I canti dell’Eden: Purgatorio XXVIII, XXIX, XXX, XXXI, XXXII, XXXIII
1. Nella terrestre sede divina. 2. “L’obietto comun, che ’l senso inganna”. 3. I sette candelabri. 4. “Un carro, in su due ruote, trïunfale”. 5. Appresso il carro. Avvertenze. Abbreviazioni. Note sulla “topografia spirituale” della Commedia. |
Legenda [3]: numero dei versi; 1, 12-13: collegamento ipertestuale all’esegesi, nella Lectura di Olivi, di capitolo e versetto dell’Apocalisse [Ap]; Not. XII: collegamento all’esegesi contenuta nei tredici notabilia del prologo della Lectura. Varianti rispetto al testo del Petrocchi.Viene qui esposto il canto XXIX del Purgatorio con i corrispondenti legami ipertestuali con i luoghi della Lectura super Apocalipsim ai quali i versi si riferiscono. L’intero poema è esposto nella Topografia spirituale della Commedia (2013, PDF; cfr. infra), ma si sta procedendo a un esame progressivo e aggiornato dei singoli canti (completato l’Inferno). Ogni tabella sinottica, qui presentata o alla quale si rinvia in quanto già esaminata in altra sede, è preceduta o seguita da una parte esplicativa. Sull’uso dei colori cfr. Avvertenze. |
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Purgatorio XXIX |
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Cantando come donna innamorata, 2, 18; 5, 8-9
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1. Nella terrestre sede divina
La scena è quella del canto precedente. Nella Lectura “selva” equivale a “deserto”, secondo la complessa esegesi di Ap 12, 6 i cui temi vengono più volte variati nel poema. La selva dell’Eden, foresta fiorita e campagna santa (ad Ap 6, 2 Cristo esce “in campo” su un cavallo bianco), si oppone alla “selva selvaggia” che il poeta ha fuggito all’inizio del poema (l’ostinata Giudea persecutrice di Cristo), mentre s’ingiglia il “deserto” dei Gentili, al quale la donna (la Chiesa) vola con le due ali di una grande aquila (Ap 12, 14). Essa è “l’alta selva vòta, / colpa di quella ch’al serpente crese” (Purg. XXXII, 31-32).
Al Lete sono appropriati temi di una delle due rive del fiume d’acqua viva che scorre nel mezzo della Gerusalemme celeste, della quale l’Eden è figura in terra, la sponda del Cristo uomo (Ap 22, 1-2), lignum vitae che copre d’ombra sacramentale con le sue foglie; a tale esegesi rinviano ombre, fiume (2), riva, ripe, vive, sponda, rio (vv. 5, 7, 8, 11, 62, 71, 89, 141). Igualmente, riferito allo svoltare delle rive, rende l’equalitas, l’uguaglianza dei lati, della città superna (Ap 21, 16).
L’esame di Purg. XXVIII registra i temi della Lectura super Apocalipsim che la parodia ha variato per dare vita nei versi alla figura di Matelda, il cui nome fa segno del Salmo 92, 4. La “bella donna” è fregiata dai temi del quinto stato della storia ecclesiastica, nel suo bel principio: la mirabile bellezza, la varietà dei doni della Grazia, il ricordare un edenico prima, la condiscendenza (Ap 3, 3). Delle prerogative della quarta chiesa d’Asia (Ap 2, 1.18), assimilate a Lia e a Rachele nella descrizione del sogno fatto prima di salire all’Eden, ne mostra di più fra quelle che si riferiscono alla vita attiva: cantare, scegliere fior da fiore, mettere piede innanzi piede, trattare colore con le mani, salmodiare. Le è proprio, nel suo venir “presta”, anche il ministrare, nonché l’umiltà, nel procedere con “picciol passo”. Tuttavia, come Lia era illuminata da Citerea, così anche Matelda si scalda ai raggi d’amore. Per quanto “li occhi onesti avvalli” con condiscendenza (quinto stato), fa dono di levarli per mostrare quanto lume vi splende (quarto stato). È donna “soletta”, si muove “come ninfe che si givan sole / per le salvatiche ombre”, e ciò corrisponde alla solitudine degli anacoreti, ma in essa, al modo degli attivi del quarto stato, si prepara per levarsi più su, verso la contemplazione (cfr. la tematica del quarto stato nella faticosa salita descritta in Purg. IV); la precisazione “disïando / qual di veder, qual di fuggir lo sole” traspone sulla donna il valore positivo del versetto di Ap 3, 15 – “magari tu fossi freddo o caldo!” – privo cioè della tepidezza rimproverata al vescovo della settima chiesa, Laodicea.
In quanto riassuma le sette chiese d’Asia che tendono alla patria celeste (significate dai sottostanti sette gironi della montagna, uno per ognuno dei sette stati della storia della Chiesa), Matelda è immagine della Chiesa militante in terra (l’Asia è interpretata come gradiens; la “bella donna” è colei che per antonomasia ‘muove il passo’; Ap 1, 4).
Matelda, come donna innamorata e ninfa desiderosa (Purg. XXIX, 1, 5-6), rinvia ad Ap 5, 8, esegesi soggetta a molte variazioni. Le coppe auree e fiammeggianti (“phiale”), che i ventiquattro seniori (angeli o santi uomini) offrono prostrati dinanzi all’Agnello, ricolme di profumi che si diffondono come gli odori “ad varias rationes dilecti et ad varias rationes sancti amoris”, designano le preghiere dei santi, spirano di devoti affetti e di desideri dei cuori, con menti già disposte alla lode di Dio. I signacula, che rinviano a questo luogo esegetico, compongono una vera sinfonia dell’amor sacro che il poeta con libertà diffonde variamente combinandone i motivi.
Nel pronunciare il primo versetto del Salmo 31 – Beati quorum tecta sunt peccata! – Matelda “continüò col fin di sue parole” (Purg. XXIX, 2), un modo di parlare proprio anche di Farinata (Inf. X, 76) e di Beatrice (Purg. XXX, 71; XXXI, 4; Par. V, 16-18): le parole ‘continuano’, quasi a sottolineare la necessità di cose che debbono avvenire presto, come spiegato ad Ap 1, 1: «… “que oportet fieri cito” … quia indistanter sunt inchoanda et absque interpolatione continuanda et consumanda». Simmetrico ad Ap 1, 1 è Ap 22, 10, dove alla fine del libro Cristo afferma la prossimità del suo avvento e giudizio. Ivi è ripreso il tema del continuare senza posa un discorso: “et continuat se ad immediate premissum”. Cristo dice anche (Ap 22, 12) che verrà presto a portare, “tamquam dantis”, la propria mercede a ciascuno secondo le sue opere, cioè ai buoni i premi e ai malvagi le pene. Che è poi quello che si propone la Commedia. Il tema della visione mostrata a Giovanni, degna persona cui è concesso di manifestarla ad altri (Ap 1-2), si traspone sul poeta.
La sede divina descritta nella seconda visione apocalittica – i cui temi sono stati appropriati agli “spiriti magni”, che stanno nel nobile castello del Limbo e riaffiorerano nella visione finale della Trinità e dell’incarnazione – è circondata dall’iride, simile allo smeraldo, cioè alla gemma incomparabilmente più verde (Ap 4, 3). Il tema dello smeraldo che impregna l’aria intorno di color verde fa parte della spiegazione che Matelda ha dato sull’origine del vento che spira nel paradiso terrestre (Purg. XXVIII, 103-120).
Matelda si rivolge a Dante chiamandolo “frate” (Purg. XXIX, 15), come fa Giovanni ai destinatari dell’Apocalisse (Ap 1, 4) e Ulisse ai suoi compagni (Inf. XXVI, 112); ciò è indizio di umiltà. Il suo torcersi verso il poeta (v. 14) è variazione in senso positivo di un tema dall’apertura del terzo sigillo, più volte utilizzato nel poema nel senso negativo che ha all’origine (Ap 6, 5).
2. “L’obietto comun, che ’l senso inganna”
All’inizio della propria esposizione sull’Apocalisse, Olivi affronta, fra le altre, la questione se le voci contenute nel libro siano state apprese da Giovanni con un genere di apprendimento diverso da quello proprio della visione. Secondo il francescano, la stessa facoltà immaginativa ritiene le specie di tutti gli oggetti dei cinque sensi esterni, che perciò non differiscono nel genere. Differiscono per il fatto che una specie esprime un oggetto di un solo genere, ad esempio delle forme visibili, e un’altra un oggetto di diverso genere, ad esempio delle voci o dei suoni udibili o degli odori o dei sapori. Lo stesso procedimento si verifica per le specie che sono nell’intelletto (Ap 1, 2).
Nella foresta dell’Eden (Purg. XXIX, 16-51) Dante vede una luce improvvisa come un baleno, mentre una dolce melodia corre per l’aere luminoso: “la melodia dolce e l’aere subitamente luminoso si fondono in un’unica impressione sensibile, che il parallelismo delle indicazioni spaziali (trascorse … per la gran foresta, correva per l’aere) amplifica e sottolinea” (Sapegno). La stessa virtù immaginativa ritiene in Dante, come in Giovanni, le specie dell’oggetto della vista e dell’udito, della luce e della melodia, che non differiscono nel genere. La sensazione vaga della luce commista alla melodia diventa prima “foco” di cui si accende “l’aere sotto i verdi rami”, mentre nel dolce suono si distinguono dei canti; poi si trasforma in sette alberi d’oro, che si precisano essere sette candelabri, mentre nelle voci si percepisce il canto dell’“Osanna”. Il che avviene nel momento in cui la facoltà percettiva che prepara alla ragione la materia del discorrere apprende la verità e dilegua così l’inganno causato da “l’obietto comun”, cioè dal fatto che un oggetto possa essere percepito da più sensi (gli aristotelici “sensibili comuni”). All’apertura della porta del purgatorio, Dante ‘immagina’ di sentire le parole “Te Deum laudamus”, in una polifonia di “voce” e di “dolce suono” nella quale le parole non si intendono distintamente (Purg. IX, 139-145). L’indistinzione fra i sensi, che si fanno discordi (vista e udito nel cantare, vista e olfatto nel fumo degli incensi), si registra poi nella scena della traslazione dell’arca da parte di David scolpita nel primo girone del purgatorio (Purg. X, 58-63) e nel “visibile parlare” prodotto per arte divina negli altri marmi ivi intagliati (vv. 94-96).
La situazione di Dante è simile a quella di Giovanni, la cui visione avviene per segni – cioè per oggetti che nella specie altro intendono -, e non essendo questi segni naturalmente appropriabili al secondo significato (come lo è, ad esempio, l’acqua al battesimo), gli vengono spiegati da un angelo, che ne è consapevole (Ap 1, 2). Questo secondo apprendimento non è più soltanto un percepire da parte dei sensi, è una “ratiocinatio seu argumentatio”. Così Beatrice (che svolge la funzione che l’angelo ha per Giovanni) spiega, nel cielo della Luna, che le anime “qui si mostraro, non perché sortita / sia questa spera lor, ma per far segno / de la spiritual c’ha men salita”. E poiché far segno comporta un secondo apprendimento razionale, la donna subito aggiunge che ciò avviene per il noto principio della logica aristotelica, che si trova in tal modo concordato con l’esegesi scritturale: “Così parlar conviensi al vostro ingegno, / però che solo da sensato apprende / ciò che fa poscia d’intelletto degno” (Par. IV, 37-42).
Se però il segno era puramente intenzionale (“signum voluntarium”), cioè significava qualcosa di stabilito regolarmente e noto per comune istituzione linguistica, in tal caso non c’era bisogno di una speciale spiegazione da parte dell’angelo, se questi parlava a Giovanni nel linguaggio da lui conosciuto e usato (cfr. Par. XVIII, 70-72), spiegazione invece necessaria per le immagini (“res figurales”) che l’evangelista vedeva.
Tab. I
I dottori del terzo stato, proprio dell’uomo razionale (prologo, Notabile I) conseguono la terza vittoria confutando l’erroneo immaginare fondato sui sensi (Ap 2, 17). La falsa immagine delle torri anticipa in Inf. XXXI l’incontro con Nembrot, il superbo costruttore della torre di Babele che causò la confusione e la divisione delle lingue (Virgilio lo chiama “anima confusa”, v. 74), tema che il Notabile XIII del prologo appropria al terzo stato.
Ap 2, 17 interviene anche a Purg. XXIX, 43-51, allorché Dante crede di vedere “sette alberi d’oro” e sente cantare indistinte voci: “ma quand’ i’ fui sì presso di lor fatto, / che l’obietto comun, che ’l senso inganna, / non perdea per distanza alcun suo atto, / la virtù ch’a ragion discorso ammanna / sì com’ elli eran candelabri apprese, / e ne le voci del cantare ‘Osanna’”. Da notare “ammanna”, signaculum della terza vittoria, conseguita sui sensi con la ragione, la quale opera sull’oggetto appreso nella sua essenza dalla virtù intellettiva.
In Inf. XXXI, alla quinta tromba rinviano abborri e fuggiemi (vv. 24.39; Ap 9, 4, il secondo caso contaminato con Ap 2, 17) nonché pungi (v. 27; Ap 9, 5); al versamento della settima coppa si riferisce Come quando la nebbia si dissipa … ’l vapor … l’aere (vv. 34.36; Ap 16, 17; cfr. Inf. XXXIII, 103.105; XXXIV, 4; Purg. XVII, 2.4.5).
Tab. II
[LSA, prologus, Notabile I (IIIus status)] Tertius (status) est confessorum seu doctorum, homini rationali appropriatus. […] In tertio (statu) sonus predicationis seu eruditionis et tuba magistralis.[LSA, prologus, Notabile XIII (IIIus status)] Sicut etiam tunc propter superbiam turris Babel confuse et divise sunt lingue, remanente recta et prima lingua in domo Heber et Hebreorum, ac deinde linguis ceteris in idolatriam demonum ruentibus in sola domo Abraam fides et cultus unius veri Dei remansit, sic propter superbiam plurium ad fidem introductorum lingua et confessio unius vere fidei Christi est in plures hereses divisa et confusa, remanente prima et vera lingua et confessione fidei in domo Petri.[LSA, cap. II, Ap 2, 1] (III) Tertium (exercitium) est discretio prudentie ex temptamentorum experientiis, et exercitiis acquisita providens conferentia et excludens stulta et erronea.
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Inf. XXXI, 16-39, 58-60, 73-78Dopo la dolorosa rotta, quando
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[LSA, cap. II, Ap 2, 17 (IIIa victoria)] Tertia est victoriosus ascensus super phantasmata suorum sensuum, quorum sequela est causa errorum et heresum. Hic autem ascensus fit per prudentiam effugantem illorum nubila et errores ac impetus precipites et temerarios ac tempestuosos. Hoc autem competit doctoribus phantasticos hereticorum errores expugnantibus, quibus et competit premium singularis apprehensionis et degustationis archane sapientie Dei, de quo tertie ecclesie dicitur: “Vincenti dabo manna absconditum, et dabo ei calculum lucidum, et in calculo nomen novum scriptum, quod nemo novit, nisi qui accipit” (Ap 2, 17).
Inf. XXXIV, 1-6, 106-108“Vexilla regis prodeunt inferni
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[LSA, prologus, Notabile XIII (Vus status)] Sicut etiam in quinta etate, destructa Iudea et Iherusalem per Caldeos et prius decem tribubus per Assirios, restitutus est populus Iuda in terram suam, nec ex tunc pullulavit in eis spina idolatrie sicut ante, sic destructis orientalibus ecclesiis per Sarracenos et latina ecclesia fere vastata per eos et etiam per Longobardos prius paganos et factos postmodum arrianos, restitutus est latinus populus per Karolum imperantem, nec ex tunc idola <priorum> magnarum heresum inundaverunt in eis sicut inundaverunt ante, quamvis sicut tunc circa finem fuit secta heresis Saduceorum, sic circa finem huius quinti temporis <serpit> secta heresis Manicheorum.[LSA, cap. IX, Ap 9, 4 (IIIa visio, Va tuba)] Hec autem sunt adhuc quasi seminaliter et initialiter cum continuo tamen augmento; consumabuntur autem in fine, quando publice Christi vitam et spiritum in viris spiritualibus acerrime impugnabunt et sollempniter condempnabunt, quamvis nec tunc permittantur ledere spiritum perfectorum, nec etiam simplicium virorem vite et spiritus Christi firmiter in se servantium et illorum malitias et errores abhorrentium et fugientium sicut ovicule et agniculi exhorrent et fugiunt lupos (cfr. Ap 9, 4).[LSA, cap. XVI, Ap 16, 17 (Va visio, VIIa phiala)] Et sicut aer purgatus a grossis et fumosis vaporibus et nubibus et tranquillatus a ventorum tempestatibus est pervius radiis solis et stellarum et visui hominum, sic septimus status ecclesie, post plenam sui purgationem in effusione septime phiale consumandam, erit serenus et tranquillus […].
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I temi presenti nell’esegesi di Ap 19, 1 offrono materia per numerosi sviluppi. Ivi viene descritto il festoso gaudio della Chiesa che segue la dannazione di Babylon, la Chiesa carnale. Come, allorché venne ripudiata la regina Vasti dal regno e dal connubio del re Assuero e fu eletta l’umile e santa Ester quale sposa e regina, il re fece un grande banchetto con tutti i suoi principi e servi (Est 2, 18), e lo stesso avvenne in occasione del ripudio della Sinagoga quando fu eletta la Chiesa della pienezza delle genti, così nel sesto stato, ripudiata l’adultera nuova Babilonia, conviene sia esaltata la Chiesa spirituale e celebrato un convivio per le sue nozze. Dapprima si narra pertanto la gioia per la giusta dannazione di Babylon e per la liberazione dei santi dalla servitù: “Dopo ciò”, cioè dopo la dannazione, “udii una gran voce come di molte trombe in cielo che dicevano: alleluia”. Quanti saranno allora i santi altrettante saranno le trombe risonanti, per mezzo del veemente soffio dello Spirito Santo, dalle viscere più profonde fino al cielo e in tutto l’universo, lodi altissime e diffuse di gioia divina. E poiché un gran numero di Giudei e di Gentili, Greci e Latini, allora entrerà in Cristo con spirito grande e alto, molte saranno le trombe risonanti per le grandi voci degli intelletti spirituali e degli affetti, al modo con cui si celebra annualmente la solennità delle Palme, nella quale Cristo venne glorificato da molti popoli. Le turbe che precedono designano i Greci, quelle che seguono i Latini, quelle che vengono incontro alla discesa del monte degli Ulivi i Giudei, tra i quali sono i fanciulli. Tutti costoro cantavano “Osanna al Figlio di Davide”, e gloria, lode e onore sia a te, Cristo redentore (Matteo 21, 9). Poiché allora l’intelletto spirituale del terzo stato generale, insieme con tutti gli altri, verrà aperto in modo chiarissimo, esso procederà dalle trombe delle diverse storie, figure e misteri risonanti con mirabile concordia e provocanti i santi all’ineffabile lode di Dio designata con “alleluia”, parola ebrea che significa lodare Dio.
Il passo contiene molti temi più volte variati nel poema, in particolare in Paradiso XXIII e XXIV. Ad esso rinviano anche, in Purg. XXIX, alcuni termini presenti nei versi che descrivono il precisarsi dell’indistinto dolce suono della melodia, ascoltato da Dante nell’Eden, in canti e in voci dicenti “Osanna”. Si notino altre variazioni con fulcro su Osanna, combinate con ulteriori luoghi esegetici: ad esempio con Ap 14, 4 per Par. XXVIII, 94-96, oppure con Ap 19, 6 per Par. VII, 1-3, dove l’esegesi del versetto “Quoniam regnavit” trova rispondenza con “horum malacòth“, voce ebraica che secondo san Girolamo, nel Prologo al Libro dei Re, si traduce con Regnorum.
L’ascolto di sì dolce melodia suscita in Dante il “buon zelo” che riprende l’ardire di Eva, che “non sofferse di star sotto alcun velo” perdendo le edeniche delizie (Purg. XXIX, 23-30; Ap 3, 19). Il poeta se ne va “tra tante primizie / de l’etterno piacer tutto sospeso”, dove quest’ultimo termine, usato in senso equivoco nel Limbo, fa riferimento alla contemplazione (vv. 31-32; Ap 4, 7-8).
Tab. III
[LSA, cap. XIX, Ap 19, 1 (VIa visio)] “Post hoc audivi”. Descripta Babilonis dampnatione, subditur hic festivale gaudium sancte ecclesie quod erit post dampnationem Babilonis. Sicut enim Vasti regina a regno et coniugio regis Assueri abiecta, electa est Hester humilis et sancta ad eiusdem regis conubium et regnum, fecitque ex hoc rex magnificum convivium cunctis principibus et servis suis (cfr. Est 2, 18), sic reiecta sinagoga electa est ecclesia plenitudinis gentium, sicque in sexto statu ecclesie reiecta Babilone adultera oportet spiritalem ecclesiam exaltari et celebre ac spiritale convivium pro eius nuptiis celebrari. In hac igitur parte primo narratur gaudium ex iusta dampnatione Babilonis et ex liberatione sanctorum a servitute ipsius proveniens. Secundo subditur gaudium de exaltatione et clarificatione regni Christi et ex nuptiis Christi et spiritalis ecclesie procedens, ibi: “Et audivi quasi vocem tube magne” (Ap 19, 6).
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[LSA, cap. XIX, Ap 19, 6] Deinde subdunt motivum et materiam huius laudis: “Quoniam regnavit”, scilicet super nos et super totum orbem celebriter et magnifice et evidenter, “Domin<us> Deus noster omnipotens”. Deus quidem semper regnat in se, sed non semper effundit et ostendit gloriam sui regni sicut facit quando, destructis hostibus et pravo regno ipsorum, exaltat suos per totum orbem et spiritale regnum in eis. De hoc ergo modo regnandi agitur hic.Par. VII, 1-3“Osanna, sanctus Deus sabaòth,
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Par. VIII, 28-30e dentro a quei che più innanzi appariro
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[LSA, cap. XIV, Ap 14, 4 (IVa visio)] Unde et sextum preconium prerogative ipsorum est indivisibilis et indistans ipsorum ad Christum familiaritas, propter quod subditur: “Et sequuntur Agnum quocumque ierit”. Quantum unusquisque Deum imitatur et participat, in tantum sequitur eum. Qui ergo pluribus et altioribus seu maioribus perfectionibus ipsum imitantur et possident altius et multo fortius ipsum sequuntur. Qui ergo secundum omnes sublimes et supererogativas perfectiones mandatorum et consiliorum Christi ipsum prout est hominibus huius vite possibile participant, “hii sequuntur Agnum quocumque ierit”, id est ad omnes actus perfectionum et meritorum ac premiorum eis correspondentium, ad quos Christus tamquam dux et exemplator itineris ipsos deducit.
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3. I sette candelabri
■ La prima visione dell’Apocalisse si apre con la designazione delle sette chiese d’Asia per mezzo dei sette candelabri d’oro (Ap 1, 12-13). Esse infatti, come i candelabri, sono dritte in su verso le cose divine e adattate tutte insieme a ricevere il lume divino e a diffonderlo agli altri. Sono d’oro sia per la sapienza e la carità, sia perché come l’oro, saggiato nel fuoco e disteso dal martello nella forma di candelabro, diviene fiammeggiante strumento di luce, così le chiese provate dalle tentazioni ed estenuate dalle persecuzioni ardono di carità e rilucono di sapienza, verità e opere esemplari. Cristo appare quindi con dodici proprietà o perfezioni che si addicono al sommo rettore o pastore. La prima (Ap 1, 13) è la presenza assidua dell’abitare e del visitare, designata dallo stare in mezzo ai sette candelabri, al modo in cui nella vecchia legge il sacerdote doveva sempre avere sollecita cura delle sette lucerne e delle luci del candelabro del santuario. Cristo sta “in mezzo” perché si mostra in intima comunione con tutti i suoi come il centro di una sfera si mostra a tutta la sfera.
Nella processione che si svolge nell’Eden, i sette candelabri appaiono in un primo momento sette alberi d’oro (Purg. XXIX, 43-51). Il “bello arnese” fiammeggia (v. 52): il singolare rende il “coaptate” delle Chiese, in quanto tutti e sette sono collettivamente adattati a ricevere la luce e a diffonderla, ad essere “instrumentum ignis”. I motivi dell’ardere di carità e del rilucere di sapienza, verità e opere esemplari si ritrovano nel rimprovero che Matelda fa a Dante di ardere “sì ne l’affetto de le vive luci” (l’affetto deriva dalla carità e il lume dalla sapienza) senza guardare i seniori che vengono dietro ad esse (vv. 61-63). Le fiammelle dei candelabri che procedono tracciano nell’aria sette liste colorate, definite “ostendali”, cioè ‘stendardi’, che rendono l’estendersi delle chiese nelle prove e nelle persecuzioni (vv. 79-81). Il distare “diece passi” delle liste estreme, per quanto tutti i commentatori antichi vi abbiano visto solo un’allusione al decalogo, è in realtà riferito anche ai dieci giorni di tribolazioni preannunziato alla chiesa di Smirne, propria del secondo stato dei martiri: come risulta dall’esegesi di Ap 2, 10, Olivi riporta sia l’interpretazione di Riccardo di San Vittore (il decalogo) sia quella per cui i dieci giorni corrispondono alle dieci persecuzioni principali. Il grifone, simbolo di Cristo che avanza tirando il carro dopo i candelabri e i seniori, tende in su (come i candelabri) le ali rimanendo in mezzo alle sette liste (sulla linea mediana di esse, con tre a destra e tre a sinistra) senza toccarne alcuna fendendo in modo da fare male (vv. 109-111). È probabile che l’ultimo verso alluda alla promessa di protezione fatta da Cristo ai martiri, le cui tentazioni non sono causa di danno, ma di prova e di merito (Ap 2, 10). È da notare come i due motivi dello ‘stare in mezzo’ e del numero sette percorrano, diversamente variati, tutto Purg. XXIX: sono sette gli “alberi d’oro” che falsava nell’aspetto “il lungo tratto / del mezzo (cioè dello spazio intermedio) ch’era ancor tra noi e loro” (vv. 43-45); il “bello arnese” fiammeggiava “più chiaro assai che luna per sereno / di mezza notte nel suo mezzo mese” (vv. 52-54); sette sono le liste tracciate nell’aria dai candelabri (vv. 76-77), nel cui mezzo si pone il grifone tendendo in su le ali (vv. 109-111); sette sono le donne che danzano ai lati del carro (le quattro virtù cardinali a sinistra e le tre virtù teologali a destra, vv. 121-132); sette sono i personaggi che concludono la processione (san Luca, san Paolo, i quattro che simboleggiano le Epistole minori e san Giovanni in quanto autore dell’Apocalisse, vv. 133-150).
Il grifone, in quanto aquila nella testa e nelle ali (la natura divina di Cristo), aveva le membra color d’oro; in quanto leone, esse erano bianche miste a rosso (i due colori del Cristo uomo (Ap 19, 11.13): “le membra d’oro avea quant’ era uccello, / e bianche l’altre, di vermiglio miste” (vv. 113-114).
Ad Ap Ap 1, 4 si parla dei “sette spiriti che stanno dinanzi al suo trono”. Si precisa trattarsi dello Spirito increato, semplice per natura e settiforme per grazia nei suoi doni, radice e forma esemplare dei sette stati della Chiesa che costituiscono l’oggetto principale dell’Apocalisse. Viene detto che i sette spiriti sono dinanzi al trono perché fanno stare nel cospetto di Dio e della sua sede coloro i quali ne sono pieni, secondo le parole di san Paolo ai Romani (Rm 8, 26): “è lo stesso Spirito che postula per noi”, perché ci fa domandare.
Purg. XXX inizia allorché i sette candelabri, che aprono la processione nell’Eden, si fermano. Essi sono definiti “il settentrïon del primo cielo, / che né occaso mai seppe né orto”, cioè l’Orsa dell’Empireo che, come l’Orsa terrestre (cfr. Par. XIII, 7-9), non viene mai meno e segna il cammino da percorrere. I sette candelabri designano i sette doni dello Spirito increato, che non ha principio né fine. Il “settentrion” rende ciascuno consapevole di quello che debba fare e, fermandosi, fa in modo che i ventiquattro seniori che lo seguono si volgano al carro (il carro-Chiesa militante tirato dal grifone-Cristo). I seniori si volgono al carro “come a sua pace”, e uno di loro invoca (cioè ‘postula’ per dettato interiore dello Spirito) l’arrivo di Beatrice cantando tre volte “Veni, sponsa, de Libano”, seguito da tutti gli altri. Nel canto precedente, “posta” e “sosta” sono in rima attribuiti a Dante intento a vedere meglio i sette candelabri (Purg. XXIX, 70-72).
Le fiammelle dei candelabri vanno davanti parodiando il tema, ad Ap 12, 17, del purissimo seme della donna – Cristo rapito in cielo con i martiri – che precede, lasciando l’aria dipinta di lunghe liste colorate, “sì che lì sopra rimanea distinto / di sette liste”, come il seme della donna rimase nell’evangelista Giovanni (Purg. XXIX, 73-78).
Di fronte alla visione dei candelabri – “alte cose” -, Dante si rivolge pieno di ammirazione a Virgilio e questi risponde con sguardo non meno stupito (Purg. XXIX, 55-58). Risuona qui una delle numerose variazioni sui temi da Ap 7, 13 (in collazione con Ap 5, 2) quando, nel finale dell’apertura del sesto sigillo, uno dei seniori ‘risponde’, cioè si rivolge a Giovanni parlando, quasi maestro che stimola il discepolo ad apprendere chiedendo, in ciò sottolineando l’alta ammirazione di colui che domanda e la rarità, difficoltà e arditezza della cosa richiesta. Ma in questo caso Virgilio, di fronte a immagini inusitate, è pervaso anch’egli di stupore (cfr. Ap 21, 17).
Il volgersi di Dante verso Virgilio è speculare al volgersi indietro di Giovanni verso cose più alte, quando sente una voce dietro le spalle, quella della sua guida (Ap 1, 10-12). Matelda rimprovera il poeta intento a guardare con sì ardente affetto le vive luci dei candelabri aurei, che aprono la processione, da non considerare quello che viene dietro ad essi, cioè i ventiquattro seniori, “duci” dei candelabri (Purg. XXIX, 61-65).
L’invocazione alle Muse – “O sacrosante Vergini …” (vv. 37-42) – è parodia dell’esegesi di Ap 12, 14, dove si dice che la donna – la Vergine che portò Cristo nel ventre, lo partorì e lo allattò – sta a significare la Chiesa delle vergini, madre e nutrice dei fedeli, formata da uomini e donne dalla giusta vita che, come le stelle del cielo segnano il cammino ai naviganti, sono segni ed esempi agli altri, in modo che sappiano dove andare coloro che li considerano. Un riscontro è in quanto Stazio dice della precedente illuminazione di Virgilio – “de la divina fiamma / onde sono allumati più di mille” – che ha operato su di sé, al cui ardore poetico furono seme le faville dell’Eneide, “la qual mamma / fummi, e fummi nutrice, poetando” (Purg. XXI, 94-99). Stazio fascia Virgilio con parte del panno della Vergine madre e nutrice da Ap 12, 14 come, nel canto successivo, Virgilio farà con Omero, “quel Greco / che le Muse lattar più ch’altri mai” (Purg. XXII, 100-105).
■ L’immagine della fiamma di Ulisse “dritta in sù” partecipa, almeno in parte, dei motivi propri del candelabro (Inf. XXVII, 1).
L’infiammarsi e il distendersi in su con la fiamma al modo dei candelabri, come il bimbo tende le braccia verso la mamma dopo aver preso il latte, è proprio dei lumi incandescenti che nel cielo delle stelle fisse mostrano in tal modo il proprio alto affetto verso Maria (Par. XXIII, 121-126). Maria stessa, nell’Empireo, è “pacifica oriafiamma” (“aurea flamma”, l’‘ostendale’ del re di Francia) che s’avviva “nel mezzo”, cioè in un punto simile a quello dell’orizzonte dove sta per nascere il sole (Par. XXXI, 124-129). La Vergine, come spiega san Bernardo nel canto seguente (Par. XXXII, 85-86), è “la faccia che a Cristo / più si somiglia”, e dunque anche ad essa, come a Cristo mediatore e centro dei tempi, si addice il tema dello stare “nel mezzo”.
Variante del tema dei candelabri, la figura meravigliosa di Gerione nuota in su per l’“aere grosso e scuro” come il marinaio che, immersosi in acqua per sciogliere l’ancora, torna alla superficie distendendosi in su e traendo a sé le gambe (Inf. XVI, 133-136). Tornare è tema proprio della sesta vittoria, ad Ap 3, 12, che si registra in collazione con l’esegesi dei candelabri anche a Par. XI, 13-18. L’ottava perfezione di Cristo in quanto sommo pastore è di avere nella sua destra sette stelle (Ap 1, 16), cioè i sette vescovi che presiedono alle sette chiese come la luce della lampada risplende sopra i candelabri del santuario (così in Esodo, 25, 31-37). A questa esegesi rinvia l’espressione “come a candellier candelo” (Par. XI, 15), circondata da altre parole-chiave (“fu tornato”, “cerchio”, “fermossi”) che rimandano all’esegesi di Ap 3, 12 (sesta vittoria).
Tab. IV
[LSA, cap. II, Ap 2, 10 (Ia visio, IIa ecclesia)] “Et habebitis tribulationem diebus decem”. […] Secundum vero Ricardum, per decem dies significatur claritas decalogi pro cuius custodia tribulantur electi, quasi dicat: quamdiu in luce mee legis ambulatis, tamdiu pro eius observantia tribulationem habebitis, secundum illud Apostoli: “Omnes qui pie volunt vivere in Christo Ihesu persecutionem patiuntur”, IIa ad Timotheum III° (2 Tm 3, 12). Potest etiam dici quod per decem dies figuravit decem generales persecutiones ecclesie tempore martirum, per hanc secundam ecclesiam designatorum, factas […] |
[LSA, cap. VII, Ap 7, 1 (IIa visio, apertio VIi sigilli)] “Ne flarent super terram neque super mare” id est, secundum Ricardum, super malos terrena diligentes et in mari huius seculi fluctuantes; “neque in ullam arborem”, id est in bonos sursum erectos et fructificantes. |
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[LSA, cap. I, Ap 1, 12-13 (radix Ie visionis)] Pro primo nota quod ecclesie designantur congrue per candelabra aurea (Ap 1, 12), tum quia instar candelabrorum sunt sursum in divina erecte et ad lumen Dei suscipiendum et aliis diffundendum coaptate, tum quia per Dei sapientiam et caritatem sunt auree, tum quia sicut aurum per ignem probatur et malleis extenditur et in candelabri formam producitur et instrumentum ignis et luminis efficitur, sic ecclesie temptationibus probate et persecutionibus extenuate ardent caritate et lucent sapientia et veritate et exemplari opere.
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Par. XXXI, 127-129così quella pacifica oriafiamma
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[LSA, cap. I, Ap 1, 16 (Ia visio)] Octava (perfectio summo pastori condecens) est potestativa presidentia et continentia non solum ecclesiarum sed etiam suorum rectorum, unde subdit: “et habebat in dextera sua septem stellas” (Ap 1, 16), per quas ut infra dicetur (cfr. Ap 1, 20) designantur septem episcopi ecclesiarum. Episcopus enim debet sic super ecclesiam sibi subiectam lucere et presidere sicut lux lucerne stabat quasi stella super candelabrum sanctuarii (cfr. Ex 25, 37). Sicut etiam inferiora illuminantur et reguntur per stellas, sic ecclesie per sanctos episcopos. |
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Par. XI, 13-18Poi che ciascuno fu tornato ne lo
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[LSA, cap. III, Ap 3, 12 (VIa victoria)] Columpna autem, sic stans, est longa et a fundo usque ad tectum erecta et solida ac sufficienter densa, et rotunda communiter vel quadrata, et firmiter fixa templique sustentativa et decorativa. Sic autem stat in Dei ecclesia vel religione vir evangelicus Christo totus configuratus, sic etiam suo modo stat in celesti curia. […] Et attende quomodo a Deo incipiens et in eius civitatem descendens, reascendit et finit in se ipsum, quia contemplatio incipit in Deo et per Dei civitatem ascendit in Christum eius regem, in quo et per quem consumatissime redit et reintrat in Deum, et sic fit circulus gloriosus. |
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[Ap 1, 12-13]candelabra
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[Purg. XXIX]candelabri (v. 50; hapax)
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Numerosi motivi provengono dalla “radice” della seconda visione, relativa all’apertura dei sette sigilli, in particolare dalla descrizione della sede divina nel capitolo quarto, che precede l’apertura del libro che sta alla destra del trono e che solo Cristo è in grado di aprire, tema sviluppato nel quinto capitolo. La conseguenza è che la staticità del testo apocalittico si distende in processione. La sede è alta ed eminente (Ap 4, 2), come il monte che “salìo verso ’l ciel tanto” secondo l’interpretazione del nome ‘“Asia”, la regione dove sono le chiese alle quali scrive Giovanni (Purg. XXVIII, 101); vi rifulge l’arco dell’iride (Ap 4, 3: Purg. XXIX, 77-78, dove le sette liste tracciate dai candelabri sono “tutte in quei colori / onde fa l’arco il Sole e Delia il cinto”); assistono i ventiquattro seniori che stanno attorno in circolo (Ap 4, 4: vv. 64-66, 83-84), con la differenza che nei versi i seniori non siedono ma procedono. “Sotto così bel ciel com’ io diviso“, bello come l’edenico principio di Sardi, la quinta chiesa d’Asia (Ap 2, 1; cfr., al v. 52, il fiammeggiante “bello arnese”), i seniori sono “circumamicti stolis albis”, “genti … vestite di bianco”; “et in capitibus eorum corone auree”, “a due a due, / coronati venien di fiordaliso” (vv. 64-66, 82-84; sul “fiordaliso” cfr. Ap 12, 6). Se il verde è il colore principale che impregna l’aria della sede divina, le cui varazioni hanno segnato il discorso di Matelda nel canto precedente, i colori dell’iride (Ap 4, 3) fregiano i personaggi della processione: il rosso (la carità), il verde (la speranza), il bianco (la fede), il purpureo (le quattro virtù cardinali).
Dalla sede vengono emessi folgori, voci e tuoni (Ap 4, 5). Nel corso della processione si succedono lampi (Purg. XXIX, 16-18: “Ed ecco un lustro sùbito trascorse … tal, che di balenar mi mise in forse), voci (vv. 22-23, 50-51: “E una melodia dolce correva / per l’aere luminoso … sì com’elli eran candelabri apprese, / e ne le voci del cantare ‘Osanna’”) e tuoni (v. 152: “un tuon s’udì”). La folgore è subitanea, ma quel balenar “durando, più e più splendeva”, come lo splendore del volto di Cristo, nel sesto stato della Chiesa, “plus incomparabiliter lucet”, quasi in una nuova trasfigurazione (Ap 1, 16).
La sede è ornata da sette lampade ardenti che sono davanti al trono, simbolo dei sette spiriti di Dio (Ap 4, 5). Lo Spirito Santo, partecipato nei suoi sette doni, fa ardere e rilucere i santi di lui ripieni, in modo che illuminino e infiammino la Chiesa, che è il trono di Dio, e venerino la divina maestà nella quale Dio sta quieto come nella sua propria essenza. I sette vecchi che chiudono la processione ardono tutti sulla fronte ornata di rose e altri fiori vermigli, come le lampade che stanno dinanzi al trono (vv. 145-150). Ardere e lucere sono verbi parodiati nelle parole di Matelda rivolte a Dante: «La donna mi sgridò: “Perché pur ardi / sì ne l’affetto de le vive luci, / e ciò che vien di retro a lor non guardi?”».
Dinanzi alla sede divina sta il mare vitreo simile a cristallo (Ap 4, 6). È il “pelago” della Sacra Scrittura, che resta dinanzi alla Chiesa in modo che gli eletti possano in essa vedere l’aspetto del proprio volto e conoscano quali essi siano, e anche possano comprendere le cose invisibili di Dio come in un chiaro specchio e per mezzo di esso. Guardare sé stesso nella Scrittura per conoscere la propria immagine è stato già proprio del conte Ugolino, dopo che ha sentito inchiodare l’uscio dell’orribile torre e al sorgere del sole nel secondo giorno di prigionia, quando “un poco di raggio si fu messo / nel doloroso carcere”: «ond’ io guardai / nel viso a’ mie’ figliuoi sanza far motto … e Anselmuccio mio / disse: “Tu guardi sì, padre! che hai?” … e io scorsi / per quattro visi il mio aspetto stesso» (Inf. XXXIII, 47-48, 50-51, 55-57). Fra i vari significati attribuiti al “mare di vetro”, si addicono al conte l’amaro e infinito patire di Cristo e, per contrasto, la tolleranza del martirio, la contrizione penitenziale. Come egli non sa sopportare le tribolazioni, ed è impaziente e si dispera mordendosi le mani per il dolore, così il guardare nei figli – che sono quattro come i Vangeli – non gli rende la vista delle cose spirituali.
Un altro attributo della Scrittura è di essere assimilata al collirio. Il tema è introdotto ad Ap 3, 18, nel corso dell’istruzione data a Laodicea, la settima delle chiese d’Asia. Il collirio, che all’inizio punge gli occhi in modo amaro e provoca le lacrime, rendendo però alla fine chiara la vista, designa l’amara compunzione dei propri peccati. Così la Scrittura è come il collirio, perché il precetto del Signore è lucente e illumina gli occhi. Ugolino guarda nel viso dei suoi figli che piangono, ma lui non piange né lacrima.
Un passo simmetrico ad Ap 4, 6 è Ap 15, 2, nella “radice” della quinta visione delle coppe (cioè nella parte proemiale di questa; cfr. la presenza dei temi nei “fuochi contemplanti” che si manifestano nel cielo di Saturno). In questo caso viene descritto lo stato sublime, il trionfo e lo zelo dei santi ai quali spetta di versare le coppe. Il mare qui è detto “vetro misto a fuoco”, e designa la contemplazione ignea, la macerazione penitenziale, l’amarezza e la tolleranza delle tribolazioni, grande e profonda come il mare, perspicua e solida come il vetro, mescolata al fuoco della fervida carità. L’acqua del mare corrisponde al senso letterale della Scrittura, il fuoco all’intelligenza spirituale e ardente. Il mare è anche l’immensa sapienza di Cristo ripiena del fuoco della carità e di zelante giustizia, l’amara e immensa passione di Cristo trasparente come vetro, mezzo che consente di contemplare le sue viscere. La selva oscura e amara in cui il poeta si è smarrito designerà pertanto anche la lettera senza lo spirito, che è “acqua perigliosa” (Inf. I, 7, 22-24). Un’acqua che s’accende (imprendëa) è invece quella del Lete, riflettendo la luce dei candelabri, specchio per la “sinistra costa” di Dante (la sinistra è il lato temporale), il quale guarda il fiume (Purg. XXIX, 67-69): sarà da intendere che si tratta di acqua purgativa della colpa, lettera mista a spirito, che induce amarezza ma rende anche pietoso temperamento che scioglie il gelo. Ai candelabri e ai seniori subentra, “a rimpetto di me da l’altra sponda”, il carro trionfale tirato dal grifone-Cristo, contenuto dai quattro animali (i quattro Vangeli). Ferma sulla sua “sponda” sinistra, Beatrice rimprovererà aspramente l’amico che si pentirà lacrimando. L’acqua del Lete, accesa dalla luce dei candelabri, rende l’acqua del mare mista a fuoco di Ap 15, 2; è esclusa pertanto la variante mi prendea, nel senso di riflettere la “sinistra costa” del poeta.
Nel canto seguente, Beatrice rimprovera Dante invitandolo a guardarla: “Guardaci ben!” (Purg. XXX, 73). Il poeta guarda nel Lete, “chiaro fonte” (come il “pelago” della Scrittura) le cui acque senza “mistura alcuna” sono limpide e nulla nascondono (Purg. XXVIII, 28-30), ma vedendo la sua immagine prova tanta vergogna da distogliere gli occhi verso l’erba (Purg. XXX, 76-78). Di fronte al rimprovero della donna, che gli pare superba come la madre al figlio “perché d’amaro / sente il sapor de la pietade acerba”, Dante resta “sanza lagrime e sospiri”, gelato attorno al cuore come la neve congelata e addensata dai venti di Schiavonia che soffiano fra i rami degli alberi sul giogo d’Appennino. Il dolce canto degli angeli, che temperano l’amaro delle parole di Beatrice, scioglie però quel gelo come neve al caldo vento del sud e lo trasforma in sospiri e lacrime che sgorgano con fatica dalla bocca e dagli occhi (vv. 79-99).
In mezzo e intorno alla sede sono quattro animali dalle stupende forme, o meglio quattro esseri viventi, dei quali il primo era simile a un leone, il secondo a un vitello, il terzo aveva l’aspetto di uomo e il quarto era simile a un’aquila (Ap 4, 6-7). Si tratta dei quattro animali, i quali designano i quattro Vangeli, che coronati di verde fronda nella processione segnano lo spazio entro cui si colloca il carro (Purg. XXIX, 91-108). Questi animali sono presenti anche nella visione di Ezechiele ma disposti con ordine diverso e diversi anche nel numero delle ali per il quale Dante, che ne assegna sei anziché quattro, è con l’autore dell’Apocalisse anziché con l’antico profeta (vv. 103-105). I motivi del diverso ordine vengono spiegati diffusamente nella Lectura. Le penne degli animali sono pieni d’occhi (Ap 4, 6), che nei versi vengono paragonati agli occhi di Argo (vv. 95-96).
I quattro animali danno onore, gloria e benedizione a colui che siede sopra il trono (Ap 4, 9-10): la lode è nei versi è cantata dai seniori (che nell’Apocalisse si prosternano): «Tutti cantavan: “Benedicta tue / ne le figlie d’Adamo, e benedette / sieno in etterno le bellezze tue!» (vv. 85-87).
Per spiegare i motivi della breve descrizione dei quattro animali Dante fa riferimento a una proprietà della Scrittura, la cui forza spirituale consente ora di estendere ora di restringere l’interpretazione (prologo, Notabile XI): “A descriver lor forme più non spargo / rime, lettor; ch’altra spesa mi strigne, / tanto ch’a questa non posso esser largo” (vv. 97-99).
Tab. V
[Ap 4, 5] “Et de trono procedebant” (Ap 4, 5), vel secundum aliam litteram “procedunt”, “fulgura et voces et tonitrua”, quia tam a Deo quam ab eius ecclesia et quam a sanctis, qui sunt sedes Dei, procedunt “fulgura” miraculorum, quorum claritas longe lateque coruscat sicut fulgura discurrentia; et “voces” rationabilis ac temperate predicationis, “et tonitrua” terribilium comminationum, vel tonitrua altiorum et spiritualium documentorum, que com-petunt perfectioribus.
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Purg. XXIX, 16-18, 22-23, 34-36, 49-51, 61-63, 148-152Ed ecco un lustro sùbito trascorse
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[LSA, cap. IV, Ap 4, 3.4.6 (radix IIe visionis)] “Et iris erat in circuitu sedis similis visioni <s>maragdine”, id est viridis coloris smaragdi. Smaragdus enim est gemma cui, secundum Isidorum et Papiam, nichil viridius comparatur. Nam virentes herbas et frondes exsuperat et intingit circa se viriditate repercussum aerem, soloque intuitu implet oculos nec satiat, est enim gratiosissima visui. […]
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[…] “Et in conspectu sedis”, scilicet erat, “tamquam mare vitreum simile cristallo” (Ap 4, 6). Per mare designatur Christi amara et quasi infinita passio et lavacrum baptismale et penitentialis contritio et martiriorum perpessio et pelagus sacre scripture. Quodlibet enim horum est puritate et claritate et pervia perspicuitate vitreum et soliditate cristal-linum. Hec omnia etiam sunt ad utilitatem ecclesie ordinata et ad cultum et gloriam maiestatis Dei. Scriptura etiam ideo manet in conspectu ecclesie, ut in ea valeant electi species facierum suarum prospicere ad cognoscendum se quales sint, et etiam ut in ipsa tamquam in speculo et per speculum possint intelligere invisibilia Dei. |
[LSA, cap. XV, Ap 15, 2 (radix Ve visionis)] “Et vidi tamquam mare”. Hic describitur fontalis radix septem effusionum. Et hoc quoad quattuor. Primum est sublimis status et triumphus et zelus sanctorum ad quos spectat effundere. Per “mare” enim “vitreum mixtum igne”, designatur contemplatio ignea et penitentialis maceratio et amaritudo, et etiam tribu-lationum perpessio magna et profunda sicut mare et perspicua et solida sicut vitrum et igne superfervide caritatis commixta. Sicut etiam in aqua maris designatur doctrina littere, sic in igne intelligentia spiritalis et ardens.
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Purg. XXX, 73-78“Guardaci ben! Ben son, ben son Beatrice.
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Purg. XXIX, 64-69, 76-78, 82-84, 91-93
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4. “Un carro, in su due ruote, trïunfale”
L’angelo, che al suono della sesta tromba ha la faccia come il sole (terza visione: Ap 10, 1), viene descritto nel capitolo X dell’Apocalisse come forte, discendente dal cielo, avvolto in una nube (“amictus nube”), la fronte cinta dall’iride. Viene dall’Olivi identificato con Francesco, non diversamente dall’angelo del sesto sigillo (seconda visione: Ap 7, 2). Il nostro santissimo padre Francesco, afferma Olivi, è dopo Cristo e sotto Cristo il primo, principale fondatore, iniziatore, modello esemplare del sesto stato o periodo della Chiesa e della regola evangelica; così proprio lui, dopo Cristo, viene designato per primo con questo angelo. In tale segno, apparve nel carro di fuoco trasfigurato nel sole per mostrare che venne nello spirito e nell’immagine di Elia e insieme per recare così l’immagine perfetta del sole vero, cioè di Cristo.
Alle caratteristiche del carro di Elia, senza che questo venga esplicitamente citato come nella similitudine di Inf. XXVI, 34-42, rinviano i signacula (parole-chiave) contenuti nella similitudine della bellezza del carro trionfale tirato dal grifone nell’Eden con quella, povera al confronto, del carro dei trionfi di Scipione o di Augusto o, ancor più, del carro del Sole (Purg. XXIX, 115-117). Francesco, angelo del sesto sigillo e alter Christus, ascende da oriente, cioè dalla sede romana, interpretata come “civitas solis” (Ap 7, 2).
La giustizia divina che scruta le reni (Ap 2, 23) intervenne, su preghiera della Terra, a bruciare il carro del Sole malamente sviato da Fetonte, “quando fu Giove arcanamente giusto” e “Icaro misero le reni / sentì spennar per la scaldata cera” (Inf. XVII, 106-111; Purg. XXIX, 118-120). Secondo Riccardo di San Vittore, citato da Olivi nella spegazione di Ap 12, 16 – “Ma la terra venne in aiuto della donna, aprì la sua bocca e inghiottì il fiume” -, l’unione di quanti sono perfetti e stabili nella fede è la terra umile e solida che prega all’unisono contro le tentazioni del diavolo e così con la bocca quasi assorbe o distrugge il fiume. Questa interpretazione del Vittorino è vestita con l’immagine della Terra che devota prega perché Giove intervenga sul carro del Sole ‘sviato’ da Fetonte (fattosi ‘eretico’, Purg. XXIX, 119).
Cristo, oltre a essere “alpha et o”, principio e fine, e “medium”, mediatore fra i due termini estremi, è anche virtus contentiva, che contiene e conserva gli stati della Chiesa, cioè i periodi della storia di questa; è dunque principio, fine e centro del tempo (prologo, Notabile VI). La virtus contentiva di Cristo appartiene al Primo Mobile (“un corpo ne la cui virtute / l’esser di tutto suo contento giace”) e al cielo Stellato (“quell’ esser parte per diverse essenze, / da lui distratte e da lui contenute”; Par. II, 112-117; questa parte di esegesi è stata approfondita altrove). Da notare l’equivocità contentare (nel senso di appagare) / contenere a Par. VIII, 98 e XXVI, 16. Altre variazioni nella valletta dei principi (Purg. VIII, 31-36) e nella processione dell’Eden: “Lo spazio dentro a lor quattro contenne / un carro” (Purg. XXIX, 106-107). Il verbo fa segno della virtus contentiva di Cristo; la terzina seguente descrive il grifone-Cristo in quanto mediatore rendendo il versetto “In medio septem candelabrorum” (Ap 1, 13): “Esso tendeva in sù l’una e l’altra ale / tra la mezzana e le tre e tre liste, / sì ch’a nulla, fendendo, facea male” (vv. 109-111).
Tab. VI
[LSA, cap. XXI, Ap 21, 16 (VIIa visio)] “Et civitas in quadro posita est” (Ap 21, 16), id est habens quattuor latera muri sub figura quadranguli iuncta, per quod designatur solida quadratura virtutum. “Longitudo eius tanta est quanta et latitudo”, id est quattuor latera eius sunt equalia. Nam duo sunt longitudo eius et alia duo sunt eius latitudo. Civitas enim beatorum quantum de Deo et bonis eius videt tantum amat, et ideo quantum est in visione longa tantum est in caritate lata; quantum etiam est in longitudinem eternitatis immortaliter prolongata, tantum est iocunditate glorie dilatata. In vita autem ista non sunt hec communiter equalia, nisi forte in illis perfectis qui quantum cognoscunt vel credunt tantum amant, et quantum per spem in bona eterna protenduntur tantum gaudio dilatantur. In beatis etiam prudentia et fortitudo et iustitia et temperantia sunt equales. Hec enim sunt quattuor latera civitatis. |
[LSA, cap. XXI, Ap 21, 16 (VIIa visio)] “Et mensus est civitatem Dei cum arundine per stadia duodecim milia” (Ap 21, 16). Stadium est spatium in cuius termino statur vel pro respirando pausatur, et per quod curritur ut bravium acquiratur, secundum illud Apostoli Ia ad Corinthios, capitulo IX°: “Nescitis quod hii, qui in stadio currunt, omnes quidem currunt, sed unus accipit bravium?” (1 Cor 9, 24), et ideo significat iter meriti triumphaliter obtinentis premium. Cui et congruit quod stadium est octava pars miliarii, unde designat octavam resurrectionis. Octava autem pars miliarii, id est mille passuum, sunt centum viginti quinque passus, qui faciunt duodecies decem et ultra hoc quinque; in quo designatur status continens perfectionem aposto-licam habundanter implentem decalogum legis, et ultra hoc plenitudinem quinque spiritualium sensuum et quinque patriarchalium ecclesiarum. |
Inf. XXVI, 25-42Quante ’l villan ch’al poggio si riposa,
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[LSA, cap. X, Ap 10, 1 (IIIa visio, VIa tuba)] “Facies” etiam “eius erat ut sol”, quia in singulari contemplatione Christi et evangelice vite eius fuit non instar lune defective, vel modice stelle vel lucis nocturne, sed instar solis et lucis diurne inflammatus et illuminatus et illuminans et inflammans.[LSA, cap. X, Ap 10, 1-3 (IIIa visio, VIa tuba)] Sciendum etiam quod sicut sanctissimus pater noster Franciscus est post Christum et sub Christo primus et principalis fundator et initiator et exemplator sexti status et evangelice regule eius, sic ipse post Christum designatur primo per angelum istum. Unde et in huius signum in curru igneo apparuit transfiguratus in solem, ut monstraretur venisse in spiritu et imagine Helie (cfr. 4 Rg 2, 11) et simul cum hoc gerere perfectam imaginem veri solis, scilicet Christi.
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[LSA, cap. XIX, Ap 19, 11.13 (VIa visio)] Dicit ergo (Ap 19, 11): “Et vidi celum apertum”, scilicet per revelationem celestis misterii; vel apertio celi est apertio scripture sacre vel divine prescientie quantum ad ea que subduntur. “Et ecce equus albus”, scilicet Christi humanitas candore summe inno-centie et glorie dealbata. […] “Et vestitus erat veste aspersa sanguine” (Ap 19, 13), id est humanitate pro nobis occisa et sanguine rubrificata, quod quidem semper in ea per meritum et premium et per signa indelebilia remanet. |
Purg. XXIX, 112-114Tanto salivan che non eran viste;
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5. Appresso il carro
Appresso tutto il pertrattato nodo
vidi due vecchi in abito dispari,
ma pari in atto e onesto e sodo.
L’un si mostrava alcun de’ famigliari
di quel sommo Ipocràte che natura
a li animali fé ch’ell’ ha più cari;
mostrava l’altro la contraria cura
con una spada lucida e aguta,
tal che di qua dal rio mi fé paura (vv. 133-141).
San Luca. Il libro dell’Apocalisse contiene tutta la sapienza che governa il mondo: “liber signatus est comprehensivus summe sapientie Dei universi orbis gubernative et specialiter electorum suorum” (Ap 4, 4). Si può vedere come gli stessi elementi di esegesi che designano Colui che siede sul trono, “cuius gubernationes et documenta per magistrorum consilium descendunt ad nos quasi a pastore uno”, siano quasi fili utilizzati nei versi per la trama di Aristotele (“vidi ’l maestro di color che sanno / seder tra filosofica famiglia”, Inf. IV, 131-132), di san Luca medico (“L’un si mostrava alcun de’ famigliari / di quel sommo Ipocràte che natura / a li animali fé ch’ell’ ha più cari”, Purg. XXIX, 136-138) e delle parole di Beatrice sul traviamento degli uomini (“Tu, perché non ti facci maraviglia, / pensa che ’n terra non è chi governi; / onde sì svïa l’umana famiglia”, Par. XXVII, 139-141). In tutti e tre i casi, si tratta appunto dell’“umana famiglia”, cioè degli esseri razionali, i quali “per phylosophica documenta” dovrebbero conseguire la beatitudine in questa vita sotto le leggi dell’Imperatore (Monarchia, III, xv, 7-10). Una “famiglia” designata dai seniori, i quali circondano come “famuli” la sede divina. La curia celeste è proiettata su quella terrena, che deriva anch’essa dal fonte dell’universale sapienza. Il libro, che sta nella destra di Colui che siede sul trono, contiene infatti le leggi e i precetti del sommo imperatore e le sentenze e i giudizi del sommo giudice.
Non sarà casuale che le parole di Beatrice sul governo degli uomini siano pronunciate nel Primo Mobile, nell’uniforme luogo che “non ha altro dove / che la mente divina, in che s’accende / l’amor che ’l volge e la virtù ch’ei piove”, e dove è manifesto “come il tempo tegna in cotal testo / le sue radici e ne li altri le fronde” (Par. XXVII, 109-111, 118-120). Lì è la radice del tempo, e dunque anche della felicità e della monarchia temporali. Lì si vede come l’ordine del mondo sensibile (in cui le sfere celesti sono tanto più veloci e grandi quanto più si allontanano dal centro, cioè dalla terra) concorda per apparente contrapposizione con quanto si vede nel paradiso (dove i cerchi angelici sono tanto più veloci quanto più vicini a Dio, “punto” luminoso da cui “depende il cielo e tutta la natura”, Par. XXVIII, 40-87). Da una parte la quantità dei corpi, con la loro virtù, dall’altra la sola virtù senza quantità; entrambi, “essemplo” ed “essemplare”, “non vanno d’un modo” nel comune tendere verso Dio. Sono come le due corone di spiriti sapienti di Par. XIII, 16-18, le quali nel cielo del Sole procedono l’una in una direzione, l’altra in quella opposta, girando “per maniera / che l’uno andasse al primo e l’altro al poi”, altro esempio di concordia fra dissimili (non a caso nell’una si dice di Francesco, che “fu tutto serafico in ardore”; nell’altra di Domenico, che “per sapïenza in terra fue / di cherubica luce uno splendore”) [1]. Angeli e uomini sono in tensione diversa verso Dio, “per somigliarsi al punto quanto ponno” (Par. XXVIII, 101). L’uomo, che solo fra gli enti è medio tra ciò che è corruttibile e ciò che è incorruttibile, opera in modo quasi divino, secondo quanto scritto nel Salmo 8, 6: “Tu l’hai fatto poco minore che gli angeli” (cfr. Convivio, IV, xix, 7; Monarchia, I, iv, 2; III, xv, 4).
San Paolo. San Luca è contrapposto a san Paolo, come la medicina alla spada (Purg. XXIX, 136-141). I due sacri scrittori sono assimilabili, variate le parti, ai due angeli con la falce che mietono e vendemmiano ad Ap 14, 14-19, dove il secondo angelo, contrapposto a quello che designa Elia, viene identificato o con Mosè o con Eliseo. Il primo (Olivi qui segue l’Expositio di Gioacchino da Fiore) è più dedito al governo e ai patimenti, come san Pietro; il secondo, come Giovanni, alla contemplazione e alla pace. Il primo è ardente e feroce nello zelo contro i reprobi, il secondo più mite e soave nel raccogliere la messe degli eletti. Uno è occulto eremita che negli arcani del cielo imita la vita degli angeli e, allorché se ne distacca, scuote i cuori con il timore. L’altro rappresenta l’ordine di coloro che imitano la vita di Cristo ed è dato alle genti in modo manifesto per la loro utilità ed erudizione. Uno è fuoco ardente nell’amore e nello zelo divino, l’altro pioggia che irriga la superficie terrestre nella perfezione della carità fraterna.
[1] Concordare una virtù con l’altra di diverso timbro, dolce o severo, è proprio del canto dell’Agnello, eseguito con maestria dal citarista, ad Ap 14, 2; così le tre virtù teologali, alla destra del carro, vengono guidate nella danza ora dalla Fede ora dalla Carità, e dal canto di questa prendono il ritmo, ora lento ora veloce (Purg. XXIX, 121-129).
Tab. VII
[LSA, cap. IV, Ap 4, 3-4 (radix IIe visionis)] “Et qui sedebat, similis erat aspectui”, id est aspectibili seu visibili forme, “lapidis iaspidis et sardini” (Ap 4, 3). Lapidi dicitur similis, quia Deus est per naturam firmus et immutabilis et in sua iustitia solidus et stabilis, et firmiter regit et statuit omnia per potentiam infrangibilem proprie virtutis. […]
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Par. XI, 28-30La provedenza, che governa il mondo
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Purg. XXIX, 136-141L’un si mostrava alcun de’ famigliari
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[LSA, cap. IV, Ap 4, 5 (radix IIe visionis)] Voces enim in terra fiunt, tonitrua vero in celo seu ethere, vocesque sunt modice respectu tonitruorum.
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Le folgori, nelle simmetriche esegesi di Ap 8, 5; 11, 19 e 16, 18, con acuta eloquenza feriscono i vizi; l’acro senso morale della Scrittura li punge (Ap 6, 6); l’acuta spada a doppio taglio, che Cristo tiene in bocca, li percuote e scinde (Ap 1, 16; 2, 12; 19, 15). Si notino le variazioni su questi temi operate nella semantica dei versi, la loro metamorfosi (il “remo” sostituisce la “spada”), e l’estensione dell’esegesi di Ap 19, 15 al sentire la verga o lo scettro di Cristo (“la mazza d’Ercule” provata da Caco). Il tema della spada appartiene per antonomasia a san Paolo, ma è proprio anche di Beatrice, nel rimprovero rivolto a Dante (Purg. XXX, 57; XXXI, 2-3).
Tab. VIII
[LSA, cap. I, Ap 1, 16 (Ia visio, radix)] Nona (perfectio summo pastori condecens) est iudiciarie correctionis et retributionis recta et severa iustitia, unde subdit: “et de ore eius gladius ex utraque parte acutus exibat”. Per gladium intelligitur Dei sententia omnia penetrans et cuncta vitia undique absque acceptione personarum abscindens, secundum illud Apostoli ad Hebreos IIII° (Heb 4, 12): “Vivus est sermo Dei et efficax et penetrabilior”, id est penetrantior, “omni gladio ancipiti”. Est etiam utraque parte acutus quia non solum percutit extraneos sed etiam suos prout iustitia exigit, secundum illud Iob IX° (Jb 9, 22): “Innocentem et impium ipse consumet”, iustum quidem ne glorietur et ut amplius expurgetur, impium vero ne perseveret in malo aut ne condempnetur. Per gladium etiam intelligitur Dei verbum seu doctrina penetrans intima cordium et vitia scindens, secundum illud ad Ephesios VI° (Eph 6, 17): “Et gladium Spiritus, quod est verbum Dei”. |
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[LSA, cap. II, Ap 2, 12 (Ia visio, IIIa ecclesia)] Hiis autem premittuntur duo, scilicet preceptum de scribendo hec sibi et introductio Christi loquentis, cum subdit (Ap 2, 12): “Hec dicit qui habet rumpheam”, id est spatam, “ex utraque parte acutam”. Hec congruit ei, quod infra dicit: “pugnabo cum illis in gladio oris mei” (Ap 2, 16). Unde contra doctores pestiferos erronee doctrine et secte ingerit se ut terribilem confutatorem et condempnatorem ipsorum per incisivam doctrinam et condempnativam sententiam oris sui. Dicit autem “ex utraque parte”, non solum quia absque acceptione personarum omnia vitia scindit et resecat vel condempnat, sed etiam quia contrarios errores destruit. Arrius enim, quasi ex uno latere, errat dicendo Dei Filium esse substantialiter diversum a Patre tamquam eius creaturam. Sabellius vero, quasi ab opposito latere, dicit quod eadem persona est Pater et Filius. Fides autem Christi utrumque scindit et resecat.
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[LSA, cap. XIX, Ap 19, 15 (VIa visio)] “Et de ore eius procedit gladius acutus” (Ap 19, 15), id est sententia subtilis et rigida (quidam habent “ex utraque parte”, sed antiqui non habent hic “ex utraque parte” neque Ricardus, sed supra capitulo I° [Ap 1, 16]), “ut in ipso percutiat gentes”, quasdam scilicet in eternum interitum, quasdam vero ad correctionem et ad vitiorum suorum extinctionem. “Et ipse reget eas in virga ferrea”, id est in inflexibili iustitia. Qui enim nolunt converti blanditiis et humilitate necesse est ut tunc temporis sentiant severitatem et fortitudinem discipline eius, ut saltem sero subiciantur sceptro ipsius. Rebelles autem sentient furorem eius, unde subditur: “Et ipse calcat torcular vini furoris ire Dei omnipotentis”, id est ipse premit impios penis mortiferis quas Deus Trinitas quasi furibundus et iratus propinat eis.
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[LSA, cap. VIII, Ap 8, 5 (IIIa visio, radix)] […] “et fulgura”, scilicet coruscantium et stupendorum miraculorum, vel superfervidorum eloquiorum sic penetrantium et scindentium et incendentium corda sicut fulgur terrena penetrat et scindit, vel “fulgura” iudiciorum terribilium, ut cum Ananias et Saphira repente occisi sunt ad sententiam Petri, prout scribitur Actuum quinto (Ac 5, 1-11).[LSA, cap. XI, Ap 11, 19 (IVa visio, radix)] “Et facta sunt fulgura”, scilicet miraculorum coruscantium et predicationum superfervidarum et acutissimarum eterna iudicia terribiliter comminantium et declarantium et eterna premia clarissime et subtilissime demonstrantium.[LSA, cap. XVI, Ap 16, 18 (VIa visio, radix)] Quorum primum (preambulum) est sancta predicatio et comminatio ipsam (Babilonem) ad penitentiam exhortans. Unde ait: “Et facta sunt fulgura”, scilicet coruscantium miraculorum et ferventium eloquiorum instar fulguris vitia ferientium […] Sicut enim Ioachim ait, quando Deus vult mutare statum ecclesie precedunt ante per aliquot annos fulgura miraculorum et voces exhortationum et tonitrua spiritualium eloquiorum, ut homines excitentur et intelligant quod novum aliquid facturus sit Dominus super terram [Expositio, pars VI, distinctio I, ff. 191vb-192ra]. |
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Inf. III, 109-111; XXI, 13-15; Purg. II, 31-33; XVII, 85-87Caron dimonio, con occhi di bragia
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Inf. XIV, 52-54Se Giove stanchi ’l suo fabbro da cui
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Poi vidi quattro in umile paruta;
e di retro da tutti un vecchio solo
venir, dormendo, con la faccia arguta.
E questi sette col primaio stuolo
erano abitüati, ma di gigli
dintorno al capo non facëan brolo,
anzi di rose e d’altri fior vermigli;
giurato avria poco lontano aspetto
che tutti ardesser di sopra da’ cigli.
E quando il carro a me fu a rimpetto,
un tuon s’udì, e quelle genti degne
parvero aver l’andar più interdetto,
fermandosi ivi con le prime insegne (vv. 142-154).
Ad Ap 7, 13 è scritto che uno dei seniori rispose, cioè parlò: «“Et respondit” (Ap 7, 13), id est prolocutus est, “unus de senioribus”». L’esegesi è fra le più variate nel poema. Secondo Gioacchino da Fiore, citato da Olivi, il vegliardo è lo stesso Giovanni, edotto dall’angelo. Così, nella processione che attraversa l’Eden, l’autore dell’Apocalisse, segue per ultimo dopo i “quattro in umile paruta” che simboleggiano le Epistole minori: “e di retro da tutti un vecchio solo / venir, dormendo, con la faccia arguta” (Purg. XXIX, 143-144).
L’espressione “quia quoad speciem habitus videntur esse unius ordinis cum eis”, riferita ad Ap 16, 10 ai chierici che all’abito sembrano essere dello stesso livello di coloro che su di essi effondono le coppe dell’ira divina, viene traslata, in contesti differenti, al richiamo dei tre fiorentini sodomiti: “Sòstati tu ch’a l’abito ne sembri / essere alcun di nostra terra prava” (Inf. XVI, 8-9), alle parole del conte Ugolino: “ma fiorentino / mi sembri veramente quand’ io t’odo” (Inf. XXXIII, 11-12) e parodiata nei sette personaggi che concludono la processione nell’Eden: “E questi sette col primaio stuolo / erano abitüati” (Purg. XXIX, 146). “Giurato” rinvia all’esegesi di Ap 10, 5-6, oggetto di numerose variazioni; le “prime insegne”, cioè i candelabri di cui al v. 154, ad Ap 7, 3, dove si tratta della “signatio” dell’esercito di Cristo all’apertura del sesto sigillo. La processione trionfale dell’Eden, “glorïoso essercito”, si volge come una schiera che “sé gira col segno” (i sette candelabri che precedono i ventiquattro seniori) proteggendosi con gli scudi “per salvarsi”, in modo che a muoversi sia prima l’avanguardia (la “milizia del celeste regno”, ossia i ‘segnati’: Purg. XXXII, 16-24).
AVVERTENZE
■ Seppure segue l’ordine dei ventidue capitoli dell’Apocalisse, Olivi suggerisce, nel prologo della Lectura, un metodo differente di comprensione e di aggregazione del testo, fondato sui sette stati (status), cioè sulle epoche nelle quali si articola la storia della Chiesa, prefigurate nell’Antico Testamento.
L’Apocalisse si articola in sette visioni: le sette chiese d’Asia, i sette sigilli, le sette trombe, la donna vestita di sole (le sette guerre sostenute dalla Chiesa), le sette coppe, il giudizio di Babylon nelle sette teste del drago, la Gerusalemme celeste. Le prime sei visioni possono essere a loro volta divise in sette momenti, ciascuno dei quali riferibile a uno dei sette stati. Assembrando, per le prime sei visioni, tutti i primi elementi (chiesa, sigillo, tromba, guerra, coppa, momento del giudizio di Babylon), tutti i secondi, i terzi e così di seguito, si ottengono sette gruppi di materia teologica, corrispondenti al complesso dei temi afferenti a ciascuno dei sette stati. A questi sette gruppi si aggiungono altri due: l’esegesi della settima visione (senza articolazioni interne) e l’esegesi di capitoli del testo scritturale, o di parti di essi, introduttivi delle successive specificazioni delle singole visioni per settenari, che Olivi definisce “radicalia” o “fontalia”. Si ottengono in tal modo nove gruppi: le parti proemiali, i sette assembramenti di settenari e la settima visione. Il grande prologo della Lectura, articolato in tredici notabilia, può essere anch’esso aggregato secondo i sette stati. Un libro (la Lectura) contiene dunque princìpi e criteri affinché l’accorto lettore possa trarne un altro libro, fatto con lo stesso materiale ma ricomposto e distribuito in forma diversa.
■ La Commedia mostra un ordine interno diverso da quello che appare al lettore: il viaggio di Dante ha un andamento di ciclici settenari, che corrispondono ai sette stati della storia della Chiesa, cioè alle categorie con cui Olivi organizza la materia esegetica. Questo ordine interno è registrabile per zone progressive del poema dove prevale, tramite parole-chiave, la semantica riferibile a un singolo stato. È un’intima struttura dirompente i confini letterali stabiliti dai canti e da tutte le divisioni materiali per cerchi, gironi, cieli. Ogni stato, che ha differenti inizi, è concatenato per concurrentia, come le maglie di un’armatura, con quello che precede e con quello che segue. Si possono in tal modo redigere mappe che comprendano l’ordine spirituale della Commedia. La ricerca è pervenuta a una Topografia spirituale della Commedia, dove quasi per ogni verso, o gruppo di versi, collegamenti ipertestuali conducono al “panno” esegetico fornito dalla Lectura super Apocalipsim, sul quale il “buon sartore” ha fatto “la gonna” (cfr. Par. XXXII, 139-141).
■ A ogni gruppo è arbitrariamente assegnato un diverso colore: Radici (verde), I stato (verde acqua), II stato (rosso), III stato (nero), IV stato (viola), V stato (marrone), VI stato (blu), VII stato (indaco), VII visione (fucsia). Dei gruppi sono stati integralmente studiati il terzo stato e la settima visione. Rispetto alla tabella complessiva contenente i collegamenti ipertestuali, nelle sinossi i colori possono essere variati per maggiore evidenza.
■ Non di rado nei versi alcune parole o incisi-chiave possono rinviare a più luoghi esegetici. Questo perché il testo dottrinale contenuto nella Lectura, prima di travasarsi semanticamente nella Commedia, è stato sottoposto a una duplice riorganizzazione. La prima, sulla base delle indicazioni dello stesso Olivi, secondo il materiale esegetico attribuibile ai singoli stati. La seconda, seguendo il principio applicato nelle distinctiones ad uso dei predicatori, sulla base di lemmi analogicamente collazionati. La “mutua collatio” di parti della Lectura arricchisce il significato legato alle parole e consente uno sviluppo tematico amplificato. Si vedano, ad esempio, le variazioni eseguite sul tema della “voce” o sull’espressione “in medio”, temi più volte iterati nel sacro testo, oppure il modo con cui Ap 1, 16-17 (l’esegesi della decima e undecima prefezione di Cristo come sommo pastore) percorre i versi in collazione con altri passi. A ciò predispone lo stesso testo scritturale, poiché l’Apocalisse contiene espressioni, come Leitmotive, che ritornano più volte. È determinata da parole-chiave che collegano i passi da collazionare. È suggerita dallo stesso Olivi, nel prologo, per una migliore intelligenza del testo.
■Tutte le citazioni della Lectura super Apocalipsim presenti nei saggi o negli articoli pubblicati su questo sito sono tratte dalla trascrizione, corredata di note e indici, del ms. Paris, Bibliothèque nationale de France, lat. 713, a disposizione fin dal 2009 sul sito medesimo. I passi scritturali ai quali si riferisce l’esegesi sono in tondo compresi tra “ ”; per le fonti diverse da quelle indicate si rinvia all’edizione in rete. Non viene presa in considerazione l’edizione critica a cura di WARREN LEWIS (Franciscan Institute Publications, St. Bonaventure – New York, 2015) per le problematiche da essa poste, che sono discusse in ALBERTO FORNI – PAOLO VIAN, A proposito dell’edizione di Warren Lewis della Lectura super Apocalipsim di Pietro di Giovanni Olivi. Alcune osservazioni, in “Archivum Franciscanum Historicum”, 109 (2016), pp. 99-161.
Il testo della Commedia citato è in Dante Alighieri, La Commedia secondo l’antica vulgata, a cura di GIORGIO PETROCCHI, Firenze 1994. Si tiene anche conto della recente edizione a cura di G. INGLESE, Firenze 2021 (Società Dantesca Italiana. Edizione Nazionale), qualora il testo proposto si discosti da quello del Petrocchi e la scelta della variante risulti discutibile nel confronto con la LSA.
ABBREVIAZIONI
Ap: APOCALYPSIS IOHANNIS.
LSA: PIETRO DI GIOVANNI OLIVI, Lectura super Apocalipsim.
Concordia: JOACHIM VON FIORE, Concordia Novi ac Veteris Testamenti. Herausgegeben von A. PATSCHOVSKY, Wiesbaden 2017 (Monumenta Germaniae Historica. Quellen zur Geistesgeschichte des Mittelalters, 28. Band), Teil 2 (lib. I-IV), Teil 3 (lib. V).
Expositio: GIOACCHINO DA FIORE, Expositio in Apocalypsim, in Edibus Francisci Bindoni ac Maphei Pasini, Venetiis 1527, ristampa anastatica Minerva, Frankfurt a. M. 1964.
Olivi opera spesso una sintesi del testo di Gioacchino da Fiore. Le « » precedono e chiudono un’effettiva citazione. Diversamente, viene posto un asterisco (*) o una nota in apice al termine della parte riferibile a Gioacchino.
In Ap: RICCARDO DI SAN VITTORE, In Apocalypsim libri septem, PL 196, coll. 683-888.
Note sulla “topografia spirituale” della Commedia
Per quanto segua l’ordine dei ventidue capitoli dell’Apocalisse, Olivi suggerisce un metodo differente di comprensione e di aggregazione del testo esegetico, fondato sui sette stati, cioè sui periodi nei quali si articola la storia della Chiesa. L’Antico Testamento corrisponde alle prime cinque età del mondo, secondo la divisione tradizionale [1]: è l’età del Padre secondo Gioacchino da Fiore. Con il primo avvento di Cristo, nella carne, inizia la sesta età (l’età del Figlio), nella quale la Chiesa, come fosse un individuo, cresce e si sviluppa in sette stati. Al primo, apostolico periodo, succede il secondo dei martiri; poi, al tempo di Giustiniano, il terzo stato dei dottori che confutano con l’intelletto le eresie concorre con il quarto stato degli affettuosi anacoreti devoti al pasto eucaristico, alti per la contemplazione ma anche attivi come reggitori delle genti; a partire da Carlo Magno subentra il quinto stato aperto alla vita associata delle moltitudini, bello nel principio ma poi corrottosi fino a trasformare quasi tutta la Chiesa in una nuova Babilonia; la riforma interviene, a partire da Francesco, con il cristiforme sesto stato, fino alla sconfitta dell’Anticristo; subentra infine il silenzio e la quiete del pacifico settimo stato. Il sesto e il settimo stato (la terza età di Gioacchino da Fiore) coincidono con il secondo avvento di Cristo, nello Spirito, cioè nei suoi discepoli spirituali inviati a convertire il mondo con la predicazione; al termine del settimo stato ci sarà il terzo avvento, nel giudizio.
L’Apocalisse si articola in sette visioni: le sette chiese d’Asia, i sette sigilli, le sette trombe, la donna vestita di sole (le sette guerre sostenute dalla Chiesa), le sette coppe, il giudizio di Babylon nelle sette teste del drago, la Gerusalemme celeste. Le prime sei visioni possono essere a loro volta divise in sette momenti, ciascuno dei quali riferibile a uno dei sette stati. Assembrando, per le prime sei visioni, tutti i primi elementi (chiesa, sigillo, tromba, guerra, coppa, momento del giudizio di Babylon), tutti i secondi, i terzi e così di seguito, si ottengono sette gruppi di materia teologica, corrispondenti al complesso dei temi afferenti a ciascuno dei sette stati [2]. A questi sette gruppi se ne aggiungono altri due: l’esegesi della settima visione (senza articolazioni interne) e l’esegesi di capitoli del testo scritturale, o di parti di essi, introduttivi delle successive specificazioni delle singole visioni per settenari, che Olivi definisce “radicalia” o “fontalia”. Si ottengono in tal modo nove gruppi: le parti proemiali, i sette assembramenti di settenari e la settima visione. Il grande prologo della Lectura, articolato in tredici notabilia, può essere anch’esso aggregato nelle sue parti secondo i sette stati.
L’intenso travaso di parole-temi dalla Lectura nella Commedia si accompagna a un fatto strutturale. La Commedia mostra un ordine interno diverso da quello che appare al lettore: il viaggio di Dante ha un andamento di ciclici settenari, che corrispondono ai sette stati oliviani. È un ordine registrabile per zone progressive del poema dove prevalgono i temi di un singolo stato, che rompe i confini letterali stabiliti dai canti e da tutte le divisioni materiali per cerchi, gironi, cieli. Ogni stato, che ha differenti inizi, è concatenato per “concurrentia”, come le maglie di un’armatura, con quello che precede e con quello che segue. Ciascuno stato ha in sé una grande ricchezza di motivi e contiene inoltre temi di tutti gli altri, consentendo innumerevoli intrecci e variazioni. La Commedia appare, come l’Apocalisse, “libro scritto dentro e fuori” (Ap 5, 1), con duplice struttura, linguaggio e senso, letterale e spirituale. Il viaggio di Dante e la visione di Giovanni hanno la stessa causa finale, che è la beatitudine, alla quale si perviene con diverse guide, per gradi segnati da visioni sempre più nuove e ardue delle precedenti, attraverso una sempre maggiore apertura dell’arcano coperto dal velame dei sette sigilli fino al punto più alto in cui, in questa vita, è possibile vedere la verità.
Tutti i modi del linguaggio interiore al poema esprimono un processo, un viaggio dal più chiuso al più aperto, e in questo andare hanno una loro precisa collocazione ‘topografica’, uno ‘stato’ (nel senso di momento storico che ricade sulla coscienza individuale) al quale appartenere. Si possono in tal modo stendere vere e proprie mappe tematiche che comprendano l’ordine spirituale di tutta la Commedia che aderisce, parodiandola semanticamente, a una precisa teologia della storia, sia pure modificandone profondamente le prospettive. La ciclicità dei temi permette di stabilire collegamenti inusitati tra le diverse zone; il procedere per gradi dell’illuminazione divina fa sì che episodi oscuri e quasi ermeticamente chiusi si chiariscano poi, aprendosi all’intelligenza in modo più alto.
A ogni gruppo è arbitrariamente assegnato un diverso colore: Radici (verde), I stato (verde acqua), II stato (rosso), III stato (nero), IV stato (viola), V stato (marrone), VI stato (blu), VII stato (indaco), VII visione (fucsia). Dei gruppi sono stati integralmente studiati il terzo stato e la settima visione.
INFERNO
(le prime cinque età del mondo)
La ‘topografia spirituale’ del poema mostra nell’Inferno cinque cicli settenari corrispondenti agli stati della Chiesa descritti da Olivi e ai loro temi contenuti nella Lectura. Questi cinque cicli designano le prime cinque età del mondo (riunite a loro volta nel primo stato generale, che corrisponde all’età del Padre di Gioacchino da Fiore), in quanto prefigurazione del primo avvento di Cristo e della Chiesa.
I cinque cicli settenari che si susseguono nell’Inferno a partire dal quarto canto (i primi tre canti hanno una tematica particolare) sono preceduti da cinque zone che possono essere definite ‘snodi’, dove cioè confluiscono temi provenienti da più stati, intrecciati insieme ad altri ad avviare il procedere settenario. Il centro di questi ‘snodi’ coincide con un canto (Inf. IV, X, XVII, XXVI, XXXII), ma la zona è più vasta e supera l’ambito dato dalla divisione letterale del poema.
Inf. I-III sono da considerare al di fuori dei cicli. Inf. I e II sono profondamente segnati dai temi del sesto stato. Inf. III è riferibile al settimo stato (per gli ignavi) e in parte al quinto (per l’episodio di Caronte). |
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canti |
I ciclo |
stati |
cerchi |
IV |
Limbo |
Radici, I (I snodo) |
I |
V |
lussuriosi |
II |
II |
VI |
golosi |
III |
III |
VII |
avari e prodighipalude Stigia
|
III–IV
V |
IV
|
VIII |
palude Stigia (orgogliosi)
|
V |
V |
IX |
apertura della porta di Dite |
V–VI |
|
canti |
II ciclo |
stati |
cerchi |
IX-X-XI |
eretici, ordinamento dell’inferno |
I (II snodo) |
VI |
XII |
violenti contro il prossimo |
II |
VII (girone 1) |
XIII |
violenti contro sé |
III |
(girone 2) |
XIV |
violenti contro Dio: bestemmiatori |
IV |
(girone 3) |
XV-XVI |
violenti contro Dio: sodomiti |
V |
|
XVIXVII |
ascesa di GerioneGerione, violenti contro Dio: usurai |
VI |
canti |
III ciclo |
stati |
cerchi |
XVII |
volo verso Malebolge |
I (III snodo) |
|
XVIII |
ruffiani, lusingatori |
Radici – II |
VIII (bolgia 1, 2) |
XIX |
simoniaci |
III |
(bolgia 3) |
XX |
indovini |
IV |
(bolgia 4) |
XXI-XXII |
barattieri |
V |
(bolgia 5) |
XXIII |
ipocriti |
V–VI |
(bolgia 6) |
XXIV-XXV |
ladri |
VI |
(bolgia 7) |
canti |
IV ciclo |
stati |
cerchi |
XXVI |
consiglieri di frode (greci) |
I (IV snodo) |
(bolgia 8) |
XXVII |
consiglieri di frode (latini) |
II |
|
XXVIII-XXIX |
seminatori di scandalo e di scisma |
III |
(bolgia 9) |
XXIX |
falsatori |
IV |
(bolgia 10) |
XXX |
falsatori |
IV–V |
|
XXXI |
giganti |
V–VI |
|
canti |
V ciclo |
stati |
cerchi |
XXXII |
Cocito: Caina, Antenora |
I (V snodo) |
IX |
XXXIII |
Antenora, Tolomea |
II |
|
XXXIV |
Giudecca |
III–IV–V |
|
XXXIV |
volgersi di Virgilio sull’anca di Lucifero |
VI |
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Il sesto stato è per Olivi la fase più importante nella costruzione dell’edificio della Chiesa. In esso “renovabitur Christi lex et vita et crux”. Corrisponde ai tempi moderni. Ha quattro diversi inizi temporali: uno profetico, con Gioacchino da Fiore, il quale lo vide in spirito concependo la sua terza età; il secondo con la conversione di Francesco (1206), che seminò la pianta; il terzo con la predicazione degli uomini spirituali, per la quale la pianta si rinnovella; il quarto con la distruzione storica di Babylon. Dura fino alla sconfitta dell’Anticristo, il cui avvento si collocherebbe, secondo i numeri della profezia di Daniele 12, 11-12 combinati con Ap 12, 6 e 14, fra il 1290 e il giubileo di pace del 1335.
Una ‘vita nuova’ si instaura nel sesto stato, per eccellenza il momento dell’imitazione di Cristo. I rami dell’albero si dilatano producendo il frutto della carità, l’acqua che proviene da Cristo-fonte attraverso il condotto che percorre i primi cinque stati della Chiesa si effonde in un lago; è il tempo, assimilato al sacramento del matrimonio, della letizia nuziale, della familiarità, dell’amicizia. Corrisponde al sesto giorno della creazione, in cui vennero creati prima i rettili e le bestie irrazionali, poi l’uomo razionale che, come l’ordine evangelico, è fatto a immagine e somiglianza di Dio e domina tutti gli animali.
Le espressioni di Olivi relative al sesto stato – “quoddam sollempne initium novi seculi … renovaretur et consumaretur seculum”, nel quale il sacerdozio apostolico “redeat et assurgat ad ordinem primum”, la “nova Ierusalem”, interpretata come “visione di pace”, viene vista “descendere de celo” e la Chiesa descritta come la donna vestita di sole con la sua “virginea proles” – sono la veste spirituale dei versi della quarta egloga virgiliana che celebrano la rinnovata età dell’oro: “Magnus ab integro saeclorum nascitur ordo / iam redit et Virgo; redeunt Saturnia regna; / Iam nova progenies caelo demittitur alto” (Egloga IV, 5-7). Olivi completa la Lectura super Apocalipsim nel 1298, poco prima di morire, il 14 marzo, a Narbonne. Quel felicissimo stato segnato dalla pace sotto il divo Augusto, che rese l’umanità disposta al primo avvento di Cristo, si sta rinnovando nel sesto stato della Chiesa, nel secondo avvento nello Spirito. Scrive Arsenio Frugoni: “[…] quell’escatologismo, oltre che ideologia di lotta e di riforma del gruppo spirituale, era anche un vero e proprio sentimento storico […] una tensione di rinnovamento, una ansia di salvezza, che nel 1300, l’anno centenario della Natività, aveva trovato come una attivazione, in un senso di pienezza dei tempi, cui doveva corrispondere un fatto, un accadere meraviglioso e nuovo” [3].
All’apertura del sesto sigillo, l’eletta schiera dei riformatori – i 144.000 segnati dalle dodici tribù d’Israele – guida la turba innumerevole di ogni gente, tribù, popolo e lingua (Ap 7, 3-4.13). Questi eletti e magnanimi duci, separati dalla volgare schiera per più alta milizia, vengono destinati a difendere liberamente la fede – ad essi è data la “plena libertas ad innovandam christianam religionem” -; sono gli amici di Dio a lui noti per nome, configurati in Cristo crocifisso e votati al martirio.
All’interno della Chiesa del sesto stato, l’Ordine dei Minori – “ordo plurium personarum” – è assimilabile alla persona umana di Cristo. Come questa si sviluppò fino all’età virile, così dovrà essere per l’ordo evangelicus piantato da Francesco, che avrà bisogno (a differenza di Cristo che stette poco tempo nel mondo) di due o tre generazioni per svilupparsi prima di subire una condanna simile a quella di Cristo [4]. La sua maturità coincide, verso il 1300, con il terzo inizio del sesto stato, cioè con il rinnovarsi per opera dello Spirito di Cristo, nel suo secondo avvento, della pianta seminata da Francesco. Questa concezione dell’Ordine francescano come individuo in sviluppo che, perfettamente maturato, diventa il novus ordo preconizzato da Gioacchino da Fiore per l’età dello Spirito, si differenzia da quella di Bonaventura, che aveva invece distinto i Francescani del proprio tempo – e quindi anche gli Spirituali – dall’Ordine finale che dominerà fino ai confini della terra. Alla terza apertura del sesto sigillo nuovi san Giovanni vengono inviati a predicare al mondo come nel tempo degli Apostoli. Ma Giovanni non designa solo un Ordine, perché Olivi lascia aperta la possibilità di rivelazioni individuali, avute da “singulares persone”, perfetti imitatori di Cristo votati, con la loro “lingua erudita”, al compito della conversione universale.
[LSA, cap. X, Ap 10, 11] “Et dixit michi: Oportet te iterum prophetare in gentibus et populis et linguis et regibus multis”. In ipsa sapientia libri expresse continetur quod oportet iterum predicari evangelium in toto orbe, et Iudeis et gentibus, et totum orbem finaliter converti ad Christum. Sed quod per istum hoc esset implendum non poterat sciri nisi per spiritualem revelationem, et hoc dico prout per Iohannem designantur hic singulares persone quia, prout per ipsum designatur in communi ordo evangelicus et contemplativus, scitur ex ipsa intelligentia libri quod per illum ordinem debet hoc impleri.
Nei cinque cicli settenari della prima cantica il sesto stato è segnato dall’apertura della porta della città di Dite (Inf. IX, 89-90); dall’ascesa di Gerione dall’abisso (Inf. XVI, 106-136); dal precipitoso passaggio dalla quinta alla sesta bolgia (Inf. XXIII, 1-57) e poi dalle trasformazioni della settima, dove i ladri fiorentini si mutano in serpenti e viceversa (Inf. XXIV-XXV); dal chinarsi di Anteo sul fondo dell’inferno (Inf. XXXI, 136-145); dal passaggio del centro della terra, con la conversione di Virgilio sull’anca di Lucifero, che è passaggio verso la sesta età, quella della Chiesa, descritta nel Purgatorio.
Ma i temi propri del sesto stato sono diffusi ovunque, intrecciati con quelli degli altri stati, e alla loro esegesi rinviano precise parole-chiave incardinate nel senso letterale dei versi. L’esegesi dell’angelo del sesto sigillo (Ap 7, 2) è già centrale nel primo canto del poema.
La novità che il sesto stato, per eccellenza stato di rinnovamento di questo secolo, arreca nell’inferno è una novità fittizia: l’apertura della porta della città di Dite non è vera novità, perché essa è stata chiusa dall’ostinazione dei diavoli, recidivi dopo l’apertura della porta dell’inferno da parte di Cristo prefigurata dalla venuta di Ercole all’Ade, per cui Cerbero “ne porta ancor pelato il mento e ’l gozzo”; Gerione viene su ad un “novo cenno” di Virgilio, ma è figura della frode dalla velenosa coda aculeata; il nuovo prodotto dalle trasformazioni reciproche di serpenti e uomini è qualcosa di incompiuto perché l’uomo razionale, creato nel sesto stato, regredisce allo stato precedente.
L’Inferno è il luogo della durezza lapidea, dell’impetrarsi, del parlare duro di cose dure a dirsi, del duro giudizio, del senso duro della scritta al sommo della porta, dei duri lamenti, dei duri demoni, dei duri veli del gelo, della gravezza. Nell’Inferno vige l’imposizione data a Daniele dall’angelo sotto il sesto sigillo dell’Antico Testamento: “Ora tu, Daniele, chiudi queste parole e sigilla questo libro fino al tempo stabilito” (Dn 12, 4), che era la sesta età nella quale apparve Cristo e in particolare il sesto stato della sua Chiesa nella quale il libro doveva essere più pienamente aperto, non però ai malevoli e ai maldisposti. Questa durezza è rotta dall’invito di Dante ai dannati perché parlino. Far parlare liberamente, per dettato interiore, è la principale prerogativa del sesto stato – la nuova età che tanto s’aspetta, quella che ode del “dolce stil novo” e delle “nove rime” -, ed è tema che la poesia canta per intero, sia pure per un attimo, anche nella vecchia roccia infernale. Appartiene alla sesta chiesa il parlare liberamente di Cristo – ad essa è dato l’“ostium apertum”, che è “ostium sermonis” – , il sentire per dettato interiore, l’aprirsi della volontà. Appartiene alla sesta chiesa anche il far venire quelli che si dicono Giudei senza esserlo, mutati nel cuore e disposti a farsi battezzare e governare. Questo far venire a parlare equivale al cortese e liberale invito dello Spirito di Cristo a convivare, a venire con desiderio e volontario consenso, con “disio” e con “velle”, in una pausa di pace nell’eterna dannazione. All’“affettüoso grido” del poeta le ombre di Francesca e Paolo vengono “dal voler portate” verso un momento di mutazione, sebbene limitata al successivo colloquio. Tutto l’Inferno è un contrappunto fra la durezza del giudizio e l’apertura per la parola dirompente, fin che essa dura, la pena. Un’apertura che si esprime in varie forme: muoversi sospirando nel Farinata prima immobile, ‘crollarsi’ quasi per terremoto interiore dello ‘schivo’ Ulisse, convertirsi del vento in voce in Guido da Montefeltro, tornare indietro nel cammino assegnato o separarsi dai compagni di pena, essere sforzati a parlare anche malvolentieri, non poterlo negare o mostrare fretta di farlo, arrestarsi obliando il martirio, levarsi per poi ricadere, sollevarsi da atti bestiali per ritornare a essi dopo aver parlato, come nel conte Ugolino. In tante lingue, che parlano come per sé stesse mosse, sta un solo desiderio, il vivere ancora nel libro che è stato altrui aperto.
Se nell’Inferno il sesto stato non si realizza mai compiutamente, anche il settimo, che gli è strettamente connesso, non può trovare un luogo autonomo. Ciò non toglie che temi del settimo stato (e della settima visione) siano ben presenti in modo diffuso. Ad esempio, quelli relativi alla settima chiesa assumono particolare rilievo nella descrizione degli ignavi a Inf. III. Tempo del silenzio, della serena pace, del riposo dalle ansiose fatiche, il settimo stato subentra dopo le terribili tentazioni inferte, con un martirio non corporale ma psicologico, dai carnefici dell’Anticristo nel sesto. Come ogni momento della storia umana partecipa dell’imitazione di Cristo, che raggiunge l’acme nel sesto stato, così in ogni periodo si verifica una sua “quietatio”, una pausa di pace, di quiete, di silenzio propria del settimo. Così Francesca parla e ascolta “mentre che ’l vento, come fa, ci tace”. Il vento – “la bufera infernal, che mai non resta” – designa il fluttuare tempestoso delle passioni nel cuore.
PURGATORIO
(sesta età del mondo)
Dopo le prime cinque età del mondo (corrispondenti all’Antico Testamento, la gioachimita età del Padre), che hanno segnato la discesa a spirale per i cinque cicli settenari dell’Inferno, con il Purgatorio inizia la sesta età, quella di Cristo (l’età del Figlio), che ha sette stati, corrispondenti ai sette stati della Chiesa. Dapprima, nel cosiddetto ‘antipurgatorio’, si registrano in successione temi prevalenti dei primi cinque stati. Il sesto stato della sesta età (con cui si apre l’età dello Spirito) inizia con l’apertura della porta di san Pietro (la porta del purgatorio). Questo sesto stato procede anch’esso con andamento settenario, per cui ha sette momenti, coincidenti principalmente con un girone della montagna, ma non del tutto, perché sempre l’ordine spirituale del poema rompe i confini letterali e le divisioni materiali, concatenando i temi di uno stato prevalente con quelli dello stato che precede e con quelli dello stato che segue e intrecciandoli con temi di tutti gli altri stati.
È spiegato nel Notabile VII del prologo della Lectura che il sesto stato della Chiesa è il secondo stato di Cristo e ha i suoi sette tempi per cui la Chiesa, come fosse una sfera, si ricongiunge circolarmente al primo apostolico tempo. Il settimo dei sette momenti del sesto stato della Chiesa coincide con il settimo stato generale della Chiesa, che nel poema corrisponde in parte all’ultimo girone della montagna (il settimo, dove si purgano i lussuriosi) e in parte all’Eden, con cui si chiude la seconda cantica.
Il Purgatorio dunque, secondo il senso spirituale, è la storia della Chiesa che corre verso il suo sesto stato, punto di riferimento di tutte le vicende umane, antiche e moderne, che ad esso cooperano. Non è casuale che nel sesto girone della montagna sia chiarificata e riconosciuta, nel colloquio con Bonagiunta da Lucca, la poetica delle “nove rime” di Dante, già “sesto tra cotanto senno” cooptato nella “bella scola” dei poeti del Limbo.
La vasta zona dedicata al sesto momento del sesto stato della Chiesa ha il suo inizio nel forte terremoto che scuote la montagna mentre Dante e Virgilio si trovano ancora nel quinto girone (Purg. XX, 124-141). Essa è stata compiutamente esaminata altrove.
Il settimo stato dell’Olivi si realizza parte in questa vita (come pregustazione in terra della gloria eterna, cioè fin sulla cima della montagna) e in parte nella futura (nel senso della quiete delle anime beate in attesa della resurrezione, che è la materia del Paradiso).
canti |
I ciclo – fino al sesto sato |
stati |
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I |
Catone |
Radici, I |
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II |
angelo nocchiero, Casella |
I – II |
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III |
scomunicati |
III |
“Antipurgatorio” |
IV |
salita al primo balzo, Belacqua |
IV – V |
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V |
negligenti morti per violenza |
V |
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VI |
Sordello |
V |
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VII-VIII |
valletta dei principi |
V |
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IX |
apertura della porta |
VI – sesto stato |
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canti |
II ciclo – il sesto stato della sesta età |
stati |
gironi |
X-XII |
superbi |
I |
I |
XIII-XIV-XV |
invidiosi |
II |
II |
XV-XVIII |
iracondiordinamento del purgatorio,amore e libero arbitrio |
III |
IIIIV |
XVIII-XIX |
accidiosi |
IV |
IV |
XIX-XX |
avari e prodighi |
V |
V |
XX (terremoto) -XXV |
Stazio, golosi, generazione dell’uomo |
VI |
VI |
XXV-XXVI |
lussuriosi |
VII – settimo stato |
VII |
XXVIIXXVIII-XXXIII |
muro di fuoconotte stellata, termine dell’ascesaEden |
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PARADISO
(settimo stato della Chiesa)
Il Primo Mobile è il nono e penultimo cielo, ma è il sesto se si parte dal cielo del Sole. È anche il cielo più segnato dal tema del “punto”, cui è assimilato il sesto stato. Questo consente di ricostruire l’ordine spirituale del Paradiso ponendo la cerniera nel quarto cielo del Sole. Con il terzo cielo di Venere termina infatti il cono d’ombra gettato dalla terra, secondo la dottrina di Alfragano (Par. IX, 118-119), mentre prima di descrivere l’ascesa al cielo del Sole il poeta invita il lettore a rivolgersi “a l’alte rote” (Par. X, 7-27). Senza la cesura recisa che, nella prima cantica, divide i dannati puniti all’interno della città di Dite da quelli che ne stanno fuori e, nella seconda cantica, separa le anime purganti nei sette gironi della montagna dalle anime che attendono fuori della porta (il cosiddetto ‘antipurgatorio’), anche nel Paradiso gli spiriti che si manifestano nei primi tre cieli della Luna, di Mercurio e di Venere (spiriti che mancarono ai voti, spiriti che furono attivi per conseguire onore e fama, spiriti amanti) si distinguono per minore perfezione rispetto a quelli che appaiono nei cieli seguenti.
I dieci cieli del Paradiso si mostrano pertanto ordinati in due gruppi di settenari, corrispondenti agli stati della Chiesa (e alle loro prerogative) secondo Olivi, parzialmente combacianti (da 1 a 7 e da 4 a 10: coincidono gli ultimi quattro numeri del primo gruppo e i primi quattro del secondo).
I Se si considera il primo settenario, nel primo cielo della Luna si affronta la questione dell’inadempienza dei voti, che ha corrispondenza con i temi propri della prima chiesa di Efeso, il cui nome, se interpretato, oscilla tra la fervida volontà iniziale e la remissione (l’essenza del voto consiste nella volontà).
II Nel secondo cielo di Mercurio, le battaglie sostenute dal “sacrosanto segno” dell’aquila corrispondono allo stato dei martiri, che è dei combattenti, e anche la dottrina dell’incarnazione e della passione di Cristo, esposta successivamente da Beatrice, fa parte della tematica, perché l’intera Chiesa, fondata sulla passione di Cristo, imita con i martiri la sua croce, e questo giova assai al suo radicamento.
III Nel terzo cielo di Venere, Carlo Martello spiega al modo di un dottore del terzo stato la diversità delle indoli umane e come gli uomini, non assecondandole, errino; nello stesso cielo compare Folchetto di Marsiglia, che da vescovo di Tolosa combatté l’eresia albigese.
IV – I Al quarto cielo del Sole, primo del secondo gruppo di settenari per l’esaltazione della vita apostolica (propria del primo stato e rinnovata nel sesto), si può connettere il tema stesso del sole inteso nell’esegesi della quarta tromba (Ap 8, 12): “Per solem videtur hic designari solaris vita et contemplatio summorum anachoritarum, qui fuerunt patres et exempla aliorum, vel solaris sapientia et doctrina summorum doctorum”. Sapienza e contemplazione, dottori del terzo e anacoreti del quarto stato, concorrono, come Domenico e Francesco – “L’un fu tutto serafico in ardore; / l’altro per sapïenza in terra fue / di cherubica luce uno splendore” (Par. XI, 37-39) – con mutua cortesia a infiammare il meriggio dell’universo.
V – II Il quinto cielo di Marte, secondo (come il secondo stato dei martiri) per l’esaltazione della croce di Cristo formata dai lumi dei combattenti per la fede, reca in sé il tema del condiscendere proprio del quinto stato sia nel pio discendere per la croce di Cacciaguida verso Dante, sia nella decadenza degli “alti Fiorentini”, cioè delle antiche famiglie, assimilate agli anacoreti, un tempo alti e poi vòlti in basso.
VI – III Il sesto cielo di Giove, terzo (come il terzo stato dei dottori) per la spiegazione di profonde verità di fede, sviluppa il motivo, proprio della sesta chiesa, della “porta aperta”. Aprire la porta significa illuminare e rendere acuto l’intelletto che penetra nell’occulto delle Scritture, e anche dare efficacia spirituale a penetrare nel cuore di chi ascolta: così l’aquila apre la “latebra” di Dante, così l’occhio di Rifeo Troiano fu da Dio aperto alla futura redenzione.
VII – IV Nel settimo cielo di Saturno, quarto (come il quarto stato degli anacoreti), “si tace … la dolce sinfonia di paradiso” (Par. XXI, 58-60), e il tacere è tema del settimo stato. Ivi si mostrano gli spiriti contemplativi, principali soggetti del quarto stato, proprio degli anacoreti: se si conta a partire dal quarto cielo del Sole, considerando questo come primo ovvero come nuovo avvio del ciclo settenario, il cielo di Saturno è appunto quarto.
VIII (V) Il settimo cielo di Saturno è seguito dal cielo delle Stelle fisse – ottavo e quinto -, dove si mostrano le schiere del trionfo di Cristo che discendono dall’Empireo (il quinto stato è caratterizzato dalla “condescensio”) e si celebra il trionfo di Maria (sviluppo del tema, proprio della quinta chiesa, della mirabile bellezza della Chiesa, regina ornata di veste aurea per la carità che unisce e circondata dalla varietà nei doni e nelle grazie delle diverse membra). È inoltre ricapitolazione dei precedenti sette, secondo un’interpretazione più volte presente nella Lectura dell’essere ‘ottavo’. Per questo Dante, stando nel segno dei Gemelli, riguarda in giù e torna col viso per tutte quante le sette precedenti sfere (Par. XXII, 124-154).
IX (VI) Segue il Primo Mobile o Cristallino – nono e sesto cielo –, dove il poeta vede il punto luminosissimo – Dio – da cui dipende il cielo e la terra, circondato dai nove cerchi di fuoco (Par. XXVIII, 16-18, 40-42, 94-96). Il sesto stato, secondo quanto Olivi afferma nel Notabile VIII, è il “punto” da cui dipendono gli altri stati, perché appare nel testo dell’Apocalisse in modo più evidente degli altri, che da esso assumono chiarezza quanto alla loro manifestazione nella storia, come l’intelligenza delle cose ordinate ad un fine dipende dal fine.
X (VII) La quiete e l’immobilità dell’Empireo, decimo cielo – il “ciel de la divina pace” -, corrispondono al settimo stato, di cui è propria la “quietatio”, il silenzio (tema anticipato dal tacere di Beatrice in apertura del canto XXIX), e la pace.
Il Paradiso avrebbe pertanto un ordine spirituale del seguente tipo:
cielo |
stato |
cielo |
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I |
LUNA |
I |
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II |
MERCURIO |
II |
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III |
VENERE |
III |
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IV |
SOLE |
IV |
I |
SOLE |
V |
MARTE |
V |
II |
MARTE |
VI |
GIOVE |
VI |
III |
GIOVE |
VII |
SATURNO |
VII |
IV |
SATURNO |
VIII |
V |
STELLE FISSE |
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IX |
VI |
PRIMO MOBILE |
||
X |
VII |
EMPIREO |