La “Divina Parodia” del Libro scritto dentro e fuori [EN]Canti esaminati:Inferno: I; II; III; IV; V; VI; VII; VIII; IX; X; XI; XII; XIII; XIV; XV; XVI; XVII; XVIII; XIX; XX; XXI; XXII; XXIII; XXIV; XXV; XXVI; XXVII; XXVIII; XXIX; XXX; XXXI; XXXII, 124-XXXIII, 90Purgatorio: III; XXVIII
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1. La selva dell’errore. 2. Il martire sconfitto. 3. Il vento della conversione. 4. La “chiave di David”. 5. La venuta del ladro. Avvertenze. Abbreviazioni.
Legenda [3]: numero dei versi; 6, 5: collegamento ipertestuale all’esegesi, nella Lectura di Olivi, di capitolo e versetto dell’Apocalisse [Ap]; Not. XIII: collegamento all’esegesi contenuta nei tredici notabilia del prologo della Lectura. Varianti rispetto al testo del Petrocchi.
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Inferno XIII |
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Terzo stato: prologo, Notabili [Not.]; I visione, III chiesa (Pergamo: 2, 12); II visione, III sigillo (6, 5); IV visione, III-IV guerra (12, 14; 12, 16); V visione, III coppa (16, 4; 16, 6). |
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Non era ancor di là Nesso arrivato,
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Primo ciclo |
Secondo ciclo |
Inferno VI |
Inferno XIII |
Al tornar de la mente, che si chiuse
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Non era ancor di là Nesso arrivato,
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Vengono posti a confronto Inf. VI e XIII, canti nei quali, rispettivamente nel primo e nel secondo ciclo settenario dell’Inferno, i temi del terzo stato prevalgono, semanticamente elaborati dalla parodia dantesca. La tematica si estende oltre i confini del canto e, come mostrato nella tabella complessiva, si intreccia con molti motivi propri di altri gruppi esegetici relativi agli status o periodi della storia della Chiesa. Rispetto al più breve sesto canto, il tredicesimo mostra maggiore sviluppo nelle occorrenze semantiche che rinviano alla Lectura super Apocalipsim (VI: 19; XIII: 34): prologo (VI: 4; XIII: 8); terza chiesa (Ap 2, 12-17; VI: 2; XIII: 15); terzo sigillo (Ap 6, 5-6; VI: 7; XIII: 6); terza tromba (Ap 8, 10-11; VI: 3; XIII: 0); terza guerra (Ap 12, 13-16; VI: 2; XIII: 2); terza coppa (Ap 16, 4-7; VI: 1; XIII: 3). Del cap. XVII (sesta visione) sono considerati solo i versetti contigui 17, 3, 5-6.
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1. La selva dell’errore
La scena apocalittica, proposta dal canovaccio dell’esegesi oliviana, si apre sul periodo storico che va dalla conversione di Costantino per opera di Silvestro papa (312), o dal concilio di Nicea (325), fino a Giustiniano (527-565). È il terzo “stato” o periodo della storia della Chiesa, dopo il primo degli apostoli e il secondo dei martiri. In esso, precedendo o posticipando i limiti cronologici per il principio della “concurrentia” fra gli stati, fiorirono i dottori, combattenti contro le eresie: Clemente Alessandrino, il maestro di quell’Origene che cadde nell’eresia; Atanasio, Ilario di Poitiers, Ambrogio, Girolamo, Agostino, Basilio e Gregorio di Nazianzo, fino a Gregorio Magno. Gli status non sono però solo periodi storici, ma anche modi di essere degli individui, habitus. Le caratteristiche del periodo, pertanto, si ritrovano in tutti gli altri momenti, possono essere appropriate ad altri tempi e a differenti individui e ridondano nel sesto stato, il punto più importante della storia umana, sua causa finale, che dalla conversione di Francesco all’Anticristo percorre tutto il XIII secolo e oltre, corrispondendo per Olivi (morto nel 1298), e per Dante, ai tempi moderni e contemporanei.
■ Segnato dal primato dell’intelletto sui sensi, realizzazione dell’uomo razionale, il terzo stato è il luogo della discrezione e dell’esperienza, al cui regime soggiace il falso e nebuloso immaginare; il luogo del sapere (la “cura sciendi”) che è “de veris et de utilibus, seu de prudentia regitiva actionum et de scientia speculativa divinorum”; è il depositario della lingua vera e della vera fede, della Scrittura che non erra, della giusta misura contro ciò che è oscuro e intorto, della bilancia che rettamente pesa la divinità del Figlio di Dio contro gli Ariani che non la ritenevano somma, coeguale e consustanziale a quella del Padre; i suoi dottori (il terzo stato è assimilato al sacramento del sacerdozio) sono perfettamente illuminati nella sapienza; sono maestri del senso morale, “mores hominum rationabiliter et modeste componens”, assimilato al ‘vino’ con il quale ardono contro i vizi e accendono all’amore delle virtù; è il tempo delle leggi e della spada che scinde le eresie e, in genere, l’errore; dell’autonomia della potestà temporale, una delle due ali della grande aquila date alla donna (la Chiesa) per vincere il drago nella terza e quarta guerra (Ap 12, 14): contiene insomma tutti gli elementi che Dante ritiene utili per conseguire la felicità su questa terra. Il terzo dei quattro animali che circondano la sede divina ad Ap 4, 6-8, quello che ha la faccia quasi di uomo, designa il senso morale, ma anche la ragione, l’impero, le leggi: “Tertium rationale et imperiosum seu legislativum”. Dei due fini proposti all’uomo dalla Provvidenza dei quali si tratta nella Monarchia, la beatitudine di questa vita e la beatitudine della vita eterna (III, xv, 7-10), il primo corrisponde alle realizzazioni del terzo stato della Chiesa secondo l’Olivi. A questo fine, al quale presiede l’imperatore, si giunge attraverso la filosofia, seguendola nell’operare secondo le virtù morali e intellettuali: essa è speculare, nel rapporto instaurato tra la Lectura e la Commedia, al lume dei dottori della Chiesa che reggono con la ragione. All’altro fine, la beatitudine della vita eterna che spetta al papa, si perviene attraverso gli insegnamenti spirituali che trascendono la ragione umana, seguendoli nell’operare secondo le virtù teologali: a questi corrisponde la santa vita e la “pascualis refectio”, il “pastus” degli anacoreti, i contemplativi ai quali è appropriato lo stato successivo, il quarto, corrispondente all’altra ala della grande aquila data alla donna. “Spada” e “pasturale”, i “due soli” rimpianti da Marco Lombardo (Purg. XVI, 106-114), come terzo stato (dottori) e quarto (anacoreti), possono concorrere a illuminare l’orbe, ma non identificarsi.
■Nel porsi come parodia della Lectura oliviana, la Commedia mostra un ordine interno diverso da quello che appare al lettore: il viaggio di Dante ha un andamento di ciclici settenari, che corrispondono ai sette stati o periodi della storia della Chiesa, cioè alle categorie con cui l’Olivi organizza la materia esegetica. Questo ordine interno è registrabile per zone progressive del poema dove prevale, tramite le parole-chiave, la semantica riferibile a un singolo stato. È un ordine dirompente i confini letterali stabiliti dai canti e da tutte le divisioni materiali per cerchi, gironi, cieli. Ogni stato, che ha differenti inizi, è concatenato per concurrentia, come le maglie di un’armatura, con quello che precede e con quello che segue. I temi propri di ogni stato, cioè le loro prerogative, sono applicabili agli individui di ogni periodo storico e ricadono in più alta misura nel sesto stato, l’età del rinnovamento del mondo per lo Spirito di Cristo che detta interiormente ai suoi discepoli, nuovi san Giovanni inviati a convertire infedeli e fedeli come scritto nell’Apocalisse (Ap 10, 11).
■Nell’Inferno ci sono cinque momenti che si riferiscono, per traslazione semantica e variazione parodica, al terzo stato. Un’attenta analisi può dimostrare che queste cinque zone sono precedute da altrettante nelle quali prevalgono i temi del secondo stato (dei martiri) e sono seguite da altre nelle quali prevalgono invece i temi del quarto stato (degli anacoreti o contemplativi). Questi cinque momenti coincidono con le tradizionali cinque età del mondo precedenti il primo avvento di Cristo (sesta età), cioè con l’Antico Testamento.
Non che questi temi del terzo stato non siano presenti altrove nella prima cantica, ma essi sono preminenti nelle predette zone. Né le zone riferite agli stati coincidono con un canto, perché l’ordine spirituale rompe quello letterale diviso per canti, cerchi, gironi, cieli. Neppure le predette zone mostrano esclusivamente temi del terzo stato, perché ogni stato contiene in sé temi di tutti gli altri.
Nell’Inferno i luoghi ‘terzi’ riguardano le fazioni fiorentine, i suicidi, i papi simoniaci, gli scismatici, i traditori di Cristo e di Cesare. Cerbero, nel graffiare, scuoiare e squartare i golosi, è figura che anticipa il colloquio tra Dante e Ciacco sulle divisioni politiche fiorentine (Inf. VI). Il tema del tagliare, dividere, rompere o scindere, quasi fosse un motivo dall’andamento interno, sotterraneo e insieme ciclico, torna in evidenza nella selva dei suicidi, la cui anima feroce si è divisa dal corpo (Inf. XIII); nella terza bolgia dei simoniaci, che hanno straziato la “bella donna”, cioè la Chiesa (Inf. XIX); nella nona dei seminatori di scandalo e di scisma, dove sta anche il Mosca che fu causa delle discordie fiorentine (Inf. XXVIII); in Lucifero che con ognuna delle sue tre bocche “dirompea co’ denti / un peccatore, a guisa di maciulla” e, per maggior pena, graffia Giuda che pende dalla bocca anteriore scorticandogli il dorso, mentre gli altri due traditori sono Bruto e Cassio, gli assassini di Cesare (Inf. XXXIV, 55-67). Questo dividere l’uomo, nei suoi vari aspetti, da Dio e dalla sua giustizia è assimilabile alle eresie, che divisero l’umanità di Cristo dalla sua divinità, degradando la prima o confondendola con la seconda, come quelle di Ario e di Sabellio, i quali, secondo quanto dice Tommaso d’Aquino nel cielo del Sole, “furon come spade a le Scritture / in render torti li diritti volti” (Par. XIII, 127-129). Non a caso, pertanto, i luoghi dell’Inferno che trattano di divisioni esprimono una semantica parodistica dei motivi propri del terzo stato, nel quale i dottori confutano le eresie che dividono la Chiesa.
■ Il terzo stato della Chiesa è assimilato al terzo giorno della creazione, quando la terra abitabile venne da Dio separata dal mare e liberata dalle acque affinché per utilità dell’uomo potesse dare erbe e alberi fruttiferi; così nel terzo periodo le acque delle nazioni infedeli vennero separate dalla terra dei fedeli, che produsse l’erba verde, figura degli uomini semplici, e gli alberi pomiferi dei dottori, dai quali emana il frutto della dottrina spirituale (prologo, Notabile XIII). La “terra” viene assimilata alla verdeggiante Giudea, la quale venne separata affinché gli uomini potessero dedicarsi in quiete al culto divino e produrre i frutti delle buone opere ed essere ivi semplici nel bene come erbe verdeggianti e perfetti come alberi grandi, solidi e fruttuosi. Ma la Giudea si volse contro Cristo e venne combusta e inaridita al suono della terza tromba (Ap 8, 7).
La selva dei suicidi, nella terzina dalla triplice antitesi, mostra l’opposto di quanto creato nel terzo giorno e del verde della giudaica erba: “et protulit herbam virentem simplicium et ligna pomifera doctorum fructum spiritalis doctrine emittentium – Non fronda verde, ma di color fosco; / non rami schietti, ma nodosi e ’nvolti; / non pomi v’eran, ma stecchi con tòsco” (Inf. XIII, 4-6; Pier della Vigna definisce “legno” l’albero senza frutti nel quale è incarcerato, v. 73).
Il bosco non è abitabile (“da neun sentiero era segnato”, v. 3). Il “color fosco” richiama il cavallo nero all’apertura del terzo sigillo, designante l’arianesimo, l’eresia che tolse la divinità al Cristo uomo (Ap 6, 5); il ramoscello che il poeta schianta e scerpe dal gran pruno di Pier della Vigna si fa “di sangue bruno” (v. 34; terza coppa [Ap 16, 4]: “et factus est sanguis”); “nere cagne” inseguono per la selva gli scialacquatori (vv. 124-125).
I rami non sono “schietti” ma “’nvolti”, come la falsa bilancia in mano a colui che siede sul cavallo nero, che pesa non “per rectam et infallibilem regulam Christi et scripturarum suarum” ma “per falsam et intortam acceptionem scripture” (Ap 6, 5; il tema del pesare ritorna, appropriato a Virgilio, al v. 51). Sono anche “nodosi”, quasi ad esprimere la disperazione del suicida, come attorcigliati sono i dubbi e le perplessità indotte dagli argomenti dei seguaci dell’Anticristo, nodi che, al dire di Gregorio Magno, non è possibile sciogliere e che inducono nell’errore anche i più esperti: “dolosis assertionibus innodantur ut alligationum implicatio, quasi nervorum perplexitas” (Ap 5, 5).
Questa terra inaridita, pur destinata da Dio al proprio culto – “ad usum hominis … ut quiete colerent Deum” (Ap 8, 7; cfr. anche 12, 7) -, è paragonata alla Maremma, dove “tra Cecina e Corneto” le fiere selvagge hanno in odio “i luoghi cólti” (vv. 7-9). Come gli alberi della Giudea designano i più alti nel dare il frutto delle buone opere, così l’anima di Piero è chiusa in “un gran pruno” (v. 32); come il verde fu combusto al suono della terza tromba, così il rametto troncato da Dante è “stizzo verde ch’arso sia / da l’un de’capi” (vv. 40-41).
■ “Quivi le brutte Arpie lor nidi fanno” (v. 10): parodia dei demoni agili, che sono uccelli immondi, abitanti di Babylon (Ap 18, 2); si nutrono delle foglie degli alberi-uomini, secondo l’interpretazione che Riccardo di San Vittore dà, ad Ap 19, 17-18, degli uccelli che tormentano e mangiano i dannati, anzi lacerano le loro carni (le “nere cagne … dilaceraro a brano a brano” Iacopo da Santo Andrea: v. 128); come “cacciar de le Strofade i Troiani / con tristo annunzio di futuro danno” (vv. 11-12) annunziano agli spiriti il danno che reca la tristezza del carcere della seconda morte (Ap 2, 10-11); “fanno lamenti in su gli alberi strani” (v. 15), facendo risuonare in dissonanza i lamenti di Geremia per la morte del re Giosia, assimilata al sacrificio di Cristo (Ap 16, 16), “strani” perché difformi da quanto è deiforme (Ap 5, 1). La loro descrizione (vv. 13-15) varia quella di Cerbero (Inf. VI, 15-18): comune è il riferimento al “ventre” (quarta chiesa: Ap 2, 22); agli “occhi vermigli” del cane subentrano i “piè con artigli” (cfr. Ap 13, 2: «“et pedes eius sicut ursi”, scilicet … per carnalem infixionem»), dove il colore rosso e il riferimento all’orso che divora le carni dei martiri appartengono al secondo stato; l’umanità dei colli e visi è propria del terzo stato, tipico dell’uomo razionale (ma si tratta di uccelli immondi); le “ali late” sono prerogativa del quarto. Rappresentano la sozza immagine delle perfezioni divine designate dai quattro animali o esseri viventi che circondano la sede della Chiesa militante e trionfante ad Ap 4, 6-7: il sofferente bue o vitello (infliggono dolore); quello che ha la faccia d’uomo razionale (ma non sono uomini); l’altivola, contemplativa e profetica aquila (sono annunziatrici di morte); solo il leone non viene considerato.
Riccardo di San Vittore interpreta, ad Ap 19, 17-18, gli uccelli che volano in mezzo al cielo come i demoni che godono della dannazione degli uomini e li tormentano nell’inferno, quasi mangiandoli. Così Giuseppe interpretò il sogno del capo dei panettieri del Faraone – il quale aveva visto gli uccelli mangiare dal canestro che portava sul capo –, nel senso che egli sarebbe stato appeso e che gli uccelli avrebbero lacerato le sue carni (Genesi 40, 17-19). E Agostino (tale ritenuto da Olivi), commentando Genesi 15, 11 – “gli uccelli calavano sui cadaveri e Abramo li cacciava” –, identifica gli uccelli con i demoni e i cadaveri con gli uomini carnali che sono tentati e lacerati dai demoni. Le Arpie, come spiega Pier della Vigna, mangiano le foglie delle piante silvestri che imprigionano le anime dei suicidi. Costoro, il giorno del giudizio, andranno come gli altri a riprendersi i propri corpi nella valle di Giosafat, ma non se ne rivestiranno, perché li trascineranno nella selva, dove saranno appesi “ciascuno al prun de l’ombra sua molesta” (Inf. XIII, 100-108).
■ Nella selva dei suicidi sono punite le anime feroci che si sono separate per sé dal corpo. Il bosco è immagine e contrappasso della terra inaridita per quanto Dio vi ha creato nel terzo giorno: non fronda verde, non alberi fruttuosi ma rinsecchiti. L’anima dell’uomo, creata nel sesto giorno, è incarcerata in quelle piante, come fosse regredita a uno stadio precedente, non “spirito novo, di vertù repleto”, ma tornata “qual d’una pianta … a riva”, senza possibilità di sviluppo (Purg. XXV, 52-54, 70-75). Per “uomo” si intende “uomo dotato di ragione”, la cui natura razionale è ora mista con quella vegetativa. Il terzo giorno della creazione ha una sua proiezione storica nel terzo stato della Chiesa, quando i dottori confutano le divisive eresie con la spada della ragione; ed è questa prerogativa che percorre non solo tale periodo ma l’intera storia umana. Ai dottori della Chiesa è data la “rumphea”, la spada a doppio taglio che scinde chi, come Ario, ha scisso l’umanità di Cristo dalla sua divinità (Ap 2, 12). Il tema del tagliare e dividere percorre l’intero canto. Virgilio, “l’alto dottore” (Purg. XVIII, 2), invita il discepolo a troncare qualche fraschetta da una pianta per rendere “tutti monchi” i suoi pensieri che credevano le voci udite proprie di gente nascosta. Il poeta coglie un ramoscello “da un gran pruno” e il “tronco” grida: “Perché mi schiante?”, e poi, “fatto … di sangue bruno … ‘Perché mi scerpi?’” (Inf. XIII, 28-35). Dalla “scheggia rotta” escono insieme parole e sangue (vv. 43-44). Pier della Vigna giura “che già mai non ruppi fede / al mio segnor” (vv. 74-75). Il “tronco” parla ancora spiegando cosa avviene “quando si parte l’anima feroce / dal corpo ond’ ella stessa s’è disvelta” (vv. 91-95). I poeti, attenti alle parole del “tronco”, vengono sorpresi dal rumore provocato da due scialacquatori inseguiti da nere e bramose cagne, “nudi e graffiati, fuggendo sì forte, / che de la selva rompieno ogne rosta” (vv. 109, 115-117). Uno dei due, Iacopo da Santo Andrea, si nasconde dietro un cespuglio, ma le cagne “quel dilaceraro a brano a brano” (vv. 127-128). Il cespuglio, un fiorentino suicida, piange invano “per le rotture sanguinenti” (vv. 131-132). Così, parodiando la Lectura super Apocalipsim, Dante creava quella che Leo Spitzer definì una “serie raccapricciante di parole”, forse memori del linguaggio provenzale, un “simbolismo fonico … allo scopo di evocare le idee di tronco, cespuglio, e di storpiare, mutilare, smembrare”, che danno all’intero canto un’atmosfera di “disarmonia morale” [1].
Nel terzo stato impera la ragione umana; nel canto i termini “uomo”, o “ragionar” sono insistiti (vv. 37, 45, 57, 61, 85, 105). L’anima razionale è prigioniera della pianta, dal sesto giorno della creazione è tornata indietro al terzo inaridito – “Uomini fummo, e or siam fatti sterpi” (v. 37) -; non c’è pietà per lei – “non hai tu spirto di pietate alcuno? … ben dovrebb’ esser la tua man più pia” (vv. 36, 38) -, ché anzi la tormentano gli uccelli immondi creati dopo la vita vegetativa, nel quinto giorno proiettato sul quinto stato, il periodo storico caratterizzato da un senso vivo e tenero di pietas (prologo, Notabile XIII).
La selva è offuscata dall’errore. Alla stessa parola di Virgilio (che è parola di Cristo) potrebbe venire meno la fede del discepolo per l’errore imperante; perciò Dante, come avviene per il vescovo di Pergamo, la terza chiesa d’Asia, viene invitato a mantenerla: “Tertia (ecclesia) autem commendatur de servando et confitendo fidem inter magistros erroris (Ap 2, 1) – Però riguarda ben; sì vederai / cose che torrien fede al mio sermone (vv. 20-21)”. Nel bosco Dante è smarrito (v. 24) come nell’iniziale “selva oscura” (Inf. I, 3); il sentimento viene espresso variando i medesimi temi esegetici (Ap 3, 3). Lo smarrimento, che riporta l’autore al momento in cui era da solo, non essendo ancora apparso Virgilio, viene espresso con parole che segnano un distacco mentale dal proprio maestro: “Cred’ ïo ch’ei credette ch’io credesse …” (Inf. XIII, 25) [2].
La razionalità comporta la discrezione, anch’essa propria dei dottori, i quali sulla base dell’esperienza distinguono il vero dall’erroneo, il bene dal male (Ap 2, 1); posseggono la “dicretio regendi” (Ap 11, 1); realizzano il nome della terza chiesa, Pergamo, interpretata come “dividens cornua” (Ap 2, 1: cfr. le “unghie fesse”, che il pastore romano non possiede, a Purg. XVI, 99, in una delle zone più ricche di temi del terzo stato). Ad Ap 12, 16 (quarta visione, terza e quarta guerra), la “terra che aiutò la donna” viene interpretata, nel senso dato da Gioacchino da Fiore, come i peccatori che aiutarono la Chiesa poiché i buoni, di fronte alla loro grave caduta, furono scossi da timore nell’evitare di cadere nella medesima colpa. Tale è lo stare di Dante “come l’uom che teme” dopo aver fatto cadere la scheggia rotta dal gran pruno che incarcera Pier della Vigna, dalla quale escono insieme parole e sangue (Inf. XIII, 43-45), luogo memore del virgiliano “frigidus horror” provato da Enea nell’episodio di Polidoro (Aen. III, 29-30, 47-48).
2. Il martire sconfitto
Nel “gran pruno” è incarcerato un uomo che fece della propria vita una missione e un martirio, e come tale si presenta recitando temi del secondo stato della Chiesa: “fede portai al glorïoso offizio, / tanto ch’i’ ne perde’ li sonni e ’ polsi … vi giuro che già mai non ruppi fede / al mio segnor, che fu d’onor sì degno” (Inf. XIII, 62-63, 74-75). A Smirne, la chiesa dei martiri, Cristo dice:
Quarto eius ad constantem et invincibilem concertationem et perseverantiam exhortatio, ibi: “Esto fidelis”. […] “Esto fidelis usque ad mortem” (Ap 2, 10), id est fideliter pro mea fide concerta “usque ad mortem”, id est usque ad ultimum diem vite tue vel usque ad sufferentiam martirii interfectivi tui corporis, “et dabo tibi coronam vite”, scilicet eterne post mortem. Nota quomodo ubique assignat premia proprie correspondentia merito. Nam ei, qui pro Christo perdit hanc vitam, recte competit Christi vita eterna pro premio. Per hoc autem quod dicit “coronam”, designat regalem et singularem gloriam martiribus dandam.
“Tanto ch’i’ ne perde’ li sonni” [3]. Al vescovo di Sardi, la quinta chiesa, viene raccomandato di vigilare:
“Esto vigilans” (Ap 3, 2), id est non torpens vel dormiens, sed attente sollicitus de salute tua. Ille enim dormit, qui in peccatis quiescit quasi sopitus et negligit curare de salute anime sue. Quia vero iste, tamquam episcopus, tenebatur sollicite curare non solum de sua salute sed etiam subditorum suorum, ideo pro utroque monetur ut vigilet.
“Fede portai al glorïoso offizio … vi giuro che già mai non ruppi fede / al mio segnor”. Il verbo portare, ad Ap 8, 9, è proprio di coloro che seppero vincere la tentazione e non apostatarono dalla fede (come Didone, “colei che s’ancise amorosa, / e ruppe fede al cener di Sicheo”, Inf. V, 61-62).
Lo “spirito incarcerato” chiede di essere ricordato nel mondo: “E se di voi alcun nel mondo riede, / conforti la memoria mia, che giace / ancor del colpo che ’nvidia le diede” (vv. 76-78). Alla terza chiesa d’Asia, Pergamo, Cristo ricorda la costanza nella fede di un altro martire, Antìpa perseguitato nella “sede di Satana”, dicendo:
Secunda est cuiusdam sui martiris in exemplum imitandum commemoratio, ibi: “Et in diebus illis” […] “Scio” (Ap 2, 13), scilicet per compassivam et laudativam notitiam, “ubi habitas”, scilicet “ubi sedes est Sathane”, id est inter eos in quibus diabolus immobiliter regnat et sedet tamquam in sua firma et principali et magistrali sede. Quia vero maxime virtutis et laudis est inter tales servare et confiteri fidem Christi, ideo in huius laude subdit: “et tenes nomen meum”, id est fidem et confessionem nominis mei, scilicet inter tales, “et non negasti fidem meam”, scilicet pro aliqua persecutione tibi ab illis illata.
A differenza di Antìpa, nel “gran pruno” sta l’anima di un martire sconfitto. Se Cristo predice a Smirne, la chiesa dei martiri, la futura tentazione per cui il diavolo la metterà in carcere, ma che ciò non avverrà a suo danno (Ap 2, 10), quello spirito è “incarcerato” in eterno (v. 87), tormentato dalle Arpie che recarono ai Troiani “tristo annunzio di futuro danno” (vv. 10-12). Chi sostiene il martirio non sarà leso dalla seconda morte (Ap 2, 11); lo spirito è “anima lesa” (v. 47). Come Francesca e Paolo, ingannati da una falsa Scrittura perdettero il certame del dubbio che contraddistingue il martirio degli ultimi tempi, così Pier della Vigna, pur vivendo da martire, soggiacque al “disdegnoso gusto” del suicidio.
Il “gran pruno”, il ‘corpo’ non umano che racchiude l’anima del suicida, subisce anzi un nuovo martirio. Il motivo paolino, per cui nessuno dei prìncipi di questo mondo conobbe la sapienza divina perché, se l’avessero conosciuta, non avrebbero mai crocifisso o istigato alla crocifissione il Signore della gloria (1 Cor 2, 7-8), è utilizzato nella spiegazione che Virgilio dà al carcerato sul perché Dante gli abbia strappato un ramoscello: se il discepolo avesse potuto credere prima quello che ha veduto tramite l’Eneide (“pur con la mia rima”), nell’episodio di Polidoro (Aen., III, 22-68), non avrebbe disteso la mano per troncare la frasca, ma la cosa incredibile ha spinto il maestro a indurlo a un atto che gli dispiace (Inf. XIII, 46-51). È da notare la diversa parodica appropriazione dei motivi: la mancata conoscenza preventiva e l’istigare, che nell’esegesi scritturale sono del diavolo – ad Ap 12, 4 viene affrontata la questione se il diavolo sapesse che Cristo era Dio o comunque senza peccato e non soggetto a dannazione e, nel caso, perché lo abbia istigato tentandolo prima nel deserto e poi al momento della passione -, nei versi appartengono rispettivamente a Dante e a Virgilio (sulla stessa esegesi, che spiega perché il diavolo fu attratto dall’esca dell’umanità di Cristo per essere poi trafitto dalla sua divinità, sono elaborate le due metafore venatorie m’adeschi, m’inveschi, vv. 55, 57; l’esca del “dolce dir” rinvia ad Ap 1, 9). Distendere la mano per cogliere il ramoscello dal gran pruno del suicida, che si fa poi “di sangue bruno”, richiama il crocifiggere, secondo quanto in Giovanni 21, 18 Cristo dice a Pietro: “distenderai le tue mani”, cioè in croce, passo citato ad Ap 11, 3. La “cosa incredibile” – un’anima incarcerata in una pianta –, vista fino allora solo con la rima di Virgilio, conduce ad Ap 10, 5-7 (terza visione, sesta tromba), al “mistero” che l’angelo dal volto solare giura si compirà al suono della tromba del settimo angelo: si tratta degli occulti e incredibili giudizi di Dio, chiamati “mistero” perché preannunciati sotto veli mistici, che nel caso sono i versi dell’Eneide.
L’Eneide viene concordata con la Lectura, cioè con l’esegesi di un testo antiromano come l’Apocalisse; appropriando i concetti teologici a personaggi e situazioni che prestano ad essi “e piedi e mano”, la parodia opera infinite variazioni. Le virginee Arpie sono segnate dalle qualità delle bestie apocalittiche e degli esseri viventi che circondano la sede divina; la domanda “perché mi schiante?” fa risuonare il “quid miserum, Aenea, laceras?” di Polidoro (Aen., III, 41) e al contempo il pianto di quanti, al tempo dell’Anticristo, sono inconsapevoli della ragione che permette le tribolazioni; le parole “ben dovrebb’ esser la tua man più pia” incastonano, variandolo, il verso “parce pias scelerare manus” (III, 42) nella pietas del condiscendente quinto stato. Anche le “nere cagne”, reminiscenza delle “Stygias canes” di Lucano (Phars., VI, 733), trovano il loro riferimento nei “canes … lacerantes” di Ap 22, 15.
3. Il vento della conversione
“Come d’un stizzo verde ch’arso sia / da l’un de’ capi, che da l’altro geme / e cigola per vento che va via, / sì de la scheggia rotta usciva insieme / parole e sangue … Allor soffiò il tronco forte, e poi / si convertì quel vento in cotal voce” (vv. 40-44, 91-92). Leo Spitzer osservò che “la lingua degli uomini-pianta è un semplice flatus vocis, linguaggio generato dal vento […] Ma, oltre a determinare il carattere ‘ventoso’ del linguaggio di esseri ibridi, la similitudine serve a classificarlo secondo una gerarchia di valori. Il fatto che, per caratterizzare la genesi del linguaggio nei suoi uomini-piante, Dante scelga la descrizione di un tizzo, cigolante, trasudante, dimostra che per lui questo linguaggio rappresentava un processo puramente fisico: l’uscita di sangue e di gemiti sta allo stesso basso livello ‘materiale’ dell’uscita di linfa e di cigolii da un tizzo che arde”. “L’autore Dante – continua il linguista austriaco – ha riempito il canto di particolari che forniscono dati sensibili a questo personaggio, che è il testimonio principale, particolari che eccitano in modo speciale l’occhio e l’orecchio” [4]. Il realismo dantesco dei dati sensibili porta nell’aldilà le passioni dell’individuo ma, dando ad esse una veste sacra per mezzo della dottrina contenuta nella Lectura super Apocalipsim, estrema espressione medievale di una storia della salvezza collettiva, le inserisce in un processo storico universale che manifesta i segni della volontà divina. Quale vento porta “parole e sangue” che escono dalla “scheggia rotta”? È il vento dello Spirito, di cui parla Ezechiele citato ad Ap 7, 1: “Spirito, vieni dai quattro venti e soffia su questi morti, perché rivivano” (Ez 37, 9). Il soffiare del vento dello Spirito, congiunto con il tema del fiato che procede dalle trombe dei dottori che si apprestano a emettere l’intelligenza spirituale (Ap 8, 6), ha la sua metamofosi in versi che cantano il farsi strada del linguaggio, il passaggio di fuori, spesso faticoso, della voce. I dottori che si preparano all’opera fanno seguito ai tuoni, alle voci, ai lampi e al terremoto che ad Ap 8, 5 si dice causati dal “mettere in terra” il fuoco da parte dell’angelo col turibolo, cioè dall’invio degli apostoli alla predicazione delle genti. La sequenza folgore-voce-tuono-terremoto, che compare anche in altri luoghi dell’Apocalisse, significa che l’ascolto dell’eloquio folgorante, alto (proprio del tuono) e discreto (proprio della “voce”, moderata e razionale, come quella umana) dei dottori muove i cuori degli uomini alla penitenza e alla conversione a Cristo, per cui mutano la precedente vita, scossi da un forte terremoto interiore (la “fortis concussio et commotio terrenorum cordium” ad Ap 11, 19). Il vento soffia forte dal tronco che incarcera l’anima nel “gran pruno” e si converte in voce (Inf. XIII, 91-92). La fiamma di Ulisse, al richiamo fatto da Virgilio ai propri “alti versi”, “cominciò a crollarsi mormorando, / pur come quella cui vento affatica”, gettando voce di fuori “come fosse la lingua che parlasse” (Inf. XXVI, 85-90). È il vento che muove le ossa di Manfredi (Purg. III, 130), quello che agita le aquile nell’episodio di Traiano e la vedovella (Purg. X, 79-81). Come l’alto eloquio dei dottori genera un terremoto di conversione a Cristo verso il quale si muovono i cuori, così per un momento la fiamma di Ulisse subisce un terremoto interiore e, agitata dal vento dello Spirito, parla. Parlare appartiene al sesto stato, il momento storico nel quale il mondo e le coscienze si rinnovano; esso libera la favella, grazie alla poesia che rinfresca la fama e conforta la memoria con liberalità, “liberamente” (Inf. XIII, 85-87; Ap 22, 17). Non diversamente da Ulisse, si scuote convertendosi (“in suo linguaggio / si convertïan le parole grame”) la fiamma di Guido da Montefeltro, nel dare fiato dopo molto rugghiare (Inf. XXVII, 13-15, 58-63) [5].
4. La “chiave di David”
■ Nella selva dei suicidi si vieta di nominare qualcuno (Iacopo da Santo Andrea e Lano sono scialacquatori), a differenza dei violenti, precedentemente visitati, e dei sodomiti dagli “onorati nomi”, che seguono. Il personaggio principale, Pier della Vigna, rimane innominato e si presenta parodiando un passo dell’Apocalisse: “Io son colui che tenni ambo le chiavi / del cor di Federigo, e che le volsi, / serrando e diserrando, sì soavi, / che dal secreto suo quasi ogn’ uom tolsi” (Inf. XIII, 58-61). Il “glorioso offizio” di cancelliere imperiale corrisponde a quanto dato al vescovo di Filadelfia, la sesta chiesa d’Asia storicamente proiettata sugli eventi contemporanei (il sesto stato inizia con la conversione di san Francesco, nel 1206, e si inoltra per tutto il XIII secolo fino all’Anticristo).
Verso la chiesa di Filadelfia, da lui singolarmente considerata santa e diletta, Cristo opera molte promesse, proponendo sé come vero e santo. Promette soprattutto, come già avvenuta, l’apertura della porta che nessuno può chiudere, in quanto egli è depositario della “chiave di David, che apre e nessuno chiude, chiude e nessuno apre” (Ap 3, 7). L’espressione “chiave di David” è posta sia per concordia con un passo del profeta Isaia relativo alla casa del re d’Israele, dove si afferma che essa era custodita dal pontefice Chelkia (Is 22, 22), sia perché la potestà regale di David comportava l’escludere dal regno e dal tempio gli indegni e l’ammettervi i degni (prefigurazione della potestà di Cristo di chiudere agli indegni l’arcana sapienza e la gloria del regno di Dio e di aprirla agli eletti), sia perché David, per il suo eccellere nella cetra e nella salmodia, è per antonomasia depositario del giubilo spirituale, che è chiave che apre il divino. Questa apertura è propria del terzo stato generale del mondo, che inizia con il sesto stato della Chiesa ed è appropriata, come intendeva Gioacchino da Fiore, allo Spirito Santo. Nella prima età, che precedette l’avvento di Cristo, i padri narrarono le grandi opere di Dio a partire dalla creazione del mondo. Nella seconda, da Cristo fino al sesto stato della Chiesa, i figli hanno cercato nelle generazioni succedutesi nei secoli la sapienza mistica delle cose e i misteri occulti. Nella terza non resta che salmodiare e lodare giubilando Dio, le sue opere, la sua multiforme sapienza e bontà manifestata nelle opere stesse e nelle Scritture. Come nel primo tempo Dio si è mostrato Padre terribile e temibile, e nel secondo Figlio e maestro che apre la verbale sapienza del Padre, così nel terzo tempo si mostrerà Spirito Santo, fiamma e fornace di amore divino, cellario di ebbrezza spirituale, dispensa di aromi divini e di spirituali unzioni ed unguenti, tripudio giocoso di giubilo spirituale: allora si vedrà non solo con l’intelligenza, ma anche con l’esperienza del gusto e del tatto ogni verità della sapienza del Verbo di Dio incarnato e della potenza di Dio padre, come promesso da Cristo: “quando verrà lo Spirito di verità egli vi insegnerà ogni verità e mi chiarificherà” (Jo 16, 13-14). Alla fatica del lavoro corporale (che compete ai laici) del primo tempo è subentrata, nel secondo, la lettura e l’erudizione (che compete ai chierici); nel terzo dovrà prevalere la casta e soave contemplazione (che spetta ai monaci o ai religiosi) [6].
Aprire la porta, come affermato ad Ap 3, 8, significa illuminare e rendere acuto l’intelletto che scruta e penetra con rapidità e facilità nell’occulto delle Scritture, e dare efficacia spirituale a penetrare nel cuore di chi ascolta [7]. Il ‘tenere’, come viene spiegato ad Ap 2, 1, significa “potestà”, e corrisponde al potere di escludere gli indegni dal regno e dal tempio nell’Antico Testamento, dall’arcana sapienza divina nel Nuovo. Del tenere le chiavi partecipano l’angelo portiere di Purg. IX e il simoniaco Niccolò III in Inf. XIX. Proprio il tema della chiave di David (Ap 3, 7), sviluppo da Isaia 22, 22 (luogo solitamente citato nei commenti a Inf. XIII, 58-61, dimenticando l’Apocalisse), fu applicato a Piero dall’amico Nicola da Rocca: “qui tamquam Imperii claviger claudit, et nemo aperit, aperit, et nemo claudit” [8]. Il volgersi “soavi” delle chiavi è parte del tema dell’aprire nel giubilo spirituale. È il momento nel quale Pier della Vigna ha conseguito le prerogative del sesto stato, vivendo in modo conforme a Cristo, che è il vero depositario della chiave della casa del re d’Israele a lui, pontefice laico, pro tempore traslata prima che l’invidia, la meretrice che vizia le corti, volgesse i lieti onori in tristi lutti rendendolo suicida “per disdegnoso gusto”. Pier della Vigna con chiavi soavi serra e diserra; Bonifacio VIII ripete in parte il tema nelle parole beffarde rivolte a Guido da Montefeltro (Inf. XXVII, 103-105); l’angelo portiere apre più di quanto chiuda la ruggente porta del purgatorio, come gli ha ingiunto san Pietro (Purg. IX, 127-129); l’arcangelo Gabriele, “intagliato in un atto soave” nei bianchi marmi della prima cornice della montagna, apre soltanto: “L’angel … ch’aperse il ciel del suo lungo divieto … ad aprir l’alto amore volse la chiave” (Purg. X, 34-45).
Nella curia imperiale siede il Monarca destinato da Dio a condurre gli uomini per mezzo della filosofia alla felicità terrena (Monarchia, III, xv, 7-10). Piero giura “per le nove radici d’esto legno … che già mai non ruppi fede / al mio segnor, che fu d’onor sì degno” (Inf. XIII, 73-75), degno come lo è Aristotele, “‘l maestro di color che sanno” nell’onorata sede del “nobile castello” nel Limbo (Inf. IV, 133). Giura come l’angelo dalla faccia solare, il quale promette che al suono della settima tromba non ci sarà più tempo (Ap 10, 5-7). Un giuramento che non gli toglie la pena dell’essere “incarcerato” nel gran pruno della mesta selva, ma nel quale, come nel giurare dell’angelo che conforta gli animi desiderosi di uscire dal carcere di questa vita e dall’oppressione babilonica, è insito il conforto dato alla memoria nel mondo dal poeta che vi ritornerà (Inf. XIII, 76-78).
■ La “meretrice” – la “Roma” che Gioacchino da Fiore, citato da Olivi ad Ap 17, 1, ritiene imperversi non in quella sola città, ma in modo sparsamente diffuso all’interno dell’impero, dove i malvagi peregrinano insieme ai giusti – viene da Dante introdotta nella curia di Cesare: non a caso l’unica occorrenza del termine nel poema è a Inf. XIII, 64. Come sarà più avanti nel viaggio per Romeo da Villanova, presentato da Giustiniano (Par. VI, 127-142), si tratta di una corte in cui l’invidia prevale. È la corte di Federico II, “cesare” come Giustiniano, ma che come questi non testimonia in favore di un giusto, il suo protonotario Pier della Vigna, che rese sé stesso ingiusto suicidandosi: “La meretrice che mai da l’ospizio / di Cesare non torse li occhi putti, / morte comune e de le corti vizio” (Inf. XIII, 64-66). Da confrontare gli “occhi putti” con “qui hoc nescit (dampnationem et malitiam meretricis) de facili decipitur nutibus oculorum eius et a gloria eius”. Il termine “meretrice” è poi sostituito con “puttana” a Inf. XVIII, 133 e a Purg. XXXII, 149, 160 (cfr. il “puttaneggiar coi regi” di Inf. XIX, 108).
Ad Ap 8, 8, il diavolo, al suono della seconda tromba, “fu messo nel mare come un gran monte ardente di fuoco”, infiammando d’invidia i Gentili contro i dottori. L’invidia, afferma Piero, “infiammò contra me li animi tutti”. Il verso seguente – “e li ’nfiammati infiammar sì Augusto” –, che con quello che precede esprime, secondo Spitzer, “tortura e distruzione” [9], richiama un’utilizzazione in senso negativo delle qualità dell’angelo che ad Ap 10, 1 ha la faccia come il sole, “inflammatus … et inflammans” (Inf. XIII, 64-69).
■ Accanto al gustare dolce e amaro di chi inviscera il libro (Ap 10, 9), c’è il gusto solo amaro e acerbo che deriva dallo sdegno divino nei confronti di Babylon, la Chiesa carnale. Esso viene espresso ad Ap 16, 19 – nel preambolo alla sesta visione – con la coppa (la giusta misura della punizione) e col vino (che per intimo, amaro gusto, pervade tutte le membra): “Dio si ricordò di lei, nel darle da bere la coppa di vino della sua ira sdegnata”. L’acerbità della pena viene designata con l’accostamento dello sdegno (la giustizia contro l’indegnità della colpa intollerabile) all’ira (la vendetta). L’effetto del giudizio divino consiste nelle due parti della pena eterna: la prima (la pena del danno) nella privazione di ogni gaudio, la seconda (la pena dei sensi) nella grandine grossa. La privazione del gaudio è resa con l’immagine della fuga delle isole e della traslazione dei monti – “Ogni isola fuggì e i monti scomparvero” (Ap 16, 20) -, cioè si sovverte quel che è più stabile e adatto all’umana quiete in mare, oppure più sicuro ed eminente in terra: isole e monti che già in occasione dell’apertura del sesto sigillo (Ap 6, 14) sono identificate con i regni, le città e le chiese di Babylon.
L’animo di Pier della Vigna prova di fronte all’invidia della corte imperiale un intimo, “disdegnoso gusto” nel suicidio (disdegno, sottolineato da “contra me”, che spetta al giusto giudizio divino, non all’uomo che divide sé stesso), l’“amaricatus gustus … ex indignatione” nell’interpretazione di Benvenuto e l’“amaro piacere” in quella del Tommaseo: credendo di fuggire il “disdegno” del sovrano e degli altri (lo sdegno e l’ira) attira su di sé l’ira divina (Inf. XIII, 70-72). I motivi della giusta misura (che il suicidio ha reso ingiusta) e del fuggire (un ‘mal fuggire’) sono compresenti nell’esegesi; i versi sono da confrontare con quelli relativi a Buondelmonte, del quale dice Cacciaguida a Par. XVI, 136-144. Il desiderio di vendicare la propria uccisione rende “disdegnoso” Geri del Bello (Inf. XXIX, 31-34).
Lo sdegno di Beatrice appena apparsa nell’Eden (“tamquam contra illud quod digne vel dignative tolerare nequimus”) assume per Dante, che si è ‘degnato’ di accedere alla montagna dove l’uomo è felice, il sapore amaro della pietà acerba: di fronte alla sua donna egli sostiene il giudizio della propria interiore Babilonia (Purg. XXX, 74, 79-81: degnasti ha il valore di essersi ritenuto degno, pur non essendolo, e ciò genera amara e acerba indignazione).
5. La venuta del ladro
Si considera qui l’esegesi di Ap 3, 3, parte dell’istruzione data alla chiesa di Sardi, la quinta delle sette chiese d’Asia alle quali Giovanni scrive nella prima visione. Se il vescovo della chiesa di Sardi, accusato di essere negligente, intorpidito e ozioso, non vigilerà correggendosi, il giudizio divino verrà da lui come un ladro, che arriva di nascosto all’improvviso, senza che egli sappia l’ora della venuta (Ap 3, 3). È giusto infatti che chi non conosce sé stesso a causa della negligenza e del torpore non conosca l’ora del proprio giudizio e sterminio. Costui non vede la luce a motivo delle sue tenebre; erroneamente crede e desidera di poter vivere a lungo nella prosperità ritenendo che il giudizio divino possa essere ritardato, e con speranza presuntuosa spera di venire infine salvato. Ma l’Apostolo dice ai Tessalonicesi che “il giorno del Signore verrà di notte come un ladro. E quando diranno: ‘pace e sicurezza’, allora verrà su di loro una repentina distruzione” (1 Th 5, 2-3). Ma ai santi non verrà come un ladro, per cui san Paolo aggiunge: “Ma voi, fratelli, non siete nelle tenebre, così che quel giorno possa sorprendervi come un ladro: voi tutti infatti siete figli della luce e del giorno. Pertanto, non dormiamo come gli altri, ma vigiliamo e restiamo sobri. Quelli che dormono, infatti, dormono di notte” (ibid., 5, 4-7). È questa una prefigurazione dell’occulto avvento e giudizio di Cristo alla fine del quinto stato e all’inizio del sesto, che verrà spiegato all’apertura del sesto sigillo (Ap 6, 12-17).
Il tema del venire come un ladro si trova in un passo simmetrico, proprio della sesta delle sette coppe che vengono versate nella quinta visione (Ap 16, 15), dove si parla di un giudizio improvviso e subitaneo, sottolineato dall’avverbio “ecce” e dal presente “venio” al posto del futuro ‘veniam’ per togliere ogni possibile stima dell’indugiare e per rendere più attenti, vigili e timorati. Inoltre si definisce beato colui che vigila e custodisce le sue vesti, cioè le virtù e le buone opere, per non andar nudo, cioè spogliato di esse, sicché tutti vedano le sue sconcezze, cioè il suo peccato e la pena piena di confusione inflitta nel giorno del giudizio.
Da questi difetti vengono escluse poche persone buone, i cui nomi sono noti a Cristo per la loro santità, per cui si dice: “Ma hai pochi nomi in Sardi” (Ap 3, 4). Il dono della Grazia, che ciascuno ha ricevuto come proprio, dà a ogni uomo un nome per il quale egli è conosciuto. La carità divina, in quanto comune a tutti i buoni, dà un comune nome ai santi, che sono così chiamati cittadini di Gerusalemme.
I due passi (Ap 3, 3 e 16, 15), che sono loci paralleli, se collazionati, offrono una serie di parole-temi. Comune è il “fur”, il “vigilare”, il sopravvenire improvviso. Peculiari di Ap 3, 3 sono l’inconsapevolezza (“et horam nescies qua veniam ad te”), il “tardare”, la speranza presuntuosa di potersi salvare alla fine e, nel passo paolino, il sentirsi sicuri e la distinzione tra coloro che sono nelle tenebre perché dormono la notte e i figli della luce e del giorno. Peculiari di Ap 16, 15 sono l’avverbio “ecce”, l’impossibilità di stimare l’indugio (“ut per hoc estimationem de sua mora nobis tollat”), il timore, il non vedersi spogliato delle vesti, cioè delle virtù e delle buone opere.
A questi temi si può aggiungere, in quanto richiamato dall’Olivi ad Ap 3, 3, ciò che avviene all’apertura del sesto sigillo (Ap 6, 14-15): il sentir sopravvenire il giudizio divino provoca la fuga ai “monti” e alle “pietre”, interpretati come i santi sublimi e fermi nella fede.
È da notare che su Ap 3, 3 e 16, 15 Olivi non si discosta dall’esegesi di Riccardo di San Vittore, salvo che per due punti: l’inserimento del passo paolino dalla prima lettera ai Tessalonicesi e il collegamento del sopravvenire di Cristo in quanto “fur” con quello che avverrà in apertura del sesto sigillo.
■ Una delle apparizioni del tema che si potrebbe definire ‘del ladro’ è in Inf. XXI, 22-45, nel momento in cui Dante, fisso a guardare la “pegola spessa” che bolle nella bolgia dei barattieri, simile a quella che si vede nell’“arzanà de’ Viniziani”, viene richiamato da Virgilio. Il poeta si volge come colui che “tarda” nel fermarsi a vedere ciò che è opportuno fuggire e che un sùbito timore priva di gagliardia per cui non indugia il partire, guardando però al tempo stesso un diavolo nero venire correndo su per lo scoglio. Il diavolo porta in spalla un peccatore –“ecco un de li anzïan di Santa Zita” – e dal ponte dice agli altri Malebranche di metterlo sotto la pece intanto che lui torna a Lucca, terra ben fornita di barattieri. Buttato l’“anzian” di sotto, ritorna indietro con tanta fretta come mai fece mastino nell’inseguire un ladro. Dal confronto dei versi con i passi tratti da Ap 3, 3 e 16, 15 si può notare che il tardare proviene da Ap 3, 3 (dove designa la presunzione di chi ritiene che il giudizio divino tardi; le parole “guarda, guarda!” di Virgilio richiamano dal torpore chi si ritiene troppo sicuro), mentre l’avverbio “ecco”, la “paura sùbita” e il non indugiare si trovano ad Ap 16, 15 («“Ecce venio sicut fur” … et subito faciet hec iudicia … ut per hoc estimationem de sua mora nobis tollat et ad adventum suum nos attentiores et evigilantiores et timoratiores reddat”»). Entrambi i passi sono congiunti dalla parola “fur”, che nel testo di esegesi scritturale compare come soggetto attivo del giudizio (è Cristo giudice che viene all’improvviso come un ladro), mentre in poesia viene appropriato all’oggetto del giudizio, cioè ai barattieri lucchesi che il diavolo si precipita ad andare a prendere. Il ‘fuggire’ come atto da non ritardare è un tema del sesto stato e più precisamente dell’apertura del sesto sigillo, ad Ap 6, 14-15; lo si ritroverà nella fuga dai Malebranche, nel passaggio dalla quinta alla sesta bolgia. La frase del diavolo su Lucca – “ogn’ uom v’è barattier, fuor che Bonturo” (in rima con “furo”, vv. 41, 45) – sembra sarcastica parodia dell’eccezione fatta nella chiesa di Sardi di pochi buoni non “coinquinati”, che segue immediatamente ad Ap 3, 4. Per quanto collocate in un contesto diverso e appropriate a soggetti differenti, le parole mantengono una parte dei significati originari. Resta nel complesso il tema principale del sopravvenire improvviso del giudizio divino, nel caso impersonato dal diavolo nero che di tale giustizia è ministro.
■ Una variazione di questi motivi si trova nella selva dei suicidi. Dapprima Pier della Vigna spiega che dopo la resurrezione i suicidi andranno anch’essi nella valle di Giosafat per riprendervi i propri corpi (le “nostre spoglie”) senza però rivestirsene, li trascineranno per la selva dove saranno appesi ciascuno al pruno che incarcera l’anima. Nei versi è ripetuto il motivo di Ap 16, 15: «“Beatus qui vigilat et custodit vestimenta sua”, scilicet virtutes et bona opera, “ne nudus ambulet”, id est virtutibus spoliatus» (Inf. XIII, 103-105; si registrano altri esempi di variazioni sul medesimo luogo). Il corpo non è in questo caso “la carne glorïosa e santa … rivestita” (cfr. Par. XIV, 43-44), bensì ‘spoglia’, cioè carne spogliata di virtù, “ché non è giusto aver ciò ch’om si toglie” (cfr. Ap 16, 6).
Mentre i due poeti attendono ancora al tronco di Pier della Vigna per udire altro, vengono sorpresi da un rumore e vedono venir fuggendo due dannati, il senese Lano e il padovano Iacopo da Sant’Andrea, inseguiti da nere cagne (anche qui il fuggire è motivo tratto dal sesto sigillo [Ap 6, 14-17], come pure il sentir venire sopra di sé qualcosa di imminente, nel caso “’l porco e la caccia”). A uno dei due scialacquatori, Iacopo da Sant’Andrea, “pareva tardar troppo” nella corsa, così si rivolge all’altro rinfacciandogli di non aver avuto gambe tanto svelte nella battaglia del Toppo (1278), dove trovò la morte (Inf. XIII, 109-121). Il tardare è ad Ap 3, 3, mentre l’avverbio “ecco” deriva da Ap 16, 15.
Si potrebbe dire che perfino il gridare di Iacopo – “Lano, sì non furo accorte / le gambe tue a le giostre dal Toppo!” (vv. 120-121) – concorda nel verbo con fur, quasi ad accentuare una subitanea rapidità, propria del ladro, che è mancata al momento del bisogno. Non paia, questa, affermazione astrusa, perché il confronto tra Commedia e Lectura registra nei versi non pochi esempi di parole che nel suono coincidono con altre dell’esegesi teologica pur avendo significato letterale diverso.
“E poi che forse li fallia la lena, / di sé e d’un cespuglio fece un groppo” (Inf. XIII, 122-123). I ‘condiscendenti’ vittoriosi del quinto stato (Ap 3, 5; cfr. altre variazioni su temi dalla medesima esegesi) non verranno cancellati dal libro della vita, cioè dalla predestinazione e dalla gloria divina, anzi verranno scritti in esso in modo chiaro. Poiché vissero in mezzo alla moltitudine degli infermi come fossero sepolti o innominati senza avere il nome o la fama dei sommi perfetti, sarà dato loro il singolare nome nella gloria divina, raccomandato da Cristo di fronte a tutta la curia celeste. Olivi nota che essere cancellati dal libro della vita non presuppone alcuna mutazione o corruzione in Dio. Alcuni vi si trovano scritti in quanto, secondo la presente giustizia divina, sono degni della vita eterna e ad essa ordinati in modo tale che, se non cadono dalla grazia, non possono fallire dal conseguirla.
È quanto dice Brunetto a Dante (Inf. XV, 55-57): «Ed elli a me: “Se tu segui tua stella (cioè la virtù dei Gemelli, corrispondente alla perfezione stellare della chiesa di Sardi ad Ap 3, 1), / non puoi fallire a glorïoso porto (infallibiliter assequerentur), / se ben m’accorsi ne la vita bella” (il tema del “principium pulchritudinis”, prerogativa della quinta chiesa nei suoi inizi: Ap 2, 1)». Anche i tre Fiorentini sodomiti augurano al poeta di tornare a rivedere “le belle stelle” (Inf. XVI, 82-84).
Al quinto vescovo e alla sua semenza gli stellari doni dello Spirito sono preparati da Dio, qualora si mantengano degni. Così Cacciaguida, che nel suo discendere dalla croce luminosa “pare stella che tramuti loco”, dice come prima cosa: “Benedetto sia tu … trino e uno, / che nel mio seme se’ tanto cortese!” (Par. XV, 16, 47-48).
Ma gli stessi temi erano ben diversamente risuonati nel rimprovero di Beatrice: “e se ’l sommo piacer sì ti fallio (da confrontare con il non puoi fallire detto da Brunetto Latini) / per la mia morte, qual cosa mortale / dovea poi trarre te nel suo disio?” (Purg. XXXI, 52-54).
L’Eden, che è figura del quinto stato nel suo bel principio di pienezza stellare e di doni dello Spirito, è “campagna santa … d’ogne semenza … piena”, da cui “l’altra terra (quella abitata dagli uomini), secondo ch’è degna / per sé e per suo ciel, concepe e figlia / di diverse virtù diverse legna” (Purg. XXVIII, 112-120). Della saggezza temperata “diversa membra et officia conectens et secundum suas proportiones ordinans sub regula unitatis condescendente proportioni membrorum”, propria degli zelanti istitutori del quinto stato, sono pregne le parole di Beatrice relative a Dante prima della caduta: “Non pur per ovra de le rote magne, / che drizzan ciascun seme ad alcun fine / secondo che le stelle son compagne” (Purg. XXX, 109-111). Non sarà poi casuale che il ‘fallire’ di Dante, dopo la morte della sua donna, sia assimilato, per il medesimo panno su cui sono cucite le parole di Beatrice, alla caduta dell’uomo nel peccato originale: allora la natura umana, che si avvantaggiava “di tutte queste dote” (i doni dello Spirito), “peccò tota / nel seme suo” rendendosi indegna (Par. VII, 76-87).
Risolvendo il dubbio di Dante sul fatto che una preghiera di suffragio per le anime purganti possa modificare i decreti di Dio, Virgilio spiega (utilizzando l’esegesi di Ap 3, 5) che l’altezza del giudizio divino “non s’avvalla”, cioè non ‘condiscende’ corrompendosi, per il fatto che un atto di carità come la preghiera dia soddisfazione per la colpa. Di conseguenza “non falla” la speranza di quanti pregano affinché altri preghino per loro (Purg. VI, 25-48).
L’interpretazione data da Riccardo di San Vittore del nome della quinta chiesa – «“Sardis”, id est principium pulchritudinis, quia scilicet sola initia boni non autem consumationem habuit» (Ap 3, 1) – risuona in bocca a san Pietro dopo l’invettiva contro “Caorsini e Guaschi” che si apprestano a bere il sangue della Chiesa: “o buon principio, / a che vil fine convien che tu caschi!” (Par. XXVII, 59-60, dove il “vil fine” è un filo tratto dal prologo, Notabile V, sempre relativo al quinto stato). Il medesimo tema è appropriato a Dante, che, offeso da viltà, consuma nel dubbio l’impresa di compiere il viaggio, da principio prontamente accettata (Inf. II, 41-42).
■ Se per i suicidi i temi fondamentali, sui quali opera con variazioni la parodia dantesca, appartengono al terzo stato, cioè al momento storico e individuale nel quale l’uomo razionale discerne la verità dall’errore, essi sono posti in sordina nell’episodio degli scialacquatori (Inf. XIII, 109-151). Qui si intrecciano motivi di diversa origine. In primo luogo riferiti al quinto stato: sorpresi (v. 111: quinta chiesa, Ap 3, 3; cfr. supra); ’l porco … de la selva (vv. 113, 117: quinta tromba, l’aper de silva ad Ap 9, 11); Or accorri, accorri, morte! (v. 118: quinta tromba, Ap 9, 5-6: “Et desiderabunt mori, et fugiet mors ab illis”); tardar, furo (vv. 119-120: quinta chiesa, Ap 3, 3; cfr. supra); li fallia (v. 122: quinta vittoria, Ap 3, 5); raccoglietele, rimane, rimase (vv. 142, 147, 149: raccogliere e rimanere sono due verbi tipici del quinto stato, cfr., per il primo, prologo, Notabile V, con i temi ripresi ai vv. 2-3 del canto successivo; per il secondo, Ap 12, 17 [quinta guerra]).
Le “cagne” che “dilaceraro” (vv. 125, 128) si trovano ad Ap 22, 15 e “sen portar” ad Ap 8, 9; Virgilio conforta il discepolo imitando Cristo (Ap 1, 17: “et posuit dexteram suam super me – Presemi allor la mia scorta per mano”); il cespuglio “piangea … per tante punte” (vv. 131, 137; Ap 1, 7: «pungentes … “Et plangent se super eum”»). Da Ap 17, 3 provengono lo “strazio” delle fronde del fiorentino suicida e dall’esegesi del versetto 6 del medesimo capitolo la dolorosa domanda sul perché egli debba essere reo di colpe altrui, cioè della rovinosa fuga di Iacopo da Sant’Andrea che ha devastato e rotto il cespuglio nel quale è incarcerato. All’inizio del canto seguente l’antitesi, nel medesimo episodio, tra stringere e spargere (rispettivamente riferito il primo verbo al cuore di Dante, ‘stretto’ dalla “carità del natio loco”; il secondo al radunare le “foglie sparte” del cespuglio, ma “case”, ultima parola di Inf. XIII, è strettamente congiunta con “mi strinse” del primo verso del nuovo canto) è variazione dell’esegesi contenuta nel Notabile XI del prologo, riferita alla Scrittura che può essere interpretata ora in modo coartato ora esteso, un passo soggetto a molti sviluppi nel poema.
■ Sinistra testimonianza lasciata ai posteri è la statua di Marte rimasta a Firenze sul Ponte Vecchio: se non fosse per la sua presenza, afferma l’anonimo fiorentino suicida, il dio avrebbe già distrutto con la sua arte la città che mutò lui, primo padrone, nel Battista, e reso inutile il lavoro di coloro che, al tempo di Carlo Magno, la ricostruirono dopo che Attila (in realtà Totila) l’ebbe ridotta in cenere (Inf. XIII, 143-150). Le parole del suicida sono in parte tessute coi motivi del secondo stato: il “rimane ancor di lui” è la testimonianza che rimane dei martiri (con cui Marte concorda non solo nel suono, ma per il comune combattere), e anche il “passo d’Arno”, che allude alla passione e alla tribolazione, rientra nella tematica. Come in Par. XXXIII, il tema del rimanere dalla quinta guerra (Ap 12, 17: “sovra ’l cener che d’Attila rimase”) si intreccia con il “relinquere” proprio dei martiri (prologo, Notabile XII: “rimane ancor di lui alcuna vista”). Da notare la presenza di un altro tema del quinto stato, il raccogliere le reliquie (prologo, Notabile V, dove è proprio della Chiesa di Roma, raccolta e restituita [Notabile XIII] da Carlo Magno contro i Longobardi), appropriato alla raccolta e alla restituzione al cespuglio del suicida piangente delle sue fronde, disgiunte e lacerate dalle nere cagne correnti per la selva, fatta, “con un gesto da Antigone” [10], dal poeta stretto dalla “carità del natio loco” (Inf. XIII, 142; XIV, 1-3).
[1] LEO SPITZER, Il canto XIII dell’Inferno, in Letture dantesche, a cura di Giovanni Getto, Firenze 1955, pp. 221-248: 230-236.
[2] Cfr. ibid., p. 235.
[3] Pier della Vigna, custode delle chiavi del cuore del suo signore, ha vegliato fino alla morte: tale è il senso di “tanto ch’i’ ne perde’ li sonni e ’ polsi”. Un confronto parziale è con le parole di Piccarda: “perché fino al morir si vegghi e dorma” (Par. III, 100). Non accettabile, pertanto, la variante li senni, intesi come “sensi” (Inglese), indubbia aberrazione da sonni (Petrocchi).
[4] SPITZER, Il canto XIII dell’Inferno, pp. 227-228.
[5] Se parlare appartiene al sesto stato, il più alto periodo della storia umana, quello a cui guardano come alla causa finale tutti gli altri stati, al settimo, ultimo e breve momento, spetta la brevità, il silenzio, la pace. A questi temi rinviano espressioni come “ch’i’ non posso tacere … Da ch’el si tace … non perder l’ora … Brievemente sarà risposto a voi” (Inf. XIII, 56, 79-80, 93), motivi sviluppati anche altrove nel poema. Pregare altri e vedere accettate le proprie preghiere (Inf. XIII, 85-87) è tema contenuto nell’esegesi di Ap 8, 3.
[6] L’esegesi relativa all’istruzione data a Filadelfia, la sesta chiesa d’Asia (Ap 3, 7-11), mostra passi di chiara impronta gioachimita – in parte citazione diretta e occulta dall’Expositio di Gioacchino da Fiore -, nei quali la terza età del mondo è contraddistinta del giubilo, dall’ebbrezza spirituale, dal gusto soave della contemplazione, dal mantenimento delle promesse sulla piena conversione d’Israele. Ma su questo festivo tripudio si addensano passi tipicamente oliviani, che sottolineano le fortissime tentazioni e persecuzioni. Un gusto amaro e dolce insieme, provato da chi ha il dono della “porta aperta” al parlare di ciò che sente interiormente, e nello stesso tempo è tormentato dal dubbio nell’angustia del martirio psicologico. Un accostamento di questi passi giova ad evidenziare le profonde differenze che intercorrono fra Olivi e Gioacchino da Fiore.
[7] La ‘porta aperta’ data al vescovo di Filadelfia, la sesta chiesa d’Asia (Ap 3, 8), cioè l’illuminazione dell’intelletto nel penetrare la Scrittura (“hostium aperitur cum intellectus illuminatur et exacuitur ad scripturarum occulta expedite et faciliter penetranda et videnda”), è porta aperta al parlare (“hostium sermonis ad loquendum misterium Christi”) per dettato interiore sentito dal predicatore che apre i cuori delle genti (“cum spiritus predicantium sentit ordinationem et assistentiam Christi ad aperiendum corda gentium per sermonem ipsius”); l’ordine di Cristo è apertura della volontà (“predicta Christi ordinatio seu voluntas est primum hostium seu prima apertio sue voluntatis et gratie dande auditoribus et sermoni predicantis”); al parlare è data forza spirituale (“cum predicationi datur spiritalis efficacia ad corda audientium penetranda”) per aprire i cuori degli ascoltatori (“cum incredulorum corda divinitus aperiuntur ad credendum et implendum Christi legem et fidem que predicatur eis”). In questo senso è l’invito di Virgilio affinché il discepolo chieda ancora cose a Pier della Vigna – “ma parla!” (Inf. XIII, 81; invito disatteso per la troppa pietas che “accora” Dante) -; nel sesto girone della montagna, interrogato da Stazio, Dante resta nel dubbio se tacere o dire, finché il maestro gli ordina di parlare e di dire che colui che lo guida in alto è proprio Virgilio (Purg. XXI, 119-120).
[8] NICOLA DA ROCCA, Epistolae, ed. Fulvio Delle Donne, SISMEL. Edizioni del Galluzzo, Firenze 2003 (Edizione Nazionale dei Testi Mediolatini 9), nr. 15, p. 31 (cfr. nr. 2, p. 9: “Cum benefaciendi quibuslibet regnet in pectore vestro potentia, dum reserat nemo quod clauditis et quod reseratis per consequens nemo claudit”). Cfr. CLAUDIA VILLA, «Per le nove radici d’esto legno». Pier della Vigna, Nicola della Rocca (e Dante): anamorfosi e riconversione di una metafora, in “Strumenti critici”, 15 (1991), pp. 131-144. La medesima autrice, in Canto XIII, in Lectura Dantis Turicensis, a cura di Georges Güntert e Michelangelo Picone, I, Inferno, Firenze 2011, pp. 183-191: 187-190, nota che l’epistola di Nicola da Rocca contiene una serie di temi biblici intenzionalmente ripercorsi da Dante, ad esempio la vite da Isaia 5, 7 e Giovanni 15, 1, temi “che concorrono alla descrizione di un luogo straordinariamente fertile, la Capua felice, dove il cancelliere è nato e dove ora fiorisce la sua scuola” e che Dante trasforma per contrappasso nella selva. Nicola fa riferimento anche all’aper de silva del Salmo 79, 14, – “’l porco … de la selva” (Inf. XIII, 113, 117) – citato come distruttore della vigna nella Lectura nell’esegesi della quinta tromba, ad Ap 9, 11 (passo utlizzato anche altrove). In questo, come in simili casi, la fonte incidentale (l’epistola di Nicola da Rocca) è inserita nelle maglie del commento apocalittico oliviano oggetto della parodia che l’arricchisce con altri motivi.
[9] SPITZER, Il canto XIII dell’Inferno, p. 233.
[10] Ibid., p. 238.
Tab. I
[LSA, cap. VIII, Ap 8, 7 (IIIa visio, Ia tuba)] […] Per “terram” autem significatur hic Iudea, quia sicut terra habitabilis fuit segregata a mari et discooperta aquis, ut posset homo habitare in ea et ut ipsa ad usum hominis posset fructificare et herbas et arbores fructiferas ferre, sic Deus mare infidelium nationum et gentium separaverat a terra et plebe Iudeorum, ut quiete colerent Deum et facerent fructum bonorum operum, et ut essent ibi simplices in bono virentes ut herbe, et perfecti essent ut arbores grandes <et> solide et fructuose. […] Quantum autem malum fecerint in Iudeis predicta ostendit subdens: “Et tertia pars terre combusta est, et tertia pars arborum concremata est, et omne fenum viride combustum est”. […]
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[LSA, prologus, Notabile XIII] In tertio vero (die) sequestrate sunt aque nationum idolatrantium a terra fidelium, et protulit herbam virentem simplicium et ligna pomifera doctorum fructum spiritalis doctrine emittentium (cfr. Gn 1, 9-13).Inf. XIII, 1-9, 31-32, 40-42, 73-75
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[LSA, cap. VI, Ap 6, 5 (IIa visio, apertio IIIii sigilli)] “Et cum aperuisset sigillum tertium, audivi tertium animal” (Ap 6, 5), scilicet quod habebat faciem hominis, “dicens: Veni”, scilicet per maiorem attentionem vel per imitationem fidei doctorum hic per hominem designatorum, “et vide. Et ecce equus niger”, id est hereticorum et precipue arrianorum exercitus astutia fallaci obscurus et erroribus luci Christi contrariis denigratus. “Et qui sedebat super eum”, scilicet imperatores et episcopi arriani, “habebat stateram in manu sua”. Cum statera mensuratur quantitas ponderum, et ideo per stateram designatur hic mensuratio articulorum fidei, que quando fit per rectam et infallibilem regulam Christi et scripturarum suarum est recta statera, de qua Proverbiorum XVI° dicitur: “Pondus et statera iudicia Domini sunt” (Pro 16, 11), et Ecclesiastici XXI°: “Verba prudentium statera ponderabuntur” (Ecli 21, 28); quando vero fit per rationem erroneam et per falsam et intortam acceptionem scripture est statera dolosa, de qua Proverbiorum XI° dicitur: “Statera dolosa abhominatio est apud Deum” (Pro 11, 1), et in Psalmo: “Mendaces filii hominum in stateris” (Ps 61, 10), et Michee VI°: “Numquid iustificabo stateram impiam et sac<c>elli pondera dolosa” (Mic 6, 11). |
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[LSA, cap. V, Ap 5, 5 (radix IIe visionis)] Attamen hec revelatio et fletus Iohannis potius respicit illa tempora in quibus, propter pressuras heresum et terrores imminentium periculorum, et propter nescientiam rationis seu rationabilis permissionis talium pressurarum et periculorum <et> iudiciorum, flent et suspirant sancti pro apertione libri, quantum ad illa precipue que pro illo tempore magis expedit eos scire. Hoc autem potissime spectat ad triplex tempus. […]
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Tab. II
[LSA, prologus, Notabile III] Patet enim hoc de primo dono. Nam pastoralis cura insistit primo ovium propagationi (I). Secundo earum defensioni ab imbribus et lupis et consimilibus (II). Tertio earum directioni seu deductioni ad exteriora (III). Quarto earum pascuali refectioni (IV). Quinto morborum et morbidarum medicinali extirpationi (V). Sexto ipsarum plene reformationi (VI). Septimo ipsarum in suum ovile reductioni et recollectioni (VII). Constat autem quod propagatio appropriatur prime plantationi ecclesie sub apostolis (I), defensio vero militari pugne martirum (II), directio vero eruditioni doctorum (III), refectio autem studiose et refective devotioni anachoritarum (IV), et sic de aliis.[LSA, prologus, Notabile XIII (IV status)] Refectio vero eucharistie congruit devotioni anachoritarum. |
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[LSA, cap. XII, Ap 12, 14 (IVa visio, III–IVum prelium)] “Date sunt”, inquam, “ut volaret in desertum, in locum suum”. Nota quod primo dicta est fugisse in desertum, ubi habet locum sibi paratum a Deo; hic vero dicitur volasse in desertum, tamquam in locum iam suum. Nam in hoc tempore non quasi ad gentes fugiens a Iudea, sed tamquam gentium domina et regina magnifice volavit per totum gentilitatis desertum, tamquam in locum regni et dominii sui et proprie mansionis sue.
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Inf. XIII, 25-27, 100-102 [III]Cred’ ïo ch’ei credette ch’io credesse
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Inf. XX, 67-93 [IV]Loco è nel mezzo là dove ’l trentino
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L’esegesi di Ap 12, 14 (quarta visione, terza e quarta guerra concorrenti) presta più variazioni a Inf. XIV e XX, dove prevalgono i temi del quarto stato, che a Inf. XIII, canto dove si registra la preminenza di motivi del terzo periodo della storia della Chiesa. Per quanto la parodia si discosti assai dal contesto originale, il verso “da gente che per noi si nascondesse” tra gli alberi del bosco (Inf. XIII, 27) può essere riferito, in dissonanza, al “deserto”, il luogo dove la donna (la Chiesa) fuggì dall’ostinata persecuzione giudaica, nascondendosi in mezzo alle genti. Nell’esegesi deserto equivale a selva (Ap 12, 6). Tipico del quarto stato è il tema del pastus, del ristorarsi di vivanda (Notabile III, Ap 12, 14), appropriato alle Arpie (Inf. XIII, 101). |
Tab. III
Inf. XIII, 62-63; XIV, 51-54fede portai al glorïoso offizio,
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Purg. XXIV, 13-15La mia sorella, che tra bella e buona
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[LSA, cap. II, Ap 2, 10-11 (Ia visio, IIa ecclesia)] Quarto eius ad constantem et invincibilem concertationem et perseverantiam exhortatio, ibi: “Esto fidelis”. […] “Esto fidelis usque ad mortem” (Ap 2, 10), id est fideliter pro mea fide concerta “usque ad mortem”, id est usque ad ultimum diem vite tue vel usque ad sufferentiam martirii interfectivi tui corporis, “et dabo tibi coronam vite”, scilicet eterne post mortem.
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Inf. XIII, 20-21, 73-78
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Par. III, 106-108, 118-120Uomini poi, a mal più ch’a bene usi,
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Cristo loda dapprima la chiesa di Pergamo, la terza d’Asia, appropriata ai dottori del terzo stato della storia della Chiesa, per avere mantenuto e confessato la fede e per non avere rinnegato il suo nome nelle persecuzioni, pur abitando nella “sede di Satana”, dove il diavolo regna immobile e siede come nella sua salda, principale e magistrale sede. Riferisce quindi di un fedele testimone, Antipa, che fu messo a morte “presso di voi, dove è la sede di Satana”, non dai buoni ma dai malvagi sui quali il diavolo regna. La citazione della costanza di Antipa nella confessione di fede ha lo scopo di incitare e animare con l’esempio il vescovo e i suoi a fare altrettanto (Ap 2, 13).
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Tab. IV
[LSA, cap. XVI, Ap 16, 19-20 (radix VIe visionis)] Secundo igitur post duo predicta preambula subditur iudicium ecclesie carnalis, cum dicitur: “Et Babilon magna” (Ap 16, 19). Babilon, ut superius dixi, vocatur quia per enormem et effrenatam multitudinem vitiorum est in ea omnis status et ordo confusus. Babilon enim confusio interpretatur. “Venit in memoriam ante Deum dare ei”, id est ad dandum ei, “calicem vini indignationis ire eius”. Deus videtur oblitus malitie peccantium quamdiu non punit aperte illam; quando autem aperte illam iudicat et punit tunc videtur recordari ipsius, non quidem ad ipsam glorificandam, sed potius puniendam. Per “calicem” autem designatur iusta mensura, quia non punit ultra condignum. Quia vero vinum potatum intrat celeriter usque ad intima gustus et viscerum et cito incorporatur omnibus membris, ideo pena amarissima sepe designatur per amaram potionem vini amarissimi.
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Par. XVI, 136-144La casa di che nacque il vostro fleto,
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Inf. XIII, 70-72L’animo mio, per disdegnoso gusto,
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Tab. V
[LSA, cap. III, Ap 3, 3-4 (Ia visio, Va ecclesia)] Deinde comminatur eidem iudicium sibi occulte et inopinate superventurum si non se correxerit, unde subdit: “Si ergo non vigilaveris, veniam ad te tamquam fur”, qui scilicet venit latenter et ex improviso ut bona auferat et possessorem occidat. Unde subdit: “et horam nescies qua veniam ad te”. Iustum enim est ut qui se ipsum per negligentiam et torporem nescit, nesciat horam iudicii sui et exterminii. Talis etiam propter suas tenebras non videt lucem, ac erronee credit et optat se diu in prosperitate victurum et Dei iudicium diu esse tardandum, et etiam spe presumptuosa sperat se esse finaliter salvandum, propter quod Ia ad Thessalonicenses V° dicit Apostolus quod “dies Domini veniet in nocte sicut fur. Cum enim dixerint: pax et securitas, tunc superveniet eis repentinus interitus” (1 Th 5, 2-3). Quibus autem, scilicet sanctis, et quare non veniet sicut fur ostendit subdens: “Vos autem, fratres, non estis in tenebris, ut vos dies illa tamquam fur comprehendat; omnes enim vos estis filii lucis et diei. Igitur non dormiamus sicut et ceteri, sed vigilemus et sobrii simus. Qui enim dormiunt nocte dormiunt” et cetera (ibid., 5, 4-7). Nota quod correspondenter prefigurat hic occultum Christi adventum et iudicium in fine quinti status et in initio sexti fiendum, prout infra in apertione sexti signaculi explicatur.
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Inf. XIII, 103-105, 109-121Come l’altre verrem per nostre spoglie,
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Inf. XX, 105, 118-120ché solo a ciò la mia mente rifiede
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[LSA, cap. VI, Ap 6, 14-15 (apertio VIi sigilli; IVum initium)] Tunc etiam montes, id est regna ecclesie, et “insule”, id est monasteria et magne ecclesie in hoc mundo quasi in solo seu mari site, movebuntur “de locis suis” (Ap 6, 14), id est subvertentur et eorum populi in mortem vel in captivitatem ducentur. Tunc etiam, tam propter illud temporale exterminium quod sibi a Dei iudicio velint nolint sentient supervenisse, quam propter desperatum timorem iudicii eterni eis post mortem superventuri, sic erunt omnes, tam maiores quam medii et minores, horribiliter atoniti et perterriti quod preeligerent montes et saxa repente cadere super eos. Ex ipso etiam timore fugient et abscondent se “in speluncis” et inter saxa montium (cfr. Ap 6, 15-17). |
Tab. VI
Tab. VII
[LSA, cap. I, Ap 1, 6 (Salutatio)] “Amen”, id est sic fiat; vel “amen”, id est vere et fideliter sit ei.[LSA, cap. I, Ap 1, 7 (Salutatio)] “Plangent”, inquam, “omnes tribus terre”. Secundum Ricardum, “tribus terre” vocat omnes terrena diligentes et terrena Christo preferentes. Et ut certius sibi credatur confirmat hoc in duplici lingua, scilicet gentili et hebrea, dicendo: “Etiam. Amen”, id est vere plangent se. “Amen” enim est hebreum, sed “etiam” est latinum, pro quo est ibi adverbium grecum, quia hic liber fuit scriptus in greco. Utraque autem lingua, scilicet greca et latina, est gentilis. Per hec autem innuit quod in omni lingua fidelium hoc confirmabitur, et omnis lingua reproborum hoc clamabit experimento penarum compulsa.[LSA, cap. XXII, Ap 22, 20-21 (Conclusio)] Deinde ad magis confirmandum subdit (Ap 22, 20): “Dicit”, scilicet predicta, “qui testimonium perhibet ipsorum”, scilicet Christus, secundum Ricardum: «Christus enim cuncta que in hoc libro sunt attestatur». Posset tamen dici quod Iohannes dicit hoc de se ipso. Nam et in fine evangelii sui consimiliter dicit: “Hic est discipulus ille qui testimonium perhibet de hiis” (Jo 21, 24), et sicut hic confirmative subdit: “Etiam. Amen”, sic et ibi subdit: “Et scimus quia verum est testimonium eius”. Posuit autem hebreum “amen”, et ultra hoc adverbium grecum pro quo nos habemus latine “etiam”, ut innuat hoc omnimode et in omni lingua esse indubitabiliter asserendum.
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Inf. XXI, 37-42Del nostro ponte disse: “O Malebranche,
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[LSA, cap. VII, Ap 7, 11-12 (IIa visio, apertio VIi sigilli)] “Et omnes angeli stabant in circuitu troni […] et seniorum et quattuor animalium, et ceciderunt in conspectu troni in facies suas”, scilicet se profunde humiliando Deo, “et adoraverunt Deum (Ap 7, 12) dicentes: Amen”, id est vere sic sit et fiat sicut hec sancta turba decantat et orat. Dicunt enim “Amen” confirmando laudem sancte turbe et ei iocunde correspondendo et congratulando et Deum pariter conlaudando.[LSA, cap. XIX, Ap 19, 4 (VIa visio)] Deinde ostendit quomodo communi laudi sanctorum correspondebit laus prelatorum presidentium collegiis sanctorum. Unde subdit: “Et viginti quattuor seniores et quattuor animalia ceciderunt et adoraverunt Deum sedentem super tronum dicentes: Amen, alleluia”, id est vere est Deus ineffabiliter laudandus. Dicendo enim “amen” confirmant laudem communitatis suorum subditorum, et post hoc addunt et ipsi suam laudem dicendo “alleluia”. |
Il valore di “sì”, confermativo del vero, risulta sempre in tutti i passi della Lectura ove compare la parola “Amen”: “id est sic fiat … vere et fideliter sit … fiat hoc quod dictum est … vere sic sit et fiat … vere ita est … id est verus seu veritas” (Ap 1, 6; 1, 7; 3, 14; 5, 14; 7, 12; 19, 4; 22, 20-21). Si può vedere come i motivi che accompagnano l’“Amen” convergano sulle beffarde parole del diavolo che porta ai Malebranche, nella bolgia dei barattieri, “un de li anzïan (un ‘seniore’, come quelli della ‘santa’ turba che adora Dio seduto sul trono dicendo ‘Amen’) di Santa Zita”, per tornare “per anche” (l’avverbio etiam che accompagna l’amen ad Ap 1, 7 e 22, 20) a Lucca, dove “del no, per li denar, vi si fa ita”, cioè “sì” (Inf. XXI, 37-42). “Amen, id est vere sic sit et fiat” è tema proprio dell’Italia, “del bel paese là dove ’l sì suona” (Inf. XXXIII, 80) e anche di Beatrice (Inf. II, 103). |