La “Divina Parodia” del Libro scritto dentro e fuori [EN]Canti esaminati:Inferno: I; II; III; IV; V; VI; VII; VIII; IX; X; XI; XII; XIII; XIV; XV; XVI; XVII; XVIII; XIX; XX; XXI; XXII; XXIII; XXIV; XXV; XXVI; XXVII; XXVIII; XXIX; XXX; XXXI; XXXII, 1-123; XXXII, 124-XXXIII, 90; XXXIII, 91-157; XXXIVPurgatorio: III; XXVIII
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1. La landa infuocata. 2. Capaneo. 3. Il Bulicame. 4. I margini di pietra. 5. Il Veglio di Creta. Avvertenze. Abbreviazioni.
Legenda [3]: numero dei versi; 5, 12: collegamento ipertestuale all’esegesi, nella Lectura di Olivi, di capitolo e versetto dell’Apocalisse [Ap]; Not. V: collegamento all’esegesi contenuta nei tredici notabilia del prologo della Lectura. Varianti rispetto al testo del Petrocchi.
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Inferno XIV |
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Quartus status: prologus, Notabilia [Not.]; I visio, IV ecclesia (Tiatira: 2, 18-28); II visio, IV sigillum (6, 7-8); III visio, IV tuba (8, 12-13); IV visio, III-IV prelium (12, 14-16); V visio, IV phiala (16, 8-9); VI visio (18, 2). |
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Poi che la carità del natio loco
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Primo ciclo |
Secondo ciclo |
Inferno VII |
Inferno XIV |
« Pape Satàn, pape Satàn aleppe! », 7, 13; 2, 24
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Poi che la carità del natio loco
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Vengono posti a confronto Inf. VII e XIV, canti nei quali, rispettivamente nel primo e nel secondo ciclo settenario dell’Inferno, i temi del quarto stato prevalgono, semanticamente elaborati dalla parodia dantesca. La tematica si estende oltre i confini del canto e, come mostrato nella tabella complessiva, si intreccia con molti motivi propri di altri gruppi esegetici relativi agli status o periodi della storia della Chiesa. Rispetto al più breve settimo canto, il quattordicesimo mostra maggiore sviluppo nelle occorrenze semantiche che rinviano alla Lectura super Apocalipsim (VII: 27; XIV: 49): prologo (VII: 7; XIV: 5); quarta chiesa (Ap 2, 18-29; VII: 10; XIV: 20); quarto sigillo (Ap 6, 7-8; VII: 3; XIV: 12); quarta tromba (Ap 8, 12-13 [12, 1-2]; VII: 6; XIV: 1); quarta guerra (Ap 12, 13-16; VII: 1; XIV: 5); quarta coppa (Ap 16, 8-9; VII: 0; XIV: 5); VI visione, quarta parte (Ap 18, 2-3; VII: 0; XIV: 1).
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1. La landa infuocata
Cerniera tra gli ultimi versi di Inf. XIII e la prima terzina di Inf. XIV è la raccolta e restituzione delle “fronde sparte”, come richiesto dal fiorentino suicida incarcerato nel cespuglio straziato dalle “nere cagne”. Parodia dell’immagine della Scrittura che può essere interpretata talora in senso stretto e coartato e talaltra in senso esteso ed espanso (prologo, Notabile XI), nei versi case (XIII, 151) e strinse (XIV, 2) si oppongono a sparte (XIV, 2), come dimostra altra variazione sui medesimi temi a Par. XII, 124-126: Casal … Acquasparta. I due atti di Dante – “raunai le fronde sparte … e rende’le” (XIV, 2-3) – danno corpo a due motivi del pietoso e condiscendente quinto stato della storia della Chiesa, all’inizio del quale Carlo Magno, in seguito alla distruzione saracena delle chiese orientali, difese e raccolse la Chiesa a Roma e restituì al popolo latino la propria terra devastata dai Longobardi (prologo, Notabili V, XIII).
“A ben manifestar le cose nove” (Inf. XIV, 7) [1]. Cambia la scena. Alla terra creata nel terzo giorno, ma inaridita nel verde e nei frutti, rappresentata dalla selva dei suicidi devastata dal cinghiale dove i dottori del terzo stato della Chiesa troncano l’errore confutandolo, subentra l’immagine infernale e distorta di Tiàtira, la quarta chiesa d’Asia interpretata come “inflammata”, non però dalla fiamma della contemplazione ma dalla vendetta divina che piove sulla landa infuocata dove stanno i violenti contro Dio, puniti nel terzo girone del settimo cerchio. Inf. XIV, dove sono descritti i bestemmiatori, registra la prevalenza di temi del quarto stato della storia della Chiesa, proprio degli anacoreti o contemplativi nel periodo da Giustiniano a Carlo Magno e concorrente nel tempo con il terzo; è la seconda ‘zona quarta’ della prima cantica, segue i suicidi segnati dal terzo stato (Inf. XIII) e precede i sodomiti che rinviano al quinto (Inf. XV-XVI); la terza ‘zona quarta’ sarà assegnata, in Inf. XX, agli indovini.
■ La landa infuocata “dal suo letto ogne pianta rimove” ed è inghirlandata dalla “dolorosa selva” (Inf. XIV, 9-10). È metamorfosi poetica, con diversa appropriazione, di quanto Cristo dice della falsa e impenitente profetessa Gezabele nell’istruzione al vescovo della quarta chiesa, rimproverato per la sua condiscendenza verso colei che fu moglie di Acab re d’Israele e fautrice dei quattrocento profeti di Baal: “Io le ho dato il tempo per ravvedersi, ma non vuole pentirsi della sua fornicazione. Ecco, io la metto in un letto, e coloro che commettono adulterio con lei in una grandissima tribolazione” (Ap 2, 21-22; esegesi dall’ampio sviluppo nel corso del poema). Il letto di cui si parla non è un letto di quiete, ma il letto di dolore di si dice nel Salmo: “Il Signore lo sosterrà sul letto del dolore” (Ps 40, 4). Parla come se intendesse percuoterla con tante malattie e piaghe da farla sempre giacere inferma e prostrata nel letto, che si contrappone al letto della sua lussuria: “Loquitur autem ac si tot morbis et plagis eam percuteret quod semper infirma et prostrata iaceret in lecto”. Giacere è verbo tipico dei bestemmiatori (vv. 22, 26, 47); così termini come dolorosa, duolo, dolore (vv. 10, 27, 39, 66).
La landa è occupata da “una rena arida (come gli ipocriti interiormente inariditi, designati dal cavallo pallido all’apertura del quarto sigillo; la “rena” è tema dalla quinta guerra, ad Ap 12, 18) e spessa, / non d’altra foggia fatta che colei / che fu da’ piè di Caton già soppressa” (vv. 13-15). Il riferimento è alla traversata del deserto libico compiuta dall’esercito di Catone Uticense, di cui parla Lucano (Pharsalia IX, 382, 394-396: “Vadimus in campos steriles exustaque mundi … Dum primus harenas / ingrediar primusque gradus in pulvere ponam, / me calor aetherius feriat”), ma la maglia spirituale sono i piedi di Cristo simili all’oricalco proposti alla quarta chiesa (Ap 2, 18; Catone, il Gentile degno di significare Dio più di qualsiasi altro uomo terreno: Convivio, IV, xxviii, 15; il motivo dei “piedi” è ripetuto, appropriato a Dante, ai vv. 74-75; cfr. anche “i passi a randa a randa” al v. 12). La successiva apostrofe – “O vendetta di Dio, quanto tu dei / esser temuta da ciascun che legge / ciò che fu manifesto a li occhi miei!” (vv. 16-18) – corrisponde alla volontà di incutere timore in Gezabele con l’uso del tempo presente – “la metto”, non ‘la metterò’ nel letto di dolore -, quasi sottolineato nei versi dal contrasto tra il “tu dei” rivolto al lettore e il “fu manifesto”. Nel “poema sacro”, moderna Apocalisse, l’inciso “ciascun che legge / ciò che fu manifesto” rinvia la memoria dell’accorto lettore alla causa finale della “rivelazione” esposta nel testo giovanneo: «(Deus) “dedit” non solum ut eam sciret, sed etiam “palam facere”, id est ad manifestandum … “Beatus qui legit …”» (Ap 1, 1.3).
I contemplativi del quarto stato della Chiesa non furono tutti uguali – padri come il sole, sudditi come la luna o solitari come le stelle – (Ap 8, 12: quarta tromba); ai violenti contro Dio “parea posta lor diversa legge”: i bestemmiatori giacciono supini, gli usurai stanno seduti e raccolti, i sodomiti vanno “continüamente” (Inf. XIV, 21-24; la legge è tema del terzo stato: prologo, Notabile XIII). Giacere è propriamente un tema del quarto stato (pari a quello di Gezabele nel letto di dolore); sedere e raccogliersi è tipico del quinto (assimilato alla “sede” romana); i vittoriosi del quarto stato attendono a forti opere “ex longa continuatione”. I sodomiti è gente “più molta” rispetto ai bestemmiatori che giacciono (vv. 25-26), poiché il quinto stato, che segna tutta la zona riservata ai sodomiti, è caratterizzato dal ricevere in modo condescensivo le moltitudini, dopo l’ardua vita solitaria dello stato precedente.
■ Sovra tutto ’l sabbion, d’un cader lento, / piovean di foco dilatate falde, / come di neve in alpe sanza vento. / … tale scendeva l’etternale ardore (vv. 28-30, 37).
Lo zelo severo, preminente nel quinto stato, si appunta nel quarto contro lo stare pertinace proprio dell’età virile che si mostra stabile e ferma (Notabile III; cfr. lo stare, in senso prima positivo poi negativo, ai vv. 12, 139: “Quivi fermammo i passi a randa a randa … Omai è tempo da scostarsi”). Il tema della fermezza è contenuto anche nell’esegesi di Ap 20, 9 (settima visione), relativa al discendere dal cielo del fuoco divino che divorerà Gog e Magog e i loro eserciti. Seguendo Agostino (De civitate Dei, XX, 12), si afferma non trattarsi dell’estremo tormento di cui Cristo parla in Matteo 25, 41 dicendo “Andate, maledetti, nel fuoco eterno”, perché in tale caso il fuoco non verrà dal cielo. Questo fuoco è l’ardente zelo celeste che viene dalla fermezza dei santi, per il quale saranno tormentati i loro nemici. Olivi connette questo fuoco con quello che precede dinanzi a Dio e brucia intorno i suoi nemici, di cui al Salmo 96, 3, e con quello che, nel giorno del Signore, proverà la qualità dell’opera di ciascuno, secondo quanto scritto nella prima lettera ai Corinzi (1 Cor 3, 13), dove si tratta del fuoco che purga gli eletti prima che vengano glorificati nell’estremo giudizio.
Sul sabbione piove fuoco: “tale scendeva l’etternale ardore” quali le fiamme “salde” (il tema della fermezza dei santi) che Alessandro Magno “in quelle parti calde / d’Indïa” vide cadere sopra il suo esercito fino a terra (Inf. XIV, 31-37). Da notare, in una zona che sviluppa principalmente i temi del quarto stato, i motivi del calore e del fuoco, dal quale vengono afflitti i bestemmiatori al versamento della quarta coppa (Ap 16, 8-9) [2]. Come sopra ricordato, l’ardore e il fiammeggiare sono propri della quarta chiesa: Tiàtira viene infatti interpretata come “infiammata” (Ap 2, 18).
La nube pluviale, che ad Ap 10, 1 (sesta tromba) si accompagna, nell’angelo che ha la faccia come il sole, all’arcobaleno, designa l’amoroso dilatarsi ad arco di Cristo (o di Francesco) verso le miserie umane. Il tema del dilatarsi è congiunto con il tema del fuoco ad Ap 5, 8 (le coppe o fiale che sono infiammate e dilatate per la carità) e ad Ap 14, 20 (la valle Tofet, che sta fuori Gerusalemme, la quale secondo Isaia 30, 33 è “preparata, profonda e dilatata” e in essa “fuoco e legna abbondano e il soffio del Signore come torrente di zolfo” per incendiarvi il re degli Assiri col suo esercito). Sul sabbione “piovean di foco dilatate falde, / come di neve in alpe sanza vento”. La neve designa la rigidità e il rigore della giustizia divina, ed è contrapposta al calore della lana (Ap 1, 14: quarta prerogativa di Cristo come sommo pastore). L’essere “sanza vento” trova il suo significato spirituale ad Ap 7, 1, dove i quattro angeli che stanno sui quattro angoli della terra e tengono i quattro venti, possono essere interpretati come trattenenti l’influsso della grazia (il vento è l’intelligenza spirituale che con la dottrina feconda la terra).
■ Quali Alessandro in quelle parti calde / d’Indïa vide sopra ’l süo stuolo / fiamme cadere infino a terra salde, / per ch’ei provide a scalpitar lo suolo / con le sue schiere, acciò che lo vapore / mei si stingueva mentre ch’era solo: / tale scendeva l’etternale ardore; / onde la rena s’accendea, com’ esca / sotto focile, a doppiar lo dolore (vv. 31-39).
La landa (il “letto”) su cui giacciono supini i bestemmiatori sotto la pioggia infuocata, viene paragonata a “quelle parti calde d’Indïa”, dove Alessandro Magno vide cadere fiamme dal cielo, che egli provvide a far calpestare al suolo dalle sue schiere (scalpitar, come soppressa al v. 15, rinvia ad Ap 19, 15) “acciò che lo vapore / mei si stingueva mentre ch’era solo” (Inf. XIV, 31-36, allusione alla solitudine degli anacoreti distrutti dagli Arabi: Ap 5, 1; nella solitudine consiste il quarto esercizio della mente che ascende in modo ordinato alla perfezione, ad Ap 2, 1). La notizia, tratta da una presunta lettera di Alessandro ad Aristotele citata nei Meteora di Alberto Magno, viene armata dall’esegesi apocalittica oliviana.
Nella landa infuocata la sabbia si accende “com’ esca sotto focile” per raddoppiare il tormento dei dannati (Inf. XIV, 37-39). Così a Babylon va restituito il doppio del tormento inflitto ai santi (Ap 18, 6: quinta parte della sesta visione).
■ Sanza riposo mai era la tresca / de le misere mani, or quindi or quinci / escotendo da sé l’arsura fresca (vv. 40-42).
Nudi come gli anacoreti del quarto stato (v. 19; Ap 5, 1), per i dannati non ha riposo “la tresca de le misere mani” nello scuotere da sé l’arsura delle fiamme che cadono sul sabbione (Inf. XIV, 40-42): operare con le mani è uno dei motivi della quarta chiesa (Ap 2, 1); per l’arsura si può fare riferimento alla quarta coppa, versata sul sole (Ap 16, 8), mentre il tema del non aver riposo è riconducibile alla quarta vittoria, propria dei contemplativi che non cessano mai dall’operare (Ap 2, 26-28). Gregorio Magno, nel quarto stato della Chiesa, riportò l’arca del culto divino nella sede di Pietro e ordinò l’ufficio ecclesiastico in modo più solenne che per il passato, come David nella quarta età del mondo aveva ordinato gli uffici dei cantori, dei leviti e dei pontefici (prologo, Notabile XIII). Il motivo dei cori e dei cantori ordinati da David che, per estensione, è anche quello della danza, è reso dal “trescare”, verbo appropriato allo stesso re, l’“umile salmista” di Purg. X, 64-66. Nella digressione sul Veglio, Virgilio ricorda che Creta venne prescelta da Rea per nascondere il figlio Giove da Saturno, che lo avrebbe divorato, “e per celarlo meglio, / quando piangea, vi facea far le grida” dai Coribanti (Inf. XIV, 100-102), antica prefigurazione dei leviti e cantori ordinati da David e da Gregorio Magno.
[1] Olivi, ad Ap 5, 12, sottolinea che nella Scrittura sovente si afferma che qualcosa esiste quando si manifesta esteriormente, cosicché ciò che è “nuovo” non lo è di per sé, ma solo perché diventa noto, al modo con cui diciamo che il sole è ‘nuovo’ nel senso che appare nuovamente alla nostra vista.
[2] Nella quinta visione apocalittica, il quarto angelo versa la coppa sul sole, cioè sull’ipocrisia degli anacoreti che i santi dottori del quarto tempo vituperarono e resero confusa. Secondo Gioacchino da Fiore (Expositio), questi ipocriti si ritengono santi e più degni degli altri, e perciò se vengono rimproverati si accendono d’ira e sogliono lamentarsi e narrare la propria vita a quanti vengono a loro, in modo che sappiano che essi sono ripresi non per zelo di giustizia, ma per livore d’odio. Per questo gli uomini cominciano a scaldarsi, una volta che vedono generarsi liti e scandali tra quanti ritenevano santi. Così nel testo si dice: “e gli fu concesso” – al sole piagato dalla coppa versata – “di affliggere gli uomini col calore e col fuoco”, cioè di turbarli e accenderli d’ira contro i santi che li redarguiscono (Ap 16, 8). “E gli uomini si cossero per il gran caldo”, cioè per il grande abbruciamento dovuto al turbamento d’ira, “e bestemmiarono il nome di Dio che ha potere su queste piaghe e non si pentirono per dargli gloria” (Ap 16, 9). Questo perché, secondo Gioacchino, gli uomini ingannati e confusi dall’ipocrisia abbandonano coloro che avevano iniziato a venerare e, mutatisi in peggio, prorompono in blasfemie dicendo che quanti hanno prima seguito non vengono da Dio poiché odiano e perseguitano i suoi santi. Si può anche intendere, aggiunge Olivi, nel senso che quando questi ipocriti furono assoggettati dai Saraceni, riarsero di grandissima ira e impazienza contro Dio bestemmiando come empi e ingiusti i suoi giudizi, per cui erano stati così distrutti, ritenendosi con falsa presunzione santi e giusti. Essi provocarono i propri seguaci alla medesima impazienza, blasfemia e impenitenza, cosicché li fecero acremente scaldare.
Tab. 1
[LSA, cap. II, Ap 2, 21-22 (Ia visio, IVa ecclesia)] Exaggerat autem huius femine impenitentiam, subdens (Ap 2, 21): “Et dedi illi tempus ut penitentiam ageret”, id est ob hoc distuli ipsam occidere et dampnare, “et non vult penitere a fornicatione sua”. Propter quod comminatur ei, subdens (Ap 2, 22): “Et ecce ego mitto eam in lectum, et qui mecantur cum ea in tribulationem maximam”, scilicet mitto. Quidam habent hic “erunt in tribulatione” in ablativo, sed prima littera verior est et antiquior. Nota quod est lectus quietis, et de hoc non loquitur hic; et est lectus doloris, de quo in Psalmo XL° dicitur (Ps 40, 4): “Dominus opem ferat illi super lectum doloris eius”, et de hoc loquitur hic. Unde, secundum Ricardum, alia translatio habet: “Mitto eam in luctum”. Loquitur autem ac si tot morbis et plagis eam percuteret quod semper infirma et prostrata iaceret in lecto, et loquitur per contrapositionem ad lectum sue luxurie.
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[LSA, cap. V, Ap 5, 1 (IVum sigillum)] Secunda causa seu ratio septem sigillorum libri est quia in Christo crucifixo fuerunt septem secundum humanum sensum et estimationem abiecta, que claudunt hominibus sapientiam libri eius. In eius enim cruce et morte apparet humano sensui summa impotentia (I) et angustia (II) et stultitia (III) et inopia (IV) et ignominia (V) et inimicitia (VI) et sevitia (VII). […] Contra vero inopiam est eiusdem doctrine refectivus et copiosissimus sapor. Sicut enim mercatio sapientie per fidele studium scripturarum refertur ad doctores, et statera dolosi erroris, a recta equilibratione veritatis claudicans, respicit hereticos, sic spiritalis sapor et refectio eiusdem sapientie Christi refertur ad anachoritas, tantam eisdem sufficientiam tribuens ut nichil exterius querere viderentur nec aliquo exteriori egere, propter quod quasi nudi et soli in solitudinibus habitabant spiritalibus divitiis habun-dantes. […] Vel in quarta apertione designatur copia virtutis et vite anachoritarum per suum contrarium, scilicet per internam mortem et ariditatem ypocritarum in pallido equo, id est corpore exterius apparenter macerato, sedentium (cfr. Ap 6, 8).
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Inf. XIV, 7-42, 46-48, 65-66, 73-75A ben manifestar le cose nove,
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2. Capaneo
I’ cominciai: « Maestro, tu che vinci
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■ Variazione su temi dall’esegesi di Ap 7, 13 (apertura del sesto sigillo) è la domanda di Dante al suo maestro Virgilio su chi sia “quel grande“, dove però il motivo è, come di consueto, diversamente appropriato, poiché nel parodiato testo sacro è il gran vegliardo – “unus et magnus de hiis viginti quattuor senioribus”, inciso al quale fa da contrappunto la reminiscenza di Stazio, Theb. X, 872: “ingenti Thebas exterruit umbra – che funge da maestro e domanda chi siano e da dove vengano quanti vestono le bianche stole. Una ripresa dei temi da Ap 7, 13 è ai versi 130, 133-134.
■ La figura di Capaneo, che “giace dispettoso e torto”, ha presente il gigante di Stazio “torvus adhuc visu” dopo la morte intervenuta per il fulmine di Giove (Theb. XI, 10). Per ritrovare nel panno esegetico i fili dei due aggettivi “dispettoso e torto”, bisogna collazionare un passo da Ap 6, 5, relativo all’apertura del terzo sigillo, con altro da Ap 11, 8-9, relativo alla sesta tromba. In Ap 6, 5 “torto” indica la falsa misurazione che deriva dall’errore e dal falso e distorto accoglimento della Scrittura, pesata con la stadera dolosa, alla quale si riferiscono i Proverbi: “La bilancia falsa è in abominio al Signore” (Pro 11, 1). In Capaneo si può interpretare “torto” sia “di torvo aspetto”, sia “distorto nel corpo” poiché non rassegnato alla pena: l’armatura esegetica induce comunque i motivi dell’errore, del falso, dell’abominio. In questo caso il panno (Ap 6, 5) è il medesimo da cui deriva lo storcere i piedi da parte del simoniaco Niccolò III (Inf. XIX, 64) o lo storcersi di Bruto penzolante dal nero ceffo di Lucifero (Inf. XXXIV, 66). E ciò anche se l’episodio di Capaneo si inquadra in una zona in cui prevalgono i temi del quarto stato piuttosto che del terzo.
Ad Ap 11, 8-9 si dice che i corpi dei due testimoni Enoch ed Elia, uccisi dall’Anticristo, “giaceranno nelle piazze della grande città, che spiritualmente si chiama Sodoma ed Egitto, dove anche il loro Signore fu crocifisso”. Secondo Gioacchino da Fiore, la grande città designa il regno di questo mondo – la città dei reprobi – e le sue piazze quegli uomini che scelsero le ampie vie che conducono alla perdizione, nelle quali giaceranno morti i corpi dei santi poiché l’intelligenza spirituale della Scrittura sarà morta con essi, una volta uccisi dalla bestia, e la verità, come dice Daniele (Dn 8, 12), sarà prostrata in terra. In questa Gerusalemme terrena l’Anticristo, predicando in qualità di messia e di salvatore, convocherà i Giudei. Concorda con questo Daniele: “uomini violenti del tuo popolo insorgeranno per adempiere la visione” (Dn 11, 14), per mantenere cioè le promesse della lettera dei profeti sulla Gerusalemme terrena e sul suo messia. Secondo Riccardo di San Vittore, la cui esegesi non si discosta su questo punto da quella di Gioacchino, nelle piazze della grande città, che un tempo fu grande per la giustizia e allora sarà grande per la malizia, giaceranno i corpi dei santi in modo che, al vederli, tutti paventino il seguire la loro fede, ed anche tengano in maggiore dispregio i due testimoni morti e la dottrina da essi predicata. La città viene chiamata “Sodoma”, cioè muta, ed “Egitto”, cioè tenebrosa, poiché sarà muta nel confessare la vera fede e tenebrosa per pravità. Oppure l’appellativo “Egitto” designa l’eccesso di persecuzione verso Israele, cioè verso i santi, al modo del Faraone, che fece crudelmente tribolare il popolo di Dio, in particolare dal momento in cui ebbe l’ordine di uscire dall’Egitto. Come a quel tempo vi fu somma idolatria e avarizia, così anche qui ci sarà una grande idolatria dell’errore e un’abominevole adorazione dell’Anticristo. Uomini di ogni popolo, tribù, lingua e gente, confluiti da diverse parti nella città regia, vedranno i due testimoni giacere “occisi et despecti” per tre giorni e mezzo, fino alla loro inopinata resurrezione. Gli uomini dell’Anticristo “non permetteranno che i loro corpi vengano deposti nei monumenti”, cosicché di essi non resti alcuna memoria nei posteri, i loro cadaveri imputridiscano ed emanino fetore davanti a tutti e tutti li abbiano di conseguenza in maggiore dispregio.
I due passi, Ap 6, 5 e 11, 8-9, nel primo dei quali è proposto il tema del “torto” e nel secondo quello del “dispetto”, sono collegati dal comune riferimento all’errore e all’abominio. Al gigante blasfemo sono appropriati due motivi tratti da Ap 11, 9 – “despecti iacebunt in plateis” -, ma il senso originario è variato nel secondo: se il giacere mantiene il valore che ha nel testo esegetico, “dispettoso” non è rivolto verso Capaneo prostrato, ma lo muove a disdegno e a pregiar poco la pioggia di fuoco che cade sopra di lui. D’altronde disprezzare la vita altrui per erronea presunzione nel misurare detti e fatti appartiene all’apertura del terzo sigillo, come si desume dall’esegesi collettiva delle tre aperture (la seconda, la terza e la quarta) in cui si mostrano nei cavalli rosso, nero e pallido, i tre eserciti contrari a Cristo (ad Ap 6, 3). Capaneo, che “giace dispettoso e torto”, si può confrontare con Caifas il quale, al vedere Dante, “tutto si distorse” (Inf. XXIII, 112) e con Aman “dispettoso e fero” (Purg. XVII, 26).
■ Capaneo “non par che curi lo ’ncendio”: a Dante pare di vederlo ricevere su di sé la pioggia di fuoco senza farsi riparo con “la tresca / de le misere mani” descritta nella terzina precedente (vv. 40-42). Giace senza provare apparente dolore, “dispettoso e torto” nel viso, “sì che la pioggia non par che ’l marturi”. I martìri purgano, non lasciano riposare o intorpidire la mente (Ap 2, 1), non consentono, diversamente da Capaneo, tregua alle mani che scuotono “da sé l’arsura fresca” mentre si sta “sotto la pioggia de l’aspro martiro” (Inf. XVI, 6). La variante maturi, pur maggiormente attestata dalla tradizione, sarebbe l’unica attestazione del verbo nella prima cantica e, se il senso fosse quello di ‘addolcire’ (Inglese), non si vede, secondo quanto asserito dal Petrocchi, come l’aspetto del gigante possa mitigarsi, “mancando nell’Inferno ogni miglioramento della fisionomia del dannato”. Contro l’argomento che maturi si contrappone ai duri demoni del v. 44 e concordi col non s’ammorza del v. 63, si risponde con le parole di Virgilio ai vv. 65-66: “nullo martiro, fuor che la tua rabbia, / sarebbe al tuo furor dolor compito”, cioè la pioggia non ti martìra, perché solo la tua rabbia lo può fare. È vero che la pioggia fruttifica le sementi facendole maturare, ma ciò è già di per sé contenuto nell’effetto purgativo del martirio, come esposto nell’esegesi di Ap 2, 1 (cfr. l’uso di maturare a Purg. XIX, 91, 141).
E quel medesmo, che si fu accorto
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Acceso d’ira come gli ipocriti che, al versamento della quarta coppa, si ritengono più degni degli altri, e per questo sogliono scaldarsi e narrare della propria vita a quanti vengono a loro (Ap 16, 8), il superbo Capaneo stravolge caparbiamente il versetto: «“et sum vivus et fui mortuus” – gridò: “Qual io fui vivo, tal son morto”» (Ap 1, 8; Inf. XIV, 51).
« Se Giove stanchi ’l suo fabbro da cui
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Memori dei versi virgiliani sulla forgia delle armi di Enea (Aen. VIII, 439-443), le parole di Capaneo – “Se Giove stanchi ’l suo fabbro … o s’elli stanchi li altri …” – elaborano il motivo del cavallo pallido all’apertura del quarto sigillo (Ap 6, 8), cui è da ricondurre anche Creta come “paese guasto” nella digressione virgiliana sul Veglio (v. 94). Capaneo, nel suo blasfemare, cita la “folgore aguta / onde l’ultimo dì percosso fui”: percuotere ed essere acuto sono motivi propri della spada di Cristo ad Ap 1, 16, 2, 12 e 19, 15, la quale viene sostituita dalla folgore in quanto spada e folgore “fendono” e “penetrano” entrambe in modo acuto i cuori e i vizi (come dimostra l’esegesi simmetrica di Ap 8, 5, 11, 19 e 16, 18). Il linguaggio esprime una costanza nella superbia che non “s’ammorza”. La caparbietà, in vita e in morte – «gridò: “Qual io fui vivo, tal son morto”» -, è sottolineata dall’inciso “onde l’ultimo dì percosso fui”, che riprende, quasi sfidandola, la raccomandazione di Cristo alla chiesa di Smirne, quella dei martiri, di mantenersi fedele “usque ad ultimum diem vite sue” (Ap 2, 10).
Parodia dell’aiuto che la terra recò alla donna (la Chiesa) contro il fiume emesso dal serpente per travolgerla – “Et adiuvit terra mulierem et aperuit os suum et absorbuit flumen” (Ap 12, 16) è il grido “Buon Vulcano, aiuta, aiuta!” da parte di Giove impegnato nella battaglia di Flegra contro i giganti i quali, come i Ciclopi che lavoravano “in Mongibello a la focina negra”, erano “figli della terra” (Inf. XIV, 57; cfr. XXXI, 121). La terra ‘aiutò’ il cielo non inviando Anteo ai campi di Flegra, come ricordato da Lucano (Phars. IV, 596-597).
Anche morto, Capaneo continua il combattimento; nelle sue parole risuonano i motivi del saettare e della “pugna”, parodia della vittoriosa uscita di Cristo, all’apertura del primo sigillo, nel campo del mondo sul quale invia le sue saette, cioè le sentenze di condanna dei reprobi, oppure la predicazione degli apostoli che converte i cuori; Ap 6, 2) [1]. Per cui è da considerare la variante Campaneo, largamente attestata.
Allora il duca mio parlò di forza
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Il gridare con forte voce da parte dell’angelo che ad Ap 18, 2 annuncia la caduta di Babylon (quarta parte della sesta visione) si travasa nel volgersi di Virgilio a Capaneo: “Allora il duca mio parlò di forza / tanto, ch’i’ non l’avea sì forte udito” (Inf. XIV, 61-62). E Capaneo, la cui superbia “non s’ammorza”, fu “quel che cadde a Tebe giù da’ muri” come detto nel paragone con la superbia di Vanni Fucci (Inf. XXV, 13-15).
Il primo difetto che rende chiuso il quarto sigillo (ad Ap 5, 1) è il superbo essere indomito della nostra libertà: nella quarta apertura la morte che siede sul cavallo pallido (Ap 6, 8), cioè sulla carne già morta e impallidita (i Saraceni), domò e infranse la superba libertà delle chiese orientali che non vollero sottoporsi alla sede e alla fede di Pietro. E certo, afferma Olivi, nulla è più adatto ad infrangere la superbia del nostro potere quanto l’assidua considerazione ed esperienza della fragilità umana e della morte. Per spuntare la superbia umana è infatti detto nell’Ecclesiastico: “A che insuperbisci, terra e cenere?” (Ecli 10, 9) e: “In tutte le tue opere ricordati della tua fine, e non cadrai mai nel peccato” (Ecli 7, 40). Se il Flegetonte, col vapore che da esso esala, “sovra sé tutte fiammelle ammorta” (Inf. XIV, 90), la superbia di Capaneo “non s’ammorza“, è cioè indomabile anche con la morte (vv. 63-64).
Lo sviluppo di temi relativi alla superbia degli anacoreti o contemplativi del quarto periodo della storia della Chiesa accomuna Capaneo a Filippo Argenti e all’orgoglio fiorentino.
Poi si rivolse a me con miglior labbia,
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“Quei fu l’un d’i sette regi / ch’assiser Tebe”: è parodia di Tobia 12, 15: “Raphael dicit se esse unum de septem astantibus ante Dominum”, citato nel prologo, Notabile XIII della Lectura super Apocalipsim.
“Ed ebbe e par ch’elli abbia / Dio in disdegno”: variazione sull’esegesi di Ap 2, 5 (la superbia di Efeso, chiesa metropolitana, il cui primato venne traslato ad altri), già appropriata al “disdegno” di Guido Cavalcanti (Inf. X, 63).
[1] Le saette del divino eloquio risultano impenetrabili a Capaneo, che pare dotato di una corazza come quella dei cavalieri di Ap 9, 9.17.
Tab. 2
[LSA, cap. VIII, Ap 8, 5 (IIIa visio, radix)] […] “et fulgura”, scilicet coruscantium et stupendorum miraculorum, vel superfervidorum eloquiorum sic penetrantium et scindentium et incendentium corda sicut fulgur terrena penetrat et scindit, vel “fulgura” iudiciorum terribilium, ut cum Ananias et Saphira repente occisi sunt ad sententiam Petri, prout scribitur Actuum quinto (Ac 5, 1-11).[LSA, cap. XI, Ap 11, 19 (IVa visio, radix)] “Et facta sunt fulgura”, scilicet miraculorum coruscantium et predicationum superfervidarum et acutissimarum eterna iudicia terribiliter comminantium et declarantium et eterna premia clarissime et subtilissime demonstrantium.[LSA, cap. XVI, Ap 16, 18 (VIa visio, radix)] Quorum primum (preambulum) est sancta predicatio et comminatio ipsam (Babilonem) ad penitentiam exhortans. Unde ait: “Et facta sunt fulgura”, scilicet coruscantium miraculorum et ferventium eloquiorum instar fulguris vitia ferientium […] Sicut enim Ioachim ait, quando Deus vult mutare statum ecclesie precedunt ante per aliquot annos fulgura miraculorum et voces exhortationum et tonitrua spiritualium eloquiorum, ut homines excitentur et intelligant quod novum aliquid facturus sit Dominus super terram. |
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Inf. XXVI, 121-126Li miei compagni fec’ io sì aguti,
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Inf. XIV, 52-54Se Giove stanchi ’l suo fabbro da cui
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[LSA, cap. I, Ap 1, 16 (Ia visio, radix)] Nona (perfectio summo pastori condecens) est iudiciarie correctionis et retributionis recta et severa iustitia, unde subdit: “et de ore eius gladius ex utraque parte acutus exibat”. Per gladium intelligitur Dei sententia omnia penetrans et cuncta vitia undique absque acceptione personarum abscindens, secundum illud Apostoli ad Hebreos IIII° (Heb 4, 12): “Vivus est sermo Dei et efficax et penetrabilior”, id est penetrantior, “omni gladio ancipiti”. Est etiam utraque parte acutus quia non solum percutit extraneos sed etiam suos prout iustitia exigit, secundum illud Iob IX° (Jb 9, 22): “Innocentem et impium ipse consumet”, iustum quidem ne glorietur et ut amplius expurgetur, impium vero ne perseveret in malo aut ne condempnetur. Per gladium etiam intelligitur Dei verbum seu doctrina penetrans intima cordium et vitia scindens, secundum illud ad Ephesios VI° (Eph 6, 17): “Et gladium Spiritus, quod est verbum Dei”.[LSA, cap. II, Ap 2, 12 (Ia visio, IIIa ecclesia)] Hiis autem premittuntur duo, scilicet preceptum de scribendo hec sibi et introductio Christi loquentis, cum subdit (Ap 2, 12): “Hec dicit qui habet rumpheam”, id est spatam, “ex utraque parte acutam”. Hec congruit ei, quod infra dicit: “pugnabo cum illis in gladio oris mei” (Ap 2, 16). Unde contra doctores pestiferos erronee doctrine et secte ingerit se ut terribilem confutatorem et condempnatorem ipsorum per incisivam doctrinam et condempnativam sententiam oris sui. Dicit autem “ex utraque parte”, non solum quia absque acceptione personarum omnia vitia scindit et resecat vel condempnat, sed etiam quia contrarios errores destruit. Arrius enim, quasi ex uno latere, errat dicendo Dei Filium esse substantialiter diversum a Patre tamquam eius creaturam. Sabellius vero, quasi ab opposito latere, dicit quod eadem persona est Pater et Filius. Fides autem Christi utrumque scindit et resecat. |
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[LSA, cap. XIX, Ap 19, 15 (VIa visio)] “Et de ore eius procedit gladius acutus” (Ap 19, 15), id est sententia subtilis et rigida (quidam habent “ex utraque parte”, sed antiqui non habent hic “ex utraque parte” neque Ricardus, sed supra capitulo I° [Ap 1, 16]), “ut in ipso percutiat gentes”, quas-dam scilicet in eternum interitum, quasdam vero ad correctionem et ad vitiorum suorum extinctionem. “Et ipse reget eas in virga ferrea”, id est in inflexibili iustitia. Qui enim nolunt converti blanditiis et humilitate necesse est ut tunc temporis sentiant severitatem et fortitudinem discipline eius, ut saltem sero subiciantur sceptro ipsius. Rebelles autem sentient furorem eius, unde subditur: “Et ipse calcat torcular vini furoris ire Dei omnipotentis”, id est ipse premit impios penis mortiferis quas Deus Trinitas quasi furibundus et iratus propinat eis. |
Inf. XXII, 55-57E Cirïatto, a cui di bocca uscia
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Le folgori, nelle simmetriche esegesi di Ap 8, 5; 11, 19 e 16, 18, con acuta eloquenza feriscono i vizi; l’acro senso morale della Scrittura li punge (Ap 6, 6); l’acuta spada a doppio taglio, che Cristo tiene in bocca, li percuote e scinde (Ap 1, 16; 2, 12; 19, 15). Si notino le variazioni su questi temi operate nella semantica dei versi, la loro metamorfosi (il “remo” sostituisce la “spada”), e l’estensione dell’esegesi di Ap 19, 15 al sentire la verga o lo scettro di Cristo (“la mazza d’Ercule” provata da Caco). |
Tab. 3
[LSA, cap. IX, Ap 9, 17 (IIIa visio, VIa tuba)] “Et qui sedebant super equos habebant loricas igneas et sulphureas et iacinctinas” (Ap 9, 17). Per loricam designatur pertinax et impenetrabilis defensio et obstinatio. Et secundum Ioachim, per igneam designatur fervens ira, per sulphuream autem fetens luxuria, per iacinctinam vero, que est coloris celestis seu etherei, designatur ypocrisis simulans se celestem et celestium contemplatricem. Hiis enim tribus teguntur sessores pseudoprophete, ne sagittis et spiculis verborum Dei possint transfigi. Ira enim et zelus eius amarus non permittit eos cernere verum, nec etiam rationem et iustitiam audire, immo nec tolerare quod in aliquo dissentiatur ab eis.[LSA, cap. IX, Ap 9, 9 (IIIa visio, Va tuba)] Pro sexta (mala proprietate locustarum) dicit (Ap 9, 9): “Et habebant loricas sicut loricas ferreas”, id est sic sunt armati dura pertinacia quod nulla sagitta divini eloquii aut salubris increpationis et compunctionis possunt penetrari. |
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Inf. XIV, 52-62; XXV, 13-15“Se Giove stanchi ’l suo fabbro da cui
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[LSA, cap. XVIII, Ap 18, 2 (VIa visio)] “Et exclamavit in forti voce” (Ap 18, 2), id est constanter et ferventer et efficaciter dicens: “Cecidit, cecidit Babilon magna”. Hec geminatio est signum iocunde et fortis affirmationis et etiam vehementis seu duplicis casus Babilonis, ut expositum est supra XIIII° (cfr. Ap 14, 8).
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3. Il Bulicame
Il fiumicello, rosso per il sangue bollente, che esce dalla selva e se ne va per l’arena del sabbione, “quale del Bulicame esce ruscello / che parton poi tra lor le peccatrici”, è il Flegetonte (Inf. XIV, 76-81). Questo tartareo fiume di virgiliana memoria è insieme uno e partito, come lo Spirito increato. Che si tratti proprio dei doni dello Spirito, intesi in senso negativo, lo dimostra la presenza del verbo partire, appropriato all’acqua del ruscello che esce dal Bulicame, la sorgente sulfurea presso Viterbo: come si può vedere ad Ap 5, 6 (passo simmetrico ad Ap 1, 4, dove il secondo modo del dare, ivi trattato, proviene dai sette spiriti che stanno dinanzi al trono) [1], l’increato spirito di Cristo – che ha in sé la “plenitudo spiritualis fontalitatis”-, in sé uno e semplice, viene “partito”, cioè diviso, in sette doni. Una variante del medesimo tema è l’uscita nell’Eden da una sola sorgente di un’unica acqua (“d’una fontana”) che poi da sé si ‘diparte’ nel Lete e nell’Eunoè, assimilati al Tigri e all’Eufrate di Genesi 2, 14 (Purg. XXXIII, 112-117). Immagine che si ripercuote nel finale della Monarchia (III, xv, 15), per attestare che l’autorità del Monarca temporale discende direttamente dall’unico fonte dell’universale autorità, che da semplice si fa molteplice “ex habundantia bonitatis”.
Così il fiumicello, che è “uno” e poi “partito” tra le “peccatrici”, può designare i doni intellettuali che si volgono al peccato, secondo quando detto ad Ap 17, 3 degli ornamenti della donna seduta sopra la bestia scarlatta dalle sette teste e dieci corna (cfr. Inf. XIX, 109-111: “quella che con le sette teste nacque, / e da le diece corna ebbe argomento, / fin che virtute al suo marito piacque”).
Entrano in collazione altri passi, in particolare quelli relativi al fiume. Ad Ap 14, 20, parte finale della settima guerra, si dice che dal lago dell’ira divina, nel quale l’angelo ha gettato l’uva vendemmiata e che viene “calcato” fuori della città di Dio, “uscì sangue fino al morso dei cavalli per una distanza di 1600 stadi”. Appartengono a questo gruppo il torrente sulfureo (il “Bulicame”), l’uscita del sangue, il “parvum flumen” che diventa poi inguadabile.
Nella settima visione, a Giovanni viene mostrato il fiume nobilissimo che scorre nel mezzo della Gerusalemme celeste (Ap 22, 1). Designa l’abbondanza della gloria che Dio emana sui beati. Questo fiume che “procede dalla sede”, cioè dalla maestà di Dio e dell’Agnello, è lo Spirito Santo e la grazia e la gloria per la quale e nella quale la sostanza della somma Trinità deriva e viene comunicata a tutti i santi e soprattutto ai beati. Essa procede anche dall’Agnello che, in quanto uomo, la dispensa per merito. Viene detto “fiume” per la copiosità e continuità; “di acqua” perché rinfresca, lava e ristora; “viva” perché, secondo Riccardo di San Vittore, scorre sempre senza mai venir meno. Il Bulicame si presenterebbe in tal modo come la versione negativa di questo fiume paradisiaco, aspetto che potrebbe essere ancor più accentuato se si considera l’etimologia corrente di Viterbo, proposta da Giovanni Villani, come Vita Erbo, cioè “vita agl’infermi, ovvero città di vita”.
Ap 1, 5, passo in cui si tratta del quinto primato di Cristo uomo, “che ci lavò dai nostri peccati con il suo sangue”, presenta il motivo della colpa lavata dal bagno nel sangue caldo e (nel caso di Cristo) puro.
Ad Ap 17, 6 è esposta l’esegesi, considerata per esteso altrove, del fiume sanguigno nel paganesimo e nel cristianesimo. Il fiume designa la prostituta e le sue genti antiche e recenti che peccarono e, lavate dalla Grazia, caddero recidive.
Le “peccatrici” che si dividono l’acqua del Bulicame, assimilata al rosso e bollente Flegetonte, possono bene designare, come interpretato dall’Ottimo, le prostitute che curano le loro malattie. I fiumi Flegetonte e Lete sono accomunati nella risposta di Virgilio alla domanda del discepolo in Inf. XIV, 130-138; il Lete è “là dove vanno l’anime a lavarsi / quando la colpa pentuta è rimossa” (cfr. Ap 7, 17; 21, 4).
A questo punto, tenuto conto della stretta connessione tra fiume, sangue, lavare e peccato proposta dall’esegesi, è da escludere la congettura “pettatrici” in luogo di “peccatrici” per indicare coloro, non prostitute ma lavoratrici della canapa, che si dividerebbero l’acqua del ruscello uscito dal Bulicame. “Peccatrici” è infatti la lezione offerta dall’unanime tradizione manoscritta, e modificata per il solo fatto che le fonti storiche conosciute tacciono o non testimoniano con sufficiente sicurezza della presenza di meretrici che facessero uso dell’acqua termale per lavarsi.
[1] Purg. XXX inizia allorché i sette candelabri, che aprono la processione nell’Eden, si fermano. Essi sono definiti “il settentrïon del primo cielo, / che né occaso mai seppe né orto”, cioè l’Orsa dell’Empireo la quale, come l’Orsa terrestre, segna il cammino da percorrere. I sette candelabri designano i sette doni dello Spirito increato, che non ha principio né fine. Il “settentrion” rende ciascuno consapevole di quello che debba fare e, fermandosi, fa in modo che i ventiquattro seniori che lo seguono si volgano al carro. I seniori si volgono al carro “come a sua pace”, e uno di loro invoca l’arrivo di Beatrice cantando tre volte “Veni, sponsa, de Libano”. Il confronto è con l’esegesi di Ap 1, 4, dove si parla dei “sette spiriti che stanno dinanzi al suo trono”. Si precisa trattarsi dello Spirito increato, semplice per natura e settiforme per grazia, radice e forma esemplare dei sette stati della Chiesa che costituiscono l’oggetto principale del libro dell’Apocalisse. Viene detto che i sette spiriti sono dinanzi al trono perché fanno stare nel cospetto di Dio e della sua sede coloro i quali ne sono pieni (il carro-Chiesa militante tirato dal grifone-Cristo), secondo le parole di san Paolo ai Romani (Rm 8, 26): “è lo stesso Spirito che domanda per noi”, perché ci fa domandare (i seniori invocano l’arrivo di Beatrice).
Tab. 4
4. I margini di pietra
Il tema del timoroso rifugiarsi presso le pietre misericordiose, del darsi per paura alla roccia, proprio dell’apertura del sesto sigillo (Ap 6, 12-17), può essere confrontato con quanto detto nell’esegesi dell’apertura del quarto sigillo (Ap 6, 7-8). Gioacchino da Fiore aveva identificato (nell’Expositio in Apocalypsim) il cavallo pallido, che si mostra all’apertura del quarto sigillo, con il regno dei Saraceni, che corrisponde per concordia al regno degli Assiri, i quali sotto il quarto sigillo dell’Antico Testamento devastarono e resero schiave le dieci tribù di Israele e quasi fecero lo stesso con il regno di Giuda, come all’apertura del quarto sigillo nel Nuovo Testamento furono devastate le chiese orientali – le nuove dieci tribù – e quasi la stessa sorte toccò alla chiesa latina, assimilata al regno di Giuda poiché, come in questo fu la vera e principale sede del culto divino (della vera lingua), così lo è nella chiesa latina o romana. Come allora, aggiunge Olivi, la tribù di Beniamino venne congiunta al regno di Giuda, così Paolo, della tribù di Beniamino, si congiunse in Roma con Pietro, che nel principato della fede fu un altro Davide e, tra gli apostoli, patriarca della nostra fede. Fu come il patriarca Giuda, al quale fu detto: “non sarà tolto lo scettro da Giuda” (Genesi 49, 10), poiché a lui Cristo disse: “io ho pregato per te, Pietro, perché non venga meno la tua fede” (Luca 22, 32.34) e “le porte degli inferi non prevarranno contro di essa”, contro cioè la Chiesa fermata sopra la tua fede (Matteo 16, 18).
Dalla selva, che inghirlanda l’“orribil sabbione” dove stanno i violenti contro Dio, esce un fiumicello rosso sangue, che se ne va giù per la rena. È il Flegetonte: ha il fondo, le pendici e i margini fatti di pietra e per questo consente di attraversare la rena infuocata (Inf. XIV, 82-84) [1]. Gli argini del ruscello, infatti, “fan via, che non son arsi” dalla pioggia di fuoco (a differenza del fondo e delle pendici, pure in pietra), poiché “sopra loro ogne vapor si spegne” (vv. 141-142). Nei margini di pietra è parodiato il tema della chiesa romana – la sede di Pietro – che non venne meno nella fede e contro la quale non poté prevalere la devastazione dei Saraceni. I “duri margini”, sopra i quali il vapore che si leva dal sangue bollente fa schermo alla pioggia di fuoco, sono simili alle dighe che i Fiamminghi – “temendo ’l fiotto che ’nver’ lor s’avventa” – tra Wissant e Bruges oppongono come schermo “perché ’l mar si fuggia” (il motivo del fuggire, dall’apertura del sesto sigillo ad Ap 6, 12-17, nel senso di ritirarsi, appropriato non a coloro che temono ma all’oggetto del timore) o a quelle costruite dai Padovani “lungo la Brenta” per difendere le loro città e i loro borghi murati, prima che la Carinzia senta il caldo (motivo del sentir sopravvenire il giudizio divino) che fa sciogliere le nevi e ingrossa i fiumi (Inf. XV, 4-12). Dall’ira di Cristo giudice è dunque salvezza la Chiesa di Pietro.
Ciò è confermato dal fatto che Inf. XIV (i bestemmiatori) si colloca in una zona dove “topograficamente” prevalgono i temi del quarto stato e Inf. XV-XVI (i sodomiti) in una zona dove prevalgono i temi del quinto. Se Dante cammina sui “duri margini” salvo dal fuoco, “Brunetto Latino”, col “cotto aspetto” e col “viso abbrusciato”, è immagine di quella parte della “ecclesia latina” devastata dai Saraceni, con cui concorda singolarmente nel nome e negli effetti (Inf. XV, 25-33). Con lui siamo nel quinto stato, assimilato alla “sede” romana, sola semenza rimasta di una Chiesa una volta diffusa su tutto l’orbe, “sementa santa” che rivive in Dante, come appunto gli dice il suo antico maestro Brunetto (vv. 73-78). Roma, pur sotto la pioggia di fuoco, resta diga di pietra indefettibile che consente di attraversare i passi infernali (ma solo sui margini, cioè sull’orlo). Tra le due menzioni dei margini di pietra si colloca la digressione virgiliana sul Veglio di Creta, che “Roma guarda come süo speglio”, cioè l’umanità invecchiata che anela al rinnovamento (Inf. XIV, 105).
Nel silenzioso andare per l’ultima bolgia fra i falsatori di metalli, guardando e ascoltando gli spiriti ammalati, Dante vede “due sedere a sé poggiati, / com’ a scaldar si poggia tegghia a tegghia”, e Virgilio domanda a uno di essi se vi sia lì con loro qualche “latino”, cioè italiano (Inf. XXIX, 73-74, 85-93). I due, seduti e latini, sono Griffolino d’Arezzo e il fiorentino Capocchio: a essi è appropriato il tema della chiesa latina devastata dai Saraceni (“Latin siam noi, che tu vedi sì guasti”: l’esser ‘guasto’ corrisponde al cavallo pallido del quarto sigillo) e della ‘sede’ romana sostenuta congiuntamente da Pietro e Paolo (Ap 6, 8), che si trasforma nella grottesca immagine delle due teglie collocate sulla brace in modo da sostenersi reciprocamente. I falsatori di metalli si collocano in una zona con prevalenza di temi del quarto stato (la quarta zona nei cinque cicli settenari della prima cantica), dopo una zona ‘terza’ (la nona bolgia: Inf. XXVIII) e prima di una zona ‘quinta’, i cui temi si insinuano già in Inf. XXIX per poi sfociare nel canto seguente, dove si mantengono però ancora quelli del quarto. È da notare come ai due falsari – “dal capo al piè di schianze macolati” (v. 75) – sia appropriato il tema della chiesa della fine del quinto stato: “a planta pedis usque ad verticem est fere tota ecclesia infecta et confusa et quasi nova Babilon effecta” (prologo, notabile VII; il tema tornerà con la “puttana” flagellata dal gigante “dal capo infin le piante”, Purg. XXXII, 156).
La barca di Pietro, come afferma Tommaso d’Aquino nel cielo del Sole (Par. XI, 118-121), fu degnamente mantenuta “in alto mar per dritto segno” da due colleghi, Francesco e Domenico. Chiama Domenico “il nostro patrïarca”, appellativo che nell’esegesi scritturale è dato a Pietro, nuovo Giuda patriarca della fede tra gli apostoli. Non è espresso nei versi, ma si può dedurre, che Francesco sia da assimilare a Beniamino e a Paolo, apostolo delle genti – il “tuo caro frate / che mise teco Roma nel buon filo”, come dice Dante a san Pietro a Par. XXIV, 61-63.
[1] Il plurale petris, alle quali ci si rivolge per rifugio dall’ira divina all’apertura del sesto sigillo (Ap 6, 12-17), rende ammissibile la variante pietre, “che è dei testi più autorevoli” (Inglese).
Tab. 5
[LSA, cap. VI, Ap 6, 7-8 (IIa visio, apertio IVi sigilli) Et hinc est quod abbas Ioachim dicit per equum pallidum intelligi reg<num> Sarracenorum, cui per concordiam <correspondet> regnum Assiriorum, sub quarto signaculo Veteris Testamenti devastans et captivans regnum decem tribuum Israel et fere regnum Iude, sicut sub apertione quarti sigilli vastate sunt quasi decem tribus ecclesiarum orientalium* et fere ecclesia latina, que assimilata est regno Iude, quia sicut ibi fuit vera et principalis sedes divini cultus sic est et in ecclesia latina seu romana. Sicut etiam tribus Beniamin fuit tunc iuncta regno Iude, sic Paulus de tribu Beniamin est in Roma iunctus Petro, qui in principatu fidei fuit alter David et inter apostolos nostre fidei patriarcha. Fuit quasi Iudas patriarcha, cui dictum est: “Non auferetur sceptrum de Iuda” (Gn 49, 10), sicut et Petro dixit Christus: “Ego pro te rogavi, Petre, ut non deficiat fides tua” (Lc 22, 32/34) et quod “porte inferi non prevalebunt adversus” ecclesiam super tua fide fundatam (Mt 16, 18).* Expositio, pars II, f. 116ra.Inf. XIV, 82-84, 141-142; XV, 1-12, 25-33; XVII, 23-24Lo fondo suo e ambo le pendici
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Inf. XXIX, 73-75, 85-93Io vidi due sedere a sé poggiati,
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5. Il Veglio di Creta
« In mezzo mar siede un paese guasto »,
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In mezzo mar. Se “in mezzo mar” è forma ricalcata sul latino “medio … ponto” (Aen. III, 104), il mare nell’esegesi designa i Gentili, fluttuanti per gli errori, procellosi per guerre e rivolte, salsi e amari per costumi carnali e per turpe idolatria, profondi come una voragine per malizia e quasi senza fine per la moltitudine dei popoli. Nel mare, si dice ad Ap 8, 8 (seconda tromba), “fu messo come un gran monte ardente di fuoco”, cioè il diavolo, “gran monte” per il gran tumore della sua superbia e per la sua grande potenza naturale, fu messo nel flutto dei cuori dei Gentili.
siede un paese guasto … che s’appella Creta, / sotto ’l cui rege fu già ’l mondo casto. / Una montagna v’è …
L’esegesi di Ap 14, 1-5 è relativa ai compagni dell’Agnello, che staranno sul monte Sion dopo la vittoria sull’Anticristo [1]. Ivi la contemplazione, precipua prerogativa del quarto stato, trova compimento nel sesto: Sion viene infatti interpretato come “specula” (cioè l’“alta et solida eminentia contemplativi status”; Ap 14, 1). Stare sul monte Sion non attiene però unicamente alla contemplazione. I compagni dell’Agnello sono anche i futuri rettori del mondo. Stare sul monte Sion indica dunque che dopo la morte dell’Anticristo, e forse prima, lì vi sarà il sublime culto di Cristo. Né c’è da stupirsi, afferma Olivi, se il luogo della nostra redenzione verrà esaltato sopra gli altri luoghi della terra, anche perché, quale centro del mondo abitato, sarà adeguato ai sommi reggitori dell’universo convertito.
La quinta delle sette prerogative dei compagni dell’Agnello è l’assoluta castità: “Questi non si sono contaminati con donne” (Ap 14, 4), sono cioè indenni da ogni corruzione e mollezza carnale, sono fanciulli e vergini della stirpe d’Israele che nel sesto e settimo stato della Chiesa verranno eletti alla perfezione evangelica e chiamati all’imitazione e alla famiglia di Cristo. La settima prerogativa consiste nell’essere dedicati al culto di Dio e al suo servizio: “Essi sono stati acquistati”, cioè segregati dalla vita carnale degli uomini e dalla generale corruzione per grazia della redenzione di Cristo, “tra gli uomini”, in modo che siano “primizie per Dio e per l’Agnello”, primi non per il tempo ma per la dignità della loro virtù.
Questi motivi vengono parodiati nei versi che descrivono la Creta dell’età dell’oro, lì dove nell’occulto nacque l’aquila, “l’uccel di Giove”: il monte Sion è sostituito con l’Ida “lieta d’acqua e di fronde”, la castità dei compagni dell’Agnello – che sono anche i sommi rettori del mondo – con “il mondo casto” sotto il governo di re Saturno, la centralità del luogo è resa dall’espressione “in mezzo mar” (Inf. XIV, 94-96).
Come l’esegesi dell’Olivi si riferisce a un dover essere, per quanto vicino nel tempo (dopo la morte dell’Anticristo, e forse anche prima), ma anche a un ritorno, a un livello più alto e anzi di massima illuminazione in questo mondo, di qualcosa che fu in origine (la Chiesa primitiva), così nella montagna della saturnia Creta sta il Veglio che “Roma guarda come süo speglio”, cioè al prossimo rinnovamento (vv. 103-105). Esempio di concordia tra vecchio e nuovo, il monte Sion (cioè Gerusalemme) e la montagna del purgatorio (la storia della Chiesa) stanno entrambi sulla terra in modo da avere un medesimo orizzonte astronomico ed emisferi diversi (Purg. IV, 67-75).
Nulla di sorprendente, pertanto, che all’aquila del cielo di Giove siano appropriati temi dei compagni dell’Agnello che stanno sul monte Sion. Si ritrovano ancora nel successivo cielo di Saturno, per antonomasia dei contemplativi, il “cristallo che ’l vocabol porta, / cerchiando il mondo, del suo caro duce / sotto cui giacque ogne malizia morta” (Par. XXI, 25-27). Ivi Pier Damiani parla della sua montagna, il Catria: “Tra ’ due liti d’Italia (cioè in mezzo tra il mare adriatico e il tirreno) surgon sassi … tanto, che ’ troni assai suonan più bassi (tema dell’eminente altezza), / e fanno un gibbo che si chiama Catria, / di sotto al quale è consecrato un ermo, / che suole esser disposto a sola latria (tema della consacrazione dei compagni dell’Agnello al solo culto di Dio). / … Quivi / al servigio di Dio mi fe’ sì fermo … contento ne’ pensier contemplativi” (vv. 106-117). Nel canto successivo è la volta di san Benedetto e di un’altra montagna: “Quel monte a cui Cassino è ne la costa / … e quel son io che sù vi portai prima / lo nome di colui che ’n terra addusse / la verità che tanto ci soblima (il sublime culto di Cristo sul monte Sion)” (Par. XXII, 37-42). Il monte Ida nella Creta governata da Saturno è antica figura del Catria di Pier Damiani e di “quel monte a cui Cassino è nella costa” (il monte Cairo) di Benedetto. Lo stesso panno sacro, dunque, veste entrambi i tipi di rettori del mondo, sia quelli che dirigono il genere umano alla felicità temporale, designati dall’aquila, come quelli che lo conducono alla vita eterna.
Una montagna v’è che già fu lieta / d’acqua e di fronde, che si chiamò Ida; / or è diserta come cosa vieta. L’esegesi del deserto, ad Ap 12, 6, è tra le pagine del “panno” più ampie e diffuse per variazioni nel poema. Il “deserto” può equivalere alla “selva”, ma può anche rifiorire come “giardino”. Per questo, in Isaia 54, 1, è detto alla donna sterile che deve allietarsi rispetto a quella feconda, poiché più numerosi sono i figli di colei che è stata deserta di colei che è maritata. Il versetto – “Letare, sterilis que non paris, quia multi filii deserte magis quam eius que habet virum” – è parodiato, con disgiunta appropriazione alla situazione antica e a quella odierna, all’Ida “che già fu lieta / d’acqua e di fronde” e che “or è diserta come cosa vieta”.
Rëa la scelse già per cuna fida / del suo figliuolo, e per celarlo meglio, / quando piangea, vi facea far le grida. Nella quarta visione, ad Ap 12, 14 (terza e quarta guerra, congiuntamente trattate), la donna-regina (la Chiesa), che già ad Ap 12, 6 (prima guerra) era fuggita in solitudine dalla pertinacia dei Giudei, vola con le due ali della grande aquila nel “deserto”. Nel luogo preparatole da Dio, la donna “viene nutrita per un tempo, due tempi e la metà di un tempo lontano dal serpente” (tre anni e mezzo, in realtà 1260 anni), le viene cioè dato un nutrimento che la protegga dalle tentazioni e dalle persecuzioni del diavolo e la fortifichi contro di esse. Si può anche intendere che la donna venga nel deserto tenuta nascosta dalle tentazioni che abbondano nel mezzo della moltitudine dei popoli. Il suo pasto è fatto di dottrina spirituale, di contemplazione e di grazia copiosa, ma anche delle genti, a lei date per fede e per grazia. Se non può nutrirsi di Giudei, la donna le incorpora in sé, nelle terre che Dio aveva prima reso deserte, in modo che la Chiesa, che non si deve mai estinguere, non venga del tutto consumata dal diavolo per penuria di fedeli.
La donna “[…] ideo enim in deserto alitur, ut ibi abscondatur a temptationibus diaboli, que in medio multitudinis populorum fortius et multiplicius habundant quam in solitudine deserti – In mezzo mar … Una montagna … or è diserta come cosa vieta. / Rëa la scelse già per cuna fida / del suo figliuolo, e per celarlo meglio, / quando piangea, vi facea far le grida”. La donna, la quale è anche la Vergine Madre che partorisce il corpo mistico di Cristo (Ap 12, 1-2), e Rea, la madre di Giove, sono accomunate dai motivi dello stare in mezzo, del deserto (per quanto riferito all’odierna Creta in senso negativo) e del nascondimento. La prima vola nel deserto della Gentilità, dopo essere fuggita dal serpente che voleva divorarle il figlio; la seconda, per sottrarre, in analoga situazione, il figlio al padre Saturno, lo nascose in una grotta del monte Ida, allora ‘deserto’ fiorito (sulle “grida” fatte dai Coribanti cfr. supra).
Dentro dal monte sta dritto un gran veglio,
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Il “gran veglio” di Creta è parodia del “magnus senior” il quale ad Ap 7, 13 si rivolge all’angelo e, secondo Gioacchino da Fiore, è lo stesso san Giovanni, autore dell’Apocalisse. Giovanni, ad Ap 5, 2, piange e impetra, a nome dei santi padri dell’Antico e del Nuovo Testamento, che il libro venga aperto. Figura antica del “vecchio solo” che Dante vedrà “venir, dormendo, con la faccia arguta”, ultimo nella processione dell’Eden (Purg. XXIX, 143-144), è, come Giovanni, un contemplativo: “sta dritto” quale colonna nel tempio, preparazione all’atto del contemplare (Ap 3, 12); sta “dentro dal monte” (prefigurazione di Sion, interpretato “specula”: Ap 14, 1), come “dentro” al libro sono le più profonde sentenze divine e i documenti sapienziali (Ap 5, 1); “tien volte le spalle inver’ Dammiata”, gettandosi alle spalle l’esilio d’Egitto (un’espressione già usata in De vulgari eloquentia, I, xvii, 6-7, a proposito del glorioso volgare illustre); “e Roma guarda come süo speglio”, perché con la speculazione dei contemplativi, che vedono le cose prima che accadano (Ap 6, 7), si volge al rinnovamento che verrà da Roma, la città del sole di cui si dice in Isaia 19, 18 (Ap 7, 2).
La sua testa è di fin oro formata,
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Per spiegare la graduale caduta dalla “prima carità”, rimproverata al vescovo di Efeso, e la necessità di risalirvi pena la traslazione del primato ad altra chiesa, Riccardo di San Vittore, nel De eruditione hominis interioris, che Olivi segue nell’esegesi di Ap 2, 5, adduce l’esempio della statua sognata da Nabucodonosor di cui parla il profeta Daniele (l’opera di Riccardo viene appunto citata come Super Danielem), che discendeva di grado in grado dall’oro all’argento al rame al ferro e infine alla terracotta (Dn 2, 31-45; l’istruzione data ad Efeso, la prima delle sette chiese d’Asia, assume particolare importanza in relazione al viaggio di Dante). L’oro del capo indica il fulgore del fervido desiderio delle cose celesti, l’argento del petto e delle braccia la certezza del retto consiglio e il retto operare, le membra di rame la simulazione, quelle di ferro l’indignazione, quelle di terracotta la fiacchezza dissoluta. L’oro designa pure la devozione, l’argento la discrezione. Nelle virtù, come si sale per gradi al culmine, così si discende a poco a poco dal più alto all’infimo livello. Nessuno diviene turpe immediatamente, ma scivolando a poco a poco a partire dalla minima negligenza iniziale. Lo si può vedere in quanti sono all’inizio della conversione gioiosi di speranza, pazienti nella tribolazione, solleciti nell’operare, studiosi nella lettura, devoti nella preghiera, aurei per la carità, e che poi nel tempo della tentazione si tirano indietro, non però subito sprofondandosi ma cadendo prima dal bene in un bene minore e di qui nel male e infine nel peggio, secondo quanto si dice in Giobbe 14, 18-19: “un monte che cade scivola a poco a poco e la terra viene consumata dall’alluvione”. Costoro, che intiepidiscono il primo fervore e raffreddano la prima carità, seguono il bene non con desiderio e diletto, ma unicamente per deliberazione, passando dall’oro, che è ottimo, all’argento, che è solo buono. Piegano il capo aureo sul petto argenteo. Se è buono possedere l’argento, è però stolto permutare con esso l’oro che si possiede. Per questo Cristo in Luca 9, 62 ammonisce che “chi mette mano all’aratro e si volge indietro non è adatto per il regno di Dio”.
Riccardo di San Vittore sostiene che colui il quale si trova in uno stato di carità inferiore a quella originaria non può a lungo restare in tale stato o nascondere la propria condizione: o ritorna presto alla carità prima, oppure precipita in situazioni ancor più deteriori. Così la buona intenzione nell’operare il bene, designata dal candelabro e dalla sua luce, si muta in mala luce e intenzione; l’argenteo operare diventa di rame, perché quello che prima veniva fatto per la verità viene poi fatto per l’umano favore. Ma ciò non può venire nascosto a lungo, perché iniziano ad apparire il ventre e le cosce, si denudano cioè la turpitudine e la malizia. Giorno dopo giorno costui diventa sempre più sozzo e vile agli occhi di quanti lo avevano prima lodato e a cui si era studiato di piacere, verso i quali ora si adira e indigna perseguitandoli con crudeltà: così il rame sonoro si muta nel ferro aspro e duro. Ma la prontezza e l’audacia nell’arrecare il male si trasforma ancora in pusillanimità e impazienza, designata dalla terracotta. Questa è la caduta lamentata da Geremia: “Gli incliti figli di Sion, rivestiti di oro fino, come sono stimati quali vasi di creta, opera delle mani di un vasaio!” (Lamentazioni 4, 2).
L’immagine della statua vista in sogno da Nabucodonosor (secondo l’esegesi di Riccardo di San Vittore) passa in quella del Veglio di Creta (Inf. XIV, 106-111). Il discendere progressivo della statua dal capo d’oro al destro piede di terracotta (in Daniele entrambi i piedi sono di ferro e argilla) designa il progressivo corrompersi dell’umana virtù: il “fin oro” corrisponde all’“aurum primum” dei figli di Sion, dei quali Geremia lamenta l’essere stimati quali vasi di creta. Il Veglio rappresenta la storia della decadenza umana ma anche la profezia della sua palingenesi. Nelle sue cinque parti, è figura delle prime cinque età del mondo (da Adamo a Noè; da Noè ad Abramo; da Abramo a Mosè; da Mosè a David; da David a Cristo), corrispondenti all’Antico Testamento (la gioachimita età del Padre); guarda profeticamente alla sesta età, quella di Cristo (l’età del Figlio) e al suo sesto stato (l’età dello Spirito, segnata dal secondo avvento del Redentore), cioè al novum saeculum. Non a caso la sua immagine viene evocata da Virgilio nell’inferno, che nei cinque cicli settenari corrisponde all’Antico Testamento.
Ciascuna parte, fuor che l’oro, è rotta
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Al quarto ordine, dei contemplativi, sarà dato di vedere la rottura della statua di Nabucodonosor, di vincere le genti e i regni e di convertirli a Cristo (Ap 2, 26-28). Il re, infatti, al fine del suo sogno vide una pietra che si staccò dal monte e frantumò la statua, e Daniele interpretò la visione come il regno che non sarà mai distrutto, annienterà gli altri regni e durerà per sempre (Dn 2, 34-35, 44, citato ad Ap 17, 9). Dalle rotture del Veglio, in quattro sue parti (è escluso il capo d’oro), gocciano lacrime che vanno a formare i tre fiumi infernali – Acheronte, Stige e Flegetonte – unica “piova” dai differenti nomi che sfocia infine nel lago di Cocito. Viene variata l’esegesi della “vox aquarum multarum“, della voce di una grande e abbondante pioggia che procede da molte e quasi innumerevoli gocce come un solo suono proveniente da un solo suonatore, e lo stesso si può dire del suono delle acque del mare o di un fiume. Suona come irrigando di lacrime che impinguano, lavano e rinfrescano e con sospiri che ruggiscono. I temi proposti ad Ap 14, 2 sono già stati variati nella prima cantica, e lo saranno nella descrizione della cascata del Flegetonte verso Malebolge.
I primi cinque stati della Chiesa (prefigurati dalle prime cinque età del mondo; la sesta inizia con il primo avvento di Cristo), secondo quanto affermato nel Notabile VI del prologo della Lectura, sono paragonabili a un condotto o a uno stretto passaggio dove scorre l’acqua che proviene da Cristo-fonte e sfocia nella grande piscina o lago del sesto stato. Si fa anche l’esempio dell’albero, che ha una radice, un tronco e poi si dilata espandendosi nei rami fruttuosi.
L’immagine con la quale nel Notabile VI del prologo viene definito l’ordine degli stati della storia umana, con il succedere alla strettoia, in cui corrono i primi cinque stati (“per modum stricti stipitis vel conductus”), del lago che designa il sesto stato, travasa nel Veglio di Creta, formato da cinque parti, d’oro, argento, rame, ferro, terracotta. Le lacrime dell’umanità raccolte ai piedi del Veglio danno origine ai fiumi infernali che se ne vanno per una “stretta doccia” (si tratta pertanto di un unico fiume dai diversi nomi) arrivando al lago o stagno ghiacciato di Cocito (Inf. XIV, 115-120; XXXII, 22-24; cfr. Ap 18, 17).
Ulisse e i suoi compagni pervengono alla “foce stretta” dopo aver visto terra cinque volte: “L’un lito e l’altro vidi infin la Spagna, / fin nel Morrocco, e l’isola d’i Sardi, / e l’altre che quel mare intorno bagna” (Inf. XXVI, 103-105). Se il primo e il secondo vedere (la costa europea e quella africana del Mediterraneo) non sono meglio specificati, il terzo – la Spagna, terra in cui si diffuse l’eresia – allude al terzo stato della Chiesa, proprio dei dottori. Il quarto – il Marocco – allude al quarto stato, degli anacoreti, che fiorirono in Africa settentrionale [2]. Il quinto – la Sardegna – allude al quinto stato, per il consonare del nome dell’isola con quello della quinta chiesa, di Sardi appunto, per quanto questa abbia collocazione geografica opposta, in Asia Minore. Il legno del navigatore greco avrebbe così solcato in anticipo “per l’alto mare aperto” tutta la storia umana, fino alla soglia del sesto stato. Ci si potrebbe spingere più avanti e sostenere che anche lasciarsi “Sibilia” dalla “man destra” (v. 110) abbia un doppio significato, perché “Sibilia” letteralmente significa Siviglia ma può alludere alla Sibilla, ossia all’andata “ad immortale secolo” concessa da Dio non a Ulisse ma a Enea, per udirvi “di sua vittoria e del papale ammanto” (Inf. II, 13-27). La mano destra designa il potere spirituale dato ai vescovi, la sinistra il potere temporale dato ai re. L’ottava perfezione di Cristo come sommo pastore consiste infatti nell’avere nella sua destra le sette stelle, cioè tutte le perfezioni stellari dei prelati inferiori (Ap 1, 16). In principio della seconda visione, Cristo tiene nella destra il libro segnato da sette sigilli, perché esso contiene le promesse di grazia e di gloria fatte da Cristo, e tale fu il senso dell’andata di Enea all’Ade (Ap 5, 1).
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Nei versi alcune parole chiave – fóran, si deriva, vivagno, fossa (vv. 114, 122, 123, 136) – rinviano il lettore ‘spirituale’ all’esegesi della settima visione, che descrive la Gerusalemme celeste. Ad Ap 21, 12 Olivi afferma che nell’edificare una città prima si trova il luogo e si scavano i fossati, poi si gettano le fondamenta e si edificano le mura, infine si innalzano le porte e si costruiscono le case. Queste tre fasi corrispondono ai tre stati generali del mondo. In primo luogo venne infatti eletto il popolo di Israele per preparare in esso questa nobile città. Con l’avvento di Cristo, fondamento, porta e portinaio, muro e baluardo, furono eletti gli apostoli quali fondamenta e dopo di essi i Gentili perché passassero nella fede il muro. Gli apostoli furono pure porte, per le quali i fedeli entrarono nella fede e nella Chiesa di Cristo. Al momento della conversione finale di Israele e di tutto il mondo verranno nuovamente innalzate dodici porte, assimilabili ai dodici apostoli, per le quali entri l’universo popolo dei fedeli. Tuttavia in qualsivoglia periodo della storia umana le parti della città possono essere adattate misticamente, né è da sorprendersi, perché come cose diverse possono essere designate in modo unitario, così quel che è uno può essere significato in modo molteplice. La tematica è stata già variata nella descrizione del “nobile castello” del Limbo o della città di Dite. Le lacrime che provengono dal Veglio, i peccati dell’umanità, scavano il fossato della città di Dio: “fóran … fossa – ad hedificandam urbem primo invenitur locus et fodiuntur fossata”. La fiamma che nell’ottava bolgia “martira” Ulisse e Diomede “si move … per la gola / del fosso” (Inf. XXVI, 40-41), e dentro ad essa “si geme / l’agguato del caval che fé la porta / onde uscì de’ Romani il gentil seme” (vv. 58-60; da notare che nell’esegesi scritturale il popolo gentile ‘entra’ per la porta, mentre nei versi ‘esce’ a causa della frode del cavallo, che pure preparò l’entrata in Cristo). Lucciola che percorre il fossato della città di Dio: tale fu la parte nella costruzione del santo edificio, con la corrispondente illuminazione, concessa a Ulisse, che però, andando verso il futuro, volle precorrere i tempi, prima di Enea, dei Romani, del primo avvento di Cristo e del suo secondo avvento nel sesto stato della Chiesa.
La Gerusalemme celeste è percorsa nel mezzo da un nobilissimo fiume. È lo stesso Spirito Santo, ovvero la gloria che da Dio affluisce sui beati: fiume di acqua viva, o di vita eterna, da cui deriva tutta la sostanza della Trinità. L’esegesi di Ap 22, 1-2 offre una ricchezza tematica riaffiorante in numerosi luoghi della Commedia. Come l’Eunoè, acqua dal gusto superiore alle altre, “diriva” dall’unica fontana dell’Eden e, per tramite di Matelda, “ravviva” la “tramortita … virtù” di Dante (Purg. XXXIII, 127-129), all’opposto nella valle infernale anche il Flegetonte “si diriva così dal nostro mondo” e “ci appar pur a questo vivagno” (Inf. XIV, 121-123). “Vivagno”, letteralmente, designa il bordo interno del settimo cerchio (il sabbione infuocato); spiritualmente, accenna al massimo estraniarsi del mondo umano dall’acqua che “ravviva”. La stessa forma “deriva” è appropriata al riversarsi da “una fonte … per un fossato” del “tristo ruscel” che va nella palude Stigia (Inf. VII, 100-108). Qui, nel passaggio dal quarto al quinto cerchio, Virgilio e Dante tagliano il quarto “a l’altra riva” (la rima con “deriva” corrisponde a due distinti elementi semantici dell’esegesi scritturale, ripa e dirivatur). Si ritrovano ancora gli elementi propri dell’irrigazione della città descritta nella settima visione: una fonte, due rive (pur se con queste sono da intendere i due bordi, superiore e inferiore, del quarto cerchio), e anche un fossato (che assume particolare significato nella formale costruzione delle parti della città celeste). È la prima volta che nel corso del viaggio si incontra una ‘fonte’. I due luoghi di Inf. VII e XIV sono tessuti sul medesimo panno esegetico, a testimoniare l’unicità dell’acqua dei fiumi infernali, che muta nome in Acheronte, Stige, Flegetonte, finendo nel lago di Cocito. Non è incongruente la domanda di Dante sul perché il “picciol fiumicello”, che rosso di sangue esce dalla selva e scorre per l’arena (il Flegetonte, appunto), “ci appar pur a questo vivagno” (Inf. XIV, 121-123), in quanto è da Virgilio per la prima volta nominato. Non è banale dimenticanza del “tristo ruscel” che ha visto andare nella palude Stigia; l’acqua del fiume è sempre una ma, mutando nome e aspetto, appare come “cosa … nova” (cfr. il fiume “vacante” del nome a Inf. XVI, 94-99).
[1] L’esegesi della voce cantante, propria dei compagni dell’Agnello sul monte Sion (Ap 14, 2), è soggetta nel poema a numerose variazioni.
[2] La Spagna è per eccellenza la terra degli eretici Visigoti, convertiti nel terzo stato della Chiesa e ancor più nel quarto al tempo di Giustiniano e poi di Gregorio Magno. Anche l’Africa è terra di eresia, a motivo dei Vandali. Spagna, Africa e Sardegna sono accomunate dalla conquista islamica, che segnò la fine del quarto stato della Chiesa, appropriato agli anacoreti (prologo, Not. X, XII).
Tab. 6
[LSA, cap. III, Ap 3, 12; (Ia visio, VIa victoria)] Quantum autem ad hoc premium, nota quod quia intrans in Deum recipit intra se Deum, ita quod et Deus intrat in ipsum, ideo hunc duplicem intrandi respectum hic ponit. Primum enim ponit sub typo columpne intra templum existentis et inde non egressure; secundum vero sub typo scripture per quam nomen Dei et sue civitatis inscribitur menti. Et secundum hoc templum significat Deum, prout infra XX<I°> dicitur: “Dominus Deus templum illius est”, scilicet civitatis Dei (Ap 21, 22). Sumendo tamen templum pro ecclesia sustentata a perfectis quasi a columpnis eius, tunc sub alio respectu significatur duplex ingressus. Quia enim et Deum et eius cultum intramus primo per professionis statum, per quem quis in Dei ecclesia et religione statuitur; secundo per contemplationis actum, per quem Deus cum suis operibus apprehenditur, idcirco primum significat per immobilem statum columpne in templo; secundum vero per inscriptionem divinorum in animo. Columpna autem, sic stans, est longa et a fundo usque ad tectum erecta et solida ac sufficienter densa, et rotunda communiter vel quadrata, et firmiter fixa templique sustentativa et decorativa. Sic autem stat in Dei ecclesia vel religione vir evangelicus Christo totus configuratus, sic etiam suo modo stat in celesti curia. Nam superiores ordines sunt sustentativi universitatis inferiorum, ipsorumque humilis simplicitas et simplex spiritualitas se habet ad minorem simplicitatem et quasi ad grossiciem inferiorum sicut centrum ad speram aut sicut spiritus ad corpus. Et ideo templum occupat maius spatium quam columpna ipsum sustentans.[LSA, cap. XIV, Ap 14, 1 (IVa visio, VIum prelium)] Primum est eorum ad Christum conformis associatio, seu ipsorum cum Christo sublimis mansio. Stabant enim cum Christo “super montem Sion”. Per montem Sion, que Sion interpretatur specula, designatur alta et solida eminentia contemplativi status.[LSA, cap. VI, Ap 6, 7 (IIa visio, apertio IVi sigilli)] Speculari igitur hoc antequam fieret, et post factum contemplari rationes tanti iudicii, ad oculos volantis aquile spectat.
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[LSA, cap. II, Ap 2, 26-28 (Ia visio, IVa victoria)] Secundum quosdam hic promittitur quarto ordini perfectio sexti et septimi status, quia ordo quartus est in fine seculi consumandus et visurus confractionem statue Nabucodonosor et superaturus gentes et regna et Christi cultui subiugaturus. Est etiam accepturus claram intelligentiam scripturarum et future diei eterne quasi stellam matutinam, que gratiose solem pronuntiat et precurrit.[LSA, cap. XVII, Ap 17, 8 (VIa visio)] Quod autem per montes designentur aliquando regna patet Danielis II° (Dn 2, 34-35, 44), ubi lapis confringens statuam et tandem crescens in montem magnum dicit Daniel significare regnum quod in eternum non dissipa<bi>tur et quod conteret et consumet univer-sa alia regna. |
Inf. XIV, 103-105Dentro dal monte sta dritto un gran veglio,
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[LSA, cap. V, Ap 5, 1 (IIa visio, radix)] Visus autem est “in dextera” Dei, tum quia est in eius plena potentia et facultate, tum quia continet promissiones Christi gratie et glorie et etiam largitiones et preparationes, que dicuntur spectare ad dexteram sicut adversa vel bona temporalia dicuntur spectare ad sinistram.
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Tab. 7
[LSA, cap. V, Ap 5, 4 (IIa visio, radix) Deinde subditur gemitus Iohannis procedens ex desiderio apertionis et ex visa impossibilitate et indignitate omnium ad ipsam complendam. Ait enim: “Et ego flebam multum, quoniam nemo dignus inventus est aperire librum nec videre illum” (Ap 5, 4). Iohannes tenet hic typum omnium sanctorum patrum salvatorem et divine gratie et glorie promeritorem et impetratorem et largitorem desiderantium et pro eius dilatione et inaccessibilitate gementium. Hic autem gemitus pro tanto est in sanctis post Christi adventum pro quanto ad ipsum pro consumatione totius ecclesie et pro gratia et gloria per ipsum impetranda et largienda toto corde suspirant, et pro quanto cum humili gemitu recognoscunt nullum ad hoc fuisse potentem et dignum nisi solum Christum; potissime tamen designat cetum et statum contemplativorum, qui pre ceteris altius et viscerosius ad istud suspirant.[LSA, cap. VII, Ap 7, 13-14 (IIa visio, apertio VIi sigilli)] “Et respondit” (Ap 7, 13), id est prolocutus est, “unus de senioribus”, per quem secundum Ricardum designatur universitas prophetarum et apostolorum et doctorum docens iustitiam et gloriam electorum*. Et secundum hoc sumitur hic “unus” quasi loquens in persona omnium. Secundum vero Ioachim, iste “unus” est beatus Iohannes, cuius est liber iste. Ipse enim s<cis>citatur et excitat nos ad querendum et intelligendum et ad imitandum istos sanctos. Ipse est enim unus et magnus de hiis viginti quattuor senioribus. Nos sumus hic designati per ipsum in quantum edocebatur ab angelo tenente formam senioris*. “Et dixit michi: Hii, qui amicti sunt stolis albis, qui sunt”, id est quales et quante dignitatis, “et unde venerunt”, id est ex quibus meritis et per quam viam sanctitatis ad tantam gloriam pervenerunt?
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Inf. XIV, 43-48, 103-105, 112-114, 130-135
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Purg. XXIX, 142-144Poi vidi quattro in umile paruta;
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Tab. 8
AVVERTENZE
■ Seppure segue l’ordine dei ventidue capitoli dell’Apocalisse, Olivi suggerisce, nel prologo della Lectura, un metodo differente di comprensione e di aggregazione del testo, fondato sui sette stati (status), cioè sulle epoche nelle quali si articola la storia della Chiesa, prefigurate nell’Antico Testamento.
L’Apocalisse si articola in sette visioni: le sette chiese d’Asia, i sette sigilli, le sette trombe, la donna vestita di sole (le sette guerre sostenute dalla Chiesa), le sette coppe, il giudizio di Babylon nelle sette teste del drago, la Gerusalemme celeste. Le prime sei visioni possono essere a loro volta divise in sette momenti, ciascuno dei quali riferibile a uno dei sette stati. Assembrando, per le prime sei visioni, tutti i primi elementi (chiesa, sigillo, tromba, guerra, coppa, momento del giudizio di Babylon), tutti i secondi, i terzi e così di seguito, si ottengono sette gruppi di materia teologica, corrispondenti al complesso dei temi afferenti a ciascuno dei sette stati. A questi sette gruppi si aggiungono altri due: l’esegesi della settima visione (senza articolazioni interne) e l’esegesi di capitoli del testo scritturale, o di parti di essi, introduttivi delle successive specificazioni delle singole visioni per settenari, che Olivi definisce “radicalia” o “fontalia”. Si ottengono in tal modo nove gruppi: le parti proemiali, i sette assembramenti di settenari e la settima visione. Il grande prologo della Lectura, articolato in tredici notabilia, può essere anch’esso aggregato secondo i sette stati. Un libro (la Lectura) contiene dunque princìpi e criteri affinché l’accorto lettore possa trarne un altro libro, fatto con lo stesso materiale ma ricomposto e distribuito in forma diversa.
■ La Commedia mostra un ordine interno diverso da quello che appare al lettore: il viaggio di Dante ha un andamento di ciclici settenari, che corrispondono ai sette stati della storia della Chiesa, cioè alle categorie con cui Olivi organizza la materia esegetica. Questo ordine interno è registrabile per zone progressive del poema dove prevale, tramite parole-chiave, la semantica riferibile a un singolo stato. È un’intima struttura dirompente i confini letterali stabiliti dai canti e da tutte le divisioni materiali per cerchi, gironi, cieli. Ogni stato, che ha differenti inizi, è concatenato per concurrentia, come le maglie di un’armatura, con quello che precede e con quello che segue. Si possono in tal modo redigere mappe che comprendano l’ordine spirituale della Commedia. La ricerca è pervenuta a una Topografia spirituale della Commedia (PDF; introduzione in html), dove quasi per ogni verso, o gruppo di versi, collegamenti ipertestuali conducono al “panno” esegetico fornito dalla Lectura super Apocalipsim, sul quale il “buon sartore” ha fatto “la gonna” (cfr. Par. XXXII, 139-141).
■ A ogni gruppo è arbitrariamente assegnato un diverso colore: Radici (verde), I stato (verde acqua), II stato (rosso), III stato (nero), IV stato (viola), V stato (marrone), VI stato (blu), VII stato (indaco), VII visione (fucsia). Dei gruppi sono stati integralmente studiati il terzo stato e la settima visione. Mentre la diversità dei colori è rispettata nella tabella complessiva contenente i collegamenti ipertestuali, nelle sinossi i colori possono essere variati per maggiore evidenza.
■ Non di rado nei versi alcune parole o incisi-chiave possono rinviare a più luoghi esegetici. Questo perché il testo dottrinale contenuto nella Lectura, prima di travasarsi semanticamente nella Commedia, è stato sottoposto a una duplice riorganizzazione. La prima, sulla base delle indicazioni dello stesso Olivi, secondo il materiale esegetico attribuibile ai singoli stati. La seconda, seguendo il principio applicato nelle distinctiones ad uso dei predicatori, sulla base di lemmi analogicamente collazionati. La “mutua collatio” di parti della Lectura arricchisce il significato legato alle parole e consente uno sviluppo tematico amplificato. Si vedano, ad esempio, le variazioni eseguite sul tema della “voce” o sull’espressione “in medio”, temi più volte iterati nel sacro testo, oppure il modo con cui Ap 1, 16-17 (l’esegesi della decima e undecima prefezione di Cristo come sommo pastore) percorre i versi in collazione con altri passi. A ciò predispone lo stesso testo scritturale, poiché l’Apocalisse contiene espressioni, come Leitmotive, che ritornano più volte. È determinata da parole-chiave che collegano i passi da collazionare. È suggerita dallo stesso Olivi, nel prologo, per una migliore intelligenza del testo.
■Tutte le citazioni della Lectura super Apocalipsim presenti nei saggi o negli articoli pubblicati su questo sito sono tratte dalla trascrizione, corredata di note e indici, del ms. Paris, Bibliothèque nationale de France, lat. 713, a disposizione fin dal 2009 sul sito medesimo. I passi scritturali ai quali si riferisce l’esegesi sono in tondo compresi tra “ ”; per le fonti diverse da quelle indicate si rinvia all’edizione in rete. Non viene presa in considerazione l’edizione critica a cura di WARREN LEWIS (Franciscan Institute Publications, St. Bonaventure – New York, 2015) per le problematiche da essa poste, che sono discusse in ALBERTO FORNI – PAOLO VIAN, A proposito dell’edizione di Warren Lewis della Lectura super Apocalipsim di Pietro di Giovanni Olivi. Alcune osservazioni, in “Archivum Franciscanum Historicum”, 109 (2016), pp. 99-161.
Il testo della Commedia citato è in Dante Alighieri, La Commedia secondo l’antica vulgata, a cura di GIORGIO PETROCCHI, Firenze 1994. Si tiene anche conto della recente edizione a cura di GIORGIO INGLESE, Firenze 2021 (Società Dantesca Italiana. Edizione Nazionale), qualora il testo proposto si discosti da quello del Petrocchi e la scelta della variante risulti discutibile nel confronto con la LSA.
Si fa riferimento ai seguenti commenti:
Dante Alighieri, La Divina Commedia. Inferno. Commento di ANNA MARIA CHIAVACCI LEONARDI, Milano 2007 (19911).
Dante Alighieri, Commedia. Inferno. revisione del testo e commento di GIORGIO INGLESE, Roma 2007.
ABBREVIAZIONI
Ap : APOCALYPSIS IOHANNIS.
LSA : PIETRO DI GIOVANNI OLIVI, Lectura super Apocalipsim.
Concordia : JOACHIM VON FIORE, Concordia Novi ac Veteris Testamenti. Herausgegeben von A. PATSCHOVSKY, Wiesbaden 2017 (Monumenta Germaniae Historica. Quellen zur Geistesgeschichte des Mittelalters, 28. Band), Teil 2 (lib. I-IV), Teil 3 (lib. V).
Expositio : GIOACCHINO DA FIORE, Expositio in Apocalypsim, in Edibus Francisci Bindoni ac Maphei Pasini, Venetiis 1527, ristampa anastatica Minerva, Frankfurt a. M. 1964.
Olivi opera spesso una sintesi del testo di Gioacchino da Fiore. Le « » precedono e chiudono un’effettiva citazione. Diversamente, viene posto un asterisco (*) o una nota in apice al termine della parte riferibile a Gioacchino.
In Ap : RICCARDO DI SAN VITTORE, In Apocalypsim libri septem, PL 196, coll. 683-888.