La “Divina Parodia” del Libro scritto dentro e fuori [EN]Canti esaminati:Inferno: I; II; III; IV; V; VI; VII; VIII; IX; X; XI; XII; XIII; XIV; XV; XVI; XVII; XVIII; XIX; XX; XXI; XXII; XXIII; XXIV; XXV; XXVI; XXVII; XXVIII; XXIX; XXX; XXXI; XXXII, 1-123; XXXII, 124-XXXIII, 90; XXXIII, 91-157; XXXIVPurgatorio: III; XXVIII
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Legenda [3]: numero dei versi; 21, 12: collegamento ipertestuale all’esegesi, nella Lectura di Olivi, di capitolo e versetto dell’Apocalisse [Ap]; Not. I: collegamento all’esegesi contenuta nei tredici notabilia del prologo della Lectura. Varianti rispetto al testo del Petrocchi.
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Inferno XI |
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In su l’estremità d’un’alta ripa 21, 12; 22, 2
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INTRODUZIONE
■ In Inf. XI Virgilio espone l’ordine del primo regno non secondo i peccati capitali (come sarà invece, di fatto, nel Purgatorio) ma seguendo il De officiis di Cicerone (I, 13) sulla “malizia” distinta in violenza e frode (vv. 22-24) e l’Etica di Aristotele nella triade “incontenenza, malizia e la matta / bestialitade” (vv. 82-83).
Dal rapporto con la Lectura, Inf. XI trae due temi principali. Il primo tema è quello che si può definire il motivo del libro (Ap 5, 1; 6, 1), quello cioè dell’Apocalisse, che è “scritto dentro e fuori” e segnato (cioè chiuso) con sette sigilli.
Il libro dell’Apocalisse, definito ad Ap 5, 1 “volumen”, scritto dentro e fuori, che sarebbe incongruo affermare distinto per quaderni e carte, ha una forma immaginaria a guisa di rotolo, con sette pieghe, ciascuna delle quali chiusa da un sigillo. A ciascuna apertura si presentavano a Giovanni le immagini da lui descritte dei cavalli e dei cavalieri, come se uscissero vive da dentro le pieghe (Ap 6, 1). Sui motivi propri del libro è tessuta la visione finale dell’unità e semplicità di Dio, volume che nel profondo della sua essenza lega con amore tutto ciò che “si squaderna” in modo diffuso per l’universo (Par. XXXIII, 85-87). Ma è soprattutto in Inf. XI, il canto in cui Virgilio spiega l’ordinamento e la distribuzione dei dannati, che questi temi vengono sviluppati. L’inferno è formato da nove cerchi ma, a ben vedere, nel discorso di Virgilio e nelle domande di Dante ne vengono enumerati solo sette. Tre sono dentro le mura della Città di Dite: il cerchio dei violenti (a sua volta diviso in tre gironi), il cerchio dei fraudolenti veri e propri (Malebolge, dove sono i fraudolenti verso chi non si fida) e il cerchio minore dei traditori (Cocito: i fraudolenti verso chi si fida). Quattro sono fuori le mura, meno martellati dalla giustizia divina in quanto meno offesero: gli iracondi e gli accidiosi dello Stige (“quei de la palude pingue”: in questo gruppo sono da collocare anche invidiosi e superbi), i lussuriosi (“che mena il vento”), i golosi (“che batte la pioggia”), gli avari e i prodighi (“che s’incontran con sì aspre lingue”). Se mancano all’appello il primo cerchio (il Limbo) e il sesto (gli eretici), ciò è perché il “nobile castello” del Limbo è la parodia della sede divina prima dell’apertura dei sigilli e perché la spiegazione dell’ordinamento infernale avviene accanto all’arca dell’eretico papa Anastasio II, cioè nel sesto cerchio. Oppure essa è memore di quanto sostenuto da Tommaso d’Aquino circa l’eresia la quale, in modo analogo alla bestialità rispetto alla malizia umana, era da collocare “extra numerum peccatorum” (In IV Sent., ds 13, qu 2, ar 2). In ogni caso, esempio di concordia fra la dottrina aristotelica e l’esegesi apocalittica, l’enunciazione dei sette cerchi corrisponde al tema del libro scritto “dentro e fuori” e segnato sulle sette pieghe. Anche il riferimento alle “carte” della Fisica di Aristotele, utilizzata da Virgilio per precisare la posizione degli usurai (v. 102), concorda con siffatta tematica, come al v. 49 il verbo ‘suggellare’ (allude al sigillo) e ai vv. 30 e 68 il verbo ‘distinguere’ (cfr. Ap 6, 1). A Inf. IX, 107-108, il desiderio di guardare “dentro” la città di Dite, una volta varcata la porta, è il desiderio di guardare l’interno del libro. Tale fu anche il desiderio dei santi Padri, prima dello scioglimento da parte di Cristo dei sette sigilli (Ap 5, 2-4). L’apertura della porta della città di Dite da parte del messo celeste (Inf. IX, 89-90) sviluppa il tema della porta aperta data a Filadelfia, sesta chiesa d’Asia (Ap 3, 8).
■Alla visione dell’Inferno come “libro scritto dentro e fuori, segnato da sette sigilli”, si aggiunge nella semantica di Inf. XI un secondo tema: l’inciso “un tempo, due tempi e la metà di un tempo” (“per tempus et tempora et dimidium temporis”) da Ap 12, 14. Queste parole sono riferite al periodo (si tratta, nella quarta visione, dell’esegesi congiunta della terza e della quarta guerra) in cui la donna (la Chiesa) venne nutrita lontano dal serpente nel deserto dei Gentili, il luogo preparatole da Dio come suo, e dove le vennero date le due ali di una grande aquila (Ap 12, 14). Su di esse, secondo Olivi, Gioacchino da Fiore ha fondato tutta la sua Concordia. L’espressione indica un periodo di tre anni e mezzo, formati da quarantadue mesi (12 mesi x 3 anni + 6 mesi) nei quali i trenta giorni dei singoli mesi corrispondono a trenta anni: si ha così una permanenza della donna nel deserto di 1260 anni. “Tempus” sta per un anno, “tempora” per due anni e “dimidium temporis” per sei mesi. I “due anni” derivano dal duale greco, lingua nella quale scrisse Giovanni. Questo numero compare anche ad Ap 12, 6 (quarta visione, prima guerra) per indicare il periodo in cui la donna venne nutrita nel deserto (dove era fuggita dalla durezza dei Giudei), mentre in Daniele 7, 24-25 si dice che il re undicesimo distruggerà i santi dell’Altissimo che gli saranno dati in mano “per un tempo, due tempi e la metà di un tempo” e in Daniele 12, 6-7 che “fra un tempo, due tempi e la metà di un tempo si compiranno tutte queste cose meravigliose”.
Questo numero mistico ha vari significati, che verranno esposti in seguito. I tre anni e mezzo designano il mistero della trinità di Dio unitamente alla perfezione delle sue opere, che rispetto al loro artefice sono qualcosa di dimidiato, imperfetto, parziale e quasi nulla: le opere furono infatti compiute in sei giorni, che corrispondono alle sei età del mondo e ai sei mesi del mezzo anno. Designano anche la perfezione che deriva dalla fede, dalla speranza e dalla carità unita alla pregustazione non completa della gloria eterna, oppure i tre principali consigli di Cristo (povertà, castità, obbedienza) uniti ad una partecipazione non perfetta della vita eterna. I tre anni e mezzo coincidono con il periodo in cui Cristo esercitò il suo magistero e la sua predicazione. Essi sono anche distinti in “un anno” (“tempo”) e “due anni” (“tempi”), in quanto nel secondo e nel terzo anno Cristo predicò da solo dopo l’incarcerazione di Giovanni Battista e in modo più solenne. Questa distinzione, tenendo conto della profezia di Daniele, si verificherà forse anche nella predicazione e persecuzione dell’Anticristo. Con Giovanni Battista, come dice Cristo in Matteo 11, 11-12 e in Luca 16, 16, inizia il tempo in cui i violenti si impadroniscono del regno dei cieli (cfr. quanto dice l’aquila a Par. XX, 94: “Regnum celorum vïolenza pate”).
La vicinanza del verbo “pertractare”, riferito nell’esegesi di Ap 12, 6 al quinto libro della Concordia di Gioacchino da Fiore, con il numero mistico “per tempus et tempora et dimidium temporis” (da Daniele, 12, 6-7; cfr. gli incisi “… sub uno quam brevi coart<ar>emus sermone … nisi hoc quod sonat versiculus iste …” con Par. XXXIII, 74, 106 : “e per sonare un poco in questi versi … Omai sarà più corta mia favella”) conduce a Inf. XI, 79-84, dove Virgilio ricorda al discepolo le tre disposizioni peccaminose odiate da Dio – “incontenenza, malizia e la matta / bestialitade” – esposte ampiamente (‘pertrattate’) dall’Etica di Aristotele. Una di queste tre disposizioni, l’incontinenza, offende meno Dio e suscita minor biasimo, e pertanto gli incontinenti stanno fuori della città di Dite meno martellati nelle pene dalla divina vendetta. All’incontinenza è applicato il tema della “metà di un tempo”, mentre la malizia sembra corrispondere a “tempi” (il duale greco), considerato che ai vv. 22-24 si dice che il fine di ogni malizia, che consiste nell’“ingiuria”, cioè nell’infrazione delle leggi divine o naturali, si consegue in due modi, con la forza (i violenti) o con l’inganno (i fraudolenti); quest’ultimo, a sua volta, si distingue nella frode verso chi si fida e in quella verso chi non si fida, con andamento bipartito riscontrabile in principio di Inf. XXVIII (Inf. XI, 52-66: “Questo modo di retro … Per l’altro modo …”). La “matta bestialitade” corrisponderebbe pertanto a “(un) tempo”.
È stato sostenuto (è tesi antica e prevalente) che la “matta bestialitade” si riferisce solo al cerchio dei violenti [1]. Ciò però comporta che il termine “malizia”, al verso 82, abbia un significato limitato alla frode, lì dove invece al verso 22 comprende esplicitamente sia la violenza come la frode. Né è concepibile che Dante, contrapponendo la malizia aristotelica a quella ciceroniana, abbia voluto intenzionalmente far contraddire Virgilio, al fine di sottolineare i limiti intellettuali dal poeta pagano [2].
È stato anche sostenuto che la “matta bestialitade”, di cui dice Virgilio a Inf. XI, 82-83, si riferisce solo agli eresiarchi del sesto cerchio, i quali diversamente resterebbero fuori dell’Etica aristotelica, lì dove l“incontenenza” fascia i peccatori puniti fuori delle mura della Città di Dite e la “malizia” quelli costretti a partire dal settimo cerchio [3]. Tuttavia la bestialitas si registra in più zone dell’inferno. È “bestia” furiosa per “ira bestial” il Minotauro, collocato all’estremità del cerchio degli eretici lì dove inizia la scesa verso il settimo cerchio, che è dei violenti (Inf. XII, 19, 33). Gerione, che porta in volo Virgilio e Dante verso Malebolge, è “bestia malvagia” (Inf. XVII, 30). A Vanni Fucci “bestia”, ladro punito nella settima bolgia, “vita bestial … piacque e non umana” (Inf. XXIV, 124-126). Nella decima bolgia, a “bestie” pungenti sono paragonati i falsari Gianni Schicchi e Mirra (Inf. XXX, 25). Tra i traditori in Cocito, il conte Ugolino mostra “per sì bestial segno” odio verso l’arcivescovo Ruggieri (Inf. XXXII, 133-134). Se la bestialità non viene mai attribuita agli incontinenti collocati prima della porta di Dite, dei lussuriosi purganti nell’ultimo girone della montagna Guinizzelli dice che “non servammo umana legge, / seguendo come bestie l’appetito” (Purg. XXVI, 83-84). La lupa, che riassume tutti i peccati, a differenza delle altre due fiere, la lonza e il leone, è definita “bestia sanza pace” (Inf. I, 58; cfr. anche i vv. 88, 94). È pertanto più probabile che il concetto indeterminato della “matta bestialitade”, corrispondendo al “tempo” dell’inciso di Ap 12, 14, si riferisca al complesso dei peccati puniti nell’inferno.
■ In Inf. XI la ‘dottrina’, cioè la filosofia pagana, non solo viene concordata con la Bibbia, ma incastonata nelle maglie della corazza della Lectura super Apocalipsim. Virgilio cita prima, genericamente, la “Filosofia” per affermare che la natura prende il suo corso dall’intelletto del divino artista; poi si riferisce alla Fisica di Aristotele per spiegare che l’arte umana segue come può la natura (“come ’l maestro fa ’l discente”), un seguire Dio che difetta all’usuraio il quale, ponendo la speranza nel lucro, segue una via diversa da quella stabilita nel Genesi, per cui da natura e arte gli uomini debbono trarre sostentamento (Inf. XI, 97-111). L’invito a riguardare il primo libro della Bibbia – “se tu ti rechi a mente / lo Genesì dal principio” (vv. 106-107) – è parodia dell’esortazione rivolta al vescovo di Sardi, la quinta chiesa d’Asia, a ripensare la prima Grazia, esegesi (talora combinata con quella relativa al “libro della vita” da Ap 20, 12) già presente nel primo canto del poema e più volte in Inf. XI (vv. 10-12, 15, 67, 79, 85-86). Il riferimento ad divino artista rinvia ad Ap 14, 2, esegesi di ampio sviluppo nel poema (cfr. anche Inf. X, 49-51). Ivi si paragona a una cetra l’universale opera di Dio, maestro artista, della quale ogni parte è una corda toccata da chi contempla o loda quell’opera. Dunque la natura, che partecipa dell’universale opera di Dio, può dirsi sua arte; di qui è preferibile la variante ed è su’ arte (Inglese) a e da sua arte (Petrocchi).
■ Inf. XI registra molti altri temi. Si apre con il motivo dell’abisso (Ap 9, 2; 20, 1), già presente in Inf. IV, 7-12, accompagnato da altri. L’“alta ripa” (v. 1) fa parte del gruppo proprio della Gerusalemme celeste, combinando l’altezza del muro con la riva del fiume (Ap 21, 12; 22, 2); ai vv. 2, 7, 9 si registrano signacula del terzo stato (Ap 16, 7; 6, 5); quelli ai vv. 4, 9, 11 provengono dalla sesta tromba (Ap 9, 19; cfr. Tab. I e nota).
I vv. 10-12 rinviano, variando i temi, all’esegesi della quinta chiesa d’Asia e del condescensivo quinto stato (Ap 3, 3; il tardo torpore di Sardi è qui assunto in senso positivo). Al discendere proprio del quinto stato fa riferimento anche la costellazione dei Pesci, citata da Virgilio (prologo, Notabile XIII; vv. 112-115). La graduale discesa nei “tre cerchietti” del basso inferno (v. 18) deriva dalla graduale discesa verso il precipizio contestata ad Efeso, la prima chiesa d’Asia (Ap 2, 5; cfr. Inf. V, 12). I riferimenti all’uomo come essere razionale (prologo, Notabile I) e che apprende le cause (prologo, Notabile XIII) appartengono al terzo stato della Chiesa, proprio dei dottori che confutano razionalmente le eresie (vv. 25, 33, 40, 53, 68; anche il verbo ‘incidere’, al v. 55, è proprio della terza chiesa, ad Ap 2, 12). Spregiare o bestemmiare Dio (vv. 46, 47, 51) sono variazioni su Ap 18, 6.
La terzina “onde nel cerchio minore, ov’ è ’l punto / de l’universo in su che Dite siede, / qualunque trade in etterno è consunto” (vv. 64-66) sviluppa l’esegesi, da Ap 17, 9, del regno che consumerà gli altri regni in eterno in base a Daniele 2, 34-35, 44, mentre il verbo “tradere” rinvia ad Ap 17, 13 (i dieci re, spronati dal timore, consegnano la propria volontà alla bestia, devolvendo ad essa il potere regio che prima avevano libero); entrambi i passi sono utilizzati in Inf. I.
L’espressione “e ’l popol ch’e’ possiede” (v. 69) è variazione sull’esegesi di Ap 6, 8, anche altrove presente; l’apostrofe a Virgilio – “O sol che sani ogne vista turbata” (v. 91) – sviluppa un tema da Ap 15, 8; “’l groppo solvi” (v. 96) partecipa di quanto esposto ad Ap 5, 5, pagina alla quale fa riferimento, nel canto precedente, il “nodo” sulla capacità dei dannati di vedere il futuro ma non gli eventi prossimi o presenti.
Le parole di Virgilio, riferite ad Aristotele e in particolare alla Fisica – “Filosofia … a chi la ’ntende, / nota … e se tu ben la tua Fisica note” (vv. 97-98, 101) -, incastonano le opere dello Stagirita, collocato nell’onorata sede del Limbo, nella causa finale del libro dell’Apocalisse (Ap 1, 3), nel senso che anch’esse vi cooperano (“de causa finali, que est beatitudo per doctrine huius libri intelligentiam et observantiam obtinenda”).
■ In altra sede sono state avanzate alcune considerazioni sull’ordine di redazione della prima cantica. L’Inferno, nella sua “topografia spirituale”, registra cinque cicli settenari. Il primo inizia con Inf. IV e si conclude con l’apertura della porta della città di Dite a Inf. IX. A partire dal secondo ciclo, in particolare da Inf. XII (dove prevalgono i temi del secondo stato, ma il ciclo si avvia subito dopo l’apertura della porta), la rete semantica riferibile ciclicamente ai sette stati oliviani è più estesa, organizzata e compatta. Lo è assai meno nel primo ciclo. In esso vi sono canti più strutturati nel rapporto con la Lectura oliviana (Inf. I, II, V) e altri canti nei quali una parte dei versi non registra parole-chiave che rinviano alla Lectura (sono riportati in una tabella). Questo fenomeno, non presente o meno evidente nelle cantiche successive, testimone di una prima fase di incertezza nel rapporto fra Commedia e Lectura, è forse indice di una prima, parziale stesura estranea a tale rapporto, di una Ur-Commedia della quale restano tracce.
Nel secondo ciclo del percorso infernale, il primo canto – il decimo – presenta numerose variazioni su temi della Lectura: il rapporto parodico, che la poesia con essa instaura, si mostra nella piena maturità. Così avviene, come sopra ricordato, a partire dal dodicesimo canto. L’undicesimo invece, pur elaborando temi importanti del commento apocalittico, opera su questo in misura minore. Si può dunque presumere che sia stato scritto prima. In esso Virgilio espone la ripartizione delle colpe nell’inferno, ed è naturale che tale problematica sia stata presente all’autore fin dall’inizio della stesura del poema. In ogni caso, i primi undici canti dell’Inferno costituiscono un blocco, nel quale il rapporto con la Lectura alterna zone nelle quali si mostra intenso e altre in cui è meno sviluppato.
[1] Cfr. CHIAVACCI LEONARDI, pp. 352-353.
[2] Così ZYGMUNT G. BARAŃSKI, Canto XI, in Lectura Dantis Turicensis, a cura di Georges Güntert e Michelangelo Picone, I, Inferno, Firenze 2011, pp. 151-164: 157-160.
[3] Cfr. INGLESE, p. 144. Che l’eresia possa essere definita “bestialitade” lo dimostra, ad esempio, quanto nella Lectura super Apocalipsim è detto ad Ap 17, 3 della prostituta seduta sulla bestia scarlatta: «“Et vidi mulierem sedentem super bestiam coccineam”, id est sanguine et colore coccineo tinctam et rubricatam. Nota quod sicut quodlibet caput bestie aliquando dicitur bestia, aliquando vero distinguitur ab ea sicut caput a corpore vel sicut rex a sua gente, sic mulier ista in quantum est carnalis et bestialis dicitur bestia, in quantum vero quondam prefuit et regnavit super bestiales gentes mundi et adhuc super plures bestiales sibi subditas dominatur, dicitur sedere super bestiam. Que quidem bestia tempore paganorum et hereticorum fuit sanguine martirum cruentata, nunc autem sanguine seu strage animarum et impia persecutione spiritus et spiritualium et etiam quorumcumque quos impie affligit est cruentata, et etiam abhominando sanguin<e> luxuriarum suarum». Inoltre nel sesto cerchio assoluta prevalenza è data ai seguaci di Epicuro, “che l’anima col corpo morta fanno”. Costoro sono tutti coloro i quali sostengono con l’Ecclesiaste: “dixi in corde meo de filiis hominum ut probaret eos Deus et ostenderet similes esse bestiis / idcirco unus interitus est hominis et iumentorum et aequa utriusque condicio / sicut moritur homo sic et illa moriuntur / similiter spirant omnia et nihil habet homo iumento amplius” (Ec 3, 18-19; cfr. Ps 48, 12-13, dove è presente la medesima comparazione fra uomini e bestie, con l’aggiunta: “sepulchra eorum domus illorum in aeternum”, luogo addotto da Salimbene nel noto passo su Federico II epicureo [cfr. Salimbene de Adam, Cronica. Nuova edizione critica a cura di G. Scalia, Bari 1966, I, Scrittori d’Italia, 232, p. 512]). Queste parole di Salomone erano, secondo Benvenuto, sempre sulla bocca del guelfo Cavalcante, il padre di Guido. Olivi, nel commento all’Ecclesiaste, dove pure tratta degli Epicurei, “qui non ponunt aliam felicitatem in hac uita nec hic nisi in uoluptate carnis”, riferisce al platonismo eretico la falsa interpretazione del detto salomonico: “[…] fuit error quondam Platonicorum et quorumdam hereticorum, quod anime hominum reuoluantur in corpore iumentorum et ecouerso” [Petri Iohannis Olivi Lectura super Proverbia et Lectura super Ecclesiasten. Ad fidem codicum nunc primum editae cum introductione, cur. J. Schlageter, Ad Claras Aquas Grottaferrata 2003 (Collectio oliviana, VI), pp. 113, 126-131: 130]. Errore che fu già di Origene, al quale è dedicato ampio spazio nell’esegesi della terza tromba che, nella terza visione apocalittica, risuona contro gli eretici: “Ponit enim animas peccasse antequam corporibus unirentur; ponit etiam eas de uno corpore in aliud, puta de corpore humano in corpora bestiarum, revolvi et postmodum expurgari ab eis” (Lectura super Apocalipsim, ad Ap 8, 10). Bestiale è anche l’eresia manichea (Olivi intende Catari e Valdesi): “Secunda est ex respectu ad exercitium et illuminationem electorum illius temporis, qui plus sunt exercendi et illuminandi in summis apicibus evangelice doctrine et vite tertii status generalis mundi tunc introducendi quam in confutatione bestialium errorum secte Manicheorum” (ibid., ad Ap 9, 1-12).
■ Seppure segue l’ordine dei ventidue capitoli dell’Apocalisse, Olivi suggerisce, nel prologo della Lectura, un metodo differente di comprensione e di aggregazione del testo, fondato sui sette stati (status), cioè sulle epoche nelle quali si articola la storia della Chiesa, prefigurate nell’Antico Testamento.
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Abbreviazioni e avvertenze
Ap : APOCALYPSIS IOHANNIS.
LSA : PIETRO DI GIOVANNI OLIVI, Lectura super Apocalipsim.
Concordia : JOACHIM VON FIORE, Concordia Novi ac Veteris Testamenti. Herausgegeben von A. PATSCHOVSKY, Wiesbaden 2017 (Monumenta Germaniae Historica. Quellen zur Geistesgeschichte des Mittelalters, 28. Band), Teil 2 (lib. I-IV), Teil 3 (lib. V).
Expositio : GIOACCHINO DA FIORE, Expositio in Apocalypsim, in Edibus Francisci Bindoni ac Maphei Pasini, Venetiis 1527, ristampa anastatica Minerva, Frankfurt a. M. 1964.
Olivi opera spesso una sintesi del testo di Gioacchino da Fiore. Le « » precedono e chiudono un’effettiva citazione. Diversamente, viene posto un asterisco (*) o una nota in apice al termine della parte riferibile a Gioacchino.
In Ap : RICCARDO DI SAN VITTORE, In Apocalypsim libri septem, PL 196, coll. 683-888.
Tutte le citazioni della Lectura super Apocalipsim presenti nei saggi o negli articoli pubblicati su questo sito sono tratte dalla trascrizione, corredata di note e indici, del ms. Paris, Bibliothèque nationale de France, lat. 713, a disposizione fin dal 2009 sul sito medesimo. I passi scritturali ai quali si riferisce l’esegesi sono in tondo compresi tra “ ”; per le fonti diverse da quelle indicate si rinvia all’edizione in rete. Non viene presa in considerazione l’edizione critica a cura di WARREN LEWIS (Franciscan Institute Publications, St. Bonaventure – New York, 2015) per le problematiche da essa poste, che sono discusse in ALBERTO FORNI – PAOLO VIAN, A proposito dell’edizione di Warren Lewis della Lectura super Apocalipsim di Pietro di Giovanni Olivi. Alcune osservazioni, in “Archivum Franciscanum Historicum”, 109 (2016), pp. 99-161.
Il testo della Commedia citato è in Dante Alighieri, La Commedia secondo l’antica vulgata, a cura di GIORGIO PETROCCHI, Firenze 1994. Si tiene anche conto della recente edizione a cura di GIORGIO INGLESE, Firenze 2021 (Società Dantesca Italiana. Edizione Nazionale), qualora il testo proposto si discosti da quello del Petrocchi e la scelta della variante risulti discutibile nel confronto con la LSA.
Si fa riferimento ai seguenti commenti:
Dante Alighieri, La Divina Commedia. Inferno. Commento di ANNA MARIA CHIAVACCI LEONARDI, Milano 2007 (19911).
Dante Alighieri, Commedia. Inferno. revisione del testo e commento di GIORGIO INGLESE, Roma 2007.
Tab. I [Nota]
[LSA, cap. IX, Ap 9, 19 (IIIa visio, VIa tuba)] Si queratur quare solas loricas equitum tangit, cum ipsorum non solum sit se defendere sed etiam hostes suos ferire, potius quam equorum, potest dici quod ideo, quia plus nocebit tunc effrenatus clamor turbarum et militum laicalium quam ratio sapientium suorum, et tamen hoc plus valebit ad apparentem et fide dignam defensionem suorum errorum et malitiarum.
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[LSA, cap. IX, Ap 9, 1-2 (IIIa visio, Va tuba)] “Et data est <illi> clavis putei abissi, et aperuit puteum abissi” (Ap 9, 1-2), id est data est eis potestas aperiendi ipsum. Puteus abissi habet infernalem flammam et fumositatem obscuram et profun-ditatem voraginosam et quasi immensam et socie-tatem demoniacam. […] Secundo tangitur gravitas mali de aperto iam puteo exeuntis, cum ait: “et ascendit fumus putei sicut fumus fornacis magne, et obscuratus est <sol et> aer de fumo putei” (Ap 9, 2).[LSA, cap. XX, Ap 20, 1 (VIIa visio)] Per “abissum” autem, in <quam> diabolus clauditur, designatur, secundum Augustinum, «innumerabilis multitudo impiorum profunde malitie contra ecclesiam Dei, in quibus dicitur missus non quia <non> esset prius in eis, sed quia exclusus a credentibus plus cepit impios possidere. Nam plus possidetur a diabolo qui non solum est alienatus a Deo, immo etiam gratis odit servientes Deo». Vel per abissum designatur interior profunditas diaboli, intra quam coartatur a Deo eius potestas, ne pro libitu possit se ad exteriora nocumenta et temptamenta effundere. Vel sua penalis abiectio est abissus, in quam tanto plus clauditur quanto plus a Deo infrenatur. |
Inf. XI, 1-12
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[LSA, cap. XVI, Ap 16, 7 (Va visio, IIIa phiala] “Et audivi alterum” (Ap 16, 7), scilicet angelum, id est secundum Ricardum subiectorum cetum, “dicentem”, id est magistrorum dicta confirmantem: “Etiam”, id est verum est quod dixit precedens angelus, id est cetus magistrorum nostrorum, quia quod magistri clamant discipuli confirmant. “Dicentem” inquam: “Etiam, Domine Deus omnipotens, vera et iusta iudicia tua”, scilicet sunt; “vera” quidem <quia> efficiunt quod promittunt, “iusta” autem quia unicuique secundum quod meruit reddunt. Iustum enim est ut qui crudeliter agit crudeliter puniatur. Et subdit Ricardus quod tam discipuli quam magistri ex magna affectione et zelo convertunt sermonem ad Deum*.
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[LSA, cap. VI, Ap 6, 5 (IIa visio, apertio IIIii sigilli)] “Et cum aperuisset sigillum tertium, audivi tertium animal” (Ap 6, 5), scilicet quod habebat faciem hominis, “dicens: Veni”, scilicet per maiorem attentionem vel per imitationem fidei doctorum hic per hominem designatorum, “et vide. Et ecce equus niger”, id est hereticorum et precipue arrianorum exercitus astutia fallaci obscurus et erroribus luci Christi contrariis denigratus. “Et qui sedebat super eum”, scilicet imperatores et episcopi arriani, “habebat stateram in manu sua”. Cum statera mensuratur quantitas ponderum, et ideo per stateram designatur hic mensuratio articulorum fidei, que quando fit per rectam et infallibilem regulam Christi et scripturarum suarum est recta statera, de qua Proverbiorum XVI° dicitur: “Pondus et statera iudicia Domini sunt” (Pro 16, 11), et Ecclesiastici XXI°: “Verba prudentium statera ponderabuntur” (Ecli 21, 28); quando vero fit per rationem erroneam et per falsam et intortam acceptionem scripture est statera dolosa, de qua Proverbiorum XI° dicitur: “Statera dolosa abhominatio est apud Deum” (Pro 11, 1), et in Psalmo: “Mendaces filii hominum in stateris” (Ps 61, 10), et Michee VI°: “Numquid iustificabo stateram impiam et sac<c>elli pondera dolosa” (Mic 6, 11). |
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[LSA, cap. II, Ap 2, 12 (Ia visio, IIIa ecclesia)] Hiis autem premittuntur duo, scilicet preceptum de scribendo hec sibi et introductio Christi loquentis, cum subdit (Ap 2, 12): “Hec dicit qui ha-bet rumpheam”, id est spatam, “ex utraque parte acutam”. Hec congruit ei, quod infra dicit: “pugnabo cum illis in gladio oris mei” (Ap 2, 16).
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Inf. XI, 1-9
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NOTA TAB. IIl “puzzo che ’l profondo abisso gitta” (Inf. XI, 5) rinvia all’esegesi della quinta tromba, utilizzata per la prima volta a Inf. IV, 7- 12 (Ap 9, 1-2; cfr. anche Ap 20, 1).
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Tab. II [Nota]
[LSA, prologus, Notabile III] De tertio (dono) etiam patet. Nam magistralis tuba seu expositio intendit fidei et eius scientie seminande (I), et deinde radicande seu roborande (II), deinde explicande (III), deinde amplexande (IV), deinde contemperande, unicuique scilicet secundum suam proportionem (V); intendit etiam finaliter eam imprimere et sigillare (VI) et tandem glorificare seu glorificatam exhibere (VII). |
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Par. XXII, 145-147Quindi m’apparve il temperar di Giove
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Par. XXVI, 130-132Opera naturale è ch’uom favella;
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[LSA, cap. II, Ap 2, 1 (Ia visio, Va ecclesia)] Vocatur autem congrue hec ecclesia Sardis, id est principium pulchritudinis, tum quia in suis paucis incoinquinatis habet singularem gloriam pulchritudinis, quia difficillimum et arduissimum est inter tot suorum luxuriantes se omnino servare mundum; tum quia primi institutores quinti status fuerunt in se et in suis omnis munditie singulares zelatores, suorumque collegiorum regularis institutio, diversa membra et officia conectens et secundum suas proportiones ordinans sub regula unitatis condescendente proportioni membrorum, habet mire pulchritudinis formam toti generali ecclesie competentem, que est sicut regina aurea veste unitive caritatis ornata et in variis donis et gratiis diversorum membrorum circumdata varietate.[LSA, cap. III, Ap 3, 1.3 (Ia visio, Va ecclesia)] Hiis autem premittitur Christus loquens, cum dicitur (Ap 3, 1): “Hec dicit qui habet septem spiritus Dei et septem stellas”, id est qui occulta omnium videt et fervido zelo spiritus iudicat tamquam habens “septem spiritus Dei”, qui prout infra dicitur “in omnem terram sunt missi” (cfr. Ap 5, 6); et etiam qui potest omnes malos quantumcumque potentes punire tamquam in sua manu, id est sub sua potentia, habens “septem stellas”, id est universos prelatos omnium ecclesiarum. Quid per septem spiritus significetur tactum est supra, capitulo primo, super prohemio huius libri. […] Respectu vero quinti status ecclesiastici, talem se proponit quia quintus status est respectu quattuor statuum precedentium generalis, et ideo universitatem spirituum seu donorum et stellarum seu rectorum et officiorum se habere testatur, ut qualis debeat esse ipsius ordinis institutio tacite innotescat. Diciturque hec ei non quia dignus erat muneribus ipsis, sed quia ipsi et semini eius erant, si dignus esset, divinitus preparata. Unde et Ricardus dat aliam rationem quare hec ecclesia dicta est “Sardis”, id est principium pulchritudinis, quia scilicet sola initia boni non autem consumationem habuit, et solum nomen sanctitatis potius quam rem. Supra vero fuit alia ratio data. Respectu etiam prave multitudinis tam huius quinte ecclesie quam quinti status, prefert se habere “septem spiritus Dei et septem stellas”, id est fontalem plenitudinem donorum et gratiarum Spiritus Sancti et continentiam omnium sanctorum episcoporum quasi stellarum, tum ut istos de predictorum carentia et de sua opposita immunditia plus confundat, tum ut ad eam rehabendam fortius attrahat. […]
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Inf. XI, 10-15“Lo nostro scender conviene esser tardo,
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Inf. XXVI, 19-24, 40-42, 103-120, 127-129
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NOTA TAB. II
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Tab. III [Nota]
[LSA, cap. XVIII, Ap 18, 5-7 (VIa visio)] Deinde reddit rationem quare sit ab ea exeundum, ne participent in eius delictis et penis, subdens (Ap 18, 5): “Quoniam pervenerunt peccata eius usque ad celum”, id est usque ad summum, seu ad tantum et tam famosum cumulum quod Deus amodo non potest ipsam amplius tolerare. Unde subdit: “et recordatus est Dominus iniquitatum eius”, scilicet ad statim puniendum illas. Per longam enim dissimulationem punitionis videbatur non recordari earum. Quia vero sancti sunt iudicaturi malos tam in extremo iudicio quam in hac vita, predicando et comminando iustam dampnationem ipsorum, ideo pro utroque istorum modorum subdit Deus (Ap 18, 6): “Reddite illi”, scilicet condignas penas, “sicut et ipsa reddidit vobis”, id est sicut per eam estis dure et impie afflicti, sic vos dure et severe seu iuste iudicate eam. “Et duplicate duplicia secundum opera eius”, id est multo maiora supplicia sibi inferte quam ipsa intulerit vobis, quia sic merentur prava opera eius. Nam multo plus debet puniri persecutor sanctorum quam fuerit pena quam ab ipso sunt passi. Vel, secundum Ioachim, sancti reddent ei “duplicia” quia tunc, cum venerit dies calamitatis eius, duplo confundent faciem eius quam ipsi fuerint confusi ab ea*. <Vel> quia impia opera eius sunt “duplicia”, scilicet offensiva Dei et sanctorum, et etiam quia sanctos dupliciter offenderunt, scilicet subtrahendo bona et inferendo mala, vel contempnendo seu blasphemando et corporaliter macerando. Ideo, secundum has duplicitates, “reddite” ei consimiliter, seu proportionaliter, “duplicia”. Et “in poculo, quo miscuit”, id est propinavit vobis, scilicet penas, “miscete illi duplum”. Expone le “duplum” dupliciter sicut prius.
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(hapax)
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Inf. XI, 46-51Puossi far forza ne la deïtade,
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NOTA TAB. IIIAd Ap 18, 4 una voce dal cielo ingiunge di uscire da Babylon, cioè di non divenire partecipi della sua scellerata amicizia o compagnia. I suoi peccati sono pervenuti fino al cielo, tanto accumulati da non poter più essere tollerati (Ap 18, 5). Per cui le deve essere inferto il doppio delle pene che ha fatto patire agli altri, anche perché doppia è stata l’offesa, a Dio e ai santi, e doppiamente arrecata, disprezzando o bestemmiando, oppure sottraendo beni e arrecando mali (Ap 18, 6). Contro Babylon si dice: “Quantum glorificavit se et in deliciis fuit, tantum date illi tormentum et luctum” (Ap 18, 7). La comminazione della pena (“quantum … tantum”) non deve essere intesa come uguaglianza quantitativa, ma come giusta proporzione ai peccati commessi.
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“Un tempo, due tempi e la metà di un tempo”
Si esaminano qui le metamorfosi che nel “poema sacro” assume l’espressione apocalittica “per (un) tempo, (due) tempi e la metà di un tempo” – “per tempus et tempora et dimidium temporis”. Queste parole sono riferite al periodo (si tratta, nella quarta visione, dell’esegesi congiunta della terza e della quarta guerra) in cui la donna (la Chiesa) venne nutrita lontano dal serpente nel deserto dei Gentili, il luogo preparatole da Dio come suo, e dove le vennero date le due ali di una grande aquila (Ap 12, 14). Su di esse, secondo Olivi, Gioacchino da Fiore ha fondato tutta la sua Concordia. L’espressione indica un periodo di tre anni e mezzo, formati da quarantadue mesi (12 mesi x 3 anni + 6 mesi) nei quali i trenta giorni dei singoli mesi corrispondono a trenta anni: si ha così una permanenza della donna nel deserto di 1260 anni. “Tempus” sta per un anno, “tempora” per due anni e “dimidium temporis” per sei mesi. I “due anni” derivano dal duale greco, lingua nella quale scrisse Giovanni. Questo numero compare anche ad Ap 12, 6 (quarta visione, prima guerra) per indicare il periodo in cui la donna venne nutrita nel deserto (dove era fuggita dalla durezza dei Giudei), mentre in Daniele 7, 24-25 si dice che il re undicesimo distruggerà i santi dell’Altissimo che gli saranno dati in mano “per un tempo, due tempi e la metà di un tempo” e in Daniele 12, 6-7 che “fra un tempo, due tempi e la metà di un tempo si compiranno tutte queste cose meravigliose”.
Questo numero mistico ha vari significati. I tre anni e mezzo designano il mistero della trinità di Dio unitamente alla perfezione delle sue opere, che rispetto al loro artefice sono qualcosa di dimidiato, imperfetto, parziale e quasi nulla: le opere furono infatti compiute in sei giorni, che corrispondono alle sei età del mondo e ai sei mesi del mezzo anno. Designano anche la perfezione che deriva dalla fede, dalla speranza e dalla carità unita alla pregustazione non completa della gloria eterna, oppure i tre principali consigli di Cristo (povertà, castità, obbedienza) uniti ad una partecipazione non perfetta della vita eterna. I tre anni e mezzo coincidono con il periodo in cui Cristo esercitò il suo magistero e la sua predicazione. Essi sono anche distinti in “un anno” (“tempo”) e “due anni” (“tempi”), in quanto nel secondo e nel terzo anno Cristo predicò da solo dopo l’incarcerazione di Giovanni Battista e in modo più solenne. Questa distinzione, tenendo conto della profezia di Daniele, si verificherà forse anche nella predicazione e persecuzione dell’Anticristo. Con Giovanni Battista, come dice Cristo in Matteo 11, 11-12 e in Luca 16, 16, inizia il tempo in cui i violenti si impadroniscono del regno dei cieli (cfr. quanto dice l’aquila a Par. XX, 94: “Regnum celorum vïolenza pate”).
■ Una delle metamorfosi del numero mistico espresso con “un tempo, due tempi e la metà di un tempo” sta nelle tre facce della testa di Lucifero: “L’una dinanzi, e quella era vermiglia [un tempo]; / l’altr’ eran due [la nera e quella tra bianca e gialla: due tempi], che s’aggiugnieno a questa / sovresso ’l mezzo di ciascuna spalla [la metà di un tempo]” (Inf. XXXIV, 39-41). È da notare che la prima faccia viene presentata separatamente dalle altre due [1]. Il tema continua con i tre peccatori che Lucifero fa dolenti rompendoli coi denti a guisa di maciulla. Anche in questo caso, il primo – Giuda – viene separato dagli altri due, Bruto e Cassio: “A quel dinanzi [un tempo] il mordere era nulla / verso ’l graffiar [l’esser nulla è motivo che distingue la metà di un tempo] … De li altri due c’hanno il capo di sotto, / quel che pende dal nero ceffo è Bruto … e l’altro è Cassio …” [due tempi] (vv. 58-67).
■ Viene riproposto il medesimo tema in apertura di Inf. XXVIII (7-21), nella complessa similitudine cui il poeta ricorre per descrivere la sozza condizione della nona bolgia, dove sono i seminatori di scandalo e di scisma: se si mettessero insieme tutti i morti e i feriti che insanguinarono nel corso dei secoli le terre del Mezzogiorno d’Italia, e questi mostrassero le loro membra forate o mozze, non si offrirebbe un’idea adeguata alla circostanza. Viene prima “tutta la gente / che già, in su la fortunata terra / di Puglia, fu del suo sangue dolente” a causa dei “Troiani” (per la venuta di Enea in Italia) e della lunga seconda guerra punica, che a Canne “de l’anella fé sì alte spoglie” (gli anelli strappati dalle dita dei Romani caduti). A questo primo gruppo delle genti di Puglia (con la quale si intende la parte continentale del Regno di Sicilia) si dovrebbe aggiungere un secondo, formato a sua volta da due gruppi: la gente che tentò invano di contrastare Roberto il Guiscardo e la gente caduta nelle guerre tra Angioini e Svevi. Questo secondo sottogruppo si divide ancora in due parti: la gente caduta a Ceprano, abbandonata per tradimento – “là dove fu bugiardo / ciascun Pugliese” (indiretta allusione alla battaglia di Benevento dove fu sconfitto Manfredi) -, e quella caduta a Tagliacozzo, dove Corradino venne sconfitto per via di un accorto consiglio dato a Carlo d’Angiò dal “vecchio Alardo”. Il primo gruppo – le genti di Puglia – corrisponde al “tempo” (un anno); il secondo, doppio gruppo – i caduti o i feriti nei combattimenti contro Roberto il Guiscardo e quelli nelle guerre svevo-angioine – a “tempi” (due anni); la “metà di un tempo” (mezzo anno) sta nel “nulla” che la riunione di tutti e tre i gruppi di caduti offre rispetto a quanto visto dal poeta nella bolgia: il mezzo anno designa infatti qualcosa di dimidiato, imperfetto e parziale (con “dimidium” concorda anche il “mezzul” del fondo della botte, di cui si dice al verso 22). È da notare la simmetria del motivo dei “due tempi”, che rispecchia il duale greco, in Inf. XXVIII e in Inf. XXXIV: “S’el s’aunasse ancor tutta la gente … con quella … e l’altra … quel che pende dal nero ceffo è Bruto … e l’altro è Cassio …”.
■ Una variante del tema sembra presente anche in quanto dichiarato dal simoniaco Niccolò III in Inf. XIX, 79-84: il tempo da lui trascorso nella posizione di piantato sottosopra coi piedi accesi nel foro della livida pietra è già quasi di venti anni (agosto 1280 – marzo/aprile 1300), un “tempo” più lungo di quello in cui vi resterà Bonifacio VIII, che alla morte nell’ottobre 1303 prenderà il suo posto e lo farà cadere più giù nelle fessure della pietra, perché Bonifacio, dopo quasi undici anni, verrà a sua volta sostituito nel 1314 da Clemente V, “pastor sanza legge” che ricoprirà entrambi i suoi predecessori per “più laida opra”. Il motivo della “metà di un tempo” si può considerare applicato sia a Bonifacio VIII, che trascorrerà piantato come palo circa la metà del tempo toccato a Niccolò III, sia, nel significato di un’opera parziale e imperfetta che assume qui un sapore amaro, a entrambi i pontefici, l’Orsini e il Caetani, la cui opera, alla fine, risulterà meno laida di quella del guascone Bertrand de Got. È comunque da notare come il medesimo tema venga appropriato sia ai papi simoniaci sia a Lucifero, figure che designano, attraverso un numero mistico loro applicato, la durata della tribolazione (tre anni e mezzo) sotto il regno dell’Anticristo (l’undicesimo re di Daniele 7, 24-25). L’espressione “un tempo, due tempi e la metà di un tempo” sarà ancora utilizzata da Botticelli alla fine dell’anno 1500, come datazione della Natività mistica ispirata ai sermoni sull’Apocalisse del Savonarola [2].
■ Un’altra variazione è nella spiegazione data da Manfredi della penitenza impostagli come scomunicato: chi muore in contumacia di Santa Chiesa, ancorché si penta in fin di vita, “per ognun tempo” che è stato “in sua presunzïon”, ostinato cioè nel non volersi sottomettere all’autorità ecclesiastica, deve restare fuori del purgatorio trenta volte (il numero trenta fa parte del numero mistico 1260), a meno che questo decreto non venga abbreviato (la “metà di un tempo”) per l’intervento delle buone preghiere (Purg. III, 136-141) [3].
■ Il motivo della “metà di un tempo”, cioè di un’opera parziale e imperfetta, viene ancora ironicamente appropriato al vivere civile di Atene e Sparta, “picciol cenno” rispetto alle sottili leggi fiorentine che varate ad ottobre non durano alla metà di novembre (Purg. VI, 139-144). Con esso viene vestita la reminiscenza ovidiana della “folle Aragne”, la tessitrice che sfidò Minerva, raffigurata sul pavimento del primo girone dei superbi “già mezza ragna, trista in su li stracci / de l’opera che mal per te si fé” (Purg. XII, 43-45; cfr. quanto afferma Niccolò III del ‘futuro’ papa Clemente V: “ché dopo lui verrà di più laida opra, / di ver’ ponente, un pastor sanza legge”: Inf. XIX, 82-83). A Par. XIX, 133-138, l’aquila dice di Federico II d’Aragona (re di Sicilia dal 1296 al 1337) che nel libro della vita (cfr. Ap 20, 12) le sue opere saranno scritte con lettere abbreviate “a dare ad intender quanto è poco” [‘metà di un tempo’]; pure all’apertura del libro “parranno a ciascun l’opere [‘metà di un tempo’] sozze / del barba [Giacomo, re di Maiorca] e del fratel [Giacomo re di Sicilia e poi di Aragona], che tanto egregia / nazione [l’Aragona: ‘un tempo’] e due corone [Maiorca e Aragona: ‘due tempi’] han fatte bozze”.
■ I tre anni e mezzo designano il mistero della trinità di Dio unitamente alla perfezione delle sue opere, che rispetto al loro artefice sono qualcosa di dimidiato, imperfetto e parziale e quasi nulla: così nella visione finale il poeta vede “tre giri / di tre colori e d’una contenenza”, ma il suo dire è “corto” e “fioco”, inadeguato rispetto al concetto, a quanto cioè la mente ha ritenuto della visione, concetto che a sua volta è “poco”: il corto, il fioco, il poco esprimono il significato contenuto nella “metà di un tempo” (Par. XXXIII, 115-123).
■ La vicinanza del verbo “pertractare”, riferito nell’esegesi di Ap 12, 6 al quinto libro della Concordia di Gioacchino da Fiore, con il numero mistico “per tempus et tempora et dimidium temporis” (da Daniele, 12, 6-7; cfr. gli incisi “… sub uno quam brevi coart<ar>emus sermone … nisi hoc quod sonat versiculus iste …” con Par. XXXIII, 74, 106 : “e per sonare un poco in questi versi … Omai sarà più corta mia favella”) conduce a Inf. XI, 79-84, dove Virgilio ricorda al discepolo le tre disposizioni peccaminose odiate da Dio – “incontenenza, malizia e la matta / bestialitade” – esposte ampiamente (‘pertrattate’) nell’Etica di Aristotele. Una di queste tre disposizioni, l’incontinenza, offende meno Dio e suscita minor biasimo, e pertanto gli incontinenti stanno fuori della città di Dite meno martellati nelle pene dalla divina vendetta. All’incontinenza è applicato il tema della “metà di un tempo”, mentre la malizia sembra corrispondere a “tempi” (il duale greco), considerato che ai vv. 22-24 si dice che il fine di ogni malizia, che consiste nell’“ingiuria”, cioè nell’infrazione delle leggi divine o naturali, si consegue in due modi, con la forza (i violenti) o con l’inganno (i fraudolenti); quest’ultimo, a sua volta, si distingue nella frode verso chi si fida e in quella verso chi non si fida, con andamento bipartito riscontrabile in principio di Inf. XXVIII (Inf. XI, 52-66: “Questo modo di retro … Per l’altro modo …”). La “matta bestialitade” corrisponderebbe pertanto a “(un) tempo”. Da notare che i violenti hanno un andamento ternario, per non dire trinitario: “ma perché si fa forza a tre persone … a Dio, a sé, al prossimo” (Inf. XI, 28-33).
[1] I tre eserciti contrari a Cristo, designati rispettivamente all’apertura del secondo, del terzo e del quarto sigillo con il cavallo rosso, il cavallo nero e il cavallo pallido, si trasformano nelle tre facce di Lucifero (Inf. XXXIV, 39-45): la prima vermiglia, la seconda nera, la terza tra bianca e gialla.
[2] La Natività mistica della National Gallery di Londra reca in alto, su tre righi, la seguente scritta in greco: «Questo dipinto, sulla fine dell’anno 1500, durante i torbidi d’Italia, io, Alessandro, dipinsi nel mezzo tempo dopo il tempo, secondo l’XI di san Giovanni nel secondo dolore dell’Apocalisse, nella liberazione di tre anni e mezzo del Diavolo; poi sarà incatenato nel XII e lo vedremo [calpestato] come nel presente dipinto» (trad. a cura di G. Mandel in L’opera completa del Botticelli, Milano 1967 [Classici dell’arte], pp. 108-109, n. 148).
[3] La donna (la Chiesa) trova nel deserto dei Gentili, della fede e della contemplazione cristiana “il luogo preparato da Dio per esservi nutrita per 1260 giorni” (Ap 12, 6). Il suo è un pasto spirituale, con il quale incorpora i Gentili nella fede di Cristo, non potendo incorporare i Giudei, dalla cui durezza è fuggita. È da ricordare che il purgatorio, “lito diserto” (Purg. I, 130), “aspro diserto” (Purg. XI, 14), possiede le caratteristiche del deserto della gentilità (la forma “gentile/i” vi ricorre otto volte [cfr. anche “l’altre genti forme” a Purg. IX, 58], contro quattro occorrenze nell’Inferno e una nel Paradiso); Dante vi rimane tre giorni e mezzo (la cantica si chiude al meriggio del quarto giorno), un periodo di tempo corrispondente ai 1260 anni della permanenza della donna nel deserto, ovvero all’espressione “(un) tempo, (due) tempi e la metà di un tempo” di Ap 12, 14. A questo punto non appare casuale il fatto che siano 1260 i versi dei primi nove canti del Purgatorio, che descrivono il cosiddetto ‘antipurgatorio’, fino alla porta sulla cui soglia siede l’angelo al quale san Pietro ha affidato le chiavi. La porta costituisce la prima meta del viaggio prefissata in Inf. I, 130-135: “… Poeta, io ti richeggio … che tu mi meni là dov’ or dicesti, / sì ch’io veggia la porta di san Pietro …”. La divisione spirituale del poema non coincide però necessariamente con quella esteriore per cantiche e canti: così l’apertura effettiva della porta inizia a Purg. IX, 133, cioè tredici versi prima della fine del canto (che conta 145 versi). Questo spazio viene occupato dai tredici versi finali dell’Inferno (XXXIV, 127-139), che descrivono la risalita alla superficie della terra, una volta usciti dall’abisso, per il “cammino ascoso” segnato non dalla vista ma dal suono di un ruscelletto.
Tab. IV
Tab. V
Tab. VI
[LSA, cap. I, Ap 1, 16-17 (radix Ie visionis)] Decima (perfectio summo pastori condecens) est sue claritatis et virtutis incomprehensibilis gloria, unde subdit: “et facies eius sicut sol lucet in virtute sua”. Sol in tota virtute sua lucet in meridie, et precipue quando aer est serenus expulsa omni nube et grosso vapore, et quidem corporalis facies Christi plus incomparabiliter lucet et viget. Per hoc tamen designatur ineffabilis claritas et virtus sue divinitatis et etiam sue mentis. Splendor etiam iste sue faciei designat apertam et superfulgidam notitiam scripture sacre et faciei, ita quod in sexta etate et precipue in eius sexto statu debet preclarius radiare. In cuius signum Christus post sex dies transfiguratus est in monte in faciem solis (cfr. Mt 17, 1-8), et sub sexto angelo tuba canente videtur angelus habens faciem solis et tenens librum apertum (cfr. Ap 10, 1-2).
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Par. XIII, 13-24aver fatto di sé due segni in cielo,
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Par. XIII, 73-78, 115-123Se fosse a punto la cera dedutta
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[LSA, cap. XIV, Ap 14, 2 (IVa visio, VIum prelium)] Quarto erat suavissima et iocundissima et artificiose et proportionaliter modulata, unde subdit: “et vocem, quam audivi, sicut citharedorum citharizantium cum citharis suis”. Secundum Ioachim, vacuitas cithare significat voluntariam paupertatem. Sicut enim vas musicum non bene resonat nisi sit concavum, sic nec laus bene coram Deo resonat nisi a mente humili et a terrenis evacuata procedat*.
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Tab. VII
[LSA, prologus, Notabile XIII] In quinto vero tempore fuerunt spiritualiores monachi quasi aves volantes, clerici vero gentibus commixti fuerunt quasi pisces in aquis (cfr. Gn 1, 20-21). In hac autem die primo dictum est: “Crescite et multiplicamini” et cetera (Gn 1, 22), quia numquam in preteritis temporibus sic monasteria vel ecclesie in tali vita, que conveniret pluribus, ordinate fuere quomodo in tempore quinto, quia non tantum clericorum et monachorum, verum etiam ecclesiarum et monasteriorum que sunt propagata in tempore quinto in hac occidentali ecclesia colligere numerum non est facile. Unde quamvis vita monachorum quarti temporis fuerit clarior, non tamen fecundior nec sic habens sensum vivum et tenerum pietatis. Aves enim et pisces prehabundant in sensu luminaribus celi. Attamen notandum quod in quinta die creata sunt munda pariter et immunda. Sunt enim pisces secundum legem mundi et immundi, avesque similiter. **Cfr. Concordia, V 1, c. 13; Patschovsky 3, p. 561, 10-11; p. 563, 4-15; p. 565, 3-4. |
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Inf. XI, 112-115Ma seguimi oramai che ’l gir mi piace;
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Inf. XII, 1-10
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I pesci sono un tema del pietoso quinto stato, condiscendente verso la vita associata delle moltitudini, assimilato alla costa del solitario Adamo (il quarto stato, degli alti contemplativi) dalla quale Dio formò Eva. Fra le molte variazioni dei temi, la discesa dal sesto cerchio verso il Flegetonte, decisa da Virgilio sotto il regime dei Pesci e consentita da una “ruina … nel fianco” della vecchia roccia infernale. |