale de flamma tedarum que lucet obscura. Et etiam potest dari exemplum de flamma sulphurea de flamma fornacis grasso et obscuro fumo inuoluta.

Jb XVII, 15, pp. 274-277, §§ 251-342] Ex hiis igitur concludit sb questione duplex inconueniens quod ex predictis sequitur. Vnum est inutilitas spei; et ideo dicit: VBI EST ERGO NVNC PRESTOLATIO, id est expectatio, MEA?, id est ubi est illud bonum quod nunc sperare debeo? Secundum est inutilitas patientie; et pro hoc dicit: ET PATIENTIAM MEAM QVIS CONSIDERAT?, id est quis attendit ad eam, ut scilicet remuneret eam? Et uolens ostendere quod nichil, si uera est sententia amicorum, subdit: IN PROFVNDISSIMVM INFERNVM DESCENDET OMNIA MEA, id est quicumque meum est in sepulcro deponetur. Et uolens sensibilius ostendere derisibilitatem promissionis eorum subdit: PVTASNE SALTEM ERIT IBI REQVIES MIHI?, id est numquid ibi etiam debeo expectare prosperitatem terrenam?, quasi dicens: “manifestum est hoc esse ridiculosum.”
Nota tamen quod, quia ostendendo spem huius vite esse vanam et stultam semper eo ipso ostendit spem quietis alterius uite esse ueram et solidam, ideo sic moderatur uerba sua, ut ualeant ultra hoc ad eliciendum istum sensum. Vtquid enim dixit in profundissimum infernum, cum corpus communiter non ponatur in profundissimo terre? Satis innuit quod spes sua exigit ad bonum sibi sperandum et quod Deus considerat patientiam suam ut alibi remunerandam. Hoc tamen erat tunc ualde absconditum, tam ratione corporis putrefiendi quam ratione anime que tunc ad inferos descendebat et pro hac uidetur magis dicere quod in profundissimum infernum debebat descendere. Sed querit Gregorius quomodo est hoc uerum, “cum constet quod apud inferos iusti non locis penalibus, sed in superiori quietis sinu”. Et respondet quod ipsa superiora loca inferi profundissimum infernum uocat, quia iste aer caliginosus, in quo apostate angeli secundum beatum Petrum detrusi sunt, potest dici ‘infernus’ respectu sublimitatis celi; et tunc terra, que infra aerem iacet, potest dici ‘profundus infernus’; et respectu huius ille sinus inferior, ubi stabant anime sancte, potest dici ‘profundissimus infernus’. Et secundum eumdem dixit ‘omnia sua’ illuc descendere, quia quodammodo in sua anima omnia sua erant, uel quia omnis labor suus et omne quod egit ibi debebat quietem retributionis recipere, antequam haberet quietem glorie. Quia vero dicit putasne etc., dict quod “in hiis uerbis innotescit quod desiderat et tamen de suscipienda requie se esse dubium designat”, quasi “in re pensandum est quis nostrum iam de requie eterna securus sit, si de ea adhuc et ille trepidat cuius uirtutis preconia et ipse iudex qui percutit clamat”. Et post dicit quod licet Iob nosset se peruenturum ad requiem, tamen “ut corda nostra timore concuteret, uisus est de ea dubitare”.

Potest hic queri an sit uerum aut conueniens quod ante Christum sancte anime descenderent in infernum. Videtur enim quod non, quia locus ita uilis et infimus et tenebrosus non competebat sanctis animabus ad regnum celestis glorie ordinatis. Dicendum quod tam hic quam supra capitulo XIV° et capitulo X° et capitulo VII° aperte docemur ex uerbis beati Iob quod anime sancte descendebant tunc ad inferos. Et huic consonat uerbum Iacob Geneseos XXXVII: descendam ad filium meum lugens in infernum; et XLII° dicit pro Beniamin: deducetis canos meos cum dolore ad inferos; et Zacharie IX° dicit Christo uenturo: tu uero in sanguine testamenti tui emisisti uinctos tuos de lacu in quo non est aqua; et Actuum II° dicit Petrus de Christo quem Deus suscitauit solutis doloribus inferni; et allegat uerbum Dauid: quoniam non derelinques animam meam in inferno; et catholica fidei professio solemniter tenet Christum descendisse ad inferos. Vnde Romanorum X° dicit Apostolus: quis descendet in abissum? Quia hoc est Christum ex mortuis reuocare. Constat autem quod anima Christi non descendit illuc nisi pro liberandis amicis suis. Pro certo igitur tenendum est animas sanctas ante Christum illuc descendisse fuitque hoc conueniens, tum ad ostendendam generalem corruptionem peccati originalis et etiam actualis et penam dampnationis ei debitam, tum ad ostendendam securitatem diuine iusticie et iudiciorum eius, tum ad ostendendam necessitatem redemptoris et redemptionis per eum fiende, tum ad magnificandam gratiam et potentiam sue saluationis, quia plenius per hoc apparuit quomodo nos de potestate diaboli et de penis inferni eripuit.
Vlterius potest queri an ibi haberent requiem, quia Iob uidetur hic satis innuere uel saltem in questione ponere. Dicendum quod ex uerbis Christi – Luce XVI° – indubitanter patet quod ibi habebat requiem, unde Abraam dixit de Lazaro diuiti epuloni: nunc autem hic consolatur, tu uero cruciaris. Ipse etiam diues hoc bene uidit et ideo petebat: pater Abraam, mitte Lazarum ut refrigeret linguam meam. In eo etiam quod Lazarus portatus fuit ab angelis in sinu Abraam, sicut ibi a Christo dicitur, patet quod ad requiem ducebatur. Et dictat hoc ratio recta, quia ex quo nichil habebant purgabile et exuiuerant statum meriti et demeriti et erant immobiliter ad Dei uisionem et gloriam ordinati, ita quod nichil eis deerat in eam nisi sola passio Christi, nulla erat ratio propter quam affligi deberent. Et cum essent pleni Dei gratia et amore et certissimi et securissimi de optinenda gloria eius et subessent immediatius et immobilius hierarchie angelice et influentiis eorum quam quando erant in statu huius uite et etiam plus quam Adam in statu innocentie saltem quoad impeccabilitatem, non est dubitandum quin sublimi et tranquilla diuine contemplationis dulcedine fruerentur et quin multipliciter angelicis illuminationibus et uisitatoriis consolationibus replerentur. Nec loci corporalis conditio contristabat eas, sed potius congratulabantur in hoc iusticie diuine et honorificentie redemptoris quem uenturum sperabant et descensurum ad inferos pro inde tollendis et ad regnum glorie deducendis.

[Jb XXI, 32-33, pp. 315-316, §§ 291-325] Ex hiis igitur tertio quasi concludendo astruit penam eius eternam, dicens quod, postquam erit mortuus et sepultus inter mortuos, et erit in luctu penarum amaro cum innumerabili multitudine impiorum. Et hoc est quod subdit: IPSE AD SEPVLCHRA DVCETVR, scilicet quantum ad corpus suum, ET IN CONGERIE, id est in congregatione, MORTVORVM VIGILABIT, id est uiuet et peruigil erit ad penas apprehendendas, uel in die resurrectionis de sompno mortis euigilabit. Qualiter autem punietur sub figurali similitudine illo fortasse tempore usitata, subdit: DVLCIS FVIT GLAREIS COCHITI. ‘Cochitos’ grece luctus dicitur et, sicut ait Gregorius, “sapientes huius seculi umbras quasdam de ueritatis inquisitione tenere conati sunt. Vnde Cochiton fluuium currere apud inferos putauerunt.” Fluuius igitur nomine Cochitos amaras penas inferni designat, sicut in Apocalypsi per stagnum ardentis sulphuris designantur. Glarea uero est arena uel lapilluli arenarum qui ducuntur in fundo aquarum uel limus tenax qui est in fundo fluuiorum et significat impios steriles et lumosos in inferno demersos. Impius ergo dicitur dulcis fuisse glareis Cochiti, quia eius conuersatio et societas, dum uiueret, fuit grata malis et ideo dignum est ut in luctu fluuii infernalis inter malos locum habeat. Vel per le ‘dulcis’ significatur proportio et conuenientia associationis eius ad eos qui in inferno sunt. Non enim eius societas erit delectabilis dampnatis, cum ipsi in nullo delectentur, sed potius in omnibus puniantur, sed erit eis condecens et proportionalis; et pro tanto potest dici quod dulcis erit eis. Quanta autem multitudo impiorum ibi erit, ostendit subdens: ET POST SE OMNEM HOMINEM TRAHIT ET ANTE SE INNVMERABILES. Post se sunt omnes qui iam sunt mortui et sunt in inferno, tum quia eos luctus mortis iam precessit, tum quia infra se ille fluuius continet eos. Et ideo dicit quod post se omnem hominem trahit, quia nullus homo est post eum quin trahatur et rotetur a uiolento impetu et decursu fluuii infernalis. Ante se uero sunt hii qui adhuc in modo isto uiuunt et de hiis trahit innumerabiles, tum quia innumerabiles illuc per mortem ducuntur, tum quia fluuius luctus et tristitie quasi infernalis multos in uita ista inuoluit.

Inf. XIV, 115-120

Lor corso in questa valle si diroccia;
 fanno Acheronte, Stige e Flegetonta;
poi sen van giù per questa stretta doccia,
infin, là ove più non si dismonta,
fanno Cocito; e qual sia quello stagno
 tu lo vedrai, però qui non si conta.

[Jb XXVI, 5-7, pp. 356-357, §§ 88-103] Dicit ergo: ECCE GIGANTES GEMVUNT, id est cum gemitu mortui sunt, SVB AQVIS, scilicet diluuii, ET QVI HABITANT CVM EIS, id est illi qui eis tamquam potentioribus adherebant, similiter gemunt sub aquis. Loquitur autem de presenti, ut tangat simul penam eorum preteritam, que fuit temporalis, et penam presentem, qua in eternum gemunt sub aquis lacus seu stagni infernalis, ubi et innuit quod, sicut fuit hic ordo et connexio culparum, qua quidam sunt superiores in malo, quidam inferiores seu collaterales, ita est in penis inferni.
NVDVS EST INFERNVS CORAM ILLO, id est omnia que sunt in inferno sunt ita conspicua et aperta oculis suis, ac si ab omni operimento essent denudata. Vnde quasi exponendo subdit: ET NVLLVM EST OPERIMENTVM PERDITIONI, id est hiis qui sunt perditi in inferno, quia non possent occultari per aliquid uelamen nec a suo iudicio possent eripi per alicuius protectionem nec per alicuius defensionis obstaculum.

[Jb XXVII, 19-22, pp. 368-369, §§ 245-279] DIVES CVM DORMIERIT, scilicet sompnio mortis, NICHIL SECVM AFFERET, id est de bonis que hic possidet nichil in aliam uitam secum portabit et ultra hoc nichil meriti aut uirtualis boni. APERIET OCVLOS SVOS, scilicet in resurrectione, uel ipsa anima separata peruigil erit ad animaduertendum ueritatem defectuum suorum et inopie sue tam interioris quam exterioris, tam spiritualis quam corporalis; unde subdit: ET NICHIL INVENIET. APREHENDET EVM QVASI AQVA INOPINA, id est ita subito et ita habundanter, sicut aqua pluuialis uel diluuii subito inundantis subito et habundanter hominem existentem extra tectum apprehendit – Nota quod mos est scripturarum penas culpis correspondentes appropriare et ideo superfluis diuitiis auarorum appropriat penam egestatis summe et secundum Gregorium “non immerito illa inopia comparatur aque, quia pena inferni solet lacus nomine designari.” – Nota etiam quod dicendo aperiet oculos, designat quod hic oculos cordis ad auertendum uacuitatem suarum diuitiarum transitoriam clausos habuerat. – NOCTE OPPRIMET EVM TEMPESTAS, id est turbo uentorum et ymbrium procellosus et tempestuosos. Per hoc autem significat concussionum ineffabilium uehementiam, quibus dampnati concutientur et percutientur in tenebris noctis infernalis. Quomodo autem ista tempestas eum hinc inde circumrotabit dubdit: TOLLET EVM VENTVS VRENS, quasi igneus et infernalis existens, ET AVFERET, scilicet de loco suo, ET VELVT TVRBO, qui est uentus uehemens et procellosus, RAPIET EVM DE LOCO SVO. An autem ibi sit localis circumrotatio, nescio, sed nichil inconueniens si sit ibi. Virtualiter tamen et per equiualentiam erit ibi, quia numquam sinentur in aliquo statu quiescere aut solidari et hoc potest hic per uerba predicta parabolice designari. Quia uero uentus sic urens et procellosus solet emittere fulgura, ideo subdit: EMITTET SVPER EVM, scilicet Deus fulgura quasi sagittas de archu emissas, iuxta illud Psalmi: fulgura corruscationis et dissipa: emitte tuas sagittas et conturba eos. In tanta enim uirtute emittet Deus penas super eos, sicut si emitteret fulgura et tonitrua. ET NON PARCET, scilicet qui semper eum puniat.

[Jb XXXVIII, 16-17, pp. 538-539, §§ 351-362] Quia uero tales in profundum mortis et inferni descendunt, ideo procedit ad querendum de profundo maris et de tenebroso statu mortis et inferorum, dicens: NVMQVID INGRESSVS ES PROFVNDA MARIS ET IN NOVISSIMIS, id est in infimo fundo, ABISSI DEAMBVLASTI? Homo enim nec perambulatione corporali nec perscrutatione uisuali aut intellectuali potest penetrare et peragere profunda rerum et precipue tantarum. NVMQVID APERTE SVNT TIBI PORTE MORTIS, ut scilicet clare et libere possis intueri totum statum mortuorum, ET HOSTIA TENEBROSA VIDISTI?, id est statum et aditum inferorum qui caret luce huius uite. Vnde supra X° dixit Iob: antequam uadam ad terram tenebrosam et opertam mortis caligine, ubi umbra mortis et nullus ordo.

 

Tab. app. VIII

Jb III, 26, pp. 81-82, §§ 1022-1041] Spiritus enim diuinus mouet mentes sanctorum prout uult et quomodo uult et quando per efficacissimos sensus et per fortissimos influxus et illapsus medullas cordis agitat et impellit, non est in potestate hominis prohibere spiritum. Vnde Amos III dicitur: dominus Deus locutus est. Quis non prophetabit? Et Ieremias XX° capitulo ait quod, cum ipse uellet cessare a loquendo sermonem Domini, quod factus est in corde suo quasi ignis exestuans claususque in ossibus suis et defecit fere non sustinens. Credendum autem quod uir, cui in uirtute non erat similis in terra, in tam forti tamque diuturno certamine passionum singularissime agebatur et regebatur a diuino spiritu et ideo credendum est quod ex singulari influxu et impetu huius spiritus protulerit uerba ista. Rursus sciendum quod secundum diuersas dispositones diuersosque status persone tam quoad animum sint sancti faciliores et promptiores ad dandum se aliquibus diuinis conceptibus et exercitiis virtualibus quam aliis. Vnde aliquando sunt prompti et feruidi ad deploranda peccata, aliquando ad deplorandum incolatum nostri exilii, aliquando uero ad spiritualem psalmodiam et iubilum de superiocundis et superadmirabilibus bonitatibus et perfectionibus summi Dei et sic de aliis.

[Jb IV, 16, pp. 99-100, §§ 457-493] Ad secundum dicendum quod tempore gratie cessauit prophetia respectu primi aduentus Christi qui fuit in carnem, non autem secundi qui est in spiritum – quia hic nondum est plene impletus, sed spiritus de die in die magis impletur – nec respectu ad tertium qui est ad iudicium. Item etsi prophetia, prout est de futuris, quoad quid cessauit, prout tamen est de presenti uel preterito non oportet quod cessauit. Et tamen ab hiis quero an in Apocalipsi et in epistolis Pauli et in euangelio multe prophetie contineantur. Et nisi sint infideles, dicent quod sic. Rursus numquid negabunt omnes uisiones sanctorum quas in libro Dialogorum narrat Gregorius et omnes visiones Francisci, utpote seraphini imprimentis stigmata, et uniuersaliter omnes uisiones sanctorum a tempore Christi et citra? Quis hec omnia neget nisi omnino insanus?
Ad tertium dicendum quod, sicut tempore pseudoprophetarum ueri propheti, scilicet Helias, Micheas et Ieremias et ceteri, non reputabantur periculose assentire certis uisionibus Dei, sic nec circa finem temporum erit hoc periculosum solummodo sub consimilis certitudinis circumstantia fiat. Immo, sicut tunc fuit necessaria illustratio prophetalis contra deceptiones pseudoprophetarum, sic et illo tempore necessaria erit electis singularis illustratio Dei contra deceptiones illorum temporum. Et ideo stultus est qui dicit quod electi non debeant tunc assentire illis singularibus illustrationibus Dei.
Ad quartum dicendum quod bene potest homo sentire et animaduertere cum perfecta humilitate se habere uisiones altas. Alias prophete, apostoli et ceteri sancti numquam potuissent hoc sensisse sine presumptione. Non oportet etiam quod qui habet eas reputet se dignum eis aut quod proter merita sua sibi fuerint reuelate aut quod propter hoc sit melior aliis qui talia non uiderunt, tum quia multi peccatores possunt habere donum prophetie, sicut patet in Balaam – unde Christus dicit quod multi in illa die dicent: Domine, nonne in nomine tuo prophetauimus? -, tum quia donum prophetie longe inferius est dono caritatis et gratie, tum quia propter huiusmodi non est homo maioris meriti apud Deum, nisi forte pro quanto aliquando cum eis augetur homo in gratia uel in aliquo actu meritorio.


Fonti

DANTE

Vita Nova, a cura di G. Gorni, Torino, 1996 (viene indicata anche la paragrafazione del Barbi).

Rime, a cura di G. Contini, Torino 1939 e 1995.

Convivio, a cura di F. Brambilla Ageno, Firenze 1995 (Società Dantesca Italiana. Edizione Nazionale).

La Commedia secondo l’antica vulgata, a cura di G. Petrocchi, Firenze 1994.

Epistole, a cura di A. Frugoni-G. Brugnoli, in Dante Alighieri, Opere minori, II, Milano-Napoli 1979, pp. 505-643.


PIETRO DI GIOVANNI OLIVI

On the Bible. Principia quinque in Sacram Scripturam, ed. D. Flood – G. Gál, St. Bonaventure University, New York 1997 (Fran-ciscan Institute Publications, Text Series, 18).

Expositio in Canticum Canticorum
, curavit J. Schlageter, Ad Claras Aquas Grottaferrata 1999 (Collectio Oliviana, II).

Postilla super Iob, cura et studio A. Boureau, Turnhout, Brepols, 2015.

Lectura super Matthaeum, Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, ms. Vat. lat. 10900.

Lectura super Lucam et Lectura super Marcum, critice editae a F. Iozzelli OFM, Ad Claras Aquas, Grottaferrata 2010 (Collectio Oliviana, V).

Lectura super Apocalipsim.

Expositio super Regulam Fratrum Minorum, ed. D. Flood, Wiesbaden 1972 (Veröf-fentlichungen des Instituts für Europäische Geschichte Mainz, 67).

Quaestio de altissima paupertate, ed. J. Schlageter, Das Heil der Armen und das Verderben der Reichen. Petrus Johannis Olivi OFM. Die Frage nach der höchsten Armut, Werl/Westfalen 1989 (Franziskanische Forschungen, 34).

Quaestiones in secundum librum Sententiarum, ed. B. Jansen, Ad Claras Aquas, prope Florentiam, 1922-1926 (Bibliotheca Franciscana Scholastica Medii Aevi, IV-VI).