La “Divina Parodia” del Libro scritto dentro e fuoriCanti esaminati:Inferno: I; II; III; IV; V; VI; VII; VIII; IX; X; XI; XII; XIII; XIV; XV; XVI; XVII; XVIII; XIX; XX; XXI; XXII; XXIII; XXIV; XXV; XXVI; XXVII; XXVIII; XXIX; XXX; XXXI; XXXII, 1-123; XXXII, 124-XXXIII, 90; XXXIII, 91-157; XXXIVPurgatorio: III; XXVIII; XXIX
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Introduzione. 1. I giganti. 2. Nembrot. 3. Anteo. Avvertenze. Abbreviazioni. Note sulla “topografia spirituale” della Commedia. |
Legenda [3]: numero dei versi; 9, 5: collegamento ipertestuale all’esegesi, nella Lectura di Olivi, di capitolo e versetto dell’Apocalisse [Ap]; Not. III: collegamento all’esegesi contenuta nei tredici notabilia del prologo della Lectura. Varianti rispetto al testo del Petrocchi.Viene qui esposto il canto XXXI dell’Inferno con i corrispondenti legami ipertestuali con i luoghi della Lectura super Apocalipsim ai quali i versi si riferiscono. L’intero poema è esposto nella Topografia spirituale della Commedia (2013, PDF; cfr. infra), ma si sta procedendo a un esame progressivo e aggiornato dei singoli canti. Ogni tabella sinottica, qui presentata o alla quale si rinvia in quanto già esaminata in altra sede, è preceduta o seguita da una parte esplicativa. Per la posizione di Inf. XXXI nella topografia della prima cantica cfr. infra. Sull’uso dei colori cfr. Avvertenze.
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Inferno XXXI |
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Quintus status: prologus, Notabilia [Not.]; I visio, V ecclesia (Sardis: 3, 1-6); II visio, V sigillum (6, 9-11); III visio, V tuba (9, 1-12); IV visio, V prelium (12, 17-18); V visio, V phiala (16, 10-11); VI visio (18, 4-7). |
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Una medesma lingua pria mi morse, 9, 5
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Vengono qui di seguito posti a confronto Inf. VII, 97-130, VIII, IX, 1-105 / XV, XVI / XXI-XXII-XXIII, 1-57 / XXXI, canti nei quali, rispettivamente nel primo, nel secondo, nel terzo e nel quarto ciclo settenario dell’Inferno, i temi del quinto stato prevalgono, semanticamente elaborati dalla parodia dantesca. La tematica si estende oltre i confini del singolo canto e, come mostrato nelle tabelle complessive, si intreccia con molti motivi propri di altri gruppi esegetici relativi agli status o periodi della storia della Chiesa.
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Primo ciclo |
Secondo ciclo |
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Inferno VII, 97-130 – VIII – IX, 1-105 |
Inferno XV–XVI |
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Inf. VII, 97-130« Or discendiamo omai a maggior pieta; 7, 7
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Inf. XV
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Terzo cicloInf. XXI |
Terzo cicloInf. XXII–XXIII, 1-57 |
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Così di ponte in ponte, altro parlando
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Una medesma lingua pria mi morse, 9, 5
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Io vidi già cavalier muover campo,
e cominciare stormo e far lor mostra,
e talvolta partir per loro scampo; [3] 18, 4
corridor vidi per la terra vostra,
o Aretini, e vidi gir gualdane,
fedir torneamenti e correr giostra; [6]
quando con trombe, e quando con campane,
con tamburi e con cenni di castella,
e con cose nostrali e con istrane; [9] 5, 1
né già con sì diversa cennamella
cavalier vidi muover né pedoni,
né nave a segno di terra o di stella. [12]
Noi andavam con li diece demoni. 2, 10
Ahi fiera compagnia! ma ne la chiesa 3, 5; 18, 4
coi santi, e in taverna coi ghiottoni. [15]
Pur a la pegola era la mia ’ntesa,
per veder de la bolgia ogne contegno
e de la gente ch’entro v’era incesa. [18]
Come i dalfini, quando fanno segno Not. XIII
a’ marinar con l’arco de la schiena
che s’argomentin di campar lor legno, [21]
talor così, ad alleggiar la pena,
mostrav’ alcun de’ peccatori ’l dosso
e nascondea in men che non balena. [24] 6, 9.11
E come a l’orlo de l’acqua d’un fosso
stanno i ranocchi pur col muso fuori, Not. XIII
sì che celano i piedi e l’altro grosso, [27] 6, 9.11
sì stavan d’ogne parte i peccatori;
ma come s’appressava Barbariccia, 6, 9.11
così si ritraén sotto i bollori. [30] 6, 9.11
I’ vidi, e anco il cor me n’accapriccia,
uno aspettar così, com’ elli ’ncontra 6, 11;Not. XIII
ch’una rana rimane e l’altra spiccia; [33] 12, 17
e Graffiacan, che li era più di contra,
li arruncigliò le ’mpegolate chiome
e trassel sù, che mi parve una lontra. [36] Not. XIII
I’ sapea già di tutti quanti ’l nome, 3, 4-5; 7, 3-4
sì li notai quando fuorono eletti,
e poi ch’e’ si chiamaro, attesi come. [39] 3, 3
« O Rubicante, fa che tu li metti 6, 9.11
li unghioni a dosso, sì che tu lo scuoi! »,
gridavan tutti insieme i maladetti. [42] 5, 1
E io: « Maestro mio, fa, se tu puoi, 7, 13-14
che tu sappi chi è lo sciagurato
venuto a man de li avversari suoi ». [45]
Lo duca mio li s’accostò allato;
domandollo ond’ ei fosse, e quei rispuose:
« I’ fui del regno di Navarra nato. [48]
Mia madre a servo d’un segnor mi puose,
che m’avea generato d’un ribaldo,
distruggitor di sé e di sue cose. [51]
Poi fui famiglia del buon re Tebaldo;
quivi mi misi a far baratteria,
di ch’io rendo ragione in questo caldo ». [54]
E Cirïatto, a cui di bocca uscia
d’ogne parte una sanna come a porco, 9, 11
li fé sentir come l’una sdruscia. [57]
Tra male gatte era venuto ’l sorco;
ma Barbariccia il chiuse con le braccia 9, 3
e disse: « State in là, mentr’ io lo ’nforco ». [60]
E al maestro mio volse la faccia;
« Domanda », disse, « ancor, se più disii
saper da lui, prima ch’altri ’l disfaccia ». [63]
Lo duca dunque: « Or dì: de li altri rii
conosci tu alcun che sia latino 12, 17
sotto la pece? ». E quelli: « I’ mi partii, [66] 6, 9.11
poco è, da un che fu di là vicino. 12, 17
Così foss’ io ancor con lui coperto, 6, 9.11
ch’i’ non temerei unghia né uncino! ». [69]
E Libicocco « Troppo avem sofferto », 6, 9.11
disse; e preseli ’l braccio col runciglio,
sì che, stracciando, ne portò un lacerto. [72]
Draghignazzo anco i volle dar di piglio
giuso a le gambe; onde ’l decurio loro 7, 3
si volse intorno intorno con mal piglio. [75]
Quand’ elli un poco rappaciati fuoro, Not. IX
a lui, ch’ancor mirava sua ferita,
domandò ’l duca mio sanza dimoro: [78]
« Chi fu colui da cui mala partita 7, 13-14
di’ che facesti per venire a proda? ».
Ed ei rispuose: « Fu frate Gomita, [81]
quel di Gallura, vasel d’ogne froda, 12, 17
ch’ebbe i nemici di suo donno in mano,
e fé sì lor, che ciascun se ne loda. [84]
Danar si tolse e lasciolli di piano,
sì com’ e’ dice; e ne li altri offici anche
barattier fu non picciol, ma sovrano. [87]
Usa con esso donno Michel Zanche
di Logodoro; e a dir di Sardigna 2, 1
le lingue lor non si sentono stanche. [90] 6, 8
Omè, vedete l’altro che digrigna;
i’ direi anche, ma i’ temo ch’ello
non s’apparecchi a grattarmi la tigna ». [93]
E ’l gran proposto, vòlto a Farfarello
che stralunava li occhi per fedire, [Not. XIII
disse: « Fatti ’n costà, malvagio uccello! ». [96]
« Se voi volete vedere o udire »,
ricominciò lo spaürato appresso,
« Toschi o Lombardi, io ne farò venire; [99]
ma stieno i Malebranche un poco in cesso,
sì ch’ei non teman de le lor vendette;
e io, seggendo in questo loco stesso, [102] Not. XII
per un ch’io son, ne farò venir sette
quand’ io suffolerò, com’ è nostro uso
di fare allor che fori alcun si mette ». [105]
Cagnazzo a cotal motto levò ’l muso,
crollando ’l capo, e disse: « Odi malizia 9, 3
ch’elli ha pensata per gittarsi giuso! ». [108]
Ond’ ei, ch’avea lacciuoli a gran divizia,
rispuose: « Malizioso son io troppo, 9, 3
quand’ io procuro a’ mia maggior trestizia ». [111]
Alichin non si tenne e, di rintoppo [6, 9.11
a li altri, disse a lui: « Se tu ti cali, V status
io non ti verrò dietro di gualoppo, [114]
ma batterò sovra la pece l’ali.
Lascisi ’l collo, e sia la ripa scudo, 6, 9.11
a veder se tu sol più di noi vali ». [117]
O tu che leggi, udirai nuovo ludo:
ciascun da l’altra costa li occhi volse, Not. VII
quel prima, ch’a ciò fare era più crudo. [120] 9, 8
Lo Navarrese ben suo tempo colse; [Not. VIII
fermò le piante a terra, e in un punto 9, 3
saltò e dal proposto lor si sciolse. [123] 9, 1-2
Di che ciascun di colpa fu compunto, 9, 5-6
ma quei più che cagion fu del difetto; 12, 3
però si mosse e gridò: « Tu se’ giunto! ». [126]
Ma poco i valse: ché l’ali al sospetto 9, 3
non potero avanzar; quelli andò sotto, 6, 9.11
e quei drizzò volando suso il petto: [129]
non altrimenti l’anitra di botto, Not. XIII
quando ’l falcon s’appressa, giù s’attuffa, 6, 9.11
ed ei ritorna sù crucciato e rotto. [132] 9, 5-6
Irato Calcabrina de la buffa, 9, 5-6 [2, 12
volando dietro li tenne, invaghito 9, 3; 5, 1
che quei campasse per aver la zuffa; [135] 9, 7
e come ’l barattier fu disparito,
così volse li artigli al suo compagno,
e fu con lui sopra ’l fosso ghermito. [138]
Ma l’altro fu bene sparvier grifagno Not. XIII
ad artigliar ben lui, e amendue
cadder nel mezzo del bogliente stagno. [141]
Lo caldo sghermidor sùbito fue;
ma però di levarsi era neente, 9, 3
sì avieno inviscate l’ali sue. [144]
Barbariccia, con li altri suoi dolente,
quattro ne fé volar da l’altra costa 9, 3; Not. VII
con tutt’ i raffi, e assai prestamente [147] 9, 7
di qua, di là discesero a la posta;
porser li uncini verso li ’mpaniati,
ch’eran già cotti dentro da la crosta.
E noi lasciammo lor così ’mpacciati. [151]
Inf. XXIII, 1-57
Taciti, soli, sanza compagnia 3, 5
n’andavam l’un dinanzi e l’altro dopo,
come frati minor vanno per via. [3]
Vòlt’ era in su la favola d’Isopo
lo mio pensier per la presente rissa, 9, 7
dov’ el parlò de la rana e del topo; [6]
ché più non si pareggia ‘mo’ e ‘issa’
che l’un con l’altro fa, se ben s’accoppia
principio e fine con la mente fissa. [9]
E come l’un pensier de l’altro scoppia,
così nacque di quello un altro poi,
che la prima paura mi fé doppia. [12]
Io pensava così: ‘Questi per noi
sono scherniti con danno e con beffa 9, 5-6
sì fatta, ch’assai credo che lor nòi. [15]
Se l’ira sovra ’l mal voler s’aggueffa, 6, 12-17
ei ne verranno dietro più crudeli 9, 8
che ’l cane a quella lievre ch’elli acceffa’. [18]
Già mi sentia tutti arricciar li peli 6, 14
de la paura e stava in dietro intento, 6, 12-17
quand’ io dissi: « Maestro, se non celi [21]
te e me tostamente, i’ ho pavento
d’i Malebranche. Noi li avem già dietro;
io li ’magino sì, che già li sento ». [24]
E quei: « S’i’ fossi di piombato vetro,
l’imagine di fuor tua non trarrei
più tosto a me, che quella dentro ’mpetro. [27]
Pur mo venieno i tuo’ pensier tra ’ miei,
con simile atto e con simile faccia,
sì che d’intrambi un sol consiglio fei. [30]
S’elli è che sì la destra costa giaccia, Not. VII
che noi possiam ne l’altra bolgia scendere,
noi fuggirem l’imaginata caccia ». [33] 6, 12-17
Già non compié di tal consiglio rendere,
ch’io li vidi venir con l’ali tese
non molto lungi, per volerne prendere. [36]
Lo duca mio di sùbito mi prese, 16, 15; 3, 3
come la madre ch’al romore è desta 5, 1
e vede presso a sé le fiamme accese, [39]
che prende il figlio e fugge e non s’arresta, 6, 12-17
avendo più di lui che di sé cura,
tanto che solo una camiscia vesta; [42]
e giù dal collo de la ripa dura
supin si diede a la pendente roccia, Not. III
che l’un de’ lati a l’altra bolgia tura. [45]
Non corse mai sì tosto acqua per doccia
a volger ruota di molin terragno,
quand’ ella più verso le pale approccia, [48]
come ’l maestro mio per quel vivagno,
portandosene me sovra ’l suo petto,
come suo figlio, non come compagno. [51] 5, 1
A pena fuoro i piè suoi giunti al letto
del fondo giù, ch’e’ furon in sul colle 6, 12-17
sovresso noi; ma non lì era sospetto: [54]
ché l’alta provedenza che lor volle
porre ministri de la fossa quinta,
poder di partirs’ indi a tutti tolle. [57] 9, 14
Introduzione
Inf. XXXI è tutto pervaso da temi del quinto stato, prosecuzione di quelli già presenti in Inf. XXX e, in parte, nel precedente XXIX. Il canto si apre con un riferimento al tema del mordere, dalla quinta tromba (v. 1; mordere è proprio delle locuste che causano il “remorsus conscientie”, Ap 9, 5), e a quello della medicina (v. 3), dal Notabile III del prologo (nel quinto stato la cura d’anime insiste di più sull’estirpare il morbo con la medicina; cfr. Ap 15, 8) [1]. L’ora – “Quiv’ era men che notte e men che giorno” (v. 10) – è la stessa del quinto stato, che si svolge nel vespro (prologo, Notabile VII). Il pozzo dentro e attorno al quale torreggiano i giganti è tema della quinta tromba, come pure l’aura grossa e scura stipata di vapore (vv. 32.37, Ap 9, 2; fanno da contrappunto, al v. 8, motivi della settima visione: Ap 22, 2 [ripa], 20, 8 [’l cinge dintorno]) [2]. La natura, che non si pente di produrre ancora elefanti e balene, ha però smesso l’arte di generare possenti animali come i giganti (vv. 52-53): i versi contengono i temi della penitenza, il sacramento che si addice al quinto stato, e dei pesci bestiali creati nel quinto giorno (prologo, Notabile XIII; Ap 13, 1) [3]. Fialte è avvolto dalla catena, sulla parte scoperta del corpo, “infino al giro quinto” (vv. 88-90); Anteo, che nel chinarsi pendendo sul fondo dell’inferno incarna il tema della condescensione tipica del quinto periodo (cfr. infra), è invece sciolto e esce fuori della roccia per “cinque alle”, senza la testa (vv. 113-114). Fialte, nel suo scuotersi presto e forte, registra in sé motivi della quinta tromba appropriati alle locuste animose e forti (Ap 9, 7), insieme al tema del terremoto (Ap 11, 19). Come pure all’esegesi della quinta tromba, e precisamente alla proprietà delle locuste di avere la “vox rotarum” (Ap 9, 9), cioè la voce di sentenze altissime e volanti sopra le altre che formano come il suono di ruote e di eserciti tumultuosi correnti in guerra contro ogni sentenza contraria, per quanto vera, è da connettere la terzina che descrive il suono del corno di Nembrot (vv. 12-15).
Questa strana terra, tenebrosa come la sede della bestia (v. 23; quinta coppa, Ap 16, 10), è per alcuni aspetti riconducibile ai motivi propri di quella sede di Pietro alla quale Carlo Magno (che però in questo caso è colui che “perdé la santa gesta”) ha raccolto, riparandole, le reliquie della Chiesa (prologo, Notabile XIII). Nembrot ha la faccia “lunga e grossa / come la pina di San Pietro a Roma” [4], sulla quale sono proporzionate le altre parti del corpo (vv. 58-60): l’inciso “e a sua proporzione” pare un calco su “secundum proportionem suarum virium” dal Notabile III del prologo, dove l’espressione è riferita all’essere proprio del quinto stato il ricevere le moltitudini in modo proporzionato alle capacità di ciascuno (cfr. Ap 18, 7). Fialte e Anteo sono segnati dai temi del nome e della fama, tipici della quinta chiesa (Ap 3, 1). Fialte è “fero” come il re delle locuste (v. 84, quinta tromba; Ap 9, 11). Queste, pungendo, inoculano timore e dubbio, proprio di Dante nel vedere il gigante (vv. 109-111; Ap 9, 5-6).
Il passaggio al sesto stato, anticipato nello scuotersi di Fialte dal tema del terremoto, assimilabile a quello che si verifica all’apertura del sesto sigillo (vv. 106-107; Ap 11, 19) e anche dal tema dello straniarsi, ai versi 21, 23, 26, 30, applicato al falso immaginare fondato sulla conoscenza sensibile (l’“extraneitas” è causa della chiusura del sesto sigillo: Ap 5, 1), è sottolineato in Anteo, sciolto come gli angeli al suono della sesta tromba (Ap 9, 14) e segnato da temi della sesta visione e dell’angelo dalla faccia solare.
[1] “così od’ io che solea far la lancia / d’Achille e del suo padre esser cagione / prima di trista e poi di buona mancia” (vv. 4-6). La lancia di Achille e del suo padre Peleo, che secondo Ovidio aveva la proprietà di guarire le ferite da lei stessa inferte (Met. XIII, 171-172; Rem. Amoris, 44-48; Trist. V, ii, 15-16), topos letterario per indicare gli effetti delle piaghe d’amore, è antica prefigurazione della lancia di Longino, che trafisse con dolore il costato di Cristo provocando la morte ma al tempo stesso la salvezza dell’umanità. Così Olivi nella Lectura super Iohannem, cap. XIX: “[…] sic dolor et pena passionis letalis, mortem causantis et inducentis, fuit in ratione meriti principalior causa nostre salutis, quam fuerit privatio, que dicitur mors, subsequens totam passionem factam” (cfr. P. I. OLIVI Postilla in Ioannem, cap. 19, v. 33, ed. V. DOUCET, De operibus manuscriptis fr. Petri Ioannis Olivi in Bibliotheca Universitatis Patavinae asservatis, in “Archivum Franciscanum Historicum”, 28 (1935), pp. 436-441). Contro la dottrina ufficiale (riaffermata ad esempio da Tommaso d’Aquino), Olivi sosteneva che la lanceatio causò la morte di Cristo e non avvenne dopo questa.
[2] “Noi demmo il dosso al misero vallone / su per la ripa che ’l cinge dintorno” (vv. 7-8). Per altri (cfr. Inglese): ch’el cinge, nel senso che il vallone cinge la ripa, in quanto la bolgia ha un diametro maggiore del suo margine interno. Ma nella descrizione iniziale di Malebolge le “dieci valli” si collocano “tra ’l pozzo e ’l piè de l’alta ripa dura”, ripa (il margine superiore) che pertanto le cinge (Inf. XVIII, 7-9).
[3] La natura, che segue l’arte divina le cui opere, in ciascuna parte, sono come le corde di una cetra (Ap 14, 2; da notare la rima parte / arte ai vv. 47.49), ha smesso di creare giganti, si è fatta più discreta come le virtù incise sugli stipiti angolari della Gerusalemme celeste (Ap 21, 12: sottilmente, discreta). Gli angoli congiungono e rafforzano, ma malamente per i giganti: “ché dove l’argomento de la mente / s’aggiugne al mal volere e a la possa, (cfr. Ap 6, 3) / nessun riparo vi può far la gente”.
[4] Carlo Magno, citato al v. 17, fu colui che in seguito alle devastazioni dei Saraceni raccolse la Chiesa sulla terra latina difendendola dai Longobardi; da allora, come quando nell’Antico Testamento il popolo di Giuda tornò a Gerusalemme devastata dai Caldei e dagli Assiri, fu in parte debellata l’eresia idolatra: “nec ex tunc pullulavit in eis spina idolatrie sicut ante” (prologo, Notabile XIII). La faccia di Nembrot “mi parea lunga e grossa / come la pina di San Pietro a Roma” (vv. 58-59), vero memoriale pagano. La sede di Pietro è depositaria dell’unica vera lingua (cioè della vera fede), quella che rimase nella casa di Eber presso gli Ebrei e di qui passò con Cristo a san Pietro (prologo, Notabile XIII). L’espressione “nessun riparo vi può far la gente” (v. 57) rivia ad Ap 17, 18, luogo dove Olivi si domanda se Roma, la sede di Pietro, torni a essere tale, riparata dopo la sconfitta dell’Anticristo.
1. I giganti
ma io senti’ sonare un alto corno (v. 12). La settima proprietà delle locuste è il rombo delle ali pari al rombo dei carri da guerra che corrono tirati da molti cavalli. Si tratta del suono di un volo tumultuoso e impetuoso, come di quadrighe. Le ali stridono e rugghiano quando vengono al conflitto (nella seconda fase, intermedia, del quinto stato, segnata da “Manichei”, cioè Catari, e Valdesi), e designano il disseminare parole per superare con esse tutto quello che non si può vincere con la ragione. Le loro sentenze, che presumono altissime e volanti sopra le altre, formano come il suono di ruote e di eserciti tumultuosi che corrono in guerra contro ogni sentenza contraria, per quanto vera (Ap 9, 9).
Una variazione del tema della “vox alarum” è nell’alto suono del corno udito da Dante nell’approssimarsi al pozzo dei giganti (Inf. XXXI, 12-15). Il suono, tanto alto che avrebbe reso fioco qualsiasi tuono, fa drizzare lo sguardo del poeta verso un punto, seguendone la direzione in senso contrario. L’essere contrario, che nell’esegesi è proprio della “vox rotarum”, è attribuito, in Inf. XVI e XXXI, a colui che vede (i singoli tre fiorentini nel primo caso, Dante nel secondo). Ciò è proprio del procedere del poeta, che scompone gli elementi semantici dell’esegesi per riappropriarli liberamente a nuove situazioni. Il gigante Nembrot – “anima confusa”, come gli dice Virgilio -, con la costruzione della torre di Babele fu causa della confusione delle lingue; drizzare gli occhi in senso contrario al suono del corno (“contra sé la sua via seguitando”) indica il contrastare la confusione da parte dell’unica vera e recta lingua, quella che rimase nella casa di Eber e presso gli Ebrei e da questi passò con Cristo a san Pietro (prologo, Notabile XIII).
Un confronto tra i versi relativi al corno di Nembrot e quelli contenenti le parole pronunciate da Beatrice nell’Eden dopo la confessione di Dante (Purg. XXXI, 40-48) mostra come lo stesso materiale esegetico, con i temi della ruota e della contrarietà, possa essere ‘torto’ a differenti situazioni. In questo caso l’ammissione di colpa, per la quale il poeta riconosce di essersi mosso “in contraria parte”, fa rivolgere “la rota” (la mola) “sé contra ’l taglio”, smussando la spada della giustizia divina.
Inf. XXXI si colloca topograficamente tra il quinto e il sesto stato del quarto ciclo settenario della prima cantica; si registrano tuttavia sviluppi tematici del terzo stato, il periodo nel quale i dottori della Chiesa confutarono le eresie, rompendole con la spada della parola e mettendo in fuga l’errore. La sonante tromba dei dottori (prologo, Notabile I) e la terribile confutazione della dottrina erronea (Ap 2, 12, terza chiesa) si ritrovano, inversamente appropriati, nel suonare dell’alto corno di Nembrot, più terribile del suono del corno di Orlando dopo la “dolorosa rotta” (tema della “rumphea”, la spada data ai dottori) a Roncisvalle, “quando / Carlo Magno perdé la santa gesta” (vv. 16-18). Il canto è punteggiato da altra tematica del terzo stato: all’esegesi del terzo sigillo, dove si tratta della bilancia che misura il dritto o torto intendimento della Scrittura (Ap 6, 5) rinviano smisurato (riferito a Briareo, v. 98), ritorte (a Fialte, v. 111), torcer (ad Anteo, v. 126); l’esperienza, tipica del terzo periodo, è appropriata a Dante (Ap 2, 1).
Poco portäi in là volta la testa, / che me parve veder molte alte torri; / ond’ io: “Maestro, dì, che terra è questa?” (vv. 19-21). Al suonare dell’alto corno di Nembrot, il poeta crede di vedere “molte alte torri”, ma Virgilio gli spiega, “acciò che ’l fatto men ti paia strano” che, poiché “’l senso s’inganna di lontano”, egli male discerne (“nel maginare abborri”) scambiando per torri quelli che sono giganti. Man mano che s’avvicina e vede meglio come per nebbia che si dissipa, in Dante fugge l’errore e cresce la paura (Inf. XXXI, 19-39). “Lontano” rima con “strano” (vv. 26.30): entrambi i termini si trovano nell’esegesi ad Ap 5, 1, il cui tema principale, ora taciuto, è il vagheggiare. La stessa domanda di Dante – “Maestro, dì, che terra è questa?” (v. 21) – ricorda quella di Baruc 3, 10: “Quid est, Israel, quod in terra inimicorum es?”.
Ed elli a me: “Però che tu trascorri / per le tenebre troppo da la lungi, / avvien che poi nel maginare abborri” (vv. 22-24). I dottori del terzo stato conseguono la terza vittoria confutando l’erroneo immaginare fondato sui sensi (Ap 2, 17). La falsa immagine delle torri anticipa l’incontro con Nembrot, il superbo costruttore della torre di Babele che causò la confusione e la divisione delle lingue (Virgilio lo chiama “anima confusa”, v. 74), tema che il Notabile XIII del prologo appropria al terzo stato.
Ap 2, 17 interviene anche a Purg. XXIX, 43-51, allorché Dante crede di vedere “sette alberi d’oro” e sente cantare indistinte voci: “ma quand’ i’ fui sì presso di lor fatto, / che l’obietto comun, che ’l senso inganna, / non perdea per distanza alcun suo atto, / la virtù ch’a ragion discorso ammanna / sì com’ elli eran candelabri apprese, / e ne le voci del cantare ‘Osanna’”. Da notare “ammanna”, signaculum della terza vittoria, conseguita con la ragione (la quale opera sull’oggetto appreso nella sua essenza dalla virtù intellettiva) sui sensi (i sensibili comuni, cioè le qualità degli oggetti che si percepiscono con più di un senso; cfr. infra).
Alla quinta tromba rinviano abborri e fuggiemi (vv. 24.39; Ap 9, 4, il secondo caso contaminato con Ap 2, 17) nonché pungi (v. 27; Ap 9, 5); al versamento della settima coppa Come quando la nebbia si dissipa … ’l vapor … l’aere (vv. 34.36; Ap 16, 17; cfr. Inf. XXXIII, 103.105; XXXIV, 4; Purg. XVII, 2.4.5).
Poi caramente mi prese per mano (v. 28). Virgilio è di conforto al discepolo nel metterlo “dentro a le segrete cose”; l’atto ripete la dodicesima prerogativa di Cristo in quanto sommo pastore (Ap 1, 17): «E poi che la sua mano a la mia puose / con lieto volto, ond’ io mi confortai – Duodecima est humiliatorum et tremefactorum familiaris confortatio et sublevatio … ideo pro primo dicit: “et posuit dexteram suam super me”, pro secundo autem subdit: “dicens: noli timere”» (Inf. III, 19-21; cfr. XIII, 130) Così di fronte a quelle che a Dante sembrano torri e invece sono giganti: “Poi caramente mi prese per mano” (XXXI, 28).
Tab. I
[LSA, cap. II, Ap 2, 12 (Ia visio, III ecclesia)] Hiis autem premittuntur duo, scilicet preceptum de scribendo hec sibi et introductio Christi loquentis, cum subdit (Ap 2, 12): “Hec dicit qui habet rumpheam”, id est spatam, “ex utraque parte acutam”. Hec congruit ei, quod infra dicit: “pugnabo cum illis in gladio oris mei” (Ap 2, 16). Unde contra doctores pestiferos erronee doctrine et secte ingerit se ut terribilem confutatorem et condempnatorem ipsorum per incisivam doctrinam et condempnativam sententiam oris sui. Dicit autem “ex utraque parte”, non solum quia absque acceptione personarum omnia vitia scindit et resecat vel condempnat, sed etiam quia contrarios errores destruit. Arrius enim, quasi ex uno latere, errat dicendo Dei Filium esse substantialiter diversum a Patre tamquam eius creaturam. Sabellius vero, quasi ab opposito latere, dicit quod eadem persona est Pater et Filius. Fides autem Christi utrumque scindit et resecat.[LSA, prologus, Notabile I (III status)] Tertius (status) est confessorum seu doctorum, homini rationali appropriatus. […] In tertio (statu) sonus predicationis seu eruditionis et tuba magistralis.[LSA, prologus, Notabile XIII (V status)] Sicut etiam in quinta etate, destructa Iudea et Iherusalem per Caldeos et prius decem tribubus per Assirios, restitutus est populus Iuda in terram suam, nec ex tunc pullulavit in eis spina idolatrie sicut ante, sic destructis orientalibus ecclesiis per Sarracenos et latina ecclesia fere vastata per eos et etiam per Longobardos prius paganos et factos postmodum arrianos, restitutus est latinus populus per Karolum imperantem, nec ex tunc idola <priorum> magnarum heresum inundaverunt in eis sicut inundaverunt ante, quamvis sicut tunc circa finem fuit secta heresis Saduceorum, sic circa finem huius quinti temporis <serpit> secta heresis Manicheorum. |
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Inf. XXXI, 16-39, 58-60, 73-78Dopo la dolorosa rotta, quando
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[LSA, prologus, Notabile XIII (III status)] Sicut etiam tunc propter superbiam turris Babel confuse et divise sunt lingue, remanente recta et prima lingua in domo Heber et Hebreorum, ac deinde linguis ceteris in idolatriam demonum ruentibus in sola domo Abraam fides et cultus unius veri Dei remansit, sic propter superbiam plurium ad fidem introductorum lingua et confessio unius vere fidei Christi est in plures hereses divisa et confusa, remanente prima et vera lingua et confessione fidei in domo Petri.
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[LSA, cap. IX, Ap 9, 4 (IIIa visio, V tuba)] Hec autem sunt adhuc quasi seminaliter et initialiter cum continuo tamen augmento; consumabuntur autem in fine, quando publice Christi vitam et spiritum in viris spiritualibus acerrime impugnabunt et sollempniter condempnabunt, quamvis nec tunc permittantur ledere spiritum perfectorum, nec etiam simplicium virorem vite et spiritus Christi firmiter in se servantium et illorum malitias et errores abhorrentium et fugientium sicut ovicule et agniculi exhorrent et fugiunt lupos (cfr. Ap 9, 4). |
però che, come su la cerchia tonda / Montereggion di torri si corona, / così la proda che ’l pozzo circonda / torreggiavan di mezza la persona / li orribili giganti, cui minaccia / Giove del cielo ancora quando tuona (vv. 40-45). In mezzo e intorno alla sede divina Giovanni vede quattro animali, o meglio quattro esseri viventi, il primo simile a un leone, il secondo a un vitello (o bue), il terzo con l’aspetto di uomo e il quarto simile a un’aquila (Ap 4, 6-7). Si tratta dei quattro animali coronati di verde fronda che nella processione dell’Eden segnano lo spazio entro cui si contiene il carro (Purg. XXIX, 91-108). Questi animali sono presenti anche nella visione di Ezechiele, ma disposti con ordine differente e diversi anche nel numero delle ali per il quale Dante, che ne assegna sei anziché quattro, è con l’autore dell’Apocalisse anziché con l’antico profeta (vv. 103-105).
Gli animali stanno “in mezzo e intorno alla sede”, nel senso che se si colloca un trono rotondo o quadrato sopra quattro animali, questi terranno verso l’interno il tergo e quasi tutto il corpo, in modo da toccare il centro; il capo e la faccia verso l’esterno, in modo da stare intorno, rispettivamente davanti, dietro, a destra e a sinistra.
Questi animali sono il muro che cinge e difende la Chiesa, per la quale si oppongono come pugili ai nemici esterni, e tuttavia sono sempre nel mezzo, cioè all’interno, perché intimi ad essa per la carità: tutta la Chiesa tende infatti ad essi come al centro. Sono nel mezzo a motivo del loro raccogliersi; sono intorno nel predicare e governare. Raggiungono il centro nel penetrare per quanto possibile l’intima maestà di Dio e nel quietarsi nel suo seno; stanno attorno per l’impossibilità di raggiungere l’immensa, incomprensibile e semplicissima luce, limitandosi solo al suo lato esterno, cingendo quanto è conoscibile all’intelletto creato.
Gli animali sono pieni d’occhi (che in Purg. XXIX, 95-96 vengono paragonati agli occhi di Argo): davanti (per la piena scienza del futuro, per la prudenza nell’agire, per lo sguardo diretto ai premi eterni) e dietro (per la scienza del passato, per il timorato considerare i giudizi divini, per il disprezzo delle cose temporali e caduche). Gli occhi designano anche (Ap 4, 8) lo sguardo perspicace e circospetto con cui scrutano l’esterno e l’interno di Dio, della Chiesa e della Scrittura. Stanno attorno circuendo per prevenire i nemici empi e le insidie diaboliche, come un leone si aggira in cerca di preda. Esaminano inoltre il proprio interno per correggere i difetti e ordinare i beni.
Invitato da Virgilio a seguire i dettami del proprio libero arbitrio (Purg. XXVII, 139-141), Dante è “vago” di esplorare “dentro e dintorno / la divina foresta spessa e viva” (XXVIII, 1-2). “Dentro” equivale, come si dice nell’esegesi, a stare “in mezzo” (intus in medio); per quanto inoltratosi nella selva tanto da non poterne rivedere l’ingresso (vv. 22-24), il poeta si troverà al centro solo dopo aver passato il Lete ed essere pervenuto all’“albero robusto”, pianta dispogliata che “poi si rinovella” (XXXII, 37-60). Il “lignum vitae” si trova infatti nel mezzo della Gerusalemme celeste, della quale l’Eden è proiezione in terra, fra le due rive, l’umana e la divina, del fiume luminoso che designa la grazia che procede dalla Trinità (Ap 22, 1-2).
Esempio di utilizzazione infernale dei temi della sede divina, i giganti stanno intorno al pozzo come le torri che coronano la cerchia tonda di Monteriggioni (Inf. XXXI, 40-45). La “cerchia tonda” del castello della Val d’Elsa, che “si corona”, è immagine che traduce i motivi dei quattro animali i quali stanno “in circuitu”, dell’alta eminenza della sede, dell’essere i seniori coronati (Ap 4, 4). Il torreggiare dei giganti “di mezza la persona”, poiché la ripa li cinge dal mezzo in giù facendogli da perizoma, mostrandone la parte dalla cintola in su, rende il motivo dei quattro animali che stanno “in mezzo e intorno”, cioè dentro e fuori. Il minacciare di Giove “del cielo ancora quando tuona” appartiene al gruppo tematico dei lampi, voci e tuoni che emanano dalla sede, considerato ad Ap 4, 5. |
Il canto XIV del Paradiso si apre con l’immagine dell’acqua che in un vaso rotondo si muove dal centro alla circonferenza oppure da questa al centro, a seconda che il vaso venga percosso all’esterno o all’interno (vv. 1-3): tale immagine, che riprende il motivo degli animali “in medio et in circuitu sedis”, si presenta a Dante allorché, nel cielo del Sole, tace Tommaso d’Aquino e inizia a parlare Beatrice. Dante e Beatrice formano il centro attorno a cui sta la doppia cerchia dei beati sapienti, nella minore delle quali riluce l’Aquinate (cfr. Par. X, 64-66).
Il motivo del penetrare per quanto possibile nella luce divina passa nell’invito di san Bernardo, prima di rivolgere la preghiera alla Vergine, affinché Dante indirizzi gli occhi al primo amore (Par. XXXII, 142-145). L’espressione “tamquam eius intima pro posse penetrantes”, nel testo esegetico riferita ai quattro esseri viventi, viene appropriata a Dante con le parole di Bernardo “sì che, guardando verso lui, penètri / quant’ è possibil per lo suo fulgore”, mentre ciò che segue sulla necessità di impetrare grazia “ne forse tu t’arretri, / movendo l’ali tue, credendo oltrarti” (vv. 145-147), può alludere ad altra prerogativa dei quattro esseri, cioè a non andare mai oltre le facoltà assegnate.
Tab. II
2. Nembrot
sì che la ripa, ch’era perizoma / dal mezzo in giù, ne mostrava ben tanto / di sovra, che di giugnere a la chioma / tre Frison s’averien dato mal vanto; / però ch’i’ ne vedea trenta gran palmi / dal loco in giù dov’ omo affibbia ’l manto (vv. 61-66). Fra i giganti, Nembrot sembra fasciato, ma con tono sarcastico, dai motivi connessi con il manto sacerdotale, una veste ornata stretta al petto con una cinta aurea (Ap 1, 13; 15, 6): ha come perizoma la sponda del pozzo e la parte del corpo scoperta è alta “trenta gran palmi” a partire dalla clavicola, “dov’ omo affibbia ’l manto”; tiene al collo un corno legato con una “soga” che gli “doga”, cioè gli fregia, il “gran petto” (Inf. XXXI, 61-66, 70-75; i numeri tre e trenta rinviano alla complessa esegesi di Ap 12, 14). Fialte è cinto da una catena che gli tiene “soccinto” dinanzi il braccio sinistro e dietro il braccio destro (vv. 85-88; i temi della catena, dell’essere sciolto o legato, che toccano anche Briareo e Anteo, sono propri del diavolo ad Ap 20, 1-3 [settima visione]).
Raphèl maì amècche zabì almi, / cominciò a gridar la fiera bocca, / cui non si convenia più dolci salmi (vv. 67-69). L’“os”, cioè l’“effrenata locutio … que quidem per sevitiam ire est ignea, et per confusam et tumultuosam obscurationem veritatis et sanctitatis christiani cultus est fumus …” (Ap 9, 17), è propria del gigante Nembrot dalla “fiera bocca” toccata dall’“ira o altra passïon … anima confusa”, come gli dice Virgilio (Inf. XXXI, 68.72.74).
Raphèl: è parodia di Tobia 12, 15: “Raphael dicit se esse unum de septem astantibus ante Dominum”, citato nel prologo, Notabile XIII. Il passo è già stato appropriato a Capaneo – “Quei fu l’un d’i sette regi / ch’assiser Tebe” (Inf. XIV, 68-69) -, accomunato a Fialte per la superbia (cfr. Ap 5, 1), per il quale (vv. 87.96) viene anche variata l’esegesi di Ap 13, 3 utilizzata nel canto precedente nella descrizione della rissa tra maestro Adamo e Sinone di Troia.
Raphèl maì amècche zabì. Nel capitolo XIV del Genesi si raccontano le vittoriose campagne dei quattro re dell’Oriente, al tempo di Abramo, contro varie popolazioni fra le quali i Raphaim, gli Zuzim, gli Amaleciti. Le prime due, secondo san Girolamo, erano giganti “terribiles et horrendi … gentes fortissimas”. Non è impossibile che Dante, conoscitore di altre opere di Olivi oltre alla Lectura super Apocalipsim [1], avesse presente la Lectura super Genesim del francescano nello scrivere il verso con le incomprensibili parole pronunciate dalla “fiera bocca” di Nembrot. Raphèl può essere un pastiche da Raphaim commisto con il sopra ricordato Raphael; mai un anagramma di parte di Raphaim; amècche una storpiatura da Amalec; zabì altro pastiche su Zusim e Zabulon, una delle dodici tribù d’Israele che ad Ap 7, 8 è interpretata come “habitaculum fortitudinis”. Nembrot, con il suo linguaggio confuso e a lui solo noto, chiamerebbe a raccolta gli antichi giganti che la Bibbia colloca nella Transgiordania, sulla via del Mar Rosso. I quattro re avrebbero poi vinto nella valle di Siddim i re di Sodoma e di Gomorra e fatto prigioniero Lot, che Abramo liberò combattendo con trecentodiciotto dei suoi servi.
almi: probabilmente l’unica parola non derivata dall’ebraico nel gridare di Nembrot, bensì da alere, nutrire. Ad Ap 12, 14 si dice che la donna (la Chiesa) volò nel deserto per nutrirsi spiritualmente e fortificarsi contro le tentazioni del diavolo. Nembrot, appellandosi ai forti giganti, li definirebbe “nutritori della fede” (così Dante verso gli apostoli a Par. XXIV, 138 – “poi che l’ardente Spirto vi fé almi” -, anche in questo caso in rima con salmi).
Il passo del Genesi, sopra menzionato, non è estraneo alla questione della “vera lingua”. Nel prologo, Notabile XIII, della Lectura super Apocalipsim Olivi afferma che come nella terza età del mondo, dopo che i Sodomiti furono sommersi nel Mar Morto e gli Egiziani nel Mar Rosso, venne data al popolo di Dio la legge e l’ira divina fece sì che Core, Datan e Abiram e gli altri scismatici venissero inghiottiti (Numeri 16, 31-35), così nel terzo stato della Chiesa, sommersa la lussuria e l’idolatria delle genti per la morte e per il sangue di Cristo, venne data la legge costituita dai decreti ecclesiastici e dagli statuti regolari e l’ira divina ribollì sugli scismatici e sugli eretici per mezzo dei dottori, espositori della fede. Ancora (sempre nella terza età del mondo e nel terzo stato della Chiesa), come a causa della superba torre di Babele le lingue furono confuse e divise e la lingua prima e retta rimase nella casa di Eber e degli Ebrei, e poi, mentre le altre lingue precipitavano nell’idolatria diabolica, la fede e il culto di un solo vero Dio rimase nella casa di Abramo, così a causa della superbia di molti fedeli la lingua e la confessione della sola vera fede di Cristo venne divisa e confusa in più eresie, mentre la prima e vera lingua e confessione rimase nella casa di Pietro. Nembrot, che nella faccia “lunga e grossa / come la pina di San Pietro a Roma” pare una memoria pagana nella sede di Pietro, parla storpiando nomi ebraici e confondendo la vera fedele lingua che fu di Eber, di Abramo, di Cristo che poi la trasmise a Pietro.
[1] Allo stato attuale della ricerca, consta che di Olivi Dante, oltre alla sistematica parodia operata nella Commedia sulla Lectura super Apocalipism, conobbe sicuramente e utilizzò la Lectura super Lucam, l’Expositio in Canticum Canticorum, la quaestio sul voto, la prima quaestio de domina.
Tab. III
Poi disse a me: “Elli stessi s’accusa; / questi è Nembrotto per lo cui mal coto / pur un linguaggio nel mondo non s’usa” (vv. 76-78). All’inizio della propria esposizione, Olivi affronta, fra le altre, la questione se le voci contenute nel libro siano state apprese con un genere di apprendimento diverso da quello proprio della visione. Secondo il francescano, la stessa facoltà immaginativa ritiene le specie di tutti gli oggetti dei cinque sensi esterni, che perciò non differiscono nel genere. Differiscono per il fatto che una specie esprime un oggetto di un solo genere, ad esempio delle forme visibili, e un’altra un oggetto di diverso genere, ad esempio delle voci o dei suoni udibili o degli odori o dei sapori. Lo stesso procedimento si verifica per le specie che sono nell’intelletto (Ap 1, 2).
Nella foresta dell’Eden (Purg. XXIX, 16-51) Dante vede una luce improvvisa come un baleno, mentre una dolce melodia corre per l’aere luminoso: “la melodia dolce e l’aere subitamente luminoso si fondono in un’unica impressione sensibile, che il parallelismo delle indicazioni spaziali (trascorse … per la gran foresta, correva per l’aere) amplifica e sottolinea” (Sapegno). La stessa virtù immaginativa ritiene in Dante, come in Giovanni, le specie dell’oggetto della vista e dell’udito, della luce e della melodia, che non differiscono nel genere. La sensazione vaga della luce commista alla melodia diventa prima “foco” di cui si accende “l’aere sotto i verdi rami”, mentre nel dolce suono si distinguono dei canti; poi si trasforma in sette alberi d’oro, che si precisano essere sette candelabri, mentre nelle voci si percepisce il canto dell’“Osanna”. Il che avviene nel momento in cui la facoltà percettiva che prepara alla ragione la materia del discorrere apprende la verità e dilegua così l’inganno causato da “l’obietto comun”, cioè dal fatto che un oggetto possa essere percepito da più sensi (gli aristotelici “sensibili comuni”). All’apertura della porta del purgatorio, Dante ‘immagina’ di sentire le parole “Te Deum laudamus”, in una polifonia di “voce” e di “dolce suono” nella quale le parole non si intendono distintamente (Purg. IX, 139-145). L’indistinzione fra i sensi, che si fanno discordi (vista e udito nel cantare, vista e olfatto nel fumo degli incensi), si registra poi nella scena della traslazione dell’arca da parte di David scolpita nel primo girone del purgatorio (Purg. X, 58-63) e nel “visibile parlare” prodotto per arte divina negli altri marmi ivi intagliati (vv. 94-96).
La situazione di Dante è simile a quella di Giovanni, la cui visione avviene per segni – cioè per oggetti che nella specie altro intendono -, e non essendo questi segni naturalmente appropriabili al secondo significato (come lo è, ad esempio, l’acqua al battesimo), gli vengono spiegati da un angelo, che ne è consapevole (Ap 1, 2). Questo secondo apprendimento non è più soltanto un percepire da parte dei sensi, è una “ratiocinatio seu argumentatio”. Così Beatrice (che svolge la funzione che l’angelo ha per Giovanni) spiega, nel cielo della Luna, che le anime “qui si mostraro, non perché sortita / sia questa spera lor, ma per far segno / de la spiritual c’ha men salita”. E poiché far segno comporta un secondo apprendimento razionale, la donna subito aggiunge che ciò avviene per il noto principio della logica aristotelica, che si trova in tal modo concordato con l’esegesi scritturale: “Così parlar conviensi al vostro ingegno, / però che solo da sensato apprende / ciò che fa poscia d’intelletto degno” (Par. IV, 37-42).
Se però il segno è puramente intenzionale (“signum voluntarium”), cioè significa qualcosa di stabilito regolarmente e noto per comune istituzione linguistica, allora non c’era bisogno di una speciale spiegazione da parte dell’angelo, se questi parlava a Giovanni nel linguaggio da lui conosciuto e usato (cfr. Par. XVIII, 70-72), spiegazione invece necessaria per le immagini (“res figurales”) che l’evangelista vedeva.
Nembrot, responsabile della costruzione della torre di Babele, è colui “per lo cui mal coto / pur un linguaggio nel mondo non s’usa … ché così è a lui ciascun linguaggio / come ’l suo ad altrui, ch’a nullo è noto” (vv. 77-81). Neppure Virgilio, che svolge la funzione dell’angelo rivelante, può interpretarne le parole; si può dire, leggendo in controluce l’esegesi parodiata, che il loro significato è noto a Dio come quello del diavolo malintenzionato accusatore, che però in questo caso accusa sé stesso (Ap 2, 10).
Tab. IV
[Ap 1, 2 (segue)] Si vero signum est tantum voluntarium, iuxta quod hec vox ‘homo’ significat ‘hominem’, tunc est talis apprehensio qualis est illa qua nos apprehendimus significata locutionum et intentionem loquentis, que quidem communiter fit per notitiam communis institutionis seu impositionis vocum ad talia regulariter significanda, alias oportet quod fiat per specialem revelationem loquentis aut alterius scientis intentionem loquentis. Si igitur angelus loqueretur Iohanni per voces quarum communem significationem nesciret, tunc oportuisset sibi revelari intentionem et significationem angeli loquentis, quod non oportuit si significatione vocum Iohanni prius cognita utebatur. Quid tamen significarent res figurales de quibus sibi loquebatur, vel quas sibi quasi visibiles presentabat, non potuit infallibiliter et indubitabiliter scire nisi per revelationem, quamvis ipse essent de se apte ad illa significanda. |
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Par. XVIII, 70-72Io vidi in quella giovïal facella
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Inf. XXXI, 76-81Poi disse a me: “Elli stessi s’accusa;
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Tab. V
[LSA, cap. XX, Ap 20, 1-3 (VIIa visio)] Sciendum etiam circa hec quod numquam respectu hominum huius vite tota eius temptativa potestas ligatur seu cohibetur, nec tota sic totaliter solvitur quin sub mensura a Deo prefixa, prout ordini universi expedit, refrenetur. Unde et pro tanto respectu prescitorum est quoad quid ligatus, quia non permittitur in eos quantum vellet sevire nec in omne genus vel in omnem excessum facinorum eos pro libitu precipitare, sed nichilominus illud tempus in quo longe minus temptare permittitur vocatur per quandam anthonomasiam tempus sue ligationis, et illud in quo plus permittitur dicitur tempus solutionis eius. Et secundum hoc illud verbum: “ut non seducat amplius gentes” et cetera habet diversimode exponi; semper tamen est sensus: “ut non seducat amplius”, scilicet sicut prius.
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Inf. XVI, 106-111Io avea una corda intorno cinta,
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Inf. XXXI, 85-90, 100-105A cigner lui qual che fosse ’l maestro,
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3. Anteo
Quand’ Anibàl co’ suoi diede le spalle (v. 117). Ad Ap 19, 11-16 viene descritta la battaglia finale contro l’Anticristo. I temi sono tutti appropriati a Cristo, del quale vengono proposte dodici perfezioni, per mostrare in modo aperto con quanta giustizia, santità, virtù ed efficacia verrà col suo esercito a debellare l’Anticristo e i suoi e a recare per preda le genti di tutto il mondo, che saranno allora sottomesse e asservite alla fede e al fedele servigio del suo culto. Allora i santi avranno dinanzi agli occhi Cristo come proprio re e duce, come lo vedessero correre e volare nei cieli per trionfare sull’Anticristo. Gioacchino da Fiore, su questo punto, domandandosi se Cristo apparirà di persona in un momento così difficile per combattere contro l’Anticristo e i suoi “in gladio oris sui”, risponde: “Ritengo che verrà lui stesso per distruggerlo, e per questo viene visto sedere su un cavallo bianco, perché con il suo corpo mondo apparirà ai buoni e ai malvagi per vendicarsi sulle nazioni”.
Delle dodici perfezioni (alcune delle quali ripetono le perfezioni di Cristo come sommo pastore di Ap 1, 13-17), la dodicesima – “E ha scritto sulla veste e sul femore: Re dei re e Signore dei signori” (Ap 19, 16) – consiste nella giustizia, designata dalla veste, e nella propagazione della prole, designata dal femore (che indica pure la capacità di cavalcare e di procedere). Alcuni divengono signori per averlo giustamente meritato per mezzo di opere degne; altri sono invece figli o eredi di re, oppure hanno conseguito il regno vincendo con forte e valorosa potenza. Entrambi i modi appartengono a Cristo re dei re. Egli infatti è il Figlio consustanziale di Dio padre e il naturale erede di tutti i suoi beni. Per la sua passione ha inoltre meritato il nome che è al di sopra di ogni nome e ha ottenuto ciò con trionfale potenza. Ancora, nella veste della sua umanità e nel femore della sua carne Dio ha iscritto la regale maestà e la potestà della divinità.
■ “Et habet in vestimento et femore suo scriptum: Rex regum et Dominus dominantium”. Il tema dell’eredità del regno si inserisce nel rivolgersi lusinghiero di Virgilio ad Anteo: “O tu che ne la fortunata valle / che fece Scipïon di gloria reda, / quand’ Anibàl co’ suoi diede le spalle, / recasti già mille leon per preda” (Inf. XXXI, 115-118). Anteo riveste un ruolo equivoco. Da una parte il gigante è dannato e sta nel pozzo, per quanto sciolto, insieme coi suoi fratelli incatenati con i quali tuttavia non combatté alla battaglia di Flegra contro Giove: venne ucciso da Ercole, sorretto da Dio come Davide nel duello con Golia (Monarchia, II, vii, 10; ix, 11). Dall’altra, nel recare per preda mille leoni nella valle dove sarebbe stata combattuta la battaglia di Zama, è prefigurazione di Scipione, che debellando Annibale con i suoi ereditò la gloria. Tutto rientra nel disegno de “l’alta provedenza, che con Scipio / difese a Roma la gloria del mondo” e che, come afferma con sicurezza san Pietro nel cielo delle stelle fisse, “soccorrà tosto, sì com’ io concipio” (Par. XXVII, 61-63). Le due battaglie, quella di Flegra dei giganti contro Giove e quella di Zama, sono a loro volta prefigurazione della grande battaglia che nel sesto stato della Chiesa vedrà opposti con i loro eserciti Cristo e l’Anticristo. Se Anteo fosse intervenuto all’alta guerra dei suoi fratelli, forse, come qualcuno ritiene, “avrebber vinto i figli de la terra” (Inf. XXXI, 119-121): l’Anticristo è appunto definito, come i giganti, “dominum terre … tunc usurpatorie dominans terre et terrenis” (Ap 11, 4) [1]. È da notare nei versi, oltre alla presenza del tema dell’eredità, anche la corrispondenza tra “ad debellandum Antichristum et suos” e “quand’ Anibàl co’ suoi diede le spalle”, nonché l’appropriazione ad Anteo del motivo della preda, che rimanda all’inciso “ad capiendam predam gentium totius orbis tunc subiciendarum et captivandarum fidei et fideli ac famulatorio cultui” da parte di Cristo. L’accostamento della preda al leone si trova ad Ap 5, 5, dove Cristo, radice di Davide e nato dalla tribù di Giuda, risorge invincibile e possente verso la preda come un leone (è motivo di Sordello, “leon” che “surse” verso Virgilio, a Purg. VI, 66, 73). Ancora, i mille leoni tratti per preda da Anteo sono prefigurazione degli apostoli, inviati da Cristo nel mondo quasi leoni animosissimi: così è affermato ad Ap 6, 2, all’apertura del primo sigillo ove Cristo esce in campo sul cavallo bianco per combattere con virtù e magnanimità, come avverrà in occasione della battaglia finale contro l’Anticristo.
[1] I giganti, come i Ciclopi che lavoravano “in Mongibello a la focina negra”, erano “figli della terra” (Inf. XIV, 57; cfr. XXXI, 121). La terra aiutò il cielo – “Et adiuvit terra mulierem” (Ap 12, 16), passo parodiato nel grido di Giove “Buon Vulcano, aiuta, aiuta!” – non inviando Anteo ai campi di Flegra, come ricordato da Lucano (Phars. IV, 596-597).
■ Il tema della propagazione della prole, erede del regno, percorre le parole che Beatrice nell’Eden premette alla profezia della prossima venuta di “un cinquecento diece e cinque”, il messo divino che ucciderà la Chiesa-prostituta e il gigante che con lei delinque, cioè il regno di Francia: “Non sarà tutto tempo sanza reda / l’aguglia che lasciò le penne al carro, / per che divenne mostro e poscia preda” (Purg. XXXIII, 37-39, dove è da notare la rima reda / preda come nell’episodio di Anteo, ma in questo caso con valore negativo, riferito all’essere senza eredità e al rapimento operato dal gigante).
■ I temi della giustizia, designata dalla veste, e dell’eredità, designata dal femore (dodicesima perfezione, Ap 19, 16), sono uniti in Francesco, che sul letto di morte “a’ frati suoi, sì com’ a giuste rede, / raccomandò la donna sua più cara, / e comandò che l’amassero a fede” (Par. XI, 112-114). Quest’ultima espressione può essere ricondotta alla seconda perfezione di Cristo: “E chi sedeva su di esso (sul cavallo bianco) si chiamava Fedele e Verace” (Ap 19, 11), nel mantenere cioè le promesse e nell’insegnare la verità senza alcuna frode o mendacio. Anche a Domenico è appropriato il tema dell’eredità, nella madrina che “vide nel sonno il mirabile frutto / ch’uscir dovea di lui e de le rede” (Par. XII, 64-66). Gli è proprio il tema del percuotere, presente nella decima perfezione di Cristo, e quello del ‘premere’ gli empi, dall’undecima, col muoversi “quasi torrente ch’alta vena preme” (vv. 97-101).
La decima perfezione di Cristo – “E dalla sua bocca esce una spada acuta” (Ap 19, 15; Olivi osserva che qualche testo reca anche “da entrambe le parti”) – consiste nella sentenza sottile e rigida che percuote le genti, alcune verso l’eterna distruzione, altre verso la correzione e l’estinzione dei propri vizi.
Il tema della spada che esce dalla bocca da entrambe le parti, proprio della decima perfezione di Cristo (Ap 19, 15, contaminato con Ap 1, 16 per l’aggiunta “ex utraque parte”), è applicato a Ciriatto, “a cui di bocca uscia / d’ogne parte una sanna come a porco”, e che a Ciampolo “li fé sentir come l’una sdruscia”, come Cristo, nell’undicesima perfezione, fa sentire la sua severità (Inf. XXII, 55-57). Non è escluso che Ciriatto sia nome derivato da Ciro, il re dei Persiani più volte citato nella Lectura come distruttore dell’antica Babilonia. Il suo essere “sannuto” è invece da porre in corrispondenza con il cinghiale – l’“aper de silva” – che ad Ap 9, 11 (quinta tromba) è presentato come devastatore della vigna.
L’undicesima perfezione – “Egli le governerà con la verga di ferro” (Ap 19, 15) – indica l’inflessibile giustizia. Coloro che non vogliono convertirsi di fronte a lusinghe o a un atteggiamento umile è necessario sentano allora la severità e la forza della sua disciplina cosicché, almeno tardi, siano sottomessi al suo scettro. I ribelli invece sentiranno il suo furore, per cui soggiunge: “E calca nel tino il vino dell’ira furiosa del Dio onnipotente”, cioè preme gli empi con le pene mortifere che Dio trino come furibondo e irato propina loro.
«“Et ipse reget eas (gentes) in virga ferrea”, id est in inflexibili iustitia». “Sotto la mazza (hapax) d’Ercule” cessarono le “opere biece”, cioè ingiuste, di Caco, il quale forse non arrivò a sentire la decima delle cento percosse dategli (Inf. XXV, 31-33; l’episodio è uno dei casi nei quali i temi di Ap 19, 15 si intrecciano con quelli di 14, 20). Il “non sentì le diece” interpreta “necesse est ut tunc temporis sentiant severitatem et fortitudinem discipline eius, ut saltem sero subiciantur sceptro ipsius” ad Ap 19, 15. Al glorioso e magnanimo Alcide, vittorioso sull’Idra di Lerna per avere attaccato la radice stessa della vita delle molte teste che rinascevano, deve guardare Arrigo VII muovendo senza indugi su Firenze invece di restare a Milano per piegare le città lombarde ribelli (Ep. VII, 20). Governare le genti con lo scettro di ferro è anche tema precipuo della quarta vittoria, ad opera dei forti e austeri anacoreti (Ap 2, 26-28). Di esso partecipano le parole dell’abate di San Zeno di Verona, vissuto “sotto lo ’mperio del buon Barbarossa, / di cui dolente ancor Milan ragiona” (Purg. XVIII, 118-120).
Il motivo del premere e quello del ferro (“in virga ferrea”, senza riferimento allo scettro), da Ap 19, 15 (undicesima perfezione), diventano il “fil di ferro” che, come avviene con gli sparvieri selvatici per addomesticarli, cuce le palpebre degli invidiosi purganti, i quali attraverso tale orribile cucitura premono le lacrime tanto da bagnare le gote (Purg. XIII, 70-72, 82-84).
■ I motivi del volare, proprio di Cristo che debella l’Anticristo (“in celis currentem et volantem ad triumphandum de Antichristo … ut faciat vindictam in nationibus”, Ap 19, 14: qui interviene la citazione di Gioacchino da Fiore, incastonata in una più ampia esegesi tutta di Olivi), del percuotere le genti (decima perfezione, Ap 19, 15), del sentirne la severità da parte dei ribelli (undicesima, Ap 19, 15) e del seguirlo da parte degli eserciti celesti (nona, Ap 19, 14) percorrono i versi che descrivono le folgoranti imprese di Cesare: “Quel che fé poi ch’elli uscì di Ravenna / e saltò Rubicon, fu di tal volo, / che nol seguiteria lingua né penna”. Conseguenza fu la sconfitta di Pompeo, ‘percosso’ a Farsalo e poi ucciso a tradimento da Tolomeo, “sì ch’al Nil caldo si sentì del duolo” (Par. VI, 61-66). Il “sacrosanto segno” dell’aquila con Ottaviano “corse infino al lito rubro”; poi con Tito “a far vendetta corse / de la vendetta del peccato antico” (vv. 79, 92-93).
Tab. VI
[LSA, cap. XIX, Ap 19, 11-16 (VIa visio)] “Et vidi celum apertum” (Ap 19, 11). Habito de dampnatione adultere et de festo ac nuptiis nove sponse, subditur dampnatio bestie et pseudoprophete. Et quia hoc fiet in fine prelii Antichristi et suorum contra Christum et suos, fietque ad gloriam Christi et sanctorum ad conversionem totius orbis ad Christum, ideo in hac parte quinque tanguntur. Primo scilicet Christi et sui exercitus ad bellum preparatio. Secundo sanctorum ad triumphalem et spiritalem devorationem hostium invitatio, ibi: “Et vidi unum angelum” (Ap 19, 17). Tertio Antichristi et suorum ad bellum congregatio, ibi : “Et vidi bestiam” (Ap 19, 19). Quarto ipsius devictio et captio, ibi: “Et apprehensa est bestia” (Ap 19, 20). Quinto ceterorum ipsum sequentium ad Christum traductio seu conversio, ibi : “Et ceteri occisi sunt” (Ap 19, 21).
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[Ap 19, 11] In prima autem tangit duodecim perfectiones seu dignitates Christi, sub modo aptissimo ad monstrandum cum quanta iustitia et sanctitate et virtute et efficacia veniet cum suo exercitu ad debellandum Antichristum et suos et ad capiendam predam gentium totius orbis tunc subiciendarum et captivandarum fidei et fideli ac famulatorio cultui Christi.Purg. XXXIII, 37-39Non sarà tutto tempo sanza reda
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[LSA, cap. V, Ap 5, 5; (radix IIe visionis)] Deinde subditur consolatoria promissio: “Et unus de senioribus dixit michi: Ne fleveris: ecce vicit”, id est victoriose promeruit et etiam per triumphalem potentiam prevaluit, “leo de tribu Iuda”, id est Christus de tribu Iuda natus ac invincibilis et prepotens et ad predam potenter resurgens sicut leo.
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Inf. XXII, 55-57E Cirïatto, a cui di bocca uscia
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10] “Et de ore eius procedit gladius acutus” (Ap 19, 15), id est sententia subtilis et rigida (quidam habent “ex utraque parte”, sed antiqui non habent hic “ex utraque parte” neque Ricardus, sed supra capitulo I° [Ap 1, 16]), “ut in ipso percutiat gentes”, quasdam scilicet in eternum interitum, quasdam vero ad correctionem et ad vitiorum suorum extinctionem.11] “Et ipse reget eas in virga ferrea”, id est in inflexibili iustitia. Qui enim nolunt converti blanditiis et humilitate necesse est ut tunc temporis sentiant severitatem et fortitudinem discipline eius, ut saltem sero subiciantur sceptro ipsius. Rebelles autem sentient furorem eius, unde subditur: “Et ipse calcat torcular vini furoris ire Dei omnipotentis”, id est ipse premit impios penis mortiferis quas Deus Trinitas quasi furibundus et iratus propinat eis.Purg. V, 43-45; VI, 7-9“Questa gente che preme a noi è molta,
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Par. VI, 61-66, 79, 92-93Quel che fé poi ch’elli uscì di Ravenna
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9] “Et exercitus qui sunt in celo” (Ap 19, 14), id est sancti celestem vitam agentes et contra exercitum demonum et reproborum preliantes, “sequebantur eum”, scilicet imitatione et participatione secundum quam effectus sequitur suam causam. Sequebantur etiam ipsum sicut ducem preeuntem ad bellum. “In equis albis”, id est, secundum Ricardum, in corporibus et operibus mundis. “Vestiti bissino albo mundo”, id est candore omnium virtutum a maculis criminum mundo. […] Tunc enim sancti habebunt sic pre oculis Christum tamquam suum regem et ducem, ac si ipsum visibiliter viderent in celis currentem et volantem ad triumphandum de Antichristo, “quem” quidem “interficiet spiritu oris sui et illustratione adventus sui”, prout dicitur secunda ad Thessa-lonicenses II° (2 Th 2, 8). Unde Ioachim super hoc loco, mota prius questione an Christus tunc per se ipsum appareat in tempore tante necessitatis ut prelietur contra Antichristum et suos in gladio oris sui, respondet: Ego puto quod per se ipsum veniet ad destruendum eum, ideoque visus est sedere super equum album, quia in corpore suo mundo apparebit bonis et malis ut faciat vindictam in nationibus.10] “Et de ore eius procedit gladius acutus” (Ap 19, 15), id est sententia subtilis et rigida (quidam habent “ex utraque parte”, sed antiqui non habent hic “ex utraque parte” neque Ricardus, sed supra capitulo I° [Ap 1, 16]), “ut in ipso percutiat gentes”, quasdam scilicet in eternum interitum, quasdam vero ad correctionem et ad vitiorum suorum extinctionem.11] “Et ipse reget eas in virga ferrea”, id est in inflexibili iustitia. Qui enim nolunt converti blanditiis et humilitate necesse est ut tunc temporis sentiant severitatem et fortitudinem discipline eius, ut saltem sero subiciantur sceptro ipsius. Rebelles autem sentient furorem eius, unde subditur: “Et ipse calcat torcular vini furoris ire Dei omnipotentis”, id est ipse premit impios penis mortiferis quas Deus Trinitas quasi furibundus et iratus propinat eis. |
mettine giù, e non ten vegna schifo, / dove Cocito la freddura serra (vv. 122-123). All’esegesi dell’istruzione data a Laodicea (Ap 3, 14-22) rinviano molti luoghi del poema oltre all’incontro coi pusillanimi. Il tema del tepore pernicioso, rimproverato alla settima chiesa, si registra ad esempio in un momento di grave pericolo, che insinua nell’animo il desiderio di rinunciare: il volo in groppa a Gerione verso Malebolge (Inf. XVII, 85-90). Quando Virgilio lo invita a salire sul fiero animale, Dante prova tremando il senso di nausea e di vomito che il malato di “quartana” ha per i luoghi freddi (lo stesso sentimento proverà di fronte ai “gelati guazzi” di Cocito in Inf. XXXII, 70-72). La vergogna vince però la paura e il poeta non rinuncia ad andare avanti. Rispetto al commento scritturale, nei versi si conserva il tema della nausea mentre il freddo perde il suo valore positivo (di potersi trasformare in caldo) nei confronti del tiepido.
Virgilio invita il gigante Anteo a non avere “schifo” di deporre lui e Dante al fondo dell’inferno, “dove Cocito la freddura serra” (Inf. XXXI, 122-123) [2]. E in effetti il chinarsi di Anteo, senza “fare dimora” sul “fondo che divora / Lucifero con Giuda”, apparenta a suo modo il gigante a quei santi perfetti del quinto stato che condiscendono solo per la carità e l’utilità degli infermi senza per questo macchiarsi di impurità, nel caso senza contaminarsi coi traditori e gli apostati, dei quali colui che nella piana di Zama recò “già mille leon per preda” può ben avere “schifo”. Quei santi non verranno cancellati dal libro della vita, riceveranno anzi gloria e fama, secondo quanto esposto nell’esegesi della quinta vittoria, ed è la fama che brama Anteo (Ap 3, 5): “Ancor ti può nel mondo render fama, / ch’el vive, e lunga vita ancor aspetta / se ’nnanzi tempo grazia a sé nol chiama” (vv. 127-129). La fama, il vivere del proprio nome. è tema precipuo della quinta chiesa (Ap 3, 1); mettere o stare “giù” appartiene al quinto sigillo (Ap 6, 9.11).
[2] Se nell’esegesi di Ap 3, 15 la fonte principale è l’asceta Cassiano, non manca Riccardo di San Vittore. L’“utinam frigidus esses”, detto a Laodicea, risuona nell’apostrofe contro i traditori che stanno in Cocito, “mal creata plebe” (riflettere sulla propria creazione o principio appartiene anch’esso alla settima chiesa: Ap 3, 14), che meglio sarebbe stata in vita pecore o capre ignoranti e umili (Inf. XXXII, 13-15).
Così disse ’l maestro; e quelli in fretta / le man distese, e prese ’l duca mio, / ond’ Ercule sentì già grande stretta (vv. 130-132). Nel Notabile XI del prologo della Lectura, Olivi, per spiegare come le visioni dell’Apocalisse, o parte di esse, possano essere adattate a tempi diversi, paragona la Scrittura sacra a una mano o a una veste che vengano ora ristrette ora allargate e distese. Come il significato di un termine può essere assunto talora in un senso largo e talora in uno stretto, così la Scrittura e le sue figure possono essere ora coartate, cioè ristrette rispetto al loro pieno senso, ora estese oltre quanto consenta la lettera. Ciò non avviene per falsa interpretazione, ma a motivo della forza e della varietà della Scrittura.
Dopo le lusinghiere parole di Virgilio affinché deponga lui e Dante sul ghiaccio di Cocito, Anteo “le man distese … ond’ Ercule sentì già grande stretta” (Inf. XXXI, 130-132). La figura del gigante è memore della descrizione di Lucano (Phars. IV, 589-660), antica Scrittura che concorda con la nuova.
Qual pare a riguardar la Carisenda (v. 136).Olivi applica a Francesco sia la figura dell’angelo del sesto sigillo (Ap 7, 2) come quella dell’angelo dal volto solare (sesta tromba: Ap 10, 1-3). Un importante passo di Gioacchino da Fiore, relativo all’angelo dal volto solare, viene utilizzato da Dante in tutt’altro contesto (Purg. XXXII, 70ss.). A questo passo Olivi fa seguire l’immagine del carro di Elia come segno figurale di Francesco trasfigurato nel vero sole, cioè in Cristo, alla quale rinvia, in modo apparentemente dissonante, la similitudine di Inf. XXVI, 34-42. La “biga” con due ruote (Francesco e Domenico: Par. XII, 106-111) è prefigurata nell’Eden dal “carro, in su due ruote, trïunfale” (la Chiesa militante) tirato dal grifone-Cristo (Purg. XXIX, 106-108), a sua volta prefigurato dagli antichi carri trionfali della Roma di Scipione e di Augusto o dallo stesso carro del Sole (vv. 115-117).
L’angelo della sesta tromba, che ha la faccia come il sole, discende lievemente dal cielo, avvolto in una nube («per aeream et per subtilem seu spiritualem levitatem ab omni pondere terrenorum excussam fuit “amictus nube”, id est altissima paupertate aquis celestibus plena, id est suprema possessione et imbibitione celestium divitiarum»), il capo cinto da un arcobaleno. La nube designa la scienza delle Scritture, oppure (Gioacchino da Fiore) la scienza dei profeti, oppure la contemplazione estatica (designata, secondo lo Pseudo Dionigi, dalla nube nella quale Dio parlava a Mosè); la nube inoltre contempera i raggi del sole e irriga. L’iride designa l’intelligenza spirituale della Scrittura (Gioacchino), oppure l’arcuale rifulgenza del sole, perché la carità viscerale di Cristo aperta e dilatata come un arco verso le miserie umane fu continuamente, intimamente impressa nella mente di Francesco (Ap 10, 1).
Questi motivi vengono parodiati nel paragone del chinarsi del gigante Anteo verso il fondo dell’inferno con la Carisenda pendente verso chi la guarda dal basso quando una nuvola vi passi sopra (Inf. XXXI, 136-145). Il pozzo attorno a cui sono legati i giganti fa parte di una zona in cui prevalgono i temi del quinto stato. Il pozzo stesso è uno dei temi principali della quinta tromba (Ap 9, 1-2); Fialte dal collo in giù è avvinto dalla catena “infino al giro quinto” (vv. 88-90); Anteo esce fuori dalla roccia, senza la testa, “ben cinque alle” (vv. 113-114). Anche il “declinare” (equivale a ‘pendere’), come il “condiscendere”, fa parte dei temi del quinto stato (prologo, Notabile III; cfr. Par. XI, 43-45). Il sesto sigillo si apre con un grande terremoto (Ap 6, 12; 8, 5), ed è preannunciato dal “tremoto … tanto rubesto” con cui si scuote Fialte (Inf. XXXI, 106-108). Anteo, sciolto rispetto agli altri (tema da Ap 9, 14: il sesto angelo che suona la tromba scioglie i quattro angeli incatenati nel fiume Eufrate), assume su di sé caratteristiche del sesto stato; Virgilio gli si rivolge parodiando i temi della vittoria di Cristo sull’Anticristo. Il suo chinarsi “lievemente”, simile al pendere della Carisenda, ha qualcosa della “viscerosa caritas Christi” propria di Francesco che discende col capo coperto dalla nube dilatato ad arco verso le miserie umane (cfr. anche, a Inf. XXII, 19-24, la similitudine dei delfini, che fanno “arco” per segnalare ai marinai l’arrivo di una tempesta, con i barattieri della quinta bolgia che mostrano il dorso sopra la pece “ad alleggiar la pena”) [3]. La nube (che in questo caso, fra i vari significati, designerà nel senso di Gioacchino da Fiore la scienza delle scritture profetiche, perché Anteo prefigura Scipione, a sua volta prefigurazione del soccorso dell’“alta provedenza” preconizzata da san Pietro nell’ottavo cielo a Par. XXVII, 61-63) è accostata alla Carisenda, e il nome della bolognese torre pendente appare singolarmente consonante con la caritas verso gli inferiori, nonostante il timore di Dante. Lo stesso chinarsi senza ‘fare dimora’ sul “fondo che divora / Lucifero con Giuda” è parodia di un significato spirituale, in quanto Anteo si comporta a suo modo come quei santi perfetti del quinto stato che condiscendono solo per la carità e l’utilità degli infermi senza per questo macchiarsi di impurità, nel caso senza contaminarsi coi traditori e gli apostati. Questi perfetti non verranno cancellati dal libro della vita, riceveranno anzi gloria e fama (Ap 3, 5: quinta vittoria). Ed è proprio la fama che Virgilio promette al gigante (Inf. XXXI, 124-129). Il levarsi di questi “come albero in nave” allude ai prelati, alti come alberi nella scienza divina e nel frutto delle loro opere (Ap 8, 7), preposti ai monasteri e cenobi considerati navi spirituali (Ap 18, 17). Con una variazione dissonante, al gigante è appropriato il motivo del matrimonio, il sacramento per eccellenza del sesto stato (prologo, Notabile XIII) che appartiene a Francesco e a Povertà: “Ma lievemente al fondo che divora / Lucifero con Giuda, ci sposò … e dinanzi a la sua spirital corte / e coram patre le si fece unito” (Inf. XXXI, 142-143; Par. XI, 61-62).
Gioacchino da Fiore afferma che come l’arcobaleno appare unito alle nubi del cielo, così alle scritture dei profeti bisogna unire l’intelligenza mistica per convincere gli avversari. L’accostamento dell’arcobaleno alla nube si trova in Par. XII, 10-12, nel momento in cui una seconda corona di spiriti sapienti, in cui è Bonaventura, si aggiunge alla prima, nella quale è Tommaso d’Aquino. L’iride, in questo caso, è doppia, perché due sono i prìncipi ordinati (cfr. Ap 11, 4), Francesco e Domenico, dei quali sono tessute le lodi. È da notare che la nube è “tenera”, aggettivo che significa un motivo del quinto stato, “habens sensum vivum et tenerum pietatis” (prologo, Notabile XIII; cfr. quanto detto a Par. XXXI, 61-63 di san Bernardo, il quale al quinto periodo appartiene di diritto: “in atto pio / quale a tenero padre si convene”).
[3] La consonanza tra Carisenda e caritas induce, al v. 136, a prescegliere tale forma, propria dei codici fiorentini, anziché Garisenda, recata da quelli settentrionali e centrali.
Tab. VII
[LSA, cap. X, Ap 10, 1 (IIIa visio, VIa tuba] Ioachim dicit hic: «Quicumque erit iste predicator veritatis, “fortis” esse describitur, quia robustus erit in fide; et “de celo” descendet, id est de vita contemplativa ad activam; et “amictus” erit “nube”, quia indutus erit scriptura prophetarum; et “irim in capite”, quia Spiritum Sanctum et misticum seu spiritalem intellectum scripturarum habebit in mente. Sicut enim archus celestis apparet iunctus nubibus celi, sic scripturis prophetarum iungendus est misticus intellectus ad adversarios convincendos»*. |
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[segue Ap 10, 1] Et subdit: «Ego autem angelum istum secundum litteram aut Enoch fore puto aut Heliam. Verum, prout hoc Deus melius novit, unum dico pro certo, quod hic angelus significat personaliter magnum aliquem predicatorem, quam-vis spiritaliter ad multos viros spiritales tunc temporis futuros competenter valeat intorqueri. Sane facies angeli similis est soli, quia in hoc sexto tempore oportet Dei contemplationem in modum solis splendescere et perduci ad notitiam eorum qui designantur in Petro et Iacobo et Iohanne, id est Latinorum et Grecorum et Hebreorum, primo quidem Latinorum, deinde Grecorum, tertio Hebreo-rum, ut fiant novissimi qui erant primi et e contrario». Hec Ioachim. ** |
Purg. XXXII, 70-78Però trascorro a quando mi svegliai,
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[segue Ap 10, 1] Sciendum etiam quod sicut sanctissimus pater noster Franciscus est post Christum et sub Christo primus et principalis fundator et initiator et exemplator sexti status et evangelice regule eius, sic ipse post Christum designatur primo per angelum istum. Unde et in huius signum in curru igneo apparuit transfiguratus in solem, ut monstraretur venisse in spiritu et imagine Helie (cfr. 4 Rg 2, 11) et simul cum hoc gerere perfectam imaginem veri solis, scilicet Christi.Par. XII, 106-111Se tal fu l’una rota de la biga
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Inf. XXVI, 34-42, 46-48E qual colui che si vengiò con li orsi
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[Ap 10, 1] Ioachim dicit hic: «Quicumque erit iste predicator veritatis, “fortis” esse describitur, quia robustus erit in fide; et “de celo” descendet, id est de vita contemplativa ad activam; et “amictus” erit “nube”, quia indutus erit scriptura prophetarum; et “irim in capite”, quia Spiritum Sanctum et misticum seu spiritalem intellectum scripturarum habebit in mente. Sicut enim archus celestis apparet iunctus nubibus celi, sic scripturis prophetarum iungendus est misticus intellectus ad adversarios convincendos»*. […]
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Par. XI, 43-45, 58-63Intra Tupino e l’acqua che discende
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Inf. XXII, 19-24Come i dalfini, quando fanno segno
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[LSA, prologus, Notabile III (V status)] Item (zelus) est septiformis quia est contra initium mali intrinsecum (I) et extrinsecum (II); et contra medium terminum, scilicet ascendens (III) stans (IV) et declinans (V); et contra terminum intrinsecum (VI) et extrinsecum (VII).[LSA, prologus, Notabile VII (V status)] Prima (responsio) est quia licet condescensio quinti status in infirmis, pro quibus fit, sit imperfectior, in sanctis tamen, arduas perfectiones priorum statuum in habitu mentis tenentibus et ex sola caritate et infirmorum utilitate condescendentibus, est ipsa condescensio ad perfectionis augmentum, prout patet in Christo infirmis condescendente. Unde et Ade subtracta est fortis costa ad formationem Eve, “et replevit” Deus “carnem pro ea” (Gn 2, 21), id est pietatem condescensionis pro robore solitarie austeritatis.[LSA, prologus, Notabile XIII (V status)] In quinto vero tempore fuerunt spiritualiores monachi quasi aves volantes, clerici vero gentibus commixti fuerunt quasi pisces in aquis (cfr. Gn 1, 20-21). In hac autem die primo dictum est: “Crescite et multiplicamini” et cetera (Gn 1, 22), quia numquam in preteritis temporibus sic monasteria vel ecclesie in tali vita, que conveniret pluribus, ordinate fuere quomodo in tempore quinto, quia non tantum clericorum et monachorum, verum etiam ecclesiarum et monasteriorum que sunt propagata in tempore quinto in hac occidentali ecclesia colligere numerum non est facile. Unde quamvis vita monachorum quarti temporis fuerit clarior, non tamen fecundior nec sic habens sensum vivum et tenerum pietatis.[LSA, cap. III, Ap 3, 5 (Va victoria)] Quinta est victoriosus descensus ad opera condescensionis et pietatis, qui tunc est victoriosus quando nichil sordis vel imperfectionis accipit ex consortio infirmorum quibus condescendit nec ex sua condescensione, immo inter carnales et laxos et immundos vivit sic immaculate et sancte ac si esset in solitudine vel inter austerrimos et perfectos, quod quidem patet tunc arduissimum tam in puritate quam in pietate misericordi et competit perfectis patribus quinti status […] quia isti ex multitudine immundorum, inter quos quasi sepulti et innominati vixerunt, et ex condescensione ad eos, visi sunt quasi infirmi et nulli, unde nec habuerunt nomen seu famam summe perfectorum, ideo digni sunt habere singulare nomen in gloria Dei et quod singulariter commendentur a Christo coram tota curia celi. |
AVVERTENZE
■ Seppure segue l’ordine dei ventidue capitoli dell’Apocalisse, Olivi suggerisce, nel prologo della Lectura, un metodo differente di comprensione e di aggregazione del testo, fondato sui sette stati (status), cioè sulle epoche nelle quali si articola la storia della Chiesa, prefigurate nell’Antico Testamento.
L’Apocalisse si articola in sette visioni: le sette chiese d’Asia, i sette sigilli, le sette trombe, la donna vestita di sole (le sette guerre sostenute dalla Chiesa), le sette coppe, il giudizio di Babylon nelle sette teste del drago, la Gerusalemme celeste. Le prime sei visioni possono essere a loro volta divise in sette momenti, ciascuno dei quali riferibile a uno dei sette stati. Assembrando, per le prime sei visioni, tutti i primi elementi (chiesa, sigillo, tromba, guerra, coppa, momento del giudizio di Babylon), tutti i secondi, i terzi e così di seguito, si ottengono sette gruppi di materia teologica, corrispondenti al complesso dei temi afferenti a ciascuno dei sette stati. A questi sette gruppi si aggiungono altri due: l’esegesi della settima visione (senza articolazioni interne) e l’esegesi di capitoli del testo scritturale, o di parti di essi, introduttivi delle successive specificazioni delle singole visioni per settenari, che Olivi definisce “radicalia” o “fontalia”. Si ottengono in tal modo nove gruppi: le parti proemiali, i sette assembramenti di settenari e la settima visione. Il grande prologo della Lectura, articolato in tredici notabilia, può essere anch’esso aggregato secondo i sette stati. Un libro (la Lectura) contiene dunque princìpi e criteri affinché l’accorto lettore possa trarne un altro libro, fatto con lo stesso materiale ma ricomposto e distribuito in forma diversa.
■ La Commedia mostra un ordine interno diverso da quello che appare al lettore: il viaggio di Dante ha un andamento di ciclici settenari, che corrispondono ai sette stati della storia della Chiesa, cioè alle categorie con cui Olivi organizza la materia esegetica. Questo ordine interno è registrabile per zone progressive del poema dove prevale, tramite parole-chiave, la semantica riferibile a un singolo stato. È un’intima struttura dirompente i confini letterali stabiliti dai canti e da tutte le divisioni materiali per cerchi, gironi, cieli. Ogni stato, che ha differenti inizi, è concatenato per concurrentia, come le maglie di un’armatura, con quello che precede e con quello che segue. Si possono in tal modo redigere mappe che comprendano l’ordine spirituale della Commedia. La ricerca è pervenuta a una Topografia spirituale della Commedia, dove quasi per ogni verso, o gruppo di versi, collegamenti ipertestuali conducono al “panno” esegetico fornito dalla Lectura super Apocalipsim, sul quale il “buon sartore” ha fatto “la gonna” (cfr. Par. XXXII, 139-141).
■ A ogni gruppo è arbitrariamente assegnato un diverso colore: Radici (verde), I stato (verde acqua), II stato (rosso), III stato (nero), IV stato (viola), V stato (marrone), VI stato (blu), VII stato (indaco), VII visione (fucsia). Dei gruppi sono stati integralmente studiati il terzo stato e la settima visione. Mentre la diversità dei colori è rispettata nella tabella complessiva contenente i collegamenti ipertestuali, nelle sinossi i colori possono essere variati per maggiore evidenza.
■ Non di rado nei versi alcune parole o incisi-chiave possono rinviare a più luoghi esegetici. Questo perché il testo dottrinale contenuto nella Lectura, prima di travasarsi semanticamente nella Commedia, è stato sottoposto a una duplice riorganizzazione. La prima, sulla base delle indicazioni dello stesso Olivi, secondo il materiale esegetico attribuibile ai singoli stati. La seconda, seguendo il principio applicato nelle distinctiones ad uso dei predicatori, sulla base di lemmi analogicamente collazionati. La “mutua collatio” di parti della Lectura arricchisce il significato legato alle parole e consente uno sviluppo tematico amplificato. Si vedano, ad esempio, le variazioni eseguite sul tema della “voce” o sull’espressione “in medio”, temi più volte iterati nel sacro testo, oppure il modo con cui Ap 1, 16-17 (l’esegesi della decima e undecima prefezione di Cristo come sommo pastore) percorre i versi in collazione con altri passi. A ciò predispone lo stesso testo scritturale, poiché l’Apocalisse contiene espressioni, come Leitmotive, che ritornano più volte. È determinata da parole-chiave che collegano i passi da collazionare. È suggerita dallo stesso Olivi, nel prologo, per una migliore intelligenza del testo.
■Tutte le citazioni della Lectura super Apocalipsim presenti nei saggi o negli articoli pubblicati su questo sito sono tratte dalla trascrizione, corredata di note e indici, del ms. Paris, Bibliothèque nationale de France, lat. 713, a disposizione fin dal 2009 sul sito medesimo. I passi scritturali ai quali si riferisce l’esegesi sono in tondo compresi tra “ ”; per le fonti diverse da quelle indicate si rinvia all’edizione in rete. Non viene presa in considerazione l’edizione critica a cura di WARREN LEWIS (Franciscan Institute Publications, St. Bonaventure – New York, 2015) per le problematiche da essa poste, che sono discusse in ALBERTO FORNI – PAOLO VIAN, A proposito dell’edizione di Warren Lewis della Lectura super Apocalipsim di Pietro di Giovanni Olivi. Alcune osservazioni, in “Archivum Franciscanum Historicum”, 109 (2016), pp. 99-161.
Il testo della Commedia citato è in Dante Alighieri, La Commedia secondo l’antica vulgata, a cura di GIORGIO PETROCCHI, Firenze 1994. Si tiene anche conto della recente edizione a cura di GIORGIO INGLESE, Firenze 2021 (Società Dantesca Italiana. Edizione Nazionale), qualora il testo proposto si discosti da quello del Petrocchi e la scelta della variante risulti discutibile nel confronto con la LSA.
Si fa riferimento ai seguenti commenti:
Dante Alighieri, La Divina Commedia. Inferno. Commento di ANNA MARIA CHIAVACCI LEONARDI, Milano 2007 (19911).
Dante Alighieri, Commedia. Inferno. revisione del testo e commento di GIORGIO INGLESE, Roma 2007.
ABBREVIAZIONI
Ap : APOCALYPSIS IOHANNIS.
LSA : PIETRO DI GIOVANNI OLIVI, Lectura super Apocalipsim.
Concordia : JOACHIM VON FIORE, Concordia Novi ac Veteris Testamenti. Herausgegeben von A. PATSCHOVSKY, Wiesbaden 2017 (Monumenta Germaniae Historica. Quellen zur Geistesgeschichte des Mittelalters, 28. Band), Teil 2 (lib. I-IV), Teil 3 (lib. V).
Expositio : GIOACCHINO DA FIORE, Expositio in Apocalypsim, in Edibus Francisci Bindoni ac Maphei Pasini, Venetiis 1527, ristampa anastatica Minerva, Frankfurt a. M. 1964.
Olivi opera spesso una sintesi del testo di Gioacchino da Fiore. Le « » precedono e chiudono un’effettiva citazione. Diversamente, viene posto un asterisco (*) o una nota in apice al termine della parte riferibile a Gioacchino.
In Ap : RICCARDO DI SAN VITTORE, In Apocalypsim libri septem, PL 196, coll. 683-888.
Note sulla “topografia spirituale” della Commedia
Per quanto segua l’ordine dei ventidue capitoli dell’Apocalisse, Olivi suggerisce un metodo differente di comprensione e di aggregazione del testo esegetico, fondato sui sette stati, cioè sui periodi nei quali si articola la storia della Chiesa. L’Antico Testamento corrisponde alle prime cinque età del mondo, secondo la divisione tradizionale [1]: è l’età del Padre secondo Gioacchino da Fiore. Con il primo avvento di Cristo, nella carne, inizia la sesta età (l’età del Figlio), nella quale la Chiesa, come fosse un individuo, cresce e si sviluppa in sette stati. Al primo, apostolico periodo, succede il secondo dei martiri; poi, al tempo di Giustiniano, il terzo stato dei dottori che confutano con l’intelletto le eresie concorre con il quarto stato degli affettuosi anacoreti devoti al pasto eucaristico, alti per la contemplazione ma anche attivi come reggitori delle genti; a partire da Carlo Magno subentra il quinto stato aperto alla vita associata delle moltitudini, bello nel principio ma poi corrottosi fino a trasformare quasi tutta la Chiesa in una nuova Babilonia; la riforma interviene, a partire da Francesco, con il cristiforme sesto stato, fino alla sconfitta dell’Anticristo; subentra infine il silenzio e la quiete del pacifico settimo stato. Il sesto e il settimo stato (la terza età di Gioacchino da Fiore) coincidono con il secondo avvento di Cristo, nello Spirito, cioè nei suoi discepoli spirituali inviati a convertire il mondo con la predicazione; al termine del settimo stato ci sarà il terzo avvento, nel giudizio.
L’Apocalisse si articola in sette visioni: le sette chiese d’Asia, i sette sigilli, le sette trombe, la donna vestita di sole (le sette guerre sostenute dalla Chiesa), le sette coppe, il giudizio di Babylon nelle sette teste del drago, la Gerusalemme celeste. Le prime sei visioni possono essere a loro volta divise in sette momenti, ciascuno dei quali riferibile a uno dei sette stati. Assembrando, per le prime sei visioni, tutti i primi elementi (chiesa, sigillo, tromba, guerra, coppa, momento del giudizio di Babylon), tutti i secondi, i terzi e così di seguito, si ottengono sette gruppi di materia teologica, corrispondenti al complesso dei temi afferenti a ciascuno dei sette stati [2]. A questi sette gruppi se ne aggiungono altri due: l’esegesi della settima visione (senza articolazioni interne) e l’esegesi di capitoli del testo scritturale, o di parti di essi, introduttivi delle successive specificazioni delle singole visioni per settenari, che Olivi definisce “radicalia” o “fontalia”. Si ottengono in tal modo nove gruppi: le parti proemiali, i sette assembramenti di settenari e la settima visione. Il grande prologo della Lectura, articolato in tredici notabilia, può essere anch’esso aggregato nelle sue parti secondo i sette stati.
L’intenso travaso di parole-temi dalla Lectura nella Commedia si accompagna a un fatto strutturale. La Commedia mostra un ordine interno diverso da quello che appare al lettore: il viaggio di Dante ha un andamento di ciclici settenari, che corrispondono ai sette stati oliviani. È un ordine registrabile per zone progressive del poema dove prevalgono i temi di un singolo stato, che rompe i confini letterali stabiliti dai canti e da tutte le divisioni materiali per cerchi, gironi, cieli. Ogni stato, che ha differenti inizi, è concatenato per “concurrentia”, come le maglie di un’armatura, con quello che precede e con quello che segue. Ciascuno stato ha in sé una grande ricchezza di motivi e contiene inoltre temi di tutti gli altri, consentendo innumerevoli intrecci e variazioni. La Commedia appare, come l’Apocalisse, “libro scritto dentro e fuori” (Ap 5, 1), con duplice struttura, linguaggio e senso, letterale e spirituale. Il viaggio di Dante e la visione di Giovanni hanno la stessa causa finale, che è la beatitudine, alla quale si perviene con diverse guide, per gradi segnati da visioni sempre più nuove e ardue delle precedenti, attraverso una sempre maggiore apertura dell’arcano coperto dal velame dei sette sigilli fino al punto più alto in cui, in questa vita, è possibile vedere la verità.
Tutti i modi del linguaggio interiore al poema esprimono un processo, un viaggio dal più chiuso al più aperto, e in questo andare hanno una loro precisa collocazione ‘topografica’, uno ‘stato’ (nel senso di momento storico che ricade sulla coscienza individuale) al quale appartenere. Si possono in tal modo stendere vere e proprie mappe tematiche che comprendano l’ordine spirituale di tutta la Commedia che aderisce, parodiandola semanticamente, a una precisa teologia della storia, sia pure modificandone profondamente le prospettive. La ciclicità dei temi permette di stabilire collegamenti inusitati tra le diverse zone; il procedere per gradi dell’illuminazione divina fa sì che episodi oscuri e quasi ermeticamente chiusi si chiariscano poi, aprendosi all’intelligenza in modo più alto.
A ogni gruppo è arbitrariamente assegnato un diverso colore: Radici (verde), I stato (verde acqua), II stato (rosso), III stato (nero), IV stato (viola), V stato (marrone), VI stato (blu), VII stato (indaco), VII visione (fucsia). Dei gruppi sono stati integralmente studiati il terzo stato e la settima visione.
INFERNO
(le prime cinque età del mondo)
La ‘topografia spirituale’ del poema mostra nell’Inferno cinque cicli settenari corrispondenti agli stati della Chiesa descritti da Olivi e ai loro temi contenuti nella Lectura. Questi cinque cicli designano le prime cinque età del mondo (riunite a loro volta nel primo stato generale, che corrisponde all’età del Padre di Gioacchino da Fiore), in quanto prefigurazione del primo avvento di Cristo e della Chiesa.
I cinque cicli settenari che si susseguono nell’Inferno a partire dal quarto canto (i primi tre canti hanno una tematica particolare) sono preceduti da cinque zone che possono essere definite ‘snodi’, dove cioè confluiscono temi provenienti da più stati, intrecciati insieme ad altri ad avviare il procedere settenario. Il centro di questi ‘snodi’ coincide con un canto (Inf. IV, X, XVII, XXVI, XXXII), ma la zona è più vasta e supera l’ambito dato dalla divisione letterale del poema.
Inf. I-III sono da considerare al di fuori dei cicli. Inf. I e II sono profondamente segnati dai temi del sesto stato. Inf. III è riferibile al settimo stato (per gli ignavi) e in parte al quinto (per l’episodio di Caronte). |
|||
canti |
I ciclo |
stati |
cerchi |
IV |
Limbo |
Radici, I (I snodo) |
I |
V |
lussuriosi |
II |
II |
VI |
golosi |
III |
III |
VII |
avari e prodighipalude Stigia
|
III–IV
V |
IV
|
VIII |
palude Stigia (orgogliosi)
|
V |
V |
IX |
apertura della porta di Dite |
V–VI |
|
canti |
II ciclo |
stati |
cerchi |
IX-X-XI |
eretici, ordinamento dell’inferno |
I (II snodo) |
VI |
XII |
violenti contro il prossimo |
II |
VII (girone 1) |
XIII |
violenti contro sé |
III |
(girone 2) |
XIV |
violenti contro Dio: bestemmiatori |
IV |
(girone 3) |
XV-XVI |
violenti contro Dio: sodomiti |
V |
|
XVIXVII |
ascesa di GerioneGerione, violenti contro Dio: usurai |
VI |
canti |
III ciclo |
stati |
cerchi |
XVII |
volo verso Malebolge |
I (III snodo) |
|
XVIII |
ruffiani, lusingatori |
Radici – II |
VIII (bolgia 1, 2) |
XIX |
simoniaci |
III |
(bolgia 3) |
XX |
indovini |
IV |
(bolgia 4) |
XXI-XXII |
barattieri |
V |
(bolgia 5) |
XXIII |
ipocriti |
V–VI |
(bolgia 6) |
XXIV-XXV |
ladri |
VI |
(bolgia 7) |
canti |
IV ciclo |
stati |
cerchi |
XXVI |
consiglieri di frode (greci) |
I (IV snodo) |
(bolgia 8) |
XXVII |
consiglieri di frode (latini) |
II |
|
XXVIII-XXIX |
seminatori di scandalo e di scisma |
III |
(bolgia 9) |
XXIX |
falsatori |
IV |
(bolgia 10) |
XXX |
falsatori |
IV–V |
|
XXXI |
giganti |
V–VI |
|
canti |
V ciclo |
stati |
cerchi |
XXXII |
Cocito: Caina, Antenora |
I (V snodo) |
IX |
XXXIII |
Antenora, Tolomea |
II |
|
XXXIV |
Giudecca |
III–IV–V |
|
XXXIV |
volgersi di Virgilio sull’anca di Lucifero |
VI |
|
Il sesto stato è per Olivi la fase più importante nella costruzione dell’edificio della Chiesa. In esso “renovabitur Christi lex et vita et crux”. Corrisponde ai tempi moderni. Ha quattro diversi inizi temporali: uno profetico, con Gioacchino da Fiore, il quale lo vide in spirito concependo la sua terza età; il secondo con la conversione di Francesco (1206), che seminò la pianta; il terzo con la predicazione degli uomini spirituali, per la quale la pianta si rinnovella; il quarto con la distruzione storica di Babylon. Dura fino alla sconfitta dell’Anticristo, il cui avvento si collocherebbe, secondo i numeri della profezia di Daniele 12, 11-12 combinati con Ap 12, 6 e 14, fra il 1290 e il giubileo di pace del 1335.
Una ‘vita nuova’ si instaura nel sesto stato, per eccellenza il momento dell’imitazione di Cristo. I rami dell’albero si dilatano producendo il frutto della carità, l’acqua che proviene da Cristo-fonte attraverso il condotto che percorre i primi cinque stati della Chiesa si effonde in un lago; è il tempo, assimilato al sacramento del matrimonio, della letizia nuziale, della familiarità, dell’amicizia. Corrisponde al sesto giorno della creazione, in cui vennero creati prima i rettili e le bestie irrazionali, poi l’uomo razionale che, come l’ordine evangelico, è fatto a immagine e somiglianza di Dio e domina tutti gli animali.
Le espressioni di Olivi relative al sesto stato – “quoddam sollempne initium novi seculi … renovaretur et consumaretur seculum”, nel quale il sacerdozio apostolico “redeat et assurgat ad ordinem primum”, la “nova Ierusalem”, interpretata come “visione di pace”, viene vista “descendere de celo” e la Chiesa descritta come la donna vestita di sole con la sua “virginea proles” – sono la veste spirituale dei versi della quarta egloga virgiliana che celebrano la rinnovata età dell’oro: “Magnus ab integro saeclorum nascitur ordo / iam redit et Virgo; redeunt Saturnia regna; / Iam nova progenies caelo demittitur alto” (Egloga IV, 5-7). Olivi completa la Lectura super Apocalipsim nel 1298, poco prima di morire, il 14 marzo, a Narbonne. Quel felicissimo stato segnato dalla pace sotto il divo Augusto, che rese l’umanità disposta al primo avvento di Cristo, si sta rinnovando nel sesto stato della Chiesa, nel secondo avvento nello Spirito. Scrive Arsenio Frugoni: “[…] quell’escatologismo, oltre che ideologia di lotta e di riforma del gruppo spirituale, era anche un vero e proprio sentimento storico […] una tensione di rinnovamento, una ansia di salvezza, che nel 1300, l’anno centenario della Natività, aveva trovato come una attivazione, in un senso di pienezza dei tempi, cui doveva corrispondere un fatto, un accadere meraviglioso e nuovo” [3].
All’apertura del sesto sigillo, l’eletta schiera dei riformatori – i 144.000 segnati dalle dodici tribù d’Israele – guida la turba innumerevole di ogni gente, tribù, popolo e lingua (Ap 7, 3-4.13). Questi eletti e magnanimi duci, separati dalla volgare schiera per più alta milizia, vengono destinati a difendere liberamente la fede – ad essi è data la “plena libertas ad innovandam christianam religionem” -; sono gli amici di Dio a lui noti per nome, configurati in Cristo crocifisso e votati al martirio.
All’interno della Chiesa del sesto stato, l’Ordine dei Minori – “ordo plurium personarum” – è assimilabile alla persona umana di Cristo. Come questa si sviluppò fino all’età virile, così dovrà essere per l’ordo evangelicus piantato da Francesco, che avrà bisogno (a differenza di Cristo che stette poco tempo nel mondo) di due o tre generazioni per svilupparsi prima di subire una condanna simile a quella di Cristo [4]. La sua maturità coincide, verso il 1300, con il terzo inizio del sesto stato, cioè con il rinnovarsi per opera dello Spirito di Cristo, nel suo secondo avvento, della pianta seminata da Francesco. Questa concezione dell’Ordine francescano come individuo in sviluppo che, perfettamente maturato, diventa il novus ordo preconizzato da Gioacchino da Fiore per l’età dello Spirito, si differenzia da quella di Bonaventura, che aveva invece distinto i Francescani del proprio tempo – e quindi anche gli Spirituali – dall’Ordine finale che dominerà fino ai confini della terra. Alla terza apertura del sesto sigillo nuovi san Giovanni vengono inviati a predicare al mondo come nel tempo degli Apostoli. Ma Giovanni non designa solo un Ordine, perché Olivi lascia aperta la possibilità di rivelazioni individuali, avute da “singulares persone”, perfetti imitatori di Cristo votati, con la loro “lingua erudita”, al compito della conversione universale.
[LSA, cap. X, Ap 10, 11] “Et dixit michi: Oportet te iterum prophetare in gentibus et populis et linguis et regibus multis”. In ipsa sapientia libri expresse continetur quod oportet iterum predicari evangelium in toto orbe, et Iudeis et gentibus, et totum orbem finaliter converti ad Christum. Sed quod per istum hoc esset implendum non poterat sciri nisi per spiritualem revelationem, et hoc dico prout per Iohannem designantur hic singulares persone quia, prout per ipsum designatur in communi ordo evangelicus et contemplativus, scitur ex ipsa intelligentia libri quod per illum ordinem debet hoc impleri.
Nei cinque cicli settenari della prima cantica il sesto stato è segnato dall’apertura della porta della città di Dite (Inf. IX, 89-90); dall’ascesa di Gerione dall’abisso (Inf. XVI, 106-136); dal precipitoso passaggio dalla quinta alla sesta bolgia (Inf. XXIII, 1-57) e poi dalle trasformazioni della settima, dove i ladri fiorentini si mutano in serpenti e viceversa (Inf. XXIV-XXV); dal chinarsi di Anteo sul fondo dell’inferno (Inf. XXXI, 136-145); dal passaggio del centro della terra, con la conversione di Virgilio sull’anca di Lucifero, che è passaggio verso la sesta età, quella della Chiesa, descritta nel Purgatorio.
Ma i temi propri del sesto stato sono diffusi ovunque, intrecciati con quelli degli altri stati, e alla loro esegesi rinviano precise parole-chiave incardinate nel senso letterale dei versi. L’esegesi dell’angelo del sesto sigillo (Ap 7, 2) è già centrale nel primo canto del poema.
La novità che il sesto stato, per eccellenza stato di rinnovamento di questo secolo, arreca nell’inferno è una novità fittizia: l’apertura della porta della città di Dite non è vera novità, perché essa è stata chiusa dall’ostinazione dei diavoli, recidivi dopo l’apertura della porta dell’inferno da parte di Cristo prefigurata dalla venuta di Ercole all’Ade, per cui Cerbero “ne porta ancor pelato il mento e ’l gozzo”; Gerione viene su ad un “novo cenno” di Virgilio, ma è figura della frode dalla velenosa coda aculeata; il nuovo prodotto dalle trasformazioni reciproche di serpenti e uomini è qualcosa di incompiuto perché l’uomo razionale, creato nel sesto stato, regredisce allo stato precedente.
L’Inferno è il luogo della durezza lapidea, dell’impetrarsi, del parlare duro di cose dure a dirsi, del duro giudizio, del senso duro della scritta al sommo della porta, dei duri lamenti, dei duri demoni, dei duri veli del gelo, della gravezza. Nell’Inferno vige l’imposizione data a Daniele dall’angelo sotto il sesto sigillo dell’Antico Testamento: “Ora tu, Daniele, chiudi queste parole e sigilla questo libro fino al tempo stabilito” (Dn 12, 4), che era la sesta età nella quale apparve Cristo e in particolare il sesto stato della sua Chiesa nella quale il libro doveva essere più pienamente aperto, non però ai malevoli e ai maldisposti. Questa durezza è rotta dall’invito di Dante ai dannati perché parlino. Far parlare liberamente, per dettato interiore, è la principale prerogativa del sesto stato – la nuova età che tanto s’aspetta, quella che ode del “dolce stil novo” e delle “nove rime” -, ed è tema che la poesia canta per intero, sia pure per un attimo, anche nella vecchia roccia infernale. Appartiene alla sesta chiesa il parlare liberamente di Cristo – ad essa è dato l’“ostium apertum”, che è “ostium sermonis” – , il sentire per dettato interiore, l’aprirsi della volontà. Appartiene alla sesta chiesa anche il far venire quelli che si dicono Giudei senza esserlo, mutati nel cuore e disposti a farsi battezzare e governare. Questo far venire a parlare equivale al cortese e liberale invito dello Spirito di Cristo a convivare, a venire con desiderio e volontario consenso, con “disio” e con “velle”, in una pausa di pace nell’eterna dannazione. All’“affettüoso grido” del poeta le ombre di Francesca e Paolo vengono “dal voler portate” verso un momento di mutazione, sebbene limitata al successivo colloquio. Tutto l’Inferno è un contrappunto fra la durezza del giudizio e l’apertura per la parola dirompente, fin che essa dura, la pena. Un’apertura che si esprime in varie forme: muoversi sospirando nel Farinata prima immobile, ‘crollarsi’ quasi per terremoto interiore dello ‘schivo’ Ulisse, convertirsi del vento in voce in Guido da Montefeltro, tornare indietro nel cammino assegnato o separarsi dai compagni di pena, essere sforzati a parlare anche malvolentieri, non poterlo negare o mostrare fretta di farlo, arrestarsi obliando il martirio, levarsi per poi ricadere, sollevarsi da atti bestiali per ritornare a essi dopo aver parlato, come nel conte Ugolino. In tante lingue, che parlano come per sé stesse mosse, sta un solo desiderio, il vivere ancora nel libro che è stato altrui aperto.
Se nell’Inferno il sesto stato non si realizza mai compiutamente, anche il settimo, che gli è strettamente connesso, non può trovare un luogo autonomo. Ciò non toglie che temi del settimo stato (e della settima visione) siano ben presenti in modo diffuso. Ad esempio, quelli relativi alla settima chiesa assumono particolare rilievo nella descrizione degli ignavi a Inf. III. Tempo del silenzio, della serena pace, del riposo dalle ansiose fatiche, il settimo stato subentra dopo le terribili tentazioni inferte, con un martirio non corporale ma psicologico, dai carnefici dell’Anticristo nel sesto. Come ogni momento della storia umana partecipa dell’imitazione di Cristo, che raggiunge l’acme nel sesto stato, così in ogni periodo si verifica una sua “quietatio”, una pausa di pace, di quiete, di silenzio propria del settimo. Così Francesca parla e ascolta “mentre che ’l vento, come fa, ci tace”. Il vento – “la bufera infernal, che mai non resta” – designa il fluttuare tempestoso delle passioni nel cuore.
PURGATORIO
(sesta età del mondo)
Dopo le prime cinque età del mondo (corrispondenti all’Antico Testamento, la gioachimita età del Padre), che hanno segnato la discesa a spirale per i cinque cicli settenari dell’Inferno, con il Purgatorio inizia la sesta età, quella di Cristo (l’età del Figlio), che ha sette stati, corrispondenti ai sette stati della Chiesa. Dapprima, nel cosiddetto ‘antipurgatorio’, si registrano in successione temi prevalenti dei primi cinque stati. Il sesto stato della sesta età (con cui si apre l’età dello Spirito) inizia con l’apertura della porta di san Pietro (la porta del purgatorio). Questo sesto stato procede anch’esso con andamento settenario, per cui ha sette momenti, coincidenti principalmente con un girone della montagna, ma non del tutto, perché sempre l’ordine spirituale del poema rompe i confini letterali e le divisioni materiali, concatenando i temi di uno stato prevalente con quelli dello stato che precede e con quelli dello stato che segue e intrecciandoli con temi di tutti gli altri stati.
È spiegato nel Notabile VII del prologo della Lectura che il sesto stato della Chiesa è il secondo stato di Cristo e ha i suoi sette tempi per cui la Chiesa, come fosse una sfera, si ricongiunge circolarmente al primo apostolico tempo. Il settimo dei sette momenti del sesto stato della Chiesa coincide con il settimo stato generale della Chiesa, che nel poema corrisponde in parte all’ultimo girone della montagna (il settimo, dove si purgano i lussuriosi) e in parte all’Eden, con cui si chiude la seconda cantica.
Il Purgatorio dunque, secondo il senso spirituale, è la storia della Chiesa che corre verso il suo sesto stato, punto di riferimento di tutte le vicende umane, antiche e moderne, che ad esso cooperano. Non è casuale che nel sesto girone della montagna sia chiarificata e riconosciuta, nel colloquio con Bonagiunta da Lucca, la poetica delle “nove rime” di Dante, già “sesto tra cotanto senno” cooptato nella “bella scola” dei poeti del Limbo.
La vasta zona dedicata al sesto momento del sesto stato della Chiesa ha il suo inizio nel forte terremoto che scuote la montagna mentre Dante e Virgilio si trovano ancora nel quinto girone (Purg. XX, 124-141). Essa è stata compiutamente esaminata altrove.
Il settimo stato dell’Olivi si realizza parte in questa vita (come pregustazione in terra della gloria eterna, cioè fin sulla cima della montagna) e in parte nella futura (nel senso della quiete delle anime beate in attesa della resurrezione, che è la materia del Paradiso).
canti |
I ciclo – fino al sesto sato |
stati |
|
I |
Catone |
Radici, I |
|
II |
angelo nocchiero, Casella |
I – II |
|
III |
scomunicati |
III |
“Antipurgatorio” |
IV |
salita al primo balzo, Belacqua |
IV – V |
|
V |
negligenti morti per violenza |
V |
|
VI |
Sordello |
V |
|
VII-VIII |
valletta dei principi |
V |
|
IX |
apertura della porta |
VI – sesto stato |
|
canti |
II ciclo – il sesto stato della sesta età |
stati |
gironi |
X-XII |
superbi |
I |
I |
XIII-XIV-XV |
invidiosi |
II |
II |
XV-XVIII |
iracondiordinamento del purgatorio,amore e libero arbitrio |
III |
IIIIV |
XVIII-XIX |
accidiosi |
IV |
IV |
XIX-XX |
avari e prodighi |
V |
V |
XX (terremoto) -XXV |
Stazio, golosi, generazione dell’uomo |
VI |
VI |
XXV-XXVI |
lussuriosi |
VII – settimo stato |
VII |
XXVIIXXVIII-XXXIII |
muro di fuoconotte stellata, termine dell’ascesaEden |
|
PARADISO
(settimo stato della Chiesa)
Il Primo Mobile è il nono e penultimo cielo, ma è il sesto se si parte dal cielo del Sole. È anche il cielo più segnato dal tema del “punto”, cui è assimilato il sesto stato. Questo consente di ricostruire l’ordine spirituale del Paradiso ponendo la cerniera nel quarto cielo del Sole. Con il terzo cielo di Venere termina infatti il cono d’ombra gettato dalla terra, secondo la dottrina di Alfragano (Par. IX, 118-119), mentre prima di descrivere l’ascesa al cielo del Sole il poeta invita il lettore a rivolgersi “a l’alte rote” (Par. X, 7-27). Senza la cesura recisa che, nella prima cantica, divide i dannati puniti all’interno della città di Dite da quelli che ne stanno fuori e, nella seconda cantica, separa le anime purganti nei sette gironi della montagna dalle anime che attendono fuori della porta (il cosiddetto ‘antipurgatorio’), anche nel Paradiso gli spiriti che si manifestano nei primi tre cieli della Luna, di Mercurio e di Venere (spiriti che mancarono ai voti, spiriti che furono attivi per conseguire onore e fama, spiriti amanti) si distinguono per minore perfezione rispetto a quelli che appaiono nei cieli seguenti.
I dieci cieli del Paradiso si mostrano pertanto ordinati in due gruppi di settenari, corrispondenti agli stati della Chiesa (e alle loro prerogative) secondo Olivi, parzialmente combacianti (da 1 a 7 e da 4 a 10: coincidono gli ultimi quattro numeri del primo gruppo e i primi quattro del secondo).
I Se si considera il primo settenario, nel primo cielo della Luna si affronta la questione dell’inadempienza dei voti, che ha corrispondenza con i temi propri della prima chiesa di Efeso, il cui nome, se interpretato, oscilla tra la fervida volontà iniziale e la remissione (l’essenza del voto consiste nella volontà).
II Nel secondo cielo di Mercurio, le battaglie sostenute dal “sacrosanto segno” dell’aquila corrispondono allo stato dei martiri, che è dei combattenti, e anche la dottrina dell’incarnazione e della passione di Cristo, esposta successivamente da Beatrice, fa parte della tematica, perché l’intera Chiesa, fondata sulla passione di Cristo, imita con i martiri la sua croce, e questo giova assai al suo radicamento.
III Nel terzo cielo di Venere, Carlo Martello spiega al modo di un dottore del terzo stato la diversità delle indoli umane e come gli uomini, non assecondandole, errino; nello stesso cielo compare Folchetto di Marsiglia, che da vescovo di Tolosa combatté l’eresia albigese.
IV – I Al quarto cielo del Sole, primo del secondo gruppo di settenari per l’esaltazione della vita apostolica (propria del primo stato e rinnovata nel sesto), si può connettere il tema stesso del sole inteso nell’esegesi della quarta tromba (Ap 8, 12): “Per solem videtur hic designari solaris vita et contemplatio summorum anachoritarum, qui fuerunt patres et exempla aliorum, vel solaris sapientia et doctrina summorum doctorum”. Sapienza e contemplazione, dottori del terzo e anacoreti del quarto stato, concorrono, come Domenico e Francesco – “L’un fu tutto serafico in ardore; / l’altro per sapïenza in terra fue / di cherubica luce uno splendore” (Par. XI, 37-39) – con mutua cortesia a infiammare il meriggio dell’universo.
V – II Il quinto cielo di Marte, secondo (come il secondo stato dei martiri) per l’esaltazione della croce di Cristo formata dai lumi dei combattenti per la fede, reca in sé il tema del condiscendere proprio del quinto stato sia nel pio discendere per la croce di Cacciaguida verso Dante, sia nella decadenza degli “alti Fiorentini”, cioè delle antiche famiglie, assimilate agli anacoreti, un tempo alti e poi vòlti in basso.
VI – III Il sesto cielo di Giove, terzo (come il terzo stato dei dottori) per la spiegazione di profonde verità di fede, sviluppa il motivo, proprio della sesta chiesa, della “porta aperta”. Aprire la porta significa illuminare e rendere acuto l’intelletto che penetra nell’occulto delle Scritture, e anche dare efficacia spirituale a penetrare nel cuore di chi ascolta: così l’aquila apre la “latebra” di Dante, così l’occhio di Rifeo Troiano fu da Dio aperto alla futura redenzione.
VII – IV Nel settimo cielo di Saturno, quarto (come il quarto stato degli anacoreti), “si tace … la dolce sinfonia di paradiso” (Par. XXI, 58-60), e il tacere è tema del settimo stato. Ivi si mostrano gli spiriti contemplativi, principali soggetti del quarto stato, proprio degli anacoreti: se si conta a partire dal quarto cielo del Sole, considerando questo come primo ovvero come nuovo avvio del ciclo settenario, il cielo di Saturno è appunto quarto.
VIII (V) Il settimo cielo di Saturno è seguito dal cielo delle Stelle fisse – ottavo e quinto -, dove si mostrano le schiere del trionfo di Cristo che discendono dall’Empireo (il quinto stato è caratterizzato dalla “condescensio”) e si celebra il trionfo di Maria (sviluppo del tema, proprio della quinta chiesa, della mirabile bellezza della Chiesa, regina ornata di veste aurea per la carità che unisce e circondata dalla varietà nei doni e nelle grazie delle diverse membra). È inoltre ricapitolazione dei precedenti sette, secondo un’interpretazione più volte presente nella Lectura dell’essere ‘ottavo’. Per questo Dante, stando nel segno dei Gemelli, riguarda in giù e torna col viso per tutte quante le sette precedenti sfere (Par. XXII, 124-154).
IX (VI) Segue il Primo Mobile o Cristallino – nono e sesto cielo –, dove il poeta vede il punto luminosissimo – Dio – da cui dipende il cielo e la terra, circondato dai nove cerchi di fuoco (Par. XXVIII, 16-18, 40-42, 94-96). Il sesto stato, secondo quanto Olivi afferma nel Notabile VIII, è il “punto” da cui dipendono gli altri stati, perché appare nel testo dell’Apocalisse in modo più evidente degli altri, che da esso assumono chiarezza quanto alla loro manifestazione nella storia, come l’intelligenza delle cose ordinate ad un fine dipende dal fine.
X (VII) La quiete e l’immobilità dell’Empireo, decimo cielo – il “ciel de la divina pace” -, corrispondono al settimo stato, di cui è propria la “quietatio”, il silenzio (tema anticipato dal tacere di Beatrice in apertura del canto XXIX), e la pace.
Il Paradiso avrebbe pertanto un ordine spirituale del seguente tipo:
cielo |
stato |
cielo |
||
I |
LUNA |
I |
||
II |
MERCURIO |
II |
||
III |
VENERE |
III |
||
IV |
SOLE |
IV |
I |
SOLE |
V |
MARTE |
V |
II |
MARTE |
VI |
GIOVE |
VI |
III |
GIOVE |
VII |
SATURNO |
VII |
IV |
SATURNO |
VIII |
V |
STELLE FISSE |
||
IX |
VI |
PRIMO MOBILE |
||
X |
VII |
EMPIREO |
Oltre ai luoghi sopra indicati, i temi del sesto e del settimo stato si rinvengono in più punti, intrecciati con altri.
[1] Cfr. LSA, cap. XVII, Ap 17, 9: «Et subdit Ricardus quod per septem reges, et per septem capita designatos, designatur hic universus populus malorum, qui secundum septem status huius seculi determinantur. Primus scilicet ab Adam usque ad Noe. Secundus a Noe usque ad Abraam. Tertius ab Abraam usque ad Moysen. Quartus a Moys<e> usque ad David. Quintus a David usque ad Christum. Sextus a Christo usque ad Antichristum. Septimus autem sub Antichristo attribuitur». Cfr. PETRI IOHANNIS OLIVI Lectura super Lucam, Lc 1, 26, ed. F. Iozzelli, Grottaferrata 2010 (Collectio Oliviana, V), pp. 187-188: «Signanter autem dicitur in sexto mense, quia Christus uenit in sexta mundi etate, et iterum post quinque notabiles synagoge decursus: nam primo, cum sola circumcisione fuit sub patribus per quadringentos annos; secundo, accepta lege, fuit sub iudicibus per tantumdem temporis; tertio, proficiens in regnum, fuit sub regibus; quarto, assumpto plenius spiritu prophetico, fuit sub prophetis sollempnioribus, scilicet sub Elia, Ysaia et Yeremia etc.; quinto, restituto templo et urbe, fuit sub pontificibus quibus, per Aggeum et Zachariam et Malachiam iterata prophetia de Christo et eius precursore Elia, factum est silentium prophetarum, ita quod obmutuit cetus sacerdotum usque ad Iohannis ortum; et iterum in eiusdem quinti temporis sexto centenario conceptus est Christus. Sicut etiam sexto die factus est homo ad ymaginem Dei, sic conuenienter sub consimili senario factus est Christus homo, plenior Dei ymago: nam et perfectio numeri senarii, que ex omnibus partibus suis aliquotis et iterum ex ternario cum suis partibus, scilicet binario et unitate, consurgit, competit sibi et etiam reflexio ternarii per binarium, id est cultus fidei et Trinitatis per geminam caritatem».
[2] Il principio è chiaramente affermato nel notabile VIII del prologo della LSA: «[…] si omnia prima membra visionum ad invicem conferas et consimiliter omnia secunda et sic de aliis, aperte videbis omnia prima ad idem primum concorditer referri et consimiliter omnia secunda ad idem secundum et sic de aliis. Et hoc in tantum quod plena intelligentia eiusdem primi multum clarificatur ex mutua collatione omnium primorum, et idem est de omnibus secundis et tertiis et sic de aliis».
[3] A. FRUGONI, La Roma di Dante, tra il tempo e l’eterno, in ID., Pellegrini a Roma nel 1300. Cronache del primo Giubileo, presentazione di C. Frugoni, a cura e con Introduzione di F. Accrocca, Casale Monferrato 1999, pp. 102-103.
[4] LSA, cap. VI, Ap 6, 12: «Secunda ratio est quia persone Christi correspondet in sexta apertione unus ordo plurium personarum sic secundum suam proportionem augendus, sicut Christus secundum suum corpus fuit usque ad perfectam etatem viriliter auctus. […] Quarta est quia, prout super evangelia ostendi, Christus parvo tempore debuit inter nos vivere et pauciori predicare […]. Nisi autem ordo evangelicus, per Franciscum renovatus, esset in multis et saltem sub duabus vel tribus generationibus propagatus et sollempnizatus, non esset nec ipse nec populus ab eo ducendus sufficienter dispositus ad tam autenticam condempnationem condempnationi Christi consimilem subeundam».