«

Nov 24 2024

Inferno XXXIV

La “Divina Parodia” del Libro scritto dentro e fuori

Canti esaminati:

Inferno: I; II; III; IV; V; VI; VII; VIII; IX; X; XI; XII; XIII; XIV; XV; XVI; XVII; XVIII; XIX; XX; XXI; XXII; XXIII; XXIV; XXV; XXVI; XXVII; XXVIII; XXIX; XXX; XXXI; XXXII, 1-123; XXXII, 124-XXXIII, 90; XXXIII, 91-157; XXXIV

Purgatorio: III; XXVIII

Paradiso: XI-XII; XXXIII

 

1. La fine dell’Antico Testamento. 2. Lucifero e i segni apocalittici. 3. Scendere, risalire, entrare, ritornare: il cammino verso la nuova era. Avvertenze. Abbreviazioni. Note sulla “topografia spirituale” della Commedia.

 

Legenda [3]: numero dei versi; 2, 1: collegamento ipertestuale all’esegesi, nella Lectura di Olivi, di capitolo e versetto dell’Apocalisse [Ap]; Not. III: collegamento all’esegesi contenuta nei tredici notabilia del prologo della LecturaVarianti rispetto al testo del Petrocchi.

Viene qui esposto il canto XXXIV dell’Inferno con i corrispondenti legami ipertestuali con i luoghi della Lectura super Apocalipsim ai quali i versi si riferiscono. L’intero poema è esposto nella Topografia spirituale della Commedia (2013, PDF; cfr. infra), ma si sta procedendo a un esame progressivo e aggiornato dei singoli canti. Ogni tabella sinottica, qui presentata o alla quale si rinvia in quanto già esaminata in altra sede, è preceduta o seguita da una parte esplicativa. Per la posizione di Inf. XXXIV nella topografia della prima cantica cfr. infra. Sull’uso dei colori cfr. Avvertenze.

Inferno XXXIV

« Vexilla regis prodeunt inferni
verso di noi; però dinanzi mira »,
disse ’l maestro mio, « se tu ’l discerni ».   [3]   2, 1

Come quando una grossa nebbia spira,   11, 6
o quando l’emisperio nostro annotta,   6, 5
par di lungi un molin che ’l vento gira,   [6]

veder mi parve un tal dificio allotta;
poi per lo vento mi ristrinsi retro
al duca mio, ché non lì era altra grotta.   [9]   6, 12-17

Già era, e con paura il metto in metro,
là dove l’ombre tutte eran coperte,
e trasparien come festuca in vetro.   [12]   21, 11.18.21

Altre sono a giacere; altre stanno erte,   8, 12 (14, 20)
quella col capo e quella con le piante;
altra, com’ arco, il volto a’ piè rinverte.   [15]

Quando noi fummo fatti tanto avante,
ch’al mio maestro piacque di mostrarmi
la creatura ch’ebbe il bel sembiante,   [18]   2, 1; 3, 1

d’innanzi mi si tolse e fé restarmi,   Not. III
« Ecco Dite », dicendo, « ed ecco il loco   12, 14
ove convien che di fortezza t’armi ».   [21]

Com’ io divenni allor gelato e fioco,   12, 14
nol dimandar, lettor, ch’i’ non lo scrivo,
però ch’ogne parlar sarebbe poco.   [24]

Io non mori’ e non rimasi vivo;   12, 17
pensa oggimai per te, s’hai fior d’ingegno,
qual io divenni, d’uno e d’altro privo.   [27]

Lo ’mperador del doloroso regno   17, 9.18
da mezzo ’l petto uscia fuor de la ghiaccia;   12, 14
e più con un gigante io mi convegno,   [30]

che i giganti non fan con le sue braccia:
vedi oggimai quant’ esser dee quel tutto   18, 7
ch’a così fatta parte si confaccia.   [33]

S’el fu sì bel com’ elli è ora brutto,   2, 1; 3, 1
e contra ’l suo fattore alzò le ciglia,   Not. VI
ben dee da lui procedere ogne lutto.   [36]   18, 7

Oh quanto parve a me gran maraviglia   21, 17
quand’ io vidi tre facce a la sua testa!   6, 6
L’una dinanzi, e quella era vermiglia;   [39]   12, 14 (tempus); 6, 3

l’altr’ eran due, che s’aggiugnieno a questa   12, 14 (tempora)
sovresso ’l mezzo di ciascuna spalla,   (dimidium temporis)
e sé giugnieno al loco de la cresta:   [42]

e la destra parea tra bianca e gialla;   6, 3
la sinistra a vedere era tal, quali   6, 3
vegnon di là onde ’l Nilo s’avvalla.   [45]

Sotto ciascuna uscivan due grand’ ali,   6, 6; 12, 14
quanto si convenia a tanto uccello:
vele di mar non vid’ io mai cotali.   [48]

Non avean penne, ma di vispistrello
era lor modo; e quelle svolazzava,
sì che tre venti si movean da ello:   [51]   6, 6; 7, 1

quindi Cocito tutto s’aggelava.
Con sei occhi piangëa, e per tre menti   6, 6 (tres bilibres ordei)
gocciava ’l pianto e sanguinosa bava.   [54]

Da ogne bocca dirompea co’ denti   2, 12; 9, 8
un peccatore, a guisa di maciulla,
sì che tre ne facea così dolenti.   [57]

A quel dinanzi il mordere era nulla   12, 14 (tempus, dimidium temporis); 9, 5       A quel di mezzo
verso ’l graffiar, che talvolta la schiena   2, 12
rimanea de la pelle tutta brulla.   [60]   12, 17

« Quell’ anima là sù c’ha maggior pena »,
disse ’l maestro, « è Giuda Scarïotto,
che ’l capo ha dentro e fuor le gambe mena.   [63]

De li altri due c’hanno il capo di sotto,   12, 14 (tempora)
quel che pende dal nero ceffo è Bruto:   6, 5
vedi come si storce, e non fa motto!;   [66]

e l’altro è Cassio, che par sì membruto.   12, 14
Ma la notte risurge, e oramai   6, 5
è da partir, ché tutto avem veduto ».   [69]

Com’ a lui piacque, il collo li avvinghiai;   6, 12-17
ed el prese di tempo e loco poste,   2, 2
e quando l’ali fuoro aperte assai,   [72]   12, 14

appigliò sé a le vellute coste;   Not. VII
di vello in vello giù discese poscia   2, 5
tra ’l folto pelo e le gelate croste.   [75]

Quando noi fummo là dove la coscia
si volge, a punto in sul grosso de l’anche,   Not. VIII; 11, 6
lo duca, con fatica e con angoscia,   [78]   2, 2

volse la testa ov’ elli avea le zanche,
e aggrappossi al pel com’ om che sale,   2, 5
sì che ’n inferno i’ credea tornar anche.   [81]

« Attienti ben, ché per cotali scale »,   2, 5
disse ’l maestro, ansando com’ uom lasso,   2, 1
« conviensi dipartir da tanto male ».   [84]   18, 4; 2, 2

Poi usfuor per lo fóro d’un sasso   6, 2 (18, 4); 6, 12-17
e puose me in su l’orlo a sedere;
appresso porse a me l’accorto passo.   [87]

Io levai li occhi e credetti vedere
Lucifero com’ io l’avea lasciato,
e vidili le gambe in sù tenere;   [90]

e s’io divenni allora travagliato,
la gente grossa il pensi, che non vede   11, 6
qual è quel punto ch’io avea passato.   [93]   Not. VIII

« Lèvati sù », disse ’l maestro, « in piede:
la via è lunga e ’l cammino è malvagio,
e già il sole a mezza terza riede ».   [96]

Non era camminata di palagio   21, 3
là ’v’ eravam, ma natural burella
ch’avea mal suolo e di lume disagio.   [99]

« Prima ch’io de l’abisso mi divella,
maestro mio », diss’ io quando fui dritto,   6, 5
« a trarmi d’erro un poco mi favella:   [102]   2, 1

ov’ è la ghiaccia? e questi com’ è fitto
sì sottosopra? e come, in sì poc’ ora,   Not. III
da sera a mane ha fatto il sol tragitto? ».   [105]

Ed elli a me: « Tu imagini ancora   2, 17
d’esser di là dal centro, ov’ io mi presi
al pel del vermo reo che ’l mondo fóra.   [108]

Di là fosti cotanto quant’ io scesi;   2, 5
quand’ io mi volsi, tu passasti ’l punto   Not. VIII
al qual si traggon d’ogne parte i pesi.   [111]   6, 5

E se’ or sotto l’emisperio giunto   prologus
ch’è contraposto a quel che la gran secca
coverchia, e sotto ’l cui colmo consunto   [114]

fu l’uom che nacque e visse sanza pecca;
tu haï i piedi in su picciola spera
che l’altra faccia fa de la Giudecca.   [117]

Qui è da man, quando di là è sera;
e questi, che ne fé scala col pelo,   2, 5
fitto è ancora sì come prim’ era.   [120]

Da questa parte cadde giù dal cielo;
e la terra, che pria di qua si sporse,   20, 11
per paura di lui fé del mar velo,   [123]

e venne a l’emisperio nostro; e forse
per fuggir lui lasciò qui loco vòto
quella ch’appar di qua, e sù ricorse ».   [126]

Luogo è là giù da Belzebù remoto   1, 9
tanto quanto la tomba si distende,
che non per vista, ma per suono è noto   [129]   9, 16-17

d’un ruscelletto che quivi discende   Not. VII
per la buca d’un sasso, ch’elli ha roso,   16, 10
col corso ch’elli avvolge, e poco pende.   [132]   Not. III (declinans)

Lo duca e io per quel cammino ascoso   21, 3
intrammo a ritornar nel chiaro mondo;   3, 12; 2, 26-28
e sanza cura aver d’alcun riposo,   [135]

salimmo sù, el primo e io secondo,
tanto ch’i’ vidi de le cose belle   3, 1
che porta ’l ciel, per un pertugio tondo.
E quindi uscimmo a riveder le stelle.   [139]   6, 2

1. La fine dell’Antico Testamento

Le età della storia. La visione storica di Olivi, espressa nella Lectura super Apocalipsim, procede per età del mondo e periodi (o stati) della Chiesa, quasi fossero pilastri di una società sacrale. L’Antico Testamento corrisponde alle prime cinque età del mondo, secondo la divisione tradizionale – da Adamo a Noè, da Noè ad Abramo, da Abramo a Mosè, da Mosè a David, da David a Cristo -: coincide con l’età del Padre secondo Gioacchino da Fiore. Con il primo avvento di Cristo, nella carne, inizia la sesta età (del Figlio), nella quale la Chiesa, come fosse un individuo, cresce e si sviluppa in sette stati. Nel sesto stato (che inizia con san Francesco e perdura fino alla vittoria sull’Anticristo e alla distruzione di Babylon, la Chiesa carnale) si verifica il secondo avvento di Cristo nei suoi discepoli spirituali (la gioachimita età dello Spirito); segue il breve, quieto e pacifico settimo stato, che precede il giudizio finale nel terzo avvento.
Il “poema sacro” di Dante è un viaggio nella storia che procede parodiando semanticamente la prospettiva oliviana.

La struttura interna della Commedia. Nel porsi come parodia della Lectura oliviana, la Commedia mostra un ordine interno diverso da quello che appare al lettore: il viaggio di Dante ha un andamento di ciclici settenari, che corrispondono ai sette stati o periodi della storia della Chiesa, prefigurati nell’Antico Testamento, cioè alle categorie con cui Olivi organizza la materia esegetica. Questo ordine interno è registrabile per zone progressive del poema dove prevale, tramite parole-chiave, la semantica riferibile a un singolo stato. È un ordine dirompente i confini letterali stabiliti dai canti e da tutte le divisioni materiali per cerchi, gironi, cieli. Ogni stato, che ha differenti inizi, è concatenato per concurrentia, come le maglie di un’armatura, con quello che precede e con quello che segue. I temi propri di ogni stato, cioè le loro prerogative, sono applicabili agli individui di ogni periodo storico e ricadono in più alta misura sul sesto stato, l’età del rinnovamento del mondo per lo Spirito di Cristo, interno dettatore ai suoi discepoli, nuovi san Giovanni inviati a convertire infedeli e fedeli come scritto nell’Apocalisse (Ap 10, 11).

Corsi e ricorsi semantici nell’Inferno. La ‘topografia spirituale’ del poema mostra nell’Inferno cinque cicli settenari semanticamente elaborati sui temi relativi agli stati della Chiesa come descritti da Olivi nella Lectura. Questi cinque cicli designano le prime cinque età del mondo comprese nell’Antico Testamento (riunite a loro volta nel primo stato generale o nell’età del Padre di Gioacchino da Fiore), in quanto prefigurazione del primo avvento di Cristo e della storia della Chiesa. I cinque cicli non descrivono l’Antico Testamento, ma lo designano: Dante è uomo del sesto stato della Chiesa, il viaggio inizia nel 1300; l’Inferno è, per così dire, un Antico Testamento moderno, ripieno, accanto agli antichi demoni e agli “antichi spiriti dolenti”, di personaggi contemporanei, tutti riuniti, a vari livelli, nella “vecchia roccia”.
Dopo le prime cinque età del mondo, che hanno segnato la discesa a spirale per i cinque cicli settenari dell’Inferno, con il Purgatorio inizia la sesta età, quella di Cristo (l’età del Figlio), che si sviluppa nei sette stati della Chiesa.

Un “poema sacro” e ‘laico’. Il viaggio di Dante, parodiando semanticamente la visione storica di Olivi, la modifica profondamente. Quanto nella Lectura si riferisce esclusivamente alla storia della Chiesa e in particolare dell’Ordine francescano, viene nella Commedia diffuso sull’intero universo e sulla vita degli uomini in terra, con le loro passioni. Nei versi le parole sono segni di concetti propri di una teologia della storia della salvezza collettiva; questi tuttavia subiscono una metamorfosi che estende laicamente i temi dell’escatologia francescana e gioachimita al saeculum humanum e alle sue nuove esigenze. Con un aggiornamento di quanto esposto nella Lectura super Apocalipsim sull’incorporazione delle genti nella Roma dei giusti o dei reprobi, che peregrinano insieme in terra, Dante perviene ad attribuire ai classici, in primo luogo ad Aristotele e a Virgilio, una sacralità fino ad allora propria solo della Chiesa in sé. Che si tratti dell’esercito di Cristo o dell’Anticristo con il quale combatte, sono gli individui ad appropriarsi del campo. Il particolare, con le passioni umane e i dissidi cittadini, viene inserito in una storia universale dei disegni divini. La storia di Roma narrata dall’aquila per bocca di Giustiniano e, in generale, gli “antichi” partecipano della sacralità della Chiesa la cui storia si fa umanistica (cfr. la parodia dell’esegesi in EneaVirgilio, negli “spiriti magni” del Limbo, oppure nell’“umile Italia”). Beatrice parla della libera volontà parodiando quanto scritto da Olivi sul voto evangelico. Il rapporto di parodia sacra che la Commedia instaura con la Lectura, ultima grande espressione dell’escatologismo medievale e di una storia della salvezza collettiva, è segno dell’inizio dell’“autunno del Medioevo”. Chiuso nella sua durezza lapidea e ferrea, aspra a dirsi, l’Inferno corrisponde dunque all’Antico Testamento, articolato nelle prime cinque età del mondo. Il moderno partecipa dell’antico: nei nove cerchi della “vecchia roccia” infernale, fra gli “antichi spiriti dolenti”, si incontrano molti personaggi contemporanei all’autore, tutti relegati fra ciò che è vecchio, chiuso e morto.
Nell’Inferno vige l’imposizione data a Daniele dall’angelo sotto il sesto sigillo dell’Antico Testamento: “Ora tu, Daniele, chiudi queste parole e sigilla questo libro fino al tempo stabilito” (Dn 12, 4), che era la sesta età nella quale apparve Cristo e in particolare il sesto stato della  Chiesa nella quale il libro doveva essere più pienamente aperto, non però ai malevoli e ai maldisposti. Questa durezza è rotta dall’invito di Dante ai dannati perché parlino. Far parlare liberamente, per dettato interiore, è la principale prerogativa del sesto stato – la nuova età che tanto s’aspetta, quella che ode del “dolce stil novo” e delle “nove rime” -, ed è tema che la poesia canta per intero, sia pure per un attimo, anche nella vecchia roccia infernale. Appartiene alla sesta chiesa il parlare liberamente di Cristo – ad essa è dato l’“ostium apertum”, che è “ostium sermonis” – , il sentire per dettato interiore, l’aprirsi della volontà. Appartiene alla sesta chiesa anche il far venire quelli che si dicono Giudei senza esserlo, mutati nel cuore e disposti a farsi battezzare e governare. Questo far venire a parlare equivale al cortese e liberale invito dello Spirito di Cristo a convivare, a venire con desiderio e volontario consenso, con “disio” e con “velle”, in una pausa di pace nell’eterna dannazione. All’“affettüoso grido” del poeta le ombre di Francesca e Paolo vengono “dal voler portate” verso un momento di mutazione, sebbene limitata al successivo colloquio. Tutto l’Inferno è un contrappunto fra la durezza del giudizio e l’apertura per la parola dirompente, fin che essa dura, la pena. Un’apertura che si esprime in varie forme: muoversi sospirando nel Farinata prima immobile, ‘crollarsi’ quasi per terremoto interiore dello ‘schivo’ Ulisse, convertirsi del vento in voce in Guido da Montefeltro, tornare indietro nel cammino assegnato o separarsi dai compagni di pena, essere sforzati a parlare anche malvolentieri, non poterlo negare o mostrare fretta di farlo, arrestarsi obliando il martirio, levarsi per poi ricadere, sollevarsi da atti bestiali per ritornare a essi dopo aver parlato, come nel conte Ugolino. In tante lingue, che parlano come per sé stesse mosse, sta un solo desiderio, vivere ancora nel libro che è stato altrui aperto.

Il terzo stato: la ragione contro l’errore. Il terzo stato della Chiesa è il periodo storico che va dalla conversione di Costantino per opera di Silvestro papa (312), o dal concilio di Nicea (325), fino a Giustiniano (527-565). È il terzo periodo della storia della Chiesa, dopo il primo degli apostoli e il secondo dei martiri. In esso, precedendo o posticipando i limiti cronologici per il principio della “concurrentia” fra gli stati, fiorirono i dottori, combattenti contro le eresie: Clemente Alessandrino, il maestro di quell’Origene che cadde nell’eresia; Atanasio, Ilario di Poitiers, Ambrogio, Girolamo, Agostino, Basilio e Gregorio di Nazianzo, fino a Gregorio Magno. Gli status non sono però solo periodi storici, ma anche modi di essere degli individui, habitus. Le caratteristiche del periodo, pertanto, si ritrovano in tutti gli altri momenti, possono essere appropriate ad altri tempi e a differenti individui e ridondano nel sesto stato, il punto più importante della storia umana, sua causa finale, che dalla conversione di Francesco (1206) all’Anticristo percorre tutto il XIII secolo e oltre, corrispondendo per Olivi (morto nel 1298), e per Dante, ai tempi moderni e contemporanei.
Segnato dal primato dell’intelletto sui sensi, realizzazione dell’uomo razionale, il terzo stato è il luogo della discrezione e dell’esperienza, al cui regime soggiace il falso e nebuloso immaginare; il luogo del sapere (la “cura sciendi”) che è “de veris et de utilibus, seu de prudentia regitiva actionum et de scientia speculativa divinorum”; è il depositario della lingua vera e della vera fede, della Scrittura che non erra, della giusta misura contro ciò che è oscuro e intorto, della bilancia che rettamente pesa la divinità del Figlio di Dio contro gli Ariani che non la ritenevano somma, coeguale e consustanziale a quella del Padre; i suoi dottori (il terzo stato è assimilato al sacramento del sacerdozio) sono perfettamente illuminati nella sapienza; sono maestri del senso morale, “mores hominum rationabiliter et modeste componens”, assimilato al ‘vino’ con il quale ardono contro i vizi e accendono all’amore delle virtù; è il tempo delle leggi e della spada che scinde le eresie e, in genere, l’errore; dell’autonomia della potestà temporale, una delle due ali della grande aquila date alla donna (la Chiesa) per vincere il drago nella terza e quarta guerra (Ap 12, 14): contiene insomma tutti gli elementi che Dante ritiene utili per conseguire la felicità su questa terra. Il terzo dei quattro animali che circondano la sede divina ad Ap 4, 6-8, quello che ha la faccia quasi di uomo, designa il senso morale, ma anche la ragione, l’impero, le leggi: “Tertium rationale et imperiosum seu legislativum”. Dei due fini proposti all’uomo dalla Provvidenza dei quali si tratta nella Monarchia, la beatitudine di questa vita e la beatitudine della vita eterna (III, xv, 7-10), il primo corrisponde alle realizzazioni del terzo stato della Chiesa secondo l’Olivi. A questo fine, al quale presiede l’imperatore, si giunge attraverso la filosofia, seguendola nell’operare secondo le virtù morali e intellettuali: essa è speculare, nel rapporto instaurato tra la Lectura e la Commedia, al lume dei dottori della Chiesa che reggono con la ragione. All’altro fine, la beatitudine della vita eterna che spetta al papa, si perviene attraverso gli insegnamenti spirituali che trascendono la ragione umana, seguendoli nell’operare secondo le virtù teologali: a questi corrisponde la santa vita e la “pascualis refectio”, il “pastus” degli anacoreti, i contemplativi ai quali è appropriato lo stato successivo, il quarto, corrispondente all’altra ala della grande aquila data alla donna. “Spada” e “pasturale”, i “due soli” rimpianti da Marco Lombardo (Purg. XVI, 106-114), come terzo stato (dottori) e quarto (anacoreti), possono concorrere a illuminare l’orbe, ma non identificarsi.
Nell’Inferno ci sono cinque momenti che si riferiscono, per traslazione semantica e variazione parodica, al terzo stato. Un’attenta analisi può dimostrare che queste cinque zone sono precedute da altrettante nelle quali prevalgono i temi del secondo stato (dei martiri) e sono seguite da altre nelle quali prevalgono invece i temi del quarto stato (degli anacoreti o contemplativi). Questi cinque momenti designano, come si è detto, le tradizionali cinque età del mondo precedenti il primo avvento di Cristo (sesta età), cioè  l’Antico Testamento.
Temi del terzo stato sono presenti anche altrove nella prima cantica, ma essi sono preminenti nelle predette zone. Né le zone riferite agli stati coincidono con un canto, perché l’ordine spirituale rompe quello letterale diviso per canti, cerchi, gironi, cieli. Neppure le predette zone mostrano esclusivamente temi del terzo stato, perché questi sono variamente intrecciati con quelli degli altri periodi.
Nell’Inferno i luoghi ‘terzi’ riguardano le fazioni fiorentine, i suicidi, i papi simoniaci, gli scismatici, i traditori di Cristo e di Cesare.
Cerbero, nel graffiare, scuoiare e squartare i golosi, è figura che anticipa il colloquio tra Dante e Ciacco sulle divisioni politiche fiorentine (Inf. VI). Il tema del tagliare, dividere, rompere o scindere, quasi fosse un motivo dall’andamento interno, sotterraneo e insieme ciclico, torna in evidenza nella selva dei suicidi, la cui anima feroce si è divisa dal corpo (Inf. XIII); nella terza bolgia dei simoniaci, che hanno straziato la “bella donna”, cioè la Chiesa (Inf. XIX); nella nona dei seminatori di scandalo e di scisma, dove sta anche il Mosca che fu causa delle discordie fiorentine (Inf. XXVIII); in Lucifero che con ognuna delle sue tre bocche “dirompea co’ denti / un peccatore, a guisa di maciulla” e, per maggior pena, graffia Giuda che pende dalla bocca anteriore scorticandogli il dorso, mentre gli altri due traditori sono Bruto e Cassio, gli assassini di Cesare (Inf. XXXIV, 55-67). Questo dividere l’uomo, nei suoi vari aspetti, da Dio e dalla sua giustizia è assimilabile alle eresie, che divisero l’umanità di Cristo dalla sua divinità, degradando la prima o confondendola con la seconda, come quelle di Ario e di Sabellio, i quali, secondo quanto dice Tommaso d’Aquino nel cielo del Sole, “furon come spade a le Scritture / in render torti li diritti volti” (Par. XIII, 127-129).
Non a caso, pertanto, i luoghi dell’Inferno che trattano di divisioni esprimono una semantica parodistica dei motivi propri del terzo stato, nel quale i dottori confutano le eresie che dividono la Chiesa. Né è casuale che la più ampia zona dedicata nel Purgatorio al terzo stato abbia come fulcro l’incontro con Marco Lombardo, nel terzo girone della montagna. Dante torce i temi propri dei dottori e degli anacoreti contemplativi, le due ali della grande aquila date alla donna (la Chiesa) interpretate da Olivi come il potere imperiale e quello spirituale, verso i due soli dell’impero e del papato (Ap 12, 14). Questi due soli, come afferma il Lombardo, nella “Roma, che ’l buon mondo feo” (la Roma che aveva accolto la fede di Cristo), “l’una e l’altra strada / facean vedere, e del mondo e di Deo” (Purg. XVI, 106-108). Ma, nelle parole di Marco Lombardo, la spada imperiale (che è attributo dei dottori) è stata spenta dal papa e congiunta col pasturale (il pasto eucaristico è attributo degli anacoreti), ed è questa eresia assimilabile a quella di Ario, che divise il Figlio dal Padre ritenendolo non consustanziale, a livello di creatura, o, ancor meglio, a quella di Sabellio, che unificò il Padre e il Figlio nella stessa persona. D’altronde, a conclusione della Monarchia (III, xv, 18), Dante non parla forse della reverenza che Cesare deve a Pietro come quella del figlio primogenito verso il padre? [1]
Il quinto e ultimo ciclo dell’Inferno è iniziato con il canto XXXII, avviato in quanto snodo con variazioni su temi delle “radici” o parti proemiali delle visioni e del primo stato; seguìto, per tutto il successivo XXXIII (sia nell’episodio di Ugolino come nella Tolomea), dal prevalere della tematica propria del secondo stato. Nel canto XXXIV i motivi del terzo stato non sono così diffusi come nelle zone ad essi dedicate nei quattro cicli precedenti (Inf. VI, XIII, XIX, XXVIII). Questo perché l’ultimo ciclo è più breve; in esso la semantica che rinvia a temi degli stati successivi al terzo è assai ridotta: del quarto stato fanno segno in Lucifero la faccia destra, che “parea tra bianca e gialla”, assimilata al cavallo pallido che si mostra in apertura del quarto sigillo (v. 43) e le “due grand’ali”, versione infernale delle due ali date alla donna-regina, le quali designano la concorrenza del terzo e del quarto periodo (v. 46). Il quinto, condiscendente stato, è rappresentato dalla discesa di Virgilio aggrappato “a le vellute coste” (vv. 73-74).

Il sesto stato: un cambiamento radicale. Nei cinque cicli settenari della prima cantica il sesto stato è segnato dall’apertura della porta della città di Dite (Inf. IX, 89-90); dall’ascesa di Gerione dall’abisso (Inf. XVI, 106-136); dal precipitoso passaggio dalla quinta alla sesta bolgia (Inf. XXIII, 1-57) e poi dalle trasformazioni della settima, dove i ladri fiorentini si mutano in serpenti e viceversa (Inf. XXIV-XXV); dal chinarsi di Anteo sul fondo dell’inferno (Inf. XXXI, 136-145); infine dal passaggio del centro della terra, con la conversione di Virgilio sull’anca di Lucifero, che è passaggio verso la sesta età, quella della Chiesa, descritta nel Purgatorio.
La novità che il sesto stato, per eccellenza stato di rinnovamento di questo secolo e degli individui, arreca nell’inferno è una novità fittizia: l’apertura della porta della città di Dite non è vera novità, perché essa è stata chiusa dall’ostinazione dei diavoli, recidivi dopo l’apertura della porta dell’inferno da parte di Cristo prefigurata dalla venuta di Ercole all’Ade, per cui Cerbero “ne porta ancor pelato il mento e ’l gozzo”; Gerione viene su ad un “novo cenno” di Virgilio, ma è figura della frode dalla velenosa coda aculeata; il nuovo prodotto dalle trasformazioni reciproche di serpenti e uomini è qualcosa di incompiuto perché l’uomo razionale, creato nel sesto stato, regredisce allo stato precedente. Il passaggio dalla quinta alla sesta bolgia avviene grazie a una “costa” che giace, dove cioè la “pendente roccia” è meno ripida e consente il passaggio, come avviene – unica vera e radicale novità – con le “vellute coste” di Lucifero alle quali si aggrappa Virgilio per volgersi sull’anca del demone e risalire verso l’altro emisfero, nel Nuovo Testamento, per percorrere in esso, modernamente, la storia della Chiesa.

[1] A conclusione della Monarchia (III, xv, 18), Dante parla della reverenza che Cesare deve a Pietro come quella del figlio primogenito verso il padre. La controversa espressione – “ut romanus Princeps in aliquo romano Pontifici non subiaceat” (ibidem, 17) -, alla quale è speculare il parlare di Giustiniano in Par. VI, 84 – “per lo regno mortal ch’a lui soggiace” -, non denota soggezione politica dell’uno all’altro, ma tensione della parte mortale verso ciò che è immortale, “mentre che ’l nostro immortale col mortale è mischiato” (Convivio, II, viii, 15). Anche Cristo fu soggetto al Padre per la sua mortale umanità, ma non per questo gli fu meno consustanziale ed eguale. Gli angeli lo trascendono rispetto alla sua carne passibile, secondo il Salmo 8, 6 – “Tu l’hai fatto poco minore che li angeli” -, che Dante applica all’uomo, medio tra ciò che è corruttibile e ciò che è incorruttibile, operante in modo quasi divino (cfr. Convivio, IV, xix, 7; Monarchia, I, iv, 2; III, xv, 3-4). Nel momento in cui l’Impero diventa consorte in cielo della Chiesa, discendente dalla medesima fonte, partecipa a pieno titolo non solo dei doni e delle prerogative dello Spirito ma anche dei misteri della Trinità e dell’Incarnazione, cioè dell’eterna generazione del Verbo e del suo farsi carne. Il Figlio che deve reverenza al Padre non è un figlio qualunque, è il Figlio dell’uomo al quale il romano Principe è assimilato.
Nella Lectura super Apocalipsim Olivi sottolinea in più luoghi la soggezione del Figlio al Padre, a motivo della sua mortale umanità: Cfr., ad esempio, LSA, cap. II, Ap 3, 12: «Quod Christus hic vel alibi dicit “Dei mei” vel “a Deo meo”, non dicit nisi tantum ratione sue humanitatis, secundum quam est subiectus Patri et toti Trinitati tamquam Deo suo»; cap. VIII, Ap 8, 3: «Qui “venit”, per nature humane et mortalis assumptionem, “et stetit ante altare”, id est ante curiam seu hierarchiam celestem. Pro quanto enim, secundum carnis sue passibilitatemminoratus est paulo minus ab angelis (cfr. Heb 2, 7; Ps 8, 6), habuit eos quasi ante se».

2. Lucifero e i segni apocalittici

 

Imperatore di una Roma infernale, pervasa dall’errore, Lucifero intreccia nella sua veste numerosi fili tratti dal commento all’Apocalisse di Olivi. Le tre facce incarnano i tre eserciti contrari a Cristo che si mostrano all’apertura del secondo, terzo e quarto sigillo; le ali sono parodia di quelle date alla donna-regina che vola nel deserto, tenebrosa versione della donna che regna nell’Empireo; figura dell’Anticristo e della sua persecuzione che dura per tre anni e mezzo; immagine di grossezza materiale contrapposta al punto semplicissimo e di bellezza primordiale del tutto perduta.

Vexilla regis prodeunt inferni / verso di noi; però dinanzi mira”, / disse ’l maestro mio, “se tu ’l discerni”(vv. 1-3).

■ Il primo verso di Inf. XXXIV – Vexilla regis prodeunt inferni – è una “riscrittura capovolta […], dove la parola rima è una concrezione maligna sull’incipit del celebre inno di Venanzio Fortunato” [1]. A questo la Lectura oliviana non fa riferimento, ma suggestioni da altro inno composto dal vescovo di Poitiers – Pange, lingua, gloriosi proelium certaminis –, citato dal francescano nell’esegesi di Ap 12, 4, si insinuano, concordate con reminiscenze ovidiane, nell’incontro con Matelda nell’Eden.

Come sopra ricordato, il terzo stato segna con i suoi temi parte dell’ultimo canto dell’Inferno, ma mostra qualche anticipazione nel canto precedente, ad esempio con le parole di Virgilio “veggendo la cagion che ’l fiato piove” (Inf. XXXIII, 108): è proprio dei dottori vedere le cause di ciò che è arcano e spiegarle (prologo, Notabile XIII), nel caso del vento che Dante sente nonostante il freddo gli abbia fatto cessare ogni sentimento. I dottori combattono anche contro l’erroneo e falso immaginare, per cui Virgilio corregge Dante che crede di trovarsi ancora all’inferno ma è sorpreso nel vedere Lucifero capovolto con le gambe in su: «Ed elli a me: “Tu imagini ancora / d’esser di là dal centro, ov’ io mi presi / al pel del vermo reo che ’l mondo fóra”» (vv. 106-108; Ap 2, 17: la tematica è già presente, in modo più esteso, nell’erroneo immaginare torri quelli che sono giganti descritto in Inf. XXXI).
Il motivo del discernere escludendo l’errore (terzo esercizio della mente che ascende in modo ordinato alla perfezione: Ap 2, 1) si trova in apertura di Inf. XXXIV, allorché il maestro invita il discepolo a mirare innanzi poiché “Vexilla regis prodeunt inferni / verso di noi … se tu ’l discerni” e il poeta crede erroneamente di vedere un mulino a vento.

Come quando una grossa nebbia spira, / o quando l’emisperio nostro annotta, / par di lungi un molin che ’l vento gira (vv. 4-6). Lucifero viene dapprima descritto con la similitudine della “grossa nebbia” e dell’apparire “di lungi un molin che ’l vento gira”: parodia dei motivi, da Ap 11, 6, della sapienza che si nasconde alla gente carnale, paragonata a un’aquila che vola in alto sottraendosi alla vista e a una “moles grossa” che si riduce a un “punctum” invisibile. Lucifero rappresenta la grossezza, i due poeti lo abbandoneranno a un “punto“, il centro della terra che coincide col “grosso de l’anche” (la testa del femore), nel quale Virgilio si capovolgerà per risalire all’altro emisfero, “punto” che la “gente grossa” non vede nella sua ignoranza (sul significato di “punto” cfr. infra).

[LSA, cap. XI, Ap 11, 6 (IIIa visio, VIa tuba)] Abscondent etiam eis celestem sapientiam et gratiam eo modo quo aquila per summam evolationem in altum abscondit se visui nostro, et eo modo quo molem grossam attenuando et minuendo fere redigit in invisibilem punctum.
Come quando una grossa nebbia spira, / o quando l’emisperio nostro annotta, / par di lungi un molin che ’l vento gira … Quando noi fummo là dove la coscia / si volge, a punto in sul grosso de l’anche … e s’io divenni allora travagliato, / la gente grossa il pensi, che non vede / qual è quel punto ch’io avea passato (vv. 4-6, 76-77, 91-93).

veder mi parve un tal dificio allotta; / poi per lo vento mi ristrinsi retro / al duca mio, ché non lì era altra grotta (vv. 7-9). Ripararsi presso i monti, le pietre, i sassi, i colli è proprio di quanti, all’apertura del sesto sigillo, fuggono terrorizzati dall’ira divina (Ap 6, 12-17). Alla tematica, presente in vari luoghi del poema, appartengono grotta (v. 9), collo (v. 70), sasso (v. 85); nei primi due casi è Virgilio a fungere da riparo, nel terzo l’apertura nel sasso consente l’uscita dall’inferno.

Lo ’mperador del doloroso regno / da mezzo ’l petto uscia fuor de la ghiaccia (vv. 28-29).

Nel capitolo XVII dell’Apocalisse (come citato da Olivi ad Ap 9, 13 e 11, 2), ai versetti 12-14 e 16-17 si parla di dieci re che distruggeranno la nuova Babilonia (che corrispondono alle dieci corna della bestia) e non di sette re (che corrispondono alle sette teste), come al versetto 10. Se si combina il testo apocalittico con Daniele 7, 24-25, i re diventano undici per l’insorgere di un altro più potente (l’Anticristo) che ne abbatterà tre che gli resistono, proferirà insulti contro l’Altissimo e distruggerà i suoi santi che gli saranno dati in mano per “un tempo, due tempi e la metà di un tempo” (per tre anni e mezzo, come spiegato nell’esegesi di Ap 12, 14). Questi motivi, che l’esegesi sviluppa all’inizio del capitolo XI (dove si ingiunge a Giovanni di non misurare l’atrio che è fuori del santuario perché è stato dato da calpestare alle genti), sembrano presenti nelle zone di Cocito successive alla Caina: ivi vengono nominati dieci personaggi – Bocca degli Abati, Buoso da Dovera, Tesauro dei Beccaria, Gianni dei Soldanieri, Gano di Magonza (Ganellone), Tebaldo dei Zambrasi (Tebaldello), il conte Ugolino e l’arcivescovo Ruggieri, frate Alberigo dei Manfredi e Brancaleone di Niccolò Doria (Branca Doria) – prima di Lucifero, “lo ’mperador del doloroso regno” che con le tre bocche rompe e maciulla tre peccatori, Giuda, Bruto e Cassio, al quale sono appropriati temi da Ap 12, 14.

Il capitolo XVII della Lectura si chiude con un riferimento a Roma: “La donna che hai visto è la grande città che regna su tutti i re della terra” (Ap 17, 18). Ai tempi di san Giovanni, Roma “civitas magna”, imperava con la sua gente su tutto il mondo, e per tutto il periodo che san Paolo, nella Lettera ai Romani, definisce “pienezza delle genti” (Rm 11, 25-26), fino all’Anticristo, Cristo ha stabilito in questa città la sede principale e universale del suo potere imperiale su tutte le chiese e su tutto il mondo, anche se molti le si ribellano contro. Le sette teste della bestia sulla quale siede la prostituta sono sette monti (Ap 17, 9), secondo il senso letterale corrispondono ai sette colli di Roma; designano anche i regni, come in Daniele 2, 34.35.44 la pietra, che Nabucodonosor ha visto in sogno staccarsi dal monte, distruggere la statua e trasformarsi in una grande montagna, indica il regno eterno che distruggerà gli altri regni.
Il tema tratto da Daniele, del regno che non perirà in eterno ma triterà e consumerà gli altri, è parodiato in Lucifero, “lo ’mperador del doloroso regno” che coi denti delle tre bocche dirompe i traditori “a guisa di maciulla” (Inf. XXXIV, 28, 55-57): sul punto dell’universo in cui Dite siede, nel cerchio minore, “qualunque trade in etterno è consunto” (Inf. XI, 64-66). Il verbo “tradere” è proprio dei dieci re, dei quali ad Ap 17, 13 si dice che consegneranno la propria forza e il proprio potere alla bestia, devolvendo ad essa il potere regio che prima avevano libero. Immerso per metà nella vitrea ghiaccia di Cocito, parodia del terso fondo della Gerusalemme celeste – “di quella Roma onde Cristo è romano” (cfr. Purg. XXXII, 102) -, Lucifero impera sulla Roma d’inferno.

la creatura ch’ebbe il bel sembiante … S’el fu sì bel com’ elli è ora brutto, / e contra ’l suo fattore alzò le ciglia, / ben dee da lui procedere ogne lutto (vv. 18, 34-36). La sembianza di Lucifero si oppone alla bellezza primordiale, appropriata a Sardi, la quinta chiesa d’Asia, bella nel principio di pienezza stellare ma poi corrottasi (Ap 2, 1; 3, 1). Il tema  ha una ripresa alla fine del canto, nella rima belle/stelle (vv. 137-139). Parodia dell’altivolum supercilium” dei superbi contemplativi del quarto stato è l’espressione “alzò le ciglia” (prologo, Notabile VI). Il versetto Quantum glorificavit se et in deliciis fuit, tantum date illi tormentum et luctum” (Ap 18, 7), riferito alla superbia di Babylon e al lutto che ne deriva, contiene temi variati ai vv. 32.36: “vedi oggimai quant’ esser dee quel tutto … ben dee da lui procedere ogne lutto.

Oh quanto parve a me gran maraviglia / quand’ io vidi tre facce a la sua testa! (vv. 37-38). La prima delle tre facce di Lucifero, quella mediana, è vermiglia; corrisponde al cavallo rosso che appare a Giovanni in apertura del secondo sigillo, sul quale siede l’imperatore dei pagani che comanda l’esercito contrario alla potenza di Cristo, assimilato all’orso di Daniele 7, 5 che ha tre ordini di denti (v. 39); con i denti di ciascuna bocca rompe e maciulla un peccatore, “sì che tre ne facea così dolenti” (vv. 55-57). La faccia sinistra è nera come quella degli Etiopi, che vengono dal paese dove il Nilo discende verso l’Egitto; corrisponde al cavallo nero del terzo sigillo, che designa l’esercito contrario alla sapienza di Cristo (vv. 44-45). La faccia destra è “tra bianca e gialla”; corrisponde al cavallo pallido del quarto sigillo, che designa l’esercito contrario alla santità di Cristo (v. 43). I temi, già variati nella descrizione di Cerbero (Inf. VI, 13-18), provengono da Ap 6, 3. La “gran maraviglia” di Dante rinvia al molto meravigliarsi dei contemplanti nel vedere cose inusitate (Ap 21, 17).
Lucifero, cherubino dalle sei ali (ne escono due sotto ciascuna delle tre facce), che piange con sei occhi e per tre menti goccia pianto e sanguinosa bava, contiene in sé i numeri dell’Antico Testamento, che è il tempo della laboriosa fatica, secondo l’interpretazione data ad Ap 6, 6 (terzo sigillo) delle tre misure di due libbre d’orzo (vv. 46, 53-54) [2]. “Sì che tre venti si movean da ello” (v. 51): probabile parodia del quadruplice spirare dello Spirito ad Ap 7, 1, Lucifero difetta del vento meridionale, quello che designa la carità.

L’una dinanzi, e quella era vermiglia; / l’altr’ eran due, che s’aggiugnieno a questa / sovresso ’l mezzo di ciascuna spallaA quel dinanzi il mordere era nulla / verso ’l graffiar … De li altri due c’hanno il capo di sotto, / quel che pende dal nero ceffo è Bruto … e l’altro è Cassio, che par sì membruto (vv. 39-41, 58-59, 64-65, 67). Ad Ap 12, 14 (quarta visione, esegesi congiunta della terza e della quarta guerra) l’espressione “per (un) tempo, (due) tempi e la metà di un tempo” – “per tempus et tempora et dimidium temporis” – si riferisce al periodo in cui la donna (la Chiesa) venne nutrita lontano dal serpente nel deserto dei Gentili, il luogo preparatole da Dio come suo dove le vennero date le due ali di una grande aquila. Su tale espressione, secondo Olivi, Gioacchino da Fiore ha fondato tutta la sua Concordia. L’espressione indica un periodo di tre anni e mezzo, formati da quarantadue mesi (12 mesi x 3 anni + 6 mesi) nei quali i trenta giorni dei singoli mesi corrispondono a trenta anni: si ha così una permanenza della donna nel deserto di 1260 anni. “Tempus” sta per un anno, “tempora” per due anni e “dimidium temporis” per sei mesi. I “due anni” derivano dal duale greco, lingua nella quale scrisse Giovanni. Questo numero compare anche ad Ap 12, 6 (quarta visione, prima guerra) per indicare il periodo in cui la donna venne nutrita nel deserto (dove era fuggita dalla durezza dei Giudei), mentre in Daniele 7, 24-25 si dice che il re undicesimo distruggerà i santi dell’Altissimo che gli saranno dati in mano “per un tempo, due tempi e la metà di un tempo” e in Daniele 12, 6-7 che “fra un tempo, due tempi e la metà di un tempo si compiranno tutte queste cose meravigliose”.
Questo numero mistico ha vari significati. I tre anni e mezzo designano il mistero della trinità di Dio unitamente alla perfezione delle sue opere, che rispetto al loro artefice sono qualcosa di dimidiato, imperfetto, parziale e quasi nulla: le opere furono infatti compiute in sei giorni, che corrispondono alle sei età del mondo e ai sei mesi del mezzo anno. Designano anche la perfezione che deriva dalla fede, dalla speranza e dalla carità unita alla pregustazione non completa della gloria eterna, oppure i tre principali consigli di Cristo (povertà, castità, obbedienza) uniti a una partecipazione non perfetta della vita eterna. I tre anni e mezzo coincidono con il periodo durante il quale Cristo esercitò il suo magistero e la sua predicazione. Essi sono anche distinti in “un anno” (“tempo”) e “due anni” (“tempi”), in quanto nel secondo e nel terzo anno Cristo predicò da solo dopo l’incarcerazione di Giovanni Battista e in modo più solenne. Questa distinzione, tenendo conto della profezia di Daniele, si verificherà forse anche nella predicazione e persecuzione dell’Anticristo.
Una delle metamorfosi del numero mistico espresso con “un tempo, due tempi e la metà di un tempo” (variazioni sul tema si registrano già in Inf. XIX e XXVIII, zone dove prevalgono i motivi del terzo stato) sta nelle tre facce della testa di Lucifero: “L’una dinanzi, e quella era vermiglia [un tempo];  / l’altr’ eran due [la nera e quella tra bianca e gialla: due tempi], che s’aggiugnieno a questa / sovresso ’l mezzo di ciascuna spalla [la metà di un tempo]” (Inf. XXXIV, 39-41). È da notare che la prima faccia viene presentata separatamente dalle altre due. Il tema continua con i tre peccatori che Lucifero fa dolenti rompendoli coi denti a guisa di maciulla. Anche in questo caso, il primo – Giuda – viene separato dagli altri due, Bruto e Cassio: “A quel dinanzi [un tempo] il mordere era nulla / verso ’l graffiar [l’esser nulla è motivo che distingue la metà di un tempo] … De li altri due  c’hanno il capo di sotto, / quel che pende dal nero ceffo è Bruto … e l’altro è Cassio …” [due tempi] (vv. 58-67). Anche la rima fioco/poco (vv. 22.24) partecipa della tematica connessa al “dimidium temporis … quasi dimidium seu imperfectum et partiale et quasi nichil” (cfr. Par. XXXIII, 121-123).
Il sintagma dimidium/nichil, presente nell’esegesi, pone in rilievo la variante “A quel di mezzo
il mordere era nulla / verso ’l graffiar” recata dal ms. Urb. lat. 366, ritenuta dal Petrocchi chiosa subentrata al testo. Giuda, traditore di Cristo mediatore tra uomo e Dio, sta in mezzo ‘annullato’ dai graffi di Lucifero.
È da notare come il medesimo tema da Ap 12, 14 venga appropriato sia ai papi simoniaci come a Lucifero, figure che designano, attraverso un numero mistico loro applicato, la durata della tribolazione (tre anni e mezzo) sotto il regno dell’Anticristo (l’undicesimo re di Daniele 7, 24-25).

Sotto ciascuna uscivan due grand’ ali (v. 46). Nel corso della terza e della quarta guerra (trattate congiuntamente) alla Chiesa, affinché trionfi della gemina persecuzione dell’errore e dell’abbondanza delle ricchezze, viene data una duplice virtù: “Furono date alla donna due ali di una grande aquila” (Ap 12, 14), cioè la sublime sapienza dei santi dottori e la sublime vita e carità dei santi anacoreti o contemplativi. Le due ali, che designano anche il potere spirituale e quello temporale (cfr. supra), vennero date alla donna “per volare nel deserto, nel suo luogo”, cioè per volare con magnificenza come regina e signora delle genti per l’intero deserto dei Gentili verso il luogo del suo regno e del suo dominio.  Nel suo luogo la donna “venne nutrita per un tempo, due tempi e la metà di un tempo lontano dal serpente”, le venne cioè dato un nutrimento che la proteggesse dalle tentazioni e dalle persecuzioni del diavolo e la fortificasse contro di esse.
A Lucifero sono date “due grand’ ali, / quanto si convenia a tanto uccello” (Inf. XXXIV, 46-47; dei temi da Ap 12, 14 sarà pregna la preghiera di san Bernardo alla Vergine). Gli si addicono una parte dei motivi del quarto stato – il luogo dove ci si deve fortificare, lo stare “in mezzo” alle tentazioni, il regnare – propri della donna. Nel momento di mostrare al discepolo Dite, “la creatura ch’ebbe il bel sembiante”, Virgilio gli dice: “ecco il loco / ove convien che di fortezza t’armi” (vv. 20-21). È “lo ’mperador del doloroso regno”, che esce fuori del ghiaccio “da mezzo il petto” (vv. 28-29). Del quarto stato è proprio lo stare (prologo, Notabile III; la tematica è largamente variata nel poema), per cui Virgilio, nel mostrare al discepolo Dite, “d’innanzi mi si tolse e fé restarmi” (v. 19).

Da ogne bocca dirompea co’ denti / un peccatore, a guisa di maciulla … A quel dinanzi il mordere era nulla / verso ’l graffiar, che talvolta la schiena / rimanea de la pelle tutta brulla (vv. 55-56, 58-60). Il tema, nell’esegesi della terza chiesa d’Asia, della spada con la quale i dottori scindono e tagliano eresia ed errore (la rumphea, che concorda nel suono con rompere) è appropriato a Lucifero, il quale con ognuna delle sue tre bocche “dirompea co’ denti / un peccatore, a guisa di maciulla” e, per maggior pena, graffia Giuda che pende dalla bocca anteriore scorticandogli il dorso, mentre gli altri due sono i traditori di Cesare, Bruto e Cassio (Ap 2, 12). I denti e il mordere sono motivi propri delle locuste, che escono dal pozzo dell’abisso al suono della quinta tromba (Ap 9, 5.8); al v. 60 il verbo rimanere rinvia, come al v. 25, all’esegesi della quinta guerra (Ap 12, 17).

De li altri due c’hanno il capo di sotto, / quel che pende dal nero ceffo è Bruto: / vedi come si storce, e non fa motto! (vv. 64-66). All’apertura del terzo sigillo, mostratagli dal terzo animale, quello che ha il volto di uomo, Giovanni vede un cavallo nero, che designa l’esercito degli eretici, oscuro per fallace astuzia e fatto nero per gli errori contrari alla luce di Cristo (Ap 6, 5). Colui che siede sopra di esso – designante gli imperatori o i vescovi ariani – ha in mano una bilancia. La stadera misura la quantità dei pesi, e qui sta ad indicare la misurazione degli articoli di fede. Quando la misurazione avviene secondo la retta e infallibile regola di Cristo, allora il peso è giusto, come si dice nei Proverbi: “Il peso e la bilancia sono i giudizi del Signore” (Pro 16, 11) e nell’Ecclesiastico: “Le parole dei prudenti sono pesate sulla bilancia” (Ecli 21, 28). Quando invece la misurazione si fonda sull’errore e sul falso e torto accoglimento della Scrittura, allora la stadera è dolosa, e a questa si riferiscono i Proverbi: “La bilancia falsa è in abominio al Signore” (Pro 11, 1), i Salmi: “Sono una menzogna tutti gli uomini sulla bilancia” (Ps 61, 10) e Michea: “Potrò giustificare le false bilance e il sacchetto dei pesi falsi?” (Mic 6, 11).
Lucifero appare dapprima come un mulino a vento, “quando l’emisperio nostro annotta” (Inf. XXXIV, 5-6; cfr. v. 68: “Ma la notte risurge”); Dite ha tre facce, che nei colori seguono l’esegesi dei cavalli (designanti i tre eserciti contrari a Cristo) all’apertura del secondo sigillo (rossa), del terzo (il “nero ceffo”, come quello degli Etiopi), del quarto (“tra bianca e gialla”, cioè pallida, vv. 39-45, 65; cfr. supra).
Bruto – “quel che pende dal nero ceffo” di Lucifero, “si storce, e non fa motto” (vv. 65-66) – riassume in sé quasi tutti i temi propri dell’apertura del terzo sigillo.
Prima di lasciare l’inferno, Dante, che sta seduto sull’orlo del foro nella roccia da cui Virgilio è uscito, si leva in piedi e prega il maestro di dargli spiegazioni su situazioni singolari (non vede più il ghiaccio, scorge Lucifero con le gambe all’insù, il tempo è trascorso velocemente dalla sera alla mattina): «… diss’ io quando fui dritto, / “a trarmi d’erro un poco mi favella”» (vv. 101-102). Lo stare dritto del poeta non designa unicamente l’alzarsi da una posizione seduta, ma si inserisce nella tematica spirituale del trarsi dall’errore (secondo l’esercizio spirituale tipico del terzo stato: Ap 2, 1). Virgilio spiega al discepolo che egli si trova nell’altro emisfero celeste, opposto a quello che copre le terre abitate, al quale è passato nel suo capovolgersi sull’anca di Lucifero, centro della terra e punto di equilibrio di una bilancia del mondo: “tu passasti ’l punto / al qual si traggon d’ogne parte i pesi” (vv. 110-111). Virgilio utilizza anche il tema della fantasia errante contro la quale si esercita la terza vittoria, propria dei dottori della Chiesa che confutano le eresie (Ap 2, 17): “Tu imagini ancora / d’esser di là dal centro” (vv. 106-107; cfr. supra).

[1] Cfr. GUGLIELMO GORNI, La parodia, in Letteratura italiana, V, Torino 1986, p. 475.
[2] L’orzo (del quale è detto ad Ap 6, 6: “
tre misure di due libbre d’orzo”), secondo Riccardo di San Vittore, designa l’Antico Testamento che, pur suscettibile di duplice intelligenza, storica e spirituale, viene detto avere tre misure perché in esso sono contenuti la legge, i profeti e i salmi.
Secondo Olivi, le tre misure di due libbre d’orzo indicano i tre tempi doppi della legge. La legge naturale ebbe vigore per due età fino alla legge della circoncisione introdotta al tempo di Abramo. La legge scritta conta anch’essa due età, la seconda delle quali si sviluppò sotto i profeti. La legge della grazia contiene prima il tempo della pienezza delle genti e poi il tempo della conversione finale delle “reliquie” dei Gentili e di tutto Israele.
Secondo Gioacchino da Fiore, fra i quattro sensi della Scrittura l’orzo corrisponde al senso letterale o storico: tre “bilibres” indicano infatti i sei tempi, faticosi e servili, trascorsi sotto la legge da Abramo a Giovanni Battista, che nel Vangelo di Matteo sono computati in tre gruppi di quattordici generazioni, ciascuno dei quali formato da due settenari. Il senso letterale o storico è connesso col secondo animale, il bue o vitello, che corrisponde ai martiri i quali predicarono ai pagani la lettera della legge e dei profeti, da essi non conosciuta e che dovettero apprendere prima che venisse loro insegnata l’allegoria. Il bue solca la terra, ossia le gesta terrene e corporali dei padri.

3. Scendere, risalire, entrare, ritornare: il cammino verso la nuova era

Se la descrizione di Lucifero registra in modo preminente variazioni su temi del terzo stato, dal momento in cui Virgilio decide che “oramai / è da partir, ché tutto avem veduto” (vv. 68-69) si succedono rapidamente temi degli stati che seguono. Il poeta pagano, quando le ali di Lucifero sono ben aperte (v. 72; si tratta di un tema del terzo e quarto stato, periodi fra loro concorrenti, quando alla donna sono date due grandi ali per vincere la guerra: Ap 12, 14; in questo caso le ali di Lucifero sono di aiuto), si appiglia alle “vellute coste” e scende giù “di vello in vello” (vv. 73-74; sono temi del quinto stato sia discendere come avere una “costa” cui aggrapparsi). Arrivato lì dove la coscia di Lucifero “si volge” incurvandosi, “a punto in sul grosso de l’anche”, Virgilio volge la testa e si aggrappa al pelo per risalire lungo le gambe di Lucifero.

Com’ a lui piacque, il collo li avvinghiai; / ed el prese di tempo e loco poste (vv. 70-71). Una parte dei temi proposti dall’esegesi dell’istruzione data al vescovo di Efeso, la prima chiesa d’Asia (primo stato; Ap 2, 2), viene parodiata nella descrizione della discesa lungo il corpo di Lucifero, che fa da scala per cui “conviensi dipartir da tanto male”, cioè dal male dell’inferno (Inf. XXXIV, 70-84). Con Dante avvinghiato al collo, Virgilio prende “di tempo e loco poste”: nel fuggire il male esamina, come il presule efesino, le circostanze (tema del quinto motivo di lode). Quando le ali sono “aperte assai”, il poeta pagano si aggrappa alle “coste” scendendo giù “di vello in vello”. Arrivato all’anca di Lucifero, al “punto” in cui la coscia si curva e che è anche il centro della terra, Virgilio, “con fatica e con angoscia” (tema del secondo motivo di lode, il travaglio corporale sostenuto dal vescovo), si capovolge e risale, sempre aggrappato al pelo. Ansima “com’ uom lasso”, dove l’aggettivo, che ripete il motivo della fatica, concorda con il significato del nome ‘Efeso’ (“lapsus”, ossia “caduta”, e quindi stanchezza rispetto al fervore originario). Nella descrizione si ritrovano altri temi della prima chiesa. Scendere per gradi dal culmine della carità e delle virtù al fondo (“di vello in vello”), perdendole progressivamente per poi recuperarle risalendo sempre gradualmente, è tema principale della successiva esegesi di Ap 2, 4-5 (è da notare come i temi offerti dall’esegesi vengano variati in due discese, quella in groppa a Gerione e quella di Virgilio aggrappato al pelo di Lucifero).

Quando noi fummo là dove la coscia / si volge, a punto in sul grosso de l’anchee s’io divenni allora travagliato, / la gente grossa il pensi, che non vede / qual è quel punto ch’io avea passato (vv. 76-77, 91-93). Il sesto stato – iniziato con san Francesco e non ancora terminato (si tratta dell’età contemporanea a Olivi e Dante) – è, insieme al successivo e breve settimo stato, il “punto” da cui dipendono gli altri periodi, perché appare nel testo dell’Apocalisse in modo più evidente degli altri, che da esso assumono chiarezza quanto alla loro manifestazione nella storia, come l’intelligenza delle cose ordinate a un fine dipende dal fine (prologo, Notabile VIII).
Il tema del “punto” è presente anche, in forma diversa, ad Ap 11, 6 (terza visione, sesta tromba), dove si dice che i due testimoni, Enoch ed Elia, chiuderanno il cielo affinché non piova, ossia nasconderanno agli indegni la sapienza cristiana e la grazia al modo con cui un’aquila volando in alto si sottrae alla nostra vista o una mole grossa si attenua riducendosi a un punto invisibile.
I due significati del “punto” – come passaggio al sesto stato (prologo, Notabile VIII) e come il ridursi della sapienza cristiana da una mole grossa a un punto invisibile (Ap 11, 6) -, si ritrovano in Inf. XXXIV, 70-93, nel volgersi di Virgilio sull’anca di Lucifero. Con Dante avvinghiato al collo, il poeta pagano, quando le sei ali di Lucifero sono bene aperte (variazione di un tema del terzo e quarto stato, allorché alla donna sono date due grandi ali d’aquila per vincere la guerra; in questo caso le ali di Lucifero sono di aiuto), si appiglia alle costole e scende giù di vello in vello (sono temi del condescensivo quinto stato sia il discendere sia l’avere una ‘costa’ cui aggrapparsi). Arrivato là ove la coscia di Lucifero “si volge, a punto in sul grosso de l’anche” (i due opposti motivi, del punto e della grossezza, sono congiunti poiché la testa del femore costituisce il punto medio del corpo di Dite), Virgilio volge la testa e si aggrappa al pelo per risalire lungo le gambe di Lucifero. Il punto in cui Virgilio si volge coincide con il centro della terra, punto che la “gente grossa” non vede nella sua ignoranza: sono qui presenti i motivi, da Ap 11, 6, della sapienza che si sottrae alla vista e della “moles grossa” che si riduce, quest’ultimo tema già anticipato all’inizio del canto con la similitudine della “grossa nebbia” e dell’apparire “di lungi un molin che ’l vento gira”, che è in realtà Lucifero (vv. 4-7). Il contrasto tra l’umile semplicità degli uomini spirituali e la grossezza degli inferiori è anche uno dei temi della sesta vittoria (Ap 3, 12) [1]. Il volgersi di Virgilio nel “punto / al qual si traggon d’ogne parte i pesi” (vv. 110-111) segna il passaggio dall’“emisperio nostro”, delle terre emerse, a quello dov’è la montagna del purgatorio. Come gli dice Virgilio, Dante è rimasto nel primo emisfero finché è durata la discesa (tema del quinto stato). Il “punto” segna il passaggio, con l’uscita dall’inferno, a uno stato migliore, verso il secondo regno. È terminato il viaggio nelle prime cinque età del mondo (l’Antico Testamento); ora la seconda cantica narrerà il viaggio dei due poeti nella sesta età, quella della Chiesa.
Il passaggio alla sesta età, segnato da temi del sesto stato, incorpora in sé anche motivi del settimo e ultimo periodo della Chiesa.
Da un punto di vista temporale, il settimo stato è caratterizzato dalla brevità e dalla uniformità. Infatti, all’apertura del settimo sigillo è fatto silenzio per mezz’ora (Ap 8, 1). Dopo la tribolata notte delle tentazioni subentra un momento di quiete e di pace, per cui, come scritto nel Genesi, “da sera a mattina fu fatto il primo giorno”: «Item quilibet statuum predictorum habuit aliquam pacem post sue adversitatis noctem, ut ex “vespere et mane” fieret “dies unus”» (cfr. Gn 1, 5; prologo, Notabile III). Passo parodiato nella domanda di Dante, stupito del tempo guadagnato dalle sei di sera alle sette e mezza del mattino (vv. 68, 87) nel passaggio all’altro emisfero: “e come, in sì poc’ ora, / da sera a mane ha fatto il sol tragitto?” (vv. 104-105).
È spiegato nel Notabile VII del prologo della Lectura che il sesto stato della Chiesa è il secondo stato di Cristo – segnato dall’avvento nello Spirito dopo il primo avvento nella carne – e ha i suoi sette tempi per cui la Chiesa, come fosse una sfera, si ricongiunge circolarmente al primo avvento. A questo ricongiugimento sembrano alludere le parole di Virgilio: “E se’ or sotto l’emisperio giunto / ch’è contraposto a quel che la gran secca / coverchia, e sotto ’l cui colmo consunto / fu l’uom che nacque e visse sanza pecca; / tu haï i piedi in su picciola spera / che l’altra faccia fa de la Giudecca” (vv. 112-117). Dante, che viaggia nel 1300, vive nel sesto stato della Chiesa (iniziato con la conversione di san Francesco, nel 1206); discendendo all’inferno ha ripercorso, da uomo moderno, le prime cinque età del mondo; arrivato alla sesta età (sotto l’emisfero celeste dove sta la montagna del purgatorio con in cima l’Eden, contrapposto all’emisfero che culmina in Gerusalemme) si è congiunto circolarmente (“in su picciola spera”) con il primo avvento di Cristo, che percorrerà nei suoi sette stati o periodi della Chiesa salendo la montagna, il cui sesto stato inizierà con l’apertura della “porta di san Pietro”, cioè della porta del purgatorio. Il percorso nella sesta età, e nel sesto stato di questa, ha come guida l’imitazione di Cristo uomo (“l’uom che nacque e visse sanza pecca), del quale è immagine l’uomo razionale ed evangelico creato nel sesto giorno dopo le bestie.

“Attienti ben, ché per cotali scale”, / disse ’l maestro, ansando com’ uom lasso, / “conviensi dipartir da tanto male”. / Poi uscì fuor per lo fóro d’un sasso (vv. 82-85). Ad Ap 18, 4 (quinta parte della sesta visione) una voce dal cielo ammonisce gli eletti a non partecipare con i reprobi della colpa e quindi della pena. Dice dunque: “Uscite, popolo mio, da Babilonia per non associarvi ai suoi delitti e non ricevere parte dei suoi flagelli”. In modo simile dice Geremia al popolo di Dio: “Fuggite da Babilonia e dalla regione dei Caldei e siate come capri in testa al gregge” (Jr 50, 8). Allo stesso modo san Paolo scrive ai Corinzi di non mescolarsi con gli impudichi nominati e famosi che si trovano tra i fedeli, più pericolosi di quelli che si trovano nel mondo di fuori, tra i pagani (1 Cor 5, 9-13). Uscire da Babilonia significa principalmente allontanarsi dalle sue scelleratezze, dalla sua amicizia e dalla sua compagnia. In via secondaria si può intendere anche come un allontanarsi corporeo e locale per il periodo in cui la città verrà assediata e distrutta, come avvenne con i cristiani che si dice fossero ammoniti dall’angelo a lasciare la Giudea nell’imminenza dell’assedio dei Romani. Brunetto Latini ammonisce Dante a ‘forbirsi’, cioè a mantenersi immune, dai costumi dei suoi concittadini, che una “vecchia fama” (l’essere “nominati” della lettera paolina) definisce “orbi”, ingrato popolo maligno, gente avara, invidiosa, superba, “lazzi sorbi” tra i quali “si disconvien fruttare al dolce fico” (Inf. XV, 61-69). Cacciaguida dice a Dante, preannunciandogli l’esilio, che “di Fiorenza partir ti convene”, eco del paolino “oportet exire” da Babilonia (Par. XVII, 48; si noterà che le parole di Brunetto e di Cacciaguida sono tessute sul medesimo panno esegetico). Non diverse sono le parole di Virgilio al poeta in lacrime per l’impedimento frapposto dalla lupa nell’ascesa al dilettoso monte: “A te convien tenere altro vïaggio” (Inf. I, 91). Al momento di ‘uscire’ dall’inferno, capovoltosi aggrappato al pelo di Lucifero, Virgilio dice che “per cotali scale … conviensi dipartir da tanto male” (Inf. XXXIV, 82-85). L’uscita coincide con quella di Cristo dal mondo, trattata ad Ap 6, 2.

Non era camminata di palagio / là ’v’ eravam, ma natural burella / ch’avea mal suolo e di lume disagio (vv. 97-99). Le qualità del tabernacolo, “quod non est ita magnum sicut urbs vel palatium”, al quale è assimilata la coabitazione dei beati con Dio nella Gerusalemme celeste (Ap 21, 3), sono proprie anche della “natural burella” – la caverna che Virgilio e Dante percorrono una volta lasciato Lucifero ed entrati nell’altro emisfero -: ivi, infatti, “non era camminata di palagio” (Inf. XXXIV, 97-99; cfr., in dissonanza, Purg. X, 67-69). Questa grotta, ora “loco vòto” come l’Eden, era prima riempito della terra che, per paura di Lucifero, “sù ricorse” a formare la montagna sulla cui cima sta appunto l’Eden (vv. 124-126). Il tabernacolo non è solo angusto, ma anche segregato e occulto; così, al termine della “natural burella”, inizia il “luogo … remoto … quel cammino ascoso” per il quale i due poeti escono “a riveder le stelle” (vv. 127-139).

Da questa parte cadde giù dal cielo; / e la terra, che pria di qua si sporse, / per paura di lui fé del mar velo, / e venne a l’emisperio nostro; e forse / per fuggir lui lasciò qui loco vòto / quella ch’appar di qua, e sù ricorse (vv. 121-126). Al momento del giudizio generale (Ap 20, 11), Giovanni vede “un grande trono candido”, che designa il potere e la dignità di Cristo giudice, ovvero, nella gloria, la regale divina maestà, e l’altezza e il candore della purezza della sua umanità sulla quale la sua divinità siede come sul proprio trono. Segue poi il versetto: “Dal cospetto di colui che siede (sul trono candido) fuggono la terra e il cielo e non c’è luogo da essi trovato”. Gli abitanti del cielo e della terra fuggono per il grande terrore del furore del giudice, o anche per la somma riverenza alla sua maestà si contraggono nella propria nullità (il verbo ‘resilire’ ha il significato di ‘saltare all’indietro’). Non trovano luogo perché si annullano: come la luce delle candele e delle stelle sparisce all’avvento del sole, così rispetto al fulgore della gloria di Cristo tutte le altre cose saranno quasi nulla. Riccardo di San Vittore legge il passo come relativo al transito della prima specie della terra e del cielo. Anche san Paolo, citato da Agostino nel De civitate Dei XX, 14, dice ai Corinzi: “Passa la figura di questo mondo” (1 Cor 7, 31). Questo motivo – fuggire ritirandosi per paura, annullando il luogo dove prima si stava – è parodiato nella spiegazione cosmologica che Virgilio dà prima di lasciare l’inferno: caduto Lucifero nell’emisfero australe, la terra, che prima in questo emergeva, per paura di lui si ritrasse sotto il mare e venne all’altro emisfero e, sempre per fuggire Lucifero, la terra che ora forma la montagna in cima alla quale è l’Eden lasciò il suo luogo vuoto (la “natural burella” in cui si trovano al momento i due poeti) ricorrendo in su (Inf. XXXIV, 121-126; cfr. l’uso di parte della medesima tematica a Inf. XXV, nel trasmutarsi reciproco delle due nature, dell’uomo e del serpente).
Il tema del cadere in giù (l’interpretazione di “diabolus” come “deorsum fluens”; Ap 12, 9), già presente nelle anime le quali, dopo il giudizio dinanzi a Minosse, “son giù volte” (Inf. V, 15) è appropriato a Lucifero, il quale “cadde giù dal cielo” (Inf. XXXIV, 121).

Luogo è là giù da Belzebù remoto / tanto quanto la tomba si distende, / che non per vista, ma per suono è noto (vv. 127-129).

■ Il luogo, quasi un Eden in nuce, è remoto, quieto e adatto alla contemplazione delle cose divine, libero da piaceri e da ricchezze carnali, come l’isola di Patmos da cui Giovanni scrive alle sette chiese d’Asia (Ap 1, 9). Patmos viene interpretata come “separazione dai nemici” (separati hostes) o “separazione dei blandimenti” (separatio palpantium), perché nella contemplazione vengono separati i nemici dello spirito e le lusinghe sensuali e carnali. Un’altra interpretazione è quella di “stretto di mare” (fretum) o “gorgo” (vorago).

I temi si intrecciano con quelli provenienti dall’esegesi di Ap 9, 16-17 (terza visione, sesta tromba), dove si distingue tra l’ascoltare il numero dei cavalieri e il vedere i cavalli dell’esercito sciolto al suono della sesta tromba, nel senso che l’ascoltare viene riferito ai più sapienti (i cavalieri), mentre il vedere alle plebi sensuali (i cavalli), perché con l’udito percepiamo ciò che è sottile, segreto e intelligibile senza vederlo o palparlo. Così Dante riconosce Forese, disseccato nella pelle dalla fame e dalla sete che lo purgano del peccato di gola, solo attraverso la voce udita – “Mai non l’avrei riconosciuto al viso”: l’essere ‘sottile’, appropriato alla magrezza di Forese, partecipa del tema dell’apprendimento con l’udito di ciò che è più sottile e segreto (Purg. XXIII, 43-45, 61-63). Forese è paragonato nel suo dipartirsi a un cavaliere (Purg. XXIV, 94-97); al suono della sesta tromba vengono seccate le acque del fiume Eufrate, cioè di quanto è umano e babilonico (Ap 9, 14).
Altri esempi di percezione uditiva (più sottile), non visiva: “Luogo è là giù da Belzebù remoto / tanto quanto la tomba si distende, / che non per vista, ma per suono è noto” (Inf. XXXIV, 127-129: il punto al quale Virgilio e Dante pervengono al termine della “natural burella”, percorsa dopo essersi staccati dal pelo di Lucifero e dal quale risalgono ed escono “a riveder le stelle”, cioè alla contemplazione; le parole luogo e remoto rinviano la memoria del lettore a Patmos, dove Giovanni scrisse l’Apocalisse: “Ecce quod locus erat divinis contemplationibus et visionibus aptus, tamquam remotus et quietus et secretus ac deliciis et divitiis carnalibus vacuus” [Ap 1, 9)]; «“Io ti seguiterò quanto mi lece”, / rispuose; “e se veder fummo non lascia, / l’udir ci terrà giunti in quella vece”», nell’incontro con Marco Lombardo (Purg. XVI, 34-36).

d’un ruscelletto che quivi discende / per la buca d’un sasso, ch’elli ha roso, / col corso ch’elli avvolge, e poco pende (vv. 130-132).

La “costa” e lo “scendere” sono temi del quinto stato, il declinante momento della pia condescensione verso la vita associata che frange l’ardua, ripida e solitaria altezza dello stato precedente degli anacoreti (prologo, Notabile III). Nel Notabile VII del prologo della Lectura super Apocalipsim si recano gli esempi di Cristo che condiscese agli infermi e di Adamo al quale venne sottratta una forte “costa” (simbolo della solitudine austera degli anacoreti del quarto stato), che Dio nel creare Eva riempì di pietas (cfr. Par. XIII, 37-38, 47-48, dove la “bella costa” tratta dal “petto” di Adamo è accostata alla “quinta luce” fra gli spiriti sapienti della prima ghirlanda). Più volte nel poema la “costa” della ripa infernale, o della montagna del purgatorio, che giace o che è corta o che cala o che pende, si abbina allo “scendere” in modo da far via in giù o in su, indicando la rottura della solitaria arditezza, del luogo “alpestro” a vantaggio del condiscendere pietoso, del dar via.
Ne è esempio la scesa dal “loco … alpestro” verso il settimo cerchio infernale, nella fossa del Flegetonte (Inf. XII, 1-10). Viene paragonata a “quella ruina che nel fianco (equivalente alla “costa”) / di qua da Trento l’Adice percosse, / o per tremoto o per sostegno manco”; ivi “è sì la roccia discoscesa, / ch’alcuna via darebbe a chi sù fosse” (“ut nequeuntibus in arduis perdurare daretur locus gratie in mediocri statu”: prologo, Notabile V); tale è quella che consente a Virgilio e Dante il passaggio dal monte al piano. Altro caso è la fuga dei due poeti i quali, inseguiti dai Malebranche, grazie alla “costa” che giace riescono a scendere dalla quinta alla sesta bolgia (Inf. XXIII, 31-33); oppure il passaggio dalla sesta bolgia alla successiva, facilitato dal fatto che il pendere, cioè l’inclinare, di Malebolge verso il pozzo centrale fa sì “che l’una costa surge e l’altra scende” (Inf. XXIV, 34-42). Nel dipartirsi dal male dell’inferno, Virgilio si appiglia “a le vellute coste” di Lucifero facendo scala del pelo e scendendo in giù “di vello in vello” (Inf. XXXIV, 73-75).
Il ruscelletto che percorre a spirale la “natural burella” “discende … e poco pende”, consente cioè ai due poeti una salita agevole. La sua acqua ha corroso il cunicolo. Il
“rodere” è proprio dei denti delle locuste che escono dal pozzo dell’abisso al suono della quinta tromba e corrodono la fama altrui e di quanti, al versamento della quinta coppa, si corrodono per l’invidia; è tema precedentemente appropriato al conte Ugolino: “Ma se le mie parole esser dien seme / che frutti infamia al traditor ch’i’ rodo” (Inf. XXXIII, 7-8; Ap 9, 8; 16, 10). Qui l’acqua corrosiva è probabilmente quella del Lete, il fiume dell’Eden che lava i peccati delle anime cancellandone la memoria, già menzionato da Virgilio a Inf. XIV, 136-138.

Lo duca e io per quel cammino ascoso / intrammo a ritornar nel chiaro mondo; / e sanza cura aver d’alcun riposo, / salimmo sù, el primo e io secondo, (vv. 133-136).

L’ingresso in Cristo e il ritorno a Dio, appropriato alla contemplazione, che da lui discende e poi a lui ritorna, insieme combinati (“intrammo a ritornar”), sono motivi della salita di Dante e Virgilio per il “cammino ascoso” attraverso il quale escono “a riveder le stelle” (Inf. XXXIV, 133-134). I temi, presenti nell’esegesi della sesta vittoria (Ap 3, 12), si ritrovano variati in altri luoghi del poema, ad esempio nella similitudine con le api degli angeli che discendono nei fiori-beati nell’Empireo (Par. XXXI, 7-12).
La quarta vittoria (Ap 2, 26-28), che nella perfezione equivale alla sesta ma non coincide con questa nel periodo storico (il quarto stato va da Giustiniano a Carlo Magno; il sesto si svolge nei tempi moderni, da san Francesco all’Anticristo), si consegue “quando scilicet omnes vires corporis et mentis assidue et totaliter perfectis virtutum operibus dedicantur, nec ex longa continuatione operis remittuntur sed potius intenduntur et roborantur et ad fortia opera superexcrescunt”. Nel risalire alla superficie della terra, Virgilio e Dante impegnano in modo assiduo tutte le forze della mente, “sanza cura aver d’alcun riposo” (Inf. XXXIV, 135-136; variazione di motivi già utilizzati, in un contesto tutto diverso, a Inf. XIV, 24, 40-41). I due poeti ritornano “nel chiaro mondo”, che corrisponde alla “clara intelligentia scripturarum” data ai contemplativi vittoriosi del quarto stato, ai quali è detto “et dabo illi stellam matutinam”: uscito “fuor de l’aura morta / che m’avea contristati li occhi e ’l petto”, Dante vede Venere, la stella mattutina, “lo bel pianeto che d’amar conforta” (Purg. I, 17-21).

tanto ch’i’ vidi de le cose belle / che porta ’l ciel, per un pertugio tondo. / E quindi uscimmo a riveder le stelle (vv. 137-139).

La chiesa (delle sette d’Asia alle quali Giovanni scrive nella prima visione) che per eccellenza possiede tutte le perfezioni stellari è la quinta, quella di Sardi, assimilata alla sede romana (Ap 3, 1). Il suo nome viene interpretato come “principio di bellezza”, poiché fu bella negli inizi e poi si corruppe, e in molti luoghi il poeta ricorre ai suoi temi per dare panno al vagheggiare un’età di innocenza e di bellezza perduta. L’angelo del sesto sigillo ascende appunto dalla chiesa romana (Ap 7, 2) e la pienezza stellare della quinta chiesa corrisponde allo Spirito increato, cioè alla pienezza dei doni e delle grazie (Ap 3, 1).
L’intreccio nei versi dei motivi propri dell’angelo del sesto sigillo (Ap 7, 2: salire, sole, mattino) con quelli della quinta chiesa, sottolineati dalla rima “stelle” / “belle” (Ap 3, 1), è nella descrizione del tempo primaverile e mattutino che ripete il mattino primordiale della creazione (Inf. I, 37-40) e ancora al termine della prima cantica, nel vedere “de le cose belle /che porta ’l ciel” e nel salire e uscire “a riveder le stelle” (Inf. XXXIV, 137-139).

[1] La parodia dell’esegesi di Ap 11, 6, che verte sulla grossezza, esclude, al v. 77, la variante “in sul groppo de l’anche” propria di codici seriori (Petrocchi).

 

[LSA, prologus, Notabile VIII] Rursus quinque membra sic distincte et interscalariter currunt inter radicem visionum et inter sextum membrum, quod ex hoc ipso aperte insinuatur per ipsa designari quinque sollempnia tempora cum suis sollempnibus statibus et operibus ordinate percurrentibus ab initio ecclesie usque ad sextum tempus ipsius. Que autem essent illa tempora vel opera, aut in quo puncto inchoarentur et finirentur, non potuit a nobis communiter sciri vel investigari nisi per realem et manifestum adventum ipsorum ac per preclaram et sollempnem initiationem status sexti. Et ideo sicut sollempnis initiatio novi testamenti facta in sexta mundi etate cum precursione quinque etatum elucidat intellectum prophetarum quoad primum Christi adventum et quoad tempora ipsum precurrentia, sic sollempnis initiatio sexti status ecclesie cum precursione quinque priorum elucidat intelligentiam huius libri et ceterorum prophetalium quoad trinum Christi adventum et quoad tempora precurrentia tam primum quam secundum adventum, propter quod in ipso sexto tempore erit sol sapientie christiane septempliciter lucens sicut lux septem dierum (cfr. Is 30, 26). […] Ex predictis autem patet quod principalis intelligentia sexti et septimi membri visionum huius libri fortius probatur et probari potest quam intelligentia membrorum intermediorum inter primum et sextum seu inter radicem et sextum, unde et clara intelligentia ipsorum dependet ab intelligentia sexti, sicut et ratio eorum que sunt ad finem dependet a fine.

[LSA, prologus] Septimum est quare sextus status semper describitur ut notabiliter preeminens quinque primis et sicut finis priorum et tamquam initium novi seculi evacuans quoddam vetus seculum, sicut status Christi evacuavit Vetus Testamentum et vetustatem humani generis, unde et quasi circulariter sic iun-gitur primo tempori Christi ac si tota ecclesia sit una spera et ac si in sexto eius statu secundo incipiat status Christi habens sua septem tempora sicut habet totus decursus ecclesie, sic tamen quod septimus status sexti sit idem cum septimo statu totius ecclesie. Et iterum quare sexta et septima visio principaliter describunt solum finalem statum eccle-sie, coannexe vero et quasi non ex principali intento describunt tempora priorum quinque statuum.

[LSA, prologus, Notabile XIII] In sexto autem die seu tempore primo creata sunt animalia irrationalia, scilicet iumenta et reptilia et bestie, et post hoc creatus est homo ad imaginem Dei cum muliere ex ipso formata (cfr. Gn 1, 24-28). Bestie enim et reptilia sunt regna paganorum et secte pseudoprophetarum, que sexto ecclesie tempore contra ipsam atrocius permittentur sevire. Iumenta vero sunt simplices ad obedientiam prompti et ad honera active. Ordo autem evangelicus est tamquam homo rationalis ad imaginem Dei factus, et ipse subiciet bestias et omnem terram et preerit piscibus et avibus, id est omnibus ordinibus quinto tempore formatis; distin-guetur autem in prelatos et collegium subditorum, quasi in virum et uxorem.

Inf. XXXIV, 109-117

Di là fosti cotanto quant’ io scesi;
quand’ io mi volsi, tu passasti ’l punto
al qual si traggon d’ogne parte i pesi.
E se’ or sotto l’emisperio giunto
ch’è contraposto a quel che la gran secca
coverchia, e sotto ’l cui colmo consunto
fu l’uom che nacque e visse sanza pecca;
tu haï i piedi in su picciola spera
che l’altra faccia fa de la Giudecca.

 

AVVERTENZE

Seppure segue l’ordine dei ventidue capitoli dell’Apocalisse, Olivi suggerisce, nel prologo della Lectura, un metodo differente di comprensione e di aggregazione del testo, fondato sui sette stati (status), cioè sulle epoche nelle quali si articola la storia della Chiesa, prefigurate nell’Antico Testamento.
L’Apocalisse si articola in sette visioni: le sette chiese d’Asia, i sette sigilli, le sette trombe, la donna vestita di sole (le sette guerre sostenute dalla Chiesa), le sette coppe, il giudizio di Babylon nelle sette teste del drago, la Gerusalemme celeste. Le prime sei visioni possono essere a loro volta divise in sette momenti, ciascuno dei quali riferibile a uno dei sette stati. Assembrando, per le prime sei visioni, tutti i primi elementi (chiesa, sigillo, tromba, guerra, coppa, momento del giudizio di Babylon), tutti i secondi, i terzi e così di seguito, si ottengono sette gruppi di materia teologica, corrispondenti al complesso dei temi afferenti a ciascuno dei sette stati. A questi sette gruppi si aggiungono altri due: l’esegesi della settima visione (senza articolazioni interne) e l’esegesi di capitoli del testo scritturale, o di parti di essi, introduttivi delle successive specificazioni delle singole visioni per settenari, che Olivi definisce “radicalia” o “fontalia”. Si ottengono in tal modo nove gruppi: le parti proemiali, i sette assembramenti di settenari e la settima visione. Il grande prologo della Lectura, articolato in tredici notabilia, può essere anch’esso aggregato secondo i sette stati. Un libro (la Lectura) contiene dunque princìpi e criteri affinché l’accorto lettore possa trarne un altro libro, fatto con lo stesso materiale ma ricomposto e distribuito in forma diversa.

La Commedia mostra un ordine interno diverso da quello che appare al lettore: il viaggio di Dante ha un andamento di ciclici settenari, che corrispondono ai sette stati della storia della Chiesa, cioè alle categorie con cui Olivi organizza la materia esegetica. Questo ordine interno è registrabile per zone progressive del poema dove prevale, tramite parole-chiave, la semantica riferibile a un singolo stato. È un’intima struttura dirompente i confini letterali stabiliti dai canti e da tutte le divisioni materiali per cerchi, gironi, cieli. Ogni stato, che ha differenti inizi, è concatenato per concurrentia, come le maglie di un’armatura, con quello che precede e con quello che segue. Si possono in tal modo redigere mappe che comprendano l’ordine spirituale della Commedia. La ricerca è pervenuta a una Topografia spirituale della Commedia, dove quasi per ogni verso, o gruppo di versi, collegamenti ipertestuali conducono al “panno” esegetico fornito dalla Lectura super Apocalipsim, sul quale il “buon sartore” ha fatto “la gonna” (cfr. Par. XXXII, 139-141).

■ A ogni gruppo è arbitrariamente assegnato un diverso colore: Radici (verde), I stato (verde acqua), II stato (rosso), III stato (nero), IV stato (viola), V stato (marrone), VI stato (blu), VII stato (indaco), VII visione (fucsia). Dei gruppi sono stati integralmente studiati il terzo stato e la settima visione. Mentre la diversità dei colori è rispettata nella tabella complessiva contenente i collegamenti ipertestuali, nelle sinossi i colori possono essere variati per maggiore evidenza.

Non di rado nei versi alcune parole o incisi-chiave possono rinviare a più luoghi esegetici. Questo perché il testo dottrinale contenuto nella Lectura, prima di travasarsi semanticamente nella Commedia, è stato sottoposto a una duplice riorganizzazione. La prima, sulla base delle indicazioni dello stesso Olivi, secondo il materiale esegetico attribuibile ai singoli stati. La seconda, seguendo il principio applicato nelle distinctiones ad uso dei predicatori, sulla base di lemmi analogicamente collazionati. La “mutua collatio” di parti della Lectura arricchisce il significato legato alle parole e consente uno sviluppo tematico amplificato. Si vedano, ad esempio, le variazioni eseguite sul tema della “voce” o sull’espressione “in medio”, temi più volte iterati nel sacro testo, oppure il modo con cui Ap 1, 16-17 (l’esegesi della decima e undecima prefezione di Cristo come sommo pastore) percorre i versi in collazione con altri passi. A ciò predispone lo stesso testo scritturale, poiché l’Apocalisse contiene espressioni, come Leitmotive, che ritornano più volte. È determinata da parole-chiave che collegano i passi da collazionare. È suggerita dallo stesso Olivi, nel prologo, per una migliore intelligenza del testo.

Tutte le citazioni della Lectura super Apocalipsim presenti nei saggi o negli articoli pubblicati su questo sito sono tratte dalla trascrizione, corredata di note e indici, del ms. Paris, Bibliothèque nationale de France, lat. 713, a disposizione fin dal 2009 sul sito medesimo. I passi scritturali ai quali si riferisce l’esegesi sono in tondo compresi tra “ ”; per le fonti diverse da quelle indicate si rinvia all’edizione in rete. Non viene presa in considerazione l’edizione critica a cura di WARREN LEWIS (Franciscan Institute Publications, St. Bonaventure – New York, 2015) per le problematiche da essa poste, che sono discusse in ALBERTO FORNI – PAOLO VIAN, A proposito dell’edizione di Warren Lewis della Lectura super Apocalipsim di Pietro di Giovanni Olivi. Alcune osservazioni, in “Archivum Franciscanum Historicum”, 109 (2016), pp. 99-161.
Il testo della Commedia citato è in Dante Alighieri, La Commedia secondo l’antica vulgata, a cura di GIORGIO PETROCCHI, Firenze 1994. Si tiene anche conto della recente edizione a cura di GIORGIO INGLESE, Firenze 2021 (Società Dantesca Italiana. Edizione Nazionale), qualora il testo proposto si discosti da quello del Petrocchi e la scelta della variante risulti discutibile nel confronto con la LSA.
Si fa riferimento ai seguenti commenti:

Dante Alighieri, La Divina Commedia. Inferno. Commento di ANNA MARIA CHIAVACCI LEONARDI, Milano 2007 (19911).

Dante Alighieri, Commedia. Inferno. revisione del testo e commento di GIORGIO INGLESE, Roma 2007.


ABBREVIAZIONI

Ap : APOCALYPSIS IOHANNIS.

LSA : PIETRO DI GIOVANNI OLIVI, Lectura super Apocalipsim.

Concordia : JOACHIM VON FIORE, Concordia Novi ac Veteris Testamenti. Herausgegeben von A. PATSCHOVSKY, Wiesbaden 2017 (Monumenta Germaniae Historica. Quellen zur Geistesgeschichte des  Mittelalters, 28. Band), Teil 2 (lib. I-IV), Teil 3 (lib. V).

Expositio : GIOACCHINO DA FIORE, Expositio in Apocalypsim, in Edibus Francisci Bindoni ac Maphei Pasini, Venetiis 1527, ristampa anastatica Minerva, Frankfurt a. M. 1964.

Olivi opera spesso una sintesi del testo di Gioacchino da Fiore. Le « » precedono e chiudono un’effettiva citazione. Diversamente, viene posto un asterisco (*) o una nota in apice al termine della parte riferibile a Gioacchino.

In Ap : RICCARDO DI SAN VITTORE, In Apocalypsim libri septem, PL 196, coll. 683-888.

 

Note sulla “topografia spirituale” della Commedia

Per quanto segua l’ordine dei ventidue capitoli dell’Apocalisse, Olivi suggerisce un metodo differente di comprensione e di aggregazione del testo esegetico, fondato sui sette stati, cioè sui periodi nei quali si articola la storia della Chiesa. L’Antico Testamento corrisponde alle prime cinque età del mondo, secondo la divisione tradizionale [1]: è l’età del Padre secondo Gioacchino da Fiore. Con il primo avvento di Cristo, nella carne, inizia la sesta età (l’età del Figlio), nella quale la Chiesa, come fosse un individuo, cresce e si sviluppa in sette stati. Al primo, apostolico periodo, succede il secondo dei martiri; poi, al tempo di Giustiniano, il terzo stato dei dottori che confutano con l’intelletto le eresie concorre con il quarto stato degli affettuosi anacoreti devoti al pasto eucaristico, alti per la contemplazione ma anche attivi come reggitori delle genti; a partire da Carlo Magno subentra il quinto stato aperto alla vita associata delle moltitudini, bello nel principio ma poi corrottosi fino a trasformare quasi tutta la Chiesa in una nuova Babilonia; la riforma interviene, a partire da Francesco, con il cristiforme sesto stato, fino alla sconfitta dell’Anticristo; subentra infine il silenzio e la quiete del pacifico settimo stato. Il sesto e il settimo stato (la terza età di Gioacchino da Fiore) coincidono con il secondo avvento di Cristo, nello Spirito, cioè nei suoi discepoli spirituali inviati a convertire il mondo con la predicazione; al termine del settimo stato ci sarà il terzo avvento, nel giudizio.
L’Apocalisse si articola in sette visioni: le sette chiese d’Asia, i sette sigilli, le sette trombe, la donna vestita di sole (le sette guerre sostenute dalla Chiesa), le sette coppe, il giudizio di Babylon nelle sette teste del drago, la Gerusalemme celeste. Le prime sei visioni possono essere a loro volta divise in sette momenti, ciascuno dei quali riferibile a uno dei sette stati. Assembrando, per le prime sei visioni, tutti i primi elementi (chiesa, sigillo, tromba, guerra, coppa, momento del giudizio di Babylon), tutti i secondi, i terzi e così di seguito, si ottengono sette gruppi di materia teologica, corrispondenti al complesso dei temi afferenti a ciascuno dei sette stati [2]. A questi sette gruppi se ne aggiungono altri due: l’esegesi della settima visione (senza articolazioni interne) e l’esegesi di capitoli del testo scritturale, o di parti di essi, introduttivi delle successive specificazioni delle singole visioni per settenari, che Olivi definisce “radicalia” o “fontalia”. Si ottengono in tal modo nove gruppi: le parti proemiali, i sette assembramenti di settenari e la settima visione. Il grande prologo della Lectura, articolato in tredici notabilia, può essere anch’esso aggregato nelle sue parti secondo i sette stati.

L’intenso travaso di parole-temi dalla Lectura nella Commedia si accompagna a un fatto strutturale. La Commedia mostra un ordine interno diverso da quello che appare al lettore: il viaggio di Dante ha un andamento di ciclici settenari, che corrispondono ai sette stati oliviani. È un ordine registrabile per zone progressive del poema dove prevalgono i temi di un singolo stato, che rompe i confini letterali stabiliti dai canti e da tutte le divisioni materiali per cerchi, gironi, cieli. Ogni stato, che ha differenti inizi, è concatenato per “concurrentia”, come le maglie di un’armatura, con quello che precede e con quello che segue. Ciascuno stato ha in sé una grande ricchezza di motivi e contiene inoltre temi di tutti gli altri, consentendo innumerevoli intrecci e variazioni. La Commedia appare, come l’Apocalisse, “libro scritto dentro e fuori” (Ap 5, 1), con duplice struttura, linguaggio e senso, letterale e spirituale. Il viaggio di Dante e la visione di Giovanni hanno la stessa causa finale, che è la beatitudine, alla quale si perviene con diverse guide, per gradi segnati da visioni sempre più nuove e ardue delle precedenti, attraverso una sempre maggiore apertura dell’arcano coperto dal velame dei sette sigilli fino al punto più alto in cui, in questa vita, è possibile vedere la verità.
Tutti i modi del linguaggio interiore al poema esprimono un processo, un viaggio dal più chiuso al più aperto, e in questo andare hanno una loro precisa collocazione ‘topografica’, uno ‘stato’ (nel senso di momento storico che ricade sulla coscienza individuale) al quale appartenere. Si possono in tal modo stendere vere e proprie mappe tematiche che comprendano l’ordine spirituale di tutta la Commedia che aderisce, parodiandola semanticamente, a una precisa teologia della storia, sia pure modificandone profondamente le prospettive. La ciclicità dei temi permette di stabilire collegamenti inusitati tra le diverse zone; il procedere per gradi dell’illuminazione divina fa sì che episodi oscuri e quasi ermeticamente chiusi si chiariscano poi, aprendosi all’intelligenza in modo più alto.
A ogni gruppo è arbitrariamente assegnato un diverso colore: Radici (verde), I stato (verde acqua), II stato (rosso), III stato (nero), IV stato (viola), V stato (marrone), VI stato (blu), VII stato (indaco), VII visione (fucsia). Dei gruppi sono stati integralmente studiati il terzo stato e la settima visione.

INFERNO

(le prime cinque età del mondo)

La ‘topografia spirituale’ del poema mostra nell’Inferno cinque cicli settenari corrispondenti agli stati della Chiesa descritti da Olivi e ai loro temi contenuti nella Lectura. Questi cinque cicli designano le prime cinque età del mondo (riunite a loro volta nel primo stato generale, che corrisponde all’età del Padre di Gioacchino da Fiore), in quanto prefigurazione del primo avvento di Cristo e della Chiesa.
I cinque cicli settenari che si susseguono nell’Inferno a partire dal quarto canto (i primi tre canti hanno una tematica particolare) sono preceduti da cinque zone che possono essere definite ‘snodi’, dove cioè confluiscono temi provenienti da più stati, intrecciati insieme ad altri ad avviare il procedere settenario. Il centro di questi ‘snodi’ coincide con un canto (Inf. IV, X, XVII, XXVI, XXXII), ma la zona è più vasta e supera l’ambito dato dalla divisione letterale del poema.

Inf. I-III sono da considerare al di fuori dei cicli. Inf. I e II sono profondamente segnati dai temi del sesto stato. Inf. III è riferibile al settimo stato (per gli ignavi) e in parte al quinto (per l’episodio di Caronte).

canti

I ciclo

stati

cerchi

IV

Limbo

Radici, I (I snodo)

I

V

lussuriosi

II

II

VI

golosi

III

III

VII

avari e prodighi

palude Stigia
(iracondi e accidiosi)

IIIIV

 

V

IV


V

VIII

palude Stigia (orgogliosi)
città di Dite

V

V

IX

apertura della porta di Dite

VVI

 

canti

II ciclo

stati

cerchi

IX-X-XI

eretici, ordinamento dell’inferno

I (II snodo)

VI

XII

violenti contro il prossimo

II

VII (girone 1)

XIII

violenti contro sé

III

        (girone 2)

XIV

violenti contro Dio: bestemmiatori

IV

        (girone 3)

XV-XVI

violenti contro Dio: sodomiti

V

XVI

XVII

ascesa di Gerione

Gerione,  violenti contro Dio: usurai

VI

canti

III ciclo

stati

cerchi

XVII

volo verso Malebolge

I (III snodo)

 

XVIII

ruffiani, lusingatori

Radici II

VIII (bolgia 1, 2)

XIX

simoniaci

III

(bolgia 3)

XX

indovini

IV

(bolgia 4)

XXI-XXII

barattieri

V

(bolgia 5)

XXIII

ipocriti

VVI

(bolgia 6)

XXIV-XXV

ladri

VI

(bolgia 7)

canti

IV ciclo

stati

cerchi

XXVI

consiglieri di frode (greci)

I (IV snodo)

(bolgia 8)

XXVII

consiglieri di frode (latini)

II

XXVIII-XXIX

seminatori di scandalo e di scisma

III

(bolgia 9)

XXIX

falsatori

IV

  (bolgia 10)

XXX

falsatori

IVV

XXXI

giganti

VVI

 

canti

V ciclo

stati

cerchi

XXXII

Cocito: Caina, Antenora

I (V snodo)

IX

XXXIII

Antenora, Tolomea

II

XXXIV

Giudecca

IIIIVV

XXXIV

volgersi di Virgilio sull’anca di Lucifero

VI

 

 

Il sesto stato è per Olivi la fase più importante nella costruzione dell’edificio della Chiesa. In esso “renovabitur Christi lex et vita et crux”. Corrisponde ai tempi moderni. Ha quattro diversi inizi temporali: uno profetico, con Gioacchino da Fiore, il quale lo vide in spirito concependo la sua terza età; il secondo con la conversione di Francesco (1206), che seminò la pianta; il terzo con la predicazione degli uomini spirituali, per la quale la pianta si rinnovella; il quarto con la distruzione storica di Babylon. Dura fino alla sconfitta dell’Anticristo, il cui avvento si collocherebbe, secondo i numeri della profezia di Daniele 12, 11-12 combinati con Ap 12, 6 e 14, fra il 1290 e il giubileo di pace del 1335.
Una ‘vita nuova’ si instaura nel sesto stato, per eccellenza il momento dell’imitazione di Cristo. I rami dell’albero si dilatano producendo il frutto della carità, l’acqua che proviene da Cristo-fonte attraverso il condotto che percorre i primi cinque stati della Chiesa si effonde in un lago; è il tempo, assimilato al sacramento del matrimonio, della letizia nuziale, della familiarità, dell’amicizia. Corrisponde al sesto giorno della creazione, in cui vennero creati prima i rettili e le bestie irrazionali, poi l’uomo razionale che, come l’ordine evangelico, è fatto a immagine e somiglianza di Dio e domina tutti gli animali.
Le espressioni di Olivi relative al sesto stato – “quoddam sollempne initium novi seculirenovaretur et consumaretur seculum”, nel quale il sacerdozio apostolico “redeat et assurgat ad ordinem primum”, la “nova Ierusalem”, interpretata come “visione di pace”, viene vista “descendere de celo” e la Chiesa descritta come la donna vestita di sole con la sua “virginea proles” – sono la veste spirituale dei versi della quarta egloga virgiliana che celebrano la rinnovata età dell’oro: “Magnus ab integro saeclorum nascitur ordo / iam redit et Virgo; redeunt Saturnia regna; / Iam nova progenies caelo demittitur alto” (Egloga IV, 5-7). Olivi completa la Lectura super Apocalipsim nel 1298, poco prima di morire, il 14 marzo, a Narbonne. Quel felicissimo stato segnato dalla pace sotto il divo Augusto, che rese l’umanità disposta al primo avvento di Cristo, si sta rinnovando nel sesto stato della Chiesa, nel secondo avvento nello Spirito. Scrive Arsenio Frugoni: “[…] quell’escatologismo, oltre che ideologia di lotta e di riforma del gruppo spirituale, era anche un vero e proprio sentimento storico […] una tensione di rinnovamento, una ansia di salvezza, che nel 1300, l’anno centenario della Natività, aveva trovato come una attivazione, in un senso di pienezza dei tempi, cui doveva corrispondere un fatto, un accadere meraviglioso e nuovo” [3].
All’apertura del sesto sigillo, l’eletta schiera dei riformatori – i 144.000 segnati dalle dodici tribù d’Israele – guida la turba innumerevole di ogni gente, tribù, popolo e lingua (Ap 7, 3-4.13). Questi eletti e magnanimi duci, separati dalla volgare schiera per più alta milizia, vengono destinati a difendere liberamente la fede – ad essi è data la “plena libertas ad innovandam christianam religionem” -; sono gli amici di Dio a lui noti per nome, configurati in Cristo crocifisso e votati al martirio.
All’interno della Chiesa del sesto stato, l’Ordine dei Minori – “ordo plurium personarum” – è  assimilabile alla persona umana di Cristo. Come questa si sviluppò fino all’età virile, così dovrà essere per l’ordo evangelicus piantato da Francesco, che avrà bisogno (a differenza di Cristo che stette poco tempo nel mondo) di due o tre generazioni per svilupparsi prima di subire una condanna simile a quella di Cristo [4]. La sua maturità coincide, verso il 1300, con il terzo inizio del sesto stato, cioè con il rinnovarsi per opera dello Spirito di Cristo, nel suo secondo avvento, della pianta seminata da Francesco. Questa concezione dell’Ordine francescano come individuo in sviluppo che, perfettamente maturato, diventa il novus ordo preconizzato da Gioacchino da Fiore per l’età dello Spirito, si differenzia da quella di Bonaventura, che aveva invece distinto i Francescani del proprio tempo – e quindi anche gli Spirituali – dall’Ordine finale che dominerà fino ai confini della terra. Alla terza apertura del sesto sigillo nuovi san Giovanni vengono inviati a predicare al mondo come nel tempo degli Apostoli. Ma Giovanni non designa solo un Ordine, perché Olivi lascia aperta la possibilità di rivelazioni individuali, avute da “singulares persone”, perfetti imitatori di Cristo votati, con la loro “lingua erudita”, al compito della conversione universale.

[LSA, cap. X, Ap 10, 11] “Et dixit michi: Oportet te iterum prophetare in gentibus et populis et linguis et regibus multis”. In ipsa sapientia libri expresse continetur quod oportet iterum predicari evangelium in toto orbe, et Iudeis et gentibus, et totum orbem finaliter converti ad Christum. Sed quod per istum hoc esset implendum non poterat sciri nisi per spiritualem revelationem, et hoc dico prout per Iohannem designantur hic singulares persone quia, prout per ipsum designatur in communi ordo evangelicus et contemplativus, scitur ex ipsa intelligentia libri quod per illum ordinem debet hoc impleri.

Nei cinque cicli settenari della prima cantica il sesto stato è segnato dall’apertura della porta della città di Dite (Inf. IX, 89-90); dall’ascesa di Gerione dall’abisso (Inf. XVI, 106-136); dal precipitoso passaggio dalla quinta alla sesta bolgia (Inf. XXIII, 1-57) e poi dalle trasformazioni della settima, dove i ladri fiorentini si mutano in serpenti e viceversa (Inf. XXIV-XXV); dal chinarsi di Anteo sul fondo dell’inferno (Inf. XXXI, 136-145); dal passaggio del centro della terra, con la conversione di Virgilio sull’anca di Lucifero, che è passaggio verso la sesta età, quella della Chiesa, descritta nel Purgatorio.
Ma i temi propri del sesto stato sono diffusi ovunque, intrecciati con quelli degli altri stati, e alla loro esegesi rinviano precise parole-chiave incardinate nel senso letterale dei versi. L’esegesi dell’angelo del sesto sigillo (Ap 7, 2) è già centrale nel primo canto del poema.
La novità che il sesto stato, per eccellenza stato di rinnovamento di questo secolo, arreca nell’inferno è una novità fittizia: l’apertura della porta della città di Dite non è vera novità, perché essa è stata chiusa dall’ostinazione dei diavoli, recidivi dopo l’apertura della porta dell’inferno da parte di Cristo prefigurata dalla venuta di Ercole all’Ade, per cui Cerbero “ne porta ancor pelato il mento e ’l gozzo”; Gerione viene su ad un “novo cenno” di Virgilio, ma è figura della frode dalla velenosa coda aculeata; il nuovo prodotto dalle trasformazioni reciproche di serpenti e uomini è qualcosa di incompiuto perché l’uomo razionale, creato nel sesto stato, regredisce allo stato precedente.
L’Inferno è il luogo della durezza lapidea, dell’impetrarsi, del parlare duro di cose dure a dirsi, del duro giudizio, del senso duro della scritta al sommo della porta, dei duri lamenti, dei duri demoni, dei duri veli del gelo, della gravezza. Nell’Inferno vige l’imposizione data a Daniele dall’angelo sotto il sesto sigillo dell’Antico Testamento: “Ora tu, Daniele, chiudi queste parole e sigilla questo libro fino al tempo stabilito” (Dn 12, 4), che era la sesta età nella quale apparve Cristo e in particolare il sesto stato della sua Chiesa nella quale il libro doveva essere più pienamente aperto, non però ai malevoli e ai maldisposti. Questa durezza è rotta dall’invito di Dante ai dannati perché parlino. Far parlare liberamente, per dettato interiore, è la principale prerogativa del sesto stato – la nuova età che tanto s’aspetta, quella che ode del “dolce stil novo” e delle “nove rime” -, ed è tema che la poesia canta per intero, sia pure per un attimo, anche nella vecchia roccia infernale. Appartiene alla sesta chiesa il parlare liberamente di Cristo – ad essa è dato l’“ostium apertum”, che è “ostium sermonis” – , il sentire per dettato interiore, l’aprirsi della volontà. Appartiene alla sesta chiesa anche il far venire quelli che si dicono Giudei senza esserlo, mutati nel cuore e disposti a farsi battezzare e governare. Questo far venire a parlare equivale al cortese e liberale invito dello Spirito di Cristo a convivare, a venire con desiderio e volontario consenso, con “disio” e con “velle”, in una pausa di pace nell’eterna dannazione. All’“affettüoso grido” del poeta le ombre di Francesca e Paolo vengono “dal voler portate” verso un momento di mutazione, sebbene limitata al successivo colloquio. Tutto l’Inferno è un contrappunto fra la durezza del giudizio e l’apertura per la parola dirompente, fin che essa dura, la pena. Un’apertura che si esprime in varie forme: muoversi sospirando nel Farinata prima immobile, ‘crollarsi’ quasi per terremoto interiore dello ‘schivo’ Ulisse, convertirsi del vento in voce in Guido da Montefeltro, tornare indietro nel cammino assegnato o separarsi dai compagni di pena, essere sforzati a parlare anche malvolentieri, non poterlo negare o mostrare fretta di farlo, arrestarsi obliando il martirio, levarsi per poi ricadere, sollevarsi da atti bestiali per ritornare a essi dopo aver parlato, come nel conte Ugolino. In tante lingue, che parlano come per sé stesse mosse, sta un solo desiderio, il vivere ancora nel libro che è stato altrui aperto.
Se nell’Inferno il sesto stato non si realizza mai compiutamente, anche il settimo, che gli è strettamente connesso, non può trovare un luogo autonomo. Ciò non toglie che temi del settimo stato (e della settima visione) siano ben presenti in modo diffuso. Ad esempio, quelli relativi alla settima chiesa assumono particolare rilievo nella descrizione degli ignavi a Inf. III. Tempo del silenzio, della serena pace, del riposo dalle ansiose fatiche, il settimo stato subentra dopo le terribili tentazioni inferte, con un martirio non corporale ma psicologico, dai carnefici dell’Anticristo nel sesto. Come ogni momento della storia umana partecipa dell’imitazione di Cristo, che raggiunge l’acme nel sesto stato, così in ogni periodo si verifica una sua “quietatio”, una pausa di pace, di quiete, di silenzio propria del settimo. Così Francesca parla e ascolta “mentre che ’l vento, come fa, ci tace”. Il vento – “la bufera infernal, che mai non resta” – designa il fluttuare tempestoso delle passioni nel cuore.

PURGATORIO

(sesta età del mondo)

Dopo le prime cinque età del mondo (corrispondenti all’Antico Testamento, la gioachimita età del Padre), che hanno segnato la discesa a spirale per i cinque cicli settenari dell’Inferno, con il Purgatorio inizia la sesta età, quella di Cristo (l’età del Figlio), che ha sette stati, corrispondenti ai sette stati della Chiesa. Dapprima, nel cosiddetto ‘antipurgatorio’, si registrano in successione temi prevalenti dei primi cinque stati. Il sesto stato della sesta età (con cui si apre l’età dello Spirito) inizia con l’apertura della porta di san Pietro (la porta del purgatorio). Questo sesto stato procede anch’esso con andamento settenario, per cui ha sette momenti, coincidenti principalmente con un girone della montagna, ma non del tutto, perché sempre l’ordine spirituale del poema rompe i confini letterali e le divisioni materiali, concatenando i temi di uno stato prevalente con quelli dello stato che precede e con quelli dello stato che segue e intrecciandoli con temi di tutti gli altri stati.
È spiegato nel Notabile VII del prologo della Lectura che il sesto stato della Chiesa è il secondo stato di Cristo e ha i suoi sette tempi per cui la Chiesa, come fosse una sfera, si ricongiunge circolarmente al primo apostolico tempo. Il settimo dei sette momenti del sesto stato della Chiesa coincide con il settimo stato generale della Chiesa, che nel poema corrisponde in parte all’ultimo girone della montagna (il settimo, dove si purgano i lussuriosi) e in parte all’Eden, con cui si chiude la seconda cantica.
Il Purgatorio dunque, secondo il senso spirituale, è la storia della Chiesa che corre verso il suo sesto stato, punto di riferimento di tutte le vicende umane, antiche e moderne, che ad esso cooperano. Non è casuale che nel sesto girone della montagna sia chiarificata e riconosciuta, nel colloquio con Bonagiunta da Lucca, la poetica delle “nove rime” di Dante, già “sesto tra cotanto senno” cooptato nella “bella scola” dei poeti del Limbo.
La vasta zona dedicata al sesto momento del sesto stato della Chiesa ha il suo inizio nel forte terremoto che scuote la montagna mentre Dante e Virgilio si trovano ancora nel quinto girone (Purg. XX, 124-141). Essa è stata compiutamente esaminata altrove.
Il settimo stato dell’Olivi si realizza parte in questa vita (come pregustazione in terra della gloria eterna, cioè fin sulla cima della montagna) e in parte nella futura (nel senso della quiete delle anime beate in attesa della resurrezione, che è la materia del Paradiso).

canti

I ciclo – fino al sesto sato

stati

 

I

Catone

Radici, I

 

II

angelo nocchiero, Casella

–  II

 

III

scomunicati

III

“Antipurgatorio”

IV

salita al primo balzo, Belacqua

IV  –  V

V

negligenti morti per violenza

V

VI

Sordello

V

VII-VIII

valletta dei principi

V

IX

apertura della porta

VI sesto stato

 

canti

II ciclo – il sesto stato della sesta età

stati

gironi

X-XII

superbi

I

I

XIII-XIV-XV

invidiosi

II

II

XV-XVIII

iracondi

ordinamento del purgatorio,

amore e libero arbitrio

III

III

IV

XVIII-XIX

accidiosi

IV

IV

XIX-XX

avari e prodighi

V

V

XX (terremoto)  -XXV

Stazio, golosi, generazione dell’uomo

VI

VI

XXV-XXVI

lussuriosi

VII – settimo stato

VII

XXVII

XXVIII-XXXIII

 muro di fuoco

notte stellata, termine dell’ascesa

Eden

 

 

PARADISO

(settimo stato della Chiesa)

Il Primo Mobile è il nono e penultimo cielo, ma è il sesto se si parte dal cielo del Sole. È anche il cielo più segnato dal tema del “punto”, cui è assimilato il sesto stato. Questo consente di ricostruire l’ordine spirituale del Paradiso ponendo la cerniera nel quarto cielo del Sole. Con il terzo cielo di Venere termina infatti il cono d’ombra gettato dalla terra, secondo la dottrina di Alfragano (Par. IX, 118-119), mentre prima di descrivere l’ascesa al cielo del Sole il poeta invita il lettore a rivolgersi “a l’alte rote” (Par. X, 7-27). Senza la cesura recisa che, nella prima cantica, divide i dannati puniti all’interno della città di Dite da quelli che ne stanno fuori e, nella seconda cantica, separa le anime purganti nei sette gironi della montagna dalle anime che attendono fuori della porta (il cosiddetto ‘antipurgatorio’), anche nel Paradiso gli spiriti che si manifestano nei primi tre cieli della Luna, di Mercurio e di Venere (spiriti che mancarono ai voti, spiriti che furono attivi per conseguire onore e fama, spiriti amanti) si distinguono per minore perfezione rispetto a quelli che appaiono nei cieli seguenti.
I dieci cieli del Paradiso si mostrano pertanto ordinati in due gruppi di settenari, corrispondenti agli stati della Chiesa (e alle loro prerogative) secondo Olivi, parzialmente combacianti (da 1 a 7 e da 4 a 10: coincidono gli ultimi quattro numeri del primo gruppo e i primi quattro del secondo).

I  Se si considera il primo settenario, nel primo cielo della Luna si affronta la questione dell’inadempienza dei voti, che ha corrispondenza con i temi propri della prima chiesa di Efeso, il cui nome, se interpretato, oscilla tra la fervida volontà iniziale e la remissione (l’essenza del voto consiste nella volontà).

II  Nel secondo cielo di Mercurio, le battaglie sostenute dal “sacrosanto segno” dell’aquila corrispondono allo stato dei martiri, che è dei combattenti, e anche la dottrina dell’incarnazione e della passione di Cristo, esposta successivamente da Beatrice, fa parte della tematica, perché l’intera Chiesa, fondata sulla passione di Cristo, imita con i martiri la sua croce, e questo giova assai al suo radicamento.

III  Nel terzo cielo di Venere, Carlo Martello spiega al modo di un dottore del terzo stato la diversità delle indoli umane e come gli uomini, non assecondandole, errino; nello stesso cielo compare Folchetto di Marsiglia, che da vescovo di Tolosa combatté l’eresia albigese.

IV – I  Al quarto cielo del Sole, primo del secondo gruppo di settenari per l’esaltazione della vita apostolica (propria del primo stato e rinnovata nel sesto), si può connettere il tema stesso del sole inteso nell’esegesi della quarta tromba (Ap 8, 12): “Per solem videtur hic designari solaris vita et contemplatio summorum anachoritarum, qui fuerunt patres et exempla aliorum, vel solaris sapientia et doctrina summorum doctorum”. Sapienza e contemplazione, dottori del terzo e anacoreti del quarto stato, concorrono, come Domenico e Francesco – “L’un fu tutto serafico in ardore; / l’altro per sapïenza in terra fue / di cherubica luce uno splendore” (Par. XI, 37-39) – con mutua cortesia a infiammare il meriggio dell’universo.

V – II  Il quinto cielo di Marte, secondo (come il secondo stato dei martiri) per l’esaltazione della croce di Cristo formata dai lumi dei combattenti per la fede, reca in sé il tema del condiscendere proprio del quinto stato sia nel pio discendere per la croce di Cacciaguida verso Dante, sia nella decadenza degli “alti Fiorentini”, cioè delle antiche famiglie, assimilate agli anacoreti, un tempo alti e poi vòlti in basso.

VI – III  Il sesto cielo di Giove, terzo (come il terzo stato dei dottori) per la spiegazione di profonde verità di fede, sviluppa il motivo, proprio della sesta chiesa, della “porta aperta”. Aprire la porta significa illuminare e rendere acuto l’intelletto che penetra nell’occulto delle Scritture, e anche dare efficacia spirituale a penetrare nel cuore di chi ascolta: così l’aquila apre la “latebra” di Dante, così l’occhio di Rifeo Troiano fu da Dio aperto alla futura redenzione.

VII – IV Nel settimo cielo di Saturno, quarto (come il quarto stato degli anacoreti), “si tace … la dolce sinfonia di paradiso” (Par. XXI, 58-60), e il tacere è tema del settimo stato. Ivi si mostrano gli spiriti contemplativi, principali soggetti del quarto stato, proprio degli anacoreti: se si conta a partire dal quarto cielo del Sole, considerando questo come primo ovvero come nuovo avvio del ciclo settenario, il cielo di Saturno è appunto quarto.

VIII (V) Il settimo cielo di Saturno è seguito dal cielo delle Stelle fisse – ottavo e quinto -, dove si mostrano le schiere del trionfo di Cristo che discendono dall’Empireo (il quinto stato è caratterizzato dalla “condescensio”) e si celebra il trionfo di Maria (sviluppo del tema, proprio della quinta chiesa, della mirabile bellezza della Chiesa, regina ornata di veste aurea per la carità che unisce e circondata dalla varietà nei doni e nelle grazie delle diverse membra). È inoltre ricapitolazione dei precedenti sette, secondo un’interpretazione più volte presente nella Lectura dell’essere ‘ottavo’. Per questo Dante, stando nel segno dei Gemelli, riguarda in giù e torna col viso per tutte quante le sette precedenti sfere (Par. XXII, 124-154).

IX (VI) Segue il Primo Mobile o Cristallino – nono e sesto cielo –, dove il poeta vede il punto luminosissimo – Dio – da cui dipende il cielo e la terra, circondato dai nove cerchi di fuoco (Par. XXVIII, 16-18, 40-42, 94-96). Il sesto stato, secondo quanto Olivi afferma nel Notabile VIII, è il “punto” da cui dipendono gli altri stati, perché appare nel testo dell’Apocalisse in modo più evidente degli altri, che da esso assumono chiarezza quanto alla loro manifestazione nella storia, come l’intelligenza delle cose ordinate ad un fine dipende dal fine.

X (VII) La quiete e l’immobilità dell’Empireo, decimo cielo – il “ciel de la divina pace” -, corrispondono al settimo stato, di cui è propria la “quietatio”, il silenzio (tema anticipato dal tacere di Beatrice in apertura del canto XXIX), e la pace.

Il Paradiso avrebbe pertanto un ordine spirituale del seguente tipo:

cielo

stato

cielo

I

LUNA

I

II

MERCURIO

II

III

VENERE

III

IV

SOLE

IV

I

SOLE

V

MARTE

V

II

MARTE

VI

GIOVE

VI

III

GIOVE

VII

SATURNO

VII

IV

SATURNO

VIII

V

STELLE FISSE

IX

VI

PRIMO MOBILE

X

VII

EMPIREO

Oltre ai luoghi sopra indicati, i temi del sesto e del settimo stato si rinvengono in più punti, intrecciati con altri.

[1] Cfr. LSA, cap. XVII, Ap 17, 9: «Et subdit Ricardus quod per septem reges, et per septem capita designatos, designatur hic universus populus malorum, qui secundum septem status huius seculi determinantur. Primus scilicet ab Adam usque ad Noe. Secundus a Noe usque ad Abraam. Tertius ab Abraam usque ad Moysen. Quartus a Moys<e> usque ad David. Quintus a David usque ad Christum. Sextus a Christo usque ad Antichristum. Septimus autem sub Antichristo attribuitur». Cfr. PETRI IOHANNIS OLIVI Lectura super Lucam, Lc 1, 26, ed. F. Iozzelli, Grottaferrata 2010 (Collectio Oliviana, V), pp. 187-188: «Signanter autem dicitur in sexto mense, quia Christus uenit in sexta mundi etate, et iterum post quinque notabiles synagoge decursus: nam primo, cum sola circumcisione fuit sub patribus per quadringentos annos; secundo, accepta lege, fuit sub iudicibus per tantumdem temporis; tertio, proficiens in regnum, fuit sub regibus; quarto, assumpto plenius spiritu prophetico, fuit sub prophetis sollempnioribus, scilicet sub Elia, Ysaia et Yeremia etc.; quinto, restituto templo et urbe, fuit sub pontificibus quibus, per Aggeum et Zachariam et Malachiam iterata prophetia de Christo et eius precursore Elia, factum est silentium prophetarum, ita quod obmutuit cetus sacerdotum usque ad Iohannis ortum; et iterum in eiusdem quinti temporis sexto centenario conceptus est Christus. Sicut etiam sexto die factus est homo ad ymaginem Dei, sic conuenienter sub consimili senario factus est Christus homo, plenior Dei ymago: nam et perfectio numeri senarii, que ex omnibus partibus suis aliquotis et iterum ex ternario cum suis partibus, scilicet binario et unitate, consurgit, competit sibi et etiam reflexio ternarii per binarium, id est cultus fidei et Trinitatis per geminam caritatem».

[2] Il principio è chiaramente affermato nel notabile VIII del prologo della LSA: «[…] si omnia prima membra visionum ad invicem conferas et consimiliter omnia secunda et sic de aliis, aperte videbis omnia prima ad idem primum concorditer referri et consimiliter omnia secunda ad idem secundum et sic de aliis. Et hoc in tantum quod plena intelligentia eiusdem primi multum clarificatur ex mutua collatione omnium primorum, et idem est de omnibus secundis et tertiis et sic de aliis».

[3] A. FRUGONI, La Roma di Dante, tra il tempo e l’eterno, in ID., Pellegrini a Roma nel 1300. Cronache del primo Giubileo, presentazione di C. Frugoni, a cura e con Introduzione di F. Accrocca, Casale Monferrato 1999, pp. 102-103.

[4] LSA, cap. VI, Ap 6, 12: «Secunda ratio est quia persone Christi correspondet in sexta apertione unus ordo plurium personarum sic secundum suam proportionem augendus, sicut Christus secundum suum corpus fuit usque ad perfectam etatem viriliter auctus. […] Quarta est quia, prout super evangelia ostendi, Christus parvo tempore debuit inter nos vivere et pauciori predicare […]. Nisi autem ordo evangelicus, per Franciscum renovatus, esset in multis et saltem sub duabus vel tribus generationibus propagatus et sollempnizatus, non esset nec ipse nec populus ab eo ducendus sufficienter dispositus ad tam autenticam condempnationem condempnationi Christi consimilem subeundam».