1. La vocazione profetica. 2. Un poema-palinsesto: la Commedia come parodia sacra della Lectura super Apocalipsim di Pietro di Giovanni Olivi. 3.“Io spero di dire di lei quello che mai non fue detto d’alcuna”. 3.1. La “gloria de la lingua”. 3.2. “Imitatio Bibliae” e “imitatio Christi”. 3.3. Apocalisse moderna. 3.4. Poesia e teologia. 3.5. Gli Antichi. 3.6. L’Impero. 3.7. Polisemia sacra. 3.8. L’“antica rete” del “santo riso”. 3.9. Un pubblico concepito e mai formato. 3.10. La teodicea del “poema sacro”. 4. Quo vadis, Dantes? |
1. La vocazione profetica
Cosa ha spinto Dante a scrivere la Divina Commedia? Perché lasciò incompiuto il Convivio per dedicarsi al “poema sacro”, un’opera radicalmente diversa dettata da “un totale commovimento etico-religioso” che “irrompe nelle prime terzine dell’Inferno”? [1] Nessuno lo potrà mai dire con certezza, perché nessuna delle opere precedenti è un presupposto necessario “al grandioso discorso con se stesso e con gli uomini, che egli inizia come all’improvviso” [2]. Bisogna dunque rimanere nel nebuloso mistero che circonda Dante, alimentato dall’assenza di notizie biografiche sicure, dalla mancanza di autografi, dalla selva delle interpretazioni, solo probabili nel miglior caso, mai certificate dall’ipse dixit? Si dovrà dire con Carducci: “Dante discese di Paradiso portando seco le chiavi dell’altro mondo e le gettò nell’abisso del passato: niuno le ha più ritrovate”? [3] Dov’è la chiave della quale parlava Benedetto Croce, necessaria per aprire il senso delle allegorie e dare ad esse interpretazione autentica? Non era forse Dante nato da sé stesso, cone affermava Giambattista Vico, e da sé stesso fatto poeta? [4] Croce poi spiegava che la causa di tanta incertezza era in noi, nella nostra incapacità di rivivere nel Medioevo, “dentro questa figurazione, grandiosamente conclusa in sé ma a noi per ogni verso estranea” perché la cultura europea è ancora scossa dalla separazione del cristianesimo dalla visione tolemaica e geocentrica del mondo propria del Medioevo [5]. Scriveva il sacerdote modernista Ernesto Buonaiuti: “Se quelle chiavi non sono state più ritrovate, la ragione è una sola, semplice e perentoria, e la ragione è che, nell’opera di Dante, è tutto il Medioevo che ha cantato le sue idealità e le sue esperienze fondamentali, e poiché noi ci siamo irrimediabilmente allontanati dalle idealità universali del Medioevo cristiano, le soglie dell’esperienza dantesca ci sono rimaste impenetrabilmente serrate” [6]. Come dunque recuperare l’intimo afflato e il prodigioso calore del divino poema senza esercitarsi in elaborate e lambiccate esegesi? La sola via è quella della storia, fondata sui testi scritti nel tempo esaminato, nei confronti dei quali lo storico si ponga come scriba, postumo trascrittore e verificatore, non forzandoli né dolcemente sollecitandoli, non fingendo ipotesi, memore della vecchia regoletta del loicare che Bruno Nardi adduceva a proposito delle presunte fonti dantesche: “a posse ad esse non datur illatio” [7]. Con queste premesse metodologiche il giudizio dato dai testi sarà come quello di Minosse, “a cui fallar non lece”.
Un fatto è stato accostato alla decisione di scrivere la Commedia: la notizia della discesa di Enrico VII in Italia. Gli eventi si succedono rapidamente. Il 1° maggio 1308 Alberto di Asburgo, re di Germania e imperatore, viene ucciso: si era sempre disinteressato dell’Italia, l’“Alberto tedesco ch’abbandoni / costei ch’è fatta indomita e selvaggia, / e dovresti inforcar li suoi arcioni”, come gli avrebbe rinfacciato Dante in Purg. VI, 97-99. Il 27 novembre Enrico, conte di Lussemburgo, è eletto re di Germania, il 6 gennaio 1309 incoronato ad Aquisgrana. A fine luglio papa Clemente V fissa la data dell’incoronazione imperiale per il 2 febbraio 1312, ma il nuovo re intende affrettare la sua venuta a pacificare l’Italia. Il 1° settembre 1310, con la bolla Exultet in gloria, Clemente V si appella ai sudditi e prelati del Regno di Napoli perché accolgano benevolmente l’imperatore designato. Questi entra a Susa il 23 ottobre, a Torino il 30, è a Milano il 23 dicembre. Dante fa eco al papa, citandolo, con l’epistola indirizzata non solo a Roberto d’Angiò, re di Napoli, ma anche a Federico II d’Aragona, re di Sicilia, ai senatori dell’alma Roma, ai duchi, marchesi, conti e a tutti i popoli. Pregna di spirito profetico, vede in Arrigo il nuovo Mosè che libererà la misera Italia dalla schiavitù d’Egitto per condurla alla terra stillante latte e miele, dove regnano pace e giustizia. Il pacifico Titano è stato inviato dal misericordioso leone della tribù di Giuda, cioè da Cristo, colui che nell’Apocalisse sorge trionfalmente a prendere il libro dalla mano destra del Padre per aprirne i sette sigilli dicendo: “Io sono la radice di David”, della vita spirituale degli antichi padri e dei nuovi fedeli, ponendo fine ai lamenti e ai sospiri per la chiusura del libro (Ap 5, 5). Seguono in breve tempo l’acerba epistola agli scelleratissimi Fiorentini, affinché non tardino a pentirsi della loro presunzione (31 marzo 1311) e l’altra (17 aprile) allo stesso Enrico perché non indugi, trattenendosi nel nord Italia, a muovere verso la Toscana.
L’andata di Enrico a Roma verso l’incoronazione, avvenuta in S. Giovanni in Laterano il 29 giugno 1312 e conclusa con la prematura morte per malaria a Buonconvento il 24 agosto dell’anno seguente, fu percepita come un evento straordinario, di essa scriveva Dino Compagni: “venne giù, discendendo di terra in terra, mettendo pace come fusse agnolo di Dio” [8]. Un altro fatto foriero di grandi e gravi conseguenze era stato, agli inizi del 1309, il trasferimento della sede papale ad Avignone. Ma lo stesso Clemente V non pensava a una permanenza duratura e d’altronde la Curia romana si trovava fuori d’Italia da nove anni. Solo cinque anni dopo, al momento del conclave seguìto alla morte di Clemente V (20 aprile 1314), Dante si sarebbe scagliato contro l’obbrobrio dei Guasconi affinché i cardinali non abbandonino la città di Roma, vedova e sola, priva del lume imperiale e di quello papale.
Quando Dante ricevette la notizia della venuta in Italia di Enrico, era impegnato nella stesura del Convivio, avviata nell’esilio qualche anno prima. Nel IV trattato scriveva della “radice di David”, per dimostrare che il disegno divino di inviare un “celestiale rege” da una progenie purissima – quella di Iesse padre di David, secondo la profezia di Isaia – dalla quale nascesse Maria, “la baldezza e l’onore dell’umana generazione”, coincise con l’altro disegno, la divina elezione dell’impero romano: David nacque infatti nello stesso tempo in cui nacque Roma, quando Enea venne da Troia in Italia (IV, v, 3-9) [9]. La monarchia universale, voluta e preparata da Dio nei due popoli, ebraico e gentile, si realizzò nell’Impero dei romani preconizzato da Virgilio: “A costoro […] né termine di cose né di tempo pongo; a loro ho dato imperio sanza fine” (IV, iv, 11). Fu anche il tempo della pace universale: “Né ’l mondo mai non fu né sarà sì perfettamente disposto come allora che alla voce d’un solo, principe del roma[n] populo e comandatore … come testimonia Luca evangelista. E però [che] pace universale era per tutto, che mai, più non fu né fia, la nave dell’umana compagnia dirittamente per dolce cammino a debito porto correa” (IV, v, 8). L’annunciato arrivo del Lussemburghese infondeva la speranza che presto sarà nuovamente pace universale. Tra quanto scriveva nel Convivio, dove vi è sì adesione alla monarchia universale ma senza soffio profetico, e l’empito che questo pervade le lettere inviate nel corso dell’itinerario italico di Arrigo, fu probabilmente concepita la Commedia, segnata nel primo canto dalla profezia, per le parole di Virgilio, della venuta del veltro che ucciderà la cupida lupa e sarà il salvatore dell’“umile Italia”. La decisione di scrivere il “poema sacro” si accompagnò alla lettura dell’opera profetica vessillo dei fautori di una riforma della Chiesa: il commento all’Apocalisse del francescano Pietro di Giovanni Olivi.
Nato circa il 1248 a Sérignan (Hérault), novizio a dodici anni nel convento di Béziers, la città che nel 1209 aveva visto i massacri di Simone di Montfort nella crociata contro gli Albigesi; discepolo a Parigi di Bonaventura nel 1266; presente a Roma e ad Assisi nel 1279, per collaborare alla redazione della Exiit qui seminat, la costituzione con la quale Niccolò III aveva cercato di risolvere i dissidi all’interno dell’Ordine francescano, Olivi aveva composto numerose opere filosofiche e commentato quasi tutta la Scrittura. Alcune sue quaestiones avevano suscitato accuse da parte dei membri dell’Ordine, dove era stato definito “capo di una setta di superstizioni, fonte di divisioni e di errori”. Ma non erano di questo parere il nuovo Ministro generale dei Minori Matteo d’Acquasparta, eletto nel capitolo di Montpellier il 25 maggio 1287, e perfino il papa Niccolò IV, che lo destinarono a Firenze come lettore di teologia. L’insegnamento di Olivi a Santa Croce fu la premessa di un più stretto rapporto fra le due anime, provenzale e italiana, dello spiritualismo francescano, originariamente segnate da considerevoli differenze. Come scrisse Raoul Manselli, gli Spirituali non erano “un partito o una fazione ma un fermento di vita fra i Minori, una presa di coscienza, la ferma rivendicazione della peculiarità dell’Ordine, una ‘attitude critique’, un ‘mouvement d’espérance’; e di tutto questo Olivi è colui che sa meglio cogliere il valore e il senso religioso, storico e umano” [10]. Volevano il ritorno alla Regola di san Francesco, mantenendo uno stato di povertà assoluta all’interno dell’Ordine.
Il confratello Ubertino da Casale ascoltò le lezioni di Olivi, l’effetto fu dirompente: “in poco tempo mi iniziò alle alte perfezioni dell’anima del diletto Gesù … alle profondità della Scrittura e agli arcani del terzo stato del mondo, di rinnovamento della vita di Cristo, cosicché da allora sono diventato mentalmente un uomo nuovo” [11]. Lo spirito di Cristo fermentava anche in altri, come nel terziario senese Pier Pettinaio, ricordato da Sapìa nel secondo girone del purgatorio di Dante come colui che le aveva, pregando, abbreviato la penitenza (Purg. XIII, 127-129). Quale il contenuto di un insegnamento tanto sconvolgente?
Fortemente antiaristotelica e antitomista, la visione di Olivi è cristocentrica come quella di Bonaventura. L’esemplare vita di Cristo – o la sua legge (la Regola è per il francescano sinonimo di “vita”) -, imposta agli apostoli e scritta nei Vangeli, deve essere dalla nostra vita perfettamente imitata e partecipata e porsi come fine di ogni nostra azione. “Caput universale omnis temporis”, Cristo è centro del tempo. Persona mediana della Trinità, mediatore tra Dio e l’uomo al quale indica il cammino, è il punto sul quale convergono i raggi della sfera-Chiesa nella sua storia passata, presente e futura. Per quanto concerne la persona umana, Olivi è strenuo fautore del libero arbitrio, comprovato dall’intimo sentire con il quale la volontà, riflessa su di sé, sperimenta l’esistere. Sul piano storico, il frate ritiene di vivere un periodo – il sesto dei sette stati o epoche della Chiesa – nel quale sta fermentando un novum saeculum, una palingenesi universale che porterà infine alla conversione a Cristo degli infedeli e degli Ebrei. Su questo sesto stato, che per Olivi corrisponde ai tempi moderni e, unitamente al settimo e ultimo periodo, coincide con l’età dello Spirito di Gioacchino da Fiore, ricadono tutte le illuminazioni e anche tutto il male delle epoche passate. Nel sesto stato, il secondo avvento di Cristo nello Spirito (dopo il primo, nella carne, e prima del terzo, nel giudizio universale) reca nei suoi discepoli, siano essi membri di un ordine religioso o singole persone, una vita nova. L’homo novus sente gli insegnamenti che vengono da Cristo interno dettatore, è testimone di miracoli non corporali, come nei primi tempi della Chiesa, ma intellettuali; gli è serbata l’esperienza di gustare in questa vita il divino. In siffatta età rinnovata per lo Spirito santo, inteso come spirito di Cristo, tanto attesa come quella augustea preconizzata nella quarta egloga di Virgilio, una rivoluzione interiore viene compiuta con la parola che converte e rompe la durezza dei cuori, che l’interno dettatore spira nei predicatori aprendo la loro volontà al dire. Se finora Cristo, in quanto uomo, ha insegnato con la dottrina esteriore, e in quanto Verbo con la luce intellettuale, d’ora in poi insegnerà anche tramite il gusto d’amore proprio del suo Spirito.
Prima che la pace e la giustizia trionfino, l’uomo del sesto stato dovrà affrontare terribili prove e sofferenze, indotte dall’Anticristo e dai suoi bestiali e subdoli seguaci. I nuovi martiri non provano soltanto il tormento del corpo, sono soprattutto tormentati dal dubbio sulla vera fede, suggestionati dalla sottigliezza degli argomenti filosofici, da ingannevoli Scritture, dall’ipocrita simulazione di santità, dalla falsa immagine dell’autorità papale, in quanto falsi pontefici insorgono, come Anna e Caifa insorsero contro Cristo. Per rendere più intenso questo martirio psicologico, i carnefici stessi operano miracoli. La tentazione provocata dal dubbio induce in errore persino gli eletti, come testimoniato da Cristo nella grande pagina escatologica di Matteo XXIV. Prima del combattimento contro la bestia apocalittica, salirà da oriente, cioè da Roma, la “città del sole” di cui parla Isaia (Is 19, 18), l’angelo del sesto sigillo a preannunciare l’avvento del vero sole; segnerà con la croce gli eletti dell’esercito di Cristo che guideranno la volgare schiera alla vittoria contro l’Anticristo. Nuovo Zorobabele ricostruttore del Tempio di Gerusalemme, “universalis pontifex … quasi novus dux”, all’angelo sarà dato il potere di innovare la religione cristiana e di realizzare in terra l’universale regno di Dio.
Trasferitosi da Firenze a Montpellier nel 1289, Olivi si dedicò principalmente a redigere la Lectura super Apocalipsim, completata poco prima di morire a Narbonne nel 1298. L’opera portava al sommo l’escatologismo che, per citare Arsenio Frugoni, “oltre che ideologia di lotta e di riforma del gruppo spirituale, era anche un vero e proprio sentimento storico […] una tensione di rinnovamento, una ansia di salvezza, che nel 1300, l’anno centenario della Natività, aveva trovato come una attivazione, in un senso di pienezza dei tempi, cui doveva corrispondere un fatto, un accadere meraviglioso e nuovo” [12]. Un escatologismo che Bonifacio VIII stava per cristallizzare in norma con l’indizione del primo giubileo.
Summa di vita, di ideali, di pensiero del suo autore, la Lectura fu anche il vessillo degli Spirituali e, per più di un quarto di secolo, oggetto di persecuzione senza pari “anche oltre la morte, quando le sue ossa saranno impietosamente disseppellite e oltraggiate, i suoi scritti confiscati e distrutti, il suo nome aborrito e taciuto” [13]. Questa persecuzione si intensificò dopo il Concilio di Vienne (1311-1312) con il pontificato di Giovanni XXII (1316-1334), attraverso successive censure fino alla condanna definitiva della Lectura in quanto “pestifero ed eretico dogma contro l’unità della Chiesa cattolica e la potestà del sommo pontefice romano” che, nella testimonianza dell’inquisitore domenicano Bernard Gui, il papa pronunciò in un concistoro pubblico dell’8 febbraio 1326. Ma nel primo decennio del Trecento, quando Dante intraprese a scrivere la Commedia, la stuazione era diversa, gli Spirituali non erano stati sconfitti, la riforma della Chiesa era ancora possibile.
Dopo la morte di Olivi a Narbonne (14 marzo 1298), la Lectura super Apocalipsim si diffuse subito in Italia. Bonifacio VIII (morto l’11 ottobre 1303) ne affidò all’agostiniano Egidio Romano una confutazione non pervenutaci; Ubertino da Casale, tra marzo e settembre 1305, l’aveva accanto a sé mentre scriveva a La Verna l’Arbor vitae crucifixae Jesu riportandone nel quinto libro interi ed estesi brani. L’anno dopo Ubertino divenne cappellano del cardinale Napoleone Orsini, protettore degli Spirituali il quale, fra le varie legazioni affidategli da Clemente V, nel 1306 e 1307 si adoperò per il ritorno a Firenze degli esiliati, azione che fallì dopo il mancato scontro a Gargonza tra i Neri e le truppe del Cardinale, ospite dei conti Guidi [14]. Nell’ottobre 1306 Dante era in Lunigiana come procuratore di pace con il vescovo di Luni per conto dei Malaspina; nel 1307, o nell’autunno 1308, si trovava in Casentino, da dove inviò a Moroello Malaspina la canzone “montanina”. Dopo la delusione seguita alla sconfitta dei Bianchi alla Lastra nel 1304, il poeta era aperto ai tentativi di riconciliazione. Negli stessi anni, e in luoghi contigui se non coincidenti, Dante e Ubertino lavoravano per la pace, e si può ben immaginare quanto l’attività del frate e del cardinale stesse a cuore al poeta. Fu quella l’ultima possibilità che Dante ebbe di rientrare a Firenze prima dell’inizio della stesura della Commedia. È probabile che, in un momento imprecisabile ma successivo all’autunno 1306, sia stato lo stesso Ubertino a dare a Dante una copia della Lectura super Apocalipsim.
“Apocalisse” è termine greco che suona in latino “revelatio”, cioè svelamento; essa fu concessa da Dio (causa principale) a Cristo in quanto uomo (causa secondaria), da questi tramite un angelo (causa intermedia) a Giovanni (causa prossima). Si tratta di una profezia, non però di eventi nel lontano futuro, ma di cose che debbono avvenire presto, che s’affrettano per la necessità di intervento della giustizia divina contro i reprobi. A Giovanni, l’autore del libro, venne mostrata a Patmos una sola visione puramente intellettuale; poi che gli fu ingiunto di scriverla, la adattò per le menti umane manifestandola in più visioni attraverso segni figurali, per mezzo cioè di similitudini tratte dai fenomeni naturali. La causa finale del libro è la beatitudine: “Beato chi legge e chi ascolta le parole della profezia, e chi le conserva” (Ap 1, 3).
Quando Dante ebbe sotto gli occhi la Lectura super Apocalipsim di Olivi, non poche suggestioni dovettero percorrere la sua mente: manifestare, come fece san Giovanni esiliato a Patmos, la propria visione intellettuale condiscendendo con exempla e similitudini agli ingegni umani che si fondano sulla percezione sensibile; viaggiare da imitatore di Cristo nella storia della salvezza collettiva dell’umanità che ha come causa finale Beatrice; emulare la Bibbia, perfino l’Antico Testamento ritrovandolo nei tempi moderni; disporre di due guide, Virgilio e Beatrice, impersonanti rispettivamente gli insegnamenti esteriori attraverso la luce intellettuale del Cristo uomo e l’intimo gusto d’amore proprio del suo Spirito; inserire, come è proprio dello spirito profetico, il particolare del miscrocosmo toscano e italico nell’universale macrocosmo dei disegni divini; estendere le sacre prerogative della Chiesa al mondo umano e in primo luogo all’Impero; esprimere, dando fiato all’ansia escatologica di rinnovamento, il senso di un prossimo evento meraviglioso e nuovo instillato dal giubileo del 1300; dare agli antichi, in primo luogo a Virgilio e ad Aristotele, la cittadinanza “di quella Roma onde Cristo è romano” discendendo al Limbo nel tempo del nuovo avvento spirituale, nei suoi imitatori, del Salvatore; confrontarsi con centinaia di citazioni, che Olivi aveva inserito ed elaborato nel suo commento, dell’abate calabrese Gioacchino da Fiore, “di spirito profetico dotato” perché veggente della terza età, alle quali prestare “e piedi e mano” nei versi per farsi lui stesso iniziatore della “nuova terza teologia” [15]; rompere la durezza della pena infernale col far parlare i morti, quasi per dettato interiore, spinti dal desiderio di essere scritti nel libro della vita; sentirsi nobile e fuori della “volgare schiera” dei poeti non per lignaggio ma per elezione quale amico di Dio prescelto nella sua milizia, a conferma di quanto aveva scritto nel Convivio (IV, xx, 3-6); descrivere l’invisibile, dando figura a concetti teologici contenuti nell’esegesi apocalittica.
Verbi come concedere, manifestare, palesare, mostrare, segnare, figurare sono prestiti frequenti dell’autore della Commedia dal linguaggio apocalittico. Forgiando i versi su quella profezia, e sul suo grandioso commento, avrebbe potuto realizzare un liber concordiae nel quale collocare le proprie esperienze, conoscenze, soluzioni indipendenti date a questioni dottrinali o filosofiche, imponendo una superiore concordia in terra fra opposte fazioni cittadine, fra posizioni speculative avverse, fra impero e papato, i “due soli” in conflitto, fra due opere per antonomasia antagoniste nella valutazione della romanità come l’Eneide e l’Apocalisse: con ciò si sarebbe mostrato vero poeta “cattolico”, cioè universale [16]. Ciascuno avrebbe avuto il proprio posto nella storia della salvezza collettiva marcata dai segni della volontà divina.
2. Un poema-palinsesto: la Commedia come parodia sacra
della Lectura super Apocalipsim di Pietro di Giovanni Olivi
Un’asserzione così impegnativa – il fatto che Dante, nello scrivere la Commedia, abbia conosciuto ed elaborato la Lectura super Apocalipsim di Pietro di Giovanni Olivi – richiede un’adeguata e inoppugnabile dimostrazione. Qui lo storico e il filologo deve farsi semiologo, chiedendo aiuto ai maestri del campo quali Roland Barthes, Gérard Genette, Umberto Eco, nel senso di domandarsi, tenendo conto dei loro insegnamenti, quale giudizio avrebbero potuto trarre se si fossero trovati a confrontare e a esaminare i testi.
Comparando le due opere, una in latino e l’altra in volgare, quegli esperti si sarebbero imbattuti in intertestualità non immediatamente evidenti, ma chiare in seguito a un esame non superficiale. Qui di seguito alcuni esempi tratti da luoghi delle due opere diversi e distanti fra loro:
[LSA, cap. II, Ap 2, 5] Primum est inanis gloria et superba presumptio de suo primatu et primitate, quam scilicet habuit non solum ex hoc quod prima in Christum credidit, nec solum ex hoc quod fideles ex gentibus ipsam honorabant et sequebantur ut magistram et primam, tamquam per eam illuminati in Christo et tracti ad Christum […] – [Purg. XI, 79-81, 121-123] “Oh!”, diss’ io lui, “non se’ tu Oderisi, / l’onor d’Agobbio e l’onor di quell’ arte / ch’alluminar chiamata è in Parisi?” … “Quelli è”, rispuose, “Provenzan Salvani; / ed è qui perché fu presuntüoso / a recar Siena tutta a le sue mani”. – [Purg. XXII, 66] e prima appresso Dio m’alluminasti.[LSA, cap. VII, Ap 7, 4] […] designatur familiarior signatio et notitia et amicitia apud Deum. – [Purg. XIII, 145-147; Par. XII, 132; XXV, 89-90] “Oh, questa è a udir sì cosa nuova”, / rispuose, “che gran segno è che Dio t’ami; / però col priego tuo talor mi giova”. … che nel capestro a Dio si fero amici … pongon lo segno, ed esso lo mi addita, / de l’anime che Dio s’ha fatte amiche.[LSA, cap. XIII, Ap 13, 18] […] et exinde expellens clericos et priores episcopos qui semini Frederici et specialiter illi imperatori et sibi et suo statui fuerant adversati […] – [Inf. X, 46-48] poi disse: “Fieramente furo avversi / a me e a miei primi e a mia parte, / sì che per due fïate li dispersi”.[LSA, cap. XVI, Ap 16, 15] Quia vero Deus tunc ex improviso et subito faciet hec iudicia, ideo subdit: “Ecce venio sicut fur” […] unde subdit: “Beatus qui vigilat et custodit vestimenta sua”, scilicet virtutes et bona opera, “ne nudus ambulet”, id est virtutibus spoliatus; “et videant”, scilicet omnes tam boni quam mali, “turpitudinem eius”, id est sua turpissima peccata et suam confusibilem penam in die iudicii sibi infligendam. – [Inf. III, 112-114; XIII, 103-104; XXVII, 127-129; Purg. VII, 34-35; Par. XII, 47-48] Come d’autunno si levan le foglie / l’una appresso de l’altra, fin che ’l ramo / vede a la terra tutte le sue spoglie … Come l’altre verrem per nostre spoglie, / ma non però ch’alcuna sen rivesta … disse: “Questi è d’i rei del foco furo”; / per ch’io là dove vedi son perduto, / e sì vestito, andando, mi rancuro. … quivi sto io con quei che le tre sante / virtù non si vestiro … le novelle fronde / di che si vede Europa rivestire.[LSA, cap. XVIII, Ap 18, 10] Et ideo convertentur ad luctum “dicentes”, scilicet plangendo […] – [Inf. V, 126; XXXIII, 9] dirò come colui che piange e dice … parlare e lagrimar vedrai insieme. |
Si trattava solo di coincidenze, magari frutto di un comune sentire del linguaggio? Come poteva essere ciò, dato che esse si riscontravano più volte, in punti diversi dei due testi e non nell’ordine delle decine, ma delle centinaia? Un fenomeno così diffuso non si poteva constatare confrontando la Commedia con altre opere a Dante ben conosciute, ad esempio con la Summa theologiae di Tommaso d’Aquino o con il De civitate Dei di Agostino. Anche con Virgilio, Ovidio, Lucano o Boezio, quando esiste un preciso richiamo testuale, questo è sempre limitato. Dall’apparente casualità si doveva pertanto risalire alle norme che regolano un così intenso rispondersi intertestuale. Si trattava, poi, di qualcosa che poteva effettivamente essere chiamato ‘intertestualità’?
Studiando sinotticamente il rapporto tra i due testi, quegli studiosi avrebbero potuto registrare le seguenti leggi che legano B (la Commedia) ad A (la Lectura super Apocalipsim):
a) Gruppi di parole ravvicinate presenti nella Lectura super Apocalipsim si ritrovano, con parole altrettanto ravvicinate, ma liberamente collocate nelle forme più varie, nella Commedia, quasi fili tratti da altro ordito e, intrecciati con altri, tessuti in uno nuovo. Il fenomeno risulta troppo diffuso perché sia casuale. Non si tratta di parole isolate, ma collocate in una rosa semantica entro spazi testuali ristretti; gli accostamenti non sono banali o scontati. Non c’è calco o riscrittura; il travaso non è di frasi – e non potrebbe esserlo dalla prosa in poesia – ma di elementi semantici (vere e proprie parole-chiave) che sono segnali, in un’alta retorica del significante. La compresenza risulta evidente per quanto, nel lessico della Commedia, proviene dal latino, si tratti di latinismi o di termini già entrati nell’uso fiorentino. Ma anche le voci fiorentine di ogni strato sociale, o quelle tratte da altri dialetti della penisola, i gallicismi, gli arabismi, i neologismi concordano con l’esegesi apocalittica, talora anche per somiglianza fonica, circondati da segnali (parole-chiave) che sembrano sollecitare il lettore consapevole verso l’altro testo.
Con analisi sistematica, si può verificare – in centinaia di casi – come, a partire da singole parole, nello stesso verso o nei versi immediatamente circostanti se ne registrano altre che si riferiscono, per semantica coincidente (quando il volgare deriva dal latino) o concordante (quando vi si sostituisce), al medesimo luogo dell’esegesi apocalittica (non al solo testo dell’Apocalisse, ma a questo e alla sua esegesi). Tali accostamenti semantici, inoltre, non avvengono fra parole che possono essere giustapposte per il comune sentire del linguaggio, come l’acqua e il battesimo, o il fuoco e il fumo, bensì fra elementi distanti. Ad esempio:
tres … immundos … inducentes … familiares – famiglia … m’indussero … tre … mondiglia (LSA, cap. XVI, Ap 16, 12-13; Inf. XXX, 88-90); prestet … emendare – rimendo … ne presti (LSA, explicit: Purg. XIII, 107-108); venerit discessio – verrà … disceda (LSA, cap. XIII, Ap 13, 18; Purg. XX, 15); exierunt … pungentium … traxerunt – tragge … n’esce … ponta (LSA, cap. IX, Ap 9, 3; Purg. XX, 71.73.74). |
Corollario di a) è il fatto che gruppi di terzine numericamente corrispondenti, a diversi stadi della Commedia, contengono parole-chiave che conducono alla medesima pagina esegetica della Lectura. Esempi: Ap 5, 8; 7, 3-4; 7, 13-14.
Conducendo un’altra indagine sugli hapax legomena della Commedia (in quanto parole più rare o studiate) si evidenzia di nuovo questo fenomeno.
b) Un medesimo luogo della Lectura conduce, tramite la compresenza delle parole, a più luoghi della Commedia, e viceversa; l’unità si travasa nel molteplice, questo rinvia a ciò che è unito. Ciò significa che la medesima esegesi di un passo dell’Apocalisse è stata utilizzata in momenti diversi della stesura del poema. Analizzando anche un solo verbo si possono registrare molti riscontri. Ad esempio, il verbo derivare (forma latina meare) si accompagna nei versi, in casi differenti e anche in rima, ad altri elementi semantici: tutti rinviano all’esegesi del fiume luminoso che scorre nel mezzo della Gerusalemme celeste, dove è presente l’espressione “dirivatur seu communicatur”:
[LSA, cap. XXII, Ap 22, 1-2] “Et ostendit michi fluvium”. Hic sub figura nobilissimi fluminis currentis per medium civitatis describit affluentiam glorie manantis a Deo in beatos. Fluvius enim iste procedens a “sede”, id est a maiestate “Dei et Agni”, est ipse Spiritus Sanctus et tota substantia gratie et glorie per quam et in qua tota substantia summe Trinitatis dirivatur seu communicatur omnibus sanctis et precipue beatis, que quidem ab Agno etiam secundum quod homo meritorie et dispensative procedit. Dicit autem “fluvium” propter copiositatem et continuitatem, et “aque” quia refrigerat et lavat et reficit, et “vive” quia, secundum Ricardum, numquam deficit sed semper fluit. Quidam habent “vite”, quia vere est vite eterne. Dicit etiam “splendidum tamquam cristallum”, quia in eo est lux omnis et summe sapientie, et summa soliditas et perspicuitas quasi cristalli solidi et transparentis. Dicit etiam “in medio platee eius”, id est in intimis cordium et in tota plateari latitudine et spatiositate ipsorum. […] Una autem pars seu ripa fluminis est ripa seu status meriti quasi a sinistris, dextera vero pars est status premii; utrobique autem occurrit Christus, nos fruct<u> vite divine et foliis sancte doctrine et sacramentorum reficiens et sanans. Per folia enim designantur verba divina, tum quia veritate virescunt, tum quia fructum bonorum operum sub se tenent et protegunt, tum quia quoad vocem transitoria sunt. Sacramenta etiam Christi sunt folia, quia sua similitudine obumbrant fructus et effectus gratie quos significant et quia arborem ecclesie ornant.Par. II, 139-144: Virtù diversa fa diversa lega / col prezïoso corpo ch’ella avviva, / nel qual, sì come vita in voi, si lega. / Per la natura lieta onde deriva, / la virtù mista per lo corpo luce / come letizia per pupilla viva.Par. IV, 115-120: Cotal fu l’ondeggiar del santo rio / ch’uscì del fonte ond’ ogne ver deriva; / tal puose in pace uno e altro disio. / “O amanza del primo amante, o diva”, / diss’ io appresso, “il cui parlar m’inonda / e scalda sì, che più e più m’avviva”.Par. XIII, 52-57: Ciò che non more e ciò che può morire / non è se non splendor di quella idea / che partorisce, amando, il nostro Sire; / ché quella viva luce che sì mea / dal suo lucente, che non si disuna / da lui né da l’amor ch’a lor s’intrea.Par. XXX, 61-66, 76-78, 85-87: e vidi lume in forma di rivera / fulvido di fulgore, intra due rive / dipinte di mirabil primavera. / Di tal fiumana uscian faville vive, / e d’ogne parte si mettien ne’ fiori, /quasi rubin che oro circunscrive … Anche soggiunse: “Il fiume e li topazi / ch’entrano ed escono e ’l rider de l’erbe / son di lor vero umbriferi prefazi. … come fec’ io, per far migliori spegli / ancor de li occhi, chinandomi a l’onda / che si deriva perché vi s’immegli. |
Le parole “terra”, “pace” e il verbo ‘togliere’ (“che mi fu tolta / come suole esser tolto”) sono fili che formano parte del tessuto sia nel discorso di Francesca come in quello di Catalano, uno dei due frati ‘godenti’ bolognesi nella bolgia degli ipocriti. In entrambi i casi l’esegesi di riferimento è Ap 6, 4, relativa all’apertura del secondo sigillo. Se identiche sono le parole, la loro collocazione è del tutto diversa nei due distinti episodi. Il significato originario – “togliere la pace dalla terra” – si mantiene in entrambi.
[LSA, cap. VI, Ap 6, 4] Subdit ergo: “Et ecce alius”, id est ab equo albo valde diversus, “equus rufus”, id est exercitus paganorum effusione sanguinis sanctorum rubicundus. “Et qui sedebat super eum”, scilicet romanus imperator vel diabolus, “datum est ei ut sumeret”, id est ut auferret, “pacem de terra”, id est a Deo permissum est ut persequeretur fideles; “et ut invicem se interficiant”, id est ut pagani interficerent corpora fidelium et etiam quorundam fidem, sancti vero interficerent infidelitatem et pravam vitam plurium paganorum, convertendo scilicet eos ad Christum. Vel, secundum Ricardum, “ut invicem se interficiant”, id est ut ipsi persecutores non solum interficiant alienos et remotos, sed etiam suos parentes et notos et domesticos et vicinos.[Inf. V, 97-102] Siede la terra dove nata fui / su la marina dove ’l Po discende / per aver pace co’ seguaci sui. / Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende, / prese costui de la bella persona / che mi fu tolta; e ’l modo ancor m’offende.[Inf. XXIII, 103-108] Frati godenti fummo, e bolognesi; / io Catalano e questi Loderingo / nomati, e da tua terra insieme presi / come suole esser tolto un uom solingo, / per conservar sua pace; e fummo tali, / ch’ancor si pare intorno dal Gardingo. |
c) Più luoghi della Lectura possono essere collazionati tra loro, secondo un procedimento analogico tipico delle distinctiones ad uso dei predicatori del XIII secolo [17]. La scelta non è arbitraria. Vi predispone lo stesso testo scritturale, poiché l’Apocalisse contiene espressioni, come Leitmotive, che ritornano più volte (ad esempio fulgura, voces, tonitrua, terremotus; vox aquarum multarum), oppure passi introdotti da versetti identici o simili o strettamente conseguenziali o vertenti sulla medesima materia. La scelta è anche determinata da parole-chiave che collegano i passi da collazionare. Talora è lo stesso esegeta a proporla, come nel caso dell’angelo del sesto sigillo (Ap 7, 2) e dell’angelo dal volto solare (Ap 10, 1-3), entrambi identificati con san Francesco. La “mutua collatio” di parti della Lectura arricchisce il significato legato alle parole e consente uno sviluppo tematico amplificato.
Per fare un esempio, lo zelo può essere riprensivo in quanto vòlto all’altrui bene (Ap 3, 19), oppure provenire da santa orazione fatta nel tempio che è in cielo (Ap 14, 17-18), o ancora designare l’eterno ardore che scende dal cielo e questa fiamma, che sta ad indicare la salda fermezza dei santi, può essere punitiva o purgativa (Ap 20, 9). La collazione dei tre luoghi (altri potrebbero aggiungersi) offre una dottrina alla quale richiamano i singoli elementi semantici, variati all’occorrenza nel riprendere l’ardimento d’Eva (Purg. XXIX, 23-24), nello zelo buono e santo che in cielo ‘grida’ la preghiera contro “li moderni pastori” vituperati da Pier Damiani, e questo gridare è proprio di fiammelle che scendono e si fermano (Par. XXI, 136-142; XXII, 7-15); o ancora nell’“etternale ardore” che scende sul sabbione simile alle “fiamme … salde” viste cadere da Alessandro Magno sulle sue truppe in India (Inf. XIV, 31-37) e perfino nel verso, contro gli Uberti, “tal orazion fa far nel nostro tempio” (Inf. X, 87).
d) Olivi, nel commentare l’Apocalisse, segue progressivamente i ventidue capitoli del testo sacro. Tuttavia suggerisce, nel prologo della Lectura, un metodo differente di comprensione e di aggregazione del testo, fondato sui sette stati (status), cioè sulle epoche nelle quali si articola la storia della Chiesa, prefigurate nell’Antico Testamento.
L’Apocalisse si articola in sette visioni: le sette chiese d’Asia, i sette sigilli, le sette trombe, la donna vestita di sole (le sette guerre sostenute dalla Chiesa), le sette coppe, il giudizio di Babylon (la Chiesa carnale) nelle sette teste del drago, la Gerusalemme celeste. Le prime sei visioni possono essere a loro volta divise in sette momenti, ciascuno dei quali riferibile a uno dei sette stati. Assembrando, per le prime sei visioni, tutti i primi elementi (chiesa, sigillo, tromba, guerra, coppa, momento del giudizio di Babylon), tutti i secondi, i terzi e così di seguito, si ottengono sette gruppi di materia teologica, corrispondenti al complesso dei temi afferenti a ciascuno dei sette stati. A questi sette gruppi si aggiungono altri due: l’esegesi della settima visione (senza articolazioni interne) e l’esegesi di capitoli del testo scritturale, o di parti di essi, introduttivi delle successive specificazioni delle singole visioni per settenari, che l’Olivi definisce “radicalia” o “fontalia”. Si ottengono in tal modo nove gruppi: le parti proemiali, i sette assembramenti di settenari e la settima visione. Il grande prologo della Lectura, articolato in tredici notabilia, può essere anch’esso riaggregato secondo i sette stati. Un libro (la Lectura) contiene dunque princìpi e criteri, suggeriti dallo stesso esegeta, affinché l’accorto lettore possa trarne un altro libro, fatto con lo stesso materiale ma ricomposto e distribuito in forma diversa. Un’esegesi biblica può dunque essere trasformata, senza privare il testo di una sola parola, in una teologia della storia.
La Commedia, se confrontata con la Lectura, mostra un ordine interno diverso da quello che appare al lettore: il viaggio di Dante ha un andamento di ciclici settenari, che corrispondono ai sette stati della storia della Chiesa, cioè alle categorie con cui Olivi organizza la materia esegetica. Questo ordine interno è registrabile per zone progressive del poema dove prevale, tramite parole-chiave, la semantica riferibile a un singolo stato. Questa è prevalente ma non esclusiva, perché con essa sono intrecciati temi di altri stati. Viene così realizzata un’intima struttura dirompente i confini letterali stabiliti dai canti e da tutte le divisioni materiali per cerchi, gironi, cieli. Ogni stato, che ha differenti inizi, è concatenato per concurrentia, come le maglie di un’armatura, con quello che precede e con quello che segue. Si possono in tal modo redigere mappe che comprendano l’ordine spirituale della Commedia.
La tecnica della collazione di passi diversi operata sulla Lectura, considerata sub c), procede non solo distinguendo parole e associando significati, ma anche congiungendo la materia esegetica connessa ai singoli stati. Il termine valor, esempio fra i tanti, compare nella Lectura una sola volta, nelle premesse all’esposizione del quinto capitolo (seconda visione apocalittica) e con riferimento all’apertura del terzo sigillo. Dall’associazione di questa parte di esegesi con altri luoghi dedicati al terzo stato si sviluppa una semantica largamente riscontrabile nei versi, variata fra i singoli elementi, nel momento in cui si presenta il termine valore.
III sigillo; Ap 6, 5: valor, satisfiat, hominis, recta statera, intortam acceptionem Scripture
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