La ‘Divina Parodia’ del Libro scritto dentro e fuoriThe ‘Divine Parody’ of the Book written within and withoutInferno: I; II; III; IV; V; VI; VII; VIII; IX; X; XI; XII; XIII; XIV; XV; XVI; XVII; XVIII; XIX; XX; XXI; XXII; XXIII; XXIV; XXV; XXVI; XXVII; XXVIII; XXIX; XXX; XXXI; XXXII, 1-123; XXXII, 124-XXXIII, 90; XXXIII, 91-157; XXXIVPurgatorio: III; XXVIII; XXIX; XXX; XXXI; XXXII; XXXIII
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I canti dell’Aquila: Paradiso XVIII, 52-136, XIX, XX
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XVIII
1. La resurrezione della testa della bestia che sembrava uccisa. 2. Secoli in forma di lettere. 3. Fumo nel Tempio. |
Legenda [3]: numero dei versi; 1, 10-12: collegamento ipertestuale all’esegesi, nella Lectura di Olivi, di capitolo e versetto dell’Apocalisse [Ap]; Not. VII: collegamento all’esegesi contenuta nei tredici notabilia del prologo della Lectura. Varianti rispetto al testo del Petrocchi. |
Io mi rivolsi dal mio destro lato 1, 10-12
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1. La resurrezione della testa della bestia che sembrava uccisa
In the Sixth Heaven, the Sphere of Jupiter, to describe the lights of righteous souls that rise in the shape of the Eagle (the Justice), Dante uses the exegesis of the head of the beast that appeared to be slain to death though it rose again (Rev 13:3; there are numerous quotations of Joachim of Fiore). The resurrection of the monarchy of the Antichrist, designated by the head of the beast that seemed to have been killed and then revived, is transformed into the resurrection of the lights that form the Eagle starting from the letter “M”, which signifies “Monarchia”, but also “Mulier”, the Virgin Astrea). All of this reveals a method to transform the passages of the Apocalypse related to negative figures or circumstances in order to confer a positive sense of imminent renovation. |
Un pianeta temperato. Nell’ascendere dal cielo di Marte al cielo di Giove (sesto cielo, ma terzo a partire dal cielo del Sole) Dante, volgendosi e vedendo gli occhi di Beatrice più lucenti e giocondi che negli altri pianeti, sente crescere la sua virtù insieme con l’arco celeste. Il volgersi ripete quello di Giovanni verso la voce della guida che lo richiama a realtà più alte, tema più volte variato nel corso del poema (Ap 1, 10-12). Gli occhi fanno segno del riso di Beatrice, sacra parodia dello splendore del volto di Cristo (Ap 1, 16-17), che cresce in lucentezza ascendendo verso l’Empireo – “i vivi suggelli / d’ogne bellezza più fanno più suso” (Par. XIV, 133-134; cfr. XX, 13-15) -, come cresce per rami l’illuminazione del popolo di Dio nella storia della Chiesa (Ap 21, 12-13.21). L’aumento della virtù è tipica della tribù di Giuseppe, una delle dodici tribù di Israele da cui provengono i segnati ad Ap 7, 3-8, interpretata come “augmentum, quia per prudentie discretionem et discretum regimen adaugentur omnes virtutes” (Ap 7, 8).
Al v. 63 – “veggendo quel miracol più addorno” -, la variante “sì adddorno”, nel Boccaccio e poi nell’Aldina, non solo non convince perché “Dante ha la necessità di spiegare che dal volto ‘più risplendente’ di Beatrice s’era accorto ch’era salito in altro cielo” (Petrocchi), ma è da rigettare per il confronto con il “plus incomparabiliter lucet” dell’esegesi parodiata, tra altro, in molti altri luoghi del poema (Ap 1, 16).
Il cielo di Giove risente ancora del quinto periodo (status) della storia della Chiesa, dai temi del quale è stato in parte segnato il precedente cielo di Marte; gli appartiene infatti il contemperare secondo le inferme forze umane: è “la temprata stella / sesta, che dentro a sé m’avea ricolto” (Par. XVIII, 68-69; prologo, Notabile III). Raccogliere è un altro dei temi del quinto stato (Notabile V; nell’esegesi è tipico di Carlo Magno, beato mostratosi nel cielo di Marte, vv. 43-45). Più avanti nell’ascesa, al momento del passaggio all’ottavo cielo delle stelle fisse, dentro ai suoi Gemelli il poeta contempla dall’alto il cammino percorso e vede “il temperar di Giove / tra ’l padre e ’l figlio”, cioè tra il freddo di Saturno e il calore di Marte, e ha chiaro “il varïar che fanno di lor dove” i pianeti (Par. XXII, 145-147): anche il variare è motivo del quinto periodo, appropriato alla chiesa di Sardi, la quinta delle sette d’Asia, nel suo primo bello inizio (Ap 2, 1). Il passaggio di colore, dal rosso di Marte al bianco di Giove, è tale “qual è ’l trasmutare in picciol varco / di tempo in bianca donna, quando ’l volto / suo si discarchi di vergogna il carco” (Par. XVIII, 64-66), dove il candore di Giove è fasciato dal “candor contemperantior”, come “lana alba” contrapposta alla rigida e congelata neve, dei capelli di Cristo sommo pastore descritti ad Ap 1, 14. Il significato è che la rigida e immutabile giustizia divina, che si rivela per antonomasia in quel cielo, è contemperata dalla misericordia, come afferma l’Aquila: “Per esser giusto e pio” (XIX, 20).
Morte e resurrezione della bestia. Quanto ad Ap 13, 3, nella trattazione della sesta e grande guerra sostenuta dalla Chiesa, si afferma della testa della bestia ascendente dal mare, che sembrava uccisa e che rivive – per cui Giovanni dice: “E vidi una delle sue teste quasi colpita a morte, ma la sua piaga mortale fu curata” -, è da confrontare con Ap 17, 8, dove l’angelo dice a Giovanni della bestia su cui sta seduta la prostituta: “La bestia che hai visto fu e non è”. Secondo Gioacchino da Fiore, si tratta della bestia formata dalle genti infedeli le quali, già soggette all’impero romano, perseguitarono negli esordi Cristo e la Chiesa e, dopo essere caduta nei primi tre tempi della Chiesa in sei teste – i Giudei, i pagani e le quattro genti ariane (Goti occidentali e orientali, Vandali, Longobardi) – stette infine sulla settima testa, cioè sulla gente saracena dal tempo di Maometto fino al presente. L’espressione “fu e non è” sarebbe da ascrivere al sesto tempo della Chiesa nel quale, percossa Babylon, la stessa bestia verrà superata da Cristo trionfante con il suo esercito sui dieci re, come detto ad Ap 17, 14. Allora cesserà temporaneamente la sua solidità così da sembrare non essere. Dopo un po’, tuttavia, la bestia che si riteneva uccisa salirà dall’abisso dei popoli infedeli, e allora i terreni e i carnali, i cui nomi non sono scritti nel libro della vita, si scandalizzeranno e diranno fra loro: ‘se questo Gesù che noi adoriamo fosse veramente il Figlio di Dio, in nessun modo la persecuzione ad opera delle genti, che poco fa fu sedata, sorgerebbe nuovamente con tanta potenza a disperdere le reliquie del popolo cristiano’. Così quello che si dice, che i malvagi si meraviglieranno nel vedere la bestia “che era e non è più”, va inteso non nel senso che si meravigliano del fatto che non sia, quanto perché, pur avendola poco prima vista non essere, la vedono ora salire in massima potestà, per cui sono scandalizzati fino alla negazione di Cristo e all’adorazione della stessa bestia, come si afferma nel capitolo XIII (Ap 13, 3-4.12).
Beatrice, prima di pronunciare nell’Eden la profezia dell’imminente arrivo del messo divino che ucciderà la prostituta insieme col gigante (Purg. XXXIII, 37-45), dice a Dante: “Sappi che ’l vaso che ’l serpente ruppe, / fu e non è”. Allude, come in genere si commenta, alla Chiesa corrotta (designata dal carro, le cui tribolazioni sono state descritte al termine del canto precedente) come se non esistesse più (è divenuta infatti “mostro e poscia preda” del gigante) usando le parole di Ap 17, 8: “bestia, quam vidisti, fuit et non est” (vv. 34-35). Ma ad Ap 17, 8 Olivi, citando Gioacchino da Fiore, parla della bestia che, apparsa in un primo tempo uccisa, dopo poco (post modicum) ascende dall’abisso facendo di nuovo (iterum) risorgere la persecuzione da parte delle genti che sembrava sedata e appare tanto potente da farsi adorare da quanti restano ammirati dalla sua resurrezione. Beatrice, annunciando l’arrivo del messo, pensa alla vendetta di Dio che farà risorgere la Chiesa e lo fa recitando il tema della bestia che sembrava uccisa e che rivive, interpretato in bonam partem. Lei stessa, più sopra nel canto, cita le parole di Gesù ai discepoli per avvertirli che presto sarebbe morto e poco dopo risorto: “Modicum, et non videbitis me; / et iterum, sorelle mie dilette, / modicum, et vos videbitis me” (vv. 10-12). Questo passo dal Vangelo di Giovanni 16, 16 – le parole con cui Cristo, nell’ultima cena, annuncia agli apostoli la sua imminente morte e resurrezione – è incastonato nell’esegesi di Ap 17, 8 e perfettamente concordato con il tema della bestia che sembrava uccisa e che risorge.
Anche il canto delle sette virtù le quali, lacrimando, intonano il Salmo 78, “Deus, venerunt gentes”, in cui si lamenta la distruzione del Tempio di Gerusalemme (Purg. XXXIII, 1-3), si inserisce in quanto ad Ap 17, 8 si dice del risorgere della persecuzione da parte delle genti. La “dolce salmodia” (Ps 78, 10: “ne forte dicant in gentibus: Ubi est Deus eorum?”) concorda con l’apocalittico scandalizzarsi di carnali e terreni (Ap 17, 8: “dicentes ad invicem: si iste Ihesus, quem colimus, esset vere filius Dei, nequaquam persecutio gentium, que nuper sedata fuit, iterum consurgeret in tanta potentia ad disperdendas reliquias populi christiani”). Il Salmo 78, 10 fa parte del tessuto della lettera indirizzata ai cardinali italiani, riuniti in conclave a Carpentras dopo la morte di Clemente V (20 aprile 1314; Ep. XI, 4).
Sempre con l’ausilio di Gioacchino da Fiore, e interpretando quanto scritto nell’XI capitolo di Daniele, ad Ap 13, 3 Olivi afferma che la testa della bestia che sembrava uccisa e poi rivive designa il fatto che l’Anticristo, nel primo dei tre anni e mezzo di regno, perderà la monarchia per poi recuperarla. Dal confronto di Ap 17, 8 con Ap 13, 3, la compresenza di alcune parole (l’essere la bestia e l’Anticristo dapprima “percossi”, l’“ardere” del secondo per ira contro la Chiesa, la loro resurrezione) mostra che anche il risorgere delle luci, “come nel percuoter d’i ciocchi arsi / surgono innumerabili faville”, le quali nel cielo di Giove formano la figura dell’Aquila, simbolo della giustizia (Par. XVIII, 100-105), sia variazione sui temi della bestia “che fu e non è” e dell’Anticristo, quasi ucciso per la perdita del regno e poi risorto.
Tutto ciò rende conto di un metodo sorprendente che trasforma in senso positivo, di un prossimo rinnovamento, passi che nel testo dell’Apocalisse vengono appropriati a figure o a situazioni negative, nel caso alla bestia che sale dal mare di Ap 13, 3 o alla bestia su cui siede la prostituta di Ap 17, 8, che si trasformano nella Chiesa che rivivrà e anche nell’Impero, perché “non sarà tutto tempo sanza reda / l’aguglia che lasciò le penne al carro, / per che divenne mostro e poscia preda” (Purg. XXXIII, 37-39). Alla fine del capitolo XIII, Olivi riporta l’opinione di alcuni secondo i quali il seme di Federico II rivivrà nell’Anticristo mistico, come la testa della bestia che sembrava uccisa ma rivive. Nel trasformare per parodia la Lectura nella Commedia, il poeta torce il “panno” all’ordito della sua “gonna”, come dimostrano i versi messi in bocca a Farinata e a Brunetto Latini, tessuti con fili tratti dal finale del capitolo XIII, dove trovava la discendenza di Federico II identificata con l’Anticristo mistico, mentre per lui è sementa santa che rivivrà. Alla resurrezione dell’Impero sono da riferire le parole di Cristo nel Vangelo di Giovanni successive a quelle pronunciate esplicitamente da Beatrice a Purg. XXXIII, 10-12 – “Modicum, et non videbitis me ; / et iterum, sorelle mie dilette, / modicum, et vos videbitis me” (Jo 16, 16) -, relative alla donna che prova le doglie del parto ma, una volta partorito, si allieta (16, 21). Cristo annuncia ai discepoli la sua morte, che sarà motivo per loro di tristezza e di tribolazione, e poi la sua resurrezione, che sarà causa di gioia.
Gerione, la “bestia” che viene “notando … in suso” dall’abisso, “maravigliosa ad ogne cor sicuro” (Inf. XVI, 121-123, 130-136), si apparenta con la bestia che ad Ap 13, 1 sale dal mare (citato nella similitudine), e che suscita meraviglia nelle genti a motivo della sua testa che sembrava uccisa ma che poi rivive (Ap 13, 3). Nella quarta visione, tutto l’impeto della descrizione è diretto verso quella grande guerra del sesto tempo che la bestia condurrà per mezzo di questa testa. L’espressione dell’esegesi “intorqueri ad bestiam a quarto tempore usque ad finem ecclesie consurgentem” passa nelle parole di Virgilio: “Or convien che si torca / la nostra via un poco insino a quella / bestia malvagia che colà si corca” (Inf. XVII, 28-30).
Lontanissima variazione sul tema della bestia che “fu e non è” si registra nella meraviglia di Sordello nell’incontrare Virgilio, «qual è colui … / che crede e non, dicendo “Ella è … non è …”» (Purg. VII, 10-12).
Tab. XVIII.1
Tab. XVIII.2
I significati di M. Nel cielo di Giove Dante vede dei lumi, “come augelli surti di rivera”, dentro ai quali “sante creature / volitando cantavano”. Si esprimono in segni del parlare umano (“Io vidi … / segnare a li occhi miei nostra favella”), “e faciensi / or D, or I, or L in sue figure” (Par. XVIII, 70-81). Si tratta dell’inizio di trentacinque fra vocali e consonanti che formano successivamente la scritta “Dil igite iustitiam, qui iudicatis terram” (il primo versetto del libro della Sapienza; vv. 88-93). Poi le luci “rimasero ordinate” nella M della quinta e ultima parola (“terram”) del detto versetto, “sì che Giove / pareva argento lì d’oro distinto” (Par. XVIII, 94-96; “emme” in Petrocchi, meglio M, “per fedeltà alla facies grafica dei testimoni” [Inglese], e perché segna un rinvio mnemonico). Il poeta vede quindi scendere altre luci sulla sommità della M (la quale assume così la foma di un giglio), “e lì quetarsi / cantando, credo, il ben ch’a sé le move” (vv. 97-99). Poi, come le faville che sorgono dai tizzoni arsi quando vengono percossi, dalle quali gli stolti superstiziosi sogliono trarre auspici, così si vedono risorgere dalla M più di mille luci, che salgono più o meno in alto secondo l’ordine assegnato a ciascuna da Dio, sole che le accende e, quietatasi ciascuna nel luogo stabilito, formare la testa e il collo di un’aquila (vv. 100-108). Gli altri beati, che sembravano prima contenti “d’ingigliarsi a l’emme”, con breve movimento seguono l’impronta data dai precedenti (vv. 112-114).
Allo splendore di verità con il quale Cristo illumina nella sua gloriosa e potente apparizione sul cavallo bianco all’apertura del primo sigillo (Ap 5, 1; 6, 2) rinvia l’invocazione alla “diva Pegasëa”, la Musa della poesia detta così dal cavallo alato Pegaso che con lo zoccolo fece scaturire la fonte Ippocrene sull’Elicona (vv. 82-87).
È da notare l’insistenza del tema dei “signa figuralia”, attraverso i quali si attua la rivelazione fatta a Giovanni (il quale scrive quanto lui mostrato usando similitudini a noi note, perché non è dato ripetere una visione che sia puramente intellettuale), appropriato ai lumi che nel cielo di Giove si trasformano nell’Aquila, mostrandosi dapprima come figure di lettere e come segni: “segnare a li occhi miei nostra favella … or D, or I, or L in sue figure … poi, diventando l’un di questi segni … sì ch’io rilevi / le lor figure com’ io l’ho concette … Mostrarsi dunque in cinque volte sette” (vv. 72, 78, 80, 85-86, 88).
Nei versi 88-114 si possono pertanto distinguere due momenti: il primo in cui le luci, dopo aver formato la scritta dipinta, rimangono ordinate nella M e in cui altre luci discendono e si quietano sul colmo della stessa lettera; il secondo, successivo all’ordinarsi e al quietarsi, nella resurrezione delle luci seguite dalle altre. Questo secondo momento è comunque nettamente staccato rispetto alle fasi precedenti.
Il risorgere della monarchia dell’Anticristo, designato dalla testa della bestia che sembrava uccisa e che rivive (Ap 13, 3), si trasforma nel risorgere delle luci che vanno a formare l’Aquila a partire dalla “M” (che designa appunto la Monarchia).
L’adorazione del drago, che ha dato la sua virtù alla bestia, da parte di quanti, amanti delle cose terrene, seguono la bestia pieni di ammirazione, timore e stupore per la sua resurrezione, che è adorazione per la bestia stessa (Ap 13, 4.8.12), passa nella successiva preghiera del poeta alla milizia celeste perché ‘adori’: “adora per color che sono in terra / tutti svïati dietro al malo essemplo” papale (vv. 124-126).
Se il drago è suprema guida, “dux ceterorum demonum”, a loro volta duci degli uomini peccatori (ad Ap 13, 2), Dio, “quei che dipinge lì, non ha chi ’l guidi; / ma esso guida”; se il drago ha dato la propria virtù alla bestia affinché faccia segni, da Dio “si rammenta / quella virtù ch’è forma per li nidi” (vv. 109-111). D’altronde il drago è, per quanto in senso pessimo e perverso, “prima et principalis et invisibilis causa” (Ap 13, 1) e “primus motor” (Ap 16, 13-14).
L’adorazione della bestia è da parte di tutti gli abitanti della terra, il cui nome non è scritto nel libro della vita dell’Agnello immolato fin dall’origine del mondo (Ap 13, 8). L’Agnello è stato infatti preordinato a redimere dalla prima caduta dell’uomo e prefigurato nella sua morte nelle varie figure che lo hanno preceduto fin dalla creazione. Così le luci che hanno prima formato delle figure di vocali e consonanti – “Diligite iustitiam, qui iudicatis terram” – restano ordinate “ne l’emme del vocabol quinto”, come le altre che discendono sulla sommità della M si quietano, quasi non fossero, prima di risorgere a formare l’Aquila (il “seguitò la ’mprenta” del v. 114 è da confrontare col seguire la bestia da parte dei terreni di Ap 13, 4).
L’“ingigliarsi” dei beati quietatisi sul colmo della M, per poi seguire l’impronta data dagli altri risorti a formare la testa e il collo dell’Aquila (vv. 112-114), è stato anche inteso come un’allusione alla monarchia di Francia la quale, dopo un tentativo di sostituirsi all’Impero, dovrà soggiacergli. In effetti, come risulta dalla successiva esegesi di Ap 13, 18, l’Anticristo mistico, proveniente dal seme redivivo di Federico II, vincerà il regno di Francia. Tuttavia è più probabile un’altra spiegazione. Il termine “lilium” nella Lectura compare una sola volta, ad Ap 12, 6. Si tratta della prima guerra, in cui la donna – la Vergine, oppure la Chiesa – fugge la persecuzione dei Giudei nella solitudine del deserto dei Gentili. Una serie di citazioni di Isaia spiegano che il deserto diventerà un giardino e quello che era il giardino – la Giudea – diventerà un deserto: “silvam … silvestrescet”. Nella solitudine del deserto abiteranno il diritto e la giustizia (Is 32, 15-16); il deserto si rallegrerà e la solitudine fiorirà come il giglio (Is 35, 1-2). Le luci che si fermano ordinate nella M, alla quale poi le altre si ingigliano, hanno formato la scritta “Diligite iustitiam, qui iudicatis terram”. Se la lettera M non sta solo per “Monarchia” ma anche per “Mulier”, allora l’ingigliarsi designa la giustizia che dimora e fiorisce nella solitudine alla quale è fuggita la donna. Nella terza e quarta guerra, trattate congiuntamente (Ap 12, 14), alla donna vengono date due ali di una grande aquila le quali, nella concorrenza del terzo stato dei dottori e del quarto stato degli anacoreti, rappresentano il potere temporale e quello spirituale. La donna non è più fuggitiva come nella prima guerra, bensì regina che vola in modo magnifico al luogo predestinato come suo, incorporando in sé le genti. Nei versi relativi alla trasformazione non si parla delle ali dell’Aquila, queste si manifestano all’inizio del canto seguente: “Parea dinanzi a me con l’ali aperte / la bella image” (Par. XIX, 1-2).
Nulla di sorprendente se la M significhi insieme “mulier”, cioè Maria («“Virgo” nanque vocabatur iustitia, quam etiam “Astream” vocabant»: cfr. Monarchia I, xi, 1), e “Monarchia”, e che da detta M si formi l’Aquila visto che Cristo, “Imperadore dell’universo” come è definito nel Convivio (II, v, 2), fu figlio di Maria, la cui progenie fu Davide, nato per divino provvedere nello stesso tempo in cui nacque Roma, nel quale Enea venne di Troia in Italia (IV, v, 5-6). Sorprende invece la capacità del poeta di variare tanto i temi, al punto per cui la bestia dell’Apocalisse si trasforma nell’Aquila rediviva.
In così alta retorica del significante, viene in rilievo la simmetria fra terzine nella numerazione dei versi di singoli canti, o meglio il numero stesso della terzina. Non può essere infatti casuale che l’Italia sia due volte collocata sull’ultimo verso della 35a terzina (vv. 103-105) a Purg. VI (“che ’l giardin de lo ’mperio sia diserto”) e a Par. XI (“redissi al frutto de l’italica erba”). La semantica rinvia ad Ap 8, 7 (terza visione, prima tromba) e ad Ap 12, 6 (quarta visione, prima guerra, passo qui sopra ricordato), dove si tratta della Giudea, un tempo fiorente giardino poi divenuta deserto per il suo indurirsi contro Cristo. Da essa la donna (la Chiesa) fugge nella solitudine del deserto dei Gentili (il “lito diserto” della montagna del purgatorio), che fiorisce, mentre la Giudea si fa “selva selvaggia” («“in saltum” seu silvam “reputabitur”, id est silvestrescet»). Ma nel sesto stato la Giudea, dopo la conversione delle reliquie delle genti, si volgerà umilmente per ultima a Cristo come promesso al vescovo di Filadelfia, la sesta chiesa d’Asia (Ap 3, 9).
Di fronte a tanto profondi significati che aprono prospettive di una storia della salvezza collettiva, quale senso ha che l’Italia stia due volte sulla 35a terzina? Forse la risposta si trova ancora nell’esegesi di Ap 12, 6, relativa allo scambiarsi fra selva e deserto fiorito. Esegesi i cui signacula si rinvengono in molti versi fra i quali (ancora una volta la 35a terzina) Purg. VII, 105, riferito con variazione dissonante alla morte nel 1285 di Filippo III l’Ardito in fuga dagli Aragonesi: «“Et mulier”, id est ecclesia, “fugit in solitudinem” … De hac autem solitudine dicitur Isaie … Et capitulo XXXV° (Is 35, 1-2): “Letabitur deserta et invia, exultabit solitudo et florebit quasi lilium” – morì fuggendo e disfiorando il giglio». Questo deserto che fiorisce è quello profetizzato da Isaia, più volte citato ad Ap 12, 6. Ivi fiorirà la giustizia (“et habitabit in solitudine iudicium et iustitia”, Is 32, 16). Il numero 35 è menzionato nel poema allorché, nel cielo di Giove, a Dante si mostra la scritta dipinta “Diligite iustitiam, qui iudicatis terram”, cioè il primo versetto del libro della Sapienza formato da 35 lettere (“Mostrarsi dunque in cinque volte sette / vocali e consonanti”; Par. XVIII, 88-93). Dante pensava che l’Italia sarebbe stata un giorno la sede della giustizia [1].
Il segno parlante. Dopo la bestia che sale dal mare (Ap 13, 1-10), è la volta della bestia che sale dalla terra (Ap 13, 11-18). Con la “terra”, che è adatta ad essere abitata dall’uomo, viene significato il luogo e lo stato dei fedeli; con il “mare”, invece, il luogo della gente infedele. Riccardo di San Vittore afferma pertanto che come con la bestia che sale dal mare si intendono i re delle genti, così con la bestia che sale dalla terra si intendono gli empi rettori dei falsi cristiani.
Fra i segni operati dalla bestia che sale dalla terra, la seconda delle due bestie protagoniste della sesta guerra, c’è il fare scendere dal cielo il fuoco, “res vivida et lucens” (Ap 13, 13), un tema che si ritrova nello scendere delle luci sul colmo della M, le quali poi, “distinto foco”, risorgono a formare la testa e il collo dell’Aquila, (vv. 97-98, 108). Nel canto successivo si dice che l’Aquila è “segno” formato da “quei lucenti incendi / de lo Spirito Santo” (XIX, 100-101).
Come l’immagine dell’Anticristo parla (Ap 13, 15), così la “bella” e “benedetta imagine” dell’Aquila parla per il rostro (Par. XIX, 10-12; il parlare ad una voce che procede concordemente da molte voci rinvia ad Ap 14, 2). Come l’immagine dell’Anticristo sarà oggetto di reverenza e di devozione, così l’Aquila è “segno / che fé i Romani al mondo reverendi” (vv. 101-102). Come la legge stabilita dall’Anticristo sembrerà avere in sé lo spirito di Dio a causa dei segni e delle testimonianze dei falsi profeti, e apparirà come se parlasse poiché per la sua fede e virtù si vedranno compiere grandi prodigi, così l’Aquila è il segno che fa parlare Giustiniano (Par. VI, 82). Un segno che nel governare il mondo passa “di mano in mano” (vv. 8-9, 86) a quanti lo portano (v. 43), come i seguaci dell’Anticristo, secondo quanto si dice ad Ap 13, 17, portano in mano il marchio che consente loro di “comprare e vendere”, cioè di assumere offici solenni.
La voce dell’Aquila è dapprima un mormorare che sale: “udir mi parve un mormorar di fiume / che scende chiaro giù di pietra in pietra, / mostrando l’ubertà del suo cacume … quel mormorar de l’aguglia salissi” (Par. XX, 19-21, 26). Anche in questo caso, si tratta di una variazione in senso positivo di un tema, il mormorare dei dannati ad Ap 14, 11, che l’esegesi propone in senso opposto, già appropriato al “crollarsi mormorando” della fiamma di Ulisse come agitata qua e là dal vento, che getta voce di fuori “come fosse la lingua che parlasse” (Inf. XXVI, 85-87).
Gli uomini devoti che hanno presso di sé l’immagine del Salvatore, “ut magis assidue ipsum recogitent et quasi videant”, è similitudine nell’esegesi appropriata agli adoratori dell’Anticristo; subisce nel poema una metamorfosi positiva: è infatti motivo delle parole di conforto che Virgilio pronuncia mentre attraversa con Dante e Stazio il fuoco purgante, allorché, nel parlare concentrato solo su Beatrice, gli pare di vedere già gli occhi della donna (Purg. XXVII, 52-54). Così il pellegrino che guarda la Veronica, come il poeta nell’Empireo di fronte a san Bernardo, ridice nel pensiero che quella che vede è la sembianza di Cristo (Par. XXXI, 103-108).
L’operare segni da parte della seconda bestia, unitamente a incantesimi quali far parlare una materia (la statua o l’immagine) in modo conforme alla legge dell’Anticristo (dandole così una forma), come gli incantatori del Faraone imitando Mosè trasformarono la verga in serpente (Ap 13, 11.15), conduce alle immagini perverse di Inf. XXV, prodotte dalle reciproche trasformazioni di ladri e serpenti, nature nelle quali le forme si dispongono a cambiare la propria materia. In vista di tale trasmutare, serpente e uomo “insieme si rispuosero a tai norme” (v. 103), che sono la conforme rispondenza alla legge dell’Anticristo. Questa metamorfosi costituisce un vanto per Dante, che confronta sé stesso con le metamorfosi semplici, non doppie, narrate da Lucano e da Ovidio. Il motivo di Mosè che converte la propria verga in un serpente che divora quello degli incantatori del Faraone gli fornisce panno per il paragone, non perché venga meno la stima del ‘sesto’ poeta per i due grandi che ha visto nel Limbo, ma perché il suo “poema sacro” non può non divorare, incorporandolo in una superiore sapienza cristiana, quanto scritto in ‘figura’ da poeti pagani (vv. 94-102).
La seconda bestia, quella dei falsi profeti che sale dalla terra, farà sì “che chiunque non avrà adorato l’immagine della bestia venga ucciso” (Ap 13, 15), come se dicesse: costringerà ad adorare l’Anticristo e la sua immagine non solo con prodigi e argomenti razionali, ma anche con terribili norme e pene, e per questo farà uccidere i santi. Vengono poi aggiunte altre due cose fatte dalla bestia dei falsi profeti, affinché tutti siano costretti in modo più forte a seguire l’Anticristo e la sua setta e affinché nessuno tra le genti possa nascondersi. Dapprima viene detto (Ap 13, 16): “E farà sì che tutti, piccoli e grandi, ricchi e poveri, liberi e schiavi, abbiano un marchio sulla mano destra o sulla fronte”. Poi si aggiunge (Ap 13, 17): “e che nessuno possa comprare o vendere senza avere tale marchio o senza avere il nome della bestia o il numero del suo nome”. Secondo Gioacchino da Fiore, questo marchio consisterà in una sorta di cedola sulla quale sarà scritto qualcosa della legge o dei precetti dell’Anticristo, o forse in una figura stabilita come segno che venga professata e seguita la sua fede che alcuni, per maggiore venerazione, porteranno cinta attorno alla fronte e altri, invece, porteranno in mano nel momento in cui dovranno vendere o comprare qualcosa. Chi non avrà questa cedola figurata con tale marchio dovrà possederne un’altra nella quale sia scritto il nome dell’Anticristo o il numero del suo nome, cioè le lettere numerali del suo nome, oppure le altre che significano il medesimo numero (Ap 13, 18). Dalle cose predette si intende che “nessuno potrà vendere”, cioè predicare o insegnare, “né comprare”, cioè ascoltare o apprendere, né svolgere qualche officio solenne se non sia aperto seguace e discepolo dell’Anticristo e se ciò non sia palese per segni certi. Nel passo simmetrico di Ap 14, 11, il terzo dei tre angeli commina l’ira divina su chiunque adori la bestia o la sua immagine e ne riceva il marchio sulla fronte o sulla mano. Qui si parla solo di “caracter nominis” e non pure, come ad Ap 13, 17, di “numerus nominis”. Il “caracter nominis” è il nome dell’Anticristo scritto con figure di lettere. Il “caracter”, ossia il marchio, se distinto dal nome, indica un sigillo, cioè l’impronta della fede, della riverenza e dell’imitazione dell’Anticristo che i suoi seguaci portano nel cuore e nelle opere.
Anche questi motivi entrano nella rappresentazione che si svolge nel sesto cielo. I lumi che volano cantando sono “figure”, le quali ‘segnano’ agli occhi del poeta lettere dell’alfabeto (Par. XVIII, 72, 78, 86; cfr. Ap 1, 1). I beati che parevano contenti d’ingigliarsi alla M ‘seguono’ l’impronta delle luci che hanno formato la testa e il collo dell’Aquila (v. 114). Vendere e emere sotto il regime dell’Anticristo diventano, nella preghiera del poeta, l’adirarsi un’altra volta di Cristo “del comperare e vender dentro al templo / che si murò di segni e di martìri” (vv. 121-123) [2]. Dopo aver presentato i lumi che scintillano nel suo occhio, l’immagine dell’Aquila (che parla come l’immagine dell’Anticristo: Ap 13, 15) tace quale allodola contenta del suo parlare, che è un’impronta del parlare divino e del piacere che da esso deriva (XX, 76-78). È davvero impressionante la quantità di elementi semantici che dall’esegesi dell’Anticristo si riversa sull’Aquila, segno di Cristo.
I motivi del portare scritto, dell’imprimere col sigillo una figura, del segnare, del seguire una dottrina falsa formano il tessuto del rimprovero formulato da Beatrice verso Dante prima che questi beva l’acqua dell’Eunoè che lo rende “puro e disposto a salire a le stelle” (Purg. XXXIII, 73-90). La donna, nel vedere l’intelletto del poeta pietrificato e oscurato, vuole che quanto precedentemente da lei detto del messo di Dio e dell’albero dell’Eden venga portato dentro, “se non scritto, almen dipinto” (cioè con figure; anche i lumi-figure in Par. XVIII, 92 sono un “dipinto”), e ricordato, per lo stesso motivo per cui il pellegrino porta a casa il bordone cinto di foglie di palma. E Dante assicura Beatrice che il suo cervello è da lei segnato come da un sigillo la cui figura non si muta una volta impressa sulla cera (è proprio del sesto stato imprimere e sigillare la fede, come si afferma nel Notabile III del prologo). Il poeta poi domanda perché la parola ascoltata voli tanto al di sopra delle proprie capacità intellettuali che egli più la perde quanto più si sforzi di seguirla. Beatrice risponde che ciò è perché egli comprenda che la dottrina della scuola che ha seguito non può seguire la parola di lei, e che la “vostra via” è tanto distante dalla via divina quanto il cielo che si muove più in fretta dista dalla terra (Purg. XXXIII, 82-90).
[1] Le terzine che registrano le trentacinque lettere, disposte a formare la scritta “Diligite iustitiam, qui iudicatis terram”, sono pregne di motivi che semanticamente rinviano all’esegesi di Sardi, la quinta chiesa d’Asia, bella nel suo edenico principio di pienezza stellare: ad essa Cristo si rivolge come colui che ha nella mano destra le sette stelle, cioè il settiforme Spirito, «qui occulta omnium videt et fervido zelo spiritus iudicat tamquam habens “septem spiritus Dei”, qui prout infra dicitur “in omnem terram sunt missi” (cfr. Ap 5, 6)». Le lettere “mostrarsi dunque in cinque volte sette … Poscia ne l’emme del vocabol quinto / rimasero ordinate”, dove pure il verbo rimanere è tipico del quinto stato della Chiesa (quinta guerra, Ap 12, 17). Anche “io notai”, riferito al poeta che registra quanto accade, rinvia all’esegesi della quinta chiesa (Par. XVIII, 88-96; Ap 3, 1.4).
[2] Il v. 123 – che si murò di segni e di martìri” – è riferito sia al muro della Gerusalemme celeste, difeso dai màrtiri (Ap 21, 12), sia alla signatio della milizia di Cristo (Ap 7, 3-4), per cui è da escludere la variante sangue.
Tab. XVIII.3
[LSA, cap. XIII, Ap 13, 2-4.7-8.11-17 (IVa visio, VIum prelium)] “Et dedit illi dracho virtutem suam et potestatem magnam” (Ap 13, 2), quasi dicat: quicquid mali egit bestialis caterva hominum impiorum totum <e>git instinctu et virtute demonum tamquam suorum superiorum, qui quidem sunt tam natura quam malitia potentiores et astutiores et maligniores et recto divine permissionis ordine sunt duces hominum peccantium, et ultra hoc summus demon est dux ceterorum demonum. Dicitur autem hic signanter dracho dedisse magnam potestatem bestie, non solum quia per multos annorum centenarios super multas terras et gentes ipsam regnare fecit, sed etiam precipue quia, tempore unius sui capitis quasi a morte resurgentis, dabit sibi monarchiam et virtutem faciendi mirabilia signa, diabolica tamen. Quod autem dico ‘dabit’, sane intellige eo enim modo quo diabolus a Christo dicitur princeps huius mundi (cfr. Jo 12, 31) et ab Apostolo dicitur “deus infidelium” et rector “tenebrarum harum” (2 Cor 4, 4; Eph 6, 12), id est eo modo, quo a Deo permittitur principari mundanis, dicitur habere potestatem dandi et dare mundana mundanis. […]
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Par. XVIII, 70-81, 88-114, 124-126Io vidi in quella giovïal facella
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[LSA, cap. XIII, Ap 13, 3-4] Sequitur: “Et admirata est universa terra post bestiam” (Ap 13, 3), id est cum multe admirationis timore et stupore de resurrectione capitis bestie seu de reassumptione tante potestatis. Omnes terreni, terrena amantes, secuti sunt bestiam. “Et adoraverunt drachonem, qui dedit potestatem bestie” (Ap 13, 4).
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IOACHIM1 Expositio, pars IV, distinctio IV, f. 165rb.2 Ibid., f. 168ra.3 Ibid., ff. 168va-b, 169rb.4 Ibid., f. 167ra-b. |
RICARDUS1 In Ap IV, v (PL 196, col. 806 D).2 Ibid., col. 808 A. L’accenno a Simon Mago non c’è in Riccardo.3 Ibid., col. 808 B. Il termine statua non è presente in Riccardo.4 Ibid., col. 808 A.5 Ibid., col. 808 B.6 Ibid., col. 808 A. |
2. Secoli in forma di lettere
The great war that will see the armies of Christ and the Antichrist face off in the sixth period (status) of the history of the Church will be fought by both under the sign of the cross, whether true or false. A false cross can be derived from the very name of the Antichrist. In Greek, numbers are indicated by letters of the alphabet. The “number of a name” is the total of the letters. There are only three Greek names corresponding to DCLXVI, the “number of the name of the beast” mentioned in Rev 13:18: Antemos (“contrarius”), Arnoyme, Teitan. The Latin name is “diclvx”, breaking down the number of the beast into six numbers corresponding to letters and shifting their positions: D (five hundred), I (one), C (one hundred), L (fifty), V (five), X (ten).
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■ Nell’esegesi del capitolo XX, Olivi riferisce vari modi di computo in relazione ai mille anni nei quali il diavolo sta incatenato nell’abisso, rilevando come non abbiano in sé nulla di certo e servano solo a mostrare, con i testi scritturali, che a partire dal sesto e dal settimo stato della Chiesa il giudizio finale si può considerare imminente e come alle porte. Gioacchino da Fiore, ad esempio (nell’opera De semine scripturarum, che gli veniva attribuita), afferma che la lingua degli Ebrei rimase nella casa di Eber, dopo la confusione babilonica delle lingue, per ventidue secoli fino a Cristo, numero che corrisponde alle ventidue lettere dell’alfabeto ebraico. È da notare come il numero ventidue sia presente nell’Inferno per designare l’estensione in miglia della nona bolgia, che è quella dei seminatori di scandalo e di scisma dove prevalgono i temi del terzo stato dei dottori che scindono e tagliano con la spada le eresie, prefigurate nell’Antico Testamento dalla divisione babilonica dell’unica e vera lingua (Inf. XXIX, 8-9; diversamente, la presenza di questo numero sarebbe del tutto arbitraria).
Allo stesso modo, secondo le ventitré lettere dell’alfabeto latino, trascorreranno ventitré secoli dalla fondazione di Roma, principale sede dei Latini e della Chiesa di Cristo, depositaria anch’essa, come la casa di Eber, dell’unica e vera lingua, cioè dell’unica e vera fede. Ciò è prefigurato in Daniele, allorché l’angelo dice: “Fino a duemilatrecento sere e mattine: poi il santuario sarà purificato” (Dn 8, 14). Se si considerano i giorni come anni, si ottengono ventitré secoli. Al tempo di Daniele (secondo il computo dato da Olivi) erano trascorsi cento anni dalla fondazione di Roma, per cui il profeta si trovava nel secondo centenario designato con la lettera b. Il primo secolo cominciò al tempo della cattività delle dieci tribù, allorché il santuario di Dio iniziò ad essere profanato. Cristo venne nell’ottavo centenario designato con h, la quale non è propriamente una lettera, ma un’“aspirationis nota”, perché fu concepito e nacque da una vergine non per opera umana ma per ispirazione dello Spirito Santo (sono da ricordare le parole di Dante a Bonagiunta: “I’ mi son un che, quando / Amor mi spira, noto”, Purg. XXIV, 52-53).
Il XIII secolo, al termine del quale Olivi scrive la Lectura, è designato con u, poiché si pronuncia aspirando sull’estremo delle labbra, e alla fine del secolo Babylon, la Chiesa carnale, spirerà (cfr. la citazione del salmo 50, 17 – “Labïa mëa, Domine” – a Purg. XXIII, 10-12; poco prima, nel medesimo girone dei golosi purganti, la voce che esce dalle fronde dell’albero capovolto utilizza, a Purg. XXII, 145-148, alcune parole dell’esegesi accostando “le Romane antiche” a “Danïello”).
Il secolo seguente – il XIV –, nel quale verrà rinnovata ed esaltata la croce di Cristo, è designato con x, cioè con una lettera che ha forma di croce, la quale venne introdotta da Augusto al tempo della venuta di Cristo.
Ad essa faranno seguito le lettere (y, z) che i Latini presero dai Greci, designanti la dilatatio della Chiesa ai Greci e a tutte le genti.
Nel cielo del Sole, Tommaso d’Aquino parla utilizzando con frequenza (per sei volte; Bonaventura, l’altro oratore, lo usa due volte: otto occorrenze sulle sedici nel poema) l’avverbio della parlata toscana (non fiorentina) u’ (che sta per ‘dove’): i due campioni della Chiesa, Francesco e Domenico, sono appunto venuti nel XIII secolo, il secolo designato con u, “a mantener la barca / di Pietro in alto mar per dritto segno” (da notare l’accostamento di “in ultimo labiorum” con “l’ultima parola” dell’Aquinate a Par. XII, 1).
Al cielo del Sole succede quello di Marte, nel quale Dante vede una croce greca (“il venerabil segno / che fan giunture di quadranti in tondo”), che designa “chi prende sua croce e segue Cristo” (Par. XIV, 100-108): dalla croce trascorre in giù Cacciaguida, il quale profetizza a Dante l’esilio che, datato al 1302, si colloca nel XIV secolo, del quale fa segno x.
Poi, nel cielo di Giove, i lumi volano cantando e formando dapprima le lettere D, I, L, l’inizio di trentacinque fra vocali e consonanti che successivamente si precisano nella scritta “Diligite iustitiam, qui iudicatis terram” (Sap 1, 1), ma che sono anche le prime tre lettere della parola “dilatatio” (Par. XVIII, 76-78). Le lettere, insieme ad altre luci, si trasformano nella figura di un’aquila nel cui occhio rifulgono David come pupilla, circondato dalle luci di Traiano, Ezechia, Costantino, Guglielmo II il Buono e Rifeo troiano. Gentili (Rifeo, Traiano), e Israele antico (David, Ezechia) e nuovo (Costantino, Guglielmo II).
■ La grande guerra che, nel sesto stato, vedrà affrontati gli eserciti di Cristo e dell’Anticristo sarà combattuta da entrambi nel segno della croce, vera o falsa. Una falsa croce si può ricavare dal nome stesso dell’Anticristo. In greco i numeri si indicano per mezzo delle lettere dell’alfabeto. Il “numero di un nome” è il totale delle lettere. Esistono solo tre nomi greci corrispondenti al DCLXVI, il “numero del nome della bestia” di cui ad Ap 13, 18: Antemos (“contrarius”), Arnoyme, Teitan. Il nome latino è “diclvx”, scomponendo il numero della bestia in sei numeri corrispondenti a lettere e spostandone le posizioni: D (cinquecento), I (uno), C (cento), L (cinquanta), V (cinque), X (dieci).
Olivi osserva che se a “diclvx” si aggiungono due lettere – or – si ottengono due espressioni, cioè “dicor lvx” e “doli crvx”. Rinvia quindi per ulteriori chiarimenti a una delle sue Quaestiones de perfectione evangelica. La quaestio riguarda la possibilità che nella professione di povertà evangelica e apostolica si possa lecitamente vivere dei possessi e dei redditi affidati dal papa o dai principi temporali a dei procuratori, in modo che a coloro che hanno fatto voto di povertà non spetti né la proprietà né il diritto d’uso ma solo il semplice uso connesso alla sussistenza quotidiana. Olivi si scaglia con veemenza contro questa posizione, ritenendola dolosa e fallace, identificabile con l’esistenza dello stesso Anticristo mistico, che precede quello aperto. Spiega così che dal numero della bestia si può trarre il falso nome “dicor lux”, che indica l’ipocrito presentarsi dell’Anticristo come luce del mondo, e insieme il vero nome “doli crux”, cioè croce dolosa. Le due lettere non numerali aggiunte – o e r – hanno anch’esse un significato, falso e ipocrita (“omnium resurrectio”, “omnium reparatio”), oppure verace (“omnium ruina”, “omnium retrogradatatio”, “omnium rabies”). Un ulteriore significato di or è “aurum”, nel senso in cui Pietro dichiarò di non averne e Cristo proibì di possederne (cfr. Inf. XIX, 88-96: al v. 90 l’allitterazione “Deh, or mi dì: quanto tesoro volle”) e “oro od argento” al v. 95, che rinvia ad Atti degli Apostoli 3, 6 citato nella quaestio oliviana.
Da notare che le tre lettere D, I, L sono congiunte nei versi con l’avverbio or (“omnium resurrectio”, secondo un’interpretazione di Olivi) e che esse, nel loro successivo volare, sono “come augelli surti di rivera”, al modo con cui “resurger parver quindi più di mille / luci e salir” a formare l’Aquila (vv. 73, 103-108).
Tab. XVIII.4
Inf. XXIX, 7-9Tu non hai fatto sì a l’altre bolge;
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Purg. XXII, 145-148E le Romane antiche, per lor bere,
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[LSA, cap. XX, Ap 20, 2-3 (VIIa visio)] Ioachim vero, in libro de seminibus scripturarum*, dicit quod sicut secundum viginti duas litteras Hebreorum fuerunt viginti duo centenarii annorum ab Heber, in quo divisis linguis remansit lingua hebrea, usque ad Christum, sic secundum viginti tres litteras Latinorum erunt viginti tria centenaria annorum a constructione urbis Rome, in qua est principalis sedes Latinorum et ecclesie Christi. Et inter cetera sumit hoc mistice ex Danielis VIII°, ubi dicit angelus: “Usque ad vesperam et mane, die<s> duo milia trecent<i>, et mundabitur sanctuarium” (Dn 8, 14). Sumendo enim diem pro anno, sunt viginti tria centenaria annorum. Tempore autem Danielis fluxerant centum anni urbis Rome, unde Daniel erat tunc in secundo centenario eius designato per b. Primus autem centenarius cepit circa tempus captivationis decem tribuum, per quam cepit Dei sanctuarium conculcari. Quamvis secundum litteram per hoc designentur sex anni et menses tres et dies viginti qui et fluxerunt ab ingressu Antiochi in Iherusalem usque ad mundationem templi factam a Iuda Machabeo, sic tamen quod terminentur in CXLIX° anno regni Grecorum, in quo obiit Antiochus, prout dicitur I° Machabeorum VI° (1 Mc 6, 16). Nam aliter non sunt ibi etiam sex anni completi. Nam CXLIII° anno ascendit Antiochus in Iherusalem, prout dicitur I° Machabeorum I° (1 Mc 1, 21), et CXLV°, XXVa die mensis casleu, id est nostri decembris, edificavit abhominandum idolum super altare Dei (1 Mc 1, 57.62). Deinde post tres annos, id est anno CXLVIII°, eadem XXVa die mensis casleu, mundavit Iudas sanctuarium, prout dicitur I° Machabeorum IIII° (1 Mc 4, 52-59).
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Purg. XVI, 64-66Alto sospir, che duolo strinse in “uhi!”,
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Par. IX, 139-142Ma Uaticano e l’altre parti elette
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[LSA, cap. XIII, Ap 13, 18 (IVa visio, VIum prelium)] In quadam vero questione de paupertate evangelica posui duo nomina latina, scilicet ‘dicor lux’ et ‘doli crux’, in quibus ultra litteras numerales est una sillaba duarum litterarum, scilicet ‘or’: que quid significet ibidem exposui.[LSA, cap. XX, Ap 20, 2-3 (VIIa visio)] Nos autem sumus in XX° centenario urbis Rome et in XIII° Christi designato secundum eum per u, quod in ultimo labiorum quasi aspirando profertur, unde et secundum eum designat quod in fine huius centenarii carnalis ecclesia seu Babilon expirabit, ut in sequenti centenario designato per x litteram, que habet formam crucis et fuit per Cesarem Augustum circa Christi adventum inventa, renovetur et exaltetur crux Christi, et post hoc sequantur littere a Grecis ad Latinos deducte designantes d i l atationem ecclesie ad Grecos et ad omnes gentes.Par. XVIII, 73, 76-78, 103-104E come augelli surti di rivera ……sì dentro ai lumi sante creature
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Quaestio de possessionibus procuratoribus com-missis pro fratrum necessitatibus (XVI «quaestio de perfectione evangelica»), ed. D. Burr – D. Flood, Peter Olivi: On Poverty and Revenue, in “Franciscan Studies”, 40 (1980) pp. 18-58: 34, 37-38: «Quaeritur an professio paupertatis evangelicae et apostolicae possit licite ad talem modum vivendi reduci quod amodo sufficienter vivat de possessionibus et reditibus a papa vel mundanis principibus certis procuratoribus commissis qui vice et auctoritate papae vel principum eas teneant ita quod nec dominium nec ius utendi nec usus ipsarum possessionum ad professores evangelicos spectet nisi solum simplex usus eius quod inde de facto pro victu cotidiano recipiunt. […] Respondeo quod modus praefatus est omni dolo et fallacia plenus et nisi fallar ipse est ille de quo sanctus pater Franciscus suis sociis in revelatione prophetica est locutus. Et ad istum modum sub miranda astutia introducendum in orbem inimicus homo longo iam tempore semina zizaniorum bono semini superseminavit dormi-tantibus in idipsum servis evangelici status (Mt 13, 25). Iste enim modus sub miro dolo omnes radices et fructus evangelicae paupertatis enervat. Et in summa fallacia divitiis abutitur divitiarumque statum exaltat et Christi consilia ad interitum ducit. Et in mira fraude mutat tempora et leges evangelici status. Et est ut aestimo praecursor novissimi Antichristi existens et ipse mystice Antichristus. Propter quod numerus et nomen bestiae merito competit sibi (Ap 13, 18), ut scilicet vere nominetur DOLI CRUX, falso vero et hypocritaliter DICOR LUX. In utroque enim praedictorum nominum litterae numerales si-gnificant DCLXVI. Et ultra hoc in quolibet restat syllaba duarum litterarum scilicet OR, seu duae litterae scilicet O et R. Modus enim praefatus hypocritaliter fortasse dicetur OMNIUM RESURRECTIO sive OMNIUM REPARATIO. Vera-citer tamen erit OMNIUM RUINA sive OMNIUM RETROGRADATIO sive OMNIUM RABIES. Quid enim aliud est iste modus nisi crux dolosa, et tamen arroganter dicet se lucem mundi. Ipsaque syllaba supra numerales litteras restans scilicet OR optime apud plures significat AURUM, quod se non habere fatetur Petrus ecclesiae fundamentum quando ait: Argentum et aurum non est mihi (Ac 3, 6). Ipsumque Christus singulariter inhibet quando ait: Nolite possidere aurum (Mt 10, 9)». |
3. Fumo nel Tempio
Il verso “che Dio ancor ne lodo e ne ringrazio” (Inf. VIII, 60) rinvia ai temi della settima tromba (la lode celeste per l’instaurazione e dilatazione del regno della grazia e della gloria dopo la sconfitta dell’Anticristo: Ap 11, 15.17-18), motivi variamente utilizzati altrove, nel passaggio dell’Acheronte o nel cielo del Sole. Si noti la semantica presente nel cielo di Giove (Par. XVIII-XIX), intrecciata con quella che conduce ad Ap 15, 3-4 (parte proemiale della quinta visione). I temi sono variamente appropriati, alla narrazione di Dante o al parlare dell’Aquila. L’espressione “Per esser giusto e pio” (XIX, 13), con la quale l’Aquila dichiara di seguire le due vie di Dio, la giustizia e la misericordia, fa riferimento all’esegesi di Ap 15, 2-4, i cui temi sono variati in altri luoghi del poema. Con le parole ai v. 40-42 – “Colui che volse il sesto / a lo stremo del mondo, e dentro ad esso / distinse tanto occulto e manifesto” – e ai vv. 107-108 – “che saranno in giudicio assai men prope / a lui”, il “benedetto rostro” recita con variazioni l’esegesi dell’angelo che ad Ap 14, 7 invita ad adorare Dio che ha creato il cielo e la terra (“intendit mundi extrema”) e le fonti delle acque (“ut monstret quod non solum maxima sed etiam minima creavit”, secondo l’interpretazione di Riccardo di San Vittore) e dichiara prossimo il giudizio (“imminens vicinitas et quasi presentialitas iudicii eius … per maiorem et evidentiorem propinquitatem ipsius”).
Per le lettere D, I, L (iniziali, oltre che del primo versetto del libro della Sapienza, di dilatationes, cioè della conversione universale a Cristo), formate dai lumi degli spiriti giusti (Par. XVIII, 78), il riferimento è anche ad Ap 20, 3.
Tab. XVIII.5
[LSA, cap. XI, Ap 11, 15.17-18 (IIIa visio, VIIa tuba)] “Et septimus angelus tuba cecinit” (Ap 11, 15), id est septimus et ultimus status ecclesie manifestari cepit. “Et facte sunt voces magne in celo dicentes: Factum est regnum huius mundi Domini nostri et Christi eius”, id est, secundum Ricardum, exhibende sunt Deo laudes “in celo”, id est in celesti ecclesia, de iustorum salvatione et impiorum dampnatione*, et de regni Christi et Patris eius super totum orbem d i l atatione et manifestatione. Licet enim semper realiter regnet super omnes bonos et malos, non tamen hoc semper omnibus innotescit, nec in bonis consumabitur regnum gratie et glorie usque ad septimum statum. Qui, ut sepe tactum est, est uno modo idem quod consumatio orbis et specialiter electorum in extremo iudicio introducenda; alio vero modo est idem quod quedam mira et finalis sabatizatio electorum in vita ista, exterminatis de medio omnibus heresibus et scismatibus et hostilibus impugnationibus populi Dei, prout tamen competit huic vite. Et secundum hoc omnia hic scripta referuntur uno modo ad istud, et alio consumationis modo ad primum.
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Par. XVIII, 76-78, 115-129sì dentro ai lumi sante creature
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Par. XIX, 13-15, 34-39, 103-105E cominciò: “Per esser giusto e pio
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[LSA, cap. XV, Ap 15, 2-4 (Va visio, radix)] Unde subditur: “(Ap 15, 2) Habentes citharas Dei (Ap 15, 3) et cantantes canticum Moysi servi Dei et canticum Agni”. Canticum utriusque in hoc convenit, quod uterque cantavit de pia liberatione electorum et de terribili submersione seu perditione hostium. Differunt autem in hoc, quod canticum Moysi fuit sicut servi, cuius est timere Dominum terribilem in iudiciis; canticum vero Agni fuit vere filii mitissimi, cuius est filialiter amare patrem et consequi eius hereditatem. Ergo isti cantant simul canticum timoris ut servi et amoris ut filii, et hoc ipsum patet ex materia cantici eorum, unde subditur: “dicentes: Magna”, scilicet in se, “et mirabilia”, scilicet contemplantibus, “sunt opera tua, Domine Deus omnipotens”. Pro operibus autem seu iudiciis iustitie, subdunt: “Iuste et vere vie tue”, id est opera tua, “rex seculorum. (Ap 15, 4) Quis non timebit te, Domine, et magnificabit nomen tuum?”. Pro operibus vero misericordie, subdunt: “Quia solus pius es”, scilicet per se et substantialiter et summe; “quoniam omnes gentes venient”, scilicet ad te tamquam a te misericorditer vocate et tracte, “et adorabunt in conspectu tuo, quoniam iudicia tua manifesta sunt”, scilicet per evidentes effectus perditionis Antichristi et suorum et salvationis electorum. |
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Nella parte proemiale della quinta visione, relativa al versamento delle sette coppe, Giovanni scrive: “Dopo ciò vidi, ed ecco fu aperto in cielo il Tempio del tabernacolo della Testimonianza; da esso uscirono sette angeli che tenevano sette piaghe” (Ap 15, 5-6). Si parla di “Tempio del tabernacolo” con riferimento a quello che accompagnava gli Ebrei nel deserto verso la terra promessa, figura della Chiesa militante in cammino verso la patria celeste; esso viene contemplato “in cielo”.
Ai sette angeli viene conferita la potestà giudiziaria vendicatrice, designata dalle coppe ripiene dell’ira di Dio vivente nei secoli dei secoli (Ap 15, 7): «Dicit autem “Dei viventis” et cetera, quia sicut morituri est iudicari et occidi, ita viventis est exercere vindictam et viventis in eternum est exercere eternam».
Il Tempio, cioè la Chiesa dei contemplativi, si riempie di fumo (Ap 15, 8), per l’ira che oscura e amareggia non solo i rei, ma anche quanti sono zelanti contro di essi. Afferma Gregorio Magno nei Moralia, che l’ira per vizio acceca l’occhio della mente; negli zelanti provoca turbamento in quanto dissipa la quiete del cuore necessaria alla contemplazione, ma poi dalla temporanea cecità si torna più sottilmente alla vista di cose alte, come il collirio in un occhio infermo rende più chiara la vista dopo averla momentaneamente interrotta.
Il motivo del fumo che oscura si trova anche ad Ap 9, 1-2 (terza visione, quinta tromba), dove si dice: “E salì dal pozzo un fumo come il fumo di una grande fornace” (Ap 9, 2). Il grave e grosso fumo che esce dal pozzo punge e confonde gli occhi di chi guarda e diffama e oscura presso fedeli e infedeli la solare chiarezza della fede, della Chiesa e della religione che conduce al culto di Cristo vero sole, come l’aere perspicuo permette alla nostra facoltà visiva di raggiungere il sole e ai raggi del sole di pervenire all’occhio. Così molti prelati, secolari e regolari, che prima apparivano quasi come il sole, e molti spirituali, che prima erano quasi come l’aere puro illuminato dal sole, si corrompono e si fanno neri per il fumo causato da tanta rilassatezza. Poiché il male commesso dai prelati viene preso a esempio dai sottoposti che li seguono come capi e guide, il gregge dei sudditi, sempre incline al male, vedendo i prelati precipitare a poco a poco nei vizi, in assenza di correzione o punizione da parte dei superiori negligenti e anzi favorevoli ad aprire il pozzo dei cuori, scivola anch’esso e infine precipita.
Ad Ap 15, 8 si afferma che “nessuno potrà entrare nel Tempio finché non saranno consumate le sette piaghe dei sette angeli”, cioè, secondo un’interpretazione, non si potrà entrare nella serena pace dell’arcana contemplazione fino al compimento delle sette piaghe. Viene poi detto (ad Ap 16, 1) che gli angeli che versano le coppe operano per comando di Dio, da lui ispirati, e muovono come ministri del giudizio divino, non per propria volontà o animosità ma per beneplacito e mandato altrui.
I temi sopra indicati – l’ira, la giusta vendetta di chi vive in eterno, il Tempio della celeste contemplazione e la sua milizia, il fumo che oscura il raggio a causa del cattivo esempio – percorrono, come cellule musicali variate e diversamente appropriate, i versi relativi all’invocazione del poeta alla “dolce stella” di Giove, dalla quale discende ogni giustizia (Par. XVIII, 115-136).
Il sarcasmo è veemente nei confronti di Giovanni XXII, il pontefice regnante al momento della stesura dei versi: “Ma tu che sol per cancellare scrivi, / pensa che Pietro e Paulo, che moriro / per la vigna che guasti, ancor son vivi” (vv. 130-132). Chi cancella e scrive è Dio, nel libro della vita, officio degradato nel mercimonio di atti sacri operato dal Caorsino (Ap 3, 5). Costui guasta la vigna come il cinghiale della selva, al quale viene assimilato Exterminans, il re delle subdole locuste (Ap 9, 11). Ma Pietro e Paolo, che per quella vigna furono martirizzati, “ancor son vivi”, per la vendetta eterna di chi vive in eterno (Ap 15, 7).
Il sarcasmo si suggella nei versi finali del canto: «Ben puoi tu dire: “I’ ho fermo ’l disiro / sì a colui che volle viver solo / e che per salti fu tratto al martiro, / ch’io non conosco il pescator né Polo”» (vv. 133-136). È proprio dei martiri il firmamento della pazienza e della costanza per cui i desideri della vita superna vengono divisi dai desideri della vita terrena come, nel secondo giorno della creazione, le acque superiori furono separate da quelle inferiori (prologo, Notabile XIII). Giovanni XXII, al contrario, ha come firmamento non Pietro e Paolo, che non vollero oro o argento, ma l’immagine di Giovanni Battista impressa sul fiorino.
Se il giusto zelo dei santi turba la contemplazione (tema del fumo dentro al Tempio, che ne impedisce l’ingresso, da Ap 15, 8), la giustizia sempiterna, come afferma l’Aquila nel cielo di Giove, è lume che “vien dal sereno che non si turba mai” (Par. XIX, 64-65). È un giudizio non comprensibile ai mortali, continua l’Aquila, “quali / son le mie note a te, che non le ’ntendi” (vv. 97-99), secondo l’interpretazione data da Riccardo di San Vittore del non poter entrare nel Tempio: “Vel, secundum eundem, nemo potest usque tunc intrare quia nec sancti possunt in hac vita perfecte cognoscere occulta iudiciorum Dei”. Tema ribadito nel canto seguente, dove la benedetta immagine, contesta di tanti beati, parla della predestinazione e ammonisce i mortali a essere prudenti nel giudicare, “ché noi, che Dio vedemo, / non conosciamo ancor tutti li eletti”, ma questo limite è dolce “perché il ben nostro in questo ben s’affina (motivo connesso al principale tema, taciuto in paradiso, delle piaghe che purgano e colano gli eletti alla stregua dell’oro e dell’argento), / che quel che vole Iddio, e noi volemo”, come i ministri che versano le coppe sulla terra operano non per propria volontà ma per mandato divino (Par. XX, 133-138). Le parole dell’Aquila sono di affinamento per Dante stesso, “soave medicina” che rendono “chiara la mia corta vista” (vv. 139-141: tema dell’occhio che non entra nel chiaro vedere fino a che non sia stato purgato o sanato da colliri o altre medicine).
Tab. XVIII.6
[LSA, cap. XV, Ap 15, 5-8 – 16, 1 (Va visio, radicalia)] Secundum radicale est processiva dispositio predictorum sanctorum ad zelum iuste punitionis malorum, unde subdit: “(Ap 15, 5) Et post hec vidi, et ecce apertum est templum tabernaculi testimonii in celo, (Ap 15, 6) et exierunt septem angeli habentes septem plagas de templo”. Supradicta contemplatio et iubilatoria laus sanctorum habitat in hoc templo. “Templum” enim dicit sacrum locum divine laudi et cultui specialiter dedicatum in quo soli sacerdoti intrabant, et ideo eius interiora erant ceteris quasi absconsa et clausa, et ideo designat archanum deitatis et humanitatis Christi et sue sapientie et ecclesie in quod per contemplationem intratur. Diciturque “templum tabernaculi”, quia per peregrinationem et militiam perducit ad patriam, et quia in se manentes reddit seu exigit huius mundi peregrinos ad patriam suspirantes et pro ipsa contra temptamenta huius seculi militantes. Dicitur etiam “testimonii”, quia ibi Deus testatur sanctis suam voluntatem et veritatem. Dicitur etiam esse “in celo” per celestem contemplationem et conversationem. Tunc autem est “apertum” ad procedendum ad exteriora iudicanda et gubernanda, quando sancti contemplativi prius in ipso ab exterioribus absconsi et clausi dirigunt suos aspectus et actus ad iudicia exteriora.Qui quidem habent “septem plagas”, quia ardenti zelo domus Dei contra mala vehementer plagantur et cruciantur in corde, iuxta illud Psalmi (Ps 68, 10): “Zelus domus tue comedit me”, et etiam quia per eundem zelum sunt parati et prompti ad faciendam vindictam in nationibus et increpationes in populis. […]
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Par. XVIII, 115-136O dolce stella, quali e quante gemme
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Par. XIX, 58-69, 97-99; XX, 133-141“Però ne la giustizia sempiterna
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[LSA, cap. IX, Ap 9, 1-2 (IIIa visio, Va tuba)] […] Fuit autem prelatis in predicta gradatim ruentibus data seu permissa potestas aperiendi puteum cordium ad concipiendum et effundendum mala predicta, tum quia malum quod a prelatis geritur facile trahitur a subditis in exemplum et sequuntur ipsum ut caput et ducem, tum quia prelatis non solum dissimulantibus et negligentibus mala subditorum corripere et punire sed etiam favorem prebentibus hiis qui peccant, grex subditorum de se pronus ad malum cito labitur et tandem precipitatur; tum quia ob huiusmodi culpam prelatorum Deus permisit subditos temptari et a demonibus instigari et tandem ruere.
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I temi esegetici variati nei canti dell’Aquila, che si mostra nel cielo di Giove, hanno già segnato nel cielo di Mercurio il parlare di Giustiniano, ispirato dal “sacrosanto segno”. “Poi, presso al tempo che tutto ’l ciel volle / redur lo mondo a suo modo sereno, / Cesare per voler di Roma il tolle” (Par. VI, 55-57). Per predisporre il mondo alla venuta di Cristo era necessario che venisse istituita la monarchia universale. Il riferimento è ancora ad Ap 15, 8, al termine del capitolo che descrive la radice della quinta visione delle coppe, particolarmente riferita al quinto stato e di cui esprime lo zelo. Ivi si afferma che “nessuno potrà entrare nel Tempio finché non saranno consumate le sette piaghe dei sette angeli”, cioè, secondo un’interpretazione, non si potrà entrare nella serena pace dell’arcana contemplazione fino al compimento delle sette piaghe. Viene poi detto (ad Ap 16, 1) che gli angeli che versano la coppa operano per comando di Dio, da lui ispirati, e muovono come ministri del giudizio divino, non per propria volontà o animosità ma per beneplacito e mandato altrui. Così Cesare muove per volontà del popolo romano, cioè della divina provvidenza, come pure la viva giustizia ispira il parlare di Giustiniano. E prima che il mondo sia ricondotto a serenità, cioè alla serena pace dell’arcana contemplazione, si verificano le folgoranti imprese di Cesare (Par. VI, 58-72) e del “baiulo seguente”, ossia di Augusto (vv. 73-78), contro i sudditi ribelli: esse sono descritte in sette terzine (vv. 58-78), corrispondenti alle sette coppe del giudizio divino, al termine delle quali l’ottava terzina (vv. 79-81) accenna al fatto che con Augusto il mondo fu posto “in tanta pace, / che fu serrato a Giano il suo delubro”, chiuso perché, finite le guerre, si entrò nel Tempio della serena pace dell’arcana contemplazione di Dio.
Culmine delle imprese dell’Aquila fu la passione di Cristo, avvenuta allorché il “sacrosanto segno” si trovava in mano al “terzo Cesare”, cioè a Tiberio, ed è impresa che oscura le precedenti se ivi “si mira / con occhio chiaro e con affetto puro” (Par. VI, 82-87): riferimento ancora ad Ap 15, 8, dove si afferma che l’ingresso nella chiara visione contemplativa non può verificarsi prima che l’occhio sia stato purgato dal collirio in esso versato dalle sette coppe. Poiché Cristo per la redenzione del genere umano patì la pena inflitta ad opera di un legittimo giudice romano, al segno dell’Aquila fu concessa la “gloria di far vendetta a la sua ira” (vv. 88-90): in questa terzina sono ancora reperibili temi provenienti dalla radice della quinta visione delle coppe, nel conferimento ai sette angeli della potestà giudiziaria vendicatrice, designata dalle coppe ripiene dell’ira di Dio vivente nei secoli dei secoli (Ap 15, 7): «Dicit autem “Dei viventis” et cetera, quia sicut morituri est iudicari et occidi, ita viventis est exercere vindictam et viventis in eternum est exercere eternam».
Poi, cosa mirabile, lo stesso Impero punì la morte di Cristo allorché “con Tito a far vendetta corse / de la vendetta del peccato antico” (vv. 91-93): come affermato nel Notabile XI del prologo, la distruzione di Gerusalemme e della Sinagoga ad opera di Tito (che opera nel secondo stato, dei martiri) prefigura il terremoto che accompagnerà, nel sesto stato della Chiesa, la distruzione della nuova Babilonia.
Il Tempio, cioè la comprensione spirituale della Scrittura, viene progressivamente aperto. Molte sono infatti le illuminazioni che segnano la storia della Chiesa. La possibilità che alcuni santi possano comunque entrare nel Tempio, al termine dei gradi di purgazione, senza aspettare temporalmente il settimo tempo della Chiesa, perché questo è in essi virtualmente o spiritualmente compiuto come se avessero raggiunto il tempo e le opere del settimo stato, è appropriata a Dante, al quale Virgilio dice sulla soglia dell’Eden: “Non aspettar mio dir più né mio cenno; / libero, dritto e sano è tuo arbitrio”, ormai compiutamente signore di sé stesso (Purg. XXVII, 139-142; cfr. XXVIII, 4). Per lui l’Apocalisse è consumata.
Tab. XVIII.6bis
[LSA, cap. XV, Ap 15, 7-16, 1 (radix Ve visionis)]Tertium radicale est collatio potestatis iudiciarie et iniunctio officii eius cum pleniori influxu et effluxu zeli iudiciarii, unde subditur: “Et unum ex quattuor animalibus dedit septem angelis septem phialas aureas plenas iracundia Dei viventis in secula seculorum”. […] Per “phialas” autem designatur hic mensurata potestas et equitas iudicii exercendi, que sunt “auree” per fulgorem sapientie et caritatis, suntque “plene iracundi<a> Dei”, id est zelo severo et efficaci ad corripiendum omnia per eos corripienda. Dicit autem “Dei viventis” et cetera, quia sicut morituri est iudicari et occidi, ita viventis est exercere vindictam et viventis in eternum est exercere eternam.
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Inf. XXVI, 55-57, 136-142Rispuose a me: “Là dentro si martira
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Par. VI, 55-57, 79-93Poi, presso al tempo che tutto ’l ciel volle
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XIX
1. Due ali, due soli. 2. Un’operazione dell’intera umanità. 3. I libri aperti. 3.1. Il libro segnato da sette sigilli. 3.2. Il libro della vita. 4. La bestia che è ottava e insieme settima. |
Legenda [3]: numero dei versi; 12, 14: collegamento ipertestuale all’esegesi, nella Lectura di Olivi, di capitolo e versetto dell’Apocalisse [Ap]; Not. XII: collegamento all’esegesi contenuta nei tredici notabilia del prologo della Lectura. Varianti rispetto al testo del Petrocchi. |
Parea dinanzi a me con l’ali aperte 12, 14
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1. Due ali, due soli
In Olivi’s historical perspective, appropriately updated by Dante, the Empire finds an autonomous place. The woman (the Church), who fled into the desert of the Gentiles from the dragon (Jewish harshness) that wanted to devour her son, is given two wings of a great eagle (Rev 12:14; fourth vision), interpreted as the third period (status) of doctors (who refute heresies with reason and the sword and lay down the law) and the fourth of anchorites or contemplatives (they have a holy and divine life based on affection, devoted to the eucharistic pastus). Their prerogatives – these are two competing (concurrentes) periods in the history of the Church, distinct from each other, both of solar wisdom (Rev 8:12) – can be assimilated to the Empire and the Papacy, the sword and the pastoral staff.
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■Nella prospettiva storica oliviana, da Dante adeguatamente aggiornata, l’Impero trova un luogo autonomo. Alla donna (la Chiesa), fuggita nel deserto dei Gentili dal drago (la durezza giudaica) che voleva divorarle il figlio, vengono date due ali di una grande aquila (Ap 12, 14; quarta visione), interpretate come il terzo stato dei dottori (che confutano le eresie con la ragione e la spada e danno le leggi) e il quarto degli anacoreti (dalla santa e divina vita fondata sull’affetto, dedita al devoto pasto eucaristico). Alle loro prerogative – si tratta di due periodi della storia della Chiesa concorrenti, entrambi di solare sapienza (Ap 8, 12) – possono venire assimilati Impero e Papato, spada e pastorale.
Il periodo storico rimpianto da Marco Lombardo (Purg. XVI, 106-114), in cui il “pasturale” (il potere spirituale) non aveva spento e congiunto a sé la “spada” (il potere temporale), corrisponde alla concorrenza nel tempo dei due distinti periodi sopra indicati, il terzo e il quarto, infiammanti per due diverse strade il meriggio dell’universo (prologo, Notabile X; gli status oliviani sono al tempo stesso epoche storiche e modi di essere, habitus, degli individui o delle istituzioni).
Il motivo, da Ap 12, 14, della donna-aquila signora e regina delle genti nel proprio regno, si mostra nelle parole con cui san Bernardo invita Dante a guardare i cerchi di troni della rosa celeste – un “giardino” – “infino al più remoto, / tanto che veggi seder la regina / cui questo regno è suddito e devoto” (Par. XXXI, 97, 100, 115-117). Riaffiora, frammentato e diversamente appropriato, nella preghiera che lo stesso Bernardo rivolge alla regina del cielo: «“Et date sunt mulieri due ale aquile magne” … tamquam gentium domina et regina magnifice volavit – Donna, se’ tanto grande e tanto vali, / che qual vuol grazia e a te non ricorre, / sua disïanza vuol volar sanz’ ali … in te magnificenza … Ancor ti priego, regina, che puoi / ciò che tu vuoli …» (Par. XXXIII, 13-15, 20, 34-35).
Due sono le ali dell’Aquila (Par. XIX, 1); all’estremo opposto, due sono le ali di Lucifero (Inf. XXXIV, 46, 72); due sono i soli, quello mondano e un altro aggiunto, che al poeta pare di vedere ascendendo al cielo (Par. I, 61-63); due sono i fiumi, Lete e Eunoè, che nell’Eden sgorgano da un’unica sorgente; due le rive del fiume luminoso nell’Empireo.
Il capitolo XXII dell’Apocalisse si apre con la visione del nobilissimo fiume che scorre nel mezzo della Gerusalemme celeste. È lo stesso Spirito Santo, ovvero la gloria che da Dio affluisce sui beati: fiume di acqua viva, o di vita eterna, da cui deriva tutta la sostanza della Trinità. Fiume di splendore e luce per sapienza, che ha due rive o due parti (destra e sinistra, superiore e inferiore), designanti le due nature, divina e umana, di Cristo-lignum vite che dà perpetui frutti. Il lignum vite, l’albero che sta nel mezzo, con le sue foglie getta un’ombra sacramentale, di verità superiori, su entrambe le rive, l’umana e la divina, perché non solo il cielo, ma anche la terra è ripiena della gloria di Dio.
L’esegesi di Ap 22, 1-2 offre una ricchezza tematica riaffiorante in numerosi luoghi della Commedia. Essa conduce ai due fiumi dell’Eden (il Lete e l’Eunoè) che si dipartono da un’unica fontana. Non sono solo i due fiumi dell’Eden ad essere fasciati dalla sacra pagina e dalla sua esposizione. Perfino Beatrice vi partecipa. Anche la donna ha due bellezze, gli occhi e la bocca. Alla prima si perviene con le virtù cardinali (le quali lì accompagnano Dante), ma si guarda nel suo profondo solo con le virtù teologali e per preghiera di queste, congiunta con la grazia gratuitamente data, si ottiene la seconda bellezza. Nel suo svelarsi, Beatrice è “isplendor di viva luce etterna” che sta fra cielo e terra, “là dove armonizzando il ciel t’adombra”. Per lei non si parla di ‘fiume’ o di ‘acqua’, ma la donna assume alcune fondamentali prerogative di Cristo centro della Gerusalemme celeste, della sua irrigazione e dunque della storia umana (Purg. XXXI, 139-145).
I due fiumi dell’Eden sono figura in terra dell’unico luminoso fiume dell’Empireo: “fulvido di fulgore, intra due rive / dipinte di mirabil primavera”, dal quale escono “faville vive”, è “onda / che si deriva” da Dio; ma il fiume, le faville (“li topazi / ch’entrano ed escono”) e il verdeggiante “rider de l’erbe” sono “umbriferi prefazi”, cioè ombra sacramentale del vero, adombranti il primo una forma circolare e non lineare, le seconde gli angeli, il terzo i beati (Par. XXX, 61 sgg.).
Nel “poema sacro / al quale ha posto mano e cielo e terra” (Par. XXV, 1-2; cfr. il giurare dell’angelo ad Ap 10, 5-7), sull’esegesi del fiume di una città immateriale, perché tale è la Gerusalemme celeste, Dante poteva rispecchiare quanto la sua mente aveva elaborato sulle due beatitudini, poste come fini all’uomo dalla Provvidenza: la beatitudine di questa vita (raffigurata nel paradiso terrestre), alla quale si perviene sotto il regime dell’Imperatore, attraverso la filosofia e la pratica delle virtù morali e intellettuali; la beatitudine della vita eterna (consistente nella visione di Dio), alla quale si perviene tramite le virtù teologali e sotto la guida del romano pontefice (cfr. Monarchia, III, xv, 7-10). Entrambe le beatitudini, come le loro guide, discendono senza intermediari dall’unico Fonte dell’universale autorità (xv, 15). Corrispondono alle due rive, umana e divina, dell’unico fiume della grazia e della gloria, all’umanità e alla divinità di Cristo. Beatrice, figura di Cristo, è nell’Eden cerniera: gli occhi partecipano sia dell’una come dell’altra, la bocca svelata adombra la visione di Dio.
Non a caso l’ombra sacramentale di verità superiori (Ap 22, 2) si riverbera sia sull’“ombra de le sacre penne” dell’aquila imperiale, di cui dice Giustiniano (Par. VI, 7) come sull’“ombra de le sacre bende” proprie della vita religiosa ed evangelica di cui parla Piccarda (Par. III, 114), cioè sul voto come spiegato da Beatrice in Par. V, ombre che designano i due fini di beatitudine assegnati all’uomo dalla Provvidenza. Le “penne” corrispondono all’intellettualistica dottrina d’amore esposta da Virgilio a Par. XVIII, 40-75; le “bende” alla volontà di cui parla Beatrice a Par. V, 19-24 portando a compimento l’esposizione di Virgilio, secondo quando afferma l’antico poeta: “Quanto ragion qui vede, / dir ti poss’ io; da indi in là t’aspetta / pur a Beatrice, ch’è opra di fede” (Purg. XVIII, 46-48).
La storia di Roma è la manifestazione dei segni di Dio, che attuano in terra la sua volontà: “divina voluntas per signa querenda est” (Monarchia II, ii, 8). Questi segni, nelle parole di Giustiniano in Par. VI, ispirate dal “sacrosanto segno” dell’Aquila “che fé i Romani al mondo reverendi”, sono modulati con un andamento settenario, quello proprio dei futuri sette stati o periodi della Chiesa e degli eventi in essi verificatisi secondo la Lectura super Apocalipsim, per cui quanto anticamente avvenuto prima di Cristo si mostra come sacra prefigurazione della nuova storia, che è insieme dell’Impero e della Chiesa.
■ A conclusione della Monarchia (III, xv, 18), Dante parla della reverenza che Cesare deve a Pietro come quella del figlio primogenito verso il padre. La controversa espressione – “ut romanus Princeps in aliquo romano Pontifici non subiaceat” (xv, 17) -, alla quale è speculare il parlare di Giustiniano in Par. VI, 84 – “per lo regno mortal ch’a lui soggiace” -, non denota soggezione politica dell’uno all’altro, ma tensione della parte mortale verso ciò che è immortale, “mentre che ’l nostro immortale col mortale è mischiato” (Convivio, II, viii, 15). Anche Cristo fu soggetto al Padre per la sua mortale umanità, ma non per questo gli fu meno consustanziale ed eguale. Gli angeli lo trascendono rispetto alla sua carne passibile, secondo il Salmo 8, 6 – “Tu l’hai fatto poco minore che li angeli” -, che Dante applica all’uomo, medio tra ciò che è corruttibile e ciò che è incorruttibile, operante in modo quasi divino (cfr. Convivio, IV, xix, 7; Monarchia, I, iv, 2; III, xv, 3-4). Nel momento in cui l’Impero diventa consorte in cielo della Chiesa, discendente dalla medesima fonte, partecipa a pieno titolo non solo dei doni e delle prerogative dello Spirito ma anche dei misteri della Trinità e dell’Incarnazione, cioè dell’eterna generazione del Verbo e del suo farsi carne. Il Figlio che deve reverenza al Padre non è un figlio qualunque, è il Figlio dell’uomo al quale il romano Principe è assimilato [1].
Nella Lectura super Apocalipsim Olivi sottolinea in più luoghi la soggezione del Figlio al Padre, a motivo della sua mortale umanità.
Quell’improprio congiungere a sé il potere temporale da parte del potere spirituale, lamentato da Marco Lombardo, è pertanto eresia assimilabile a quella di Ario, che divise il Figlio dal Padre ritenendolo non consustanziale, a livello di creatura, o, ancor meglio, a quella di Sabellio, che unificò il Padre e il Figlio nella stessa persona (cfr. Ap 2, 12).
Fra umano e divino vi è concordia, pur in apparente contraddizione: così avviene nel Primo Mobile, il luogo dove il tempo ha le sue radici, fra i cerchi corporali e quelli angelici, fra “l’essemplo” e “l’essemplare” i quali “non vanno d’un modo” (cfr. Par. XXVIII, 55-56). La “felicitas civilis” aristotelica, fondata sulle virtù, assume così una veste sacra, pari a quella propria della “felicitas contemplativa”, l’altro fine che la Provvidenza ha proposto all’uomo.
[1] Cfr. G. VINAY, Interpretazione della “Monarchia” di Dante, Firenze 1962, p. 73: “Partito da una proposizione filosofica, inoltratosi tra i rovi di una disputa giuridica e teologica, Dante giunge alla conclusione senza accorgersi di essersi spostato sul piano della pura spiritualità, sul quale soltanto è possibile intendere il senso ultimo della Monarchia”.
Tab. XIX.1
[LSA, prologus, Notabile X] Ideo autem quartus status concurrit eodem tempore cum tertio, quia sicut affectus exigit notitiam intellectus, nec ista notitia est sancta absque sancto affectu, sic affectualis exercitatio et contemplatio anachoritarum et sanctorum illitteratorum eguit preclaro lumine doctorum, nec illud preclarum esse potuit absque precellentia vite. Unde ad mutuum obsequium et ad meridiem universi orbis tunc ad fidem conversi simul clarificandam et inflammandam debuerunt illi duo status concurrere simul. Sicut autem notitia preit amorem, quia non potest amari nisi cognitum, sic status doctorum in hoc libro premittitur ante statum anachoritarum; in quarta tamen visione ostenduntur simul concurrere, ubi dicitur quod “date sunt mulieri due ale aquile magne ut volaret in desertum” (Ap 12, 14). |
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[LSA, Ap 12, 14 (IV visio, III-IV prelium)] Antequam autem hic explicetur qualis fuit hec persecutio, ostendit duplicem virtutem tunc datam ecclesie ad triumphandum de hac gemina persecutione. Unde subdit: “Et date sunt mulieri due ale aquile magne”, id est sublimis sapientia sanctorum doctorum et sublimis vita et caritas sanc-torum anachoritarum et ceterorum regularium illius temporis. Hec enim sunt “due <ale> aquile magne”, id est Christi et sue contemplative ecclesie in apostolis primo fundate. Nonne enim Iohannes vel Paulus fuit aquila magna habens has duas alas? Item potestas imperialis seu temporalis et potestas spiritualis super totum orbem sunt due ale. Licet enim prius secundum rem haberet potestatem spiritualem, non tamen sic evidenter et efficaciter sicut cum imperium romanum fuit sibi famu-latorie et devote subiectum.
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[LSA, Ap 8, 12 (III visio, IV tuba)] Per “solem” videtur hic designari solaris vita et contemplatio summorum anachoritarum, qui fuerunt patres et exempla aliorum, vel solaris sapientia et doc-trina summorum doctorum.
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spada (terzo stato)[LSA, Ap 2, 12 (I visio, III ecclesia)] Hiis autem premittuntur duo, scilicet preceptum de scribendo hec sibi et introductio Christi loquentis, cum subdit: “Hec dicit qui habet rumpheam”, id est spatam, “ex utraque parte acutam”. Hoc congruit ei, quod infra dicit: “pugnabo cum illis in gladio oris mei” (Ap 2, 16). Unde contra doctores pestiferos erronee doctrine et secte ingerit se ut terribilem confutatorem et condempnatorem ipsorum per incisivam doctrinam et condempnativam sententiam oris sui. Dicit autem “ex utraque parte”, non solum quia absque acceptione personarum omnia vitia scindit et resecat vel condempnat, sed etiam quia contrarios errores destruit. Arrius enim, quasi ex uno latere, errat dicendo Dei Filium esse substantialiter diversum a Patre tamquam eius creaturam. Sabellius vero, quasi ab opposito latere, dicit quod eadem persona est Pater et Filius. Fides autem Christi utrumque scindit et resecat. |
pasturale (quarto stato)[LSA, prologus, Notabile III] Patet enim hoc de primo dono. Nam pastoralis cura insistit primo ovium propagationi. Secundo earum defensioni ab imbribus et lupis et consimilibus. Tertio earum directioni seu deductioni ad exteriora. Quarto earum pascuali refectioni. […] Constat autem quod propagatio appropriatur prime plantationi ecclesie sub apostolis, defensio vero militari pugne martirum, directio vero eruditioni doctorum, refectio autem studiose et refective devotioni anachoritarum et sic de aliis.[LSA, prologus, Notabile XIII] Refectio vero eucharistie congruit devotioni anachoritarum.Monarchia, III, xv, 17-18: Que quidem veritas ultime questionis non sic stricte recipienda est, ut romanus Princeps in aliquo romano Pontifici non subiaceat, cum mortalis ista felicitas quodammodo ad inmortalem felicitatem ordinetur. Illa igitur reverentia Cesar utatur ad Petrum qua primogenitus filius debet uti ad patrem: ut luce paterne gratie illustratus virtuosius orbem terre irradiet, cui ab Illo solo prefectus est, qui est omnium spiritualium et temporalium gubernator. |
[LSA, cap. II, Ap 2, 7] Dicit autem “Dei mei” quia Christus in quantum homo minor est Deo Patre, ita quod in quantum homo habet Patrem pro Deo et Domino et etiam totam Trinitatem.
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2. Un’operazione dell’intera umanità
The song of the companions of the Lamb who stand on Mount Zion is a watering, fertile voice, proceeding in harmony and unity from the many virtual affections of a large and numerous college of saints, where it says: “like the voice of many waters”. The voice of a great and abundant rain proceeds from many and almost innumerable drops as a single sound coming from a single player, and the same can be said of the sound of the waters of the sea or a river (Rev 14:2).
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Il capitolo XIV dell’Apocalisse si apre con la descrizione della virtù e della gloria dei santi del sesto stato che hanno vinto le persecuzioni dell’Anticristo e stanno con l’Agnello sul monte Sion. La quarta delle sette prerogative loro attribuite è la magnificenza del cantico di giubilo, la cui voce o suono ha a sua volta sette proprietà (Ap 14, 2).
Il primo modo della voce è lì dove dice: “Poi udii una voce dal cielo” (Ap 14, 2), con il che intende che la voce, ovvero il risuonare del canto, era in eccesso sublime e celeste.
Il secondo modo sta nell’essere questa voce irrigua e feconda e procedente in modo concorde e unito da più affetti virtuali di un grande e numeroso collegio di santi, lì dove dice: “come la voce di molte acque”. La voce di una grande e abbondante pioggia procede infatti da molte e quasi innumerevoli gocce come un solo suono proveniente da un solo suonatore, e lo stesso si può dire del suono delle acque del mare o di un fiume. Suona come irrigando di lacrime che impinguano, lavano e rinfrescano e con sospiri che ruggiscono.
Il terzo modo consiste nell’essere la voce altissima, acutissima, possente al massimo nel suo pervadere e scuotere tutto, per cui soggiunge: “e come la voce di un grande tuono”.
Il tema della “vox aquarum multarum” [1], che nello stesso tempo è “unus sonus” (secondo modo), è appropriato nel cielo di Giove alla bella immagine dell’Aquila, che Dante vede e anche sente parlare (citazione da Ap 8, 13: «“Et vidi et audivi vocem unius aquile volantis per medium celi”. Vidit quidem ipsam aquilam et audivit vocem ipsius. – ch’io vidi e anche udi’ parlar lo rostro»), la quale suona nella voce al singolare («e sonar ne la voce e “io” e “mio”») pur essendo formata da molti amori e dunque al plurale nel pensiero (“quand’ era nel concetto e ‘noi’ e ‘nostro’”), come un solo calore si fa sentire da molti carboni ardenti, come un unico profumo da molti fiori (Par. XIX, 10-12; 19-24). Il tema è ripreso all’inizio del canto successivo, allorché l’Aquila tace e gli spiriti di cui è contesta iniziano a cantare, come il cielo, che di giorno solo del sole si accende, dopo il tramonto torna ad essere visibile per le molte luci delle stelle, nelle quali una sola luce, quella del sole, risplende (Par. XX, 1-12). Poi, cessati gli angelici squilli degli spiriti, è di nuovo l’Aquila a parlare con voce che si forma nella gola ed esce “per lo suo becco in forma di parole, / quali aspettava il core ov’ io le scrissi” (vv. 28-30): scrivere nel cuore il “nome” di Dio trino e uno e del Figlio incarnato è la terza prerogativa dei compagni dell’Agnello, di cui ad Ap 14, 1.
Questa voce una, che procede concordemente da molte voci (“ex magno et multo collegio sanctorum et plurium virtualium affectuum ipsorum procedens et concorditer unita”), formata da più individui che al tempo stesso trascende in quanto una, è un concetto teologico che veste l’immagine dell’Aquila. Ma il procedere dell’Aquila, uno e molteplice, ha un risvolto filosofico in quell’operazione propria dell’intera umanità alla quale i singoli, presi per sé, non possono pervenire, sulla quale Dante stava nel frattempo fondando la Monarchia [2]:
“Est ergo aliqua propria operatio humane universitatis, ad quam ipsa universitas hominum in tanta multitudine ordinatur; ad quam quidem operationem nec homo unus, nec domus una, nec una vicinia, nec una civitas, nec regnum particulare pertingere potest” (I, iii, 4).
Questa operazione attua la più alta potenza dell’umanità, cioè la facoltà intellettiva e su ciò, afferma Dante, concorda Averroè nel commento al De anima di Aristotele (iii, 7-9). È questo esempio di come il rapporto fra la Commedia e la Lectura super Apocalipsim dell’Olivi sia volto alla ricerca di quella universale e superiore concordia in terra fra opposte fazioni cittadine, fra posizioni speculative o teologiche avverse, fra impero e papato sottolineata da Herbert Grundmann [3].
Cantano insieme “ad una voce” il salmo “In exitu Isräel de Aegypto” (Ps 113, 1) le più di cento anime che siedono nella navicella che le porta dalla foce del Tevere alla riva dell’isola del purgatorio, guidata dal “celestial nocchiero, / tal che parea beato per iscripto” (Purg. II, 43-48; il tema della “patens inscriptio et expressio”, da Ap 14, 1, rende preferibile questa lezione a quella del Petrocchi “tal che faria beato pur descripto”).
Il “nome”, con il quale “famosa notitia designatur, que respectu Dei non reputatur nisi sit amativa”, che ad Ap 14, 1 viene scritto nel cuore o sulla fronte, ed è espresso con le parole e con le opere, coincide con la “signatio” sulla fronte di quanti (nello stesso numero, 144.000, dei compagni dell’Agnello sul monte Sion) all’apertura del sesto sigillo (Ap 7, 3-4) vengono assunti alla professione della perfezione evangelica, di una più alta milizia cristiana; il segno comporta una loro maggiore configurazione e trasformazione nella passione di Cristo. Le anime giunte alla spiaggia del purgatorio sono ‘segnate’ dall’angelo nocchiero (“Poi fece il segno lor di santa croce”, Purg. II, 49), si volgono verso Dante e Virgilio alzando la fronte (v. 58). Sono “ben finiti … già spiriti eletti” (Purg. III, 73), dunque amici di Dio.
Ma c’è il caso di chi a Dio non è amico. “Frons vero est suprema pars faciei omnibus patula, et ideo quod est scriptum in fronte omnibus se prima facie offert, ita quod potest statim ab omnibus legi. In fronte etiam signa audacie vel sui oppositi cognoscuntur”. I motivi offerti dall’esegesi si ritrovano, scomposti e diversamente appropriati, nell’opposto atteggiarsi di Farinata (“ed el s’ergea col petto e con la fronte”) e di Cavalcante, che si rivolge a Dante piangendo per poi alla risposta ricadere supino nell’avello, in modo disperato. Anche per costui interviene in parte il tema dell’iscrizione sulla fronte, nel momento in cui, per “le sue parole e ’l modo de la pena”, il poeta riesce subito a ‘leggerne il nome’ senza che questi gli si palesi (Inf. X, 35, 64-65).
Il tema della voce una e molteplice risuona nel Limbo, dove la voce che onora l’altissimo poeta Virgilio onora tutti gli altri che hanno in comune il nome di poeta (Inf. IV, 91-93). Nella “bella scola”, formata da più poeti, uno parla a nome di tutti come avviene con l’Aquila del cielo di Giove, e la voce è quella di Omero, “di quel segnor de l’altissimo canto / che sovra li altri com’ aquila vola” (vv. 94-96; cfr. Ap 8, 13): il terzo modo della voce cantante è appunto di essere altissima, come quella di un tuono (cfr., a Par. XXI, 140-142, il grido con cui gli spiriti contemplanti confermano l’invettiva di Pier Damiani contro i prelati). Il “nome”, che designa l’esser noti per fama, è motivo che appartiene alla terza prerogativa dei santi che stanno con Cristo sul monte Sion, interpretato come “specula” in quanto designa lo stato dei contemplativi (Ap 14, 1).
Il tema della “vox citharedorum citharizantium” da Ap 14, 2, collazionato con il passo simmetrico di Ap 5, 8-9, fornisce motivi al finale di Par. XX (vv. 142-148), lì dove le due luci benedette di Traiano e di Rifeo Troiano accompagnano con il movimento delle proprie fiammette le parole dell’Aquila, “pur come batter d’occhi si concorda”, come il buon citarista si concorda, vibrando le corde, con il buon cantore, “in che più di piacer lo canto acquista”.
[1] Il tema della “voce di molte acque” (vox aquarum multarum) si trova in tre passi (Ap 1, 15; 14, 2; 19, 6) i quali, collazionati, forniscono numerose variazioni nel poema.
[2] Ai versi 19-33 di Par. V, parodia di una quaestio di Olivi, rinvia Monarchia, I, xii, 6.
[3] H. GRUNDMANN, Dante und Joachim von Fiore. Zu Paradiso X-XII, in “Deutsches Dante-Jahrbuch”, 14 (NF 5) 1932, pp. 210-256, ripubblicato in ID., Ausgewählte Aufsätze, 2. Joachim von Fiore, Stuttgart 1977 (Schriften der Monumenta Germaniae Historica. Band 25, 2), pp. 166-210: 193: “Am ehesten scheint mir dafür die von Erich Auerbach geprägte Formel von Dantes Wille zu universaler Konkordanz, zu universaler Einheit zutreffend [E. Auerbach, Dante als Dichter der irdischen Welt, Berlin 1929]. Aber diese Wille geht nicht auf Ausgleich von Gegensätzen in einem Mittelweg. Sondern es ist der Wille und der Glaube und die Sehnsucht, dass sich über allem Streit und Gegensatz der politischen, religiösen, wissenschaftlichen Parteien eine Haltung, eine Gesinnung, eine geistige und politische Bildung und Gestaltung der Menschheit müsse gewinnen lassen, in der alle religiösen und politischen Parteien ihr Recht und alle wissenschaftlichen Richtungen ihre Wahrheit wiederfinden können, ohne wie bisher untereinander in parteiischem Kampfe zu liegen. Damit aber erweist sich Dante gerade hier, wo man seine kirchliche Rechtgläubigkeit glaubte in Frage stellen zu dürfen, als ein im wahren Sinne des Wortes katholischer Geist”.
Tab. XIX.2
[LSA, cap. XIV, Ap 14, 1-2.6-7 (IVa visio)] Tertium est fidei et amoris et contemplationis Dei Patris et Filii humanati in istorum corde et ore singularis et patens inscriptio et expressio, unde subditur: “habentes nomen eius et nomen Patris eius scriptum in frontibus suis” (Ap 14, 1). Per “nomen” famosa notitia designatur, que respectu Dei non reputatur nisi sit amativa. Frons vero est suprema pars faciei omnibus patula, et ideo quod est scriptum in fronte omnibus se prima facie offert, ita quod potest statim ab omnibus legi. In fronte etiam signa audacie vel sui oppositi cognoscuntur. Est ergo sensus quod maiestas Dei trini et Filii humanati sic erat in cordibus istorum impressa et sic per apertam et constantem confessionem oris et operis expressa, quod ab omnibus poterat statim legi et discerni quod ipsi erant de familia Agni et singulares socii eius.
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Purg. II, 43-48Da poppa stava il celestial nocchiero,
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Par. XXI, 139-142Dintorno a questa vennero e fermarsi,
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[LSA, cap. VI, Ap 6, 6 (IIa visio, IIIum sigillum)] Per vocem autem in medio quattuor animalium factam et auditam potest significari resonantia quadruplicis perfectionis Christi secundum quas oportebat formari quattuor ordines perfectorum in ecclesia Christi, ita quod nullis temptationibus aut persecutionibus posset hic impediri. Quis enim diceret quod post tempus apostolorum et martirum, idolatria paganorum destructa, non deberet clarificari et perfici Christi ecclesia in celesti sapientia et vita que in ordine doctorum et anachoritarum singulariter refulserunt? |
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Nella topografia spirituale del Paradiso, il sesto cielo di Giove è anche terzo a partire dal cielo del Sole, dal quale iniziano le “alte rote” (Par. X, 7-27) prive del cono d’ombra gettato dalla terra (IX, 118-119). Corrisponde al terzo stato della Chiesa, proprio dei dottori, per la spiegazione di profonde verità di fede. Sviluppa inoltre il motivo, proprio della sesta chiesa, della “porta aperta” (Ap 3, 8). Aprire la porta significa illuminare e rendere acuto l’intelletto che penetra nell’occulto delle Scritture, e anche dare efficacia spirituale a penetrare nel cuore di chi ascolta: così l’Aquila apre la “latebra” di Dante, così l’occhio di Rifeo Troiano fu da Dio aperto alla futura redenzione.
Nel parlare dell’Aquila si registrano numerosi elementi semantici che fanno segno della tematica del terzo stato, per antonomasia il periodo dell’uomo razionale, del bandire l’alto preconio (Notabile I), del lume della ragione (prologo, Notabile X), del far vedere l’arcano nei sacramenti (Notabile XIII), del discernimento sulla base dell’esperienza (Ap 2, 1), della bilancia che misura le verità di fede o l’errore (terzo sigillo, Ap 6, 5), del valore che si lucra a poco prezzo acquistando la dottrina di Cristo (Ap 5, 1). La terza vittoria è il superamento dell’erronea fantasia che si fonda sui sensi, il premio è il “calculum lucidum”, ci0è Cristo umile quasi un “lapillus” (Ap 2, 17). Le luci che formano l’Aquila sono appunto “lucidi lapilli” (Par. XX, 16-18); vedere e udire parlare “lo rostro” è cosa che “non portò voce mai, né scrisse incostro, / né fu per fantasia già mai compreso” (XIX, 8-9). Il poeta consegue la terza vittoria, cioè ascende al di sopra della fantasia, che muove dalle percezioni sensibili, pervenendo all’“imaginativa”, stimolata da un lume che prende forma nel cielo, o per influsso celeste o perché mandato da Dio (Purg. XVII, 13-18).
Non mancano, nel parlare dell’Aquila, motivi del quarto stato. Le due ali designano due periodi della Chiesa (terzo stato, dei dottori dotati della spada della ragione, e quarto stato, dei contemplativi, devoti al pasto eucaristico), che sono anche istituzioni distinte e concorrenti (potestà temporale e potestà spirituale), le quali per Dante indirizzano alle due beatitudini, terrena e celeste. L’Aquila fa pertanto segno del pasturale, nella similitudine: “Quale sovresso il nido si rigira / poi c’ha pasciuti la cicogna i figli, / e come quel ch’è pasto la rimira” (XIX, 91-93). Il cielo seguente, di Saturno, quarto a partire dal cielo del Sole, dove si manifestano gli spiriti contemplativi, è appunto tessuto in prevalenza con temi del quarto stato.
I “lapilli”, letteralmente, sono le pietre preziose. Le fondamenta della Gerusalemme celeste descritta nella settima visione sono ornate con dodici pietre preziose: diaspro, zaffiro, calcedonio, smeraldo, sardonice, cornalina, crisòlito, berillo, topazio, crisopazio, giacinto, ametista (Ap 21, 19-20). Le proprietà di queste gemme, che sono virtù, vengono variamente distribuite. I beati che formano l’Aquila “parea ciascuna rubinetto in cui / raggio di sole ardesse sì acceso, / che ne’ miei occhi rifrangesse lui” (Par. XIX, 4-6): il riferimento è alla cornalina (“sardius”) e al crisòlito, mentre il rifrangersi del sole rinvia all’esegesi dell’iride ad Ap 4, 3. I “lucidi lapilli” sono cari, cioè preziosi (è da rigettare la variante chiari). L’esegesi apocalittica concorda con Ovidio: “Vos quoque nec caris aures onerate lapillis” (Ars 3, 129).
Tab. XIX.3
[LSA, cap. II, Ap 2, 1] (III) Tertium (exercitium) est discretio prudentie ex temptamentorum experientiis, et exercitiis acquisita providens conferentia et excludens stulta et erronea.[LSA, prologus, Notabile I] (III) Tertius (status) est confessorum seu doctorum, homini rationali appropriatus.[LSA, cap. V, Ap 5, 1 (IIIum sigillum)] (III) Deum autem humanari ac sperni et mori, ut Deomet satisfiat de iniuriis sibi ab alio factis, et ut illos tali pretio redimeret, qui simpliciter erant sub dominio suo et quos per solam potentiam salvare poterat, pretendit summam stultitiam. […] Contra stultitiam vero, est mercationum doctrine Christi lucrosus et incomparabilis valor. Nam pro denario unius et simplicis fidei habetur impretiabile triticum et ordeum et vinum et oleum, prout in tertia apertione monstratur (cfr. Ap 6, 6). (IV) Contra vero inopiam est eiusdem doctrine refectivus et copiosissimus sapor. Sicut enim mercatio sapientie per fidele studium scripturarum refertur ad doctores, et statera dolosi erroris, a recta equilibratione veritatis claudicans, respicit hereticos, sic spiritalis sapor et refectio eiusdem sapientie Christi refertur ad anachoritas, tantam eisdem sufficientiam tribuens ut nichil exterius querere viderentur nec aliquo exteriori egere, propter quod quasi nudi et soli in solitudinibus habitabant spiritalibus divitiis habundantes.[Ap 2, 17; IIIa victoria] Tertia est victoriosus ascensus super phantasmata suorum sensuum, quorum sequela est causa errorum et heresum. Hic autem ascensus fit per prudentiam effugantem illorum nubila et errores ac impetus precipites et temerarios ac tempestuosos. Hoc autem competit doctoribus phantasticos hereticorum errores expugnantibus, quibus et competit premium singularis apprehensionis et degustationis archane sapientie Dei, de quo tertie ecclesie dicitur: “Vincenti dabo manna absconditum, et dabo ei calculum lucidum, et in calculo nomen novum scriptum, quod nemo novit, nisi qui accipit” (Ap 2, 17). […] Calculus autem, id est lapillus parvulus et solidus, pedibus sepe calcatus, est homo Christus pro nobis humiliatus et exinanitus, luce gratie et glorie et deitatis <per>fusus, in quo est nomen novum.[LSA, cap. VI, Ap 6, 5 (IIa visio, apertio IIIii sigilli)] “Et cum aperuisset sigillum tertium, audivi tertium animal” (Ap 6, 5), scilicet quod habebat faciem hominis, “dicens: Veni”, scilicet per maiorem attentionem vel per imitationem fidei doctorum hic per hominem designatorum, “et vide. Et ecce equus niger”, id est hereticorum et precipue arrianorum exercitus astutia fallaci obscurus et erroribus luci Christi contrariis denigratus. “Et qui sedebat super eum”, scilicet imperatores et episcopi arriani, “habebat stateram in manu sua”. Cum statera mensuratur quantitas ponderum, et ideo per stateram designatur hic mensuratio articulorum fidei, que quando fit per rectam et infallibilem regulam Christi et scripturarum suarum est recta statera, de qua Proverbiorum XVI° dicitur: “Pondus et statera iudicia Domini sunt” (Pro 16, 11), et Ecclesiastici XXI°: “Verba prudentium statera ponderabuntur” (Ecli 21, 28); quando vero fit per rationem erroneam et per falsam et intortam acceptionem scripture est statera dolosa, de qua Proverbiorum XI° dicitur: “Statera dolosa abhominatio est apud Deum” (Pro 11, 1), et in Psalmo: “Mendaces filii hominum in stateris” (Ps 61, 10), et Michee VI°: “Numquid iustificabo stateram impiam et sac<c>elli pondera dolosa” (Mic 6, 11). |
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Par. I, 13-15, 88-90, 106-108, 133-135O buono Appollo, a l’ultimo lavoro
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Par. XIX, 40-57, 64-66, 70-75Poi cominciò: “Colui che volse il sesto
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[LSA, prologus, Notabile X] Prout vero status ab invicem per certam propriorum donorum et officiorum preeminentiam ac multitudinis personarum in ipsis concurrentium distinguuntur, sic concurrit tertius cum quarto non quidem in eodem statu sed in eodem tempore. […] Ideo autem quartus status concurrit eodem tempore cum tertio, quia sicut affectus exigit notitiam intellectus, nec ista notitia est sancta absque sancto affectu, sic affectualis exercitatio et contemplatio anachoritarum et sanctorum illitteratorum eguit preclaro lumine doctorum, nec illud preclarum esse potuit absque precellentia vite. Unde ad mutuum obsequium et ad meridiem universi orbis tunc ad fidem conversi simul clarificandam et inflammandam debuerunt illi duo status concurrere simul. Sicut autem notitia preit amorem, quia non potest amari nisi cognitum, sic status doctorum in hoc libro premittitur ante statum anachoritarum; in quarta tamen visione ostenduntur simul concurrere, ubi dicitur quod “date sunt mulieri due ale aquile magne ut volaret in desertum” (Ap 12, 14). Quod autem de facto insimul concurrant, patet ex cronicis. […] |
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Tab. XIX.4
[LSA, cap. II, Ap 2, 17 (IIIa victoria)] Tertia est victorio-sus ascensus super phantasmata suorum sensuum, quorum sequela est causa errorum et heresum. Hic autem ascensus fit per prudentiam effugantem illorum nubila et errores ac impetus precipites et temerarios ac tempestuosos. Hoc autem competit doctoribus phantasticos hereticorum errores expugnantibus, quibus et competit premium singularis apprehensionis et degustationis archane sapientie Dei, de quo tertie ecclesie dicitur: “Vincenti dabo manna absconditum, et dabo ei calculum lucidum, et in calculo nomen novum scriptum, quod nemo novit, nisi qui accipit” (Ap 2, 17). […] Calculus autem, id est lapillus parvulus et solidus, pedibus sepe calcatus, est homo Christus pro nobis humiliatus et exinanitus, luce gratie et glorie et deitatis <per>fusus, in quo est nomen novum. Nichil enim magis novum quam quod Deus sit homo et homo Deus, et quod Deus tantum amaverit hominem lapsum et ab ipso iuste dampnatum quod dederit se ei in fratrem, socium et sponsum, et <in> pretium et in cibum et in premium. Hoc tamen nomen nemo affectualiter et experimentaliter novit nisi accipiat ipsum in visceribus sui amoris; non etiam intelligit ipsum nisi per fidem firmam et claram accipiat ipsum.[LSA, cap. VI, Ap 6, 5 (IIa visio, apertio IIIii sigilli)] “Et cum aperuisset sigillum tertium, audivi tertium animal” (Ap 6, 5), scilicet quod habebat faciem hominis, “dicens: Veni”, scilicet per maiorem attentionem vel per imitationem fidei doctorum hic per hominem designatorum, “et vide. Et ecce equus niger”, id est hereticorum et precipue arrianorum exercitus astutia fallaci obscurus et erroribus luci Christi contrariis denigratus. “Et qui sedebat super eum”, scilicet imperatores et episcopi arriani, “habebat stateram in manu sua”. Cum statera mensuratur quantitas ponderum, et ideo per stateram designatur hic mensuratio articulorum fidei, que quando fit per rectam et infallibilem regulam Christi et scripturarum suarum est recta statera, de qua Proverbiorum XVI° dicitur: “Pondus et statera iudicia Domini sunt” (Pro 16, 11), et Ecclesiastici XXI°: “Verba prudentium statera ponderabuntur” (Ecli 21, 28); quando vero fit per rationem erroneam et per falsam et intortam acceptionem scripture est statera dolosa, de qua Proverbiorum XI° dicitur: “Statera dolosa abhominatio est apud Deum” (Pro 11, 1), et in Psalmo: “Mendaces filii hominum in stateris” (Ps 61, 10), et Michee VI°: “Numquid iustificabo stateram impiam et sac<c>elli pondera dolosa” (Mic 6, 11). |
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Par. X, 40-48Quant’ esser convenia da sé lucente
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Par. XIX, 7-9, 49-51; XX, 16-18, 67-69E quel che mi convien ritrar testeso,
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A Par. XIX, 49 – “quinci appar ch’ogne minor natura” -, la variante miglior “è superiore nella sostanza […] e più ricercata nella struttura linguistica” (Inglese). Essa risulta prevalente anche dal confronto con la Lectura. Nella terzina che precede (vv. 46-48) l’Aquila afferma che Lucifero, la somma creatura, cadde per superbia: la parodia varia quanto ad Ap 2, 5 viene detto del vescovo di Efeso, metropolita delle sette chiese d’Asia, il quale per superbia è caduto dal culmine della prima grazia (“caritas prima”; la primitas nei versi è attribuita a Lucidero, “’l primo superbo”). L’avverbio quinci (v. 49) fa conseguire nella terzina quanto affermato di Lucifero, il quale cadde dalla prima grazia, prima non solo nel tempo, ma anche perché migliore. Dunque come fu primo (per superbia), così fu anche la miglior natura. Pur essendo tale, fu “corto recettacolo” al bene divino. I termini rimanesse, recettacolo (vv. 45, 50) rinviano ad Ap 12, 17 (quinta guerra): nel vaso rimangono poche reliquie del vino purissimo, appropriato al valore divino (nell’esegesi al terzo e quarto stato della Chiesa; cfr. Par. I, 13-18; XXI, 124-126).
Tab. XIX.4 bis
[LSA, cap. II, Ap 2, 4-5 (Ia visio, Ia ecclesia)] Attende autem quod de tantis virtutibus et earum operibus commendatum confestim increpat, tum ut de tantis bonis et de tanta laude non superbiat, tum ne propter tanta bona credat se in nullo deficientem nec de aliquo increpandum, tum ut se emendet, tum ut nos propter multa bona non cessemus formidare nos esse in pluribus et gravibus defectivos et reos.
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Par. XIX, 40-51
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Par. I, 13-18O buono Appollo, a l’ultimo lavoro
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[LSA, cap. XII, Ap 12, 17 (IVa visio, Vum prelium)] Dicit ergo: “Et iratus est dracho in mulierem” (Ap 12, 17). Nota quod quanto plus et pluries videt se vinci ab ecclesia et prole eius, tanto maiori ira exardescit ad illam fortius temptandam et deiciendam.
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Tab. XIX.5
[LSA, cap. IV, Ap 4, 2-3 (radix IIe visionis)] Dicit ergo (Ap 4, 2): “Et ecce sedes posita erat in celo, et supra sedem sedens”, scilicet erat. Deus enim Pater apparebat ei quasi sub specie regis sedentis super solium. […] “Et qui sedebat, similis erat aspectui”, id est aspectibili seu visibili forme, “lapidis iaspidis et sardini” (Ap 4, 3). Lapidi dicitur similis, quia Deus est per naturam firmus et immutabilis et in sua iustitia solidus et stabilis, et firmiter regit et statuit omnia per potentiam infrangibilem proprie virtutis. Lapidi vero pretioso dicitur similis, quia quicquid est in Deo est pretiosissimum super omnia. Sicut autem iaspis est viridis, sardius vero rubeus et coloris sanguinei, sic Deus habet in se immarcescibilem decorem et virorem delectabilissimum electis, gratioso virori gemmarum et herbarum assimilatum. Rubet etiam caritate et pietate ad electos et fervida iracundia seu odio ad reprobos. Rubet etiam in eo quod voluit et fecit suum Filium pro nobis sanguine rubificari.
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[LSA, cap. XXI; Ap 21, 19-20 (VIIa visio)] “Smaragdus” (Ap 21, 19), qui est summe viriditatis, habens colorem purissimi olei, significat dulcorem et gratiosam contemperantiam pietatis seu miseri-cordie. […]
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Par. III, 37-41O ben creato spirito, che a’ rai
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Par. XIX, 4-6parea ciascuna rubinetto in cui
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Par. II, 31-42
Parev’ a me che nube ne coprisse
lucida, spessa, solida e pulita,
quasi adamante che lo sol ferisse.
Per entro sé l’etterna margarita
ne ricevette, com’ acqua recepe
raggio di luce permanendo unita.
S’io era corpo, e qui non si concepe
com’ una dimensione altra patio,
ch’esser convien se corpo in corpo repe,
accender ne dovria più il disio
di veder quella essenza in che si vede
come nostra natura e Dio s’unio.
3. I libri aperti
The Eagle speaks by parodying the themes of the “book written within and without” (Rev 5:1) and the “book of life” (Rev 20:12), in which are written both the salvation of pagans such as Rifeo Troiano and Traiano, and the misdeeds of christian princes. |
3.1. Il libro segnato da sette sigilli
Nel quarto capitolo dell’Apocalisse viene mostrata la gloria e la magnificenza della maestà divina, nel quinto l’incomprensibile profondità del libro che sta per essere aperto da Cristo. Per questo si dice: “E vidi nella mano destra di Colui che era seduto sul trono un libro scritto dentro e fuori, sigillato con sette sigilli” (Ap 5, 1). Il libro designa in primo luogo la prescienza divina e la predestinazione a riparare l’universo per opera di Cristo. Per appropriazione, è il Verbo stesso del Padre in quanto espressivo della sua sapienza e in quanto il Padre, nel generarlo, scrisse in esso tutta la sua sapienza. In secondo luogo, il libro è la scienza delle intelligenze angeliche data ad esse da Dio e in esse scritta, che è scienza di tutta la grazia e la gloria degli eletti e del culto di Dio che deve compiersi per mezzo di Cristo. È pertanto, assai di più, la scienza universale scritta da Dio nell’anima di Cristo. In terzo luogo, è il volume della Sacra Scrittura e in particolare dell’Antico Testamento, nel quale il Nuovo venne rinchiuso, sigillato e velato sotto varie figure.
Con i temi del libro è tessuto, nel cielo di Giove, il linguaggio dell’Aquila. Rifeo Troiano, quinta delle luci sante che cerchiano l’occhio della benedetta immagine, per la grazia che deriva “da sì profonda fontana”, inaccessibile a occhio creato, mise in terra tutto il suo amore per la giustizia e così, di grazia in grazia, Dio gli aperse l’occhio alla futura redenzione umana facendo in modo che credesse. Più avanti nell’esegesi, ad Ap 5, 3, si afferma che nessuno, senza la grazia di Dio e la presupposizione del merito di Cristo, poteva avere l’implicita fede e l’intelligenza simboleggiata dal libro chiuso con i sette sigilli. Alla meraviglia del poeta di vedere un pagano fra i beati (insieme a Traiano, che però già la leggenda voleva salvato) l’Aquila replica dichiarando remota la radice della predestinazione dalle viste create (Par. XX, 118-124, 130-132). Si può notare in queste parole la presenza di termini come “fontana” e “radice”, che ad Ap 4, 2 sono appropriate alla profondità del libro che Cristo dovrà aprire, libro che è quello della predestinazione divina e nel quale è scritta la scienza della grazia (Ap 5, 1).
Nel canto precedente, l’Aquila ha già fatto riferimento all’apertura del “volume” nel quale verranno scritti i “dispregi” dei regnanti (Par. XIX, 112-114): in questo caso l’apertura del libro segnato dai sette sigilli di Ap 5, 1 coincide con l’apertura del libro della vita di Ap 20, 12, per cui i morti verranno giudicati per quanto è ivi scritto, secondo le loro opere. Come spiegato nell’esegesi, il libro che sta nella destra di Colui che siede sul trono contiene nel suo profondo interno anche le leggi e i precetti del sommo imperatore e le sentenze e i giudizi del sommo giudice. Così l’Aquila afferma che il vedere umano “ne la giustizia sempiterna … entro s’interna” come l’occhio nel “pelago” (è il termine che, ad Ap 4, 6, designa la Scrittura), il cui fondo, per quanto visibile dalla riva, gli rimane però celato in alto mare per la profondità (Par. XIX, 58-63): “proda” e “pelago”, cioè la riva e l’alto mare, corrispondono al di fuori e all’interno del libro (cfr. le parole di Pier Damiani a Par. XXI, 94-96 e di Dante a san Pietro a Par. XXIV, 70-72).
Un’altra applicazione del guardare dentro al libro è nella visione finale, allorché nel “profondo” della luce eterna il poeta vede come “s’interna”, unito dal legame d’amore “in un volume”, quello che nell’universo “si squaderna”, cioè si mostra diviso (Par. XXXIII, 85-87).
Tab. XIX.6
[LSA, cap. IV, Ap 4, 2 (radix IIe visionis)] “Et ecce sedes”. In hac secunda parte, in qua describitur fontalis radix et causa septem apertionum libri signati, monstrantur septem designantia summam altitudinem et profunditatem ac gloriam et utilitatem huius libri et contentorum in eo.[LSA, cap. IV, Ap 4, 6 (radix IIe visionis)] “Et in conspectu sedis”, scilicet erat, “tamquam mare vitreum simile cristallo”. Per mare designatur Christi amara et quasi infinita passio et lavacrum baptismale et penitentialis contritio et martiriorum perpessio et pelagus sacre scripture.[LSA, cap. V, Ap 5, 1 (radix IIe visionis)] “Et vidi in dextera sedentis super tronum librum scriptum intus et foris, signatum sigillis septem” (Ap 5, 1). Preostensa gloria et magnificentia maiestatis Dei, hic accedit ad ostendendum profunditatem incomprehensibilem libri sui. Qui quidem liber est primo idem quod Dei essentialis prescientia et totius reparationis universe fiende per Christum predestinatio, et per appropriationem est ipsum Verbum Patris prout est expressivum sapientie eius et prout Pater, ipsum generando, scripsit in eo omnem sapientiam suam.
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Par. XXXIII, 85-87Nel suo profondo vidi che s’interna,
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Par. XXI, 94-96però che sì s’innoltra ne lo abisso
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[LSA, cap. XX, Ap 20, 12 (VIIa visio)] Tertio describitur apertio librorum secundum quos sunt iudicandi, cum subdit: “Et libri aperti sunt, et alius liber apertus est, qui est liber vite; et iudicati sunt mortui ex hiis que scripta erant in libro, secundum opera eorum”.
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3.2. Il libro della vita
Ad Ap 20, 12 si dice: “Furono aperti dei libri. Fu aperto un altro libro, che è il libro della vita, e i morti vennero giudicati in base a ciò che era scritto nel libro, secondo le proprie opere”. Secondo Agostino (De civitate Dei, XX, 14), i libri indicati per prima designano i santi del Vecchio e del Nuovo Testamento, poiché i malvagi verranno giudicati nel paragone coi giusti. Secondo Riccardo di San Vittore, i “morti” qui designano i reprobi. Il “libro della vita”, secondo Agostino, è una forza divina per cui avviene che a ciascuno siano richiamate alla memoria tutte le proprie opere, buone o cattive, e che siano riconosciute con mirabile celerità dall’intuito della mente in modo che la consapevolezza accusi o scusi la coscienza. Questa forza divina ha preso il nome di “libro” perché in essa, in un certo senso, si legge tutto quello che per suo mezzo viene ricordato. Olivi aggiunge che con l’apertura dei libri viene pure designato l’aprirsi della coscienza o della memoria di tutti coloro che devono essere giudicati, che avviene con una forza o un potere divino che riconduce ogni cosa alla chiara e quasi visibile memoria, e anzi dimostra in modo tanto chiaro a tutti ogni bene o male operato da chiunque, come se tutti vedessero leggendo nei cuori di ciascuno ogni male o bene mai compiuto. Il “libro della vita” è l’increata scienza e giustizia divina, che allora verrà aperto alla vista di tutti i predestinati alla vita eterna per il conferimento finale della gloria, e verrà aperto ai dannati per l’evidenza dell’effetto esteriore e del giudizio. Secondo questo libro, cioè secondo l’eterna e inerrabile scienza divina, verranno principalmente giudicati tutti; secondariamente lo saranno attraverso il giudizio della propria coscienza e di tutte le altre che saranno contestimoni, lo vogliano o meno, insieme al principale libro della giustizia di Dio. Pertanto i libri indicati per prima si porranno come accusatori e testimoni, il “libro della vita” si porrà come “sententiator”, cioè come quello che contiene ed esprime le sentenze giudiziarie e le loro motivazioni.
Il “libro della vita” di Ap 20, 12 è il “libro che ’l preterito rassegna” di Par. XXIII, 54 e, assai più indietro nel tempo, il “libro della mia memoria” nell’incipit della Vita Nova. Nel cielo di Giove, dove albergano gli spiriti giusti, il tema dell’apertura del “libro della vita”, in cui ciascuno verrà giudicato secondo le proprie opere, è premesso dall’Aquila all’elenco dei reprobi principi cristiani: tutti, anche l’infedele etiope o persiano, potranno condannare i falsi cristiani, “come vedranno quel volume aperto / nel qual si scrivon tutti suoi dispregi”, nel quale si potranno vedere le opere di costoro, come quella per cui Alberto d’Asburgo renderà nel 1304 “diserto” il regno di Boemia (Par. XIX, 112-117).
La forza che promana dal libro della vita, che apre la coscienza e la memoria, è la stessa lingua, la “chiara favella” del poeta che fa “sovvenir del mondo antico” il ruffiano Venedico dei Caccianemici incontrato nella prima bolgia; la parlata bolognese dei tanti che piangono con lui è testimonianza fedele che fa tornare alla mente l’avarizia dei propri concittadini (Inf. XVIII, 52-63).
Che il fiume della memoria possa scendere chiaro, “se tosto grazia resolva le schiume / di vostra coscïenza”, è augurio che Dante rivolge agli invidiosi che si purgano nel secondo girone della montagna (Purg. XIII, 88-90).
Nelle metamorfosi poetiche, il passo di Ap 20, 12, relativo alla settima visione, è quasi sempre collazionato con altri simmetrici. È il caso di Ap 3, 3, dove il vescovo di Sardi (la quinta delle sette chiese d’Asia alle quali Giovanni scrive nella prima visione) viene invitato a ricordare con la mente quale fosse la “prima grazia” e il suo stato e a conservarla, cioè la grazia ricevuta da Dio e ascoltata tramite la predicazione evangelica. Da quanto gli viene detto, si deduce che costui era tanto intorpidito nell’ozio da non ricordare più il primo stato di grazia e di perfezione, che fu di edenica bellezza e di pienezza stellare. Se non si ravvedrà vigilando, il giudizio divino verrà da lui come un ladro. La tematica offerta insieme da Ap 3, 3 e Ap 20, 12 percorre, in Inf. XI, la descrizione dell’ordinamento dell’inferno data da Virgilio: aver chiaro qualcosa alla mente – «E io: “Maestro, assai chiara procede / la tua ragione …”» (vv. 67-68) -; richiamare alla mente o ricordarsi – “Non ti rimembra di quelle parole … e rechiti a la mente … se tu ti rechi a mente / lo Genesì dal principio” (vv. 79, 86, 106-107: è da notare l’espressione “dal principio”, che allude alla “prima grazia” o al “bel principio”) -; il verso “Se tu riguardi ben questa sentenza” (v. 85), che richiama il “libro della vita” contenente le sentenze giudiziarie, che in questo caso coincide con l’Etica nicomachea, la quale “pertratta / le tre disposizion che ’l ciel non vole, / incontenenza, malizia e la matta / bestialitade” (vv. 80-84). È un esempio, fra i tanti, di conciliazione della filosofia di Aristotele con la teologia dell’Olivi, entrambe presenti alla mente del poeta.
I motivi dell’“apertio conscientiarum” e del ricondurre alla memoria ritornano di fronte al muro di fuoco che il poeta deve attraversare prima di compiere l’ascesa della montagna sulla cui cima è Beatrice (Purg. XXVII, 16-42). Dante, spaventato, sta “pur fermo e contra coscïenza”. Virgilio prima gli richiama alla mente l’averlo già guidato salvo nel volo sulla groppa di Gerione – “Ricorditi, ricorditi!” -, poi gli fa il nome di Beatrice, dalla quale il fuoco lo separa, e allora, “udendo il nome / che ne la mente sempre mi rampolla”, la durezza del poeta si fa molle, e si apre come si aprirono gli occhi morenti di Piramo al nome di Tisbe. Nei versi si riscontra, congiunto con quelli di Ap 20, 12, il tema del riguardare con la mente proprio della quinta chiesa (Ap 3, 3).
Beatrice, nell’accingersi a spiegare “come giusta vendetta giustamente / punita fosse”, come cioè la giusta vendetta divina del peccato originale, operata per mezzo dei Giudei che crocifissero Cristo, fosse poi punita negli stessi Giudei con la distruzione di Gerusalemme compiuta da Tito, parla tramite i motivi del “libro della vita”, che esprime l’inerrabile scienza divina e contiene le sentenze della sua giustizia: “Secondo mio infallibile avviso / … ché le mie parole / di gran sentenza ti faran presente” (Par. VII, 19-24).
La congiunzione dei due gruppi tematici (ripensare a quanto ascoltato, revocare alla mente e vedere) si mostra nel parlare di Tommaso d’Aquino, in fine di Par. XI (vv. 133-139) e nella conclusione del suo discorso (Par. XIII, 130-132, 139-142), dove è citato, dall’esegesi di Ap 20, 12, l’invito di san Paolo ai Corinzi a essere prudenti nel giudicare (1 Cor, 4, 5), citazione ripresa dall’Aquila nel cielo di Giove (Par. XX, 133-135).
Si mostra, ancora, in Par. XXIII, 46-54, quando Beatrice dice a Dante di guardarla: «“Apri li occhi e riguarda qual son io (la prima grazia da Ap 3, 3); / tu hai vedute cose, che possente / se’ fatto a sostener lo riso mio”. / Io era come quei che si risente / di visïone oblita (rende l’essere “torpens” di Ap 3, 3) e che s’ingegna / indarno di ridurlasi a la mente (si insinua il tema del ricondurre alla mente da Ap 20, 12), / quand’ io udi’ questa proferta, degna / di tanto grato, che mai non si stingue / del libro che ’l preterito rassegna (cioè il libro della vita, tema principale di Ap 20, 12)».
Un’altra variazione è a Par. XXVIII, 10-12: “così la mia memoria si ricorda (tema del libro della vita) / ch’io feci riguardando ne’ belli occhi / onde a pigliarmi fece Amor la corda” (tema del “principium pulchritudinis”, secondo l’interpretazione del nome Sardi, la quinta chiesa d’Asia). Il tema del libro della vita è poi appropriato al Primo Mobile, definito equivocamente, sfera corporale girante e anche libro, “quel volume” (v. 14).
Tab. XIX.7
Inf. XVIII, 52-63Ed elli a me: “Mal volontier lo dico;
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Purg. XIII, 88-90se tosto grazia resolva le schiume
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[LSA, cap. XX, Ap 20, 12 (VIIa visio)] Tertio describitur apertio librorum secundum quos sunt iudicandi, cum subdit: “Et libri aperti sunt, et alius liber apertus est, qui est liber vite; et iudicati sunt mortui ex hiis que scripta erant in libro, secundum opera <ipsorum>”.
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[LSA, cap. III, Ap 3, 3 (Ia visio, Va ecclesia)] “In mente ergo habe” (Ap 3, 3), id est attente recogita, “qualiter acceperis”, scilicet a Deo priorem gratiam, “et audieris”, ab homine scilicet per predicationem evangelicam, “et serva”, scilicet illa que per predicationem audisti et per influxum gratie a Deo primitus accepisti. Vel recogita qualiter per proprium consensum accepisti fidem et gratiam et statum eius, prout a me et a ceteris tibi predicantibus audivisti. “Et serva” ea “et penitentiam age”, scilicet de tuis malis, quasi dicat: si digne recogitaveris gratiam tibi prius impensam et qualiter prius accepisti eandem, servabis eam et penitentiam ages.
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Par. XI, 133-139; XIII, 130-132, 139-142Or, se le mie parole non son fioche,
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Purg. XXVII, 22, 33, 37-42Ricorditi, ricorditi! ………E io pur fermo e contra coscïenza.Come al nome di Tisbe aperse il ciglio
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Par. XXIII, 46-54“Apri li occhi e riguarda qual son io;
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4. La bestia che è ottava e insieme settima
Il rapporto tra settimo e ottavo, che Olivi applica pure alla settima visione (la quale può intendersi anche come ottava), viene sviluppato ad Ap 17, 11 a proposito della bestia che “fu e non è”, la quale è “ottava” e nello stesso tempo è “delle sette”, ossia è una bestia distinta in sette bestie (che corrispondono a sette re) dalle sette teste e in un certo senso in otto. L’essere ottavo e far parte al contempo di un gruppo di sette designa la consumazione riassuntiva del settenario che precede. Così il giorno ottavo è il primo giorno della settimana; l’ottava beatitudine (Matteo 5, 10) – propria dei perseguitati a causa della giustizia – è, secondo Agostino, la conferma delle sette precedenti; l’ottava maledizione (Matteo 23, 33) è dichiarativa delle sette precedenti. Così l’ottava bestia è la consumazione delle precedenti e al tempo stesso fa parte di esse.
Se si esamina l’elenco dei reprobi principi cristiani, dei quali l’Aquila, in Par. XIX, 115-148, dice tutti i dispregi, si osserva che essi possono essere divisi in otto gruppi: il primo è costituito da Alberto d’Asburgo; il secondo da Filippo il Bello; il terzo da Edoardo I d’Inghilterra e Roberto Bruce di Scozia; il quarto da Ferdinando IV di Castiglia e Venceslao II di Boemia; il quinto da Carlo II d’Angiò re di Gerusalemme (il “Ciotto”); il sesto da Federico II d’Aragona re di Sicilia, dallo zio (Giacomo re di Maiorca) e dal fratello (Giacomo II re di Sicilia e poi d’Aragona); il settimo da Dionisio l’Agricola re di Portogallo, Acone V re di Norvegia e dal serbo Stefano Urosio II (“quel di Rascia”). La terzina successiva definisce ‘beate’ l’Ungheria e la Navarra se riescano a tenere lontano, difendendosi, la mala signoria (“mal menare” [“malmenare” nel Petrocchi], nel senso di ‘mal condurre’; il contrario del deducere di Cristo ad Ap 7, 17). Gli ultimi quattro versi del canto sono dedicati a Cipro (“Niccosïa e Famagosta”) il cui re, Arrigo II di Lusignano, è “bestia” – l’ottava – “che dal fianco de l’altre non si scosta”, cioè si comporta alla stregua degli altri re precedentemente elencati, e quindi è ottava e nello stesso tempo fa parte delle sette.
Otto sono anche i principi che purgano la negligenza nella valletta, i quali vengono mostrati da Sordello (Purg. VII, 91-136): Rodolfo I d’Asburgo, Ottocaro II di Boemia, Filippo III l’Ardito, Enrico I di Navarra, Pietro III d’Aragona, Carlo I d’Angiò, Enrico III d’Inghilterra, Guglielmo VII marchese di Monferrato.
È da notare che Boezio, il quale soffrì il martirio, è “l’ottava” luce tra gli spiriti sapienti presentati da Tommaso d’Aquino nel cielo del Sole (Par. X, 121-126; “per vedere ogne ben”, cioè riassume tutte le beatitudini).
I versi relativi a ciascun sovrano sono poi semanticamente contesti, come di consueto, con grande varietà di temi.
I. L’esegesi di Ap 12, 6, con il Carmelo trasformato in selva e la selva-deserto in giardino, contiene i fili intrecciati nel rimprovero ad Alberto d’Asburgo e al padre Rodolfo di essersi disinteressati dell’Italia “indomita e selvaggia” e di aver lasciato, trattenuti dalla cupidigia dei propri interessi in Germania, “che ’l giardin de lo ’mperio sia diserto” (Purg. VI, 103-105; il tema è ripetuto, per il regno di Boemia devastato da Alberto nel 1304, a Par. XIX, 115-117).
II. Filippo il Bello, vestito come il falsario Capocchio col panno delle locuste, vanagloriose per le corone di falso oro che stanno sulle loro teste – “Lì si vedrà il duol che sovra Senna / induce, falseggiando la moneta” -, fa coniare monete di valore reale inferiore a quello nominale per sostenere le spese della guerra di Fiandra (Par. XIX, 118-120; Ap 9, 7). Indurre dolore è un altro tema proprio delle locuste (Ap 9, 5-6; da notare la citazione di Gioacchino da Fiore incastonata nell’esegesi di Olivi). Il Capetingio è “quel che morrà di colpo di cotenna”, cioè a causa di un cinghiale che, nel novembre 1314, lo farà cadere da cavallo attraversandogli la via. Una morte quasi per “contrapasso”: il cinghiale, l’aper de silva devastatore della vigna, è il re delle locuste, il cui nome è Exterminans (Ap 9, 11).
A Filippo il Bello sono pertanto appropriati i temi delle feroci e subdole locuste. Queste infieriscono sulla Chiesa in particolare alla fine del quinto stato, allorché la rilassatezza l’ha trasformata quasi in una nuova Babilonia (tale è la “puttana sciolta” del finale di Purg. XXXII). Alle locuste fa riferimento Ugo Capeto nel narrare le malefatte dei suoi discendenti: una dinastia che “poco valea, ma pur non facea male” fino a quando “la gran dota provenzale” non le tolse la vergogna (Purg. XX, 61-63), non recava cioè danni irreparabili come capitò alla vigna prima che fosse distrutta dal cinghiale (Ap 9, 11).
III. Assetati di superbia, Edoardo I d’Inghilterra e Roberto Bruce di Scozia sono anch’essi infettati dalle locuste, insofferenti come sono di restare dentro ai propri confini (Par. XIX, 121-123; “Exterminans”, il nome del re delle locuste, ha anche il significato di travalicare i confini; cfr. Convivio IV, iv, 4).
IV. Ancora le locuste, dai capelli molli come quelli delle donne, segnano “la lussuria e ’l viver molle / di quel di Spagna e di quel di Boemme” (Ap 9, 7).
V. “Vedrassi al Ciotto di Ierusalemme / segnata con un i la sua bontate, / quando ’l contrario segnerà un emme”. Le lettere i e m, sono da leggere come numeri romani (migliore la grafia I, M), corrispondenti a ‘uno’ e a ‘mille’. Ad Ap 20, 3 l’esegesi spiega, citando Agostino, il significato dei mille anni nei quali il diavolo sta legato; ‘mille’ designa la totalità:
Quarto notandum an per mille annos ligationis eius et conregnationis sanctorum cum Christo significentur ad litteram mille anni vel solum in generali perfecta plenitudo temporis. Ad quod dicit Augustinus, XX° De civitate, capitulo VII°, quod aut mille anni sumuntur hic sinodochice pro parte sexti miliarii annorum quod secundum translationem septuaginta interpretum currebat tempore Augustini, ut post sextum miliarium, quasi post sextam diem, sequeretur sabbatum requiei eterne; «aut mille annos pro omnibus annis huius seculi posuit, ut perfecto numero vocaretur ipsa temporis plenitudo. Nam miliarius reddit solidum quadratum ex denario. Nam decies decem sunt centum, que non est figura solida sed plana; ut autem in altitudinem surgat et solida fiat, rursus dicimus decies centum, et sunt mille. Si autem centum ponuntur aliquando pro universitate, secundum illud Christi: Qui propter me reliquerit omnia, accipiet in hoc seculo centuplum, quod quodammodo exponens Apostol<us> ait: Quasi nichil habentes, et omnia possidentes, quanto magis mille pro universitate ponuntur? Unde et sic videtur intelligi illud Psalmi: Memor fui verbi quod mandavit in mille generationes, id est <in> omnes». Hunc autem secundum modum sequitur Ricardus et etiam Ioachim.
VI. L’Aquila dice di Federico II d’Aragona (re di Sicilia dal 1296 al 1337) che nel libro della vita le sue opere saranno scritte con lettere abbreviate “a dare ad intender quanto è poco”. Gli viene applicato il motivo della “metà di un tempo”, parte dell’espressione apocalittica “per (un) tempo, (due) tempi e la metà di un tempo” – “per tempus et tempora et dimidium temporis” ad Ap 12, 14. In questa espressione di un numero mistico (corrispondente ai 1260 anni di permanenza della donna, o della Chiesa, nel deserto dei Gentili) “tempus” sta per un anno, “tempora” per due anni e “dimidium temporis” per sei mesi. I tre anni e mezzo designano il mistero della trinità di Dio unitamente alla perfezione delle sue opere, che rispetto al loro artefice sono qualcosa di dimidiato, imperfetto, parziale e quasi nulla: tali vengono giudicate le opere dell’Aragonese. Pure all’apertura del libro “parranno a ciascun l’opere [‘metà di un tempo’] sozze / del barba [Giacomo, re di Maiorca] e del fratel [Giacomo re di Sicilia e poi di Aragona], che tanto egregia / nazione [l’Aragona: ‘un tempo’] e due corone [Maiorca e Aragona: ‘due tempi’] han fatte bozze” [1].
La scrittura abbreviata sarà quella con cui verranno scritte, in “lettere mozze”, le opere da poco di Federico d’Aragona; essa rinvia ad Ap 22, 28-29, dove si parla dell’abbreviazione del testo dell’Apocalisse, libro scritto dentro e fuori (Ap 5, 1) e libro della vita (Ap 20, 12): da notare la compresenza del verbo “intendere” nella prosa e nei versi.
L’Aragonese è “quei che guarda l’isola del foco, / ove Anchise finì la lunga etate” (v. 132): l’uso di u’, attestato da alcuni testimoni, rinvia ad Ap 20, 3, dove la lettera u designa, in quanto pronunciata sull’estremo delle labbra, la fine di un’epoca (nell’esegesi è il XIII secolo, la parodia lo applica alla vita del padre di Enea).
VII. Ad Ap 14, 8 l’angelo annunzia la caduta di Babylon, la Chiesa carnale che ha abbeverato le genti col vino dell’ira della sua fornicazione: come il vino provoca ad ira furibonda, così la Chiesa carnale si è accesa in ira contro gli uomini spirituali e gli influssi dello Spirito Santo. Una variazione su questi temi si registra con l’intervento dell’esegesi di Ap 15, 8, dove ai motivi del fumo e dell’ira (il Tempio ripieno di fumo designa lo zelo della santa ira) si aggiunge quello dell’accecamento causato dall’ira, solo momentaneo turbamento, però, per i santi presi da retto zelo. Accecato è stato il re di Serbia Stefano II Uroš Milutin, definito dall’Aquila “quel di Rascia”, che ha falsificato i ducati veneziani – “il conio di Vinegia” -, per restare nel gruppo tematico che aduna ira, mal vedere e vino.
Al v. 141 – “che male ha visto il conio di Vinegia” – la variante avvistò (ritoccò, truccò) è accetabile se si mantiene in essa anche il significato di vedere, per nulla improprio in quanto l’ira, insita nel nome stesso del re serbo, acceca e mal vedendo crea una falsa moneta.
[1] I tre anni e mezzo coincidono con il periodo durante il quale Cristo esercitò il suo magistero e la sua predicazione. Essi sono anche distinti in “un anno” (“tempo”) e “due anni” (“tempi”), in quanto nel secondo e nel terzo anno Cristo predicò da solo dopo l’incarcerazione di Giovanni Battista e in modo più solenne. Questa distinzione, tenendo conto della profezia di Daniele, si verificherà forse anche nella predicazione e persecuzione dell’Anticristo. Con Giovanni Battista, come dice Cristo in Matteo 11, 11-12 e in Luca 16, 16, inizia il tempo in cui i violenti si impadroniscono del regno dei cieli (cfr. quanto dice l’Aquila a Par. XX, 94: “Regnum celorum vïolenza pate”).
Tab. XIX.8
[LSA, cap. XVII, Ap 17, 11 (VIa visio)] Nota etiam quod non dixit quod unus rex erit octavus et septimus seu de septem, sed potius dixit quod “bestia que fuit et non est” et, supple, iterum ascendet, “est octava”, scilicet in suo reascensu, “et de septem est”, ut ostendat quod sic est generaliter una bestia, quod tamen est distincta in septem bestias secundum septem capita eius, et etiam aliquo modo in octo. Non enim potest esse octava nisi respectu septem bestiarum. Nota etiam quod sicut octavus dies, qui dicitur dominicus, est de septem (nam est primus dies hebdomade), aut sicut octava resurrectionis generalis non omnino differt a requie septime etatis, immo est consumatio eius; aut sicut octava beatitudo posita Matthei V°, scilicet “Beati qui persecutionem patiuntur propter iustitiam” (Mt 5, 10), est secundum Augustinum probatio septem beatitudinum ibi premissarum*, aut sicut octavum veh positum Matthei XXIII° est declarativum septem veh ibi premissorum (Mt 23, 33), sic Spiritus Sanctus intendit hic aliquid simile insinuare, scilicet quod octava bestia est consumativa et probativa septem primarum, nec est omnino extra ipsas, sed tamquam ex ipsis.* Cfr. Sancti Aurelii Augustini De sermone Domini in monte … edidit A. Mutzenbecher, Turnholti 1967 (Corpus Christianorum. Series Latina, XXXV), I, 3, 10, p. 9. |
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Par. X, 121-129Or se tu l’occhio de la mente trani
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Par. XIX, 115-148
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XX
1. Il silenzio che precede il canto. 2. L’aquila fissa nel sole. 3. “Sapete qual è quello / dubbio che m’è digiun cotanto vecchio”. |
Legenda [3]: numero dei versi; 14, 2: collegamento ipertestuale all’esegesi, nella Lectura di Olivi, di capitolo e versetto dell’Apocalisse [Ap]; Not. V: collegamento all’esegesi contenuta nei tredici notabilia del prologo della Lectura. Varianti rispetto al testo del Petrocchi. |
Quando colui che tutto ’l mondo alluma
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1. Il silenzio che precede canto
Le sette visioni apocalittiche, le prime sei divise in settenari, sono strettamente interconnesse fra loro. Ad esempio, il settimo e ultimo momento della visione che precede è congiunto con la visione che segue, per quanto temporalmente sia da essa distinto. La seconda visione, dei sette sigilli, si conclude con il silenzio fatto in cielo per mezz’ora (Ap 8, 1) e subito inizia la terza, cioè la visione delle sette trombe (Ap 8, 2), come se dall’arcano silenzio della contemplazione sgorgasse il canto della perfetta e alta predicazione delle cose divine (prologo, Notabile V).
Nell’Eden tace Beatrice nel rimproverare Dante, e subito cantano gli angeli (Purg. XXX, 82-84). Tre volte girano cantando intorno a Beatrice e a Dante gli spiriti sapienti che nel cielo del Sole formano la prima corona, poi si arrestano taciti, come donne che non sospendono la danza ma ascoltano silenziose in attesa di raccogliere le nuove note (Par. X, 76-82). Il silenzio che precede il canto o il suono – proprio anche degli spiriti che formano l’Aquila nel cielo di Giove (Par. XX, 7-9, 16-19), del cantare di san Pietro dopo che il poeta ha cessato di parlare (Par. XXIV, 151-152), del “dolcissimo canto” che risuona a Par. XXVI, 67-69 nella medesima situazione, dell’invettiva dello stesso san Pietro contro i papi corrotti (Par. XXVII, 16-19: da notare la non casuale corrispondenza dell’ordine numerico dei versi con Par. XX) – corrisponde al silenzio che caratterizza il settimo sigillo, che conclude la seconda visione, cui fa seguito l’inizio della terza con lo sgorgare del canto delle trombe dei dottori. Anche “si quetaro”, a Par. XIX, 100, rientra nel gruppo tematico che ruota attorno al silenzio del settimo stato (prologo, Notabile III), per cui è inammissibile la variante “seguitaro”.
La forma latina “concipio” compare una sola volta nella Commedia, nell’infuocato inveire di san Pietro contro il papato corrotto: come quei dottori, i quali “per igneas meditationes concipiunt et emittunt spiritalem intelligentiam”, il Pescatore afferma che “l’alta provedenza, che con Scipio / difese a Roma la gloria del mondo, / soccorrà tosto, sì com’ io concipio” (Par. XXVII, 61-63). È da notare che nel parlare del principe degli apostoli sono presenti elementi semantici riconducibili all’esegesi del prepararsi a tubicinare da parte dei dottori (Ap 8, 6): “Poi procedetter le parole sue (v. 37) … similis flatui procedenti ex tuba”; il concepire: “Sic enim doctores primo ex scripturis sacris componunt et ordinant certas materias, ac deinde per igneas meditationes concipiunt et emittunt spiritalem intelligentiam”; l’ordine dato al poeta di parlare liberamente: “apri la bocca, / e non asconder quel ch’io non ascondo (vv. 65-66) … tubam sic compositam applicant ori suo”. Come sopra detto, nella successione delle visioni apocalittiche, al silenzio che caratterizza il settimo sigillo, che conclude la seconda visione, fa seguito l’inizio della terza con lo sgorgare del canto delle trombe dei dottori: «Item finis secunde visionis est quod aperto septimo sigillo “factum est silentium in celo quasi media hora” (Ap 8, 1), et tunc immediate subditur initium tertie visionis, scilicet: “Vidi septem angelos, et date sunt illis septem tube” (Ap 8, 2), ac si post silentium medie hore premissum prosiliret cantus septem tubarum, et certe de archano contemplationis silentio prosiliit perfecta et alta predicatio divinorum”» (prologo, Notabile V). Così l’invettiva di san Pietro, vera tubicinazione dottorale senza che mai sia citato il termine “tromba”, è preceduta dal silenzio posto dalla Provvidenza “nel beato coro … da ogne parte” (vv. 16-18; sesta terzina, come avvenuto per l’Aquila in Par. XX).
Questa concordia tra la fine di una visione e l’inizio della successiva si trova anche altrove. Ad esempio nella fine della quarta, segnata dal vendemmiare con la falce acuta la vigna della terra e dal calcare l’uva nel lago dell’ira divina (Ap 14, 19-20, citato a prologo, Notabile V), congiunta con l’inizio della quinta (Ap 15, 1) in cui appaiono gli angeli con le sette ultime piaghe, come fossero sviluppo e consumazione della precedente pena designata dal calcare l’uva nel lago dell’ira divina. Sarà da notare che nel quarto girone del purgatorio (che afferisce principalmente alla tematica del quarto stato della Chiesa) gli accidiosi, spinti da buon volere e giusto amore, nel loro sopravvenire ai due poeti sono paragonati alla furia e alla calca dei Tebani lungo i fiumi della Beozia nei riti di Bacco e al passo dei cavalli che falca correndo al galoppo (Purg. XVIII, 91-96). E in effetti il quinto girone, dove si purgano gli avari e i prodighi, è pregno dei motivi propri del quinto stato (tratti da tutti gli elementi quinti delle prime sei visioni).
Acme del tema del silenzio, proprio dell’apertura del settimo sigillo, è quando nel Primo Mobile Beatrice tace, guardando fissamente nella luce del punto divino, per un tempo pari a quello in cui il sole e la luna, l’uno nel segno dell’Ariete, l’altra in quello della Bilancia, si vengono a trovare contemporaneamente sulla linea dell’orizzonte in due opposti punti del cielo e in perfetto equilibrio rispetto allo zenit, prima che l’uno o l’altra cambino emisfero (Par. XXIX, 1-9; si tacque è sulla terza terzina, come fu tacente a Par. XX). Tempo breve (poco più di un minuto), ma non istantaneo, come non può essere istantaneo il tempo del terzo stato generale del mondo, appropriato allo Spirito, segnato dal silenzio. Il silenzio e la quiete, prerogative proprie del settimo stato, segnano anche il passaggio dal cielo della Luna a quello di Mercurio (Par. V, 88-93).
Tab. XX.1
Par. XX, 7-9, 16-19, 73-75, 100-102e questo atto del ciel mi venne a mente,
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Par. XXIX, 1-9Quando ambedue li figli di Latona,
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[LSA, prologus, Notabile III] De septimo (dono) etiam patet, quia in quolibet septem statuum predictorum est aliqua quietatio spiritus in Deo et aliquis gustus Dei. […] Item quilibet statuum predictorum habuit aliquam pacem post sue adversitatis noctem, ut ex “vespere et mane” fieret “dies unus” (cfr. Gn 1, 5).[LSA, prologus, Notabile V] Item finis secunde visionis est quod aperto septimo sigillo “factum est silentium in celo quasi media hora” (Ap 8, 1), et tunc immediate subditur initium tertie visionis, scilicet: “Vidi septem angelos, et date sunt illis septem tube” (Ap 8, 2), ac si post silentium medie hore premissum prosiliret cantus septem tubarum, et certe de archano contemplationis silentio prosiliit perfecta et alta predicatio divinorum. |
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Par. X, 76- 82Poi, sì cantando, quelli ardenti soli
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Par. XXIV, 151-154; XXVI, 67-69così, benedicendomi cantando,
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[Notabile V] Item post finem quarte visionis, que est cum falce acuta vindemiasse vineam terre et uvas misisse et calcasse in lacum ire Dei (Ap 14, 19-20), subditur initium quinte visionis, scilicet: “Et vidi aliud signum” et cetera (Ap 15, 1), scilicet “angelos septem habentes plagas septem novissimas, quoniam in illis consumata est ira Dei”, ac si iste septem plage sint explicatio vel subsequens consumatio pene designate in calcatione uvarum in lacu ire Dei. |
Purg. XVIII, 91-96E quale Ismeno già vide e Asopo
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2. L’aquila fissa nel sole
Al momento dell’ascesa dall’Eden al cielo, Beatrice sta fissa nel sole: “aguglia sì non li s’affisse unquanco” (Par. I, 48). L’aquila è tema presente all’apertura del quarto sigillo (Ap 6, 7). Il quarto stato (dei sette nei quali, secondo Olivi, si articola la storia della Chiesa) è proprio degli anacoreti, cioè dei contemplativi; ad essi è dato di vedere le cose prima che avvengano e poi di contemplare (“speculari”) stupiti e meravigliati le ragioni dei giudizi divini (nell’esegesi il riferimento è alla distruzione della Chiesa orientale da parte dei Saraceni, fatto prima inconcepibile). In Dante che ascende al cielo “la novità del suono e ’l grande lume” provocano “grande ammirazion” (tema del quarto sigillo, ad Ap 6, 7), come pure il fatto di trascendere, legato ancora al corpo, i “corpi levi”, cioè l’aria e il fuoco (vv. 82-84, 97-99). Ad Ap 4, 7, l’aquila, l’ultimo dei quattro animali (o esseri viventi) che circuiscono la sede divina, designa secondo Gioacchino da Fiore coloro che sono “sospesi” nella contemplazione e anche il senso anagogico, o ‘sovrasenso’ (di rilievo l’espressione “aguglia di Cristo”, riferita a Par. XXVI, 53 a san Giovanni, che san Bernardo definisce “quei che vide tutti i tempi gravi” della Chiesa a Par. XXXII, 127-129).
La contemplazione è il tema che unisce Ap 6, 7 ad Ap 19, 17-18, al momento in cui Giovanni vede un’aquila che sta fissa nel sole, identificata con il contemplativo Elia che invita al serotino convivio spirituale. Si tratta di un passo centrale nella descrizione dell’ascesa al cielo, compiutamente esaminato altrove. Si noterà ancora come da un medesimo luogo della Lectura si pervenga, tramite la compresenza delle parole-temi, a più luoghi della Commedia. Il che significa che, semanticamente, la medesima esegesi di un punto del commento scritturale è stata utilizzata con sempre nuove variazioni in momenti diversi della stesura del poema, ed è un fenomeno che si verifica in moltissimi casi.
Nel salire al primo balzo del cosiddetto ‘antipurgatorio’, Dante sta “stupido tutto al carro de la luce”, ammirando il fatto che i raggi del sole lo feriscano da sinistra (Purg. IV, 55-60): nelle terzine si può notare la commistione di temi da Ap 6, 7 (stare stupìto, ammirare) e da Ap 19, 17 (stare “tutto” al sole). Lo stupore per gli imperscrutabili giudizi divini è anticipato dalla meraviglia per aver visto Manfredi salvato: “udendo quello spirto e ammirando” (v. 14), e non è certo casuale che il maledetto dai pastori, ora spirito eletto incorporato nella Chiesa, sia definito “di gentile aspetto” (Purg. III, 107), perché a un attento esame si potrebbe vedere come il Purgatorio realizzi il tempo che san Paolo nella Lettera ai Romani (11, 25) chiama della “pienezza delle genti” (la salita della montagna, dopo l’apertura della porta, corrisponde al sesto stato della Chiesa, cioè alla storia contemporanea). Se in questo caso tace il motivo, da Ap 19, 17-18, del convivio spirituale al quale invita Elia, al profeta va comunque ricondotta l’espressione “carro de la luce”: il carro del Sole è immagine di Elia, figura di Francesco, designato dall’angelo del capitolo X (sesta tromba), che ha la faccia come il sole (Ap 10, 1-3).
I temi ritornano a Purg. XIII, 13, nell’atteggiamento di Virgilio che “fisamente al sole li occhi porse” prima di invocarne la guida “per lo novo cammin”. Subito dopo questa invocazione, vengono uditi spiriti che passano volando e “parlando / a la mensa d’amor cortesi inviti”, invitando cioè al convivio spirituale, nel caso sollecitando con esempi di carità, virtù opposta all’invidia punita in quel girone (vv. 25-27).
Nel cielo di Giove l’Aquila invita il poeta a guardarle “fisamente” nell’occhio, la parte che nelle aquile terrene “vede e pate il sole” (Ap 19, 17; Par. XX, 31-33; da notare ad Ap 6, 7: “aquila … invitat nos non solum ad contemplandum sed etiam ad compatiendum et imitandum”). Degli spiriti luminosi che formano l’Aquila, i sei che risplendono nell’occhio sono i sommi: delle luci che stanno sull’arco del ciglio superiore, la prima (Traiano) e la quinta (Rifeo Troiano) fanno meravigliare il poeta il quale, proveniente dal “mondo errante”, non avrebbe mai creduto che dei “Gentili” potessero essere salvati (vv. 67-69, 100-102). Si tratta di un’ardita variazione del tema da Ap 6, 7, del meravigliarsi per la distruzione delle superbe chiese orientali da parte dei Saraceni, “unum stupendius et antequam fieret inexcogitabilius”. Così il giudizio divino ha consentito la distruzione di Troia (“’l superbo Ilïón”, Inf. I, 75) perché di lì uscisse “de’ Romani il gentil seme” (Inf. XXVI, 60), con la venuta di Enea da Troia, che fu il tempo in cui nacque David (Convivio, IV, v, 6): la pupilla dell’occhio dell’aquila è appunto David (Par. XX, 37-42); le altre luci intorno, oltre alle due sopra nominate, sono Ezechia, Costantino, Guglielmo II il Buono. L’occhio rappresenta dunque le genti e insieme Israele (l’antico e il nuovo), incorporati nella Chiesa del sesto e del settimo stato, corrispondente all’età dello Spirito di Gioacchino da Fiore. |
Tab. XX.2
[LSA, cap. XIX, Ap 19, 17-18; VIa visio] “Et vidi unum angelum stantem in sole” (Ap 19, 17). Iste designat altissimos et preclarissimos contemplativos doctores illius temporis, quorum mens et vita et contemplatio erit tota infixa in solari luce Christi et scripturarum sanctarum, et secundum Ioachim inter ceteros precipue designat Heliam. “Et clamavit voce magna omnibus avibus que volabant per medium celi”, id est omnibus evangelicis et contemplativis illius temporis: “Venite, congregamini ad cenam Dei magnam”, id est ad spirituale et serotinum convivium Christi, in quo quidem devorabitur universitas moriture carnis, ut transeat quod carnale est et maneat quod spirituale est. |
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[LSA, cap. VI, Ap 6, 7; IIa visio, apertio IVi sigilli] Si autem queras quomodo aquila, id est contemplativus status quarti temporis, docuit ista, ita ut diceret: “Veni et vide”, potest ratio duplex dari.
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Purg. IV, 13-14, 55-60Di ciò ebb’ io esperïenza vera,
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3. “Sapete qual è quello / dubbio che m’è digiun cotanto vecchio”
L’agone del dubbio. Secondo il principio della concorrenza tra gli status, cioè dei periodi della storia della Chiesa, affermato nel Notabile X del prologo della Lectura super Apocalipsim, il sesto stato – cioè il periodo in cui vivono Olivi e Dante, iniziato con Francesco d’Assisi – concorre con il secondo, per antonomasia lo stato dei martiri, non per connessione temporale (questo inizia infatti con la persecuzione di Nerone o con la lapidazione di santo Stefano o con la passione di Cristo e dura fino alla pax costantiniana), ma a motivo della quantità dei testimoni della fede. Il tipo di martirio è tuttavia diverso. I martiri del sesto stato soffrono nel dubbio, il loro è un “certamen dubitationis” che i primi testimoni della fede non provarono per l’evidenza dell’errore in cui incorrevano gli idolatri pagani. Nel sesto stato il martire non prova soltanto il tormento del corpo, viene anche spinto (“propulsabuntur martires”) dalla sottigliezza degli argomenti filosofici, dalle distorte testimonianze scritturali, dall’ipocrita simulazione di santità, dalla falsa immagine dell’autorità divina o papale, in quanto falsi pontefici insorgono, come Anna e Caifa insorsero contro Cristo. Per rendere più intenso il martirio, i carnefici stessi operano miracoli. Tutto ciò appartiene alla tribolazione del tempo dell’Anticristo, alla tentazione che induce in errore persino gli eletti, come testimoniato da Cristo nella grande pagina escatologica di Matteo 24, 24: “dabunt signa magna et prodigia, ita ut in errorem inducantur, si fieri potest, etiam electi”. Scrive Gregorio Magno nei Moralia, commentando Giobbe 40, 12 – “stringe (nel senso di tendere) la sua coda come un cedro” -: “ora i nostri fedeli fanno miracoli nel patire perversioni, allora i seguaci di Behemot faranno miracoli anche nell’infliggerle. Pensiamo perciò quale sarà la tentazione della mente umana allorché il pio martire sottoporrà il corpo ai tormenti mentre davanti ai suoi occhi il carnefice opererà miracoli”.
Fra i tanti luoghi del poema toccati dal tema del martirio inferto dal dubbio particolare rilievo assume, in Inf. V, l’episodio di Francesca e Paolo, d’altronde principalmente ordito su temi del secondo stato.
Il vecchio dubbio di Dante sulla giustificazione per la fede (con la conseguente questione della salvezza degli infedeli giusti) viene sciolto dall’Aquila, che s’assottiglia su quel mistero, con riferimento all’autorità della Scrittura, senza la quale “da dubitar sarebbe a maraviglia” (Par. XIX, 32-33, 82-84). Si meraviglia il poeta nel sentire che Traiano e Rifeo Troiano sono fra i beati: il “dubbiar … con la forza del suo peso” gli “pinse” le parole, “tempo aspettar tacendo non patio” (Par. XX, 79-84; patiuntur, nell’esegesi, esclude la variante soffrìo) [1]. Ma non è un perverso patire. L’Aquila, immagine e segno, non è depositaria degli “intorta testimonia scripturarum sanctarum” che hanno ‘spinto’ gli occhi dei due amanti, né si nasconde “per falsam imaginem divine et pontificalis auctoritatis” dalla quale Guido da Montefeltro è stato ingannato.
In tanta insistenza sul tema del dubbio, che è un patire assimilabile al martirio, non sarà casuale che il verso “di che facei question cotanto crebra” (XIX, 69) rispecchi l’esegesi lì dove si riferisce alla tribolazione dei santi sulla quale insiste la seconda visione, relativa all’apertura dei sette sigilli: “non tamen sic crebra et expressa mentio fit ibi de interfectione et tribulatione sanctorum” (prologo, Notabile V).
[1] La domanda di Dante “Che cose son queste?”, spinta dal dubbio, e il successivo rispondere dell’Aquila “per non tenermi in ammirar sospeso” (vv. 85-87) rinviano all’esegesi di Ap 7, 13, più volte variata nel poema.
Par. XIX, 67-69Assai t’è mo aperta la latebra
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[LSA, prologus, Notabile V] Quamvis autem in ceteris visionibus tangantur pugne drachonis et suorum contra sanctos, non tamen sic crebra et expressa mentio fit ibi de interfectione et tribulatione sanctorum. |
L’Aquila applica a sé il tema del martirio dicendo: “e in terra lasciai la mia memoria” (Par. XIX, 16) – “Martiria vero, martires configurantia Christo passo et testimonium dantia Christo et fidei eius et virtutis exemplum relinquentia posteris, debuerunt esse multa et diuturna, tum propter maiorem gloriam Christi, tum propter maiorem confirmationem fidei, tum propter maiorem coronam maioremque societatem ipsorum martirum” (prologo, Notabile XII). I martiri, assimilati nella passione alla figura di Cristo, diedero testimonianza a lui e alla sua fede lasciando ai posteri un esempio di virtù per la sua maggior gloria. Al termine del viaggio, le parole “che dopo ’l sogno la passione impressa / rimane” (Par. XXXIII, 59-60) non fanno riferimento solo a una generica emozione. La “passione” che Dante prova nella visione finale rinnova quella di Cristo. Il poeta ‘soffre’ e ‘sostiene’ (due verbi appropriati ai martiri: vv. 76, 80) l’acume del vivo raggio, e invoca la somma luce affinché offra di nuovo (‘ripresti’) alla sua memoria un barlume di quel che ha visto e affinché renda la sua lingua tanto possente da essere in grado, esprimendosi, di lasciare ai posteri anche solo una favilla della gloria divina: “e fa la lingua mia tanto possente, / ch’una favilla sol de la tua gloria / possa lasciare a la futura gente”. Così gli uomini meglio comprenderanno la “vittoria” di Dio, cioè il suo infinito valore, ma anche il suo trionfo sulla passione (vv. 67-75).
Dodici stelle e sei gemme. Nella quarta visione, della donna vestita di sole, che tiene la luna sotto i piedi ed è cinta sul capo da una corona di dodici stelle (Ap 12, 1), si dice: “Era incinta e gridava partorendo e si doleva per partorire” (Ap 12, 2). Questa donna è per antonomasia la Vergine Maria genitrice di Dio; in generale designa la Chiesa, soprattutto quella primitiva. La Vergine, infatti, se concepì nell’utero del corpo e della mente Cristo, portò anche nell’utero del cuore l’intero corpo mistico di Cristo, come fosse la sua prole. Costei chiama gridando, sia col gemito dei sospiri sia col suono della predicazione, nel partorire Cristo che sarà crocifisso e che per la croce risorgerà manifestamente nella gloria del Padre, partorendo insieme con grave angustia il corpo mistico del figlio che sarà rigenerato nella grazia e nella gloria di Dio, che è anche il Cristo che si formerà e nascerà nei cuori.
Olivi riduce le dodici stelle che coronano il capo della donna vestita di sole a sei gemme, ciascuna delle quali unisce due perfezioni stellari. I sei spiriti luminosi che formano la pupilla (David) e risplendono sul ciglio dell’occhio dell’Aquila (Traiano, Ezechia, Costantino, Guglielmo II d’Altavilla detto il Buono, Rifeo Troiano) sono ricordati complessivamente in dodici terzine, a ciascuno ne sono dedicate due. La simmetria numerica con quanto esposto nell’esegesi si estende ai significati connessi alle sei gemme, se confrontati con la seconda terzina riferita a ciascuna luce, dove questa riconosce la giustizia divina nel remunerare secondo i meriti (David) e nel punire (Traiano), nella sua inerrabilità e nella sua incomprensibile misericordia (Ezechia), nelle sue virtù affettive (Guglielmo II), nell’elargire grazie (Rifeo Troiano). Costantino, che trasferì l’Aquila a Bisanzio per lasciare al papa la sovranità su Roma, “ora conosce come il mal dedutto / dal suo bene operar non li è nocivo, / avvegna che sia ’l mondo indi distrutto”. La sua fu “offerta / forse con intenzion sana e benigna” (Purg. XXXII, 137-138), ma anch’essa, come ora riconosce, rientrò nei disegni divini: il corso degli eventi temporali ha infatti in Dio le sue ragioni eterne ed esemplari [1].
[1] Al v. 36 – “e’ di tutti lor gradi son li sommi” – la variante di tutto loro grado (Inglese) non sembra trovare giustificazione in quanto i gradi non si riferiscono a differenze di rango (gli spiriti sono tutti parimente sommi), ma alla presentazione fatta dall’Aquila che gradatamente ascende sull’arco del ciglio (David, Traiano), si sofferma sul culmine (Costantino) per poi discendere (Ezechia, Guglielmo II). Salire e scendere progressivamente (gradatim) è tema tipico dell’esegesi riguardante la chiesa di Efeso (Ap 2, 5), più volte variato nel poema.
Tab. XX.3
[LSA, cap. XII, Ap 12, 1-2 (IVa visio, IVum radicale)] Item tam in ipsa quam in ecclesia contemplativa est corona duodecim stellarum, id est duodecim stellarium contemplationum seu sex gemmarum. |
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Par. XX, 37-72 |
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Quintum par est contemplatio remunerabilium me-ritorum et beatificantium premiorum. |
Colui che luce in mezzo per pupilla,
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Primum enim par est contemplatio corporalium naturarum et spiritualium substantiarum. |
Dei cinque che mi fan cerchio per ciglio,
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Quartum par est contemplatio inenarrabilium iudi-ciorum et incomprehensibilium misericordiarum. |
E quel che segue in la circunferenza
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Sextum par est contemplatio decursuum tempo-ralium et suarum rationum eternalium et exem-plarium. |
L’altro che segue, con le leggi e meco,
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Secundum par est contemplatio scientiarum intellec-tualium et virtutum affectualium. |
E quel che vedi ne l’arco declivo,
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Tertium par est contemplatio legum divinitus institu-tarum et gratiarum divinitus infusarum. |
Chi crederebbe giù nel mondo errante
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La porta aperta. Nel sesto stato della storia della Chiesa – iniziato con la conversione di san Francesco (1206), si concluderà con la prossima sconfitta dell’Anticristo e la distruzione di Babylon, la Chiesa carnale – ci si dedica più al gusto della contemplazione che alle forti opere della vita attiva, e perciò non è data a questo periodo tanta forza e virtù (robur virtutis) per forti opere, come è stata data agli stati precedenti, e in particolare agli anacoreti del quarto (cfr. Ap 2, 26-28), opere che gli uomini sensuali ammirano, stimano e, da esse mossi, sono tratti a imitare e desiderare più di quelle intellettuali e interne. Ciò avviene anche perché ciascun periodo abbia modo di umiliarsi di fronte agli altri, rispetto ai quali è superiore e insieme superato. La “porta aperta” della volontà alla fede data per grazia al sesto stato supplisce al difetto di forza, alla modica virtù. Nei tempi moderni non avvengono miracoli; i segni e i prodigi sono concessi infatti all’Anticristo e ai suoi seguaci. La conversione attraverso stupendi e innumerevoli miracoli ha caratterizzato il primo tempo cristiano, la nuova conversione finale del mondo dovrà avvenire tramite la luce della sapienza divina e delle Scritture, alla cui contemplazione il sesto stato deve venire elevato per potervi entrare. Coopererà a questo ingresso tutta l’illuminazione degli stati precedenti e l’universale fama di Cristo, della sua fede e della sua Chiesa diffusa per il mondo a partire dal primo stato fino ai tempi odierni (Ap 3, 7-8).
A Dante, che con animo offeso da viltà ha mutato il primo proposito di seguirlo nel viaggio, Virgilio spiega le cause del suo venire per levarlo dalla lupa che gli impedisce la salita del “dilettoso monte”. Il racconto del poeta pagano sulle tre donne che curan di lui nella corte del cielo promette al suo discepolo molto bene (alla sesta chiesa Cristo “multa et singularia sibi promittit”), tanto che la virtù stanca di Dante si trasforma in ardore, come i “fioretti”, chinati e chiusi dal gelo notturno, una volta illuminati dal sole si drizzano aperti sullo stelo. Il poeta ringrazia Virgilio per aver ubbidito subito alle “vere parole” (alla sesta chiesa Cristo si propone “ut verum in promissis”) porte da Beatrice (Inf. II, 121-135). I dubbi di Dante riguardavano la propria virtù (“Poeta che mi guidi, / guarda la mia virtù s’ell’ è possente”, vv. 10-12), perché “ad immortale secolo” andarono solo Enea e san Paolo. Il primo a causa dell’“alto effetto” che doveva uscire dalla sua vittoria: il “victoriosus effectus” è il conseguimento della quarta vittoria, degli operosi anacoreti (Ap 2, 26-28). Il secondo per recare conforto alla fede. Dante non è Enea né Paolo, non ha virtù per opere forti, non vive in un momento in cui la conversione si opera per i miracoli. Ha scarsa virtù (modica virtus), ma in compenso la porta gli è aperta. Glielo ripeterà Cacciaguida: “sicut tibi cui / bis unquam celi ianüa reclusa?” (Par. XV, 29-30). A lui spetta di entrare per essere elevato alla luce della sapienza divina. Ma perché la sua vista entri “per lo raggio / de l’alta luce che da sé è vera” (XXXIII, 52-54) dovrà ripercorrere tutta la storia umana che a quella visione deve cooperare. Come all’ingresso del sesto stato coopera tutta l’illuminazione degli stati precedenti e l’universale fama della fede di Cristo, così Beatrice si rivolge a Virgilio: “O anima cortese mantoana, / di cui la fama ancor nel mondo dura, / e durerà quanto ’l mondo lontana” (Inf. II, 58-60). Nel Limbo, Dante viene accolto nella schiera dei poeti che formano “la bella scola / di quel segnor de l’altissimo canto”: Virgilio è quinto, “sì ch’io fui sesto tra cotanto senno” (Inf. IV, 94-96, 100-102).
Traiano e Rifeo Troiano morirono cristiani, non pagani, “in ferma fede / quel d’i passuri e quel d’i passi piedi” (Par. XX, 104-105; cfr. Ap 3, 12; 10, 1). Rifeo Troiano, vissuto “dinanzi al battezzar più d’un millesmo”, sperimentò il tempo futuro, quello del sesto stato della storia della Chiesa; a lui fu data per grazia divina la porta aperta al credere: “per che, di grazia in grazia, Dio li aperse / l’occhio a la nostra redenzion futura; / ond’ ei credette in quella” (vv. 122-124). Nel caso di Traiano, gli elementi semantici che definiscono le prerogative della “porta aperta” data al sesto stato sono diversamente appropriati: la possa (robor virtutis) è nella speranza infusa nelle preghiere di Gregorio Magno affinché l’anima dell’imperatore tornasse a riprendere il corpo “sì che potesse sua voglia esser mossa” a credere, gli fosse cioè aperta la porta della volontà alla fede, prerogativa che sarebbe stata preminente solo a partire dal XIII secolo, ma che la giustizia divina attribuì a un pagano vissuto al tempo delle persecuzioni, nel secondo stato della storia della Chiesa.
Nei versi 112-117, relativi a Traiano, si attua un passaggio dal senso morale, designato dal vino, a quello anagogico, designato dall’olio (Ap 6, 6). L’anima, ritornata alla carne dall’inferno per le preghiere di san Gregorio, “s’accese in tanto foco / di vero amor” (tema del vino o del senso morale) da meritare “di venire a questo gioco” (tema dell’olio – “iocunditas Christi et glorie eius” o del senso anagogico). Da notare l’espressione “ora conosce quanto caro costa / non seguir Cristo, per l’esperïenza / di questa dolce vita e de l’opposta” (vv. 46-48): la conoscenza sperimentale, propria del senso morale o dei dottori del terzo stato (è il terzo esercizio considerato ad Ap 2, 1), per Traiano, come avvenuto per Enea e san Paolo (Inf. II, 13-30), si è estesa dalle cose sensibili a quelle sovrasensibili (la vita celeste).
Antica prefigurazione della porta aperta data al sesto stato della Chiesa fu Ezechia, il re di Giuda che ottenne pregando Dio di procrastinare per penitenza la propria morte. La sesta chiesa d’Asia, Filadelfia, si avvantaggia del “verbum patientie” con il quale Cristo prolunga per i peccatori il tempo della penitenza (Ap 3, 10).
Tab. XX.4
[LSA, cap. III, Ap 3, 7-8 (Ia visio, VIa ecclesia)] Nota etiam quod quia tunc amplius vacabitur excessibus et gustibus contemplationis quam fortibus active operibus, ideo non dabitur ei tantum robur virtutis ad fortia opera sicut datum est primis statibus et specialiter quarto, quod fiet non solum propter causam predictam, sed etiam ut unusquisque status habeat unde alteri humilietur et debeat humiliari, propter quod habent se sicut excedentia et excessa.
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Par. XX, 106-126Ché l’una de lo ’nferno, u’ non si riede
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Inf. II, 10-12, 127-132
Io cominciai: “Poeta che mi guidi,
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AVVERTENZE
■ Seppure segue l’ordine dei ventidue capitoli dell’Apocalisse, Olivi suggerisce, nel prologo della Lectura, un metodo differente di comprensione e di aggregazione del testo, fondato sui sette stati (status), cioè sulle epoche nelle quali si articola la storia della Chiesa, prefigurate nell’Antico Testamento.
L’Apocalisse si articola in sette visioni: le sette chiese d’Asia, i sette sigilli, le sette trombe, la donna vestita di sole (le sette guerre sostenute dalla Chiesa), le sette coppe, il giudizio di Babylon nelle sette teste del drago, la Gerusalemme celeste. Le prime sei visioni possono essere a loro volta divise in sette momenti, ciascuno dei quali riferibile a uno dei sette stati. Assembrando, per le prime sei visioni, tutti i primi elementi (chiesa, sigillo, tromba, guerra, coppa, momento del giudizio di Babylon), tutti i secondi, i terzi e così di seguito, si ottengono sette gruppi di materia teologica, corrispondenti al complesso dei temi afferenti a ciascuno dei sette stati. A questi sette gruppi si aggiungono altri due: l’esegesi della settima visione (senza articolazioni interne) e l’esegesi di capitoli del testo scritturale, o di parti di essi, introduttivi delle successive specificazioni delle singole visioni per settenari, che Olivi definisce “radicalia” o “fontalia”. Si ottengono in tal modo nove gruppi: le parti proemiali, i sette assembramenti di settenari e la settima visione. Il grande prologo della Lectura, articolato in tredici notabilia, può essere anch’esso aggregato secondo i sette stati. Un libro (la Lectura) contiene dunque princìpi e criteri affinché l’accorto lettore possa trarne un altro libro, fatto con lo stesso materiale ma ricomposto e distribuito in forma diversa.
■ La Commedia mostra un ordine interno diverso da quello che appare al lettore: il viaggio di Dante ha un andamento di ciclici settenari, che corrispondono ai sette stati della storia della Chiesa, cioè alle categorie con cui Olivi organizza la materia esegetica. Questo ordine interno è registrabile per zone progressive del poema dove prevale, tramite parole-chiave, la semantica riferibile a un singolo stato. È un’intima struttura dirompente i confini letterali stabiliti dai canti e da tutte le divisioni materiali per cerchi, gironi, cieli. Ogni stato, che ha differenti inizi, è concatenato per concurrentia, come le maglie di un’armatura, con quello che precede e con quello che segue. Si possono in tal modo redigere mappe che comprendano l’ordine spirituale della Commedia. La ricerca è pervenuta a una Topografia spirituale della Commedia, dove quasi per ogni verso, o gruppo di versi, collegamenti ipertestuali conducono al “panno” esegetico fornito dalla Lectura super Apocalipsim, sul quale il “buon sartore” ha fatto “la gonna” (cfr. Par. XXXII, 139-141).
■ A ogni gruppo è arbitrariamente assegnato un diverso colore: Radici (verde), I stato (verde acqua), II stato (rosso), III stato (nero), IV stato (viola), V stato (marrone), VI stato (blu), VII stato (indaco), VII visione (fucsia). Dei gruppi sono stati integralmente studiati il terzo stato e la settima visione.
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■ Non di rado nei versi alcune parole o incisi-chiave possono rinviare a più luoghi esegetici. Questo perché il testo dottrinale contenuto nella Lectura, prima di travasarsi semanticamente nella Commedia, è stato sottoposto a una duplice riorganizzazione. La prima, sulla base delle indicazioni dello stesso Olivi, secondo il materiale esegetico attribuibile ai singoli stati. La seconda, seguendo il principio applicato nelle distinctiones ad uso dei predicatori, sulla base di lemmi analogicamente collazionati. La “mutua collatio” di parti della Lectura arricchisce il significato legato alle parole e consente uno sviluppo tematico amplificato. Si vedano, ad esempio, le variazioni eseguite sul tema della “voce” o sull’espressione “in medio”, temi più volte iterati nel sacro testo, oppure il modo con cui Ap 1, 16-17 (l’esegesi della decima e undecima prefezione di Cristo come sommo pastore) percorre i versi in collazione con altri passi. A ciò predispone lo stesso testo scritturale, poiché l’Apocalisse contiene espressioni, come Leitmotive, che ritornano più volte. È determinata da parole-chiave che collegano i passi da collazionare. È suggerita dallo stesso Olivi, nel prologo, per una migliore intelligenza del testo.
■Tutte le citazioni della Lectura super Apocalipsim presenti nei saggi o negli articoli pubblicati su questo sito sono tratte dalla trascrizione, corredata di note e indici, del ms. Paris, Bibliothèque nationale de France, lat. 713, a disposizione fin dal 2009 sul sito medesimo. I passi scritturali ai quali si riferisce l’esegesi sono in tondo compresi tra “ ”; per le fonti diverse da quelle indicate si rinvia all’edizione in rete. Non viene presa in considerazione l’edizione critica a cura di WARREN LEWIS (Franciscan Institute Publications, St. Bonaventure – New York, 2015) per le problematiche da essa poste, che sono discusse in ALBERTO FORNI – PAOLO VIAN, A proposito dell’edizione di Warren Lewis della Lectura super Apocalipsim di Pietro di Giovanni Olivi. Alcune osservazioni, in “Archivum Franciscanum Historicum”, 109 (2016), pp. 99-161.
Il testo della Commedia citato è in Dante Alighieri, La Commedia secondo l’antica vulgata, a cura di GIORGIO PETROCCHI, Firenze 1994. Si tiene anche conto della recente edizione a cura di GIORGIO INGLESE, Firenze 2021 (Società Dantesca Italiana. Edizione Nazionale), qualora il testo proposto si discosti da quello del Petrocchi e la scelta della variante risulti discutibile nel confronto con la LSA.
ABBREVIAZIONI
Ap: APOCALYPSIS IOHANNIS.
LSA: PIETRO DI GIOVANNI OLIVI, Lectura super Apocalipsim.
Concordia: JOACHIM VON FIORE, Concordia Novi ac Veteris Testamenti. Herausgegeben von A. PATSCHOVSKY, Wiesbaden 2017 (Monumenta Germaniae Historica. Quellen zur Geistesgeschichte des Mittelalters, 28. Band), Teil 2 (lib. I-IV), Teil 3 (lib. V).
Expositio: GIOACCHINO DA FIORE, Expositio in Apocalypsim, in Edibus Francisci Bindoni ac Maphei Pasini, Venetiis 1527, ristampa anastatica Minerva, Frankfurt a. M. 1964.
Olivi opera spesso una sintesi del testo di Gioacchino da Fiore. Le « » precedono e chiudono un’effettiva citazione. Diversamente, viene posto un asterisco (*) o una nota in apice al termine della parte riferibile a Gioacchino.
In Ap: RICCARDO DI SAN VITTORE, In Apocalypsim libri septem, PL 196, coll. 683-888.
Note sulla “topografia spirituale” della Commedia
Per quanto segua l’ordine dei ventidue capitoli dell’Apocalisse, Olivi suggerisce un metodo differente di comprensione e di aggregazione del testo esegetico, fondato sui sette stati, cioè sui periodi nei quali si articola la storia della Chiesa. L’Antico Testamento corrisponde alle prime cinque età del mondo, secondo la divisione tradizionale [1]: è l’età del Padre secondo Gioacchino da Fiore. Con il primo avvento di Cristo, nella carne, inizia la sesta età (l’età del Figlio), nella quale la Chiesa, come fosse un individuo, cresce e si sviluppa in sette stati. Al primo, apostolico periodo, succede il secondo dei martiri; poi, al tempo di Giustiniano, il terzo stato dei dottori che confutano con l’intelletto le eresie concorre con il quarto stato degli affettuosi anacoreti devoti al pasto eucaristico, alti per la contemplazione ma anche attivi come reggitori delle genti; a partire da Carlo Magno subentra il quinto stato aperto alla vita associata delle moltitudini, bello nel principio ma poi corrottosi fino a trasformare quasi tutta la Chiesa in una nuova Babilonia; la riforma interviene, a partire da Francesco, con il cristiforme sesto stato, fino alla sconfitta dell’Anticristo; subentra infine il silenzio e la quiete del pacifico settimo stato. Il sesto e il settimo stato (la terza età di Gioacchino da Fiore) coincidono con il secondo avvento di Cristo, nello Spirito, cioè nei suoi discepoli spirituali inviati a convertire il mondo con la predicazione; al termine del settimo stato ci sarà il terzo avvento, nel giudizio.
L’Apocalisse si articola in sette visioni: le sette chiese d’Asia, i sette sigilli, le sette trombe, la donna vestita di sole (le sette guerre sostenute dalla Chiesa), le sette coppe, il giudizio di Babylon nelle sette teste del drago, la Gerusalemme celeste. Le prime sei visioni possono essere a loro volta divise in sette momenti, ciascuno dei quali riferibile a uno dei sette stati. Assembrando, per le prime sei visioni, tutti i primi elementi (chiesa, sigillo, tromba, guerra, coppa, momento del giudizio di Babylon), tutti i secondi, i terzi e così di seguito, si ottengono sette gruppi di materia teologica, corrispondenti al complesso dei temi afferenti a ciascuno dei sette stati [2]. A questi sette gruppi se ne aggiungono altri due: l’esegesi della settima visione (senza articolazioni interne) e l’esegesi di capitoli del testo scritturale, o di parti di essi, introduttivi delle successive specificazioni delle singole visioni per settenari, che Olivi definisce “radicalia” o “fontalia”. Si ottengono in tal modo nove gruppi: le parti proemiali, i sette assembramenti di settenari e la settima visione. Il grande prologo della Lectura, articolato in tredici notabilia, può essere anch’esso aggregato nelle sue parti secondo i sette stati.
L’intenso travaso di parole-temi dalla Lectura nella Commedia si accompagna a un fatto strutturale. La Commedia mostra un ordine interno diverso da quello che appare al lettore: il viaggio di Dante ha un andamento di ciclici settenari, che corrispondono ai sette stati oliviani. È un ordine registrabile per zone progressive del poema dove prevalgono i temi di un singolo stato, che rompe i confini letterali stabiliti dai canti e da tutte le divisioni materiali per cerchi, gironi, cieli. Ogni stato, che ha differenti inizi, è concatenato per “concurrentia”, come le maglie di un’armatura, con quello che precede e con quello che segue. Ciascuno stato ha in sé una grande ricchezza di motivi e contiene inoltre temi di tutti gli altri, consentendo innumerevoli intrecci e variazioni. La Commedia appare, come l’Apocalisse, “libro scritto dentro e fuori” (Ap 5, 1), con duplice struttura, linguaggio e senso, letterale e spirituale. Il viaggio di Dante e la visione di Giovanni hanno la stessa causa finale, che è la beatitudine, alla quale si perviene con diverse guide, per gradi segnati da visioni sempre più nuove e ardue delle precedenti, attraverso una sempre maggiore apertura dell’arcano coperto dal velame dei sette sigilli fino al punto più alto in cui, in questa vita, è possibile vedere la verità.
Tutti i modi del linguaggio interiore al poema esprimono un processo, un viaggio dal più chiuso al più aperto, e in questo andare hanno una loro precisa collocazione ‘topografica’, uno ‘stato’ (nel senso di momento storico che ricade sulla coscienza individuale) al quale appartenere. Si possono in tal modo stendere vere e proprie mappe tematiche che comprendano l’ordine spirituale di tutta la Commedia che aderisce, parodiandola semanticamente, a una precisa teologia della storia, sia pure modificandone profondamente le prospettive. La ciclicità dei temi permette di stabilire collegamenti inusitati tra le diverse zone; il procedere per gradi dell’illuminazione divina fa sì che episodi oscuri e quasi ermeticamente chiusi si chiariscano poi, aprendosi all’intelligenza in modo più alto.
A ogni gruppo è arbitrariamente assegnato un diverso colore: Radici (verde), I stato (verde acqua), II stato (rosso), III stato (nero), IV stato (viola), V stato (marrone), VI stato (blu), VII stato (indaco), VII visione (fucsia). Dei gruppi sono stati integralmente studiati il terzo stato e la settima visione.
INFERNO
(le prime cinque età del mondo)
La ‘topografia spirituale’ del poema mostra nell’Inferno cinque cicli settenari corrispondenti agli stati della Chiesa descritti da Olivi e ai loro temi contenuti nella Lectura. Questi cinque cicli designano le prime cinque età del mondo (riunite a loro volta nel primo stato generale, che corrisponde all’età del Padre di Gioacchino da Fiore), in quanto prefigurazione del primo avvento di Cristo e della Chiesa.
I cinque cicli settenari che si susseguono nell’Inferno a partire dal quarto canto (i primi tre canti hanno una tematica particolare) sono preceduti da cinque zone che possono essere definite ‘snodi’, dove cioè confluiscono temi provenienti da più stati, intrecciati insieme ad altri ad avviare il procedere settenario. Il centro di questi ‘snodi’ coincide con un canto (Inf. IV, X, XVII, XXVI, XXXII), ma la zona è più vasta e supera l’ambito dato dalla divisione letterale del poema.
Inf. I-III sono da considerare al di fuori dei cicli. Inf. I e II sono profondamente segnati dai temi del sesto stato. Inf. III è riferibile al settimo stato (per gli ignavi) e in parte al quinto (per l’episodio di Caronte). |
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canti |
I ciclo |
stati |
cerchi |
IV |
Limbo |
Radici, I (I snodo) |
I |
V |
lussuriosi |
II |
II |
VI |
golosi |
III |
III |
VII |
avari e prodighipalude Stigia
|
III–IV
V |
IV
|
VIII |
palude Stigia (orgogliosi)
|
V |
V |
IX |
apertura della porta di Dite |
V–VI |
|
canti |
II ciclo |
stati |
cerchi |
IX-X-XI |
eretici, ordinamento dell’inferno |
I (II snodo) |
VI |
XII |
violenti contro il prossimo |
II |
VII (girone 1) |
XIII |
violenti contro sé |
III |
(girone 2) |
XIV |
violenti contro Dio: bestemmiatori |
IV |
(girone 3) |
XV-XVI |
violenti contro Dio: sodomiti |
V |
|
XVIXVII |
ascesa di GerioneGerione, violenti contro Dio: usurai |
VI |
canti |
III ciclo |
stati |
cerchi |
XVII |
volo verso Malebolge |
I (III snodo) |
|
XVIII |
ruffiani, lusingatori |
Radici – II |
VIII (bolgia 1, 2) |
XIX |
simoniaci |
III |
(bolgia 3) |
XX |
indovini |
IV |
(bolgia 4) |
XXI-XXII |
barattieri |
V |
(bolgia 5) |
XXIII |
ipocriti |
V–VI |
(bolgia 6) |
XXIV-XXV |
ladri |
VI |
(bolgia 7) |
canti |
IV ciclo |
stati |
cerchi |
XXVI |
consiglieri di frode (greci) |
I (IV snodo) |
(bolgia 8) |
XXVII |
consiglieri di frode (latini) |
II |
|
XXVIII-XXIX |
seminatori di scandalo e di scisma |
III |
(bolgia 9) |
XXIX |
falsatori |
IV |
(bolgia 10) |
XXX |
falsatori |
IV–V |
|
XXXI |
giganti |
V–VI |
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canti |
V ciclo |
stati |
cerchi |
XXXII |
Cocito: Caina, Antenora |
I (V snodo) |
IX |
XXXIII |
Antenora, Tolomea |
II |
|
XXXIV |
Giudecca |
III–IV–V |
|
XXXIV |
volgersi di Virgilio sull’anca di Lucifero |
VI |
|
Il sesto stato è per Olivi la fase più importante nella costruzione dell’edificio della Chiesa. In esso “renovabitur Christi lex et vita et crux”. Corrisponde ai tempi moderni. Ha quattro diversi inizi temporali: uno profetico, con Gioacchino da Fiore, il quale lo vide in spirito concependo la sua terza età; il secondo con la conversione di Francesco (1206), che seminò la pianta; il terzo con la predicazione degli uomini spirituali, per la quale la pianta si rinnovella; il quarto con la distruzione storica di Babylon. Dura fino alla sconfitta dell’Anticristo, il cui avvento si collocherebbe, secondo i numeri della profezia di Daniele 12, 11-12 combinati con Ap 12, 6 e 14, fra il 1290 e il giubileo di pace del 1335.
Una ‘vita nuova’ si instaura nel sesto stato, per eccellenza il momento dell’imitazione di Cristo. I rami dell’albero si dilatano producendo il frutto della carità, l’acqua che proviene da Cristo-fonte attraverso il condotto che percorre i primi cinque stati della Chiesa si effonde in un lago; è il tempo, assimilato al sacramento del matrimonio, della letizia nuziale, della familiarità, dell’amicizia. Corrisponde al sesto giorno della creazione, in cui vennero creati prima i rettili e le bestie irrazionali, poi l’uomo razionale che, come l’ordine evangelico, è fatto a immagine e somiglianza di Dio e domina tutti gli animali.
Le espressioni di Olivi relative al sesto stato – “quoddam sollempne initium novi seculi … renovaretur et consumaretur seculum”, nel quale il sacerdozio apostolico “redeat et assurgat ad ordinem primum”, la “nova Ierusalem”, interpretata come “visione di pace”, viene vista “descendere de celo” e la Chiesa descritta come la donna vestita di sole con la sua “virginea proles” – sono la veste spirituale dei versi della quarta egloga virgiliana che celebrano la rinnovata età dell’oro: “Magnus ab integro saeclorum nascitur ordo / iam redit et Virgo; redeunt Saturnia regna; / Iam nova progenies caelo demittitur alto” (Egloga IV, 5-7). Olivi completa la Lectura super Apocalipsim nel 1298, poco prima di morire, il 14 marzo, a Narbonne. Quel felicissimo stato segnato dalla pace sotto il divo Augusto, che rese l’umanità disposta al primo avvento di Cristo, si sta rinnovando nel sesto stato della Chiesa, nel secondo avvento nello Spirito. Scrive Arsenio Frugoni: “[…] quell’escatologismo, oltre che ideologia di lotta e di riforma del gruppo spirituale, era anche un vero e proprio sentimento storico […] una tensione di rinnovamento, una ansia di salvezza, che nel 1300, l’anno centenario della Natività, aveva trovato come una attivazione, in un senso di pienezza dei tempi, cui doveva corrispondere un fatto, un accadere meraviglioso e nuovo” [3].
All’apertura del sesto sigillo, l’eletta schiera dei riformatori – i 144.000 segnati dalle dodici tribù d’Israele – guida la turba innumerevole di ogni gente, tribù, popolo e lingua (Ap 7, 3-4.13). Questi eletti e magnanimi duci, separati dalla volgare schiera per più alta milizia, vengono destinati a difendere liberamente la fede – ad essi è data la “plena libertas ad innovandam christianam religionem” -; sono gli amici di Dio a lui noti per nome, configurati in Cristo crocifisso e votati al martirio.
All’interno della Chiesa del sesto stato, l’Ordine dei Minori – “ordo plurium personarum” – è assimilabile alla persona umana di Cristo. Come questa si sviluppò fino all’età virile, così dovrà essere per l’ordo evangelicus piantato da Francesco, che avrà bisogno (a differenza di Cristo che stette poco tempo nel mondo) di due o tre generazioni per svilupparsi prima di subire una condanna simile a quella di Cristo [4]. La sua maturità coincide, verso il 1300, con il terzo inizio del sesto stato, cioè con il rinnovarsi per opera dello Spirito di Cristo, nel suo secondo avvento, della pianta seminata da Francesco. Questa concezione dell’Ordine francescano come individuo in sviluppo che, perfettamente maturato, diventa il novus ordo preconizzato da Gioacchino da Fiore per l’età dello Spirito, si differenzia da quella di Bonaventura, che aveva invece distinto i Francescani del proprio tempo – e quindi anche gli Spirituali – dall’Ordine finale che dominerà fino ai confini della terra. Alla terza apertura del sesto sigillo nuovi san Giovanni vengono inviati a predicare al mondo come nel tempo degli Apostoli. Ma Giovanni non designa solo un Ordine, perché Olivi lascia aperta la possibilità di rivelazioni individuali, avute da “singulares persone”, perfetti imitatori di Cristo votati, con la loro “lingua erudita”, al compito della conversione universale.
[LSA, cap. X, Ap 10, 11] “Et dixit michi: Oportet te iterum prophetare in gentibus et populis et linguis et regibus multis”. In ipsa sapientia libri expresse continetur quod oportet iterum predicari evangelium in toto orbe, et Iudeis et gentibus, et totum orbem finaliter converti ad Christum. Sed quod per istum hoc esset implendum non poterat sciri nisi per spiritualem revelationem, et hoc dico prout per Iohannem designantur hic singulares persone quia, prout per ipsum designatur in communi ordo evangelicus et contemplativus, scitur ex ipsa intelligentia libri quod per illum ordinem debet hoc impleri.
Nei cinque cicli settenari della prima cantica il sesto stato è segnato dall’apertura della porta della città di Dite (Inf. IX, 89-90); dall’ascesa di Gerione dall’abisso (Inf. XVI, 106-136); dal precipitoso passaggio dalla quinta alla sesta bolgia (Inf. XXIII, 1-57) e poi dalle trasformazioni della settima, dove i ladri fiorentini si mutano in serpenti e viceversa (Inf. XXIV-XXV); dal chinarsi di Anteo sul fondo dell’inferno (Inf. XXXI, 136-145); dal passaggio del centro della terra, con la conversione di Virgilio sull’anca di Lucifero, che è passaggio verso la sesta età, quella della Chiesa, descritta nel Purgatorio.
Ma i temi propri del sesto stato sono diffusi ovunque, intrecciati con quelli degli altri stati, e alla loro esegesi rinviano precise parole-chiave incardinate nel senso letterale dei versi. L’esegesi dell’angelo del sesto sigillo (Ap 7, 2) è già centrale nel primo canto del poema.
La novità che il sesto stato, per eccellenza stato di rinnovamento di questo secolo, arreca nell’inferno è una novità fittizia: l’apertura della porta della città di Dite non è vera novità, perché essa è stata chiusa dall’ostinazione dei diavoli, recidivi dopo l’apertura della porta dell’inferno da parte di Cristo prefigurata dalla venuta di Ercole all’Ade, per cui Cerbero “ne porta ancor pelato il mento e ’l gozzo”; Gerione viene su ad un “novo cenno” di Virgilio, ma è figura della frode dalla velenosa coda aculeata; il nuovo prodotto dalle trasformazioni reciproche di serpenti e uomini è qualcosa di incompiuto perché l’uomo razionale, creato nel sesto stato, regredisce allo stato precedente.
L’Inferno è il luogo della durezza lapidea, dell’impetrarsi, del parlare duro di cose dure a dirsi, del duro giudizio, del senso duro della scritta al sommo della porta, dei duri lamenti, dei duri demoni, dei duri veli del gelo, della gravezza. Nell’Inferno vige l’imposizione data a Daniele dall’angelo sotto il sesto sigillo dell’Antico Testamento: “Ora tu, Daniele, chiudi queste parole e sigilla questo libro fino al tempo stabilito” (Dn 12, 4), che era la sesta età nella quale apparve Cristo e in particolare il sesto stato della sua Chiesa nella quale il libro doveva essere più pienamente aperto, non però ai malevoli e ai maldisposti. Questa durezza è rotta dall’invito di Dante ai dannati perché parlino. Far parlare liberamente, per dettato interiore, è la principale prerogativa del sesto stato – la nuova età che tanto s’aspetta, quella che ode del “dolce stil novo” e delle “nove rime” -, ed è tema che la poesia canta per intero, sia pure per un attimo, anche nella vecchia roccia infernale. Appartiene alla sesta chiesa il parlare liberamente di Cristo – ad essa è dato l’“ostium apertum”, che è “ostium sermonis” – , il sentire per dettato interiore, l’aprirsi della volontà. Appartiene alla sesta chiesa anche il far venire quelli che si dicono Giudei senza esserlo, mutati nel cuore e disposti a farsi battezzare e governare. Questo far venire a parlare equivale al cortese e liberale invito dello Spirito di Cristo a convivare, a venire con desiderio e volontario consenso, con “disio” e con “velle”, in una pausa di pace nell’eterna dannazione. All’“affettüoso grido” del poeta le ombre di Francesca e Paolo vengono “dal voler portate” verso un momento di mutazione, sebbene limitata al successivo colloquio. Tutto l’Inferno è un contrappunto fra la durezza del giudizio e l’apertura per la parola dirompente, fin che essa dura, la pena. Un’apertura che si esprime in varie forme: muoversi sospirando nel Farinata prima immobile, ‘crollarsi’ quasi per terremoto interiore dello ‘schivo’ Ulisse, convertirsi del vento in voce in Guido da Montefeltro, tornare indietro nel cammino assegnato o separarsi dai compagni di pena, essere sforzati a parlare anche malvolentieri, non poterlo negare o mostrare fretta di farlo, arrestarsi obliando il martirio, levarsi per poi ricadere, sollevarsi da atti bestiali per ritornare a essi dopo aver parlato, come nel conte Ugolino. In tante lingue, che parlano come per sé stesse mosse, sta un solo desiderio, il vivere ancora nel libro che è stato altrui aperto.
Se nell’Inferno il sesto stato non si realizza mai compiutamente, anche il settimo, che gli è strettamente connesso, non può trovare un luogo autonomo. Ciò non toglie che temi del settimo stato (e della settima visione) siano ben presenti in modo diffuso. Ad esempio, quelli relativi alla settima chiesa assumono particolare rilievo nella descrizione degli ignavi a Inf. III. Tempo del silenzio, della serena pace, del riposo dalle ansiose fatiche, il settimo stato subentra dopo le terribili tentazioni inferte, con un martirio non corporale ma psicologico, dai carnefici dell’Anticristo nel sesto. Come ogni momento della storia umana partecipa dell’imitazione di Cristo, che raggiunge l’acme nel sesto stato, così in ogni periodo si verifica una sua “quietatio”, una pausa di pace, di quiete, di silenzio propria del settimo. Così Francesca parla e ascolta “mentre che ’l vento, come fa, ci tace”. Il vento – “la bufera infernal, che mai non resta” – designa il fluttuare tempestoso delle passioni nel cuore.
PURGATORIO
(sesta età del mondo)
Dopo le prime cinque età del mondo (corrispondenti all’Antico Testamento, la gioachimita età del Padre), che hanno segnato la discesa a spirale per i cinque cicli settenari dell’Inferno, con il Purgatorio inizia la sesta età, quella di Cristo (l’età del Figlio), che ha sette stati, corrispondenti ai sette stati della Chiesa. Dapprima, nel cosiddetto ‘antipurgatorio’, si registrano in successione temi prevalenti dei primi cinque stati. Il sesto stato della sesta età (con cui si apre l’età dello Spirito) inizia con l’apertura della porta di san Pietro (la porta del purgatorio). Questo sesto stato procede anch’esso con andamento settenario, per cui ha sette momenti, coincidenti principalmente con un girone della montagna, ma non del tutto, perché sempre l’ordine spirituale del poema rompe i confini letterali e le divisioni materiali, concatenando i temi di uno stato prevalente con quelli dello stato che precede e con quelli dello stato che segue e intrecciandoli con temi di tutti gli altri stati.
È spiegato nel Notabile VII del prologo della Lectura che il sesto stato della Chiesa è il secondo stato di Cristo e ha i suoi sette tempi per cui la Chiesa, come fosse una sfera, si ricongiunge circolarmente al primo apostolico tempo. Il settimo dei sette momenti del sesto stato della Chiesa coincide con il settimo stato generale della Chiesa, che nel poema corrisponde in parte all’ultimo girone della montagna (il settimo, dove si purgano i lussuriosi) e in parte all’Eden, con cui si chiude la seconda cantica.
Il Purgatorio dunque, secondo il senso spirituale, è la storia della Chiesa che corre verso il suo sesto stato, punto di riferimento di tutte le vicende umane, antiche e moderne, che ad esso cooperano. Non è casuale che nel sesto girone della montagna sia chiarificata e riconosciuta, nel colloquio con Bonagiunta da Lucca, la poetica delle “nove rime” di Dante, già “sesto tra cotanto senno” cooptato nella “bella scola” dei poeti del Limbo.
La vasta zona dedicata al sesto momento del sesto stato della Chiesa ha il suo inizio nel forte terremoto che scuote la montagna mentre Dante e Virgilio si trovano ancora nel quinto girone (Purg. XX, 124-141). Essa è stata compiutamente esaminata altrove.
Il settimo stato dell’Olivi si realizza parte in questa vita (come pregustazione in terra della gloria eterna, cioè fin sulla cima della montagna) e in parte nella futura (nel senso della quiete delle anime beate in attesa della resurrezione, che è la materia del Paradiso).
canti |
I ciclo – fino al sesto sato |
stati |
|
I |
Catone |
Radici, I |
|
II |
angelo nocchiero, Casella |
I – II |
|
III |
scomunicati |
III |
“Antipurgatorio” |
IV |
salita al primo balzo, Belacqua |
IV – V |
|
V |
negligenti morti per violenza |
V |
|
VI |
Sordello |
V |
|
VII-VIII |
valletta dei principi |
V |
|
IX |
apertura della porta |
VI – sesto stato |
|
canti |
II ciclo – il sesto stato della sesta età |
stati |
gironi |
X-XII |
superbi |
I |
I |
XIII-XIV-XV |
invidiosi |
II |
II |
XV-XVIII |
iracondiordinamento del purgatorio,amore e libero arbitrio |
III |
IIIIV |
XVIII-XIX |
accidiosi |
IV |
IV |
XIX-XX |
avari e prodighi |
V |
V |
XX (terremoto) -XXV |
Stazio, golosi, generazione dell’uomo |
VI |
VI |
XXV-XXVI |
lussuriosi |
VII – settimo stato |
VII |
XXVIIXXVIII-XXXIII |
muro di fuoconotte stellata, termine dell’ascesaEden |
|
PARADISO
(settimo stato della Chiesa)
Il Primo Mobile è il nono e penultimo cielo, ma è il sesto se si parte dal cielo del Sole. È anche il cielo più segnato dal tema del “punto”, cui è assimilato il sesto stato. Questo consente di ricostruire l’ordine spirituale del Paradiso ponendo la cerniera nel quarto cielo del Sole. Con il terzo cielo di Venere termina infatti il cono d’ombra gettato dalla terra, secondo la dottrina di Alfragano (Par. IX, 118-119), mentre prima di descrivere l’ascesa al cielo del Sole il poeta invita il lettore a rivolgersi “a l’alte rote” (Par. X, 7-27). Senza la cesura recisa che, nella prima cantica, divide i dannati puniti all’interno della città di Dite da quelli che ne stanno fuori e, nella seconda cantica, separa le anime purganti nei sette gironi della montagna dalle anime che attendono fuori della porta (il cosiddetto ‘antipurgatorio’), anche nel Paradiso gli spiriti che si manifestano nei primi tre cieli della Luna, di Mercurio e di Venere (spiriti che mancarono ai voti, spiriti che furono attivi per conseguire onore e fama, spiriti amanti) si distinguono per minore perfezione rispetto a quelli che appaiono nei cieli seguenti.
I dieci cieli del Paradiso si mostrano pertanto ordinati in due gruppi di settenari, corrispondenti agli stati della Chiesa (e alle loro prerogative) secondo Olivi, parzialmente combacianti (da 1 a 7 e da 4 a 10: coincidono gli ultimi quattro numeri del primo gruppo e i primi quattro del secondo).
I Se si considera il primo settenario, nel primo cielo della Luna si affronta la questione dell’inadempienza dei voti, che ha corrispondenza con i temi propri della prima chiesa di Efeso, il cui nome, se interpretato, oscilla tra la fervida volontà iniziale e la remissione (l’essenza del voto consiste nella volontà).
II Nel secondo cielo di Mercurio, le battaglie sostenute dal “sacrosanto segno” dell’Aquila corrispondono allo stato dei martiri, che è dei combattenti, e anche la dottrina dell’incarnazione e della passione di Cristo, esposta successivamente da Beatrice, fa parte della tematica, perché l’intera Chiesa, fondata sulla passione di Cristo, imita con i martiri la sua croce, e questo giova assai al suo radicamento.
III Nel terzo cielo di Venere, Carlo Martello spiega al modo di un dottore del terzo stato la diversità delle indoli umane e come gli uomini, non assecondandole, errino; nello stesso cielo compare Folchetto di Marsiglia, che da vescovo di Tolosa combatté l’eresia albigese.
IV – I Al quarto cielo del Sole, primo del secondo gruppo di settenari per l’esaltazione della vita apostolica (propria del primo stato e rinnovata nel sesto), si può connettere il tema stesso del sole inteso nell’esegesi della quarta tromba (Ap 8, 12): “Per solem videtur hic designari solaris vita et contemplatio summorum anachoritarum, qui fuerunt patres et exempla aliorum, vel solaris sapientia et doctrina summorum doctorum”. Sapienza e contemplazione, dottori del terzo e anacoreti del quarto stato, concorrono, come Domenico e Francesco – “L’un fu tutto serafico in ardore; / l’altro per sapïenza in terra fue / di cherubica luce uno splendore” (Par. XI, 37-39) – con mutua cortesia a infiammare il meriggio dell’universo.
V – II Il quinto cielo di Marte, secondo (come il secondo stato dei martiri) per l’esaltazione della croce di Cristo formata dai lumi dei combattenti per la fede, reca in sé il tema del condiscendere proprio del quinto stato sia nel pio discendere per la croce di Cacciaguida verso Dante, sia nella decadenza degli “alti Fiorentini”, cioè delle antiche famiglie, assimilate agli anacoreti, un tempo alti e poi vòlti in basso.
VI – III Il sesto cielo di Giove, terzo (come il terzo stato dei dottori) per la spiegazione di profonde verità di fede, sviluppa il motivo, proprio della sesta chiesa, della “porta aperta”. Aprire la porta significa illuminare e rendere acuto l’intelletto che penetra nell’occulto delle Scritture, e anche dare efficacia spirituale a penetrare nel cuore di chi ascolta: così l’Aquila apre la “latebra” di Dante, così l’occhio di Rifeo Troiano fu da Dio aperto alla futura redenzione.
VII – IV Nel settimo cielo di Saturno, quarto (come il quarto stato degli anacoreti), “si tace … la dolce sinfonia di paradiso” (Par. XXI, 58-60), e il tacere è tema del settimo stato. Ivi si mostrano gli spiriti contemplativi, principali soggetti del quarto stato, proprio degli anacoreti: se si conta a partire dal quarto cielo del Sole, considerando questo come primo ovvero come nuovo avvio del ciclo settenario, il cielo di Saturno è appunto quarto.
VIII (V) Il settimo cielo di Saturno è seguito dal cielo delle Stelle fisse – ottavo e quinto -, dove si mostrano le schiere del trionfo di Cristo che discendono dall’Empireo (il quinto stato è caratterizzato dalla “condescensio”) e si celebra il trionfo di Maria (sviluppo del tema, proprio della quinta chiesa, della mirabile bellezza della Chiesa, regina ornata di veste aurea per la carità che unisce e circondata dalla varietà nei doni e nelle grazie delle diverse membra). È inoltre ricapitolazione dei precedenti sette, secondo un’interpretazione più volte presente nella Lectura dell’essere ‘ottavo’. Per questo Dante, stando nel segno dei Gemelli, riguarda in giù e torna col viso per tutte quante le sette precedenti sfere (Par. XXII, 124-154).
IX (VI) Segue il Primo Mobile o Cristallino – nono e sesto cielo –, dove il poeta vede il punto luminosissimo – Dio – da cui dipende il cielo e la terra, circondato dai nove cerchi di fuoco (Par. XXVIII, 16-18, 40-42, 94-96). Il sesto stato, secondo quanto Olivi afferma nel Notabile VIII, è il “punto” da cui dipendono gli altri stati, perché appare nel testo dell’Apocalisse in modo più evidente degli altri, che da esso assumono chiarezza quanto alla loro manifestazione nella storia, come l’intelligenza delle cose ordinate ad un fine dipende dal fine.
X (VII) La quiete e l’immobilità dell’Empireo, decimo cielo – il “ciel de la divina pace” -, corrispondono al settimo stato, di cui è propria la “quietatio”, il silenzio (tema anticipato dal tacere di Beatrice in apertura del canto XXIX), e la pace.
Il Paradiso avrebbe pertanto un ordine spirituale del seguente tipo:
cielo |
stato |
cielo |
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I |
LUNA |
I |
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II |
MERCURIO |
II |
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III |
VENERE |
III |
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IV |
SOLE |
IV |
I |
SOLE |
V |
MARTE |
V |
II |
MARTE |
VI |
GIOVE |
VI |
III |
GIOVE |
VII |
SATURNO |
VII |
IV |
SATURNO |
VIII |
V |
STELLE FISSE |
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IX |
VI |
PRIMO MOBILE |
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X |
VII |
EMPIREO |
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