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Ott 05 2025

I canti di Cacciaguida: Paradiso XV-XVI-XVII-XVIII, 1-51

La ‘Divina Parodia’ del Libro scritto dentro e fuori 

The ‘Divine Parody’ of the Book written within and without

Inferno: I; II; III; IV; V; VI; VII; VIII; IX; X; XI; XII; XIII; XIV; XV; XVI; XVII; XVIII; XIX; XX; XXI; XXII; XXIII; XXIV; XXV; XXVI; XXVII; XXVIII; XXIX; XXX; XXXI; XXXII, 1-123; XXXII, 124-XXXIII, 90; XXXIII, 91-157; XXXIV

Purgatorio: III; XXVIII; XXIX; XXX; XXXI; XXXII; XXXIII

Paradiso: XI-XII; XIV; XV; XVI; XVII; XVIII, 1-51; XVIII, 52-136; XIX; XX; XXXIII

I canti di Cacciaguida: Paradiso XV, XVI, XVII, XVIII 1-51

Vengono qui esposti i canti XV, XVI, XVII, XVIII 1-51 del Paradiso con i corrispondenti legami ipertestuali con i luoghi della Lectura super Apocalipsim ai quali i versi si riferiscono. L’intero poema è esposto nella Topografia spirituale della Commedia (2013, PDF; cfr. infra), ma si sta procedendo a un esame progressivo e aggiornato dei singoli canti (completato l’Inferno). Ogni tabella sinottica, qui presentata o alla quale si rinvia in quanto già esaminata in altra sede, è preceduta o seguita da una parte esplicativa. Sull’uso dei colori cfr. Avvertenze.

AvvertenzeAbbreviazioniNote sulla “topografia spirituale” della Commedia.

XV

 

1. Il pio discendere di Cacciaguida. 2. “La prima equalità”. 3. ‘Vidi la santa città di Firenze’ [‘I saw the holy city, Florence’]. 3.1. La campana di Badia [The bell of Badia]. 3.2. La Città del Sole [The City of the Sun].

 

Legenda [3]: numero dei versi; 1, 15: collegamento ipertestuale all’esegesi, nella Lectura di Olivi, di capitolo e versetto dell’Apocalisse [Ap]; Not. XII: collegamento all’esegesi contenuta nei tredici notabilia del prologo della LecturaVarianti rispetto al testo del Petrocchi.

Benigna volontade in che si liqua   1, 15
sempre l’amor che drittamente spira,   5, 8
come cupidità fa ne la iniqua,   [3]   17, 1

silenzio puose a quella dolce lira,   14, 2
e fece quïetar le sante corde   5, 9
che la destra del cielo allenta e tira.   [6]

Come saranno a’ giusti preghi sorde
quelle sustanze che, per darmi voglia
ch’io le pregassi, a tacer fur concorde?   [9]   14, 2

Bene è che sanza termine si doglia   7, 17; 19, 3
chi, per amor di cosa che non duri   non duri, / etternalmente
etternalmente, quello amor si spoglia.   [12]

Quale per li seren tranquilli e puri   16, 17; 21, 20
discorre ad ora ad or sùbito foco,   Not. XII
movendo li occhi che stavan sicuri,   [15]   13, 3

e pare stella che tramuti loco,
se non che da la parte ond’ e’ s’accende
nulla sen perde, ed esso dura poco:   [18]

tale dal corno che ’n destro si stende   10, 1; 1, 16; 5, 1
a piè di quella croce corse un astro
de la costellazion che lì resplende;   [21]   21, 20

né si partì la gemma dal suo nastro,
ma per la lista radïal trascorse,   16, 17
che parve foco dietro ad alabastro.   [24]

pïa l’ombra d’Anchise si porse,   10, 1
se fede merta nostra maggior musa,
quando in Eliso del figlio s’accorse.   [27]

« O sanguis meus, o superinfusa
gratïa Deï, sicut tibi cui   5, 1
bis unquam celi ianüa reclusa? ».   [30]

Così quel lume: ond’ io m’attesi a lui;
poscia rivolsi a la mia donna il viso,
e quinci e quindi stupefatto fui;   [33]

ché dentro a li occhi suoi ardeva un riso   1, 16
tal, ch’io pensai co’ miei toccar lo fondo   2, 1 (2, 7)
de la mia gloria e del mio paradiso.   [36]   grazia

Indi, a udire e a veder giocondo,
giunse lo spirto al suo principio cose,
ch’io non lo ’ntesi, sì parlò profondo;   [39]   4, 11

né per elezïon mi si nascose,   1, 1
ma per necessità, ché ’l suo concetto
al segno d’i mortal si soprapuose.   [42]

E quando l’arco de l’ardente affetto
fu sì sfogato, che ’l parlar discese   4, 11; 10, 1   distese
inver’ lo segno del nostro intelletto,   [45]

la prima cosa che per me s’intese,
« Benedetto sia tu », fu, « trino e uno,   4, 8-9; 5, 1
che nel mio seme se’ tanto cortese! ».   [48]   3, 1; 12, 17

E seguì: « Grato e lontano digiuno,
tratto leggendo del magno volume
du’ non si muta mai bianco né bruno,   [51]   10, 5-7

solvuto hai, figlio, dentro a questo lume
in ch’io ti parlo, mercé di colei
ch’a l’alto volo ti vestì le piume.   [54]

Tu credi che a me tuo pensier mei   22, 1
da quel ch’è primo, così come raia
da l’un, se si conosce, il cinque e ’l sei;   [57]

e però ch’io mi sia e perch’ io paia   7, 13
più gaudïoso a te, non mi domandi,
che alcun altro in questa turba gaia.   [60]

Tu credi ’l vero; ché i minori e ’ grandi   11, 18
di questa vita miran ne lo speglio   6, 7
in che, prima che pensi, il pensier pandi;   [63]

ma perché ’l sacro amore in che io veglio   3, 3
con perpetüa vista e che m’asseta   7, 17
di dolce disïar, s’adempia meglio,   [66]

la voce tua sicura, balda e lieta
suoni la volontà, suoni ’l disio,   22, 17
a che la mia risposta è già decreta! ».   [69]   7, 13

Io mi volsi a Beatrice, e quella udio
pria ch’io parlassi, e arrisemi un cenno   1, 16; 1, 14
che fece crescer l’ali al voler mio.   [72]

Poi cominciai così: « L’affetto e ’l senno,   21, 16
come la prima equalità v’apparse,   qualità
d’un peso per ciascun di voi si fenno,   [75]

però che ’l sol che v’allumò e arse,
col caldo e con la luce è sì iguali,
che tutte simiglianze sono scarse.   [78]

Ma voglia e argomento ne’ mortali,
per la cagion ch’a voi è manifesta,
diversamente son pennuti in ali;   [81]

ond’ io, che son mortal, mi sento in questa
disagguaglianza, e però non ringrazio
se non col core a la paterna festa.   [84]

Ben supplico io a te, vivo topazio   21, 20
che questa gioia prezïosa ingemmi,
perché mi facci del tuo nome sazio ».   [87]   21, 13

« O fronda mia in che io compiacemmi
pur aspettando, io fui la tua radice »:   6, 9; Not. V; 5, 5
cotal principio, rispondendo, femmi.   [90]

Poscia mi disse: « Quel da cui si dice
tua cognazione e che cent’ anni e piùe
girato ha ’l monte in la prima cornice,   [93]   Not. XII; 12, 6

mio figlio fu e tuo bisavol fue:
ben si convien che la lunga fatica   10, 5-7
tu li raccorci con l’opere tue.   [96]   Not. XII; 12, 6

Fiorenza dentro da la cerchia antica,   21, 15   da le mura
ond’ ella toglie ancora e terza e nona,
si stava in pace, sobria e pudica.   [99]   3, 12

Non avea catenella, non corona,   Quaestio de altissima paupertate
non gonne contigiate, non cintura   17, 3-4   donne
che fosse a veder più che la persona.   [102]   vender

Non faceva, nascendo, ancor paura
la figlia al padre, ché ’l tempo e la dote
non fuggien quinci e quindi la misura.   [105]   6, 5

Non avea case di famiglia vòte;
non v’era giunto ancor Sardanapalo
a mostrar ciò che ’n camera si puote.   [108]

Non era vinto ancora Montemalo
dal vostro Uccellatoio, che, com’ è vinto
nel montar sù, così sarà nel calo.   [111]   7, 2

Bellincion Berti vid’ io andar cinto   1, 13
di cuoio e d’osso, e venir da lo specchio
la donna sua sanza ’l viso dipinto;   [114]   17, 3

e vidi quel d’i Nerli e quel del Vecchio
esser contenti a la pelle scoperta,   1, 13
e le sue donne al fuso e al pennecchio.   [117]

Oh fortunate! ciascuna era certa
de la sua sepultura, e ancor nulla
era per Francia nel letto diserta.   [120]   12, 6

L’una vegghiava a studio de la culla,   3, 3
e, consolando, usava l’idïoma
che prima i padri e le madri trastulla;   [123]

l’altra, traendo a la rocca la chioma,
favoleggiava con la sua famiglia
d’i Troiani, di Fiesole e di Roma.   [126]

Saria tenuta allor tal maraviglia
una Cianghella, un Lapo Salterello,
qual or saria Cincinnato e Corniglia.   [129]

A così riposato, a così bello   21, 16; 2, 1
viver di cittadini, a così fida   21, 2
cittadinanza, a così dolce ostello,   [132]

Maria mi diè, chiamata in alte grida;   12, 2
e ne l’antico vostro Batisteo
insieme fui cristiano e Cacciaguida.   [135]

Moronto fu mio frate ed Eliseo;
mia donna venne a me di val di Pado,
e quindi il sopranome tuo si feo.   [138]

Poi seguitai lo ’mperador Currado;
ed el mi cinse de la sua milizia,   7, 3
tanto per bene ovrar li venni in grado.   [141]   17, 1

Dietro li andai incontro a la nequizia
 di quella legge il cui popolo usurpa,   11, 4
per colpa d’i pastor, vostra giustizia.   [144]

Quivi fu’ io da quella gente turpa
disviluppato dal mondo fallace,
lo cui amor molt’ anime deturpa;
e venni dal martiro a questa pace ».   [148]   7, 3

1. Il pio discendere di Cacciaguida

Continua il “canto degli arpisti”

Le prime tre terzine di Par. XV (vv. 1-9) sviluppano temi elaborati nel canto precedente, tratti dal gruppo che si può definire del “canto degli arpisti”. Le anime, per consentire a Dante di parlare, tacciono (il silenzio e il quietarsi sono temi del settimo stato). Il silenzio concorde delle corde della dolce lira, allentate e tirate dalla destra del cielo (temi della cetra: Ap 5, 9; 14, 2), viene imposto dalla volontà di fare il bene, “in che si liqua / sempre l’amor che drittamente spira” (temi delle fiale, da Ap 5, 8; “si liqua” aggiunge una prerogativa di Cristo sommo pastore, ad Ap 1, 15).

per amor di cosa cosa che non duri …

L’esegesi di Ap 7, 17
«Unde pluraliter dicit “fontes aquarum”, ad designandum immensam multiformitatem dulcorum et desiderabilium bonitatum unius simplicissimi Dei. Dicit autem de futuro “reget et deducet”, ut monstret eternam continuationem et perdurationem istorum actuum» – è parodiata nelle parole “… Amor che ’l ciel governi … Quando la rota che tu sempiterni / desiderato” (Par. I, 74, 76-77).
Ap 19, 3,
passo analogicamente connesso al precedente (perdurationem / perdurat), l’avverbio sempiternaliter si riferisce all’eterno perdurare del fumo dei tormenti. Lo si ritrova appropriato  alla porta dell’inferno: “e io etterno duro” (Inf. III, 8).
Ai due passi sopra citati è riferibile anche la quarta terzina di Par. XV (vv. 10-12), dove si parla dei durevoli beni eterni: “Bene è che sanza termine si doglia / chi, per amor di cosa che non duri / etternalmente, quello amor si spoglia”.
L’interpuzione della terzina è stata diversamente interpretata:

 

Bene è che sanza termine si doglia
chi, per amor di cosa che non duri
etternalmente, quello amor si spoglia. (Petrocchi)

Bene è che sanza termine si doglia
chi, per amor di cosa che non duri,
etternalmente quello amor si spoglia. (Inglese)

L’esegesi parodiata, che unisce la durata all’eternità – eternamperdurationem (7, 17) / sempiternaliterperdurat (9, 13), privilegia “che non duri / etternalmente, come a Inf. III, 8:  “e io etterno duro. L’amor che drittamente spira” nei beati (v. 2) si contrappone all’amore per le cose terrene, l’amor di cosa che non duri /etternalmente”.

Cacciaguida, martire e cavaliere di Cristo

Nella topografia spirituale del Paradiso, il quinto cielo di Marte è il secondo a partire dal cielo del Sole, come il secondo stato o periodo della Chiesa, proprio dei martiri: ivi viene rappresentata l’esaltazione della croce di Cristo formata dai lumi dei combattenti per la fede. Reca però in sé anche il tema del condiscendere proprio del quinto stato, sia nel pio discendere per la croce di Cacciaguida verso Dante, sia nella decadenza degli “alti Fiorentini”, cioè delle antiche famiglie, assimilate agli anacoreti, un tempo alti e poi vòlti in basso.
Cacciaguida, martire combattendo contro i Saraceni, è segnato da molti temi del secondo stato, assimilato alla puerizia dell’uomo e al sacramento della cresima. In questo periodo venne radicata e confermata col martirio e l’imitazione della croce la fondazione della Chiesa avvenuta nel primo apostolico stato. La luce di Cacciaguida discende da una croce dove lampeggia Cristo; “chi prende sua croce e segue Cristo” potrà scusare l’impossibilità di trovare, da parte del poeta, un’immagine degna che lo rappresenti (Par. XIV, 103-108): “nichilque ita profuit ad radicationem prime plantationis sicut imitatio crucis Christi” (prologo, Notabile V); Dante (anch’egli ‘martire’ per l’esilio) domanda alla sua “radice” (Par. XV, 89) “quai fuor li anni / che si segnaro in vostra püerizia” (Par. XVI, 23-24: “signo crucis insigniuntur in fronte (prologo, Notabile XIII) … zelus … fertur … contra pueri-tiam inexpertam (prologo, Notabile III)[1].
La folgorante luce della fede diffusa dagli apostoli fu “instar fulguris universa subito discurrentis” (prologo, Notabile XII): la luce di Cacciaguida discende ai piedi della croce “quale per li seren tranquilli e puri / discorre ad ora ad or sùbito foco” (Par. XV, 13-14); lo stesso verbo designa la subitanea creazione (“lo discorrer di Dio sovra quest’ acque”, Par. XXIX, 21). Ad Ap 13, 3, con una citazione dall’Expositio di Gioacchino da Fiore, viene ricordata l’indizione della prima crociata nel Concilio di Clermont da parte di Urbano II (1095), preceduta dal segno mirabile dato dalle stelle vaganti nel cielo, quasi a certificare l’uccisione di una delle teste della bestia (che sarebbe poi risorta): stellas innumerabiles circumquaque discurrere; deinde, exhortatione Urbani pape, christiani undique commoti iverunt ultra mare ad liberandum Christi sepulcrum – discorre ad ora ad or sùbito foco, / movendo li occhi che stavan sicuri, / e pare stella che tramuti loco”. Cacciaguida partecipò in realtà alla seconda crociata (1147-1148), condotta da Corrado III di Svevia (“Poi seguitai lo ‘imperador Currado”, v. 139) e da Luigi VII di Francia, ma la parodia gli applica i temi che nell’esegesi sono propri della prima. Il verso 13 – “Quale per li seren tranquilli e puri” – è variazione su quanto esposto ad Ap 16, 17 (settima coppa).
Nominato cavaliere dall’imperatore Corrado (“ed el mi cinse de la sua milizia”, v. 140), Cacciaguida fu martirizzato dai Saraceni (“e venni dal martiro a questa pace”, v. 148). Per questo la sua figura recita i temi, da 7, 3-4, dei segnati dell’esercito di Cristo all’apertura del sesto sigillo, i quali, simili ai cavalieri che guidano i fanti, testimoniano la fede col martirio. Questi temi assumono grande rilievo nel canto seguente (cfr. infra). I Saraceni, la cui legge “usurpa, / per colpa d’i pastor, vostra giustizia” (vv. 143-144), sono assimilati all’Anticristo
“tunc usurpatorie dominans terre et terrenis” (Ap 11, 4). Fanno parte, parodiando una citazione di Gioacchino da Fiore ad Ap 17, 1 presente nelle parole di Giustiniano su Romeo da Villanova (Par. VI, 127-142), della Roma dei reprobi che cammina operando con nequizia contro la Roma dei giusti.

Esempi di “pietas”: Anchise, Cacciaguida, san Francesco

La discesa dell’avo di Dante, “dal corno … a piè di quella croce” (vv. 19-20), avviene dopo che i beati hanno posto silenzio a una melodia di alta lode, le cui più distinte parole sono «‘Resurgi’ e ‘Vinci’» (Par. XIV, 103-105, 124-126). Su Francesco, angelo del sesto sigillo, Olivi riferisce quanto ascoltato “da un uomo spirituale, fededegno, molto vicino a frate Leone confessore e compagno del beato Francesco”. Costui – si tratta di Corrado di Offida – aveva saputo che Francesco, nella tentazione babilonica nella quale egli e il suo stato e la sua regola, come Cristo, saranno crocifissi, risorgerà glorioso (“resurget gloriosus”) per confermare e informare i discepoli, come Cristo risorse per confermare gli apostoli e informarli sulla fondazione e sul governo della Chiesa futura. Quanto detto esplicitamente ad Ap 7, 2 si ritrova, più genericamente, ad Ap 10, 1 nel discendere di Cristo, del suo servo Francesco e del suo angelico gruppo dei discepoli contro gli errori e le malizie del mondo (descendet Christus et eius servus Franciscus et angelicus discipulorum eius cetus contra omnes errores et malitias mundi”).
Dante recita la parte di Giovanni, che designa il ceto evangelico. Verso di lui il tempo sprona per dare colpi gravi, ed egli va ad accertarsi di ciò che ha udito contro di sé, come Fetonte dalla madre Climene, dal suo avo Cacciaguida, che lo conferma e informa sul proprio futuro, chiarendogli “con preciso latin” quanto gli è stato profeticamente più volte detto “per ambage” nel corso del viaggio.
La parodia dantesca trasforma Francesco, assimilato a Cristo nella vita e nelle stimmate, che informa i suoi discepoli sul futuro governo della Chiesa, in Cacciaguida che assicura a Dante “che s’infutura la tua vita” (Par. XVII, 98): il poeta è stato già assimilato a Francesco, angelo del sesto sigillo recante le stimmate, da Virgilio nel corso del colloquio con Stazio sulla soglia del sesto girone della montagna (Purg. XXI, 22-24).
Cacciaguida discende con pietas, come Francesco verso le genti: «
per sui ad inferiores piam condescensionem descendet “de celo” (Ap 10, 1) – pïa l’ombra d’Anchise si porse, / se fede merta nostra maggior musa, / quando in Eliso del figlio s’accorse (Par. XV, 25-27)». La pietas, tipica del quinto stato della storia della Chiesa, il condiscendente periodo storico (da Carlo Magno a san Francesco) aperto alle esigenze della vita associata e alla ricezione delle moltitudini, dopo l’ardua e a lungo insostenibile vita degli anacoreti o contemplativi dello stato precedente, è tema precipuo di Virgilio, la “musa” menzionata nella terzina.
A Dante sono stati appropriati, nelle parole di rimprovero pronunciate da Beatrice nell’Eden, i motivi, da Ap 5, 1, connessi alla “destra di Dio” che contiene le leggi (l’“alto fato”) e le elargizioni della grazia provenienti dall’alta mente divina (“che sì alti vapori hanno a lor piova, / che nostre viste là non van vicine”), a lui date “ne la sua vita nova” (l’espressione si trova ad Ap 5, 9, nell’esegesi del “canticum novum”) prima che il “mal seme e non cólto” togliesse vigore a “ogne abito destro” (Purg. XXX, 112-120, 142). Elargizioni stellari attestate, senza riferimento esplicito alla ‘destra’, nell’invocazione ai Gemelli (Par. XXII, 112-120).
Cacciaguida discende verso Dante per il braccio destro della croce greca formata dai lumi che si manifestano nel cielo di Marte: a chi, come al suo discendente, è stata elargita tanta grazia che gli sia aperta per due volte la porta del cielo? (Par. XV, 19-21, 28-30).

Il “vivo topazio”

Le fondamenta della Gerusalemme celeste, descritta nella settima visione, sono ornate con dodici pietre preziose: diaspro, zaffiro, calcedonio, smeraldo, sardonice, cornalina, crisòlito, berillo, topazio, crisopazio, giacinto, ametista (Ap 21, 19-20). Queste gemme sono virtù, le loro qualità sono variamente distribuite. Il topazio – che secondo Gregorio Magno deriva da “pan, quod est omne, pro eo quod omni colore resplendet” e designa la perfetta vita contemplativa – è impersonato in Cacciaguida, “vivo topazio / che questa gioia prezïosa ingemmi” (Par. XV, 85-86); pervade sia la scala d’oro vista nel cristallino cielo di Saturno (Par. XXI, 28-33) come il velo tanto ghiacciato di Cocito “che se Tambernicchi / vi fosse sù caduto, o Pietrapana (la Pania delle Alpi Apuane, in cui pan è come incastonato), / non avria pur da l’orlo fatto cricchi” (Inf. XXXII, 28-30).
Nella candida rosa dell’Empireo, gli angeli, cioè “li topazi / ch’entrano ed escono” nei fiori, cioè nei beati (Par. XXX, 76-77) sono figura dell’entrata e uscita dalla città, misuratamente regolate da un angelo con la canna d’oro (Ap 21, 15). Cacciaguida, “vivo topazio”, utlizzerà proprio questo tema per descrivere la sua “Fiorenza dentro da la cerchia antica” (cfr. infra).

Il ridere di Beatrice e lo splendore del volto di Cristo

Lo splendor faciei di Cristo sommo pastore (decima e undecima perfezione: Ap 1, 16-17) si incarna, qui (vv. 34, 71) come altrove, nel ridere di Beatrice. La tematica discorre per tutto il Paradiso, con variazioni della rosa semantica: l’essere più lucente, la troppa luce, il mettere in oblio, l’intimo accorgersi di un’ardua visione. A questa esegesi rimandano le parole incastonate nei versi come pietre miliari, a ricordare una dottrina poeticamente rivestita.
Un lettore ‘spirituale’, di fronte al ridere di Beatrice, avrebbe senz’altro rammentato l’esegesi del volto solare di Cristo. Non nel senso di una reale identificazione, ma della conformità che nasce dal seguirlo.
Quanto è riferito alla decima e undecima prerogativa di Cristo sommo pastore può congiungersi con altre perfezioni della stessa serie: ad esempio in Par. XV, 71, dove l’espressione “e arrisemi un cenno”, riferita a Beatrice, cuce lo splendore nel sorridere con quello che deriva dallo zelante guardare con occhi di fuoco ogni atto, intenzione, cenno altrui (Ap 1, 14; quinta perfezione). La contaminazione dei due passi si registra ancora nell’incontro fra Stazio e Virgilio (Purg. XXI, 109-114; XXII, 25-27). Nella visione finale dell’Incarnazione, il sorriso appartiene alla “… luce etterna che sola in te sidi, / sola t’intendi, e da te intelletta / e intendente te ami e arridi”, mentre il vedere con occhi di fuoco (già appropriato a Caronte e a Cesare) è trasferito sul poeta che contempla: “Quella circulazion che sì concetta / pareva in te come lume reflesso, / da li occhi miei alquanto circunspetta” (Par. XXXIII, 124-129).
Così, a Par. XX, 13-15, nel primo verso  – “O dolce amor che di riso t’ammanti” -, il sorridere (decima perfezione) e l’ammantarsi (terza, Ap 1, 13: la santità del manto sacerdotale) si riflettono “in que’ flailli, / ch’avieno spirto sol di pensier santi”, cioè nelle luci che formano l’aquila. L’esegesi del manto (“vestitum podere”) è tela su cui il poeta sovrappone numerosi ricami.
Afferma Dante che il riso della sua donna era ai suoi occhi “
tal, ch’io pensai co’ miei toccar lo fondo / de la mia gloria e del mio paradiso” (Par. XV, 34-36). Il poeta consegue la prima vittoria, cioè il paradiso della propria mente, e anche la settima, cioè fondarsi nella gloria della sede di Cristo (Ap 2, 1.7): “Datur etiam eis paradisus proprie mentis virtutibus consita … quiescet et fundabitur in ipsa Christi gloria tamquam in sede sua”. Un paradiso e una gloria mentale, non reale, per un corpo vivente. Gloria, anche perché congiunta a fundabitur nel testo parodiato, è preferibile, per quanto meno attestata dalla tradizione, a grazia.

Il linguaggio di Cacciaguida

Cacciaguida inizia a parlare in latino (Par. XV, 28-30), poi aggiunge cose incomprensibili per i mortali (vv. 37-42). Questo parlar profondo di Cacciaguida, in cui “’l suo concetto / al segno d’i mortal si soprapuose” corrisponde alla lode interiore, intellettuale e affettiva, che ad Ap 4, 10-11 si dice fatta dai quattro esseri viventi e dai seniori al modo degli angeli “per signa intellectualia a magis interno actu mentis eorum causata, iuxta unum modum quo ponuntur sibi invicem loqui per signa”. Dante, nel De vulgari eloquentia I, ii, 3, aveva negato un linguaggio angelico con segni umani: “Cum igitur angeli ad pandendas gloriosas eorum conceptiones habeant promptissimam atque ineffabilem sufficientiam intellectus, qua vel alter alteri totaliter innotescit per se, vel saltim per illud fulgentissimum Speculum in quo cuncti representantur pulcerrimi atque avidissimi speculantur, nullo signo locutionis indiguisse videntur”. Così Cacciaguida afferma che “i minori e ’ grandi / di questa vita miran ne lo speglio / in che, prima che pensi, il pensier pandi” (vv.  61-63; cfr. Ap 6, 7). Il valore laudativo del linguaggio, di letizia e attestazione della gloria di Colui che l’ha donato gratuitamente, espresse dal primo uomo nel rivolgerglisi, è sottolineato in De vulgari eloquentia I, v, 2: “[…] quod licet Deus sciret, immo presciret (quod idem est quantum ad Deum) absque locutione conceptum primi loquentis, voluit tamen et ipsum loqui, ut in explicatione tante dotis gloriaretur ipse qui gratis dotaverat”. Ed è sottolineato anche da Beatrice, che stimola Dante a chiedere al suo avo: “non perché nostra conoscenza cresca / per tuo parlare, ma perché t’ausi / a dir la sete, sì che l’uom ti mesca” (Par. XVII, 10-12).
Le parole di Cacciaguida sono necessariamente incomprensibili: “né per elezïon mi si nascose, / ma per necessità, ché ’l suo concetto / al segno d’i mortal si soprapuose” (Par. XV, 40-42). La necessità, in questo caso di nascondere, è dovuta all’insondabile prescienza divina; altrove però essa corrisponde all’utilità di manifestare, e quindi di rivelare, le cose che stanno per accadere: “necessità ’l ci ’nduce, e non diletto”, dice Virgilio al centauro Chirone (Inf. XII, 87). La necessità apocalittica svela ciò che si nasconde (Ap 1, 1). Come viene ingiunto a Giovanni di scrivere tutta la visione (la quale, in quanto visione puramente intellettuale, è stata una sola, ma per essere compresa deve essere redatta in più visioni e articolata con similitudini) – “scribat et mittat ecclesiis totam hanc visionem” (Ap 1, 19) –, così risuonano le parole di Cacciaguida a Dante: tutta tua visïon fa manifesta” (Par. XVII, 128). Si tratta di una visione mostrata da altri, come fece l’angelo a Giovanni con segni figurali comprensibili all’intelletto umano: “Però ti son mostrate in queste rote, / nel monte e ne la valle dolorosa / pur l’anime che son di fama note” (vv. 136-138) [2].
Cacciaguida riprende poi a parlare in modo condiscendente all’intelletto umano (“’l parlar discese“, in conformità con il pio discendere di Cacciaguida-Francesco, per cui è da escludere la variante distese), presumibilmente nel latino con il quale ha iniziato, che Dante traduce nel volgare moderno (Par. XV, 43-48). Ancora all’esegesi di Ap 4, 8-9, relativa alla lode dei quattro esseri viventi, rinviano le prime parole dell’avo che Dante è in grado di intendere: «“Benedetto sia tu”, fu, “trino e uno» (v. 46).
Dirà in seguito dei suoi antichi Fiorentini “con voce più dolce e soave, / ma non con questa moderna favella” (Par. XVI, 32-33). Tutto il contesto del discorso di Cacciaguida è memore di quanto scritto nel De vulgari eloquentia sull’impercettibile mutamento delle lingue (I, ix, 6-10), dove si fa l’esempio degli antichissimi abitanti di Pavia i quali, se risorgessero, parlerebbero un linguaggio diverso dal moderno pavese. Di considerazioni come: “[…] nam que paulatim moventur, minime perpenduntur a nobis, et quanto longiora tempora variatio rei ad perpendi requirit, tanto rem illam stabiliorem putamus. […] cum sermonis variatio civitatis eiusdem non sine longissima temporum successione paulatim contingat, et hominum vita sit etiam, ipsa sua natura, brevissima” (ibid., 8-9) sono eco le parole: “Le vostre cose tutte hanno lor morte, / sì come voi; ma celasi in alcuna / che dura molto, e le vite son corte” (Par. XVI, 79-81). Come mutano le lingue, così hanno termine le città e si disfanno le stirpi. La lingua con cui Cacciaguida parla dei suoi antichi, degli anni della sua puerizia, della popolazione e delle genti dell’“ovil di San Giovanni” è dunque un fiorentino arcaico, non il latino, come è stato sostenuto. E certo un eloquio dolce e soave si addice “a così riposato, a così bello / viver di cittadini, a così fida / cittadinanza, a così dolce ostello” (Par. XV, 130-132) [3].

La maieutica del domandare

Nel finale dell’apertura del sesto sigillo (Ap 7, 13), uno dei seniori ‘risponde’, cioè si rivolge a Giovanni parlando. Questo vegliardo, nell’interpretazione di Riccardo di San Vittore, designa la totalità dei profeti, degli apostoli, dei dottori, ed insegna la giustizia e la gloria degli eletti; in tal modo è come se parlasse a nome di tutti. Secondo Gioacchino da Fiore, il vegliardo è lo stesso beato Giovanni, autore del libro, il quale ci interroga ed incita a cercare, a capire, a imitare quei santi. Egli è uno, e il maggiore, dei ventiquattro seniori. Noi siamo qui da lui designati in quanto viene edotto dall’angelo che assume la forma di un seniore. Il vegliardo dice: “Quelli che sono vestiti di bianco, chi sono”, cioè di quali e quante dignità sono insigniti, “e donde vengono?”, cioè per quali meriti e per quale via di santità sono pervenuti a tanta gloria. Come noi con le domande del maestro siamo stimolati alla ricerca della verità di ciò su cui ci stiamo interrogando, ad avvertirne qualche difficoltà e a cercare un maestro che ce la insegni, così avviene spesso in queste visioni: è così indicato ogni incoraggiamento degli angeli inferiori o degli uomini mortali da parte degli angeli superiori perché gli inferiori si innalzino più attentamente e altamente ad accogliere l’illuminazione dei superiori.
E Giovanni: “Signore mio, tu lo sai” (Ap 7, 14), come per dire: io non lo so ma insegnamelo tu che lo sai. Il vegliardo: “Essi sono coloro che sono venuti”, a tanta gloria, “attraverso la grande tribolazione”, cioè attraverso le grandi tribolazioni patite per Cristo a causa degli empi e a causa di sé stessi in lotta contro le concupiscenze.
In un passo simmetrico, ad Ap 5, 2 (nella “radice” della seconda visione), il tema dell’interrogare da parte del maestro viene introdotto all’atto della domanda fatta dall’angelo forte che chiede a gran voce chi sia degno di aprire il libro segnato da sette sigilli. Questo modo di domandare da una parte designa il maestro che stimola il discepolo ad apprendere chiedendo, dall’altra indica l’alta ammirazione di colui che domanda e la rarità, la difficoltà e l’arditezza della cosa richiesta.
La collazione di Ap 7, 13 con 5, 2, con le sue variazioni e diverse appropriazioni, è fonte di numerosi procedimenti di agnizione nel poema, come si può notare nelle tabelle, riscontrando i temi offerti dall’esegesi scritturale (non solo dal testo sacro) – «“et respondit … unus de senioribus” … “hii … qui sunt”, id est quales et quante dignitatis, “et unde venerunt”, id est … ad tantam gloriam pervenerunt … excitat nos ad querendum … per magistrales interrogationes excitamur ad inquirendum … ego nescio, sed tu doce me, tu hoc scis» – con i più svariati versi del poema.
Questi temi sono presenti nei canti di Cacciaguida. A Par. XV, 58-59, l’espressione “e però ch’io mi sia e perch’ io paia / più gaudïoso a te, non mi domandi” varia quella di Virgilio nel Limbo: “Tu non dimandi / che spiriti son questi che tu vedi?” (Inf. IV, 31-32). Così lo stimolare da parte del maestro affinché il discepolo domandi è nell’invito successivo: “la voce tua sicura, balda e lieta / suoni la volontà, suoni ’l disio, / a che la mia risposta è già decreta!” (Par. XV, 67-69), motivo ripetuto più avanti da Beatrice: “perché t’ausi / a dir la sete, sì che l’uom ti mesca” (Par. XVII, 11-12; cfr. la congiunzione dei motivi del rispondere e della sete a Purg. XXVI, 19-21).
Nella domanda che Dante pone all’avo – “ditemi de l’ovil di San Giovanni / quanto era allora, e chi eran le genti / tra esso degne di più alti scanni” (il terzo e il quarto quesito in Par. XVI, 25-27) – si nota la corrispondenza con «“Et dixit mihi: hii, qui amicti sunt stolis albis, qui sunt”, id est quales et quante dignitatis (inciso frammentato in due distinte appropriazioni), “et unde venerunt”» ad Ap 7, 13. Conseguentemente, Cacciaguida conclude la risposta al primo quesito – “quai fuor li vostri antichi” (v. 23) – riprendendo il tema: “chi ei si fosser e onde venner quivi, / più è tacer che ragionare onesto” (vv. 44-45).
Dopo le domande di Dante, la luce di Cacciaguida si avviva come carbone in fiamma allo spirare del vento: “così vid’ io quella / luce risplendere a’ miei blandimenti” (vv. 28-30). Da rilevare la variante “rispondere”, accettata dal Boccaccio e considerata dal Petrocchi “senza dubbio lezione equivalente e interessante”
. Essa potrebbe rientrare nel gruppo tematico offerto dall’esegesi di Ap 7, 13 che ha segnato la terzina precedente (vv. 25-27). Tuttavia il principio della prevalenza della zona esegetica, ai significati della quale rinviano le parole-segni in un contesto ristretto, obbliga a privilegiare risplendere, per gli altri riferimenti ad Ap 1, 16 nelle terzine 10a e 11a. Si tratta del trasferire su Cacciaguida, che è beato, lo splendore del volto di Cristo del quale tante volte partecipa il ridere di Beatrice; così per l’avo di Dante anche a Par. XVII, 36, 121-123.
Alla collazione di Ap 7, 17 con Ap 22, 17, con la comune tematica della sete appagata dalle acque della vita, rinviano terzine come quelle di Par. III, 70-75, in cui Piccarda introduce il tema della volontà, che nei beati è concorde con quella di Dio, accanto al motivo del non aver sete per desiderio di trovarsi in luogo più alto di quello assegnato. Una variazione è nelle parole di Cacciaguida che invita Dante a far sentire la sua volontà e il suo desiderio, affinché meglio s’adempia “’l sacro amore in che io veglio / con perpetüa vista e che m’asseta / di dolce disïar” (Par. XV, 64-69). Il tema del maestro che stimola il discepolo a domandare, combinato con quello dell’avere sete, si ritrova in Par. XVII, 7-12, nel punto in cui Beatrice spinge Dante a chiedere ciò che desidera, mandando fuori la vampa del desiderio, non perché la conoscenza dei beati – nel caso di Cacciaguida – si accresca per il suo parlare, ma perché egli si abitui “a dir la sete”, in modo che altri la possa appagare.

[1] Il tema della radice dell’albero è sviluppato ad Ap 5, 5 e 22, 16, dove di Cristo si dice che è “radice di David”, cioè principio e fondamento dell’albero dell’Antico e del Nuovo Testamento, dei padri che vennero prima e dopo di lui. A questa esegesi fanno riferimento le parole di Cacciaguida: «“… io fui la tua radice”: / cotal principio, rispondendo, femmi» (Par. XV, 88-90), per quanto “radice” alluda anche al martirio (proprio di Cacciaguida crociato e assimilabile in qualche modo all’esilio di Dante; prologo, Notabile V). Alla radice dell’albero fanno riferimento anche parole del poeta: “O cara piota mia che sì t’insusi” (Par. XVII, 13), nelle quali sono del tutto inconferenti varianti come pianta o pieta.

[2] Le cose che vengono mostrate a Giovanni non sono contingenti, circa la possibilità che si avverino, ma necessarie e infallibili nella loro realizzazione (Ap 1, 19). Non si tratta di necessità assoluta, ma relativa alla prescienza divina, all’utilità della Chiesa e alla giustizia verso i reprobi (Ap 1, 1). Cacciaguida, nel profetizzare l’esilio di Dante, lo fa rientrare nei fatti contingenti, ma lo considera necessario rispetto alla prescienza divina. Afferma infatti: “La contingenza, che fuor del quaderno / de la vostra matera non si stende, / tutta è dipinta nel cospetto etterno; / necessità però quindi non prende / se non come dal viso in che si specchia / nave che per torrente giù discende” (Par. XVII, 37-42). La necessità relativa è ribadita poco dopo: “tal di Fiorenza partir ti convene” (v. 48).
La forma latineggiante quaterno è preferibile a quaderno, sia perché “assicura rima ricca alla terna completa” (Inglese), sia perché Cacciaguida legge nel libro della prescienza divina che, metaforicamente, potrebbe essere considerato “per quaternos et cartas distinctus”,  oppure al modo di un rotolo dipinto dentro e fuori (Ap 6, 1).
È stata sostenuta la variante corrente rispetto a torrente, con la motivazione “che una nave discenda un torrente – un corso d’acqua in genere esiguo, occasionalmente impetuoso, spesso ripido – è inimmaginabile” (Inglese). Ma, come osserva Petrocchi, qui torrente vale ‘fiume impetuoso’, che rispecchia il passo di Isaia 59, 19: “quasi fluvius violentus quem spiritus Domini cogit”. Torrens, proprio nel senso di fiume impetuoso, è proposto nell’esegesi di Ap 14, 19-20, e contrapposto a un parvum flumen; è sottolineato da altra citazione di Isaia 30, 33 – “flatus Domini sicut torrens sulphuris” -: sulla pagina esegetica è stato elaborato il verso di Par. XII, 99: “quasi torrente ch’alta vena preme”.

[3] Dalla sede divina, come si afferma ad Ap 4, 5 (versetto in collazione con Ap 8, 5 e 11, 19), vengono emessi lampi, voci e tuoni: a differenza dei tuoni, che designano gli alti insegnamenti provenienti dal cielo, le voci sono modeste e soavi e provengono dalla ragione umana. È la voce degli “spiriti magni”, i quali “parlavan rado, con voci soavi” (Inf. IV, 114), che nel Limbo è già stata udita: Beatrice ha lì parlato a Virgilio “soave e piana, con angelica voce” (Inf. II, 56-57). Sarà così modulata la voce di Salomone, quinta luce nel cielo del Sole: “E io udi’ ne la luce più dia / del minor cerchio una voce modesta, / forse qual fu da l’angelo a Maria” (Par. XIV, 34-36). Le folgori vanno e tornano (cfr. Ezechiele 1, 14; Giobbe 38, 35); davanti al trono, stanno sette lampade, che sono i sette spiriti di Dio. Cacciaguida è “la santa lampa / che pria per me avea mutato sito” (Par. XVII, 5-6).

Tab. XV.1

[LSA, cap. I, Ap 1, 15 (radix Ie visionis)] Sexta (perfectio summo pastori condecens) est sue active seu suorum operum perfectio, unde subdit: “et pedes eius similes auricalco, sicut in camino ardenti” (Ap 1, 15). Auricalcum est es nitidissimum valde simile auro, et cum est in camino ardenti est ignitissimum ac scintillans liquefactum. Christi autem corporales seu exteriores et inferiores actus et processus fuerunt et sunt igne caritatis Dei et nostri ignitissimi et exemplariter scintillantes et etiam, dum hic viveret, in camino temptationum probati et auro sue interne et superne caritatis simillimi.

[LSA, cap. XVII, Ap 17, 1 (VIa visio)] Et subdit (Ioachim): «Hanc meretricem magnam dixerunt patres catholici Romam non quoad ecclesiam iustorum, que peregrinata est apud eam, sed quoad multitudinem reproborum, qui eandem apud se peregrinantem ecclesiam iniquis operibus impu-gnant et blasphemant. Non igitur in uno loco querendus est locus huius meretricis, sed sicut per totam aream romani imperii diffusum est triticum electorum, sic per latitudinem eius disperse sunt palee reproborum».

Par. XV, 1-3, 139-144 

Benigna volontade in che si liqua
sempre l’amor che drittamente spira,
come cupidità fa ne la iniqua

Poi seguitai lo ’mperador Currado;
ed el mi cinse de la sua milizia,
tanto per bene ovrar li venni in grado.
Dietro li andai incontro a la nequizia
di quella legge il cui popolo usurpa,
per colpa d’i pastor, vostra giustizia.

Par. IV, 67-69

Parere ingiusta la nostra giustizia
ne li occhi d’i mortali, è argomento
di fede e non d’eretica nequizia.

Par. VI, 121-123

Quindi addolcisce la viva giustizia
in noi l’affetto sì, che non si puote
torcer già mai ad alcuna nequizia.

Tab. XV.2

[LSA, cap. VII, Ap 7, 2 (IIa visio, apertio VIi sigilli)] Audivi etiam a viro spirituali valde fide digno, et fratri Leoni confessori et socio beati Francisci valde familiari, quoddam huic scripture consonum, quod nec assero nec scio nec censeo asserendum, scilicet quod tam per verba fratris Leonis quam per propriam revelationem sibi factam perceperat Franciscum in illa pressura temptationis babilonice, in qua eius status et regula quasi instar Christi crucifigetur, resurget gloriosus, ut sicut in vita et in crucis stigmatibus Christo singulariter assimilatus, sic et in resurrectione Christo assimiletur, necessaria autem tunc discipulis confirmandis et informandis, sicut Christi resurrectio fuit necessaria apostolis confir-mandis et super fundatione et gubernatione future ecclesie informandis.
Ut autem resurrectio servi patenti gradu dignitatis distaret a resurrectione Christi et sue matris, Christus statim post triduum resurrexit, et mater eius post quadraginta dies resurrexisse dicitur a quibusdam non omnino spernendis; iste vero post totum tempus sui ordinis usque ad crucifixionem ipsius cruc<i> Christi assimilatam et Francisci stigmatibus presi-gnatam.

Par. XIV, 103-105, 124-126

Qui vince la memoria mia lo ’ngegno;
ché quella croce lampeggiava Cristo,
sì ch’io non so trovare essempro degno

Ben m’accors’ io ch’elli era d’alte lode,
però ch’a me venìa “Resurgi e “Vinci”
come a colui che non intende e ode.

Par. XVII, 1-4, 25-27, 97-99

Qual venne a Climenè, per accertarsi
di ciò ch’avëa incontro a sé udito,
quei ch’ancor fa li padri ai figli scarsi;
tal era io ……………………………..

per che la voglia mia saria contenta
d’intender qual fortuna mi s’appressa:
ché saetta previsa vien più lenta.

Non vo’ però ch’a’ tuoi vicini invidie,
poscia che s’infutura la tua vita
via più là che ’l punir di lor perfidie.

[LSA, cap. X, Ap 10, 1 (IIIa visio, VIa tuba)] “Facies” etiam “eius erat ut sol”, quia in singulari contemplatione Christi et evangelice vite eius fuit non instar lune defective, vel modice stelle vel lucis nocturne, sed instar solis et lucis diurne inflammatus et illuminatus et illuminans et inflammans. […]
Quia vero hec et sequentia in futuris eius operibus et discipulis clarius innotescent, idcirco sciendum quod a tempore sollempnis impugnationis et condempnationis evangelice vite et regule, sub mistico Antichristo fiende et sub magno amplius consumande, spiritaliter descendet Christus et eius servus Franciscus et angelicus discipulorum eius cetus contra omnes errores et malitias mundi et contra totum exercitum demonum et pravorum hominum constans et fortis et impavidus sicut leo, tam ad invadendum quam ad patiendum. Et per profundissimam sui humiliationem et per sue originis a Deo humilem recognitionem et per sui ad inferiores piam condescensionem descendet “de celo”, eritque scientia scripturarum non terrestrium et falsarum sed celestium et purissimarum quasi “nube amictus”, et etiam agillima et altissima et fecunda simul et obscura seu humili paupertate.

[LSA, cap. VI, Ap 6, 1-2 (IIa visio, apertio Ii sigilli)] Duplici ex causa leo demonstrat visa prime apertionis. Prima est quia leo signat primum ordinem ecclesie, scilicet pastorum seu apostolorum; ipsorum autem proprie fuit monstrare primum statum ecclesie in eis et sub eis formatum. Secunda est quia per leonem Christi resurgentis triumphalis et regalis potestas et gloria designatur. […] Nam suos apostolos deduxit in mundum quasi leones animosissimos et ad mirabilia facienda potentissimos, et “habebat” in eis “archum” predicationis valide ad corda sagittanda et penetranda.

Par. XVI, 34-42

dissemi: “Da quel dì che fu detto ‘Ave
al parto in che mia madre, ch’è or santa,
s’allevïò di me ond’ era grave,
al suo Leon cinquecento cinquanta
e trenta fiate venne questo foco
a rinfiammarsi sotto la sua pianta.
Li antichi miei e io nacqui nel loco
dove si truova pria l’ultimo sesto
da quei che corre il vostro annüal gioco”.

Par. XV, 19-27, 43-45

tale dal corno che ’n destro si stende
a piè di quella croce corse un astro
de la costellazion che lì resplende;
né si partì la gemma dal suo nastro,
ma per la lista radïal trascorse,
che parve foco dietro ad alabastro.
pïa l’ombra d’Anchise si porse,
se fede merta nostra maggior musa,
quando in Eliso del figlio s’accorse.

E quando l’arco de l’ardente affetto
fu sì sfogato, che l parlar discese
inver’ lo segno del nostro intelletto

 

[LSA, cap. VII, Ap 7, 3 (IIa visio, apertio VIi sigilli)] Sicut enim post transmigrationem Babilonis, quod deerat in constructione templi, in quadraginta sex annis facta, completum est in sex ultimis annis, ita nunc sub sexta apertione ordo sanctorum marti-rum consumationem accipiet. Unde in die illo qui <erit> medius inter utramque tribulationem, scilicet Babilonis et Antichristi, signabuntur multi Iudeorum et gentium signaculo sancte Trinitatis, ad complen-dum numerum sanctorum martirum infra scriptum et illam gloriosam multitudinem cuius est numerus infinitus. Hec Ioachim.

[LSA, cap. XXI, Ap 21, 16 (VIIa visio)] “Et mensus est civitatem Dei cum arundine per stadia duodecim milia” (Ap 21, 16). Stadium est spatium in cuius termino statur vel pro respirando pausatur, et per quod curritur ut bravium acquiratur, secundum illud Apostoli Ia ad Corinthios, capitulo IX°: “Nescitis quod hii, qui in stadio currunt, omnes quidem currunt, sed unus accipit bravium?” (1 Cor 9, 24), et ideo significat iter meriti triumphaliter obtinentis premium. Cui et congruit quod stadium est octava pars miliarii, unde designat octavam resurrectionis. Octava autem pars miliarii, id est mille passuum, sunt centum viginti quinque passus, qui faciunt duodecies decem et ultra hoc quinque; in quo designatur status continens perfectionem aposto-licam habundanter implentem decalogum legis, et ultra hoc plenitudinem quinque spiritualium sen-suum et quinque patriarchalium ecclesiarum.

2. “La prima equalità”

I quattro lati delle mura della Gerusalemme celeste, descritta nella settima visione, formano un quadrilatero (Ap 21, 16), che designa la solida quadratura delle virtù (a Cacciaguida il poeta dice di sentirsi “ben tetragono ai colpi di ventura”, Par. XVII, 23-24). I quattro lati sono uguali in lunghezza e in larghezza. La città dei beati quanto vede di Dio e dei suoi beni tanto ama, quanto è lunga nella visione tanto si dilata nella carità, quanto si prolunga nell’eterno tanto si dilata nel gaudio giocoso e glorioso. Lo stesso può dirsi di coloro che in questa vita raggiungono la perfezione, i quali quanto conoscono o credono tanto amano, quanto per la speranza si protendono nei beni eterni tanto si dilatano nel gaudio. Nei beati le quattro virtù cardinali – prudenza, fortezza, giustizia e temperanza -, designate dai quattro lati della città, hanno uguale misura. Anche l’altezza è uguale alla lunghezza e alla larghezza, poiché quanto i beati per la visione e per l’amore si protendono in lungo e si dilatano in largo, tanto si elevano nell’alta lode e nella reverenza verso Dio e nell’alto apprendimento e degustazione della sua sublime maestà. Tuttavia in questa vita l’altezza, proporzionata alla misura della carità e del tendere in Dio, sta comunemente solo nel desiderio e nella speranza di raggiungere la compiuta misura della patria celeste. Un edificio si pone infatti diversamente nel suo inizio e nella perfezione del fine.
Anche un sommario esame rivela quanto siano importanti questi temi nel Paradiso. La citazione di Gioacchino da Fiore sottolinea come l’uguaglianza dei lati della città designi la somma concordia dei beati nel regno di Dio. Beatrice, spiegando la differenza tra l’ordine celeste e quello del mondo, definisce il Primo Mobile come la sfera corporea corrispondente al primo dei cerchi angelici, i Serafini, “che più ama e che più sape” (la larghezza e la lunghezza si equivalgono), invitando Dante ad applicare la sua misura (il misurare la città) al criterio della virtù (i lati della città designano le virtù) e non a quello della grandezza apparente dei cerchi (Par. XXVIII, 70-78). Più avanti la donna dice che tutte le intelligenze “hanno diletto” (il godere giocoso proprio della larghezza e anche la degustazione propria dell’altezza) quanto è profonda la visione di Dio (la lunghezza; vv. 106-108). Soggiunge che l’essere beato si fonda nell’atto della visione, non nell’atto dell’amore, il quale consegue dal primo (Par. XXVIII, 109-111; cfr. Par. XXIX, 139-140). Secondo molti interpreti qui Dante accoglie la tesi tomista che fa precedere nella beatitudine l’atto dell’intelletto a quello della volontà se non nel tempo, almeno nella natura e nell’origine. Ernesto Buonaiuti notò una contraddizione tra la terzina di Par. XXVIII, 109-111 e la definizione del Primo Mobile come corrispondente “al cerchio che più ama e che più sape” (v. 72), dove invece prevarrebbe la tesi volontaristica francescana in quanto, in questo caso, l’amare è posto prima del sapere [1]. La questione viene affrontata dallo stesso Olivi ad Ap 21, 22, dove i due atti – la “visio” e il “beatificus actus caritatis” – sono considerati tanto compenetrati che nessuno dei due può ritenersi perfetto senza l’altro. Lo stesso Olivi, però, nel Notabile X del prologo della Lectura, afferma che non si può amare se non quello che si conosce, e che quindi la “notitia” precede l’amore come il terzo stato dei dottori (l’intelletto) precede storicamente il quarto stato degli anacoreti (l’affetto). La stessa questione viene posta nella domanda che Dante fa a Francesca: “Ma dimmi: al tempo d’i dolci sospiri, / a che e come concedette amore / che conosceste i dubbiosi disiri?”, e riecheggiata nella risposta: “Ma s’a conoscer la prima radice / del nostro amor tu hai cotanto affetto, / dirò come colui che piange e dice” (Inf. V, 118-120, 124-126).

 

Nei beati, come sa Dante che si rivolge a Cacciaguida, “l’affetto e ’l senno” (la larghezza e la lunghezza) sono di pari peso dal momento in cui essi hanno cominciato a contemplare Dio (definito, per restare nel medesimo ambito tematico, “la prima equalità”, il sole uguale nel calore della carità e nella luce della visione), diversamente dai mortali, nei quali “voglia e argomento” (corrispondenti all’affetto e al senno) hanno ali disuguali (Par. XV, 73-84). Il confronto con l’esegesi – “Tanta autem equalitas designat summam concordiam beatorum in regno Dei” – porta a escludere la variante “la prima qualità.

Al termine del viaggio, la lunghezza (“il mio disio”, che esprime anche l’altezza, “secundum mensuram sue tensionis”, e dunque la “sete natural” di cui a Purg. XXI, 1-4) e la larghezza (“’l velle”) saranno in Dante “sì come rota ch’igualmente è mossa” (Par. XXXIII, 143-145). Lo Spirito di Cristo, nell’invitare alla gloriosa cena delle nozze dell’Agnello, dice: “Et qui sitit veniat. Et qui vult accipiat aquam vite gratis”, perché, aggiunge Olivi, “nullus cogitur nec potest venire nisi per desiderium et voluntarium consensum” (ad Ap 22, 17).
Nella descrizione dell’empirea rosa, la fiumana luminosa, che prima appariva in lunghezza, successivamente diviene tonda distendendosi in figura circolare, con una circonferenza che sarebbe cintura “troppo larga” per il sole (Par. XXX, 88-90, 103-105). La rosa sempiterna “si digrada” (si allunga nel senso di protendersi), “e dilata” (si allarga) “e redole / odor di lode al sol che sempre verna” (l’elevarsi dell’altezza; vv. 124-126). Il digradare fa comunque riferimento ai “gradi”, che nella misura della città sono uguali per ciascun lato: secondo Gioacchino da Fiore, ovunque si ritrova il numero 6, in quanto il senario, riflesso su sé stesso ed elevato in alto, dà 36, e 36.000 (6 volte 6000) si ottiene dividendo 144.000 (dodici volte la misura della città, che è di 12.000 stadi) per i 4 lati.
Nel riferire l’ultima visione, Dante prima ricorda “l’abbondante grazia ond’ io presunsi / ficcar lo viso per la luce etterna” (la visione corrisponde alla lunghezza), poi afferma di aver visto la forma universale del nodo che unisce tutte le cose perché, dicendo ciò, prova un godimento più largo (i perfetti, i quali “in gaudio dilatantur” in questa vita, designano la larghezza; Par. XXXIII, 82-93). Il vedere del poeta è tanto più sincero quanto più entra nel raggio dell’alta luce (vv. 52-54), che tanto si eleva sui concetti mortali (vv. 67-68: l’altezza).
Pier Damiani ‘pareggia’, cioè rende uguale, la chiarezza della visione di Dio (“la vista mia, quant’ ella è chiara”) con “l’allegrezza ond’ io fiammeggio” – in lui sono pertanto uguali la lunghezza della visione e la larghezza del gaudio che deriva dalla carità – e, grazie alla virtù della luce divina che si congiunge con il suo vedere, può levarsi tanto sopra di sé (uguaglianza dell’altezza) nell’intelligenza della somma essenza (Par. XXI, 82-90).
I temi di Ap 21, 16 (l’uguaglianza dei lati della Gerusalemme celeste) si intrecciano, in diverse appropriazioni, con quelli di Ap 1, 16-17 (il chiaro splendore del volto di Cristo che più riluce nel meriggio del sesto stato): è il caso della larghezza-allegrezza e dell’altezza-speranza rispettivamente in Par. XXXII, 85-90 (la festa degli angeli sopra Maria) e XXV, 25-33 (Beatrice, ridendo, si rivolge a san Giacomo; il ridere rende lo “splendor faciei” di Cristo; da rilevare la variante chiarezza, che rinvia ad Ap 1, 16, rispetto a carezza).
Un più ampio spettro delle variazioni sui temi offerti dall’esegesi di Ap 21, 16 è dato nell’esame di Par. XIV.

[1] E. BUONAIUTI, Storia del Cristianesimo, II, Milano 19472, pp. 537-538: “Ma come nell’animo di Dante l’intellettualismo tomistico e il volontarismo cistercense-francescano si mantenessero giustapposti, senza elidersi né sopraffarsi, appare dalla contraddizione in cui è lasciata cadere Beatrice, quando, nel canto XXVIII del Paradiso, spiegando il movimento dei cerchi angelici, afferma una volta tomisticamente che l’amore poggia sul conoscere […] e afferma un’altra volta, francescanamente, che il conoscere poggia sull’amare”.

Tab. XV.3

[LSA, cap. XXI, Ap 21, 16 (VIIa visio)] “Et civitas in quadro posita est”, id est habens quattuor latera muri sub figura quadranguli iuncta, per quod designatur solida quadratura virtutum.
“Longitudo eius tanta est quanta et latitudo”, id est quattuor latera eius sunt equalia. Nam duo sunt longitudo eius et alia duo sunt eius latitudo. Civitas enim beatorum quantum de Deo et bonis eius videt tantum amat, et ideo quantum est in visione longa tantum est in caritate lata; quantum etiam est in longitudinem eternitatis immortaliter prolongata, tantum est iocunditate glorie dilatata.
In vita autem ista non sunt hec communiter equalia, nisi forte in illis perfectis qui quantum cognoscunt vel credunt tantum amant, et quantum per spem in bona eterna protenduntur tantum gaudio dilatantur. In beatis etiam prudentia et fortitudo et iustitia et temperantia sunt equales. Hec enim sunt quattuor latera civitatis.
Nota quod quia hic agit solum de quadratura non facit mentionem de altitudine, sed paulo post, agens de totali mensura civitatis, dicit quod “longitudo et latitudo et altitudo eius equalia sunt”. Nam quantum per visionem et amorem protenditur in longum et latum, tantum elevatur in altam laudem et reverentiam Dei et in altum superexcessum apprehensionis et degustationis sublimis maiestatis Dei. Secundum etiam mensuram sue caritatis et tensionis Dei est altitudo sue dignitatis et auctoritatis, quod non est communiter in hac vita, nisi in desiderio et in spe pertingendi ad consumatam mensuram patrie. Aliter enim se habet omne edificium in suo initio et aliter in suo fine perfecto. […]
“Et mensus est civitatem Dei cum arundine per stadia duodecim milia” (Ap 21, 16). […] Secundum autem Ioachim, designat duodecim turmas sanctorum martirum designatas per duodecim milia signatos ex unaquaque duodecim tribuum Israel, qui numerus demonstrat longitudinem et latitudinem et altitudinem esse equales. Si enim duodecies duodecim milia dividas in quattuor partes, erunt in singulis triginta sex milia, id est sexies sex milia. Si enim senarius est per se simpliciter perfectus, multo magis est cum per reflexionem sui in se ipsum est in altum auctus. Et secundum hoc ubique per latera longitudinis et latitudinis et per altitudinem ipsorum invenies sex gradus. Tanta autem equalitas designat summam concordiam beatorum in regno Dei*.

* Expositio, pars VIII, ff. 217vb-218rb.

[LSA, cap. XXI, Ap 21, 22 (VIIa visio)] “Et templum non vidi in ea” et cetera. Hic agit de sacro cultu et lumine quo civitas beatorum colit Deum et videt ipsum et omnia in ipso. Prius enim egit de formali et intrinseca luce et claritate eius (Ap 21, 11), hic vero de fontali obiecto et radio in quo Deum et omnia videbit. Que quidem visio est summa et ultimata illuminatio beatorum; beatificus autem actus caritatis spectat magis proprie ad cultum et sacrificium templi, quamvis utrumque in utroque comprehendatur, quia neutrum absque altero est perfectum etiam in propria specie sua.

[LSA, prologus, Notabile X] Sicut autem notitia preit amorem, quia non potest amari nisi cognitum, sic status doctorum in hoc libro premittitur ante statum anachoritarum; in quarta tamen visione ostenduntur simul concurrere, ubi dicitur quod “date sunt mulieri due ale aquile magne ut volaret in desertum” (Ap 12, 14).

[LSA, cap. XXII, Ap 22, 17 (finalis conclusio totius libri)] Septimo loquitur ut invitator omnium ad prefatam gloriam, et hoc tam per se quam per ecclesiam et eius doctores, unde subdit: “Et sponsus”, id est, secundum Ricardum, Christus (quidam tamen habent “Spiritus”, et quidam correctores dicunt quod sic habent antiqui et Greci, ut sic Christus tam per se quam per Spiritum suum et eius internam inspirationem ostendat se invitare), “et sponsa”, id est generalis ecclesia tam beata quam peregrinans vel contemplativa ecclesia, “dicunt: veni ”, scilicet ad nuptias. Ideo enim dixit “sponsa”, ut innueret nos invitari ad gloriosam cenam nuptiarum Agni. “Et qui audit”, scilicet hanc nostram invitationem, id est qui est de hiis sufficienter doctus; vel “qui audit”, id est recte et obedienter credit et opere perficit, “dicat”, scilicet unicuique vocandorum: “veni ”, scilicet ad cenam et civitatem beatam.
Deinde ipse Christus per se liberaliter invitat et offert, dicens: “Et qui sitit veniat, et qui vult accipiat aquam vite gratis”. Quia nullus cogitur nec potest venire nisi per desiderium et voluntarium consensum, ideo dicit “qui sitit et qui vult. Idem autem est venire quod accipere “aquam vite”, id est gratiam vite refectivam et vivificam et perducentem in vitam eternam. Dicit autem “gratis”, tum quia absque omni pretio venali et exteriori datur et accipitur, tum quia prima gratia datur absque omni previo merito et tamquam principium et caus<a> meriti, ac per consequens totum premium et augmentum gratie quod per primam gratiam acquiritur gratia reputatur. Dicit etiam “gratis”, quia tota a summa caritate Christi et summe gratuita et liberali predestinatur et offertur et datur.

 

Par. XV, 73-84

Poi cominciai così: “L’affetto e ’l senno,
come la prima equalità v’apparse,
d’un peso per ciascun di voi si fenno,
però che ’l sol che v’allumò e arse,
col caldo e con la luce è sì iguali,
che tutte simiglianze sono scarse.
Ma voglia e argomento ne’ mortali,
per la cagion ch’a voi è manifesta,
diversamente son pennuti in ali ;
ond’ io, che son mortal, mi sento in questa
disagguaglianza, e però non ringrazio
se non col core a la paterna festa”.

Par. XVII, 23-24

………   avvegna ch’io mi senta
ben tetragono ai colpi di ventura

Par. XXI, 82-90

poi rispuose l’amor che v’era dentro:
“Luce divina sopra me s’appunta,
penetrando per questa in ch’io m’inventro,
la cui virtù, col mio veder congiunta,
mi leva sopra me tanto, ch’i’ veggio
la somma essenza de la quale è munta.
Quinci vien l’allegrezza ond’ io fiammeggio;
per ch’a la vista mia, quant’ ella è chiara,
la chiarità de la fiamma pareggio”.

Par. XXVIII, 67-78, 106-111

Maggior bontà vuol far maggior salute;
maggior salute maggior corpo cape,
s’elli ha le parti igualmente compiute.
Dunque costui che tutto quanto rape
l’altro universo seco, corrisponde
al cerchio che più ama e che più sape:
per che, se tu a la virtù circonde
la tua misura, non a la parvenza
de le sustanze che t’appaion tonde,
tu vederai mirabil consequenza
di maggio a più e di minore a meno,
in ciascun cielo, a süa intelligenza.

e dei saper che tutti hanno diletto
quanto la sua veduta si profonda

nel vero in che si queta ogne intelletto.
Quinci si può veder come si fonda
l’esser beato ne l’atto che vede,
non in quel ch’ama, che poscia seconda

Par. XXXII, 85-90

Riguarda omai ne la faccia che a Cristo
più si somiglia, ché la sua chiarezza
sola ti può disporre a veder Cristo.

Io vidi sopra lei tanta allegrezza
piover, portata ne le menti sante

create a trasvolar per quella altezza

Purg. XXIX, 10-12

Non eran cento tra ’ suoi  passi e ’ miei,
quando le ripe igualmente dier volta,
per modo ch’a levante mi rendei.

Par. XXXIII, 67-68, 82-84, 91-93, 139-145

O somma luce che tanto ti levi
da’ concetti mortali …………

Oh abbondante grazia ond’ io presunsi
ficcar lo viso per la luce etterna,
tanto che la veduta vi consunsi!

La forma universal di questo nodo
credo ch’i’ vidi, perché più di largo,
dicendo questo, mi sento ch’i’ godo.

ma non eran da ciò le proprie penne:
se non che la mia mente fu percossa
da un fulgore in che sua voglia venne.
A l’alta fantasia qui mancò possa;
ma già volgeva il mio disio e l velle,
sì come rota ch’ igualmente è mossa,
l’amor che move il sole e l’altre stelle.

Par. XXX, 88-90, 100-105, 115-120, 124-126

e sì come di lei bevve la gronda
de le palpebre mie, così mi parve
di sua lunghezza divenuta tonda.

Lume è là sù che visibile face
lo creatore a quella creatura
che solo in lui vedere ha la sua pace.   3, 12
E’ si distende in circular  figura,
in tanto che la sua circunferenza
sarebbe al sol troppo larga cintura.

E se l’infimo grado in sé raccoglie
sì grande lume, quanta è la larghezza
di questa rosa ne l’estreme foglie!

La vista mia ne l’ampio e ne l’altezza
non si smarriva, ma tutto prendeva

il quanto e ’l quale di quella allegrezza.

Nel giallo de la rosa sempiterna,
che si digrada e dilata e redole
odor di lode al sol che sempre verna

Par. XXV, 25-33

Ma poi che ’l gratular si fu assolto,
tacito coram me ciascun s’affisse,
ignito sì che vincëa ’l mio volto.
Ridendo allora Bëatrice disse:
“Inclita vita per cui la larghezza
de la nostra basilica si scrisse,

fa risonar la spene in questa altezza:
tu sai, che tante fiate la figuri,
quante Iesù ai tre più carezza”.
                                             chiarezza

Par. XXVI, 25-30

E io: “Per filosofici argomenti
e per autorità che quinci scende
cotale amor convien che in me si ’mprenti:
ché ’l bene, in quanto ben, come s’intende,
così accende amore, e tanto maggio
quanto più di bontate in sé comprende”.

[LSA, cap. I, Ap 1, 16-17 (Ia visio)] Decima (perfectio summo pastori condecens) est sue claritatis et virtutis incomprehensibilis gloria, unde subdit: “et facies eius sicut sol lucet in virtute sua”. Sol in tota virtute sua lucet in meridie, et precipue quando aer est serenus expulsa omni nube et grosso vapore, et quidem corporalis facies Christi plus incomparabiliter lucet et viget. Per hoc tamen designatur ineffabilis claritas et virtus sue divinitatis et etiam sue mentis. Splendor etiam iste sue faciei designat apertam et superfulgidam notitiam scripture sacre et <divine> faciei <in ea, que> in sexta etate et precipue in eius sexto statu debet preclarius radiare. In cuius signum Christus post sex dies transfiguratus est in monte in faciem solis (cfr. Mt 17, 1-8), et sub sexto angelo tuba canente videtur angelus habens faciem solis et tenens librum apertum (cfr. Ap 10, 1-2).
Undecima est ex predictis sublimitatibus impressa in subditos summa humiliatio et tremefactio et adoratio, unde subdit: “et cum vidissem eum”, scilicet tantum ac talem, “cecidi ad pedes eius tamquam mortuus” (Ap 1, 17). Et est intelligendum quod cecidit in faciem prostratus, quia talis competit actui adorandi; casus vero resupinus est signum desperationis et desperate destitutionis. Huius casus sumitur ratio partim ex intolerabili superexcessu obiecti, partim ex terrifico et immutativo influxu assistentis Dei vel angeli, partim ex materiali fragilitate subiecti seu organi ipsius videntis.
Est etiam huius ratio ex causa finali, tum quia huiusmodi immutatio intimius et certius facit ipsum videntem experiri visionem esse arduam et divinam et a causis supremis, tum quia per eam quasi sibi ipsi annichilatus humilius et timoratius visiones suscipit divinas, tum quia valet ad significandum quod sanctorum excessiva virtus et perfectio tremefacit et humiliat et sibi subicit animos subditorum et etiam ceterorum intuentium. Significat etiam quod in divine contemplationis superexcessum non ascenditur nisi per sui oblivionem et abnegationem et mortificationem et per omnium privationem.

3. ‘Vidi la città santa di Firenze’

La Gerusalemme celeste, la città superna descritta nella settima visione (Ap XX-XXII), è detta “tabernacolo” (Ap 21, 3), perché ivi Dio coabita con i salvati comunicando loro la sua beatitudine. Si chiama “civitas” per la mirabile unità di tutti i cittadini, quasi “civium unitas” (Ap 21, 2); l’uguaglianza dei suoi lati designa la somma concordia (Ap 21, 16). È “Gerusalemme” in quanto “visione della pace” (Ap 3, 12); vitrea per pura confessione della verità. Per il vivere comune fondato sulla povertà evangelica è spazio aperto ai cieli, non coperto da tetti, non occupato da case, non da queste distinto, non appropriato a questo o a quello ma per tutti comune e indiviso (Ap 21, 18.21).
Nel girare della rosa trova il suo compimento nell’Empireo (“Vedi nostra città quant’ ella gira”, Par. XXX, 130); in terra è peregrinante, come ora sa Sapìa senese, “cittadina / d’una vera città” ma vissuta “in Italia peregrina” (Purg. XIII, 94-96). Nella storia terrena, nessuna città le è stata più somigliante della Firenze antica rimpianta da Cacciaguida. Nell’amarezza dell’esilio, fra rimproveri e invettive contro di essa, il poeta sempre ama un’idea della sua Firenze, patria di degni cittadini “ch’a ben far puoser li ’ngegni” (Inf. VI, 81). Come sarebbe stato un giorno per Savonarola, Firenze è l’eletta e diletta città, nuova Gerusalemme santa e pacifica.
“Nobil patria” (Inf. X, 26) come la nobile città percorsa dal nobilissimo fiume, regolata nell’entrare e nell’uscire dei propri operanti col suono della campana di Badia, che si estende sopra la “cerchia antica” al modo con cui l’angelo, nella visione di Giovanni, misura con la canna d’oro l’ingresso e l’uscita dalle mura dai lati uguali (Par. XV, 97-98; Ap 21, 15); “bello viver di cittadini” vòlto verso un edenico e fanciullesco ‘prima’, come attestato dal consolatorio linguaggio della donna che “vegghiava a studio de la culla” quasi fosse un ripensare la prima Grazia (vv. 121-123): Firenze si avvicinava, quasi pregustandola, alla celestiale dolce vita della “vera città”.
Quale fu bella nei suoi inizi Sardi, la quinta delle sette chiese d’Asia (alle quali Giovanni scrive nella prima visione), interpretata appunto come “principium pulchritudinis” per la pienezza stellare dei doni dello Spirito (Ap 2, 1), principio al quale essa deve sempre ripensare vegliando, tale fu Firenze, “bello / viver di cittadini” (Par. XV, 130-131), “bello ovile” (Par. XXV, 5), col “mio bel San Giovanni” (Inf. XIX, 17), “sovra ’l bel fiume d’Arno” (Inf. XXIII, 95).
“Si stava in pace” (Par. XV, 99), quasi nuova Gerusalemme discesa in terra, interpretata come “visio pacis” (Ap 3, 12). Un vivere “… così riposato … in sì fatto riposo” (Par. XV, 130; XVI, 149), segnato da quel pausare che è proprio del gaudioso regno allorché, dopo la corsa nello stadio (che è misura della città: Ap 21, 16), si consegue trionfalmente il premio. Un vivere civile che è speculare al posarsi “come fera in lustra” dell’intelletto umano nella verità divina che lo sazia (Par. IV, 124-129), oppure al desiderio del poeta che “ha posa” nell’ammirare “li occhi belli” di Beatrice (Par. XIV, 131-132). La corsa nello stadio paolino (1 Cor 9, 24) è figurata “da quei che corre il vostro annüal gioco”, trovandosi i corridori nell’“ultimo sesto” del palio di san Giovanni (il quartiere di porta San Piero, dove nacquero Cacciaguida e i suoi “antichi”; Par. XVI, 40-42). Era un sestiere privilegiato, “l’ultimo sesto”, corrispondente ai sei ultimi anni in cui venne completato il Tempio dopo il ritorno da Babilonia, secondo l’esegesi di Gioacchino da Fiore raccolta da Olivi nel passo sulla “signatio” all’apertura del sesto sigillo (Ap 7, 3).
Non solo i temi della città descritta nella settima visione sono appropriati alla Firenze antica; ne provengono numerosi e significativi anche da altri luoghi della Lectura super Apocalipsim, relativi ad altri stati o periodi della storia della Chiesa. Nell’elencare le schiatte degli antichi fiorentini volte in basso dalla Fortuna, Cacciaguida le assimila alle instabili generazioni del Vecchio Testamento che secondo Gioacchino da Fiore (citato ad Ap 12, 6) procedono “ad modum lune crescentis et decrescentis”; usa infatti l’immagine delle maree causate dal volgere del cielo della luna, che “cuopre e discuopre i liti sanza posa” (Par. XVI, 82-84). Gli ‘alti’ e ‘fiorenti’ anacoreti del quarto stato della storia della Chiesa, poi decaduti dalla loro orgogliosa posizione, prestano il panno a “li alti fiorentini” e al tempo in cui “le palle de l’oro [l’insegna dei Lamberti] / fiorian Fiorenza in tutt’ i suoi gran fatti” (vv. 85-87, 110-111). Il nome e la fama, anche quella “nel tempo nascosa”, appartengono al condescensivo quinto stato, allorché, dopo il solitario e alto stato precedente, si verifica una discesa verso le moltitudini e un maggiore sviluppo della vita associata (così per i Ravignani, “ond’ è disceso / il conte Guido e qualunque del nome / de l’alto Bellincione ha poscia preso”: vv. 97-99; Ap 3, 1.4.5).
Le famiglie del glorioso e giusto popolo fiorentino si fregiano anche dei temi del sesto stato, di quello che sarebbe stato il tempo di Dante. All’apertura del sesto sigillo viene effettuata la “signatio” sulla fronte di quanti, nell’esercito di Cristo votato a combattere con il martirio contro l’Anticristo, costituiscono la parte privilegiata della milizia, quasi fossero cavalieri rispetto alla volgare schiera dei fanti (Ap 7, 3-4). Il tema della distinzione nella milizia viene appropriato, nella rassegna fatta da Cacciaguida degli alti fiorentini, a tutte le famiglie (i Nerli, i Giandonati, i Gangalandi, i Pulci, gli Alepri e i della Bella) le quali portano la “bella insegna … / del gran barone il cui nome e ’l cui pregio / la festa di Tommaso riconforta”, cioè del marchese Ugo di Toscana morto a Firenze il giorno di san Tommaso del 1001. Costoro, che da Ugo ebbero “milizia e privilegio”, si contrappongono, nelle parole dell’avo di Dante, a Giano della Bella, l’autore dei famosi Ordinamenti di giustizia antimagnatizi (1293), anch’egli insignito di quella “bella insegna” rossa e bianca (la quale “fascia col fregio”) ma che oggi si raduna col popolo, corrispondente alla volgare e pedestre milizia che viene dopo i segnati (Par. XVI, 127-132).
“Fiorenza dentro da la cerchia antica, / … si stava in pace, sobria e pudica. / Non avea catenella …  / Non faceva, nascendo, ancor paura / la figlia al padre … / Non avea case di famiglia vòte … / Non era vinto ancora Montemalo / dal vostro Uccellatoio …” (Par. XV, 97-109). Nella Quaestio de altissima paupertate Olivi cita un’omelia di Crisostomo che, nell’elogio della povertà, ha lo stesso andamento caratterizzato dal succedersi di negazioni presente nel parlare di Cacciaguida circa la sua Firenze: «Non enim est illic tinea, non est illic fur, non sollicitudo vitae huius negotiorum … Non subiacet daemonibus … Non habet arcas … Non habet thesaurum, sed caelum. Non indiget servis …». Può solo trattarsi della ripetizione di un cursus diffuso, ma bisogna tener conto che Dante mostra di conoscere bene altre quaestiones dell’Olivi.
A questa città terrena ben si attaglia quanto Virgilio ha detto in Purg. XV  circa i beni condivisi da più possessori, resi più ricchi per maggiore carità; essa anticipa la Città del Sole di Campanella, dove la comunione dei beni genera maggiore amicizia (anche se la Firenze antica non ha beni in comune, ma è sobria nel loro uso). Perfino i nomi delle famiglie e gli appellativi dei luoghi sembrano concordare con l’usus pauper oliviano applicato al vivere fiorentino: “Io dirò cosa incredibile e vera: / nel picciol cerchio s’entrava per porta / che si nomava da quei de la Pera” (Par. XVI, 124-126), dove il “picciol cerchio” (nella prima delle tre cinte murarie, cioè in quella “antica”) è segno dell’umiltà e della povertà evangelica figurate, nella città celeste, dalle piccole “margarite” (le perle) incastonate nelle porte; mentre la famiglia “de la Pera” (ormai scomparsa dalla memoria, e per questo “cosa incredibile”), da cui si nominava porta Peruzza, non può non ricordare, in siffatto contesto di altissima povertà, il detto evangelico: “Nolite portare sacculum neque peram[1], quasi dicesse: una volta lo si applicava per antonomasia, oggi è obliato.
Questo vivere civile è poco meno inferiore a quello angelico. Non è casuale che il tema della città vitrea per pura verità e larga perché senza divisioni – “celis patula, non tectis clausa, nec domibus occupata, nec domorum distinctionibus divisa” -, sia da Beatrice, a Par. XXIX, 70-84, utilizzato per dimostrare l’inesistenza della memoria negli angeli, i quali vedendo immediatamente nella “faccia di Dio … da cui nulla si nasconde / … non hanno vedere interciso / da novo obietto, e però non bisogna / rememorar per concetto diviso”. La memoria distingue i concetti nel tempo come le case dividono una città terrena, ma ciò non è dato nell’eterna città, da Dio direttamente illuminata, e nella memoria della sua milizia angelica. Beatrice dice ciò a Dante “perché tu veggi pura / la verità che là giù si confonde”, contro “le vostre scole”, dove “non dormendo, si sogna”.
La donna che siede sopra la bestia scarlatta (Ap 17, 3), tinta di sangue, un tempo dominò e regnò sulle bestiali genti del mondo e ancora domina su molte di esse a lei suddite, e per questo viene detta sedere sopra la bestia. Questa bestia al tempo dei pagani e degli eretici fu macchiata del sangue dei martiri, ora è macchiata del sangue abominevole della sua lussuria, della strage delle anime e dell’empia persecuzione dello spirito e degli spirituali. È adornata, in modo studioso e pomposo, di monili carnali e mondani (Ap 17, 4). La porpora e il colore scarlatto designano la sua crudeltà verso i martiri e verso quanti la macchiarono col loro sangue. Ha in mano una coppa d’oro, colma degli abomini e delle immondezze della sua prostituzione. All’opposto della prostituta stavano le donne della Firenze antica rimpianta da Cacciaguida (Par. XV, 100-102, 112-114): “Et vidi mulieremtinctam … studiose et pompose ornata carnalibus ornamentis – non (avea) donne contigiate, non cintura / che fosse a veder più che la persona … Bellincion Berti vid’ io andar cinto / di cuoio e d’osso, e venir da lo specchio / la donna sua sanza ’l viso dipinto“. Cacciaguida, parafrasando l’esegesi, dice che al suo tempo non si vedevano in città donne con calze ornate (contigiate); non parla di gonne, secondo la congettura proposta dagli editori moderni (incluso Petrocchi; in dissenso Inglese). Queste donne non portavano cinture più appariscenti delle persone: la variante vender, in luogo di veder, non trova luogo nel riscontro con il testo parodiato, dove il verbo reggente è appunto il vedere di Giovanni.
È proprio dell’ordine sacerdotale quanto, ad Ap 1, 13, si dice di Cristo, nella sua terza perfezione come sommo pastore: “e cinto alle mammelle con una zona aurea”. Essere succinto alle reni designa il restringere la concupiscenza carnale. Essere precinto alle mammelle indica la restrizione di ogni impuro pensiero e affetto del cuore: l’intelletto e la volontà sono infatti le due mammelle della mente che propinano il latte della sapienza e dell’amore. Cingersi con una zona di pelle, cioè con una fascia di cuoio di animali morti, designa il mantenere la castità per il timore della morte o della pena. Cacciaguida vide Bellincion Berti “andar cinto / di cuoio e d’osso” e i Nerli e i Vecchietti “esser contenti a la pelle scoperta”, cioè senza panno di sopra (Par. XV, 112-113, 115-116).
Nella storia vissuta, però, le passioni umane hanno dissipato tanti doni virtuosi. Firenze è “città partita”, assalita da tanta discordia (Inf. VI, 61-63), dal giglio “per divisïon fatto vermiglio” (Par. XVI, 151-154). Le sue fazioni sono assimilate alle divisioni della religione evangelica che si verifica in apertura del sesto sigillo con il grande terremoto che divide in tre parti Babylon (Ap 6, 12; 16, 19-20), allorché i monti (cioè quanto vi è di più stabile) vengono traslati e Babylon viene privata di ogni letizia nuziale (Ap 18, 22-23). Temi quasi cristallizzati nel nome di colui da cui tutto incominciò, Buondelmonte, contenente in sé letizia (bonum) e stabilità (montes), inopinatamente fuggiti (Par. XVI, 136-141).
Come gli alti e fiorenti anacoreti del quarto stato furono disfatti dai Saraceni per la loro superbia, così i Fiorentini (Par. XVI, 109-110); del loro gloriarsi per poi rovinare e accendersi in rabbiosa ira è emblema Filippo Argenti, “’l fiorentino spirito bizzarro” che “fu al mondo persona orgogliosa” (Inf. VIII, 46, 62). Gli stati, cioè le categorie della storia, sono anche modi di essere degli individui, o dei popoli, che si ripropongono con forme sempre nuove, ora prevalenti, ora cooperanti con altre. Il nome e la fama appartengono al quinto stato, bello nei suoi inizi, condescensivo verso le moltitudini, succeduto alla solitaria arditezza del tempo precedente. Poi però la bellezza si corrompe, l’umano seme, da puro che era, si mescola (Par. XVI, 49-51; come nella gente saracena, già ferrea, simboleggiata dalle “meschite”); la “condescensio” si trasforma in “laxatio” (dagli alti e antichi Ravignani è disceso il conte Guido Guerra e il nobile Bellincione, e fu buon discendere, ma ora nelle case sopra porta San Piero si annida la “nova fellonia” dei Cerchi: vv. 94-99). La fama di Firenze  adesso si spande per l’inferno (Inf. XXVI, 1-3); la città – diventata quasi una nuova Babylon, come la Chiesa sul finire del quinto stato – è anzi pianta di Lucifero (Par. IX, 127-132). Lo spirito profetico, come avvenne in Ezechiele con Tiro e in Cristo con i Giudei, trova in essa luogo per espandersi dal particolare all’universale, per cui i suoi peccati diventano radice e modello di male universale. Firenze è “nido di malizia tanta”, alla stregua della nuova Babilonia abitata da sozzi uccelli (Inf. XV, 78; Ap 18, 2), da cui conviene partire (Par. XVII, 46-48), come l’angelo di Ap 18, 4 (che ripete Geremia 50, 8-9) ingiunge di uscire da quella città per non farsi partecipi dei suoi delitti. La “gran villa” è attraversata dal “bel fiume d’Arno” (Inf. XXIII, 95), ma il nome di questo è da tacere “pur com’ om fa de l’orribili cose”, tanto consuona con Arnoyme, uno dei carnali nomi dell’Anticristo (Purg. XIV, 22-27). Come, nella prima guerra della quarta visione apocalittica (Ap 12, 6), si dice del drago dal quale la donna (la Chiesa) fugge nel deserto, così Cacciaguida descrive la prepotenza degli Adimari, “l’oltracotata schiatta che s’indraca / dietro a chi fugge”, ma che si fa agnello “a chi mostra ’l dente / o ver la borsa” (Par. XVI, 115-117; ancora, sarcasticamente, la “pera” evangelica). Mentre il regno superno “pausa / in tanto amore e in tanto diletto” (Par. XXXII, 61-62), Firenze è “somigliante a quella inferma / che non può trovar posa in su le piume, / ma con dar volta suo dolore scherma” (Purg. VI, 148-151). Negazione del riposo dopo il trionfo nella corsa per lo stadio paolino, e della pace che pervade la Gerusalemme discesa in terra, ha come sua pietra angolare, che dovrebbe darle forza nel congiungersi ad arco, non Cristo ma Marte, “quella pietra scema / che guarda ’l ponte” (Par. XVI, 145-147).
Quanta distanza dalla città vista nell’Empireo: i versi di Par. XXXI, 37-39, con la triplice antitesi – “ïo, che al divino da l’umano, / a l’etterno dal tempo era venuto, / e di Fiorenza in popol giusto e sano” -, conducono ad altra opera dell’Olivi, la prima quaestio de domina (de consensu virginali pro Annuntiatione), esaminata altrove.
Il “bello / viver di cittadini”, così riposato e sobrio, di cui parla Cacciaguida, è vera professione di un alto stato religioso, adesione comune al voto di altissima povertà. Gli effetti di questo, come descritti dall’Olivi, sono, a ben guardare, i medesimi conseguiti sotto il regime del monarca, il quale, con la filosofia, guida gli uomini alla beatitudine terrena.
Città che fu povera ed eletta, patria di beati o di eletti alla beatitudine. Della donna vestita di sole, che tiene la luna sotto i piedi ed è cinta sul capo da una corona di dodici stelle (Ap 12, 1), si dice: “Era incinta e gridava partorendo e si doleva per partorire” (Ap 12, 2). Questa donna è per antonomasia la Vergine Maria genitrice di Dio; in generale designa la Chiesa, soprattutto quella primitiva. La Vergine, infatti, se concepì nell’utero del corpo e della mente Cristo, portò anche nell’utero del cuore l’intero corpo mistico di Cristo, come fosse la sua prole. Costei chiama gridando, sia col gemito dei sospiri sia col suono della predicazione, nel partorire Cristo che sarà crocifisso e che per la croce risorgerà manifestamente nella gloria del Padre, partorendo insieme con grave angustia il corpo mistico del figlio che sarà rigenerato nella grazia e nella gloria di Dio, che è anche il Cristo che si formerà e nascerà nei cuori.
Nel girone degli avari e prodighi purganti, una voce, che si rivelerà essere quella di Ugo Capeto, propone esempi di povertà e liberalità. È una voce che ‘chiama’ nel pianto, “come fa donna che in parturir sia”, e che loda la povertà di Maria, “unica sposa / de lo Spirito Santo”, attributo che è proprio anche della Chiesa (Purg. XX, 19-24, 97-99). Nel girone successivo, i golosi piangono e cantano il salmo 50, 17, “‘Labïa mëa, Domine’ per modo / tal, che diletto e doglia parturìe” (Purg. XXIII, 10-12; cfr. Ap 10, 9, dove la passione di Cristo, equivalente agli effetti del libro dato a Giovanni, viene proposta come dolce e amara insieme).
La Vergine Maria, “chiamata in alte grida”, assistette la madre di Cacciaguida, “ch’è or santa”, nelle doglie del parto (Par. XV, 133; XVI, 35).
Nel sesto e settimo stato della Chiesa, che corrispondono all’età dello Spirito di Gioacchino da Fiore, le generazioni e le sofferenze saranno abbreviate per gli eletti: “[…] ne nimis immoderata tribulatio absorbeat electos. Unde et veritas ait quod propter electos breviabuntur dies illi […]” (prologo, Notabile XII). È quanto chiesto con desiderio “da tutte quante / quell’ ombre che pregar pur ch’altri prieghi, / sì che s’avacci lor divenir sante” (Purg. VI, 25-27). Si tratta di “spiriti eletti” che s’aspettano “pace” prima di entrare nella “porta di san Pietro” (Purg. III, 73-75), ai quali con le preghiere si può abbreviare il tempo dell’afflizione e della fatica nel purgarsi come giurato dall’angelo ad Ap 10, 5-7. Così dice Cacciaguida del bisavolo di Dante, che ha dato il nome alla stirpe degli Alagherii, la cui pena per la superbia nel primo girone del purgatorio può essere abbreviata “con l’opere tue”  (Par. XV, 95-96).

[1] Cfr. Matteo 10, 10; Marco 6, 8; Luca 9, 3; 10, 4; 22, 35. A Par. XV, 55 Cacciaguida, per indicare a Dante che legge il suo pensiero così come discende dallo specchio divino, usa il verbo meare, forma alternativa di derivare, tipico della Gerusalemme celeste dove il fiume di acqua viva che deriva dalla sede di Dio e dell’Agnello è comunicato i beati (Ap 22, 1).

3. ‘I saw the holy city, Florence’          

[For the English translation of the verses of the Comedy, reference was made, with some variations, to that of Henry Wadsworth Longfellow (1867), published by the Dartmouth Dante Project.]

The heavenly Jerusalem, the supernal city described in the seventh vision (Rev. XX-XXII), is called a “tabernacle” (Rev. 21:3), because there God dwells with the saved, communicating his bliss to them. It is called “civitas” because of the admirable unity of all its citizens, almost “civium unitas” (Rev 21:2); the equality of its sides signifies perfect harmony (Rev 21:16). It is called “Jerusalem” as a “vision of peace” (Rev 3:12). It is glassy for the pure confession of truth. For communal living based on evangelical poverty, it is a space open to the heavens, not covered by roofs, not occupied by houses, not distinguished by them, not appropriated by this or that person but common and undivided for all (Rev 21:18, 21).
            In the circuit of the rose, it finds its fulfilment in the Empyrean (“Behold how vast the circuit of our city!”, Par. XXX, 130); on earth, it is a pilgrim, as Sapìa of Siena now knows, “citizen of a true city” but living “in Italy as a pilgrim” (Purg. XIII, 94-96). In earthly history, no city has been more similar to it than the ancient Florence mourned by Cacciaguida. In the bitterness of exile, amid reproaches and invectives against it, the poet always loves an idea of his Florence, homeland of worthy citizens “who on good deeds set their thoughts” (Inf. VI, 81). As it would one day be for Savonarola, Florence is the chosen and beloved city, the new holy and peaceful Jerusalem.
           “Noble fatherland” (Inf. X, 26) like the noble city crossed by the most noble river, regulated in the entry and exit of its workers by the sound of the bell of Badia, which extends on the “the ancient boundary” in the same way that the angel, in John’s vision, measures with a golden rod the entrance and exit from the walls with equal sides (Par. XV, 97-98; Ap 21, 15); “beautiful life of the citizen” turned towards an Edenic and childlike “first”, as attested by the consolatory language of the woman who “over the cradle kept her studious watch” as if it were a rethinking of the first Grace (vv. 121-123), Florence approached, almost anticipating it, the heavenly dolce vita of the “true city”.
            As beautiful in its beginnings was Sardi, the fifth of the seven churches of Asia (to which John writes in the first vision), interpreted precisely as “principium pulchritudinis” for the stellar fullness of the gifts of the Spirit (Rev 2:1), a principle to which it must always return, rethinking over it, so was Florence, “beautiful life of the citizen” (Par. XV, 130-131), “the fair sheepfold” (Par. XXV, 5), with “beautiful Saint John” (Inf. XIX, 17), “on the fair river Arno” (Inf. XXIII, 95).
            “There was peace” (Par. XV, 99), almost like a new Jerusalem descended to earth, interpreted as “visio pacis” (Rev. 3:12). A life “… so rested … in so great repose” (Par. XV, 130; XVI, 149), marked by that pausare that is characteristic of the joyful kingdom when, after the race in the stadium (which is the measure of the city: Rev 21:16), the prize is triumphantly won. A civil life that mirrors the resting “as wild beast in his lair” of the human intellect in the divine truth that satisfies it (Par. IV, 124-129), or the desire of the poet who “rests” in admiring the “fair eyes” of Beatrice (Par. XIV, 131-132). Running in the Pauline stadium (First Letter to the Corinthians 9:24) is figuratively represented “by those who runneth in your annual game” of the Palio di San Giovanni, finding himself in the “last ward (sesto) of the city” (the district of Porta San Piero, where Cacciaguida and his “ancestors” were born; Par. XVI, 40-42). It was a privileged district, “the last sesto”, corresponding to the last six years in which the Temple of Jerusalem was completed after the return from Babylon, according to the exegesis of Joachim of Fiore quoted by Olivi in the passage on the “signatio” at the opening of the sixth seal (Rev 7:3).
            Not only are the themes of the city described in the seventh vision appropriate to ancient Florence. Numerous and significant themes also come from other parts of the Lectura super Apocalipsim, relating to other periods (status) of Church’s history. In listing the lineages of the ancient Florentines brought down by Fortune, Cacciaguida likens them to the unstable generations of the Old Testament which, according to Joachim of Fiore (quoted in Rev 12:6), proceed “ad modum lune crescentis et decrescentis”; he uses the image of the tides caused by the turning of the moon in the sky, which “covers and bares the shores without a pause” (Par. XVI, 82-84). The “high” and “flourishing” anchorites of the fourth period (status) of the history of the Church, who later fell into decline, lend their image to the “high Florentines” and to the time when “the Balls of Gold (the emblem of the Lamberti family) / Florence enflowered in all of her mighty deeds” (vv. 85-87, 110-111). The name and fame, even that “time has hidden”, belong to the condescending fifth period, when, after the solitary and lofty previous status, there is a descent towards the multitudes and a greater development of associated life (thus for the Ravignani, “from whom descended /  the County Guido, and whoe’er the name / of the great Bellincione since hath taken”: vv. 97-99; Rev 3:1, 4, 5).
            The families of the glorious and righteous Florentine people also boast the themes of the sixth period (status), which would have been Dante’s time.The status, that is, the periods in the history of the Church, are also ways of being for individuals, habitus present in any historical moment. At the opening of the sixth seal, the signatio is performed on the foreheads of those who, in Christ’s army devoted to fighting the Antichrist with martyrdom, constitute the privileged part of the militia, as if they were knights compared to the vulgar ranks of foot soldiers (Rev 7:3-4). The theme of distinction in the militia is appropriated, in Cacciaguida’s review of the Florentine nobility, to all the families (the Nerli, the Giandonati, the Gangalandi, the Pulci, the Alepri and the della Bella) who bear the “beautiful ensign … / of the great baron whose renown and name /  the fest of Thomas keepeth fresh“, that is, of Marquis Ugo di Toscana, who died in Florence on St Thomas’s Day in 1001. These people, who received “knighthood and privilege” from Ugo, are contrasted, in the words of Dante’s ancestor, with Giano della Bella, the author of the famous against Magnates Ordinamenti di giustizia (1293), who was also awarded that “beautiful ensign” (red on a white field, “who binds it with a border”) but who today gathers with the people, corresponding to the vulgar and pedestrian militia that comes after the signati (Par. XVI, 127-132).
            “Florence … Abode in quiet, temperate and chaste. / No chain she had … / Not yet the daughter at her birth struck fear / into the father … / No houses had she void of families … / Not yet surpassed had Montemalo been /  by your Uccellatojo …”. In the Quaestio de altissima paupertate, Olivi quotes a homily by Chrysostom which, in its praise of poverty, has the same pattern characterised by a succession of negations present in Cacciaguida’s speech about his Florence: “Non enim est illic tinea, non est illic fur, non sollicitudo vitae huius negotiorum … Non subiacet daemonibus … Non habet arcas … Non habet thesaurum, sed caelum. Non indiget servis …”. This may simply be a repetition of a widespread cursus, but it should be noted that Dante shows that he is familiar with other quaestiones by Olivi.
            What Virgil said in Purg. XV about goods shared by several owners, made richer by greater charity, is well suited to this earthly city; it anticipates Campanella’s Città del Sole, where the sharing of goods generates greater friendship (even if ancient Florence did not have goods in common, but was sober in their use). Even the names of families and places seem to agree with Olivi’s usus pauper applied to Florentine life: “I’ll tell a thing incredible, but true: /  one entered the small circuit by a gate / which from the Della Pera took its name” (Par. XVI, 124-126), where the “small circuit” (the first of the three city walls, i.e. the ancient one) is a sign of humility and evangelical poverty, represented in the heavenly city by the small “margarite” (pearls) set in the gates; while the ‘de la Pera’ family (now forgotten, and therefore “incredible”), from which the Peruzza gate took its name, cannot fail to recall, in such a context of extreme poverty, the Gospel saying: Nolite portare sacculum neque peram [1], as if to say: once it was applied par excellence, today it is forgotten.
               This civilised way of life is only slightly inferior to that of angels. It is no coincidence that the theme of the glass city, pure in truth and open because it has no divisions – “celis patula, non tectis clausa, nec domibus occupata, nec domorum distinctionibus divisa” – is used by Beatrice, in Par. XXIX, 70-84, to demonstrate the non-existence of memory in angels, who, seeing immediately in the “face of God … from which no thing is hidden / … have not their vision intercepted / by object new, and hence they do not need / to remember concepts divided over time”. Memory distinguishes concepts in time as houses divide an earthly city, but this is not the case in the eternal city, directly illuminated by God, and in the memory of his angelic militia. Beatrice says this to Dante “so that thou mayst see unmixed /  the truth that is confounded there below”, as opposed to “your schools”, where “not sleeping, people dream”.
            The woman who sits on the scarlet beast (Rev 17:3), stained with blood, once ruled and reigned over the beastly peoples of the world and still rules over many of them who are subject to her, and for this reason she is said to sit on the beast. This beast, in the time of the pagans and heretics, was stained with the blood of martyrs; now it is stained with the abominable blood of its lust, the slaughter of souls and the impious persecution of the spirit and the spirituals. She is adorned, in a studious and pompous manner, with carnal and worldly jewellery (Rev 17:4). The purple and scarlet colours designate her cruelty towards the martyrs and those who stained her with their blood. She holds a golden cup, filled with the abominations and filth of her prostitution. In contrast to the prostitute were the women of ancient Florence mourned by Cacciaguida (Par. XV, 100-102, 112-114): “Et vidi mulieremtinctam … studiose et pompose ornata carnalibus ornamentis – non (avea) donne contigiate, non cintura / che fosse a veder più che la persona … Bellincion Berti vid’ io andar cinto / di cuoio e d’osso, e venir da lo specchio / la donna sua sanza ‘l viso dipinto. Cacciaguida, paraphrasing the exegesis, says that in his time there were no women in the city wearing ornate stockings (contigiate). He doesn’t talk about gonne (skirts) instead of donne (women), according to the conjecture proposed by modern editors (including Petrocchi; disagreed with by Inglese). These women did not wear belts more conspicuous than the person: the variant a vender, instead of a veder, does not find a place in the comparison with the parodied text, where the governing verb is precisely Giovanni’s seeing (vidi).
            It is precisely of the priestly order that, in Rev 1:13, it is said of Christ, in his third perfection as supreme shepherd: “and girded about the breasts with a golden girdle”. Being succinct at the loins designates the restriction of carnal lust. Being girded about the breasts (precingi ad mamillas) indicates the restriction of every impure thought and affection of the heart: the intellect and the will are in fact the two breasts of the mind that provide the milk of wisdom and love. Girding oneself with a leather belt, that is, with a band of leather from dead animals, signifies maintaining chastity for fear of death or punishment. Cacciaguida saw Bellincion Berti “going go begirt / with leather and with bone” and the Nerli and Vecchietti “beeing content with their skin uncovered”, that is, without cloth on top (Par. XV, 112-113, 115-116).
               In real life, however, human passions have dissipated many virtuous gifts. Florence is a “divided city”, assailed by much discord (Inf. VI, 61-63), by the lily “made vermilion by division” (Par. XVI, 151-154). Its factions are likened to the divisions of the evangelical religion that occur at the opening of the sixth seal with the great earthquake that divides Babylon into three parts (Rev 6:12; 16:19-20), when the mountains (i.e., the most stable things) are moved and Babylon is deprived of all nuptial joy (Rev 18:22-23). These themes are almost crystallised in the name of the one from whom it all began, Buondelmonte, containing within itself joy (bonum) and stability (montes), which unexpectedly fled (Par. XVI, 136-141).
            Just as the lofty and flourishing anchorites of the fourth period were undone (by the Saracens) because of their pride, so too were the Florentines (Par. XVI, 109-110); their boasting, followed by ruin and furious anger, is symbolised by Filippo Argenti, “’l fiorentino spirito bizzarro” who “was a proud person in the world” (Inf. VIII, 46, 62). The status, that is, the categories of history, are also ways of being of individuals or peoples, which reappear in ever new forms, sometimes prevailing, sometimes cooperating with others. The name and fame belong to the fifth period, beautiful in its beginnings, condescending towards the multitudes, succeeding the solitary boldness of the previous era. But then beauty becomes corrupted, the human seed, once pure, becomes mixed (Par. XVI, 49-51; as in the Saracen people, once iron-willed, symbolized by the “meschite”); the “condescensio” is transformed into “laxatio” (from the high and ancient Ravignani descended count Guido Guerra and the noble Bellincione, and it was good to descend, but now in the houses above Porta San Piero lurks the “new felony” of the Cerchi: vv. 94-99). The fame of Florence now spreads throughout hell (Inf. XXVI, 1-3); the city – which has become almost a new Babylon, like the Church at the end of the fifth period – is indeed Lucifer’s plant (Par. IX, 127-132). The prophetic spirit, as happened in Ezekiel with Tyre and in Christ with the Jews, finds in it a place to expand from the particular to the universal, so that its sins become the root and model of universal evil. Florence is a “nest of such great malice”, like the new Babylon inhabited by filthy birds (Inf. XV, 78; Rev 18:2), from which it is advisable to depart (Par. XVII, 46-48), as the angel of Rev 18:4 (repeating Jeremiah 50:8-9) commands to leave that city so as not to participate in its crimes. The “great town” is crossed by the “fair river Arno” (Inf. XXIII, 95), but whose name must be kept secret “as a man doth of things horrible”, so much does it resemble Arnoyme, one of the carnal names of the Antichrist (Purg. XIV, 22-27). As, in the first war of the fourth apocalyptic vision (Rev 12:6), it is said of the dragon from which the woman (the Church) flees into the desert, so Cacciaguida describes the arrogance of the Adimari, “the insolent race, that like a dragon follows /  whoever flees, but which becomes a lamb “unto him that shows / his teeth or purse” (Par. XVI, 115-117; again, sarcastically, the evangelical pera). While the heavenly kingdom “reposes / in so great love and in so great delight” (Par. XXXII, 61-62), Florence is “like a sick woman, / who cannot find repose upon the feathers, / but by her tossing wardeth off her pain” (Purg. VI, 148-151). Denying rest after victory in the race at the Pauline stadium and the peace that pervades Jerusalem descended upon earth, Florence has as its cornerstone, which should give it strength in joining together in an arch, not Christ lapis angularis but Mars, “the mutilated stone / which guards the bridge” (Par. XVI, 145-147).                    How far from the city seen in the Empyrean: the verses of Par. XXXI, 37-39, with their triple antithesis – “I who to the divine had from the human, / from time unto eternity, had come, / from Florence to a people just and sane” – lead to another work by Olivi, the first quaestio de domina (de consensu virginali pro Annuntiatione), examined elsewhere.
            The “such a beautiful / life of the citizen”, so peaceful and sober, of which Cacciaguida speaks, is a true profession of a high religious state, a common adherence to the vow of extreme poverty. The effects of this, as described by Olivi, are, on closer inspection, the same as those achieved under the regime of the monarch, who, with philosophy, guides men to earthly bliss.
            A city that was poor and chosen, home to the blessed or those chosen for bliss. Of the woman clothed with the sun, who holds the moon under her feet and is crowned with twelve stars (Rev 12:1), it is said: “She was pregnant and cried out in her labour pains to give birth” (Rev 12:2). This woman is par excellence the Virgin Mary, mother of God; in general, she designates the Church, especially the early Church. The Virgin, in fact, if she conceived Christ in the womb of her body and mind, also carried in the womb of her heart the entire mystical body of Christ, as if it were her offspring. She cries out, both with the groans of sighs and with the sound of preaching, in giving birth to Christ who will be crucified and who, through the cross, will rise again manifestly in the glory of the Father, giving birth with great anguish to the mystical body of the Son who will be regenerated in the grace and glory of God, who is also the Christ who will be formed and born in hearts.
            In the terrace of the mountain where are purging the avaricious and prodigal, a voice, which will prove to be that of Hugh Capet, offers examples of poverty and generosity. It is a voice that “crying out” in tears, “even as a woman does who is in child-birth”, and praises the poverty of Mary, “the only bride / of the Holy Ghost”, an attribute that is also proper to the Church (Purg. XX, 19-24, 97-99). In the next terrace, the gluttonous weep and sing Psalm 50:17, «“Labïa mëa, Dominein fashion / such that it gave birth to both delight and dolence» (Purg. XXIII, 10-12; cf. Rev 10:9, where Christ’s passion, equivalent to the effects of the book given to John, is presented as both sweet and bitter).
            The Virgin Mary, “with loud cries invoked”, assisted Cacciaguida’s mother, “who is now a saint”, in the pains of childbirth (Par. XV, 133; XVI, 35).
            In the sixth and seventh periods of the Church, which correspond to the age of the Spirit of Joachim of Fiore, generations and sufferings will be shortened for the elect: “[…] ne nimis immoderata tribulatio absorbeat electos. Unde et veritas ait quod propter electos breviabuntur dies illi […]” (prologue, Notabile XII). This is what is asked for with desire by “all those shades / who only prayed that some one else may pray, / so as to hasten their becoming holy” (Purg. VI, 25-27). These are “chosen spirits” who are waiting “peace” before entering the gate (Purg. III, 73-75), for whom prayers can shorten the time of affliction and fatigue in purging themselves, as sworn by the angel in Rev 10:5-7. So says Cacciaguida of Dante’s great-grandfather, who gave his name to the Alagherii family, whose punishment for pride in the first terrace of purgatory can be shortened “with thy works” (Par. XV, 95-96).

 

[1] Cf. Matthew 10:10; Mark 6:8; Luke 9:3; 10:4; 22:35. In Par. XV, 55, Cacciaguida, to indicate to Dante that he reads his thoughts as they descend from the divine mirror, uses the verb meare, an alternative form of derivare, typical of the heavenly Jerusalem where the river of living water that flows from the seat of God and the Lamb is communicated to the blessed (Rev 22:1).

Tab. XV.4

Quaestio de altissima paupertate, ed. J. Schlageter, Das Heil der Armen und das Verderben der Reichen. Petrus Johannis Olivi OFM. Die Frage nach der höchsten Armut, Werl/Westfalen 1989 (Franziskanische Forschungen, 34), p. 124 (Responsio principalis, 15).

Pro istis autem facit quod dicit Chrysostomus super Iohannem (!Matthaeum) Homilia XLVIIa: “Anima inopis, inopis quidem voluntarii, fulget velut aurum, splendet velut margarita fulgens, florescit autem ut rosa. Non enim est illic tinea, non est illic fur, non sollicitudo vitae huius negotiorum, sed sicut angelus ita conversatur. Vis animae huius pulchritudinem videre? Vis inopiae divitias addiscere? Non subiacet daemonibus, non assistit regi, sed assistit Deo, non militat cum hominibus, sed militat cum angelis. Non habet arcas duas vel tres vel viginti, sed talem abundantiam, ut hunc mundum universum nihil esse aestimet. Non habet thesaurum, sed caelum. Non indiget servis, magis autem servos habet passiones et cogitationes quae regum dominantur. Regnum autem et aurum et omnia talia quemadmodum puerorum ludibria deridet, et sicut rotas et pilam haec omnia aestimat esse contemptibilia. Habet enim mundum quem neque videre, qui in his ludunt, possunt. Quid igitur paupere hoc est melius umquam? Pavimentum denique habet caelum. Si autem pavimentum tale est, excogita tectum. Sed non habet equos et currus? Quid autem ei his opus est qui supra nubes vehi debet et esse cum Christo”. Item super Matthaeum Homilia ultima: “Mihi paupertas puellae cuidam pulchrae et speciosae similis esse videtur. Cum hac Elias educatus raptus est beata illa rapina; cum hac Elisaeus claruit, cum hac Iohannes, cum hac Apostoli omnes. Si et ipsam puellae huius pulchritudinem intueamur, etenim oculus eius est purus et praeclarus, nihil habens turbulentum, sed mansuetus, tranquillus, delectabilis, ad omnes respiciens mitis, humilis, nullum odio habens, nullum avertens. Os illi et lingua sana est, continua gratiarum actione plena et benedictione et mitibus verbis et amicabilibus. Si autem vis et proportionem membrorum eius videre, longa est et multum excelsior quam superabundantia. Si autem fugiunt eam tam multi, ne mireris; etenim et alias virtutes fugiunt insipientes”.

[LSA, cap. XXI, Ap 21, 2.16.18.21 (VIIa visio)] In prima (parte) autem primo describitur sub typo sponse precellenter adornate et Deo tamquam sponso suo familiariter iuncte. Vocatur autem “civitas” (Ap 21, 2), quia ibi est mira unitas omnium sanctorum tamquam concivium. Vocatur vero “Iherusalem”, quia ibi est visio summe pacis et principalis metropolis et sedes Dei et sanctorum. […] Tanta autem equalitas designat summam concordiam beatorum in regno Dei. […] Per utrumque autem designatur generalis ecclesia et principaliter contem-plativorum, sicut per muros militia martirum et pugilum seu defensorum interioris ecclesie, que est per unitatem concordie “civitas”, id est civium unitas, et per fulgorem divine caritatis et sapientie aurea, et per puram confessionem veritatis propria peccata clare et humiliter confitentis et nichil falso simulantis est “similis vitro mundo”, et per latitu-dinem caritatis et libertatem ac communitate<m> evangelice paupertatis est “platea” celis patula, non tectis clausa, nec domibus occupata, nec domorum distinctionibus divisa, nec isti vel illi instar domorum appropriata, sed omnibus communis et indivisa. Et quia in tertio generali statu, statutis duodecim portis eius, fulgebit singulariter evangelica paupertas et contemplatio, ideo non fit mentio de platea nisi post portas, et ubi mox subditur quod solus Deus est templum et sol huius civitatis (cfr. Ap 21, 22-23). Unde et platea non solum dicitur esse “aurum simile vitro mundo”, id est perspicuo et polito et nulla macula vel pulvere obumbrato, sed etiam dicitur esse sicut “vitrum perlucidum”, id est valde lucidum, quia tunc maior erit cordis et oris puritas et clarior veritas. In ecclesia vero beatorum erit tanta, ut omnia interiora cordium sint omnibus beatis mutuo pervia et aperta.

Purg. XIII, 94-96

O frate mio, ciascuna è cittadina
d’una vera città; ma tu vuo’ dire
che vivesse in Italia peregrina.

Par. XV, 97-135

Fiorenza dentro da la cerchia antica,     21, 15
ond’ ella toglie ancora e terza e nona,
si stava in pace, sobria e pudica.
Non avea catenella, non corona,
non gonne contigiate, non cintura
che fosse a veder più che la persona.
Non faceva, nascendo, ancor paura
la figlia al padre, ché ’l tempo e la dote
non fuggien quinci e quindi la misura.
Non avea case di famiglia vòte;
non v’era giunto ancor Sardanapalo
a mostrar ciò che ’n camera si puote.
Non era vinto ancora Montemalo
dal vostro Uccellatoio, che, com’ è vinto
nel montar sù, così sarà nel calo.
Bellincion Berti vid’ io andar cinto
di cuoio e d’osso, e venir da lo specchio
la donna sua sanza ’l viso dipinto;
e vidi quel d’i Nerli e quel del Vecchio
esser contenti a la pelle scoperta,
e le sue donne al fuso e al pennecchio.
Oh fortunate! ciascuna era certa
de la sua sepultura, e ancor nulla
era per Francia nel letto diserta.
L’una vegghiava a studio de la culla,
e, consolando, usava l’idïoma
che prima i padri e le madri trastulla;
l’altra, traendo a la rocca la chioma,
favoleggiava con la sua famiglia
d’i Troiani, di Fiesole e di Roma.
Saria tenuta allor tal maraviglia
una Cianghella, un Lapo Salterello,
qual or saria Cincinnato e Corniglia.
A così riposato, a così bello                  21, 16
viver di cittadini, a così fida
cittadinanza, a così dolce ostello,
Maria mi diè, chiamata in alte grida;
e ne l’antico vostro Batisteo
insieme fui cristiano e Cacciaguida.

Par. XXIX, 70-84

Ma perché ’n terra per le vostre scole
 si legge che l’angelica natura
è tal, che ’ntende e si ricorda e vole,
ancor dirò, perché tu veggi pura
la verità che là giù si confonde,
equivocando in sì fatta lettura.
Queste sustanze, poi che fur gioconde
 de la faccia di Dio, non volser viso
da essa, da cui nulla si nasconde:
però non hanno vedere interciso
da novo obietto, e però non bisogna
rememorar per concetto diviso;
sì che là giù, non dormendo, si sogna,
credendo e non credendo dicer vero;
ma ne l’uno è più colpa e più vergogna.

Tab. XV.5

Purg. II, 85-99

Soavemente disse ch’io posasse;
allor conobbi chi era, e pregai
che, per parlarmi, un poco s’arrestasse.
Rispuosemi: “Così com’ io t’amai
nel mortal corpo, così t’amo sciolta:
però m’arresto; ma tu perché vai?”.
“Casella mio, per tornar altra volta
là dov’ io son, fo io questo vïaggio”,
diss’ io; “ma a te com’ è tanta ora tolta?”.
Ed elli a me: “Nessun m’è fatto oltraggio,
se quei che leva quando e cui li piace,
più volte m’ha negato esto passaggio;
ché di giusto voler lo suo si face:
veramente da tre mesi elli ha tolto
chi ha voluto intrar, con tutta pace”.

Purg. V, 58-63, 130-133

E io: “Perché ne’ vostri visi guati,
non riconosco alcun; ma s’a voi piace
cosa ch’io possa, spiriti ben nati,    7, 8
voi dite, e io farò per quella pace
che, dietro a’ piedi di sì fatta guida,
di mondo in mondo cercar mi si face”.

“Deh, quando tu sarai tornato al mondo
 e riposato de la lunga via”,
 seguitò ’l terzo spirito al secondo,
“ricorditi di me, che son la Pia …”

Purg. VI, 148-151

E se ben ti ricordi e vedi lume,
vedrai te somigliante a quella inferma
che non può trovar posa in su le piume,
ma con dar volta suo dolore scherma.

[LSA, cap. III, Ap 3, 12 (Ia visio, VIa victoria)] Vocat autem eam novam propter novitatem glorie vel gratie, unde et precipue significat hic civitatem beatorum, et post hoc illam que erit in sexto et septimo statu, et post hoc illam que reiecta vetustate legalium fuit in quinque primis statibus Christi, et post hoc totam universaliter ab initio mundi. Vocatur etiam Iherusalem, id est visio pacis, quia vel ipsa fruitur vel ad ipsam suspiratur.
Tertium quod sibi <in>scribitur est contemplatio Christi secundum quod homo et secundum quod redemptor noster et mediator. Dicitur autem nomen suum esse novum, tum propter novitatem sue resurrectionis et glorie, tum quia unio sue deitatis cum humanitate in eadem persona et universaliter omnia que in ipso sunt miram continent et preferunt novitatem.
   Et attende quomodo a Deo incipiens et in eius civitatem descendens, reascendit et finit in se ipsum, quia contemplatio incipit in Deo et per Dei civitatem ascendit in Christum eius regem, in quo et per quem consumatissime redit et reintrat in Deum, et sic fit circulus gloriosus.

[LSA, cap. XXI, Ap 21, 12 (VIIa visio)] In scripturis tamen sepe angulus sumitur pro fortitudine et ornatu, quia in angulis domorum, in quibus parietes coniunguntur, est fortitudo domus. Unde Christus dicitur esse factus in caput anguli et lapis angularis; et Iob I° dicitur “ventus” <concussisse> “quattuor angulos domus” ut dirueret ipsam domum (Jb 1, 19), et Zacharie X°, ubi agitur de futura fortitudine et victoria regni Iude, dicitur quod “ex ipso” erit “angulus et paxillus et archus prelii” (Zc 10, 4), id est robusti duces qui erunt aliorum sustentatores sicut angulus et paxillus; et Sophonie I° dicitur quod “dies ire” erit “super civitates munitas et super angulos excelsos” (Sph 1, 15-16), et capitulo III° dicitur: “Disperdidi gentes et dissipati sunt anguli earum” (Sph 3, 6), id est robusti duces earum; et I° Regum XIIII°: “dixit Saul: Applicate huc universos angulos populi” et cetera (1 Rg 14, 38).

[LSA, cap. XXI, Ap 21, 16 (VIIa visio)] “Et civitas in quadro posita est”, id est habens quattuor latera muri sub figura quadranguli iuncta, per quod designatur solida quadratura virtutum. […] “Et mensus est civitatem Dei cum arundine per stadia duodecim milia” (Ap 21, 16). Stadium est spatium in cuius termino statur vel pro respirando pausatur, et per quod curritur ut bravium acquiratur, secundum illud Apostoli Ia ad Corinthios, capitulo IX°: “Nescitis quod hii, qui in stadio currunt, omnes quidem currunt, sed unus accipit bravium?” (1 Cor 9, 24), et ideo significat iter meriti triumphaliter obtinentis premium. Cui et congruit quod stadium est octava pars miliarii, unde designat octavam resurrectionis. Octava autem pars miliarii, id est mille passuum, sunt centum viginti quinque passus, qui faciunt duodecies decem et ultra hoc quinque; in quo designatur status continens perfectionem aposto-licam habundanter implentem decalogum legis, et ultra hoc plenitudinem quinque spiritualium sensu-um et quinque patriarchalium ecclesiarum.

Par. XV, 97-99, 130-132

Fiorenza dentro da la cerchia antica,
ond’ ella toglie ancora e terza e nona,
si stava in pace, sobria e pudica.

A così riposato, a così bello
viver di cittadini, a così fida
cittadinanza, a così dolce ostello 

Par. XVI, 40-42, 145-150

Li antichi miei e io nacqui nel loco
dove si truova pria l’ultimo sesto
da quei che corre il vostro annüal gioco.

Ma conveniesi, a quella pietra scema
che guarda ’l ponte, che Fiorenza fesse
vittima ne la sua pace postrema.
Con queste genti, e con altre con esse,
vid’ io Fiorenza in sì fatto riposo,
che non avea cagione onde piangesse.

Par. XVII, 139-142

che l’animo di quel ch’ode, non posa
 né ferma fede per essempro ch’aia
 la sua radice incognita e ascosa,
né per altro argomento che non paia

Par. XXXII, 61-63, 127-132

Lo rege per cui questo regno pausa
in tanto amore e in tanto diletto,
che nulla volontà è di più ausa

E quei che vide tutti i tempi gravi,
pria che morisse, de la bella sposa
che s’acquistò con la lancia e coi clavi,
siede lungh’ esso, e lungo l’altro posa
quel duca sotto cui visse di manna
la gente ingrata, mobile e retrosa.

[LSA, cap. VII, Ap 7, 17 (IIa visio, apertio VIi sigilli)] “Et absterget Deus omnem lacrimam ab oculis eorum”, id est omnem dolorem preteritum et omnia penalia signa et omnem penalem memoriam eius perfecte et totaliter amovebit ab eis.

[LSA, cap. XXI, Ap 21, 4 (VIIa visio)] Secundo ostenditur esse ab omni malo immunis, cum subditur: “Et absterget Deus omnem lacrimam” et cetera (Ap 21, 4). Hoc satis expositum est supra, VII° capitulo circa finem.

3.1. La campana di Badia

Un angelo ha la canna d’oro – «habens “mensuram arundineam auream”» – con la quale misura la Gerusalemme celeste (Ap 21, 15). Designa i rettori e i dottori, i quali nel loro reggere o insegnare possiedono la sapienza della Scrittura sacra che è come una canna per il suono della predicazione e per l’umile sentimento della propria fragilità, vacuità e nullità, ed è aurea per il folgorare della conoscenza divina. Con la canna essi misurano la città, le mura e le porte, sia perché insegnano la regolarità della misura, sia perché con discreta misura reggono tutta la Chiesa e regolano l’entrare e l’uscire.
Questi sono i fili di Par. XXXIII, 133-141. Dante, nel cercare di comprendere come nella sua “vista nova” l’immagine umana di Cristo si convenga e trovi luogo nel cerchio, si trova a essere come il geometra tutto preso inutilmente a risolvere il problema della quadratura del cerchio (più avanti, nell’esegesi della settima visione, si dice che la misura della città può avvenire anche utilizzando i “cubiti geometrici”). Le sue ali non sono capaci di tal volo, per cui egli riconosce umilmente la propria fragilità e nullità, ma un lampo percuote la sua mente facendole venire ciò che voleva, cioè la chiara visione del mistero dell’incarnazione. Il motivo del ritrovare proviene dal recuperare il grado di perfezione originario (l’aurea prima carità) al quale viene invitato il vescovo di Efeso, la prima delle sette chiese d’Asia (Ap 2, 5; prima visione): il “non ritrova, / pensando” del finale del poema corrisponde così al “mi ritrovai per una selva oscura … che nel pensier rinova la paura” dell’inizio.
Pensare attentamente a un principio perduto – “e non ritrova, / pensando, quel principio ond’ elli indige” (Par. XXXIII, 134-135) – è nell’invito fatto al vescovo di Sardi, la quinta chiesa, di avere in mente la prima grazia ricevuta e di vegliare (Ap 3, 3). Ricordare uno stato che venne prima, congiunto con il tema della bellezza dei suoi inizi poi corrottisi (la quinta chiesa, nei suoi primordi, è definita “principium pulchritudinis”), si trasforma, con le parole di Matelda, nel ricordo di quella che per i poeti antichi fu “l’età de l’oro e suo stato felice” (Purg. XXVIII, 139-144). Corrisponde al vegliare “a studio de la culla” della madre nella Firenze antica rimpianta da Cacciaguida, la quale “consolando, usava l’idïoma / che prima i padri e le madri trastulla” (Par. XV, 121-123). Si ritrova, ancora, nel ripensare “come l’umana carne fessi allora / che li primi parenti intrambo fensi”, come afferma Beatrice a Par. VII, 145-148, argomentando in favore della resurrezione dei corpi, creati immortali per loro natura.
Il verbo “indigere” (Par. XXXIII, 135) conduce ad Ap 4, 2, all’inizio della seconda visione, relativa all’apertura dei sette sigilli. Giovanni viene elevato a un nuovo e più alto modo di vedere, quasi il suo primo vedere in spirito non lo fosse stato realmente rispetto al secondo. La ripetizione di questo elevarsi indica che ogni visione ha un proprio essere arduo, che è nuovo rispetto alle visioni precedenti, e che ogni volta Giovanni “indigeva” di essere nuovamente elevato. La visione dell’incarnazione, l’intelligenza dell’umano e del divino in Cristo, di come possa convenire il diametro con la circonferenza, è per il poeta l’ultima “vista nova” alla quale “indige” di essere elevato. È anche l’ultima metamorfosi della città della quale Cristo è re, posta “in quadro” (Ap 21, 16) e nello stesso tempo “circulus gloriosus” (Ap 3, 12).

 

Il tema del misurare l’entrata e l’uscita dalla città superna è nell’entrare e uscire dei “topazi”, cioè delle “faville vive” (gli angeli), dal fiume di luce che il poeta vede nell’Empireo (Par. XXX, 64-69, 76-78; i motivi del fiume e degli “umbriferi prefazi” provengono da Ap 22, 1-2, il topazio è una delle gemme che ad Ap 21, 20 adornano le fondamenta della città). La regolare misura dell’entrata e dell’uscita era data (Lana), nella “Fiorenza dentro da la cerchia antica”, dalla campana della chiesa di Badia, la quale suonando “e terza e nona” segnava l’entrata e l’uscita dal lavoro dei lavoranti delle arti (Par. XV, 97-98). Cacciaguida usa il termine “cerchia“, quasi assegnando alla sua Firenze la prerogativa di essere stata, in terra, figura della Gerusalemme celeste, il “circolus gloriosus” che Dante vedrà nell’Empireo (per cui è da escludere la variante “dentro da le mura).

3.1. The bell of Badia

          An angel has a golden reed – “habens mensuram arundineam auream” – with which he measures the heavenly Jerusalem (Rev 21:15). It designates rectors and doctors, who in their governing or teaching possess the wisdom of Sacred Scripture, which is like a reed for the sound of preaching and for the humble feeling of one’s own fragility, emptiness and nothingness, and is golden for the dazzling light of divine knowledge. With the reed they measure the city, the walls and the gates, both because they teach the regularity of measurement and because with discreet measure they govern the whole Church and regulate entry and exit.
             These are the threads of Par. XXXIII, 133-141. Dante, in trying to understand how in his “new vision” the human image of Christ fits and finds its place in the circle, finds himself like a geometer uselessly preoccupied with solving the problem of squaring the circle (later, in the exegesis of the seventh vision, it is said that the city can also be measured using “geometric cubits”). His wings are not capable of such flight, so he humbly recognises his own fragility and nothingness, but a flash strikes his mind, bringing him what he wanted, namely a clear vision of the mystery of the Incarnation. The motif of recover, of finding again comes from recovering the original degree of perfection (the golden first charity) to which the bishop of Ephesus, the first of the seven churches of Asia, is invited (Rev 2:5; first vision): the “he does not find again, / thinking” at the end of the poem thus corresponds to the “I found again myself within a dark forest … which renews fear in my thoughts” at the beginning.
            Thinking carefully about a lost principle – “and does not find again, / thinking, that principle he needs” (Par. XXXIII, 134-135) – is in the invitation made to the bishop of Sardis, the fifth church, to keep in mind the first grace received and to watch (Rev 3:3). Remembering a state that came first, combined with the theme of the beauty of its beginnings that were later corrupted (the fifth church, in its early days, is defined as “principium pulchritudinis”), is transformed, in Matelda’s words, into the memory of what for the ancient poets was ‘the golden age and its happy state’ (Purg. XXVIII, 139-144). It corresponds, in the ancient Florence lamented by Cacciaguida, to the woman who o’er the cradle kept her studious watch, / and in her lullaby the language used / that first delights the fathers and the mothers (Par. XV, 121-123). It is found again in the reflection “how human flesh was then / that the first parents were created”, as Beatrice states in Par. VII, 145-148, arguing in favour of the resurrection of bodies, created immortal by their nature.
            The verb “indigere” leads to Rev 4:2, at the beginning of the second vision, relating to the opening of the seven seals. For this, John is elevated to a new and higher way of seeing, as if his first seeing in spirit had not really been so compared to the second. The repetition of this elevation indicates that each vision has its own arduous nature, which is new compared to the previous visions, and that each time John needed (indigebat) to be elevated again. The vision of the incarnation, the understanding of the human and divine in Christ, of how the diameter can fit the circumference, is for the poet the last “vista nova” to which he needed to be elevated. It is also the last metamorphosis of the city of which Christ is king, placed “in quadro” (Rev 21:16) and at the same time “circulus gloriosus” (Rev 3:12).

 

             The theme of measuring the entrance and exit from the heavenly city is found in the entering and leaving of the “topazes”, that is, the “living sparks” (the angels), from the river of light that the poet sees in the Empyrean (Par. XXX, 64-69, 76-78; the motifs of the river and the ‘prefazi umbriferi’ come from Rev 22:1-2, the topaz is one of the gems that adorn the foundations of the city in Rev 21:20). The regular timing of the start and end of the working day was given (Lana), in “Fiorenza dentro da la cerchia antica” (Florence within the ancient circle), by the bell of the church of Badia, which rang “at the third and ninth hours” to mark the start and end of the working day for those employed in the arts (Par. XV, 97-98).
             Cacciaguida uses the term cerchia, almost assigning to his Florence the prerogative of having been, on earth, a figure of the heavenly Jerusalem, the ‘circolus gloriosus’ that Dante will see in the Empyrean (therefore, the variant “dentro da le mura” is to be excluded).

Tab. XV.6

[LSA, cap. II, Ap 2, 5 (Ia visio, Ia ecclesia)] Subdit ergo (Ap 2, 4): “Sed habeo adversum te” (quidam addunt “pauca”, sed non est de textu nisi solum in tertia ecclesia [cfr. Ap 2, 14], non autem hic nec in quarta [cfr. Ap 2, 20]) “quod caritatem tuam primam reliquisti”. Ricardus: «id est, quia te in dilectione Dei et proximi minorasti. Non dicit absolute ‘quod caritatem reliquisti’, sed “quod caritatem primam”, ex quo animadvertere possumus quod in bono quidem fuit minoratus sed non omnino bono evacuatus. In gratia enim accepta nimis secure vixerat et quedam negligenter egerat, et ideo de culmine sue perfectionis ceciderat ad minorationem sue perfectionis. Sed Dominus eum consulendo admonet ut penitendo gradum amissum recuperet, dicens (Ap 2, 5): “Memor esto itaque unde excideris, et age penitentiam et prima opera fac”. Quasi dicat: attende quod de fastigio tue perfectionis excideris et ad infimum perfectionis decideris, et age penitentiam de negligentia, et prima opera faciendo recupera primam gratiam». Hec Ricardus*.

[LSA, cap. III, Ap 3, 3 (Ia visio, Va ecclesia)] “In mente ergo habe” (Ap 3, 3), id est attente recogita, “qualiter acceperis”, scilicet a Deo priorem gratiam, “et audieris”, ab homine scilicet per predicationem evangelicam, “et serva”, scilicet illa que per predicationem audisti et per influxum gratie a Deo primitus accepisti. Vel recogita qualiter per proprium consensum accepisti fidem et gratiam et statum eius, prout a me et a ceteris tibi predicantibus audivisti. “Et serva” ea “et penitentiam age”, scilicet de tuis malis, quasi dicat: si digne recogitaveris gratiam tibi prius impensam et qualiter prius accepisti eandem, servabis eam et penitentiam ages. […] Deinde comminatur eidem iudicium sibi occulte et inopinate superventurum si non se correxerit, unde subdit: “Si ergo non vigilaveris, veniam ad te tamquam fur” […]

In Ap I, v (PL 196, col. 716 C-D).

Par. XXXIII, 133-141                

Qual è ’l geomètra che tutto s’affige
per misurar lo cerchio, e non ritrova,
pensando, quel principio ond’ elli indige,
tal era io a quella vista nova:
veder voleva come si convenne
l’imago al cerchio e come vi s’indova;
ma non eran da ciò le proprie penne:
se non che la mia mente fu percossa
da un fulgore in che sua voglia venne.

Inf. I, 1-6

Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura,
ché la diritta via era smarrita.
Ahi quanto a dir qual era è cosa dura
esta selva selvaggia e aspra e forte
che nel pensier rinova la paura!

[LSA, cap. IV, Ap 4, 2 (IIa visio, radix)] “Et statim fui in spiritu” (Ap 4, 2), id est in spirituali excessu mentis. Nota ex istis haberi aut quod post primam visionem fuerat ab excessu mentis ad se reductus, et ideo nunc iterato sublevatur ad mentis excessum; aut quod a primo mentis excessu, sub quo primam visionem vidit, elevatur nunc ad multo altiorem excessum, ac si tunc esset infra celum, nunc autem supra celum ascendat, et ac si suum primum esse in spiritu fuerit quasi non esse in spiritu respectu istius, de quo hic dicit: “Et statim fui in spiritu”; aut per reiterationes huiusmodi sublevationum designat quamlibet visionum cum suis obiectis habere propriam et novam arduitatem, et quod ad quam-libet videndam indigebat superelevari a Deo ad illam. Sicut autem una illuminatio disponit mentem ad aliam altiorem, sic spiritualis visio apertionis celi et spiritualis auditus vocis sic grandis, sicut est vox tube, erant dispositiones et ex<c>itationes ad sequentes sublevationes spiritus sui.

Par. VII, 145-148

E quinci puoi argomentare ancora
vostra resurrezion, se tu ripensi
come l’umana carne fessi allora
che li primi parenti intrambo fensi.

Par. XV, 64-66, 121-123

ma perché ’l sacro amore in che io veglio
con perpetüa vista e che m’asseta
di dolce disïar, s’adempia meglio

L’una vegghiava a studio de la culla,
e, consolando, usava l’idïoma
che prima i padri e le madri trastulla

[LSA, cap. XXI, Ap 21, 15 (VIIa visio)] Angelus vero habens “mensuram arundineam auream” (Ap 21, 15) designat rectores et doctores, qui in exemplari opere et potestate regendi et docendi habent sapientiam scripture sacre, que per sonum predi-cationis et per humilem sensum proprie fragilitatis et vacuitatis sive nichilitatis est arundo, et per fulgorem divine cognitionis est aurea. Per hanc autem metiuntur civitatem et murum et portas, tum quia docent horum regularem et virtualem mensuram, tum quia sub certa discretionis regula et mensura regunt totam ecclesiam et eius introitus et exitus et mirabilem clausuram.

Par. XV, 97-99

Fiorenza dentro da la cerchia antica,
ond’ ella toglie ancora e terza e nona,
si stava in pace, sobria e pudica.

Par. XXX, 67-69, 76-78

poi, come inebrïate da li odori,
riprofondavan sé nel miro gurge,
e s’una intrava, un’altra n’uscia fori.

Anche soggiunse: “Il fiume e li topazi        21, 20
ch’entrano ed escono e ’l rider de l’erbe
son di lor vero umbriferi prefazi”.              22, 1-2

Lana: «Sulle ditte mura vecchie si è una chiesa chiamata la Badia, la quale chiesa suona terza e nona e l’altre ore, alle quali li lavoranti delle arti entrano ed esceno dal lavorio».

3.2. La Città del Sole

“E sarai meco sanza fine cive / di quella Roma onde Cristo è romano”: la Gerusalemme celeste, della quale l’Eden è figura in terra, viene chiamata Roma. A questa Roma celestiale si addice un passo del profeta Isaia: «“In die illa erunt quinque civitates in terra Egipti” et cetera, “civitas solis vocabitur una”» (Is 19, 18). Questo passo di Isaia è citato da Olivi nell’esegesi dell’angelo del sesto sigillo, “ascendens ab ortu solis” (Ap 7, 2), che il frate di Béziers, seguendo il suo maestro Bonaventura, identifica con Francesco. Nel quadro geografico che Tommaso d’Aquino delinea nell’encomio del “poverel di Dio” iniziando a Par. XI, 43, il tema del salire da oriente viene appropriato a Francesco stesso (“nacque al mondo un sole”, “non era ancor molto lontan da l’orto”), alla “Porta Sole” (da cui Perugia “sente freddo e caldo”), ai due nomi del luogo di nascita, “Ascesi” (che allude all’ascendere”) e “Orïente”. L’angelo sale da oriente perché Francesco assunse come fondamento e inizio della sua ascesa verso Dio la sede romana, che tra le cinque principali chiese è sede principale e città del sole, di Cristo, della sua fede, della quale è appunto detto allegoricamente dal profeta Isaia: “In quel giorno ci saranno cinque città nella terra d’Egitto (le città che parleranno la lingua di Canaan e giureranno per il Signore degli eserciti, nella prospettiva di una conversione dell’Egitto e di una sua riconciliazione con Assur e Israele). Una di esse si chiamerà Città del Sole” (Is 19, 18). Le città citate da Dante sono cinque: Perugia, Nocera, Gualdo, Ascesi, Oriente e una sola, l’ultima, può dirsi realmente “civitas solis” (“ma Orïente, se proprio dir vuole”). Il rapporto tra le cinque città si colloca fra la stabilità solare di “Orïente” cui si ascende (Ascesi), l’instabilità di Perugia (la quale “sente freddo e caldo / da Porta Sole”, cioè dalla porta che si apre a oriente, verso il Subasio), e il “grave giogo” che fa piangere Nocera e Gualdo Tadino, poste dietro al Subasio e per questo sottratte a maggior luce rispetto agli altri luoghi. Da ciò che è meno solare e più instabile, simbolo quasi del grave giogo dell’Antico Testamento, si va fino alla stabilità di “Orïente”: con Francesco inizia infatti storicamente il sesto stato, corrispondente alla terza età, o dello Spirito, di Gioacchino da Fiore [1].
Qualcosa di simile sembra verificarsi nel successivo cielo di Marte, dove Cacciaguida parla dell’estinguersi delle famiglie come conseguenza della decadenza delle città. Qui sono citate quattro città decadute: “Se tu riguardi Luni e Orbisaglia / come sono ite, e come se ne vanno / di retro ad esse Chiusi e Sinigaglia” (Par. XVI, 73-78). Manca la quinta solare città nell’esegesi oliviana identificata con Roma, che è Firenze, “l’ovil di San Giovanni”. Al passo di Isaia, secondo il quale “civitas solis vocabitur una”, fra le cinque, alludono probabilmente i versi precedenti – “e molte volte taglia / più e meglio una che le cinque spade” -, nel senso che una città piccola ma unita è più forte di una grande e divisa, perché “… cieco toro più avaccio cade / che cieco agnello” (vv. 70-72). La Firenze antica era stata anch’essa “ascendens”, come l’angelo del sesto sigillo di cui è moderna realizzazione “Ascesi”, dove nacque il “sole” Francesco. Nel suo montare aveva addirittura vinto Roma, la città del sole per antonomasia, della quale – come scrive il Villani (IX, 36) – era stata “figliuola e fattura”. Ma al salire era poi seguita la discesa: “Non era vinto ancora Montemalo / dal vostro Uccellatoio, che, com’ è vinto / nel montar sù, così sarà nel calo” (Par. XV, 109-111). La decadenza si era insinuata anche in Firenze, trasformata in una nuova Babilonia in forza della “confusion de le persone” (Babylon viene interpretata come “confusio”), per l’arrivo, di cui è responsabile la Chiesa romana, di gente del contado che ha mischiato la stirpe, la quale “pura vediesi ne l’ultimo artista” (Par. XVI, 49-69).
Al di là della ricerca delle cause, il processo di decadenza sembra ineluttabile, appartenendo quella rimpianta città a un’età antica. Non aveva forse scritto Gioacchino da Fiore (citato da Olivi ad Ap 12, 6) che le generazioni dell’Antico Testamento erano instabili “ad modum lune crescentis et decrescentis”, e che solo nel Nuovo sarebbero divenute stabili come il sole? Così è per Firenze: “E come ’l volger del ciel de la luna / cuopre e discuopre i liti sanza posa, / così fa di Fiorenza la Fortuna” (Par. XVI, 82-84). La donna che “… vegghiava a studio de la culla, / e, consolando, usava l’idïoma / che prima i padri e le madri trastulla”, viveva in uno stato quasi edenico, di “prima grazia”; “l’altra, traendo a la rocca la chioma, / favoleggiava con la sua famiglia / d’i Troiani, di Fiesole e di Roma”, riandava anch’essa a un ‘prima’, per quei tempi ormai favoloso ma che era stato vero (Par. XV, 121-126). Così l’angelo dice a Giovanni, perché qualcuno non pensi che il gran convivio dell’Agnello, per le sue nozze, sia solo favoloso: «“Et dixit michi: Hec verba Dei”, que scilicet premisi, “vera sunt”» (Ap 19, 9). Ma a questo bel principio, come capitato a Sardi, la quinta chiesa d’Asia in origine dotata della pienezza stellare dei doni dello Spirito, era seguita la “condescensio” verso le moltitudini, discesa conclusasi con un pernicioso rovinare.
La città superna, “quella Roma onde Cristo è romano”, non è, come la Città del Sole di Campanella, una città ideale compiutamente terrena, magari posta al di là di Taprobane, a segnare un’esigenza di riforma politico-religiosa. Per Dante la Gerusalemme celeste discende in terra, e in terra si frantuma in mille rivi. Chiunque vive, pellegrino, sull’“aiuola che ci fa tanto feroci” ne custodisce un pezzo, ne è fossato, muro, porta, angolo o misura, strada o casa; da virtuale cittadino della “vera città” contribuisce alla ricostruzione dell’edificio di Dio o di quello di Dite.
La città del sole trova compimento nell’Empireo, nella “rosa sempiterna, / che si digrada e dilata e redole / odor di lode al sol che sempre verna” (Par. XXX, 124-126). Nel mezzo della città scorre il fiume di luce (vv. 61-63). Due sono le rive, designanti la divinità e l’umanità di Cristo che le ombreggia e verdeggia coi sacramenti; esse hanno uguale dignità, perché l’acqua viva e di vita che le lambisce (lo Spirito) procede da un’unica sorgente (la Trinità; Ap 22, 1-2). Ivi Dante vede il “gran seggio” riservato ad Arrigo VII, prerogativa più che umana (i beati sono fiori, o petali della “candida rosa”), perché il trono del giudice è proprio della divinità di Cristo (vv. 133-138).
Ivi si compie anche l’ascendere da oriente proprio dell’angelo del sesto sigillo. Questa somma pagina esegetica (Ap 7, 2) era stata elaborata fin dai primi versi del poema. Il tema dell’angelo del sesto sigillo, “ascendens ab ortu solis”, segna infatti la salita di Dante al dilettoso monte, “quasi al cominciar de l’erta”, lì dove la lonza gli impedisce il cammino: l’ora è il “principio del mattino” (“in primo suo adventu”, “reascendit usque ad illud mane”); il sole sorge (“montava ’n sù” rende “ascendens”) nel segno primaverile dell’Ariete, costellazione che si riteneva occupasse anche al momento della creazione, “quando l’amor divino / mosse di prima quelle cose belle” (Inf. I, 37-40).
Le “stelle”, che in numero di sette Cristo tiene nella mano destra, nell’Apocalisse designano i vescovi (Ap 1, 16). Questi infatti illuminano e presiedono le chiese come la luce di una lucerna sta sul candelabro del santuario. In questo senso si dice che Cristo tiene nella mano destra sette stelle, perché come sommo re e pontefice percorre e visita tutte le chiese presenti e future (Ap 2, 1). Le stelle indicano anche lo Spirito di Cristo che, pur essendo increato e semplicissimo, si divide in sette doni, corrispondenti ai sette stati o periodi della Chiesa, che sono messi in ogni terra (Ap 5, 6).
La chiesa (delle sette d’Asia alle quali Giovanni scrive nella prima visione) che per eccellenza possiede tutte le perfezioni stellari è la quinta, quella di Sardi, assimilata alla sede romana o alla Chiesa latina (Ap 3, 1). Il suo nome viene interpretato come “principio di bellezza”, poiché fu bella nei suoi inizi e poi si corruppe, e in molti luoghi il poeta ricorre ai suoi temi per dare panno al vagheggiare un’età di innocenza e di bellezza perduta. L’angelo del sesto sigillo (secondo Olivi, si tratta di Francesco) ascende appunto dalla Chiesa romana che ha sede nella Città del Sole profetizzata da Isaia (Ap 7, 2) e la pienezza stellare della quinta chiesa corrisponde allo Spirito increato, cioè alla pienezza dei doni e delle grazie (Ap 3, 1).
A Inf. I, 37-40, i motivi della quinta chiesa – “dal principio …”, la rima “stelle” / “belle” – si congiungono con quelli dell’angelo che sale da oriente, e descrivono il tempo primaverile e mattutino, che ripete il mattino primordiale della creazione (saranno ancora in rima al termine della prima cantica: “… de le cose belle / … a riveder le stelle”). Al termine del viaggio, l’ultima metamorfosi del tema dell’angelo del sesto sigillo (è taciuto il motivo del salire, in quanto questo ha raggiunto l’acme) è nel lume di Maria vincente “… come da mattina / la parte orïental de l’orizzonte / soverchia quella dove ’l sol declina” (Par. XXXI, 118-123). Fra i due luoghi estremi, l’esegesi di Ap 7, 2 fornisce panno per più orditi, fra i quali l’apparizione di Beatrice nell’Eden (Purg. XXX, 22-30).

[1] Secondo Riccardo di San Vittore, l’angelo dal volto solare, ad Ap 10, 5-7 (sesta tromba) non dice che il tempo non sarà più con riguardo ai dannati, perché il loro tempo sarà nei secoli (infatti passeranno dal freddo al caldo e dal caldo al freddo), ma a proposito dei santi che saranno glorificati e degli elementi che verranno rinnovati. Dice ciò per consolare i santi che qui patiscono molte sofferenze per Cristo; a loro è promesso che l’instabile mutabilità di questo mondo passerà e che ad essa succederà l’immobilità della gloria eterna.
Caronte viene per portare i dannati all’altra riva, “ne le tenebre etterne, in caldo e ’n gelo” (Inf. III, 87). Alla tematica rinvia anche “Perugia che sente freddo e caldo / da Porta Sole”, con clima cioè meno stabile di quello di Assisi-Oriente (Par. XI, 46-47). Immutabile è il “magno volume” di Dio in cui Cacciaguida ha letto la venuta desiderata del suo discendente (Par. XV, 50-51).

3.2. The City of the Sun

            “And thou shalt be with me for evermore / a citizen of that Rome from where Christ is Roman” (Purg. XXXII, 101-102): the heavenly Jerusalem, of which Eden is a figure on earth, is called Rome. A passage from the prophet Isaiah is appropriate for this heavenly Rome: «In die illa erunt quinque civitates in terra Egipti” et cetera, “civitas solis vocabitur una”» (Is 19:18). This passage from Isaiah is quoted by Olivi in his exegesis of the angel of the sixth seal, “ascendens ab ortu solis” (Rev 7:2), whom the friar of Béziers, following his master Bonaventure, identifies with Saint Francis. In the geographical framework that Thomas Aquinas outlines in his eulogy of the “God’s own mendicant” beginning in Par. XI, 43, the theme of rising from the east is appropriated to Francis himself (“rose upon the world a sun“, “He was not yet far distant from his rising“), to the “Porta Sole” (from which Perugia “feels the cold and heat”), to the two names of his birthplace, “Ascesi” (alluding to “ascending”) and “Orïente”. The angel rises from the east because Francis took as the foundation and beginning of his ascent towards God the Roman See, which among the five principal churches is the principal seat and city of the sun, of Christ, of his faith, of which the prophet Isaiah allegorically says: “On that day there will be five cities in the land of Egypt (the cities that will speak the language of Canaan and swear by the Lord of hosts, in the prospect of Egypt’s conversion and reconciliation with Assyria and Israel). One of them will be called City of the Sun” (Is 19:18). Dante mentions five cities: Perugia, Nocera, Gualdo, Ascesi, Oriente, and only one, the last, can truly be called “civitas solis” (“but Orient, if he properly would speak”). The relationship between the five cities lies between the solar stability of “Oriente” to which one ascends (Ascesi), the instability of Perugia (which “feels the cold and heat / through Porta Sole”, i.e. from the gate that opens to the east, towards Subasio), and the “grievous yoke” that makes Nocera and Gualdo Tadino weep, located behind Subasio and therefore deprived of more light than other places. From what is less sunny and more unstable, almost a symbol of the heavy yoke of the Old Testament, we move on to the stability of “Orïent”: with Francis, in fact, the sixth period (status) of the Church begins historically, corresponding to the third age, or that of the Spirit, of Joachim of Fiore.
            Something similar seems to occur in the subsequent heaven of Mars, where Cacciaguida speaks of the extinction of families as a consequence of the decline of cities. Four fallen cities are mentioned here: “If Luni thou regard, and Urbisaglia, / how they have passed away, and how are passing / Chiusi and Sinigaglia after them” (Par. XVI, 73-75). The fifth solar city in Olivian exegesis identified with Rome is missing, which is Florence, “the sheepfold of Saint John … within the ancient boundary”. The previous verses – “and very often cuts /  better and more a single sword than five” – probably allude to the passage from Isaiah, according to which “civitas solis vocabitur una” (the City of the Sun shall be called one), in the sense that a small but united city is stronger than a large and divided one, because “… a blind bull more headlong plunges down / than a blind lamb” (vv. 70-72). Ancient Florence had also been “ascendens”, like the angel of the sixth seal, whose modern realisation is “Ascesi”, where the “sun” Francis was born. In its rise, it had even surpassed Rome, the city of the sun par excellence, of which – as Villani writes (IX, 36) – it had been “daughter and creature”. But the rise was followed by a fall: “Not yet surpassed had Montemalo been / by your Uccellatojo, which surpassed / shall in its downfall be as in its rise” (Par. XV, 109-111). Decadence had also crept into Florence, transformed into a new Babylon by virtue of “the intermingling of the people” (Babylon is interpreted as “confusio”), due to the arrival, for which the Roman Church was responsible, of people from the countryside who mixed the bloodline, which “pure in the lowest artisan was seen” (Par. XVI, 49-69).
            Beyond the search for causes, the process of decline seems inevitable, as that lamented city belongs to an ancient age. Had not Gioacchino da Fiore (quoted by Olivi in Ap 12, 6) written that the generations of the Old Testament were unstable “ad modum lune crescentis et decrescentis”, and that only in the New Testament would they become stable like the sun? So it is for Florence: “And as the turning of the lunar heaven / covers and bares the shores without a pause, / in the like manner fortune does with Florence” (Par. XVI, 82-84). The woman who “… o’er the cradle kept her studious watch, / and in her lullaby the language used / that first delights the fathers and the mothers, lived in an almost Edenic state of “first grace”; “another, drawing tresses from her distaff, / told o’er among her family the tales / of Trojans and of Fesole and Rome“, also recalled a “first”, now fabulous for those times but which had been true (Par. XV, 121-126). But this beautiful beginning, as happened in Sardis, the fifth church of Asia, originally endowed with the stellar fullness of the gifts of the Spirit, was followed by “condescension” towards the multitudes, a descent that ended in pernicious ruin.
            The supernal city, “that Rome from where Christ is Roman”, is not, like Campanella’s City of the Sun, an ideal city that is completely earthly, perhaps located beyond Taprobane, marking a need for political and religious reform. For Dante, the city descends to earth, and on earth it shatters into a thousand streams. Everyone who lives, pilgrim, on the “threshing-floor that maketh us so ferocious” keeps a piece of it, is its moat, wall, gate, corner or measure, street or house; as a virtual citizen of the “true city”, they contribute to the reconstruction of the building of God or that of Dis.
            The City of the Sun finds its fulfilment in the Empyrean, “into the yellow of the Rose Eternal / that spreads, and multiplies, and breathes an odour / of praise unto the ever-vernal Sun” (Par. XXX, 124-126). In the middle of the city flows the river of light (vv. 61-63; Ap 22, 1-2). There are two banks, designating the divinity and humanity of Christ, who shades and greens them with the sacraments; they have equal dignity, because the living water that laps them (the Spirit) proceeds from a single source (the Trinity). There Dante sees the “great throne” reserved for Henry VII, a prerogative that is more than human (the blessed are flowers, or petals of the “white rose”), because the throne of the judge belongs to the divinity of Christ (vv. 133-138).
            There also takes place the ascent from the east proper to the angel of the sixth seal. This sumptuous exegetical page (Rev 7:2) had been elaborated since the first verses of the poem. The theme of the angel of the sixth seal, “ascendens ab ortu solis”, marks Dante’s ascent to the “Mount Delectable”, “almost where the ascent began”, where the panther prevents him from continuing his journey: the time is “the beginning of the morning” (“in primo suo adventu”, “reascendit usque ad illud mane”); the sun rises (“montava ‘n sù” renders “ascendens”) in the spring sign of Aries, a constellation that was believed to occupy the same position at the moment of creation, “when Love Divine / at first in motion set those beauteous things” (Inf. I, 37-40).
            The “stars”, seven in number, which Christ holds in his right hand, designate the bishops in the Apocalypse (Rev 1:16). They illuminate and preside over the churches like the light of a lamp on the candlestick in the sanctuary. In this sense, it is said that Christ holds seven stars in his right hand because, as supreme king and pontiff, he travels and visits all present and future churches (Rev 2:1). The stars also indicate the Spirit of Christ who, although uncreated and most simple, is divided into seven gifts, corresponding to the seven status or periods of the Church, which are placed in every land (Rev 5:6).
            The church (of the seven churches of Asia to which John writes in the first vision) that par excellence possesses all stellar perfections is the fifth, that of Sardis, assimilated to the Roman See or the Latin Church (Rev 3:1). Its name is interpreted as “beginning of beauty” (“principium pulchritudinis”), since it was beautiful in its beginnings and then became corrupt, and in many places the poet uses its themes to give substance to the longing for an age of innocence and lost beauty. The angel of the sixth seal (according to Olivi, this is Saint Francis) ascends precisely from the Roman Church, which has its seat in the City of the Sun prophesied by Isaiah (Rev 7:2), and the stellar fullness of the fifth church corresponds to the uncreated Spirit, that is, to the fullness of gifts and graces (Rev 3:1).
            In Inf. I, 37-40, the motifs of the fifth church – “dal principio …”, the rhyme “stelle” / “belle” – are combined with those of the angel ascending from the east, describing the springtime and morning, which repeats the primordial morning of creation (they will rhyme again at the end of the first canto: “… . de le cose belle / … a riveder le stelle”). At the end of the journey, the last metamorphosis of the theme of the angel of the sixth seal that rises from the east in the morning (the motif of ascending is omitted, as it has reached its climax) is in the light of the victorious Mary “… as at morn / the oriental part of the horizon / surpasses that wherein the sun goes down” (Par. XXXI, 118-123). Between the two extreme points, the exegesis of Rev 7:2 provides material for further elaboration, including the appearance of Beatrice in Eden (Purg. XXX, 22-30).

Tab. XV.7

Inf. I, 37-40

Temp’ era dal principio del mattino,
e ’l sol montava ’n sù con quelle stelle
ch’eran con lui quando l’amor divino
mosse di prima quelle cose belle 

Par. XXXI, 118-123

Io levai li occhi; e come da mattina
la parte orïental de l’orizzonte
soverchia quella dove ’l sol declina,
così, quasi di valle andando a monte
con li occhi, vidi parte ne lo stremo
vincer di lume tutta l’altra fronte.

[LSA, cap. VII, Ap 7, 2 (IIa visio, apertio VIi sigilli)] Hic ergo angelus est Franciscus, evangelice vite et regule sexto et septimo tempore propagande et magnificande renovator et summus post Christum et eius matrem observator, “ascendens ab ortu solis”, id est ab illa vita quam Christus sol mundi in suo “ortu”, id est in primo suo adventu, attulit nobis. Nam decem umbratiles lineas orologii Acaz Christus in Francisco reascendit usque ad illud mane in quo Christus est ortus (4 Rg 20, 9-11; Is 38, 8). Ascendit etiam “ab ortu solis”, quia sui ascensus in Deum fundamentum et initium cepit a sede romana, que inter quinque patriarchales ecclesias est principaliter sedes et civitas solis, id est Christi et fidei eius, de qua typice dicitur Isaie XIX°: “In die illa erunt quinque civitates in terra Egipti” et cetera, “civitas solis vocabitur una” (Is 19, 18). Ascendit etiam “ab ortu solis”, id est circa initium solaris diei sexte et septime apertionis seu tertii generalis status mundi.

[LSA, cap. III, Ap 3, 1 (Ia visio, Va ecclesia)] Unde et Ricardus dat aliam rationem quare hec ecclesia dicta est “Sardis”, id est principium pulchritudinis, quia scilicet sola initia boni non autem consumationem habuit, et solum nomen sanctitatis potius quam rem. Supra vero fuit alia ratio data. Respectu etiam prave multitudinis tam huius quinte ecclesie quam quinti status, prefert se habere “septem spiritus Dei et septem stellas”, id est fontalem plenitudinem donorum et gratiarum Spiritus Sancti et continentiam omnium sanctorum episcoporum quasi stellarum, tum ut istos de predictorum carentia et de sua opposita immunditia plus confundat, tum ut ad eam rehabendam fortius attrahat.

Par. XI, 43-57

Intra Tupino e l’acqua che discende
del colle eletto dal beato Ubaldo,
fertile costa d’alto monte pende,
onde Perugia sente freddo e caldo
da Porta Sole; e di rietro le piange
per grave giogo Nocera con Gualdo.
Di questa costa, là dov’ ella frange
più sua rattezza, nacque al mondo un sole,
come fa questo talvolta di Gange.
Però chi d’esso loco fa parole,
non dica Ascesi, ché direbbe corto,
ma Orïente, se proprio dir vuole.
Non era ancor molto lontan da l’orto,
ch’el cominciò a far sentir la terra
de la sua gran virtute alcun conforto

Par. XXX, 124-138

Nel giallo de la rosa sempiterna,
che si digrada e dilata e redole
odor di lode al sol che sempre verna,
qual è colui che tace e dicer vole,
mi trasse Bëatrice, e disse: “Mira
quanto è ’l convento de le bianche stole!
Vedi nostra città quant’ ella gira;
vedi li nostri scanni sì ripieni,
che poca gente più ci si disira.
E ’n quel gran seggio a che tu li occhi tieni
per la corona che già v’è sù posta,
prima che tu a queste nozze ceni,
sederà l’alma, che fia giù agosta,
de l’alto Arrigo, ch’a drizzare Italia
verrà in prima ch’ella sia disposta.

Par. XV, 109-111; XVI, 67-88, 91

Non era vinto ancora Montemalo
dal vostro Uccellatoio, che, com’ è vinto
nel montar sù, così sarà nel calo.

Sempre la confusion de le persone
principio fu del mal de la cittade,
come del vostro il cibo che s’appone;
e cieco toro più avaccio cade
che cieco agnello; e molte volte taglia
più e meglio una che le cinque spade.
Se tu riguardi Luni e Orbisaglia
come sono ite, e come se ne vanno
di retro ad esse Chiusi e Sinigaglia,
udir come le schiatte si disfanno
non ti parrà nova cosa né forte,
poscia che le cittadi termine hanno.
Le vostre cose tutte hanno lor morte,
sì come voi; ma celasi in alcuna
che dura molto, e le vite son corte.
E come ’l volger del ciel de la luna
cuopre e discuopre i liti sanza posa,
così fa di Fiorenza la Fortuna:
per che non dee parer mirabil cosa
ciò ch’io dirò de li alti Fiorentini
onde è la fama nel tempo nascosa.
Io vidi li Ughi e vidi i Catellini                           

e vidi così grandi come antichi

[LSA, cap. XII, Ap 12, 6 (IVa visio)] Quare autem quadraginta duas generationes a Christo usque ad tempora ista dicit (Ioachim) esse tricenari<as> ostendit libro II°, dicens quod Novum Testamentum differt a Veteri sicut sol a luna, et ideo generationes Veteris Testamenti ad modum lune crescentis et decrescentis cucurrerunt per dissimiles annos. In Novo autem debuerunt esse stabiles sicut sol, quia Christus est sol iustitie qui regnat in populo christiano.

[LSA, cap. XVIII, Ap 18, 4 (VIa visio)] Semper enim usque ad finem seculi erunt in hoc mundo aliqui babilonici, id est reprobi, a quorum peccatis est recedendum.

[LSA, cap. XIV, Ap 14, 8 (IVa visio)] Ecclesia carnalis ideo vocatur “Babilon” hic et infra XVII° et XVIII° (Ap 17, 5; 18, 2/10/21), et tam ibi quam capitulo XIX° vocatur ‘meretrix magna’ (Ap 17, 1; 19, 2), tum quia ordo virtutum est in ipsa per deordinationem vitiorum enormiter confusus (Babilon enim confusio interpretatur) […]

XVI

 

1. Nobiltà di sangue e dignità di elezione. 1.1. La “signatio” dell’alta milizia [The ‘signatio’ of the high militia]. 2. L’orgoglio fiorentino [Florentine pride]. 3. Monti che fuggono: l’assassinio di Buondelmonte e la “città partita” [Fleeing mountains: the murder of Buondelmonte and the ‘divided city’].

 

Legenda [3]: numero dei versi; 2, 22: collegamento ipertestuale all’esegesi, nella Lectura di Olivi, di capitolo e versetto dell’Apocalisse [Ap]; Not. III: collegamento all’esegesi contenuta nei tredici notabilia del prologo della LecturaVarianti rispetto al testo del Petrocchi.

O poca nostra nobiltà di sangue,
se glorïar di te la gente fai   2, 22
qua giù dove l’affetto nostro langue,   [3]   6, 8

mirabil cosa non mi sarà mai:
ché là dove appetito non si torce,   6, 5
dico nel cielo, io me ne gloriai.   [6]

Ben se’ tu manto che tosto raccorce:   1, 13
sì che, se non s’appon di dì in die,
lo tempo va dintorno con le force.   [9]   22, 18-19

Dal ‘voi’ che prima a Roma s’offerie,   2, 3   sofferie
in che la sua famiglia men persevra,   2, 1.3
ricominciaron le parole mie;   [12]

onde Beatrice, ch’era un poco scevra,
ridendo, parve quella che tossio   1, 16
al primo fallo scritto di Ginevra.   [15]   3, 5

Io cominciai: « Voi siete il padre mio;
voi mi date a parlar tutta baldezza;
voi mi levate sì, ch’i’ son più ch’io.   [18]   4, 2

Per tanti rivi s’empie d’allegrezza
la mente mia, che di sé fa letizia
perché può sostener che non si spezza.   [21]   2, 3

Ditemi dunque, cara mia primizia,
quai fuor li vostri antichi e quai fuor li anni   7, 3-4
che si segnaro in vostra püerizia;   [24]   Not. III, XIII

ditemi de l’ovil di San Giovanni   5, 1; 7, 13
quanto era allora, e chi eran le genti
tra esso degne di più alti scanni ».   [27]   7, 3-4

Come s’avviva a lo spirar d’i venti
carbone in fiamma, così vid’ io quella
luce risplendere a’ miei blandimenti;   [30]   rispondere

e come a li occhi miei si fé più bella,
così con voce più dolce e soave,   11, 19
ma non con questa moderna favella,   [33]

dissemi: « Da quel dì che fu detto ‘Ave’   Not. XII
al parto in che mia madre, ch’è or santa,
s’allevïò di me ond’ era grave,   [36]

al suo Leon cinquecento cinquanta   10, 1.3; Not. XII
e trenta fiate venne questo foco
a rinfiammarsi sotto la sua pianta.   [39]    

Li antichi miei e io nacqui nel loco
dove si truova pria l’ultimo sesto   7, 3
da quei che corre il vostro annüal gioco.   [42]   21, 16

Basti d’i miei maggiori udirne questo:
chi ei si fosser e onde venner quivi,   7, 13
più è tacer che ragionare onesto.   [45]

Tutti color ch’a quel tempo eran ivi
da poter arme tra Marte e ’l Batista,
erano il quinto di quei ch’or son vivi.   [48] Not. XII

Ma la cittadinanza, ch’è or mista   13, 1
di Campi, di Certaldo e di Fegghine,
pura vediesi ne l’ultimo artista.   [51]   14, 10

Oh quanto fora meglio esser vicine
quelle genti ch’io dico, e al Galluzzo
e a Trespiano aver vostro confine,   [54]

che averle dentro e sostener lo puzzo
del villan d’Aguglion, di quel da Signa,
che già per barattare ha l’occhio aguzzo!   [57]

Se la gente ch’al mondo più traligna
non fosse stata a Cesare noverca,
ma come madre a suo figlio benigna,   [60]   5, 1

tal fatto è fiorentino e cambia e merca,
che si sarebbe vòlto a Simifonti,
là dove andava l’avolo a la cerca;   [63]

sariesi Montemurlo ancor de’ Conti;
sarieno i Cerchi nel piover d’Acone,
e forse in Valdigrieve i Buondelmonti.   [66]

Sempre la confusion de le persone   14, 8; 18, 4
principio fu del mal de la cittade,   7, 2
come del vostro il cibo che s’appone;   [69]   22, 18-19

e cieco toro più avaccio cade   18, 4
che cieco agnello; e molte volte taglia
più e meglio una che le cinque spade.   [72]   7, 2

Se tu riguardi Luni e Orbisaglia
come sono ite, e come se ne vanno
di retro ad esse Chiusi e Sinigaglia,   [75]

udir come le schiatte si disfanno
non ti parrà nova cosa né forte,
poscia che le cittadi termine hanno.   [78]

Le vostre cose tutte hanno lor morte,
sì come voi; ma celasi in alcuna
che dura molto, e le vite son corte.   [81]

E come ’l volger del ciel de la luna   12, 6
cuopre e discuopre i liti sanza posa,
così fa di Fiorenza la Fortuna:   [84]   7, 2

per che non dee parer mirabil cosa   17, 6-7
ciò ch’io dirò de li alti Fiorentini   8, 12; Not. XII   altri
onde è la fama nel tempo nascosa.   [87]   3, 1.4-5

Io vidi li Ughi e vidi i Catellini,
Filippi, Greci, Ormanni e Alberichi,
già nel calare, illustri cittadini;   [90]

e vidi così grandi come antichi,
con quel de la Sannella, quel de l’Arca,
e Soldanieri e Ardinghi e Bostichi.   [93]

Sovra la porta ch’al presente è carca
di nova fellonia di tanto peso
che tosto fia iattura de la barca,   [96]

erano i Ravignani, ond’ è disceso   Not. V
il conte Guido e qualunque del nome   3, 1.4-5
de l’alto Bellincione ha poscia preso.   [99]   8, 12

Quel de la Pressa sapeva già come
regger si vuole, e aveva Galigaio
dorata in casa sua già l’elsa e ’l pome.   [102]

Grand’ era già la colonna del Vaio,
Sacchetti, Giuochi, Fifanti e Barucci
e Galli e quei ch’arrossan per lo staio.   [105]

Lo ceppo di che nacquero i Calfucci
era già grande, e già eran tratti
a le curule Sizii e Arrigucci.   [108]

Oh quali io vidi quei che son disfatti
per lor superbia! e le palle de l’oro   5, 1
fiorian Fiorenza in tutt’ i suoi gran fatti.   [111]   Not. XII

Così facieno i padri di coloro
che, sempre che la vostra chiesa vaca,
si fanno grassi stando a consistoro.   [114]

L’oltracotata schiatta che s’indraca   12, 4.6
dietro a chi fugge, e a chi mostra ’l dente
o ver la borsa, com’ agnel si placa,   [117]

già venìa sù, ma di picciola gente;
sì che non piacque ad Ubertin Donato
che poï il suocero il fé lor parente.   [120]

Già era ’l Caponsacco nel mercato
disceso giù da Fiesole, e già era   Not. V
buon cittadino Giuda e Infangato.   [123]

Io dirò cosa incredibile e vera:   10, 5-7
nel picciol cerchio s’entrava per porta
che si nomava da quei de la Pera.   [126]   3, 1.4-5

Ciascun che de la bella insegna porta   7, 3-4
del gran barone il cui nome e ’l cui pregio
la festa di Tommaso riconforta,   [129]

da esso ebbe milizia e privilegio;
avvegna che con popol si rauni
oggi colui che la fascia col fregio.   [132]

Già eran Gualterotti e Importuni;
e ancor saria Borgo più quïeto,
se di novi vicin fosser digiuni.   [135]

La casa di che nacque il vostro fleto,
per lo giusto disdegno che v’ha morti
e puose fine al vostro viver lieto,   [138]   18, 22-23

era onorata, essa e suoi consorti:
o Buondelmonte, quanto mal fuggisti   16, 20
le nozze süe per li altrui conforti!   [141]

Molti sarebber lieti, che son tristi,   18, 22-23
se Dio t’avesse conceduto ad Ema   1, 1
la prima volta ch’a città venisti.   [144]

Ma conveniesi, a quella pietra scema   21, 12
che guarda ’l ponte, che Fiorenza fesse
vittima ne la sua pace postrema.   [147]   3, 12

Con queste genti, e con altre con esse,
vid’ io Fiorenza in sì fatto riposo,   21, 16
che non avea cagione onde piangesse.   [150]   7, 17; 21, 4

Con queste genti vid’ io glorïoso
e giusto il popol suo, tanto che ’l giglio
non era ad asta mai posto a ritroso,
per divisïon fatto vermiglio ».   [154]   16, 19

1. Nobiltà di sangue e dignità di elezione

O poca nostra nobiltà di sangue (v. 1). Tema caro a Dante quello dell’essere nobile non per lignaggio ma per elezione della grazia divina. Fin da quando, commentando Le dolci rime, aveva scritto nel Convivio sulla nobiltà di cui tanta gente erroneamente parla, che è grazia che discende da Dio, “appo cui non è scelta di persone, sì come le divine Scritture manifestano” (IV, xx, 3-6). Allora aveva perfino contestato un’affermazione di Federico II: “domandato che fosse gentilezza, rispuose ch’era antica ricchezza e belli costumi” (IV, iii, 6). Non forse a caso avrebbe poi collocato l’imperatore, in quanto epicureo, insieme a Farinata degli Uberti, il quale, disdegnoso e con le ciglia levate, gli avrebbe domandato quali fossero i suoi “maggior” (Inf. X, 40-42), pregno di una concezione superba della nobiltà per “antico sangue” e “opere leggiadre” che il poeta avrebbe ritrovato, fra i purganti nel primo girone della montagna, in Omberto Aldobrandesco (Purg. XI, 61-66).

 

Convivio, IV, xx, 3-6 [edizione a cura di F. Brambilla Ageno, Firenze 1995 (Le opere di Dante Alighieri. Edizione Nazionale a cura della Società Dantesca Italiana)]

   Poi appresso argomenta per quello che detto è, che nessuno per poter dire: ‘Io sono di cotale schiatta’, non dee credere essere con essa, se questi frutti non sono in lui. E rende incontanente ragione dicendo che quelli che hanno questa «grazia», cioè questa divina cosa, sono «quasi» come «dèi», sanza macula di vizio; e ciò dare non può se non Iddio solo, appo cui non è scelta di persone, sì come le divine Scritture manifestano. E non paia troppo alto dire ad alcuno, quando si dice:

                                                            ch’elli son quasi dèi;

ché, sì come di sopra nel settimo capitolo del terzo trattato si ragiona, così come uomini sono vilissimi e bestiali, così uomini sono nobilissimi e divini; e ciò pruova Aristotile nel settimo dell’Etica per lo testo d’Omero poeta. Sì che non dica quelli delli Uberti di Fiorenza, né quelli delli Visconti da Melano: ‘Perch’io sono di cotale schiatta, io sono nobile’; ché ’l divino seme non cade in ischiatta, cioè in istirpe, ma cade nelle singulari persone; e, sì come di sotto si proverà, la stirpe non fa le singulari persone nobili, ma le singulari persone fanno nobile la stirpe.
    Poi, quando dice:

                                                     ché solo Iddio all’anima la dona,

ragione è del suscettivo, cioè del subietto dove questo divino dono discende: ché bene è divino dono, secondo la parola dell’Apostolo: «Ogni ottimo dato e ogni dono perfetto di suso viene, discendendo dal Padre de’ lumi» (Jc 1, 17).

Non era lontano, quando scriveva citando la Lettera di Giacomo sui doni divini, il tempo dei versi che avrebbero descritto il “nobile castello” del Limbo, dove Dio ha posto, senza “scelta di persone”, i giusti che non hanno peccato. La presenza nel Limbo all’arrivo di Dante di genti giuste, antiche (prima del Cristianesimo) e ‘moderne’ (i maomettani Avicenna, Averroè e il Saladino), come alla discesa di Cristo vi stavano i padri e i profeti dell’Antico Testamento (e anche Catone), che furono di lì strappati e fatti beati, sembra indicare che il processo della Redenzione è ancora aperto e guarda a una nuova età di palingenesi e di conversione universale come a un nuovo avvento di Cristo nel suo Spirito, che nel caso di Dante si realizza nella sua poesia ispirata dall’interno dettatore. Quelle genti giuste videro solo una parte del libro, desiderarono vederlo tutto, e ora, come afferma Virgilio, ‘vivono’ ancora in quel desiderio (Inf. IV, 42). Non a caso sono le sole anime ad avere una ‘vita’ come atto che continua, nell’Inferno in cui l’unica vita possibile è quella del poeta che registra il ricordo delle vite passate.
Ora, di fronte al suo avo, Dante può disdegnare la pochezza della “nobiltà di sangue”. A questa vengono applicati universalmente temi che nell’esegesi sono propri della gente saracena o degli eretici: gloriarsi di ciò che è terreno e carnale (Ap 2, 22), il mortifero languore (“qua giù dove l’affetto nostro langue”, v. 3; Ap 6, 8, motivo proprio della cupida lupa), la falsa interpretazione della Scrittura che “torce” l’appetito (Ap 6, 5). La nobiltà per antica stirpe è “manto”, non però come quello di Cristo sommo pastore, assimilato all’efod sacerdotale istoriato dalle grandi imprese della stirpe  (Ap 1, 13). La gloria terrena viene rosa dal tempo se al manto non si aggiunge stoffa:
“Ben se’ tu manto che tosto raccorce: / sì che, se non s’appon di dì in die, / lo tempo va dintorno con le force” (vv. 7-9; il verbo apponere è usato, ad Ap 22, 18, in senso negativo contro coloro che aggiungono al testo sacro parti che non gli appartengono).

Dal ‘voi’ che prima a Roma sofferie (v. 10). Il tema del sopportare il male con perseveranza, settimo motivo di lode del vescovo di Efeso, il metropolita delle sette chiese d’Asia (Ap 2, 3), si ritrova frammentato in Par. XVI, 10-12, allorché Dante si rivolge a Cacciaguida dandogli del “voi”, un uso del pronome onorifico che Roma tollerò per prima nei confronti di Cesare trionfatore e nel quale oggi persevera meno delle altre città d’Italia. Il contrasto “prima … sofferie / men persevra” può essere ricondotto al tema della “minoratio” della “prima” carità rimproverata in seguito al vescovo di Efeso (Ap 2, 4), intesa nel senso di perdita dell’originaria devozione verso l’imperatore. La vicinanza, nel testo teologico, di “sostenere” e di “perseverare” sembra escludere la lezione del Petrocchi “a Roma s’offerie”, cioè che il “voi” venne offerto in omaggio a Cesare. È da ricordare quanto detto ad Ap 2, 1 dei vescovi (le stelle) soggetti a Cristo (di cui Cesare è in parte figura), i quali debbono temere le sue minacce e i giudizi e rispettare i suoi moniti e precetti, amarlo e sperare in lui serbando ogni sua parola. “Sofferie” esprime la sopportazione di qualcosa per un fine alto e santo, proprio perché si tratta di Cesare e della devozione che la gente di Roma gli deve e che oggi non gli viene più tributata dalla “gente” che dovrebbe “esser devota, / e lasciar seder Cesare in la sella” (Purg. VI, 91-92). Sostenere, nel senso di tollerare la gioia nel trovarsi levato alla gloria del suo antenato, è al verso 21: “perché può sostener che non si spezza”.
Anche Beatrice sembra tollerare il gloriarsi di Dante che pare averla messa in temporaneo oblio: “onde Beatrice, ch’era un poco scevra, / ridendo, parve quella che tossio / al primo fallo scritto di Ginevra” (XVI, 13-15). Il riferimento è alla dama di Malehaut la quale, nel Lancelot du Lac, tossisce per avvisare della propria presenza i due amanti Lancillotto e Ginevra. Le parole fallo scritto rinviano ad Ap 3, 5, dove si parla di quanti vengono infallibilmente scritti o cancellati nel libro della vita. Il ridere di Beatrice, equivalente al tossire della dama, rammenta al poeta lo splendore del volto di Cristo (Ap 1, 16) e che “li occhi belli … i vivi suggelli / d’ogne bellezza più fanno più suso” (cfr. Par. XIV, 130-139).
Al tema della pazienza nel tollerare il male con il cuore in pace (terzo motivo di lode del vescovo di Efeso) fa riferimento l’espressione di Farinata sul parlamento di Empoli, “là dove sofferto / fu per ciascun di tòrre via Fiorenza” (Inf. X, 91-92).

   Ditemi dunque, cara mia primizia,
quai fuor li vostri antichi e quai fuor li anni
che si segnaro in vostra püerizia;
   ditemi de l’ovil di San Giovanni
quanto era allora, e chi eran le genti
tra esso degne di più alti scanni. (vv. 22-27)

L’incidenza dei temi da Ap 7, 13 nei quesiti rivolti da Dante a Cacciaguida, è stata esaminata altrove. Fra i motivi della chiusura dei sigilli connessi alla passione di Cristo, la quale per sette motivi appare abietta all’umana prudenza, il sesto è l’apparente inimicizia per la quale Dio ha voluto che il suo unico figlio patisse tanto, e che non ci fosse altro modo per riconciliarsi con l’uomo. Contro l’apparente inimicizia sta, nella sesta apertura, lo smisurato e singolare ardore di carità nella riconciliazione con cui le dodici tribù di Israele vengono segnate all’alta e gloriosa milizia di Cristo, in modo che sia manifesto che esse appartengono alla singolare famiglia e al domestico gregge delle pecore di Cristo, e nell’essere tutte le nazioni condotte al trono e al tempio di Dio che abita in esse, e nella familiarità dell’Agnello, per cui si dice che “l’Agnello che sta in mezzo al trono li guiderà e li condurrà alle fonti della vita” (Ap 7, 17; cfr. l’esegesi proposta ad Ap 5, 1). Ad Ap 7, 13 è riportata l’opinione di Gioacchino da Fiore, per cui Giovanni, l’autore del libro, è in realtà il seniore che ‘risponde’, cioè parla. Questa esegesi teologica arma la definizione di Firenze “ovil di San Giovanni” (Par. XVI, 25). All’inciso “unus de senioribus” rinviano, in contesti che registrano altri temi della medesima rosa semantica, anche Carlo Martello (Par. VIII, 31, 85-86: “Indi si fece l’un più presso a noi … Però ch’i’ credo che l’alta letizia / che ’l tuo parlar m’infonde, segnor mio”) e san Bernardo (Par. XXXI, 59: “e vidi un sene …”).

1.1. La “signatio” dell’alta milizia

Il De vulgari eloquentia (II, iv, 10-11), trattando dello stile tragico espresso per mezzo della canzone, paragona i poeti capaci di levarsi al sommo degli stili a coloro che Virgilio nel sesto dell’Eneide definisce “Dei dilectos”, i quali sono innalzati al cielo per ardente virtù (Aen., VI, 129-131), designati, secondo Dante, dall’“astripeta aquila”. Questi “figli degli dèi” formano nel Limbo “la bella scola” di cui Omero è “poeta sovrano” e “segnor de l’altissimo canto / che sovra li altri com’ aquila vola” (Inf. IV, 88, 94-96). Dove però, con Orazio, Ovidio e Lucano rappresentano tutti gli stili.
Anche nella Lectura si parla degli “amici di Dio”: sono i ‘segnati’ all’apertura del sesto sigillo (Ap 7, 3-4). L’angelo del sesto sigillo, che sale da oriente, rimuove l’impedimento opposto da quattro angeli nocivi, e permette la “signatio”. L’impressione del segno avviene in fronte, allorché ai segnati è data la costante e magnanima libertà di confessare pubblicamente la fede di Cristo e di osservarla, predicarla e difenderla. In fronte si mostra infatti il segno dell’audacia e della strenuità o della pusillanimità e dell’inerzia, della gloria o della vergogna.
Come nell’esercito del medesimo re i cavalieri sono distinti dai fanti, i baroni o condottieri, i centurioni e i decurioni dai semplici soldati, così qui sono distinti i segnati provenienti dalle dodici tribù d’Israele rispetto all’innumerevole moltitudine dei fedeli che segue. I segnati vengono assunti alla professione della perfezione evangelica, di una più alta milizia cristiana; il segno comporta una loro maggiore configurazione e trasformazione nella passione di Cristo. Questo della sesta apertura, secondo Gioacchino da Fiore, è un momento di consumazione, come quando, dopo il ritorno di Israele da Babilonia, quanto mancava alla costruzione del Tempio, compiuta in quarantasei anni, venne finito negli ultimi sei anni. Nel giorno intermedio tra le due tribolazioni, quella della caduta di Babylon e quella dell’Anticristo, saranno segnati molti Giudei e Gentili (Greci e Latini) col sigillo della Trinità.
Con il numero dei segnati, certo e definito – 144.000 – viene designata la loro singolare dignità. Quanti infatti sono ascritti dai re alla loro milizia, curia, grandezze, doni, con un nome preciso, numero e scrittura, sono più degni degli altri che sono compresi nella volgare e pedestre milizia o famiglia senza scrittura e numero. Così Dio in segno di familiarissima amicizia dice a Mosè nell’Esodo : “Ti ho conosciuto per nome” (Es 33, 17), per quanto conosca comunemente tutti i suoi eletti come amici e solo dei reprobi si dica che non sono conosciuti. Così, con questa speciale e determinata numerazione e consegna, è designata la più familiare “signatio”, conoscenza, notizia, amicizia presso Dio.

 

Il tema della distinzione nella milizia viene appropriato, nella rassegna fatta da Cacciaguida degli “alti fiorentini”, a tutte le famiglie (i Nerli, i Giandonati, i Gangalandi, i Pulci, gli Alepri e i della Bella) le quali portano la bella insegna “del gran barone il cui nome e ’l cui pregio / la festa di Tommaso riconforta”, cioè del marchese Ugo di Toscana, morto nel 1001 e ricordato ogni anno a Firenze il giorno di san Tommaso. Costoro, che da Ugo ebbero “milizia e privilegio”, si contrappongono, nelle parole dell’avo di Dante, a Giano della Bella, l’autore dei famosi Ordinamenti di giustizia (1293) anch’egli insignito di quella bella insegna (la quale “fascia col fregio”), ma che oggi si raduna col popolo, corrispondente alla volgare e pedestre milizia che viene dopo i segnati (Par. XVI, 127-132). L’armatura teologica di queste due terzine, che dà alla contrapposizione tra magnati e popolani un significato spirituale, è suggello a quanto scriveva Raoul Manselli, che “nella dimensione della storia del nostro Medio Evo europeo, il piano religioso è della stessa importanza concretamente storica del piano politico” [1]. Ma questo diffondere sulla vita cittadina concetti dottrinali appartenenti di per sé alla storia della Chiesa è anche un segno che “il miles Christi si dissociava in cittadino e fedele: era la fine della grande esperienza medioevale” [2].
Non è estraneo a questi significati il fatto che Cacciaguida milite terreno e martire, figura in cui la Firenze antica, “così bello viver di cittadini”, raggiunge il suo compimento prima di decadere, dica che lui e i suoi antenati nacquero nel sestiere di Porta San Piero, “l’ultimo sesto” per coloro che corrono il palio di san Giovanni, che pare corrispondere ai sei ultimi anni in cui venne completato il Tempio dopo il ritorno da Babilonia, secondo la citazione di Gioacchino da Fiore (Par. XVI, 40-42). E se quello di san Piero è “l’ultimo sesto” di “Fiorenza dentro da la cerchia antica”, non sarà poi casuale che san Pietro sia “quel baron che sì di ramo in ramo, / essaminando, già tratto m’avea, / che a l’ultime fronde appressavamo” (Par. XXIV, 115-117). Anche il correre il palio ha una sua fasciatura spirituale. Ad Ap 21, 16 si tratta della misura della città celeste, che è di 12.000 stadi. Lo stadio è lo spazio al cui termine si sosta o si posa per respirare e lungo il quale si corre per conseguire il premio. Esso designa il percorso del merito che ottiene il premio in modo trionfale, secondo quanto scrive san Paolo ai Corinzi: “Non sapete che tutti corrono nello stadio, ma di costoro uno solo prende il premio?” (1 Cor 9, 24). Si constata d’altronde come la Firenze rimpianta dall’avo di Dante sia fasciata da temi che nella Lectura designano uno stato bello, poi corrottosi (nell’esegesi della quinta chiesa d’Asia, Sardi), ed anche tratti dalla settima visione (la Gerusalemme celeste).

L’esegesi della signatio tocca molti luoghi del poema, trattati estesamente altrove. Qui di seguito si registrano alcune variazioni elaborate nel Paradiso.

■ La “signatio” apostolica di Dante avviene negli esami sostenuti sulla fede e sulla speranza di fronte a Pietro e Giacomo nell’ottavo cielo. Nel caso di san Pietro la rosa dei motivi che costellano la signatio appare evidente: Dante (Par. XXIV, 58-60) confessa la propria fede (“ad Christi fidem publice confitendam”), per grazia (l’angelo del sesto sigillo rimuove l’impedimento alla grazia), all’“alto primipilo” (la signatio è “specialis assumptio […] ad professionem perfectionis evangelice et altioris militie christiane”; il primipilo, presso i Romani, era colui che portava il segno e scagliava la prima lancia). Terminato l’esame, Dante esprime la speranza di ritornare in patria e di essere incoronato poeta: “con altra voce omai, con altro vello / ritornerò poeta, e in sul fonte / del mio battesmo prenderò ’l cappello; / però che ne la fede, che fa conte / l’anime a Dio (“conte”, cioè note; cfr. la “notitia apud Deum” per cui si è segnati), quivi intra’ io, e poi / Pietro per lei sì mi girò la fronte (la “signatio” avviene sulla fronte)”, cioè approvò la professione di fede fatta girandomi attorno tre volte, come descritto alla fine del canto precedente (Par. XXV, 7-12).
Dante, che ‘leva la fronte’ nella luce di san Pietro che gli domanda della fede (Par. XXIV, 52-54), che ‘affronta’ per grazia da vivo il sommo Imperatore “ne l’aula più secreta co’ suoi conti” (cioè con quelli che sono a lui noti: Par. XXV, 40-42), è nella Chiesa militante colui che ha più speranza e scrittura, nel senso di privilegio (“com’ è scritto / nel Sol che raggia tutto nostro stuolo”: vv. 52-54). San Giacomo – definito appunto “barone” (v. 17; come san Pietro, Par. XXIV, 115) – è lume che muove “di quella spera ond’ uscì la primizia / che lasciò Cristo d’i vicari suoi”, dove la variante schiera, largamente attestata, sarebbe preferibile perché suggerita dalla rosa dei motivi, riferiti alla milizia terrena, offerti dall’esegesi scritturale e applicati non solo a Dante, ma anche ai suoi apostolici esaminatori (Par. XXV, 13-15). Ancora, dovendo dire “quello che la speranza ti ’mpromette”, il poeta afferma che il Nuovo e il Vecchio Testamento “pongon lo segno, ed esso lo mi addita, / de l’anime che Dio s’ha fatte amiche” (vv. 88-90: si tratta del segno che rende note le anime beate “sub certo nomine … et scriptura”). Dopo Giacomo viene il ‘segnato’ per eccellenza, cioè san Giovanni: “questi fue / di su la croce al grande officio eletto” (vv. 112-114).

Nel cielo del Sole, Bonaventura utilizza il tema dei ‘segnati’ introducendo la narrazione della vita di san Domenico. “L’essercito di Cristo, che sì caro / costò a rïarmar”, afferma il maestro dell’Olivi, “dietro a la ’nsegna / si movea tardo, sospeccioso e raro”. Dio provvide pertanto alla milizia, che era in forse, con i due campioni Domenico e Francesco (Par. XII, 37-45). Bonaventura ripete quello che Olivi scrive (Ap 7, 3) dello spirito che, negli uomini evangelici “tepefactus et quasi extinctus seu consopitus”, deve essere suscitato e riacceso per poter essere disposto e spinto a sostenere e vincere le fortissime tentazioni che insorgeranno con l’Anticristo. Tra gli spiriti sapienti della ghirlanda in cui parla san Bonaventura sono Illuminato da Rieti e Augustino d’Assisi, fra i primi seguaci di Francesco, che nel capestro della regola si fecero amici di Dio. C’è anche Pietro Ispano (papa nel 1276 come Giovanni XXI), autore delle Summulae logicales che nel mondo rilucono in dodici libelli: il dodici fa parte della tematica dei segnati, provenendo questi dalle dodici tribù d’Israele ed essendo il loro numero 144.000, ossia dodici volte dodicimila (Par. XII, 130-135).

Nel Paradiso, questi temi ‘militari’ che segnano gli eletti al martirio sono ancora nelle parole del poeta che prega la mente divina e la “milizia del ciel”, apparsagli nel cielo di Giove a formare un’aquila, perché l’ira divina colpisca un’altra volta i profanatori “del  comperare e vender dentro al templo / che si murò di segni e di martìri” (Par. XVIII, 121-126). Oppure in fine del discorso di Folchetto di Marsiglia (Par. IX, 139-142), che dice di “Vaticano e l’altre parti elette / di Roma che son state cimitero / a la milizia che Pietro seguette”. Esse “tosto libere fien de l’avoltero”, cioè  dalla Chiesa carnale (ai segnati è data appunto la “libertas” che difende pubblicamente la fede).

[1] Cfr. R. MANSELLI, La politica religiosa di Federico III d’Aragona, in IDEM, Scritti sul Medioevo, Roma 1994 (Università di Roma «La Sapienza». Dipartimento di studi sulle società e le culture del medioevo), pp. 471-481: 481 (il testo risale al 1976), ripubblicato in IDEM, Da Gioacchino da Fiore a Cristoforo Colombo. Studi sul francescanesimo spirituale, sull’ecclesiologia e sull’escatologisno bassomedievali, introduzione e cura di P. Vian, Roma 1997 (Istituto Storico Italiano per il Medio Evo. Nuovi Studi Storici, 36), pp. 445-453: 453.

[2] A. FRUGONI, La Roma di Dante, tra il tempo e l’eterno, in ID., Pellegrini a Roma nel 1300. Cronache del primo Giubileo, presentazione di C. Frugoni, a cura e con Introduzione di F. Accrocca, Casale Monferrato 1999, p. 50.

1.1. The ‘signatio’ of the high militia

            The De vulgari eloquentia (II, iv, 10-11), discussing the tragic style expressed through the canzone, compares poets capable of rising to the heights of style to those whom Virgil, in the sixth book of the Aeneid, defines as ‘Dei dilectos’, who are raised to heaven for their ardent virtue (Aen., VI, 129-131), designated, according to Dante, by the “astripeta aquila”. These “sons of the gods” form in Limbo “the beautiful school” of which Homer is “sovereign poet” and “lord of the song pre-eminent, / who o’er the others like an eagle soars” (Inf. IV, 88, 94-96). However, with Horace, Ovid and Lucan, are represented all styles.
            The Lectura also speaks of the ‘friends of God’: they are the “marked” at the opening of the sixth seal (Rev 7:3-4). The angel of the sixth seal, rising from the east, removes the impediment opposed by four harmful angels and allows the ‘signatio’. The sign is imprinted on the forehead, when the marked are given the constant and magnanimous freedom to publicly confess their faith in Christ and to observe, preach and defend it. The forehead shows the sign of boldness and strenuousness or of pusillanimity and inertia, of glory or shame.
            Just as in the army of the same king, knights are distinguished from foot soldiers, barons or commanders, centurions and decurions from ordinary soldiers, so here the marked  from the twelve tribes of Israel are distinguished from the countless multitude of faithful who follow. The marked ones are taken up into the profession of evangelical perfection, of a higher Christian militia; the mark entails their greater configuration and transformation into the passion of Christ. This sixth opening, according to Joachim of Fiore, is a moment of consummation, as when, after Israel’s return from Babylon, what was missing from the construction of the temple, completed in forty-six years, was finished in the last six years. On the day between the two tribulations, that of the fall of Babylon and that of the Antichrist, many Jews and Gentiles (Greeks and Latins) will be marked with the seal of the Trinity.
            The number of those marked, certain and definite – 144,000 – designates their unique dignity. For those who are enrolled by kings in their military, curia, greatness, gifts, with a precise name, number and writing, are more worthy than others who are included in the vulgar and pedestrian military or family without writing and number. Thus God, as a sign of very familiar friendship, says to Moses in Exodus: “I have known you by name” (Ex 33:17), even though he commonly knows all his elect as friends and only the reprobate are said to be unknown. Thus, with this special and specific numbering and delivery, the most familiar “signatio”, knowledge, news, friendship with God is designated.

 

The theme of distinction in the militia is appropriated, in Cacciaguida’s review of the Florentine nobility, to all the families (the Nerli, the Giandonati, the Gangalandi, the Pulci, the Alepri and the della Bella) who bear the “beautiful ensign … / of the great baron whose renown and name /  the fest of Thomas keepeth fresh“, that is, of Marquis Ugo di Toscana, who died in Florence on St Thomas’s Day in 1001. These people, who received “knighthood and privilege” from Ugo, are contrasted, in the words of Dante’s ancestor, with Giano della Bella, the author of the famous against Magnates Ordinamenti di giustizia (1293), who was also awarded that “beautiful ensign” (red on a white field, “who binds it with a border”) but who today gathers with the people, corresponding to the vulgar and pedestrian militia that comes after the signati (Par. XVI, 127-132). The theological armour of these two tercets, which gives the contrast between magnati and popolani a spiritual meaning, seals what Raoul Manselli wrote, that “in the dimension of the history of our European Middle Ages, the religious plane is of the same concrete historical importance as the political plane” [1]. But this spreading of doctrinal concepts belonging to the history of the Church onto city life is also a sign that “the miles Christi was dissociating itself from the citizen and the faithful: it was the end of the great medieval experience” [2].
                Not unrelated to these meanings is the fact that Cacciaguida, a knight and martyr, a figure in whom ancient Florence, “such a beautiful / life of the citizen”, reaches its fulfilment before its decline, says that he and his ancestors were born in the district of Porta San Piero, “the last ward (sesto) of the city” for those who run the Palio di San Giovanni, which seems to correspond to the last six years in which the Temple of Jerusalem was completed after the return from Babylon, according to the quotation from Gioacchino da Fiore (Par. XVI, 40-42). And if San Piero is “the last sesto” of “Fiorenza dentro da la cerchia antica” (Florence within the ancient boundary), it is no coincidence that St Peter is “that Baron, who from branch to branch, / examining, had thus conducted me, / till the last leaves we were approaching” (Par. XXIV, 115-117). Even running the palio has its spiritual significance. In Rev 21:16, we read of the measurement of the heavenly city, which is 12,000 stadia. The stadium is the space at the end of which one stops or rests to catch one’s breath and along which one runs to achieve the prize. It designates the path of merit that triumphantly obtains the prize, according to what St Paul writes to the Corinthians: “Do you not know that in a race all the runners run, but only one receives the prize?” (1 Cor 9:24). It can also be seen how the Florence mourned by Dante’s ancestor is interwoven with themes that in the Lectura designate a beautiful state, which then became corrupt (in the exegesis of the fifth church of Asia, Sardis), and also drawn from the seventh vision (the heavenly Jerusalem).

             The exegesis of the signatio touches on many parts of the poem, which are discussed at length elsewhere. Below are some variations elaborated on in Paradiso.

            ■ Dante’s apostolic “signatio” takes place in the examinations of faith and hope before Peter and James in the eighth heaven. In the case of St Peter, the themes of the signatio are clear: Dante (Par. XXIV, 58-60) confesses his faith (“ad Christi fidem publice confitendam”), by grace (the angel of the sixth seal removes the impediment to grace), to the “high primipilo” (the signatio is “specialis assumptio […] ad professionem perfectionis evangelice et altioris militie christiane”; the primipilo, among the Romans, was the one who carried the sign and threw the first spear). Once the examination is over, Dante expresses his hope of returning to his homeland and being crowned a poet: “With other voice forthwith, with other fleece / poet will I return, and at my font / baptismal will I take the laurel crown; / because into the Faith that maketh known / all souls to God (“conte”, i.e. known; cf. the “notitia apud Deum” by which one is marked) there entered I, and then / Peter for her sake thus my brow encircled (the “signatio” takes place on the forehead), that is, he approved the profession of faith by turning around me three times, as described at the end of the previous canto (Par. XXV, 7-12).
            Dante, who ‘raised his brow’ in the light of St. Peter who asks him about his faith (Par. XXIV, 52-54), who ‘faces’ by grace while alive the supreme Emperor “in the most secret chamber, with his Counts” (i.e. with those who are known to him: Par. XXV, 40-42), is the one in the militant Church who has the most hope and scripture, in the sense of privilege (“as is written / in that Sun which irradiates all our band”: vv. 52-54). St James – defined precisely as “Baron” (v. 17; like St Peter, Par. XXIV, 115) – is the light that moves “0ut of that band (spera) whence issued the first-fruits / which of his vicars Christ behind him left”, where the variant schiera (array), widely attested, would be preferable because it is suggested by the range of motifs, referring to earthly militancy, offered by scriptural exegesis and applied not only to Dante but also to his apostolic examiners (Par. XXV, 13-15). Again, having to say “whatever things Hope promises to thee”, the poet states that the New and Old Testaments “the mark establish, and this shows it me, / of all the souls whom God hath made his friends” (vv. 88-90: this is the sign that makes the blessed souls known “sub certo nomine … et scriptura”). After James comes the “marked” one par excellence, namely St John: “he / to the great office from the cross elected” (vv. 112-114).

            ■ In the heaven of the Sun, Bonaventure uses the theme of the ‘marked ones’ to introduce the narration of the life of St Dominic. “The soldiery of Christ, which it had cost / So dear to arm again, says the master of Olivi, “behind the standard / moved slow and doubtful and in numbers few. God therefore provided for the militia, which was in doubt, with the two champions Dominic and Francis (Par. XII, 37-45). Bonaventure repeats what Olivi writes (Ap 7:3) about the spirit which, in evangelical men “tepefactus et quasi extinctus seu consopitus”, must be aroused and rekindled in order to be willing and driven to withstand and overcome the very strong temptations that will arise with the Antichrist. Among the wise spirits of the garland mentioned by St Bonaventure are Illuminato da Rieti and Augustine of Assisi, two of Francis’ first followers, who became friends of God in the yoke of the rule. There is also Pietro Ispano (pope in 1276 as John XXI), author of the Summulae logicales, which shine in the world in twelve libelli: the number twelve is part of the theme of the marked, as they come from the twelve tribes of Israel and their number is 144,000, that is, twelve times twelve thousand (Par. XII, 130-135).

            ■ In Paradiso, these military themes that mark those chosen for martyrdom are still present in the words of the poet who prays to the divine mind and the “soldiery of heaven”, which appeared to him in the heaven of Jupiter to form an eagle, so that divine wrath may strike once again the profaners, “those who would buy and sell within the temple / whose walls were built with signs and martyrdoms” (Par. XVIII, 121-126). Or at the end of Folchetto di Marsiglia’s speech (Par. IX, 139-142), who speaks of “Vatican and the other parts elect / of Rome, which have a cemetery been / unto the soldiery that followed Peter”. They “shall soon be free from this adultery, that is, from the carnal Church (the marked ones are given the ‘libertas’ that publicly defends the faith).

 

Tab. XVI.1

[LSA, cap. VII, Ap 7, 3 (IIa visio, apertio VIi sigilli)] Clamat ergo (Ap 7, 3): “Nolite”, id est non audeatis; vel si ad bonos angelos loquitur, dicit “nolite” quia, ex quo ipse prohibuit, non debuerunt velle; “nocere”, scilicet per effrenatam temptationem vel per predicationis et gratie impeditionem, “terre et mari neque arboribus, quoadusque signemus servos Dei nostri in frontibus eorum”.
Signatio hec fit per administrationem fidei et caritatis et per assumptionem ac professionem sacramentorum Christi distinctivam fidelium ab infidelibus. In hac etiam signatione includitur fides et devotio ad Christi passionem adorandam et imitandam et exaltandam. Fit autemin frontibus”, quando signatis datur constans et magnanimis libertas ad Christi fidem publice confitendam et observandam et predicandam et defendendam. In fronte enim apparet signum audacie et strenuitatis vel formidolositatis et inhertie, et signum gloriationis vel erubescentie.
Item prout in eodem exercitu eiusdem regis distinguuntur equites a peditibus et barones seu duces vel centuriones et decuriones a simplicibus militibus, sic videntur hic distingui signati ex duodecim tribubus a turba innumerabili fidelium post ipsos subiuncta. Designatur enim per hanc signationem specialis assumptio ipsorum ad professionem perfectionis evangelice et altioris militie christiane et ad maiorem configurationem et transformationem ipsorum in Christum crucifixum et, secundum Ioachim, ad passionem martiriorum in eis complendam. Sicut enim post transmigrationem Babilonis, quod deerat in constructione templi, in quadraginta sex annis facta, completum est in sex ultimis annis, ita nunc sub sexta apertione ordo sanctorum martirum consumationem accipiet. Unde in die illo qui <erit> medius inter utramque tribulationem, scilicet Babilonis et Antichristi, signabuntur multi Iudeorum et gentium signaculo sancte Trinitatis, ad complendum numerum sanctorum martirum infra scriptum et illam gloriosam multitudinem cuius est numerus infinitus. Hec Ioachim*.

[Ap 7, 4] Igitur per hunc numerum, prout est certus et diffinitus, designatur singularis dignitas signatorum. Hii enim, qui sub certo nomine et numero et scriptura a regibus ad suam militiam vel curiam aut ad sua grandia vel dona ascribuntur, sunt digniores ceteris, qui absque scriptura et numero ad vulgarem et pedestrem militiam vel familiam eliguntur. Sicut etiam Deus, in signum familiarissime notitie  et amicitie, Exodi XXXIII° (Ex 33, 17) dicit Moysi: “Novi te ex nomine”, cum tamen omnes electos suos communiter noverit ut amicos et hoc modo solos reprobos dicatur nescire, sic per hanc specialem et prefixam numerationem et consignationem designatur familiarior signatio et notitia et amicitia apud Deum.

* Expositio, pars II, f. 121ra-b.

Par. XXIV, 52-60, 115-117

“Dì, buon Cristiano, fatti manifesto:
 fede che è?”. Ond’ io levai la fronte
 in quella luce onde spirava questo;

poi mi volsi a Beatrice, ed essa pronte
sembianze femmi perch’ ïo spandessi
l’acqua di fuor del mio interno fonte.
“La Grazia che mi dà  ch’io mi confessi”,
comincia’ io, “da l’alto primipilo,
faccia li miei concetti bene espressi”.

E quel baron che sì di ramo in ramo,
essaminando, già tratto m’avea,
che a l’ultime fronde appressavamo

Par. XXV, 10-18, 40-42, 52-57, 88-90, 112-114

però che ne la fede, che fa conte
 l’anime a Dio, quivi intra’ io, e poi

Pietro per lei sì mi girò la fronte.
Indi si mosse un lume verso noi 
 di quella spera ond’ uscì la primizia   schiera

che lasciò Cristo d’i vicari suoi;
e la mia donna, piena di letizia,
mi disse: “Mira, mira: ecco il barone
 per cui là giù si vicita Galizia”.

“Poi che per grazia vuol che tu t’affronti
 lo nostro Imperadore, anzi la morte,

ne l’aula più secreta co’ suoi conti ” ……

“La Chiesa militante alcun figliuolo
non ha con più speranza, com’ è scritto
 nel Sol che raggia tutto nostro stuolo:

però li è conceduto che d’Egitto
vegna in Ierusalemme per vedere,
anzi che l militar li sia prescritto”.

E io: “Le nove e le scritture antiche
pongon lo segno, ed esso lo mi addita,
de l’anime che Dio s’ha fatte amiche”.

“Questi è colui che giacque sopra ’l petto
del nostro pellicano, e questi fue
di su la croce al grande officio eletto”.

Par. IX, 139-142

Ma Vaticano e l’altre parti elette
 di Roma che son state cimitero

a la milizia che Pietro seguette,
tosto libere fien de l’avoltero.

Inf. XXXIII, 31-33

Con cagne magre, studïose e conte
 Gualandi con Sismondi e con Lanfranchi

s’avea messi dinanzi da la fronte.

Par. VI, 100-105

L’uno al pubblico segno i gigli gialli
oppone, e l’altro appropria quello a parte,
sì ch’è forte a veder chi più si falli.
Faccian li Ghibellin, faccian lor arte
 sott’ altro segno, ché mal segue quello
sempre chi la giustizia e lui diparte

Par. XVIII, 121-126

sì ch’un’altra fïata omai s’adiri
del comperare e vender dentro al templo
 che si murò di segni e di martìri.

O milizia del ciel cu’ io contemplo,
adora per color che sono in terra
tutti svïati dietro al malo essemplo!

 

Par. XV, 139-141, 148; XVI, 22-27, 40-42, 127-132, 148-150

Poi seguitai lo ’mperador Currado;
ed el mi cinse de la sua milizia,
tanto per bene ovrar li venni in grado.

e venni dal martiro a questa pace.

Ditemi dunque, cara mia primizia,
quai fuor li vostri antichi e quai fuor li anni
 che si segnaro in vostra püerizia;

ditemi de l’ovil di San Giovanni
quanto era allora, e chi eran le genti
tra esso degne di più alti scanni.

Li antichi miei e io nacqui nel loco
dove si truova pria l’ultimo sesto
 da quei che corre il vostro annüal gioco.

Ciascun che de la bella insegna porta
del gran barone il cui nome e ’l cui pregio
la festa di Tommaso riconforta,
da esso ebbe milizia e privilegio;
avvegna che con popol si rauni
oggi colui che la fascia col fregio.

Con queste genti, e con altre con esse,
vid’ io Fiorenza in sì fatto riposo,
che non avea cagione onde piangesse.

[LSA, cap. XXI, Ap 21, 16 (VIIa visio)] “Et civitas in quadro posita est”, id est habens quattuor latera muri sub figura quadranguli iuncta, per quod designatur solida quadratura virtutum. […] “Et mensus est civitatem Dei cum arundine per stadia duodecim milia” (Ap 21, 16). Stadium est spatium in cuius termino statur vel pro respirando pausatur, et per quod curritur ut bravium acquiratur, secundum illud Apostoli Ia ad Corinthios, capitulo IX°: “Nescitis quod hii, qui in stadio currunt, omnes quidem currunt, sed unus accipit bravium?” (1 Cor 9, 24), et ideo significat iter meriti triumphaliter obtinentis premium. Cui et congruit quod stadium est octava pars miliarii, unde designat octavam resurrectionis. Octava autem pars miliarii, id est mille passuum, sunt centum viginti quinque passus, qui faciunt duodecies decem et ultra hoc quinque; in quo designatur status continens perfectionem apostolicam habundanter implentem decalogum legis, et ultra hoc plenitudinem quinque spiritualium sensuum et quinque patriarchalium ecclesiarum.

Par. XI, 118-120

Pensa oramai qual fu colui che degno
 collega fu a mantener la barca

di Pietro in alto mar per dritto segno

Par. XII, 37-42, 130-135

L’essercito di Cristo, che sì caro
costò a rïarmar, dietro a la ’nsegna
 si movea tardo, sospeccioso e raro,

quando lo ’mperador che sempre regna
provide a lmilizia, ch’era in forse,
per sola grazia, non per esser degna

Illuminato e Augustin son quici,
che fuor de’ primi scalzi poverelli
che nel capestro a Dio si fero amici.
Ugo da San Vittore è qui con elli,
e Pietro Mangiadore e Pietro Spano,
lo qual giù luce in dodici libelli

[Ap 7, 3] Ex predictis autem patent alique rationes quare ante temporale exterminium nove Babilonis sit veritas evangelice vite a reprobis sollempniter impugnanda et condempnanda, et e contra a spiritalibus suscitandis ferventius defendenda et observanda et attentius et clarius intelligenda et predicanda, ut merito ibi sit quoddam sollempne initium sexte apertionis. Quamvis autem a pluribus fide dignis audiverim sanctum patrem nostrum Franciscum hanc temptationem pluries predixisse, et etiam quod per eius status professores esset malignius et principalius exercenda, nichilominus quasdam rationes breviter subinsinuo. […] Tertio ut spiritus in viris evangelicis tepefactus et quasi extinctus seu consopitus suscitetur et fortissime accendatur, et per hoc disponantur et etiam promereantur ad potenter sustinendum et triumphaliter devincendum subsequentem temptationem sub magno Antichristo venturam. Quarto quia expedit veritatem evangelice vite et regule per concertationem validam prius clarificari et exaltari ante magni Antichristi adventum, quia aliter non posset sibi triumphaliter resistere nec esset dare tunc plures perfectos Christi milites ab ipso martirizandos.

2. L’orgoglio fiorentino

Il primo difetto che rende chiuso il quarto sigillo (ad Ap 5, 1) è il superbo essere indomito della nostra libertà: nella quarta apertura la morte che siede sul cavallo pallido (Ap 6, 8), cioè sulla carne già morta e impallidita (i Saraceni), domò e infranse la superba libertà delle chiese orientali che non vollero sottoporsi alla sede e alla fede di Pietro. E certo, afferma Olivi, nulla è più adatto ad infrangere la superbia del nostro potere quanto l’assidua considerazione ed esperienza della fragilità umana e della morte. Per spuntare la superbia umana è infatti detto nell’Ecclesiastico: “A che insuperbisci, terra e cenere?” (Ecli 10, 9) e: “In tutte le tue opere ricordati della tua fine, e non cadrai mai nel peccato” (Ecli 7, 40).
I temi della superbia domata e della considerazione della morte sono appropriati, nella descrizione dell’ultima bolgia, ai Troiani – la cui “altezza … che tutto ardiva” (motivo dell’ardua e alta vita degli anacoreti del quarto stato, distrutta in oriente dai Saraceni) fu volta in basso dalla fortuna, – e a Ecuba, che “forsennata latrò sì come cane”, dopo che si fu accorta dei propri figli morti (Inf. XXX, 13-21). Variazioni dei motivi (la superbia domata, l’esperienza della morte) si registrano in Capaneo (Inf. XIV, 63-64; da notare, al v. 90, “ammorta”, appropriato al Flegetonte, i cui vapori estinguono le falde della pioggia infuocata, salvando i “duri margini” sui quali passano i due poeti), in Fialte (Inf. XXXI, 91-93), in Omberto Aldobrandesco (Purg. XI, 52-54; “doma” è hapax), nelle parole di Beatrice e Pier Damiani nel cielo di Saturno (Par. XXI, 6, 11, 61).
Ecuba è “trista, misera e cattiva”, una troiana furia paragonata ai rabbiosi falsatori di persona (Inf. XXX, 16). I ‘cattivi’ sono i prigionieri fatti dai Saraceni, secondo l’esegesi dell’apertura del quarto sigillo (Ap 6, 8), in cui il cavallo pallido (la morte) designa Maometto e la sua setta, secondo l’interpretazione di Gioacchino da Fiore seguita da Olivi. Da quando i Saraceni hanno iniziato a devastare la Chiesa non si è mai letto o ascoltato di miracoli fatti dai fedeli uccisi o resi schiavi, né che fosse stato dato il verbo della predicazione per convertire a Cristo gli infedeli e vivificarli o per confermare nella vita della fede i fedeli, ché anzi la maggior parte dei finiti in cattività è convolata alla setta mortifera. Tra i Saraceni non accade – e ciò da più di seicento anni – quanto era avvenuto con i pagani e gli eretici, fra i quali si moltiplicavano i fedeli e molti venivano convertiti alla fede (cfr. le espressioni come “cattivo coro”, “setta d’i cattivi” a Inf. III, 37, 62, riferite rispettivamente agli angeli neutrali e ai pusillanimi).

 

La superbia distrutta è nel ricordo di Montaperti, espresso da Oderisi da Gubbio a proposito di Provenzan Salvani, che era signore di Siena “quando fu distrutta / la rabbia fiorentina, che superba / fu a quel tempo sì com’ ora è putta” (Purg. XI, 112-114). L’orgoglio è veramente fiorentino. Con Filippo Argenti: “Quei fu al mondo persona orgogliosa … ’l fiorentino spirito bizzarro” (Inf. VIII, 46-48, 61-63). Nella risposta di Dante ai tre concittadini sodomiti: “La gente nuova e i sùbiti guadagni / orgoglio e dismisura han generata, / Fiorenza, in te, sì che tu già ten piagni”, Inf. XVI, 73-75). Costituisce un vizio proprio del quarto tempo della Chiesa, allorché – come si afferma nel Notabile XII del prologo con citazione di Gioacchino da Fiore – gli anacoreti contemplativi “fiorirono”, ma poi passarono dalla perfezione al gloriarsi e di qui all’esaltazione e infine alla rovina. Così l’aggettivo ‘fiorentino’ si insinua tra le maglie dell’armatura teologica, scavato nel “visus est floruisse ad horam” a proposito del quarto ordine nella citazione del quinto libro della Concordia.
Bizzarro (Inf. VIII, 62) è ricavato dall’esegesi della quarta coppa, il cui versamento provoca l’estuare in accensioni d’ira: “si increpantur accenduntur in iram … vident lites et scandala generari … tunc exarserunt in summam iram et impatientiam” (Ap 16, 8-9; anche qui l’esegesi si sparge su più punti del poema). L’episodio di Filippo Argenti, per quanto collocato in una zona dove la tematica del quinto stato è prevalente, rinvia al quarto periodo per l’orgoglio del bizzarro fiorentino. Come in altri casi, sul filone tematico principale si intrecciano altri motivi che ad esso non appartengono, ad esempio nei versi 49-51 che rinviano ad Ap 13, 3 (sesta guerra). Alla superbia propria del quarto periodo fanno riferimento
Omberto Aldobrandesco e Oderisi da Gubbio (Purg. XI, 52-54, 112-114), nel primo girone della montagna dove si purga, appunto, la superbia; tuttavia la tematica principale, in quella zona, si riferisce al primo stato.
I motivi sopra esposti si ritrovano nel discorso di Cacciaguida in Par. XVI, che utilizza il tema del discendere, proprio del quinto stato, dall’alto e arduo stato precedente (cfr. il Notabile V del prologo), applicandolo a “li alti Fiorentini” (alti come gli anacoreti, secondo l’interpretazione delle “stelle” data ad Ap 8, 12, nell’esegesi della quarta tromba: è da escludere la variante altri), da lui conosciuti nel tempo in cui “le palle de l’oro / fiorian Fiorenza in tutt’ i suoi gran fatti”, e poi decaduti.
Cacciaguida (vv. 34-39) data la propria nascita dal giorno dell’Incarnazione (“Da quel dì che fu detto ‘Ave'”), asserendo che il pianeta Marte tornò nel segno del Leone 580 volte, numero che scompone in tre cifre: “cinquecento cinquanta / e trenta fiate”.  Cinquecento anni dura il quinto stato, che inizia con l’incoronazione di Carlo Magno o con l’intervento di suo padre Pipino in favore del papato e dura fino a san Francesco, un periodo al quale  Cacciaguida appartiene di diritto, in quanto nato, secondo il computo (580 x 687 ritorni di Marte al Leone) nel 1091. Stazio ha purgato la prodigalità “cinquecent’anni e più” nel quinto girone della montagna, prima di sentire “libera volontà di miglior soglia”, sottolineata dal terremoto, che corrisponde a quello con cui si apre il sesto sigillo, nel sesto stato al quale è dato il libero salire (Purg. XXI, 67-70). La fenice “more e poi rinasce / quando al cinquecentesimo anno appressa” (Inf. XXIV, 107-108): al termine dei cinquecento anni del quinto stato inizia il sesto periodo, il novum saeculum di resurrezione e palingenesi universale. Afferma Cacciaguida che Marte (“questo foco”), segno del martirio proprio del secondo stato della Chiesa (il pianeta è il secondo a partire dal cielo del Sole), “al suo Leon … venne … a rinfiammarsi”: infiammato e impavido come un leone fu Francesco, al quale l’avo di Dante viene assimilato per il risorgere:
“instar solis et lucis diurne inflammatus et illuminatus et illuminans et inflammans … constans et fortis et impavidus sicut leo, tam ad invadendum quam ad patiendum” (Ap 10, 1).

2. Florentine pride 

            The first flaw that seals the fourth seal (Rev 5:1) is the proud, indomitable nature of our freedom: in the fourth opening, death sitting on the pale horse (Rev 6:8), that is, on flesh already dead and pale (the Saracens), tamed and broke the proud freedom of the Eastern churches that did not want to submit to the seat and faith of Peter. And certainly, Olivi affirms, nothing is more suited to breaking the pride of our power than the constant consideration and experience of human frailty and death. To curb human pride, it is said in Ecclesiasticus: “Why do you become proud, earth and ashes?” (Ecclesiasticus 10:9) and: “In all your works remember your end, and you will never fall into sin” (Ecclesiasticus 7:40).
            The themes of tamed pride and the consideration of death are appropriate, in the description of the last bolgia, to the Trojans – whose “arrogance, all things dared” (the motif of the arduous and lofty life of the anchorites of the fourth period of the Church, destroyed in the East by the Saracens) was brought low by fortune, – and to Hecuba, who “out of her senses like a dog barked” after she realised her children were dead (Inf. XXX, 13-21). Variations on the motifs (pride tamed, the experience of death) are recorded in Capaneo (Inf. XIV, 63-64; note, in v. 90, “ammorta”, appropriate to Phlegethon, whose vapours extinguish the fiery rain, saving the “hard margins” on which the two poets pass), in Fialte (Inf. XXXI, 91-93), in Omberto Aldobrandesco (Purg. XI, 52-54; ‘doma’ is hapax), in the words of Beatrice and Pier Damiani in the heaven of Saturn (Par. XXI, 6, 11, 61).
            Hecuba is “sad, disconsolate, and captive”, a Trojan fury compared to rabid falsifiers (Inf. XXX, 16). The “captives” (cattivi) are the prisoners taken by the Saracens, according to the exegesis of the opening of the fourth seal (Rev 6:8), in which the pale horse (death) designates Muhammad and his sect, according to the interpretation of Joachim of Fiore followed by Olivi. Since the Saracens began to devastate the Church, there has never been any mention of miracles performed by the faithful who were killed or enslaved, nor of the word of preaching being given to convert the infidels to Christ and enliven them or to confirm the faithful in the life of faith. On the contrary, most of those who ended up in captivity joined the deadly sect. Among the Saracens, what happened with the pagans and heretics, among whom the faithful multiplied and many were converted to the faith, has not happened for more than six hundred years (cf. expressions such as “captive choir”, “sect of the captives” in Inf. III, 37, 62, referring respectively to neutral angels and the faint-hearted).

 

           Destroyed pride is remembered for Montaperti, expressed by Oderisi da Gubbio about Provenzan Salvani, who was lord of Siena “what time was overthrown / the Florentine delirium, that superb / was at that day as now ‘tis prostitute” (Purg. XI, 112-114). Pride is truly Florentine. With Filippo Argenti: “That was an arrogant person in the world … ’l fiorentino spirito bizzarro” (Inf. VIII, 46-48, 61-63). In Dante’s reply to his three sodomite fellow citizens: “The new inhabitants and the sudden gains, / pride and extravagance have in thee engendered, / Florence, so that thou weep’st thereat already!” (Inf. XVI, 73-75). This is a vice typical of the fourth age, when – as stated in Notable XII of the prologue with a quotation from Joachim of Fiore – the contemplative anchorites “flourished”, but then passed from perfection to boasting, and from there to exaltation and finally to ruin. Thus, the adjective fiorentino creeps into the meshes of theological armour, carved into the “visus est floruisse ad horam” regarding the fourth order in the quotation from the fifth book of the Concordia.
            Bizzarro (Inf. VIII, 62) is derived from the exegesis of the fourth cup, whose pouring causes to flare up in anger: “si increpantur accenduntur in iram … vident lites et scandala generari … tunc exarserunt in summam iram et impatientiam” (Rev 16:8-9; here too, the exegesis is spread over several points in the poem). The episode of Filippo Argenti, although set in an area where the theme of the fifth period (status) prevails, refers to the fourth period because of the pride of the bizzarro Florentine. As in other cases, other motifs that do not belong to the main theme are interwoven with it, as happens, for example, in verses 49-51, which refer to Rev 13:3 (sixth war). Omberto Aldobrandesco and Oderisi da Gubbio refer to the pride of the fourth period (Purg. XI, 52-54, 112-114) in the first terrace of the mountain where pride is purged; however, the main theme in that area refers to the first period of the history of the Church.
            The above motifs are found in Cacciaguida’s speech in Par. XVI, which uses the theme of descending, typical of the fifth period, from the high and arduous previous status (cf.  prologue, notabile V), applying it to “the high Florentines” (high as the anchorites, according to the interpretation of the “stars” given in Ap 8:12, in the exegesis of the fourth trumpet), whom he knew at the time when “the Balls of Gold / Florence enflowered (fiorian Fiorenza) in all their mighty deeds, and who then fell into decline.
            Cacciaguida (vv. 34-39) dates his birth from the day of the Incarnation (“From uttering of the ‘Ave,'”), asserting that the planet Mars returned to the sign of Lion 580 times, a number he breaks down into three digits: “five hundred fifty times and thirty more (cinquecento cinquanta / e trenta fiate)”. The fifth period lasts five hundred years, beginning with the coronation of Charlemagne or with the intervention of his father Pepin in favour of the papacy, and lasting until St. Francis, a period to which Cacciaguida rightfully belongs, as he was born, according to the calculation (580 x 687 returns of Mars to Lion) in 1091. Stazio purged his prodigality “five hundred years and more” in the fifth terrace of the mountain, before feeling “free volition for a better seat”, underlined by the earthquake, which corresponds to the one with which the sixth seal opens, in the sixth period to which is given the freedom to climb (Purg. XXI, 67-70). The phoenix “dies, and then is born again, / when it approaches its five-hundredth year” (Inf. XXIV, 107-108): at the end of the five hundred years of the fifth period, the sixth period begins, the novum saeculum of resurrection and universal palingenesis. Mars (“this fire”, a sign of martyrdom, typical of the second period of the Church; the planet is the second from the heaven of the Sun), says Cacciaguida, “unto its Lion had this fire returned … to reinflame itself beneath his paw: St. Francis was as inflamed and fearless as a lion, to whom Dante’s ancestor is likened for his resurrection: “instar solis et lucis diurne inflammatus et illuminatus et illuminans et inflammans … constans et fortis et impavidus sicut leo, tam ad invadendum quam ad patiendum” (Ap 10, 1).

Tab. XVI.2

[LSA, prologus, Notabile XII] Quantum ad duodecimum, quare scilicet predicti status non habent equale spatium temporis, immo quintus duravit iam fere per quingentos annos, sumendo eius initium a translatione imperii romani a Grecis in Karolum facta DCCCI° anno Christi; sumendo vero eius initium a vocatione Pipini patris eius ad ferendum auxilium Romanis et pape contra Longobardos, sunt fere quingenti sexaginta anni.
Quattuor autem primi status insimul sumpti duraverunt tantum septingentis viginti annis inchoando eos ab incarnatione Christi; inchoando vero eos a Christi predicatione vel ab eius ascensione vel Spiritus Sancti missione, prout in visionibus huius libri magis proprie inchoari videntur, desunt a summa predicta triginta anni. […]
Quintus vero status pluribus ex causis debuit diu durare. Prima est quia eius condescensio potuit in multitudine diutius perdurare tamquam eius infirmitati proportionalis. […] Sexta, secundum Ioachim, est quia quintus status post quattuor animalia, id est post quattuor ordines perfectorum, tenuit typum generalis sedis, et ideo debuit in multitudine habundare.  [Concordia, III 1, c. 2; Patschovsky 2, p. 209, 4-19]

Par. XVI, 34-39, 46-48

dissemi: “Da quel dì che fu detto ‘Ave
al parto in che mia madre, ch’è or santa,
s’allevïò di me ond’ era grave,
al suo Leon cinquecento cinquanta
e trenta fiate venne questo foco
a rinfiammarsi sotto la sua pianta.

Tutti color ch’a quel tempo eran ivi
da poter arme tra Marte e ’l Batista,
erano il quinto di quei ch’or son vivi”.

Purg. IX, 10-12

quand’ io, che meco avea di quel d’Adamo,
vinto dal sonno, in su l’erba inchinai
là ’ve già tutti e cinque sedavamo.

Inf. XXIV, 106-108

Così per li gran savi si confessa
che la fenice more e poi rinasce,
quando al cinquecentesimo anno appressa

Ovidio, Metam., XV,  395

Haec ubi quinque suae conplevit saecula vitae 

Purg. XXI, 67-70

E io, che son giaciuto a questa soglia
cinquecent’ anni e più, pur mo sentii
libera volontà di miglior soglia:
però sentisti il tremoto …………..         13, 18

Tab. XVI.3

[LSA, prologus, Notabile XII] De quarto autem statu, scilicet anachoritarum, dicit Ioachim, libro V° Concordie, quod «proficiendo decrevit, quia et herba tunc magis proficit cum appropinquat ad messem. Nam tempus eius non tam illud esse dicitur in quo incipit quam illud in quo, peracta messione, grana per trituram separantur a paleis. Ordines enim iustorum propria tempora acceperunt non in quibus inceperunt sed in quibus ad consumationem et perfectionem venerunt. Quod autem diximus ordi-nem quartum, qui est heremitarum et virginum, proficiendo defecisse, timendum est potius quam dicendum. Aperta enim perfectio gloriationem parit, gloriatio exaltationem, exaltationem vero comitatur ruin<a>, quia scriptum est: “ante ruinam exaltatur cor” (Pro 16, 18; 18, 12). Igitur ordo iste quarto tempore claruit, sed mox defecit in illa claritate et in locis illis in quibus visus est floruisse ad horam, et hoc propter malitiam habitantium in eis»*. Preterea fragilitas humane carnis non patitur tantum statum diu in multitudine perdurare.

Concordia, V 1, c. 12; Patschovsky 3, p. 551, 3-20.

[LSA, cap. VIII, Ap 8, 12 (IIIa visio, quarta tuba)] Per “stellas” vero, quidam singulares et alti et solitarii anachorite.

[LSA, prologus, Notabile V] […] tuncque (in quinto statu) congrue instituta est vita condescensiva, ut nequeuntibus in arduis perdurare daretur locus gratie in mediocri statu.

Inf. VIII, 46-48, 61-63

Quei fu al mondo persona orgogliosa;
bontà non è che sua memoria fregi:
così s’è l’ombra sua qui furïosa.

Tutti gridavano: “A Filippo Argenti!”;
e ’l fiorentino spirito bizzarro
in sé medesmo si volvea co’ denti.

Inf. XVI, 73-75 

La gente nuova e i sùbiti guadagni
orgoglio e dismisura han generata,
Fiorenza, in te, sì che tu già ten piagni.

Par. XVI, 85-87, 97-99, 109-111, 121-123

per che non dee parer mirabil cosa
ciò ch’io dirò de li alti Fiorentini
onde è la fama nel tempo nascosa.

erano i Ravignani, ond’ è disceso
il conte Guido e qualunque del nome

de l’alto Bellincione ha poscia preso.

Oh quali io vidi quei che son disfatti
per lor superbia! e le palle de l’oro
fiorian Fiorenza in tutt’ i suoi gran fatti.

Già era ’l Caponsacco nel mercato
disceso giù da Fiesole, e già era   Not. V
buon cittadino Giuda e Infangato.

[LSA, cap. V, Ap 5, 1] Quartus (defectus in nobis claudens intelligentiam huius libri) est nostre libertatis superba indomabilitas. […] In quarta (apertione) vero mors sedens in equo pallido, id est in carne quasi iam emortua pallescente, domuit et infregit superbam libertatem orientalium eccle-siarum nolentium subici sedi et fidei Petri. Et certe nichil validius ad infringendam superbiam imperii nostri quam consideratio assidua et experientia humane fragilitatis et mortis, unde Ecclesiastici X° ad retundendam hominis superbiam dicitur: “Quid superbis terra et cinis?” (Ecli 10, 9), et capitulo VII° dicitur: “In omnibus operibus tuis memorare novissima tua et in eternum non peccabis” (Ecli 7, 40).

Inf. XIV, 63-64, 88-90

O Capaneo, in ciò che non s’ammorza
la tua superbia
, se’  tu più punito

cosa non fu da li tuoi occhi scorta
notabile com’ è ’l presente rio,
che sovra sé tutte fiammelle ammorta.

Par. XXI, 4-12, 61-63

E quella non ridea; ma “S’io ridessi”,
mi cominciò, “tu ti faresti quale
fu Semelè quando di cener fessi:
ché la bellezza mia, che per le scale
de l’etterno palazzo più s’accende,
com’ hai veduto, quanto più si sale,
se non si temperasse, tanto splende,
che ’l tuo mortal podere, al suo fulgore,
sarebbe fronda che trono scoscende”.

“Tu hai l’udir mortal sì come il viso”,
rispuose a me; “onde qui non si canta
per quel che Bëatrice non ha riso”.

Purg. XI, 52-54, 112-114

E s’io non fossi impedito dal sasso
che la cervice mia superba doma,
onde portar convienmi il viso basso

ond’ era sire quando fu distrutta
la rabbia fiorentina, che superba
fu a quel tempo sì com’ ora è putta.

Inf. XXX, 13-21

E quando la fortuna volse in basso
l’altezza de’  Troian che tutto ardiva,
sì che ’nsieme col regno il re fu casso,
Ecuba trista, misera e cattiva,
poscia che vide Polissena morta,
e del suo Polidoro in su la riva
del mar si fu la dolorosa accorta,
forsennata latrò sì come cane;
tanto il dolor le fé la mente torta.

Inf. XXXI, 91-93

“Questo superbo volle esser esperto
di sua potenza contra ’l sommo Giove”,

disse ’l mio duca, “ond’ elli ha cotal merto”.

Inf. III, 37-39, 61-63

Mischiate sono a quel cattivo coro
de li angeli che non furon ribelli
né fur fedeli a Dio, ma per sé fuoro.

Incontamente intesi e certo fui
che questa era la setta d’i cattivi,
a Dio spiacenti e a’ nemici sui.

[LSA, cap. VI, Ap 6, 8 (IIa visio, apertio quarti sigilli)] Equus autem sarracenicus dicitur “pallidus”, pallore scilicet tali qualis proprie competit mortuis. Mors etiam dicitur sedere super eum triplici ex causa. […] Tertia est quia, quando a principio tot ecclesias Christi vastavit, non legimus nec audivimus facta tunc fuisse miracula per fideles tunc occisos vel captivatos, nec data vive predicationis verba per que infideles converterentur ad Christum et vivificarentur aut per que fideles in vita fidei confirmarentur, quin potius maior pars captivatorum videtur ad eorum sectam mortiferam convolasse. Non enim, sicut inter paganos et hereticos multiplicabantur fideles et plures convertebantur ad fidem, sic contingit inter Sarracenos, immo contrarium iam per sescentos annos et amplius.

3. Monti che fuggono: l’assassinio di Buondelmonte e la “città partita”

Il secondo preambolo della sesta visione, che descrive la caduta di Babylon, è costituito dal “grande terremoto, di cui non vi era mai stato l’uguale da quando gli uomini furono sulla terra” (Ap 16, 18). Questo terremoto, in quanto è proprio del sesto stato della Chiesa, coincide con il terremoto che avviene in apertura del sesto sigillo (Ap 6, 12). In quanto è proprio della fine del mondo, coincide con quello che avverrà al momento del giudizio finale. In quanto è un segno premonitore della caduta della nuova Babilonia che avviene nel sesto tempo, designa l’accecamento della Chiesa carnale la quale, sotto l’Anticristo mistico (che precede quello aperto, il quale verrà sconfitto dopo la dannazione di Babylon), si muove contro lo spirito evangelico di Cristo. Oppure designa la venuta dei dieci re con i loro eserciti per distruggere la città (Ap 17, 16) e lo sconvolgimento della Chiesa che ne deriva. In ogni caso, anche gli eletti saranno sommamente commossi, ma verso lo Spirito di Cristo e per opera di questo.
La conseguenza è la divisione della città: “La grande città si divise in tre parti” (Ap 16, 19). In fine al capitolo XVII si dice che “la donna che hai vista è la grande città che regna sui re della terra” (Ap 17, 18). Si tratta della Chiesa carnale, diffusa sia a Roma, sia in tutto il regno dei romani o dei cristiani. Delle tre parti, una sarà degli eletti, che curano solo di Cristo e del suo Spirito e si preparano a sostenere con pazienza ogni tribolazione. La seconda parte raccoglierà i carnali che tenteranno di ribellarsi all’Anticristo o ai dieci re. La terza sarà formata dai reprobi fuggiaschi presso l’Anticristo. Le tre parti designano anche le discordie e le divisioni intestine che si verificheranno nella città. In Zaccaria 13, 7-9 si profetizza infatti che la religione evangelica si dividerà in tre parti: “Volgerò la mia mano sopra i deboli, e in ogni parte della terra due parti verranno disperse e periranno, e condurrò la terza parte per il fuoco e l’affinerò come si affina l’oro. Essa invocherà il mio nome e io dirò: ‘questo è il mio popolo’”. Si verificherà anche quanto è scritto in Ezechiele (5, 2ss.) di Gerusalemme, della quale un terzo verrà consumato dal fuoco nell’assedio, un terzo ucciso in battaglia dalla spada nemica, un terzo fatto prigioniero.
Il tema della città divisa per la discordia è nella domanda che Dante pone a Ciacco su Firenze, “città partita” e da “tanta discordia assalita” (Inf. VI, 60-63). Il motivo delle due parti disperse risuona nelle parole di Farinata sui ‘maggiori’ di Dante, a lui fieramente avversi, “sì che per due fïate li dispersi” (Inf. X, 46-48). Il passo del profeta Zaccaria, applicato alla divisione in tre parti della religione evangelica, precisa che due parti verranno disperse, mentre la terza, popolo di Dio, verrà condotta e provata attraverso il fuoco. Messa parzialmente in bocca al fiero ghibellino, significa che, dispersi i ‘maggiori’ di Dante nel 1248 e nel 1260, la terza parte, Dante stesso, non lo sarà. Le fazioni di Firenze, assalita da tanta discordia, sono assimilate alle divisioni della religione evangelica. Viene in mente quanto scriveva Dino Compagni sulla divisione tra Bianchi e Neri, dopo gli scontri tra Cerchi e Donati la sera del calendimaggio 1300: “Divisesi di nuovo la città, negli uomini grandi, mezani e piccolini; e i religiosi non si poterono difendere che con l’animo non si dessono alle dette parti, chi a una chi a una altra” (I, xxii).
Se le vicende fiorentine sono anch’esse ‘storia sacra’, non dovrà poi sorprendere che la difesa di Firenze fatta a Empoli dal ghibellino “a viso aperto”, dopo Montaperti “là dove sofferto / fu per ciascun di tòrre via Fiorenza”, si colori con i fili propri della difesa che gli spirituali faranno della vera vita evangelica impugnata dai reprobi, o della difesa della fede fatta dai martiri e dai dottori che furono come il muro grande e alto della Chiesa, figura di quello della Gerusalemme celeste descritto nella settima visione. Nell’esegesi di questa, alla città celeste sono appropriati temi, come quelli della concordia dei cittadini, della misurata regolarità dell’entrare e dell’uscire e della povertà evangelica, che si ritrovano nella Firenze antica conosciuta da Cacciaguida.
Dopo l’esposizione dei due preamboli, subentra il giudizio della Chiesa carnale. Lo sdegno divino nei confronti di Babylon si esprime ad Ap 16, 19 nella coppa (la giusta misura della punizione) e nel vino (che per intimo, amaro gusto, pervade tutte le membra): “Dio si ricordò di lei, nel darle da bere la coppa di vino della sua ira sdegnata”. L’acerbità della pena viene designata dall’accostamento dello sdegno (la giustizia e l’indegnità della colpa intollerabile) all’ira (la vendetta). L’effetto del giudizio divino consiste nelle due parti della pena eterna: la prima (la pena del danno) nella privazione di ogni gaudio, la seconda (la pena dei sensi) nella grandine grossa. La privazione del gaudio è resa con l’immagine della fuga delle isole e della traslazione dei monti – “Ogni isola fuggì e i monti scomparvero” (Ap 16, 20) -, cioè della sovversione di quel che vi sia di più stabile e adatto all’umana quiete in mare, oppure di più sicuro ed eminente in terra.
Un “giusto disdegno”, secondo Cacciaguida, ha posto fine al “viver lieto” di Firenze con l’uccisione di Buondelmonte da parte degli offesi Amidei (1216), che secondo i cronisti avrebbe dato origine alla divisione dei cittadini in guelfi e ghibellini (Par. XVI, 136-144). La “privatio omnis boni  iocundi” di Ap 16, 20 (la pena del danno), segnata dalla fuga dei monti (“et omnis insula fugit, et omnes montes non sunt inventi”), collazionata con il passo simmetrico di Ap 18, 22-23, si precisa consistere nella privazione della “letitia nuptiarum”, della “vox sponsi et sponse”, un suono che Firenze-Babilonia avrebbe continuato ad ascoltare se Buondelmonte non avesse mal fuggito per una dei Donati le nozze promesse agli Amidei. Buondelmonte : un nome che, quasi per intimo calembour con l’esegesi della sacra pagina, contiene in sé letizia (bonum) e stabilità (montes), inopinatamente fuggiti. L’effetto del grande terremoto di Ap 16, 18-19 è appunto quello della divisione intestina della città, evocata da Cacciaguida con l’immagine del giglio “per divisїon fatto vermiglio” (Par. XVI, 154).
‘Concedere’ è proprio di Dio e del suo provvedere (Ap 1, 1). Cacciaguida, che pure in quanto beato va da tempo “leggendo del magno volume / du’ non si muta mai bianco né bruno” (Par. XV, 50-51), avrebbe voluto che almeno vi fosse stato mutato il destino di Buondelmonte, cosicché costui fosse morto, affogato nella sua Val di Greve, prima di entrare nella pacifica Firenze: “Molti sarebber lieti, che son tristi, / se Dio t’avesse conceduto ad Ema / la prima volta ch’a città venisti. / Ma conveniesi, a quella pietra scema / che guarda ’l ponte, che Fiorenza fesse / vittima ne la sua pace postrema” (Par. XVI, 142-147). “Ma conveniesi … oportet fieri”, era cioè utile e necessario, che Firenze piangesse.
Il motivo della sicurezza dei monti, poi traslati, è nella visione delle tribolazioni del carro dell’Eden: Babylon, “una puttana sciolta”, appare seduta sul carro “sicura, quasi rocca in alto monte”, ma viene poi tratta nella selva dal gigante “d’ira crudo” (Purg. XXXII, 148-150, 154-160). Cosa c’è di più sicuro e stabile della Chiesa di Roma, “l’alma” città eletta nell’empireo ciel” insieme ad Enea, eponimo dell’impero, il quale ad esso “fu stabilito per lo loco santo / u’ siede il successor del maggior Piero” (Inf. II, 22-24), Chiesa traslata inopinatamente da Filippo il Bello ad Avignone con la connivenza di Clemente V, “nuovo Iasón”?

 

3. Fleeing mountains: the murder of Buondelmonte and the ‘divided city’

            The second preamble to the sixth vision, which describes the fall of Babylon, consists of the “great earthquake, such as had never been since men were upon the earth” (Rev 16:18). This earthquake, as it is specific to the sixth period (status) of the Church, coincides with the earthquake that occurs at the opening of the sixth seal (Rev 6:12). As it is specific to the end of the world, it coincides with what will happen at the time of the final judgement. As it is a warning sign of the fall of the new Babylon that occurs in the sixth time, it designates the blindness of the carnal Church which, under the mystical Antichrist (who precedes the open one, who will be defeated after the damnation of Babylon), moves against the evangelical spirit of Christ. Or it designates the coming of the ten kings with their armies to destroy the city (Rev 17:16) and the resulting upheaval of the Church. In any case, even the elect will be greatly moved, but towards the Spirit of Christ and by his work.
            The consequence is the division of the city: “The great city was divided into three parts” (Rev 16:19). At the end of chapter XVII, it is said that “the woman you saw is the great city that reigns over the kings of the earth” (Rev 17:18). This is the carnal Church, spread both in Rome and throughout the kingdom of the Romans or Christians. Of the three parts, one will be the elect, who care only for Christ and his Spirit and prepare themselves to endure every tribulation with patience. The second part will gather the carnal who will try to rebel against the Antichrist or the ten kings. The third will be made up of the reprobates who flee to the Antichrist. The three parts also designate the discord and internal divisions that will occur in the city. In Zechariah 13:7-9, it is prophesied that the evangelical religion will be divided into three parts: «I will turn my hand over the weak, and in every part of the earth two parts will be scattered and perish, and I will lead the third part through the fire and refine it as gold is refined. They will call on my name, and I will say, “This is my people”». What is written in Ezekiel (5:2ff.) about the people of Jerusalem will also come to pass, of which one third will be consumed by fire in the siege, one third killed in battle by the enemy’s sword, and one third taken prisoner.
            The theme of the city divided by discord is in the question Dante asks Ciacco about Florence, a “divided city” and “assaulted by so much discord” (Inf. VI, 60-63). The motif of the two scattered parts echoes in Farinata’s words about Dante’s “ancestors” (li maggior tui), who were fiercely opposed to him, “so that twice I scattered them” (Inf. X, 46-48). The passage from the prophet Zechariah, applied to the division of the evangelical religion into three parts, specifies that two parts will be dispersed, while the third, the people of God, will be led and tested through fire. Partially put into the mouth of the fierce Ghibelline, it means that, with Dante’s maggior dispersed in 1248 and 1260, the third part, Dante himself, will not be. The factions of Florence, assailed by so much discord, are likened to the divisions of the evangelical religion. This brings to mind what Dino Compagni wrote about the division between the Bianchi and the Neri after the clashes between the Cerchi and the Donati on the evening of 1 May 1300: “The city was once again divided into great men, middlemen and little men; and the religious could not help but passionately side with these parties, some with one, others with another” (I, xxii: “Divisesi di nuovo la città, negli uomini grandi, mezani e piccolini; e i religiosi non si poterono difendere che con l’animo non si dessono alle dette parti, chi a una chi a una altra”).
            If the events in Florence are also “sacred history”, it should come as no surprise that the defence of Florence made in Empoli by Farinata “with open face” (a viso aperto), after Montaperti “where every one / consented to the laying waste of Florence“, is coloured with the threads of the defence that the spirituals will make of the true evangelical life challenged by the reprobates, or of the defence of the faith made by the martyrs and doctors who were like the great and high wall of the Church, a figure of that of the heavenly Jerusalem described in the seventh vision. In the exegesis of this, themes such as the harmony of the citizens, the measured regularity of entering and leaving, and evangelical poverty are appropriate to the heavenly city, and are found in the ancient Florence known to Cacciaguida.
            After the exposition of the two preambles, the judgement of the carnal Church takes over. Divine wrath towards Babylon is expressed in Rev 16:19 in the cup (the just measure of punishment) and in the wine (which, with its underwear, bitter taste, pervades all the limbs): “God remembered her, giving her to drink the cup of the wine of his disdained wrath”. The severity of the punishment is indicated by the combination of disdain (justice and the unworthiness of intolerable guilt) and wrath (revenge). The effect of divine judgement consists of two parts of eternal punishment: the first (the punishment of damage) is the deprivation of all joy, the second (the punishment of the senses) is the heavy hail. The deprivation of joy is rendered with the image of the escape of the islands and the translation of the mountains – “Every island fled away, and the mountains were removed” (Rev 16:20) – that is, the subversion of what is most stable and suitable for human tranquillity at sea, or most secure and eminent on land.
            According to Cacciaguida, a “just disdain” put an end to the “joyous life” of Florence with the killing of Buondelmonte by the offended Amidei (1216), a fact which, according to chroniclers, gave rise to the division of citizens into Guelphs and Ghibellines (Par. XVI, 136-144). The “privatio omnis boni iocundi” of Rev 16:20 (the penalty of damage), marked by the flight of the mountains (“et omnis insula fugit, et omnes montes non sunt inventi”), collated with the symmetrical passage of Rev 18: 22-23, is specified as consisting in the deprivation of the ‘letitia nuptiarum’, of the ‘vox sponsi et sponse’, a sound that Florence-Babylon would have continued to hear if Buondelmonte had not ill-advisedly fled for one girl of the Donati the wedding promised to the Amidei. Buondelmonte: a name which, almost as an intimate calembour with the exegesis of the sacred page, contains within itself joy (bonum) and stability (montes), which unexpectedly fled. The effect of the great earthquake in Ap 16:18-19 is precisely that of the internal division of the city, evoked by Cacciaguida with the image of the lily that “by division was vermilion made” (Par. XVI, 154).
            “Granting” (concedere) is proper to God and his providence (Rev 1:1). Cacciaguida, who, even as a blessed soul, has long been “reading of the mighty volume / wherein is never changed the white nor dark” (Par. XV, 50-51), would have liked at least Buondelmonte’s fate to have been changed, so that he would have died, drowned in his Val di Greve, before entering peaceful Florence: “Many would be rejoicing who are sad, / if God had thee surrendered (conceduto) to the Ema / the first time that thou camest to the city. / But it behoved the mutilated stone / which guards the bridge, that Florence should provide / a victim in her latest hour of peace” (Par. XVI, 142-147). “But it behoved … oportet fieri”, that is, it was useful and necessary for Florence to mourn.
            The theme of the secure mountains that are transferred lies in the vision of the tribulations of the chariot of Eden: Babylon, “a shameless whore”, appears seated on the chariot “firm as a fortress upon a mountain high”, but is then dragged into the forest by the giant “full of jealousy, and fierce with wrath” (Purg. XXXII, 148-150, 154-160). What could be more secure and stable than the Church of Rome, the alma city which, together with Aeneas, eponym of the Empire, “was stablished as the holy place, wherein / sits the successor of the greatest Peter” (Inf. II, 22-24), a Church unexpectedly transferred by Philip the Fair to Avignon with the connivance of Clement V, the “new Jason”?

Tab. XVI.4

[Ap 16, 19-20; radix VIe visionis] Ex hiis autem sequetur divisio que subditur (Ap 16, 19): “Et facta est civitas magna in tres partes”. Infra, in fine XVIIi capituli (Ap 17, 18), dicitur quod “mulier, quam vidisti, est civitas magna, que habet regnum super reges terre”. Hec ergo est ecclesia carnalis, tam Rome quam in toto regno romanorum seu christianorum diffusa. Trium autem partium eius erit una electorum, de solo Christo et eius spiritu curantium et ad omnem tribulationem patienter sustinendam preparatorum. Secunda erit carnalium Antichristo seu decem regibus rebellare conantium. Tertia erit aliorum reproborum ad Antichristum confugientium seu confugere disponentium. Potest etiam per hoc designari quecumque intestina discordia et divisio tunc temporis futura in ipsa. Nam et Zacharie XIII° (Zc 13, 7-9) dicitur evangelica religio consimiliter dividenda tunc temporis in tres partes, cum dicitur: “Et convertam manum meam ad parvulos, et erunt in omni terra: partes due in ea dispergentur et deficient, et ducam tertiam partem per ignem et probabo eos sicut probatur aurum. Ipse invocabit nomen meum, et dicam: Populus meus es” et cetera, quamvis hoc in parte in primitiva ecclesia sub apostolis sit impletum. […]

Inf. VI, 60-63; X, 46-48

ma dimmi, se tu sai, a che verranno
li cittadin de la città partita;
s’alcun v’è giusto; e dimmi la cagione
per che l’ha tanta discordia assalita.

poi disse: “Fieramente furo avversi
a me e a miei primi e a mia parte,
sì che per due fïate li dispersi”.

Par. XVI, 151-154

Con queste genti vid’ io glorïoso
e giusto il popol suo, tanto che ’l giglio
non era ad asta mai posto a ritroso,
per divisïon fatto vermiglio.

 

Secundo igitur post duo predicta preambula subditur iudicium ecclesie carnalis, cum dicitur: “Et Babilon magna”. Babilon, ut superius dixi, vocatur quia per enormem et effrenatam multitudinem vitiorum est in ea omnis status et ordo confusus. Babilon enim confusio interpretatur. “Venit in memoriam ante Deum dare ei”, id est ad dandum ei, “calicem vini indignationis ire eius”. Deus videtur oblitus malitie peccantium quamdiu non punit aperte illam; quando autem aperte illam iudicat et punit tunc videtur recordari ipsius, non quidem ad ipsam glorificandam, sed potius puniendam. Per “calicem” autem designatur iusta mensura, quia non punit ultra condignum. Quia vero vinum potatum intrat celeriter usque ad intima gustus et viscerum et cito incorporatur omnibus membris, ideo pena amarissima sepe designatur per amaram potionem vini amarissimi.
Dicit autem “indignationis ire eius”, tum ut per ingeminationem et reflexionem ire in iram designetur magnitudo et vehementia ire et penalis acerbitatis a Dei severa iustitia procedentis, tum quia per iram designatur magnitudo vindicte, per indignationem vero iustitia eius seu indignitas culpe. Indignamur enim contra illud quo invehimur tamquam indignum tolerari et tamquam contra illud quod digne vel dignative tolerare nequimus.
Deinde effectum huius iudicii insinuat quoad duas partes pene eterne. Quarum prima est pena dampni, scilicet privatio omnis boni iocundi, et hanc tangit cum subdit: “Et omnis insula fugit, et omnes montes non sunt inventi” (Ap 16, 20). Sicut in terra nichil firmius et eminentius aut tutius  quam montes, sic in mari nichil stabilius et humane quieti aptius quam insule, et ideo per consumptionem seu non inventibilem subversionem vel per translationem omnium montium et insularum, tam hic quam supra sub apertione sexti sigilli (cfr. Ap 6, 14), designatur consumptio vel subversio solidiorum et eminentiorum et immobiliorum statuum et urbium et ecclesiarum et regnorum totius carnalis ecclesie.

 Inf. XXV, 16-18

El si fuggì che non parlò più verbo;
e io vidi un centauro pien di rabbia
venir chiamando: “Ov’ è, ov’ è l’acerbo?”.

[Ap 9, 19; IIIa visio, VIa tuba] Rabies vero iracundie terribilis et crudelis et commina-tionum eius est apta ad flectendum et subi-ciendum omnes pusillanimes ad illorum vo-tum et sectam.

Par. XVI, 136-144

La casa di che nacque il vostro fleto,
per lo giusto disdegno che v’ha morti
e puose fine al vostro viver lieto,
era onorata, essa e suoi consorti:
o Buondelmonte, quanto mal fuggisti
le nozze  süe per li altrui conforti!

Molti sarebber lieti, che son tristi,
se Dio t’avesse conceduto ad Ema
la prima volta ch’a città venisti.

 

Purg. XXXII, 148-150, 157-160

Sicura, quasi rocca in alto monte,
seder sovresso una puttana sciolta
m’apparve con le ciglia intorno pronte

poi, di sospetto pieno e d’ira crudo,
disciolse il mostro, e trassel per la selva,
tanto che sol di lei mi fece scudo
a la puttana e a la nova belva.

[Ap 18, 22-23 VIa visio] Deinde ostendit quomodo (Babilon) omni iocundo cantico seu gaudio, et omni utili et etiam curioso opere et artificio, et iocunda luce et nuptiis erit ex tunc omnino et in eternum privata, unde subdit (Ap 18, 22-23): “Et vox citharedorum” et cetera; “et vox”, id est sonus, “mole”, molentis scilicet triticum vel alia utilia, et cetera; “et vox sponsi et sponse”, id est letitia nuptiarum, “non audietur adhuc”, id est amplius seu de cetero, “in te”.

Inf. XIII, 70-72

L’animo mio, per disdegnoso gusto,
credendo col morir fuggir disdegno,
ingiusto fece me contra me giusto

XVII

 

1. San Francesco e Cacciaguida: due resurrezioni [Saint Francis and Cacciaguida: two resurrections]. 2. “Uscite da Babilonia”: un esilio necessario. 3. Il nuovo Giovanni, autore della nuova Apocalisse [The new John, author of the new Apocalypse]. 4. San Francesco e Cangrande [Saint Francis and Cangrande]. 5. “Non ci sarà più il tempo”.

 

Legenda [3]: numero dei versi; 10, 1: collegamento ipertestuale all’esegesi, nella Lectura di Olivi, di capitolo e versetto dell’Apocalisse [Ap]; Not. VIII: collegamento all’esegesi contenuta nei tredici notabilia del prologo della LecturaVarianti rispetto al testo del Petrocchi.

Qual venne a Climenè, per accertarsi   10, 1
di ciò ch’avëa incontro a sé udito,
quei ch’ancor fa li padri ai figli scarsi;   [3]

tal era io, e tal era sentito
e da Beatrice e da la santa lampa   4, 5
che pria per me avea mutato sito.   [6]

Per che mia donna « Manda fuor la vampa
del tuo disio », mi disse, « sì ch’ella esca   7, 17; 22, 17
segnata bene de la interna stampa:   [9]

non perché nostra conoscenza cresca   12, 10-11
per tuo parlare, ma perché t’ausi   7, 13
a dir la sete, sì che l’uom ti mesca ».   [12]   7, 17; 22, 17

« O cara piota mia che sì t’insusi,   pianta, pieta
che, come veggion le terrene menti
non capere in trïangol due ottusi,   [15]

così vedi le cose contingenti   6, 7
anzi che sieno in sé, mirando il punto   Not. VIII
a cui tutti li tempi son presenti;   [18]   1, 4

mentre ch’io era a Virgilio congiunto   21, 12
su per lo monte che l’anime cura
e discendendo nel mondo defunto,   [21]

dette mi fuor di mia vita futura   10, 11
parole gravi, avvegna ch’io mi senta
ben tetragono ai colpi di ventura;   [24]   21, 16

per che la voglia mia saria contenta   7, 17; 22, 17
d’intender qual fortuna mi s’appressa:
ché saetta previsa vien più lenta ».   [27]   2, 10

Così diss’ io a quella luce stessa
che pria m’avea parlato; e come volle
Beatrice, fu la mia voglia confessa.   [30]   22, 17; 12, 10-11

Né per ambage, in che la gente folle   18, 1
già s’inviscava pria che fosse anciso
l’Agnel di Dio che le peccata tolle,   [33]   12, 11

ma per chiare parole e con preciso
latin rispuose quello amor paterno,
chiuso e parvente del suo proprio riso:   [36]   1, 16

« La contingenza, che fuor del quaderno   1, 19; quaterno    6, 1
de la vostra matera non si stende,
tutta è dipinta nel cospetto etterno;   [39]

necessità però quindi non prende   1, 1
se non come dal viso in che si specchia
nave che per torrente giù discende.   [42]   corrente

Da indi, sì come viene ad orecchia
dolce armonia da organo, mi viene   10, 9-10
a vista il tempo che ti s’apparecchia.   [45]

Qual si partio Ipolito d’Atene
per la spietata e perfida noverca,
tal di Fiorenza partir ti convene.   [48]   18, 4

Questo si vuole e questo già si cerca,
e tosto verrà fatto a chi ciò pensa
là dove Cristo tutto dì si merca.   [51]

La colpa seguirà la parte offensa   13, 4.7.18
in grido, come suol; ma la vendetta
fia testimonio al ver che la dispensa.   [54]   1, 4-5

Tu lascerai ogne cosa diletta
più caramente; e questo è quello strale   2, 10
che l’arco de lo essilio pria saetta.   [57]

Tu proverai sì come sa di sale    10, 9-10
lo pane altrui, e come è duro calle
lo scendere e ’l salir per l’altrui scale.   [60]

E quel che più ti graverà le spalle,   10, 11
sarà la compagnia malvagia e scempia   18, 4
con la qual tu cadrai in questa valle;   [63]   17, 6

che tutta ingrata, tutta matta ed empia
si farà contr’ a te; ma, poco appresso,
ella, non tu, n’avrà rossa la tempia.   [66]   7, 3

Di sua bestialitate il suo processo   17, 3
farà la prova; sì ch’a te fia bello
averti fatta parte per te stesso.   [69]   18, 4

Lo primo tuo refugio e ’l primo ostello   7, 8 (Zabulon)
sarà la cortesia del gran Lombardo   7, 7 (Levi)
che ’n su la scala porta il santo uccello;   [72]

ch’in te avrà sì benigno riguardo,   7, 7 (Simeon)
che del fare e del chieder, tra voi due,   7, 7 (Levi)
fia primo quel che tra li altri è più tardo.   [75]

Con lui vedrai colui che ’mpresso fue,
nascendo, sì da questa stella forte,   10, 1
che notabili fier l’opere sue.   [78]

Non se ne son le genti ancora accorte   11, 12
per la novella età, ché pur nove anni
son queste rote intorno di lui torte;   [81]

ma pria che ’l Guasco l’alto Arrigo inganni,
parran faville de la sua virtute   10, 1
in non curar d’argento né d’affanni.   [84]

Le sue magnificenze conosciute
saranno ancora, sì che ’ suoi nemici   11, 12
non ne potran tener le lingue mute.   [87]   11, 8

A lui t’aspetta e a’ suoi benefici;
per lui fia trasmutata molta gente,   Not. VII
cambiando condizion ricchi e mendici;   [90]

e portera’ne scritto ne la mente
di lui, e nol dirai »; e disse cose   10, 4-7
incredibili a quei che fier presente.   [93]

Poi giunse: « Figlio, queste son le chiose
di quel che ti fu detto; ecco le ’nsidie
che dietro a pochi giri son nascose.   [96]

Non vo’ però ch’a’ tuoi vicini invidie,
poscia che s’infutura la tua vita   7, 2
via più là che ’l punir di lor perfidie ».   [99]

Poi che, tacendo, si mostrò spedita
l’anima santa di metter la trama
in quella tela ch’io le porsi ordita,   [102]   12, 6

io cominciai, come colui che brama,
dubitando, consiglio da persona
che vede e vuol dirittamente e ama:   [105]

« Ben veggio, padre mio, sì come sprona   10, 5-7
lo tempo verso me, per colpo darmi
tal, ch’è più grave a chi più s’abbandona;   [108]

per che di provedenza è buon ch’io m’armi,
sì che, se loco m’è tolto più caro,
io non perdessi li altri per miei carmi.   [111]

Giù per lo mondo sanza fine amaro,   10, 9-10
e per lo monte del cui bel cacume
li occhi de la mia donna mi levaro,   [114]

e poscia per lo ciel, di lume in lume,
ho io appreso quel che s’io ridico,
a molti fia sapor di forte agrume;   [117]   10, 9-11

e s’io al vero son timido amico,   21, 8
temo di perder viver tra coloro   20, 5
che questo tempo chiameranno antico ».   [120]

La luce in che rideva il mio tesoro   1, 16; 21, 20
 ch’io trovai lì, si fé prima corusca,   4, 5; 8, 5
quale a raggio di sole specchio d’oro;   [123]

indi rispuose: « Coscïenza fusca
o de la propria o de l’altrui vergogna
pur sentirà la tua parola brusca.   [126]

Ma nondimen, rimossa ogne menzogna,
tutta tua visïon fa manifesta;   1, 19; 1, 1
e lascia pur grattar dov’ è la rogna.   [129]   22, 11

Ché se la voce tua sarà molesta
nel primo gusto, vital nodrimento   10, 9-10
lascerà poi, quando sarà digesta.   [132]

Questo tuo grido farà come vento,
che le più alte cime più percuote;
e ciò non fa d’onor poco argomento.   [135]

Però ti son mostrate in queste rote,   1, 1
nel monte e ne la valle dolorosa
pur l’anime che son di fama note,   [138]   3, 4-5

che l’animo di quel ch’ode, non posa   21, 16
né ferma fede per essempro ch’aia   Not. IV
la sua radice incognita e ascosa,
né per altro argomento che non paia ».   [142]

1. San Francesco e Cacciaguida: due resurrezioni

Nell’esame di Par. XV è stato evidenziato come il pio discendere di Cacciaguida sia la parodia sacra della pietas propria di san Francesco. Su Francesco, angelo del sesto sigillo, Olivi riferisce quanto ascoltato “da un uomo spirituale, fededegno, molto vicino a frate Leone confessore e compagno del beato Francesco”. Costui – si tratta di Corrado di Offida – aveva saputo che Francesco, nella tentazione babilonica nella quale egli e il suo stato e la sua regola, come Cristo, saranno crocifissi, risorgerà glorioso per confermare e informare i discepoli, come Cristo risorse per confermare gli apostoli e informarli sulla fondazione e sul governo della Chiesa futura. Quanto detto esplicitamente ad Ap 7, 2 si ritrova, più genericamente, ad Ap 10, 1 nel discendere di Cristo, del suo servo Francesco e del suo angelico ceto dei discepoli contro gli errori e le malizie del mondo.
Dante recita la parte di Giovanni, che designa il ceto evangelico. Verso di lui il tempo sprona per dare colpi gravi, ed egli va ad accertarsi di ciò che ha udito contro di sé, come Fetonte dalla madre Climene, dal suo avo Cacciaguida, che lo conferma e informa sul proprio futuro, chiarendogli “con preciso / latin” quanto gli è stato profeticamente più volte detto “per ambage” nel corso del viaggio. Cacciaguida è beato nel cielo di Marte, martire perché morto nella crociata dopo essere stato cinto dalla milizia dell’imperatore Corrado III. Il suo lume si stacca discendendo da una croce in cui lampeggia Cristo, dopo che i beati hanno posto silenzio a una melodia di alta lode, le cui più distinte parole sono «‘Resurgi’ e ‘Vinci’» (Par. XIV, 103-105, 124-126).
La parodia dantesca trasforma Francesco, assimilato a Cristo nella vita e nelle stimmate, che informa i suoi discepoli sul futuro governo della Chiesa, in Cacciaguida che assicura a Dante “che s’infutura la tua vita” (Par. XVII, 98): il poeta è stato già assimilato a Francesco da Virgilio nel corso del colloquio con Stazio sulla soglia del sesto girone della montagna (Purg. XXI, 22-24).

Saint Francis and Cacciaguida: two resurrections

In the examination of Par. XV, it was highlighted how the pious descent of Cacciaguida is the sacred parody of the pietas typical of St. Francis. Regarding Francis, angel of the sixth seal, Olivi reports what he heard “from a spiritual man, trustworthy, very close to Brother Leo, confessor and companion of the blessed Francis”. This man – Corrado di Offida – had learned that Francis, in the Babylonian temptation in which he and his Order and his rule, like Christ, will be crucified, will rise again in glory to confirm and inform his disciples, just as Christ rose again to confirm the apostles and inform them about the foundation and government of the future Church. What is explicitly stated in Rev 7:2 is found, more generally, in Rev 10:1 in the descent of Christ, his servant Francis, and his angelic class of disciples against the errors and malice of the world.
Dante recites the part of John, who designates the evangelical Order. Time urges towards him dealing hard blows, and he goes to ascertain what he has heard against himself, like Phaeton from his mother Climene, from his ancestor Cacciaguida, who confirms and informs him about his future, clarifying “con preciso / latin” (with unambiguous language) what has been prophetically told him several times “per ambage” (in vague phrase) during the journey. Cacciaguida is blessed in the heaven of Mars, a martyr because he died in the crusade after being awarded with the association to the militia of Emperor Conrad III. His light detaches itself, descending from a cross on which Christ flashes, after the blessed have silenced a melody of high praise, whose most clear words are “Resurgi’ e ‘Vinci” (“Arise and Conquer!”; Par. XIV, 103-105, 124-126).
Dante’s parody transforms St. Francis, assimilated to Christ in life and in the stigmata, who informs his disciples about the future government of the Church, into Cacciaguida, who assures Dante: “because thy life into the future reaches” (Par. XVII, 98). The poet had already been likened to Francis by Virgil during the pagan poet’s conversation with Statius on the threshold of the sixth terrace of the mountain (Purg. XXI, 22-24).

Tab. XVII.1

[LSA, cap. VII, Ap 7, 2 (IIa visio, apertio VIi sigilli)] Audivi etiam a viro spirituali valde fide digno, et fratri Leoni confessori et socio beati Francisci valde familiari, quoddam huic scripture consonum, quod nec assero nec scio nec censeo asserendum, scilicet quod tam per verba fratris Leonis quam per propriam revelationem sibi factam perceperat Franciscum in illa pressura temptationis babilonice, in qua eius status et regula quasi instar Christi crucifigetur, resurget gloriosus, ut sicut in vita et in crucis stigmatibus Christo singulariter assimilatus, sic et in resurrectione Christo assimiletur, necessaria autem tunc discipulis confirmandis et informandis, sicut Christi resurrectio fuit necessaria apostolis confir-mandis et super fundatione et gubernatione future ecclesie informandis.
Ut autem resurrectio servi patenti gradu dignitatis distaret a resurrectione Christi et sue matris, Christus statim post triduum resurrexit, et mater eius post quadraginta dies resurrexisse dicitur a quibusdam non omnino spernendis; iste vero post totum tempus sui ordinis usque ad crucifixionem ipsius cruc<i> Christi assimilatam et Francisci stigmatibus presi-gnatam.

Par. XIV, 103-105, 124-126

Qui vince la memoria mia lo ’ngegno;
ché quella croce lampeggiava Cristo,
sì ch’io non so trovare essempro degno

Ben m’accors’ io ch’elli era d’alte lode,
però ch’a me venìa “Resurgi e “Vinci”
come a colui che non intende e ode.

Par. XVII, 1-4, 25-27, 97-99

Qual venne a Climenè, per accertarsi
di ciò ch’avëa incontro a sé udito,
quei ch’ancor fa li padri ai figli scarsi;
tal era io ……………………………..

per che la voglia mia saria contenta
d’intender qual fortuna mi s’appressa:
ché saetta previsa vien più lenta.

Non vo’ però ch’a’ tuoi vicini invidie,
poscia che s’infutura la tua vita
via più là che ’l punir di lor perfidie.

L’espressione “ché saetta previsa vien più lenta” (Par. XVII, 27), per quanto assai comune negli scrittori medievali, è tessuta con i fili tratti dall’esegesi della chiesa di Smirne, che viene preparata e animata al martirio come Dante, dal suo avo Cacciaguida, agli strali dell’esilio (Ap 2, 10). Il poeta è stato stimolato da Beatrice a chiedere “non perché nostra conoscenza cresca / per tuo parlare” (vv. 10-11): i beati partecipano della prescienza divina, la quale non abbisogna di altri, angeli o demoni, che le riferiscano del bene o del male ma, rispettando l’ordine gerarchico, permette l’intervento di soggetti intermedi.

Tab. XVII.2

[LSA, cap. XII, Ap 12, 10-11 (IVa visio, IIum prelium)] Tertio quia sicut ordine hierarchico nostra bona referuntur ad Deum per angelos bonos, non quod Deus huiusmodi relationibus egeat, sed tamquam exigens et disponens congruum ordinem in effectibus suis et in causis intermediis, sic recta et hierarchica permissione disponit nostra mala sibi et suis assessoribus per demones accusari, et ex hac accusatione, si vera est, nos iustius puniri tamquam illos qui tanto Dei et suorum et omnium martirum inimico consensimus contra Deum.
Sequitur (Ap 12, 11): “Et ipsi”, scilicet sancti fratres, “vicerunt illum”, scilicet diabolum. Ex hoc patet quod supra per bellum et victoriam angelorum bonorum intelligebat prelium et victoriam istorum sanctorum fratrum. “Vicerunt”, inquam, “propter sanguinem Agni”, id est propter virtutem passionis Christi et propter fidem et spem et caritatem habitam in illam, “et propter verbum testimonii sui”, id est per apertam confessionem eiusdem fidei. “Et non dilexerunt animas suas”, id est suas vitas corporales, “usque ad mortem”, id est quin eas omni passioni usque ad mortem inclusive pro Christo exponerent.

Par. XVII, 7-12, 28-33

Per che mia donna “Manda fuor la vampa
del tuo disio”, mi disse, “sì ch’ella esca
segnata bene de la interna stampa:
non perché nostra conoscenza cresca
per tuo parlare
, ma perché t’ausi
a dir la sete, sì che l’uom ti mesca”.

Cosí diss’ io a quella luce stessa
che pria m’avea parlato; e come volle
Beatrice, fu la mia voglia confessa.
Né per ambage, in che la gente folle
s’inviscava pria che fosse anciso
l’Agnel di Dio che le peccata tolle

2. “Uscite da Babilonia”: un esilio necessario

Nella quinta parte della sesta visione, una voce dal cielo, diversa dalla precedente che è di condanna dei reprobi (Ap 18, 1-3), ammonisce gli eletti a non partecipare con questi della colpa e quindi della pena. Dice dunque: “Uscite, popolo mio, da Babilonia per non associarvi ai suoi delitti e non ricevere parte dei suoi flagelli” (Ap 18, 4). In modo simile dice Geremia al popolo di Dio: “Fuggite da Babilonia e dalla regione dei Caldei e siate come capri in testa al gregge” (Jr 50, 8). Allo stesso modo san Paolo scrive ai Corinzi di non mescolarsi con gli impudichi nominati e famosi che si trovano tra i fedeli, più pericolosi di quelli che si trovano nel mondo al di fuori, tra i pagani (1 Cor 5, 9-13). L’uscire da Babilonia si intende principalmente come allontanamento dalle sue scelleratezze, dalla sua amicizia e dalla sua compagnia. In via secondaria si può intendere anche come un allontanarsi corporeo e locale per il periodo in cui la città verrà assediata e distrutta, come avvenne con i cristiani che si dice fossero ammoniti dall’angelo a lasciare la Giudea nell’imminenza dell’assedio dei Romani. Se poi ci si chiede come mai questo angelo ammonisca a lasciare la città dopo che il precedente ne ha dichiarato la caduta (Ap 18, 2), si può rispondere riferendo le parole del primo angelo all’imminenza della caduta della città, considerata come già avvenuta; oppure al suo accecamento al tempo dell’Anticristo mistico, oppure riferendo le parole del secondo angelo a ciò che gli eletti debbono fare prima e all’approssimarsi della caduta di Babilonia, oppure interpretando che l’ammonizione del secondo angelo vale nel senso che sempre fino alla fine dei tempi ci saranno nel mondo i cittadini di Babilonia, dai quali bisogna dipartirsi.
Brunetto Latini ammonisce Dante a ‘forbirsi’, cioè a mantenersi immune, dai costumi dei suoi concittadini, che una “vecchia fama” (l’essere “nominati” della lettera paolina) nel mondo definisce “orbi”, ingrato popolo maligno, gente avara, invidiosa, superba (Inf. XV, 67-69). Le stesse parole di Brunetto al suo antico discepolo – «E quelli: “O figliuol mio, non ti dispiaccia / se Brunetto Latino un poco teco / ritorna ’n dietro e lascia andar la traccia”» (vv. 31-33) – ripetono, per l’attimo che la poesia registra in “loco etterno”, l’ammonimento di Geremia 50, 8: “Recedite de medio Babilonis”.
Cacciaguida dice a Dante, preannunciandogli l’esilio, che “di Fiorenza partir ti convene”, eco del paolino oportet exire … non commisceri dal e col mondo. Gli dice ancora che farà bene a far parte per sé stesso, abbandonando la compagnia dei Bianchi esiliati con lui, “che, tutta ingrata, tutta matta ed empia”, rappresenta la “societas reproborum” della nuova Babilonia (Par. XVII, 46-48, 61-69). Non diverse sono state le parole di Virgilio al poeta in lacrime per l’impedimento frapposto dalla lupa nell’ascesa al dilettoso monte: “A te convien tenere altro vïaggio” (Inf. I, 91-93). Brunetto Latini definisce i Fiorentini “li lazzi sorbi” tra i quali “si disconvien fruttare al dolce fico”, dai cui costumi Dante deve ‘forbirsi’ (Inf. XV, 65-66). Al momento di ‘uscire’ dall’inferno, capovoltosi aggrappato al pelo di Lucifero, Virgilio dice che “per cotali scale … conviensi dipartir da tanto male” (Inf. XXXIV, 82-85).
Da notare come le parole di Cacciaguida: “Questo si vuole e questo già si cerca, / e tosto verrà fatto a chi ciò pensa / là dove Cristo tutto dì si merca” (Par. XVII, 49-51) siano memori dell’inciso: «quando ibi dicitur: “Cecidit, cecidit Babilon” <et cetera>, hoc dixit pro imminenti casu eius, ex quo iam reputabat illum quasi iam factum …». In terra l’esilio di Dante già si prepara e presto sarà fatto, esilio necessario (“di Fiorenza partir ti convene”) perché la provvidenziale punizione della Chiesa carnale è anch’essa imminente e come già avvenuta. “Là dove Cristo tutto dì si merca”: “(Ap 18, 4) … non est ecclesia Christi sed sinagoga Sathane et habitatio demonum … (prologo, Notabile V) Inter laxationes autem intellig<e> symonias, quibus omnia ecclesiastica fere ab omnibus venduntur et emuntur et quasi venalia reputantur … (prologo, Notabile VII) … multiplex enormitas superbie et luxurie et symoniarum et causidicationum et litigiorum et fraudum et rapinarum ex ipsis occasionaliter accepta, ex quibus circa finem quinti temporis a planta pedis usque ad verticem est fere tota ecclesia infecta et confusa et quasi nova Babilon effecta”.
Il fatto che fino alla fine dei tempi ci saranno sempre nel mondo “aliqui babilonici, id est reprobi” (Ap 18, 4), tenendo conto che Babilonia è interpretata come “confusio” (cfr. Ap 14, 8), viene reso da Cacciaguida con l’affermazione che “sempre la confusion de le persone / principio fu del mal de la cittade”, ossia il mescolare le stirpi con la venuta di gente nuova da fuori le città fu sempre causa della rovina di queste, come il cibo non digerito è causa di malattia per l’uomo (Par. XVI, 67-69; cfr., alla terzina successiva, con l’esegesi di Ap 18, 4 l’espressione “e cieco toro più avaccio cade / che cieco agnello”: “et estote quasi edi ante gregem … de casu excecationis eius …”).
Non sarà poi casuale che, rinviando per memoria alla stessa esegesi, i versi 61-69 (terzine 21a-23a) di Inf. XV e Par. XVII si rispondano nel dire contro i Fiorentini in genere (Brunetto Latini) e contro i Bianchi in particolare (Cacciaguida). Il rinvio non è solo ad Ap 18, 4, ma anche ad Ap 17, 6, dove si tratta della prostituta prima pagana e poi cristiana, recidiva nella colpa che ricade sulle generazioni successive come l’acqua di un fiume: «… hec mulier in suo priori et antiquo tempore … “ut veniat super vos omnis sanguis iustus” (Mt 23, 35) … de omnibus facta ingrata … non timuit cadere in peccata consimilia vel peiora …│(Inf. XV) Ma quello ingrato popolo maligno / che discese di Fiesole ab antico, / e tiene ancor del monte e del macigno, / ti si farà, per tuo ben far, nimico … │ (Par. XVII) E quel che più ti graverà le spalle, / sarà la compagnia malvagia e scempia / con la qual tu cadrai in questa valle; / che tutta ingrata, tutta matta ed empia / si farà contr’ a te; ma, poco appresso, / ella, non tu, n’avrà rossa la tempia». Sarà infatti la Chiesa carnale e meretricia, non quella spirituale che appartiene a Cristo, a essere sterminata (Ap 7, 3).
Nella bolgia dei barattieri, Dante cerca invano di convincere Virgilio a rifiutare la scorta dei diavoli, “fiera compagnia” (Inf. XXI, 127-129; XXII, 13-15, cfr. anche l’espressione “e talvolta partir per loro scampo”, v. 3, da riferire al recedere da Babilonia da Ap 18, 4).
Virgilio, alla fine di Inf. XXX, rimprovera Dante per essersi troppo soffermato ad ascoltare le basse parole dei litigiosi maestro Adamo e Sinone. Nello stesso canto, Griffolino addita “l’anima antica / di Mirra scellerata, che divenne / al padre, fuor del dritto amore, amica” (vv. 37-39; “loquitur hic de exitu ab imitatione et participatione scelerum eius, et etiam ab omni amicitia vel societate ipsius prebente occasionem peccandi”), versi nei quali Ovidio (Met. X, 314-315: “scelus est odisse parentem; / hic amor est odio maius scelus”) concorda con l’esegesi apocalittica.
Se Dante, a differenza di Olivi, non usa mai l’espressione “Chiesa carnale”, si noterà come proprio verso le caratteristiche dell’“Ecclesia carnalis” – così come descritte nell’esegesi apocalittica – venga sollecitata la memoria del lettore attraverso parole-chiave incardinate nel senso letterale. Ma non si tratta solo della Chiesa romana, o dei suoi pastori, perché è l’intera Chiesa militante ad essere investita, e anche la sua antica prefigurazione nel mondo pagano. La divisione in tre parti della città (Ap 16, 19) è applicata a Firenze, “città partita”, come pure la necessità di uscire da Babylon per non essere contaminati dai suoi mali (Ap 18, 4) che risuona nelle parole di Brunetto Latini e di Cacciaguida. Alla confusione babilonica fa riferimento l’avo di Dante parlando dell’arrivo dei nuovi cittadini dal contado che hanno contaminato l’originaria purezza – “Sempre la confusion de le persone / principio fu del mal de la cittade” (Par. XVI, 67-69) -, ma è il poeta stesso a descrivere la propria “Babilonia” interiore, da bruciare come quella storica, nel pianto di pentimento di fronte a Beatrice ritrovata nell’Eden (Purg. XXXI, 7-9).

Tab. XVII.3

Inf. I, 91-93; Par. XVII, 46-51, 61-69

“A te convien tenere altro vïaggio”,
rispuose, poi che lagrimar mi vide,
“se vuo’ campar d’esto loco selvaggio”

Qual si partio Ipolito d’Atene
per la spietata e perfida noverca,
tal di Fiorenza partir  ti convene.
Questo si vuole e questo già  si cerca,
e tosto verrà fatto  a chi ciò pensa
là dove Cristo tutto dì si merca.

E quel che più ti graverà le spalle,
sarà la compagnia malvagia e scempia
con la qual tu cadrai in questa valle;
che tutta ingrata, tutta matta ed empia
si farà contr’ a te; ma, poco appresso,
ella, non tu, n’avrà rossa la tempia.
Di sua bestialitate il suo processo
farà la prova; sì ch’a te fia bello
averti fatta parte per te stesso.

Inf. XV, 31-33, 61-69

E quelli: “O figliuol mio, non ti dispiaccia
se Brunetto Latino un poco teco
ritorna ’n dietro  e lascia andar la traccia”.

Ma quello ingrato popolo maligno
che discese di Fiesole ab antico,
e tiene ancor del monte e del macigno,
ti si farà, per tuo ben far, nimico;
ed è ragion, ché tra li lazzi sorbi
si disconvien fruttare al dolce fico.
Vecchia fama nel mondo li chiama orbi;
gent’ è avara, invidiosa e superba:
dai lor costumi fa che tu ti forbi.

 

[Ap 18, 4; VIa visio] “Et audivi aliam vocem de celo dicentem” (Ap 18, 4). Recte dicitur alia, quia prior fuit de dampnatione reproborum, hec vero est de admonitione electorum, ne communicent cum reprobis in culpa et tandem in pena. Ait enim: “Exite  de illa, popule meus, et ne participes sitis delictorum eius et de plagis eius ne accipiatis”. Idem dicitur Ieremie, L°, ubi dicitur Dei populo: “Recedite de medio Babilonis et de terra Caldeorum egredimini, et estote quasi edi ante gregem”, et subdit causam quia cito est capienda et destruenda (Jr 50, 8-9).
Et nota quod principaliter loquitur hic de exitu ab imitatione et participatione scelerum eius, et etiam ab omni amicitia vel societate ipsius prebente occasionem peccandi. Plus autem precipit hoc modo exire ab ea quam a paganis, quia facilius inficiuntur fideles a societate pravorum fidelium vel hereticorum quam a paganis. Unde Apostolus Ia ad Corinthios V° dicit: “Scripsi vobis: Ne commisceamini”, id est ne communicetis, “fornicariis, non utique fornicariis huius mundi”, id est paganis tunc per totum orbem dispersis et cetera, “alioquin debueratis de hoc mundo exisse” (1 Cor 5, 9-10), id est si de illis hoc precepissem, oporteret vos de toto mundo exire, quia ipsi sunt ubique replentes totum mundum. Et ideo subdit: “Nunc autem scripsi vobis non commisceri ” fratribus, id est christianis, qui sunt nominati, id est famosi et per sententiam ecclesie notati de vitiis que ibi subiungit (1 Cor, 5, 11).

[LSA, cap. VII, Ap 7, 3 (IIa visio, apertio VIi sigilli)] Quinto ut subsequens iudicium de carnali ecclesia per decem reges fiendum sit et appareat iustius et Christo honorabilius. Ex hoc enim evidenter apparebit quod non sua ecclesia, sed potius inimica et persecutrix est ab illo exterminata. Ad cuius maiorem evidentiam spectat quod electi erunt ex tunc sic ab ea sequestrati, sicut apostoli et ceteri catholici fuerunt sequestrati a sinagoga a tempore Christi usque ad subversionem eius factam per Titum et Vespasianum, propter quod infra XVIII°, ubi de futuro casu Babilonis agitur, dicit vox de celo: “Exite de illa, popule meus, et ne participes sitis delictorum eius et de plagis eius non accipiatis, quoniam pervenerunt peccata eius usque ad celum” et cetera (Ap 18, 4-5).

Inf. XXI, 127-129; XXII, 1-3, 13-15

“Omè, maestro, che è quel ch’i’ veggio?”,
diss’ io, “deh, sanza scorta andianci soli,
se tu sa’ ir; ch’i’ per me non la cheggio”.

Io vidi già cavalier muover campo,
e cominciare stormo e far lor mostra,
e talvolta partir per loro scampo

Noi andavam con li diece demoni.
Ahi fiera compagnia! ma ne la chiesa
coi santi, e in taverna coi ghiottoni.

 Inf. XXX, 37-39

Ed elli a me: “Quell’ è l’anima antica
di Mirra scellerata, che divenne
al padre, fuor del dritto amore, amica”.

Inf. XXXIV, 82-85

“Attienti ben, ché per cotali scale”,
disse ’l maestro, ansando com’ uom lasso,
conviensi dipartir da tanto male”.
Poi uscì  fuor per lo fóro d’un sasso

[segue 18, 4] Secundario autem potest loqui de corporali et locali recessu a terra ipsius pro illo tempore pro quo erit a decem regibus paganis obsidenda et destruenda. Sic enim dicuntur christiani per angelum moniti fuisse ut exirent de Iudea et Iherusalem tempore quo fuit a Romanis obsidenda et capienda, unde et dicuntur tunc inde discessisse in regnum Agrippe. Si queratur quomodo precipit hic exire de Babilone, cum mox premiserit ipsam cecidisse et destructam esse, primo potest dici <quod> quando ibi dicitur: “Cecidit, cecidit Babilon” <et cetera>, hoc dixit pro imminenti  casu eius, ex quo iam reputabat illum quasi iam factum, sicut de egro desperato et statim morituro dicimus: mortuus est. Secundo posset dici quod ibi locutus est de casu excecationis eius sub mistico Antichristo, quem sancti tunc temporis fortiter predicabunt dicentes quod ex tunc non est ecclesia Christi sed sinagoga Sathane et habitatio demonum. Tertio potest dici quod hic redit ad docendum electos pro hiis que debent cavere ante casum et prope casum eius. Quarto potest dici quod electi semper debent recedere a prava imitatione malorum tam preteritorum quam presentium. Semper enim usque ad finem seculi erunt in hoc mundo aliqui babilonici, id est reprobi, a quorum peccatis est recedendum.

Par. XVI, 67-72

Sempre la confusion de le persone
principio fu del mal de la cittade,
come del vostro il cibo che s’appone;
e cieco toro più avaccio cade
che cieco agnello; e molte volte taglia

più e meglio una che le cinque spade.

[Ap 14, 8; IVa visio] Ecclesia carnalis ideo vocatur “Babilon” hic et infra XVII° et XVIII° (Ap 17, 5; 18, 2/10/21), et tam ibi quam capitulo XIX° vocatur ‘meretrix magna’ (Ap 17, 1; 19, 2), tum quia ordo virtutum est in ipsa per deordinationem vitiorum enormiter confusus (Babilon enim confusio interpretatur) […].

 

Equivale alla tentazione giudaica, forte di avere dalla sua parte, contro Cristo, l’autorità e la testimonianza dei ‘maggiori’, e dei più antichi e famosi sapienti e la sequela di quasi tutto il popolo, il ritenere, come fanno gli stolti, Giraut de Bornelh (“quel di Lemosì”) superiore nella poesia ad Arnaut Daniel, che invece soverchiò tutti nei versi d’amore e nelle prose dei romanzi. Le parole con cui, nel settimo e ultimo girone del purgatorio, Guido Guinizzelli assegna il vero primato (Purg. XXVI, 115-126; cfr. Purg. VI, 4: “con l’altro se ne va tutta la gente”, cioè con chi vince “il gioco de la zara”) sono parodia dei temi dell’esegesi di Ap 8, 7 (prima tromba) e 13, 18 (sesta guerra), in cui la tentazione causata nei santi dall’Anticristo mistico, nel momento in cui sale la bestia dalla terra, sta nell’avere questa dalla sua la sentenza dei maestri e dei dottori e l’opinione della moltitudine cui appare stolto, insano ed eretico contraddire. Quanto avvenuto con Giraut de Bornelh, considerato a torto il più grande dei trovatori, è capitato anche con Guittone d’Arezzo, al quale “molti antichi” (lo stesso aggettivo dei sapienti della Sinagoga) hanno dato pregio esclusivo, “di grido in grido” fino a che la verità è apparsa evidente con poeti a lui superiori. La poesia di Guittone sta al dolce stil novo come la Sinagoga alla Chiesa di Cristo, o come la Chiesa del quinto stato a quella del sesto, il periodo con il quale si inizia un “novum saeculum” (che ha il primato sul terzo stato generale del mondo, appropriato allo Spirito; cfr. le parole di Oderisi da Gubbio) e quanti “a voce più ch’al ver drizzan li volti” sono assimilati ai falsi profeti che fanno adorare l’immagine della bestia, il falso papa al quale dicono bisogna credere più che a Cristo e al Vangelo.
Come molti assegnarono il primato “di grido in grido” a Guittone, così “la colpa seguirà la parte offensa / in grido, come suol”: nelle parole di Cacciaguida
(Par. XVII, 52-54), Dante esiliato recita la parte del detentore della dottrina dei santi servi di Dio che i carnali seguaci della bestia dichiarano falsa, sostenuti dalla stolta opinione delle moltitudini. Come infine Guittone “l’ha vinto il ver con più persone”, così “la vendetta / fia testimonio al ver che la dispensa”: Dio, al quale tutto è riferibile come presente (“il punto / a cui tutti li tempi son presenti”, vv. 17-18) non verrà a giudicare, ma già viene (cfr. Ap 1, 4-5; il primo dei sette primati di Cristo uomo è di essere fedele testimone della verità divina).

Tab. XVII.4

[LSA, cap. XIII, Ap 13, 4-7.18 (IVa visio, VIum prelium)] Sequitur: “Et admirata est universa terra post bestiam” (Ap 13, 3), id est cum multe admirationis timore et stupore de resurrectione capitis bestie seu de reassumptione tante potestatis. Omnes terreni, terrena amantes, secuti sunt bestiam. “Et adoraverunt drachonem, qui dedit potestatem bestie” (Ap 13, 4). Adorare enim errorem et erroneam sectam illius bestie est adorare drachonem actorem illius erroris et secte. Vel, secundum Ioachim, adorare drachonem est quasi adorare regem illum in quo diabolus et eius malitia et potestas singulariter habitabit. […]
“Et datum est ei os loquens magna et blasphemias” (Ap 13, 5), id est ex hoc quod Deus permittit illam bestialem gentem ad tantam potestatem ascendere, data est <ei> audacia superba ad magnanimiter loquendum grandia et blasphemias contra Christum et suos. “Et data est illi potestas facere malum menses quadraginta duos”, id est per tot menses. “Et aperuit os suum in blasphemias ad Deum, blasphemare nomen eius” (Ap 13, 6), dicendo scilicet Christum non fuisse Deum, nec Deum esse in personis trinum, et preferendo se summo Deo Christo; “et tabernaculum eius”, id est ecclesiam Christi, dicendo scilicet ipsam esse erroneam et perversam; “et eos qui habitant in celo”, id est sanctos celestis conversationis et etiam sanctos iam in celo beatos, dicendo ipos esse dampnatos vel non ut nos credimus beatificatos.
“Et datum est illi bellum facere cum sanctis et vincere illos” (Ap 13, 7), id est corporaliter occidere eos. Vel ideo, secundum Ioachim, dicitur “vincere illos” quia in astutia verborum et in multitudine falsorum signorum et prodigiorum confutabit et deridebit sanam et catholicam doctrinam sanctorum, ita quod totus orbis in eum credens protestabitur et clamabit falsam esse doctrinam sanctorum servorum Dei et Christi, et fidem et doctrinam Antichristi esse veram et catholicam. […]
(Ap 13, 18) Cum autem apostatrix bestia de terra religiosorum ascendet in altum cum duobus cornibus pseudo-religiosorum et pseudoprophetarum similibus falso veris cornibus Agni, tunc erit validissima temptatio mistici Antichristi. Surgent enim tunc pseudochristi et pseudoprophete, qui facient ab omnibus adorari cupiditatem et carnalitatem seu terrenam gloriam bestie secularis (cfr. Mt 24, 24).
Dabuntque ad hoc signa magna. Primo scilicet sue ecclesiastice auctoritatis, cui contradicere videbitur inobedientia et contumacia et rebellio scismatica.
Secund<o> universalis sententie omnium magistrorum et doctorum suorum, et etiam totius multitudinis, seu communis opinionis omnium, cui contradicere videbitur stultum et insanum et etiam hereticum.
Tertio dabunt signa rationum et scripturarum falso intortarum, et etiam signa alicuius superficialis ac vetuste et multiformis religionis per longam successionem ab antiquo firmate et sollempnizate, ita ut cum hiis signis ignem divine ire super contradictores videantur facere descendere, et e contra quasi ignem sancti et apostolici zeli videantur ipsi de celo in suos discipulos facere descendere. Statuent etiam ut qui non obedierit anathematizetur et de sinagoga eiciatur et, si oportuerit, brachio seculari bestie prioris tradatur. Facient etiam quod imago bestie, id est pseudopapa a rege bestie sublimatus, adoretur, ita ut sibi plusquam Christo et eius evangelio credatur et ut adulatorie quasi Deus huius seculi honoretur.

[LSA, cap. VIII, Ap 8, 7 (IIIa visio, Ia tuba)] Vel per hoc designatur quod temptationem que simul habet magnam speciem boni et veri, et auctoritatem et testimonium maiorum et antiquiorum et in sapientia famosiorum, et sequelam maioris et quasi totalis partis populi, nullus potest vincere nisi sit in fide et caritate firmus ut terra vel arbor et non fragilis et instabilis et cito arefactibilis sicut fenum. Talis autem fuit temptatio iudaica contra Christum.

Par. XVII, 52-54

La colpa seguirà la parte offensa
in grido, come suol; ma la vendetta
fia testimonio al ver che la dispensa.

Inf. XXX, 112-114

E l’idropico: “Tu di’ ver di questo:
ma tu non fosti sì ver testimonio
là ’ve del ver fosti a Troia richiesto”.

Inf. VIII, 128; IX, 64; Purg. XXIII, 108; XXXIII, 41

e già di qua da lei discende l’erta

E già venìa su per le torbide onde

già per urlare avrian le bocche aperte

a darne tempo già stelle propinque

Purg. VI, 4-6

con l’altro se ne va tutta la gente;
qual va dinanzi, e qual di dietro il prende,
e qual dallato li si reca a mente

Purg
. XXVI, 115-126

“O frate”, disse, “questi ch’io ti cerno
col dito”, e additò un spirto innanzi,
“fu miglior fabbro del parlar materno.
Versi d’amore e prose di romanzi
soverchiò tutti; e lascia dir li stolti
che quel di Lemosì credon ch’avanzi.
A voce più ch’al ver drizzan li volti,
e così ferman sua oppinïone
prima ch’arte o ragion per lor s’ascolti.
Così fer molti antichi di Guittone,
di grido in grido pur lui dando pregio,
fin che l’ha vinto il ver con più persone”.

Par. XVII, 16-18

così vedi le cose contingenti
anzi che sieno in sé, mirando il punto
a cui tutti li tempi son presenti

 

[LSA, cap. I, Ap 1, 4-5 (Salutatio)] Deinde subdit a quo optat eam dari, insinuans trinam habitudinem esse dantis. Prima est Deus, ut in se ipso absolute et eternaliter existens. Secunda est eius spiritualis virtus, prout est ad varios influxus donorum spiritualium indistantissime ordinata et in ipsis participata et quasi multiplicata. Tertia est Christus in quantum homo, predicta dona nobis promerens et impetrans et dispensans.
Pro primo dicit: “Ab eo qui est” et cetera. Hoc realiter stat pro Dei maiestate tribus personis communi, quamvis appropriate possit stare pro Patre. Explicat autem vim sue eternitatis per respectum ad tria tempora. Et primo per respectum ad presens, quod est magis proprium Deo, unde dicit: “ab eo qui est”. Secundo per respectum ad preteritum, quod quidem in Deo non est sub ratione preteriti sed presentis. Et ideo dicit: “et qui erat”, non ‘qui fuit’. Nam le “erat” non sic significat recessum ab ente et a presente sicut le ‘fuit’. Tertio per respectum ad futurum, unde dicit: “et qui venturus est”. Non dicit ‘qui futurus est’, quasi nondum sit, sed qui iam existens in se est ad iudicium venturus. In quo et incitat nos ad timorem et spem, quia eius adventus erit terribilis malis et gratiosus electis. In hiis etiam designat quod ipse est causa omnium preteritorum, presentium et futurorum. […]
Pro tertio dicit: “Et a Ihesu Christo” (Ap 1, 5). Ne autem propter fragilitatem passionis et mortis quam tunc passus fuerat et propter contemptum quo tunc ab infidelibus spernebatur ubique crederetur esse fragilis et despectus, ideo septem notabiles primatus sibi singulariter ascribit, scilicet primatum attestationis salutaris veritatis Dei, cum dicit: “qui est testis fidelis”.

3. Il nuovo Giovanni, autore della nuova Apocalisse

Segue: E la voce (aggiungi, secondo Riccardo, fu pronunciata o risuonò) che avevo udito dal cielo mi parlò di nuovo e disse: Va’, e prendi il libro aperto dalla mano dell’angelo che sta sul mare e sulla terra. E andai dall’angelo e lo pregai di darmi il libro (10, 8-9). Secondo Gioacchino quest’Ordine figurato in Giovanni udrà questa voce dal cielo, cioè dalla Sacra Scrittura, perché se non ci fosse altra voce nella Scrittura che lo ordinasse, basterebbe la voce che discende da questo grande cielo, cioè da questo libro aperto, e anche quella che dice la stessa cosa nel terzo capitolo di Ezechiele. Andrà, dunque, quest’Ordine dall’angelo con la verità conosciuta, assentirà con reverenza alla verità di Dio annunciata. Si può anche dire che questa voce è ogni ispirazione di Dio che incita e accende affinché [i membri dell’Ordine] imparino la sapienza del libro dai sacri dottori, designati da questo angelo e in particolare da Cristo. Dio infatti insegnerà loro a non presumere di poter partecipare alla sapienza del libro con le proprie forze e senza il magistero di questo angelo.
Segue: Ed egli, cioè l’angelo, mi disse: Prendi il libro e divoralo; ti riempirà di amarezza le viscere cioè, farà torsioni amare nel tuo ventre, o dopo che sarà nel ventre provocherà esalazioni amare verso la bocca, ma nella tua bocca sarà dolce come il miele. E presi il libro e di seguito (10, 9-10).
Nota che non dice ‘leggi’ ma divora, e non dice ‘vedi’ ma prendi, perché il ferventissimo e rapido affetto e gusto della devozione vuole masticare, assaporare, giungere all’intimità dei sensi spirituali e delle intelligenze del libro. Vuole anche che sia preso in mano, cioè che sia applicato e osservato nelle opere, cosicché si compia nella pratica quanto viene insegnato nel libro. La contemplazione di questo libro è dolce alla bocca, cioè al gusto spirituale, ma riempie di amarezza le viscere perché conduce all’amarezza della fatica e della passione. Per quanto, infatti, la chiara contemplazione delle future passioni sia soave per la mente, tuttavia nell’esperienza della fatica vi è gemito e afflizione di spirito. Non c’è contraddizione quindi se, sotto diversi aspetti, sia insieme dolce e amara, così come la passione di Cristo in quanto trionfale e per noi salubre ci è dolce, ma in quanto trafigge le nostre viscere per la compassione ci è amara.
Segue: E mi disse: devi profetizzare ancora su molti popoli, nazioni, lingue e re (10, 11). Nella stessa sapienza del libro è espressamente affermata la necessità che il Vangelo sia predicato nuovamente in tutto il mondo, ai Giudei e ai Gentili, e che tutto il mondo alla fine sia convertito a Cristo. Ma che questo debba essere compiuto  per mezzo di Giovanni lo si poteva sapere solo tramite una rivelazione spirituale, e dico ciò interpretando qui con Giovanni delle singole persone; se invece con Giovanni intendiamo un Ordine  evangelico e contemplativo, allora la comprensione stessa del libro mostra che sarà esso a compiere la predicazione e la conversione universale.
Si può anche affermare che Giovanni, nel momento stesso in cui per ispirazione e ordine di Dio ricevette dall’angelo la particolare intelligenza del libro e la inviscerò in se stesso con singolare dolcezza, comprese a sufficienza di essere destinato alla predicazione alle genti, e per questo preavvertì con dolore le gravi passioni riservate a lui e alla Chiesa; ma nondimeno tutto ciò viene asserito più ampiamente dai sacri dottori affinché non si tema l’impedimento posto dalla tentazione dell’Anticristo e dall’eccessiva moltitudine dei nemici.
Si può anche dire che questo è affermato piuttosto come un precetto, ingiungendogli l’officio di predicare a tutti, per quanto infedeli o lontani (per cui dice: Devi profetizzare ancora e di seguito). Anche se si può dire che è necessario rispetto all’infallibilità della prescienza divina e della predestinazione e rispetto alla finale necessità e utilità della conversione delle genti per mezzo della sua parola [1].

Passo capitale quello che, ad Ap 10, 9-11, riguarda l’ingiunzione dell’angelo a Giovanni di predicare ancora a tutto il mondo dopo gli apostoli. Esso dovette dare a Dante la consapevolezza della propria missione nello scrivere una vera visione e permettergli la libertà di usare parole gravi anche nei confronti dei papi. Al passo rinvia il momento in cui Dante ascolta da Cacciaguida il suo futuro destino e le vicende dolorose dell’esilio, e gusta insieme l’amaro del suo futuro patire con il dolce della fama che gli è riservata. Questo essere dolce e amaro non è solo nel gusto di Dante che ascolta le parole dell’avo, ma pure negli effetti del libro, molesto nel primo gusto ma poi salutare. Come ai nuovi predicatori del sesto stato della Chiesa viene confermato dai sacri dottori il loro essere destinati alla predicazione universale in modo che non temano di venirne impediti dalla moltitudine dei nemici, così Cacciaguida invita Dante a non essere “timido amico” del vero e a manifestare senza timore tutta la sua visione, nonostante i molti che si troveranno ad avere “coscïenza fusca / o de la propria o de l’altrui vergogna” (Par. XVII, 124-142).
La contemplazione del libro è dolce alla bocca, cioè al gusto spirituale, ma riempie di amarezza le viscere perché conduce all’amarezza della fatica e della passione. Per quanto, infatti, la chiara contemplazione delle future passioni sia soave per la mente, tuttavia nell’esperienza della fatica vi è gemito e afflizione di spirito. L’alternanza del dolce e dell’amaro percorre l’intero episodio: la vista del tempo che si prepara per il suo discendente viene a Cacciaguida dal “cospetto etterno”, cioè dalla prescienza divina, come “dolce armonia da organo” (Par. XVII, 43-45), ma nell’esperienza Dante dovrà provare “sì come sa di sale / lo pane altrui” (vv. 58-59). L’inferno è “lo mondo sanza fine amaro”, per esso e per gli altri due regni il poeta ha appreso cose che, se ripetute, “a molti fia sapor di forte agrume” (vv. 112-117). Alla fine delle parole di Cacciaguida, Dante “gustava” il suo pensiero “temprando col dolce l’acerbo” (XVIII, 2-3). Nel caso della voce che “sarà molesta nel primo gusto”, ma “vital nodrimento / lascerà poi, quando sarà digesta” (XVII, 130-132), l’esegesi oliviana arma quanto afferma Boezio sulle verità che mordono se gustate, per poi diventare dolci una volta ricevute dentro (De cons. phil., III, 1).
Varianti del tema sono “lo dolce assenzo d’i martìri” dei gironi del purgatorio, al cui bere Nella ha condotto il marito Forese liberandolo con le sue preghiere dalla costa dove aspettano i negligenti nel pentimento (Purg. XXIII, 85-87); il legno dell’albero simbolico dell’Eden, dolce al gusto ma che fa poi torcere il ventre (Purg. XXXII, 43-45, con effetto contrario a quello del libro dato a Giovanni, che prima provoca contorsioni amare e poi risulta dolce; Adamo, a Par. XXXII, 121-123, “è ’l padre per lo cui ardito gusto / l’umana specie tanto amaro gusta”). Da notare anche la rima afflitto/trafitto a Inf. XXVII, 10.12 e, invertita, Par. XXX, 41.45.
Il tema delle future gravi passioni cui sarà soggetta la Chiesa passa nelle “parole gravi” dette a Dante sulla sua “vita futura” nel corso del viaggio (Par. XVII, 22-23), nel gravare le spalle dell’esule da parte dei suoi compagni di parte bianca (vv. 61-63), nelle parole di conforto di Beatrice, la quale sta “presso a colui ch’ogne torto (le “tortiones amare”) disgrava” (XVIII, 4-6). È anche il tema che accompagna la descrizione di Giovanni che siede di lato a Pietro nella rosa celeste: “quei che vide tutti i tempi gravi, / pria che morisse, de la bella sposa / che s’acquistò con la lancia e coi clavi”, dove il riferimento alla lancia non può non far pensare all’Olivi, che contro l’opinione corrente sostenne essere stata la causa della morte di Cristo (Par. XXXII, 127-129; per Dante Cristo era ancora vivo allorché il colpo venne vibrato, come afferma lo stesso Tommaso d’Aquino a Par. XIII, 40-41: “e in quel che, forato da la lancia, / e prima e poscia tanto sodisfece”).
Sublimazione della tematica, nell’Empireo gli angeli – “moltitudine volante” che non “impediva la vista e lo splendore”, variazione dissonante della moltitudine dei nemici che impediscono la predicazione  – s’interpongono tra Dio e i beati (i petali della rosa) “sì come schiera d’ape che s’infiora / una fïata e una si ritorna / là dove suo laboro s’insapora”, vanno cioè, come il libro nei suoi effetti, dalla fatica al dolce gustare (Par. XXXI, 7-9, 19-21).
“Et dixit michi: Oportet te iterum prophetare in gentibus et populis et linguis et regibus multis” (Ap 10, 11). Dante, alter Iohannes, evangelista degli ultimi tempi – già “sesto tra cotanto senno” in compagnia dei sommi poeti del Limbo (Inf. IV, 100-102) -, riceve da Cacciaguida l’ingiunzione di predicare al mondo col rendere manifesto quanto gli è stato mostrato nel corso del viaggio e che egli ha notato nel suo poema sacro, nuova Apocalisse. L’ingiunzione verrà confermata da san Pietro nell’ottavo cielo, delle stelle fisse: “e tu, figliuol, che per lo mortal pondo / ancor giù tornerai, apri la bocca, / e non asconder quel ch’io non ascondo” (Par. XXVII, 64-66). Il passo di riferimento si trova ad Ap 22, 10, nel comando di divulgare la dottrina profetica in quanto utile e necessaria agli eletti, anche se nociva a molti per la loro malizia. Il versetto successivo (Ap 22, 11), dove si afferma che a chi si trova nelle brutture a causa della sua malizia è bene sia permesso di lordarsi ancor più, è parodiato nelle brusche parole di Cacciaguida: “e lascia pur grattar dov’ è la rogna” (Par. XVII, 129). San Pietro, infine, nel rivolgersi a Dante usa quell’avverbio ancor che se è riferito all’essere il poeta un mortale che deve di nuovo tornare sulla terra, sembra bene alludere all’iterum detto dall’angelo un tempo a Giovanni e ora agli spirituali del sesto stato della Chiesa (che si tratti di un Ordine di contemplativi evangelici o di “singulares persone”) perché predichino ancora, dopo gli apostoli, a tutto il mondo quanto scritto nel libro loro aperto e consegnato, da essi divorato con dolore e con dolcezza.

[1] Traduzione di Alberto Forni e Paolo Vian, tratta dalla traduzione italiana, in preparazione, dell’intera Lectura super Apocalipsim.

3. The new John, author of the new Apocalypse

And he, that is, the angel, said to me, Take the book and devour it; it will fill your bowels with bitterness, that is, it will cause bitter twists in your belly, or once it is in your belly it will cause bitter exhalations to rise to your mouth, but in your mouth it will be sweet as honeyI took the book, and so forth.
Note that it does not say “read” but devour, and it does not say “see” but take, because the fervent and rapid affection and taste of devotion wants to chew, savour, and reach the intimacy of the spiritual senses and intelligences of the book. It also wants it to be taken in hand, that is, applied and observed in works, so that what is taught in the book may be accomplished in practice. Contemplation of this book is sweet to the mouth, that is, to the spiritual taste, but it fills the bowels with bitterness because it leads to the bitterness of toil and passion. For although the clear contemplation of future passions is sweet to the mind, nevertheless in the experience of toil there is groaning and affliction of spirit. There is no contradiction, therefore, if, in different respects, it is both sweet and bitter, just as the passion of Christ, inasmuch as it is triumphant and salutary for us, is sweet, but inasmuch as it pierces our bowels with compassion, it is bitter.
Continuing: And he said to me: You must prophesy again to many peoples, nations, languages and kings. The same wisdom of the book expressly affirms the necessity that the Gospel be preached again throughout the world, to Jews and Gentiles, and that the whole world be converted to Christ in the end. But that this must be accomplished through John could only be known through spiritual revelation, and I say this interpreting John here as individual persons; if, on the other hand, by John we mean an evangelical and contemplative Order, then the understanding of the book shows in itself that it will be this Order that will accomplish universal preaching and conversion.
It can also be said that John, at the very moment when, by inspiration and order of God, he received from the angel the particular understanding of the book and internalised it within himself with singular sweetness, understood sufficiently that he was destined for preaching to the Gentiles, and for this reason he foresaw with sorrow the grave passions reserved for him and for the Church; but nevertheless all this is asserted more broadly by the sacred doctors so that there is no fear of the impediment posed by the temptation of the Antichrist and the excessive multitude of enemies.
It can also be said that this is stated rather as a precept, enjoining him the office of preaching to all, however unfaithful or distant (wherefore he says: You must prophesy again, and so forth). Although can be said that it is necessary with regard to the infallibility of divine foreknowledge and predestination, and with regard to the final necessity and usefulness of the conversion of the nations by means of his word. (Lectura super Apocalipsim, Rev 10: 9-11)

            A crucial passage is found in Ap 10:9-11, concerning the angel’s injunction to John to continue preaching to the whole world after the apostles. This must have given Dante an awareness of his own mission in writing a true vision and allowed him the freedom to use strong words even against the popes. The passage refers to the moment when Dante hears from Cacciaguida about his future destiny and the painful events of his exile, and tastes both the bitterness of his future suffering and the sweetness of the fame that awaits him. This sweet and bitter taste is not only in Dante’s taste as he listens to his ancestor’s words, but also in the effects of the book, which is unpleasant at first but then salutary. Just as the sacred doctors confirm to the new preachers of the sixth period of the Church that they are destined for universal preaching so that they do not fear being prevented from doing so by the multitude of enemies, so Cacciaguida invites Dante not to be a “timid friend” of the truth and to manifest his entire vision without fear, despite the many who will find themselves having “a conscience overcast / or with its own or with another’s shame” (Par. XVII, 124-142).
            Contemplation of the book is sweet to the mouth, that is, to the spiritual taste, but it fills the bowels with bitterness because it leads to the bitterness of toil and passion. For although clear contemplation of future passions is sweet to the mind, nevertheless in the experience of toil there is groaning and affliction of spirit. The alternation of sweet and bitter runs through the entire episode: the vision of the time that is being prepared for his descendant comes to Cacciaguida from the “the eternal aspect”, that is, from divine foreknowledge, as “sweet harmony from an organ” (Par. XVII, 43-45), but in experience Dante will have to taste “how savoureth of salt / the bread of others” (vv. 58-59). Hell is “the world of infinite bitterness”, and through it and the other two realms, the poet has learned things which, if repeated, “will have a too harsh savour to many” (vv. 112-117). At the end of Cacciaguida’s words, Dante “savoured” his thoughts, “the bitter tempering with the sweet” (XVIII, 2-3). In the case of the voice that “shall offensive be / at the first taste” but “a vital nutriment / ’twill leave thereafter, when it is digested” (XVII, 130-132), Olivian exegesis reinforces Boethius’ statement about truths that bite when tasted but become sweet once received within (De cons. phil., III, 1).
            Variations on this theme are “the sweet wormwood of these torments” of purgatory, to which Nella led her husband Forese, freeing him with her prayers from the coast where the negligent in repentance await (Purg. XXIII, 85-87); the wood of the symbolic tree of Eden, sweet to the taste but which then causes stomach rejection (Purg. XXXII, 43-45, with the opposite effect to that of the book given to John, which first causes bitter contortions and then turns out to be sweet; Adam, in Par. XXXII, 121-123, “the father is, by whose audacious taste / the human species so much bitter tastes”). Also noteworthy is the rhyme afflitto/trafitto in Inf. XXVII, 10.12 and, inverted, in Par. XXX, 41.45.
            The theme of the grave passions to which the Church will be subject in the future is conveyed in the “grave words” spoken to Dante about his “future life” during the journey (Par. XVII, 22-23), in the burden placed on the exile’s shoulders by his fellow White Guelphs (vv. 61-63), and in the words of comfort from Beatrice, who stands “near unto Him who every wrong disburdens (“torto” corresponds to the “tortiones amare” produced by the book)” (XVIII, 4-6). It is also the theme that accompanies the description of John sitting next to Peter in the heavenly rose: “And he who all the evil days beheld, / before his death, of her the beauteous bride / who with the spear and with the nails was won, where the reference to the spear cannot fail to bring to mind Olivi, who, contrary to current opinion, claimed that it was the cause of Christ’s death (Par. XXXII, 127-129; for Dante, Christ was still alive when the blow was struck, as Thomas Aquinas himself states in Par. XIII, 40-41: “And into that which, by the lance transfixed, / before and since, such satisfaction made).
            Sublimation of the theme, in the Empyrean the angels – “flying multitude” that did not “impede the sight and splendour”, a dissonant variation on the multitude of enemies who prevent preaching – interpose themselves between God and the blessed (the petals of the rose) “Even as a swarm of bees, that sinks in flowers / one moment, and the next returns again / to where its labour is to sweetness turned“, that is, like the book in its effects, from toil to sweet enjoyment (Par. XXXI, 7-9, 19-21).
            “Et dixit michi: Oportet te iterum prophetare in gentibus et populis et linguis et regibus multis” (Rev 10:11). Dante, alter Iohannes, evangelist of the last time – already “sixth among so much wisdom” in the company of the great poets of Limbo (Inf. IV, 100-102) – receives from Cacciaguida the injunction to preach to the world by making manifest what has been shown to him during his journey and which he has noted in his sacred poem, the new Apocalypse. The injunction is confirmed by St. Peter in the eighth heaven, that of the fixed stars: “And thou, my son, who by thy mortal weight / shalt down return again, open thy mouth; /  what I conceal not, do not thou conceal” (Par. XXVII, 64-66). The reference passage is found in Rev 22:10, in the command to divulge the prophetic doctrine as useful and necessary to the elect, even if harmful to many because of their malice. The following verse (Rev. 22:11), which states that those who are in ugliness because of their malice should be allowed to become even more filthy, is parodied in Cacciaguida’s brusque words: “And let them scratch wherever is the itch” (Par. XVII, 129). Finally, St. Peter, addressing Dante, uses the adverb ancor (again), which, if it refers to the poet being a mortal who must return to earth, seems to allude to the iterum said by the angel once to John and now to the spirituals of the sixth period of the Church (whether they be an Order of evangelical contemplatives or “singulares persone”) so that they may preach again, after the apostles, to the whole world what is written in the book open to them, which they have devoured with pain and sweetness.

Tab. XVII.5

Inf. XXVII, 7-12

Come ’l bue cicilian che mugghiò prima
col pianto di colui, e ciò fu dritto,
che l’avea temperato con sua lima,
mugghiava con la voce de l’afflitto,
sì che, con tutto che fosse di rame,
pur el pareva dal dolor trafitto

Purg. XXIII, 85-87

Ond’ elli a me: “Sì tosto m’ha condotto
a ber lo dolce assenzo d’i  martìri
la Nella mia con suo pianger dirotto”.

Purg. XXXII, 43-45

“Beato se’, grifon, che non discindi
col becco d’esto legno dolce al gusto,
poscia che mal si torce il ventre quindi”.

Boezio, Cons., III, 1, 12-14: Talia sunt quippe quae restant, ut degustata quidem mordeant, interius autem recepta dulcescant.

Purg. XXX, 40-54, 79-81

Tosto che ne la vista mi percosse
l’alta virtù che già m’avea trafitto
prima ch’io fuor di püerizia fosse,
volsimi a la sinistra col respitto
col quale il fantolin corre a la mamma
quando ha paura o quando elli è afflitto,
per dicere a Virgilio: ‘Men che dramma
di sangue m’è rimaso che non tremi:
conosco i segni de l’antica fiamma’.
Ma Virgilio n’avea lasciati scemi
di sé, Virgilio dolcissimo patre,
Virgilio a cui per mia salute die’mi;
né quantunque perdeo l’antica matre,
valse a le guance nette di rugiada
che, lagrimando, non tornasser atre.

Così la madre al figlio par superba,
com’ ella parve a me; perché d’amaro
sente il sapor de la pietade acerba.

[LSA, cap. X, Ap 10, 9-11 (IIIa visio, VIa tuba)] Sequitur (Ap 10, 9): “Et dixit michi”, scilicet angelus: “Accipe librum <et> devora illum, et faciet amaricar<i> ventrem tuum”, id est faciet tortiones amaras in ventre tuo, vel postquam erit in ventre faciet versus os exal<at>iones amaras, “sed in ore tuo erit dulce tamquam mel. (Ap 10, 10) Et accepi librum” et cetera. Nota quod non dicit ‘lege’ sed “devora”, nec dicit ‘vide’ sed “accipe”, quia <per> superfervidum et rapidum devotionis affectum et gustum vult libri spiritales sensus et intelligentias masticari et saporari et ad intima trahici. Vult etiam illum per manum accipi, id est in operibus poni et servari, ut scilicet opere impleat ea que in libro docentur. Huius autem libri contemplatio est dulcis ori, id est spiritali gustui, facit tamen amaricari ventrem quia ducit ad amaritudinem laboris et passionis. Quamvis enim preclara contemplatio futurarum passionum sit suavis menti, in experientia tamen laboris est gemitus et afflictio spiritus. Nichil etiam inconveniens si secundum diversos respectus sit simul dulcis et amarus, sicut et Christi passio in quantum triumphalis et nobis salubris est nobis dulcis, in quantum autem nostra viscera per compassionem transfigit est nobis amara.
Sequitur: (Ap 10, 11) “Et dixit michi: Oportet te iterum prophetare in gentibus et populis et linguis et regibus multis”. In ipsa sapientia libri expresse continetur quod oportet iterum predicari evangelium in toto orbe, et Iudeis et gentibus, et totum orbem finaliter converti ad Christum. Sed quod per istum hoc esset implendum non poterat sciri nisi per spiritualem revelationem, et hoc dico prout per Iohannem designantur hic singulares persone quia, prout per ipsum designatur in communi ordo evangelicus et contemplativus, scitur ex ipsa intelligentia libri quod per illum ordinem debet hoc impleri. Potest etiam dici quod eo ipso quod Dei instinctu et iussu accepit ab angelo singularem intelligentiam libri et cum singulari dulcore ipsam sibi invisceravit, et ex hoc cum dolore presensit passiones graves sibi et ecclesie affuturas, satis percepit se ad predicationem gentium destinari, sed nichilominus per sacros doctores hoc amplius asseritur, tum ne propter temptationem Antichristi et propter nimiam multitudinem hostium hoc timeant impediri. Potest etiam dici quod istud potius dicitur preceptorie et iniungendo sibi officium predicandi omnibus quantumcumque infidelibus vel longinquis, unde dicit: “Oportet te prophetare” et cetera, quamvis preter hoc possit dici hoc oportere per respectum ad infallibilitatem divine prescientie et predestinationis et per respectum ad finalem necessitatem et utilitatem gentium convertendarum per eius verbum.
Sed quare dicit “iterum”? Numquid iste antea predicaverat? Dicendum quod le “iterum” uno modo refertur ad predicationem totius orbis factam primo per apostolos, quasi dicat: sicut tunc per ordinem apostolicum predicatus est totus orbis, sic oportet secundo per te fieri. Potest etiam alio modo referri ad tempus precurrens temptationem mistici Antichristi, in quo utique a tempore Francisci usque nunc ordo ille predicavit, quamvis non sic late per totum orbem. Potest etiam referri ad tempus precurrens magnum Antichristum. Nam in tempore medio inter misticum Antichristum et magnum predicaturus est ordo ille multis linguis et gentibus. Ricardus exponit hoc de persona Iohannis, tunc propter suum exilium a predicatione cessantis, cui consolatorie Christus promittit quod de exilio liberabitur et ad pristine predicationis officium iterato redibit. Sed miror Ricardum non advertisse quod hoc in nullo pertinet ad sextum tempus ecclesie sub sexta tuba futurum et circa tempus Antichristi. Preterea eadem ratione deberet dici quod subsequens mensuratio templi et reiectio atrii Iohanni iniuncta fuisset tempore Iohannis et per ipsum implenda, cuius contrarium constat per id quod subditur, quod atrium datum est gentibus, calcandum ab eis per quadraginta duos menses (cfr. Ap 11, 2), quod, prout ex subsequentibus patet, expectat ad tempus Ant<i>christi.

Par. XVII, 22-23, 43-45, 58-63, 112-114

dette mi fuor di mia vita futura
parole gravi
………………………

Da indi, sì come viene ad orecchia
dolce armonia da organo, mi viene
a vista il tempo che ti s’apparecchia.

Tu proverai sì come sa di sale
lo pane altrui, e come è duro calle
lo scendere e ’l salir per l’altrui scale.
E quel che più ti graverà le spalle,
sarà la compagnia malvagia e scempia
con la qual tu cadrai in questa valle

Giù per lo mondo sanza fine amaro,
e per lo monte del cui bel cacume
li occhi de la mia donna mi levaro

Par. XXVII, 64-66

e tu, figliuol, che per lo mortal pondo
ancor giù tornerai, apri la bocca,
e non asconder quel ch’io non ascondo.

Par. XXXI, 7-9, 19-21

sì come schiera d’ape che s’infiora
una fïata e una si ritorna
là dove suo laboro s’insapora

Né l’interporsi tra ’l disopra e ’l fiore
di tanta moltitudine volante
impediva la vista e lo splendore

Par. XVII, 116-120, 127-132

ho io appreso quel che s’io ridico,
a molti  fia sapor di forte agrume;
e s’io al vero son timido amico,
temo di perder viver tra coloro
che questo tempo chiameranno antico.

Ma nondimen, rimossa ogne menzogna,
tutta tua visïon fa manifesta;
e lascia pur grattar dov’ è la rogna.
Ché se la voce tua sarà molesta
nel primo gusto, vital nodrimento
lascerà poi, quando sarà digesta.

Par. XVIII, 1-6

Già si godeva solo del suo verbo
quello specchio beato, e io gustava
lo mio, temprando col dolce l’acerbo;

e quella donna ch’a Dio mi menava
disse: “Muta pensier; pensa ch’i’ sono

presso a colui ch’ogne torto disgrava”.

Par. XXXII, 121-123, 127-129

colui che da sinistra le s’aggiusta
è ’l padre per lo cui ardito gusto
l’umana specie tanto amaro gusta

E quei che vide  tutti i tempi gravi,
pria che morisse, de la bella sposa
che s’acquistò con la lancia e coi clavi

[Ap 22, 10-11; finalis conclusio totius libri] Sextum est <iussio> de propalando doctrinam propheticam huius libri, tamquam scilicet utillimam et necessariam electis et tamquam certam et gloriosam et Christum et eius opera clarificantem et magnificantem. Unde subdit (Ap 22, 10): “Et dixit michi”, scilicet angelus: “Ne signaveris”, id est non occultes nec sub sigillo claudas, “verba prophetie huius libri”, subditque huius duplicem rationem.
Prima est ex propinquitate futurorum temporum et iudiciorum et operum de quibus loquitur, propter quod oportet eam cito sciri, unde subdit: “tempus enim prope est”.
Secunda est quia eius revelatio est utilis ampliori iustificationi sanctorum et etiam, quantum est ex se, correctioni malorum. Quamvis pluribus ex sua malitia per accidens noceat, propter tales autem non est occultanda, immo in ipsorum inexcusabilitatem et iustam excecationem fortius predicanda. <Et hoc> primo tangit cum subdit (Ap 22, 11): “Qui nocet”, scilicet proximis vel ecclesie ipsam persequendo, “noceat adhuc”, id est iustum est ut permittatur amplius insanire et nocere; “et qui in sordibus est”, scilicet carnalis luxurie per quam se ipsum fedat, “sordescat adhuc”, id est dignus est permitti in ampliores sordes a se ipso immergi.

Al quarto stato, dei forti contemplativi, è detto: “A chi vincerà e custodirà sino alla fine le mie opere”. Se si collaziona il passo relativo alla quarta vittoria (Ap 2, 26-28) con Ap 2, 10, dove alla seconda chiesa d’Asia, propria dei martiri (Smirne), si dice: “Sii fedele fino alla morte”, cioè fino all’ultimo giorno della vita o fino al soffrire il martirio, che uccide il corpo, “e ti darò la corona della vita”, cioè la gloria eterna, si ritrovano i fili con cui è tessuta, a Purg. XVIII, 136-138, la terzina del secondo esempio di accidia punita, relativa ai compagni di Enea che si fermarono in Sicilia, gente “che l’affanno non sofferse / fino a la fine”, offrendo “sé stessa a vita sanza gloria” (l’offrirsi come vittima è proprio della quarta chiesa, cfr. l’esegesi del nome “Thyatira” ad Ap 2, 1). È possibile anche richiamare l’esegesi di Ap 20, 5 (settima visione): “E gli altri morti”, cioè i reprobi nella morte eterna, “non vissero” la vita della grazia e della gloria “fino al compimento dei mille anni”, ossia per tutto il tempo di questa vita, dopo la quale verranno puniti più duramente. Chi in questa vita non visse sono gli ignavi, “questi sciaurati, che mai non fur vivi” (Inf. III, 64; Ap 3, 18).
Ad Ap 21, 8 (settima visione) essere “timidi” – negare cioè la fede o fuggirne l’accoglimento per timore della morte o di una pena temporale – è il primo degli otto crimini puniti nello stagno ardente di fuoco e di zolfo. A Cacciaguida che gli ha profetizzato l’esilio, Dante palesa il timore che ridire nei versi quanto da lui appreso nel corso del viaggio “a molti fia sapor di forte agrume”, mentre il tacere – “e s’io al vero son timido amico” – non gli recherà fama duratura presso i posteri (Par. XVII, 112-120). Il timore “di perder viver tra coloro / che questo tempo chiameranno antico” è il timore di essere pusillanime.

 

To the fourth period, the contemplative strong, it is said: “To him who overcomes and keeps my works until the end”. If we compare the passage relating to the fourth victory (Rev 2:26-28) with Rev 2:10, where the second church of Asia, that of the martyrs (Smyrna), is told: “Be faithful until death”, that is, until the last day of life or until suffering martyrdom, which kills the body, “and I will give you the crown of life”, that is, eternal glory, we find the threads with which it is woven, in Purg. XVIII, 136-138, the tercet of the second example of sloth punished, relating to Aeneas’ companions who stopped in Sicily, people “who the fatigue did not endure / unto the issue”, offering “themselves to a life without glory” (offering oneself as a victim is characteristic of the fourth church, cf. the exegesis of the name Thyatira in Rev 2:1). It is also possible to refer to the exegesis of Rev 20:5 (seventh vision): “And the rest of the dead”, that is, the reprobate in eternal death, “did not live” the life of grace and glory “until the thousand years were completed”, that is, for the whole time of this life, after which they will be punished more severely. Those who did not live in this life are the pusillanimous, “these wretched ones (sciaurati), who were never alive” (Inf. III, 64; Rev 3:18).
In Rev 21:8 (seventh vision), being “timid” – that is, denying the faith or fleeing from its acceptance for fear of death or temporal punishment – is the first of the eight crimes punished in the burning lake of fire and brimstone. To Cacciaguida, who prophesied his exile, Dante reveals his fear that repeating in verse what he has learned during his journey “will have a too harsh savour to many, while silence – “and if I am a timid friend to truth” – will not bring him lasting fame among posterity (Par. XVII, 112-120). The fear “of losing my life with those / who will hereafter call this time the olden” is the fear of being faint-hearted.

 

Tab. XVII.6

[LSA, cap. II, Ap 2, 26-28 (IVa victoria)] Quarta est victoriosus effectus, quando scilicet omnes vires corporis et mentis assidue et totaliter perfectis virtutum operibus dedicantur, nec ex longa continuatione operis remittuntur sed potius inten-duntur et roborantur et ad fortia opera superexcrescunt, qualis fuit in exercitiis perfectorum anachoritarum, quibus competit premium de quo quarte ecclesie dicitur: “Qui vicerit et custodierit usque in finem opera mea”, id est qualia ego feci et precepi vel consului, “dabo illi potestatem super gentes et reg<et> <eas> in virga ferrea, et tamquam vas figuli confri<n>gentur, sicut ego accepi a Patre meo, et dabo illi stellam matutinam” (Ap 2, 26-28). […] Designatur etiam per hoc quod in a<na>cho-riticis sic operosis est virtus terrificativa et contritiva gentium terrestrium, et quod per exemplum operis lucent omnibus velut stella matutina, et quod in celis habebunt gloriosam potestatem et lucem huic correspondentem.

[LSA, cap. II, Ap 2, 1 (IVum exercitium)] Quartum (exercitium mentis ordinate ad perfectionem ascendentis) est contemplativa abstractio et solitudo, et assidua sui ad illam per austera et laboriosa opera preparatio.

[LSA, cap. II, Ap 2, 1 (Ia visio, IVa ecclesia)] Quarta autem commendatur de superhabundanti et perseveranti et superexcrescenti supererogatione sanctorum operum et de perfectione fidei et caritatis, que utique competunt quarto statui, scilicet anachoritarum, qui partim opere manuum, partim lectione, partim vocali psalmodia, cum assidua maceratione corporis per ieiunia et per alias austeritates, se semper preparabant et sursum agebant ad contemplativos actus fidei et caritatis. Unde bene vocatur Tyatira, id est illuminata vel inflammata vel vivens hostia, quia tales per lucem et flammam contemplative devotionis se offerunt Deo hostiam viventem.

[LSA, cap. II, Ap 2, 10 (Ia visio, IIa ecclesia)] “Esto fidelis usque ad mortem” (Ap 2, 10), id est fideliter pro mea fide concerta “usque ad mortem”, id est usque ad ultimum diem vite tue vel usque ad sufferentiam martirii interfectivi tui corporis, “et dabo tibi coronam vite”, scilicet eterne post mortem.
Nota quomodo ubique assignat premia proprie correspondentia merito. Nam ei, qui pro Christo perdit hanc vitam, recte competit Christi vita eterna pro premio. Per hoc autem quod dicit “coronam”, designat regalem et singularem gloriam martiribus dandam.

[LSA, cap. XX, Ap 20, 5 (VIIa visio)] Subdit autem: Et “ceteri mortuorum”, scilicet reprobi, “non vixerunt”, scilicet vita gratie vel glorie, sed potius sunt in morte pene eterne, “donec consumentur mille anni”, id est totum tempus huius vite post quod, supple, multo fortius punientur.

[LSA, cap. XXI, Ap 21, 8 (VIIa visio)] Deinde subdit octo crimina reproborum quibus non dabitur gloria sed potius pena eterna, dicens: “Timidis autem”, qui scilicet timore mortis seu pene temporalis fidem negant vel accipere fugiunt […]

Purg. XVIII, 136-138

E quella che l’affanno non sofferse
fino a la fine col figlio d’Anchise,

sé stessa a vita sanza gloria offerse.

Inf. III, 64

Questi sciaurati, che mai non fur vivi   3, 18

Par. XVII, 118-120

e s’io al vero son timido amico,
temo di perder viver tra coloro
che questo tempo chiameranno antico.

4. San Francesco e Cangrande

■ San Francesco, come l’angelo dal volto solare visto da Giovanni al suono della sesta tromba, fu singolarmente “forte” in ogni virtù, in ogni opera di Dio; per la somma umiltà e il riconoscimento della prima origine di ogni natura e grazia fu sempre “discendente dal cielo”; per l’aerea e sottile o spirituale leggerezza spogliata da ogni peso terrestre fu “avvolto in una nube”, avvolto cioè dall’altissima povertà ripiena delle acque celesti, ossia del supremo possesso e assorbimento delle grazie divine (Ap 10, 1).
Essere forte nella virtù e nelle opere e libero da ogni peso temporale, prerogative dell’angelo della sesta tromba, sono motivi attribuiti da Cacciaguida a Cangrande, impresso da una stella “forte” (quella di Marte) che renderà “notabili” le sue opere, anche se finora le genti non si sono accorte di lui “per la novella età”. La sua virtù, di cui “parran faville”, consisterà “in non curar d’argento né d’affanni”, cioè nel disprezzo delle ricchezze e delle sollecitudini temporali (Par. XVII, 76-84). Le qualità dell’angelo – «ab omni pondere terrenorum excussam … “fortis” in omni virtute et opere Dei … in caritate etiam et sapientia Dei” – sono proprie anche del Veltro: “Questi non ciberà terra né peltro, / ma sapïenzaamore e virtute» (Inf. I, 103-104).

■ Ad Ap 11, 12 Olivi spiega che due sono i modi di illuminazione divina. Come infatti ricade nella gloria di Dio che talvolta si nasconda ingegnosamente a quanti sono giustamente da accecare e ci dimostri con ciò la prudenza del suo ingegno e un ordinato procedere da una radice occulta, tramite un tronco stretto, a un ampio e alto distendersi dei rami, così è proprio della sua gloria un’improvvisa manifestazione di potenza che confonde gli avversari e converte a sé e illumina molti, con il che ci dimostra un altro ordine, che procede dall’alto verso gli inferiori per cui la luce del sole dalla sorgente subito diffonde in modo aperto, espanso e chiaro i suoi raggi su tutto l’universo. Il primo modo si è manifestato nell’ascensione di Cristo, che non fu vista dai suoi nemici ma solo dai suoi discepoli, poiché allora i Giudei dovevano essere accecati e Cristo doveva essere loro nascosto per venire invece predicato e manifestato ai Gentili; allorché invece la conversione riguarderà tutto il mondo e l’Anticristo, con i suoi complici, verrà confuso e piagato, sarà più opportuno il secondo modo. Nelle opere divine c’è una concordia tra due elementi conformi, e c’è una concordia, altrettanto bella e piacente, tra due elementi contrapposti.

Al primo modo sembra accostabile, in Par. XII, 49-51, al nascondersi del sole “per la lunga foga” estiva dietro le onde dell’oceano: la descrizione di Calaruega, il luogo di nascita di san Domenico, si contrappone nello stesso numero di versi ad Assisi, dove “nacque al mondo un sole, / come fa questo talvolta di Gange” (Par. XI, 50-51), dove cioè il sole si manifestò con improvvisa illuminazione.
Al secondo modo rinvia il più vivace raggiare dell’“ardor santo” nell’uomo, più a Dio conforme perché creato “sanza mezzo” (Par. VII, 70-75; cfr. XIX, 88-90), come pure il raggiare “insieme tutto / sanza distinzïone in essordire” nel “triforme effetto” di “forma e materia, congiunte e purette” (Par. XXIX, 22-30).
Poco prima, ad Ap 11, 8, è detto che la città, sulla cui piazza rimarranno esposti i corpi dei due testimoni (Enoch ed Elia) vinti e uccisi in apparenza dalla bestia che sale dall’abisso, si chiama spiritualmente “Sodoma”, cioè muta, ed “Egitto”, cioè tenebrosa. Essa sarà infatti muta nella confessione della vera fede e tenebrosa per pravità, oppure Sodoma per lussuria ed Egitto per soverchia e maligna persecuzione contro Israele, il cui popolo fu crudelmente afflitto dal Faraone quando Dio gli ordinò di uscire dalla terra d’Egitto. Risorti dopo tre giorni e mezzo, i due testimoni saliranno al cielo in una nube sotto gli sguardi dei loro nemici (Ap 11, 12).
Questi motivi sono appropriati a Cangrande. Come afferma Cacciaguida, le genti non si sono ancora accorte di lui “per la novella età” (e questo nascondersi corrisponde al primo modo dell’illuminazione divina), ma presto saranno conosciute le sue magnificenze, tanto che i suoi nemici “non ne potran tener le lingue mute” (Par. XVII, 79-87; e questo confondere gli avversari corrisponde al secondo modo). Ma Cangrande, nelle parole dell’avo di Dante, è segnato soprattutto dai riferimenti all’angelo dal volto solare descritto nel capitolo X, che Olivi identifica con Francesco (Ap 10, 1).

■ Quanto Cacciaguida dice di Cangrande, che disprezzerà le ricchezze e trasmuterà molta gente facendo cambiare condizione a ricchi e poveri, è tessuto sul panno fornito dal passo del Notabile VII del prologo relativo alla “commutatio pontificatus” (Par. XVII, 82-84, 89-90). Nell’Antico Testamento si registrò un continuo mutare delle stirpi sacerdotali, nonostante i patti stabiliti da Dio con alcune di esse. Qualcosa di simile si registra nel Nuovo. Con Pietro e con gli apostoli il sacerdozio fu infatti dato alla stirpe evangelica, quindi venne utilmente e ragionevolmente commutato a uno stato fondato sul possesso dei beni temporali, la cui durata va da Costantino al termine del quinto stato. In questo periodo, i pontefici che preferirono la povertà evangelica ai beni temporali segnarono di nuovo, e in modo raddoppiato, il prevalere del primo ordine, quello del sacerdozio apostolico. Alla fine di queste mutazioni, il pontificato dovrà ritornare al primo ordine, al quale spetta per diritto di primogenitura e per la maggiore perfezione derivante dalla conformità con Cristo. Questo ritorno sarà agevolato non solo dall’imperfezione insita nel possesso dei beni temporali, ma pure da quegli enormi difetti – superbia, lussuria, simonie, liti, frodi e rapine – da cui la Chiesa, divenuta alla fine del quinto stato quasi una nuova Babilonia, risulterà macchiata e confusa dai piedi al capo.
Girolamo Arnaldi ha sottolineato come i versi di Par. XVII, 89-90 meritino maggiore attenzione di quanta non ne abbiano avuta, in genere riferiti a un’attività di Cangrande nel settore della pubblica beneficenza o a una politica di riforme sociali [1]. Dante applica alla storia umana la legge che regola, secondo l’Olivi, la storia della Chiesa, fatta di traslazioni, trasmutazioni, patti non mantenuti da Dio stesso (secondo il giudizio umano), prima del ritorno alla stabilità. Questa legge non vale più soltanto per il papato, povero nel cominciare con san Pietro e poi, dopo Costantino, ricco, in vista del ritorno al primo tempo. Questa legge, applicata dalla Fortuna, ministra di Dio, diventa universale; il papato è solo una parte del tutto.

■ La tribù di Levi, una delle dodici tribù d’Israele dalle quali provengono i segnati ad Ap 7, 5-8, designa la speranza nei confronti della pietà e liberalità di Dio che elargisce al di là dei voti e meriti, al di là di quanto aspettiamo; Levi significa “aggiunto”. Della precedente tribù, quella di Simeone, sono proprie, fra l’altro, la benignità, la misericordia e la pietas. Se si congiungono le caratteristiche delle due tribù di Simeone e di Levi – benignità, misericordia, pietà da una parte e liberalità dall’altra -, si ottengono alcune delle prerogative della Vergine lodate nella preghiera di san Bernardo (Par. XXXIII, 16-19), la quale rientra nella tematica propria della tribù di Simeone in quanto orazione che impetra grazia e, poiché devota, grata ed esaudita (Par. XXXII, 147-148; XXXIII, 40-42). I motivi della benignità e della liberalità sono congiunti nella “cortesia del gran Lombardo / che ’n su la scala porta il santo uccello; / ch’in te avrà sì benigno riguardo”, come dice Cacciaguida a Dante (Par. XVII, 70-75). Bartolomeo della Scala sarà appunto “lo primo tuo refugio e ’l primo ostello”, e ciò corrisponde alla tribù di Zabulon, “inexpugnabile refugium contra hostes … Zabulon, qui interpretatur habitaculum fortitudinis”.

[1] G. ARNALDI, alla voce Della Scala, Cangrande, in Enciclopedia Dantesca, II, 19842, p. 359: «[…] si mostra di non tenere conto del fatto che, in If VII 79-81, la funzione di ‘permutare’ a tempo li ben vani / di gente in gente e d’uno in altro sangue, / oltre la difension d’i senni umani, è riserbata alla Fortuna, ordinata da Dio general ministra e duce agli splendor mondani, proprio per mettere a nudo la loro caducità. Un accostamento questo che consente di reinserire idealmente l’episodio di C. nel contesto, cui di fatto appartiene, del gruppo di canti (Pd XV, XVI, XVII) “più unitario” di tutta la Commedia. In Pd XVI, “le permutazioni incessanti per ascensioni e cadute, estinzioni e nuovi nascimenti” di famiglie fiorentine (Figurelli) vengono prospettate come il riflesso municipale di una legge che regola tutta la storia umana e messe in conto alla Fortuna, che, nonostante la metafora naturalistica (E come ’l volger del ciel de la luna / cuopre e discuopre i liti sanza posa, / così fa di Fiorenza la Fortuna, vv. 82-84), è sempre, per D., la ministra della Provvidenza. Solo mediante questa difficile e aspra pedagogia, l’amor di cosa che non duri (Pd XV 11), quell’attaccamento al mondo fallace, che molt’anime deturpa (vv. 146-147) ed era la causa prima del disordine e dell’ingiustizia presenti, potevano infatti venire sradicati dal cuore degli uomini. Non è escluso che la diretta constatazione dei numerosi mutamenti di fortune individuali e familiari che la signoria scaligera aveva prodotti, e stava producendo, in Verona, abbia indotto D. ad attribuire a C., nel contesto ideale dei canti di Cacciaguida, il merito di quel rapido e frequente ‘trasmutamento’ di genti che in realtà apparteneva solo alla dinamica sociale messa in moto dal regime signorile».

4. Saint Francis and Cangrande

■ St. Francis, like the angel with the sunny face seen by John at the sound of the sixth trumpet, was singularly “strong” in every virtue, in every work of God; because of his great humility and recognition of the first origin of all nature and grace, he was always “descended from heaven”; because of his ethereal and subtle or spiritual lightness, stripped of all earthly weight, he was “enveloped in a cloud”, that is, enveloped in the highest poverty filled with heavenly waters, or rather, the supreme possession and absorption of divine graces (Rev 10:1).
Being strong in virtue and works and free from all temporal burdens, prerogatives of the angel of the sixth trumpet, are themes attributed by Cacciaguida to Cangrande, marked by a “strong” star (that of Mars) that will make his works “notable”, even if so far people have not noticed him “through his young age”. His virtue, of which “sparkles shall appear”, will consist “in caring not for silver nor for toil”, that is, in his contempt for riches and temporal concerns (Par. XVII, 76-84). The qualities of the angel – «ab omni pondere terrenorum excussam … “fortis” in omni virtute et opere Dei … in caritate etiam et sapientia Dei» – are also those of the Greyhound: “He shall not feed on either earth or pelf, / but upon wisdom, and on love and virtue” (Inf. I, 103-104).

■ In Ap 11, 12, Olivi explains that there are two modes of divine illumination. Just as it is fitting for God’s glory to sometimes ingeniously hide himself from those who are rightly to be blinded, thereby demonstrating the prudence of his ingenuity and an orderly progression from a hidden root, through a narrow trunk, to a wide and tall spread of branches, so it is proper to his glory to make a sudden manifestation of power that confuses his adversaries and converts many to himself and enlightens them, thereby showing us another order, which proceeds from above to below, whereby the light of the sun from its source immediately spreads its rays openly, expansively, and clearly over the whole universe. The first way was manifested in the ascension of Christ, which was not seen by his enemies but only by his disciples, for at that time the Jews had to be blinded and Christ had to be hidden from them in order to be preached and manifested to the Gentiles; when, on the other hand, conversion will affect the whole world and the Antichrist, with his accomplices, will be confused and wounded, the second way will be more appropriate. In divine works, there is harmony between two conforming elements, and there is harmony, equally beautiful and pleasing, between two opposing elements.
The first way seems to be comparable, in Par. XII, 49-51, to the sun hiding “in his long career” of summer behind the waves of the ocean: the description of Calaruega, the birthplace of St. Dominic, is contrasted in the same number of verses with Assisi, where “rose upon the world a sun / as this one does sometimes from out the Ganges” (Par. XI, 50-51), where the sun manifested itself with sudden illumination.
The second way refers to the more vivid radiance of the “blest ardour” in man, more conformed to God because he was created “immediately” (Par. VII, 70-75; cf. XIX, 88-90), as well as the radiance “all together, / without discrimination of beginning” in the “triform effect” of “matter and form unmingled and conjoined” (Par. XXIX, 22-30).
Shortly before, in Rev 11:8, it is said that the city, in whose square the bodies of the two witnesses (Enoch and Elijah), apparently defeated and killed by the beast rising from the abyss, will remain exposed, is spiritually called “Sodom”, that is, mute, and “Egypt”, that is, dark. It will in fact be mute in the confession of the true faith and dark because of wickedness, or Sodom because of lust and Egypt because of excessive and malicious persecution against Israel, whose people were cruelly afflicted by Pharaoh when God commanded them to leave the land of Egypt. Resurrected after three and a half days, the two witnesses will ascend to heaven in a cloud under the gaze of their enemies (Rev 11:12).
These themes are transferred to Cangrande. As Cacciaguida states, people have not yet noticed him “through his young age” (and this concealment corresponds to the first mode of divine illumination), but soon his magnificence will be known, so much so “that his enemies / will not have power to keep mute tongues about it” (Par. XVII, 79-87; and this confusing of his adversaries corresponds to the second mode). But Cangrande, in the words of Dante’s ancestor, is marked above all by references to the angel with the sunny face described in chapter X, whom Olivi identifies with St. Francis (Rev 10:1).

■ What Cacciaguida says about Cangrande, who will despise riches and transform many people by changing the condition of the rich and poor, is woven on the cloth provided by the passage from Notabile VII of the prologue relating to the “commutatio pontificatus” (Par. XVII, 82-84, 89-90). In the Old Testament, there was a continuous change in the priestly lineages, despite the covenants established by God with some of them. Something similar is recorded in the New Testament. With Peter and the apostles, the priesthood was in fact given to the evangelical lineage, then it was usefully and reasonably commuted to a state based on the possession of temporal goods, whose duration goes from Constantine to the end of the fifth period. During this period, the pontiffs who preferred evangelical poverty to temporal goods marked once again, and in a doubled manner, the prevalence of the first order, that of the apostolic priesthood. At the end of these changes, the pontificate will have to return to the first order, to which it belongs by right of primogeniture and by the greater perfection deriving from conformity with Christ. This return will be facilitated not only by the imperfection inherent in the possession of temporal goods, but also by those enormous defects – pride, lust, simony, quarrels, fraud and robbery – by which the Church, having become at the end of the fifth period almost a new Babylon, will be stained and confused from head to toe.
Girolamo Arnaldi has pointed out that the verses of Par. XVII, 89-90 deserve more attention than they have received, generally referring to Cangrande’s activity in the field of public charity or to a policy of social reform [1]. Dante applies to human history the law that, according to Olivi, governs the history of the Church, made up of translations, transmutations, and pacts not kept by God himself (according to human judgement), before the return to stability. This law no longer applies only to the papacy, poor in its beginnings with St. Peter and then, after Constantine, rich, in view of the return to the first period. This law, applied by Fortune, minister of God, becomes universal, the papacy being only a part of the whole.

■ The tribe of Levi, one of the twelve tribes of Israel from which those marked in Rev 7:5-8 come, designates the hope for God’s piety (pietas) and courtesy (liberalitas), which he bestows beyond our vows and merits, beyond what we expect; Levi means “added”. The previous tribe, that of Simeon, is characterised, among other things, by kindness (benignitas), mercy (misericordia) and piety (pietas).
If we combine the characteristics of the two tribes of Simeon and Levi – kindness, mercy and piety on the one hand, and courtesy on the other – we obtain some of the prerogatives of the Virgin praised in St Bernard’s prayer (Par. XXXIII, 16-19), which uses part of the themes of the tribe of Simeon as a prayer that implores grace and, because it is devout, becames grateful and answered (Par. XXXII, 147-148; XXXIII, 40-42). The motifs of courtesy and kindness are combined in “the mighty Lombard’s courtesy, / who on the Ladder bears the holy bird”, of whom Cacciaguida speaks in Par. XVII, 70-75. Bartolomeo della Scala will indeed be “thine earliest refuge and thine earliest inn”, and this corresponds to the tribe of Zabulon, “inexpugnabile refugium contra hostes … Zabulon, qui interpretatur habitaculum fortitudinis”.

 

Tab. XVII.7

[LSA, cap. X, Ap 10, 1 (IIIa visio, VIa tuba)] Ipse enim fuit singulariter “fortis” in omni virtute et opere Dei (Ap 10, 1), et per summam humilitatem et recognitionem prime originis omnis nature et gratie semper “descendens de celo”, et per aeream et per subtilem seu spiritualem levitatem ab omni pondere terrenorum excussam fuit “amictus nube”, id est altissima paupertate aquis celestibus plena, id est suprema possessione et imbibitione celestium divitiarum.

Par. XVII, 76-93

“Con lui vedrai colui che ’mpresso fue,
nascendo, sì da questa stella forte,
che notabili fier l’opere sue.
Non se ne son le genti ancora accorte
per la novella età, ché pur nove anni
son queste rote intorno di lui torte;
ma pria che ’l Guasco l’alto Arrigo inganni,
parran faville de la sua virtute
in non curar d’argento né d’affanni.

Le sue magnificenze conosciute
saranno ancora, sì che ’ suoi nemici
non ne potran tener le lingue mute.

A lui t’aspetta e a’ suoi benefici;
per lui fia trasmutata molta gente,
cambiando condizion ricchi e mendici;
e portera’ne scritto ne la mente
di lui, e nol dirai”; e disse cose
incredibili a quei che fier presente. 10, 5-7

[LSA, cap. XI, Ap 11, 8.12 (IIIa visio, VIa tuba)] “Que”, scilicet civitas, “spiritaliter”, id est secundum spiritalem intelligentiam, “vocatur Sodoma”, id est muta, “et Egiptus” (Ap 11, 8), id est tenebrosa, quia muta erit ad confessionem vere fidei et tenebrosa per ignorantiam et pravam actionem. Vel per excessum luxurie erit quasi Sodoma et per excessum maligne persecutionis Israel, id est sanctorum, erit quasi Egiptus. Egiptus enim et Pharao rex eius afflixit crudeliter populum Dei, et precipue ex quo iussu Dei habuit de Egipto exire. Ibi etiam erat tunc summa idolatria et avaritia, sic et hic erit magna idolatria errorum et abhominanda adoratio Antichristi. […]
“Et viderunt eos inimici eorum” (Ap 11, 12), scilicet corporaliter ascendentes in celum. Adverte hic et ubique sumi preteritum pro futuro. Nota etiam quod inimici Christi non viderunt Christum ascendentem in celum, sed soli eius discipuli, quia tunc erant Iudei excecandi et Christus abscondendus ab eis et postmodum sub alio congruo ordine erat per apostolos gentibus predicandus et manifestandus. Nunc vero totus orbis erit convertendus et Antichristus cum suis complicibus erit ex sanctorum gloria confundendus et plagandus. Sicut enim gloriosum est Deo quod aliquando iuste excecandis se ingeniose abscondat et prudentiam sui ingenii nobis in hoc ipso demonstret, et etiam ordinem procedendi ab occulta radice per strictum stipitem ad ramorum latam et altam spansionem, sic in gloriam Dei cedit quod aliquando per subitam manifestationem sue potentie et glorie con<ter>at et confundat adversarios suos et ad se convertat et illuminet multos, in quo et monstrat alium ordinem procedendi a superiori ad inferiora et a fontali et patula luce solis ad expansam et claram et subitam diffusionem radiorum suorum in totum orbem. Tuncque per quandam pulchram contrapositionem correspondent ultima primis. Sicut enim correspondentia concordie similis et conformis est pulchra et placens, sic et correspondentia per decentem contrapositionem. Et ideo in operibus Dei non semper est querenda correspondentia prima.

Par. XII, 49-52

non molto lungi al percuoter de l’onde
dietro a le quali, per la lunga foga,
lo sol talvolta ad ogne uom si nasconde,
siede la fortunata Calaroga

Par. VII, 73-77, 112-117; XXIX, 25-30

Più l’è conforme, e però più le piace;
ché l’ardor santo ch’ogne cosa raggia,
ne la più somigliante è più vivace.
Di tutte queste dote s’avvantaggia
l’umana creatura …………………………

Né tra l’ultima notte e ’l primo die
sì alto o sì magnifico processo,
o per l’una o per l’altra, fu o fie:
ché più largo fu Dio a dar sé stesso
per far l’uom sufficiente a rilevarsi,
che s’elli avesse sol da sé dimesso

E come in vetro, in ambra o in cristallo
raggio resplende sì, che dal venire
a l’esser tutto non è intervallo,
così ’l triforme effetto del suo sire
ne l’esser suo raggiò insieme tutto
sanza distinzïone in essordire.

Par. XI, 49-51

Di questa costa, là dov’ ella frange
più sua rattezza, nacque al mondo un sole,
come fa questo talvolta di Gange.

Par. XIX, 88-90

Cotanto è giusto quanto a lei consuona:
nullo creato bene a sé la tira,
ma essa, radïando, lui cagiona.

[LSA, cap. I, Ap 1, 13 (Ia visio)] Secunda (perfectio summo pastori condecens) est nature humane conformitas seu condescensiva ad subditos humilitas et humanitas, propter quod dicit: “similem Filio hominis”. Ex hoc autem quod non dicit “Filium hominis”, sed “similem Filio hominis”, arguit Ricardus quod angelum vidit, qui in persona et similitudine Christi demonstrabat sibi omnia, qui eo amplius habuit auctoritatis quod apparuit in ipsa similitudine salvatoris*.

In Ap I, iv (PL 196, coll. 705 D-706 A).

Inf. IV, 152; V, 28

E vegno in parte ove non è che luca.

Io venni in loco d’ogne luce muto

5. “Non ci sarà più il tempo”

Nel capitolo X si tratta dell’angelo che, al suono della sesta tromba (terza visione), ha la faccia come il sole: per Olivi designa Francesco, come l’altro angelo, quello che sale da Oriente all’apertura del sesto sigillo (Ap 7, 2).
Un’importante citazione di Gioacchino da Fiore è inserita da Olivi nell’esegesi di Ap 10, 1. Qui di seguito viene esaminata l’esegesi di Ap 10, 3-7.

contremescere, impetus, rugiens … cum forti indignatione, apertus, nullum velamen excusationis relinquitur eis, a sompno mortis, [Ap 10, 2-3]; desiderium, claude, non licet talia loqui, nemini dixeritis [10, 4]
tremavano, impetuoso, disdegnosogna, desidera, non possendo parlare, disiava scusarmi; forti, rugghiò, qual fora stata al fallo degna scusa; impeto, dove le resistenze eran più grosse; escusar puommi, dischiuso

L’angelo griderà a gran voce come un leone che ruggisce (Ap 10, 3), in primo luogo perché parlerà con forte indignazione e collera contro gli errori e i vizi di quanti sono induriti, predicendo loro con somma autorità e terribile minaccia lo spaventoso giudizio divino che incombe, al punto che farà tremare le bestie, cioè i bestiali. La veemenza della sua indignazione deriverà dal fatto che quando il libro era chiuso essi avevano una qualche scusa, ma ora che è aperto non vi è più alcuna parvenza (alcun “velo”) di scusa. Un altro motivo è l’ostinata resistenza e la grande moltitudine di quanti hanno il cuore indurito. Un terzo è il fervido zelo di richiamarli dal sonno della morte alla vita della fede. In secondo luogo griderà a gran voce come un leone che ruggisce perché con leonina costanza e fame correrà all’esca e alla preda delle anime secondo quanto detto dal profeta Amos: “ruggisce forse il leone nella selva se non ha qualche preda?” (Am 3, 4).

L’angelo che ruggisce come un leone, con forte indignazione, conduce alla porta del purgatorio, che ha gli spigoli forti e ‘rugghia’ (Purg. IX, 133-138). Olivi afferma che l’angelo ruggisce perché i carnali non hanno più alcuna scusa ora che il libro è aperto: anche Dante, secondo l’ammonizione dell’angelo portiere, sa che non deve voltarsi indietro, e che qualora lo facesse non ci sarebbe degna scusa alla sua colpa (Purg. IX, 131-132; X 5-6). Il tema del colpevole guardare indietro è pure nell’istruzione data ad Efeso, la prima delle sette chiese d’Asia (Ap 2, 4-5; cfr. i “retrosi passi” di Purg. X, 123, che rinviano a Luca 9, 62 [per questa esegesi, fortemente pregna di Riccardo di San Vittore, cfr. “Lectura super Apocalipsim” e “Commedia”. Le norme del rispondersi, 2]).
La medesima indignazione si ritrova nell’impetuoso arrivo del messo celeste che fa tremare entrambe le sponde dello Stige e apre con una verghetta la porta della Città di Dite, il quale, “pien di disdegno”, rimprovera l’arroganza con cui i diavoli recalcitrano ancora una volta di fronte alla volontà divina che più volte ha spezzato la loro resistenza (Inf. IX, 88-99). Il tema del ruggire è proprio anche di san Domenico, che percuote il suo impeto (prerogativa dello stesso angelo, ad Ap 10, 2) negli sterpi eretici in modo più veemente nel Tolosano, dove maggiori erano le resistenze degli Albigesi (Par. XII, 100-102).
L’accostamento del ‘sonno’ con lo ‘scusare’ accompagna la situazione psicologica di Dante seguita alla collera di Virgilio (che corrisponde all’indignazione dell’angelo) verso di lui tutto fisso alla rissa tra maestro Adamo e Sinone “greco di Troia”, con la differenza che il poeta può ancora scusarsi (nell’inferno il libro resta chiuso) e dovrà stare attento la prossima volta (“se più avvien che fortuna t’accoglia / dove sien genti in simigliante piato”; Inf. XXX, 136-148). Il desiderio di parlare per scusarsi e il non poterlo fare corrispondono al desiderio dei discepoli spirituali di dire i significati dei sette tuoni racchiusi nel cuore, parlare che viene vietato al versetto successivo (Ap 10, 4; cfr. Inf. X, 16-21). A Par. XIV, 136-139 il poeta si scusa perché non è stato dischiuso (cioè manifestato) “il piacer de li occhi belli” di Beatrice, posposto all’innamorarsi del dolce canto udito nel cielo di Marte, perché “i vivi suggelli / d’ogne bellezza più fanno più suso”, in modo “più sincero” man mano che si sale (e dunque il “libro” non è ancora del tutto aperto, per cui Dante, che ascende col corpo, è scusato).

apertus, nullum velamen excusationis relinquitur eis, a sompno mortis, septem tonitrua, spiritales … voces velut e tertio celo, per se se ingerent mentibus, desiderium, resonantium,  [Ap 10, 3]; claude, claudere adhuc, prohibentur ne pandant, non licet talia loqui, nemini dixeritis [Ap 10, 4]
primo tuono, voce, suono, sonando, richiusa; spiriti, voce, tuon, tonar, sonno, velando, non scuse d’aprir, sé per sé stessa; sonava, disiro, ’l terzo ciel, taci, ch’io non posso dir; ’l mio dir più dichiarar non puote

Segue Ap 10, 3: “E quando ebbe gridato, i sette tuoni fecero udire la loro voce”. Secondo Gioacchino da Fiore, questi sette tuoni sono i sette spiriti di Dio che emettono universalmente su tutta la terra, come dal terzo cielo, voci spirituali e allegoriche concordi col ruggito dell’angelo sia nel rivelare le grandi cose e gli arcani della gloria di Dio e delle sue opere, soprattutto di quelle che si compiono nelle menti contemplative, sia nel proclamarne i terribili giudizi. La settiforme grazia dello Spirito Santo e la settiforme intelligenza delle sette età del mondo, dei sette sigilli dell’Antico Testamento, dei sette stati della Chiesa e dei giudizi già intervenuti proclamano, a guisa di sette tuoni, i massimi doni delle grazie e dei premi che devono essere conferiti agli eletti e i terribili giudizi che devono ancora essere consumati sugli empi nel sesto stato della Chiesa e nel settimo. Viene detto che questi tuoni parlano al grido dell’angelo sia per l’efficacia della sua preclara dottrina, quasi di per sé si presentino alle menti dei discepoli perfetti, sia perché secondo la parola di Cristo lo Spirito Santo Paraclito suggerirà loro interiormente tutte quelle cose che l’angelo disse loro esteriormente (Giovanni 14, 26). Come infatti lo Spirito di verità recava testimonianza di Cristo nel cuore degli apostoli, così anche nei cuori dei discepoli spirituali sarà attestata la predicazione di questo angelo, secondo quel passo degli Atti degli Apostoli (Ac 10, 44) in cui è detto che, mentre Pietro predicava, lo Spirito Santo scese su tutti quanti ascoltavano la sua parola.

Dopo il rugghiare della porta del purgatorio, Dante si rivolge “attento al primo tuono” (Purg. IX, 139), espressione oscura, ma che può significare la prima, o il primo gruppo, delle voci e delle visioni estatiche che il poeta ascolterà e riceverà nella mente ascendendo la montagna che è distinta, appunto, in sette gironi. In ogni caso, c’è una consequenzialità non scontata di temi, portati da elementi semantici – il ruggire forte, il non poter più invocare scuse per i carnali una volta avvenuta l’apertura, il tuonare – che è comune ai due testi.
Nel secondo girone, degli invidiosi, i moniti alla carità sono voci spirituali (Purg. XIII, 25-42): essi invitano alla mensa d’amore, che è tema della conclusione del libro, allorché lo Spirito di Cristo, che corrisponde al Paraclito suggeritore interno di Ap 10, 3, invita alla gloriosa cena dell’Agnello (Ap 22, 17). Alla stregua di voci che paiono folgori e tuoni si presentano gli esempi di invidia punita (Purg. XIV, 130-141): in questo caso il tema dei sette tuoni si combina con quello delle folgori, voci e tuoni che ritorna più volte nel testo apocalittico (Ap 4, 5; 8, 5; 11, 19; 16, 18).
Nel terzo girone, degli iracondi, gli esempi di mansuetudine si presentano come visioni estatiche (le voci allegoriche vengono dal terzo cielo, Purg. XV, 85-117), al termine delle quali Virgilio richiama alla realtà un Dante piegato dal sonno (come il fervido zelo del leone ruggente richiama dal sonno alla vita della fede, vv. 118-138). Virgilio spiega anche che le visioni avute servono a rendere non più scusabile il non aprire il cuore alle acque della pace (tema dell’apertura del libro che toglie ogni parvenza di scusa, vv. 130-132). Immaginazioni dell’“alta fantasia” sono gli esempi di ira punita, che restringono la mente dentro da sé (i sette tuoni “per se se ingerent mentibus”) e cadono come si frange il sonno quando una nuova luce percuote il viso chiuso (Purg. XVII, 13-45; l’“imaginativa” reca in sé temi del terzo stato, i cui vittoriosi dottori conseguono, ad Ap 2, 17, il premio di salire al di sopra dell’immaginazione che si fonda sui sensi, e cioè all’“alta fantasia” che riceve il lume dal cielo).
Subito dopo, però, viene ingiunto ai discepoli spirituali, desiderosi di rivelare i significati dei sette tuoni che risuonano in modo veemente e stupendo nei loro cuori, di tacere e non scriverli, mantenendoli chiusi nel proprio cuore. Conviene infatti che molte cose aperte ai santi restino ancora chiuse ai carnali (Ap 10, 4). Suona richiudendosi dietro a Dante la porta del Purgatorio, “che ’l mal amor de l’anime disusa”, cioè la fa aprire di rado (Purg. X, 4). L’ingresso per la porta del purgatorio, apertagli dal vicario del principe degli apostoli, è il giubileo spirituale di Dante, la sua andata a “Santo Pietro”.
Il motivo del suonare connesso con quello del desiderio è nell’udire da parte di Dante l’“Osanna” cantato dagli spiriti amanti nel terzo cielo (lo stesso da cui provengono i sette tuoni) che si volgono con i loro angeli motori ai quali, come gli ricorda Carlo Martello, Dante aveva indirizzato nel mondo la canzone Voi che ’ntendendo il terzo ciel movete (Par. VIII, 28-30, 34-37). Il tacere è ingiunto dal sovrano angioino dopo che ha parlato degli inganni che dovrà subire la propria discendenza, cioè l’esclusione di Caroberto dalla successione (Par. IX, 1-6; cfr., a Purg. XXIV, 88-90, l’impossibilità, da parte di Forese, di dire tutto circa la punizione che verrà, nel 1308, su Corso Donati).

claude, aperiendus nonmalivolis, oportebit claudere adhuc [Ap 10, 4]
richiuso; conviene ancor si chiudaaprimi, io non gliel’apersi

“Infin che ’l mar fu sovra noi richiuso” (Inf. XXVI, 142). Si richiude, su Ulisse e i suoi compagni, il mare (il “pelago” della Scrittura: cfr. Ap 4, 6) ‘aperto’ a gente non disposta, uomini che avevano infranto il divieto di andare oltre le mete poste da Ercole per compiere un “folle volo” verso un mondo che non può essere oggetto di esperienza sensibile, ma solo di rivelazione spirituale.
Il tema del chiudere i segreti è nelle parole del conte Ugolino circa la torre della Muda, nella quale lui e i suoi figli furono rinchiusi fino alla morte, “e che conviene ancor ch’altrui si chiuda” (Inf. XXXIII, 22-24): la scelta del Petrocchi di dare ad “altrui” il valore di dativo consente di interpretare sia nel senso letterale – ‘nella quale altri dovranno essere rinchiusi dopo di me’ – sia nel senso che la torre chiuderà ad altri, come avvenuto con Ugolino, l’intelligenza spirituale del libro. Più avanti nel cammino di Cocito, Dante si rifiuta di aprire a frate Alberigo gli occhi incrostati di lacrime ghiacciate, perché “cortesia fu lui esser villano”, in quanto indegno di vedere la benché minima parte del libro (vv. 148-150).

claude, non licet talia loqui, desiderium, in … corde, (in)dispositis, nemini dixeritis [Ap 10, 4]
’l tacere; disio, mi taci, riposto, cuor, disposto

L’imposizione di tacere registra molteplici sviluppi. Può riguardare una domanda di Dante, come nel caso del desiderio di sapere circa la condizione delle anime pronte a passare l’Acheronte, il cui appagamento viene rinviato da Virgilio a un momento successivo (Inf. III, 72-78). Dante tace nel proprio cuore il desiderio di vedere Farinata, avendolo Virgilio disposto a ciò (Inf. X, 16-21; il tema dell’essere indisposto diventa nei versi essere disposto “per dicer poco”). È bello anche il tacere le cose dette dai sei poeti mentre vanno verso il nobile castello del Limbo (Inf. IV, 103-105). Dante, poco prima (vv. 100-102), è stato reso “sesto tra cotanto senno”, ‘segnato’ nella onorata milizia dei poeti, con tutto quello che l’essere “sesto” comporta per l’assunzione del ruolo di chi “salva l’eredità”, proprio di Filadelfia, la sesta chiesa (Ap 2, 1). Ma siamo solo agli inizi del viaggio, ed è appunto opportuno tacere, come viene detto al profeta Daniele – “Ora tu, Daniele, chiudi queste parole e sigilla questo libro fino al tempo stabilito” (Dn 12, 4) – nell’Antico Testamento, momento storico per tanti aspetti assimilato all’Inferno.

claude, claudere, prohibentur ne pandant, non licet talia loqui, nemini dixeritis, aperiendus [Ap 10, 4], levavit manum suam, iuravit, iuramus levando et ponendo manum, celum, terram, tempus amplius non erit, certitudinem et assertionem, ad consolandum, de exilio et carcere, respectu pacis, tempus afflictionis et laboris cessabit  [Ap 10, 5-7]
vi giuro, conforti, incarcerato; chiuder le labbra, tacer, ti giuro; riposar l’affanno; pace, giurarlo; pregava con le mani sporte; levò ambo le palme, vi giuro s’io di sopra vada; pace, aperse, divieto, tace, giurato, aprir; taci, tacer, scongiura; tempo non è, l’affermar, giuraro; da essilio, pace; t’assicura, ti giura; ha posto mano e cielo e terra

Al suono della sesta tromba – nel pieno del rinnovamento recato dal sesto stato della Chiesa, il novum saeculum tanto atteso -, l’angelo dal volto solare giura: “Allora l’angelo che avevo visto stare con un piede sul mare e con un piede sulla terra, levò la sua mano verso il cielo e giurò per Colui che vive nei secoli dei secoli, che ha creato cielo, terra, mare, e quanto è in essi, che non ci sarà più tempo e che nei giorni in cui il settimo angelo farà udire la sua voce e comincerà a suonare la tromba, allora si compirà il mistero di Dio come egli ha annunziato per mezzo dei suoi servi, i profeti” (Ap 10, 5-7). Questo giuramento designa la veemente certezza e affermazione che il tempo di questo mondo al momento della settima tromba finirà del tutto. Non si intende che dopo tale giuramento non ci sia altro tempo, ma che questo sarà consumato nella voce del settimo angelo. Il sesto stato è iniziato con la conversione di san Francesco (1206) e durerà fino alla distruzione di Babylon, la Chiesa carnale: è dunque il tempo in cui scrivono Olivi († 1298) e Dante. È un periodo di  prove e tentazioni che procede verso la piena libertà interiore; di martìri, inflitti dall’Anticristo e dai suoi seguaci, non corporali ma psicologici che insinuano il dubbio sulla fede e perdono anche i più esperti. È però segnato anche da miracoli intellettuali, dall’aprirsi della volontà di dire liberamente di Cristo per dettato interiore. Dopo la caduta di Babylon, subentrerà il settimo stato caratterizzato dalla brevità (da intendere, secondo Olivi, come proporzionata alla durata degli altri stati o periodi della storia), dal silenzio, dalla pace. Il suono della tromba del settimo angelo può essere riferito al giudizio finale, e allora è vero che il tempo di questo mondo cesserà completamente. Ma il settimo e ultimo stato ha un inizio in questa vita, dove non sarà tanto breve, ben prima del giudizio finale. Può trattarsi di pregustare in questo mondo, contemplando, la pace eterna; oppure della quiete delle anime beate in attesa della resurrezione.
Il tema del giurare si presenta in diversi luoghi del poema, accompagnato ora da uno ora da altro dei motivi che lo circondano nell’esegesi di Ap 10, 5-7. Giura Pier della Vigna, “per le nove radici d’esto legno”, che non ruppe mai la fedeltà a Federico II, suo signore. Giuramento che non gli toglie la pena dell’essere “incarcerato” nel gran pruno della mesta selva, ma nel quale, come nel giurare dell’angelo sesto che conforta gli animi desiderosi di uscire dal carcere di questa vita e dall’oppressione babilonica, è insito il conforto dato alla memoria del dannato nel mondo dal poeta che vi ritornerà (Inf. XIII, 73-78, 87). Al consigliere imperiale è appropriato uno dei temi più celebri dell’Apocalisse, riferito alla sesta e più cristiforme chiesa d’Asia, la chiave di David che apre e nessuno chiude, chiude e nessuno apre (Ap 3, 7).
L’angelo giura a conforto dei perseguitati che anelano a uscire dall’esilio per venire alla pace: “l’anima santa” di Boezio, “ottava” luce fra gli spiriti sapienti presentati da Tommaso d’Aquino nel cielo del Sole (Par. X, 121-129), “da martiro / e da essilio venne a questa pace”. Boezio è all’opposto di Pier della Vigna, eternamente incarcerato nel “gran pruno”.
L’angelo giura, levando la mano, per il cielo, la terra e il mare. L’obbligo di chiudere le labbra al parlare – “Nemini dixeritis visionem” (Ap 10, 4) – viene meno per l’impossibilità di tacere da parte del poeta la visione di Gerione che sale dall’abisso, e il vedere è confermato con giuramento: “per le note / di questa comedìa, lettor, ti giuro, / s’elle non sien di lunga grazia vòte” (Inf. XVI, 124-129). Una situazione analoga è la rimozione da parte di Virgilio del precedente divieto di tacere la propria identità dinanzi a Stazio (Purg. XXI, 103-120); anche qui è presente il tema del giurare, proprio dell’angelo dal volto solare, nell’espressione “Or son io d’una parte e d’altra preso: / l’una mi fa tacer, l’altra scongiura / ch’io dica”. In entrambi i casi interviene uno dei temi fondamentali del sesto stato, al quale è dato l’ “hostium sermonis ad loquendum misterium Christi”, per cui chi predica sente interiormente l’ordine di dire (Ap 3, 8).
Al “poema sacro”, come detto a Par. XXV, 1-2, “ha posto mano e cielo e terra”. Quest’ultima espressione è accostabile all’esegesi di Ap 22, 2, dove si parla delle due rive, la divina e l’umana, del fiume di acqua viva (la grazia dello Spirito) che deriva dalla Trinità, entrambe ombreggiate dalle foglie che designano i sacramenti, cioè la verità: “Nam non solum celum, sed etiam terra plena est gloria et maiestate Dei”. Ma nei versi non può essere esclusa una sacramentale formula di giuramento su un prossimo tempo di pace, “sicut nos iuramus levando et ponendo manum super altare vel super librum evangeliorum”: “Se mai continga che ’l poema sacro / al quale ha posto mano e cielo e terra / … vinca la crudeltà che fuor mi serra / del bello ovile ov’ io dormi’ agnello, / nimico ai lupi che li danno guerra; / con altra voce omai, con altro vello / ritornerò poeta …”; quasi dicesse, come l’angelo dal volto solare: giuro per il cielo e la terra che il tempo dell’afflizione e dell’esilio finirà. Se l’angelo giura che anche il tempo finirà e che la patria è quella celeste, l’effetto principale delle sue parole sarà però la pace instaurata dopo la morte dell’Anticristo, che durerà in terra alquanto tempo prima del giudizio finale. Il tempo, cioè, non finirà del tutto. Contro Riccardo di San Vittore, Olivi ritiene che l’ingiunzione fatta a Giovanni nel finale del capitolo X, di predicare ancora dopo gli apostoli a tutto il mondo (Ap 10, 11), per cui gli viene promesso il ritorno in patria dall’esilio, non è riferibile solo all’Evangelista bensì soprattutto ai santi che vivono nel sesto stato della storia della Chiesa, e dunque anche nel 1300.
Assumendo la tromba del settimo angelo rispetto alla pace che sarà nella Chiesa dopo la morte dell’Anticristo, allora il senso delle parole dell’angelo che giura è che il tempo dell’afflizione e della fatica dei precedenti sei stati, come i sei giorni in cui fu necessario faticare e lavorare, verrà meno nel sabato e nel riposo del settimo stato, perché allora sarà consumato il mistero annunciato per mezzo dei profeti nella misura in cui deve essere consumato in questa vita. Così spiega Gioacchino da Fiore nell’Expositio, che dopo il tempo delle sei aperture di questa sesta età rimarrà il tempo, come dice l’angelo a Daniele, “quale non fu dal tempo in cui gli uomini incominciarono a essere sulla terra” (Dn 12, 1), il tempo del settimo angelo benedetto dal Signore conferendo in quello pace e letizia a coloro che lo temono.
L’ascesa della montagna del purgatorio – spiega Virgilio – faticosa da principio, si fa poi via via sempre più soave e leggera; alla fine, dopo il settimo girone, Dante potrà riposare il proprio affanno (Purg. IV, 88-96). “Pace” il poeta va cercando “di mondo in mondo” dietro alla sua guida, come dice ai negligenti morti per violenza, per i quali risponde per primo Iacopo del Cassero a quella che è una formula di giuramento implicito: “Ciascun si fida / del beneficio tuo sanza giurarlo” (Purg. V, 61-66).
Fra le anime che invocano suffragi dal poeta per abbreviare la propria permanenza nel cosiddetto antipurgatorio, Federigo Novello “pregava con le mani sporte”, come l’angelo che giura levando in alto la mano (ma, nel passo simmetrico di Daniele 12, 7, l’uomo che sta sulle acque del fiume giura levando le mani). Così si atteggia “quel da Pisa”, fatto uccidere dal conte Ugolino nel 1288, cioè Gano, il figlio del “buon Marzucco” Scornigiani. Al padre, che fu uomo politico e divenne poi francescano nel convento di Santa Croce a Firenze nel 1286, l’anno prima che vi arrivasse l’Olivi, viene appropriato l’aggettivo “forte”, che appartiene anch’esso all’angelo dal volto solare (Ap 10, 1), nel senso che non volle vendicarsi degli uccisori del figlio ma anzi si pacificò con loro, ed anche questo motivo è consono all’angelo che giura la pace del settimo stato  (Purg. VI, 16-18).
L’immagine virgiliana (Aen. VI, 313-314) della folla degli insepolti che pregano Caronte di traghettarli all’altra sponda d’Acheronte – “Stabant orantes primi transmittere cursum / tendebantque manus ripae ulterioris amore” -, che nel canto ha un suo sviluppo nel successivo discorso del poeta pagano (Purg. VI, 34-48), è fasciata dal tema della brevità del tempo, giurata dall’angelo. Questi è sotto il regime della sesta tromba, e giura in vista del suono della settima. Sesto e settimo stato corrispondono all’età dello Spirito di Gioacchino da Fiore, in cui le generazioni e le sofferenze saranno abbreviate per gli eletti: “[…] ne nimis immoderata tribulatio absorbeat electos. Unde et veritas ait quod propter electos breviabuntur dies illi […]” (prologo, Notabile XII). Che è proprio quanto chiesto con desiderio “da tutte quante / quell’ombre che pregar pur ch’altri prieghi, / sì che s’avacci lor divenir sante” (Purg. VI, 25-27). Si tratta di “spiriti eletti” che s’aspettano “pace” (Purg. III, 73-75), ai quali con le preghiere si può abbreviare il tempo dell’afflizione e della fatica come giurato dall’angelo (cfr. le parole di Cacciaguida sul bisavolo di Dante a Par. XV, 95-96).
Un giuramento è fatto da Dante, nella valletta in costa del monte, a conferma della vera nobiltà dei Malaspina, di fronte al nipote dell’antico Corrado: «e io vi giuro, s’io di sopra vada … Hinc etiam est quod iurat “per viventem” in eternum, ubi etiam signanter specificat tria per ipsum creata, scilicet “celum”, tamquam electis querendum et tamquam locum in quo est eorum gloria consumanda”» (Purg. VIII, 124-129). Il poeta, letteralmente, si augura di andare fino in cima alla montagna; di fatto pensa in cuor suo di ascendere al cielo.
Il tema della pace (cfr. Ap 3, 12), di un tempo di cui dice l’angelo a Daniele “quale non fuit ex eo tempore quo ceperunt homines esse in terra” (che è la “pace universale … che mai, più non fu né fia” di Convivio IV, v, 8 – cfr. Purg. XIV, 13-15: “… ché tu ne fai / tanto maravigliar de la tua grazia, / quanto vuol cosa che non fu più mai”), si trova nell’immagine che raffigura l’annunciazione, intagliata nel marmo della costa del primo girone del purgatorio. Nelle quattro terzine (Purg. X, 34-45), sono presenti molti motivi che appartengono al sesto stato: l’aprire – “ch’aperse il ciel del suo lungo divieto … quella / ch’ad aprir l’alto amor volse la chiave” -, che elabora il tema della chiave di David che apre e nessuno chiude, chiude e nessuno apre, tipico della sesta chiesa (Ap 3, 7); il tema del giuramento, proprio dell’angelo dal volto solare (Ap 10, 5-7), a conferma del fatto che Gabriele “non sembiava imagine che tace” poiché “giurato si saria ch’el dicesse ‘Ave!’” (l’apertura del sesto stato è anche rimozione del divieto di parlare di cui ad Ap 10, 4); i motivi dell’imprimere e del sigillare la fede (che secondo il Notabile III del prologo appartengono al sesto momento della “tuba magistralis”) nelle parole “Ecce ancilla Dei”, impresse “propriamente / come figura in cera si suggella” (gli stessi motivi, dell’imprimere e del sigillare, sono nelle parole di Beatrice, a Par. VII, 67-69, sulle cose che derivano senza mediazioni dalla divina bontà). È da notare la concordia: con il primo avvento di Cristo, di cui parla il marmo istoriato, inizia la sesta età del mondo; la “porta di san Pietro“, da poco aperta, designa l’inizio del sesto stato della sesta età, ovvero dell’età dello Spirito di Gioacchino da Fiore.
Giurare equivale affermare con certezza. Così a Purg. XXVI, 109 Guinizzelli, riferendosi all’elogio fattogli da Dante – “Ma se le tue parole or ver giuraro” -, preceduto dall’affermare di questi (vv. 104-105: “tutto m’offersi pronto al suo servigio / con l’affermar che fa credere altrui”; cfr. la rima t’assicura / ti giura a Par. XXIV, 103, 105). Da rilevare che l’angelo dal volto solare giura asserendo che il tempo finirà al suono della settima tromba: topograficamente, siamo nel settimo girone della montagna, corrispondente al settimo stato della Chiesa e alla sua tematica.
Al termine della salita della montagna Virgilio dice al discepolo che in quello stesso giorno la sua fame verrà posta in pace, poiché egli sta per conseguire “quel dolce pome che per tanti rami / cercando va la cura de’ mortali”, cioè la beatitudine terrena raffigurata dall’ormai vicino paradiso terrestre (Purg. XXVII, 115-117). 

claude, claudere, prohibentur ne pandant, non licet talia loqui, nemini dixeritis [Ap 10, 4], incredibilia [Ap 10, 7]
chiuso, mi chiudessi; nol dirai, cose incredibili

“misterium” quia sub misticis velaminibus sunt prenuntiata [Ap 10, 7]
si quis habetsanam intelligentiam [Ap 13, 9]
doctrine, sub velamine, absconsa [LSA, incipit ]
misteria tertii status subtiliora sunt misteriis secundi status et misteriis primi [Ap 12, 6]
ch’avete li ’ntelletti sani, la dottrina, s’asconde sotto ’l velame; ’l velo, sottile

L’angelo giura che si compirà il “mistero”, cioè gli occulti giudizi di Dio, profeticamente preannunciati sotto veli mistici (Ap 10, 7). L’esegesi del “mistero” conduce a una terzina famosa, l’appello al lettore che precede l’arrivo del messo celeste che apre la porta della città di Dite, chiusa a Virgilio dai diavoli che non vogliono farvi entrare Dante, anzi intendono rimandarlo indietro da solo per la buia strada (Inf. IX, 61-63). Le parole di questa terzina – “O voi ch’avete li ’ntelletti sani, / mirate la dottrina che s’asconde / sotto ’l velame de li versi strani” – risultano quasi tutte da una collazione di tre passi: l’esegesi del tema introduttivo della Lectura, da Isaia 30, 26; Ap 10, 7; Ap 13, 9. Il primo passo si riferisce alla dottrina settiforme di Cristo, nascosta nell’Antico Testamento sotto i veli profetici, che verranno tolti nel giorno in cui la luce della luna sarà come quella del sole. Il secondo è relativo ai giudizi divini, cioè ai ‘misteri’ preannunciati sotto il medesimo velame. Il terzo fa appello a coloro che hanno orecchio – «“Si quis habet aurem”, id est sanam intelligentiam dictorum et dicendorum, “audiat”» -, i quali, sulla base di quanto il testo sacro ha detto o dirà, debbono mantenersi nella tribolazione pazienti e confidenti nell’aiuto divino, perché verranno salvati contro quanti vogliono condurli in prigionia. Così l’arrivo del messo celeste salva i due poeti, ed è descritto con versi “strani”, cioè oscuri, perché non è ancora tempo di aprire la dottrina di Cristo ai malvagi e agli indisposti nemici. La terzina è preceduta da altre due che espongono il tema del chiudere: al minacciato sopravvenire del “Gorgón” che impietrisce, invocato dalle tre Furie, Virgilio fa volgere indietro il poeta e gli chiude il viso con le sue stesse mani, sciogliendo gli occhi del discepolo solo all’arrivo del messo celeste (Inf. IX, 55-60, 73).
Simmetrica all’episodio del discendere del messo celeste è, in Purg. VIII, la discesa dei due angeli che mettono in fuga il serpente nella valletta dei principi. Qui il tema del giurare levando in alto le mani (assente nell’episodio infernale) – come l’angelo dal volto solare – è fatto proprio da una delle anime che giunge e leva le mani intonando l’inno Te lucis ante (vv. 10-18). Subito dopo, il nuovo appello di Dante al lettore perché aguzzi gli occhi al vero, in quanto il velo è ora tanto sottile che il trapassarvi dentro risulta lieve (vv. 19-21). Il velo, ancora una volta, allude al “mistero” e, come afferma Gioacchino da Fiore (citato nell’esegesi di Ap 12, 6), i misteri del terzo stato generale del mondo (che corrisponde al sesto e settimo stato della Chiesa secondo Olivi) sono più sottili di quelli del primo e del secondo stato e pertanto meno necessitano di versi oscuri che ne nascondano la dottrina. L’Inferno corrisponde al primo stato, quello del Padre (che comprende le prime cinque età del mondo, prima della venuta di Cristo); il Purgatorio al secondo stato del Figlio (la sesta età, che inizia con l’avvento di Cristo) e al terzo, dello Spirito (secondo Olivi il sesto e il settimo stato della sesta età), che inizia con l’apertura della porta di san Pietro (la porta del purgatorio). La valletta dei principi si inserisce nella zona in cui prevalgono ancora i temi del quinto stato della Chiesa, uno dei quali è l’attendere la nuova età. L’appello, che allude alla prossima apertura dei misteri del terzo stato, precede, come nel nono canto dell’Inferno, l’arrivo di qualcuno, in questo caso dei due angeli che vengono dal grembo di Maria (Purg. VIII, 25-42). La loro faccia che fa smarrire l’occhio è variante del tema dell’angelo che ha la faccia come il sole oppure del risplendere del volto Cristo nelle perfezioni trattate ad Ap 1, 16-17. È da notare che la levità del velo si contrappone agli “avversi ardori” del vento impetuoso cui è paragonato il messo celeste che apre la porta della città di Dite, e ciò corrisponde a quanto, con citazione di Gioacchino da Fiore, si dice ad Ap 15, 1 di Cristo, che venne prima per redimere “in spiritu levitatis” e che verrà per giudicare “in spiritu ardoris”.
Quelle che sembrano due allegorie per eccellenza – “la dottrina che s’asconde / sotto ’l velame de li versi strani”, a Inf. IX, 61-63, e “’l velo … ora ben tanto sottile, / certo che ’l trapassar dentro è leggero”, a Purg. VIII, 19-21 – mostrano in realtà la differenza tra l’allegoria dei poeti e quella dei teologi di cui Dante parla nel Convivio (II, i, 2-15: 4). Si tratta di due velami del vero (o della dottrina) dei quali il primo nasconde, e il secondo nasconde assai meno non perché esprimano entrambi, a diversi livelli, “una veritade ascosa sotto bella menzogna”, cioè sotto la lettera-finzione della poesia, ma perché si riferiscono a due momenti storici differenti del viaggio, il primo (il tempo antico) in cui l’illuminazione è chiusa; il secondo (il tempo moderno, ovvero la soglia del sesto stato dell’Olivi, che equivale alla terza età di Gioacchino da Fiore, appropriata allo Spirito Santo) in cui è molto più sottile e aperta. Ciò corrisponde al teologico vedere le vicende di Cristo e della Chiesa come prefigurate nei fatti e nei detti dei profeti dell’Antico Testamento. Per i teologi, infatti, ha valore storico non solo la lettera, che non può essere quindi una finzione, lo ha anche l’allegoria con riferimento alla storia antica, “figura” della nuova.
Tacere gli eventi futuri, che sono anche giudizi divini, viene ingiunto a Dante da Cacciaguida nel momento in cui dice di Cangrande “cose / incredibili a quei che fier presente”, che corrispondono a ciò che l’angelo che giura chiama “mistero”, cioè “segreto”, occulto e incredibile ai mondani ma non agli eletti (Par. XVII, 91-93).

Tab. XVII.8

Inf. IX, 64-68, 88

E già venìa su per le torbide onde
un fracasso d’un suon, pien di spavento,
per cui tremavano amendue le sponde,
non altrimenti fatto che d’un vento
impetüoso per li avversi ardori

Ahi quanto mi parea pien di disdegno!

Inf. XXX, 136-141

Qual è colui che suo dannaggio sogna,
che sognando desidera sognare,
sì che quel ch’è, come non fosse, agogna,
tal mi fec’ io, non possendo parlare,
che disïava scusarmi, e scusava
me tuttavia, e nol mi credea fare.

Par. XIV, 136-139

escusar puommi di quel ch’io m’accuso
per escusarmi, e vedermi dir vero:
ché ’l piacer santo non è qui dischiuso,
perché si fa, montando, più sincero.

Par. XII, 100-102

e ne li sterpi eretici percosse
l’impeto suo, più vivamente quivi
dove le resistenze eran più grosse.

Purg. IX, 130-138; X, 1-6

Poi pinse l’uscio a la porta sacrata,
dicendo: “Intrate; ma facciovi accorti
che di fuor torna chi ’n dietro si guata”.
E quando fuor ne’ cardini distorti
li spigoli di quella regge sacra,
che di metallo son sonanti e forti,
non rugghiò sì né si mostrò sì acra
Tarpëa, come tolto le fu il buono
Metello, per che poi rimase macra.

Poi fummo dentro al soglio de la porta
che ’l mal amor de l’anime disusa,
perché fa parer dritta la via torta,
sonando la senti’ esser richiusa;
e s’io avesse li occhi vòlti ad essa,
qual fora stata al fallo degna scusa? 

[LSA, cap. X; Ap 10, 2-4 (IIIa visio, VIa tuba)] Ponet etiam “pedem suum dextrum supra mare” (Ap 10, 2) nationum infidelium et “sinistrum super terram” fidelium, quia principalis impetus et processus eius erit ad totum orbem convertendum ad Christum, sic tamen quod ex hoc non deseret priorem ecclesiam fidelium. […]
Clamaturus autem est sicut leo rugiens (Ap 10, 3). Primo quia contra errores et vitia obduratorum cum forti indignatione et increpatione loquetur, et terribile iudicium Dei eis in proximo venturum cum summa auctoritate et terribili comminatione predicet, ita ut bestias, id est bestiales, contremescere faciat. Ratio autem magnitudinis sue indignationis erit ex hoc, quia cum clausus erat liber videbantur aliquantulam excusationem habere, ex quo autem est apertus nullum velamen excusationis relinquitur eis. Alia ratio est propter nimiam resistentiam et nimiam multitudinem obduratorum. Tertia est <propter> superfervidum zelum excitandi eos a sompno mortis ad vitam fidei. Secundo, clamabit ut leo rugiens, quia cum leonina constantia et esurie curret ad animarum escam et predam, secundum illud Amos III° (Am 3, 4): “Numquid rugiet leo in saltu, nisi habuerit predam?”.
Et cum clamasset, locuta sunt septem tonitrua voces suas” (Ap 10, 3). Secundum Ioachim, hec septem tonitrua sunt septem spiritus Dei, qui missi in omnem terram spiritales et allegoricas voces, velut e tertio celo, emittunt concordantes rugitui angeli, tam in revelando magnalia et archana glorie Dei et operum eius, et precipue illorum que fiunt in mentibus contemplativis, quam in tonando terribilia iudicia Dei*. Septiformis enim gratia Spiritus Sancti et septiformis intelligentia septem etatum mundi et septem signaculorum veteris testamenti et septem statuum ecclesie et iudiciorum factorum in hiis qui iam precesserunt, instar septem tonitruorum, clamant maxima dona gratiarum et premiorum esse danda electis et quod horribilissima iudicia fienda impiis in sexto statu ecclesie et in fine septimi restant. Dicuntur autem hec tonitrua ad clamorem angeli loqui, tum quia ad efficaciam preclare doctrine ipsius quasi per se se ingerent mentibus perfectorum discipulorum, tum quia secundum verbum Christi, Iohannis XIIII° (Jo 14, 26), “Paraclitus Spiritus Sanctus suggeret” illis “omnia” interius que tamen angelus extra dixit eis. Sicut enim Spiritus veritatis in cordibus apostolorum perhibebat de Christo testimonium, sic et nunc in cordibus spiritualium discipulorum contestabitur predicationi huius angeli, iuxta quod Actuum X° (Ac 10, 44) dicitur quod, Petro predicante, “cecidit Spiritus Sanctus super omnes qui audiebant verbum”.
Sequitur (Ap 10, 4): “Et ego scripturus eram, et audivi vocem de celo dicentem: signa”, id est quasi sigillo firmo in tuo corde claude illa “que locuta sunt septem tonitrua, et noli ea scribere”. Hic demonstratur primo pium desiderium spiritalium discipulorum ad propalandum omnibus spiritales sensus septem tonitruorum in eorum cordibus vehementer et stupende resonantium.
Secundo monstratur quomodo a Christo et eius Spiritu et a sanctis doctoribus prohibentur ne pandant ea homini carnali et animali quibus non licet talia loqui, iuxta illud Christi: “Vobis datum est nosse misterium regni Dei, ceteris autem in parabolis” (Lc 8, 10), et “nolite sanctum dare canibus neque porcis” (Mt 7, 6). Sunt enim quedam sic omnibus communia quod sunt omnibus publice predicanda, quedam vero non sunt omnibus dicenda et precipue ante tempus, iuxta illud Matthei XVII° (Mt 17, 9): “Nemini dixeritis visionem, donec Filius hominis a mortuis resurgat”. Unde et sub sexto signaculo veteris testamenti dicit angelus Danieli: “Tu autem, Daniel, claude sermones et signa librum usque ad tempus statutum” (Dn 12, 4), quod quidem erat sexta etas in qua apparuit Christus, et precipue sextus status ecclesie sue in quo liber erat plenius aperiendus, non tamen malivolis aut indispositis. Ante enim mortem magni Antichristi oportebit multa tunc sanctis aperta claudere emulis et etiam fidelibus vel adhuc animalibus.

* Expositio, pars III, f. 138vb.

Purg. IX, 139-141

Io mi rivolsi attento al primo tuono,
e ‘Te Deum laudamus’ mi parea
udire in voce mista al dolce suono.

Purg.  XIII, 25-30; XIV, 130-138

e verso noi volar furon sentiti,
non però visti, spiriti parlando
a la mensa d’amor cortesi inviti.
La prima voce che passò volando
Vinum non habent’ altamente disse,
e dietro a noi l’andò reïterando.

Poi fummo fatti soli procedendo,
folgore parve quando l’aere fende,
voce che giunse di contra dicendo:
‘Anciderammi qualunque m’apprende’;
e fuggì come tuon che si dilegua,
se sùbito la nuvola scoscende.
Come da lei l’udir nostro ebbe triegua,
ed ecco l’altra con sì gran fracasso,
che somigliò tonar che tosto segua

Purg. XXIV, 88-90

“Non hanno molto a volger quelle ruote”,
e drizzò li occhi al ciel, “che ti fia chiaro
ciò che ’l mio dir più dichiarar non puote”.

Par. VIII, 28-30, 34-37; IX, 1-6

e dentro a quei che più innanzi appariro
 sonavaOsanna’ sì, che unque poi
di rïudir non fui sanza disiro.

Noi ci volgiam coi principi celesti
d’un giro e d’un girare e d’una sete,
ai quali tu del mondo già dicesti:
Voi che ’ntendendo il terzo ciel movete

Da poi che Carlo tuo, bella Clemenza,
m’ebbe chiarito, mi narrò li ’nganni
che ricever dovea la sua semenza;
ma disse: “Taci e lascia muover li anni”;
sì ch’io non posso dir se non che pianto
giusto verrà di retro ai vostri danni.

Purg. XV, 85-86, 118-123, 130-132

Ivi mi parve in una visïone
estatica di sùbito esser tratto

Lo duca mio, che mi potea vedere
far sì com’ om che dal sonno si slega,
disse: “Che hai che non ti puoi tenere,
ma se’ venuto più che mezza lega
velando li occhi e con le gambe avvolte,
a guisa di cui vino o sonno piega?”.

Ciò che vedesti fu perché non scuse
d’aprir
lo core a l’acque de la pace

che da l’etterno fonte son diffuse.

Purg. XVII, 19-27, 31-34, 40-42

De l’empiezza di lei che mutò forma
ne l’uccel ch’a cantar più si diletta,
ne l’imagine mia apparve l’orma;
e qui fu la mia mente sì ristretta
dentro da sé, che di fuor non venìa
cosa che fosse allor da lei ricetta.
Poi piovve dentro a l’alta fantasia
un crucifisso, dispettoso e fero
ne la sua vista, e cotal si moria

E come questa imagine rompeo
sé per sé stessa, a guisa d’una bulla
cui manca l’acqua sotto qual si feo,
surse in mia visïone una fanciulla

Come si frange il sonno ove di butto
nova luce percuote il viso chiuso,
che fratto guizza pria che muoia tutto

Inf. X, 16-21

“Però a la dimanda che mi faci
quinc’ entro satisfatto sarà tosto,
e al disio ancor che tu mi taci”.
E io: “Buon duca, non tegno riposto
a te mio cuor se non per dicer poco,
e tu m’hai non pur mo a ciò disposto”.

 

Secundo monstratur quomodo a Christo et eius Spiritu et a sanctis doctoribus prohibentur ne pandant ea homini carnali et animali quibus non licet talia loqui, iuxta illud Christi: “Vobis datum est nosse misterium regni Dei, ceteris autem in parabolis” (Lc 8, 10), et “nolite sanctum dare canibus neque porcis” (Mt 7, 6). Sunt enim quedam sic omnibus communia quod sunt omnibus publice predicanda, quedam vero non sunt omnibus dicenda et precipue ante tempus, iuxta illud Matthei XVII° (Mt 17, 9): “Nemini dixeritis visionem, donec Filius hominis a mortuis resurgat”. Unde et sub sexto signaculo veteris testamenti dicit angelus Danieli: “Tu autem, Daniel, claude sermones et signa librum usque ad tempus statutum” (Dn 12, 4), quod quidem erat sexta etas in qua apparuit Christus, et precipue sextus status ecclesie sue in quo liber erat plenius aperiendus, non tamen malivolis aut indispositis. Ante enim mortem magni Antichristi oportebit multa tunc sanctis aperta claudere emulis et etiam fidelibus vel adhuc animalibus.

Inf. IV, 103-105

Così andammo infino a la lumera,
parlando cose che ’l tacere è bello,
sì com’ era ’l parlar colà dov’ era.

Inf. XXXIII, 22-24, 148-150

Breve pertugio dentro da la Muda,
la qual per me ha ’l titol de la fame,
e che conviene ancor ch’altrui si chiuda

“Ma distendi oggimai in qua la mano;
aprimi li occhi”. E io non gliel’ apersi;
e cortesia fu lui esser villano.

 

Inf. IX, 55-60; XXVI, 142

“Volgiti ’n dietro e tien lo viso chiuso;
ché se ’l Gorgón si mostra e tu ’l vedessi,
nulla sarebbe di tornar mai suso”.
Così disse ’l maestro; ed elli stessi
mi volse, e non si tenne a le mie mani,
che con le sue ancor non mi chiudessi.

infin che ’l mar fu sovra noi richiuso

[LSA, cap. IV, Ap 4, 6 (IIa visio, radix)] “Et in conspectu sedis”, scilicet erat, “tamquam mare vitreum simile cristallo” (Ap 4, 6). Per mare designatur Christi amara et quasi infinita passio et lavacrum baptismale et penitentialis contritio et martiriorum perpessio et pelagus sacre scripture. Quodlibet enim horum est puritate et claritate et pervia perspicuitate vitreum et soliditate cristalli-num. Hec omnia etiam sunt ad utilitatem ecclesie ordinata et ad cultum et gloriam maiestatis Dei.

[LSA, cap. II, Ap 2, 5 (Ia visio, Ia ecclesia)] Maius autem est bonum sequi ex desiderio et cum magna delectatione quam ex solo consilio et deliberatione; istud quidem bonum, sed illud optimum, istud pertinet ad argentum, illud autem ad aurum. Bonum est argento huiusmodi habundare, sed non minus stultum aurum suum in argentum mutare : “mittens enim manum ad aratrum et respiciens retro non est aptus regno Dei” (Lc 9, 62). Unde sermo divinus per increpationem ferit eum qui aureum opus in argentum commutat.

[LSA, cap. II, Ap 2, 5 (Ia visio, Ia ecclesia)] Et ideo prima ecclesia Asie innuitur habuisse primo fervidam caritatem et cecidisse ab eius primo fervore. Sic etiam primitiva ecclesia sub apostolis cecidit a primo fervore nimis iudaizando et zelando legalia. Unde et congrue vocatur Ephesus, id est voluntas mea in ea; vel lapsus, quia dum ferveret fuit voluntas Christi in ea ut matris in tenera et novella prole, cum vero lapsa est recte dicitur lapsus.

Purg. IX, 130-132; X, 121-123

Poi pinse l’uscio a la porta sacrata,
dicendo: “Intrate; ma facciovi accorti
che di fuor torna chi ’n dietro si guata”.

O superbi cristian, miseri lassi,
che, de la vista de la mente infermi,
fidanza avete ne’ retrosi passi

Par. V, 55-60

Ma non trasmuti carco a la sua spalla
per suo arbitrio alcun, sanza la volta
e de la chiave bianca e de la gialla;
e ogne permutanza credi stolta,
se la cosa dimessa in la sorpresa
come ’l quattro nel sei non è raccolta.

Tab. XVII.8bis

[LSA, cap. X, Ap 10, 3-7 (IIIa visio, VIa tuba)] Sequitur (Ap 10, 4): “Et ego scripturus eram, et audivi vocem de celo dicentem: signa”, id est quasi sigillo firmo in tuo corde claude illa “que locuta sunt septem tonitrua, et noli ea scribere”. Hic demonstratur primo pium desiderium spiritalium discipulorum ad propalandum omnibus spiritales sensus septem tonitruorum in eorum cordibus vehementer et stupende resonantium. Secundo monstratur quomodo a Christo et eius Spiritu et a sanctis doctoribus prohibentur ne pandant ea homini carnali et animali quibus non licet talia loqui, iuxta illud Christi: “Vobis datum est nosse misterium regni Dei, ceteris autem in parabolis” (Lc 8, 10), et “nolite sanctum dare canibus neque porcis” (Mt 7, 6). Sunt enim quedam sic omnibus communia quod sunt omnibus publice predicanda, quedam vero non sunt omnibus dicenda et precipue ante tempus, iuxta illud Matthei XVII° (Mt 17, 9): “Nemini dixeritis visionem, donec Filius hominis a mortuis resurgat”. Unde et sub sexto signaculo Veteris Testamenti dicit angelus Danieli: “Tu autem, Daniel, claude sermones et signa librum usque ad tempus statutum” (Dn 12, 4), quod quidem erat sexta etas in qua apparuit Christus, et precipue sextus status ecclesie sue in quo liber erat plenius aperiendus, non tamen malivolis aut indispositis. Ante enim mortem magni Antichristi oportebit multa tunc sanctis aperta claudere emulis et etiam fidelibus vel adhuc animalibus.
Sequitur (Ap 10, 5): “Et angelus, quem vidi stantem supra mare et supra terram, levavit manum suam in celum (Ap 10, 6) et iuravit per viventem in secula seculorum, qui creavit celum et ea que in illo sunt, et terram et ea que in ea sunt, et mare et ea que in eo sunt, quia tempus amplius non erit; (Ap 10, 7) sed in diebus vocis septimi angeli, cum ceperit tuba canere, consumabitur misterium Dei, sicut evangelizavit per servos suos prophetas”. Iuramentum hoc designat vehementem certitudinem et assertionem quod tempus huius seculi omnino finietur in tempore septime tube. Non enim intendit quod post hoc iuramentum suum non sit tempus amplius, sed quod in voce septimi angeli consumabitur. Iurat autem hoc ita fortiter, tum ad fortius perterrendum malos et terrendo convertendum ad penitentiam, tum ad consolandum electos multiplicibus persecutionibus et miseriis vexaturos et de exilio et carcere huius vite cupientes exire et ad eternam patriam iugiter suspirantes.
Sciendum etiam quod prout tubicinium septimi angeli refertur ad extremum iudicium, de quo <Ia> ad Thessalonicenses IIII° (1 Th 4, 16; cfr. 2 Th 1, 7) dicitur quod “ipse Dominus in iu<s>su et in voce archangeli et in tuba Dei descendet de celo, et mortui, qui in Christo sunt, resurgent primi”, est simpliciter verum quod tempus huius seculi tunc omnino cessabit et plene implebitur quicquid Deus per suos prophetas prenuntiavit fiendum, quod vocat “misterium”, id est secretum, quia nichil mundanis occultius quam spiritalis gratia et gloria in electis consumanda, futura etiam Dei iudicia sunt eis occulta et quasi incredibilia. Dicitur etiam “misterium”, quia sub misticis velaminibus sunt prenuntiata. Nec intendo quin principalia corpora huius mundi tunc durent, sed solum quod temporalis et mobilis cursus eius et temporalis status humani generis in hac vita mortali cessabit.
Sumendo vero tubicinium septimi angeli respectu pacis que erit in ecclesia post mortem Antichristi, tunc est sensus quod tempus afflictionis et laboris sex priorum statuum, quasi sex dierum quibus laborare et operari oportet, cessabit in sabbato et requie septimi status, tuncque “consumabitur misterium” per prophetas <pre>nuntiatum quantum in hac vita consumari debet. Et sic exponit hoc Ioachim, subdens quod post tempus sex apertionum huius sexte etatis manet «tempus, ut ait angelus Danieli, quale non fuit ex eo tempore quo ceperunt homines esse in terra (cfr. Dn 12, 1), tempus utique septimi angeli, cui benedicet Dominus dans in eo pacem et letitiam sustinentibus se»**.
Secundum vero Ricardum, non dicit tempus amplius non esse respectu dampnandorum, quia illorum tempus erit in secula (nam de frigoribus ad calores et de caloribus ad frigora revertentur), sed dicit hoc respectu sanctorum glorificandorum et elementorum innovandorum. Dicit enim hoc ad consolationem sanctorum hic pro Christo multa patientium, quibus promittit instabilem mutabilitatem huius seculi transituram et eterne glorie immobilitatem successuram*.
Nota pulchram concordiam, quia sicut hic sub sexta tuba angelus super mare et super terram iurat quod “tempus amplius non erit”, sic Danielis XI° (cfr. Dn 12, 6-7) sub sexto tempore seu signaculo Veteris Testamenti vir seu angelus stans “super aquas fluminis”, elevatis in celum manibus, iurat “per viventem in eternum” quod  “in tempus et tempora et dimidium temporis”, supple: durabit tempus et labor, “et, cum completa fuerit dispersio populi sancti, complebuntur universa hec”. Quid autem designetur per “tempus et tempora et dimidium temporis” tangetur infra super quarta visione (cfr. Ap 12, 14).
Nota etiam quod hic per prophetas non solum intelliguntur prophete Veteris Testamenti, sed etiam apostoli et ceteri doctores Novi Testamenti. Omnes enim prenuntiant consumationem ecclesie et operum Dei in finem seculi implendam.
Nota etiam quod ideo sub sexto statu iuratorie predicatur temporis brevitas et quasi finis, quia ex tunc singulariter inclarescet electis quod finis seculi instat et quod Dei opera sunt finali consumationi propinqua.
Nota etiam quod sicut nos iuramus levando et ponendo manum super altare vel super librum evangeliorum, tamquam protestantes nos per sanctitatem altaris vel evangelii iurare, sic iste angelus iurat levando manum ad celum, id est per altam protestationem celestis ecclesie et Dei habitantis in ea, et etiam quia demonstratio celestis mansionis et eternitatis multum confirmat tempus huius seculi <c>eleriter transiturum. Hinc etiam est quod iurat “per viventem” in eternum, ubi etiam signanter specificat tria per ipsum creata, scilicet “celum”, tamquam electis querendum et tamquam locum in quo est eorum gloria consumanda; deinde “terram” cum existentibus in ea, et tertio “mare” cum existentibus in eo, quasi dicat: iuro per eum qui creavit terram fidelium et mare nationum infidelium, quibus utrisque nunc ego predico ed ad eternam gloriam invito. Unde et tenebat pedem unum super terram et alium super mare.

* Expositio, pars III, f. 138vb. ** Ibid., f. 141rb-va. * In Ap III, vii (PL 196, coll. 789 D–790 A).

Par. X, 127-129

Lo corpo ond’ ella fu cacciata giace
giuso in Cieldauro; ed essa da martiro
e da essilio venne a questa pace.

 

Par. XVII, 91-93

“e portera’ne scritto ne la mente
di lui, e nol dirai”; e disse cose
incredibili a quei che fier presente.

Inf. XVI, 124-132

Sempre a quel ver c’ha faccia di menzogna
de’ l’uom chiuder le labbra fin ch’el puote,
però che sanza colpa fa vergogna;
ma qui tacer nol posso; e per le note
di questa comedìa, lettor, ti giuro,
s’elle non sien di lunga grazia vòte,
ch’i’ vidi per quell’ aere grosso e scuro
venir notando una figura in suso,
maravigliosa ad ogne cor sicuro

Par. XXV, 1-2

Se mai continga che ’l poema sacro
al quale ha posto mano e cielo e terra   22, 2

Purg. IV, 94-95; V, 61-66

allor sarai al fin d’esto sentiero;
quivi di riposar  l’affanno aspetta.

“voi dite, e io farò per quella pace
che, dietro a’ piedi di sì fatta guida,

di mondo in mondo cercar mi si face”.
E uno incominciò: “Ciascun si fida
del beneficio tuo sanza giurarlo,
pur che ’l voler nonpossa non ricida”.

Purg. VI, 16-18

Quivi pregava con le mani sporte
Federigo Novello, e quel da Pisa
che fé parer lo buon Marzucco forte.   10, 1

Purg. VIII, 10-12, 124-129

Ella giunse e levò ambo le palme,
ficcando li occhi verso l’orïente,
come dicesse a Dio: ‘D’altro non calme’.

La fama che la vostra casa onora,
grida i segnori e grida la contrada,
sì che ne sa chi non vi fu ancora;
e io vi giuro, s’io di sopra vada,
che vostra gente onrata non si sfregia
del pregio de la borsa e de la spada.

Purg. XXIX, 148-150

anzi di rose e d’altri fior vermigli;
giurato avria poco lontano aspetto
che tutti ardesser di sopra da’ cigli.

Par. XXIV, 103-105

Risposto fummi: “Dì, chi t’assicura
che quell’ opere fosser? Quel medesmo

che vuol provarsi, non altri, il ti giura”.

Inf. XIII, 73-78, 85-87

“Per le nove radici d’esto legno
vi giuro che già mai non ruppi fede
al mio segnor, che fu d’onor sì degno.
E se di voi alcun nel mondo riede,
conforti  la memoria mia, che giace
ancor del colpo che ’nvidia le diede”.

Perciò ricominciò: “Se l’om ti faccia
liberamente ciò che ’l tuo dir priega,
spirito incarcerato, ………………”

Purg. X, 34-45

L’angel che venne in terra col decreto
de la molt’ anni lagrimata pace,

ch’aperse il ciel del suo lungo divieto,
dinanzi a noi pareva sì verace
quivi intagliato in un atto soave,
che non sembiava imagine che tace.
Giurato si saria ch’el dicesse ‘Ave! ’;
perché iv’ era imaginata quella
ch’ad aprir l’alto amor volse la chiave;

e avea in atto impressa esta favella
Ecce ancilla Deï ’, propriamente
come figura in cera si suggella.

[LSA, prologus, Notabile III] De tertio etiam patet. Nam magistralis tuba seu expositio intendit fidei et eius scientie seminande (I), et deinde radicande seu roborande (II), deinde explicande (III), deinde ample-xande (IV), deinde contemperande, unicuique scilicet secundum suam proportionem (V); intendit etiam finaliter eam imprimere et sigillare (VI) et tandem glorificare seu glorificatam exhibere (VII). Et patet correspondentia primi ad primum statum et secundi ad secundum et sic de aliis.

Purg. XXI, 103-105, 115-120

Volser Virgilio a me queste parole
con viso che, tacendo, disse ‘Taci’;
ma non può tutto la virtù che vuole

Or son io d’una parte e d’altra preso:
l’una mi fa tacer, l’altra scongiura
ch’io dica; ond’ io sospiro, e sono inteso

dal mio maestro, e “Non aver paura”,
mi dice, “di parlar; ma parla e digli        3, 8
quel ch’e’ dimanda con cotanta cura”.

Purg. XXVI, 88-90, 103-105, 109-111

Or sai nostri atti e di che fummo rei:
se forse a nome vuo’ saper chi semo,
tempo non è di dire, e non saprei.

Poi che di riguardar pasciuto fui,
tutto m’offersi pronto al suo servigio
con l’affermar che fa credere altrui.

Ma se le tue parole or ver giuraro,
dimmi che è cagion per che dimostri
nel dire e nel guardar d’avermi caro.

Inf. IX, 61-68

O voi ch’avete li ’ntelletti sani,
mirate la dottrina che s’asconde
sotto ’l velame de li versi strani.

E già venìa su per le torbide onde
un fracasso d’un suon, pien di spavento,
per cui tremavano amendue le sponde,
non altrimenti fatto che d’un vento
impetüoso per li avversi ardori

Purg. VIII, 19-21

Aguzza qui, lettor, ben li occhi al vero,
ché ’l velo è ora ben tanto sottile,
certo che ’l trapassar dentro è leggero.

[LSA, incipit (Is 30, 26)] Hec autem lux habet septiformem diem transcendentem velamen umbre legalis, quoniam in hac aperitur trinitatis Dei archanum, ac culpe originalis et actualis vinculum et debitum, et incarnationis Filii Dei beneficium, et nostre redemptionis pretium, et iustificantis gratie supernaturale donum simul et predestinationis ac reprobative subtractionis eiusdem gratie incom-prehensibile secretum, ac spiritualis et perfecti modi vivendi Deumque colendi saluberrimum exemplum ac preceptum et consilium, et eterne retributionis premium et supplicium cum finali consumatione omnium. Hec enim septem sunt velut septem dies solaris doctrine Christi, que sub velamine scripta et absconsa fuerunt in lege et prophetis.

[LSA, cap. X, Ap 10, 7] […] est simpliciter verum quod tempus huius seculi tunc omnino cessabit et plene implebitur quicquid Deus per suos prophetas prenuntiavit fiendum, quod vocat “misterium”, id est secretum, quia nichil mundanis occultius quam spiritalis gratia et gloria in electis consumanda, futura etiam Dei iudicia sunt eis occulta et quasi incredibilia. Dicitur etiam “misterium”, quia sub misticis velaminibus sunt prenuntiata. Nec inten-do quin principalia corpora huius mundi tunc durent, sed solum quod temporalis et mobilis cursus eius et temporalis status humani generis in hac vita mortali cessabit.

[LSA, cap. XIII, Ap 13, 9] “Si quis habet aurem”, id est sanam intelligentiam dictorum et dicen-dorum, “audiat”, id est attente et prudenter con-sideret id quod est premissum et etiam id quod mox subditur, quia hoc quod subditur multum ei conferet ad servandam fidem et patientiam in tanta tribu-latione.

[LSA, cap. XII, Ap 12, 6] Item (Ioachim) de hoc ultimo dicit libro V° (Concordie) circa finem prime partis: «Unum dico, quod misteria tertii status subtiliora sunt misteriis secundi status et misteriis primi. […]»*.

[LSA, cap. XV, Ap 15, 1] Et secundum Ioachim, dicitur “mirabile” quia mirantur homines cum incipiunt videre que aliquando non viderunt, scilicet cur alii pepercerunt viris impiis et sustinuerunt eos usque ad mortem, alii punierunt eos et occiderunt, et cur aliqui loquuntur eis humiliter et benigne quasi fratribus ad mortem egrotantibus, alii autem in zelo quasi hostibus Dei, sicut Christus primo venit in spiritu levitatis ut redimeret, secundo veniet ut iudex in spiritu iudicii et ardoris **.

* Concordia, V 1, c. 17; Patschovsky 3, p. 578, 7-10.

** Expositio, pars V, f. 182ra-b; cfr. Concordia, III 1, c. 7; Patschovsky 2, pp. 265, 14-16; 266, 1-14.

XVIII, 1-51

 

Legenda [3]: numero dei versi; 10, 9-11: collegamento ipertestuale all’esegesi, nella Lectura di Olivi, di capitolo e versetto dell’Apocalisse [Ap]; Not. III: collegamento all’esegesi contenuta nei tredici notabilia del prologo della Lectura.

Già si godeva solo del suo verbo
quello specchio beato, e io gustava   10, 9-11
lo mio, temprando col dolce l’acerbo;   [3]   Not. III

e quella donna ch’a Dio mi menava
disse: « Muta pensier; pensa ch’i’ sono
presso a colui ch’ogne torto disgrava ».   [6]

Io mi rivolsi a l’amoroso suono   1, 10-12
del mio conforto; e qual io allor vidi   2, 10
ne li occhi santi amor, qui l’abbandono:   [9]

non perch’ io pur del mio parlar diffidi,   2, 8
ma per la mente che non può redire
sovra sé tanto, s’altri non la guidi.   [12]   10, 8

Tanto poss’ io di quel punto ridire,   3, 8 (Ac 14, 26); 14, 3
che, rimirando lei, lo mio affetto
libero fu da ogne altro disire,   [15]

fin che ’l piacere etterno, che diretto
raggiava in Bëatrice, dal bel viso
mi contentava col secondo aspetto.   [18]

Vincendo me col lume d’un sorriso,   Not. XII; 1, 16-17
ella mi disse: « Volgiti e ascolta;   1, 10-12
ché non pur ne’ miei occhi è paradiso ».   [21]   2, 7

Come si vede qui alcuna volta
l’affetto ne la vista, s’elli è tanto,
che da lui sia tutta l’anima tolta,   [24]

così nel fiammeggiar del folgór santo,   Not. XII
a ch’io mi volsi, conobbi la voglia   1, 10-12
in lui di ragionarmi ancora alquanto.   [27]

El cominciò: « In questa quinta soglia   V status
de l’albero che vive de la cima   22, 1-2
e frutta sempre e mai non perde foglia,   [30]

spiriti son beati, che giù, prima
che venissero al ciel, fuor di gran voce,   19, 1
sì ch’ogne musa ne sarebbe opima.   [33]

Però mira ne’ corni de la croce:
quello ch’io nomerò, lì farà l’atto   3, 1.4.5
che fa in nube il suo foco veloce ».   [36]

Io vidi per la croce un lume tratto
dal nomar Iosuè, com’ el si feo;
né mi fu noto il dir prima che ’l fatto.   [39]

E al nome de l’alto Macabeo   3, 1.4.5; 8, 12
vidi moversi un altro roteando,   9, 9
e letizia era ferza del paleo.   [42]   18, 22-23

Così per Carlo Magno e per Orlando   Not. V
due ne seguì lo mio attento sguardo,
com’ occhio segue suo falcon volando.   [45]   Not. XIII

Poscia trasse Guiglielmo e Rinoardo
e ’l duca Gottifredi la mia vista
per quella croce, e Ruberto Guiscardo.   [48]

Indi, tra l’altre luci mota e mista,
mostrommi l’alma che m’avea parlato
qual era tra i cantor del cielo artista.   [51]   14, 2

I versi 1-51 di Par. XVIII riguardano ancora il cielo di Marte, con la presenza di Cacciaguida. Si registra, come di consueto, la variazione semantica di numerosi temi già utilizzati in altri luoghi del poema. Sono ripresi i motivi da Ap 10, 9-11, centrali nel canto precedente e relativi a Giovanni che deve inviscerare il libro amaro e dolce insieme per predicarlo ancora: io gustava … col dolce l’acerbo … mi menava … ogne torto disgrava (vv. 2.3.4.6).
Ai vv. 7-12, il volgersi di Dante verso Beatrice (Io mi rivolsi … suono) rinvia ad Ap 1, 10-12
(il volgersi di Giovanni verso una voce udita alle spalle, quella della guida, motivo ripreso ai vv. 20, 26), con l’inserimento di elementi dalla seconda chiesa, che non deve diffidare del conforto di Cristo  (mio conforto … diffidi: Ap 2, 8-10), e dalla sesta tromba, circa la necessità di una guida nell’apprendimento della sapienza del libro (s’altri non la guidi: 10, 8).
Ridire (v. 13) elabora l’esegesi di Ap 14, 3 (Et nemo poterat dicere canticum) e probabilmente anche la citazione degli Atti degli Apostoli 14, 26 ad Ap 3, 8.
Il ridere di Beatrice (lume … sorriso: v. 19) è parodia dello splendore del volto di Cristo ad Ap 1, 16; il verso 21 (
ché non pur ne’ miei occhi è paradiso) evoca Ap 2, 7 (il paradiso mentale conquistato con la prima vittoria).
Dalla settima visione (la Gerusalemme celeste e il lignum vite nel suo mezzo) derivano l’alberovive … frutta sempre … foglia (vv. 29-30; Ap 22, 1-2).
Ad Ap 19, 1, dove è descritto l’ingresso in Cristo delle turbe convertite dei Latini, Greci e Giudei dopo la distruzione di Babylon “in spiritu magno et alto“, al suono di trombe “magnis vocibus“, fa riferimento l’espressione fuor di gran voce (v. 32; cfr. gli spiriti magni di Inf. IV, 119).
Ricca è la tematica relativa al quinto stato: io nomerò, nomar, noto, nome (vv. 35.38.39.40; Ap 3, 1.4.5: quinta chiesa, dove si tratta della fama; ma “l’alto Macabeo”, v. 40, richiama la quarta tromba ad Ap 8, 12); roteando (v. 41; Ap 9, 9: il rombare rotando delle locuste, dalla quinta tromba, è assunto in senso festoso), falcon volando (v. 45; prologo, Notabile XIII, il quinto stato è contrassegnato da uccelli e pesci). Carlo Magno, con il quale inizia il quinto periodo della storia della Chiesa, è nominato fra i difensori della fede (v. 43).
Infine, Cacciaguida cantor del cielo artista (v. 51) è parodia dei compagni dell’Agnello che cantano sul monte Sion (Ap 14, 2).

AVVERTENZE

Seppure segue l’ordine dei ventidue capitoli dell’Apocalisse, Olivi suggerisce, nel prologo della Lectura, un metodo differente di comprensione e di aggregazione del testo, fondato sui sette stati (status), cioè sulle epoche nelle quali si articola la storia della Chiesa, prefigurate nell’Antico Testamento.
L’Apocalisse si articola in sette visioni: le sette chiese d’Asia, i sette sigilli, le sette trombe, la donna vestita di sole (le sette guerre sostenute dalla Chiesa), le sette coppe, il giudizio di Babylon nelle sette teste del drago, la Gerusalemme celeste. Le prime sei visioni possono essere a loro volta divise in sette momenti, ciascuno dei quali riferibile a uno dei sette stati. Assembrando, per le prime sei visioni, tutti i primi elementi (chiesa, sigillo, tromba, guerra, coppa, momento del giudizio di Babylon), tutti i secondi, i terzi e così di seguito, si ottengono sette gruppi di materia teologica, corrispondenti al complesso dei temi afferenti a ciascuno dei sette stati. A questi sette gruppi si aggiungono altri due: l’esegesi della settima visione (senza articolazioni interne) e l’esegesi di capitoli del testo scritturale, o di parti di essi, introduttivi delle successive specificazioni delle singole visioni per settenari, che Olivi definisce “radicalia” o “fontalia”. Si ottengono in tal modo nove gruppi: le parti proemiali, i sette assembramenti di settenari e la settima visione. Il grande prologo della Lectura, articolato in tredici notabilia, può essere anch’esso aggregato secondo i sette stati. Un libro (la Lectura) contiene dunque princìpi e criteri affinché l’accorto lettore possa trarne un altro libro, fatto con lo stesso materiale ma ricomposto e distribuito in forma diversa.

La Commedia mostra un ordine interno diverso da quello che appare al lettore: il viaggio di Dante ha un andamento di ciclici settenari, che corrispondono ai sette stati della storia della Chiesa, cioè alle categorie con cui Olivi organizza la materia esegetica. Questo ordine interno è registrabile per zone progressive del poema dove prevale, tramite parole-chiave, la semantica riferibile a un singolo stato. È un’intima struttura dirompente i confini letterali stabiliti dai canti e da tutte le divisioni materiali per cerchi, gironi, cieli. Ogni stato, che ha differenti inizi, è concatenato per concurrentia, come le maglie di un’armatura, con quello che precede e con quello che segue. Si possono in tal modo redigere mappe che comprendano l’ordine spirituale della Commedia. La ricerca è pervenuta a una Topografia spirituale della Commedia, dove quasi per ogni verso, o gruppo di versi, collegamenti ipertestuali conducono al “panno” esegetico fornito dalla Lectura super Apocalipsim, sul quale il “buon sartore” ha fatto “la gonna” (cfr. Par. XXXII, 139-141).

■ A ogni gruppo è arbitrariamente assegnato un diverso colore: Radici (verde), I stato (verde acqua), II stato (rosso), III stato (nero), IV stato (viola), V stato (marrone), VI stato (blu), VII stato (indaco), VII visione (fucsia). Dei gruppi sono stati integralmente studiati il terzo stato e la settima visione. Rispetto alle tabelle complessive (XV, XVI, XVII, XVIII, 1-51) contenenti i collegamenti ipertestuali, nelle sinossi i colori possono essere variati per maggiore evidenza.

Non di rado nei versi alcune parole o incisi-chiave possono rinviare a più luoghi esegetici. Questo perché il testo dottrinale contenuto nella Lectura, prima di travasarsi semanticamente nella Commedia, è stato sottoposto a una duplice riorganizzazione. La prima, sulla base delle indicazioni dello stesso Olivi, secondo il materiale esegetico attribuibile ai singoli stati. La seconda, seguendo il principio applicato nelle distinctiones ad uso dei predicatori, sulla base di lemmi analogicamente collazionati. La “mutua collatio” di parti della Lectura arricchisce il significato legato alle parole e consente uno sviluppo tematico amplificato. Si vedano, ad esempio, le variazioni eseguite sul tema della “voce” o sull’espressione “in medio”, temi più volte iterati nel sacro testo, oppure il modo con cui Ap 1, 16-17 (l’esegesi della decima e undecima prefezione di Cristo come sommo pastore) percorre i versi in collazione con altri passi. A ciò predispone lo stesso testo scritturale, poiché l’Apocalisse contiene espressioni, come Leitmotive, che ritornano più volte. È determinata da parole-chiave che collegano i passi da collazionare. È suggerita dallo stesso Olivi, nel prologo, per una migliore intelligenza del testo.

Tutte le citazioni della Lectura super Apocalipsim presenti nei saggi o negli articoli pubblicati su questo sito sono tratte dalla trascrizione, corredata di note e indici, del ms. Paris, Bibliothèque nationale de France, lat. 713, a disposizione fin dal 2009 sul sito medesimo. I passi scritturali ai quali si riferisce l’esegesi sono in tondo compresi tra “ ”; per le fonti diverse da quelle indicate si rinvia all’edizione in rete. Non viene presa in considerazione l’edizione critica a cura di WARREN LEWIS (Franciscan Institute Publications, St. Bonaventure – New York, 2015) per le problematiche da essa poste, che sono discusse in ALBERTO FORNI – PAOLO VIAN, A proposito dell’edizione di Warren Lewis della Lectura super Apocalipsim di Pietro di Giovanni Olivi. Alcune osservazioni, in “Archivum Franciscanum Historicum”, 109 (2016), pp. 99-161.
Il testo della Commedia citato è in Dante Alighieri, La Commedia secondo l’antica vulgata, a cura di GIORGIO PETROCCHI, Firenze 1994. Si tiene anche conto della recente edizione a cura di GIORGIO INGLESE, Firenze 2021 (Società Dantesca Italiana. Edizione Nazionale), qualora il testo proposto si discosti da quello del Petrocchi e la scelta della variante risulti discutibile nel confronto con la LSA.

 

ABBREVIAZIONI

Ap: APOCALYPSIS IOHANNIS.

LSA: PIETRO DI GIOVANNI OLIVI, Lectura super Apocalipsim.

Concordia: JOACHIM VON FIORE, Concordia Novi ac Veteris Testamenti. Herausgegeben von A. PATSCHOVSKY, Wiesbaden 2017 (Monumenta Germaniae Historica. Quellen zur Geistesgeschichte des  Mittelalters, 28. Band), Teil 2 (lib. I-IV), Teil 3 (lib. V).

Expositio: GIOACCHINO DA FIORE, Expositio in Apocalypsim, in Edibus Francisci Bindoni ac Maphei Pasini, Venetiis 1527, ristampa anastatica Minerva, Frankfurt a. M. 1964.

Olivi opera spesso una sintesi del testo di Gioacchino da Fiore. Le « » precedono e chiudono un’effettiva citazione. Diversamente, viene posto un asterisco (*) o una nota in apice al termine della parte riferibile a Gioacchino.

In Ap: RICCARDO DI SAN VITTORE, In Apocalypsim libri septem, PL 196, coll. 683-888.

 

Note sulla “topografia spirituale” della Commedia

Per quanto segua l’ordine dei ventidue capitoli dell’Apocalisse, Olivi suggerisce un metodo differente di comprensione e di aggregazione del testo esegetico, fondato sui sette stati, cioè sui periodi nei quali si articola la storia della Chiesa. L’Antico Testamento corrisponde alle prime cinque età del mondo, secondo la divisione tradizionale [1]: è l’età del Padre secondo Gioacchino da Fiore. Con il primo avvento di Cristo, nella carne, inizia la sesta età (l’età del Figlio), nella quale la Chiesa, come fosse un individuo, cresce e si sviluppa in sette stati. Al primo, apostolico periodo, succede il secondo dei martiri; poi, al tempo di Giustiniano, il terzo stato dei dottori che confutano con l’intelletto le eresie concorre con il quarto stato degli affettuosi anacoreti devoti al pasto eucaristico, alti per la contemplazione ma anche attivi come reggitori delle genti; a partire da Carlo Magno subentra il quinto stato aperto alla vita associata delle moltitudini, bello nel principio ma poi corrottosi fino a trasformare quasi tutta la Chiesa in una nuova Babilonia; la riforma interviene, a partire da Francesco, con il cristiforme sesto stato, fino alla sconfitta dell’Anticristo; subentra infine il silenzio e la quiete del pacifico settimo stato. Il sesto e il settimo stato (la terza età di Gioacchino da Fiore) coincidono con il secondo avvento di Cristo, nello Spirito, cioè nei suoi discepoli spirituali inviati a convertire il mondo con la predicazione; al termine del settimo stato ci sarà il terzo avvento, nel giudizio.
L’Apocalisse si articola in sette visioni: le sette chiese d’Asia, i sette sigilli, le sette trombe, la donna vestita di sole (le sette guerre sostenute dalla Chiesa), le sette coppe, il giudizio di Babylon nelle sette teste del drago, la Gerusalemme celeste. Le prime sei visioni possono essere a loro volta divise in sette momenti, ciascuno dei quali riferibile a uno dei sette stati. Assembrando, per le prime sei visioni, tutti i primi elementi (chiesa, sigillo, tromba, guerra, coppa, momento del giudizio di Babylon), tutti i secondi, i terzi e così di seguito, si ottengono sette gruppi di materia teologica, corrispondenti al complesso dei temi afferenti a ciascuno dei sette stati [2]. A questi sette gruppi se ne aggiungono altri due: l’esegesi della settima visione (senza articolazioni interne) e l’esegesi di capitoli del testo scritturale, o di parti di essi, introduttivi delle successive specificazioni delle singole visioni per settenari, che Olivi definisce “radicalia” o “fontalia”. Si ottengono in tal modo nove gruppi: le parti proemiali, i sette assembramenti di settenari e la settima visione. Il grande prologo della Lectura, articolato in tredici notabilia, può essere anch’esso aggregato nelle sue parti secondo i sette stati.

L’intenso travaso di parole-temi dalla Lectura nella Commedia si accompagna a un fatto strutturale. La Commedia mostra un ordine interno diverso da quello che appare al lettore: il viaggio di Dante ha un andamento di ciclici settenari, che corrispondono ai sette stati oliviani. È un ordine registrabile per zone progressive del poema dove prevalgono i temi di un singolo stato, che rompe i confini letterali stabiliti dai canti e da tutte le divisioni materiali per cerchi, gironi, cieli. Ogni stato, che ha differenti inizi, è concatenato per “concurrentia”, come le maglie di un’armatura, con quello che precede e con quello che segue. Ciascuno stato ha in sé una grande ricchezza di motivi e contiene inoltre temi di tutti gli altri, consentendo innumerevoli intrecci e variazioni. La Commedia appare, come l’Apocalisse, “libro scritto dentro e fuori” (Ap 5, 1), con duplice struttura, linguaggio e senso, letterale e spirituale. Il viaggio di Dante e la visione di Giovanni hanno la stessa causa finale, che è la beatitudine, alla quale si perviene con diverse guide, per gradi segnati da visioni sempre più nuove e ardue delle precedenti, attraverso una sempre maggiore apertura dell’arcano coperto dal velame dei sette sigilli fino al punto più alto in cui, in questa vita, è possibile vedere la verità.
Tutti i modi del linguaggio interiore al poema esprimono un processo, un viaggio dal più chiuso al più aperto, e in questo andare hanno una loro precisa collocazione ‘topografica’, uno ‘stato’ (nel senso di momento storico che ricade sulla coscienza individuale) al quale appartenere. Si possono in tal modo stendere vere e proprie mappe tematiche che comprendano l’ordine spirituale di tutta la Commedia che aderisce, parodiandola semanticamente, a una precisa teologia della storia, sia pure modificandone profondamente le prospettive. La ciclicità dei temi permette di stabilire collegamenti inusitati tra le diverse zone; il procedere per gradi dell’illuminazione divina fa sì che episodi oscuri e quasi ermeticamente chiusi si chiariscano poi, aprendosi all’intelligenza in modo più alto.
A ogni gruppo è arbitrariamente assegnato un diverso colore: Radici (verde), I stato (verde acqua), II stato (rosso), III stato (nero), IV stato (viola), V stato (marrone), VI stato (blu), VII stato (indaco), VII visione (fucsia). Dei gruppi sono stati integralmente studiati il terzo stato e la settima visione.

INFERNO

(le prime cinque età del mondo)

La ‘topografia spirituale’ del poema mostra nell’Inferno cinque cicli settenari corrispondenti agli stati della Chiesa descritti da Olivi e ai loro temi contenuti nella Lectura. Questi cinque cicli designano le prime cinque età del mondo (riunite a loro volta nel primo stato generale, che corrisponde all’età del Padre di Gioacchino da Fiore), in quanto prefigurazione del primo avvento di Cristo e della Chiesa.
I cinque cicli settenari che si susseguono nell’Inferno a partire dal quarto canto (i primi tre canti hanno una tematica particolare) sono preceduti da cinque zone che possono essere definite ‘snodi’, dove cioè confluiscono temi provenienti da più stati, intrecciati insieme ad altri ad avviare il procedere settenario. Il centro di questi ‘snodi’ coincide con un canto (Inf. IV, X, XVII, XXVI, XXXII), ma la zona è più vasta e supera l’ambito dato dalla divisione letterale del poema.

Inf. I-III sono da considerare al di fuori dei cicli. Inf. I e II sono profondamente segnati dai temi del sesto stato. Inf. III è riferibile al settimo stato (per gli ignavi) e in parte al quinto (per l’episodio di Caronte).

canti

I ciclo

stati

cerchi

IV

Limbo

Radici, I (I snodo)

I

V

lussuriosi

II

II

VI

golosi

III

III

VII

avari e prodighi

palude Stigia
(iracondi e accidiosi)

IIIIV

 

V

IV


V

VIII

palude Stigia (orgogliosi)
città di Dite

V

V

IX

apertura della porta di Dite

VVI

 

canti

II ciclo

stati

cerchi

IX-X-XI

eretici, ordinamento dell’inferno

I (II snodo)

VI

XII

violenti contro il prossimo

II

VII (girone 1)

XIII

violenti contro sé

III

        (girone 2)

XIV

violenti contro Dio: bestemmiatori

IV

        (girone 3)

XV-XVI

violenti contro Dio: sodomiti

V

XVI

XVII

ascesa di Gerione

Gerione,  violenti contro Dio: usurai

VI

canti

III ciclo

stati

cerchi

XVII

volo verso Malebolge

I (III snodo)

 

XVIII

ruffiani, lusingatori

Radici II

VIII (bolgia 1, 2)

XIX

simoniaci

III

(bolgia 3)

XX

indovini

IV

(bolgia 4)

XXI-XXII

barattieri

V

(bolgia 5)

XXIII

ipocriti

VVI

(bolgia 6)

XXIV-XXV

ladri

VI

(bolgia 7)

canti

IV ciclo

stati

cerchi

XXVI

consiglieri di frode (greci)

I (IV snodo)

(bolgia 8)

XXVII

consiglieri di frode (latini)

II

XXVIII-XXIX

seminatori di scandalo e di scisma

III

(bolgia 9)

XXIX

falsatori

IV

  (bolgia 10)

XXX

falsatori

IVV

XXXI

giganti

VVI

 

canti

V ciclo

stati

cerchi

XXXII

Cocito: Caina, Antenora

I (V snodo)

IX

XXXIII

Antenora, Tolomea

II

XXXIV

Giudecca

IIIIVV

XXXIV

volgersi di Virgilio sull’anca di Lucifero

VI

 

 

Il sesto stato è per Olivi la fase più importante nella costruzione dell’edificio della Chiesa. In esso “renovabitur Christi lex et vita et crux”. Corrisponde ai tempi moderni. Ha quattro diversi inizi temporali: uno profetico, con Gioacchino da Fiore, il quale lo vide in spirito concependo la sua terza età; il secondo con la conversione di Francesco (1206), che seminò la pianta; il terzo con la predicazione degli uomini spirituali, per la quale la pianta si rinnovella; il quarto con la distruzione storica di Babylon. Dura fino alla sconfitta dell’Anticristo, il cui avvento si collocherebbe, secondo i numeri della profezia di Daniele 12, 11-12 combinati con Ap 12, 6 e 14, fra il 1290 e il giubileo di pace del 1335.
Una ‘vita nuova’ si instaura nel sesto stato, per eccellenza il momento dell’imitazione di Cristo. I rami dell’albero si dilatano producendo il frutto della carità, l’acqua che proviene da Cristo-fonte attraverso il condotto che percorre i primi cinque stati della Chiesa si effonde in un lago; è il tempo, assimilato al sacramento del matrimonio, della letizia nuziale, della familiarità, dell’amicizia. Corrisponde al sesto giorno della creazione, in cui vennero creati prima i rettili e le bestie irrazionali, poi l’uomo razionale che, come l’ordine evangelico, è fatto a immagine e somiglianza di Dio e domina tutti gli animali.
Le espressioni di Olivi relative al sesto stato – “quoddam sollempne initium novi seculirenovaretur et consumaretur seculum”, nel quale il sacerdozio apostolico “redeat et assurgat ad ordinem primum”, la “nova Ierusalem”, interpretata come “visione di pace”, viene vista “descendere de celo” e la Chiesa descritta come la donna vestita di sole con la sua “virginea proles” – sono la veste spirituale dei versi della quarta egloga virgiliana che celebrano la rinnovata età dell’oro: “Magnus ab integro saeclorum nascitur ordo / iam redit et Virgo; redeunt Saturnia regna; / Iam nova progenies caelo demittitur alto” (Egloga IV, 5-7). Olivi completa la Lectura super Apocalipsim nel 1298, poco prima di morire, il 14 marzo, a Narbonne. Quel felicissimo stato segnato dalla pace sotto il divo Augusto, che rese l’umanità disposta al primo avvento di Cristo, si sta rinnovando nel sesto stato della Chiesa, nel secondo avvento nello Spirito. Scrive Arsenio Frugoni: “[…] quell’escatologismo, oltre che ideologia di lotta e di riforma del gruppo spirituale, era anche un vero e proprio sentimento storico […] una tensione di rinnovamento, una ansia di salvezza, che nel 1300, l’anno centenario della Natività, aveva trovato come una attivazione, in un senso di pienezza dei tempi, cui doveva corrispondere un fatto, un accadere meraviglioso e nuovo” [3].
All’apertura del sesto sigillo, l’eletta schiera dei riformatori – i 144.000 segnati dalle dodici tribù d’Israele – guida la turba innumerevole di ogni gente, tribù, popolo e lingua (Ap 7, 3-4.13). Questi eletti e magnanimi duci, separati dalla volgare schiera per più alta milizia, vengono destinati a difendere liberamente la fede – ad essi è data la “plena libertas ad innovandam christianam religionem” -; sono gli amici di Dio a lui noti per nome, configurati in Cristo crocifisso e votati al martirio.
All’interno della Chiesa del sesto stato, l’Ordine dei Minori – “ordo plurium personarum” – è  assimilabile alla persona umana di Cristo. Come questa si sviluppò fino all’età virile, così dovrà essere per l’ordo evangelicus piantato da Francesco, che avrà bisogno (a differenza di Cristo che stette poco tempo nel mondo) di due o tre generazioni per svilupparsi prima di subire una condanna simile a quella di Cristo [4]. La sua maturità coincide, verso il 1300, con il terzo inizio del sesto stato, cioè con il rinnovarsi per opera dello Spirito di Cristo, nel suo secondo avvento, della pianta seminata da Francesco. Questa concezione dell’Ordine francescano come individuo in sviluppo che, perfettamente maturato, diventa il novus ordo preconizzato da Gioacchino da Fiore per l’età dello Spirito, si differenzia da quella di Bonaventura, che aveva invece distinto i Francescani del proprio tempo – e quindi anche gli Spirituali – dall’Ordine finale che dominerà fino ai confini della terra. Alla terza apertura del sesto sigillo nuovi san Giovanni vengono inviati a predicare al mondo come nel tempo degli Apostoli. Ma Giovanni non designa solo un Ordine, perché Olivi lascia aperta la possibilità di rivelazioni individuali, avute da “singulares persone”, perfetti imitatori di Cristo votati, con la loro “lingua erudita”, al compito della conversione universale.

[LSA, cap. X, Ap 10, 11] “Et dixit michi: Oportet te iterum prophetare in gentibus et populis et linguis et regibus multis”. In ipsa sapientia libri expresse continetur quod oportet iterum predicari evangelium in toto orbe, et Iudeis et gentibus, et totum orbem finaliter converti ad Christum. Sed quod per istum hoc esset implendum non poterat sciri nisi per spiritualem revelationem, et hoc dico prout per Iohannem designantur hic singulares persone quia, prout per ipsum designatur in communi ordo evangelicus et contemplativus, scitur ex ipsa intelligentia libri quod per illum ordinem debet hoc impleri.

Nei cinque cicli settenari della prima cantica il sesto stato è segnato dall’apertura della porta della città di Dite (Inf. IX, 89-90); dall’ascesa di Gerione dall’abisso (Inf. XVI, 106-136); dal precipitoso passaggio dalla quinta alla sesta bolgia (Inf. XXIII, 1-57) e poi dalle trasformazioni della settima, dove i ladri fiorentini si mutano in serpenti e viceversa (Inf. XXIV-XXV); dal chinarsi di Anteo sul fondo dell’inferno (Inf. XXXI, 136-145); dal passaggio del centro della terra, con la conversione di Virgilio sull’anca di Lucifero, che è passaggio verso la sesta età, quella della Chiesa, descritta nel Purgatorio.
Ma i temi propri del sesto stato sono diffusi ovunque, intrecciati con quelli degli altri stati, e alla loro esegesi rinviano precise parole-chiave incardinate nel senso letterale dei versi. L’esegesi dell’angelo del sesto sigillo (Ap 7, 2) è già centrale nel primo canto del poema.
La novità che il sesto stato, per eccellenza stato di rinnovamento di questo secolo, arreca nell’inferno è una novità fittizia: l’apertura della porta della città di Dite non è vera novità, perché essa è stata chiusa dall’ostinazione dei diavoli, recidivi dopo l’apertura della porta dell’inferno da parte di Cristo prefigurata dalla venuta di Ercole all’Ade, per cui Cerbero “ne porta ancor pelato il mento e ’l gozzo”; Gerione viene su ad un “novo cenno” di Virgilio, ma è figura della frode dalla velenosa coda aculeata; il nuovo prodotto dalle trasformazioni reciproche di serpenti e uomini è qualcosa di incompiuto perché l’uomo razionale, creato nel sesto stato, regredisce allo stato precedente.
L’Inferno è il luogo della durezza lapidea, dell’impetrarsi, del parlare duro di cose dure a dirsi, del duro giudizio, del senso duro della scritta al sommo della porta, dei duri lamenti, dei duri demoni, dei duri veli del gelo, della gravezza. Nell’Inferno vige l’imposizione data a Daniele dall’angelo sotto il sesto sigillo dell’Antico Testamento: “Ora tu, Daniele, chiudi queste parole e sigilla questo libro fino al tempo stabilito” (Dn 12, 4), che era la sesta età nella quale apparve Cristo e in particolare il sesto stato della sua Chiesa nella quale il libro doveva essere più pienamente aperto, non però ai malevoli e ai maldisposti. Questa durezza è rotta dall’invito di Dante ai dannati perché parlino. Far parlare liberamente, per dettato interiore, è la principale prerogativa del sesto stato – la nuova età che tanto s’aspetta, quella che ode del “dolce stil novo” e delle “nove rime” -, ed è tema che la poesia canta per intero, sia pure per un attimo, anche nella vecchia roccia infernale. Appartiene alla sesta chiesa il parlare liberamente di Cristo – ad essa è dato l’“ostium apertum”, che è “ostium sermonis” – , il sentire per dettato interiore, l’aprirsi della volontà. Appartiene alla sesta chiesa anche il far venire quelli che si dicono Giudei senza esserlo, mutati nel cuore e disposti a farsi battezzare e governare. Questo far venire a parlare equivale al cortese e liberale invito dello Spirito di Cristo a convivare, a venire con desiderio e volontario consenso, con “disio” e con “velle”, in una pausa di pace nell’eterna dannazione. All’“affettüoso grido” del poeta le ombre di Francesca e Paolo vengono “dal voler portate” verso un momento di mutazione, sebbene limitata al successivo colloquio. Tutto l’Inferno è un contrappunto fra la durezza del giudizio e l’apertura per la parola dirompente, fin che essa dura, la pena. Un’apertura che si esprime in varie forme: muoversi sospirando nel Farinata prima immobile, ‘crollarsi’ quasi per terremoto interiore dello ‘schivo’ Ulisse, convertirsi del vento in voce in Guido da Montefeltro, tornare indietro nel cammino assegnato o separarsi dai compagni di pena, essere sforzati a parlare anche malvolentieri, non poterlo negare o mostrare fretta di farlo, arrestarsi obliando il martirio, levarsi per poi ricadere, sollevarsi da atti bestiali per ritornare a essi dopo aver parlato, come nel conte Ugolino. In tante lingue, che parlano come per sé stesse mosse, sta un solo desiderio, il vivere ancora nel libro che è stato altrui aperto.
Se nell’Inferno il sesto stato non si realizza mai compiutamente, anche il settimo, che gli è strettamente connesso, non può trovare un luogo autonomo. Ciò non toglie che temi del settimo stato (e della settima visione) siano ben presenti in modo diffuso. Ad esempio, quelli relativi alla settima chiesa assumono particolare rilievo nella descrizione degli ignavi a Inf. III. Tempo del silenzio, della serena pace, del riposo dalle ansiose fatiche, il settimo stato subentra dopo le terribili tentazioni inferte, con un martirio non corporale ma psicologico, dai carnefici dell’Anticristo nel sesto. Come ogni momento della storia umana partecipa dell’imitazione di Cristo, che raggiunge l’acme nel sesto stato, così in ogni periodo si verifica una sua “quietatio”, una pausa di pace, di quiete, di silenzio propria del settimo. Così Francesca parla e ascolta “mentre che ’l vento, come fa, ci tace”. Il vento – “la bufera infernal, che mai non resta” – designa il fluttuare tempestoso delle passioni nel cuore.

PURGATORIO

(sesta età del mondo)

Dopo le prime cinque età del mondo (corrispondenti all’Antico Testamento, la gioachimita età del Padre), che hanno segnato la discesa a spirale per i cinque cicli settenari dell’Inferno, con il Purgatorio inizia la sesta età, quella di Cristo (l’età del Figlio), che ha sette stati, corrispondenti ai sette stati della Chiesa. Dapprima, nel cosiddetto ‘antipurgatorio’, si registrano in successione temi prevalenti dei primi cinque stati. Il sesto stato della sesta età (con cui si apre l’età dello Spirito) inizia con l’apertura della porta di san Pietro (la porta del purgatorio). Questo sesto stato procede anch’esso con andamento settenario, per cui ha sette momenti, coincidenti principalmente con un girone della montagna, ma non del tutto, perché sempre l’ordine spirituale del poema rompe i confini letterali e le divisioni materiali, concatenando i temi di uno stato prevalente con quelli dello stato che precede e con quelli dello stato che segue e intrecciandoli con temi di tutti gli altri stati.
È spiegato nel Notabile VII del prologo della Lectura che il sesto stato della Chiesa è il secondo stato di Cristo e ha i suoi sette tempi per cui la Chiesa, come fosse una sfera, si ricongiunge circolarmente al primo apostolico tempo. Il settimo dei sette momenti del sesto stato della Chiesa coincide con il settimo stato generale della Chiesa, che nel poema corrisponde in parte all’ultimo girone della montagna (il settimo, dove si purgano i lussuriosi) e in parte all’Eden, con cui si chiude la seconda cantica.
Il Purgatorio dunque, secondo il senso spirituale, è la storia della Chiesa che corre verso il suo sesto stato, punto di riferimento di tutte le vicende umane, antiche e moderne, che ad esso cooperano. Non è casuale che nel sesto girone della montagna sia chiarificata e riconosciuta, nel colloquio con Bonagiunta da Lucca, la poetica delle “nove rime” di Dante, già “sesto tra cotanto senno” cooptato nella “bella scola” dei poeti del Limbo.
La vasta zona dedicata al sesto momento del sesto stato della Chiesa ha il suo inizio nel forte terremoto che scuote la montagna mentre Dante e Virgilio si trovano ancora nel quinto girone (Purg. XX, 124-141). Essa è stata compiutamente esaminata altrove.
Il settimo stato dell’Olivi si realizza parte in questa vita (come pregustazione in terra della gloria eterna, cioè fin sulla cima della montagna) e in parte nella futura (nel senso della quiete delle anime beate in attesa della resurrezione, che è la materia del Paradiso).

canti

I ciclo – fino al sesto sato

stati

 

I

Catone

Radici, I

 

II

angelo nocchiero, Casella

–  II

 

III

scomunicati

III

“Antipurgatorio”

IV

salita al primo balzo, Belacqua

IV  –  V

V

negligenti morti per violenza

V

VI

Sordello

V

VII-VIII

valletta dei principi

V

IX

apertura della porta

VI sesto stato

 

canti

II ciclo – il sesto stato della sesta età

stati

gironi

X-XII

superbi

I

I

XIII-XIV-XV

invidiosi

II

II

XV-XVIII

iracondi

ordinamento del purgatorio,

amore e libero arbitrio

III

III

IV

XVIII-XIX

accidiosi

IV

IV

XIX-XX

avari e prodighi

V

V

XX (terremoto)  -XXV

Stazio, golosi, generazione dell’uomo

VI

VI

XXV-XXVI

lussuriosi

VII – settimo stato

VII

XXVII

XXVIII-XXXIII

 muro di fuoco

notte stellata, termine dell’ascesa

Eden

 

 

PARADISO

(settimo stato della Chiesa)

Il Primo Mobile è il nono e penultimo cielo, ma è il sesto se si parte dal cielo del Sole. È anche il cielo più segnato dal tema del “punto”, cui è assimilato il sesto stato. Questo consente di ricostruire l’ordine spirituale del Paradiso ponendo la cerniera nel quarto cielo del Sole. Con il terzo cielo di Venere termina infatti il cono d’ombra gettato dalla terra, secondo la dottrina di Alfragano (Par. IX, 118-119), mentre prima di descrivere l’ascesa al cielo del Sole il poeta invita il lettore a rivolgersi “a l’alte rote” (Par. X, 7-27). Senza la cesura recisa che, nella prima cantica, divide i dannati puniti all’interno della città di Dite da quelli che ne stanno fuori e, nella seconda cantica, separa le anime purganti nei sette gironi della montagna dalle anime che attendono fuori della porta (il cosiddetto ‘antipurgatorio’), anche nel Paradiso gli spiriti che si manifestano nei primi tre cieli della Luna, di Mercurio e di Venere (spiriti che mancarono ai voti, spiriti che furono attivi per conseguire onore e fama, spiriti amanti) si distinguono per minore perfezione rispetto a quelli che appaiono nei cieli seguenti.
I dieci cieli del Paradiso si mostrano pertanto ordinati in due gruppi di settenari, corrispondenti agli stati della Chiesa (e alle loro prerogative) secondo Olivi, parzialmente combacianti (da 1 a 7 e da 4 a 10: coincidono gli ultimi quattro numeri del primo gruppo e i primi quattro del secondo).

I  Se si considera il primo settenario, nel primo cielo della Luna si affronta la questione dell’inadempienza dei voti, che ha corrispondenza con i temi propri della prima chiesa di Efeso, il cui nome, se interpretato, oscilla tra la fervida volontà iniziale e la remissione (l’essenza del voto consiste nella volontà).

II  Nel secondo cielo di Mercurio, le battaglie sostenute dal “sacrosanto segno” dell’aquila corrispondono allo stato dei martiri, che è dei combattenti, e anche la dottrina dell’incarnazione e della passione di Cristo, esposta successivamente da Beatrice, fa parte della tematica, perché l’intera Chiesa, fondata sulla passione di Cristo, imita con i martiri la sua croce, e questo giova assai al suo radicamento.

III  Nel terzo cielo di Venere, Carlo Martello spiega al modo di un dottore del terzo stato la diversità delle indoli umane e come gli uomini, non assecondandole, errino; nello stesso cielo compare Folchetto di Marsiglia, che da vescovo di Tolosa combatté l’eresia albigese.

IV – I  Al quarto cielo del Sole, primo del secondo gruppo di settenari per l’esaltazione della vita apostolica (propria del primo stato e rinnovata nel sesto), si può connettere il tema stesso del sole inteso nell’esegesi della quarta tromba (Ap 8, 12): “Per solem videtur hic designari solaris vita et contemplatio summorum anachoritarum, qui fuerunt patres et exempla aliorum, vel solaris sapientia et doctrina summorum doctorum”. Sapienza e contemplazione, dottori del terzo e anacoreti del quarto stato, concorrono, come Domenico e Francesco – “L’un fu tutto serafico in ardore; / l’altro per sapïenza in terra fue / di cherubica luce uno splendore” (Par. XI, 37-39) – con mutua cortesia a infiammare il meriggio dell’universo.

V – II  Il quinto cielo di Marte, secondo (come il secondo stato dei martiri) per l’esaltazione della croce di Cristo formata dai lumi dei combattenti per la fede, reca in sé il tema del condiscendere proprio del quinto stato sia nel pio discendere per la croce di Cacciaguida verso Dante, sia nella decadenza degli “alti Fiorentini”, cioè delle antiche famiglie, assimilate agli anacoreti, un tempo alti e poi vòlti in basso.

VI – III  Il sesto cielo di Giove, terzo (come il terzo stato dei dottori) per la spiegazione di profonde verità di fede, sviluppa il motivo, proprio della sesta chiesa, della “porta aperta”. Aprire la porta significa illuminare e rendere acuto l’intelletto che penetra nell’occulto delle Scritture, e anche dare efficacia spirituale a penetrare nel cuore di chi ascolta: così l’aquila apre la “latebra” di Dante, così l’occhio di Rifeo Troiano fu da Dio aperto alla futura redenzione.

VII – IV Nel settimo cielo di Saturno, quarto (come il quarto stato degli anacoreti), “si tace … la dolce sinfonia di paradiso” (Par. XXI, 58-60), e il tacere è tema del settimo stato. Ivi si mostrano gli spiriti contemplativi, principali soggetti del quarto stato, proprio degli anacoreti: se si conta a partire dal quarto cielo del Sole, considerando questo come primo ovvero come nuovo avvio del ciclo settenario, il cielo di Saturno è appunto quarto.

VIII (V) Il settimo cielo di Saturno è seguito dal cielo delle Stelle fisse – ottavo e quinto -, dove si mostrano le schiere del trionfo di Cristo che discendono dall’Empireo (il quinto stato è caratterizzato dalla “condescensio”) e si celebra il trionfo di Maria (sviluppo del tema, proprio della quinta chiesa, della mirabile bellezza della Chiesa, regina ornata di veste aurea per la carità che unisce e circondata dalla varietà nei doni e nelle grazie delle diverse membra). È inoltre ricapitolazione dei precedenti sette, secondo un’interpretazione più volte presente nella Lectura dell’essere ‘ottavo’. Per questo Dante, stando nel segno dei Gemelli, riguarda in giù e torna col viso per tutte quante le sette precedenti sfere (Par. XXII, 124-154).

IX (VI) Segue il Primo Mobile o Cristallino – nono e sesto cielo –, dove il poeta vede il punto luminosissimo – Dio – da cui dipende il cielo e la terra, circondato dai nove cerchi di fuoco (Par. XXVIII, 16-18, 40-42, 94-96). Il sesto stato, secondo quanto Olivi afferma nel Notabile VIII, è il “punto” da cui dipendono gli altri stati, perché appare nel testo dell’Apocalisse in modo più evidente degli altri, che da esso assumono chiarezza quanto alla loro manifestazione nella storia, come l’intelligenza delle cose ordinate ad un fine dipende dal fine.

X (VII) La quiete e l’immobilità dell’Empireo, decimo cielo – il “ciel de la divina pace” -, corrispondono al settimo stato, di cui è propria la “quietatio”, il silenzio (tema anticipato dal tacere di Beatrice in apertura del canto XXIX), e la pace.

Il Paradiso avrebbe pertanto un ordine spirituale del seguente tipo:

cielo

stato

cielo

I

LUNA

I

II

MERCURIO

II

III

VENERE

III

IV

SOLE

IV

I

SOLE

V

MARTE

V

II

MARTE

VI

GIOVE

VI

III

GIOVE

VII

SATURNO

VII

IV

SATURNO

VIII

V

STELLE FISSE

IX

VI

PRIMO MOBILE

X

VII

EMPIREO

Oltre ai luoghi sopra indicati, i temi del sesto e del settimo stato si rinvengono in più punti, intrecciati con altri.

[1] Cfr. LSA, cap. XVII, Ap 17, 9: «Et subdit Ricardus quod per septem reges, et per septem capita designatos, designatur hic universus populus malorum, qui secundum septem status huius seculi determinantur. Primus scilicet ab Adam usque ad Noe. Secundus a Noe usque ad Abraam. Tertius ab Abraam usque ad Moysen. Quartus a Moys<e> usque ad David. Quintus a David usque ad Christum. Sextus a Christo usque ad Antichristum. Septimus autem sub Antichristo attribuitur». Cfr. PETRI IOHANNIS OLIVI Lectura super Lucam, Lc 1, 26, ed. F. Iozzelli, Grottaferrata 2010 (Collectio Oliviana, V), pp. 187-188: «Signanter autem dicitur in sexto mense, quia Christus uenit in sexta mundi etate, et iterum post quinque notabiles synagoge decursus: nam primo, cum sola circumcisione fuit sub patribus per quadringentos annos; secundo, accepta lege, fuit sub iudicibus per tantumdem temporis; tertio, proficiens in regnum, fuit sub regibus; quarto, assumpto plenius spiritu prophetico, fuit sub prophetis sollempnioribus, scilicet sub Elia, Ysaia et Yeremia etc.; quinto, restituto templo et urbe, fuit sub pontificibus quibus, per Aggeum et Zachariam et Malachiam iterata prophetia de Christo et eius precursore Elia, factum est silentium prophetarum, ita quod obmutuit cetus sacerdotum usque ad Iohannis ortum; et iterum in eiusdem quinti temporis sexto centenario conceptus est Christus. Sicut etiam sexto die factus est homo ad ymaginem Dei, sic conuenienter sub consimili senario factus est Christus homo, plenior Dei ymago: nam et perfectio numeri senarii, que ex omnibus partibus suis aliquotis et iterum ex ternario cum suis partibus, scilicet binario et unitate, consurgit, competit sibi et etiam reflexio ternarii per binarium, id est cultus fidei et Trinitatis per geminam caritatem».

[2] Il principio è chiaramente affermato nel notabile VIII del prologo della LSA: «[…] si omnia prima membra visionum ad invicem conferas et consimiliter omnia secunda et sic de aliis, aperte videbis omnia prima ad idem primum concorditer referri et consimiliter omnia secunda ad idem secundum et sic de aliis. Et hoc in tantum quod plena intelligentia eiusdem primi multum clarificatur ex mutua collatione omnium primorum, et idem est de omnibus secundis et tertiis et sic de aliis».

[3] A. FRUGONI, La Roma di Dante, tra il tempo e l’eterno, in ID., Pellegrini a Roma nel 1300. Cronache del primo Giubileo, presentazione di C. Frugoni, a cura e con Introduzione di F. Accrocca, Casale Monferrato 1999, pp. 102-103.

[4] LSA, cap. VI, Ap 6, 12: «Secunda ratio est quia persone Christi correspondet in sexta apertione unus ordo plurium personarum sic secundum suam proportionem augendus, sicut Christus secundum suum corpus fuit usque ad perfectam etatem viriliter auctus. […] Quarta est quia, prout super evangelia ostendi, Christus parvo tempore debuit inter nos vivere et pauciori predicare […]. Nisi autem ordo evangelicus, per Franciscum renovatus, esset in multis et saltem sub duabus vel tribus generationibus propagatus et sollempnizatus, non esset nec ipse nec populus ab eo ducendus sufficienter dispositus ad tam autenticam condempnationem condempnationi Christi consimilem subeundam».