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Giu 29 2023

Inferno VI-VII

La “Divina Parodia” del Libro scritto dentro e fuori

Canti esaminati:

Inferno: I; II; III; IV; V; VI; VII; VIII; IX; X; XI; XII; XIII; XIV; XV; XVI; XVII; XVIII; XIX; XX; XXI; XXII; XXIII; XXIV; XXV; XXVI; XXXII, 124-XXXIII, 90
Purgatorio: III; XXVIII
Paradiso: XI-XII; XXXIII

 

Qui di seguito vengono esposti congiuntamente il sesto e il settimo canto dell’Inferno con i corrispondenti legami ipertestuali con i luoghi della Lectura super Apocalipsim ai quali i versi si riferiscono.

Seppure segue l’ordine dei ventidue capitoli dell’Apocalisse, Olivi suggerisce, nel prologo della Lectura, un metodo differente di comprensione e di aggregazione del testo, fondato sui sette stati (status), cioè sulle epoche nelle quali si sviluppa la storia della Chiesa, prefigurate nell’Antico Testamento.
L’Apocalisse si articola in sette visioni: le sette chiese d’Asia, i sette sigilli, le sette trombe, la donna vestita di sole (le sette guerre sostenute dalla Chiesa), le sette coppe, il giudizio di Babylon nelle sette teste del drago, la Gerusalemme celeste. Le prime sei visioni possono essere a loro volta divise in sette momenti, ciascuno dei quali riferibile a uno dei sette stati. Assembrando, per le prime sei visioni, tutti i primi elementi (chiesa, sigillo, tromba, guerra, coppa, momento del giudizio di Babylon), tutti i secondi, i terzi e così di seguito, si ottengono sette gruppi di materia teologica, corrispondenti al complesso dei temi afferenti a ciascuno dei sette stati. A questi sette gruppi si aggiungono altri due: l’esegesi della settima visione (senza articolazioni interne) e l’esegesi di capitoli del testo scritturale, o di parti di essi, introduttivi delle successive specificazioni delle singole visioni per settenari, che Olivi definisce “radicalia” o “fontalia”. Si ottengono in tal modo nove gruppi: le parti proemiali, i sette assembramenti di settenari e la settima visione. Il grande prologo della Lectura, articolato in tredici notabilia, può essere anch’esso aggregato secondo i sette stati. Un libro (la Lectura) contiene dunque princìpi e criteri affinché l’accorto lettore possa trarne un altro libro, fatto con lo stesso materiale ma ricomposto e distribuito in forma diversa.

La Commedia mostra un ordine interno diverso da quello che appare al lettore: il viaggio di Dante, parodia della Lectura super Apocalipsim, ha un andamento di ciclici settenari, che corrispondono ai sette stati della storia della Chiesa, cioè alle categorie con cui Olivi organizza la materia esegetica. Questo ordine interno è registrabile per zone progressive del poema dove prevale, tramite parole-chiave, la semantica riferibile a un singolo stato. È un’intima struttura dirompente i confini letterali stabiliti dai canti e da tutte le divisioni materiali per cerchi, gironi, cieli. Ogni stato, che ha differenti inizi, è concatenato per concurrentia, come le maglie di un’armatura, con quello che precede e con quello che segue. Si possono in tal modo redigere mappe che comprendano l’ordine spirituale della Commedia. La ricerca è pervenuta a una Topografia spirituale della Commedia (PDF; introduzione in html), dove per quasi ogni verso, o gruppo di versi, collegamenti ipertestuali conducono al “panno” esegetico fornito dalla Lectura super Apocalipsim, sul quale il “buon sartore” ha fatto “la gonna” (cfr. Par. XXXII, 139-141).

Dopo che nel quinto canto dell’Inferno sono stati sviluppati, con i lussuriosi, numerosi temi del secondo stato, proprio dei martiri (nel senso che all’antico martirio corporale subentra il moderno martirio psicologico), nel sesto è la semantica del terzo periodo, dei dottori della Chiesa, a fasciare i golosi. Nel settimo canto la descrizione degli avari e prodighi registra motivi del quarto periodo, proprio dei contemplativi (status che concorre con il terzo); la situazione degli iracondi e accidiosi si riferisce al quinto, dei rilassati (con motivi che continuano e prevalgono nell’ottavo canto). Per questo motivo Inferno VI e VII vengono qui presentati congiuntamente, cosicché venga registrata, evidenziata cromaticamente, la semantica riferibile a ciascun periodo.

Nell’esame dei primi quattro canti dell’Inferno, i colori che evidenziano il testo dato all’inizio corrispondono, per quanto possibile, a quelli delle tabelle. A partire dal canto V, primo nel quale la semantica si riferisce in modo sistematico e prevalente alla materia esegetica riguardante uno status o periodo della Chiesa, nel testo riportato all’inizio i colori seguono quelli attribuiti a ciascuno stato; tuttavia nel testo presente nelle tabelle, per maggiore evidenza, possono mostrarsi in forma diversa. Ciò consente di registrare separatamente i singoli gruppi tematici sui quali si esercita la variazione parodica e di evidenziare come, ad esempio, nel V canto prevalga il secondo stato, nel VI il terzo, nel VII il quarto e così via (tenendo presente, da una parte, che la regione tematica principale è più ampia dei limiti dati al singolo canto e, dall’altra, che in essa si intrecciano temi propri di altri stati).
A ogni gruppo è stato assegnato un diverso colore: Radici (verde), I stato (verde acqua), II stato (rosso), III stato (nero), IV stato (viola), V stato (marrone), VI stato (blu), VII stato (indaco), VII visione (fucsia). Dei gruppi sono stati integralmente studiati il terzo stato e la settima visione.
Ogni tabella sinottica, qui presentata o alla quale (nella maggior parte dei casi) si rinvia in quanto già esaminata in altra sede, è preceduta o seguita da una parte esplicativa.

In altra sede sono state avanzate alcune considerazioni provvisorie sull’ordine di redazione della prima cantica. L’Inferno, nella sua “topografia spirituale”, registra cinque cicli settenari. Il primo inizia con Inf. IV e si conclude con l’apertura della porta della città di Dite a Inf. IX. A partire dal secondo ciclo, in particolare da Inf. XII (dove prevalgono i temi del secondo stato, ma il ciclo si avvia subito dopo l’apertura della porta), la rete semantica riferibile ciclicamente ai sette stati oliviani è più estesa, organizzata e compatta. Lo è assai meno nel primo ciclo. Se in questo il canto più strutturato è Inf. V, ci sono in altri canti versi che non registrano parole-chiave che rinviano alla Lectura (sono riportati in una tabella). Questo fenomeno (ben registrabile in Inf. VI e VII, in particolare negli ultimi versi di quest’ultimo canto e nei primi del seguente), non presente o meno evidente nelle cantiche successive, testimone di una prima fase di incertezza nel rapporto fra Commedia e Lectura, è forse indice di una prima, parziale stesura estranea a tale rapporto, di una Ur-Commedia della quale restano tracce. Un esame compiuto potrà essere fatto dopo aver approfondito tutti i primi undici canti del poema.

 

Inferno VI

Legenda [3]: numero dei versi; 4, 1-2: collegamento ipertestuale all’esegesi, nella Lectura di Olivi, di capitolo e versetto dell’Apocalisse [Ap]; Not. X: collegamento all’esegesi contenuta nei tredici notabilia del prologo della Lectura. Varianti rispetto al testo del Petrocchi.

Al tornar de la mente, che si chiuse   4, 1-2
dinanzi a la pietà d’i due cognati,   Not. X
che di trestizia tutto mi confuse,   [3]   2, 11

novi tormenti e novi tormentati
mi veggio intorno, come ch’io mi mova
e ch’io mi volga, e come che io guati.   [6]

Io sono al terzo cerchio, de la piova
etterna, maladetta, fredda e greve;   16, 21
regola e qualità mai non l’è nova.   [9]

Grandine grossa, acqua tinta e neve
per l’aere tenebroso si riversa;   6, 5
pute la terra che questo riceve.   [12]   12, 16 (8, 7)

Cerbero, fiera crudele e diversa,   6, 8
con tre gole caninamente latra   22, 15
sovra la gente che quivi è sommersa.   [15]   2, 10

Li occhi ha vermigli, la barba unta e atra,   2, 18; 6, 3; 6, 5
e ’l ventre largo, e unghiate le mani;   2, 22; 2, 18
graffia li spirti ed iscoia ed isquatra.   [18]   2, 12 (9, 13)   ingoia e disquatra

Urlar li fa la pioggia come cani  22, 15
de l’un de’ lati fanno a l’altro schermo;   2, 12
volgonsi spesso i miseri profani.   [21]   8, 10;  21, 8

Quando ci scorse Cerbero, il gran vermo,
le bocche aperse e mostrocci le sanne;
non avea membro che tenesse fermo.   [24]   8, 10

E ’l duca mio distese le sue spanne,   Not. XI
prese la terra, e con piene le pugna   12, 16
la gittò dentro a le bramose canne.   [27]

Qual è quel cane ch’abbaiando agogna,   22, 15
e si racqueta poi che ’l pasto morde,   7, 1-2; Not. III
ché solo a divorarlo intende e pugna,   [30]   12, 16

cotai si fecer quelle facce lorde
de lo demonio Cerbero, che ’ntrona
l’anime sì, ch’esser vorrebber sorde.   [33]

Noi passavam su per l’ombre che adona
la greve pioggia, e ponavam le piante
sovra lor vanità che par persona.   [36]  

Elle giacean per terra tutte quante,
fuor d’una ch’a seder si levò, ratto   12, 4
ch’ella ci vide passarsi davante.    [39]      

« O tu che se’ per questo ’nferno tratto »,
 mi disse, « riconoscimi, se sai:
 tu fosti, prima ch’io disfatto, fatto ».   [42]   3, 14

E io a lui: « L’angoscia che tu hai
forse ti tira fuor de la mia mente,   20, 12
sì che non par ch’i’ ti vedessi mai.   [45]

Ma dimmi chi tu se’ che ’n sì dolente
loco se’ messo, e hai sì fatta pena,
che, s’altra è maggio, nulla è sì spiacente ».   [48]

Ed elli a me: « La tua città, ch’è piena
d’invidia sì che già trabocca il sacco,   6, 5
seco mi tenne in la vita serena.   [51]       

Voi cittadini mi chiamaste Ciacco:
per la dannosa colpa de la gola,
come tu vedi, a la pioggia mi fiacco.   [54]   6, 8

E io anima trista non son sola,   2, 11; 2, 1
ché tutte queste a simil pena stanno   17, 11
per simil colpa ». E più non fé parola.   [57]

Io li rispuosi: « Ciacco, il tuo affanno
mi pesa sì, ch’a lagrimar mi ’nvita;   6, 5
ma dimmi, se tu sai, a che verranno   [60]

li cittadin de la città partita;   16, 19
s’alcun v’è giusto; e dimmi la cagione   Not. XIII
per che l’ha tanta discordia assalita ».   [63]

E quelli a me: « Dopo lunga tencione
verranno al sangue, e la parte selvaggia   17, 6 (Mt 23, 35); 16, 3; 16, 4
caccerà l’altra con molta offensione.   [66]

Poi appresso convien che questa caggia
infra tre soli, e che l’altra sormonti   9, 13; 13, 1.11
con la forza di tal che testé piaggia.   [69]

Alte terrà lungo tempo le fronti2, 24; 17, 5
tenendo l’altra sotto gravi pesi,   2, 24; 6, 5
come che di ciò pianga o che n’aonti.   [72]

Giusti son due, e non vi sono intesi;   11, 3.8; 12, 6
superbia, invidia e avarizia sono
le tre faville c’hanno i cuori accesi ».   [75]

Qui puose fine al lagrimabil suono.   Not. I
E io a lui: « Ancor vo’ che mi ’nsegni   Not. XIII
e che di più parlar mi facci dono.   [78]

Farinata e ’l Tegghiaio, che fuor sì degni,
Iacopo Rusticucci, Arrigo e ’l Mosca
e li altri ch’a ben far puoser li ’ngegni,   [81]   8, 10

dimmi ove sono e fa ch’io li conosca;
ché gran disio mi stringe di savere
se ’l ciel li addolcia o lo ’nferno li attosca ».   [84]

E quelli: « Ei son tra l’anime più nere;   6, 5
diverse colpe giù li grava al fondo:
se tanto scendi, là i potrai vedere.   [87]

Ma quando tu sarai nel dolce mondo,
priegoti ch’a la mente altrui mi rechi:
più non ti dico e più non ti rispondo ».   [90]

Li diritti occhi torse allora in biechi;   6, 5
guardommi un poco e poi chinò la testa:   Not. III
cadde con essa a par de li altri ciechi.   [93]

E ’l duca disse a me: « Più non si desta
di qua dal suon de l’angelica tromba,   Not. I
quando verrà la nimica podesta:   [96]

ciascun rivederà la trista tomba,
ripiglierà sua carne e sua figura,
udirà quel ch’in etterno rimbomba ».   [99]

Sì trapassammo per sozza mistura   Nor. III
de l’ombre e de la pioggia, a passi lenti,
toccando un poco la vita futura;   [102]

per ch’io dissi: « Maestro, esti tormenti
crescerann’ ei dopo la gran sentenza,
o fier minori, o saran sì cocenti? ».   [105]

Ed elli a me: « Ritorna a tua scïenza,
che vuol, quanto la cosa è più perfetta,   15, 2
più senta il bene, e così la doglienza.   [108]      

Tutto che questa gente maladetta   5, 1
in vera perfezion già mai non vada,
di là più che di qua essere aspetta ».   [111]   6, 11

Noi aggirammo a tondo quella strada,
parlando più assai ch’i’ non ridico;
venimmo al punto dove si digrada:
quivi trovammo Pluto, il gran nemico.   [115]   12, 9

Inferno VII

« Pape Satàn, pape Satàn aleppe! », 7, 13 (5, 2); 2, 24
cominciò Pluto con la voce chioccia;
e quel savio gentil, che tutto seppe,   [3]

disse per confortarmi: « Non ti noccia   7, 1-2
la tua paura; ché, poder ch’elli abbia,
non ci torrà lo scender questa roccia ».   [6]

Poi si rivolse a quella ’nfiata labbia,   12, 16
e disse: « Taci, maladetto lupo!
consuma dentro te con la tua rabbia.   [9]   16, 11; 9, 19

Non è sanza cagion l’andare al cupo:
vuolsi ne l’alto, là dove Michele   2, 24; 12, 7
fé la vendetta del superbo strupo ».   [12]

Quali dal vento le gonfiate vele
caggiono avvolte, poi che l’alber fiacca,   6, 8
tal cadde a terra la fiera crudele.   [15]

Così scendemmo ne la quarta lacca,   7, 7
pigliando più de la dolente ripa
che ’l mal de l’universo tutto insacca.   [18]

Ahi giustizia di Dio! tante chi stipa
nove travaglie e pene quant’ io viddi ?   4, 1-2
e perché nostra colpa sì ne scipa?   [21]

Come fa l’onda là sovra Cariddi,
che si frange con quella in cui s’intoppa, 2, 1 (IIIIV status)
così convien che qui la gente riddi.   [24]   Not. XIII

Qui vid’ i’ gente più ch’altrove troppa,
e d’una parte e d’altra, con grand’ urli,   2, 12
voltando pesi per forza di poppa.   [27]   8, 10; 6, 5; 2, 24

Percotëansi ’ncontro; e poscia pur lì   8, 12
si rivolgea ciascun, voltando a retro,   8, 10
gridando: « Perché tieni? » e « Perché burli? ».   [30]   2, 25

Così tornavan per lo cerchio tetro   3, 12; 6, 5
da ogne mano a l’opposito punto,   Not. II
gridandosi anche loro ontoso metro;   [33]

poi si volgea ciascun, quand’ era giunto,   8, 10
per lo suo mezzo cerchio a l’altra giostra.
E io, ch’avea lo cor quasi compunto,   [36]

dissi: « Maestro mio, or mi dimostra   Not. XIII; 7, 13
che gente è questa, e se tutti fuor cherci
questi chercuti a la sinistra nostra ».   [39]

Ed elli a me: « Tutti quanti fuor guerci   5, 1 (I sig.)
de la mente in la vita primaia,
che con misura nullo spendio ferci.   [42]   6, 5

Assai la voce lor chiaro l’abbaia,   Not. II
quando vegnono a’ due punti del cerchio
dove colpa contraria li dispaia.   [45] 

Questi fuor cherci, che non han coperchio
piloso al capo, e papi e cardinali,
in cui usa avarizia il suo soperchio ».   [48]

E io: « Maestro, tra questi cotali
dovre’ io ben riconoscere alcuni
che furo immondi di cotesti mali ».   [51]

Ed elli a me: « Vano pensiero aduni:
la sconoscente vita che i fé sozzi,   Not. X (IIIIV status)
ad ogne conoscenza or li fa bruni.   [54]   6, 5

In etterno verranno a li due cozzi:
questi resurgeranno del sepulcro
col pugno chiuso, e questi coi crin mozzi.   [57]   1, 14; 2, 12

Mal dare e mal tener lo mondo pulcro   22, 18-19
ha tolto loro, e posti a questa zuffa:
qual ella sia, parole non ci appulcro.   [60]      

Or puoi, figliuol, veder la corta buffa
d’i ben che son commessi a la fortuna,
per che l’umana gente si rabuffa;   [63]

ché tutto l’oro ch’è sotto la luna   12, 1; 8, 12
e che già fu, di quest’ anime stanche   6, 8
non poterebbe farne posare una ».   [66]   21, 16

« Maestro mio », diss’ io, « or mi dì anche:
questa fortuna di che tu mi tocche,
che è, che i ben del mondo ha sì tra branche? ».   [69]

E quelli a me: « Oh creature sciocche,
quanta ignoranza è quella che v’offende!
Or vo’ che tu mia sentenza ne ’mbocche.   [72]   Not. III

Colui lo cui saver tutto trascende,
fece li cieli e diè lor chi conduce   Not. XIII
sì, ch’ogne parte ad ogne parte splende,   [75]

distribuendo igualmente la luce.   Not. XIII
Similemente a li splendor mondani
ordinò general ministra e duce   [78]   10, 1; 2, 19

che permutasse a tempo li ben vani   12, 1 (Not. VII)
di gente in gente e d’uno in altro sangue,
oltre la difension d’i senni umani;   [81]

per ch’una gente impera e l’altra langue,   6, 8
seguendo lo giudicio di costei,   2, 23
che è occulto come in erba l’angue.   [84]

Vostro saver non ha contasto a lei:
questa provede, giudica, e persegue
suo regno come il loro li altri dèi.   [87]

Le sue permutazion non hanno triegue:   (Not. VII)
necessità la fa esser veloce;   1, 1
sì spesso vien chi vicenda consegue.   [90]

Quest’ è colei ch’è tanto posta in croce
pur da color che le dovrien dar lode,
dandole biasmo a torto e mala voce;   [93]

ma ella s’è beata e ciò non ode:   1, 3
con l’altre prime creature lieta
volve sua spera e beata si gode.   [96]

Or discendiamo omai a maggior pieta;   7, 7
già ogne stella cade che saliva   8, 12
quand’ io mi mossi, e ’l troppo star si vieta ».   [99]   Not. III

Noi ricidemmo il cerchio a l’altra riva   2, 12; 22, 1
sovr’ una fonte che bolle e riversa   8, 10
per un fossato che da lei deriva.   [102]   21, 12; 22, 1

L’acqua era buia assai più che persa;
e noi, in compagnia de l’onde bige,   3, 5
intrammo giù per una via diversa.   [105]   6, 9.11

In la palude va c’ha nome Stige
questo tristo ruscel, quand’ è disceso   Not. I
al piè de le maligne piagge grige.   [108]

E io, che di mirare stava inteso,   Not. III
vidi genti fangose in quel pantano,
ignude tutte, con sembiante offeso.   [111]   9, 5

Queste si percotean non pur con mano,   8, 12
ma con la testa e col petto e coi piedi,
troncandosi co’ denti a brano a brano.   [114]   9, 8

Lo buon maestro disse: « Figlio, or vedi
l’anime di color cui vinse l’ira;   9, 5
e anche vo’ che tu per certo credi   [117]

che sotto l’acqua è gente che sospira,   6, 9.11
e fanno pullular quest’ acqua al summo,
come l’occhio ti dice, u’ che s’aggira.   [120]

Fitti nel limo dicon: “Tristi fummo   5, 1
ne l’aere dolce che dal sol s’allegra,   9, 1-2
portando dentro accidïoso fummo:   [123]

or ci attristiam ne la belletta negra”.   5, 1
Quest’ inno si gorgoglian ne la strozza,
ché dir nol posson con parola integra ».   [126]   16, 11 (9, 20)

Così girammo de la lorda pozza
grand’ arco, tra la ripa secca e ’l mézzo,
con li occhi vòlti a chi del fango ingozza.
Venimmo al piè d’una torre al da sezzo.   [130]

 

Abbreviazioni e avvertenze

Ap : APOCALYPSIS IOHANNIS.

LSA : PIETRO DI GIOVANNI OLIVI, Lectura super Apocalipsim.

Concordia : JOACHIM VON FIORE, Concordia Novi ac Veteris Testamenti. Herausgegeben von A. PATSCHOVSKY, Wiesbaden 2017 (Monumenta Germaniae Historica. Quellen zur Geistesgeschichte des  Mittelalters, 28. Band), Teil 2 (lib. I-IV), Teil 3 (lib. V).

Expositio : GIOACCHINO DA FIORE, Expositio in Apocalypsim, in Edibus Francisci Bindoni ac Maphei Pasini, Venetiis 1527, ristampa anastatica Minerva, Frankfurt a. M. 1964.

Olivi opera spesso una sintesi del testo di Gioacchino da Fiore. Le « » precedono e chiudono un’effettiva citazione. Diversamente, viene posto un asterisco (*) o una nota in apice al termine della parte riferibile a Gioacchino.

In Ap : RICCARDO DI SAN VITTORE, In Apocalypsim libri septem, PL 196, coll. 683-888.

Tutte le citazioni della Lectura super Apocalipsim presenti nei saggi o negli articoli pubblicati su questo sito sono tratte dalla trascrizione, corredata di note e indici, del ms. Paris, Bibliothèque nationale de France, lat. 713, a disposizione fin dal 2009 sul sito medesimo. I passi scritturali ai quali si riferisce l’esegesi sono in tondo compresi tra “ ”; per le fonti diverse da quelle indicate si rinvia all’edizione in rete. Non viene presa in considerazione l’edizione critica a cura di W. LEWIS (Franciscan Institute Publications, St. Bonaventure – New York, 2015) per le problematiche da essa poste, che sono discusse in A. FORNI – P. VIAN, A proposito dell’edizione di Warren Lewis della Lectura super Apocalipsim di Pietro di Giovanni Olivi. Alcune osservazioni, in “Archivum Franciscanum Historicum”, 109 (2016), pp. 99-161.
Il testo della Commedia citato è in Dante Alighieri, La Commedia secondo l’antica vulgata, a cura di G. PETROCCHI, Firenze 1994. Si tiene anche conto della recente edizione a cura di G. INGLESE, Firenze 2021 (Società Dantesca Italiana. Edizione Nazionale), qualora il testo proposto si discosti da quello del Petrocchi e la scelta della variante risulti discutibile nel confronto con la LSA.

 

CANTO VI – IL TERZO STATO *

■ Di fronte alle parole di Francesca, e al pianto di Paolo che le accompagna, Dante prova in sé tanta pietà da venire meno: “io venni men così com’ io morisse. / E caddi come corpo morto cade” (Inf. V, 141-142). Provare “pietà” per i dannati dalla giustizia divina, sentimento al quale non è estraneo neanche Virgilio al suo rientrare nelle “segrete cose” dell’inferno (Inf. IV, 19-21), è forse la più forte delle tentazioni con le quali il poeta deve combattere, una passione interiore solo progressivamente superata nella discesa infernale. È una prova – corrispondente al moderno martirio, non corporale ma psicologico – che Dante ha ben sostenuto fin dai tempi immediatamente successivi alla morte di Beatrice, allorché una donna, detta appunto Pietosa o Gentile nella Vita Nova, apparve da una finestra a consolarlo del suo dolore, con immagine affabile e suadente, ma che poi venne scacciata, come avversario della ragione e vana tentazione, dal ritorno alla mente di Beatrice. Ora la pietà, cioè il condiscendere con partecipazione verso la sofferenza umana, ha tentato di nuovo insinuando il dubbio che si debba cederle, nel secondo cerchio dei lussuriosi. Prima il poeta ha sentito nominare “le donne antiche e ’ cavalieri”, Didone, Cleopatra, Elena, Achille, Paride, Tristano, gli idoli della lirica cortese che è stata tanta parte della sua formazione di poeta. Poi ha udito parlare Francesca, e i “martìri” di questa sono diventati suoi, fino a farlo “tristo e pio” (prologo, Notabile X). Si è reso conto che la passione d’amore, assoggettante la ragione, è dannata e che il “disïato riso” della nuova Ginevra baciato dal nuovo tremante Lancillotto è una falsa beatitudine promessa e portata da un libro “galeotto” (Ap 1, 16-17). Se l’amore, nel parlare di Francesca, è pregno di reminiscenze di Guido Guinizzelli sul fuoco d’amore che dimora nel cuore “gentile”, al quale Amore sempre ritorna, nella realtà, dietro quella delicata trina di “dolci sospiri”, sta una concezione dell’amore sensibile e irrazionale che si avvicina a quella cantata dall’altro Guido, Cavalcanti, nella canzone Donna me prega. E questa concezione, di un Amore rapace (che “ratto s’apprende”), che non tollera che chi è amato non riami, che conduce a morte, è condannata. Lo stesso appellativo di “gentile” ha cambiato senso rispetto alla Vita Nova. Accanto al significato di ‘cortese’ o ‘liberale’ si fa sempre più forte il senso di ‘gente’ tumultuosa per passioni e conflitti intestini, fluttuante come il mare in tempesta, come “la bufera infernal, che mai non resta”, che porta in eterno i “due cognati”. Beatrice, la “gentilissima” del “libello” giovanile, non è fregiata nella Commedia con tale appellativo.
La mente di Dante, chiusa, triste e confusa per il peccato, ritorna aprendosi a nuove visioni (Inf. VI, 1-6; la tristezza, propria anche di Ciacco, “anima trista” [v. 55], accompagna la “seconda morte”: Ap 2, 11). Con “mente” si intende «l’anima umana, la quale colla nobilitade della potenza ultima, cioè ragione, participa della divina natura a guisa di sempiterna Intelligenza», come affermato in Convivio III, ii, 14, dove è spiegato il significato della canzone Amor che nella mente mi ragiona. Questo ritorno della ragione, e la sua piena affermazione, è uno dei temi principali del canto VI, dopo la violenza della passione che ha pervaso il canto precedente, che si sia trattato della passione d’amore o del patire interiore del poeta.
Parodia dell’unica visione divina di Giovanni, che poi l’evangelista adattò per i lettori umani, anche il viaggio di Dante è ‘una visione’, come gli dirà chiaramente Cacciaguida (“tutta tua visïon fa manifesta”, Par. XVII, 128), per quanto dal punto di vista della narrazione le visioni sono molteplici. Hanno inoltre la prerogativa di essere sempre nuove, non solo con riferimento all’ovvia novità dell’oggetto visto rispetto al precedente, ma anche alla maggiore intensità, arditezza e difficoltà (Inf. VI, 4-6; Ap 4, 1-2). Man mano che si scende le pene sono sempre maggiori, così come, nell’ascesa ai cieli, le visioni sono sempre più alte e meno esprimibili dalla poesia, che le adombra con similitudini adattandole all’intelletto umano, fino all’ultima “vista nova” (quella della natura umana in Dio), di fronte alla quale viene meno l’“alta fantasia”. Bisogna dunque intendere che il passaggio dal cerchio dei lussuriosi a quello dei golosi sia verso qualcosa di più arduo di quanto già sperimentato.

■ La gola è il peccato punito nel terzo cerchio. Vizio più grave della lussuria, ma anch’esso di incontinenza, come tutti gli altri (avarizia e prodigalità, accidia – ira – presunzione) puniti fuori delle mura della città di Dite, meno martellati dalla vendetta divina di quelli puniti invece all’interno (eresiarchi, violenti, fraudolenti). A “contrapasso” dei delicati cibi troppo gustati in vita, i golosi stanno sotto un’acqua sempre uguale, che mai si rinnova, resa pesante dalla grandine e dalla neve, caratteristiche che designano la dura e rigida giustizia divina (Inf. VI, 7-11; Ap 16, 21). La terra (v. 12; Ap 12, 16), che assorbe quell’acqua torbida (“tinta”), è maleodorante in modo abominevole (“pute”).
Il vizio della gola è però solo apparentemente il principale oggetto del canto, perché nel seguito emergeranno vizi ben più gravi, anzi i più gravi fra i peccati capitali: superbia, invidia, avarizia. Ciò significa che qui, come in altri luoghi del poema, i vizi sono interconnessi e che la gola è solo lo stadio iniziale dal quale si può scivolare gradualmente in più profondo precipizio.
La gola è punita anche nel purgatorio: per variata simmetria con l’inferno, dove è toccata per seconda dopo la lussuria (il primo cerchio, costituito dal Limbo, è un caso a sé), le è assegnato il penultimo girone (il sesto), prima della lussuria (il settimo) e del paradiso terrestre. A differenza della sempre più faticosa discesa infernale, la salita della montagna del purgatorio è progressivamente più leggera, perché lo sono pure i peccati. Anche nel sesto girone della montagna, il momento più importante non è di per sé la gola, ma l’incontro con l’amico poeta Forese Donati e, soprattutto, con l’altro poeta Bonagiunta Orbicciani da Lucca, con il quale Dante ha occasione di parlare delle “nove rime”, cioè della propria poetica, e di affermare come l’interiorità di questa sia il confine che divide il “dolce stil novo” dalla poesia precedente (Purg. XXIV, 49-63). La “gola” non è solo il vizio dello smodato nutrirsi; allude a qualcosa di più alto, che potrebbe identificarsi con il desiderio di sapere. I golosi sono infatti puniti lasciando insoddisfatto il desiderio indotto dai soavi pomi di due alberi, il secondo dei quali derivato da quello del bene e del male che sta nell’Eden, che tanta rovina causò, per il suo gusto proibito, al genere umano (Purg. XXIII, 130-138; XXIV, 103-117). La gola è inoltre introdotta, congiuntamente agli altri due vizi propri dell’amore che troppo si abbandona agli imperfetti beni terreni (avarizia e prodigalità, lussuria), dall’immagine della “femmina balba”, cioè della “dolce serena” che fece deviare dal suo cammino Ulisse, la figura per antonomasia dell’istinto naturale al conoscere (Purg. XIX, 1-36).

■ Dopo il traghettatore Caronte e il giudice Minosse, Cerbero è la terza delle figure, poste da Virgilio a guardia dell’Averno (Eneide, VI, 417-425; VIII, 296-297), trasformate da Dante in demoni (“lo demonio Cerbero”, parodia, con le prime due e con Pluto, dei demoni che impediscono ad Ap 7, 1). È a guardia dei golosi forse per la sua etimologia: “kreobòros”, cioè divoratore di carni. Questa figura classica, ricordata anche da Ovidio (Metamorfosi, IV, 450-451; VII, 409-419), è tuttavia profondamente trasformata. Non si tratta di un cane, ma di qualcosa di ‘simile a un cane’ per il latrare delle sue tre gole cui risponde l’urlare dei dannati “come cani” sotto la pioggia (l’immagine del cane compare nella similitudine ai versi 28-33; Ap 22, 15). Viene definito “il gran vermo” (Inf. VI, 22), un appellativo che sarà proprio di Lucifero (Inf. XXXIV, 108, il “vermo reo che ’l mondo fóra”), per sottolinearne la corrosività verso i dannati ed anche, in senso soggettivo, il rimorso della coscienza di questi, che fa parte della pena eterna (consapevolezza resa esplicita da Ciacco che definisce sé stesso “anima trista”, cioè contristata per il proprio peccato).
A differenza di Virgilio, Dante insiste con realismo sui dettagli di siffatto mostro (Inf. VI, 16-18). “Li occhi ha vermigli”, cioè rossi (già Caronte si era mostrato “con occhi di bragia”, Cesare “armato con occhi grifagni); “la barba unta e atra”, cioè nera e lorda come la bocca e il mento degli ingordi; “e ’l ventre largo, e unghiate le mani”. Immagine di un’umanità stravolta, alienata dalle qualità del Cristo uomo sommo pastore e fattasi cane nell’animo (“canina-mente”), più che cane reale, Cerbero “graffia li spirti ed iscoia e disquatra”, trattandoli come essi hanno fatto col cibo.
Nell’Eneide la Sibilla getta nelle gole di Cerbero, per ammansirlo, una focaccia di miele soporifera. Qui Virgilio fa cosa diversa: di fronte alle bocche aperte di Cerbero, “distese le sue spanne, / prese la terra, e con piene le pugna / la gittò dentro a le bramose canne” (vv. 25-27). Si aiuta cioè con la stessa terra nauseabonda (che “pute”) la quale assorbe la pioggia che percuote i golosi. Terra che, secondo l’interpretazione che Riccardo di San Vittore dà di Ap 12, 16 (dove si dice che la terra venne in aiuto della donna, cioè della Chiesa) viene intesa come la moltitudine di quanti assorbono, peccando, le tentazioni diaboliche. Essa viene offerta al demonio Cerbero, le cui facce lorde si acquietano come quella di un cane tutto inteso e affaticato nel divorare il pasto per il quale ha prima abbaiato (vv. 28-33). Impegnato in tal modo a tentare, ad attrarre e conservare a sé quella moltitudine terrestre, il demonio può dedicarsi meno a tentare gli eletti, che nel caso sono Virgilio e Dante. Non bisogna infatti pensare che il viaggio sia di pura osservazione esteriore; ogni luogo ha le sue tentazioni e le sue ardue prove interiori.
In Cerbero forte è la presenza di elementi tratti dalla Bibbia e dall’immaginario fantastico medievale. In particolare, il suo essere “fiera … diversa” (v. 13), per singolare crudeltà, è accostabile alla bestia “dissimile” di una delle visioni del profeta Daniele (Daniele, 7, 7), come pure all’orso, divoratore di carni, della medesima visione (Dn 7, 5). Contiene (vv. 16-17) anche elementi che, nell’Apocalisse, caratterizzano l’apertura del secondo, terzo e quarto sigillo, aperture in cui si mostrano gli eserciti contrari a Cristo rappresentati da cavalli di diverso colore. Gli occhi “vermigli” sono propri del secondo sigillo (il cavallo rosso), la “barba unta e atra” del terzo (il cavallo nero), il “ventre largo” del quarto (il cavallo pallido). Colori corrispondenti alle tre facce di Lucifero (Inf. XXXIV, 37-45), la prima vermiglia, la seconda nera, la terza pallida (“tra bianca e gialla”), che condivide con Cerbero anche il graffiare e maciullare i peccatori.
Cerbero è pertanto esempio di come Dante intenda il rapporto con il mondo antico, in perfetto è l’equilibrio tra cultura classica e cultura cristiana.

Nel Notabile XI del prologo, Olivi, per spiegare come le visioni dell’Apocalisse, o parte di esse, possano essere adattate a tempi diversi, paragona la Scrittura sacra a una mano o a una veste che vengano ora ristrette ora allargate. Come il significato di un termine può essere assunto talora in un senso largo e talora in uno stretto, così la Scrittura e le sue figure possono essere ora coartate, cioè ristrette rispetto al loro pieno senso, ora estese oltre quanto consenta la lettera. Ciò non avviene per falsa interpretazione, ma a motivo della forza e della varietà della Scrittura.
Il motivo è variamente presente nelle figure del poema. Le anime dei lussuriosi del secondo cerchio infernale vengono prima paragonate agli stornelli che volano “a schiera larga e piena” e poi alle gru le quali, volando in schiera stretta rispetto agli stornelli, “van cantando lor lai, / faccendo in aere di sé lunga riga” (Inf. V, 40-41, 46-47). Così è ancora per le gru, “li augei che vernan lungo ’l Nilo”, che “in aere fanno schiera” e poi “vanno in filo”, cui sono assimilati i golosi purganti (Purg. XXIV, 64-69). Modo d’essere che viene più avanti attribuito ai tre poeti, Virgilio, Stazio e Dante, i quali passano “ristretti” accanto al secondo albero incontrato nel sesto girone (vv. 118-120) e poi vanno “rallargati per la strada sola” (vv. 130-132). Gli stessi golosi s’assottigliano di fronte all’acqua (lo “sprazzo”) che “si spandea” per le foglie del primo albero (Purg. XXII, 138; XXIII, 63, 68-69).
Dopo le lusinghiere parole di Virgilio affinché deponga lui e Dante sul ghiaccio di Cocito, Anteo “le man distese … ond’ Ercule sentì già grande stretta” (Inf. XXXI, 130-132). La figura del gigante, memore della descrizione di Lucano (Phars. IV, 589-660), è da accostare, oltre che al Notabile XI del prologo, ad altro passo del commento apocalittico oliviano (Ap 19, 11-16).
Nel terzo cerchio infernale, di fronte a Cerbero che “le bocche aperse e mostrocci le sanne”, Virgilio “distese le sue spanne” (le mani aperte e allargate dal pollice al mignolo: il termine concorda nel suono con il verbo “expandere”), “prese la terra, e con piene le pugna / la gittò dentro a le bramose canne” (Inf. VI, 22-27). A un esame superficiale sembrerebbe non esserci connessione logica tra il gesto del poeta pagano e l’allargare o distendere la Scrittura, con senso più pieno, non letteralmente coartato, come inteso nel Notabile XI del prologo. Ma si osservi un ulteriore confronto tra l’effetto del gesto di Virgilio (l’ammansire Cerbero dandogli in pasto la terra) e l’esegesi di Ap 12, 16.
Nella quarta visione apocalittica (articolata in sette guerre sostenute dalla Chiesa), la terza guerra (contro gli eretici) e la quarta (contro l’abbondanza dei beni temporali) concorrono insieme nel tempo (da Costantino a Giustiniano), come concorrono terzo stato (dei dottori, che confutano le eresie e i vizi con la ragione e con la spada) e quarto (degli anacoreti, dalla santa vita segnata dal “pastus” contemplativo), entrambi stati di solare sapienza, concorrenti e non coincidenti come il potere imperiale e quello spirituale, assimilati alle due ali della grande aquila date alla donna (la Chiesa) contro la quale il serpente opera una duplice persecuzione: “Allora il serpente emise dalla sua bocca come un fiume d’acqua dietro alla donna, per farla travolgere dalle acque” (Ap 12, 15). Con l’acqua serpentina viene infatti indicata sia la dottrina erronea (nella terza guerra diretta contro la sincera e sana dottrina dei santi dottori) sia la copiosa e voluttuosa affluenza dei beni temporali, che con Costantino cominciarono a essere dati in offerta alla Chiesa sotto l’apparenza del vero e del bene quasi fossero in suo ossequio (nella quarta guerra condotta contro l’austera e povera vita dei santi anacoreti). Ma “la terra venne in aiuto della donna, aprì la sua bocca e inghiottì il fiume” (Ap 12, 16). Secondo Gioacchino da Fiore, la terra designa il complesso degli uomini peccatori i quali, assorbendo le eresie o i beni temporali, aiutarono la Chiesa in quanto i buoni, di fronte alle gravi cadute dei reprobi, divennero più discreti, cauti e zelanti: la caduta di alcuni scuote infatti di timore gli altri, che cercano di evitare di cadere nella medesima colpa di cui i reprobi sono accusati. Secondo Riccardo di San Vittore, l’unione di quanti sono perfetti e stabili nella fede è la terra umile e solida che prega all’unisono contro le tentazioni del diavolo e così con la bocca quasi assorbe o distrugge il fiume. Questa interpretazione del Vittorino è vestita con l’immagine della Terra che devota prega perché Giove intervenga sul carro del Sole ‘sviato’ da Fetonte (fattosi eretico, Purg. XXIX, 118-120). E non solo di eresia si tratta, perché la quarta guerra è condotta per mezzo delle ricchezze: le due guerre si rispecchieranno, tre canti più avanti, nella volpe e nella “piuma” lasciata dall’aquila, “offerta / forse con intenzion sana e benigna” (Purg. XXXII, 118-120, 124-129, 137-138) [1].
I fili relativi all’esegesi di Ap 12, 16 hanno lasciato altra traccia nell’atto di Virgilio che, di fronte alle bocche aperte di Cerbero, “distese le sue spanne, / prese la terra, e con piene le pugna / la gittò dentro a le bramose canne”: al gesto le facce lorde del demonio si racquietano come quella di un cane tutto inteso e affaticato nel divorare il pasto per il quale ha prima abbaiato (Inf. VI, 25-33). Il gesto di Virgilio riecheggia certo quello della Sibilla che getta nelle gole di Cerbero una focaccia di miele soporifera (Aen. VI, 417-425), ma il prendere la terra da parte del poeta pagano e la similitudine del cane sono immagini che trasformano in poesia, parodiandola, l’altra interpretazione data da Riccardo di San Vittore, secondo il quale la terra, cioè la moltitudine terrena di quanti assorbono le tentazioni, aiutò la Chiesa perché il diavolo, impegnato a tentare, ad attrarre e conservare a sé quella moltitudine, poté dedicarsi meno a tentare gli eletti, che nel caso sono Virgilio e Dante. Al Cerbero virgiliano viene dato un cibo dolcemente soporifero, al “demonio Cerbero” il frutto delle tentazioni e del peccato, cioè la terra che “pute” nel ricevere la “piova / etterna, maladetta, fredda e greve” che ha percosso i dannati.
A questo punto può essere data una spiegazione del gesto per cui Virgilio “distese le sue spanne”, operando “con piene le pugna”. Nel Notabile XI del prologo la mano distesa designa l’estendersi della Scrittura oltre le sue proprietà letterali, e cioè la possibilità che le sue figure vengano appropriate, parzialmente o totalmente, ad altri tempi, come spiegato in relazione alle visioni apocalittiche. Dunque Virgilio estende la sua ‘Scrittura’, l’Eneide, ad altro tempo e ad altro viaggio in un nuovo “poema sacro”.
Conseguentemente, grande valore assume l’espressione dello stesso Virgilio – “La mia scrittura è piana” (Purg. VI, 34) – sul fatto che non ci sia contraddizione tra la preghiera un tempo disgiunta da Dio e l’odierno “foco d’amor”, che consente invece alla preghiera di soddisfare “in un punto” la colpa abbreviando le pene delle anime purganti. L’antico poeta non intende soltanto dire: ‘il mio testo scritto’, bensì, quasi dicesse: ‘quel che scrissi, che è anch’essa Scrittura antica da concordare con la nuova’. Di fronte all’angelica favella di Beatrice, “soave e piana” (Inf. II, 56-57), l’alta tragedia si è fatta, convertendosi, “sermo humilis”. La Sibilla poteva dire all’insepolto Palinuro, che chiedeva di essere traghettato: “desine fata deum flecti sperare precando” (Aen. VI, 376); ora è possibile piegare i decreti divini, tanto più che perfino in cielo, come dimostra il caso di Dante stesso, c’è chi “duro giudicio là sù frange” (Inf. II, 94-96).

■ Appena vede Virgilio e Dante, Ciacco si drizza subitamente a sedere, quasi rapito (Inf. VI, 37-39; Ap 12, 4). L’Inferno è il luogo della durezza lapidea, dell’impetrarsi, del parlare duro di cose dure a dirsi, del duro giudizio, del senso duro della scritta al sommo della porta, dei duri lamenti, dei duri demoni, dei duri veli del gelo, della gravezza. Far parlare liberamente, per dettato interiore, quasi invitando a un convivio spirituale e rompendo, per quanto dura il parlare, la vecchia roccia infernale, corrisponde alla poetica di Dante che nasce per interno dettato e ispirazione d’Amore, dietro al quale il poeta si tiene stretto come alla sua regola. Così i dannati vengono con desiderio e volontario consenso, con “disio” e con “velle”, e varcano questa ideale porta aperta al parlare (come quella data a Filadelfia, la sesta chiesa d’Asia: Ap 3, 8) in una pausa di pace dalle passioni umane che si perpetuano nell’eterna dannazione. All’“affettüoso grido” del poeta le ombre di Francesca e Paolo vengono “dal voler portate” verso un momento di mutazione, sebbene limitata al successivo colloquio. Tutto l’Inferno è un contrappunto tra la durezza del giudizio eterno e l’attimo in cui la parola, quasi frangendo il giudizio, sospende la pena. Un’apertura che si esprime in varie forme: muoversi sospirando nel Farinata prima immobile, ‘crollarsi’ quasi per terremoto interiore dello ‘schivo’ Ulisse, convertirsi del vento in voce in Guido da Montefeltro, tornare indietro nel cammino assegnato o separarsi dai compagni di pena, essere sforzati a parlare anche malvolentieri, non poterlo negare o mostrare fretta di farlo, arrestarsi obliando il martirio, levarsi per poi ricadere, sollevarsi da atti bestiali per ritornare ad essi dopo aver parlato, come nel conte Ugolino. In tante lingue, che parlano come per sé stesse mosse, sta un solo desiderio, il vivere ancora nel libro della vita che è stato aperto a Dante e che questi trascrive nel corso del suo viaggio.

■ Ciacco è per noi un personaggio sconosciuto, ed è risultato finora vano ogni tentativo di identificazione. Era però a tutti notissimo (“Voi cittadini mi chiamaste Ciacco”) e conosceva bene Dante (che riconosce subito senz’altra mediazione, come avverrà, nel cerchio dei sodomiti, con Brunetto Latini; si tratta di un’agnizione per lettura nel libro della vita: Ap 20, 12). È questo un segno di quanto siano carenti le notizie necessarie allo storico per considerare nella giusta prospettiva personaggi e fatti del poema, e anche per valutare l’importanza delle frequentazioni e delle letture di Dante. Il confronto tra la Commedia e la Lectura super Apocalipsim, tra l’ipertesto e l’ipotesto oggetto della parodia, illumina personaggi che oggi appaiono sbiaditi, facendo rivivere quella parte di poesia che, secondo De Sanctis, è morta alla nostra comprensione e che non è più possibile disseppellire.
Alla vista dell’“angoscia” di Ciacco (non solo per la pena fisica, ma anche per l’“angustia spiritus”), la memoria di Dante sembra venir meno, quasi che la pietà tornasse a tentarlo, ma poi, quando l’interlocutore tocca della città di entrambi, Firenze, il desiderio di lacrimare per l’affanno del dannato è vinto dal desiderio di conoscere razionalmente gli eventi futuri (che condurranno Dante all’esilio, nel 1302) e le loro cause.
Firenze entra così nel poema. Quella che nella Vita Nova era stata la “città dolente” per la morte di Beatrice è ora la “città partita”, divisa in fazioni, da “tanta discordia assalita” (Inf. VI, 61-63). A Firenze sono parodicamente appropriate le divisioni interne della Chiesa delle quali si dice ad Ap 16, 19. Le parole di Ciacco (vv. 64-72) sono equidistanti dai partiti, i Bianchi e i Neri, che “verranno al sangue” (a partire dall’episodio del calendimaggio 1300: Ap 16, 3-4) sovrastandosi reciprocamente, i Bianchi cacciando gli altri, imponendo i Neri “gravi pesi” sugli avversari (Ap 2, 24). Entrambe le parti sono accomunate nella condanna, in un crescendo di gravità nella definizione delle cause. Queste sono additate prima nell’invidia (vv. 49-50; a causa dell’invidia la lupa, cioè la cupidigia, ha lasciato l’inferno per il mondo umano, cfr. Inf. I, 111; l’invidia provocò il primo omicidio, di Abele da parte di Caino, cfr. Purg. XIV, 133), poi ancora: “superbia, invidia e avarizia sono / le tre faville c’hanno i cuori accesi” (Inf. VI, 74-75). Tutti i tre più gravi peccati capitali cooperano alle divisioni di Firenze, e ne sono concausa. Un particolare fatto cittadino viene elevato a modello di male universale, e questa è una caratteristica del modo tenuto dai grandi profeti, Isaia o Ezechiele, nell’Antico Testamento e da Cristo nel Nuovo (cfr. Ap 13, 1). Così ancora il poeta dirà della fama di Firenze che “si spande” per tutto l’inferno (Inf. XXVI, 1-3), o che la sua città “è pianta” di Lucifero (Par. IX, 127-128).
L’equidistanza di Ciacco dalle parti è quella di Dante, che nel corso del viaggio si sentirà dire, da Brunetto Latini e da Cacciaguida, che è bene star lontano da entrambe, e in particolare dalla propria, cioè dai Bianchi (i quali, sconfitti alla Lastra nel 1304, perderanno definitivamente la speranza di rientrare a Firenze). Brunetto, anzi, definisce Dante la sola pianta rimasta a Firenze della “sementa santa” dei Romani (che colonizzarono Fiesole; Inf. XV, 73-78). Una romanità da intendere non tanto nel senso di ascendenza nobiliare del poeta, bensì del primato della lingua, che fu il latino e ora è il nuovo volgare. In questa prospettiva si colloca la simmetria fra i ‘canti sesti’ della Commedia, questo della prima cantica con il sesto del Purgatorio (ov’è il lamento sulla “serva Italia, di dolore ostello”, nella quale “l’un l’altro si rode / di quei ch’un muro e una fossa serra”) e il sesto del Paradiso (con la rassegna delle imprese dell’aquila, cioè della storia di Roma, fatta dall’imperatore Giustiniano in una contestuale condanna di ogni fazione, guelfa o ghibellina). “Sesto” è il libro dell’Eneide dove è descritta la discesa di Enea agli inferi per apprendervi cose sulla futura grandezza di Roma, impresa ardua riservata a pochi diletti dagli dèi. “Sesto” è Dante “tra cotanto senno”, accolto nella schiera dei grandi poeti del Limbo (Inf. IV, 100-102). “Sesto” è anche, secondo la teologia della storia di Olivi, il periodo della Chiesa in cui a pochi diletti da Dio e segnati alla sua milizia viene data la maggiore illuminazione possibile dei disegni della provvidenza, dopo che essi hanno sostenuto le prove e le tentazioni degli ultimi tempi, in cui la Chiesa combatte contro l’Anticristo. A queste lotte farà seguito un periodo di quiete e di generale rinnovamento del mondo. L’attesa di questa nuova età, di riforma della Chiesa e degli individui, fu vivissima nella coscienza di Dante e dei suoi contemporanei (il 1300 è l’anno del primo giubileo), quasi si rinnovasse l’età dell’oro cantata da Virgilio nella quarta egloga.  Da siffatto punto di vista, il piano religioso e il piano politico (riguardi questo la città, l’Italia o l’Impero) non sono in Dante distinguibili; le divisioni fra le fazioni sono assimilate alle divisioni intestine della Chiesa, e assumono un valore di storia sacra.
Nelle parole di Ciacco è la prima, indiretta citazione di papa Bonifacio VIII: “tal che testé piaggia” aiutando i Neri (Inf. VI, 69), cioè si barcamena con l’ipocrisia tipica del politico, inviando nel novembre 1301 come ‘paciaro’ a Firenze Carlo di Valois, il fratello del re di Francia Filippo il Bello, apparentemente “sanz’arme”, ma in realtà perfida locusta pungente “con la lancia / con la qual giostrò Giuda, e quella ponta / sì, ch’a Fiorenza fa scoppiar la pancia” della città, come amaramente riconosciuto dal capostipite Ugo Capeto (Purg. XX, 73-75).
Il tema della seconda bestia apocalittica, che sale dalla terra (da identificare, secondo Gioacchino da Fiore, con il settimo re di Ap 17, 10 o con il falso papa), sorge e prevale non con la sua forza, ma con quella della prima bestia, che sale dal mare (il sesto monarca o l’undicesimo corno della quarta bestia in Daniele 8, 9-10, 23-24), tema sviluppato ad Ap 13, 1 e 13, 11 (cfr. anche l’esegesi ad Ap 9, 13), è utilizzato nelle parole di Ciacco sulle future lotte tra le fazioni di Firenze, “città partita”: i Neri prenderanno il sopravvento sui Bianchi “con la forza di tal che testé piaggia”, cioè con l’aiuto di Bonifacio VIII (Inf. VI, 67-69). La situazione appare a prima vista rovesciata rispetto all’esegesi, dove è il falso papa a ricevere forza dal monarca che lo fa adorare come Dio: è però pure detto che il re della prima bestia viene aiutato dal falso papa nel conseguimento del dominio universale. Il ‘sormontare’ dei Neri corrisponde all’“ascendere” delle due bestie “in altum dominium et in publicum effectum et statum”. Il ‘piaggiare’ del simoniaco Bonifacio VIII, cioè il destreggiarsi tra le fazioni nascondendo le proprie vere intenzioni e simpatie, è qualità che si ritrova nel re sfacciato (“impudens facie”) e intrigante (“intelligens propositiones”) della visione di Daniele (la prerogativa vale anche per Clemente V: cfr. Par. XXX, 142-144).
Le parole di Ciacco sono premessa alle ben più gravi accuse nei confronti di Bonifacio VIII nei canti successivi, “lo principe d’i novi Farisei” (Inf. XXVII, 85) che simoneggiando non temette “tòrre a ’inganno / la bella donna, e poi di farne strazio” (Inf. XIX, 55-57). Bisogna peraltro sottolineare che tali accuse colpiscono l’indegnità morale del papa Caetani, non l’istituzione papale, come dimostra, sempre nelle parole di Ugo Capeto, l’assimilazione delle violenze perpetrate ad Anagni dagli inviati del re di Francia (1303) a un nuovo calvario di Cristo (Purg. XX, 85-90). In altri termini, anche se nel giudizio degli uomini Bonifacio VIII è legittimo papa, è indegno di questo officio nel giudizio divino, per cui san Pietro in persona può dire che la sede è vacante (Par. XXVII, 22-24). Ma l’offesa al vicario di Cristo, per indegno che sia, è offesa fatta a tutta la Chiesa, anche se il papato ideale per Dante è quello “di Lin … Cleto … e Sisto e Pïo e Calisto e Urbano”, martiri non usi “ad acquisto d’oro”, come asserisce il principe degli apostoli (vv. 40-45).
Ciacco afferma che a Firenze “giusti son due, e non vi sono intesi” (Inf. VI, 73). Il parlare profetico è volutamente generico, anche se è probabilmente memore dei due testimoni uccisi dalla bestia che sale dall’abisso nella città, grande un tempo per la giustizia e poi per la sua malvagità, di cui si dice nell’Apocalisse (11, 3-10; la città è Gerusalemme, dove Cristo fu crocifisso). Se è questo il riferimento, i due “giusti” sono due ingiustamente esiliati. Uno sarebbe Dante stesso (condannato il 27 gennaio 1302 al confino e il 10 marzo a morte); l’altro potrebbe essere il suo amico poeta, Guido Cavalcanti, esiliato nel maggio 1300, quando Dante ricopriva la carica di priore, per poi rientrare malato e morire poco dopo.
Dante desidera ardentemente vedere Farinata degli Uberti, insieme ad altri cittadini di Firenze che ritiene “sì degni”, e che invece, come gli riferisce Ciacco, “son tra l’anime più nere” (Inf. VI, 79-87). Vengono così coinvolte le generazioni precedenti, e di entrambi gli schieramenti, dal ghibellino Farinata, che difese “a viso aperto” Firenze dalla distruzione decretata dopo la battaglia di Montaperti (1260) e che ora è dannato come eresiarca epicureo, ai guelfi Tegghiaio Aldobrandi e Iacopo Rusticucci che stanno sotto la pioggia di fuoco coi sodomiti, fino al Mosca dei Lamberti, che dicendo “Capo ha cosa fatta” decretò l’assassinio di Buondelmonte (1216) e l’inizio della divisione fra guelfi e ghibellini, come da lui stesso dichiarato nella bolgia che punisce i seminatori di scandalo e di scisma (Inf. XXVIII, 103-108). Sui dissidi della propria generazione Dante fa così ricadere tutto il male precedente, in modo non dissimile da Cristo, che attribuisce tutti i mali provenienti da ogni generazione di reprobi alla particolare malvagia generazione dei reprobi Giudei del suo tempo, sulla quale ricade, come l’acqua di un fiume che scorre, tutto il sangue versato dal tempo di Abele il giusto (Matteo 23, 35-36: “ut veniat super vos omnis sanguis iustus … Dopo lunga tencione / verranno al sangue” (vv. 64-65): cfr. Ap 17, 6). Come sentenzierà Giustiniano, condannando sia guelfi come ghibellini, “Molte fiate già pianser li figli / per la colpa del padre” (Par. VI, 109-110).
Il contrasto, in Dante, tra il rispetto per l’operato di alcuni suoi grandi concittadini e la miseria eterna nella quale sono caduti si ripercuote in un atteggiamento costante verso la sua città: da una parte la bersaglia con fieri rimproveri, dall’altra ne idealizza il passato di eletta e diletta città (“bello ovile”, “bello viver di cittadini”, il “mio bel San Giovanni”). È un segno di come, nell’amarezza dell’esilio, il poeta sempre ami un’idea della sua Firenze, patria di degni cittadini “ch’a ben far puoser li ’ngegni”. Come sarebbe stato un giorno per Savonarola, che ne fustigò i vizi, Firenze è l’eletta e diletta città, nuova Gerusalemme santa e pacifica. Nella “Fiorenza dentro da la cerchia antica”, la campana della chiesa di Badia suonando “e terza e nona” segnava l’entrata e l’uscita dei lavoranti delle arti (Par. XV, 97-98), come l’angelo con la canna d’oro regola l’ingresso e uscita dalla città celeste (Ap 21, 15).

■ Lo sguardo, che Ciacco ha mantenuto ‘dritto’ nel corso del colloquio con Dante, si fa ora ‘torto’ e ‘bieco’, cioè obliquo (Inf. VI, 91-93). La parola, che con il suo spontaneo aprirsi al passaggio del poeta, aveva dato adito alla rettitudine, cioè a un giusto ed equilibrato discorso, razionalmente equidistante da entrambi i partiti, ora cessa. Ciacco, dice Virgilio, non si riprenderà più fino al giudizio universale (vv. 94-96). Ciò significa che, fino alla fine dei tempi, nessuno farà più un viaggio simile a quello di Dante, capace con la poesia di destare i morti.
Subentra poi la prima delle questioni teologiche poste nel poema, che assumeranno importanza crescente nel corso del viaggio ultraterreno, fino al loro massimo sviluppo nel Paradiso. Dante chiede se le pene dei dannati dopo il giudizio universale saranno maggiori, minori o uguali a quelle attuali. Virgilio risponde che con la resurrezione della carne anche i dannati assumeranno maggiore perfezione (per quanto questa sia da intendere relativamente rispetto a quella dei beati), e che pertanto le pene saranno maggiori (Inf. VI, 103-111). I dannati, per intima tensione in loro immessa da Dio, attendono quel momento come lo desiderassero. Non diversamente si era esplicata questa volontà dei dannati, che si fa una con la giustizia divina che muove occultamente i reprobi ai suoi fini, nel passaggio dell’Acheronte: “e pronti sono a trapassar lo rio, / ché la divina giustizia li sprona, / sì che la tema si volve in disio” (Inf. III, 124-126).
Da notare che la risposta di Virgilio si fonda sull’Etica Nicomachea di Aristotele, per cui quanto l’essere umano è più perfetto tanto maggiormente sente il piacere o il dolore. Il “maestro di color che sanno” è dannato nel primo cerchio (per quanto onorato tra gli “spiriti magni” che albergano nel “nobile castello” del Limbo), ma la sua dottrina sopravvive e accompagna Dante per tutto il viaggio. Ciò apre una questione che al poeta sta molto a cuore, quella della salvezza dei giusti pagani i quali, senza colpa, non conobbero Dio. Questione apparentemente insolubile, perché tocca l’occulta prescienza divina, che sola sa dei salvati. Tuttavia, la presenza nel Limbo all’arrivo di Dante di genti giuste, antiche (prima del Cristianesimo) e ‘moderne’ (i maomettani Avicenna, Averroè e il Saladino), come alla discesa di Cristo vi stavano i padri e i profeti dell’Antico Testamento (e anche Catone), che furono di lì strappati e fatti beati, sembra indicare che il processo della Redenzione è ancora aperto e guarda a una nuova età di palingenesi e di conversione universale come a un nuovo avvento di Cristo nello spirito, che nel caso di Dante si realizza nella poesia. 

■ Inferno VI è anche il primo canto del poema in cui si impone, attraverso la realistica evidenza del linguaggio, lo stile comico, quello cioè che è medio tra l’alto stile tragico (proprio dell’epica) e gli stili inferiori (in cui si colloca ad esempio l’elegia). Uno stile che, proprio perché è medio, comprende tutti gli altri, e di essi si serve secondo le esigenze. Si esprime in una nuova lingua volgare per chiunque, dotti e illetterati, debitrice del latino medievale, e in particolare di quello usato nei commenti alla Bibbia, universale quanto l’antico ma più “umile”, cioè adatto a tutti. Proprio dalla sua intimità con il latino deriva l’universalità della poesia di Dante, per cui a Thomas Stearns Eliot parve di poter leggere con facilità la Commedia anche senza capire l’italiano. Nel nuovo volgare trova posto l’eloquio illustre e insieme, per dirla con il Machiavelli del Discorso intorno alla nostra lingua, il “goffo”, il “porco”, l’“osceno”. Non ne sono esclusi i vocaboli puerilia, muliebria, silvestria, urbana lubrica et reburra rifiutati per il volgare illustre (De vulgari eloquentia, II, vii, 4), non i brutti fiorentinismi municipali (cfr. ibid., I, xiii, 2), perché tutto, secondo convenienza, può avere dignità di storia sacra, anche nella città dei reprobi.           

■ Collocato dopo il canto di Paolo e Francesca, Inf. VI è stato sempre considerato dagli interpreti, anche per la sua brevità (con 115 versi è, insieme a Inf. XI, il più corto del poema), un canto secondario e di raccordo, per non dire di minore poesia a causa dei suoi temi politici e teologici. Ciò anche in base all’errata impostazione di quanti crocianamente separano nel poema poesia e struttura, poesia e romanzo teologico-politico. La Commedia è “poema sacro” per intero dove teologia, filosofia e politica costituiscono la materia trasformata dalla poesia. In tale contesto, l’allegoria, cioè la figura retorica per cui esiste un significato diverso da quello letterale, non è più solo un’astratta finzione poetica, cioè un’immagine sotto la quale si nasconde una verità morale da insegnare. Ha invece soprattutto un valore concreto, che consiste nel vedere gli eventi e i personaggi contemporanei, che sono l’esperienza vissuta dal poeta, come anticipati nel passato da altri eventi e personaggi, storici o mitologici, incontrati nel corso del viaggio.
Nel porsi come parodia della Lectura oliviana, la Commedia mostra un ordine interno diverso da quello che appare al lettore: il viaggio di Dante ha un andamento di ciclici settenari, che corrispondono ai sette stati o periodi della storia della Chiesa, cioè alle categorie con cui l’Olivi organizza la materia esegetica. Questo ordine interno è registrabile per zone progressive del poema dove prevale, tramite le parole-chiave, la semantica riferibile a un singolo stato. È un ordine dirompente i confini letterali stabiliti dai canti e da tutte le divisioni materiali per cerchi, gironi, cieli. Ogni stato, che ha differenti inizi, è concatenato per concurrentia, come le maglie di un’armatura, con quello che precede e con quello che segue. I temi propri di ogni stato, cioè le loro prerogative, sono applicabili agli individui di ogni periodo storico e ricadono in più alta misura nel sesto stato, l’età del rinnovamento del mondo per lo Spirito di Cristo che detta interiormente ai suoi discepoli, nuovi san Giovanni inviati a convertire infedeli e fedeli come scritto nell’Apocalisse (Ap 10, 11). Si possono in tal modo redigere mappe che comprendano l’ordine spirituale della Commedia. La ricerca, collocata su un sito per sfruttare gli spazi offerti dalla rete, è pervenuta a una Topografia spirituale della Commedia, dove per quasi ogni verso, o gruppo di versi, collegamenti ipertestuali conducono al “panno” esegetico fornito dalla Lectura super Apocalipsim, sul quale il “buon sartore” ha fatto “la gonna” (cfr. Par. XXXII, 139-141).
Dopo che nel quinto canto dell’Inferno sono stati sviluppati, con i lussuriosi, numerosi temi del secondo stato, proprio dei martiri (nel senso che all’antico martirio corporale subentra il moderno martirio psicologico), nel sesto sono quelli del terzo periodo a fasciare i golosi.
Il terzo stato è proprio dei dottori della Chiesa, che confutano le eresie. Con esso concorre il quarto stato, proprio delle vergini e dei solitari e contemplativi anacoreti (prologo, Notabile X). La concorrenza è nel tempo, poiché il terzo stato inizia con la conversione di Costantino o con il Concilio di Nicea (325), allorché già fiorisce in Egitto e in Oriente la vita solitaria, mentre il quarto stato raggiunge l’acme sotto l’impero di Giustiniano (527-565), quando l’eresia è ancora presente. Ma, in questo caso, concurrentia significa soprattutto complementarità nei fini. Nel terzo e nel quarto stato ragione e fede espansa, lume di dottrina e santità di vita, intelletto e affetto, senso morale (designato dalla figura umana) e senso anagogico (designato dall’aquila, che vola sopra gli altri), legge e offici sacri, spada e pasto spirituale, Mosè e David, rispettivamente concorrono a infiammare, per diverse strade, il meriggio dell’orbe già cristianizzato e radicato nella fede. Sono entrambi due stati di solare sapienza, prefigurati dalla creazione, nel terzo giorno, della terra separata dalle acque e adatta all’abitazione dell’uomo e, nel quarto, dei “luminaria celi” (prologo, Notabile XIII). Vengono designati con le due ali della grande aquila date alla donna (la Vergine, la Chiesa dei contemplativi o il corpo mistico di Cristo) per volare nel deserto delle genti, luogo per lei preparato: queste due ali sono anche il potere temporale o imperiale e quello spirituale, stabiliti da Dio nella stessa sede, Roma (ad Ap 12, 14; 4, 3).
Corrispondono, fra le età dell’uomo, l’uno all’adolescenza leggera e agitata dal vento dell’errore, l’altro all’età matura e pertinace nel suo stare; fra i sacramenti, al sacerdozio e al pasto eucaristico (prologo, Notabili III, XIII).
Conseguono la propria vittoria ascendendo. I dottori del terzo stato con la discrezione che nasce dall’esperienza, per cui vanno oltre l’immaginazione fondata sui sensi e causa dell’erronea fantasia (Ap 2, 17). Gli anacoreti del quarto stato con il “vittorioso effetto”, per essere operosi che mai distolgono le forze del corpo e della mente dal fine di conseguire la virtù, che frantuma i vizi, e la scienza contemplativa; che fanno fruttare l’unico talento dato, cioè il dono della scienza, che patiscono l’affanno fino alla fine (Ap 2, 26-28).
Nella terza età del mondo avvenne la confusione babelica, e l’unica e vera lingua rimase nella casa di Eber e poi in quella di Abramo; quindi Mosè sconfisse gli scismatici e diede la legge al popolo di Dio. Nel terzo stato della Chiesa subentrò la confusione ereticale condannata dai decreti ecclesiastici; la vera lingua (cioè il vero culto) rimase nella casa di Pietro. Con David, nella quarta età, venne riportata l’arca a Gerusalemme e stabilito nel corso di una pestilenza il luogo del Tempio, sul monte Moria; con Gregorio Magno, nel quarto stato della Chiesa, cessò a Roma la peste apparendo un angelo nell’atto di riporre la spada nel fodero “in loco qui adhuc Rome castrum sancti angeli appellatur”, venne riportata a Roma l’arca del culto divino e ordinato in modo più solenne l’officio ecclesiastico (prologo, Notabile XIII).
La terza guerra, sostenuta dalla donna, alla quale sono date le due ali della grande aquila, è contro le eresie, in particolare contro quella ariana; concorre con la quarta guerra, contro l’ipocrisia che deriva dalle ricchezze date alla Chiesa dai tempi di Costantino, “sub quadam specie veri et boni et quasi in obsequium ecclesie” (Ap 12, 13-16). Entrambi i conflitti sono prefigurati dalle antiche guerre contro i Siri e i Filistei, quando dieci tribù si separarono da Giuda, e poi contro gli Assiri, allorché le dieci tribù furono asservite e devastata la stessa tribù di Giuda, come nel nuovo tempo i Saraceni distrussero le Chiese orientali, dove fiorivano gli anacoreti orgogliosi della loro alta vita, ma ardua, alla lunga insostenibile a causa della fragilità umana e degenerata in ipocrisia, e devastarono la Chiesa latina, assimilata alla tribù di Giuda.
A Pergamo, la chiesa dei dottori alla quale è data la spada a doppio taglio che scinde con la ragione gli opposti errori (Ap 2, 12-17), corrisponde Tiatira, la chiesa degli anacoreti, infiammata negli affetti, ripresa perché il suo vescovo non allontana Gezabele, la falsa e ipocrita profetessa (non quella antica, ma simile in potenza e simulazione; Ap 2, 18-29).
All’apertura del terzo sigillo (Ap 6, 5-6) appare un cavallo nero (l’astuzia dell’errore ereticale) con in mano una bilancia (la retta o distorta misurazione della Scrittura); all’apertura del quarto (Ap 6, 7-8) un cavallo pallido (il languore della morte indotto dai Saraceni, inceneritori delle superbe chiese orientali).
I dottori, che contemperano secondo le circostanze i quattro sensi della Scrittura, sono fiumi e fonti, ma per l’errore molti muoiono a causa delle acque (Ap 8, 11), che al versamento della terza coppa si fanno sangue (Ap 16, 4-7). La terza tromba suona contro la scienza curiosa ed erronea, che non è scienza “de veris et de utilibus, seu de prudentia regitiva actionum et de scientia speculativa divinorum” (Ap 8, 10-11); la quarta (Ap 8, 12-13), nell’oscurare un terzo del sole, della luna, delle stelle, del giorno e della notte, suona contro il voler vedere troppo (Ap 2, 1), l’eccesso di contemplazione che provoca ipocrisia e degenera nel caldo dell’ira e della rissa, per cui la quarta coppa viene versata sul sole provocando l’estuare degli uomini (Ap 16, 8-9).
L’antico è immagine figurale del moderno. Cerbero, nel graffiare, scuoiare e squartare i peccatori, è figura che anticipa il colloquio tra Dante e Ciacco sulle divisioni politiche fiorentine. Il tema del tagliare, dividere, rompere o scindere lo si ritrova in altre zone del poema, quasi fosse un motivo dall’andamento interno, sotterraneo e insieme ciclico. Nella prima cantica, torna in evidenza nella selva dei suicidi, la cui anima feroce si è divisa dal corpo (Inf. XIII); nella terza bolgia dei simoniaci, che hanno straziato la “bella donna”, cioè la Chiesa (Inf. XIX); nella nona dei seminatori di scandalo e di scisma, dove sta anche il Mosca che fu causa delle discordie fiorentine (Inf. XXVIII); in Lucifero che con ognuna delle sue tre bocche “dirompea co’ denti / un peccatore, a guisa di maciulla” e, per maggior pena, graffia Giuda che pende dalla bocca anteriore scorticandogli il dorso, mentre gli altri due traditori sono gli assassini di Cesare, Bruto e Cassio (Inf. XXXIV, 55-67). Questo dividere in sostanza l’uomo, nei suoi vari aspetti, da Dio e dalla sua giustizia è assimilabile alle eresie, che divisero l’umanità di Dio dalla sua divinità, degradando la prima o confondendola con la seconda, come quelle di Ario e di Sabellio, i quali, secondo quanto dice Tommaso d’Aquino nel cielo del Sole, “furon come spade a le Scritture / in render torti li diritti volti” (Par. XIII, 127-129).
Non a caso, pertanto, i luoghi dell’Inferno che trattano di divisioni esprimono una semantica parodistica dei motivi propri del terzo stato, nel quale i dottori confutano le eresie che dividono la Chiesa. Lo si registra in Inferno VI, dove questi motivi prevalgono. Cristo si presenta a Pergamo, la terza chiesa d’Asia, come colui che possiede la “rumphea”, cioè la spada a doppio taglio (Ap 2, 12) che incide, scinde e taglia gli opposti errori di Ario e Sabellio. Le qualità sono trasferite su Cerbero (v. 18) [2], mentre i dannati sotto la pioggia “de l’un de’ lati fanno a l’altro schermo” e “volgonsi spesso” (vv. 20-21), quasi incarnazione della perpetua mobilità tra anime e corpi, nello stato di gloria o in quello infernale, nelle continue rivoluzioni sostenute dall’eretico Origene, mentre anche Cerbero (v. 24) “non avea membro che tenesse fermo” (Ap 8, 10: terza tromba). Dall’esegesi del terzo sigillo (il cavallo nero, Ap 6, 5) provengono “l’aere tenebroso” (v. 11), “la barba … atra” di Cerbero (v. 16), “l’anime più nere” (v. 85), nonché le variazioni sui temi del peso della dritta o torta statera (l’interpretazione della Scrittura, vv. 50, 59, 71, 91). La terra che riceve “grandine grossa, acqua tinta e neve” (vv. 10-12), come pure quella gettata da Virgilio nelle “bramose canne” di Cerbero (vv. 25-27), trasforma l’esegesi di Ap 12, 16 (terza e quarta guerra, concorrenti; cfr. supra). “Farinata e ’l Tegghiaio, che fuor sì degni, / Iacopo Rusticucci, Arrigo e ’l Mosca / e li altri ch’a ben far puoser li ’ngegni”, dei quali il poeta chiede a Ciacco se siano beati o dannati, sono parodia di Origene, “stella grande e ardente come una fiaccola” poi caduta (Ap 8, 10: terza tromba), come conferma la risposta del fiorentino goloso: “Ei son tra l’anime più nere; / diverse colpe giù li grava al fondo” (vv. 79-87). Altri temi del terzo stato sono il suono e la tromba (vv. 76, 95; prologo, Notabile I); la ricerca razionale delle cause (vv. 62, 77; prologo, Notabile XIII).

* Lettura tenuta il 19 gennaio 2009 presso il  Liceo Classico “G. Pantaleo” – Liceo Scienze Umane “Giovanni Gentile” di Castelvetrano. Aggiornata, sono stati aggiunti i riferimenti alla Lectura super Apocalipsim con i relativi collegamenti ipertestuali.

[1] L’aiutare da parte della terra potrebbe pure ritrovarsi nel gridare “Buon Vulcano, aiuta, aiuta!” da parte di Giove impegnato nella battaglia di Flegra contro i giganti i quali, come i Ciclopi che lavoravano “in Mongibello a la focina negra”, erano “i figli de la terra” (Inf. XIV, 55-57; cfr. XXXI, 121). La terra ‘aiutò’ il cielo non inviando Anteo ai campi di Flegra, come ricordato da Lucano (Phars. IV, 596-597).

[2] L’atteggiamento di Cerbero – “graffia li spirti ed iscoia ed isquatra” (Inf. VI, 18) -, in quanto parodia del presentarsi di Cristo a Pergamo, la terza chiesa d’Asia (Ap 2, 12), esclude, per quanto largamente attestata dalla tradizione, la lezione ingoia al posto di iscoia. Nell’esegesi non si registra infatti l’ingoiare, mentre da essa sono trasferibili il graffiare, lo scuoiare e lo squartare. «“Hec dicit qui habet rumpheam”, id est spatam, “ex utraque parte acutam”. … ingerit se ut terribilem confutatorem et condempnatorem ipsorum per incisivam doctrinam et condempnativam sententiam oris sui. Dicit autem “ex utraque parte”, non solum quia absque acceptione personarum omnia vitia scindit et resecat …». Si noti, inoltre, la simmetria con Lucifero, al quale vengono appropriati verbi simili: dirompea, mordere, graffiar (Inf. XXXIV, 55-60), anch’essi, salvo il mordere, variazioni sui temi della terza chiesa. Lucifero, che è speculare a Cerbero per gli aspetti sopra ricordati, non ingoia i peccatori.

 

CANTO VII – IL QUARTO STATO

■ Nel sesto canto dell’Inferno la semantica prevalente elabora per i golosi temi del terzo stato della storia della Chiesa; nel settimo canto la descrizione degli avari e prodighi registra motivi del quarto, quella degli iracondi e degli accidiosi del quinto (che continuano e prevalgono nell’ottavo).

■ Temi del quarto stato sono già presenti in Inf. VI: vv. 13 (diversa: iv sigillo), 16.17 (occhi, mani: iv chiesa), 17 (ventre: iv chiesa), 26.30 (terra: iii-iv guerra), 29-30 (pasto: prol. not. iii), 54 (mi fiacco: iv sigillo), 70-71 (altegravi pesi: iv chiesa).

■ L’inizio di Inf. VII, con lo strano linguaggio di Pluto – “Pape Satàn, pape Satàn aleppe!” – , che esprime meraviglia e allusiva simulazione, appare fasciato dai temi del quarto stato, più precisamente della quarta chiesa (Ap 2, 23-24). Il confronto tra Pluto e Virgilio è un opporsi della dottrina di Cristo a quella di Satana: con il prevalere della prima cadono i vecchi precetti e le vecchie osservanze che con alta superbia il demonio Pluto vuole imporre. Così alla quarta chiesa Cristo dice che a chi non possiede la dottrina della falsa profetessa Gezabele e non ha conosciuto nell’affetto e nelle opere “l’altezza di Satana”, cioè l’alta superbia e la profonda malizia del diavolo, non imporrà altro peso, quello dei precetti, al modo con cui affermano o minacciano alcuni ingannatori o falsi apostoli della Giudea. Non imporre altro peso significa non pretendere l’osservanza della vecchia legge, nonostante essi dicano il contrario.
Il canto mette in versi la concorrenza tra il terzo e il quarto stato. Il terzo stato dei dottori “concorre” con il quarto degli anacoreti, è anzi il più evidente esempio del fenomeno per cui un periodo storico continua nel successivo, come questo ha radici nel precedente. La trattazione della terza e della quarta guerra (Ap 12, 13-16) avviene congiuntamente, e in essa alla donna, figura della Chiesa, vengono date due ali di una grande aquila, per combattere da una parte le eresie con il lume dei dottori, dall’altra l’affluenza dei beni temporali con la santità di vita degli anacoreti. Le cronache dimostrano la loro concorrenza. L’anacoreta Antonio e il dottore Atanasio fiorirono entrambi al tempo di Costantino. Ilario e Ambrogio furono contemporanei di Macario e di altri anacoreti. San Basilio, grande dottore, visse nello stesso periodo di Gregorio Nazianzeno, anch’egli grande dottore e autore di una regola monastica assai rigida. Così al tempo di Gregorio Magno molti furono gli austeri anacoreti. Come l’affetto presuppone la “notitia intellectus”, cioè la conoscenza, poiché non si può amare se non ciò che è già conosciuto, ma questa conoscenza non è santa senza un santo affetto, così il chiaro lume dei dottori precede l’esercizio degli affetti e la contemplazione degli anacoreti, ma non può essere chiaro senza l’eccellenza della vita propria di questi. Pertanto i due stati concorrono, con mutuo ossequio, a illuminare e infiammare l’orbe convertito nel mezzogiorno (prologo, Notabile X).
In Inf. VII, 53-54, a Dante che vorrebbe riconoscere qualcuno tra gli avari e i prodighi, Virgilio risponde che la “sconoscente vita che i fé sozzi, / ad ogne conoscenza or li fa bruni”: l’espressione “sconoscente vita”, cioè la vita priva del discernimento razionale, contiene in sé i motivi dell’intelletto e dell’affetto (la santa vita) propri rispettivamente dei dottori e degli anacoreti. Alle schiere degli avari e dei prodighi è assegnata una pena per cui percorrono, facendo rotolare pesi col petto, la metà del quarto cerchio fino al punto in cui cozzano insieme scambiandosi ingiurie, per poi tornare indietro a ripercuotersi nel punto diametralmente opposto. I due punti del cerchio, che distinguono la loro pena, segnano anche la concorrenza delle due schiere, quasi entrambe abbiano un solo orizzonte e diversi emisferi, situazione assimilabile alla posizione astronomica di Gerusalemme e della montagna del purgatorio, poste agli antipodi e nel mezzo di due emisferi opposti, come descritta da Virgilio in Purg. IV, 61-75. Al v. 31 – “Così tornavan per lo cerchio tetro” – il verbo ‘tornare’ è variazione dissonante di un tema della sesta vittoria (Ap 3, 12), per la quale i contemplativi tornano in Dio con circolo glorioso. Al verso precedente, il rimprovero che i prodighi rivolgono agli avari – “Perché tieni?” – è parodia dell’esegesi di Ap 2, 25, dove Tiatira, la quarta chiesa d’Asia, viene invitata a ‘tenere’ solo il Vangelo e non altro.
Dall’esegesi della terza tromba, dove sono elencate le erronee dottrine di Origene (Ap 8, 10), proviene il tema della continua rivoluzione, del non restare immobile, già proprio dei golosi, “miseri profani” del terzo cerchio, i quali “volgonsi spesso” sotto la pioggia (Inf. VI, 21), e dello stesso Cerbero che “non avea membro che tenesse fermo” (v. 24). Anche gli avari e i prodighi, puniti nel cerchio successivo, vanno “voltando pesi per forza di poppa”, e ivi ciascuno si rivolge “voltando a retro”, oppure si volge “per lo suo mezzo cerchio a l’altra giostra” (Inf. VII, 25-35; da notare l’inserimento di motivi provenienti dal II Notabile del prologo, dove in tutt’altro contesto si sottolinea che gli opposti si chiariscono meglio se giustapposti, come quei due tipi di dannati chiariscono la loro cecità nella vita terrena “quando vegnono a’ due punti del cerchio / dove colpa contraria li dispaia”, vv. 44-45).
Il tema della bilancia o del peso (terzo sigillo, Ap 6, 5) è nell’urlare “voltando pesi per forza di poppa” e nell’essere stati (i prodighi) in vita così ciechi nella mente “che con misura nullo spendio ferci” (vv. 27, 40-42; il motivo del peso è proprio anche della quarta chiesa, che concorre con la terza: Ap 2, 24). Il cavallo che appare all’apertura del terzo sigillo è nero: il cerchio in cui si volgono i dannati è “tetro” (v. 31), essi sono “ad ogne conoscenza … bruni” (v. 54).
Alla tematica del dividere e del tagliare da parte dei dottori (terzo stato) appartengono il frangersi dell’onda “con quella in cui s’intoppa” (v. 23; il frangere è tuttavia proprio anche del quarto stato poiché gli anacoreti sono “propter excessus contemplationis et macerationis corpore fracti”), ed anche i “crin mozzi” con cui risorgeranno i prodighi (v. 57; i “crini”, nel senso della moltitudine e dell’ornato dei sottilissimi e spiritualissimi pensieri e affetti, oppure della pienezza dei doni dello Spirito Santo che adornano la cima della mente, costituiscono la quarta perfezione di Cristo sommo pastore ad Ap 1, 14).
Il motivo dei cori e dei cantori ordinati da Davide nella quarta età del mondo (e, per estensione, anche quello della danza) e da Gregorio Magno nel quarto stato della Chiesa (prologo, Notabile XIII) passa nel quarto cerchio infernale, dove “convien che … la gente riddi”, cioè balli, cozzando tra loro “come fa l’onda là sovra Cariddi” (vv. 22-24) per poi ripercorrere il cammino fatto ed incontrarsi nuovamente nell’opposto punto del cerchio.
Un inserimento tematico diverso è ad Inf. VII, 58-60. Nella settima visione san Giovanni, quasi al termine del libro, minaccia quanti, nell’esporre il testo, falsamente aggiungeranno o sottrarranno qualcosa alle parole della profezia da lui scritta. Chi apporrà qualcosa di menzognero che non deve essere aggiunto patirà i flagelli descritti nel libro; chi toglierà le parole si vedrà invece sottrarre il libro della vita, cioè la gloria sostanziale di Dio, e la città santa (Ap 22, 18-19). Olivi nota la bella corrispondenza tra l’apposizione delle piaghe per la falsa aggiunta e la sottrazione della vita beata per la falsa diminuzione del testo sacro, che a loro volta corrispondono alle due parti della dannazione eterna, cioè alla pena dei sensi e alla pena del danno con la perdita della gloria. Questa minaccia viene pronunciata non per quanti, al fine di spiegare il testo apocalittico, fanno riferimento ai commenti ad esso, oppure per quanti inseriscono il testo in modo abbreviato nelle proprie glosse, ma per quanti corrompono la verità in modo fallace. Gli avari e i prodighi che spingono pesi col petto sono dannati ai quali il “mal dare” (che corrisponde alla falsa aggiunta) e il “mal tenere” (che corrisponde alla falsa sottrazione) ha tolto “lo mondo pulcro”, cioè la beatitudine: è da notare che la rima “appulcro”, nel senso di abbellire, ha un prefisso ap– che deriva da “appositio” in una zona in cui compare anche l’aggettivo “pulcher”.
I motivi proposti dall’esegesi del quarto cavallo all’apertura del relativo sigillo (Ap 6, 8) – il pallore, la macerazione del corpo, l’aridità, il languore, il marcire pestilenziale, il colore della morte – sono puntualmente presenti nelle zone in cui prevale la tematica del quarto stato. Pluto, fiera crudele che sorveglia il quarto cerchio infernale, alle parole di Virgilio cade a terra come cadono involute le vele gonfiate dal vento “poi che l’alber fiacca” (Inf. VII, 13-15). Gli avari e i prodighi sono “anime stanche”, che “tutto l’oro ch’è sotto la luna / e che già fu … non poterebbe farne posare una” (vv. 64-66; il verbo “posare”, ad Ap 21, 16, è proprio di coloro che, dopo la corsa nello stadio paolino [1 Cor 9, 24], ottengono trionfalmente il premio). Il tema del languore è nell’operare della Fortuna la quale, permutando “a tempo li ben vani / di gente in gente e d’uno in altro sangue”, fa sì “ch’una gente impera e l’altra langue” (vv. 79-82).
Al quarto stato appartengono ancora, nel parlare di Virgilio sulla Fortuna, il riferimento alla luna (v. 64, tema della quarta tromba ad Ap 8, 12) e il verso 72 “Or vo’ che tu mia sentenza ne ’mbocche”, che esprime uno dei motivi peculiari degli anacoreti, ai quali appartiene la “refectio” o il “pastus”. La cura pastorale, caratteristica precipua del primo stato, attende infatti nel quarto al pasto e al nutrimento del gregge (prologo, Notabile III).
È proprio di Tiàtira, la quarta chiesa d’Asia, ministrare i beni ai poveri: “Conosco il tuo ministero” dice Cristo ad Ap 2, 19. Poiché è proprio del vescovo dispensare ai poveri a lui soggetti i beni della chiesa come beni comuni e come beni dei poveri, si fa riferimento al “ministero”, per quanto possa essere anche inteso come ministero del Verbo di Dio. Il tema del ministrare è presente in due zone dell’Inferno afferenti al quarto stato: la Fortuna, sulla quale Virgilio ragiona nel quarto cerchio dove stanno gli avari e i prodighi, fu ordinata da Dio “general ministra e duce / che permutasse a tempo li ben vani” (Inf. VII, 78-79); la giustizia, infallibile “ministra / de l’alto Sire”, punisce nella decima bolgia i falsari (Inf. XXIX, 55-57; il motivo dell’occulta giustizia punitiva è, nell’esegesi della quarta chiesa, ad Ap 2, 23). La Fortuna è ordinata “a li splendor mondani”, cioè alla distribuzione di ogni bene temporale, come nei cieli le intelligenze angeliche fanno “sì, ch’ogne parte ad ogne parte splende, / distribuendo igualmente la luce” (Inf. VII, 73-78; nel quarto giorno Dio creò i “luminaria celi”: prologo, Notabile XIII).
La Fortuna partecipa anche dell’esegesi dell’angelo della sesta tromba, che ha la faccia come il sole (Ap 10, 1). Alcuni, come Riccardo di San Vittore, dicono che questo angelo deve essere Cristo perché solo a lui spetta aprire il libro, come è detto al capitolo quinto (Ap 5, 2-3). Non si nega che sia lui il principale rivelatore del libro, in particolare in quanto è Dio che illumina interiormente le menti; nondimeno ordinò sotto di sé degli spiriti e degli uomini angelici per illuminare, come suoi ministri, gli esseri inferiori. Al modo con cui i sette angeli che suonano la tromba vanno interpretati come uomini angelici e dottori e anche come gli spiriti angelici che presiedono loro, sebbene sia Cristo principalmente a insegnare tutte quelle cose manifestate col suono della tromba, così si deve intendere a proposito dell’angelo con la faccia come il sole. Così è da intendere della Fortuna, “general ministra e duce” ordinata agli “splendor mondani”, intelligenza angelica che “con l’altre prime creature lieta / volve sua spera e beata si gode”. La Fortuna, ministra di Dio, è il contrario del “beatus qui audit” di Ap 1, 3, versetto che esprime la causa finale dell’Apocalisse, consistente appunto nella beatitudine: “ma ella s’è beata e ciò non ode”, nel senso che non ascolta il biasimo e la mala voce datale dai mondani.
Il permutare i beni temporali “di gente in gente e d’uno in altro sangue” (Inf. VII, 78-80) è una variazione sul tema della “commutatio” proposto nel Notabile VII del prologo. Dopo Aronne fu fatto pontefice suo figlio Eleazaro, a questi succedette il figlio Fineas, con il quale Dio stabilì un patto per cui il pontificato sarebbe toccato sempre alla sua stirpe. Ma più tardi, al tempo di Eli, i pontefici non provenivano dalla stirpe di Eleazaro, bensì da quella di Itamar, suo fratello. Con Davide ritornò preminente la stirpe di Eleazaro. Abiatar, della stirpe di Itamar, fu cacciato dal pontificato da Salomone, che vi prepose Zadòk. Ancora, nella profezia di Ezechiele era contenuta la promessa divina che nel futuro Tempio sarebbero stati sacerdoti solo i discendenti di Zadòk (Ez 44, 15; 48, 11), ma questa promessa venne mantenuta solo con Cristo, perché Zaccaria, padre di Giovanni Battista, apparteneva alla stirpe di Itamar. Questo continuo mutare di stirpi e ritornare a stirpi precedenti si verifica anche nel pontificato del Nuovo Testamento. Con Pietro e con gli apostoli esso fu infatti dato alla stirpe evangelica, quindi venne utilmente e ragionevolmente commutato in uno stato fondato sul possesso dei beni temporali, la cui durata va da Costantino al termine del quinto stato. In questo periodo, i pontefici che preferirono la povertà evangelica ai beni temporali segnarono di nuovo, e in modo raddoppiato, il prevalere del primo ordine, quello del sacerdozio apostolico. Alla fine di queste mutazioni, il pontificato dovrà ritornare al primo ordine di povertà, al quale spetta per diritto di primogenitura e per la maggiore perfezione derivante dalla conformità con Cristo. Questo ritorno sarà agevolato non solo dall’imperfezione insita nel possesso e nella dispensa dei beni temporali, ma pure da quegli enormi difetti – superbia, lussuria, simonie, liti, frodi e rapine – da cui la Chiesa, divenuta alla fine del quinto stato quasi una nuova Babilonia, risulterà macchiata e confusa dai piedi al capo.
I motivi presenti nel Notabile VII sono principalmente due: l’alterno succedersi delle stirpi sacerdotali nell’Antico Testamento, per disegno divino o per deposizione da parte di un re (il caso di Abiatar da parte di Salomone), e una sorta di corsi e di ricorsi tra povertà e ricchezza del pontificato nel Nuovo Testamento, fino al definitivo ritorno all’originaria povertà evangelica.
Dante applica dunque alla storia umana la legge che regola, secondo l’Olivi, la storia della Chiesa, fatta di traslazioni, trasmutazioni, patti non mantenuti da Dio stesso (secondo il giudizio umano), prima del ritorno alla stabilità. Questa legge non vale più soltanto per il papato, povero nel cominciare con san Pietro e poi, dopo Costantino, ricco, in vista del ritorno al primo tempo. Questa legge diventa universale, il papato è solo una parte del tutto.
La Fortuna esprime i motivi della necessità e della velocità, propri dell’esordio dell’Apocalisse, che è rivelazione di quelle cose che è necessario avvengano presto: “Le sue pemutazion non hanno triegue: / necessità la fa esser veloce” (Inf. VII, 88-89).
Il tema dell’oscurare le stelle, che nell’esegesi della quarta tromba (Ap 8, 12) è equiparato alla devastazione delle chiese orientali da parte dei Saraceni al volgere del quarto stato, percorre le parole dette da Virgilio nel momento di discendere dal quarto al quinto cerchio infernale – “già ogne stella cade che saliva / quand’ io mi mossi, e ’l troppo star si vieta” (Inf. VII, 97-99): quelle stelle che salivano nell’emisfero orientale quando Virgilio mosse dal Limbo per salvare Dante, che corrispondono alle “chiese” orientali, ora scendono, passate all’emisfero occidentale. L’identificazione delle stelle con i vescovi che rilucono sopra le chiese come una lucerna o una stella sopra il candelabro del santuario è tema dell’ottava perfezione di Cristo sommo pastore, trattata nel primo capitolo (Ap 1, 16). Il “troppo star” fa parte della tematica del quarto stato, perché contro di esso si appunta lo zelo (prologo, Notabile III), né d’altronde è possibile mantenersi a lungo in uno stato tanto arduo (Notabili V e X).

■ Il tema del discendere, proprio del quinto stato, segna, in vari punti di Inf. VII, VIII e IX, tutta la permanenza nella palude Stigia (Inf. VII, 97, 106-108; VIII, 25, 128; IX, 16-17), fino all’arrivo del messo celeste che apre con una verghetta la porta della città di Dite, tenuta ostinatamente chiusa dai diavoli (Inf. IX, 89-90): il tema della porta aperta appartiene al sesto stato, alla cui chiesa viene detto: “Ho aperto davanti a te una porta che nessuno può chiudere” (Ap 3, 8). Il condiscendere del quinto stato è pieno di “pietas”: discendere e pietà accompagnano il passaggio dal quarto cerchio alla palude Stigia ovvero al quinto cerchio dove stanno gli iracondi e gli accidiosi (Inf. VII, 97: il termine “pieta” significa angoscia della pena, ma allude alla pietà).
Uno dei difetti che non consentono di aprire il quinto sigillo è la difficoltà tristissima e faticosa verso quanto è arduo e divino e la conseguente accidia languida e intorpidita. Nella quinta apertura, contro l’ozio del quinto tempo, sentina di lussuria e di ogni inquità, i santi martiri chiamano perché sia vendicato il loro sangue, cioè le dolorose fatiche derivanti dalla tribolazione (Ap 5, 1; cfr. 6, 9-11). Al suono della quinta tromba “salì dal pozzo un fumo come il fumo di una grande fornace” (Ap 9, 2). Il grave e grosso fumo che esce dal pozzo punge e confonde gli occhi di chi guarda, e diffama e oscura presso fedeli e infedeli la solare chiarezza della fede, della Chiesa e della religione che conduce al culto di Cristo vero sole, come l’aere perspicuo permette alla nostra facoltà visiva di raggiungere il sole e ai raggi del sole di pervenire all’occhio. Così molti prelati, secolari e regolari, che prima apparivano quasi come il sole, e molti spirituali, che prima erano quasi come l’aere puro da esso illuminato, si corrompono e si fanno neri per il fumo causato da tanta rilassatezza. Se si confronta il passo tratto da Ap 5, 1 con quello tratto da Ap 9, 2, intrecciando i motivi, si perviene all’origine delle parole dette dagli accidiosi immersi nella palude Stigia: “Fitti nel limo, dicon: ‘Tristi fummo / ne l’aere dolce che dal sol s’allegra, / portando dentro accidïoso fummo: / or ci attristiam ne la belletta negra’” (Inf. VII, 121-124). Da Ap 5, 1 derivano l’esser tristi i dannati e accidioso il fumo; da Ap 9, 2  l’aere, il sol, il fummo e la “belletta negra”. Per questi dannati, immersi nel pantano dello Stige, che respirano “sotto l’acqua” (vv. 117-118), è anche parodiato il tema dello stare sotto l’altare di Dio (proprio dei santi!) all’apertura del quinto sigillo (Ap 6, 9).
Il tema del fumo ricorre ancora con frequenza nella palude Stigia, che è zona in cui il quinto tempo è prevalente. Il fumo del pantano è tale che potrebbe nascondere a Dante “quello che s’aspetta”, cioè l’arrivo della barca di Flegiàs (Inf. VIII, 12; l’attendere è tema del quinto sigillo); all’arrivo del messo celeste che apre la porta della città di Dite Virgilio invita il discepolo a guardare dove il fumo è “più acerbo” (Inf. IX, 73-75), mentre lo stesso messo rimuove “quell’aere grasso” con la mano sinistra, apparendo “lasso” (l’aggettivo deriva dal “fumus laxationis”) solo per il fastidio da esso causato (vv. 82-84).
Il pungere delle locuste che escono dal pozzo dell’abisso aperto al suono della quinta tromba provoca il “remorsus conscientie”, che designa anche l’“ira” (Ap 9, 5), la quale è sinonimo di “rabbia” nella descrizione delle teste dei cavalli di Ap 9, 17-19 (sesta tromba), paragonate ai leoni come lo sono i denti delle locuste di Ap 9, 8 (quinta tromba). Questi “corrodono”, e nella quinta coppa il dolore del cuore provocato dall’impazienza porta alla corrosione della propria lingua (Ap 16, 10). L’ira, nella quarta coppa, induce gli uomini a scaldarsi (Ap 16, 8-9). Si ha così un complesso di motivi, che percorre i versi, esprimenti la “rabies iracundie”. Il tema del corrodersi interiormente è nelle parole di Virgilio a Pluto: “consuma dentro te con la tua rabbia” (Inf. VII, 9). Gli iracondi stanno nella palude Stigia “troncandosi co’ denti a brano a brano” (vv. 112-116). Gli accidiosi – cui, come sopra detto, sono appropriati i motivi del quinto sigillo e della quinta tromba  – stanno “sotto l’acqua” (lo “stare sotto”, da Ap 6, 9, proviene anch’esso dal quinto sigillo) e le loro parole sono rotte – “Quest’ inno si gorgoglian ne la strozza, / ché dir nol posson con parola integra” (vv. 125-126) -, motivo che deriva dall’esegesi della sesta tromba, dove si afferma che i molto adirati sono soliti interrompere le parole a causa dell’impeto (Ap 9, 20, dove il passo scritturale “et … non egerunt penitentiam de operibus manuum suarum” è simmetrico ad Ap 16, 11 [quinta coppa], che contiene i temi dell’impazienza e del corrodersi).
Il nocchiero della palude Stigia, Flegiàs, esprime anch’egli, “ne l’ira accolta”, il tema della corrosione interiore, mentre le parole di Virgilio – “più non ci avrai che sol passando il loto” – ripetono il tema della quinta vittoria (Ap 3, 5), per cui si discende agli infermi  (Virgilio “discese ne la barca”) senza assumere macchie o imperfezioni, vivendo tra i carnali, i rilassati e gli immondi in modo puro, immacolato e santo come se ci si trovasse in solitudine o in mezzo a gente austera e perfetta (Inf. VIII, 19-25). “Mentre noi corravam la morta gora” (v. 31): tutto il viaggio all’inferno è uno stare mescolati, ovvero un correre come si afferma nel Notabile II del prologo, “cum corpore seu collegio reproborum”. In alcuni casi il fatto viene sottolineato, come nell’andare in “fiera compagnia” dei dieci demoni dalla non buona sembianza che scortano Dante e Virgilio verso un passaggio alla sesta bolgia che non esiste (Inf. XXII, 13-15). Nella sesta bolgia, dov’è il “collegio” degli ipocriti, i due poeti ‘corrono’ “per l’aura fosca”, ma poi procedono secondo il passo lento dei dannati gravati dalle cappe (Inf. XXIII, 80-81).
La terzina di Inf. VII, 100-102 – “Noi ricidemmo il cerchio a l’altra riva / sovr’ una fonte che bolle e riversa / per un fossato che da lei deriva” -, introduce temi propri della disposizione delle parti della Gerusalemme celeste (settima visione, Ap 21, 1222, 1), temi già presenti nel “nobile castello” del Limbo (Inf. IV, 106-111) e che verranno ampiamente sviluppati nella descrizione dell’arrivo alla città di Dite (Inf. VIII, 67 ss.).
“Ricidemmo”, nel senso di ‘tagliammo’, è tema della terza chiesa, Ap 2, 12.

Nelle sottostanti tabelle viene registrata la semantica relativa al terzo (Inf. VI), quarto e quinto stato (Inf. VII), nel numero dei versi e nei luoghi della LSA.

Legenda: prol. not.: prologus, notabile; eccl.: ecclesia; sig.: sigillum; prael.: praelium

 Inf. VI (III stato)

tenebroso, nere

11, 85

6, 5 (III sig.)

terra

12, 26

12, 16 (IIIIV prael.)

atra

16

6, 5 (III sig.)

de l’un de’ lati fanno a l’altro

20

2, 12 (III eccl.)

volgonsi spesso

21

8, 10 (III tuba)

non avea membro che tenesse fermo

24

8, 10 (III tuba)

sacco

50

6, 5 (III sig.)

mi pesa, pesi

59, 71

6, 5 (III sig.)

partita

61

2, 12 (III eccl.)

cagione

62

prol. not. XIII

suono, suon

76, 95

prol. not. I

mi ’nsegni

77

prol. not. XIII

ch’a ben far puoser li ’ngegni

81

8, 10 (III tuba)

tromba

95

prol. not. I

 

Legenda: prol. not.: prologus, notabile; eccl.: ecclesia; sig.: sigillum; prael.: praelium

 Inf. VII (IV stato) 

Satàn aleppe

1

2, 24 (IV eccl.)

alto

11

2, 24 (IV eccl.)

superbo

12

2, 24 (IV eccl.)

fiacca, stanche, langue

14, 65, 82

6, 8 (IV sig.)

si frange

23

2, 1 (IIIIV eccl.)

riddi

24

prol. not. XIII

pesi

27

6, 5 (III sig.) – 2, 24 (IV eccl.)

percotëansi, si percotean

28, 112

8, 12 (IV tuba)

tieni

30

2, 25 (IV eccl.)

vita

53

prol. not. X

luna

64

8, 12 (IV tuba)

ne ’mbocche

72

prol. not. III

fece li cieli, luce

74, 76

prol. not. XIII

ministra

78

2, 19 (IV eccl.)

giudicio … occulto

83-84

2, 23 (IV eccl.)

ogne stella cade che saliva

98

8, 12 (IV tuba)

’l troppo star si vieta, stava

99, 109

prol. not. III

 

Legenda: prol. not.: prologus, notabile; eccl.: ecclesia; sig.: sigillum; prael.: praelium

 Inf. VII (V stato)

in compagnia

104

3, 5 (V eccl.)

giù, sotto

105, 118

6, 9.11 (V sig.)

disceso

107

prol., not. I

offeso

111

9, 5 (V tuba)

denti

114

9, 8 (V tuba)

ira

116

9, 5 (V tuba)

tristi … accidïoso … ci attristiam

121, 123-124

5, 1 (V sig.)

aere … sol … fummo … negra

122-124

9, 2 (V tuba)

ché dir nol posson con parola integra

126

16, 11 (V phiala)

 

Tab. 1

Il modo di procedere proprio dell’autore dell’Apocalisse, il quale nella bestia che sale dal mare di Ap 13, 1-2 ha concentrato elementi propri di tutte le bestie della visione di Daniele 7, 3-7, si ritrova già nelle tre fiere dantesche. Anche nella figura di Cerbero (Inf. VI, 13-18) sono riunite qualità di differente provenienza. Il mostro infernale è collocato in una zona in cui prevalgono temi propri del terzo stato della Chiesa, dei quali è quasi emblema nel graffiare, iscoiare e isquatrare le anime. Esso tuttavia contiene elementi che caratterizzano l’apertura di tutti e tre sigilli in cui compaiono eserciti contrari a Cristo. Gli occhi “vermigli” e le mani “unghiate” sono propri del secondo sigillo (il cavallo rosso, l’orso), la “barba unta e atra” del terzo (il cavallo nero), il “ventre largo” è qualità dei Saraceni dei quali, nell’esegesi della quarta chiesa (Ap 2, 22) si dice con san Paolo che “hanno il ventre per loro Dio e per loro gloria” (Ph 3, 19). Inoltre Cerbero, che latra con “tre gole”, è “fiera crudele e diversa”, cioè “bestia dissimilis”, come la quarta bestia di Daniele lo è dalle altre tre precedenti. “Uomini diversi d’ogne costume” sono pure definiti i Genovesi in Inf. XXXIII, 151-152. Una curiosa e grottesca utilizzazione del tema della legge maomettana diversa, che non accetta le nostre scritture, è in apertura di Inf. XXII: Barbariccia, per dare un cenno di partenza alla schiera dei Malebranche che sorvegliano i barattieri immersi nella pece bollente, “avea del cul fatto trombetta” (Inf. XXI, 139), e il poeta assicura di non aver mai visto fanti o cavalieri muoversi al suono di “sì diversa cennamella”, pur avendo già udito segnali di trombe, di campane, di tamburi, dati “e con cose nostrali e con istrane”. Ciò che in Olivi è teologicamente inteso in senso assoluto, è ricostruito e separato da Dante in più affluenti, facendo risuonare ora l’uno ora l’altro tema. Qui “sta – direbbe Gianfranco Contini – la mondanità discretiva del Dante della Commedia, unicuique suum” [G. Contini, Un’idea di Dante. Saggi danteschi, Torino 1970 e 1976, p. 135]I tre eserciti contrari a Cristo, designati rispettivamente all’apertura del secondo, del terzo e del quarto sigillo con il cavallo rosso, il cavallo nero e il cavallo pallido, si trasformano nelle tre facce di Lucifero (Inf. XXXIV, 39-45): la prima vermiglia, la seconda nera, la terza tra bianca e gialla.

 

LSA, cap. VI, Ap 6, 3

Nam sicut per equum rufum designatur paganorum populus sanguine martirum cruentatus, et per eius sesso-rem imperator romanus et etiam diabolus quem in idolis colebant, sic per ursum designatur idem paganorum regnum habens tres ordines dentium, scilicet pontifices idolorum et eorum opifices et paganorum principes, qui principalius insani<e>runt contra marti-res et ceteros instigaverunt contra eos, unde et dicebant urso: “Surge et comede carnes plurimas”, scilicet sanctorum martirum (Dn 7, 5).

> [LSA, cap. XIII, Ap 13, 2] Deinde qualitatem bestie describit, subdens: “Et bestia, quam vidi, similis erat pardo”, scilicet per maculosas varietates duplicis et dolose astutie; “et pedes eius sicut ursi”, scilicet per ferocem conculca-tionem sanctorum et per carnalem infixionem suorum affectuum et proces-suum in carnalibus (est enim ursus animal gulosum et fedum); “et os eius sicut os leonis”, per voracem scilicet rapacitatem et occisionem sanctorum et aliorum. <

Sicut vero per equum nigrum designatur hereticorum cetus astutia profunda obscurus et errore perfidie obtenebratus, sic et per pardum variis maculis, id est variis frau-dibus, infectum.

 

Sicut etiam per equum pallidum, cuius sessor est mors, designatur Sarracenorum populus et eius propheta mortiferus, scilicet Mahomet, sic et per quartam bestiam dissimilem ceteris.

 

Nam primus (exercitus), scilicet paganicus, per potentiam et violentiam impugnavit martires.

Secundus vero, scilicet hereticorum, non cum tanta potentia, sed potentie malignam adiungens malitiam, impugnavit fideles.

Inf. XXXI, 55-57

ché dove l’argomento de la mente
s’aggiugne al mal volere e a la possa,
nessun riparo vi può far la gente.

Tertius vero, scilicet sarrace-nic<us> vel secundum alios ypocri-tarum cuneus, per legem fictam et carnalem vel per simulationem sancti-tatis dolosam impugnavit sanctam le-gem et vitam.

Post hoc autem sequitur caro sanguinea et per concupiscentias ignea et rufa, impugnans spiritum secundum illud Apostoli: “Caro concupiscit adversus spiritum” et “spiritus adversus carnem” (Gal 5, 17).

Secundo sequitur presumptio erronee mensurans et iudicans aliena dicta et facta, unde tenet stateram librantem aliorum vitam. Solent enim noviter conversi, post aliquas macerationes proprie carnis, aliorum vitam presumptuose despicere et diiudicare.

Tertio sequitur mortifera ambitio primatus sedens super equum pallidum, id est fulciens se ypocritali et superficiali austeritate, quam pallor corporis pretendit, quam quidem se-quitur infernus, quia primatu iuxta votum obtento vitam infernalem aperte ostendit et suo exemplo et ducatu subditos ad infernum deducit.

Inf. XXXIV, 39

L’una dinanzi, e quella era vermiglia

Inf. XXXIV, 44-45

la sinistra a vedere era tal, quali
vegnon di là onde ’l Nilo s’avvalla.

Inf. XXXIV, 43

e la destra parea tra bianca e gialla

Inf. XXII, 7-12

quando con trombe, e quando con                                                                   [campane,
con tamburi e con cenni di castella,
e con cose nostrali e con istrane;
né già con sì diversa cennamella
cavalier vidi muover né pedoni,
né nave a segno di terra o di stella.

 

Inf. VI, 13-18

Cerbero, fiera crudele e diversa,
con tre gole caninamente latra
sovra la gente che quivi è sommersa.
Li occhi ha vermigli, la barba unta e atra,
e ’l ventre largo, e unghiate le mani;
graffia li spirti ed iscoia ed isquatra.

Inf. XIII, 13-15

Ali hanno late, e colli e visi umani,
piè con artigli, e pennuto ’l gran ventre;
fanno lamenti in su li alberi strani.

Aen. III, 216-218
Virginei volucrum voltus, foedissima ventris
proluvies uncaeque manus et pallida semper
ora fame.

Tertio est dissimilis quia contra istam non possunt fideles arguere per scripturas sacras sicut possunt contra Iudeos et contra hereticos, quia ista nostras scripturas non recipit, nec per rationem naturalem potest sic faciliter et evidenter convinci sicut poterat idolatria paganorum, quia isti non idola nec plures deos sed solum unum deum colunt.

Inf. XXXIII, 151-153

Ahi Genovesi, uomini diversi   
d’ogne costume e pien d’ogne magagna,
perché non siete voi del mondo spersi?

 

[LSA, cap. II, Ap 2, 22 (Ia visio, IVa ecclesia)] Potest tamen per hanc Iesabelem intelligi gens sarracenica, que gloriatur se habere Mahomet pro propheta, cuius lex carnalia promittit et docet, que utique surrexit quarto tempore ecclesie. Nota etiam quod omnes hereses, de quibus fit in istis ecclesiis mentio, leguntur dedite voluptati et carnalitati. Nam et de pseudoapotolis dicitur ad Philippenses III° quod “venter est eorum deus et gloria” (Ph 3, 19). Quamvis enim quedam secte hereticorum fingant ad tempus magnam castitatem et austeritatem, finaliter tamen occulte vel publice ad carnalia currunt. Unde IIa ad Timotheum III° dicitur de eis quod erunt “se ipsos amantes” et “voluptatum amatores” (2 Tim 3, 2.4). Et IIa Petri II° de ipsis dicitur quod “multi sequentur eorum luxurias, per quos via veritatis blasphemabitur” (2 Pt 2, 2), et infra eodem dicit multa plura de hoc, et idem dicitur in epistula Iude (Ju 1, 12). Nec mirum, quia qui veras et spiritales delicias in Deo et ex Deo non gustant nec hauriunt oportet eos in terrenis et carnalibus querere voluptatem, quamvis propter ambitionem inanis glorie sepe exterius se affligant.

 

LEO

BOS VITULUS 

HOMO

AQUILA

Per hec quattuor animalia anagogice designantur quattuor perfectiones Dei, quibus sustentant totam sedem ecclesie triumphantis et militantis, scilicet

omnipotentia magnanimis et insuperabilis, quasi leo

et patientia seu sufferentia humilis omnium defectus quantum decet subportans et tolerans, quasi bos sub iugo vel curru

et prudentia rationalis omnia discrete et mansuete regens et moderans, quasi homo

et perspicacia altivola omnium-que visiva et penetrativa et diiudicativa, quasi aquila


Tab. 2

L’ordine dei dottori del terzo stato, cui il suonare la tromba spetta per antonomasia, predicò e insegnò nel mondo già convertito da Costantino. Quanto male ne seguitò viene mostrato con queste parole: “e cadde dal cielo una grande stella, ardente come una fiaccola, e colpì la terza parte dei fiumi e le fonti delle acque” (Ap 8, 10). Come con la “terra” viene indicato il luogo dei fedeli e con il “mare” il luogo degli infedeli o dei Gentili, così con le “fonti” e i “fiumi”, che irrigano la terra e offrono il dolce bere agli uomini e alle bestie, vengono indicati la sacra dottrina e i dottori che la espongono.
Uno dei primi corruttori della dottrina fu Origene, in vita famoso per sapienza, celebrato in tutta la Chiesa come massima autorità, “grande stella ardente come una fiaccola”, animato da zelo delle anime e da istinto al martirio, al punto di evirarsi per potere castamente insegnare alle vergini e di camminare a piedi nudi per zelo di vita apostolica. I suoi errori, contenuti nell’opera Περì ἀρχῶν (pervenuta nella traduzione latina di Rufino col titolo De principiis) restarono sepolti e noti a pochi, finché vennero denunciati dopo la sua morte da san Girolamo. Origene afferma che il Figlio e lo Spirito Santo sono minori e non consustanziali al Padre. Nega la resurrezione della carne e considera non naturale ma penale l’unione dell’anima col corpo. Le anime, assimilate nella sostanza agli angeli coi quali furono create, preesistettero alla creazione del mondo, che avvenne solo per dare un carcere agli spiriti che avevano peccato. Una volta unite ai corpi, esse si rivolvono da un corpo all’altro, anche da un uomo a un animale, da cui poi si purgano. Ritiene che, nello stato di gloria, nessuno resti immobile, ma tutti cadano di lì per una colpa e vengano di nuovo rinchiusi nei corpi. Viceversa, nessuno resta all’inferno in eterno ma di lì, per penitenza, viene gradatamente condotto allo stato di gloria. Queste rivoluzioni avverranno infinite volte nei secoli futuri. Afferma anche che Cristo non è stato solo ucciso in terra dagli uomini ma pure nell’aria dai demoni.
“Farinata e ’l Tegghiaio, che fuor sì degni, / Iacopo Rusticucci, Arrigo e ’l Mosca / e li altri ch’a ben far puoser li ’ngegni”, dei quali il poeta chiede a Ciacco se siano beati o dannati, sono assimilabili a ‘stelle grandi e ardenti come una fiaccola’ poi cadute, come conferma la risposta del fiorentino goloso: “Ei son tra l’anime più nere; / diverse colpe giù li grava al fondo” (Inf. VI, 79-87; il nero è il colore del cavallo del terzo sigillo, i golosi sono riferiti in prevalenza al terzo stato, nel primo ciclo settenario dell’Inferno). Il tema della continua rivoluzione, del non restare immobile, è proprio dei “miseri profani” del terzo cerchio, i quali “volgonsi spesso” sotto la pioggia (v. 21), e dello stesso Cerbero il quale “non avea membro che tenesse fermo” (v. 24).
Gli avari e i prodighi, puniti nel cerchio successivo, vanno “voltando pesi per forza di poppa” e, percossisi, “si rivolgea ciascun, voltando a retro”; tornati al punto opposto, “poi si volgea ciascun, quand’ era giunto, / per lo suo mezzo cerchio a l’altra giostra” (Inf. VII, 25-35; da notare l’inserimento di motivi provenienti dal Notabile II, dove in tutt’altro contesto si sottolinea come gli opposti si chiariscano meglio se giustapposti, come quei due tipi di dannati chiariscono la loro cecità nella vita terrena “quando vegnono a’ due punti del cerchio / dove colpa contraria li dispaia”, vv. 43-45). Gli avari e prodighi concorrono tra loro come terzo e quarto stato (cfr. supra).
Nella nona bolgia (dove i temi del terzo stato sono prevalenti), i seminatori di scandalo e di scisma, dopo aver “volta la dolente strada”, passano nuovamente dinanzi al demonio che li taglia con la spada (Inf. XXVIII, 37-42).
La Tolomea, la regione dove il ghiaccio di Cocito fascia i traditori degli ospiti, ha il “vantaggio” per cui l’anima dannata ci cade prima della morte, allorché il corpo vive ancora in terra, preso da un demonio che lo governa “mentre che ’l tempo suo tutto sia vòlto” (Inf. XXXIII, 124-132; cfr. l’esegesi di Ap 12, 9).
Il motivo del passare dall’inferno allo stato di gloria è proprio di Traiano, “anima gloriosa … tornata ne la carne”, ma con la precisazione che ciò avvenne per eccezione dovuta alle preghiere di san Gregorio, poiché l’inferno è luogo “u’ non si riede / già mai a buon voler” (Par. XX, 106-117).

 

[LSA, cap. VIII, Ap 8, 10 (IIIa visio, IIIa tuba)] Unus autem de primis corruptoribus eius fuit Origenes, primo quidem vita et sapientia  preclarus et celebris et maxime auctoritatis in tota ecclesia sicut “stella magna” et “ardens” ad zelum animarum et eruditionis earum et etiam ad martirium “tamquam facula”, prout patet ex libro ecclesiastice ystorie* et etiam ex ystoria tripartita**, in tantum ut se ipsum castrasse feratur ut caste et secure posset docere virgines et ob zelum apostolice vite nudis pedibus ambulasse.
Errores tamen eius, ante impium dogma Arrii, fuerunt in eius libris sepulti et paucis noti, quorum magnam partem recitat Ieronimus in epistula ad Avitum quantum spectat ad duos libros eius qui dicuntur ‘peri archon’, id est ‘de principiis’***. In quibus dicit Filium et Spiritum Sanctum esse minores Patre et substantialiter ab eo diversos et ab eo creatos. Negat etiam veram resurrectionem humane carnis, nec unionem anime ad corpus dicit esse naturalem sed potius penalem. Ponit enim animas substantialiter non differre ab angelis, et omnes cum eis simul fuisse creatas ante mundi corporalis creationem, quem ob solam carceralem punitionem spirituum peccantium dicit esse creatum. Ponit enim animas peccasse antequam corporibus unirentur; ponit etiam eas de uno corpore in aliud, puta de corpore humano in corpora bestiarum, revolvi et postmodum expurgari ab eis. Ponit etiam nullum in statu glorie esse immobiliter sed exinde per culpam cadere et in corpora iterum recludi, nec aliquem eternaliter in inferno esse sed exinde per penitentiam educi gradatim usque ad statum glorie. Has autem revolutiones dicit esse infinities per futura secula fiendas. Dicit etiam Christum non solum occidi in terra pro hominibus sed etiam in aere pro demonibus.

* Eusebius Werke. Zweiter Band. Die Kirchengeschichte, herausgegeben … von E. Schwartz. Die Lateinische Übersetzung des Rufinus bearbeitet … von Th. Mommsen. Zweiter Teil, Leipzig 1908 (Die Griechischen Christlichen Schriftsteller der ersten drei Jahrhunderte), VI, 3 (pp. 519-531), 8 (pp. 535-537).

** Cassiodori – Epiphanii Historia ecclesiastica tripartita, recensuit W. Jacob, editionem curavit R. Hanslik, Vindobonae 1952 (Corpus Scriptorum Ecclesiasticorum Latinorum, LXXI), VI, 20, rr. 16ss. (p. 331) e passim in relazione ai discepoli di Origene.

*** Ad Auitum (Ep. CXXIV), in Sancti Eusebii Hieronymi Epistulae, pars III: Epistulae CXXI-CLIV, ed. I. Hilberg. Editio altera supplementis aucta, Vindobonae 1996 (Corpus Scriptorum Ecclesiasticorum Latinorum, LVI/1), pp. 96-117.

 

Inf. VI, 20-21, 24, 77-87

de l’un de’ lati fanno a l’altro schermo;   2, 12
volgonsi spesso i miseri profani

non avea membro che tenesse fermo.

E io a lui: “Ancor vo’ che mi ’nsegni,
e che di più parlar mi facci dono.
Farinata e ’l Tegghiaio, che fuor sì degni,
Iacopo Rusticucci, Arrigo e ’l Mosca
e li altri ch’a ben far puoser li ’ngegni,
dimmi ove sono e fa ch’io li conosca;
ché gran disio mi stringe di savere
se ’l ciel li addolcia o lo ’nferno li attosca”.
E quelli: “Ei son tra l’anime più nere;     6, 5
diverse colpe giù li grava al fondo:
se tanto scendi, là i potrai vedere”.

Inf. VII, 25-35, 43-45

Qui vid’ i’ gente più ch’altrove troppa,
e d’una parte e d’altra, con grand’ urli,
voltando pesi per forza di poppa.
Percotëansi ’ncontro; e poscia pur lì
si rivolgea ciascun, voltando a retro,
gridando: “Perché tieni?” e “Perché burli?”.
Così tornavan per lo cerchio tetro
da ogne mano a l’opposito punto,
gridandosi anche loro ontoso metro;
poi si volgea ciascun, quand’ era giunto,
per lo suo mezzo cerchio a l’altra giostra.

Assai la voce lor chiaro l’abbaia,
quando vegnono a’ due punti del cerchio
dove colpa contaria li dispaia.

[LSA, prologus, Notabile II] Quantum autem ad secundum, quare scilicet hii status describuntur non solum per bona eis propria sed etiam per mala eis opposita. […] Secunda est quia opposita iuxta se posita clarius elucescunt, unde inspectio unius contrariorum plurimum confert ad notitiam alte-rius et e contrario.

Inf. XXVIII, 37-42

Un diavolo è qua dietro che n’accisma
sì crudelmente, al taglio de la spada     2, 12
rimettendo ciascun di questa risma,
quand’ avem volta la dolente strada;
però che le ferite son richiuse
prima ch’altri dinanzi li rivada.

Inf. XXXIII, 124-126, 129-132

Cotal vantaggio ha questa Tolomea,
che spesse volte l’anima ci cade
innanzi ch’Atropòs mossa le dea.

sappie che, tosto che l’anima trade
come fec’ ïo, il corpo suo l’è tolto
da un demonio, che poscia il governa
mentre che ’l tempo suo tutto sia vòlto.

[LSA, cap. XII, Ap 12, 9 (IVa visio, IIum prelium)] “Et proiectus est” (Ap 12, 9), scilicet a predicta dominatione et potestate, “dracho ille magnus, serpens antiquus, qui vocatur Diabolus et Sathanas”. […] “Diabolus” vero dicitur grece, id est incriminator, vel secundum alios dicitur diabolus id est deorsum fluens, tum quia a celesti statu in quo fuit conditus cecidit deorsum, tum quia omnes nititur ad inferos precipitare, quia omnes pro posse accusat summo iudici ut dampnentur ab eo. […] Et “proiectus est in terram” et cetera, id est in infimam deiectionem et calcandus a sanctis sicut terra calcatur ab omnibus. Vel “in terram”, id est in terrenos in quos tunc fortius est permissus intrare, sicut et rapide intravit in porcos quando per Christum expulsus fuit a duobus demoniacis, prout scribitur Matthei VIII° (Mt 8, 28-34).

 

 

Tab. 3

Lo stato dei dottori, dotati della “discretio prudentie” (Ap 2, 1) propria dell’uomo razionale (prologo, Notabile I), si conforma, tra i sacramenti, al sacerdozio. Come afferma Dionigi l’Areopagita nel De ecclesiastica hierarchia, l’ordine sacerdotale illumina e l’ordine pontificale è, oltre a ciò, anche perfetto in sapienza, per cui ad esso spetta di vedere le arcane cause dei sacramenti e di insegnarle agli altri. Corrisponde al terzo giorno della creazione, nel quale le acque delle nazioni infedeli vennero separate dalla terra dei fedeli, che produsse l’erba verde, figura degli uomini semplici, e gli alberi pomiferi dei dottori, dai quali emana il frutto della dottrina spirituale (prologo, Notabile XIII).
In Inf. VI Dante si rivolge due volte a Ciacco utilizzando il tema dei dottori cui spetta cercare le cause e insegnare agli altri, la prima per conoscere la causa della discordia che ha assalito Firenze (vv. 62-63), la seconda per sapere dove sono “Farinata e ’l Tegghiaio, che fuor sì degni / Iacopo Rusticucci, Arrigo e ’l Mosca” (vv. 77-78). Inf. VI è il canto della razionalità, dove la “mente” (l’anima, e in particolare quella intellettiva, come affermato in Convivio III, ii, 14) torna dopo il fluttuare della passione ‘gentile’ propria del canto precedente (secondo stato). Il parlare di Ciacco, distaccato dalle fazioni, è ponderato come la “statera” di Ap 6, 5, prima di ricadere senza più destarsi: “li diritti occhi torse allora in biechi” (v. 91). Nel canto successivo Dante dice a Virgilio: “Maestro mio, or mi dimostra / che gente è questa” (Inf. VII, 37-38; le parole “Maestro mio … che gente è questa” rinviano all’esegesi di Ap 7, 13, insistente Leitmotiv nel poema per quanto riguarda le agnizioni).
Il canto di Marco Lombardo (Purg. XVI), con le zone che precedono e quelle che seguono, costituisce uno dei più rilevanti esempi di parodia in versi di temi del terzo stato. È da rilevare che il terzo girone degli iracondi, nel Purgatorio, succede al secondo degli invidiosi, dove prevalgono i temi del secondo stato (proprio dei martiri).
La tromba magistrale (il terzo dono), che appartiene per antonomasia al terzo stato, attende in terzo luogo a spiegare le verità di fede (“intendit fideiexplicande: prologo, Notabile III). Dante, che promette di pregare per Marco una volta ritornato al mondo (“Per fede mi ti lego / di far ciò che mi chiedi”), pur utilizzando fede in altro senso (come promessa), fa seguire una richiesta di spiegazione del suo doppio dubbio (“ma io scoppio / dentro ad un dubbio, s’io non me ne spiego”, vv. 52-54).
A Marco, come fosse un dottore della Chiesa, Dante chiede di spiegare la causa della malizia del mondo, privo di qualsiasi virtù, posta da alcuni negli influssi celesti, da altri nella volontà degli uomini, per poi, dottore egli stesso, mostrarla agli altri (vv. 58-63). Nella domanda, l’inciso “come tu mi sone” (v. 59) esprime il tema del suono della magistrale predicazione.
Il tema dell’erba verde e semplice, prodottasi nel terzo giorno della creazione – già presente nella selva dei suicidi, altra zona ‘terza’ (Inf. XIII, 4-6) -, si ritrova ne “l’anima semplicetta che sa nulla”, allorché esce di mano dal suo lieto fattore (v. 88); nell’espressione “pon mente a la spiga, / ch’ogn’ erba si conosce per lo seme”, relativa agli effetti della confusione tra potere temporale e spirituale (vv. 113-114, dove il riferimento alla spiga corrisponde al frutto prodotto dagli alberi pomiferi dei dottori: si tratta di citazione da Luca 6, 44 che in questo, come in altri casi scritturali, concorda con la Lectura), e nel soprannome foggiato alla francese – “il semplice Lombardo” – dato al reggiano Guido da Castel (vv. 125-126).
Anche dopo l’incontro con Marco Lombardo, il viaggio prosegue nel segno della ragione di cui è espressione “l’alto dottore” Virgilio (“Quanto ragion qui vede, / dir ti poss’ io”, Purg. XVIII, 46-47) [1], sia nello spiegare l’ordinamento della montagna come nella dimostrazione di cosa sia amore e nell’affermazione del libero arbitrio e del senso morale come il più alto retaggio degli Antichi. I segni del terzo stato pervengono fino a Purg. XVIII, 76, quando cominciano a subentrare quelli del quarto (gli accidiosi), concorrendo ancora quelli del terzo (cfr. vv. 85-87). La quarta zona del secondo ciclo del Purgatorio (dopo l’apertura della porta) perdura fino all’arrivo nel “quinto giro” (avari e prodighi).
Mostrare la ragione fa parte del parlare di Giustiniano (Par. VI, 31-33). Chiederla a chi discerne “rimirando in Dio”, far chiaro un dubbio (“com’ esser può, di dolce seme, amaro”), sono motivi insiti nel colloquio con Carlo Martello nel terzo cielo (Par. VIII, 90-93) che, per l’insistente presenza di temi propri dei dottori della Chiesa – tutti riversati sull’“omo in terra” -, è in parte speculare all’incontro con Marco Lombardo nel terzo girone della montagna.
A Pier Damiani, nel settimo cielo, Dante chiede di spiegare: “fammi nota / la cagion che sì presso mi t’ha posta” (Par. XXI, 55-57).

[1] Da notare il duplice valore di “ragion”, come intelletto (“Quanto ragion qui vede, / dir ti poss’ io”, Purg. XVIII, 46-47) e come spiegazione della causa (“per ch’io, che la ragione aperta e piana / sovra le mie quistioni avea ricolta, / stava com’ om che sonnolento vana”, vv. 85-86). Nel primo caso corrisponde all’homo rationalis al quale è appropriato il terzo stato (prologo, Notabile I), nel secondo all’“archanas rationes sacramentorum videre et alios docere” dei dottori (Notabile XIII). I termini vede e om sono però invertiti, cioè differentemente appropriati rispetto all’esegesi scritturale. La tromba magistrale (il terzo dono), che appartiene per antonomasia al terzo stato, attende in terzo luogo a spiegare le verità di fede. Su questi temi esegetici si possono misurare le innumerevoli sfumature che ragione assume nel poema (sulle quali cfr. la voce di Marta Cristiani nell’Enciclopedia Dantesca).

 

Purg. XVI, 52-63, 82-88, 103-105, 113-114, 125-126; XVII, 88-90

E io a lui: “Per fede mi ti lego
di far ciò che mi chiedi; ma io scoppio
dentro ad un dubbio, s’io non me ne spiego.
Prima era scempio, e ora è fatto doppio
ne la sentenza tua, che mi fa certo
qui, e altrove, quello ov’ io l’accoppio.
Lo mondo è ben così tutto diserto
d’ogne virtute, come tu mi sone,
e di malizia gravido e coverto;
ma priego che m’addite la cagione,
ch’i’ la veggia e ch’i’ la mostri altrui;
ché nel cielo uno, e un qua giù la pone”.

Però, se ’l mondo presente disvia,
in voi è la cagione, in voi si cheggia;
e io te ne sarò or vera spia.
Esce di mano a lui che la vagheggia
prima che sia, a guisa di fanciulla
che piangendo e ridendo pargoleggia,
l’anima semplicetta che sa nulla

Ben puoi veder che la mala condotta
è la cagion che ’l mondo ha fatto reo,
e non natura che ’n voi sia corrotta.

se non mi credi, pon mente a la spiga,
ch’ogn’ erba si conosce per lo seme.

e Guido da Castel, che mei si noma,
francescamente, il semplice Lombardo.

Ma perché più aperto intendi ancora,
volgi la mente a me, e prenderai
alcun buon frutto di nostra dimora.

Purg. XVIII, 46-48, 85-87

Ed elli a me: “Quanto ragion qui vede,
dir ti poss’ io; da indi in là t’aspetta
pur a Beatrice, ch’è opra di fede”.

per ch’io, che la ragione aperta e piana
sovra le mie quistioni avea ricolta,
stava com’ om che sonnolento vana.

Par. VIII, 85-93, 115-117

“Però ch’i’ credo che l’alta letizia
che ’l tuo parlar m’infonde, segnor mio,
la ’ve ogne ben si termina e s’inizia,
per te si veggia come la vegg’ io,
grata m’è più; e anco quest’ ho caro
perché ’l discerni rimirando in Dio.
Fatto m’hai lieto, e così mi fa chiaro,
poi che, parlando, a dubitar m’hai mosso
com’ esser può, di dolce seme, amaro”.

Ond’ elli ancora: “Or dì: sarebbe il peggio
per l’omo in terra, se non fosse cive?”.
“Sì”, rispuos’ io; “e qui ragion non cheggio”.

Par. XXI, 55-57

vita beata che ti stai nascosta
dentro a la tua letizia, fammi nota
la cagion che sì presso mi t’ha posta

[LSA, prologus, Notabile I] (III) Tertius (status) est confessorum seu doctorum, homini rationali ap-propriatus.

[LSA, cap. II, Ap 2, 1] (III) Tertium (exercitium) est discretio prudentie ex temptamentorum experien-tiis, et exercitiis acquisita providens conferentia et excludens stulta et erronea.

[LSA, prologus, Notabile III] De tertio etiam patet. Nam magistralis tuba seu expositio intendit fidei et eius scientie seminande (I), et deinde radicande seu roborande (II), deinde explicande (III), deinde amplexande (IV), deinde contemperande, unicuique scilicet secundum suam proportionem (V); intendit etiam finaliter eam imprimere et sigillare (VI) et tandem glorificare seu glorificatam exhibere (VII). Et patet correspondentia primi ad primum statum et secundi ad secundum et sic de aliis.

[LSA, prologus, Notabile I] In tertio (statu) sonus predicationis seu eruditionis et tuba magistralis.

[LSA, prologus, Notabile XIII] Status vero docto-rum assimilatur ordinibus sacerdotalibus. Nam, secundum Dionysium, libro ecclesiastice hierarchie, ordo sacerdotalis est illuminativus, et ordo ponti-ficalis est ultra hoc in Dei sapientia perfectivus, et eius est archanas rationes sacramentorum videre et alios docere. […]
In tertio vero sequestrate sunt aque nationum idolatrantium a terra fidelium, et protulit herbam virentem simplicium et ligna pomifera docto-rum fructum spiritalis doctrine emittentium (cfr. Gn 1, 9-13). […]

Inf. XIII, 4-6, 73-75; XIV, 85-87; XVI, 61-63; XX, 100-102

Non fronda verde, ma di color fosco;
non rami schietti, ma nodosi e ’nvolti;
non pomi v’eran, ma stecchi con tòsco.

Per le nove radici d’esto legno
vi giuro che già mai non ruppi fede
al mio segnor, che fu d’onor sì degno.

Tra tutto l’altro ch’i’ t’ho dimostrato,
poscia che noi intrammo per la porta
lo cui sogliare a nessuno è negato

Lascio lo fele e vo per dolci pomi
promessi a me per lo verace duca;
ma ’nfino al centro pria convien ch’i’ tomi

E io: “Maestro, i tuoi ragionamenti
mi son sì certi e prendon sì mia fede,
che li altri mi sarien carboni spenti”.

Par. VI, 31-33

perché tu veggi con quanta ragione
si move contr’ al sacrosanto segno
e chi ’l  s’appropria e chi a lui s’oppone.

Inf. II, 82-84

Ma dimmi la cagion che non ti guardi
de lo scender qua giuso in questo centro
de l’ampio loco ove tornar tu ardi.

 

Inf. VI, 60-63, 76-78, 94-95; VII, 37-39

“ma dimmi, se tu sai, a che verranno
li cittadin de la città partita;
s’alcun v’è giusto; e dimmi la cagione
per che l’ha tanta discordia assalita”.

Qui puose fine al lagrimabil suono.
E io a lui: “Ancor vo’ che mi nsegni
e che di più parlar mi facci dono”.

E ’l duca disse a me: “Più non si desta
di qua dal suon de l’angelica tromba

dissi: “Maestro mio, or mi dimostra
che gente è questa, e se tutti fuor cherci
questi chercuti a la sinistra nostra”.

Inf. XXVIII, 91-93; XXIX, 13-15; XXXIII, 106-108

E io a lui: “Dimostrami e dichiara,
se vuo’ ch’i’ porti sù di te novella,
chi è colui da la veduta amara”.

“Se tu avessi”, rispuos’ io appresso,
“atteso a la cagion per ch’io guardava,
 forse m’avresti ancor lo star dimesso”.   Not. III

Ond’ elli a me: “Avaccio sarai dove
di ciò ti farà l’occhio la risposta,
veggendo la cagion che ’l fiato piove”.

 

Tab. 4

Nella quinta visione, si dice che il terzo angelo versò la coppa sopra i fiumi e sopra le fonti delle acque (Ap 16, 4), cioè sopra la dottrina erronea degli eretici, da essi bevuta come dolce acqua e agli altri propinata. L’effusione avvenne sia attraverso la riprovazione, sia attraverso l’anatema e l’esclusione dalla comunione cattolica. “E fu fatto sangue”, cioè la dottrina eretica si palesò mortifera, crudele e abominevole. Gli eretici, con questa piaga, versarono il sangue di molti cattolici. Molto fu anche il sangue degli eretici sparso per opera degli imperatori e dei principi cattolici e di alcune nazioni gentili. I motivi iniziali della terza coppa (Ap 16, 4) sono molto simili a quelli del versamento della seconda (Ap 16, 3).
Il tema del farsi sangue appare nel verso “da che fatto fu poi di sangue bruno”, relativo al ramoscello del “gran pruno” che incarcera Pier della Vigna, strappato da Dante (Inf. XIII, 34), ed entra anche, contaminata però con l’esegesi di Ap 17, 6, nell’espressione di Ciacco “Dopo lunga tencione / verranno al sangue”, riferita alle due fazioni fiorentine dei Neri e dei Bianchi (Inf. VI, 64-65). Sangue e piaghe indicibili sono viste dal poeta nella nona bolgia dei seminatori di scandalo e di scisma (Inf. XXVIII, 1-3). Qui (vv. 76-90) Pier da Medicina profetizza l’assassinio di Guido del Cassero e di Angiolello di Carignano – i “due miglior da Fano” – da parte di Malatestino da Rimini: per tradimento di questo “tiranno fello”, i due saranno “mazzerati presso a la Cattolica”, gettati cioè in mare legati in un sacco con una gran pietra. Poiché tutto il canto è una variazione dei temi del terzo stato, anche il riferimento geografico “presso a la Cattolica” concorda con il tema del sangue “cattolico” versato dagli eretici. Il crudele Malatestino, d’altronde, è “quel traditor che vede pur con l’uno”, e in questo suo essere monocolo si apparenta, ancorché in vita, a Pier da Medicina che ha una sola orecchia, rimembranza dell’eresia eutichiana. Al Mosca “’l sangue facea la faccia sozza” (“et factus est sanguis”), come al versamento della terza coppa (v. 105).
L’acqua e il sangue sono giustapposti da Beatrice quando riprende “li pensier vani” di Dante, definiti “acqua d’Elsa”, cioè impietriti, i quali recano un piacere che è “un Piramo a la gelsa”, cioè oscuro come il sangue (Purg. XXXIII, 67-69).
Il tema dell’acqua che si fa mortifera, crudele e sanguigna si può ritrovare nella prima delle profezie di Cunizza (Par. IX, 43-48), relativa al mutarsi dell’acqua del Bacchiglione nel sangue dei Padovani, gente “cruda” al dovere, dopo la sconfitta subita dai guelfi nel 1314 per opera dei ghibellini vicentini alleati con Cangrande della Scala (cfr. le parole di Farinata su Montaperti, dove altro fiume si fece sangue, a Inf. X, 85-87).

 

[LSA, cap. XVII, Ap 17, 3.5-6 (VIa visio)] Si queratur quare hic commemorat culpas quas hec mulier in suo priori et antiquo tempore et paganica gente commisit, cum propter illas non debeat sequens carnalis et semicristiana gens eius in sexto tempore ecclesie condempnari, de qua quidem condem-pnatione hic proprie agitur, patet responsio ex tactis supra XIII° et etiam in lectura super Mattheum super illud XXIIIi capituli: “ut veniat super vos omnis sanguis iustus qui effusus est a sanguine Abel iusti” et cetera (Mt 23, 35). Sicut enim totus fluvius per multa tempora durans dicitur esse unus, quamvis aqua priorum annorum eius sit alia ab aqua presentis anni, ita ut propter hanc unitatem dicamus quod iste fluvius, iam centum anni sunt, inundavit vel fuit sanguineus, sic tota continua successio populi romani dicitur esse una gens vel unus populus, ita ut dicamus quod populus romanus fuit primo paganus et postea christianus; et secundum hoc quod est unius partis attribuitur toti vel alteri parti per sinodochem.

[LSA, cap. XVI, Ap 16, 4 (Va visio, IIIa phiala)] “Et tertius angelus” (Ap 16, 4), id est ordo sanctorum zelatorum tertii temporis, “effudit phialam suam super flumina et super fontes aquarum”, id est super doctrinam erroneam doctorum et episcoporum hereticorum, quam ipsi tamquam dulcem aquam bibebant et aliis propinabant. “Effudit”, inquam, non solum ipsam improbando, sed etiam ipsam et eius sectatores et fautores anathematizando et ab omni communion<e> ecclesie catholice sententialiter ex-cludendo.
Et factus est sanguis”, id est per hanc effusionem apparuit esse mortifera et crudelis et abhominabilis. Vel “factus est sanguis”, quia propter hanc plagam effuderunt sanguinem multorum catholicorum et multas persecutiones catholicis intulerunt. Corpo-raliter autem fuit ad litteram multorum hereticorum sanguis effusus per aliquos catholicos imperatores et principes, et etiam per aliquas nationes gentilium occupantium terras illorum.

Inf. VI, 64-65

E quelli a me: “Dopo lunga tencione
verranno al sangue ……………..…..”

Inf. X, 85-87

Ond’ io a lui: “Lo strazio e ’l grande scempio
che fece l’Arbia colorata in rosso,
tal orazion fa far nel nostro tempio”.

Purg. XXXIII, 67-69

E se stati non fossero acqua d’Elsa
li pensier vani intorno a la tua mente,
e ’l piacer loro un Piramo a la gelsa

Par. IX, 43-51

E ciò non pensa la turba presente
che Tagliamento e Adice richiude,
né per esser battuta ancor si pente;
ma tosto fia che Padova al palude
cangerà l’acqua che Vincenza bagna,
per essere al dover le genti crude;
e dove Sile e Cagnan s’accompagna,
tal signoreggia e va con la testa alta,
che già per lui carpir si fa la ragna.

Inf. XIII, 34

Da che fatto fu poi di sangue bruno

Inf. XXVIII, 1-3, 76-81, 103-105

Chi poria mai pur con parole sciolte
dicer del sangue e de le piaghe a pieno
ch’i’ ora vidi, per narrar più volte?

E fa sapere a’ due miglior da Fano,
a messer Guido e anco ad Angiolello,
che, se l’antiveder qui non è vano,
gittati saran fuor di lor vasello
e mazzerati presso a la Cattolica
per tradimento d’un tiranno fello.

E un ch’avea l’una e l’altra man mozza,
levando i moncherin per l’aura fosca,
sì che l sangue facea la faccia sozza

 

Tab. 5

Ciacco afferma che a Firenze “giusti son due, e non vi sono intesi” (Inf. VI, 73; cfr. i “due miglior da Fano” a Inf. XXVIII, 76). Il parlare profetico è volutamente generico, anche se è probabilmente memore dei due testimoni uccisi dalla bestia che sale dall’abisso nella città, grande un tempo per la giustizia e poi per la sua malvagità, di cui si dice nell’Apocalisse (11, 3-10; la città è Gerusalemme, dove Cristo fu crocifisso).
L’inciso “e non vi sono intesi” è riferibile all’esegesi di Ap 12, 6, dove si parla di Giovanni Battista e di Cristo, la cui predicazione non venne ascoltata dai Giudei, come questi nell’Antico Testamento non vollero credere a Giosuè e a Caleb, i due esploratori della terra promessa (Numeri, 14, 1-38).
Il riferimento a Giovanni Battista e a Cristo induce a supporre che i due “giusti” siano Guido Cavalcanti, esiliato nel maggio 1300, quando Dante ricopriva la carica di priore (rientrò poi  malato e morì poco dopo) e Dante stesso, condannato il 27 gennaio 1302 al confino e il 10 marzo a morte. Giovanna, la donna di Guido, è nome che viene “da quello Giovanni lo quale precedette la verace luce”, cioè Beatrice-Cristo (Vita Nova, 15.4 [xxiv 4]).

 

[LSA, cap. XII, Ap 12, 6; (IVa visio, Ium prelium)] Potius ergo videtur dicendum quod quia hic loquitur de fuga ecclesie a Iudeis ad gentes, ex qua secundum Dei ordinationem oportebat primo preire tempus plenitudinis gentium, et post hoc sequi tempus conversionis Iudeorum seu omnis Israel, prout Apostolus docet ad Romanos XI° (Rm 11, 25-26), idcirco in hoc loco rationabiliter annotatur tempus mansionis ecclesie in plenitudine gentium, insinuando quod est mire proportionatum tempori quo Christus, cum Iohanne in Iudea predicans, non fuit a Iudea receptus sed potius spretus et persecutus et ultimo crucifixus, ut sic innuatur duplex ratio proportionis. Quarum prima est ut sicut plebs Iudeorum, nolens credere duobus exploratoribus terre promisse quadraginta diebus explorate, punita est a Deo in quadraginta annis quasi pro culpa quadraginta dierum, prout dicitur Numeri XIIII° (Nm 14, 33-35), sic pro incredulitate eius ad predicationem Christi et Iohannis mille ducentis sexaginta diebus seu tribus annis et dimidio factam daretur sibi in penam annus pro die, ita quod non intraret sanctam terram seu statum ecclesie Christi usquequo consumarentur mille ducenti sexaginta anni a plena fuga seu recessu ecclesie ab ipsa sinagoga. Dicitur enim sic Numeri XIIII° (Nm 14, 33-34): “Filii vestri vagi erunt in deserto annis quadraginta, et portabunt fornicationem vestram donec consumantur cadavera patrum vestrorum in deserto, iuxta numerum quadraginta dierum, quibus consideratis terram: annus pro die imputabitur” et cetera.

Inf. VI, 73

Giusti son due, e non vi sono intesi

[LSA, cap. XI, Ap 11, 3.8 (IIIa visio, VIa tuba)] Sequitur (Ap 11, 3): “Et dabo duobus testibus meis”, scilicet officium predicationis, “et prophetabunt”, id est predicabunt, “diebus mille ducentis sexaginta”, id est, secundum Ricardum, toto tempore quo regnabit Antichristus. […] (Ap 11, 8) Deinde subdit quod fortassis Antichristus convocabit Iudeos in Iheru-salem civitatem terrenam, tamquam messiam et salvatorem se predicans Iudeorum – cui consonare videtur illud Danielis X°: “Filii prevaricatorum populi tui extollentur, ut impleant visiones” (cfr. Dn 11, 14), id est litterales promissiones prophetarum de Iherusalem terrena et de suo messia – et quod in illa occidentur Enoch et Helias sicut ibi Christus est crucifixus. Et huic opinioni concordat Ricardus, dicens quod “in plateis civitatis magne”, scilicet Iherusalem, que olim fuit magna per iustitiam, tunc autem erit magna per malitiam, iacebunt corpora sanctorum ut omnes qui viderint timeant eorum fidem sequi, et etiam ut in maiori despectu habeantur ab omnibus ipsi et eorum doctrina*.

* In Ap III, vii (PL 196, col. 793 B).

Inf. XXVIII, 76-81

E fa sapere a’ due miglior da Fano,
a messer Guido e anco ad Angiolello,
che, se l’antiveder qui non è vano,
gittati saran fuor di lor vasello
e mazzerati presso a la Cattolica
per tradimento d’un tiranno fello.

 

Tab. 6

Il principio, aristotelico (Etica, X, v) e tomista (Sent., IV, dist. xlix, q. 1 a. 4), per cui quanto più una cosa è in atto tanto più è perfetta, concorda con l’esegesi di Ap 15, 2, relativa ai cultori di Cristo, i quali quanto sono più perfetti tanto più osservano tutti i precetti e sentono pienamente la vita contemplativa e l’ardore della carità; lo stesso avviene per i reprobi seguaci dell’Anticristo nell’aderire alla sua bestiale immagine.

[LSA, cap. XV, Ap 15, 2 (radix Ve visionis)] Vel sicut sancti habent Deum pro obiecto summo quod adorant et colunt, et ex hoc formaliter participant similitudinem eius per quam sibi assimilantur, observantque non solum unum preceptum sue legis nec solum unum articulum sue fidei credunt, sed totum numerum eorum, et quanto sunt perfectiores tanto plus sciunt et servant explicite numerum suorum preceptorum et articulorum, sic etiam reprobi habent bestiale obiectum quod adorant et cui assimilantur, seu eius imaginem in se habent, et quanto sunt perfectiores in malo tanto omnia mobilia sui obiecti seu statuta et vol<i>ta sui falsi Dei sciunt et servant magis explicite et distincte. Et e contra sancti maiores magis distincte fugiunt omnia et singula et omnes singulares circumstantias singulorum usque ad minimas minutias.
Preter hoc, etiam pro tempore Antichristi vincuntur hec tria ad litteram, quando pro nulla pena vel favore ipsum vel eius imaginem adorant nec accipiunt caracterem nominis eius. Isti ergo stant “super mare vitreum mixtum igne”, quia solis illis conceditur ad plenum vita contemplativa et sentire ardorem caritatis Dei, qui de hiis tribus bellis viriliter triumpharunt; solis etiam istis competit perfecte laudare Deum et opera eius et specialiter iudicia misericordie in electos et iustitie severe in reprobos.

Inf. VI, 106-111

Ed elli a me: “Ritorna a tua scïenza,
che vuol, quanto la cosa è più perfetta,
più senta il bene, e così la doglienza.
Tutto che questa gente maladetta
in vera perfezion già mai non vada,
di là più che di qua essere aspetta”.

Tab. 7

Il terzo stato dei dottori concorre con il quarto degli anacoreti, è anzi il più evidente esempio del fenomeno per cui un periodo storico continua nel successivo, come questo ha radici nel precedente (prologo, Notabile X). La trattazione della terza e della quarta guerra (Ap 12, 13-16) avviene infatti congiuntamente, e in essa alla donna, figura della Chiesa, vengono date due ali di una grande aquila, per combattere da una parte le eresie con il lume dei dottori, dall’altra l’affluenza dei beni temporali con la santità di vita degli anacoreti. Le cronache dimostrano la loro concorrenza. Ad esempio, l’anacoreta Antonio e il dottore Atanasio fiorirono entrambi al tempo di Costantino (con il quale ha inizio il terzo stato). Ilario e Ambrogio furono contemporanei di Macario e di altri anacoreti. San Basilio, grande dottore, visse nello stesso periodo di Gregorio Nazianzeno, anch’egli grande dottore e autore di una regola monastica assai rigida. Così al tempo di Gregorio Magno molti furono gli austeri anacoreti.
Come l’affetto presuppone la “notitia intellectus”, cioè la conoscenza, poiché non si può amare se non ciò che è già conosciuto, ma questa conoscenza non è santa senza un santo affetto, così il chiaro lume dei dottori precede l’esercizio degli affetti e la contemplazione degli anacoreti, ma non può essere chiaro senza l’eccellenza della vita propria di questi. Pertanto i due stati, entrambi di solare sapienza, concorrono, con mutuo ossequio, ad illuminare e ad infiammare l’orbe convertito nel mezzogiorno. Numerose sono le variazioni sui temi presenti in questo passo.
Nella domanda di Dante a Francesca – “a che e come concedette amore / che conosceste i dubbiosi disiri?” (Inf. V, 119-120) – viene premesso il conoscere al desiderio, l’intelletto all’affetto. I peccatori carnali sono quelli “che la ragion sommettono al talento”, cioè pospongono l’intelletto all’affetto o al desiderio (v. 39): nella sua domanda il poeta sembra voler ripristinare il corretto ordine. La risposta di Francesca – “Ma s’a conoscer la prima radice / del nostro amor tu hai cotanto affetto, / dirò come colui che piange e dice” (vv. 124-126) – fa riferimento sia alla conoscenza come al desiderio, ma sembra accentuare quest’ultimo (“cotanto affetto”).
In Inf. VII, 52-54, a Dante che vorrebbe riconoscere qualcuno fra gli avari e i prodighi, Virgilio risponde che “la sconoscente vita che i fé sozzi, / ad ogne conoscenza or li fa bruni”: l’espressione “sconoscente vita”, cioè la vita priva dell’intelletto che discerne, contiene in sé i motivi dell’intelletto e dell’affetto (la santa vita) propri rispettivamente dei dottori e degli anacoreti. Alle schiere degli avari e dei prodighi è inoltre assegnata una pena per cui percorrono, facendo rotolare pesi col petto, la metà del quarto cerchio fino al punto in cui cozzano insieme scambiandosi ingiurie, per poi tornare indietro a ripercuotersi nel punto diametralmente opposto. I due punti del cerchio, che distinguono la loro pena, segnano anche la concorrenza delle due schiere, quasi entrambe abbiano un solo orizzonte e diversi emisferi, non molto diversamente da quanto avviene nella posizione astronomica di Gerusalemme e della montagna del Purgatorio, poste agli antipodi e nel mezzo di due emisferi opposti, come descritta da Virgilio in Purg. IV, 61-75 (cfr. Inf. XX, 124-126).
L’intelletto e l’affetto sono complementari nell’episodio dell’incontro con Casella (che, come quello di Francesca, registra la prevalenza dei temi del secondo stato dei martiri): “Io vidi una di lor trarresi avante / per abbracciarmi, con sì grande affetto … Soavemente disse ch’io posasse; / allor conobbi chi era …”. L’affetto di Casella precede l’agnizione da parte di Dante, che è seguita da nuova manifestazione di affetto: «Rispuosemi: “Così com’ io t’amai / nel mortal corpo, così t’amo sciolta”» (Purg. II, 76-90).
Il precedere della  “notitia intellectus”, cioè della conoscenza, rispetto all’affetto, poiché non si può amare se non quanto si è preventivamente conosciuto, trova un’applicazione nelle parole con cui Beatrice, spiegando nel Primo Mobile le gerarchie angeliche, afferma che la beatitudine si fonda “ne l’atto che vede, / non in quel ch’ama, che poscia seconda” (Par. XXVIII, 109-111; cfr. XXIX, 139-141), asserzione che solo apparentemente accetta la dottrina tomista in contrasto col volontarismo francescano (ad Ap 21, 22 si afferma che se il lume della visione è l’ultimo termine della beatitudine, esso non può prescidendere dall'”actus caritatis”).
Ancora, “lo ’ntelletto / de le prime notizie … e de’ primi appetibili l’affetto”, cioè la disposizione a conoscere e ad amare, sono innate nell’uomo (nell’uomo razionale: prologo, Notabile I), come detto da Virgilio nella spiegazione razionale data del rapporto tra amore e libero arbitrio (Purg. XVIII, 55-60).
La concorrenza tra il lume dei dottori e la santa ed eccellente vita degli anacoreti è impersonata in Carlo Martello, “la vita di quel lume santo” (Par. IX, 7). I temi sono poi ripresi e variati da Cunizza: “vedi se far si dee l’omo eccellente, / sì ch’altra vita la prima relinqua” (vv. 41-42), nel senso che l’uomo razionale, che designa i dottori, deve avere vita santa, propria degli anacoreti. Ciò è detto di Folchetto, trovatore e vescovo di Tolosa, di cui rimase “grande fama” per l’uno e per l’altro operare, concorrendo in questo il chiaro lume dell’intelletto e la santa vita affettiva.
Si tratta di motivi che vengono variamente appropriati nel cielo del Sole: Tommaso d’Aquino è “luce” che narra la “mirabil vita” di Francesco, “anima preclara” (Par. XI, 115), “poverel di Dio” (Par. XIII, 32-33), verso la cui “eccellenza” l’Aquinate “fu sì cortese” (Par. XII, 109-111). Tale “infiammata cortesia” muove “la vita” di Bonaventura ad elogiare (“inveggiar”, da invidiare nel senso di emulari in bono, come nell’esegesi di Ap 3, 19) san Domenico (vv. 142-144). Nel reciproco elogio dei fondatori del proprio Ordine, Tommaso e Bonaventura concorrono anch’essi “ad mutuum obsequium (la “cortesia”) et ad meridiem universi orbis tunc ad fidem conversi simul clarificandam et inflammandam”. Nel Paradiso terrestre, allorché il sole tiene il cerchio di mezzogiorno “più corusco e con più lenti passi”, Dante ha visto i due fiumi “Ëufratès e Tigri” uscire da una sorgente e dipartirsi pigri come due amici che si lasciano (Purg. XXXIII, 112-114).
Francesco e Domenico si collocano all’inizio del sesto stato, periodo di apertura di nuove fronde; concorrono ancora con la fase finale del quinto, pietoso, condiscendente, con i loro Ordini che crescono come individui, aperti alle moltitudini associate dopo l’ardua e per certi versi insostenibile vita degli alti anacoreti. I due campioni però partecipano (e con essi  Tommaso d’Aquino e Bonaventura, che ne tessono le lodi) anche degli altri stati della storia della Chiesa: del primo, perché con loro la Chiesa ritornò alle sue umili origini; del secondo, per la sete di martirio di Francesco e di combattimento di Domenico. Essi si manifestano nel cielo del Sole; concorrono infatti come due soli ad impersonare il terzo stato dei dottori, che combattono le eresie, e il quarto stato degli anacoreti o contemplativi, dall’eccellente vita (a costoro è dedicato il cielo di Saturno).

 

[LSA, prologus, Notabile X] Prout vero status ab invicem per certam propriorum donorum et officiorum preeminentiam ac multitudinis personarum in ipsis concurrentium distinguuntur, sic concurrit tertius cum quarto non quidem in eodem statu sed in eodem tempore. […] Ideo autem quartus status concurrit eodem tempore cum tertio, quia sicut affectus exigit notitiam intellectus, nec ista notitia est sancta absque sancto affectu, sic affectualis exercitatio et contemplatio anachoritarum et sanctorum illitteratorum eguit preclaro lumine doctorum, nec illud preclarum esse potuit absque precellentia vite. Unde ad mutuum obsequium et ad meridiem universi orbis tunc ad fidem conversi simul clarificandam et inflammandam debuerunt illi duo status concurrere simul. Sicut autem notitia preit amorem, quia non potest amari nisi cognitum, sic status doctorum in hoc libro premittitur ante statum anachoritarum; in quarta tamen visione ostenduntur simul concurrere, ubi dicitur quod “date sunt mulieri due ale aquile magne ut volaret in desertum” (Ap 12, 14). Quod autem de facto insimul concurrant, patet ex cronicis. […]

[LSA, prologus, Notabile VII] Rursus sicut omnis dies habet mane, meridiem et vesperam, sic et omnis status populi Dei in hac vita. Nam in eterna erit semper meridies absque nocte. Ergo tempus plenitudinis gentium sub Christo debuit ante conversionem alterius populi, scilicet iudaici, habere mane et meridiem et vesperam. Et sic quasi iam vidimus esse completum et a Iohanne in hoc libro descriptum. Nam eius mane commixtum tenebris idolatrie fuit ab initio conversionis gentium usque ad Constantinum (I-II). Eius vero meridies fuit in preclara doctrina et contemplatione et vita doctorum et anachoritarum (IIIIV). Eius vero vespera circa finem quinti temporis nimis apparet (V). Et cum Babilon meretrix et bestia portans eam erit in suo summo, tunc erit nox eius tenebrosissima, de qua in Psalmo dictum est: “Posuisti tenebras et facta est nox, in ipsa pertransibunt omnes bestie silve” (Ps 103, 20). Ipse sunt et bestie sexto die formate, post quas et formatus est homo ad imaginem Dei, quia post has convertetur Israel cum reliquiis gentium et apparebit christiformis vita et imago Christi (VI).

Inf. V, 118-120, 124-126

Ma dimmi: al tempo d’i dolci sospiri,
a che e come concedette amore
che conosceste i dubbiosi disiri?

Ma s’a conoscer la prima radice
del nostro amor tu hai cotanto affetto,
dirò come colui che piange e dice.

Inf. VII, 31-35, 43-45, 53-54

Così tornavan per lo cerchio tetro
da ogne mano a l’opposito punto,
gridandosi anche loro ontoso metro;
poi si volgea ciascun, quand’ era giunto,
per lo suo mezzo cerchio a l’altra giostra.

Assai la voce lor chiaro l’abbaia,
quando vegnono a’ due punti del cerchio
dove colpa contraria li dispaia.

la sconoscente vita che i fé sozzi,
ad ogne conoscenza or li fa bruni.

Par. IX, 7, 37-42; XI, 115-116; XII, 97-98, 109-111, 127-128, 142-144; XIII, 31-33

E già la vita di quel lume santo ……
Di questa luculenta e cara gioia
del nostro cielo che più m’è propinqua,
grande fama rimase; e pria che moia,
questo centesimo anno ancor s’incinqua:
vedi se far si dee l’omo eccellente,
sì ch’altra vita la prima relinqua.

e del suo grembo l’anima preclara
mover si volle ………………………….

Poi, con dottrina e con volere insieme,
con l’officio appostolico si mosse ……
ben ti dovrebbe assai esser palese
l’eccellenza de l’altra, di cui Tomma
dinanzi al mio venir fu sì cortese. …… 22, 17
Io son la vita di Bonaventura
da Bagnoregio ……………………….
Ad inveggiar cotanto paladino
mi mosse l’infiammata cortesia
di fra Tommaso e ’l discreto latino

Ruppe il silenzio ne’ concordi numi
poscia la luce in che mirabil vita
del poverel di Dio narrata fumi

Purg. XVIII, 55-57

Però, là onde vegna lo ’ntelletto
de le prime notizie, omo non sape,

e de’ primi appetibili l’affetto

[LSA, prologus, Notabile I] (III) Tertius (status) est confessorum seu doctorum, homini rationali appro-priatus.

Purg. II, 76-78, 85-90

Io vidi una di lor trarresi avante
per abbracciarmi, con sì grande affetto,
che mosse me a far lo somigliante.

Soavemente disse ch’io posasse;
allor conobbi chi era, e pregai
che, per parlarmi, un poco s’arrestasse.
Rispuosemi: “Così com’ io t’amai
nel mortal corpo, così t’amo sciolta:

però m’arresto; ma tu perché vai?”.

Inf. XX, 124-126

Ma vienne omai, ché già tiene ’l confine
d’amendue li emisperi e tocca l’onda
sotto Sobilia Caino e le spine

Purg. IV, 67-75, 137-139

Come ciò sia, se ’l vuoi poter pensare,
dentro raccolto, imagina Sïòn
con questo monte in su la terra stare
sì, ch’amendue hanno un solo orizzòn
e diversi emisperi; onde la strada
che mal non seppe carreggiar Fetòn,
vedrai come a costui convien che vada
da l’un, quando a colui da l’altro fianco,
se lo ’ntelletto tuo ben chiaro bada.

e dicea: “Vienne omai; vedi ch’è tocco
meridïan dal sole, e a la riva
cuopre la notte già col piè Morrocco”.

Purg. XXXIII, 103-104, 112-114

E più corusco e con più lenti passi
teneva il sole il cerchio di merigge

Dinanzi ad esse Ëufratès e Tigri
veder mi parve uscir d’una fontana,
e, quasi amici, dipartirsi pigri.

Par. XXVIII, 109-111

Quinci si può veder come si fonda
l’esser beato ne l’atto che vede,
non in quel ch’ama, che poscia seconda

[LSA, cap. XXI, Ap 21, 22 (VIIa visio)] “Et templum non vidi in ea” et cetera. Hic agit de sacro cultu et lumine quo civitas beatorum colit Deum et videt ipsum et omnia in ipso. Prius enim egit de formali et intrinseca luce et claritate eius (Ap 21, 11), hic vero de fontali obiecto et radio in quo Deum et omnia videbit. Que quidem visio est summa et ultimata illuminatio beatorum; beatificus autem actus caritatis spectat magis proprie ad cultum et sacrificium templi, quamvis utrumque in utroque comprehendatur, quia neutrum absque altero est perfectum etiam in propria specie sua.

Par. XXIX, 139-141

Onde, però che a l’atto che concepe
segue l’affetto, d’amar la dolcezza

diversamente in essa ferve e tepe.

Par. XXX, 70-72

L’alto disio che mo t’infiamma e urge,
d’aver notizia di ciò che tu vei,
tanto mi piace più quanto più turge

 

Tab. 8

San Giovanni, quasi al termine del libro, minaccia quanti, nell’esporre il testo, falsamente aggiungeranno o sottrarranno qualcosa alle parole della profezia da lui scritta. Chi apporrà qualcosa di menzognero che non deve essere aggiunto patirà i flagelli descritti nel libro; chi toglierà le parole si vedrà invece sottrarre il libro della vita, cioè la gloria sostanziale di Dio, e la città santa. Olivi nota la bella corrispondenza tra l’apposizione delle piaghe per la falsa aggiunta e la sottrazione della vita beata per la falsa diminuzione del testo sacro, che a loro volta corrispondono alle due parti della dannazione eterna, cioè alla pena dei sensi e alla pena del danno con la perdita della gloria. Questa minaccia viene pronunciata non per quanti, al fine di spiegare il testo apocalittico, fanno riferimento ai commenti ad esso, oppure per coloro che inseriscono il testo in modo abbreviato nelle proprie glosse, ma per quanti corrompono la verità in modo fallace (Ap 22, 18-19).
Gli avari e i prodighi, che in Inf. VII spingono pesi col petto, sono dannati ai quali il “mal dare” (che corrisponde alla falsa aggiunta) e il “mal tener” (che corrisponde alla falsa sottrazione) ha tolto “lo mondo pulcro”, cioè la beatitudine: è da notare che la rima “appulcro”, nel senso di abbellire, ha un prefisso ap– che deriva da “appositio” in una zona dell’esegesi scritturale in cui compare anche l’aggettivo ‘pulcher’ (vv. 58-60; per altro esempio di parole scavate nell’esegesi cfr. Ap 3, 20).
Meno lontana dal contenuto del testo esegetico risulta la variazione in Par. XXIX, dove Beatrice censura i predicatori che pospongono o alterano la Sacra Scrittura, suscitando il disdegno del cielo (v. 89, che traspone l’essere “animadversione dignus”) di fronte a invenzioni menzognere come il fatto che nella passione di Cristo la luna, oscurando il sole, “si ritorse” e “s’interpuose” (verbo scavato tra l’‘interserere’ e l’‘apponere’), invenzione che equivale a una falsa aggiunta al testo sacro (vv. 97-101).
L’apporsi del cibo sullo stomaco è nelle parole di Cacciaguida sulla confusione delle stirpi (Par. XVI, 69; da notare, ai vv. 8-9, il contrasto tra aggiungere [“sì che, se non s’appon di dì in die”] e sottrarre [“lo tempo va dintorno con le force”]).
Vanni Fucci fu “ladro a la sagrestia d’i belli arredi”, sottrazione per la quale “falsamente già fu apposto altrui” (Inf. XXIV, 137-139).
Derivazione dal medesimo passo sono le parole di Giustiniano contro i Ghibellini i quali, per farne l’emblema di un partito, si appropriano (sottraendolo) del sacrosanto segno dell’aquila, e contro i Guelfi, i quali, viceversa, gli oppongono il giglio d’oro di Francia (e dunque aggiungendo un altro segno falso): per questo l’imperatore è costretto “a seguitare alcuna giunta”, si comporta cioè correttamente alla stregua di coloro “qui expositorie vel explicative … circa hunc librum apponunt” (Par. VI, 29-33; 100-102).
La scrittura abbreviata sarà quella con cui verranno scritte, in “lettere mozze”, le opere da poco di Federico II d’Aragona, re di Sicilia (Par. XIX, 133-135; da notare la compresenza del verbo “intendere” nella prosa e nei versi).

 

[LSA, cap. XXII, Ap 22, 18-19] “Contestor” et cetera (Ap 22, 18). Premissa confirmatione huius libri per auctoritatem angeli et Christi et etiam Iohannis, ubi supra ait: “Et ego Iohannes” et cetera (Ap 22, 8), hic confirmat hoc auctoritate propria, et hoc cum comminatione valida, dicens: “Contestor ego”, id est protestor vel testis consisto vel tamquam contestis Christi denuntio “omni audienti verba prophetie huius libri”, denuntio scilicet id quod subditur: “Si quis apposuerit ad hec”, scilicet aliquid mendosum, “apponet Deus super illum plagas scriptas in libro isto; (Ap 22, 19) et si diminuerit”, scilicet mendose subtrahendo vel negando, aliquid “de verbis libri prophetie huius, auferet Deus partem eius de libro vite”, ut scilicet non habeat partem in substantiali gloria Dei, qui est liber vite, “et de civitate sancta”, ut scilicet non sit civis in ea nec habeat partem in eius societate, “et de hiis que scripta sunt in libro isto”, ut scilicet non sit particeps bonorum que promittuntur et docentur in eo.
Nota primo quod non intendit hic loqui contra illos qui expositorie et explicative et extra ipsum textum expositiones circa hunc librum apponunt, aut qui in suis expositionibus aliqua de textu abbreviant seu abbreviato modo suis glosaturis interserunt, sed solum loquitur de hiis, qui corrumpendo seriem et veritatem textus, fallaciter aliqua addunt vel subtrahunt. Erant enim in Asia tunc quidam heretici, pluresque erant in orbe futuri, qui ut suos errores firmius fovere possent, de facili apponerent vel minuerent aliquid in hoc libro. Ad horum igitur, ut dicit Ricardus, presumptionem refrenandam, excommunicationis adiungit sententiam et ostendit qua animadversione dignus est qui aliquid in hoc libro addere vel auferre presumit.
Secundo nota quod quia contra duos errores, scilicet false additionis et false subtractionis, habebat duas partes eterne dampnationis comminari, scilicet penam summi dampni amissionis glorie Dei et sanctorum et penam sensus plagarum infernalium, idcirco usitato more scripture per pulchram correpondentiam coaptavit scilicet unum uni sibi similius et aliud alteri; false enim additioni correspondet appositio plagarum et false ablationi correpondet ablatio vite beate. Intelligendum est tamen utramque penam utrique fraudi deberi.

Par. XVI, 7-9, 67-69

Ben se’ tu manto che tosto raccorce:
sì che, se non s’appon di dì in die,
lo tempo va dintorno con le force.

Sempre la confusion de le persone
principio fu del mal de la cittade,
come del vostro il cibo che s’appone

Par. XXIX, 88-90, 97-101

E ancor questo qua sù si comporta
con men disdegno che quando è posposta
la divina Scrittura o quando è torta.

Un dice che la luna si ritorse
ne la passion di Cristo e s’interpuose,
per che ’l lume del sol giù non si porse;
e mente, ché la luce si nascose
da sé …………………………..

Par. XIX, 133-135

e a dare ad intender quanto è poco,
la sua scrittura fian lettere mozze,
che noteranno molto in parvo loco.

 

Inf. VII, 58-60

Mal dare e mal tener lo mondo pulcro
ha tolto loro, e posti a questa zuffa:
qual ella sia, parole non ci appulcro.

Inf. XXIV, 136-139

Io non posso negar quel che tu chiedi;
in giù son messo tanto perch’ io fui
ladro a la sagrestia d’i belli arredi,
e falsamente già fu apposto altrui.

Par. VI, 28-33, 100-102

Or qui a la question prima s’appunta
la mia risposta; ma sua condizione
mi stringe a seguitare alcuna giunta,
perché tu veggi con quanta ragione
si move contr’ al sacrosanto segno
e chi ’l s’appropria e chi a lui s’oppone.

L’uno al pubblico segno i gigli gialli
oppone, e l’altro appropria quello a parte,
sì ch’è forte a veder chi più si falli.

 

Tab. 9

È proprio di Tiatira, la quarta chiesa d’Asia, ministrare i beni ai poveri: “Conosco il tuo ministero” dice Cristo ad Ap 2, 19. Poiché è proprio del vescovo dispensare ai poveri a lui soggetti i beni della chiesa come beni comuni e come beni dei poveri, si fa riferimento al “ministero”, per quanto possa essere anche inteso come ministero del Verbo di Dio. Il tema del ministrare è presente in due zone dell’Inferno afferenti al quarto stato: la Fortuna, sulla quale Virgilio ragiona nel quarto cerchio dove stanno gli avari e i prodighi, fu ordinata da Dio “general ministra e duce / che permutasse a tempo li ben vani” (Inf. VII, 78-79); la giustizia, infallibile “ministra / de l’alto Sire”, punisce nella decima bolgia i falsari (Inf. XXIX, 55-57; il motivo dell’occulta giustizia punitiva è, nell’esegesi della quarta chiesa, ad Ap 2, 23). La Fortuna è ordinata “a li splendor mondani”, cioè alla distribuzione di ogni bene temporale, come nei cieli le intelligenze angeliche fanno “sì, ch’ogne parte ad ogne parte splende, / distribuendo igualmente la luce” (Inf. VII, 73-78; nel quarto giorno Dio creò i “luminaria celi”: prologo, Notabile XIII).
Il sole, definito “quelli ch’è padre d’ogne mortal vita” (Par. XXII116), rientra nel complesso tematico del quarto stato (Ap 8, 12: quarta tromba): designa la solare vita di quegli anacoreti contemplativi che furono ‘padri’ degli altri. Vi rientrano anche le “stelle” che girano “ne l’alta rota” (vv. 119), poiché gli alti anacoreti sono anche stelle. Il sole è “lo ministro maggior de la natura” (Par. X, 28; ministrare è proprio di Tiatira, la quarta chiesa; cfr. la citazione di Luca 22, 26-27 ad Ap 19, 10 e l’esegesi della quarta vittoria, Ap 2, 26-28), nel suo cielo si manifesta “la quarta famiglia / de l’alto Padre” (vv. 49-50).
Il tema dell’oscurare le stelle, che nell’esegesi della quarta tromba (Ap 8, 12) consegue alla devastazione delle chiese orientali operata dai Saraceni al volgere del quarto stato, percorre le parole dette da Virgilio nel momento di discendere dal quarto al quinto cerchio infernale – “già ogne stella cade che saliva / quand’ io mi mossi, e ’l troppo star si vieta” (Inf. VII, 98-99): quelle stelle che salivano nell’emisfero orientale quando Virgilio mosse dal Limbo per salvare Dante, che corrispondono alle “chiese” orientali, ora scendono, passate all’emisfero occidentale. L’identificazione delle stelle con i vescovi che rilucono sopra le chiese come una lucerna o una stella sopra il candelabro del santuario è tema dell’ottava perfezione di Cristo sommo pastore, trattata nel primo capitolo (Ap 1, 16). Da notare la presenza tematica a Inf. XX, 127: “Christi redemptoris … nocturne claritatis – e già iernotte fu la luna tonda, riferita alla presenza della Grazia per la quale a Dante non nocque la “selva fonda”. Il verbo coartare, che l’esegesi appropria in senso negativo alla Chiesa ristretta al solo occidente in seguito alle devastazioni saracene, viene utilizzato, nell’Epistola VII, per affermare che la potestà imperiale non può essere ‘coartata’ “nec metis Ytalie nec tricornis Europe margine”.

 

[LSA, cap. II, Ap 2, 19.23 (Ia visio, IVa ecclesia)] Laudat autem hunc episcopum de sex. Primo scilicet de operibus sue inchoationis, ibi: “Novi opera tua” (Ap 2, 19). Secundo de fide, ibi: “et fidem”. Tertio de caritate, ibi: “et caritatem”. Quarto de ministrando pauperibus bona sua vel quecumque pietatis obsequia, ibi: “et ministerium tuum”. […] Quia etiam episcopi est ministrare seu dispensare pauperibus et precipue suis subditis bona ecclesie tamquam communia et tamquam bona pauperum, ideo subdit: “et ministerium tuum”, quamvis etiam possit stare pro ministerio verbi Dei; utroque enim modo sumitur Actuum VI° (Ac 6, 1-7). Nota etiam quod per huiusmodi laudem intendit monstrare aliquam notabilem precellentiam quam hic episcopus habebat in bonis istis, et idem est de ceteris supra vel infra laudatis. […]
“Et scient omnes ecclesie” (Ap 2, 23), scilicet per evidentiam facti, “quia”, id est quod, “ego sum scrutans renes et corda”, id est omnes internos cogitatus et affectus mentis et sensualitatis. In renibus enim viget sensualis concupiscentia carnis. Quando enim Deus aperte non punit mala quantum iustitia exigit, videtur ignorare mala et pondus eorum; quando autem iustissime et rigidissime et publicissime punit illa, tunc omnibus de facto patet quod ipse omnia mala quantumcumque occulta intime novit et ponderat, ac si ea profundissime scrutaretur.
Nota autem quam congrue proposuit Christus se habere oculos sicut flammam (cfr. Ap 2, 18), ut pateret quod omnia videt et penetrat et zelo ardenti urit et punit vel corripit, etiam permissionem huius episcopi, que vix crederetur esse peccatum nisi ipse eam increpasset tamquam culpabilem. “Et dabo” et cetera, id est ex predicto iudicio scient quod ego “dabo”, id est retribuam, “unicuique vestrum secundum opera sua”, id est bonis dabo bona et malis mala. Duos actus iudicii ordinate tangit. Primus est diligens examinatio seu perscrutatio; secundus est <iusta> secundum exigentiam meritorum et demeritorum retributio, et pro hoc secundo dicit: “et dabo” et cetera.

 

Inf. VII, 73-84

Colui lo cui saver tutto trascende,
fece li cieli e diè lor chi conduce
sì, ch’ogne parte ad ogne parte splende,
distribuendo igualmente la luce.
Similemente a li splendor mondani
ordinò general ministra e duce
che permutasse a tempo li ben vani
di gente in gente e d’uno in altro sangue,
oltre la difension d’i senni umani;
per ch’una gente impera e l’altra langue,   6, 8
seguendo lo giudicio di costei,
che è occulto come in erba l’angue.

Inf. XXIX, 55-57, 94-96

giù ver’ lo fondo, là ’ve la ministra
de l’alto Sire infallibil giustizia
punisce i falsador che qui registra.

E ’l duca disse: “I’ son un che discendo
con questo vivo giù di balzo in balzo,
e di mostrar lo ’nferno a lui intendo.

[LSA, prologus, Notabile XIII] In quarto vero (statu) fulxerunt anachorite in celo, id est in vita celesti, quasi luminaria celi, quorum patres fuerunt sicut sol, multitudo vero fuit <sicut> stelle in locis suis fixe et solitarie, quidam vero activi et inferiores fuerunt sicut luna (cfr. Gn 1, 14-19).

Par. X, 28-30, 49-51

Lo ministro maggior de la natura,
che del valor del ciel lo mondo imprenta
e col suo lume il tempo ne misura

Tal era quivi la quarta famiglia
de l’alto Padre, che sempre la sazia,
mostrando come spira e come figlia.

[LSA, cap. VIII, Ap 8, 12 (IIIa visio IVa tuba)] Per “solem” videtur hic designari solaris vita et contemplatio summorum anachoritarum, qui fue-runt patres et exempla aliorum, vel solaris sapientia et doctrina summorum doctorum.

Par. XXII, 112-117    2, 26-28

O glorïose stelle, o lume pregno
di gran virtù, dal quale io riconosco
tutto, qual che si sia, il mio ingegno,
con voi nasceva e s’ascondeva vosco
quelli ch’è padre d’ogne mortal vita,
quand’ io senti’ di prima l’aere tosco

[LSA, cap. XIX, Ap 19, 10 (VIa visio)] Tertia est ad monstrandum quod in statu et tempore humilitatis evangelice non permittunt sancti prelati se a suis subditis serviliter honorari, quia non se habent ad eos ut domini sed potius ut ministri et servi, iuxta quod Christus exemplo et verbo docuit Luche XXII°, ubi dicit: “Qui maior est in vobis fiat sicut minor”, et “Ego in medio vestrum sum sicut qui ministrat (Lc 22, 26-27).

[LSA, cap. VIII, Ap 8, 12 (IIIa visio, IVa tuba)] Rursus advertendum quod vastatio ecclesiarum orientalium facta per Sarracenos obscuravit maximam partemlune”, id est ecclesie; et “solis”, id est solaris fidei et veritatis, vel episcoporum et prelatorum ecclesie orientalis; et “stellarum”, id est religiosorum; et “diei” et “noctis”, id est diurne claritatis christianitatis, que est in fide et cultu Trinitatis et Christi redemptoris, et nocturne claritatis ipsius, que est in patientia adversorum et in bono regimine temporalium et in bonis moribus seu operibus active. Quale enim fuit tunc videre totum verum cultum Christi et totam veram christianitatem seu totam catholicam ecclesiam coartari ad solos latinos sive romanos, que prius erat in totum orbem et in omnes nationes et per multas patriarchales ecclesias diffusa.

 

Inf. VII, 97-99

Or discendiamo omai a maggior pieta;
già ogne stella cade che saliva
quand’ io mi mossi, e ’l troppo star si vietaNot. III

Ep. VII, 11-13

[…] non prorsus, ut suspicamur, advertens, quoniam Romanorum gloriosa potestas nec metis Ytalie nec tricornis Europe margine coarctatur. Nam etsi vim passa in angustum gubernacula sua contraxerit, undique tamen de inviolabili iure fluctus Amphitritis attingens vix ab inutili unda Oceani se circumcingi dignatur. […]

Inf. XV, 16-19

quando incontrammo d’anime una schiera
che venian lungo l’argine, e ciascuna
ci riguardava come suol da sera
guardare uno altro sotto nuova luna

Inf. XX, 124-129

Ma vienne omai, ché già tiene ’l confine
d’amendue li emisperi e tocca l’onda
sotto Sobilia Caino e le spine;
e già iernotte fu la luna tonda:
ben ten de’ ricordar, ché non ti nocque
alcuna volta per la selva fonda.

 

Tab. 10

[LSA, prologus, Notabile XI] Quantum ad undecimum, quomodo scilicet prefate visiones et earum partes possunt ad alia diversa tempora coaptari, ita quod septimus status potest coaptari ad quamlibet maiorem partem cuiuslibet status.
Sciendum quod sicut significatio unius dictionis sumitur aliquando large et aliquando stricte et proprie, et sicut manum vel vestem aliquando coartamus et aliquando in totam suam quantitatem explicamus, et aliquando quasi ultra proportionem sui status excessive extendimus, sic scripturas sacras et earum figuras aliquando coartamus a suo pleno sensu et aliquando ultra exigentiam litteralis proprietatis quasi extendimus, non quidem falso sed propter vim specialem et variam quam in se habent. […] Sub hiis autem modis possunt visiones huius libri particulariter vel totaliter ad alia tempora coaptari […].

Inf. V, 40-41, 46-47

E come li stornei ne portan l’ali
nel freddo tempo, a schiera larga e piena

E come i gru van cantando lor lai,
faccendo in aere di sé lunga riga

 

Inf. VI, 25-27

E ’l duca mio distese le sue spanne,
prese la terra, e con piene le pugna
la gittò dentro a le bramose canne.

Inf. XXV, 103-105

Insieme si rispuosero a tai norme,
che ’l serpente la coda in forca fesse,
e ’l feruto ristrinse insieme l’orme.

Inf. XVI, 130-136

ch’i’ vidi per quell’ aere grosso e scuro
venir notando una figura in suso,
maravigliosa ad ogne cor sicuro,
sì come torna colui che va giuso
talora a solver l’àncora ch’aggrappa
o scoglio o altro che nel mare è chiuso,
che ’n sù si stende e da piè si rattrappa.

Inf. XXXI, 130-132

Così disse ’l maestro; e quelli in fretta
le man distese, e prese ’l duca mio,
ond’ Ercule sentì già grande stretta.

Inf. XXXIII, 148-150

Ma distendi oggimai in qua la mano;
aprimi li occhi”. E io non gliel’ apersi;
e cortesia fu lui esser villano.

Par. XI, 22-24

Tu dubbi, e hai voler che si ricerna
in sì aperta e ’n sì distesa lingua
lo dicer mio, ch’al tuo sentir si sterna

Purg. IX, 46-48

“Non aver tema”, disse il mio segnore;
“fatti sicur, ché noi semo a buon punto;
non stringer, ma rallarga ogne vigore”.

Purg. XXIV, 64-66, 118-120, 130-132

Come li augei che vernan lungo ’l Nilo,
alcuna volta in aere fanno schiera,
poi volan più a fretta e vanno in filo

Sì tra le frasche non so chi diceva;
per che Virgilio e Stazio e io, ristretti,
oltre andavam dal lato che si leva.

Poi, rallargati per la strada sola,
ben mille passi e più ci portar oltre,
contemplando ciascun sanza parola.

Purg. XXIX, 97-99

A descriver lor forme più non spargo
rime, lettor; ch’altra spesa mi strigne,
tanto ch’a questa non posso esser largo

Purg. III, 1-4, 12-15

Avvegna che la subitana fuga
dispergesse color per la campagna,

rivolti al monte ove ragion ne fruga,
i’ mi ristrinsi a la fida compagna

la mente mia, che prima era ristretta,
lo ’ntento rallargò, sì come vaga,
e diedi ’l viso mio incontr’ al poggio
che ’nverso ’l ciel più alto si dislaga.

Purg. XXII, 16-21, 43-45, 73-75, 136-138; XXIII, 61-63, 67-69

mia benvoglienza inverso te fu quale
più strinse mai di non vista persona,
sì ch’or mi parran corte queste scale.
Ma dimmi, e come amico mi perdona
se troppa sicurtà m’allarga il freno,
e come amico omai meco ragiona:

Allor m’accorsi che troppo aprir l’ali
potean le mani a spendere, e pente’mi
così di quel come de li altri mali.

Per te poeta fui, per te cristiano:
ma perché veggi mei ciò ch’io disegno,
a colorare stenderò la mano.

Dal lato onde ’l cammin nostro era chiuso,
cadea de l’alta roccia un liquor chiaro
e si spandeva per le foglie suso.

Ed elli a me: “De l’etterno consiglio
cade vertù ne l’acqua e ne la pianta
rimasa dietro, ond’ io sì m’assottiglio ….
Di bere e di mangiar n’accende cura
l’odor ch’esce del pomo e de lo sprazzo
che si distende su per sua verdura”.

[LSA, prologus, Notabile XI] Sciendum quod sicut significatio unius dictionis sumitur aliquando large et aliquando stricte et proprie, et sicut manum vel vestem aliquando coartamus et aliquando in totam suam quantitatem explicamus, et aliquando quasi ultra proportionem sui status excessive extendimus, sic scripturas sacras et earum figuras aliquando coartamus a suo pleno sensu et aliquando ultra exigentiam litteralis proprietatis quasi extendimus, non quidem falso sed propter vim specialem et variam quam in se habent. […] Sub hiis autem modis possunt visiones huius libri particulariter vel totaliter ad alia tempora coaptari […].

Inf. XIII, 115-117, 151; XIV, 1-2

Ed ecco due da la sinistra costa,
nudi e graffiati, fuggendo sì forte,
che de la selva rompieno ogne rosta.

Io fei gibetto a me de le mie case.

Poi che la carità del natio loco
mi strinse, raunai le fronde sparte

Purg. III, 1-4

Avvegna che la subitana fuga
dispergesse color per la campagna,

rivolti al monte ove ragion ne fruga,
i’ mi ristrinsi a la fida compagna

Par. XII, 124-126

ma non fia da Casal né d’Acquasparta,
là onde vegnon tali a la scrittura,
ch’uno la fugge e altro la coarta.

 

Tab. 11

[LSA, cap. XVI, Ap 16, 10 (Va visio, Va phiala)] “Et quintus angelus” (Ap 16, 10), id est ordo sanctorum zelatorum quinti temporis, “effudit phialam suam super sedem bestie, et factum est regnum eius tenebrosum”. Nota quod sicut post quattuor ani-malia, quattuor primos status sanctorum desig-nantia, sublimata est generalis sedes romane ecclesie, ceteris patriarchalibus seu ecclesiis orientalibus a Christo et ab eius vera fide reiectis, sic in eodem quinto tempore, post quattuor bestias a Daniele visas et quattuor primis ordinibus sanctorum contrarias (cfr. Dn 7, 2-8), sublimata est ‘sedes bestie’, id est bestialis caterve, ita ut numero et potestate prevaleat et fere absorbeat sedem Christi, cui localiter et nominaliter est commixta, unde et sic appellatur ecclesia fidelium sicut et illa que vere est per gratiam sedes et ecclesia Christi.
Super huiusmodi vero malitiam non cessant zelatores sancti huius quinti temporis effundere phialam detestationis et celebris increpationis, ita quod “regnum” eius velit nolit evidenter apparet omnibus et etiam ipsismet “tenebrosum”, id est feda et enormi luxuria et avaritia et symonia et superbia et dolosa negotiatione et astutia et fere omni malitia dissi-patum et abhominandum, unde et infra vocatur Babilon meretrix habens in manu sua poculum aureum plenum abhominatione (Ap 17, 1, 4).

[LSA, prologus, Notabile II] Tertia est ad mon-strandum quod corpus reproborum continue in hac vita currit quasi commixtum et confligens cum corpore seu collegio electorum, et ad monstrandum quod unicuique statui seu exercitui electorum corres-pondet per contrarium proportionalis exercitus re-proborum.

Inf. VIII, 31-32

Mentre noi corravam la morta gora,
dinanzi mi si fece un pien di fango

Inf. XXIII, 68-69, 76-81, 91-93

Noi ci volgemmo ancor pur a man manca
con loro insieme, intenti al tristo pianto

E un che ’ntese la parola tosca,
di retro a noi gridò: “Tenete i piedi,
voi che correte sì per l’aura fosca!
Forse ch’avrai da me quel che tu chiedi”.
Onde ’l duca si volse e disse: “Aspetta,
e poi secondo il suo passo procedi”.

Poi disser me: “O Tosco, ch’al collegio
de l’ipocriti tristi se’ venuto,
dir chi tu se’ non avere in dispregio”.