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Set 21 2024

Inferno XXIX-XXX

La “Divina Parodia” del Libro scritto dentro e fuori   [EN]

Canti esaminati:

Inferno: I; II; III; IV; V; VI; VII; VIII; IX; X; XI; XII; XIII; XIV; XV; XVI; XVII; XVIII; XIX; XX; XXI; XXII; XXIII; XXIV; XXV; XXVI; XXVII; XXVIII; XXIX; XXX; XXXI; XXXII, 124-XXXIII, 90

Purgatorio: III; XXVIII

Paradiso: XI-XII; XXXIII

 

Introduzione. 1. “Non imporrò su di voi la vecchia legge” (della vendetta): Geri del Bello. 2. I falsari. 3. Il morso rabbioso. 4. La parodia degli apostoli Pietro e Paolo. 5. Capocchio e la vanità dei Senesi. 6. Le fonti della vita date in pena. 7. La rissa tra maestro Adamo e Sinone di Troia. Avvertenze. Abbreviazioni. Note sulla “topografia spirituale” della Commedia.

 

Legenda [3]: numero dei versi; Not. III: collegamento ipertestuale all’esegesi, nella Lectura di Olivi, di capitolo e versetto dell’Apocalisse [Ap]; 6, 3: collegamento all’esegesi contenuta nei tredici notabilia del prologo della LecturaVarianti rispetto al testo del Petrocchi.

Viengono qui esposti i canti XXIX e XXX dell’Inferno con i corrispondenti legami ipertestuali con i luoghi della Lectura super Apocalipsim ai quali i versi si riferiscono. L’intero poema è esposto nella Topografia spirituale della Commedia (2013, PDF; cfr. infra), ma si sta procedendo a un esame progressivo e aggiornato dei singoli canti. Ogni tabella sinottica, qui presentata o alla quale si rinvia in quanto già esaminata in altra sede, è preceduta o seguita da una parte esplicativa. Per la posizione di Inf. XXIX-XXX nella topografia della prima cantica cfr. infra. Sull’uso dei colori cfr. Avvertenze.

Inferno XXIX

Quartus status: prologus, Notabilia [Not.]; I visio, IV ecclesia (Tiatira: 2, 18-28); II visio, IV sigillum (6, 7-8); III visio, IV tuba (8, 12-13); IV visio, III-IV prelium (12, 14-16); V visio, IV phiala (16, 8-9); VI visio (18, 2).

La molta gente e le diverse piaghe   6, 3
avean le luci mie sì inebrïate,   17, 6
che de lo stare a piangere eran vaghe.   [3]   Not. III; 5, 1; 14, 8

Ma Virgilio mi disse: « Che pur guate?
perché la vista tua pur si soffolge   più
là giù tra l’ombre triste smozzicate?   [6]   2, 12

Tu non hai fatto sì a l’altre bolge;
pensa, se tu annoverar le credi,
che miglia ventidue la valle volge.   [9]   20, 2-3 [12, 14]

E già la luna è sotto i nostri piedi;   8, 12; 12, 1-2
lo tempo è poco omai che n’è concesso,   12, 12; 1, 1
e altro è da veder che tu non vedi ».   [12]

« Se tu avessi », rispuos’ io appresso,
« atteso a la cagion per ch’io guardava,   Not. XIII
 forse m’avresti ancor lo star dimesso ».   [15]   Not. III  [1, 4]

Parte sen giva, e io retro li andava,
lo duca, già faccendo la risposta,
e soggiugnendo: « Dentro a quella cava   [18]   2, 20

dov’ io tenea or li occhi sì a posta,   1, 4   apposta
credo ch’un spirto del mio sangue pianga
la colpa che là giù cotanto costa ».   [21]

Allor disse ’l maestro: « Non si franga   2, 12; 2, 1
lo tuo pensier da qui innanzi sovr’ ello.
Attendi ad altro, ed ei là si rimanga;   [24]   3, 3; 12, 17

ch’io vidi lui a piè del ponticello
mostrarti e minacciar forte col dito,   2, 24
e udi’ ’l nominar Geri del Bello.   [27]   2, 20

Tu eri allor sì del tutto impedito
sovra colui che già tenne Altaforte,
che non guardasti in là, sì fu partito ».   [30]

« O duca mio, la vïolenta morte
che non li è vendicata ancor », diss’ io,   16, 19
« per alcun che de l’onta sia consorte,   [33]

fece lui disdegnoso; ond’ el sen gio
sanza parlarmi, sì com’ ïo estimo:
e in ciò m’ha el fatto a sé più pio ».   [36]   7, 7 (Simeon)

Così parlammo infino al loco primo
che de lo scoglio l’altra valle mostra,
se più lume vi fosse, tutto ad imo.   [39]

Quando noi fummo sor l’ultima chiostra   8, 12
di Malebolge, sì che i suoi conversi
potean parere a la veduta nostra,   [42]

lamenti saettaron me diversi,   16, 16; 6, 2; 6, 3
che di pietà ferrati avean li strali;   7, 7 (Simeon); 9, 9
ond’ io li orecchi con le man copersi.   [45]

Qual dolor fora, se de li spedali   2, 22
di Valdichiana tra ’l luglio e ’l settembre   16, 8-9
e di Maremma e di Sardigna i mali   [48]   9, 1-2

fossero in una fossa tutti ’nsembre,
tal era quivi, e tal puzzo n’usciva
qual suol venir de le marcite membre.   [51]   6, 8

Noi discendemmo in su l’ultima riva   V status; 22, 1-2
del lungo scoglio, pur da man sinistra;
e allor fu la mia vista più viva   [54]

giù ver’ lo fondo, là ’ve la ministra   2, 19.23
de l’alto Sire infallibil giustizia
punisce i falsador che qui registra.   [57]

Non credo ch’a veder maggior tristizia
fosse in Egina il popol tutto infermo,   2, 22
quando fu l’aere sì pien di malizia,   [60]   9, 1-2

che li animali, infino al picciol vermo,   9, 5-6
cascaron tutti, e poi le genti antiche,
secondo che i poeti hanno per fermo,   [63]

si ristorar di seme di formiche;   Not. III, XIII; 9, 5-6
ch’era a veder per quella oscura valle
languir li spirti per diverse biche.   [66]   6, 8; 12, 1-2

Qual sovra ’l ventre e qual sovra le spalle   2, 22
l’un de l’altro giacea, e qual carpone   2, 22
si trasmutava per lo tristo calle.   [69]   12, 1-2

Passo passo andavam sanza sermone,
guardando e ascoltando li ammalati,   2, 22
che non potean levar le lor persone.   [72]   4, 1-2

Io vidi due sedere a sé poggiati,   6, 7-8
com’ a scaldar si poggia tegghia a tegghia,   16, 8-9
dal capo al piè di schianze macolati;   [75]   Not. VII

e non vidi già mai menare stregghia
a ragazzo aspettato dal segnorso,   6, 9.11
né a colui che mal volontier vegghia,   [78]   3, 3

come ciascun menava spesso il morso   9, 5; 16, 10
de l’unghie sopra sé per la gran rabbia   12, 12; 9, 19
del pizzicor, che non ha più soccorso;   [81]

e sì traevan giù l’unghie la scabbia,   6, 8
come coltel di scardova le scaglie
o d’altro pesce che più larghe l’abbia.   [84]

« O tu che con le dita ti dismaglie »,
cominciò ’l duca mio a l’un di loro,
 « e che fai d’esse talvolta tanaglie,   [87]

dinne s’alcun Latino è tra costoro   6, 7-8
che son quinc’ entro, se l’unghia ti basti   5, 1
etternalmente a cotesto lavoro ».   [90]

« Latin siam noi, che tu vedi sì guasti   6, 8
qui ambedue », rispuose l’un piangendo;
 « ma tu chi se’ che di noi dimandasti? ».   [93]   7, 13

E ’l duca disse: « I’ son un che discendo   V status
con questo vivo giù di balzo in balzo,
e di mostrar lo ’nferno a lui intendo ».   [96]   2, 19

Allor si ruppe lo comun rincalzo;   2, 12   rumphea
e tremando ciascuno a me si volse   1, 10
con altri che l’udiron di rimbalzo.   [99]

Lo buon maestro a me tutto s’accolse,
dicendo: « Dì a lor ciò che tu vuoli »;   3, 8
e io incominciai, poscia ch’ei volse:   [102]

« Se la vostra memoria non s’imboli
nel primo mondo da l’umane menti,
ma s’ella viva sotto molti soli,   [105]   8, 12

ditemi chi voi siete e di che genti;   7, 13
la vostra sconcia e fastidiosa pena
di palesarvi a me non vi spaventi ».   [108]

« Io fui d’Arezzo, e Albero da Siena »,
rispuose l’un, « mi fé mettere al foco;   7, 13
ma quel per ch’io mori’ qui non mi mena.   [111]

Vero è ch’i’ dissi lui, parlando a gioco:
“I’ mi saprei levar per l’aere a volo”;   9, 3
e quei, ch’avea vaghezza e senno poco,   [114]   5, 1

volle ch’i’ li mostrassi l’arte; e solo   14, 2
perch’ io nol feci Dedalo, mi fece
ardere a tal che l’avea per figliuolo.   [117]

Ma ne l’ultima bolgia de le diece
me per l’alchìmia che nel mondo usai
dannò Minòs, a cui fallar non lece ».   [120]

E io dissi al poeta: « Or fu già mai
gente sì vana come la sanese?   9, 7
Certo non la francesca sì d’assai! ».   [123]

Onde l’altro lebbroso, che m’intese,   12, 16
rispuose al detto mio: « Tra’mene Stricca   6, 83, 4
che seppe far le temperate spese,   [126]   Not. III

e Niccolò che la costuma ricca   12, 6; 7, 3
del garofano prima discoverse
ne l’orto dove tal seme s’appicca;   [129]

e tra’ne la brigata in che disperse   6, 8 [3, 4]; 9, 11
Caccia d’Ascian la vigna e la gran fonda,   fonda
e l’Abbagliato suo senno proferse.   [132]

Ma perché sappi chi sì ti seconda   7, 13-14
contra i Sanesi, aguzza ver’ me l’occhio,
sì che la faccia mia ben ti risponda:   [135]

sì vedrai ch’io son l’ombra di Capocchio,   9, 7
che falsai li metalli con l’alchìmia;   2, 20
e te dee ricordar, se ben t’adocchio,   3, 3
com’ io fui di natura buona scimia ».   [139]   9, 7

Inferno XXX

Nel tempo che Iunone era crucciata   9, 5
per Semelè contra ’l sangue tebano,   2, 23
come mostrò una e altra fïata,   [3]

Atamante divenne tanto insano,
che veggendo la moglie con due figli   co’ due figli
andar carcata da ciascuna mano,   [6]

gridò: « Tendiam le reti, sì ch’io pigli
la leonessa e ’ leoncini al varco »;
e poi distese i dispietati artigli,   [9]

prendendo l’un ch’avea nome Learco,
e rotollo e percosselo ad un sasso;   9, 9
e quella s’annegò con l’altro carco.   [12]   8, 11

E quando la fortuna volse in basso   5, 1
l’altezza de’ Troian che tutto ardiva,
sì che ’nsieme col regno il re fu casso,   [15]   2, 21-22

Ecuba trista, misera e cattiva,   6, 8
poscia che vide Polissena morta,   6, 8
e del suo Polidoro in su la riva   [18]

del mar si fu la dolorosa accorta,   2, 22
forsennata latrò sì come cane;   22, 15
tanto il dolor le fé la mente torta.   [21]   6, 5

Ma né di Tebe furie né troiane
si vider mäi in alcun tanto crude,   9, 8
non punger bestie, nonché membra umane,   [24]   9, 5; 6, 8   pinger

quant’ io vidi in due ombre smorte e nude,   6, 8
che mordendo correvan di quel modo   9, 5
che ’l porco quando del porcil si schiude.   [27]   9, 11

L’una giunse a Capocchio, e in sul nodo
del collo l’assannò, sì che, tirando,   6, 8
grattar li fece il ventre al fondo sodo.   [30]   2, 22

E l’Aretin che rimase, tremando   12, 17
mi disse: « Quel folletto è Gianni Schicchi,
e va rabbioso altrui così conciando ».   [33]   9, 17.19

« Oh », diss’ io lui, « se l’altro non ti ficchi
li denti a dosso, non ti sia fatica   9, 8
a dir chi è, pria che di qui si spicchi ».   [36]

Ed elli a me: « Quell’ è l’anima antica
di Mirra scellerata, che divenne   18, 4
al padre, fuor del dritto amore, amica.   [39]   6, 5

Questa a peccar con esso così venne,
falsificando sé in altrui forma,   2, 20
come l’altro che là sen va, sostenne,   [42]

per guadagnar la donna de la torma,
falsificare in sé Buoso Donati,   2, 20
testando e dando al testamento norma ».   [45]

E poi che i due rabbiosi fuor passati   9, 17.19
sovra cu’ io avea l’occhio tenuto,
rivolsilo a guardar li altri mal nati.   [48]

Io vidi un, fatto a guisa di lëuto,
pur ch’elli avesse avuta l’anguinaia   Not. XIII
tronca da l’altro che l’uomo ha forcuto.   [51]   2, 12

La grave idropesì, che sì dispaia   12, 16; 2, 12
le membra con l’omor che mal converte,   3, 15
che ’l viso non risponde a la ventraia,   [54]   2, 22

faceva lui tener le labbra aperte
come l’etico fa, che per la sete
l’un verso ’l mento e l’altro in sù rinverte.   [57]

« O voi che sanz’ alcuna pena siete,   7, 16-17
e non so io perché, nel mondo gramo »,   7, 14; 5, 1 (IV sig.)
diss’ elli a noi, « guardate e attendete   [60]

a la miseria del maestro Adamo;   7, 13-14
io ebbi, vivo, assai di quel ch’i’ volli,   7, 16-17
e ora, lasso!, un gocciol d’acqua bramo.   [63]

Li ruscelletti che d’i verdi colli
del Casentin discendon giuso in Arno,   1, 14
faccendo i lor canali freddi e molli,   [66]

sempre mi stanno innanzi, e non indarno,
ché l’imagine lor vie più m’asciuga
che ’l male ond’ io nel volto mi discarno.   [69]

La rigida giustizia che mi fruga   1, 14
tragge cagion del loco ov’ io peccai
a metter più li miei sospiri in fuga.   [72]

Ivi è Romena, là dov’ io falsai   16, 12; 2, 20
la lega suggellata del Batista;
per ch’io il corpo sù arso lasciai.   [75]

Ma s’io vedessi qui l’anima trista
di Guido o d’Alessandro o di lor frate,   16, 13-14
per Fonte Branda non darei la vista.   [78]   7, 17

Dentro c’è l’una già, se l’arrabbiate   9, 17.19
ombre che vanno intorno dicon vero;
ma che mi val, c’ho le membra legate?   [81]

S’io fossi pur di tanto ancor leggero
ch’i’ potessi in cent’ anni andare un’oncia,
io sarei messo già per lo sentiero,   [84]

cercando lui tra questa gente sconcia,
con tutto ch’ella volge undici miglia,   12, 14
e men d’un mezzo di traverso non ci ha.   [87]   più

Io son per lor tra sì fatta famiglia;   16, 13-14
e’ m’indussero a batter li fiorini
ch’avevan tre carati di mondiglia ».   [90]

E io a lui: « Chi son li due tapini   7, 13
che fumman come man bagnate ’l verno,   9, 1-2
giacendo stretti a’ tuoi destri confini? ».   [93]   5, 1

« Qui li trovai – e poi volta non dierno – »,
 rispuose, « quando piovvi in questo greppo,   7, 13
e non credo che dieno in sempiterno.   [96]

L’una è la falsa ch’accusò Gioseppo;   2, 20
l’altr’ è ’l falso Sinon greco di Troia:   2, 13
per febbre aguta gittan tanto leppo ».   [99]

E l’un di lor, che si recò a noia
forse d’esser nomato sì oscuro,   3, 5
col pugno li percosse l’epa croia.   [102]   13, 3; 2, 22

Quella sonò come fosse un tamburo;   2, 5
e mastro Adamo li percosse il volto   13, 3
col braccio suo, che non parve men duro,   [105]

dicendo a lui: « Ancor che mi sia tolto   2, 5
lo muover per le membra che son gravi,   13, 3
ho io il braccio a tal mestiere sciolto ».   [108]

Ond’ ei rispuose: « Quando tu andavi
al fuoco, non l’avei tu così presto;   9, 7
ma sì e più l’avei quando coniavi ».   [111]

E l’idropico: « Tu di’ ver di questo:   12, 16
ma tu non fosti ver testimonio   2, 13 [1, 6]
là ’ve del ver fosti a Troia richesto ».   [114]

« S’io dissi falso, e tu falsasti il conio »,   2, 20
disse Sinon; « e son qui per un fallo,   2, 13
e tu per più ch’alcun altro demonio! ».   [117]

« Ricorditi, spergiuro, del cavallo »,
rispuose quel ch’avëa infiata l’epa;   12, 16; 2, 22
« e sieti reo che tutto il mondo sallo! ».   [120]   2, 22

« E te sia rea la sete onde ti crepa »,
disse ’l Greco, « la lingua, e l’acqua marcia   6, 8
che ’l ventre innanzi a li occhi sì t’assiepa! ».   [123]   2, 22

Allora il monetier: « Così si squarcia
la bocca tua per tuo mal come suole;
ché, s’i’ ho sete e omor mi rinfarcia,   [126]   21, 17

tu hai l’arsura e ’l capo che ti duole,
e per leccar lo specchio di Narcisso,
non vorresti a ’nvitar molte parole ».   [129]

Ad ascoltarli er’ io del tutto fisso,
quando ’l maestro mi disse: « Or pur mira,
che per poco che teco non mi risso! ».   [132]   9, 7; 16, 8-9

Quand’ io ’l senti’ a me parlar con ira,   16, 8-9
volsimi verso lui con tal vergogna,
ch’ancor per la memoria mi si gira.   [135]

Qual è colui che suo dannaggio sogna,   10, 3-4
che sognando desidera sognare,
sì che quel ch’è, come non fosse, agogna,   [138]

tal mi fec’ io, non possendo parlare,
che disïava scusarmi, e scusava
me tuttavia, e nol mi credea fare.   [141]

« Maggior difetto men vergogna lava »,
disse ’l maestro, « che ’l tuo non è stato;
però d’ogne trestizia ti disgrava.   [144]

E fa ragion ch’io ti sia sempre allato,
se più avvien che fortuna t’accoglia
dove sien genti in simigliante piato:   9, 7; 16, 8-9
ché voler ciò udire è bassa voglia ».   [148]   21, 17

Vengono posti a confronto Inf. VII, XIV, XX, XXIX-XXX, canti nei quali, rispettivamente nel primo, nel secondo, nel terzo e nel quarto ciclo settenario dell’Inferno, i temi del quarto stato prevalgono, semanticamente elaborati dalla parodia dantesca. La tematica si estende oltre i confini dei canti e, come mostrato per Inf. XXIX-XXX nella tabella complessiva, si intreccia con molti motivi propri di altri gruppi esegetici relativi agli status o periodi della storia della Chiesa. Inoltre, se in Inf. XXIX i temi del quarto stato sono prevalenti, nel successivo canto XXX ne sono presenti molti del quinto stato che diventeranno prevalenti nel canto XXXI. Per tal motivo i due canti che descrivono la decima bolgia, dei falsari, vengono trattati congiuntamente.

Si registra, nelle singole zone, lo sviluppo delle occorrenze semantiche* relative al quarto stato che rinviano alla Lectura super Apocalipsim: VII: 27; XIV: 49; XX: 42; XXIX (34)-XXX (29): 63.

Nel dettaglio:

prologo (VII: 7; XIV: 5; XX: 12; XXIX [3] – XXX [1]: 4); quarta chiesa (Ap 2, 18-29; VII: 10; XIV: 20; XX: 8; XXIX [11] – XXX [15]: 26); quarto sigillo (Ap 6, 7-8; VII: 3; XIV: 12; XX: 10; XXIX [11] – XXX [8]: 19); quarta tromba (Ap 8, 12-13; VII: 6; XIV: 1; XX: 2; XXIX [3] – XXX [0]: 3); quarta guerra (Ap 12, 1-2.13-16; VII: 1; XIV: 5; XX: 8; XXIX [4] – XXX [3]: 7); quarta coppa (Ap 16, 8-9; VII: 0; XIV: 5; XX: 1; XXIX [2] – XXX [2]: 4); VI visione, quarta parte (Ap 18, 2-3; VII: 0; XIV: 1; XX: 1; XXIX [0] – XXX [0]: 0).

Fra le simmetrie semantiche comuni a più canti del gruppo e riferibili al quarto stato, si segnalano ad esempio:

“or mi dimostra – ch’i’ t’ho dimostrato – i tuoi ragionamenti // mi son sì certi – Se tu avessi … atteso a la cagion per ch’io guardava” –  (VII, 37; XIV, 85; XX, 100-101; XXIX, 13-14: prologo, Notabile XIII, terzo stato, in concorrenza con il quarto);
“ne ’mbocche – ’l pasto – pastore/paschi – si ristorar” (VII, 72; XIV, 92; XX, 68.75; XXIX, 64: prologo, Notabile III, quarto stato);
’l troppo star si vieta – Omai è tempo da scostarsi ciò che ’n grembo a Benaco star non può – forse m’avresti ancor lo star dimesso(Inf. VII, 99; XIV, 139; XX, 74; XXIX, 15: prologo, Notabile III, quarto stato);
“riddi – tresca – letane” (VII, 24; XIV, 40; XX, 9: prologo, Notabile XIII, quarto stato);

“ministra – ministra” (VII, 78; XXIX, 55: Ap 2, 19, quarta chiesa);

“arida – grama – gramo” (XIV, 13; XX, 81; XXX, 59: Ap 5, 1, quarto sigillo);
“d’anime nude – d’abitanti nuda” (XIV, 19; XX, 84: Ap 5, 1, quarto sigillo);
“fiacca/stanche/langue – stanchi (2)/guasto – così poco – marcite/languir/guasti” (VII, 14.65.82; XIV, 52.55.94; XX, 115; XXIX, 51.66.91: Ap 6, 8, quarto sigillo);

“ché tutto l’oro ch’è sotto la luna/permutasse/permutazion – cangiandosi/e tocca l’onda // sotto Sobilia Caino e le spine – la luna è sotto i nostri piedi/si trasmutava” (VII, 64.79.88; XX, 42.125-126; XXIX, 10.69: Ap 12, 1-2, quarta visione);
“diversa/alcuna/alcuna/altra – diverse/qual/qual/qual” (XIV, 21-24; XXIX, 66-68
: Ap 12, 1-2, quarta visione);
“in mezzo mar – loco è nel mezzo/nel mezzo del pantano (XIV, 94; XX, 67, 83: Ap 12, 14, quarta guerra);
nfiata – infiata” (VII, 7; XXX, 119; Ap 12, 16, quarta guerra);

“in quelle parti calde – di state” (XIV, 31; XX, 81: Ap 16, 8-9, quarta coppa).

La parodia si esercita su luoghi, comuni ai canti, riferibili a stati diversi dal quarto: prologo (Notabile XIII, relativo al terzo stato); esegesi dei primi versetti (1, 1.3); parte proemiale alla prima visione (1, 13-14); sesto stato (in particolare: 7, 13, apertura del sesto sigillo); settima visione (21, 12; 22, 1).
Ad esempio: prologo, Notabile X (concorrenza di III e IV stato: VII, 53-54; XX, 124-126); 2, 12 (terza chiesa: VII, 23.26.57.100; XX, 24.51; XXIX, 6.22.97; XXX, 51.52); 6, 5 (terzo sigillo: VII, 27.31.42; XIV, 47.56; XXX, 21.30); 8, 10 (terza tromba:
VII, 27.29.34.101; XX, 64.66.75); 9, 5.8 (quinta tromba: VII, 111.114.116; XXIX, 79; XXX, 1.23.24.26); 9, 19 (sesta tromba, con riferimenti alla rabbia: VII, 9; XIV, 65; XXIX, 80; XXX, 33.46.79); 22, 1-2 (settima visione: VII, 100.102; XIV, 122.123; XXIX, 52.54).

Da notare che Inf. VII, a partire dal v. 97, con il quale inizia la discesa nella palude Stigia, elabora molti temi propri del quinto stato, che raggiungeranno l’acme in Inf. VIII. Così avviene nel rapporto tra il canto XXX e il XXXI.

* Per “occorrenze” si intendono le parole-chiave che nella lettera dei versi rinviano semanticamente ai temi offerti dall’esegesi; esse, ai fini del computo, sono considerate singolarmente salvo quando sono contigue, nel qual caso costituiscono un’unità.

Primo ciclo

Secondo ciclo

Inferno VII

Inferno XIV

« Pape Satàn, pape Satàn aleppe! »,   7, 13; 2, 24
cominciò Pluto con la voce chioccia;          
e quel savio gentil, che tutto seppe,   [3]
disse per confortarmi: « Non ti noccia
la tua paura; ché, poder ch’elli abbia,
non ci torrà lo scender questa roccia ».   [6]
Poi si rivolse a quella nfiata labbia,   12, 16
e disse: « Taci, maladetto lupo!
consuma dentro te con la tua rabbia.   [9]   9, 19
Non è sanza cagion l’andare al cupo:
vuolsi ne l’alto, là dove Michele   2, 24
fé la vendetta del superbo strupo ».   [12]
Quali dal vento le gonfiate vele
caggiono avvolte, poi che l’alber fiacca,   6, 8
tal cadde a terra la fiera crudele.   [15]
Così scendemmo ne la quarta lacca,
pigliando più de la dolente ripa
che ’l mal de l’universo tutto insacca.   [18]
Ahi giustizia di Dio! tante chi stipa
nove travaglie e pene quant’ io viddi?
e perché nostra colpa sì ne scipa?   [21]
Come fa l’onda là sovra Cariddi,
che si frange con quella in cui s’intoppa,   2, 1
così convien che qui la gente riddi.   [24]   Not. XIII
Qui vid’ i’ gente più ch’altrove troppa,
e d’una parte e d’altra, con grand’ urli,   2, 12
voltando pesi per forza di poppa.   [27] 8, 10; 2, 24
Percotëansi ’ncontro; e poscia pur lì   8, 12
si rivolgea ciascun, voltando a retro, 8, 10;  [2, 25
gridando: « Perché tieni? » e « Perché burli? ».  [30]
Così tornavan per lo cerchio tetro   6, 5
da ogne mano a l’opposito punto,
gridandosi anche loro ontoso metro;   [33]
poi si volgea ciascun, quand’ era giunto,   8, 10
per lo suo mezzo cerchio a l’altra giostra.
E io, ch’avea lo cor quasi compunto,   [36]      [7, 13
dissi: « Maestro mio, or mi dimostra   Not. XIII
che gente è questa, e se tutti fuor cherci
questi chercuti a la sinistra nostra ».   [39]
Ed elli a me: « Tutti quanti fuor guerci
sì de la mente in la vita primaia,
che con misura nullo spendio ferci.   [42]   6, 5
Assai la voce lor chiaro l’abbaia,
quando vegnono a’ due punti del cerchio
dove colpa contraria li dispaia.   [45]
Questi fuor cherci, che non han coperchio
piloso al capo, e papi e cardinali,
in cui usa avarizia il suo soperchio ».   [48]
E io: « Maestro, tra questi cotali
dovre’ io ben riconoscere alcuni
che furo immondi di cotesti mali ».   [51]
Ed elli a me: « Vano pensiero aduni:  (IIIIV status)
la sconoscente vita che i fé sozzi, Not. X 
ad ogne conoscenza or li fa bruni.   [54]   6, 5
In etterno verranno a li due cozzi:
questi resurgeranno del sepulcro
col pugno chiuso, e questi coi crin mozzi. [57]   1, 14
Mal dare e mal tener lo mondo pulcro                 [2, 12
ha tolto loro, e posti a questa zuffa:
qual ella sia, parole non ci appulcro.   [60]
Or puoi, figliuol, veder la corta buffa
d’i ben che son commessi a la fortuna,
per che l’umana gente si rabuffa;   [63]
ché tutto l’oro ch’è sotto la luna   12, 1; 8, 12
e che già fu, di quest’ anime stanche   6, 8
non poterebbe farne posare una ».   [66]   21, 16
« Maestro mio », diss’ io, « or mi dì anche:
questa fortuna di che tu mi tocche,
che è, che i ben del mondo ha sì tra branche? ».   [69]
E quelli a me: « Oh creature sciocche,
quanta ignoranza è quella che v’offende!      [Not. III
Or vo’ che tu mia sentenza ne ’mbocche.   [72]
Colui lo cui saver tutto trascende,
fece li cieli e diè lor chi conduce   Not. XIII
sì, ch’ogne parte ad ogne parte splende,   [75]
distribuendo igualmente la luce.   Not. XIII
Similemente a li splendor mondani
ordinò general ministra e duce   [78]   2, 19
che permutasse a tempo li ben vani   12, 1
di gente in gente e d’uno in altro sangue,
oltre la difension d’i senni umani;   [81]
per ch’una gente impera e l’altra langue,   6, 8
seguendo lo giudicio di costei,   2, 23
che è occulto come in erba l’angue.   [84]
Vostro saver non ha contasto a lei:
questa provede, giudica, e persegue
suo regno come il loro li altri dèi.   [87]
Le sue permutazion non hanno triegue:   12, 1
necessità la fa esser veloce;   1, 1
sì spesso vien chi vicenda consegue.   [90]
Quest’ è colei ch’è tanto posta in croce
pur da color che le dovrien dar lode,
dandole biasmo a torto e mala voce;   [93]
ma ella s’è beata e ciò non ode:   1, 3
con l’altre prime creature lieta
volve sua spera e beata si gode.   [96]
Or discendiamo omai a maggior pieta;
già ogne stella cade che saliva   8, 12      [Not. III
quand’ io mi mossi, e ’l troppo star si vieta ». [99]
Noi ricidemmo il cerchio a l’altra riva   2, 12; 22, 1
sovr’ una fonte che bolle e riversa   8, 10
per un fossato che da lei deriva.   [102]   21, 12; 22, 1
L’acqua era buia assai più che persa;
e noi, in compagnia de l’onde bige,
intrammo giù per una via diversa.   [105]   Not. VII
In la palude va c’ha nome Stige
questo tristo ruscel, quand’ è disceso
al piè de le maligne piagge grige.   [108]
E io, che di mirare stava inteso,   Not. III
vidi genti fangose in quel pantano,
ignude tutte, con sembiante offeso.   [111]
Queste si percotean non pur con mano,   8, 12
ma con la testa e col petto e coi piedi,
troncandosi co’ denti a brano a brano.   [114]
Lo buon maestro disse: « Figlio, or vedi
l’anime di color cui vinse l’ira;
e anche vo’ che tu per certo credi   [117]
che sotto l’acqua è gente che sospira,
e fanno pullular quest’ acqua al summo,
come l’occhio ti dice, u’ che s’aggira.   [120]
Fitti nel limo dicon: “Tristi fummo
ne l’aere dolce che dal sol s’allegra,
portando dentro accidïoso fummo:   [123]
or ci attristiam ne la belletta negra”.
Quest’ inno si gorgoglian ne la strozza,
ché dir nol posson con parola integra ».  [126]  9, 20
Così girammo de la lorda pozza
grand’ arco, tra la ripa secca e ’l mézzo,
con li occhi vòlti a chi del fango ingozza.
Venimmo al piè d’una torre al da sezzo.   [130]

 

Poi che la carità del natio loco
mi strinse, raunai le fronde sparte
e rende’le a colui, ch’era già fioco.   [3]
Indi venimmo al fine ove si parte
lo secondo giron dal terzo, e dove
si vede di giustizia orribil arte.   [6]
A ben manifestar le cose nove,
dico che arrivammo ad una landa
che dal suo letto ogne pianta rimove.   [9]   2, 22
La dolorosa selva l’è ghirlanda
intorno, come ’l fosso tristo ad essa;               [Not. III
quivi fermammo i passi a randa a randa.   [12]
Lo spazzo era una rena arida e spessa,   5, 1 [12, 16]
non d’altra foggia fatta che colei
che fu da’ piè di Caton già soppressa.   [15]   2, 18
O vendetta di Dio, quanto tu dei   5, 1; 2, 22
esser temuta da ciascun che legge   1, 3
ciò che fu manifesto a li occhi miei!   [18]   1, 1
D’anime nude vidi molte gregge   5, 1
che piangean tutte assai miseramente,
e parea posta lor diversa legge.   [21]   8, 12; 12, 1-2
Supin giacea in terra alcuna gente,   2, 22
alcuna si sedea tutta raccolta,
e altra andava continüamente.   [24]   2, 26-28
Quella che giva ’ntorno era più molta,
e quella men che giacëa al tormento,   2, 22
ma più al duolo avea la lingua sciolta.   [27]
Sovra tutto ’l sabbion, d’un cader lento,
piovean di foco dilatate falde,   2, 1.18
come di neve in alpe sanza vento.   [30]   1, 14
Quali Alessandro in quelle parti calde   16, 8-9
d’Indïa vide sopra ’l süo stuolo
fiamme cadere infino a terra salde,   [33]
per ch’ei provide a scalpitar lo suolo
con le sue schiere, acciò che lo vapore
mei si stingueva mentre ch’era solo:   [36]   5, 1
tale scendeva l’etternale ardore;   2, 18
onde la rena s’accendea, com’ esca   16, 8-9
sotto focile, a doppiar lo dolore.   [39]  2, 22; 21, 16
Sanza riposo mai era la tresca 2, 26-28; Not. XIII
de le misere mani, or quindi or quinci   2, 1
escotendo da sé l’arsura fresca.  [42]   2, 18; 16, 8-9
I’ cominciai: « Maestro, tu che vinci   7, 13
tutte le cose, fuor che ’ demon duri
ch’a l’intrar de la porta incontra uscinci,   [45]
chi è quel grande che non par che curi
lo ’ncendio e giace dispettoso e torto, 2, 1.22; 6, 5
sì che la pioggia non par che ’l marturi? ».   [48] 
E quel medesmo, che si fu accorto   16, 8
ch’io domandava il mio duca di lui,
gridò: « Qual io fui vivo, tal son morto.   [51]
Se Giove stanchi ’l suo fabbro da cui   6, 8
crucciato prese la folgore aguta
onde l’ultimo dì percosso fui;   [54]
o s’elli stanchi li altri a muta a muta   6, 8
in Mongibello a la focina negra,   6, 5          [12, 16
chiamando “Buon Vulcano, aiuta, aiuta!”,   [57]
sì com’ el fece a la pugna di Flegra,
e me saetti con tutta sua forza:
non ne potrebbe aver vendetta allegra ».   [60]
Allora il duca mio parlò di forza   18, 2
tanto, ch’i’ non l’avea sì forte udito:
« O Capaneo, in ciò che non s’ammorza   [63]   5, 1
la tua superbia, se’ tu più punito;
nullo martiro, fuor che la tua rabbia,   9, 19
sarebbe al tuo furor dolor compito ».   [66]   2, 22 
Poi si rivolse a me con miglior labbia,
dicendo: « Quei fu l’un d’i sette regi
ch’assiser Tebe; ed ebbe e par ch’elli abbia   [69]
Dio in disdegno, e poco par che ’l pregi;
ma, com’ io dissi lui, li suoi dispetti
sono al suo petto assai debiti fregi.   [72]
Or mi vien dietro, e guarda che non metti,
ancor, li piedi ne la rena arsiccia;   2, 18
ma sempre al bosco tien li piedi stretti ».   [75]
Tacendo divenimmo là ’ve spiccia
fuor de la selva un picciol fiumicello,
lo cui rossore ancor mi raccapriccia.   [78]
Quale del Bulicame esce ruscello
che parton poi tra lor le peccatrici,
tal per la rena giù sen giva quello.   [81]
Lo fondo suo e ambo le pendici
fatt’ era ’n pietra, e ’ margini dallato;   6, 7-8
per ch’io m’accorsi che ’l passo era lici.   [84]
« Tra tutto l’altro ch’i’ t’ho dimostrato,   Not. XIII
poscia che noi intrammo per la porta
lo cui sogliare a nessuno è negato,   [87]
cosa non fu da li tuoi occhi scorta
notabile com’ è ’l presente rio,
che sovra sé tutte fiammelle ammorta ».   [90]   5, 1
Queste parole fuor del duca mio;
per ch’io ’l pregai che mi largisse ’l pasto   Not. III
di cui largito m’avëa il disio.   [93]
« In mezzo mar siede un paese guasto »,   12, 14
diss’ elli allora, « che s’appella Creta,               [6, 8
sotto ’l cui rege fu già ’l mondo casto.   [96]
Una montagna v’è che già fu lieta
d’acqua e di fronde, che si chiamò Ida;
or è diserta come cosa vieta.   [99]   12, 14
Rëa la scelse già per cuna fida                       [Not. XIII
del suo figliuolo, e per celarlo meglio,   12, 14
quando piangea, vi facea far le grida.   [102]
Dentro dal monte sta dritto un gran veglio,   7, 13
che tien volte le spalle inver’ Dammiata   12, 15
e Roma guarda come süo speglio.   [105]   6, 7
La sua testa è di fin oro formata,
e puro argento son le braccia e ’l petto,
poi è di rame infino a la forcata;   [108]
da indi in giuso è tutto ferro eletto,
salvo che ’l destro piede è terra cotta;
e sta ’n su quel, più che ’n su l’altro, eretto.   [111]
Ciascuna parte, fuor che l’oro, è rotta   2, 26-28
d’una fessura che lagrime goccia,
le quali, accolte, fóran quella grotta.   [114]   21, 12
Lor corso in questa valle si diroccia;
fanno Acheronte, Stige e Flegetonta;
poi sen van giù per questa stretta doccia,   [117]
infin, là ove più non si dismonta,
fanno Cocito; e qual sia quello stagno
tu lo vedrai, però qui non si conta ».   [120]
E io a lui: « Se ’l presente rigagno
si diriva così dal nostro mondo,   22, 1
perché ci appar pur a questo vivagno? ».   [123]
Ed elli a me: « Tu sai che ’l loco è tondo;
e tutto che tu sie venuto molto,
pur a sinistra, giù calando al fondo,   [126]
non se’ ancor per tutto ’l cerchio vòlto;
per che, se cosa n’apparisce nova,
non de’ addur maraviglia al tuo volto ».   [129]
E io ancor: « Maestro, ove si trova   7, 13
Flegetonta e Letè? ché de l’un taci,
e l’altro di’ che si fa d’esta piova ».   [132]
« In tutte tue question certo mi piaci »,   7, 13
rispuose, « ma ’l bollor de l’acqua rossa
dovea ben solver l’una che tu faci.   [135]
Letè vedrai, ma fuor di questa fossa,   21, 12
là dove vanno l’anime a lavarsi
quando la colpa pentuta è rimossa ».   [138]
Poi disse: « Omai è tempo da scostarsi   Not. III
dal bosco; fa che di retro a me vegne:
li margini fan via, che non son arsi,  6, 7-8; Not. VII
e sopra loro ogne vapor si spegne ».   [142]

Terzo ciclo

Quarto ciclo

Inf. XX

Inf. XXIX

Di nova pena mi conven far versi
e dar matera al ventesimo canto
de la prima canzon, ch’è d’i sommersi.   [3]
Io era già disposto tutto quanto
a riguardar ne lo scoperto fondo,
che si bagnava d’angoscioso pianto;   [6]
e vidi gente per lo vallon tondo
venir, tacendo e lagrimando, al passo
che fanno le letane in questo mondo.  [9]  Not. XIII
Come ’l viso mi scese in lor più basso,
mirabilmente apparve esser travolto   6, 7
ciascun tra ’l mento e ’l principio del casso,   [12]
ché da le reni era tornato ’l volto,   2, 23
e in dietro venir li convenia,
perché ’l veder dinanzi era lor tolto.   [15]   6, 7
Forse per forza già di parlasia
si travolse così alcun del tutto;
ma io nol vidi, né credo che sia.   [18]   6, 7
Se Dio ti lasci, lettor, prender frutto
di tua lezione, or pensa per te stesso   2, 1
com’ io potea tener lo viso asciutto,   [21]
quando la nostra imagine di presso
vidi sì torta, che ’l pianto de li occhi
le natiche bagnava per lo fesso.   [24]   2, 12
Certo io piangea, poggiato a un de’ rocchi
del duro scoglio, sì che la mia scorta
mi disse: « Ancor se’ tu de li altri sciocchi?   [27]
Qui vive la pietà quand’ è ben morta;  6, 8
chi è più scellerato che colui
che al giudicio divin passion comporta?   [30]
Drizza la testa, drizza, e vedi a cui
s’aperse a li occhi d’i Teban la terra;
per ch’ei gridavan tutti: “Dove rui,   [33]
Anfïarao? perché lasci la guerra?”.
E non restò di ruinare a valle
fino a Minòs che ciascheduno afferra.   [36]
Mira c’ha fatto petto de le spalle;
perché volse veder troppo davante,   2, 1
di retro guarda e fa retroso calle.   [39]
Vedi Tiresia, che mutò sembiante

quando di maschio femmina divenne,
cangiandosi le membra tutte quante;   [42]   12, 1-2
e prima, poi, ribatter  li convenne
li duo serpenti avvolti, con la verga,   2, 26-28
che rïavesse le maschili penne.   [45]
Aronta è quel ch’al ventre li s’atterga,   2, 22
che ne’ monti di Luni, dove ronca   12, 1; Not. XIII
lo Carrarese che di sotto alberga,   [48]
ebbe tra ’ bianchi marmi la spelonca
per sua dimora; onde a guardar le stelle   8, 12
e ’l mar non li era la veduta tronca.   [51]   2, 12
E quella che ricuopre le mammelle,   1, 13
che tu non vedi, con le trecce sciolte,
e ha di là ogne pilosa pelle,   [54]   18, 2
Manto fu, che cercò per terre molte;   Not. XIII
poscia si puose là dove nacqu’ io;   21, 16
onde un poco mi piace che m’ascolte.   [57]
Poscia che ’l padre suo di vita uscìo,
e venne serva la città di Baco,
questa gran tempo per lo mondo gio.   [60]
Suso in Italia bella giace un laco,
a piè de l’Alpe che serra Lamagna
sovra Tiralli, c’ha nome Benaco.   [63]
Per mille fonti, credo, e più si bagna   8, 10
tra Garda e Val Camonica e Pennino
de l’acqua che nel detto laco stagna.   [66]
Loco è nel mezzo là dove ’l trentino   12, 14
pastore e quel di Brescia e ’l veronese   Not. III
segnar poria, s’e’ fesse quel cammino.   [69]
Siede Peschiera, bello e forte arnese   12, 14
da fronteggiar Bresciani e Bergamaschi,
ove la riva ’ntorno più discese.   [72]   Not. V
Ivi convien che tutto quanto caschi   Not. V
ciò che ’n grembo a Benaco star non può,   Not. III
e fassi fiume giù per verdi paschi.   [75]   8, 10
Tosto che l’acqua a correr mette co,              [Not. III
non più Benaco, ma Mencio si chiama
fino a Governol, dove cade in Po.   [78]
Non molto ha corso, ch’el trova una lama,
ne la qual si distende e la ’mpaluda;
e suol di state talor esser grama.   [81]   16, 8; 5, 1
Quindi passando la vergine cruda   Not. I; 6, 8
vide terra, nel mezzo del pantano,   12, 14
sanza coltura e d’abitanti nuda.   [84]   5, 1
Lì, per fuggire ogne consorzio umano,   Not. I
ristette con suoi servi a far sue arti,   Not. III
e visse, e vi lasciò suo corpo vano.   [87]
Li uomini poi che ’ntorno erano sparti   12, 17
s’accolsero a quel loco, ch’era forte   12, 14
per lo pantan ch’avea da tutte parti.   [90]
Fer la città sovra quell’ ossa morte;   20, 8; 5, 1
e per colei che ’l loco prima elesse,   12, 14
Mantüa l’appellar sanz’ altra sorte.   [93]
Già fuor le genti sue dentro più spesse,
prima che la mattia da Casalodi
da Pinamonte inganno ricevesse.   [96]
Però t’assenno che, se tu mai odi   2, 25
originar la mia terra altrimenti,
la verità nulla menzogna frodi ».   [99]
E io: « Maestro, i tuoi ragionamenti   Not. III
mi son sì certi e prendon sì mia fede,   Not. III
che li altri mi sarien carboni spenti.   [102]
Ma dimmi, de la gente che procede,
se tu ne vedi alcun degno di nota;
ché solo a ciò la mia mente rifiede ». [105]  2, 26-28
Allor mi disse: « Quel che da la gota
porge la barba in su le spalle brune,
fu – quando Grecia fu di maschi vòta,   [108]   6, 7
sì ch’a pena rimaser per le cune –
augure, e diede ’l punto con Calcanta
in Aulide a tagliar la prima fune.   [111]
Euripilo ebbe nome, e così ’l canta
l’alta mia tragedìa in alcun loco:
ben lo sai tu che la sai tutta quanta.   [114]
Quell’ altro che ne’ fianchi è così poco,   6, 8
Michele Scotto fu, che veramente
de le magiche frode seppe ’l gioco.   [117]
Vedi Guido Bonatti; vedi Asdente,
ch’avere inteso al cuoio e a lo spago   2, 26-28
ora vorrebbe, ma tardi si pente.   [120]
Vedi le triste che lasciaron l’ago,
la spuola e ’l fuso, e fecersi ’ndivine;
fecer malie con erbe e con imago.   [123]
Ma vienne omai, ché già tiene ’l confine
d’amendue li emisperi e tocca l’onda   Not. X
sotto Sobilia Caino e le spine;   [126]   12, 1-2
e già iernotte fu la luna tonda:   8, 12
ben ten de’ ricordar, ché non ti nocque
alcuna volta per la selva fonda ».
Sì mi parlava, e andavamo introcque.   [130]

La molta gente e le diverse piaghe   6, 3
avean le luci mie sì inebrïate,
che de lo stare a piangere eran vaghe.   [3]   Not. III
Ma Virgilio mi disse: « Che pur guate?
perché la vista tua pur si soffolge
là giù tra l’ombre triste smozzicate?   [6]   2, 12
Tu non hai fatto sì a l’altre bolge;
pensa, se tu annoverar le credi,
che miglia ventidue la valle volge.   [9]
E già la luna è sotto i nostri piedi;   8, 12; 12, 1-2
lo tempo è poco omai che n’è concesso,   1, 1
e altro è da veder che tu non vedi ».   [12]
« Se tu avessi », rispuos’ io appresso,
« atteso a la cagion per ch’io guardava,   Not. XIII
 forse m’avresti ancor lo star dimesso ». [15]Not. III
Parte sen giva, e io retro li andava,
lo duca, già faccendo la risposta,
e soggiugnendo: « Dentro a quella cava   [18]   2, 20
dov’ io tenea or li occhi sì a posta,
credo ch’un spirto del mio sangue pianga
la colpa che là giù cotanto costa ».   [21]
Allor disse ’l maestro: « Non si franga   2, 12; 2, 1
lo tuo pensier da qui innanzi sovr’ ello.           [12, 17
Attendi ad altro, ed ei là si rimanga;   [24]   3, 3
ch’io vidi lui a piè del ponticello
mostrarti e minacciar forte col dito,   2, 24
e udi’ ’l nominar Geri del Bello.   [27]   2, 20
Tu eri allor sì del tutto impedito
sovra colui che già tenne Altaforte,
che non guardasti in là, sì fu partito ».   [30]
« O duca mio, la vïolenta morte
che non li è vendicata ancor », diss’ io,
« per alcun che de l’onta sia consorte,   [33]
fece lui disdegnoso; ond’ el sen gio
sanza parlarmi, sì com’ ïo estimo:
e in ciò m’ha el fatto a sé più pio ».   [36]
Così parlammo infino al loco primo
che de lo scoglio l’altra valle mostra,
se più lume vi fosse, tutto ad imo.   [39]
Quando noi fummo sor l’ultima chiostra   8, 12
di Malebolge, sì che i suoi conversi
potean parere a la veduta nostra,   [42]
lamenti saettaron me diversi,   6, 3
che di pietà ferrati avean li strali;
ond’ io li orecchi con le man copersi.   [45]
Qual dolor fora, se de li spedali   2, 22
di Valdichiana tra ’l luglio e ’l settembre  16, 8-9
e di Maremma e di Sardigna i mali   [48]   9, 1-2
fossero in una fossa tutti ’nsembre,
tal era quivi, e tal puzzo n’usciva
qual suol venir de le marcite membre.   [51]   6, 8
Noi discendemmo in su l’ultima riva   V status
del lungo scoglio, pur da man sinistra;   22, 1-2
e allor fu la mia vista più viva   [54]
giù ver’ lo fondo, là ’ve la ministra   2, 19.23
de l’alto Sire infallibil giustizia
punisce i falsador che qui registra.   [57]
Non credo ch’a veder maggior tristizia
fosse in Egina il popol tutto infermo,   2, 22
quando fu l’aere sì pien di malizia,   [60]   9, 1-2
che li animali, infino al picciol vermo,   9, 5-6
cascaron tutti, e poi le genti antiche,
secondo che i poeti hanno per fermo,   [63]     [9, 5-6
si ristorar di seme di formiche;   Not. III, XIII
ch’era a veder per quella oscura valle
languir li spirti per diverse biche.  [66] 6, 8; 12, 1-2
Qual sovra ’l ventre e qual sovra le spalle   2, 22
l’un de l’altro giacea, e qual carpone   2, 22
si trasmutava per lo tristo calle.   [69]   12, 1-2
Passo passo andavam sanza sermone,
guardando e ascoltando li ammalati,   2, 22
che non potean levar le lor persone.   [72]
Io vidi due sedere a sé poggiati,   6, 7-8
com’ a scaldar si poggia tegghia a tegghia,   16, 8-9
dal capo al piè di schianze macolati;[75] Not. VII
e non vidi già mai menare stregghia
a ragazzo aspettato dal segnorso,   6, 9.11
né a colui che mal volontier vegghia,   [78]   3, 3
come ciascun menava spesso il morso   9, 5; 16, 10
de l’unghie sopra sé per la gran rabbia   9, 19
del pizzicor, che non ha più soccorso;   [81]
e sì traevan giù l’unghie la scabbia,   6, 8
come coltel di scardova le scaglie
o d’altro pesce che più larghe l’abbia.   [84]
« O tu che con le dita ti dismaglie »,
cominciò ’l duca mio a l’un di loro,
 « e che fai d’esse talvolta tanaglie,   [87]
dinne s’alcun Latino è tra costoro   6, 7-8
che son quinc’ entro, se l’unghia ti basti
etternalmente a cotesto lavoro ».   [90]
« Latin siam noi, che tu vedi sì guasti   6, 8
qui ambedue », rispuose l’un piangendo;
 « ma tu chi se’ che di noi dimandasti? ».   [93]   7, 13
E ’l duca disse: « I’ son un che discendo   V status
con questo vivo giù di balzo in balzo,
e di mostrar lo ’nferno a lui intendo ».   [96]   2, 19
Allor si ruppe lo comun rincalzo;   2, 12
e tremando ciascuno a me si volse
con altri che l’udiron di rimbalzo.   [99]
Lo buon maestro a me tutto s’accolse,
dicendo: « Dì a lor ciò che tu vuoli »;
e io incominciai, poscia ch’ei volse:   [102]
« Se la vostra memoria non s’imboli
nel primo mondo da l’umane menti,
ma s’ella viva sotto molti soli,   [105]   8, 12
ditemi chi voi siete e di che genti;   7, 13
la vostra sconcia e fastidiosa pena
di palesarvi a me non vi spaventi ».   [108]
« Io fui d’Arezzo, e Albero da Siena »,
rispuose l’un, « mi fé mettere al foco;   7, 13
ma quel per ch’io mori’ qui non mi mena.   [111]
Vero è ch’i’ dissi lui, parlando a gioco:
“I’ mi saprei levar per l’aere a volo”;   9, 3
e quei, ch’avea vaghezza e senno poco,   [114]
volle ch’i’ li mostrassi l’arte; e solo
perch’ io nol feci Dedalo, mi fece
ardere a tal che l’avea per figliuolo.   [117]
Ma ne l’ultima bolgia de le diece
me per l’alchìmia che nel mondo usai
dannò Minòs, a cui fallar non lece ».   [120]
E io dissi al poeta: « Or fu già mai
gente sì vana come la sanese?   9, 7
Certo non la francesca sì d’assai! ».   [123]
Onde l’altro lebbroso, che m’intese,   12, 16
rispuose al detto mio: « Tra’mene Stricca  6, 83, 4
che seppe far le temperate spese,   [126]   Not. III
e Niccolò che la costuma ricca
del garofano prima discoverse
ne l’orto dove tal seme s’appicca;   [129]
e tra’ne la brigata in che disperse 6, 8 [3, 4]; 9, 11
Caccia d’Ascian la vigna e la gran fonda,
e l’Abbagliato suo senno proferse.   [132]
Ma perché sappi chi sì ti seconda   7, 13-14
contra i Sanesi, aguzza ver’ me l’occhio,
sì che la faccia mia ben ti risponda:   [135]
sì vedrai ch’io son l’ombra di Capocchio,   9, 7
che falsai li metalli con l’alchìmia;   2, 20
e te dee ricordar, se ben t’adocchio,   3, 3
com’ io fui di natura buona scimia ».   [139]   9, 7

 

Inf. XXX

 

Nel tempo che Iunone era crucciata   9, 5
per Semelè contra ’l sangue tebano,   2, 23
come mostrò una e altra fïata,   [3]
Atamante divenne tanto insano,
che veggendo la moglie con due figli
andar carcata da ciascuna mano,   [6]
gridò: « Tendiam le reti, sì ch’io pigli
la leonessa e ’ leoncini al varco »;
e poi distese i dispietati artigli,   [9]
prendendo l’un ch’avea nome Learco,
e rotollo e percosselo ad un sasso;   9, 9
e quella s’annegò con l’altro carco.   [12]
E quando la fortuna volse in basso   5, 1
l’altezza de’ Troian che tutto ardiva,
sì che ’nsieme col regno il re fu casso,   [15]   2, 21-22
Ecuba trista, misera e cattiva,   6, 8
poscia che vide Polissena morta,   6, 8
e del suo Polidoro in su la riva   [18]
del mar si fu la dolorosa accorta,   2, 22
forsennata latrò sì come cane;
tanto il dolor le fé la mente torta.   [21]   6, 5
Ma né di Tebe furie né troiane
si vider mäi in alcun tanto crude,   9, 8 [9, 5.8; 6, 8
non punger bestie, nonché membra umane,   [24]
quant’ io vidi in due ombre smorte e nude,   6, 8
che mordendo correvan di quel modo   9, 5
che ’l porco quando del porcil si schiude.  [27]   9, 11
L’una giunse a Capocchio, e in sul nodo
del collo l’assannò, sì che, tirando,   6, 8
grattar li fece il ventre al fondo sodo.   [30]   2, 22
E l’Aretin che rimase, tremando   12, 17
mi disse: « Quel folletto è Gianni Schicchi,
e va rabbioso altrui così conciando ».   [33]   9, 17.19
« Oh », diss’ io lui, « se l’altro non ti ficchi
li denti a dosso, non ti sia fatica   9, 8
a dir chi è, pria che di qui si spicchi ».   [36]
Ed elli a me: « Quell’ è l’anima antica
di Mirra scellerata, che divenne   18, 4
al padre, fuor del dritto amore, amica.   [39]   6, 5
Questa a peccar con esso così venne,
falsificando sé in altrui forma,   2, 20
come l’altro che là sen va, sostenne,   [42]
per guadagnar la donna de la torma,
falsificare in sé Buoso Donati,   2, 20
testando e dando al testamento norma ».   [45]
E poi che i due rabbiosi fuor passati   9, 17.19
sovra cu’ io avea l’occhio tenuto,
rivolsilo a guardar li altri mal nati.   [48]
Io vidi un, fatto a guisa di lëuto,
pur ch’elli avesse avuta l’anguinaia   Not. XIII
tronca da l’altro che l’uomo ha forcuto.   [51]   2, 12
La grave idropesì, che sì dispaia   12, 16; 2, 12
le membra con l’omor che mal converte,
che ’l viso non risponde a la ventraia,   [54]   2, 22
faceva lui tener le labbra aperte
come l’etico fa, che per la sete
l’un verso ’l mento e l’altro in sù rinverte.   [57]
« O voi che sanz’ alcuna pena siete,
e non so io perché, nel mondo gramo »,   7, 14; 5, 1
diss’ elli a noi, « guardate e attendete   [60]
a la miseria del maestro Adamo;   7, 13-14
io ebbi, vivo, assai di quel ch’i’ volli,
e ora, lasso!, un gocciol d’acqua bramo.   [63]
Li ruscelletti che d’i verdi colli
del Casentin discendon giuso in Arno,   1, 14
faccendo i lor canali freddi e molli,   [66]
sempre mi stanno innanzi, e non indarno,
ché l’imagine lor vie più m’asciuga
che ’l male ond’ io nel volto mi discarno.   [69]
La rigida giustizia che mi fruga   1, 14
tragge cagion del loco ov’ io peccai
a metter più li miei sospiri in fuga.   [72]
Ivi è Romena, là dov’ io falsai   2, 20
la lega suggellata del Batista;
per ch’io il corpo sù arso lasciai.   [75]
Ma s’io vedessi qui l’anima trista
di Guido o d’Alessandro o di lor frate,
per Fonte Branda non darei la vista.   [78]
Dentro c’è l’una già, se l’arrabbiate   9, 17.19
ombre che vanno intorno dicon vero;
ma che mi val, c’ho le membra legate?   [81]
S’io fossi pur di tanto ancor leggero
ch’i’ potessi in cent’ anni andare un’oncia,
io sarei messo già per lo sentiero,   [84]
cercando lui tra questa gente sconcia,
con tutto ch’ella volge undici miglia,
e men d’un mezzo di traverso non ci ha.   [87]
Io son per lor tra sì fatta famiglia;
e’ m’indussero a batter li fiorini
ch’avevan tre carati di mondiglia ».   [90]
E io a lui: « Chi son li due tapini   7, 13
che fumman come man bagnate ’l verno,   9, 1-2
giacendo stretti a’ tuoi destri confini? ».   [93]
« Qui li trovai – e poi volta non dierno – »,
 rispuose, « quando piovvi in questo greppo,   7, 13
e non credo che dieno in sempiterno.   [96]
L’una è la falsa ch’accusò Gioseppo;   2, 20
l’altr’ è ’l falso Sinon greco di Troia:
per febbre aguta gittan tanto leppo ».   [99]
E l’un di lor, che si recò a noia
forse d’esser nomato sì oscuro,   3, 5
col pugno li percosse l’epa croia.   [102]   2, 22
Quella sonò come fosse un tamburo;
e mastro Adamo li percosse il volto
col braccio suo, che non parve men duro,   [105]
dicendo a lui: « Ancor che mi sia tolto
lo muover per le membra che son gravi,
ho io il braccio a tal mestiere sciolto ».   [108]
Ond’ ei rispuose: « Quando tu andavi
al fuoco, non l’avei tu così presto;   9, 7
ma sì e più l’avei quando coniavi ».   [111]
E l’idropico: « Tu di’ ver di questo:   12, 16
ma tu non fosti sì ver testimonio
là ’ve del ver fosti a Troia richesto ».   [114]
« S’io dissi falso, e tu falsasti il conio »,   2, 20
disse Sinon; « e son qui per un fallo,
e tu per più ch’alcun altro demonio! ».   [117]
« Ricorditi, spergiuro, del cavallo »,
rispuose quel ch’avëa infiata l’epa;   12, 16; 2, 22
« e sieti reo che tutto il mondo sallo! ».   [120]   2, 22
« E te sia rea la sete onde ti crepa »,
disse ’l Greco, « la lingua, e l’acqua marcia   6, 8
che ’l ventre innanzi a li occhi sì t’assiepa! ».   [123]
Allora il monetier: « Così si squarcia   [2, 22
la bocca tua per tuo mal come suole;
ché, s’i’ ho sete e omor mi rinfarcia,   [126]
tu hai l’arsura e ’l capo che ti duole,
e per leccar lo specchio di Narcisso,
non vorresti a ’nvitar molte parole ».   [129]
Ad ascoltarli er’ io del tutto fisso,
quando ’l maestro mi disse: « Or pur mira,
che per poco che teco non mi risso! ».   [132]   9, 7
Quand’ io ’l senti’ a me parlar con ira,   16, 8-9
volsimi verso lui con tal vergogna,
ch’ancor per la memoria mi si gira.   [135]
Qual è colui che suo dannaggio sogna,
che sognando desidera sognare,
sì che quel ch’è, come non fosse, agogna,   [138]
tal mi fec’ io, non possendo parlare,
che disïava scusarmi, e scusava
me tuttavia, e nol mi credea fare.   [141]
« Maggior difetto men vergogna lava »,
disse ’l maestro, « che ’l tuo non è stato;
però d’ogne trestizia ti disgrava.   [144]
E fa ragion ch’io ti sia sempre allato,
se più avvien che fortuna t’accoglia
dove sien genti in simigliante piato:   9, 7; 16, 8-9
ché voler ciò udire è bassa voglia ».   [148]

Introduzione

Con le prime tredici terzine di Inf. XXIX (vv. 1-39) si conclude la descrizione della nona bolgia, dove sono puniti i seminatori di scandalo e scisma. Ci si trova nel quarto ciclo settenario dell’Inferno: nel precedente canto XXVIII i temi del terzo stato della Chiesa, proprio dei dottori che con la spada scindono le eresie, sono stati insistenti; con il successivo canto XXIX, finché si rimane nella nona bolgia, si fanno più sommessi e intrecciati con i motivi del quarto stato [1]. Questi ultimi salgono di tono e diventano prevalenti nel percorso della decima bolgia, dove stanno i falsari, alla quale sono dedicati i versi 40-139 del XXIX canto e il successivo XXX. Già nella descizione dell’ultima bolgia, la parodia si esercita su temi del quinto stato [2], i quali  diventano preminenti con i giganti del canto XXXI per dare luogo, con Anteo, alla semantica relativa al sesto stato che conclude il quarto ciclo della prima cantica (cfr. altrove circa la presenza nell’Inferno dei temi del settimo stato) [3].

[1] Esempi di compresenza, in Inf. XXIX, 1-39, di temi relativi al terzo e al quarto stato: lo stare (v. 3 – IV); smozzicate (v. 6 – III); la cagion (v. 14 – III); lo star (v. 15 – IV); dentro (v. 18 – IV); si franga (v. 22 – III/IV); minacciarl nominar (vv. 26-27 – IV).
[2] La tematica, in crescendo man mano che si procede nella bolgia, proviene in particolare dalla quinta tromba, riferita alle pungenti e vanitose locuste (Ap 9, 1-11; cfr. infra).
[3] Importanti temi del sesto stato si registrano nell’incontro con maestro Adamo e nella sua rissa con Sinone di Troia.

La molta gente e le diverse piaghe (Inf. XXIX, 1). I temi della difformità e del vago straniarsi (Ap 5, 1), uniti a quello del pianto e del lamento (presente anche nella sesta coppa, ad Ap 16, 16, dove le lamentazioni di Geremia per la morte del re Giosia sono assimilate al pianto sulla morte di Cristo), risuona nei “lamenti in su li alberi strani” fatti dalle Arpie nella selva dei suicidi (Inf. XIII, 15). I “lamenti … strani” sottolineano la difformità rispetto a quanto è deiforme, perché l’anima feroce dei peccatori puniti in quella selva si è divisa essa stessa dal proprio corpo. L’uomo razionale, creato nel sesto giorno assimilato al sesto stato della Chiesa, è stato offeso: “Uomini fummo, e or siam fatti sterpi”, dice Pier della Vigna (v. 37), mentre le “brutte Arpie” designano gli uccelli immondi creati prima dell’uomo, nel quinto giorno assimilato al quinto stato. Questi “lamenti … strani” si accomunano alle “diverse piaghe” della nona bolgia (che rendono le “luci”, cioè gli occhi, di Dante “vaghe” di piangere), ed è contiguità non superficiale, perché il confronto dei testi consente di affermare che suicidi e seminatori di scandalo e di scisma sono tessuti sulla stessa parte di panno, quella che riunisce i temi del terzo stato, proprio dei dottori che confutarono le eresie che divisero la Chiesa. Al termine della quarta zona dell’Inferno nella quale i temi del terzo stato sono prevalenti (che comprende la nona bolgia, dove sono puniti i seminatori di scandalo e di scisma), il motivo dello straniarsi risuona ancora sulla soglia della successiva e ultima bolgia, dove sono puniti i falsari: “lamenti saettaron me diversi, / che di pietà ferrati avean li strali” (Inf. XXIX, 43-44; cfr. “vaghezza” al v. 114), prima che la descrizione delle pene dia luogo al prevalere dei temi del quarto stato.

pensa, se tu annoverar le credi, / che miglia ventidue la valle volge (Inf. XXIX, 8-9). Nell’esegesi del capitolo XX, Olivi riferisce vari modi di computo in relazione ai mille anni nei quali il diavolo sta incatenato nell’abisso, rilevando come non abbiano in sé nulla di certo e servano solo a mostrare, con i testi scritturali, che a partire dal sesto e dal settimo stato il giudizio finale si può considerare imminente e come alle porte. Gioacchino da Fiore, ad esempio (nell’opera De semine scripturarum, che gli veniva attribuita), afferma che la lingua degli Ebrei rimase nella casa di Eber, dopo la confusione babilonica delle lingue, per ventidue secoli fino a Cristo, numero che corrisponde alle ventidue lettere dell’alfabeto ebraico. Il numero ventidue compare nell’Inferno per designare l’estensione in miglia della nona bolgia, che è quella dei seminatori di scandalo e di scisma dove prevalgono i temi del terzo stato dei dottori che scindono e tagliano con la spada le eresie, prefigurate nell’Antico Testamento dalla divisione babilonica dell’unica e vera lingua (diversamente, la presenza di questo numero sarebbe del tutto arbitraria).
A Inf. XXIX, 11, le parole di Virgilio lo tempo è poco omai alludono al poco tempo rimasto al diavolo per tentare (il viaggio all’inferno, che è un percorso fra le tentazioni, sta per concludersi), come da Ap 12, 12; che n’è concesso riferiscono della singolare grazia concessa a Dante, come a Giovanni, di divulgare la sua visione (1, 1).
Il numero ventidue, che indica la circonferenza della nona bolgia, si dimezza a undici nella bolgia successiva, come afferma maestro Adamo, il quale ne precisa anche che il diametro perché “men d’un mezzo di traverso non ci ha” (Inf. XXX, 86-87). Le misure, che non sono per nulla applicabili all’intero inferno, sembrano fare riferimento all’espressione, più volte parodiata nel poema, “per un tempo (undici), due tempi (ventidue) e la metà di un tempo (men d’un mezzo)” ad Ap 12, 14. Da escludere, pertanto, la variante del gruppo vaticano più d’un mezzo, non solo perché, segnando al massimo la larghezza della bolgia, “limiterebbe quella difficoltà di rintracciare l’avversario che invece maestro Adamo intende sottolineare” (Petrocchi), ma anche per l’insistenza nell’esegesi sul valore minimo e indeterminato di dimidium (temporis), “quasi dimidium seu imperfectum et partiale et quasi nichil”.

1. “Non imporrò su di voi la vecchia legge” (della vendetta): Geri del Bello

“[…] uno di quei passi straordinari in cui il Dante personaggio del poema rivendica a viso aperto il sistema di valori della società in cui vive, anche se sa benissimo che contrasta con i valori morali che Virgilio sta cercando di insegnargli. Mentre Virgilio, in sostanza, gli consiglia di lasciar perdere quel disgraziato, Dante si mette seriamente a spiegare che il cugino ha ragione di avercela con lui: perché è morto di morte violenta, e questa morte non è stata ancora vendicata dalla famiglia […] e Dante è della famiglia, è uno dei consorti, parola importantissima nel lessico dell’epoca, che di quella vendetta avrebbero dovuto farsi carico. Perciò Geri aveva perfettamente ragione di essere arrabbiato, e di andarsene senza rivolgergli la parola, ed è invece lui, Dante, che si sente in difetto” (ALESSANDRO BARBERO, Dante, Bari 2020, pp. 58-59).

Ma Virgilio mi disse: “Che pur guate? / perché la vista tua pur si soffolge / là giù tra l’ombre triste smozzicate? (Inf. XXIX, 4-6). Lo zelo severo, preminente nel quinto stato, si appunta nel quarto contro lo stare pertinace proprio dell’età virile che si mostra stabile e ferma (prologo, Notabile III). A Virgilio, il quale lo ha ripreso per il suo eccessivo soffermarsi sulle anime “triste smozzicate”, Dante replica che se avesse considerato il motivo di quel riguardare  – era il suo cugino Geri del Bello! –, avrebbe “ancor lo star dimesso” (vv. 13-15; il motivo dello stare è ripresa dal v. 3). Proprio l’ostinazione nello stare, alla quale fa riferimento l’esegesi, rende preferibile “pur si soffolge” (Petrocchi: “col suo significato di ‘insistentemente) alla variante più, che sottolinea invece l’aspetto temporale (Inglese).

Allor disse ’l maestro: “Non si franga / lo tuo pensier da qui innanzi sovr’ ello. / Attendi ad altro, ed ei là si rimanga; / ch’io vidi lui a piè del ponticello / mostrarti e minacciar forte col dito, / e udi’ ’l nominar Geri del Bello” (Inf. XXIX, 22-27). Con l’episodio di Geri del Bello, nella nona bolgia dove prevale la parodia dei temi del terzo stato, i temi del quarto si fanno più vivi. Il divieto di mangiare insieme a quei fratelli – quelli “che sono dentro” – “nominati” per famosa infamia, posto da san Paolo nella prima lettera ai Corinzi (1 Cor 5, 11-12), riportato nell’esegesi dell’istruzione data a Tiàtira, la quarta chiesa d’Asia (Ap 2, 20), è presente nelle parole con cui Virgilio vieta a Dante di soffermarsi a guardare il suo cugino che sta “dentro a quella cava”, cioè nella nona bolgia (v. 18): il poeta pagano, mentre il discepolo era tutto intento a osservare e ad ascoltare Bertran de Born, lo aveva visto infatti minacciare Dante col dito e aveva sentito gli altri dannati “nominarlo”. Anche minacciare di imporre l’osservanza della vecchia legge, che in questo caso è il diritto alla vendetta privata delle offese che Geri, morto per mano di un Sacchetti, pretende da Dante, è tema sviluppato nell’esegesi di Tiàtira (Ap 2, 24). Cristo assicura tuttavia la quarta chiesa: “a voi dico che non metterò”, ossia non imporrò, “altro peso su di voi”, quello dei precetti, “al modo con cui affermano” alcuni ingannatori oppure, secondo Riccardo di San Vittore, al modo con cui minacciano alcuni falsi apostoli della Giudea. Non imporre altro peso significa non pretendere l’osservanza della vecchia legge, nonostante essi dicano il contrario. Cristo esclude cioè superstizioni o pesi non sostenibili perché oltre le forze, alla cui osservanza i falsi apostoli dicevano gli altri essere tenuti. Così “minacciar forte col dito” vale a rammentare il dovere di vendicare l’offesa come previsto dalle leggi e dalle consuetudini del tempo. Su questo punto Virgilio, imitatore del Cristo uomo, è categorico: “Attendi ad altro, ed ei là si rimanga” (v. 24).
Non imporre vecchi pesi, cioè l’osservanza insostenibile della vecchia legge, secondo quanto promesso da Cristo a Tiàtira, la quarta chiesa d’Asia (Ap 2, 24-25), può anche avere il significato di escludere credenze false o superstiziose: così Virgilio, nel raccontare l’origine della sua città, ha già escluso quanto da lui stesso esposto nell’Eneide (X, 198-200) circa la fondazione di Mantova ad opera di Ocno, unitamente ad altri racconti favolosi e menzogneri (Inf. XX, 97-99).
La tromba magistrale, che per antonomasia appartiene al terzo stato, è nel quarto volta ad abbracciare le dottrine di fede (prologo, Notabile III). Il tema si trova quando il poeta assicura il maestro che i suoi ragionamenti sull’origine di Mantova “prendon sì mia fede” (Inf. XX, 100-102): l’espressione segna il passaggio dal puro ragionare dell’intelletto, proprio del terzo stato designato dall’uomo razionale del quale è figura Virgilio, all’affetto tipico del quarto, dalla notizia all’amore di ciò che si è già conosciuto. Nel caso di Geri del Bello, le ragionevoli parole del maestro non suscitano nel discepolo un’immediata accettazione affettiva, bensì la pietas verso il cugino che non gli ha rivolto la parola: “e in ciò m’ha el fatto a sé più pio” (Inf. XXIX, 36).
Tra il terzo e quarto stato si colloca il “frangere”, motivo proprio della terza chiesa (i dottori frantumano le eresie con la spada della ragione, tematica che percorre tutta la nona bolgia: Ap 2, 12) e del quarto esercizio dell’ascesa mentale (gli anacoreti sono fracti per eccesso di contemplazione: Ap 2, 1), per cui dice Virgilio: “Non si franga / lo tuo pensier da qui innanzi sovr’ ello” (vv. 22-23). I motivi del “frangere” con violente minacce sono presenti anche ad Ap 9, 19, nella descrizione della potenza, che risiede nella bocca e nelle code, dei cavalli dell’esercito sciolto al suono della sesta tromba.
Nei versi 19-20 – “dov’ io tenea or li occhi sì a posta, / credo ch’un spirto del mio sangue pianga” – risuona, parodiato e scisso nell’appropriazione semantica, l’inciso della lettera di san Paolo ai Romani “ipse Spiritus pro nobis postulat” (Rm 8, 26), citato ad Ap 1, 4 (come per Farinata, “quell’altro magnanimo, a cui posta / restato m’era” (Inf. X, 73-74); a posta pertanto disgiunto (diversamente Inglese: apposta, ‘con precisa intenzione’).
Al verso 24, attendi fa riferimento ad Ap 3, 3 (quinta chiesa); si rimanga ad Ap 12, 17 (quinta guerra).

“O duca mio, la vïolenta morte / che non li è vendicata ancor”, diss’ io / “per alcun che de l’onta sia consorte, / fece lui disdegnoso” (Inf. XXIX, 31-34). Il gusto amaro e acerbo che deriva dallo sdegno divino nei confronti di Babylon, la Chiesa carnale, viene espresso ad Ap 16, 19 – nel preambolo alla sesta visione – con la coppa (la giusta misura della punizione) e col vino (che per intimo, amaro gusto, pervade tutte le membra): “Dio si ricordò di lei, nel darle da bere la coppa di vino della sua ira sdegnata”. L’acerbità della pena viene designata con l’accostamento dello sdegno (la giustizia contro l’indegnità della colpa intollerabile) all’ira (la vendetta). L’effetto del giudizio divino consiste nelle due parti della pena eterna: la prima (la pena del danno) nella privazione di ogni gaudio, la seconda (la pena dei sensi) nella grandine grossa. La privazione del gaudio è resa con l’immagine della fuga delle isole e della traslazione dei monti – “Ogni isola fuggì e i monti scomparvero” (Ap 16, 20) -, cioè si sovverte quel che è più stabile e adatto all’umana quiete in mare, oppure più sicuro ed eminente in terra: isole e monti che già in occasione dell’apertura del sesto sigillo (Ap 6, 14) sono identificate con i regni, le città e le chiese di Babylon.
L’animo di Pier della Vigna prova di fronte all’invidia della corte imperiale un intimo, “disdegnoso gusto” nel suicidio (disdegno che spetta al giusto giudizio divino, non all’uomo che divide sé stesso), l’“amaricatus gustus … ex indignatione” nell’interpretazione di Benvenuto e l’“amaro piacere” in quella del Tommaseo: credendo di fuggire il “disdegno” del sovrano e degli altri (lo sdegno e l’ira) attira su di sé l’ira divina (Inf. XIII, 70-72). I motivi della giusta misura (che il suicidio ha reso ingiusta) e del fuggire (un ‘mal fuggire’) sono compresenti nell’esegesi. Pier della Vigna, suicidandosi, intese vendicare con disdegno l’invidia dei cortigiani; Geri del Bello vuole che sia vendicata dai consanguinei la propria uccisione, e ciò lo rende “disdegnoso” verso Dante, al quale non rivolge la parola (Inf. XXIX, 31-34). Cacciaguida, avo del poeta, in merito all’antica legge della vendetta fra famiglie ha idee diverse da quelle di Virgilio, poiché parla (sempre variando i temi da Ap 16, 19-20) de “lo giusto disdegno che v’ha morti”, ponendo fine al “viver lieto” della “Fiorenza dentro da la cerchia antica” con l’uccisione di Buondelmonte da parte degli offesi Amidei (1216), che secondo i cronisti avrebbe dato origine alla divisione dei cittadini in guelfi e ghibellini (Par. XVI, 136-147).

ond’ el sen gio / sanza parlarmi, sì com’ ïo estimo: / e in ciò m’ha el fatto a sé più pio (Inf. XXIX, 34-36). La pietas accomuna l’atteggiamento di Dante di fronte a Pier della Vigna e a Geri del Bello. Nel primo caso chiede a Virgilio, che lo ha invitato a parlare, di farlo per lui, “ch’i’ non potrei, tanta pietà m’accora” (Inf. XIII, 84). Nel secondo è “più pio” verso il suo parente, percepisce e partecipa del cruccio di questi, nel senso esposto ad Ap 7, 7, di audiens merorem, ma non ne condivide il desiderio, anche se in passato (quando osservava la vecchia legge, dalla quale ora Virgilio lo libera) può aver ritenuto giusto il disdegno che spinge alla vendetta privata.

2. I falsari

E già la luna è sotto i nostri piedi (Inf. XXIX, 10). Al suono della quarta tromba (terza visione, Ap 8, 12), il sole (la solare dottrina dei dottori del terzo stato e la solare vita dei padri contemplativi del quarto: i due periodi concorrono, come intelletto e affetto, Impero e Papato, a infiammare il meriggio dell’universo), la luna (i conventuali del quarto stato illuminati dal sole), le stelle (i singoli alti contemplativi), il giorno (la plebe illuminata dal sole) e la notte (i più rudi illuminati dalle stelle) vengono oscurati per la terza parte (gli ipocriti). L’esegesi si avvale di Gioacchino da Fiore in altro punto, ad Ap 12, 1-2 (quarta visione), dove si tratta della donna vestita di sole, che ha sul capo una corona di dodici stelle e tiene la luna sotto i piedi, cioè le cose temporali mutabili e ombrose, o la scienza mondana fredda e notturna. Spiega Gioacchino, nel V libro della Concordia, che si tratta di “una” donna designante un singolo ordine di contemplativi distinto in tre gradi: i più alti contemplativi (il sole), i prelati nei monasteri (che ne sono a capo, quasi stelle), i loro sottoposti (che vivono in perfetta disciplina, quasi luna sotto i piedi della donna). Olivi sottolinea come i contemplativi del quarto stato non lo furono tutti in modo uguale: alcuni di inferiore grado, assimilabili alla luna, si dedicarono alla vita attiva (prologo, Notabile XIII; Ap 8, 12).
Una presenza della tematica è in Inf. XXIX, 10: “E già la luna è sotto i nostri piedi”. Queste parole, al di là del riferimento astronomico che indica come ora l’una o poco più dopo mezzogiorno, sono dette da Virgilio in un contesto in cui rimprovera Dante di soffermarsi troppo a guardare le ombre tristi e smozzicate dei seminatori di scandalo e di scisma: potrebbero pertanto essere intese come un invito a conculcare e a disprezzare quanto è inutile guardare, visto il poco tempo ancora concesso e le altre cose che restano da vedere. Attraverso il “breve pertugio” della Muda, il conte Ugolino vede “più lune”: il nome della torre dei Gualandi, che è quello del luogo freddo e oscuro dove gli uccelli vanno a mudare, cioè a cambiare le penne, concorda con la mutabilità della luna (Inf. XXXIII, 22-27).
La diversità fra i contemplativi segna diversi luoghi del poema. Nell’Inferno, si ritrova nella “diversa legge” imposta ai dannati nel sabbione sotto la pioggia di fuoco (bestemmiatori, sodomiti, usurai: rispettivamente giacciono, vanno “continuamente”, siedono). Oppure nelle “diverse biche” dei falsari, i quali, come nell’immagine di Gioacchino da Fiore, stanno in “chiostra” (giacciono – “qual sovra ’l ventre e qual sovra le spalle / l’un de l’altro” -, o al modo della luna si trasmutano carponi; tutti “non potean levar le lor persone”, quasi per un temporaneo risorgere: cfr. Ap 4, 1-2). Oppure nelle ombre della Giudecca, tutte coperte dal ghiaccio (giacciono, stanno erte con la testa o con le piante dei piedi in alto, o stanno col volto incurvato all’indietro ad arco verso i piedi). Nel primo e nel secondo caso (Inf. XIV, 21-24; XXIX, 66-68) si tratta di zone a prevalenza tematica quarta (del quarto stato), nel terzo (Inf. XXXIV, 13-15) si intrecciano temi del terzo e quarto stato.

lamenti saettaron me diversi / che di pietà ferrati avean li strali; / ond’ io li orecchi con le man copersi (Inf. XXIX, 43-45). È questo esempio di come lo spessore delle parole sia la sintesi dei molteplici significati tratti dalla materia ordita. È stata notata (Chiavacci Leonardi) la vicinanza della petrarchesca “saetta di pietate” di Rime CCXLI, 7-8. Ma mentre in Petrarca il significato è che l’essere il poeta punto e assalito dalla pietà per lo “stato rio” di Laura è piaga che versa lagrime, in Dante gli strali “di pietà ferrati” indicano il contrario, come dimostrano i frammenti del panno originario. Le saette, come quelle tirate con l’arco dai centauri, designano la minaccia e la sentenza di condanna contro i reprobi (Ap 6, 2); ferrata è la durezza dell’inflessibile giustizia divina, impenetrabile alla pietà (Ap 9, 9, dove il tema è applicato alle corazze delle locuste ed usato in senso contrario a Capaneo, duro a ogni saetta del divino eloquio). Né può aver più luogo il motivo della quinta vittoria, il condiscendere con misericordiosa pietà verso gli infermi senza per questo contaminarsi da impurità o imperfezioni (Ap 3, 5): il poeta, che discende (v. 52), deve seguire quanto imposto in alto, di non dare orecchio all’angoscia suscitata dai lamenti (è scellerato provare passione di fronte al giudizio divino, aveva già ammonito Virgilio a Dante piangente nella bolgia degli indovini, Inf. XX, 28-30).

Qual dolor fora, se de li spedali / di Valdichiana tra ’l luglio e ’l settembre / e di Maremma e di Sardigna i mali / fossero in una fossa tutti ’nsembre (Inf. XXIX, 46-49). Il vescovo di Tiàtira, la quarta chiesa d’Asia, viene rimproverato per la sua condiscendenza verso Gezabele, moglie di Acab re d’Israele e fautrice dei quattrocento profeti di Baal: “Ma ho da rimproverarti – gli dice Cristo tramite Giovanni – perché permetti che Gezabele, la donna che si spaccia per profetessa, istruisca e seduca i miei servi inducendoli alla fornicazione e a mangiare carni immolate agli idoli” (Ap 2, 20). Questa donna, afferma Olivi, viene qui chiamata Gezabele misticamente, poiché era simile a quella, della quale parlò Ieu ad Acazia re d’Israele (cfr. 4 Rg 9, 22), nel potere e nel simulare false profezie con cui ingannava i servi di Dio. Così questa con la sua falsa profezia e dottrina traeva e seduceva i servi di Cristo, e forse a causa del suo potere temporale il vescovo di Tiàtira non osava riprenderla. Viene quindi sottolineata l’impenitenza di questa donna: “Io le ho dato il tempo per ravvedersi”, indugiando cioè nell’ucciderla e condannarla, “ma essa non vuole pentirsi della sua fornicazione” (Ap 2, 21). Per questo interviene la successiva minaccia: “Ecco, io la metto in un letto, e coloro che commettono adulterio con lei in una grandissima tribolazione” (Ap 2, 22). Il letto di cui si parla non è un letto di quiete, ma di dolore. Parla come se intendesse percuoterla con tante malattie e piaghe da farla sempre giacere inferma e prostrata nel letto, che si contrappone al letto della sua lussuria.
A questa esegesi dalla trama complessa, parodiata in più luoghi del poema, fa riferimento la descrizione dell’ultima bolgia, dove sono puniti i falsari (come Gezabele), un’ampia zona dove, nel quarto ciclo infernale, prevale la semantica relativa al quarto stato. La scena si apre con un richiamo al dolore e al giacere degli ammalati, paragonati al popolo di Egina reso infermo da Giunone: “Qual dolor fora, se de li spedali …” (Inf. XXIX, 46-69). Il tema del dolore segna ancora l’inizio del canto successivo, con la “dolorosa” Ecuba che latra come cane (cfr. Ap 22, 15) dopo aver visto la figlia Polissena morta e dopo aver scorto sulla riva del mare, pure morto, suo figlio Polidoro, “tanto il dolor le fé la mente torta” (Inf. XXX, 16-21; la morte è tema precipuo dell’apertura del quarto sigillo, ad Ap 6, 8).
Ad Ap 2, 23 contro Gezabele risuonano le parole di Dio: “Ucciderò a morte i suoi figli” (la vendetta di Giunone, gelosa per Semele, sui figli di Atamante e Ino; l’espressione, che lascia indeterminato il numero – “interficiam filios eius in mortem” – esclude al v. 5 – “che veggendo la moglie con due figli” -, la variante co’ due figli).
Si afferma anche che tutte le chiese sapranno del giudizio emesso: il falsario maestro Adamo, nella rissa con il falso Sinone “greco di Troia”, ricordando “del cavallo” gli dice: “e sieti reo che tutto il mondo sallo!” (Inf. XXX, 118-120; una variante è nelle parole di Omberto Aldobrandesco a Purg. XI, 64-66: “e sallo in Campagnatico ogne fante”). Pure il riferimento alla “ventraia” e all’aver “infiata l’epa” da parte del falsario di Romena rientra nell’istruzione alla quarta chiesa, poiché ad Ap 2, 22 Olivi cita san Paolo ai Filippesi circa i falsi apostoli: “hanno il loro ventre come Dio e come gloria” (Ph 3, 19).

tra ’l luglio e ’l settembre (Inf. XXIX, 47). Nella quinta visione apocalittica, il quarto angelo versa la coppa sul sole, cioè sull’ipocrisia degli anacoreti che i santi dottori del quarto tempo vituperarono e resero confusa. Secondo Gioacchino da Fiore (Expositio), questi ipocriti si ritengono santi e più degni degli altri, perciò se vengono rimproverati si accendono d’ira e sogliono lamentarsi e narrare la propria vita a quanti vengano loro, in modo che sappiano che essi sono ripresi non per zelo di giustizia, ma per livore d’odio. Per questo gli uomini cominciano a scaldarsi, una volta che vedono generarsi liti e scandali tra quanti ritenevano santi. Così nel testo si dice: “e gli fu concesso” – al sole piagato dalla coppa versata – “di affliggere gli uomini col calore e col fuoco”, cioè di turbarli e accenderli d’ira contro i santi che li redarguiscono (Ap 16, 8). “E gli uomini si cossero per il gran caldo”, cioè per il grande abbruciamento dovuto al turbamento d’ira, “e bestemmiarono il nome di Dio che ha potere su queste piaghe e non si pentirono per dargli gloria” (Ap 16, 9). Questo perché, secondo Gioacchino, gli uomini ingannati e confusi dall’ipocrisia abbandonano coloro che avevano iniziato a venerare e, mutatisi in peggio, prorompono in blasfemie dicendo che quanti hanno prima seguito non vengono da Dio poiché odiano e perseguitano i suoi santi. Si può anche intendere, aggiunge Olivi, nel senso che quando questi ipocriti furono fatti servi dai Saraceni, riarsero di grandissima ira e impazienza contro Dio bestemmiando come empi e ingiusti i suoi giudizi, per cui erano stati così distrutti, ritenendosi con falsa presunzione santi e giusti. Essi provocarono i propri seguaci alla medesima impazienza, blasfemia e impenitenza, cosicché li fecero acremente scaldare.
Il tema del calore che affligge è presente nelle zone dell’inferno in cui sono preminenti i temi del quarto stato. Nella quarta zona del quarto ciclo infernale, gli ospedali di Valdichiana, di Maremma e di Sardegna “tra ’l luglio e ’l settembre”, cioè d’estate (che coincide con l’“estuare” di Ap 16, 8-9) sono richiamati nella descrizione della bolgia dei falsari (Inf. XXIX, 46-49), due dei quali stanno seduti a sé poggiati, “com’ a scaldar si poggia tegghia a tegghia” (vv. 73-74), immagine che grottescamente rinvia all’esegesi del quarto sigillo (Ap 6, 8). Il motivo della lite, congiunto con quello dell’ira, è nelle adirate parole che Virgilio rivolge al discepolo soffermatosi a contemplare la rissa – il “piato” – tra i falsari maestro Adamo e Sinone: “Or pur mira, / che per poco che teco non mi risso!” (Inf. XXX, 131-133; 145-148).

e tal puzzo n’usciva / qual suol venir de le marcite membre (Inf. XXIX, 50-51). I motivi proposti dall’esegesi, all’apertura del quarto sigillo, relativi al quarto cavallo – il pallore, la macerazione del corpo, l’aridità, il languore, il marcire pestilenziale, il colore della morte, la compagnia bestiale (Ap 6, 8) – sono presenti in vari luoghi del poema e in particolare nelle zone in cui prevale la tematica del quarto stato, appropriato storicamente agli anacoreti dall’alta vita contemplativa ma troppo ardua a mantenersi, e per questo volta in ipocrisia e falsità per poi essere distrutta dai Saraceni nei luoghi (in Oriente e in Africa settentrionale) dove più fiorì. Dei motivi propri del cavallo pallido è intessuta la lupa.
Nell’ultima bolgia, dei falsari, s’accoglie tanto dolore quanto sarebbe se si riunissero tutti insieme in una fossa i malati degli ospedali di Valdichiana, di Maremma e di Sardegna durante l’insalubre periodo estivo: dalla bolgia “tal puzzo n’usciva / qual suol venir de le marcite membre” (Inf. XXIX, 46-51). In quella oscura valle il poeta vede “languir li spirti per diverse biche” (v. 66). Il motivo del ‘trarre’, nell’esegesi connesso al diavolo che trae alla morte, passa nei falsatori di metalli, di cui è proprio l’esser “sì guasti” (v. 91), ai quali “sì traevan giù l’unghie la scabbia” (v. 82), e nel parlare di Capocchio sulla vanità dei Senesi, da cui ironicamente eccettua Stricca, Niccolò e la “brigata” (“Tra’mene … e tra’ne …”, vv. 125, 130; ma i verbi si possono ricondurre anche alla parodia dell’esegesi della chiesa di Sardi, la quinta chiesa d’Asia, presuntuosa e intorpidita con l’eccezione di “pochi nomi” [Ap 3, 4]). Gli anacoreti del quarto stato vivono del sufficiente; Virgilio si rivolge a un di loro augurando: “se l’unghia ti basti / etternalmente a cotesto lavoro” (v. 89-90; Ap 5, 1).
I falsatori di persone sono “ombre smorte e nude” (la nudità è altro attributo degli anacoreti, i protagonisti del quarto stato “nudi et soli”, come si dice ad Ap 5, 1), più crudeli del tebano Atamante nel “punger bestie”, cioè nel tendere le reti alla moglie e ai due figli creduti bestie (la bestialità è uno degli effetti del quarto pallido cavallo), e della troiana Ecuba nel fare altrettanto con “membra umane”, allorché strappò gli occhi all’uccisore del figlio Polidoro. Uno di questi folletti rabbiosi è Gianni Schicchi, che raggiunge Capocchio, lo azzanna sul collo, “sì che, tirando (ancora il ‘trarre’), / grattar li fece il ventre al fondo sodo” (Inf. XXX, 22-30).
Dell’esegesi di Ap 9, 1-2, dove viene descritta l’apertura del pozzo dell’abisso al suono della quinta tromba, fanno segno: i mali, tutti, tal puzzo n’usciva, l’aere, malizia (Inf. XXIX, 48-50, 60).

giù ver’ lo fondo, là ’ve la ministra / de l’alto Sire infallibil giustizia / punisce i falsador che qui registra (Inf. XXIX, 55-57). È proprio di Tiatira, la quarta chiesa d’Asia, ministrare i beni ai poveri: “Conosco il tuo ministero” dice Cristo ad Ap 2, 19. Poiché è proprio del vescovo dispensare ai poveri lui soggetti i beni della chiesa come beni comuni e come beni dei poveri, si fa riferimento al “ministero”, per quanto possa essere anche inteso come ministero del Verbo di Dio. Il tema del ministrare è presente in due zone dell’Inferno afferenti al quarto stato: la Fortuna, sulla quale Virgilio ragiona nel quarto cerchio dove stanno gli avari e i prodighi, fu ordinata da Dio “general ministra e duce / che permutasse a tempo li ben vani” (Inf. VII, 78-79; primo ciclo); la giustizia, infallibile “ministra / de l’alto Sire”, punisce nella decima bolgia i falsari (Inf. XXIX, 55-57, quarto ciclo; il motivo dell’occulta giustizia punitiva è, nell’esegesi della quarta chiesa, ad Ap 2, 23). La Fortuna è ordinata “a li splendor mondani”, cioè alla distribuzione di ogni bene temporale, come nei cieli le intelligenze angeliche fanno “sì, ch’ogne parte ad ogne parte splende, / distribuendo igualmente la luce” (Inf. VII, 73-78; nel quarto giorno Dio creò i “luminaria celi”: prologo, Notabile XIII).

e poi le genti antiche, / secondo che i poeti hanno per fermo, / si ristorar di seme di formiche (Inf. XXIX, 62-64). La Chiesa, fino alla fine del mondo, non deve estinguersi. Carlo Magno la difese dopo le devastazioni saracene raccogliendone le reliquie a Roma, in occidente (prologo, Notabile V); Filadelfia, la chiesa del sesto stato (corrisponde, per Olivi e Dante, ai tempi moderni), salva come Noè nell’arca il seme della fede dal diluvio dell’Anticristo (Ap 2, 1); il seme degli eletti sempre rimarrà (Ap 9, 15). Il principio, per Dante, vale anche per le genti che popolano “l’aiuola che ci fa tanto feroci”. Così fu per le genti antiche apparentemente tutte cadute per la pestilenza inviata da Giunone, alle quali non mancò tuttavia il pasto refettivo, come alla donna nel deserto della Gentilità: “e poi le genti antiche, / secondo che i poeti hanno per fermo, / si ristorar di seme di formiche” (Inf. XXIX, 62-64). I Mirmidoni, con cui Giove ripopolò Egina trasformando le formiche in uomini, salvarono allora il seme umano. Viene in mente José Saramago: “basterà che sopravviva qualche animaletto, qualche insetto, e i mondi ci saranno, quello della formica, quello della cicala, non sposteranno certo tende, non si guarderanno in uno specchio, ma questo che c’entra, in fondo l’unica grande verità è che il mondo non può essere morto” [La zattera di pietra, trad. it. di R. Desti, Torino 1997, p. 9]. Il pasto eucaristico della donna (la Vergine, ma anche la Chiesa o il corpo mistico di Cristo) è tema del quarto stato (prologo, Notabili III, XIIIAp 12, 14), il seme che rimane del quinto (Ap 12, 17).
Uno dei temi del quinto stato (quinta tromba) riguarda la polemica contro i Manichei (da intendersi contro Catari, Patarini e anche Valdesi). Costoro spregiavano la natura, considerata malvagia, condannando il matrimonio, deridendo la credenza che il corpo di Cristo potesse essere in una piccola ostia o ritenendo impossibile che Dio abbia creato animali tediosi come i vermi, le pulci o i rospi. Idee polemiche (esposte ad Ap 9, 5-6, nel mostrare come i ‘Manichei’ trafiggono i piedi dei fedeli) che ben potrebbero adattarsi alla formica, animale piccolo come l’ostia, partecipe della grazia divina tanto da essere stato dato da Giove per ristoro antico dell’umana gente. Da notare la presenza dei medesimi temi (i vermi, l’essere fastidioso, i piedi, il raccogliere dal Notabile V del prologo, sempre riferito al quinto stato), variati, nei piccoli animali che tormentano gli ignavi (Inf. III, 64-69).

Tab. I

[LSA, cap. II, Ap 2, 21-22 (Ia visio, IVa ecclesia)] Exaggerat autem huius femine impenitentiam, subdens (Ap 2, 21): “Et dedi illi tempus ut penitentiam ageret”, id est ob hoc distuli ipsam occidere et dampnare, “et non vult penitere a fornicatione sua”. Propter quod comminatur ei, subdens (Ap 2, 22): “Et ecce ego mitto eam in lectum, et qui mecantur cum ea in tribulationem maximam”, scilicet mitto. Quidam habent hic “erunt in tribulatione” in ablativo, sed prima littera verior est et antiquior. Nota quod est lectus quietis, et de hoc non loquitur hic; et est lectus doloris, de quo in Psalmo XL° dicitur (Ps 40, 4): “Dominus opem ferat illi super lectum doloris eius”, et de hoc loquitur hic. Unde, secundum Ricardum, alia translatio habet: “Mitto eam in luctum”. Loquitur autem ac si tot morbis et plagis eam percuteret quod semper infirma et prostrata iaceret in lecto, et loquitur per contrapositionem ad lectum sue luxurie.
Secundum etiam Ricardum, non di<x>it ‘mittam’ sed “mitto”, ut per presentiam temporis incuteret formidinem timoris. Non tamen di<x>it hoc absolute sed sub condicione, scilicet “nisi penitentiam egerit ab operibus suis”. Noluit enim per effrenatum timorem peccatores precipitari in desperationem, sed potius per temperamentum comminationis eos revocare, si penitere vellent, ad confidentiam sue miserationis*.
Quamvis autem, secundum Ricardum, per lectum et tribulationem intelligat eternam dampnationem**, nichilominus per hec intelligitur temporale et visibile exterminium ipsorum, alias non subderet quod omnes ille ecclesie scirent  iudicium super eos immissum.
Potest autem hoc referri mistice ad quartum tempus ecclesie.
*Cum enim, sub tertio tempore, gens Gothorum tempore Valentis imperatoris et arriani intrans in Greciam accepit heresim arrianam per episcopos eis a Valente missos, facta est quasi altera Iesabel, que nupsit Achab impio regi Israel. Unde et post sub Zenone imperatore una pars huius gentis, quasi altera Athalia filia Iesabel, intravit in regnum Iude, id est Rome seu Italie, feceruntque hic et ibi mala qualia ille due fecerunt in Israel et in Iuda. Sed tandem in quarto tempore suscitavit Deus Iustinianum imperatorem, quasi alterum Iheu (cfr. 4 Rg 9, 6-10) qui, congregata synodo episcoporum, tradidit illis condempnandam p<osteri>tatem Anastasii imperatoris heretici et aliorum hereticorum, qui erant quasi sacerdotes Baal, sed et gentem Gothorum cum suo rege, misso exercitu armatorum, delevit ex Italia et arrianam gentem Vandalorum ex Africa, et postmodum per Sarracenos plenius sunt deleti*. […]
Nota etiam quod omnes hereses, de quibus fit in istis ecclesiis mentio, leguntur dedite voluptati et carnalitati. Nam et de pseudoapotolis dicitur ad Philippenses III° quod “venter est eorum deus et gloria” (Ph 3, 19). Quamvis enim quedam secte hereticorum fingant ad tempus magnam castitatem et austeritatem, finaliter tamen occulte vel publice ad carnalia currunt.

In Ap I, viii (PL 196, col. 726 C). ** Ibid., col. 726 B-C.

* “Cum enim … sunt deleti” *: cfr. Gioacchino da Fiore, Concordia, III 2, c. 3; IV 1, cc. 13, 14, 18 (Patschovsky 2, pp. 319, rr. 8-12; 393, r. 8 – 394, r. 2; 401, r. 7 – 402, r. 8); Concordia V 6, c. 4 § 4 (Patschovsky 3, p. 970, rr. 10-13).

[LSA, Ap 6, 7-8 (IIa visio, apertio IVi sigilli)] “Et cum aperuisset sigillum quartum, audivi vocem quarti animalis”, scilicet aquile, “dicentis: Veni”, scilicet per imitationem mei et per attentionem ad tibi monstranda, “et vide” (Ap 6, 7).
“Et ecce equus pallidus” (Ap 6, 8), id est, secundum Ricardum, ypocritarum cetus per nimiam carnis macerationem pallidus et moribundus. “Et qui sedebat super eum”, scilicet diabolus, qui per pravam intentionem ypocritarum sedet in eis et per eos malitiam suam exercet, “nomen illi mors”. Hoc enim nomen bene diabolo convenit, quia per eum mors incepit et alios ad mortem trahere non cessat. “Et infernus”, id est omnes in inferno dampnandi, “sequeb<atur> eum”, quia omnes tales eum imitantur. “Et data est illi” id est diabolo, “potestas” scilicet per divinam permissionem, “super quattuor partes terre” id est super omnes terrenis inherentes, “interficere”  eos “gladio” scilicet peccati, “et fame” scilicet verbi Dei, “et morte” id est languore corporis vel pestilentia seu tabe mortifera, “et bestiis” id est a bestialibus moribus. Omnes namque, qui per amorem terrenorum diabolo serviunt, talia ab ipso stipendia accipiunt*. Vel, secundum eundem**, datur diabolo “potestas super quattuor partes terre” dum ei conceditur materiali “gladio et fame et morte et bestiis” affligere bonos per quattuor partes terre dispersos.

* In Ap II, vii (PL 196, col. 767 C-D).

** Ibid., coll. 767 D–768 A. 

Inf. XXIX, 46-51, 58-59, 65-72, 82, 91-92, 124-132

Qual dolor fora, se de li spedali
di Valdichiana tra ’l luglio e ’l settembre
e di Maremma e di Sardigna i mali
fossero in una fossa tutti ’nsembre,
tal era quivi, e tal puzzo n’usciva
qual suol venir de le marcite  membre.

Non credo ch’a veder maggior tristizia
fosse in Egina il popol tutto infermo ……

ch’era a veder per quella oscura valle
languir  li spirti per diverse biche.
Qual sovra ’l ventre e qual sovra le spalle
l’un de l’altro giacea , e qual carpone
si trasmutava per lo tristo calle.
Passo passo andavam sanza sermone,
guardando e ascoltando li ammalati,
che non potean levar le lor persone.

e sì traevan giù l’unghie la scabbia ……

“Latin siam noi, che tu vedi sì guasti
qui ambedue”, rispuose l’un piangendo ….

Onde l’altro lebbroso, che m’intese,
rispuose al detto mio: “Tra’mene Stricca
che seppe far le temperate spese,
e Niccolò che la costuma ricca
del garofano prima discoverse
ne l’orto dove tal seme s’appicca;
e tra’ne la brigata in che disperse
Caccia d’Ascian la vigna e la gran fonda,
e l’Abbagliato suo senno proferse”.

Inf. XXX, 13-30, 52-54, 100-102, 118-123

E quando la fortuna volse in basso
l’altezza de’  Troian che tutto ardiva,
sì che ’nsieme col regno il re fu casso,
Ecuba trista, misera e cattiva,
poscia che vide Polissena morta,
e del suo Polidoro in su la riva
del mar si fu la dolorosa accorta,
forsennata latrò sì come cane;
tanto il dolor le fé la mente torta.
Ma né di Tebe furie né troiane
si vider mäi in alcun tanto crude,
non punger bestie, nonché membra umane,
quant’ io vidi in due ombre smorte e nude,
che mordendo correvan di quel modo
che ’l porco quando del porcil si schiude.
L’una giunse a Capocchio, e in sul nodo
del collo l’assannò, sì che, tirando,
grattar li fece il ventre al fondo sodo.

La grave idropesì, che sì dispaia
le membra con l’omor che mal converte,
che ’l viso non risponde a la ventraia

E l’un di lor, che si recò a noia
forse d’esser nomato sì oscuro,
col pugno li percosse l’epa croia.

“Ricorditi, spergiuro, del cavallo”,
rispuose quel ch’avëa infiata l’epa;
“e sieti reo che tutto il mondo sallo!”.
“E te sia rea la sete onde ti crepa”,
disse ’l Greco, “la lingua, e l’acqua marcia
che ’l ventre innanzi a li occhi sì t’assiepa!”.

Purg. XI, 64-66

ogn’ uomo ebbi in despetto tanto avante,
ch’io ne mori’, come i Sanesi sanno,
e sallo  in Campagnatico ogne  fante.

Tab. II [Nota]

Inf. X, 77-78

“S’elli han quell’ arte”, disse, “male appresa,
ciò mi tormenta più che questo letto”.

Inf. XXX, 1-6, 13-21, 70-72

Nel tempo che Iunone era crucciata
per Semelè contra ’l sangue tebano,
come mostrò una e altra fïata,
Atamante divenne tanto insano,
che veggendo la moglie con due figli
andar carcata da ciascuna mano

E quando la fortuna volse in basso
l’altezza de’ Troian che tutto ardiva,
sì che ’nsieme col regno il re fu casso,
Ecuba trista, misera e cattiva,
poscia che vide Polissena morta,
e del suo Polidoro in su la riva
del mar si fu la dolorosa accorta,
forsennata latrò sì come cane;
tanto il dolor le fé la mente torta.

La rigida giustizia che mi fruga
tragge cagion del loco ov’ io peccai

a metter più li miei sospiri in fuga.

Inf. XVII, 106-111

Maggior paura non credo che fosse
quando Fetonte abbandonò li freni,
per che ’l ciel, come pare ancor, si cosse;
né quando Icaro misero le reni
sentì spennar per la scaldata cera,

gridando il padre a lui “Mala via tieni!”

Purg. VI, 76, 97-102, 118-120, 148-151; VII, 107-111

Ahi serva Italia, di dolore ostello

O Alberto tedesco ch’abbandoni
costei ch’è fatta indomita e selvaggia,
e dovresti inforcar li suoi arcioni,
giusto giudicio da le stelle caggia
sovra ’l tuo sangue, e sia novo e aperto,
tal che ’l tuo successor temenza n’aggia!

E se licito m’è, o sommo Giove
che fosti in terra per noi crucifisso,
son li giusti occhi tuoi rivolti altrove?

E se ben ti ricordi e vedi lume,
vedrai te somigliante a quella inferma
che non può trovar posa in su le piume,

ma con dar volta suo dolore scherma.

L’altro vedete c’ha fatto a la guancia
de la sua palma, sospirando, letto.
Padre e suocero son del mal  di Francia:
sanno la vita sua viziata e lorda,
e quindi viene il duol che sì li lancia.

Purg. XXIX, 115-120

Non che Roma di carro così bello
rallegrasse Affricano, o vero Augusto,
ma quel del Sol saria pover con ello;
quel del Sol che, svïando, fu combusto
per l’orazion de la Terra devota,   12, 16
quando fu Giove arcanamente giusto.

[LSA, cap. II, Ap 2, 21-23 (Ia visio, IVa ecclesia)] Exaggerat autem huius femine impenitentiam, subdens (Ap 2, 21): “Et dedi illi tempus ut penitentiam ageret”, id est ob hoc distuli ipsam occidere et dampnare, “et non vult penitere a fornicatione sua”. Propter quod comminatur ei, subdens (Ap 2, 22): “Et ecce ego mitto eam in lectum, et qui mecantur cum ea in tribulationem maximam”, scilicet mitto. Quidam habent hic “erunt in tribulatione” in ablativo, sed prima littera verior est et antiquior. Nota quod est lectus quietis, et de hoc non loquitur hic; et est lectus doloris, de quo in Psalmo XL° dicitur (Ps 40, 4): “Dominus opem ferat illi super lectum doloris eius”, et de hoc loquitur hic. Unde, secundum Ricardum, alia translatio habet: “Mitto eam in luctum”. Loquitur autem ac si tot morbis et plagis eam percuteret quod semper infirma et prostrata iaceret in lecto, et loquitur per contrapositionem ad lectum sue luxurie.
Secundum etiam Ricardum, non di<x>it ‘mittam’ sed “mitto”, ut per presentiam temporis incuteret formidinem timoris. Non tamen di<x>it hoc absolute sed sub condicione, scilicet “nisi penitentiam egerit ab operibus suis”. Noluit enim per effrenatum timorem peccatores precipitari in desperationem, sed potius per temperamentum comminationis eos revocare, si penitere vellent, ad confidentiam sue miserationis*.
Quamvis autem, secundum Ricardum, per lectum et tribulationem intelligat eternam dampnationem**, nichilominus per hec intelligitur temporale et visibile exterminium ipsorum, alias non subderet quod omnes ille ecclesie scirent iudicium super eos immissum.
Potest autem hoc referri mistice ad quartum tempus ecclesie.
* Cum enim, sub tertio tempore, gens Gothorum tempore Valentis imperatoris et arriani intrans in Greciam accepit heresim arrianam per episcopos eis a Valente missos, facta est quasi altera Iesabel, que nupsit Achab impio regi Israel. Unde et post sub Zenone imperatore una pars huius gentis, quasi altera Athalia filia Iesabel, intravit in regnum Iude, id est Rome seu Italie, feceruntque hic et ibi mala qualia ille due fecerunt in Israel et in Iuda. Sed tandem in quarto tempore suscitavit Deus Iustinianum imperatorem, quasi alterum Iheu (cfr. 4 Rg 9, 6-10) qui, congregata synodo episcoporum, tradidit illis condempnandam p<osteri>tatem Anastasii imperatoris heretici et aliorum hereticorum, qui erant quasi sacerdotes Baal, sed et gentem Gothorum cum suo rege, misso exercitu armatorum, delevit ex Italia et arrianam gentem Vandalorum ex Africa, et postmodum per Sarracenos plenius sunt deleti.* […]
Et filios eius” (Ap 2, 23), id est sequaces eius, “interficiam in mortem”, id est sic quod ducam eos ad mortem. Vel talis ingeminatio vehementem aggravationem interfectionis significat.
“Et scient omnes ecclesie”, scilicet per evidentiam facti, “quia”, id est quod, “ego sum scrutans renes et corda”, id est omnes internos cogitatus et affectus mentis et sensualitatis. In renibus enim viget sensualis concupiscentia carnis. Quando enim Deus aperte non punit mala quantum iustitia exigit, videtur ignorare mala et pondus eorum; quando autem iustissime et rigidissime et publicissime punit illa, tunc omnibus de facto patet quod ipse omnia mala quantumcumque occulta intime novit et ponderat, ac si ea profundissime scrutaretur.
Nota autem quam congrue proposuit Christus se habere oculos sicut flammam (cfr. Ap 2, 18), ut pateret quod omnia videt et penetrat et zelo ardenti urit et punit vel corripit, etiam permissionem huius episcopi, que vix crederetur esse peccatum nisi ipse eam increpasset tamquam culpabilem.
“Et dabo” et cetera, id est ex predicto iudicio scient quod ego “dabo”, id est retribuam, “unicuique vestrum secundum opera sua”, id est bonis dabo bona et malis mala. Duos actus iudicii ordinate tangit. Primus est diligens examinatio seu perscrutatio; secundus est <iusta> secundum exigentiam meritorum et demeritorum retributio, et pro hoc secundo dicit: “et dabo” et cetera.

[LSA, cap. XVI, Ap 16, 19 (VIa visio)] “Venit in memoriam ante Deum dare ei”, id est ad dandum ei, “calicem vini indignationis ire eius”. Deus videtur oblitus malitie peccantium quamdiu non punit aperte illam; quando autem aperte illam iudicat et punit tunc videtur recordari ipsius, non quidem ad ipsam glorificandam, sed potius puniendam.

In Ap I, viii (PL 196, col. 726 C). ** Ibid., col. 726 B-C.

* “Cum enim … sunt deleti” *: cfr. Concordia, III 2, c. 3; IV 1, cc. 13, 14, 18 (Patschovsky 2, pp. 319, rr. 8-12; 393, r. 8 – 394, r. 2; 401, r. 7 – 402, r. 8); Concordia V 6, c. 4 § 4 (Patschovsky 3, p. 970, rr. 10-13).

Purg. XVIII, 118-126

Io fui abate in San Zeno a Verona
sotto lo ’mperio del buon Barbarossa,
di cui dolente ancor Milan ragiona.
E tale ha già l’un piè dentro la fossa,
che tosto piangerà quel monastero,
e tristo fia d’avere avuta possa;
perché suo figlio, mal  del corpo intero,
e de la mente peggio, e che mal  nacque,
ha posto in loco di suo pastor vero.

Potest autem hoc referri mistice ad quartum tempus ecclesie. * Cum enim, sub tertio tempore, gens Gothorum tempore Valentis imperatoris et arriani intrans in Greciam accepit heresim arrianam per episcopos eis a Valente missos, facta est quasi altera Iesabel, que nupsit Achab impio regi Israel. Unde et post sub Zenone imperatore una pars huius gentis, quasi altera Athalia filia Iesabel, intravit in regnum Iude, id est Rome seu Italie, feceruntque hic et ibi mala qualia ille due fecerunt in Israel et in Iuda. Sed tandem in quarto tempore suscitavit Deus Iusti-nianum imperatorem, quasi alterum Iheu (cfr. 4 Rg 9, 6-10) qui, congregata synodo episcoporum, tradidit illis condempnandam p<osteri>tatem Anas-tasii imperatoris heretici et aliorum hereticorum, qui erant quasi sacerdotes Baal, sed et gentem Gothorum cum suo rege, misso exercitu armatorum, delevit ex Italia et arrianam gentem Vandalorum ex Africa, et postmodum per Sarracenos plenius sunt deleti.*

Il motivo del letto di dolore su cui giace inferma Gezabele, connesso con quello dell’Italia, nuovo regno di Giuda occupato dai Goti, nuovi adoratori di Baal (Ap 2, 22), percorre il primo verso dell’apostrofe “Ahi serva Italia, di dolore ostello” e gli ultimi, rivolti a Firenze: “vedrai te somigliante a quella inferma / che non può trovar posa in su le piume, / ma con dar volta suo dolore scherma” (Purg. VI, 76, 149-151; e si ricordino le parole di Farinata: «“S’elli han quell’ arte”, disse, “male appresa, / ciò mi tormenta più che questo letto”», Inf. X, 77-78). La tematica si ritrova ancora applicata in parte, nella ‘valletta dei principi’, a Filippo III di Francia ed Enrico di Navarra, che si dolgono di Filippo il Bello, “mal di Francia” (Purg. VII, 107-111).
Ad Ap 2, 23 Cristo dice al vescovo di Tiàtira: “Ucciderò a morte i suoi figli” (di Gezabele, la falsa profetessa), cioè farò in modo di condurli a morte; l’enfatico raddoppio dell’espressione indica il veemente aggravarsi dell’uccisione. “E tutte le chiese sapranno”, per l’evidenza del fatto, “che io sono colui che scruta le reni e i cuori”, che conosce cioè tutti i pensieri e gli affetti della mente e dei sensi. Un giusto giudizio dal cielo viene invocato dal poeta sul sangue di Alberto d’Asburgo per aver abbandonato l’Italia, “costei ch’è fatta indomita e selvaggia” (Purg. VI, 97-102). Deve essere un giudizio “novo e aperto”, come quello di cui si dice ad Ap 16, 19 (‘radice’ della sesta visione, relativa alla caduta di Babilonia), passo simmetrico ad Ap 2, 23, quando Dio pare ricordarsi della malizia di Babilonia solo nel momento in cui la punisce. Questo auspicato giudizio – allusione alla morte precoce di Rodolfo, primogenito di Alberto, nel 1307 – deve servire a incutere timore nel successore Enrico VII (Alberto venne assassinato il 1° maggio 1308, il 27 novembre fu eletto Enrico), come ad Ap 2, 22 le infermità minacciate a Gezabele servono ad intimorirla perché si ravveda. Quando Dante scriveva questi versi, poco dopo l’elezione di Arrigo, doveva pensare a un nuovo Iehu o a un nuovo Giustiniano che debellasse i profeti di Baal o le eresie. La domanda del poeta a Dio – “son li giusti occhi tuoi rivolti altrove?” (Purg. VI, 118-120) – contiene il tema dell’apparente oblio del giudizio divino che non punisce apertamente i mali, pur essendosi Cristo proposto con gli occhi fiammeggianti che tutto vedono e penetrano (“la rigida giustizia che mi fruga”, di cui parla maestro Adamo a Inf. XXX, 70). Il rivolgersi al “sommo Giove” crocifisso in terra è anche da collocare nel contesto del veemente chiamare la giustizia divina da parte dei santi all’apertura del quinto sigillo (Ap 6, 9.11). La giustizia divina che scruta le reni intervenne, su preghiera della Terra, a bruciare il carro del Sole malamente sviato da Fetonte, “quando fu Giove arcanamente giusto” e “Icaro misero le reni / sentì spennar per la scaldata cera” (Inf. XVII, 106-111; Purg. XXIX, 118-120).
Nel quarto girone della montagna, l’accidioso abate di San Zeno a Verona utilizza anch’egli questi temi nel suo parlare: la “dolente” Milano, che ragiona ancora del buon Barbarossa; Alberto della Scala, che “ha già l’un piè dentro la fossa” (morto nel settembre 1301; è proprio di Tiàtira, ad Ap 2, 18, il tema dei piedi simili all’oricalco, cioè del buon operare nella vita attiva) e che ha posto come abate di San Zeno “suo figlio, mal del corpo intero, / e de la mente peggio, e che mal nacque”: variazione dell’essere Athalia, figlia di Gezabele, penetrata nel regno di Giuda per operarvi del male, così come sotto l’imperatore Zenone una parte della gente dei Goti, quasi nuova Athalia figlia di Gezabele, sarebbe penetrata nel nuovo regno di Giuda, cioè in Italia (è da notare la singolare concordia fonica di Zenone, nella citazione occulta di Gioacchino da Fiore, con San Zeno) (Purg. XVIII, 118-126). I malanni di Giuseppe, figlio naturale di Alberto della Scala, zoppo nel corpo, difettoso nell’anima corrispondono alle infermità in cui è messa Gezabele. Dante non percepì la citazione oliviana di Gioacchino da Fiore, occultamente incastonata nel testo della Lectura. Scrivendo questi versi antiscaligeri, probabilmente nel 1309-1310 prima della discesa di Arrigo VII in Italia (novembre 1310) e della nomina a vicari imperiali di Alboino e Cangrande (1311), Dante pensò certamente a Iehu re d’Israele e a Giustiniano, prefigurazioni dell’“imperio del buon Barbarossa, / di cui dolente ancor Milan ragiona”. Vi è una stretta contiguità mentale e temporale fra questi versi e quelli di Purg. VI, 97-102, scritti anch’essi, come sopra si è detto, prima dell’arrivo in Italia di Arrigo. Nel cielo di Mercurio, Giustiniano parlerà di Romeo da Villanova utilizzando una celebre citazione, questa volta esplicita, di Gioacchino da Fiore (Par. VI, 127-142).

Tab. III

[LSA, cap. II, Ap 2, 20.24-25 (Ia visio, IVa ecclesia)] Tantum ac talem increpat, dicens (Ap 2, 20): “Sed habeo adversum te, quia permittis mulierem Iesabel, que se dicit propheten”, id est prophetissam (prophetes est communis generis, cuius accusativus est propheten), “permittis”, inquam, “docere et seducere servos meos, fornicari et manducare de idolaticis”, id est de hiis que oblata sunt idolis. Non claret ex textu an ista mulier ad litteram vocaretur Iesabel vel ipse vocet eam sic mistice, quia erat similis Iesabeli regine uxori Achab regis Israel, que fovebat quadringentos prophetas Baal et erat luxurie et carnalitati dedita, unde Iheu dicit Ochozie de ea: “Adhuc fornicationes matris tue Iesabel” et cetera (4 Rg 9, 22). Verisimilius tamen est quod mistice sic vocetur, quia erat similis illi in potentia et in fals<e> prophetie simulatione, ut sic facilius deciperet servos Dei et in luxuria et gula et idolatria ad quam sua falsa prophetia et doctrina trahebat seductorie servos Christi, et forte propter eius temporalem potentiam et dignitatem iste episcopus non audebat corripere eam.
Ricardus dicit quod quidam dicunt per Iesabel designari uxorem huius episcopi*. Sed non videtur probabile quod iste tam sanctus permitteret eam tanta et talia scelera libere perpetrare. Sed bene videtur quod per professionem baptismi esset huic episcopo subdita, alias non videtur corripiendus a Christo quia eam non corripiebat. Dicit enim Apostolus Ia ad Corinthios V°: “Quid enim michi de hiis qui foris sunt iudicare?” (1 Cor 5, 12). De hiis vero qui intus sunt premittit quod “si quis frater nominatur”, scilicet per famosam infamiam, “fornicator aut idolis serviens aut ebriosus, cum huiusmodi nec cibum sumere” (1 Cor 5, 11).
Posset tamen dici quod episcopus est increpandus si non se opponit forinsecis infidelibus quando nituntur seducere subditos episcopi. Non enim debet permittere ipsos seduci ab illis et trahi ad malum. […]
Ne autem boni propter tantam severitatem iudiciorum Dei credant se ad alia graviora et quasi importabilia teneri, ideo hoc excludit subdens (Ap 2, 24): “Vobis autem dico ceteris qui Tyatire estis”, id est ceteris huius ecclesie qui erant alii a predictis eiusdem ecclesie: “Quicumque non habent doctrinam hanc”, scilicet Iesabelis docentis fornicari et comessari; “qui non cognoverunt”, scilicet affectu et opere, “altitudinem Sathane”, id est altam superbiam et profundam malitiam diaboli; “vobis”, inquam talibus, “dico” quod “non mittam”, id est non imponam, “super vos aliud pondus”, scilicet preceptorum, “quemadmodum dicunt”, scilicet quidam deceptores. Ricardus: “quemadmodum dicunt”, id est sicut vobis minantur, quidam pseudoapostoli de Iudea. “Non mittam super vos aliud pondus”, id est non exigam a vobis veteres observationes legis**, cuius contrarium ipsi dicunt. “Tantum id quod habetis” (Ap 2, 25), scilicet evangelium meum et meam evangelicam legem, “tenete donec veniam”, scilicet ad vos remunerandos, id est usque ad mortem. Vel forte ad alia superstitiosa vel importabilia et supra vires eorum existentia dicebant eos teneri, quod Christus hic excludit.

* In Ap I, viii (PL 196, col. 726 A).

**
In Ap I, viii (PL 196, col. 727 C).

Inf. XXIX, 18-27

e soggiugnendo: “Dentro a quella cava
dov’ io tenea or li occhi sì a posta,
credo ch’un spirto del mio sangue pianga
la colpa che là giù cotanto costa”.
Allor disse ’l maestro: “Non si franga
lo tuo pensier da qui innanzi sovr’ ello.
Attendi ad altro, ed ei là si rimanga;
ch’io vidi lui a piè del ponticello
mostrarti e minacciar forte col dito,
e udi’ ’l nominar Geri del Bello”.

Inf. XXIX, 136-139; XXX, 40-45, 73-75, 97-99, 115-117

sì vedrai ch’io son l’ombra di Capocchio,
che falsai li metalli con l’alchìmia;
e te dee ricordar, se ben t’adocchio,
com’ io fui di natura buona scimia.

Questa a peccar con esso così venne,
falsificando sé in altrui forma,
come l’altro che là sen va, sostenne,
per guadagnar la donna de la torma,
falsificare in sé Buoso Donati,
testando e dando al testamento norma.

Ivi è Romena, là dov’ io falsai
la lega suggellata del Batista;
per ch’io il corpo sù arso lasciai.

L’una è la falsa ch’accusò Gioseppo;
l’altr’ è ’l falso Sinon greco di Troia:
per febbre aguta gittan tanto leppo.

“S’io dissi falso, e tu falsasti il conio”,
 disse Sinon; “e son qui per un fallo,
e tu per più ch’alcun altro demonio!”.

3. Il morso rabbioso

■ In Inf. XXIX si insinuano temi del quinto stato che sfociano nel canto seguente. La quinta proprietà delle locuste, che escono da pozzo dell’abisso al suono della quinta tromba (Ap 9, 1-2), sta nei denti che sono come quelli dei leoni, in quanto corrodono con la maldicenza la fama e la vita altrui e soprattutto dei loro concorrenti agendo con empia rapacità nelle cose temporali (Ap 9, 8). Altri passi concorrono ad arricchire la tematica del mordere. Il pungere delle locuste provoca il “remorsus conscientie” [1], che designa anche l’“ira” (Ap 9, 5), la quale è sinonimo di “rabbia” nella descrizione delle teste dei cavalli di Ap 9, 17-18 (sesta tromba), anch’esse paragonate ai leoni come i denti delle locuste di Ap 9, 8. Questi “corrodono”, come nella quinta coppa il dolore del cuore provocato dall’impazienza porta alla corrosione della propria lingua (Ap 16, 10). L’ira, nella quarta coppa, induce gli uomini a scaldarsi (Ap 16, 8-9). Si ha così un complesso di motivi che percorre i versi 73-87 di Inf. XXIX che descrivono la pena dei due lebbrosi Griffolino d’Arezzo e Capocchio: sono seduti l’uno con le spalle all’altro come si collocano due teglie a scaldare, menano il morso delle unghie sopra di sé, mostrano rabbia per il pizzicore (da notare i motivi del vegliare, da Ap 3, 3, proprio della quinta chiesa, e dell’attendere, da Ap 6, 9.11, quinto sigillo), si ‘dismagliano’ con le dita, staccandosi le croste che ricoprono la pelle come un’armatura (il tema dell’armatura appartiene sia alle locuste, di cui costituisce la sesta proprietà, ad Ap 9, 9, sia ai cavalieri che siedono sopra i cavalli ad Ap 9, 17).
Nel canto seguente, la crudeltà nell’addentare è caratteristica di Gianni Schicchi (che va “rabbioso … conciando” Capocchio) e di Mirra, due falsari di persone che pungono e mordono come mai fecero il tebano Atamante e la troiana Ecuba (Inf. XXX, 22-39).
All’esegesi delle locuste dalla quinta tromba sono da riferire anche il cruccio di Giunone (v. 1: “et cruciatus eorum ut cruciatus scorpii, cum percutit hominem”, Ap 9, 5); “rotollo” al v. 11, relativo ad Atamante che percuote il figlio Learco contro un sasso (la “vox rotarum”, settima malvagia proprietà delle locuste, ad Ap 9, 9); la crudeltà, il pungere, il mordere, i denti (vv. 23, 24, 26, 35; Ap 9, 5.8), la similitudine con il porco cui sia stato aperto il porcile (v. 27; l’“aper de silva” cui è assimilato il re delle locuste ad Ap 9, 11). Il “rimanere”, appropriato a Griffolino, rinvia alla quinta guerra (v. 31; Ap 12, 17). Mirra, “scellerata” e “amica” al padre oltre la misura del “dritto amore” (vv. 37-39), contiene in sé elementi da Ap 18, 4 (quinta parte della sesta visione), allorché una voce dal cielo ammonisce ad uscire da Babilonia per allontanarsi dalle sue scelleratezze, dalla sua amicizia e dalla sua compagnia.

■ Non mancano, in Inf. XXX, temi del terzo stato. Dapprima nella similitudine con antiche figure cui vengono paragonati i folletti pungenti Gianni Schicchi e Mirra. Ino, colpita nei figli dalla gelosia di Giunone come il marito Atamante, “s’annegò con l’altro carco”, il figlio Melicerte, morendo nelle acque dell’errore (v. 12; Ap 8, 11, terza tromba). Ecuba, alla vista dei figli morti “forsennata latrò sì come cane; / tanto il dolor le fé la mente torta”; Mirra, “che divenne / al padre, fuor del dritto amore, amica” (vv. 20-21, 38-39): il “dritto” e il “torto” senso della Scrittura sono motivi dell’apertura del terzo sigillo (Ap 6, 5; il latrare di Ecuba rinvia ad Ap 22, 15, passo della settima visione).
Più avanti, maestro Adamo ha l’“anguinaia tronca” (vv. 50-51: il tagliare proprio dei dottori, dalla terza chiesa, Ap 2, 12), per “la grave idropesì, che sì dispaia / le membra con l’omor che mal converte, / che ’l viso non risponde a la ventraia” (vv. 52-54): “dispaia” deriva dal “dividens cornua” che interpreta il nome della terza chiesa, Pergamo (Ap 2, 1); l’idropisia è, nella terza e quarta guerra (Ap 12, 16), l’effetto del bere l’acqua della dottrina erronea o delle ricchezze temporali che rende, oltre che idropici, anche lebbrosi e “inflati”, attributi dei falsari di metalli (Inf. XXIX, 124) e dello stesso maestro Adamo,
“quel ch’avëa infiata l’epa” (Inf. XXX, 119); il “ventre” è tema della quarta chiesa (Ap 2, 22). Nel Notabile XIII del prologo si parla dei “chori letaniarum” organizzati a Roma da Gregorio Magno per far cessare la piaga della “pestis inguinaria”; la peste cessò con l’apparizione di un angelo con la spada sul Castello che da questi è ancora nominato, non cessa però in eterno per il falsario.
Al verso 53, l’espressione “con l’omor che mal converte” elabora un tema dalla settima chiesa, Laodicea, accusata di perniciosa tepidezza (Ap 3, 15). Il calore della carità si contrappone in modo maggiore al tepore di quanto non lo sia al freddo, potendo il freddo riassurgere al caldo con maggiore facilità del tiepido, come è più facile trarre il vino buono dall’umore acqueo insito nella vite, una volta riscaldato, che dal vino putrefatto. Stazio userà questa immagine per spiegare la generazione dell’anima – “E perché meno ammiri la parola, / guarda il calor del sol che si fa vino, / giunto a l’omor che de la vite cola” (Purg. XXV, 76-78). Nel ventre di maestro Adamo, l’omor resta come “acqua marcia” (Inf. XXX, 122-123).

Nella prima parte di Inf. XXX continuano a mostrarsi temi del quarto stato, per quanto quelli del quinto abbiano ormai preso consistenza fin dal canto precedente. Il primo difetto che rende chiuso il quarto sigillo (nell’esegesi esposta ad Ap 5, 1) è il superbo essere indomito della nostra libertà: nella quarta apertura la morte che siede sul cavallo pallido, cioè sulla carne già morta e impallidita, domò e infranse la superba libertà delle chiese orientali che non vollero sottoporsi alla sede e alla fede di Pietro. E certo nulla è più adatto ad infrangere la superbia del nostro potere dell’assidua considerazione ed esperienza della fragilità umana e della morte. Per spuntare la superbia umana è infatti detto nell’Ecclesiastico: “A che insuperbisci, terra e cenere?” (Ecli 10, 9) e: “In tutte le tue opere ricordati della tua fine, e non cadrai mai nel peccato” (Ecli 7, 40). Il tema della “superba indomabilitas” è nelle parole con cui Virgilio si rivolge a Capaneo, che giace dispettoso e torto sull’orribil sabbione sotto la pioggia di fuoco: “O Capaneo, in ciò che non s’ammorza / la tua superbia, se’ tu più punito” (Inf. XIV, 63-64: quarta zona del secondo ciclo settenario). Il tema della considerazione della morte è appropriata, nella descrizione dell’ultima bolgia (quarta zona del quarto ciclo settenario), ai Troiani – la cui “altezza … che tutto ardiva” (motivo dell’ardua e alta vita degli anacoreti del quarto stato, distrutti dai Saraceni), fu volta in basso dalla fortuna, “sì che ’nsieme col regno il re fu casso” [2] – e a Ecuba, che “forsennata latrò sì come cane” dopo che la “dolorosa” (dal “lectus doloris” di Ap 2, 22) si fu accorta dei propri figli morti (Inf. XXX, 13-21). Da sottolineare l’immagine di Ecuba, “trista, misera e cattiva”, una furia paragonata ai rabbiosi falsatori di persona (v. 16; costoro sono “due ombre smorte e nude” [v. 25], cioè pallide come il cavallo che appare all’apertura del quarto sigillo ad Ap 6, 8), che è memore della “secta captivorum”, dei fedeli fatti schiavi dai Saraceni e passati alla loro setta mortifera, designata dal cavallo pallido, languido e moribondo che appare all’apertura del quarto sigillo.

[1] L’aggettivo pungitivus dell’esegesi (Ap 9, 5) esclude, a Inf. XXX, 24 – “non punger bestie” -, la variante pinger (nel senso di ‘sospingere’), sia perché “disdice al senso del passo” (Petrocchi), sia perché l’esegesi parodiata riguarda le pungenti locuste.
[2] Si noterà la corrispondenza con l’esegesi di Ap 2, 21-22, dove si fa riferimento a Giustiniano, il nuovo Ieu, che distrusse la gente dei Goti col suo re, di cui fu antica figura la distruzione di Troia, “che fé la porta / onde uscì de’ Romani il gentil seme” (Inf. XXVI, 59-60).

Tab. IV

[LSA, cap. IX, Ap 9, 5 (IIIa visio, Va tuba)] Quinto describit gravitatem doloris predictorum lesuram consequentis et concomitantis, unde subdit: “sed ut cruciarent mensibus quinque, et cruciatus eorum ut cruciatus scorpii, cum percutit hominem”. […] Per cruciatum autem designatur hic pungitivus re-morsus conscientie et timor gehenne, qui fidelibus in gravia peccata cadentibus non potest de facili deesse. Designat etiam iram et offensam quam temporaliter dampnificati et iniuriati a predictis locustis habent contra eas.

Inf. XXX, 1-3, 22-36, 46-48, 79-81

Nel tempo che Iunone era crucciata
per Semelè contra ’l sangue tebano,
come mostrò una e altra fïata

Ma né di Tebe furie né troiane
si vider mäi in alcun tanto crude,
non punger bestie, nonché membra umane,
quant’ io vidi in due ombre smorte e nude,
che mordendo correvan di quel modo
che ’l porco quando del porcil si schiude.
L’una giunse a Capocchio, e in sul nodo
del collo l’assannò, sì che, tirando,
grattar li fece il ventre al fondo sodo.
E l’Aretin che rimase, tremando
mi disse: “Quel folletto è Gianni Schicchi,
e va rabbioso altrui così conciando”.
“Oh”, diss’ io lui, “se l’altro non ti ficchi
li denti a dosso, non ti sia fatica
a dir chi è, pria che di qui si spicchi”.

E poi che i due rabbiosi fuor passati
sovra cu’ io avea l’occhio tenuto,
rivolsilo a guardar li altri mal nati.

Dentro c’è l’una già, se l’arrabbiate
ombre che vanno intorno dicon vero;
ma che mi val, c’ho le membra legate?

[LSA, cap. IX, Ap 9, 8 (IIIa visio, Va tuba)] Pro quinta (proprietate locustarum) dicit: “Et dentes e<a>rum sicut dentes leonum erant”, tum per crudelitatem detractionum vitam et famam alienam corrodentium et precipue suorum emu-lorum, tum propter impiam rapacitatem tempo-ralium.

[LSA, cap. IX, Ap 9, 17.19 (IIIa visio, VIa tuba)] “Et capita equorum erant quasi capita leonum” […] Rabies vero iracundie terribilis et crudelis et comminationum eius est apta ad flectendum et subiciendum omnes pusillanimes ad illorum votum et sectam.

Inf. XXXI, 1-3

Una medesma lingua pria mi morse,
sì che mi tinse l’una e l’altra guancia,
e poi la medicina mi riporse

Inf. XXXIV, 55-60

Da ogne bocca dirompea co’ denti
un peccatore, a guisa di maciulla,
sì che tre ne facea così dolenti.
A quel dinanzi il mordere era nulla
verso ’l graffiar, che talvolta la schiena
rimanea de la pelle tutta brulla.

 

 

4. La parodia degli apostoli Pietro e Paolo

Io vidi due sedere a sé poggiati, / com’ a scaldar si poggia  tegghia a tegghia, / dal capo al piè di schianze macolati (Inf. XXIX, 73-75). Il tema del timoroso rifugiarsi presso le pietre misericordiose, del darsi per paura alla roccia, proprio dell’apertura del sesto sigillo (Ap 6, 12-17; tema parodiato nei margini di pietra del Flegetonte indenni dalla pioggia di fuoco), può essere confrontato con quanto detto nell’esegesi dell’apertura del quarto sigillo (Ap 6, 7-8). Gioacchino da Fiore aveva identificato (nell’Expositio in Apocalypsim) il cavallo pallido, che si mostra all’apertura del quarto sigillo, con il regno dei Saraceni, che corrisponde per concordia al regno degli Assiri, i quali sotto il quarto sigillo dell’Antico Testamento devastarono e resero schiave le dieci tribù di Israele e quasi fecero lo stesso con il regno di Giuda, come all’apertura del quarto sigillo nel Nuovo Testamento furono devastate le chiese orientali – le nuove dieci tribù – e quasi la stessa sorte toccò alla chiesa latina, assimilata al regno di Giuda poiché, come in questo fu la vera e principale sede del culto divino (della vera lingua), così lo è nella chiesa latina o romana. Come allora, aggiunge Olivi, la tribù di Beniamino venne congiunta al regno di Giuda, così Paolo, della tribù di Beniamino, si congiunse in Roma con Pietro, che nel principato della fede fu un altro Davide e, tra gli apostoli, patriarca della nostra fede. Fu come il patriarca Giuda, al quale fu detto: “non sarà tolto lo scettro da Giuda” (Genesi  49, 10), poiché a lui Cristo disse: “io ho pregato per te, Pietro, perché non venga meno la tua fede” (Luca 22, 32.34) e “le porte degli inferi non prevarranno contro di essa”, contro cioè la Chiesa fermata sopra la tua fede (Matteo 16, 18).
Nel silenzioso andare per l’ultima bolgia fra i falsatori di metalli, guardando e ascoltando gli spiriti ammalati, Dante vede “due sedere a sé poggiati, / com’ a scaldar si poggia tegghia a tegghia”, e Virgilio domanda a uno di essi se vi sia lì con loro qualche “latino”, cioè italiano (Inf. XXIX, 73-74, 85-93). I due, seduti e latini, sono Griffolino d’Arezzo e il fiorentino Capocchio: a essi sono appropriati i temi della chiesa latina devastata dai Saraceni (“Latin siam noi, che tu vedi sì guasti”: esser ‘guasto’ corrisponde al cavallo pallido del quarto sigillo) e della ‘sede’ romana sostenuta congiuntamente da Pietro e Paolo (Ap 6, 8), che si trasforma nella grottesca immagine delle due teglie collocate sulla brace in modo da sostenersi reciprocamente. I falsatori di metalli si collocano in una zona con prevalenza di temi del quarto stato, dopo una zona ‘terza’ (la nona bolgia: Inf. XXVIII) e prima di una zona ‘quinta’, i cui temi si insinuano già in Inf. XXIX per poi sfociare nel canto seguente, dove si mantengono però ancora quelli del quarto (cfr. supra). È da notare come ai due falsari – “dal capo al piè di schianze macolati” (v. 75) – sia appropriato il tema, invertito nei termini, della Chiesa alla fine del quinto stato: “a planta pedis usque ad verticem est fere tota ecclesia infecta et confusa et quasi nova Babilon effecta” (prologo, notabile VII; il tema tornerà con la “puttana” flagellata dal gigante “dal capo infin le piante”, Purg. XXXII, 156).
La barca di Pietro, afferma Tommaso d’Aquino nel cielo del Sole (Par. XI, 118-121), fu degnamente mantenuta “in alto mar per dritto segno” da due colleghi, Francesco e Domenico, i due “campioni” della Chiesa di Roma all’opposto delle due teglie di falsari latini. Chiama Domenico “il nostro patrïarca”, appellativo che nell’esegesi scritturale è dato a Pietro, nuovo Giuda patriarca della fede tra gli apostoli. Non è espresso nei versi, ma si può dedurre, che Francesco sia da assimilare a Beniamino e a Paolo, apostolo delle genti – il “tuo caro frate / che mise teco Roma nel buon filo”, come dice Dante a san Pietro a Par. XXIV, 61-63.
Nel colloquio con i due falsari riaffiora la tematica, più volte registrabile nel poema in occasione di agnizioni, da
Ap 7, 13 (vv. 93, 106, 110, 133, 135: “ma tu chi se’ che di noi dimandasti?. … ditemi chi voi siete e di che genti … rispuose l’un … Ma perché sappi … sì che la faccia mia ben ti risponda). Variazioni su altri luoghi esegetici: di mostrar … intendo (v. 96; Ap 2, 19, la tematica della quarta chiesa è largamente utilizzata nel canto); si ruppe (v. 97; Ap 2, 12, dalla terza chiesa, molto sviluppata nel canto precedente); si volse (v. 98; Ap 1, 10); Dì a lor ciò che tu vuoli (v. 101; Ap 3, 8, la libertà di parlare data alla sesta chiesa); viva … soli (v. 105; Ap 8, 12, quarta tromba).

Tab. V

[LSA, cap. VI, Ap 6, 7-8 (IIa visio, apertio IVi sigilli) Et hinc est quod abbas Ioachim dicit per equum pallidum intelligi reg<num> Sarracenorum, cui per concordiam <correspondet> regnum Assiriorum, sub quarto signaculo Veteris Testamenti devastans et captivans regnum decem tribuum Israel et fere regnum Iude, sicut sub apertione quarti sigilli vastate sunt quasi decem tribus ecclesiarum orientalium* et fere ecclesia latina, que assimilata est regno Iude, quia sicut ibi fuit vera et principalis sedes divini cultus sic est et in ecclesia latina seu romana. Sicut etiam tribus Beniamin fuit tunc iuncta regno Iude, sic Paulus de tribu Beniamin est in Roma iunctus  Petro, qui in principatu fidei fuit alter David et inter apostolos nostre fidei patriarcha. Fuit quasi Iudas patriarcha, cui dictum est: “Non auferetur sceptrum de Iuda” (Gn 49, 10), sicut et Petro dixit Christus: “Ego pro te rogavi, Petre, ut non deficiat fides tua” (Lc 22, 32/34) et quod “porte inferi non prevalebunt adversus” ecclesiam super tua fide fundatam (Mt 16, 18).

* Expositio, pars II, f. 116ra.

Inf. XIV, 82-84, 141-142; XV, 1-12, 25-33; XVII, 23-24

Lo fondo suo e ambo le pendici
fatt’ era ’n pietra, e ’ margini dallato;   pietre
per ch’io m’accorsi che ’l passo era lici.

 li margini fan via, che non son arsi,
e sopra loro ogne vapor si spegne.

Ora cen porta l’un de’ duri margini;
e ’l fummo del ruscel di sopra aduggia,
sì che dal foco salva l’acqua e li argini.
Quali Fiamminghi tra Guizzante e Bruggia,
temendo ’l fiotto che ’nver’ lor s’avventa,
fanno lo schermo perché ’l mar si fuggia;
e quali Padoan lungo la Brenta,
per difender lor ville e lor castelli,
anzi che Carentana il caldo senta:
a tale imagine eran fatti quelli,
tutto che né sì alti né sì grossi,
qual che si fosse, lo maestro félli.

E io, quando ’l suo braccio a me distese,
ficcaï li occhi per lo cotto aspetto,
sì che ’l viso abbrusciato non difese
la conoscenza süa al mio ’ntelletto;
e chinando la mano a la sua faccia,
rispuosi: “Siete voi qui, ser Brunetto?”.
E quelli: “O figliuol mio, non ti dispiaccia
se Brunetto Latino un poco teco
ritorna ’n dietro e lascia andar la traccia”.

così la fiera pessima si stava
su l’orlo ch’è di pietra e ’l sabbion serra.

Inf. XXIX, 73-75, 85-93

Io vidi due sedere a sé poggiati,
com’ a scaldar si poggia  tegghia a tegghia,
dal capo al piè di schianze macolati

“O tu che con le dita ti dismaglie”,
cominciò ’l duca mio a l’un di loro,
“e che fai d’esse talvolta tanaglie,
dinne s’alcun Latino è tra costoro
che son quinc’ entro, se l’unghia ti basti
etternalmente a cotesto lavoro”.
Latin siam noi, che tu vedi sì guasti
qui ambedue”, rispuose l’un piangendo;

“ma tu chi se’ che di noi dimandasti?”.

Par. XI, 118-121

Pensa oramai qual fu colui che degno
collega  fu a mantener la barca
di Pietro in alto mar per dritto segno;
e questo fu il nostro patrïarca

[Notabile VII (prologus)] Ad istum autem reditum valde, quamvis per accidens, cooperabitur non solum multiplex imper-fectio in possessione et dispensatione temporalium ecclesie in pluribus compro-bata, sed etiam multiplex enormitas superbie et luxurie et symoniarum et causidicationum et litigiorum et fraudum et rapinarum ex ipsis occasionaliter accep-ta, ex quibus circa finem quinti temporis a planta pedis usque ad verticem est fere tota ecclesia infecta et confusa et quasi nova Babilon effecta.

Par. XXIV, 61-66

E seguitai: “Come  ’l verace stilo
ne scrisse, padre, del tuo caro frate
che mise teco Roma nel buon filo,

fede  è sustanza di cose sperate
e argomento de le non parventi;
e questa pare a me sua quiditate”.

5. Capocchio e la vanità dei Senesi

La seconda proprietà delle locuste che, al suono della quinta tromba (terza visione) escono dal pozzo dell’abisso al quale è stato tolto il freno, è la seguente: “e sopra le loro teste” (dei cavalli ai quali le locuste sono assimilate), “come corone simili all’oro”, cioè si gloriano del male fatto e per la superbia, l’affluenza della gloria temporale e la vittoria nelle guerre sostenute si ritengono quasi re coronati, anche perché sperano e si promettono premi eterni. È detto “come corone” perché la loro speranza e gloria non è vera ma vana e falsa e non è vero oro, cioè vera gloria, ma falsamente simile (Ap 9, 7).
Il ritenersi gran re è proprio di persone orgogliose come Filippo Argenti (Inf. VIII, 46-51; l’orgoglio è motivo tipico del quarto stato).
Nell’ultima bolgia è punito Capocchio, il fiorentino che rivela la vanità dei senesi, il quale falsò i metalli con l’alchimia e fu “di natura buona scimia”, cioè imitatore. Il nome del falsario concorda nel suono con “caput” e l’essere “scimia” con “similis” (Inf. XXIX, 136-139). Ad Ap 3, 3 (esegesi della quinta chiesa) è da ricondurre l’espressione “te dee ricordar”.
Filippo il Bello, altro falsario denunciato dall’aquila fra i re malvagi – “Lì si vedrà il duol che sovra Senna / induce, falseggiando la moneta” -, fa coniare monete di valore reale inferiore a quello nominale per sostenere le spese della guerra di Fiandra (Par. XIX, 118-120). Indurre dolore è un altro tema proprio delle locuste (Ap 9, 5-6; da notare la citazione di Gioacchino da Fiore incastonata nell’esegesi di Olivi).

Altri temi del quinto stato sono la pretesa di Griffolino d’Arezzo, che disse per gioco “I’ mi saprei levar per l’aere a volo”, per soddisfare la vanità del senese Albero Bernardini Prosperini che lo fece condannare al rogo (Inf. XXIX, 112-117): la vanità deriva dalle qualità delle locuste, che hanno le ali non disposte a un volo alto e diuturno, ma basso e di breve durata (Ap 9, 3) e sono vanagloriose (Ap 9, 7; le parole “arte” e “usai” rinviano ad Ap 14, 2).
Il tema del contemperare in modo proporzionato, peculiare del quinto stato che ‘tempera’ per le moltitudini l’arduo stato precedente proprio dei solitari contemplativi, suona ironico nelle parole di Capocchio contro la vanità dei Senesi: “Tra ’mene Stricca / che seppe far le temperate spese” (vv. 124-126; prologo, Notabile III). Alla brigata senese in cui Caccia d’Asciano “disperse … la vigna e la gran fonda” (vv. 130-131) [1] il falsario attribuisce il tema della distruzione della vigna da parte di “exterminans”, sommo re delle locuste (Ap 9, 11). Il modo di parlare “Tra ’ mene … e tra’ne”, che ironicamente esclude Stricca, Niccolò e la brigata dai vanitosi senesi, è parodia di quanto viene detto alla quinta chiesa, presuntuosa e intorpidita con l’eccezione di “pochi nomi” (Ap 3, 4; trahere è anche verbo presente ad Ap 6, 8, nell’esegesi del quarto sigillo utilizzata in altri punti del canto).
Il motivo della vigna distrutta (Ap 9, 11) è appropriato a san Domenico che la circuisce difendendola (Par. XII, 85-87), a Giovanni XXII che scrive atti solo per venderne la cancellazione (Par. XVIII, 130-132), a san Pietro che povero e digiuno seminò la vite ora “fatta pruno”, cioè inselvatichita (Par. XXIV, 109-111). Il nome greco del re delle locuste – “Apollion” – è però assunto in senso positivo nell’invocazione al “buono Appollo” a Par. I, 13.

[1] e tra’ne la brigata in che disperse / Caccia d’Ascian la vigna e la gran fonda (Inf. XXIX, 130-131). La citazione del Salmo 79, 9.13-14, oggetto della parodia – «Vineam de Egipto transtulisti”, id est ecclesiam de statu gentilitatis eduxisti, “et plantasti eam; ut quid destruxisti maceriam eius, et vindemiant eam omnes qui pretergrediuntur viam. Exterminavit eam aper de silva” et cetera» – conferma il significato di fonda come fundus, cioè podere. Infatti maceria indica i muri a secco che cingono le proprietà. Da escludere pertanto la variante fronda.

Tab. VI

[LSA, cap. IX, Ap 9, 5-6 (IIIa visio, Va tuba)] Quinto describit gravitatem doloris predictorum lesuram consequentis et concomitantis, unde subdit: (Ap 9, 5) “sed ut cruciarent mensibus quinque, et cruciatus eorum ut cruciatus scorpii, cum percutit hominem. (Ap 9, 6) Et in diebus illis querent homines mortem et non invenient eam et desiderabunt mori, et fugiet mors ab illis”. Per cruciatum autem designatur hic pungitivus remorsus conscientie […] Quod autem ait (Ap 9, 5), “dictum” esse “illis”, id est prohibitum seu non permissum, “ne occiderent eos, sed ut cruciarent mensibus quinque”, dicit Ioachim non esse hoc dictum de morte eterna, sed de totali extinctione fidei*. Quod est intelligendum respectu illorum carnalium quos non omnino in suum errorem trahunt, sed solum suis stimulis in dubium valde cruciativum inducunt […]

Expositio, pars III, f. 131va.

[LSA, cap. IX, Ap 9, 7 (Va tuba)] Pro secunda (mala proprietate locustarum) dicit: “Et super capita eorum”, scilicet equorum, “tamquam corone similes auro”, id est gloriantur cum male fecerint, et per superbiam et per temporalis glorie affluentiam et per preliorum suorum victoriam reputant se quasi coronatos et reges, et etiam quia sperant et promittunt sibi premia eterna. Dicit autem “tam-quam corone”, quia eorum spes et gloria non est vera sed vana et falsa, nec est verum aurum, id est vera gloria, sed falso similis.

[LSA, cap. IX, Ap 9, 11 (Va tuba)] Rex autem harum locustarum recte vocatur “Exterminans” (Ap 9, 11), ut insinuetur esse ille de quo in Psalmo dicitur: “Vineam de Egipto transtulisti”, id est ecclesiam de statu gentilitatis eduxisti, “et plantasti eam; ut quid destruxisti maceriam eius, et vindemiant eam omnes qui pretergrediuntur viam. Exterminavit eam aper de silva” et cetera (Ps 79, 9.13-14).

Par. XIX, 118-120

Lì si vedrà il duol che sovra Senna
inducefalseggiando la moneta,
quel che morrà di colpo di cotenna.   aper de silva

Inf. VIII, 46-51

Quei fu al mondo persona orgogliosa;
bontà non è che sua memoria fregi:
così s’è l’ombra sua qui furïosa.
Quanti si tegnon or là sù gran regi
che qui staranno come porci in brago,

di sé lasciando orribili dispregi!

Inf. XXIX, 121-123, 130-139

E io dissi al poeta: “Or fu già mai
gente sì vana come la sanese?
Certo non la francesca sì d’assai!”.

e tra’ne la brigata in che disperse
Caccia d’Ascian la vigna e la gran fonda,
e l’Abbagliato suo senno proferse.
Ma perché sappi chi sì ti seconda
contra i Sanesi, aguzza ver’ me l’occhio,
sì che la faccia mia ben ti risponda:
sì vedrai ch’io son l’ombra di Capocchio,
che falsai li metalli con l’alchìmia;
e te dee ricordar, se ben t’adocchio,
com’ io fui di natura buona scimia.

Nell’esegesi dell’apertura del sesto sigillo (Ap 7, 3), Olivi chiarisce con dieci “rationes” per quale motivo, prima dello sterminio temporale della nuova Babilonia, la verità della vita evangelica debba essere solennemente impugnata e condannata dai reprobi e, per converso, debba essere più fervidamente difesa e osservata dagli uomini spirituali e più chiaramente compresa e predicata, perché appunto allora vi sia il solenne inizio della sesta apertura. Olivi, che pure ha udito da diversi testimoni fededegni che il santo padre Francesco più volte ha predetto questa tentazione, persino che debba essere malignamente e principalmente esercitata da quanti professano il suo stato, aggiunge qualche breve ragione.
La nona “ratio” è tratta dai semi di errori già piantati e radicati nella Chiesa. Infatti quasi tutti i chierici e i regolari che possiedono qualcosa in comune sembrano non sentire nulla della rinuncia evangelica a tali beni. Molti poi, pur optando per questa rinuncia – effettiva o apparente -, amano e stimano a tal punto la vita rilassata arrivando a sostenere che l’uso povero, o moderatamente ristretto, delle cose debba essere escluso dal voto di perfezione evangelica. Tutti costoro e altri ancora sembrano così ambire gli alti e opulenti uffici ecclesiastici, così anelare a ottenere e procurare privilegi che dispensano dalle restrizioni regolari istituite all’inizio, che è veramente cieco chi non si accorge che da simile radice del serpe esce il basilisco che divora il volatile (cfr. Isaia 14, 29), cioè il volo della vita evangelica e di molti che volano con le sue ali.

I motivi della nona “ratio” – la vita rilassata e l’uso povero – sono appropriati in modo ironico a Belacqua, il pigro liutaio che siede lasso all’ombra di “un gran petrone”, al rifugio di una pietra o di un sasso secondo quanto si verifica all’apertura del sesto sigillo (Ap 6, 15-16; Purg. IV, 97-135). La sua voce suona verso il poeta, angosciato dall’affannosa salita: “Forse / che di sedere in pria avrai distretta!”. Belacqua si presenta come una figura del quinto stato: appare dopo la faticosa ascesa al primo balzo (segnata dai temi del quarto stato, di cui è propria l’ardua vita degli anacoreti), sta seduto (al quinto stato appartiene il motivo della “sede” romana), è “lasso” e negligente (come il vescovo della chiesa di Sardi, ozioso e intorpidito: Ap 3, 3); l’angelo di Dio, che siede sulla porta del purgatorio, non lo lascerebbe andare ai tormenti poiché si è pentito solo in fin di vita (la porta del purgatorio, aperta a Dante, è segno del sesto stato: Ap 3, 8-9; il ritardare il pentimento in fin di vita è un altro motivo dell’istruzione alla quinta chiesa). La domanda di Dante – “ma dimmi: perché assiso / quiritto se’? attendi tu iscorta, / o pur lo modo usato t’ha’ ripriso?” – è una burlesca sul tema dell’usus pauper, come lo è la “distretta” di sedere insinuata da Belacqua nei confronti del poeta “lasso” per la salita (“in pria … distretta”, che nei versi significa ‘necessità’, corrisponde nel testo esegetico alle “regulares restrictiones primitus institutas”, cioè alla severità originaria della vita religiosa dalla quale i rilassati anelano a farsi dispensare).

Nell’Eden Matelda è inviata a spiegare e a preparare Dante sulla “novella fede” – la “religïone de la montagna”, fondata sull’usus pauper, che non riceve alcuna alterazione esterna – ‘impugnata’ da qualcosa che appare diverso (la presenza del vento e dell’acqua), al modo con cui i futuri predicatori spirituali debbono essere preparati a subire le subdole tentazioni dell’Anticristo. Come da lei spiegato disnebbiando l’intelletto del poeta (cfr. Ap 5, 1; 16, 17), il vento che fa stormire le fronde della selva e l’acqua del Lete e dell’Eunoè non sono generati da vapori terrestri o da precipitazioni atmosferiche (Purg. XXVIII, 103-133). Questo aspetto di Matelda, assidua praticante dell’usus pauper (“come tu se’ usa, le dice Beatrice al v. 128), avrebbe dovuto essere ben chiaro a uno Spirituale. Si tratta infatti di un preciso richiamo con inequivocabili parole-segni all’usus pauper, l’evangelico divieto di possedere beni mondani, grande tema dell’Olivi che Dante estende dall’Ordine francescano all’universale edenica mondanità. Su questo punto, il discorso l’aveva cominciato Stazio, spiegando i motivi del terremoto che ha scosso la montagna, la cui “religione” non è mai “fuor d’usanza” (Purg. XXI, 40-45); lo continuerà Beatrice nel rimproverare Dante del suo errore, cioè del suo traviamento nelle virtù morali e intellettuali a causa del “mal seme” per il quale “fu’ io a lui men cara e men gradita” (Purg. XXX, 118-120, 127-129).

■ Olivi, tornando ad Ap 12, 6 su quanto già trattato a 7, 3, asserisce che contro gli avversari dell’usus pauper, erranti rispetto alla povertà evangelica con l’introduzione del seme dell’Anticristo mistico, il papa Niccolò III ha emanato la decretale Exiit qui seminat (1279, alla cui stesura partecipò probabilmente lo stesso Olivi). Confermando ironicamente quanto detto da Dante sulla vanità dei Senesi, Capocchio cita “Niccolò che la costuma ricca / del garofano prima discoverse / ne l’orto dove tal seme s’appicca” (Inf. XXIX, 127-129). Le parole del falsario fiorentino significano un’antifrasi dell’esegesi:

 

Niccolò III (papa) affermò la necessità dell’uso povero dei beni nell’Ordine france-scano, dove cresceva il mal seme contrario.

Niccolò (Bonsignori) introdusse l’uso ricco del chiodo di garofano nel campo dei Senesi, dove tal seme dava più frutto.

 Tab. VI bis

[LSA, cap. VII, Ap 7, 3 (IIa visio, apertio VIi sigilli)] Ex predictis autem patent alique rationes quare ante temporale exterminium nove Babilonis sit veritas evangelice vite a reprobis sollempniter impugnanda et condempnanda, et e contra a spiritalibus suscitandis ferventius defendenda et observanda et attentius et clarius intelligenda et predicanda, ut merito ibi sit quoddam sollempne initium sexte apertionis. Quamvis autem a pluribus fide dignis audiverim sanctum patrem nostrum Franciscum hanc temptationem pluries predixisse, et etiam quod per eius status professores esset malignius et principalius exercenda, nichilominus quasdam rationes breviter subinsinuo. […]

[nona ratio] Nona ratio sumitur ex errorum seminibus iam in ecclesia plantatis et radicatis. Nam fere omnes clerici et regulares possidentes aliquid in communi videntur minus bene sentire de evangelica abrenuntiatione huiuscemodi communium. Multi etiam, abrenuntiationem hanc secundum rem vel secundum apparentiam preferentes, sic amant et estimant laxam vitam quod usum pauperem seu moderate restrictum a voto perfectionis evangelice dicunt esse exclusum et etiam debere excludi. Omnes autem hii et alii sic videntur ambire prelationes ecclesie altas et opulentas, sicque anelare ad habenda et procuranda privilegia dispensative laxantia regulares restrictiones primitus institutas, quod cecus est qui non videt quod de tanta radice colubri egredietur regulus absorbens volucrem, id est volatum evangelice vite et plures volantes cum alis ipsius (cfr. Is 14, 29).

[LSA, cap. XII, Ap 12, 6 (IVa visio)] Prout autem inchoantur a Christi baptismo, id est post triginta annos a primo initio, sic in XLIgeneratione cepit ordo evangelicus per totam latinam ecclesiam esse in doctrina famosus, et in XLIIa cepit persecutio seu error dicentium statum religionis esse inferiorem seculari statu clericorum curam animarum habentium, et iterum error dicentium quod habere aliqua in communi est de evangelica perfectione Christi et apostolorum ac per consequens quod nichil tale in communi habere non est de evangelica perfectione. Insurrexerunt etiam alii non modici contra evangelicam paupertatem errores, contra quos est declaratio seu decretalis domini Nicholai <tertii> in eadem generatione edita. In eadem etiam Parisius prodierunt errores philosophici seu potius paganici, qui a doctoribus estimantur magna seminaria secte magni Antichristi, sicut et precedentes sunt seminaria et etiam plante errorum mistici Antichristi.

Purg. XXVIII, 85-87; XXXIII, 127-132

“L’acqua”, diss’ io, “e ’l suon de la foresta
impugnan dentro a me novella fede
di cosa ch’io udi’ contraria a questa”.

“Ma vedi Eünoè che là diriva:
menalo ad esso, e come tu se’ usa,
la tramortita sua virtù ravviva”.
Come anima gentil, che non fa scusa,
ma fa sua voglia de la voglia altrui
tosto che è per segno fuor dischiusa

Purg. XXX, 118-120, 127-129

Ma tanto più maligno e più silvestro
si fa ’l terren col mal seme e non cólto,
quant’ elli ha più di buon vigor terrestro.

Quando di carne a spirto era salita,
e bellezza e virtù cresciuta m’era,
fu’ io a lui men cara e men gradita

Inf. XXIX, 124-129

Onde l’altro lebbroso, che m’intese,
rispuose al detto mio: “Tra’mene Stricca
che seppe far le temperate spese,
e Niccolò che la costuma ricca
del garofano prima discoverse
ne l’orto dove tal seme s’appicca”

Purg. XXI, 40-45; XXII, 124-126

Quei cominciò: “Cosa non è che sanza
ordine senta la religïone
de la montagna, o che sia fuor d’usanza.
Libero è qui da ogne alterazione:
di quel che ’l ciel da sé in sé riceve
esser ci puote, e non d’altro, cagione”.

Così l’usanza fu lì nostra insegna,
e prendemmo la via con men sospetto
per l’assentir di quell’ anima degna.

Purg. IV, 97-108, 121-126

E com’ elli ebbe sua parola detta,
una voce di presso sonò: “Forse
che di sedere in pria avrai distretta!”.
Al suon di lei ciascun di noi si torse,
e vedemmo a mancina un gran petrone,
del qual né io né ei prima s’accorse.
Là ci traemmo; e ivi eran persone
che si stavano a l’ombra dietro al sasso
come l’uom per negghienza a star si pone.
E un di lor, che mi sembiava lasso,
sedeva e abbracciava le ginocchia,
tenendo ’l viso giù tra esse basso.

Li atti suoi pigri e le corte parole
mosser le labbra mie un poco a riso;
poi cominciai: “Belacqua, a me non dole
di te omai; ma dimmi: perché assiso
quiritto se’? attendi tu iscorta,
o pur lo modo usato t’ha’ ripriso?”.

Inf. XXIX, 127-129 [43]

e Niccolò che la costuma ricca
del garofano prima discoverse
ne l’orto dove tal seme s’appicca

Purg. XXX, 127-129

Quando di carne a spirto era salita,
e bellezza e virtù cresciuta m’era,
fu’ io a lui men cara e men gradita

Purg. XXXIII, 127-129

Ma vedi Eünoè che là diriva:
menalo ad esso, e come tu se’ usa,
la tramortita sua virtù ravviva.

[Ap 7, 3; nona ratio] Nona ratio sumitur ex errorum seminibus iam in ecclesia plantatis et radicatis. Nam fere omnes clerici et regulares possidentes aliquid in communi videntur minus bene sentire de evangelica abrenuntiatione huiuscemodi communium. Multi etiam, abrenuntiationem hanc secundum rem vel secundum apparentiam preferentes, sic amant et estimant laxam vitam quod usum pauperem seu moderate restrictum a voto perfectionis evangelice dicunt esse exclusum et etiam debere excludi. Omnes autem hii et alii sic videntur ambire prelationes ecclesie altas et opulentas, sicque anelare ad habenda et procuranda privilegia dispensative laxantia regulares restrictiones primitus institutas, quod cecus est qui non videt quod de tanta radice colubri egredietur regulus absorbens volucrem, id est volatum evangelice vite et plures volantes cum alis ipsius (cfr. Is 14, 29). 

6. Le fonti della vita date in pena

O voi che sanz’ alcuna pena siete, / e non so io perché, nel mondo gramo (Inf. XXX, 58-59). Maestro Adamo, il falsario di Romena, si rivolge a Dante e a Virgilio variando i temi dell’apertura del sesto sigillo (Inf. XXX, 58-63). Quanti verranno condotti dall’Agnello a bere le fonti delle acque della vita beata “non avranno più fame né avranno più sete” (Ap 7, 16), cioè di cibo e bevanda corporali e di qualunque desiderio che rechi pena o che non abbia subito e pienamente quello che vuole. Non essere afflitti da alcun desiderio penale è appropriato ai due poeti (“O voi che sanz’ alcuna pena siete”), mentre il falsario, che in vita ebbe esauditi in abbondanza i suoi desideri (“io ebbi, vivo, assai di quel ch’i’ volli”; cfr. l’inciso “respectu … cuiuscumque desiderii non habentis plene et indistanter quod optat”), ora, nella miseria, brama un goccio d’acqua, asciugato com’è dall’immagine de “li ruscelletti che d’i verdi colli / del Casentin discendon giuso in Arno” (cfr. la brama data in pena ad Adamo “in pena e in disio” a Purg. XXXIII, 61-63). Il tema del maestro che sa, al quale Giovanni chiede chi siano i biancovestiti e da dove vengano (Ap 7, 13-14) è invertito rispetto alle parole di Francesca – “e ciò sa l tuo dottore” (Inf. V, 123) -: lì Virgilio sapeva, qui Adamo, che pure è “maestro”, non comprende – “e non so io perché” – il motivo della presenza “nel mondo gramo” dei due visitatori. Anche l’accenno alla “Fonte Branda” nel Campo di Siena, per la quale l’idropico non commuterebbe il vedere puniti i tre conti Guidi che lo istigarono a coniare fiorini di metallo vile (vv. 76-78), rientra nella tematica di Cristo che conduce alle fonti delle acque della vita (Ap 7, 17).L’espressione “nel mondo gramo” rinvia all’inopia” di Ap 5, 1 (cfr. Inf. XX, 81).

Li ruscelletti che d’i verdi colli / del Casentin discendon giuso in Arno, / faccendo i lor canali freddi e molli, / sempre mi stanno innanzi, e non indarno (Inf. XXX, 64-67). La quarta perfezione di Cristo sommo pastore consiste nella reverenda e preclara maturità del consiglio, designata dalla senile e gloriosa canizie del capo e dei crini, per cui si dice: “il suo capo e i suoi capelli erano candidi come lana bianca e come neve” (Ap 1, 14). Il capo costituisce la cima della mente e della sapienza; i capelli indicano la moltitudine e l’ornato dei sottilissimi e spiritualissimi pensieri e affetti, oppure la pienezza dei doni dello Spirito Santo che adornano la cima della mente. I capelli di Cristo sono bianchi come lana e come neve. La lana lenisce col calore, è molle, temperata e soave nel candore; la neve è fredda, congelata, rigida e intensa nel candore non sostenibile alla vista, ma è anche umore che purga e impingua la terra. Così la sapienza di Cristo è da una parte calda per la pietà e condescensiva in modo contemperato alle nostre facoltà; è dall’altra astratta, rigida e intensa, ma anche purgativa delle colpe e impinguativa della nostra eredità.
“Freddi e molli” sono i canali de “li ruscelletti che d’i verdi colli / del Casentin discendon giuso in Arno”, che “la rigida giustizia” divina fa sì che siano sempre dinanzi agli occhi di maestro Adamo, il falsario di Romena, per accrescergli l’arsura della sete dell’idropico datagli per pena (Inf. XXX, 64-72). Il bucolico paesaggio virgiliano – “hic gelidi fontes, hic mollia prata” (Buc. X, 42) – è qui armato dai motivi propri della sapienza divina, che si presenta, anche nella pena, insieme neve e lana, fredda e molle, oltre che ‘condiscendente’ (il tema è nei ruscelletti che “discendon”; da notare l’aggettivo “rigida”, presente nei versi e nell’esegesi).

Io son per lor tra sì fatta famiglia; / e’ m’indussero a batter li fiorini / ch’avevan tre carati di mondiglia (Inf. XXX, 88-90). Il sesto angelo (Ap 16, 12) versa la coppa (quinta visione) per prosciugare le acque del grande fiume Eufrate, che scorreva a difesa dell’antica Babilonia, interpretate da Gioacchino da Fiore come la milizia mondana dell’impero, romano o cristiano, per togliere cioè a questo la funzione di baluardo contro i re e i tiranni che dalla provincia orientale vengono coi loro eserciti a distruggere la nuova Babilonia. Olivi aggiunge l’opinione di alcuni i quali ritengono che la forza di questo deterrente si secchi per le lotte intestine tra i regni cristiani, e che ciò sia preparazione alla distruzione della Chiesa carnale e del suo principato ad opera dei dieci re e dell’undecimo che li comanda (Ap 17, 10.12.16; cfr. Daniele 7, 24).
Al momento in cui la coppa viene versata, Giovanni vede “tre spiriti immondi al modo delle rane”. Si tratta di “spiriti di demoni che operano segni e che vanno a radunare i re di tutta la terra per la guerra del gran giorno di Dio onnipotente” (Ap 16, 13-14). Questi tre spiriti designano sia le suggestioni astute, sottili e quasi spirituali che i demoni inducono e suggeriscono, direttamente o per la bocca di uomini maligni, sia alcuni uomini astuti e fraudolenti i quali, nunzi e ambasciatori dell’Anticristo, vanno a radunare i re affinché corrano in guerra contro la nuova Babilonia, cioè contro la Chiesa carnale.
In quanto tre, e uscenti concordemente da tre bocche (del drago, della bestia e del falso profeta), i tre spiriti immondi simili a rane rappresentano una trinità pessima opposta a quella santa delle persone divine e delle loro virtù. Verranno mandati dalle due genti o dalle due teste delle quali il drago, o il diavolo, sarà terzo e come il primo motore, cioè dal re dei pagani o dei Saraceni e dal falso papa o dal principe dei falsi profeti. Designano anche le tre categorie dei guerrieri (inviati dalla bestia), dei falsi maestri, dottori o predicatori (inviati dal falso profeta) e dei falsi religiosi (inviati per antonomasia dal drago), nei quali maggiore è la falsità, l’ipocrisia e la frode. Secondo Gioacchino da Fiore, il drago sta qui per l’Anticristo, nella cui adorazione sarà ricompresa quella del drago e attraverso il quale il drago principalmente parlerà e opererà; con la bestia viene designata la gente pagana o il loro monarca.
Di questi tre spiriti si dice che sono “immondi al modo delle rane” per mostrare la viltà, il fetore e la sussurratoria garrulità che promana da essi e dalle loro suggestioni. Sono “spiriti di demoni che operano segni”, poiché i demoni saranno tanto famigliari di quei nunzi, per mezzo dei quali faranno prodigi, o quelli lo saranno dei demoni tramite i quali opereranno, da fare in modo che si possa sensibilmente attribuire i segni agli spiriti demoniaci. Si può anche intendere che i nunzi opereranno prodigi per mezzo dei soli falsi profeti, e allora essi stessi saranno falsi profeti inviati dalle tre bocche del drago, della bestia e del falso profeta per concorde consiglio e beneplacito di questi tre.
Il tema della pessima trinità si configura con una certa frequenza nella prima cantica, dalle “tre furïe infernal di sangue tinte” (Inf. IX, 38) ai tre centauri Chirone, Nesso e Folo che si staccano dalla schiera alla vista dei due poeti (Inf. XII, 59-60: il motivo trinitario deriva anche da altro tema tratto da Ap 1, 8), dalle tre ombre dei sodomiti fiorentini che si dipartono insieme nell’arena dalla torma che passa sotto la pioggia di fuoco (Inf. XVI, 4-6) ai tre spiriti dei ladri fiorentini che si apprestano a trasmutarsi con altri due (Inf. XXV, 35).
Una variante è costituita da Gerione, “fiera pessima” e triplice (“pessima” è hapax nel poema): uomo nel volto, leone (o drago) nelle zampe artigliate, serpente nel resto con una coda simile a quella dello scorpione. Come i tre spiriti immondi si preparano alla guerra contro Babylon, così Gerione si presenta come “bivero”, il castoro che “tra li Tedeschi lurchi … s’assetta a far sua guerra” ai pesci (Inf. XVII, 21-24). Nel mentre Virgilio parla con Gerione, Dante va in visita agli usurai, “su per la strema testa / di quel settimo cerchio” (vv. 34-78). Ne vede tre, con le armi di famiglia che segnano una tasca che pende loro dal collo (i Gianfigliazzi, gli Obriachi, gli Scrovegni), provenienti da due città (Firenze, Padova) in attesa di altri due (il padovano Vitaliano del Dente e “’l cavalier sovrano”, cioè il fiorentino Gianni Buiamonti). Il rapporto numerico tra due e tre è proprio degli spiriti immondi simili a rane (che sono tre, ma inviati dalle due teste delle quali il drago è il primo motore). I tre spiriti, dice Olivi, sono “corretarii Antichristi”, cioè aiutanti del grande usuraio.
Questo rapporto numerico si ritrova nelle anime che morirono di morte violenta e si pentirono all’ultima ora meritando di stare nel secondo balzo della montagna, in attesa fuori della “porta di san Pietro”. Due di loro corrono incontro ai poeti “in forma di messaggi”, cioè di nunzi, per chiedere della loro condizione (Purg. V, 28-30), ma poi sono in tre a parlare: Iacopo del Cassero, Buonconte da Montefeltro e la Pia. Oltre al motivo dell’annunziare, di queste anime è proprio anche quello del sussurrare in modo garrulo per la meraviglia suscitata dal poeta che, essendo vivo, fa ombra col proprio corpo. Di qui il rimprovero di Virgilio a non prestare attenzione al mormorio: “che ti fa ciò che quivi si pispiglia?” (v. 12). Un motivo non del tutto estraneo ai casi infernali sopra considerati, visto che le Furie piangono e gridano alto, Chirone parla coi suoi compagni dei piedi di Dante che, poiché muovono ciò che toccano, non possono essere piedi di un morto; i tre sodomiti stanno nel luogo dove l’acqua del Flegetonte che cade nel girone sottostante rimbomba come ronzio di api dentro gli alveari; i tre ladri si chiamano l’un l’altro per nome.

 

La tematica dei tre spiriti immondi e istigatori, famigliari dell’Anticristo, percorre in Inf. XXX l’episodio di maestro Adamo, il quale accusa i tre fratelli conti di Romena – “io son per lor tra sì fatta famiglia” – di averlo indotto a falsificare “li fiorini / ch’avevan tre carati di mondiglia“. Anche Romena, il castello dei conti Guidi, per la singolare concordia nel suono con l’impero romano, su cui viene versata la sesta coppa, sembra partecipare della metamorfosi poetica dei motivi presenti nell’esegesi di Ap 16, 12-14.

Secundum Ioachim, per flumen Eufraten, quod influebat in Babilonem antiquam ispamque non modicum muniebat, designatur hic romani seu christiani imperii militia mundana … De quorum adductione, et per quorum suggestionem adducentur, ostendit subdens: “(Ap 16, 13) Et vidi de ore drachonis et de ore bestie et de ore pseudoprophete tres spiritus immundos exire in modum ranarum. …”. Per hos autem tres spiritus designantur tam suggestiones astute et subtiles et quasi spiritales, quam demones per se et per ora malignorum hominum suggerentes et inducentes … Per hoc autem quod dicit quod “sunt spiritus demoniorum facientes signa”, ostendit quod demones erunt sic familiares illis nuntiis per quos facient signa, seu illi per ipsos demones, quod quasi sensibiliter totum poterit ascribi ipsis spiritibus demonum.

Ivi è Romena, là dov’ io falsai / la lega suggellata del Batista; / per ch’io il corpo sù arso lasciai. / Ma s’io vedessi qui l’anima trista / di Guido o d’Alessandro o di lor frate, / per Fonte Branda non darei la vista. … Io son per lor tra sì fatta famiglia; / e’ m’indussero a batter li fiorini / ch’avevan tre carati di mondiglia (Inf. XXX, 73-78, 88-90; “mondiglia” è hapax nella Commedia).

Una pessima trinità, come si è già detto, è formata dai tre spiriti dei ladri fiorentini che si apprestano a trasmutarsi con altri due (Inf. XXV, 35). Corrono i ladri della settima bolgia (Inf. XXIV, 92; XXV, 140), ma il tema del correre alla guerra da parte dei re radunati dai tre spiriti immondi passa in Francesco che, giovinetto, per Povertà “in guerra / del padre corse” (Par. XI, 58-59); il motivo della concordia dei tre che inviano i nunzi – il drago, la bestia e il falso profeta – è nel concordare di Francesco con la sua donna più cara (“La lor concordia e i lor lieti sembianti”, v. 76), mentre correre è proprio anche dei suoi seguaci che per primi si scalzarono, e sono tre – il venerabile Bernardo, Egidio e Silvestro – come i tre spiriti immondi (vv. 79-84). L’andare (il verbo “vadere” riferito ai nunzi immondi, l’“indi sen va” a Francesco) è attribuito al padre e maestro, alla sua donna e alla “famiglia (altro tema appartenente ai nunzi, famigliari dei demoni) / che già legava l’umile capestro” (Par. XI, 85-87). In tal modo i versi esprimono la più alta conformità con Cristo, quella della prima famiglia francescana, per mezzo di una metamorfosi in positivo dell’esegesi dei tre spiriti immondi al modo delle rane, nunzi dell’Anticristo e famigliari dei demoni, figurati nel degrado dell’umana immagine propria dei ladri fiorentini.

Tab. VII

Inf. IX, 37-38; XII, 58-60; XVI, 4-6; XXV, 34-37

dove in un punto furon dritte ratto
tre furïe infernal di sangue tinte

Veggendoci calar, ciascun ristette,
e de la schiera tre si dipartiro
con archi e asticciuole prima elette

quando tre ombre insieme si partiro,
correndo, d’una torma che passava
sotto la pioggia de l’aspro martiro.

Mentre che sì parlava, ed el trascorse,
e tre spiriti venner sotto noi,
de’ quai né io né ’l duca mio s’accorse,
se non quando gridar: “Chi siete voi?”

Inf. XVII, 19-24

Come talvolta stanno a riva i burchi,
che parte sono in acqua e parte in terra,
e come là tra li Tedeschi lurchi
lo bivero s’assetta a far sua guerra,
così la fiera pessima si stava
su l’orlo ch’è di pietra e ’l sabbion serra. 

Inf. XXX, 73-78, 88-90

Ivi è Romena, là dov’ io falsai
la lega suggellata del Batista;
per ch’io il corpo sù arso lasciai.
Ma s’io vedessi qui l’anima trista
di Guido o d’Alessandro o di lor frate,
per Fonte Branda non darei la vista.

Io son per  lor tra sì fatta famiglia;
e’ m’indussero a batter li fiorini
ch’avevan tre carati di mondiglia.

[LSA, cap. XVI, Ap 16, 12-14 (Va visio, VIa phiala)] “Et sextus angelus effudit phialam suam in flumen magnum Eufraten et siccavit aquas eius, ut preparetur via regibus ab ortu solis” (Ap 16, 12). Secundum Ioachim, per flumen Eufraten, quod influebat in Babilonem antiquam ispamque non modicum muniebat, designatur hic romani seu christiani imperii militia mundana, unde et infra XVII° dicitur quod “aque”, super quas “meretrix sedet, sunt populi et gentes” (Ap 17, 15), quas oportet siccari et debilitari, ut non sit qui resistat regibus et tirannis ad destruendam novam Babilonem venturis, prout in capitulo sequenti dicitur (cfr. Ap 17, 16)*. […] Hec igitur erit preparatio ad facilius producendum carnalem ecclesiam in errores Antichristi magni et orientalium regum. De quorum adductione, et per quorum suggestionem adducentur, ostendit subdens: “(Ap 16, 13) Et vidi de ore drachonis et de ore bestie et de ore pseudoprophete tres spiritus immundos exire in modum ranarum. (Ap 16, 14) Sunt enim spiritus demoniorum facientes signa et procedunt ad reges totius terre congregare illos in prelium ad diem magnum Dei omnipotentis”.
Per hos autem tres spiritus designantur tam suggestiones astute et subtiles et quasi spiritales, quam demones per se et per ora malignorum hominum suggerentes et inducentes, quam <qui>dam homines astut<i> et dolos<i> Antichristi nunti<i> et imbaxatores et quasi corretari<i> ad congregandum hos reges mundi ut veniant in prelium contra Babilonem, id est contra ecclesiam carnalem.
Dicuntur autem tres a trino ore exire, tum in misterium trinitatis pessime, sancte trinitati personarum Dei et virtutum eius opposite; tum quia a duplici gente seu a duobus capitibus eius, in quibus dracho seu diabolus erit principalis et primus motor, mittentur, scilicet a rege gentis pagane vel sarracenice et a pseudopapa vel a pseudopropheta principe pseudoprophetarum; tum quia tres species nuntiorum et suggestorum in hoc concurrent, scilicet milites seu militares (et hii exibunt seu mittentur a bestia), et falsi magistri seu doctores vel predicatores (et hii mittentur a pseudopropheta), inter hos autem erunt quidam pseudoreligiosi drachonis fallacia et ypocrisis fraudulentia magis pleni (et hii per quandam anthonomasiam mittentur a drachone).
Vel, secundum Ioachim, dracho stat hic pro Antichristo**, in quo dracho quasi unus cum eo adorabitur et per quem principalius et familiarius loquetur et operabitur. Per bestiam vero, rex monarcha et paganus vel ipsa gens paganica.
Dicit etiam “immundos ad modum ranarum”, ut monstret vilitatem et feditatem et susurratoriam garrulitatem istorum spirituum seu nuntiorum et suarum suggestionum.
Per hoc autem quod dicit quod “sunt spiritus demoniorum facientes signa”, ostendit quod demones erunt sic familiares illis nuntiis per quos facient signa, seu illi per ipsos demones, quod quasi sensibiliter totum poterit ascribi ipsis spiritibus demonum. Si etiam per solos pseudoprophetas facient signa, tunc videtur quod nuntii a drachone et bestia et pseudopropheta missi erunt pseudoprophete, et secundum hoc dicuntur ex trino ore ipsorum exire, quia ex ipsorum trium concordi consilio et beneplacito ibunt.
Item ex hoc quod dicit eos ire ad congregandos reges, videtur quod antequam congregaverint eos non essent illi reges omnino subiecti Antichristo, nisi forte vadant ad reges ad hoc, ut libentius et animosius et unanimius ad bellum conveniant et concurrant.
Puto autem quod respectu diversorum temporum utrumque sit verum. Unde et quidam putant quod tam Antichristus misticus quam proprius et magnus erit pseudopapa caput pseudoprophetarum, et quod per eius et suorum pseudoprophetarum consilia et cooperationes acquiretur imperium illi regi per quem statuetur in suo falso papatu, sed ille rex qui statuet magnum faciet ipsum ultra hoc adorari ut Deum.

* Expositio, pars V, f. 190va.

** Ibid., pars V, f. 190va-b.

Purg. V, 12, 28-30

che ti fa ciò che quivi si pispiglia?

e due di loro, in forma di messaggi,
corsero incontr’ a noi e dimandarne:
“Di vostra condizion fatene saggi”.

Par. XI, 58-60

ché per tal donna, giovinetto, in guerra
del padre corse, a cui, come a la morte,

la porta del piacer nessun diserra

Inf. XXX, 88-90

Io son per  lor tra sì fatta famiglia;
e’ m’indussero a batter li fiorini
ch’avevan tre carati di mondiglia.

Purg. XV, 28-30

“Non ti maravigliar s’ancor t’abbaglia
la famiglia del cielo”, a me rispuose:
messo è che viene ad invitar ch’om saglia”.

Par. XII, 34-36, 73-75

Degno è che, dov’ è l’un, l’altro s’induca:
sì che, com’ elli ad una militaro,
così la gloria loro insieme luca.

Ben parve messo e famigliar di Cristo:
ché  ’l primo amor che ’n lui fu manifesto,
fu al primo consiglio che diè Cristo.

7. La rissa tra maestro Adamo e Sinone di Troia

Or pur mira, / che per poco che teco non mi risso! (Inf. XXX, 131-132). La rissa tra maestro Adamo e Sinone di Troia riconduce in parte alla tematica del quinto stato. La prima delle “male proprietates” delle locuste consiste infatti nell’avere “l’aspetto simile ai cavalli pronti per la guerra” (Ap 9, 7; quinta tromba). Esse sono forti, animose, pronte e agitate dai diavoli, quasi cavalli dai cavalieri, ad ogni rissa, vendetta, litigio. Il motivo dell’essere pronti è rinfacciato da Sinone al braccio del monetiere che lo ha colpito con un pugno: “Quando tu andavi / al fuoco, non l’avei tu così presto; / ma sì e più l’avei quando coniavi” (Inf. XXX, 109-111). Il motivo della rissa si estende a Virgilio che rimprovera irato il discepolo tutto fisso ad ascoltare con “bassa voglia” le “genti in simigliante piato”:  “Or pur mira, / che per poco che teco non mi risso!” (vv. 131-132). Al quinto stato appartengono anche fumman (v. 92, Ap 9, 1-2; quinta tromba), e Sinone “che si recò a noia / forse d’esser nomato sì oscuro”, sarcastica parodia dei santi del quinto stato che vissero senza conseguire fama ma saranno nominati nel libro della vita (vv. 100-101, Ap 3, 5; quinta vittoria).
Sono intrecciati fili dello stato precedente, il quarto. Il tema del ventre, dalla quarta chiesa (Ap 2, 22): “l’epa croia” (v. 102); “quel ch’avëa infiata l’epa” (v. 119; l’essere “inflati” è uno degli effetti del bere l’acqua del fiume, trattato ad Ap 12, 16 nell’esegesi congiunta della terza e della quarta guerra). Nell’istruzione data a Tiàtira si afferma che tutte le chiese sapranno del giudizio emesso su Gezabele (Ap 2, 22): maestro Adamo, ricordandogli “del cavallo” dice allo “spergiuro” Sinone: “e sieti reo che tutto il mondo sallo!” (vv. 118-120).

col pugno li percosse l’epa croia. / Quella sonò come fosse un tamburo (Inf. XXX, 102-103). Fra i falsari dell’ultima bolgia, “due tapini / che fumman come man bagnate ’l verno” – la moglie di Putifarre e Sinone greco di Troia – giacciono stretti alla destra (ai “destri confini”) di maestro Adamo (Inf. XXX, 91-93). L’accostamento del ‘giacere’ alla ‘destra’ non ha, in questo caso, il valore positivo del giacere della “destra costa” nel passaggio dalla quinta alla sesta bolgia (Inf. XXIII, 31-33). La mano destra, più forte della sinistra (Ap 1, 16), è comica allusione alla successiva rissa tra il falsario toscano e quello greco, un “piato”, come dice l’adirato Virgilio a Dante che si è fermato a guardarlo, tutt’altro che spirituale, come dovrebbe essere ciò che sta a destra. La rissa è in parte (Inf. XXX, 100-108) elaborata sui temi dell’esegesi di Ap 13, 3, relativa ai tre anni e mezzo di guerra mossi dall’Anticristo per conseguire la monarchia universale, prima perduta e poi recuperata (Olivi segue il V libro della Concordia di Gioacchino da Fiore). Nel primo anno di guerra l’Anticristo, una volta che gli sarà stato restituito il regno prima perduto, subito muoverà una guerra assai atroce, della quale dice il profeta Daniele: “Le braccia del combattente (brachia pugnantis) saranno annientate davanti a lui e sarà stroncato anche il capo dell’alleanza” (Dn 11, 22). Infatti, dopo essergli stato amico lo ingannerà. Nel secondo anno di guerra, verrà percosso nelle proprie membra, e ciò lo accenderà maggiormente in ardore d’ira. Questi motivi – le braccia, il muovere, il ‘pugnare’, il volto, l’essere percossi, le membra – sono appropriati ora all’uno ora all’altro dei due falsari. Nel canto successivo, sono attribuiti a Fialte, il gigante che tentò la scalata all’Olimpo, la sede del sommo Giove: “le braccia ch’el menò, già mai non move”; il suo braccio destro è incatenato indietro (Inf. XXXI, 85-90, 94-96).
Entrano nella rissa i motivi del “sonoro” e del “duro”, esposti nella discesa graduale del precipizio prospettata al vescovo della prima chiesa, Efeso, dove ad un certo punto il rame sonoro si trasforma nel ferro aspro e duro (Ap 2, 5): definito “falso” dal monetiere di Romena, il greco gli percuote “l’epa croia” – il ventre duro – col pugno. Il ventre risuona come un tamburo e maestro Adamo risponde colpendo l’altro al volto col braccio, “che non parve men duro” (vv. 100-108). Dall’evellere della medesima esegesi deriva “mi sia tolto” (Ap 2, 5).

Tab. VIII

[LSA, cap. I, Ap 1, 16 (Ia visio, radix)] Quia vero dextera manus est potentior quam sinistra, ideo dicit quod Christus habet eas “in dextera sua”, tamquam eius summe potentie subiectissimas. Quia etiam dextera designat potentiora bona et poten-tiorem partem, ideo dicuntur esse in dextera Christi quia spiritualem potestatem et statum dedit episco-pis, temporalem vero regibus mundi, et ideo illi sunt quasi in sinistra Christi. Nota etiam per hoc innui quod superior prelatus debet potestative et exem-plariter et causaliter in se habere omnes stellares perfectiones inferiorum prelatorum, quod utique Christus plenissime habet.

[LSA, cap. V, Ap 5, 1 (IIa visio, radix)] Visus autem est “in dextera” Dei, tum quia est in eius plena potentia et facultate, tum quia continet promissiones Christi gratie et glorie et etiam largitiones et preparationes, que dicuntur spectare ad dexteram sicut adversa vel bona temporalia dicuntur spectare ad sinistram. Erat etiam “in dextera sedentis super tronum”, tum quia continet leges et precepta summi imperatoris et sententias et iudicia summi iudicis, tum quia altam et stabilem et maturam et quietam ac recollectam mentem requirit ad hoc quod intel-lectualiter haberi et intelligi possit, unde et talis est intelligentia Dei.

Inf. XXX, 91-93, 100-108

E io a lui: “Chi son li due tapini
che fumman come man bagnate ’l verno,
giacendo stretti a’ tuoi destri confini?”. 

E l’un di lor, che si recò a noia
forse d’esser nomato sì oscuro,
col pugno li percosse l’epa croia.
Quella sonò come fosse un tamburo;
e mastro Adamo li percosse il volto
col braccio suo, che non parve men duro,
dicendo a lui: “Ancor che mi sia tolto
lo muover per le membra che son gravi,
ho io il braccio a tal mestiere sciolto”.

Inf. XXXI, 85-90, 94-96

A cigner lui qual che fosse ’l maestro,
non so io dir, ma el tenea soccinto
dinanzi l’altro e dietro il braccio destro
d’una catena che ’l tenea avvinto
dal collo in giù, sì che ’n su lo scoperto
si ravvolgëa infino al giro quinto.

Fïalte ha nome, e fece le gran prove
quando i giganti fer paura a’ dèi;
le braccia ch’el menò, già mai non move.

Purg. XIV, 139-141

“Io sono Aglauro che divenni sasso”;
e allor, per ristrignermi al poeta,
in destro feci, e non innanzi, il passo.

[LSA, cap. XIII, Ap 13, 3 (IVa visio, VIum prelium; Ioachim)] Subditur tamen quod post hoc veni<et> clam et obtinebit regnum <in> fraudulentia; percutiet enim fedus cum populo instinctu cuiusdam qui erit dux federis et mediator concordie. Ubi autem viderit sibi regnum redditum, illico movebit atro-cissimam pugnam, de qua et mox subditur: “Et brachia pugnantis expugnabuntur a facie eius et conterentur, insuper et dux federis” (Dn 11, 22), scilicet conteretur ab eo. Nam post amicitiam priorem faciet cum eo dolum. Prelium autem quod secundo anno faciet incipit ibi: “Et concitabitur fortitudo eius et cor eius adversus regem austri” (Dn 11, 25), usque ibi: “Et de eruditis ruent, ut conflentur et dealbentur usque ad tempus prefinitum, quia adhuc aliud tempus erit” (Dn 11, 35), id est quia sequetur tertius annus. De hoc autem quod ibi interseritur: “Et venient super eum trieres et Romani, et percutietur et revertetur” (Dn 11, 30), dicit Ioachim quod utrum hoc impleatur spiritaliter aut corpora-liter interim dubium relinquatur. Attamen ex illa percussione, quam patietur in membris suis, magis exardescet in iram contra ecclesiam Christi. <Nam> sequitur: “Et indignabitur contra testamentum sanctuarii et faciet”, id est iuxta votum proficiet dolus in manu eius.

E l’idropico: “Tu di’ ver di questo: / ma tu non fosti sì ver testimonio / là ’ve del ver fosti a Troia richesto” (Inf. XXX, 112-114). Maestro Adamo rinfaccia all’avversario anche il rendere testimonianza alla verità, primo primato di Cristo uomo, “testimone fedele” (Ap 1, 6). Già il parlare di Venedico Caccianemico concorda con l’esegesi di Antipas (Ap 2, 13) – «che tante lingue non son ora apprese / a dicer  ‘sipa’ tra Sàvena e Reno; / e se di ciò vuoi fede o testimonio – “et non negasti fidem meam … Antipatestis meus fidelis …”» -, dove sipa, voce dell’antico dialetto bolognese usata come particella affermativa, concorda nel suono con parte del nome dell’antico testimone della fede in Pergamo, parzialmente anagrammato (Inf. XVIII, 60-62). Così avviene per il falsario “Sinon greco di Troia” (Inf. XXX, 113, 116), nel cui nome sembra specchiarsi il falso testimoniare sul cavallo, in quanto negazione di ogni vera fede (“et non negasti fidem meam”).

non vorresti a ’nvitar molte parole
(Inf. XXX, 129).
Il tema del venire, per desiderio e volontario consenso di “chi ha sete e chi vuole”, alla cena delle nozze della Chiesa con Cristo si ritrova, nel terzultimo verso del poema (Par. XXXIII, 143), nel volgere da parte di Dio “il mio disio e ’l velle”, ribadito dall’“in che sua voglia venne” che precede di due versi, quando la folgore della grazia percuote la mente del poeta rendendola in grado di comprendere il mistero del rapporto tra l’umano e il divino nel Verbo.
Si può anche citare il “vegnati in voglia di trarreti avanti” detto da Dante e Matelda (Purg. XXVIII, 46), in cui, come osservò il Torraca, “l’accento végnati dà l’inflessione della voce, che invita con desiderio”.
Il medesimo gruppo di temi viene variato, in tutt’altra situazione, nel basso litigio tra maestro Adamo e Sinone, quando il primo contrappone la propria sete di idropico all’arsura del greco il quale, “per leccar lo specchio di Narcisso”, cioè per avere un po’ d’acqua, non si farebbe molto pregare (l’espressione “non vorresti a ’nvitar molte parole”, contiene in sé l’invito e la volontà di aderirvi). Virgilio, nel rimproverare Dante, riprende i temi affermando che “voler ciò udire è bassa voglia” (Inf. XXX, 124-129, 148).

Qual è colui che suo dannaggio sogna (Inf. XXX, 136). Il capitolo X dell’Apocalisse (sesta tromba) è tutto dedicato all’angelo dal volto solare. Costui (come l’altro angelo del sesto sigillo, ad Ap 7, 2, viene da Olivi identificato in Francesco) griderà a gran voce come un leone che ruggisce (Ap 10, 3), in primo luogo perché parlerà con forte indignazione e collera contro gli errori e i vizi di quanti sono induriti, predicendo loro con somma autorità e terribile minaccia lo spaventoso giudizio divino che incombe, al punto che farà tremare le bestie, cioè i bestiali. La veemenza della sua indignazione deriverà dal fatto che quando il libro era chiuso essi avevano una qualche scusa, ma ora che è aperto non vi è più alcuna parvenza (alcun “velo”) di scusa. Un altro motivo è l’ostinata resistenza e la grande moltitudine di quanti hanno il cuore indurito. Un terzo è il fervido zelo di richiamarli dal sonno della morte alla vita della fede. In secondo luogo griderà a gran voce come un leone che ruggisce perché con leonina costanza e fame correrà all’esca e alla preda delle anime secondo quanto detto dal profeta Amos: “ruggisce forse il leone nella selva se non ha qualche preda?” (Am 3, 4).
La situazione psicologica di Dante seguita alla collera di Virgilio, che corrisponde all’indignazione dell’angelo, verso il discepolo tutto fisso alla rissa tra maestro Adamo e Sinone, è resa con la similitudine di colui che sogna il proprio danno (il sonno della morte) e desidera trattarsi proprio di un sogno, non della realtà; così il poeta non può parlare, quasi fosse nel sonno, desidera scusarsi ed erroneamente crede di non farlo. Nell’inferno il libro resta ancora chiuso, vi è pertanto ancora la possibilità di scusarsi di fronte al ruggito dell’angelo-Virgilio, mentre ai discepoli spirituali viene imposto di tacere e di non esprimere i propri desideri (Ap 10, 4). Dante però dovrà stare attento la prossima volta, “se più avvien che fortuna t’accoglia / dove sien genti in simigliante piato” (Inf. XXX, 136-148). Così sarà per la ruggente “porta di san Pietro”, che gli ha aperto il purgatorio richiudendosi alle spalle: “e s’io avesse li occhi vòlti ad essa, / qual fora stata al fallo degna scusa?” (Purg. X, 5-6).

AVVERTENZE

Seppure segue l’ordine dei ventidue capitoli dell’Apocalisse, Olivi suggerisce, nel prologo della Lectura, un metodo differente di comprensione e di aggregazione del testo, fondato sui sette stati (status), cioè sulle epoche nelle quali si articola la storia della Chiesa, prefigurate nell’Antico Testamento.
L’Apocalisse si articola in sette visioni: le sette chiese d’Asia, i sette sigilli, le sette trombe, la donna vestita di sole (le sette guerre sostenute dalla Chiesa), le sette coppe, il giudizio di Babylon nelle sette teste del drago, la Gerusalemme celeste. Le prime sei visioni possono essere a loro volta divise in sette momenti, ciascuno dei quali riferibile a uno dei sette stati. Assembrando, per le prime sei visioni, tutti i primi elementi (chiesa, sigillo, tromba, guerra, coppa, momento del giudizio di Babylon), tutti i secondi, i terzi e così di seguito, si ottengono sette gruppi di materia teologica, corrispondenti al complesso dei temi afferenti a ciascuno dei sette stati. A questi sette gruppi si aggiungono altri due: l’esegesi della settima visione (senza articolazioni interne) e l’esegesi di capitoli del testo scritturale, o di parti di essi, introduttivi delle successive specificazioni delle singole visioni per settenari, che Olivi definisce “radicalia” o “fontalia”. Si ottengono in tal modo nove gruppi: le parti proemiali, i sette assembramenti di settenari e la settima visione. Il grande prologo della Lectura, articolato in tredici notabilia, può essere anch’esso aggregato secondo i sette stati. Un libro (la Lectura) contiene dunque princìpi e criteri affinché l’accorto lettore possa trarne un altro libro, fatto con lo stesso materiale ma ricomposto e distribuito in forma diversa.

La Commedia mostra un ordine interno diverso da quello che appare al lettore: il viaggio di Dante ha un andamento di ciclici settenari, che corrispondono ai sette stati della storia della Chiesa, cioè alle categorie con cui Olivi organizza la materia esegetica. Questo ordine interno è registrabile per zone progressive del poema dove prevale, tramite parole-chiave, la semantica riferibile a un singolo stato. È un’intima struttura dirompente i confini letterali stabiliti dai canti e da tutte le divisioni materiali per cerchi, gironi, cieli. Ogni stato, che ha differenti inizi, è concatenato per concurrentia, come le maglie di un’armatura, con quello che precede e con quello che segue. Si possono in tal modo redigere mappe che comprendano l’ordine spirituale della Commedia. La ricerca è pervenuta a una Topografia spirituale della Commedia, dove quasi per ogni verso, o gruppo di versi, collegamenti ipertestuali conducono al “panno” esegetico fornito dalla Lectura super Apocalipsim, sul quale il “buon sartore” ha fatto “la gonna” (cfr. Par. XXXII, 139-141).

■ A ogni gruppo è arbitrariamente assegnato un diverso colore: Radici (verde), I stato (verde acqua), II stato (rosso), III stato (nero), IV stato (viola), V stato (marrone), VI stato (blu), VII stato (indaco), VII visione (fucsia). Dei gruppi sono stati integralmente studiati il terzo stato e la settima visione. Mentre la diversità dei colori è rispettata nelle tabelle complessive contenenti i collegamenti ipertestuali, nelle sinossi i colori possono essere variati per maggiore evidenza.

Non di rado nei versi alcune parole o incisi-chiave possono rinviare a più luoghi esegetici. Questo perché il testo dottrinale contenuto nella Lectura, prima di travasarsi semanticamente nella Commedia, è stato sottoposto a una duplice riorganizzazione. La prima, sulla base delle indicazioni dello stesso Olivi, secondo il materiale esegetico attribuibile ai singoli stati. La seconda, seguendo il principio applicato nelle distinctiones ad uso dei predicatori, sulla base di lemmi analogicamente collazionati. La “mutua collatio” di parti della Lectura arricchisce il significato legato alle parole e consente uno sviluppo tematico amplificato. Si vedano, ad esempio, le variazioni eseguite sul tema della “voce” o sull’espressione “in medio”, temi più volte iterati nel sacro testo, oppure il modo con cui Ap 1, 16-17 (l’esegesi della decima e undecima prefezione di Cristo come sommo pastore) percorre i versi in collazione con altri passi. A ciò predispone lo stesso testo scritturale, poiché l’Apocalisse contiene espressioni, come Leitmotive, che ritornano più volte. È determinata da parole-chiave che collegano i passi da collazionare. È suggerita dallo stesso Olivi, nel prologo, per una migliore intelligenza del testo.

Tutte le citazioni della Lectura super Apocalipsim presenti nei saggi o negli articoli pubblicati su questo sito sono tratte dalla trascrizione, corredata di note e indici, del ms. Paris, Bibliothèque nationale de France, lat. 713, a disposizione fin dal 2009 sul sito medesimo. I passi scritturali ai quali si riferisce l’esegesi sono in tondo compresi tra “ ”; per le fonti diverse da quelle indicate si rinvia all’edizione in rete. Non viene presa in considerazione l’edizione critica a cura di WARREN LEWIS (Franciscan Institute Publications, St. Bonaventure – New York, 2015) per le problematiche da essa poste, che sono discusse in ALBERTO FORNI – PAOLO VIAN, A proposito dell’edizione di Warren Lewis della Lectura super Apocalipsim di Pietro di Giovanni Olivi. Alcune osservazioni, in “Archivum Franciscanum Historicum”, 109 (2016), pp. 99-161.
Il testo della Commedia citato è in Dante Alighieri, La Commedia secondo l’antica vulgata, a cura di GIORGIO PETROCCHI, Firenze 1994. Si tiene anche conto della recente edizione a cura di GIORGIO INGLESE, Firenze 2021 (Società Dantesca Italiana. Edizione Nazionale), qualora il testo proposto si discosti da quello del Petrocchi e la scelta della variante risulti discutibile nel confronto con la LSA.
Si fa riferimento ai seguenti commenti:

Dante Alighieri, La Divina Commedia. Inferno. Commento di ANNA MARIA CHIAVACCI LEONARDI, Milano 2007 (19911).

Dante Alighieri, Commedia. Inferno. revisione del testo e commento di GIORGIO INGLESE, Roma 2007.


ABBREVIAZIONI

Ap : APOCALYPSIS IOHANNIS.

LSA : PIETRO DI GIOVANNI OLIVI, Lectura super Apocalipsim.

Concordia : JOACHIM VON FIORE, Concordia Novi ac Veteris Testamenti. Herausgegeben von A. PATSCHOVSKY, Wiesbaden 2017 (Monumenta Germaniae Historica. Quellen zur Geistesgeschichte des  Mittelalters, 28. Band), Teil 2 (lib. I-IV), Teil 3 (lib. V).

Expositio : GIOACCHINO DA FIORE, Expositio in Apocalypsim, in Edibus Francisci Bindoni ac Maphei Pasini, Venetiis 1527, ristampa anastatica Minerva, Frankfurt a. M. 1964.

Olivi opera spesso una sintesi del testo di Gioacchino da Fiore. Le « » precedono e chiudono un’effettiva citazione. Diversamente, viene posto un asterisco (*) o una nota in apice al termine della parte riferibile a Gioacchino.

In Ap : RICCARDO DI SAN VITTORE, In Apocalypsim libri septem, PL 196, coll. 683-888.

 

Note sulla “topografia spirituale” della Commedia

Per quanto segua l’ordine dei ventidue capitoli dell’Apocalisse, Olivi suggerisce un metodo differente di comprensione e di aggregazione del testo esegetico, fondato sui sette stati, cioè sui periodi nei quali si articola la storia della Chiesa. L’Antico Testamento corrisponde alle prime cinque età del mondo, secondo la divisione tradizionale [1]: è l’età del Padre secondo Gioacchino da Fiore. Con il primo avvento di Cristo, nella carne, inizia la sesta età (l’età del Figlio), nella quale la Chiesa, come fosse un individuo, cresce e si sviluppa in sette stati. Al primo, apostolico periodo, succede il secondo dei martiri; poi, al tempo di Giustiniano, il terzo stato dei dottori che confutano con l’intelletto le eresie concorre con il quarto stato degli affettuosi anacoreti devoti al pasto eucaristico, alti per la contemplazione ma anche attivi come reggitori delle genti; a partire da Carlo Magno subentra il quinto stato aperto alla vita associata delle moltitudini, bello nel principio ma poi corrottosi fino a trasformare quasi tutta la Chiesa in una nuova Babilonia; la riforma interviene, a partire da Francesco, con il cristiforme sesto stato, fino alla sconfitta dell’Anticristo; subentra infine il silenzio e la quiete del pacifico settimo stato. Il sesto e il settimo stato (la terza età di Gioacchino da Fiore) coincidono con il secondo avvento di Cristo, nello Spirito, cioè nei suoi discepoli spirituali inviati a convertire il mondo con la predicazione; al termine del settimo stato ci sarà il terzo avvento, nel giudizio.
L’Apocalisse si articola in sette visioni: le sette chiese d’Asia, i sette sigilli, le sette trombe, la donna vestita di sole (le sette guerre sostenute dalla Chiesa), le sette coppe, il giudizio di Babylon nelle sette teste del drago, la Gerusalemme celeste. Le prime sei visioni possono essere a loro volta divise in sette momenti, ciascuno dei quali riferibile a uno dei sette stati. Assembrando, per le prime sei visioni, tutti i primi elementi (chiesa, sigillo, tromba, guerra, coppa, momento del giudizio di Babylon), tutti i secondi, i terzi e così di seguito, si ottengono sette gruppi di materia teologica, corrispondenti al complesso dei temi afferenti a ciascuno dei sette stati [2]. A questi sette gruppi se ne aggiungono altri due: l’esegesi della settima visione (senza articolazioni interne) e l’esegesi di capitoli del testo scritturale, o di parti di essi, introduttivi delle successive specificazioni delle singole visioni per settenari, che Olivi definisce “radicalia” o “fontalia”. Si ottengono in tal modo nove gruppi: le parti proemiali, i sette assembramenti di settenari e la settima visione. Il grande prologo della Lectura, articolato in tredici notabilia, può essere anch’esso aggregato nelle sue parti secondo i sette stati.

L’intenso travaso di parole-temi dalla Lectura nella Commedia si accompagna a un fatto strutturale. La Commedia mostra un ordine interno diverso da quello che appare al lettore: il viaggio di Dante ha un andamento di ciclici settenari, che corrispondono ai sette stati oliviani. È un ordine registrabile per zone progressive del poema dove prevalgono i temi di un singolo stato, che rompe i confini letterali stabiliti dai canti e da tutte le divisioni materiali per cerchi, gironi, cieli. Ogni stato, che ha differenti inizi, è concatenato per “concurrentia”, come le maglie di un’armatura, con quello che precede e con quello che segue. Ciascuno stato ha in sé una grande ricchezza di motivi e contiene inoltre temi di tutti gli altri, consentendo innumerevoli intrecci e variazioni. La Commedia appare, come l’Apocalisse, “libro scritto dentro e fuori” (Ap 5, 1), con duplice struttura, linguaggio e senso, letterale e spirituale. Il viaggio di Dante e la visione di Giovanni hanno la stessa causa finale, che è la beatitudine, alla quale si perviene con diverse guide, per gradi segnati da visioni sempre più nuove e ardue delle precedenti, attraverso una sempre maggiore apertura dell’arcano coperto dal velame dei sette sigilli fino al punto più alto in cui, in questa vita, è possibile vedere la verità.
Tutti i modi del linguaggio interiore al poema esprimono un processo, un viaggio dal più chiuso al più aperto, e in questo andare hanno una loro precisa collocazione ‘topografica’, uno ‘stato’ (nel senso di momento storico che ricade sulla coscienza individuale) al quale appartenere. Si possono in tal modo stendere vere e proprie mappe tematiche che comprendano l’ordine spirituale di tutta la Commedia che aderisce, parodiandola semanticamente, a una precisa teologia della storia, sia pure modificandone profondamente le prospettive. La ciclicità dei temi permette di stabilire collegamenti inusitati tra le diverse zone; il procedere per gradi dell’illuminazione divina fa sì che episodi oscuri e quasi ermeticamente chiusi si chiariscano poi, aprendosi all’intelligenza in modo più alto.
A ogni gruppo è arbitrariamente assegnato un diverso colore: Radici (verde), I stato (verde acqua), II stato (rosso), III stato (nero), IV stato (viola), V stato (marrone), VI stato (blu), VII stato (indaco), VII visione (fucsia). Dei gruppi sono stati integralmente studiati il terzo stato e la settima visione.

INFERNO

(le prime cinque età del mondo)

La ‘topografia spirituale’ del poema mostra nell’Inferno cinque cicli settenari corrispondenti agli stati della Chiesa descritti da Olivi e ai loro temi contenuti nella Lectura. Questi cinque cicli designano le prime cinque età del mondo (riunite a loro volta nel primo stato generale, che corrisponde all’età del Padre di Gioacchino da Fiore), in quanto prefigurazione del primo avvento di Cristo e della Chiesa.
I cinque cicli settenari che si susseguono nell’Inferno a partire dal quarto canto (i primi tre canti hanno una tematica particolare) sono preceduti da cinque zone che possono essere definite ‘snodi’, dove cioè confluiscono temi provenienti da più stati, intrecciati insieme ad altri ad avviare il procedere settenario. Il centro di questi ‘snodi’ coincide con un canto (Inf. IV, X, XVII, XXVI, XXXII), ma la zona è più vasta e supera l’ambito dato dalla divisione letterale del poema.

Inf. I-III sono da considerare al di fuori dei cicli. Inf. I e II sono profondamente segnati dai temi del sesto stato. Inf. III è riferibile al settimo stato (per gli ignavi) e in parte al quinto (per l’episodio di Caronte).

canti

I ciclo

stati

cerchi

IV

Limbo

Radici, I (I snodo)

I

V

lussuriosi

II

II

VI

golosi

III

III

VII

avari e prodighi

palude Stigia
(iracondi e accidiosi)

IIIIV

 

V

IV


V

VIII

palude Stigia (orgogliosi)
città di Dite

V

V

IX

apertura della porta di Dite

VVI

 

canti

II ciclo

stati

cerchi

IX-X-XI

eretici, ordinamento dell’inferno

I (II snodo)

VI

XII

violenti contro il prossimo

II

VII (girone 1)

XIII

violenti contro sé

III

        (girone 2)

XIV

violenti contro Dio: bestemmiatori

IV

        (girone 3)

XV-XVI

violenti contro Dio: sodomiti

V

XVI

XVII

ascesa di Gerione

Gerione,  violenti contro Dio: usurai

VI

canti

III ciclo

stati

cerchi

XVII

volo verso Malebolge

I (III snodo)

 

XVIII

ruffiani, lusingatori

Radici II

VIII (bolgia 1, 2)

XIX

simoniaci

III

(bolgia 3)

XX

indovini

IV

(bolgia 4)

XXI-XXII

barattieri

V

(bolgia 5)

XXIII

ipocriti

VVI

(bolgia 6)

XXIV-XXV

ladri

VI

(bolgia 7)

canti

IV ciclo

stati

cerchi

XXVI

consiglieri di frode (greci)

I (IV snodo)

(bolgia 8)

XXVII

consiglieri di frode (latini)

II

XXVIII-XXIX

seminatori di scandalo e di scisma

III

(bolgia 9)

XXIX

falsatori

IV

  (bolgia 10)

XXX

falsatori

IVV

XXXI

giganti

VVI

 

canti

V ciclo

stati

cerchi

XXXII

Cocito: Caina, Antenora

I (V snodo)

IX

XXXIII

Antenora, Tolomea

II

XXXIV

Giudecca

IIIIVV

XXXIV

volgersi di Virgilio sull’anca di Lucifero

VI

 

 

Il sesto stato è per Olivi la fase più importante nella costruzione dell’edificio della Chiesa. In esso “renovabitur Christi lex et vita et crux”. Corrisponde ai tempi moderni. Ha quattro diversi inizi temporali: uno profetico, con Gioacchino da Fiore, il quale lo vide in spirito concependo la sua terza età; il secondo con la conversione di Francesco (1206), che seminò la pianta; il terzo con la predicazione degli uomini spirituali, per la quale la pianta si rinnovella; il quarto con la distruzione storica di Babylon. Dura fino alla sconfitta dell’Anticristo, il cui avvento si collocherebbe, secondo i numeri della profezia di Daniele 12, 11-12 combinati con Ap 12, 6 e 14, fra il 1290 e il giubileo di pace del 1335.
Una ‘vita nuova’ si instaura nel sesto stato, per eccellenza il momento dell’imitazione di Cristo. I rami dell’albero si dilatano producendo il frutto della carità, l’acqua che proviene da Cristo-fonte attraverso il condotto che percorre i primi cinque stati della Chiesa si effonde in un lago; è il tempo, assimilato al sacramento del matrimonio, della letizia nuziale, della familiarità, dell’amicizia. Corrisponde al sesto giorno della creazione, in cui vennero creati prima i rettili e le bestie irrazionali, poi l’uomo razionale che, come l’ordine evangelico, è fatto a immagine e somiglianza di Dio e domina tutti gli animali.
Le espressioni di Olivi relative al sesto stato – “quoddam sollempne initium novi seculirenovaretur et consumaretur seculum”, nel quale il sacerdozio apostolico “redeat et assurgat ad ordinem primum”, la “nova Ierusalem”, interpretata come “visione di pace”, viene vista “descendere de celo” e la Chiesa descritta come la donna vestita di sole con la sua “virginea proles” – sono la veste spirituale dei versi della quarta egloga virgiliana che celebrano la rinnovata età dell’oro: “Magnus ab integro saeclorum nascitur ordo / iam redit et Virgo; redeunt Saturnia regna; / Iam nova progenies caelo demittitur alto” (Egloga IV, 5-7). Olivi completa la Lectura super Apocalipsim nel 1298, poco prima di morire, il 14 marzo, a Narbonne. Quel felicissimo stato segnato dalla pace sotto il divo Augusto, che rese l’umanità disposta al primo avvento di Cristo, si sta rinnovando nel sesto stato della Chiesa, nel secondo avvento nello Spirito. Scrive Arsenio Frugoni: “[…] quell’escatologismo, oltre che ideologia di lotta e di riforma del gruppo spirituale, era anche un vero e proprio sentimento storico […] una tensione di rinnovamento, una ansia di salvezza, che nel 1300, l’anno centenario della Natività, aveva trovato come una attivazione, in un senso di pienezza dei tempi, cui doveva corrispondere un fatto, un accadere meraviglioso e nuovo” [3].
All’apertura del sesto sigillo, l’eletta schiera dei riformatori – i 144.000 segnati dalle dodici tribù d’Israele – guida la turba innumerevole di ogni gente, tribù, popolo e lingua (Ap 7, 3-4.13). Questi eletti e magnanimi duci, separati dalla volgare schiera per più alta milizia, vengono destinati a difendere liberamente la fede – ad essi è data la “plena libertas ad innovandam christianam religionem” -; sono gli amici di Dio a lui noti per nome, configurati in Cristo crocifisso e votati al martirio.
All’interno della Chiesa del sesto stato, l’Ordine dei Minori – “ordo plurium personarum” – è  assimilabile alla persona umana di Cristo. Come questa si sviluppò fino all’età virile, così dovrà essere per l’ordo evangelicus piantato da Francesco, che avrà bisogno (a differenza di Cristo che stette poco tempo nel mondo) di due o tre generazioni per svilupparsi prima di subire una condanna simile a quella di Cristo [4]. La sua maturità coincide, verso il 1300, con il terzo inizio del sesto stato, cioè con il rinnovarsi per opera dello Spirito di Cristo, nel suo secondo avvento, della pianta seminata da Francesco. Questa concezione dell’Ordine francescano come individuo in sviluppo che, perfettamente maturato, diventa il novus ordo preconizzato da Gioacchino da Fiore per l’età dello Spirito, si differenzia da quella di Bonaventura, che aveva invece distinto i Francescani del proprio tempo – e quindi anche gli Spirituali – dall’Ordine finale che dominerà fino ai confini della terra. Alla terza apertura del sesto sigillo nuovi san Giovanni vengono inviati a predicare al mondo come nel tempo degli Apostoli. Ma Giovanni non designa solo un Ordine, perché Olivi lascia aperta la possibilità di rivelazioni individuali, avute da “singulares persone”, perfetti imitatori di Cristo votati, con la loro “lingua erudita”, al compito della conversione universale.

[LSA, cap. X, Ap 10, 11] “Et dixit michi: Oportet te iterum prophetare in gentibus et populis et linguis et regibus multis”. In ipsa sapientia libri expresse continetur quod oportet iterum predicari evangelium in toto orbe, et Iudeis et gentibus, et totum orbem finaliter converti ad Christum. Sed quod per istum hoc esset implendum non poterat sciri nisi per spiritualem revelationem, et hoc dico prout per Iohannem designantur hic singulares persone quia, prout per ipsum designatur in communi ordo evangelicus et contemplativus, scitur ex ipsa intelligentia libri quod per illum ordinem debet hoc impleri.

Nei cinque cicli settenari della prima cantica il sesto stato è segnato dall’apertura della porta della città di Dite (Inf. IX, 89-90); dall’ascesa di Gerione dall’abisso (Inf. XVI, 106-136); dal precipitoso passaggio dalla quinta alla sesta bolgia (Inf. XXIII, 1-57) e poi dalle trasformazioni della settima, dove i ladri fiorentini si mutano in serpenti e viceversa (Inf. XXIV-XXV); dal chinarsi di Anteo sul fondo dell’inferno (Inf. XXXI, 136-145); dal passaggio del centro della terra, con la conversione di Virgilio sull’anca di Lucifero, che è passaggio verso la sesta età, quella della Chiesa, descritta nel Purgatorio.
Ma i temi propri del sesto stato sono diffusi ovunque, intrecciati con quelli degli altri stati, e alla loro esegesi rinviano precise parole-chiave incardinate nel senso letterale dei versi. L’esegesi dell’angelo del sesto sigillo (Ap 7, 2) è già centrale nel primo canto del poema.
La novità che il sesto stato, per eccellenza stato di rinnovamento di questo secolo, arreca nell’inferno è una novità fittizia: l’apertura della porta della città di Dite non è vera novità, perché essa è stata chiusa dall’ostinazione dei diavoli, recidivi dopo l’apertura della porta dell’inferno da parte di Cristo prefigurata dalla venuta di Ercole all’Ade, per cui Cerbero “ne porta ancor pelato il mento e ’l gozzo”; Gerione viene su ad un “novo cenno” di Virgilio, ma è figura della frode dalla velenosa coda aculeata; il nuovo prodotto dalle trasformazioni reciproche di serpenti e uomini è qualcosa di incompiuto perché l’uomo razionale, creato nel sesto stato, regredisce allo stato precedente.
L’Inferno è il luogo della durezza lapidea, dell’impetrarsi, del parlare duro di cose dure a dirsi, del duro giudizio, del senso duro della scritta al sommo della porta, dei duri lamenti, dei duri demoni, dei duri veli del gelo, della gravezza. Nell’Inferno vige l’imposizione data a Daniele dall’angelo sotto il sesto sigillo dell’Antico Testamento: “Ora tu, Daniele, chiudi queste parole e sigilla questo libro fino al tempo stabilito” (Dn 12, 4), che era la sesta età nella quale apparve Cristo e in particolare il sesto stato della sua Chiesa nella quale il libro doveva essere più pienamente aperto, non però ai malevoli e ai maldisposti. Questa durezza è rotta dall’invito di Dante ai dannati perché parlino. Far parlare liberamente, per dettato interiore, è la principale prerogativa del sesto stato – la nuova età che tanto s’aspetta, quella che ode del “dolce stil novo” e delle “nove rime” -, ed è tema che la poesia canta per intero, sia pure per un attimo, anche nella vecchia roccia infernale. Appartiene alla sesta chiesa il parlare liberamente di Cristo – ad essa è dato l’“ostium apertum”, che è “ostium sermonis” – , il sentire per dettato interiore, l’aprirsi della volontà. Appartiene alla sesta chiesa anche il far venire quelli che si dicono Giudei senza esserlo, mutati nel cuore e disposti a farsi battezzare e governare. Questo far venire a parlare equivale al cortese e liberale invito dello Spirito di Cristo a convivare, a venire con desiderio e volontario consenso, con “disio” e con “velle”, in una pausa di pace nell’eterna dannazione. All’“affettüoso grido” del poeta le ombre di Francesca e Paolo vengono “dal voler portate” verso un momento di mutazione, sebbene limitata al successivo colloquio. Tutto l’Inferno è un contrappunto fra la durezza del giudizio e l’apertura per la parola dirompente, fin che essa dura, la pena. Un’apertura che si esprime in varie forme: muoversi sospirando nel Farinata prima immobile, ‘crollarsi’ quasi per terremoto interiore dello ‘schivo’ Ulisse, convertirsi del vento in voce in Guido da Montefeltro, tornare indietro nel cammino assegnato o separarsi dai compagni di pena, essere sforzati a parlare anche malvolentieri, non poterlo negare o mostrare fretta di farlo, arrestarsi obliando il martirio, levarsi per poi ricadere, sollevarsi da atti bestiali per ritornare a essi dopo aver parlato, come nel conte Ugolino. In tante lingue, che parlano come per sé stesse mosse, sta un solo desiderio, il vivere ancora nel libro che è stato altrui aperto.
Se nell’Inferno il sesto stato non si realizza mai compiutamente, anche il settimo, che gli è strettamente connesso, non può trovare un luogo autonomo. Ciò non toglie che temi del settimo stato (e della settima visione) siano ben presenti in modo diffuso. Ad esempio, quelli relativi alla settima chiesa assumono particolare rilievo nella descrizione degli ignavi a Inf. III. Tempo del silenzio, della serena pace, del riposo dalle ansiose fatiche, il settimo stato subentra dopo le terribili tentazioni inferte, con un martirio non corporale ma psicologico, dai carnefici dell’Anticristo nel sesto. Come ogni momento della storia umana partecipa dell’imitazione di Cristo, che raggiunge l’acme nel sesto stato, così in ogni periodo si verifica una sua “quietatio”, una pausa di pace, di quiete, di silenzio propria del settimo. Così Francesca parla e ascolta “mentre che ’l vento, come fa, ci tace”. Il vento – “la bufera infernal, che mai non resta” – designa il fluttuare tempestoso delle passioni nel cuore.

PURGATORIO

(sesta età del mondo)

Dopo le prime cinque età del mondo (corrispondenti all’Antico Testamento, la gioachimita età del Padre), che hanno segnato la discesa a spirale per i cinque cicli settenari dell’Inferno, con il Purgatorio inizia la sesta età, quella di Cristo (l’età del Figlio), che ha sette stati, corrispondenti ai sette stati della Chiesa. Dapprima, nel cosiddetto ‘antipurgatorio’, si registrano in successione temi prevalenti dei primi cinque stati. Il sesto stato della sesta età (con cui si apre l’età dello Spirito) inizia con l’apertura della porta di san Pietro (la porta del purgatorio). Questo sesto stato procede anch’esso con andamento settenario, per cui ha sette momenti, coincidenti principalmente con un girone della montagna, ma non del tutto, perché sempre l’ordine spirituale del poema rompe i confini letterali e le divisioni materiali, concatenando i temi di uno stato prevalente con quelli dello stato che precede e con quelli dello stato che segue e intrecciandoli con temi di tutti gli altri stati.
È spiegato nel Notabile VII del prologo della Lectura che il sesto stato della Chiesa è il secondo stato di Cristo e ha i suoi sette tempi per cui la Chiesa, come fosse una sfera, si ricongiunge circolarmente al primo apostolico tempo. Il settimo dei sette momenti del sesto stato della Chiesa coincide con il settimo stato generale della Chiesa, che nel poema corrisponde in parte all’ultimo girone della montagna (il settimo, dove si purgano i lussuriosi) e in parte all’Eden, con cui si chiude la seconda cantica.
Il Purgatorio dunque, secondo il senso spirituale, è la storia della Chiesa che corre verso il suo sesto stato, punto di riferimento di tutte le vicende umane, antiche e moderne, che ad esso cooperano. Non è casuale che nel sesto girone della montagna sia chiarificata e riconosciuta, nel colloquio con Bonagiunta da Lucca, la poetica delle “nove rime” di Dante, già “sesto tra cotanto senno” cooptato nella “bella scola” dei poeti del Limbo.
La vasta zona dedicata al sesto momento del sesto stato della Chiesa ha il suo inizio nel forte terremoto che scuote la montagna mentre Dante e Virgilio si trovano ancora nel quinto girone (Purg. XX, 124-141). Essa è stata compiutamente esaminata altrove.
Il settimo stato dell’Olivi si realizza parte in questa vita (come pregustazione in terra della gloria eterna, cioè fin sulla cima della montagna) e in parte nella futura (nel senso della quiete delle anime beate in attesa della resurrezione, che è la materia del Paradiso).

canti

I ciclo – fino al sesto sato

stati

 

I

Catone

Radici, I

 

II

angelo nocchiero, Casella

–  II

 

III

scomunicati

III

“Antipurgatorio”

IV

salita al primo balzo, Belacqua

IV  –  V

V

negligenti morti per violenza

V

VI

Sordello

V

VII-VIII

valletta dei principi

V

IX

apertura della porta

VI sesto stato

 

canti

II ciclo – il sesto stato della sesta età

stati

gironi

X-XII

superbi

I

I

XIII-XIV-XV

invidiosi

II

II

XV-XVIII

iracondi

ordinamento del purgatorio,

amore e libero arbitrio

III

III

IV

XVIII-XIX

accidiosi

IV

IV

XIX-XX

avari e prodighi

V

V

XX (terremoto)  -XXV

Stazio, golosi, generazione dell’uomo

VI

VI

XXV-XXVI

lussuriosi

VII – settimo stato

VII

XXVII

XXVIII-XXXIII

 muro di fuoco

notte stellata, termine dell’ascesa

Eden

 

 

PARADISO

(settimo stato della Chiesa)

Il Primo Mobile è il nono e penultimo cielo, ma è il sesto se si parte dal cielo del Sole. È anche il cielo più segnato dal tema del “punto”, cui è assimilato il sesto stato. Questo consente di ricostruire l’ordine spirituale del Paradiso ponendo la cerniera nel quarto cielo del Sole. Con il terzo cielo di Venere termina infatti il cono d’ombra gettato dalla terra, secondo la dottrina di Alfragano (Par. IX, 118-119), mentre prima di descrivere l’ascesa al cielo del Sole il poeta invita il lettore a rivolgersi “a l’alte rote” (Par. X, 7-27). Senza la cesura recisa che, nella prima cantica, divide i dannati puniti all’interno della città di Dite da quelli che ne stanno fuori e, nella seconda cantica, separa le anime purganti nei sette gironi della montagna dalle anime che attendono fuori della porta (il cosiddetto ‘antipurgatorio’), anche nel Paradiso gli spiriti che si manifestano nei primi tre cieli della Luna, di Mercurio e di Venere (spiriti che mancarono ai voti, spiriti che furono attivi per conseguire onore e fama, spiriti amanti) si distinguono per minore perfezione rispetto a quelli che appaiono nei cieli seguenti.
I dieci cieli del Paradiso si mostrano pertanto ordinati in due gruppi di settenari, corrispondenti agli stati della Chiesa (e alle loro prerogative) secondo Olivi, parzialmente combacianti (da 1 a 7 e da 4 a 10: coincidono gli ultimi quattro numeri del primo gruppo e i primi quattro del secondo).

I  Se si considera il primo settenario, nel primo cielo della Luna si affronta la questione dell’inadempienza dei voti, che ha corrispondenza con i temi propri della prima chiesa di Efeso, il cui nome, se interpretato, oscilla tra la fervida volontà iniziale e la remissione (l’essenza del voto consiste nella volontà).

II  Nel secondo cielo di Mercurio, le battaglie sostenute dal “sacrosanto segno” dell’aquila corrispondono allo stato dei martiri, che è dei combattenti, e anche la dottrina dell’incarnazione e della passione di Cristo, esposta successivamente da Beatrice, fa parte della tematica, perché l’intera Chiesa, fondata sulla passione di Cristo, imita con i martiri la sua croce, e questo giova assai al suo radicamento.

III  Nel terzo cielo di Venere, Carlo Martello spiega al modo di un dottore del terzo stato la diversità delle indoli umane e come gli uomini, non assecondandole, errino; nello stesso cielo compare Folchetto di Marsiglia, che da vescovo di Tolosa combatté l’eresia albigese.

IV – I  Al quarto cielo del Sole, primo del secondo gruppo di settenari per l’esaltazione della vita apostolica (propria del primo stato e rinnovata nel sesto), si può connettere il tema stesso del sole inteso nell’esegesi della quarta tromba (Ap 8, 12): “Per solem videtur hic designari solaris vita et contemplatio summorum anachoritarum, qui fuerunt patres et exempla aliorum, vel solaris sapientia et doctrina summorum doctorum”. Sapienza e contemplazione, dottori del terzo e anacoreti del quarto stato, concorrono, come Domenico e Francesco – “L’un fu tutto serafico in ardore; / l’altro per sapïenza in terra fue / di cherubica luce uno splendore” (Par. XI, 37-39) – con mutua cortesia a infiammare il meriggio dell’universo.

V – II  Il quinto cielo di Marte, secondo (come il secondo stato dei martiri) per l’esaltazione della croce di Cristo formata dai lumi dei combattenti per la fede, reca in sé il tema del condiscendere proprio del quinto stato sia nel pio discendere per la croce di Cacciaguida verso Dante, sia nella decadenza degli “alti Fiorentini”, cioè delle antiche famiglie, assimilate agli anacoreti, un tempo alti e poi vòlti in basso.

VI – III  Il sesto cielo di Giove, terzo (come il terzo stato dei dottori) per la spiegazione di profonde verità di fede, sviluppa il motivo, proprio della sesta chiesa, della “porta aperta”. Aprire la porta significa illuminare e rendere acuto l’intelletto che penetra nell’occulto delle Scritture, e anche dare efficacia spirituale a penetrare nel cuore di chi ascolta: così l’aquila apre la “latebra” di Dante, così l’occhio di Rifeo Troiano fu da Dio aperto alla futura redenzione.

VII – IV Nel settimo cielo di Saturno, quarto (come il quarto stato degli anacoreti), “si tace … la dolce sinfonia di paradiso” (Par. XXI, 58-60), e il tacere è tema del settimo stato. Ivi si mostrano gli spiriti contemplativi, principali soggetti del quarto stato, proprio degli anacoreti: se si conta a partire dal quarto cielo del Sole, considerando questo come primo ovvero come nuovo avvio del ciclo settenario, il cielo di Saturno è appunto quarto.

VIII (V) Il settimo cielo di Saturno è seguito dal cielo delle Stelle fisse – ottavo e quinto -, dove si mostrano le schiere del trionfo di Cristo che discendono dall’Empireo (il quinto stato è caratterizzato dalla “condescensio”) e si celebra il trionfo di Maria (sviluppo del tema, proprio della quinta chiesa, della mirabile bellezza della Chiesa, regina ornata di veste aurea per la carità che unisce e circondata dalla varietà nei doni e nelle grazie delle diverse membra). È inoltre ricapitolazione dei precedenti sette, secondo un’interpretazione più volte presente nella Lectura dell’essere ‘ottavo’. Per questo Dante, stando nel segno dei Gemelli, riguarda in giù e torna col viso per tutte quante le sette precedenti sfere (Par. XXII, 124-154).

IX (VI) Segue il Primo Mobile o Cristallino – nono e sesto cielo –, dove il poeta vede il punto luminosissimo – Dio – da cui dipende il cielo e la terra, circondato dai nove cerchi di fuoco (Par. XXVIII, 16-18, 40-42, 94-96). Il sesto stato, secondo quanto Olivi afferma nel Notabile VIII, è il “punto” da cui dipendono gli altri stati, perché appare nel testo dell’Apocalisse in modo più evidente degli altri, che da esso assumono chiarezza quanto alla loro manifestazione nella storia, come l’intelligenza delle cose ordinate ad un fine dipende dal fine.

X (VII) La quiete e l’immobilità dell’Empireo, decimo cielo – il “ciel de la divina pace” -, corrispondono al settimo stato, di cui è propria la “quietatio”, il silenzio (tema anticipato dal tacere di Beatrice in apertura del canto XXIX), e la pace.

Il Paradiso avrebbe pertanto un ordine spirituale del seguente tipo:

cielo

stato

cielo

I

LUNA

I

II

MERCURIO

II

III

VENERE

III

IV

SOLE

IV

I

SOLE

V

MARTE

V

II

MARTE

VI

GIOVE

VI

III

GIOVE

VII

SATURNO

VII

IV

SATURNO

VIII

V

STELLE FISSE

IX

VI

PRIMO MOBILE

X

VII

EMPIREO

Oltre ai luoghi sopra indicati, i temi del sesto e del settimo stato si rinvengono in più punti, intrecciati con altri.

[1] Cfr. LSA, cap. XVII, Ap 17, 9: «Et subdit Ricardus quod per septem reges, et per septem capita designatos, designatur hic universus populus malorum, qui secundum septem status huius seculi determinantur. Primus scilicet ab Adam usque ad Noe. Secundus a Noe usque ad Abraam. Tertius ab Abraam usque ad Moysen. Quartus a Moys<e> usque ad David. Quintus a David usque ad Christum. Sextus a Christo usque ad Antichristum. Septimus autem sub Antichristo attribuitur». Cfr. PETRI IOHANNIS OLIVI Lectura super Lucam, Lc 1, 26, ed. F. Iozzelli, Grottaferrata 2010 (Collectio Oliviana, V), pp. 187-188: «Signanter autem dicitur in sexto mense, quia Christus uenit in sexta mundi etate, et iterum post quinque notabiles synagoge decursus: nam primo, cum sola circumcisione fuit sub patribus per quadringentos annos; secundo, accepta lege, fuit sub iudicibus per tantumdem temporis; tertio, proficiens in regnum, fuit sub regibus; quarto, assumpto plenius spiritu prophetico, fuit sub prophetis sollempnioribus, scilicet sub Elia, Ysaia et Yeremia etc.; quinto, restituto templo et urbe, fuit sub pontificibus quibus, per Aggeum et Zachariam et Malachiam iterata prophetia de Christo et eius precursore Elia, factum est silentium prophetarum, ita quod obmutuit cetus sacerdotum usque ad Iohannis ortum; et iterum in eiusdem quinti temporis sexto centenario conceptus est Christus. Sicut etiam sexto die factus est homo ad ymaginem Dei, sic conuenienter sub consimili senario factus est Christus homo, plenior Dei ymago: nam et perfectio numeri senarii, que ex omnibus partibus suis aliquotis et iterum ex ternario cum suis partibus, scilicet binario et unitate, consurgit, competit sibi et etiam reflexio ternarii per binarium, id est cultus fidei et Trinitatis per geminam caritatem».

[2] Il principio è chiaramente affermato nel notabile VIII del prologo della LSA: «[…] si omnia prima membra visionum ad invicem conferas et consimiliter omnia secunda et sic de aliis, aperte videbis omnia prima ad idem primum concorditer referri et consimiliter omnia secunda ad idem secundum et sic de aliis. Et hoc in tantum quod plena intelligentia eiusdem primi multum clarificatur ex mutua collatione omnium primorum, et idem est de omnibus secundis et tertiis et sic de aliis».

[3] A. FRUGONI, La Roma di Dante, tra il tempo e l’eterno, in ID., Pellegrini a Roma nel 1300. Cronache del primo Giubileo, presentazione di C. Frugoni, a cura e con Introduzione di F. Accrocca, Casale Monferrato 1999, pp. 102-103.

[4] LSA, cap. VI, Ap 6, 12: «Secunda ratio est quia persone Christi correspondet in sexta apertione unus ordo plurium personarum sic secundum suam proportionem augendus, sicut Christus secundum suum corpus fuit usque ad perfectam etatem viriliter auctus. […] Quarta est quia, prout super evangelia ostendi, Christus parvo tempore debuit inter nos vivere et pauciori predicare […]. Nisi autem ordo evangelicus, per Franciscum renovatus, esset in multis et saltem sub duabus vel tribus generationibus propagatus et sollempnizatus, non esset nec ipse nec populus ab eo ducendus sufficienter dispositus ad tam autenticam condempnationem condempnationi Christi consimilem subeundam».