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Ott 27 2025

I canti dell’Aquila: Paradiso XVIII, 52-136; XIX; XX

 

La ‘Divina Parodia’ del Libro scritto dentro e fuori 

The ‘Divine Parody’ of the Book written within and without

Inferno: I; II; III; IV; V; VI; VII; VIII; IX; X; XI; XII; XIII; XIV; XV; XVI; XVII; XVIII; XIX; XX; XXI; XXII; XXIII; XXIV; XXV; XXVI; XXVII; XXVIII; XXIX; XXX; XXXI; XXXII, 1-123; XXXII, 124-XXXIII, 90; XXXIII, 91-157; XXXIV

Purgatorio: III; XXVIII; XXIX; XXX; XXXI; XXXII; XXXIII

Paradiso: XI-XII; XIV; XV; XVI; XVII; XVIII, 1-51; XVIII, 52-136; XIX; XX; XXXIII

I canti dell’Aquila: Paradiso XVIII, 52-136, XIX, XX

Vengono qui esposti i canti XVIII, 52-136; XIX; XX del Paradiso con i corrispondenti legami ipertestuali con i luoghi della Lectura super Apocalipsim ai quali i versi si riferiscono. L’intero poema è esposto nella Topografia spirituale della Commedia (2013, PDF; cfr. infra), ma si sta procedendo a un esame progressivo e aggiornato dei singoli canti (completato l’Inferno). Ogni tabella sinottica, qui presentata o alla quale si rinvia in quanto già esaminata in altra sede, è preceduta o seguita da una parte esplicativa. Sull’uso dei colori cfr. Avvertenze.

AvvertenzeAbbreviazioniNote sulla “topografia spirituale” della Commedia.

XVIII

 

1. La resurrezione della testa della bestia che sembrava uccisa. 2. Secoli in forma di lettere. 3. Fumo nel Tempio.

 

Legenda [3]: numero dei versi; 1, 10-12: collegamento ipertestuale all’esegesi, nella Lectura di Olivi, di capitolo e versetto dell’Apocalisse [Ap]; Not. VII: collegamento all’esegesi contenuta nei tredici notabilia del prologo della LecturaVarianti rispetto al testo del Petrocchi.

Io mi rivolsi dal mio destro lato   1, 10-12
per vedere in Beatrice il mio dovere,
o per parlare o per atto, segnato;   [54]

e vidi le sue luci tanto mere,   1, 16
tanto gioconde, che la sua sembianza
vinceva li altri e l’ultimo solere.   [57]

E come, per sentir più dilettanza
bene operando, l’uom di giorno in giorno
s’accorge che la sua virtute avanza,   [60]   7, 8 (Iosep)

sì m’accors’ io che ’l mio girare intorno
col cielo insieme avea cresciuto l’arco,
veggendo quel miracol più addorno.   [63]   1, 16   

E qual è ’l trasmutare in picciol varco   Not. VII
di tempo in bianca donna, quando ’l volto   1, 14
suo si discarchi di vergogna il carco,   [66]

tal fu ne li occhi miei, quando fui vòlto,   1, 10-12
per lo candor de la temprata stella   1, 14; Not. III
sesta, che dentro a sé m’avea ricolto.   [69]   Not. V

Io vidi in quella giovïal facella
lo sfavillar de l’amor che lì era
segnare a li occhi miei nostra favella.   [72]  1, 1; 1, 2

E come augelli surti di rivera,   13, 3
quasi congratulando a lor pasture,
fanno di sé or tonda or altra schiera,   [75]

sì dentro ai lumi sante creature
volitando cantavano, e faciensi
or D, or I, or L in sue figure.   [78]   13, 18; 20, 2-3 (11, 15); 1, 1

Prima, cantando, a sua nota moviensi;
poi, diventando l’un di questi segni,   1, 1
un poco s’arrestavano e taciensi.   [81]

O diva Pegasëa che li ’ngegni   5, 1 (6, 2)
fai glorïosi e rendili longevi,
ed essi teco le cittadi e ’ regni,   [84]

illustrami di te, sì ch’io rilevi
le lor figure com’ io l’ho concette:   1, 1
paia tua possa in questi versi brevi!   [87]

Mostrarsi dunque in cinque volte sette   1, 1; 3, 1.4
vocali e consonanti; e io notai
le parti sì, come mi parver dette.   [90]

DILIGITE IUSTITIAM’, primai
fur verbo e nome di tutto ’l dipinto;
QUI IUDICATIS TERRAM’, fur sezzai.   [93]

Poscia ne l’emme del vocabol quinto   13, 2 [M]; 3, 1.4
rimasero ordinate; sì che Giove   12, 17; 13, 8
pareva argento lì d’oro distinto.   [96]

E vidi scendere altre luci dove   13, 13
era il colmo de l’emme, e lì quetarsi   13, 2
cantando, credo, il ben ch’a sé le move.   [99]

Poi, come nel percuoter d’i ciocchi arsi   13, 3; 17, 8
surgono innumerabili faville,
onde li stolti sogliono agurarsi,   [102]

resurger parver quindi più di mille
luci e salir, qual assai e qual poco,
sì come ’l sol che l’accende sortille;   [105]

e quïetata ciascuna in suo loco,
la testa e ’l collo d’un’aguglia vidi   13, 3
rappresentare a quel distinto foco.   [108]

Quei che dipinge lì, non ha chi ’l guidi;   13, 2
ma esso guida, e da lui si rammenta
quella virtù ch’è forma per li nidi.   [111]

L’altra bëatitudo, che contenta
pareva prima d’ingigliarsi a l’emme,   12, 6; 13, 2
con poco moto seguitò la ’mprenta.   [114]   13, 3; 14, 11

O dolce stella, quali e quante gemme
mi dimostraro che nostra giustizia   11, 17-18 (15, 7)
effetto sia del ciel che tu ingemme!   [117]

Per ch’io prego la mente in che s’inizia   15, 8
tuo moto e tua virtute, che rimiri
ond’ esce il fummo che ’l tuo raggio vizia;   [120]   9, 2; 15, 8

sì ch’un’altra fïata omai s’adiri   11, 17-18 (15, 7)
del comperare e vender dentro al templo   13, 17; 15, 5-6
che si murò di segni e di martìri.   [123]   20, 12; 7, 3-4   sangue

O milizia del ciel cu’ io contemplo,   15, 5-6
adora per color che sono in terra   13, 3-4; 15, 3-4
tutti svïati dietro al malo essemplo!   [126]   15, 3-4; 9, 2

Già si solea con le spade far guerra;   2, 16
ma or si fa togliendo or qui or quivi
lo pan che ’l pïo Padre a nessun serra.   [129]   15, 4

Ma tu che sol per cancellare scrivi,   3, 5
pensa che Pietro e Paulo, che moriro
per la vigna che guasti, ancor son vivi.   [132]   9, 11; 15, 7 (2, 16)

Ben puoi tu dire: « I’ ho fermo ’l disiro   Not. XIII
sì a colui che volle viver solo
e che per salti fu tratto al martiro,   9, 3
ch’io non conosco il pescator né Polo ».   [136]   15, 8

 

1. La resurrezione della testa della bestia che sembrava uccisa

 

In the Sixth Heaven, the Sphere of Jupiter, to describe the lights of righteous souls that rise in the shape of the Eagle (the Justice), Dante uses the exegesis of the head of the beast that appeared to be slain to death though it rose again (Rev 13:3; there are numerous quotations of Joachim of Fiore). The resurrection of the monarchy of the Antichrist, designated by the head of the beast that seemed to have been killed and then revived, is transformed into the resurrection of the lights that form the Eagle starting from the letter “M”, which signifies “Monarchia”, but also “Mulier”, the Virgin Astrea). All of this reveals a method to transform the passages of the Apocalypse related to negative figures or circumstances in order to confer a positive sense of imminent renovation.


Un pianeta temperato. Nell’ascendere dal cielo di Marte al cielo di Giove (sesto cielo, ma terzo a partire dal cielo del Sole) Dante, volgendosi e vedendo gli occhi di Beatrice più lucenti e giocondi che negli altri pianeti, sente crescere la sua virtù insieme con l’arco celeste. Il volgersi ripete quello di Giovanni verso la voce della guida che lo richiama a realtà più alte, tema più volte variato nel corso del poema (Ap 1, 10-12).
Gli occhi fanno segno del riso di Beatrice, sacra parodia dello splendore del volto di Cristo (Ap 1, 16-17), che cresce in lucentezza ascendendo verso l’Empireo – “i vivi suggelli / d’ogne bellezza più fanno più suso” (Par. XIV, 133-134; cfr. XX, 13-15) -, come cresce per rami l’illuminazione del popolo di Dio nella storia della Chiesa (Ap 21, 12-13.21). L’aumento della virtù è tipica della tribù di Giuseppe, una delle dodici tribù di Israele da cui provengono i segnati ad Ap 7, 3-8, interpretata come “augmentum, quia per prudentie discretionem et discretum regimen adaugentur omnes virtutes” (Ap 7, 8).
Al v. 63 – “veggendo quel miracol più addorno” -, la variante “ adddorno”, nel Boccaccio e poi nell’Aldina, non solo non convince perché “Dante ha la necessità di spiegare che dal volto ‘più risplendente’ di Beatrice s’era accorto ch’era salito in altro cielo” (Petrocchi), ma è da rigettare per il confronto con il “plus incomparabiliter lucet” dell’esegesi parodiata, tra altro, in molti altri luoghi del poema (Ap 1, 16).
Il cielo di Giove risente ancora del quinto periodo (status) della storia della Chiesa, dai temi del quale è stato in parte segnato il precedente cielo di Marte; gli appartiene infatti il contemperare secondo le inferme forze umane: è “la temprata stella / sesta, che dentro a sé m’avea ricolto” (Par. XVIII, 68-69; prologo, Notabile III). Raccogliere è un altro dei temi del quinto stato (Notabile V; nell’esegesi è tipico di Carlo Magno, beato mostratosi nel cielo di Marte, vv. 43-45). Più avanti nell’ascesa, al momento del passaggio all’ottavo cielo delle stelle fisse, dentro ai suoi Gemelli il poeta contempla dall’alto il cammino percorso e vede “il temperar di Giove / tra ’l padre e ’l figlio”, cioè tra il freddo di Saturno e il calore di Marte, e ha chiaro “il varïar che fanno di lor dove” i pianeti (Par. XXII, 145-147): anche il variare è motivo del quinto periodo, appropriato alla chiesa di Sardi, la quinta delle sette d’Asia, nel suo primo bello inizio (Ap 2, 1). Il passaggio di colore, dal rosso di Marte al bianco di Giove, è tale “qual è ’l trasmutare in picciol varco / di tempo in bianca donna, quando ’l volto / suo si discarchi di vergogna il carco” (Par. XVIII, 64-66), dove il candore di Giove è fasciato dal “candor contemperantior”, come “lana alba” contrapposta alla rigida e congelata neve, dei capelli di Cristo sommo pastore descritti ad Ap 1, 14. Il significato è che la rigida e immutabile giustizia divina, che si rivela per antonomasia in quel cielo, è contemperata dalla misericordia, come afferma l’Aquila: “Per esser giusto e pio” (XIX, 20).

Morte e resurrezione della bestia. Quanto ad Ap 13, 3, nella trattazione della sesta e grande guerra sostenuta dalla Chiesa, si afferma della testa della bestia ascendente dal mare, che sembrava uccisa e che rivive – per cui Giovanni dice: “E vidi una delle sue teste quasi colpita a morte, ma la sua piaga mortale fu curata” -, è da confrontare con Ap 17, 8, dove l’angelo dice a Giovanni della bestia su cui sta seduta la prostituta: “La bestia che hai visto fu e non è”. Secondo Gioacchino da Fiore, si tratta della bestia formata dalle genti infedeli le quali, già soggette all’impero romano, perseguitarono negli esordi Cristo e la Chiesa e, dopo essere caduta nei primi tre tempi della Chiesa in sei teste – i Giudei, i pagani e le quattro genti ariane (Goti occidentali e orientali, Vandali, Longobardi) – stette infine sulla settima testa, cioè sulla gente saracena dal tempo di Maometto fino al presente. L’espressione “fu e non è” sarebbe da ascrivere al sesto tempo della Chiesa nel quale, percossa Babylon, la stessa bestia verrà superata da Cristo trionfante con il suo esercito sui dieci re, come detto ad Ap 17, 14. Allora cesserà temporaneamente la sua solidità così da sembrare non essere. Dopo un po’, tuttavia, la bestia che si riteneva uccisa salirà dall’abisso dei popoli infedeli, e allora i terreni e i carnali, i cui nomi non sono scritti nel libro della vita, si scandalizzeranno e diranno fra loro: ‘se questo Gesù che noi adoriamo fosse veramente il Figlio di Dio, in nessun modo la persecuzione ad opera delle genti, che poco fa fu sedata, sorgerebbe nuovamente con tanta potenza a disperdere le reliquie del popolo cristiano’. Così quello che si dice, che i malvagi si meraviglieranno nel vedere la bestia “che era e non è più”, va inteso non nel senso che si meravigliano del fatto che non sia, quanto perché, pur avendola poco prima vista non essere, la vedono ora salire in massima potestà, per cui sono scandalizzati fino alla negazione di Cristo e all’adorazione della stessa bestia, come si afferma nel capitolo XIII (Ap 13, 3-4.12).
Beatrice, prima di pronunciare nell’Eden la profezia dell’imminente arrivo del messo divino che ucciderà la prostituta insieme col gigante (Purg. XXXIII, 37-45), dice a Dante: “Sappi che ’l vaso che ’l serpente ruppe, / fu e non è”. Allude, come in genere si commenta, alla Chiesa corrotta (designata dal carro, le cui tribolazioni sono state descritte al termine del canto precedente) come se non esistesse più (è divenuta infatti “mostro e poscia preda” del gigante) usando le parole di Ap 17, 8: “bestia, quam vidisti, fuit et non est” (vv. 34-35). Ma ad Ap 17, 8 Olivi, citando Gioacchino da Fiore, parla della bestia che, apparsa in un primo tempo uccisa, dopo poco (post modicum) ascende dall’abisso facendo di nuovo (iterum) risorgere la persecuzione da parte delle genti che sembrava sedata e appare tanto potente da farsi adorare da quanti restano ammirati dalla sua resurrezione. Beatrice, annunciando l’arrivo del messo, pensa alla vendetta di Dio che farà risorgere la Chiesa e lo fa recitando il tema della bestia che sembrava uccisa e che rivive, interpretato in bonam partem. Lei stessa, più sopra nel canto, cita le parole di Gesù ai discepoli per avvertirli che presto sarebbe morto e poco dopo risorto: “Modicum, et non videbitis me; / et iterum, sorelle mie dilette, / modicum, et vos videbitis me” (vv. 10-12). Questo passo dal Vangelo di Giovanni 16, 16 – le parole con cui Cristo, nell’ultima cena, annuncia agli apostoli la sua imminente morte e resurrezione – è incastonato nell’esegesi di Ap 17, 8 e perfettamente concordato con il tema della bestia che sembrava uccisa e che risorge.
Anche il canto delle sette virtù le quali, lacrimando, intonano il Salmo 78, “Deus, venerunt gentes”, in cui si lamenta la distruzione del Tempio di Gerusalemme (Purg. XXXIII, 1-3), si inserisce in quanto ad Ap 17, 8 si dice del risorgere della persecuzione da parte delle genti. La “dolce salmodia” (Ps 78, 10: “ne forte dicant in gentibus: Ubi est Deus eorum?”) concorda con l’apocalittico scandalizzarsi di carnali e terreni (Ap 17, 8: “dicentes ad invicem: si iste Ihesus, quem colimus, esset vere filius Dei, nequaquam persecutio gentium, que nuper sedata fuit, iterum consurgeret in tanta potentia ad disperdendas reliquias populi christiani”). Il Salmo 78, 10 fa parte del tessuto della lettera indirizzata ai cardinali italiani, riuniti in conclave a Carpentras dopo la morte di Clemente V (20 aprile 1314; Ep. XI, 4).
Sempre con l’ausilio di Gioacchino da Fiore, e interpretando quanto scritto nell’XI capitolo di Daniele, ad Ap 13, 3 Olivi afferma che la testa della bestia che sembrava uccisa e poi rivive designa il fatto che l’Anticristo, nel primo dei tre anni e mezzo di regno, perderà la monarchia per poi recuperarla. Dal confronto di Ap 17, 8 con Ap 13, 3, la compresenza di alcune parole (l’essere la bestia e l’Anticristo dapprima “percossi”, l’“ardere” del secondo per ira contro la Chiesa, la loro resurrezione) mostra che anche il risorgere delle luci, “come nel percuoter d’i ciocchi arsi / surgono innumerabili faville”, le quali nel cielo di Giove formano la figura dell’Aquila, simbolo della giustizia (Par. XVIII, 100-105), sia variazione sui temi della bestia “che fu e non è” e dell’Anticristo, quasi ucciso per la perdita del regno e poi risorto.
Tutto ciò rende conto di un metodo sorprendente che trasforma in senso positivo, di un prossimo rinnovamento, passi che nel testo dell’Apocalisse vengono appropriati a figure o a situazioni negative, nel caso alla bestia che sale dal mare di Ap 13, 3 o alla bestia su cui siede la prostituta di Ap 17, 8, che si trasformano nella Chiesa che rivivrà e anche nell’Impero, perché “non sarà tutto tempo sanza reda / l’aguglia che lasciò le penne al carro, / per che divenne mostro e poscia preda” (Purg. XXXIII, 37-39). Alla fine del capitolo XIII, Olivi riporta l’opinione di alcuni secondo i quali il seme di Federico II rivivrà nell’Anticristo mistico, come la testa della bestia che sembrava uccisa ma rivive. Nel trasformare per parodia la Lectura nella Commedia, il poeta torce il “panno” all’ordito della sua “gonna”, come dimostrano i versi messi in bocca a Farinata e a Brunetto Latini, tessuti con fili tratti dal finale del capitolo XIII, dove trovava la discendenza di Federico II identificata con l’Anticristo mistico, mentre per lui è sementa santa che rivivrà. Alla resurrezione dell’Impero sono da riferire le parole di Cristo nel Vangelo di Giovanni successive a quelle pronunciate esplicitamente da Beatrice a Purg. XXXIII, 10-12 – “Modicum, et non videbitis me ; / et iterum, sorelle mie dilette, / modicum, et vos videbitis me” (Jo 16, 16) -, relative alla donna che prova le doglie del parto ma, una volta partorito, si allieta (16, 21). Cristo annuncia ai discepoli la sua morte, che sarà motivo per loro di tristezza e di tribolazione, e poi la sua resurrezione, che sarà causa di gioia.
Gerione, la “bestia” che viene “notando … in suso” dall’abisso, “maravigliosa ad ogne cor sicuro” (Inf. XVI, 121-123, 130-136), si apparenta con la bestia che ad Ap 13, 1 sale dal mare (citato nella similitudine), e che suscita meraviglia nelle genti a motivo della sua testa che sembrava uccisa ma che poi rivive (Ap 13, 3). Nella quarta visione, tutto l’impeto della descrizione è diretto verso quella grande guerra del sesto tempo che la bestia condurrà per mezzo di questa testa. L’espressione dell’esegesi “intorqueri ad bestiam a quarto tempore usque ad finem ecclesie consurgentem” passa nelle parole di Virgilio: “Or convien che si torca / la nostra via un poco insino a quella / bestia malvagia che colà si corca” (Inf. XVII, 28-30).
Lontanissima variazione sul tema della bestia che “fu e non è” si registra nella meraviglia di Sordello nell’incontrare Virgilio, «qual è colui … / che crede e non, dicendo “Ella è … non è …”» (Purg. VII, 10-12).

Tab. XVIII.1

XI. Ioseph

[LSA, cap. VII, Ap 7, 8 (IIa visio, apertio VIi sigilli)] Undecimo post predicta ascenditur ad precellentem prudentiam omnium regitivam, quam designat Iosep, qui fuit rector fratrum ac rector et salvator Egipti, qui interpretatur augmentum, quia per prudentie discretionem et discretum regimen adaugentur omnes virtutes. Hec enim nullam virtuosorum actuum circumstantiam negligit et omnes ad debitam mensuram producit et componit; ipsa etiam de augmento omnium augetur.

Ad quartum etiam statum, scilicet perseverantium, spectant tria.

[…] et finalis copia meritorum, et hoc est Iosep, id est augmentum […]

Par. XVIII, 58-63

E come, per sentir più dilettanza
bene operando, l’uom di giorno in giorno
s’accorge che la sua virtute avanza,
sì m’accors’ io che ’l mio girare intorno
col cielo insieme avea cresciuto l’arco,
veggendo quel miracol più addorno.

in latere occidentali

Ad (sensum) etiam, qui est in occidente, id est in caligine in qua Moyses sensit et apprehendit Deum, exigitur adhesio quieta, inspectio serena et inebriatio ex<ta>tica. Unde in ipso est sublimis mansionis pacificus status, qui est Zabulon, id est habitaculum fortitudinis; et sagacis discretionis perspicuus con-spectus, qui est Iosep rector fratrum et Egipti; et suavis consolationis extaticus excessus, et hic est Beniamin in mentis excessu.

Tab. XVIII.2

Inf. XVI, 121-123, 130-136

El disse a me: “Tosto verrà di sovra
ciò ch’io attendo e che il tuo pensier sogna;

tosto convien ch’al tuo viso si scovra”.

chi’ vidi per quell’ aere grosso e scuro
venir notando una figura in suso,
maravigliosa ad ogne cor sicuro,
sì come torna colui che va giuso
talora a solver l’àncora ch’aggrappa
o scoglio o altro che nel mare è chiuso,
che ’n sù si stende e da piè si rattrappa.

Inf. XVII, 28-30

Lo duca disse: “Or convien che si torca
la nostra via un poco insino a quella

bestia malvagia che colà si corca”.

Purg. VII, 10-12

Qual è colui che cosa innanzi sé
sùbita vede ond’ e’ si maraviglia,
che crede e non, dicendo “Ella è … non è …”

[LSA, cap. XIII, Ap 13, 1-3 (IVa visio, VIum prelium)] “Et vidi de mari” (Ap 13, 1), id est de infideli natione paganismi, “bestiam”, id est bestialem catervam et sectam, “ascendentem”, scilicet in al-tum dominium et in publicum effectum et statum. […]
Nota quod omnia predicta sic in generali spectant ad totam bestiam reproborum, quod possunt specialiter intorqueri ad bestiam a quarto tempore usque ad finem ecclesie consurgentem. Primo enim modo tota bestialis caterva malorum ascendit “de mari”, id est de procellosa profunditate malitie, seu de profunda et amara abisso originalis et tandem actualis corruptionis nature humane. […]
Ioachim tamen, libro V° Concordie exponens de Antichristo verbum seu illam partem ultime visionis Danielis […] dicit, attamen non assertorie sed opinative, […] Deinde subdit de bello quod in sexto tempore est actura per sextum caput et decem cornua, dicens: “Et vidi unum de capitibus suis quasi occisum in mortem” (Ap 13, 3). […] Prelium autem quod secundo anno faciet incipit ibi: “Et concitabitur fortitudo eius et cor eius adversus regem austri” (Dn 11, 25), usque ibi: “Et de eruditis ruent, ut conflentur et dealbentur usque ad tempus prefinitum, quia adhuc aliud tempus erit” (Dn 11, 35), id est quia sequetur tertius annus. De hoc autem quod ibi interseritur: “Et venient super eum trieres et Romani, et percutietur et revertetur” (Dn 11, 30), dicit Ioachim quod utrum hoc impleatur spiritaliter aut cor-poraliter interim dubium relinquatur. Attamen ex illa percussione, quam patietur in membris suis, magis exardescet in iram contra ecclesiam Christi. <Nam> sequitur: “Et indignabitur contra testa-mentum sanctuarii et faciet”, id est iuxta votum proficiet dolus in manu eius.
Prelium vero anni tertii incipit ibi: “Et faciet rex iuxta voluntatem suam et elevabitur et magnificabitur adversus omnem deum et adversus Deum deorum loquetur magnifica” (Dn 11, 36). In cuius fine subdit Ioachim: «Creditur autem quod tempus prefinitum, de quo dicit: “et in tempore prefinito preliabitur adversus eum rex austri” (Dn 11, 40), hic sumpsit dimidium temporis seu anni in cuius consumatione cessabit imperium Antichristi».
Videtur ergo Ioachim opinari quod in primo anno trium annorum et dimidii perdet regnum quod ceperat acquirere et quod postmodum recuperabit ipsum. Quod si verum est, potest dici quod prima amissio regni erit quasi occisio eius, sequens vero regni recuperatio erit quasi resurrectio eius. […]

Sequitur: “Et admirata est universa terra post bestiam” (Ap 13, 3), id est cum multe admirationis timore et stupore de resurrectione capitis bestie seu de reassumptione tante potestatis.

 

Par. XVIII, 73-75, 100-105

E come augelli surti di rivera,
quasi congratulando a lor pasture,
fanno di sé or tonda or altra schiera

Poi, come nel percuoter d’i ciocchi arsi
surgono innumerabili faville,

onde li stolti sogliono agurarsi,
resurger parver quindi più di mille
luci e salir, qual assai e qual poco,
sì come ’l sol che l’accende sortille

[LSA, cap. XVII, Ap 17, 8 (VIa visio)] Dicit ergo (Ap 17, 8): “Bestia, quam vidisti, fuit et non est ”, id est, secundum Ioachim, bestia gentium infidelium, que aliquando romano imperio subiecte fuerunt et persecute sunt Christum et ecclesiam ab exordio ipsius, et per tria tempora ecclesie priora in sex capitibus corruens, scilicet in Iudeis et paganis et in quattuor gentibus seu capitibus Arrianorum, stetit tandem in septimo capite, in gente scilicet Sarracenorum a tempore Mahomet usque ad presens. Quod autem dicitur “fuit et non est”, est secundum eum sexto tempori ecclesie ascribendum sub quo, percussa prius Babilone, superabitur a Christo ipsa bestia, Christo in suis militibus triumphante de decem regibus eius, prout dicitur infra (cfr. Ap 17, 14). Tunc enim ad horam cessabit feritas ipsius, ita quod quasi videbitur  tunc non esse. Post mo-dicum autem, bestia ipsa que iam putabatur interfecta ascensura est de abisso populi infidelis, et tunc scandalizabuntur terreni et carnales, quorum non sunt scripta nomina in libro vite, dicentes ad invicem: si iste Ihesus, quem colimus, esset vere filius Dei, nequaquam persecutio gentium, que nuper sedata fuit, iterum consurgeret in tanta potentia ad disperdendas reliquias populi christiani. Et maxime quia tunc surgent pseudochristi et pseudoprophete ad seducendum, si fieri potest, etiam electos (cfr. Mt 24, 24). Ut autem angelus indicet hanc expositionem suam esse occultam et alia expositione egere, aut sapientes esse oportere eos qui possint intelligere profundam sapientiam hic con-tentam, ideo dicit quod “hic”, id est in hiis verbis, “est sensus qui habet sapientiam” (Ap 17, 9), id est qui continet profundam et occultam sapientiam. Hec Ioachim*.
Et sic, secundum eum, quando dicitur quod mali “mirabuntur, videntes bestiam que erat et non est ” (Ap 17, 8), non est sensus quod mirentur de hoc quia tunc non erit, sed potius de hoc quia, cum iam paulo ante non esset, viderunt eam ascendere in maximam potestatem, propter quod sunt inde scandalizati usque ad negationem Christi et usque ad adorationem ipsius bestie, prout scribitur capitulo XIII° (Ap 13, 4).

Expositio , pars VI, distinctio I, f. 196ra-b.

Purg. XXXIII, 1-3, 10-12, 34-35 

                           Ps 78, 1
Deus, venerunt gentes’, alternando

or tre or quattro dolce salmodia,
le donne incomiciaro, e lagrimando

Modicum, et non videbitis meJo 16, 16
et iterum, sorelle mie dilette,

modicum, et vos videbitis me.

Sappi che  ’l vaso che  ’l serpente ruppe,
fu e non è ……………………………………


I significati di M. Nel cielo di Giove Dante vede dei lumi, “come augelli surti di rivera”, dentro ai quali “sante creature / volitando cantavano”. Si esprimono in segni del parlare umano (“Io vidi … / segnare a li occhi miei nostra favella”), “e faciensi / or D, or I, or L in sue figure” (Par. XVIII, 70-81). Si tratta dell’inizio di trentacinque fra vocali e consonanti che formano successivamente la scritta “Dil igite iustitiam, qui iudicatis terram” (il primo versetto del libro della Sapienza; vv. 88-93).
Poi le luci “rimasero ordinate” nella M della quinta e ultima parola (“terram”) del detto versetto, “sì che Giove / pareva argento lì d’oro distinto” (Par. XVIII, 94-96; “emme” in Petrocchi, meglio M, “per fedeltà alla facies grafica dei testimoni” [Inglese], e perché segna un rinvio mnemonico). Il poeta vede quindi scendere altre luci sulla sommità della M (la quale assume così la foma di un giglio), “e lì quetarsi / cantando, credo, il ben ch’a sé le move” (vv. 97-99). Poi, come le faville che sorgono dai tizzoni arsi quando vengono percossi, dalle quali gli stolti superstiziosi sogliono trarre auspici, così si vedono risorgere dalla M più di mille luci, che salgono più o meno in alto secondo l’ordine assegnato a ciascuna da Dio, sole che le accende e, quietatasi ciascuna nel luogo stabilito, formare la testa e il collo di un’aquila (vv. 100-108). Gli altri beati, che sembravano prima contenti “d’ingigliarsi a l’emme”, con breve movimento seguono l’impronta data dai precedenti (vv. 112-114).
Allo splendore di verità con il quale Cristo illumina nella sua gloriosa e potente apparizione sul cavallo bianco all’apertura del primo sigillo (Ap 5, 1; 6, 2) rinvia l’invocazione alla “diva Pegasëa”, la Musa della poesia detta così dal cavallo alato Pegaso che con lo zoccolo fece scaturire la fonte Ippocrene sull’Elicona (vv. 82-87).
È da notare l’insistenza del tema dei “signa figuralia”, attraverso i quali si attua la rivelazione fatta a Giovanni (il quale scrive quanto lui mostrato usando similitudini a noi note, perché non è dato ripetere una visione che sia puramente intellettuale), appropriato ai lumi che nel cielo di Giove si trasformano nell’Aquila, mostrandosi dapprima come figure di lettere e come segni: segnare a li occhi miei nostra favella … or D, or I, or L in sue figure … poi, diventando l’un di questi segni … sì ch’io rilevi / le lor figure com’ io l’ho concette … Mostrarsi dunque in cinque volte sette” (vv. 72, 78, 80, 85-86, 88).
Nei versi 88-114 si possono pertanto distinguere due momenti: il primo in cui le luci, dopo aver formato la scritta dipinta, rimangono ordinate nella M e in cui altre luci discendono e si quietano sul colmo della stessa lettera; il secondo, successivo all’ordinarsi e al quietarsi, nella resurrezione delle luci seguite dalle altre. Questo secondo momento è comunque nettamente staccato rispetto alle fasi precedenti.
Il risorgere della monarchia dell’Anticristo, designato dalla testa della bestia che sembrava uccisa e che rivive (Ap 13, 3), si trasforma nel risorgere delle luci che vanno a formare l’Aquila a partire dalla “M” (che designa appunto la Monarchia).
L’adorazione del drago, che ha dato la sua virtù alla bestia, da parte di quanti, amanti delle cose terrene, seguono la bestia pieni di ammirazione, timore e stupore per la sua resurrezione, che è adorazione per la bestia stessa (Ap 13, 4.8.12), passa nella successiva preghiera del poeta alla milizia celeste perché ‘adori’: “adora per color che sono in terra  / tutti svïati dietro al malo essemplo” papale (vv. 124-126).
Se il drago è suprema guida, “dux ceterorum demonum”, a loro volta duci degli uomini peccatori (ad Ap 13, 2), Dio, “quei che dipinge lì, non ha chi ’l guidi; / ma esso guida”; se il drago ha dato la propria virtù alla bestia affinché faccia segni, da Dio “si rammenta / quella virtù ch’è forma per li nidi” (vv. 109-111). D’altronde il drago è, per quanto in senso pessimo e perverso, “prima et principalis et invisibilis causa” (Ap 13, 1) e “primus motor” (Ap 16, 13-14).
L’adorazione della bestia è da parte di tutti gli abitanti della terra, il cui nome non è scritto nel libro della vita dell’Agnello immolato fin dall’origine del mondo (Ap 13, 8). L’Agnello è stato infatti preordinato a redimere dalla prima caduta dell’uomo e prefigurato nella sua morte nelle varie figure che lo hanno preceduto fin dalla creazione. Così le luci che hanno prima formato delle figure di vocali e consonanti – “Diligite iustitiam, qui iudicatis terram” – restano ordinate “ne l’emme del vocabol quinto”, come le altre che discendono sulla sommità della M si quietano, quasi non fossero, prima di risorgere a formare l’Aquila (il “seguitò la ’mprenta” del v. 114 è da confrontare col seguire la bestia da parte dei terreni di Ap 13, 4).
L’“ingigliarsi” dei beati quietatisi sul colmo della M, per poi seguire l’impronta data dagli altri risorti a formare la testa e il collo dell’Aquila (vv. 112-114), è stato anche inteso come un’allusione alla monarchia di Francia la quale, dopo un tentativo di sostituirsi all’Impero, dovrà soggiacergli. In effetti, come risulta dalla successiva esegesi di Ap 13, 18, l’Anticristo mistico, proveniente dal seme redivivo di Federico II, vincerà il regno di Francia. Tuttavia è più probabile un’altra spiegazione. Il termine “lilium” nella Lectura compare una sola volta, ad Ap 12, 6. Si tratta della prima guerra, in cui la donna – la Vergine, oppure la Chiesa –  fugge la persecuzione dei Giudei nella solitudine del deserto dei Gentili. Una serie di citazioni di Isaia spiegano che il deserto diventerà un giardino e quello che era il giardino – la Giudea – diventerà un deserto: “silvam … silvestrescet”. Nella solitudine del deserto abiteranno il diritto e la giustizia (Is 32, 15-16); il deserto si rallegrerà e la solitudine fiorirà come il giglio (Is 35, 1-2). Le luci che si fermano ordinate nella M, alla quale poi le altre si ingigliano, hanno formato la scritta “Diligite iustitiam, qui iudicatis terram”. Se la lettera M non sta solo per “Monarchia” ma anche per “Mulier”, allora l’ingigliarsi designa la giustizia che dimora e fiorisce nella solitudine alla quale è fuggita la donna. Nella terza e quarta guerra, trattate congiuntamente (Ap 12, 14), alla donna vengono date due ali di una grande aquila le quali, nella concorrenza del terzo stato dei dottori e del quarto stato degli anacoreti, rappresentano il potere temporale e quello spirituale. La donna non è più fuggitiva come nella prima guerra, bensì regina che vola in modo magnifico al luogo predestinato come suo, incorporando in sé le genti. Nei versi relativi alla trasformazione non si parla delle ali dell’Aquila, queste si manifestano all’inizio del canto seguente: “Parea dinanzi a me con l’ali aperte / la bella image” (Par. XIX, 1-2).
Nulla di sorprendente se la M significhi insieme “mulier”, cioè Maria («“Virgo” nanque vocabatur iustitia, quam etiam “Astream” vocabant»: cfr. Monarchia I, xi, 1), e “Monarchia”, e che da detta M si formi l’Aquila visto che Cristo, “Imperadore dell’universo” come è definito nel Convivio (II, v, 2), fu figlio di Maria, la cui progenie fu Davide, nato per divino provvedere nello stesso tempo in cui nacque Roma, nel quale Enea venne di Troia in Italia (IV, v, 5-6). Sorprende invece la capacità del poeta di variare tanto i temi, al punto per cui la bestia dell’Apocalisse si trasforma nell’Aquila rediviva.
In così alta retorica del significante, viene in rilievo la simmetria fra terzine nella numerazione dei versi di singoli canti, o meglio il numero stesso della terzina. Non può essere infatti casuale che l’Italia sia due volte collocata sull’ultimo verso della 35a terzina (vv. 103-105) a Purg. VI (“che ’l giardin de lo ’mperio sia diserto”) e a Par. XI (“redissi al frutto de l’italica erba”). La semantica rinvia ad Ap 8, 7 (terza visione, prima tromba) e ad Ap 12, 6 (quarta visione, prima guerra, passo qui sopra ricordato), dove si tratta della Giudea, un tempo fiorente giardino poi divenuta deserto per il suo indurirsi contro Cristo. Da essa la donna (la Chiesa) fugge nella solitudine del deserto dei Gentili (il “lito diserto” della montagna del purgatorio), che fiorisce, mentre la Giudea si fa “selva selvaggia” («“in saltum” seu silvam “reputabitur”, id est silvestrescet»). Ma nel sesto stato la Giudea, dopo la conversione delle reliquie delle genti, si volgerà umilmente per ultima a Cristo come promesso al vescovo di Filadelfia, la sesta chiesa d’Asia (Ap 3, 9).
Di fronte a tanto profondi significati che aprono prospettive di una storia della salvezza collettiva, quale senso ha che l’Italia stia due volte sulla 35a terzina? Forse la risposta si trova ancora nell’esegesi di Ap 12, 6, relativa allo scambiarsi fra selva e deserto fiorito. Esegesi i cui signacula si rinvengono in molti versi fra i quali (ancora una volta la 35a terzina) Purg. VII, 105, riferito con variazione dissonante alla morte nel 1285 di Filippo III l’Ardito in fuga dagli Aragonesi: «“Et mulier”, id est ecclesia, “fugit in solitudinem” … De hac autem solitudine dicitur Isaie … Et capitulo XXXV° (Is 35, 1-2): “Letabitur deserta et invia, exultabit solitudo et florebit quasi lilium” – morì fuggendo e disfiorando il giglio». Questo deserto che fiorisce è quello profetizzato da Isaia, più volte citato ad Ap 12, 6. Ivi fiorirà la giustizia (“et habitabit in solitudine iudicium et iustitia”, Is 32, 16). Il numero 35 è menzionato nel poema allorché, nel cielo di Giove, a Dante si mostra la scritta dipinta “Diligite iustitiam, qui iudicatis terram”, cioè il primo versetto del libro della Sapienza formato da 35 lettere (“Mostrarsi dunque in cinque volte sette / vocali e consonanti”; Par. XVIII, 88-93). Dante pensava che l’Italia sarebbe stata un giorno la sede della giustizia [1].

Il segno parlante. Dopo la bestia che sale dal mare (Ap 13, 1-10), è la volta della bestia che sale dalla terra (Ap 13, 11-18). Con la “terra”, che è adatta ad essere abitata dall’uomo, viene significato il luogo e lo stato dei fedeli; con il “mare”, invece, il luogo della gente infedele. Riccardo di San Vittore afferma pertanto che come con la bestia che sale dal mare si intendono i re delle genti, così con la bestia che sale dalla terra si intendono gli empi rettori dei falsi cristiani.
Fra i segni operati dalla bestia che sale dalla terra, la seconda delle due bestie protagoniste della sesta guerra, c’è il fare scendere dal cielo il fuoco, “res vivida et lucens” (Ap 13, 13), un tema che si ritrova nello scendere delle luci sul colmo della M, le quali poi, “distinto foco”, risorgono a formare la testa e il collo dell’Aquila, (vv. 97-98, 108). Nel canto successivo si dice che l’Aquila è “segno” formato da “quei lucenti incendi / de lo Spirito Santo” (XIX, 100-101).
Come l’immagine dell’Anticristo parla (Ap 13, 15), così la “bella” e “benedetta imagine” dell’Aquila parla per il rostro (Par. XIX, 10-12; il parlare ad una voce che procede concordemente da molte voci rinvia ad Ap 14, 2). Come l’immagine dell’Anticristo sarà oggetto di reverenza e di devozione, così l’Aquila è “segno / che fé i Romani al mondo reverendi” (vv. 101-102). Come la legge stabilita dall’Anticristo sembrerà avere in sé lo spirito di Dio a causa dei segni e delle testimonianze dei falsi profeti, e apparirà come se parlasse poiché per la sua fede e virtù si vedranno compiere grandi prodigi, così l’Aquila è il segno che fa parlare Giustiniano (Par. VI, 82). Un segno che nel governare il mondo passa “di mano in mano” (vv. 8-9, 86) a quanti lo portano (v. 43), come i seguaci dell’Anticristo, secondo quanto si dice ad Ap 13, 17, portano in mano il marchio che consente loro di “comprare e vendere”, cioè di assumere offici solenni.
La voce dell’Aquila è dapprima un mormorare che sale:
“udir mi parve un mormorar di fiume / che scende chiaro giù di pietra in pietra, / mostrando l’ubertà del suo cacume … quel mormorar de l’aguglia salissi” (Par. XX, 19-21, 26). Anche in questo caso, si tratta di una variazione in senso positivo di un tema, il mormorare dei dannati ad Ap 14, 11, che l’esegesi propone in senso opposto, già appropriato al “crollarsi mormorando” della fiamma di Ulisse come agitata qua e là dal vento, che getta voce di fuori “come fosse la lingua che parlasse” (Inf. XXVI, 85-87).
Gli uomini devoti che hanno presso di sé l’immagine del Salvatore, “ut magis assidue ipsum recogitent et quasi videant”, è similitudine nell’esegesi appropriata agli adoratori dell’Anticristo; subisce nel poema una metamorfosi positiva: è infatti motivo delle parole di conforto che Virgilio pronuncia mentre attraversa con Dante e Stazio il fuoco purgante, allorché, nel parlare concentrato solo su Beatrice, gli pare di vedere già gli occhi della donna (Purg. XXVII, 52-54). Così il pellegrino che guarda la Veronica, come il poeta nell’Empireo di fronte a san Bernardo, ridice nel pensiero che quella che vede è la sembianza di Cristo (Par. XXXI, 103-108).
L’operare segni da parte della seconda bestia, unitamente a incantesimi quali far parlare una materia (la statua o l’immagine) in modo conforme alla legge dell’Anticristo (dandole così una forma), come gli incantatori del Faraone imitando Mosè trasformarono la verga in serpente (Ap 13, 11.15), conduce alle immagini perverse di Inf. XXV, prodotte dalle reciproche trasformazioni di ladri e serpenti, nature nelle quali le forme si dispongono a cambiare la propria materia. In vista di tale trasmutare, serpente e uomo “insieme si rispuosero a tai norme” (v. 103), che sono la conforme rispondenza alla legge dell’Anticristo. Questa metamorfosi costituisce un vanto per Dante, che confronta sé stesso con le metamorfosi semplici, non doppie, narrate da Lucano e da Ovidio. Il motivo di Mosè che converte la propria verga in un serpente che divora quello degli incantatori del Faraone gli fornisce panno per il paragone, non perché venga meno la stima del ‘sesto’ poeta per i due grandi che ha visto nel Limbo, ma perché il suo “poema sacro” non può non divorare, incorporandolo in una superiore sapienza cristiana, quanto scritto in ‘figura’ da poeti pagani (vv. 94-102).
La seconda bestia, quella dei falsi profeti che sale dalla terra, farà sì “che chiunque non avrà adorato l’immagine della bestia venga ucciso” (Ap 13, 15), come se dicesse: costringerà ad adorare l’Anticristo e la sua immagine non solo con prodigi e argomenti razionali, ma anche con terribili norme e pene, e per questo farà uccidere i santi. Vengono poi aggiunte altre due cose fatte dalla bestia dei falsi profeti, affinché tutti siano costretti in modo più forte a seguire l’Anticristo e la sua setta e affinché nessuno tra le genti possa nascondersi. Dapprima viene detto (Ap 13, 16): “E farà sì che tutti, piccoli e grandi, ricchi e poveri, liberi e schiavi, abbiano un marchio sulla mano destra o sulla fronte”. Poi si aggiunge (Ap 13, 17): “e che nessuno possa comprare o vendere senza avere tale marchio o senza avere il nome della bestia o il numero del suo nome”. Secondo Gioacchino da Fiore, questo marchio consisterà in una sorta di cedola sulla quale sarà scritto qualcosa della legge o dei precetti dell’Anticristo, o forse in una figura stabilita come segno che venga professata e seguita la sua fede che alcuni, per maggiore venerazione, porteranno cinta attorno alla fronte e altri, invece, porteranno in mano nel momento in cui dovranno vendere o comprare qualcosa. Chi non avrà questa cedola figurata con tale marchio dovrà possederne un’altra nella quale sia scritto il nome dell’Anticristo o il numero del suo nome, cioè le lettere numerali del suo nome, oppure le altre che significano il medesimo numero (Ap 13, 18). Dalle cose predette si intende che “nessuno potrà vendere”, cioè predicare o insegnare, “né comprare”, cioè ascoltare o apprendere, né svolgere qualche officio solenne se non sia aperto seguace e discepolo dell’Anticristo e se ciò non sia palese per segni certi. Nel passo simmetrico di Ap 14, 11, il terzo dei tre angeli commina l’ira divina su chiunque adori la bestia o la sua immagine e ne riceva il marchio sulla fronte o sulla mano. Qui si parla solo di “caracter nominis” e non pure, come ad Ap 13, 17, di “numerus nominis”. Il “caracter nominis” è il nome dell’Anticristo scritto con figure di lettere. Il “caracter”, ossia il marchio, se distinto dal nome, indica un sigillo, cioè l’impronta della fede, della riverenza e dell’imitazione dell’Anticristo che i suoi seguaci portano nel cuore e nelle opere.
Anche questi motivi entrano nella rappresentazione che si svolge nel sesto cielo. I lumi che volano cantando sono “figure”, le quali ‘segnano’ agli occhi del poeta lettere dell’alfabeto (Par. XVIII, 72, 78, 86; cfr. Ap 1, 1). I beati che parevano contenti d’ingigliarsi alla M ‘seguono’ l’impronta delle luci che hanno formato la testa e il collo dell’Aquila (v. 114). Vendere e emere sotto il regime dell’Anticristo diventano, nella preghiera del poeta, l’adirarsi un’altra volta di Cristo “del comperare e vender dentro al templo / che si murò di segni e di martìri” (vv. 121-123) [2]. Dopo aver presentato i lumi che scintillano nel suo occhio, l’immagine dell’Aquila (che parla come l’immagine dell’Anticristo: Ap 13, 15) tace quale allodola contenta del suo parlare, che è un’impronta del parlare divino e del piacere che da esso deriva (XX, 76-78). È davvero impressionante la quantità di elementi semantici che dall’esegesi dell’Anticristo si riversa sull’Aquila, segno di Cristo.
I motivi del portare scritto, dell’imprimere col sigillo una figura, del segnare, del seguire una dottrina falsa formano il tessuto del rimprovero formulato da Beatrice verso Dante prima che questi beva l’acqua dell’Eunoè che lo rende “puro e disposto a salire a le stelle” (Purg. XXXIII, 73-90). La donna, nel vedere l’intelletto del poeta pietrificato e oscurato, vuole che quanto precedentemente da lei detto del messo di Dio e dell’albero dell’Eden venga portato dentro, “se non scritto, almen dipinto” (cioè con figure; anche i lumi-figure in Par. XVIII, 92 sono un “dipinto”), e ricordato, per lo stesso motivo per cui il pellegrino porta a casa il bordone cinto di foglie di palma. E Dante assicura Beatrice che il suo cervello è da lei segnato come da un sigillo la cui figura non si muta una volta impressa sulla cera (è proprio del sesto stato imprimere e sigillare la fede, come si afferma nel Notabile III del prologo). Il poeta poi domanda perché la parola ascoltata voli tanto al di sopra delle proprie capacità intellettuali che egli più la perde quanto più si sforzi di seguirla. Beatrice risponde che ciò è perché egli comprenda che la dottrina della scuola che ha seguito non può seguire la parola di lei, e che la “vostra via” è tanto distante dalla via divina quanto il cielo che si muove più in fretta dista dalla terra (Purg. XXXIII, 82-90).

[1] Le terzine che registrano le trentacinque lettere, disposte a formare la scritta “Diligite iustitiam, qui iudicatis terram, sono pregne di motivi che semanticamente rinviano all’esegesi di Sardi, la quinta chiesa d’Asia, bella nel suo edenico principio di pienezza stellare: ad essa Cristo si rivolge come colui che ha nella mano destra le sette stelle, cioè il settiforme Spirito, «qui occulta omnium videt et fervido zelo spiritus iudicat tamquam habens “septem spiritus Dei”, qui prout infra dicitur “in omnem terram sunt missi” (cfr. Ap 5, 6)». Le lettere “mostrarsi dunque in cinque volte sette … Poscia ne l’emme del vocabol quinto / rimasero ordinate, dove pure il verbo rimanere è tipico del quinto stato della Chiesa (quinta guerra, Ap 12, 17). Anche “io notai”, riferito al poeta che registra quanto accade, rinvia all’esegesi della quinta chiesa  (Par. XVIII, 88-96; Ap 3, 1.4).
[2] Il v. 123 –
che si murò di segni e di martìri” – è riferito sia al muro della Gerusalemme celeste, difeso dai màrtiri (Ap 21, 12), sia alla signatio della milizia di Cristo (Ap 7, 3-4), per cui è da escludere la variante sangue.

Tab. XVIII.3

[LSA, cap. XIII, Ap 13, 2-4.7-8.11-17 (IVa visio, VIum prelium)] “Et dedit illi dracho virtutem suam et potestatem magnam” (Ap 13, 2), quasi dicat: quicquid mali egit bestialis caterva hominum impiorum totum <e>git instinctu et virtute demonum tamquam suorum superiorum, qui quidem sunt tam natura quam malitia potentiores et astutiores et maligniores et recto divine permissionis ordine sunt duces hominum peccantium, et ultra hoc summus demon est dux ceterorum demonum. Dicitur autem hic signanter dracho dedisse magnam potestatem bestie, non solum quia per multos annorum centenarios super multas terras et gentes ipsam regnare fecit, sed etiam precipue quia, tempore unius sui capitis quasi a morte resurgentis, dabit sibi monarchiam et virtutem faciendi mirabilia signa, diabolica tamen. Quod autem dico ‘dabit’, sane intellige eo enim modo quo diabolus a Christo dicitur princeps huius mundi (cfr. Jo 12, 31) et ab Apostolo dicitur “deus infidelium” et rector “tenebrarum harum” (2 Cor 4, 4; Eph 6, 12), id est eo modo, quo a Deo permittitur principari mundanis, dicitur habere potestatem dandi et dare mundana mundanis. […]
Sequitur: “Et admirata est universa terra post bestiam” (Ap 13, 3), id est cum multe admirationis timore et stupore de resurrectione capitis bestie seu de reassumptione tante potestatis. Omnes terreni, terrena amantes, secuti sunt bestiam. “Et adoraverunt drachonem, qui dedit potestatem bestie” (Ap 13, 4). Adorare enim errorem et erroneam sectam illius bestie est adorare drachonem actorem illius erroris et secte. Vel, secundum Ioachim, adorare drachonem est quasi adorare regem illum in quo diabolus et eius malitia et potestas singulariter habitabit1. […]
Ne autem credatur hec in solo uno terre angulo esse fienda, aut quod potestas Antichristi non sit super totum orbem, ideo subdit: (Ap 13, 7) “Et data est ei potestas in omnem tribum et populum et linguam et gentem, (Ap 13, 8) et adoraverunt eum”, scilicet se humiliando ei. Vel “eam”, id est eius regem vel eius erroneam fidem vel sectam. “Adoraverunt”, inquam, “omnes qui habitant terram, quorum nomina non sunt scripta in libro vite Agni qui occisus est ab origine mundi”, id est omnes reprobi a Christi gratia et gloria alieni.
Dicitur autem Christus “occisus ab origine mundi”, tum quia a lapsu primi hominis preordinatus est mori pro nobis redimendis, tum quia in figuris ab initio mundi precedentibus fuit prefiguratus occidi et in ipsis figuris quasi occisus, tum quia ab initio cepit in suis membris occidi, puta in Abel occiso a Caim. Vel le “ab origine mundi” potest construi cum le “non scripta”, ut sit sensus quod reprobi non sunt ab initio mundi, et etiam ab eterno, scripti in libro vite. […]
Dicit ergo: “Et vidi aliam bestiam ascendentem de terra” (Ap 13, 11). Diximus supra, ubi agitur de prima et secunda tuba, per “terram” humane habitation<i> aptam significari locum vel statum fidelium; per “mare” vero locum vel gentem infidelium. Unde Ricardus dicit hic quod sicut per bestiam de mari reges gentium accipimus, sic per bestiam ascendentem de terra impios rectores falsorum christianorum intelligimus1. […]
“Et potestatem prioris bestie omnem faciebat in conspectu eius” (Ap 13, 12), id est omnia signa miraculose potestatis facta a rege prioris bestie, vel a quibusdam pseudoprophetis eius, faciebat coram priori bestia et rege eius et ad ipsius gloriam et favorem.
Quia vero non solum potestativa signa prioris bestie faciet, sed etiam maiora et stupendiora, ideo subdit: “et fecit terram et habitantes in ea adorare bestiam primam, cuius curata est plaga mortis”, id est faciet quod omnes terrena amantes adorent bestialem sectam et legem prioris bestie et quod se omnino subiciant regi eius.
“Et fecit signa magna, ut etiam ignem faceret descendere de celo in terram in conspectu hominum” (Ap 13, 13). Istud de signo ignis descendentis de celo, id est de superiori regione aeris, specificatur duplici ex causa. Primo scilicet ut innuat quod eorum signa erunt magne vanitatis, qualia expetunt vani et curiosi, iuxta quod quidam curiosi querebant a Christo signum de celo, prout dicitur Matthei XVI° (Mt 16, 1-4). Secundo ut innuat quod sicut ignis est res vivida et lucens, celum vero est spiritalis locus Dei et sanctorum, sic illorum signa videbuntur hominibus vera et clara et celestia seu divina.
Unde subditur: “Et seducet habitantes in terra propter signa, que data sunt” (Ap 13, 14), id est a Deo permissa vel a diabolo. “Data sunt illi facere in conspectu bestie”, id est Antichristi vel regis predicti, “dicens habitantibus in terra ut faciant imaginem bestie, que habet plagam gladii”, id est que secundum Ricardum simulavit se occis<am>, sicut fecit Simon magus, “et vixit”, scilicet simulando se a morte resurrexisse2. Vel que, secundum veritatem, fuit primo per gladium corporalis prelii vel per spiritalem gladium verbi Dei plagata, “et vixit”, id est vires resumpsit.
Imago bestie sumitur hic vel pro illo Antichristo qui adorabitur quasi idolum, iuxta quod Zacharie XI° (Zc 11, 17) de ipso dicitur: “Pastor, et idolum derelinquens gregem”, vel, secundum Ricardum, erit forte aliqua materialis statua seu imago Antichristi, ut sicut nos adoramus corpoream imaginem Salvatoris seu potius Christum in ipsa representatum, sic illa imago Antichristi ab omnibus adoretur3. Vel sumitur pro lege seu traditione Antichristi habente quandam imaginem et similitudinem veritatis, quam pseudoprophete precipient ab omnibus fieri, id est ut opere impleatur et observetur. Vel, secundum Ricardum, sumitur pro conformi imitatione Antichristi4, ut sit sensus quod pseudoprophete predicabunt quod omnes imitentur Antichristum sicut Deum suum et sicut sanctum sanctorum. Vel forte docebunt quod sicut viri devoti habent apud se imaginem Christi, ut magis assidue ipsum recogitent et quasi videant, quod sic quilibet ex speciali reverentia et devotione habeat imaginem Antichristi.
“Et datum est illi” (Ap 13, 15), scilicet secunde bestie, “datum” inquam a diabolo sibi cooperante et a Deo permittente, “ut daret spiritum imagini bestie et ut loquatur imago bestie”, id est, secundum Ioachim, lex ab Antichristo composita videbitur habere secum spiritum Dei propter signa et documenta pseudoprophetarum, et quasi videbitur loqui cum per eius fidem et virtutem videbuntur fieri signa magna2.
Vel, secundum Ricardum, facient per incantationes quod materialis statua Antichristi loquatur per spiritum diabolicum in ea ad horum incantationem intrantem5. Vel, secundum eundem, facient quod spiritus diabolicus, quasi spiritus Dei, familiariter assistat precipuis imitatoribus Antichristi seu ipsi perfecte imitationi eius, ita quod tales per vim maligni spiritus loquantur variis linguis, sicut per Spiritum Sanctum datum est hoc apostolis6.
“Et faciet”, scilicet secunda bestia pseudoprophetarum, “et quicumque non adoraverit imaginem bestie occidetur”, quasi dicat: non solum signis et rationibus et promissionibus facient Antichristum et eius imaginem adorari, sed etiam terribilibus statutis et penis, et hinc est quod facient sanctos occidi.
Ut autem omnes fortius cogantur Antichristum et eius sectam sequi, et ne aliquis possit inter gentes latere, idcirco subduntur alia duo que bestia pseudoprophetarum faciet.
Pro primo dicitur: “Et faciet omnes, pusillos et magnos et divites et pauperes et liberos et servos, habere caracterem in dextera manu aut in frontibus suis” (Ap 13, 16).
Pro secundo  autem subditur: “et ne quis possit emere aut vendere, nisi habeat caracterem aut nomen bestie aut numerum nominis eius” (Ap 13, 17). Secundum Ioachim, caracter iste erit aliqua cedula habens in se scriptum aliquid de lege seu preceptis Antichristi, vel forte aliquam figuram statutam in signum professionis et sequele fidei eius, quam aliqui ad maiorem venerationem Antichristi circumponent frontibus suis, alii vero portabunt eam in manu quandocumque habebunt aliquid emere vel vendere. Qui autem non habebit cedulam tali caractere figuratam oportet quod habeat aliam in qua scriptum sit nomen Antichristi aut numerus nominis eius, id est littere numerales nominis eius, vel alie significantes eundem numerum3.
Intelligitur etiam in predictis quod nullus poterit “vendere”, id est predicare vel docere, nec “emere”, id est audire vel addiscere, nec aliquod sollempne officium agere, nisi sit apertus sectator et discipulus Antichristi et quod hoc per signa certa pateat.

Par. XX, 76-78

tal mi sembiò l’imago de la ’mprenta
de l’etterno piacere, al cui disio

ciascuna cosa qual ell’ è diventa.

Par. XVIII, 70-81, 88-114, 124-126

Io vidi in quella giovïal facella
lo sfavillar de l’amor che lì era
segnare a li occhi miei nostra favella.   1, 1
E come augelli surti di rivera,   13, 3
quasi congratulando a lor pasture,
fanno di sé or tonda or altra schiera,
sì dentro ai lumi sante creature
volitando cantavano, e faciensi
or D, or I, or L in sue figure.               1, 1
Prima, cantando, a sua nota moviensi;
poi, diventando l’un di questi segni,
un poco s’arrestavano e taciensi. 

Mostrarsi dunque in cinque volte sette
vocali e consonanti; e io notai
le parti sì, come mi parver dette.
DILIGITE IUSTITIAM ’, primai
fur verbo e nome di tutto ’l dipinto;
QUI IUDICATIS TERRAM ’, fur sezzai.
Poscia ne l’emme del vocabol quinto
rimasero ordinate; sì che Giove
pareva argento lì d’oro distinto.
E vidi scendere altre luci dove
era il colmo de l’emme, e lì quetarsi
cantando, credo, il ben ch’a sé le move.
Poi, come nel percuoter  d’i ciocchi arsi 
surgono
innumerabili faville,             17, 8

onde li stolti sogliono agurarsi,
resurger parver quindi più di mille
luci e salir, qual assai e qual poco,
sì come ’l sol che l’accende sortille;
e quïetata ciascuna in suo loco,
la testa e ’l collo d’un’aguglia vidi
rappresentare a quel distinto foco.
Quei che dipinge lì, non ha chi ’l guidi;
ma esso guida, e da lui si rammenta
quella virtù ch’è forma per li nidi.
L’altra bëatitudo, che contenta
pareva prima d’ingigliarsi a l’emme,
con poco moto seguitò la ’mprenta.

O milizia del ciel cu’ io contemplo,
adora per color che sono in terra
tutti svïati dietro al malo essemplo!

Par. XIX, 1-3, 21, 94-96, 100-102

Parea dinanzi a me con l’ali aperte
la bella image che nel dolce frui
liete facevan l’anime conserte

usciva solo un suon di quella image

cotal si fece, e sì leväi i cigli,
la benedetta imagine, che l’ali
movea sospinte da tanti consigli.

Poi si quetaro quei lucenti  incendi
de lo Spirito Santo ancor nel segno
che fé i Romani al mondo reverendi

Par. XX, 7-9

e questo atto del ciel mi venne a mente,
come ’ l segno del mondo e de’ suoi duci
nel benedetto rostro fu tacente

[Ap 13, 11] “Et loquebatur sicut draco”, id est verba erronea vehementer plena diabolica fraude et astutia. Et secundum Ioachim, eius pseudoprophete loquentur verba quasi mistica et spiritualia, que apud imperitos videantur veritatem habere ita ut etiam de eruditis ruant. Sicut enim Moyses vertit virgam in drachonem, id est litteram in viventem spiritum, sic et isti tamquam incantatores Pharaonis quasi similia facient, sed sicut serpens Moysi devoravit serpentes eorum (cfr. Ex 7, 8-12), sic vera sapientia Christi, quam loquentur electi, ostendet falsam esse sapientiam istorum4.

Inf. XXV, 76-78, 94-103

Ogne primaio aspetto ivi era casso:
due e nessun l’imagine perversa
parea; e tal sen gio con lento passo.

Taccia Lucano omai là dov’ e’  tocca
del misero Sabello e di Nasidio,
e attenda a udir quel ch’or si scocca.
Taccia di Cadmo e d’Aretusa Ovidio,
ché se quello in serpente e quella in fonte
converte poetando, io non lo ’nvidio;
ché due nature mai a fronte a fronte
non trasmutò sì ch’amendue le forme
a cambiar lor matera fosser pronte.
Insieme si rispuosero a tai norme

Purg. XXVII, 52-54

Lo dolce padre mio, per confortarmi,
pur di Beatrice ragionando andava,
dicendo: “Li occhi suoi già veder parmi”.

Par. XXXI, 103-108

Qual è colui che forse di Croazia
viene a veder la Veronica nostra,  22, 10
che per l’antica fame non sen sazia,
ma dice nel pensier, fin che si mostra:
‘Segnor mio Iesù Cristo, Dio verace,
or fu sì fatta la sembianza vostra?’

Par. XIX, 10

ch’ io vidi e anche udi’ parlar  lo rostro

Par. VI, 7-9, 43-45, 82-87

e sotto l’ombra de le sacre penne
governò ’l mondo lì di mano in mano,
e, sì cangiando, in su la mia pervenne.

Sai quel ch’el fé portato da li egregi
Romani incontro a Brenno, incontro a                                                                            [Pirro,
incontro a li altri principi e collegi

Ma ciò che ’l segno che parlar mi face
fatto avea prima e poi era fatturo

per lo regno mortal ch’a lui soggiace,
diventa in apparenza poco e scuro,
se in mano al terzo Cesare si mira
con occhio chiaro e con affetto puro

Purg. XXXIII, 76-81, 85-87

“voglio anco, e se non scritto, almen                                                                       [dipinto,
che ’l te ne porti  dentro a te per quello
che si reca il bordon di palma cinto”.
E io: “Sì come cera da suggello,
che la figura impressa non trasmuta,
segnato è or da voi lo mio cervello”.

“Perché conoschi”, disse, “quella scuola
c’hai seguitata, e veggi sua dottrina
come può seguitar la mia parola”

Par. XVIII, 121-126

sì ch’un’altra fïata omai s’adiri
del comperare e vender dentro al templo
che si murò di segni e di martìri.
O milizia del ciel cu’ io contemplo,
adora per color che sono in terra
tutti svïati dietro al malo essemplo!

[LSA, cap. XIII, Ap 13, 3-4] Sequitur: “Et admirata est universa terra post bestiam” (Ap 13, 3), id est cum multe admirationis timore et stupore de resurrectione capitis bestie seu de reassumptione tante potestatis. Omnes terreni, terrena amantes, secuti sunt bestiam. “Et adoraverunt drachonem, qui dedit potestatem bestie” (Ap 13, 4).
[LSA, cap. XIV, Ap 14, 11] “Et si quis acceperit caracterem nominis”, supple: non habebit requiem. Supra XIII° (Ap 13, 17) distinguitur acceptio caracteris ab acceptione nominis et ab acceptione numeri nominis. Hic autem videtur caracter nominis sumi pro ipso nomine, id est pro figuris litterarum quibus scribitur nomen eius. Et forte caracter, prout distinguitur a nomine seu a caractere nominis, est quasi sigillum vel nummus continens figuram regis. Quodlibet autem horum mistice designat impressionem fidei et reverentie et imitationem Antichristi et bestialis secte et gentis eius acceptam in corde et opere eius qui sequitur eum.

IOACHIM

1 Expositio, pars IV, distinctio IV, f. 165rb.

2 Ibid., f. 168ra.

3 Ibid., ff. 168va-b, 169rb.

4 Ibid., f. 167ra-b.

RICARDUS

1 In Ap IV, v (PL 196, col. 806 D).

2 Ibid., col. 808 A. L’accenno a Simon Mago non c’è in Riccardo.

3 Ibid., col. 808 B. Il termine statua non è presente in Riccardo.

4 Ibid., col. 808 A.

5 Ibid., col. 808 B.

6 Ibid., col. 808 A.

 

2. Secoli in forma di lettere

 

The great war that will see the armies of Christ and the Antichrist face off in the sixth period (status) of the history of the Church will be fought by both under the sign of the cross, whether true or false. A false cross can be derived from the very name of the Antichrist. In Greek, numbers are indicated by letters of the alphabet. The “number of a name” is the total of the letters. There are only three Greek names corresponding to DCLXVI, the “number of the name of the beast” mentioned in Rev 13:18: Antemos (“contrarius”), Arnoyme, Teitan. The Latin name is “diclvx”, breaking down the number of the beast into six numbers corresponding to letters and shifting their positions: D (five hundred), I (one), C (one hundred), L (fifty), V (five), X (ten).
Having established that the number of the Latin name is DICLVX, Olivi adds the letters OR for the purpose of obtaining the two names “dicor lux” and “doli crux”, the former meaning the apparent splendour of the Antichrist and the latter that he is actually false. The letters OR, which according to Olivi have an exclusively negative meaning since they refer to the Antichrist, find a positive meaning (“omnium resurrectio”) in the Poem when the lights seem to rise in the Sphere of Jupiter
in the shape of the Eagle (Par. XVIII, 76-78, 103-104).

■ Nell’esegesi del capitolo XX, Olivi riferisce vari modi di computo in relazione ai mille anni nei quali il diavolo sta incatenato nell’abisso, rilevando come non abbiano in sé nulla di certo e servano solo a mostrare, con i testi scritturali, che a partire dal sesto e dal settimo stato della Chiesa il giudizio finale si può considerare imminente e come alle porte. Gioacchino da Fiore, ad esempio (nell’opera De semine scripturarum, che gli veniva attribuita), afferma che la lingua degli Ebrei rimase nella casa di Eber, dopo la confusione babilonica delle lingue, per ventidue secoli fino a Cristo, numero che corrisponde alle ventidue lettere dell’alfabeto ebraico. È da notare come il numero ventidue sia presente nell’Inferno per designare l’estensione in miglia della nona bolgia, che è quella dei seminatori di scandalo e di scisma dove prevalgono i temi del terzo stato dei dottori che scindono e tagliano con la spada le eresie, prefigurate nell’Antico Testamento dalla divisione babilonica dell’unica e vera lingua (Inf. XXIX, 8-9; diversamente, la presenza di questo numero sarebbe del tutto arbitraria).
Allo stesso modo, secondo le ventitré lettere dell’alfabeto latino, trascorreranno ventitré secoli dalla fondazione di Roma, principale sede dei Latini e della Chiesa di Cristo, depositaria anch’essa, come la casa di Eber, dell’unica e vera lingua, cioè dell’unica e vera fede. Ciò è prefigurato in Daniele, allorché l’angelo dice: “Fino a duemilatrecento sere e mattine: poi il santuario sarà purificato” (Dn 8, 14). Se si considerano i giorni come anni, si ottengono ventitré secoli. Al tempo di Daniele (secondo il computo dato da Olivi) erano trascorsi cento anni dalla fondazione di Roma, per cui il profeta si trovava nel secondo centenario designato con la lettera b. Il primo secolo cominciò al tempo della cattività delle dieci tribù, allorché il santuario di Dio iniziò ad essere profanato. Cristo venne nell’ottavo centenario designato con h, la quale non è propriamente una lettera, ma un’“aspirationis nota”, perché fu concepito e nacque da una vergine non per opera umana ma per ispirazione dello Spirito Santo (sono da ricordare le parole di Dante a Bonagiunta: “I’ mi son un che, quando / Amor mi spira, noto”, Purg. XXIV, 52-53).
Il XIII secolo, al termine del quale Olivi scrive la Lectura, è designato con u, poiché si pronuncia aspirando sull’estremo delle labbra, e alla fine del secolo Babylon, la Chiesa carnale, spirerà (cfr. la citazione del salmo 50, 17 – “Labïa mëa, Domine” – a Purg. XXIII, 10-12; poco prima, nel medesimo girone dei golosi purganti, la voce che esce dalle fronde dell’albero capovolto utilizza, a Purg. XXII, 145-148, alcune parole dell’esegesi accostando “le Romane antiche” a “Danïello”).
Il secolo seguente – il XIV, nel quale verrà rinnovata ed esaltata la croce di Cristo, è designato con x, cioè con una lettera che ha forma di croce, la quale venne introdotta da Augusto al tempo della venuta di Cristo.
Ad essa faranno seguito le lettere (y, z) che i Latini presero dai Greci, designanti la dilatatio della Chiesa ai Greci e a tutte le genti.
Nel cielo del Sole, Tommaso d’Aquino parla utilizzando con frequenza (per sei volte; Bonaventura, l’altro oratore, lo usa due volte: otto occorrenze sulle sedici nel poema) l’avverbio della parlata toscana (non fiorentina) u’ (che sta per ‘dove’): i due campioni della Chiesa, Francesco e Domenico, sono appunto venuti nel XIII secolo, il secolo designato con u, “a mantener la barca / di Pietro in alto mar per dritto segno” (da notare l’accostamento di “in ultimo labiorum” con “l’ultima parola” dell’Aquinate a Par. XII, 1).
Al cielo del Sole succede quello di Marte, nel quale Dante vede una croce greca (“il venerabil segno / che fan giunture di quadranti in tondo”), che designa “chi prende sua croce e segue Cristo” (Par. XIV, 100-108): dalla croce trascorre in giù Cacciaguida, il quale profetizza a Dante l’esilio che, datato al 1302, si colloca nel XIV secolo, del quale fa segno x.
Poi, nel cielo di Giove, i lumi volano cantando e formando dapprima le lettere D, I, L, l’inizio di trentacinque fra vocali e consonanti che successivamente si precisano nella scritta “Diligite iustitiam, qui iudicatis terram” (Sap 1, 1), ma che sono anche le prime tre lettere della parola “dilatatio” (Par. XVIII, 76-78). Le lettere, insieme ad altre luci, si trasformano nella figura di un’aquila nel cui occhio rifulgono David come pupilla, circondato dalle luci di Traiano, Ezechia, Costantino, Guglielmo II il Buono e Rifeo troiano. Gentili (Rifeo, Traiano), e Israele antico (David, Ezechia) e nuovo (Costantino, Guglielmo II).

La grande guerra che, nel sesto stato, vedrà affrontati gli eserciti di Cristo e dell’Anticristo sarà combattuta da entrambi nel segno della croce, vera o falsa. Una falsa croce si può ricavare dal nome stesso dell’Anticristo. In greco i numeri si indicano per mezzo delle lettere dell’alfabeto. Il “numero di un nome” è il totale delle lettere. Esistono solo tre nomi greci corrispondenti al DCLXVI, il “numero del nome della bestia” di cui ad Ap 13, 18: Antemos (“contrarius”), Arnoyme, Teitan. Il nome latino è “diclvx”, scomponendo il numero della bestia in sei numeri corrispondenti a lettere e spostandone le posizioni: D (cinquecento), I (uno), C (cento), L (cinquanta), V (cinque), X (dieci).
Olivi osserva che se a “diclvx” si aggiungono due lettere – or – si ottengono due espressioni, cioè “dicor lvx” e “doli crvx”. Rinvia quindi per ulteriori chiarimenti a una delle sue Quaestiones de perfectione evangelica. La quaestio riguarda la possibilità che nella professione di povertà evangelica e apostolica si possa lecitamente vivere dei possessi e dei redditi affidati dal papa o dai principi temporali a dei procuratori, in modo che a coloro che hanno fatto voto di povertà non spetti né la proprietà né il diritto d’uso ma solo il semplice uso connesso alla sussistenza quotidiana. Olivi si scaglia con veemenza contro questa posizione, ritenendola dolosa e fallace, identificabile con l’esistenza dello stesso Anticristo mistico, che precede quello aperto. Spiega così che dal numero della bestia si può trarre il falso nome “dicor lux”, che indica l’ipocrito presentarsi dell’Anticristo come luce del mondo, e insieme il vero nome “doli crux”, cioè croce dolosa. Le due lettere non numerali aggiunte – o e r – hanno anch’esse un significato, falso e ipocrita (“omnium resurrectio”, “omnium reparatio”), oppure verace (“omnium ruina”, “omnium retrogradatatio”, “omnium rabies”). Un ulteriore significato di or è “aurum”, nel senso in cui Pietro dichiarò di non averne e Cristo proibì di possederne (cfr. Inf. XIX, 88-96: al v. 90 l’allitterazione “Deh, or mi dì: quanto tesoro volle) e “oro od argento” al v. 95, che rinvia ad Atti degli Apostoli 3, 6 citato nella quaestio oliviana.
Da notare che le tre lettere D, I, L sono congiunte nei versi con l’avverbio or (“omnium resurrectio”, secondo un’interpretazione di Olivi) e che esse, nel loro successivo volare, sono “come augelli surti di rivera”, al modo con cui “resurger parver quindi più di mille / luci e salir” a formare l’Aquila (vv. 73, 103-108).

Tab. XVIII.4

Inf. XXIX, 7-9

Tu non hai fatto sì a l’altre bolge;
pensa, se tu annoverar le credi,
che miglia ventidue  la valle volge.

Purg. XXII, 145-148

E le Romane antiche, per lor bere,
contente furon d’acqua; e Danïello
dispregiò cibo e acquistò savere.

Lo secol primo, quant’ oro fu bello

[LSA, cap. XX, Ap 20, 2-3 (VIIa visio)] Ioachim vero, in libro de seminibus scripturarum*, dicit quod sicut secundum viginti duas litteras Hebreorum fuerunt viginti duo centenarii annorum ab Heber, in quo divisis linguis remansit lingua hebrea, usque ad Christum, sic secundum viginti tres litteras Latinorum erunt viginti tria centenaria annorum a constructione urbis Rome, in qua est principalis sedes Latinorum et ecclesie Christi. Et inter cetera sumit hoc mistice ex Danielis VIII°, ubi dicit angelus: “Usque ad vesperam et mane, die<s> duo milia trecent<i>, et mundabitur sanctuarium” (Dn 8, 14). Sumendo enim diem pro anno, sunt viginti tria centenaria annorum. Tempore autem Danielis fluxerant centum anni urbis Rome, unde Daniel erat tunc in secundo centenario eius designato per b. Primus autem centenarius cepit circa tempus captivationis decem tribuum, per quam cepit Dei sanctuarium conculcari. Quamvis secundum litteram per hoc designentur sex anni et menses tres et dies viginti qui et fluxerunt ab ingressu Antiochi in Iherusalem usque ad mundationem templi factam a Iuda Machabeo, sic tamen quod terminentur in CXLIX° anno regni Grecorum, in quo obiit Antiochus, prout dicitur I° Machabeorum VI° (1 Mc 6, 16). Nam aliter non sunt ibi etiam sex anni completi. Nam CXLIII° anno ascendit Antiochus in Iherusalem, prout dicitur I° Machabeorum I° (1 Mc 1, 21), et CXLV°, XXVa die mensis casleu, id est nostri decembris, edificavit abhominandum idolum super altare Dei (1 Mc 1, 57.62). Deinde post tres annos, id est anno CXLVIII°, eadem XXVa die mensis casleu, mundavit Iudas sanctuarium, prout dicitur I° Machabeorum IIII° (1 Mc 4, 52-59).
Predicti vero dicunt quod due littere grece adiuncte litteris latinis non designant annos latine urbis Rome et regni eius, sed solum littere latine. Et secundum hoc a tempore raptus seu ascensionis Christi ad tronum celestem seu a fuga mulieris, id est ecclesie, in desertum gentilitatis (cfr. Ap 12, 5-6) usque ad centenarium designatum per x sunt secundum latinas litteras anni circiter mille ducenti sexaginta, ut in x sit crucifixio ecclesie sub tribulationibus duplicis Antichristi. Christus enim venit in VIII° centenario designato, secundum Ioachim, per h, quod non est proprie littera sed aspirationis nota, sicut et Christus non per humanum opus sed per aspirationem Spiritus Sancti est de virgine conceptus et natus. Nos autem sumus in XX° centenario urbis Rome et in XIII° Christi designato secundum eum per u, quod in ultimo labiorum quasi aspirando profertur, unde et secundum eum designat quod in fine huius centenarii carnalis ecclesia seu Babilon expirabit, ut in sequenti centenario designato per x  litteram, que habet formam crucis et fuit per Cesarem Augustum circa Christi adventum inventa, renovetur et exaltetur crux Christi, et post hoc sequantur littere a Grecis ad Latinos deducte designantes d i l atationem ecclesie ad Grecos et ad omnes gentes.
Hoc breviter recitavi nichil habens hic certum nec etiam aliquam rationem ad hoc vel oppositum magno nomine dignam, nisi quod scriptura more suo nobis utiliter designat a tempore sexti et septimi status extremum iudicium imminere et quasi in ianuis esse.

Cfr. ARNALDI DE VILLANOVA Introductio in librum [Ioachim] ‘De semine scripturarum’Allocutio super significatione nominis Tetragrammaton, curante J. Perarnau, Barcelona 2004 [Corpus Scriptorum Cataloniae. Series A: Scriptores. Arnaldi de Villanova Opera Theologica Omnia (AVOThO III)].

Purg. XVI, 64-66

Alto sospir, che duolo strinse in “uhi!”,
mise fuor prima; e poi cominciò: “Frate,
lo mondo è cieco, e tu vien ben da lui”. 

Purg. XXIII, 10-11

Ed ecco piangere e cantar s’udìe
Labïa mëa, Domine’ …………..

Purg. XXIV, 52-54

E io a lui: “I’ mi son un che, quando
Amor mi spira, noto, e a quel modo
ch’e’ ditta dentro vo significando”.

Par. XIV, 100-102 (Marte)

sì costellati facean nel profondo
Marte quei raggi il venerabil segno
che fan giunture di quadranti in tondo
.

Par. XVIII, 76-78 (Giove)

sì dentro ai lumi sante creature
volitando cantavano, e faciensi
or D, or I , or L in sue figure.   13, 18

Par. IX, 139-142

Ma Uaticano e l’altre parti elette
di Roma che son state cimitero
a la milizia che Pietro seguette,
tosto libere fien de l’avoltero.

(u’Inf.: 3; Purg.: 2; Par.: 11 / totale: 16)

Par. X, 87, 96, 112-113; XI, 25-26, 139; XII, 1-2, 63, 122-123  (cielo del Sole: 8 volte su 16); XIX, 130-132

u’  sanza risalir nessun discende …
u’  ben s’impingua se non si vaneggia …
entro v’è l’alta mente u’  sì profondo
saver fu messo ……………………

ove dinanzi dissi: “U’  ben s’impingua”,
e là u’  dissi: “Non nacque il secondo” …
U’  ben s’impingua, se non si vaneggia …

Sì tosto come l’ultima parola
la benedetta fiamma per dir tolse …

u’  si dotar di mutüa salute …
…………………. ancor troveria carta
u’  leggerebbe “I’ mi son quel ch’i’ soglio”

Vedrassi l’avarizia e la viltate
di quei che guarda l’isola del foco,
ove Anchise finì la lunga etate   u’

[LSA, cap. XIII, Ap 13, 18 (IVa visio, VIum prelium)] In quadam vero questione de paupertate evangelica posui duo nomina latina, scilicet ‘dicor lux’ et ‘doli crux’, in quibus ultra litteras numerales est una sillaba duarum litterarum, scilicet ‘or’: que quid significet ibidem exposui.

[LSA, cap. XX, Ap 20, 2-3 (VIIa visio)] Nos autem sumus in XX° centenario urbis Rome et in XIII° Christi designato secundum eum per u, quod in ultimo labiorum quasi aspirando profertur, unde et secundum eum designat quod in fine huius centenarii carnalis ecclesia seu Babilon expirabit, ut in sequenti centenario designato per x litteram, que habet formam crucis et fuit per Cesarem Augustum circa Christi adventum inventa, renovetur et exaltetur crux Christi, et post hoc sequantur littere a Grecis ad Latinos deducte designantes d i l atationem ecclesie ad Grecos et ad omnes gentes.

Par. XVIII, 73, 76-78, 103-104

E come augelli surti di rivera ……

sì dentro ai lumi sante creature
volitando cantavano, e faciensi
or D, or I, or L in sue figure.

resurger parver quindi più di mille
luci e salir …………………….

Purg. XXXIII, 1-3

Deus, venerunt gentes’, alternando   
Ps 78, 1
or tre or quattro dolce salmodia,
le donne incomiciaro, e lagrimando

Inf. XIX, 88-96

Io non so s’i’ mi fui qui troppo folle,
ch’i’ pur rispuosi lui a questo metro:
“Deh, or mi dì: quanto tesoro volle
Nostro Segnore in prima da san Pietro
ch’ei ponesse le chiavi in sua balìa?
Certo non chiese se non ‘Viemmi retro’.
Né Pier né li altri tolsero a Matia
oro od argento, quando fu sortito
al loco che perdé l’anima ria.”

Quaestio de possessionibus procuratoribus com-missis pro fratrum necessitatibus (XVI «quaestio de perfectione evangelica»), ed. D. Burr – D. Flood, Peter Olivi: On Poverty and Revenue, in “Franciscan Studies”, 40 (1980) pp. 18-58: 34, 37-38: «Quaeritur an professio paupertatis evangelicae et apostolicae possit licite ad talem modum vivendi reduci quod amodo sufficienter vivat de possessionibus et reditibus a papa vel mundanis principibus certis procuratoribus commissis qui vice et auctoritate papae vel principum eas teneant ita quod nec dominium nec ius utendi nec usus ipsarum possessionum ad professores evangelicos spectet nisi solum simplex usus eius quod inde de facto pro victu cotidiano recipiunt. […] Respondeo quod modus praefatus est omni dolo et fallacia plenus et nisi fallar ipse est ille de quo sanctus pater Franciscus suis sociis in revelatione prophetica est locutus. Et ad istum modum sub miranda astutia introducendum in orbem inimicus homo longo iam tempore semina zizaniorum bono semini superseminavit dormi-tantibus in idipsum servis evangelici status (Mt 13, 25). Iste enim modus sub miro dolo omnes radices et fructus evangelicae paupertatis enervat. Et in summa fallacia divitiis abutitur divitiarumque statum exaltat et Christi consilia ad interitum ducit. Et in mira fraude mutat tempora et leges evangelici status. Et est ut aestimo praecursor novissimi Antichristi existens et ipse mystice Antichristus. Propter quod numerus et nomen bestiae merito competit sibi (Ap 13, 18), ut scilicet vere nominetur DOLI CRUX, falso vero et hypocritaliter DICOR LUX. In utroque enim praedictorum nominum litterae numerales si-gnificant DCLXVI. Et ultra hoc in quolibet restat syllaba duarum litterarum scilicet OR, seu duae litterae scilicet O et R. Modus enim praefatus hypocritaliter fortasse dicetur OMNIUM RESURRECTIO sive OMNIUM REPARATIO. Vera-citer tamen erit OMNIUM RUINA sive OMNIUM RETROGRADATIO sive OMNIUM RABIES. Quid enim aliud est iste modus nisi crux dolosa, et tamen arroganter dicet se lucem mundi. Ipsaque syllaba supra numerales litteras restans scilicet OR optime apud plures significat AURUM, quod se non habere fatetur Petrus ecclesiae fundamentum quando ait: Argentum et aurum non est mihi (Ac 3, 6). Ipsumque Christus singulariter inhibet quando ait: Nolite possidere aurum (Mt 10, 9)».

3. Fumo nel Tempio

Il verso “che Dio ancor ne lodo e ne ringrazio” (Inf. VIII, 60) rinvia ai temi della settima tromba (la lode celeste per l’instaurazione e dilatazione del regno della grazia e della gloria dopo la sconfitta dell’Anticristo: Ap 11, 15.17-18), motivi variamente utilizzati altrove, nel passaggio dell’Acheronte o nel cielo del Sole. Si noti la semantica presente nel cielo di Giove (Par. XVIII-XIX), intrecciata con quella che conduce ad Ap 15, 3-4 (parte proemiale della quinta visione). I temi sono variamente appropriati, alla narrazione di Dante o al parlare dell’Aquila. L’espressione “Per esser giusto e pio” (XIX, 13), con la quale l’Aquila dichiara di seguire le due vie di Dio, la giustizia e la misericordia, fa riferimento all’esegesi di Ap 15, 2-4, i cui temi sono variati in altri luoghi del poema. Con le parole ai v. 40-42 – “Colui che volse il sesto / a lo stremo del mondo, e dentro ad esso / distinse tanto occulto e manifesto” – e ai vv. 107-108 – “che saranno in giudicio assai men prope / a lui”, il “benedetto rostro” recita con variazioni l’esegesi dell’angelo che ad Ap 14, 7 invita ad adorare Dio che ha creato il cielo e la terra (“intendit mundi extrema”) e le fonti delle acque (“ut monstret quod non solum maxima sed etiam minima creavit, secondo l’interpretazione di Riccardo di San Vittore) e dichiara prossimo il giudizio (“imminens vicinitas et quasi presentialitas iudicii eius … per maiorem et evidentiorem propinquitatem ipsius”).
Per le lettere D, I, L (iniziali, oltre che del primo versetto del libro della Sapienza, di dilatationes, cioè della conversione universale a Cristo), formate dai lumi degli spiriti giusti (Par. XVIII, 78), il riferimento è anche ad Ap 20, 3.

Tab. XVIII.5

[LSA, cap. XI, Ap 11, 15.17-18 (IIIa visio, VIIa tuba)] “Et septimus angelus tuba cecinit” (Ap 11, 15), id est septimus et ultimus status ecclesie manifestari cepit. “Et facte sunt voces magne in celo dicentes: Factum est regnum huius mundi Domini nostri et Christi eius”, id est, secundum Ricardum, exhibende sunt Deo laudes “in celo”, id est in celesti ecclesia, de iustorum salvatione et impiorum dampnatione*, et de regni Christi et Patris eius super totum orbem d i l atatione et manifestatione. Licet enim semper realiter regnet super omnes bonos et malos, non tamen hoc semper omnibus innotescit, nec in bonis consumabitur regnum gratie et glorie usque ad septimum statum. Qui, ut sepe tactum est, est uno modo idem quod consumatio orbis et specialiter electorum in extremo iudicio introducenda; alio vero modo est idem quod quedam mira et finalis sabatizatio electorum in vita ista, exterminatis de medio omnibus heresibus et scismatibus et hostilibus impugnationibus populi Dei, prout tamen competit huic vite. Et secundum hoc omnia hic scripta referuntur uno modo ad istud, et alio consumationis modo ad primum.
Igitur hoc primo modo voces predicte sunt laudes et iubilationes beatorum exultantium de consumatione glorie et dampnationis reproborum et de glorificatione Dei et sui regni super utrosque, id est super beatos et super dampnatos.
Secundo autem modo sunt laudes et iubilationes sanctorum post mortem Antichristi et post conversionem universi orbis ad Christum glorificantium Deum de tanta felicitatione ecclesie sue et de exterminio hostium eius.
Sunt etiam laudes eorum de tam imminenti et evidenti propinquitate extreme consumationis regni Dei super glorificandos et super dampnandos, quod quasi videtur iam advenisse, et hoc ultimo modo est sensus quod “regnum huius mundi est” quasi iam “factum Domini nostri”, id est Dei Patris, “et Christi eius”. “Et regnabit in secula seculorum”, scilicet manifeste super totum orbem et per consumatos effectus regalis potentie sue. […]
Gratias” inquam “agimus tibi, qui es”, id est “quia accepisti virtutem magnam et regnasti” (Ap 11, 17). Accepit quidem in suis sanctis ista, in se vero dicitur pro tanto hec accepisse pro quanto per effectivam evidentiam noviter innotuit toti orbi hanc virtutem et regnationem habere, quasi enim non videtur hec habere vel accepisse quando non extendunt se usque ad evidentes et consumatos effectus virtutis et dominationis.
“Et irate sunt gentes” (Ap 11, 18), id est et gratias tibi agimus de hoc, quod ita gloriose regnasti in tuis sanctis et super tuos hostes quod inde irati et perturbati sunt hostes. “Et advenit ira tua”, id est effectus tue iudiciarie ire seu tue iuste vindicte in reprobos.

* In Ap, III, viii (PL 196, col. 794 C-D).

Par. XVIII, 76-78, 115-129

sì dentro ai lumi sante creature
volitando cantavano, e faciensi
or D, or I, or L in sue figure.   20, 2-3

O dolce stella, quali e quante gemme
mi dimostraro che nostra giustizia
effetto sia del ciel che tu ingemme!
Per ch’io prego la mente in che s’inizia
tuo moto e tua virtute, che rimiri
ond’ esce il fummo che ’l tuo raggio vizia;
sì ch’un’altra fïata omai s’adiri
del comperare e vender dentro al templo
che si murò di segni e di martìri.
O milizia del ciel cu’ io contemplo,
adora per color che sono in terra
tutti svïati dietro al malo essemplo!
Già si solea con le spade far guerra;
ma or si fa togliendo or qui or quivi
lo pan che ’l pïo Padre a nessun serra.

Par. XIX, 13-15, 34-39, 103-105

E cominciò: “Per esser giusto e pio
son io qui essaltato a quella gloria
che non si lascia vincere a disio”

Quasi falcone ch’esce del cappello,
move la testa e con l’ali si plaude,
voglia mostrando e faccendosi bello,
vid’ io farsi quel segno, che di laude
de la divina grazia era contesto,
con canti quai si sa chi là sù gaude.

esso ricominciò: “A questo regno
non salì mai chi non credette ’n Cristo,
né pria né poi ch’el si chiavasse al legno”.

Inf. VIII, 58-60

Dopo ciò poco vid’ io quello strazio
far di costui a le fangose genti,
che Dio ancor ne lodo e ne ringrazio. 

[LSA, cap. XV, Ap 15, 2-4 (Va visio, radix)] Unde subditur: “(Ap 15, 2) Habentes citharas Dei (Ap 15, 3) et cantantes canticum Moysi servi Dei et canticum Agni”. Canticum utriusque in hoc convenit, quod uterque cantavit de pia liberatione electorum et de terribili submersione seu perditione hostium. Differunt autem in hoc, quod canticum Moysi fuit sicut servi, cuius est timere Dominum terribilem in iudiciis; canticum vero Agni fuit vere filii mitissimi, cuius est filialiter amare patrem et consequi eius hereditatem. Ergo isti cantant simul canticum timoris ut servi et amoris ut filii, et hoc ipsum patet ex materia cantici eorum, unde subditur: “dicentes: Magna”, scilicet in se, “et mirabilia”, scilicet contemplantibus, “sunt opera tua, Domine Deus omnipotens”. Pro operibus autem seu iudiciis iustitie, subdunt: “Iuste et vere vie tue”, id est opera tua, “rex seculorum. (Ap 15, 4) Quis non timebit te, Domine, et magnificabit nomen tuum?”. Pro operibus vero misericordie, subdunt: “Quia solus pius es”, scilicet per se et substantialiter et summe; “quoniam omnes gentes venient”, scilicet ad te tamquam a te misericorditer vocate et tracte, “et adorabunt in conspectu tuo, quoniam iudicia tua manifesta sunt”, scilicet per evidentes effectus perditionis Antichristi et suorum et salvationis electorum.

Nella parte proemiale della quinta visione, relativa al versamento delle sette coppe, Giovanni scrive: “Dopo ciò vidi, ed ecco fu aperto in cielo il Tempio del tabernacolo della Testimonianza; da esso uscirono sette angeli che tenevano sette piaghe” (Ap 15, 5-6). Si parla di “Tempio del tabernacolo” con riferimento a quello che accompagnava gli Ebrei nel deserto verso la terra promessa, figura della Chiesa militante in cammino verso la patria celeste; esso viene contemplato “in cielo”.
Ai sette angeli viene conferita la potestà giudiziaria vendicatrice, designata dalle coppe ripiene dell’ira di Dio vivente nei secoli dei secoli (Ap 15, 7): «Dicit autem “Dei viventis” et cetera, quia sicut morituri est iudicari et occidi, ita viventis est exercere vindictam et viventis in eternum est exercere eternam».
Il Tempio, cioè la Chiesa dei contemplativi, si riempie di fumo (Ap 15, 8), per l’ira che oscura e amareggia non solo i rei, ma anche quanti sono zelanti contro di essi. Afferma Gregorio Magno nei Moralia, che l’ira per vizio acceca l’occhio della mente; negli zelanti provoca turbamento in quanto dissipa la quiete del cuore necessaria alla contemplazione, ma poi dalla temporanea cecità si torna più sottilmente alla vista di cose alte, come il collirio in un occhio infermo rende più chiara la vista dopo averla momentaneamente interrotta.
Il motivo del fumo che oscura si trova anche ad Ap 9, 1-2 (terza visione, quinta tromba), dove si dice:
“E salì dal pozzo un fumo come il fumo di una grande fornace” (Ap 9, 2). Il grave e grosso fumo che esce dal pozzo punge e confonde gli occhi di chi guarda e diffama e oscura presso fedeli e infedeli la solare chiarezza della fede, della Chiesa e della religione che conduce al culto di Cristo vero sole, come l’aere perspicuo permette alla nostra facoltà visiva di raggiungere il sole e ai raggi del sole di pervenire all’occhio. Così molti prelati, secolari e regolari, che prima apparivano quasi come il sole, e molti spirituali, che prima erano quasi come l’aere puro illuminato dal sole, si corrompono e si fanno neri per il fumo causato da tanta rilassatezza. Poiché il male commesso dai prelati viene preso a esempio dai sottoposti che li seguono come capi e guide, il gregge dei sudditi, sempre incline al male, vedendo i prelati precipitare a poco a poco nei vizi, in assenza di correzione o punizione da parte dei superiori negligenti e anzi favorevoli ad aprire il pozzo dei cuori, scivola anch’esso e infine precipita.
Ad Ap 15, 8 si afferma che “nessuno potrà entrare nel Tempio finché non saranno consumate le sette piaghe dei sette angeli”, cioè, secondo un’interpretazione, non si potrà entrare nella serena pace dell’arcana contemplazione fino al compimento delle sette piaghe. Viene poi detto (ad Ap 16, 1) che gli angeli che versano le coppe operano per comando di Dio, da lui ispirati, e muovono come ministri del giudizio divino, non per propria volontà o animosità ma per beneplacito e mandato altrui.
I temi sopra indicati – l’ira, la giusta vendetta di chi vive in eterno, il Tempio della celeste contemplazione e la sua milizia, il fumo che oscura il raggio a causa del cattivo esempio – percorrono, come cellule musicali variate e diversamente appropriate, i versi relativi all’invocazione del poeta alla “dolce stella” di Giove, dalla quale discende ogni giustizia (Par. XVIII, 115-136).
Il sarcasmo è veemente nei confronti di Giovanni XXII, il pontefice regnante al momento della stesura dei versi: 
“Ma tu che sol per cancellare scrivi, / pensa che Pietro e Paulo, che moriro / per la vigna che guasti, ancor son vivi” (vv. 130-132). Chi cancella e scrive è Dio, nel libro della vita, officio degradato nel mercimonio di atti sacri operato dal Caorsino (Ap 3, 5). Costui guasta la vigna come il cinghiale della selva, al quale viene assimilato Exterminans, il re delle subdole locuste (Ap 9, 11). Ma Pietro e Paolo, che per quella vigna furono martirizzati, “ancor son vivi”, per la vendetta eterna di chi vive in eterno (Ap 15, 7).
Il sarcasmo si suggella nei versi finali del canto: «
Ben puoi tu dire: “I’ ho fermo ’l disiro / sì a colui che volle viver solo / e che per salti fu tratto al martiro, / ch’io non conosco il pescator né Polo”» (vv. 133-136). È proprio dei martiri il firmamento della pazienza e della costanza per cui i desideri della vita superna vengono divisi dai desideri della vita terrena come, nel secondo giorno della creazione, le acque superiori furono separate da quelle inferiori (prologo, Notabile XIII). Giovanni XXII, al contrario, ha come firmamento non Pietro e Paolo, che non vollero oro o argento, ma l’immagine di Giovanni Battista impressa sul fiorino.
Se il giusto zelo dei santi turba la contemplazione (tema del fumo dentro al Tempio, che ne impedisce l’ingresso, da Ap 15, 8), la giustizia sempiterna, come afferma l’Aquila nel cielo di Giove, è lume che “vien dal sereno che non si turba mai” (Par. XIX, 64-65). È un giudizio non comprensibile ai mortali, continua l’Aquila, “quali / son le mie note a te, che non le ’ntendi” (vv. 97-99), secondo l’interpretazione data da Riccardo di San Vittore del non poter entrare nel Tempio: “Vel, secundum eundem, nemo potest usque tunc intrare quia nec sancti possunt in hac vita perfecte cognoscere occulta iudiciorum Dei”. Tema ribadito nel canto seguente, dove la benedetta immagine, contesta di tanti beati, parla della predestinazione e ammonisce i mortali a essere prudenti nel giudicare, “ché noi, che Dio vedemo, / non conosciamo ancor tutti li eletti”, ma questo limite è dolce “perché il ben nostro in questo ben s’affina (motivo connesso al principale tema, taciuto in paradiso, delle piaghe che purgano e colano gli eletti alla stregua dell’oro e dell’argento), / che quel che vole Iddio, e noi volemo”, come i ministri che versano le coppe sulla terra operano non per propria volontà ma per mandato divino (Par. XX, 133-138). Le parole dell’Aquila sono di affinamento per Dante stesso, “soave medicina” che rendono “chiara la mia corta vista” (vv. 139-141: tema dell’occhio che non entra nel chiaro vedere fino a che non sia stato purgato o sanato da colliri o altre medicine).

Tab. XVIII.6

[LSA, cap. XV, Ap 15, 5-8 – 16, 1 (Va visio, radicalia)] Secundum radicale est processiva dispositio predictorum sanctorum ad zelum iuste punitionis malorum, unde subdit: “(Ap 15, 5) Et post hec vidi, et ecce apertum est templum tabernaculi testimonii in celo, (Ap 15, 6) et exierunt septem angeli habentes septem plagas de templo”. Supradicta contemplatio et iubilatoria laus sanctorum habitat in hoc templo. “Templum” enim dicit sacrum locum divine laudi et cultui specialiter dedicatum in quo soli sacerdoti intrabant, et ideo eius interiora erant ceteris quasi absconsa et clausa, et ideo designat archanum deitatis et humanitatis Christi et sue sapientie et ecclesie in quod per contemplationem intratur. Diciturque “templum tabernaculi”, quia per peregrinationem et militiam perducit ad patriam, et quia in se manentes reddit seu exigit huius mundi peregrinos ad patriam suspirantes et pro ipsa contra temptamenta huius seculi militantes. Dicitur etiam “testimonii”, quia ibi Deus testatur sanctis suam voluntatem et veritatem. Dicitur etiam esse “in celo” per celestem contemplationem et conversationem. Tunc autem est “apertum” ad procedendum ad exteriora iudicanda et gubernanda, quando sancti contemplativi prius in ipso ab exterioribus absconsi et clausi dirigunt suos aspectus et actus ad iudicia exteriora.Qui quidem habent “septem plagas”, quia ardenti zelo domus Dei contra mala vehementer plagantur et cruciantur in corde, iuxta illud Psalmi (Ps 68, 10): “Zelus domus tue comedit me”, et etiam quia per eundem zelum sunt parati et prompti ad faciendam vindictam in nationibus et increpationes in populis. […]
Tertium radicale est collatio potestatis iudiciarie et iniunctio officii eius cum pleniori influxu et effluxu zeli iudiciarii, unde subditur: “Et unum ex quattuor animalibus dedit septem angelis septem phialas aureas plenas iracundia Dei viventis in secula seculorum” (Ap 15, 7). […] Per “phialas” autem designatur hic mensurata potestas et equitas iudicii exercendi, que sunt “auree” per fulgorem sapientie et caritatis, suntque “plene iracundi<a> Dei”, id est zelo severo et efficaci ad corripiendum omnia per eos corripienda. Dicit autem “Dei viventis” et cetera, quia sicut morituri est iudicari et occidi, ita viventis est exercere vindictam et viventis in eternum est exercere eternam.
Deinde subdit de pleniori effluxu zeli severi, cum ait (Ap 15, 8): “Et impletum est templum Dei fumo”, id est ecclesia contemplantium est tunc impleta zelo sancte ire, que non solum obscurat et amaricat reos in quos acriter fertur, sed etiam ipsos sanctos zelantes. Unde Gregorius, Moralium V° super illud Iob V° (Jb 5, 2): “Virum stultum interficit iracundia”, dicit: «Ira per vitium oculum mentis excecat; ira autem per zelum turbat, quia quo saltim recta emulatione concutitur eo contemplatio, que non potest nisi tranquillo corde percipi, dissipatur. Sed inde subtilius ad alta reducitur, unde ad tempus ne videat reverberatur; sicut cum collirium infirmanti oculo mittitur lux penitus negatur, sed inde eam post paululum clarius recipit» et cetera*.
“Fumo”, inquam, procedente “a maiestate Dei et de virtute eius”, et hoc non solum influxu ire, sed etiam quia quanto plus sancti attendunt offensam et iram maiestatis Dei reverende et zelande, et quanto plus sunt ea et eius virtute repleti, tanto acrius irascuntur et perturbantur contra Dei contumelias et offensas.
Et nemo poterat intrare in templum, donec consumarentur septem plage septem angelorum” (Ap 15, 8), quia, secundum Ioachim, rectitudo iusti zeli exigit quod nullus eorum, qui extra templum sunt, sinatur intus ingredi quousque fiat iudicium de impiis quorum desperata frenesis est incurabilis*.
Vel, secundum Ricardum, quia templo fumo repleto nemo reproborum potest rectitudinem divini iudicii agnoscere tamquam ignorantia excecatus; completis vero plagis presentis temporis quodammodo introibunt, quia penis eternis succedentibus intelligent se iuste puniri et sanctos iuste beatificari, quod modo minime cognoscunt; utrumque tamen est in malum eorum, scilicet sic intrare et foris manere. Vel, secundum eundem, nemo potest usque tunc intrare quia nec sancti possunt in hac vita perfecte cognoscere occulta iudiciorum Dei; tunc autem perfecte introibunt quando post finem huius seculi omnia manifeste videbunt*.
Potest etiam dici quod hic loquitur distributive, non collective, ut sit sensus quod in tempore uniuscuiusque angeli istorum septem non intratur ad serenam pacem archane contemplationis Dei usquequo est consumata plaga per eum fienda. Nam plaga illa segregat granum a paleis et instar fornacis purgat electos et colat eos quasi aurum et quasi argentum, ut offerant in templo sacrificia iustitie et caritatis.
Sicut enim oculus lipus vel infirmus non intrat ad claram visionem nisi sit prius per colliria vel alias medicinas perfecte purgatus et sanatus, sic nec aliquis per has plagas corrigendus potest intrare ad perfectam contemplationem usquequo sit per <eas> plene et consumate purgatus. […]
Quartum radicale est divina iussio seu inspiratio unumquemque ministrorum divini iudicii actualiter movens et applicans ad exsequendum officium suum, quia non debent ad hoc propria voluntate seu animositate moveri, sed explendo Dei beneplacitum et mandatum. Unde subdit (Ap 16, 1): “Et audivi vocem magnam dicentem septem angelis: Ite et effundite septem phialas ire Dei in terram”, id est in terrenos et inferiores.

Par. XVIII, 115-136

O dolce stella, quali e quante gemme
mi dimostraro che nostra giustizia
effetto sia del ciel che tu ingemme!
Per ch’io prego la mente in che s’inizia
tuo moto e tua virtute, che rimiri
ond’ esce il fummo che ’l tuo raggio vizia;
sì ch’un’altra fïata omai s’adiri
del comperare e vender dentro al templo
che si murò di segni e di martìri.
O milizia del ciel cu’ io contemplo,
adora per color che sono in terra
tutti svïati dietro al malo essemplo!
Già si solea con le spade far guerra;
ma or si fa togliendo or qui or quivi
lo pan che ’l pïo Padre a nessun serra.
Ma tu che sol per cancellare scrivi,
pensa che Pietro e Paulo, che moriro
per la vigna che guasti, ancor son vivi.
Ben puoi tu dire: “I’ ho fermo ’l disiro
sì a colui che volle viver solo
e che per salti fu tratto al martiro,
ch’io non conosco il pescator né Polo”.

Inf. XXXI, 1-6

Una medesma lingua pria mi morse,
sì che mi tinse l’una e l’altra guancia,
e poi la medicina mi riporse;
così od’ io che solea far la lancia
d’Achille e del suo padre esser cagione
prima di trista e poi di buona mancia.

Par. XXXIII, 43-45

indi a l’etterno lume s’addrizzaro,
nel qual non si dee creder che s’invii
per creatura l’occhio tanto chiaro.

Par. XIX, 58-69, 97-99; XX, 133-141

“Però ne la giustizia sempiterna
la vista che riceve il vostro mondo,
com’ occhio per lo mare, entro s’interna;
che, ben che da la proda veggia il fondo,
in pelago nol vede; e nondimeno
èli, ma cela lui l’esser profondo.
Lume non è, se non vien dal sereno
che non si turba mai; anzi è tenèbra

od ombra de la carne o suo veleno.
Assai t’è mo aperta la latebra
che t’ascondeva la giustizia viva,
di che facei question cotanto crebra”

Roteando cantava, e dicea: “Quali
son le mie note a te, che non le ’ntendi,
tal è il giudicio etterno a voi mortali”.

“E voi, mortali, tenetevi stretti
a giudicar: ché noi, che Dio vedemo,
non conosciamo ancor tutti li eletti
;

ed ènne dolce così fatto scemo,
perché il ben nostro in questo ben s’affina,
che quel che vole Iddio, e noi volemo”.
Così da quella imagine divina,
per farmi chiara la mia corta vista,
data mi fu soave medicina.

Par
. XXI, 100

La mente, che qui luce, in terra fumma

* S. Gregorii Magni Moralia in Iob, libri I-X, cura et studio M. Adriaen, Turnholti 1979 (Corpus Christianorum. Series Latina, CXLIII), lib. V, cap. XLV, 135-139, 142-143, 146-149, pp. 279-280 (= PL 75, coll. 726 C-727 A).

* Expositio, pars V, f. 186rb.

* In Ap V, ii (PL 196, coll. 822 D-823 A).

[LSA, cap. IX, Ap 9, 1-2 (IIIa visio, Va tuba)] […] Fuit autem prelatis in predicta gradatim ruentibus data seu permissa potestas aperiendi puteum cordium ad concipiendum et effundendum mala predicta, tum quia malum quod a prelatis geritur facile trahitur a subditis in exemplum et sequuntur ipsum ut caput et ducem, tum quia prelatis non solum dissimulantibus et negligentibus mala subditorum corripere et punire sed etiam favorem prebentibus hiis qui peccant, grex subditorum de se pronus ad malum cito labitur et tandem precipitatur; tum quia ob huiusmodi culpam prelatorum Deus permisit subditos temptari et a demonibus instigari et tandem ruere.
Secundo tangitur gravitas mali de aperto iam puteo exeuntis, cum ait: “et ascendit fumus putei sicut fumus fornacis magne, et obscuratus est <sol et> aer de fumo putei” (Ap 9, 2). Fumus iste est omne extrinsecum malum opus et signum de cordali flamma luxurie et avaritie et superbie et ire et invidie et  malitiose astutie procedens. Et quanto iste fumus est maior et gro<ss>ior et de maiori ac peiori flamma exiens, tanto plus pungit et confundit oculos intuentium, et tanto plus non solum coram fidelibus sed etiam coram infidelibus diffamat et obscurat solarem claritatem fidei et ecclesie et religionis perducentis ad cultum veri solis Christi, sicut aer sua perspicuitate perducit nostrum visum ad solem et radios solis usque ad oculum nostrum. Vel per hoc designatur quod multi prelati ecclesiarum et religionum, qui prius erant quasi sol, et multi spirituales, qui prius erant quasi aer purus a sole illuminatus, corrumpuntur et denigrantur a fumo tante laxationis.

I temi esegetici variati nei canti dell’Aquila, che si mostra nel cielo di Giove, hanno già segnato nel cielo di Mercurio il parlare di Giustiniano, ispirato dal “sacrosanto segno”. “Poi, presso al tempo che tutto ’l ciel volle / redur lo mondo a suo modo sereno, / Cesare per voler di Roma il tolle” (Par. VI, 55-57). Per predisporre il mondo alla venuta di Cristo era necessario che venisse istituita la monarchia universale. Il riferimento è ancora ad Ap 15, 8, al termine del capitolo che descrive la radice della quinta visione delle coppe, particolarmente riferita al quinto stato e di cui esprime lo zelo. Ivi si afferma che “nessuno potrà entrare nel Tempio finché non saranno consumate le sette piaghe dei sette angeli”, cioè, secondo un’interpretazione, non si potrà entrare nella serena pace dell’arcana contemplazione fino al compimento delle sette piaghe. Viene poi detto (ad Ap 16, 1) che gli angeli che versano la coppa operano per comando di Dio, da lui ispirati, e muovono come ministri del giudizio divino, non per propria volontà o animosità ma per beneplacito e mandato altrui. Così Cesare muove per volontà del popolo romano, cioè della divina provvidenza, come pure la viva giustizia ispira il parlare di Giustiniano. E prima che il mondo sia ricondotto a serenità, cioè alla serena pace dell’arcana contemplazione, si verificano le folgoranti imprese di Cesare (Par. VI, 58-72)  e del “baiulo seguente”, ossia di Augusto (vv. 73-78), contro i sudditi ribelli: esse sono descritte in sette terzine (vv. 58-78), corrispondenti alle sette coppe del giudizio divino, al termine delle quali l’ottava terzina (vv. 79-81) accenna al fatto che con Augusto il mondo fu posto “in tanta pace, / che fu serrato a Giano il suo delubro”, chiuso perché, finite le guerre, si entrò nel Tempio della serena pace dell’arcana contemplazione di Dio.
Culmine delle imprese dell’Aquila fu la passione di Cristo, avvenuta allorché il “sacrosanto segno” si trovava in mano al “terzo Cesare”, cioè a Tiberio, ed è impresa che oscura le precedenti se ivi “si mira / con occhio chiaro e con affetto puro” (Par. VI, 82-87): riferimento ancora ad Ap 15, 8, dove si afferma che l’ingresso nella chiara visione contemplativa non può verificarsi prima che l’occhio sia stato purgato dal collirio in esso versato dalle sette coppe. Poiché Cristo per la redenzione del genere umano patì la pena inflitta ad opera di un legittimo giudice romano, al segno dell’Aquila fu concessa la “gloria di far vendetta a la sua ira” (vv. 88-90): in questa terzina sono ancora reperibili temi provenienti dalla radice della quinta visione delle coppe, nel conferimento ai sette angeli della potestà giudiziaria vendicatrice, designata dalle coppe ripiene dell’ira di Dio vivente nei secoli dei secoli (Ap 15, 7): «Dicit autem “Dei viventis” et cetera, quia sicut morituri est iudicari et occidi, ita viventis est exercere vindictam et viventis in eternum est exercere eternam».
Poi, cosa mirabile, lo stesso Impero punì la morte di Cristo allorché “con Tito a far vendetta corse / de la vendetta del peccato antico” (vv. 91-93): come affermato nel Notabile XI del prologo, la distruzione di Gerusalemme e della Sinagoga ad opera di Tito (che opera nel secondo stato, dei martiri) prefigura il terremoto che accompagnerà, nel sesto stato della Chiesa, la distruzione della nuova Babilonia.
Il Tempio, cioè la comprensione spirituale della Scrittura, viene progressivamente aperto. Molte sono infatti le illuminazioni che segnano la storia della Chiesa. La possibilità che alcuni santi possano comunque entrare nel Tempio, al termine dei gradi di purgazione, senza aspettare temporalmente il settimo tempo della Chiesa, perché questo è in essi virtualmente o spiritualmente compiuto come se avessero raggiunto il tempo e le opere del settimo stato, è appropriata a Dante, al quale Virgilio dice sulla soglia dell’Eden: “Non aspettar mio dir più né mio cenno; / libero, dritto e sano è tuo arbitrio”, ormai compiutamente signore di sé stesso (Purg. XXVII, 139-142; cfr. XXVIII, 4). Per lui l’Apocalisse è consumata.

Tab. XVIII.6bis

[LSA, cap. XV, Ap 15, 7-16, 1 (radix Ve visionis)]Tertium radicale est collatio potestatis iudiciarie et iniunctio officii eius cum pleniori influxu et effluxu zeli iudiciarii, unde subditur: “Et unum ex quattuor animalibus dedit septem angelis septem phialas aureas plenas iracundia Dei viventis in secula seculorum”. […] Per “phialas” autem designatur hic mensurata potestas et equitas iudicii exercendi, que sunt “auree” per fulgorem sapientie et caritatis, suntque “plene iracundi<a> Dei”, id est zelo severo et efficaci ad corripiendum omnia per eos corripienda. Dicit autem “Dei viventis” et cetera, quia sicut morituri est iudicari et occidi, ita viventis est exercere vindictam et viventis in eternum est exercere eternam.
Deinde subdit de pleniori effluxu zeli severi, cum ait (Ap 15, 8): “Et impletum est templum Dei fumo”, id est ecclesia contemplantium est tunc impleta zelo sancte ire, que non solum obscurat et amaricat reos in quos acriter fertur, sed etiam ipsos sanctos zelantes. Unde Gregorius, Moralium V° super illud Iob V° (Jb 5, 2): “Virum stultum interficit iracundia”, dicit: «Ira per vitium oculum mentis excecat; ira autem per zelum turbat, quia quo saltim recta emulatione concutitur eo contemplatio, que non potest nisi tranquillo corde percipi, dissipatur. Sed inde subtilius ad alta reducitur, unde ad tempus ne videat reverberatur; sicut cum collirium infirmanti oculo mittitur lux penitus negatur, sed inde eam post paululum clarius recipit» et cetera*.
“Fumo”, inquam, procedente “a maiestate Dei et de virtute eius”, et hoc non solum influxu ire, sed etiam quia quanto plus sancti attendunt offensam et iram maiestatis Dei reverende et zelande, et quanto plus sunt ea et eius virtute repleti, tanto acrius irascuntur et perturbantur contra Dei contumelias et offensas.
Et nemo poterat intrare in templum, donec consumarentur septem plage septem angelorum” (Ap 15, 8), quia, secundum Ioachim, rectitudo iusti zeli exigit quod nullus eorum, qui extra templum sunt, sinatur intus ingredi quousque fiat iudicium de impiis quorum desperata frenesis est incurabilis*.
Vel, secundum Ricardum, quia templo fumo repleto nemo reproborum potest rectitudinem divini iudicii agnoscere tamquam ignorantia excecatus; completis vero plagis presentis temporis quodammodo introibunt, quia penis eternis succedentibus intelligent se iuste puniri et sanctos iuste beatificari, quod modo minime cognoscunt; utrumque tamen est in malum eorum, scilicet sic intrare et foris manere. Vel, secundum eundem, nemo potest usque tunc intrare quia nec sancti possunt in hac vita perfecte cognoscere occulta iudiciorum Dei; tunc autem perfecte introibunt quando post finem huius seculi omnia manifeste videbunt*.
Potest etiam dici quod hic loquitur distributive, non collective, ut sit sensus quod in tempore uniuscuiusque angeli istorum septem non intratur ad serenam pacem archane contemplationis Dei usquequo est consumata plaga per eum fienda. Nam plaga illa segregat granum a paleis et instar fornacis purgat electos et colat eos quasi aurum et quasi argentum, ut offerant in templo sacrificia iustitie et caritatis.
Sicut enim oculus lipus vel infirmus non intrat ad claram visionem nisi sit prius per colliria vel alias medicinas perfecte purgatus et sanatus, sic nec aliquis per has plagas corrigendus potest intrare ad perfectam contemplationem usquequo sit per <eas> plene et consumate purgatus.

Item communiter non intrabitur plene nisi post effusionem septimi angeli, sicut nec liber erit perfecte apertus nec misteria Dei omnia consumata usquequo septimus angelus ceperit tuba canere. Sciendum tamen quod in quibusdam sanctis cuiuslibet status possunt hii septem gradus purgationum perfici vel fuisse perfecti, et sic in hoc templum intrasse non expectando septimum tempus ecclesie, quia in ipsis fuit virtualiter seu spiritualiter completum ita quod per inde est ac si temporaliter pert<ig>issent ad tempus et opus septimi status.
Quartum radicale est divina iussio seu inspiratio unumquemque ministrorum divini iudicii actualiter movens et applicans ad exsequendum officium suum, quia non debent ad hoc propria voluntate seu animositate moveri, sed explendo Dei beneplacitum et mandatum. Unde subdit (Ap 16, 1): “Et audivi vocem magnam dicentem septem angelis: Ite et effundite septem phialas ire Dei in terram”, id est in terrenos et inferiores.

* S. Gregorii Magni Moralia in Iob, libri I-X, cura et studio M. Adriaen, Turnholti 1979 (Corpus Christianorum. Series Latina, CXLIII), lib. V, cap. XLV, 135-139, 142-143, 146-149, pp. 279-280 (= PL 75, coll. 726 C-727 A).

* Expositio, pars V, f. 186rb.

* In Ap V, ii (PL 196, coll. 822 D-823 A).

Inf. XXVI, 55-57, 136-142

Rispuose a me: “Là dentro si martira
Ulisse e Dïomede, e così insieme
a la vendetta vanno come a l’ira

Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto;
ché de la nova terra un turbo nacque
e percosse del legno il primo canto.
Tre volte il fé girar con tutte l’acque;
a la quarta levar la poppa in suso
e la prora ire in giù, com’ altrui piacque,
infin che ’l mar fu sovra noi richiuso.

Purg. I, 130-133

Venimmo poi in sul lito diserto,
che mai non vide navicar sue acque
omo, che di tornar sia poscia esperto.
Quivi mi cinse sì com’ altrui piacque

Purg. II, 94-99

Ed elli a me: “Nessun m’è fatto oltraggio,
se quei che leva quando e cui li piace,
più volte m’ha negato esto passaggio;
ché di giusto voler lo suo si face:
veramente da tre mesi elli ha tolto
chi ha voluto intrar, con tutta pace”.

Par. VI, 55-57, 79-93

Poi, presso al tempo che tutto ’l ciel volle
redur lo mondo a suo modo sereno,
Cesare per voler di Roma il tolle.

Con costui corse infino al lito rubro;
con costui puose il mondo in tanta pace,
che fu serrato a Giano il suo delubro.
Ma ciò che ’l segno che parlar mi face
fatto avea prima e poi era fatturo
per lo regno mortal ch’a lui soggiace,
diventa in apparenza poco e scuro,
se in mano al terzo Cesare si mira            13, 17
con occhio chiaro e con affetto puro;
ché la viva giustizia che mi spira,
li concedette, in mano a quel ch’i’ dico,
gloria di far vendetta a la sua ira.
Or qui t’ammira in ciò ch’io ti replìco:
poscia con Tito a far vendetta corse          19, 14
de la vendetta del peccato antico.

[LSA, prologus, Notabile XI] Deinde per Neronem, misso contra Iudeam Vespasiano et Thito, factus est terremotus sinagogam quasi alteram Babilonem subvertens […]

Purg. XXVII, 139; XXVIII, 4

Non aspettar mio dir più né mio cenno

sanza più aspettar, lasciai la riva


XIX

 

1. Due ali, due soli. 2. Un’operazione dell’intera umanità. 3. I libri aperti. 3.1. Il libro segnato da sette sigilli. 3.2. Il libro della vita. 4. La bestia che è ottava e insieme settima.

 

Legenda [3]: numero dei versi; 12, 14: collegamento ipertestuale all’esegesi, nella Lectura di Olivi, di capitolo e versetto dell’Apocalisse [Ap]; Not. XII: collegamento all’esegesi contenuta nei tredici notabilia del prologo della LecturaVarianti rispetto al testo del Petrocchi.

Parea dinanzi a me con l’ali aperte   12, 14
la bella image che nel dolce frui   13, 15
liete facevan l’anime conserte;   [3]

parea ciascuna rubinetto in cui   21, 20
raggio di sole ardesseacceso,
che ne’ miei occhi rifrangesse lui.   [6]   4, 3

E quel che mi convien ritrar testeso,
non portò voce mai, né scrisse incostro,
né fu per fantasia già mai compreso;   [9]   2, 17

ch’io vidi e anche udi’ parlar lo rostro,   8, 13 (13, 15)
e sonar ne la voce e «io» e «mio»,   14, 2
quand’ era nel concetto e ‘noi’ e ‘nostro’.   [12]

E cominciò: « Per esser giusto e pio   15, 3-4
son io qui essaltato a quella gloria   11, 15
che non si lascia vincere a disio;   [15]

e in terra lasciai la mia memoria   Not. XII
sì fatta, che le genti lì malvage
commendan lei, ma non seguon la storia ».   [18]

Così un sol calor di molte brage   14, 2
si fa sentir, come di molti amori
usciva solo un suon di quella image.   [21]   13, 15

Ond’ io appresso: « O perpetüi fiori
de l’etterna letizia, che pur uno   14, 2
parer mi fate tutti vostri odori,   [24]   5, 8

solvetemi, spirando, il gran digiuno
che lungamente m’ha tenuto in fame,
non trovandoli in terra cibo alcuno.   [27]

Ben so io che, se ’n cielo altro reame   4, 3
la divina giustizia fa suo specchio,
che ’l vostro non l’apprende con velame.   [30]

Sapete come attento io m’apparecchio
ad ascoltar; sapete qual è quello
dubbio che m’è digiun cotanto vecchio ».   [33]   Not. X

Quasi falcone ch’esce del cappello,
move la testa e con l’ali si plaude,
voglia mostrando e faccendosi bello,   [36]

vid’ io farsi quel segno, che di laude   11, 15
de la divina grazia era contesto,
con canti quai si sa chi là sù gaude.   [39]   14, 3

Poi cominciò: « Colui che volse il sesto
a lo stremo del mondo, e dentro ad esso   14, 6-7
distinse tanto occulto e manifesto,   [42]

non poté suo valor sì fare impresso   5, 1
in tutto l’universo, che ’l suo verbo
non rimanesse in infinito eccesso.   [45]   12, 17

E ciò fa certo che ’l primo superbo,
che fu la somma d’ogne creatura,
per non aspettar lume, cadde acerbo;   [48]   Not. X

e quinci appar ch’ogne minor natura   miglior
è corto recettacolo a quel bene   12, 17
che non ha fine e sé con sé misura.   [51]   6, 5

Dunque vostra veduta, che convene
essere alcun de’ raggi de la mente   5, 1
di che tutte le cose son ripiene,   [54]

non pò da sua natura esser possente
tanto, che suo principio non discerna   2, 1
molto di là da quel che l’è parvente.   [57]

Però ne la giustizia sempiterna   5, 1
la vista che riceve il vostro mondo,
com’ occhio per lo mare, entro s’interna;   [60]   4, 6

che, ben che da la proda veggia il fondo,   5, 1
in pelago nol vede; e nondimeno   4, 6
èli, ma cela lui l’esser profondo.   [63]

Lume non è, se non vien dal sereno   Not. X; 15, 8
che non si turba mai; anzi è tenèbra   6, 5
od ombra de la carne o suo veleno.   [66]

Assai t’è mo aperta la latebra
che t’ascondeva la giustizia viva,   15, 7
di che facei question cotanto crebra;   [69]   Not. V

ché tu dicevi: “Un uom nasce a la riva   Not. I
de l’Indo, e quivi non è chi ragioni
di Cristo né chi legga né chi scriva;   [72]

e tutti suoi voleri e atti buoni
sono, quanto ragione umana vede,
sanza peccato in vita o in sermoni.   [75]

Muore non battezzato e sanza fede:
ov’ è questa giustizia che ’l condanna?
ov’ è la colpa sua, se ei non crede?”.   [78]

Or tu chi se’, che vuo’ sedere a scranna,
per giudicar di lungi mille miglia
con la veduta corta d’una spanna?   [81]

Certo a colui che meco s’assottiglia,   Not. X
se la Scrittura sovra voi non fosse,
da dubitar sarebbe a maraviglia.   [84]

Oh terreni animali! oh menti grosse!
La prima volontà, ch’è da sé buona,
da sé, ch’è sommo ben, mai non si mosse.   [87]

Cotanto è giusto quanto a lei consuona:
nullo creato bene a sé la tira,
ma essa, radïando, lui cagiona ».   [90]   11, 12

Quale sovresso il nido si rigira
poi c’ha pasciuti la cicogna i figli,   Not. III, XIII
e come quel ch’è pasto la rimira;   [93]

cotal si fece, e sì leväi i cigli,
la benedetta imagine, che l’ali   13, 15
movea sospinte da tanti consigli.   [96]

Roteando cantava, e dicea: « Quali   14, 3
son le mie note a te, che non le ’ntendi,   19, 1
tal è il giudicio etterno a voi mortali ».   [99]

Poi si quetaro quei lucenti incendi   Not. III;   13, 13   seguitaro
de lo Spirito Santo ancor nel segno
che fé i Romani al mondo reverendi,   [102]   13, 14

esso ricominciò: « A questo regno   11, 15
non salì mai chi non credette ’n Cristo,
né pria né poi ch’el si chiavasse al legno.   [105]

Ma vedi: molti gridan “Cristo, Cristo!”,
che saranno in giudicio assai men prope   14, 6-7
a lui, che tal che non conosce Cristo;   [108]

e tai Cristian dannerà l’Etïòpe,
quando si partiranno i due collegi,
l’uno in etterno ricco e l’altro inòpe.   [111]   5, 1

Che poran dir li Perse a’ vostri regi,   13, 3
come vedranno quel volume aperto   4, 2; 5, 1; 20, 12
nel qual si scrivon tutti suoi dispregi?   [114]

Lì si vedrà, tra l’opere d’Alberto,                I
quella che tosto moverà la penna,
per che ’l regno di Praga fia diserto.   [117]   12, 6

Lì si vedrà il duol che sovra Senna               II   9, 5-7
induce, falseggiando la moneta,
quel che morrà di colpo di cotenna.   [120]   9, 11

Lì si vedrà la superbia ch’asseta,                     III
che fa lo Scotto e l’Inghilese folle,
sì che non può soffrir dentro a sua meta.   [123]   9, 11

Vedrassi la lussuria e ’l viver molle             IV   9, 8
di quel di Spagna e di quel di Boemme,
che mai valor non conobbe né volle.   [126]

Vedrassi al Ciotto di Ierusalemme                     V
segnata con un i la sua bontate,
quando ’l contrario segnerà un emme.   [129]   20, 3

Vedrassi l’avarizia e la viltate                               VI
di quei che guarda l’isola del foco,
ove Anchise finì la lunga etate;   [132]   u’

e a dare ad intender quanto è poco,   22, 18-19; 12, 14
la sua scrittura fian lettere mozze,
che noteranno molto in parvo loco.   [135]

E parranno a ciascun l’opere sozze
del barba e del fratel, che tanto egregia
nazione e due corone han fatte bozze.   [138]   12, 14

E quel di Portogallo e di Norvegia                        VII
lì si conosceranno, e quel di Rascia   14, 8; 15, 8
che male ha visto il conio di Vinegia.   [141]   avvistò

O beata Ungheria, se non si lascia   17, 11
più malmenare! e beata Navarra,
se s’armasse del monte che la fascia!   [144]

E creder de’ ciascun che già, per arra   Not. VII
di questo, Niccosïa e Famagosta
per la lor bestia si lamenti e garra,                         VIII
che dal fianco de l’altre non si scosta ».   [148]


1. Due ali, due soli

 

In Olivi’s historical perspective, appropriately updated by Dante, the Empire finds an autonomous place. The woman (the Church), who fled into the desert of the Gentiles from the dragon (Jewish harshness) that wanted to devour her son, is given two wings of a great eagle (Rev 12:14; fourth vision), interpreted as the third period (status) of doctors (who refute heresies with reason and the sword and lay down the law) and the fourth of anchorites or contemplatives (they have a holy and divine life based on affection, devoted to the  eucharistic pastus). Their prerogatives – these are two competing (concurrentes) periods in the history of the Church, distinct from each other, both of solar wisdom (Rev 8:12) – can be assimilated to the Empire and the Papacy, the sword and the pastoral staff.
The historical period lamented by Marco Lombardo (Purg. XVI, 106-114), in which the “shepherd’s crook” (pasturale: the spiritual power) had not eclipsed the “sword” (spada: the temporal power) and joined with itself it, corresponds to the coexistence in time of the two distinct periods mentioned above, the third and fourth, inflaming the midday of the universe in two different ways (prologue, Notabile X; the Olivian status are both historical periods and ways of being, habitus of individuals or of institutions).

■Nella prospettiva storica oliviana, da Dante adeguatamente aggiornata, l’Impero trova un luogo autonomo. Alla donna (la Chiesa), fuggita nel deserto dei Gentili dal drago (la durezza giudaica) che voleva divorarle il figlio, vengono date due ali di una grande aquila (Ap 12, 14; quarta visione), interpretate come il terzo stato dei dottori (che confutano le eresie con la ragione e la spada e danno le leggi) e il quarto degli anacoreti (dalla santa e divina vita fondata sull’affetto, dedita al devoto pasto eucaristico). Alle loro prerogative – si tratta di due periodi della storia della Chiesa concorrenti, entrambi di solare sapienza (Ap 8, 12) – possono venire assimilati Impero e Papato, spada e pastorale.
Il periodo storico rimpianto da Marco Lombardo (Purg. XVI, 106-114), in cui il “pasturale” (il potere spirituale) non aveva spento e congiunto a sé la “spada” (il potere temporale), corrisponde alla concorrenza nel tempo dei due distinti periodi sopra indicati, il terzo e il quarto, infiammanti per due diverse strade il meriggio dell’universo (prologo, Notabile X; gli status oliviani sono al tempo stesso epoche storiche e modi di essere, habitus, degli individui o delle istituzioni).
Il motivo, da Ap 12, 14, della donna-aquila signora e regina delle genti nel proprio regno, si mostra nelle parole con cui san Bernardo invita Dante a guardare i cerchi di troni della rosa celeste – un “giardino” – “infino al più remoto, / tanto che veggi seder la regina / cui questo regno è suddito e devoto” (Par. XXXI, 97, 100, 115-117). Riaffiora, frammentato e diversamente appropriato, nella preghiera che lo stesso Bernardo rivolge alla regina del cielo: «“Et date sunt mulieri due ale aquile magne” … tamquam gentium domina et regina magnifice volavit – Donna, se’ tanto grande e tanto vali, / che qual vuol grazia e a te non ricorre, / sua disïanza vuol volar sanz’ ali … in te magnificenza … Ancor ti priego, regina, che puoi / ciò che tu vuoli …» (Par. XXXIII, 13-15, 20, 34-35).
Due sono le ali dell’Aquila (Par. XIX, 1); all’estremo opposto, due sono le ali di Lucifero (Inf. XXXIV, 46, 72); due sono i soli, quello mondano e un altro aggiunto, che al poeta pare di vedere ascendendo al cielo (Par. I, 61-63); due sono i fiumi, Lete e Eunoè, che nell’Eden sgorgano da un’unica sorgente; due le rive del fiume luminoso nell’Empireo.
Il capitolo XXII dell’Apocalisse si apre con la visione del nobilissimo fiume che scorre nel mezzo della Gerusalemme celeste. È lo stesso Spirito Santo, ovvero la gloria che da Dio affluisce sui beati: fiume di acqua viva, o di vita eterna, da cui deriva tutta la sostanza della Trinità. Fiume di splendore e luce per sapienza, che ha due rive o due parti (destra e sinistra, superiore e inferiore), designanti le due nature, divina e umana, di Cristo-lignum vite che dà perpetui frutti. Il lignum vite, l’albero che sta nel mezzo, con le sue foglie getta un’ombra sacramentale, di verità superiori, su entrambe le rive, l’umana e la divina, perché non solo il cielo, ma anche la terra è ripiena della gloria di Dio.
L’esegesi di Ap 22, 1-2 offre una ricchezza tematica riaffiorante in numerosi luoghi della Commedia. Essa conduce ai due fiumi dell’Eden (il Lete e l’Eunoè) che si dipartono da un’unica fontana. Non sono solo i due fiumi dell’Eden ad essere fasciati dalla sacra pagina e dalla sua esposizione. Perfino Beatrice vi partecipa. Anche la donna ha due bellezze, gli occhi e la bocca. Alla prima si perviene con le virtù cardinali (le quali lì accompagnano Dante), ma si guarda nel suo profondo solo con le virtù teologali e per preghiera di queste, congiunta con la grazia gratuitamente data, si ottiene la seconda bellezza. Nel suo svelarsi, Beatrice è “isplendor di viva luce etterna” che sta fra cielo e terra, “là dove armonizzando il ciel t’adombra”. Per lei non si parla di ‘fiume’ o di ‘acqua’, ma la donna assume alcune fondamentali prerogative di Cristo centro della Gerusalemme celeste, della sua irrigazione e dunque della storia umana (Purg. XXXI, 139-145).
I due fiumi dell’Eden sono figura in terra dell’unico luminoso fiume dell’Empireo: “fulvido di fulgore, intra due rive / dipinte di mirabil primavera”, dal quale escono “faville vive”, è “onda / che si deriva” da Dio; ma il fiume, le faville (“li topazi / ch’entrano ed escono”) e il verdeggiante “rider de l’erbe” sono “umbriferi prefazi”, cioè ombra sacramentale del vero, adombranti il primo una forma circolare e non lineare, le seconde gli angeli, il terzo i beati (Par. XXX, 61 sgg.).
Nel “poema sacro / al quale ha posto mano e cielo e terra” (Par. XXV, 1-2; cfr. il giurare dell’angelo ad Ap 10, 5-7), sull’esegesi del fiume di una città immateriale, perché tale è la Gerusalemme celeste, Dante poteva rispecchiare quanto la sua mente aveva elaborato sulle due beatitudini, poste come fini all’uomo dalla Provvidenza: la beatitudine di questa vita (raffigurata nel paradiso terrestre), alla quale si perviene sotto il regime dell’Imperatore, attraverso la filosofia e la pratica delle virtù morali e intellettuali; la beatitudine della vita eterna (consistente nella visione di Dio), alla quale si perviene tramite le virtù teologali e sotto la guida del romano pontefice (cfr. Monarchia, III, xv, 7-10). Entrambe le beatitudini, come le loro guide, discendono senza intermediari dall’unico Fonte dell’universale autorità (xv, 15). Corrispondono alle due rive, umana e divina, dell’unico fiume della grazia e della gloria, all’umanità e alla divinità di Cristo. Beatrice, figura di Cristo, è nell’Eden cerniera: gli occhi partecipano sia dell’una come dell’altra, la bocca svelata adombra la visione di Dio.
Non a caso l’ombra sacramentale di verità superiori (Ap 22, 2) si riverbera sia sull’“ombra de le sacre penne” dell’aquila imperiale, di cui dice Giustiniano (Par. VI, 7) come sull’“ombra de le sacre bende” proprie della vita religiosa ed evangelica di cui parla Piccarda (Par. III, 114), cioè sul voto come spiegato da Beatrice in Par. V, ombre che designano i due fini di beatitudine assegnati all’uomo dalla Provvidenza. Le “penne” corrispondono all’intellettualistica dottrina d’amore esposta da Virgilio a Par. XVIII, 40-75; le “bende” alla volontà di cui parla Beatrice a Par. V, 19-24 portando a compimento l’esposizione di Virgilio, secondo quando afferma l’antico poeta: “Quanto ragion qui vede, / dir ti poss’ io; da indi in là t’aspetta / pur a Beatrice, ch’è opra di fede” (Purg. XVIII, 46-48).
La storia di Roma è la manifestazione dei segni di Dio, che attuano in terra la sua volontà: “divina voluntas per signa querenda est” (Monarchia II, ii, 8). Questi segni, nelle parole di Giustiniano in Par. VI, ispirate dal “sacrosanto segno” dell’Aquila “che fé i Romani al mondo reverendi”, sono modulati con un andamento settenario, quello proprio dei futuri sette stati o periodi della Chiesa e degli eventi in essi verificatisi secondo la Lectura super Apocalipsim, per cui quanto anticamente avvenuto prima di Cristo si mostra come sacra prefigurazione della nuova storia, che è insieme dell’Impero e della Chiesa.

■ A conclusione della Monarchia (III, xv, 18), Dante parla della reverenza che Cesare deve a Pietro come quella del figlio primogenito verso il padre. La controversa espressione – “ut romanus Princeps in aliquo romano Pontifici non subiaceat” (xv, 17) -, alla quale è speculare il parlare di Giustiniano in Par. VI, 84 – “per lo regno mortal ch’a lui soggiace” -, non denota soggezione politica dell’uno all’altro, ma tensione della parte mortale verso ciò che è immortale, “mentre che ’l nostro immortale col mortale è mischiato” (Convivio, II, viii, 15). Anche Cristo fu soggetto al Padre per la sua mortale umanità, ma non per questo gli fu meno consustanziale ed eguale. Gli angeli lo trascendono rispetto alla sua carne passibile, secondo il Salmo 8, 6 – “Tu l’hai fatto poco minore che li angeli” -, che Dante applica all’uomo, medio tra ciò che è corruttibile e ciò che è incorruttibile, operante in modo quasi divino (cfr. Convivio, IV, xix, 7; Monarchia, I, iv, 2; III, xv, 3-4). Nel momento in cui l’Impero diventa consorte in cielo della Chiesa, discendente dalla medesima fonte, partecipa a pieno titolo non solo dei doni e delle prerogative dello Spirito ma anche dei misteri della Trinità e dell’Incarnazione, cioè dell’eterna generazione del Verbo e del suo farsi carne. Il Figlio che deve reverenza al Padre non è un figlio qualunque, è il Figlio dell’uomo al quale il romano Principe è assimilato [1].
Nella Lectura super Apocalipsim Olivi sottolinea in più luoghi la soggezione del Figlio al Padre, a motivo della sua mortale umanità.
Quell’improprio congiungere a sé il potere temporale da parte del potere spirituale, lamentato da Marco Lombardo, è pertanto eresia assimilabile a quella di Ario, che divise il Figlio dal Padre ritenendolo non consustanziale, a livello di creatura, o, ancor meglio, a quella di Sabellio, che unificò il Padre e il Figlio nella stessa persona (cfr. Ap 2, 12).
Fra umano e divino vi è concordia, pur in apparente contraddizione: così avviene nel Primo Mobile, il luogo dove il tempo ha le sue radici, fra i cerchi corporali e quelli angelici, fra “l’essemplo” e “l’essemplare” i quali “non vanno d’un modo” (cfr. Par. XXVIII, 55-56). La “felicitas civilis” aristotelica, fondata sulle virtù, assume così una veste sacra, pari a quella propria della “felicitas contemplativa”, l’altro fine che la Provvidenza ha proposto all’uomo.

[1] Cfr. G. VINAY, Interpretazione della “Monarchia” di Dante, Firenze 1962, p. 73: “Partito da una proposizione filosofica, inoltratosi tra i rovi di una disputa giuridica e teologica, Dante giunge alla conclusione senza accorgersi di essersi spostato sul piano della pura spiritualità, sul quale soltanto è possibile intendere il senso ultimo della Monarchia”.

Tab. XIX.1

[LSA, prologus, Notabile X] Ideo autem quartus status concurrit eodem tempore cum tertio, quia sicut affectus exigit notitiam intellectus, nec ista notitia est sancta absque sancto affectu, sic affectualis exercitatio et contemplatio anachoritarum et sanctorum illitteratorum eguit preclaro lumine doctorum, nec illud preclarum esse potuit absque precellentia vite. Unde ad mutuum obsequium et ad meridiem universi orbis tunc ad fidem conversi simul clarificandam et inflammandam debuerunt illi duo status concurrere simul. Sicut autem notitia preit amorem, quia non potest amari nisi cognitum, sic status doctorum in hoc libro premittitur ante statum anachoritarum; in quarta tamen visione ostenduntur simul concurrere, ubi dicitur quod “date sunt mulieri due ale aquile magne ut volaret in desertum” (Ap 12, 14).

[LSA, Ap 12, 14 (IV visio, III-IV prelium)] Antequam autem hic explicetur qualis fuit hec persecutio, ostendit duplicem virtutem tunc datam ecclesie ad triumphandum de hac gemina persecutione. Unde subdit: “Et date sunt mulieri due ale aquile magne”, id est sublimis sapientia sanctorum doctorum et sublimis vita et caritas sanc-torum anachoritarum et ceterorum regularium illius temporis. Hec enim sunt “due <ale> aquile magne”, id est Christi et sue contemplative ecclesie in apostolis primo fundate. Nonne enim Iohannes vel Paulus fuit aquila magna habens has duas alas? Item potestas imperialis seu temporalis et potestas spiritualis super totum orbem sunt due ale. Licet enim prius secundum rem haberet potestatem spiritualem, non tamen sic evidenter et efficaciter sicut cum imperium romanum fuit sibi famu-latorie et devote subiectum.

Purg. XVI, 106-112

Soleva Roma, che ’l buon mondo feo,
due soli aver, che l’una e l’altra strada
facean vedere, e del mondo e di Deo.
L’un l’altro ha spento; ed è giunta la spada
 col pasturale, e l’un con l’altro insieme

per viva forza mal convien che vada;
però che, giunti, l’un l’altro non teme

[LSA, Ap 8, 12 (III visio, IV tuba)] Per “solem” videtur hic designari solaris vita et contemplatio summorum anachoritarum, qui fuerunt patres et exempla aliorum, vel solaris sapientia et doc-trina summorum doctorum.

Inf. XXXIV, 46-48, 72-73

Sotto ciascuna uscivan due grand’ ali,
quanto si convenia a tanto uccello:
vele di mar non vid’ io mai cotali.

e quando l’ali fuoro aperte assai,
appigliò sé a le vellute coste

Par. XIX, 1-3

Parea dinanzi a me con l’ali aperte
la bella image che nel dolce frui
 liete facevan l’anime conserte

Par. I, 37-38, 61-63

Surge ai mortali per diverse foci
 la lucerna del mondo ………..

e di sùbito parve giorno a giorno
essere aggiunto, come quei che puote
avesse il ciel d’un altro sole addorno. 

spada  (terzo stato)

[LSA, Ap 2, 12 (I visio, III ecclesia)] Hiis autem premittuntur duo, scilicet preceptum de scribendo hec sibi et introductio Christi loquentis, cum subdit: “Hec dicit qui habet rumpheam”, id est spatam, “ex utraque parte acutam”. Hoc congruit ei, quod infra dicit: “pugnabo cum illis in gladio oris mei” (Ap 2, 16). Unde contra doctores pestiferos erronee doctrine et secte ingerit se ut terribilem confutatorem et condempnatorem ipsorum per incisivam doctrinam et condempnativam sententiam oris sui. Dicit autem “ex utraque parte”, non solum quia absque acceptione personarum omnia vitia scindit et resecat vel condempnat, sed etiam quia contrarios errores destruit. Arrius enim, quasi ex uno latere, errat dicendo Dei Filium esse substantialiter diversum a Patre tamquam eius creaturam. Sabellius vero, quasi ab opposito latere, dicit quod eadem persona est Pater et Filius. Fides autem Christi utrumque scindit et resecat.

pasturale (quarto stato)

[LSA, prologus, Notabile III] Patet enim hoc de primo dono. Nam pastoralis cura insistit primo ovium propagationi. Secundo earum defensioni ab imbribus et lupis et consimilibus. Tertio earum directioni seu deductioni ad exteriora. Quarto earum pascuali refectioni. […] Constat autem quod propagatio appropriatur prime plantationi ecclesie sub apostolis, defensio vero militari pugne martirum, directio vero eruditioni doctorum, refectio autem studiose et refective devotioni anachoritarum et sic de aliis.

[LSA, prologus, Notabile XIII] Refectio vero eucharistie congruit devotioni anachoritarum.

Monarchia, III, xv, 17-18: Que quidem veritas ultime questionis non sic stricte recipienda est, ut romanus Princeps in aliquo romano Pontifici non subiaceat, cum mortalis ista felicitas quodammodo ad inmortalem felicitatem ordinetur. Illa igitur reverentia Cesar utatur ad Petrum qua primogenitus filius debet uti ad patrem: ut luce paterne gratie illustratus virtuosius orbem terre irradiet, cui ab Illo solo prefectus est, qui est omnium spiritualium et temporalium gubernator.

[LSA, cap. II, Ap 2, 7] Dicit autem “Dei mei” quia Christus in quantum homo minor est Deo Patre, ita quod in quantum homo habet Patrem pro Deo et Domino et etiam totam Trinitatem.
[
LSA, cap. III, Ap 3, 12] Quod Christus hic vel alibi dicit “Dei mei” vel “a Deo meo”, non dicit nisi tantum ratione sue humanitatis, secundum quam est subiectus Patri et toti Trinitati tamquam Deo suo.
[LSA, cap. VIII, Ap 8, 3] Qui “venit”, per nature humane et mortalis assumptionem, “et stetit ante altare”, id est ante curiam seu hierarchiam celestem. Pro quanto enim, secundum carnis sue passibilitatem, minoratus est paulo minus ab angelis (cfr. Heb 2, 7; Ps 8, 6), habuit eos quasi ante se.
[LSA, cap. XIV, Ap 14, 18] Per illum vero angelum qui clamat ad alterum ut vindemiet dicit (Ricardus) designari angelos bonos, qui non solum de templo sed etiam de altari exeunt quia non tantum ecclesiam electorum sed etiam Christum, qui est nostrum altare, respectu sue carnis transcendunt, secundum illud Psalmi (Ps 8, 6): “Minuisti eum paulo minus ab angelis”.


2. Un’operazione dell’intera umanità

 

The song of the companions of the Lamb who stand on Mount Zion is a watering, fertile voice, proceeding in harmony and unity from the many virtual affections of a large and numerous college of saints, where it says: “like the voice of many waters”. The voice of a great and abundant rain proceeds from many and almost innumerable drops as a single sound coming from a single player, and the same can be said of the sound of the waters of the sea or a river (Rev 14:2).
The theme of the “vox aquarum multarum”, which is at the same time “unus sonus”, is appropriate in the heaven of Jupiter to the beautiful image of the Eagle, which Dante sees and also hears speaking, which sounds in the singular voice («e sonar ne la voce e “io” e “mio”») even though it is formed by many loves and therefore plural in thought («quand’ era nel concetto e “noi” e “nostro”»), like a single heat felt from many burning coals, like a single scent from many flowers (Par. XIX, 10-12; 19-24).
This one voice, which proceeds harmoniously from many voices (“ex magno et multo collegio sanctorum et plurium virtualium affectuum ipsorum procedens et concorditer unita”), formed by several individuals but at the same time transcending them as one, is a theological concept that clothes the image of the Eagle. But the proceeding of the Eagle, one and many, has a philosophical implication in that operation proper to the whole of humanity which individuals, taken separately, cannot achieve, on which Dante was meanwhile basing his Monarchia:

“Est ergo aliqua propria operatio humane universitatis, ad quam ipsa universitas hominum in tanta multitudine ordinatur; ad quam quidem operationem nec homo unus, nec domus una, nec una vicinia, nec una civitas, nec regnum particulare pertingere potest” (I, iii, 4).

This operation realises the highest potentiality of humanity, namely the intellectual faculty, and on this, Dante affirms, Averroes agrees in his commentary on Aristotle’s De anima (iii, 7-9). This is an example of how the relationship between the Commedia and Olivi’s Lectura super Apocalipsim is aimed at the search for that universal and superior harmony on earth between opposing city factions, between adverse speculative or theological positions, between empire and papacy, as emphasised by Herbert Grundmann.

Il capitolo XIV dell’Apocalisse si apre con la descrizione della virtù e della gloria dei santi del sesto stato che hanno vinto le persecuzioni dell’Anticristo e stanno con l’Agnello sul monte Sion. La quarta delle sette prerogative loro attribuite è la magnificenza del cantico di giubilo, la cui voce o suono ha a sua volta sette proprietà (Ap 14, 2).
Il primo modo della voce è lì dove dice: “Poi udii una voce dal cielo” (Ap 14, 2), con il che intende che la voce, ovvero il risuonare del canto, era in eccesso sublime e celeste.
Il secondo modo sta nell’essere questa voce irrigua e feconda e procedente in modo concorde e unito da più affetti virtuali di un grande e numeroso collegio di santi, lì dove dice: “come la voce di molte acque”. La voce di una grande e abbondante pioggia procede infatti da molte e quasi innumerevoli gocce come un solo suono proveniente da un solo suonatore, e lo stesso si può dire del suono delle acque del mare o di un fiume. Suona come irrigando di lacrime che impinguano, lavano e rinfrescano e con sospiri che ruggiscono.
Il terzo modo consiste nell’essere la voce altissima, acutissima, possente al massimo nel suo pervadere e scuotere tutto, per cui soggiunge: “e come la voce di un grande tuono”.
Il tema della “vox aquarum multarum” [1], che nello stesso tempo è “unus sonus” (secondo modo), è appropriato nel cielo di Giove alla bella immagine dell’Aquila, che Dante vede e anche sente parlare (citazione da Ap 8, 13: «“Et vidi et audivi vocem unius aquile volantis per medium celi”. Vidit quidem ipsam aquilam et audivit vocem ipsius. – ch’io vidi e anche udi’ parlar lo rostro»), la quale suona nella voce al singolare («e sonar ne la voce e “io” e “mio”») pur essendo formata da molti amori e dunque al plurale nel pensiero (“quand’ era nel concetto e ‘noi’ e ‘nostro’”), come un solo calore si fa sentire da molti carboni ardenti, come un unico profumo da molti fiori (Par. XIX, 10-12; 19-24). Il tema è ripreso all’inizio del canto successivo, allorché l’Aquila tace e gli spiriti di cui è contesta iniziano a cantare, come il cielo, che di giorno solo del sole si accende, dopo il tramonto torna ad essere visibile per le molte luci delle stelle, nelle quali una sola luce, quella del sole, risplende (Par. XX, 1-12). Poi, cessati gli angelici squilli degli spiriti, è di nuovo l’Aquila a parlare con voce che si forma nella gola ed esce “per lo suo becco in forma di parole, / quali aspettava il core ov’ io le scrissi” (vv. 28-30): scrivere nel cuore il “nome” di Dio trino e uno e del Figlio incarnato è la terza prerogativa dei compagni dell’Agnello, di cui ad Ap 14, 1.
Questa voce una, che procede concordemente da molte voci (“ex magno et multo collegio sanctorum et plurium virtualium affectuum ipsorum procedens et concorditer unita”), formata da più individui che al tempo stesso trascende in quanto una, è un concetto teologico che veste l’immagine dell’Aquila. Ma il procedere dell’Aquila, uno e molteplice, ha un risvolto filosofico in quell’operazione propria dell’intera umanità alla quale i singoli, presi per sé, non possono pervenire, sulla quale Dante stava nel frattempo fondando la Monarchia [2]:

“Est ergo aliqua propria operatio humane universitatis, ad quam ipsa universitas hominum in tanta multitudine ordinatur; ad quam quidem operationem nec homo unus, nec domus una, nec una vicinia, nec una civitas, nec regnum particulare pertingere potest” (I, iii, 4).

Questa operazione attua la più alta potenza dell’umanità, cioè la facoltà intellettiva e su ciò, afferma Dante, concorda Averroè nel commento al De anima di Aristotele (iii, 7-9). È questo esempio di come il rapporto fra la Commedia e la Lectura super Apocalipsim dell’Olivi sia volto alla ricerca di quella universale e superiore concordia in terra fra opposte fazioni cittadine, fra posizioni speculative o teologiche avverse, fra impero e papato sottolineata da Herbert Grundmann [3].
Cantano insieme “ad una voce” il salmo “In exitu Isräel de Aegypto” (Ps 113, 1) le più di cento anime che siedono nella navicella che le porta dalla foce del Tevere alla riva dell’isola del purgatorio, guidata dal “celestial nocchiero, / tal che parea beato per iscripto” (Purg. II, 43-48; il tema della “patens inscriptio et expressio”, da Ap 14, 1, rende preferibile questa lezione a quella del Petrocchi “tal che faria beato pur descripto”).
Il “nome”, con il quale “famosa notitia designatur, que respectu Dei non reputatur nisi sit amativa”, che ad Ap 14, 1 viene scritto nel cuore o sulla fronte, ed è espresso con le parole e con le opere, coincide con la “signatio” sulla fronte di quanti (nello stesso numero, 144.000, dei compagni dell’Agnello sul monte Sion) all’apertura del sesto sigillo (Ap 7, 3-4) vengono assunti alla professione della perfezione evangelica, di una più alta milizia cristiana; il segno comporta una loro maggiore configurazione e trasformazione nella passione di Cristo. Le anime giunte alla spiaggia del purgatorio sono ‘segnate’ dall’angelo nocchiero (“Poi fece il segno lor di santa croce”, Purg. II, 49), si volgono verso Dante e Virgilio alzando la fronte (v. 58). Sono “ben finiti … già spiriti eletti” (Purg. III, 73), dunque amici di Dio.
Ma c’è il caso di chi a Dio non è amico. “Frons vero est suprema pars faciei omnibus patula, et ideo quod est scriptum in fronte omnibus se prima facie offert, ita quod potest statim ab omnibus legi. In fronte etiam signa audacie vel sui oppositi cognoscuntur”. I motivi offerti dall’esegesi si ritrovano, scomposti e diversamente appropriati, nell’opposto atteggiarsi di Farinata (“ed el s’ergea col petto e con la fronte”) e di Cavalcante, che si rivolge a Dante piangendo per poi alla risposta ricadere supino nell’avello, in modo disperato. Anche per costui interviene in parte il tema dell’iscrizione sulla fronte, nel momento in cui, per “le sue parole e ’l modo de la pena”, il poeta riesce subito a ‘leggerne il nome’ senza che questi gli si palesi (Inf. X, 35, 64-65).
Il tema della voce una e molteplice risuona nel Limbo, dove la voce che onora l’altissimo poeta Virgilio onora tutti gli altri che hanno in comune il nome di poeta (Inf. IV, 91-93). Nella “bella scola”, formata da più poeti, uno parla a nome di tutti come avviene con l’Aquila del cielo di Giove, e la voce è quella di Omero, “di quel segnor de l’altissimo canto / che sovra li altri com’ aquila vola” (vv. 94-96; cfr. Ap 8, 13): il terzo modo della voce cantante è appunto di essere altissima, come quella di un tuono (cfr., a Par. XXI, 140-142, il grido con cui gli spiriti contemplanti confermano l’invettiva di Pier Damiani contro i prelati). Il “nome”, che designa l’esser noti per fama, è motivo che appartiene alla terza prerogativa dei santi che stanno con Cristo sul monte Sion, interpretato come “specula” in quanto designa lo stato dei contemplativi (Ap 14, 1).
Il tema della “vox citharedorum citharizantium” da Ap 14, 2, collazionato con il passo simmetrico di Ap 5, 8-9, fornisce motivi al finale di Par. XX (vv. 142-148), lì dove le due luci benedette di Traiano e di Rifeo Troiano accompagnano con il movimento delle proprie fiammette le parole dell’Aquila, “pur come batter d’occhi si concorda”, come il buon citarista si concorda, vibrando le corde, con il buon cantore, “in che più di piacer lo canto acquista”.

[1] Il tema della “voce di molte acque” (vox aquarum multarum) si trova in tre passi (Ap 1, 15; 14, 2; 19, 6) i quali, collazionati, forniscono numerose variazioni nel poema.

[2] Ai versi 19-33 di Par. V, parodia di una quaestio di Olivi,  rinvia Monarchia, I, xii, 6.

[3] H. GRUNDMANN, Dante und Joachim von Fiore. Zu Paradiso X-XII, in “Deutsches Dante-Jahrbuch”, 14 (NF 5) 1932, pp. 210-256, ripubblicato in ID., Ausgewählte Aufsätze, 2. Joachim von Fiore, Stuttgart 1977 (Schriften der Monumenta Germaniae Historica. Band 25, 2), pp. 166-210: 193: “Am ehesten scheint mir dafür die von Erich Auerbach geprägte Formel von Dantes Wille zu universaler Konkordanz, zu universaler Einheit zutreffend [E. Auerbach, Dante als Dichter der irdischen Welt, Berlin 1929]. Aber diese Wille geht nicht auf Ausgleich von Gegensätzen in einem Mittelweg. Sondern es ist der Wille und der Glaube und die Sehnsucht, dass sich über allem Streit und Gegensatz der politischen, religiösen, wissenschaftlichen Parteien eine Haltung, eine Gesinnung, eine geistige und politische Bildung und Gestaltung der Menschheit müsse gewinnen lassen, in der alle religiösen und politischen Parteien ihr Recht und alle wissenschaftlichen Richtungen ihre Wahrheit wiederfinden können, ohne wie bisher untereinander in parteiischem Kampfe zu liegen. Damit aber erweist sich Dante gerade hier, wo man seine kirchliche Rechtgläubigkeit glaubte in Frage stellen zu dürfen, als ein im wahren Sinne des Wortes katholischer Geist”.

Tab. XIX.2

[LSA, cap. XIV, Ap 14, 1-2.6-7 (IVa visio)] Tertium est fidei et amoris et contemplationis Dei Patris et Filii humanati in istorum corde et ore singularis et patens inscriptio et expressio, unde subditur: “habentes nomen eius et nomen Patris eius scriptum in frontibus suis” (Ap 14, 1). Per “nomen” famosa notitia designatur, que respectu Dei non reputatur nisi sit amativa. Frons vero est suprema pars faciei omnibus patula, et ideo quod est scriptum in fronte omnibus se prima facie offert, ita quod potest statim ab omnibus legi. In fronte etiam signa audacie vel sui oppositi cognoscuntur. Est ergo sensus quod maiestas Dei trini et Filii humanati sic erat in cordibus istorum impressa et sic per apertam et constantem confessionem oris et operis expressa, quod ab omnibus poterat statim legi et discerni quod ipsi erant de familia Agni et singulares socii eius.
Nomen autem Spiritus Sancti non dicitur hic scriptum, quia in ipsa inscriptione subintelligitur. Nam inscriptio et infusio gratie sibi appropriatur, et dare Spiritum Sanctum nobis <est> nobis inscribere nomen Christi et Patris eius et e contrario. […]
Quartum est excessiva precellentia iubilator<ii> cantici  istorum, quam quidem septiformiter magnificat.

(1) Primo scilicet cum dicit: “Et audivi vocem de celo” (Ap 14, 2), in quo innuit quod vox seu resonantia cantici eorum erat excessive sublimis et celestis.

(2) Secundo quod erat irrig<u>a et fecunda et ex magno et multo collegio sanctorum et plurium virtualium affectuum ipsorum procedens et concorditer unita, cum dicit: “tamquam vocem aquarum multarum”. Vox enim magne et multe pluvie est ex multis  et quasi innumerabilibus guttis, proceditque quasi tamquam unus sonus et quasi ab uno sonante, et idem est de sono aquarum maris vel fluminis. Sonat etiam quasi cum irriguo pinguium et lavantium et refrigerantium lacrimarum et rugientium suspiriorum.

(3) Tertio quod erat altissima et acutissima et maxima et potentissima et omnia replens et concutiens, qualis scilicet est vox tonitrui magni. Unde subdit: “et tamquam vocem  tonitrui magni ”. […]

Secundo in omnibus operationibus et intentionibus nostris eius honorem et gloriam prosequi et intendere, unde subdit: “et date illi honorem” (Ap 14, 6). Ubi et subditur secunda ratio motiva, scilicet imminens vicinitas et quasi presentialitas iudicii eius, qui in quantum malos dampnabit est super omnia metuendus, in quantum vero bonos remunerabit est super omnia diligendus et colendus. Licet autem hoc iudicium sit semper timendum et predicandum, precipue tamen tunc per maiorem et evidentiorem propinquitatem ipsius. […] Angelum autem hec predicantem eiusque predicationem magnificat quoad quattuor (Ap 14, 6-7).
Primo scilicet quantum ad eminentiam seu volatum celestis conversationis et contemplationis, cum ait (Ap 14, 6): “volantem per medium celi”. Secundo quia eius doctrina non est terrena nec de temporalibus et caducis, sed potius eterna et de eternis, cum ait: “habentem evangelium eternum”. Licet enim omnium sanctorum nove legis sit talis, istorum tamen erit magis anthonomasice talis, quia altius et ferventius predicabunt mundi contemptum et paupertatem altissimam et eternam vitam.
Tertio quia eius predicatio non est ad solam unam gentem sed ad omnem et in totum orbem, unde subdit: “ut evangelizaret sedentibus super terram et super omnem gentem et tribum et linguam et populum”.
Quarto quia non predicabit tepide vel remisse aut inefficaciter, immo modis omnino contrariis et supremis, unde subdit (Ap 14, 7): “dicentem magna voce”.

Purg. II, 43-48

Da poppa stava il celestial nocchiero,
tal che parea beato per iscripto;
e più di cento spirti entro sediero.
In exitu Isräel de Aegypto
cantavan  tutti insieme ad una voce
con quanto di quel salmo è poscia scripto.

Inf. IV, 76-84, 91-96; XX, 112-114

E quelli a me: “L’onrata nominanza
che di lor suona sù ne la tua vita,

grazïa acquista in ciel che sì li avanza”.
Intanto voce fu per me udita:
Onorate l’altissimo poeta;
l’ombra sua torna, ch’era dipartita”.
Poi che la voce fu restata e queta,
vidi quattro grand’ ombre a noi venire:
sembianz’ avevan né trista né lieta.

“Però che ciascun meco si convene
nel nome che sonò la voce sola,
fannomi onore, e di ciò fanno bene”.
Così vid’ i’ adunar la bella scola
di quel segnor de l’altissimo canto
che sovra li altri com’ aquila vola8, 13

Euripilo ebbe nome, e così ’l canta
l’alta mia tragedìa in alcun loco:
ben lo sai tu che la sai tutta quanta.

Inf. X, 35, 58, 64-66

ed el s’ergea col petto e con la fronte

piangendo disse ……………………..

Le sue parole e ’l modo de la pena
m’avean di costui già letto il nome;
però fu la risposta così piena.

 

Par. XIX, 10-12, 19-25; XX, 1-6, 28-30

ch’io vidi e anche udi’ parlar lo rostro,
e sonar  ne la voce e “io” e “mio”,
quand’ era nel concetto e ‘noi’ e ‘nostro’.

Così un sol calor di molte  brage
si fa sentir, come di molti  amori
usciva solo un suon di quella image.
Ond’ io appresso: “O perpetüi fiori
de l’etterna letizia, che pur uno
parer mi fate tutti vostri odori,

solvetemi, spirando, il gran digiuno …”

Quando colui che tutto ’l mondo alluma
de l’emisperio nostro sì discende,
che ’l giorno d’ogne parte si consuma,
lo ciel, che sol di lui prima s’accende,
subitamente si rifà parvente
per molte luci, in che una risplende

Fecesi voce quivi, e quindi uscissi
per lo suo becco in forma di parole,
quali aspettava il core ov’ io le scrissi. 

Par. XXI, 139-142

Dintorno a questa vennero e fermarsi,
e fero un grido di sì alto suono,
che non potrebbe qui assomigliarsi;
né io lo ’ntesi; sì mi vinse il tuono.

Inf. XVI, 91-93, 103-105

Io lo seguiva, e poco eravam iti,
che l suon de l’acqua n’era sì vicino,
che per parlar saremmo a pena uditi.

così, giù d’una ripa discoscesa,
trovammo risonar quell’ acqua tinta,
sì che ’n poc’ ora avria l’orecchia offesa.

[LSA, cap. VI, Ap 6, 6 (IIa visio, IIIum sigillum)] Per vocem autem in medio quattuor animalium factam et auditam potest significari resonantia quadruplicis perfectionis Christi secundum quas oportebat formari quattuor ordines perfectorum in ecclesia Christi, ita quod nullis temptationibus aut persecutionibus posset hic impediri. Quis enim diceret quod post tempus apostolorum et martirum, idolatria paganorum destructa, non deberet clarificari et perfici Christi ecclesia in celesti sapientia et vita que in ordine doctorum et anachoritarum singulariter refulserunt?

Nella topografia spirituale del Paradiso, il sesto cielo di Giove è anche terzo a partire dal cielo del Sole, dal quale iniziano le “alte rote” (Par. X, 7-27) prive del cono d’ombra gettato dalla terra (IX, 118-119). Corrisponde al terzo stato della Chiesa, proprio dei dottori, per la spiegazione di profonde verità di fede. Sviluppa inoltre il motivo, proprio della sesta chiesa, della “porta aperta” (Ap 3, 8). Aprire la porta significa illuminare e rendere acuto l’intelletto che penetra nell’occulto delle Scritture, e anche dare efficacia spirituale a penetrare nel cuore di chi ascolta: così l’Aquila apre la “latebra” di Dante, così l’occhio di Rifeo Troiano fu da Dio aperto alla futura redenzione.
Nel parlare dell’Aquila si registrano numerosi elementi semantici che fanno segno della tematica del terzo stato, per antonomasia il periodo
dell’uomo razionale, del bandire l’alto preconio (Notabile I), del lume della ragione (prologo, Notabile X), del far vedere l’arcano nei sacramenti (Notabile XIII), del discernimento sulla base dell’esperienza (Ap 2, 1), della bilancia che misura le verità di fede o l’errore (terzo sigillo, Ap 6, 5), del valore che si lucra a poco prezzo acquistando la dottrina di Cristo (Ap 5, 1). La terza vittoria è il superamento dell’erronea fantasia che si fonda sui sensi, il premio è il “calculum lucidum”, ci0è Cristo umile quasi un “lapillus” (Ap 2, 17). Le luci che formano l’Aquila sono appunto “lucidi lapilli” (Par. XX, 16-18); vedere e udire parlare “lo rostro” è cosa che “non portò voce mai, né scrisse incostro, / né fu per fantasia già mai compreso” (XIX, 8-9). Il poeta consegue la terza vittoria, cioè ascende al di sopra della fantasia, che muove dalle percezioni sensibili, pervenendo all’“imaginativa”, stimolata da un lume che prende forma nel cielo, o per influsso celeste o perché mandato da Dio (Purg. XVII, 13-18).
Non mancano, nel parlare dell’Aquila, motivi del quarto stato. Le due ali designano due periodi della Chiesa (terzo stato, dei dottori dotati della spada della ragione, e quarto stato, dei contemplativi, devoti al pasto eucaristico), che sono anche istituzioni distinte e concorrenti (potestà temporale e potestà spirituale), le quali per Dante indirizzano alle due beatitudini, terrena e celeste. L’Aquila fa pertanto segno del pasturale, nella similitudine:
“Quale sovresso il nido si rigira / poi c’ha pasciuti la cicogna i figli, / e come quel ch’è pasto la rimira” (XIX, 91-93). Il cielo seguente, di Saturno, quarto a partire dal cielo del Sole, dove si manifestano gli spiriti contemplativi, è appunto tessuto in prevalenza con temi del quarto stato.
I “lapilli”, letteralmente, sono le pietre preziose. Le fondamenta della Gerusalemme celeste descritta nella settima visione sono ornate con dodici pietre preziose: diaspro, zaffiro, calcedonio, smeraldo, sardonice, cornalina, crisòlito, berillo, topazio, crisopazio, giacinto, ametista (Ap 21, 19-20). Le proprietà di queste gemme, che sono virtù, vengono variamente distribuite. I beati che formano l’Aquila “parea ciascuna rubinetto in cui / raggio di sole ardesse sì acceso, / che ne’ miei occhi rifrangesse lui” (Par. XIX, 4-6): il riferimento è alla cornalina (“sardius”) e al crisòlito, mentre il rifrangersi del sole rinvia all’esegesi dell’iride ad Ap 4, 3. I “lucidi lapilli” sono cari, cioè preziosi (è da rigettare la variante chiari). L’esegesi apocalittica concorda con Ovidio: “Vos quoque nec caris aures onerate lapillis” (Ars 3, 129).

Tab. XIX.3

[LSA, cap. II, Ap 2, 1] (III) Tertium (exercitium) est discretio prudentie ex temptamentorum experientiis, et exercitiis acquisita providens conferentia et excludens stulta et erronea.

[LSA, prologus, Notabile I] (III) Tertius (status) est confessorum seu doctorum, homini rationali appropriatus.

[LSA, cap. V, Ap 5, 1 (IIIum sigillum)] (III) Deum autem humanari ac sperni et mori, ut Deomet satisfiat de iniuriis sibi ab alio factis, et ut illos tali pretio redimeret, qui simpliciter erant sub dominio suo et quos per solam potentiam salvare poterat, pretendit summam stultitiam. […] Contra stultitiam vero, est mercationum doctrine Christi lucrosus et incomparabilis valor. Nam pro denario unius et simplicis fidei habetur impretiabile triticum et ordeum et vinum et oleum, prout in tertia apertione monstratur (cfr. Ap 6, 6). (IVContra vero inopiam est eiusdem doctrine refectivus et copiosissimus sapor. Sicut enim mercatio sapientie per fidele studium scripturarum refertur ad doctores, et statera dolosi erroris, a recta equilibratione veritatis claudicans, respicit hereticos, sic spiritalis sapor et refectio eiusdem sapientie Christi refertur ad anachoritas, tantam eisdem sufficientiam tribuens ut nichil exterius querere viderentur nec aliquo exteriori egere, propter quod quasi nudi et soli in solitudinibus habitabant spiritalibus divitiis habundantes.

[Ap 2, 17; IIIa victoria] Tertia est victoriosus ascensus super phantasmata suorum sensuum, quorum sequela est causa errorum et heresum. Hic autem ascensus fit per prudentiam effugantem illorum nubila et errores ac impetus precipites et temerarios ac tempestuosos. Hoc autem competit doctoribus phantasticos hereticorum errores expugnantibus, quibus et competit premium singularis apprehensionis et degustationis archane sapientie Dei, de quo tertie ecclesie dicitur: “Vincenti dabo manna absconditum, et dabo ei calculum lucidum, et in calculo nomen novum scriptum, quod nemo novit, nisi qui accipit” (Ap 2, 17). […] Calculus autem, id est lapillus parvulus et solidus, pedibus sepe calcatus, est homo Christus pro nobis humiliatus et exinanitus, luce gratie et glorie et deitatis <per>fusus, in quo est nomen novum.

[LSA, cap. VI, Ap 6, 5 (IIa visio, apertio IIIii sigilli)] “Et cum aperuisset sigillum tertium, audivi tertium animal” (Ap 6, 5), scilicet quod habebat faciem hominis, “dicens: Veni”, scilicet per maiorem attentionem vel per imitationem fidei doctorum hic per hominem designatorum, “et vide. Et ecce equus niger”, id est hereticorum et precipue arrianorum exercitus astutia fallaci obscurus et erroribus luci Christi contrariis denigratus. “Et qui sedebat super eum”, scilicet imperatores et episcopi arriani, “habebat stateram in manu sua”. Cum statera mensuratur quantitas ponderum, et ideo per stateram designatur hic mensuratio articulorum fidei, que quando fit per rectam et infallibilem regulam Christi et scripturarum suarum est recta statera, de qua Proverbiorum XVI° dicitur: “Pondus et statera iudicia Domini sunt” (Pro 16, 11), et Ecclesiastici XXI°: “Verba prudentium statera ponderabuntur” (Ecli 21, 28); quando vero fit per rationem erroneam et per falsam et intortam acceptionem scripture est statera dolosa, de qua Proverbiorum XI° dicitur: “Statera dolosa abhominatio est apud Deum” (Pro 11, 1), et in Psalmo: “Mendaces filii hominum in stateris” (Ps 61, 10), et Michee VI°: “Numquid iustificabo stateram impiam et sac<c>elli pondera dolosa” (Mic 6, 11).

Par. I, 13-15, 88-90, 106-108, 133-135

O buono Appollo, a l’ultimo lavoro
fammi del tuo valor sì fatto vaso,   12, 17
come dimandi a dar l’amato alloro.

e cominciò: « Tu stesso ti fai grosso
col falso imaginar, sì che non vedi
ciò che vedresti se l’avessi scosso.

Qui veggion l’alte creature l’orma
 de l’etterno valore, il quale è fine
 al quale è fatta la toccata norma.

e sì come veder si può cadere
foco di nube, sì l’impeto primo
 l’atterra torto da falso piacere.

Par. X, 1-6, 13-36

Guardando nel suo Figlio con l’Amore
che l’uno e l’altro etternalmente spira,
lo primo e ineffabile Valore
quanto per mente e per loco si gira
con tant’ ordine fé, ch’esser non puote
sanza gustar di lui chi ciò rimira.

Vedi come da indi si dirama
l’oblico cerchio che i pianeti porta,
per sodisfare al mondo che li chiama.
Che se la strada lor non fosse torta,
molta virtù nel ciel sarebbe in vano,
e quasi ogne potenza qua giù morta;
e se dal dritto più o men lontano
fosse ’l partire, assai sarebbe manco
e giù e sù de l’ordine mondano.
Or ti riman, lettor, sovra ’l tuo banco,
dietro pensando a ciò che si preliba,
s’esser vuoi lieto assai prima che stanco.
Messo t’ho innanzi: omai per te ti ciba;
ché a sé torce tutta la mia cura
quella materia ond’ io son fatto scriba.
Lo ministro maggior de la natura,
che del valor del ciel lo mondo imprenta
e col suo lume il tempo ne misura,
con quella parte che sù si rammenta
congiunto, si girava per le spire
in che più tosto ognora s’appresenta;
e io era con lui; ma del salire
non m’accors’ io, se non com’ uom s’accorge,
anzi ’l primo pensier, del suo venire.

[LSA, prologus, Notabile I] In tertio (statu) sonus predicationis seu eruditionis et tuba magistralis. […] In tertio precones christiane sapientie.

[LSA, prologis, Notabile XIII] (III) Status vero doctorum assimilatur ordinibus sacerdotalibus. Nam, secundum Dionysium, libro ecclesiastice hierarchie, ordo sacerdotalis est illuminativus, et ordo ponti-ficalis est ultra hoc in Dei sapientia perfectivus, et eius est archanas rationes sacramentorum videre et alios docere.

Par. XIII, 28-33, 37-48

Compié ’l cantare e ’l volger sua misura;
e attesersi a noi quei santi lumi,
felicitando sé di cura in cura.
Ruppe il silenzio ne’ concordi numi
poscia la luce in che mirabil vita
del poverel di Dio narrata fumi

Tu credi che nel petto onde la costa
si trasse per formar la bella guancia
il cui palato a tutto ’l mondo costa,
e in quel che, forato da la lancia,
e prima e poscia tanto sodisfece,
che d’ogne colpa vince la bilancia,
quantunque a la natura umana lece
aver di lume, tutto fosse infuso
da quel valor che l’uno e l’altro fece;
e però miri a ciò ch’io dissi suso,
quando narrai che non ebbe ’l secondo
lo ben che ne la quinta luce è chiuso.

Par. XIX, 40-57, 64-66, 70-75

Poi cominciò: “Colui che volse il sesto
a lo stremo del mondo, e dentro ad esso
distinse tanto occulto e manifesto,
non poté suo valor sì fare impresso
in tutto l’universo, che ’l suo verbo
non rimanesse in infinito eccesso.
E ciò fa certo che ’l primo superbo,
che fu la somma d’ogne creatura,
per non aspettar lume, cadde acerbo;
e quinci appar ch’ogne minor natura
è corto recettacolo a quel bene
che non ha fine e sé con sé misura.
Dunque vostra veduta, che convene
essere alcun de’ raggi de la mente
di che tutte le cose son ripiene,
non pò da sua natura esser possente
tanto, che suo principio non discerna
molto di là da quel che l’è parvente.

Lume non è, se non vien dal sereno
che non si turba mai; anzi è tenèbra
od ombra de la carne o suo veleno.

ché tu dicevi: ‘Un uom nasce a la riva
de l’Indo, e quivi non è chi ragioni
di Cristo né chi legga né chi scriva;
e tutti suoi voleri e atti buoni
sono, quanto ragione umana vede,
sanza peccato in vita o in sermoni’.

Par. XX, 46-48, 67-72

ora conosce quanto caro costa
non seguir Cristo, per l’esperïenza
di questa dolce vita e de l’opposta.

Chi crederebbe giù nel mondo errante
che Rifëo Troiano in questo tondo

fosse la quinta de le luci sante?
Ora conosce assai di quel che ’l mondo
veder non può de la divina grazia,
ben che sua vista non discerna il fondo

Par. XXVI, 31-48, 61-63

Dunque a l’essenza ov’ è tanto avvantaggio,
che ciascun ben che fuor di lei si trova
altro non è ch’un lume di suo raggio,
più che in altra convien che si mova
la mente, amando, di ciascun che cerne
il vero in che si fonda questa prova.
Tal vero a l’intelletto mïo sterne
colui che mi dimostra il primo amore
di tutte le sustanze sempiterne.
Sternel la voce del verace autore,
che dice a Moïsè, di sé parlando:
‘Io ti farò vedere ogne valore’.
Sternilmi tu ancora, incominciando
l’alto preconio che grida l’arcano
di qui là giù sovra ogne altro bando”.
E io udi’: “Per intelletto umano
e per autoritadi a lui concorde
d’i tuoi amori a Dio guarda il sovrano”.

con la predetta conoscenza viva,
tratto m’hanno del mar de l’amor torto,
e del diritto m’han posto a la riva.

Par. III, 22-24

e nulla vidi, e ritorsili avanti
dritti nel lume de la dolce guida,
che, sorridendo, ardea ne li occhi santi.

 

[LSA, prologus, Notabile X] Prout vero status ab invicem per certam propriorum donorum et officiorum preeminentiam ac multitudinis personarum in ipsis concurrentium distinguuntur, sic concurrit tertius cum quarto non quidem in eodem statu sed in eodem tempore. […] Ideo autem quartus status concurrit eodem tempore cum tertio, quia sicut affectus exigit notitiam intellectus, nec ista notitia est sancta absque sancto affectu, sic affectualis exercitatio et contemplatio anachoritarum et sanctorum illitteratorum eguit preclaro lumine doctorum, nec illud preclarum esse potuit absque precellentia vite. Unde ad mutuum obsequium et ad meridiem universi orbis tunc ad fidem conversi simul clarificandam et inflammandam debuerunt illi duo status concurrere simul. Sicut autem notitia preit amorem, quia non potest amari nisi cognitum, sic status doctorum in hoc libro premittitur ante statum anachoritarum; in quarta tamen visione ostenduntur simul concurrere, ubi dicitur quod “date sunt mulieri due ale aquile magne ut volaret in desertum” (Ap 12, 14). Quod autem de facto insimul concurrant, patet ex cronicis. […]

Tab. XIX.4

[LSA, cap. II, Ap 2, 17 (IIIa victoria)] Tertia est victorio-sus ascensus super phantasmata suorum sensuum, quorum sequela est causa errorum et heresum. Hic autem ascensus fit per prudentiam effugantem illorum nubila et errores ac impetus precipites et temerarios ac tempestuosos. Hoc autem competit doctoribus phantasticos hereticorum errores expugnantibus, quibus et competit premium singularis apprehensionis et degustationis archane sapientie Dei, de quo tertie ecclesie dicitur: “Vincenti dabo manna absconditum, et dabo ei calculum lucidum, et in calculo nomen novum scriptum, quod nemo novit, nisi qui accipit” (Ap 2, 17). […] Calculus autem, id est lapillus parvulus et solidus, pedibus sepe calcatus, est homo Christus pro nobis humiliatus et exinanitus, luce gratie et glorie et deitatis <per>fusus, in quo est nomen novum. Nichil enim magis novum quam quod Deus sit homo et homo Deus, et quod Deus tantum amaverit hominem lapsum et ab ipso iuste dampnatum quod dederit se ei in fratrem, socium et sponsum, et <in> pretium et in cibum et in premium. Hoc tamen nomen nemo affectualiter et experimentaliter novit nisi accipiat ipsum in visceribus sui amoris; non etiam intelligit ipsum nisi per fidem firmam et claram accipiat ipsum.

[LSA, cap. VI, Ap 6, 5 (IIa visio, apertio IIIii sigilli)] “Et cum aperuisset sigillum tertium, audivi tertium animal” (Ap 6, 5), scilicet quod habebat faciem hominis, “dicens: Veni”, scilicet per maiorem attentionem vel per imitationem fidei doctorum hic per hominem designatorum, “et vide. Et ecce equus niger”, id est hereticorum et precipue arrianorum exercitus astutia fallaci obscurus et erroribus luci Christi contrariis denigratus. “Et qui sedebat super eum”, scilicet imperatores et episcopi arriani, “habebat stateram in manu sua”. Cum statera mensuratur quantitas ponderum, et ideo per stateram designatur hic mensuratio articulorum fidei, que quando fit per rectam et infallibilem regulam Christi et scripturarum suarum est recta statera, de qua Proverbiorum XVI° dicitur: “Pondus et statera iudicia Domini sunt” (Pro 16, 11), et Ecclesiastici XXI°: “Verba prudentium statera ponderabuntur” (Ecli 21, 28); quando vero fit per rationem erroneam et per falsam et intortam acceptionem scripture est statera dolosa, de qua Proverbiorum XI° dicitur: “Statera dolosa abhominatio est apud Deum” (Pro 11, 1), et in Psalmo: “Mendaces filii hominum in stateris” (Ps 61, 10), et Michee VI°: “Numquid iustificabo stateram impiam et sac<c>elli pondera dolosa” (Mic 6, 11).

ParX, 40-48

Quant’ esser convenia da sé lucente
quel ch’era dentro al sol dov’ io entra’mi,

non per color, ma per lume parvente!
Perch’ io lo ’ngegno e l’arte e l’uso chiami,
sì nol direi che mai s’imaginasse;
ma creder puossi e di veder si brami.
E se le fantasie nostre son basse
a tanta altezza, non è maraviglia;
ché sopra ’l sol non fu occhio ch’andasse.

Purg. II, 70-72, 88-89

E come a messagger che porta ulivo
tragge la gente per udir novelle,
e di calcar nessun si mostra schivo

Rispuosemi: “Così com’ io t’amai
nel mortal corpo, così t’amo sciolta”

Par. XIX, 7-9, 49-51; XX, 16-18, 67-69

E quel che mi convien ritrar testeso,
non portò voce mai, né scrisse incostro,
né fu per fantasia già mai compreso

e quinci appar ch’ogne minor natura
è corto recettacolo a quel bene
che non ha fine e sé con sé misura.

Poscia che i cari e lucidi lapilli
ond’ io vidi ingemmato il sesto lume

puoser silenzio a li angelici squilli

Chi crederebbe giù nel mondo errante
che Rifëo Troiano in questo tondo

fosse la quinta de le luci sante?

Par. XIII, 1-3, 7, 10

Imagini, chi bene intender cupe
quel ch’i’ or vidi – e ritegna l’image,
 mentre ch’io dico, come ferma rupe

imagini quel carro a cu’ il seno

imagini la bocca di quel corno

A Par. XIX, 49 – “quinci appar ch’ogne minor natura” -, la variante miglior “è superiore nella sostanza […] e più ricercata nella struttura linguistica” (Inglese). Essa risulta prevalente anche dal confronto con la Lectura. Nella terzina che precede (vv. 46-48) l’Aquila afferma che Lucifero, la somma creatura, cadde per superbia: la parodia varia quanto ad Ap 2, 5 viene detto del vescovo di Efeso, metropolita delle sette chiese d’Asia, il quale per superbia è caduto dal culmine della prima grazia (“caritas prima”; la primitas nei versi è attribuita a Lucidero, “’l primo superbo”). L’avverbio quinci (v. 49) fa conseguire nella terzina quanto affermato di Lucifero, il quale cadde dalla prima grazia, prima non solo nel tempo, ma anche perché migliore. Dunque come fu primo (per superbia), così fu anche la miglior natura. Pur essendo tale, fu “corto recettacolo” al bene divino. I termini rimanesse, recettacolo (vv. 45, 50) rinviano ad Ap 12, 17 (quinta guerra): nel vaso rimangono poche reliquie del vino purissimo, appropriato al valore divino (nell’esegesi al terzo e quarto stato della Chiesa; cfr. Par. I, 13-18; XXI, 124-126).

Tab. XIX.4 bis

[LSA, cap. II, Ap 2, 4-5 (Ia visio, Ia ecclesia)] Attende autem quod de tantis virtutibus et earum operibus commendatum confestim increpat, tum ut de tantis bonis et de tanta laude non superbiat, tum ne propter tanta bona credat se in nullo deficientem nec de aliquo increpandum, tum ut se emendet, tum ut nos propter multa bona non cessemus formidare nos esse in pluribus et gravibus defectivos et reos.
Subdit ergo (Ap 2, 4): “Sed habeo adversum te” (quidam addunt “pauca”, sed non est de textu nisi solum in tertia ecclesia [cfr. Ap 2, 14], non autem hic nec in quarta [cfr. Ap 2, 20]) “quod caritatem tuam primam reliquisti”.
Ricardus: «id est, quia te in dilectione Dei et proximi minorasti. Non dicit absolute ‘quod caritatem reliquisti’, sed “quod caritatem primam”, ex quo animadvertere possumus quod in bono quidem fuit minoratus sed non omnino bono evacuatus. In gratia enim accepta nimis secure vixerat et quedam negligenter egerat, et ideo de culmine sue perfectionis ceciderat ad minorationem sue perfectionis.
Sed Dominus eum consulendo admonet ut penitendo gradum amissum recuperet, dicens (Ap 2, 5): “Memor esto itaque unde excideris, et age penitentiam et prima opera fac”. Quasi dicat: attende quod de fastigio tue perfectionis excideris et ad infimum perfectionis decideris, et age penitentiam de negligentia, et prima opera faciendo recupera primam gratiam». Hec Ricardus*.
In quibus satis expresse videtur sentire quod caritas potest minui absque hoc quod tota perdatur, et hoc ipsum sapit hic textus satis. De hoc autem amplius tetigi in questione an peccatum veniale sit contra preceptum, et in prima parte summe, questione an Deus possit velle minuere caritatem alicuius. Per caritatem ergo primam intelligit non solum primam tempore, sed etiam maioritate et melioritate.

* In Ap I, v (PL 196, col. 716 C-D).

Par. XIX, 40-51

Poi cominciò: “Colui che volse il sesto
a lo stremo del mondo, e dentro ad esso
distinse tanto occulto e manifesto,
non poté suo valor sì fare impresso
in tutto l’universo, che ’l suo verbo
non rimanesse in infinito eccesso.   12, 17
E ciò fa certo che ’l primo superbo,
che fu la somma d’ogne creatura,
per non aspettar lume, cadde acerbo;
e quinci appar ch’ogne minor natura   miglior
è corto recettacolo a quel bene   12, 17
che non ha fine e sé con sé misura”.

Par. I, 13-18

O buono Appollo, a l’ultimo lavoro
fammi del tuo valor sì fatto vaso,
come dimandi a dar l’amato alloro.
Infino a qui l’un giogo di Parnaso
assai mi fu; ma or con amendue
m’è uopo intrar ne l’aringo rimaso.

Par. XXI, 124-126 

Poca vita mortal m’era rimasa,
quando fui chiesto e tratto a quel cappello,
che pur di male in peggio si travasa.

[LSA, cap. XII, Ap 12, 17 (IVa visio, Vum prelium)] Dicit ergo: “Et iratus est dracho in mulierem” (Ap 12, 17). Nota quod quanto plus et pluries videt se vinci ab ecclesia et prole eius, tanto maiori ira exardescit ad illam fortius temptandam et deiciendam.
“Et abiit facere bellum cum reliquis de semine eius, qui custodiunt mandata Dei et habent testimonium Ihesu”, id est fidelem confessionem Christi per quam testimonium perhibent de Christo. Duo ponit necessaria ad salutem, scilicet observantiam mandatorum et fidem Christi exteriori professione et confessione expressam.
Ioachim dicit quod semen mulieris est Christus raptus ad tronum cum martiribus suis, et istud semen precesserat; aliud autem remanserat designatum in Iohanne evangelista, scilicet ordo monachorum quarti temporis meridianam plagam incolentium. Et ideo vocat eos reliquos seu residuos de semine mulieris.
Videtur tamen quod post Christum et martires ubique dispersos egit de ecclesia post Constantinum in unum collecta et duabus alis, id est duobus ordinibus doctorum scilicet et anachoritarum altivolis, adornata et in altum sublevata, et tam in deserto gentilitatis quam in deserto contemplative solitudinis alimentum sue refectionis habente. Post hoc autem restabat agere de reliquis tam predicti temporis quam de reliquis in quinto statu relictis. Utrique enim signanter vocantur reliqui seu reliquie, quia sicut bibita superiori et puriori et maiori parte vini vasis magni restant pauce reliquie cum fecibus quibus sunt propinque et quasi commixte, sic de plenitudine purissimi vini doctorum et anachoritarum tertii et quarti temporis remanserunt reliquie circa tempora Sarracenorum; ac deinde pluribus ecclesiis per Sarracenos vastatis et occupatis, Grecisque a romana ecclesia separatis, remansit in quinto tempore sola latina ecclesia tamquam reliquie prioris ecclesie per totum orbem diffuse. De utrisque ergo reliquiis simul agit, tum quia in utrisque remissio habundavit respectu perfectionis priorum, tum quia bestia sarracenica contra utrosque pugnavit quamvis primo contra primos.

Tab. XIX.5

[LSA, cap. IV, Ap 4, 2-3 (radix IIe visionis)] Dicit ergo (Ap 4, 2): “Et ecce sedes posita erat in celo, et supra sedem sedens”, scilicet erat. Deus enim Pater apparebat ei quasi sub specie regis sedentis super solium. […] “Et qui sedebat, similis erat aspectui”, id est aspectibili seu visibili forme, “lapidis iaspidis et sardini” (Ap 4, 3). Lapidi dicitur similis, quia Deus est per naturam firmus et immutabilis et in sua iustitia solidus et stabilis, et firmiter regit et statuit omnia per potentiam infrangibilem proprie virtutis. Lapidi vero pretioso dicitur similis, quia quicquid est in Deo est pretiosissimum super omnia. Sicut autem iaspis est viridis, sardius vero rubeus et coloris sanguinei, sic Deus habet in se immarcescibilem decorem et virorem delectabilissimum electis, gratioso virori gemmarum et herbarum assimilatum. Rubet etiam caritate et pietate ad electos et fervida iracundia seu odio ad reprobos. Rubet etiam in eo quod voluit et fecit suum Filium pro nobis sanguine rubificari.
   “Et iris erat in circuitu sedis similis visioni <s>maragdine”, id est viridis coloris smaragdi. Smaragdus enim est gemma cui, secundum Isidorum et Papiam, nichil viridius comparatur. Nam virentes herbas et frondes exsuperat et intingit circa se viriditate repercussum aerem, soloque intuitu implet oculos nec satiat, est enim gratiosissima visui. Iris autem est archus viridis et splendidus, generatus in nube aquosa et rorida ex radiosa repercussione solis, et secundum quosdam dicitur iris quasi aeris, quia per aera descendit ad terram.

[LSA, cap. XXI; Ap 21, 19-20 (VIIa visio)] “Smaragdus” (Ap 21, 19), qui est summe viriditatis, habens colorem purissimi olei, significat dulcorem et gratiosam contemperantiam pietatis seu miseri-cordie. […]
“Sardius” (Ap 21, 20), qui est coloris sanguinei et rubentis, significat fervens desiderium martirii et perfectam tolerantiam eius.
“Crisolitus”, qui fulget quasi aurum et scintillas emittit ardentes, designat ignitam Dei sapientiam et doctrinam a qua instar scintillarum procedunt verba flammantia.
“Berillus”, qui si positus fuerit in sexangula forma, lucet quasi aqua sole percussa, et qui tante caliditatis esse dicitur ut urat manum tenentis, designat per-fectam activam, que suo exemplo accendit proximos ad sui imitationem.

Par. IV, 82-87

Se fosse stato lor volere intero,
come tenne Lorenzo in su la grada,
e fece Muzio a la sua man severo,
così l’avria ripinte per la strada
ond’ eran tratte, come fuoro sciolte;
ma così salda voglia è troppo rada.

Par. VII, 64-66

La divina bontà, che da sé sperne
ogne livore, ardendo in sé, sfavilla
sì che dispiega le bellezze etterne. 

Par. IX, 112-114

Tu vuo’ saper chi è in questa lumera
che qui appresso me così scintilla
come raggio di sole in acqua mera.

Par. III, 37-41

O ben creato spirito, che a’ rai
 di vita etterna la dolcezza senti
 che, non gustata, non s’intende mai,
grazïoso mia fia se mi contenti
 del nome tuo e de la vostra sorte.

 

Par. XIX, 4-6

parea ciascuna rubinetto in cui
raggio di sole ardesseacceso,
che ne’ miei occhi rifrangesse lui. 

Par. II, 31-42

Parev’ a me che nube ne coprisse
lucida, spessa, solida e pulita,
quasi adamante che lo sol ferisse.
Per entro sé l’etterna margarita
ne ricevette, com’ acqua recepe
raggio di luce permanendo unita.
S’io era corpo, e qui non si concepe
com’ una dimensione altra patio,
ch’esser convien se corpo in corpo repe,
accender ne dovria più il disio
di veder quella essenza in che si vede
come nostra natura e Dio s’unio.


3. I libri aperti

 

The Eagle speaks by parodying the themes of the “book written within and without” (Rev 5:1) and the “book of life” (Rev 20:12), in which are written both the salvation of pagans such as Rifeo Troiano and Traiano, and the misdeeds of christian princes.

3.1. Il libro segnato da sette sigilli

Nel quarto capitolo dell’Apocalisse viene mostrata la gloria e la magnificenza della maestà divina, nel quinto l’incomprensibile profondità del libro che sta per essere aperto da Cristo. Per questo si dice: “E vidi nella mano destra di Colui che era seduto sul trono un libro scritto dentro e fuori, sigillato con sette sigilli” (Ap 5, 1). Il libro designa in primo luogo la prescienza divina e la predestinazione a riparare l’universo per opera di Cristo. Per appropriazione, è il Verbo stesso del Padre in quanto espressivo della sua sapienza e in quanto il Padre, nel generarlo, scrisse in esso tutta la sua sapienza. In secondo luogo, il libro è la scienza delle intelligenze angeliche data ad esse da Dio e in esse scritta, che è scienza di tutta la grazia e la gloria degli eletti e del culto di Dio che deve compiersi per mezzo di Cristo. È pertanto, assai di più, la scienza universale scritta da Dio nell’anima di Cristo. In terzo luogo, è il volume della Sacra Scrittura e in particolare dell’Antico Testamento, nel quale il Nuovo venne rinchiuso, sigillato e velato sotto varie figure.
Con i temi del libro è tessuto, nel cielo di Giove, il linguaggio dell’Aquila. Rifeo Troiano, quinta delle luci sante che cerchiano l’occhio della benedetta immagine, per la grazia che deriva “da sì profonda fontana”, inaccessibile a occhio creato, mise in terra tutto il suo amore per la giustizia e così, di grazia in grazia, Dio gli aperse l’occhio alla futura redenzione umana facendo in modo che credesse. Più avanti nell’esegesi, ad Ap 5, 3, si afferma che nessuno, senza la grazia di Dio e la presupposizione del merito di Cristo, poteva avere l’implicita fede e l’intelligenza simboleggiata dal libro chiuso con i sette sigilli. Alla meraviglia del poeta di vedere un pagano fra i beati (insieme a Traiano, che però già la leggenda voleva salvato) l’Aquila replica dichiarando remota la radice della predestinazione dalle viste create (Par. XX, 118-124, 130-132). Si può notare in queste parole la presenza di termini come “fontana” e “radice”, che ad Ap 4, 2 sono appropriate alla profondità del libro che Cristo dovrà aprire, libro che è quello della predestinazione divina e nel quale è scritta la scienza della grazia (Ap 5, 1).
Nel canto precedente, l’Aquila ha già fatto riferimento all’apertura del “volume” nel quale verranno scritti i “dispregi” dei regnanti (Par. XIX, 112-114): in questo caso l’apertura del libro segnato dai sette sigilli di Ap 5, 1 coincide con l’apertura del libro della vita di Ap 20, 12, per cui i morti verranno giudicati per quanto è ivi scritto, secondo le loro opere. Come spiegato nell’esegesi, il libro che sta nella destra di Colui che siede sul trono contiene nel suo profondo interno anche le leggi e i precetti del sommo imperatore e le sentenze e i giudizi del sommo giudice. Così l’Aquila afferma che il vedere umano “ne la giustizia sempiterna … entro s’interna” come l’occhio nel “pelago” (è il termine che, ad Ap 4, 6, designa la Scrittura), il cui fondo, per quanto visibile dalla riva, gli rimane però celato in alto mare per la profondità (Par. XIX, 58-63): “proda” e “pelago”, cioè la riva e l’alto mare, corrispondono al di fuori e all’interno del libro (cfr. le parole di Pier Damiani a Par. XXI, 94-96 e di Dante a san Pietro a Par. XXIV, 70-72).
Un’altra applicazione del guardare dentro al libro è nella visione finale, allorché nel “profondo” della luce eterna il poeta vede come “s’interna”, unito dal legame d’amore “in un volume”, quello che nell’universo “si squaderna”, cioè si mostra diviso (Par. XXXIII, 85-87).

Tab. XIX.6

[LSA, cap. IV, Ap 4, 2 (radix IIe visionis)] “Et ecce sedes”. In hac secunda parte, in qua describitur fontalis radix et causa septem apertionum libri signati, monstrantur septem designantia summam altitudinem et profunditatem ac gloriam et utilitatem huius libri et contentorum in eo.

[LSA, cap. IV, Ap 4, 6 (radix IIe visionis)] “Et in conspectu sedis”, scilicet erat, “tamquam mare vitreum simile cristallo”. Per mare designatur Christi amara et quasi infinita passio et lavacrum baptismale et penitentialis contritio et martiriorum perpessio et pelagus sacre scripture.

[LSA, cap. V, Ap 5, 1 (radix IIe visionis)] “Et vidi in dextera sedentis super tronum librum scriptum intus et foris, signatum sigillis septem” (Ap 5, 1). Preostensa gloria et magnificentia maiestatis Dei, hic accedit ad ostendendum profunditatem incomprehensibilem libri sui. Qui quidem liber est primo idem quod Dei essentialis prescientia et totius reparationis universe fiende per Christum predestinatio, et per appropriationem est ipsum Verbum Patris prout est expressivum sapientie eius et prout Pater, ipsum generando, scripsit in eo omnem sapientiam suam.
Secundo modo est idem quod scientia mentium angelicarum ipsis a Deo data et in eis scripta, prout est de totali gratia et gloria electorum et totius cultus Dei consumandi per Christum, et multo magis est scientia universorum scripta a Deo in anima Christi.
Tertio est idem quod totum volumen scripture sacre et specialiter Veteris Testamenti, in quo Novum fuit inclusum et sub figuris variis signatum et velatum.
Visus autem est “in dextera” Dei, tum quia est in eius plena potentia et facultate, tum quia continet promissiones Christi gratie et glorie et etiam largitiones et preparationes, que dicuntur spectare ad dexteram sicut adversa vel bona temporalia dicuntur spectare ad sinistram.
Erat etiam “in dextera sedentis super tronum”, tum quia continet leges et precepta summi imperatoris et sententias et iudicia summi iudicis, tum quia altam et stabilem et maturam et quietam ac recollectam mentem requirit ad hoc quod intellectualiter haberi et intelligi possit, unde et talis est intelligentia Dei.
Est etiam “scriptus intus et foris” propter varios sensus vel intellectus ipsius, quorum quidam sunt magis intrinseci et nobis magis absconsi, quidam vero sunt magis forinseci et noti. Et hoc dico respectu omnium supradictarum apertionum libri, prout in primo generali principio edito de hoc verbo super totam scripturam diffusius pertractavi. Liber etiam scripture sacre habet litteralem sensum foris, intus vero anagogicum et allegoricum et moralem. In sensu etiam litterali habet foris ystorica gesta et exempla sanctorum et suorum exteriorum operum, intus vero profundiores sententias divinorum preceptorum et sapientialium documentorum.

[LSA, cap. V, Ap 5, 3 (radix IIe visionis)] Si autem ultra hoc sit sensus quod nec librum signatum poterat aspicere, sensus est quod etiam implic<i>tam fidem et intelligentiam Christi et ecclesie procedentis usque ad statum glorie nullus poterat habere, nisi per gratiam Dei cum presuppositione meriti Christi.

 

Par. XIX, 52-63, 112-115

Dunque vostra veduta, che convene
essere alcun de’ raggi de la mente
di che tutte le cose son ripiene,
non pò da sua natura esser possente
tanto, che suo principio non discerna
molto di là da quel che l’è parvente.
Però ne la giustizia sempiterna
la vista che riceve il vostro mondo,
com’ occhio per lo mare, entro s’interna;
che, ben che da la proda veggia il fondo,
in pelago nol vede; e nondimeno
èli, ma cela lui l’esser profondo.

Che poran dir li Perse a’ vostri regi,
come vedranno quel volume aperto
nel qual si scrivon tutti suoi dispregi?
Lì si vedrà, tra l’opere d’Alberto ……

Par. XXXIII, 85-87

Nel suo profondo vidi che s’interna,
legato con amore in un volume,
ciò che per l’universo si squaderna

 

Par.  XX, 118-124, 130-132

L’altra, per grazia che da sì profonda
fontana stilla, che mai creatura
non pinse l’occhio infino a la prima onda,
tutto suo amor là giù pose a drittura:
per che, di grazia in grazia, Dio li aperse
l’occhio a la nostra redenzion futura;
ond’ ei credette in quella ……………..

O predestinazion, quanto remota
è la radice tua da quelli aspetti
che la prima cagion non veggion tota!

Par. XXI, 94-96

però che sì s’innoltra ne lo abisso
de l’etterno statuto quel che chiedi,
che da ogne creata vista è scisso. 

Par. XXIV, 70-72

E io appresso: “Le profonde cose
che mi largiscon qui la lor parvenza,
a li occhi di là giù son sì ascose …”

[LSA, cap. XX, Ap 20, 12 (VIIa visio)] Tertio describitur apertio librorum secundum quos sunt iudicandi, cum subdit: “Et libri aperti sunt, et alius liber apertus est, qui est liber vite; et iudicati sunt mortui ex hiis que scripta erant in libro, secundum opera eorum”.
Secundum Augustinum, XX° de civitate capitulo XIIII°, per libros prius positos intelliguntur sancti Veteris Testamenti et novi, quia mali ex comparatione iustorum iudicabuntur. Secundum enim Ricardum, per mortuos intelliguntur hic mali. “Liber” autem “vite”, secundum Augustinum, idem est «quedam vis divina, qua fiet ut unicuique cuncta opera sua bona vel mala in memoriam revocentur et mentis intuitu mira celeritate cernantur, ut scientia accuset vel excuset conscientiam. Que quidem vis divina libri nomen accepit, quia in ea quodammodo legitur quicquid ea faciente recolitur». Potest etiam dici quod apertio librorum est apertio conscientiarum seu memoriarum omnium iudicandorum, que apertio fiet per vim seu potentiam Dei reducentis omnia ad claram et quasi visibilem memoriam singulorum, et etiam sic clare omnia bona vel mala omnium omnibus demonstrantis ac si omnes visibiliter legerent in cordibus omnium omnia mala vel bona que unquam fecerunt.

3.2. Il libro della vita

Ad Ap 20, 12 si dice: “Furono aperti dei libri. Fu aperto un altro libro, che è il libro della vita, e i morti vennero giudicati in base a ciò che era scritto nel libro, secondo le proprie opere”. Secondo Agostino (De civitate Dei, XX, 14), i libri indicati per prima designano i santi del Vecchio e del Nuovo Testamento, poiché i malvagi verranno giudicati nel paragone coi giusti. Secondo Riccardo di San Vittore, i “morti” qui designano i reprobi. Il “libro della vita”, secondo Agostino, è una forza divina per cui avviene che a ciascuno siano richiamate alla memoria tutte le proprie opere, buone o cattive, e che siano riconosciute con mirabile celerità dall’intuito della mente in modo che la consapevolezza accusi o scusi la coscienza. Questa forza divina ha preso il nome di “libro” perché in essa, in un certo senso, si legge tutto quello che per suo mezzo viene ricordato. Olivi aggiunge che con l’apertura dei libri viene pure designato l’aprirsi della coscienza o della memoria di tutti coloro che devono essere giudicati, che avviene con una forza o un potere divino che riconduce ogni cosa alla chiara e quasi visibile memoria, e anzi dimostra in modo tanto chiaro a tutti ogni bene o male operato da chiunque, come se tutti vedessero leggendo nei cuori di ciascuno ogni male o bene mai compiuto. Il “libro della vita” è l’increata scienza e giustizia divina, che allora verrà aperto alla vista di tutti i predestinati alla vita eterna per il conferimento finale della gloria, e verrà aperto ai dannati per l’evidenza dell’effetto esteriore e del giudizio. Secondo questo libro, cioè secondo l’eterna e inerrabile scienza divina, verranno principalmente giudicati tutti; secondariamente lo saranno attraverso il giudizio della propria coscienza e di tutte le altre che saranno contestimoni, lo vogliano o meno, insieme al principale libro della giustizia di Dio. Pertanto i libri indicati per prima si porranno come accusatori e testimoni, il “libro della vita” si porrà come “sententiator”, cioè come quello che contiene ed esprime le sentenze giudiziarie e le loro motivazioni.
Il “libro della vita” di Ap 20, 12 è il “libro che ’l preterito rassegna” di Par. XXIII, 54 e, assai più indietro nel tempo, il “libro della mia memoria” nell’incipit della Vita Nova. Nel cielo di Giove, dove albergano gli spiriti giusti, il tema dell’apertura del “libro della vita”, in cui ciascuno verrà giudicato secondo le proprie opere, è premesso dall’Aquila all’elenco dei reprobi principi cristiani: tutti, anche l’infedele etiope o persiano, potranno condannare i falsi cristiani, “come vedranno quel volume aperto / nel qual si scrivon tutti suoi dispregi”, nel quale si potranno vedere le opere di costoro, come quella per cui Alberto d’Asburgo renderà nel 1304 “diserto” il regno di Boemia (Par. XIX, 112-117).
La forza che promana dal libro della vita, che apre la coscienza e la memoria, è la stessa lingua, la “chiara favella” del poeta che fa “sovvenir del mondo antico” il ruffiano Venedico dei Caccianemici incontrato nella prima bolgia; la parlata bolognese dei tanti che piangono con lui è testimonianza fedele che fa tornare alla mente l’avarizia dei propri concittadini (Inf. XVIII, 52-63).
Che il fiume della memoria possa scendere chiaro, “se tosto grazia resolva le schiume / di vostra coscïenza”, è augurio che Dante rivolge agli invidiosi che si purgano nel secondo girone della montagna (Purg. XIII, 88-90).
Nelle metamorfosi poetiche, il passo di Ap 20, 12, relativo alla settima visione, è quasi sempre collazionato con altri simmetrici. È il caso di Ap 3, 3, dove il vescovo di Sardi (la quinta delle sette chiese d’Asia alle quali Giovanni scrive nella prima visione) viene invitato a ricordare con la mente quale fosse la “prima grazia” e il suo stato e a conservarla, cioè la grazia ricevuta da Dio e ascoltata tramite la predicazione evangelica. Da quanto gli viene detto, si deduce che costui era tanto intorpidito nell’ozio da non ricordare più il primo stato di grazia e di perfezione, che fu di edenica bellezza e di pienezza stellare. Se non si ravvedrà vigilando, il giudizio divino verrà da lui come un ladro. La tematica offerta insieme da Ap 3, 3 e Ap 20, 12 percorre, in Inf. XI, la descrizione dell’ordinamento dell’inferno data da Virgilio: aver chiaro qualcosa alla mente – «E io: “Maestro, assai chiara procede / la tua ragione …”» (vv. 67-68) -; richiamare alla mente o ricordarsi  – “Non ti rimembra di quelle parole … e rechiti a la mente … se tu ti rechi a mente / lo Genesì dal principio” (vv. 79, 86, 106-107: è da notare l’espressione “dal principio”, che allude alla “prima grazia” o al “bel principio”) -; il verso “Se tu riguardi ben questa sentenza” (v. 85), che richiama il “libro della vita” contenente le sentenze giudiziarie, che in questo caso coincide con l’Etica nicomachea, la quale “pertratta / le tre disposizion che ’l ciel non vole, / incontenenza, malizia e la matta / bestialitade” (vv. 80-84). È un esempio, fra i tanti, di conciliazione della filosofia di Aristotele con la teologia dell’Olivi, entrambe presenti alla mente del poeta.
I motivi dell’“apertio conscientiarum” e del ricondurre alla memoria ritornano di fronte al muro di fuoco che il poeta deve attraversare prima di compiere l’ascesa della montagna sulla cui cima è Beatrice (Purg. XXVII, 16-42). Dante, spaventato, sta “pur fermo e contra coscïenza”. Virgilio prima gli richiama alla mente l’averlo già guidato salvo nel volo sulla groppa di Gerione – “Ricorditi, ricorditi!” -, poi gli fa il nome di Beatrice, dalla quale il fuoco lo separa, e allora, “udendo il nome / che ne la mente sempre mi rampolla”, la durezza del poeta si fa molle, e si apre come si aprirono gli occhi morenti di Piramo al nome di Tisbe. Nei versi si riscontra, congiunto con quelli di Ap 20, 12, il tema del riguardare con la mente proprio della quinta chiesa (Ap 3, 3).
Beatrice, nell’accingersi a spiegare “come giusta vendetta giustamente / punita fosse”, come cioè la giusta vendetta divina del peccato originale, operata per mezzo dei Giudei che crocifissero Cristo, fosse poi punita negli stessi Giudei con la distruzione di Gerusalemme compiuta da Tito, parla tramite i motivi del “libro della vita”, che esprime l’inerrabile scienza divina e contiene le sentenze della sua giustizia: “Secondo mio infallibile avviso / … ché le mie parole / di gran sentenza ti faran presente” (Par. VII, 19-24).
La congiunzione dei due gruppi tematici (ripensare a quanto ascoltato, revocare alla mente e vedere) si mostra nel parlare di Tommaso d’Aquino, in fine di Par. XI (vv. 133-139) e nella conclusione del suo discorso (Par. XIII, 130-132, 139-142), dove è citato, dall’esegesi di Ap 20, 12, l’invito di san Paolo ai Corinzi a essere prudenti nel giudicare (1 Cor, 4, 5), citazione ripresa dall’Aquila nel cielo di Giove (Par. XX, 133-135).
Si mostra, ancora, in Par. XXIII, 46-54, quando Beatrice dice a Dante di guardarla: «“Apri li occhi e riguarda qual son io (la prima grazia da Ap 3, 3); / tu hai vedute cose, che possente / se’ fatto a sostener lo riso mio”. / Io era come quei che si risente / di visïone oblita (rende l’essere “torpens” di Ap 3, 3) e che s’ingegna / indarno di ridurlasi a la mente (si insinua il tema del ricondurre alla mente da Ap 20, 12), / quand’ io udi’ questa proferta, degna / di tanto grato, che mai non si stingue / del libro che ’l preterito rassegna (cioè il libro della vita, tema principale di Ap 20, 12)».
Un’altra variazione è a Par. XXVIII, 10-12: “così la mia memoria si ricorda (tema del libro della vita) / ch’io feci riguardando ne’ belli occhi / onde a pigliarmi fece Amor la corda” (tema del “principium pulchritudinis”, secondo l’interpretazione del nome Sardi, la quinta chiesa d’Asia). Il tema del libro della vita è poi appropriato al Primo Mobile, definito equivocamente, sfera corporale girante e anche libro, “quel volume” (v. 14).

Tab. XIX.7

Inf. XVIII, 52-63

Ed elli a me: “Mal volontier lo dico;
ma sforzami la tua chiara favella,
che mi fa sovvenir del mondo antico.
I’ fui colui che la Ghisolabella
condussi a far la voglia del marchese,
come che suoni la sconcia novella.
E non pur io qui piango bolognese;
anzi n’è questo loco tanto pieno,
che tante lingue non son ora apprese
a dicer  ‘sipa’  tra Sàvena e Reno;
e se di ciò vuoi fede o testimonio,
rècati a mente il nostro avaro seno”.

 

Par. XIX, 112-117

Che poran dir li Perse a’ vostri regi,
come vedranno quel volume aperto
nel qual si scrivon tutti suoi dispregi?
Lì si vedrà, tra l’opere d’Alberto,
quella che tosto moverà la penna,
per che ’l regno di Praga fia diserto.

Purg. XIII, 88-90

se tosto grazia resolva le schiume
di vostra coscïenza sì che chiaro
per essa scenda de la mente il fiume

Par. VII, 19-24

Secondo mio infallibile avviso,
come giusta vendetta giustamente
punita fosse, t’ha in pensier miso;
ma io ti solverò tosto la mente;
e tu ascolta, ché le mie parole
di gran sentenza ti faran presente.

[LSA, cap. XX, Ap 20, 12 (VIIa visio)] Tertio describitur apertio librorum secundum quos sunt iudicandi, cum subdit: “Et libri aperti sunt, et alius liber apertus est, qui est liber vite; et iudicati sunt mortui ex hiis que scripta erant in libro, secundum opera <ipsorum>”.
Secundum
Augustinum, XX° de civitate capitulo XIIII°, per libros prius positos intelliguntur sancti Veteris Testamenti et Novi, quia mali ex comparatione iustorum iudicabuntur*. Secundum enim Ricardum, per mortuos intelliguntur hic mali*. “Liber” autem “vite”, secundum Augustinum, idem est «quedam vis divina, qua fiet ut unicuique cuncta opera sua bona vel mala in memoriam revocentur et mentis intuitu mira celeritate cernantur, ut scientia accuset vel excuset conscientiam. Que quidem vis divina libri nomen accepit, quia in ea quodammodo legitur quicquid ea faciente recolitur»**. Potest etiam dici quod apertio librorum est apertio conscientiarum seu memoriarum omnium iudicandorum, que apertio fiet per vim seu potentiam Dei reducentis omnia ad claram et quasi visibilem memoriam singulorum, et etiam sic clare omnia bona vel mala omnium omnibus demonstrantis ac si omnes visibiliter legerent in cordibus omnium omnia mala vel bona que unquam fecerunt. “Liber” autem “vite” est increata scientia et lex et iustitia Dei et specialiter respectu predestinatorum ad vitam eternam, que quidem tunc per consumatam collationem glorie visibiliter aperietur omnibus predestinatis; per evidentiam autem exterioris effectus et iudicii aperietur dampnandis. Secundum enim istum, id est secundum eternam et <inerrabilem> Dei scientiam et legem et iustitiam, principaliter iudicabuntur omnes, et secundario per iudicium propriarum conscientiarum et omnium aliarum tamquam velint nolint contestantium principali libro iustitie Dei. Unde illi libri se habebunt ut accusatores et testes, liber vero vite ut sententiator seu ut continens et exprimens sententias iudiciarias cum rationibus suis. […] Quod autem occulta tunc cordium apertissime reserentur docet Apostolus Ia ad Corinthios IIII° dicens: “Nolite autem ante tempus iudicare, quousque veniat Dominus, qui illuminabit abscondita tenebrarum et manifestabit consilia cordium” (1 Cor 4, 5), quasi dicat: tunc poteritis occultas intentiones cordium iudicare, quia tunc videbitis omnes quantumcumque occultas.


* De civitate Dei, XX, xiv, 31-35 (CCSL, XLVIII, p. 724; PL 41, col. 680).

* In Ap VI, viii (PL 196, col. 857 A).

** De civitate Dei, XX, xiv, 40-49 (p. 724; PL 41, col. 680).

[LSA, cap. III, Ap 3, 3 (Ia visio, Va ecclesia)] “In mente ergo habe” (Ap 3, 3), id est attente recogita, “qualiter acceperis”, scilicet a Deo priorem gratiam, “et audieris”, ab homine scilicet per predicationem evangelicam, “et serva”, scilicet illa que per predicationem audisti et per influxum gratie a Deo primitus accepisti. Vel recogita qualiter per proprium consensum accepisti fidem et gratiam et statum eius, prout a me et a ceteris tibi predicantibus audivisti. “Et serva” ea “et penitentiam age”, scilicet de tuis malis, quasi dicat: si digne recogitaveris gratiam tibi prius impensam et qualiter prius accepisti eandem, servabis eam et penitentiam ages.
Innuit etiam per hoc quod sic fuit otiosus et torpens, quod in mente non habuit qualiter acceperit et audierit statum et gratiam sue perfectionis, et quod ideo sic corruit. Que quidem nimis correspondenter patent in hoc cursu novissimo quinti temporis ecclesiastici.

Inf. XI, 67-68, 79-87, 106-108

E io: “Maestro, assai chiara procede
la tua ragione ………………………..”

Non ti rimembra di quelle parole
con le quai la tua Etica pertratta
le tre disposizion che ’l ciel non vole,
incontenenza, malizia e la matta
bestialitade? E come incontenenza
men Dio offende e men biasimo accatta?
Se tu riguardi ben questa sentenza,
e rechiti a la mente chi son quelli
che sù di fuor sostegnon penitenza

Da queste due, se tu ti rechi a mente
lo Genesì dal principio, convene
prender sua vita e avanzar la gente

Par. XI, 133-139; XIII, 130-132, 139-142

Or, se le mie parole non son fioche,
se la tua audïenza è stata attenta,
se ciò ch’è detto a la mente revoche,
in parte fia la tua voglia contenta,
perché vedrai la pianta onde si scheggia,
e vedra’ il corrègger che argomenta
“U’ ben s’impingua, se non si vaneggia”.

Non sien le genti, ancor, troppo sicure
a giudicar, sì come quei che stima
le biade in campo pria che sien mature

Non creda donna Berta e ser Martino,
per vedere un furare, altro offerere,
vederli dentro al consiglio divino;
ché quel può surgere, e quel può cadere.

Par. XX, 133-135

E voi, mortali, tenetevi stretti
a giudicar: ché noi, che Dio vedemo,
non conosciamo ancor tutti li eletti

Par. XXVIII, 10-15

così la mia memoria si ricorda
ch’io feci riguardando ne’ belli occhi   2, 1
onde a pigliarmi fece Amor la corda.
E com’ io mi rivolsi e furon tocchi
li miei da ciò che pare in quel volume,
quandunque nel suo giro ben s’adocchi

Purg. XXVII, 22, 33, 37-42

Ricorditi, ricorditi! ………

E io pur fermo e contra coscïenza.

Come al nome di Tisbe aperse il ciglio
Piramo in su la morte, e riguardolla,
allor che ’l gelso diventò vermiglio;
così, la mia durezza fatta solla,
mi volsi al savio duca, udendo il nome
che ne la mente sempre mi rampolla.

Par. XXIII, 46-54

“Apri li occhi e riguarda qual son io;
tu hai vedute cose, che possente
se’ fatto a sostener lo riso mio”.
Io era come quei che si risente
di visïone oblita e che s’ingegna
indarno di ridurlasi a la mente,
quand’ io udi’ questa proferta, degna
di tanto grato, che mai non si stingue
del libro che ’l preterito rassegna.


4. La bestia che è ottava e insieme settima

Il rapporto tra settimo e ottavo, che Olivi applica pure alla settima visione (la quale può intendersi anche come ottava), viene sviluppato ad Ap 17, 11 a proposito della bestia che “fu e non è”, la quale è “ottava” e nello stesso tempo è “delle sette”, ossia è una bestia distinta in sette bestie (che corrispondono a sette re) dalle sette teste e in un certo senso in otto. L’essere ottavo e far parte al contempo di un gruppo di sette designa la consumazione riassuntiva del settenario che precede. Così il giorno ottavo è il primo giorno della settimana; l’ottava beatitudine (Matteo 5, 10) – propria dei perseguitati a causa della giustizia – è, secondo Agostino, la conferma delle sette precedenti; l’ottava maledizione (Matteo 23, 33) è dichiarativa delle sette precedenti. Così l’ottava bestia è la consumazione delle precedenti e al tempo stesso fa parte di esse.
Se si esamina l’elenco dei reprobi principi cristiani, dei quali l’Aquila, in Par. XIX, 115-148, dice tutti i dispregi, si osserva che essi possono essere divisi in otto gruppi: il primo è costituito da Alberto d’Asburgo; il secondo da Filippo il Bello; il terzo da Edoardo I d’Inghilterra e Roberto Bruce di Scozia; il quarto da Ferdinando IV di Castiglia e Venceslao II di Boemia; il quinto da Carlo II d’Angiò re di Gerusalemme (il “Ciotto”); il sesto da Federico II d’Aragona re di Sicilia, dallo zio (Giacomo re di Maiorca) e dal fratello (Giacomo II re di Sicilia e poi d’Aragona); il settimo da Dionisio l’Agricola re di Portogallo, Acone V re di Norvegia e dal serbo Stefano Urosio II (“quel di Rascia”). La terzina successiva definisce ‘beate’ l’Ungheria e la Navarra se riescano a tenere lontano, difendendosi, la mala signoria (“mal menare” [“malmenare” nel Petrocchi], nel senso di ‘mal condurre’; il contrario del deducere di Cristo ad Ap 7, 17). Gli ultimi quattro versi del canto sono dedicati a Cipro (“Niccosïa e Famagosta”) il cui re, Arrigo II di Lusignano, è “bestia” – l’ottava –  “che dal fianco de l’altre non si scosta”, cioè si comporta alla stregua degli altri re precedentemente elencati, e quindi è ottava e nello stesso tempo fa parte delle sette.
Otto sono anche i principi che purgano la negligenza nella valletta, i quali vengono mostrati da Sordello (Purg. VII, 91-136): Rodolfo I d’Asburgo, Ottocaro II di Boemia, Filippo III l’Ardito, Enrico I di Navarra, Pietro III d’Aragona, Carlo I d’Angiò, Enrico III d’Inghilterra, Guglielmo VII marchese di Monferrato.
È da notare che Boezio, il quale soffrì il martirio, è “l’ottava” luce tra gli spiriti sapienti presentati da Tommaso d’Aquino nel cielo del Sole (Par. X, 121-126; “per vedere ogne ben”, cioè riassume tutte le beatitudini).
I versi relativi a ciascun sovrano sono poi semanticamente contesti, come di consueto, con grande varietà di temi.

I. L’esegesi di Ap 12, 6, con il Carmelo trasformato in selva e la selva-deserto in giardino, contiene i fili intrecciati nel rimprovero ad Alberto d’Asburgo e al padre Rodolfo di essersi disinteressati dell’Italia “indomita e selvaggia” e di aver lasciato, trattenuti dalla cupidigia dei propri interessi in Germania, “che ’l giardin de lo ’mperio sia diserto” (Purg. VI, 103-105; il tema è ripetuto, per il regno di Boemia devastato da Alberto nel 1304, a Par. XIX, 115-117).

II. Filippo il Bello, vestito come il falsario Capocchio col panno delle locuste, vanagloriose per le corone di falso oro che stanno sulle loro teste  – “Lì si vedrà il duol che sovra Senna / induce, falseggiando la moneta” -, fa coniare monete di valore reale inferiore a quello nominale per sostenere le spese della guerra di Fiandra (Par. XIX, 118-120; Ap 9, 7). Indurre dolore è un altro tema proprio delle locuste (Ap 9, 5-6; da notare la citazione di Gioacchino da Fiore incastonata nell’esegesi di Olivi). Il Capetingio è “quel che morrà di colpo di cotenna”, cioè a causa di un cinghiale che, nel novembre 1314, lo farà cadere da cavallo attraversandogli la via. Una morte quasi per “contrapasso”: il cinghiale, l’aper de silva devastatore della vigna, è il re delle locuste, il cui nome è Exterminans (Ap 9, 11).
A Filippo il Bello sono pertanto appropriati i temi delle feroci e subdole locuste. Queste infieriscono sulla Chiesa in particolare alla fine del quinto stato, allorché la rilassatezza l’ha trasformata quasi in una nuova Babilonia (tale è la “puttana sciolta” del finale di Purg. XXXII). Alle locuste fa riferimento Ugo Capeto nel narrare le malefatte dei suoi discendenti: una dinastia che “poco valea, ma pur non facea male” fino  a quando “la gran dota provenzale” non le tolse la vergogna (Purg. XX, 61-63), non recava cioè danni irreparabili come capitò alla vigna prima che fosse distrutta dal cinghiale (Ap 9, 11).

III. Assetati di superbia, Edoardo I d’Inghilterra e Roberto Bruce di Scozia sono anch’essi infettati dalle locuste, insofferenti come sono di restare dentro ai propri confini (Par. XIX, 121-123; “Exterminans”, il nome del re delle locuste, ha anche il significato di travalicare i confini; cfr. Convivio IV, iv, 4).

IV. Ancora le locuste, dai capelli molli come quelli delle donne, segnano “la lussuria e ’l viver molle / di quel di Spagna e di quel di Boemme” (Ap 9, 7).

V. “Vedrassi al Ciotto di Ierusalemme / segnata con un i la sua bontate, / quando ’l contrario segnerà un emme”. Le lettere i e m, sono da leggere come numeri romani (migliore la grafia I, M), corrispondenti a ‘uno’ e a ‘mille’. Ad Ap 20, 3 l’esegesi spiega, citando Agostino, il significato dei mille anni nei quali il diavolo sta legato; ‘mille’ designa la totalità:

Quarto notandum an per mille annos ligationis eius et conregnationis sanctorum cum Christo significentur ad litteram mille anni vel solum in generali perfecta plenitudo temporis. Ad quod dicit Augustinus, XX° De civitate, capitulo VII°, quod aut mille anni sumuntur hic sinodochice pro parte sexti miliarii annorum quod secundum translationem septuaginta interpretum currebat tempore Augustini, ut post sextum miliarium, quasi post sextam diem, sequeretur sabbatum requiei eterne; «aut mille annos pro omnibus annis huius seculi posuit, ut perfecto numero vocaretur ipsa temporis plenitudo. Nam miliarius reddit solidum quadratum ex denario. Nam decies decem sunt centum, que non est figura solida sed plana; ut autem in altitudinem surgat et solida fiat, rursus dicimus decies centum, et sunt mille. Si autem centum ponuntur aliquando pro universitate, secundum illud Christi: Qui propter me reliquerit omnia, accipiet in hoc seculo centuplum, quod quodammodo exponens Apostol<us> ait: Quasi nichil habentes, et omnia possidentes, quanto magis mille pro universitate ponuntur? Unde et sic videtur intelligi illud Psalmi: Memor fui verbi quod mandavit in mille generationes, id est <in> omnes». Hunc autem secundum modum sequitur Ricardus et etiam Ioachim.

VI. L’Aquila dice di Federico II d’Aragona (re di Sicilia dal 1296 al 1337) che nel libro della vita le sue opere saranno scritte con lettere abbreviate “a dare ad intender quanto è poco”. Gli viene applicato il motivo della “metà di un tempo”, parte dell’espressione apocalittica “per (un) tempo, (due) tempi e la metà di un tempo” – “per tempus et tempora et dimidium temporis” ad Ap 12, 14. In questa espressione di un numero mistico (corrispondente ai 1260 anni di permanenza della donna, o della Chiesa, nel deserto dei Gentili) “tempus” sta per un anno, “tempora” per due anni e “dimidium temporis” per sei mesi. I tre anni e mezzo designano il mistero della trinità di Dio unitamente alla perfezione delle sue opere, che rispetto al loro artefice sono qualcosa di dimidiato, imperfetto, parziale e quasi nulla: tali vengono giudicate le opere dell’Aragonese. Pure all’apertura del libro “parranno a ciascun l’opere [‘metà di un tempo’] sozze / del barba [Giacomo, re di Maiorca] e del fratel [Giacomo re di Sicilia e poi di Aragona], che tanto egregia / nazione [l’Aragona: ‘un tempo’] e due corone [Maiorca e Aragona: ‘due tempi’] han fatte bozze” [1].
La scrittura abbreviata sarà quella con cui verranno scritte, in “lettere mozze”, le opere da poco di Federico d’Aragona; essa rinvia ad Ap 22, 28-29, dove si parla dell’abbreviazione del testo dell’Apocalisse, libro scritto dentro e fuori (Ap 5, 1) e libro della vita (Ap 20, 12): da notare la compresenza del verbo “intendere” nella prosa e nei versi.
L’Aragonese è 
“quei che guarda l’isola del foco, / ove Anchise finì la lunga etate” (v. 132): l’uso di u’, attestato da alcuni testimoni, rinvia ad Ap 20, 3, dove la lettera u designa, in quanto pronunciata sull’estremo delle labbra, la fine di un’epoca (nell’esegesi è il XIII secolo, la parodia lo applica alla vita del padre di Enea).

VII. Ad Ap 14, 8 l’angelo annunzia la caduta di Babylon, la Chiesa carnale che ha abbeverato le genti col vino dell’ira della sua fornicazione: come il vino provoca ad ira furibonda, così la Chiesa carnale si è accesa in ira contro gli uomini spirituali e gli influssi dello Spirito Santo. Una variazione su questi temi si registra con l’intervento dell’esegesi di Ap 15, 8, dove ai motivi del fumo e dell’ira (il Tempio ripieno di fumo designa lo zelo della santa ira) si aggiunge quello dell’accecamento causato dall’ira, solo momentaneo turbamento, però, per i santi presi da retto zelo. Accecato è stato il re di Serbia Stefano II Uroš Milutin, definito dall’Aquila “quel di Rascia”, che ha falsificato i ducati veneziani – “il conio di Vinegia” -, per restare nel gruppo tematico che aduna ira, mal vedere e vino.
Al v. 141 – “che male ha visto il conio di Vinegia” – la variante avvistò (ritoccò, truccò) è accetabile se si mantiene in essa anche il significato di vedere, per nulla improprio in quanto l’ira, insita nel nome stesso del re serbo, acceca e mal vedendo crea una falsa moneta.

[1] I tre anni e mezzo coincidono con il periodo durante il quale Cristo esercitò il suo magistero e la sua predicazione. Essi sono anche distinti in “un anno” (“tempo”) e “due anni” (“tempi”), in quanto nel secondo e nel terzo anno Cristo predicò da solo dopo l’incarcerazione di Giovanni Battista e in modo più solenne. Questa distinzione, tenendo conto della profezia di Daniele, si verificherà forse anche nella predicazione e persecuzione dell’Anticristo. Con Giovanni Battista, come dice Cristo in Matteo 11, 11-12 e in Luca 16, 16, inizia il tempo in cui i violenti si impadroniscono del regno dei cieli (cfr. quanto dice l’Aquila a Par. XX, 94: “Regnum celorum vïolenza pate”).

Tab. XIX.8

[LSA, cap. XVII, Ap 17, 11 (VIa visio)] Nota etiam quod non dixit quod unus rex erit octavus et septimus seu de septem, sed potius dixit quod “bestia que fuit et non est” et, supple, iterum ascendet, “est octava”, scilicet in suo reascensu, “et de septem est”, ut ostendat quod sic est generaliter una bestia, quod tamen est distincta in septem bestias secundum septem capita eius, et etiam aliquo modo in octo. Non enim potest esse octava nisi respectu septem bestiarum. Nota etiam quod sicut octavus dies, qui dicitur dominicus, est de septem (nam est primus dies hebdomade), aut sicut octava resurrectionis generalis non omnino differt a requie septime etatis, immo est consumatio eius; aut sicut octava beatitudo posita Matthei V°, scilicet “Beati qui persecutionem patiuntur propter iustitiam” (Mt 5, 10), est secundum Augustinum probatio septem beatitudinum ibi premissarum*, aut sicut octavum veh positum Matthei XXIII° est declarativum septem veh ibi premissorum (Mt 23, 33), sic Spiritus Sanctus intendit hic aliquid simile insinuare, scilicet quod octava bestia est consumativa et probativa septem primarum, nec est omnino extra ipsas, sed tamquam ex ipsis.

Cfr. Sancti Aurelii Augustini De sermone Domini in monte … edidit A. Mutzenbecher, Turnholti 1967 (Corpus Christianorum. Series Latina, XXXV), I, 3, 10, p. 9.

Par. X, 121-129

Or se tu l’occhio de la mente trani
di luce in luce dietro a le mie lode,
già de l’ottava con sete rimani.
Per vedere ogne ben dentro vi gode
l’anima santa che ’l mondo fallace
fa manifesto a chi di lei ben ode.
Lo corpo ond’ ella fu cacciata giace
giuso in Cieldauro; ed essa da martiro
e da essilio venne a questa pace.

Par. XIX, 115-148

Lì si vedrà, tra l’opere d’Alberto,                                     I
quella che tosto moverà la penna,
per che ’l regno di Praga fia diserto.

Lì si vedrà il duol che sovra Senna                               II
induce, falseggiando la moneta,
quel che morrà di colpo di cotenna.

Lì si vedrà la superbia ch’asseta,                                 III
che fa lo Scotto e l’Inghilese folle,
sì che non può soffrir dentro a sua meta.

Vedrassi la lussuria e ’l viver molle                              IV
di quel di Spagna e di quel di Boemme,
che mai valor non conobbe né volle.

Vedrassi al Ciotto di Ierusalemme                                 V
segnata con un i la sua bontate,
quando ’l contrario segnerà un emme.

Vedrassi l’avarizia e la viltate                                        VI
di quei che guarda l’isola del foco,
ove Anchise finì la lunga etate;   u’
e a dare ad intender quanto è poco,
la sua scrittura fian lettere mozze,
che noteranno molto in parvo loco.
E parranno a ciascun l’opere sozze
del barba e del fratel, che tanto egregia
nazione e due corone han fatte bozze.

E quel di Portogallo e di Norvegia                             VII
lì si conosceranno, e quel di Rascia
che male ha visto il conio di Vinegia.   avvistò

O beata Ungheria, se non si lascia
più mal menare! e beata Navarra,
se s’armasse del monte che la fascia!
E creder de’ ciascun che già, per arra
di questo, Niccosïa e Famagosta
per la lor bestia si lamenti e garra,                         VIII
che dal fianco de l’altre non si scosta ».


XX

 

1. Il silenzio che precede il canto. 2. L’aquila fissa nel sole. 3. “Sapete qual è quello / dubbio che m’è digiun cotanto vecchio”.

 

Legenda [3]: numero dei versi; 14, 2: collegamento ipertestuale all’esegesi, nella Lectura di Olivi, di capitolo e versetto dell’Apocalisse [Ap]; Not. V: collegamento all’esegesi contenuta nei tredici notabilia del prologo della LecturaVarianti rispetto al testo del Petrocchi.

Quando colui che tutto ’l mondo alluma
de l’emisperio nostro sì discende,
che ’l giorno d’ogne parte si consuma,   [3]

lo ciel, che sol di lui prima s’accende,
subitamente si rifà parvente
per molte luci, in che una risplende;   [6]   14, 2

e questo atto del ciel mi venne a mente,
come ’l segno del mondo e de’ suoi duci   13, 2.12
nel benedetto rostro fu tacente;   [9]   Not. V

però che tutte quelle vive luci,
vie più lucendo, cominciaron canti   14, 3
da mia memoria labili e caduci.   [12]   17, 15

O dolce amor che di riso t’ammanti,   1, 16; 1, 13
quanto parevi ardente in que’ flailli,
ch’avieno spirto sol di pensier santi!   [15]

Poscia che i cari e lucidi lapilli   Not. V; 2, 17   chiari
ond’ io vidi ingemmato il sesto lume
puoser silenzio a li angelici squilli,   [18]

udir mi parve un mormorar di fiume   14, 11
che scende chiaro giù di pietra in pietra,
mostrando l’ubertà del suo cacume.   [21]

E come suono al collo de la cetra
prende sua forma, e sì com’ al pertugio   7, 1; 8, 6
de la sampogna vento che penètra,   [24]

così, rimosso d’aspettare indugio,
quel mormorar de l’aguglia salissi   14, 11
su per lo collo, come fosse bugio.   [27]

Fecesi voce quivi, e quindi uscissi   14, 1
per lo suo becco in forma di parole,
quali aspettava il core ov’ io le scrissi.   [30]

« La parte in me che vede e pate il sole   6, 7; 19, 17-18
ne l’aguglie mortali », incominciommi,
« or fisamente riguardar si vole,   [33]

perché d’i fuochi ond’ io figura fommi,
quelli onde l’occhio in testa mi scintilla,
e’ di tutti lor gradi son li sommi.   [36]   di tutto loro grado

Colui che luce in mezzo per pupilla,
fu il cantor de lo Spirito Santo,
che l’arca traslatò di villa in villa:   [39]

ora conosce il merto del suo canto,   12, 1-2 (V par)
in quanto effetto fu del suo consiglio,
per lo remunerar ch’è altrettanto.   [42]

Dei cinque che mi fan cerchio per ciglio,
colui che più al becco mi s’accosta,
la vedovella consolò del figlio:   [45]

ora conosce quanto caro costa   12, 1-2 (I par)
non seguir Cristo, per l’esperïenza   14, 4; 2, 1
di questa dolce vita e de l’opposta.   [48]   7, 17

E quel che segue in la circunferenza
di che ragiono, per l’arco superno,
morte indugiò per vera penitenza:   [51]   3, 10

ora conosce che ’l giudicio etterno   12, 1-2 (IV par); 4, 3
non si trasmuta, quando degno preco   8, 3
fa crastino là giù de l’odïerno.   [54]

L’altro che segue, con le leggi e meco,
sotto buona intenzion che fé mal frutto,   12, 15 (2, 5)
per cedere al pastor si fece greco:   [57]

ora conosce come il mal dedutto   12, 1-2 (VI par); 7, 17
dal suo bene operar non li è nocivo,   2, 5
avvegna che sia ’l mondo indi distrutto.   [60]

E quel che vedi ne l’arco declivo,
Guiglielmo fu, cui quella terra plora
che piagne Carlo e Federigo vivo:   [63]

ora conosce come s’innamora   12, 1-2 (II par)
lo ciel del giusto rege, e al sembiante
del suo fulgore il fa vedere ancora.   [66]

Chi crederebbe giù nel mondo errante   6, 7; 6, 5
che Rifëo Troiano in questo tondo
fosse la quinta de le luci sante?   [69]

Ora conosce assai di quel che ’l mondo   12, 1-2 (III par)
veder non può de la divina grazia,
ben che sua vista non discerna il fondo ».   [72]   2, 1

Quale allodetta che ’n aere si spazia
prima cantando, e poi tace contenta   Not. V
de l’ultima dolcezza che la sazia,   [75]   7, 17

tal mi sembiò l’imago de la ’mprenta   13, 15; 14, 11
de l’etterno piacere, al cui disio   7, 17
ciascuna cosa qual ell’ è diventa.   [78]

E avvegna ch’io fossi al dubbiar mio   Not. X
lì quasi vetro a lo color ch’el veste,
tempo aspettar tacendo non patio,   [81]   soffrìo

ma de la bocca, « Che cose son queste? »,   5, 2; 7, 13
mi pinse con la forza del suo peso:   Not. X
per ch’io di coruscar vidi gran feste.   [84]

Poi appresso, con l’occhio più acceso,
lo benedetto segno mi rispuose   7, 13
per non tenermi in ammirar sospeso:   [87]   6, 7 (5, 2); 4, 7-8

« Io veggio che tu credi queste cose
perch’ io le dico, ma non vedi come;
sì che, se son credute, sono ascose.   [90]

Fai come quei che la cosa per nome
apprende ben, ma la sua quiditate
veder non può se altri non la prome.   [93]

Regnum celorum vïolenza pate   12, 14; 3, 7
da caldo amore e da viva speranza,
che vince la divina volontate:   [96]

non a guisa che l’omo a l’om sobranza,
ma vince lei perché vuole esser vinta,
e, vinta, vince con sua beninanza.   [99]

La prima vita del ciglio e la quinta
ti fa maravigliar, perché ne vedi   Not. X (6, 7)
la regïon de li angeli dipinta.   [102]

D’i corpi suoi non uscir, come credi,
Gentili, ma Cristiani, in ferma fede   3, 12
quel d’i passuri e quel d’i passi piedi.   [105]   10, 1

Ché l’una de lo ’nferno, u’ non si riede
già mai a buon voler, tornò a l’ossa;
e ciò di viva spene fu mercede:   [108]

di viva spene, che mise la possa   3, 7-8
ne’ prieghi fatti a Dio per suscitarla,
sì che potesse sua voglia esser mossa.   [111]

L’anima glorïosa onde si parla,
tornata ne la carne, in che fu poco,
credette in lui che potëa aiutarla;   [114]

e credendo s’accese in tanto foco   6, 6 (vinum)
di vero amor, ch’a la morte seconda
fu degna di venire a questo gioco.   [117]   6, 6 (oleum)

L’altra, per grazia che da sì profonda   4, 2; 5, 1
fontana stilla, che mai creatura
non pinse l’occhio infino a la prima onda,   [120]

tutto suo amor là giù pose a drittura:
per che, di grazia in grazia, Dio li aperse   3, 7-8
l’occhio a la nostra redenzion futura;   [123]

ond’ ei credette in quella, e non sofferse
da indi il puzzo più del paganesmo;
e riprendiene le genti perverse.   [126]

Quelle tre donne li fur per battesmo
che tu vedesti da la destra rota,
dinanzi al battezzar più d’un millesmo.   [129]

O predestinazion, quanto remota   5, 1
è la radice tua da quelli aspetti   4, 2
che la prima cagion non veggion tota!   [132]

E voi, mortali, tenetevi stretti   20, 12
a giudicar: ché noi, che Dio vedemo,   15, 8
non conosciamo ancor tutti li eletti;   [135]

ed ènne dolce così fatto scemo,
perché il ben nostro in questo ben s’affina,   15, 8
che quel che vole Iddio, e noi volemo ».   [138]   16, 1

Così da quella imagine divina,
per farmi chiara la mia corta vista,   15, 8
data mi fu soave medicina.   [141]

E come a buon cantor buon citarista   5, 8-9
fa seguitar lo guizzo de la corda,
in che più di piacer lo canto acquista,   [144]

sì, mentre ch’e’ parlò, sì mi ricorda
ch’io vidi le due luci benedette,
pur come batter d’occhi si concorda,   14, 2
con le parole mover le fiammette.   [148]


1. Il silenzio che precede canto

Le sette visioni apocalittiche, le prime sei divise in settenari, sono strettamente interconnesse fra loro. Ad esempio, il settimo e ultimo momento della visione che precede è congiunto con la visione che segue, per quanto temporalmente sia da essa distinto. La seconda visione, dei sette sigilli, si conclude con il silenzio fatto in cielo per mezz’ora (Ap 8, 1) e subito inizia la terza, cioè la visione delle sette trombe (Ap 8, 2), come se dall’arcano silenzio della contemplazione sgorgasse il canto della perfetta e alta predicazione delle cose divine (prologo, Notabile V).
Nell’Eden tace Beatrice nel rimproverare Dante, e subito cantano gli angeli (Purg. XXX, 82-84). Tre volte girano cantando intorno a Beatrice e a Dante gli spiriti sapienti che nel cielo del Sole formano la prima corona, poi si arrestano taciti, come donne che non sospendono la danza ma ascoltano silenziose in attesa di raccogliere le nuove note (Par. X, 76-82). Il silenzio che precede il canto o il suono – proprio anche degli spiriti che formano l’Aquila nel cielo di Giove (Par. XX, 7-9, 16-19), del cantare di san Pietro dopo che il poeta ha cessato di parlare (Par. XXIV, 151-152), del “dolcissimo canto” che risuona a Par. XXVI, 67-69 nella medesima situazione, dell’invettiva dello stesso san Pietro contro i papi corrotti (Par. XXVII, 16-19: da notare la non casuale corrispondenza dell’ordine numerico dei versi con Par. XX) – corrisponde al silenzio che caratterizza il settimo sigillo, che conclude la seconda visione, cui fa seguito l’inizio della terza con lo sgorgare del canto delle trombe dei dottori. Anche “si quetaro, a Par. XIX, 100, rientra nel gruppo tematico che ruota attorno al silenzio del settimo stato (prologo, Notabile III), per cui è inammissibile la variante “seguitaro.
La forma latina “concipio” compare una sola volta nella Commedia, nell’infuocato inveire di san Pietro contro il papato corrotto: come quei dottori, i quali “per igneas meditationes concipiunt et emittunt spiritalem intelligentiam”, il Pescatore afferma che “l’alta provedenza, che con Scipio / difese a Roma la gloria del mondo, / soccorrà tosto, sì com’ io concipio” (Par. XXVII, 61-63). È da notare che nel parlare del principe degli apostoli sono presenti elementi semantici riconducibili all’esegesi del prepararsi a tubicinare da parte dei dottori (Ap 8, 6): “Poi procedetter le parole sue (v. 37) … similis flatui procedenti ex tuba”; il concepire: “Sic enim doctores primo ex scripturis sacris componunt et ordinant certas materias, ac deinde per igneas meditationes concipiunt et emittunt spiritalem intelligentiam”; l’ordine dato al poeta di parlare liberamente: “apri la bocca, / e non asconder quel ch’io non ascondo (vv. 65-66) … tubam sic compositam applicant ori suo”. Come sopra detto, nella successione delle visioni apocalittiche, al silenzio che caratterizza il settimo sigillo, che conclude la seconda visione, fa seguito l’inizio della terza con lo sgorgare del canto delle trombe dei dottori: «Item finis secunde visionis est quod aperto septimo sigillo “factum est silentium in celo quasi media hora” (Ap 8, 1), et tunc immediate subditur initium tertie visionis, scilicet: “Vidi septem angelos, et date sunt illis septem tube” (Ap 8, 2), ac si post silentium medie hore premissum prosiliret cantus septem tubarum, et certe de archano contemplationis silentio prosiliit perfecta et alta predicatio divinorum”» (prologo, Notabile V). Così l’invettiva di san Pietro, vera tubicinazione dottorale senza che mai sia citato il termine “tromba”, è preceduta dal silenzio posto dalla Provvidenza “nel beato coro … da ogne parte” (vv. 16-18; sesta terzina, come avvenuto per l’Aquila in Par. XX).
Questa concordia tra la fine di una visione e l’inizio della successiva si trova anche altrove. Ad esempio nella fine della quarta, segnata dal vendemmiare con la falce acuta la vigna della terra e dal calcare l’uva nel lago dell’ira divina (Ap 14, 19-20, citato a prologo, Notabile V), congiunta con l’inizio della quinta (Ap 15, 1) in cui appaiono gli angeli con le sette ultime piaghe, come fossero sviluppo e consumazione della precedente pena designata dal calcare l’uva nel lago dell’ira divina. Sarà da notare che nel quarto girone del purgatorio (che afferisce principalmente alla tematica del quarto stato della Chiesa) gli accidiosi, spinti da buon volere e giusto amore, nel loro sopravvenire ai due poeti sono paragonati alla furia e alla calca dei Tebani lungo i fiumi della Beozia nei riti di Bacco e al passo dei cavalli che falca correndo al galoppo (Purg. XVIII, 91-96). E in effetti il quinto girone, dove si purgano gli avari e i prodighi, è pregno dei motivi propri del quinto stato (tratti da tutti gli elementi quinti delle prime sei visioni).
Acme del tema del silenzio, proprio dell’apertura del settimo sigillo, è quando nel Primo Mobile Beatrice tace, guardando fissamente nella luce del punto divino, per un tempo pari a quello in cui il sole e la luna, l’uno nel segno dell’Ariete, l’altra in quello della Bilancia, si vengono a trovare contemporaneamente sulla linea dell’orizzonte in due opposti punti del cielo e in perfetto equilibrio rispetto allo zenit, prima che l’uno o l’altra cambino emisfero (Par. XXIX, 1-9; si tacque è sulla terza terzina, come fu tacente a Par. XX). Tempo breve (poco più di un minuto), ma non istantaneo, come non può essere istantaneo il tempo del terzo stato generale del mondo, appropriato allo Spirito, segnato dal silenzio. Il silenzio e la quiete, prerogative proprie del settimo stato, segnano anche il passaggio dal cielo della Luna a quello di Mercurio (Par. V, 88-93).

Tab. XX.1

Par. XX, 7-9, 16-19, 73-75, 100-102

e questo atto del ciel mi venne a mente,
come ’l segno del mondo e de’ suoi duci
nel benedetto rostro fu tacente

Poscia che i cari e lucidi lapilli
ond’ io vidi ingemmato il sesto lume
puoser silenzio a li angelici squilli,
udir mi parve un mormorar di fiume

Quale allodetta che ’n aere si spazia
prima cantando, e poi tace contenta
de l’ultima dolcezza che la sazia

Poi si quetaro quei lucenti incendi   seguitaron
de lo Spirito Santo ancor nel segno
che fé i Romani al mondo reverendi

Par. XXVII, 16-19, 37-39, 61-66

La provedenza, che quivi comparte
vice e officio, nel beato coro
silenzio posto avea da ogne parte,
quand’ ïo udi’: ………………….

Poi procedetter le parole sue
con voce tanto da sé trasmutata,
che la sembianza non si mutò piùe

Ma l’alta provedenza, che con Scipio
difese a Roma la gloria del mondo,
soccorrà tosto, sì com’ io concipio;
e tu, figliuol, che per lo mortal pondo
ancor giù tornerai, apri la bocca,
e non asconder quel ch’io non ascondo.

Par. XXIX, 1-9

Quando ambedue li figli di Latona,
coperti del Montone e de la Libra,
fanno de l’orizzonte insieme zona,
quant’ è dal punto che ’l cenìt inlibra
infin che l’uno e l’altro da quel cinto,
cambiando l’emisperio, si dilibra,
tanto, col volto di riso dipinto,
si tacque Bëatrice, riguardando
fiso nel punto che m’avëa vinto.

Par. V, 88-93

Lo suo tacere e ’l trasmutar sembiante
puoser silenzio al mio cupido ingegno,
che già nuove questioni avea davante;
e sì come saetta che nel segno
percuote pria che sia la corda queta,
così corremmo nel secondo regno. 

[LSA, cap. VIII, Ap 8, 6 (radix IIIe visionis)] Et ultra hoc addit ipsorum ad docendum et intonandum providam et idoneam applicationem, iuxta quod habentes tubas tunc se parant ad tubicinandum quando tube calamos componunt, ac deinde tubam sic compositam applicant ori suo, ac deinde interno flatu inflant ora et tandem perflant tubas flatu oris sui. Sic enim doctores primo ex scripturis sacris componunt et ordinant certas materias, ac deinde per igneas meditationes concipiunt et emittunt spiritalem intelligentiam, que est similis flatui procedenti ex tuba. Nam spiritalis intellectus sic progreditur de corde littere sicut flatus ex tuba.

[LSA, prologus, Notabile III] De septimo (dono) etiam patet, quia in quolibet septem statuum predictorum est aliqua quietatio spiritus in Deo et aliquis gustus Dei. […] Item quilibet statuum predictorum habuit aliquam pacem post sue adversitatis noctem, ut ex “vespere et mane” fieret “dies unus” (cfr. Gn 1, 5).

[LSA, prologus, Notabile V] Item finis secunde visionis est quod aperto septimo sigillo “factum est silentium in celo quasi media hora” (Ap 8, 1), et tunc immediate subditur initium tertie visionis, scilicet: “Vidi septem angelos, et date sunt illis septem tube” (Ap 8, 2), ac si post silentium medie hore premissum prosiliret cantus septem tubarum, et certe de archano contemplationis silentio prosiliit perfecta et alta predicatio divinorum.

Par. X, 76- 82

Poi, cantando, quelli ardenti soli
si fuor girati intorno a noi tre volte,
come stelle vicine a’ fermi poli,
donne mi parver, non da ballo sciolte,
ma che s’arrestin tacite, ascoltando
fin che le nove note hanno ricolte.
E dentro a l’un senti’ cominciar:

Par. XXIV, 151-154; XXVI, 67-69

così, benedicendomi cantando,
tre volte cinse me, sì com’ io tacqui,
l’appostolico lume al cui comando
io avea detto: sì nel dir li piacqui!

Sì com’ io tacqui, un dolcissimo canto
risonò per lo cielo, e la mia donna
dicea con li altri: “Santo, santo, santo!”.

Purg. XXX, 82-84

Ella si tacque; e li angeli cantaro
di sùbitoIn te, Domine, speravi’;
ma oltre ‘pedes meos’ non passaro.

[Notabile V] Item post finem quarte visionis, que est cum falce acuta vindemiasse vineam terre et uvas misisse et calcasse in lacum ire Dei (Ap 14, 19-20), subditur initium quinte visionis, scilicet: “Et vidi aliud signum” et cetera (Ap 15, 1), scilicet “angelos septem habentes plagas septem novissimas, quoniam in illis consumata est ira Dei”, ac si iste septem plage sint explicatio vel subsequens consumatio pene designate in calcatione uvarum in lacu ire Dei.

Purg. XVIII, 91-96

E quale Ismeno già vide e Asopo
lungo di sé di notte furia e calca,
pur che i Teban di Bacco avesser uopo,
cotal per quel giron suo passo falca,
per quel ch’io vidi di color, venendo,
cui buon volere e giusto amor cavalca.


2. L’aquila fissa nel sole

Al momento dell’ascesa dall’Eden al cielo, Beatrice sta fissa nel sole: “aguglia sì non li s’affisse unquanco” (Par. I, 48). L’aquila è tema presente all’apertura del quarto sigillo (Ap 6, 7). Il quarto stato (dei sette nei quali, secondo Olivi, si articola la storia della Chiesa) è proprio degli anacoreti, cioè dei contemplativi; ad essi è dato di vedere le cose prima che avvengano e poi di contemplare (“speculari”) stupiti e meravigliati le ragioni dei giudizi divini (nell’esegesi il riferimento è alla distruzione della Chiesa orientale da parte dei Saraceni, fatto prima inconcepibile). In Dante che ascende al cielo “la novità del suono e ’l grande lume” provocano “grande ammirazion” (tema del quarto sigillo, ad Ap 6, 7), come pure il fatto di trascendere, legato ancora al corpo, i “corpi levi”, cioè l’aria e il fuoco (vv. 82-84, 97-99). Ad Ap 4, 7, l’aquila, l’ultimo dei quattro animali (o esseri viventi) che circuiscono la sede divina, designa secondo Gioacchino da Fiore coloro che sono “sospesi” nella contemplazione e anche il senso anagogico, o ‘sovrasenso’ (di rilievo l’espressione “aguglia di Cristo”, riferita a Par. XXVI, 53 a san Giovanni, che san Bernardo definisce “quei che vide tutti i tempi gravi” della Chiesa a Par. XXXII, 127-129).
La contemplazione è il tema che unisce Ap 6, 7 ad Ap 19, 17-18, al momento in cui Giovanni vede un’aquila che sta fissa nel sole, identificata con il contemplativo Elia che invita al serotino convivio spirituale. Si tratta di un passo centrale nella descrizione dell’ascesa al cielo, compiutamente esaminato altrove. Si noterà ancora come da un medesimo luogo della Lectura si pervenga, tramite la compresenza delle parole-temi, a più luoghi della Commedia. Il che significa che, semanticamente, la medesima esegesi di un punto del commento scritturale è stata utilizzata con sempre nuove variazioni in momenti diversi della stesura del poema, ed è un fenomeno che si verifica in moltissimi casi.
Nel salire al primo balzo del cosiddetto ‘antipurgatorio’, Dante sta “stupido tutto al carro de la luce”, ammirando il fatto che i raggi del sole lo feriscano da sinistra (Purg. IV, 55-60): nelle terzine si può notare la commistione di temi da Ap 6, 7 (stare stupìto, ammirare) e da Ap 19, 17 (stare “tutto” al sole). Lo stupore per gli imperscrutabili giudizi divini è anticipato dalla meraviglia per aver visto Manfredi salvato: “udendo quello spirto e ammirando” (v. 14), e non è certo casuale che il maledetto dai pastori, ora spirito eletto incorporato nella Chiesa, sia definito “di gentile aspetto” (Purg. III, 107), perché a un attento esame si potrebbe vedere come il Purgatorio realizzi il tempo che san Paolo nella Lettera ai Romani (11, 25) chiama della “pienezza delle genti” (la salita della montagna, dopo l’apertura della porta, corrisponde al sesto stato della Chiesa, cioè alla storia contemporanea). Se in questo caso tace il motivo, da Ap 19, 17-18, del convivio spirituale al quale invita Elia, al profeta va comunque ricondotta l’espressione “carro de la luce”: il carro del Sole è immagine di Elia, figura di Francesco, designato dall’angelo del capitolo X (sesta tromba), che ha la faccia come il sole (Ap 10, 1-3).
I temi ritornano a Purg. XIII, 13, nell’atteggiamento di Virgilio che “fisamente al sole li occhi porse” prima di invocarne la guida “per lo novo cammin”. Subito dopo questa invocazione, vengono uditi spiriti che passano volando e “parlando / a la mensa d’amor cortesi inviti”, invitando cioè al convivio spirituale, nel caso sollecitando con esempi di carità, virtù opposta all’invidia punita in quel girone (vv. 25-27).

 

Nel cielo di Giove l’Aquila invita il poeta a guardarle “fisamente” nell’occhio, la parte che nelle aquile terrene “vede e pate il sole” (Ap 19, 17; Par. XX, 31-33; da notare ad Ap 6, 7: “aquila … invitat nos non solum ad contemplandum sed etiam ad compatiendum et imitandum”). Degli spiriti luminosi che formano l’Aquila, i sei che risplendono nell’occhio sono i sommi: delle luci che stanno sull’arco del ciglio superiore, la prima (Traiano) e la quinta (Rifeo Troiano) fanno meravigliare il poeta il quale, proveniente dal “mondo errante”, non avrebbe mai creduto che dei “Gentili” potessero essere salvati (vv. 67-69, 100-102). Si tratta di un’ardita variazione del tema da Ap 6, 7, del meravigliarsi per la distruzione delle superbe chiese orientali da parte dei Saraceni, “unum stupendius et antequam fieret inexcogitabilius”. Così il giudizio divino ha consentito la distruzione di Troia (“’l superbo Ilïón”, Inf. I, 75) perché di lì uscisse “de’ Romani il gentil seme” (Inf. XXVI, 60), con la venuta di Enea da Troia, che fu il tempo in cui nacque David (Convivio, IV, v, 6): la pupilla dell’occhio dell’aquila è appunto David (Par. XX, 37-42); le altre luci intorno, oltre alle due sopra nominate, sono Ezechia, Costantino, Guglielmo II il Buono. L’occhio rappresenta dunque le genti e insieme Israele (l’antico e il nuovo), incorporati nella Chiesa del sesto e del settimo stato, corrispondente all’età dello Spirito di Gioacchino da Fiore.

Tab. XX.2

[LSA, cap. XIX, Ap 19, 17-18; VIa visio] “Et vidi unum angelum stantem in sole” (Ap 19, 17). Iste designat altissimos et preclarissimos contemplativos doctores illius temporis, quorum mens et vita et contemplatio erit tota infixa in solari luce Christi et scripturarum sanctarum, et secundum Ioachim inter ceteros precipue designat Heliam. “Et clamavit voce magna omnibus avibus que volabant per medium celi”, id est omnibus evangelicis et contemplativis illius temporis: “Venite, congregamini ad cenam Dei magnam”, id est ad spirituale et serotinum convivium Christi, in quo quidem devorabitur universitas moriture carnis, ut transeat quod carnale est et maneat quod spirituale est.

[LSA, cap. VI, Ap 6, 7; IIa visio, apertio IVi sigilli] Si autem queras quomodo aquila, id est contemplativus status quarti temporis, docuit ista, ita ut diceret: “Veni et vide”, potest ratio duplex dari.
Prima est quia status ille in suo fine multa passus est a Sarracenis, et ideo per facti evidentiam invitat nos non solum ad contemplandum sed etiam ad compatiendum et imitandum.
Secunda est quia inter Dei secreta iudicia in eius gloria facta hoc est unum stupendius et antequam fieret inexcogitabilius, quod scilicet orientalis ecclesia et magna pars ecclesie occidentalis sic radicitus exter-minarentur per Sarracenos, et hoc tanto tempore, scilicet plusquam per sescentos annos et plusquam per medium temporis plenitudinis gentium et usque ad tempus Antichristi vel circa. Speculari igitur hoc antequam fieret, et post factum contemplari rationes tanti iudicii, ad oculos volantis aquile spectat. De heresibus enim dixerat Apostolus quod oportet hereses esse (1 Cor 11, 19). Satis etiam patuit a principio quod ecclesiam Christi oportebat multa pati a Iudeis et a paganis. Non etiam fuit difficile advertere quod inter sanctos erant commiscendi aliqui ypocrite, aut quod quidam erant in ypocrisim vel in alia vitia casuri, cum totum humanum genus sit pronum ad mala. Sed hoc est stupendissimum, quod sic fere decem partes ecclesie permiserit Christus separari a vera fide et ab obedientia et unitate ecclesie romane, prout factum est in suscitatione et dilatatione regni sarracenici. Nam ex tunc, translato imperio occidentali ad Karolum magnum, Greci non curaverunt ecclesie romane obedire.

[LSA, Ap 10, 1-3; IIIa visio, VIa tuba] Sciendum etiam quod sicut sanctissimus pater noster Franciscus est post Christum et sub Christo primus et principalis fundator et initiator et exemplator sexti status et evangelice regule eius, sic ipse post Christum designatur primo per angelum istum. Unde et in huius signum in curru igneo apparuit transfiguratus in solem, ut monstraretur venisse in spiritu et imagine Helie (cfr. 4 Rg 2, 11) et simul cum hoc gerere perfectam imaginem veri solis, scilicet Christi.

Purg. IV, 13-14, 55-60

Di ciò ebb’ io esperïenza vera,
udendo quello spirto e ammirando

Li occhi  prima drizzai ai bassi liti;
poscia li alzai al sole, e ammirava
 che da sinistra n’eravam feriti.

Ben s’avvide il poeta ch’ïo stava
 stupido tutto al carro de la luce,
ove tra noi e Aquilone intrava.

Par. I, 64-66, 97-99

Beatrice tutta ne l’etterne rote
 fissa con li occhi stava; e io in lei
le luci fissi, di là sù rimote.

e dissi: “Già contento requïevi
di grande ammirazion; ma ora ammiro
 com’ io trascenda questi corpi levi”.

Par. XX, 31-33, 67-69, 85-87, 100-102

La parte in me che vede e pate il sole
 ne l’aguglie mortali”, incominciommi,

“or fisamente riguardar si vole”

Chi crederebbe giù nel mondo errante
che Rifëo Troiano in questo tondo
fosse la quinta de le luci sante?

Poi appresso, con l’occhio più acceso,
lo benedetto segno mi rispuose
per non tenermi in ammirar sospeso

La prima vita del ciglio e la quinta
 ti fa maravigliar, perché ne vedi
la regïon de li angeli dipinta.

Par. XXVI, 52-53

Non fu latente la santa intenzione
de l’aguglia di Cristo ………


3.
“Sapete qual è quello / dubbio che m’è digiun cotanto vecchio”

L’agone del dubbio. Secondo il principio della concorrenza tra gli status, cioè dei periodi della storia della Chiesa, affermato nel Notabile X del prologo della Lectura super Apocalipsim, il sesto stato – cioè il periodo in cui vivono Olivi e Dante, iniziato con Francesco d’Assisi – concorre con il secondo, per antonomasia lo stato dei martiri, non per connessione temporale (questo inizia infatti con la persecuzione di Nerone o con la lapidazione di santo Stefano o con la passione di Cristo e dura fino alla pax costantiniana), ma a motivo della quantità dei testimoni della fede. Il tipo di martirio è tuttavia diverso. I martiri del sesto stato soffrono nel dubbio, il loro è un “certamen dubitationis” che i primi testimoni della fede non provarono per l’evidenza dell’errore in cui incorrevano gli idolatri pagani. Nel sesto stato il martire non prova soltanto il tormento del corpo, viene anche spinto (“propulsabuntur martires”) dalla sottigliezza degli argomenti filosofici, dalle distorte testimonianze scritturali, dall’ipocrita simulazione di santità, dalla falsa immagine dell’autorità divina o papale, in quanto falsi pontefici insorgono, come Anna e Caifa insorsero contro Cristo. Per rendere più intenso il martirio, i carnefici stessi operano miracoli. Tutto ciò appartiene alla tribolazione del tempo dell’Anticristo, alla tentazione che induce in errore persino gli eletti, come testimoniato da Cristo nella grande pagina escatologica di Matteo 24, 24: “dabunt signa magna et prodigia, ita ut in errorem inducantur, si fieri potest, etiam electi”. Scrive Gregorio Magno nei Moralia, commentando Giobbe 40, 12 – “stringe (nel senso di tendere) la sua coda come un cedro” -: “ora i nostri fedeli fanno miracoli nel patire perversioni, allora i seguaci di Behemot faranno miracoli anche nell’infliggerle. Pensiamo perciò quale sarà la tentazione della mente umana allorché il pio martire sottoporrà il corpo ai tormenti mentre davanti ai suoi occhi il carnefice opererà miracoli”.
Fra i tanti luoghi del poema toccati dal tema del martirio inferto dal dubbio particolare rilievo assume, in Inf. V, l’episodio di Francesca e Paolo, d’altronde principalmente ordito su temi del secondo stato.
Il vecchio dubbio di Dante sulla giustificazione per la fede (con la conseguente questione della salvezza degli infedeli giusti) viene sciolto dall’Aquila, che s’assottiglia su quel mistero, con riferimento all’autorità della Scrittura, senza la quale “da dubitar sarebbe a maraviglia” (Par. XIX, 32-33, 82-84). Si meraviglia il poeta nel sentire che Traiano e Rifeo Troiano sono fra i beati: il “dubbiar … con la forza del suo peso” gli “pinse” le parole, “tempo aspettar tacendo non patio” (Par. XX, 79-84; patiuntur, nell’esegesi, esclude la variante soffrìo) [1]. Ma non è un perverso patire. L’Aquila, immagine e segno, non è depositaria degli “intorta testimonia scripturarum sanctarum” che hanno ‘spinto’ gli occhi dei due amanti, né si nasconde “per falsam imaginem divine et pontificalis auctoritatis” dalla quale Guido da Montefeltro è stato ingannato.
In tanta insistenza sul tema del dubbio, che è un patire assimilabile al martirio, non sarà casuale che il verso “di che facei question cotanto crebra” (XIX, 69) rispecchi l’esegesi lì dove si riferisce alla tribolazione dei santi sulla quale insiste la seconda visione, relativa all’apertura dei sette sigilli: “non tamen sic crebra et expressa mentio fit ibi de interfectione et tribulatione sanctorum” (prologo, Notabile V).

[1] La domanda di Dante “Che cose son queste?”, spinta dal dubbio, e il successivo rispondere dell’Aquila “per non tenermi in ammirar sospeso” (vv. 85-87) rinviano all’esegesi di Ap 7, 13, più volte variata nel poema.

 

Par. XIX, 67-69

Assai t’è mo aperta la latebra
che t’ascondeva la giustizia viva,
di che facei question cotanto crebra

[LSA, prologus, Notabile VQuamvis autem in ceteris visionibus tangantur pugne drachonis et suorum contra sanctos, non tamen sic crebra et expressa mentio fit ibi de interfectione et tribulatione sanctorum.

L’Aquila applica a sé il tema del martirio dicendo: “e in terra lasciai la mia memoria” (Par. XIX, 16) – “Martiria vero, martires configurantia Christo passo et testimonium dantia Christo et fidei eius et virtutis exemplum relinquentia posteris, debuerunt esse multa et diuturna, tum propter maiorem gloriam Christi, tum propter maiorem confirmationem fidei, tum propter maiorem coronam maioremque societatem ipsorum martirum” (prologo, Notabile XII). I martiri, assimilati nella passione alla figura di Cristo, diedero testimonianza a lui e alla sua fede lasciando ai posteri un esempio di virtù per la sua maggior gloria. Al termine del viaggio, le parole “che dopo ’l sogno la passione impressa / rimane” (Par. XXXIII, 59-60) non fanno riferimento solo a una generica emozione. La “passione” che Dante prova nella visione finale rinnova quella di Cristo. Il poeta ‘soffre’ e ‘sostiene’ (due verbi appropriati ai martiri: vv. 76, 80) l’acume del vivo raggio, e invoca la somma luce affinché offra di nuovo (‘ripresti’) alla sua memoria un barlume di quel che ha visto e affinché renda la sua lingua tanto possente da essere in grado, esprimendosi, di lasciare ai posteri anche solo una favilla della gloria divina: “e fa la lingua mia tanto possente, / ch’una favilla sol de la tua gloria / possa lasciare a la futura gente. Così gli uomini meglio comprenderanno la “vittoria” di Dio, cioè il suo infinito valore, ma anche il suo trionfo sulla passione (vv. 67-75).

Dodici stelle e sei gemme. Nella quarta visione, della donna vestita di sole, che tiene la luna sotto i piedi ed è cinta sul capo da una corona di dodici stelle (Ap 12, 1), si dice: “Era incinta e gridava partorendo e si doleva per partorire” (Ap 12, 2). Questa donna è per antonomasia la Vergine Maria genitrice di Dio; in generale designa la Chiesa, soprattutto quella primitiva. La Vergine, infatti, se concepì nell’utero del corpo e della mente Cristo, portò anche nell’utero del cuore l’intero corpo mistico di Cristo, come fosse la sua prole. Costei chiama gridando, sia col gemito dei sospiri sia col suono della predicazione, nel partorire Cristo che sarà crocifisso e che per la croce risorgerà manifestamente nella gloria del Padre, partorendo insieme con grave angustia il corpo mistico del figlio che sarà rigenerato nella grazia e nella gloria di Dio, che è anche il Cristo che si formerà e nascerà nei cuori.
Olivi riduce le dodici stelle che coronano il capo della donna vestita di sole a sei gemme, ciascuna delle quali unisce due perfezioni stellari. I sei spiriti luminosi che formano la pupilla (David) e risplendono sul ciglio dell’occhio dell’Aquila (Traiano, Ezechia, Costantino, Guglielmo II d’Altavilla detto il Buono, Rifeo Troiano) sono ricordati complessivamente in dodici terzine, a ciascuno ne sono dedicate due. La simmetria numerica con quanto esposto nell’esegesi si estende ai significati connessi alle sei gemme, se confrontati con la seconda terzina riferita a ciascuna luce, dove questa riconosce la giustizia divina nel remunerare secondo i meriti (David) e nel punire (Traiano), nella sua inerrabilità e nella sua incomprensibile misericordia (Ezechia), nelle sue virtù affettive (Guglielmo II), nell’elargire grazie (Rifeo Troiano). Costantino, che trasferì l’Aquila a Bisanzio per lasciare al papa la sovranità su Roma,
“ora conosce come il mal dedutto / dal suo bene operar non li è nocivo, / avvegna che sia ’l mondo indi distrutto”. La sua fu “offerta / forse con intenzion sana e benigna” (Purg. XXXII, 137-138), ma anch’essa, come ora riconosce, rientrò nei disegni divini: il corso degli eventi temporali ha infatti in Dio le sue ragioni eterne ed esemplari [1].

[1] Al v. 36 – “e’ di tutti lor gradi son li sommi” – la variante di tutto loro grado (Inglese) non sembra trovare giustificazione in quanto i gradi non si riferiscono a differenze di rango (gli spiriti sono tutti parimente sommi), ma alla presentazione fatta dall’Aquila che gradatamente ascende sull’arco del ciglio (David, Traiano), si sofferma sul culmine (Costantino) per poi discendere (Ezechia, Guglielmo II). Salire e scendere progressivamente (gradatim) è tema tipico dell’esegesi riguardante la chiesa di Efeso (Ap 2, 5), più volte variato nel poema.

Tab. XX.3

[LSA, cap. XII, Ap 12, 1-2 (IVa visio, IVum radicale)] Item tam in ipsa quam in ecclesia contemplativa est corona duodecim stellarum, id est duodecim stellarium contemplationum seu sex gemmarum.

Par. XX, 37-72

Quintum par est contemplatio remunerabilium me-ritorum et beatificantium premiorum.

Colui che luce in mezzo per pupilla,
fu il cantor de lo Spirito Santo,
che l’arca traslatò di villa in villa:
ora conosce il merto del suo canto,
in quanto effetto fu del suo consiglio,
per lo remunerar ch’è altrettanto.

Primum enim par est contemplatio corporalium naturarum et spiritualium substantiarum.

Dei cinque che mi fan cerchio per ciglio,
colui che più al becco mi s’accosta,
la vedovella consolò del figlio:
ora conosce quanto caro costa
non seguir Cristo, per l’esperïenza
di questa dolce vita e de l’opposta.

Quartum par est contemplatio inenarrabilium iudi-ciorum et incomprehensibilium misericordiarum.

E quel che segue in la circunferenza
di che ragiono, per l’arco superno,
morte indugiò per vera penitenza:
ora conosce che ’l giudicio etterno
non si trasmuta, quando degno preco
fa crastino là giù de l’odïerno.

Sextum par est contemplatio decursuum tempo-ralium et suarum rationum eternalium et exem-plarium.

L’altro che segue, con le leggi e meco,
sotto buona intenzion che fé mal frutto,
per cedere al pastor si fece greco:
ora conosce come il mal dedutto
dal suo bene operar non li è nocivo,
avvegna che sia ’l mondo indi distrutto.

Secundum par est contemplatio scientiarum intellec-tualium et virtutum affectualium.

E quel che vedi ne l’arco declivo,
Guiglielmo fu, cui quella terra plora
che piagne Carlo e Federigo vivo:
ora conosce come s’innamora
lo ciel del giusto rege, e al sembiante
del suo fulgore il fa vedere ancora.

Tertium par est contemplatio legum divinitus institu-tarum et gratiarum divinitus infusarum.

Chi crederebbe giù nel mondo errante
che Rifëo Troiano in questo tondo
fosse la quinta de le luci sante?
Ora conosce assai di quel che ’l mondo
veder non può de la divina grazia,
ben che sua vista non discerna il fondo”.

 

La porta aperta. Nel sesto stato della storia della Chiesa – iniziato con la conversione di san Francesco (1206), si concluderà con la prossima sconfitta dell’Anticristo e la distruzione di Babylon, la Chiesa carnale – ci si dedica più al gusto della contemplazione che alle forti opere della vita attiva, e perciò non è data a questo periodo tanta forza e virtù (robur virtutis) per forti opere, come è stata data agli stati precedenti, e in particolare agli anacoreti del quarto (cfr. Ap 2, 26-28), opere che gli uomini sensuali ammirano, stimano e, da esse mossi, sono tratti a imitare e desiderare più di quelle intellettuali e interne. Ciò avviene anche perché ciascun periodo abbia modo di umiliarsi di fronte agli altri, rispetto ai quali è superiore e insieme superato. La “porta aperta” della volontà alla fede data per grazia al sesto stato supplisce al difetto di forza, alla modica virtù. Nei tempi moderni non avvengono miracoli; i segni e i prodigi sono concessi infatti all’Anticristo e ai suoi seguaci. La conversione attraverso stupendi e innumerevoli miracoli ha caratterizzato il primo tempo cristiano, la nuova conversione finale del mondo dovrà avvenire tramite la luce della sapienza divina e delle Scritture, alla cui contemplazione il sesto stato deve venire elevato per potervi entrare. Coopererà a questo ingresso tutta l’illuminazione degli stati precedenti e l’universale fama di Cristo, della sua fede e della sua Chiesa diffusa per il mondo a partire dal primo stato fino ai tempi odierni (Ap 3, 7-8).
A Dante, che con animo offeso da viltà ha mutato il primo proposito di seguirlo nel viaggio, Virgilio spiega le cause del suo venire per levarlo dalla lupa che gli impedisce la salita del “dilettoso monte”. Il racconto del poeta pagano sulle tre donne che curan di lui nella corte del cielo promette al suo discepolo molto bene (alla sesta chiesa Cristo “multa et singularia sibi promittit”), tanto che la virtù stanca di Dante si trasforma in ardore, come i “fioretti”, chinati e chiusi dal gelo notturno, una volta illuminati dal sole si drizzano aperti sullo stelo. Il poeta ringrazia Virgilio per aver ubbidito subito alle “vere parole” (alla sesta chiesa Cristo si propone “ut verum in promissis”) porte da Beatrice (Inf. II, 121-135). I dubbi di Dante riguardavano la propria virtù (“Poeta che mi guidi, / guarda la mia virtù s’ell’ è possente”, vv. 10-12), perché “ad immortale secolo” andarono solo Enea e san Paolo. Il primo a causa dell’“alto effetto” che doveva uscire dalla sua vittoria: il “victoriosus effectus” è il conseguimento della quarta vittoria, degli operosi anacoreti (Ap 2, 26-28). Il secondo per recare conforto alla fede. Dante non è Enea né Paolo, non ha virtù per opere forti, non vive in un momento in cui la conversione si opera per i miracoli. Ha scarsa virtù (modica virtus), ma in compenso la porta gli è aperta. Glielo ripeterà Cacciaguida: “sicut tibi cui / bis unquam celi ianüa reclusa?” (Par. XV, 29-30). A lui spetta di entrare per essere elevato alla luce della sapienza divina. Ma perché la sua vista entri “per lo raggio / de l’alta luce che da sé è vera” (XXXIII, 52-54) dovrà ripercorrere tutta la storia umana che a quella visione deve cooperare. Come all’ingresso del sesto stato coopera tutta l’illuminazione degli stati precedenti e l’universale fama della fede di Cristo, così Beatrice si rivolge a Virgilio: “O anima cortese mantoana, / di cui la fama ancor nel mondo dura, / e durerà quanto ’l mondo lontana” (Inf. II, 58-60). Nel Limbo, Dante viene accolto nella schiera dei poeti che formano “la bella scola / di quel segnor de l’altissimo canto”: Virgilio è quinto, “sì ch’io fui sesto tra cotanto senno” (Inf. IV, 94-96, 100-102).
Traiano e Rifeo Troiano morirono cristiani, non pagani, “
in ferma fede / quel d’i passuri e quel d’i passi piedi” (Par. XX, 104-105; cfr. Ap 3, 12; 10, 1). Rifeo Troiano, vissuto “dinanzi al battezzar più d’un millesmo”, sperimentò il tempo futuro, quello del sesto stato della storia della Chiesa; a lui fu data per grazia divina la porta aperta al credere: “per che, di grazia in grazia, Dio li aperse / l’occhio a la nostra redenzion futura; / ond’ ei credette in quella” (vv. 122-124). Nel caso di Traiano, gli elementi semantici che definiscono le prerogative della “porta aperta” data al sesto stato sono diversamente appropriati: la possa (robor virtutis) è nella speranza infusa nelle preghiere di Gregorio Magno affinché l’anima dell’imperatore tornasse a riprendere il corpo “sì che potesse sua voglia esser mossa” a credere, gli fosse cioè aperta la porta della volontà alla fede, prerogativa che sarebbe stata preminente solo a partire dal XIII secolo, ma che la giustizia divina attribuì a un pagano vissuto al tempo delle persecuzioni, nel secondo stato della storia della Chiesa.
Nei versi 112-117, relativi a Traiano, si attua un passaggio dal senso morale, designato dal vino, a quello anagogico, designato dall’olio (Ap 6, 6). L’anima, ritornata alla carne dall’inferno per le preghiere di san Gregorio, “s’accese in tanto foco / di vero amor” (tema del vino o del senso morale) da meritare “di venire a questo gioco” (tema dell’olio – “iocunditas Christi et glorie eius” o del senso anagogico). Da notare l’espressione “ora conosce quanto caro costa / non seguir Cristo, per l’esperïenza / di questa dolce vita e de l’opposta” (vv. 46-48): la conoscenza sperimentale, propria del senso morale o dei dottori del terzo stato (è il terzo esercizio considerato ad Ap 2, 1), per Traiano, come avvenuto per Enea e san Paolo (Inf. II, 13-30), si è estesa dalle cose sensibili a quelle sovrasensibili (la vita celeste).
Antica prefigurazione della porta aperta data al sesto stato della Chiesa fu Ezechia, il re di Giuda che ottenne pregando Dio di procrastinare per penitenza la propria morte. La sesta chiesa d’Asia, Filadelfia, si avvantaggia del “verbum patientie” con il quale Cristo prolunga per i peccatori il tempo della penitenza (Ap 3, 10).

Tab. XX.4

[LSA, cap. III, Ap 3, 7-8 (Ia visio, VIa ecclesia)] Nota etiam quod quia tunc amplius vacabitur excessibus et gustibus contemplationis quam fortibus active operibus, ideo non dabitur ei tantum robur virtutis ad fortia opera sicut datum est primis statibus et specialiter quarto, quod fiet non solum propter causam predictam, sed etiam ut unusquisque status habeat unde alteri humilietur et debeat humiliari, propter quod habent se sicut excedentia et excessa.
Quia et tunc temporis est “filius perditionis” venturus “in omni virtute” miraculorum et cum “signis et prodigiis mendacibus”, prout dicitur IIa ad Thessalonicenses<II°> (2 Th 2, 3.9), tunc etiam “pseudochristi et pseudoprophete dabunt signa magna et prodigia”, prout dicitur Matthei XXIIII° (Mt 24, 24), idcirco sanctis sexti status dabitur modica virtus ad signa seu miracula facienda, exceptis signis Helie et Enoch de quibus infra XI° scribitur (Ap 11, 5-6). Propter igitur utramque causarum predictarum dicitur hic mistice de sexto statu quod modicam habet virtutem et quod loco huius apertum est sibi hostium contemplationis et predicationis. Qua enim ratione permittetur Antichristus tunc temporis facere signa ad mundum decipiendum, et qua ratione mundus tunc permittetur decipi et veritas prosterni et electi fortissimis temptamentis probari, eadem ratione oportebit tunc subtrahi gratiam miraculorum electis, saltem in copia magna. […]
Dicit ergo (Ap 3, 8): “Scio opera tua”, per singularem scilicet approbationem et per gubernandi et remunerandi infallibilem intentionem. “Ecce dedi coram te hostium apertum”. Hostium aperitur cum intellectus illuminatur et exacuitur ad scripturarum occulta expedite et faciliter penetranda et videnda, et cum predicationi datur spiritalis efficacia ad corda audientium penetranda, et cum incredulorum corda divinitus aperiuntur ad credendum et implendum Christi legem et fidem que predicatur eis, et etiam cum spiritus predicantium sentit ordinationem et assistentiam Christi ad aperiendum corda gentium per sermonem ipsius. Nam predicta Christi ordinatio seu voluntas est primum hostium seu prima apertio sue voluntatis et gratie dande auditoribus et sermoni predicantis. De hoc autem dicit Apostolus, Ia ad Corinthios ultimo (1 Cor 16, 8-9): “Permanebo Ephesi. Hostium enim michi apertum est magnum et evidens”. Et ad Colossenses ultimo (Col 4, 3): “Orantes simul etiam pro nobis, ut Deus aperiat hostium sermonis ad loquendum misterium Christi”. Et Actuum XIIII° (Ac 14, 26), ubi dicitur quod Paulus et Barnabas “retulerunt” in ecclesia Antiochie “quanta fecisset Deus cum illis et <quia> aperuisset gentibus hostium fidei”. De apertione vero libri scripture dicitur infra, sub sexto angelo tuba canente, angelus habens faciem velut solis tenere librum apertum (Ap 10, 2).
“<Quod> nemo potest claudere”, tum quia quod Deus vult omnino irrefragabiliter aperire, sicut utique voluit isti, nemo potest impedire; tum quia sub tanta luce et evidentia fit hec apertio isti et statui sexto per eum designato quod nemo potest eam obscurare per aliquam rationem vel astutiam, nec per aliquod scripture sacre testimonium, nec per quamcumque aliam viam. “Dedi”, inquam sic tibi “apertum”, quia modicam habes virtutem”, scilicet ad miracula vel ad corporalia fortis active opera, que sensuales homines plus admirantur et estimant quam intellectualia et interna, unde et plus moventur per illa quam per ista et facilius trahuntur ad imitandum seu ad desiderandum imitari <illa quam ista>, et ideo carentem istis et miraculis oportet habere modo supradicto hostium apertum, si multi sunt convertendi per ipsum. “Et servasti”, id est et quia servasti, “verbum meum”, id est doctrinam mee fidei et mee legis.

Par. XX, 106-126

Ché l’una de lo ’nferno, u’ non si riede
già mai a buon voler, tornò a l’ossa;
e ciò di viva spene fu mercede:
di viva spene, che mise la possa
ne’ prieghi fatti a Dio per suscitarla,
sì che potesse sua voglia esser mossa.
L’anima glorïosa onde si parla,
tornata ne la carne, in che fu poco,
credette in lui che potëa aiutarla;
e credendo s’accese in tanto foco
di vero amor, ch’a la morte seconda
fu degna di venire a questo gioco.
L’altra, per grazia che da sì profonda
fontana stilla, che mai creatura
non pinse l’occhio infino a la prima onda,
tutto suo amor là giù pose a drittura:
per che, di grazia in grazia, Dio li aperse
l’occhio a la nostra redenzion futura;
ond’ ei credette in quella, e non sofferse
da indi il puzzo più del paganesmo,
e riprendiene le genti perverse.

Inf. II, 10-12, 127-132

 

Io cominciai: “Poeta che mi guidi,
guarda la mia virtù s’ell’ è possente,
prima ch’a l’alto passo tu mi fidi”.

Quali fioretti dal notturno gelo
chinati e chiusi, poi che ’l sol li ’mbianca,
si drizzan tutti aperti in loro stelo,
tal mi fec’ io di mia virtude stanca,
e tanto buono ardire al cor mi corse,
 ch’i’ cominciai come persona franca:

 

AVVERTENZE

Seppure segue l’ordine dei ventidue capitoli dell’Apocalisse, Olivi suggerisce, nel prologo della Lectura, un metodo differente di comprensione e di aggregazione del testo, fondato sui sette stati (status), cioè sulle epoche nelle quali si articola la storia della Chiesa, prefigurate nell’Antico Testamento.
L’Apocalisse si articola in sette visioni: le sette chiese d’Asia, i sette sigilli, le sette trombe, la donna vestita di sole (le sette guerre sostenute dalla Chiesa), le sette coppe, il giudizio di Babylon nelle sette teste del drago, la Gerusalemme celeste. Le prime sei visioni possono essere a loro volta divise in sette momenti, ciascuno dei quali riferibile a uno dei sette stati. Assembrando, per le prime sei visioni, tutti i primi elementi (chiesa, sigillo, tromba, guerra, coppa, momento del giudizio di Babylon), tutti i secondi, i terzi e così di seguito, si ottengono sette gruppi di materia teologica, corrispondenti al complesso dei temi afferenti a ciascuno dei sette stati. A questi sette gruppi si aggiungono altri due: l’esegesi della settima visione (senza articolazioni interne) e l’esegesi di capitoli del testo scritturale, o di parti di essi, introduttivi delle successive specificazioni delle singole visioni per settenari, che Olivi definisce “radicalia” o “fontalia”. Si ottengono in tal modo nove gruppi: le parti proemiali, i sette assembramenti di settenari e la settima visione. Il grande prologo della Lectura, articolato in tredici notabilia, può essere anch’esso aggregato secondo i sette stati. Un libro (la Lectura) contiene dunque princìpi e criteri affinché l’accorto lettore possa trarne un altro libro, fatto con lo stesso materiale ma ricomposto e distribuito in forma diversa.

La Commedia mostra un ordine interno diverso da quello che appare al lettore: il viaggio di Dante ha un andamento di ciclici settenari, che corrispondono ai sette stati della storia della Chiesa, cioè alle categorie con cui Olivi organizza la materia esegetica. Questo ordine interno è registrabile per zone progressive del poema dove prevale, tramite parole-chiave, la semantica riferibile a un singolo stato. È un’intima struttura dirompente i confini letterali stabiliti dai canti e da tutte le divisioni materiali per cerchi, gironi, cieli. Ogni stato, che ha differenti inizi, è concatenato per concurrentia, come le maglie di un’armatura, con quello che precede e con quello che segue. Si possono in tal modo redigere mappe che comprendano l’ordine spirituale della Commedia. La ricerca è pervenuta a una Topografia spirituale della Commedia, dove quasi per ogni verso, o gruppo di versi, collegamenti ipertestuali conducono al “panno” esegetico fornito dalla Lectura super Apocalipsim, sul quale il “buon sartore” ha fatto “la gonna” (cfr. Par. XXXII, 139-141).

 

■ A ogni gruppo è arbitrariamente assegnato un diverso colore: Radici (verde), I stato (verde acqua), II stato (rosso), III stato (nero), IV stato (viola), V stato (marrone), VI stato (blu), VII stato (indaco), VII visione (fucsia). Dei gruppi sono stati integralmente studiati il terzo stato e la settima visione.
Nelle tabelle relative ai singoli canti contenenti i collegamenti ipertestuali
(XVIII, 52-136; XIXXX) vengono rispettati, per quanto possibile, i colori assegnati ai singoli gruppi esegetici. Nelle sinossi testuali, invece, i colori possono essere variati per maggiore evidenza.

Non di rado nei versi alcune parole o incisi-chiave possono rinviare a più luoghi esegetici. Questo perché il testo dottrinale contenuto nella Lectura, prima di travasarsi semanticamente nella Commedia, è stato sottoposto a una duplice riorganizzazione. La prima, sulla base delle indicazioni dello stesso Olivi, secondo il materiale esegetico attribuibile ai singoli stati. La seconda, seguendo il principio applicato nelle distinctiones ad uso dei predicatori, sulla base di lemmi analogicamente collazionati. La “mutua collatio” di parti della Lectura arricchisce il significato legato alle parole e consente uno sviluppo tematico amplificato. Si vedano, ad esempio, le variazioni eseguite sul tema della “voce” o sull’espressione “in medio”, temi più volte iterati nel sacro testo, oppure il modo con cui Ap 1, 16-17 (l’esegesi della decima e undecima prefezione di Cristo come sommo pastore) percorre i versi in collazione con altri passi. A ciò predispone lo stesso testo scritturale, poiché l’Apocalisse contiene espressioni, come Leitmotive, che ritornano più volte. È determinata da parole-chiave che collegano i passi da collazionare. È suggerita dallo stesso Olivi, nel prologo, per una migliore intelligenza del testo.

Tutte le citazioni della Lectura super Apocalipsim presenti nei saggi o negli articoli pubblicati su questo sito sono tratte dalla trascrizione, corredata di note e indici, del ms. Paris, Bibliothèque nationale de France, lat. 713, a disposizione fin dal 2009 sul sito medesimo. I passi scritturali ai quali si riferisce l’esegesi sono in tondo compresi tra “ ”; per le fonti diverse da quelle indicate si rinvia all’edizione in rete. Non viene presa in considerazione l’edizione critica a cura di WARREN LEWIS (Franciscan Institute Publications, St. Bonaventure – New York, 2015) per le problematiche da essa poste, che sono discusse in ALBERTO FORNI – PAOLO VIAN, A proposito dell’edizione di Warren Lewis della Lectura super Apocalipsim di Pietro di Giovanni Olivi. Alcune osservazioni, in “Archivum Franciscanum Historicum”, 109 (2016), pp. 99-161.
Il testo della Commedia citato è in Dante Alighieri, La Commedia secondo l’antica vulgata, a cura di GIORGIO PETROCCHI, Firenze 1994. Si tiene anche conto della recente edizione a cura di GIORGIO INGLESE, Firenze 2021 (Società Dantesca Italiana. Edizione Nazionale), qualora il testo proposto si discosti da quello del Petrocchi e la scelta della variante risulti discutibile nel confronto con la LSA.

 

ABBREVIAZIONI

Ap: APOCALYPSIS IOHANNIS.

LSA: PIETRO DI GIOVANNI OLIVI, Lectura super Apocalipsim.

Concordia: JOACHIM VON FIORE, Concordia Novi ac Veteris Testamenti. Herausgegeben von A. PATSCHOVSKY, Wiesbaden 2017 (Monumenta Germaniae Historica. Quellen zur Geistesgeschichte des  Mittelalters, 28. Band), Teil 2 (lib. I-IV), Teil 3 (lib. V).

Expositio: GIOACCHINO DA FIORE, Expositio in Apocalypsim, in Edibus Francisci Bindoni ac Maphei Pasini, Venetiis 1527, ristampa anastatica Minerva, Frankfurt a. M. 1964.

Olivi opera spesso una sintesi del testo di Gioacchino da Fiore. Le « » precedono e chiudono un’effettiva citazione. Diversamente, viene posto un asterisco (*) o una nota in apice al termine della parte riferibile a Gioacchino.

In Ap: RICCARDO DI SAN VITTORE, In Apocalypsim libri septem, PL 196, coll. 683-888.

 

Note sulla “topografia spirituale” della Commedia

Per quanto segua l’ordine dei ventidue capitoli dell’Apocalisse, Olivi suggerisce un metodo differente di comprensione e di aggregazione del testo esegetico, fondato sui sette stati, cioè sui periodi nei quali si articola la storia della Chiesa. L’Antico Testamento corrisponde alle prime cinque età del mondo, secondo la divisione tradizionale [1]: è l’età del Padre secondo Gioacchino da Fiore. Con il primo avvento di Cristo, nella carne, inizia la sesta età (l’età del Figlio), nella quale la Chiesa, come fosse un individuo, cresce e si sviluppa in sette stati. Al primo, apostolico periodo, succede il secondo dei martiri; poi, al tempo di Giustiniano, il terzo stato dei dottori che confutano con l’intelletto le eresie concorre con il quarto stato degli affettuosi anacoreti devoti al pasto eucaristico, alti per la contemplazione ma anche attivi come reggitori delle genti; a partire da Carlo Magno subentra il quinto stato aperto alla vita associata delle moltitudini, bello nel principio ma poi corrottosi fino a trasformare quasi tutta la Chiesa in una nuova Babilonia; la riforma interviene, a partire da Francesco, con il cristiforme sesto stato, fino alla sconfitta dell’Anticristo; subentra infine il silenzio e la quiete del pacifico settimo stato. Il sesto e il settimo stato (la terza età di Gioacchino da Fiore) coincidono con il secondo avvento di Cristo, nello Spirito, cioè nei suoi discepoli spirituali inviati a convertire il mondo con la predicazione; al termine del settimo stato ci sarà il terzo avvento, nel giudizio.
L’Apocalisse si articola in sette visioni: le sette chiese d’Asia, i sette sigilli, le sette trombe, la donna vestita di sole (le sette guerre sostenute dalla Chiesa), le sette coppe, il giudizio di Babylon nelle sette teste del drago, la Gerusalemme celeste. Le prime sei visioni possono essere a loro volta divise in sette momenti, ciascuno dei quali riferibile a uno dei sette stati. Assembrando, per le prime sei visioni, tutti i primi elementi (chiesa, sigillo, tromba, guerra, coppa, momento del giudizio di Babylon), tutti i secondi, i terzi e così di seguito, si ottengono sette gruppi di materia teologica, corrispondenti al complesso dei temi afferenti a ciascuno dei sette stati [2]. A questi sette gruppi se ne aggiungono altri due: l’esegesi della settima visione (senza articolazioni interne) e l’esegesi di capitoli del testo scritturale, o di parti di essi, introduttivi delle successive specificazioni delle singole visioni per settenari, che Olivi definisce “radicalia” o “fontalia”. Si ottengono in tal modo nove gruppi: le parti proemiali, i sette assembramenti di settenari e la settima visione. Il grande prologo della Lectura, articolato in tredici notabilia, può essere anch’esso aggregato nelle sue parti secondo i sette stati.

L’intenso travaso di parole-temi dalla Lectura nella Commedia si accompagna a un fatto strutturale. La Commedia mostra un ordine interno diverso da quello che appare al lettore: il viaggio di Dante ha un andamento di ciclici settenari, che corrispondono ai sette stati oliviani. È un ordine registrabile per zone progressive del poema dove prevalgono i temi di un singolo stato, che rompe i confini letterali stabiliti dai canti e da tutte le divisioni materiali per cerchi, gironi, cieli. Ogni stato, che ha differenti inizi, è concatenato per “concurrentia”, come le maglie di un’armatura, con quello che precede e con quello che segue. Ciascuno stato ha in sé una grande ricchezza di motivi e contiene inoltre temi di tutti gli altri, consentendo innumerevoli intrecci e variazioni. La Commedia appare, come l’Apocalisse, “libro scritto dentro e fuori” (Ap 5, 1), con duplice struttura, linguaggio e senso, letterale e spirituale. Il viaggio di Dante e la visione di Giovanni hanno la stessa causa finale, che è la beatitudine, alla quale si perviene con diverse guide, per gradi segnati da visioni sempre più nuove e ardue delle precedenti, attraverso una sempre maggiore apertura dell’arcano coperto dal velame dei sette sigilli fino al punto più alto in cui, in questa vita, è possibile vedere la verità.
Tutti i modi del linguaggio interiore al poema esprimono un processo, un viaggio dal più chiuso al più aperto, e in questo andare hanno una loro precisa collocazione ‘topografica’, uno ‘stato’ (nel senso di momento storico che ricade sulla coscienza individuale) al quale appartenere. Si possono in tal modo stendere vere e proprie mappe tematiche che comprendano l’ordine spirituale di tutta la Commedia che aderisce, parodiandola semanticamente, a una precisa teologia della storia, sia pure modificandone profondamente le prospettive. La ciclicità dei temi permette di stabilire collegamenti inusitati tra le diverse zone; il procedere per gradi dell’illuminazione divina fa sì che episodi oscuri e quasi ermeticamente chiusi si chiariscano poi, aprendosi all’intelligenza in modo più alto.
A ogni gruppo è arbitrariamente assegnato un diverso colore: Radici (verde), I stato (verde acqua), II stato (rosso), III stato (nero), IV stato (viola), V stato (marrone), VI stato (blu), VII stato (indaco), VII visione (fucsia). Dei gruppi sono stati integralmente studiati il terzo stato e la settima visione.

INFERNO

(le prime cinque età del mondo)

La ‘topografia spirituale’ del poema mostra nell’Inferno cinque cicli settenari corrispondenti agli stati della Chiesa descritti da Olivi e ai loro temi contenuti nella Lectura. Questi cinque cicli designano le prime cinque età del mondo (riunite a loro volta nel primo stato generale, che corrisponde all’età del Padre di Gioacchino da Fiore), in quanto prefigurazione del primo avvento di Cristo e della Chiesa.
I cinque cicli settenari che si susseguono nell’Inferno a partire dal quarto canto (i primi tre canti hanno una tematica particolare) sono preceduti da cinque zone che possono essere definite ‘snodi’, dove cioè confluiscono temi provenienti da più stati, intrecciati insieme ad altri ad avviare il procedere settenario. Il centro di questi ‘snodi’ coincide con un canto (Inf. IV, X, XVII, XXVI, XXXII), ma la zona è più vasta e supera l’ambito dato dalla divisione letterale del poema.

Inf. I-III sono da considerare al di fuori dei cicli. Inf. I e II sono profondamente segnati dai temi del sesto stato. Inf. III è riferibile al settimo stato (per gli ignavi) e in parte al quinto (per l’episodio di Caronte).

canti

I ciclo

stati

cerchi

IV

Limbo

Radici, I (I snodo)

I

V

lussuriosi

II

II

VI

golosi

III

III

VII

avari e prodighi

palude Stigia
(iracondi e accidiosi)

IIIIV

 

V

IV


V

VIII

palude Stigia (orgogliosi)
città di Dite

V

V

IX

apertura della porta di Dite

VVI

 

canti

II ciclo

stati

cerchi

IX-X-XI

eretici, ordinamento dell’inferno

I (II snodo)

VI

XII

violenti contro il prossimo

II

VII (girone 1)

XIII

violenti contro sé

III

        (girone 2)

XIV

violenti contro Dio: bestemmiatori

IV

        (girone 3)

XV-XVI

violenti contro Dio: sodomiti

V

XVI

XVII

ascesa di Gerione

Gerione,  violenti contro Dio: usurai

VI

canti

III ciclo

stati

cerchi

XVII

volo verso Malebolge

I (III snodo)

 

XVIII

ruffiani, lusingatori

Radici II

VIII (bolgia 1, 2)

XIX

simoniaci

III

(bolgia 3)

XX

indovini

IV

(bolgia 4)

XXI-XXII

barattieri

V

(bolgia 5)

XXIII

ipocriti

VVI

(bolgia 6)

XXIV-XXV

ladri

VI

(bolgia 7)

canti

IV ciclo

stati

cerchi

XXVI

consiglieri di frode (greci)

I (IV snodo)

(bolgia 8)

XXVII

consiglieri di frode (latini)

II

XXVIII-XXIX

seminatori di scandalo e di scisma

III

(bolgia 9)

XXIX

falsatori

IV

  (bolgia 10)

XXX

falsatori

IVV

XXXI

giganti

VVI

 

canti

V ciclo

stati

cerchi

XXXII

Cocito: Caina, Antenora

I (V snodo)

IX

XXXIII

Antenora, Tolomea

II

XXXIV

Giudecca

IIIIVV

XXXIV

volgersi di Virgilio sull’anca di Lucifero

VI

 

 

Il sesto stato è per Olivi la fase più importante nella costruzione dell’edificio della Chiesa. In esso “renovabitur Christi lex et vita et crux”. Corrisponde ai tempi moderni. Ha quattro diversi inizi temporali: uno profetico, con Gioacchino da Fiore, il quale lo vide in spirito concependo la sua terza età; il secondo con la conversione di Francesco (1206), che seminò la pianta; il terzo con la predicazione degli uomini spirituali, per la quale la pianta si rinnovella; il quarto con la distruzione storica di Babylon. Dura fino alla sconfitta dell’Anticristo, il cui avvento si collocherebbe, secondo i numeri della profezia di Daniele 12, 11-12 combinati con Ap 12, 6 e 14, fra il 1290 e il giubileo di pace del 1335.
Una ‘vita nuova’ si instaura nel sesto stato, per eccellenza il momento dell’imitazione di Cristo. I rami dell’albero si dilatano producendo il frutto della carità, l’acqua che proviene da Cristo-fonte attraverso il condotto che percorre i primi cinque stati della Chiesa si effonde in un lago; è il tempo, assimilato al sacramento del matrimonio, della letizia nuziale, della familiarità, dell’amicizia. Corrisponde al sesto giorno della creazione, in cui vennero creati prima i rettili e le bestie irrazionali, poi l’uomo razionale che, come l’ordine evangelico, è fatto a immagine e somiglianza di Dio e domina tutti gli animali.
Le espressioni di Olivi relative al sesto stato – “quoddam sollempne initium novi seculirenovaretur et consumaretur seculum”, nel quale il sacerdozio apostolico “redeat et assurgat ad ordinem primum”, la “nova Ierusalem”, interpretata come “visione di pace”, viene vista “descendere de celo” e la Chiesa descritta come la donna vestita di sole con la sua “virginea proles” – sono la veste spirituale dei versi della quarta egloga virgiliana che celebrano la rinnovata età dell’oro: “Magnus ab integro saeclorum nascitur ordo / iam redit et Virgo; redeunt Saturnia regna; / Iam nova progenies caelo demittitur alto” (Egloga IV, 5-7). Olivi completa la Lectura super Apocalipsim nel 1298, poco prima di morire, il 14 marzo, a Narbonne. Quel felicissimo stato segnato dalla pace sotto il divo Augusto, che rese l’umanità disposta al primo avvento di Cristo, si sta rinnovando nel sesto stato della Chiesa, nel secondo avvento nello Spirito. Scrive Arsenio Frugoni: “[…] quell’escatologismo, oltre che ideologia di lotta e di riforma del gruppo spirituale, era anche un vero e proprio sentimento storico […] una tensione di rinnovamento, una ansia di salvezza, che nel 1300, l’anno centenario della Natività, aveva trovato come una attivazione, in un senso di pienezza dei tempi, cui doveva corrispondere un fatto, un accadere meraviglioso e nuovo” [3].
All’apertura del sesto sigillo, l’eletta schiera dei riformatori – i 144.000 segnati dalle dodici tribù d’Israele – guida la turba innumerevole di ogni gente, tribù, popolo e lingua (Ap 7, 3-4.13). Questi eletti e magnanimi duci, separati dalla volgare schiera per più alta milizia, vengono destinati a difendere liberamente la fede – ad essi è data la “plena libertas ad innovandam christianam religionem” -; sono gli amici di Dio a lui noti per nome, configurati in Cristo crocifisso e votati al martirio.
All’interno della Chiesa del sesto stato, l’Ordine dei Minori – “ordo plurium personarum” – è  assimilabile alla persona umana di Cristo. Come questa si sviluppò fino all’età virile, così dovrà essere per l’ordo evangelicus piantato da Francesco, che avrà bisogno (a differenza di Cristo che stette poco tempo nel mondo) di due o tre generazioni per svilupparsi prima di subire una condanna simile a quella di Cristo [4]. La sua maturità coincide, verso il 1300, con il terzo inizio del sesto stato, cioè con il rinnovarsi per opera dello Spirito di Cristo, nel suo secondo avvento, della pianta seminata da Francesco. Questa concezione dell’Ordine francescano come individuo in sviluppo che, perfettamente maturato, diventa il novus ordo preconizzato da Gioacchino da Fiore per l’età dello Spirito, si differenzia da quella di Bonaventura, che aveva invece distinto i Francescani del proprio tempo – e quindi anche gli Spirituali – dall’Ordine finale che dominerà fino ai confini della terra. Alla terza apertura del sesto sigillo nuovi san Giovanni vengono inviati a predicare al mondo come nel tempo degli Apostoli. Ma Giovanni non designa solo un Ordine, perché Olivi lascia aperta la possibilità di rivelazioni individuali, avute da “singulares persone”, perfetti imitatori di Cristo votati, con la loro “lingua erudita”, al compito della conversione universale.

[LSA, cap. X, Ap 10, 11] “Et dixit michi: Oportet te iterum prophetare in gentibus et populis et linguis et regibus multis”. In ipsa sapientia libri expresse continetur quod oportet iterum predicari evangelium in toto orbe, et Iudeis et gentibus, et totum orbem finaliter converti ad Christum. Sed quod per istum hoc esset implendum non poterat sciri nisi per spiritualem revelationem, et hoc dico prout per Iohannem designantur hic singulares persone quia, prout per ipsum designatur in communi ordo evangelicus et contemplativus, scitur ex ipsa intelligentia libri quod per illum ordinem debet hoc impleri.

Nei cinque cicli settenari della prima cantica il sesto stato è segnato dall’apertura della porta della città di Dite (Inf. IX, 89-90); dall’ascesa di Gerione dall’abisso (Inf. XVI, 106-136); dal precipitoso passaggio dalla quinta alla sesta bolgia (Inf. XXIII, 1-57) e poi dalle trasformazioni della settima, dove i ladri fiorentini si mutano in serpenti e viceversa (Inf. XXIV-XXV); dal chinarsi di Anteo sul fondo dell’inferno (Inf. XXXI, 136-145); dal passaggio del centro della terra, con la conversione di Virgilio sull’anca di Lucifero, che è passaggio verso la sesta età, quella della Chiesa, descritta nel Purgatorio.
Ma i temi propri del sesto stato sono diffusi ovunque, intrecciati con quelli degli altri stati, e alla loro esegesi rinviano precise parole-chiave incardinate nel senso letterale dei versi. L’esegesi dell’angelo del sesto sigillo (Ap 7, 2) è già centrale nel primo canto del poema.
La novità che il sesto stato, per eccellenza stato di rinnovamento di questo secolo, arreca nell’inferno è una novità fittizia: l’apertura della porta della città di Dite non è vera novità, perché essa è stata chiusa dall’ostinazione dei diavoli, recidivi dopo l’apertura della porta dell’inferno da parte di Cristo prefigurata dalla venuta di Ercole all’Ade, per cui Cerbero “ne porta ancor pelato il mento e ’l gozzo”; Gerione viene su ad un “novo cenno” di Virgilio, ma è figura della frode dalla velenosa coda aculeata; il nuovo prodotto dalle trasformazioni reciproche di serpenti e uomini è qualcosa di incompiuto perché l’uomo razionale, creato nel sesto stato, regredisce allo stato precedente.
L’Inferno è il luogo della durezza lapidea, dell’impetrarsi, del parlare duro di cose dure a dirsi, del duro giudizio, del senso duro della scritta al sommo della porta, dei duri lamenti, dei duri demoni, dei duri veli del gelo, della gravezza. Nell’Inferno vige l’imposizione data a Daniele dall’angelo sotto il sesto sigillo dell’Antico Testamento: “Ora tu, Daniele, chiudi queste parole e sigilla questo libro fino al tempo stabilito” (Dn 12, 4), che era la sesta età nella quale apparve Cristo e in particolare il sesto stato della sua Chiesa nella quale il libro doveva essere più pienamente aperto, non però ai malevoli e ai maldisposti. Questa durezza è rotta dall’invito di Dante ai dannati perché parlino. Far parlare liberamente, per dettato interiore, è la principale prerogativa del sesto stato – la nuova età che tanto s’aspetta, quella che ode del “dolce stil novo” e delle “nove rime” -, ed è tema che la poesia canta per intero, sia pure per un attimo, anche nella vecchia roccia infernale. Appartiene alla sesta chiesa il parlare liberamente di Cristo – ad essa è dato l’“ostium apertum”, che è “ostium sermonis” – , il sentire per dettato interiore, l’aprirsi della volontà. Appartiene alla sesta chiesa anche il far venire quelli che si dicono Giudei senza esserlo, mutati nel cuore e disposti a farsi battezzare e governare. Questo far venire a parlare equivale al cortese e liberale invito dello Spirito di Cristo a convivare, a venire con desiderio e volontario consenso, con “disio” e con “velle”, in una pausa di pace nell’eterna dannazione. All’“affettüoso grido” del poeta le ombre di Francesca e Paolo vengono “dal voler portate” verso un momento di mutazione, sebbene limitata al successivo colloquio. Tutto l’Inferno è un contrappunto fra la durezza del giudizio e l’apertura per la parola dirompente, fin che essa dura, la pena. Un’apertura che si esprime in varie forme: muoversi sospirando nel Farinata prima immobile, ‘crollarsi’ quasi per terremoto interiore dello ‘schivo’ Ulisse, convertirsi del vento in voce in Guido da Montefeltro, tornare indietro nel cammino assegnato o separarsi dai compagni di pena, essere sforzati a parlare anche malvolentieri, non poterlo negare o mostrare fretta di farlo, arrestarsi obliando il martirio, levarsi per poi ricadere, sollevarsi da atti bestiali per ritornare a essi dopo aver parlato, come nel conte Ugolino. In tante lingue, che parlano come per sé stesse mosse, sta un solo desiderio, il vivere ancora nel libro che è stato altrui aperto.
Se nell’Inferno il sesto stato non si realizza mai compiutamente, anche il settimo, che gli è strettamente connesso, non può trovare un luogo autonomo. Ciò non toglie che temi del settimo stato (e della settima visione) siano ben presenti in modo diffuso. Ad esempio, quelli relativi alla settima chiesa assumono particolare rilievo nella descrizione degli ignavi a Inf. III. Tempo del silenzio, della serena pace, del riposo dalle ansiose fatiche, il settimo stato subentra dopo le terribili tentazioni inferte, con un martirio non corporale ma psicologico, dai carnefici dell’Anticristo nel sesto. Come ogni momento della storia umana partecipa dell’imitazione di Cristo, che raggiunge l’acme nel sesto stato, così in ogni periodo si verifica una sua “quietatio”, una pausa di pace, di quiete, di silenzio propria del settimo. Così Francesca parla e ascolta “mentre che ’l vento, come fa, ci tace”. Il vento – “la bufera infernal, che mai non resta” – designa il fluttuare tempestoso delle passioni nel cuore.

PURGATORIO

(sesta età del mondo)

Dopo le prime cinque età del mondo (corrispondenti all’Antico Testamento, la gioachimita età del Padre), che hanno segnato la discesa a spirale per i cinque cicli settenari dell’Inferno, con il Purgatorio inizia la sesta età, quella di Cristo (l’età del Figlio), che ha sette stati, corrispondenti ai sette stati della Chiesa. Dapprima, nel cosiddetto ‘antipurgatorio’, si registrano in successione temi prevalenti dei primi cinque stati. Il sesto stato della sesta età (con cui si apre l’età dello Spirito) inizia con l’apertura della porta di san Pietro (la porta del purgatorio). Questo sesto stato procede anch’esso con andamento settenario, per cui ha sette momenti, coincidenti principalmente con un girone della montagna, ma non del tutto, perché sempre l’ordine spirituale del poema rompe i confini letterali e le divisioni materiali, concatenando i temi di uno stato prevalente con quelli dello stato che precede e con quelli dello stato che segue e intrecciandoli con temi di tutti gli altri stati.
È spiegato nel Notabile VII del prologo della Lectura che il sesto stato della Chiesa è il secondo stato di Cristo e ha i suoi sette tempi per cui la Chiesa, come fosse una sfera, si ricongiunge circolarmente al primo apostolico tempo. Il settimo dei sette momenti del sesto stato della Chiesa coincide con il settimo stato generale della Chiesa, che nel poema corrisponde in parte all’ultimo girone della montagna (il settimo, dove si purgano i lussuriosi) e in parte all’Eden, con cui si chiude la seconda cantica.
Il Purgatorio dunque, secondo il senso spirituale, è la storia della Chiesa che corre verso il suo sesto stato, punto di riferimento di tutte le vicende umane, antiche e moderne, che ad esso cooperano. Non è casuale che nel sesto girone della montagna sia chiarificata e riconosciuta, nel colloquio con Bonagiunta da Lucca, la poetica delle “nove rime” di Dante, già “sesto tra cotanto senno” cooptato nella “bella scola” dei poeti del Limbo.
La vasta zona dedicata al sesto momento del sesto stato della Chiesa ha il suo inizio nel forte terremoto che scuote la montagna mentre Dante e Virgilio si trovano ancora nel quinto girone (Purg. XX, 124-141). Essa è stata compiutamente esaminata altrove.
Il settimo stato dell’Olivi si realizza parte in questa vita (come pregustazione in terra della gloria eterna, cioè fin sulla cima della montagna) e in parte nella futura (nel senso della quiete delle anime beate in attesa della resurrezione, che è la materia del Paradiso).

canti

I ciclo – fino al sesto sato

stati

 

I

Catone

Radici, I

 

II

angelo nocchiero, Casella

–  II

 

III

scomunicati

III

“Antipurgatorio”

IV

salita al primo balzo, Belacqua

IV  –  V

V

negligenti morti per violenza

V

VI

Sordello

V

VII-VIII

valletta dei principi

V

IX

apertura della porta

VI sesto stato

 

canti

II ciclo – il sesto stato della sesta età

stati

gironi

X-XII

superbi

I

I

XIII-XIV-XV

invidiosi

II

II

XV-XVIII

iracondi

ordinamento del purgatorio,

amore e libero arbitrio

III

III

IV

XVIII-XIX

accidiosi

IV

IV

XIX-XX

avari e prodighi

V

V

XX (terremoto)  -XXV

Stazio, golosi, generazione dell’uomo

VI

VI

XXV-XXVI

lussuriosi

VII – settimo stato

VII

XXVII

XXVIII-XXXIII

 muro di fuoco

notte stellata, termine dell’ascesa

Eden

 

 

PARADISO

(settimo stato della Chiesa)

Il Primo Mobile è il nono e penultimo cielo, ma è il sesto se si parte dal cielo del Sole. È anche il cielo più segnato dal tema del “punto”, cui è assimilato il sesto stato. Questo consente di ricostruire l’ordine spirituale del Paradiso ponendo la cerniera nel quarto cielo del Sole. Con il terzo cielo di Venere termina infatti il cono d’ombra gettato dalla terra, secondo la dottrina di Alfragano (Par. IX, 118-119), mentre prima di descrivere l’ascesa al cielo del Sole il poeta invita il lettore a rivolgersi “a l’alte rote” (Par. X, 7-27). Senza la cesura recisa che, nella prima cantica, divide i dannati puniti all’interno della città di Dite da quelli che ne stanno fuori e, nella seconda cantica, separa le anime purganti nei sette gironi della montagna dalle anime che attendono fuori della porta (il cosiddetto ‘antipurgatorio’), anche nel Paradiso gli spiriti che si manifestano nei primi tre cieli della Luna, di Mercurio e di Venere (spiriti che mancarono ai voti, spiriti che furono attivi per conseguire onore e fama, spiriti amanti) si distinguono per minore perfezione rispetto a quelli che appaiono nei cieli seguenti.
I dieci cieli del Paradiso si mostrano pertanto ordinati in due gruppi di settenari, corrispondenti agli stati della Chiesa (e alle loro prerogative) secondo Olivi, parzialmente combacianti (da 1 a 7 e da 4 a 10: coincidono gli ultimi quattro numeri del primo gruppo e i primi quattro del secondo).

I  Se si considera il primo settenario, nel primo cielo della Luna si affronta la questione dell’inadempienza dei voti, che ha corrispondenza con i temi propri della prima chiesa di Efeso, il cui nome, se interpretato, oscilla tra la fervida volontà iniziale e la remissione (l’essenza del voto consiste nella volontà).

II  Nel secondo cielo di Mercurio, le battaglie sostenute dal “sacrosanto segno” dell’Aquila corrispondono allo stato dei martiri, che è dei combattenti, e anche la dottrina dell’incarnazione e della passione di Cristo, esposta successivamente da Beatrice, fa parte della tematica, perché l’intera Chiesa, fondata sulla passione di Cristo, imita con i martiri la sua croce, e questo giova assai al suo radicamento.

III  Nel terzo cielo di Venere, Carlo Martello spiega al modo di un dottore del terzo stato la diversità delle indoli umane e come gli uomini, non assecondandole, errino; nello stesso cielo compare Folchetto di Marsiglia, che da vescovo di Tolosa combatté l’eresia albigese.

IV – I  Al quarto cielo del Sole, primo del secondo gruppo di settenari per l’esaltazione della vita apostolica (propria del primo stato e rinnovata nel sesto), si può connettere il tema stesso del sole inteso nell’esegesi della quarta tromba (Ap 8, 12): “Per solem videtur hic designari solaris vita et contemplatio summorum anachoritarum, qui fuerunt patres et exempla aliorum, vel solaris sapientia et doctrina summorum doctorum”. Sapienza e contemplazione, dottori del terzo e anacoreti del quarto stato, concorrono, come Domenico e Francesco – “L’un fu tutto serafico in ardore; / l’altro per sapïenza in terra fue / di cherubica luce uno splendore” (Par. XI, 37-39) – con mutua cortesia a infiammare il meriggio dell’universo.

V – II  Il quinto cielo di Marte, secondo (come il secondo stato dei martiri) per l’esaltazione della croce di Cristo formata dai lumi dei combattenti per la fede, reca in sé il tema del condiscendere proprio del quinto stato sia nel pio discendere per la croce di Cacciaguida verso Dante, sia nella decadenza degli “alti Fiorentini”, cioè delle antiche famiglie, assimilate agli anacoreti, un tempo alti e poi vòlti in basso.

VI – III  Il sesto cielo di Giove, terzo (come il terzo stato dei dottori) per la spiegazione di profonde verità di fede, sviluppa il motivo, proprio della sesta chiesa, della “porta aperta”. Aprire la porta significa illuminare e rendere acuto l’intelletto che penetra nell’occulto delle Scritture, e anche dare efficacia spirituale a penetrare nel cuore di chi ascolta: così l’Aquila apre la “latebra” di Dante, così l’occhio di Rifeo Troiano fu da Dio aperto alla futura redenzione.

VII – IV Nel settimo cielo di Saturno, quarto (come il quarto stato degli anacoreti), “si tace … la dolce sinfonia di paradiso” (Par. XXI, 58-60), e il tacere è tema del settimo stato. Ivi si mostrano gli spiriti contemplativi, principali soggetti del quarto stato, proprio degli anacoreti: se si conta a partire dal quarto cielo del Sole, considerando questo come primo ovvero come nuovo avvio del ciclo settenario, il cielo di Saturno è appunto quarto.

VIII (V) Il settimo cielo di Saturno è seguito dal cielo delle Stelle fisse – ottavo e quinto -, dove si mostrano le schiere del trionfo di Cristo che discendono dall’Empireo (il quinto stato è caratterizzato dalla “condescensio”) e si celebra il trionfo di Maria (sviluppo del tema, proprio della quinta chiesa, della mirabile bellezza della Chiesa, regina ornata di veste aurea per la carità che unisce e circondata dalla varietà nei doni e nelle grazie delle diverse membra). È inoltre ricapitolazione dei precedenti sette, secondo un’interpretazione più volte presente nella Lectura dell’essere ‘ottavo’. Per questo Dante, stando nel segno dei Gemelli, riguarda in giù e torna col viso per tutte quante le sette precedenti sfere (Par. XXII, 124-154).

IX (VI) Segue il Primo Mobile o Cristallino – nono e sesto cielo –, dove il poeta vede il punto luminosissimo – Dio – da cui dipende il cielo e la terra, circondato dai nove cerchi di fuoco (Par. XXVIII, 16-18, 40-42, 94-96). Il sesto stato, secondo quanto Olivi afferma nel Notabile VIII, è il “punto” da cui dipendono gli altri stati, perché appare nel testo dell’Apocalisse in modo più evidente degli altri, che da esso assumono chiarezza quanto alla loro manifestazione nella storia, come l’intelligenza delle cose ordinate ad un fine dipende dal fine.

X (VII) La quiete e l’immobilità dell’Empireo, decimo cielo – il “ciel de la divina pace” -, corrispondono al settimo stato, di cui è propria la “quietatio”, il silenzio (tema anticipato dal tacere di Beatrice in apertura del canto XXIX), e la pace.

Il Paradiso avrebbe pertanto un ordine spirituale del seguente tipo:

cielo

stato

cielo

I

LUNA

I

II

MERCURIO

II

III

VENERE

III

IV

SOLE

IV

I

SOLE

V

MARTE

V

II

MARTE

VI

GIOVE

VI

III

GIOVE

VII

SATURNO

VII

IV

SATURNO

VIII

V

STELLE FISSE

IX

VI

PRIMO MOBILE

X

VII

EMPIREO

Oltre ai luoghi sopra indicati, i temi del sesto e del settimo stato si rinvengono in più punti, intrecciati con altri.

[1] Cfr. LSA, cap. XVII, Ap 17, 9: «Et subdit Ricardus quod per septem reges, et per septem capita designatos, designatur hic universus populus malorum, qui secundum septem status huius seculi determinantur. Primus scilicet ab Adam usque ad Noe. Secundus a Noe usque ad Abraam. Tertius ab Abraam usque ad Moysen. Quartus a Moys<e> usque ad David. Quintus a David usque ad Christum. Sextus a Christo usque ad Antichristum. Septimus autem sub Antichristo attribuitur». Cfr. PETRI IOHANNIS OLIVI Lectura super Lucam, Lc 1, 26, ed. F. Iozzelli, Grottaferrata 2010 (Collectio Oliviana, V), pp. 187-188: «Signanter autem dicitur in sexto mense, quia Christus uenit in sexta mundi etate, et iterum post quinque notabiles synagoge decursus: nam primo, cum sola circumcisione fuit sub patribus per quadringentos annos; secundo, accepta lege, fuit sub iudicibus per tantumdem temporis; tertio, proficiens in regnum, fuit sub regibus; quarto, assumpto plenius spiritu prophetico, fuit sub prophetis sollempnioribus, scilicet sub Elia, Ysaia et Yeremia etc.; quinto, restituto templo et urbe, fuit sub pontificibus quibus, per Aggeum et Zachariam et Malachiam iterata prophetia de Christo et eius precursore Elia, factum est silentium prophetarum, ita quod obmutuit cetus sacerdotum usque ad Iohannis ortum; et iterum in eiusdem quinti temporis sexto centenario conceptus est Christus. Sicut etiam sexto die factus est homo ad ymaginem Dei, sic conuenienter sub consimili senario factus est Christus homo, plenior Dei ymago: nam et perfectio numeri senarii, que ex omnibus partibus suis aliquotis et iterum ex ternario cum suis partibus, scilicet binario et unitate, consurgit, competit sibi et etiam reflexio ternarii per binarium, id est cultus fidei et Trinitatis per geminam caritatem».

[2] Il principio è chiaramente affermato nel notabile VIII del prologo della LSA: «[…] si omnia prima membra visionum ad invicem conferas et consimiliter omnia secunda et sic de aliis, aperte videbis omnia prima ad idem primum concorditer referri et consimiliter omnia secunda ad idem secundum et sic de aliis. Et hoc in tantum quod plena intelligentia eiusdem primi multum clarificatur ex mutua collatione omnium primorum, et idem est de omnibus secundis et tertiis et sic de aliis».

[3] A. FRUGONI, La Roma di Dante, tra il tempo e l’eterno, in ID., Pellegrini a Roma nel 1300. Cronache del primo Giubileo, presentazione di C. Frugoni, a cura e con Introduzione di F. Accrocca, Casale Monferrato 1999, pp. 102-103.

[4] LSA, cap. VI, Ap 6, 12: «Secunda ratio est quia persone Christi correspondet in sexta apertione unus ordo plurium personarum sic secundum suam proportionem augendus, sicut Christus secundum suum corpus fuit usque ad perfectam etatem viriliter auctus. […] Quarta est quia, prout super evangelia ostendi, Christus parvo tempore debuit inter nos vivere et pauciori predicare […]. Nisi autem ordo evangelicus, per Franciscum renovatus, esset in multis et saltem sub duabus vel tribus generationibus propagatus et sollempnizatus, non esset nec ipse nec populus ab eo ducendus sufficienter dispositus ad tam autenticam condempnationem condempnationi Christi consimilem subeundam».