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Ott 05 2024

Inferno XXXI

 

La “Divina Parodia” del Libro scritto dentro e fuori

Canti esaminati:

Inferno: I; II; III; IV; V; VI; VII; VIII; IX; X; XI; XII; XIII; XIV; XV; XVI; XVII; XVIII; XIX; XX; XXI; XXII; XXIII; XXIV; XXV; XXVI; XXVII; XXVIII; XXIX; XXX; XXXI; XXXII, 1-123; XXXII, 124-XXXIII, 90; XXXIII, 91-157; XXXIV

Purgatorio: III; XXVIII; XXIX

Paradiso: XI-XII; XXXIII

 

Introduzione. 1. I giganti. 2. Nembrot. 3. Anteo. Avvertenze. Abbreviazioni. Note sulla “topografia spirituale” della Commedia.

 

Legenda [3]: numero dei versi; 9, 5: collegamento ipertestuale all’esegesi, nella Lectura di Olivi, di capitolo e versetto dell’Apocalisse [Ap]; Not. III: collegamento all’esegesi contenuta nei tredici notabilia del prologo della LecturaVarianti rispetto al testo del Petrocchi.

Viene qui esposto il canto XXXI dell’Inferno con i corrispondenti legami ipertestuali con i luoghi della Lectura super Apocalipsim ai quali i versi si riferiscono. L’intero poema è esposto nella Topografia spirituale della Commedia (2013, PDF; cfr. infra), ma si sta procedendo a un esame progressivo e aggiornato dei singoli canti. Ogni tabella sinottica, qui presentata o alla quale si rinvia in quanto già esaminata in altra sede, è preceduta o seguita da una parte esplicativa. Per la posizione di Inf. XXXI nella topografia della prima cantica cfr. infra. Sull’uso dei colori cfr. Avvertenze.

Inferno XXXI

Quintus status: prologus, Notabilia [Not.]; I visio, V ecclesia (Sardis: 3, 1-6); II visio, V sigillum (6, 9-11); III visio, V tuba (9, 1-12); IV visio, V prelium (12, 17-18); V visio, V phiala (16, 10-11); VI visio (18, 4-7).

Una medesma lingua pria mi morse,   9, 5
sì che mi tinse l’una e l’altra guancia,
e poi la medicina mi riporse;   [3]   Not. III; 15, 8

così od’ io che solea far la lancia
d’Achille e del suo padre esser cagione
prima di trista e poi di buona mancia.   [6]

Noi demmo il dosso al misero vallone
su per la ripa che ’l cinge dintorno,   22, 2; 20, 8   ch’el cinge
attraversando sanza alcun sermone.   [9]

Quiv’ era men che notte e men che giorno,   Not. VII
sì che ’l viso m’andava innanzi poco;
ma io senti’ sonare un alto corno,   [12]   9, 9

tanto ch’avrebbe ogne tuon fatto fioco,
che, contra sé la sua via seguitando,
dirizzò li occhi miei tutti ad un loco.   [15]

Dopo la dolorosa rotta, quando   2, 12
Carlo Magno perdé la santa gesta,   Not. XIII
non sonòterribilmente Orlando.   [18]   Not. I; 2, 12

Poco portäi in là volta la testa,
che me parve veder molte alte torri;   Not. XIII
ond’ io: « Maestro, dì, che terra è questa? ».   [21]   Not. XIII; 5, 1

Ed elli a me: « Però che tu trascorri
per le tenebre troppo da la lungi,   16, 10; 5, 1
avvien che poi nel maginare abborri.   [24]   2, 17; 9, 4

Tu vedrai ben, se tu là ti congiungi,
quanto ’l senso s’inganna di lontano;   2, 17;   5, 1
però alquanto più te stesso pungi ».   [27]   9, 5

Poi caramente mi prese per mano   1, 17
e disse: « Pria che noi siam più avanti,
acciò che ’l fatto men ti paia strano,   [30]   5, 1

sappi che non son torri, ma giganti,   Not. XIII
e son nel pozzo intorno da la ripa   9, 2
da l’umbilico in giuso tutti quanti ».   [33]

Come quando la nebbia si dissipa,   16, 17
lo sguardo a poco a poco raffigura
ciò che cela l vapor che l’aere stipa,   [36]

così forando l’aura grossa e scura,   9, 2
più e più appressando ver’ la sponda,
fuggiemi errore e cresciemi paura;   [39]   2, 17; 9, 4

però che, come su la cerchia tonda   4, 6
Montereggion di torri si corona,   4, 4
così  la proda che ’l pozzo circonda   [42]   9, 2; 4, 6

torreggiavan di mezza la persona   4, 6
li orribili giganti, cui minaccia   4, 5
Giove del cielo ancora quando tuona.   [45]

E io scorgeva già d’alcun la faccia,
le spalle e ’l petto e del ventre gran parte,   14, 2
e per le coste giù ambo le braccia.   [48]

Natura certo, quando lasciò l’arte
di sì fatti animali, assai fé bene
per tòrre tali essecutori a Marte.   [51]

E s’ella d’elefanti e di balene   13, 1
non si pente, chi guarda sottilmente,   Not. XIII; 21, 12
più giusta e più discreta la ne tene;   [54]

ché dove l’argomento de la mente
s’aggiugne al mal volere e a la possa,   6, 3
nessun riparo vi può far la gente.   [57]   17, 18  

La faccia sua mi parea lunga e grossa
come la pina di San Pietro a Roma,   Not. XIII; 17, 18
e a sua proporzione eran l’altre ossa;   [60]   18, 7

sì che la ripa, ch’era perizoma   1, 13
dal mezzo in giù, ne mostrava ben tanto   18, 7
di sovra, che di giugnere a la chioma   [63]

tre Frison s’averien dato mal vanto;   12, 14
però ch’i’ ne vedea trenta gran palmi
dal loco in giù dov’ omo affibbia ’l manto.   [66]   1, 13

« Raphèl maì amècche zabì almi »,   Not. XIII; Lectura super Genesim
 cominciò a gridar la fiera bocca,   9, 17
 cui non si convenia più dolci salmi.   [69]

E ’l duca mio ver’ lui: « Anima sciocca,
tienti col corno, e con quel ti disfoga
quand’ ira o altra passïon ti tocca!   [72]   9, 17

Cércati al collo, e troverai la soga   1, 13
che ’l tien legato, o anima confusa,   Not. XIII;   9, 17
e vedi lui che ’l gran petto ti doga ».   [75]   1, 13

Poi disse a me: « Elli stessi s’accusa;   12, 10 (1, 2)
questi è Nembrotto per lo cui mal coto
pur un linguaggio nel mondo non s’usa.   [78]   Not. XIII

Lasciànlo stare e non parliamo a vòto;   3, 15
ché così è a lui ciascun linguaggio
come ’l suo ad altrui, ch’a nullo è noto ».   [81]   12, 10 (1, 2)

Facemmo adunque più lungo vïaggio,
vòlti a sinistra; e al trar d’un balestro
trovammo l’altro assai più fero e maggio.   [84]   9, 11

A cigner lui qual che fosse ’l maestro,   1, 13
non so io dir, ma el tenea soccinto
dinanzi l’altro e dietro il braccio destro   [87]   13, 3; 5, 1

d’una catena che ’l tenea avvinto   20, 1
dal collo in giù, sì che ’n su lo scoperto
si ravvolgëa infino al giro quinto.   [90]   V status

« Questo superbo volle esser esperto   5, 1
di sua potenza contra ’l sommo Giove »,
disse ’l mio duca, « ond’ elli ha cotal merto.   [93]

Fïalte ha nome, e fece le gran prove   3, 1
quando i giganti fer paura a’ dèi;
le braccia ch’el menò, già mai non move ».   [96]   13, 3

E io a lui: « S’esser puote, io vorrei
che de lo smisurato Brïareo   6, 5
esperïenza avesser li occhi miei ».   [99]   2, 1

Ond’ ei rispuose: « Tu vedrai Anteo
presso di qui che parla ed è disciolto,   20, 1-3
che ne porrà nel fondo d’ogne reo.   [102]

Quel che tu vuo’ veder, più là è molto
ed è legato e fatto come questo,   20, 1-3
salvo che più feroce par nel volto ».   [105]

Non fu tremoto già tanto rubesto,   11, 19
che scotesse una torre così forte,
come Fïalte a scuotersi fu presto.   [108]   9, 7

Allor temett’ io più che mai la morte,   9, 5-6
e non v’era mestier più che la dotta,
s’io non avessi viste le ritorte.   [111]   6, 5

Noi procedemmo più avante allotta,
e venimmo ad Anteo, che ben cinque alle,   V status
sanza la testa, uscia fuor de la grotta.   [114]

« O tu che ne la fortunata valle
che fece Scipïon di gloria reda,   19, 16
quand’ Anibàl co’ suoi diede le spalle,   [117]   19, 11

recasti già mille leon per preda,   6, 2 (5, 5); 19, 11
e che, se fossi stato a l’alta guerra
de’ tuoi fratelli, ancor par che si creda   [120]

ch’avrebber vinto i figli de la terra:   12, 16
mettine giù, e non ten vegna schifo,   6, 9.11; 3, 15
dove Cocito la freddura serra.   [123]

Non ci fare ire a Tizio né a Tifo:
questi può dar di quel che qui si brama;
però ti china e non torcer lo grifo.   [126]   Not. III; 6, 5

Ancor ti può nel mondo render fama,   3, 1
ch’el vive, e lunga vita ancor aspetta   6, 9.11
se ’nnanzi tempo grazia a sé nol chiama ».   [129]

Così disse ’l maestro; e quelli in fretta
le man distese, e prese ’l duca mio,   Not. XI
ond’ Ercule sentì già grande stretta.   [132]

Virgilio, quando prender si sentio,
disse a me: « Fatti qua, sì ch’io ti prenda »;
poi fece sì ch’un fascio era elli e io.   [135]

Qual pare a riguardar la Carisenda   10, 1   VI status   Garisenda
sotto ’l chinato, quando un nuvol vada   Not. III
sovr’ essa sì, ched ella incontro penda:   [138]

tal parve Antëo a me che stava a bada   Not. III
di vederlo chinare, e fu tal ora   Not. III
ch’i’ avrei voluto ir per altra strada.   [141]

Ma lievemente al fondo che divora   10, 1
Lucifero con Giuda, ci sposò;   Not. XIII
né, sì chinato, lì fece dimora,   Not. III; 3, 5
e come albero in nave si levò.   [145]

Vengono qui di seguito posti a confronto Inf. VII, 97-130, VIII, IX, 1-105 / XV, XVI / XXI-XXII-XXIII, 1-57 / XXXI, canti nei quali, rispettivamente nel primo, nel secondo, nel terzo e nel quarto ciclo settenario dell’Inferno, i temi del quinto stato prevalgono, semanticamente elaborati dalla parodia dantesca. La tematica si estende oltre i confini del singolo canto e, come mostrato nelle tabelle complessive, si intreccia con molti motivi propri di altri gruppi esegetici relativi agli status o periodi della storia della Chiesa.

Si registra, nelle singole zone, lo sviluppo delle occorrenze semantiche* relative al quinto stato che rinviano alla Lectura super Apocalipsim (VII: 10, VIII: 23, IX: 13; totale della zona: 46 / XV: 35, XVI: 30; totale della zona: 65 / XXI: 39, XXII: 51, XXIII: 10; totale della zona: 100 / XXXItotale della zona: 30).

Nel dettaglio:

prologo (VII: 1, VIII: 0, IX: 0 / XV: 8, XVI: 2 / XXI: 6, XXII: 12, XXIII: 2 / XXXI: 10); quinta chiesa (VII: 1, VIII: 3, IX: 3 / XV: 13, XVI: 7 / XXI: 4, XXII: 4, XXIII: 2 / XXXI: 3); quinto sigillo (VII: 4, VIII: 7, IX: 1 / XV: 2, XVI: 5 / XXI: 8, XXII: 14, XXIII: 2 / XXXI: 2); quinta tromba (VII: 4, VIII: 5, IX: 7 / XV: 8, XVI: 13 / XXI: 20, XXII: 15, XXIII: 4 / XXXI: 11); quinta guerra (VII: 0, VIII: 6, IX: 2 / XV: 1, XVI: 2 / XXI: 0, XXII: 4, XXIII: 0 / XXXI: 1); quinta coppa (VII: 0, VIII: 2, IX: 0 / XV: 1, XVI: 1 / XXI: 1, XXII: 0, XXIII: 0 / XXXI: 1); VI visione, quinta parte (VII: 0, VIII: 0, IX: 0 / XV: 2, XVI: 0 / XXI: 0, XXII: 2, XXIII: 0 / XXXI: 2).

Le prime tre zone comprendono più canti, rispettivamente per 269, 260 e 347 versi; la quarta zona un solo canto (XXXI, 145 versi, per quanto i temi del quinto stato, intrecciati con quelli del quarto, siano presenti nel precedente XXX).

La parodia si esercita in luoghi semantici, comuni ai gruppi di canti, riferibili a stati diversi dal quinto. Ad esempio:

1, 13 (IX, 40; XVI, 106.108; XXXI, 61.65.85.86); 1, 17 (XV, 29; XXXI, 106.107), premesse alla prima visione;

2, 10-11, seconda chiesa (VIII, 98.104.107; XXI, 62.64.66.81.90.133);

2, 12, terza chiesa (VII, 100; XXI, 114; XXII, 132; XXXI, 16); 6, 5, terzo sigillo (XVI, 74; XXI, 98; XXXI, 98.111.126);

prologo, Notabile IIIquarto stato (VII, 109; XV, 38; XVI, 19; XXI, 4; XXXI, 139);

5, 1, sesto sigillo (VIII, 52; IX, 63; XXII, 9.134; XXXI, 21.23.26.30);

7, 13-14, sesto sigillo, passo che costituisce uno dei Leitmotive più insistenti per tutto il poema (VIII, 8.9.33.35.36; IX, 20; XV, 30.48.101.118; XXII, 43.44.47.79.80.81);

9, 17, sesta tromba (XXI, 8; XXXI, 68.72.74); 10, 1, sesta tromba (XXII, 20.22; XXXI, 136.137.142); 10, 4-5 (XVI, 125.127.128);

13, 3, sesta guerra (XVI, 121.130.131.132.135.136; XXXI, 87.96);

20, 1-3, (XVI, 109; XXXI, 101.104); 20, 8 (IX, 32; XXXI, 8); 22, 1-2 (VII, 100.102; XXXI, 8), settima visione.

Poiché si tratta di zone dove prevale la tematica del quinto stato, questa sfocia nel sesto (IX, 61-90; XVI, 91-136; XXIII, 16-57; XXXI, 115-117, 136-137, 142-143), i cui motivi segnano la conclusione dei cicli settenari (cfr. altrove circa la presenza nell’Inferno dei temi del settimo stato). I temi del terremoto in apertura del sesto sigillo si registrano nella parte finale della prima, terza e quarta zona dedicata al quinto stato (IX, 64.65.66.72.80; XXIII, 16-24, 31-45, 52-54; XXXI, 106.107).

Si rileva, nella prima parte di Inf. XXXI, l’insistente presenza di temi del terzo stato (vv. 16.18.20.24.26.31.39).

* Per “occorrenze” si intendono le parole-chiave che nella lettera dei versi rinviano semanticamente ai temi offerti dall’esegesi; esse, ai fini del computo, sono considerate singolarmente salvo quando sono contigue, nel qual caso costituiscono un’unità.

Primo ciclo

Secondo ciclo

Inferno VII, 97-130 – VIII IX, 1-105

Inferno XVXVI

Inf. VII, 97-130

« Or discendiamo omai a maggior pieta;   7, 7
già ogne stella cade che saliva   8, 12           Not. III
quand’ io mi mossi, e ’l troppo star si vieta ».   [99]
Noi ricidemmo il cerchio a l’altra riva   2, 12; 22, 2
sovr’ una fonte che bolle e riversa
per un fossato che da lei deriva.   [102]
L’acqua era buia assai più che persa;
e noi, in compagnia de l’onde bige,   3, 5
intrammo giù per una via diversa.   [105]   6, 9.11
In la palude va c’ha nome Stige
questo tristo ruscel, quand’ è disceso   Not. I
al piè de le maligne piagge grige.   [108]
E io, che di mirare stava inteso,   Not. III
vidi genti fangose in quel pantano,
ignude tutte, con sembiante offeso.   [111]   9, 5
Queste si percotean non pur con mano,   8, 12
ma con la testa e col petto e coi piedi,
troncandosi co’ denti a brano a brano.   [114]   9, 8
Lo buon maestro disse: « Figlio, or vedi
l’anime di color cui vinse l’ira;   9, 5
e anche vo’ che tu per certo credi   [117]
che sotto l’acqua è gente che sospira,   6, 9.11
e fanno pullular quest’ acqua al summo,
come l’occhio ti dice, u’ che s’aggira.   [120]
Fitti nel limo dicon: “Tristi fummo   5, 1
ne l’aere dolce che dal sol s’allegra,   9, 2
portando dentro accidïoso fummo:   [123]
or ci attristiam ne la belletta negra”.   5, 1
Quest’ inno si gorgoglian ne la strozza,
ché dir nol posson con parola integra ».   [126]
Così girammo de la lorda pozza
grand’ arco, tra la ripa secca e ’l mézzo,
con li occhi vòlti a chi del fango ingozza.
Venimmo al piè d’una torre al da sezzo.   [130]

Inf. VIII

Io dico, seguitando, ch’assai prima
che noi fossimo al piè de l’alta torre,
li occhi nostri n’andar suso a la cima   [3]
per due fiammette che i vedemmo porre,
e un’altra da lungi render cenno,
tanto ch’a pena il potea l’occhio tòrre.   [6]
E io mi volsi al mar di tutto ’l senno;
dissi: « Questo che dice? e che risponde   7, 13
quell’ altro foco? e chi son quei che ’l fenno? ».   [9]
Ed elli a me: « Su per le sucide onde
già scorgere puoi quello che s’aspetta,   6, 9-11
se l fummo del pantan nol ti nasconde ».   [12]   9, 2
Corda non pinse mai da sé saetta
che sì corresse via per l’aere snella,
com’ io vidi una nave piccioletta   [15]
venir per l’acqua verso noi in quella,
sotto ’l governo d’un sol galeoto,
che gridava: « Or se’ giunta, anima fella! ».   [18]
« Flegïàs, Flegïàs, tu gridi a vòto »,
disse lo mio segnore, « a questa volta:
più non ci avrai che sol passando il loto ».  [21]   3, 5
Qual è colui che grande inganno ascolta
che li sia fatto, e poi se ne rammarca,
fecesi Flegïàs ne l’ira accolta.   [24]   9, 5; 16, 11
Lo duca mio discese ne la barca,   3, 5
e poi mi fece intrare appresso lui;
e sol quand’ io fui dentro parve carca.   [27]
Tosto che ’l duca e io nel legno fui,
segando se ne va l’antica prora
de l’acqua più che non suol con altrui.   [30]
Mentre noi corravam la morta gora,
dinanzi mi si fece un pien di fango,
e disse: « Chi se’ tu che vieni anzi ora? ».   [33]   7, 13
E io a lui: « S’i’ vegno, non rimango;   12, 17
ma tu chi se’, che sì se’ fatto brutto? ».   7, 13
Rispuose: « Vedi che son un che piango ».   [36]
E io a lui: « Con piangere e con lutto,
spirito maladetto, ti rimani;   5, 1; 12, 17
ch’i’ ti conosco, ancor sie lordo tutto ».   [39]
Allor distese al legno ambo le mani;   9, 3
per che ’l maestro accorto lo sospinse,
dicendo: « Via costà con li altri cani! ».   [42]
Lo collo poi con le braccia mi cinse;
basciommi ’l volto e disse: « Alma sdegnosa,
benedetta colei che ’n te s’incinse!   [45]
Quei fu al mondo persona orgogliosa;   Not. XII
bontà non è che sua memoria fregi:
così s’è l’ombra sua qui furïosa.   [48]
Quanti si tegnon or là sù gran regi   9, 7
che qui staranno come porci in brago,
di sé lasciando orribili dispregi! ».   [51]
E io: « Maestro, molto sarei vago   5, 1
di vederlo attuffare in questa broda
prima che noi uscissimo del lago ».   [54]
Ed elli a me: « Avante che la proda
ti si lasci veder, tu sarai sazio:
di tal disïo convien che tu goda ».   [57]   6, 10
Dopo ciò poco vid’ io quello strazio
far di costui a le fangose genti,
che Dio ancor ne lodo e ne ringrazio.   [60]
Tutti gridavano: « A Filippo Argenti! »;  5, 1 (6, 10)
e ’l fiorentino spirito bizzarro
in sé medesmo si volvea co’ denti.   [63]   16, 10-11
Quivi il lasciammo, che più non ne narro;
ma ne l’orecchie mi percosse un duolo,
per ch’io avante l’occhio intento sbarro.   [66]
Lo buon maestro disse: « Omai, figliuolo,
s’appressa la città c’ha nome Dite,
coi gravi cittadin, col grande stuolo ».   [69]
E io: « Maestro, già le sue meschite
là entro certe ne la valle cerno,
vermiglie come se di foco uscite [72]
fossero ». Ed ei mi disse: « Il foco etterno
ch’entro l’affoca le dimostra rosse,
come tu vedi in questo basso inferno ».   [75]
Noi pur giugnemmo dentro a l’alte fosse
che vallan quella terra sconsolata:
le mura mi parean che ferro fosse.   [78]
Non sanza prima far grande aggirata,
venimmo in parte dove il nocchier forte
« Usciteci », gridò: « qui è l’intrata ».   [81]
Io vidi più di mille in su le porte
da ciel piovuti, che stizzosamente
dicean: « Chi è costui che sanza morte   [84]
va per lo regno de la morta gente? ».   6, 8
E ’l savio mio maestro fece segno
di voler lor parlar segretamente.   [87]
Allor chiusero un poco il gran disdegno
e disser: « Vien tu solo, e quei sen vada   12, 17
che sì ardito intrò per questo regno.   [90]
Sol si ritorni per la folle strada:
pruovi, se sa; ché tu qui rimarrai,   12, 17
che li ha’ iscorta sì buia contrada ».   [93]
Pensa, lettor, se io mi sconfortai
nel suon de le parole maladette,   5, 1
ché non credetti ritornarci mai.   [96]
« O caro duca mio, che più di sette   1, 10-12
volte m’hai sicurtà renduta e tratto
d’alto periglio che ’ncontra mi stette,   [99]
non mi lasciar », diss’ io, « così disfatto;
e se ’l passar più oltre ci è negato,
ritroviam l’orme nostre insieme ratto ».   [102]
E quel segnor che lì m’avea menato,
mi disse: « Non temer; ché ’l nostro passo  2, 8.10.11
non ci può tòrre alcun: da tal n’è dato.   [105]
Ma qui m’attendi, e lo spirito lasso   6, 11
conforta e ciba di speranza buona,
ch’i’ non ti lascerò nel mondo basso ».   [108]
Così sen va, e quivi m’abbandona
lo dolce padre, e io rimagno in forse,   12, 17; 9, 5-6
che sì e no nel capo mi tenciona.   [111]
Udir non potti quello ch’a lor porse;
ma ei non stette là con essi guari,   6, 11
che ciascun dentro a pruova si ricorse.   [114]
Chiuser le porte que’ nostri avversari
nel petto al mio segnor, che fuor rimase  12, 17
e rivolsesi a me con passi rari.   [117]
Li occhi a la terra e le ciglia avea rase
d’ogne baldanza, e dicea ne’ sospiri:
« Chi m’ha negate le dolenti case! ».   [120]
E a me disse: « Tu, perch’ io m’adiri,
non sbigottir, ch’io vincerò la prova,
qual ch’a la difension dentro s’aggiri.   [123]
Questa lor tracotanza non è nova;
ché già l’usaro a men segreta porta,
la qual sanza serrame ancor si trova.   [126]
Sovr’ essa vedestù la scritta morta:
e già di qua da lei discende l’erta,   3, 5
passando per li cerchi sanza scorta,
tal che per lui ne fia la terra aperta ».   [130]

Inf. IX, 1-105

Quel color che viltà di fuor mi pinse
veggendo il duca mio tornare in volta,
più tosto dentro il suo novo ristrinse.   [3]
Attento si fermò com’ uom ch’ascolta;   1, 3; 3, 3
ché l’occhio nol potea menare a lunga
per l’aere nero e per la nebbia folta.   [6]   9, 2
« Pur a noi converrà vincer la punga »,   9, 5-6
cominciò el, « se non  … Tal ne sofferse.
Oh quanto tarda a me ch’altri qui giunga!». [9] 6, 10
I’ vidi ben sì com’ ei ricoperse
lo cominciar con l’altro che poi venne,
che fur parole a le prime diverse;   [12]
ma nondimen paura il suo dir dienne,
perch’ io traeva la parola tronca
forse a peggior sentenzia che non tenne.   [15]
« In questo fondo de la trista conca
discende mai alcun del primo grado,   3, 5
che sol per pena ha la speranza cionca? ».   [18]
Questa question fec’ io; e quei  « Di rado   5, 2
incontra », mi rispuose, « che di noi   7, 13
faccia il cammino alcun per qual io vado.   [21]
Ver è ch’altra fïata qua giù fui,   1, 18
congiurato da quella Eritón cruda
che richiamava l’ombre a’ corpi sui.   [24]
Di poco era di me la carne nuda,
ch’ella mi fece intrar dentr’ a quel muro,
per trarne un spirto del cerchio di Giuda[27]   1, 18
Quell’ è ’l più basso loco e ’l più oscuro,
e ’l più lontan dal ciel che tutto gira:
ben so ’l cammin; però ti fa sicuro.   [30]   1, 18
Questa palude che ’l gran puzzo spira
cigne dintorno la città dolente,   20, 8
u’ non potemo intrare omai sanz’ ira ».   [33]   5, 1 
E altro disse, ma non l’ho a mente;
però che l’occhio m’avea tutto tratto
ver’ l’alta torre a la cima rovente,   [36]
dove in un punto furon dritte ratto   Not. VIII
tre furïe infernal di sangue tinte,   16, 13; 17, 3
che membra feminine avieno e atto,   [39]
e con idre verdissime eran cinte;   1, 13
serpentelli e ceraste avien per crine,   1, 14
onde le fiere tempie erano avvinte.   [42]
E quei, che ben conobbe le meschine
de la regina de l’etterno pianto,
« Guarda », mi disse, « le feroci Erine.   [45]
Quest’ è Megera dal sinistro canto;
quella che piange dal destro è Aletto;
Tesifón è nel mezzo »; e tacque a tanto.   [48]
Con l’unghie si fendea ciascuna il petto;
battiensi a palme e gridavan sì alto,
ch’i’ mi strinsi al poeta per sospetto.   [51]
« Vegna Medusa: sì ’l farem di smalto »,
dicevan tutte riguardando in giuso;
« mal non vengiammo in Tesëo l’assalto ».   [54]
« Volgiti ’n dietro e tien lo viso chiuso;   10, 4
ché se ’l Gorgón si mostra e tu ’l vedessi,
nulla sarebbe di tornar mai suso ».   [57]
Così disse ’l maestro; ed elli stessi
mi volse, e non si tenne a le mie mani,
che con le sue ancor non mi chiudessi.   [60]  10, 4
O voi ch’avete li ’ntelletti sani,   13, 9
mirate la dottrina che s’asconde
sotto ’l velame de li versi strani.   [63]   10, 7; 5, 1
E già venìa su per le torbide onde   6, 12-14
un fracasso d’un suon, pien di spavento,   9, 9
per cui tremavano amendue le sponde,   [66]   10, 3
non altrimenti fatto che d’un vento   12, 18
impetüoso per li avversi ardori,   10, 2
che fier la selva e sanz’ alcun rattento   [69]   9, 14
li rami schianta, abbatte e porta fori;
dinanzi polveroso va superbo,   12, 18
e fa fuggir le fiere e li pastori.   [72]   6, 12-14
Li occhi mi sciolse e disse: « Or drizza il nerbo
del viso su per quella schiuma antica
per indi ove quel fummo è più acerbo ».   [75]   9, 2
Come le rane innanzi a la nimica
biscia per l’acqua si dileguan tutte,
fin ch’a la terra ciascuna s’abbica,   [78]
vid’ io più di mille anime distrutte
fuggir così dinanzi ad un ch’al passo   6, 12-14
passava Stige con le piante asciutte.   [81]   9, 14
Dal volto rimovea quell’ aere grasso,   9, 2
menando la sinistra innanzi spesso;
e sol di quell’ angoscia parea lasso.   [84]
Ben m’accorsi ch’elli era da ciel messo,
e volsimi al maestro; e quei fé segno
ch’i’ stessi queto ed inchinassi ad esso.   [87]   19, 10
Ahi quanto mi parea pien di disdegno!   10, 3
Venne a la porta e con una verghetta   2, 1; 11, 1
l’aperse, che non v’ebbe alcun ritegno.[90]9, 14
« O cacciati del ciel, gente dispetta »,   11, 8-9
cominciò elli in su l’orribil soglia,
« ond’ esta oltracotanza in voi s’alletta?   [93]
Perché recalcitrate a quella voglia
a cui non puote il fin mai esser mozzo,
e che più volte v’ha cresciuta doglia?   [96]
Che giova ne le fata dar di cozzo?
Cerbero vostro, se ben vi ricorda,   3, 3
ne porta ancor pelato il mento e ’l gozzo ».   [99]
Poi si rivolse per la strada lorda,
e non fé motto a noi, ma fé sembiante   9, 5-6
d’omo cui altra cura stringa e morda   [102]
che quella di colui che li è davante;
e noi movemmo i piedi inver’ la terra5, 5
sicuri appresso le parole sante.   [105]

Inf. XV

Ora cen porta l’un de’ duri margini;   
6, 8
e ’l fummo del ruscel di sopra aduggia,   9, 1-2
sì che dal foco salva l’acqua e li argini.   [3]
Quali Fiamminghi tra Guizzante e Bruggia,
temendo ’l fiotto che ’nver’ lor s’avventa,   6, 12-17
fanno lo schermo perché ’l mar si fuggia;   [6]   9, 1-2
e quali Padoan lungo la Brenta,
per difender lor ville e lor castelli,
anzi che Carentana il caldo senta:   [9]
a tale imagine eran fatti quelli,
tutto che né sì alti né sì grossi,
qual che si fosse, lo maestro félli.   [12]
Già eravam da la selva rimossi
tanto, ch’i’ non avrei visto dov’ era,
perch’ io in dietro rivolto mi fossi,   [15]
quando incontrammo d’anime una schiera   5, 1
che venian lungo l’argine, e ciascuna           Not. VII
ci riguardava come suol da sera   [18]   3, 3
guardare uno altro sotto nuova luna;   8, 12
e sì ver’ noi aguzzavan le ciglia
come ’l vecchio sartor fa ne la cruna.   [21]  Not. III
Così adocchiato da cotal famiglia,   5, 1
fui conosciuto da un, che mi prese   [5, 2
per lo lembo e gridò: « Qual maraviglia! ». [24]   3, 5
E io, quando ’l suo braccio a me distese,   9, 3
ficcaï li occhi per lo cotto aspetto,
sì che ’l viso abbrusciato non difese   [27]
la conoscenza süa al mio ’ntelletto;
e chinando la mano a la sua faccia,   Not. III; 1, 17
rispuosi: « Siete voi qui, ser Brunetto? ».  [30]   7, 13
E quelli: « O figliuol mio, non ti dispiaccia
se Brunetto Latino un poco teco   6, 8
ritorna ’n dietro e lascia andar la traccia ». [33] 18, 4
I’ dissi lui: « Quanto posso, ven preco;
e se volete che con voi m’asseggia,   Not. V
faròl, se piace a costui che vo seco ».   [36]
« O figliuol », disse, « qual di questa greggia   5, 1
s’arresta punto, giace poi cent’ anni   Not. III
sanz’ arrostarsi quando ’l foco il feggia.   [39]
Però va oltre: i’ ti verrò a’ panni;   3, 5
e poi rigiugnerò la mia masnada,
che va piangendo i suoi etterni danni ».   [42]
Io non osava scender de la strada   3, 5
per andar par di lui; ma ’l capo chino   Not. III
tenea com’ uom che reverente vada.   [45]    19, 10
El cominciò: « Qual fortuna o destino
 anzi l’ultimo dì qua giù ti mena?
 e chi è questi che mostra ’l cammino? ».  [48]   7, 13
« Là sù di sopra, in la vita serena »,
rispuos’ io lui, « mi smarri’ in una valle,   3, 2-3
avanti che l’età mia fosse piena.   [51]
Pur ier mattina le volsi le spalle:   1, 10-11
questi m’apparve, tornand’ ïo in quella,
e reducemi a ca per questo calle ».   [54]
Ed elli a me: « Se tu segui tua stella,   3, 5; 3, 1 
non puoi fallire a glorïoso porto,
se ben m’accorsi ne la vita bella;   [57]
e s’io non fossi sì per tempo morto,
veggendo il cielo a te così benigno,
dato t’avrei a l’opera conforto.   [60]   6, 11
Ma quello ingrato popolo maligno   Not. V
che discese di Fiesole ab antico,
e tiene ancor del monte e del macigno,   [63]
ti si farà, per tuo ben far, nimico;
ed è ragion, ché tra li lazzi sorbi
si disconvien fruttare al dolce fico.  [66] 18, 4; 9, 4 
Vecchia fama nel mondo li chiama orbi;
gent’ è avara, invidiosa e superba:
dai lor costumi fa che tu ti forbi.   [69]
La tua fortuna tanto onor ti serba,
che l’una parte e l’altra avranno fame   9, 5-6
di te; ma lungi fia dal becco l’erba.   [72]   9, 4
Faccian le bestie fiesolane strame   16, 10
di lor medesme, e non tocchin la pianta,   3, 12
s’alcuna surge ancora in lor letame,   [75]
in cui riviva la sementa santa   12, 17
di que’ Roman che vi rimaser quando   Not. V
fu fatto il nido di malizia tanta ».   [78]   Not. V
« Se fosse tutto pieno il mio dimando »,   3, 2
rispuos’ io lui, « voi non sareste ancora
de l’umana natura posto in bando;   [81]
ché ’n la mente m’è fitta, e or m’accora,
la cara e buona imagine paterna
di voi quando nel mondo ad ora ad ora   [84]
m’insegnavate come l’uom s’etterna:
e quant’ io l’abbia in grado, mentr’ io vivo
convien che ne la mia lingua si scerna.   [87]
Ciò che narrate di mio corso scrivo,   1, 3
e serbolo a chiosar con altro testo   1, 3 (3, 3)
a donna che saprà, s’a lei arrivo.   [90]
Tanto vogl’ io che vi sia manifesto,
pur che mia coscïenza non mi garra,   6, 11
ch’a la Fortuna, come vuol, son presto.   [93]
Non è nuova a li orecchi miei tal arra:
però giri Fortuna la sua rota   9, 9
come le piace, e ’l villan la sua marra ».   [96]
Lo mio maestro allora in su la gota
destra si volse in dietro e riguardommi;
poi disse: « Bene ascolta chi la nota ». [99] 1, 3; 3, 4
Né per tanto di men parlando vommi
con ser Brunetto, e dimando chi sono   7, 13
li suoi compagni più noti e più sommi[102] 3, 4-5
Ed elli a me: « Saper d’alcuno è buono;
de li altri fia laudabile tacerci,
ché ’l tempo saria corto a tanto suono.   [105]
In somma sappi che tutti fur cherci   9, 1-2
e litterati grandi e di gran fama,   3, 1.5
d’un peccato medesmo al mondo lerci.   [108]
Priscian sen va con quella turba grama,   7, 9
e Francesco d’Accorso anche; e vedervi,
s’avessi avuto di tal tigna brama,   [111]
colui potei che dal servo de’ servi
fu trasmutato d’Arno in Bacchiglione,
dove lasciò li mal protesi nervi.   [114]   5, 5
Di più direi; ma ’l venire e ’l sermone
più lungo esser non può, però ch’i’ veggio          9, 1-2
là surger nuovo fummo del sabbione[117]  12, 18
Gente vien con la quale esser non deggio.   7, 9.13
Sieti raccomandato il mio Tesoro,   3, 5
nel qual io vivo ancora, e più non cheggio ».   [120]
Poi si rivolse, e parve di coloro
che corrono a Verona il drappo verde
per la campagna; e parve di costoro
quelli che vince, non colui che perde.   [124]

Inf. XVI

Già era in loco onde s’udia ’l rimbombo
de l’acqua che cadea ne l’altro giro,
simile a quel che l’arnie fanno rombo,   [3]   9, 9
quando tre ombre insieme si partiro,   9, 12
correndo, d’una torma che passava
sotto la pioggia de l’aspro martiro.   [6]
Venian ver’ noi, e ciascuna gridava:
« Sòstati tu ch’a l’abito ne sembri   16, 10
essere alcun di nostra terra prava ».   [9]
Ahimè, che piaghe vidi ne’ lor membri,   9, 5-6
ricenti e vecchie, da le fiamme incese!
Ancor men duol pur ch’i’ me ne rimembri.   [12]
A le lor grida il mio dottor s’attese;
volse ’l viso ver’ me, e « Or aspetta »,   6, 11
disse, « a costor si vuole esser cortese.   [15]
E se non fosse il foco che saetta
la natura del loco, i’ dicerei
che meglio stesse a te che a lor la fretta ».   [18]
Ricominciar, come noi restammo, ei   Not. III
l’antico verso; e quando a noi fuor giunti,
fenno una rota di sé tutti e trei.   [21]   9, 9; 9, 12
Qual sogliono i campion far nudi e unti,
avvisando lor presa e lor vantaggio,
prima che sien tra lor battuti e punti,   [24]
così rotando, ciascuno il visaggio   9, 9
drizzava a me, sì che ’n contraro il collo
faceva ai piè continüo vïaggio.   [27]
E « Se miseria d’esto loco sollo   12, 18
rende in dispetto noi e nostri prieghi »,
cominciò l’uno, « e ’l tinto aspetto e brollo,   [30]
la fama nostra il tuo animo pieghi   3, 1.5
a dirne chi tu se’, che i vivi piedi
così sicuro per lo ’nferno freghi.   [33]   6, 11
Questi, l’orme di cui pestar mi vedi,
tutto che nudo e dipelato vada,
fu di grado maggior che tu non credi:   [36]
nepote fu de la buona Gualdrada;
Guido Guerra ebbe nome, e in sua vita   3, 1.4.5
fece col senno assai e con la spada.   [39]
L’altro, ch’appresso me la rena trita,   12, 18
è Tegghiaio Aldobrandi, la cui voce
nel mondo sù dovria esser gradita.   [42]
E io, che posto son con loro in croce,   9, 5-6
Iacopo Rusticucci fui, e certo
la fiera moglie più ch’altro mi nuoce ».   [45]
S’i’ fossi stato dal foco coperto,   6, 9.11
gittato mi sarei tra lor di sotto,
e credo che ’l dottor l’avria sofferto;   [48]
ma perch’ io mi sarei brusciato e cotto,
vinse paura la mia buona voglia
che di loro abbracciar mi facea ghiotto.   [51]
Poi cominciai: « Non dispetto, ma doglia
la vostra condizion dentro mi fisse,
tanta che tardi tutta si dispoglia,   [54]   3, 3  
tosto che questo mio segnor mi disse
parole per le quali i’ mi pensai
che qual voi siete, tal gente venisse.   [57]
Di vostra terra sono, e sempre mai
l’ovra di voi e li onorati nomi   3, 1.4.5
con affezion ritrassi e ascoltai.   [60]   1, 3
Lascio lo fele e vo per dolci pomi
promessi a me per lo verace duca;
ma ’nfino al centro pria convien ch’i’ tomi ».   [63]
« Se lungamente l’anima conduca
le membra tue », rispuose quelli ancora,
« e se la fama tua dopo te luca,   [66]   3, 1.5
cortesia e valor dì se dimora
ne la nostra città sì come suole,
o se del tutto se n’è gita fora;   [69]
ché Guiglielmo Borsiere, il qual si duole   9, 5-6
con noi per poco e va là coi compagni,
assai ne cruccia con le sue parole ».   [72]
« La gente nuova e i sùbiti guadagni
orgoglio e dismisura han generata,   Not. XII
Fiorenza, in te, sì che tu già ten piagni ».   [75]
Così gridai con la faccia levata;
e i tre, che ciò inteser per risposta,
guardar l’un l’altro com’ al ver si guata.   [78]   9, 9
« Se l’altre volte sì poco ti costa »,
rispuoser tutti, « il satisfare altrui,
felice te se sì parli a tua posta!   [81]
Però, se campi d’esti luoghi bui
e torni a riveder le belle stelle,   3, 13, 12
quando ti gioverà dicere “I’ fui”,   [84]   1, 18
fa che di noi a la gente favelle ».
Indi rupper la rota, e a fuggirsi   9, 9
ali sembiar le gambe loro isnelle.   [87]
Un amen non saria possuto dirsi
tosto così com’ e’ fuoro spariti;
per ch’al maestro parve di partirsi.   [90]
Io lo seguiva, e poco eravam iti,
che ’l suon de l’acqua n’era sì vicino,   14, 2 (5, 5)
che per parlar saremmo a pena uditi.   [93]
Come quel fiume c’ha proprio cammino   17, 6; 3, 4
prima dal Monte Viso ’nver’ levante,   14, 1
da la sinistra costa d’Apennino,   [96]   Not. VII
che si chiama Acquacheta suso, avante   3, 4
che si divalli giù nel basso letto,   Not. VII
e a Forlì di quel nome è vacante,   [99]   3, 4
rimbomba là sovra San Benedetto
de l’Alpe per cadere ad una scesa   17, 6
ove dovea per mille esser recetto;   [102]   Not. V
così, giù d’una ripa discoscesa,
trovammo risonar quell’ acqua tinta,   14, 2; 17, 3
sì che ’n poc’ ora avria l’orecchia offesa.   [105]
Io avea una corda intorno cinta,   1, 13
e con essa pensai alcuna volta
prender la lonza a la pelle dipinta.   [108]
Poscia ch’io l’ebbi tutta da me sciolta,   20, 1-3
sì come ’l duca m’avea comandato,
porsila a lui aggroppata e ravvolta.   [111]   5, 5
Ond’ ei si volse inver’ lo destro lato,
e alquanto di lunge da la sponda
la gittò giuso in quell’ alto burrato.   [114]
‘E’ pur convien che novità risponda’,   9, 13
dicea fra me medesmo, ‘al novo cenno   1, 14
che ’l maestro con l’occhio sì seconda’.   [117]
Ahi quanto cauti li uomini esser dienno
presso a color che non veggion pur l’ovra,
ma per entro i pensier miran col senno!   [120]
El disse a me: « Tosto verrà di sovra   3, 9; 13, 3
ciò ch’io attendo e che il tuo pensier sogna;   6, 11
tosto convien ch’al tuo viso si scovra ».   [123]
Sempre a quel ver c’ha faccia di menzogna
de’ l’uom chiuder le labbra fin ch’el puote,   10, 4
però che sanza colpa fa vergogna;   [126]
ma qui tacer nol posso; e per le note
di questa comedìa, lettor, ti giuro,   10, 5-7
s’elle non sien di lunga grazia vòte,   [129]   9, 1-2
ch’i’ vidi per quell’ aere grosso e scuro   13, 3
venir notando una figura in suso,
maravigliosa ad ogne cor sicuro,   [132]  13, 3; 6, 11
sì come torna colui che va giuso   3, 12
talora a solver l’àncora ch’aggrappa
o scoglio o altro che nel mare è chiuso,   13, 3
che ’n sù si stende e da piè si rattrappa.   [136]

Terzo ciclo

Inf. XXI

Terzo ciclo

Inf. XXIIXXIII, 1-57

Così di ponte in ponte, altro parlando
che la mia comedìa cantar non cura,
venimmo; e tenavamo ’l colmo, quando   [3]
restammo per veder l’altra fessura   Not. III
di Malebolge e li altri pianti vani;
e vidila mirabilmente oscura.   [6]   9, 1-2
Quale ne l’arzanà de’ Viniziani
bolle l’inverno la tenace pece   9, 17
a rimpalmare i legni lor non sani,   [9]
ché navicar non ponno – in quella vece   9, 3
chi fa suo legno novo e chi ristoppa
le coste a quel che più vïaggi fece;   [12]   Not. VII
chi ribatte da proda e chi da poppa;
altri fa remi e altri volge sarte;
chi terzeruolo e artimon rintoppa -:   [15]
tal, non per foco ma per divin’ arte,   14, 2
bollia là giuso una pegola spessa, 9, 2
che ’nviscava la ripa d’ogne parte.   [18]
I’ vedea lei, ma non vedëa in essa
mai che le bolle che ’l bollor levava,   9, 3
e gonfiar tutta, e riseder compressa.   [21]   Not. XII
Mentr’ io là giù fisamente mirava,
lo duca mio, dicendo « Guarda, guarda! »,
mi trasse a sé del loco dov’ io stava.   [24]
Allor mi volsi come l’uom cui tarda   3, 3
di veder quel che li convien fuggire   6, 14
e cui paura sùbita sgagliarda,   [27]
che, per veder, non indugia ’l partire:
e vidi dietro a noi un diavol nero
correndo su per lo scoglio venire[30]   6, 14
Ahi quant’ elli era ne l’aspetto fero!   9, 11
e quanto mi parea ne l’atto acerbo,
con l’ali aperte e sovra i piè leggero!   [33]   9, 3
L’omero suo, ch’era aguto e superbo,
carcava un peccator con ambo l’anche,
e quei tenea de’ piè ghermito ’l nerbo.   [36]
Del nostro ponte disse: « O Malebranche,   9, 3
ecco un de li anzïan di Santa Zita!
Mettetel sotto, ch’i’ torno per anche   [39]   6, 9.11
a quella terra, che n’è ben fornita:
ogn’ uom v’è  barattier, fuor che Bonturo;   3, 3
del no, per li denar, vi si fa ita ».   [42]
Là giù ’l buttò, e per lo scoglio duro
si volse; e mai non fu mastino sciolto
con tanta fretta a seguitar lo furo.   [45]   3, 3
Quel s’attuffò, e tornò sù convolto;   6, 9.11
ma i demon che del ponte avean coperchio,
gridar: « Qui non ha loco il Santo Volto!   [48]
qui si nuota altrimenti che nel Serchio!
Però, se tu non vuo’ di nostri graffi,
non far sopra la pegola soverchio ».   [51]
Poi l’addentar con più di cento raffi,   9, 8
disser: « Coverto convien che qui balli,
sì che, se puoi, nascosamente accaffi ». [54] 6, 9.11
Non altrimenti i cuoci a’ lor vassalli
fanno attuffare in mezzo la caldaia
la carne con li uncin, perché non galli.   [57]   6, 9.11
Lo buon maestro « Acciò che non si paia
che tu ci sia », mi disse, « giù t’acquatta   6, 9.11
dopo uno scheggio, ch’alcun schermo t’aia;   [60]
e per nulla offension che mi sia fatta,
non temer tu, ch’i’ ho le cose conte,   2, 10
perch’ altra volta fui a tal baratta ».   [63]
Poscia passò di là dal co del ponte;
e com’ el giunse in su la ripa sesta,
mestier li fu d’aver sicura fronte.   [66]   2, 11; 9, 4
Con quel furore e con quella tempesta
ch’escono i cani a dosso al poverello   9, 3
che di sùbito chiede ove s’arresta,   [69]
usciron quei di sotto al ponticello,
e volser contra lui tutt’ i runcigli;
ma el gridò: « Nessun di voi sia fello!   [72]   9, 4
Innanzi che l’uncin vostro mi pigli,
traggasi avante l’un di voi che m’oda,   9, 3
e poi d’arruncigliarmi si consigli ».   [75]
Tutti gridaron: « Vada Malacoda! »;   9, 3
per ch’un si mosse – e li altri stetter fermi –
e venne a lui dicendo: « Che li approda? ».   [78]
« Credi tu, Malacoda, qui vedermi
 esser venuto », disse ’l mio maestro,
 « sicuro già da tutti vostri schermi,   [81]   2, 11
sanza voler divino e fato destro?
Lascian’ andar, ché nel cielo è voluto
ch’i’ mostri altrui questo cammin silvestro ».   [84]
Allor li fu l’orgoglio sì caduto,
ch’e’ si lasciò cascar l’uncino a’ piedi,
e disse a li altri: « Omai non sia feruto ».   [87]   9, 4
E ’l duca mio a me: « O tu che siedi   Not. XII
tra li scheggion del ponte quatto quatto,   6, 9.11
sicuramente omai a me ti riedi ».   [90]   2, 11; 3, 12
Per ch’io mi mossi e a lui venni ratto;
e i diavoli si fecer tutti avanti,
sì ch’io temetti ch’ei tenesser patto;   [93]   Not. VII
così vid’ ïo già temer li fanti
ch’uscivan patteggiati di Caprona,
veggendo sé tra nemici cotanti.   [96]
I’ m’accostai con tutta la persona
lungo ’l mio duca, e non torceva li occhi   6, 5
da la sembianza lor ch’era non buona.   [99]
Ei chinavan li raffi e « Vuo’ che ’l tocchi », Not. III
diceva l’un con l’altro, « in sul groppone? ».   3, 12
E rispondien: « Sì, fa che gliel’ accocchi ». [102]
Ma quel demonio che tenea sermone     [6, 9.11
col duca mio, si volse tutto presto
e disse: « Posa, posa, Scarmiglione! ».   [105]
Poi disse a noi: « Più oltre andar per questo
iscoglio non si può, però che giace
tutto spezzato al fondo l’arco sesto.   [108]
E se l’andare avante pur vi piace,
andatevene su per questa grotta;
presso è un altro scoglio che via face.   [111]   9, 5-6
Ier, più oltre cinqu’ ore che quest’ otta,   9, 5-6
mille dugento con sessanta sei
anni compié che qui la via fu rotta.   [114]   2, 12
Io mando verso là di questi miei
a riguardar s’alcun se ne sciorina;
gite con lor, che non saranno rei ».   [117]   Not. III
« Tra’ti avante, Alichino, e Calcabrina »,   9, 3
cominciò elli a dire, « e tu, Cagnazzo;
e Barbariccia guidi la decina.   [120]  6, 9.11;  2, 10
Libicocco vegn’ oltre e Draghignazzo,
Cirïatto sannuto e Graffiacane   9, 11
e Farfarello e Rubicante pazzo.   [123]
Cercate ’ntorno le boglienti pane;
costor sian salvi infino a l’altro scheggio   2, 1
che tutto intero va sovra le tane ».   [126]
« Omè, maestro, che è quel ch’i’ veggio? »,
diss’ io, « deh, sanza scorta andianci soli,   3, 5
se tu sa’ ir; ch’i’ per me non la cheggio.   [129]
Se tu se’ sì accorto come suoli,
non vedi tu ch’e’ digrignan li denti   9, 8
e con le ciglia ne minaccian duoli? ».   [132]
Ed elli a me: « Non vo’ che tu paventi;   2, 10-11
lasciali digrignar pur a lor senno,
ch’e’ fanno ciò per li lessi dolenti ».   [135]
Per l’argine sinistro volta dienno;
ma prima avea ciascun la lingua stretta   16, 10-11
coi denti, verso lor duca, per cenno;   9, 8
ed elli avea del cul fatto trombetta.   [139]

 

Quarto ciclo

Inf. XXXI

Una medesma lingua pria mi morse,   9, 5
sì che mi tinse l’una e l’altra guancia,
e poi la medicina mi riporse;   [3]   Not. III; 15, 8
così od’ io che solea far la lancia
d’Achille e del suo padre esser cagione
prima di trista e poi di buona mancia.   [6]
Noi demmo il dosso al misero vallone
su per la ripa che ’l cinge dintorno,   22, 2; 20, 8
attraversando sanza alcun sermone.   [9]
Quiv’ era men che notte e men che giorno, Not. VII
sì che ’l viso m’andava innanzi poco;
ma io senti’ sonare un alto corno,   [12]   9, 9
tanto ch’avrebbe ogne tuon fatto fioco,
che, contra sé la sua via seguitando,
dirizzò li occhi miei tutti ad un loco.   [15]
Dopo la dolorosa rotta, quando   2, 12
Carlo Magno perdé la santa gesta,   Not. XIII
non sonò sì terribilmente Orlando.   [18]
Poco portäi in là volta la testa,
che me parve veder molte alte torri;     [Not. XIII
ond’ io: « Maestro, dì, che terra è questa? ».   [21]
Ed elli a me: « Però che tu trascorri  5, 1
per le tenebre troppo da la lungi,   16, 10
avvien che poi nel maginare abborri.    [24]   9, 4
Tu vedrai ben, se tu là ti congiungi,
quanto ’l senso s’inganna di lontano;
però alquanto più te stesso pungi ».   [27]   9, 5
Poi caramente mi prese per mano   1, 17
e disse: « Pria che noi siam più avanti,
acciò che ’l fatto men ti paia strano,   [30]   5, 1
sappi che non son torri, ma giganti,
e son nel pozzo intorno da la ripa   9, 2
da l’umbilico in giuso tutti quanti ».   [33]
Come quando la nebbia si dissipa,
lo sguardo a poco a poco raffigura
ciò che cela ’l vapor che l’aere stipa,   [36]
così forando l’aura grossa e scura,   9, 2
più e più appressando ver’ la sponda,
fuggiemi errore e cresciemi paura;   [39]   9, 4
però che, come su la cerchia tonda
Montereggion di torri si corona,
così  la proda che ’l pozzo circonda    [42]    9, 2
torreggiavan di mezza la persona
li orribili giganti, cui minaccia
Giove del cielo ancora quando tuona.   [45]
E io scorgeva già d’alcun la faccia,
le spalle e ’l petto e del ventre gran parte,   14, 2
e per le coste giù ambo le braccia.   [48]
Natura certo, quando lasciò l’arte
di sì fatti animali, assai fé bene
per tòrre tali essecutori a Marte.   [51]
E s’ella d’elefanti e di balene   13, 1
non si pente, chi guarda sottilmente,   Not. XIII
più giusta e più discreta la ne tene;   [54]
ché dove l’argomento de la mente
s’aggiugne al mal volere e a la possa,
nessun riparo vi può far la gente.   [57]
La faccia sua mi parea lunga e grossa
come la pina di San Pietro a Roma,   Not. XIII
e a sua proporzione eran l’altre ossa;   [60]   18, 7
sì che la ripa, ch’era perizoma   1, 13
dal mezzo in giù, ne mostrava ben tanto   18, 7
di sovra, che di giugnere a la chioma   [63]
tre Frison s’averien dato mal vanto;
però ch’i’ ne vedea trenta gran palmi
dal loco in giù dov’ omo affibbia ’l manto. [66] 1, 13
« Raphèl maì amècche zabì almi »,
 cominciò a gridar la fiera bocca,   9, 17
 cui non si convenia più dolci salmi.   [69]
E ’l duca mio ver’ lui: « Anima sciocca,
tienti col corno, e con quel ti disfoga
quand’ ira o altra passïon ti tocca!   [72]   9, 17
Cércati al collo, e troverai la soga   1, 13
che ’l tien legato, o anima confusa,   9, 17
e vedi lui che ’l gran petto ti doga ».   [75]   1, 13
Poi disse a me: « Elli stessi s’accusa;
questi è Nembrotto per lo cui mal coto
pur un linguaggio nel mondo non s’usa.   [78]
Lasciànlo stare e non parliamo a vòto;
ché così è a lui ciascun linguaggio
come ’l suo ad altrui, ch’a nullo è noto ».   [81]
Facemmo adunque più lungo vïaggio,
vòlti a sinistra; e al trar d’un balestro
trovammo l’altro assai più fero e maggio. [84]9, 11
A cigner lui qual che fosse ’l maestro,   1, 13
non so io dir, ma el tenea soccinto
dinanzi l’altro e dietro il braccio destro   [87] 13, 3
d’una catena che ’l tenea avvinto   20, 1
dal collo in giù, sì che ’n su lo scoperto
si ravvolgëa infino al giro quinto.   [90]   V status
« Questo superbo volle esser esperto
di sua potenza contra ’l sommo Giove »,
disse ’l mio duca, « ond’ elli ha cotal merto.   [93]
Fïalte ha nome, e fece le gran prove   3, 1
quando i giganti fer paura a’ dèi;
le braccia ch’el menò, già mai non move ».[96]13, 3
E io a lui: « S’esser puote, io vorrei
che de lo smisurato Brïareo   6, 5
esperïenza avesser li occhi miei ».   [99]
Ond’ ei rispuose: « Tu vedrai Anteo
presso di qui che parla ed è disciolto,   20, 1-3
che ne porrà nel fondo d’ogne reo.   [102]
Quel che tu vuo’ veder, più là è molto
ed è legato e fatto come questo,   20, 1-3
salvo che più feroce par nel volto ».   [105]
Non fu tremoto già tanto rubesto,   11, 19
che scotesse una torre così forte,
come Fïalte a scuotersi fu presto.   [108]   9, 7
Allor temett’ io più che mai la morte,   9, 5-6
e non v’era mestier più che la dotta,
s’io non avessi viste le ritorte.   [111]   6, 5
Noi procedemmo più avante allotta,
e venimmo ad Anteo, che ben cinque alle,  V status
sanza la testa, uscia fuor de la grotta.   [114]
« O tu che ne la fortunata valle
che fece Scipïon di gloria reda,   19, 16          [19, 11
quand’ Anibàl co’ suoi diede le spalle,   [117]
ecasti già mille leon per preda,   19, 11
e che, se fossi stato a l’alta guerra
de’ tuoi fratelli, ancor par che si creda   [120]
h’avrebber vinto i figli de la terra:
mettine giù, e non ten vegna schifo6, 9.11
dove Cocito la freddura serra.   [123]
Non ci fare ire a Tizio né a Tifo:
questi può dar di quel che qui si brama;    [6, 5
però ti china e non torcer lo grifo.  [126] Not. III
Ancor ti può nel mondo render fama,   3, 1
ch’el vive, e lunga vita ancor aspetta   6, 9.11
se ’nnanzi tempo grazia a sé nol chiama ».   [129]
Così disse ’l maestro; e quelli in fretta
le man distese, e prese ’l duca mio,
ond’ Ercule sentì già grande stretta.   [132]
Virgilio, quando prender si sentio,
disse a me: « Fatti qua, sì ch’io ti prenda »;
poi fece sì ch’un fascio era elli e io.   [135]
Qual pare a riguardar la Carisenda  10, 1  VI status
sotto ’l chinato, quando un nuvol vada   Not. III
sovr’ essa sì, ched ella incontro penda:   [138]
tal parve Antëo a me che stava a bada   Not. III
di vederlo chinare, e fu tal ora   Not. III
ch’i’ avrei voluto ir per altra strada.   [141]
Ma lievemente al fondo che divora   10, 1
Lucifero con Giuda, ci sposò;   Not. XIII
né, sì chinato, lì fece dimora,   Not. III; 3, 5
e come albero in nave si levò.   [145]

Io vidi già cavalier muover campo,
e cominciare stormo e far lor mostra,
e talvolta partir per loro scampo;   [3]   18, 4
corridor vidi per la terra vostra,
o Aretini, e vidi gir gualdane,
fedir torneamenti e correr giostra;   [6]
quando con trombe, e quando con campane,
con tamburi e con cenni di castella,
e con cose nostrali e con istrane;   [9]   5, 1
né già con sì diversa cennamella
cavalier vidi muover né pedoni,
né nave a segno di terra o di stella.   [12]
Noi andavam con li diece demoni.   2, 10
Ahi fiera compagnia! ma ne la chiesa   3, 5; 18, 4
coi santi, e in taverna coi ghiottoni.   [15]
Pur a la pegola era la mia ’ntesa,
per veder de la bolgia ogne contegno
e de la gente ch’entro v’era incesa.   [18]
Come i dalfini, quando fanno segno   Not. XIII
a’ marinar con l’arco de la schiena
che s’argomentin di campar lor legno,   [21]
talor così, ad alleggiar la pena,

mostrav’ alcun de’ peccatori ’l dosso
e nascondea in men che non balena.   [24]   6, 9.11
E come a l’orlo de l’acqua d’un fosso
stanno i ranocchi pur col muso fuori,   Not. XIII
sì che celano i piedi e l’altro grosso,   [27]   6, 9.11
sì stavan d’ogne parte i peccatori;
ma come s’appressava Barbariccia,   6, 9.11
così si ritraén sotto i bollori.   [30]   6, 9.11
I’ vidi, e anco il cor me n’accapriccia,
uno aspettar così, com’ elli ’ncontra 6, 11;Not. XIII
ch’una rana rimane e l’altra spiccia;   [33]   12, 17
e Graffiacan, che li era più di contra,
li arruncigliò le ’mpegolate chiome
e trassel sù, che mi parve una lontra. [36]  Not. XIII
I’ sapea già di tutti quanti ’l nome,   3, 4-5; 7, 3-4
li notai quando fuorono eletti,
e poi ch’e’ si chiamaro, attesi come.   [39]   3, 3
« O Rubicante, fa che tu li metti   6, 9.11
li unghioni a dosso, sì che tu lo scuoi! »,
gridavan tutti insieme i maladetti.   [42]   5, 1
E io: « Maestro mio, fa, se tu puoi,   7, 13-14
che tu sappi chi è lo sciagurato
venuto a man de li avversari suoi ».   [45]
Lo duca mio li s’accostò allato;
domandollo ond’ ei fosse, e quei rispuose:
« I’ fui del regno di Navarra nato.   [48]
Mia madre a servo d’un segnor mi puose,
che m’avea generato d’un ribaldo,
distruggitor di sé e di sue cose.   [51]
Poi fui famiglia del buon re Tebaldo;
quivi mi misi a far baratteria,
di ch’io rendo ragione in questo caldo ».   [54]
E Cirïatto, a cui di bocca uscia
d’ogne parte una sanna come a porco,   9, 11
li fé sentir come l’una sdruscia.   [57]
Tra male gatte era venuto ’l sorco;
ma Barbariccia il chiuse con le braccia   9, 3
e disse: « State in là, mentr’ io lo ’nforco ».   [60]
E al maestro mio volse la faccia;
« Domanda », disse, « ancor, se più disii
saper da lui, prima ch’altri ’l disfaccia ».   [63]
Lo duca dunque: « Or dì: de li altri rii
conosci tu alcun che sia latino   12, 17
sotto la pece? ». E quelli: « I’ mi partii, [66]   6, 9.11
poco è, da un che fu di là vicino.   12, 17
Così foss’ io ancor con lui coperto,   6, 9.11
ch’i’ non temerei unghia né uncino! ».   [69]
E Libicocco « Troppo avem sofferto »,   6, 9.11
disse; e preseli ’l braccio col runciglio,
sì che, stracciando, ne portò un lacerto.   [72]
Draghignazzo anco i volle dar di piglio
giuso a le gambe; onde ’l decurio loro   7, 3
si volse intorno intorno con mal piglio.   [75]
Quand’ elli un poco rappaciati fuoro,   Not. IX
a lui, ch’ancor mirava sua ferita,
domandò ’l duca mio sanza dimoro:   [78]
« Chi fu colui da cui mala partita   7, 13-14
di’ che facesti per venire a proda? ».
Ed ei rispuose: « Fu frate Gomita,   [81]
quel di Gallura, vasel d’ogne froda,   12, 17
ch’ebbe i nemici di suo donno in mano,
e fé sì lor, che ciascun se ne loda.   [84]
Danar si tolse e lasciolli di piano,
sì com’ e’ dice; e ne li altri offici anche
barattier fu non picciol, ma sovrano.   [87]
Usa con esso donno Michel Zanche
di Logodoro; e a dir di Sardigna    2, 1
le lingue lor non si sentono stanche.   [90]   6, 8
Omè, vedete l’altro che digrigna;
i’ direi anche, ma i’ temo ch’ello
non s’apparecchi a grattarmi la tigna ».   [93]
E ’l gran proposto, vòlto a Farfarello
che stralunava li occhi per fedire,   [Not. XIII
disse: « Fatti ’n costà, malvagio uccello! ».   [96]
« Se voi volete vedere o udire »,
ricominciò lo spaürato appresso,
« Toschi o Lombardi, io ne farò venire;   [99]
ma stieno i Malebranche un poco in cesso,
sì ch’ei non teman de le lor vendette;
e io, seggendo in questo loco stesso, [102]  Not. XII
per un ch’io son, ne farò venir sette
quand’ io suffolerò, com’ è nostro uso
di fare allor che fori alcun si mette ».   [105]
Cagnazzo a cotal motto levò ’l muso,
crollando ’l capo, e disse: « Odi malizia   9, 3
ch’elli ha pensata per gittarsi giuso! ».   [108]
Ond’ ei, ch’avea lacciuoli a gran divizia,
rispuose: « Malizioso son io troppo,   9, 3
quand’ io procuro a’ mia maggior trestizia ».   [111]
Alichin non si tenne e, di rintoppo    [6, 9.11
a li altri, disse a lui: « Se tu ti cali,   V status
io non ti verrò dietro di gualoppo,   [114]
ma batterò sovra la pece l’ali.
Lascisi ’l collo, e sia la ripa scudo,   6, 9.11
a veder se tu sol più di noi vali ».   [117]
O tu che leggi, udirai nuovo ludo:
ciascun da l’altra costa li occhi volse,   Not. VII
quel prima, ch’a ciò fare era più crudo.   [120]   9, 8
Lo Navarrese ben suo tempo colse;   [Not. VIII
fermò le piante a terra, e in un punto   9, 3
saltò e dal proposto lor si sciolse.   [123]   9, 1-2
Di che ciascun di colpa fu compunto,   9, 5-6
ma quei più che cagion fu del difetto;   12, 3
però si mosse e gridò: « Tu se’ giunto! ».   [126]
Ma poco i valse: ché l’ali al sospetto   9, 3
non potero avanzar; quelli andò sotto,   6, 9.11
e quei drizzò volando suso il petto:   [129]
non altrimenti l’anitra di botto,   Not. XIII
quando ’l falcon s’appressa, giù s’attuffa,   6, 9.11
ed ei ritorna sù crucciato e rotto.   [132]   9, 5-6
Irato Calcabrina de la buffa,   9, 5-6   [2, 12
volando dietro li tenne, invaghito   9, 3; 5, 1
che quei campasse per aver la zuffa;   [135]   9, 7
e come ’l barattier fu disparito,
così volse li artigli al suo compagno,
e fu con lui sopra ’l fosso ghermito.   [138]
Ma l’altro fu bene sparvier grifagno   Not. XIII
ad artigliar ben lui, e amendue
cadder nel mezzo del bogliente stagno.   [141]
Lo caldo sghermidor sùbito fue;
ma però di levarsi era neente,   9, 3
sì avieno inviscate l’ali sue.   [144]
Barbariccia, con li altri suoi dolente,
quattro ne fé volar da l’altra costa   9, 3; Not. VII
con tutt’ i raffi, e assai prestamente   [147]   9, 7
di qua, di là discesero a la posta;
porser li uncini verso li ’mpaniati,
ch’eran già cotti dentro da la crosta.
E noi lasciammo lor così ’mpacciati.   [151]

Inf. XXIII, 1-57

Taciti, soli, sanza compagnia   3, 5
n’andavam l’un dinanzi e l’altro dopo,
come frati minor vanno per via.   [3]
Vòlt’ era in su la favola d’Isopo
lo mio pensier per la presente rissa,   9, 7
dov’ el parlò de la rana e del topo;   [6]
ché più non si pareggia ‘mo’ e ‘issa’
che l’un con l’altro fa, se ben s’accoppia
principio e fine con la mente fissa.   [9]
E come l’un pensier de l’altro scoppia,
così nacque di quello un altro poi,
che la prima paura mi fé doppia.   [12]
Io pensava così: ‘Questi per noi
sono scherniti con danno e con beffa   9, 5-6
sì fatta, ch’assai credo che lor nòi.   [15]
Se l’ira sovra ’l mal voler s’aggueffa,   6, 12-17
ei ne verranno dietro più crudeli   9, 8
che ’l cane a quella lievre ch’elli acceffa’.   [18]
Già mi sentia tutti arricciar li peli   6, 14
de la paura e stava in dietro intento,   6, 12-17
quand’ io dissi: « Maestro, se non celi   [21]
te e me tostamente, i’ ho pavento
d’i Malebranche. Noi li avem già dietro;
io li ’magino sì, che già li sento ».   [24]
E quei: « S’i’ fossi di piombato vetro,
l’imagine di fuor tua non trarrei
più tosto a me, che quella dentro ’mpetro.   [27]
Pur mo venieno i tuo’ pensier tra ’ miei,
con simile atto e con simile faccia,
sì che d’intrambi un sol consiglio fei.   [30]
S’elli è che sì la destra costa giaccia,   Not. VII
che noi possiam ne l’altra bolgia scendere,
noi fuggirem l’imaginata caccia ».   [33]   6, 12-17
Già non compié di tal consiglio rendere,
ch’io li vidi venir con l’ali tese
non molto lungi, per volerne prendere.   [36]
Lo duca mio di sùbito mi prese,   16, 15; 3, 3
come la madre ch’al romore è desta   5, 1
e vede presso a sé le fiamme accese,   [39]
che prende il figlio e fugge e non s’arresta,   6, 12-17
avendo più di lui che di sé cura,
tanto che solo una camiscia vesta;   [42]
e giù dal collo de la ripa dura
supin si diede a la pendente roccia,   Not. III
che l’un de’ lati a l’altra bolgia tura.   [45]
Non corse mai sì tosto acqua per doccia
a volger ruota di molin terragno,
quand’ ella più verso le pale approccia,   [48]
come ’l maestro mio per quel vivagno,
portandosene me sovra ’l suo petto,
come suo figlio, non come compagno.   [51]   5, 1
A pena fuoro i piè suoi giunti al letto
del fondo giù, ch’e’ furon in sul colle   6, 12-17
sovresso noi; ma non lì era sospetto:   [54]
ché l’alta provedenza che lor volle
porre ministri de la fossa quinta,
poder di partirs’ indi a tutti tolle.   [57]   9, 14

 

Introduzione

Inf. XXXI è tutto pervaso da temi del quinto stato, prosecuzione di quelli già presenti in Inf. XXX e, in parte, nel precedente XXIX. Il canto si apre con un riferimento al tema del mordere, dalla quinta tromba (v. 1; mordere è proprio delle locuste che causano il “remorsus conscientie”, Ap 9, 5), e a quello della medicina (v. 3), dal Notabile III del prologo (nel quinto stato la cura d’anime insiste di più sull’estirpare il morbo con la medicina; cfr. Ap 15, 8) [1]. L’ora – “Quiv’ era men che notte e men che giorno” (v. 10) – è la stessa del quinto stato, che si svolge nel vespro (prologo, Notabile VII). Il pozzo dentro e attorno al quale torreggiano i giganti è tema della quinta tromba, come pure l’aura grossa e scura stipata di vapore (vv. 32.37, Ap 9, 2; fanno da contrappunto, al v. 8, motivi della settima visione: Ap 22, 2 [ripa], 20, 8 [l cinge dintorno]) [2]. La natura, che non si pente di produrre ancora elefanti e balene, ha però smesso l’arte di generare possenti animali come i giganti (vv. 52-53): i versi contengono i temi della penitenza, il sacramento che si addice al quinto stato, e dei pesci bestiali creati nel quinto giorno (prologo, Notabile XIII; Ap 13, 1) [3]. Fialte è avvolto dalla catena, sulla parte scoperta del corpo, “infino al giro quinto” (vv. 88-90); Anteo, che nel chinarsi pendendo sul fondo dell’inferno incarna il tema della condescensione tipica del quinto periodo (cfr. infra), è invece sciolto e esce fuori della roccia per “cinque alle”, senza la testa (vv. 113-114). Fialte, nel suo scuotersi presto e forte, registra in sé motivi della quinta tromba appropriati alle locuste animose e forti (Ap 9, 7), insieme al tema del terremoto (Ap 11, 19). Come pure all’esegesi della quinta tromba, e precisamente alla proprietà delle locuste di avere la “vox rotarum” (Ap 9, 9), cioè la voce di sentenze altissime e volanti sopra le altre che formano come il suono di ruote e di eserciti tumultuosi correnti in guerra contro ogni sentenza contraria, per quanto vera, è da connettere la terzina che descrive il suono del corno di Nembrot (vv. 12-15).
Questa strana terra, tenebrosa come la sede della bestia (v. 23; quinta coppa, Ap 16, 10), è per alcuni aspetti riconducibile ai motivi propri di quella sede di Pietro alla quale Carlo Magno (che però in questo caso è colui che “perdé la santa gesta”) ha raccolto, riparandole, le reliquie della Chiesa (prologo, Notabile XIII). Nembrot ha la faccia “lunga e grossa / come la pina di San Pietro a Roma” [4], sulla quale sono proporzionate le altre parti del corpo (vv. 58-60): l’inciso “e a sua proporzione” pare un calco su “secundum proportionem suarum virium” dal Notabile III del prologo, dove l’espressione è riferita all’essere proprio del quinto stato il ricevere le moltitudini in modo proporzionato alle capacità di ciascuno (cfr. Ap 18, 7). Fialte e Anteo sono segnati dai temi del nome e della fama, tipici della quinta chiesa (Ap 3, 1). Fialte è “fero” come il re delle locuste (v. 84, quinta tromba; Ap 9, 11). Queste, pungendo, inoculano timore e dubbio, proprio di Dante nel vedere il gigante (vv. 109-111; Ap 9, 5-6).
Il passaggio al sesto stato, anticipato nello scuotersi di Fialte dal tema del terremoto, assimilabile a quello che si verifica all’apertura del sesto sigillo (vv. 106-107; Ap 11, 19) e anche dal tema dello straniarsi, ai versi 21, 23, 26, 30,  applicato al falso immaginare fondato sulla conoscenza sensibile (l’“extraneitas” è causa della chiusura del sesto sigillo: Ap 5, 1), è sottolineato in Anteo, sciolto come gli angeli al suono della sesta tromba (Ap 9, 14) e segnato da temi della sesta visione e dell’angelo dalla faccia solare.

[1] “così od’ io che solea far la lancia / d’Achille e del suo padre esser cagione / prima di trista e poi di buona mancia” (vv. 4-6). La lancia di Achille e del suo padre Peleo, che secondo Ovidio aveva la proprietà di guarire le ferite da lei stessa inferte (Met. XIII, 171-172; Rem. Amoris, 44-48; Trist. V, ii, 15-16), topos letterario per indicare gli effetti delle piaghe d’amore,  è antica prefigurazione della lancia di Longino, che trafisse con dolore il costato di Cristo provocando la morte ma al tempo stesso la salvezza dell’umanità. Così Olivi nella Lectura super Iohannem, cap. XIX: “[…] sic dolor et pena passionis letalis, mortem causantis et inducentis, fuit in ratione meriti principalior causa nostre salutis, quam fuerit privatio, que dicitur mors, subsequens totam passionem factam” (cfr. P. I. OLIVI Postilla in Ioannem, cap. 19, v. 33, ed. V. DOUCET, De operibus manuscriptis fr. Petri Ioannis Olivi in Bibliotheca Universitatis Patavinae asservatis, in “Archivum Franciscanum Historicum”, 28 (1935), pp. 436-441). Contro la dottrina ufficiale (riaffermata ad esempio da Tommaso d’Aquino), Olivi sosteneva che la lanceatio causò la morte di Cristo e non avvenne dopo questa.

[2] Noi demmo il dosso al misero vallone / su per la ripa che ’l cinge dintorno” (vv. 7-8). Per altri (cfr. Inglese): ch’el cinge, nel senso che il vallone cinge la ripa, in quanto la bolgia ha un diametro maggiore del suo margine interno. Ma nella descrizione iniziale di Malebolge le “dieci valli” si collocano “tra ’l pozzo e ’l piè de l’alta ripa dura”, ripa (il margine superiore) che pertanto le cinge (Inf. XVIII, 7-9).

[3] La natura, che segue l’arte divina le cui opere, in ciascuna parte, sono come le corde di una cetra (Ap 14, 2; da notare la rima parte / arte ai vv. 47.49), ha smesso di creare giganti, si è fatta più discreta come le virtù incise sugli stipiti angolari della Gerusalemme celeste (Ap 21, 12: sottilmente, discreta). Gli angoli congiungono e rafforzano, ma malamente per i giganti: “ché dove l’argomento de la mente / s’aggiugne al mal volere e a la possa, (cfr. Ap 6, 3) / nessun riparo vi può far la gente”.

[4] Carlo Magno, citato al v. 17, fu colui che in seguito alle devastazioni dei Saraceni raccolse la Chiesa sulla terra latina difendendola dai Longobardi; da allora, come quando nell’Antico Testamento il popolo di Giuda tornò a Gerusalemme devastata dai Caldei e dagli Assiri, fu in parte debellata l’eresia idolatra: “nec ex tunc pullulavit in eis spina idolatrie sicut ante” (prologo, Notabile XIII). La faccia di Nembrot “mi parea lunga e grossa / come la pina di San Pietro a Roma” (vv. 58-59), vero memoriale pagano. La sede di Pietro è depositaria dell’unica vera lingua (cioè della vera fede), quella che rimase nella casa di Eber presso gli Ebrei e di qui passò con Cristo a san Pietro (prologo, Notabile XIII). L’espressione “nessun riparo vi può far la gente” (v. 57) rivia ad Ap 17, 18, luogo dove Olivi si domanda se Roma, la sede di Pietro, torni a essere tale, riparata dopo la sconfitta dell’Anticristo.

 1. I giganti

ma io senti’ sonare un alto corno (v. 12). La settima proprietà delle locuste è il rombo delle ali pari al rombo dei carri da guerra che corrono tirati da molti cavalli. Si tratta del suono di un volo tumultuoso e impetuoso, come di quadrighe. Le ali stridono e rugghiano quando vengono al conflitto (nella seconda fase, intermedia, del quinto stato, segnata da “Manichei”, cioè Catari, e Valdesi), e designano il disseminare parole per superare con esse tutto quello che non si può vincere con la ragione. Le loro sentenze, che presumono altissime e volanti sopra le altre, formano come il suono di ruote e di eserciti tumultuosi che corrono in guerra contro ogni sentenza contraria, per quanto vera (Ap 9, 9).
Una variazione del tema della “vox alarum” è nell’alto suono del corno udito da Dante nell’approssimarsi al pozzo dei giganti (Inf. XXXI, 12-15). Il suono, tanto alto che avrebbe reso fioco qualsiasi tuono, fa drizzare lo sguardo del poeta verso un punto, seguendone la direzione in senso contrario. L’essere contrario, che nell’esegesi è proprio della “vox rotarum”, è attribuito, in Inf. XVI e XXXI, a colui che vede (i singoli tre fiorentini nel primo caso, Dante nel secondo). Ciò è proprio del procedere del poeta, che scompone gli elementi semantici dell’esegesi per riappropriarli liberamente a nuove situazioni. Il gigante Nembrot – “anima confusa”, come gli dice Virgilio -, con la costruzione della torre di Babele fu causa della confusione delle lingue; drizzare gli occhi in senso contrario al suono del corno (“contra sé la sua via seguitando”) indica il contrastare la confusione da parte dell’unica vera e recta lingua, quella che rimase nella casa di Eber e presso gli Ebrei e da questi passò con Cristo a san Pietro (prologo, Notabile XIII).
Un confronto tra i versi relativi al corno di Nembrot e quelli contenenti le parole pronunciate da Beatrice nell’Eden dopo la confessione di Dante (Purg. XXXI, 40-48) mostra come lo stesso materiale esegetico, con i temi della ruota e della contrarietà, possa essere ‘torto’ a differenti situazioni. In questo caso l’ammissione di colpa, per la quale il poeta riconosce di essersi mosso “in contraria parte”, fa rivolgere “la rota” (la mola) “sé contra ’l taglio”, smussando la spada della giustizia divina.
Inf. XXXI si colloca topograficamente tra il quinto e il sesto stato del quarto ciclo settenario della prima cantica; si registrano tuttavia sviluppi tematici del terzo stato, il periodo nel quale i dottori della Chiesa confutarono le eresie, rompendole con la spada della parola e mettendo in fuga l’errore. La sonante tromba dei dottori (prologo, Notabile I) e la terribile confutazione della dottrina erronea (Ap 2, 12, terza chiesa) si ritrovano, inversamente appropriati, nel suonare dell’alto corno di Nembrot, più terribile del suono del corno di Orlando dopo la “dolorosa rotta” (tema della “rumphea”, la spada data ai dottori) a Roncisvalle, “quando / Carlo Magno perdé la santa gesta” (vv. 16-18). Il canto è punteggiato da altra tematica del terzo stato: all’esegesi del terzo sigillo, dove si tratta della bilancia che misura il dritto o torto intendimento della Scrittura (Ap 6, 5) rinviano smisurato (riferito a Briareo, v. 98), ritorte (a Fialte, v. 111), torcer (ad Anteo, v. 126); l’esperienza, tipica del terzo periodo, è appropriata a Dante (Ap 2, 1).

Poco portäi in là volta la testa, / che me parve veder molte alte torri; / ond’ io: “Maestro, dì, che terra è questa?” (vv. 19-21). Al suonare dell’alto corno di Nembrot, il poeta crede di vedere “molte alte torri”, ma Virgilio gli spiega, “acciò che ’l fatto men ti paia strano” che, poiché “’l senso s’inganna di lontano”, egli male discerne (“nel maginare abborri”) scambiando per torri quelli che sono giganti. Man mano che s’avvicina e vede meglio come per nebbia che si dissipa, in Dante fugge l’errore e cresce la paura (Inf. XXXI, 19-39). “Lontano” rima con “strano” (vv. 26.30): entrambi i termini si trovano nell’esegesi ad Ap 5, 1, il cui tema principale, ora taciuto, è il vagheggiare. La stessa domanda di Dante – “Maestro, dì, che terra è questa?” (v. 21) – ricorda quella di Baruc 3, 10: “Quid est, Israel, quod in terra inimicorum es?”.

Ed elli a me: Però che tu trascorri / per le tenebre troppo da la lungi, / avvien che poi nel maginare abborri” (vv. 22-24). I dottori del terzo stato conseguono la terza vittoria confutando l’erroneo immaginare fondato sui sensi (Ap 2, 17). La falsa immagine delle torri anticipa l’incontro con Nembrot, il superbo costruttore della torre di Babele che causò la confusione e la divisione delle lingue (Virgilio lo chiama “anima confusa”, v. 74), tema che il Notabile XIII del prologo appropria al terzo stato.
Ap 2, 17 interviene anche a Purg. XXIX, 43-51, allorché Dante crede di vedere “sette alberi d’oro” e sente cantare indistinte voci: “ma quand’ i’ fui sì presso di lor fatto, / che l’obietto comun, che ’l senso inganna, / non perdea per distanza alcun suo atto, / la virtù ch’a ragion discorso ammanna / sì com’ elli eran candelabri apprese, / e ne le voci del cantare ‘Osanna’”. Da notare “ammanna”, signaculum della terza vittoria, conseguita con la ragione (la quale opera sull’oggetto appreso nella sua essenza dalla virtù intellettiva) sui sensi (i sensibili comuni, cioè le qualità degli oggetti che si percepiscono con più di un senso; cfr. infra).
Alla quinta tromba rinviano abborri e fuggiemi (vv. 24.39; Ap 9, 4, il secondo caso contaminato con Ap 2, 17) nonché pungi  (v. 27; Ap 9, 5); al versamento della settima coppa Come quando la nebbia si dissipa … l vaporl’aere (vv. 34.36; Ap 16, 17; cfr. Inf. XXXIII, 103.105; XXXIV, 4; Purg. XVII, 2.4.5).

Poi caramente mi prese per mano (v. 28). Virgilio è di conforto al discepolo nel metterlo “dentro a le segrete cose”; l’atto ripete la dodicesima prerogativa di Cristo in quanto sommo pastore (Ap 1, 17): «E poi che la sua mano a la mia puose / con lieto volto, ond’ io mi confortai – Duodecima est humiliatorum et tremefactorum familiaris confortatio et sublevatio … ideo pro primo dicit: “et posuit dexteram suam super me”, pro secundo autem subdit: “dicens: noli timere”» (Inf. III, 19-21; cfr. XIII, 130) Così di fronte a quelle che a Dante sembrano torri e invece sono giganti: “Poi caramente mi prese per mano(XXXI, 28).

Tab. I

[LSA, cap. II, Ap 2, 12 (Ia visio, III ecclesia)] Hiis autem premittuntur duo, scilicet preceptum de scribendo hec sibi et introductio Christi loquentis, cum subdit (Ap 2, 12): “Hec dicit qui habet rumpheam”, id est spatam, “ex utraque parte acutam”. Hec congruit ei, quod infra dicit: “pugnabo cum illis in gladio oris mei” (Ap 2, 16). Unde contra doctores pestiferos erronee doctrine et secte ingerit se ut terribilem confutatorem et condempnatorem ipsorum per incisivam doctrinam et condempnativam sententiam oris sui. Dicit autem “ex utraque parte”, non solum quia absque acceptione personarum omnia vitia scindit et resecat vel condempnat, sed etiam quia contrarios errores destruit. Arrius enim, quasi ex uno latere, errat dicendo Dei Filium esse substantialiter diversum a Patre tamquam eius creaturam. Sabellius vero, quasi ab opposito latere, dicit quod eadem persona est Pater et Filius. Fides autem Christi utrumque scindit et resecat.

[LSA, prologus, Notabile I (III status)] Tertius (status) est confessorum seu doctorum, homini rationali appropriatus. […] In tertio (statu) sonus predicationis seu eruditionis et tuba magistralis.

[LSA, prologus, Notabile XIII (V status)] Sicut etiam in quinta etate, destructa Iudea et Iherusalem per Caldeos et prius decem tribubus per Assirios, restitutus est populus Iuda in terram suam, nec ex tunc pullulavit in eis spina idolatrie sicut ante, sic destructis orientalibus ecclesiis per Sarracenos et latina ecclesia fere vastata per eos et etiam per Longobardos prius paganos et factos postmodum arrianos, restitutus est latinus populus per Karolum imperantem, nec ex tunc idola <priorum> magnarum heresum inundaverunt in eis sicut inundaverunt ante, quamvis sicut tunc circa finem fuit secta heresis Saduceorum, sic circa finem huius quinti temporis <serpit> secta heresis Manicheorum.

Inf. XXXI, 16-39, 58-60, 73-78

Dopo la dolorosa rotta, quando
Carlo Magno perdé la santa gesta,
non sonòterribilmente Orlando.
Poco portäi in là volta la testa,
che me parve veder molte alte torri;
ond’ io: “Maestro, dì, che terra è questa?”.
Ed elli a me: “Però che tu trascorri
per le tenebre troppo da la lungi,
avvien che poi nel maginare abborri.
Tu vedrai ben, se tu là ti congiungi,
quanto ’l senso s’inganna di lontano;
però alquanto più te stesso pungi”.
Poi caramente mi prese per mano
e disse: “Pria che noi siam più avanti,
acciò che ’l fatto men ti paia strano,
sappi che non son torri, ma giganti,
e son nel pozzo intorno da la ripa
da l’umbilico in giuso tutti quanti”.
Come quando la nebbia si dissipa,
lo sguardo a poco a poco raffigura
ciò che cela ’l vapor che l’aere stipa,
così forando l’aura grossa e scura,
più e più appressando ver’ la sponda,
fuggiemi errore e cresciemi paura

La faccia sua mi parea lunga e grossa
come la pina di San Pietro a Roma,
e a sua proporzione eran l’altre ossa

“Cércati al collo, e troverai la soga
che ’l tien legato, o anima confusa,
e vedi lui che ’l gran petto ti doga”.
Poi disse a me: “Elli stessi s’accusa;
questi è Nembrotto per lo cui mal coto
pur un linguaggio nel mondo non s’usa”.

Purg. XVII, 1-6

Ricorditi, lettor, se mai ne l’alpe
ti colse nebbia per la qual vedessi
non altrimenti che per pelle talpe,
come, quando i vapori umidi e spessi
a diradar cominciansi, la spera
del sol debilemente entra per essi

[LSA, cap. XVI, Ap 16, 17 (Va visio, VII phiala)] Et sicut aer purgatus a grossis et fumosis vaporibus et nubibus et tranquillatus a ventorum tempestatibus est pervius radiis solis et stellarum et visui hominum, sic septimus status ecclesie, post plenam sui purga-tionem in effusione septime phiale consumandam, erit serenus et tranquillus […].

Inf. XXXIII, 103-105

già mi parea sentire alquanto vento;
per ch’io: “Maestro mio, questo chi move?
non è qua giù ogne vapore spento?”.

[LSA, prologus, Notabile XIII (III status)] Sicut etiam tunc propter superbiam turris Babel confuse et divise sunt lingue, remanente recta et prima lingua in domo Heber et Hebreorum, ac deinde linguis ceteris in idolatriam demonum ruentibus in sola domo Abraam fides et cultus unius veri Dei remansit, sic propter superbiam plurium ad fidem introductorum lingua et confessio unius vere fidei Christi est in plures hereses divisa et confusa, remanente prima et vera lingua et confessione fidei in domo Petri.

[LSA, cap. II, Ap 2, 1] (III) Tertium (exercitium) est discretio prudentie ex temptamentorum experien-tiis, et exercitiis acquisita providens conferentia et excludens stulta et erronea.

[LSA, cap. II, Ap 2, 17; Ia visio, III victoria] Tertia est victoriosus ascensus super phantasmata suo-rum sensuum, quorum sequela est causa errorum et heresum. Hic autem ascensus fit per prudentiam effugantem illorum nubila et errores ac impetus precipites et temerarios ac tempestuosos. Hoc autem competit doctoribus phantasticos hereticorum erro-res expugnantibus, quibus et competit premium singularis apprehensionis et degustationis archane sapientie Dei, de quo tertie ecclesie dicitur: “Vincenti dabo manna absconditum, et dabo ei calculum lucidum, et in calculo nomen novum scriptum, quod nemo novit, nisi qui accipit” (Ap 2, 17).

Inf. XXXIV, 1-6, 106-108

Vexilla regis prodeunt inferni
 verso di noi; però dinanzi mira”,
 disse ’l maestro mio, “se tu ’l discerni”.
Come quando una grossa nebbia spira,
o quando l’emisperio nostro annotta,   6, 5
par di lungi un molin che ’l vento gira   11, 6 

Ed elli a me: “Tu imagini ancora
d’esser di là dal centro, ov’ io mi presi
al pel del vermo reo che ’l mondo fóra”.

Purg. XXIX, 43-51

Poco più oltre, sette alberi d’oro
falsava nel parere il lungo tratto
del mezzo ch’era ancor tra noi e loro;
ma quand’ i’ fui sì presso di lor fatto,
che l’obietto comun, che ’l senso inganna,
non perdea per distanza alcun suo atto,
la virtù ch’a ragion discorso ammanna,
sì com’ elli eran candelabri apprese,
e ne le voci del cantare ‘Osanna’.

[LSA, cap. IX, Ap 9, 4 (IIIa visio, V tuba)] Hec autem sunt adhuc quasi seminaliter et initialiter cum continuo tamen augmento; consumabuntur autem in fine, quando publice Christi vitam et spiritum in viris spiritualibus acerrime impugnabunt et sollempniter condempnabunt, quamvis nec tunc permittantur ledere spiritum perfectorum, nec etiam simplicium virorem vite et spiritus Christi firmiter in se servantium et illorum malitias et errores abhorrentium et fugientium sicut ovicule et agniculi exhorrent et fugiunt lupos (cfr. Ap 9, 4).

però che, come su la cerchia tonda / Montereggion di torri si corona, / così  la proda che ’l pozzo circonda / torreggiavan di mezza la persona / li orribili giganti, cui minaccia / Giove del cielo ancora quando tuona (vv. 40-45). In mezzo e intorno alla sede divina Giovanni vede quattro animali, o meglio quattro esseri viventi, il primo simile a un leone, il secondo a un vitello (o bue), il terzo con l’aspetto di uomo e il quarto simile a un’aquila (Ap 4, 6-7). Si tratta dei quattro animali coronati di verde fronda che nella processione dell’Eden segnano lo spazio entro cui si contiene il carro (Purg. XXIX, 91-108). Questi animali sono presenti anche nella visione di Ezechiele, ma disposti con ordine differente e diversi anche nel numero delle ali per il quale Dante, che ne assegna sei anziché quattro, è con l’autore dell’Apocalisse anziché con l’antico profeta (vv. 103-105).
Gli animali stanno “in mezzo e intorno alla sede”, nel senso che se si colloca un trono rotondo o quadrato sopra quattro animali, questi terranno verso l’interno il tergo e quasi tutto il corpo, in modo da toccare il centro; il capo e la faccia verso l’esterno, in modo da stare intorno, rispettivamente davanti, dietro, a destra e a sinistra.
Questi animali sono il muro che cinge e difende la Chiesa, per la quale si oppongono come pugili ai nemici esterni, e tuttavia sono sempre nel mezzo, cioè all’interno, perché intimi ad essa per la carità: tutta la Chiesa tende infatti ad essi come al centro. Sono nel mezzo a motivo del loro raccogliersi; sono intorno nel predicare e governare. Raggiungono il centro nel penetrare per quanto possibile l’intima maestà di Dio e nel quietarsi nel suo seno; stanno attorno per l’impossibilità di raggiungere l’immensa, incomprensibile e semplicissima luce, limitandosi solo al suo lato esterno, cingendo quanto è conoscibile all’intelletto creato.
Gli animali sono pieni d’occhi (che in Purg. XXIX, 95-96 vengono paragonati agli occhi di Argo): davanti (per la piena scienza del futuro, per la prudenza nell’agire, per lo sguardo diretto ai premi eterni) e dietro (per la scienza del passato, per il timorato considerare i giudizi divini, per il disprezzo delle cose temporali e caduche). Gli occhi designano anche (Ap 4, 8) lo sguardo perspicace e circospetto con cui scrutano l’esterno e l’interno di Dio, della Chiesa e della Scrittura. Stanno attorno circuendo per prevenire i nemici empi e le insidie diaboliche, come un leone si aggira in cerca di preda. Esaminano inoltre il proprio interno per correggere i difetti e ordinare i beni.
Invitato da Virgilio a seguire i dettami del proprio libero arbitrio (Purg. XXVII, 139-141), Dante è “vago” di esplorare “dentro e dintorno / la divina foresta spessa e viva” (XXVIII, 1-2). “Dentro” equivale, come si dice nell’esegesi, a stare “in mezzo” (intus in medio); per quanto inoltratosi nella selva tanto da non poterne rivedere l’ingresso (vv. 22-24), il poeta si troverà al centro solo dopo aver passato il Lete ed essere pervenuto all’“albero robusto”, pianta dispogliata che “poi si rinovella” (XXXII, 37-60). Il “lignum vitae” si trova infatti nel mezzo della Gerusalemme celeste, della quale l’Eden è proiezione in terra, fra le due rive, l’umana e la divina, del fiume luminoso che designa la grazia che procede dalla Trinità (Ap 22, 1-2).

 

Esempio di utilizzazione infernale dei temi della sede divina, i giganti stanno intorno al pozzo come le torri che coronano la cerchia tonda di Monteriggioni (Inf. XXXI, 40-45). La “cerchia tonda” del castello della Val d’Elsa, che “si corona”, è immagine che traduce i motivi dei quattro animali i quali stanno “in circuitu”, dell’alta eminenza della sede, dell’essere i seniori coronati (Ap 4, 4). Il torreggiare dei giganti “di mezza la persona”, poiché la ripa li cinge dal mezzo in giù facendogli da perizoma, mostrandone la parte dalla cintola in su, rende il motivo dei quattro animali che stanno “in mezzo e intorno”, cioè dentro e fuori. Il minacciare di Giove “del cielo ancora quando tuona” appartiene al gruppo tematico dei lampi, voci e tuoni che emanano dalla sede, considerato ad Ap 4, 5.

Il canto XIV del Paradiso si apre con l’immagine dell’acqua che in un vaso rotondo si muove dal centro alla circonferenza oppure da questa al centro, a seconda che il vaso venga percosso all’esterno o all’interno (vv. 1-3): tale immagine, che riprende il motivo degli animali “in medio et in circuitu sedis”, si presenta a Dante allorché, nel cielo del Sole, tace Tommaso d’Aquino e inizia a parlare Beatrice. Dante e Beatrice formano il centro attorno a cui sta la doppia cerchia dei beati sapienti, nella minore delle quali riluce l’Aquinate (cfr. Par. X, 64-66).
Il motivo del penetrare per quanto possibile nella luce divina passa nell’invito di san Bernardo, prima di rivolgere la preghiera alla Vergine, affinché Dante indirizzi gli occhi al primo amore (Par. XXXII, 142-145). L’espressione “tamquam eius intima pro posse penetrantes”, nel testo esegetico riferita ai quattro esseri viventi, viene appropriata a Dante con le parole di Bernardo “sì che, guardando verso lui, penètri / quant’ è possibil per lo suo fulgore”, mentre ciò che segue sulla necessità di impetrare grazia “ne forse tu t’arretri, / movendo l’ali tue, credendo oltrarti” (vv. 145-147), può alludere ad altra prerogativa dei quattro esseri, cioè a non andare mai oltre le facoltà assegnate.

Tab. II

Inf. XXXI, 40-45

però che, come su la cerchia tonda
Montereggion di torri si corona,
così  la proda che ’l pozzo circonda
torreggiavan di mezza la persona
li orribili giganti, cui minaccia
Giove del cielo ancora quando tuona.

Par. X, 64-66; XIV, 1-3

Io vidi più folgór vivi e vincenti
far di noi centro e di sé far corona,
più dolci in voce che in vista lucenti

Dal centro al cerchio, e sì dal cerchio al centro
movesi l’acqua in un ritondo vaso,
secondo ch’è percosso fuori o dentro

[LSA, cap. IV. Ap 4, 4 (IIa visio, radix IIe visionis)] Per coronas autem aureas designantur principatus seu prelationis auctoritas et premii ac meriti sanctorum dignitas.

[Ap 4, 5] “Et de trono procedebant” (Ap 4, 5), vel secundum aliam litteram “procedunt”, “fulgura et voces et tonitrua”, quia tam a Deo quam ab eius ecclesia et quam a sanctis, qui sunt sedes Dei, procedunt “fulgura” miraculorum, quorum claritas longe lateque coruscat sicut fulgura discurrentia; et “voces” rationabilis ac temperate predicationis, “et tonitruaterribilium comminationum, vel toni-trua altiorum et spiritualium documentorum, que competunt perfectioribus. Voces enim in terra fiunt, tonitrua vero in celo seu ethere, vocesque sunt modice respectu tonitruorum. 

[LSA, cap. IV, Ap 4, 6] Septimo ex quattuor animalium sedem Dei portantium stupenda forma et iubilatoria laudum Dei resonantia, et iterum ex dictorum seniorum concord<i> ad laudem animalium correspondentia, ibi: “Et in medio sedis” (Ap 4, 6). […] “Et in medio sedis et in circuitu sedis quattuor animalia”. […]
Dicit autem ea esse “in medio et in circuitu sedis”. Primo quidem ut servet naturam methafore. Si enim ponas unam sedem rotundam vel quadratam super quattuor animalia, tenebunt tergum et quasi totum corpus interius, ita quod in medio se contingent; caput vero seu faciem tenebunt extra in circuitu, unum scilicet ante, aliud retro, et aliud a dextris et aliud a sinistris.
Secundo in misterium quod ecclesiam Dei defendunt quasi murus, ipsam circumdantes, et quasi pugiles, seu hostibus forinsecis se primo obicientes; et nichilominus sunt in medio eius tamquam per caritatem ei intimi, et quia tota ecclesia intendit in eos quasi in suum medium centrum. Sunt etiam per sui recollectionem semper intus in medio, et per predicationem et gubernationem discursivam ad exteros circumquaque sunt quasi in circuitu.
Sumendo etiam stabilitatem maiestatis Dei per sedem, tunc sunt in medio eius tamquam eius intima pro posse penetrantes et in eius sinu intimo quiescentes, et tamen sunt in circuitu tamquam eius immensam et incomprehensibilem et simplicissimam lucem totaliter penetrare et pertingere nequeuntes, sed quasi sola eius forinseca, id est creat<o> intellectui noscibilia, circumambientes.
Sunt etiam “plena oculis ante” per plenam scientiam futurorum, “et retro” per plenam scientiam preteritorum.
Item “ante” per plenam prudentiam agendorum, “et retro” per timoratam considerationem divinorum iudiciorum.
Item “ante” per aspectum ad eterna premia directum, “et retro” ad caduca et temporalia spernenda et relinquenda exacutum. […]

[Ap 4, 8] Sequitur: “Et in circuitu et intus plena sunt oculis” (Ap 4, 8), id est perspicaciter et circumspecte vident sua interiora et exteriora, et etiam interiora et exteriora Dei et ecclesie et scripture sacre. Precavent etiam hostes impios in circuitu ambulantes et insidias diaboli, qui tamquam leo circuit querens quem devoret. Discutiunt etiam sua interiora, ut corrigant defectus et ordinent bona.

Purg. XXVIII, 1-3

Vago già di cercar dentro e dintorno
la divina foresta spessa e viva,
ch’a li occhi temperava il novo giorno

Purg. XXIX, 91-105

sì come luce luce in ciel seconda,
vennero appresso lor quattro animali,
coronati ciascun di verde fronda.
Ognuno era pennuto di sei ali;
le penne piene d’occhi; e li occhi d’Argo,
se fosser vivi, sarebber cotali.
A descriver lor forme più non spargo
rime, lettor; ch’altra spesa mi strigne,
tanto ch’a questa non posso esser largo;
ma leggi Ezechïel, che li dipigne
come li vide da la fredda parte
venir con vento e con nube e con igne;
e quali i troverai ne le sue carte,
tali eran quivi, salvo ch’a le penne
Giovanni è meco e da lui si diparte.

Par. XXXII, 142-147

e drizzeremo li occhi al primo amore,
sì che, guardando verso lui, penètri
quant’  è possibil per lo suo fulgore.
Veramente, ne forse tu t’arretri
movendo l’ali tue, credendo oltrarti,
orando grazia conven che s’impetri

[Ap 4, 7] “Et animal primum simile leoni” et cetera (Ap 4, 7). Sed quare hec animalia ordinantur hic aliter quam Ezechielis I°: ibi enim ponitur facies hominis primo, secundo leonis, tertio vituli (Ez 1, 10). Ad hoc potest triplex ratio dari ad presens. […]

 

2. Nembrot

sì che la ripa, ch’era perizoma / dal mezzo in giù, ne mostrava ben tanto / di sovra, che di giugnere a la chioma / tre Frison s’averien dato mal vanto; / però ch’i’ ne vedea trenta gran palmi / dal loco in giù dov’ omo affibbia ’l manto (vv. 61-66). Fra i giganti, Nembrot sembra fasciato, ma con tono sarcastico, dai motivi connessi con il manto sacerdotale, una veste ornata stretta al petto con una cinta aurea (Ap 1, 13; 15, 6): ha come perizoma la sponda del pozzo e la parte del corpo scoperta è alta “trenta gran palmi” a partire dalla clavicola, “dov’ omo affibbia ’l manto”; tiene al collo un corno legato con una “soga” che gli “doga”, cioè gli fregia, il “gran petto” (Inf. XXXI, 61-66, 70-75; i numeri tre e trenta rinviano alla complessa esegesi di Ap 12, 14). Fialte è cinto da una catena che gli tiene “soccinto” dinanzi il braccio sinistro e dietro il braccio destro (vv. 85-88; i temi della catena, dell’essere sciolto o legato, che toccano anche Briareo e Anteo, sono propri del diavolo ad Ap 20, 1-3 [settima visione]).

Raphèl maì amècche zabì almi, / cominciò a gridar la fiera bocca, / cui non si convenia più dolci salmi (vv. 67-69). L’“os”, cioè l’“effrenata locutio … que quidem per sevitiam ire est ignea, et per confusam et tumultuosam obscurationem veritatis et sanctitatis christiani cultus est fumus …” (Ap 9, 17), è propria del gigante Nembrot dalla “fiera bocca” toccata dall’“ira o altra passïon … anima confusa”, come gli dice Virgilio (Inf. XXXI, 68.72.74).

Raphèl: è parodia di Tobia 12, 15: “Raphael dicit se esse unum de septem astantibus ante Dominum”, citato nel prologo, Notabile XIII. Il passo è già stato appropriato a Capaneo – “Quei fu l’un d’i sette regi / ch’assiser Tebe” (Inf. XIV, 68-69) -, accomunato a Fialte per la superbia (cfr. Ap 5, 1), per il quale (vv. 87.96) viene anche variata l’esegesi di Ap 13, 3 utilizzata nel canto precedente nella descrizione della rissa tra maestro Adamo e Sinone di Troia.

Raphèl maì amècche zabì. Nel capitolo XIV del Genesi si raccontano le vittoriose campagne dei quattro re dell’Oriente, al tempo di Abramo, contro varie popolazioni fra le quali i Raphaim, gli Zuzim, gli Amaleciti. Le prime due, secondo san Girolamo, erano giganti “terribiles et horrendi … gentes fortissimas”. Non è impossibile che Dante, conoscitore di altre opere di Olivi oltre alla Lectura super Apocalipsim [1], avesse presente la Lectura super Genesim del francescano nello scrivere il verso con le incomprensibili parole pronunciate dalla “fiera bocca” di Nembrot. Raphèl può essere un pastiche da Raphaim commisto con il sopra ricordato Raphael; mai un anagramma di parte di Raphaim; amècche una storpiatura da Amalec; zabì altro pastiche su Zusim e Zabulon, una delle dodici tribù d’Israele che ad Ap 7, 8 è interpretata come “habitaculum fortitudinis”. Nembrot, con il suo linguaggio confuso e a lui solo noto, chiamerebbe a raccolta gli antichi giganti che la Bibbia colloca nella Transgiordania, sulla via del Mar Rosso. I quattro re avrebbero poi vinto nella valle di Siddim i re di Sodoma e di Gomorra e fatto prigioniero Lot, che Abramo liberò combattendo con trecentodiciotto dei suoi servi.

almi: probabilmente l’unica parola non derivata dall’ebraico nel gridare di Nembrot, bensì da alere, nutrire. Ad Ap 12, 14 si dice che la donna (la Chiesa) volò nel deserto per nutrirsi spiritualmente e fortificarsi contro le tentazioni del diavolo. Nembrot, appellandosi ai forti giganti, li definirebbe “nutritori della fede” (così Dante verso gli apostoli a Par. XXIV, 138 – “poi che l’ardente Spirto vi fé almi” -, anche in questo caso in rima con salmi).

Il passo del Genesi, sopra menzionato, non è estraneo alla questione della “vera lingua”. Nel prologo, Notabile XIII, della Lectura super Apocalipsim Olivi afferma che come nella terza età del mondo, dopo che i Sodomiti furono sommersi nel Mar Morto e gli Egiziani nel Mar Rosso, venne data al popolo di Dio la legge e l’ira divina fece sì che Core, Datan e Abiram e gli altri scismatici venissero inghiottiti (Numeri 16, 31-35), così nel terzo stato della Chiesa, sommersa la lussuria e l’idolatria delle genti per la morte e per il sangue di Cristo, venne data la legge costituita dai decreti ecclesiastici e dagli statuti regolari e l’ira divina ribollì sugli scismatici e sugli eretici per mezzo dei dottori, espositori della fede. Ancora (sempre nella terza età del mondo e nel terzo stato della Chiesa), come a causa della superba torre di Babele le lingue furono confuse e divise e la lingua prima e retta rimase nella casa di Eber e degli Ebrei, e poi, mentre le altre lingue precipitavano nell’idolatria diabolica, la fede e il culto di un solo vero Dio rimase nella casa di Abramo, così a causa della superbia di molti fedeli la lingua e la confessione della sola vera fede di Cristo venne divisa e confusa in più eresie, mentre la prima e vera lingua e confessione rimase nella casa di Pietro. Nembrot, che nella faccia “lunga e grossa / come la pina di San Pietro a Roma” pare una memoria pagana nella sede di Pietro, parla storpiando nomi ebraici e confondendo la vera fedele lingua che fu di Eber, di Abramo, di Cristo che poi la trasmise a Pietro.

[1] Allo stato attuale della ricerca, consta che di Olivi Dante, oltre alla sistematica parodia operata nella Commedia sulla Lectura super Apocalipism, conobbe sicuramente e utilizzò la Lectura super Lucam, l’Expositio in Canticum Canticorum, la quaestio sul voto, la prima quaestio de domina.

 

Tab. III

[LSA, prologus, Notabile XIII] Si enim omnes septenarios in scripturis positos coaptes ad septenarios huius libri, innumerabilia misteria tibi clarescent, si diligenter attenderis ipsorum parilem concordiam et consignificantiam, ut verbi gratia quare lex post sex annos laboris voluit super terram sabbatizare septimo anno (Ex 23, 10-11; Lv 25, 3-4), aut post septem septenas annorum statuit annum iubileum generalis remissionis (Lv 25, 11; Nm 36, 4; Dt 15, 1; 31, 10) […] aut quod Raphael dicit se esse unum de septem astantibus ante Dominum (Tb 12, 15) […].

Inf. XIV, 67-70

Poi si rivolse a me con miglior labbia,
dicendo: “Quei fu l’un d’i sette regi
ch’assiser Tebe; ed ebbe e par ch’elli abbia
Dio in disdegno, e poco par che ’l pregi”

Inf. XXXI, 67-69

Raphèl maì amècche zabì almi”,
 cominciò a gridar la fiera bocca,
 cui non si convenia più dolci salmi.

[Lectura super Genesim, cap. XIV; ed. D. Flood, PETER OF JOHN OLIVI, On Genesis, Franciscan Institute Publications, 2007, pp. 284-285] Et percusserunt Raphaim (Gn 14, 5), id est gigantes secundum Hieronymum. Et infra (15, 20) connumerantur inter undecim populos terrae semini Abrae promissae. In Astaroth et Carnaim, id est in terris sic nominatis; et Zuzim cum eis, et Emim in Save, civitate scilicet quae secundum Hieronymum usque hodie sic vocatur. Et secundum eum Zuzim et Emim “terribiles et horrendi interpretantur, pro quo Septuaginta gentes fortissimas posuerunt”. Et sunt in Arabia secundum eum. Dicitque quod ubi iuxta nostram litteram Septuaginta habent et Zuzim cum eis, in Hebraeo est et Zuzim in Hom, quod est nomen cuiusdam loci. Deuteronomii vero secundo capitulo dicitur (2, 9) quod Moabitis fuit data Ar in possessionem, in qua prius habitaverunt Emim qui fuerunt staturae quasi giganteae. Et post dicitur quod in terra Amon habitaverunt Zuzim, qui fuerunt consimiliter gigantei. […] (Gn 14, 7) Et percusserunt omnem regionem Amalecitarum, non quod tunc esset Amalecitarum qui nati sunt de Amalec filio Eliphaz filii Esau, sed quia tempore huius scripturae erat eorum. […] Nuntiavit Abram Hebraeo (Gn 14, 13), id est de genere Heber. Ex quo patet quod Iudaei dicti sunt Hebraei ab Heber potius quam ab Abraham. Ex hoc etiam patet quod lingua Hebraea remansit in Heber tempore divisionis linguarum. Mambre Amorrhaei fratris Escol et fratris Aner. De his tribus fratribus mentionem hic facit quia cum Abram ad proelium sunt profecti. Vernaculos (14, 14) : vernaculi sunt servi nutriti in domo domini sui. Expeditos,  id est leves et agiles ad pugnam vel bene paratos et armatos quantum expediebat. Et persecutus est eos usque Dan (14, 15), qui secundum Hieronymum est unus e fontibus Iordanis. […].

[LSA, prologus, Notabile XIII] Sicut etiam tunc propter superbiam turris Babel confuse et divise sunt lingue, remanente recta et prima lingua in domo Heber et Hebreorum, ac deinde linguis ceteris in idolatriam demonum ruentibus in sola domo Abraam fides et cultus unius veri Dei remansit, sic propter superbiam plurium ad fidem introductorum lingua et confessio unius vere fidei Christi est in plures hereses divisa et confusa, remanente prima et vera lingua et confessione fidei in domo Petri.

[LSA, cap. VII, Ap 7, 8 (IIa visio, apertio VIi sigilli)] Decimo exigitur huius mercedis obtinende robustissima confidentia pusillanimum confortativa, ita quod sit omnium securum et inexpugnabile refugium contra hostes, et hanc designat Zabulon, qui interpretatur habitaculum fortitudinis.

[LSA, cap. XII, Ap 12, 14 (IVa visio, III-IVum prelium)] “Date sunt”, inquam, “ut volaret in desertum, in locum suum”. […] “Ubi alitur per tempus et tempora et dimidium temporis a facie serpentis”, id est ut per hoc alimentum protegatur a temptationibus et persecutionibus diaboli et ut contra eas per hoc fortificetur. Vel potest referri ad locum deserti: ideo enim in deserto alitur, ut ibi abscondatur a temptationibus diaboli, que in medio multitudinis populorum fortius et multiplicius habundant quam in solitudine deserti. Alitur autem ibi non solum spiritali doctrina et contemplatione et copia gratiarum, sed etiam incorporatione gentium, quas per fidem et  gratiam eis datam incorporat sibi. Quia enim non potuit comedere et incorporare Iudeos, ideo in terris gentium, prius a Deo desertis, datus est sibi locus ut incorporet eas sibi, ne per penuriam fidelium tota a diabolo consumatur.

Poi disse a me: “Elli stessi s’accusa; / questi è Nembrotto per lo cui mal coto / pur un linguaggio nel mondo non s’usa” (vv. 76-78). All’inizio della propria esposizione, Olivi affronta, fra le altre, la questione se le voci contenute nel libro siano state apprese con un genere di apprendimento diverso da quello proprio della visione. Secondo il francescano, la stessa facoltà immaginativa ritiene le specie di tutti gli oggetti dei cinque sensi esterni, che perciò non differiscono nel genere. Differiscono per il fatto che una specie esprime un oggetto di un solo genere, ad esempio delle forme visibili, e un’altra un oggetto di diverso genere, ad esempio delle voci o dei suoni udibili o degli odori o dei sapori. Lo stesso procedimento si verifica per le specie che sono nell’intelletto (Ap 1, 2).
Nella foresta dell’Eden (Purg. XXIX, 16-51) Dante vede una luce improvvisa come un baleno, mentre una dolce melodia corre per l’aere luminoso: “la melodia dolce e l’aere subitamente luminoso si fondono in un’unica impressione sensibile, che il parallelismo delle indicazioni spaziali (trascorseper la gran foresta, correva per l’aere) amplifica e sottolinea” (Sapegno). La stessa virtù immaginativa ritiene in Dante, come in Giovanni, le specie dell’oggetto della vista e dell’udito, della luce e della melodia, che non differiscono nel genere. La sensazione vaga della luce commista alla melodia diventa prima “foco” di cui si accende “l’aere sotto i verdi rami”, mentre nel dolce suono si distinguono dei canti; poi si trasforma in sette alberi d’oro, che si precisano essere sette candelabri, mentre nelle voci si percepisce il canto dell’“Osanna”. Il che avviene nel momento in cui la facoltà percettiva che prepara alla ragione la materia del discorrere apprende la verità e dilegua così l’inganno causato da “l’obietto comun”, cioè dal fatto che un oggetto possa essere percepito da più sensi (gli aristotelici “sensibili comuni”). All’apertura della porta del purgatorio, Dante ‘immagina’ di sentire le parole “Te Deum laudamus”, in una polifonia di “voce” e di “dolce suono” nella quale le parole non si intendono distintamente (Purg. IX, 139-145). L’indistinzione fra i sensi, che si fanno discordi (vista e udito nel cantare, vista e olfatto nel fumo degli incensi), si registra poi nella scena della traslazione dell’arca da parte di David scolpita nel primo girone del purgatorio (Purg. X, 58-63) e nel “visibile parlare” prodotto per arte divina negli altri marmi ivi intagliati (vv. 94-96).
La situazione di Dante è simile a quella di Giovanni, la cui visione avviene per segni – cioè per oggetti che nella specie altro intendono -, e non essendo questi segni naturalmente appropriabili al secondo significato (come lo è, ad esempio, l’acqua al battesimo), gli vengono spiegati da un angelo, che ne è consapevole (Ap 1, 2). Questo secondo apprendimento non è più soltanto un percepire da parte dei sensi, è una “ratiocinatio seu argumentatio”. Così Beatrice (che svolge la funzione che l’angelo ha per Giovanni) spiega, nel cielo della Luna, che le anime “qui si mostraro, non perché sortita / sia questa spera lor, ma per far segno / de la spiritual c’ha men salita”. E poiché far segno comporta un secondo apprendimento razionale, la donna subito aggiunge che ciò avviene per il noto principio della logica aristotelica, che si trova in tal modo concordato con l’esegesi scritturale: “Così parlar conviensi al vostro ingegno, / però che solo da sensato apprende / ciò che fa poscia d’intelletto degno” (Par. IV, 37-42).
Se però il segno è puramente intenzionale (“signum voluntarium”), cioè significa qualcosa di stabilito regolarmente e noto per comune istituzione linguistica, allora non c’era bisogno di una speciale spiegazione da parte dell’angelo, se questi parlava a Giovanni nel linguaggio da lui conosciuto e usato (cfr. Par. XVIII, 70-72), spiegazione invece necessaria per le immagini (“res figurales”) che l’evangelista vedeva.
Nembrot, responsabile della costruzione della torre di Babele, è colui “per lo cui mal coto / pur un linguaggio nel mondo non s’usa … ché così è a lui ciascun linguaggio / come ’l suo ad altrui, ch’a nullo è noto” (vv. 77-81). Neppure Virgilio, che svolge la funzione dell’angelo rivelante, può interpretarne le parole; si può dire, leggendo in controluce l’esegesi parodiata, che il loro significato è noto a Dio come quello del diavolo malintenzionato accusatore, che però in questo caso accusa sé stesso (Ap 2, 10).

Tab. IV

[LSA, cap. I, Ap 1, 2] Queritur etiam an locutiones seu voces, quas in libro isto refert se audivisse, apprehenderit alio genere apprehensionis quam illa que dicit se vidisse. Dicendum quod eadem potentia imaginaria retinet species omnium obiectorum quinque sensuum exteriorum, et ideo quoad eam non differunt genere. Pro quanto tamen una exprimit obiectum unius generis, puta formarum visibilium, et alia aliud alterius generis, puta vocum vel sonorum audibilium aut odorum vel saporum, pro tanto differunt genere vel specie. Et idem est de speciebus que sunt in intellectu.
Sciendum etiam quod in quibusdam apprehenditur solum proprium obiectum speciei imaginarie vel intellectualis, in quibusdam vero proprium obiectum per speciem apprehensum accipitur ut signum alterius rei, et si est signum naturaliter significans illam, tunc apprehensio secunda per ipsum facta est quedam ratiocinatio seu argumentatio. Si vero est naturaliter aptum ad significandum, non tamen est ex se applicatum seu appropriatum ad illud significatum, tunc oportet illam appropriationem addi<s>ci aut a persona illud appropriante aut ex communi institutione, iuxta quod per communem institutionem sacramentorum scimus quid per baptismum significatur, quamvis aqua baptismi ex se non significet illud, sed solum sit apta ad illud significandum.

Purg. IX, 139-145; X, 34-45, 58-63, 94-96

Io mi rivolsi attento al primo tuono,
e ‘Te Deum laudamus’ mi parea
udire in voce mista al dolce suono.
Tale imagine a punto mi rendea
ciò ch’io udiva, qual prender si suole
quando a cantar con organi si stea;
ch’or sì or no s’intendon le parole.

L’angel che venne in terra col decreto
de la molt’ anni lagrimata pace,
ch’aperse il ciel del suo lungo divieto,
dinanzi a noi pareva sì verace
quivi intagliato in un atto soave,
che non sembiava imagine che tace.
Giurato si saria ch’el dicesse ‘Ave!’;
perché iv’ era imaginata quella
ch’ad aprir l’alto amor volse la chiave;
e avea in atto impressa esta favella
Ecce ancilla Deï’, propriamente
come figura in cera si suggella.

Dinanzi parea gente; e tutta quanta,
partita in sette cori, a’ due mie’ sensi
faceva dir l’un ‘No’, l’altro ‘Sì, canta’.
Similemente al fummo de li ’ncensi
che v’era imaginato, li occhi e ’l naso
e al sì e al no discordi fensi.

Colui che mai non vide cosa nova
produsse esto visibile parlare,
novello a noi perché qui non si trova.

Purg. XXIX, 16-23, 34-36, 43-51

Ed ecco un lustro sùbito trascorse
da tutte parti per la gran foresta,
tal che di balenar mi mise in forse.
Ma perché ’l balenar, come vien, resta,
e quel, durando, più e più splendeva,
nel mio pensier dicea: ‘Che cosa è questa?’.
E una melodia dolce correva
per l’aere luminoso …………………….

dinanzi a noi, tal quale un foco acceso,
ci si fé l’aere sotto i verdi rami;
e ’l dolce suon per canti era già inteso.

Poco più oltre, sette alberi d’oro
falsava nel parere il lungo tratto
del mezzo ch’era ancor tra noi e loro;
ma quand’ i’ fui sì presso di lor fatto,
che l’obietto comun, che ’l senso inganna,
non perdea per distanza alcun suo atto,
la virtù ch’a ragion discorso ammanna,
sì com’ elli eran candelabri apprese,
e ne le voci del cantare ‘Osanna’.

[Ap 1, 2 (segue)] Si vero signum est tantum voluntarium, iuxta quod hec vox ‘homo’ significat ‘hominem’, tunc est talis apprehensio qualis est illa qua nos apprehendimus significata locutionum et intentionem loquentis, que quidem communiter fit per notitiam communis institutionis seu impositionis vocum ad talia regulariter significanda, alias oportet quod fiat per specialem revelationem loquentis aut alterius scientis intentionem loquentis. Si igitur angelus loqueretur Iohanni per voces quarum communem significationem nesciret, tunc oportuisset sibi revelari intentionem et significationem angeli loquentis, quod non oportuit si significatione vocum Iohanni prius cognita utebatur. Quid tamen significarent res figurales de quibus sibi loquebatur, vel quas sibi quasi visibiles presentabat, non potuit infallibiliter et indubitabiliter scire nisi per revelationem, quamvis ipse essent de se apte ad illa significanda.

Par. XVIII, 70-72

Io vidi in quella giovïal facella
lo sfavillar de l’amor che lì era
segnare a li occhi miei nostra favella.

 

Inf. XXXI, 76-81

Poi disse a me: “Elli stessi s’accusa;
questi è Nembrotto per lo cui mal coto
pur un linguaggio nel mondo non s’usa.
Lasciànlo stare e non parliamo a vòto;
ché così è a lui ciascun linguaggio
come ’l suo ad altrui, ch’a nullo è noto”.

[LSA, cap. XII, Ap 12, 10 (IVa visio, IIum prelium)] Secundo quia (diabolus) semper appetit nos accusare sicut et semper appetit nos dampnari. In eius autem  pravo appetitu est annexa invidia et accusatoria locutio seu cogitatio sic nota Deo ac si eam diceret sibi, et etiam pro quanto appetit nos a Deo tamquam accusabiles improbari et iudicari, dirigit suam impiam intentionem et locutionem ad Deum et pro tanto dicit hoc Deo.

Tab. V

[LSA, cap. XX, Ap 20, 1-3 (VIIa visio)] Sciendum etiam circa hec quod numquam respectu hominum huius vite tota eius temptativa potestas ligatur seu cohibetur, nec tota sic totaliter solvitur quin sub mensura a Deo prefixa, prout ordini universi expedit, refrenetur. Unde et pro tanto respectu prescitorum est quoad quid ligatus, quia non permittitur in eos quantum vellet sevire nec in omne genus vel in omnem excessum facinorum eos pro libitu precipitare, sed nichilominus illud tempus in quo longe minus temptare permittitur vocatur per quandam anthonomasiam tempus sue ligationis, et illud in quo plus permittitur dicitur tempus solutionis eius. Et secundum hoc illud verbum: “ut non seducat amplius gentes” et cetera habet diversimode exponi; semper tamen est sensus: “ut non seducat amplius”, scilicet sicut prius.
Per “cathenam” autem “magnam” (Ap 20, 1) designatur potestas angelorum et Dei, ligativa et refrenativa potestatis diaboli.

Inf. XVI, 106-111

Io avea una corda intorno cinta,
e con essa pensai alcuna volta
prender la lonza a la pelle dipinta.
Poscia ch’io l’ebbi tutta da me sciolta,
sì come ’l duca m’avea comandato,
porsila a lui aggroppata e ravvolta.

Purg. IV, 7-12

E però, quando s’ode cosa o vede
che tegna forte a sé l’anima volta,
vassene ’l tempo e l’uom non se n’avvede;
ch’altra potenza è quella che l’ascolta,
e altra è quella c’ha l’anima intera:
questa è quasi legata e quella è sciolta.

Inf. XXXI, 85-90, 100-105

A cigner lui qual che fosse ’l maestro,
non so io dir, ma el tenea soccinto
dinanzi l’altro e dietro il braccio destro
d’una catena che ’l tenea avvinto
dal collo in giù, sì che ’n su lo scoperto
si ravvolgëa infino al giro quinto.

Ond’ ei rispuose: “Tu vedrai Anteo
presso di qui che parla ed è disciolto,
che ne porrà nel fondo d’ogne reo.
Quel che tu vuo’ veder, più là è molto
ed è legato e fatto come questo,
salvo che più feroce par nel volto”.

3. Anteo

Quand’ Anibàl co’ suoi diede le spalle (v. 117). Ad Ap 19, 11-16 viene descritta la battaglia finale contro l’Anticristo. I temi sono tutti appropriati a Cristo, del quale vengono proposte dodici perfezioni, per mostrare in modo aperto con quanta giustizia, santità, virtù ed efficacia verrà col suo esercito a debellare l’Anticristo e i suoi e a recare per preda le genti di tutto il mondo, che saranno allora sottomesse e asservite alla fede e al fedele servigio del suo culto. Allora i santi avranno dinanzi agli occhi Cristo come proprio re e duce, come lo vedessero correre e volare nei cieli per trionfare sull’Anticristo. Gioacchino da Fiore, su questo punto, domandandosi se Cristo apparirà di persona in un momento così difficile per combattere contro l’Anticristo e i suoi “in gladio oris sui”, risponde: “Ritengo che verrà lui stesso per distruggerlo, e per questo viene visto sedere su un cavallo bianco, perché con il suo corpo mondo apparirà ai buoni e ai malvagi per vendicarsi sulle nazioni”.
Delle dodici perfezioni (alcune delle quali ripetono le perfezioni di Cristo come sommo pastore di Ap 1, 13-17), la dodicesima – “E ha scritto sulla veste e sul femore: Re dei re e Signore dei signori” (Ap 19, 16) – consiste nella giustizia, designata dalla veste, e nella propagazione della prole, designata dal femore (che indica pure la capacità di cavalcare e di procedere). Alcuni divengono signori per averlo giustamente meritato per mezzo di opere degne; altri sono invece figli o eredi di re, oppure hanno conseguito il regno vincendo con forte e valorosa potenza. Entrambi i modi appartengono a Cristo re dei re. Egli infatti è il Figlio consustanziale di Dio padre e il naturale erede di tutti i suoi beni. Per la sua passione ha inoltre meritato il nome che è al di sopra di ogni nome e ha ottenuto ciò con trionfale potenza. Ancora, nella veste della sua umanità e nel femore della sua carne Dio ha iscritto la regale maestà e la potestà della divinità.

“Et habet in vestimento et femore suo scriptum: Rex regum et Dominus dominantium”. Il tema dell’eredità del regno si inserisce nel rivolgersi lusinghiero di Virgilio ad Anteo: “O tu che ne la fortunata valle / che fece Scipïon di gloria reda, / quand’ Anibàl co’ suoi diede le spalle, / recasti già mille leon per preda” (Inf. XXXI, 115-118). Anteo riveste un ruolo equivoco. Da una parte il gigante è dannato e sta nel pozzo, per quanto sciolto, insieme coi suoi fratelli incatenati con i quali tuttavia non combatté alla battaglia di Flegra contro Giove: venne ucciso da Ercole, sorretto da Dio come Davide nel duello con Golia (Monarchia, II, vii, 10; ix, 11). Dall’altra, nel recare per preda mille leoni nella valle dove sarebbe stata combattuta la battaglia di Zama, è prefigurazione di Scipione, che debellando Annibale con i suoi ereditò la gloria. Tutto rientra nel disegno de “l’alta provedenza, che con Scipio / difese a Roma la gloria del mondo” e che, come afferma con sicurezza san Pietro nel cielo delle stelle fisse, “soccorrà tosto, sì com’ io concipio” (Par. XXVII, 61-63). Le due battaglie, quella di Flegra dei giganti contro Giove e quella di Zama, sono a loro volta prefigurazione della grande battaglia che nel sesto stato della Chiesa vedrà opposti con i loro eserciti Cristo e l’Anticristo. Se Anteo fosse intervenuto all’alta guerra dei suoi fratelli, forse, come qualcuno ritiene, “avrebber vinto i figli de la terra” (Inf. XXXI, 119-121): l’Anticristo è appunto definito, come i giganti, “dominum terre … tunc usurpatorie dominans terre et terrenis” (Ap 11, 4) [1]. È da notare nei versi, oltre alla presenza del tema dell’eredità, anche la corrispondenza tra “ad debellandum Antichristum et suos” e “quand’ Anibàl co’ suoi diede le spalle”, nonché l’appropriazione ad Anteo del motivo della preda, che rimanda all’inciso “ad capiendam predam gentium totius orbis tunc subiciendarum et captivandarum fidei et fideli ac famulatorio cultui” da parte di Cristo. L’accostamento della preda al leone si trova ad Ap 5, 5, dove Cristo, radice di Davide e nato dalla tribù di Giuda, risorge invincibile e possente verso la preda come un leone (è motivo di Sordello, “leon” che “surse” verso Virgilio, a Purg. VI, 66, 73). Ancora, i mille leoni tratti per preda da Anteo sono prefigurazione degli apostoli, inviati da Cristo nel mondo quasi leoni animosissimi: così è affermato ad Ap 6, 2, all’apertura del primo sigillo ove Cristo esce in campo sul cavallo bianco per combattere con virtù e magnanimità, come avverrà in occasione della battaglia finale contro l’Anticristo.

[1] I giganti, come i Ciclopi che lavoravano “in Mongibello a la focina negra”, erano “figli della terra” (Inf. XIV, 57; cfr. XXXI, 121). La terra aiutò il cielo – “Et adiuvit terra mulierem” (Ap 12, 16), passo parodiato nel grido di Giove “Buon Vulcano, aiuta, aiuta!” – non inviando Anteo ai campi di Flegra, come ricordato da Lucano (Phars. IV, 596-597).

■ Il tema della propagazione della prole, erede del regno, percorre le parole che Beatrice nell’Eden premette alla profezia della prossima venuta di “un cinquecento diece e cinque”, il messo divino che ucciderà la Chiesa-prostituta e il gigante che con lei delinque, cioè il regno di Francia: “Non sarà tutto tempo sanza reda / l’aguglia che lasciò le penne al carro, / per che divenne mostro e poscia preda” (Purg. XXXIII, 37-39, dove è da notare la rima reda / preda come nell’episodio di Anteo, ma in questo caso con valore negativo, riferito all’essere senza eredità e al rapimento operato dal gigante).

■ I temi della giustizia, designata dalla veste, e dell’eredità, designata dal femore (dodicesima perfezione, Ap 19, 16), sono uniti in Francesco, che sul letto di morte “a’ frati suoi, sì com’ a giuste rede, / raccomandò la donna sua più cara, / e comandò che l’amassero a fede” (Par. XI, 112-114). Quest’ultima espressione può essere ricondotta alla seconda perfezione di Cristo: “E chi sedeva su di esso (sul cavallo bianco) si chiamava Fedele e Verace” (Ap 19, 11), nel mantenere cioè le promesse e nell’insegnare la verità senza alcuna frode o mendacio. Anche a Domenico è appropriato il tema dell’eredità, nella madrina che “vide nel sonno il mirabile frutto / ch’uscir dovea di lui e de le rede” (Par. XII, 64-66). Gli è proprio il tema del percuotere, presente nella decima perfezione di Cristo, e quello del ‘premere’ gli empi, dall’undecima, col muoversi “quasi torrente ch’alta vena preme” (vv. 97-101).

La decima perfezione di Cristo – “E dalla sua bocca esce una spada acuta” (Ap 19, 15; Olivi osserva che qualche testo reca anche “da entrambe le parti”) – consiste nella sentenza sottile e rigida che percuote le genti, alcune verso l’eterna distruzione, altre verso la correzione e l’estinzione dei propri vizi.
Il tema della spada che esce dalla bocca da entrambe le parti, proprio della decima perfezione di Cristo (Ap 19, 15, contaminato con Ap 1, 16 per l’aggiunta “ex utraque parte”), è applicato a Ciriatto, “a cui di bocca uscia / d’ogne parte una sanna come a porco”, e che a Ciampolo “li fé sentir come l’una sdruscia”, come Cristo, nell’undicesima perfezione, fa sentire la sua severità (Inf. XXII, 55-57). Non è escluso che Ciriatto sia nome derivato da Ciro, il re dei Persiani più volte citato nella Lectura come distruttore dell’antica Babilonia. Il suo essere “sannuto” è invece da porre in corrispondenza con il cinghiale – l’“aper de silva” – che ad Ap 9, 11 (quinta tromba) è presentato come devastatore della vigna.

L’undicesima perfezione – “Egli le governerà con la verga di ferro” (Ap 19, 15) – indica l’inflessibile giustizia. Coloro che non vogliono convertirsi di fronte a lusinghe o a un atteggiamento umile è necessario sentano allora la severità e la forza della sua disciplina cosicché, almeno tardi, siano sottomessi al suo scettro. I ribelli invece sentiranno il suo furore, per cui soggiunge: “E calca nel tino il vino dell’ira furiosa del Dio onnipotente”, cioè preme gli empi con le pene mortifere che Dio trino come furibondo e irato propina loro.
«“Et ipse reget eas (gentes) in virga ferrea”, id est in inflexibili iustitia». “Sotto la mazza (hapax) d’Ercule” cessarono le “opere biece”, cioè ingiuste, di Caco, il quale forse non arrivò a sentire la decima delle cento percosse dategli (Inf. XXV, 31-33; l’episodio è uno dei casi nei quali i temi di Ap 19, 15 si intrecciano con quelli di 14, 20). Il “non sentì le diece” interpreta “necesse est ut tunc temporis sentiant severitatem et fortitudinem discipline eius, ut saltem sero subiciantur sceptro ipsius” ad Ap 19, 15. Al glorioso e magnanimo Alcide, vittorioso sull’Idra di Lerna per avere attaccato la radice stessa della vita delle molte teste che rinascevano, deve guardare Arrigo VII muovendo senza indugi su Firenze invece di restare a Milano per piegare le città lombarde ribelli (Ep. VII, 20). Governare le genti con lo scettro di ferro è anche tema precipuo della quarta vittoria, ad opera dei forti e austeri anacoreti (Ap 2, 26-28). Di esso partecipano le parole dell’abate di San Zeno di Verona, vissuto “sotto lo ’mperio del buon Barbarossa, / di cui dolente ancor Milan ragiona” (Purg. XVIII, 118-120).
Il motivo del premere e quello del ferro (“in virga ferrea”, senza riferimento allo scettro), da Ap 19, 15 (undicesima perfezione), diventano il “fil di ferro” che, come avviene con gli sparvieri selvatici per addomesticarli, cuce le palpebre degli invidiosi purganti, i quali attraverso tale orribile cucitura premono le lacrime tanto da bagnare le gote (Purg. XIII, 70-72, 82-84).

I motivi del volare, proprio di Cristo che debella l’Anticristo (“in celis currentem et volantem ad triumphandum de Antichristo … ut faciat vindictam in nationibus”, Ap 19, 14: qui interviene la citazione di Gioacchino da Fiore, incastonata in una più ampia esegesi tutta di Olivi), del percuotere le genti (decima perfezione, Ap 19, 15), del sentirne la severità da parte dei ribelli (undicesima, Ap 19, 15) e del seguirlo da parte degli eserciti celesti (nona, Ap 19, 14) percorrono i versi che descrivono le folgoranti imprese di Cesare: “Quel che fé poi ch’elli uscì di Ravenna / e saltò Rubicon, fu di tal volo, / che nol seguiteria lingua né penna”. Conseguenza fu la sconfitta di Pompeo, ‘percosso’ a Farsalo e poi ucciso a tradimento da Tolomeo, “sì ch’al Nil caldo si sentì del duolo” (Par. VI, 61-66). Il “sacrosanto segno” dell’aquila con Ottaviano “corse infino al lito rubro”; poi con Tito “a far vendetta corse / de la vendetta del peccato antico” (vv. 79, 92-93).

Tab. VI

[LSA, cap. XIX, Ap 19, 11-16 (VIa visio)] “Et vidi celum apertum” (Ap 19, 11). Habito de dampnatione adultere et de festo ac nuptiis nove sponse, subditur dampnatio bestie et pseudoprophete. Et quia hoc fiet in fine prelii Antichristi et suorum contra Christum et suos, fietque ad gloriam Christi et sanctorum ad conversionem totius orbis ad Christum, ideo in hac parte quinque tanguntur. Primo scilicet Christi et sui exercitus ad bellum preparatio. Secundo sanctorum ad triumphalem et spiritalem devorationem hostium invitatio, ibi: “Et vidi unum angelum” (Ap 19, 17). Tertio Antichristi et suorum ad bellum congregatio, ibi : “Et vidi bestiam” (Ap 19, 19). Quarto ipsius devictio et  captio, ibi: “Et apprehensa est bestia” (Ap 19, 20). Quinto ceterorum ipsum sequentium ad Christum traductio seu conversio, ibi : “Et ceteri occisi sunt” (Ap 19, 21).
In prima autem tangit duodecim perfectiones seu dignitates Christi, sub modo aptissimo ad monstrandum cum quanta iustitia et sanctitate et virtute et efficacia veniet cum suo exercitu ad debellandum Antichristum et suos et ad capiendam predam gentium totius orbis tunc subiciendarum et captivandarum fidei et fideli ac famulatorio cultui Christi.
Dicit ergo (Ap 19, 11): “Et vidi celum apertum”, scilicet per revelationem celestis misterii; vel apertio celi est apertio scripture sacre vel divine prescientie quantum ad ea que subduntur.

1] “Et ecce equus albus”, scilicet Christi humanitas candore summe innocentie et glorie dealbata.

2] “Et qui sedebat super eum”, scilicet per personalem unionem et presidentiam, “vocabatur fidelis et verax”, scilicet in  attendendo promissa et in docendo vera absque omni fraude et mendacio.

3] “Et in iustitia iudicat et pugnat”, quia non nisi pro summa veritate et iustitia et pro summo iure et pro summis circumstantiis perfecte iustitie.

4] “Oculi autem eius sicut flamma ignis” (Ap 19, 12), scilicet propter ardorem zeli ad faciendum iudicium et iustitiam de impiis et ad liberandum suos ab eis et ad inflammandum et illuminandum eos igne caritatis et amative sapientie.

5] “Et in capite eius diademata multa”, tamquam scilicet amodo evidenter regnaturus super omnia regna celi et terre, et tamquam coronas regalis premii suis militibus redditurus, et tamquam de universis inimicis suis in hoc certamine triumphaturus.

6] “Habens nomen scriptum quod nemo novit nisi ipse”, scilicet totaliter seu comprehensive, vel per se seu absque ipso; ipse enim potest aliis revelare, prout dicit Matthei XI° (Mt 11, 27). Hoc autem nomen scripsit Pater ab eterno cum ipsum genuit, et tandem scripsit illud in eius humanitate cum ipsum humanavit.

7] “Et vestitus erat veste aspersa sanguine” (Ap 19, 13), id est humanitate pro nobis occisa et sanguine rubrificata, quod quidem semper in ea per meritum et premium et per signa indelebilia remanet.

8] “Et vocabatur nomen eius Verbum Dei”, id est verbalis ratio et sapientia Dei Patris.

9] “Et exercitus qui sunt in celo” (Ap 19, 14), id est sancti celestem vitam agentes et contra exercitum demonum et reproborum preliantes, “sequebantur eum”, scilicet imitatione et participatione secundum quam effectus sequitur suam causam. Sequebantur etiam ipsum sicut ducem preeuntem ad bellum. “In equis albis”, id est, secundum Ricardum, in corporibus et operibus mundis*. “Vestiti bissino albo mundo”, id est candore omnium virtutum a maculis criminum mundo.

Nota quod prout isti exercitus referuntur ad angelos vel spiritus sanctorum defunctorum, tunc per equos albos designantur spiritus inferiores et per equites spiritus superiorum ordinum; vel equi albi designant virtutes seu potentias eorum vectivas et robustas candore glorie dealbatas. Prout vero referuntur ad omnes sanctos Christo in extremo iudicio assistentes, tunc equi albi sunt eorum corpora resuscitata et glorificata*.
Respectu vero prelii Antichristi, de quo hic litteralius agitur, designant hii exercitus magis proprie sanctos tunc viventes, quos Christus tunc candore castitatis et sanctitatis in mente et corpore dealbabit et fortissime muniet et inflammabit et deducet ad expugnandum spiritualiter Antichristum et exercitum eius. Tunc enim sancti habebunt sic pre oculis Christum tamquam suum regem et ducem, ac si ipsum visibiliter viderent in celis currentem et volantem ad triumphandum de Antichristo, “quem” quidem “interficiet spiritu oris sui et illustratione adventus sui”, prout dicitur secunda ad Thessalonicenses II° (2 Th 2, 8).
Unde Ioachim super hoc loco, mota prius questione an Christus tunc per se ipsum appareat in tempore tante necessitatis ut prelietur contra Antichristum et suos in gladio oris sui, respondet: Ego puto quod per se ipsum veniet ad destruendum eum, ideoque visus est sedere super equum album, quia in corpore suo mundo apparebit bonis et malis ut faciat vindictam in nationibus**.

10] “Et de ore eius procedit gladius acutus” (Ap 19, 15), id est sententia subtilis et rigida (quidam habent “ex utraque parte”, sed antiqui non habent hic “ex utraque parte” neque Ricardus, sed supra capitulo I° [Ap 1, 16]**), “ut in ipso percutiat gentes”, quasdam scilicet in eternum interitum, quasdam vero ad correctionem et ad vitiorum suorum extinctionem.

11] “Et ipse reget eas in virga ferrea”, id est in inflexibili iustitia. Qui enim nolunt converti blanditiis et humilitate necesse est ut tunc temporis sentiant severitatem et fortitudinem discipline eius, ut saltem sero subiciantur sceptro ipsius. Rebelles autem sentient furorem eius, unde subditur: “Et ipse calcat torcular vini furoris ire Dei omnipotentis”, id est ipse premit impios penis mortiferis quas Deus Trinitas quasi furibundus et iratus propinat eis.

12] “Et habet in vestimento et femore suo scriptum: Rex regum et Dominus dominantium” (Ap 19, 16). In vestimento designatur iustitia; in femore autem propagatio prolis, seu vis equitativa et processiva. Quidam enim dominantur quia dignis operibus hoc iuste promerentur, quidam vero quia sunt filii et heredes regum aut quia per fortem et <strenuam> potentiam regnum victoriose obtinuerunt. Utroque autem modo competit Christo esse regem regum. Nam ipse est consubstantialis Filius Dei Patris et naturalis heres omnium bonorum eius. Ipse etiam per passionem meruit nomen quod est super omne nomen, et per triumphalem potentiam hoc victoriose obtinuit. Item in vestimento sue humanitatis et in femore sue carnis inscripsit Deus regiam maiestatem et potestatem deitatis et persone Filii, quando ipsam personaliter univit sue humanitati et carni.

* In Ap VI, iv (PL 196, col. 850 C). 

* Cfr. (Ioachim) Expositio, pars VI, distinctio III, f. 207va-b.

** Ibid., f. 207rb-va (citazione abbreviata).

** In Ap VI, iv (PL 196, col. 850 C-D).

 

Inf. XXXI, 115-121

O tu che ne la fortunata valle
che fece Scipïon di gloria reda,
quand’ Anibàl co’ suoi diede le spalle,
recasti già mille leon per preda,
e che, se fossi stato a l’alta guerra
de’ tuoi fratelli, ancor par che si creda
ch’avrebber vinto i figli de la terra

 

[Ap 19, 11] In prima autem tangit duodecim perfectiones seu dignitates Christi, sub modo aptissimo ad monstrandum cum quanta iustitia et sanctitate et virtute et efficacia veniet cum suo exercitu ad debellandum Antichristum et suos et ad capiendam predam gentium totius orbis tunc subiciendarum et captivandarum fidei et fideli ac famulatorio cultui Christi.

Purg. XXXIII, 37-39

Non sarà tutto tempo sanza reda
l’aguglia che lasciò le penne al carro,

per che divenne mostro e poscia preda

[LSA, cap. V, Ap 5, 5; (radix IIe visionis)] Deinde subditur consolatoria promissio: “Et unus de senioribus dixit michi: Ne fleveris: ecce vicit”, id est victoriose promeruit et etiam per triumphalem potentiam prevaluit, “leo de tribu Iuda”, id est Christus de tribu Iuda natus ac invincibilis et prepotens et ad predam potenter resurgens sicut leo.
Radix David ”, id est radix totius spiritualis vite non solum fidelium qui post Christum fuerunt, sed etiam omnium sanctorum patrum precedentium. Sicut enim rami totius arboris prodeunt a radice et firmantur in ea, sic tota arbor sanctorum veteris et novi testamenti prodit a Christo et firmatur in eo.

[LSA, cap. VI, Ap 6, 2 (IIa visio, apertio Ii sigilli)] In prima autem apertione apparet Christus resuscitatus sedens in equo albo (Ap 6, 2), id est in suo corpore glorioso et in primitiva ecclesia per regenerationis gratiam dealbata et per lucem resurrectionis Christi irradiata, in qua Christus sedens exivit in campum totius orbis non quasi pavidus aut infirmus, sed cum summa magnanimitate et insuperabili virtute. Nam suos apostolos deduxit in mundum quasi leones animosissimos et ad mirabilia facienda potentissimos, et “habebat” in eis “archum” predicationis valide ad corda sagittanda et penetranda.

Inf. XXII, 55-57

E Cirïatto, a cui di bocca uscia
d’ogne parte una sanna come a porco,
li fé sentir come l’una sdruscia.

Inf. XXV, 31-33

onde cessar le sue opere biece
sotto la mazza d’Ercule, che forse
gliene diè cento, e non sentì le diece.

Purg. XIII, 70-72, 82-84

ché a tutti un fil di ferro i cigli fóra
e cusce sì, come a sparvier selvaggio
si fa però che queto non dimora.

da l’altra parte m’eran le divote
ombre, che per l’orribile costura
premevan sì, che bagnavan le gote.

10] “Et de ore eius procedit gladius acutus” (Ap 19, 15), id est sententia subtilis et rigida (quidam habent “ex utraque parte”, sed antiqui non habent hic “ex utraque parte” neque Ricardus, sed supra capitulo I° [Ap 1, 16]), “ut in ipso percutiat gentes”, quasdam scilicet in eternum interitum, quasdam vero ad correctionem et ad vitiorum suorum extinctionem.

11] “Et ipse reget eas in virga ferrea”, id est in inflexibili iustitia. Qui enim nolunt converti blanditiis et humilitate necesse est ut tunc temporis sentiant severitatem et fortitudinem discipline eius, ut saltem sero subiciantur sceptro ipsius. Rebelles autem sentient furorem eius, unde subditur: “Et ipse calcat torcular vini furoris ire Dei omnipotentis”, id est ipse premit impios penis mortiferis quas Deus Trinitas quasi furibundus et iratus propinat eis.

Purg. V, 43-45; VI, 7-9

“Questa gente che preme a noi è molta,
e vegnonti a pregar”, disse ’l poeta:
“però pur va, e in andando ascolta”.

el non s’arresta, e questo e quello intende;
a cui porge la man, più non fa pressa;
e così da la calca si difende.

Par. VI, 61-66, 79, 92-93

Quel che fé poi ch’elli uscì di Ravenna
e saltò Rubicon, fu di tal volo,         
che nol seguiteria lingua né penna.

Inver’  la Spagna rivolse lo stuolo,
poi ver’ Durazzo, e Farsalia percosse
sì ch’al Nil caldo si sentì del duolo.

Con costui corse infino al lito rubro

poscia con Tito a far vendetta corse
de la vendetta del peccato antico.

Par. XI, 112-114; XII, 64-66, 98-101

a’ frati suoi, sì com’ a giuste rede,         12]
raccomandò la donna sua più cara,
e comandò che l’amassero a fede        2]

la donna che per lui l’assenso diede,
vide nel sonno il mirabile frutto
ch’uscir dovea di lui e de le rede

…………………………. si mosse
quasi torrente ch’alta vena preme;
e ne li sterpi eretici percosse
l’impeto suo ………………………….

9] “Et exercitus qui sunt in celo” (Ap 19, 14), id est sancti celestem vitam agentes et contra exercitum demonum et reproborum preliantes, “sequebantur eum”, scilicet imitatione et participatione secundum quam effectus sequitur suam causam. Sequebantur etiam ipsum sicut ducem preeuntem ad bellum. “In equis albis”, id est, secundum Ricardum, in corporibus et operibus mundis. “Vestiti bissino albo mundo”, id est candore omnium virtutum a maculis criminum mundo. […] Tunc enim sancti habebunt sic pre oculis Christum tamquam suum regem et ducem, ac si ipsum visibiliter viderent in celis currentem et volantem ad triumphandum de Antichristo, “quem” quidem “interficiet spiritu oris sui et illustratione adventus sui”, prout dicitur secunda ad Thessa-lonicenses II° (2 Th 2, 8). Unde Ioachim super hoc loco, mota prius questione an Christus tunc per se ipsum appareat in tempore tante necessitatis ut prelietur contra Antichristum et suos in gladio oris sui, respondet: Ego puto quod per se ipsum veniet ad destruendum eum, ideoque visus est sedere super equum album, quia in corpore suo mundo apparebit bonis et malis ut faciat vindictam in nationibus.

10] “Et de ore eius procedit gladius acutus” (Ap 19, 15), id est sententia subtilis et rigida (quidam habent “ex utraque parte”, sed antiqui non habent hic “ex utraque parte” neque Ricardus, sed supra capitulo I° [Ap 1, 16]), “ut in ipso percutiat gentes”, quasdam scilicet in eternum interitum, quasdam vero ad correctionem et ad vitiorum suorum extinctionem.

11] “Et ipse reget eas in virga ferrea”, id est in inflexibili iustitia. Qui enim nolunt converti blanditiis et humilitate necesse est ut tunc temporis sentiant severitatem et fortitudinem discipline eius, ut saltem sero subiciantur sceptro ipsius. Rebelles autem sentient furorem eius, unde subditur: “Et ipse calcat torcular vini furoris ire Dei omnipotentis”, id est ipse premit impios penis mortiferis quas Deus Trinitas quasi furibundus et iratus propinat eis.

mettine giù, e non ten vegna schifo, / dove Cocito la freddura serra (vv. 122-123). All’esegesi dell’istruzione data a Laodicea (Ap 3, 14-22) rinviano molti luoghi del poema oltre all’incontro coi pusillanimi. Il tema del tepore pernicioso, rimproverato alla settima chiesa, si registra ad esempio in un momento di grave pericolo, che insinua nell’animo il desiderio di rinunciare: il volo in groppa a Gerione verso Malebolge (Inf. XVII, 85-90). Quando Virgilio lo invita a salire sul fiero animale, Dante prova tremando il senso di nausea e di vomito che il malato di “quartana” ha per i luoghi freddi (lo stesso sentimento proverà di fronte ai “gelati guazzi” di Cocito in Inf. XXXII, 70-72). La vergogna vince però la paura e il poeta non rinuncia ad andare avanti. Rispetto al commento scritturale, nei versi si conserva il tema della nausea mentre il freddo perde il suo valore positivo (di potersi trasformare in caldo) nei confronti del tiepido.
Virgilio invita il gigante Anteo a non avere “schifo” di deporre lui e Dante al fondo dell’inferno, “dove Cocito la freddura serra” (Inf. XXXI, 122-123) [2]. E in effetti il chinarsi di Anteo, senza “fare dimora” sul “fondo che divora / Lucifero con Giuda”, apparenta a suo modo il gigante a quei santi perfetti del quinto stato che condiscendono solo per la carità e l’utilità degli infermi senza per questo macchiarsi di impurità, nel caso senza contaminarsi coi traditori e gli apostati, dei quali colui che nella piana di Zama recò “già mille leon per preda” può ben avere “schifo”. Quei santi non verranno cancellati dal libro della vita, riceveranno anzi gloria e fama, secondo quanto esposto nell’esegesi della quinta vittoria, ed è la fama che brama Anteo (Ap 3, 5): “Ancor ti può nel mondo render fama, / ch’el vive, e lunga vita ancor aspettase ’nnanzi tempo grazia a sé nol chiama” (vv. 127-129). La fama, il vivere del proprio nome. è tema precipuo della quinta chiesa (Ap 3, 1); mettere o stare “giù” appartiene al quinto sigillo (Ap 6, 9.11).

[2] Se nell’esegesi di Ap 3, 15 la fonte principale è l’asceta Cassiano, non manca Riccardo di San Vittore. L’“utinam frigidus esses”, detto a Laodicea, risuona nell’apostrofe contro i traditori che stanno in Cocito, “mal creata plebe” (riflettere sulla propria creazione o principio appartiene anch’esso alla settima chiesa: Ap 3, 14), che meglio sarebbe stata in vita pecore o capre ignoranti e umili (Inf. XXXII, 13-15).

Così disse ’l maestro; e quelli in fretta / le man distese, e prese ’l duca mio, / ond’ Ercule sentì già grande stretta (vv. 130-132). Nel Notabile XI del prologo della Lectura, Olivi, per spiegare come le visioni dell’Apocalisse, o parte di esse, possano essere adattate a tempi diversi, paragona la Scrittura sacra a una mano o a una veste che vengano ora ristrette ora allargate e distese. Come il significato di un termine può essere assunto talora in un senso largo e talora in uno stretto, così la Scrittura e le sue figure possono essere ora coartate, cioè ristrette rispetto al loro pieno senso, ora estese oltre quanto consenta la lettera. Ciò non avviene per falsa interpretazione, ma a motivo della forza e della varietà della Scrittura.
Dopo le lusinghiere parole di Virgilio affinché deponga lui e Dante sul ghiaccio di Cocito, Anteo “le man distese … ond’ Ercule sentì già grande stretta” (Inf. XXXI, 130-132). La figura del gigante è memore della descrizione di Lucano (Phars. IV, 589-660), antica Scrittura che concorda con la nuova.

Qual pare a riguardar la Carisenda (v. 136).Olivi applica a Francesco sia la figura dell’angelo del sesto sigillo (Ap 7, 2) come quella dell’angelo dal volto solare (sesta tromba: Ap 10, 1-3). Un importante passo di Gioacchino da Fiore, relativo all’angelo dal volto solare, viene utilizzato da Dante in tutt’altro contesto (Purg. XXXII, 70ss.). A questo passo Olivi fa seguire l’immagine del carro di Elia come segno figurale di Francesco trasfigurato nel vero sole, cioè in Cristo, alla quale rinvia, in modo apparentemente dissonante, la similitudine di Inf. XXVI, 34-42. La “biga” con due ruote (Francesco e Domenico: Par. XII, 106-111) è prefigurata nell’Eden dal “carro, in su due ruote, trïunfale” (la Chiesa militante) tirato dal grifone-Cristo (Purg. XXIX, 106-108), a sua volta prefigurato dagli antichi carri trionfali della Roma di Scipione e di Augusto o dallo stesso carro del Sole (vv. 115-117).
L’angelo della sesta tromba, che ha la faccia come il sole, discende lievemente dal cielo, avvolto in una nube («per aeream et per subtilem seu spiritualem levitatem ab omni pondere terrenorum excussam fuit “amictus nube”, id est altissima paupertate aquis celestibus plena, id est suprema possessione et imbibitione celestium divitiarum»), il capo cinto da un arcobaleno. La nube designa la scienza delle Scritture, oppure (Gioacchino da Fiore) la scienza dei profeti, oppure la contemplazione estatica (designata, secondo lo Pseudo Dionigi, dalla nube nella quale Dio parlava a Mosè); la nube inoltre contempera i raggi del sole e irriga. L’iride designa l’intelligenza spirituale della Scrittura (Gioacchino), oppure l’arcuale rifulgenza del sole, perché la carità viscerale di Cristo aperta e dilatata come un arco verso le miserie umane fu continuamente, intimamente impressa nella mente di Francesco (Ap 10, 1).
Questi motivi vengono parodiati nel paragone del chinarsi del gigante Anteo verso il fondo dell’inferno con la Carisenda pendente verso chi la guarda dal basso quando una nuvola vi passi sopra (Inf. XXXI, 136-145). Il pozzo attorno a cui sono legati i giganti fa parte di una zona in cui prevalgono i temi del quinto stato. Il pozzo stesso è uno dei temi principali della quinta tromba (Ap 9, 1-2); Fialte dal collo in giù è avvinto dalla catena “infino al giro quinto” (vv. 88-90); Anteo esce fuori dalla roccia, senza la testa, “ben cinque alle” (vv. 113-114). Anche il “declinare” (equivale a ‘pendere’), come il “condiscendere”, fa parte dei temi del quinto stato (prologo, Notabile III; cfr. Par. XI, 43-45). Il sesto sigillo si apre con un grande terremoto (Ap 6, 12; 8, 5), ed è preannunciato dal “tremoto … tanto rubesto” con cui si scuote Fialte (Inf. XXXI, 106-108). Anteo, sciolto rispetto agli altri (tema da Ap 9, 14: il sesto angelo che suona la tromba scioglie i quattro angeli incatenati nel fiume Eufrate), assume su di sé caratteristiche del sesto stato; Virgilio gli si rivolge parodiando i temi della vittoria di Cristo sull’Anticristo. Il suo chinarsi “lievemente”, simile al pendere della Carisenda, ha qualcosa della “viscerosa caritas Christi” propria di Francesco che discende col capo coperto dalla nube dilatato ad arco verso le miserie umane (cfr. anche, a Inf. XXII, 19-24, la similitudine dei delfini, che fanno “arco” per segnalare ai marinai l’arrivo di una tempesta, con i barattieri della quinta bolgia che mostrano il dorso sopra la pece “ad alleggiar la pena”) [3]. La nube (che in questo caso, fra i vari significati, designerà nel senso di Gioacchino da Fiore la scienza delle scritture profetiche, perché Anteo prefigura Scipione, a sua volta prefigurazione del soccorso dell’“alta provedenza” preconizzata da san Pietro nell’ottavo cielo a Par. XXVII, 61-63) è accostata alla Carisenda, e il nome della bolognese torre pendente appare singolarmente consonante con la caritas verso gli inferiori, nonostante il timore di Dante. Lo stesso chinarsi senza ‘fare dimora’ sul “fondo che divora / Lucifero con Giuda” è parodia di un significato spirituale, in quanto Anteo si comporta a suo modo come quei santi perfetti del quinto stato che condiscendono solo per la carità e l’utilità degli infermi senza per questo macchiarsi di impurità, nel caso senza contaminarsi coi traditori e gli apostati. Questi perfetti non verranno cancellati dal libro della vita, riceveranno anzi gloria e fama (Ap 3, 5: quinta vittoria). Ed è proprio la fama che Virgilio promette al gigante (Inf. XXXI, 124-129). Il levarsi di questi “come albero in nave” allude ai prelati, alti come alberi nella scienza divina e nel frutto delle loro opere (Ap 8, 7), preposti ai monasteri e cenobi considerati navi spirituali (Ap 18, 17). Con una variazione dissonante, al gigante è appropriato il motivo del matrimonio, il sacramento per eccellenza del sesto stato (prologo, Notabile XIII) che appartiene a Francesco e a Povertà: “Ma lievemente al fondo che divora / Lucifero con Giuda, ci sposò … e dinanzi a la sua spirital corte / e coram patre le si fece unito” (Inf. XXXI, 142-143; Par. XI, 61-62).
Gioacchino da Fiore afferma che come l’arcobaleno appare unito alle nubi del cielo, così alle scritture dei profeti bisogna unire l’intelligenza mistica per convincere gli avversari. L’accostamento dell’arcobaleno alla nube si trova in Par. XII, 10-12, nel momento in cui una seconda corona di spiriti sapienti, in cui è Bonaventura, si aggiunge alla prima, nella quale è Tommaso d’Aquino. L’iride, in questo caso, è doppia, perché due sono i prìncipi ordinati (cfr. Ap 11, 4), Francesco e Domenico, dei quali sono tessute le lodi. È da notare che la nube è “tenera”, aggettivo che significa un motivo del quinto stato, “habens sensum vivum et tenerum pietatis” (prologo, Notabile XIII; cfr. quanto detto a Par. XXXI, 61-63 di san Bernardo, il quale al quinto periodo appartiene di diritto: “in atto pio / quale a tenero padre si convene”).

[3] La consonanza tra Carisenda e caritas induce, al v. 136, a prescegliere tale forma, propria dei codici fiorentini, anziché Garisenda, recata da quelli settentrionali e centrali.

Tab. VII

[LSA, cap. X, Ap 10, 1 (IIIa visio, VIa tuba] Ioachim dicit hic: «Quicumque erit iste predicator veritatis, “fortis” esse describitur, quia robustus erit in fide; et “de celo” descendet, id est de vita contemplativa ad activam; et “amictus” erit “nube”, quia indutus erit scriptura prophetarum; et “irim in capite”, quia Spiritum Sanctum et misticum seu spiritalem intellectum scripturarum habebit in mente. Sicut enim archus celestis apparet iunctus nubibus celi, sic scripturis prophetarum iungendus est misticus intellectus ad adversarios convincendos»*.

[segue Ap 10, 1] Et subdit: «Ego autem angelum istum secundum litteram aut Enoch fore puto aut Heliam. Verum, prout hoc Deus melius novit, unum dico pro certo, quod hic angelus significat personaliter magnum aliquem  predicatorem, quam-vis spiritaliter ad multos viros spiritales tunc temporis futuros competenter valeat intorqueri. Sane facies angeli similis est soli, quia in hoc sexto tempore oportet Dei contemplationem in modum solis splendescere et perduci ad notitiam eorum qui designantur in Petro et Iacobo et Iohanne, id est Latinorum et Grecorum et Hebreorum, primo quidem Latinorum, deinde Grecorum, tertio Hebreo-rum, ut fiant novissimi qui erant primi et e contrario». Hec Ioachim**

Purg. XXXII, 70-78

Però trascorro a quando mi svegliai,
e dico ch’un splendor mi squarciò ’l velo
del sonno, e un chiamar: “Surgi: che fai?”.
Quali a veder de’ fioretti del melo
che del suo pome li angeli fa ghiotti
e perpetüe nozze fa nel cielo,
Pietro e Giovanni e Iacopo condotti
e vinti, ritornaro a la parola

da la qual furon maggior sonni rotti

* Expositio, pars III, f. 137ra-b.

** Ibid., f. 137rb-va.

[segue Ap 10, 1] Sciendum etiam quod sicut sanctissimus pater noster Franciscus est post Christum et sub Christo primus et principalis fundator et initiator et exemplator sexti status et evangelice regule eius, sic ipse post Christum designatur primo per angelum istum. Unde et in huius signum in curru igneo apparuit transfiguratus in solem, ut monstraretur venisse in spiritu et imagine Helie (cfr. 4 Rg 2, 11) et simul cum hoc gerere perfectam imaginem veri solis, scilicet Christi.

Par. XII, 106-111

Se tal fu l’una rota de la biga
in che la Santa Chiesa si difese
e vinse in campo la sua civil briga,
ben ti dovrebbe assai esser palese
l’eccellenza de l’altra, di cui Tomma
dinanzi al mio venir fu sì cortese.

[LSA, Ap 7, 2; IIa visio, apertio VIi sigilli] Ascendit etiam “ab ortu solis”, quia sui ascensus in Deum fundamentum et initium cepit a sede romana, que inter quinque patriarchales ecclesias est principaliter sedes et civitas solis, id est Christi et fidei eius, de qua typice dicitur Isaie XIX°: “In die illa erunt quinque civitates in terra Egipti” et cetera, “civitas solis vocabitur una” (Is 19, 18).

Inf. XXVI, 34-42, 46-48

E qual colui che si vengiò con li orsi
vide ’l carro d’Elia al dipartire,
quando i cavalli al cielo erti levorsi,
che nol potea sì con li occhi seguire,
ch’el vedesse altro che la fiamma sola,
sì come nuvoletta, in sù salire:
tal si move ciascuna per la gola
del fosso, ché nessuna mostra ’l furto,
e ogne fiamma un peccatore invola.

E ’l duca, che mi vide tanto atteso,
disse: “Dentro dai fuochi son li spirti;
catun si fascia di quel ch’elli è inceso”.

Purg. XXIX, 106-108, 115-117

Lo spazio dentro a lor quattro contenne
un carro, in su due ruote, trïunfale,
ch’al collo d’un grifon tirato venne.

Non che Roma di carro così bello
rallegrasse Affricano, o vero Augusto,
ma quel del Sol saria pover con ello

[Ap 10, 1Ioachim dicit hic: «Quicumque erit iste predicator veritatis, “fortis” esse describitur, quia robustus erit in fide; et “de celo” descendet, id est de vita contemplativa ad activam; et “amictus” erit “nube”, quia indutus erit scriptura prophetarum; et “irim in capite”, quia Spiritum Sanctum et misticum seu spiritalem intellectum scripturarum habebit in mente. Sicut enim archus celestis apparet iunctus nubibus celi, sic scripturis prophetarum iungendus est misticus intellectus ad adversarios convincendos»*. […]
Ipse enim fuit singulariter “fortis” in omni virtute et opere Dei, et per summam humilitatem et recognitionem prime originis omnis nature et gratie semper “descendens de celo”, et per aeream et per subtilem seu spiritualem levitatem ab omni pondere terrenorum excussam fuit “amictus nube”, id est altissima paupertate aquis celestibus plena, id est suprema possessione et imbibitione celestium divitiarum. Fuit etiam “amictus nube”, id est extatice contemplationis caligine, quam secundum Dionysium, libro de mistica theologia, designabat caliginosa nubes in qua Deus apparebat et loquebatur Moysi (cfr. Ex 24, 18).
Habuit etiam “irim in capite”, id est arcualem refulgentiam solis, quia viscerosa caritas Christi ad nostras inferiores miserias aperta et arcualiter dilatata fuit assidue et intime impressa menti Francisci.

[LSA, prologus, Notabile XIII (VI status)] Matrimonium vero nuptiarum Christi et ecclesie congruit sexto statui , unde in sexta visione pro ipso dicitur: “Gaudeamus et exultemus, quia venerunt nuptie Agni et uxor eius preparavit se” (Ap 19, 7).

* Expositio, pars III, f. 137ra-b.

Par. XI, 43-45, 58-63

Intra Tupino e l’acqua che discende
del colle eletto dal beato Ubaldo,

fertile costa d’alto monte pende

ché per tal donna, giovinetto, in guerra
del padre corse, a cui, come a la morte,
la porta del piacer nessun diserra;
e dinanzi a la sua spirital corte
e coram patre le si fece unito;
poscia di dì in dì l’amò più forte.

Par. XII, 10-12

Come si volgon per tenera  nube
due archi paralelli e concolori,

quando Iunone a sua ancella  iube

Par. XXXI, 61-63

Diffuso era per li occhi e per le gene
di benigna letizia, in atto pio
quale a tenero padre si convene.

 

Inf. XXXI, 124-127, 136-145

Non ci fare ire a Tizio né a Tifo:
questi può dar di quel che qui si brama;
però ti china e non torcer lo grifo.
Ancor ti può nel mondo render fama

Qual pare a riguardar la Carisenda
sotto ’l chinato, quando un nuvol vada

sovr’ essa sì, ched ella incontro penda:
tal parve Antëo a me che stava a bada
di vederlo chinare, e fu tal ora
ch’i’ avrei voluto ir per altra strada.
Ma lievemente al fondo che divora
Lucifero con Giuda, ci sposò;
né, chinato, lì fece dimora,
e come albero in nave si levò.

Inf. XXII, 19-24

Come i dalfini, quando fanno segno
a’ marinar con l’arco de la schiena
che s’argomentin di campar loro legno,
talor così, ad alleggiar la pena,
mostrav’ alcun de’ peccatori ’l dosso
e nascondea in men che non balena.

[LSA, prologus, Notabile III (V status)] Item (zelus) est septiformis quia est contra initium mali intrinsecum (I) et extrinsecum (II); et contra medium terminum, scilicet ascendens (III) stans (IV) et declinans (V); et contra terminum intrinsecum (VI) et extrinsecum (VII).

[LSA, prologus, Notabile VII (V status)] Prima (responsio) est quia licet condescensio quinti status in infirmis, pro quibus fit, sit imperfectior, in sanctis tamen, arduas perfectiones priorum statuum in habitu mentis tenentibus et ex sola caritate et infirmorum utilitate condescendentibus, est ipsa condescensio ad perfectionis augmentum, prout patet in Christo infirmis condescendente. Unde et Ade subtracta est fortis costa ad formationem Eve, “et replevit” Deus “carnem pro ea” (Gn 2, 21), id est pietatem condescensionis pro robore solitarie austeritatis.

[LSA, prologus, Notabile XIII (V status)] In quinto vero tempore fuerunt spiritualiores monachi quasi aves volantes, clerici vero gentibus commixti fuerunt quasi pisces in aquis (cfr. Gn 1, 20-21). In hac autem die primo dictum est: “Crescite et multiplicamini” et cetera (Gn 1, 22), quia numquam in preteritis temporibus sic monasteria vel ecclesie in tali vita, que conveniret pluribus, ordinate fuere quomodo in tempore quinto, quia non tantum clericorum et monachorum, verum etiam ecclesiarum et monasteriorum que sunt propagata in tempore quinto in hac occidentali ecclesia colligere numerum non est facile. Unde quamvis vita monachorum quarti temporis fuerit clarior, non tamen fecundior nec sic habens sensum vivum et tenerum pietatis.

[LSA, cap. III, Ap 3, 5 (Va victoria)] Quinta est victoriosus descensus ad opera condescensionis et pietatis, qui tunc est victoriosus quando nichil sordis vel imperfectionis accipit ex consortio infirmorum quibus condescendit nec ex sua condescensione, immo inter carnales et laxos et immundos vivit sic immaculate et sancte ac si esset in solitudine vel inter austerrimos et perfectos, quod quidem patet tunc arduissimum tam in puritate quam in pietate misericordi et competit perfectis patribus quinti status […] quia isti ex multitudine immundorum, inter quos quasi sepulti et innominati vixerunt, et ex condescensione ad eos, visi sunt quasi infirmi et nulli, unde nec habuerunt nomen seu famam summe perfectorum, ideo digni sunt habere singulare nomen in gloria Dei et quod singulariter commendentur a Christo coram tota curia celi.

AVVERTENZE

Seppure segue l’ordine dei ventidue capitoli dell’Apocalisse, Olivi suggerisce, nel prologo della Lectura, un metodo differente di comprensione e di aggregazione del testo, fondato sui sette stati (status), cioè sulle epoche nelle quali si articola la storia della Chiesa, prefigurate nell’Antico Testamento.
L’Apocalisse si articola in sette visioni: le sette chiese d’Asia, i sette sigilli, le sette trombe, la donna vestita di sole (le sette guerre sostenute dalla Chiesa), le sette coppe, il giudizio di Babylon nelle sette teste del drago, la Gerusalemme celeste. Le prime sei visioni possono essere a loro volta divise in sette momenti, ciascuno dei quali riferibile a uno dei sette stati. Assembrando, per le prime sei visioni, tutti i primi elementi (chiesa, sigillo, tromba, guerra, coppa, momento del giudizio di Babylon), tutti i secondi, i terzi e così di seguito, si ottengono sette gruppi di materia teologica, corrispondenti al complesso dei temi afferenti a ciascuno dei sette stati. A questi sette gruppi si aggiungono altri due: l’esegesi della settima visione (senza articolazioni interne) e l’esegesi di capitoli del testo scritturale, o di parti di essi, introduttivi delle successive specificazioni delle singole visioni per settenari, che Olivi definisce “radicalia” o “fontalia”. Si ottengono in tal modo nove gruppi: le parti proemiali, i sette assembramenti di settenari e la settima visione. Il grande prologo della Lectura, articolato in tredici notabilia, può essere anch’esso aggregato secondo i sette stati. Un libro (la Lectura) contiene dunque princìpi e criteri affinché l’accorto lettore possa trarne un altro libro, fatto con lo stesso materiale ma ricomposto e distribuito in forma diversa.

La Commedia mostra un ordine interno diverso da quello che appare al lettore: il viaggio di Dante ha un andamento di ciclici settenari, che corrispondono ai sette stati della storia della Chiesa, cioè alle categorie con cui Olivi organizza la materia esegetica. Questo ordine interno è registrabile per zone progressive del poema dove prevale, tramite parole-chiave, la semantica riferibile a un singolo stato. È un’intima struttura dirompente i confini letterali stabiliti dai canti e da tutte le divisioni materiali per cerchi, gironi, cieli. Ogni stato, che ha differenti inizi, è concatenato per concurrentia, come le maglie di un’armatura, con quello che precede e con quello che segue. Si possono in tal modo redigere mappe che comprendano l’ordine spirituale della Commedia. La ricerca è pervenuta a una Topografia spirituale della Commedia, dove quasi per ogni verso, o gruppo di versi, collegamenti ipertestuali conducono al “panno” esegetico fornito dalla Lectura super Apocalipsim, sul quale il “buon sartore” ha fatto “la gonna” (cfr. Par. XXXII, 139-141).

■ A ogni gruppo è arbitrariamente assegnato un diverso colore: Radici (verde), I stato (verde acqua), II stato (rosso), III stato (nero), IV stato (viola), V stato (marrone), VI stato (blu), VII stato (indaco), VII visione (fucsia). Dei gruppi sono stati integralmente studiati il terzo stato e la settima visione. Mentre la diversità dei colori è rispettata nella tabella complessiva contenente i collegamenti ipertestuali, nelle sinossi i colori possono essere variati per maggiore evidenza.

Non di rado nei versi alcune parole o incisi-chiave possono rinviare a più luoghi esegetici. Questo perché il testo dottrinale contenuto nella Lectura, prima di travasarsi semanticamente nella Commedia, è stato sottoposto a una duplice riorganizzazione. La prima, sulla base delle indicazioni dello stesso Olivi, secondo il materiale esegetico attribuibile ai singoli stati. La seconda, seguendo il principio applicato nelle distinctiones ad uso dei predicatori, sulla base di lemmi analogicamente collazionati. La “mutua collatio” di parti della Lectura arricchisce il significato legato alle parole e consente uno sviluppo tematico amplificato. Si vedano, ad esempio, le variazioni eseguite sul tema della “voce” o sull’espressione “in medio”, temi più volte iterati nel sacro testo, oppure il modo con cui Ap 1, 16-17 (l’esegesi della decima e undecima prefezione di Cristo come sommo pastore) percorre i versi in collazione con altri passi. A ciò predispone lo stesso testo scritturale, poiché l’Apocalisse contiene espressioni, come Leitmotive, che ritornano più volte. È determinata da parole-chiave che collegano i passi da collazionare. È suggerita dallo stesso Olivi, nel prologo, per una migliore intelligenza del testo.

Tutte le citazioni della Lectura super Apocalipsim presenti nei saggi o negli articoli pubblicati su questo sito sono tratte dalla trascrizione, corredata di note e indici, del ms. Paris, Bibliothèque nationale de France, lat. 713, a disposizione fin dal 2009 sul sito medesimo. I passi scritturali ai quali si riferisce l’esegesi sono in tondo compresi tra “ ”; per le fonti diverse da quelle indicate si rinvia all’edizione in rete. Non viene presa in considerazione l’edizione critica a cura di WARREN LEWIS (Franciscan Institute Publications, St. Bonaventure – New York, 2015) per le problematiche da essa poste, che sono discusse in ALBERTO FORNI – PAOLO VIAN, A proposito dell’edizione di Warren Lewis della Lectura super Apocalipsim di Pietro di Giovanni Olivi. Alcune osservazioni, in “Archivum Franciscanum Historicum”, 109 (2016), pp. 99-161.
Il testo della Commedia citato è in Dante Alighieri, La Commedia secondo l’antica vulgata, a cura di GIORGIO PETROCCHI, Firenze 1994. Si tiene anche conto della recente edizione a cura di GIORGIO INGLESE, Firenze 2021 (Società Dantesca Italiana. Edizione Nazionale), qualora il testo proposto si discosti da quello del Petrocchi e la scelta della variante risulti discutibile nel confronto con la LSA.
Si fa riferimento ai seguenti commenti:

Dante Alighieri, La Divina Commedia. Inferno. Commento di ANNA MARIA CHIAVACCI LEONARDI, Milano 2007 (19911).

Dante Alighieri, Commedia. Inferno. revisione del testo e commento di GIORGIO INGLESE, Roma 2007.


ABBREVIAZIONI

Ap : APOCALYPSIS IOHANNIS.

LSA : PIETRO DI GIOVANNI OLIVI, Lectura super Apocalipsim.

Concordia : JOACHIM VON FIORE, Concordia Novi ac Veteris Testamenti. Herausgegeben von A. PATSCHOVSKY, Wiesbaden 2017 (Monumenta Germaniae Historica. Quellen zur Geistesgeschichte des  Mittelalters, 28. Band), Teil 2 (lib. I-IV), Teil 3 (lib. V).

Expositio : GIOACCHINO DA FIORE, Expositio in Apocalypsim, in Edibus Francisci Bindoni ac Maphei Pasini, Venetiis 1527, ristampa anastatica Minerva, Frankfurt a. M. 1964.

Olivi opera spesso una sintesi del testo di Gioacchino da Fiore. Le « » precedono e chiudono un’effettiva citazione. Diversamente, viene posto un asterisco (*) o una nota in apice al termine della parte riferibile a Gioacchino.

In Ap : RICCARDO DI SAN VITTORE, In Apocalypsim libri septem, PL 196, coll. 683-888.

 

Note sulla “topografia spirituale” della Commedia

Per quanto segua l’ordine dei ventidue capitoli dell’Apocalisse, Olivi suggerisce un metodo differente di comprensione e di aggregazione del testo esegetico, fondato sui sette stati, cioè sui periodi nei quali si articola la storia della Chiesa. L’Antico Testamento corrisponde alle prime cinque età del mondo, secondo la divisione tradizionale [1]: è l’età del Padre secondo Gioacchino da Fiore. Con il primo avvento di Cristo, nella carne, inizia la sesta età (l’età del Figlio), nella quale la Chiesa, come fosse un individuo, cresce e si sviluppa in sette stati. Al primo, apostolico periodo, succede il secondo dei martiri; poi, al tempo di Giustiniano, il terzo stato dei dottori che confutano con l’intelletto le eresie concorre con il quarto stato degli affettuosi anacoreti devoti al pasto eucaristico, alti per la contemplazione ma anche attivi come reggitori delle genti; a partire da Carlo Magno subentra il quinto stato aperto alla vita associata delle moltitudini, bello nel principio ma poi corrottosi fino a trasformare quasi tutta la Chiesa in una nuova Babilonia; la riforma interviene, a partire da Francesco, con il cristiforme sesto stato, fino alla sconfitta dell’Anticristo; subentra infine il silenzio e la quiete del pacifico settimo stato. Il sesto e il settimo stato (la terza età di Gioacchino da Fiore) coincidono con il secondo avvento di Cristo, nello Spirito, cioè nei suoi discepoli spirituali inviati a convertire il mondo con la predicazione; al termine del settimo stato ci sarà il terzo avvento, nel giudizio.
L’Apocalisse si articola in sette visioni: le sette chiese d’Asia, i sette sigilli, le sette trombe, la donna vestita di sole (le sette guerre sostenute dalla Chiesa), le sette coppe, il giudizio di Babylon nelle sette teste del drago, la Gerusalemme celeste. Le prime sei visioni possono essere a loro volta divise in sette momenti, ciascuno dei quali riferibile a uno dei sette stati. Assembrando, per le prime sei visioni, tutti i primi elementi (chiesa, sigillo, tromba, guerra, coppa, momento del giudizio di Babylon), tutti i secondi, i terzi e così di seguito, si ottengono sette gruppi di materia teologica, corrispondenti al complesso dei temi afferenti a ciascuno dei sette stati [2]. A questi sette gruppi se ne aggiungono altri due: l’esegesi della settima visione (senza articolazioni interne) e l’esegesi di capitoli del testo scritturale, o di parti di essi, introduttivi delle successive specificazioni delle singole visioni per settenari, che Olivi definisce “radicalia” o “fontalia”. Si ottengono in tal modo nove gruppi: le parti proemiali, i sette assembramenti di settenari e la settima visione. Il grande prologo della Lectura, articolato in tredici notabilia, può essere anch’esso aggregato nelle sue parti secondo i sette stati.

L’intenso travaso di parole-temi dalla Lectura nella Commedia si accompagna a un fatto strutturale. La Commedia mostra un ordine interno diverso da quello che appare al lettore: il viaggio di Dante ha un andamento di ciclici settenari, che corrispondono ai sette stati oliviani. È un ordine registrabile per zone progressive del poema dove prevalgono i temi di un singolo stato, che rompe i confini letterali stabiliti dai canti e da tutte le divisioni materiali per cerchi, gironi, cieli. Ogni stato, che ha differenti inizi, è concatenato per “concurrentia”, come le maglie di un’armatura, con quello che precede e con quello che segue. Ciascuno stato ha in sé una grande ricchezza di motivi e contiene inoltre temi di tutti gli altri, consentendo innumerevoli intrecci e variazioni. La Commedia appare, come l’Apocalisse, “libro scritto dentro e fuori” (Ap 5, 1), con duplice struttura, linguaggio e senso, letterale e spirituale. Il viaggio di Dante e la visione di Giovanni hanno la stessa causa finale, che è la beatitudine, alla quale si perviene con diverse guide, per gradi segnati da visioni sempre più nuove e ardue delle precedenti, attraverso una sempre maggiore apertura dell’arcano coperto dal velame dei sette sigilli fino al punto più alto in cui, in questa vita, è possibile vedere la verità.
Tutti i modi del linguaggio interiore al poema esprimono un processo, un viaggio dal più chiuso al più aperto, e in questo andare hanno una loro precisa collocazione ‘topografica’, uno ‘stato’ (nel senso di momento storico che ricade sulla coscienza individuale) al quale appartenere. Si possono in tal modo stendere vere e proprie mappe tematiche che comprendano l’ordine spirituale di tutta la Commedia che aderisce, parodiandola semanticamente, a una precisa teologia della storia, sia pure modificandone profondamente le prospettive. La ciclicità dei temi permette di stabilire collegamenti inusitati tra le diverse zone; il procedere per gradi dell’illuminazione divina fa sì che episodi oscuri e quasi ermeticamente chiusi si chiariscano poi, aprendosi all’intelligenza in modo più alto.
A ogni gruppo è arbitrariamente assegnato un diverso colore: Radici (verde), I stato (verde acqua), II stato (rosso), III stato (nero), IV stato (viola), V stato (marrone), VI stato (blu), VII stato (indaco), VII visione (fucsia). Dei gruppi sono stati integralmente studiati il terzo stato e la settima visione.

INFERNO

(le prime cinque età del mondo)

La ‘topografia spirituale’ del poema mostra nell’Inferno cinque cicli settenari corrispondenti agli stati della Chiesa descritti da Olivi e ai loro temi contenuti nella Lectura. Questi cinque cicli designano le prime cinque età del mondo (riunite a loro volta nel primo stato generale, che corrisponde all’età del Padre di Gioacchino da Fiore), in quanto prefigurazione del primo avvento di Cristo e della Chiesa.
I cinque cicli settenari che si susseguono nell’Inferno a partire dal quarto canto (i primi tre canti hanno una tematica particolare) sono preceduti da cinque zone che possono essere definite ‘snodi’, dove cioè confluiscono temi provenienti da più stati, intrecciati insieme ad altri ad avviare il procedere settenario. Il centro di questi ‘snodi’ coincide con un canto (Inf. IV, X, XVII, XXVI, XXXII), ma la zona è più vasta e supera l’ambito dato dalla divisione letterale del poema.

Inf. I-III sono da considerare al di fuori dei cicli. Inf. I e II sono profondamente segnati dai temi del sesto stato. Inf. III è riferibile al settimo stato (per gli ignavi) e in parte al quinto (per l’episodio di Caronte).

canti

I ciclo

stati

cerchi

IV

Limbo

Radici, I (I snodo)

I

V

lussuriosi

II

II

VI

golosi

III

III

VII

avari e prodighi

palude Stigia
(iracondi e accidiosi)

IIIIV

 

V

IV


V

VIII

palude Stigia (orgogliosi)
città di Dite

V

V

IX

apertura della porta di Dite

VVI

 

canti

II ciclo

stati

cerchi

IX-X-XI

eretici, ordinamento dell’inferno

I (II snodo)

VI

XII

violenti contro il prossimo

II

VII (girone 1)

XIII

violenti contro sé

III

        (girone 2)

XIV

violenti contro Dio: bestemmiatori

IV

        (girone 3)

XV-XVI

violenti contro Dio: sodomiti

V

XVI

XVII

ascesa di Gerione

Gerione,  violenti contro Dio: usurai

VI

canti

III ciclo

stati

cerchi

XVII

volo verso Malebolge

I (III snodo)

 

XVIII

ruffiani, lusingatori

Radici II

VIII (bolgia 1, 2)

XIX

simoniaci

III

(bolgia 3)

XX

indovini

IV

(bolgia 4)

XXI-XXII

barattieri

V

(bolgia 5)

XXIII

ipocriti

VVI

(bolgia 6)

XXIV-XXV

ladri

VI

(bolgia 7)

canti

IV ciclo

stati

cerchi

XXVI

consiglieri di frode (greci)

I (IV snodo)

(bolgia 8)

XXVII

consiglieri di frode (latini)

II

XXVIII-XXIX

seminatori di scandalo e di scisma

III

(bolgia 9)

XXIX

falsatori

IV

  (bolgia 10)

XXX

falsatori

IVV

XXXI

giganti

VVI

 

canti

V ciclo

stati

cerchi

XXXII

Cocito: Caina, Antenora

I (V snodo)

IX

XXXIII

Antenora, Tolomea

II

XXXIV

Giudecca

IIIIVV

XXXIV

volgersi di Virgilio sull’anca di Lucifero

VI

 

 

Il sesto stato è per Olivi la fase più importante nella costruzione dell’edificio della Chiesa. In esso “renovabitur Christi lex et vita et crux”. Corrisponde ai tempi moderni. Ha quattro diversi inizi temporali: uno profetico, con Gioacchino da Fiore, il quale lo vide in spirito concependo la sua terza età; il secondo con la conversione di Francesco (1206), che seminò la pianta; il terzo con la predicazione degli uomini spirituali, per la quale la pianta si rinnovella; il quarto con la distruzione storica di Babylon. Dura fino alla sconfitta dell’Anticristo, il cui avvento si collocherebbe, secondo i numeri della profezia di Daniele 12, 11-12 combinati con Ap 12, 6 e 14, fra il 1290 e il giubileo di pace del 1335.
Una ‘vita nuova’ si instaura nel sesto stato, per eccellenza il momento dell’imitazione di Cristo. I rami dell’albero si dilatano producendo il frutto della carità, l’acqua che proviene da Cristo-fonte attraverso il condotto che percorre i primi cinque stati della Chiesa si effonde in un lago; è il tempo, assimilato al sacramento del matrimonio, della letizia nuziale, della familiarità, dell’amicizia. Corrisponde al sesto giorno della creazione, in cui vennero creati prima i rettili e le bestie irrazionali, poi l’uomo razionale che, come l’ordine evangelico, è fatto a immagine e somiglianza di Dio e domina tutti gli animali.
Le espressioni di Olivi relative al sesto stato – “quoddam sollempne initium novi seculirenovaretur et consumaretur seculum”, nel quale il sacerdozio apostolico “redeat et assurgat ad ordinem primum”, la “nova Ierusalem”, interpretata come “visione di pace”, viene vista “descendere de celo” e la Chiesa descritta come la donna vestita di sole con la sua “virginea proles” – sono la veste spirituale dei versi della quarta egloga virgiliana che celebrano la rinnovata età dell’oro: “Magnus ab integro saeclorum nascitur ordo / iam redit et Virgo; redeunt Saturnia regna; / Iam nova progenies caelo demittitur alto” (Egloga IV, 5-7). Olivi completa la Lectura super Apocalipsim nel 1298, poco prima di morire, il 14 marzo, a Narbonne. Quel felicissimo stato segnato dalla pace sotto il divo Augusto, che rese l’umanità disposta al primo avvento di Cristo, si sta rinnovando nel sesto stato della Chiesa, nel secondo avvento nello Spirito. Scrive Arsenio Frugoni: “[…] quell’escatologismo, oltre che ideologia di lotta e di riforma del gruppo spirituale, era anche un vero e proprio sentimento storico […] una tensione di rinnovamento, una ansia di salvezza, che nel 1300, l’anno centenario della Natività, aveva trovato come una attivazione, in un senso di pienezza dei tempi, cui doveva corrispondere un fatto, un accadere meraviglioso e nuovo” [3].
All’apertura del sesto sigillo, l’eletta schiera dei riformatori – i 144.000 segnati dalle dodici tribù d’Israele – guida la turba innumerevole di ogni gente, tribù, popolo e lingua (Ap 7, 3-4.13). Questi eletti e magnanimi duci, separati dalla volgare schiera per più alta milizia, vengono destinati a difendere liberamente la fede – ad essi è data la “plena libertas ad innovandam christianam religionem” -; sono gli amici di Dio a lui noti per nome, configurati in Cristo crocifisso e votati al martirio.
All’interno della Chiesa del sesto stato, l’Ordine dei Minori – “ordo plurium personarum” – è  assimilabile alla persona umana di Cristo. Come questa si sviluppò fino all’età virile, così dovrà essere per l’ordo evangelicus piantato da Francesco, che avrà bisogno (a differenza di Cristo che stette poco tempo nel mondo) di due o tre generazioni per svilupparsi prima di subire una condanna simile a quella di Cristo [4]. La sua maturità coincide, verso il 1300, con il terzo inizio del sesto stato, cioè con il rinnovarsi per opera dello Spirito di Cristo, nel suo secondo avvento, della pianta seminata da Francesco. Questa concezione dell’Ordine francescano come individuo in sviluppo che, perfettamente maturato, diventa il novus ordo preconizzato da Gioacchino da Fiore per l’età dello Spirito, si differenzia da quella di Bonaventura, che aveva invece distinto i Francescani del proprio tempo – e quindi anche gli Spirituali – dall’Ordine finale che dominerà fino ai confini della terra. Alla terza apertura del sesto sigillo nuovi san Giovanni vengono inviati a predicare al mondo come nel tempo degli Apostoli. Ma Giovanni non designa solo un Ordine, perché Olivi lascia aperta la possibilità di rivelazioni individuali, avute da “singulares persone”, perfetti imitatori di Cristo votati, con la loro “lingua erudita”, al compito della conversione universale.

[LSA, cap. X, Ap 10, 11] “Et dixit michi: Oportet te iterum prophetare in gentibus et populis et linguis et regibus multis”. In ipsa sapientia libri expresse continetur quod oportet iterum predicari evangelium in toto orbe, et Iudeis et gentibus, et totum orbem finaliter converti ad Christum. Sed quod per istum hoc esset implendum non poterat sciri nisi per spiritualem revelationem, et hoc dico prout per Iohannem designantur hic singulares persone quia, prout per ipsum designatur in communi ordo evangelicus et contemplativus, scitur ex ipsa intelligentia libri quod per illum ordinem debet hoc impleri.

Nei cinque cicli settenari della prima cantica il sesto stato è segnato dall’apertura della porta della città di Dite (Inf. IX, 89-90); dall’ascesa di Gerione dall’abisso (Inf. XVI, 106-136); dal precipitoso passaggio dalla quinta alla sesta bolgia (Inf. XXIII, 1-57) e poi dalle trasformazioni della settima, dove i ladri fiorentini si mutano in serpenti e viceversa (Inf. XXIV-XXV); dal chinarsi di Anteo sul fondo dell’inferno (Inf. XXXI, 136-145); dal passaggio del centro della terra, con la conversione di Virgilio sull’anca di Lucifero, che è passaggio verso la sesta età, quella della Chiesa, descritta nel Purgatorio.
Ma i temi propri del sesto stato sono diffusi ovunque, intrecciati con quelli degli altri stati, e alla loro esegesi rinviano precise parole-chiave incardinate nel senso letterale dei versi. L’esegesi dell’angelo del sesto sigillo (Ap 7, 2) è già centrale nel primo canto del poema.
La novità che il sesto stato, per eccellenza stato di rinnovamento di questo secolo, arreca nell’inferno è una novità fittizia: l’apertura della porta della città di Dite non è vera novità, perché essa è stata chiusa dall’ostinazione dei diavoli, recidivi dopo l’apertura della porta dell’inferno da parte di Cristo prefigurata dalla venuta di Ercole all’Ade, per cui Cerbero “ne porta ancor pelato il mento e ’l gozzo”; Gerione viene su ad un “novo cenno” di Virgilio, ma è figura della frode dalla velenosa coda aculeata; il nuovo prodotto dalle trasformazioni reciproche di serpenti e uomini è qualcosa di incompiuto perché l’uomo razionale, creato nel sesto stato, regredisce allo stato precedente.
L’Inferno è il luogo della durezza lapidea, dell’impetrarsi, del parlare duro di cose dure a dirsi, del duro giudizio, del senso duro della scritta al sommo della porta, dei duri lamenti, dei duri demoni, dei duri veli del gelo, della gravezza. Nell’Inferno vige l’imposizione data a Daniele dall’angelo sotto il sesto sigillo dell’Antico Testamento: “Ora tu, Daniele, chiudi queste parole e sigilla questo libro fino al tempo stabilito” (Dn 12, 4), che era la sesta età nella quale apparve Cristo e in particolare il sesto stato della sua Chiesa nella quale il libro doveva essere più pienamente aperto, non però ai malevoli e ai maldisposti. Questa durezza è rotta dall’invito di Dante ai dannati perché parlino. Far parlare liberamente, per dettato interiore, è la principale prerogativa del sesto stato – la nuova età che tanto s’aspetta, quella che ode del “dolce stil novo” e delle “nove rime” -, ed è tema che la poesia canta per intero, sia pure per un attimo, anche nella vecchia roccia infernale. Appartiene alla sesta chiesa il parlare liberamente di Cristo – ad essa è dato l’“ostium apertum”, che è “ostium sermonis” – , il sentire per dettato interiore, l’aprirsi della volontà. Appartiene alla sesta chiesa anche il far venire quelli che si dicono Giudei senza esserlo, mutati nel cuore e disposti a farsi battezzare e governare. Questo far venire a parlare equivale al cortese e liberale invito dello Spirito di Cristo a convivare, a venire con desiderio e volontario consenso, con “disio” e con “velle”, in una pausa di pace nell’eterna dannazione. All’“affettüoso grido” del poeta le ombre di Francesca e Paolo vengono “dal voler portate” verso un momento di mutazione, sebbene limitata al successivo colloquio. Tutto l’Inferno è un contrappunto fra la durezza del giudizio e l’apertura per la parola dirompente, fin che essa dura, la pena. Un’apertura che si esprime in varie forme: muoversi sospirando nel Farinata prima immobile, ‘crollarsi’ quasi per terremoto interiore dello ‘schivo’ Ulisse, convertirsi del vento in voce in Guido da Montefeltro, tornare indietro nel cammino assegnato o separarsi dai compagni di pena, essere sforzati a parlare anche malvolentieri, non poterlo negare o mostrare fretta di farlo, arrestarsi obliando il martirio, levarsi per poi ricadere, sollevarsi da atti bestiali per ritornare a essi dopo aver parlato, come nel conte Ugolino. In tante lingue, che parlano come per sé stesse mosse, sta un solo desiderio, il vivere ancora nel libro che è stato altrui aperto.
Se nell’Inferno il sesto stato non si realizza mai compiutamente, anche il settimo, che gli è strettamente connesso, non può trovare un luogo autonomo. Ciò non toglie che temi del settimo stato (e della settima visione) siano ben presenti in modo diffuso. Ad esempio, quelli relativi alla settima chiesa assumono particolare rilievo nella descrizione degli ignavi a Inf. III. Tempo del silenzio, della serena pace, del riposo dalle ansiose fatiche, il settimo stato subentra dopo le terribili tentazioni inferte, con un martirio non corporale ma psicologico, dai carnefici dell’Anticristo nel sesto. Come ogni momento della storia umana partecipa dell’imitazione di Cristo, che raggiunge l’acme nel sesto stato, così in ogni periodo si verifica una sua “quietatio”, una pausa di pace, di quiete, di silenzio propria del settimo. Così Francesca parla e ascolta “mentre che ’l vento, come fa, ci tace”. Il vento – “la bufera infernal, che mai non resta” – designa il fluttuare tempestoso delle passioni nel cuore.

PURGATORIO

(sesta età del mondo)

Dopo le prime cinque età del mondo (corrispondenti all’Antico Testamento, la gioachimita età del Padre), che hanno segnato la discesa a spirale per i cinque cicli settenari dell’Inferno, con il Purgatorio inizia la sesta età, quella di Cristo (l’età del Figlio), che ha sette stati, corrispondenti ai sette stati della Chiesa. Dapprima, nel cosiddetto ‘antipurgatorio’, si registrano in successione temi prevalenti dei primi cinque stati. Il sesto stato della sesta età (con cui si apre l’età dello Spirito) inizia con l’apertura della porta di san Pietro (la porta del purgatorio). Questo sesto stato procede anch’esso con andamento settenario, per cui ha sette momenti, coincidenti principalmente con un girone della montagna, ma non del tutto, perché sempre l’ordine spirituale del poema rompe i confini letterali e le divisioni materiali, concatenando i temi di uno stato prevalente con quelli dello stato che precede e con quelli dello stato che segue e intrecciandoli con temi di tutti gli altri stati.
È spiegato nel Notabile VII del prologo della Lectura che il sesto stato della Chiesa è il secondo stato di Cristo e ha i suoi sette tempi per cui la Chiesa, come fosse una sfera, si ricongiunge circolarmente al primo apostolico tempo. Il settimo dei sette momenti del sesto stato della Chiesa coincide con il settimo stato generale della Chiesa, che nel poema corrisponde in parte all’ultimo girone della montagna (il settimo, dove si purgano i lussuriosi) e in parte all’Eden, con cui si chiude la seconda cantica.
Il Purgatorio dunque, secondo il senso spirituale, è la storia della Chiesa che corre verso il suo sesto stato, punto di riferimento di tutte le vicende umane, antiche e moderne, che ad esso cooperano. Non è casuale che nel sesto girone della montagna sia chiarificata e riconosciuta, nel colloquio con Bonagiunta da Lucca, la poetica delle “nove rime” di Dante, già “sesto tra cotanto senno” cooptato nella “bella scola” dei poeti del Limbo.
La vasta zona dedicata al sesto momento del sesto stato della Chiesa ha il suo inizio nel forte terremoto che scuote la montagna mentre Dante e Virgilio si trovano ancora nel quinto girone (Purg. XX, 124-141). Essa è stata compiutamente esaminata altrove.
Il settimo stato dell’Olivi si realizza parte in questa vita (come pregustazione in terra della gloria eterna, cioè fin sulla cima della montagna) e in parte nella futura (nel senso della quiete delle anime beate in attesa della resurrezione, che è la materia del Paradiso).

canti

I ciclo – fino al sesto sato

stati

 

I

Catone

Radici, I

 

II

angelo nocchiero, Casella

–  II

 

III

scomunicati

III

“Antipurgatorio”

IV

salita al primo balzo, Belacqua

IV  –  V

V

negligenti morti per violenza

V

VI

Sordello

V

VII-VIII

valletta dei principi

V

IX

apertura della porta

VI sesto stato

 

canti

II ciclo – il sesto stato della sesta età

stati

gironi

X-XII

superbi

I

I

XIII-XIV-XV

invidiosi

II

II

XV-XVIII

iracondi

ordinamento del purgatorio,

amore e libero arbitrio

III

III

IV

XVIII-XIX

accidiosi

IV

IV

XIX-XX

avari e prodighi

V

V

XX (terremoto)  -XXV

Stazio, golosi, generazione dell’uomo

VI

VI

XXV-XXVI

lussuriosi

VII – settimo stato

VII

XXVII

XXVIII-XXXIII

 muro di fuoco

notte stellata, termine dell’ascesa

Eden

 

 

PARADISO

(settimo stato della Chiesa)

Il Primo Mobile è il nono e penultimo cielo, ma è il sesto se si parte dal cielo del Sole. È anche il cielo più segnato dal tema del “punto”, cui è assimilato il sesto stato. Questo consente di ricostruire l’ordine spirituale del Paradiso ponendo la cerniera nel quarto cielo del Sole. Con il terzo cielo di Venere termina infatti il cono d’ombra gettato dalla terra, secondo la dottrina di Alfragano (Par. IX, 118-119), mentre prima di descrivere l’ascesa al cielo del Sole il poeta invita il lettore a rivolgersi “a l’alte rote” (Par. X, 7-27). Senza la cesura recisa che, nella prima cantica, divide i dannati puniti all’interno della città di Dite da quelli che ne stanno fuori e, nella seconda cantica, separa le anime purganti nei sette gironi della montagna dalle anime che attendono fuori della porta (il cosiddetto ‘antipurgatorio’), anche nel Paradiso gli spiriti che si manifestano nei primi tre cieli della Luna, di Mercurio e di Venere (spiriti che mancarono ai voti, spiriti che furono attivi per conseguire onore e fama, spiriti amanti) si distinguono per minore perfezione rispetto a quelli che appaiono nei cieli seguenti.
I dieci cieli del Paradiso si mostrano pertanto ordinati in due gruppi di settenari, corrispondenti agli stati della Chiesa (e alle loro prerogative) secondo Olivi, parzialmente combacianti (da 1 a 7 e da 4 a 10: coincidono gli ultimi quattro numeri del primo gruppo e i primi quattro del secondo).

I  Se si considera il primo settenario, nel primo cielo della Luna si affronta la questione dell’inadempienza dei voti, che ha corrispondenza con i temi propri della prima chiesa di Efeso, il cui nome, se interpretato, oscilla tra la fervida volontà iniziale e la remissione (l’essenza del voto consiste nella volontà).

II  Nel secondo cielo di Mercurio, le battaglie sostenute dal “sacrosanto segno” dell’aquila corrispondono allo stato dei martiri, che è dei combattenti, e anche la dottrina dell’incarnazione e della passione di Cristo, esposta successivamente da Beatrice, fa parte della tematica, perché l’intera Chiesa, fondata sulla passione di Cristo, imita con i martiri la sua croce, e questo giova assai al suo radicamento.

III  Nel terzo cielo di Venere, Carlo Martello spiega al modo di un dottore del terzo stato la diversità delle indoli umane e come gli uomini, non assecondandole, errino; nello stesso cielo compare Folchetto di Marsiglia, che da vescovo di Tolosa combatté l’eresia albigese.

IV – I  Al quarto cielo del Sole, primo del secondo gruppo di settenari per l’esaltazione della vita apostolica (propria del primo stato e rinnovata nel sesto), si può connettere il tema stesso del sole inteso nell’esegesi della quarta tromba (Ap 8, 12): “Per solem videtur hic designari solaris vita et contemplatio summorum anachoritarum, qui fuerunt patres et exempla aliorum, vel solaris sapientia et doctrina summorum doctorum”. Sapienza e contemplazione, dottori del terzo e anacoreti del quarto stato, concorrono, come Domenico e Francesco – “L’un fu tutto serafico in ardore; / l’altro per sapïenza in terra fue / di cherubica luce uno splendore” (Par. XI, 37-39) – con mutua cortesia a infiammare il meriggio dell’universo.

V – II  Il quinto cielo di Marte, secondo (come il secondo stato dei martiri) per l’esaltazione della croce di Cristo formata dai lumi dei combattenti per la fede, reca in sé il tema del condiscendere proprio del quinto stato sia nel pio discendere per la croce di Cacciaguida verso Dante, sia nella decadenza degli “alti Fiorentini”, cioè delle antiche famiglie, assimilate agli anacoreti, un tempo alti e poi vòlti in basso.

VI – III  Il sesto cielo di Giove, terzo (come il terzo stato dei dottori) per la spiegazione di profonde verità di fede, sviluppa il motivo, proprio della sesta chiesa, della “porta aperta”. Aprire la porta significa illuminare e rendere acuto l’intelletto che penetra nell’occulto delle Scritture, e anche dare efficacia spirituale a penetrare nel cuore di chi ascolta: così l’aquila apre la “latebra” di Dante, così l’occhio di Rifeo Troiano fu da Dio aperto alla futura redenzione.

VII – IV Nel settimo cielo di Saturno, quarto (come il quarto stato degli anacoreti), “si tace … la dolce sinfonia di paradiso” (Par. XXI, 58-60), e il tacere è tema del settimo stato. Ivi si mostrano gli spiriti contemplativi, principali soggetti del quarto stato, proprio degli anacoreti: se si conta a partire dal quarto cielo del Sole, considerando questo come primo ovvero come nuovo avvio del ciclo settenario, il cielo di Saturno è appunto quarto.

VIII (V) Il settimo cielo di Saturno è seguito dal cielo delle Stelle fisse – ottavo e quinto -, dove si mostrano le schiere del trionfo di Cristo che discendono dall’Empireo (il quinto stato è caratterizzato dalla “condescensio”) e si celebra il trionfo di Maria (sviluppo del tema, proprio della quinta chiesa, della mirabile bellezza della Chiesa, regina ornata di veste aurea per la carità che unisce e circondata dalla varietà nei doni e nelle grazie delle diverse membra). È inoltre ricapitolazione dei precedenti sette, secondo un’interpretazione più volte presente nella Lectura dell’essere ‘ottavo’. Per questo Dante, stando nel segno dei Gemelli, riguarda in giù e torna col viso per tutte quante le sette precedenti sfere (Par. XXII, 124-154).

IX (VI) Segue il Primo Mobile o Cristallino – nono e sesto cielo –, dove il poeta vede il punto luminosissimo – Dio – da cui dipende il cielo e la terra, circondato dai nove cerchi di fuoco (Par. XXVIII, 16-18, 40-42, 94-96). Il sesto stato, secondo quanto Olivi afferma nel Notabile VIII, è il “punto” da cui dipendono gli altri stati, perché appare nel testo dell’Apocalisse in modo più evidente degli altri, che da esso assumono chiarezza quanto alla loro manifestazione nella storia, come l’intelligenza delle cose ordinate ad un fine dipende dal fine.

X (VII) La quiete e l’immobilità dell’Empireo, decimo cielo – il “ciel de la divina pace” -, corrispondono al settimo stato, di cui è propria la “quietatio”, il silenzio (tema anticipato dal tacere di Beatrice in apertura del canto XXIX), e la pace.

Il Paradiso avrebbe pertanto un ordine spirituale del seguente tipo:

cielo

stato

cielo

I

LUNA

I

II

MERCURIO

II

III

VENERE

III

IV

SOLE

IV

I

SOLE

V

MARTE

V

II

MARTE

VI

GIOVE

VI

III

GIOVE

VII

SATURNO

VII

IV

SATURNO

VIII

V

STELLE FISSE

IX

VI

PRIMO MOBILE

X

VII

EMPIREO

Oltre ai luoghi sopra indicati, i temi del sesto e del settimo stato si rinvengono in più punti, intrecciati con altri.

[1] Cfr. LSA, cap. XVII, Ap 17, 9: «Et subdit Ricardus quod per septem reges, et per septem capita designatos, designatur hic universus populus malorum, qui secundum septem status huius seculi determinantur. Primus scilicet ab Adam usque ad Noe. Secundus a Noe usque ad Abraam. Tertius ab Abraam usque ad Moysen. Quartus a Moys<e> usque ad David. Quintus a David usque ad Christum. Sextus a Christo usque ad Antichristum. Septimus autem sub Antichristo attribuitur». Cfr. PETRI IOHANNIS OLIVI Lectura super Lucam, Lc 1, 26, ed. F. Iozzelli, Grottaferrata 2010 (Collectio Oliviana, V), pp. 187-188: «Signanter autem dicitur in sexto mense, quia Christus uenit in sexta mundi etate, et iterum post quinque notabiles synagoge decursus: nam primo, cum sola circumcisione fuit sub patribus per quadringentos annos; secundo, accepta lege, fuit sub iudicibus per tantumdem temporis; tertio, proficiens in regnum, fuit sub regibus; quarto, assumpto plenius spiritu prophetico, fuit sub prophetis sollempnioribus, scilicet sub Elia, Ysaia et Yeremia etc.; quinto, restituto templo et urbe, fuit sub pontificibus quibus, per Aggeum et Zachariam et Malachiam iterata prophetia de Christo et eius precursore Elia, factum est silentium prophetarum, ita quod obmutuit cetus sacerdotum usque ad Iohannis ortum; et iterum in eiusdem quinti temporis sexto centenario conceptus est Christus. Sicut etiam sexto die factus est homo ad ymaginem Dei, sic conuenienter sub consimili senario factus est Christus homo, plenior Dei ymago: nam et perfectio numeri senarii, que ex omnibus partibus suis aliquotis et iterum ex ternario cum suis partibus, scilicet binario et unitate, consurgit, competit sibi et etiam reflexio ternarii per binarium, id est cultus fidei et Trinitatis per geminam caritatem».

[2] Il principio è chiaramente affermato nel notabile VIII del prologo della LSA: «[…] si omnia prima membra visionum ad invicem conferas et consimiliter omnia secunda et sic de aliis, aperte videbis omnia prima ad idem primum concorditer referri et consimiliter omnia secunda ad idem secundum et sic de aliis. Et hoc in tantum quod plena intelligentia eiusdem primi multum clarificatur ex mutua collatione omnium primorum, et idem est de omnibus secundis et tertiis et sic de aliis».

[3] A. FRUGONI, La Roma di Dante, tra il tempo e l’eterno, in ID., Pellegrini a Roma nel 1300. Cronache del primo Giubileo, presentazione di C. Frugoni, a cura e con Introduzione di F. Accrocca, Casale Monferrato 1999, pp. 102-103.

[4] LSA, cap. VI, Ap 6, 12: «Secunda ratio est quia persone Christi correspondet in sexta apertione unus ordo plurium personarum sic secundum suam proportionem augendus, sicut Christus secundum suum corpus fuit usque ad perfectam etatem viriliter auctus. […] Quarta est quia, prout super evangelia ostendi, Christus parvo tempore debuit inter nos vivere et pauciori predicare […]. Nisi autem ordo evangelicus, per Franciscum renovatus, esset in multis et saltem sub duabus vel tribus generationibus propagatus et sollempnizatus, non esset nec ipse nec populus ab eo ducendus sufficienter dispositus ad tam autenticam condempnationem condempnationi Christi consimilem subeundam».