La “Divina Parodia” del Libro scritto dentro e fuori [EN]Canti esaminati:Inferno: I; II; III; IV; V; VI; VII; VIII; IX; X; XI; XII; XIII; XIV; XV; XVI; XVII; XVIII; XIX; XX; XXI; XXII; XXIII; XXIV; XXV; XXVI; XXVII; XXVIII; XXIX; XXX; XXXI; XXXII, 124-XXXIII, 90Purgatorio: III; XXVIII
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Introduzione. 1. Il vespro del quinto stato. 2. Enea e le vittoriose res gestae del quarto stato. 3. Prologo in cielo. 4. La porta aperta nel sesto stato. 5. La guerra psicologica. 6. Virgilio e Beatrice: Cristo uomo e Spirito di Cristo. 7. Pronta obbedienza a convivare. 8. Il ratto di Dante. Testi e commento.
Introduzione
Michelangelo Picone, commentando il secondo canto dell’Inferno, ne ha sottolineato la sostanziale diversità con il primo:
■Ferma restando la diversità di genere letterario sottolineata da Picone, il fatto che la Commedia si proponga come parodia della Lectura super Apocalipsim di Pietro di Giovanni Olivi comporta che il tessuto parodiato sia il medesimo per Inf. I e II. È vero che il primo canto ha come modello il poema allegorico, i suoi versi sono però semanticamente segnati da concetti teologici, che richiamano una prospettiva storica. Questo avviene non solo a partire dall’incontro con Virgilio. La cristologia pervade il primo verso del poema; la selva oscura non è solo, genericamente, il peccato, è parodia della Giudea crudele persecutrice di Cristo e della Chiesa; le tre fiere non designano unicamente i vizi, sono anch’esse parodia di periodi storici e la lupa, che tutte le assomma, è vestita con il panno della mortifera bestia saracena, che resiste fino all’Anticristo, contro la quale nulla può l’autorità della stessa Scrittura. L’apparizione di Virgilio, che rimuove l’impedimento frapposto dalle tre fiere nella salita del “dilettoso monte”, elabora la figura dell’angelo del sesto sigillo che impedisce ai demoni di nuocere ai segnati dell’esercito di Cristo, diletti a Dio; Dante segue l’antico poeta come san Pietro seguì nell’amara passione Cristo; gli ‘conviene’ “tenere altro vïaggio”, uscendo da Babylon (la Chiesa carnale) e dai suoi commerci, come agli Ebrei convenne con Geremia uscire dall’antica Babilonia. Virgilio veste i panni di Cristo sommo pastore; il Veltro quelli di Elia, il profeta pieno di zelo che verrà a riconciliare antico e nuovo, padri e figli; l’Italia, giardino dell’Impero, ha come figura antica la verdeggiante Giudea fatta deserto. L’escatologia, radicata nel senso letterale dei versi (ispirato all’allegoria dei poeti), si diffonde su tutto il primo canto, proemio, appunto, alla grande parodia sacra estesa per l’intero poema, nuova Apocalisse scritta da un nuovo san Giovanni. Proemio punteggiato da segni significanti la storia della Provvidenza, come scritto nella Monarchia: “divina voluntas per signa querenda est” (Mon. II, ii, 8).
Il panno parodiato è dunque il medesimo per Inf. I e II, e riveste i due diversi generi letterari. Nel corso dell’esame di Inf. I, sono state avanzate alcune considerazioni preliminari sull’ordine di composizione dell’Inferno. Esaminando Inf. II, si registra un maggiore sviluppo delle tematiche già presenti nel primo canto. Ad esempio, ad Ap 7, 3-4 (il passo sulla “signatio”) rinviano i versi di Inf. I, 81, 129, mentre maggiore è il rinvio in Inf. II: vv. 44-45, 61, 105, 122.
Ci sono luoghi della Lectura elaborati solo in Inf. I (Ap 1, 13; 2, 11; 7, 10.12; 8, 10; 10, 1.3; 12, 10-11; 15, 3-4; 17, 1-2; 17, 8.18; 18, 10.19; 18, 17.21.24; 22, 16); una quindicina sono le occorrenze in Inf. II già registrabili nel primo canto; un numero simile riguarda quelle nuove (1, 17; 2, 7; 2, 8-10; 2, 26-28; 3, 7.10; 3, 12; 3, 14; 3, 18; 4, 2-3.5; 4, 7; 7, 7; 7, 13; 12, 4-5; 19, 1.4).
L’estesa elaborazione della Lectura, nel rapporto parodico presente nei primi due canti del poema, è pertanto avvenuta nel momento in cui tale rapporto aveva raggiunto la piena maturità. La semantica che rinvia per segni ai significati del commento apocalittico di Olivi è infatti meno sviluppata, come altrove mostrato, nei canti successivi fino all’XI incluso (con l’eccezione del V).
Il fatto che il modello letterario nei due canti sia diverso – la fabula o allegoria dei poeti nel primo e la tipologia o l’allegoria dei teologi nel secondo, secondo quanto evidenziato da Michelangelo Picone – non comporta necessariamente che Inf. I, almeno nella prima parte fino all’incontro con Virgilio “nel gran diserto”, sia stato scritto per primo o attesti una prima stesura poi modificata su una direttrice teologica. La polisemia del “poema sacro” fa sì che molti generi letterari della scrittura umana vengano liberamente in esso incorporati e resi Scrittura per opera della parodia escatologica.
■ Inf. II costituisce un prologo in cielo, narrato in terra. Nell’Empireo tre donne benedette (la Vergine, Lucia, Beatrice) chiamandosi l’un l’altra si danno da fare per salvare Dante dalla morte, “che ’l combatte / su la fiumana onde ’l mar non ha vanto”. Fra gli attori non compare il diavolo che convince Dio a tentare il protagonista in terra, come nel caso di Giobbe o di Faust. La prava terra è già tutta succube delle tentazioni, Dante è prossimo a soccombere, così vicino all’“ultima sera” (Purg. I, 58-60), caduto tanto in basso che non v’è altra via di salvezza “fuor che mostrarli le perdute genti” (Purg. XXX, 136-138), affinché scriva ciò che ha visto “in pro del mondo che mal vive” (Purg. XXXII, 103-105). La “maladetta lupa” – la cupidigia universale, mortifera, crudele e bestiale come la bestia saracena la quale assoggetta col terrore le genti -, che assomma tutti i vizi, è ormai pervenuta ai tempi dell’Anticristo. I subdoli argomenti dei seguaci del ‘figlio della perdizione’ infliggono un martirio di nuovo tipo. Esso non è corporale, come quello sostenuto dagli antichi testimoni della fede contro i pagani, ma è psicologico. I nuovi martiri soffrono nel dubbio sulle stesse verità di fede, di fronte ai carnefici che operano miracoli e si presentano con una falsa immagine di autorità e con false Scritture. Un “certamen dubitationis” in cui anche i più esperti vengono vinti. Il tema è già presente con la Donna Gentile nella Vita Nova, dove però il testo oliviano parodiato non è la Lectura super Apocalipsim ma l’Expositio in Canticum Canticorum. Il grave pensiero di errare in qualsivoglia parte, nell’incertezza su quale sia la vera, induce al tedio della vita e al desiderio di morire (Par. X, 133-135). Dante stesso è avvilupato dal dubbio se fare il viaggio accettato, solo la narrazione che Virgilio fa del prologo in cielo lo convice definitivamente.
Il prologo in cielo si svolge nell’Empireo, che corrisponde alla sede divina di Ap 4, 2-3. Nella sede posta in cielo, che designa la sua “altissima stabilitas essentie”, Colui che siede (Dio Padre) ha nella mano destra il libro chiuso, segnato da sette sigilli (prima che Cristo, con la sua venuta, li apra progressivamente nella storia umana). È somigliante nell’aspetto a una pietra di diaspro e di cornalina. Stabilità vuol dire immutabilità della giustizia divina e delle sue decisioni. Lì, “in quello altissimo e congiuntissimo consistorio della Trinitade” di Convivio, IV, v, 3, oppure “ne l’empireo ciel” di Inf. II, 21 (o “ne la corte del cielo”, ibid., 125; o dove “è la sua città e l’alto seggio”, Inf. I, 128), Dio ha deciso ab aeterno che Roma sia la sua sede in terra e la sede dell’Impero e della Chiesa (nell’esegesi, la sede stessa è identificabile con ‘Roma’, città ideale dal nome attribuibile a più luoghi terreni; nonché con la Vergine madre e con le gerarchie angeliche): “lo quale al quale, a voler dir lo vero, / fu stabilito per lo loco santo / u’ siede il successor del maggior Piero”. È da notare che il verbo ‘stabilire’, oltre che a Inf. II, 23, compare soltanto in un altro luogo del poema, a Par. XXXII, 55, proprio nell’Empireo, lì dove venne eletto Enea per padre di Roma e dell’Impero. Lì san Bernardo spiega che nel regno celeste – dove “si siede” – non può darsi alcunché di casuale e che tutto “per etterna legge è stabilito”, anche la sorte dei pargoli innocenti che fa dubitare il poeta. Lì è stata decisa la salvezza di Dante nell’ora della massima tentazione.
■ Enea e Dante, entrambi eletti nella sede empirea, svolgono una funzione opposta. La semantica escatologica li rende partecipi di due periodi diversi: il quarto e il sesto stato della storia della Chiesa. Bisogna chiarire che gli status – le categorie che Olivi applica alle visioni dell’Apocalisse – sono insieme epoche storiche e modi di essere dell’individuo, habitus. La Chiesa stessa è come un individuo che cresce e si sviluppa nei suoi sette stati. Al primo, apostolico periodo, succede il secondo dei martiri; poi, al tempo di Giustiniano, il terzo stato dei dottori che confutano con l’intelletto le eresie concorre con il quarto stato degli affettuosi anacoreti devoti al pasto eucaristico, alti per la contemplazione ma anche attivi come reggitori delle genti; a partire da Carlo Magno subentra il quinto stato aperto alla vita associata delle moltitudini, bello nel principio ma poi corrottosi fino a trasformare quasi tutta la Chiesa in una nuova Babilonia; la riforma interviene, a partire da Francesco, con il cristiforme sesto stato, fino alla sconfitta dell’Anticristo; subentra infine il silenzio e la quiete del pacifico settimo stato. Gli stati sono interconnessi fra loro per concurrentia al modo dell’umana generazione: il periodo che segue inizia prima della fine di quello che precede come il feto si forma e si nutre nell’utero materno prima di nascere e come un fanciullo viene educato nella casa del padre prima di diventarne l’erede. La storia è segnata da tre momenti di novità corrispondenti ai tre avventi di Cristo: nella carne, nello Spirito – corrisponde al sesto e settimo stato della Chiesa -, nel giudizio finale.
Enea appartiene al quarto stato, nel senso che, prefigurandolo quasi fosse un personaggio dell’Antico Testamento, si fregia di alcune sue specifiche prerogative: del quarto periodo sono proprie le res gestae. Un “victoriosus effectus” – la vittoria dei forti anacoreti del quarto stato (Ap 2, 26-28), “alti ” come le stelle (Ap 8, 12: quarta tromba) – uscì dalle imprese (“l’alto effetto”) di Enea, eletto nel cielo per padre dell’alma Roma e del suo impero, “lo quale al quale, a voler dir lo vero, / fu stabilito per lo loco santo / u’ siede il successor del maggior Piero”. Per questo Dio gli concesse di andare da vivo “ad immortale secolo” per ascoltare dal padre Anchise “cose che furon cagione / di sua vittoria e del papale ammanto” (Inf. II, 13-27).
Dante vive invece nel sesto stato, periodo iniziato con la conversione di san Francesco (1206) e che si estende nel prossimo futuro fino all’Anticristo. Il sesto e il settimo membro delle visioni, quelli maggiormente cristiformi, sono come il “punto” da cui dipende l’intelligenza degli stati precedenti, che da esso, causa finale, assumono chiarezza quanto alla loro manifestazione nella storia. La successiva illuminazione degli arcani, che va dal più chiuso al più aperto, dal divieto di dire all’ordine di parlare, si accompagna a un progressivo affinarsi della libertà interiore, di apertura della volontà di dire di Cristo e della sua dottrina. Ciò si verifica compiutamente nel sesto stato. A Filadelfia, la sesta chiesa d’Asia, viene data la libertà di parlare per dettato interiore (le viene aperto l’ostium sermonis, Ap 3, 8). In essa si conserva il verbo di Cristo: Filadelfia viene interpretata come colei che salva l’eredità del seme della fede. All’angelo del sesto sigillo è data piena libertà di innovare la religione cristiana e di aprire l’età dello Spirito (Ap 7, 2). All’apertura del sesto sigillo viene segnata sulla fronte la milizia dell’esercito di Cristo, ai segnati è data la costante e magnanima libertà di predicare e difendere pubblicamente la fede (Ap 7, 3-4). All’illuminazione del sesto stato, sempre presentato come novum saeculum, cooperano tutte le illuminazioni precedenti; su di esso ricade anche tutta la malizia passata.
Dante è “sesto tra cotanto senno” (Inf. IV, 102), incarna cioè tutto quello che comporta il significato, sia pur recondito, dell’essere sesto, secondo l’esegesi della Lectura super Apocalipsim: divenire depositario della sapienza passata, avere la ‘porta aperta’ al parlare per ordine interiore che spinge a dire, salvare il seme della fede e della vita evangelica per poi rinnovarla (il metter fuori le “nove rime”), essere conforme a Cristo, fedele al Verbo (l’andar le penne strette ad Amore, interno “dittator” che “spira”, elemento di distinzione del “dolce stil novo” dalla vecchia poetica, come riconosciuto da Bonagiunta nel ‘sesto’ girone del purgatorio [Purg. XXIV, 49-63]).
Al quarto stato della storia spetta la virtus, la forza che spinge a grandi imprese; il sesto ha invece modica virtus, ma in compenso gli è data la ‘porta aperta’ (ostium apertum: Ap 3, 8) all’illuminazione e alla predicazione, le opere intellettuali subentrano a quelle corporali. Tale è la differenza tra Enea e Dante, il quale è preso dal dubbio di non avere la virtus dell’antico eroe per andare “ad immortale secolo” e per questo chiede a Virgilio: “Poeta che mi guidi, / guarda la mia virtù s’ell’ è possente, / prima ch’a l’alto passo tu mi fidi”. Il racconto di Virgilio su quanto avvenuto in cielo promette al suo discepolo molto bene (alla sesta chiesa Cristo “multa et singularia sibi promittit”), tanto che la “virtude stanca” di Dante si trasforma in ardore, come i “fioretti”, chinati e chiusi dal gelo notturno, una volta illuminati dal sole “si drizzan tutti aperti in loro stelo”. Un’apertura che avviene per opera della Grazia, come dirà Cacciaguida: “O sanguis meus, o superinfusa / gratïa Deï, sicut tibi cui / bis unquam celi ianüa reclusa?” (Par. XV, 28-30).
Quarto e sesto sono periodi radicati nella stessa umana natura. Come negli attivi anacoreti del quarto stato rifulse l’amore verso Cristo, così nei contemplativi del sesto stato rifulge il loro essere diletti da Cristo, non diversamente da quel che si dice di Pietro, che amò Cristo, e di Giovanni, che fu prediletto da Cristo. In tal modo prerogativa del sesto stato è di essere disposto a ricevere e a patire, e in ciò si differenzia dal quarto, disposto a fare e a dare. Ad esso è attribuita più la felicità che deriva dalla speranza del premio che la fatica dell’attività per cui si acquistano meriti. Ricevendo più grazie e più segni di familiare amore da parte di Cristo, il sesto stato eccelle sugli altri precedenti, ma nello stesso tempo ad essi si deve maggiormente umiliare. L’esegesi oliviana – fra le più alte pagine della Lectura super Apocalipsim (Ap 3, 7) – viene parodiata nelle parole di Stazio sull’accogliersi “in natural vasello” dell’uno e dell’altro sangue, femminile e maschile, “l’un disposto a patire, e l’altro a fare” (Purg. XXV, 46-47); travasa nel rimpianto della Romagna cortese da parte di Guido Del Duca (“le donne e ’ cavalier, li affanni e li agi”; Purg. XIV, 109-111); è appropriata al cielo della Luna, “etterna margarita” che ‘riceve’ dentro a sé il poeta come l’acqua riceve un raggio di luce senza dividersi, in modo che la sua dimensione ‘patisca’ un’altra, cioè il corpo di Dante, cosa inconcepibile sulla terra (Par. II, 34-42). Al sangue maschile corrisponde dunque il quarto stato, del quale è proprio il “victoriosus effectus” delle “res gestae” di Enea; al sangue femminile, che riceve, corrisponde il più alto e al tempo stesso il più umile degli stati, il sesto. Il viaggio di Dante, patrocinato in cielo da “tre donne benedette”, si svolge nel segno di un “eterno femminino”.
Dante viene eletto, come lo fu Enea, da “quello imperador che là sù regna” (Inf. I, 124-129; II, 20-21). L’eroe troiano fu ‘figura’ dei magnanimi segnati sulla fronte nel sesto stato della Chiesa all’apertura del sesto sigillo (Ap 7, 3-8). Con il numero dei segnati, certo e definito – 144.000, scelti fra le dodici tribù d’Israele – viene designata la loro singolare dignità. Come nell’esercito i cavalieri sono distinti dai fanti, i baroni o condottieri, i centurioni e i decurioni dai semplici soldati, costoro sono ascritti da Cristo re alla sua milizia e curia, alle sue grandezze e doni, con un nome preciso, numero e scrittura, più degni degli altri che sono compresi nella volgare e pedestre milizia o famiglia senza scrittura e numero. Così Dio in segno di familiarissima amicizia dice a Mosè nell’Esodo: “Ti ho conosciuto per nome” (Es 33, 17). Il tema dell’amicizia divina contrapposto alla volgare milizia è presente nelle accorate parole con cui Lucia invita Beatrice a soccorrere Dante, “ch’uscì per te de la volgare schiera” dei poeti (Inf. II, 103-105), che la stessa Beatrice, rivolgendosi a Virgilio, definisce “l’amico mio, e non de la ventura” (v. 61; da notare, ai vv. 44-45, il contrasto tra il “magnanimo” Virgilio e la “viltade” da cui è offesa l’anima di Dante). Dante, eletto in cielo, “sesto tra cotanto senno” fra i sommi poeti del Limbo, amato da Dio (Beatrice), è nuova, sacra figura di coloro che Virgilio, nel sesto dell’Eneide, definisce “Dei dilectos”, i poeti tragici innalzati al cielo per ardente virtù (Aen., VI, 129-131: “Pauci, quos aequus amavit / Iuppiter”), designati dall’“astripeta aquila” (De vulgari eloquentia, II, iv, 10-11).
■ Nel sesto stato, e poi ancor più nel settimo e ultimo periodo della storia umana, si passa dall’insegnamento impartito per la voce esteriore, assimilata all’umanità di Cristo, al dettato interiore, che pertiene al suo Spirito; alla “lux simplicis intelligentie” si aggiunge la “gustativa et palpativa experientia” della verità. Il primo tipo di insegnamento prepara il secondo (Ap 2, 7). Cristo in quanto duplice guida che muove, uomo e Dio, si invera in Virgilio e in Beatrice; il subentrare dell’ispirazione interiore alla parola esteriore si realizza nell’Eden, al momento in cui Virgilio lascia il campo a Beatrice. L’esperienza del gusto segna l’ascesa al cielo (Ap 3, 7).
Questa duplice autorità che muove si ritrova in Inf. II, 94ss., nell’episodio delle “tre donne benedette” che curano del poeta nella corte del cielo. Nell’Empireo una “donna … gentil”, cioè la Vergine madre la quale, come detto nella quarta visione, partorisce di continuo il corpo mistico di Cristo (Ap 12, 2) e dunque “si compiange di questo ’mpedimento”, cioè dell’ostacolo che impedisce il parto della buona prole (la salita del “dilettoso monte” impedita dalla lupa), ha chiamato Lucia, cioè la “lux simplicis intelligentie”, perché presti aiuto al poeta, suo devoto. Lucia, mossasi, si è recata da Beatrice, che siede “con l’antica Rachele” (la vita contemplativa), come l’“interna locutio que fit per lucem simplicis intelligentie” predispone al suo fine e alla sua ultima forma, cioè al gusto e al sentimento dell’amore, che avviene per mezzo della fiamma e dell’efficacia dello Spirito Santo. Mossa da amore, Beatrice discende veloce all’“uscio d’i morti”, cioè al Limbo, per muovere Virgilio, personificazione con la sua “parola ornata” della voce esteriore di Cristo.
■ La grande parodia fornisce, nel suo carattere polifonico, “e piedi e mano” alle perfezioni di Cristo sommo pastore, appropriandole liberamente ai dannati, come note dissonanti che suonano quanto è da Lui estraneo e diverso, ai purganti e ai beati; di esse si fregiano Virgilio, Caronte o Catone: manto (Ap , 13), capelli (1, 14), occhi (1, 14), piedi (1, 15).
Virgilio, l’“antico poeta”, si offre nella “diserta piaggia” vestito dei panni del Cristo uomo. È infatti “simile” al Figlio dell’uomo (Ap 1, 13; 22, 16); dell’umanità di Cristo conserva la fragilità che deriva dall’essere soggetto a morte, passione, infermità, abiezione: “chi per lungo silenzio parea fioco” (Inf. I, 63); mantoano, si fregia del manto dell’efod sul quale sono rappresentati i “parentum magnalia” (vv. 68-69: Ap 1, 13); ha cantato il canto della giustizia e della pietas filiale (vv. 73-74: Ap 15, 2-4), incastonata nel nome stesso del suo luogo natale, pietola.
In quanto “fonte”, l’Eneide equivale a un libro della Scrittura, dal quale deriva “di parlar sì largo fiume” in quanti la commentano (aggiornandola; Ap 8, 10). I versi di lode a Virgilio (Inf. I, 79-87) sono parodia di parte dell’esegesi dell’istruzione data a Efeso, la prima delle sette chiese d’Asia, e al suo vescovo, minacciato dello spostamento del candelabro, cioè della “translatio” del primato ad altra chiesa; esse adombrano un’idea di onorevole “translatio” del primato poetico da Virgilio a Dante (Ap 2, 5).
Virgilio, inviato da Beatrice a rimuovere l’impedimento creato dalla lupa, incarna anche l’angelo del sesto sigillo che rimuove l’impedimento frapposto dagli angeli malvagi (Ap 7, 1-2). Riassume tutta l’illuminazione dei periodi precedenti; la sua universale fama diffusa per il mondo fino ai tempi odierni coopera alla maggiore illuminazione di questi (3, 7-8). È ‘sospeso’ nel Limbo perché vive ivi in eterno nel desiderio di Dio senza speranza di appagamento; ma l’aggettivo indica, in senso equivoco, anche coloro i quali, ‘sospesi’ nella contemplazione come un’aquila, sono capaci di vedere più degli altri (Ap 4, 7-8). Apre ubbidiente la sua volontà alle richieste di Beatrice come il vescovo di Laodicea apre la porta del cuore a Cristo per convivare con lui (Ap 3, 18.20). Gioacchino da Fiore è figura di Virgilio, anch’egli profeta di una nuova età, incerto, come l’abate florense, su quando inizi (12, 6).
Beatrice racchiude in sé tre nomi i quali, in segno di reverenza, non possono essere tradotti. Il primo è il greco “apocalipsis” (che significa ‘rivelazione’): appartiene alla donna di Dante nel suo disvelarsi nell’Eden. Gli altri due sono ebraici: “alleluia” (che significa ‘lodare Dio’), e “amen” (che significa ‘veramente’). I tre nomi sono congiunti nell’espressione: “Beatrice, loda di Dio vera” (Inf. II, 103). Il nome della donna coincide anche con la causa finale del libro dell’Apocalisse (la “beatitudo”: Ap 1, 3). Non a caso tutti i temi fondamentali del libro sacro si registrano nel “poema sacro”, che può essere definito una moderna Apocalisse.
Elementi stilnovistici o reminiscenze della Vita Nova assumono una veste sacra. L’“angelica voce” della donna è “soave e piana” come le voci che emanano dalla sede divina, donde è discesa (Inf. II, 56-57); una “claritas plusquam stellaris” risplende nei suoi occhi come in quelli ardenti di Cristo (“Lucean li occhi suoi più che la stella”: v. 55; Ap 2, 1.18); rivolge lacrimando gli occhi lucenti a Virgilio per renderlo ancor più presto al muovere per la salute dell’amico (Inf. II, 115-117). Piange, Beatrice, non solo perché donna e amante, come voleva Boccaccio [1]. La “gentilissima” designa in questo la Sacra Scrittura, precetto di Dio che rende lucidi gli occhi, purga, chiarisce e illumina con umiltà l’alta tragedia.
“È Beatrice il perché e il come del viaggio ultraterreno […] Beatrice al posto di S. Paolo dunque”, afferma Michelangelo Picone (p. 46). Il nome, lo si è detto sopra, coincide con la causa finale (la beatitudine) dell’Apocalisse, che descrive il procedere per tappe della storia umana fino al termine. Nell’“oscura costa” Dante viene preso dal dubbio se sia degno di fare il viaggio; pensa non solo a Enea, ma anche a san Paolo: “Andovvi poi lo Vas d’elezïone, / per recarne conforto a quella fede / ch’è principio a la via di salvazione” (Inf. II, 28-30). Rapito come san Paolo (II Cor, 12, 2-4; Ap 12, 4), Dante grazie a Beatrice va oltre il terzo cielo percorrendo tutte le apocalittiche tappe fino alla beatitudine. Nuovo san Paolo, vive in un tempo di maggiore illuminazione rispetto a quello dell’apostolo, nel quale ai miracoli corporali si sostituiscono quelli intellettuali. Tale è Beatrice, “uno miracolo” visibile a quanti hanno “intelletto d’amore”, la cui storia, quella di un nuovo avvento di Cristo nello Spirito, è narrata nella Vita Nova.
[1] G. BOCCACCIO, Il «Comento alla Divina Commedia» e gli altri scritti intorno a Dante, a cura di D. Guerri, I, Bari 1918 (Scrittori d’Italia, G. Boccaccio, Opere volgari, XII), pp. 224-225: “E in questo lagrimare ancora più d’affezion si dimostra, dimostrandosi ancora un atto d’amante, e massimamente di donna, le quali, come hanno pregato d’alcuna cosa la quale disiderino, incontanente lagrimano, mostrando in quello il disiderio suo essere ardentissimo”.
Inferno II |
Legenda [3]: numero dei versi; 2, 1: collegamento ipertestuale all’esegesi, nella Lectura di Olivi, di capitolo/i e versetto/i dell’Apocalisse [Ap]; Not. VII: collegamento all’esegesi contenuta nei tredici notabilia del prologo della Lectura; [*] : collegamento alla parte esplicativa dell’esegesi (il segno è posto accanto alla sola prima occorrenza del passo o del gruppo tematico). Varianti (a margine) rispetto al testo del Petrocchi.Qui di seguito viene esposto Inf. II con i corrispondenti legami ipertestuali ai luoghi della Lectura super Apocalipsim [html] [PDF] cui i versi si riferiscono. L’intero poema è esposto nella Topografia spirituale della Commedia (PDF; introduzione in html). In quella sede è stato attribuito un diverso colore a ogni singolo status o gruppo di materia esegetica; in questo caso, nel testo sottostante come in quello riportato nelle tabelle, l’attribuzione dei colori segue il principio della maggiore evidenza. |
Lo giorno se n’andava, e l’aere bruno Not. VII [*]
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■ Seppure segue l’ordine dei ventidue capitoli dell’Apocalisse, Olivi suggerisce, nel prologo della Lectura, un metodo differente di comprensione e di aggregazione del testo, fondato sui sette stati (status), cioè sulle epoche nelle quali si articola la storia della Chiesa, prefigurate nell’Antico Testamento.
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parole-chiave |
vv. |
LSA |
status |
Lo giorno se n’andava, e l’aere bruno
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138
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Not. VII
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V |
toglieva li animai che sono in terra
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2
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m’apparecchiava a sostener la guerra
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4
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Not. I (7, 2) → Inf. I (7, 2)
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II–VI |
che ritrarrà la mente che non erra.
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6
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6, 5 → Inf. I (6, 5)6, 5Not. INot. XIII
Not. INot. I
Not. XIII |
III |
m’apparecchiava a sostener la guerra
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41117
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3, 10; 7, 23, 7
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VI |
O anima cortese mantoana,
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58
|
|
|
tanto m’aggrada il tuo comandamento,
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79
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3, 83, 8
7, 1 → Inf. I (7, 1) |
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Disse: – Beatrice, loda di Dio vera,
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103
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19, 1.47, 3-4 → Inf. I (7, 3-4)
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|
“perché tanta viltà nel core allette,
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122
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7, 3-4 → Inf. I (7, 3-4)
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|
Oh pietosa colei che mi soccorse!
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133
|
7, 73, 73, 8 (2, 1) → Inf. I (2, 1) |
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Io cominciai: “Poeta che mi guidi”
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103176
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1, 101, 11, 17
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R1
R1 – VI |
corruttibile ancora, ad immortale
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14
|
5, 1
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VII |
I’ son fatta da Dio, sua mercé, tale,
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91
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3, 14-15
3, 18 → Inf. I (3, 18)3, 15
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|
fu stabilito per lo loco santo
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23
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4, 2-3
5, 2 → Inf. I (5, 2)5, 1 |
R2 |
E qual è quei che disvuol ciò che volle
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3762
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2, 1.5 → Inf. I (2, 1.5)12, 6 → Inf. I (12, 6)
12, 4-5 |
I |
Or movi, e con la tua parola ornata
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67
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14, 14 (VII)
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e cominciommi a dir soave e piana,
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56
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11, 19 |
R3 |
Ma dimmi la cagion che non ti guardi
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82
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3, 12 |
VII visio |
Abbreviazioni e avvertenze
Ap : APOCALYPSIS IOHANNIS.
LSA : PIETRO DI GIOVANNI OLIVI, Lectura super Apocalipsim.
Concordia : JOACHIM VON FIORE, Concordia Novi ac Veteris Testamenti. Herausgegeben von A. PATSCHOVSKY, Wiesbaden 2017 (Monumenta Germaniae Historica. Quellen zur Geistesgeschichte des Mittelalters, 28. Band), Teil 2 (lib. I-IV), Teil 3 (lib. V).
Expositio : GIOACCHINO DA FIORE, Expositio in Apocalypsim, in Edibus Francisci Bindoni ac Maphei Pasini, Venetiis 1527, ristampa anastatica Minerva, Frankfurt a. M. 1964.
Olivi opera spesso una sintesi del testo di Gioacchino da Fiore. Le « » precedono e chiudono un’effettiva citazione. Diversamente, viene posto un asterisco (*) o una nota in apice al termine della parte riferibile a Gioacchino.
In Ap : RICCARDO DI SAN VITTORE, In Apocalypsim libri septem, PL 196, coll. 683-888.
Tutte le citazioni della Lectura super Apocalipsim presenti nei saggi o negli articoli pubblicati su questo sito sono tratte dalla trascrizione, corredata di note e indici, del ms. Paris, Bibliothèque nationale de France, lat. 713, a disposizione fin dal 2009 sul sito medesimo. I passi scritturali ai quali si riferisce l’esegesi sono in tondo compresi tra “ ”; per le fonti diverse da quelle indicate si rinvia all’edizione in rete. Non viene presa in considerazione l’edizione critica a cura di W. LEWIS (Franciscan Institute Publications, St. Bonaventure – New York, 2015) per le problematiche da essa poste, che sono discusse in A. FORNI – P. VIAN, A proposito dell’edizione di Warren Lewis della Lectura super Apocalipsim di Pietro di Giovanni Olivi. Alcune osservazioni, in “Archivum Franciscanum Historicum”, 109 (2016), pp. 99-161.
Il testo della Commedia citato è in Dante Alighieri, La Commedia secondo l’antica vulgata, a cura di G. PETROCCHI, Firenze 1994. Si tiene anche conto della recente edizione a cura di G. INGLESE, Firenze 2021 (Società Dantesca Italiana. Edizione Nazionale), qualora il testo proposto si discosti da quello del Petrocchi e la scelta della variante risulti discutibile nel confronto con la LSA.
1. Il vespro del quinto stato
Lo giorno se n’andava, e l’aere bruno
Il canto si apre nel vespro del quinto stato della storia della Chiesa, quando è al tramonto il tempo che san Paolo chiama della “plenitudo gentium” (Romani, 11, 25) e Babylon, la meretrice, sta per prevalere nella notte che segue allorché, come scritto nel Salmo, “hai steso le tenebre e si è fatta notte, in essa passeranno tutte le bestie della selva” (Ps 103, 20; prologo, Notabile VII) [1]. La terza delle fiere incontrate, la lupa che incute paura, ha nome “morte”; contro di essa il poeta ha combattuto invano, fino alla comparsa di Virgilio, nel tentativo di salire il “dilettoso monte” (Inf. II, 107-108). La magra bestia è parodia del cavallo pallido e macerato che si mostra nel quarto stato all’apertura del quarto sigillo (Ap 6, 8), assimilato alla quarta bestia, diversa dalle altre, vista dal profeta Daniele (Dn 7, 7), interpretata come la bestia saracena, che uccide senza che su di essa prevalgano, come nel passato contro Giudei, pagani ed eretici, gli argomenti della Scrittura (il “mare”: Ap 4, 6). Questa bestia perdura fino all’Anticristo e alla distruzione di Babylon, la Chiesa carnale, prossima a cadere nel corrente sesto stato. Per questo Virgilio dice al discepolo che gli ‘conviene’ “tenere altro vïaggio”, uscendo da Babylon e dai suoi commerci, come agli Ebrei convenne con Geremia uscire dall’antica Babilonia (Ap 18, 4).
[1] La questione del giorno d’inizio del viaggio, sulla base delle apparentemente inconciliabili dichiarazioni di Virgilio a Inf. XX, 127-129 e di Malacoda a Inf. XXI, 112-114, è stata trattata altrove.
[LSA, prologus, Notabile VII] Secundum argumentum est quia populus gentilis sic fuit per idolatriam cecatus et moribus rudis et incompositus quod mox cum ad Christi fidem intravit non fuit sufficienter aptus et dispositus ad perfectam intelligentiam fidei et ad perfectam imitationem vite Christi, et ideo per diversa curricula temporum debuit magis ac magis illuminari ad intelligentiam fidei, et per diversa exemplaria statuum et sanctorum ducum debuit successive sublevari ad perfectam vitam Christi.
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e per novi pensier cangia proposta,
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38
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V |
Dunque: che è? perché, perché restai |
121 |
Not. III |
IV |
E qual è quei che disvuol ciò che volle
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3762
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2, 1.512, 612, 6 |
I |
Ad Ap 3, 3 il vescovo di Sardi, la quinta chiesa d’Asia, viene invitato a ricordare con la mente quale fosse la “prima grazia” e il suo stato e a conservarla facendo penitenza, cioè la grazia ricevuta da Dio e ascoltata tramite la predicazione evangelica. Da quanto gli viene detto, si deduce che costui era tanto intorpidito nell’ozio da non ricordare più il primo stato di grazia e di perfezione.
La rosa dei temi contenuti nell’esegesi di Ap 3, 2-3 percorre il poema con multiformi variazioni. Smarrirsi (“Ille enim dormit, qui in peccatis quiescit quasi sopitus … sic fuit otiosus et torpens, quod in mente non habuit qualiter acceperit et audierit statum et gratiam sue perfectionis, et quod ideo sic corruit”), non sapere («“et horam nescies qua veniam ad te” … qui se ipsum per negligentiam et torporem nescit»), tardare (“optat se diu in prosperitate victurum et Dei iudicium diu esse tardandum”), ripensare attentamente un primo stato di grazia, qual era («“In mente ergo habe”, id est attente recogita, “qualiter acceperis”, scilicet a Deo priorem gratiam … si digne recogitaveris gratiam tibi prius impensam et qualiter prius accepisti eandem»), udire (“illa que per predicationem audisti et per influxum gratie a Deo primitus accepisti”), vigilare (“Si ergo non vigilaveris … Igitur non dormiamus sicut et ceteri, sed vigilemus et sobrii simus”), serbare la fede acquisita per proprio consenso («Vel recogita qualiter per proprium consensum accepisti fidem et gratiam et statum eius … “Et serva”»): sono temi che si ritrovano alternati, intrecciati e variati in più luoghi della Commedia.
I temi si rinvengono nello smarrimento di Dante nella “selva oscura” (Inf. I, 1-12) e nella “diserta piaggia”, di cui ha udito Beatrice che teme di aver tardato nel soccorso (Inf. II, 61-66). Il torpore di cui è accusato il vescovo di Sardi è lo stesso di Dante, ignaro del suo essersi ritrovato nella selva oscura, descritto in apertura del poema: “Io non so ben ridir com’i’ v’intrai, / tant’ era pien di sonno a quel punto / che la verace via abbandonai” (Inf. I, 10-12).
Inf. I, 3, 4, 6, 10, 11: “era smarrita … quanto a dir qual era … nel pensier rinova … Io non so ben ridir com’ i’ v’intrai, / tant’ era pien di sonno”; Inf. II, 64, 65, 66, 80: “e temo che non sia già sì smarrito, / ch’io mi sia tardi al soccorso levata, / per quel ch’i’ ho di lui nel cielo udito … che l’ubidir, se già fosse, m’è tardi”.
Il nome della quinta chiesa – “Sardis” -, viene interpretato da Riccardo di San Vittore come ‘bel principio’, nel senso che la bellezza iniziale, dotata di pienezza stellare (“septem spiritus Dei et septem stelle”) non viene portata a compimento (Ap 3, 1). Tema appropriato a Dante che, offeso da viltà, consuma nel dubbio l’impresa di compiere il viaggio, da principio prontamente accettata (Inf. II, 37-42) [2]. Il verso 37 – “E qual è quei che disvuol ciò che volle” – fa invece riferimento al nome della prima chiesa, Efeso, interpretata come “lapsus”, che designa una fervida volontà poi rilassata (Ap 2, 1); disvolere che alla fine del canto si salda con quello di Virgilio (Inf. II, 139). All’esegesi del deserto-selva propria del primo stato (Ap 12, 6) rinviano ancora “la diserta piaggia” e “lo cammino alto e silvestro” (Inf. II, 62, 142). Il verso 121 -“Dunque: che è? perché, perché restai” -, l’invito di Virgilio a Dante renitente a seguirlo, contiene il tema della pertinacia virile del quarto stato, “stans”, contro la quale si appunta lo zelo (prologo, Notabile III).
Il tema della stellare bellezza iniziale si traspone nella rima stelle/belle. Da notare che tale tema, proprio della quinta chiesa (Ap 3, 1) si registra in Inf. I, 38.40 sulle terzine 13a e 14a (tab. I.b), corrispondenti nel numero a quelle del secondo canto dove viene sviluppata altra tematica dalla medesima esegesi. Il fenomeno si ripete più volte nel corso del poema. Nella tabella è riportata parte dell’esegesi relativa alla quinta chiesa d’Asia (Sardi), ma è possibile addurre molti altri esempi da diversi luoghi della Lectura. Il fatto che gruppi di terzine numericamente corrispondenti, a diversi stadi della Commedia, contengano parole-chiave che conducono alla medesima pagina esegetica indica che queste parole, se dovevano essere per il lettore spirituale signacula mnemonici di un altro testo, erano per il poeta anche segni del numero dei versi, ‘luogo’ dove collocare i medesimi signacula in forma e contesto diversi. Esempi: Ap 5, 8; 7, 3-4; 7, 9.13-14.
[2] La rinuncia di Dante avviene “’n quella oscura costa”, dove la costa è anch’esso un tema del quinto ‘condescensivo’ stato (prologo, Notabile VII), utilizzato per lo più nel poema con il valore positivo datogli dall’esegesi. Nel quinto stato si discende dal quarto alto periodo precedente; la discesa è indice di apertura alla vita associata delle moltitudini, dopo l’ardua e quasi insostenibile vita dei contemplativi assimilati al sole, alla luna, alle stelle. Può però essere anche segno di negativo declinare (prologo, Notabile III), e in tal senso sono da intendere i “fioretti dal notturno gelo / chinati e chiusi” nella similitudine a Inf. II, 127-129.
Tab. I.b
[LSA, cap. III, Ap 3, 1 (Ia visio, Va ecclesia)] Hiis autem premittitur Christus loquens, cum dicitur (Ap 3, 1): “Hec dicit qui habet septem spiritus Dei et septem stellas”, id est qui occulta omnium videt et fervido zelo spiritus iudicat tamquam habens “septem spiritus Dei”, qui prout infra dicitur “in omnem terram sunt missi” (cfr. Ap 5, 6); et etiam qui potest omnes malos quantumcumque potentes punire tamquam in sua manu, id est sub sua potentia, habens “septem stellas”, id est universos prelatos omnium ecclesiarum. Quid per septem spiritus significetur tactum est supra, capitulo primo, super prohemio huius libri. Talem ergo se proponit huic episcopo, quia habebat nomen boni cum esset malus, nec videbatur futurum iudicium formidare, et etiam quia Christus ostendit se nosse quosdam sanctos huius ecclesie occultos et paucos, tamquam omnibus spiritualiter presens et omnia potestative continens. |
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[segue 3, 1] Respectu vero quinti status ecclesiastici, talem se proponit quia quintus status est respectu quattuor statuum precedentium generalis, et ideo universitatem spirituum seu donorum et stellarum seu rectorum et officiorum se habere testatur, ut qualis debeat esse ipsius ordinis institutio tacite innotescat. Diciturque hec ei non quia dignus erat muneribus ipsis, sed quia ipsi et semini eius erant, si dignus esset, divinitus preparata. Unde et Ricardus dat aliam rationem quare hec ecclesia dicta est “Sardis”, id est principium pulchritudinis, quia scilicet sola initia boni non autem consumationem habuit, et solum nomen sanctitatis potius quam rem*. Supra vero fuit alia ratio data. Respectu etiam prave multitudinis tam huius quinte ecclesie quam quinti status, prefert se habere “septem spiritus Dei et septem stellas”, id est fontalem plenitudinem donorum et gratiarum Spiritus Sancti et continentiam omnium sanctorum episcoporum quasi stellarum, tum ut istos de predictorum carentia et de sua opposita immunditia plus confundat, tum ut ad eam rehabendam fortius attrahat.* In Ap I, xi (PL 196, col. 742 C). |
[Ap 3, 5; Va victoria] Super quo nota quod deleri de libro vite non ponit in Deo aliquam mutationem vel corruptionem, sed solum ex parte obiecti. Quidam enim sunt ibi scripti secundum presentem iusti-tiam suam, per quam sunt digni vita eterna et a Deo ordinati ad illam, ita quod si non caderent a gratia infallibiliter assequeren-tur illam. Pro quanto autem per casum ab illa deletur hec ordinatio, pro tanto dicuntur deleri de libro vite; et per contrarium quanto magis crescunt et perseverant in gratia, tanto magis dicuntur scribi in libro vite. |
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Inf. I, 37-43 (13-15)
Temp’ era dal principio del mattino,
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Inf. II, 37-42 (13-14)
E qual è quei che disvuol ciò che volle
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Purg. VI, 34-39 (12-13)Ed elli a me: “La mia scrittura è piana;
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Inf. II, 52-57 (18-19)Io era tra color che son sospesi,
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Inf. XV, 55-57 (19)
Ed elli a me: “Se tu segui tua stella,
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Purg. XXXII, 52-57 (18-19)Come le nostre piante, quando casca
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Purg. XVII, 70-72 (24)Già eran sovra noi tanto levati
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Par. XXV, 70-72Da molte stelle mi vien questa luce;
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2. Enea e le vittoriose res gestae del quarto stato
parole-chiave |
vv. |
LSA |
status |
toglieva li animai che sono in terra
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2
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Il quarto esercizio della mente che ascende in modo ordinato alla perfezione consiste nella solitudine nella quale ci si astrae alla contemplazione, e nell’assidua preparazione a questa ascesa fatta per mezzo di un austero e laborioso operare (ad Ap 2, 1).
Chi si prepara da solo a un laborioso operare è Dante, che si accinge al viaggio: “e io sol uno / m’apparecchiava a sostener la guerra / sì del cammino e sì de la pietate”, mentre l’imbrunire sottrae gli esseri viventi alle loro fatiche (Inf. II, 1-6). |
La quarta vittoria è propria degli anacoreti, che dedicano le forze del corpo e della mente in modo assiduo e totale alle perfette opere di virtù, né posano per il lungo continuare l’opera, ma anzi sono intenti e preparati ad opere più forti (Ap 2, 26-28). Alla quarta chiesa d’Asia (Tiàtira), che in questo consegue la suprema perfezione dei due ultimi stati, il sesto e il settimo, viene pertanto detto che quanti vinceranno custodendo fino alla fine i precetti e i consigli di Cristo otterranno la virtù, ossia la potestà di reggere le genti in modo retto e inflessibile, spezzandone i vizi quasi con uno scettro di ferro, e la conoscenza, ossia la pienezza della sapienza celeste atta a governare la Chiesa. Costoro sono come il servo della parabola delle mine (Luca 19, 11-27), che riceve il potere sopra dieci città per aver fatto fruttare la sua unica mina, che invece viene tolta al servo ozioso, perché solo a chi ha sarà dato. Quell’unica mina significa il dono della conoscenza.
Un “victoriosus effectus” – la vittoria dei forti anacoreti del quarto stato (Ap 2, 26-28), “alti ” come le stelle, “padri” come il sole (Ap 8, 12: quarta tromba) – uscì dalle imprese (“l’alto effetto”) di Enea, “ne l’empireo ciel per padre eletto” dell’alma Roma e del suo impero, “lo quale al quale, a voler dir lo vero, / fu stabilito per lo loco santo / u’ siede il successor del maggior Piero”. Per questo Dio gli concesse di andare da vivo “ad immortale secolo” per ascoltare dal padre Anchise “cose che furon cagione / di sua vittoria e del papale ammanto” (Inf. II, 13-27). Al quarto stato appartengono le forti e virtuose opere corporali – le res gestae -, che invece difettano al sesto (lo stato in cui vive Dante), nel quale la “porta aperta” supplisce al difetto di forza e alla modica virtù (Ap 3, 7-8). Signacula parzialmente diversi – alta gloria, vittoria -, ma provenienti dalla medesima rosa tematica, si registrano nella terzina con cui inizia la descrizione della storia di Traiano e della vedovella scolpita nella prima cornice della montagna (Purg. X, 73-75). |
■ Salito al cielo delle stelle fisse, il poeta invoca i Gemelli, suo segno astrale – “O glorïose stelle, o lume pregno / di gran virtù” – al quale riconosce tutto il proprio ingegno, “per acquistar virtute / al passo forte che a sé la tira”, per ricevere cioè nell’anima, come gli anacoreti vittoriosi, la virtù per cui si sale a forti opere e la gloriosa luce in cielo a queste corrispondente (Par. XXII, 112-114, 121-123; cfr. “per acquistar virtute” con le parole di Ulisse: “per seguir virtute e canoscenza … sempre acquistando dal lato mancino”: Inf. XXVI, 120, 126). Il “passo forte”, in tal senso, è la descrizione degli ultimi tre cieli a cominciare dal trionfo di Cristo del canto seguente. Il sole, definito “quelli ch’è padre d’ogne mortal vita” (Par. XXII, 116), rientra nel complesso tematico del quarto stato (Ap 8, 12: quarta tromba; cfr. la variazione a Inf. XXIX, 105): designa la solare vita di quegli anacoreti contemplativi che furono ‘padri’ degli altri. Vi rientrano anche le “stelle” che girano “ne l’alta rota” (v. 119), poiché gli alti anacoreti sono anche stelle. Il cielo ottavo, delle stelle fisse, viene raggiunto da Dante dopo la permanenza in Saturno, che è dei contemplativi. I motivi della quarta vittoria sono incastonati anche nelle successive parole di Beatrice la quale, invitando Dante a riguardare in giù le sette sfere, gli dice che deve avere “le luci … chiare e acute”, poiché è più vicino a Dio, “a l’ultima salute” (vv. 124-126). La vista chiara corrisponde alla chiara intelligenza delle Scritture data ai vincitori del quarto stato con la “stella matutina” (cfr. il passo simmetrico ad Ap 22, 16); la vista acuta corrisponde alla verga di ferro, accostata alla spada acuta e penetrante, attributo della nona perfezione di Cristo, che designa la retta e severa giustizia (Ap 1, 16).
■ La quarta vittoria (Ap 2, 26-28) si consegue “quando scilicet omnes vires corporis et mentis assidue et totaliter perfectis virtutum operibus dedicantur, nec ex longa continuatione operis remittuntur sed potius intenduntur et roborantur et ad fortia opera superexcrescunt”. Nel risalire alla superficie della terra, Virgilio e Dante impegnano in modo assiduo tutte le forze della mente, “sanza cura aver d’alcun riposo” (Inf. XXXIV, 135-136; variazione di motivi già utilizzati, in un contesto tutto diverso, a Inf. XIV, 24, 40-41). I due poeti ritornano “nel chiaro mondo”, che corrisponde alla “clara intelligentia scripturarum” data agli anacoreti vittoriosi: uscito “fuor de l’aura morta / che m’avea contristati li occhi e ’l petto”, Dante vede Venere, la stella mattutina, “lo bel pianeto che d’amar conforta” (Purg. I, 17-21). L’espressione “intrammo a ritornar” (Inf. XXXIV, 134) contiene in sé i temi della sesta vittoria, ingresso in Cristo e ritorno della contemplazione a Dio, vittoria cui la quarta è assimilata (Ap 3, 12).
■ Del concentrarsi dell’anima su una qualche “virtù” della sua potenza sensitiva, quando questa viene presa fortemente da un’impressione di diletto o di dolore, in modo da intendere solo ad essa, ha esperienza Dante udendo e ammirando Manfredi, mentre il sole sale di cinquanta gradi senza che egli se ne accorga (Purg. IV, 1-16; cfr. più avanti le parole di Virgilio nell’erta salita, v. 38: “pur su al monte dietro a me acquista – per unam mnam acquisivit decem mnas”; poi, una volta pervenuti i due poeti al balzo, v. 75: “se lo ’ntelletto tuo ben chiaro bada” – Est etiam accepturus claram intelligentiam scripturarum”). Con pena il poeta avrebbe distolto il proprio intento dal canto della “femmina balba” apparsagli in sogno (Purg. XIX, 16-18). Levato al cielo di Saturno, dove si mostrano gli spiriti contemplativi, con gli occhi e l’animo nuovamente fissi al volto della sua donna, egli si toglie da ogni altro intento (Par. XXI, 1-3). Prima piegato “come la fronda che flette la cima / nel transito del vento”, per la meraviglia di sentire da Beatrice che nel quarto lume aggiuntosi ai tre apostoli nell’ottavo cielo si annida l’anima di Adamo, Dante “poi si leva / per la propria virtù che la soblima – quicumque sunt sic operosi sunt digni super principatum ecclesie sublimari et accipere virtutem rectam et inflexibilem et insuperabilem” (Par. XXVI, 85-87; la similitudine proviene da Stazio, ma in Theb. VI, 854-857 non vi è alcun riferimento al sublimare per virtù).
■ Il tema della stella mattutina, unito al promettere, percorre l’angelo dell’umiltà, “la creatura bella, / biancovestito e ne la faccia quale / par tremolando mattutina stella”, che promette sicura la salita al secondo girone della montagna (Purg. XII, 88-99). San Bernardo, nell’Empireo, “abbelliva di Maria, / come del sole stella mattutina” (Par. XXXII, 107-108). Il tema è sviluppato pure nell’esegesi di Ap 22, 16.
■ Al quarto stato è detto: “A chi vincerà e custodirà sino alla fine le mie opere”. Se si collaziona il passo relativo alla quarta vittoria (Ap 2, 26-28) con Ap 2, 10, dove alla seconda chiesa d’Asia, propria dei martiri (Smirne), si dice: “Sii fedele fino alla morte”, cioè fino all’ultimo giorno della vita o fino al soffrire il martirio, che uccide il corpo, “e ti darò la corona della vita”, cioè la gloria eterna, si ritrovano i fili con cui è tessuta, a Purg. XVIII, 136-138, la terzina del secondo esempio di accidia punita, relativa ai compagni di Enea che si fermarono in Sicilia, gente “che l’affanno non sofferse / fino a la fine”, offrendo “sé stessa a vita sanza gloria” (l’offrirsi come vittima è proprio della quarta chiesa, cfr. l’esegesi del nome “Thyatira” ad Ap 2, 1). È possibile anche richiamare l’esegesi di Ap 20, 5 (settima visione): “E gli altri morti”, cioè i reprobi nella morte eterna, “non vissero” la vita della grazia e della gloria “fino al compimento dei mille anni”, ossia per tutto il tempo di questa vita, dopo la quale verranno puniti più duramente. Chi in questa vita non visse sono gli ignavi, “questi sciaurati, che mai non fur vivi” (Inf. III, 64; Ap 3, 18).
Ad Ap 21, 8 (settima visione) essere “timidi” – negare cioè la fede o fuggirne l’accoglimento per timore della morte o di una pena temporale – è il primo degli otto crimini puniti nello stagno ardente di fuoco e di zolfo. A Cacciaguida che gli ha profetizzato l’esilio, Dante palesa il timore che ridire nei versi quanto da lui appreso nel corso del viaggio “a molti fia sapor di forte agrume”, mentre il tacere – “e s’io al vero son timido amico” – non gli recherà fama duratura presso i posteri (Par. XVII, 112-120). Il timore “di perder viver tra coloro / che questo tempo chiameranno antico” è il timore di essere pusillanime.
■ Secondo Gioacchino da Fiore (quinto libro della Concordia, citato ad Ap 12, 14), come nel Genesi le opere del quarto giorno – il sole, la luna e le stelle – vengono chiamate “segni e tempi e giorni e anni” (Gn 1, 14), così nella quarta visione dell’Apocalisse la donna che sta nel cielo ed è adornata dal sole, dalla luna e dalle stelle viene detta “grande segno” (Ap 12, 1) e il suo tempo, che è il quarto della Chiesa, viene distinto in “(un) tempo, (due) tempi e la metà di un tempo” (Ap 12, 14; un esame approfondito è stato condotto altrove). Il medesimo tema compare nel quarto sigillo dell’Antico Testamento, nel quale Elia, Eliseo e i figli dei profeti furono come il sole, la luna e le stelle ed Elia venne nascosto lontano da Gezabele per tre anni e mezzo, periodo nel quale la pioggia della predicazione venne sottratta alla gente peccatrice (3 Rg 18, 1ss.; Lc 4, 25; Jc 5, 17). Gioacchino si domanda per quale motivo questo numero mistico compaia sempre nel quarto tempo, e risponde che il quarto è il mediano di sette tempi, connesso ai tre tempi precedenti e agli altrettanti che seguono e di tutti partecipante. La donna – la Vergine che portò Cristo nel ventre, che lo partorì e lo allattò – sta a significare la Chiesa delle vergini, madre e nutrice dei fedeli, formata da uomini e donne dalla giusta vita che, come le stelle del cielo segnano il cammino ai naviganti, sono segni ed esempi agli altri, in modo che sappiano dove andare coloro che li considerano.
La precedente illuminazione di Virgilio – “la divina fiamma / onde sono allumati più di mille” (la fiamma della gioachimita età dello Spirito: Ap 3, 7-8; cfr. infra) – ha operato su Stazio, al cui ardore poetico furono seme le faville dell’Eneide, “la qual mamma / fummi, e fummi nutrice, poetando” (Purg. XXI, 94-99). Stazio fascia Virgilio con parte del panno della Vergine madre e nutrice da Ap 12, 14 come, nel canto successivo, Virgilio farà con Omero, “quel Greco / che le Muse lattar più ch’altri mai” (Purg. XXII, 100-105). Al quarto stato è data forza per le opere della vita attiva, e da Virgilio Stazio ha tratto “forza a cantar de li uomini e d’i dèi” (Purg. XXI, 124-126). Alle Muse, “sacrosante vergini” (“ecclesia ipsa virginum, que in muliere significatur”) si rivolge il poeta affinché lo aiutino “forti cose a pensar mettere in versi” (Purg. XXIX, 42).
Tab. II.a
[LSA, cap. II, Ap 2, 26-28 (IVa victoria)] Quarta est victoriosus effectus, quando scilicet omnes vires corporis et mentis assidue et totaliter perfectis virtutum operibus dedicantur, nec ex longa continuatione operis remittuntur sed potius intenduntur et roborantur et ad fortia opera superexcrescunt, qualis fuit in exercitiis perfectorum anachoritarum, quibus competit premium de quo quarte ecclesie dicitur: “Qui vicerit et custodierit usque in finem opera mea”, id est qualia ego feci et precepi vel consului, “dabo illi potestatem super gentes et reg<et> <eas> in virga ferrea, et tamquam vas figuli confri<n>gentur, sicut ego accepi a Patre meo, et dabo illi stellam matutinam” (Ap 2, 26-28). Secundum quosdam hic promittitur quarto ordini perfectio sexti et septimi status, quia ordo quartus est in fine seculi consumandus et visurus confractionem statue Nabucodonosor et superaturus gentes et regna et Christi cultui subiugaturus. Est etiam accepturus claram intelligentiam scripturarum et future diei eterne quasi stellam matutinam, que gratiose solem pronuntiat et precurrit.
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Purg. X, 73-75Quiv’ era storïata l’alta gloria
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Par. XXII, 112-126O glorïose stelle, o lume pregno
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Inf. XXXIV, 133-136; Purg. I, 19-20Lo duca e io per quel cammino ascoso
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Purg. XII, 88-90, 99; Par. XXXII, 106-108A noi venìa la creatura bella,
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Tab. II.b
[LSA, cap. II, Ap 2, 26-28 (IVa victoria)] Quarta est victoriosus effectus, quando scilicet omnes vires corporis et mentis assidue et totaliter perfectis virtutum operibus dedicantur, nec ex longa continuatione operis remittuntur sed potius inten-duntur et roborantur et ad fortia opera superexcrescunt, qualis fuit in exercitiis perfectorum anachoritarum, quibus competit premium de quo quarte ecclesie dicitur: “Qui vicerit et custodierit usque in finem opera mea”, id est qualia ego feci et precepi vel consului, “dabo illi potestatem super gentes et reg<et> <eas> in virga ferrea, et tamquam vas figuli confri<n>gentur, sicut ego accepi a Patre meo, et dabo illi stellam matutinam” (Ap 2, 26-28). […] Designatur etiam per hoc quod in a<na>choriticis sic operosis est virtus terrificativa et contritiva gentium terrestrium, et quod per exemplum operis lucent omnibus velut stella matutina, et quod in celis habebunt gloriosam potestatem et lucem huic correspondentem.[LSA, cap. II, Ap 2, 1 (IVum exercitium)] Quartum (exercitium mentis ordinate ad perfectionem ascendentis) est contemplativa abstractio et solitudo, et assidua sui ad illam per austera et laboriosa opera preparatio.[LSA, cap. II, Ap 2, 1 (Ia visio, IVa ecclesia)] Quarta autem commendatur de superhabundanti et perseveranti et superexcrescenti supererogatione sanctorum operum et de perfectione fidei et caritatis, que utique competunt quarto statui, scilicet anachoritarum, qui partim opere manuum, partim lectione, partim vocali psalmodia, cum assidua maceratione corporis per ieiunia et per alias austeritates, se semper preparabant et sursum agebant ad contemplativos actus fidei et caritatis. Unde bene vocatur Tyatira, id est illuminata vel inflammata vel vivens hostia, quia tales per lucem et flammam contemplative devotionis se offerunt Deo hostiam viventem. |
[LSA, cap. II, Ap 2, 10 (Ia visio, IIa ecclesia)] “Esto fidelis usque ad mortem” (Ap 2, 10), id est fideliter pro mea fide concerta “usque ad mortem”, id est usque ad ultimum diem vite tue vel usque ad sufferentiam martirii interfectivi tui corporis, “et dabo tibi coronam vite”, scilicet eterne post mortem.
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Tab. II.c
[LSA, cap. III, Ap 3, 7-8 (Ia visio, VIa ecclesia)] Sicut etiam in primo tempore exhibuit se Deus Pater ut terribilem et metuendum, unde tunc claruit eius timor, sic in secundo exhibuit se Deus Filius ut magistrum et reseratorem et ut Verbum expressivum sapientie sui Patris, sic in tertio tempore Spiritus Sanctus exhibebit se ut flammam et fornacem divini amoris et ut cellarium spiritualis ebrietatis et ut apothecam divinorum aromatum et spiritualium unctionum et unguentorum et ut tripudium spiritualium iubilationum et iocunditatum, per que non solum simplici intelligentia, sed etiam gustativa et palpativa experientia videbitur omnis veritas sapientie Verbi Dei incarnati et potentie Dei Patris. Christus enim promisit quod “cum venerit ille Spiritus veritatis, docebit vos omnem veritatem” et “ille me clarificabit” et cetera (Jo 16, 13-14).
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Purg. XXI, 94-99, 124-126Al mio ardor fuor seme le faville,
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[LSA, cap. XII, Ap 12, 14 (IVa visio)] Nota etiam quod, secundum Ioachim, libro V° Concordie, sicut de opere quarte diei, scilicet de sole et luna et stellis, dicitur quod “sint in signa et tempora et dies et annos” (Gn 1, 14), sic in quarta visione huius libri, in qua describitur mulier in celo existens et adornata sole et luna et stellis, proponitur fuisse in “signum magnum” et distinguitur tempus eius in “tempus et tempora”, signanterque hoc reperitur ubi agitur de quarto statu ecclesie. […] Nempe et ecclesia ipsa virginum, que in muliere significatur, est mater et nutrix fidelium, quia Virgo portavit Christum in utero, Virgo peperit et lactavit? Tales etiam viri et mulieres in signa fuere, quia sicut stelle celi in signa sunt navigantibus, ita et vita iustorum est in exemplum fidelium data, ut sciant quo ire debeant omnes qui considerant eos». Hec Ioachim.
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3. Prologo in cielo
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vv. |
LSA |
status |
fu stabilito per lo loco santo
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23
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4, 2-3 |
R2 |
e cominciommi a dir soave e piana,
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56
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11, 19 |
R3 |
Si rinvia a quanto scritto nell’Introduzione.
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Inf. II, 13-27
Tu dici che di Silvïo il parente,
corruttibile ancora, ad immortale
secolo andò, e fu sensibilmente.
Però, se l’avversario d’ogne male
cortese i fu, pensando l’alto effetto
ch’uscir dovea di lui, e ’l chi e ’l quale
non pare indegno ad omo d’intelletto;
ch’e’ fu de l’alma Roma e di suo impero
ne l’empireo ciel per padre eletto:
la quale e ’l quale, a voler dir lo vero, lo quale al quale
fu stabilita per lo loco santo fu stabilito
u’ siede il successor del maggior Piero.
Per quest’ andata onde li dai tu vanto,
intese cose che furon cagione
di sua vittoria e del papale ammanto.
Diversamente da Petrocchi, Inglese segue Triv + Urb, lezioni coerenti con Convivio IV, v, 6: “E tutto questo fu in uno temporale, che David nacque e nacque Roma, cioè che Enea venne di Troia in Italia, che fu origine della cittade romana sì come testimoniano le scritture. Per che assai è manifesto la divina elezione del romano imperio, per lo nascimento della santa cittade, che fu contemporaneo alla radice della progenie di Maria”. Pertanto non “la quale (Roma) e ’l quale (impero) … fu stabilita”, bensì “lo quale (padre) al quale (impero) … fu stabilito”. Si può notare come la scelta del Petrocchi comporta che delle cinque terzine che trattano l’argomento (Enea, Roma, impero, papato) solo la quarta (vv. 22-24) non si riferisca direttamente ad Enea (e menzioni Roma due volte). Sul piano dell’esegesi, nella parodia che incorpora anche l’impero nella storia della Chiesa parificandolo ad essa, i temi principali provengono da Ap 4, 2-3 (la sede divina, assimilata a Roma, dove Dio Padre siede e stabilisce) e, soprattutto, dalla quarta vittoria (Ap 2, 26-28), propria di quanti acquistano virtù per forti opere; ad essi, che sono alti padri ed esempio per gli altri, spetta un “victoriosus effectus”: “quicumque sunt sic operosi sunt digni super principatum ecclesie sublimari et accipere virtutem rectam et inflexibilem et insuperabilem, quasi virgam ferream ad faciliter confringendum terrestria vitia gentium”. Il padre Enea (“lo quale”) fu dunque preposto al “roman principato” (“al quale”).
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vv. |
LSA |
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corruttibile ancora, ad immortale
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14
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5, 1
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VII |
Il tema del seme della donna che rimane (Ap 12, 17; un esame completo è stato condotto altrove) è messo in bocca a Brunetto Latini, per il quale “le bestie fiesolane” (i fiorentini) non dovranno toccare Dante, “pianta … in cui riviva la sementa santa / di que’ Roman che vi rimaser quando / fu fatto il nido di malizia tanta” (Inf. XV, 73-78). Nei versi si insinua un altro tema, quello del seme imperiale che rivive, trasformazione in senso positivo della credenza che Federico II e il suo seme sia la testa della bestia che sembrava uccisa e che rivive (Ap 13, 3.18). Dante è pertanto ‘reliquia’ del seme puro che rimane – assimilato alla Chiesa romana – contiguo e quasi commisto al letame delle bestie fiesolane. È da notare che, nelle parole di Brunetto, il “romanus populus … ille sanctus, pius et gloriosus” (Monarchia, II, v, 5), di cui Dante è seme rimasto, è ammantato dalla veste che nell’esegesi scritturale spetta alla Chiesa di Roma, la sola ‘rimasta’ di una Chiesa prima diffusa su tutto l’orbe, della quale il seme degli antichi Romani è dunque prefigurazione. Il tema del purissimo seme della donna che rimane, da Ap 12, 17, è anche singolarmente consonante con quanto affermato in Convivio IV, v, 5-6: “Per che assai è manifesto la divina elezione del romano imperio, per lo nascimento della santa cittade, che fu contemporaneo alla radice della progenie di Maria”, “una progenie santissima”, ordinata a “l’albergo dove ’l celestiale rege intrare dovea”, il quale “convenia essere mondissimo e purissimo”. L’espressione di Brunetto riferita a Dante – “e non tocchin la pianta” – trasforma un tema della sesta vittoria, allorché il nuovo nome di Cristo viene iscritto intendendo “cristiano” come “unto del Signore”, nel senso del Salmo 104, 15: “Non toccate i miei consacrati” (Ap 3, 12).
Nell’uso del tema del rimanere del seme, Brunetto è da confrontare con Ulisse, il quale nella sua “orazion picciola” parla di “questa tanto picciola vigilia / d’i nostri sensi ch’è del rimanente”, e invita i compagni a considerare la propria semenza (Inf. XXVI, 114-115, 118). Il greco si è messo “per l’alto mare aperto / sol con un legno e con quella compagna / picciola da la qual non fui diserto” (vv. 100-102). Il tema delle “pauce reliquie” che restano si mescola con quello del vigilare, proprio della quinta chiesa (Ap 3, 3). Le parole dell’Apostolo ai Tessalonicesi (1 Th 5, 4-7), citate nell’esegesi dell’ammonimento dato all’intorpidito vescovo di Sardi, sono modello per quelle di Ulisse nel rivolgersi ai compagni con la sua “orazion picciola”: “Vos autem, fratres, non estis in tenebris … Igitur non dormiamus sicut et ceteri, sed vigilemus et sobrii simus … / O frati … a questa tanto picciola vigilia / d’i nostri sensi ch’è del rimanente”.
Ulisse mostra però i limiti della scienza umana fondata sull’esperienza sensibile di questo mondo. Il suo ardore è di “divenir del mondo esperto”, la vigilia che rimane e di cui parla ai compagni ha un suo valore (perché vigilare previene il torpore) ma è “vigilia d’i nostri sensi”, vuole conoscere il “mondo sanza gente” ma con uno strumento, la conoscenza sperimentale, fallace perché quel mondo è per l’età in cui il greco vive alterum saeculum, al di sopra della natura e dell’intelletto, che gli può essere aperto solo per rivelazione. La sapienza del mondo – l’apprendimento con l’esperienza delle sole cose sensibili di questo mondo – è causa della chiusura del settimo e ultimo sigillo, aperto dalla croce di Cristo e dalla stoltezza della sua predicazione. Nulla dell’altro mondo è possibile qui sperimentare se non venga rivelato tramite gli spiriti superni, e perciò la scienza umana e la ricerca, in quanto assume i suoi primi princìpi dagli elementi di questo mondo, è assai fallace rispetto alle cose soprannaturali, come insegna l’Apostolo ai Colossesi (Col 2, 8) e ai Corinzi (1 Cor 1, 20-21) ai quali dice che “Dio ha dimostrato stolta la sapienza di questo mondo. Poiché infatti nella sapienza di Dio il mondo, con la sua sapienza, non ha conosciuto Dio, piacque a Dio salvare i credenti per mezzo della stoltezza della predicazione”.
Questi temi (che la Lectura propone ad Ap 5, 1, nella rassegna dei motivi che rendono chiusi i sette sigilli), oltre ad essere contenuti – con corrispondenze semantiche – nel parlare di Ulisse, trovano per converso riferimento nell’andare “ad immortale secolo … sensibilmente” che prima dell’arrivo di Cristo venne concesso ad Enea, cui Dio fu cortese per l’alta missione assegnatagli (Inf. II, 13-15). |
Ulisse avrebbe dovuto considerare di seguire virtù e conoscenza in senso relativo, per quanto possibile in questa vita, e invece le desiderò assolutamente. L’esperienza dei costumi umani, dei vizi e delle virtù (“de li vizi umani e del valore”), della quale Orazio rende modello il greco, avrebbe dovuto essergli sufficiente, mantenendolo nel campo dell’intelligenza morale, di “color che ragionando andaro al fondo” e lasciarono “moralità” al mondo (Purg. XVIII, 67-69). I temi di riferimento del “divenir … esperto … de li vizi umani e del valore” appartengono al terzo stato oliviano, quello dei dottori. A costoro spetta infatti la prudente discrezione che deriva dall’esperienza (ad Ap 2, 1), ad essi è data la spada acuta che spezza i vizi (Ap 2, 12: esegesi della terza chiesa d’Asia, Pergamo). I quattro animali (o esseri viventi) che stanno in mezzo e intorno alla sede divina (Ap 4, 6-7; cfr. 6, 6) – il primo simile a un leone (che designa il senso allegorico della Scrittura), il secondo a un bue o vitello (il senso letterale o storico), il terzo a un uomo (il senso morale), il quarto a un’aquila volante (il senso anagogico) – sono appropriati ciascuno ai primi quattro stati. Il terzo stato, dei dottori che discernono con l’esperienza i vizi, corrisponde all’uomo razionale. Nel suo ambito antico – quello dell’Etica – avrebbe dovuto mantenersi Ulisse, frenando il “folle volo” verso il senso anagogico o sovrasenso. Quel lido che poté solo intravedere, prima che il turbine percuotesse il suo legno, era “lito diserto, / che mai non vide navicar sue acque / omo, che di tornar sia poscia esperto” (Purg. I, 130-132): “omo” sta per uomo razionale, “esperto” per conoscenza sperimentale di questo mondo, che nulla può apprendere dell’altro, e che anzi si perde se, come fece il greco, forzi la prescienza divina con un viaggio compiuto prima del tempo. L’ultimo viaggio dell’eroe greco fu un andare sensibilmente verso la sesta età del mondo (aperta con il primo avvento di Cristo, figurata dalla montagna del purgatorio) e verso il sesto stato della Chiesa (il secondo avvento di Cristo nello Spirito, figurato dal sesto girone, il luogo dove viene chiarita la poetica delle “nove rime”), verso un lido allora noto unicamente a Dio, andata che solo un uomo evangelico avrebbe potuto compiere.
[LSA, cap. V, Ap 5, 1 (VII sigillum)] Septimus (defectus in nobis claudens intelligentiam huius libri) est solorum sensibilium huius mundi experimentalis apprehensibilitas. Nichil enim alterius seculi possumus hic experiri nisi per supernos spiritus reveletur, et ideo humana scientia et investigatio sumit sua prima principia ab elementis <huius> mundi, propter quod est respectu supernaturalium et superintellectualium valde fallax, prout docet Apostolus ad Colossenses II° (Col 2, 8) et Ia ad Corinthios I°, ubi dicitur quod “Deus fecit stultam sapientiam huius mundi. Nam, quia in Dei sapientia non cognovit mundus per sapientiam Deum, placuit Deo per stultitiam predicationis salvos facere credentes” (1 Cor 1, 20-21). |
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Inf. XXVI, 97-99, 114-117vincer potero dentro a me l’ardore
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Purg. I, 130-132Venimmo poi in sul lito diserto,
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[LSA, cap. III, Ap 3, 3 (Ia visio, Va ecclesia)] Deinde comminatur eidem iudicium sibi occulte et inopinate superventurum si non se correxerit, unde subdit: “Si ergo non vigilaveris, veniam ad te tamquam fur”, qui scilicet venit latenter et ex improviso ut bona auferat et possessorem occidat. Unde subdit: “et horam nescies qua veniam ad te”. Iustum enim est ut qui se ipsum per negligentiam et torporem nescit, nesciat horam iudicii sui et exterminii. Talis etiam propter suas tenebras non videt lucem, ac erronee credit et optat se diu in prosperitate victurum et Dei iudicium diu esse tardandum, et etiam spe presumptuosa sperat se esse finaliter salvandum, propter quod Ia ad Thessalonicenses V° dicit Apostolus quod “dies Domini veniet in nocte sicut fur. Cum enim dixerint: pax et securitas, tunc superveniet eis repentinus interitus” (1 Th 5, 2-3). Quibus autem, scilicet sanctis, et quare non veniet sicut fur ostendit subdens: “Vos autem, fratres, non estis in tenebris, ut vos dies illa tamquam fur comprehendat; omnes enim vos estis filii lucis et diei. Igitur non dormiamus sicut et ceteri, sed vigilemus et sobrii simus. Qui enim dormiunt nocte dormiunt” et cetera (ibid., 5, 4-7). |
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Inf. XV, 73-78Faccian le bestie fiesolane strame
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Inf. XXVI, 100-102, 112-120ma misi me per l’alto mare aperto
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[LSA, cap. XII, Ap 12, 17 (IVa visio, Vum prelium)] Dicit ergo: “Et iratus est dracho in mulierem” (Ap 12, 17). Nota quod quanto plus et pluries videt se vinci ab ecclesia et prole eius, tanto maiori ira exardescit ad illam fortius temptandam et deiciendam.
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4. La porta aperta nel sesto stato
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vv. |
LSA |
status |
m’apparecchiava a sostener la guerra
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41117
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3, 10; 7, 23, 7
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VI |
O anima cortese mantoana,
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58
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tanto m’aggrada il tuo comandamento,
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79
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3, 83, 8
7, 1 |
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Disse: – Beatrice, loda di Dio vera,
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103
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19, 1.47, 3-4
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“perché tanta viltà nel core allette,
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122
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7, 3-4
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Oh pietosa colei che mi soccorse!
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133
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7, 73, 73, 8 |
Nel sesto stato della storia – iniziato con la conversione di san Francesco (1206), si concluderà con la prossima sconfitta dell’Anticristo e la distruzione di Babylon, la Chiesa carnale – ci si dedicherà più al gusto senza misura della contemplazione che alle forti opere della vita attiva, e per questo non sarà data a questo periodo tanta forza e virtù per forti opere, come è stata data agli stati precedenti, e in particolare agli anacoreti del quarto (cfr. Ap 2, 26-28), opere che gli uomini sensuali ammirano, stimano e, da esse mossi, sono tratti a imitare e desiderare più di quelle intellettuali e interne. Ciò avverrà anche perché ciascun periodo abbia modo di umiliarsi di fronte agli altri, rispetto ai quali è superiore e insieme superato. La ‘porta aperta’ della contemplazione e della predicazione data al sesto stato supplisce al difetto di forza, alla modica virtù. Nei tempi moderni non avvengono miracoli, ad eccezione dei segni concessi ai due testimoni Enoch ed Elia (Ap 11, 5-6); i segni e i prodigi sono concessi infatti all’Anticristo e ai suoi seguaci. La conversione attraverso stupendi e innumerevoli miracoli ha caratterizzato il primo tempo cristiano, la nuova conversione finale del mondo dovrà avvenire tramite la luce della sapienza divina e della Scritture, alla cui contemplazione il sesto stato deve venire elevato per potervi entrare. Coopererà a questo ingresso tutta l’illuminazione degli stati precedenti e l’universale fama di Cristo, della sua fede e della sua Chiesa diffusa per il mondo a partire dal primo stato fino ai tempi odierni (Ap 3, 7-8).
A Dante, che con animo offeso da viltà ha mutato il primo proposito di seguirlo nel viaggio, Virgilio spiega le cause del suo venire per levarlo dalla lupa che gli impedisce la salita del “dilettoso monte”. Il racconto del poeta pagano sulle tre donne che curan di lui nella corte del cielo promette al suo discepolo molto bene (alla sesta chiesa Cristo “multa et singularia sibi promittit”), tanto che la virtù stanca di Dante si trasforma in ardore, come i “fioretti”, chinati (tema del quinto stato) e chiusi dal gelo notturno, una volta illuminati dal sole si drizzano aperti sullo stelo. Il poeta ringrazia Virgilio per aver ubbidito subito alle “vere parole” (alla sesta chiesa Cristo si propone “ut verum in promissis”) porte da Beatrice (Inf. II, 121-135). I dubbi di Dante riguardavano la propria virtù (“Poeta che mi guidi, / guarda la mia virtù s’ell’ è possente”, vv. 10-12), perché “ad immortale secolo” andarono solo Enea e san Paolo. Il primo a causa dell’“alto effetto” che doveva uscire dalla sua vittoria: il “victoriosus effectus” è il conseguimento della quarta vittoria, degli operosi anacoreti (Ap 2, 26-28). Il secondo per recare conforto alla fede. Dante non è Enea né Paolo, non ha virtù per opere forti, non vive in un momento in cui la conversione si opera per i miracoli. Ha scarsa virtù [1], ma in compenso la porta gli è aperta. Glielo ripeterà Cacciaguida: “sicut tibi cui / bis unquam celi ianüa reclusa?” (Par. XV, 29-30). A lui spetta di entrare per essere elevato alla luce della sapienza divina. Ma perché la sua vista entri “per lo raggio / de l’alta luce che da sé è vera” (Par. XXXIII, 52-54) dovrà ripercorrere tutta la storia umana degli stati precedenti che a quella visione deve cooperare. Come all’ingresso del sesto stato coopera tutta l’illuminazione degli stati precedenti e l’universale fama della fede di Cristo, così Beatrice si rivolge a Virgilio: “O anima cortese mantoana, / di cui la fama ancor nel mondo dura, / e durerà quanto ’l mondo lontana” (Inf. II, 58-60) [2]. Nel Limbo, Dante viene accolto nella schiera dei poeti che formano “la bella scola / di quel segnor de l’altissimo canto”: Virgilio è quinto, “sì ch’io fui sesto tra cotanto senno” (Inf. IV, 94-96, 100-102).
[1] Una variazione della “modica virtus” è nella virtù a salire la montagna (l’angelo del sesto sigillo sale, ma la sesta chiesa ha scarsa virtù per opere forti e corporali), impedita dalla notturna tenebra (con il nuovo giorno, l’impedimento è rimosso e il salire riprende), compensata però dall’aperto parlare, che è apertura della volontà (Purg. XVII, 73-90; XVIII, 7-9). In Inf. II l’impedimento a salire il “dilettoso monte” è rimosso dalle tre donne e da Virgilio (per quanto con più lungo viaggio), le parole di Beatrice e di Virgilio aprono la volontà di Dante e ne fanno una con quella del poeta pagano.
[2] L’inciso “et universalis fama Christi et sue fidei et sue ecclesie per totum orbem diffusa a tempore prime conversionis mundi continue usque ad tempora ista” (Ap 3, 7) sembra escludere la lezione moto in luogo di mondo.
Tab. IV.a
[LSA, cap. III, Ap 3, 7-8 (Ia visio, VIa ecclesia)] Quia etiam multa et singularia sibi promittit, ideo proponit se ei ut verum in promissis, cum dicit “et verus” (Ap 3, 7). […]
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Inf. IV, 100-102e più d’onore ancora assai mi fenno,
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Fra i numerosi temi propri del sesto stato, elencati qui sopra, si segnalano quelli relativi all’apertura del sesto sigillo: Ap 7, 3-4 (la “signatio” sulla fronte di coloro i quali, nell’esercito di Cristo, mostrano magnanimità e non ignavia, distinti per nome ed elezione nella curia del sommo re, cavalieri separati dalla volgare schiera dei fanti); 7, 7 (l’esegesi della tribù di Simeone, appropriata alla pietas di Beatrice che ascolta il pianto dell’amico: vv. 106, 133); Ap 7, 13 (v. 18: “e ’l chi e ’l quale”; primo riferimento a un tema soggetto a molte variazioni nel poema, in particolare nelle agnizioni).
Alla settima chiesa d’Asia, Laodicea (Ap 3, 15), rimproverata per la sua tepidezza (non è né fredda né calda) – i temi avranno gran parte nel canto seguente – rinviano i vv. 127-128. I motivi che rendono chiuso il settimo sigillo (Ap 5, 1) – le umbratili e involute figure dell’Antico Testamento -, anch’essi variati in più luoghi, si registrano ai vv. 47-48 nel falso vedere che rende Dante pusillanime: “lo rivolve … ombra”).
Tab. IV.b
Par. II, 106-111Or, come ai colpi de li caldi rai
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Par. VI, 13-21E prima ch’io a l’ovra fossi attento,
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[LSA, cap. V, Ap 5, 1 (radix IIe visionis)] Septimum est sensuum veteris scripture fluctuans volubilitas et involucrorum seu tegumentorum figuralium umbrositas et obscura multiformitas, unde e<s>t sicut mare procellosum et vertiginosum et voraginosum et quasi non habens fundamentum seu fundum. Est etiam sicut nubes densa et tetra, nuncque rubescens nunc vero pallescens, nunc virens nunc albens, et nunc in uno loco et nunc in alio. Hanc autem aperit intellectualis nuditas et simplicitas fidei et sapientie Christi, prout Apostolus IIa ad Corinthios III° docet. Hanc autem plenius aperiet Christus, cum implebitur illud quod sub sexto angelo tuba canente iurat et clamat angelus tenens librum apertum, scilicet quod “in diebus septimi angeli, cum ceperit tuba canere, consumabitur”, id est ad plenum implebitur et explicabitur, “misterium Dei sicut evangelizavit per servos suos prophetas” (Ap 10, 6-7). Tunc enim omnis litigatio et contradictio inter vetus et novum omnino silebit, prout notat apertio septima (cfr. Ap 8, 1).
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Inf. IV, 7-12Vero è che ’n su la proda mi trovai
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Inf. X, 94-96“Deh, se riposi mai vostra semenza”,
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Purg. XXXII, 109-117Non scese mai con sì veloce moto
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[LSA, cap. XVI, Ap 16, 21 (VIa visio)] Secunda vero est pena sensus, propter sui intolerabilem excessum redundans in horribiles blasphemationes Dei et iudicii sui. Unde subdit (Ap 16, 21): “Et grando magna sicut talentum descendit de celo in homines; et blasphemaverunt homines Deum propter plagam grandinis, quoniam magna facta est vehementer”. Secundum Isidorum et Papiam, talentum perhibetur esse summum pondus in Grecis, et ideo per “talentum” designatur hic summum pondus pene. Quam penam designat hic grando de celo impetuose descendens, quia inter celestes impressiones superioris regionis seu aeris est grando communiter omnibus durior, et per excessum circumstantis caloris frigus ad interiora nubium repellentis et per fortem coagulationem factam ab interno frigore descendit procellosissime et impetuosissime et cum multo exterminio fructuum terre. Et ideo congrue designat durissimam percussionem penarum a Deo et ab ardore sue ire procedentium, et frigidum algorem sue severitatis ad intima reproborum viscera absque omni calore pietatis et misericordie impri-mentis et eorum corda contra omne bonum obdu-rescere facientis. |
5. La guerra psicologica
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vv. |
LSA |
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m’apparecchiava a sostener la guerra
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4
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Not. I (7, 2)
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II–VI |
■ La guerra contro la pietà, il certame avverso il dubbio, è proprio dei martiri del sesto stato. I temi, già presenti nella Vita Nova, sono stati considerati altrove.
■ Al momento di cominciare il viaggio, un Dante timoroso e diffidente della propria virtù si rivolge a Virgilio, sua guida, perché consideri se essa sia sufficiente – “guarda la mia virtù s’ell’è possente, / prima ch’a l’alto passo tu mi fidi” (Inf. II, 10-12, 34-35), dove l’espressione “alto passo”, qui come nel caso di Ulisse (Inf. XXVI, 132), non indica solo il limite fra l’umano e il divino, fra il tempo e l’eterno, ma contiene in sé il valore del patire per un fine alto. Dante reca l’esempio di san Paolo, il quale come Enea fece il viaggio prima di lui, con le parole dell’esegesi di quanto Cristo dice al vescovo di Smirne, la chiesa (seconda d’Asia) del tempo dei martiri (secondo stato; Ap 2, 8.10): “Andovvi poi lo Vas d’elezïone, / per recarne conforto a quella fede / ch’è principio a la via di salvazione – non diffidas te a tuis passionibus per me salvandum, quia ego sum omnium principium … ad futuras passiones impavide expectandas et tolerandas confortatio” (Inf. II, 28-30). Alla seconda tromba (Ap 8, 9) appartiene il tema del portare con le parole (v. 135: “a le vere parole che ti porse”).
Il verso 10 – «Io cominciai: “Poeta che mi guidi”» – introduce il tema della guida che sta dietro le spalle di Giovanni (Ap 1, 10; cfr. le variazioni sul motivo della ‘voce‘, più volte ricorrente nell’esegesi e nel poema).
Dante, dubbioso nel fare il viaggio proposto da Virgilio e accettato con troppa fretta, per cui domanda: “Ma io, perché venirvi? o chi ’l concede? … me degno a ciò né io né altri ’l crede” (vv. 31, 33), appropria a sé stesso il tema del concedere da parte di Dio a Cristo perché riveli quel che è arcano e incomprensibile (Ap 1, 1) e della dignità di Giovanni, testimone del Verbo divino e insieme dell’umanità di Cristo (Ap 1, 2; cfr. 5, 2).
che ritrarrà la mente che non erra
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vv. |
LSA |
status |
che ritrarrà la mente che non erra.
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6
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6, 56, 5Not. INot. XIII
Not. INot. I
Not. XIII |
III |
Il tema della Scrittura che non erra appartiene all’apertura del terzo sigillo (Ap 6, 5), esegesi che ha già segnato il primo canto. Simbolo del terzo stato, proprio dei dottori che confutano le eresie con la spada, è l’uomo razionale (segue il quarto stato, con esso concorrente, proprio degli anacoreti, dove l’affetto si accompagna all’intelletto, il devoto pasto eucaristico alla spada; cfr. prologo, Notabile X; esegesi parodiata in Purg. XVI, 106-111). Qui di seguito sono riportati i signacula del terzo stato presenti nei versi di Inf. II.
Inf. II, 19-21, 25-27, 34-36, 46-48, 82-84non pare indegno ad omo d’intelletto;
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[LSA, prologus, Notabile I] (III) Tertius (status) est confessorum seu doctorum, homini rationali appropriatus. […]
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6. Virgilio e Beatrice: Cristo uomo e Spirito di Cristo
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LSA |
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Or movi, e con la tua parola ornata
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67
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14, 14 (VII)
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I |
Ad Ap 2, 7 Olivi spiega perché l’istruzione data al vescovo di Efeso, il metropolita delle sette chiese d’Asia, venga proposta come detta dapprima da Cristo e per ultimo dallo Spirito Santo. Ciò avviene per quattro motivi. Il primo è affinché essa sia intesa provenire da tutta la Trinità.
Il secondo è perché due sono i modi di questo insegnamento, uno per mezzo della voce esteriore, l’altro tramite l’ispirazione e la suggestione interiore: il primo spetta a Cristo in quanto uomo, il secondo alla sua divinità ed è appropriato allo Spirito Santo. Il primo modo predispone al secondo come al suo fine ed è inutile senza di esso. Di questi due modi parla Cristo in Giovanni 14, 25-26: “Queste cose vi ho detto rimanendo tra di voi. Ma il Consolatore, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, egli vi insegnerà ogni cosa e vi suggerirà tutto ciò che io vi ho detto”. A Cristo, in quanto Verbo e verbale sapienza del Padre, è appropriato anche il parlare interiore che avviene per mezzo della luce della semplice intelligenza. Il parlare che avviene tramite il gusto e il sentimento dell’amore è appropriato allo Spirito Santo. Il primo modo si pone rispetto al secondo come la disposizione materiale rispetto all’ultima forma.
Il terzo motivo, infatti, è perché il tempo da Cristo fino al sesto stato è appropriato a Cristo, a partire dal sesto stato è appropriato allo Spirito Santo.
Il quarto motivo è perché a muoverci sia una duplice autorità magistrale e una duplice solenne testimonianza: dapprima l’evidente esempio delle opere di Cristo mostrate nella sua umanità, poi la fiamma e l’efficacia dello Spirito.
Questa duplice autorità si ritrova in Inf. II, 94ss., nell’episodio delle “tre donne benedette” che curano del poeta nella corte del cielo. Nell’Empireo una “donna … gentil”, cioè la Vergine la quale, come detto nella quarta visione, partorisce di continuo il corpo mistico di Cristo (Ap 12, 2) e dunque “si compiange / di questo ’mpedimento”, cioè dell’ostacolo che impedisce il parto della buona prole (la salita del “dilettoso monte” impedita dalla lupa), ha chiamato Lucia, cioè la “lux simplicis intelligentie”, perché presti aiuto al poeta, suo devoto. Lucia, mossasi, si è recata da Beatrice, che siede “con l’antica Rachele” (la vita contemplativa), come l’“interna locutio que fit per lucem simplicis intelligentie” predispone al suo fine e alla sua ultima forma, cioè al gusto e al sentimento dell’amore, che avviene per mezzo della fiamma e dell’efficacia dello Spirito Santo. Mossa da amore, Beatrice discende veloce all’“uscio d’i morti”, cioè al Limbo, per muovere Virgilio.
Dante è mosso da due maestri. Virgilio, da una parte, è “voce esteriore”, assimilato a Cristo uomo; partecipa tuttavia anche del secondo tipo di insegnamento, quello che avviene per ispirazione e suggestione interiore, in quanto “lux simplicis intelligentie”: “Quanto ragion qui vede, / dir ti poss’io” (Purg. XVIII, 46-47). Lucia, che di questa luce è la più alta figura (designa Cristo “in quantum est Verbum et verbalis sapientia Patris”), agevola la salita del poeta dormiente dalla valletta dei principi alla porta del Purgatorio e mostra a Virgilio l’“intrata aperta” verso di essa (Purg. IX, 52-63). Con la porta comincia il sesto stato dell’Olivi (contraddistinto, appunto, dalla ‘porta aperta’) ovvero l’età dello Spirito di Gioacchino da Fiore. Beatrice rappresenta il gusto e il sentimento dell’amore, appropriato allo Spirito Santo. Mossa da amore, fa muovere Virgilio alla salvezza del suo amico: “Or movi, e con la tua parola ornata … l’aiuta, sì ch’i’ ne sia consolata … amor mi mosse, che mi fa parlare” (Inf. II, 67-72). Virgilio e Beatrice operano entrambi per mezzo della “locutio”, cioè della favella, il primo con la “parola ornata”, la seconda con il parlare dettato da amore che suggerisce all’altro ciò che debba fare in modo da esserne consolata (lo Spirito Santo è Paraclito, cioè ‘consolatore’) [1].
Ad Ap 21, 22-23 (settima visione) Olivi sostiene che nella Chiesa peregrinante del settimo e ultimo stato non ci sarà più bisogno di molte dottrine precedenti, poiché nell’eccesso della contemplazione lo Spirito di Cristo le insegnerà ogni verità senza l’ausilio della voce esteriore e, denudata di quanto è temporale, adorerà Dio Padre in spirito e verità (cfr. Giovanni 4, 24), anche se non verrà completamente abbandonato, come nella Chiesa trionfante, ogni uso delle cose temporali o dell’esteriore dottrina e scrittura. La Chiesa di Cristo non occupa il luogo arto e corporeo del tempio dell’antica Gerusalemme e della Sinagoga, né ha bisogno della luce cerimoniale e del culto della legge e dei profeti, in quanto Cristo, la sua vita e la sua dottrina sono tempio, sole e lucerna della luce solare della sua divinità. Si tratta, come confermato dall’autorità di Gregorio Magno, di maggiore illuminazione data alla fine dei tempi: “Urgente enim mundi fine superna scientia proficit et largius cum tempore excrescit”. Il sesto e il settimo stato dell’Olivi corrispondono all’età dello Spirito di Gioacchino da Fiore, nella quale “non solum simplici intelligentia, sed etiam gustativa et palpativa experientia videbitur omnis veritas sapientie Verbi Dei incarnati et potentie Dei Patris” (Ap 3, 7; pagina pregna di citazioni occulte da Gioacchino; cfr. l’ascesa al cielo).
Ecco che la “voce esteriore” di Virgilio, all’apparire di Beatrice, sparisce (Purg. XXX, 49-51). Lo stesso poeta pagano, sulla soglia dell’Eden, invita il discepolo a prendere per guida il proprio piacere (“non solum simplici intelligentia, sed etiam gustativa et palpativa experientia”), cioè il proprio gusto interiore, perché “fuor se’ de l’erte vie, fuor se’ de l’arte. / Vedi lo sol che ’n fronte ti riluce …” (Purg. XXVII, 131-133).
A Filadelfia, la sesta delle sette chiese d’Asia, Cristo dice: “Ho aperto davanti a te una porta che nessuno può chiudere” (Ap 3, 8). Bonaventura aveva detto in proposito che, nel sesto tempo, l’intelligenza della Scrittura viene data a un singolo o a più persone: “Et dixit, quod adhuc intelligentia Scripturae daretur vel revelatio vel clavis David personae vel multitudini; et magis credo, quod multitudini” [2].
Per Olivi si tratta di apertura interiore, allorché il predicatore sente nell’animo l’ordine dato da Cristo, interno dettatore, alla propria volontà di dire perché si parli di lui aprendo il cuore delle genti. Qualcosa di simile dovette provare il giovane Dante, il quale volendo lodare la sua gentilissima, restò “alquanti dì, con disiderio di dire e con paura di cominciare”, finché un giorno gli “giunse tanta volontà di dire” che la sua lingua “parlò quasi come per sé stessa mossa e disse: ‘Donne ch’avete intellecto d’amore’” (Vita Nova, 10. 11-13). Nel 1290, l’anno dopo la partenza di Olivi da Firenze, moriva Beatrice; attorno a quella data uscivano le “nove rime”. Con la teologia di Cristo interno dettatore si accompagnava la poetica dello spirare d’Amore: “I’ mi son un che, quando / Amor mi spira, noto, e a quel modo / ch’e’ ditta dentro vo significando” (Purg. XXIV, 52-54).
Anni dopo, nell’esilio, uno dei passi capitali della Lectura super Apocalipsim, quello che riguarda l’ingiunzione dell’angelo a Giovanni di inviscerare il libro prima amaro e poi dolce e di predicare ancora a tutto il mondo dopo gli Apostoli (Ap 10, 8-11), dovette dare a Dante la consapevolezza della propria missione nello scrivere una vera visione e la libertà di usare parole gravi anche nei confronti dei papi. Al passo rinvia il momento in cui Dante ascolta da Cacciaguida il suo futuro destino e le vicende dolorose dell’esilio, e gusta insieme l’amaro del suo futuro patire con il dolce della fama che gli è riservata. Questo essere dolce e amaro non è solo nel gusto di Dante che ascolta le parole dell’avo, ma pure negli effetti del libro, molesto nel primo gusto ma poi salutare. Come ai nuovi predicatori del sesto stato viene confermato dai sacri dottori il loro essere destinati alla predicazione universale in modo che non temano di venirne impediti dalla moltitudine dei nemici, così Cacciaguida invita Dante a non essere “al vero … timido amico” e a manifestare senza timore tutta la sua visione, nonostante i molti che si troveranno ad avere “coscïenza fusca / o de la propria o de l’altrui vergogna” (Par. XVII, 124-142). Singularis persona, corifeo del nuovo Ordine, Dante proverà nel salire al cielo una “gustativa et palpativa experientia” (proprio negli anni nei quali il concetto suscitava l’interesse inquisitorio di Giovanni XXII) – trasumanar – quale fu quella del pescatore Glauco “nel gustar de l’erba / che ’l fé consorto in mar de li altri dèi” (Par. I, 67-72).
[1] Il parlare consolando per amore si ritrova nella preghiera di Guido del Duca al poeta perché si riveli in Purg. XIV, 12-13: “per carità ne consola e ne ditta / onde vieni e chi se’ …”, dove il ‘dittare’ rende l’ispirazione e la suggestione interiore appropriata al Paraclito consolatore (l’espressione “onde vieni e chi se’ ” traduce inoltre l’“hii qui sunt et unde venerunt” di Ap 7, 13). Il consolare e l’idioma sono pure congiunti nella donna della Firenze antica la quale, come dice Cacciaguida, “… vegghiava a studio de la culla, / e, consolando, usava l’idïoma / che prima i padri e le madri trastulla” (Par. XV, 121-123): l’idioma è quello puerile e giocoso con cui i genitori parlano ai propri nati, e la “iocunditas” fa parte del gustare e sentire lo Spirito.
[2] BONAVENTURA, Collationes in Hexaëmeron, XVI, 29, in Sancti Bonaventurae Sermones Theologici, Roma 1994 (Sancti Bonaventurae Opera, VII/1), p. 308.
Tab. VI.a
[LSA, cap. II, Ap 2, 7 (Ia visio, Ia ecclesia)] Quadruplici enim ex causa hec informatio primo proponitur ut a Christo dicta et ultimo ut dicta a Sancto Spiritu.
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Purg. XIV, 10-15e disse l’uno: “O anima che fitta
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[LSA, cap. XXI, Ap 21, 22-23 (VIIa visio)] Nota quod hec secundum quid verificantur in ecclesia Christi, que non artatur ad corporalem locum et templum veteris Iherusalem et sinagoge, nec cerimoniali luce et cultu legis et prophetarum eget, quia Christus et eius vita et doctrina est eius templum et sol et lucerna lucis solaris sue deitatis. In ecclesia autem septimi status hoc plenius complebitur, ita ut multis doctrinis prioribus non egeat, pro eo quod per contemplationis excessum absque ministerio exterioris vocis et libri docebit eam Christi Spiritus omnem veritatem, et temporalibus denudata adorabit Deum Patrem in spiritu et veritate. Nec ex hoc intelligo quod omnem usum temporalium vel exterioris doctrine et scripture abiciat sed, prout dixi, secundum quid impletur et implebitur in ecclesia militante, simpliciter autem in ecclesia triumphante. |
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Purg. XXX, 49-51Ma Virgilio n’avea lasciati scemi
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Purg. XXVII, 121-142Tanto voler sopra voler mi venne 3, 8
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[LSA, cap. III, Ap 3, 7 (Ia visio, VIa ecclesia)] Significatur etiam per hoc proprium donum et singularis proprietas tertii status mundi sub sexto statu ecclesie inchoandi et Spiritui Sancto per quandam anthonomasiam appropriati. Sicut enim in primo statu seculi ante Christum studium fuit patribus enarrare magna opera Domini inchoata ab origine mundi, in secundo vero statu a Christo usque ad tertium statum cura fuit filiis querere sapientiam misticam rerum et misteria occulta a generationibus seculorum, sic in tertio nichil restat nisi ut psallamus et iubilemus Deo, laudantes eius opera magna et eius multiformem sapientiam et bonitatem in suis operibus et scripturarum sermonibus clare manifestatam*. Sicut etiam in primo tempore exhibuit se Deus Pater ut terribilem et metuendum, unde tunc claruit eius timor, sic in secundo exhibuit se Deus Filius ut magistrum et reseratorem et ut Verbum expressivum sapientie sui Patris, sic in tertio tempore Spiritus Sanctus exhibebit se ut flammam et fornacem divini amoris et ut cellarium spiritualis ebrietatis et ut apothecam divinorum aromatum et spiritualium unctionum et unguentorum et ut tripudium spiritualium iubilationum et iocunditatum, per que non solum simplici intelligentia, sed etiam gustativa et palpativa experientia videbitur omnis veritas sapientie Verbi Dei incarnati et potentie Dei Patris. Christus enim promisit quod “cum venerit ille Spiritus veritatis, docebit vos omnem veritatem” et “ille me clarificabit” et cetera (Jo 16, 13-14).* Cfr. Expositio, pars I, ff. 85va-b (ad Ap 3, 7, cit. quasi letterale da Sicut enim a laudantes), 87rb. |
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LSA |
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Lucevan li occhi suoi più che la stella |
55 |
2, 1.18 |
IV |
La “claritas plusquam stellaris” è propria del quarto stato e in particolare di Tiatira, la quarta chiesa d’Asia che consegue la quarta vittoria (cfr. supra). Gli occhi lucidi e ardenti di Cristo che scruta le reni si riverberano in quelli di Beatrice (cfr., per maggiori dettagli, Ap 2, 18). All’esegesi della quarta chiesa rinviano molti luoghi del poema (sui quali cfr. Ap 2, 21-23). Gli antichi indovini, “che volse veder troppo davante”, sono prefigurazione dell’eccesso di contemplazione in cui caddero gli alti anacoreti cristiani del quarto stato (Inf. XX, 13-15; 37-39: Ap 2, 1).
Tab. VI.b
[LSA, cap. II, Ap 2, 18 (Ia visio, IVa ecclesia)] Hiis autem premittitur preceptum de scribendo hec huic episcopo et eius ecclesie et introductio Christi loquentis, cum subdit: “Hec dicit Filius hominis, qui habet oculos tamquam flamma<m> ignis et pedes eius similes auricalco”. Quia episcopus et ecclesia cui Christus loquitur laudatur de fervore fidei et caritatis […], ideo respectu primi Christus proponitur ut habens oculos lucidos et ardentes sicut est flamma ignis […] per oculos autem flammeos fervor et lux contemplationis ignite […]
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Inf. II, 55Lucevan li occhi suoi più che la stella |
Par. III, 21-24; IV, 139-142; XXIII, 22-24
per veder di cui fosser, li occhi torsi;
e nulla vidi, e ritorsili avanti
dritti nel lume de la dolce guida,
che, sorridendo, ardea ne li occhi santi.
Beatrice mi guardò con li occhi pieni
di faville d’amor così divini,
che, vinta, mia virtute diè le reni,
e quasi mi perdei con li occhi chini.
Pariemi che ’l suo viso ardesse tutto,
e li occhi avea di letizia sì pieni,
che passarmen convien sanza costrutto.
[LSA, cap. II, Ap 2, 21-23 (Ia visio, IVa ecclesia)] Exaggerat autem huius femine impenitentiam, subdens (Ap 2, 21): “Et dedi illi tempus ut penitentiam ageret”, id est ob hoc distuli ipsam occidere et dampnare, “et non vult penitere a fornicatione sua”. Propter quod comminatur ei, subdens (Ap 2, 22): “Et ecce ego mitto eam in lectum, et qui mecantur cum ea in tribulationem maximam”, scilicet mitto. Quidam habent hic “erunt in tribulatione” in ablativo, sed prima littera verior est et antiquior. […]
Secundum etiam Ricardum, non di<x>it ‘mittam’ sed “mitto”, ut per presentiam temporis incuteret formidinem timoris. Non tamen di<x>it hoc absolute sed sub condicione, scilicet “nisi penitentiam egerit ab operibus suis”. Noluit enim per effrenatum timorem peccatores precipitari in desperationem, sed potius per temperamentum comminationis eos revocare, si penitere vellent, ad confidentiam sue miserationis*. […]
“Et filios eius”, id est sequaces eius, “interficiam in mortem”, id est sic quod ducam eos ad mortem. Vel talis ingeminatio vehementem aggravationem interfectionis significat.
“Et scient omnes ecclesie”, scilicet per evidentiam facti, “quia”, id est quod, “ego sum scrutans renes et corda”, id est omnes internos cogitatus et affectus mentis et sensualitatis. In renibus enim viget sensualis concupiscentia carnis. Quando enim Deus aperte non punit mala quantum iustitia exigit, videtur ignorare mala et pondus eorum; quando autem iustissime et rigidissime et publicissime punit illa, tunc omnibus de facto patet quod ipse omnia mala quantumcumque occulta intime novit et ponderat, ac si ea profundissime scrutaretur.
Nota autem quam congrue proposuit Christus se habere oculos sicut flammam (cfr. Ap 2, 18), ut pateret quod omnia videt et penetrat et zelo ardenti urit et punit vel corripit, etiam permissionem huius episcopi, que vix crederetur esse peccatum nisi ipse eam increpasset tamquam culpabilem. “Et dabo” et cetera, id est ex predicto iudicio scient quod ego “dabo”, id est retribuam, “unicuique vestrum secundum opera sua”, id est bonis dabo bona et malis mala. Duos actus iudicii ordinate tangit. Primus est diligens examinatio seu perscrutatio; secundus est iuxta exigentiam meritorum et demeritorum retributio, et pro hoc secundo dicit: “et dabo” et cetera.
*In Ap I, viii (PL 196, col. 726 C).
Inf. XVII, 106-111; Purg. XXIX, 115-120
Maggior paura non credo che fosse
quando Fetonte abbandonò li freni,
per che ’l ciel, come pare ancor, si cosse;
né quando Icaro misero le reni
sentì spennar per la scaldata cera,
gridando il padre a lui “Mala via tieni!”
Non che Roma di carro così bello
rallegrasse Affricano, o vero Augusto,
ma quel del Sol saria pover con ello;
quel del Sol che, svïando, fu combusto
per l’orazion de la Terra devota,
quando fu Giove arcanamente giusto.
[LSA, cap. VIII, Ap 8, 12 (IIIa visio, IVa tuba)] Per “solem” videtur hic designari solaris vita et contemplatio summorum anachoritarum, qui fuerunt patres et exempla aliorum, vel solaris sapientia et doctrina summorum doctorum.
[LSA, cap. II, Ap 2, 1 (Ia visio, IVa ecclesia)] Increpatur tamen, quia permittebat Iesabelem seducere servos suos ut fornicarentur et comessa-rentur de idolaticis. Solitarii enim et contemplativi negligere solent correctionem aliorum, tamquam iudicantes soli sibi esse vacandum. Quidam etiam ex eis, propter excessus contemplationis et macerationis corpore fracti, de facili solent a sociis suaderi ut indulgeant sue carni, ita quod ex hoc plus debito delicatis utantur.
Purg. VI, 97-102, 118-120
O Alberto tedesco ch’abbandoni
costei ch’è fatta indomita e selvaggia, 11, 1
e dovresti inforcar li suoi arcioni,
giusto giudicio da le stelle caggia
sovra ’l tuo sangue, e sia novo e aperto,
tal che ’l tuo successor temenza n’aggia!
E se licito m’è, o sommo Giove
che fosti in terra per noi crucifisso,
son li giusti occhi tuoi rivolti altrove?
Purg. XV, 127-129
Ed ei: “Se tu avessi cento larve
sovra la faccia, non mi sarian chiuse
le tue cogitazion, quantunque parve”.
Inf. XX, 13-15, 37-39
ché da le reni era tornato ’l volto,
e in dietro venir li convenia,
perché ’l veder dinanzi era lor tolto.
Mira c’ha fatto petto de le spalle;
perché volse veder troppo davante,
di retro guarda e fa retroso calle.
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LSA |
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O donna di virtù sola per cui
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76
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1, 17
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R1 – VI |
Cristo, oltre a essere “alpha et o”, principio e fine, e “medium”, mediatore fra i due termini, è anche virtus contentiva, che contiene e conserva gli stati della Chiesa, cioè i periodi della storia di questa; è dunque principio, fine e centro del tempo (prologo, Notabile VI). La virtus contentiva di Cristo appartiene al Primo Mobile (“un corpo ne la cui virtute / l’esser di tutto suo contento giace”) e al cielo Stellato (“quell’ esser parte per diverse essenze, / da lui distratte e da lui contenute”; Par. II, 112-117; questa parte di esegesi è stata approfondita altrove). Da notare l’equivocità contentare (nel senso di appagare) / contenere a Par. VIII, 98 e XXVI, 16. Altre variazioni nella valletta dei principi (Purg. VIII, 31-36) e nella processione dell’Eden (Purg. XXIX, 106-111).
La decima perfezione di Cristo come sommo pastore (il volto solare) insiste sulla sua virtus, la quale nell’undecima perfezione si dimostra excessiva, operando su chi guarda in modo che ascenda alla contemplazione obliando il sensibile (Ap 1, 16-17). L’esegesi è soggetta nel poema a numerose e importanti variazioni, con particolare riferimento a Beatrice. L’oblio del mondo sensibile, dal quale ci si libera come da velo d’ombra, consiste nell’ascesa ad intellectualia, ed è uno dei gradi della scala delle virtù che ad Ap 7, 5-8 vengono interpretati con le dodici tribù d’Israele (in questo caso si tratta della tribù di Manasse, la sesta, ad Ap 7, 6). Nella visione finale (Par. XXXIII, 94-96), al poeta tocca l’oblio (“letargo”) che si libera dai veli tenebrosi, figurati dall’ombra della nave degli Argonauti, antico precorrimento del viaggio “in pelago” del suo “legno che cantando varca” (cfr. Par. II, 1-18).
La prima variazione sul gruppo tematico si registra nelle parole di Virgilio a Beatrice: “O donna di virtù sola per cui / l’umana spezie eccede ogne contento / di quel ciel c’ha minor li cerchi sui” (Inf. II, 76-78). Beatrice è figura di Cristo, del quale possiede la virtù che consente all’uomo di elevarsi (virtus excessiva) al di sopra del mondo sensibile (contenuto dal cielo della Luna, minore degli altri cieli nella circonferenza). Questa virtù corrisponde a quanto scritto in Convivio IV, xxi, 8: “E s’elli avviene che, per la puritade dell’anima ricevente, la intellettuale vertude sia bene astratta e assoluta da ogni ombra corporea, la divina bontade in lei multiplica”. Si tratta dunque della virtù intellettuale, ad essa fa anche riferimento l’esegesi affermando che la virtù genera oblio del sensibile (“sanctorum excessiva virtus … non ascenditur nisi per sui oblivionem – virtù sola per cui / l’umana spezie eccede”: il pronome relativo si riferisce a virtù, non a donna).
[Ap 1, 17] […] sanctorum excessiva virtus et perfectio tremefacit et humiliat et sibi subicit animos subditorum et etiam ceterorum intuentium. Significat etiam quod in divine contemplationis superexcessum non ascenditur nisi per sui oblivionem et abnegationem et mortificationem et per omnium privationem. [Ap 7, 6] Sexto exigitur oblivio ipsorum sensibilium. Postquam enim ex eis tamquam ex relativis signis et speculis ascendimus ad intellectualia, debemus oblivisci ipsorum ut denudemur ab eis tamquam a velaminibus tenebrosis, et hoc designatur per Manasse, qui interpretatur oblivio.
Le parole di Virgilio fanno riferimento alla virtù intellettuale che eleva al di là del mondo sensibile (oltre il cielo della Luna che lo contiene). Non potrebbe essere diversamente per il poeta pagano, il quale applica il termine “contento” al mondo sensibile contenuto dal cielo della Luna, mentre la “virtus contentiva” di Cristo segnerà ben altra ascesa, fino al Primo Mobile che si gira dentro all’Empireo, “ciel de la divina pace”. La scala delle virtù non si ferma alla virtù intellettuale, altri gradini devono essere saliti prima di arrivare all’estasi contemplativa, designata dalla dodicesima tribù di Beniamino (Ap 7, 8). In ciò sta la differenza con il passo del Convivio, non smentito ma superato nel viaggio del “poema sacro” parodiando la Lectura super Apocalipsim.
Tab. VI.c
[LSA, prologus, Notabile VI] Dicendum quod cum in visionibus huius libri agatur de primordiali ac medio et finali statu ecclesie, Christus autem, prout in principio et fine huius libri dicitur esse “alpha et o” (cfr. Ap 1, 8; 21, 6; 22, 13), id est principium et finis, per <que> tamquam per extrema subintelligitur quod etiam ipse est medium et mediator, satis decuit quod in hiis visionibus premitteretur Christus tamquam radicale et fontale principium totius ecclesie et omnium statuum eius, ac deinde quod in medio processu statuum refulgeret eius mediatio, et in fine quod ipse est omnium consumator et finis. […]
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Purg. XXXIII, 115-117“O luce, o gloria de la gente umana,
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Par. II, 112-117; VIII, 97-102Dentro dal ciel de la divina pace
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[LSA, cap. I, Ap 1, 16-17 (radix Ie visionis)] Decima (perfectio summo pastori condecens) est sue claritatis et virtutis incomprehensibilis gloria, unde subdit: “et facies eius sicut sol lucet in virtute sua”. Sol in tota virtute sua lucet in meridie, et precipue quando aer est serenus expulsa omni nube et grosso vapore, et quidem corporalis facies Christi plus incomparabiliter lucet et viget. Per hoc tamen designatur ineffabilis claritas et virtus sue divinitatis et etiam sue mentis. Splendor etiam iste sue faciei designat apertam et superfulgidam notitiam scripture sacre et faciei, ita quod in sexta etate et precipue in eius sexto statu debet preclarius radiare. In cuius signum Christus post sex dies transfiguratus est in monte in faciem solis (cfr. Mt 17, 1-8), et sub sexto angelo tuba canente videtur angelus habens faciem solis et tenens librum apertum (cfr. Ap 10, 1-2).
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parole-chiave |
vv. |
LSA |
status |
Disse: – Beatrice, loda di Dio vera |
103 |
19, 1.4 |
VI |
L’esegesi di Ap 19, 1 tratta del festivo giubilo che segue la dannazione della nuova Babilonia; è particolarmente importante sotto l’aspetto della conversione finale dei Gentili e d’Israele i quali, rinnovando la festività delle Palme, entreranno in Cristo “in spiritu magno et alto”. Più avanti, ad Ap 19, 17-18, si tratta dello spirituale e serotino convivio al quale inviterà Elia (“Et vidi unum angelum stantem in sole”), passo fondamentale nella salita al cielo descritta nel primo canto del Paradiso.
Beatrice, ‘fattura’ di Dio (Inf. II, 91-92; Ap 3, 14), Scrittura lacrimosa (Inf. II, 116; Ap 3, 18), racchiude in sé tre nomi i quali, in segno di reverenza, non possono essere tradotti. Il primo è il greco “apocalisse” (che significa ‘rivelazione’): appartiene alla donna di Dante nel suo disvelarsi nell’Eden, insieme a tutti gli elementi semantici e concettuali che accompagnano, nei primi tre versetti del libro sacro, il termine apocalipis. Il nome della donna coincide anche con la causa finale del libro (la “beatitudo”).
Gli altri due nomi sono ebraici: “alleluia” (che significa ‘lodare Dio’, come detto ad Ap 19, 1: “Quod est hebreum et est idem quod laudare Deum”) e “amen” (che significa ‘veramente’, come ad Ap 19, 4: «“Amen, alleluia”, id est vere est Deus ineffabiliter laudandus»). Lucia così le si rivolge nell’Empireo per muoverla a salvare l’amico: “Beatrice, loda di Dio vera” (Inf. II, 103), dicendo tre parole non interpretate, cioè non traducibili in segno di reverenza: ‘apocalipsis, alleluia, amen’. Beatrice è colei che nell’Empireo canta “alleluia”, come dice Virgilio a Chirone (Inf. XII, 88).
Da notare la rima in –uia a Par. IX, 73 (“Dio vede tutto, e tuo veder s’inluia”), nel rivolgersi di Dante a Folchetto di Marsiglia, spirito amante non ancora manifestatosi. ‘Inluiarsi’ è neologismo dantesco, e significa letteralmente ‘penetrare in Dio’. Ma l’alta retorica che sempre fascia i versi richiama “alleluia”, che secondo san Girolamo è uno dei nomi di Dio (ia), nel senso che il vedere dei beati si accompagna alla lode ineffabile. Di rilievo è anche l’esplicito riferimento al letiziar, per cui “là sù fulgor s’acquista” (v. 70). La lunghezza (il vedere), la larghezza (il gaudio) e l’altezza (la lode) sono le misure, perfettamente uguali fra loro, della città celeste.
Dice Adamo che “I s’appellava in terra il sommo bene / onde vien la letizia che mi fascia”: questo prima che, con la sua morte, scendesse al Limbo (“a l’infernale ambascia”). Poi – continua il progenitore – gli uomini diedero a Dio un altro nome, El, “e ciò convene, / ché l’uso d’i mortali è come fronda / in ramo, che sen va e altra vene” (Par. XXVI, 133-138). Questo variare dell’umano artificio, che la natura lascia agli uomini, è espresso da Adamo attraverso il tema della bellezza (“secondo che v’abbella”, vv. 130-132), un tema proprio del quinto stato nel suo bell’inizio ripieno dei doni dello Spirito: il quinto stato è per eccellenza quello della vita associata.
La presenza della letizia nelle parole di Adamo sembra ricondurre il nome I non a un numero (l’unità di Dio), né genericamente a un nome di massima semplicità, bensì a Ia (I consonantica, pronunciata Ia) [1], cioè ad alleluia, nome che esprime l’ineffabilità di Dio e, dal punto di vista dell’uomo, la lode tributatagli. Tale è nell’esegesi di Ap 19, 1, dove sono citati Girolamo e Agostino [2]. Il primo nome di Dio fu dunque di ineffabile lode, espresso anche da Beatrice, “loda di Dio”.
[1] Si conferma in tal modo la tesi di GINO CASAGRANDE, I s’appellava in terra ’l sommo bene, in “Aevum”, 50 (1976), pp. 249-273.
[2] Cfr. S. HIERONYMI Presbyteri Liber interpretationis hebraicorum nominum, cura et studio P. De Lagarde, Turnholti 1959 (Corpus Christianorum. Series Latina, LXXII), p. 159; Epist. XXV, PL 22, col. 429. Ma la citazione è mediata tramite ISIDORO DI SIVIGLIA, Etymologiarum VI, xix, 19-21 (ed. W. M. Lindsay, Oxonii 1911, vol. I). Cfr. Sancti Aurelii AUGUSTINI De doctrina christiana, cura et studio I. Martin, Turnholti 1962 (CCSL, XXXII), lib. II, xi, p. 42.
Tab. VI.d
Figura di Cristo (cfr. supra), “sospeso” nel desiderio senza speranza di salvezza ma anche sommo contemplativo (Inf. II, 52; Ap 4, 7-8), Virgilio, come gli altri personaggi della Commedia, veste molti panni. La quinta vittoria (Ap 3, 5) consiste nella vittoriosa discesa alle opere di pietà e di misericordia, la quale dal consorzio con gli infermi cui condiscende non assume macchie o imperfezioni, anzi il vittorioso vive tra i carnali, i rilassati e gli immondi in modo puro, immacolato e santo come se si trovasse in solitudine o in mezzo a gente austera e perfetta. I perfetti padri del quinto stato conseguirono questa ardua vittoria, ad essi viene promesso che cammineranno con Cristo in bianche vesti. I vittoriosi del quinto stato non verranno cancellati dal libro della vita, cioè dalla predestinazione e dalla gloria divina, anzi verranno scritti in esso in modo chiaro. Poiché vissero in mezzo alla moltitudine degli infermi come fossero sepolti o innominati senza avere il nome o la fama dei sommi perfetti, ad essi sarà dato il singolare nome nella gloria divina, raccomandato da Cristo di fronte a tutta la curia celeste.
Quale tema si addice di più a Virgilio della “pietas” e della “condescensio”? Non è forse il suo trarre il discepolo “per loco etterno” un discendere per i cerchi infernali tra gli immondi senza macchiarsi di alcuna colpa, discesa che all’inizio si mostra anche pietosa e angosciata? (cfr. Inf. IV, 13-21). Se i santi pietosi e condiscendenti del quinto stato sono sepolti e innominati, “visi sunt quasi infirmi et nulli” (come Virgilio, che all’apparire è “chi per lungo silenzio parea fioco”: Inf. I, 63; “fragilis et despectus” poteva apparire Cristo dopo la passione e morte: Ap 1, 5), essi hanno dinanzi a Dio nome e fama nel libro della vita. Così Virgilio, quinto fra i grandi poeti del Limbo, è “quell’ ombra gentil per cui si noma / Pietola più che villa mantoana”, dove l’oscuro e quasi sepolto luogo natio, che singolarmente concorda nel suono con pietas, ha più fama della stessa Mantova (Purg. XVIII, 82-83). I santi del quinto stato saranno raccomandati di fronte alla curia celeste; così dice Beatrice a Virgilio: “Quando sarò dinanzi al segnor mio, / di te mi loderò sovente a lui” (Inf. II, 73-74).
Nel cielo di Marte, Cacciaguida discende dal braccio destro al piede della croce formata dai lumi dei beati: “Sì pïa l’ombra d’Anchise si porse, / se fede merta nostra maggior musa, / quando in Eliso del figlio s’accorse” (Par. XV, 19-27); poi anche il suo iniziale parlar profondo “discese / inver’ lo segno del nostro intelletto” (vv. 43-45).
È da notare come gli stessi temi del nome e della “pietas”, variati, siano appropriati a Dante da Omberto Aldobrandesco, che purga la superbia nel primo girone della montagna (Purg. XI, 52-57): costui, se non fosse impedito “dal sasso / che la cervice mia superba doma”, guarderebbe il poeta – “ch’ancor vive e non si noma” (cioè non ha ancora fama; cfr. Purg. XIV, 21) – per farlo pietoso verso di lui così curvo sotto il macigno. Il tema della superbia domata è proprio dello stato precedente, il quarto. Il superbo essere indomito della nostra libertà rende infatti chiuso il quarto sigillo (ad Ap 5, 1).
Una zona che afferisce al quinto stato è la bolgia dei barattieri, dove i due poeti sono scortati dalla “fiera compagnia” dei dieci demoni e costretti così ad andare “in taverna coi ghiottoni” (Inf. XXII, 13-15, dove la parola “taverna” deriva dal “condescensivum contubernium” del quinto stato di cui al Notabile VI del prologo). Liberatisi dei Malebranche, Virgilio e Dante vanno in solitudine “come frati minor vanno per via” (Inf. XXIII, 1-3; cfr. la discesa nella barca di Flegiàs a Inf. VIII, 19-21, 25).
Tab. VI.e
LSA, cap. III, Ap 3, 5 (Ia visio, Va victoria)] Quinta (victoria) est victoriosus descensus ad opera condescensionis et pietatis, qui tunc est victoriosus quando nichil sordis vel imperfectionis accipit ex consortio infirmorum quibus condescendit nec ex sua condescensione, immo inter carnales et laxos et immundos vivit sic immaculate et sancte ac si esset in solitudine vel inter austerrimos et perfectos, quod quidem patet tunc arduissimum tam in puritate quam in pietate misericordi et competit perfectis patribus quinti status, quibus et competit premium de quo in quinta ecclesia dicitur: “Qui vicerit”, scilicet sicut illi pauci qui non inquinaverunt vestes suas inter immundos, “sic vestietur vestimentis albis”, scilicet sicut illi (Ap 3, 5). Nam de illis premisit: “Ambulabunt mecum in albis” (Ap 3, 4). Per que intelligitur gloria singularis <decoris> correspondens merito predicte munditie. “Et non delebo nomen eius de libro vite, et confitebor nomen eius coram Patre meo et coram angelis eius”. Duplici ex causa hoc premium appropriat talibus.
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Inf. VII, 103-105; VIII, 19-21, 25, 128-130; XXI, 127-129; XXII, 13-15; XXIII, 1-3; XXX, 100-102L’acqua era buia assai più che persa;
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Inf. I, 61-63; II, 73-74Mentre ch’i’ rovinava in basso loco,
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[LSA, prologus, Notabile VI (V status)] […] et condescensivum contubernium vite domestice seu cenobitice […]
Purg. XVIII, 82-84
E quell’ ombra gentil per cui si noma
Pietola più che villa mantoana,
del mio carcar diposta avea la soma
Par. XV, 25-27, 37-48
Sì pïa l’ombra d’Anchise si porse,
se fede merta nostra maggior musa,
quando in Eliso del figlio s’accorse.
Indi, a udire e a veder giocondo,
giunse lo spirto al suo principio cose,
ch’io non lo ’ntesi, sì parlò profondo;
né per elezïon mi si nascose,
ma per necessità, ché ’l suo concetto
al segno d’i mortal si soprapuose.
E quando l’arco de l’ardente affetto
fu sì sfogato, che ’l parlar discese
inver’ lo segno del nostro intelletto,
la prima cosa che per me s’intese,
“Benedetto sia tu”, fu, “trino e uno,
che nel mio seme se’ tanto cortese!”.
Purg. XI, 52-57
E s’io non fossi impedito dal sasso
che la cervice mia superba doma,
onde portar convienmi il viso basso,
cotesti, ch’ancor vive e non si noma,
guardere’ io, per veder s’i’ ’l conosco,
e per farlo pietoso a questa soma.
[LSA, cap. V, Ap 5, 1 (IIIum sigillum)] Tertius (defectus in nobis claudens intelligentiam huius libri) est nostre phantasie proterva et erronea cervi-cositas.
[LSA, cap. V, Ap 5, 1 (IVum sigillum)] Quartus (defectus claudens nobis intelligentiam huius libri) est nostre libertatis superba indomabilitas. […]
7. Pronta obbedienza a convivare
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tanto m’aggrada il tuo comandamento,
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VI–VII |
Il tema dell’aprire, oltre che della sesta (Filadelfia) è proprio anche della settima chiesa d’Asia (Laodicea). Ad essa Cristo dice, da una parte, di comprare da lui l’oro della carità con l’offrire tutto il cuore, abdicando e negando quanto possiede nel dedicarsi al servizio di Dio (Ap 3, 18). Dall’altra, in un passo di poco successivo (Ap 3, 20), è Cristo stesso a incitare e ad adescare, mostrandosi pronto e desideroso di convivare con gli uomini in modo intimo e socievole: “Ecco, io sto alla porta” – dei vostri cuori – “e busso”, cioè vi stimolo con forza, tramite moniti, rimproveri, minacce e promesse, perché mi apriate i vostri cuori. “Se qualcuno ascolta”, se cioè qualcuno riceve nel cuore con obbedienza “la mia voce” – quella dei miei moniti – “e mi apre la porta”, cioè l’intimo consenso e l’affetto del suo cuore, “entrerò in lui”, con l’affluire della grazia, “e cenerò con lui”, accettandolo e incorporandolo in me con amore quale cibo amabile e soave, “ed egli con me”, gustando e incorporando la mia dolcezza e bontà.
Questi due passi tratti dall’istruzione data all’ultima delle chiese d’Asia possono essere collazionati tra di loro e con il tema della porta aperta proprio della sesta chiesa (Ap 3, 8), che designa il sentire l’ordine interiore di Cristo e l’apertura della volontà. Di qui derivano il pronto ubbidire di Virgilio alle vere parole di Beatrice, alla quale non resta che aprirgli la sua volontà (Inf. II, 79-81, 134-135); il cuore di Dante disposto con desiderio al viaggio dalle parole di Virgilio, con il quale ora egli ha un’unica volontà (vv. 136-140); il desiderio di Dante di ubbidire a Farinata, per cui il poeta si apre al ghibellino rivelandogli quali fossero stati i suoi ‘maggiori’ (Inf. X, 43-44).
Così i motivi segnano l’offrirsi pronto al servigio, dopo aver contemplato a lungo in silenzio Guido Guinizzelli, il padre suo e degli altri che usarono rime d’amore dolci e leggiadre (Purg. XXVI, 103-105). Il rimatore bolognese subito dopo risponde usando un tema tratto dalla sesta chiesa (Ap 3, 8), con cui asserisce che nessuno potrà oscurare l’impronta lasciata da Dante in lui (vv. 106-108). Una variazione si registra in Giustiniano, che sentì l’ordine di dedicarsi tutto all’alto lavoro di legislatore (Par. VI, 10-12, 22-24).
Da rilevare anche la pronta risposta di Piccarda (“La nostra carità non serra porte / a giusta voglia”), preceduta nelle parole del poeta dai motivi della dolcezza e del gustare (Par. III, 37-45). Forse anche le parole rivolte a Folchetto di Marsiglia – “s’io m’intuassi, come tu t’inmii” (Par. IX, 81) – sono scavate sull’esegesi di Ap 3, 20: «acceptando et amative michi incorporando ipsum et omnia bona eius tamquam cibos michi amabiles et suaves, “et ipse mecum”, scilicet me … incorporando”». Variazione dissonante: nessuno se non Francesco ha aperto la porta a Povertà (Par. XI, 58-60).
Tab. VII
[LSA, cap. III, Ap 3, 18 (Ia visio, VIIa ecclesia)] Emitur autem (aurum ignitum et probatum), cum se et omnia sua abdicat quis, et abnegat pro ipso habendo, seu cum se et totum cor suum offert et dedicat servituti et obedientie Dei pro ipso et eius caritate habenda.
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Purg. XXVI, 103-108Poi che di riguardar pasciuto fui,
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[LSA, cap. III, Ap 3, 8 (Ia visio, VIa ecclesia)] Dicit ergo (Ap 3, 8): “Scio opera tua”, per singularem scilicet approbationem et per gubernandi et remunerandi infallibilem intentionem. “Ecce dedi coram te hostium apertum”. Hostium aperitur cum intellectus illuminatur et exacuitur ad scripturarum occulta expedite et faciliter penetranda et videnda, et cum predicationi datur spiritalis efficacia ad corda audientium penetranda, et cum incredulorum corda divinitus aperiuntur ad credendum et implendum Christi legem et fidem que predicatur eis, et etiam cum spiritus predicantium sentit ordinationem et assistentiam Christi ad aperiendum corda gentium per sermonem ipsius. Nam predicta Christi ordinatio seu voluntas est primum hostium seu prima apertio sue voluntatis et gratie dande auditoribus et sermoni predicantis. De hoc autem dicit Apostolus, Ia ad Corinthios ultimo (1 Cor 16, 8-9): “Permanebo Ephesi. Hostium enim michi apertum est magnum et evidens”. Et ad Colossenses ultimo (Col 4, 3): “Orantes simul etiam pro nobis, ut Deus aperiat hostium sermonis ad loquendum misterium Christi”. Et Actuum XIIII° (Ac 14, 26), ubi dicitur quod Paulus et Barnabas “retulerunt” in ecclesia Antiochie “quanta fecisset Deus cum illis et <quia> aperuisset gentibus hostium fidei”. De apertione vero libri scripture dicitur infra, sub sexto angelo tuba canente, angelus habens faciem velut solis tenere librum apertum (Ap 10, 2). “<Quod> nemo potest claudere”, tum quia quod Deus vult omnino irrefragabiliter aperire, sicut utique voluit isti, nemo potest impedire; tum quia sub tanta luce et evidentia fit hec apertio isti et statui sexto per eum designato quod nemo potest eam obscurare per aliquam rationem vel astutiam, nec per aliquod scripture sacre testimonium, nec per quamcumque aliam viam. “Dedi”, inquam sic tibi “apertum”, “quia modicam habes virtutem”, scilicet ad miracula vel ad corporalia fortis active opera, que sensuales homines plus admirantur et estimant quam intellectualia et interna, unde et plus moventur per illa quam per ista et facilius trahuntur ad imitandum seu ad desiderandum imitari <illa quam ista>, et ideo carentem istis et miraculis oportet habere modo supradicto hostium apertum, si multi sunt convertendi per ipsum. “Et servasti”, id est et quia servasti, “verbum meum”, id est doctrinam mee fidei et mee legis. |
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Inf. X, 43-44Io ch’era d’ubidir disideroso,
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[LSA, cap. III, Ap 3, 20 (Ia visio, VIIa ecclesia; cfr. *, **)] Deinde incitat et allicit eum fortius, exhibendo se ei ut paratissimum et desideratissimum associalissime et intime convivendum et convi-vandum cum eo, unde subdit (Ap 3, 20): “Ecce” ego “sto ad hostium”, scilicet cordium vestrorum, “et pulso”, id est vos meis monitis et increpationibus et comminationibus et promissionibus vehementer excito ut michi corda vestra aperiatis.
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8. Il ratto di Dante
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ch’io mi sia tardi al soccorso levata
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65109119 |
12, 4-5 |
I |
La prima delle sette guerre sostenute dalla Chiesa (quarta visione) si svolse contro Cristo e i suoi primi discepoli. La prima delle sette teste del drago è assimilata a Erode o a Caifa, il pontefice che condannò Cristo. Così viene descritto il conflitto (Ap 12, 4): “Il drago stette dinanzi alla donna”, cioè dinanzi alla Chiesa, “che stava per partorire”, cioè Cristo nella croce e i suoi primi discepoli. Non si tratta del parto corporale della Vergine, perché allora Maria non partorì con dolore, ma del doloroso parto avvenuto nella croce e in tutte le tentazioni. Il drago “stette dinanzi alla donna per divorare il figlio una volta partorito”, ossia per trarlo all’inferno, nella morte eterna, come tutti gli altri uomini. “Essa partorì un figlio maschio” (Ap 12, 5), maschio non solo per sesso ma anche per valore di virile virtù, “che avrebbe governato tutte le genti con lo scettro di ferro”, cioè con inflessibile e insuperabile giustizia e potenza. “E il suo figlio fu rapito”, elevato con la resurrezione e l’ascensione, “verso Dio e verso il suo trono”. Cristo, osserva Olivi, in quanto Dio non fu rapito o mutato; lo fu secondo la sua umanità soggetta al patire. Dall’inizio dell’incarnazione fu infatti in unione personale con Dio ed elevato alla gloria sostanziale della mente. Il termine “raptus” indica la forza soprannaturale e la repentina e possente azione per cui uscì dall’inferno, risorse e ascese al cielo. L’essere rapiti si può intendere, oltre che di Cristo, anche dei suoi apostoli, contro i quali il drago e i Giudei non riuscirono a prevalere impedendo che fossero rapiti in modo trionfale al trono del principato divino ed ecclesiastico e infine al trono dell’eterna gloria di Dio.
Il tema del rapimento è presente nel salvataggio di Dante ad opera di Virgilio: mossa da Lucia, a sua volta mossa dalla Vergine Maria, Beatrice scende repentina al Limbo dal suo beato scanno (“Al mondo non fur mai persone ratte … com’ io”, Inf. II, 109-112) per chiedere a Virgilio di “levare” (nel senso di “togliere” ma anche di “elevare”) il suo amico “d’inanzi a quella fiera”, cioè alla lupa che, impedendo al poeta la salita del dilettoso monte, gli sta davanti per divorarlo e trarlo alla morte eterna come il drago sta dinanzi al figlio partorito dalla donna (vv. 65, 118-120; la lupa uccide, come dice Virgilio in Inf. I, 96). I temi si ritrovano in variazione dissonante con il dannato Ciacco (Inf. VI, 37-39).
Presente in altro luogo (Ap 21, 2: settima visione), il tema del rapimento dal peregrinare terreno alla visione spirituale è presente nel sogno, il primo dei tre fatti sulla montagna del purgatorio, allorché il poeta, nell’ora mattutina in cui la mente è “peregrina / più da la carne e men da’ pensier presa”, si vede rapito dall’aquila alla sfera del fuoco, come Ganimede sul monte Ida “quando fu ratto al sommo consistoro” (Purg. IX, 13-33). Il “foco”, nel quale il poeta arde insieme all’aquila, introduce il tema iniziale del capitolo XXI – il rinnovamento della carne per mezzo della conflagrazione finale: “Vidi poi un nuovo cielo e una nuova terra” (Ap 21, 1) -; esso è collocato tra l’atmosfera e il cielo della luna, cioè in quello stato tra cielo e terra proprio della Chiesa peregrinante e che corrisponde al senso allegorico della Scrittura.
[LSA, cap. XII, Ap 12, 4-5 (IVa visio, Ium prelium)] Sequitur de primo prelio: “Et dracho stetit ante mulierem” (Ap 12, 4), id est ante ecclesiam, “que erat paritura”, scilicet Christum in cruce et in suis primis discipulis. Non enim videtur hic agi de virginali et corporali partu Christi, quia Virgo tunc non parturivit illum cum dolore. In cruce tamen et in omnibus temptationibus Christum peperit cum summo dolore.
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Inf. II, 64-66, 109-112, 118-120e temo che non sia già sì smarrito,
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Inf. VI, 37-39Elle giacean per terra tutte quante,
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