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Nov 02 2025

Perché Dante ha scritto la “Commedia”?

1. La vocazione profetica. 2. Un poema-palinsesto: la Commedia come parodia sacra della Lectura super Apocalipsim di Pietro di Giovanni Olivi. 3.“Io spero di dire di lei quello che mai non fue detto d’alcuna”. 3.1. La “gloria de la lingua”. 3.2. “Imitatio Bibliae” e “imitatio Christi”. 3.3. Apocalisse moderna. 3.4. Poesia e teologia. 3.5. Gli Antichi. 3.6. L’Impero. 3.7. Polisemia sacra. 3.8. L’“antica rete” del “santo riso”. 3.9. Un pubblico concepito e mai formato. 3.10. La teodicea del “poema sacro”. 4. Quo vadis, Dantes?

1. La vocazione profetica

            Cosa ha spinto Dante a scrivere la Divina Commedia? Perché lasciò incompiuto il Convivio per dedicarsi al “poema sacro”, un’opera radicalmente diversa dettata da “un totale commovimento etico-religioso” che “irrompe nelle prime terzine dell’Inferno”? [1] Nessuno lo potrà mai dire con certezza, perché nessuna delle opere precedenti è un presupposto necessario “al grandioso discorso con se stesso e con gli uomini, che egli inizia come all’improvviso” [2]. Bisogna dunque rimanere nel nebuloso mistero che circonda Dante, alimentato dall’assenza di notizie biografiche sicure, dalla mancanza di autografi, dalla selva delle interpretazioni, solo probabili nel miglior caso, mai certificate dall’ipse dixit? Si dovrà dire con Carducci: “Dante discese di Paradiso portando seco le chiavi dell’altro mondo e le gettò nell’abisso del passato: niuno le ha più ritrovate”? [3] Dov’è la chiave della quale parlava Benedetto Croce, necessaria per aprire il senso delle allegorie e dare ad esse interpretazione autentica? Non era forse Dante nato da sé stesso, cone affermava Giambattista Vico, e da sé stesso fatto poeta? [4] Croce poi spiegava che la causa di tanta incertezza era in noi, nella nostra incapacità di rivivere nel Medioevo, “dentro questa figurazione, grandiosamente conclusa in sé ma a noi per ogni verso estranea” perché la cultura europea è ancora scossa dalla separazione del cristianesimo dalla visione tolemaica e geocentrica del mondo propria del Medioevo [5]. Scriveva il sacerdote modernista Ernesto Buonaiuti: “Se quelle chiavi non sono state più ritrovate, la ragione è una sola, semplice e perentoria, e la ragione è che, nell’opera di Dante, è tutto il Medioevo che ha cantato le sue idealità e le sue esperienze fondamentali, e poiché noi ci siamo irrimediabilmente allontanati dalle idealità universali del Medioevo cristiano, le soglie dell’esperienza dantesca ci sono rimaste impenetrabilmente serrate” [6]. Come dunque recuperare l’intimo afflato e il prodigioso calore del divino poema senza esercitarsi in elaborate e lambiccate esegesi? La sola via è quella della storia, fondata sui testi scritti nel tempo esaminato, nei confronti dei quali lo storico si ponga come scriba, postumo trascrittore e verificatore, non forzandoli né dolcemente sollecitandoli, non fingendo ipotesi, memore della vecchia regoletta del loicare che Bruno Nardi adduceva a proposito delle presunte fonti dantesche: “a posse ad esse non datur illatio” [7]. Con queste premesse metodologiche il giudizio dato dai testi sarà come quello di Minosse, “a cui fallar non lece”.
            Un fatto è stato accostato alla decisione di scrivere la Commedia: la notizia della discesa di Enrico VII in Italia. Gli eventi si succedono rapidamente. Il 1° maggio 1308 Alberto di Asburgo, re di Germania e imperatore, viene ucciso: si era sempre disinteressato dell’Italia, l’“Alberto tedesco ch’abbandoni / costei ch’è fatta indomita e selvaggia, / e dovresti inforcar li suoi arcioni”, come gli avrebbe rinfacciato Dante in Purg. VI, 97-99. Il 27 novembre Enrico, conte di Lussemburgo, è eletto re di Germania, il 6 gennaio 1309 incoronato ad Aquisgrana. A fine luglio papa Clemente V fissa la data dell’incoronazione imperiale per il 2 febbraio 1312, ma il nuovo re intende affrettare la sua venuta a pacificare l’Italia. Il 1° settembre 1310, con la bolla Exultet in gloria, Clemente V si appella ai sudditi e prelati del Regno di Napoli perché accolgano benevolmente l’imperatore designato. Questi entra a Susa il 23 ottobre, a Torino il 30, è a Milano il 23 dicembre. Dante fa eco al papa, citandolo, con l’epistola indirizzata non solo a Roberto d’Angiò, re di Napoli, ma anche a Federico II d’Aragona, re di Sicilia, ai senatori dell’alma Roma, ai duchi, marchesi, conti e a tutti i popoli. Pregna di spirito profetico, vede in Arrigo il nuovo Mosè che libererà la misera Italia dalla schiavitù d’Egitto per condurla alla terra stillante latte e miele, dove regnano pace e giustizia. Il pacifico Titano è stato inviato dal misericordioso leone della tribù di Giuda, cioè da Cristo, colui che nell’Apocalisse sorge trionfalmente a prendere il libro dalla mano destra del Padre per aprirne i sette sigilli dicendo: “Io sono la radice di David”, della vita spirituale degli antichi padri e dei nuovi fedeli, ponendo fine ai lamenti e ai sospiri per la chiusura del libro (Ap 5, 5). Seguono in breve tempo l’acerba epistola agli scelleratissimi Fiorentini, affinché non tardino a pentirsi della loro presunzione (31 marzo 1311) e l’altra (17 aprile) allo stesso Enrico perché non indugi, trattenendosi nel nord Italia, a muovere verso la Toscana.
            L’andata di Enrico a Roma verso l’incoronazione, avvenuta in S. Giovanni in Laterano il 29 giugno 1312 e conclusa con la prematura morte per malaria a Buonconvento il 24 agosto dell’anno seguente, fu percepita come un evento straordinario, di essa scriveva Dino Compagni: “venne giù, discendendo di terra in terra, mettendo pace come fusse agnolo di Dio” [8]. Un altro fatto foriero di grandi e gravi conseguenze era stato, agli inizi del 1309, il trasferimento della sede papale ad Avignone. Ma lo stesso Clemente V non pensava a una permanenza duratura e d’altronde la Curia romana si trovava fuori d’Italia da nove anni. Solo cinque anni dopo, al momento del conclave seguìto alla morte di Clemente V (20 aprile 1314), Dante si sarebbe scagliato contro l’obbrobrio dei Guasconi affinché i cardinali non abbandonino la città di Roma, vedova e sola, priva del lume imperiale e di quello papale.
            Quando Dante ricevette la notizia della venuta in Italia di Enrico, era impegnato nella stesura del Convivio, avviata nell’esilio qualche anno prima. Nel IV trattato scriveva della “radice di David”, per dimostrare che il disegno divino di inviare un “celestiale rege” da una progenie purissima – quella di Iesse padre di David, secondo la profezia di Isaia – dalla quale nascesse Maria, “la baldezza e l’onore dell’umana generazione”, coincise con l’altro disegno, la divina elezione dell’impero romano: David nacque infatti nello stesso tempo in cui nacque Roma, quando Enea venne da Troia in Italia (IV, v, 3-9) [9]. La monarchia universale, voluta e preparata da Dio nei due popoli, ebraico e gentile, si realizzò nell’Impero dei romani preconizzato da Virgilio: “A costoro […] né termine di cose né di tempo pongo; a loro ho dato imperio sanza fine” (IV, iv, 11). Fu anche il tempo della pace universale: “Né ’l mondo mai non fu né sarà sì perfettamente disposto come allora che alla voce d’un solo, principe del roma[n] populo e comandatore … come testimonia Luca evangelista. E però [che] pace universale era per tutto, che mai, più non fu né fia, la nave dell’umana compagnia dirittamente per dolce cammino a debito porto correa” (IV, v, 8). L’annunciato arrivo del Lussemburghese infondeva la speranza che presto sarà nuovamente pace universale. Tra quanto scriveva nel Convivio, dove vi è sì adesione alla monarchia universale ma senza soffio profetico, e l’empito che questo pervade le lettere inviate nel corso dell’itinerario italico di Arrigo, fu probabilmente concepita la Commedia, segnata nel primo canto dalla profezia, per le parole di Virgilio, della venuta del veltro che ucciderà la cupida lupa e sarà il salvatore dell’“umile Italia”. La decisione di scrivere il “poema sacro” si accompagnò alla lettura dell’opera profetica vessillo dei fautori di una riforma della Chiesa: il commento all’Apocalisse del francescano Pietro di Giovanni Olivi.
            Nato circa il 1248 a Sérignan (Hérault), novizio a dodici anni nel convento di Béziers, la città che nel 1209 aveva visto i massacri di Simone di Montfort nella crociata contro gli Albigesi; discepolo a Parigi di Bonaventura nel 1266; presente a Roma e ad Assisi nel 1279, per collaborare alla redazione della Exiit qui seminat, la costituzione con la quale Niccolò III aveva cercato di risolvere i dissidi all’interno dell’Ordine francescano, Olivi aveva composto numerose opere filosofiche e commentato quasi tutta la Scrittura. Alcune sue quaestiones avevano suscitato accuse da parte dei membri dell’Ordine, dove era stato definito “capo di una setta di superstizioni, fonte di divisioni e di errori”. Ma non erano di questo parere il nuovo Ministro generale dei Minori Matteo d’Acquasparta, eletto nel capitolo di Montpellier il 25 maggio 1287, e perfino il papa Niccolò IV, che lo destinarono a Firenze come lettore di teologia. L’insegnamento di Olivi a Santa Croce fu la premessa di un più stretto rapporto fra le due anime, provenzale e italiana, dello spiritualismo francescano, originariamente segnate da considerevoli differenze. Come scrisse Raoul Manselli, gli Spirituali non erano “un partito o una fazione ma un fermento di vita fra i Minori, una presa di coscienza, la ferma rivendicazione della peculiarità dell’Ordine, una ‘attitude critique’, un ‘mouvement d’espérance’; e di tutto questo Olivi è colui che sa meglio cogliere il valore e il senso religioso, storico e umano” [10]. Volevano il ritorno alla Regola di san Francesco, mantenendo uno stato di povertà assoluta all’interno dell’Ordine.
           Il confratello Ubertino da Casale ascoltò le lezioni di Olivi, l’effetto fu dirompente: “in poco tempo mi iniziò alle alte perfezioni dell’anima del diletto Gesù … alle profondità della Scrittura e agli arcani del terzo stato del mondo, di rinnovamento della vita di Cristo, cosicché da allora sono diventato mentalmente un uomo nuovo” [11]. Lo spirito di Cristo fermentava anche in altri, come nel terziario senese Pier Pettinaio, ricordato da Sapìa nel secondo girone del purgatorio di Dante come colui che le aveva, pregando, abbreviato la penitenza (Purg. XIII, 127-129). Quale il contenuto di un insegnamento tanto sconvolgente?
            Fortemente antiaristotelica e antitomista, la visione di Olivi è cristocentrica come quella di Bonaventura. L’esemplare vita di Cristo – o la sua legge (la Regola è per il francescano sinonimo di “vita”) -, imposta agli apostoli e scritta nei Vangeli, deve essere dalla nostra vita perfettamente imitata e partecipata e porsi come fine di ogni nostra azione. “Caput universale omnis temporis”, Cristo è centro del tempo. Persona mediana della Trinità, mediatore tra Dio e l’uomo al quale indica il cammino, è il punto sul quale convergono i raggi della sfera-Chiesa nella sua storia passata, presente e futura. Per quanto concerne la persona umana, Olivi è strenuo fautore del libero arbitrio, comprovato dall’intimo sentire con il quale la volontà, riflessa su di sé, sperimenta l’esistere. Sul piano storico, il frate ritiene di vivere un periodo – il sesto dei sette stati o epoche della Chiesa – nel quale sta fermentando un novum saeculum, una palingenesi universale che porterà infine alla conversione a Cristo degli infedeli e degli Ebrei. Su questo sesto stato, che per Olivi corrisponde ai tempi moderni e, unitamente al settimo e ultimo periodo, coincide con l’età dello Spirito di Gioacchino da Fiore, ricadono tutte le illuminazioni e anche tutto il male delle epoche passate. Nel sesto stato, il secondo avvento di Cristo nello Spirito (dopo il primo, nella carne, e prima del terzo,  nel giudizio universale) reca nei suoi discepoli, siano essi membri di un ordine religioso o singole persone, una vita nova. L’homo novus sente gli insegnamenti che vengono da Cristo interno dettatore, è testimone di miracoli non corporali, come nei primi tempi della Chiesa, ma intellettuali; gli è serbata l’esperienza di gustare in questa vita il divino. In siffatta età rinnovata per lo Spirito santo, inteso come spirito di Cristo, tanto attesa come quella augustea preconizzata nella quarta egloga di Virgilio, una rivoluzione interiore viene compiuta con la parola che converte e rompe la durezza dei cuori, che l’interno dettatore spira nei predicatori aprendo la loro volontà al dire. Se finora Cristo, in quanto uomo, ha insegnato con la dottrina esteriore, e in quanto Verbo con la luce intellettuale, d’ora in poi insegnerà anche tramite il gusto d’amore proprio del suo Spirito.
            Prima che la pace e la giustizia trionfino, l’uomo del sesto stato dovrà affrontare terribili prove e sofferenze, indotte dall’Anticristo e dai suoi bestiali e subdoli seguaci. I nuovi martiri non provano soltanto il tormento del corpo, sono soprattutto tormentati dal dubbio sulla vera fede, suggestionati dalla sottigliezza degli argomenti filosofici, da ingannevoli Scritture, dall’ipocrita simulazione di santità, dalla falsa immagine dell’autorità papale, in quanto falsi pontefici insorgono, come Anna e Caifa insorsero contro Cristo. Per rendere più intenso questo martirio psicologico, i carnefici stessi operano miracoli. La tentazione provocata dal dubbio induce in errore persino gli eletti, come testimoniato da Cristo nella grande pagina escatologica di Matteo XXIV. Prima del combattimento contro la bestia apocalittica, salirà da oriente, cioè da Roma, la “città del sole” di cui parla Isaia (Is 19, 18), l’angelo del sesto sigillo a preannunciare l’avvento del vero sole; segnerà con la croce gli eletti dell’esercito di Cristo che guideranno la volgare schiera alla vittoria contro l’Anticristo. Nuovo Zorobabele ricostruttore del Tempio di Gerusalemme, “universalis pontifex … quasi novus dux”, all’angelo sarà dato il potere di innovare la religione cristiana e di realizzare in terra l’universale regno di Dio.
            Trasferitosi da Firenze a Montpellier nel 1289, Olivi si dedicò principalmente a redigere la Lectura super Apocalipsim, completata poco prima di morire a Narbonne nel 1298. L’opera portava al sommo l’escatologismo che, per citare Arsenio Frugoni, “oltre che ideologia di lotta e di riforma del gruppo spirituale, era anche un vero e proprio sentimento storico […] una tensione di rinnovamento, una ansia di salvezza, che nel 1300, l’anno centenario della Natività, aveva trovato come una attivazione, in un senso di pienezza dei tempi, cui doveva corrispondere un fatto, un accadere meraviglioso e nuovo” [12]. Un escatologismo che Bonifacio VIII stava per cristallizzare in norma con l’indizione del primo giubileo.
            Summa di vita, di ideali, di pensiero del suo autore, la Lectura fu anche il vessillo degli Spirituali e, per più di un quarto di secolo, oggetto di persecuzione senza pari “anche oltre la morte, quando le sue ossa saranno impietosamente disseppellite e oltraggiate, i suoi scritti confiscati e distrutti, il suo nome aborrito e taciuto” [13]. Questa persecuzione si intensificò dopo il Concilio di Vienne (1311-1312) con il pontificato di Giovanni XXII (1316-1334), attraverso successive censure fino alla condanna definitiva della Lectura in quanto “pestifero ed eretico dogma contro l’unità della Chiesa cattolica e la potestà del sommo pontefice romano” che, nella testimonianza dell’inquisitore domenicano Bernard Gui, il papa pronunciò in un concistoro pubblico dell’8 febbraio 1326. Ma nel primo decennio del Trecento, quando Dante intraprese a scrivere la Commedia, la stuazione era diversa, gli Spirituali non erano stati sconfitti, la riforma della Chiesa era ancora possibile.
            Dopo la morte di Olivi a Narbonne (14 marzo 1298), la Lectura super Apocalipsim si diffuse subito in Italia. Bonifacio VIII (morto l’11 ottobre 1303) ne affidò all’agostiniano Egidio Romano una confutazione non pervenutaci; Ubertino da Casale, tra marzo e settembre 1305, l’aveva accanto a sé mentre scriveva a La Verna l’Arbor vitae crucifixae Jesu riportandone nel quinto libro interi ed estesi brani. L’anno dopo Ubertino divenne cappellano del cardinale Napoleone Orsini, protettore degli Spirituali il quale, fra le varie legazioni affidategli da Clemente V, nel 1306 e 1307 si adoperò per il ritorno a Firenze degli esiliati, azione che fallì dopo il mancato scontro a Gargonza tra i Neri e le truppe del Cardinale, ospite dei conti Guidi [14]. Nell’ottobre 1306 Dante era in Lunigiana come procuratore di pace con il vescovo di Luni per conto dei Malaspina; nel 1307, o nell’autunno 1308, si trovava in Casentino, da dove inviò a Moroello Malaspina la canzone “montanina”. Dopo la delusione seguita alla sconfitta dei Bianchi alla Lastra nel 1304, il poeta era aperto ai tentativi di riconciliazione. Negli stessi anni, e in luoghi contigui se non coincidenti, Dante e Ubertino lavoravano per la pace, e si può ben immaginare quanto l’attività del frate e del cardinale stesse a cuore al poeta. Fu quella l’ultima possibilità che Dante ebbe di rientrare a Firenze prima dell’inizio della stesura della Commedia. È probabile che, in un momento imprecisabile ma successivo all’autunno 1306, sia stato lo stesso Ubertino a dare a Dante una copia della Lectura super Apocalipsim.
            “Apocalisse” è termine greco che suona in latino “revelatio”, cioè svelamento; essa fu concessa da Dio (causa principale) a Cristo in quanto uomo (causa secondaria), da questi tramite un angelo (causa intermedia) a Giovanni (causa prossima). Si tratta di una profezia, non però di eventi nel lontano futuro, ma di cose che debbono avvenire presto, che s’affrettano per la necessità di intervento della giustizia divina contro i reprobi. A Giovanni, l’autore del libro, venne mostrata a Patmos una sola visione puramente intellettuale; poi che gli fu ingiunto di scriverla, la adattò per le menti umane manifestandola in più visioni attraverso segni figurali, per mezzo cioè di similitudini tratte dai fenomeni naturali. La causa finale del libro è la beatitudine: “Beato chi legge e chi ascolta le parole della profezia, e chi le conserva” (Ap 1, 3).
            Quando Dante ebbe sotto gli occhi la Lectura super Apocalipsim di Olivi, non poche suggestioni dovettero percorrere la sua mente: manifestare, come fece san Giovanni esiliato a Patmos, la propria visione intellettuale condiscendendo con exempla e similitudini agli ingegni umani che si fondano sulla percezione sensibile; viaggiare da imitatore di Cristo nella storia della salvezza collettiva dell’umanità che ha come causa finale Beatrice; emulare la Bibbia, perfino l’Antico Testamento ritrovandolo nei tempi moderni; disporre di due guide, Virgilio e Beatrice, impersonanti rispettivamente gli insegnamenti esteriori attraverso la luce intellettuale del Cristo uomo e l’intimo gusto d’amore proprio del suo Spirito; inserire, come è proprio dello spirito profetico, il particolare del miscrocosmo toscano e italico nell’universale macrocosmo dei disegni divini; estendere le sacre prerogative della Chiesa al mondo umano e in primo luogo all’Impero; esprimere, dando fiato all’ansia escatologica di rinnovamento, il senso di un prossimo evento meraviglioso e nuovo instillato dal giubileo del 1300; dare agli antichi, in primo luogo a Virgilio e ad Aristotele, la cittadinanza “di quella Roma onde Cristo è romano” discendendo al Limbo nel tempo del nuovo avvento spirituale, nei suoi imitatori, del Salvatore; confrontarsi con centinaia di citazioni, che Olivi aveva inserito ed elaborato nel suo commento, dell’abate calabrese Gioacchino da Fiore, “di spirito profetico dotato” perché veggente della terza età,  alle quali prestare “e piedi e mano” nei versi per farsi lui stesso iniziatore della “nuova terza teologia” [15]; rompere la durezza della pena infernale col far parlare i morti, quasi per dettato interiore, spinti dal desiderio di essere scritti nel libro della vita; sentirsi nobile e fuori della “volgare schiera” dei poeti non per lignaggio ma per elezione quale amico di Dio prescelto nella sua milizia, a conferma di quanto aveva scritto nel Convivio (IV, xx, 3-6); descrivere l’invisibile, dando figura a concetti teologici contenuti nell’esegesi apocalittica.
            Verbi come concedere, manifestare, palesare, mostrare, segnare, figurare sono prestiti frequenti dell’autore della Commedia dal linguaggio apocalittico. Forgiando i versi su quella profezia, e sul suo grandioso commento, avrebbe potuto realizzare un liber concordiae nel quale collocare le proprie esperienze, conoscenze, soluzioni indipendenti date a questioni dottrinali o filosofiche, imponendo una superiore concordia in terra fra opposte fazioni cittadine, fra posizioni speculative avverse, fra impero e papato, i “due soli” in conflitto, fra due opere per antonomasia antagoniste nella valutazione della romanità come l’Eneide e l’Apocalisse: con ciò si sarebbe mostrato vero poeta “cattolico”, cioè universale [16]. Ciascuno avrebbe avuto il proprio posto nella storia della salvezza collettiva marcata dai segni della volontà divina.

2. Un poema-palinsesto: la Commedia come parodia sacra
della Lectura super Apocalipsim di Pietro di Giovanni Olivi

            Un’asserzione così impegnativa – il fatto che Dante, nello scrivere la Commedia, abbia conosciuto ed elaborato la Lectura super Apocalipsim di Pietro di Giovanni Olivi – richiede un’adeguata e inoppugnabile dimostrazione. Qui lo storico e il filologo deve farsi semiologo, chiedendo aiuto ai maestri del campo quali Roland Barthes, Gérard Genette, Umberto Eco, nel senso di domandarsi, tenendo conto dei loro insegnamenti, quale giudizio avrebbero potuto trarre se si fossero trovati a confrontare e a esaminare i testi.
            Comparando le due opere, una in latino e l’altra in volgare, quegli esperti si sarebbero imbattuti in intertestualità non immediatamente evidenti, ma chiare in seguito a un esame non superficiale. Qui di seguito alcuni esempi tratti da luoghi delle due opere diversi e distanti fra loro:

 

[LSA, cap. II, Ap 2, 5] Primum est inanis gloria et superba presumptio de suo primatu et primitate, quam scilicet habuit non solum ex hoc quod prima in Christum credidit, nec solum ex hoc quod fideles ex gentibus ipsam honorabant et sequebantur ut magistram et primam, tamquam per eam illuminati in Christo et tracti ad Christum […] – [Purg. XI, 79-81, 121-123] “Oh!”, diss’ io lui, “non se’ tu Oderisi, / l’onor d’Agobbio e l’onor di quell’ arte / ch’alluminar chiamata è in Parisi?” … “Quelli è”, rispuose, “Provenzan Salvani; / ed è qui perché fu presuntüoso / a recar Siena tutta a le sue mani”. – [Purg. XXII, 66] e prima appresso Dio m’alluminasti.

[LSA, cap. VII, Ap 7, 4] […] designatur familiarior signatio et notitia et amicitia apud Deum. – [Purg. XIII, 145-147; Par. XII, 132; XXV, 89-90] “Oh, questa è a udir sì cosa nuova”, / rispuose, “che gran segno è che Dio t’ami; / però col priego tuo talor mi giova”. … che nel capestro a Dio si fero amici … pongon lo segno, ed esso lo mi addita, / de l’anime che Dio s’ha fatte amiche.

[LSA, cap. XIII, Ap 13, 18] […] et exinde expellens clericos et priores episcopos qui semini Frederici et specialiter illi imperatori et sibi et suo statui fuerant adversati […] – [Inf. X, 46-48] poi disse: “Fieramente furo avversi / a me e a miei primi e a mia parte, / sì che per due fïate li dispersi”.

[LSA, cap. XVI, Ap 16, 15] Quia vero Deus tunc ex improviso et subito faciet hec iudicia, ideo subdit: “Ecce venio sicut fur[…] unde subdit: “Beatus qui vigilat et custodit vestimenta sua”, scilicet virtutes et bona opera, “ne nudus ambulet”, id est virtutibus spoliatus; “et videant”, scilicet omnes tam boni quam mali, “turpitudinem eius”, id est sua turpissima peccata et suam confusibilem penam in die iudicii sibi infligendam. – [Inf. III, 112-114; XIII, 103-104; XXVII, 127-129; Purg. VII, 34-35; Par. XII, 47-48] Come d’autunno si levan le foglie / l’una appresso de l’altra, fin che ’l ramo / vede a la terra tutte le sue spoglie … Come l’altre verrem per nostre spoglie, / ma non però ch’alcuna sen rivesta … disse: “Questi è d’i rei del foco furo”; / per ch’io là dove vedi son perduto, / e sì vestito, andando, mi rancuro. … quivi sto io con quei che le tre sante / virtù non si vestiro … le novelle fronde / di che si vede Europa rivestire.

[LSA, cap. XVIII, Ap 18, 10] Et ideo convertentur ad luctum “dicentes”, scilicet plangendo […] – [Inf. V, 126; XXXIII, 9] dirò come colui che piange e dice … parlare e lagrimar vedrai insieme.

            Si trattava solo di coincidenze, magari frutto di un comune sentire del linguaggio? Come poteva essere ciò, dato che esse si riscontravano più volte, in punti diversi dei due testi e non nell’ordine delle decine, ma delle centinaia? Un fenomeno così diffuso non si poteva constatare confrontando la Commedia con altre opere a Dante ben conosciute, ad esempio con la Summa theologiae di Tommaso d’Aquino o con il De civitate Dei di Agostino. Anche con Virgilio, Ovidio, Lucano o Boezio, quando esiste un preciso richiamo testuale, questo è sempre limitato. Dall’apparente casualità si doveva pertanto risalire alle norme che regolano un così intenso rispondersi intertestuale. Si trattava, poi, di qualcosa che poteva effettivamente essere chiamato ‘intertestualità’?
            Studiando sinotticamente il rapporto tra i due testi, quegli studiosi avrebbero potuto registrare le seguenti leggi che legano B (la Commedia) ad A (la Lectura super Apocalipsim):

            a) Gruppi di parole ravvicinate presenti nella Lectura super Apocalipsim si ritrovano, con parole altrettanto ravvicinate, ma liberamente collocate nelle forme più varie, nella Commedia, quasi fili tratti da altro ordito e, intrecciati con altri, tessuti in uno nuovo. Il fenomeno risulta troppo diffuso perché sia casuale. Non si tratta di parole isolate, ma collocate in una rosa semantica entro spazi testuali ristretti; gli accostamenti non sono banali o scontati. Non c’è calco o riscrittura; il travaso non è di frasi – e non potrebbe esserlo dalla prosa in poesia – ma di elementi semantici (vere e proprie parole-chiave) che sono segnali, in un’alta retorica del significante. La compresenza risulta evidente per quanto, nel lessico della Commedia, proviene dal latino, si tratti di latinismi o di termini già entrati nell’uso fiorentino. Ma anche le voci fiorentine di ogni strato sociale, o quelle tratte da altri dialetti della penisola, i gallicismi, gli arabismi, i neologismi concordano con l’esegesi apocalittica, talora anche per somiglianza fonica, circondati da segnali (parole-chiave) che sembrano sollecitare il lettore consapevole verso l’altro testo.
            Con analisi sistematica, si può verificare – in centinaia di casi – come, a partire da singole parole, nello stesso verso o nei versi immediatamente circostanti se ne registrano altre che si riferiscono, per semantica coincidente (quando il volgare deriva dal latino) o concordante (quando vi si sostituisce), al medesimo luogo dell’esegesi apocalittica (non al solo testo dell’Apocalisse, ma a questo e alla sua esegesi). Tali accostamenti semantici, inoltre, non avvengono fra parole che possono essere giustapposte per il comune sentire del linguaggio, come l’acqua e il battesimo, o il fuoco e il fumo, bensì fra elementi distanti. Ad esempio:

 

tresimmundosinducentesfamiliaresfamigliam’indusserotremondiglia (LSA, cap. XVI, Ap 16, 12-13; Inf. XXX, 88-90); prestetemendarerimendone presti (LSA, explicit: Purg. XIII, 107-108); venerit discessioverràdisceda (LSA, cap. XIII, Ap 13, 18; Purg. XX, 15); exieruntpungentiumtraxerunttraggen’esceponta (LSA, cap. IX, Ap 9, 3; Purg. XX, 71.73.74).

            Corollario di a) è il fatto che gruppi di terzine numericamente corrispondenti, a diversi stadi della Commedia, contengono parole-chiave che conducono alla medesima pagina esegetica della Lectura. Esempi: Ap 5, 8; 7, 3-47, 13-14.
            Conducendo un’altra indagine sugli hapax legomena della Commedia (in quanto parole più rare o studiate) si evidenzia di nuovo questo fenomeno.

            b) Un medesimo luogo della Lectura conduce, tramite la compresenza delle parole, a più luoghi della Commedia, e viceversa; l’unità si travasa nel molteplice, questo rinvia a ciò che è unito. Ciò significa che la medesima esegesi di un passo dell’Apocalisse è stata utilizzata in momenti diversi della stesura del poema. Analizzando anche un solo verbo si possono registrare molti riscontri. Ad esempio, il verbo derivare (forma latina meare) si accompagna nei versi, in casi differenti e anche in rima, ad altri elementi semantici: tutti rinviano all’esegesi del fiume luminoso che scorre nel mezzo della Gerusalemme celeste, dove è presente l’espressione “dirivatur seu communicatur”:

 

[LSA, cap. XXII, Ap 22, 1-2] “Et ostendit michi fluvium”. Hic sub figura nobilissimi fluminis currentis per medium civitatis describit affluentiam glorie manantis a Deo in beatos. Fluvius enim iste procedens a “sede”, id est a maiestate “Dei et Agni”, est ipse Spiritus Sanctus et tota substantia gratie et glorie per quam et in qua tota substantia summe Trinitatis dirivatur seu communicatur omnibus sanctis et precipue beatis, que quidem ab Agno etiam secundum quod homo meritorie et dispensative procedit. Dicit autem “fluvium” propter copiositatem et continuitatem, et “aque” quia refrigerat et lavat et reficit, et “vive” quia, secundum Ricardum, numquam deficit sed semper fluit. Quidam habent “vite”, quia vere est vite eterne. Dicit etiam “splendidum tamquam cristallum”, quia in eo est lux omnis et summe sapientie, et summa soliditas et perspicuitas quasi cristalli solidi et transparentis. Dicit etiam “in medio platee eius”, id est in intimis cordium et in tota plateari latitudine et spatiositate ipsorum. […] Una autem pars seu ripa fluminis est ripa seu status meriti quasi a sinistris, dextera vero pars est status premii; utrobique autem occurrit Christus, nos fruct<u> vite divine et foliis sancte doctrine et sacramentorum reficiens et sanans. Per folia enim designantur verba divina, tum quia veritate virescunt, tum quia fructum bonorum operum sub se tenent et protegunt, tum quia quoad vocem transitoria sunt. Sacramenta etiam Christi sunt folia, quia sua similitudine obumbrant fructus et effectus gratie quos significant et quia arborem ecclesie ornant.

Par. II, 139-144: Virtù diversa fa diversa lega / col prezïoso corpo ch’ella avviva, / nel qual, sì come vita in voi, si lega. / Per la natura lieta onde deriva, / la virtù mista per lo corpo luce / come letizia per pupilla viva.

Par. IV, 115-120: Cotal fu l’ondeggiar del santo rio / ch’uscì del fonte ond’ ogne ver deriva; / tal puose in pace uno e altro disio. / “O amanza del primo amante, o diva”, / diss’ io appresso, “il cui parlar m’inonda / e scalda sì, che più e più m’avviva”.

Par. XIII, 52-57: Ciò che non more e ciò che può morire / non è se non splendor di quella idea / che partorisce, amando, il nostro Sire; / ché quella viva luce che sì mea / dal suo lucente, che non si disuna / da lui né da l’amor ch’a lor s’intrea.

Par. XXX, 61-66, 76-78, 85-87: e vidi lume in forma di rivera / fulvido di fulgore, intra due rive / dipinte di mirabil primavera. / Di tal fiumana uscian faville vive, / e d’ogne parte si mettien ne’ fiori, /quasi rubin che oro circunscrive … Anche soggiunse: “Il fiume e li topazi / ch’entrano ed escono e ’l rider de l’erbe / son di lor vero umbriferi prefazi. … come fec’ io, per far migliori spegli / ancor de li occhi, chinandomi a l’onda / che si deriva perché vi s’immegli.

            Le parole “terra”, “pace” e il verbo ‘togliere’ (“che mi fu tolta / come suole esser tolto”) sono fili che formano parte del tessuto sia nel discorso di Francesca come in quello di Catalano, uno dei due frati ‘godenti’ bolognesi nella bolgia degli ipocriti. In entrambi i casi l’esegesi di riferimento è Ap 6, 4, relativa all’apertura del secondo sigillo. Se identiche sono le parole, la loro collocazione è del tutto diversa nei due distinti episodi. Il significato originario – “togliere la pace dalla terra” – si mantiene in entrambi.

 

[LSA, cap. VI, Ap 6, 4] Subdit ergo: “Et ecce alius”, id est ab equo albo valde diversus, “equus rufus”, id est exercitus paganorum effusione sanguinis sanctorum rubicundus. “Et qui sedebat super eum”, scilicet romanus imperator vel diabolus, “datum est ei ut sumeret”, id est ut auferret, “pacem de terra”, id est a Deo permissum est ut persequeretur fideles; “et ut invicem se interficiant”, id est ut pagani interficerent corpora fidelium et etiam quorundam fidem, sancti vero interficerent infidelitatem et pravam vitam plurium paganorum, convertendo scilicet eos ad Christum. Vel, secundum Ricardum, “ut invicem se interficiant”, id est ut ipsi persecutores non solum interficiant alienos et remotos, sed etiam suos parentes et notos et domesticos et vicinos.

[Inf. V, 97-102] Siede la terra dove nata fui / su la marina dove ’l Po discende / per aver  pace co’ seguaci sui. / Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende, / prese costui de la bella persona / che mi fu tolta; e ’l modo ancor m’offende.

[Inf. XXIII, 103-108] Frati godenti fummo, e bolognesi; / io Catalano e questi Loderingo / nomati, e da tua terra insieme presi / come suole esser tolto un uom solingo, / per conservar sua pace; e fummo tali, / ch’ancor si pare intorno dal Gardingo.

           c) Più luoghi della Lectura possono essere collazionati tra loro, secondo un procedimento analogico tipico delle distinctiones ad uso dei predicatori del XIII secolo [17]. La scelta non è arbitraria. Vi predispone lo stesso testo scritturale, poiché l’Apocalisse contiene espressioni, come Leitmotive, che ritornano più volte (ad esempio fulgura, voces, tonitrua, terremotus; vox aquarum multarum), oppure passi introdotti da versetti identici o simili o strettamente conseguenziali o vertenti sulla medesima materia. La scelta è anche determinata da parole-chiave che collegano i passi da collazionare. Talora è lo stesso esegeta a proporla, come nel caso dell’angelo del sesto sigillo (Ap 7, 2) e dell’angelo dal volto solare (Ap 10, 1-3), entrambi identificati con san Francesco. La “mutua collatio” di parti della Lectura arricchisce il significato legato alle parole e consente uno sviluppo tematico amplificato.
            Per fare un esempio, lo zelo può essere riprensivo in quanto vòlto all’altrui bene (Ap 3, 19), oppure provenire da santa orazione fatta nel tempio che è in cielo (Ap 14, 17-18), o ancora designare l’eterno ardore che scende dal cielo e questa fiamma, che sta ad indicare la salda fermezza dei santi, può essere punitiva o purgativa (Ap 20, 9). La collazione dei tre luoghi (altri potrebbero aggiungersi) offre una dottrina alla quale richiamano i singoli elementi semantici, variati all’occorrenza nel riprendere l’ardimento d’Eva (Purg. XXIX, 23-24), nello zelo buono e santo che in cielo ‘grida’ la preghiera contro “li moderni pastori” vituperati da Pier Damiani, e questo gridare è proprio di fiammelle che scendono e si fermano (Par. XXI, 136-142; XXII, 7-15); o ancora nell’“etternale ardore” che scende sul sabbione simile alle “fiamme … salde” viste cadere da Alessandro Magno sulle sue truppe in India (Inf. XIV, 31-37) e perfino nel verso, contro gli Uberti, “tal orazion fa far nel nostro tempio” (Inf. X, 87).

            d) Olivi, nel commentare l’Apocalisse, segue progressivamente i ventidue capitoli del testo sacro. Tuttavia suggerisce, nel prologo della Lectura, un metodo differente di comprensione e di aggregazione del testo, fondato sui sette stati (status), cioè sulle epoche nelle quali si articola la storia della Chiesa, prefigurate nell’Antico Testamento.
          L’Apocalisse si articola in sette visioni: le sette chiese d’Asia, i sette sigilli, le sette trombe, la donna vestita di sole (le sette guerre sostenute dalla Chiesa), le sette coppe, il giudizio di Babylon (la Chiesa carnale) nelle sette teste del drago, la Gerusalemme celeste. Le prime sei visioni possono essere a loro volta divise in sette momenti, ciascuno dei quali riferibile a uno dei sette stati. Assembrando, per le prime sei visioni, tutti i primi elementi (chiesa, sigillo, tromba, guerra, coppa, momento del giudizio di Babylon), tutti i secondi, i terzi e così di seguito, si ottengono sette gruppi di materia teologica, corrispondenti al complesso dei temi afferenti a ciascuno dei sette stati. A questi sette gruppi si aggiungono altri due: l’esegesi della settima visione (senza articolazioni interne) e l’esegesi di capitoli del testo scritturale, o di parti di essi, introduttivi delle successive specificazioni delle singole visioni per settenari, che l’Olivi definisce “radicalia” o “fontalia”. Si ottengono in tal modo nove gruppi: le parti proemiali, i sette assembramenti di settenari e la settima visione. Il grande prologo della Lectura, articolato in tredici notabilia, può essere anch’esso riaggregato secondo i sette stati. Un libro (la Lectura) contiene dunque princìpi e criteri, suggeriti dallo stesso esegeta, affinché l’accorto lettore possa trarne un altro libro, fatto con lo stesso materiale ma ricomposto e distribuito in forma diversa. Un’esegesi biblica può dunque essere trasformata, senza privare il testo di una sola parola, in una teologia della storia.
            La Commedia, se confrontata con la Lectura, mostra un ordine interno diverso da quello che appare al lettore: il viaggio di Dante ha un andamento di ciclici settenari, che corrispondono ai sette stati della storia della Chiesa, cioè alle categorie con cui Olivi organizza la materia esegetica. Questo ordine interno è registrabile per zone progressive del poema dove prevale, tramite parole-chiave, la semantica riferibile a un singolo stato. Questa è prevalente ma non esclusiva, perché con essa sono intrecciati temi di altri stati. Viene così realizzata un’intima struttura dirompente i confini letterali stabiliti dai canti e da tutte le divisioni materiali per cerchi, gironi, cieli. Ogni stato, che ha differenti inizi, è concatenato per concurrentia, come le maglie di un’armatura, con quello che precede e con quello che segue. Si possono in tal modo redigere mappe che comprendano l’ordine spirituale della Commedia.
            La tecnica della collazione di passi diversi operata sulla Lectura, considerata sub c), procede non solo distinguendo parole e associando significati, ma anche congiungendo la materia esegetica connessa ai singoli stati. Il termine valor, esempio fra i tanti, compare nella Lectura una sola volta, nelle premesse all’esposizione del quinto capitolo (seconda visione apocalittica) e con riferimento all’apertura del terzo sigillo. Dall’associazione di questa parte di esegesi con altri luoghi dedicati al terzo stato si sviluppa una semantica largamente riscontrabile nei versi, variata fra i singoli elementi, nel momento in cui si presenta il termine valore.

 

III sigillo; Ap 6, 5: valor, satisfiat, hominis, recta statera, intortam acceptionem Scripture
III ecclesia; Ap 2, 12: spatam, Arrius, Sabellius

Par. XIII, 37-48, 127-129

   Tu credi che nel petto onde la costa
si trasse per formar la bella guancia
il cui palato a tutto ’l mondo costa,
   e in quel che, forato da la lancia,
e prima e poscia tanto sodisfece,
che d’ogne colpa vince la bilancia,
   quantunque a la natura umana lece
aver di lume, tutto fosse infuso
da quel valor che l’uno e l’altro fece;
   e però miri a ciò ch’io dissi suso,
quando narrai che non ebbe ’l secondo
lo ben che ne la quinta luce è chiuso.

   sì fé Sabellio e Arrio e quelli stolti
che furon come spade a le Scritture
in render torti li diritti volti.

            La metamorfosi del “libro scritto dentro e fuori” (Ap 5, 1), che è anche “libro della vita” (Ap 20, 12), si estende dall’incipit all’explicit; ne tocca gli elementi costitutivi, trattati nel primo versetto. Assume le movenze della Scrittura, ora coartata ora estesa per forza spirituale. Dall’esegesi ricava la perdita della carità originaria discendendo da essa per gradi e il ritrovarla risalendo, nonché la possibilità di descrivere la dolce vita, differenziata nei singoli cieli, delle anime beate che risiedono nell’Empireo.
            Il “poema sacro” è canto e lode. Ai temi della Lectura è data veste nelle agnizioni, nella memoria di un’età aurea ed edenica, nell’ascesa a visioni sempre più ardue e nel passaggio a regioni inusitate e superne, nel velo che da estraneo e chiuso si fa via via più lieve e aperto, nel percepire con l’udito cose più sottili e intellettuali di quanto sia possibile con la vista.
        Sulla base di quanto portato alla luce nella ricerca effettuata, i nostri tre esperti di strutturalismo e semiotica avrebbero concluso senza alcun dubbio che non ci si trova di fronte a una generica intertestualità, termine con il quale, negli studi su Dante, viene per lo più definita l’individuazione delle fonti. Il rapporto tra Commedia e Lectura configura la parodia, non con intento canzonatorio o burlesco, ma come imitazione, trasposizione, metamorfosi. Nella relazione fra l’ipertesto B (la Commedia) e l’ipotesto anteriore A (la Lectura super Apocalipsim), l’ordine è quello della metamorfosi, cioè della trasformazione: B non parla affatto di A, ma non esiste senza A, nel senso che l’autore lo ha scelto per trasformarlo dalla prosa latina nei versi in volgare. La quantità dei riscontri, regolati da precise e costanti leggi, è tale da renderla qualità primaria. La parodia attuata in B si estende infatti a tutto A. Roland Barthes vi avrebbe scorto un impero dei segni. Gérard Genette, studioso della paratestualità, cioè della letteratura al secondo grado, non avrebbe avuto difficoltà a considerare la Commedia un ipertesto e ad assegnarle il rilievo che le spetta. Dante avrebbe così condiviso con Corneille, Balzac, Flaubert, Proust, Joyce, Borges e altri la prima fila della nutrita schiera degli autori di “palinsesti”, metamorfosi o imitazione, a vario titolo, di opere anteriori. Umberto Eco avrebbe certamente considerato questi aspetti esplorando la teoria della funzione segnica. E Alberto Asor Rosa, nella presentazione del libro di Eco sulle interpretazioni esoteriche di Dante, scriveva:

Dante […] non si sarebbe mai sognato di non poter essere compreso. Che sia tanto difficile farlo, non dovrebbe condurci a rinunciarvi in favore di un arbitrio tutto calato nel punto di vista del lector. L’ermeneutica non può prescindere da un’ontologia della creazione poetica: se ne prescinde, è lettura del nulla. Questo è l’unico ma grandioso mistero, con cui ha a che fare ogni lettore di Dante (incomparabile con quei misteriucci da quattro soldi, con cui si sono misurati gli Aroux e i Guénon): il mistero del segno, o di quel sistema di segni, che ha racchiuso un mondo intero in un insieme d’immagini plurisense. Con questo mistero dobbiamo fare i conti [18].

            A è un’opera di esegesi; contiene citazioni della Scrittura e di autori che l’hanno esposta o interpretata, unite a considerazioni proprie dell’esegeta. Nella sostanza si tratta di concetti teologici. B è un’opera poetica, che descrive un viaggio nel quale l’autore incontra personaggi mitologici e storici, antichi e moderni; intervengono fenomeni naturali (freddo, caldo, terremoto, vento, sole, luna ecc.), sono trattate anche questioni filosofiche o teologiche. Nel narrare tutto ciò B utilizza una semantica tratta dal latino di A o che con essa concorda nel caso di parole che non sono di origine latina. Questa semantica è un insieme di segni che da B rinviano ad A. Nel senso letterale di B, dunque, è incardinato il senso dei concetti dati da A, che si può chiamare, genericamente, spirituale o mistico o anagogico. La Commedia appare, come l’Apocalisse, “libro scritto dentro e fuori”, con duplice significato.
            Scavando nell’intima letterarietà della Commedia, i nostri esperti avrebbero constatato che i significati portati dai segni di B si riferiscono in A esclusivamente alla storia della Chiesa e in particolare dell’Ordine francescano, mentre B li diffonde sull’intero universo e la vita degli uomini in terra, con le loro passioni ed esigenze. Se la parodia modifica la condizione dei personaggi che traveste, in questo caso, nel quale sono concetti esegetico-teologici a essere dotati di “e piedi e mano”, è l’intero contesto a venire modificato. Come quel musicista autore dell’Apocalypsis cum figuris nel Doctor Faustus di Thomas Mann, il poeta rende disuguali le cose uguali e sa variare i temi, utilizzati indifferentemente per descrizioni infernali o paradisiache, in modo tale che, pur conservandoli strettamente, non li si riconosca come ripetizioni. Si riscontra così la definizione che Dante stesso dà del suo poema in quanto polisemico, cioè con più significati (Epistola XIII, 20).
            La grande parodia sacra avviluppa nelle sue maglie molte altre, per così dire, piccole parodie, ben conosciute agli studiosi di Dante che identificano questo o quel passo della Scrittura, sottolineando l’indipendenza del poeta nell’elaborare la citazione.
            Dalle norme che regolano i rapporti tra i due testi, sopra considerate, discende che la Lectura, prima di essere parodiata dalla Commedia, era stata sottoposta a una duplice riorganizzazione. La prima, sulla base delle indicazioni dello stesso Olivi, secondo il materiale esegetico attribuibile ai singoli stati o periodi della storia della Chiesa. La seconda, seguendo il principio applicato nelle distinctiones ad uso dei predicatori, secondo lemmi analogicamente collazionati. Il commento apocalittico diventa il canovaccio del “poema sacro” per tutti i suoi 14233 versi, “panno” sul quale viene cucita la “gonna”, secondo la similitudine del “buon sartore” espressa da san Bernardo a Par. XXXII, 140-141.
               La parodia non era sconosciuta a Dante prima di iniziare a scrivere la Commedia, come dimostra il confronto testuale tra le “nove rime” e le opere di Olivi precedenti la Lectura super Apocalipsim. Non sappiamo se Dante, tra il 1287 e il 1289, abbia frequentato le lezioni di Olivi a Santa Croce. Non si può tuttavia non rilevare che la teologia oliviana dei tempi moderni, coincidenti con il sesto stato della storia della Chiesa, caratterizzato dal libero parlare per dettato interiore che apre i cuori, è singolarmente consonante con la poetica del contemporaneo Dante. Tale viene definita nel sesto girone del purgatorio nell’incontro con Bonagiunta da Lucca: una poetica fondata sullo spirare di Amore, interno “dittator”, e sul notare significando in modo stretto i suoi dettati, quasi fossero quelli di una regola evangelica imposta e accettata (Purg. XXIV, 49-63). L’inizio delle “nove rime” dantesche avvenne per virtù di un interno dettatore: “Allora dico che la mia lingua parlò quasi come per sé stessa mossa e disse: ‘Donne ch’avete intellecto d’amore’” (Vita Nova, 10. 13 [XIX 2]). La Vita Nova è la storia di un nuovo avvento di Cristo, del “miracolo” Beatrice, venuta in tanta grazia delle genti da operare mirabilmente in esse. La donna morì nel 1290, l’anno dopo la partenza di Olivi da Firenze.

3. “Io spero di dire di lei quello che mai non fue detto d’alcuna”

            Il profetico impegno per Beatrice promesso al termine della Vita Nova (31.2 [xlii.2]) fu mantenuto attraverso una profonda rivoluzione interiore, rafforzata da un vademecum che avrebbe accompagnato l’autore per l’intera stesura del “poema sacro”. Nuovi scenari si aprivano con l’idea di cucire la “gonna” sul “panno” offerto dalla Lectura super Apocalipsim di Olivi.

              3.1. La “gloria de la lingua”

            Il latino era una lingua per pochi, non bastava più per tutte le necessità espressive: il latino dell’esegesi biblica è vicino al volgare; su questo latino non aulico sono elaborati i versi del poema. Scrisse Étienne Gilson che “nessun linguaggio è a Dante più familiare di quello della Scrittura”, tanto la parlata fiorentina le era più vicina di quella di Parigi [19]. Si può precisare che nessun linguaggio è più familiare al volgare di Dante del latino dell’esegesi della Scrittura. Si tratta del sermo humilis il quale, come affermò Erich Auerbach, “insegna le profondità della vita ai semplici” [20]. È la favella “soave e piana” con la quale Beatrice, umiliatasi a scendere al Limbo, l’“uscio d’i morti”, si rivolge “con angelica voce” all’alta tragedia figurata in Virgilio (Inf. II, 55-57). Grazie a questo latino, per cui il volgare diventa una nuova lingua universale e chiave dell’intero scibile, parve a Thomas Stearns Eliot di provare le emozioni date dalla Commedia anche senza possedere una compiuta conoscenza dell’italiano [21]. Il volgare, non più solo “illustre” ma per tutti, sarebbe diventato una nuova “lingua gratiae” come fu l’ebraico, per il poeta la lingua parlata dal Redentore nel suo avvento nella carne (De vulgari eloquentia, I, vi, 5-7).
            Herbert Grundmann sottolineava, nel 1955, come dalla teologia di Bonaventura, o dallo spiritualismo di Olivi, non fiorì, come ci si sarebbe potuto aspettare, una letteratura religiosa in volgare quale si sviluppò in Germania con la mistica speculativa di Eckhart, Seuse, Tauler e altri Domenicani [22]. In realtà sull’esegesi dell’Olivi, e in particolare sulla Lectura super Apocalipsim, fiorì qualcosa di diverso: il volgare della Commedia di Dante. Il chicco di grano seminato dal frate provenzale recò in Italia il frutto migliore, e il poeta fiorentino conseguì “la gloria de la lingua” attraverso un’intensa elaborazione parodica della Lectura super Apocalipsim, completata (1297-1298) appena dieci anni prima dell’inizio della stesura del “poema sacro” (ca. 1307-1309). Ma come il chicco di grano deve morire se vuole produrre frutto, così il rapporto fra la Lectura e la Commedia passò per una profonda metamorfosi del commento apocalittico oliviano, segnandone l’uscita dalla cerchia dei Frati Minori verso il secolo umano. Come Lutero, traducendo la Bibbia, avrebbe forgiato la moderna lingua tedesca, così Dante, parodiando la Lectura di Olivi, creò la lingua del “del bel paese là dove ’l sì suona”.

            3.2. “Imitatio Bibliae” e “imitatio Christi” 

         Prestare poeticamente “e piedi e mano” a un’esegesi apocalittica imperniata su Cristo, centro dei tempi come avevano inteso Bonaventura e Olivi, avrebbe significato diffondere la storia di Cristo, della sua passione e resurrezione, sull’universo umano. Le sue prerogative avrebbero potuto essere appropriate a chiunque, in conformità o difformità, a beati, purgamti o dannati. La tragedia del conte Ugolino è scandita sui giorni della passione; Francesca e Paolo vengono vinti da una falsa Scrittura e da un’erronea immagine dello splendore del volto di Cristo, in un agone del dubbio che segna il martirio, psicologico e non corporale, degli ultimi tempi. Se, come scriveva Auerbach, “le passioni personali, che prima non erano state altro che istinti, ottengono considerazione e dignità” [23], ciò è perché il patire partecipa, in modo retto o distorto, del patire di Cristo. Non solo però del Cristo storico, ma dei suoi discepoli spirituali nel secondo avvento del Redentore, già operante al 1300, nel quale lo Spirito muove in terra quanti vi si conformano. Dante sale la montagna del purgatorio con segnate sulla fronte le sette “P”, che sono “piaghe”, come l’angelo del sesto sigillo, che Olivi identifica con san Francesco, sale da Oriente «“habentem signum Dei vivi”, signum scilicet plagarum Christi crucifixi». Così l’esegesi, nella Lectura integralmente concentrata su Francesco e il suo Ordine, sarebbe stata variamente diffusa su più soggetti secondo quella che Gianfranco Contini chiamava “mondanità discretiva” [24]. I temi propri dell’angelo del sesto sigillo avrebbero potuto essere applicati all’autore nella salita del “dilettoso monte”, o a Virgilio che rimuove gli impedimenti posti dalla lupa e dagli antichi demoni, o a Beatrice nel suo apparire nell’Eden, o infine dove sarebbe stato più naturale trovarli, nell’elogio di Francesco tessuto da Tommaso d’Aquino nel cielo del Sole. A Cacciaguida, che in previsione dei gravi colpi dell’esilio conferma e informa Dante sul proprio futuro, sarebbe stato assegnato, fra i molti ruoli, quello di san Francesco che risorgerà glorioso per confermare e informare i discepoli, nella tentazione babilonica nella quale la sua Regola, come Cristo, sarà crocifissa.
        Duplice è l’insegnamento di Cristo: l’uno, proprio del suo essere uomo, con la voce esteriore e, in quanto Verbo, con la luce intellettuale (“lux simplicis intelligentie”); l’altro, che appartiene alla sua divinità, con l’ispirazione interiore tramite il gusto d’amore dello Spirito. Alla preparazione della dottrina esteriore subentrerà nel mondo rinnovato il dettato interiore, la parola mossa da Amore: quale migliore parte, rispettivamente, per Virgilio e Beatrice, con il primo che nell’Eden abbandona il campo alla seconda? Discesa al Limbo per salvare il suo amico, la donna fa muovere Virgilio “sì ch’i’ ne sia consolata”, e l’antico rappresentante dell’alta tragedia muove a portarle Dante come per un dettato interiore del Paraclito consolatore, preparando il discepolo a tanto gustare con la sua esteriore “parola ornata”.

            3.3. Apocalisse moderna 

           La Lectura portava al sommo l’escatologismo, l’attesa di una nuova età, un sentimento da molti percepito. I segni della divina provvidenza sono pervenuti fino ai tempi moderni (il sesto stato della Chiesa), nei quali sta già operando una palingenesi nelle coscienze che porterà a un novum saeculum. Per quanto Olivi sia molto cauto nell’uso degli autori pagani, c’è una perfetta concordanza spirituale, e anche letterale, fra quanto afferma di questa renovatio e la quarta egloga virgiliana. La citazione del “cantor de’ buccolici versi”, fatta da Stazio proprio nel colloquio con Virgilio, avrebbe significato rendere costui profeta non solo del primo avvento di Cristo nella carne, ma anche del suo secondo, moderno avvento nello Spirito.
            La Lectura dava a Dante la consapevolezza della propria missione. I discepoli spirituali, che incarnano lo spirito di Cristo nel suo secondo avvento – e si tratta non solo di un Ordine religioso, ma anche di “singulares personae” -, sono inviati a predicare nuovamente nel mondo come lo fu san Giovanni. In Dante, alter Iohannes al quale viene ingiunto di scrivere – da Beatrice, Cacciaguida e san Pietro -, nell’esilio che lo accomuna all’Evangelista, una visione reale come quella di Patmos, solo aggiornata storicamente, la volontà era una con quella di Cristo-Amore che gli dettava dentro; egli apparteneva, direbbe Auerbach, al partito dell’Altissimo [25]. Non solo il singolo individuo sarebbe stato inserito nell’ordinamento divino, la parte nel tutto, ma questo inserimento era necessario, perché il poeta avrebbe scritto la visione di cose che, come recita l’Apocalisse, “devono avvenire presto”. Ecco allora che il “poema sacro” avrebbe potuto diventare una nuova rivelazione giovannea, così intesa dal primo all’ultimo verso, e non solo nei luoghi in cui essa viene chiaramente citata. Il viaggio sarebbe avvenuto ripercorrendo la storia dell’umanità attraverso gli stati o periodi della Chiesa. Prima l’Antico Testamento, in cui i sette sigilli restano chiusi in un mondo cieco e di lapidea durezza, non però del tutto chiuso alle illuminazioni spirituali; così nell’Inferno i dannati avrebbero parlato come per dettato interiore (proprio del sesto stato) e nel quietarsi della pena (proprio del settimo). Poi, con i sette gironi del Purgatorio, sarebbe stato percorso il Nuovo Testamento con il primo avvento di Cristo nella carne e la storia della Chiesa con i suoi sette periodi. Al primo, apostolico stato, succede il secondo dei martiri; poi, al tempo di Giustiniano, il terzo stato dei dottori, che confutano con l’intelletto le eresie, concorre con il quarto stato degli affettuosi anacoreti devoti al pasto eucaristico, alti per la contemplazione ma anche attivi come reggitori delle genti; a partire da Carlo Magno subentra il quinto stato pietoso e condiscendente, aperto alla vita associata delle moltitudini, bello nel principio ma poi corrottosi fino a trasformare quasi tutta la Chiesa in una nuova Babilonia; la riforma interviene, a partire da Francesco, con il cristiforme sesto stato, fino alla sconfitta dell’Anticristo; subentrano infine il silenzio e la quiete del pacifico settimo stato. Questo periodo finale, che si svolge parte in questa vita e parte nella futura, avrebbe avuto come scena in terra l’ultimo girone della montagna e l’Eden alla sua sommità; poi in cielo, con il Paradiso, lo stato delle anime beate dopo la morte in attesa della resurrezione. Nello scrivere della “dolce vita” differenziata di cielo in cielo, proprio un’articolazione interiore per stati o periodi storici avrebbe dato soluzione ai problemi derivanti dal narrare l’inenarrabile mantenendo il racconto nel tempo in luoghi dove, come giura l’angelo di Apocalisse 10, 6, tempus amplius non erit.
         Come all’apertura del sesto sigillo i segnati si distinguono, perché amici di Dio, dalla volgare milizia, così Dante per l’amica Beatrice è uscito dalla “volgare schiera” dei poeti (Inf. II, 103-105). Dante è il nuovo Giovanni, dottore della Chiesa che confuta i simoniaci come fossero eretici e depositario dell’unica vera lingua che fu di Heber e ora è nella casa di Pietro –la lingua erudita che regge le genti e corregge gli indomiti -; segue Virgilio come san Pietro seguì Cristo alla croce, rompe il pozzetto battesimale per salvare dalle mortifere acque dell’erronea fede, si rinnova come la pianta francescana, percorre le tappe dell’apocalisse e perviene al traguardo prima della loro effettiva conclusione. Come l’angelo ingiunge a Giovanni di predicare ‘ancora’ senza timore a tutto il mondo dopo gli apostoli, inviscerando il libro dal sapore amaro e dolce insieme (Ap 10, 9-11), così l’autore ascolta da Cacciaguida il suo futuro destino e le vicende dolorose dell’esilio, gustando insieme l’amaro del suo futuro patire con il dolce della fama che gli è riservata (Par. XVII). Questo essere dolce e amaro è pure negli effetti del poema, molesto nel primo gusto ma poi salutare. Dall’avo, e poi da san Pietro (Par. XXVII, 64-66), egli riceve l’ingiunzione di rendere manifesto, una volta tornato ‘ancora’ nel mondo, quanto gli è stato mostrato nel corso del viaggio e che ha notato nel suo poema.           

                  3.4. Poesia e teologia

            La poesia non sarebbe stata ancilla theologiae, sarebbe stato invece il saeculum humanum ad appropriarsi delle sacre prerogative in favore del “viver bene” dell’“omo in terra”. Per cui, come scrisse Marie-Dominique Chenu, se Dante è “ancora il testimone di una gerarchia statica in cui gli ‘stati del mondo’ rimangono come nel sottosuolo di una società sacrale”, ormai “la natura, la ragione, la società serviranno tanto meglio la fede e la grazia, quanto non lo faranno più sotto una tutela infantile, ma nell’autonomia dei loro metodi” [26].
            Lo spirito profetico, che non è soltanto previsione di eventi futuri, avrebbe dato alle vicende un valore esemplare. Tutti i tre più gravi peccati capitali – superbia, invidia e avarizia -, affermerà Ciacco, cooperano alle divisioni di Firenze, e ne sono concausa (Inf. VI, 74-75). Un particolare fatto cittadino sarebbe stato elevato a modello di male universale, e questo espandersi verso l’universale al di là del proprio particolare, per poi ritornarvi, è una caratteristica del modo tenuto dai grandi profeti, Isaia o Ezechiele e da Cristo stesso. Così si potrà ancora dire della fama di Firenze che “si spande” per tutto l’inferno (Inf. XXVI, 1-3), o che la città “è pianta” di Lucifero (Par. IX, 127-128).
            Fattosi Scrittura, il “poema sacro” avrebbe potuto liberamente utilizzare tutti e quattro i sensi interpretativi. Sul senso allegorico, nel Convivio Dante aveva avvisato che “li teologi questo senso prendono altrimenti che li poeti”, anche se entrambi considerano il senso letterale precedente gli altri sensi, in quello inchiusi (II, i, 2-15). Ora l’allegoria non sarebbe più stata “una veritade ascosa sotto bella menzogna”, cioè sotto la lettera della poesia, bensì avrebbe corrisposto al teologico vedere le vicende di Cristo e della Chiesa come prefigurate nei fatti e nei detti dei profeti dell’Antico Testamento. Per i teologi, ha valore storico non solo la lettera, che non può essere quindi una finzione, lo ha anche l’allegoria con riferimento alla storia antica, “figura” della nuova. La finzione poetica diventava metafora biblica, che Tommaso d’Aquino riteneva necessaria, utile e occulta per esercitare nello studio e contro le irrisioni degli infedeli (Summa Theologiae, I, qu. I, a. 9).
            Si può comprendere cosa avrebbe significato applicare agli Antichi questo modo di intendere l’allegoria. Orfeo che con la cetra ammansisce le fiere e fa muovere a sé gli alberi e le pietre designa la voce del saggio che umilia i cuori crudeli e fa venire quanti non usano la ragione: è solo una favola di Ovidio, citata nel Convivio come esempio di allegoria poetica. Il gigante Anteo, che depone Virgilio e Dante sul ghiaccio di Cocito, nel recare per preda mille leoni nella valle dove sarebbe stata combattuta la battaglia di Zama, è prefigurazione di Scipione, che debellando Annibale con i suoi ereditò la gloria; battaglia a sua volta figura dell’“alta guerra” che, come quella antica di Flegra dei Giganti contro Giove, nel sesto stato della Chiesa vedrà opposti con i loro eserciti Cristo e l’Anticristo: è cioè una “figura” realmente incontrata nel corso del viaggio.

           3.5. Gli Antichi 

         La Lectura considerava la storia della Chiesa come un individuo in sviluppo. Poiché la Redenzione non si è compiuta con il primo avvento di Cristo nella carne, ché anzi nel suo corso verranno incorporate in Cristo le genti e poi lo saranno ancora le reliquie delle genti e infine tutto Israele, nuovi cittadini avrebbero potuto entrare in “quella Roma onde Cristo è romano”. Pagani o maomettani che fossero, sarebbero stati prescelti non per nobiltà di sangue, ma per filiazione spirituale, per dono della Grazia che discende dal ‘Padre de’ lumi’, secondo l’epistola di san Giacomo (1, 17). Con un aggiornamento di quanto esposto nella Lectura super Apocalipsim sull’incorporazione delle genti nella Roma dei giusti o dei reprobi, che peregrinano insieme in terra, si poteva pervenire ad attribuire ai classici una sacralità fino allora propria solo della Chiesa in sé. Omero avrebbe assunto la veste di Gregorio Magno, che come un’aquila volò sopra gli altri nel percorrere gli ardui sentieri dell’allegoria; Aristotele sarebbe stato insignito delle prerogative di Colui che in cielo siede sul trono e regge con sapienza, in un luogo (il “nobile castello” del Limbo) che è figura in terra dell’Empireo; gustando il divino, il pescatore Glauco avrebbe potuto essere nel “trasumanar” figura di san Pietro, che gustò l’incorporazione dei Gentili e d’Israele. Gaeta, il luogo al quale Enea diede il nome della sua nutrice, avrebbe prefigurato il tema della Chiesa nutrice dei fedeli; “Ascesi-Oriente”, dove “nacque al mondo un sole”, avrebbe indicato il toponimo dell’angelo del sesto sigillo, “ascendens ab ortu solis”. Facendo propri concetti evangelici e spirituali, Ulisse si sarebbe perduto in un’andata al sesto stato prima del tempo, un viaggio nel futuro che precorre i disegni provvidenziali e valica i confini dell’etica – il senso morale assegnato agli Antichi – volando nel senso anagogico.           

             3.6. L’Impero 

            Se al momento della discesa di Enrico VII in Italia Dante concepiva la Commedia, non dovevano essergli estranee quelle riflessioni sulla monarchia universale e sul governo di un solo monarca che avrebbero preso forma nel celebre trattato. Quali suggestioni poteva trarre dalla lettura delle opere di Olivi? Alla monarchia universale poteva essere estesa laicamente la concezione che il frate aveva della Chiesa: come questa non può mai estinguersi e, per quanto corrotta, sopravvive spiritualmente quale tunica inconsutile anche in pochissimi individui, così l’Impero passa di mano in mano, può rimanere temporaneamente “sanza reda”, ma di per sé è immutabile. Per quanto strano a noi possa sembrare, la radice stessa dell’esperienza francescana dava linfa all’idea del Monarca universale. Il voto evangelico di povertà – l’“altissima paupertas” – secondo Olivi e la monarchia secondo Dante hanno qualcosa di essenziale in comune: la stabilità, la non trasmutabilità, l’indissolubilità. Come il voto evangelico non può essere dispensato o commutato a uno stato inferiore, neppure dal papa, che diversamente sarebbe da trattare come eretico e scismatico – secondo quanto sostiene Olivi nella Quaestio de votis dispensandis [27] – , così la monarchia – come afferma Dante contro i sostenitori della Donazione di Costantino al papa – non può essere alienata né minorata, neppure dall’imperatore, perché la giurisdizione precede il suo giudice (Monarchia, III, x, 10-12) [28]. Chi professa il voto evangelico, fondato sui consigli dati da Cristo, mira al bene universale; così il monarca, il quale è universalissima causa del ben vivere degli uomini. Il voto evangelico colloca chi lo professa in uno stato di altissima povertà, la sua immutabilità toglie ogni occasione, motivo o desiderio di conseguire dignità o fama che si fondino sulle ricchezze: nulla smorza l’appetito di qualcosa come l’impossibilità di ottenerla [29]. Il voto evangelico è dunque all’opposto della concupiscenza. Anche al monarca non resta nulla da desiderare. L’effetto è il medesimo, le ragioni sono però opposte, perché il monarca possiede tutto, in quanto la sua giurisdizione ha per confine solo l’oceano, mentre chi si trova nello stato di altissima povertà nulla possiede né può sperare di possedere. Ma per entrambi risulta del tutto estinta la cupidigia, con la conseguenza che prevale la carità, la quale per Dante dà vigore alla giustizia e al giusto amore verso gli uomini da parte del monarca. Ancora, rimuovendo la cupidigia, l’altissima povertà realizza una società comune e pacifica e accende ardente carità, come il monarca, per mezzo della giustizia corroborata dalla carità, realizza il vivere in pace, un bene di somma importanza per l’uomo (Monarchia, I, xi, 11-14) [30].
            Nella prospettiva storica oliviana adeguatamente aggiornata, l’Impero poteva trovare la sua autonomia. Alcuni luoghi della Lectura super Apocalipsim, se oggetto di parodia, avrebbero corroborato la pari dignità di Impero e Papato. Ad Ap 12, 14 si dice che alla donna (la Chiesa), per volare come regina nel deserto dei Gentili, vennero date due ali di una grande aquila, interpretate come il terzo stato o periodo, proprio dei dottori (che confutano le eresie con la ragione e la spada), e il quarto, proprio degli anacoreti o contemplativi (dediti al devoto pasto eucaristico): ecco che alle loro prerogative – si tratta di due momenti storici di solare sapienza, distinti ma insieme concorrenti a illuminare il mondo – potevano venire assimilati Impero e Papato, spada e pastorale, i “due soli” dei quali parlerà Marco Lombardo (Purg. XVI, 106-114). Essi, che “l’una e l’altra strada / facean vedere, e del mondo e di Deo”, corrispondono ai due fini proposti all’uomo dalla Provvidenza dei quali si tratta nella Monarchia, la beatitudine di questa vita e la beatitudine della vita eterna (III, xv, 7-10). Al primo fine, al quale presiede l’imperatore, si giunge attraverso la filosofia, seguendola nell’operare secondo le virtù morali e intellettuali: esso è speculare, nel rapporto che si sarebbe instaurato tra la Lectura e la Commedia, al lume dei dottori della Chiesa che reggono con la ragione. All’altro fine, la beatitudine della vita eterna che spetta al papa, si perviene attraverso gli insegnamenti spirituali che trascendono la ragione umana, seguendoli nell’operare secondo le virtù teologali: a questi avrebbe corrisposto la santa vita e la “pascualis refectio”, il “pastus” degli anacoreti, i contemplativi ai quali è appropriato lo stato successivo, il quarto, designata dall’altra ala della grande aquila data alla donna.
        Ancora, ad Ap 22, 1-2 si tratta del fiume luminoso che scorre nel mezzo della Gerusalemme celeste. Esso ha due rive, l’umana e la divina con al centro Cristo-lignum vitae, la cui duplice natura di uomo e Dio ombreggia entrambe: quell’ombra sacramentale di verità superiori si poteva riverberare sia sull’“ombra de le sacre penne” dell’aquila imperiale, di cui dirà Giustiniano (Par. VI, 7) come sull’“ombra de le sacre bende” proprie della vita religiosa ed evangelica di cui parlerà Piccarda (Par. III, 114), cioè sui due fini di beatitudine assegnati all’uomo dalla Provvidenza di cui tratta la Monarchia. Diventato consorte in cielo della Chiesa, l’Impero avrebbe partecipato a pieno titolo dell’eterna generazione del Verbo e del suo farsi carne. Come Cristo fu soggetto al Padre per la sua mortale umanità, ma non per questo gli fu meno consustanziale ed eguale, così il romano Principe, assimilato al Figlio dell’uomo, avrebbe dovuto rendere reverenza al Padre e soggiacergli “in aliquo”, come scritto al termine della Monarchia, senza per questo essere meno a Lui uguale. Se, come avrebbe affermato Marco Lombardo, la spada imperiale è stata spenta dal papa e congiunta col pasturale, ciò configurava un’eresia assimilabile a quella di Ario, che divise il Figlio dal Padre ritenendolo non consustanziale, a livello di creatura o, ancor meglio, a quella di Sabellio, che unificò il Padre e il Figlio nella stessa persona.
            La necessità di una monarchia universale si fonda sull’esistenza di un’operazione propria dell’intera umanità, quella di attuare nella serenità della pace la potenza o facoltà intellettiva, un’operazione alla quale non possono pervenire i singoli, siano uomini, famiglie, villaggi, città, regni particolari [31]. Questo principio filosofico avrebbe potuto trovare un piano spirituale e anagogico mettendo in versi l’immagine della “vox aquarum multarum”, il canto dei compagni dell’Agnello sul monte Sion, voce una che procede concordemente da molte voci (“ex magno et multo collegio sanctorum et plurium virtualium affectuum ipsorum procedens et concorditer unita”), formata da più individui che al tempo stesso trascende in quanto una. Sarebbe stata la stessa Aquila, nel cielo di Giove, la cui voce avrebbe suonato al singolare («e sonar ne la voce e “io” e “mio”») pur essendo formata da molti amori beati e dunque al plurale nel pensiero (“quand’ era nel concetto e ‘noi’ e ‘nostro’”), come un solo calore si fa sentire da molti carboni ardenti, come un unico profumo da molti fiori (Par. XIX, 10-12; 19-24) [32].
          La storia di Roma è la manifestazione dei segni di Dio, che attuano in terra la sua volontà: “divina voluntas per signa querenda est” (Monarchia II, ii, 8). Questi segni, nelle parole di Giustiniano in Par. VI, ispirate dal “sacrosanto segno” dell’Aquila “che fé i Romani al mondo reverendi”, sarebbero stati modulati con un andamento settenario, quello proprio dei futuri sette stati o periodi della Chiesa e degli eventi in essi verificatisi secondo la Lectura super Apocalipsim, per cui quanto anticamente avvenuto prima di Cristo si sarebbe mostrato come sacra prefigurazione della nuova storia, che è insieme dell’Impero e della Chiesa.
            Dapprima la Chiesa dovette combattere contro i Giudei. La virtù che ha fatto degno di reverenza il segno dell’Aquila “cominciò da l’ora / che Pallante morì per darli regno”. Il figlio del re Evandro, che morì combattendo per Enea contro Turno, è figura di Cristo istitutore della Chiesa, il quale ha sublimato l’uomo al suo regno e al suo sacerdozio e a cui spetta la gloria e l’impero nei secoli dei secoli.
            Poi, al tempo delle persecuzioni che durò trecento anni, i martiri combatterono contro il paganesimo. Ne furono prefigurazione la sede dell’Aquila in Albalonga per trecento anni e più, fino al combattimento degli Orazi e Curiazi, il ratto delle Sabine, il suicidio di Lucrezia, che causò la cacciata di Tarquinio il Superbo.
          Seguì, nel terzo stato, la  guerra fu contro gli eretici, guidata dai famosi dottori della Chiesa che spiegarono chiaramente la fede all’universo già convertito. Corrisponde al tempo nel quale gli “egregi Romani” portarono l’insegna “incontro a Brenno, incontro a Pirro, / incontro a li altri principi e collegi”, dove riportarono fama “Torquato e Quinzio, che dal cirro / negletto fu nomato, i Deci e ’ Fabi”.
            Nel quarto periodo della Chiesa sopravvennero i Saraceni che quasi tutto devastarono, assoggettarono le chiese d’oriente e quasi pervennero a distruggere quella romana. Nel passato, il sacrosanto segno dell’Aquila “atterrò l’orgoglio de li Aràbi”, vinse cioè i Cartaginesi, che passarono le Alpi dietro ad Annibale: la caduta dei nemici di Roma dalla loro superba e ardua altezza è prefigurazione della caduta degli anacoreti o contemplativi delle chiese orientali dall’elevata e orgogliosa condizione e della loro distruzione operata dai Saraceni.
            Nel quinto stato la Chiesa fu ripristinata da Carlo Magno e riunita nella sede romana. Venne istituito un tipo di vita condescensiva, affinché la Grazia operasse in uno stato inferiore per quanti non potevano restare in uno troppo arduo. Ma contro coloro che non seppero mantenere lo stato mediocre e condescensivo giustamente si appuntò lo zelo severo della correzione, per cui i santi padri si mossero contro i propri sudditi. Le folgoranti imprese di Cesare, antica anticipazione del quinto periodo, potevano essere descritte in sette terzine (Par. VI, vv. 58-78), corrispondenti alle sette coppe del giudizio divino versate dai sette angeli nella quinta visione apocalittica, al termine delle quali l’ottava terzina (vv. 79-81) avrebbe accennato al fatto che con Augusto il mondo fu posto “in tanta pace, / che fu serrato a Giano il suo delubro”, venne chiuso perché, finite le guerre, si entrò nel tempio della serena pace dell’arcana contemplazione di Dio. Ad Ap 15, 8 si afferma infatti che “nessuno potrà entrare nel tempio finché non saranno consumate le sette piaghe dei sette angeli”, cioè, secondo un’interpretazione, non si potrà entrare nella serena pace dell’arcana contemplazione fino al compimento delle sette piaghe. Gli angeli che versano la coppa operano per comando di Dio, da lui ispirati, muovono come ministri del suo giudizio, non per propria volontà o animosità ma “com’altrui piacque”. Così Cesare muove per volontà del popolo romano, cioè della divina provvidenza, come pure la viva giustizia ispirerà il parlare di Giustiniano.
          Il sesto stato dell’antica romanità coincideva con l’inizio della sesta età segnata dall’avvento di Cristo nella carne. Esso prefigurava nella morte della “trista Cleopatra” l’uccisione della prostituta apocalittica degli ultimi tempi della Chiesa; il latrare di Bruto e Cassio nell’inferno anticipava la bestia e il suo pseudoprofeta messi nello stagno che arde di fuoco sulfureo. Del settimo stato, ultimo, quieto e pacifico, è propria la pace augustea, in questo senso coincidente anch’esso con l’inizio della sesta età.
                   L’adesione a una teologia della storia, su cui tessere la trama intima di un poema, avrebbe segnato la differenza con il IV trattato del Convivio. Non che in questo la storia di Roma non fosse storia sacra, ma non recava le insegne di un processo originariamente non suo, di cui poteva appropriarsi, per cui l’Impero avrebbe partecipato della sacralità della Chiesa.           

             3.7. Polisemia sacra 

            La metamorfosi della Lectura super Apocalipsim nei versi in volgare non avrebbe fatto venir meno il voluto carattere polisemico del “poema sacro”, secondo quanto l’autore stesso avrebbe poi affermato nell’Epistola a Cangrande. Con l’esegesi dell’ultimo libro canonico, esposta in una teologia della storia che comprende per settenari tutta la Scrittura, la quale a sua volta è forma, esempio e fine di ogni scienza, avrebbe infatti concordato ogni conoscenza, ogni esperienza, ogni soluzione indipendente data a questioni dottrinali. La Lectura non sarebbe stata una fonte, bensì il libro della storia delle illuminazioni sapienziali con cui tutto avrebbe concordato. Ancora, sul piano dottrinale Gioacchino da Fiore avrebbe potuto ben figurare insieme a Tommaso d’Aquino e a Bonaventura fra i sapienti del cielo del Sole. Il sesto e il settimo stato della Chiesa, nella prospettiva di Olivi, corrispondono alla terza età di Gioacchino, quella dello Spirito santo ma, novità sostanziale rispetto all’abate calabrese, non sono appropriati a una singola persona della Trinità, bensì allo Spirito di Cristo, centro della storia in progressivo sviluppo. Dunque l’abate sarebbe stato presente nella Commedia in modo diffuso, perché le numerose sue citazioni nella Lectura si sarebbero inserite nella generale metamorfosi di questa.           

               3.8. L’“antica rete” del “santo riso”

            Si poteva fregiare di sacri segni la figura di Beatrice: ‘fattura’ di Dio, secondo quanto scritto da san Paolo agli Efesini 2, 10 (Inf. II, 91-92); Scrittura lacrimosa, precetto divino che rende lucidi gli occhi, purga lacrimando, chiarisce e illumina con umiltà Virgilio, l’alta tragedia (Inf. II, 116); si sarebbero potuti assegnarle, nella filigrana dei versi, tre nomi i quali, in segno di reverenza, non possono essere tradotti. Il primo è il greco “apocalisse”, che significa ‘rivelazione’: apparterrà alla donna nel suo disvelarsi nell’Eden, insieme a tutti gli elementi semantici e concettuali che accompagnano, nei primi tre versetti del libro sacro, il termine “apocalipsis”. Il nome della donna coincideva anche con la causa finale del libro, la “beatitudo”. Gli altri due nomi erano ebraici: “alleluia”, che significa ‘lodare Dio’ – “Quod est hebreum et est idem quod laudare Deum”, e “amen”, che significa ‘veramente’ – «“Amen, alleluia”, id est vere est Deus ineffabiliter laudandus». Lucia così le si sarebbe rivolta nell’Empireo per muoverla a salvare l’amico: “Beatrice, loda di Dio vera” (Inf. II, 103), dicendo tre venerate parole non tradotte nel testo sacro: ‘apocalipsis, alleluia, amen’.
            Beatrice avrebbe potuto incarnare nel suo sorriso lo splendor faciei del volto di Cristo sommo pastore, che imprime in chi guarda tremore e oblio; sarebbe stato per lei possibile ciò che l’iconografia tradizionalmente aveva evitato nelle raffigurazioni del Redentore.
            Il realismo del poeta poteva portare nell’aldilà le passioni umane ma, dando ad esse una veste sacra, le avrebbe rese emblematiche e universali. È quanto accade con Beatrice. Donna reale, nel rivederla, lo spirito del poeta “d’antico amor sentì la gran potenza”. Ma è una Beatrice ritrovata e subito di nuovo perduta, perché l’umanità è solo l’esca per gli occhi (“così lo santo riso / a sé traéli con l’antica rete!”) nella quale sta occulto l’aculeo della divinità di una donna ormai salita di carne a spirito, cresciuta in bellezza e virtù.               

                3.9. Un pubblico concepito e mai formato

            Non poche novità, dunque, dovettero balenare alla mente di Dante nello scorrere la Lectura super Apocalipsim. Un nuovo pubblico si configurava. Il principio secondo il quale clerus vulgaria tempnit, per usare le parole di Giovanni del Virgilio nel carmen indirizzato a Dante, sarebbe stato smentito. Il senso letterale della Commedia avrebbe contenuto parole-chiave di accesso a un altro testo, il commento all’Apocalisse dell’Olivi. Era un procedimento di arte della memoria: le parole dovevano operare sul lettore come imagines agentes per sollecitarlo verso un’opera di ampia dottrina, che già conosceva, ma che avrebbe potuto rileggere mentalmente parafrasata in volgare, profondamente aggiornata secondo gli intenti propri dell’autore, in versi che le prestavano “e piedi e mano” e la dotavano di exempla contemporanei e noti. Nel senso letterale del “poema sacro” venivano incardinati gli altri sensi interpretativi: allegorico, morale, anagogico (che Dante, nell’Epistola a Cangrande, definisce collettivamente “mistici” o “allegorici”). Il poeta mirava non solo a un pubblico di laici, o genericamente di chierici, ma anche di predicatori e riformatori della Chiesa – agli Spirituali francescani, e forse non solo ad essi, se la Lectura si fosse diffusa anche presso altri Ordini -, a coloro che con la predicazione avrebbero potuto riformare la Chiesa e con il suo volgare convertire il mondo. Il “poema sacro” si sarebbe proposto come speculum per quel gruppo riformatore. Non solo avrebbero potuto predicarlo, ma sarebbe stato guida nella conduzione del gregge affidato. Un pastore devoto vicino al popolo cristiano, che lasciasse “seder Cesare in la sella”, non impegnato a discettare da opposti estremismi, non timoroso della classicità tanto da riconoscere in Aristotele il “maestro di color che sanno”, ma con la non secondaria clausola di concordarlo con la visione apocalittica di Olivi (che riassume l’intera Scrittura); pronto ad ammettere gli antichi e i moderni poeti come figure del nuovo poeta “sesto tra cotanto senno” e della sua vera visione; convinto che la conversione della “terra prava italica” dovesse essere recata ad esempio universale della futura conversione finale delle genti e di Israele. Se grazie alla Commedia Dante fosse tornato a Firenze “con altra voce omai, con altro vello”, quanti predicatori non l’avrebbero citata dai pergami cittadini? Ma l’auspicato pubblico di religiosi riformatori non si formò, perché gli Spirituali furono perseguitati e il loro libro-vessillo, censurato nel 1318-1319 e condannato nel 1326, fu votato alla clandestinità e quasi alla sparizione.
           Si poteva utilizzare la stessa esegesi, variando semanticamente i temi, in momenti diversi della stesura del poema. Che il poema venisse pubblicato per gruppi di canti, non più modificabili, oppure per cantiche riviste, la persistenza di un “panno” – cioè di un altro testo da cui trarre i significati spirituali del poema, materialmente elaborati attraverso le parole – poteva servire a mantenere l’unità e la coerenza interna dell’ordito, della “gonna”. L’arte della memoria per parole-chiave poteva inoltre servire sia al concepito pubblico degli Spirituali come all’autore. Il fatto che gruppi di terzine numericamente corrispondenti, a diversi stadi della Commedia, contengano parole-chiave che conducono alla medesima pagina esegetica della Lectura indica che queste parole, se dovevano essere per il lettore spirituale signacula mnemonici di un altro testo, erano per il poeta anche segni del numero dei versi, luogo dove collocare i medesimi signacula in forma e contesto diversi.           

             3.10. La teodicea del “poema sacro”

            Ignaz von Döllinger, il fiero avversario dell’infallibilità papale al Concilio Vaticano I che preferiva Dante a Goethe, nella conferenza Dante als Prophet tenuta nel 1887 all’Accademia delle Scienze di Monaco concepì la Commedia come una teodicea, cioè come un’esposizione del piano divino circa l’universo; in questo senso l’autore fu profeta, perché trovò nella prospettiva storica passata e futura rifugio al pessimismo indotto dal tempo presente e stimolo alla sua missione di conversione universale [33]. Sul primo lettore di questa teodicea si sarebbe soffermato nel 1965 Charles Southward Singleton annunciando la scoperta del numero sette come centrale della Commedia, rivelatore di una mirabile struttura nascosta ancora tutta da decifrare. Come nella cattedrale di Chartres gli scalpellini lasciarono bellissimi fregi a grande altezza, dove occhio umano non sarebbe potuto arrivare, così l’ordine e l’intelligenza interiore del poema non furono concepiti solo per la vista degli uomini: “quel disegno, qualunque fosse il suo posto nella struttura, l’avrebbe veduto Colui che tutto vede, Colui che ha creato il mondo con meraviglioso ordine, in pondere, numero, mensura; e l’avrebbe certo guardato come prova che l’architetto umano aveva imitato l’universo che Egli, divino architetto, aveva creato innanzi tutto per la propria contemplazione, e poi, per la contemplazione degli angeli e degli uomini” [34]. La struttura semiotico-spirituale del “poema sacro”, espressione dell’io del pellegrino, sarebbe stata concepita in primo luogo “al servigio dell’Altissimo”.

4. Quo vadis, Dantes?

           “Papà, dimmi, ma chi fu il maestro di Dante?”. A questa domanda rivoltami dal figlioletto di sette anni, nel primo anno della sua vita scolastica, rimasi, a dire il vero, alquanto sconcertato. Il povero Tommaso, di fronte al mio temporaneo ma eloquente silenzio, dovette provare un’impressione di sconforto simile a quella che il padre di Guido Cavalcanti, compagno di Farinata nell’avello infuocato, avvertì di fronte al silenzio di Dante seguìto all’angosciosa domanda se il proprio figlio fosse ancora in vita. Perché Tommaso avvertiva dentro di sé che il proprio maestro, quello trovato a scuola, era qualcosa di decisivo per lui. Forse, inconsciamente, era mediatore tra sé e il proprio padre. E in quelle letture dantesche della sera che molto assomigliavano a quelle dei romanzi che i genitori erano soliti fare ai figli nella prima età scolare, il padre assurgeva indegnamente al ruolo di Beatrice, quando era invece lo sguardo del figlio ad accrescere l’ardore della lettura e ad aumentare di conseguenza l’amore dell’uditore nei suoi confronti. Ma come rispondere a una domanda del genere? Chi fu realmente il maestro, la guida spirituale di Dante? Avrei potuto dire che ne ebbe diversi, ma a un bambino che inizia a salire la montagna di Minerva serve un pedagogo unico. Al principio della conversione, il voto si fa per una regola, non per più. Oltre che unica, deve trattarsi di una guida permanente. Aristotele, il “maestro di color che sanno”, siede tra filosofica famiglia onorato ma confinato nel Limbo, primo cinghio del carcere cieco. L’affetto di Dante verso “la cara e buona imagine paterna” di Brunetto Latini è attimo fuggente, tanto che il discepolo non avrebbe riconosciuto il maestro se questi non lo avesse afferrato “per lo lembo”. L’episodio è tanto struggente quanto effimero. Virgilio è candidato assai più autorevole, ma accompagna Dante fino al paradiso terrestre. La sua figura è quella di un vero maestro, e la perdita da parte del poeta del “dolcissimo patre” è stata, per il mio Tommaso, il momento più commovente della lettura. Restava Beatrice, ma come definire ‘maestro’ colei che fa tremare ogni stilla di sangue del poeta? Non potendo tutto la virtù che vuole, risposi alla domanda promettendo che avrei studiato la questione. Un giorno mi imbattei in alcuni versi del canto V del Paradiso che sembravano la traduzione quasi letterale di un brano di una quaestio di Pietro di Giovanni Olivi (Sérignan 1248? – Narbonne 1298). Erano versi non secondari: si trattava della libertà della volontà umana, ci si trovava di fronte alle prime anime beate, era Beatrice che parlava. Forse il maestro spirituale di Dante, il suo vademecum in tribulatione, era stato il francescano di Linguadoca, amato come padre dagli Spirituali e contestato in vita e in morte dalle gerarchie ecclesiastiche, non doctor angelicus come l’avversario domenicano – Tommaso d’Aquino – che tenacemente combatté, ma, più umilmente, vir angelicus come l’avrebbe chiamato Bernardino da Siena che l’ebbe come maestro segreto?
            Quando, nel 1995, l’autore di questo sito decise di dedicarsi al confronto testuale tra le opere di Dante e quelle di Olivi, non immaginava che gli sarebbe accaduto quanto scritto nel Convivio (II, xii, 5), che cioè talvolta “l’uomo va cercando argento e fuori della ’ntenzione truova oro, lo quale occulta cagione presenta; non forse sanza divino imperio”. L’autore si è trasformato in scriba di quanto i testi gli palesano, al filologo si è accompagnato l’archeologo che scava all’interno della Commedia, mettendo in luce la sua qualità di ‘grande parodia sacra’ della Lectura super Apocalipsim del frate di Sérignan (qualche studioso più avanzato potrebbe spingersi a parlare di DNA del testo). ‘Grande’, perché diffusa per tutto il poema; ‘parodia’, in quanto metamorfosi di concetti dottrinali; ‘sacra’ perché, attraverso tali concetti, inserisce la realtà umana nei disegni divini.
            Procedendo nella ricerca, si è manifestato uno sterminato campo semiotico: incardinate nel senso letterale della Commedia, parole-chiave rinviano con procedimento di arte della memoria alla dottrina della Lectura, aggiornata secondo gli intenti del poeta. Dante, per il quale il poema era “polisemos, hoc est plurium sensuum”, concepì, fra i molti possibili, anche un preciso pubblico, quello degli Spirituali francescani che avrebbero dovuto riformare la Chiesa. Un pubblico che si perdette, per le persecuzioni subite a partire dal secondo decennio del Trecento. La Lectura fu condannata da Giovanni XXII nel 1326, ma continuò a circolare clandestinamente; Dante aveva già condannato i papi variando i temi contenuti nella “pestifera postilla” sull’Apocalisse.
            Eric Auerbach osservò che l’opera di Dante fu il punto di arrivo di uno sviluppo che si interruppe con lui: “Nessuno ha potuto continuare o completare la costruzione del mondo e della storia contenuta nella sua opera, perché quella costruzione crollò”. Venne a mancare il giudizio di Dio che attualizza, ordina e rende eterna la tragicità con cui Dante aveva inserito l’individuo nell’ordine universale: “Più tardi l’individuo è solo, e la sua tragedia finisce con la sua vita” [35]. Crollò, in quell’“autunno del Medioevo”, anche la Lectura super Apocalipsim, perché oggetto di una persecuzione senza pari, e perché venne meno il senso di una storia della salvezza collettiva. Calò il silenzio sul linguaggio interiore della Commedia, subito interpretata dai contemporanei come una fictio letteraria. Ma il confronto tra la Commedia e la Lectura mostra come l’esegesi apocalittica di Olivi sia stata il sacro fonte della vocazione profetica di Dante; seguire nel corso del poema lo sviluppo della parodia equivale a sfogliare il diario spirituale della stesura del poema. La ricerca è pervenuta a una Topografia spirituale della “Commedia”, dove per quasi ogni verso, o gruppo di versi, collegamenti ipertestuali conducono al “panno” esegetico fornito dalla Lectura super Apocalipsim, sul quale il “buon sartore” ha fatto “la gonna”, per usare le parole di san Bernardo a Par. XXXII, 140-141.
        Sostenuta incondizionatamente fin dall’inizio da Ovidio Capitani, confortata da un fecondo carteggio con Guglielmo Gorni, la ricerca ha registrato per vent’anni il silenzio assordante del mondo accademico. Rimasti i più ignari della sua esistenza, essa lascia sconcertati quanti ne sono consapevoli, fra i quali forse qualcuno si chiede chi sia costui che, estraneo ai circoli dove queste cose vengono sottilmente studiate, garrulus factus, ha intravisto da solo nella sabbia granelli d’oro dai quali la scienza può trarre molte conclusioni. Al di là dell’assoluta novità e complessità della ricerca, la quale traccia sentieri su una nuova terra ma richiede fede e dedizione a chi intenda accingersi a una sua verifica o continuazione, i silenzi accademici nascono soprattutto da un problema di ambiti di competenza (possono essere trascurati i risibili tentativi di classificare questi studi nel filone dell’esoterismo dantesco). I dantisti odierni, validi navigatori lungo costa ma poco esperti e in genere timorosi dell’“alto mare aperto”, non conoscono se non superficialmente la Lectura dell’Olivi e non considerano, salvo rarissimi casi, il campo semiotico e l’arte della memoria: non sono dunque in grado di confermare o confutare alcunché. Viceversa, nel campo degli studi storici l’Olivi è confinato nell’ambito francescano, mentre Dante è appannaggio della storia della letteratura. Non ha poi giovato il fatto che la Lectura sia rimasta inedita per settecento anni e conosciuta soltanto per estratti, né invita al suo approfondimento la lacunosa edizione critica dell’americano Warren Lewis [36]. Si deve aggiungere l’eclisse degli studi storico-religiosi, ben lontani dall’aver superato, dopo più di mezzo secolo, i lavori pionieristici di Raoul Manselli. Si continua così a parlare di Dante teologo e profeta, si cercano intertestualità con le fonti più disparate, si raffinano filologicamente le precedenti edizioni ma si trascura la somma opera escatologica a lui contemporanea, svuotando il poeta di spessore storico. Togliere la Lectura dalla biblioteca di Dante, o non valutare compiutamente il gran peso che recò nella stesura del poema, equivale a concepire quella di Agostino senza le Historiae di Orosio, di Cervantes senza i romanzi cavallereschi, di Proust senza Ruskin e Bergson, di Thomas Mann senza Goethe, di Italo Calvino senza Kipling e Conrad.
           Quanti paventano l’eterodossia di Dante troverebbero alti significati umani e cristiani nell’escatologia oliviana, pregna delle idee di Gioacchino da Fiore, prima fra tutte l’aspirazione alla pace. Viceversa coloro che temono un Dante fatto frate constaterebbero come i temi cari agli Spirituali travasino dalla Chiesa al mondo umano, sugli “ideali laici della dignità dell’uomo, della potenza creativa dell’individuo, della cultura concepita come mezzo di perfezionamento spirituale, propri della nuova età del Rinascimento” [37]. La grande parodia mette in luce le due nature dell’anima di Dante, duplice come quella di Faust – per usare una celebre definizione di Benedetto Croce -, “divisa tra Medioevo persistente e incipiente Rinascimento” [38].
           L’intento di questa ricerca è di far conoscere a chiunque, siano persone impegnate nella cultura e nella scienza storica o semplici curiosi, l’esistenza di un versante inesplorato, perché altri ascendano per un sentiero già segnato, aprendo a loro volta nuove vie.
            Gli Italiani potranno constatare quanto la lingua nostra, che Dante voleva universale, sia stata radicata nell’umile latino dell’esegesi biblica. Scriveva Giuseppe Mazzini che il modo migliore per onorare Dante è apprendere da lui “come si serva alla terra natìa, finché l’oprare non è vietato; come si viva nella sciagura” [39]. Questo valeva nelle angustie del Risorgimento, ed è ancora di conforto nei momenti di sofferenza, individuale o collettiva. Quale utilità potrebbe recare all’ora presente la storia di Dante tutto restituito al Medioevo? Come questa storia, per usare le parole di Gramsci, può aiutare “le forze in isviluppo a divenire più consapevoli di se stesse e quindi più concretamente attive e fattive”? [40] Partire dal particolare del microcosmo toscano per salire al macrocosmo umano dove si eternano fatti e passioni individuali; creare una lingua universale comprensibile oltre il significato letterale delle parole, per cui, a differenza di ciò che accade in altri poeti, parve a Thomas Stearn Eliot di poter leggere la Commedia anche senza capire l’italiano [41]; trasferire le fiere vicende politiche delle città italiane su un piano di storia sacra, prospettandole addirittura come rinnovamento della passione di Cristo; considerare la passata storia d’Europa come prefigurazione di quella presente e, dal pessimismo indotto dall’attualità, trovare rifugio nell’attesa profetica del prossimo rinnovamento, “mentre che la speranza ha fior del verde”; promuovere l’umile Italia a giardino dell’Impero dando a una nazione politicamente inesistente coscienza della propria dignità e del significato cosmopolita dei propri valori: questi gli insegnamenti utili in un momento nel quale il vento della storia spiana come solchi sulla sabbia i segni culturali, politici, religiosi che si credeva durevolmente delineati.
            Dante, il quale non avrebbe mai pensato di non essere compreso, per quanto con vari registri secondo i diversi livelli del pubblico lettore del suo poema polisemico, non sfugge alla presa, vuole essere vinto, per lui valgono le parole dell’Aquila:  “Regnum celorum violenza pate” (Par. XIX, 94). È dunque tempo che i migliori ingegni si pongano la domanda: Quo vadis, Dantes? e al modo  dell’“astripeta” aquila ghermiscano i sensi più profondi del “poema sacro”, eseguendo il divino spartito sì che il loro suono, come quello udito da san Giovanni a Patmos, diventi “voce di molte acque”. 

[1] G. PETROCCHI, Biografia, in Enciclopedia Dantesca, Roma 19842, Appendice, p. 41.

[2] A. PAGLIARO, Ulisse. Ricerche semantiche sulla Divina Commedia, I, Messina-Firenze 1967, pp. 1-2.

[3] G. CARDUCCI, Dello svolgimento della letteratura nazionale, in Discorsi letterari e storici, Ed. nazionale delle Opere, VII, p. 80.

[4] G.B. VICO, De constantia iurisprudentis liber alter, De constantia philologiae, XII, 21: “in summa italorum barbarie, sine ullo exemplo proposito, ex sese primum natus, ex sese quoque poeta factus absolutissimus”, in IDEM, Il diritto universale, a cura di F. Nicolini, II, Bari 1936, p. 378.

[5] B. CROCE, Due postille alla critica dantesca, in “La Critica. Rivista di Letteratura, Storia e Filosofia”, 39 (1941), pp. 133-141: 136.

[6] E. BUONAIUTI, Storia del Cristianesimo, II, Milano 1941, p. 544.

[7] B. NARDI, Pretese fonti della «Divina Commedia», in “Nuova Antologia”, 90 (1955), pp. 383-398, ripubblicato in IDEM, Dal “Convivio” alla “Commedia”. Sei saggi danteschi, Roma 1960 (Istituto Storico Italiano per il Medio Evo. Studi Storici, 35-39), p. 356.

[8] DINO COMPAGNI, Cronica delle cose occorrenti ne’ tempi suoi, introduzione e note di G. Bezzola, Milano 1995, l. III, capp. XXIV, p. 232.

[9] Il testo del Convivio è citato dall’edizione a cura di F. Brambilla Ageno, Firenze 1995.

[10] Cfr. P. VIAN, “Se il chicco di grano …”. Raoul Manselli, Pietro di Giovanni Olivi e il francescanesimo spirituale. Nuovi appunti di lettura, in “Nisi granum frumenti…”. Raoul Manselli e gli studi francescani, a cura di F. Accrocca, Roma, Istituto Storico dei Cappuccini, 2011 (Bibliotheca Seraphico-Capuccina, 93), pp. 30-33.

[11] UBERTINO DA CASALE, Arbor vitae crucifixae Iesu, Venetiis 1485, rist. anast. a cura di C. T. Davis, Torino 1961, prologus I, f. 4a-b: “qui me modico tempore … sic introduxit ad altas perfectiones anime dilecti Iesu … et ad profunda scripture et ad intima tertii status mundi et renovationis vite Christi, ut iam ex tunc in novum hominem mente transiverim”.

[12] A. FRUGONI, La Roma di Dante, tra il tempo e l’eterno, in IDEM, Pellegrini a Roma nel 1300. Cronache del primo Giubileo, presentazione di C. Frugoni, a cura e con Introduzione di F. Accrocca, Casale Monferrato 1999, pp. 102-103.

[13] P. VIAN, Introduzione a Pietro di Giovanni Olivi, Scritti scelti, Roma 1989, p. 8.

[14] DINO COMPAGNI, Cronica delle cose occorrenti ne’ tempi suoi, l. III, capp. XV-XVIII, pp. 210-217; GIOVANNI VILLANI, Nuova Cronica, a cura di G. Porta, Parma 1991, tomo II, libro IX, cap. 85 (1306), pp. 653-654; cap. 89 (1307), pp. 657-659; (p. 653, anno 1306): “il quale (cardinale messer Nepoleone degli Orsini dal Monte, legato e paciaro generale in Italia) si partì da Leone sopra Rodano, e passò i monti, e mandando a’ Fiorentini che voleva venire in Firenze per fare pace e concordia da loro e i loro usciti […]”. Cfr. P. VIAN, «Noster familiaris solicitus et discretus»: Napoleone Orsini e Ubertino da Casale, in Ubertino da Casale. Atti del XLI Convegno Internazionale. Assisi 18-20 ottobre 2013, Spoleto 2014 (Società Internazionale di Studi Francescani – Centro Interuniversitario di Studi Francescani), pp. 217-298: pp. 246-249.

[15] H. U. von BALTHASAR, Gloria. Una estetica teologica, III, Stili laicali, trad. it., Milano 2017, p. 4: “Non è affatto impossibile che Dante si sia lui stesso sentito iniziatore di questa nuova terza teologia, forse in relazione a Gioacchino da Fiore”.

[16] H. GRUNDMANN, Dante und Joachim von Fiore. Zu Paradiso X-XII, in “Deutsches Dante-Jahrbuch” 14 (NF 5), 1932, pp. 210-256, ripubblicato in IDEM, Ausgewählte Aufsätze, 2. Joachim von Fiore, Stuttgart 1977 (Schriften der Monumenta Germaniae Historica. Band 25, 2), p. 193.

[17] Cfr. L.-J. BATAILLON, Les images dans les sermons du XIIIe siècle, in “Freiburger Zeitschrift für Philosophie und Theologie”, 37/3 (1990), pp. 327-395; The Tradition of Nicholas of Biard’s Distinctiones, in “Viator. Medieval and Renaissance Studies”, 25 (1994), pp. 245-288; C. Delcorno, Dante e il linguaggio dei predicatori, in Letture Classensi, 25 (Intertestualità dantesca), a cura di E. Pasquini, Ravenna 1996, pp. 51-74.

[18] A. ASOR ROSA, postfazione a L’idea deforme. Interpretazioni esoteriche di Dante, a cura di M. P. Pozzato, Milano 1989, p. 316.

[19] É. GILSON, Dante e  la Filosofia (1972), trad. it., Milano, 19962 (Biblioteca di cultura medievale), pp. 74-75. Dante, infatti, «[…] disponeva del tesoro della lingua e della letteratura latina alla quale la parlata fiorentina era singolarmente più vicina di quella di Parigi» (É. GILSON, Dante e Beatrice. Saggi danteschi [1974], a cura di B. Garavelli, Milano, 2004, p. 105).

[20] E. AUERBACH, Sacrae Scripturae sermo humilis (1941), in IDEM, Studi su Dante, Milano, 19744, pp. 165-173: 173.

[21] T. S. ELIOT, Dante (1929), in Opere 1904-1939, a cura di R. Sanesi, Milano 1992, pp. 827-828.

[22] H. GRUNDMANN, La mistica tedesca nei suoi riflessi popolari: il beghinismo, in Relazioni del X Congresso Internazionale di Scienze Storiche, III, Storia del Medioevo, Firenze, 1955, p. 469, ripubblicato in IDEM, Religiöse Bewegungen im Mittelalter. …, Darmstadt, 19612, trad. it. Movimenti religiosi nel Medioevo. …, Bologna, 1974, p. 449.

[23] E. AUERBACH, Lingua letteraria e pubblico nella tarda antichità latina e nel Medioevo, Milano 19743, pp. 277, 282-283, 287-288: “Dante si creò un pubblico, ma non lo creò solo per sé: creò anche il pubblico per i successori. Egli formò, come possibili lettori del suo poema, un mondo di uomini che non esisteva ancora quando scriveva e che si costituì lentamente grazie al suo poema e ai poeti che vennero dopo di lui. […] Il comune patrimonio moderno cristiano ed europeo, il cui organo per tanto tempo era stato il latino, cominciava allora a rivelarsi come un’unità in una nuova scissione nazionale. Ma quel patrimonio comune aveva, come sua essenza più intima e sua proprietà più cara e più peculiare, la storia umanissima dell’incarnazione e della passione di Cristo; e questa storia era attorniata da tante altre storie, che la annunciavano prefigurandola o la confermavano imitandola. […] Fu ancora per un processo puramente italiano che, in seguito all’influenza di Dante, l’italiano e il latino si accostarono l’uno all’altro. […] Dalla lotta fra latino e italiano emerge alla fine, come soluzione intermedia, l’umanesimo volgare, del quale Dante era stato il precursore e il promotore”.

[24] G. CONTINI, Filologia ed esegesi dantesca (1965) in Un’idea di Dante. Saggi danteschi, Torino, 1970 e 1976, p. 135.

[25] AUERBACH, Lingua letteraria e pubblico,  p. 280.

[26] M.-D. CHENU, La teologia nel dodicesimo secolo, a cura di P. Vian (Biblioteca di cultura medievale), Milano 1986 (1957), pp. 272-273.

[27] Quaestio de votis dispensandis, in P. I. OLIVI Quaestiones de romano pontifice, ed. M. Bartoli, Grottaferrata, 2002 (Collectio Oliviana, IV), pp. 121-170: 132, 135, 141-142, 150.

[28] Si cita la Monarchia nell’edizione di B. Nardi, in Dante Alighieri, Opere minori, II, Milano-Napoli, 1979.

[29] Quaestio de altissima paupertate, ed. J. Schlageter, Das Heil der Armen und das Verderben der Reichen. Petrus Johannis Olivi OFM. Die Frage nach der höchsten Armut, Werl/Westfalen, 1989; Responsio principalis, I.1.3, p. 88.

[30] Cfr. A. FORNI, Pietro di Giovanni Olivi nella penisola italiana: immagine e influssi tra letteratura e storia in Pietro di Giovanni Olivi frate minore. Atti del XLIII Convegno Internazionale. Assisi 16-18 ottobre 2015, Spoleto 2016 (Società Internazionale di Studi Francescani – Centro Interuniversitario di Studi Francescani), pp. 395-437: 428-430.

[31] Monarchia, I, iii, 4: “Est ergo aliqua propria operatio humane universitatis, ad quam ipsa universitas hominum in tanta multitudine ordinatur; ad quam quidem operationem nec homo unus, nec domus una, nec una vicinia, nec una civitas, nec regnum particulare pertingere potest”.

[32] Cfr. G. VINAY, Interpretazione della “Monarchia” di Dante, Firenze 1962, p. 73: “Partito da una proposizione filosofica, inoltratosi tra i rovi di una disputa giuridica e teologica, Dante giunge alla conclusione senza accorgersi di essersi spostato sul piano della pura spiritualità, sul quale soltanto è possibile intendere il senso ultimo della Monarchia”.

[33] I. von DÖLLINGER, Dante als Prophet, in IDEM, Akademische Vorträge, I, Nordlingen, 1888, pp. 78-117. Cfr. P. VIAN, Dante, Pietro di Giovanni Olivi e lo spiritualismo minoritico: fra ipotesi e certezze, in Dante, Francesco e i frati Minori. Atti del XLVII Convegno Internazionale. Assisi, 14-16 ottobre 2021, – Spoleto 2020, pp. 99-151: 101, dove viene ripercorsa, a partire da Ignaz von Döllinger fino ad Alberto Forni, la plurisecolare storiografia sui rapporti tra Dante e gli Spirituali francescani.

[34] Ch. S. SINGLETON, La poesia della Divina Commedia, trad. it., Bologna, 1978, pp. 451-462.

[35] E. AUERBACH, Lingua letteraria e pubblico, pp. 286-287.

[36] PETRUS IOHANNIS OLIVI, Lectura super Apocalypsim, edited by W. Lewis, Saint Bonaventure University, Saint Bonaventure, NY, Franciscan Institute Publications, 2015, pp. lxxii-899.

[37] R. MORGHEN, Medioevo cristiano, Bari 19744, pp. 263-264.

[38] B. CROCE, Ancora della lettura poetica di Dante (1948), in Letture di poeti e riflessioni sulla teoria e la critica della poesia, Bari 1950, pp. 3-20.

[39] G. MAZZINI, Dell’amor patrio di Dante (1826), in Scritti editi e inediti, II, Roma 18874, pp. 19-40: 40.

[40] A. GRAMSCI, Quaderni del carcere, 19 (X), 1934-1935, ed. critica dell’Istituto Gramsci a cura di V. Gerratana, III, pp. 1983-1984, Torino 1975.

[41] Cfr, supra, nota 21.

Tutte le citazioni della Lectura super Apocalipsim presenti nei saggi o negli articoli pubblicati su questo sito sono tratte dall’edizione, corredata di note e indici, del ms. Paris, Bibliothèque nationale de France, lat. 713, a cura di Alberto Forni e Paolo Vian. I passi scritturali ai quali si riferisce l’esegesi sono in tondo compresi tra “ ”; per le fonti diverse da quelle indicate si rinvia all’edizione in rete. Non viene presa in considerazione l’edizione critica a cura di Warren Lewis (Franciscan Institute Publications, St. Bonaventure – New York, 2015) per le problematiche da essa poste, che sono discusse in Alberto Forni – Paolo Vian, A proposito dell’edizione di Warren Lewis della Lectura super Apocalipsim di Pietro di Giovanni Olivi. Alcune osservazioni, in “Archivum Franciscanum Historicum”, 109 (2016), pp. 99-161.