«

»

Mar 29 2025

I canti dell’Eden: Purgatorio XXX

La “Divina Parodia” del Libro scritto dentro e fuori   [EN]

I canti dell’Eden: Purgatorio XXVIII, XXIX, XXX, XXXI, XXXII, XXXIII

 

1. “Benedictus qui venis!”. 2.Donna m’apparve”. 3. Virgilio sparito, Beatrice ritrovata e subito perduta. 4. Le incertezze cognitive del diavolo.  5. Apocalisse, ovvero svelamento. 6. Donna, perché sì lo stempre?”. 7. Infanzia e maturità dell’Ordine evangelico. Avvertenze. Abbreviazioni. Note sulla “topografia spirituale” della Commedia.

 

Legenda [3]: numero dei versi; 1, 4: collegamento ipertestuale all’esegesi, nella Lectura di Olivi, di capitolo e versetto dell’Apocalisse [Ap]; Not. V: collegamento all’esegesi contenuta nei tredici notabilia del prologo della LecturaVarianti rispetto al testo del Petrocchi.

Viene qui esposto il canto XXX del Purgatorio con i corrispondenti legami ipertestuali con i luoghi della Lectura super Apocalipsim ai quali i versi si riferiscono. L’intero poema è esposto nella Topografia spirituale della Commedia (2013, PDF; cfr. infra), ma si sta procedendo a un esame progressivo e aggiornato dei singoli canti (completato l’Inferno). Ogni tabella sinottica, qui presentata o alla quale si rinvia in quanto già esaminata in altra sede, è preceduta o seguita da una parte esplicativa. Sull’uso dei colori cfr. Avvertenze.

Purgatorio XXX

Quando il settentrïon del primo cielo,   1, 4
che né occaso mai seppe né orto
né d’altra nebbia che di colpa velo,   [3]

e che faceva lì ciascuno accorto
di suo dover, come ’l più basso face   3, 12
qual temon gira per venire a porto,   [6]

fermo s’affisse: la gente verace,   3, 12
venuta prima tra ’l grifone ed esso,
al carro volse sé come a sua pace;   [9]   1, 4

e un di loro, quasi da ciel messo,   19, 6
Veni, sponsa, de Libano’ cantando   12, 6
gridò tre volte, e tutti li altri appresso.   [12]   4, 8

Quali i beati al novissimo bando   4, 1119, 6
surgeran presti ognun di sua caverna,
la revestita voce alleluiando,   [15]

cotali in su la divina basterna
si levar cento, ad vocem tanti senis,
ministri e messagger di vita etterna.   [18]

Tutti dicean: ‘Benedictus qui venis!’,   4, 9-10
e fior gittando e di sopra e dintorno,   12, 6
Manibus, oh, date lilïa plenis!’.   [21]   8, 3

Io vidi già nel cominciar del giorno   7, 2
la parte orïental tutta rosata,   16, 12; 21, 20
e l’altro ciel di bel sereno addorno;   [24]   16, 17; 2, 1 (3, 1)

e la faccia del sol nascere ombrata,   10, 1; 7, 2; 22, 2
sì che per temperanza di vapori   10, 1; 16, 17
l’occhio la sostenea lunga fïata:   [27]

così dentro una nuvola di fiori   10, 112, 6
che da le mani angeliche saliva   8, 4 (7, 2)
e ricadeva in giù dentro e di fori,   [30]   6, 1

sovra candido vel cinta d’uliva   22, 2; 19, 11; incipit; 1, 13; 11, 4
donna m’apparve, sotto verde manto   12, 1; 10, 1
vestita di color di fiamma viva.   [33]   2, 1; 19, 13

E lo spirito mio, che già cotanto   1, 13
tempo era stato ch’a la sua presenza
non era di stupor, tremando, affranto,   [36]   21, 17; 1, 17

sanza de li occhi aver più conoscenza,   1, 13
per occulta virtù che da lei mosse,   12, 4
d’antico amor sentì la gran potenza.   [39]   12, 3

Tosto che ne la vista mi percosse
l’alta virtù che già m’avea trafitto   12, 4 (10, 9)
prima ch’io fuor di püerizia fosse,   [42]

volsimi a la sinistra col respitto
col quale il fantolin corre a la mamma   5, 1
quando ha paura o quando elli è afflitto,   [45]   10, 9

per dicere a Virgilio: ‘Men che dramma
di sangue m’è rimaso che non tremi:   19, 13; 12, 17; 1, 17
conosco i segni de l’antica fiamma’.   [48]   14, 1; 8, 7 (13, 18)

Ma Virgilio n’avea lasciati scemi   18, 10; 21, 22-23
di sé, Virgilio dolcissimo patre,   3, 12
Virgilio a cui per mia salute die’mi;   [51]   1, 13; 14, 14

né quantunque perdeo l’antica matre,   1, 7
valse a le guance nette di rugiada
che, lagrimando, non tornasser atre.   [54]   3, 18

«Dante, perché Virgilio se ne vada,   22, 12
non pianger anco, non piangere ancora;   1, 7
ché pianger ti conven per altra spada».   [57]   1, 16

Quasi ammiraglio che in poppa e in prora
viene a veder la gente che ministra   2, 1
per li altri legni, e a ben far l’incora;   [60]

in su la sponda del carro sinistra,
quando mi volsi al suon del nome mio,   1, 10-12
che di necessità qui si registra,   [63]   1, 1

vidi la donna che pria m’appario
velata sotto l’angelica festa,   1, 1
drizzar li occhi ver’ me di qua dal rio.   [66]

Tutto che ’l vel che le scendea di testa,   1, 1
cerchiato de le fronde di Minerva,
non la lasciasse parer manifesta,   [69]

regalmente ne l’atto ancor proterva   5, 1
continüò come colui che dice   22, 10-11
e ’l più caldo parlar dietro reserva:   [72]   1, 14

«Guardaci ben! Ben son, ben son Beatrice.   4, 6; 1, 18; 1, 3
Come degnasti d’accedere al monte?   16, 19
non sapei tu che qui è l’uom felice?».   [75]

Li occhi mi cadder giù nel chiaro fonte;   4, 6
ma veggendomi in esso, i trassi a l’erba,
tanta vergogna mi gravò la fronte.   [78]   7, 3

Così la madre al figlio par superba,
com’ ella parve a me; perché d’amaro   16, 19
sente il sapor de la pietade acerba.   [81]   10, 9; 1, 14

Ella si tacque; e li angeli cantaro   Not. V
di sùbitoIn te, Domine, speravi’;
ma oltre ‘pedes meos’ non passaro.   [84]   1, 15

Sì come neve tra le vive travi   1, 14
per lo dosso d’Italia si congela,
soffiata e stretta da li venti schiavi,   [87]   7, 1

poi, liquefatta, in sé stessa trapela,   1, 15
pur che la terra che perde ombra spiri,   7, 1
sì che par foco fonder la candela;   [90]

così fui sanza lagrime e sospiri   14, 2
anzi ’l cantar di quei che notan sempre
dietro a le note de li etterni giri;   [93]

ma poi che ’ntesi ne le dolci tempre   1, 14
lor compartire a me, par che se detto   1, 9    compatire
avesser: ‘Donna, perché sì lo stempre?’,   [96]

lo gel che m’era intorno al cor ristretto,   1, 14
spirito e acqua fessi, e con angoscia   14, 2
de la bocca e de li occhi uscì del petto.   [99]

Ella, pur ferma in su la detta coscia   3, 12
del carro stando, a le sustanze pie   1, 14
volse le sue parole così poscia:   [102]

«Voi vigilate ne l’etterno die,   3, 3
sì che nottesonno a voi non fura
passo che faccia il secol per sue vie;   [105]

onde la mia risposta è con più cura
che m’intenda colui che di là piagne,
perché sia colpa e duol d’una misura.   [108]   14, 10

Non pur per ovra de le rote magne,
che drizzan ciascun seme ad alcun fine   6, 5; 3, 1 (2, 1)
secondo che le stelle son compagne,   [111]

ma per larghezza di grazie divine,   5, 1
che sì alti vapori hanno a lor piova,
che nostre viste là non van vicine,   [114]

questi fu tal ne la sua vita nova   5, 9
virtüalmente, ch’ogne abito destro   5, 1
fatto averebbe in lui mirabil prova.   [117]

Ma tanto più maligno e più silvestro   7, 3
si fa ’l terren col mal seme e non cólto,   6, 12
quant’ elli ha più di buon vigor terrestro.   [120]

Alcun tempo il sostenni col mio volto:   2, 3; 15, 1
mostrando li occhi giovanetti a lui,   6, 12
meco il menava in dritta parte vòlto.   [123]   6, 5

Sì tosto come in su la soglia fui
di mia seconda etade e mutai vita,   8, 5
questi si tolse a me, e diessi altrui.   [126]   2, 5

Quando di carne a spirto era salita,
e bellezza e virtù cresciuta m’era,
fu’ io a lui men cara e men gradita;   [129]   7, 3

e volse i passi suoi per via non vera,
imagini di ben seguendo false,   5, 1; 16, 2
che nulla promession rendono intera.   [132]

l’impetrare ispirazion mi valse,   5, 4
con le quali e in sogno e altrimenti
lo rivocai: sì poco a lui ne calse!   [135]   1, 10

Tanto giù cadde, che tutti argomenti   2, 4
a la salute sua eran già corti,
fuor che mostrarli le perdute genti.   [138]   1, 1; 11, 6

Per questo visitai l’uscio d’i morti,   2, 1
e a colui che l’ha qua sù condotto,   8. 9
li preghi miei, piangendo, furon porti.   [141]   5, 4

Alto fato di Dio sarebbe rotto,   5, 1; 2, 12
se Letè si passasse e tal vivanda
fosse gustata sanza alcuno scotto
di pentimento che lagrime spanda».   [145]   3, 18

1. “Benedictus qui venis!”

Purg. XXX inizia allorché i sette candelabri, che aprono la processione nell’Eden, si fermano. Essi sono definiti “il settentrïon del primo cielo, / che né occaso mai seppe né orto”, cioè l’Orsa dell’Empireo che, come l’Orsa terrestre (cfr. Par. XIII, 7-9), non viene mai meno e segna il cammino da percorrere. Il confronto è con l’esegesi di Ap 1, 4, dove si toccano i “sette spiriti che stanno dinanzi al suo trono”. Si precisa trattarsi dello Spirito increato, semplice per natura e settiforme per grazia, radice e forma esemplare dei sette stati della Chiesa che costituiscono l’oggetto principale del libro. Viene detto che i sette spiriti sono dinanzi al trono perché fanno stare nel cospetto di Dio e della sua sede coloro i quali ne sono pieni, secondo le parole di san Paolo ai Romani (Rm 8, 26): “è lo stesso Spirito che domanda per noi”, perché ci fa domandare (i seniori invocano l’arrivo di Beatrice). Il “settentrïon” rende ciascuno consapevole di quello che debba fare e, fermandosi, fa in modo che i ventiquattro seniori che lo seguono si volgano al carro (il carro-Chiesa militante tirato dal grifone-Cristo). I seniori si volgono al carro “come a sua pace”, e uno di loro invoca (cioè ‘postula’ per dettato interiore dello Spirito) l’arrivo di Beatrice cantando tre volte “Veni, sponsa, de Libano”, seguito da tutti gli altri. Nel canto precedente, “posta” e “sosta” sono in rima attribuiti a Dante intento a vedere meglio i sette candelabri (Purg. XXIX, 70-72).

■Dire tre volte “santo” e “dare benedizione”, come fanno i quattro esseri viventi e i ventiquattro seniori ad Ap 4, 8-11, si ritrovano, diversamente appropriati, nei canti dell’Eden. I seniori cantano “Benedicta tue / ne le figlie d’Adamo, e benedette / sieno in etterno le bellezze tue!” (Purg. XXIX, 85-87): il più consono riferimento scritturale è all’ingresso di Gesù in Gerusalemme, dove Marco 11, 9 e Giovanni 12, 13 sono concordati con l’Apocalisse. Prima dell’apparizione di Beatrice (Purg. XXX, 10-21), uno dei seniori, “quasi da ciel messo”, grida tre volte “Veni, sponsa, de Libano” (Cantico dei Cantici, 4, 8), seguito da tutti gli altri. Intervengono qui i temi da Ap 19, 6, dove il festivo gaudio per le nozze di Cristo con la Chiesa dopo la sconfitta dell’Anticristo
– il canto di alleluia, assimilato a quello cantato nella solennità delle Palme, per celebrare appunto l’ingresso di Cristo a Gerusalemme – è interpretato come “voce di molte acque”. Olivi riporta l’opinione di Gioacchino da Fiore, secondo il quale “inchoante hanc laudem aliquo magno sancto, quasi magna tuba Dei, statim resonabit laus in ore multorum”. La contaminazione tra Ap 4, 8-10 e 19, 6 si mostra nella successiva similitudine della moltitudine di angeli, che si levano sul carro “ad vocem tanti senis”, con i beati che “al novissimo bando / surgeran presti ognun di sua caverna, / la revestita voce alleluiando” [1]. Il bando e l’alleluia sono ad Ap 19, 6; la lode dei beati dopo la resurrezione dei corpi, accostata a quella delle intelligenze angeliche, ad Ap 4, 8-11.

Spirito, stare (fermo, immobile), postulare (parlare per dettato interiore): dalla collazione di prologo, Notabile III (la stabile e ferma età virile) con Ap 1, 4 (stare di fronte al settiforme Spirito), 4, 3 (immutabilità di Dio giudice nella sua sede) e 8, 3 (immutabile stare della divinità di Cristo), gli elementi semantici travasano nei versi con le più singolari variazioni. Lo ‘stare’ si può analogicamente arricchire di altri motivi, come lo ‘stare fisso’, nella sesta vittoria, dell’uomo evangelico e spirituale, configurato in Cristo come una colonna nel tempio (Ap 3, 12). Questa colonna “firmiter fixa”, che sostiene gli ordini inferiori (rappresentati dal tempio, che occupa uno spazio maggiore rispetto alla colonna) con umile semplicità (“humilis simplicitas et simplex spiritualitas”), è figurata dal settiforme Spirito designato dai sette candelabri alla testa della processione nell’Eden: “come ’l più basso face (l’Orsa Maggiore) / qual temon gira per venire a porto, / fermo s’affisse” (Purg. XXX, 5-7). Nella salita al “dilettoso monte”, “’l piè fermo sempre era ’l più basso” (Inf. I, 30), era cioè il piede che sostiene, come una colonna, la spinta nel salire.

Tab. I

[LSA, cap. I, Ap 1, 4 (salutatio)] Deinde subdit a quo optat eam dari, insinuans trinam habitudinem esse dantis. Prima est Deus, ut in se ipso absolute et eternaliter existens. Secunda est eius spiritualis virtus, prout est ad varios influxus donorum spiritualium indistantissime ordinata et in ipsis participata et quasi multiplicata. […] Pro secundo dicit: “Et a septem spiritibus”. Hoc non potest hic stare pro spiritibus angelorum creatis, quia gratia non dicitur dari nobis a creatura vel ab angelis, sed solum quod ministerialiter cooperantur ad hoc ut nobis detur a Deo. Non etiam potest stare pro donis gratie creatis, quia tunc esset sermo nugatorius et ridiculosus, scilicet quod ab ipsis donis creatis darentur nobis ipsamet dona creata. Stat ergo pro increato Spiritu. Unde et Ricardus exponit: “a septem spiritibus”, id est a septiformi Spiritu, qui simplex est per naturam et septiformis per gratiam. Dividit enim dona singulis prout vult. Dicit etiam hoc appropriate referri ad personam Spiritus Sancti. Significavit autem sic Spiritum increatum, tum ut insinuet eius causalem multiformitatem, tum ut ostendat eius multiformem et presentialem participationem in variis donis ac si in eis partiretur et multiplicaretur, tum ut ostendat eius originalem radicem et rationem et exemplarem formam septem statuum ecclesie de quibus in hoc libro est intentio principalis. “Qui in conspectu troni eius sunt”, id est qui eos quos replent faciunt in conspectu Dei et sue sedis stare, iuxta quod ad Romanos VIII° (Rm 8, 26) dicitur quod “ipse Spiritus pro nobis postulat”, quia facit nos postulare. Pro quanto etiam est quasi idem cum donis a se influxis, dicitur stare ante Deum quia eius dona stant ante Deum et ad cultum scilicet eius. Ricardus tamen legit quod ipsi spiritus semper conspiciuntur per contemplationem a sanctis angelis et hominibus, qui sunt tronus Dei quia residet in eis sicut rex in suo trono.

 

Purg. XXX, 1-21

Quando il settentrïon del primo cielo,
che né occaso mai seppe né orto
né d’altra nebbia che di colpa velo,
e che faceva lì ciascuno accorto
di suo dover, come ’l più basso face
qual temon gira per venire a porto,
fermo s’affisse: la gente verace,   3, 12
venuta prima tra ’l grifone ed esso,
al carro volse sé come a sua pace;
e un di loro, quasi da ciel messo,
Veni, sponsa, de Libano’ cantando
gridò tre volte, e tutti li altri appresso.
Quali i beati al novissimo bando
surgeran presti ognun di sua caverna,
la revestita voce alleluiando,
cotali in su la divina basterna
si levar cento, ad vocem tanti senis,
ministri e messagger di vita etterna.
Tutti dicean: ‘Benedictus qui venis!’,
e fior gittando e di sopra e dintorno,
Manibus, oh, date lilïa plenis!’.

Purg. XXIX, 70-72

Quand’ io da la mia riva ebbi tal posta,
che solo il fiume mi facea distante,
per veder meglio ai passi diedi sosta 

[LSA, cap. XIX, Ap 19, 6 (VIa visio)] Sequitur de festivo gaudio regni Christi et nuptiarum eius et ecclesie: “Et audivi quasi vocem tube magne et sicut vocem aquarum multarum et sicut vocem tonitruorum magnorum, dicentium: Alleluia” (Ap 19, 6). Secundum Ioachim, inchoante hanc laudem aliquo magno sancto, quasi magna tuba Dei, statim resonabit laus in ore multorum, que erit quasi vox aquarum multarum; ad extremum autem maior effecta, quasi tonitruorum magno-rum, perveniet usque ad fines terre*. Item per hanc trinam speciem vocis designatur triplex proprietas et perfectio huius laudis. Erit  enim efficax ad movendum, sicut est vox magne tube; et ad irrigandum multiformibus devotionibus et compunctionibus, quasi vox aquarum multarum; et ad extatice stupefaciendum et alienandum et quasi ad cordis cerebrum absorbendum et funditus concutiendum, quasi vox tonitruorum magnorum.

* Expositio, pars VI, distinctio II, f. 204vb. 

[LSA, cap. IV, Ap 4, 8-11 (IIa visio, radix)] “Et requiem non habebant die ac nocte”, id est numquam cessabant a subscripta Dei laude, “dicentia: Sanctus, sanctus, sanctus Dominus Deus omnipotens, qui est et qui erat et qui venturus est”, id est semper et in prosperis et in adversis laudant Deum trinum et unum de summa sanctitate et omnipotentia et eternitate omnium preteritorum et presentium et futurorum comprehensiva et gubernativa. […]
Dicunt (quattuor animalia) autem tersanctussubdendo in singulari “Dominus Deus”, tamquam laudantes Deum trinum et unum. Sicut autem prima petitio quam docuit nos petere Christus est “sanctificetur nomen tuum”, sic summus actus laudis Dei est affectualiter et iubilatorie dicere “sanctus” et cetera. Nulla enim perfectio in Deo vel in nobis consideratur ut summe perfecta nisi consideretur ut virtuosa et sancta, quod in Deo prehabundat in tantum ut tota sua essentia sit virtus et sanctitas, vel equitas et caritas et e contrario. Nota etiam quod dicendo “sanctus” non solum ascribunt sanctitatem essentialem, sed etiam omnem aliam sibi tamquam summe cause ascribunt.
“Et cum darent illa quattuor animalia gloriam et honorem et benedictionem sedenti super tronum, viventi in secula seculorum, proc<i>debant viginti quattuor seniores ante sedentem in trono” (Ap 4, 9-10). Supradictam laudem vocat dare Deo “gloriam”, <quia> ascribit Deo suam essentialem gloriam qua est in se essentialiter beatus et gloriosus. Dat etiam “honorem”, quia est actus quo Deus a laudantibus honoratur et quo se subiciunt ei tamquam summe reverendo et tamquam Deo suo summe ab eis honorando. Dat etiam “benedictionem”, quia optat Deo et ascribit omnia bona. Potest etiam dici quod per tria predicta significat idem, sed sic ingeminat ea ad plenius exprimendum et magnificandum affectum laudantium et actum sue laudis et precellentiam Dei laudati.
Prout autem per seniores designantur quicumque superiores sanctis per animalia designatis, significatur per correspondentiam laudis eorum ad laudem animalium quod prelati valde glorificant Deum ex hoc quod vident eum a suis subditis perfecte laudari. Unde et hoc modo angeli gaudent et glorificant Deum quia nos per eorum ministerium Deum glorificamus, et etiam Christus glorificavit Patrem de illuminatione discipulorum suorum, prout dicitur Matthei XI° et Luche X° (Mt 11, 25; Lc 10, 21). Significatur etiam quod totam coronam sue pontificalis seu pastoralis auctoritatis suique magisterii et ministerii super eos non ascribunt sibi nec suis meritis sed soli Deo. Prout autem per seniores designantur inferiores animalibus in sanctitate, quamquam sint superiores in auctoritate, significatur quod laus sanctorum excitat minus sanctos ad laudem. […]
Item in laude seniorum ponit quattuor actus, scilicet procidere ante sedentem, et adorare ipsum, et coronas suas mittere ante tronum (Ap 4, 10), et quarto dicere: “Dignus es, Domine” et cetera (Ap 4, 11). Per quartum vero significatur intellectualis et affectualis actus eorum, qui est formaliter et essentialiter ipse actus laudis. Significat etiam secundario vocalem laudem sanctorum post resurrectionem corporum suorum, et forte aliquam in angelis per signa intellectualia a magis interno actu mentis eorum causata, iuxta unum modum quo ponuntur sibi invicem loqui per signa.

Purg. XXX, 1o-21

e un di loro, quasi da ciel messo,
Veni, sponsa, de Libano’ cantando
gridò tre volte, e tutti li altri appresso.
Quali i beati al novissimo bando
surgeran presti ognun di sua caverna,
la revestita voce alleluiando,
cotali in su la divina basterna
si levar cento, ad vocem tanti senis,
ministri e messagger di vita etterna.
Tutti dicean: ‘Benedictus qui venis!’,
e fior gittando e di sopra e dintorno,
Manibus, oh, date lilïa plenis!’.

Purg. XXIX, 82-87

Sotto così bel ciel com’ io diviso,
ventiquattro seniori, a due a due,
coronati venien di fiordaliso.
Tutti cantavan: “Benedicta tue
ne le figlie d’Adamo, e benedette
sieno in etterno le bellezze tue!”.

 
Tab. II

[LSA, prologus, Notabile III] Item (zelus) est septiformis prout fertur contra quorundam ecclesie primitive fatuam infantiam (I), ac deinde contra pueritiam inexpertam (II), et tertio contra adolescentiam levem et in omnem ventum erroris agitatam (III), et quarto contra pertinaciam quasi in loco virilis et stabilis etatis se firmantem (IV), quinto contra senectutem remissam (V), sexto contra senium decrepitum ac frigidum <et> defluxum (VI), septimo contra mortis exitum desperatum et sui oblitum (VII).
Item est septiformis quia est contra initium mali intrinsecum (I) et extrinsecum (II); et contra medium terminum, scilicet ascendens (III) stans (IV) et declinans (V); et contra terminum intrinsecum (VI) et extrinsecum (VII).

[LSA, cap. III, Ap 3, 12 (VIa victoria)] Sumendo tamen templum pro ecclesia sustentata a perfectis quasi a columpnis eius, tunc sub alio respectu significatur duplex ingressus. Quia enim et Deum et eius cultum intramus primo per professionis statum, per quem quis in Dei ecclesia et religione statuitur; secundo per contemplationis actum, per quem Deus cum suis operibus apprehenditur, idcirco primum significat per immobilem statum columpne in templo; secundum vero per inscriptionem divinorum in animo.
Columpna autem, sic stans, est longa et a fundo usque ad tectum erecta et solida ac sufficienter densa, et rotunda communiter vel quadrata, et firmiter fixa templique sustentativa et decorativa. Sic autem stat in Dei ecclesia vel religione vir evangelicus Christo totus configuratus, sic etiam suo modo stat in celesti curia. Nam superiores ordines sunt sustentativi universitatis inferiorum, ipsorumque humilis simplicitas et simplex spiritualitas se habet ad minorem simplicitatem et quasi ad grossiciem inferiorum sicut centrum ad speram aut sicut spiritus ad corpus. Et ideo templum occupat maius spatium quam columpna ipsum sustentans.

 

Purg. XXX, 1-12, 100-102

Quando il settentrïon del primo cielo,
che né occaso mai seppe né orto
né d’altra nebbia che di colpa velo,
e che faceva lì ciascuno accorto
di suo dover, come ’l più basso face
qual temon gira per venire a porto,
fermo s’affisse: la gente verace,
venuta prima tra ’l grifone ed esso,
al carro volse sé come a sua pace;
e un di loro, quasi da ciel messo,
Veni, sponsa, de Libano’ cantando
gridò tre volte, e tutti li altri appresso.

Ella, pur ferma in su la detta coscia
del carro stando, a le sustanze pie
volse le sue parole così poscia:

Inf. XXV, 88-90

Lo trafitto ’l mirò, ma nulla disse;
anzi, co’ piè fermati, sbadigliava
pur come sonno o febbre l’assalisse.

Inf. XXIII, 76-78, 82-83

E un che ’ntese la parola tosca,
di retro a noi gridò: “Tenete piedi,
voi che correte sì per l’aura fosca!”

Ristetti, e vidi due mostrar gran fretta
de l’animo …………………………………. .

Inf. I, 28-30; XVIII, 40-45; Par. XX, 103-105

Poi ch’èi posato un poco il corpo lasso,
ripresi via per la piaggia diserta,
sì che ’l piè fermo sempre era l più basso.

Mentr’ io andava, li occhi miei in uno
furo scontrati; e io sì tosto dissi:
“Già di veder costui non son digiuno”.
Per ch’ïo a figurarlo i piedi affissi;
e ’l dolce duca meco si ristette,
e assentio ch’alquanto in dietro gissi.

D’i corpi suoi non uscir, come credi,
Gentili, ma Cristiani, in ferma fede
quel d’i passuri e quel d’i passi piedi.

[LSA, cap. X, Ap 10, 1 (IIIa visio, VIa tuba)] Habuit etiam “pedes” rectos et solidos et igneos ut “columpnam ignis”, quia non solum fuit summus in contemplatione, sed etiam in omni perfecta actione, sicut ex ystoria vite sue superhabunde patet.

Purg. III, 10-11

Quando li piedi suoi lasciar la fretta,
che l’onestade ad ogn’ atto dismaga

[LSA, cap. II, Ap 2, 18 (Ia visio, IVa ecclesia)] Hiis autem premittitur preceptum de scribendo hec huic episcopo et eius ecclesie et introductio Christi loquentis, cum subdit: “Hec dicit Filius hominis, qui habet oculos tamquam flamma<m> ignis et pedes eius similes auricalco” (Ap 2, 18). Quia episcopus et ecclesia cui Christus loquitur laudatur de fervore fidei et caritatis, et de humilitate ministrandi et patientie, et de perfectione operum sive vite active, ideo respectu primi Christus proponitur ut habens oculos lucidos et ardentes sicut est flamma ignis, respectu vero secundi proponitur ut Filius hominis, respectu vero tertii proponitur habere pedes similes auricalco, id est eri nitidissimo quod est simillimum auro. Correspondet etiam hoc quarto statui anacho-ritarum humillimorum et valde activorum multum-que contemplativorum. Dictum est enim supra quod per Filium hominis designatur humilitas, per oculos autem flammeos fervor et lux contemplationis ignite, per pedes vero similes auricalco perfectio vite active.

[LSA, cap. I, Ap 1, 15 (radix Ie visionis)] Sexta (perfectio summo pastori condecens) est sue active seu suorum operum perfectio, unde subdit: “et pedes eius similes auricalco, sicut in camino ardenti” (Ap 1, 15). Auricalcum est es nitidissimum valde simile auro, et cum est in camino ardenti est ignitissimum ac scintillans liquefactum. Christi autem corporales seu exteriores et inferiores actus et processus fuerunt et sunt igne caritatis Dei et nostri ignitissimi et exemplariter scintillantes et etiam, dum hic viveret, in camino temptationum probati et auro sue interne et superne caritatis simillimi.

Purg. X, 79-81

Intorno a lui parea calcato e pieno
di cavalieri, e l’aguglie ne l’oro
sovr’ essi in vista al vento si movieno.

 

[LSA, cap. VII, Ap 7, 1 (IIa visio, apertio VIi sigilli)] Item per hos quattuor ventos intelliguntur omnes spirationes Spiritus Sancti, secundum illud Ezechielis XXXVII°: “A quattuor ventis veni, spiritus, et insuffla super interfectos istos et reviviscant” (Ez 37, 9).

[LSA, cap. XIX, Ap 19, 15 (VIa visio)] “Et ipse reget eas in virga ferrea”, id est in inflexibili iustitia. Qui enim nolunt converti blanditiis et humilitate necesse est ut tunc temporis sentiant severitatem et fortitudinem discipline eius, ut saltem sero subi-ciantur sceptro ipsius. Rebelles autem sentient furorem eius, unde subditur : “Et ipse calcat torcular vini furoris ire Dei omnipotentis”, id est ipse premit impios penis mortiferis quas Deus Trinitas quasi furibundus et iratus propinat eis.

L’auricalcum, ad Ap 1, 15 e 2, 18, designa i piedi di Cristo, solidi e fiammeggianti nella sua vita attiva. I temi, scissi e variamente appropriati, fregiano l’episodio di Traiano: “Intorno a lui parea calcato e pieno / di cavalieri, e l’aguglie ne l’oro / sovr’ essi in vista al vento si movieno” (Purg. X, 79-81). “Calcato” fa segno anche della giustizia divina, che ‘calca’ i ribelli (Ap 19, 15), e di quella imperiale che si appresta a vendicare del figlio la vedovella. Il muoversi delle aquile al vento allude al vento dello Spirito, ad Ap 7, 1.


[1] Il versetto
“Et audivi quasi vocem tube magne et sicut vocem aquarum multarum et sicut vocem tonitruorum magnorum, dicentium: Alleluia” (Ap 19, 6) rende irricevibile la variante, già esclusa dal Petrocchi, “la revestita carne alleluiando“.

2. “Donna m’apparve”

■Le variazioni su temi propri dell’angelo del sesto sigillo si registrano nei primi versi del poema e nel rivedere Beatrice nell’Eden (Purg. XXX, 22-33). In questo caso i temi dell’angelo che sale da oriente (Ap 7, 2) sono combinati con quelli dell’angelo della sesta tromba, che ha la faccia come il sole (Ap 10, 1; l’intero cap. X è ricchissimo di motivi che travasano nel poema). Olivi identifica entrambi gli angeli con Francesco e con i suoi discepoli. Del primo è posto subito il motivo temporale (circa initium solaris diei / nel cominciar del giorno). Il luogo da cui l’angelo sale (ab ortu solis, cioè dalla vita recataci da Cristo nella sua nascita e nel suo primo avvento) è congiunto con il tema del sesto angelo tubicinante (facies eius erat sicut sol / e la faccia del sol nascere). La funzione dell’angelo del sesto sigillo, di salire, è collocata alla terza terzina, appropriata al salire della nuvola di fiori dalle mani angeliche (angelus ascendens / da le mani angeliche saliva). Anche la posizione soggettiva di Dante può essere ricondotta alla visione che Giovanni ha dei due angeli (Et vidi alterum angelum / Io vidi; apparuit Franciscus / donna m’apparve).
È il mattino del sesto giorno di viaggio. La situazione temporale è simile a quella descritta all’inizio del poema, quando “quasi al cominciar de l’erta”, cioè della salita del “dilettoso monte”, Dante incontra la lonza: entrambi i punti utilizzano il medesimo tema (Inf. I, 37-40, dove il salire è appropriato al sole, che “montava ’n sù con quelle stelle / ch’eran con lui quando l’amor divino / mosse di prima quelle cose belle”).
Terza e più alta variazione si registra nell’Empireo, allorché il poeta ascende con lo sguardo (“quasi di valle andando a monte / con gli occhi”) verso la Vergine-“oriafiamma” (Par. XXXI, 118-123): nella similitudine il tempo (che nel cielo divino non dovrebbe registrarsi, visto che esso tiene le sue radici nel cielo sottostante, cioè nel Primo Mobile) è sempre il mattino e il luogo astronomico l’oriente (“e come da mattina / la parte orïental de l’orizzonte / soverchia quella dove ’l sol declina”). L’apparizione di Beatrice si colloca così tra una salita fisica mancata e una, anche spirituale, compiuta.

Intervengono alcuni temi incidentali. Il primo, tratto dalla sesta coppa in tutt’altro contesto (Ap 16, 12), precisa l’ab ortu solis in a parte orientali (la parte orïental). Il secondo, che dà il colore alla parte orientale, tutta rosata, appartiene a una delle pietre preziose, l’ametista, che adornano le fondamenta della Gerusalemme celeste descritta nella settima visione (Ap 21, 20). L’ametista è assimilabile al viola e al rosa insieme, e designa congiuntamente l’umiltà del prelato che si espone fino alla morte per lo zelo e l’amore verso i sudditi e che con il suo esempio effonde la fiamma della carità e della sapienza divina. In questo senso il tema passa in Purg. XXXII, 58-59, quando l’“albero robusto” dell’Eden, che prima aveva i rami così soli per il peccato di Adamo, s’innova aprendo un colore “men che di rose e più che di vïole”, allusione all’esporsi di Cristo alla morte per zelo e amore dell’umanità. Anche Beatrice si è esposta per Dante, visitando “l’uscio d’i morti” e porgendo a Virgilio preghiere nel pianto (Purg. XXX, 139-141). Al momento dell’apparizione nell’Eden, il rosato designa il diffondersi della carità e della sapienza divina.

■ Quando Beatrice gli appare nell’Eden Dante non ha ancora la vista tanto perfetta da poter sostenere un volto che luce come il sole. Ecco pertanto che il tema della nuvola, nonostante il sereno del cielo, si inserisce per designare il temperamento della luce. A dire il vero, di nuvola si parla solo nella terza terzina, ed è “una nuvola di fiori” che sale e ricade dalle mani degli angeli. Ma il cominciare della terzina con l’avverbio “così”, con funzione comparativa, proietta il tema sui versi che precedono. La “faccia del sol” che il poeta vede “nascere ombrata” e con “temperanza di vapori” traspone il tema della nube appropriato a Francesco ad Ap 10, 1. Il santo non ha solo la faccia come il sole; nel suo discendere dal cielo è avvolto da una nube la quale designa, oltre che la povertà, la scienza della Scrittura. Come infatti la nube, sopra, tra noi e il cielo, riceve i raggi del sole e ce li tempera, ed effonde moderatamente per la fruttificazione delle sementi le acque piovane che fecondano, così la Scrittura sarà spiritualmente nella carità e nella sapienza di Dio come il sole che irradia alla fine tutta la terra formando il giorno solare del terzo generale stato del mondo [1].
La faccia “ombrata” del sole corrisponde all’essere la donna velata: è il tema dell’“umbra velaminis” che verrà tolta nella gloria del Nuovo Testamento, allorché la luce della luna sarà come quella del sole, secondo il tema da Isaia 30, 26 che costituisce l’incipit della Lectura. Il compiuto svelamento di Beatrice sarà “isplendor di viva luce etterna” (Purg. XXXI, 139-145), e la seconda cantica si chiude allorché “più corusco e con più lenti passi / teneva il sole il cerchio di merigge”, nel mezzogiorno del sesto stato in cui la faccia di Cristo risplende come il sole secondo quanto scritto ad Ap 1, 16 (Purg. XXXIII, 103-104). Su altro significato di “ombrata” cfr. qui di seguito.

Tab. III

[LSA, cap. VII, Ap 7, 2 (apertio VIi sigilli)] Sequitur tertia pars, scilicet prohibitio predicti impedimenti per subscriptum angelum facta (Ap 7, 2): “Et vidi alterum angelum”, alterum scilicet a quattuor iam premissis, et alterum non tantum in persona sed etiam in virtute et officio. Nam illi mali et impeditivi boni, iste vero in utroque contrarius eis. […]
Hic ergo angelus est Franciscus, evangelice vite et regule sexto et septimo tempore propagande et magnificande renovator et summus post Christum et eius matrem observator, “ascendens ab ortu solis”, id est ab illa vita quam Christus sol mundi in suo “ortu”, id est in primo suo adventu, attulit nobis. Nam decem umbratiles lineas orologii Acaz Christus in Francisco reascendit usque ad illud mane in quo Christus est ortus (4 Rg 20, 9-11; Is 38, 8).
Ascendit etiam “ab ortu solis”, quia sui ascensus in Deum fundamentum et initium cepit a sede romana, que inter quinque patriarchales ecclesias est principaliter sedes et civitas solis, id est Christi et fidei eius, de qua typice dicitur Isaie XIX°: “In die illa erunt quinque civitates in terra Egipti” et cetera, “civitas solis vocabitur una” (Is 19, 18).
Ascendit etiam “ab ortu solis”, id est circa initium solaris diei sexte et septime apertionis seu tertii generalis status mundi.
Item per ipsum intelligitur cetus discipulorum eius in tertio et quarto initio sexte apertionis futurus et consimiliter ab ortu solis ascensurus, quibus eius exemplar et meritum et virtuale de celo regimen singulariter coassistet, ita ut quicquid boni per eos fiet sit sibi potius ascribendum quam eis.

[LSA, cap. XVI, Ap 16, 12 (Va visio, VIa phiala)] “Et sextus angelus effudit phialam suam in flumen magnum Eufraten et siccavit aquas eius, ut preparetur via regibus ab ortu solis” (Ap 16, 12). […] Super quo Ioachim dicit: «Puto quod a parte orientali incipiet tribulatio, hoc est ab illa provincia, ut tangamus spiritum, ubi ortus est verus sol». Quidam dicunt quod per intestina prelia regum et regnorum ecclesie romane siccabitur seu deficiet robur et multitudo suorum exercituum, et hoc erit preambula preparatio ad secuturam destructionem carnalis ecclesie et sui principatus et regni fiendam per decem reges et per regem undecimum eis presidentem.

Par. XXXI, 118-123

Io levai li occhi; e come da mattina
la parte orïental de l’orizzonte
soverchia quella dove ’l sol declina,
così, quasi di valle andando a monte
con li occhi, vidi parte ne lo stremo
vincer di lume tutta l’altra fronte.

Inf. I, 37-40

Temp’ era dal principio del mattino,
e ’l sol montava ’n sù con quelle stelle
ch’eran con lui quando l’amor divino
mosse di prima quelle cose belle

 

Purg. XXX, 22-30

Io vidi già nel cominciar del giorno
la parte orïental tutta rosata,
e l’altro ciel di bel sereno addorno;
e la faccia del sol nascere ombrata,
sì che per temperanza di vapori
l’occhio la sostenea lunga fïata:
così dentro una nuvola di fiori
che da le mani angeliche saliva
e ricadeva in giù dentro e di fori
sovra candido vel cinta d’uliva
donna m’apparve, sotto verde manto
vestita di color di fiamma viva.

[LSA, cap. X, Ap 10, 1 (IIIa visio, VIa tuba)] “Facies” etiam “eius erat ut sol”, quia in singulari contemplatione Christi et evangelice vite eius fuit non instar lune defective, vel modice stelle vel lucis nocturne, sed instar solis et lucis diurne inflammatus et illuminatus et illuminans et inflammans. […] Sicut enim in tertia decima die a nativitate Christus apparuit regibus orientis (Mt 2, 1ss.) et in consimili die baptizatus est (Mt 3, 13ss.; Mr 1, 4ss.; Lc 3, 21ss.) et aquam convertit in vinum (Jo 2, 1-11), et in tertio decimo anno absentatus a matre est ab ea inventus in templo (Lc 2, 40-50), sic in tertio decimo centenario a Christi ortu apparuit Franciscus et eius evangelicus ordo, sed in tertio decimo a Christi morte et ascensione exaltabitur in cruce et ascendet ei<us> gloria super totum orbem, prout pie conicitur ex scripturis et specialiter ex hiis que tanguntur infra in quarta visione huius libri. […] Et per profundissimam sui humiliationem et per sue originis a Deo humilem recognitionem et per sui ad inferiores piam condescensionem descendet “de celo”, eritque scientia scripturarum non terrestrium et falsarum sed celestium et purissimarum quasi “nube amictus”, et etiam agillima et altissima et fecunda simul et obscura seu humili paupertate. Sicut enim nubes est supra inter nos et celum suscipiens solis radios et contemperans nobis eos, et est purgans aquis pluvialibus et fecundis ipsasque ad fructificationem terre nascentium moderate effundens, sic est hec scriptura sacra spiritualiter; in caritate etiam et sapientia Dei erit ut sol ad irradiandum finaliter totum orbem et ad formandum solarem diem tertii generalis status mundi.

[LSA, cap. XXI, Ap 21, 20 (VIIa visio)] “Ametistus”, qui est coloris purpurei habens similitudinem viole et rose, et qui flammulas aureas videtur emittere tenetque, secundum Papiam, principatum inter gemmas purpureas, designat perfectionem prelatio-nis humilis ut viola et pro ardenti zelo et amore subditorum se omni morti et angustie exponentis et in ipsos verbo et exemplo flammas divine caritatis et sapientie effundentis.

 

Purg. XXX, 22-24

Io vidi già nel cominciar del giorno
la parte orïental tutta rosata,
e l’altro ciel di bel sereno addorno

Purg. XXXII, 58-59

men che di rose e più che di vïole
colore aprendo, s’innovò la pianta

■ Se “la parte orïental” è “tutta rosata”, è “l’altro ciel di bel sereno addorno”. Anche i temi della quarta visione entrano parzialmente nell’ordito, lì dove si tratta del mirabile adornamento della Vergine, della quale si dice: “Nel cielo apparve un grande segno: una donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e sul suo capo una corona di dodici stelle” (Ap 12, 1: «Unde de eius adornatione subditur: “Et signum magnum apparuit in celo”, id est in celesti statu Christi, scilicet “mulier amicta sole …” … “sole”, id est solari sapientia et caritate et contemplatione maiestatis Christi, vestita … // e l’altro ciel di bel sereno addorno; / e la faccia del sol nascere ombrata … donna m’apparve, sotto verde manto / vestita di color di fiamma viva»).
Sono da notare altre variazioni di questo versetto e di quello successivo, dove si tratta del forte dolore del parto, sia reale come spirituale, per cui si aggiunge: “Era incinta e gridava partorendo e si doleva per partorire” (Ap 12, 2). Questa donna è per antonomasia la Vergine Maria genitrice di Dio; in generale designa la Chiesa, soprattutto quella primitiva. La Vergine, infatti, se concepì Cristo nell’utero del corpo e della mente, ne portò anche nell’utero del cuore l’intero corpo mistico, come fosse la sua prole. Costei chiama gridando sia col gemito dei sospiri sia col suono della predicazione nel partorire Cristo che sarà crocifisso e che per la croce risorgerà manifestamente nella gloria del Padre, partorendo insieme con grave angustia il corpo mistico del figlio che sarà rigenerato nella grazia e nella gloria di Dio, che è anche il Cristo che si formerà e nascerà nei cuori.
Nel girone degli avari e prodighi purganti, una voce, che si rivelerà essere quella di Ugo Capeto, propone esempi di povertà e liberalità. È una voce che ‘chiama’ nel pianto, “come fa donna che in parturir sia”, e che loda la povertà di Maria, “unica sposa de lo Spirito Santo”, attributo proprio della Chiesa (Purg. XX, 19-21, 97-99). Nel girone successivo, i golosi piangono e cantano il salmo 50, 17, “‘Labïa mëa, Domine’ per modo / tal, che diletto e doglia parturìe” (Purg. XXIII, 10-12; cfr. l’esegesi di Ap 10, 9). La Vergine Maria, “chiamata in alte grida”, assistette la madre di Cacciaguida nelle doglie del parto (Par. XV, 133).

Nell’apparizione di Beatrice, il tema del cielo sereno, purgato da ogni nube e da ogni grosso vapore, deriva da Ap 1, 16 e da Ap 16, 17. Il primo riferimento è alla decima perfezione di Cristo come sommo pastore (delle dodici premesse alla prima visione): la gloria ineffabile della sua chiarezza e virtù nella trasfigurazione della meridiana luce del sole, che è l’ora del sesto stato della Chiesa. Il secondo riferimento è alla settima coppa (quinta visione), versata nell’aria completamente purgata e penetrabile ai raggi del sole e delle stelle, che designa la vita contemplativa, che sta tra cielo e terra, aperta ai raggi del sole eterno e di tutta la gerarchia celeste e subceleste (cfr. la presenza di questa tematica a Par. XXVIII, 79-87).
Termini come “bel” e “addorno” (Purg. XXX, 24) sono propri anche di Sardi, la quinta chiesa d’Asia bella nel suo principio di pienezza stellare (Ap 2, 1; 3, 1).
L’intreccio nei versi dei motivi propri dell’angelo del sesto sigillo (Ap 7, 2: salire, sole, mattino) con quelli della quinta chiesa – “dal principio”, con la rima “stelle” / “belle” (Ap 3, 1) – è nella descrizione del tempo primaverile e mattutino che ripete il mattino primordiale della creazione (Inf. I, 37-40) e ancora in rima al termine della prima cantica, nel salire e uscire “a riveder le stelle” (Inf. XXXIV, 136-139). I temi relativi all’edenico principio della chiesa di Sardi (poi corrottasi), che deve essere attentamente ripensato, si registrano in numerosi luoghi del poema.

Tab. IV

[LSA, cap. XII, Ap 12, 1-2 (radix IVe visionis)] Quartum vero, huic annexum, est ad Christum tam verum quam misticum in eius spiritali utero conceptum et in gloriam pariendum fortis cruciatio. Unde de eius adornatione subditur (Ap 12, 1): “Et signum magnum apparuit in celo”, id est in celesti statu Christi, scilicet “mulier amicta sole, et luna sub pedibus eius, et in capite eius coronam stellarum duodecim”. De parturitionis autem cruciatu subditur (Ap 12, 2): “Et in utero habens et clamat parturiens et cruciatur ut pariat”. Mulier ista, per singularem anthonomasiam et per specialem intelligentiam, est virgo Maria Dei genitrix. Per generalem vero intelligentiam, hec mulier est generalis ecclesia et specialiter primitiva. Virgo enim Maria et in utero corporis et in utero mentis Christum caput concepit et habuit, et in utero cordis totum corpus Christi misticum habuit sicut mater suam prolem.
Generalis etiam ecclesia, et precipue illa que instar Virginis est per perfectionem evangelicam “sole”, id est solari sapientia et caritate et contemplatione maiestatis Christi, vestita, et “lunam”, id est temporalia instar lune mutabilia et de se umbrosa, et figuralem corticem legis et sinagoge, ac mundanam scientiam et prudentiam instar lune mutabilem et nocturnam et frigidam seu infrigidativam, tenens “sub pedibus”, id est partim eam spernens et conculcans et partim suo famulatui eam subiciens, et vitam ac precellentiam duodecim apostolorum habens quasi “coronam duodecim stellarum in” suo “capite”, id est in suo initio et supremo, hec etiam, instar Virginis in spiritali mentis utero habens Christum et totum eius corpus misticum, “clamat” tam gemitu suspiriorum quam sono predicationis, tamquam cum multo gemitu et cum multo predicationis clamore parturiens Christum crucifigendum et, per crucem et mortem in Dei Patris manifesta gloria resurgendo, pariendum et consimiliter totum corpus Christi misticum, cum gravi parturitionis angustia in Dei gratia et gloria regenerandum et eo ipsum Christum spiritaliter formandum et nasciturum in cordibus eorum.

Purg. XX, 16-21

Noi andavam con passi lenti e scarsi,
e io attento a l’ombre, ch’i’ sentìa
pietosamente piangere e lagnarsi;
e per ventura udi’ “Dolce Maria!”
dinanzi a noi chiamar così nel pianto
come fa donna che in parturir sia

Purg. XXIII, 10-12

Ed ecco piangere e cantar s’udìe
Labïa mëa, Domine’ per modo
tal che diletto e doglia  parturìe.

[LSA, cap. X, Ap 10, 9 (IIIa visio, VIa tuba)] Huius autem libri contemplatio est dulcis ori, id est spiritali gustui, facit tamen amaricari ventrem quia ducit ad amaritudinem laboris et passionis. Quamvis enim preclara contemplatio futurarum passionum sit suavis menti, in experientia tamen laboris est gemi-tus et afflictio spiritus. Nichil etiam inconveniens si secundum diversos respectus sit simul dulcis et amarus, sicut et Christi passio in quantum trium-phalis et nobis salubris est nobis dulcis, in quantum autem nostra viscera per compassionem transfigit est nobis amara.

 

Purg. XXX, 22-33

Io vidi già nel cominciar del giorno
la parte orïental tutta rosata,
e l’altro ciel di bel sereno addorno;
e la faccia del sol nascere ombrata,
sì che per temperanza di vapori
l’occhio la sostenea lunga fïata:
così dentro una nuvola di fiori
che da le mani angeliche saliva
e ricadeva in giù dentro e di fori
sovra candido vel cinta d’uliva
donna m’apparve, sotto verde manto
vestita di color di fiamma viva.

Par. XV, 133

Maria mi diè, chiamata in alte grida

[LSA, cap. I, Ap 1, 16 (radix Ie visionis)] Decima (perfectio summo pastori condecens) est sue claritatis et virtutis incomprehensibilis gloria, unde subdit: “et facies eius sicut sol lucet in virtute sua”. Sol in tota virtute sua lucet in meridie, et precipue quando aer est serenus expulsa omni nube et grosso vapore, et quidem corporalis facies Christi plus incomparabiliter lucet et viget. Per hoc tamen designatur ineffabilis claritas et virtus sue divinitatis et etiam sue mentis. Splendor etiam iste sue faciei designat apertam et superfulgidam notitiam scripture sacre et faciei, ita quod in sexta etate et precipue in eius sexto statu debet preclarius radiare. In cuius signum Christus post sex dies transfiguratus est in monte in faciem solis (cfr. Mt 17, 1-8), et sub sexto angelo tuba canente videtur angelus habens faciem solis et tenens librum apertum (cfr. Ap 10, 1-2).

[LSA, cap. XVI, Ap 16, 17 (Va visio, VIIa phiala)] Secundum autem Ioachim, septima phiala effunditur super “aerem”, id est super electos, ut si que eis macule adheserunt de communione Babilonis, purgentur et dealbentur super nivem, et in percussione septima cessat plaga Domini a populo Dei. […] Et quidem congrue per “aerem” intelligitur contemplativus status in hac vita, quia sic stat in medio inter vitam beatam et terrenam sicut aer inter celum et terram. Et sicut aer purgatus a grossis et fumosis vaporibus et nubibus et tranquillatus a ventorum tempestatibus est pervius radiis solis et stellarum et visui hominum, sic septimus status ecclesie, post plenam sui purgationem in effusione septime phiale consumandam, erit serenus et tranquillus et pervius seu perspicuus ad contemplativos radios solis eterni et totius celestis et subcelestis hierarchie, ita quod tunc totus cultus templi Dei et tota sedes et maiestas Dei clamabit magnifice et evidenter Dei opera esse consumata. Et hec quidem in hac vita, sumendo statum septimum prout erit in hac vita.

 

 

Purg. XXX, 22-27

Io vidi già nel cominciar del giorno
la parte orïental tutta rosata,
e l’altro ciel di bel sereno addorno;
e la faccia del sol nascere ombrata,
sì che per temperanza di vapori
l’occhio la sostenea lunga fïata:

[LSA, cap. II, Ap 2, 1 (Va ecclesia)] Vocatur autem congrue hec ecclesia Sardis, id est principium pulchritudinis, tum quia in suis paucis incoinquinatis habet singularem gloriam pulchritudinis, quia difficillimum et arduissimum est inter tot suorum luxuriantes se omnino servare mundum; tum quia primi institutores quinti status fuerunt in se et in suis omnis munditie singulares zelatores, suorumque collegiorum regularis institutio, diversa membra et officia conectens et secundum suas proportiones ordinans sub regula unitatis condescendente proportioni membrorum, habet mire pulchritudinis formam toti generali ecclesie competentem, que est sicut regina aurea veste unitive caritatis ornata et in variis donis et gratiis diversorum membrorum circumdata varietate.
[LSA, cap. III, Ap 3, 1 (Ia visio, Va ecclesia)] Hiis autem premittitur Christus loquens, cum dicitur (Ap 3, 1): “Hec dicit qui habet septem spiritus Dei et septem stellas”, id est qui occulta omnium videt et fervido zelo spiritus iudicat tamquam habens “septem spiritus Dei”, qui prout infra dicitur “in omnem terram sunt missi” (cfr. Ap 5, 6); et etiam qui potest omnes malos quantumcumque potentes punire tamquam in sua manu, id est sub sua potentia, habens “septem stellas”, id est universos prelatos omnium ecclesiarum. Quid per septem spiritus significetur tactum est supra, capitulo primo, super prohemio huius libri. […] Unde et Ricardus dat aliam rationem quare hec ecclesia dicta est “Sardis”, id est principium pulchritudinis, quia scilicet sola initia boni non autem consumationem habuit, et solum nomen sanctitatis potius quam rem. Supra vero fuit alia ratio data. Respectu etiam prave multitudinis tam huius quinte ecclesie quam quinti status, prefert se habere “septem spiritus Dei et septem stellas”, id est fontalem plenitudinem donorum et gratiarum Spiritus Sancti et continentiam omnium sanctorum episcoporum quasi stellarum, tum ut istos de predictorum carentia et de sua opposita immunditia plus confundat, tum ut ad eam rehabendam fortius attrahat.

Inf. I, 37-40

Temp’ era dal principio del mattino,
e ’l sol montava ’n sù con quelle stelle
ch’eran con lui quando l’amor divino
mosse di prima quelle cose belle

Par
. XXX, 1-9

Forse semilia miglia di lontano
ci ferve l’ora sesta, e questo mondo
china già l’ombra quasi al letto piano,
quando ’l mezzo del cielo, a noi profondo,
comincia a farsi tal, ch’alcuna stella
perde il parere infino a questo fondo;
e come vien la chiarissima ancella
del sol più oltre, così ’l ciel si chiude
di vista in vista infino a la più bella.

 

Purg. XXX, 22-24

Io vidi già nel cominciar del giorno
la parte orïental tutta rosata,
e l’altro ciel di bel sereno addorno

 

 

“Così dentro una nuvola di fiori / che da le mani angeliche saliva / e ricadeva in giù dentro e di fori” (Purg. XXX, 28-30). Qui il tema dell’angelo del sesto sigillo, che sale da oriente (Ap 7, 2), si fonde con quello delle mani angeliche da cui sale il fumo degli incensi proveniente da Ap 8, 3-4, dove Cristo, gran sacerdote e pontefice, sta dinanzi all’altare sul quale offre a Dio Padre l’incenso e il sacrificio di tutti i santi, dell’Antico e del Nuovo Testamento. Ha in mano il turibolo aureo, cioè il suo corpo purissimo grato a Dio di ogni grazia e pieno dell’incenso della devozione sacra e odorifera. A lui, in quanto avvocato e mediatore, vengono “dati molti incensi”, ossia a lui coloro che pregano affidano sé stessi e i propri voti perché a sua volta li offra a Dio. Il fumo degli incensi, cioè la spirituale fragranza delle devozioni che promana dalle orazioni dei santi, sale a Dio ed è da lui accettato. Il ricadere della nuvola di fiori può essere allusione alla pienezza dello Spirito, perché del discendere dello Spirito si parla dopo il salire del fumo degli incensi (Ap 8, 5).
Il ricadere “in giù dentro e di fori” sembra una trasposizione dell’esegesi di Ap 4, 6, versetto relativo ai quattro animali che si trovano “in mezzo e intorno alla sede”, intimi alla Chiesa per carità in modo da esserne il centro cui tutto tende e nello stesso tempo in giro attorno ad essa per governarla, difenderla e predicare agli estranei. Essere scritto “dentro e fuori” è proprio pure del libro segnato dai sette sigilli. Beatrice è “centro” della Chiesa, perché le sue parole si muovono “dal centro al cerchio” (Par. XIV, 1-3), e nello stesso tempo è sollecita nel suo governo, “quasi ammiraglio che in poppa e in prora / viene a veder la gente che ministra / per li altri legni, e a ben far l’incora” (Purg. XXX, 58-60: non a caso, in questo Beatrice sta “in su la sponda del carro sinistra”, perché il governo degli uomini appartiene alla “sinistra cura”, per usare l’espressione di Bonaventura a Par. XII, 129).
Il ‘dare molti incensi’ di Ap 8, 4 ha un riscontro con un passo da Ap 12, 6, relativo alla fuga della donna (la Chiesa) nel deserto, dove Dio le aveva preparato un rifugio nella solitudine perché vi fosse nutrita per 1260 giorni. Alcune citazioni di Isaia esaltano il “deserto” con la promessa di una sua fioritura, allorché il Carmelo sarà reso pingue di grazie e la Giudea diventerà selvaggia: “Si rallegreranno i deserti e i luoghi inaccessibili, esulterà la solitudine e fiorirà come un giglio. Le è data la gloria del Libano, il decoro del Carmelo e di Saron” (Is 35, 1-2); “Darò alla solitudine il cedro, la spina, il mirto e l’ulivo, porrò nel deserto l’abete” (Is 41, 19); “Allietati, o sterile che non partorisci, poiché più numerosi sono i figli di colei che è stata deserta di colei che è maritata” (Is 54, 1).
I due passi dell’Apocalisse (8, 4 e 12, 6), congiunti dal ‘dare’, incensi o fiori, sono l’armatura di due citazioni che precedono l’apparizione di Beatrice. La prima è recitata dal vegliardo che canta tre volte il “Veni, sponsa, de Libano” del Cantico dei Cantici (Cn 4, 8; Purg. XXX, 10-12). La seconda è detta dagli angeli i quali, con atto (“e fior gittando e di sopra e dintorno”) che anticipa la successiva “nuvola di fiori” dentro la quale appare la donna, ripetono le parole di Anchise in lode di Marcello, il nipote di Ottaviano morto prematuramente: “Manibus, oh, date lilïa plenis” (Aen. VI, 883; Purg. XXX, 20-21). La citazione classica è preceduta da altra scritturale adattata da Giovanni 12, 13 (“Tutti dicean: ‘Benedictus qui venis’”): tutte e tre nel grandioso contesto apocalittico.

Tab. V

[LSA, cap. XII, Ap 12, 6 (IVa visio, Ium prelium)] De hac autem solitudine dicitur Isaie XXXII° (Is 32, 15-16): “Erit desertum in Chermel”, id est <sic> pinguis in gratiis sicut prius fuerat Iudea, “et Chermel”, id est Iudea, “in saltum” seu silvam “reputabitur”, id est silvestrescet, “et habitabit in solitudine iudicium et iustitia” et cetera. Et capitulo XXXV° (Is 35, 1-2): “Letabitur deserta et invia, exultabit solitudo et florebit quasi lilium. Gloria Libani data est ei, et decor Carmeli et Sa<r>on”. Et capitulo XLI° (Is 41, 19): “Dabo in solitudine cedrum et spinam et mirtum et lignum olive, ponam in desertum abietem” et cetera. Et capitulo LIIII° (Is 54, 1): “Letare, sterilis que non paris, quia multi filii deserte magis quam eius que habet virum”.

 

Purg. XXX, 10-12, 19-33

e un di loro, quasi da ciel messo,
Veni, sponsa, de Libano’ cantando
gridò tre volte, e tutti li altri appresso.

Tutti dicean: ‘Benedictus qui venis!’,
e fior gittando e di sopra e dintorno,
Manibus, oh, date lilïa plenis!’     (Aen.VI, 883)
Io vidi già nel cominciar del giorno
la parte orïental tutta rosata,
e l’altro ciel di bel sereno addorno;
e la faccia del sol nascere ombrata,
sì che per temperanza di vapori
l’occhio la sostenea lunga fïata:
così dentro una nuvola di fiori
che da le mani angeliche saliva
e ricadeva in giù dentro e di fori,
sovra candido vel cinta d’uliva
donna m’apparve, sotto verde manto
vestita di color di fiamma viva.

[LSA, cap. VIII, Ap 8, 3-4 (radix IIIe visionis)] Sequitur: “habens turibulum aureum in manu sua”, id est corpus suum purissimum omni gratia Deo gratum et incenso sacre et odorifere devotionis repletum. Secundum etiam Ricardum, hoc turibulum sunt sancti apostoli, qui ad electorum preces Deo offerenda<s> sunt principaliter constituti.
“Et data sunt illi incensa multa”, id est orationes Deo delectabiles. Data quidem sunt ei ab ipsis orantibus, se et sua vota sibi tamquam nostro mediatori et advocato committentibus et per ipsum ea offerri Deo postulantibus. Data etiam sunt sibi a Deo Patre, unde Iohannis XVII° dicit ipse Patri (Jo 17, 6.11): “Tui erant, et michi eos dedisti. Pater sancte, serva eos in nomine tuo, quos dedisti michi”. Et in Psalmo dicitur: “Ascendisti in altum” et “accepisti dona in hominibus” (Ps 67, 19). In quantum enim sumus membra eius, ipse acc<i>pit in nobis dona gratie que dantur nobis.
“Data”, inquam, “sunt” ei “ut daret de orationibus sanctorum omnium super altare aureum, quod est ante tronum Dei”, id est ut daret et offerret eas Deo super propriis meritis sue humanitatis, seu super fundamentali ara divine veritatis et maiestatis, seu super coadiunctis meritis angelice hierarchie vel sanctorum precedentium patrum.
“Et ascendit fumus incensorum” (Ap 8, 4), id est spiritualis fragrantia devotionum, “de orationibus sanctorum”, scilicet manans. “Ascendit”, inquam, “de manu angeli coram Deo”, id est merito et intercessione Christi eas offerentis facte sunt acceptabiles Deo et acceptate sunt ab eo et etiam, cooperante influxu et ministerio gratie Christi in mente sanctorum, elevate sunt in altum usque ad Deum.

I colori di Beatrice che appare nell’Eden – bianco (velo), verde (manto), rosso (veste) -, il primo e il terzo già nella Vita Nova, sono nella Lectura appropriati a Cristo (Purg. XXX, 31-33).
La terza delle dodici perfezioni di Cristo sommo pastore di cui si tratta nel primo capitolo (Ap 1, 13) consiste nell’indossare una veste sacerdotale e pontificale lunga fino ai piedi (la “poderis”), simbolo di santità, castità, onestà, nelle cui frange sono campanelli aurei, assimilabile all’Efod di Aronne, su cui era intagliata la gloria dei padri (Sapienza 18, 24) e agli altri abiti sacerdotali di cui all’Esodo 28, tra i quali è il manto (“superhumerale”). Consiste altresì nell’essere cinti al petto, e ciò rappresenta la compiuta castità nella restrizione di ogni impuro pensiero e affetto: l’intelletto e la volontà sono infatti le due mammelle della mente da cui promana il latte della sapienza e dell’amore. Essere cinti di una zona aurea significa mantenere la castità con un solido ardore di carità. Beatrice è “cinta d’uliva” e l’ulivo, ad Ap 11, 4 riferito ai due testimoni dati da Dio (Enoch ed Elia), designa la soave pinguedine derivante dalla carità e dall’unzione divina, mentre la sapienza è connessa alla luce dei candelabri, immagine ad essi pure riferita dal testo scritturale. La quarta perfezione di Cristo sommo pastore descritta nel primo capitolo (Ap 1, 14) identifica la sapienza con il candore lanoso del capo e dei capelli.
Ad Ap 4, 3 il verde e il rosso sono i colori della sede divina, corrispondenti a due pietre preziose. Il primo, designato dal diaspro, significa la Grazia verso gli eletti; il secondo, designato dal sardonice, indica la carità e la pietà verso gli eletti, oppure l’ira verso i reprobi, ovvero la morte di Cristo per la salvezza dell’umanità. La quarta chiesa, Tiàtira, tra i significati dei nomi delle sette chiese d’Asia proposti all’inizio dell’esegesi del secondo capitolo (Ap 2, 1), viene definita “infiammata” o “vittima vivente”, un tema che bene si addice a Beatrice che ha visitato piangendo “l’uscio d’i morti”, cioè il Limbo, per la salute del suo amico e la cui morte è stata per questi inizio di vita nuova: perciò la donna è “vestita di color di fiamma viva”.
A Cristo, ad Ap 19, 11.13, è appropriato il colore bianco, che designa la persona umana, la quale biancheggia per innocenza e gloria (è bianco il cavallo che appare ad Ap 6, 2 all’apertura del primo sigillo, dove designa Cristo vittorioso; è Beatrice “vestita di colore bianchissimo” nel salutare Dante: Vita Nova 1. 12 [III 1]), e il colore rosso, indicato dagli occhi flammei, ma soprattutto dall’essere vestito con una veste sanguigna, che designa la persona umana uccisa, ed è immagine in cui Dante ritrova le visioni di Beatrice giovane con le “vestimenta sanguigne” descritte nella Vita Nova (1. 4, 15; 28. 1 [II 3; III 4; XXXIX 1]).

Tab. VI

[LSA, cap. I, Ap 1, 13 (radix Ie visionis)] Tertia (perfectio summo pastori condecens) est sacerdotalis et pontificalis ordinis et integre castitatis et honestatis sanctitudo, unde subdit: “vestitum podere”. Poderis enim erat vestis sacerdotalis et linea pertingens usque ad pedes, propter quod dicta est poderis, id est pedalis: pos enim grece, id est pes latine. Poderis enim, secundum aliquos, erat tunica iacinctina pertingens usque ad pedes, in cuius fimbriis erant tintinabula aurea, et de hac videtur dici illud Sapientie XVI<II>° (Sap 18, 24): “In veste poderis, quam habebat, totus erat orbis terrarum, et parentum magnalia in quattuor ordinibus lapidum erant sculpta”.
Dicuntur etiam fuisse in veste poderis quia erant in rationali et superhumerali ipsi poderi immediate superposita. Per utramque autem designatur habitus celestis castitatis et sanctitatis sacerdotes et pontifices condecens, pro cuius ardua plenitudine subdit: “et precinctum ad mamillas zona aurea”.
Succingi circa renes designat restrictionem inferiorum concupiscentiarum et operum carnis. Precingi vero ad mamillas designat restrictionem omnis impuri cogitatus et affectus cordis. Intellectus enim et voluntas sunt quasi due mamille mentis, propinantes lac sapientie et amoris.
Item cingi zona pellicea, id est de corio animalium mortuorum, est timore mortis seu pene castitatem servare. Cingi vero zona aurea est ex mero et solido caritatis ardore eam servare.

[LSA, cap. XI, Ap 11, 4 (IIIa visio, VIa tuba)] “Hii sunt due olive” (Ap 11, 4), id est pinguedine caritatis et divine unctionis et suavitatis pleni; “et duo candelabra lucentia”, id est lumen divine sapientie in se alte et preclare gestantes et toti ecclesie expandentes.

[LSA, cap, II, Ap 2, 1 (IVa ecclesia)] Unde bene vocatur Tyatira, id est illuminata vel inflammata vel vivens hostia, quia tales per lucem et flammam contemplative devotionis se offerunt Deo hostiam viventem.

[LSA, cap. XIX, Ap 19, 11.13 (VIa visio)] Dicit ergo (Ap 19, 11): “Et vidi celum apertum”, scilicet per revelationem celestis misterii; vel apertio celi est apertio scripture sacre vel divine prescientie quan-tum ad ea que subduntur.
“Et ecce equus albus”, scilicet Christi humanitas candore summe innocentie et glorie dealbata. […]
“Et vestitus erat veste aspersa sanguine” (Ap 19, 13), id est humanitate pro nobis occisa et sanguine rubrificata, quod quidem semper in ea per meritum et premium et per signa indelebilia rema-net.

 

Purg. XXX, 31-33

sovra candido vel cinta d’uliva
donna m’apparve, sotto verde manto
vestita di color di fiamma viva.

[LSA, cap. IV, Ap 4, 3 (radix IIe visionis)] “Et qui sedebat, similis erat aspectui”, id est aspectibili seu visibili forme, “lapidis iaspidis et sardini” (Ap 4, 3). Lapidi dicitur similis, quia Deus est per naturam firmus et immutabilis et in sua iustitia solidus et stabilis, et firmiter regit et statuit omnia per potentiam infrangibilem proprie virtutis.
Lapidi vero pretioso dicitur similis, quia quicquid est in Deo est pretiosissimum super omnia. Sicut autem iaspis est viridis, sardius vero rubeus et coloris sanguinei, sic Deus habet in se immarcescibilem decorem et virorem delectabilissimum electis, gratio-so virori gemmarum et herbarum assimilatum. Rubet etiam caritate et pietate ad electos et fervida iracundia seu odio ad reprobos. Rubet etiam in eo quod voluit et fecit suum Filium pro nobis sanguine rubificari.

Anche le preposizioni “sovra” e “sotto” hanno un loro significato, se ricondotte all’immagine di Cristo, albero della vita che sta nel mezzo della Gerusalemme celeste da una parte e dall’altra del fiume (Ap 22, 2). La riva sinistra del fiume designa lo stato del merito, la destra lo stato del premio. Ad entrambe si presenta Cristo, nella sua umanità alla riva inferiore, nella sua divinità a quella superiore. Le foglie dell’albero coprono con verde ombra, da entrambe le parti, i frutti e gli effetti della Grazia, al modo dei sacramenti. Applicato a Beatrice, il tema della distinzione delle due rive scinde in due parti i vestiti della donna: una superiore (il cinto d’uliva) che allude al premio e alla divinità di Cristo, una inferiore (la veste sanguigna) che allude al sacrificio di Cristo uomo e allo stato del merito.
Il velo (che è locuzione alternativa ad ombra, nel senso dell’“umbra velaminis” tolta dalla luce di Cristo di cui all’incipit della Lectura, da Isaia 30, 26) e il verde del manto stanno nel mezzo, e sono temi che nell’esegesi di Ap 22, 2 vengono appropriati alle foglie. Ricompaiono, variati, in Purg. XXXIII, 109-111, al momento in cui le sette donne si fermano alla fonte da cui derivano Eufrate e Tigri, cioè il Lete e l’Eunoè: nella terzina, l’“ombra smorta” delle “foglie verdi e rami nigri” fa da spartiacque tra una zona inferiore (i “freddi rivi” che “l’alpe porta”) e una zona superiore (il corruscare del sole nel “cerchio di merigge” ai versi 103-105).
I motivi dell’ombra e del velo si ritrovano nello svelarsi di Beatrice (Purg. XXXI, 133-145). Se si rimane nel tema delle due rive, una riferita all’umanità di Cristo, l’altra alla sua divinità, allora delle due bellezze di Beatrice – gli occhi, a cui Dante viene guidato dalle virtù cardinali, e la bocca, che gli viene svelata per grazia richiesta dalle virtù teologali – la prima corrisponde alla riva inferiore, la seconda a quella suprema. Il tema dell’adombrare è presente due volte. Una prima volta è “l’ombra … di Parnaso”, cioè della poesia incapace di rendere lo splendore del riso della donna, per quanto “palido” si sia fatto il poeta nello studio. I versi, voce che passa transitoria come le foglie (“quoad vocem transitoria sunt”), adombrano, come i sacramenti, la vera grazia. Una seconda volta è l’armonia tra cielo e terra che “adombra” lo splendore: “là dove armonizzando il ciel t’adombra”. Sia il cielo che la terra (dove è collocato l’Eden) sono pieni della gloria di Dio, si legge nell’esegesi oliviana, e su entrambe le rive le foglie fanno ombra; là Cristo si mostra visibile secondo il corpo sulla riva inferiore e secondo l’anima e la divinità sulla riva superiore.

Tab. VII

[LSA, cap. XXII, Ap 22, 2 (VIIa visio)] “Ex utraque parte fluminis lignum vite”. Ricardus construit hoc cum immediate premisso, dicens quod hoc “lignum” est “in medio platee”. Et certe tam fluvius quam lignum vite, id est Christus, est “in medio eius”, id est civitatis, iuxta quod Genesis II° dicitur quod “lignum vite” erat “in medio paradisi” (Gn 2, 9). Una autem pars seu ripa fluminis est ripa seu status meriti quasi a sinistris, dextera vero pars est status premii; utrobique autem occurrit Christus, nos fruct<u> vite divine et foliis sancte doctrine et sacramentorum reficiens et sanans. Per folia enim designantur verba divina, tum quia veritate virescunt, tum quia fructum bonorum operum sub se tenent et protegunt, tum quia quoad vocem transitoria sunt. Sacramenta etiam Christi sunt folia, quia sua similitudine obumbrant fructus et effectus gratie quos significant et quia arborem ecclesie ornant. Vel una pars fluminis est suprema, altera vero pertingit usque ad infimum sensuum et corporum. Nam non solum celum, sed etiam terra plena est gloria et maiestate Dei, unde beatis ex utraque parte occurrit Deus et specialiter Christus homo, qui secundum corpus se visibilem exhibet in ripa inferiori et suam deitatem et animam in ripa superiori.

[LSA, prologus (Is 30, 26)] Tempore autem quo Christus erat nostra ligaturus vulnera sol nove legis debuit septempliciter radiare et lex vetus, que prius erat luna, debuit fieri sicut sol. Nam umbra sui velaminis per lucem Christi et sue legis aufertur secundum Apostolum, capitulo eodem dicentem quod “velamen in lectione veteris testamenti manet non revelatum, quoniam in Christo evacuatur”. Unde “usque in hodiernum diem, cum legitur Moyses”, id est lex Moysi, “velamen est positum super cor” Iudeorum; “cum autem conversus fuerit ad Dominum, auferetur velamen. Nos vero revelata facie gloriam Domini speculantes in eandem imaginem transformamur a claritate in claritatem” (2 Cor 3, 14-16, 18). Et subdit (2 Cor 4, 6): “Quoniam Deus, qui dixit de tenebris lucem splendescere”, id est qui suo verbo et iussu de tenebrosa lege et prophetarum doctrina lucem Christi eduxit, “ipse illuxit in cordibus nostris ad illuminationem scientie et claritatis Dei in faciem Christi Ihesu”, scilicet existentis et refulgentis.

 

Purg. XXX, 25-27, 31-33

e la faccia del sol nascere ombrata,
sì che per temperanza di vapori
l’occhio la sostenea lunga fïata

sovra candido vel cinta d’uliva
donna m’apparve, sotto verde manto
vestita di color di fiamma viva.

Purg. XXXIII, 103-111

E più corusco e con più lenti passi
teneva il sole il cerchio di merigge,
che qua e là, come li aspetti, fassi,
quando s’affisser, sì come s’affigge
chi va dinanzi a gente per iscorta
se trova novitate o sue vestigge,
le sette donne al fin d’un’ombra smorta,
qual sotto foglie verdi e rami nigri
sovra suoi freddi rivi l’alpe porta.

Purg. XXXI, 133-145

“Volgi, Beatrice, volgi li occhi santi”,
era la sua canzone, “al tuo fedele
che, per vederti, ha mossi passi tanti!
Per grazia fa noi grazia che disvele
a lui la bocca tua, sì che discerna
la seconda bellezza che tu cele”.
O isplendor di viva luce etterna,
chi palido si fece sotto l’ombra
sì di Parnaso, o bevve in sua cisterna,
che non paresse aver la mente ingombra,
tentando a render te qual tu paresti
là dove armonizzando il ciel t’adombra,
quando ne l’aere aperto ti solvesti?


[1]
La nube, come risulta da Ap 1, 7, ha anche altri significati. Le nubi accompagnano il Cristo giudice nella sua maestà, perché gli uomini avvertano il suo avvento, quasi fosse già presente. Di nubi si vela il corpo di Cristo nell’apparire agli apostoli dopo la resurrezione, per non mostrarsi a occhi ancora carnali in tutta la sua nudità e venustà. Le nubi designano ancora la compagnia degli angeli e dei santi (la nuvola di fiori dentro cui appare Beatrice “da le mani angeliche saliva”), i quali rispetto alla luce solare di Cristo sono quasi nuvole. Significa inoltre che l’arcano della sua divinità viene nascosto ai reprobi e nello stesso tempo rappresentato sotto la nube della sua umanità. Questa serie di significati si adatta in parte anche a Beatrice. Per quanto la sua apparizione si collochi in un quadro arcano e fantastico, la donna è venuta per giudicare Dante, per ‘stemprarlo’ e farlo piangere. Se nelle immagini rivivono gli accenti della Vita Nova, il poeta non si è ancora reso conto che, sotto la nube che vela la Beatrice da lui conosciuta in vita, sta la Beatrice gloriosa, sotto l’ombra dell’umanità è l’arcano dell’essere divino.

3. Virgilio sparito, Beatrice ritrovata e subito perduta

La seconda proprietà di Cristo sommo pastore (nella parte ‘radicale’ della prima visione) è la conformità con la natura umana, ovvero l’umiltà e l’umanità condiscendente verso quanti gli sono soggetti, per cui viene definito “simile al Figlio dell’uomo” (Ap 1, 13). Dal fatto che non si dica “Figlio dell’uomo” ma “simile al Figlio dell’uomo”, Riccardo di San Vittore deduce trattarsi di un angelo apparso a Giovanni, che gli mostrava le cose con persona simile a quella di Cristo e in modo tanto più autorevole per il fatto di assomigliare al Salvatore. Si può anche sostenere – continua Olivi – che la forma in cui Cristo apparve era molto simile a quella conosciuta da Giovanni e dagli altri apostoli prima della morte e dopo la resurrezione. Sebbene infatti nella gloria fosse stata cancellata ogni traccia di mortalità, di passione e di infermità, nondimeno Cristo ritenne per il resto la somiglianza con l’aspetto precedentemente avuto nella vita mortale. L’interpretazione di Riccardo si addice al fatto che la visione fu spirituale e non corporea, per cui Giovanni non vide con l’occhio corporeo un corpo esteriore realmente esistente, ma vide mediante le specie formate nella memoria e presenti al suo vedere spirituale al quale era elevato.
Il tema della conformità con la natura umana è presente nell’apparizione di Virgilio “nel gran diserto” (Inf. I, 61-67.85). In altro punto del testo apocalittico Giovanni descrive la visione di un angelo simile nell’aspetto al Figlio dell’uomo: si tratta dell’angelo che sta seduto su una nube bianca con sul capo una corona d’oro e in mano una falce affilata (Ap 14, 14). Questo angelo, secondo Gioacchino da Fiore citato da Olivi, designa un ordine di giusti a cui è dato di imitare Cristo in modo perfetto e che possiede una “lingua erudita” per diffondere il Vangelo del regno di Dio e per raccogliere sulla terra l’ultima messe. A differenza dell’angelo che esce dal tempio, cioè dagli arcani del cielo dove sta nascosto (Ap 14, 17), appare manifesto perché coloro che sono destinati all’erudizione delle plebi sono dati di fronte agli occhi in modo che esse possano ricevere gli ammonimenti salutari e i pii esempi di comportamento. Così Virgilio, che viene offerto dinanzi agli occhi di Dante per la sua salute (Inf. I, 61-63; Purg. XXX, 51).
All’umanità di Cristo è associata la fragilità che deriva dall’essere soggetto a morte, passione, infermità, abiezione (cfr. l’esegesi ad Ap 1, 5 e 5, 12-13, luogo, quest’ultimo, dove l’apparire infermo e abietto di Cristo è una delle cause per cui i sigilli sono chiusi). La fragilità di Cristo viene meno nella gloria; resta in Virgilio, “chi per lungo silenzio parea fioco” (Inf. I, 63).
Una visione spirituale, che non avviene mediante gli occhi corporei, è l’apparizione di Beatrice nell’Eden. Dante non vede la donna velata, di cui scorge però delle specie già conosciute, i colori bianco e rosso portati nelle vesti dalla donna in vita e descritti nella Vita Nova. Il suo spirito, che per tanto tempo non l’aveva vista presente, sente “sanza de li occhi aver più conoscenza” la potenza dell’antico amore per occulta virtù che muove da lei (Purg. XXX, 34-39).

Tab. VIII

Si rinvia al luogo dove questa tabella è stata compiutamente esaminata.

[LSA, cap. I, Ap 1, 13 (Ia visio)] Secunda (perfectio summo pastori condecens) est nature humane conformitas seu condescensiva ad subditos humilitas et humanitas, propter quod dicit: “similem Filio hominis”. Ex hoc autem quod non dicit “Filium hominis”, sed “similem Filio hominis”, arguit Ricardus quod angelum vidit, qui in persona et similitudine Christi demonstrabat sibi omnia, qui eo amplius habuit auctoritatis quod apparuit in ipsa similitudine salvatoris.
Potest etiam dici quod ideo dicit “similem” ut ostendat quod forma, in qua Christus sibi apparuit, erat vere similis illi quam ipse et ceteri apostoli in Christo viderant ante mortem et post resurrectionem. Licet enim mortalitas et passibilitas et omnis infirmitas esset tunc a Christi corpore per gloriam ablata, nichilominus retinuit in ceteris priorem similitudinem quam habuit in hac vita mortali.
Priori tamen modo Ricardi magis consonat quod visio hec fuit in spiritu, id est spiritualis, non corporalis, per quam non potest a nobis videri corpus realiter extra exixtens, sed potius videtur a nobis per species in memoria formatas et aciei nostri spiritualis aspectus obiectas. Quamvis posset ad hoc dici, quod ipse dicitur “in spiritu” fuisse et vidisse ista, non quin viderit illa oculo corporali, sed quia vidit illa sublevatus in spiritu et quia sic suo corporali visui presentabantur a supernaturali potentia Christi vel angeli, quod non posset ea videre nisi supernaturaliter esset in spiritu et corpore sublevatus ad quendam supernaturalem modum videndi.

Inf. I, 61-67, 85; II, 67, 126

Mentre ch’i’ rovinava in basso loco,
dinanzi a li occhi mi si fu offerto
chi per lungo silenzio parea fioco.

Quando vidi costui nel gran diserto,
Miserere di me”, gridai a lui,
“qual che tu sii, od ombra od omo certo!”.
Rispuosemi: “Non omo, omo già fui …”

Tu se’ lo mio maestro e ’l mio autore

Or movi, e con la tua parola ornata

e ’l mio parlar tanto ben ti promette?

Inf. XVIII, 82-93

E ’l buon maestro, sanza mia dimanda,
mi disse: “Guarda quel grande che vene,
e per dolor non par lagrime spanda:
quanto aspetto reale ancor ritene!
Quelli è Iasón, che per cuore e per senno
li Colchi del monton privati féne.
Ello passò per l’isola di Lenno
poi che l’ardite femmine spietate
tutti li maschi loro a morte dienno.
Ivi con segni e con parole ornate
Isifile ingannò, la giovinetta

che prima avea tutte l’altre ingannate.

 

Purg. XXX, 34-39, 51

E lo spirito mio, che già cotanto
tempo era stato ch’a la sua presenza
non era di stupor, tremando, affranto,
sanza de li occhi aver più conoscenza,
per occulta virtù che da lei mosse,
d’antico amor sentì la gran potenza.

Virgilio a cui per mia salute die’mi


[LSA, cap. XXII, Ap 22, 16 (finalis conclusio totius libri)] “Sum” etiam “stella splendida”, omnium scilicet sanctorum illuminatrix, “et matutina”, future scilicet et eterne diei immen-sam claritatem predicando et promittendo et tandem prebendo, et etiam prout fui homo mortalis ipsam precurrendo, ut ipse secundum quod homo sit stella et secundum quod Deus sit sol.

Inf. XXIV, 64-66

Parlando andava per non parer fievole;
onde una voce uscì de l’altro fosso,
a parole formar disconvenevole.

[LSA, cap. XIV, Ap 14, 14 (IVa visio, VIIum prelium)] “Et vidi et ecce nubem candidam et super nubem sedentem similem Filio hominis, habentem in capite suo coronam auream et in manu sua falcem acutam” (Ap 14, 14). Ioachim dicit: «Arbitramur in isto signari quendam ordinem iustorum, cui datum est perfecte imitari vitam Filii hominis et habere eruditam linguam ad evangelizandum evangelium regni et colligendam in aream Domini ultimam messionem, qui stat super nubem candidam quia conversatio eius non est ponderosa et obscura sed lucida et spiritalis»*.
Item post dicit quod in duobus angelis habentibus falces designantur aliqui ordines, quorum primus (cfr. Ap 14, 14) erit mitior et suavior ad colligendas segetes electorum quasi in spiritu Moysi, secundus (cfr. Ap 14, 17) vero erit ardentior et ferocior ad secandam vindemiam reproborum ac si in spiritu Helie**, dicitque quod in primo intelligendus est aliquis ordo futurus perfectorum virorum servantium vitam Christi et apostolorum, in secundo vero aliquis ordo heremitarum emulantium vitam angelorum, unde et dicitur egressus esse “de templo quod est in celo” ***. Primus enim manifestus apparet, quia illi qui militant Deo ad utilitatem et eruditionem plebium sunt in conspectu ips<arum> dati, ut accipiant ab illis salutis monita et pie conversationis exempla****. […] Ricardus tamen, hunc sensum prosequens, dicit quod angelus similis Filio hominis est ipse Christus, qui pro tanto dicitur non iam ‘Filius hominis’ sed “similis Filio hominis” quia factus impassibilis et immortalis transcendit metas humane fragilitatis, qui et habet coronam ad coronandum iustos et falcem acutam, id est iudiciariam sententiam, ut condempnet iniustos*.

[LSA, cap. I, Ap 1, 5 (septem notabiles primatus Christi secundum quod homo)] Pro tertio dicit: “Et a Ihesu Christo” (Ap 1, 5). Ne autem propter fragilitatem passionis et mortis quam tunc passus fuerat et propter contemptum quo tunc ab infidelibus spernebatur ubique crederetur esse fragilis et despectus, ideo septem notabiles primatus sibi singulariter ascribit […]

[LSA, cap. V, Ap 5, 12-13 (radix IIe visionis)] Potest etiam dici quod quia Christus per humanitatem et mortalitatem assumptam apparuit hominibus mortalis et infirmus et solum homo non Deus, et propter abiectionem sui inter homines apparuit stultus et ingloriosus et maledictus, ideo horum contraria hic tanguntur.

Expositio, pars IV, distinctio VII, f. 175va.

** Ibid., f. 176rb.

*** Ibid., f. 175vb.

**** Ibid., f. 176ra.

In Ap IV, viii (PL 196, col. 815 C-D).

Nella Lectura l’“antico” è il Vecchio Testamento, la lettera della legge e le promesse fatte nelle figure profetiche, che sono terra buona e fruttifera per gli spirituali ma priva di ogni virtù in coloro che hanno un intelletto carnale. Così ad Ap 8, 7, dove si tratta della prima tromba, che suona contro il cuore dei Giudei indurito come pietra che non si apre all’intelligenza spirituale. Il loro zelo contro la predicazione di Cristo e dei suoi è “fiamma” maligna. Uno zelo che ha dalla sua parte l’autorità e la testimonianza dei “maggiori” e dei più antichi e famosi sapienti e la sequela di quasi tutto il popolo. Anche nell’esegesi della sesta guerra (Ap 13, 18) la tentazione causata nei santi dall’Anticristo mistico, nel momento in cui sale la bestia dalla terra, sta nell’avere questa dalla sua la sentenza dei maestri e dei dottori e l’opinione della moltitudine: ai “segni” di quest’antica religione appare stolto, insano ed eretico contraddire.
Ancora, nell’esegesi dell’apertura del primo sigillo (Ap 6, 2), viene citato Gregorio Magno su Giobbe 29, 20: “il mio arco nella mia mano si riprenderà”, cioè si rinnoverà in una nuova gloria. L’arco designa la Sacra Scrittura, che ha nella corda il Nuovo Testamento e nel corno il Vecchio. Come nel tendere la corda si curva il corno dell’arco, così il Nuovo Testamento rende molle la durezza del Vecchio e la grazia di Cristo addolcisce il rigore dei precetti legali.
Un “corno” che si inclina è quello di Ulisse, “lo maggior corno de la fiamma antica” che comincia “a crollarsi mormorando” dopo le parole di Virgilio (Inf. XXVI, 85-87). L’aggettivo “maggior”, che distingue tra Ulisse e Diomede colui che ebbe più grande fama, ha un riferimento ad Ap 8, 7, nella sopra ricordata esegesi della prima tromba, dove si afferma che la tentazione giudaica contro Cristo si fondò sul fatto di avere dalla sua parte l’autorità e la testimonianza dei ‘maggiori’ (cioè degli avi) e dei più antichi e famosi sapienti. Un passo che rende Inf. XXVI accostabile a Inf. X, il canto di Farinata e di Cavalcante. Il ghibellino “quasi sdegnoso” si ritrova negli “schivi” greci; i “maggior tui”, dei quali domanda Farinata a Dante, nel “maggior corno de la fiamma antica”: in entrambi i casi c’è la presunzione dell’antico contro il nuovo, dei Giudei contro Cristo. Lo stesso panno teologico fornisce fili, in diversa situazione, alla veste di Omberto Aldobrandesco, che si purga nel girone dei superbi (Purg. XI, 61-63).
L’essere ‘antico’ non è estraneo a Beatrice: “D’antico amor sentì la gran potenza … conosco i segni de l’antica fiamma … vincer pariemi più sé stessa antica … a sé traéli con l’antica rete” (Purg. XXX, 39, 48; XXXI, 83; XXXII, 6): c’è un lato che appartiene alla Beatrice terrena. Il ripetere a Virgilio, nell’attimo in cui sta per lasciarlo, le parole dette da Didone alla sorella Anna nel momento in cui l’infelice regina rinnova per Enea l’amore già provato per Sicheo – “adgnosco veteris vestigia flammae” (Aen. IV, 23) – ha, come tutti i versi del poema, la sua armatura spirituale.
L’“antica fiamma” di Dante non ha però quel connotato di giudaica contrarietà a Cristo presente nella “fiamma antica” Ulisse. Essa ha lasciato segni indelebili dell’umanità della donna imitatrice di Cristo morto e rubricato per il sangue, del quale si dice ad Ap 19, 13: “Ed era vestito con una veste sanguigna”, passo che richiama la Beatrice terrena descritta nella Vita nova perché contiene in sé motivi – il sangue, il rimanere, i segni – che fasciano le ultime parole dette a Virgilio.
Ad Ap 19, 13 è da accostare Ap 14, 1, per i “signa … cognoscuntur”, riferito a coloro che stanno con l’Agnello sul monte Sion: per quanto i segni siano iscritti sulla fronte, essi designano l’avere il “nomen”, cioè la “notitia amativa”, del Padre e del Figlio fatto uomo nel cuore e sulla bocca. Ad Ap 7, 2 si dice che l’angelo del sesto sigillo ha “il segno del Dio vivo”, cioè le stimmate impresse da Cristo.
Il ritrovare Beatrice, con la contestuale sparizione di Virgilio, segna per il poeta il passaggio dal vecchio al nuovo, l’esser venuto, per una sorta di superiore astuzia, dall’umano al divino della sua donna.

Tab. IX

[LSA, cap. XIV, Ap 14, 1 (IVa visio, VIum prelium)] Tertium est fidei et amoris et contemplationis Dei Patris et Filii humanati in istorum corde et ore singularis et patens inscriptio et expressio, unde subditur: “habentes nomen eius et nomen Patris eius scriptum in frontibus suis”. Per “nomen” famosa notitia designatur, que respectu Dei non reputatur nisi sit amativa. Frons vero est suprema pars faciei omnibus patula, et ideo quod est scriptum in fronte omnibus se prima facie offert, ita quod potest statim ab omnibus legi. In fronte etiam signa audacie vel sui oppositi cognoscuntur. Est ergo sensus quod maiestas Dei trini et Filii humanati sic erat in cordibus istorum impressa et sic per apertam et constantem confessionem oris et operis expressa, quod ab omnibus poterat statim legi et discerni quod ipsi erant de familia Agni et singulares socii eius.

[LSA, cap. XIX, Ap 19, 12-13 (VIa visio)] “Habens nomen scriptum quod nemo novit nisi ipse” (Ap 19, 12), scilicet totaliter seu comprehensive, vel per se seu absque ipso; ipse enim potest aliis revelare, prout dicitur Matthei XI° (Mt 11, 27). Hoc autem nomen scripsit Pater ab eterno cum ipsum genuit, et tandem scripsit illud in eius humanitate cum ipsum humanavit.
“Et vestitus erat veste aspersa sanguine” (Ap 19, 13), id est humanitate pro nobis occisa et sanguine rubrificata, quod quidem semper in ea per meritum et premium et per signa indelebilia remanet.

[LSA, cap. VII, Ap 7, 2 (IIa visio, apertio VIi sigilli)] Sequitur: “habentem signum Dei vivi”, tam scilicet in stigmatibus sibi a Christo impressis quam in tota vita interiori et exteriori, et in statu professionis et in concordia temporis et officii singulariter Christo assimilatum et eius similitudini consignatum.

Purg. XXX, 37-39, 46-48; XXXI, 82-84

sanza de li occhi aver più conoscenza,
per occulta virtù che da lei mosse,
d’antico amor sentì la gran potenza.

per dicere a Virgilio: ‘Men che dramma
di sangue m’è rimaso che non tremi:
conosco i segni de l’antica fiamma’.

Sotto ’l suo velo e oltre la rivera
vincer pariemi più sé stessa antica,
vincer che l’altre qui, quand’ ella c’era.

 

Inf. XXVI, 85-87

Lo maggior corno de la fiamma antica
cominciò a crollarsi mormorando,
pur come quella cui vento affatica

[LSA, cap. VI, Ap 6, 2 (IIa visio, apertio Ii sigilli)] Secundum etiam Gregorium, Moralium XIX° in fine, super illud Iob: “Et archus meus in manu mea instaurabitur” (Jb 29, 20), per archum scriptura sacra significatur, ita quod per cordam archus designatur Testamentum Novum, per cornu vero Testamentum Vetus. Sicut enim dum corda archus trahitur cornu curvatur, sic per Novum Testamentum duritia Testamenti Veteris emollitur. Gratia enim Christi facit nobis dulcescere rigorem preceptorum legis. Vel per cordam designatur zelus animarum ad earum salutem fortiter tractus et totum robur cordis, quasi cornu archus, secum inclinans et trahens. A tali enim zelo manant sagitte predicationis, id est sagitte promissionum et monitionum ac comminationum et exprobrationum, et sagitte amoris et timoris.

[LSA, cap. VIII, Ap 8, 7 (IIIa visio, Ia tuba)] “Ignis” vero significat zelum et flammam maligne ire et invidie, qua Christo et apostolis predicantibus <et> prodigia facientibus acrius exarserunt contra ipsos et contra doctrinam eorum. […]
Igitur “tertia pars terre”, id est Iudeorum, qui debebant alios stabilire seu fundare et nutrire sicut terra est sustentatrix arborum et herbarum, “combusta est”, scilicet per predictum ignem et grandinem. Nam bona que prius habebant destruxit et in terream malignitatem convertit.
Vel per hanc tertiam partem terre potest intelligi littera cerimonialium legum et figuralium promissionum et documentorum et prophetarum et totius Veteris Testamenti, que quidem in spiritualibus per spiritalem intelligentiam sunt “terra” bona et fructifera, sed in malignis Iudeis per impium zelum et per carnalem intellectum est “combusta”, id est fructu et virtute vite et veritatis evacuata et in errorem mortiferum transducta. […]
Vel per hoc designatur quod temptationem que simul habet magnam speciem boni et veri, et auctoritatem et testimonium maiorum et antiquiorum et in sapientia famosiorum, et sequelam maioris et quasi totalis partis populi, nullus potest vincere nisi sit in fide et caritate firmus ut terra vel arbor et non fragilis et instabilis et cito arefactibilis sicut fenum. Talis autem fuit temptatio iudaica contra Christum.

[LSA, cap. XIII, Ap 13, 18 (IVa visio, VIum prelium)] Tertio dabunt signa rationum et scripturarum falso intortarum, et etiam signa alicuius superficialis ac vetuste et multiformis religionis per longam successionem ab antiquo firmate et sollempnizate, ita ut cum hiis signis ignem divine ire super contradictores videantur facere descendere, et e contra quasi ignem sancti et apostolici zeli videantur ipsi de celo in suos discipulos facere descendere. Statuent etiam ut qui non obedierit anathematizetur et de sinagoga eiciatur et, si oportuerit, brachio seculari bestie prioris tradatur. Facient etiam quod imago bestie, id est pseudopapa a rege bestie sublimatus, adoretur, ita ut sibi plusquam Christo et eius evangelio credatur et ut adulatorie quasi Deus huius seculi honoretur.

Ad Ap 21, 22-23 (settima visione) Olivi sostiene che nella Chiesa peregrinante del settimo e ultimo stato non ci sarà più bisogno di molte dottrine precedenti, poiché nell’eccesso della contemplazione lo Spirito di Cristo le insegnerà ogni verità senza l’ausilio della voce esteriore e, denudata di quanto è temporale, adorerà Dio Padre in spirito e verità (cfr. Giovanni 4, 24), anche se non verrà completamente abbandonato, come nella Chiesa trionfante, ogni uso delle cose temporali o dell’esteriore dottrina e scrittura. La Chiesa non occupa il luogo arto e corporeo del tempio dell’antica Gerusalemme e della Sinagoga, né ha bisogno della luce cerimoniale e del culto della legge e dei profeti, in quanto Cristo, la sua vita e la sua dottrina sono tempio, sole e lucerna della divina luce solare. Si tratta, come confermato dall’autorità di Gregorio Magno, di una maggiore illuminazione data alla fine dei tempi: “Urgente enim mundi fine superna scientia proficit et largius cum tempore excrescit”. Il sesto e il settimo stato dell’Olivi corrispondono all’età dello Spirito di Gioacchino da Fiore, nella quale “non solum simplici intelligentia, sed etiam gustativa et palpativa experientia videbitur omnis veritas sapientie Verbi Dei incarnati et potentie Dei Patris” (Ap 3, 7; pagina pregna di citazioni occulte da Gioacchino; cfr. l’ascesa al cielo).
Ecco che la voce esteriore e razionale di Virgilio, assimilata al Cristo uomo, all’apparire di Beatrice, la quale designa il gusto e l’ispirazione interiore propri dello Spirito (cfr. Ap 2, 7), sparisce (Purg. XXX, 49-51) [1]. Lo stesso poeta pagano, sulla soglia dell’Eden, invita il discepolo a prendere per guida il proprio piacere (“non solum simplici intelligentia, sed etiam gustativa et palpativa experientia”), cioè il proprio gusto interiore, perché “fuor se’ de l’erte vie, fuor se’ de l’arte. / Vedi lo sol che ’n fronte ti riluce …” (Purg. XXVII, 131-133).
A Filadelfia, la sesta delle sette chiese d’Asia, Cristo dice: “Ho aperto davanti a te una porta che nessuno può chiudere” (Ap 3, 8). Bonaventura aveva detto in proposito che, nel sesto tempo, l’intelligenza della Scrittura viene data a un singolo o a più persone: “Et dixit, quod adhuc intelligentia Scripturae daretur vel revelatio vel clavis David personae vel multitudini; et magis credo, quod multitudini” [2].
Per Olivi si tratta di apertura interiore, allorché il predicatore sente nell’animo l’ordine dato da Cristo, interno dettatore, alla propria volontà di dire perché si parli di lui aprendo il cuore delle genti. Qualcosa di simile dovette provare il giovane Dante, il quale volendo lodare la sua gentilissima, restò “alquanti dì, con disiderio di dire e con paura di cominciare”, finché un giorno gli “giunse tanta volontà di dire” che la sua lingua “parlò quasi come per sé stessa mossa e disse: ‘Donne ch’avete intellecto d’amore’” (Vita Nova, 10. 11-13 [XVIII 9, XIX 1-2]). Nel 1290, l’anno dopo la partenza di Olivi da Firenze, moriva Beatrice; attorno a quella data uscivano le “nove rime”. Con la teologia di Cristo interno dettatore si accompagnava la poetica dello spirare d’Amore: “I’ mi son un che, quando / Amor mi spira, noto, e a quel modo / ch’e’ ditta dentro vo significando” (Purg. XXIV, 52-54).
Anni dopo, nell’esilio, uno dei passi capitali della Lectura super Apocalipsim, quello che riguarda l’ingiunzione dell’angelo a Giovanni di inviscerare il libro prima amaro e poi dolce e di predicare ancora a tutto il mondo dopo gli Apostoli (Ap 10, 8-11), dovette dare a Dante la consapevolezza della propria missione nello scrivere una vera visione e la libertà di usare parole gravi anche nei confronti dei papi. Al passo rinvia il momento in cui Dante ascolta da Cacciaguida il suo futuro destino e le vicende dolorose dell’esilio, gustando insieme l’amaro del suo futuro patire con il dolce della fama che gli è riservata. Questo essere dolce e amaro non è solo nel gusto di Dante che ascolta le parole dell’avo, ma pure negli effetti del libro, molesto nel primo gusto ma poi salutare. Come ai nuovi predicatori del sesto stato viene confermato dai sacri dottori il loro essere destinati alla predicazione universale in modo che non temano di venirne impediti dalla moltitudine dei nemici, così Cacciaguida invita Dante a non essere “al vero … timido amico” e a manifestare senza timore tutta la sua visione, nonostante i molti che si troveranno ad avere “coscïenza fusca / o de la propria o de l’altrui vergogna” (Par. XVII, 124-142). Singularis persona, corifeo del nuovo Ordine, Dante proverà nel salire al cielo una “gustativa et palpativa experientia” (proprio negli anni nei quali il concetto suscitava l’interesse inquisitorio di Giovanni XXII) – trasumanar – quale fu quella del pescatore Glauco “nel gustar de l’erba / che ’l fé consorto in mar de li altri dèi” (Par. I, 67-72).
Beatrice non è un’allegoria poetica, cioè qualcosa di superiore che si nasconde sotto un’ombra allotria. È una figura storica alla quale viene assegnato un ruolo nel disegno provvidenziale, termine fisso delle vicende umane le quali corrono verso il punto del moderno rinnovamento, che prima della fine dei tempi replica, a un livello di maggiore illuminazione, il primo avvento di Cristo. Non è figura della teologia, cioè di concetti astratti, ma di una precisa teologia della storia che fa di Cristo il centro degli eventi, che non considera chiuso il processo della Redenzione e che vede nella “fabrica ecclesie” un procedere graduale, come un albero si mostra progressivamente dalla radice ai frutti. È figura della ‘Scrittura’ antica e nuova, del libro segnato da sette sigilli in cui si manifestano, con progressive aperture, i segni della volontà divina, del libro sapienziale che incorpora quanti sono ancora da convertire, cioè le “reliquie” dei Gentili, con la loro Scrittura (l’Eneide), e Israele (la Giudea, già verdeggiante e fattasi selva, viene assimilata all’Italia, il giardino dell’Impero). Nuova Rachele (che morì nel partorire Beniamino, interpretato come “excessus mentis”), è corifea dell’
ordo evangelicus et contemplativus” degli ultimi tempi, al quale verrà aperto il libro e illuminata tutta la Scrittura, ricadendo sui singoli componenti tale Ordine, di contemplativi e insieme di reggitori delle genti, tutte le illuminazioni precedenti manifestatesi nella storia. Designa l’insegnamento che avviene per la voce interiore e per il gusto della carità, appropriato allo Spirito di Cristo, di fronte al quale la voce esteriore appropriata all’umanità di Cristo, che pur è preparazione dell’interno dettatore, sparisce come se ne va Virgilio al suo apparire. Dietro lo svelamento della donna fatto per grazia al poeta sta la moderna “apocalisse”, rivelazione per dono divino dell’arcano celato, nome greco (από = re, κάλυψις = velo) non tradotto in latino, come le parole ebraiche “amen” e “alleluia”, in segno di sacra riverenza verso l’arditezza della rivelazione.
“Dante l’ha ritrovata e subito dopo l’ha riperduta in quanto ideale ed espressione del suo cuore; il dramma dell’amore tace innanzi al gran còmpito di salire con lei di stella in stella, e tutto vedere e tutto udire e tutto apprendere”. Così scriveva Benedetto Croce dell’incontro di Dante con Beatrice nell’Eden [3].

[1] La triplice ripetizione del nome “Virgilio” (vv. 49-51) richiama il triplice “ve”, cioè il pianto dei re della terra per la caduta di Babylon, la grande città terrena (Ap 18, 10), un tema che risuona anche nelle parole scritte sulla porta dell’inferno (Inf. III, 1-3) e in quelle di Francesca (Inf. V, 100.103.106).

[2] Cfr. BONAVENTURA, Collationes in Hexaëmeron, XVI, 29, in Sancti Bonaventurae Sermones Theologici, Roma 1994 (Sancti Bonaventurae Opera, VII/1), p. 308.

[3] BENEDETTO CROCE, La poesia di Dante, Bari 19527 (1920), p. 129.

Tab. X

[LSA, cap. XXI, Ap 21, 22-23 (VIIa visio)] Nota quod hec secundum quid verificantur in ecclesia Christi, que non artatur ad corporalem locum et templum veteris Iherusalem et sinagoge, nec cerimoniali luce et cultu legis et prophetarum eget, quia Christus et eius vita et doctrina est eius templum et sol et lucerna lucis solaris sue deitatis. In ecclesia autem septimi status hoc plenius complebitur, ita ut multis doctrinis prioribus non egeat, pro eo quod per contemplationis excessum absque ministerio exterioris vocis et libri docebit eam Christi Spiritus omnem veritatem, et temporalibus denudata adorabit Deum Patrem in spiritu et veritate. Nec ex hoc intelligo quod omnem usum temporalium vel exterioris doctrine et scripture abiciat sed, prout dixi, secundum quid impletur et implebitur in ecclesia militante, simpliciter autem in ecclesia triumphante.

 

Purg. XXX, 49-51

Ma Virgilio n’avea lasciati scemi
di sé
, Virgilio dolcissimo patre,

Virgilio a cui per mia salute die’mi

 

Purg. XXVII, 121-142

Tanto voler sopra voler mi venne   3, 8
de l’esser sù, ch’ad ogne passo poi  7, 2
al volo mi sentia crescer le penne.
Come la scala tutta sotto noi

fu corsa e fummo in su ’l grado superno,
in me ficcò Virgilio li occhi suoi,
e disse: “Il temporal foco e l’etterno
veduto hai, figlio; e se’ venuto in parte
dov’ io per me più oltre non discerno
.

Tratto t’ho qui con ingegno e con arte;
lo tuo piacere omai prendi per duce7, 2
fuor se’ de l’erte vie, fuor se’ de l’arte.

Vedi lo sol che ’n fronte ti riluce;        7, 3
vedi l’erbette, i fiori e li arbuscelli

che qui la terra sol da sé produce.
Mentre che vegnan lieti li occhi belli
che, lagrimando, a te venir mi fenno,
seder ti puoi e puoi andar tra elli.
Non aspettar mio dir più né mio cenno;
libero, dritto e sano è tuo arbitrio,
e fallo fora non fare a suo senno:
per ch’io te sovra te corono e mitrio”.

[LSA, cap. III, Ap 3, 7 (Ia visio, VIa ecclesia)] Significatur etiam per hoc proprium donum et singularis proprietas tertii status mundi sub sexto statu ecclesie inchoandi et Spiritui Sancto per quandam anthonomasiam appropriati. Sicut enim in primo statu seculi ante Christum studium fuit patribus enarrare magna opera Domini inchoata ab origine mundi, in secundo vero statu a Christo usque ad tertium statum cura fuit filiis querere sapientiam misticam rerum et misteria occulta a generationibus seculorum, sic in tertio nichil restat nisi ut psallamus et iubilemus Deo, laudantes eius opera magna et eius multiformem sapientiam et bonitatem in suis operibus et scripturarum sermonibus clare manifestatam*. Sicut etiam in primo tempore exhibuit se Deus Pater ut terribilem et metuendum, unde tunc claruit eius timor, sic in secundo exhibuit se Deus Filius ut magistrum et reseratorem et ut Verbum expressivum sapientie sui Patris, sic in tertio tempore Spiritus Sanctus exhibebit se ut flammam et fornacem divini amoris et ut cellarium spiritualis ebrietatis et ut apothecam divinorum aromatum et spiritualium unctionum et unguentorum et ut tripudium spiritualium iubilationum et iocunditatum, per que non solum simplici intelligentia, sed etiam gustativa et palpativa experientia videbitur omnis veritas sapientie Verbi Dei incarnati et potentie Dei Patris. Christus enim promisit quod “cum venerit ille Spiritus veritatis, docebit vos omnem veritatem” et “ille me clarificabit” et cetera (Jo 16, 13-14).

Cfr. Expositio, pars I, ff. 85va-b (ad Ap 3, 7, cit. quasi letterale da Sicut enim a laudantes), 87rb.

4. Le incertezze cognitive del diavolo 

Per comprendere la situazione psicologica di Dante al momento dell’apparizione della sua donna nell’Eden, bisogna introdurre i temi della prima delle sette guerre descritte nella quarta visione apocalittica (Ap 12, 4). Il drago sta dinanzi alla donna, che è in procinto di partorire, per divorarne il figlio, cioè per trarlo in dannazione come gli altri uomini. Non si tratta del parto naturale della Vergine, che avvenne senza dolore, ma del parto spirituale di Cristo e dei suoi discepoli, e quindi della Chiesa come corpo mistico, accompagnato da sommo dolore nella croce e nelle tentazioni (sopra si è visto come i temi da Ap 12, 1-2, relativi alla “donna vestita di sole”, entrino nella rosa semantico-teologica variata nei versi). Olivi pone qui la questione se il diavolo sapesse che Cristo era Dio o comunque senza peccato e non soggetto a dannazione. Viene citata la posizione di Gregorio Magno, espressa nei Moralia su Giobbe 40, 19 – “nei suoi occhi lo prenderà come con l’amo”. Secondo Gregorio, il diavolo sapeva trattarsi del Figlio di Dio incarnato per la nostra redenzione ma non conosceva l’ordine della redenzione stessa, per cui Cristo morendo sulla croce lo avrebbe trafitto. Olivi corregge Gregorio e sostiene che il diavolo prima della morte di Cristo non sapeva con certezza e senza dubbio che Cristo fosse il Figlio di Dio a lui consustanziale, né tanto meno che fosse senza peccato, altrimenti non lo avrebbe mai tentato, prima nel deserto e poi al momento della passione. Come afferma san Paolo (1 Cor 2, 7-8), nessuno dei prìncipi di questo mondo conobbe la sapienza divina; se l’avessero conosciuta, non avrebbero mai crocifisso o istigato alla crocifissione il Signore della gloria. Il diavolo pertanto non conobbe la divinità di Cristo, ma solo la sua mortale umanità. Questa, come afferma lo stesso Gregorio, era però un amo che ostendeva un’esca dentro la quale stava occulto un aculeo. Così, mentre il diavolo era attratto dall’esca corporea costituita dal corpo infermo per umanità, veniva trafitto, per occulta virtù, dall’aculeo della divinità.
La situazione del diavolo di fronte a Cristo è la medesima di Dante di fronte a Beatrice non più veduta da tanto tempo. Come l’avversario del Redentore venne attratto dall’esca del Cristo uomo, così il poeta crede di sentire con lo spirito la donna conosciuta in vita (“E lo spirito mio … d’antico amor sentì la gran potenza”). Ma come l’aculeo della divinità del Figlio di Dio trafisse per occulta virtù l’antico nemico, così “per occulta virtù che da lei mosse” vengono trafitti gli occhi di Dante da una donna ormai salita di carne a spirito, cresciuta in bellezza e virtù (Purg. XXX, 34-42). Egli riprova, a un livello superiore, l’esperienza de “l’alta virtù che già m’avea trafitto / prima ch’io fuor di püerizia fosse”. Il tema ritorna all’inizio di Purg. XXXII, con il poeta assorto nella contemplazione del “santo riso” di Beatrice appena svelata, che trae a sé gli occhi del poeta “con l’antica rete”, uno stato dal quale egli viene distolto per forza dalle tre virtù teologali, rimanendo per un po’ senza facoltà visiva. È direttamente riferito al diavolo in Purg. XIV, 145-146, a proposito degli esempi di invidia punita che dovrebbero essere il “duro camo”, cioè il freno agli uomini i quali invece, attirati dall’esca, sono presi dall’amo dell’antico avversario.
Il motivo paolino, per cui nessuno dei prìncipi di questo mondo conobbe la sapienza divina perché, se l’avessero conosciuta, non avrebbero mai crocifisso o istigato alla crocifissione il Signore della gloria (1 Cor 2, 7-8), è utilizzato nella spiegazione che Virgilio dà a Pier della Vigna sul perché Dante abbia strappato un ramoscello dal gran pruno nel quale è incarcerata la sua anima: se il discepolo avesse potuto credere prima quello che ha veduto tramite l’Eneide (“pur con la mia rima”), nell’episodio di Polidoro (Aen., III, 22-68), non avrebbe disteso la mano per troncare la frasca, ma la cosa incredibile ha spinto il maestro a indurlo a un atto che gli dispiace (Inf. XIII, 46-51). È da notare la diversa appropriazione dei motivi: la mancata conoscenza preventiva e l’istigare, che nell’esegesi scritturale sono del diavolo, nei versi appartengono rispettivamente a Dante e a Virgilio. Distendere la mano per cogliere il ramoscello dal gran pruno del suicida, che si fa poi “di sangue bruno”, richiama il crocifiggere, secondo quanto in Giovanni 21, 18 Cristo dice a Pietro: “distenderai le tue mani”, cioè in croce, passo citato ad Ap 11, 3. La “cosa incredibile” – un’anima incarcerata in una pianta –, vista fino allora solo con la rima di Virgilio, conduce ad Ap 10, 5-7 (terza visione, sesta tromba), al “mistero” che l’angelo dal volto solare giura si compirà al suono della tromba del settimo angelo: si tratta degli occulti e incredibili giudizi di Dio, chiamati “mistero” perché preannunciati sotto veli mistici, che nel caso sono i versi dell’Eneide.
Dante recita la parte che nell’esegesi spetta al diavolo ingannato dall’arte di Cristo, e ciò concorda con il fatto che egli si trova, nel ruolo di colpevole per aver seguito false immagini di bene, di fronte a un giudice regale e protervo, quale appare dalle severe prime parole della donna: “Come degnasti d’accedere al monte?” (Purg. XXX, 74). Anche la “gran potenza” dell’antico amore deriva da un motivo che nella Lectura viene attribuito al drago, cioè al diavolo (Ap 12, 3).
Come Dante è stato trafitto, nella sua umana infermità, dall’aculeo del Figlio di Dio pieno di occulta virtù, così Matelda gli è parsa somigliante a Venere trafitta dal figlio Cupido: “Non credo che splendesse tanto lume / sotto le ciglia a Venere, trafitta / dal figlio fuor di tutto suo costume” (Purg. XXVIII, 64-66). I versi ovidiani (Metam. X, 525-528) che descrivono Cupido il quale, mentre bacia la madre, la ferisce al petto senza volerlo (inscius) e l’inganna con la ferita (primoque fefellerat ipsam) sembrano concordare con quanto cantato da Venanzio Fortunato nell’inno Pange, lingua, gloriosi proelium certaminis citato nell’esegesi di Ap 12, 4, cioè “quod nostre salutis ordo depoposcerat ut ars Christi falleret artem multiformis proditoris, de quo in versu priori premisit quod per pomum ligni fraudulenter fefellerat prothoplaustrum, id est primum hominem”. Anche “la bella Ciprigna” e Cupido, onorate da “le genti antiche ne l’antico errore” (Par. VIII, 1-9), rientrano nell’ordine provvidenziale che procede per passaggi dal vecchio al nuovo, e sono prefigurazione di più alta trafittura dell’antico nemico con la prima venuta di Cristo nella carne e con la seconda sua venuta nello Spirito, nel sesto stato della Chiesa.
Ritrovare Beatrice, con la contestuale sparizione di Virgilio, segna per Dante il passaggio dal vecchio al nuovo, l’essere venuto, per una sorta di superiore astuzia, dall’umano al divino della sua donna, quell’umano che con Matelda procede in terra ordinatamente verso l’immortale felicità.
Il diavolo, sostiene Olivi, sapeva che Cristo era figlio di Dio per grazia; a questo aspetto si riferisce il Salmo 81, 6, citato ad Ap 12, 4: “Ego dixi: dii estis et filii excelsi omnes”. Ma non per questo sapeva che era figlio di Dio per natura. Nel cielo di Mercurio, Beatrice invita Dante a rivolgersi con sicurezza agli “spirti pii”, credendo loro “come a dii” (Par. V, 121-123). Il non sapere, nell’episodio citato, è proprio di Dante, ignaro dello spirito che gli ha parlato e del motivo per il quale manifesti la propria beatitudine nel secondo cielo (vv. 127-129). L’anima è quella di Giustiniano, e forse non a caso si insinua nei versi il tema dell’essere figlio di Dio per natura tratto da Ap 12, 4, considerato che, nella metamorfosi poetica dell’esegesi del terzo stato (dei dottori, il cui simbolo è la spada) e del quarto stato (i contemplativi, che con vita divina si dedicano al “pasto” spirituale), i due soli, l’impero e il papato, sono equiparati alle due nature di Dio, umana e divina, che non possono essere ridotte a una, come è invece successo allorché uno dei due soli ha spento l’altro, congiungendo la spada al pastorale. Con coerenza Giustiniano premette al suo discorso sull’Impero il racconto della propria errata fede monofisita, che riconosceva in Cristo una sola natura, quella divina, prima che il benedetto papa Agapito lo riportasse alla fede sincera (Par. VI, 13-22). Dante, quindi, sapeva che lo spirito che gli aveva parlato era figlio di Dio per grazia (in quanto già beato), ma non per natura, cioè non sapeva che si trattava di un imperatore, assimilabile al Figlio di Dio. Così non aveva dubitato che la sua donna fosse beata, ma non aveva sospettato della sua natura divina.

Tab. XI.1

[LSA, cap. XII, Ap 12, 4 (IVa visio, Ium prelium)] Sequitur de primo prelio: “Et dracho stetit ante mulierem” (Ap 12, 4), id est ante ecclesiam, “que erat paritura”, scilicet Christum in cruce et in suis primis discipulis. Non enim videtur hic agi de virginali et corporali partu Christi, quia Virgo tunc non parturivit illum cum dolore. In cruce tamen et in omnibus temptationibus Christum peperit cum summo dolore.
“Stetit”, inquam, “dracho ante” eam, “ut, cum peperisset, filium eius devoraret”, id est in mortem eternam seu in infernum sicut ceteros homines traheret.
Ex hoc aperte videtur quod diabolus non scivit Christum esse Deum aut impeccabilem et indampnabilem. Sed contra hoc esse videtur Gregorius, libro Moralium XXXIII° super illud Iob: “In oculis eius quasi hamo capiet eum” (Jb 40, 19): «Et quid<e>m», inquit, «Behemot iste Filium Dei incarnatum noverat, sed redemptionis nostre ordinem nesciebat. Sciebat enim quod pro redemptione nostra incarnatus Dei Filius fuerat, sed omnino quod isdem redemptor noster illum moriendo transfigeret nesciebat. Unde et bene dicitur: “In oculis eius quasi hamo capi<e>t eum”. In oculis quippe habere dicimur quod coram nobis positum videmus. Antiquus vero hostis redemptorem ante se positum vidit, quem confitendo pertimuit dicens: “Quid nobis et tibi, fili Dei? Venisti ante tempus torquere nos” (Mt 8, 29)». Hec Gregorius*.
Ad quod dicendum quod ex textu sacro et ex dictis aliorum sanctorum satis aperte habetur quod diabolus ante Christi mortem non novit certitudinaliter seu indubitabiliter Christum esse Dei Filium Deo Patri consubstantialem et coequalem et Deum summum, immo nec noverat ipsum esse omnino impeccabilem. Quod patet ex trina temptatione quam Christo in deserto tulit, et specialiter in tertia. Ad quid enim diceret ei: “Hec omnia tibi dabo, si cadens adoraveris me” (Mt 4, 9), si indubitabiliter sciret ipsum esse summum Deum aut omnino nequeuntem peccare neque errare? Quamvis autem tunc ab eo discesserit, nichilominus Luche III<I>° (Lc 4, 13) dicitur quod “diabolus recessit” tunc “ab illo usque ad tempus”, ex quo sancti et ceteri doctores colligunt quod in tempore sue passionis redierit ad Christum temptandum.
Item, super illud Ia ad Corinthios II°: “Loquimur Dei sapientiam, quam nemo principum huius seculi cognovit; si eum cognovissent, numquam Dominum glorie crucifixissent” (1 Cor 2, 7-8), dicunt sancti quod si demones indubitabiliter scivissent Christum esse Dominum glorie, numquam ipsum crucifigi fecissent vel instigassent.
Preterea ex verbo prefato, scilicet “in oculis eius quasi hamo capiet eum”, potius habetur quod non noverat Christi deitatem sed solum eius mortalem humanitatem, prout enim ibi Gregorius dicit: «In hamo esca ostenditur, sed aculeus occultatur. In hamo ergo incarnationis Christi captus est, quia dum in illo appetit escam corporis, transfixus est aculeo deitatis. Ibi enim erat aperta infirmitas que provocaret, et occulta virtus que raptoris faucem transfigeret». Hec ipsemet Gregorius ibi dicit**.

[LSA, cap. XI, Ap 11, 3 (IIIa visio, VIa tuba)] Quorum unus (testis) magis erit exteriori regimini et passionibus mancipatus, unde et Iohannis ultimo allegorice designatur per <Petrum>, cui di<c>it Christus: “Pasce oves meas”, et “cum senueris, extendes manus tuas”, scilicet in cruce, et “sequere me”, scilicet ad crucem (Jo 21, 17-19).

Inf. XIII, 46-51, 55-57

S’elli avesse potuto creder prima”,
rispuose ’l savio mio, “anima lesa,
ciò c’ha veduto pur con la mia rima,
non averebbe in te la man distesa;
ma la cosa incredibile mi fece
indurlo
ad ovra ch’a me stesso pesa”.

E ’l tronco: “Sì col dolce dir m’adeschi,
ch’i’ non posso tacere; e voi non gravi
perch’ ïo un poco a ragionar m’inveschi
.

[LSA, cap. X, Ap 10, 5-7 (IIIa visio, VIa tuba)] Sciendum etiam quod prout tubicinium septimi angeli refertur ad extremum iudicium, de quo <Ia> ad Thessalonicenses IIII° (1 Th 4, 16; cfr. 2 Th 1, 7) dicitur quod “ipse Dominus in iu<s>su et in voce archangeli et in tuba Dei descendet de celo, et mortui, qui in Christo sunt, resurgent primi”, est simpliciter verum quod tempus huius seculi tunc omnino cessabit et plene implebitur quicquid Deus per suos prophetas prenuntiavit fiendum, quod vocat “misterium”, id est secre-tum, quia nichil mundanis occultius quam spiritalis gratia et gloria in electis consumanda, futura etiam Dei iudicia sunt eis occulta et quasi incredibilia.
Dicitur etiam “misterium”, quia sub misticis velaminibus sunt prenuntiata. Nec intendo quin principalia corpora huius mundi tunc durent, sed solum quod temporalis et mobilis cursus eius et temporalis status humani generis in hac vita mortali cessabit.

* S. Gregorii Magni Moralia in Iob, libri XXIII-XXXV (CCSL, CXLIII B), lib. XXXIII, cap. VII, 29-39 (n. 14), p. 1685 (= PL 76, col. 680 C-D).

** Moralia in Iob, lib. XXXIII, cap. VII, 17, 23-28 (n. 14), pp. 1684-1685 (PL 176, col. 680 B-C).

Tab. XI.2

[LSA, cap. XII, Ap 12, 4 (IVa visio, Ium prelium)] Sequitur de primo prelio: “Et dracho stetit ante mulierem” (Ap 12, 4), id est ante ecclesiam, “que erat paritura”, scilicet Christum in cruce et in suis primis discipulis. Non enim videtur hic agi de virginali et corporali partu Christi, quia Virgo tunc non parturivit illum cum dolore. In cruce tamen et in omnibus temptationibus Christum peperit cum summo dolore.
“Stetit”, inquam, “dracho ante” eam, “ut, cum peperisset, filium eius devoraret”, id est in mortem eternam seu in infernum sicut ceteros homines traheret.
Ex hoc aperte videtur quod diabolus non scivit Christum esse Deum aut impeccabilem et indampnabilem. Sed contra hoc esse videtur Gregorius, libro Moralium XXXIII° super illud Iob: “In oculis eius quasi hamo capiet eum” (Jb 40, 19): «Et quid<e>m», inquit, «Behemot iste Filium Dei incarnatum noverat, sed redemptionis nostre ordinem nesciebat. Sciebat enim quod pro redemptione nostra incarnatus Dei Filius fuerat, sed omnino quod isdem redemptor noster illum moriendo transfigeret nesciebat. Unde et bene dicitur: “In oculis eius quasi hamo capi<e>t eum”. In oculis quippe habere dicimur quod coram nobis positum videmus. Antiquus vero hostis redemptorem ante se positum vidit, quem confitendo pertimuit dicens: “Quid nobis et tibi, fili Dei? Venisti ante tempus torquere nos” (Mt 8, 29)». Hec Gregorius. […]
Preterea ex verbo prefato, scilicet “in oculis eius quasi hamo capiet eum”, potius habetur quod non noverat Christi deitatem sed solum eius mortalem humanitatem, prout enim ibi Gregorius dicit: «In hamo esca ostenditur, sed aculeus occultatur. In hamo ergo incarnationis Christi captus est, quia dum in illo appetit escam corporis, transfixus est aculeo deitatis. Ibi enim erat aperta infirmitas que provocaret, et occulta virtus que raptoris faucem transfigeret». Hec ipsemet Gregorius ibi dicit.
Non ergo dicitur capi in oculis eius ex hoc quod deitas videretur a diabolo, sed solum ex hoc quod escam humanitatis Christi habuit visibiliter coram oculis suis, non autem aculeum sue deitatis. Unde et Ambrosius super Lucam dicit quod ideo Virgo fuit desponsata Iosep, ut sacramentum incarnationis Christi diabolo celaretur*. Et ecclesia, in imno passionis Christi, cantat quod nostre salutis ordo depoposcerat ut ars Christi falleret artem multiformis proditoris, de quo in versu priori premisit quod per pomum ligni fraudulenter fefellerat prothoplaustrum, id est primum hominem**.
Preterea si, prout Gregorius opinatur, sciebat ipsum esse Deum et pro nostra redemptione incarnatum, quomodo simul cum hoc poterat ignorare quod mors et passio Christi non esset supra modum meritoria et utilis redemptioni nostre, ac per consequens quod moriendo transfigeret spem et intentum diaboli?
Ad id autem quod Gregorius pro se allegat, diabolum dixisse “quid nobis et tibi, fili Dei?”, est duplex responsio.
Prima est quod licet opinaretur seu opinative coniceret Christum esse Dei Filium, et ex hac opinione diceret illa verba, non propter hoc sequitur quod sciret hoc indubitabiliter.
Secunda est quod licet sciret et diceret ipsum esse Filium Dei per gratiam, iuxta illud Psalmi: “Ego dixi: Dii estis et filii excelsi omnes” (Ps 81, 6), nonpropter hoc sequitur quod sciret ipsum esse Dei Filium per naturam.

 

Purg. XXX, 34-43

E lo spirito mio, che già cotanto
tempo era stato ch’a la sua presenza
non era di stupor, tremando, affranto,
sanza de li occhi aver più conoscenza,
per occulta virtù che da lei mosse,
d’antico amor sentì la gran potenza.
Tosto che ne la vista mi percosse
l’alta virtù che già m’avea trafitto
prima ch’io fuor di püerizia fosse,

volsimi a la sinistra …………….

[LSA, cap. XII, Ap 12, 3 (IVa visio)] “Et ecce dracho”, id est diabolus per calliditatem “dra-cho”, per elationem et per grandem poten-tiam “magnus” […]

Purg. XXXII, 1-12

Tant’ eran li occhi miei fissi e attenti
a disbramarsi la decenne sete,
che li altri sensi m’eran tutti spenti.
Ed essi quinci e quindi avien parete
di non caler – così lo santo riso
a sé traéli con l’antica rete! -;
quando per forza mi fu vòlto il viso
ver’ la sinistra mia da quelle dee,
perch’ io udi’ da loro un “Troppo fiso!”;
e la disposizion ch’a veder èe
ne li occhi pur testé dal sol percossi,
sanza la vista alquanto esser mi fée.

Par. XXVII, 91-93

e se natura o arte fé pasture
da pigliare occhi, per aver la mente,
in carne umana o ne le sue pitture

Purg. XIV, 145-147

Ma voi prendete l’esca, sì che l’amo
de l’antico avversaro a sé vi tira;

e però poco val freno o richiamo.

Purg. XXVIII, 64-66

Non credo che splendesse tanto lume
sotto le ciglia a Venere, trafitta
dal figlio fuor di tutto suo costume.

Metam. X, 525-528

Namque pharetratus dum dat puer oscula matri,
inscius exstanti destrinxit harundine pectus:
laesa manu natum dea reppulit; altius actum
vulnus erat specie primoque fefellerat ipsam.

Par. V, 121-129

Così da un di quelli spirti pii
detto mi fu; e da Beatrice: “Dì, dì
sicuramente, e credi come a dii”.
“Io veggio ben sì come tu t’annidi
nel proprio lume, e che de li occhi il traggi,
perch’ e’ corusca sì come tu ridi;
ma non so chi tu se, né perché aggi,
anima degna, il grado de la spera
che si vela a’ mortai con altrui raggi”.

Par. XXVIII, 10-12

così la mia memoria si ricorda
ch’io feci riguardando ne’ belli occhi
onde a pigliarmi fece Amor la corda.

* Sancti Ambrosii Mediolanensis Opera, IV, Expositio Evangelii secundum Lucam, cura et studio M. Adriaen, Turnholti 1957 (Corpus Christianorum. Series Latina, XIV), p. 31 (lib. II, Lc 1, 26-27 = PL 15, coll. 1553 B – 1554 A).

** Si tratta del celebre Pange, lingua, gloriosi proelium certaminis di Venanzio Fortunato (Carmina, lib. II, 2), vv. 4-9: “De parentis protoplasti fraude factor condolens, / quando pomi noxialis morte morsu corruit, / ipse lignum tunc notavit, damna ligni ut solveret. / Hoc opus nostrae salutis ordo depoposcerat / multiformis perditoris arte ut artem falleret / et medellam ferret inde, hostis unde laeserat”. Cfr. Venanzio Fortunato, Opere/1, a cura di S. Di Brazzano, Roma 2001 (Scrittori della Chiesa di Aquileia, VIII/1), p. 148 (= MGH, Auctores Antiquissimi, IV/1, rec. F. Leo, Berolini 1881, p. 28). Il carme “nel rito romano tradizionale era cantato come inno al mattino e alle lodi nelle due settimane del tempo di Passione, nonché durante l’adorazione della Croce nell’azione liturgica pomeridiana del Venerdì santo” (Di Brazzano, p. 148, nt. 4).

5. “Apocalisse”, ovvero svelamento

“Apocalisse di Gesù Cristo”. Il libro si divide nell’esordio o proemio, nella narrazione e nella conclusione. La narrazione comincia ivi: “Io, Giovanni, vostro fratello” (Ap 1, 9); la conclusione, verso la fine del libro, ivi: “Poi mi disse: ‘Queste parole sono certe e veraci’” (Ap 22, 6). Nel proemio e nella conclusione viene raccomandata e magnificata la profezia di questo libro affinché sia maggiormente accettabile e degna di fede e venga accolta con più attenzione, amore e timore.
Il proemio del libro (Ap 1, 1-8) comprende il titolo e il saluto. Nel titolo (Ap 1, 1-3) viene spiegata la quadruplice causa del libro: formale, efficiente, materiale e finale. “Apocalisse” equivale a “rivelazione”, la quale può essere sia l’atto di colui che rivela, sia l’atto di colui che riceve o vede la rivelazione, sia la cosa stessa rivelata.
L’essere stato rivelato è la causa formale del libro, che meglio si definisce “rivelazione” piuttosto che “visione”, a sottolineare il dono e la grazia di colui che rivela e il suo arcano celarsi se il velo non venga tolto o aperto per dono divino. È nome greco (από = re, κάλυψις = velo) che è rimasto non interpretato in latino, come le parole ebraiche “amen” e “alleluia”, in segno di sacra riverenza verso l’arditezza della rivelazione.
“Apocalisse”, rivelazione dell’arcano per grazia, è il disvelarsi della bocca velata di Beatrice alla preghiera delle tre virtù teologali: “Per grazia fa noi grazia che disvele / a lui la bocca tua, sì che discerna / la seconda bellezza che tu cele” (Purg. XXXI, 136-138). Ed è rivelazione non interpretata, poiché quale poeta, quand’anche fattosi pallido nello studio della poesia o abbeveratosi alla fonte di Parnaso, sarebbe capace di renderla? (vv. 139-145).
La riverenza di fronte al nome, “pur per Be e per ice” (che sembra far segno della disgiunzione di “apocalisse” in re e in velo), cioè anche senza interpretarlo, “s’indonna” di tutto il poeta, che nel dubbio non ha sufficiente ardimento a chiedere (Par. VII, 10-15; il ‘velare’ è appropriato al subitaneo sparire degli spiriti mostratisi nel cielo di Mercurio: “e quasi velocissime faville / mi si velar di sùbita distanza”, vv. 7-9). Sulla soglia dell’Empireo, la bellezza della donna viene lasciata “a maggior bando / che quel de la mia tuba, che deduce / l’ardüa sua matera terminando”, come il nome del libro non viene interpretato “in signum singularis arduitatis et reverentie huius revelationis” (Par. XXX, 34-36).
Alla donna del poeta appartiene anche la parola alleluia, della quale ad Ap 19, 1 si dice: “Quod est hebreum et est idem quod laudare Deum”, e l’amen, di cui ad Ap 19, 4: «“Amen, alleluia”, id est vere est Deus ineffabiliter laudandus”». Lucia così le si rivolge nell’Empireo per muoverla a salvare l’amico: “Beatrice, loda di Dio vera” (Inf. II, 103), dice cioè tre parole non interpretate: ‘apocalipsis, alleluia, amen’.
Se “Beatrice” resta nome non interpretato, interpretato (così Uguccione) è invece quello della madre di san Domenico, Giovanna – ja = dominus, anna = gratia (Par. XII, 80-81).
La causa efficiente del libro dell’Apocalisse è quadruplice. La principale è Dio, la secondaria Cristo in quanto uomo, l’intermedia l’angelo, la prossima Giovanni. Così si dice della “rivelazione di Gesù Cristo”, cioè fatta da Cristo, “che Dio gli diede”, che gli fu cioè data dal Padre e da tutta la Trinità non solo per sua conoscenza ma “per render noto”, ossia per manifestare, “ai suoi servi le cose che è necessario avvengano presto”.
Parlando di “necessità” si tocca anche la causa materiale, costituita dagli eventi futuri, necessari non in senso assoluto, bensì rispetto all’infallibilità della prescienza divina, all’utilità e alla necessità della Chiesa, alla giustizia distributiva, alla malizia dei reprobi. Questi eventi futuri è necessario avvengano “presto” sia perché cominciano e continuano e si compiono senza interruzione; sia perché il tempo, comparato all’eternità, è quasi un momento; sia perché il tempo della nuova legge, rispetto ai tempi precedenti, viene computato come “l’ultima ora”, secondo quanto detto nella prima lettera di Giovanni (1 Jo 2, 18 “novissima hora est”).
Si soggiunge la causa intermedia e poi quella prossima, dicendo: “e che egli”, cioè Cristo, “manifestò”, cioè rivelò o mostrò per mezzo di segni figurali, “inviando il suo angelo”, per annunziarle, “al servo suo Giovanni”.
È da notare che il poema non viene definito “rivelazione”. Cacciaguida, nell’invitare il suo discendente a non essere timido amico del vero, parla di “visione”: “tutta tua visïon fa manifesta” (Par. XVII, 128). Si tratta però di una visione mostrata da altri, come dice lo stesso Cacciaguida: “Però ti son mostrate in queste rote, / nel monte e ne la valle dolorosa / pur l’anime che son di fama note” (vv. 136-138). L’autore del libro dell’Apocalisse è colui che “questa revelazion ci manifesta”, come afferma il poeta di fronte al fratello di Giovanni, san Giacomo, con riferimento alle “bianche stole” (Ap 3, 4-5; 7, 9; Par. XXV, 94-96). Il verbo “revelare” ricorre altre tre volte nel poema. A Par. XXIX, 133, circa il numero degli angeli nella ‘rivelazione’ di Daniele (“’n sue migliaia”; cfr. Dn 7, 10), entro cui “si cela” un numero “determinato” ma inconcepibile per la mente umana: da notare la variante, perché Daniele rivela celando. A Par. XXI, 120, Pier Damiani lamenta la decadenza di Fonte Avellana: “Render solea quel chiostro a questi cieli / fertilemente; e ora è fatto vano, / sì che tosto convien che si riveli”, dove il rivelare è accostato alla necessità (“convien”) e al presto apocalittico (“tosto”). A Purg. III, 142-144, Manfredi, del cui destino eterno non si dice il vero tra i vivi, prega Dante che, una volta tornato, vada dalla figlia “revelando a la mia buona Costanza / come m’hai visto” (da intendere come un rivelare il mirabile giudizio divino sul padre, che ha stravolto il giudizio degli umani pastori).
Una ‘rivelazione’, cioè un disvelamento, si verifica nell’Empireo, allorché “ambo le corti del ciel”, angeli e beati, si rendono “manifeste” al poeta, “come gente stata sotto larve, / che pare altro che prima, se si sveste / la sembianza non süa in che disparve”; la città “si distende in circular figura” (Par. XXX, 91-96, 103-105).
La causa finale del libro, che si consegue attraverso la sua intelligenza e osservanza, è la beatitudine: “Beato chi legge e chi ascolta le parole della profezia, e chi le conserva” (Ap 1, 3).

 

■All’inizio della parte narrativa della sua esposizione, Giovanni precisa sette circostanze generali e degne di lode proprie delle visioni successivamente descritte. La sesta circostanza (Ap 1, 10-11) consiste nel fatto che all’evangelista viene ingiunto solennemente di scrivere la visione e di inviarla alle chiese d’Asia, come intendesse dire: non per mia iniziativa, ma per speciale comando divino ho scritto ed invio. Per cui soggiunge: “E udii una voce dietro di me”.
Il comando proviene da una voce udita dietro le spalle. Stare dietro può essere inteso nel senso che Giovanni era in quel momento dedito alla quiete della contemplazione, lontano dalla sollecitudine derivante dall’attività pastorale, che aveva lasciata alle spalle: la voce dunque lo richiama dalla visione delle cose supreme, che gli stanno dinanzi, alla cura d’anime che sta dietro (è l’interpretazione di Riccardo di San Vittore). Oppure (è l’interpretazione di Olivi), considerando che le cose che ci stanno dietro sono invisibili e pertanto superiori, si può intendere che Giovanni ascolti una voce alle spalle che lo elevi e riconduca verso l’alto, mentre con il volto è rivolto in basso, verso cose inferiori. In questo senso, nel Vangelo di Giovanni, si dice che Maria Maddalena, volta indietro, vide Gesù (Jo 20, 14).
Ricevuto il comando di scrivere il libro e di mandarlo alle sette chiese, delle quali viene specificato il nome, Giovanni si volta per vedere attentamente da quale persona provenga la voce (è la settima circostanza, Ap 1, 12). Questo vedere può essere inteso come un apprendimento totale: sebbene abbia già appreso la voce al momento del suo primo ascolto, ora si converte più fortemente ad essa per apprenderla in modo compiuto.
La voce di Beatrice chiama l’amico con il proprio nome: “Dante, perché Virgilio se ne vada, / non pianger anco …” (vv. 55-57; cfr. infra). Il poeta si volge “al suon del nome mio, / che di necessità qui si registra” (vv. 62-63) [1]. Un nome pregno di significato, che qui viene specificato come nel libro di Giovanni vengono poi specificati i nomi delle sette chiese alle quali deve essere inviata la visione: Dante – “colui che dà” [2] – riassume in sé, come la Chiesa universale, il settiforme spirito che la santifica. La necessità che giustifica l’unica registrazione nel poema del nome dell’autore, con il venir meno della norma retorica che vieta di parlare di sé, non è determinata soltanto, come pensava l’Ottimo, dal fatto che un rimprovero, quale quello cui si appresta Beatrice, diventa più pungente se si nomina la persona, ma anche dall’imminenza della fine dei tempi. Il poeta nominato è colui che riceve la rivelazione da divulgare, necessaria perché gli uomini si pentano per tempo. Necessità e utilità già addotte nel Convivio (I, ii, 12.14), con l’esempio di Agostino, per giustificare il parlare di sé.

I temi connessi al titolo del libro (Ap 1, 1) sono presenti al momento dell’apparizione di Beatrice nell’Eden. “Guardaci ben! Ben son, ben son Beatrice” (Purg. XXX, 73): le parole della donna espongono il fine dell’Apocalisse, cioè la beatitudine: “Beatus qui legit, et qui audit verba prophetie, et servat ea” (Ap 1, 3). La triplice ripetizione dell’avverbio ben esprime la causa finale del libro. Dante ascolta e guarda. Ciò è dimostrato da altri versi che rinviano al medesimo punto esegetico: Purg. III, 124-126 (“Se ’l pastor di Cosenza, che a la caccia / di me fu messo per Clemente allora, / avesse in Dio ben letta questa faccia”, quella misericordiosa: “et sic omnia sunt a nobis servanda vel agendo illa vel credendo ea cum caritate et spe vel timore”); Par. X, 125-126 (“l’anima santa che ’l mondo fallace / fa manifesto a chi di lei ben ode”, cioè Boezio; manifestare è verbo tipico della rosa offerta dall’esegesi dei primi versetti apocalittici); Inf. XIV, 16-18 (“O vendetta di Dio, quanto tu dei / esser temuta da ciascun che legge / ciò che fu manifesto a li occhi miei!”: senza l’avverbio “ben”, ma con l’accostamento del leggere il lato temibile del libro – “cum caritate et spe vel timore” – e del manifestare).
Ancora, nell’Eden Beatrice è velata e non appare manifesta; le sue parole ‘continuano’, quasi a sottolineare la necessità di cose che debbono avvenire presto (Purg. XXX, 71: “continüò come colui che dice”; «“[…] “que oportet fieri cito” … quia indistanter sunt inchoanda et absque interpolatione continuanda et consumanda”»): motivo che ritorna all’inizio del canto successivo, allorché Beatrice ricomincia a parlare, “seguendo sanza cunta” (Purg. XXXI, 4); un modo di parlare proprio anche di Farinata (Inf. X, 76), di Matelda (Purg. XXIX, 2) e ancora di Beatrice nel cielo della Luna (Par. V, 17-18). Simmetrico ad Ap 1, 1 è Ap 22, 10, dove alla fine del libro Cristo afferma la prossimità del suo avvento e giudizio. Ivi è ripreso il tema del continuare senza posa un discorso: “et continuat se ad immediate premissum”. Cristo dice anche (Ap 22, 12) che verrà presto a portare, “tamquam dantis”, la propria mercede a ciascuno secondo le sue opere, cioè ai buoni i premi e ai malvagi le pene. Che è poi quello che si propone la Commedia. Il tema della visione mostrata a Giovanni perché la manifesti ad altri si traspone sul poeta. A lui, dice Beatrice, sono state mostrate “le perdute genti” come ultimo argomento per la sua salute (Purg. XXX, 136-138); a lui, dice Cacciaguida, sono “mostrate” le anime perché ‘manifesti’ la sua visione (Par. XVII, 128, 136). Pentitosi di fronte a Beatrice del proprio traviamento, Dante riceverà dalla sua donna (Purg. XXXII, 103-105) e dal suo avo (Par. XVII, 127-128) l’ingiunzione di scrivere e di manifestare, come all’evangelista viene detto: “Scribe ergo que vidisti” (Ap 1, 19).

Nel poema si mostrano altre variazioni di questi temi. Al centauro Chirone Virgilio spiega che il mostrare a Dante vivo la buia valle infernale è indotto da “necessità” e non da diletto (Inf. XII, 85-87). ‘Convenire’, cioè essere necessario, è verbo che Virgilio ha già usato per indurre Dante a “tenere altro vïaggio” se vuole salvarsi dalla lupa (Inf. I, 91-93). I motivi della necessità e della velocità sono pure appropriati alla Fortuna che s’appressa, “necessità la fa esser veloce” (Inf. VII, 89), ma Dante ad essa è “presto” (cioè pronto con altrettanta velocità), e ciò vuole “sia manifesto” al suo antico maestro Brunetto Latini (Inf. XV, 91-93; “manifesto” e “presto” si trovano qui in rima, come a Par. XXIV, 50.52). Poi Virgilio interloquisce variando il tema Beatus qui audit (Ap 1, 3): «poi disse: “Bene ascolta chi la nota”» (Inf. XV, 99).
L’aggettivo utile non compare mai nel poema; hapax è l’avverbio utilmente a Purg. XXIII, 6, non a caso riferito al “tempo che n’è imposto”, che secondo Virgilio deve essere adeguatamente impiegato perché, appunto, è poco, e le cose debbono necessariamente avvenire presto, e presto debbono esser vedute.

Il tema dei “signa figuralia”, attraverso i quali si attua la rivelazione (le similitudini a noi note, perché non è dato ripetere una visione che sia puramente intellettuale), è appropriato ai lumi che nel cielo di Giove si trasformano nell’aquila, mostrandosi dapprima come figure di lettere e come segni (Par. XVIII, 73-93). Segnare e manifestare sono congiunti nell’invocazione in principio della terza cantica (Par. I,  22-24: “O divina virtù, se mi ti presti / tanto che l’ombra del beato regno / segnata nel mio capo io manifesti”). I motivi della necessità e dei “signa figuralia” sono appropriati a Cacciaguida, il cui parlare per un po’ si cela “per necessità, ché ’l suo concetto / al segno d’i mortal si soprapuose”, per poi condiscendere “inver’ lo segno del nostro intelletto” (Par. XV, 37-48).
La necessità, afferma Olivi, non è da intendere in senso assoluto, bensì con rispetto all’infallibilità della prescienza e della giustizia divina e all’utilità della Chiesa (Ap 1, 1); il libro tratta pertanto degli eventi futuri che è necessario avvengano presto, quasi già presenti, non di fallibili contingenze. Così Cacciaguida, che legge “nel cospetto etterno”, afferma (Par. XVII, 37-42) che la contingenza è solo umana (“fuor del quaderno / de la vostra matera non si stende”), e che la necessità non è assoluta (“necessità però quindi non prende / se non come dal viso in che si specchia / nave che per torrente giù discende”).

Una variante della rima disvele / cele (Purg. XXXI, 136.138) è anticipata, rispetto al disvelarsi di Beatrice, a Purg. XXIII, 112.114, da ti celi / veli nella richiesta di Forese perché il suo interlocutore si riveli. Ma altri temi tratti dall’esegesi dei primi versetti del testo apocalittico si trovano nell’episodio: il manifestarsi (circa la causa della magrezza delle anime, vv. 37-39; cfr. Purg. XXX, 69), poi il palesarsi a Dante («“palam facere”, id est ad manifestandum») per grazia («poi gridò forte: “Qual grazia m’è questa?”», vv. 42-45). I temi si intrecciano con quelli provenienti dall’esegesi di Ap 9, 16-17 (terza visione, sesta tromba), dove si distingue tra l’ascoltare il numero dei cavalieri e il vedere i cavalli dell’esercito sciolto al suono della sesta tromba, nel senso che l’ascolto viene riferito ai più sapienti (i cavalieri), mentre la vista alle plebi sensuali (i cavalli), perché con l’udito percepiamo ciò che è sottile, segreto e intelligibile senza vederlo o palparlo. Così Dante riconosce Forese, disseccato nella pelle dalla fame e dalla sete che lo purgano del peccato di gola, solo attraverso la voce udita – “Mai non l’avrei riconosciuto al viso”: l’essere ‘sottile’, appropriato alla magrezza di Forese, partecipa del tema dell’apprendimento con l’udito di ciò che è più sottile e segreto (Purg. XXIII, 43-45, 61-63). Forese è paragonato nel suo dipartirsi a un cavaliere (Purg. XXIV, 94-97); al suono della sesta tromba vengono seccate le acque del fiume Eufrate, cioè di quanto è umano e babilonico (Ap 9, 14).
Altri esempi di percezione uditiva (più sottile), non visiva: “Luogo è là giù da Belzebù remoto / tanto quanto la tomba si distende, / che non per vista, ma per suono è noto” (Inf. XXXIV, 127-129): il punto al quale Virgilio e Dante pervengono al termine della “natural burella”, percorsa dopo essersi staccati dal pelo di Lucifero, dal quale risalgono ed escono “a riveder le stelle”, cioè alla contemplazione; le parole luogo e remoto rinviano la memoria del lettore a Patmos, dove Giovanni scrisse l’Apocalisse: “Ecce quod locus erat divinis contemplationibus et visionibus aptus, tamquam remotus et quietus et secretus ac deliciis et divitiis carnalibus vacuus” (Ap 1, 9); oppure: «“Io ti seguiterò quanto mi lece”, / rispuose; “e se veder fummo non lascia, / l’udir ci terrà giunti in quella vece”», nell’incontro con Marco Lombardo (Purg. XVI, 34-36).

A Dante è appropriato il tema della singolare grazia concessa da Dio a Cristo perché riveli quel che è arcano e incomprensibile: a lui viene infatti ‘concesso’ per grazia di vedere i troni del trionfo eterno prima di abbandonare il militare terreno (Par. V, 115-117) e di venire d’Egitto in Gerusalemme (Par. XXV, 55-57). A Par. V, 115 l’espressione “ben nato”, oltre che alla “beatitudo”, causa finale del libro, rinvia anche all’interpretazione del nome “Beniamin”, il figlio di Rachele chiamato dapprima dalla madre “Bennoni”, cioè figlio del dolore, perché nel darlo alla luce morì (Ap 7, 8). Alla tribù di Beniamino è appropriata la pace, nella quale la mente muore a sé stessa e passa alla destra di Dio. Ben, con o senza nati, è accostato a pace a Purg. III, 73-74 e V, 60-61.
A Francesca e a Paolo Amore “concedette” di conoscere i “dubbiosi disiri” (Inf. V, 118-120), ma fu un concedere male interpretato dai due amanti, nel senso dell’amore carnale. Il tema del concedere da parte di Dio (Ap 1, 1) e della dignità di Giovanni, testimone del Verbo divino e insieme dell’umanità di Cristo (Ap 1, 2), è appropriato a sé stesso da Dante, dubbioso nel fare il viaggio proposto da Virgilio e accettato con troppa fretta: “Ma io, perché venirvi? o chi ’l concede? / Io non Enëa, io non Paulo sono; / me degno a ciò né io né altri ’l crede” (Inf. II, 31-33; cfr. la richiesta a Virgilio circa le genti in riva all’Acheronte: «per ch’io dissi: “Maestro, or mi concedi / ch’i’ sappia quali sono …”», Inf. III, 72-73). “Lo tempo è poco omai che n’è concesso, / e altro è da veder che tu non vedi”, afferma Virgilio nel lasciare la nona bolgia (Inf. XXIX, 11-12).
‘Concedere’ è proprio di Dio e del suo provvedere. Cacciaguida, che pure in quanto beato va da tempo “leggendo del magno volume / du’ non si muta mai bianco né bruno” (Par. XV, 50-51), avrebbe voluto che almeno vi fosse stato mutato il destino di Buondelmonte, cosicché costui fosse morto, affogato nella sua Val di Greve, prima di entrare nella pacifica Firenze: “Molti sarebber lieti, che son tristi, / se Dio t’avesse conceduto ad Ema / la prima volta ch’a città venisti. / Ma conveniesi, a quella pietra scema / che guarda ’l ponte, che Fiorenza fesse / vittima ne la sua pace postrema” (Par. XVI, 142-147). “Ma conveniesi … oportet fieri”, era cioè utile e necessario, che Firenze piangesse.

Questa tematica iniziale concernente il titolo del libro si completa con le numerose ingiunzioni fatte a Giovanni perché scriva ciò che ha visto (in particolare, nella prima visione, ad Ap 1, 11; 1, 19; nella settima, ad Ap 21, 5), che possono essere confrontate con le ingiunzioni provenienti da Beatrice di scrivere le visioni avute nell’Eden “in pro del mondo che mal vive” (Purg. XXXII, 103-105; XXXIII, 55-57). Da notare, nel primo caso, la metamorfosi della prosa latina (con passi tra loro collazionati) nei versi in volgare: «(Ap 1, 19) “Scribe ergo que vidisti” … (Ap 1, 11) “Quod vides”, id est quod visurus es et videre iam cepisti, “scribe in libro”, id est fac inde librum sollempnem – Però, in pro del mondo che mal vive, / al carro tieni or li occhi, e quel che vedi, / ritornato di là, fa che tu scrive» (fa non deriva dal testo sacro, ma dalla sua esegesi). Alla conclusione del decimo capitolo, a Giovanni-Dante viene affidato il compito di predicare nuovamente il libro della sapienza cristiana (Ap 10, 9-11).

La causa finale del libro, che si consegue attraverso la sua intelligenza e osservanza, è la beatitudine: “Beato chi legge e chi ascolta le parole della profezia, e chi le conserva” (Ap 1, 3). L’intelligenza si ottiene tramite la lettura e l’ascolto; la prima spetta ai dottori o ai letterati, il secondo ai laici. Per la salvezza non basta tuttavia apprendere o sapere senza conservare nell’affetto – con fede, speranza, carità e timore – e nelle opere, per cui si dice: “e chi conserva”.
Il passo tratto da Ap 1, 3 può essere collazionato con quello da Ap 3, 3, in cui alla quinta chiesa d’Asia (Sardi), e al suo intorpidito vescovo, viene raccomandato di avere sempre in mente, ripensandola con attenzione, la prima grazia ricevuta da Dio, ascoltata nella predicazione e dimenticata per torpore: una volta tornata alla mente, la prima grazia – che corrisponde a un principio di bellezza e di pienezza stellare – deve essere conservata. Da questo difetto sono esclusi “pochi nomi”, cioè quelle persone i cui nomi sono “noti” a Cristo per la loro santità (Ap 3, 4).
Il tema del “beatus qui audit … et servat” costituisce il tessuto delle parole di Virgilio a Dante “sì smarrito” (rende il “sic torpens” di Ap 3, 3; cfr. quanto dice Beatrice allo stesso Virgilio a Inf. II, 64), che volge i passi da Farinata “ripensando / a quel parlar che mi parea nemico” in quanto gli aveva predetto sciagure (Inf. X, 121-132). Come il vescovo della quinta chiesa, Dante viene invitato a conservare nella mente quello che ha ascoltato (anche se non si tratta della “prima grazia”, ma di profezie contrarie). Il motivo dell’attenzione sta nel drizzare il dito da parte di Virgilio, per affermare che solo quando sarà dinanzi a Beatrice, “al dolce raggio / di quella il cui bell’ occhio tutto vede”, potrà conoscere il corso della propria vita. Il fine di chi ascolta, ripensa attentamente e conserva ciò che ha ascoltato è  la beatitudine.
Altro esempio di variazione di questo gruppo tematico è il ‘serbare’ alle chiose di Beatrice quanto narrato al poeta sul proprio destino da Brunetto Latini: la donna saprà spiegare la profezia circa il conseguimento dell’infallibile glorioso porto insieme a quanto oscuramente dettogli da Farinata sul peso dell’arte del rientrare in patria (Inf. XV, 88-90). Anche l’espressione di Virgilio “Bene ascolta chi la nota” (v. 99) sembra derivare dai medesimi temi, se interpretata nel senso che solo chi “nota”, cioè ha in mente e conserva, ascolta bene. Virgilio interviene dopo che per due terzine Dante ha dichiarato di essere pronto ai colpi della Fortuna: “però giri Fortuna la sua rota / come le piace” (vv. 91-96). La Fortuna, così come presentata a Inf. VII, 94-96, per quanto ministra di Dio, è il contrario del “beatus qui audit”: “ma ella s’è beata e ciò non ode” (nel senso che non ascolta il biasimo e la mala voce datale dai mondani; cfr., a Inf. X, 97, le parole di Dante a Farinata: “El par che voi veggiate, se ben odo …”). In presenza di Brunetto, per le parole di Virgilio, Dante le si oppone come colui che bene ascolta e conserva.
Ancora variante dell’ascoltare e del serbare “in affectu et opere”, da Ap 1, 3, è quanto il poeta dice ai tre fiorentini sodomiti: “e sempre mai / l’ovra di voi e li onorati nomi / con affezion ritrassi e ascoltai” (Inf. XVI, 58-60), dove il nominare è precipuo tema della quinta chiesa (Ap 3, 4) e, più in generale (nel senso di fama), di tutto il quinto stato. Serbare “ad salutem … in affectu” dopo aver visto (“beatus qui legit”) è nella preghiera alla Vergine di san Bernardo: “Ancor ti priego … che conservi sani, / dopo tanto veder, li affetti suoi” (Par. XXXIII, 34-36).
Stazio, iniziando la lezione sulla generazione umana, invita Dante a ricevere e a conservare nella mente le sue parole (Purg. XXV, 34-36; da Ap 3, 3). Un’ulteriore variante è l’inciso contro la gente che dovrebbe “esser devota” (gli ecclesiastici) in Purg. VI, 93: “se bene intendi ciò che Dio ti nota”. Ancora, l’attenzione e l’ascoltare sono propri di Virgilio, che in Inf. IX, 4 attende l’arrivo del messo celeste.
Ricordare un ‘prima’ bello che non si ritrova più perché mutato in meglio si verifica nel riconoscimento di Piccarda. Nel rivelarsi, la donna invita il poeta a ricordare con mente attenta i “primi concetti” che ebbe di lei, cioè la prima immagine conosciuta in terra, e Dante replica che questi “primi” sono tanto trasfigurati dallo splendore divino da non avergli consentito un immediato riconoscimento senza l’aiuto delle parole del suo interlocutore (Par. III, 46-48, 58-63).
Trasposizione quasi letterale del testo teologico è l’invito di Beatrice ad aprire la mente per fermarvi dentro quanto il poeta ascolterà da lei sull’essenza del voto religioso, “ché non fa scïenza, / sanza lo ritenere, avere inteso” (Par. V, 40-42; cfr. Par. XIII, 1-3). Si tratta certo di un modo comune di dire: “il concetto ritorna frequente nelle raccolte medievali di massime, sulle orme di analoghe sentenze di Seneca e di Cicerone” (Sapegno). Ma anche questo concetto trova rispondenze nella Lectura che lo armino (è Beatrice ad esprimerlo, il cui nome coincide la causa finale dell’Apocalisse), e si tratta proprio di quelle parole che avrebbero convinto Machiavelli a notare le conversazioni da lui intrattenute “nelle antique corti delli antiqui huomini” e a comporre un opuscolo De principatibus, come scrisse a Francesco Vettori il 10 dicembre 1513.

[1] Al richiamo del maestro Dante si volge (“Volgiti! Che fai?”), e come Maria vide Cristo risorto, così vede “Farinata che s’è dritto”, anch’egli a suo modo risorto, e questo vedere, come dice Virgilio, è “tutto” dalla cintola in su (Inf. X, 31-33). Anche Dante, come Giovanni (Ap 1, 10-12), ha prima ascoltato il suono della “vox magna” e si è poi voltato per apprenderla in modo totale. Una conversione a chi parla che si ripete nel volgere il viso verso Manfredi (Purg. III, 103-106).
Ad Ap 1, 10 (Giovanni viene richiamato da una voce udita alle spalle) rinvia anche “lo rivocai” del v. 135. “Né l’impetrare” (v. 133) traspone su Beatrice la funzione di Giovanni “impetratorem” affinché il libro venga aperto (Ap 5, 4). L’autore dell’Apocalisse rappresenta i padri che piangono lacrime poiché il libro resta chiuso.

[2] Cfr. GIOVANNI BOCCACCIO, Vita di Dante, II, in Il Comento alla “Divina Commedia” e gli altri scritti intorno a Dante, a cura di D. Guerri, I, Bari 1918 (Scrittori d’Italia), p. 8: “[…] e partorì uno figliuolo, il quale di comune consentimento col padre di lui per nome chiamaron Dante: e meritamente, percioché ottimamente, sì come si vedrà procedendo, seguì al nome l’effetto”.

Tab. XII.1

Inf. I, 91-93; XII, 85-87; XXVIII, 49-51

“A te convien tenere altro vïaggio”,
rispuose, poi che lagrimar mi vide,
“se vuo’ campar d’esto loco selvaggio”

rispuose: “Ben è vivo, e sì soletto
mostrar li mi convien la valle buia;
necessità ’l ci ’nduce, e non diletto.”

a me, che morto son, convien menarlo
per lo ’nferno qua giù di giro in giro;
e quest’ è ver così com’ io ti parlo

Inf. VII, 88-90; XV, 91-93

Le sue permutazion non hanno triegue:
necessità la fa esser veloce;
sì spesso vien chi vicenda consegue.

Tanto vogl’ io che vi sia manifesto,
pur che mia coscïenza non mi garra,
ch’a la Fortuna, come vuol, son presto.

Par. XV, 37-48; XVII, 136-138

Indi, a udire e a veder giocondo,
giunse lo spirto al suo principio cose,
ch’io non lo ’ntesi, sì parlò profondo;
né per elezïon mi si nascose,
ma per necessità, ché ’l suo concetto
al segno d’i mortal si soprapuose.
E quando l’arco de l’ardente affetto
fu sì sfogato, che ’l parlar discese
inver’ lo segno del nostro intelletto,
la prima cosa che per me s’intese,
“Benedetto sia tu”, fu, “trino e uno,
che nel mio seme se’ tanto cortese!”.

Però ti son mostrate in queste rote,
nel monte e ne la valle dolorosa
pur l’anime che son di fama note

Par. XXX, 91-96, 103-105

Poi, come gente stata sotto larve,
che pare altro che prima, se si sveste
la sembianza non süa in che disparve,

così mi si cambiaro in maggior feste
li fiori e le faville, sì ch’io vidi
ambo le corti del ciel manifeste.

E’ si distende in circular figura,   3, 12
in tanto che la sua circunferenza
sarebbe al sol troppo larga cintura.

Purg. I, 58-60, 64-66

Questi non vide mai l’ultima sera;
ma per la sua follia le fu sì presso,
che molto poco tempo a volger era.

Mostrata ho lui tutta la gente ria;
e ora intendo mostrar quelli spirti
che purgan sé sotto la tua balìa.

Par. I, 22-27

O divina virtù, se mi ti presti
tanto che l’ombra del beato regno
segnata nel mio capo io manifesti,
vedra’mi al piè del tuo diletto legno
venire, e coronarmi de le foglie
che la materia e tu mi farai degno.

Par. XVIII, 76-81, 88-90

sì dentro ai lumi sante creature
volitando cantavano, e faciensi
or D, or I, or L in sue figure.
Prima, cantando, a sua nota moviensi;
poi, diventando l’un di questi segni,
un poco s’arrestavano e taciensi.

Mostrarsi dunque in cinque volte sette
vocali e consonanti; e io notai
le parti sì, come mi parver dette.

Par. XXI, 118-120

Render solea quel chiostro a questi cieli
fertilemente; e ora è fatto vano,
sì che tosto convien che si riveli.

Par. XXXIII, 55-57

Da quinci innanzi il mio veder fu maggio
che ’l parlar mostra, ch’a tal vista cede, [*]
e cede la memoria a tanto oltraggio.

[*] Rispetto alla variante “che ’l parlar nostro” è da rilevare che vedere e mostrare sono verbi tipici dell’esegesi apocalittica: la rivelazione, o visione, vene mostrata a Giovanni “per signa figuralia” affinché la manifesti, come dice Cacciaguida a Dante (Par. XVII, 128).

[LSA, cap. I, Ap 1, 1.3 (prohemium, titulus)] “Apocalipsis Ihesu Christi” (Ap 1, 1). Liber iste dividitur in exordium seu prohemium et narrationem et conclusionem. Narratio autem incipit ibi (Ap 1, 9): “Ego Iohannes frater vester”. Conclusio vero circa finem libri, ibi (Ap 22, 6): “Et dixit michi: Hec verba fidelissima sunt et vera”. In prohemio autem et conclusione commendat et magnificat prophetiam huius libri, ut sit susceptibilior et fide dignior et ut attentius et amabilius ac timoratius suscipiatur.
In titulo autem explicatur quadruplex causa huius libri, scilicet formalis, quia est per revelationem traditus propter quod vocatur “apocalipsis”, et est nomen grecum et est idem quod revelatio latine (ab apo, quod est re, et calipso, quod est velo seu operio).
Potest autem hic sumi revelatio tam pro actu revelantis quam pro actu suscipientis seu videntis quam pro obiecto, id est pro re visa et revelata in quantum subest tali actui, id est in quantum est revelata.
Nota etiam quod potius dicit revelatio quam visio, quia magis significat donum et gratiam revelantis et archanam occultationem eius, nisi dono Dei eius velamen auferatur  seu aperiatur.
Nota etiam quod hoc nomen grecum, scilicet “apocalipsis”, remansit hic non interpretatum latine in signum singularis arduitatis et reverentie huius revelationis, sicut ‘amen’ et ‘alleluia’ non sunt apud nos ex hebreo in latinum interpretata in signum sacre reverentie eorum.
Tangit etiam causam efficientem quadruplicem. Principalis enim est Deus, secundaria Christus in quantum homo, media vero angelus, proxima vero Iohannes. Et ideo dicit quod est “apocalipsis Ihesu Christi” (Ap 1, 1), id est a Ihesu Christo facta, “quam dedit illi Deus”, scilicet Pater et tota Trinitas; “dedit”, inquam, non solum ut eam sciret, sed etiam “palam facere”, id est ad manifestandum, “servis suis que oportet fieri cito”.
In quo tangit causam materialem, quia est de futuris que non ex absoluta necessitate, sed respectu infallibilitatis divine prescientie et respectu utilitatis ac necessitatis ecclesie et respectu iustitie Dei retributive et respectu malitie reproborum, “oportet fieri”.
Dicit autem “cito”, tum quia indistanter sunt inchoanda et absque interpolatione continuanda et consumanda, tum quia totum tempus eternitati comparatum est sicut momentum, tum quia respectu priorum seculorum computatur totum tempus nove legis pro una hora novissima, secundum illud Iohannis epistule prime sue capitulo secundo: “novissima hora est” (1 Jo, 2, 18).
Subdit etiam causam mediam ac deinde proximam, dicens: “et significavit”, scilicet Christus, id est revelavit vel per signa figuralia demonstravit, scilicet predicta, “mittens”, id est denuntians ea, “per angelum suum servo suo Iohanni”. […]
Ostensa igitur causa formali et effectiva et materiali, subdit de causa finali, que est beatitudo per doctrine huius libri intelligentiam et observantiam obtinenda. Unde subdit (Ap 1, 3): “Beatus qui legit” et cetera. Quantum ad ea que proprio visu vel per propriam investigationem addiscimus, dicit: “qui legit”; quantum vero ad ea que per auditum et alterius eruditionem addiscimus, dicit: “qui audit”. Primum etiam magis spectat ad litteratos vel ad doctores, qui aliis legunt et exponunt; secundum vero ad laicos vel auditores.
Quia vero ad salutem non sufficit solum addiscere vel scire, nisi serventur in affectu et opere, ideo subdit: “et servat ea”. Quedam enim ibi scribuntur ut a nobis agenda, quedam vero ut credenda et speranda vel metuenda, et sic omnia sunt a nobis servanda vel agendo illa vel credendo ea cum caritate et spe vel timore. Quod autem talis beatus sit, nunc in spe et merito et tandem cito in premio, ostendit subdens: “Tempus enim”, scilicet future retributionis, “prope est”, quasi dicat: observans cito remunerabitur, et non observans cito dampnabitur, et ideo quoad utrumque beatus est qui hec observat.

Convivio, I, ii, 12.14 (ed. a cura di Franca Brambilla Ageno, Firenze 1995 [Le opere di Dante Alighieri. Edizione Nazionale a cura della Società Dantesca Italiana]).
Veramente, al principale intendimento tornando, dico [che], come è toccato di sopra, per necessarie cagioni lo parlare di sé è conceduto: ed in tra l’altre necessarie cagioni due sono più manifeste. […] L’altra è quando, per ragionare di sé, grandissima utilitade ne segue altrui per via di dottrina; e questa ragione mosse Agustino nelle sue Confessioni a parlare di sé, ché per lo processo della sua vita, lo quale fu di [meno] buono in buono, e di buono in migliore, e di migliore in ottimo, ne diede essemplo e dottrina, la quale per [altro] sì vero testimonio ricevere non si potea.

Purg. XXXI, 133-145

“Volgi, Beatrice, volgi li occhi santi”,
era la sua canzone, “al tuo fedele
che, per vederti, ha mossi passi tanti!
Per grazia fa noi grazia che disvele
a lui la bocca tua, sì che discerna

la seconda bellezza che tu cele”.
O isplendor di viva luce etterna,
chi palido si fece sotto l’ombra
sì di Parnaso, o bevve in sua cisterna,
che non paresse aver la mente ingombra,
tentando a render te qual tu paresti
là dove armonizzando il ciel t’adombra,
quando ne l’aere aperto ti solvesti?

Par. III, 46-48, 58-63

I’ fui nel mondo vergine sorella;
e se la mente tua ben sé riguarda,
non mi ti celerà l’esser più bella

Ond’ io a lei: “Ne’ mirabili aspetti
vostri risplende non so che divino
che vi trasmuta da’ primi concetti:
però non fui a rimembrar festino;
ma or m’aiuta ciò che tu mi dici,
sì che raffigurar m’è più latino”.

Par. XXIX, 130-135

Questa natura sì oltre s’ingrada
in numero, che mai non fu loquela
né concetto mortal che tanto vada;
e se tu guardi quel che si revela
per Danïel, vedrai che ’n sue migliaia

determinato numero si cela.

Par. XVII, 127-128; XXV, 94-96

Ma nondimen, rimossa ogne menzogna,
tutta tua visïon fa manifesta

e ’l tuo fratello assai vie più digesta,
là dove tratta de le bianche stole,
questa revelazion ci manifesta.

Par. VII, 7-16

ed essa e l’altre mossero a sua danza,
e quasi velocissime faville
mi si velar di sùbita distanza.
Io dubitava e dicea ‘Dille, dille!’
fra me, ‘dille’ dicea, ‘a la mia donna
che mi diseta con le dolci stille’.
Ma quella reverenza che s’indonna
di tutto me, pur per Be e per ice,
mi richinava come l’uom ch’assonna.
Poco sofferse me cotal Beatrice ……

In titulo autem explicatur quadruplex causa huius libri, scilicet formalis, quia est per revelationem traditus propter quod vocatur “apocalipsis”, et est nomen grecum et est idem quod revelatio latine (ab apo, quod est re, et calipso, quod est velo seu operio). […] Ostensa igitur causa formali et effectiva et materiali, subdit de causa finali, que est beatitudo per doctrine huius libri intelligentiam et observantiam obtinenda. Unde subdit (Ap 1, 3): “Beatus qui legit” et cetera.

Par. XII, 80-81

oh madre sua veramente Giovanna,
se, interpretata, val come si dice!

Par. XXX, 34-36

Cotal qual io la lascio a maggior bando
che quel de la mia tuba, che deduce
l’ardüa sua matera terminando

Nota etiam quod potius dicit revelatio quam visio, quia magis significat donum et gratiam revelantis et archanam occultationem eius, nisi dono Dei eius velamen auferatur  seu aperiatur. Nota etiam quod hoc nomen grecum, scilicet “apocalipsis”, remansit hic non interpretatum latine in signum singularis arduitatis et reverentie huius revelationis, sicut ‘amen’ et ‘alleluia’ non sunt apud nos ex hebreo in latinum interpretata in signum sacre reverentie eorum.

 

Purg. XXX, 55-75, 136-138; XXXI, 1-6

Dante, perché Virgilio se ne vada,
non pianger anco, non piangere ancora;
ché pianger ti conven per altra spada”.
Quasi ammiraglio che in poppa e in prora
viene a veder la gente che ministra
per li altri legni, e a ben far l’incora;
in su la sponda del carro sinistra,
quando mi volsi al suon del nome mio,
che di necessità qui si registra,
vidi la donna che pria m’appario
velata sotto l’angelica festa,
drizzar li occhi ver’ me di qua dal rio.
Tutto che ’l vel che le scendea di testa,
cerchiato de le fronde di Minerva,
non la lasciasse parer manifesta,
regalmente ne l’atto ancor proterva
continüò come colui che dice
e ’l più caldo parlar dietro reserva:
“Guardaci ben! Ben son, ben son Beatrice.
Come degnasti d’accedere al monte?
non sapei tu che qui è l’uom felice?”. … … …
Tanto giù cadde, che tutti argomenti
a la salute sua eran già corti,
fuor che mostrarli le perdute genti.

“O tu che se’ di là dal fiume sacro”,
volgendo suo parlare a me per punta,
che pur per taglio m’era paruto acro,
ricominciò, seguendo sanza cunta,
“dì, dì se questo è vero; a tanta accusa
tua confession conviene esser congiunta”.

[LSA, cap. XXII, Ap 22, 10-12 (finalis conclusio totius libri)] Loquitur autem Christus primo ut contestator propinquitatis sui adventus ad iudicium, de quo paulo ante dixit angelus: “Tempus enim prope est” (Ap 22, 10). Et continuat se ad immediate premissum, ac si ironice contra malos dictum sit: “Qui nocet noceat”, quia “ecce venio cito” (Ap 22, 11-12), quasi dicat: in penam suam hoc faciet, quia ego cito veniam ad iudicandum. “Et merces mea mecum est, reddere unicuique secundum opera sua” (Ap 22, 12), id est bonis condigna premia et malis condigna supplicia. “Mea” dicit, quia merces ista est eius tamquam dantis, hominis vero est tamquam promerentis eam et recipientis. Dicit etiam “mecum”, quia causaliter seu per vim causalem est in ipso et quasi in manu eius; respectu etiam premii est in ipso substantia principalis obiecti.

Inf. X, 76; Purg. XXIX, 2; Par. V, 17-18

e sé continüando al primo detto

continüò col fin di sue parole

e sì com’ uom che suo parlar non spezza,
continüò così ’l processo santo

Purg. XXIII, 1-6

Mentre che li occhi per la fronda verde
ficcava ïo sì come far suole
chi dietro a li uccellin sua vita perde,
lo più che padre mi dicea: “Figliuole,
vienne oramai, ché ’l tempo che n’è imposto
più utilmente compartir si vuole”.

Tab. XII.2

Inf. XIV, 16-18

O vendetta di Dio, quanto tu dei
esser temuta
da ciascun che legge

ciò che fu manifesto a li occhi miei!

Inf. XV, 88-99

Ciò che narrate di mio corso scrivo,
e serbolo a chiosar con altro testo  22, 8-9
a donna che saprà, s’a lei arrivo.
Tanto vogl’ io che vi sia manifesto,
pur che mia coscïenza non mi garra,
ch’a la Fortuna, come vuol, son presto.
Non è nuova a li orecchi miei tal arra:
però giri Fortuna la sua rota
come le piace, e ’l villan la sua marra”.
Lo mio maestro allora in su la gota
destra si volse in dietro e riguardommi;
poi disse: “Bene ascolta chi la nota”.

Purg. III, 124-126, 142-144

Se ’l pastor di Cosenza, che a la caccia
di me fu messo per Clemente allora,
avesse in Dio ben letta questa faccia

Vedi oggimai se tu mi puoi far lieto,
revelando a la mia buona Costanza
come m’hai visto, e anco esto divieto

Par. X,  124-126

Per vedere ogne ben dentro vi gode
l’anima santa che ’l mondo fallace
fa manifesto a chi di lei ben ode.

Inf. VII, 94-96

ma ella s’è beata e ciò non ode:
con l’altre prime creature lieta
volve sua spera e beata si gode.

[LSA, cap. I, Ap 1, 3 (prohemium, titulus)] Ostensa igitur causa formali et effectiva et materiali, subdit de causa finali, que est beatitudo per doctrine huius libri intelligentiam et observantiam obtinenda. Unde subdit (Ap 1, 3): “Beatus qui legit” et cetera. Quantum ad ea que proprio visu vel per propriam investigationem addiscimus, dicit: “qui legit”; quantum vero ad ea que per auditum et alterius eruditionem addiscimus, dicit: “qui audit”. Primum etiam magis spectat ad litteratos vel ad doctores, qui aliis legunt et exponunt; secundum vero ad laicos vel auditores.
Quia vero ad salutem non sufficit solum addiscere vel scire, nisi serventur in affectu et opere, ideo subdit: “et servat ea”. Quedam enim ibi scribuntur ut a nobis agenda, quedam vero ut credenda et speranda vel metuenda, et sic omnia sunt a nobis servanda vel agendo illa vel credendo ea cum caritate et spe vel timore. Quod autem talis beatus sit, nunc in spe et merito et tandem cito in premio, ostendit subdens: “Tempus enim”, scilicet future retributionis, “prope est”, quasi dicat: observans cito remunerabitur, et non observans cito dampnabitur, et ideo quoad utrumque beatus est qui hec observat.

[LSA, cap. I, Ap 3, 3-4 (Ia visio, Va ecclesia)] “In mente ergo habe” (Ap 3, 3), id est attente recogita, “qualiter acceperis”, scilicet a Deo priorem gratiam, “et audieris”, ab homine scilicet per predicationem evangelicam, “et serva”, scilicet illa que per predicationem audisti et per influxum gratie a Deo primitus accepisti. Vel recogita qualiter per proprium consensum accepisti fidem et gratiam et statum eius, prout a me et a ceteris tibi predicantibus audivisti. “Et serva” ea “et penitentiam age”, scilicet de tuis malis, quasi dicat: si digne recogitaveris gratiam tibi prius impensam et qualiter prius accepisti eandem, servabis eam et penitentiam ages.
Innuit etiam per hoc quod sic fuit otiosus et torpens, quod in mente non habuit qualiter acceperit et audierit statum et gratiam sue perfectionis, et quod ideo sic corruit. Que quidem nimis correspondenter patent in hoc cursu novissimo quinti temporis ecclesiastici. […]
Deinde a predicto defectu excipit quosdam illius ecclesie, subdens: “Sed habes pauca nomina in Sardis” (Ap 3, 4). Nomina sumit pro personis quarum nomina sunt. Per nomina etiam intelligit personas merito sue sanctitatis notas Christo. Item proprium donum gratie, quod unusquisque accepit, dat cuique viro quasi proprium nomen ut cognoscatur ex nomine. Caritas autem Dei, in quantum communis omnibus bonis, dat commune nomen sanctis ut vocentur cives Iherusalem.

Inf. IX, 4

Attento si fermò com’ uom ch’ascolta

Inf. X, 97-99, 121-132

El par che voi veggiate, se ben odo,
dinanzi quel che ’l tempo seco adduce,
e nel presente tenete altro modo.

Indi s’ascose; e io inver’ l’antico
poeta volsi i passi, ripensando
a quel parlar che mi parea nemico.

Elli si mosse; e poi, così andando,
mi disse: “Perché se’ tu sì smarrito?”.
E io li sodisfeci al suo dimando.
La mente tua conservi quel chudito
hai contra te”, mi comandò quel saggio;
“e ora attendi qui”, e drizzò ’l dito:
“quando sarai dinanzi al dolce raggio
di quella il cui bell’ occhio tutto vede,
da lei saprai di tua vita il vïaggio”.

Inf. XVI, 58-60

Di vostra terra sono, e sempre mai
l’ovra di voi e li onorati nomi
con affezion ritrassi e ascoltai.

Par. XXXIII, 34-36

Ancor ti priego, regina, che puoi
ciò che tu vuoli, che conservi sani,
dopo tanto veder, li affetti  suoi.

Purg. VI, 93

se bene intendi ciò che Dio ti nota

Purg. XXV, 34-36

Poi cominciò: “Se le parole mie,
figlio, la mente tua guarda e riceve,
lume ti fiero al come che tu die.”

Par. III, 46-48, 58-63

I’ fui nel mondo vergine sorella;
e se la mente tua ben riguarda,
non mi ti celerà l’esser più bella

Ond’ io a lei: “Ne’ mirabili aspetti
vostri risplende non so che divino
che vi trasmuta da’ primi concetti:
però non fui a rimembrar festino;
ma or m’aiuta ciò che tu mi dici,
sì che raffigurar m’è più latino”.

Par. V, 40-42

Apri la mente a quel ch’io ti paleso
e fermalvi entro; ché non fa scïenza,
sanza lo ritenere, avere inteso.

Par. XIII, 1-3

Imagini, chi bene intender cupe
quel ch’i’ or vidi – e ritegna l’image,
mentre ch’io dico, come ferma rupe –

Par. XXIX, 130-135

Questa natura sì oltre s’ingrada
in numero, che mai non fu loquela
né concetto mortal che tanto vada;
e se tu guardi quel che si revela
per Danïel, vedrai che ’n sue migliaia

determinato numero si cela.

Tab. XII.3

[LSA, cap. I, Ap 1, 1 (prohemium, titulus)] Nota etiam quod potius dicit revelatio quam visio, quia magis significat donum et gratiam revelantis et archanam occultationem eius, nisi dono Dei eius velamen auferatur  seu aperiatur.
Nota etiam quod hoc nomen grecum, scilicet “apocalipsis”, remansit hic non interpretatum latine in signum singularis arduitatis et reverentie huius revelationis, sicut ‘amen’ et ‘alleluia’ non sunt apud nos ex hebreo in latinum interpretata in signum sacre reverentie eorum.
Tangit etiam causam efficientem quadruplicem. Principalis enim est Deus, secundaria Christus in quantum homo, media vero angelus, proxima vero Iohannes. Et ideo dicit quod est “apocalipsis Ihesu Christi” (Ap 1, 1), id est a Ihesu Christo facta, “quam dedit illi Deus”, scilicet Pater et tota Trinitas; “dedit”, inquam, non solum ut eam sciret, sed etiam “palam facere”, id est ad manifestandum, “servis suis que oportet fieri cito”.

[LSA, cap. IX, Ap 9, 16-17 (IIIa visio, VIa tuba)] Nota quod cum in signum maioris certitudinis voluit dicere quod predictum numerum equitum et equorum percepit tam per auditum angelice vocis quam per visum imaginum equorum et equitum sibi in visione per angelum monstratorum, nichilominus usitato more scripture appropriat auditum numero equitum, visum vero numero equorum. In quo et innuit apprehensionem equitum esse subtiliorem et secretiorem quam apprehensionem equorum; auditu enim percipimus multa intelligibilia que nequeunt a nobis visibiliter sentiri et palpari.

[LSA, cap. I, Ap 1, 9 (premittit septem generales et laudabiles circumstantias visionum sequentium)] Secunda circumstantia est idoneitas loci, unde subdit: “Fui in insula que appellatur Patmos”. Ecce quod locus erat divinis contemplationibus et visionibus aptus, tamquam remotus et quietus et secretus ac deliciis et divitiis carnalibus vacuus. Est autem Patmos insula Grecie et interpretatur separati hostes, vel separatio palpantium, et congruit huic misterio quia in excessu contemplationis sunt hostes spiritus et palpantes, id est sensuales et carnales, separati. Secundum Papiam autem interpretatur fretum vel vorago, quia fervor et vorago persecutionum multum confert ad sublevationem spiritus in divina.

Inf. XXXIV, 127-129

Luogo è là giù da Belzebù remoto
tanto quanto la tomba si distende,

che non per vista, ma per suono è noto 

Purg. XVI, 34-36

“Io ti seguiterò quanto mi lece”,
rispuose; “e se veder fummo non lascia,
l’udir ci terrà giunti in quella vece”.

Purg. XXIII, 37-48, 61-63, 112-114

Già era in ammirar che sì li affama,
per la cagione ancor non manifesta
di lor magrezza e di lor trista squama,

ed ecco del profondo de la testa
volse a me li occhi un’ombra e guardò fiso;
poi gridò forte: “Qual grazia m’è questa?”.
Mai non l’avrei riconosciuto al viso;
ma ne la voce sua mi fu palese
ciò che l’aspetto in sé avea conquiso.
Questa favilla tutta mi raccese
mia conoscenza a la cangiata labbia,
e ravvisai la faccia di Forese.

Ed elli a me: “De l’etterno consiglio
cade vertù ne l’acqua e ne la pianta
rimasa dietro, ond’ io sì m’assottiglio”.

Deh, frate, or fa che più non mi ti celi!
vedi che non pur io, ma questa gente
tutta rimira là dove ’l sol veli.

Tab. XII.4

[LSA, cap. I, Ap 1, 1-2 (prohemium, titulus)] Nota etiam quod ex hoc quod dicit eam sibi esse datam “palam facere”, docet duo. Primum est quod multa dantur et revelantur non ad ali<is> revelandum nec cum auctoritate propalandi ea, immo cum precepto vel debito ea secrete servandi.
Secundum est quod illa que hic revelantur sunt sic archana et incomprehensibilia, quod ex singulari gratia datum et concessum est Christo a Deo quod ipse propalaret ea suis. Nota etiam quod dicit “servis suis”, quasi dicat: non est datum ea revelare superbis Phariseis, nec incredulis Iudeis, nec perversis christianis. Non enim debent sancta canibus dari vel porcis (cfr. Mt 7, 6).
Subditur etiam fide dignitas persone Iohannis, ut sibi facilius et firmius credatur. Unde ait (Ap 1, 2): “Qui testimonium perhibuit verbo Dei”, id est deitati et eterne generationi Filii Dei, “et testimonium Ihesu Christi”, scilicet quoad eius humanitatem, testificando scilicet “quecumque vidit”, scilicet de Christo. Et hoc sive visu corporali sive spirituali. Oculis enim carnis “vidit” opera corporalia et miracula Christi, oculis vero contemplationis mentalis “vidit”, id est intellexit, deitatem eius, quasi dicat: illi et per illum sunt hec revelata, qui tamquam Christi apostolus per evidentiam facti ecclesiis, quibus scribit, expertam et notam fideliter predicavit veritatem utriusque nature Christi, divine scilicet et humane, ac gestorum vite et doctrine Christi.

Inf. II, 31-33; III, 72-75

Ma io, perché venirvi? o chi ’l concede?
Io non Enëa, io non Paulo sono;
me degno a ciò né io né altri ’l crede.

per ch’io dissi: “Maestro, or mi concedi
ch’i’ sappia quali sono, e qual costume

le fa di trapassar parer sì pronte,
com’ i’ discerno per lo fioco lume”.

Inf. V, 118-120

Ma dimmi: al tempo d’i dolci sospiri,
a che e come concedette amore
che conosceste i dubbiosi disiri?

Inf. XXIX, 11-12

lo tempo è poco omai che n’è concesso,
e altro è da veder che tu non vedi.

Par. XVI, 142-147

Molti sarebber lieti, che son tristi,
se Dio t’avesse conceduto ad Ema
la prima volta ch’a città venisti.
Ma conveniesi, a quella pietra scema
che guarda ’l ponte, che Fiorenza fesse
vittima ne la sua pace postrema.

[Ap 1, 1] In quo tangit causam materialem, quia est de futuris que non ex absoluta necessitate, sed respectu infallibilitatis divine prescientie et respectu utilitatis ac necessitatis ecclesie et respectu iustitie Dei retributive et respectu malitie reproborum, “oportet fieri”.

Par. XXI, 52-54

E io incominciai: “La mia mercede
non mi fa degno de la tua risposta;
ma per colei che ’l chieder mi concede  …”.

Par. V, 109-120

Pensa, lettor, se quel che qui s’inizia
non procedesse, come tu avresti
di più savere angosciosa carizia;
e per te vederai come da questi
m’era in disio d’udir lor condizioni,
sì come a li occhi mi fur manifesti.
“O bene nato a cui veder li troni
del trïunfo etternal concede grazia
prima che la milizia s’abbandoni,

del lume che per tutto il ciel si spazia
noi semo accesi; e però, se disii
di noi chiarirti, a tuo piacer ti sazia”.

[LSA, cap. VII, Ap 7, 8 (IIa visio, apertio VIi sigilli)] Post hoc autem duodecimo ascenditur ad extaticam contemplationem et pacem que exsuperat omnem sensum, per quam quidem tota mens moritur sibi ipsi et huic vite ut transeat ad dexteram Dei, et hec designatur per Beniamin, qui in Psalmo dicitur “adol[es]centulus in mentis excessu” (Ps 67, 28), et qui interpretatur filius dextere dictusque est primo a matre Bennoni, id est filius doloris, quia in partu eius obiit pro dolore (cfr. Gn 35, 18).

Purg. III, 73-75; V, 58-63

“O ben finiti, o già spiriti eletti”,
Virgilio incomiciò, “per quella pace
ch’i’ credo che per voi tutti s’aspetti …”.

E io: “Perché ne’ vostri visi guati,
non riconosco alcun; ma s’a voi piace
cosa ch’io possa, spiriti ben nati,
voi dite, e io farò per quella pace
che, dietro a’ piedi di sì fatta guida,

di mondo in mondo cercar mi si face”.

Par. XXV, 55-57

però li è conceduto che d’Egitto
vegna in Ierusalemme per vedere,
anzi che ’l militar li sia prescritto.

Tab. XII.5

[LSA, cap. I, Ap 1, 19 (Ia visio)] “Scribe ergo que vidisti” (Ap 1, 19). Hec est tertia pars visionis, in qua ponitur visio Christi mandantis Iohanni quod scribat et mittat ecclesiis totam hanc visionem, specificans duo ex scribendis, ibi: “Misterium septem stellarum”, et exponens illa ibi: “Septem stelle” et cetera (Ap 1, 20).
Dicit igitur: “Scribe ergo”, tamquam concludens ex premissis quod fiducialiter et indubitanter debet scribere, et etiam tamquam obligatus obedire preceptori tante auctoritatis et potestatis.
Subdit autem tria scribenda.
Quorum primum respicit tempus preteritum, scilicet “que vidisti”, puta misterium incarnationis et predicationis ac passionis et resurrectionis et universalis principatus Christi et consimilia.
Secundum vero respicit presens tempus, scilicet “que sunt”.
Tertium vero respicit futurum tempus, scilicet “et que oportet fieri post hec”. Illa enim, que ab initio conceptus et ortus Christi usque ad illud tempus Iohannis precesserant, describuntur quasi sub prima parte visionis huius libri, ac deinde presentia et fienda usque ad finem seculi.
Signanter autem ponit hic tria tempora sicut et supra, cum ait: “qui est et qui erat et qui venturus est” (Ap 1, 4), quia perfecta contemplatio operum Dei et Dei in suis operibus exigit speculationem preteritorum, presentium et futurorum.
Item signanter dicit “que oportet fieri” (Ap 1, 19), tum ut monstret quod liber iste non est de futuris inutilibus aut preter necessariis aut propter suam contingentiam fallibilibus seu a suo eventu frustrandis, sed de valde expedientibus et necessariis ecclesie Dei et de infallibilibus. Nota etiam ex hoc patere librum istum tractare de fiendis ab initio Christi et ecclesie usque ad finem mundi, et hoc ipsum patet ex hoc quod supra in titulo dixit, quod est de hiis “que oportet fieri cito” (Ap 1, 1), et etiam ex hoc quod Christum introdu<x>it ut “alpha et o”, id est ut principium et finem (Ap 1, 8).

[Ap 1, 1] In quo tangit causam materialem, quia est de futuris que non ex absoluta necessitate, sed respectu infallibilitatis divine prescientie et respectu utilitatis ac necessitatis ecclesie et respectu iustitie Dei retributive et respectu malitie reproborum, “oportet fieri”.

[LSA, cap. I, Ap 1, 11 (premittit septem generales et laudabiles circumstantias visionum sequentium)] “Quod vides” (Ap 1, 11), id est quod visurus es et videre iam cepisti, “scribe in libro”, id est fac inde librum sollempnem, “et mitte septem ecclesiis”. Secundum correctores peritos “que sunt in Asia” non est hic de textu, sed subintelligitur ex hoc quod positum fuit supra. Specificat autem nomina ecclesiarum dicens: “Ephesum”, id est ad Ephesum, et est sicut dicimus ‘vado Romam’. Nota quod per has septem designatur universalis ecclesia non solum propter septem status sepius memoratos, sed etiam propter septiformem spiritum quo tota ecclesia sanctificatur.

[LSA, cap. XXI, Ap 21, 5 (VIIa visio)] Quia etiam hec sunt ad credendum arduissima et tamen necessarissima, ideo pro eorum firma et indubitabili fide dignitate subditur (Ap 21, 5): “Et dixit michi: Scribe”, scilicet hec in libro autentico, “quia hec verba fidelissima sunt et vera”, quasi dicat: non solum verbo, sed etiam scripto autentico et diu duraturo hec ex mea auctoritate imprime et confirma in cordibus discipulorum.

Purg. XXXII, 103-105; XXXIII, 55-57

Però, in pro del mondo che mal vive,
al carro tieni or li occhi, e quel che vedi,
ritornato di là, fa che tu scrive.

E aggi a mente, quando tu le scrivi,
di non celar qual hai vista la pianta
ch’è or due volte dirubata quivi.

Par. XVII, 37-42, 127-128

La contingenza, che fuor del quaderno
de la vostra matera non si stende,
tutta è dipinta nel cospetto etterno;
necessità però quindi non prende
se non come dal viso in che si specchia
nave che per torrente giù discende.

Ma nondimen, rimossa ogne menzogna,
tutta tua visïon fa manifesta

6. Donna, perché sì lo stempre?”.

■ (vv. 55-57) Nell’Eden Dante piange la scomparsa di Virgilio, ma alcune tra le prime parole di Beatrice lo invitano a non farlo: “non pianger anco, non piangere ancora”: “verso grondante di nonsenso grammaticale … È un singhiozzo fissato fonosimbolicamente, per solidarietà col rimproverato persistendo, e insistendo, la necessità del rimprovero” (Contini) [1]. La ripetizione dell’avverbio – come già avvenuto con Francesca, per quanto in due differenti versi – ricalca quella di «“etiam. amen” … id est vere plangent se», ad Ap 1, 7, quasi per dire che il vero pianto deve ancora venire: “ché pianger ti conven per altra spada” (Purg. XXX, 55-57). Dopo le accuse, la donna (che parla “per punta”, Purg. XXXI, 2) si aspetta una confessione, perché le memorie tristi della colpa non sono ancora “offense” dall’acqua del Lete (pungere e offendere sono variazioni su temi presenti nell’esegesi di Ap 1, 7). Confusione e paura spingono fuori dalla bocca del poeta un fioco   (amen) (Purg. XXXI, 10-15).

■ (vv. 58-60) Beatrice, apparsa nel paradiso terrestre, viene paragonata a un “ammiraglio” di una flotta, che passa di nave in nave confortando chi opera bene e rimproverando i pigri e i tardi (Purg. XXX, 58-60): nel venire, vedere e visitare imita Cristo nella sollecitudine del “pastor bonus”. Per salvare l’amico, come lei stessa afferma, è scesa al Limbo da Virgilio: “Per questo visitai  l’uscio d’i morti” (v. 139).

■ (vv. 73-81) Dinanzi alla sede divina sta il mare vitreo simile a cristallo (Ap 4, 6). È il “pelago” della Sacra Scrittura, che resta dinanzi alla Chiesa in modo che gli eletti possano in essa vedere l’aspetto del proprio volto e conoscano quali essi siano, e anche possano comprendere le cose invisibili di Dio come in un chiaro specchio e per mezzo di questo. Guardare sé stesso nella Scrittura per conoscere la propria immagine è stato già proprio del conte Ugolino, dopo che ha sentito inchiodare l’uscio dell’orribile torre e al sorgere del sole nel secondo giorno di prigionia, quando “un poco di raggio si fu messo / nel doloroso carcere”: «ond’ io guardai / nel viso a’ mie’ figliuoi sanza far motto … e Anselmuccio mio / disse: “Tu guardi sì, padre! che hai?” … e io scorsi / per quattro visi il mio aspetto stesso» (Inf. XXXIII, 47-48, 50-51, 55-57). Fra i vari significati attribuiti al “mare di vetro”, si addicono al conte l’amaro e infinito patire di Cristo e, per contrasto, la tolleranza del martirio, la contrizione penitenziale. Come egli non sa sopportare le tribolazioni, ed è impaziente e si dispera mordendosi le mani per il dolore, così il guardare nei figli – che sono quattro come i Vangeli – non gli rende la vista delle cose spirituali.
Un altro attributo della Scrittura è di essere assimilata al collirio. Il tema è introdotto ad Ap 3, 18, nel corso dell’istruzione data a Laodicea, la settima delle chiese d’Asia. Il collirio, che all’inizio punge gli occhi in modo amaro e provoca le lacrime, rendendo però alla fine chiara la vista, designa l’amara compunzione dei propri peccati. Così la Scrittura è come il collirio, perché il precetto del Signore è lucente e illumina gli occhi. Ugolino guarda nel viso dei suoi figli che piangono, ma lui non piange né lacrima.
Un passo simmetrico ad Ap 4, 6 è Ap 15, 2, nella “radice” della quinta visione delle coppe (cioè nella parte proemiale di questa; cfr. la presenza dei temi nei “fuochi contemplanti” che si manifestano nel cielo di Saturno). In questo caso viene descritto lo stato sublime, il trionfo e lo zelo dei santi ai quali spetta di versare le coppe. Il mare qui è detto “vetro misto a fuoco”, e designa la contemplazione ignea, la macerazione penitenziale, l’amarezza e la tolleranza delle tribolazioni, grande e profonda come il mare, perspicua e solida come il vetro, mescolata al fuoco della fervida carità. L’acqua del mare corrisponde al senso letterale della Scrittura, il fuoco all’intelligenza spirituale e ardente. Il mare è anche l’immensa sapienza di Cristo ripiena del fuoco della carità e di zelante giustizia, l’amara e immensa passione di Cristo trasparente come vetro, mezzo che consente di contemplare le sue viscere. La selva oscura e amara in cui il poeta si è smarrito designerà pertanto anche la lettera senza lo spirito, che è “acqua perigliosa” (Inf. I, 7, 22-24). Un’acqua che s’accende (imprendëa) è invece quella del Lete, riflettendo la luce dei candelabri, specchio per la “sinistra costa” di Dante (la sinistra è il lato temporale), il quale guarda il fiume (Purg. XXIX, 67-69): sarà da intendere che si tratta di acqua purgativa della colpa, lettera mista a spirito, che induce amarezza ma rende anche pietoso temperamento che scioglie il gelo. Ai candelabri e ai seniori subentra, “a rimpetto di me da l’altra sponda”, il carro trionfale tirato dal grifone-Cristo, contenuto dai quattro animali (i quattro Vangeli). Ferma sulla sua “sponda” sinistra, Beatrice rimprovererà aspramente l’amico che si pentirà lacrimando.
Nel canto seguente, Beatrice rimprovera Dante invitandolo a guardarla: “Guardaci ben!” (Purg. XXX, 73). Il poeta guarda nel Lete, “chiaro fonte” (come il “pelago” della Scrittura) le cui acque senza “mistura alcuna” sono limpide e nulla nascondono (Purg. XXVIII, 28-30), ma vedendo la sua immagine prova tanta vergogna da distogliere gli occhi verso l’erba (Purg. XXX, 76-78). Di fronte al rimprovero della donna, che gli pare superba come la madre al figlio “perché d’amaro / sente il sapor de la pietade acerba”, Dante resta “sanza lagrime e sospiri”, gelato attorno al cuore come la neve congelata e addensata dai venti di Schiavonia che soffiano fra i rami degli alberi sul giogo d’Appennino. Il dolce canto degli angeli, che temperano l’amaro delle parole di Beatrice, scioglie però quel gelo come neve al caldo vento del sud e lo trasforma in sospiri e lacrime che sgorgano con fatica dalla bocca e dagli occhi (vv. 79-99).
Le parole della donna contengono anche i motivi della perfezione di Cristo trattata ad Ap 1, 18 (prima visione): “Io sono vivo e fui morto”, cioè per la verità e per la vostra salute, quasi dicesse: è buono per te umiliarti e morire per me, perché come io fui morto per te e fui come l’ultimo, così anche tu in ciò perverrai alla gloria. Dante avrebbe ben dovuto, come afferma Beatrice nel suo rimprovero, al momento della prima delusione verso le cose di questo mondo causata dalla morte della sua donna, levarsi dietro a lei che non era più cosa mortale (Purg. XXXI, 55-57). Il “bene possum te a morte ad vitam eternam sublevare” è motivo che risuona anche nell’espressione “Guardaci ben! Ben son, ben son Beatrice”, con cui la donna apparsa nell’Eden si rivolge, “regalmente ne l’atto ancor proterva”, al suo amico (Purg. XXX, 70-73; cfr. Ap 5, 1) [2].
Lo sdegno di Beatrice appena apparsa nell’Eden (“tamquam contra illud quod digne vel dignative tolerare nequimus”) assume per Dante, che si è ‘degnato’ di accedere alla montagna dove l’uomo è felice, il sapore amaro della pietà acerba: di fronte alla sua donna egli sostiene il giudizio della propria interiore Babilonia (Purg. XXX, 74, 79-81: degnasti ha il valore di essersi ritenuto degno, pur non essendolo, e ciò genera amara e acerba indignazione; cfr. Ap 16, 19).

■ (vv. 70-75, 79-102) La quarta perfezione di Cristo sommo pastore consiste nella reverenda e preclara maturità del consiglio, designata dalla senile e gloriosa canizie del capo e dei crini, per cui si dice: “il suo capo e i suoi capelli erano candidi come lana bianca e come neve” (Ap 1, 14). Il capo costituisce la cima della mente e della sapienza; i capelli indicano la moltitudine e l’ornato dei sottilissimi e spiritualissimi pensieri e affetti, oppure la pienezza dei doni dello Spirito Santo che adornano la cima della mente.

I capelli di Cristo sono bianchi come lana e come neve. La lana lenisce col calore, è molle, temperata e soave nel candore; la neve è fredda, congelata, rigida e intensa nel candore non sostenibile alla vista, ma è anche umore che purga e impingua la terra. Così la sapienza di Cristo è da una parte calda per la pietà e condescensiva in modo contemperato alle nostre facoltà; è dall’altra astratta, rigida e intensa, ma anche purgativa delle colpe e impinguativa della nostra eredità.
L’esegesi della quarta perfezione si distingue pertanto in due parti, la prima strettamente connessa con i capelli, la seconda mostra invece una duplice proprietà nella sapienza di Cristo.
Questa duplice prerogativa assume diversi significati portati da parole: nixfrigiditasalgorrigorrigidaabstractacandor intensior nostroque visui intolerabilior, per indicare il lato che si potrebbe chiamare duro della sapienza divina; lanacalormollitiescondescensivacontemperativapietate calefactivacandor contemperantior, per designarne invece il lato pietoso e temperato. Inoltre il lato duro, indicato dalla neve, non si mostra solo freddo e rigido, ma anche purgativo e impinguativo, per cui la sapienza divina è sordium purgativa nostreque hereditatis impinguativa.
Beatrice (Purg. XXX, 70-81), nel suo apparire a Dante nel paradiso terrestre, si presenta dapprima come “proterva”, cioè altera e rigida. Come una madre al figlio rimproverato “par superba … perché d’amaro / sente il sapor de la pietade acerba”, così la donna riprende (vv. 73-75) le prime parole di rimprovero (vv. 55-57) – “continüò come colui che dice / e ’l più caldo parlar dietro reserva”. Beatrice mostra il lato astratto della sapienza di Cristo, ma nello stesso tempo di lei si anticipa il lato pietoso: il “più caldo parlar” può essere riferito sia alle seconde parole, più dure delle prime, ma anche a quelle, assai più temperate ed espresse con pietà non acerba, che pronuncerà in seguito, dopo il pentimento di Dante. Il contrasto tra il gelido rigore e il caldo pietoso e temperato percorre infatti i versi che seguono.
Beatrice tace, e gli angeli cantano “In te, Domine, speravi ”, cioè il salmo XXX, ma solo i primi nove versetti, perché dopo “pedes meos” David chiede misericordia a Dio nelle proprie tribolazioni, cosa che sarebbe fuor di luogo per Dante (vv. 82-84). Gli angeli sono “dolci tempre” (v. 94), “sustanze pie” (v. 101): ad essi è appropriato il lato pietoso della sapienza di Cristo.
Alle parole proterve e superbe della donna il cuore del poeta si congela come la neve tra gli alberi d’Appennino quando è “soffiata e stretta da li venti schiavi”, cioè del nord-est, e tale resta fino all’ascolto del canto pietoso degli angeli che paiono partecipare del suo dramma [3] e dire a Beatrice: “Donna, perché sì lo stempre?”, cioè perché gli togli vigore con le tue parole non temperate? Poi, come la neve si liquefa allo spirare del caldo vento meridionale che proviene dall’Africa (“la terra che perde ombra”), così il gelo stretto attorno al cuore del poeta si scioglie in “lacrime e sospiri”, “spirito e acqua”, “e con angoscia / de la bocca e de li occhi uscì del petto” (vv. 85-99). Anche Dante dunque partecipa dei due lati, rigido e aperto, della sapienza di Cristo.
È da notare la compresenza di alcune parole nella ristretta parte di esegesi e nel ristretto numero di versi: la neve e il congelarsi, il caldo, la pietà, il contemperare. Il significato originario non cambia, anche se quanto nell’esposizione scritturale è concentrato solo su Cristo è in poesia diffuso su tre soggetti, Beatrice, gli angeli e Dante. Bisogna anche dire che se la neve e il gelo sono accostati già nel parlare comune, e nell’ambito di questo sono altresì contrapponibili al caldo e al temperato, non appartiene del tutto al comune sentire acquisito nel linguaggio accostare la pietà al caldo e al temperare in contrapposizione al gelo.
Sarebbe ancora da notare che i piedi e il liquefarsi (vv. 84, 88) sono parole che compaiono nella sesta prerogativa di Cristo come sommo pastore, che concerne la vita attiva e l’operare, per cui si dice: “e i suoi piedi simili all’oricalco, come nel crogiolo ardente” (Ap 1, 15). L’oricalco (l’ottone) è assai simile all’oro, nel crogiolo si liquefa, è nitido, fiammeggiante, scintillante: così in Cristo gli atti corporei, esterni e inferiori procedevano e procedono fiammeggianti per la carità verso Dio e verso di noi, scintillanti in modo esemplare, provati durante la vita terrena nel crogiolo delle tentazioni e assai simili all’oro della sua interna e suprema carità.
Sgorgare lacrime e sospiri appartiene invece alla settima prerogativa, per cui si dice: “e la sua voce come la voce di molte acque” (Ap 1, 15), cioè come la voce di piogge inondanti e come l’impeto di fiumi e il mugghiare del mare. Questa voce di molte acque viene interpretata (in un luogo parallelo, ad Ap 14, 2) come suono di un’acqua che irriga, impingua, rinfresca con le lacrime e con sospiri ruggenti. La sapienza di Cristo, designata dalla neve, è rigida ed astratta, ma anche “sordium purgativa”.
Se Dante guarda in Beatrice e piange dinanzi a lei, la sua donna è discesa a visitare “l’uscio d’i morti”, dove ha rivolto lacrimando gli occhi lucenti a Virgilio per renderlo ancor più presto al muovere per la salute dell’amico (Inf. II, 115-117; Purg. XXVII, 136-137; XXX, 139-141). Piange, Beatrice, non solo perché donna e amante, come voleva Boccaccio. La “gentilissima” designa la Sacra Scrittura, precetto di Dio che rende lucidi gli occhi, purga, chiarisce e illumina con umiltà l’alta tragedia (cfr. Ap 3, 18). Le parole della donna sono “preghi … piangendo … porti” a colui che, come i più razionali dottori che conducevano quasi navi per il mare dei Gentili (Ap 8, 9), l’avrebbe condotto fino al paradiso terrestre (Purg. XXX, 139-141).

■ (vv. 103-105) Si considera qui l’esegesi di Ap 3, 3, parte dell’istruzione data alla chiesa di Sardi, la quinta delle sette chiese d’Asia alle quali Giovanni scrive nella prima visione. I temi di questa esegesi vengono variati in numerosi luoghi del poema, ad esempio nel sopravvenire del “diavol nero” nella bolgia dei barattieri (Inf. XXI) Se il vescovo della chiesa di Sardi, accusato di essere negligente, intorpidito e ozioso, non vigilerà correggendosi, il giudizio divino verrà da lui come un ladro, che arriva di nascosto all’improvviso, senza che egli sappia l’ora della venuta (Ap 3, 3). È giusto infatti che chi non conosce sé stesso a causa della negligenza e del torpore non conosca l’ora del proprio giudizio e sterminio. Costui non vede la luce a motivo delle sue tenebre; erroneamente crede e desidera di poter vivere a lungo nella prosperità ritenendo che il giudizio divino possa essere ritardato, e con speranza presuntuosa spera di venire infine salvato. Ma l’Apostolo dice ai Tessalonicesi che “il giorno del Signore verrà di notte come un ladro. E quando diranno: ‘pace e sicurezza’, allora verrà su di loro una repentina distruzione” (1 Th 5, 2-3). Ma ai santi non verrà come un ladro, per cui san Paolo aggiunge: “Ma voi, fratelli, non siete nelle tenebre, così che quel giorno possa sorprendervi come un ladro: voi tutti infatti siete figli della luce e del giorno. Pertanto, non dormiamo come gli altri, ma vigiliamo e restiamo sobri. Quelli che dormono, infatti, dormono di notte” (ibid., 5, 4-7). È questa una prefigurazione dell’occulto avvento e giudizio di Cristo alla fine del quinto stato e all’inizio del sesto, che verrà spiegato all’apertura del sesto sigillo (Ap 6, 12-17).
Il tema del venire come un ladro si trova in un passo simmetrico, proprio della sesta delle sette coppe che vengono versate nella quinta visione (Ap 16, 15), dove si parla di un giudizio improvviso e subitaneo, sottolineato dall’avverbio “ecce” e dal presente “venio” al posto del futuro ‘veniam’ per togliere ogni possibile stima dell’indugiare e per rendere più attenti, vigili e timorati. Inoltre si definisce beato colui che vigila e custodisce le sue vesti, cioè le virtù e le buone opere, per non andar nudo, cioè spogliato di esse, sicché tutti vedano le sue sconcezze, cioè il suo peccato e la pena piena di confusione inflitta nel giorno del giudizio.
Da questi difetti vengono escluse poche persone buone, i cui nomi sono noti a Cristo per la loro santità, per cui si dice: “Ma hai pochi nomi in Sardi” (Ap 3, 4). Il dono della Grazia, che ciascuno ha ricevuto come proprio, dà a ogni uomo un nome per il quale egli è conosciuto. La carità divina, in quanto comune a tutti i buoni, dà un comune nome ai santi, che sono così chiamati cittadini di Gerusalemme.
I motivi della veglia, del sonno, del “furare” sono congiunti nella risposta data da Beatrice nell’Eden agli angeli che cantano il Salmo 30, 1-9 – “In te, Domine, speravi” – a conforto del poeta ‘stemprato’ dalla donna, esprimendo i motivi del temperare e della pietà, propri del quinto stato, nell’essere “dolci tempre” e “sustanze pie”. Beatrice si rivolge agli angeli con le espressioni paoline che invitano i “figli della luce e del giorno” a vegliare; ad essi, che vegliano nell’eterno giorno dell’Empireo, né notte né sonno può rubare alcuna cosa che accada nel mondo degli uomini (Purg. XXX, 103-105; cfr. Par. IX, 73-75).
In Purg. XXXIII, 64-66 dormire (Ap 3, 3) e stimare (Ap 16, 15) sono congiunti nel rimprovero di Beatrice all’assonnato ingegno del poeta.
Per altre variazioni sui temi offerti dall’esegesi di Ap 3, 3 / 16, 15 cfr. la nota alle Tabelle XIV.1-2.

[1] G. CONTINI, Filologia ed esegesi dantesca  (1965) in Un’idea di Dante. Saggi danteschi, Torino 1970 e 1976, p. 141.

[2] Al v. 73 – “Guardaci ben! Ben son, ben son Beatrice” – guardaci è riferito non a Beatrice velata, ma al “chiaro fonte”, dove appunto poi guarda Dante (Ap 4, 6). I temi da Ap 1, 18  – «“et sum vivus et fui mortuus” … bene possum te a morte ad vitam eternam sublevare» – escludono varianti del tipo “Guardaci ben se ben sem Beatrice”. Beatrice parla parodiando le parole di Cristo che si dichiara vivo e capace di elevare alla vita eterna. Bene richiama la beatitudo, la causa finale dell’Apocalisse (Ap 1, 3). La tematica di Ap 1, 18 viene variata dalla donna ancora a Purg. XXXI, 55-57: “Ben ti dovevi, per lo primo strale / de le cose fallaci, levar suso / di retro a me che non era più tale”.
Al v. 70 l’accostamento, nell’esegesi ad Ap 5, 1 (chiusura del terzo sigillo), dei termini “protervas … ab ipsa regi” rende preferibile il latinismo regalmente alla forma realmente (con differente appropriazione della protervia, connessa a Beatrice anziché alla fantasia degli eretici assoggettata alla fede di Cristo).

[3] “ma poi che ’ntesi ne le dolci tempre / lor compartire a me, par che se detto / avesser: ‘Donna, perché sì lo stempre?’”. Al v. 95 compartire da parte degli angeli lo stato d’animo di Dante (nel senso di essere partecipe) è lezione preferibile a compatire (Inglese) perché di questa comprensiva. Nell’esegesi il verbo è presente ad Ap 1, 9, riferito alla tribolazione di Giovanni, partecipata ai destinatari di quanto scrive: «“Et particeps in tribulatione et regno” … id est qui vobiscum comparticipo in istis».

Tab. XIII

[LSA, cap. I, Ap 1, 14 (radix Ie visionis)] Quarta (perfectio summo pastori condecens) est reverenda et preclara sapientie et consilii maturitas per senilem et gloriosam canitiem capitis et crinium designata, unde subdit: “caput autem eius et capilli erant candidi tamquam lana alba et tamquam nix” (Ap 1, 14). Per caput vertex mentis et sapientie, per capillos autem multitudo et ornatus subtilissimorum et spiritualissi-morum cogitatuum et affectuum seu plenitudo donorum Spiritus Sancti verticem mentis adornantium designatur.
Sicut autem in lana est calor fomentativus et mollities corpori se applicans, et candor contemperatior et suavior quam in nive, sic in nive est frigiditatis et congelationis algor et rigor et candor intensior nostroque visui intolerabilior, est etiam humor sordium purgativus et terre impin-guativus. Per que designatur quod Christi sapientia est partim nobis condescensiva et sui ad nos contemperativa nostrique fomentativa et sua pietate calefactiva, partim autem est a nobis abstracta et nobis rigida nimisque intensa, nostra-rumque sordium purgativa nostreque hereditatis impinguativa. […]

[Ap 1, 15] Sexta (perfectio summo pastori condecens) est sue active seu suorum operum perfectio, unde subdit: “et pedes eius similes auricalco, sicut in camino ardenti” (Ap 1, 15). Auricalcum est es nitidissimum valde simile auro, et cum est in camino ardenti est ignitissimum ac scintillans liquefactum. Christi autem corporales seu exteriores et inferiores actus et processus fuerunt et sunt igne caritatis Dei et nostri ignitissimi et exemplariter scintillantes et etiam, dum hic viveret, in camino temptationum probati et auro sue interne et superne caritatis simillimi.

 

Purg.  XXX, 70-75, 79-102; XXXI, 7-9, 19-21, 31-33

regalmente ne l’atto ancor proterva
continüò come colui che dice
e  ’l più caldo parlar dietro reserva:
“Guardaci ben! Ben son, ben son Beatrice.
Come degnasti d’accedere al monte?
non sapei tu che qui è l’uom felice?”.

Così la madre al figlio par superba,
com’ ella parve a me; perché d’amaro
sente il sapor de la pietade acerba.
Ella si tacque; e li angeli cantaro
di sùbito ‘In te, Domine, speravi ’;
ma oltre ‘pedes meos’ non passaro.
Sì come neve tra le vive travi
per lo dosso d’Italia si congela,
soffiata e stretta da li venti schiavi,
poi, liquefatta, in sé stessa trapela,
pur che la terra che perde ombra spiri,
sì che par foco fonder la candela;
così fui sanza lagrime e sospiri 
anzi ’l cantar di quei che notan sempre

dietro a le note de li etterni giri;
ma poi che ’ntesi ne le dolci tempre
lor compartire a me, par che se detto

avesser: ‘Donna, perché sì lo stempre?’,
lo gel che m’era intorno al cor ristretto,
spirito e acqua fessi, e con angoscia
de la bocca e de li occhi uscì del petto.
Ella, pur ferma in su la detta coscia
del carro stando, a le sustanze pie
volse le sue parole così poscia:

Era la mia virtù tanto confusa,   14, 8
che la voce si mosse, e pria si spense
che da li organi suoi fosse dischiusa.

sì scoppia’ io sottesso grave carco,
fuori sgorgando lagrime e sospiri,
e la voce allentò per lo suo varco.

Dopo la tratta d’un sospiro amaro,
a pena ebbi la voce che rispuose,
e le labbra a fatica la formaro.

 

[Ap 1, 15] Septima (perfectio summo pastori condecens) est sue doctrine celebris resonantia et irrigatio fecunda, unde subdit: “et vox illius  tamquam vox aquarum multarum”, id est sicut vox pluviarum inundantium et impetus fluminum et marinorum fluctuum et rugituum, sic enim ab ipso et ab eius scripturis et doctoribus manat vox predicationis irrigantis et comminantis.
[Ap 14, 2 (IVa visio)] Secundo quod erat irrig<u>a et fecunda et ex magno et multo collegio sanctorum et plurium virtualium affectuum ipsorum procedens et concorditer unita, cum dicit: “tamquam vocem aquarum multarum”. Vox enim magne et multe pluvie est ex multis et quasi innumerabilibus guttis, proceditque quasi tamquam unus sonus et quasi ab uno sonante, et idem est de sono aquarum maris vel fluminis. Sonat etiam quasi cum irriguo pinguium et lavantium et refrigerantium lacrimarum et rugientium suspiriorum.

 

Tab. XIV.1

[LSA, cap. III, Ap 3, 3-4 (Ia visio, Va ecclesia)] Deinde comminatur eidem iudicium sibi occulte et inopinate superventurum si non se correxerit, unde subdit: “Si ergo non vigilaveris, veniam ad te tamquam fur”, qui scilicet venit latenter et ex improviso ut bona auferat et possessorem occidat. Unde subdit: “et horam nescies qua veniam ad te”. Iustum enim est ut qui se ipsum per negligentiam et torporem nescit, nesciat horam iudicii sui et exterminii. Talis etiam propter suas tenebras non videt lucem, ac erronee credit et optat se diu in prosperitate victurum et Dei iudicium diu esse tardandum, et etiam spe presumptuosa sperat se esse finaliter salvandum, propter quod Ia ad Thessalonicenses V° dicit Apostolus quod “dies Domini veniet in nocte sicut fur. Cum enim dixerint: pax et securitas, tunc superveniet eis repentinus interitus (1 Th 5, 2-3). Quibus autem, scilicet sanctis, et quare non veniet sicut fur ostendit subdens: “Vos autem, fratres, non estis in tenebris, ut vos dies illa tamquam fur comprehendat; omnes enim vos estis filii lucis et diei. Igitur non dormiamus sicut et ceteri, sed vigilemus et sobrii simus. Qui enim dormiunt nocte dormiunt” et cetera (ibid., 5, 4-7). Nota quod correspondenter prefigurat hic occultum Christi adventum et iudicium in fine quinti status et in initio sexti fiendum, prout infra in apertione sexti signaculi explicatur.
Deinde a predicto defectu excipit quosdam illius ecclesie, subdens: “Sed habes pauca nomina in Sardis” (Ap 3, 4). Nomina sumit pro personis quarum nomina sunt. Per nomina etiam intelligit personas merito sue sanctitatis notas Christo. Item proprium donum gratie, quod unusquisque accepit, dat cuique viro quasi proprium nomen ut cognoscatur ex nomine. Caritas autem Dei, in quantum communis omnibus bonis, dat commune nomen sanctis ut vocentur cives Iherusalem. “Qui non coinquinaverunt”, scilicet sordibus vitiorum et precipue carnalium, “vestimenta sua”, id est virtutes suas quibus quasi vestibus ornantur et vestiuntur, vel corpora sua que sunt quasi vestes anime, vel opera sua que sunt quasi vestes extrinsece ipsarum virtutum. “Ambulabunt mecum in albis”, scilicet vestibus, “quia digni sunt”. Per vestes albas intelligitur hic singularis candor et decor glorie correspondens merito predicte munditie. Quod autem dicit: “ambulabunt mecum”, significat gloriam singularis societatis talium cum Christo, iuxta quod infra XIIII° de virginibus dicitur quod “sequuntur Agnum quocumque ierit” (Ap 14, 4). Decet enim Christo summe puro purissimos immediatius iungi et associari. Iustum etiam est ut qui inter immundos socios mundissime vixerunt, quibus necessario aut ex sola caritate iuncti fuerunt, et quorum pravum exemplum et consortium fuit mundis continuum martirium et temptamentum, remunerentur glorioso et singulari consortio Christi.

[LSA, cap. XVI, Ap 16, 15 (Va visio, VIa phiala)] Quia vero Deus tunc ex improviso et subito faciet hec iudicia, ideo subdit: “Ecce venio sicut fur” (Ap 16, 15). Fur enim venit latenter ad furandum, ne advertat hoc dominus cuius sunt res quas furatur. Non autem dicit ‘veniam’ sed “venio”, et hoc cum adverbio demonstrandi, ut per hoc estimationem de sua mora nobis tollat et ad adventum suum nos attentiores et vigilantiores et timoratiores reddat. Ad quod etiam ultra hoc inducit per promissionem premii et comminationem sui oppositi, unde subdit: “Beatus qui vigilat et custodit vestimenta sua”, scilicet virtutes et bona opera, “ne nudus ambulet”, id est virtutibus spoliatus; “et videant”, scilicet omnes tam boni quam mali, “turpitudinem eius”, id est sua turpissima peccata et suam confusibilem penam in die iudicii sibi infligendam.

[LSA, cap. VI, Ap 6, 14-15 (apertio VIi sigilli; IVum initium)] Tunc etiam montes, id est regna ecclesie, et “insule”, id est monasteria et magne ecclesie in hoc mundo quasi in solo seu mari site, movebuntur “de locis suis” (Ap 6, 14), id est subvertentur et eorum populi in mortem vel in captivitatem ducentur. Tunc etiam, tam propter illud temporale exterminium quod sibi a Dei iudicio velint nolint sentient supervenisse, quam propter desperatum timorem iudicii eterni eis post mortem superventuri, sic erunt omnes, tam maiores quam medii et minores, horribiliter atoniti et perterriti quod preeligerent montes et saxa repente cadere super eos. Ex ipso etiam timore fugient et abscondent se “in speluncis” et inter saxa montium (cfr. Ap 6, 15-17).

 

Purg. XXX, 103-105; XXXIII, 64-66

Voi vigilate ne l’etterno die,
sì che nottesonno a voi non fura
passo che faccia il secol per sue vie

Dorme lo ’ngegno tuo, se non estima
per singular cagione essere eccelsa
lei tanto e sì travolta ne la cima. 

Par. XXVI, 70-75

E come a lume acuto si disonna
per lo spirto visivo che ricorre
a lo splendor che va di gonna in gonna,
e lo svegliato ciò che vede aborre,
nescïa è la sùbita vigilia
fin che la stimativa non soccorre

Par. XXX, 82-87, 127-132

Non è fantin che sì sùbito rua
col volto verso il latte, se si svegli
molto tardato da l’usanza sua,
come fec’ io, per far migliori spegli
ancor de li occhi, chinandomi a l’onda
che si deriva perché vi s’immegli

qual è colui che tace e dicer vole,
mi trasse Bëatrice, e disse: “Mira
quanto è ’l convento de le bianche stole!
Vedi nostra città quant’ ella gira;
vedi li nostri scanni sì ripieni,
che poca gente più ci si disira”.

Purg. IX, 34-42, 52-63

Non altrimenti Achille si riscosse,   11, 19
li occhi svegliati rivolgendo in giro
e non sappiendo là dove si fosse,
quando la madre da Chirón a Schiro
trafuggò lui dormendo in le sue braccia,
là onde poi li Greci il dipartiro;
che mi scoss’ io, sì come da la faccia
mi fuggì ’l sonno e diventa’ ismorto,
come fa l’uom che, spaventato, agghiaccia.

Dianzi, ne l’alba che procede al giorno,
quando l’anima tua dentro dormia,
sovra li fiori ond’ è là giù addorno
venne una donna, e disse: “I’ son Lucia;
lasciatemi pigliar costui che dorme;
sì l’agevolerò per la sua via”.
Sordel rimase e l’altre genti forme;
ella ti tolse, e come ’l fu chiaro,
sen venne suso; e io per le sue orme.
Qui ti posò, ma pria mi dimostraro
li occhi suoi belli quella intrata aperta;
poi ella e ’l sonno ad una se n’andaro.

Purg. XV, 136-138

ma dimandai per darti forza al piede:
così frugar conviensi i pigri, lenti
ad usar lor vigilia quando riede.

Tab. XIV.2

[LSA, cap. III, Ap 3, 3-4 (Ia visio, Va ecclesia)] Deinde comminatur eidem iudicium sibi occulte et inopinate superventurum si non se correxerit, unde subdit: “Si ergo non vigilaveris, veniam ad te tamquam fur”, qui scilicet venit latenter et ex improviso ut bona auferat et possessorem occidat. Unde subdit: “et horam nescies qua veniam ad te”. Iustum enim est ut qui se ipsum per negligentiam et torporem nescit, nesciat horam iudicii sui et exterminii. Talis etiam propter suas tenebras non videt lucem, ac erronee credit et optat se diu in prosperitate victurum et Dei iudicium diu esse tardandum, et etiam spe presumptuosa sperat se esse finaliter salvandum, propter quod Ia ad Thes-salonicenses V° dicit Apostolus quod “dies Domini veniet in nocte sicut fur. Cum enim dixerint: pax et securitas, tunc superveniet eis repentinus interitus” (1 Th 5, 2-3). Quibus autem, scilicet sanctis, et quare non veniet sicut fur ostendit subdens: “Vos autem, fratres, non estis in tenebris, ut vos dies illa tamquam fur comprehendat; omnes enim vos estis filii lucis et diei. Igitur non dormiamus sicut et ceteri, sed vigilemus et sobrii simus. Qui enim dormiunt nocte dormiunt” et cetera (ibid., 5, 4-7).

Purg. XXXIII, 43-45, 55-57, 64-66

nel quale un cinquecento diece e cinque,
messo di Dio, anciderà la fuia
con quel gigante che con lei delinque.

E aggi a mente, quando tu le scrivi,
di non celar qual hai vista la pianta
ch’è or due volte dirubata quivi.

Dorme lo ’ngegno tuo, se non estima
per singular cagione essere eccelsa
lei tanto e sì travolta ne la cima.

[LSA, cap. XVI, Ap 16, 15 (Va visio, VIa phiala)] Quia vero Deus tunc ex improviso et subito faciet hec iudicia, ideo subdit: “Ecce venio sicut fur” (Ap 16, 15). Fur enim venit latenter ad furandum, ne advertat hoc dominus cuius sunt res quas furatur. Non autem dicit ‘veniam’ sed “venio”, et hoc cum adverbio demonstrandi, ut per hoc estimationem de sua mora nobis tollat et ad adventum suum nos attentiores et vigilantiores et timoratiores reddat. Ad quod etiam ultra hoc inducit per promissionem premii et comminationem sui oppositi, unde subdit: “Beatus qui vigilat et custodit vestimenta sua”, scilicet virtutes et bona opera, “ne nudus ambulet”, id est virtutibus spoliatus; “et videant”, scilicet omnes tam boni quam mali, “turpitudinem eius”, id est sua turpissima peccata et suam confusibilem penam in die iudicii sibi infligendam.

[LSA, cap. X, Ap 10, 1 (IIIa visio, VIa tuba)] Et subdit: «Ego autem angelum istum secundum litteram aut Enoch fore puto aut Heliam. Verum, prout hoc Deus melius novit, unum dico pro certo, quod hic angelus significat personaliter magnum aliquem  predicatorem, quamvis spiritaliter ad multos viros spiritales tunc temporis futuros competenter valeat intorqueri. Sane facies angeli similis est soli, quia in hoc sexto tempore oportet Dei contemplationem in modum solis splendescere et perduci ad notitiam eorum qui designantur in Petro et Iacobo et Iohanne, id est Latinorum et Grecorum et Hebreorum, primo quidem Latinorum, deinde Grecorum, tertio Hebreorum, ut fiant novis-simi qui erant primi et e contrario». Hec Ioachim.

Purg. XXXII, 37-39, 64-82

Io senti’ mormorare a tutti “Adamo”;
poi cerchiaro una pianta dispogliata
di foglie e d’altra fronda in ciascun ramo.

S’io potessi ritrar come assonnaro
li occhi spietati udendo di Siringa,
li occhi a cui pur vegghiar costò sì caro;
come pintor che con essempro pinga,
disegnerei com’ io m’addormentai;
ma qual vuol sia che l’assonnar ben finga.
Però trascorro a quando mi svegliai,
e dico ch’un splendor mi squarciò ’l velo
del sonno, e un chiamar: “Surgi: che fai?”.
Quali a veder de’ fioretti del melo
che del suo pome li angeli fa ghiotti
e perpetüe nozze fa nel cielo,
Pietro e Giovanni e Iacopo condotti
e vinti, ritornaro a la parola
da la qual furon maggior sonni rotti,
e videro scemata loro scuola
così di Moïsè come d’Elia,
e al maestro suo cangiata stola;     3, 4
tal torna’ io ……………………

[LSA, cap. I, Ap 1, 16-17 (radix Ie visionis)] Decima (perfectio summo pastori condecens) est sue claritatis et virtutis incomprehensibilis gloria, unde subdit: “et facies eius sicut sol lucet in virtute sua”. Sol in tota virtute sua lucet in meridie, et precipue quando aer est serenus expulsa omni nube et grosso vapore, et quidem corporalis facies Christi plus incomparabiliter lucet et viget. Per hoc tamen designatur ineffabilis claritas et virtus sue divinitatis et etiam sue mentis. Splendor etiam iste sue faciei designat apertam et superfulgidam notitiam scripture sacre et faciei, ita quod in sexta etate et precipue in eius sexto statu debet preclarius radiare. In cuius signum Christus post sex dies transfiguratus est in monte in faciem solis (cfr. Mt 17, 1-8), et sub sexto angelo tuba canente videtur angelus habens faciem solis et tenens librum apertum (cfr. Ap 10, 1-2).
Undecima est ex predictis sublimitatibus impressa in subditos summa humiliatio et tremefactio et adoratio, unde subdit: “et cum vidissem eum”, scilicet tantum ac talem, “cecidi ad pedes eius tamquam mortuus” (Ap 1, 17). Et est intelligendum quod cecidit in faciem prostratus, quia talis competit actui adorandi; casus vero resupinus est signum desperationis et desperate destitutionis. Huius casus sumitur ratio partim ex intolerabili superexcessu obiecti, partim ex terrifico et immutativo influxu assistentis Dei vel angeli, partim ex materiali fragilitate subiecti seu organi ipsius videntis.

[LSA, cap. VI, Ap 6, 12 (apertio VIi sigilli)] Sicut enim Luchas inchoat Christi evangelium a sacerdotio Zacharie, cui facta est prophetica revelatio de Christo statim venturo et de Iohanne eius immediato precur-sore; Mattheus vero ab humana Christi generatione; Marchus vero a Christi et Iohannis predicatione; Iohannes vero a Verbi eternitate et eterna gene-ratione, sic hec sexta apertio sumpsit quoddam prophetale initium a revelatione abbatis et consimilium; a renovatione vero regule evangelice per servum eius Franciscum sumpsit sue generationis et plantationis initium; a predicatione vero spiri-tualium suscitandorum et a nova Babilone repro-bandorum sumet initium refloritionis seu repul-lulationis; a destructione vero Babilonis sumet ini-tium sue clare distinctionis a quinto statu et sue distincte clarificationis […]

Purg. XXXII, 52-60, 85-87

Come le nostre piante, quando casca
giù la gran luce mischiata con quella
che raggia dietro a la celeste lasca,
turgide fansi, e poi si rinovella
di suo color ciascuna, pria che ’l sole
giunga li suoi corsier sotto altra stella;
men che di rose e più che di vïole
colore aprendo, s’innovò la pianta,
che prima avea le ramora sì sole.

E tutto in dubbio dissi: “Ov’ è Beatrice?”.
Ond’ ella: « Vedi lei sotto la fronda
nova sedere in su la sua radice.

Purg. XXXIII, 103-105, 142-145

E più corusco e con più lenti passi
teneva il sole il cerchio di merigge,
che qua e là, come li aspetti, fassi

Io ritornai da la santissima onda
rifatto sì come piante novelle
rinovellate di novella fronda,
puro e disposto a salire a le stelle.

Nota alle Tabelle XIV.1-2

“Vigilia” in Dante è equivoco tra ‘veglia’ e ‘svegliarsi’. A Par. XXVI, 70-75, Dante, grazie al fulgido raggio degli occhi di Beatrice, riacquista la vista dopo essere stato abbagliato dal lume di san Giovanni. Si sente come uno che si svegli per un “lume acuto” che però non può fissare “sì nescïa è la sùbita vigilia” (dove “vigilia”, che equivale a risveglio, e “nescia” provengono da Ap 3, 3 – “Si ergo non vigilaveris … et horam nescies qua veniam ad te” -, mentre “sùbita” da Ap 16, 15 – “Quia vero Deus tunc ex improviso et subito faciet hec iudicia”), finché non viene in aiuto la virtù stimativa con la quale si acquista chiara coscienza della realtà (ad Ap 16, 15, il subitaneo venire di Cristo toglie invece ogni possibilità di ‘stimare’ l’indugio). Si tratta di una variazione che si allontana assai dai temi originari, che vengono quasi svuotati della loro drammaticità (il subitaneo arrivo del ladro); si mantiene però il concetto di qualcosa di improvviso che sopravviene e anche di un istinto alla fuga, reso dal fatto che “lo svegliato ciò che vede aborre”, cioè rifugge dal vedere perché, come notò il Buti, è colto da timore.

Altro luogo fasciato dall’esegesi teologica qui considerata è il risvegliarsi di Dante dal sonno della prima notte passata nel Purgatorio (Purg. IX, 34 sgg.). Se i motivi dello svegliarsi o del dormire non possono certo, presi da soli, essere connessi al testo della Lectura, tuttavia l’introduzione del tema del fuggire, appropriato al sonno (prefigurato dal trafugamento di Achille sottratto a Chirone dalla madre Teti, la quale recita la parte del “fur”, e portato a Sciro per impedirgli di prendere parte alla guerra di Troia) e dello scuotersi per lo spavento conducono alla ricordata apertura del sesto sigillo ad Ap 6, 12 (lo scuotersi corrisponde alla “fortis concussio” causata dal terremoto che allora si verifica, che non è solo scuotimento fisico, ma anche interiore). Come pure lo svegliarsi volgendo gli occhi attorno senza sapere il luogo in cui ci si trova è un filo tratto dal torpore che rende inconsapevoli dell’ora del giudizio di cui si parla ad Ap 3, 3. È da notare che i versi sono segnati dalla reminiscenza dell’Achilleide (I, 247-250), ma mentre Stazio sottolinea la meraviglia dell’eroe nel vedere, svegliandosi, cose sconosciute, Dante insiste sul terrore provocato dal risveglio, che è proprio quanto suggerito dall’esegesi del “fur”.
In questo spavento Dante viene confortato da Virgilio, il quale gli dice che all’alba è venuta Lucia, ha preso il suo fedele che dormiva e, come il giorno è stato chiaro, lo ha portato presso la porta del purgatorio. Il passo paolino dalla lettera ai Tessalonicesi, incastonato nell’esegesi di Ap 3, 3, distingue tra coloro che dormono e vengono sopraffatti dal ladro, e quelli che vigilano quali “filii lucis et diei”. La similitudine con Achille trafugato nel sonno dalla madre consente di dare il valore di madre anche a Lucia che prende Dante, il quale è veramente il “figlio della luce e del giorno” di cui dice san Paolo. L’“intrata aperta” (la fenditura nel balzo al là della quale è la porta del purgatorio) corrisponde alla “porta aperta” data alla sesta chiesa, Filadelfia (Ap 3, 8) e alla sesta vittoria, che è ingresso in Cristo (Ap 3, 12).

Una variazione del tema del tardare nel sùbito risveglio è ancora appropriata al poeta, che nel seguire l’invito di Beatrice a bere con gli occhi l’acqua del fiume luminoso visto nell’Empireo si paragona a un “fantin che sì sùbito rua / col volto verso il latte, se si svegli / molto tardato da l’usanza sua” (Par. XXX, 82-87). Mutata in meglio la vista, il fiume, che prima pareva nella sua lunghezza, si mostra tondo (vv. 88-90): nella rosa celeste (vv. 127-132) la donna gli mostra “’l convento de le bianche stole” (risponde all’«“ambulabunt mecum in albis”, scilicet vestibus» di Ap 3, 4) e gli  scanni già quasi tutti occupati, “che poca gente più ci si disira” (“sed habes pauca nomina in Sardis”).

Uno svegliarsi nella luce è quello provato da Dante nell’Eden dopo il rifiorire della pianta prima “dispogliata / di foglie e d’altra fronda in ciascun ramo” (Purg. XXXII, 37-39; 64-82). Qui sono presenti i temi del vigilare e del dormire, propri del tema del “fur” da Ap 3, 3, come pure l’essere spogli di virtù e buone opere, appropriata alla pianta prima che rifiorisca, da Ap 16, 15. Del ‘dirubare’ la pianta dice pure Beatrice a Purg. XXXIII, 56-58, la quale poco prima chiama la prostituta “fuia”, cioè ladra (v. 44).
Il poeta, che teme di essere abbandonato da Beatrice e non vede più il grifone, né la processione, si paragona ai tre apostoli i quali, dopo aver assistito alla trasfigurazione sul monte Tabor, ritornarono alla vita consueta, senza la presenza di Mosè e di Elia, e videro Cristo con “cangiata stola”, cioè con il solito aspetto (ad Ap 3, 4 si dice delle bianche stole). Qui il tema principale proviene da luogo esegetico del tutto diverso, cioè da Ap 10, 1. Si tratta dell’angelo della sesta tromba, che ha la faccia come il sole, di cui parla Gioacchino da Fiore, citato da Olivi:

Penso che quest’angelo, secondo la lettera, sia Enoch o Elia, come Dio meglio sa; ma affermo con certezza che questo angelo indica personalmente un grande predicatore, per quanto spiritualmente possa essere volto a indicare molti futuri uomini spirituali di quel tempo. La faccia dell’angelo è simile al sole perché in questo sesto stato è necessario che la contemplazione di Dio splenda come il sole per condurre alla verità coloro che sono designati in Pietro, Giacomo e Giovanni, cioè i Latini, i Greci e gli Ebrei, prima i Latini, poi i Greci e infine gli Ebrei, perché siano ultimi coloro che furono primi e viceversa.

È un passo che Ubertino da Casale ha poi riportato nell’Arbor vitae e che Franz Xaver Kraus ritenne connesso con il Veltro. La sua compiuta utilizzazione è tuttavia altrove. Nei versi citati che descrivono il risveglio si ritrovano, in sequenza non casuale, alcune parole dell’esegesi: “splendescere”, “perduci” e i nomi dei tre apostoli. Si deve tenere in considerazione anche il passo del capitolo primo, parallelo a quanto viene detto dell’angelo del capitolo decimo, e relativo alla decima perfezione di Cristo sommo pastore (Ap 1, 16), dove “la faccia come il sole” designa appunto l’aperta e fulgida notizia della Scrittura che avviene nel mezzogiorno del sesto stato, come la trasfigurazione avvenne dopo sei giorni. È da notare che la parola “condotti” corrisponde al “perduci” di Ap 10, 1, mentre “vinti” è da collegare ad Ap 1, 17, dove la perfezione di Cristo successiva alla decima consiste nell’umiliare chi ne guarda il volto, per cui si dice: «“et cum vidissem eum”, scilicet tantum ac talem, “cecidi ad pedes eius tamquam mortuus”».
Si deve in conclusione intendere che il risveglio del poeta designi la compiuta illuminazione di quelle genti che nel sesto stato verranno condotte a Cristo, prima le reliquie dei Gentili (Latini e Greci) e poi gli Ebrei. All’ora di mezzogiorno del sesto giorno di viaggio si chiude la seconda cantica (Purg. XXXIII, 103-105), con il poeta “rifatto sì come piante novelle / rinovellate di novella fronda” (vv. 143-144). Il sesto stato è rinnovamento della vita di Cristo e della nuova pianta seminata da Francesco nel suo Ordine, nel senso che, dopo un inizio profetico con Gioacchino da Fiore, che con la terza età dello Spirito vide in anticipo il sesto stato, si ha un secondo inizio in Francesco (nella sua conversione, avvenuta nel 1206) e un terzo nell’Ordine perfettamente disposto e maturato a predicare contro l’Anticristo, un quarto infine nell’effettiva caduta di Babylon, la Chiesa carnale (Ap 6, 12). Così il rinnovarsi della pianta prima dispogliata, una volta che il grifone vi ha legato il carro (Purg. XXXII, 52-60), è prefigurazione del Dante rinnovato, “puro e disposto a salire a le stelle”.

7. Infanzia e maturità dell’Ordine evangelico

Trattando dell’apertura del sesto sigillo (Ap 6, 12), che ha quattro diversi inizi temporali, Olivi pone la questione del perché Francesco, angelo del sesto sigillo, non fu presente personalmente nel terzo (nel momento della nuova predicazione degli Spirituali) e nel quarto inizio (la distruzione di Babylon) della sua apertura, così come Cristo visse con gli apostoli nell’inizio della nuova legge al tempo della sua predicazione e crocifissione, corrispondente al terzo inizio dell’apertura del sesto sigillo. Così anche Pietro e Paolo furono martirizzati al tempo di Nerone e di Simon Mago e in cui la Giudea venne devastata da Vespasiano inviato da Nerone, momento corrispondente al quarto inizio, nel quale la Chiesa carnale verrà percossa e appariranno l’undecimo corno della bestia (nella visione di Daniele, 7, 24), nuovo Nerone, e il grande Anticristo da tale corno esaltato come lo fu Simon Mago da Nerone. Dal tempo di Francesco (la cui conversione si colloca nel 1206) al terzo inizio (il momento in cui il suo Ordine consegue la piena maturità) trascorre infatti tutto il tredicesimo secolo.
Delle otto rationes fornite, di particolare interesse è la quarta. Cristo fu nel mondo poco tempo e infuse il suo alto spirito nei discepoli, istituendo la Chiesa, solo dopo la propria morte e resurrezione. Non ebbe bisogno di molto tempo per dotarsi della forza necessaria a sostenere la condanna da parte dei Giudei. L’Ordine evangelico rinnovato da Francesco, e il popolo da esso condotto, non poteva invece essere disposto a subire una condanna simile a quella di Cristo prima di essersi propagato e reso solenne in più generazioni (almeno due o tre).
“Il mondo m’ebbe / giù poco tempo; e se più fosse stato, / molto sarà di mal, che non sarebbe”, inizia a dire Carlo Martello, morto nel 1295 (Par. VIII, 49-51; i versi 58-78 sono una vera e propria messa in poesia dell’esegesi dell’apertura del sesto sigillo). La conformità con Cristo, nella brevità della vita, si palesa ancora nel tema, proprio della chiesa di Filadelfia (Ap 3, 7), dell’essere diletti da Cristo. Come negli attivi anacoreti del quarto stato rifulse l’amore verso Cristo, così nei contemplativi del sesto rifulge il loro essere diletti da Cristo, non diversamente da quel che si dice di Pietro, che amò Cristo, e di Giovanni, che fu prediletto da Cristo. In tal modo prerogativa del sesto è di essere disposto a ricevere e a patire, e in ciò si differenzia dagli stati precedenti, disposti a fare e a dare. È questo tema che travasa nell’amore verso il poeta – “dilectus a Christo”, per quanto fosse stato anch’egli attivo (“Assai m’amasti”) – che l’angioino avrebbe portato fino ai frutti se fosse vissuto più a lungo (vv. 55-57). Così si può dire di Stazio, il quale ha amato Virgilio, ed è stato poi da questi amato (dopo che Giovenale, arrivato nel Limbo, gli ha reso noto l’affetto: Purg. XXII, 13-18), o di Forese che molto amò la sua Nella, diletta da Dio (Purg. XXIII, 91-93).
Il tema della necessità di un lasso di tempo perché l’Ordine evangelico e il suo popolo siano disposti a ricevere l’alto spirito di Cristo è nelle parole con cui Beatrice nell’Empireo mostra a Dante il gran seggio “de l’alto Arrigo, ch’a drizzare Italia / verrà in prima ch’ella sia disposta” (Par. XXX, 133-138). Il ‘drizzare’ proviene dall’esegesi di Ap 11, 1, dove il “calamus” simile a una verga, che viene dato a Giovanni per misurare il Tempio, designa l’autorità nel governare propria dei pontefici e dei maestri, la virtù e la giustizia capace di correggere, drizzare e dirigere rettamente la Chiesa di Dio.
Ancora, come si afferma nell’ottava ratio al quesito posto ad Ap 6, 12, negli inizi del rinnovamento della vita evangelica vennero seminati errori spirituali contro di essa, i quali necessitano di tempo per emettere spine perfette e per gettare fuori tutto il veleno. Come Erode uccise i bambini per uccidere Cristo, così nell’infanzia dell’Ordine francescano il nuovo Erode costituito dai dottori carnali condannò lo stato della mendicità evangelica uccidendo molti buoni e teneri concetti. In attesa del secondo Erode, è necessario istruire gli eletti contro gli errori e le insidie, perché queste, nella tentazione ventura, feriscano di meno.
In altro luogo, ad Ap 7, 3, Olivi parla dei semi di errori già piantati e radicati nella Chiesa, poiché quasi tutti i chierici e i regolari che possiedono qualcosa in comune sembrano non sentire nulla della rinuncia evangelica ai beni. Molti poi, pur optando per questa rinuncia – effettiva o apparente -, amano e stimano a tal punto la vita rilassata arrivando a sostenere che l’uso povero, o moderatamente ristretto, delle cose debba essere escluso dal voto di perfezione evangelica.
Beatrice, rimproverando Dante nell’Eden per essersi fatto subito attrarre dopo la sua morte dal desiderio di cose terrene “per lo primo strale / de le cose fallaci”, lo tratta come un fanciullo, più ingenuo di un “novo augelletto” che almeno aspetta due o tre colpi prima di diventare esperto dei pericoli: il poeta qui impersona il cammino di tirocinio dell’Ordine francescano che deve avvenire, almeno, in due o tre generazioni (ottava ratio), fino alla perfetta età virile (seconda ratio), che è il momento in cui Dante inizia il viaggio. Così egli sta dinanzi alla donna muto e vergognoso, come un fanciullo nel pentimento, mentre Beatrice, nel chiedergli di alzare la barba, segno di virilità, usa un argomento ‘velenoso’ (Purg. XXXI, 49-75). I temi del “mal seme” e dell’infanzia sono pure presenti nel canto precedente, appropriato l’uno al “buon vigore terrestro” delle doti del poeta, l’altro agli “occhi giovanetti” della donna, diventati dopo la morte men cari e men graditi, come gli avversari della povertà evangelica sentono meno la necessità della rinuncia ai beni mondani (Purg. XXX, 118-123, 127-129) [1]. Sarà lo stesso Dante, ormai pienamente maturato, a chiedere a Cacciaguida di prepararlo alle insidie future, “ché saetta previsa vien più lenta” (Par. XVII, 27).
Come l’Italia, non disposta rispetto all’alto Arrigo, per cieca cupidigia si è resa simile “al fantolino / che muor per fame e caccia via la balia” (Par. XXX, 139-141), così Dante, rispetto a Beatrice, non ha aspettato la maturità per affrontare i pericoli e, fanciullo, ha smarrito “la diritta via”. Ma quali erano questi pericoli ai quali allude Beatrice, incontrati allorché “di carne a spirto era salita”? Nei versi essi sono presentati in varie forme: “via non vera” (Purg. XXX, 130), “imagini di ben … false” (v. 131), “memorie triste” (Purg. XXXI, 11), “fossi attraversati”, “catene” (v. 25), “agevolezze”, “avanzi” (v. 28), “le presenti cose / col falso lor piacer” (vv. 34-35), “cosa mortale” (v. 53), “cose fallaci” (v. 56), “o pargoletta / o altra novità con sì breve uso” (vv. 59-60). Questo non essere del tutto disposto, per il troppo riverire la sua donna, è ancora sottolineato da Beatrice a Purg. XXXIII, 19-21.
Beatrice fa risuonare sull’amico, nel rimproverarlo rivolgendosi agli angeli che parevano compartecipare al suo essere gelido, i motivi connessi alla “destra di Dio” che tiene il “libro scritto dentro e fuori, sia perché è nel suo pieno potere e facoltà, sia perché contiene le promesse di grazia e di gloria, e le elargizioni e preparazioni che spettano alla destra, come le avversità e le cose temporali alla sinistra. La comprensione del libro richiede una mente alta, stabile, matura, quieta e raccolta, come è proprio dell’intelligenza divina (Ap 5, 1). Dante non disponeva solo del positivo influsso delle sfere celesti (“Non pur per ovra de le rote magne, / che drizzan ciascun seme ad alcun fine / secondo che le stelle son compagne”; cfr. le parole di Brunetto Latini a Inf. XV, 55-57, che variano, come quelle di Beatrice, temi da Ap 3, 1.5, relativi al glorioso destino promesso al seme della chiesa di Sardi, qualora non demeriti, da Cristo che tiene nella destra le sette stelle). Il poeta aveva in più la Grazia, scritta nel libro tenuto nella destra di Dio: “ma per larghezza di grazie divine, / che sì alti vapori hanno a lor piova, / che nostre viste là non van vicine, / questi fu tal ne la sua vita nova / virtüalmente, ch’ogne abito destro / fatto averebbe in lui mirabil prova” (l’espressione “vita nova” si trova ad Ap 5, 9, nell’esegesi del “canticum novum”). Tanta dote gli era stata riservata, prima che il mal seme lo facesse cadere in basso, dopo la morte della sua donna (Purg. XXX, 109-117).
Beatrice non vuole solo “che m’intenda colui che di là piagne, / perché sia colpa e duol d’una misura” (vv. 107-108; cfr. Ap 14, 10: “in mensura proportionata culpe illorum). La donna agisce per volontà divina. Il libro infatti sta nella destra di Colui che siede sul trono perché contiene le leggi e i precetti del sommo imperatore e le sentenze e i giudizi del sommo giudice (Ap 5, 1). Per cui “Alto fato di Dio sarebbe rotto, / se Letè si passasse e tal vivanda / fosse gustata sanza alcuno scotto / di pentimento che lagrime spanda” (vv. 142-145).

[1] (vv. 121-129) In vita Beatrice ha sostenuto Dante con lo sguardo (per sostenere cfr. Ap 2, 3 e 15, 1); dopo la morte (“Sì tosto come in su la soglia fui / di mia seconda etade e mutai vita”: la mutazione per una vita migliore è l’effetto di un terremoto spirituale ad Ap 8, 5) “questi si tolse a me, e diessi altrui” (il verbo togliere rinvia ad Ap 2, 5, passo soggetto a numerose variazioni). La donna, nel rimproverare l’amico, fa la parodia dell’accusa che Olivi formula contro gli avversari, nell’Ordine francescano, dell’usus pauper: “Quando di carne a spirto era salita, / e bellezza e virtù cresciuta m’era, / fu’ io a lui men cara e men gradita” – “videntur minus bene sentire de evangelica abrenuntiatione huiuscemodi communium” (Ap 7, 3).

Tab. XV

[LSA, cap. VI, Ap 6, 12 (IIa visio, apertio VIi sigilli)]

[secunda ratio] Secunda ratio est quia persone Christi correspondet in sexta apertione unus ordo plurium personarum sic secundum suam proportionem augendus, sicut Christus secundum suum corpus fuit usque ad perfectam etatem viriliter auctus. […]

[quarta ratio] Quarta est quia, prout super evangelia ostendi, Christus parvo tempore debuit inter nos vivere et pauciori predicare, nec suis discipulis altum spiritum debuit dare usque post eius mortem et resurrectionem, ac per consequens nec ecclesiam suam sollempniter instituere per eosdem, nec ipse per se eguit multo tempore roborari ad sustinendum condempnationem a summis pontificibus Iudeorum et ab omnibus consentientibus eis. Nisi autem ordo evangelicus, per Franciscum renovatus, esset in multis et saltem sub duabus vel tribus generationibus propagatus et sollempnizatus, non esset nec ipse nec populus ab eo ducendus sufficienter dispositus ad  tam autenticam condempnationem condempnationi Christi consimilem subeundam. […]

[octava ratio] Octava ratio est quia spiritales errores contra regulam evangelicam oportuit prius callide et fortiter seminari et radicari antequam perfectas spinas emittant et priusquam evomant suum totale venenum. Institutio autem ordinis evangelici et regule eius dedit multis occasionem invidie et zeli amari contra ipsam et excogitandi contraria sibi. Unde et sicut primus Herodes necavit infantes ut occideret Christum infantem, sic circa primordialem infantiam huius ordinis regibus mundi devote adorantibus Christi paupertatem in ipso, novus Herodes doctorum carnalium dampnavit statum evangelice mendicitatis. Ex quo multi boni et teneri conceptus in pluribus sunt necati, isteque error varias radices misit et mittet usquequo surgat secundus Herodes, oportuit etiam, ut contra, electos per oppositum zelum et exercitium erudiri contra huiusmodi errorum fundamenta et machinamenta, ut in die temptationis minus feriantur et concutiantur a iaculis iam premissis.

[Ap 7, 3 (IIa visio, apertio VIi sigilli; septima ratio)] Septimo quia prius expedit tirones intra suos exerceri et probari, antequam mittantur longe ad universalia bella cum extrinsecis gentibus totius orbis committenda. Unde et istum ordinem Christus servavit in apostolis suis. Nam primo dixit eis: “In viam gentium ne abieritis, sed ite ad oves domus Israel” (Mt 10, 5-6). Dixit etiam: “Sedete in civitate donec induamini virtute ex alto” (Lc 24, 49).

Purg. XXX, 118-126

Ma tanto più maligno e più silvestro
si fa ’l terren col mal seme e non cólto,
quant’ elli ha più di buon vigor terrestro.
Alcun tempo il sostenni col mio volto:
mostrando li occhi giovanetti a lui,
meco il menava in dritta parte vòlto.
Sì tosto come in su la soglia fui
di mia seconda etade e mutai vita,
questi si tolse a me, e diessi altrui.

Purg. XXXI, 25-27, 43-46, 58-65, 74-75

quai fossi attraversati o quai catene
trovasti, per che del passare innanzi

dovessiti così spogliar la spene?

Tuttavia, perché mo vergogna porte
del tuo errore, e perché altra volta,
udendo le serene, sie più forte,
pon giù il seme del piangere e ascolta

“Non ti dovea gravar le penne in giuso,
ad aspettar più colpo, o pargoletta
o altra novità con sì breve uso.

Novo augelletto due o tre aspetta;
ma dinanzi da li occhi d’i pennuti
rete si spiega indarno o si saetta”.
Quali fanciulli, vergognando, muti
con li occhi a terra stannosi, ascoltando

e quando per la barba il viso chiese,
ben conobbi il velen de l’argomento.

Purg. XXXIII, 19-21

e con tranquillo aspetto “Vien più tosto”,
mi disse, “tanto che, s’io parlo teco,
ad ascoltarmi tu sie ben disposto”.

Par. VIII, 49-51

Così fatta, mi disse: “Il mondo m’ebbe
giù poco tempo; e se più fosse stato,
molto sarà di mal, che non sarebbe”.

Par. XXX, 133-141

E ’n quel gran seggio a che tu li occhi tieni
per la corona che già v’è sù posta,
prima che tu a queste nozze ceni,
sederà l’alma, che fia giù agosta,
de l’alto Arrigo, ch’a drizzare Italia      11, 1
verrà in prima ch’ella sia disposta.

La cieca cupidigia che v’ammalia
simili fatti v’ha al fantolino
che muor per fame e caccia via la balia.

[Ap 6, 12; sexta ratio] Sexta est quia sicut Christi persona et vita fuit exemplar totius ecclesie future, sic decuit quod prima pars huius ordinis usque ad excidium Babilonis esset typica imago totius partis sequentis, ut scilicet principium corresponderet principio et medium medio et terminus termino.

Monarchia III, xiv, 3: Forma autem Ecclesie nichil aliud est quam vita Cristi, tam in dictis quam in factis comprehensa: vita enim ipsius ydea fuit et exemplar militantis Ecclesie, presertim pastorum, maxime summi, cuius est pascere agnos et oves.

Par. XVII, 25-27

per che la voglia mia saria contenta
d’intender qual fortuna mi s’appressa:
ché saetta previsa vien più lenta.

Da notare, nella sesta ratio ad Ap 6, 12, l’inciso “Christi persona et vita fuit exemplar totius ecclesie future”, da confrontare con la definizione che nella Monarchia  (III, xiv, 3) Dante dà della forma della Chiesa, cioè della sua natura: “Forma autem Ecclesie nichil aliud est quam vita Cristi, tam in dictis quam in factis comprehensa: vita enim ipsius ydea fuit et exemplar militantis Ecclesie, presertim pastorum, maxime summi, cuius est pascere agnos et oves”.


Tab. XVI [l’esame di questa tabella è stato condotto altrove]

Inf. IV, 13-14

“Or discendiam qua giù nel cieco mondo”,
cominciò il poeta tutto smorto. 

Inf. VII, 40-42

Ed elli a me: “Tutti quanti fuor guerci
de la mente in la vita primaia,
che con misura nullo spendio ferci”.

Inf. X, 58-60

piangendo disse: “Se per questo cieco
carcere vai per altezza d’ingegno,
mio figlio ov’ è? e perché non è teco?”.

Inf. XII, 11-19

e ’n su la punta de la rotta lacca
l’infamïa di Creti era distesa
che fu concetta  ne la falsa vacca;
e quando vide noi, sé stesso morse,
sì come quei cui l’ira dentro fiacca.
Lo savio mio inver’ lui gridò: “Forse
tu credi che qui sia ’l duca d’Atene,
che sù nel mondo la morte ti porse?
Pàrtiti, bestia, ché questi non vene …”

Inf. XXIV, 124-126

Vita bestial mi piacque e non umana,
sì come a mul ch’i’ fui; son Vanni Fucci
bestia, e Pistoia mi fu degna tana.

Purg. XXVI, 82-87

Nostro peccato fu ermafrodito;
ma perché non servammo umana legge,
seguendo come bestie l’appetito,
in obbrobrio di noi, per noi si legge,
quando partinci, il nome di colei
che s’imbestiò ne le ’mbestiate schegge.

[LSA, cap. I, Ap 5, 1 (Ium sigillum)] Visus etiam est (liber) signatus sigillis septem plurimis ex causis, quarum ad presens tres vel quattuor assignantur subscriptis apertionibus amplius congruentes.
Prima est quia septem sunt defectus in nobis claudentes nobis intelligentiam huius libri. Primus est cecitas intellectus, tam penalis quam culpabilis quam naturalis. […] Hec autem septem non solum dicuntur sigilla quia claudunt nobis librum sapientie Dei, sed etiam quia per punitivam iustitiam Dei et etiam per permissivam sunt sigillariter nobis impressa. Ipsa enim sunt caracter et imago bestie. Hiis etiam per ordinem correspondent septem apertiones libri subscripte. Nam in prima triumphalis lux fidei, procedens a Christo quasi acuta sagitta ex archu, penetravit et illustravit cecos in tenebris sedentes. […]
Tertia ratio septem sigillorum quoad librum veteris testamenti sumitur ex septem apparenter in eius cortice apparentibus. Primum est falsitas promissionum, quia iuxta quod superficialiter sonant non sunt implete nec etiam possibiles impleri, quia impossibile est per eas hominem beatificari et satiari, quod tamen ipse promittunt. Hanc autem evacuat veritatis Christi splendor in prima apertione notatus.

[LSA, cap. XVI, Ap 16, 2 (Va visio, Ia phiala)] Unde subditur: “et factum est vulnus sevum ac pessimum”, id est turbatio ire crudelis et pessime, “in homines qui habebant caracterem bestie”, id est formam bestialis vite et intelligentie sibi impressam, “et in eos qui adoraverunt imaginem eius”. Omnes reprobi habent aliquam falsam estimationem eius <quod> prave sequuntur et amant et in quo, tamquam in Deo, suam beatitudinem estimant et querunt, et ideo id quod adorant est potius falsa imago quam realis veritas Dei et vere glorie. Est tamen realiter et veraciter bestiale; et ideo illud prout est in esti-matione eorum est imago bestie, prout vero est in re est bestia seu bestiale tamquam carens intellectu et ratione.

 

Purg. XXX, 130-132

e volse i passi suoi per via non vera,
imagini di ben seguendo false,
che nulla promession rendono intera.

BOEZIO, Cons., III, pr. 9: Haec igitur vel imagines veri boni vel imperfecta quaedam bona dare mortalibus videntur; verum autem atque perfectum bonum conferre non possunt.

Par. IV, 124-126 

Io veggio ben che già mai non si sazia
nostro intelletto, se ’l ver non lo illustra
di fuor dal qual nessun vero si spazia. 

Par. XVIII, 82-87

O diva Pegasëa che li ’ngegni
fai glorïosi e rendili longevi,
ed essi teco le cittadi e ’ regni,
illustrami di te, sì ch’io rilevi
le lor figure com’ io l’ho concette:
paia tua possa in questi versi brevi!

[LSA, cap. V, Ap 5, 1=Ap 6, 2] Secunda causa seu ratio septem sigillorum libri est quia in Christo crucifixo fuerunt septem secundum humanum sensum et estimationem abiecta, que claudunt hominibus sapientiam libri eius. In eius enim cruce et morte apparet humano sensui summa impotentia (I) et angustia (II) et stultitia (III) et inopia (IV) et ignominia (V) et inimicitia (VI) et sevitia (VII). (I – II) Vinci enim ab occisoribus et morte acerbissima cruciari aperte pretendunt impotentiam et angustiam. […] Item septem predicta videntur consimiliter esse in eius doctrina et vita. Docuit enim vitam et legem summe abiectionis et paupertatis et austeritatis et mortificationis, et quod homo non solum parentes et amicos, sed etiam se ipsum et suam vitam corporalem abneget et odiat et persequatur tamquam suos inimicos. Docuit etiam multa que sapientibus huius mundi impossibilia esse videntur, ac per consequens et stulta. […] Nam contra impotentiam est Christi resurgentis gloriosus <et> triumphalis vigor et splendor in prima apertione monstratus per sedentem in equo albo cum corona et archu exeuntem victoriosum, ut vinceret totam potentiam demonis et orbis (cfr. Ap 6, 2).

[LSA, cap. VI, Ap 6, 2 (IIa visio, apertio Ii sigilli)] In prima autem apertione apparet Christus resuscitatus sedens in equo albo, id est in suo corpore glorioso et in primitiva ecclesia per regenerationis gratiam dealbata et per lucem resurrectionis Christi irradiata, in qua Christus sedens exivit in campum totius orbis non quasi pavidus aut infirmus, sed cum summa magnanimitate et insuperabili virtute. Nam suos apostolos deduxit in mundum quasi leones animosissimos et ad mirabilia facienda potentissimos, et “habebat” in eis “archum” predicationis valide ad corda sagittanda et penetranda. […] “Et exivit vincens ut vinceret”, id est, secundum Ricardum, vincens quos de Iudeis elegit ipsos convertendo ut per eosdem vinceret, id est converteret gentiles quos predestinaverat. Vel per hoc designatur quod, quando exivit ut mundum vinceret, apparuit in ipso exitu totus victoriosus et ac si iam totus vicisset.

AVVERTENZE

Seppure segue l’ordine dei ventidue capitoli dell’Apocalisse, Olivi suggerisce, nel prologo della Lectura, un metodo differente di comprensione e di aggregazione del testo, fondato sui sette stati (status), cioè sulle epoche nelle quali si articola la storia della Chiesa, prefigurate nell’Antico Testamento.
L’Apocalisse si articola in sette visioni: le sette chiese d’Asia, i sette sigilli, le sette trombe, la donna vestita di sole (le sette guerre sostenute dalla Chiesa), le sette coppe, il giudizio di Babylon nelle sette teste del drago, la Gerusalemme celeste. Le prime sei visioni possono essere a loro volta divise in sette momenti, ciascuno dei quali riferibile a uno dei sette stati. Assembrando, per le prime sei visioni, tutti i primi elementi (chiesa, sigillo, tromba, guerra, coppa, momento del giudizio di Babylon), tutti i secondi, i terzi e così di seguito, si ottengono sette gruppi di materia teologica, corrispondenti al complesso dei temi afferenti a ciascuno dei sette stati. A questi sette gruppi si aggiungono altri due: l’esegesi della settima visione (senza articolazioni interne) e l’esegesi di capitoli del testo scritturale, o di parti di essi, introduttivi delle successive specificazioni delle singole visioni per settenari, che Olivi definisce “radicalia” o “fontalia”. Si ottengono in tal modo nove gruppi: le parti proemiali, i sette assembramenti di settenari e la settima visione. Il grande prologo della Lectura, articolato in tredici notabilia, può essere anch’esso aggregato secondo i sette stati. Un libro (la Lectura) contiene dunque princìpi e criteri affinché l’accorto lettore possa trarne un altro libro, fatto con lo stesso materiale ma ricomposto e distribuito in forma diversa.

La Commedia mostra un ordine interno diverso da quello che appare al lettore: il viaggio di Dante ha un andamento di ciclici settenari, che corrispondono ai sette stati della storia della Chiesa, cioè alle categorie con cui Olivi organizza la materia esegetica. Questo ordine interno è registrabile per zone progressive del poema dove prevale, tramite parole-chiave, la semantica riferibile a un singolo stato. È un’intima struttura dirompente i confini letterali stabiliti dai canti e da tutte le divisioni materiali per cerchi, gironi, cieli. Ogni stato, che ha differenti inizi, è concatenato per concurrentia, come le maglie di un’armatura, con quello che precede e con quello che segue. Si possono in tal modo redigere mappe che comprendano l’ordine spirituale della Commedia. La ricerca è pervenuta a una Topografia spirituale della Commedia, dove quasi per ogni verso, o gruppo di versi, collegamenti ipertestuali conducono al “panno” esegetico fornito dalla Lectura super Apocalipsim, sul quale il “buon sartore” ha fatto “la gonna” (cfr. Par. XXXII, 139-141).

■ A ogni gruppo è arbitrariamente assegnato un diverso colore: Radici (verde), I stato (verde acqua), II stato (rosso), III stato (nero), IV stato (viola), V stato (marrone), VI stato (blu), VII stato (indaco), VII visione (fucsia). Dei gruppi sono stati integralmente studiati il terzo stato e la settima visione. Rispetto alla tabella complessiva contenente i collegamenti ipertestuali, nelle sinossi i colori possono essere variati per maggiore evidenza.

Non di rado nei versi alcune parole o incisi-chiave possono rinviare a più luoghi esegetici. Questo perché il testo dottrinale contenuto nella Lectura, prima di travasarsi semanticamente nella Commedia, è stato sottoposto a una duplice riorganizzazione. La prima, sulla base delle indicazioni dello stesso Olivi, secondo il materiale esegetico attribuibile ai singoli stati. La seconda, seguendo il principio applicato nelle distinctiones ad uso dei predicatori, sulla base di lemmi analogicamente collazionati. La “mutua collatio” di parti della Lectura arricchisce il significato legato alle parole e consente uno sviluppo tematico amplificato. Si vedano, ad esempio, le variazioni eseguite sul tema della “voce” o sull’espressione “in medio”, temi più volte iterati nel sacro testo, oppure il modo con cui Ap 1, 16-17 (l’esegesi della decima e undecima prefezione di Cristo come sommo pastore) percorre i versi in collazione con altri passi. A ciò predispone lo stesso testo scritturale, poiché l’Apocalisse contiene espressioni, come Leitmotive, che ritornano più volte. È determinata da parole-chiave che collegano i passi da collazionare. È suggerita dallo stesso Olivi, nel prologo, per una migliore intelligenza del testo.

Tutte le citazioni della Lectura super Apocalipsim presenti nei saggi o negli articoli pubblicati su questo sito sono tratte dalla trascrizione, corredata di note e indici, del ms. Paris, Bibliothèque nationale de France, lat. 713, a disposizione fin dal 2009 sul sito medesimo. I passi scritturali ai quali si riferisce l’esegesi sono in tondo compresi tra “ ”; per le fonti diverse da quelle indicate si rinvia all’edizione in rete. Non viene presa in considerazione l’edizione critica a cura di WARREN LEWIS (Franciscan Institute Publications, St. Bonaventure – New York, 2015) per le problematiche da essa poste, che sono discusse in ALBERTO FORNI – PAOLO VIAN, A proposito dell’edizione di Warren Lewis della Lectura super Apocalipsim di Pietro di Giovanni Olivi. Alcune osservazioni, in “Archivum Franciscanum Historicum”, 109 (2016), pp. 99-161.
Il testo della Commedia citato è in Dante Alighieri, La Commedia secondo l’antica vulgata, a cura di GIORGIO PETROCCHI, Firenze 1994. Si tiene anche conto della recente edizione a cura di GIORGIO INGLESE, Firenze 2021 (Società Dantesca Italiana. Edizione Nazionale), qualora il testo proposto si discosti da quello del Petrocchi e la scelta della variante risulti discutibile nel confronto con la LSA.

 

ABBREVIAZIONI

Ap: APOCALYPSIS IOHANNIS.

LSA: PIETRO DI GIOVANNI OLIVI, Lectura super Apocalipsim.

Concordia: JOACHIM VON FIORE, Concordia Novi ac Veteris Testamenti. Herausgegeben von A. PATSCHOVSKY, Wiesbaden 2017 (Monumenta Germaniae Historica. Quellen zur Geistesgeschichte des  Mittelalters, 28. Band), Teil 2 (lib. I-IV), Teil 3 (lib. V).

Expositio: GIOACCHINO DA FIORE, Expositio in Apocalypsim, in Edibus Francisci Bindoni ac Maphei Pasini, Venetiis 1527, ristampa anastatica Minerva, Frankfurt a. M. 1964.

Olivi opera spesso una sintesi del testo di Gioacchino da Fiore. Le « » precedono e chiudono un’effettiva citazione. Diversamente, viene posto un asterisco (*) o una nota in apice al termine della parte riferibile a Gioacchino.

In Ap: RICCARDO DI SAN VITTORE, In Apocalypsim libri septem, PL 196, coll. 683-888.

 

Note sulla “topografia spirituale” della Commedia

Per quanto segua l’ordine dei ventidue capitoli dell’Apocalisse, Olivi suggerisce un metodo differente di comprensione e di aggregazione del testo esegetico, fondato sui sette stati, cioè sui periodi nei quali si articola la storia della Chiesa. L’Antico Testamento corrisponde alle prime cinque età del mondo, secondo la divisione tradizionale [1]: è l’età del Padre secondo Gioacchino da Fiore. Con il primo avvento di Cristo, nella carne, inizia la sesta età (l’età del Figlio), nella quale la Chiesa, come fosse un individuo, cresce e si sviluppa in sette stati. Al primo, apostolico periodo, succede il secondo dei martiri; poi, al tempo di Giustiniano, il terzo stato dei dottori che confutano con l’intelletto le eresie concorre con il quarto stato degli affettuosi anacoreti devoti al pasto eucaristico, alti per la contemplazione ma anche attivi come reggitori delle genti; a partire da Carlo Magno subentra il quinto stato aperto alla vita associata delle moltitudini, bello nel principio ma poi corrottosi fino a trasformare quasi tutta la Chiesa in una nuova Babilonia; la riforma interviene, a partire da Francesco, con il cristiforme sesto stato, fino alla sconfitta dell’Anticristo; subentra infine il silenzio e la quiete del pacifico settimo stato. Il sesto e il settimo stato (la terza età di Gioacchino da Fiore) coincidono con il secondo avvento di Cristo, nello Spirito, cioè nei suoi discepoli spirituali inviati a convertire il mondo con la predicazione; al termine del settimo stato ci sarà il terzo avvento, nel giudizio.
L’Apocalisse si articola in sette visioni: le sette chiese d’Asia, i sette sigilli, le sette trombe, la donna vestita di sole (le sette guerre sostenute dalla Chiesa), le sette coppe, il giudizio di Babylon nelle sette teste del drago, la Gerusalemme celeste. Le prime sei visioni possono essere a loro volta divise in sette momenti, ciascuno dei quali riferibile a uno dei sette stati. Assembrando, per le prime sei visioni, tutti i primi elementi (chiesa, sigillo, tromba, guerra, coppa, momento del giudizio di Babylon), tutti i secondi, i terzi e così di seguito, si ottengono sette gruppi di materia teologica, corrispondenti al complesso dei temi afferenti a ciascuno dei sette stati [2]. A questi sette gruppi se ne aggiungono altri due: l’esegesi della settima visione (senza articolazioni interne) e l’esegesi di capitoli del testo scritturale, o di parti di essi, introduttivi delle successive specificazioni delle singole visioni per settenari, che Olivi definisce “radicalia” o “fontalia”. Si ottengono in tal modo nove gruppi: le parti proemiali, i sette assembramenti di settenari e la settima visione. Il grande prologo della Lectura, articolato in tredici notabilia, può essere anch’esso aggregato nelle sue parti secondo i sette stati.

L’intenso travaso di parole-temi dalla Lectura nella Commedia si accompagna a un fatto strutturale. La Commedia mostra un ordine interno diverso da quello che appare al lettore: il viaggio di Dante ha un andamento di ciclici settenari, che corrispondono ai sette stati oliviani. È un ordine registrabile per zone progressive del poema dove prevalgono i temi di un singolo stato, che rompe i confini letterali stabiliti dai canti e da tutte le divisioni materiali per cerchi, gironi, cieli. Ogni stato, che ha differenti inizi, è concatenato per “concurrentia”, come le maglie di un’armatura, con quello che precede e con quello che segue. Ciascuno stato ha in sé una grande ricchezza di motivi e contiene inoltre temi di tutti gli altri, consentendo innumerevoli intrecci e variazioni. La Commedia appare, come l’Apocalisse, “libro scritto dentro e fuori” (Ap 5, 1), con duplice struttura, linguaggio e senso, letterale e spirituale. Il viaggio di Dante e la visione di Giovanni hanno la stessa causa finale, che è la beatitudine, alla quale si perviene con diverse guide, per gradi segnati da visioni sempre più nuove e ardue delle precedenti, attraverso una sempre maggiore apertura dell’arcano coperto dal velame dei sette sigilli fino al punto più alto in cui, in questa vita, è possibile vedere la verità.
Tutti i modi del linguaggio interiore al poema esprimono un processo, un viaggio dal più chiuso al più aperto, e in questo andare hanno una loro precisa collocazione ‘topografica’, uno ‘stato’ (nel senso di momento storico che ricade sulla coscienza individuale) al quale appartenere. Si possono in tal modo stendere vere e proprie mappe tematiche che comprendano l’ordine spirituale di tutta la Commedia che aderisce, parodiandola semanticamente, a una precisa teologia della storia, sia pure modificandone profondamente le prospettive. La ciclicità dei temi permette di stabilire collegamenti inusitati tra le diverse zone; il procedere per gradi dell’illuminazione divina fa sì che episodi oscuri e quasi ermeticamente chiusi si chiariscano poi, aprendosi all’intelligenza in modo più alto.
A ogni gruppo è arbitrariamente assegnato un diverso colore: Radici (verde), I stato (verde acqua), II stato (rosso), III stato (nero), IV stato (viola), V stato (marrone), VI stato (blu), VII stato (indaco), VII visione (fucsia). Dei gruppi sono stati integralmente studiati il terzo stato e la settima visione.

INFERNO

(le prime cinque età del mondo)

La ‘topografia spirituale’ del poema mostra nell’Inferno cinque cicli settenari corrispondenti agli stati della Chiesa descritti da Olivi e ai loro temi contenuti nella Lectura. Questi cinque cicli designano le prime cinque età del mondo (riunite a loro volta nel primo stato generale, che corrisponde all’età del Padre di Gioacchino da Fiore), in quanto prefigurazione del primo avvento di Cristo e della Chiesa.
I cinque cicli settenari che si susseguono nell’Inferno a partire dal quarto canto (i primi tre canti hanno una tematica particolare) sono preceduti da cinque zone che possono essere definite ‘snodi’, dove cioè confluiscono temi provenienti da più stati, intrecciati insieme ad altri ad avviare il procedere settenario. Il centro di questi ‘snodi’ coincide con un canto (Inf. IV, X, XVII, XXVI, XXXII), ma la zona è più vasta e supera l’ambito dato dalla divisione letterale del poema.

Inf. I-III sono da considerare al di fuori dei cicli. Inf. I e II sono profondamente segnati dai temi del sesto stato. Inf. III è riferibile al settimo stato (per gli ignavi) e in parte al quinto (per l’episodio di Caronte).

canti

I ciclo

stati

cerchi

IV

Limbo

Radici, I (I snodo)

I

V

lussuriosi

II

II

VI

golosi

III

III

VII

avari e prodighi

palude Stigia
(iracondi e accidiosi)

IIIIV

 

V

IV


V

VIII

palude Stigia (orgogliosi)
città di Dite

V

V

IX

apertura della porta di Dite

VVI

 

canti

II ciclo

stati

cerchi

IX-X-XI

eretici, ordinamento dell’inferno

I (II snodo)

VI

XII

violenti contro il prossimo

II

VII (girone 1)

XIII

violenti contro sé

III

        (girone 2)

XIV

violenti contro Dio: bestemmiatori

IV

        (girone 3)

XV-XVI

violenti contro Dio: sodomiti

V

XVI

XVII

ascesa di Gerione

Gerione,  violenti contro Dio: usurai

VI

canti

III ciclo

stati

cerchi

XVII

volo verso Malebolge

I (III snodo)

 

XVIII

ruffiani, lusingatori

Radici II

VIII (bolgia 1, 2)

XIX

simoniaci

III

(bolgia 3)

XX

indovini

IV

(bolgia 4)

XXI-XXII

barattieri

V

(bolgia 5)

XXIII

ipocriti

VVI

(bolgia 6)

XXIV-XXV

ladri

VI

(bolgia 7)

canti

IV ciclo

stati

cerchi

XXVI

consiglieri di frode (greci)

I (IV snodo)

(bolgia 8)

XXVII

consiglieri di frode (latini)

II

XXVIII-XXIX

seminatori di scandalo e di scisma

III

(bolgia 9)

XXIX

falsatori

IV

  (bolgia 10)

XXX

falsatori

IVV

XXXI

giganti

VVI

 

canti

V ciclo

stati

cerchi

XXXII

Cocito: Caina, Antenora

I (V snodo)

IX

XXXIII

Antenora, Tolomea

II

XXXIV

Giudecca

IIIIVV

XXXIV

volgersi di Virgilio sull’anca di Lucifero

VI

 

 

Il sesto stato è per Olivi la fase più importante nella costruzione dell’edificio della Chiesa. In esso “renovabitur Christi lex et vita et crux”. Corrisponde ai tempi moderni. Ha quattro diversi inizi temporali: uno profetico, con Gioacchino da Fiore, il quale lo vide in spirito concependo la sua terza età; il secondo con la conversione di Francesco (1206), che seminò la pianta; il terzo con la predicazione degli uomini spirituali, per la quale la pianta si rinnovella; il quarto con la distruzione storica di Babylon. Dura fino alla sconfitta dell’Anticristo, il cui avvento si collocherebbe, secondo i numeri della profezia di Daniele 12, 11-12 combinati con Ap 12, 6 e 14, fra il 1290 e il giubileo di pace del 1335.
Una ‘vita nuova’ si instaura nel sesto stato, per eccellenza il momento dell’imitazione di Cristo. I rami dell’albero si dilatano producendo il frutto della carità, l’acqua che proviene da Cristo-fonte attraverso il condotto che percorre i primi cinque stati della Chiesa si effonde in un lago; è il tempo, assimilato al sacramento del matrimonio, della letizia nuziale, della familiarità, dell’amicizia. Corrisponde al sesto giorno della creazione, in cui vennero creati prima i rettili e le bestie irrazionali, poi l’uomo razionale che, come l’ordine evangelico, è fatto a immagine e somiglianza di Dio e domina tutti gli animali.
Le espressioni di Olivi relative al sesto stato – “quoddam sollempne initium novi seculirenovaretur et consumaretur seculum”, nel quale il sacerdozio apostolico “redeat et assurgat ad ordinem primum”, la “nova Ierusalem”, interpretata come “visione di pace”, viene vista “descendere de celo” e la Chiesa descritta come la donna vestita di sole con la sua “virginea proles” – sono la veste spirituale dei versi della quarta egloga virgiliana che celebrano la rinnovata età dell’oro: “Magnus ab integro saeclorum nascitur ordo / iam redit et Virgo; redeunt Saturnia regna; / Iam nova progenies caelo demittitur alto” (Egloga IV, 5-7). Olivi completa la Lectura super Apocalipsim nel 1298, poco prima di morire, il 14 marzo, a Narbonne. Quel felicissimo stato segnato dalla pace sotto il divo Augusto, che rese l’umanità disposta al primo avvento di Cristo, si sta rinnovando nel sesto stato della Chiesa, nel secondo avvento nello Spirito. Scrive Arsenio Frugoni: “[…] quell’escatologismo, oltre che ideologia di lotta e di riforma del gruppo spirituale, era anche un vero e proprio sentimento storico […] una tensione di rinnovamento, una ansia di salvezza, che nel 1300, l’anno centenario della Natività, aveva trovato come una attivazione, in un senso di pienezza dei tempi, cui doveva corrispondere un fatto, un accadere meraviglioso e nuovo” [3].
All’apertura del sesto sigillo, l’eletta schiera dei riformatori – i 144.000 segnati dalle dodici tribù d’Israele – guida la turba innumerevole di ogni gente, tribù, popolo e lingua (Ap 7, 3-4.13). Questi eletti e magnanimi duci, separati dalla volgare schiera per più alta milizia, vengono destinati a difendere liberamente la fede – ad essi è data la “plena libertas ad innovandam christianam religionem” -; sono gli amici di Dio a lui noti per nome, configurati in Cristo crocifisso e votati al martirio.
All’interno della Chiesa del sesto stato, l’Ordine dei Minori – “ordo plurium personarum” – è  assimilabile alla persona umana di Cristo. Come questa si sviluppò fino all’età virile, così dovrà essere per l’ordo evangelicus piantato da Francesco, che avrà bisogno (a differenza di Cristo che stette poco tempo nel mondo) di due o tre generazioni per svilupparsi prima di subire una condanna simile a quella di Cristo [4]. La sua maturità coincide, verso il 1300, con il terzo inizio del sesto stato, cioè con il rinnovarsi per opera dello Spirito di Cristo, nel suo secondo avvento, della pianta seminata da Francesco. Questa concezione dell’Ordine francescano come individuo in sviluppo che, perfettamente maturato, diventa il novus ordo preconizzato da Gioacchino da Fiore per l’età dello Spirito, si differenzia da quella di Bonaventura, che aveva invece distinto i Francescani del proprio tempo – e quindi anche gli Spirituali – dall’Ordine finale che dominerà fino ai confini della terra. Alla terza apertura del sesto sigillo nuovi san Giovanni vengono inviati a predicare al mondo come nel tempo degli Apostoli. Ma Giovanni non designa solo un Ordine, perché Olivi lascia aperta la possibilità di rivelazioni individuali, avute da “singulares persone”, perfetti imitatori di Cristo votati, con la loro “lingua erudita”, al compito della conversione universale.

[LSA, cap. X, Ap 10, 11] “Et dixit michi: Oportet te iterum prophetare in gentibus et populis et linguis et regibus multis”. In ipsa sapientia libri expresse continetur quod oportet iterum predicari evangelium in toto orbe, et Iudeis et gentibus, et totum orbem finaliter converti ad Christum. Sed quod per istum hoc esset implendum non poterat sciri nisi per spiritualem revelationem, et hoc dico prout per Iohannem designantur hic singulares persone quia, prout per ipsum designatur in communi ordo evangelicus et contemplativus, scitur ex ipsa intelligentia libri quod per illum ordinem debet hoc impleri.

Nei cinque cicli settenari della prima cantica il sesto stato è segnato dall’apertura della porta della città di Dite (Inf. IX, 89-90); dall’ascesa di Gerione dall’abisso (Inf. XVI, 106-136); dal precipitoso passaggio dalla quinta alla sesta bolgia (Inf. XXIII, 1-57) e poi dalle trasformazioni della settima, dove i ladri fiorentini si mutano in serpenti e viceversa (Inf. XXIV-XXV); dal chinarsi di Anteo sul fondo dell’inferno (Inf. XXXI, 136-145); dal passaggio del centro della terra, con la conversione di Virgilio sull’anca di Lucifero, che è passaggio verso la sesta età, quella della Chiesa, descritta nel Purgatorio.
Ma i temi propri del sesto stato sono diffusi ovunque, intrecciati con quelli degli altri stati, e alla loro esegesi rinviano precise parole-chiave incardinate nel senso letterale dei versi. L’esegesi dell’angelo del sesto sigillo (Ap 7, 2) è già centrale nel primo canto del poema.
La novità che il sesto stato, per eccellenza stato di rinnovamento di questo secolo, arreca nell’inferno è una novità fittizia: l’apertura della porta della città di Dite non è vera novità, perché essa è stata chiusa dall’ostinazione dei diavoli, recidivi dopo l’apertura della porta dell’inferno da parte di Cristo prefigurata dalla venuta di Ercole all’Ade, per cui Cerbero “ne porta ancor pelato il mento e ’l gozzo”; Gerione viene su ad un “novo cenno” di Virgilio, ma è figura della frode dalla velenosa coda aculeata; il nuovo prodotto dalle trasformazioni reciproche di serpenti e uomini è qualcosa di incompiuto perché l’uomo razionale, creato nel sesto stato, regredisce allo stato precedente.
L’Inferno è il luogo della durezza lapidea, dell’impetrarsi, del parlare duro di cose dure a dirsi, del duro giudizio, del senso duro della scritta al sommo della porta, dei duri lamenti, dei duri demoni, dei duri veli del gelo, della gravezza. Nell’Inferno vige l’imposizione data a Daniele dall’angelo sotto il sesto sigillo dell’Antico Testamento: “Ora tu, Daniele, chiudi queste parole e sigilla questo libro fino al tempo stabilito” (Dn 12, 4), che era la sesta età nella quale apparve Cristo e in particolare il sesto stato della sua Chiesa nella quale il libro doveva essere più pienamente aperto, non però ai malevoli e ai maldisposti. Questa durezza è rotta dall’invito di Dante ai dannati perché parlino. Far parlare liberamente, per dettato interiore, è la principale prerogativa del sesto stato – la nuova età che tanto s’aspetta, quella che ode del “dolce stil novo” e delle “nove rime” -, ed è tema che la poesia canta per intero, sia pure per un attimo, anche nella vecchia roccia infernale. Appartiene alla sesta chiesa il parlare liberamente di Cristo – ad essa è dato l’“ostium apertum”, che è “ostium sermonis” – , il sentire per dettato interiore, l’aprirsi della volontà. Appartiene alla sesta chiesa anche il far venire quelli che si dicono Giudei senza esserlo, mutati nel cuore e disposti a farsi battezzare e governare. Questo far venire a parlare equivale al cortese e liberale invito dello Spirito di Cristo a convivare, a venire con desiderio e volontario consenso, con “disio” e con “velle”, in una pausa di pace nell’eterna dannazione. All’“affettüoso grido” del poeta le ombre di Francesca e Paolo vengono “dal voler portate” verso un momento di mutazione, sebbene limitata al successivo colloquio. Tutto l’Inferno è un contrappunto fra la durezza del giudizio e l’apertura per la parola dirompente, fin che essa dura, la pena. Un’apertura che si esprime in varie forme: muoversi sospirando nel Farinata prima immobile, ‘crollarsi’ quasi per terremoto interiore dello ‘schivo’ Ulisse, convertirsi del vento in voce in Guido da Montefeltro, tornare indietro nel cammino assegnato o separarsi dai compagni di pena, essere sforzati a parlare anche malvolentieri, non poterlo negare o mostrare fretta di farlo, arrestarsi obliando il martirio, levarsi per poi ricadere, sollevarsi da atti bestiali per ritornare a essi dopo aver parlato, come nel conte Ugolino. In tante lingue, che parlano come per sé stesse mosse, sta un solo desiderio, il vivere ancora nel libro che è stato altrui aperto.
Se nell’Inferno il sesto stato non si realizza mai compiutamente, anche il settimo, che gli è strettamente connesso, non può trovare un luogo autonomo. Ciò non toglie che temi del settimo stato (e della settima visione) siano ben presenti in modo diffuso. Ad esempio, quelli relativi alla settima chiesa assumono particolare rilievo nella descrizione degli ignavi a Inf. III. Tempo del silenzio, della serena pace, del riposo dalle ansiose fatiche, il settimo stato subentra dopo le terribili tentazioni inferte, con un martirio non corporale ma psicologico, dai carnefici dell’Anticristo nel sesto. Come ogni momento della storia umana partecipa dell’imitazione di Cristo, che raggiunge l’acme nel sesto stato, così in ogni periodo si verifica una sua “quietatio”, una pausa di pace, di quiete, di silenzio propria del settimo. Così Francesca parla e ascolta “mentre che ’l vento, come fa, ci tace”. Il vento – “la bufera infernal, che mai non resta” – designa il fluttuare tempestoso delle passioni nel cuore.

PURGATORIO

(sesta età del mondo)

Dopo le prime cinque età del mondo (corrispondenti all’Antico Testamento, la gioachimita età del Padre), che hanno segnato la discesa a spirale per i cinque cicli settenari dell’Inferno, con il Purgatorio inizia la sesta età, quella di Cristo (l’età del Figlio), che ha sette stati, corrispondenti ai sette stati della Chiesa. Dapprima, nel cosiddetto ‘antipurgatorio’, si registrano in successione temi prevalenti dei primi cinque stati. Il sesto stato della sesta età (con cui si apre l’età dello Spirito) inizia con l’apertura della porta di san Pietro (la porta del purgatorio). Questo sesto stato procede anch’esso con andamento settenario, per cui ha sette momenti, coincidenti principalmente con un girone della montagna, ma non del tutto, perché sempre l’ordine spirituale del poema rompe i confini letterali e le divisioni materiali, concatenando i temi di uno stato prevalente con quelli dello stato che precede e con quelli dello stato che segue e intrecciandoli con temi di tutti gli altri stati.
È spiegato nel Notabile VII del prologo della Lectura che il sesto stato della Chiesa è il secondo stato di Cristo e ha i suoi sette tempi per cui la Chiesa, come fosse una sfera, si ricongiunge circolarmente al primo apostolico tempo. Il settimo dei sette momenti del sesto stato della Chiesa coincide con il settimo stato generale della Chiesa, che nel poema corrisponde in parte all’ultimo girone della montagna (il settimo, dove si purgano i lussuriosi) e in parte all’Eden, con cui si chiude la seconda cantica.
Il Purgatorio dunque, secondo il senso spirituale, è la storia della Chiesa che corre verso il suo sesto stato, punto di riferimento di tutte le vicende umane, antiche e moderne, che ad esso cooperano. Non è casuale che nel sesto girone della montagna sia chiarificata e riconosciuta, nel colloquio con Bonagiunta da Lucca, la poetica delle “nove rime” di Dante, già “sesto tra cotanto senno” cooptato nella “bella scola” dei poeti del Limbo.
La vasta zona dedicata al sesto momento del sesto stato della Chiesa ha il suo inizio nel forte terremoto che scuote la montagna mentre Dante e Virgilio si trovano ancora nel quinto girone (Purg. XX, 124-141). Essa è stata compiutamente esaminata altrove.
Il settimo stato dell’Olivi si realizza parte in questa vita (come pregustazione in terra della gloria eterna, cioè fin sulla cima della montagna) e in parte nella futura (nel senso della quiete delle anime beate in attesa della resurrezione, che è la materia del Paradiso).

canti

I ciclo – fino al sesto sato

stati

 

I

Catone

Radici, I

 

II

angelo nocchiero, Casella

–  II

 

III

scomunicati

III

“Antipurgatorio”

IV

salita al primo balzo, Belacqua

IV  –  V

V

negligenti morti per violenza

V

VI

Sordello

V

VII-VIII

valletta dei principi

V

IX

apertura della porta

VI sesto stato

 

canti

II ciclo – il sesto stato della sesta età

stati

gironi

X-XII

superbi

I

I

XIII-XIV-XV

invidiosi

II

II

XV-XVIII

iracondi

ordinamento del purgatorio,

amore e libero arbitrio

III

III

IV

XVIII-XIX

accidiosi

IV

IV

XIX-XX

avari e prodighi

V

V

XX (terremoto)  -XXV

Stazio, golosi, generazione dell’uomo

VI

VI

XXV-XXVI

lussuriosi

VII – settimo stato

VII

XXVII

XXVIII-XXXIII

 muro di fuoco

notte stellata, termine dell’ascesa

Eden

 

 

PARADISO

(settimo stato della Chiesa)

Il Primo Mobile è il nono e penultimo cielo, ma è il sesto se si parte dal cielo del Sole. È anche il cielo più segnato dal tema del “punto”, cui è assimilato il sesto stato. Questo consente di ricostruire l’ordine spirituale del Paradiso ponendo la cerniera nel quarto cielo del Sole. Con il terzo cielo di Venere termina infatti il cono d’ombra gettato dalla terra, secondo la dottrina di Alfragano (Par. IX, 118-119), mentre prima di descrivere l’ascesa al cielo del Sole il poeta invita il lettore a rivolgersi “a l’alte rote” (Par. X, 7-27). Senza la cesura recisa che, nella prima cantica, divide i dannati puniti all’interno della città di Dite da quelli che ne stanno fuori e, nella seconda cantica, separa le anime purganti nei sette gironi della montagna dalle anime che attendono fuori della porta (il cosiddetto ‘antipurgatorio’), anche nel Paradiso gli spiriti che si manifestano nei primi tre cieli della Luna, di Mercurio e di Venere (spiriti che mancarono ai voti, spiriti che furono attivi per conseguire onore e fama, spiriti amanti) si distinguono per minore perfezione rispetto a quelli che appaiono nei cieli seguenti.
I dieci cieli del Paradiso si mostrano pertanto ordinati in due gruppi di settenari, corrispondenti agli stati della Chiesa (e alle loro prerogative) secondo Olivi, parzialmente combacianti (da 1 a 7 e da 4 a 10: coincidono gli ultimi quattro numeri del primo gruppo e i primi quattro del secondo).

I  Se si considera il primo settenario, nel primo cielo della Luna si affronta la questione dell’inadempienza dei voti, che ha corrispondenza con i temi propri della prima chiesa di Efeso, il cui nome, se interpretato, oscilla tra la fervida volontà iniziale e la remissione (l’essenza del voto consiste nella volontà).

II  Nel secondo cielo di Mercurio, le battaglie sostenute dal “sacrosanto segno” dell’aquila corrispondono allo stato dei martiri, che è dei combattenti, e anche la dottrina dell’incarnazione e della passione di Cristo, esposta successivamente da Beatrice, fa parte della tematica, perché l’intera Chiesa, fondata sulla passione di Cristo, imita con i martiri la sua croce, e questo giova assai al suo radicamento.

III  Nel terzo cielo di Venere, Carlo Martello spiega al modo di un dottore del terzo stato la diversità delle indoli umane e come gli uomini, non assecondandole, errino; nello stesso cielo compare Folchetto di Marsiglia, che da vescovo di Tolosa combatté l’eresia albigese.

IV – I  Al quarto cielo del Sole, primo del secondo gruppo di settenari per l’esaltazione della vita apostolica (propria del primo stato e rinnovata nel sesto), si può connettere il tema stesso del sole inteso nell’esegesi della quarta tromba (Ap 8, 12): “Per solem videtur hic designari solaris vita et contemplatio summorum anachoritarum, qui fuerunt patres et exempla aliorum, vel solaris sapientia et doctrina summorum doctorum”. Sapienza e contemplazione, dottori del terzo e anacoreti del quarto stato, concorrono, come Domenico e Francesco – “L’un fu tutto serafico in ardore; / l’altro per sapïenza in terra fue / di cherubica luce uno splendore” (Par. XI, 37-39) – con mutua cortesia a infiammare il meriggio dell’universo.

V – II  Il quinto cielo di Marte, secondo (come il secondo stato dei martiri) per l’esaltazione della croce di Cristo formata dai lumi dei combattenti per la fede, reca in sé il tema del condiscendere proprio del quinto stato sia nel pio discendere per la croce di Cacciaguida verso Dante, sia nella decadenza degli “alti Fiorentini”, cioè delle antiche famiglie, assimilate agli anacoreti, un tempo alti e poi vòlti in basso.

VI – III  Il sesto cielo di Giove, terzo (come il terzo stato dei dottori) per la spiegazione di profonde verità di fede, sviluppa il motivo, proprio della sesta chiesa, della “porta aperta”. Aprire la porta significa illuminare e rendere acuto l’intelletto che penetra nell’occulto delle Scritture, e anche dare efficacia spirituale a penetrare nel cuore di chi ascolta: così l’aquila apre la “latebra” di Dante, così l’occhio di Rifeo Troiano fu da Dio aperto alla futura redenzione.

VII – IV Nel settimo cielo di Saturno, quarto (come il quarto stato degli anacoreti), “si tace … la dolce sinfonia di paradiso” (Par. XXI, 58-60), e il tacere è tema del settimo stato. Ivi si mostrano gli spiriti contemplativi, principali soggetti del quarto stato, proprio degli anacoreti: se si conta a partire dal quarto cielo del Sole, considerando questo come primo ovvero come nuovo avvio del ciclo settenario, il cielo di Saturno è appunto quarto.

VIII (V) Il settimo cielo di Saturno è seguito dal cielo delle Stelle fisse – ottavo e quinto -, dove si mostrano le schiere del trionfo di Cristo che discendono dall’Empireo (il quinto stato è caratterizzato dalla “condescensio”) e si celebra il trionfo di Maria (sviluppo del tema, proprio della quinta chiesa, della mirabile bellezza della Chiesa, regina ornata di veste aurea per la carità che unisce e circondata dalla varietà nei doni e nelle grazie delle diverse membra). È inoltre ricapitolazione dei precedenti sette, secondo un’interpretazione più volte presente nella Lectura dell’essere ‘ottavo’. Per questo Dante, stando nel segno dei Gemelli, riguarda in giù e torna col viso per tutte quante le sette precedenti sfere (Par. XXII, 124-154).

IX (VI) Segue il Primo Mobile o Cristallino – nono e sesto cielo –, dove il poeta vede il punto luminosissimo – Dio – da cui dipende il cielo e la terra, circondato dai nove cerchi di fuoco (Par. XXVIII, 16-18, 40-42, 94-96). Il sesto stato, secondo quanto Olivi afferma nel Notabile VIII, è il “punto” da cui dipendono gli altri stati, perché appare nel testo dell’Apocalisse in modo più evidente degli altri, che da esso assumono chiarezza quanto alla loro manifestazione nella storia, come l’intelligenza delle cose ordinate ad un fine dipende dal fine.

X (VII) La quiete e l’immobilità dell’Empireo, decimo cielo – il “ciel de la divina pace” -, corrispondono al settimo stato, di cui è propria la “quietatio”, il silenzio (tema anticipato dal tacere di Beatrice in apertura del canto XXIX), e la pace.

Il Paradiso avrebbe pertanto un ordine spirituale del seguente tipo:

cielo

stato

cielo

I

LUNA

I

II

MERCURIO

II

III

VENERE

III

IV

SOLE

IV

I

SOLE

V

MARTE

V

II

MARTE

VI

GIOVE

VI

III

GIOVE

VII

SATURNO

VII

IV

SATURNO

VIII

V

STELLE FISSE

IX

VI

PRIMO MOBILE

X

VII

EMPIREO

Oltre ai luoghi sopra indicati, i temi del sesto e del settimo stato si rinvengono in più punti, intrecciati con altri.

[1] Cfr. LSA, cap. XVII, Ap 17, 9: «Et subdit Ricardus quod per septem reges, et per septem capita designatos, designatur hic universus populus malorum, qui secundum septem status huius seculi determinantur. Primus scilicet ab Adam usque ad Noe. Secundus a Noe usque ad Abraam. Tertius ab Abraam usque ad Moysen. Quartus a Moys<e> usque ad David. Quintus a David usque ad Christum. Sextus a Christo usque ad Antichristum. Septimus autem sub Antichristo attribuitur». Cfr. PETRI IOHANNIS OLIVI Lectura super Lucam, Lc 1, 26, ed. F. Iozzelli, Grottaferrata 2010 (Collectio Oliviana, V), pp. 187-188: «Signanter autem dicitur in sexto mense, quia Christus uenit in sexta mundi etate, et iterum post quinque notabiles synagoge decursus: nam primo, cum sola circumcisione fuit sub patribus per quadringentos annos; secundo, accepta lege, fuit sub iudicibus per tantumdem temporis; tertio, proficiens in regnum, fuit sub regibus; quarto, assumpto plenius spiritu prophetico, fuit sub prophetis sollempnioribus, scilicet sub Elia, Ysaia et Yeremia etc.; quinto, restituto templo et urbe, fuit sub pontificibus quibus, per Aggeum et Zachariam et Malachiam iterata prophetia de Christo et eius precursore Elia, factum est silentium prophetarum, ita quod obmutuit cetus sacerdotum usque ad Iohannis ortum; et iterum in eiusdem quinti temporis sexto centenario conceptus est Christus. Sicut etiam sexto die factus est homo ad ymaginem Dei, sic conuenienter sub consimili senario factus est Christus homo, plenior Dei ymago: nam et perfectio numeri senarii, que ex omnibus partibus suis aliquotis et iterum ex ternario cum suis partibus, scilicet binario et unitate, consurgit, competit sibi et etiam reflexio ternarii per binarium, id est cultus fidei et Trinitatis per geminam caritatem».

[2] Il principio è chiaramente affermato nel notabile VIII del prologo della LSA: «[…] si omnia prima membra visionum ad invicem conferas et consimiliter omnia secunda et sic de aliis, aperte videbis omnia prima ad idem primum concorditer referri et consimiliter omnia secunda ad idem secundum et sic de aliis. Et hoc in tantum quod plena intelligentia eiusdem primi multum clarificatur ex mutua collatione omnium primorum, et idem est de omnibus secundis et tertiis et sic de aliis».

[3] A. FRUGONI, La Roma di Dante, tra il tempo e l’eterno, in ID., Pellegrini a Roma nel 1300. Cronache del primo Giubileo, presentazione di C. Frugoni, a cura e con Introduzione di F. Accrocca, Casale Monferrato 1999, pp. 102-103.

[4] LSA, cap. VI, Ap 6, 12: «Secunda ratio est quia persone Christi correspondet in sexta apertione unus ordo plurium personarum sic secundum suam proportionem augendus, sicut Christus secundum suum corpus fuit usque ad perfectam etatem viriliter auctus. […] Quarta est quia, prout super evangelia ostendi, Christus parvo tempore debuit inter nos vivere et pauciori predicare […]. Nisi autem ordo evangelicus, per Franciscum renovatus, esset in multis et saltem sub duabus vel tribus generationibus propagatus et sollempnizatus, non esset nec ipse nec populus ab eo ducendus sufficienter dispositus ad tam autenticam condempnationem condempnationi Christi consimilem subeundam».