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Ott 13 2023

Inferno XI

La “Divina Parodia” del Libro scritto dentro e fuori   [EN]

Canti esaminati:

Inferno: I; II; III; IV; V; VI; VII; VIII; IX; X; XI; XII; XIII; XIV; XV; XVI; XVII; XVIII; XIX; XX; XXI; XXII; XXIII; XXIV; XXV; XXVI; XXVII; XXVIII; XXIX; XXX; XXXI; XXXII, 1-123; XXXII, 124-XXXIII, 90; XXXIII, 91-157; XXXIV

Purgatorio: III; XXVIII

Paradiso: XI-XII; XXXIII

 

Legenda [3]: numero dei versi; 21, 12: collegamento ipertestuale all’esegesi, nella Lectura di Olivi, di capitolo e versetto dell’Apocalisse [Ap]; Not. I: collegamento all’esegesi contenuta nei tredici notabilia del prologo della Lectura. Varianti rispetto al testo del Petrocchi.

Viene qui esposto il canto XI dell’Inferno con i corrispondenti legami ipertestuali con i luoghi della Lectura super Apocalipsim ai quali i versi si riferiscono. L’intero poema è esposto nella Topografia spirituale della Commedia (2013, PDF; introduzione in html), ma si sta procedendo a un esame progressivo e aggiornato dei singoli canti. Ogni tabella sinottica, qui presentata o alla quale si rinvia in quanto già esaminata in altra sede, è preceduta o seguita da una parte esplicativa. Per la posizione di Inf. XI nella topografia della prima cantica cfr. qui di seguito.

Inferno XI

In su l’estremità d’un’alta ripa   21, 12; 22, 2
che facevan gran pietre rotte in cerchio, 16, 7
venimmo sopra più crudele stipa;   [3]

e quivi, per l’orribile soperchio   9, 19
del puzzo che ’l profondo abisso gitta,   9, 2
ci raccostammo, in dietro, ad un coperchio   [6]

d’un grand’ avello, ov’ io vidi una scritta   6, 5
che dicea: ‘Anastasio papa guardo,
lo qual trasse Fotin de la via dritta’.   [9]   9, 19; 6, 5

« Lo nostro scender conviene esser tardo,   3, 3 (2, 1)
sì che s’ausi un poco in prima il senso   9, 19
al tristo fiato; e poi no i fia riguardo ».   [12]

Così ’l maestro; e io « Alcun compenso »,
dissi lui, « trova che ’l tempo non passi
perduto ». Ed elli: « Vedi ch’a ciò penso ».   [15]

« Figliuol mio, dentro da cotesti sassi »,
cominciò poi a dir, « son tre cerchietti
di grado in grado, come que’ che lassi.   [18]   2, 5

Tutti son pien di spirti maladetti;
ma perché poi ti basti pur la vista,
intendi come e perché son costretti.   [21]

D’ogne malizia, ch’odio in cielo acquista,   2, 6
ingiuria è ’l fine, ed ogne fin cotale
o con forza o con frode altrui contrista.    [24]

Ma perché frode è de l’uom proprio male,   Not. I
più spiace a Dio; e però stan di sotto
li frodolenti, e più dolor li assale.   [27]

Di vïolenti il primo cerchio è tutto;               [I] 6, 1
ma perché si fa forza a tre persone,   12, 14
in tre gironi è distinto e costrutto.   [30]   6, 1

A Dio, a sé, al prossimo si pòne
far forza, dico in loro e in lor cose,
come udirai con aperta ragione.   [33]   Not. XIII

Morte per forza e ferute dogliose
nel prossimo si danno, e nel suo avere
ruine, incendi e tollette dannose;    [36]

onde omicide e ciascun che mal fiere,
guastatori e predon, tutti tormenta
lo giron primo per diverse schiere.   [39]

Puote omo avere in sé man vïolenta   Not. I
e ne’ suoi beni; e però nel secondo
giron convien che sanza pro si penta   [42]

qualunque priva sé del vostro mondo,
biscazza e fonde la sua facultade,
e piange là dov’ esser de’ giocondo.   [45]

Puossi far forza ne la deïtade,   18, 6
col cor negando e bestemmiando quella,
e spregiando natura e sua bontade;   [48]

e però lo minor giron suggella   6, 1
del segno suo e Soddoma e Caorsa
e chi, spregiando Dio col cor, favella.   [51]

La frode, ond’ ogne coscïenza è morsa,
può l’omo usare in colui che ’n lui fida   Not. I
e in quel che fidanza non imborsa.   [54]

Questo modo di retro par ch’incida   12, 14; 2, 12
pur lo vinco d’amor che fa natura;
onde nel cerchio secondo s’annida    [57]    [II] 6, 1

ipocresia, lusinghe e chi affattura,
falsità, ladroneccio e simonia,
ruffian, baratti e simile lordura.   [60]

Per l’altro modo quell’ amor s’oblia
che fa natura, e quel ch’è poi aggiunto,
di che la fede spezïal si cria;   [63]

onde nel cerchio minore, ov’ è ’l punto        [III]  6, 1
de l’universo in su che Dite siede,   17, 9
qualunque trade in etterno è consunto ».   [66]   17, 13; 17, 9

E io: « Maestro, assai chiara procede   20, 12
la tua ragione, e assai ben distingue   6, 1;  Not. XIII
questo baràtro e ’l popol ch’e’ possiede.    [69]   6, 8

Ma dimmi: quei de la palude pingue,            [IV] 6, 1
che mena il vento, e che batte la pioggia,      [V, VI]
e che s’incontran con sì aspre lingue,   [72]  [VII]

perché non dentro da la città roggia   6, 1
sono ei puniti, se Dio li ha in ira?
e se non li ha, perché sono a tal foggia? ».   [75]

Ed elli a me « Perché tanto delira »,
disse, « lo ’ngegno tuo da quel che sòle?
o ver la mente dove altrove mira?   [78]

Non ti rimembra di quelle parole   20, 12
con le quai la tua Etica pertratta   12, 6
le tre disposizion che ’l ciel non vole,   [81]   12, 14

incontenenza, malizia e la matta
bestialitade? e come incontenenza
men Dio offende e men biasimo accatta?   [84]   12, 14

Se tu riguardi ben questa sentenza,   3, 3; 20, 12
e rechiti a la mente chi son quelli
che sù di fuor sostegnon penitenza,   [87]   6, 1

tu vedrai ben perché da questi felli
sien dipartiti, e perché men crucciata   12, 14
la divina vendetta li martelli ».   [90]

« O sol che sani ogne vista turbata,   15, 8
tu mi contenti sì quando tu solvi,   5, 5
che, non men che saver, dubbiar m’aggrata.   [93]   Not. X

Ancora in dietro un poco ti rivolvi »,
diss’ io, « là dove di’ ch’usura offende
la divina bontade, e ’l groppo solvi ».   [96]   5, 5

« Filosofia », mi disse, « a chi la ’ntende,   1, 3
nota, non pure in una sola parte,   3, 4
come natura lo suo corso prende   [99]

dal divino ’ntelletto e da sua arte;   14, 2 (ed è su’ arte)
e se tu ben la tua Fisica note,   1, 3; 3, 4
tu troverai, non dopo molte carte,   [102]   6, 1

che l’arte vostra quella, quanto pote, 14, 2; 14, 4
segue, come ’l maestro fa ’l discente;
sì che vostr’ arte a Dio quasi è nepote.   [105]

Da queste due, se tu ti rechi a mente   3, 3
lo Genesì dal principio, convene
prender sua vita e avanzar la gente;   [108]

e perché l’usuriere altra via tene,   14, 4
per sé natura e per la sua seguace
dispregia, poi ch’in altro pon la spene.   [111]

Ma seguimi oramai che ’l gir mi piace;
ché i Pesci guizzan su per l’orizzonta,   Not. XIII
e ’l Carro tutto sovra ’l Coro giace,
e ’l balzo via là oltra si dismonta ».   [115]


INTRODUZIONE

In Inf. XI Virgilio espone l’ordine del primo regno non secondo i peccati capitali (come sarà invece, di fatto, nel Purgatorio) ma seguendo il De officiis di Cicerone (I, 13) sulla “malizia” distinta in violenza e frode (vv. 22-24) e l’Etica di Aristotele nella triade “incontenenza, malizia e la matta / bestialitade” (vv. 82-83).
Dal rapporto con la Lectura, Inf. XI trae due temi principali. Il primo tema è quello che si può definire il motivo del libro (Ap 5, 1; 6, 1), quello cioè dell’Apocalisse, che è “scritto dentro e fuori” e segnato (cioè chiuso) con sette sigilli.
Il libro dell’Apocalisse, definito ad Ap 5, 1 “volumen”, scritto dentro e fuori, che sarebbe incongruo affermare distinto per quaderni e carte, ha una forma immaginaria a guisa di rotolo, con sette pieghe, ciascuna delle quali chiusa da un sigillo. A ciascuna apertura si presentavano a Giovanni le immagini da lui descritte dei cavalli e dei cavalieri, come se uscissero vive da dentro le pieghe (Ap 6, 1). Sui motivi propri del libro è tessuta la visione finale dell’unità e semplicità di Dio, volume che nel profondo della sua essenza lega con amore tutto ciò che “si squaderna” in modo diffuso per l’universo (Par. XXXIII, 85-87). Ma è soprattutto in Inf. XI, il canto in cui Virgilio spiega l’ordinamento e la distribuzione dei dannati, che questi temi vengono sviluppati. L’inferno è formato da nove cerchi ma, a ben vedere, nel discorso di Virgilio e nelle domande di Dante ne vengono enumerati solo sette. Tre sono dentro le mura della Città di Dite: il cerchio dei violenti (a sua volta diviso in tre gironi), il cerchio dei fraudolenti veri e propri (Malebolge, dove sono i fraudolenti verso chi non si fida) e il cerchio minore dei traditori (Cocito: i fraudolenti verso chi si fida). Quattro sono fuori le mura, meno martellati dalla giustizia divina in quanto meno offesero: gli iracondi e gli accidiosi dello Stige (“quei de la palude pingue”: in questo gruppo sono da collocare anche invidiosi e superbi), i lussuriosi (“che mena il vento”), i golosi (“che batte la pioggia”), gli avari e i prodighi (“che s’incontran con sì aspre lingue”). Se mancano all’appello il primo cerchio (il Limbo) e il sesto (gli eretici), ciò è perché il “nobile castello” del Limbo è la parodia della sede divina prima dell’apertura dei sigilli e perché la spiegazione dell’ordinamento infernale avviene accanto all’arca dell’eretico papa Anastasio II, cioè nel sesto cerchio. Oppure essa è memore di quanto sostenuto da Tommaso d’Aquino circa l’eresia la quale, in modo analogo alla bestialità rispetto alla malizia umana, era da collocare “extra numerum peccatorum” (In IV Sent., ds 13, qu 2, ar 2). In ogni caso, esempio di concordia fra la dottrina aristotelica e l’esegesi apocalittica, l’enunciazione dei sette cerchi corrisponde al tema del libro scritto “dentro e fuori” e segnato sulle sette pieghe. Anche il riferimento alle “carte” della Fisica di Aristotele, utilizzata da Virgilio per precisare la posizione degli usurai (v. 102), concorda con siffatta tematica, come al v. 49 il verbo ‘suggellare’ (allude al sigillo) e ai vv. 30 e 68 il verbo ‘distinguere’ (cfr. Ap 6, 1). A Inf. IX, 107-108, il desiderio di guardare “dentro” la città di Dite, una volta varcata la porta, è il desiderio di guardare l’interno del libro. Tale fu anche il desiderio dei santi Padri, prima dello scioglimento da parte di Cristo dei sette sigilli (Ap 5, 2-4). L’apertura della porta della città di Dite da parte del messo celeste (Inf. IX, 89-90) sviluppa il tema della porta aperta data a Filadelfia, sesta chiesa d’Asia (Ap 3, 8).

Alla visione dell’Inferno come “libro scritto dentro e fuori, segnato da sette sigilli”, si aggiunge nella semantica di Inf. XI un secondo tema: l’inciso “un tempo, due tempi e la metà di un tempo” (“per tempus et tempora et dimidium temporis”) da Ap 12, 14. Queste parole sono riferite al periodo (si tratta, nella quarta visione, dell’esegesi congiunta della terza e della quarta guerra) in cui la donna (la Chiesa) venne nutrita lontano dal serpente nel deserto dei Gentili, il luogo preparatole da Dio come suo, e dove le vennero date le due ali di una grande aquila (Ap 12, 14). Su di esse, secondo Olivi, Gioacchino da Fiore ha fondato tutta la sua Concordia. L’espressione indica un periodo di tre anni e mezzo, formati da quarantadue mesi (12 mesi x 3 anni + 6 mesi) nei quali i trenta giorni dei singoli mesi corrispondono a trenta anni: si ha così una permanenza della donna nel deserto di 1260 anni. “Tempus” sta per un anno, “tempora” per due anni e “dimidium temporis” per sei mesi. I “due anni” derivano dal duale greco, lingua nella quale scrisse Giovanni. Questo numero compare anche ad Ap 12, 6 (quarta visione, prima guerra) per indicare il periodo in cui la donna venne nutrita nel deserto (dove era fuggita dalla durezza dei Giudei), mentre in Daniele 7, 24-25 si dice che il re undicesimo distruggerà i santi dell’Altissimo che gli saranno dati in mano “per un tempo, due tempi e la metà di un tempo” e in Daniele 12, 6-7 che “fra un tempo, due tempi e la metà di un tempo si compiranno tutte queste cose meravigliose”.
Questo numero mistico ha vari significati, che verranno esposti in seguito. I tre anni e mezzo designano il mistero della trinità di Dio unitamente alla perfezione delle sue opere, che rispetto al loro artefice sono qualcosa di dimidiato, imperfetto, parziale e quasi nulla: le opere furono infatti compiute in sei giorni, che corrispondono alle sei età del mondo e ai sei mesi del mezzo anno. Designano anche la perfezione che deriva dalla fede, dalla speranza e dalla carità unita alla pregustazione non completa della gloria eterna, oppure i tre principali consigli di Cristo (povertà, castità, obbedienza) uniti ad una partecipazione non perfetta della vita eterna. I tre anni e mezzo coincidono con il periodo in cui Cristo esercitò il suo magistero e la sua predicazione. Essi sono anche distinti in “un anno” (“tempo”) e “due anni” (“tempi”), in quanto nel secondo e nel terzo anno Cristo predicò da solo dopo l’incarcerazione di Giovanni Battista e in modo più solenne. Questa distinzione, tenendo conto della profezia di Daniele, si verificherà forse anche nella predicazione e persecuzione dell’Anticristo. Con Giovanni Battista, come dice Cristo in Matteo 11, 11-12 e in Luca 16, 16, inizia il tempo in cui i violenti si impadroniscono del regno dei cieli (cfr. quanto dice l’aquila a  Par. XX, 94: “Regnum celorum vïolenza pate”).
La vicinanza del verbo “pertractare”, riferito nell’esegesi di Ap 12, 6 al quinto libro della Concordia di Gioacchino da Fiore, con il numero mistico “per tempus et tempora et dimidium temporis” (da Daniele, 12, 6-7; cfr. gli incisi “… sub uno quam brevi coart<ar>emus sermone … nisi hoc quod sonat versiculus iste …” con Par. XXXIII, 74, 106 : “e per sonare un poco in questi versi … Omai sarà più corta mia favella”) conduce a Inf. XI, 79-84, dove Virgilio ricorda al discepolo le tre disposizioni peccaminose odiate da Dio – “incontenenza, malizia e la matta / bestialitade” – esposte ampiamente (‘pertrattate’) dall’Etica di Aristotele. Una di queste tre disposizioni, l’incontinenza, offende meno Dio e suscita minor biasimo, e pertanto gli incontinenti stanno fuori della città di Dite meno martellati nelle pene dalla divina vendetta. All’incontinenza è applicato il tema della “metà di un tempo”, mentre la malizia sembra corrispondere a “tempi” (il duale greco), considerato che ai vv. 22-24 si dice che il fine di ogni malizia, che consiste nell’“ingiuria”, cioè nell’infrazione delle leggi divine o naturali, si consegue in due modi, con la forza (i violenti) o con l’inganno (i fraudolenti); quest’ultimo, a sua volta, si distingue nella frode verso chi si fida e in quella verso chi non si fida, con andamento bipartito riscontrabile in principio di Inf. XXVIII (Inf. XI, 52-66: “Questo modo di retro … Per l’altro modo …”). La “matta bestialitade” corrisponderebbe pertanto a “(un) tempo”.
È stato sostenuto (è tesi antica e prevalente) che la “matta bestialitade” si riferisce solo al cerchio dei violenti [1]. Ciò però comporta che il termine “malizia”, al verso 82, abbia un significato limitato alla frode, lì dove invece al verso 22 comprende esplicitamente sia la violenza come la frode. Né è concepibile che Dante,
contrapponendo la malizia aristotelica a quella ciceroniana, abbia voluto intenzionalmente far contraddire Virgilio, al fine di sottolineare i limiti intellettuali dal poeta pagano [2].
È stato anche sostenuto che la “matta bestialitade”, di cui dice Virgilio a Inf. XI, 82-83, si riferisce solo agli eresiarchi del sesto cerchio, i quali diversamente resterebbero fuori dell’Etica aristotelica, lì dove l“incontenenza” fascia i peccatori puniti fuori delle mura della Città di Dite e la “malizia” quelli costretti a partire dal settimo cerchio [3]. Tuttavia la bestialitas si registra in più zone dell’inferno. È “bestia” furiosa per “ira bestial” il Minotauro, collocato all’estremità del cerchio degli eretici lì dove inizia la scesa verso il settimo cerchio, che è dei violenti (Inf. XII, 19, 33). Gerione, che porta in volo Virgilio e Dante verso Malebolge, è “bestia malvagia” (Inf. XVII, 30). A Vanni Fucci “bestia”, ladro punito nella settima bolgia, “vita bestial … piacque e non umana” (Inf. XXIV, 124-126). Nella decima bolgia, a “bestie” pungenti sono paragonati i falsari Gianni Schicchi e Mirra (Inf. XXX, 25). Tra i traditori in Cocito, il conte Ugolino mostra “per sì bestial segno” odio verso l’arcivescovo Ruggieri (Inf. XXXII, 133-134). Se la bestialità non viene mai attribuita agli incontinenti collocati prima della porta di Dite, dei lussuriosi purganti nell’ultimo girone della montagna Guinizzelli dice che “non servammo umana legge, / seguendo come bestie l’appetito” (Purg. XXVI, 83-84). La lupa, che riassume tutti i peccati, a differenza delle altre due fiere, la lonza e il leone, è definita “bestia sanza pace” (Inf. I, 58; cfr. anche i vv. 88, 94). È pertanto più probabile che il concetto indeterminato della “matta bestialitade”, corrispondendo al “tempo” dell’inciso di Ap 12, 14, si riferisca al complesso dei peccati puniti nell’inferno.

■ In Inf. XI la ‘dottrina’, cioè la filosofia pagana, non solo viene concordata con la Bibbia, ma incastonata nelle maglie della corazza della Lectura super Apocalipsim. Virgilio cita prima, genericamente, la “Filosofia” per affermare che la natura prende il suo corso dall’intelletto del divino artista; poi si riferisce alla Fisica di Aristotele per spiegare che l’arte umana segue come può la natura (“come ’l maestro fa ’l discente”), un seguire Dio che difetta all’usuraio il quale, ponendo la speranza nel lucro, segue una via diversa da quella stabilita nel Genesi, per cui da natura e arte gli uomini debbono trarre sostentamento (Inf. XI, 97-111). L’invito a riguardare il primo libro della Bibbia – “se tu ti rechi a mente / lo Genesì dal principio” (vv. 106-107) – è parodia dell’esortazione rivolta al vescovo di Sardi, la quinta chiesa d’Asia, a ripensare la prima Grazia, esegesi (talora combinata con quella relativa al “libro della vita” da Ap 20, 12) già presente nel primo canto del poema e più volte in Inf. XI (vv. 10-12, 15, 67, 79, 85-86). Il riferimento ad divino artista rinvia ad Ap 14, 2, esegesi di ampio sviluppo nel poema (cfr. anche Inf. X, 49-51). Ivi si paragona a una cetra l’universale opera di Dio, maestro artista, della quale ogni parte è una corda toccata da chi contempla o loda quell’opera. Dunque la natura, che partecipa dell’universale opera di Dio, può dirsi sua arte; di qui è preferibile la variante ed è su’ arte (Inglese) a e da sua arte (Petrocchi).

Inf. XI registra molti altri temi. Si apre con il motivo dell’abisso (Ap 9, 2; 20, 1), già presente in Inf. IV, 7-12, accompagnato da altri. L’alta ripa” (v. 1) fa parte del gruppo proprio della Gerusalemme celeste, combinando l’altezza del muro con la riva del fiume (Ap 21, 12; 22, 2); ai vv. 2, 7, 9 si registrano signacula del terzo stato (Ap 16, 7; 6, 5); quelli ai vv. 4, 9, 11 provengono dalla sesta tromba (Ap 9, 19; cfr. Tab. I e nota).
I vv. 10-12 rinviano, variando i temi, all’esegesi della quinta chiesa d’Asia e del condescensivo quinto stato (Ap 3, 3; il tardo torpore di Sardi è qui assunto in senso positivo). Al discendere proprio del quinto stato fa riferimento anche la costellazione dei Pesci, citata da Virgilio (prologo, Notabile XIII; vv. 112-115). La graduale discesa nei “tre cerchietti” del basso inferno (v. 18) deriva dalla graduale discesa verso il precipizio contestata ad Efeso, la prima chiesa d’Asia (Ap 2, 5; cfr. Inf. V, 12). I riferimenti all’uomo come essere razionale (prologo, Notabile I) e che apprende le cause (prologo, Notabile XIII) appartengono al terzo stato della Chiesa, proprio dei dottori che confutano razionalmente le eresie (vv. 25, 33, 40, 53, 68; anche il verbo ‘incidere’, al v. 55, è proprio della terza chiesa, ad Ap 2, 12). Spregiare o bestemmiare Dio (vv. 46, 47, 51) sono variazioni su Ap 18, 6.
La terzina “onde nel cerchio minore, ov’ è ’l punto / de l’universo in su che Dite siede, / qualunque trade in etterno è consunto” (vv. 64-66) sviluppa l’esegesi, da Ap 17, 9, del regno che consumerà gli altri regni in eterno in base a Daniele 2, 34-35, 44, mentre il verbo “tradere” rinvia ad Ap 17, 13 (i dieci re, spronati dal timore, consegnano la propria volontà alla bestia, devolvendo ad essa il potere regio che prima avevano libero); entrambi i passi sono utilizzati in Inf. I.
L’espressione “e ’l
 popol ch’e’ possiede” (v. 69) è variazione sull’esegesi di Ap 6, 8, anche altrove presente; l’apostrofe a Virgilio – “O sol che sani ogne vista turbata” (v. 91) – sviluppa un tema da Ap 15, 8; “’l groppo solvi” (v. 96) partecipa di quanto esposto ad Ap 5, 5, pagina alla quale fa riferimento, nel canto precedente, il “nodo” sulla capacità dei dannati di vedere il futuro ma non gli eventi prossimi o presenti.
Le parole di Virgilio, riferite ad Aristotele e in particolare alla Fisica – “
Filosofia … a chi la ’ntende, / notae se tu ben la tua Fisica note” (vv. 97-98, 101) -, incastonano le opere dello Stagirita, collocato nell’onorata sede del Limbo, nella causa finale del libro dell’Apocalisse (Ap 1, 3), nel senso che anch’esse vi cooperano (“de causa finali, que est beatitudo per doctrine huius libri intelligentiam et observantiam obtinenda”).

In altra sede sono state avanzate alcune considerazioni sull’ordine di redazione della prima cantica. L’Inferno, nella sua “topografia spirituale”, registra cinque cicli settenari. Il primo inizia con Inf. IV e si conclude con l’apertura della porta della città di Dite a Inf. IX. A partire dal secondo ciclo, in particolare da Inf. XII (dove prevalgono i temi del secondo stato, ma il ciclo si avvia subito dopo l’apertura della porta), la rete semantica riferibile ciclicamente ai sette stati oliviani è più estesa, organizzata e compatta. Lo è assai meno nel primo ciclo. In esso vi sono canti più strutturati nel rapporto con la Lectura oliviana (Inf. I, II, V) e altri canti nei quali una parte dei versi non registra parole-chiave che rinviano alla Lectura (sono riportati in una tabella). Questo fenomeno, non presente o meno evidente nelle cantiche successive, testimone di una prima fase di incertezza nel rapporto fra Commedia e Lectura, è forse indice di una prima, parziale stesura estranea a tale rapporto, di una Ur-Commedia della quale restano tracce.
Nel secondo ciclo del percorso infernale, il primo canto – il decimo – presenta numerose variazioni su temi della Lectura: il rapporto parodico, che la poesia con essa instaura, si mostra nella piena maturità. Così avviene, come sopra ricordato, a partire dal dodicesimo canto. L’undicesimo invece, pur elaborando temi importanti del commento apocalittico, opera su questo in misura minore. Si può dunque presumere che sia stato scritto prima. In esso Virgilio espone la ripartizione delle colpe nell’inferno, ed è naturale che tale problematica sia stata presente all’autore fin dall’inizio della stesura del poema. In ogni caso, i primi undici canti dell’Inferno costituiscono un blocco, nel quale il rapporto con la Lectura alterna zone nelle quali si mostra intenso e altre in cui è meno sviluppato.

[1] Cfr. CHIAVACCI LEONARDI, pp. 352-353.

[2] Così ZYGMUNT G. BARAŃSKI, Canto XI, in Lectura Dantis Turicensis, a cura di Georges Güntert e Michelangelo Picone, I, Inferno, Firenze 2011, pp. 151-164: 157-160.

[3] Cfr. INGLESE, p. 144. Che l’eresia possa essere definita “bestialitade” lo dimostra, ad esempio, quanto nella Lectura super Apocalipsim è detto ad Ap 17, 3 della prostituta seduta sulla bestia scarlatta: «“Et vidi mulierem sedentem super bestiam coccineam”, id est sanguine et colore coccineo tinctam et rubricatam. Nota quod sicut quodlibet caput bestie aliquando dicitur bestia, aliquando vero distinguitur ab ea sicut caput a corpore vel sicut rex a sua gente, sic mulier ista in quantum est carnalis et bestialis dicitur bestia, in quantum vero quondam prefuit et regnavit super bestiales gentes mundi et adhuc super plures bestiales sibi subditas dominatur, dicitur sedere super bestiam. Que quidem bestia tempore paganorum et hereticorum fuit sanguine martirum cruentata, nunc autem sanguine seu strage animarum et impia persecutione spiritus et spiritualium et etiam quorumcumque quos impie affligit est cruentata, et etiam abhominando sanguin<e> luxuriarum suarum». Inoltre nel sesto cerchio assoluta prevalenza è data ai seguaci di Epicuro, “che l’anima col corpo morta fanno”. Costoro sono tutti coloro i quali sostengono con l’Ecclesiaste: “dixi in corde meo de filiis hominum ut probaret eos Deus et ostenderet similes esse bestiis / idcirco unus interitus est hominis et iumentorum et aequa utriusque condicio / sicut moritur homo sic et illa moriuntur / similiter spirant omnia et nihil habet homo iumento amplius” (Ec 3, 18-19; cfr. Ps 48, 12-13, dove è presente la medesima comparazione fra uomini e bestie, con l’aggiunta: “sepulchra eorum domus illorum in aeternum”, luogo addotto da Salimbene nel noto passo su Federico II epicureo [cfr. Salimbene de Adam, Cronica. Nuova edizione critica a cura di G. Scalia, Bari 1966, I, Scrittori d’Italia, 232, p. 512]). Queste parole di Salomone erano, secondo Benvenuto, sempre sulla bocca del guelfo Cavalcante, il padre di Guido. Olivi, nel commento all’Ecclesiaste, dove pure tratta degli Epicurei, “qui non ponunt aliam felicitatem in hac uita nec hic nisi in uoluptate carnis”, riferisce al platonismo eretico la falsa interpretazione del detto salomonico: “[…] fuit error quondam Platonicorum et quorumdam hereticorum, quod anime hominum reuoluantur in corpore iumentorum et ecouerso” [Petri Iohannis Olivi Lectura super Proverbia et Lectura super Ecclesiasten. Ad fidem codicum nunc primum editae cum introductione, cur. J. Schlageter, Ad Claras Aquas Grottaferrata 2003 (Collectio oliviana, VI), pp. 113, 126-131: 130]. Errore che fu già di Origene, al quale è dedicato ampio spazio nell’esegesi della terza tromba che, nella terza visione apocalittica, risuona contro gli eretici: “Ponit enim animas peccasse antequam corporibus unirentur; ponit etiam eas de uno corpore in aliud, puta de corpore humano in corpora bestiarum, revolvi et postmodum expurgari ab eis” (Lectura super Apocalipsim, ad Ap 8, 10). Bestiale è anche l’eresia manichea (Olivi intende Catari e Valdesi): “Secunda est ex respectu ad exercitium et illuminationem electorum illius temporis, qui plus sunt exercendi et illuminandi in summis apicibus evangelice doctrine et vite tertii status generalis mundi tunc introducendi quam in confutatione bestialium errorum secte Manicheorum” (ibid., ad Ap 9, 1-12).

Seppure segue l’ordine dei ventidue capitoli dell’Apocalisse, Olivi suggerisce, nel prologo della Lectura, un metodo differente di comprensione e di aggregazione del testo, fondato sui sette stati (status), cioè sulle epoche nelle quali si articola la storia della Chiesa, prefigurate nell’Antico Testamento.
L’Apocalisse si articola in sette visioni: le sette chiese d’Asia, i sette sigilli, le sette trombe, la donna vestita di sole (le sette guerre sostenute dalla Chiesa), le sette coppe, il giudizio di Babylon nelle sette teste del drago, la Gerusalemme celeste. Le prime sei visioni possono essere a loro volta divise in sette momenti, ciascuno dei quali riferibile a uno dei sette stati. Assembrando, per le prime sei visioni, tutti i primi elementi (chiesa, sigillo, tromba, guerra, coppa, momento del giudizio di Babylon), tutti i secondi, i terzi e così di seguito, si ottengono sette gruppi di materia teologica, corrispondenti al complesso dei temi afferenti a ciascuno dei sette stati. A questi sette gruppi si aggiungono altri due: l’esegesi della settima visione (senza articolazioni interne) e l’esegesi di capitoli del testo scritturale, o di parti di essi, introduttivi delle successive specificazioni delle singole visioni per settenari, che Olivi definisce “radicalia” o “fontalia”. Si ottengono in tal modo nove gruppi: le parti proemiali, i sette assembramenti di settenari e la settima visione. Il grande prologo della Lectura, articolato in tredici notabilia, può essere anch’esso aggregato secondo i sette stati. Un libro (la Lectura) contiene dunque princìpi e criteri affinché l’accorto lettore possa trarne un altro libro, fatto con lo stesso materiale ma ricomposto e distribuito in forma diversa.

La Commedia mostra un ordine interno diverso da quello che appare al lettore: il viaggio di Dante ha un andamento di ciclici settenari, che corrispondono ai sette stati della storia della Chiesa, cioè alle categorie con cui Olivi organizza la materia esegetica. Questo ordine interno è registrabile per zone progressive del poema dove prevale, tramite parole-chiave, la semantica riferibile a un singolo stato. È un’intima struttura dirompente i confini letterali stabiliti dai canti e da tutte le divisioni materiali per cerchi, gironi, cieli. Ogni stato, che ha differenti inizi, è concatenato per concurrentia, come le maglie di un’armatura, con quello che precede e con quello che segue. Si possono in tal modo redigere mappe che comprendano l’ordine spirituale della Commedia. La ricerca è pervenuta a una Topografia spirituale della Commedia (PDF; introduzione in html), dove quasi per ogni verso, o gruppo di versi, collegamenti ipertestuali conducono al “panno” esegetico fornito dalla Lectura super Apocalipsim, sul quale il “buon sartore” ha fatto “la gonna” (cfr. Par. XXXII, 139-141).

■A ogni gruppo è arbitrariamente assegnato un diverso colore: Radici (verde), I stato (verde acqua), II stato (rosso), III stato (nero), IV stato (viola), V stato (marrone), VI stato (blu), VII stato (indaco), VII visione (fucsia). Dei gruppi sono stati integralmente studiati il terzo stato e la settima visione.


Abbreviazioni e avvertenze

Ap : APOCALYPSIS IOHANNIS.

LSA : PIETRO DI GIOVANNI OLIVI, Lectura super Apocalipsim.

Concordia : JOACHIM VON FIORE, Concordia Novi ac Veteris Testamenti. Herausgegeben von A. PATSCHOVSKY, Wiesbaden 2017 (Monumenta Germaniae Historica. Quellen zur Geistesgeschichte des  Mittelalters, 28. Band), Teil 2 (lib. I-IV), Teil 3 (lib. V).

Expositio : GIOACCHINO DA FIORE, Expositio in Apocalypsim, in Edibus Francisci Bindoni ac Maphei Pasini, Venetiis 1527, ristampa anastatica Minerva, Frankfurt a. M. 1964.

Olivi opera spesso una sintesi del testo di Gioacchino da Fiore. Le « » precedono e chiudono un’effettiva citazione. Diversamente, viene posto un asterisco (*) o una nota in apice al termine della parte riferibile a Gioacchino.

In Ap : RICCARDO DI SAN VITTORE, In Apocalypsim libri septem, PL 196, coll. 683-888.

Tutte le citazioni della Lectura super Apocalipsim presenti nei saggi o negli articoli pubblicati su questo sito sono tratte dalla trascrizione, corredata di note e indici, del ms. Paris, Bibliothèque nationale de France, lat. 713, a disposizione fin dal 2009 sul sito medesimo. I passi scritturali ai quali si riferisce l’esegesi sono in tondo compresi tra “ ”; per le fonti diverse da quelle indicate si rinvia all’edizione in rete. Non viene presa in considerazione l’edizione critica a cura di WARREN LEWIS (Franciscan Institute Publications, St. Bonaventure – New York, 2015) per le problematiche da essa poste, che sono discusse in ALBERTO FORNI – PAOLO VIAN, A proposito dell’edizione di Warren Lewis della Lectura super Apocalipsim di Pietro di Giovanni Olivi. Alcune osservazioni, in “Archivum Franciscanum Historicum”, 109 (2016), pp. 99-161.
Il testo della Commedia citato è in Dante Alighieri, La Commedia secondo l’antica vulgata, a cura di GIORGIO PETROCCHI, Firenze 1994. Si tiene anche conto della recente edizione a cura di GIORGIO INGLESE, Firenze 2021 (Società Dantesca Italiana. Edizione Nazionale), qualora il testo proposto si discosti da quello del Petrocchi e la scelta della variante risulti discutibile nel confronto con la LSA.
Si fa riferimento ai seguenti commenti:

Dante Alighieri, La Divina Commedia. Inferno. Commento di ANNA MARIA CHIAVACCI LEONARDI, Milano 2007 (19911).

Dante Alighieri, Commedia. Inferno. revisione del testo e commento di GIORGIO INGLESE, Roma 2007.

 

Tab. I [Nota]

[LSA, cap. IX, Ap 9, 19 (IIIa visio, VIa tuba)] Si queratur quare solas loricas equitum tangit, cum ipsorum non solum sit se defendere sed etiam hostes suos ferire, potius quam equorum, potest dici quod ideo, quia plus nocebit tunc effrenatus clamor turbarum et militum laicalium quam ratio sapientium suorum, et tamen hoc plus valebit ad apparentem et fide dignam defensionem suorum errorum et malitiarum.
Nota quod predicta expositio currit secundum hoc quod occident mentes trahendo eas ad peccatum et specialiter ad erroneam sectam.
Referendo autem predicta ad occisionem corporum, est sensus quod sicut sulphureus ignis magnus, et tetrum ac fetidum fumum emittens, faciliter incendit et extinguit omnia, nec audet eum quis tangere et multo minus penetrare, sic isti faciliter et horribiliter omnia vastabunt, nec erit quis ausus eos tangere vel penetrare. Designatur etiam per hoc quod homines ita perterrebuntur ab eis ac si viderent equos et equites infernales igne infernali vestitos et ignem infernalem moventes et ac si viderent equos eorum habentes monstruosa capita leonum et monstruosas caudas drachonum.
Nota etiam quod respectu primi modi possunt per ignem et fumum et sulphur intelligi falsa miracula, quibus quasi loricis se armabunt et per que quasi sagittis igneis alios occident. Signa enim eorum in quantum falsa et curiosa erunt sulphurea, in quantum vero erunt veritatis et sanctitatis denigrativa et hominum excecativa erunt quasi fumus, in quantum vero apparebunt alta et mira et divina et ob zelum Dei et per supernaturalem eius potentiam facta videbuntur quasi ignis lucidus et subtilis et virtuosissimus et quasi iacinctus coloris celestis.
Nota etiam quod referendo hec ad tertium initium apertionis sexti sigilli, quod erit, ut supra dictum est, sub mistico Antichristo precursore magni Antichristi, est primus modus exponendi sequendus. Que autem signa sint per ipsum et per eius pseudoprophetas fienda exponetur infra XIII°. Licet enim non faciant illa que proprie vocantur miracula, nichilominus facient seu dabunt signa magna fere inducentia in errorem electos.

[LSA, cap. IX, Ap 9, 1-2 (IIIa visio, Va tuba)] “Et data est <illi> clavis putei abissi, et aperuit puteum abissi” (Ap 9, 1-2), id est data est eis potestas aperiendi ipsum. Puteus abissi habet infernalem flammam et fumositatem obscuram et profun-ditatem voraginosam et quasi immensam et socie-tatem demoniacam. […] Secundo tangitur gravitas mali de aperto iam puteo exeuntis, cum ait: “et ascendit fumus putei sicut fumus fornacis magne, et obscuratus est <sol et> aer de fumo putei” (Ap 9, 2).

[LSA, cap. XX, Ap 20, 1 (VIIa visio)] Per “abissum” autem, in <quam> diabolus clauditur, designatur, secundum Augustinum, «innumerabilis multitudo impiorum profunde malitie contra ecclesiam Dei, in quibus dicitur missus non quia <non> esset prius in eis, sed quia exclusus a credentibus plus cepit impios possidere. Nam plus possidetur a diabolo qui non solum est alienatus a Deo, immo etiam gratis odit servientes Deo». Vel per abissum designatur interior profunditas diaboli, intra quam coartatur a Deo eius potestas, ne pro libitu possit se ad exteriora nocumenta et temptamenta effundere. Vel sua penalis abiectio est abissus, in quam tanto plus clauditur quanto plus a Deo infrenatur.

Inf. XI, 1-12

In su l’estremità d’un’alta ripa
che facevan gran pietre rotte in cerchio,
venimmo sopra più crudele stipa;
e quivi, per l’orribile soperchio
del puzzo che ’l profondo abisso gitta,
ci raccostammo, in dietro, ad un coperchio
d’un grand’ avello, ov’ io vidi una scritta
che dicea: ‘Anastasio papa guardo,
lo qual trasse Fotin de la via dritta’.
“Lo nostro scender conviene esser tardo,
sì che s’ausi un poco in prima il senso
al tristo fiato; e poi no i fia riguardo”.

Purg. XIX, 31-33

L’altra prendea, e dinanzi l’apria
fendendo i drappi, e mostravami ’l ventre;
quel mi svegliò col puzzo che n’uscia.

[LSA, cap. XVI, Ap 16, 7 (Va visio, IIIa phiala] “Et audivi alterum” (Ap 16, 7), scilicet angelum, id est secundum Ricardum subiectorum cetum, “dicentem”, id est magistrorum dicta confirmantem: “Etiam”, id est verum est quod dixit precedens angelus, id est cetus magistrorum nostrorum, quia quod magistri clamant discipuli confirmant. “Dicentem” inquam: “Etiam, Domine Deus omnipotens, vera et iusta iudicia tua”, scilicet sunt; “vera” quidem <quia> efficiunt quod promittunt, “iusta” autem quia unicuique secundum quod meruit reddunt. Iustum enim est ut qui crudeliter agit crudeliter puniatur. Et subdit Ricardus quod tam discipuli quam magistri ex magna affectione et zelo convertunt sermonem ad Deum*.
Ioachim vero ponit aliam litteram, scilicet: “Et audivi alterum angelum ab altari dicentem: Etiam, Domine” et cetera. Quod exponens subdit: «Puto per hunc designari catholicos episcopos in conciliis congregatos, qui confirmantes scripta sanctorum doctorum dampnaverunt hereticos. Altare enim fit de lapidibus segregatis ab aliis et insimul coniunctis», propter quod significat congregationem episcoporum in conciliis*. Primam tamen litteram ponit et exponit Ricardus.

* In Ap V, v (PL 196, col. 825 D-826A). * Expositio, pars V, f. 189ra.

[LSA, cap. VI, Ap 6, 5 (IIa visio, apertio IIIii sigilli)] “Et cum aperuisset sigillum tertium, audivi tertium animal” (Ap 6, 5), scilicet quod habebat faciem hominis, “dicens: Veni”, scilicet per maiorem attentionem vel per imitationem fidei doctorum hic per hominem designatorum, “et vide. Et ecce equus niger”, id est hereticorum et precipue arrianorum exercitus astutia fallaci obscurus et erroribus luci Christi contrariis denigratus. “Et qui sedebat super eum”, scilicet imperatores et episcopi arriani, “habebat stateram in manu sua”. Cum statera mensuratur quantitas ponderum, et ideo per stateram designatur hic mensuratio articulorum fidei, que quando fit per rectam et infallibilem regulam Christi et scripturarum suarum est recta statera, de qua Proverbiorum XVI° dicitur: “Pondus et statera iudicia Domini sunt” (Pro 16, 11), et Ecclesiastici XXI°: “Verba prudentium statera ponderabuntur” (Ecli 21, 28); quando vero fit per rationem erroneam et per falsam et intortam acceptionem scripture est statera dolosa, de qua Proverbiorum XI° dicitur: “Statera dolosa abhominatio est apud Deum” (Pro 11, 1), et in Psalmo: “Mendaces filii hominum in stateris” (Ps 61, 10), et Michee VI°: “Numquid iustificabo stateram impiam et sac<c>elli pondera dolosa” (Mic 6, 11). 

[LSA, cap. II, Ap 2, 12 (Ia visio, IIIa ecclesia)] Hiis autem premittuntur duo, scilicet preceptum de scribendo hec sibi et introductio Christi loquentis, cum subdit (Ap 2, 12): “Hec dicit qui ha-bet rumpheam”, id est spatam, “ex utraque parte acutam”. Hec congruit ei, quod infra dicit: “pugnabo cum illis in gladio oris mei” (Ap 2, 16).

Inf. XIX,  25-27, 52-54, 61-64

Le piante erano a tutti accese intrambe;
per che sì forte guizzavan le giunte,
che spezzate averien ritorte e strambe.

Ed el gridò: “Se’ tu già costì ritto,
se’ tu già costì ritto, Bonifazio?
Di parecchi anni mi mentì lo scritto”.

Allor Virgilio disse: “Dilli tosto:
‘Non son colui, non son colui che credi’”;
e io rispuosi come a me fu imposto.
Per che lo spirto tutti storse i piedi

Inf. XI, 1-9

In su l’estremità d’un’alta ripa
che facevan gran pietre rotte in cerchio,
venimmo sopra più crudele stipa;
e quivi, per l’orribile soperchio
del puzzo che ’l profondo abisso gitta,
ci raccostammo, in dietro, ad un coperchio
d’un grand’ avello, ov’ io vidi una scritta
che dicea: ‘Anastasio papa guardo,
lo qual trasse Fotin de la via dritta’.

NOTA TAB. I

Il “puzzo che ’l profondo abisso gitta” (Inf. XI, 5) rinvia all’esegesi della quinta tromba, utilizzata per la prima volta a Inf. IV, 7- 12 (Ap 9, 1-2; cfr. anche Ap 20, 1).
Il tema (da Gioacchino da Fiore) dell’altare formato da pietre separate, designante i dottori che nei concili condannano gli eretici, è  presente in apertura di Inf. XI, quando Virgilio e Dante vengono “in su l’estremità d’un’alta ripa / che facevan gran pietre rotte in cerchio”, dove è l’avello che custodisce l’eretico papa Anastasio II: l’essere “rotte” le pietre appartiene ai temi della terza chiesa (che possiede la “rumphea”, Ap 2, 12), come pure l’avere il diacono Fotino tratto il papa “de la via dritta” riprende il motivo della retta o intorta interpretazione della Scrittura proposto nell’esegesi dell’apertura del terzo sigillo (Ap 6, 5; cfr. la presenza dei temi in Inf. XIX).
L’aggettivo orribile (v. 4), il verbo s’ausi (v. 11) e l’inciso relativo a papa Anastasio –
lo qual trasse Fotin de la via dritta (v. 9) – sono variazioni su temi da Ap 9, 19 (sesta tromba; esegesi alla quale rinvierà la pena degli usurai).

Tab. II [Nota]

[LSA, prologus, Notabile III] De tertio (dono) etiam patet. Nam magistralis tuba seu expositio intendit fidei et eius scientie seminande (I), et deinde radicande seu roborande (II), deinde explicande (III), deinde amplexande (IV), deinde contemperande, unicuique scilicet secundum suam proportionem (V); intendit etiam finaliter eam imprimere et sigillare (VI) et tandem glorificare seu glorificatam exhibere (VII).

Par. XXII, 145-147

Quindi m’apparve il temperar di Giove
tra ’l padre e ’l figlio; e quindi mi fu chiaro
il varïar che fanno di lor dove

Par. XXVI, 130-132

Opera naturale è ch’uom favella;
ma così o così, natura lascia
poi fare a voi secondo che v’abbella.

[LSA, cap. II, Ap 2, 1 (Ia visio, Va ecclesia)] Vocatur autem congrue hec ecclesia Sardis, id est principium pulchritudinis, tum quia in suis paucis incoinquinatis habet singularem gloriam pulchritudinis, quia difficillimum et arduissimum est inter tot suorum luxuriantes se omnino servare mundum; tum quia primi institutores quinti status fuerunt in se et in suis omnis munditie singulares zelatores, suorumque collegiorum regularis institutio, diversa membra et officia conectens et secundum suas proportiones ordinans sub regula unitatis condescendente proportioni membrorum, habet mire pulchritudinis formam toti generali ecclesie competentem, que est sicut regina aurea veste unitive caritatis ornata et in variis donis et gratiis diversorum membrorum circumdata varietate.

[LSA, cap. III, Ap 3, 1.3 (Ia visio, Va ecclesia)] Hiis autem premittitur Christus loquens, cum dicitur (Ap 3, 1): “Hec dicit qui habet septem spiritus Dei et septem stellas”, id est qui occulta omnium videt et fervido zelo spiritus iudicat tamquam habens “septem spiritus Dei”, qui prout infra dicitur “in omnem terram sunt missi” (cfr. Ap 5, 6); et etiam qui potest omnes malos quantumcumque potentes punire tamquam in sua manu, id est sub sua potentia, habens “septem stellas”, id est universos prelatos omnium ecclesiarum. Quid per septem spiritus significetur tactum est supra, capitulo primo, super prohemio huius libri. […] Respectu vero quinti status ecclesiastici, talem se proponit quia quintus status est respectu quattuor statuum precedentium generalis, et ideo universitatem spirituum seu donorum et stellarum seu rectorum et officiorum se habere testatur, ut qualis debeat esse ipsius ordinis institutio tacite innotescat. Diciturque hec ei non quia dignus erat muneribus ipsis, sed quia ipsi et semini eius erant, si dignus esset, divinitus preparata. Unde et Ricardus dat aliam rationem quare hec ecclesia dicta est “Sardis”, id est principium pulchritudinis, quia scilicet sola initia boni non autem consumationem habuit, et solum nomen sanctitatis potius quam rem. Supra vero fuit alia ratio data. Respectu etiam prave multitudinis tam huius quinte ecclesie quam quinti status, prefert se habere “septem spiritus Dei et septem stellas”, id est fontalem plenitudinem donorum et gratiarum Spiritus Sancti et continentiam omnium sanctorum episcoporum quasi stellarum, tum ut istos de predictorum carentia et de sua opposita immunditia plus confundat, tum ut ad eam rehabendam fortius attrahat. […]
In mente ergo habe” (Ap 3, 3), id est attente recogita, “qualiter acceperis”, scilicet a Deo priorem gratiam, “et audieris”, ab homine scilicet per predicationem evangelicam, “et serva”, scilicet illa que per predicationem audisti et per influxum gratie a Deo primitus accepisti. Vel recogita qualiter per proprium consensum accepisti fidem et gratiam et statum eius, prout a me et a ceteris tibi predicantibus audivisti. “Et serva” ea “et penitentiam age”, scilicet de tuis malis, quasi dicat: si digne recogitaveris gratiam tibi prius impensam et qualiter prius accepisti eandem, servabis eam et penitentiam ages.
Innuit etiam per hoc quod sic fuit otiosus et torpens, quod in mente non habuit qualiter acceperit et audierit statum et gratiam sue perfectionis, et quod ideo sic corruit. Que quidem nimis correspondenter patent in hoc cursu novissimo quinti temporis ecclesiastici.
Deinde comminatur eidem iudicium sibi occulte et inopinate superventurum si non se correxerit, unde subdit: “Si ergo non vigilaveris, veniam ad te tamquam fur”, qui scilicet venit latenter et ex improviso ut bona auferat et possessorem occidat. Unde subdit: “et horam nescies qua veniam ad te”. Iustum enim est ut qui se ipsum per negligentiam et torporem nescit, nesciat horam iudicii sui et exterminii. Talis etiam propter suas tenebras non videt lucem, ac erronee credit et optat se diu in prosperitate victurum et Dei iudicium diu esse tardandum, et etiam spe presumptuosa sperat se esse finaliter salvandum, propter quod Ia ad Thessalonicenses V° dicit Apostolus quod “dies Domini veniet in nocte sicut fur. Cum enim dixerint: pax et securitas, tunc superveniet eis repentinus interitus” (1 Th 5, 2-3). Quibus autem, scilicet sanctis, et quare non veniet sicut fur ostendit subdens: “Vos autem, fratres, non estis in tenebris, ut vos dies illa tamquam fur comprehendat; omnes enim vos estis filii lucis et diei. Igitur non dormiamus sicut et ceteri, sed vigilemus et sobrii simus. Qui enim dormiunt nocte dormiunt” et cetera (ibid., 5, 4-7).

Inf. XI, 10-15

“Lo nostro scender conviene esser tardo,
sì che s’ausi un poco in prima il senso
al tristo fiato; e poi no i fia riguardo”.
Così ’l maestro; e io “Alcun compenso”,
dissi lui, “trova che ’l tempo non passi
perduto”. Ed elli: “Vedi ch’a ciò penso”.

Inf. XV, 16-21

quando incontrammo d’anime una schiera
che venian lungo l’argine, e ciascuna
ci riguardava come suol da sera
guardare uno altro sotto nuova luna;
e sì ver’ noi aguzzavan le ciglia
come ’l vecchio sartor fa ne la cruna.

[LSA, prologus, Notabile III] Item (zelus) est septiformis prout fertur contra quorundam ecclesie primitive fatuam infantiam (I), ac deinde contra pueritiam inexpertam (II), et tertio contra adole-scentiam levem et in omnem ventum erroris agitatam (III), et quarto contra pertinaciam quasi in loco virilis et stabilis etatis se firmantem (IV), quinto contra senectutem remissam (V), sexto contra senium decrepitum ac frigidum <et> defluxum (VI), septimo contra mortis exitum desperatum et sui oblitum (VII).

[LSA, prologus, Notabile VII] Rursus sicut omnis dies habet mane, meridiem et vesperam, sic et omnis status populi Dei in hac vita. […] Eius vero vespera circa finem quinti temporis nimis apparet.

Inf. XXXI, 10-12

Quiv’ era men che notte e men che giorno,
sì che ’l viso m’andava innanzi poco;
ma io senti’ sonare un alto corno

Par. XII, 61-69

Poi che le sponsalizie fuor compiute
al sacro fonte intra lui e la Fede,
u’ si dotar di mutüa salute,
la donna che per lui l’assenso diede,
vide nel sonno il mirabile frutto
ch’uscir dovea di lui e de le rede;
e perché fosse qual era  in costrutto,
quinci si mosse spirito a nomarlo
del possessivo di cui era tutto.

 

 

Inf. XXVI, 19-24, 40-42, 103-120, 127-129

Allor mi dolsi, e ora mi ridoglio
quando drizzo la mente a ciò ch’io vidi,
e più  lo ’ngegno affreno ch’i’ non soglio,
perché non corra che virtù nol guidi;
sì che, se stella bona o miglior cosa
m’ha dato ’l ben, ch’io stessi nol m’invidi.

tal si move ciascuna per la gola
del fosso, ché nessuna mostra ’l furto,
e ogne fiamma un peccatore invola.

L’un lito e l’altro vidi infin la Spagna,
fin nel Morrocco, e l’isola d’i Sardi,
e l’altre che quel mare intorno bagna.
Io e ’ compagni eravam vecchi e tardi
quando venimmo a quella foce stretta
dov’ Ercule segnò li suoi riguardi
acciò che l’uom più oltre non si metta;
da la man destra mi lasciai Sibilia,
da l’altra già m’avea lasciata Setta.
O frati”, dissi, “che per cento milia
perigli siete giunti a l’occidente,
a questa tanto picciola vigilia
d’i nostri sensi ch’è del rimanente
non vogliate negar l’esperïenza,
di retro al sol, del mondo sanza gente.
Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza”.

Tutte le stelle già de l’altro polo
vedea la notte, e ’l nostro tanto basso,
che non surgëa fuor del marin suolo.

Inf. XXVII, 22-24

perch’ io sia giunto forse alquanto tardo,
non t’incresca restare a parlar meco;
vedi che non incresce a me, e ardo!

Purg. XVIII, 55-66, 73-81

Però, là onde vegna lo ’ntelletto
de le prime notizie, omo non sape,
e de’ primi appetibili l’affetto,
che sono in voi sì come studio in ape
di far lo mele; e questa prima voglia
merto di lode o di biasmo non cape.
Or perché a questa ogn’ altra si raccoglia,
innata v’è la virtù che consiglia,
e de l’assenso de’ tener la soglia.
Quest’ è l principio là onde si piglia
ragion di meritare in voi, secondo
che buoni e rei amori accoglie e viglia.

La nobile virtù Beatrice intende
per lo libero arbitrio, e però guarda
che l’abbi a mente, s’a parlar ten prende.
La luna, quasi a mezza notte tarda,
facea le stelle a noi parer più rade,
fatta com’ un secchion che tuttor arda;
e correa contra ’l ciel per quelle strade
che ’l sole infiamma allor che quel da Roma
tra ’ Sardi e ’ Corsi il vede quando cade.

NOTA TAB. II

La rosa dei temi contenuti nell’esegesi di Ap 3, 1.3 (collazionati con altri, sempre relativi alla quinta chiesa d’Asia [Ap 3, 1-5] o al quinto stato) percorre il poema con multiformi variazioni. I motivi segnano, con variazioni fortemente dissonanti che assumono in senso positivo i valori negativi espressi nell’esegesi, il momento di pausa prima della ripida discesa dal piano degli eresiarchi alla valle del Flegetonte sanguigno (Inf. XI, 10-15): scendere (il quinto periodo è dei ‘condescensivi’); tardare (“optat se diu in prosperitate victurum et Dei iudicium diu esse tardandum”); ripensare (‘riguardare’) attentamente un primo stato di grazia, qual era («“In mente ergo habe”, id est attente recogita, “qualiter acceperis”, scilicet a Deo priorem gratiam … si digne recogitaveris gratiam tibi prius impensam et qualiter prius accepisti eandem”»).
Si intrecciano altri temi del quinto stato. Delle parti del giorno, il quinto periodo della storia della Chiesa rappresenta il declinare verso il vespro, prima che nella notte tenebrosa, quando la meretrice Babilonia e la bestia che la porta sono al colmo, “vaghino tutte le bestie della selva” (Salmo 103, 20; prologo, Notabile VII). I motivi della sera, del vespro, dell’annerarsi si ritrovano in zone del poema in cui prevalgono i temi del quinto stato. La schiera dei sodomiti viene lungo l’argine del Flegetonte guardando come “come suol da sera / guardare uno altro sotto nuova luna”, cioè con poca luce; il motivo della sera è congiunto con quello della vecchiaia, dal Notabile III del prologo (ogni stato corrisponde a un’età dell’uomo), nell’aguzzare le ciglia “come ’l vecchio sartor fa ne la cruna” (Inf. XV, 16-21). Brunetto Latini dice a Dante (vv. 55-57) che se seguirà la sua “stella”, cioè la virtù dei Gemelli (la perfezione stellare della chiesa di Sardi ad Ap 3, 1), non potrà fallire la gloria (il tema del “principium pulchritudinis”, proprio della quinta chiesa nel suo bell’inizio, è nell’inciso “se ben m’accorsi ne la vita bella”; cfr. Ap 3, 5).
L’episodio di Ulisse (Inf. XXVI) mostra numerosi elementi semantici tratti da questa rosa: essere “vecchi e tardi”; vigilare (al quale san Paolo invita i Tessalonicesi chiamandoli “fratres”); considerare la propria semenza (alla quale, se degna, i doni dello Spirito sono preparati); la pienezza stellare (che però è notturna, non diurna: “Tutte le stelle già de l’altro polo / vedea la notte”); il calembour onomastico della Sardegna (“l’isola d’i Sardi”) con la quinta chiesa, Sardi [1]; la pena eterna nel “furto” della fiamma (in mancanza di ravvedimento, Cristo verrà alla quinta chiesa come un ladro: Ap 3, 3).
Vi rientrano anche i “riguardi” segnati da Ercole, che non a caso rimano con “tardi”: stanno lì non solo a indicare un divieto, sono anche un invito a ritornare con la mente alla “prima grazia”. Nel caso di Ulisse, che della grazia non fu consapevole, significherà invito a considerare l’innato senso morale di cui dice Virgilio in Purg. XVIII, che non a caso è fasciato dagli stessi temi. Ulisse avrebbe dovuto considerare di seguire virtù e conoscenza in senso relativo, per quanto possibile in questa vita, e invece le desiderò assolutamente. L’esperienza dei costumi umani, dei vizi e delle virtù, della quale Orazio rende modello il greco, avrebbe dovuto essergli sufficiente, mantenendolo nel campo dell’etica, cioè dell’intelligenza morale, di “color che ragionando andaro al fondo” e lasciarono “moralità al mondo”, come afferma Virgilio (Purg. XVIII, 67-69).
Ulisse volle invece sperimentare con i sensi, andando oltre l’etica verso l’anagogia (il ‘sovrasenso’), il “mondo sanza gente”. La terra proibita alla ragione umana – alla sapienza di questo mondo che la croce avrebbe dimostrato stolta – non era solo una terra senza abitanti, l’“extra notum nobis orbem” di cui scrive Seneca (Epist. LXXXVIII); era figura della terra che sarebbe stata data alle Genti, luogo della loro conversione a Cristo, che si sarebbe compiuta solo nel sesto stato della Chiesa. L’ultimo viaggio dell’eroe greco fu un andare sensibilmente al sesto stato, verso un lido allora noto unicamente a Dio, andata che solo un uomo evangelico avrebbe potuto compiere, nel novum saeculum segnato dal secondo avvento di Cristo nello Spirito.
I temi tratti dall’esegesi della quinta chiesa percorrono larghi strati della seconda e della terza cantica. Si consideri, in particolare, la dottrina del libero arbitrio esposta da Virgilio (Purg. XVIII, 55-81). “Principio là onde si piglia / ragion di meritare in voi”, il libero arbitrio è “innata … virtù che consiglia, / e de l’assenso de’ tener la soglia”; è “nobile virtù” alla quale bisogna sempre ripensare affinché ogni atto volitivo “si raccoglia” alla “prima voglia”, innata per grazia divina. È dunque assimilato allo stato edenico da ricordare, e non a caso Virgilio, sulla soglia del paradiso terrestre, dice a Dante: “libero, dritto e sano è tuo arbitrio, / e fallo fora non fare a suo senno” (Purg. XXVII, 140-141). Da confrontare quanto detto del libero arbitrio (“e de l’assenso de’ tener la soglia”) con l’assenso dato per Domenico dalla madrina in occasione del battesimo (Par. XII, 64): in entrambi i casi, della fede e della prima voglia, c’è una grazia data gratuitamente sulla quale deve esercitarsi il consenso (“Vel recogita qualiter per proprium consensum accepisti fidem et gratiam et statum eius”).
I temi sopra considerati si contaminano con quelli, sempre propri della quinta chiesa, del bel principio nella sua stellare pienezza, bello che si sostanzia nel temperare, variare, diversificare secondo umana proporzione i doni dello Spirito uno semplicissimo (ad Ap 2, 1, nell’interpretazione del nome “Sardi”; al Notabile III del prologo nella distinzione di sette parti dell’esposizione della fede secondo i sette doni dello Spirito, di cui la quinta “intendit fidei et eius scientie … contemperande, unicuique scilicet secundum suam proportionem”). I temi del temperare e del variare sono congiunti nel guardare all’ingiù dalla costellazione dei Gemelli, allorché fra i sette pianeti il poeta vede Giove, stella ‘temperata’ tra il freddo del padre Saturno e il caldo del figlio Marte e ha chiaro il “variare” delle loro posizioni (Par. XXII, 145-147). Il medesimo variare, espresso però tramite il tema della bellezza, è presente in quanto Adamo afferma circa la natura che lascia agli uomini la scelta del modo di parlare, “secondo che v’abbella” (Par. XXVI, 130-132; cfr. l’espressione, dal Notabile III del prologo, “deinde contemperande, unicuique … secundum suam proportionem”, da collazionare con “et secundum suas proportiones ordinans sub regula unitatis condescendente proportioni membrorum, habet mire pulchritudinis formam” dal passo del cap. II). Dall’ordinare in modo proporzionato membra e uffici, proprio dei primi zelanti istitutori del quinto stato nel suo bel principio, deriva quanto afferma Virgilio del libero arbitrio:  “Quest’ è ’l principio là onde si piglia / ragion di meritare in voi, secondo / che buoni e rei amori accoglie e viglia” (Purg. XVIII,  64-66).

[1] I primi cinque stati della Chiesa (prefigurati dalle prime cinque età del mondo; la sesta inizia con il primo avvento di Cristo), secondo quanto affermato nel Notabile VI del prologo della Lectura, sono paragonabili a un condotto o a uno stretto passaggio dove scorre l’acqua che proviene da Cristo-fonte e sfocia nella grande piscina o lago del sesto stato. Si fa anche l’esempio dell’albero, che ha una radice, un tronco e poi si dilata espandendosi nei rami fruttuosi. Ulisse e i suoi compagni pervengono alla “foce stretta” dopo aver visto terra cinque volte: “L’un lito e l’altro vidi infin la Spagna, / fin nel Morrocco, e l’isola d’i Sardi, / e l’altre che quel mare intorno bagna” (Inf. XXVI, 103-105). Se il primo e il secondo vedere (la costa europea e quella africana del Mediterraneo) non sono meglio specificati, il terzo, la Spagna, terra in cui si diffuse l’eresia, allude al terzo stato dei dottori che combatterono gli eretici. Il quarto, il Marocco, allude al quarto stato, degli anacoreti o contemplativi, che fiorirono in Africa settentrionale e furono poi annientati dai Saraceni. Il quinto, la Sardegna, allude al quinto stato, per il consonare del nome dell’isola con quello della quinta chiesa, di Sardi appunto, per quanto questa abbia collocazione geografica opposta, in Asia Minore. Il legno del navigatore greco avrebbe così solcato in anticipo “per l’alto mare aperto” tutta la storia umana, fino alla soglia del sesto stato. Tutto ciò è nella linea di uno dei principi fondamentali della Lectura dell’Olivi, cioè l’appropriazione ad altri tempi e fatti di quanto esposto nell’Apocalisse. Ci si potrebbe spingere più avanti e sostenere che anche il lasciarsi “Sibilia” dalla mano destra (v. 110) abbia un doppio significato, perché “Sibilia” letteralmente significa Siviglia ma può alludere alla Sibilla, ossia all’andata “ad immortale secolo” concessa da Dio non a Ulisse ma a Enea, per udirvi “di sua vittoria e del papale ammanto” (Inf. II, 13-27). La mano destra designa il potere spirituale dato ai vescovi, la sinistra il potere temporale dato ai re. L’ottava perfezione di Cristo come sommo pastore consiste infatti nell’avere nella sua destra le sette stelle, cioè tutte le perfezioni stellari dei prelati inferiori (Ap 1, 16). In principio della seconda visione, Cristo tiene nella destra il libro segnato da sette sigilli, perché in esso sono le promesse di grazia e di gloria da lui fatte, e tale fu il senso dell’andata di Enea all’Ade (Ap 5, 1). Anche un altro riferimento alla Sardegna (Purg. XVIII, 81) si accompagna ai temi della chiesa di “Sardi”. 


Tab. III [Nota]

[LSA, cap. XVIII, Ap 18, 5-7 (VIa visio)] Deinde reddit rationem quare sit ab ea exeundum, ne participent in eius delictis et penis, subdens (Ap 18, 5): “Quoniam pervenerunt peccata eius usque ad celum”, id est usque ad summum, seu ad tantum et tam famosum cumulum quod Deus amodo non potest ipsam amplius tolerare. Unde subdit: “et recordatus est Dominus iniquitatum eius”, scilicet ad statim puniendum illas. Per longam enim dissimulationem punitionis videbatur non recordari earum. Quia vero sancti sunt iudicaturi malos tam in extremo iudicio quam in hac vita, predicando et comminando iustam dampnationem ipsorum, ideo pro utroque istorum modorum subdit Deus (Ap 18, 6): “Reddite illi”, scilicet condignas penas, “sicut et ipsa reddidit vobis”, id est sicut per eam estis dure et impie afflicti, sic vos dure et severe seu iuste iudicate eam. “Et duplicate duplicia secundum opera eius”, id est multo maiora supplicia sibi inferte quam ipsa intulerit vobis, quia sic merentur prava opera eius. Nam multo plus debet puniri persecutor sanctorum quam fuerit pena quam ab ipso sunt passi. Vel, secundum Ioachim, sancti reddent ei “duplicia” quia tunc, cum venerit dies calamitatis eius, duplo confundent faciem eius quam ipsi fuerint confusi ab ea*. <Vel> quia impia opera eius sunt “duplicia”, scilicet offensiva Dei et sanctorum, et etiam quia sanctos dupliciter offenderunt, scilicet subtrahendo bona et inferendo mala, vel contempnendo seu blasphemando et corporaliter macerando. Ideo, secundum has duplicitates, “reddite” ei consimiliter, seu proportionaliter, “duplicia”. Et “in poculo, quo miscuit”, id est propinavit vobis, scilicet penas, “miscete illi duplum”. Expone le “duplum” dupliciter sicut prius.
Quia vero non solum punietur pro malis que fecit in sanctos vel in proximos, sed etiam pro hiis quibus se ipsam vanificavit et fedavit, ideo pro hiis subditur (Ap 18, 7): “Quantum glorificavit se et in deliciis fuit, tantum date illi tormentum et luctum”. Le “tantum” non significat hic absolutam equalitatem quantitatis, sed equalitatem proportionis et iustitie. Signanter autem notat eius culpam de duobus, scilicet de superba gloria et de carnali voluptate, quia hec duo sunt radices omnium aliorum. Nullus enim, secundum Ieronimum, querit divitias nisi pro hiis duobus. In hiis autem <tribus>, secundum Iohannem, consistit radicaliter tota malitia mundi (cfr. 1 Jo 2, 16). Quidam habent: “Quantum glorificavit se in deliciis suis”, et satis redit in idem.

* Expositio, pars VI, distinctio I, f. 199va-b.

(hapax)

Inf.
XIV, 37-39

tale scendeva l’etternale ardore;
onde la rena s’accendea, com’ esca
sotto focile, a doppiar lo dolore.

Inf. XXVIII, 109-111, 142

E io li aggiunsi: “E morte di tua schiatta”;
per ch’elli, accumulando duol con duolo,
sen gio come persona trista e matta.

Così s’osserva in me lo contrapasso.

Inf. XXXI, 58-64

La faccia sua mi parea lunga e grossa
come la pina di San Pietro a Roma,
e a sua proporzione eran l’altre ossa;
sì che la ripa, ch’era perizoma
dal mezzo in giù, ne mostrava ben tanto
di sovra, che di giugnere a la chioma
tre Frison s’averien dato mal vanto

Inf. XI, 46-51

Puossi far forza ne la deïtade,
col cor negando e bestemmiando quella,
e spregiando natura e sua bontade;
e però lo minor giron suggella
del segno suo e Soddoma e Caorsa
e chi, spregiando Dio col cor, favella.

Purg. XXXIII, 55-60

E aggi a mente, quando tu le scrivi,
di non celar qual hai vista la pianta
ch’è or due volte dirubata quivi.
Qualunque ruba quella o quella schianta,
con bestemmia di fatto offende a Dio,
che solo a l’uso suo la creò santa.

[LSA, prologus, Notabile III] De tertio etiam patet. Nam magistralis tuba seu expositio intendit fidei et eius scientie seminande (I), et deinde radicande seu roborande (II), deinde explicande (III), deinde amplexande (IV), deinde contemperande, unicuique scilicet secundum suam proportionem (V); intendit etiam finaliter eam imprimere et sigilla-re (VI) et tandem glorificare seu glorificatam exhibere (VII). Et patet correspondentia primi ad primum statum et secundi ad secundum et sic de aliis.

NOTA TAB. III

Ad Ap 18, 4 una voce dal cielo ingiunge di uscire da Babylon, cioè di non divenire partecipi della sua scellerata amicizia o compagnia. I suoi peccati sono pervenuti fino al cielo, tanto accumulati da non poter più essere tollerati (Ap 18, 5). Per cui le deve essere inferto il doppio delle pene che ha fatto patire agli altri, anche perché doppia è stata l’offesa, a Dio e ai santi, e doppiamente arrecata, disprezzando o bestemmiando, oppure sottraendo beni e arrecando mali (Ap 18, 6). Contro Babylon si dice: “Quantum glorificavit se et in deliciis fuit, tantum date illi tormentum et luctum” (Ap 18, 7). La comminazione della pena (“quantum … tantum”) non deve essere intesa come uguaglianza quantitativa, ma come giusta proporzione ai peccati commessi.
I temi registrano numerose variazioni. I bestemmiatori, sodomiti e usurai, come indicati da Virgilio a Inf. XI, 46-51, offendono Dio, rispettivamente, con la blasfemia e col disprezzo della natura e della bontà divina. L’arena che s’accende sotto la pioggia di fuoco raddoppia il dolore (Inf. XIV, 37-39); alle parole di Dante, il Mosca dei Lamberti se ne va “accumulando duol con duolo” (Inf. XXVIII, 109-111). Beatrice parla dell’albero dell’Eden come pianta “due volte dirubata”, cioè ‘rubata’ dal gigante (“subtrahendo bona”) e prima ‘schiantata’ dall’aquila (“inferendo mala”) (Purg. XXXIII, 55-60). Come per Babylon, così anche per i dannati la pena è proporzionata alla colpa in modo non quantitativo ma qualitativo (“lo contrapasso”: Inf. XXVIII, 142).

 

“Un tempo, due tempi e la metà di un tempo”

Si esaminano qui le metamorfosi che nel “poema sacro” assume l’espressione apocalittica “per (un) tempo, (due) tempi e la metà di un tempo” – “per tempus et tempora et dimidium temporis”. Queste parole sono riferite al periodo (si tratta, nella quarta visione, dell’esegesi congiunta della terza e della quarta guerra) in cui la donna (la Chiesa) venne nutrita lontano dal serpente nel deserto dei Gentili, il luogo preparatole da Dio come suo, e dove le vennero date le due ali di una grande aquila (Ap 12, 14). Su di esse, secondo Olivi, Gioacchino da Fiore ha fondato tutta la sua Concordia. L’espressione indica un periodo di tre anni e mezzo, formati da quarantadue mesi (12 mesi x 3 anni + 6 mesi) nei quali i trenta giorni dei singoli mesi corrispondono a trenta anni: si ha così una permanenza della donna nel deserto di 1260 anni. “Tempus” sta per un anno, “tempora” per due anni e “dimidium temporis” per sei mesi. I “due anni” derivano dal duale greco, lingua nella quale scrisse Giovanni. Questo numero compare anche ad Ap 12, 6 (quarta visione, prima guerra) per indicare il periodo in cui la donna venne nutrita nel deserto (dove era fuggita dalla durezza dei Giudei), mentre in Daniele 7, 24-25 si dice che il re undicesimo distruggerà i santi dell’Altissimo che gli saranno dati in mano “per un tempo, due tempi e la metà di un tempo” e in Daniele 12, 6-7 che “fra un tempo, due tempi e la metà di un tempo si compiranno tutte queste cose meravigliose”.
Questo numero mistico ha vari significati. I tre anni e mezzo designano il mistero della trinità di Dio unitamente alla perfezione delle sue opere, che rispetto al loro artefice sono qualcosa di dimidiato, imperfetto, parziale e quasi nulla: le opere furono infatti compiute in sei giorni, che corrispondono alle sei età del mondo e ai sei mesi del mezzo anno. Designano anche la perfezione che deriva dalla fede, dalla speranza e dalla carità unita alla pregustazione non completa della gloria eterna, oppure i tre principali consigli di Cristo (povertà, castità, obbedienza) uniti ad una partecipazione non perfetta della vita eterna. I tre anni e mezzo coincidono con il periodo in cui Cristo esercitò il suo magistero e la sua predicazione. Essi sono anche distinti in “un anno” (“tempo”) e “due anni” (“tempi”), in quanto nel secondo e nel terzo anno Cristo predicò da solo dopo l’incarcerazione di Giovanni Battista e in modo più solenne. Questa distinzione, tenendo conto della profezia di Daniele, si verificherà forse anche nella predicazione e persecuzione dell’Anticristo. Con Giovanni Battista, come dice Cristo in Matteo 11, 11-12 e in Luca 16, 16, inizia il tempo in cui i violenti si impadroniscono del regno dei cieli (cfr. quanto dice l’aquila a  Par. XX, 94: “Regnum celorum vïolenza pate”).

Una delle metamorfosi del numero mistico espresso con “un tempo, due tempi e la metà di un tempo” sta nelle tre facce della testa di Lucifero: “L’una dinanzi, e quella era vermiglia [un tempo];  / l’altr’ eran due [la nera e quella tra bianca e gialla: due tempi], che s’aggiugnieno a questa / sovresso ’l mezzo di ciascuna spalla [la metà di un tempo]” (Inf. XXXIV, 39-41). È da notare che la prima faccia viene presentata separatamente dalle altre due [1]. Il tema continua con i tre peccatori che Lucifero fa dolenti rompendoli coi denti a guisa di maciulla. Anche in questo caso, il primo – Giuda – viene separato dagli altri due, Bruto e Cassio: “A quel dinanzi [un tempo] il mordere era nulla / verso ’l graffiar [l’esser nulla è motivo che distingue la metà di un tempo] … De li altri due  c’hanno il capo di sotto, / quel che pende dal nero ceffo è Bruto … e l’altro è Cassio …” [due tempi] (vv. 58-67).

Viene riproposto il medesimo tema in apertura di Inf. XXVIII (7-21), nella complessa similitudine cui il poeta ricorre per descrivere la sozza condizione della nona bolgia, dove sono i seminatori di scandalo e di scisma: se si mettessero insieme tutti i morti e i feriti che insanguinarono nel corso dei secoli le terre del Mezzogiorno d’Italia, e questi mostrassero le loro membra forate o mozze, non si offrirebbe un’idea adeguata alla circostanza. Viene prima “tutta la gente / che già, in su la fortunata terra / di Puglia, fu del suo sangue dolente” a causa dei “Troiani” (per la venuta di Enea in Italia) e della lunga seconda guerra punica, che a Canne “de l’anella fé sì alte spoglie” (gli anelli strappati dalle dita dei Romani caduti). A questo primo gruppo delle genti di Puglia (con la quale si intende la parte continentale del Regno di Sicilia) si dovrebbe aggiungere un secondo, formato a sua volta da due gruppi: la gente che tentò invano di contrastare Roberto il Guiscardo e la gente caduta nelle guerre tra Angioini e Svevi. Questo secondo sottogruppo si divide ancora in due parti: la gente caduta a Ceprano, abbandonata per tradimento – “là dove fu bugiardo / ciascun Pugliese” (indiretta allusione alla battaglia di Benevento dove fu sconfitto Manfredi) -, e quella caduta a Tagliacozzo, dove Corradino venne sconfitto per via di un accorto consiglio dato a Carlo d’Angiò dal “vecchio Alardo”. Il primo gruppo – le genti di Puglia – corrisponde al “tempo” (un anno); il secondo, doppio gruppo – i caduti o i feriti nei combattimenti contro Roberto il Guiscardo e quelli nelle guerre svevo-angioine – a “tempi” (due anni); la “metà di un tempo” (mezzo anno) sta nel “nulla” che la riunione di tutti e tre i gruppi di caduti offre rispetto a quanto visto dal poeta nella bolgia: il mezzo anno designa infatti qualcosa di dimidiato, imperfetto e parziale (con “dimidium” concorda anche il “mezzul” del fondo della botte, di cui si dice al verso 22). È da notare la simmetria del motivo dei “due tempi”, che rispecchia il duale greco, in Inf. XXVIII e in Inf. XXXIV: “S’el s’aunasse ancor tutta la gente … con quellae l’altraquel che pende dal nero ceffo è Bruto … e l’altro è Cassio …”.

Una variante del tema sembra presente anche in quanto dichiarato dal simoniaco Niccolò III in Inf. XIX, 79-84: il tempo da lui trascorso nella posizione di piantato sottosopra coi piedi accesi nel foro della livida pietra è già quasi di venti anni (agosto 1280 – marzo/aprile 1300), un “tempo” più lungo di quello in cui vi resterà Bonifacio VIII, che alla morte nell’ottobre 1303 prenderà il suo posto e lo farà cadere più giù nelle fessure della pietra, perché Bonifacio, dopo quasi undici anni, verrà a sua volta sostituito nel 1314 da Clemente V, “pastor sanza legge” che ricoprirà entrambi i suoi predecessori per “più laida opra”. Il motivo della “metà di un tempo” si può considerare applicato sia a Bonifacio VIII, che trascorrerà piantato come palo circa la metà del tempo toccato a Niccolò III, sia, nel significato di un’opera parziale e imperfetta che assume qui un sapore amaro, a entrambi i pontefici, l’Orsini e il Caetani, la cui opera, alla fine, risulterà meno laida di quella del guascone Bertrand de Got. È comunque da notare come il medesimo tema venga appropriato sia ai papi simoniaci sia a Lucifero, figure che designano, attraverso un numero mistico loro applicato, la durata della tribolazione (tre anni e mezzo) sotto il regno dell’Anticristo (l’undicesimo re di Daniele 7, 24-25). L’espressione “un tempo, due tempi e la metà di un tempo” sarà ancora utilizzata da Botticelli alla fine dell’anno 1500, come datazione della Natività mistica ispirata ai sermoni sull’Apocalisse del Savonarola [2].

Un’altra variazione è nella spiegazione data da Manfredi della penitenza impostagli come scomunicato: chi muore in contumacia di Santa Chiesa, ancorché si penta in fin di vita, “per ognun tempo” che è stato “in sua presunzïon”, ostinato cioè nel non volersi sottomettere all’autorità ecclesiastica, deve restare fuori del purgatorio trenta volte (il numero trenta fa parte del numero mistico 1260), a meno che questo decreto non venga abbreviato (la “metà di un tempo”) per l’intervento delle buone preghiere (Purg. III, 136-141) [3].

Il motivo della “metà di un tempo”, cioè di un’opera parziale e imperfetta, viene ancora ironicamente appropriato al vivere civile di Atene e Sparta, “picciol cenno” rispetto alle sottili leggi fiorentine che varate ad ottobre non durano alla metà di novembre (Purg. VI, 139-144). Con esso viene vestita la reminiscenza ovidiana della “folle Aragne”, la tessitrice che sfidò Minerva, raffigurata sul pavimento del primo girone dei superbi “già mezza ragna, trista in su li stracci / de l’opera che mal per te si fé” (Purg. XII, 43-45; cfr. quanto afferma Niccolò III del ‘futuro’ papa Clemente V: “ché dopo lui verrà di più laida opra, / di ver’ ponente, un pastor sanza legge”: Inf. XIX, 82-83). A Par. XIX, 133-138, l’aquila dice di Federico II d’Aragona (re di Sicilia dal 1296 al 1337) che nel libro della vita (cfr. Ap 20, 12) le sue opere saranno scritte con lettere abbreviate “a dare ad intender quanto è poco” [‘metà di un tempo’]; pure all’apertura del libro “parranno a ciascun l’opere [‘metà di un tempo’] sozze / del barba [Giacomo, re di Maiorca] e del fratel [Giacomo re di Sicilia e poi di Aragona], che tanto egregia / nazione [l’Aragona: ‘un tempo’] e due corone [Maiorca e Aragona: ‘due tempi’] han fatte bozze”.

I tre anni e mezzo designano il mistero della trinità di Dio unitamente alla perfezione delle sue opere, che rispetto al loro artefice sono qualcosa di dimidiato, imperfetto e parziale e quasi nulla: così nella visione finale il poeta vede “tre giri / di tre colori e d’una contenenza”, ma il suo dire è “corto” e “fioco”, inadeguato rispetto al concetto, a quanto cioè la mente ha ritenuto della visione, concetto che a sua volta è “poco”: il corto, il fioco, il poco esprimono il significato contenuto nella “metà di un tempo” (Par. XXXIII, 115-123).

La vicinanza del verbo “pertractare”, riferito nell’esegesi di Ap 12, 6 al quinto libro della Concordia di Gioacchino da Fiore, con il numero mistico “per tempus et tempora et dimidium temporis” (da Daniele, 12, 6-7; cfr. gli incisi “… sub uno quam brevi coart<ar>emus sermone … nisi hoc quod sonat versiculus iste …” con Par. XXXIII, 74, 106 : “e per sonare un poco in questi versi … Omai sarà più corta mia favella”) conduce a Inf. XI, 79-84, dove Virgilio ricorda al discepolo le tre disposizioni peccaminose odiate da Dio – “incontenenza, malizia e la matta / bestialitade” – esposte ampiamente (‘pertrattate’) nell’Etica di Aristotele. Una di queste tre disposizioni, l’incontinenza, offende meno Dio e suscita minor biasimo, e pertanto gli incontinenti stanno fuori della città di Dite meno martellati nelle pene dalla divina vendetta. All’incontinenza è applicato il tema della “metà di un tempo”, mentre la malizia sembra corrispondere a “tempi” (il duale greco), considerato che ai vv. 22-24 si dice che il fine di ogni malizia, che consiste nell’“ingiuria”, cioè nell’infrazione delle leggi divine o naturali, si consegue in due modi, con la forza (i violenti) o con l’inganno (i fraudolenti); quest’ultimo, a sua volta, si distingue nella frode verso chi si fida e in quella verso chi non si fida, con andamento bipartito riscontrabile in principio di Inf. XXVIII (Inf. XI, 52-66: “Questo modo di retro … Per l’altro modo …”). La “matta bestialitade” corrisponderebbe pertanto a “(un) tempo”. Da notare che i violenti hanno un andamento ternario, per non dire trinitario: “ma perché si fa forza a tre persone … a Dio, a sé, al prossimo” (Inf. XI, 28-33).

[1] I tre eserciti contrari a Cristo, designati rispettivamente all’apertura del secondo, del terzo e del quarto sigillo con il cavallo rosso, il cavallo nero e il cavallo pallido, si trasformano nelle tre facce di Lucifero (Inf. XXXIV, 39-45): la prima vermiglia, la seconda nera, la terza tra bianca e gialla.

[2] La Natività mistica della National Gallery di Londra reca in alto, su tre righi, la seguente scritta in greco: «Questo dipinto, sulla fine dell’anno 1500, durante i torbidi d’Italia, io, Alessandro, dipinsi nel mezzo tempo dopo il tempo, secondo l’XI di san Giovanni nel secondo dolore dell’Apocalisse, nella liberazione di tre anni e mezzo del Diavolo; poi sarà incatenato nel XII e lo vedremo [calpestato] come nel presente dipinto» (trad. a cura di G. Mandel in L’opera completa del Botticelli, Milano 1967 [Classici dell’arte], pp. 108-109, n. 148).

[3] La donna (la Chiesa) trova nel deserto dei Gentili, della fede e della contemplazione cristiana “il luogo preparato da Dio per esservi nutrita per 1260 giorni” (Ap 12, 6). Il suo è un pasto spirituale, con il quale incorpora i Gentili nella fede di Cristo, non potendo incorporare i Giudei, dalla cui durezza è fuggita. È da ricordare che il purgatorio, “lito diserto” (Purg. I, 130), “aspro diserto” (Purg. XI, 14), possiede le caratteristiche del deserto della gentilità (la forma “gentile/i” vi ricorre otto volte [cfr. anche “l’altre genti forme” a Purg. IX, 58], contro quattro occorrenze nell’Inferno e una nel Paradiso); Dante vi rimane tre giorni e mezzo (la cantica si chiude al meriggio del quarto giorno), un periodo di tempo corrispondente ai 1260 anni della permanenza della donna nel deserto, ovvero all’espressione “(un) tempo, (due) tempi e la metà di un tempo” di Ap 12, 14. A questo punto non appare casuale il fatto che siano 1260 i versi dei primi nove canti del Purgatorio, che descrivono il cosiddetto ‘antipurgatorio’, fino alla porta sulla cui soglia siede l’angelo al quale san Pietro ha affidato le chiavi. La porta costituisce la prima meta del viaggio prefissata in Inf. I, 130-135: “… Poeta, io ti richeggio … che tu mi meni là dov’ or dicesti, / sì ch’io veggia la porta di san Pietro …”. La divisione spirituale del poema non coincide però necessariamente con quella esteriore per cantiche e canti: così l’apertura effettiva della porta inizia a Purg. IX, 133, cioè tredici versi prima della fine del canto (che conta 145 versi). Questo spazio viene occupato dai tredici versi finali dell’Inferno (XXXIV, 127-139), che descrivono la risalita alla superficie della terra, una volta usciti dall’abisso, per il “cammino ascoso” segnato non dalla vista ma dal suono di un ruscelletto.

Tab. IV

[LSA, cap. XII, Ap 12, 14 (IVa visio, III-IVum prelium)] Dicit autem “per tempus et tempora et dimidium temporis”, id est per tres annos et dimidium ex quadraginta duobus mensibus triginta annorum, id est mille ducentis sexaginta annis constantes. Eundem enim numerum sub aliis verbis intendit hic ponere, quem posuit paulo ante (cfr. Ap 12, 6). Per “tempus” enim intelligitur unus annus, et per “tempora” duo ann<i>. Nam Greci, in quorum lingua iste liber est editus, habent tres numeros in suis articulis, scilicet singularem et dualem et pluralem. Quod autem “tempus et tempora et dimidium temporis” sumatur alibi pro tribus annis et dimidio, patet quia Danielis VII° dicitur quod rex undecimus, designatus per undecimum cornu, “sanctos Altissimi conteret et tradentur in manu eius usque ad tempus et tempora et dimidium temporis” (Dn 7, 25). In hoc autem libro et infra, XIII° capitulo, dicitur quod “data est illi potestas facere malum per menses quadraginta duos” (Ap 13, 5) et idem dicitur supra, XI° (Ap 11, 2.9.11). Quod autem “tempus et tempora”, id est tres anni, non sumantur hic pro annis dierum seu mensium ex solis triginta diebus constantium, se<d> potius pro annis duodecim mensium ex triginta annis quasi ex triginta diebus constantium, patet non solum ex supradictis, sed etiam quia in tertio et quarto statu ecclesie non apparuit talis persecutio vel mansio in deserto per solos tres annos dierum perdurans. Preterea hic non dicit ‘ubi aletur per tempus et tempora’, sed “ubi alitur”, tamquam monstrans se loqui de toto tempore pastus eius, de quo supra dixerat quod “habet” in deserto “locum paratum a Deo, ut ibi pascat eam mille ducentis sexaginta diebus” (Ap 12, 6).
Nota autem quod hoc tempus nominat tripliciter. Primo scilicet per quadraginta duos menses, propter misterium quadragenarii et sex septenarum que faciunt quadraginta duo, et propter misterium tricenarii quia menses completi sunt  triginta dierum.
Secundo per mille ducentos sexaginta dies, propter misticam perfectionem millenarii et centenarii ac binarii eius, et propter perfectionem sexagenarii sive senarii et denarii, quia ex sex decadibus constat.
Tertio per tres annos et dimidium, propter misterium trinitatis Dei trini cum perfectione operum suorum, que respectu eius sunt quasi dimidium seu imperfectum et partiale et quasi  nichil, et que constant ex sex operibus sex dierum, vel sex etatum, quasi ex sex mensibus.
Designant etiam predict<i> anni perfectionem fidei et spei et caritatis et cuiusdam non integre sed semiplene pregustationis et contemplationis eterne glorie, que alibi mistice designatur per dimidium cubitum. Designant etiam trinam perfectionem trium principalium consiliorum Christi cum quadam semiparticipatione vite eterne. Ideo autem totum tempus ecclesie in deserto gentium per tres annos et dimidium computatur, ut ostendatur conformari suo exemplari principio et magisterio. Christus enim tanto tempore predicavit, quod semper intellige addendo tres primos menses predicationis Iohannis, que fuit eadem cum predicatione Christi, unde et Christus dicit quod finis legis et prophetarum est in Iohanne et eius tempore incipit tempus rapiendi regnum celorum (cfr. Mt 11, 11-13; Lc 16, 16). Nota etiam quod non dicit ‘tria tempora’ vel ‘tres annos’, sed “tempus et tempora”, id est unum annum et duos annos, tum quia in tribus annis predicationis Christi distinctus fuit primus annus a duobus ultimis (nam in duobus ultimis, inchoatis secundum tres evangelistas ab incarceratione Iohannis, predicat sollempnius et absque Iohanne; et forte consimiliter erit in predicatione et persecutione Antichristi, nam et sub consimili distinctione computantur anni eius Danielis VII° et XI°), tum quia primus annus ecclesie habens duodecim menses triginta annorum, id est trecentos sexaginta annos, defluxit sub persecutione martiriorum; sequentia vero tempora per modum alium cucurrerunt.

Inf. XXXIV, 22-24, 37-45, 55-67

Com’ io divenni allor gelato e fioco,
nol dimandar, lettor, ch’i’ non lo scrivo,
però ch’ogne parlar sarebbe poco.

Oh quanto parve a me gran maraviglia
quand’ io vidi tre facce a la sua testa!
L’una dinanzi, e quella era vermiglia;
l’altr’ eran due, che s’aggiugnieno a questa
sovresso ’l mezzo di ciascuna spalla,
e sé giugnieno al loco de la cresta:
e la destra parea tra bianca e gialla;
la sinistra a vedere era tal, quali
vegnon di là onde ’l Nilo s’avvalla.

Da ogne bocca dirompea co’ denti
un peccatore, a guisa di maciulla,
sì che tre ne facea così dolenti.
A quel dinanzi  il mordere era nulla
verso ’l graffiar, che talvolta la schiena

rimanea de la pelle tutta brulla.
“Quell’ anima là sù c’ha maggior pena”,
disse ’l maestro, “è Giuda Scarïotto,
che ’l capo ha dentro e fuor le gambe mena.
De li altri due c’hanno il capo di sotto,
quel che pende dal nero ceffo è Bruto:
vedi come si storce, e non fa motto!;
e l’altro è Cassio, che par sì membruto”.

Inf. XIX, 79-84

Ma più è ’l tempo già che i piè mi cossi
e ch’i’ son stato così sottosopra,
ch’el non starà piantato coi piè rossi:
ché dopo lui verrà di più laida opra,
di ver’ ponente, un pastor sanza legge,
tal che convien che lui e me ricuopra.

Purg. III, 136-141

Vero è che quale in contumacia more
di Santa Chiesa, ancor ch’al fin si penta,
star li convien da questa ripa in fore,
per ognun tempo ch’elli è stato, trenta,
in sua presunzïon, se tal decreto
più corto per buon prieghi non diventa.

Purg. VI, 139-144

Atene e Lacedemona, che fenno
l’antiche leggi e furon sì civili,
fecero al viver bene un picciol cenno
verso di te
, che fai tanto sottili

provedimenti, ch’a mezzo novembre
non giugne quel che tu d’ottobre fili.

Purg. XII, 43-45

O folle Aragne, sì vedea io te
già mezza ragna, trista in su li stracci
de l’opera che mal per te si fé.

Par. XIX, 133-138

e a dare ad intender quanto è poco,
la sua scrittura fian lettere mozze,
che noteranno molto in parvo loco.
E parranno a ciascun l’opere sozze
del barba e del fratel, che tanto egregia
nazione e due corone han fatte bozze.

Inf. XXVIII, 7-24

S’el s’aunasse ancor tutta la gente
che già, in su la fortunata terra

di Puglia, fu del suo sangue dolente
per li Troiani e per la lunga guerra
che de l’anella fé sì alte spoglie,
come Livïo scrive, che non erra,
con quella che sentio di colpi doglie
per contastare a Ruberto Guiscardo;
e l’altra il cui ossame ancor s’accoglie
a Ceperan, là dove fu bugiardo
ciascun Pugliese, e là da Tagliacozzo,
dove sanz’ arme vinse il vecchio Alardo;
e qual forato suo membro e qual mozzo
mostrasse, d’aequar sarebbe nulla
il modo de la nona bolgia sozzo.

Già veggia, per mezzul perdere o lulla,
com’ io vidi un, così non si pertugia,
rotto dal mento infin dove si trulla.

Inf. XI, 28-30, 55-66, 79-84

Di vïolenti il primo cerchio è tutto;
ma perché si fa forza a tre persone,
in tre gironi è distinto e costrutto.

Questo modo di retro par ch’incida
pur lo vinco d’amor che fa natura;
onde nel cerchio secondo s’annida
ipocresia, lusinghe e chi affattura,
falsità, ladroneccio e simonia,
ruffian, baratti e simile lordura.
Per l’altro modo quell’ amor s’oblia
che fa natura, e quel ch’è poi aggiunto,
di che la fede spezïal si cria;
de l’universo in su che Dite siede,
qualunque trade in etterno è consunto.

Non ti rimembra di quelle parole
con le quai la tua Etica pertratta
le tre disposizion che ’l ciel non vole,

incontenenza, malizia e la matta
bestialitade? e come incontenenza
men Dio offende e men biasimo accatta?

Par. XXXIII, 73-75, 106-108, 115-123

ché, per tornare alquanto a mia memoria
e per sonare un poco in questi versi,
più si conceperà di tua vittoria.

Omai sarà più corta mia favella,
pur a quel ch’io ricordo, che d’un fante
che bagni ancor la lingua a la mammella

Ne la profonda e chiara sussistenza
de l’alto lume parvermi tre giri
di tre colori e d’una contenenza;
e l’un da l’altro come iri da iri
parea reflesso, e ’l terzo parea foco
che quinci e quindi igualmente si spiri.
Oh quanto è corto il dire e come fioco
al mio concetto! e questo, a quel ch’i’ vidi,

è tanto, che non basta a dicer ‘poco’.

[LSA, cap. XII, Ap 12, 6 (IVa visio, III-IVum prelium)] Notandum autem quod Ioachim totum librum suum Concordie veteris et novi testamenti fundavit super numero hic posito. Unde libro V° Concordie, circa finem pertractans verba illa angeli dicta Danieli, quod “in tempus et tempora et dimidium temporis” erit “finis horum mirabilium” (Dn 12, 6-7), dicit: «Verba hec Danielis ita a lectore huius operis pensari debere vellem, ut quicquid a principio huius operis usque huc late et diffuse contulimus sub uno quam brevi coart<ar>emus sermone. Nichil enim aliud nos intimasse credimus, nisi hoc quod sonat versiculus iste: ‘in tempus et tempora et dimidium temporis omnium istorum mirabilium esse finem’. Quia sicut iam per multas vices nos dixisse meminimus, in hiis quadraginta duabus generationibus septem signacula continentur, nichilque aliud est dicere “in tempus et tempora et dimidium temporis” complebuntur quam illud quod, sub sexto angelo tuba canente, alter angelus aut forte unus et idem ait: “tempus iam non erit amplius, sed in voce septimi angeli, cum ceperit tuba canere” (Ap 10, 6-7)»*.

* Concordia, V 6, c. 4 § 8; Patschovsky 3, pp. 1009, 10-17–1010, 1-6.

 

Tab. V

[LSA, cap. XV, Ap 15, 8 (Va visio, radicalia)] Deinde subdit de pleniori effluxu zeli severi, cum ait (Ap 15, 8): “Et impletum est templum Dei fumo”, id est ecclesia contemplantium est tunc impleta zelo sancte ire, que non solum obscurat et amaricat reos in quos acriter fertur, sed etiam ipsos sanctos zelantes. Unde Gregorius, Moralium V° super illud Iob V° (Jb 5, 2): “Virum stultum interficit iracundia”, dicit: «Ira per vitium oculum mentis excecat; ira autem per zelum turbat, quia quo saltim recta emulatione concutitur eo contemplatio, que non potest nisi tranquillo corde percipi, dissipatur. Sed inde subtilius ad alta reducitur, unde ad tempus ne videat reverberatur; sicut cum collirium infirmanti oculo mittitur lux penitus negatur, sed inde eam post paululum clarius recipit» et cetera.

Inf. XI, 91

O sol che sani ogne vista turbata 

Inf. XXIII, 145-146; XXIV, 16-18

Appresso il duca a gran passi sen gì,
turbato un poco d’ira nel sembiante

Così mi fece sbigottir lo mastro
quand’ io li vidi sì turbar la fronte,
e così tosto al mal giunse lo ’mpiastro 

[LSA, cap. III, Ap 3, 18 (Ia visio, VIIa ecclesia)] Deinde monet (quartum) defectum expelli, subdens: “et collirio unge oculos tuos ut videas”. Collirium est unctio facta ad purgandum feces oculorum, et est in principio communiter oculorum pungitivum et amaricativum et lacrimarum provocativum et emissivum, sed tandem visus clarificativum, et ideo per ipsum designatur amara compunctio de suis peccatis. Hec enim continue tenet aspectum et sensum cordis intime reflexum super se et super suos defectus, et ideo includit et auget primam illumi-nationem cordis, que est cognitio sui et suorum defectuum includens timoratam considerationem iudiciorum Dei ac sue reverende et tremende simul et piissime maiestatis. Hec autem directe contrariatur presumptioni premisse. Per collirium etiam desi-gnatur scriptura sacra: preceptum enim Domini est lucidum illuminans oculos.

Par. XXVI, 76-79 

così de li occhi miei ogne quisquilia
fugò Beatrice col raggio d’i suoi,
che rifulgea da più di mille milia:
onde mei che dinanzi vidi poi

Due luoghi (Ap 3, 18; 15, 8) nei quali si tratta del “collirio” che purga gli occhi e rende chiara la vista, quando turbata, con temi parodiati nel turbamento di Virgilio per la bugia detta da Malacoda (ma poi “tosto al mal giunse lo mpiastro”) e a Beatrice la quale, nell’ottavo cielo, purga la vista di Dante col raggio dei suoi occhi.

Tab. VI

[LSA, cap. I, Ap 1, 16-17 (radix Ie visionis)] Decima (perfectio summo pastori condecens) est sue claritatis et virtutis incomprehensibilis gloria, unde subdit: “et facies eius sicut sol lucet in virtute sua”. Sol in tota virtute sua lucet in meridie, et precipue quando aer est serenus expulsa omni nube et grosso vapore, et quidem corporalis facies Christi plus incomparabiliter lucet et viget. Per hoc tamen designatur ineffabilis claritas et virtus sue divinitatis et etiam sue mentis. Splendor etiam iste sue faciei designat apertam et superfulgidam notitiam scripture sacre et faciei, ita quod in sexta etate et precipue in eius sexto statu debet preclarius radiare. In cuius signum Christus post sex dies transfiguratus est in monte in faciem solis (cfr. Mt 17, 1-8), et sub sexto angelo tuba canente videtur angelus habens faciem solis et tenens librum apertum (cfr. Ap 10, 1-2).
Undecima est ex predictis sublimitatibus impressa in subditos summa humiliatio et tremefactio et adoratio, unde subdit: “et cum vidissem eum”, scilicet tantum ac talem, “cecidi ad pedes eius tamquam mortuus” (Ap 1, 17). Et est intelligendum quod cecidit in faciem prostratus, quia talis competit actui adorandi; casus vero resupinus est signum desperationis et desperate destitutionis. Huius casus sumitur ratio partim ex intolerabili superexcessu obiecti, partim ex terrifico et immutativo influxu assistentis Dei vel angeli, partim ex materiali fragilitate subiecti seu organi ipsius videntis.
Est etiam huius ratio ex causa finali, tum quia huiusmodi immutatio intimius et certius facit ipsum videntem experiri visionem esse arduam et divinam et a causis supremis, tum quia per eam quasi sibi ipsi annichilatus humilius et timoratius visiones suscipit divinas, tum quia valet ad significandum quod sanctorum excessiva virtus et perfectio tremefacit et humiliat et sibi subicit animos subditorum et etiam ceterorum intuentium. Significat etiam quod in divine contemplationis superexcessum non ascenditur nisi per sui oblivionem et abnegationem et mortificationem et per omnium privationem.

Par. XIII, 13-24

aver fatto di sé due segni in cielo,
qual fece la figliuola di Minoi
allora che sentì di morte il gelo;
l’un ne l’altro aver li raggi suoi,
e amendue girarsi per maniera
che l’uno andasse al primo e l’altro al poi;
e avrà quasi l’ombra de la vera
costellazione e de la doppia danza
che circulava il punto dov’ io era:
poi ch’è tanto di là da nostra usanza,
quanto di là dal mover de la Chiana
si move il ciel che tutti li altri avanza.

Inf. X, 49-51

“S’ei fur cacciati, ei tornar d’ogne parte”,
rispuos’ io lui, “l’una e l’altra fïata;
ma i vostri non appreser ben quell’ arte”.

Inf. XI, 97-105

“Filosofia”, mi disse, “a chi la ’ntende,
nota, non pure in una sola parte,
come natura lo suo corso prende
dal divino ’ntelletto e da sua arte;    ed è su’ arte
e se tu ben la tua Fisica note,
tu troverai, non dopo molte carte,
che l’arte vostra quella, quanto pote,
segue, come ’l maestro fa ’l discente;
sì che vostr’ arte a Dio quasi è nepote”.

Par. XIII, 73-78, 115-123

Se fosse a punto la cera  dedutta
e fosse il cielo in sua virtù supprema,
la luce del suggel parrebbe tutta;
ma la natura la dà sempre scema,
similemente operando a l’artista
ch’a  l’abito de l’arte ha man che trema.

ché quelli è tra li stolti bene a basso,
che sanza distinzione afferma e nega
ne l’un così come ne l’altro passo;
perch’ elli ’ncontra che più volte piega
l’oppinïon corrente in falsa parte,
e poi l’affetto l’intelletto lega.
Vie più che ’ndarno da riva si parte,
perché non torna tal qual e’  si move,
chi pesca per lo vero e non ha l’arte.

Inf. XXIX, 115-120

volle ch’i’ li mostrassi l’arte; e solo
perch’ io nol feci Dedalo, mi fece
ardere a tal che l’avea per figliuolo.
Ma ne l’ultima bolgia de le diece
me per l’alchìmia che nel mondo usai
dannò Minòs, a cui fallar non lece.

Inf. XXXI, 46-51

E io scorgeva già d’alcun la faccia,
le spalle e ’l petto e del ventre gran parte,
e per le coste giù ambo le braccia.
Natura certo, quando lasciò l’arte
di sì fatti animali, assai fé bene
per tòrre tali essecutori a Marte.

Par. XXV, 1-9

Se mai continga che ’l poema sacro
al quale ha posto mano e cielo e terra,
sì che m’ha fatto per molti anni macro,
vinca la crudeltà che fuor mi serra
del bello ovile ov’ io dormi’ agnello,
nimico ai lupi che li danno guerra;
con altra voce omai, con altro vello
ritornerò poeta, e in sul fonte
del mio battesmo prenderò ’l cappello

[LSA, cap. XIV, Ap 14, 2 (IVa visio, VIum prelium)] Quarto erat suavissima et iocundissima et artificiose et proportionaliter modulata, unde subdit: “et vocem, quam audivi, sicut citharedorum citharizantium cum citharis suis”. Secundum Ioachim, vacuitas cithare significat voluntariam paupertatem. Sicut enim vas musicum non bene resonat nisi sit concavum, sic nec laus bene coram Deo resonat nisi a mente humili et a terrenis evacuata procedat*.
Corde vero cithare sunt diverse virtutes, que non sonant nisi sint extense, nec concorditer nisi sint ad invicem proportionate et nisi sub consimili proportione pulsentur. Oportet enim affectus virtuales ad suos fines et ad sua obiecta fixe et attente protendi et sub debitis circumstantiis unam virtutem et eius actus aliis virtutibus et earum actibus proportionaliter concordare et concorditer coherere, ita quod rigor iustitie non excludat nec perturbet dulcorem misericordie nec e contrario, nec mititatis lenitas impediat debitum zelum sancte correctionis et ire nec e contrario, et sic de aliis.
Cithara etiam est ipse Deus, cuius quelibet perfectio, per affectuales considerationes contemplantis tacta et pulsata, reddit cum aliis resonantiam mire iocunditatis.
Cithara etiam est totum universum operum Dei, cuius quelibet pars sollempnis est corda una a contemplatore et laudatore divinorum operum pulsata.
Dicit autem “sicut citharedorum”, quia citharedus non dicitur nisi per artem et frequentem usum, sicut magister artificiose citharizandi. Reliqui enim discordanter et rusticaliter seu inartificialiter citharizant, et si aliquando pulsant bene casualiter contingit, unde ascribitur casui potius quam prudentie artis.

* Expositio, pars IV, distinctio IV, f. 172ra.

 

Tab. VII

[LSA, prologus, Notabile XIII] In quinto vero tempore fuerunt spiritualiores monachi quasi aves volantes, clerici vero gentibus commixti fuerunt quasi pisces in aquis (cfr. Gn 1, 20-21). In hac autem die primo dictum est: “Crescite et multiplicamini” et cetera (Gn 1, 22), quia numquam in preteritis temporibus sic monasteria vel ecclesie in tali vita, que conveniret pluribus, ordinate fuere quomodo in tempore quinto, quia non tantum clericorum et monachorum, verum etiam ecclesiarum et monasteriorum que sunt propagata in tempore quinto in hac occidentali ecclesia colligere numerum non est facile. Unde quamvis vita monachorum quarti temporis fuerit clarior, non tamen fecundior nec sic habens sensum vivum et tenerum pietatis. Aves enim et pisces prehabundant in sensu luminaribus celi. Attamen notandum quod in quinta die creata sunt munda pariter et immunda. Sunt enim pisces secundum legem mundi et immundi, avesque similiter*

*Cfr. Concordia, V 1, c. 13; Patschovsky 3, p. 561, 10-11; p. 563, 4-15; p. 565, 3-4.

Inf. XI, 112-115

Ma seguimi oramai che ’l gir mi piace;
ché i Pesci guizzan su per l’orizzonta,
e ’l Carro tutto sovra ’l Coro giace,
e ’l balzo via là oltra si dismonta

[LSA, prologus, Notabile VII] Si autem contra hanc rationem obicias quod perfectio quinti status non est superior perfectionibus quattuor priorum statuum neque altius et propinquius ascendens ad finalem et supremam perfectionem, immo secundum supradicta videtur esse inferior et distantior, triplex est ad hoc responsio. Prima est quia licet condescensio quinti status in infirmis, pro quibus fit, sit imperfectior, in sanctis tamen, arduas perfectiones priorum statuum in habitu mentis tenentibus et ex sola caritate et infirmorum utilitate condescendentibus, est ipsa condescensio ad perfectionis augmentum, prout patet in Christo infirmis condescendente. Unde et Ade subtracta est fortis costa ad formationem Eve, “et replevit” Deus “carnem pro ea” (Gn 2, 21), id est pietatem condescensionis pro robore solitarie austeritatis.

Inf. XII, 1-10

Era lo loco ov’ a scender la riva
venimmo, alpestro e, per quel che v’er’ anco,
tal, ch’ogne vista ne sarebbe schiva.
Qual è quella ruina che nel fianco
di qua da Trento l’Adice percosse,
o per tremoto o per sostegno manco,
che da cima del monte, onde si mosse,
al piano è sì la roccia discoscesa,
ch’alcuna via darebbe a chi sù fosse:
cotal di quel burrato era la scesa

[LSA, prologus, Notabile V; Vus status] […] tuncque congrue instituta est vita condescensiva, ut nequeuntibus in arduis perdurare daretur locus gratie in mediocri statu.

 

I pesci sono un tema del pietoso quinto stato, condiscendente verso la vita associata delle moltitudini, assimilato alla costa del solitario Adamo (il quarto stato, degli alti contemplativi) dalla quale Dio formò Eva. Fra le molte variazioni dei temi, la discesa dal sesto cerchio verso il Flegetonte, decisa da Virgilio sotto il regime dei Pesci e consentita da una “ruina … nel fianco” della vecchia roccia infernale.