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Feb 25 2024

Inferno XX

 

La “Divina Parodia” del Libro scritto dentro e fuori

Canti esaminati:

Inferno: I; II; III; IV; V; VI; VII; VIII; IX; X; XI; XII; XIII; XIV; XV; XVI; XVII; XVIII; XIX; XX; XXI; XXII; XXVI; XXXII, 124-XXXIII, 90
Purgatorio: III; XXVIII
Paradiso: XI-XII; XXXIII

 

1. Il quarto stato: l’eccesso di contemplazione. 2. “Qui vive la pietà quand’ è ben morta”. 3. “Ne’ monti di Luni”. 4. La fondazione di Mantova. 4.1. “Suso in Italia bella”. 4.2. Tra il monte e il piano. 4.3. Benaco, Mencio, Po. 4.4. “Vide terra, nel mezzo del pantano”. 4.5. Il “manto” sacerdotale. 5. “e già iernotte fu la luna tonda”.

 

Legenda [3]: numero dei versi; 5, 9: collegamento ipertestuale all’esegesi, nella Lectura di Olivi, di capitolo e versetto dell’Apocalisse [Ap]; Not. X: collegamento all’esegesi contenuta nei tredici notabilia del prologo della LecturaVarianti rispetto al testo del Petrocchi.

Viene qui esposto il canto XX dell’Inferno con i corrispondenti legami ipertestuali con i luoghi della Lectura super Apocalipsim ai quali i versi si riferiscono. L’intero poema è esposto nella Topografia spirituale della Commedia (2013, PDF; cfr. infra), ma si sta procedendo a un esame progressivo e aggiornato dei singoli canti. Ogni tabella sinottica, qui presentata o alla quale si rinvia in quanto già esaminata in altra sede, è preceduta o seguita da una parte esplicativa. Per la posizione di Inf. XX nella topografia della prima cantica cfr. infra. Sull’uso dei colori cfr. Avvertenze.

Inferno XX

Quartus status: prologus, Notabilia [Not.]; I visio, IV ecclesia (Tiatira: 2, 18-28); II visio, IV sigillum (6, 7-8); III visio, IV tuba (8, 12-13); IV visio, III-IV prelium (12, 14-16); V visio, IV phiala (16, 8-9); VI visio (18, 2).

Di nova pena mi conven far versi   5, 9
e dar matera al ventesimo canto
de la prima canzon, ch’è d’i sommersi.   [3]   15, 2-5

Io era già disposto tutto quanto
a riguardar ne lo scoperto fondo,
che si bagnava d’angoscioso pianto;   [6]

e vidi gente per lo vallon tondo
venir, tacendo e lagrimando, al passo   Not. X
che fanno le letane in questo mondo.   [9]   Not. XIII

Come ’l viso mi scese in lor più basso,
mirabilmente apparve esser travolto   Not. X; 6, 7
ciascun tra ’l mento e ’l principio del casso,   [12]

ché da le reni era tornato ’l volto,   2, 23
e in dietro venir li convenia,
perché ’l veder dinanzi era lor tolto.   [15]   6, 7

Forse per forza già di parlasia
si travolse così alcun del tutto;
ma io nol vidi, né credo che sia.   [18]   6, 7

Se Dio ti lasci, lettor, prender frutto
di tua lezione, or pensa per te stesso   2, 1Not. X
com’ io potea tener lo viso asciutto,   [21]

quando la nostra imagine di presso
vidi sì torta, che ’l pianto de li occhi
le natiche bagnava per lo fesso.   [24]   2, 12

Certo io piangea, poggiato a un de’ rocchi   1, 7
del duro scoglio, sì che la mia scorta
mi disse: « Ancor se’ tu de li altri sciocchi?   [27]

Qui vive la pietà quand’ è ben morta;   1, 18; Not. X; (6, 8)
chi è più scellerato che colui
che al giudicio divin passion comporta?   [30]   6, 7   compassion porta

Drizza la testa, drizza, e vedi a cui
s’aperse a li occhi d’i Teban la terra;   19, 20
per ch’ei gridavan tutti: “Dove rui,   [33]   3, 10

Anfïarao? perché lasci la guerra?”.   Not. I
E non restò di ruinare a valle
fino a Minòs che ciascheduno afferra.   [36]

Mira c’ha fatto petto de le spalle;
perché volse veder troppo davante,   2, 1
di retro guarda e fa retroso calle.   [39]   2, 5

Vedi Tiresia, che mutò sembiante   
quando di maschio femmina divenne,
cangiandosi le membra tutte quante;   [42]   12, 1-2

e prima, poi, ribatter  li convenne
li duo serpenti avvolti, con la verga,   2, 26-28
che rïavesse le maschili penne.   [45]   2, 5

Aronta è quel ch’al ventre li s’atterga,   2, 22
che ne’ monti di Luni, dove ronca   12, 1-2; Not. XIII
lo Carrarese che di sotto alberga,   [48]

ebbe tra ’ bianchi marmi la spelonca
per sua dimora; onde a guardar le stelle   8, 12
e ’l mar non li era la veduta tronca.   [51]   2, 12

E quella che ricuopre le mammelle,   1, 13
che tu non vedi, con le trecce sciolte,
e ha di là ogne pilosa pelle,   [54]   18, 2

Manto fu, che cercò per terre molte;   1, 13;   Not. XIII
poscia si puose là dove nacqu’ io;   21, 16
onde un poco mi piace che m’ascolte.   [57]

Poscia che ’l padre suo di vita uscìo,
e venne serva la città di Baco,
questa gran tempo per lo mondo gio.   [60]

Suso in Italia bella giace un laco,   1, 18; 2, 1; Not. VI; 18, 17
a piè de l’Alpe che serra Lamagna
sovra Tiralli, c’ha nome Benaco.   [63]

Per mille fonti, credo, e più si bagna   Not. VI; 8, 10; 1, 5
tra Garda e Val Camonica e Pennino     Pennino (Apennino)
de l’acqua che nel detto laco stagna.   [66]   18, 17

Loco è nel mezzo là dove ’l trentino   12, 14 (nel mezzo)
pastore e quel di Brescia e ’l veronese   Not. III
segnar poria, s’e’ fesse quel cammino.   [69]

Siede Peschiera, bello e forte arnese   Not. V, XIII; 2, 1; 12, 14
da fronteggiar Bresciani e Bergamaschi,
ove la riva ’ntorno più discese.   [72]   Not. V

Ivi convien che tutto quanto caschi   Not. V
ciò che ’n grembo a Benaco star non può,   Not. III
e fassi fiume giù per verdi paschi.   [75]   8, 10; Not. III

Tosto che l’acqua a correr mette co,
non più Benaco, ma Mencio si chiama   2, 5
fino a Governol, dove cade in Po.   [78]

Non molto ha corso, ch’el trova una lama,
ne la qual si distende e la ’mpaluda;
e suol di state talor esser grama.   [81]   16, 8; 5, 1

Quindi passando la vergine cruda   Not. I; 6, 8
vide terra, nel mezzo del pantano,   12, 14
sanza coltura e d’abitanti nuda.   [84]   5, 1

Lì, per fuggire ogne consorzio umano,   Not. I
ristette con suoi servi a far sue arti,   Not. III
e visse, e vi lasciò suo corpo vano.   [87]

Li uomini poi che ’ntorno erano sparti   12, 17
s’accolsero a quel loco, ch’era forte   12, 14; Not. V
per lo pantan ch’avea da tutte parti.   [90]

Fer la città sovra quell’ ossa morte;   20, 8; 5, 1
e per colei che ’l loco prima elesse,   12, 14
Mantüa l’appellar sanz’ altra sorte.   [93]   Mantoa

Già fuor le genti sue dentro più spesse,   Not. V
prima che la mattia da Casalodi
da Pinamonte inganno ricevesse.   [96]

Però t’assenno che, se tu mai odi   2, 25
originar la mia terra altrimenti,
la verità nulla menzogna frodi ».   [99]

E io: « Maestro, i tuoi ragionamenti   III status (Not. I, III)
mi son sì certi e prendon sì mia fede,   IV status (Not. III)
che li altri mi sarien carboni spenti.   [102]

Ma dimmi, de la gente che procede,
se tu ne vedi alcun degno di nota;
ché solo a ciò la mia mente rifiede ».   [105]   2, 26-28 

Allor mi disse: « Quel che da la gota
porge la barba in su le spalle brune,
fu – quando Grecia fu di maschi vòta,   [108]   6, 7

sì ch’a pena rimaser per le cune –   12, 17
augure, e diede ’l punto con Calcanta   Not. VIII
in Aulide a tagliar la prima fune.   [111]

Euripilo ebbe nome, e così ’l canta   14, 2.6
l’alta mia tragedìa in alcun loco:
ben lo sai tu che la sai tutta quanta.   [114]

Quell’ altro che ne’ fianchi è così poco,   6, 8
Michele Scotto fu, che veramente
de le magiche frode seppe ’l gioco.   [117]

Vedi Guido Bonatti; vedi Asdente,
ch’avere inteso al cuoio e a lo spago   2, 26-28
ora vorrebbe, ma tardi si pente.   [120]   3, 3

Vedi le triste che lasciaron l’ago,
la spuola e ’l fuso, e fecersi ’ndivine;
fecer malie con erbe e con imago.   [123]

Ma vienne omai, ché già tiene ’l confine
d’amendue li emisperi e tocca l’onda   Not. X
sotto Sobilia Caino e le spine;   [126]   12, 1-2

e già iernotte fu la luna tonda:   8, 12
ben ten de’ ricordar, ché non ti nocque   3, 3; 9, 4
alcuna volta per la selva fonda ».   12, 6
Sì mi parlava, e andavamo introcque.   [130]

 

Primo ciclo

Secondo ciclo

Inferno VII

Inferno XIV

« Pape Satàn, pape Satàn aleppe! »,   7, 13; 2, 24
cominciò Pluto con la voce chioccia;          
e quel savio gentil, che tutto seppe,   [3]
disse per confortarmi: « Non ti noccia
la tua paura; ché, poder ch’elli abbia,
non ci torrà lo scender questa roccia ».   [6]
Poi si rivolse a quella ’nfiata labbia,   12, 16
e disse: « Taci, maladetto lupo!
consuma dentro te con la tua rabbia.   [9]   9, 19
Non è sanza cagion l’andare al cupo:
vuolsi ne l’alto, là dove Michele   2, 24
fé la vendetta del superbo strupo ».   [12]
Quali dal vento le gonfiate vele
caggiono avvolte, poi che l’alber fiacca,   6, 8
tal cadde a terra la fiera crudele.   [15]
Così scendemmo ne la quarta lacca,
pigliando più de la dolente ripa
che ’l mal de l’universo tutto insacca.   [18]
Ahi giustizia di Dio! tante chi stipa
nove travaglie e pene quant’ io viddi?
e perché nostra colpa sì ne scipa?   [21]
Come fa l’onda là sovra Cariddi,
che si frange con quella in cui s’intoppa,   2, 1
così convien che qui la gente riddi.   [24]   Not. XIII
Qui vid’ i’ gente più ch’altrove troppa,
e d’una parte e d’altra, con grand’ urli,   2, 12
voltando pesi per forza di poppa.   [27] 8, 10; 2, 24
Percotëansi ’ncontro; e poscia pur lì   8, 12
si rivolgea ciascun, voltando a retro, 8, 10;  [2, 25
gridando: « Perché tieni? » e « Perché burli? ».  [30]
Così tornavan per lo cerchio tetro   6, 5
da ogne mano a l’opposito punto,
gridandosi anche loro ontoso metro;   [33]
poi si volgea ciascun, quand’ era giunto,   8, 10
per lo suo mezzo cerchio a l’altra giostra.
E io, ch’avea lo cor quasi compunto,   [36]      [7, 13
dissi: « Maestro mio, or mi dimostra   Not. XIII
che gente è questa, e se tutti fuor cherci
questi chercuti a la sinistra nostra ».   [39]
Ed elli a me: « Tutti quanti fuor guerci
sì de la mente in la vita primaia,
che con misura nullo spendio ferci.   [42]   6, 5
Assai la voce lor chiaro l’abbaia,
quando vegnono a’ due punti del cerchio
dove colpa contraria li dispaia.   [45]
Questi fuor cherci, che non han coperchio
piloso al capo, e papi e cardinali,
in cui usa avarizia il suo soperchio ».   [48]
E io: « Maestro, tra questi cotali
dovre’ io ben riconoscere alcuni
che furo immondi di cotesti mali ».   [51]
Ed elli a me: « Vano pensiero aduni:  (IIIIV status)
la sconoscente vita che i fé sozzi, Not. X 
ad ogne conoscenza or li fa bruni.   [54]   6, 5
In etterno verranno a li due cozzi:
questi resurgeranno del sepulcro
col pugno chiuso, e questi coi crin mozzi. [57]   1, 14
Mal dare e mal tener lo mondo pulcro                 [2, 12
ha tolto loro, e posti a questa zuffa:
qual ella sia, parole non ci appulcro.   [60]
Or puoi, figliuol, veder la corta buffa
d’i ben che son commessi a la fortuna,
per che l’umana gente si rabuffa;   [63]
ché tutto l’oro ch’è sotto la luna   12, 1; 8, 12
e che già fu, di quest’ anime stanche   6, 8
non poterebbe farne posare una ».   [66]   21, 16
« Maestro mio », diss’ io, « or mi dì anche:
questa fortuna di che tu mi tocche,
che è, che i ben del mondo ha sì tra branche? ».   [69]
E quelli a me: « Oh creature sciocche,
quanta ignoranza è quella che v’offende!      [Not. III
Or vo’ che tu mia sentenza ne ’mbocche.   [72]
Colui lo cui saver tutto trascende,
fece li cieli e diè lor chi conduce   Not. XIII
sì, ch’ogne parte ad ogne parte splende,   [75]
distribuendo igualmente la luce.   Not. XIII
Similemente a li splendor mondani
ordinò general ministra e duce   [78]   2, 19
che permutasse a tempo li ben vani   12, 1
di gente in gente e d’uno in altro sangue,
oltre la difension d’i senni umani;   [81]
per ch’una gente impera e l’altra langue,   6, 8
seguendo lo giudicio di costei,   2, 23
che è occulto come in erba l’angue.   [84]
Vostro saver non ha contasto a lei:
questa provede, giudica, e persegue
suo regno come il loro li altri dèi.   [87]
Le sue permutazion non hanno triegue:   12, 1
necessità la fa esser veloce;   1, 1
sì spesso vien chi vicenda consegue.   [90]
Quest’ è colei ch’è tanto posta in croce
pur da color che le dovrien dar lode,
dandole biasmo a torto e mala voce;   [93]
ma ella s’è beata e ciò non ode:   1, 3
con l’altre prime creature lieta
volve sua spera e beata si gode.   [96]
Or discendiamo omai a maggior pieta;
già ogne stella cade che saliva   8, 12      [Not. III
quand’ io mi mossi, e ’l troppo star si vieta ». [99]
Noi ricidemmo il cerchio a l’altra riva   2, 12; 22, 1
sovr’ una fonte che bolle e riversa   8, 10
per un fossato che da lei deriva.   [102]   21, 12; 22, 1
L’acqua era buia assai più che persa;
e noi, in compagnia de l’onde bige,
intrammo giù per una via diversa.   [105]   Not. VII
In la palude va c’ha nome Stige
questo tristo ruscel, quand’ è disceso
al piè de le maligne piagge grige.   [108]
E io, che di mirare stava inteso,   Not. III
vidi genti fangose in quel pantano,
ignude tutte, con sembiante offeso.   [111]
Queste si percotean non pur con mano,   8, 12
ma con la testa e col petto e coi piedi,
troncandosi co’ denti a brano a brano.   [114]
Lo buon maestro disse: « Figlio, or vedi
l’anime di color cui vinse l’ira;
e anche vo’ che tu per certo credi   [117]
che sotto l’acqua è gente che sospira,
e fanno pullular quest’ acqua al summo,
come l’occhio ti dice, u’ che s’aggira.   [120]
Fitti nel limo dicon: “Tristi fummo
ne l’aere dolce che dal sol s’allegra,
portando dentro accidïoso fummo:   [123]
or ci attristiam ne la belletta negra”.
Quest’ inno si gorgoglian ne la strozza,
ché dir nol posson con parola integra ».  [126]  9, 20
Così girammo de la lorda pozza
grand’ arco, tra la ripa secca e ’l mézzo,
con li occhi vòlti a chi del fango ingozza.
Venimmo al piè d’una torre al da sezzo.   [130]

 

Terzo ciclo

Inf. XX

Di nova pena mi conven far versi
e dar matera al ventesimo canto
de la prima canzon, ch’è d’i sommersi.   [3]
Io era già disposto tutto quanto
a riguardar ne lo scoperto fondo,
che si bagnava d’angoscioso pianto;   [6]
e vidi gente per lo vallon tondo
venir, tacendo e lagrimando, al passo
che fanno le letane in questo mondo.  [9]  Not. XIII
Come ’l viso mi scese in lor più basso,
mirabilmente apparve esser travolto   6, 7
ciascun tra ’l mento e ’l principio del casso,   [12]
ché da le reni era tornato ’l volto,   2, 23
e in dietro venir li convenia,
perché ’l veder dinanzi era lor tolto.   [15]   6, 7
Forse per forza già di parlasia
si travolse così alcun del tutto;
ma io nol vidi, né credo che sia.   [18]   6, 7
Se Dio ti lasci, lettor, prender frutto
di tua lezione, or pensa per te stesso   2, 1
com’ io potea tener lo viso asciutto,   [21]
quando la nostra imagine di presso
vidi sì torta, che ’l pianto de li occhi
le natiche bagnava per lo fesso.   [24]   2, 12
Certo io piangea, poggiato a un de’ rocchi
del duro scoglio, sì che la mia scorta
mi disse: « Ancor se’ tu de li altri sciocchi?   [27]
Qui vive la pietà quand’ è ben morta;  6, 8
chi è più scellerato che colui
che al giudicio divin passion comporta?   [30]
Drizza la testa, drizza, e vedi a cui
s’aperse a li occhi d’i Teban la terra;
per ch’ei gridavan tutti: “Dove rui,   [33]
Anfïarao? perché lasci la guerra?”.
E non restò di ruinare a valle
fino a Minòs che ciascheduno afferra.   [36]
Mira c’ha fatto petto de le spalle;
perché volse veder troppo davante,   2, 1
di retro guarda e fa retroso calle.   [39]
Vedi Tiresia, che mutò sembiante

quando di maschio femmina divenne,
cangiandosi le membra tutte quante;   [42]   12, 1-2
e prima, poi, ribatter  li convenne
li duo serpenti avvolti, con la verga,   2, 26-28
che rïavesse le maschili penne.   [45]
Aronta è quel ch’al ventre li s’atterga,   2, 22
che ne’ monti di Luni, dove ronca   12, 1; Not. XIII
lo Carrarese che di sotto alberga,   [48]
ebbe tra ’ bianchi marmi la spelonca
per sua dimora; onde a guardar le stelle   8, 12
e ’l mar non li era la veduta tronca.   [51]   2, 12
E quella che ricuopre le mammelle,   1, 13
che tu non vedi, con le trecce sciolte,
e ha di là ogne pilosa pelle,   [54]   18, 2
Manto fu, che cercò per terre molte;   Not. XIII
poscia si puose là dove nacqu’ io;   21, 16
onde un poco mi piace che m’ascolte.   [57]
Poscia che ’l padre suo di vita uscìo,
e venne serva la città di Baco,
questa gran tempo per lo mondo gio.   [60]
Suso in Italia bella giace un laco,
a piè de l’Alpe che serra Lamagna
sovra Tiralli, c’ha nome Benaco.   [63]
Per mille fonti, credo, e più si bagna   8, 10
tra Garda e Val Camonica e Pennino
de l’acqua che nel detto laco stagna.   [66]
Loco è nel mezzo là dove ’l trentino   12, 14
pastore e quel di Brescia e ’l veronese   Not. III
segnar poria, s’e’ fesse quel cammino.   [69]
Siede Peschiera, bello e forte arnese   12, 14
da fronteggiar Bresciani e Bergamaschi,
ove la riva ’ntorno più discese.   [72]   Not. V
Ivi convien che tutto quanto caschi   Not. V
ciò che ’n grembo a Benaco star non può,   Not. III
e fassi fiume giù per verdi paschi.   [75]   8, 10
Tosto che l’acqua a correr mette co,              [Not. III
non più Benaco, ma Mencio si chiama
fino a Governol, dove cade in Po.   [78]
Non molto ha corso, ch’el trova una lama,
ne la qual si distende e la ’mpaluda;
e suol di state talor esser grama.   [81]   16, 8; 5, 1
Quindi passando la vergine cruda   Not. I; 6, 8
vide terra, nel mezzo del pantano,   12, 14
sanza coltura e d’abitanti nuda.   [84]   5, 1
Lì, per fuggire ogne consorzio umano,   Not. I
ristette con suoi servi a far sue arti,   Not. III
e visse, e vi lasciò suo corpo vano.   [87]
Li uomini poi che ’ntorno erano sparti   12, 17
s’accolsero a quel loco, ch’era forte   12, 14
per lo pantan ch’avea da tutte parti.   [90]
Fer la città sovra quell’ ossa morte;   20, 8; 5, 1
e per colei che ’l loco prima elesse,   12, 14
Mantüa l’appellar sanz’ altra sorte.   [93]
Già fuor le genti sue dentro più spesse,
prima che la mattia da Casalodi
da Pinamonte inganno ricevesse.   [96]
Però t’assenno che, se tu mai odi   2, 25
originar la mia terra altrimenti,
la verità nulla menzogna frodi ».   [99]
E io: « Maestro, i tuoi ragionamenti   Not. III
mi son sì certi e prendon sì mia fede,   Not. III
che li altri mi sarien carboni spenti.   [102]
Ma dimmi, de la gente che procede,
se tu ne vedi alcun degno di nota;
ché solo a ciò la mia mente rifiede ». [105]  2, 26-28
Allor mi disse: « Quel che da la gota
porge la barba in su le spalle brune,
fu – quando Grecia fu di maschi vòta,   [108]   6, 7
sì ch’a pena rimaser per le cune –
augure, e diede ’l punto con Calcanta
in Aulide a tagliar la prima fune.   [111]
Euripilo ebbe nome, e così ’l canta
l’alta mia tragedìa in alcun loco:
ben lo sai tu che la sai tutta quanta.   [114]
Quell’ altro che ne’ fianchi è così poco,   6, 8
Michele Scotto fu, che veramente
de le magiche frode seppe ’l gioco.   [117]
Vedi Guido Bonatti; vedi Asdente,
ch’avere inteso al cuoio e a lo spago   2, 26-28
ora vorrebbe, ma tardi si pente.   [120]
Vedi le triste che lasciaron l’ago,
la spuola e ’l fuso, e fecersi ’ndivine;
fecer malie con erbe e con imago.   [123]
Ma vienne omai, ché già tiene ’l confine
d’amendue li emisperi e tocca l’onda   Not. X
sotto Sobilia Caino e le spine;   [126]   12, 1-2
e già iernotte fu la luna tonda:   8, 12
ben ten de’ ricordar, ché non ti nocque
alcuna volta per la selva fonda ».
Sì mi parlava, e andavamo introcque.   [130]

Poi che la carità del natio loco
mi strinse, raunai le fronde sparte
e rende’le a colui, ch’era già fioco.   [3]
Indi venimmo al fine ove si parte
lo secondo giron dal terzo, e dove
si vede di giustizia orribil arte.   [6]
A ben manifestar le cose nove,
dico che arrivammo ad una landa
che dal suo letto ogne pianta rimove.   [9]   2, 22
La dolorosa selva l’è ghirlanda
intorno, come ’l fosso tristo ad essa;               [Not. III
quivi fermammo i passi a randa a randa.   [12]
Lo spazzo era una rena arida e spessa,   5, 1
non d’altra foggia fatta che colei
che fu da’ piè di Caton già soppressa.   [15]   2, 18
O vendetta di Dio, quanto tu dei   5, 1; 2, 22
esser temuta da ciascun che legge   1, 3
ciò che fu manifesto a li occhi miei!   [18]   1, 1
D’anime nude vidi molte gregge   5, 1
che piangean tutte assai miseramente,
e parea posta lor diversa legge.   [21]   8, 12; 12, 1-2
Supin giacea in terra alcuna gente,   2, 22
alcuna si sedea tutta raccolta,
e altra andava continüamente.   [24]   2, 26-28
Quella che giva ’ntorno era più molta,
e quella men che giacëa al tormento,   2, 22
ma più al duolo avea la lingua sciolta.   [27]
Sovra tutto ’l sabbion, d’un cader lento,
piovean di foco dilatate falde,   2, 1.18
come di neve in alpe sanza vento.   [30]   1, 14
Quali Alessandro in quelle parti calde   16, 8-9
d’Indïa vide sopra ’l süo stuolo
fiamme cadere infino a terra salde,   [33]
per ch’ei provide a scalpitar lo suolo
con le sue schiere, acciò che lo vapore
mei si stingueva mentre ch’era solo:   [36]   5, 1
tale scendeva l’etternale ardore;   2, 18
onde la rena s’accendea, com’ esca   16, 8-9
sotto focile, a doppiar lo dolore.   [39]  2, 22; 21, 16
Sanza riposo mai era la tresca 2, 26-28; Not. XIII
de le misere mani, or quindi or quinci   2, 1
escotendo da sé l’arsura fresca.  [42]   2, 18; 16, 8-9
I’ cominciai: « Maestro, tu che vinci   7, 13
tutte le cose, fuor che ’ demon duri
ch’a l’intrar de la porta incontra uscinci,   [45]
chi è quel grande che non par che curi
lo ’ncendio e giace dispettoso e torto, 2, 1.22; 6, 5
sì che la pioggia non par che ’l marturi? ».   [48] 
E quel medesmo, che si fu accorto   16, 8
ch’io domandava il mio duca di lui,
gridò: « Qual io fui vivo, tal son morto.   [51]
Se Giove stanchi ’l suo fabbro da cui   6, 8
crucciato prese la folgore aguta
onde l’ultimo dì percosso fui;   [54]
o s’elli stanchi li altri a muta a muta   6, 8
in Mongibello a la focina negra,   6, 5          [12, 16
chiamando “Buon Vulcano, aiuta, aiuta!”,   [57]
sì com’ el fece a la pugna di Flegra,
e me saetti con tutta sua forza:
non ne potrebbe aver vendetta allegra ».   [60]
Allora il duca mio parlò di forza   18, 2
tanto, ch’i’ non l’avea sì forte udito:
« O Capaneo, in ciò che non s’ammorza   [63]   5, 1
la tua superbia, se’ tu più punito;
nullo martiro, fuor che la tua rabbia,   9, 19
sarebbe al tuo furor dolor compito ».   [66]   2, 22 
Poi si rivolse a me con miglior labbia,
dicendo: « Quei fu l’un d’i sette regi
ch’assiser Tebe; ed ebbe e par ch’elli abbia   [69]
Dio in disdegno, e poco par che ’l pregi;
ma, com’ io dissi lui, li suoi dispetti
sono al suo petto assai debiti fregi.   [72]
Or mi vien dietro, e guarda che non metti,
ancor, li piedi ne la rena arsiccia;   2, 18
ma sempre al bosco tien li piedi stretti ».   [75]
Tacendo divenimmo là ’ve spiccia
fuor de la selva un picciol fiumicello,
lo cui rossore ancor mi raccapriccia.   [78]
Quale del Bulicame esce ruscello
che parton poi tra lor le peccatrici,
tal per la rena giù sen giva quello.   [81]
Lo fondo suo e ambo le pendici
fatt’ era ’n pietra, e ’ margini dallato;   6, 7-8
per ch’io m’accorsi che ’l passo era lici.   [84]
« Tra tutto l’altro ch’i’ t’ho dimostrato,   Not. XIII
poscia che noi intrammo per la porta
lo cui sogliare a nessuno è negato,   [87]
cosa non fu da li tuoi occhi scorta
notabile com’ è ’l presente rio,
che sovra sé tutte fiammelle ammorta ».   [90]   5, 1
Queste parole fuor del duca mio;
per ch’io ’l pregai che mi largisse ’l pasto   Not. III
di cui largito m’avëa il disio.   [93]
« In mezzo mar siede un paese guasto »,   12, 14
diss’ elli allora, « che s’appella Creta,               [6, 8
sotto ’l cui rege fu già ’l mondo casto.   [96]
Una montagna v’è che già fu lieta
d’acqua e di fronde, che si chiamò Ida;
or è diserta come cosa vieta.   [99]   12, 14
Rëa la scelse già per cuna fida                       [Not. XIII
del suo figliuolo, e per celarlo meglio,   12, 14
quando piangea, vi facea far le grida.   [102]
Dentro dal monte sta dritto un gran veglio,   7, 13
che tien volte le spalle inver’ Dammiata   12, 15
e Roma guarda come süo speglio.   [105]   6, 7
La sua testa è di fin oro formata,
e puro argento son le braccia e ’l petto,
poi è di rame infino a la forcata;   [108]
da indi in giuso è tutto ferro eletto,
salvo che ’l destro piede è terra cotta;
e sta ’n su quel, più che ’n su l’altro, eretto.   [111]
Ciascuna parte, fuor che l’oro, è rotta   2, 26-28
d’una fessura che lagrime goccia,
le quali, accolte, fóran quella grotta.   [114]   21, 12
Lor corso in questa valle si diroccia;
fanno Acheronte, Stige e Flegetonta;
poi sen van giù per questa stretta doccia,   [117]
infin, là ove più non si dismonta,
fanno Cocito; e qual sia quello stagno
tu lo vedrai, però qui non si conta ».   [120]
E io a lui: « Se ’l presente rigagno
si diriva così dal nostro mondo,   22, 1
perché ci appar pur a questo vivagno? ».   [123]
Ed elli a me: « Tu sai che ’l loco è tondo;
e tutto che tu sie venuto molto,
pur a sinistra, giù calando al fondo,   [126]
non se’ ancor per tutto ’l cerchio vòlto;
per che, se cosa n’apparisce nova,
non de’ addur maraviglia al tuo volto ».   [129]
E io ancor: « Maestro, ove si trova   7, 13
Flegetonta e Letè? ché de l’un taci,
e l’altro di’ che si fa d’esta piova ».   [132]
« In tutte tue question certo mi piaci »,   7, 13
rispuose, « ma ’l bollor de l’acqua rossa
dovea ben solver l’una che tu faci.   [135]
Letè vedrai, ma fuor di questa fossa,   21, 12
là dove vanno l’anime a lavarsi
quando la colpa pentuta è rimossa ».   [138]
Poi disse: « Omai è tempo da scostarsi   Not. III
dal bosco; fa che di retro a me vegne:
li margini fan via, che non son arsi,  6, 7-8; Not. VII
e sopra loro ogne vapor si spegne ».   [142]

 

Vengono posti a confronto Inf. VII, XIV e XX, canti nei quali, rispettivamente nel primo, nel secondo e nel terzo ciclo settenario dell’Inferno, i temi del quarto stato prevalgono, semanticamente elaborati dalla parodia dantesca. La tematica si estende oltre i confini dei canti e, come mostrato per Inf. XX nella tabella complessiva, si intreccia con molti motivi propri di altri gruppi esegetici relativi agli status o periodi della storia della Chiesa. Rispetto al più breve settimo canto, il quattordicesimo e il ventesimo mostrano maggiore sviluppo nelle occorrenze semantiche che rinviano alla Lectura super Apocalipsim (VII: 27; XIV: 49; XX: 42): prologo (VII: 7; XIV: 5; XX: 12); quarta chiesa (Ap 2, 18-29; VII: 10; XIV: 20; XX: 8); quarto sigillo (Ap 6, 7-8; VII: 3; XIV: 12; XX: 10); quarta tromba (Ap 8, 12-13; VII: 6; XIV: 1; XX: 2); quarta guerra (Ap 12, 1-2.13-16; VII: 1; XIV: 5; XX: 8); quarta coppa (Ap 16, 8-9; VII: 0; XIV: 5; XX: 1); VI visione, quarta parte (Ap 18, 2-3; VII: 0; XIV: 1; XX: 1).
La parodia si esercita su luoghi, comuni ai canti, riferibili a stati diversi dal quarto. Ciò risulta soprattutto dal confronto tra Inf. VII e XIV: prologo (Notabile XIII, relativo al terzo stato); esegesi dei primi versetti (1, 1.3); parte proemiale alla prima visione (1, 14); sesto stato (in particolare: 7, 13, apertura del sesto sigillo); settima visione (21, 12; 22, 1). Tra Inf. VII e XX: prologo, Notabile X (concorrenza di III e IV stato: VII, 53-54; XX, 124-126) 2, 12 (terza chiesa: VII, 26.57.100; XX, 24.51); 8, 10 (terza tromba: VII, 27.29.34.101; XX, 64.66.75).
Fra le simmetrie semantiche comuni ai tre canti, si segnalano ad esempio: “or mi dimostra – ch’i’ t’ho dimostrato – i tuoi ragionamenti / mi son sì certi” (VII, 37; XIV, 85; XX, 100-101: prologo, Notabile XIII, terzo stato); “ne mbocche – ’l pasto – pastore/paschi” (VII, 72; XIV, 92; XX, 68.75: prologo, Notabile III, quarto stato); “’l troppo star si vieta – Omai è tempo da scostarsi ciò che ’n grembo a Benaco star non può” (Inf. VII, 99; XIV, 139; XX, 74: prologo, Notabile III, quarto stato); “riddi – tresca – letane” (VII, 24; XIV, 40; XX, 9: prologo, Notabile XIII, quarto stato); “fiacca/stanche/langue – stanchi (2)/guasto – così poco” (VII, 14.65.82; XIV, 52.55.94; XX, 115: Ap 6, 8, quarto sigillo); “ché tutto l’oro ch’è sotto la luna – e tocca l’onda / sotto Sobilia Caino e le spine” (VII, 64; XX, 125-126: Ap 12, 1-2, quarta visione; cfr. XIV, 19-27).
Fra le simmetrie semantiche comuni a Inf. XIV e XX, si segnalano ad esempio: “arida – grama (XIV, 13; XX, 81: Ap 5, 1, quarto sigillo); d’anime nude – d’abitanti nuda (XIV, 19; XX, 84: Ap 5, 1, quarto sigillo); in quelle parti calde – di state” (XIV, 31; XX, 81: Ap 16, 8-9, quarta coppa); “in mezzo mar – loco è nel mezzo/nel mezzo del pantano (XIV, 94; XX, 67, 83: Ap 12, 14, quarta guerra).
Da notare che in Inf. VII, a partire dal v. 97, con il quale inizia la discesa nella palude Stigia, elabora molti temi propri del quinto stato, che raggiungeranno l’acme in Inf. VIII.


1. Il quarto stato: l’eccesso di contemplazione

La quarta bolgia, dove sono puniti indovini, astrologi e incantatori, è zona prevalentemente dedicata al quarto stato o periodo della storia della Chiesa, che va da Giustiniano alle conquiste arabe fino a Carlo Magno e allo scisma greco. È caratterizzato dagli anacoreti, i contemplativi che fuggirono il mondo fino ai suoi estremi, macerando la carne nei deserti d’oriente con la più grande austerità e illuminando l’intera Chiesa al pari del sole e delle stelle. Furono concorrenti nel tempo con il periodo precedente, anch’esso solare, nel quale i dottori della Chiesa confutarono le eresie con la spada della ragione, mentre i contemplativi si dedicarono al pasto eucaristico. Spata e pastus, interpretati anche come il potere temporale e quello spirituale, furono le due ali di una grande aquila date alla donna (la Chiesa), fuggita dalla Giudea dura e persecutrice, per volare nel deserto dei Gentili (Ap 12, 14): nella metamorfosi parodica che la Commedia opera sulla Lectura corrispondono ai “due soli” rimpianti da Marco Lombardo (Purg. XVI, 106-114), spada e pasturale che, come terzo stato (dottori) e quarto (anacoreti), possono concorrere a illuminare l’orbe, ma non identificarsi.
Gli status non sono solo periodi storici definiti, ma anche modi di essere degli individui, habitus. Le caratteristiche del quarto periodo, pertanto, si ritrovano in tutti gli altri momenti, possono essere appropriate ad altri tempi e a differenti individui, antichi o recenti, e ridondano nel sesto stato, il punto più importante della storia umana, sua causa finale, che dalla conversione di Francesco all’Anticristo percorre tutto il XIII secolo e oltre, corrispondendo per Olivi (morto nel 1298), e per Dante, ai tempi moderni e contemporanei.
Con Inf. XX ci si trova nel terzo ciclo settenario della prima cantica, dove alla bolgia dei simoniaci, nella quale sono risuonati i temi del terzo stato, propri dei dottori che rompono con la spada l’eresia, subentrano i motivi del quarto. Nel primo ciclo la zona ‘quarta’ si è concentrata su Inf. VII, nel secondo su Inf. XIV; le prime due zone sono sinotticamente affrontate con la terza in apposita tabella.
Il canto inizia con il tema del “canticum novum” da Ap 5, 9 (luogo combinato con Ap 15, 2-5), ma già la similitudine dei dannati con le “letane” rinvia ai “chori letaniarum” organizzati nel quarto stato da Gregorio Magno per far cessare la piaga della peste (v. 9; prologo, Notabile XIII).
È certamente cosa mirabile poter vedere, con occhi d’aquila, le cose prima che avvengano,  come a Giovanni fu dato di vedere, all’apertura del quarto sigillo, la distruzione delle chiese orientali ad opera dei Saraceni e la loro separazione dall’obbedienza a Roma, fatto mirabile e prima impensabile (Ap 6, 7). Ora al poeta è dato di vedere la straordinaria e inconcepibile pena degli indovini: “mirabilmente apparve esser travolto / ciascun tra ’l mento e ’l principio del casso … ma io nol vidi, né credo che sia” (vv. 11-12, 18).
L’eccesso di contemplazione, difetto degli anacoreti nel loro esercitarsi senza sosta macerando il corpo ma poi cedendo alle tentazioni della carne (Ap 2, 1), è imputato agli indovini della quarta bolgia, che vollero vedere troppo dinanzi, e ora con il volto stravolto guardano e camminano indietro (vv. 37-39). Se Cristo, come si propone a Tiàtira, la quarta chiesa d’Asia, è colui che “vede le reni”, cioè conosce tutti gli affetti sensibili, ma anche “i cuori”, cioè tutti i pensieri della mente (Ap 2, 23), gli indovini puniti nella quarta bolgia hanno il capo rivolto verso le reni, cioè verso il dorso, così da camminare e guardare all’indietro, limitati, si direbbe, al lato sensibile del vedere (vv. 13-15). Aspetto rilevato dal tema del ventre (v. 46), che designa il piacere carnale, anch’esso proprio dell’esegesi della quarta chiesa, dove è riferito alla legge di Maometto (Ap 2, 22), mentre viene proposta ad edificazione del pubblico la lettura con la quale, unitamente ad altri esercizi (opere manuali, salmodie), gli anacoreti ascendevano ad atti di fede e di carità: “Se Dio ti lasci, lettor, prender frutto / di tua lezione” (vv. 19-20; Ap 2, 1).
La superbia delle chiese orientali (dei “greci”), domata dai Saraceni (tema, ad Ap 5, 1, variato in altre situazioni), si riverbera nello stravolgimento degli indovini, antichi
e moderni. Non sarà casuale, ai vv. 108-109, l’espressione “quando Grecia fu di maschi vòta, / sì ch’a pena rimaser per le cune. Si può forse affermare che come i superbi Greci si separarono dalla Chiesa di Roma, così gli antichi indovini non videro il disegno provvidenziale per cui dalla guerra di Troia, alla quale con le divinazioni di Euripilo e Calcante pur diedero “’l punto a tagliar la prima fune” (vv. 106-112), sarebbe uscito “de’ Romani il gentil seme” come cantato da Virgilio (cfr. Inf. XXVI, 60) [1].

[1] Il sesto stato – iniziato con Francesco e non ancora terminato (si tratta dell’età contemporanea a Olivi e Dante) –  è, insieme al successivo e breve settimo stato, il “punto” da cui dipendono gli altri stati, perché appare nel testo dell’Apocalisse in modo più evidente degli altri, che da esso assumono chiarezza quanto alla loro manifestazione nella storia, come l’intelligenza delle cose ordinate ad un fine dipende dal fine (prologo, Notabile VIII). Euripilo e Calcante diedero l punto per la partenza delle navi in Aulide: non fu solo un’indicazione del momento propizio all’inizio della spedizione, fu un “segno” della volontà divina, per quello che ne sarebbe conseguito, da Enea, “che venne di Troia”, alla fondazione di Roma. Le parole di Virgilio, “e così ’l canta / l’alta mia tragedìa” (vv. 112-113), rinviano all’altissimo canto di Ap 14, 2.6.

Tab. I

Inf. XX, 10-21, 28-30, 37-39

Come ’l viso mi scese in lor più basso,
mirabilmente apparve esser travolto
ciascun tra ’l mento e ’l principio del casso,
ché da le reni era tornato ’l volto,
e in dietro venir li convenia,
perché ’l veder dinanzi era lor tolto.
Forse per forza già di parlasia
si travolse così alcun del tutto;
ma io nol vidi, né credo che sia.
Se Dio ti lasci, lettor, prender frutto
di tua lezione, or pensa per te stesso
com’ io potea tener lo viso asciutto

Qui vive la pietà quand’ è ben morta;
chi è più scellerato che colui
che al giudicio divin passion comporta?

Mira c’ha fatto petto de le spalle;
perché volse veder troppo davante,
di retro guarda e fa retroso calle.

Par. XX, 31-33, 67-69, 100-102, 118-123, 130-135

“La parte in me che vede e pate il sole
ne l’aguglie mortali”, incominciommi,
“or fisamente riguardar si vole”

Chi crederebbe giù nel mondo errante
che Rifëo Troiano in questo tondo
fosse la quinta de le luci sante?

La prima vita del ciglio e la quinta
ti fa maravigliar, perché ne vedi
la regïon de li angeli dipinta.

L’altra, per grazia che da sì profonda
fontana stilla, che mai creatura
non pinse l’occhio infino a la prima onda,
tutto suo amor là giù pose a drittura:
per che, di grazia in grazia, Dio li aperse
l’occhio a la nostra redenzion futura

O predestinazion, quanto remota
è la radice tua da quelli aspetti
che la prima cagion non veggion tota!
E voi, mortali, tenetevi stretti
a giudicar: ché noi, che Dio vedemo,
non conosciamo ancor tutti li eletti

[LSA, Ap 6, 7 (IIa visio, apertio IVi sigilli)] Si autem queras quomodo aquila, id est contemplativus status quarti temporis, docuit ista, ita ut diceret: “Veni et vide”, potest ratio duplex dari.
Prima est quia status ille in suo fine multa passus est a Sarracenis, et ideo per facti evidentiam invitat nos non solum ad contemplandum sed etiam ad compatiendum et imitandum.
Secunda est quia inter Dei secreta iudicia in eius gloria facta hoc est unum stupendius et antequam fieret inexcogitabilius, quod scilicet orientalis ecclesia et magna pars ecclesie occidentalis sic radicitus exterminarentur per Sarracenos, et hoc tanto tempore, scilicet plusquam per sescentos annos et plusquam per medium temporis plenitudinis gentium et usque ad tempus Antichristi vel circa. Speculari igitur hoc antequam fieret, et post factum contemplari rationes tanti iudicii, ad oculos volantis aquile spectat. De heresibus enim dixerat Apostolus quod oportet hereses esse (1 Cor 11, 19). Satis etiam patuit a principio quod ecclesiam Christi oportebat multa pati a Iudeis et a paganis. Non etiam fuit difficile advertere quod inter sanctos erant commiscendi aliqui ypocrite, aut quod quidam erant in ypocrisim vel in alia vitia casuri, cum totum humanum genus sit pronum ad mala. Sed hoc est stupendissimum, quod sic fere decem partes ecclesie permiserit Christus separari a vera fide et ab obedientia et unitate ecclesie romane, prout factum est in suscitatione et dilatatione regni sarracenici. Nam ex tunc, translato imperio occidentali ad Karolum magnum, Greci non curaverunt ecclesie romane obedire.

[LSA, Ap 2, 23 (Ia visio, IVa ecclesia)] “Et scient omnes ecclesie”, scilicet per evidentiam facti, “quia”, id est quod, “ego sum scrutans renes et corda”, id est omnes internos cogitatus et affectus mentis et sensualitatis. In renibus enim viget sensualis concupiscentia carnis. Quando enim Deus aperte non punit mala quantum iustitia exigit, videtur ignorare mala et pondus eorum; quando autem iustissime et rigidissime et publicissime punit illa, tunc omnibus de facto patet quod ipse omnia mala quantum-cumque occulta intime novit et ponderat, ac si ea profundissime scrutaretur.

[LSA, cap. II, Ap 2, 1 (IVa ecclesia)] Increpatur tamen, quia permittebat Iesabelem seducere servos suos ut fornicarentur et comessarentur de idolaticis. Solitarii enim et contemplativi negligere solent correctionem aliorum, tamquam iudicantes soli sibi esse vacandum. Quidam etiam ex eis, propter excessus contemplationis et macerationis corpo-re fracti, de facili solent a sociis suaderi ut indulgeant sue carni, ita quod ex hoc plus debito delicatis utantur.

[LSA, Ap 2, 1 (IVa ecclesia)] Quarta autem commen-datur de superhabundanti et perseveranti et super-excrescenti supererogatione sanctorum operum et de perfectione fidei et caritatis, que utique competunt quarto statui, scilicet anachoritarum, qui partim opere manuum, partim lectione, partim vocali psalmodia, cum assidua maceratione corporis per ieiunia et per alias austeritates, se semper prepa-rabant et sursum agebant ad contemplativos actus fidei et caritatis. Unde bene vocatur Tyatira, id est illuminata vel inflammata vel vivens hostia, quia tales per lucem et flammam contemplative devotionis se offerunt Deo hostiam viventem.

Inf. XX, 10-21, 28-30, 37-39, 46-48, 106-111

Come ’l viso mi scese in lor più basso,
mirabilmente apparve esser travolto
ciascun tra ’l mento e ’l principio del casso,
ché da le reni era tornato ’l volto,
e in dietro venir li convenia,
perché ’l veder dinanzi era lor tolto.
Forse per forza già di parlasia
si travolse così alcun del tutto;
ma io nol vidi, né credo che sia.
Se Dio ti lasci, lettor, prender frutto
di tua lezione, or pensa per te stesso
com’ io potea tener lo viso asciutto

Qui vive la pietà quand’ è ben morta;
chi è più scellerato che colui
che al giudicio divin passion comporta?

Mira c’ha fatto petto de le spalle;
perché volse veder troppo davante,
di retro guarda e fa retroso calle.

Aronta è quel ch’al ventre li s’atterga,
che ne’ monti di Luni, dove ronca   
lo Carrarese che di sotto alberga

Allor mi disse: “Quel che da la gota
porge la barba in su le spalle brune,
fu – quando Grecia fu di maschi vòta,
sì ch’a pena rimaser per le cune –
augure, e diede ’l punto con Calcanta
in Aulide a tagliar la prima fune”.

[LSA, cap. II, Ap 2, 22 (Ia visio, IVa ecclesia)] Potest tamen per hanc Iesabelem intelligi gens sarracenica, que gloriatur se habere Mahomet pro propheta, cuius lex carnalia promittit et docet, que utique surrexit quarto tempore ecclesie. Nota etiam quod omnes hereses, de quibus fit in istis ecclesiis mentio, leguntur dedite voluptati et carnalitati. Nam et de pseudoapotolis dicitur ad Philippenses III° quod “venter est eorum deus et gloria” (Ph 3, 19). Quamvis enim quedam secte hereticorum fingant ad tempus magnam castitatem et austeritatem, finaliter tamen occulte vel publice ad carnalia currunt. Unde IIa ad Timotheum III° dicitur de eis quod erunt “se ipsos amantes” et “voluptatum amatores” (2 Tim 3, 2.4). Et IIa Petri II° de ipsis dicitur quod “multi sequentur eorum luxurias, per quos via veritatis blasphemabitur” (2 Pt 2, 2), et infra eodem dicit multa plura de hoc, et idem dicitur in epistula Iude (Ju 1, 12). Nec mirum, quia qui veras et spiritales delicias in Deo et ex Deo non gustant nec hauriunt oportet eos in terrenis et carnalibus querere voluptatem, quamvis propter ambitionem inanis glorie sepe exterius se affligant.


2. “Qui vive la pietà quand’ è ben morta”

Di fronte alla “nostra imagine … sì torta” (Inf. XX, 22-23), che tale conserva i motivi, di alta risonanza nel canto precedente, dell’“intorta acceptio scripture” dall’apertura del terzo sigillo (Ap 6, 5), il poeta esprime il proprio stato d’animo con i temi che il Notabile X del prologo assegna al martirio non corporale ma psicologico del sesto stato, cioè dei tempi moderni. I versi tacciono il tema principale, quello del dubbio – i nuovi martiri sostengono un “certamen dubitationis” -, ma contengono altri motivi: l’appello al lettore affinché rifletta, la pietà del martire tormentato da una falsa immagine, da qualcosa di distorto. Se i nuovi persecutori, come dice Gregorio Magno, operano miracoli per ingannare i martiri, al poeta “mirabilmente apparve esser travolto / ciascun tra ’l mento e ’l principio del casso” (vv. 11-12). Il pianto di Dante, nuovo pietoso martire, è pianto che Virgilio riprende come sciocco, perché “qui vive la pietà quand’ è ben morta” (vv. 25-28; è da notare l’accostamento di “io piangea” ad “ancor”, proprio di altri luoghi del poema, da Ap 1, 7; la riflessione sulla morte è motivo tipico del quarto stato: Ap 5, 1).
Il tema del martirio inferto dal dubbio ha già pervaso, in Inf. V, l’episodio di Francesca e Paolo, principalmente ordito su temi del secondo stato. Dante aveva parodiato questi motivi ben prima dell’esilio. Lo stesso passo dei Moralia di Gregorio Magno su Giobbe 40, 12, citato nel Notabile X del prologo della Lectura super Apocalipsim, era già stato utilizzato dall’Olivi nell’Expositio in Canticum Canticorum (sicuramente precedente, poiché la Lectura venne completata nel 1298, anno della morte). Come vari luoghi della Commedia, primo fra essi Inf. V, rinviano alla citazione di Gregorio Magno incastonata nell’esegesi della Lectura super Apocalipsim, così sull’Expositio in Canticum Canticorum è tessuta in parte la Donna Gentile o Pietosa della Vita Nova, l’antagonista di Beatrice, che può essere così messa a confronto con Francesca.

 

I versi 29-30 sono stati interpretati in due sensi opposti:

a) riferiti al pietoso pianto di Dante che ha visto i dannati travolti nella “nostra imagine”, con il capo girato all’indietro (vv. 19-27), per cui sulla base delle varianti e della glossa antica suonerebbero: chi è più scellerato che colui / che al giudicio divin compassion porta?”.

b) riferiti al motivo della pena degli ‘scellerati’ (cioè empi, ‘scelesti’) indovini, che credettero di poter rendere passivo, soggetto all’azione umana, il giudizio divino; di qui la dizione: chi è più scellerato che colui / che al giudicio divin passion comporta? (oppure porta)”.

Contro l’ipotesi a) sta l’obiezione, difficilmente superabile, che Dante è già stato rimproverato da Virgilio nella terzina precedente: «mi disse: “Ancor se’ tu de li altri sciocchi?”» (v. 27): “un’ulteriore precisazione, del tutto inutile, verrebbe talmente a rincarare la dose, da attribuire a Dante, oltre la qualifica di sciocco, anche quella di scellerato” (Petrocchi, Introd., p. 181).

Anche l’ipotesi b), tuttavia, parve al Sapegno insoddisfacente, “perché nessuna delle due riesce veramente a giustificare il tono violento di Virgilio (che resta eccessivo e suona rettorico, sia che noi vogliamo riferirlo alla pietà di Dante o all’empietà degli indovini)” [cfr. Dante Alighieri, La Divina Commedia, Milano-Napoli 1957, ad loc.).

Esclusa l’ipotesi a), secondo la quale Dante verrebbe tacciato dal suo maestro di sciocco ed empio, consideriamo se la parodia della Lectura consenta di chiarire meglio l’ipotesi b).

Si è detto che, nella ciclicità tematica su cui si esercita nel poema la parodia della Lectura, Inf. XX è, dopo i canti VII e XIV, la terza zona dell’Inferno dedicata al quarto stato della Chiesa. Ad Ap 6, 7 (seconda visione, quarto sigillo) l’aquila, che designa i contemplativi [1], invita a considerare il mirabile e inopinabile giudizio di Dio sugli anacoreti del quarto stato della Chiesa, che vennero sterminati dai Saraceni, e sulla contemporanea altrettanto impensabile separazione da Roma delle chiese orientali. Nella metamorfosi parodica, gli indovini assumono il ruolo degli anacoreti: “hoc est unum stupendius et antequam fieret inexcogitabilius hoc est stupendissimum Speculari igitur hoc antequam fieret – mirabilmente apparve esser travolto / ciascun … perché ’l veder dinanzi era lor tolto … ma io nol vidi, né credo che sia” (vv. 11-12, 15, 18). Le variazioni dei temi – la meraviglia circa qualcosa di inaspettato, il vedere i fatti anzitempo -, tutti presenti nella medesima parte di esegesi, non solo appropriano i motivi a differenti soggetti, ma ne modificano il valore (il vedere innanzi è tolto ai dannati).

Ap 6, 7 è solo uno dei numerosi luoghi esegetici relativi al quarto periodo che offrono temi da variare e intrecciare in Inf. XX. Come altri luoghi del commento apocalittico, questi temi vengono elaborati in diversi punti del poema: il “panno”, cioè l’ordito, è stato usato più volte per fare la “gonna”, cioè per ricamarvi la trama. È il caso di Par. XX dove nel cielo di Giove, nel quale si mostrano le anime contemplative, l’aquila parla variando ancora i temi da Ap 6, 7 centrati proprio sull’immagine dell’aquila: «“Veni et vide” … invitat nos non solum ad contemplandum sed etiam ad compatiendumpost factum contemplari rationes tanti iudicii hoc est unum stupendius et antequam fieret inexcogitabilius hoc est stupendissimum … Speculari igitur hoc antequam fieret “La parte in me che vede e pate il sole / ne l’aguglie mortali”, incominciommi, / “or fisamente riguardar si vole” … Chi crederebbe giù nel mondo errante / che Rifëo Troiano in questo tondo / fosse la quinta de le luci sante? … “La prima vita del ciglio e la quinta / ti fa maravigliar, perché ne vedi / la regïon de li angeli dipinta … per che, di grazia in grazia, Dio li aperse / l’occhio a la nostra redenzion futura” (vv. 31-33, 67-69, 100-102, 122-123)».

Si noterà come all’esegesi di Ap 6, 7 i versi si riferiscano sia per gli indovini come per le parole dell’aquila su Rifeo Troiano. I primi tentarono di vedere i giudizi divini anzitempo, al secondo Dio concesse di vedere il futuro: “L’altra, per grazia che da sì profonda / fontana stilla, che mai creatura / non pinse l’occhio infino a la prima onda” (Par. XX, 118-120). Antichi precursori dei contemplativi del quarto stato prima fiorenti e poi distrutti dai Saraceni, gli indovini della quarta bolgia non sono stati puniti per la contemplazione in sé (“non li era la veduta tronca” è detto di Aronte; Inf. XX, 51), ma per l’eccesso di questa, “propter excessus contemplationis” (Ap 2, 1). Il motivo del loro stravolgimento è esplicitato per Anfiarao, il primo dei dannati menzionati, ma è chiaro che gli altri sono simili sia nella pena come nella causa di questa: “Mira c’ha fatto petto de le spalle; / perché volse veder troppo davante, / di retro guarda e fa retroso calle”.

■ L’aquila che invita Dante a guardare “la parte in me che vede e pate il sole”, cioè l’occhio che sostiene il sole nelle aquile mortali [2] e che in quella celeste, contesta di beati contemplativi, si spinge oltre a rivelare i giudizi divini, ammonendo però gli uomini a tenersi stretti nel giudicare, “ché noi, che Dio vedemo, / non conosciamo ancor tutti li eletti” (Par. XX, 133-135), è parodia di quella apocalittica che dice a Giovanni: «“Veni et vide” … invitat nos non solum ad contemplandum sed etiam ad compatiendum», inteso nel senso di sopportare. I beati contemplativi ‘patiscono’ il giudizio divino (l’aquila pate il sole, cioè la luce eterna), lì dove gli scellerati indovini sono stati fra chi inutilmente “al giudizio divino passion comporta”. Il senso di passion non è riferito al giudizio divino, che si ritiene di poter contrastare (come da ipotesi b), bensì al contemplante che pretende con l’arte umana di patirlo, cioè di sostenerlo. Prima di pensare come si possa modificare con la propria azione il disegno di Dio, bisogna infatti operare per conoscerlo, in questo sta l’empietà di quei dannati. Nella visione finale, Dante sostiene il raggio divino, lo patisce; di quella visione “la passione impressa rimane” (Par. XXXIII, 58-60, 79-81). “Comporta”, negli altri luoghi del poema, ha sempre un valore radicale di ‘sostenere’, pur con diverse sfumature, come ammettere, concedere, tollerare (Par. XXV, 63; XXIX, 88; XXXII, 100). Gli indovini ammisero di poter sostenere, patendolo, il raggio dell’alto Sole”.

■ Si comprende meglio perché le parole di Virgilio suonino tanto veementi. Gli indovini puniti nella quarta bolgia vollero penetrare il mistero della predestinazione, un problema che tanto affligge Dante da dare albergo nel Limbo ai giusti non cristiani, fra i quali sta la sua guida, “quello / dubbio che m’è digiun cotanto vecchio” (Par. XIX, 31-33) che neppure l’aquila potrà risolvere (si limiterà solo a mostrare alcuni esempi di decisioni divine post factum), tanto è incomprensibile il giudizio eterno ai mortali. Il vedere umano può fruire di “alcun de’ raggi de la mente / di che tutte le cose son ripiene”, ma “non pò da sua natura esser possente / tanto, che suo principio non discerna / molto di là da quel che l’è parvente” (vv. 52-57).

“Qui vive la pietà quand’è ben morta”. Le intense parole di Virgilio non possono che riferirsi, nel “qui”, alla quarta bolgia. Il poeta pagano, nella parte precedente del viaggio, ha consentito alla pietas sia per sé stesso (Inf. IV, 19-21) come per Dante (Inf. V, 72, 117, 140; VI, 2; XIII, 84). Nella continuazione del cammino infernale essa trova ancora luogo in Dante, ma viene repressa da Virgilio o dal poeta stesso (Inf. XXIX, 4-6, 31-36, 43-45), che poi rimane impassibile di fronte rimprovero di crudeltà mossogli dal conte Ugolino (Inf. XXXIII, 40-42).


Quasi a confermare che la prova è di quelle che si debbono sostenere negli ultimi tempi e che non si deve cedere all’ingannevole tentazione, Virgilio accenna all’indovino Anfiarao, personaggio della Tebaide di Stazio, al quale i Tebani ironicamente gridavano: “Dove rui, / Anfïarao? perché lasci la guerra?”. I santi del sesto stato, che preservano il “verbum patientie” di Cristo – sostenendo con pazienza le persecuzioni e serbando la fede e i precetti di Cristo -, saranno a loro volta preservati dalla futura tentazione (la “guerra”), pochi eletti salvati, come Noè, nell’arca che conserverà l’eredità e il seme della fede da seminare nuovamente nel mondo (Ap 3, 10). Essi sentiranno la tentazione e la patiranno, ma non rovineranno dalla fermezza della fede e della carità, verranno anzi esercitati e condotti alla vittoria, a differenza dell’antico indovino che non sostenne la guerra e “non restò di ruinare a valle / fino a Minòs che ciascheduno afferra” (vv. 31-36; l’aprirsi della terra proviene da Ap 19, 20). Ora Anfiarao “di retro guarda e fa retroso calle” (v. 39), esempio di quanti cadono dal vertice della perfezione guardando indietro (cfr. Luca 9, 62), secondo l’ammonimento dato al vescovo di Efeso, la prima chiesa d’Asia, esegesi che il poema varia in più luoghi (Ap 2, 5). Questi stolti mutano l’oro nell’argento e debbono poi per penitenza recuperare il grado perduto: così Tiresia, l’altro indovino che, come cantato nelle Metamorfosi di Ovidio, “mutò sembiante / quando di maschio femmina divenne” e dovette ribattere con la verga (che ad Ap 2, 26-28 designa colui che governa) i due serpenti prima “che rïavesse le maschili penne” (vv. 40-45).

[1] Il tema dell’aquila, capace di volare sopra gli altri e di percorrere le vie dell’allegoria come fossero sentieri celesti, è appropriato a Omero, sulla base di una citazione di Gioacchino da Fiore che attribuisce l’immagine a Gregorio Magno (Ap 8, 13; Inf. IV, 94-96).
[2] Nell’ascesa al cielo Beatrice sarà aquila fissa nel sole (Ap 19, 17-18).


3. “Ne’ monti di Luni”

Al suono della quarta tromba (terza visione, Ap 8, 12) il sole (la solare dottrina dei dottori del terzo stato e la solare vita dei padri contemplativi del quarto: i due stati concorrono, come intelletto e affetto, Impero e Papato, a infiammare il meriggio dell’universo), la luna (i conventuali del quarto stato illuminati dal sole), le stelle (i singoli alti contemplativi), il giorno (la plebe illuminata dal sole) e la notte (i più rudi illuminati dalle stelle) vengono oscurati per la terza parte (gli ipocriti). L’esegesi si avvale di Gioacchino da Fiore in altro punto, ad Ap 12, 1-2 (quarta visione), dove si tratta della donna vestita di sole, che ha sul capo una corona di dodici stelle e tiene la luna sotto i piedi, cioè le cose temporali mutabili e ombrose, o la scienza mondana fredda e notturna. Spiega Gioacchino, nel V libro della Concordia, che si tratta di “una” donna designante un singolo ordine di contemplativi distinto in tre gradi: i più alti contemplativi (il sole), i prelati nei monasteri (che sono a capo, quasi stelle), i loro sottoposti (che vivono in perfetta disciplina, quasi luna sotto i piedi della donna). Olivi sottolinea come i contemplativi del quarto stato non lo furono tutti in modo uguale: alcuni di inferiore grado, assimilabili alla luna, si dedicarono alla vita attiva (prologo, Notabile XIII; Ap 8, 12).
La quarta bolgia, degli indovini, è segnata dalla prevalenza dei temi del quarto stato, il periodo per eccellenza dei contemplativi; ivi stanno quanti hanno ecceduto nella contemplazione (vollero “veder troppo davante”). Nel medesimo stato, i contemplativi sono diversi fra loro. Così si presentano gli indovini: dimorano (Aronte), si mutano e tornano alla precedente condizione (Tiresia), vanno via senza fare ritorno e poi si posano dopo molta vita attiva (Manto; cfr. la similitudine delle “pole” a Par. XXI, 34-42).
Fra i “bianchi marmi” di Luni ebbe dimora Aronte, l’aruspice etrusco che predisse le sciagure della guerra civile da cui sarebbe conseguita la vittoria di Cesare su Pompeo (Lucano, Pharsalia I, 584 sgg..; Inf. XX, 46-51). I versi “che ne’ monti di Luni  (per Lucano sono “moenia Lucae”), dove ronca / lo Carrarese che di sotto alberga”, accostando antico e moderno, rendono l’immagine del cenobio di cui parla Gioacchino da Fiore, con i prelati, precipui contemplativi, assimilabili alle stelle (“onde a guardar le stelle / e ’l mar non li era la veduta tronca”), e i loro sottoposti dediti alla vita attiva, assimilati alla luna. Le “mura di Lucca”, di cui parla Lucano, si sono trasformate nei “monti di Luni”: la reminiscenza della Pharsalia concorda con la Lectura super Apocalipsim, la storia dei segni provvidenziali che incorpora anche lo staziano Anfiarao e l’ovidiano Tiresia.


4. La fondazione di Mantova

Un lettore spirituale avrebbe ben afferrato la successione tematica tra quartoquinto e sesto stato nei versi con cui Tommaso d’Aquino inizia in Par. XI l’elogio di san Francesco. Ivi all’“alto monte” Subasio, che fa segno dell’arduo quarto stato proprio degli alti anacoreti, avrebbe visto contrapporsi “l’acqua (del Chiascio) che discende / del colle eletto dal beato Ubaldo” e la “fertile costa” che pende e spezza la “rattezza” del monte: segni del quinto stato sotto il cui regime Francesco formò il suo Ordine, periodo condiscendente, pietoso e tenero verso le moltitudini associate, di cui è figura la bella costa sottratta al forte e solitario Adamo, che Dio nel creare Eva riempì di pietas (prologo, Notabile VII). Luogo dunque predisposto, nel quinto stato, alla nascita di “un sole” che avrebbe dato inizio al sesto stato; esso, piuttosto che Ascesi, dovrebbe chiamarsi Oriente (Francesco è l’angelo del sesto sigillo, ascendens ab ortu solis; l’espressione si riflette nel forte latinismo “Non era ancor molto lontan da l’orto”).
Anche il racconto di Virgilio sulla fondazione di Mantova registra nel senso letterale una semantica che rinvia la memoria del lettore consapevole, che cioè conosce l’esegesi oliviana, al
succedersi degli stati, ovvero dei periodi della storia della Chiesa che la parodia dantesca appropria ad altri tempi e situazioni. La prevalenza tematica è del quarto stato, quella attribuita all’intera quarta bolgia; i motivi sono però intrecciati con altri, in particolare del quinto (che saranno prevalenti nella quinta bolgia).
La presenza di Manto nel Limbo, secondo quanto afferma Virgilio nel colloquio con Stazio – “èvvi la figlia di Tiresia” (Purg. XXII, 113) – è questione affrontata in altra sede.

 

4.1. “Suso in Italia bella”

All’inizio della digressione sulle origini di Mantova, Virgilio utilizza il motivo – proprio della terza tromba – delle acque che dalle fonti si fanno fiume (Ap 8, 10; Inf. XX, 64, 75). Per “fonti” si possono intendere i libri canonici della Scrittura e i loro autori, come i profeti e gli apostoli. Con i “fiumi”, che derivano dalle fonti, vengono designati i commenti ai libri canonici e i loro espositori o editori: tali commenti sono infatti quantitativamente maggiori dei libri canonici, al pari dei fiumi che rispetto alle fonti contengono più acqua, derivante da più fonti.
Il tema è già risuonato nel “gran diserto”, quando Dante si è rivolto a Virgilio, suo maestro e “autore”, definendolo “quella fonte / che spandi di parlar sì largo fiume” (Inf. I, 79-80), ‘scrittura’ antica dai molti commenti. I due versi, oltre che con Ap 8, 10, possono essere confrontati anche con quanto, nel Notabile VI del prologo, si afferma di Cristo, definito fonte, medio e termine della Chiesa e dei suoi stati. Per i primi cinque stati la Chiesa procede nella storia come uno stretto condotto derivato dalla fonte; al sesto l’acqua dal condotto si diffonde in un grande lago, al modo di un albero che da una radice e da un tronco si espanda poi largamente in rami fruttuosi. Espandersi dal particolare all’universale è proprio dello spirito profetico (cfr. Ap 13, 1).
Nel lago Benaco (il lago di Garda) “stagna” l’acqua che deriva “da mille fonti … e più”, della quale “si bagna” tutta la zona “tra Garda e Val Camonica e Pennino” (Inf. XX, 61-66; cfr. infra). A Peschiera, dove la riva del lago più discende, tutta l’acqua che non può essere contenuta nel Benaco cade giù facendosi fiume “per verdi paschi” (vv. 73-75). Nei versi è da notare l’intreccio di temi provenienti da passi diversi. Lo ‘stagnare’ dell’acqua nel lago proviene da Ap 18, 17, dove “lago” viene appunto interpretato come “stagno di acque dolci”. Il ‘bagnarsi’ della zona alpina ha un suo riferimento, ad Ap 1, 5, nel lavare i peccati degli uomini ad opera della redenzione di Cristo (si tratta dell’unica presenza di “balneum” nella Lectura: il motivo del sangue, altrove utilizzato nel poema, è qui taciuto). Ancora a una prerogativa di Cristo, il potere salutare di elevare dalla morte alla vita eterna (Ap 1, 18), sono connesse la prima e l’ultima parola della terzina formata dai versi 61-63: “Suso in Italia bella … c’ha nome Benaco”. Il corrispondere dell’avverbio e della prima parte del nome del lago con il “bene possum te … sublevare” non appare interpretazione forzata se si confronta con altre utilizzazioni del medesimo passo. Ad Ap 1, 18 rinvia anche il verso 28: “Qui vive la pietà quand’è ben morta”.
Da notare l’accostamento, nella terzina ai versi 70-72, dell’espressione “Siede Peschiera” (il quinto stato viene assimilato alla “sede” romana: prologo, Notabile V) al discendere della riva del lago Benaco, per indicare il luogo dove “convien che tutto quanto caschi / ciò che ’n grembo a Benaco star non può”, prima di farsi fiume, allusione parodica alla difficoltà a mantenersi in uno stato tanto arduo come il quarto e alla necessità di una vita “condescensiva” nel quinto (vv. 73-75; ma già il Benaco è “a piè de l’Alpe che serra Lamagna / sovra Tiralli”; cfr. il discendere del Chiascio a Par. XI, 43). Il quinto stato corrisponde al quinto giorno della creazione, nel quale Dio disse agli uccelli (i monaci, più spirituali) e ai pesci (i chierici, commisti alle genti): “crescete e moltiplicatevi” (Genesi 1, 22). Così i monasteri e le chiese si sono propagati nella chiesa occidentale, e la vita, pur non tanto chiara per fama come nel quarto stato, si è svolta però con un “senso vivo e tenero della pietà”, al modo con cui gli uccelli e i pesci sono più dotati nel sentire dei “luminaria celi”, cioè del sole, della luna e delle stelle assimilati ai contemplativi del quarto tempo (prologo, Notabile XIII; cfr. altre variazioni su questi temi). Il Benaco, dunque, il discendere della sua riva e della sua acqua fino a Peschiera e oltre (“e fassi fiume giù per verdi paschi”) sono figure geografiche che designano il quinto stato della Chiesa nel suo bell’inizio (“in Italia bella… bello e forte arnese”: Ap 2, 1), condescensivo, aperto alle moltitudini (i pesci) riunite attorno alla sede romana, cui “Peschiera”, che “siede”, allude. Al quinto stato appartiene, a differenza del solitario quarto stato che lo precede (“l’Alpe”), la capacità di ricevere e accogliere le moltitudini, cioè la vita associata (prologo, Notabile V; cfr. Inf. XVI, 100-102), e corrisponde nei versi al “Già fuor le genti sue dentro più spesse / prima che la mattia da Casalodi / da Pinamonte inganno ricevesse”, espressione riferita agli abitanti che “s’accolsero” in un luogo per fondarvi Mantova (vv. 88-89, 94-96).

 

Inf. XX, 67-69 presenta il tema di Cristo mediatore e pastore, variato in molti luoghi del poema fin dal primo verso, nel riferimento al luogo nel “mezzo” del lago di Garda dove i tre vescovi di Trento, Brescia e Verona potrebbero incontrarsi ai confini delle loro diocesi per impartire la benedizione, “s’e’ fesse quel cammino” (ma i pastori non lo fanno). L’allusione trinitaria – «[…] “in medio troni”, id est in medio sancte Trinitatis, tamquam persona media sedens in eadem maiestate trium personarum quasi in eadem sede […] (Ap 5, 6) – è anticipata dalla terzina precedente (vv. 64-66), che deve pertanto leggersi: “Per mille fonti, credo, e più si bagna, / tra Garda e Val Camonica, Pennino / de l’acqua che nel detto laco stagna”, considerando “Pennino” (o “Apennino”, forma sempre usata da Dante) come soggetto, figura della persona media della Trinità.
Che il “mezzo” del Benaco sia un punto indeterminato (e non l’Isola dei Frati, che oltretutto in mezzo non sta) è confermato dall’idea di Cristo mediatore al quale allude.

 Tab. II

[LSA, prologus, Notabile VI] Dicendum quod cum in visionibus huius libri agatur de primordiali ac medio et finali statu ecclesie, Christus autem, prout in principio et fine huius libri dicitur esse “alpha et o” (cfr. Ap 1, 8; 21, 6; 22, 13), id est principium et finis, per <que> tamquam per extrema subintelligitur quod etiam ipse est medium et mediator, satis decuit quod in hiis visionibus premitteretur Christus tamquam radicale et fontale principium totius ecclesie et omnium statuum eius, ac deinde quod in medio processu statuum refulgeret eius mediatio, et in fine quod ipse est omnium consumator et finis.
Et ideo sic visiones ut plurimum ordinantur quod prima pars earum est tamquam fons et radix, secunda vero est quasi stipes quinque nodorum seu quasi conductus ex fonte deductus habens quinque respiracula, tertia vero est quasi ramorum diffusio cum floribus et fructibus suis seu quasi emissio aque ex conductu in magnam piscinam seu lacum ex quo tota Dei civitas potatur et irrigatur. Quinque enim status ecclesie describuntur hic quasi per modum stricti stipitis vel conductus. Sextus vero status describitur quasi per modum late et multe expansionis ramorum fructuosorum reiectis virgultis et ramis inutilibus, seu per modum magne et aperte effusionis aque in piscinam vel lacum. Septimus vero status describitur quasi quieta fruitio per esum fructuum et poculum aquarum. Sicque cum septenario statuum refulget hic admirabiliter misterium Trinitatis, quamvis et aliter hic non minus gloriose refulgeat, prout in septimo notabili tangetur.

[LSA, cap. XVIII, Ap 18, 17 (VIa visio)] Deinde subdit de planctu aliorum qui per mare seu per vias graviores negotiabantur: “Et omnis gubernator et omn<es> qui in l<o>cum”, scilicet aliquem, puta ad urbem vel portum maritimum, “navigant”. Antiqui et Greci habent hic “<in> locum”; quidam vero habent in lacum”, id est in stagnum aquarum dulcium; quidam vero habent “in longum”, scilicet in longinquum iter maris, vel ad longinquos portus.

[LSA, cap. VIII, Ap 8, 10 (IIIa visio, IIIa tuba)] Nota autem quod per “fontes” possunt intelligi libri sacri canonis et scriptores eorum, scilicet prophete et apostoli. Per “flumina” vero, que de fontibus trahuntur, possunt intelligi subsequentes expo-sitiones librorum canonis et expositores seu editores earum. Ille enim sunt instar fluminum quantitate maiores et aquam plurium fontium in se conti-nentes.

Inf. I, 79-80

Or se’ tu quel Virgilio e quella fonte
che spandi di parlar sì largo fiume?

 

[LSA, cap. I, Ap 1, 17-18 (radix Ie visionis)] Deinde explicat sibi illas suas perfectiones ex quarum fide et notitia amplius poterat confortari. Subdit ergo tres binarios suarum perfectionum. […]
Secundus est: “et sum vivus et fui mortuus” (Ap 1, 18), scilicet pro veritate et pro vestra salute. Ne tamen credatur nunc habere vitam mortalem sicut prius habuit, ideo subdit: “et ecce sum vivens in secula seculorum”, scilicet quasi dicat: bene possum te a morte ad vitam eternam sublevare, qui memetipsum excitavi a morte et qui omnium sum causa et finis; et quasi dicat: bonum est te pro me humiliari et mori, quia ego fui pro te mortuus et novissimus, et sicut ego ex hoc perveni ad gloriam ita et tu pervenies.

[LSA, cap. I, Ap 1, 5 (septem notabiles primatus Christi secundum quod homo)] Quinto primatum nostre iustificationis et redemptionis, quam iustifi-cationem tangit dicendo: “et lavit nos a peccatis nostris”; redemptionem vero cum subdit: “in sanguine suo”, id est in merito sue passionis et mortis cuius modum et speciem exprimit sanguis effusus. Servat autem methaforam leprosorum, qui per balneum sanguinis mundi et calidi expurgantur et sanantur. Premisit autem “qui dilexit nos”, ad monstrandum quod ipse nos redemit et lavit non ex sua necessitate vel utilitate, vel ex debito vel ex timore aut ex coactione, sed ex sua sola misericordia et gratuita caritate.

Inf. XX, 28-30, 61-66, 70-75

Qui vive la pietà quand’ è ben morta;
chi è più scellerato che colui
che al giudicio divin passion comporta?

Suso
in Italia bella giace un laco,

a piè de l’Alpe che serra Lamagna
sovra Tiralli, c’ha nome Benaco.
Per mille fonti, credo, e più si bagna
tra Garda e Val Camonica e Pennino

de l’acqua che nel detto laco stagna.

Siede Peschiera, bello e forte arnese
da fronteggiar Bresciani e Bergamaschi,
ove la riva ’ntorno più discese.
Ivi convien che tutto quanto caschi
ciò che ’n grembo a Benaco star non può,
e fassi fiume giù per verdi paschi.

[LSA, cap. II, Ap 2, 1 (Ia visio, Va ecclesia)] Vocatur autem congrue hec ecclesia Sardis, id est principium pulchritudinis, tum quia in suis paucis incoin-quinatis habet singularem gloriam pulchritudinis, quia difficillimum et arduissimum est inter tot suorum luxuriantes se omnino servare mundum; tum quia primi institutores quinti status fuerunt in se et in suis omnis munditie singulares zelatores, suorum-que collegiorum regularis institutio, diversa membra et officia conectens et secundum suas proportiones ordinans sub regula unitatis condescendente proportioni membrorum, habet mire pulchritudinis formam toti generali ecclesie competentem, que est sicut regina aurea veste unitive caritatis ornata et in variis donis et gratiis diversorum membrorum cir-cumdata varietate.

Tab. II bis [Nota]

[LSA, cap. I, Ap 1, 5 (septem notabiles primatus Christi secundum quod homo)]
Secundo primatum resurrectionis, cum dicit: “primogenitus ex mortuis”. Quidam habent “mortuorum”, id est a mortuis, secundum quod ad Romanos I° (Rm 1, 4) dicitur: “ex resurrectione mortuorum Ihesu Christi”, id est ex resurrectione Ihesu Christi ex mortuis, id est a morte seu a statu mortis. Resurrectio enim gloriosa vocatur generatio, Matthei XIX°, cum dicitur (Mt 19, 28): “in regeneratione, cum sederit Filius hominis in sede maiestatis sue, sedebitis et vos” et cetera. Christus autem hanc obtinuit primo primitate temporis et dignitatis et causalitatis et exem-plaritatis, et ideo dicitur “primogenitus mortuorum” seu “ex mortuis”.

Tertio primatum supreme et universalis dominationis, cum ait: “et princeps regum terre”. Per reges terre intelligit non solum homines, sed etiam superiores angelos qui celesti hierarchie et subcelesti principantur. Propter tamen sen-suales, qui plus estimant reges et regna terre quam celi, dicit “regum terre”, et etiam contra credentes Christum et eius angelos principari solum in regno celi et non in toto regno terrarum seu inferiorum.
Quarto primatum dilectionis, cum dicit: “qui dilexit nos”.
Quinto primatum nostre iustificationis et redemptionis, quam iustificationem tangit dicendo: “et lavit nos a peccatis nostris”; redemptionem vero cum subdit: “in sanguine suo”, id est in merito sue passionis et mortis cuius modum et speciem exprimit sanguis effusus. Servat autem methaforam leprosorum, qui per balneum sanguinis mundi et calidi expurgantur et sanantur. Premisit autem “qui dilexit nos”, ad monstrandum quod ipse nos redemit et lavit non ex sua necessitate vel utilitate, vel ex debito vel ex timore aut ex coactione, sed ex sua sola misericordia et gratuita caritate.

Purg. XI, 28-36

disparmente angosciate tutte a tondo
e lasse su per la prima cornice,
purgando la caligine del mondo.
Se di là sempre ben per noi si dice,
di qua che dire e far per lor si puote
da quei c’hanno al voler buona radice?
Ben si de’ loro atar lavar le note
che portar quinci, sì che, mondi e lievi,
possano uscire a le stellate ruote.

Par. VIII, 34-39, 55-60; IX, 91-93

Noi ci volgiam coi principi celesti
d’un giro e d’un girare e d’una sete,

ai quali tu del mondo già dicesti:
Voi che ’ntendendo il terzo ciel movete’;
e sem sì pien d’amor, che, per piacerti,
non fia men dolce un poco di quïete.

Assai m’amasti, e avesti ben onde;
che s’io fossi giù stato, io ti mostrava
di mio amor più oltre che le fronde.
Quella sinistra riva che si lava
di Rodano poi ch’è misto con Sorga,
per suo segnore a tempo m’aspettava

Ad un occaso quasi e ad un orto
Buggea siede e la terra ond’ io fui,
che fé del sangue suo già caldo il porto.

Lucano, Phars., III, 572-573

……………… Cruor altus in unda
spumat, et obducti concreto sanguine fluctus.

A Cristo uomo vengono ascritti sette notabili primati (Ap 1, 5-7). Ciò affinché non venga considerato fragile e spregevole a motivo di quanto ha patito nella passione e nella morte e del disprezzo da parte degli infedeli.
I temi relativi al secondo, terzo, quarto e quinto primato (Ap 1, 5) si ritrovano nel cielo di Venere. Al principari sui re della terra e sulle gerarchie angeliche (terzo primato) fanno riferimento le parole di Carlo Martello: “Noi ci volgiam coi principi celesti / d’un giro e d’un girare e d’una sete” (Par. VIII, 34-35). Il riferimento è tanto più consono se si considerano i ripetuti accenni ai regni terreni presenti nel discorso dell’angioino. Anche l’inciso rivolto a Dante – “ai quali tu del mondo già dicesti: / ‘Voi che ’ntendendo il terzo ciel movete’” (vv. 36-37) – sembra contenere un accenno allo stimare le cose mondane (“tu del mondo”) più di quelle spirituali («Propter tamen sensuales, qui plus estimant reges et regna terre quam celi, dicit “regum terre”, et etiam contra credentes Christum et eius angelos principari solum in regno celi et non in toto regno terrarum seu inferiorum»), poiché la canzone commentata nel secondo trattato del Convivio concerne l’amore per la Filosofia, “la bellissima e onestissima figlia dello Imperadore dell’universo” (II, xv, 12), donna che presiede al regime della beatitudine terrena, della quale il poeta s’innamorò appresso il suo primo amore per Beatrice e il cui pensiero fece fuggire, in quanto contrario, il soave pensiero della prima donna che gloriosa contemplava il regno dei beati (ibid., II, vii, 9). Non è casuale che Carlo Martello integri l’“intendendo” della canzone terrena – che si rivolge alle intelligenze motrici del cielo di Venere “collo intelletto solo” (ibid., II, vi, 2) – con il tema del primato dell’amore, quarto di Cristo uomo: “e sem sì pien d’amor … Assai m’amasti … io ti mostrava / di mio amor più oltre che le fronde” (Par. VIII, 38, 55-57). “Luce intellettüal, piena d’amore” dirà Beatrice sulla soglia dell’Empireo (Par. XXX, 40).
Il motivo del lavare i peccati nel sangue caldo (quinto primato di Cristo) è pure presente nel discorso di Carlo: “Quella sinistra riva che si lava / di Rodano poi ch’è misto con Sorga” (Par. VIII, 58-59; «Secundo primatum resurrectionis, cum dicit: “primogenitus ex mortuis”»), cioè la Provenza, indicata come riva sinistra (l’essere ‘sinistro’ allude a un significato terreno e temporale) del Rodano, fiume che scorre per Avignone, nel luogo dove “stagna” (ad Arles), cioè s’impaluda (Inf. IX, 112).
Nel canto seguente, riprendendo il tema del lavarsi senza citare esplicitamente il verbo, Folchetto di Marsiglia ricorda il “sangue … caldo” che la sua patria versò nella strage operata da Bruto per conto di Cesare (Par. IX, 91-93; il verso è reminiscenza da Lucano, Phars., III, 572-573, ma l’essere “caldo” del sangue non c’è nel poeta pagano).
Dallo stesso panno deriva “Per mille fonti, credo, e più si bagna / tra Garda e Val Camonica e Pennino / de l’acqua che nel detto laco stagna” (Inf. XX, 64-66; cfr. supra).
È da notare come alcuni dei temi siano appropriati ai superbi del primo girone della montagna (Purg. XI, 28-36).


Tab. III

Par. XXXI, 61-63

Diffuso era per li occhi e per le gene
di benigna letizia, in atto pio
quale a tenero padre si convene.

Inf. XIII, 10, 34-39

Quivi le brutte Arpie lor nidi fanno

Da che fatto fu poi di sangue bruno,
ricominciò a dir: “Perché mi scerpi?
non hai tu spirto di pietade alcuno?
Uomini fummo, e or siam fatti sterpi:
ben dovrebb’ esser la tua man più pia,
se state fossimo anime di serpi”.

Par. V, 100-105, 121-123

Come ’n peschiera ch’è tranquilla e pura
traggonsi i pesci a ciò che vien di fori
per modo che lo stimin lor pastura,
sì vid’ io ben più di mille splendori
trarsi ver’ noi, e in ciascun s’udia:
“Ecco chi crescerà li nostri amori”.

Così da un di quelli spirti pii
detto mi fu; e da Beatrice: “Dì, dì

sicuramente, e credi come a dii”.

[LSA, prologus, Notabile XIII] In quinto vero tempore fuerunt spiritualiores monachi quasi aves volantes, clerici vero gentibus commixti fuerunt quasi pisces in aquis (cfr. Gn 1, 20-21). In hac autem die primo dictum est: “Crescite et multiplicamini” et cetera (Gn 1, 22), quia numquam in preteritis temporibus sic monasteria vel ecclesie in tali vita, que conveniret pluribus, ordinate fuere quomodo in tempore quinto, quia non tantum clericorum et monachorum, verum etiam ecclesiarum et monasteriorum que sunt propagata in tempore quinto in hac occidentali ecclesia colligere numerum non est facile. Unde quamvis vita monachorum quarti temporis fuerit clarior, non tamen fecundior nec sic habens sensum vivum et tenerum pietatis. Aves enim et pisces prehabundant in sensu luminaribus celi. Attamen notandum quod in quinta die creata sunt munda pariter et immunda. Sunt enim pisces secundum legem mundi et immundi, avesque similiter*

*Cfr. Concordia, V 1, c. 13; Patschovsky 3, p. 561, 10-11; p. 563, 4-15; p. 565, 3-4 (Olivi sintetizza più passi di Gioacchino da Fiore, è comunque sua l’espressione “nec sic habens sensum vivum et tenerum pietatis“).

[LSA, prologus, Notabile V (V status)] Quia vero ecclesia Christi usque ad finem seculi non debet omnino extingui, ideo oportuit eam in quibusdam suis reliquiis tunc specialiter a Deo defendi et in unam partem terre recolligi, qua nulla con-gruentior sede Petri et sede romani imperii, que est principalis sedes Christi. Ideo in quinto tempore, quod cepit a Karolo, facta est defensio et recollectio ista, tuncque congrue instituta est vita condescensiva, ut nequeuntibus in arduis perdu-rare daretur locus gratie in mediocri statu. […] Quia etiam post tam altos status expedit multitudinem condescensive recipi et primos secundum proportionem suarum virium sequi, idcirco in quinto tempore condescensivi status capaces multitudinis refulserunt.

Inf. XX, 7o-72, 88-90, 94-96

Siede
Peschiera
, bello e forte arnese

da fronteggiar Bresciani e Bergamaschi,
ove la riva ’ntorno più discese

Li uomini poi che ’ntorno erano sparti
s’accolsero a quel loco, ch’era forte

per lo pantan ch’avea da tutte parti.

Già fuor le genti sue dentro più spesse,
prima che la mattia da Casalodi
da Pinamonte inganno ricevesse.


4.2.
Tra il monte e il piano

■ Nella quarta visione, ad Ap 12, 14 (terza e quarta guerra, congiuntamente trattate), la donna-regina (la Chiesa), che ad Ap 12, 6 (prima guerra) si dice che era fuggita in solitudine dalla durezza persecutrice dei Giudei, vola con le due ali della grande aquila nella solitudine del luogo deserto (il deserto dei Gentili); ivi si nasconde, per “un tempo, due tempi e la metà di un tempo” (per 1260 anni), dalle tentazioni che abbondano in mezzo alla moltitudine delle genti, si fortifica contro di esse e si nutre di cibo spirituale.
Un’altra donna, fuggendo nel deserto, si fece eponimo del luogo di nascita di colui che alle genti avrebbe dato vanto: si tratta di Manto, la figlia di Tiresia della quale narra Virgilio nella bolgia degli indovini. Le parole del poeta pagano legano insieme temi da Ap 12, 14, appropriandoli a luoghi o persone diverse: “ad locum deserti … in medio  – loco è nel mezzonel mezzo del pantano … e per colei che ’l loco prima elesse (vv. 67, 83, 92)”; “fortificetur – Siede Peschiera, bello e forte arnese … s’accolsero a quel loco, ch’era forte (vv. 70, 89)”; “in deserto aliturpastore … verdi paschi” (vv. 68, 75); il pastus, la pascualis refectio è tipica degli anacoreti del quarto stato: prologo, Notabili III, XIII). Nei versi risuonano i temi che nell’esegesi fanno da contrappunto al motivo del “deserto”, che però non viene esplicitato (lo è altrove, con riferimento ad Ap 12, 6). La medesima pagina esegetica di Ap 12, 14 presta i suoi temi per variazioni in Inf. XIV, 91-102, in altra digressione virgiliana, quella sul Veglio di Creta: ivi si registra (v. 99) l’aggettivo diserta.

■ Il lago Benaco, come sopra mostrato, è immagine geografica vestita dei temi del quinto stato della Chiesa, bello e condiscendente verso la vita associata, dopo l’ardua e inostenibile vita ascetica del quarto periodo che precede, del quale però mantiene, nel suo luogo mediano, il tema del rifocillare i fedeli da parte dei pastori (i quali tuttavia evitano quel luogo). Il Garda, infatti, “suso in Italia bella giace … a piè de l’Alpe che serra Lamagna”, la sua posizione è in parte simile a quella di Assisi in Par. XI, 43-54, situata dove “fertile costa d’alto monte pende”. Nel quarto periodo si esercita lo stare pertinace proprio dell’età virile che si mostra stabile e ferma, per poi cadere a causa della troppo ardua condizione contemplativa (prologo, Notabili III, V). Per cui (vv. 73-75) verso Peschiera, altro luogo fasciato da temi del quinto stato, “convien che tutto quanto caschi / ciò che ’n grembo a Benaco star non può”. Nel Benaco confluisce l’acqua di “mille fonti e più” (i libri canonici della Scrittura); quanto non può in esso stare “fassi fiume giù per verdi paschi” (coloro che espongono la Scrittura e pasturano il gregge; cfr. Ap 8, 10).

Tab. IV

[LSA, cap. XIV, Ap 12, 14 (IVa visio, IIIIVum prelium)] “Date sunt”, inquam, “ut volaret in desertum, in locum suum”. […] “Ubi alitur per tempus et tempora et dimidium temporis a facie serpentis”, id est ut per hoc alimentum protegatur a temptationibus et persecutionibus diaboli et ut contra eas per hoc fortificetur. Vel potest referri ad locum deserti: ideo enim in deserto alitur, ut ibi abscondatur a temptationibus diaboli, que in medio multitudinis populorum fortius et multiplicius habundant quam in solitudine deserti. Alitur autem ibi non solum spiritali doctrina et contemplatione et copia gratiarum, sed etiam incorporatione gentium, quas per fidem et gratiam eis datam incorporat sibi. Quia enim non potuit comedere et incorporare Iudeos, ideo in terris gentium, prius a Deo desertis, datus est sibi locus ut incorporet eas sibi, ne per penuriam fidelium tota a diabolo consumatur.

Inf. XX, 67-93

Loco è nel mezzo là dove ’l trentino   nel mezzo
pastore e quel di Brescia e ’l veronese
segnar poria, s’e’ fesse quel cammino.
Siede Peschiera, bello e forte arnese
da fronteggiar Bresciani e Bergamaschi,
ove la riva ’ntorno più discese
Ivi convien che tutto quanto caschi
ciò che ’n grembo a Benaco star non può,

e fassi fiume giù per verdi paschi.
Tosto che l’acqua a correr mette co,
non più Benaco, ma Mencio si chiama
fino a Governol, dove cade in Po.
Non molto ha corso, ch’el trova una lama,
ne la qual si distende e la ’mpaluda;
e suol di state talor esser grama.
Quindi passando la vergine cruda
vide terra, nel mezzo del pantano,
sanza coltura e d’abitanti nuda.
Lì, per fuggire ogne consorzio umano,
ristette con suoi servi a far sue arti,
e visse, e vi lasciò suo corpo vano.
Li uomini poi che ’ntorno erano sparti
s’accolsero
a quel loco, ch’era forte

per lo pantan ch’avea da tutte parti.
Fer la città sovra quell’ ossa morte;
e per colei che ’l loco prima elesse,
Mantüa l’appellar sanz’ altra sorte.

[LSA, cap. XII, Ap 12, 17 (IVa visio)] Videtur tamen quod post Christum et martires ubique dispersos egit de ecclesia post Constantinum in unum collecta et duabus alis, id est duobus ordinibus doctorum scilicet et anachoritarum alti-volis, adornata et in altum sublevata, et tam in deserto gentilitatis quam in deserto contemplative solitudinis alimentum sue refectionis habente.

[LSA, prologus, Notabile I (IVus status)] Quartus fuit anachoritice vite, mundum usque ad extrema solitudinis fugientis et carnem austerrime macerantis suoque exemplo totam ecclesiam instar solis et stella-rum illuminantis. […] Quartus est virginum seu contemplativorum, aquile assimilatus. […] In quarto (preeminent) observatores vite celice.

[LSA, cap. V, Ap 5, 1 (IIa visio, IVum sigillum)] Contra vero inopiam est eiusdem doctrine refectivus et copiosissimus sapor. Sicut enim mercatio sapientie per fidele studium scripturarum refertur ad doctores, et statera dolosi erroris, a recta equilibratione veritatis claudicans, respicit hereticos, sic spiritalis sapor et refectio eiusdem sapientie Christi refertur ad anacho-ritas, tantam eisdem sufficientiam tribuens ut nichil exterius querere viderentur nec aliquo exteriori egere, propter quod quasi nudi et soli in solitudinibus habitabant spiritalibus divitiis habundantes.

[LSA, cap. XVI, Ap 16, 8 (Va visio, IVa phiala)] “Et quartus angelus effudit phialam suam in solem” (Ap 16, 8), id est super ypocritalem partem anachoritarum seu contemplativorum quarti status, quorum ypocrisim sancti anachorite vel sancti doctores quarti temporis acriter obiurgaverunt et conf<ud>erunt. Quia vero, secundum Ioachim, tales se sanctos et digniores ceteris estimant, ideo si increpantur accenduntur in iram, et deinde solent confluentibus ad eos conqueri et exponere vitam suam ut sciant quod non zelo iustitie sed livore odii arguuntur, propter quod incipiunt homines estuare, quia inter eos quos sanctos putabant vident lites et scandala generari. Unde subditur: “et datum est illi”, scilicet soli sic plagato, “affligere homines estu et igne”, id est perturbare et ad iram accendere contra cetum sanctorum redarguentium illos.

Tab. V

[LSA, prologus, Notabile III] Patet enim hoc de primo dono. Nam pastoralis cura insistit primo ovium propagationi (I). Secundo earum defensioni ab imbribus et lupis et consimilibus (II). Tertio earum directioni seu deductioni ad exteriora (III). Quarto earum pascuali refectioni (IV). Quinto morborum et morbidarum medicinali extirpationi (V). Sexto ipsarum plene reformationi (VI). Septimo ipsarum in suum ovile reductioni et recollectioni (VII).
Constat autem quod propagatio appropriatur prime plantationi ecclesie sub apostolis (I), defensio vero militari pugne martirum (II), directio vero eruditioni doctorum (III), refectio autem studiose et refective devotioni anachoritarum (IV), et sic de aliis. […]

[LSA, prologus, Notabile XIII] Refectio vero eucharistie congruit devotioni anachoritarum.

[LSA, prologus, Notabile V (IVus status)] Quia vero infectio humani generis et sue carnis non patitur tam arduam vitam diu in hoc seculo perdurare, casus autem a statu tam arduo gravem ypocrisim et remissionem aut apertam apostasiam inducit. Talis autem casus cum primo lapsu perfidarum heresum dignus est iudicio et exterminio grandi, idcirco circa finem quarti status congrue contra hereticos et ypocritas et remissos supervenit secta sarracenica omnia fere devastans et sibi subiugans.

[LSA, prologus, Notabile III]
De quinto etiam patet, quia zelus severus in phialis designatus est septiformis […] prout fertur contra quorundam ecclesie primitive fatuam infantiam (I), ac deinde contra pueritiam inexpertam (II), et tertio contra adolescentiam levem et in omnem ventum erroris agitatam (III), et quarto contra pertinaciam quasi in loco virilis et stabilis etatis se firmantem (IV), quinto contra senectutem remissam (V), sexto contra senium decrepitum ac frigidum <et> defluxum (VI), septimo contra mortis exitum desperatum et sui oblitum (VII).
Item est septiformis quia est contra initium mali intrinsecum (I) et extrinsecum (II); et contra medium terminum, scilicet ascendens (III) stans (IV) et declinans (V); et contra terminum intrinsecum (VI) et extrinsecum (VII). Initium autem mali intrinsecum fuit in Iudeis adversantibus Christo et apostolis, extrinsecum vero fuit in Paganis apostolos et ceteros martires persequentibus. Et consimiliter terminus intrinsecus erit in finali malitia quorundam de ecclesia, extrinsecus vero in finali persecutione ab exteris infligenda.

[LSA, cap. II, Ap 2, 25 (Ia visio, IVa ecclesia)] “Tantum id quod habetis” (Ap 2, 25), scilicet evangelium meum et meam evangelicam legem, “tenete donec veniam”, scilicet ad vos remunerandos, id est usque ad mortem. Vel forte ad alia superstitiosa vel importabilia et supra vires eorum existentia dicebant eos teneri, quod Christus hic excludit.

[LSA, prologus, Notabile I] (III) Tertius (status) est confessorum seu doctorum, homini rationali ap-propriatus.

Inf. XX, 67-102

Loco è nel mezzo là dove ’l trentino
pastore e quel di Brescia e ’l veronese
segnar poria, s’e’ fesse quel cammino.
Siede Peschiera, bello e forte arnese
da fronteggiar Bresciani e Bergamaschi,
ove la riva ’ntorno più discese.
Ivi convien che tutto quanto caschi
ciò che ’n grembo a Benaco star non può,
e fassi fiume giù per verdi paschi.
Tosto che l’acqua a correr mette co,
non più Benaco, ma Mencio si chiama
fino a Governol, dove cade in Po.
Non molto ha corso, ch’el trova una lama,
ne la qual si distende e la ’mpaluda;
e suol di state talor esser grama.
Quindi passando la vergine cruda
vide terra, nel mezzo del pantano,
sanza coltura e d’abitanti nuda.
Lì, per fuggire ogne consorzio umano,
ristette con suoi servi a far sue arti,
e visse, e vi lasciò suo corpo vano.
Li uomini poi che ’ntorno erano sparti
s’accolsero a quel loco, ch’era forte
per lo pantan ch’avea da tutte parti.
Fer la città sovra quell’ ossa morte;
e per colei che ’l loco prima elesse,
Mantüa l’appellar sanz’ altra sorte.
Già fuor le genti sue dentro più spesse,
prima che la mattia da Casalodi
da Pinamonte inganno ricevesse.
Però t’assenno che, se tu mai odi
originar la mia terra altrimenti,
la verità nulla menzogna frodi”.
E io: “Maestro, i tuoi ragionamenti
mi son sì certi e prendonmia fede,
che li altri mi sarien carboni spenti”.

[LSA, prologus, Notabile III] De tertio etiam patet. Nam magistralis tuba seu expositio intendit fidei et eius scientie seminande (I), et deinde radicande seu roborande (II), deinde explicande (III), deinde amplexande (IV), deinde contemperande, unicui-que scilicet secundum suam proportionem (V); inten-dit etiam finaliter eam imprimere et sigillare (VI) et tandem glorificare seu glorificatam exhibere (VII). Et patet correspondentia primi ad primum statum et secundi ad secundum et sic de aliis. […]

[LSA, cap. V, Ap 5, 1 (IIa visio, IVum sigillum)] Quartus (defectus in nobis claudens intelligentiam huius libri) est nostre libertatis superba indomabilitas. […] In quarta (apertione) vero mors sedens in equo pallido, id est in carne quasi iam emortua pallescente, domuit et infregit superbam libertatem orientalium ecclesiarum nolentium subici sedi et fidei Petri. Et certe nichil validius ad infringendam superbiam imperii nostri quam consideratio assidua et experientia humane fragilitatis et mortis, unde Ecclesiastici X° ad retundendam hominis superbiam dicitur: “Quid superbis terra et cinis?” (Ecli 10, 9), et capitulo VII° dicitur: “In omnibus operibus tuis memorare novissima tua et in eternum non peccabis” (Ecli 7, 40).

[LSA, cap. XX, Ap 20, 8 (VIIa visio)] Nota autem quod dicit “circuierunt castra sanctorum et civitatem dilectam” (Ap 20, 8), ut monstret quod ecclesia erit tunc ad militarem et pervigilem pugnam instar castrensis exercitus ordinata, et nichilominus ad Christi contemplativum cubiculum et amplexum instar sponse dilecte et civitatis unice recollecta, et etiam ad monstrandum quod, preter castrensem fortitudinem contra suos hostes, aderit sibi singu-laris custodia Christi tamquam ipsam singulariter diligentis. Vel per “castra sanctorum” intelligit spiri-tualia collegia et monasteria evangelicorum religio-sorum illius temporis, per “civitatem” vero ecclesiam generalem.

Inf. XX, 88-93

Li uomini poi che ’ntorno erano sparti
s’accolsero a quel loco, ch’era forte
per lo pantan ch’avea da tutte parti.
Fer la città sovra quell’ ossa morte;
e per colei che ’l loco prima elesse,
Mantüa l’appellar sanz’ altra sorte.


4.3. Benaco, Mencio, Po

Il quinto stato, bello nel suo principio (“Suso in Italia bella”) e condescensivo, successivamente si corrompe, la “condescensio” degenera in “laxatio” con il successivo rovinoso cadere nella rilassatezza e nell’ipocrisia. Questo corrompersi progressivo è anche un tema precipuo della prima delle sette chiese d’Asia – Efeso -, sottolineato da un passo dal De eruditione hominis interioris di Riccardo di San Vittore, che Olivi cita come “super Danielem” ad Ap 2, 5 (l’esegesi registra nel poema numerose variazioni). Riccardo adduce l’esempio della statua sognata da Nabucodonosor di cui parla il profeta Daniele, che discendeva di grado in grado dall’oro all’argento al rame al ferro e infine alla terracotta (Dn 2, 31-36). L’oro del capo indica il fulgore del fervido desiderio delle cose celesti, l’argento del petto e delle braccia la certezza del retto consiglio e il retto operare, le membra di rame la simulazione, quelle di ferro l’indignazione, quelle di terracotta la fiacchezza dissoluta. L’oro designa pure la devozione, l’argento la discrezione. Nelle virtù, come si sale per gradi al culmine, così si discende a poco a poco dal più alto all’infimo livello. Nessuno diviene turpe immediatamente, ma scivolando progressivamente a partire dalla minima negligenza iniziale. Lo si può vedere in quanti sono all’inizio della conversione gioiosi di speranza, pazienti nella tribolazione, solleciti nell’operare, studiosi nella lettura, devoti nella preghiera, aurei per la carità, e che poi nel tempo della tentazione si tirano indietro, non però subito sprofondandosi ma cadendo prima dal bene in un bene minore e di qui nel male e infine nel peggio, secondo quanto si dice in Giobbe 14, 18-19: “un monte che cade scivola a poco a poco e la terra viene consumata dall’alluvione”. Così, in Inf. XX, 76-78, nelle parole di Virgilio, anche l’acqua che esce dal Benaco si chiama Mencio (cioè si corrompe “primum de bono in minus bonum”), “fino a Governol, dove cade in Po” (“cadens paulatim”). A questo punto si può anche interpretare “fino a Governol”, cioè fino al punto (topograficamente Govèrnolo) nel quale non c’è più governo: “Gover-nol” ‘id est’ “non è chi governi” (cfr. Par. XXVII, 140). Il discendere del quinto stato, infatti, inizialmente positivo per pietosa condiscendenza verso le esigenze delle moltitudini e della vita associata, si trasforma poi in “laxatio” e in rovinoso cadere, come affermato nell’esegesi della quinta tromba, al cui suono viene aperto il pozzo dell’abisso dai prelati (coloro che governano), i quali precipitano insieme al gregge (Ap 9, 1-2; si ricordi anche l’“altro governo” fatto del corpo di Buonconte da Montefeltro, con la pioggia che “ver’ lo fiume real tanto veloce / si ruinò, che nulla la ritenne”, Purg. V, 103ss.).
Non si tratta dell’unico caso nel poema in cui il senso letterale delle parole concorda nel suono con quello spirituale. Il “sacrosanto segno” dell’aquila “atterrò l’orgoglio de li Aràbi”, vinse cioè i Cartaginesi, che passarono le Alpi dietro ad Annibale (Par. VI, 49-51): la caduta dei nemici di Roma dalla loro superba e ardua altezza è prefigurazione della caduta degli orgogliosi anacoreti del quarto stato della Chiesa dall’elevata condizione di vita spirituale nei deserti d’Arabia e della loro distruzione operata dai Saraceni. Alla caduta dell’orgoglio di Annibale è appropriato anche il cadere delle “molte acque” visto da Giovanni lì dove siede la meretrice (Ap 17, 15): esse designano i popoli, le genti e le lingue che passano e per mortalità defluiscono come acque. La “labilitas” è appropriata al Po, che scende dalle alpestre rocce (“di che tu labi”). Se poi il “defluere” di Ap 17, 15 si combina con lo scivolare a poco a poco nel precipizio del male proprio della chiesa di Efeso (Ap 2, 5), per cui si fa l’esempio, tratto da Giobbe 14, 18-19, del monte che cade scivolando a poco a poco e della terra che viene consumata dall’alluvione, allora anche il nome “Po” – paulatim  viene fasciato dalla tematica del fluire progressivo.

Tab. VI

[LSA, cap. II, Ap 2, 5 (Ia visio, Ia ecclesia)] Item Ricardus, super Danielem, in expositione sompnii Nabucodonosor, ostendit quod sicut statua Nabucodonosor gradatim descendebat ab auro in argentum, deinde in es ac deinde in ferrum et ultimo in testam luteam, sic aliquando gradatim descenditur a supremo virtutum ad ima. Unde ibidem ait: «Puto quod nemo repente fit turpissimus, sed qui minima negligit paulatim defluit. Sicut enim quibusdam profectuum gradibus ad alta conscenditur, sic rursus gradatim ad ima descenditur». Et ibidem subdit: «Quosdam videmus in initio sue conversionis spe gaudentes, in tribulatione patientes, sollicitos in opere, studiosos in lectione, devotos in oratione, qui quidem in auro operantur sicut et ille cui dictum est a Christo: “Novi opera tua et caritatem” et cetera (Ap 2, 19). Sed sunt multi qui in tempore temptationis recedunt, non tamen statim se in infima demergunt, sed primum de bono in minus bonum et dehinc de minus bono in malum et deinde de malo in deterius corruunt, secundum illud Iob:Mons cadens paulatim defluit, et terra alluvione consumitur” (Jb 14, 18-19). Tales enim paulatim incipiunt a pristino desiderio tepescere et a prior<i> fervore magis magisque deficere. Refrigescente namque caritate, operantur bona ex deliberatione. Maius autem est bonum sequi ex desiderio et cum magna delectatione quam ex solo consilio et deliberatione; istud quidem bonum, sed illud optimum, istud pertinet ad argentum, illud autem ad aurum. […]».

Inf. XX, 76-78

Tosto che l’acqua a correr mette co,
non più Benaco, ma Mencio si chiama
fino a Governol, dove cade in Po.

[LSA, cap. XVII, Ap 17, 15 (VIa visio)] Sequitur (Ap 17, 15): “Aquas”, id est aque casus pro casu, “quas vidisti ubi meretrix sedet”, id est super quas principatur, “sunt populi et gentes et lingue”, quia scilicet sicut aque sua labilitate defluunt ita populi sua mortalitate pertranseunt, et etiam variis moribus seu passionibus fluitant sicut aque.

Par. VI, 49-51

Esso atterrò l’orgoglio de li Aràbi
che di retro ad Anibale passaro
l’alpestre rocce, Po, di che tu labi.


4.4. “Vide terra, nel mezzo del pantano”

Il quarto periodo della Chiesa è lo stato delle vergini che fuggono il mondo fino ai suoi estremi (prologo, Notabile I). Manto, “la vergine cruda” (v. 82; la crudeltà è fra i temi del cavallo pallido all’apertura del quarto sigillo: Ap 6, 8) -, nel suo vagare “per fuggire ogne consorzio umano” (v. 85), si fermò (“ristette”, che riprende il motivo della stabilità del quarto stato; v. 86) con i suoi servi nella palude formata dal Mincio, cioè in una zona solitaria. Gli anacoreti del quarto stato sono però anche molto attivi nel prepararsi all’ascesa che culmina nella contemplazione, ad essi appartengono le forti e virtuose opere corporali – le res gestae -, sono reggitori delle genti “in virga ferrea”. L’indovina Manto, antica anacoreta, prima di fermarsi “a far sue arti” e dedicarsi riposata (cfr. Ap 21, 16) alla vita contemplativa, fu presa dalla vita attiva, tanto “che cercò per terre molte” (v. 55) [1].

Il luogo scelto da Manto – “terra … sanza coltura e d’abitanti nuda” (vv. 83-84: tema del deserto da Ap 12, 14, congiunto con il tema, dal quarto sigillo ad Ap 5, 1, degli anacoreti che abitavano nudi e soli; “abitanti” è hapax nel poema connesso, come nell’esegesi, con l’essere ‘nudi’) – “era forte / per lo pantan ch’avea da tutte parti” (vv. 89-90: tema del fortificarsi, Ap 12, 14). Stava “nel mezzo del pantano” (v. 83: ancora Ap 12, 14, in simmetria dissonante, perché dedito alle arti magiche, con il luogo “nel mezzo” del Benaco, adatto alla cura d’anime), in “una lama” che “suol di state talor esser grama” (vv. 79, 81: tema dell’“estuare” per il calore, dalla quarta coppa versata sul sole, ad Ap 16, 8; l’“esser grama” corrisponde all’“inopia” di Ap 5, 1, intesa come assenza della dottrina di Cristo).

“Li uomini poi che ’ntorno erano sparti / s’accolsero a quel loco” (vv. 88-89), e fondarono la città sopra le “ossa morte” della profetessa e da lei la nominarono (vv. 91-93; la riflessione sulla morte e l’umana fragilità è motivo tipico del quarto stato, ad Ap 5, 1). Il tema del “raccogliere” è proprio del quinto stato, nel quale la Chiesa, che non deve estinguersi del tutto fino alla fine dei tempi, venne difesa e raccolta da Carlo Magno in una parte della terra, a Roma, sede dell’impero e principale sede di Cristo (prologo, Notabile V). Prima di Carlo Magno (con il quale inizia il quinto stato), anche con Costantino la Chiesa si era raccolta in unità, protetta dalle due grandi ali date alla donna – la sapienza dei dottori del terzo stato e la santa vita degli anacoreti del quarto -, dopo essere apparsa dispersa e oppressa nel tempo delle persecuzioni (ad Ap 12, 17). La Gerusalemme celeste – della quale ad Ap 20, 8 si dice che “cinsero d’assedio l’accampamento dei santi e la città diletta” – si presenta come città raccolta al talamo e all’amplesso contemplativo di Cristo, e mostra che oltre alla forza militare contro i nemici possiede la singolare protezione di Cristo verso la sposa diletta (significato che si aggiunge a quanto, ad Ap 12, 14, è detto della ‘forza’ del luogo deserto). Così, dopo la morte della solitaria Manto – che per quanto dannata fu fondatrice della città dove sarebbe nato Virgilio, prefigurazione della Chiesa unita sotto le due grandi ali di Ap 12, 14 (che raffigurano il potere spirituale e quello temporale) e anche della città celeste “unice recollecta” – venne il tempo della vita associata propria del quinto stato (v. 94: “Già fuor le genti sue dentro più spesse“).

Il non imporre vecchi pesi, cioè l’osservanza insostenibile della vecchia legge, secondo quanto promesso da Cristo a Tiàtira, la quarta chiesa d’Asia (Ap 2, 24-25), può anche significare l’escludere superstizioni: così Virgilio, nel raccontare l’origine della sua città, esclude quanto da lui stesso esposto nell’Eneide (X, 198-200) circa la fondazione di Mantova ad opera di Ocno, unitamente ad altri racconti favolosi e menzogneri (vv. 97-99).
La tromba magistrale, che per antonomasia appartiene al terzo stato, è nel quarto volta ad abbracciare le dottrine di fede (prologo, Notabile III). Il tema si trova quando il poeta assicura il maestro che i suoi ragionamenti sull’origine di Mantova “prendon sì mia fede” (vv. 100-102): l’espressione segna il passaggio dal puro ragionare dell’intelletto, proprio del terzo stato designato dall’uomo razionale, all’affetto tipico del quarto, dalla notizia all’amore di ciò che si è già conosciuto.

[1] Gli anacoreti del quarto stato non si dedicarono solo alla contemplazione, furono assai operosi; i motivi che li riguardano fasciano sia Lia come Rachele nei versi di Purg. XXVII, 61-108. Degli indovini puniti nella quarta bolgia alcuni avrebbero fatto meglio a dedicarsi ad opere manuali piuttosto che voler “veder troppo davante”: “vedi Asdente, / ch’avere inteso al cuoio e a lo spago / ora vorrebbe, ma tardi si pente. / Vedi le triste che lasciaron l’ago, / la spuola e ’l fuso, e fecersi ’ndivine” (vv. 118-122; ‘intendere’ è verbo tipico degli anacoreti, forti nella vita attiva: Ap 2, 26-28).

 

4.5. Il “manto” sacerdotale

La diffusione di singoli aspetti perfettivi di Cristo sulla natura e sugli uomini è proprio, in varia misura, di tutto il gruppo delle dodici prerogative come sommo pastore (Ap 1, 13-17), nonché delle precedenti appartenenti all’apparente fragilità del Cristo uomo (Ap 1, 5-7). Virgilio, che incarna molte qualità del Figlio dell’uomo, anzi gli è “simile” (Ap 1, 13), si fregia altresì della santità del manto sacerdotale (Ap 1, 13), elemento che non manca all’indovina ‘Manto’, fondatrice della sua città e dannata nella quarta bolgia.
La terza perfezione di Cristo sommo pastore consiste nell’appartenenza all’ordine sacerdotale e pontificale, cui si addicono santità, integrità, castità e onestà, per designare la quale si afferma: “vestito con un abito lungo fino ai piedi” (Ap 1, 13). La veste è la “poderis” di lino, propria dei sacerdoti, lunga fino ai piedi (“poderis” è vocabolo di origine greca che equivale a “pedalis”). È assimilata al manto dell’efod da cui era avvolto Aronne, la “tunica superhumeralis” sovrapposta al pettorale del giudizio (il “rationale” con incisi i nomi degli Israeliti), di color giacinto, sulle cui frange erano sonagli aurei (“tintinabula”, Esodo 28, 31-35). Di questo manto si dice nella Sapienza (Sap 18, 24): “Sulla sua veste lunga fino ai piedi vi era tutto il mondo e la grandezza dei parenti era scolpita su quattro ordini di pietre preziose”. All’ordine sacerdotale appartiene anche quanto soggiunge l’autore dell’Apocalisse: “e cinto alle mammelle con una zona aurea”. Essere succinto alle reni designa il restringere la concupiscenza carnale. Essere precinto alle mammelle indica la restrizione di ogni impuro pensiero e affetto del cuore: l’intelletto e la volontà sono infatti le due mammelle della mente che propinano il latte della sapienza e dell’amore. Cingersi con una zona di pelle, cioè con una fascia di cuoio di animali morti, designa il mantenere la castità per il timore della morte o della pena. Cingersi con una zona aurea significa serbarsi casti per puro e solido ardore di carità.
Il tema del manto avvolge la figura di Virgilio dal “parlare onesto” (Inf. II, 113). Mantova, patria del poeta latino, concorda con “manto” nel suono e anche nel significare i “parentum magnalia”, la grandezza dei padri. Così Virgilio si presenta a Dante dicendo: “e li parenti miei furon lombardi, / mantoani per patrïa ambedui”. (Inf. I, 68-69). La prova che Mantova non sia un puro nome geografico sta nel fatto che lo stesso tema riveste la fondatrice della città, Manto, la quale nella bolgia degli indovini mantiene nella pena un aspetto sacerdotale, per quanto stravolto dal tenere il capo volto all’indietro, evidenziato dal ricoprire le mammelle con le trecce sciolte (Inf. XX, 52-55; le trecce corrispondono ai capelli propri della quarta perfezione di Cristo): ciò designa, con senso limitato, la restrizione di ogni impuro pensiero e affetto del cuore [1]. Il “Mantoano” Sordello è “anima lombarda … onesta” (Purg. VI, 61-63, 74-75). Ai “parentum magnalia” sembra rinviare anche la menzione di Bartolomeo della Scala, il “gran Lombardo / che ’n su la scala porta il santo uccello” (Par. XVII, 70-72).
Il tema del manto connesso con il riferimento alla famiglia appartiene a Niccolò III, che fu “vestito del gran manto” papale e vero “figliuol de l’orsa” (Inf. XIX, 69-70). Adriano V parla del peso, da lui sperimentato, del “gran manto” subito dopo aver detto del titolo comitale della sua famiglia (Purg. XIX, 100-105). In apertura di Par. XVI, la nobiltà del sangue viene paragonata a un manto che presto si raccorcia se non si aggiunge altra stoffa derivante dai meriti personali.
I motivi sacerdotali della terza perfezione di Cristo come sommo pastore (Ap 1, 13), combinati con quelli provenienti dalle altre perfezioni, rivestono anche Catone.
Il tema del cingersi si ritrova nella corda con la quale, prima di scioglierla su ordine di Virgilio, Dante pensava di prendere la lonza, cioè la concupiscenza carnale (Inf. XVI, 106-108). Fra i giganti, Nembrot sembra anch’egli fasciato, ma con tono sarcastico, dai motivi connessi con il manto sacerdotale (Ap 1, 13; 15, 6): ha come perizoma la sponda del pozzo e la parte del corpo scoperta è alta “trenta gran palmi” a partire dalla clavicola, “dov’ omo affibbia ’l manto”; tiene al collo un corno legato con una “soga” che gli “doga”, cioè gli fregia, il “gran petto” (Inf. XXXI, 61-66, 70-75). Fialte è cinto da una catena che gli tiene “soccinto” dinanzi il braccio sinistro e dietro il braccio destro (vv. 85-88). Alla stessa esegesi rinviano, con appropriazione negativa delle prerogative di Cristo, Inf. XXIII, 67 (“manto”); XXIV, 31 (“vestito”), 34 (“precinto”) e, in collazione con Ap 15, 6, XXXII, 43 (“strignete i petti”), 49 (“cinse”).
Nella Firenze che “si stava in pace, sobria e pudica”, Cacciaguida vide Bellincion Berti “andar cinto di cuoio e d’osso” e i Nerli e i Vecchietti “esser contenti a la pelle scoperta”, cioè senza panno di sopra (Par. XV, 112-113, 115-116).
Nel cielo del Sole, la prima corona di spiriti sapienti circonda Beatrice e Dante come la luna (“la figlia di Latona”, che designa la castità) si cinge di un alone luminoso (la “zona”) quando l’atmosfera è satura di vapori in modo da trattenere la luce (Par. X, 67-69; cfr. XXIX, 1-6).
L’Empireo, “precinto” al Primo Mobile, che a sua volta comprende gli altri cieli, è “luce e amor”, che corrispondono all’intelletto e alla volontà, le due mammelle della mente: esso è cinto da Dio, che solo intende il suo operare (Par. XXVII, 112-114; cfr. i serafini, descritti a XXVIII, 22-27). Il Primo Mobile è anche “lo real manto di tutti i volumi del mondo” (Par. XXIII, 112-113).

[1] Il lombardismo Mantoa è da preferire a Mantova, per il nesso immediato tra Manto e Mantoa (Inglese) e anche perché il nome di persona e quello di luogo fanno segno dell’esegesi del “manto”.

 

Tab. VII

[LSA, cap. I, Ap 1, 13 (radix Ie visionis)] Tertia (perfectio summo pastori condecens) est sacerdotalis et pontificalis ordinis et integre castitatis et honestatis sanctitudo, unde subdit: “vestitum podere. Poderis enim erat vestis sacerdotalis et linea pertingens usque ad pedes, propter quod dicta est poderis, id est pedalis: pos enim grece, id est pes latine. Poderis enim, secundum aliquos, erat tunica iacinctina pertingens usque ad pedes, in cuius fimbriis erant tintinabula aurea, et de hac videtur dici illud Sapientie XVI<II>° (Sap 18, 24): “In veste poderis, quam habebat, totus erat orbis terrarum, et parentum magnalia in quattuor ordinibus lapidum erant sculpta”. Dicuntur etiam fuisse in veste poderis quia erant in rationali et superhumerali ipsi poderi immediate superposita. Per utramque autem designatur habitus celestis castitatis et sanctitatis sacerdotes et pontifices condecens, pro cuius ardua plenitudine subdit: “et precinctum ad mamillas zona aurea”.
Succingi circa renes designat restrictionem inferiorum concupiscentiarum et operum carnis. Precingi vero ad mamillas designat restrictionem omnis impuri cogitatus et affectus cordis. Intellectus enim et voluntas sunt quasi due mamille mentis, propinantes lac sapientie et amoris. Item cingi zona pellicea, id est de corio animalium mortuorum, est timore mortis seu pene castitatem servare. Cingi vero zona aurea est ex mero et solido caritatis ardore eam servare.

Inf. I, 67-69

Rispuosemi: “Non omo, omo già fui,
e li parenti miei furon lombardi,
mantoani per patrïa ambedui”.

Inf. XX, 91-93

Fer la città sovra quell’ ossa morte;
e per colei che ’l loco prima elesse,
Mantüa l’appellar sanz’ altra sorte.    Mantoa

Par. XVII, 70-72

Lo primo tuo refugio e ’l primo ostello
sarà la cortesia del gran Lombardo
che ’n su la scala porta il santo uccello

 Purg. VI, 61-63

Venimmo a lei: o anima lombarda,
come ti stavi altera e disdegnosa
e nel mover de li occhi onesta e tarda!

Par. XVI, 7-9

Ben se’ tu manto che tosto raccorce:
sì che, se non s’appon di dì in die,
lo tempo va dintorno con le force.

Inf. XIX, 67-69

Se di saper ch’i’ sia ti cal cotanto,
che tu abbi però la ripa corsa,
sappi ch’i’ fui vestito del gran manto

Purg. XIX, 103-105

Un mese e poco più prova’ io come
pesa il gran manto a chi dal fango il guarda,
che piuma sembran tutte l’altre some.

 Inf. XXIII, 67; XXIV, 31-36

Oh in etterno faticoso manto!

Non era via da vestito di cappa,
ché noi a pena, ei lieve e io sospinto,
potavam sù montar di chiappa in chiappa.
E se non fosse che da quel precinto
più che da l’altro era la costa corta,

non so di lui, ma io sarei ben vinto.

Succingi circa renes designat restrictionem inferio-rum concupiscentiarum et operum carnis.

Inf. XVI, 106-108

Io avea una corda intorno cinta,
e con essa pensai alcuna volta
prender la lonza a la pelle dipinta.

Precingi vero ad mamillas designat restrictionem omnis impuri cogitatus et affectus cordis. Intellectus enim et voluntas sunt quasi due mamille mentis, propinantes lac sapientie et amoris.

Par. XXIII, 112-114

Lo real manto di tutti i volumi
del mondo, che più ferve e più s’avviva
ne l’alito di Dio e nei costumi

 Inf. XX, 52-55

E quella che ricuopre le mammelle,
che tu non vedi, con le trecce sciolte,
e ha di là ogne pilosa pelle,
Manto fu, che cercò per terre molte

Par. XXVII, 112-114

Luce e amor d’un cerchio lui comprende,
sì come questo li altri; e quel precinto
colui che ’l cinge solamente intende.

Item cingi zona pellicea, id est de corio animalium mortuorum, est timore mortis seu pene castitatem servare.

Par. XV, 112-116

Bellincion Berti vid’ io andar cinto
di cuoio e d’osso, e venir da lo specchio

la donna sua sanza ’l viso dipinto;
e vidi quel d’i Nerli e quel del Vecchio
esser contenti a la pelle scoperta

Cingi vero zona aurea est ex mero et solido caritatis ardore eam servare.

Par. X, 67-69

così cinger  la figlia di Latona
vedem talvolta, quando l’aere è pregno,
sì che ritenga il fil che fa la zona.

Purg. XXIX, 76-78

sì che lì sopra rimanea distinto
di sette liste, tutte in quei colori
onde fa l’arco il Sole e Delia il cinto.

Par. XXVIII, 22-27

Forse cotanto quanto pare appresso
alo cigner  la luce che ’l dipigne
quando ’l vapor che ’l porta più è spesso,
distante intorno al punto un cerchio d’igne
si girava sì ratto, ch’avria vinto
quel moto che più tosto il mondo cigne

Par. XXIX, 1-6

Quando ambedue li figli di Latona,
coperti del Montone e de la Libra,
fanno de l’orizzonte insieme zona,
quant’ è dal punto che ’l cenìt inlibra
infin che l’uno e l’altro da quel cinto,
cambiando l’emisperio, si dilibra

Inf. XXXI, 61-66, 70-75, 85-89

sì che la ripa, ch’era perizoma
dal mezzo in giù, ne mostrava ben tanto

di sovra, che di giugnere a la chioma
tre Frison s’averien dato mal vanto;
però ch’i’ ne vedea trenta gran palmi
dal loco in giù dov’ omo affibbia ’l manto.

E ’l duca mio ver’ lui: “Anima sciocca,
tienti col corno, e con quel ti disfoga
quand’ ira o altra passïon ti tocca!
Cércati al collo, e troverai la soga
che ’l tien legato, o anima confusa,

e vedi lui che ’l gran petto ti doga”.

A cigner  lui qual che fosse ’l maestro,
non so io dir, ma el tenea soccinto
dinanzi l’altro e dietro il braccio destro

d’una catena che ’l tenea avvinto
dal collo in giù ………………….

[LSA, cap. XV, Ap 15, 6 (radix Ve visionis)] Hii autem sunt et esse debent “vestiti lapide mundo et candido”, id est solida et insuperabili et munda et clara fortitudine et iustitia, “et precincti circa pectora zonis aureis”, id est caritate restringente non solum exteriorem fluxum concupiscibilium rerum sed etiam internum fluxum quarumcumque immundarum vel noxiarum vel superfluarum seu inutilium cogitationum et affectionum.

Inf. XXXII, 43-51

“Ditemi, voi che sì strignete i petti”,
diss’ io, “chi siete?”. E quei piegaro i colli;
e poi ch’ebber li visi a me eretti,
li occhi lor, ch’eran pria pur dentro molli,
gocciar su per le labbra, e ’l gelo strinse
le lagrime tra essi e riserrolli.

Con legno legno spranga mai non cinse
forte così; ond’ ei come due becchi

cozzaro insieme, tanta ira li vinse.

Purg. I, 94-96, 133

Va dunque, e fa che tu costui ricinghe
d’un giunco schietto e che li lavi ’l viso,

sì ch’ogne sucidume quindi stinghe ……

Quivi mi cinse sì com’ altrui piacque:

Si noterà come gruppi di terzine numericamente corrispondenti, a diversi stadi della Commedia, contengono parole-chiave che conducono alla medesima pagina esegetica della Lectura (nel caso ad Ap 1, 13). Si registrano numerosi esempi, fra i quali: Ap 5, 8; 7, 3-47, 13-14.


5. “e già iernotte fu la luna tonda”

Se ai dottori del terzo stato spetta l’intelletto e il lume della conoscenza, degli anacoreti, nel quarto periodo, sono propri il santo affetto e l’eccellenza della vita contemplativa. I due periodi concorrono, con mutuo ossequio, ad illuminare e ad infiammare l’orbe convertito nel mezzogiorno (prologo, Notabile X). La luna (tema proprio della quarta tromba: Ap 8, 12), definita “Caino e le spine”, tocca l’orizzonte comune ai due emisferi culminanti in Gerusalemme e nella montagna del Purgatorio in Inf. XX, 124-129; la concorrenza (il confine) dei due emisferi corrisponde a quella dei due stati dei dottori e degli anacoreti; l’indicazione astronomica si colloca infatti al termine della bolgia degli indovini (non a caso la quarta), nella quale è prevalente la tematica del quarto stato, dopo che i simoniaci sono stati segnati nella bolgia precedente dai motivi del terzo. La luna d’inferno, “la donna che qui regge” il tempo concesso al viaggio (Inf. X, 80), è parodia della donna vestita di sole che ad Ap 12, 1-2 tiene la luna sotto i piedi, cioè le cose temporali mutevoli e ombrose, o la scienza mondana fredda e notturna (cfr. Inf. VII, 64-65: “ché tutto l’oro ch’è sotto la luna / e che già fu …”). Ora la luna sta “sotto Sobilia”, cioè tramonta sotto Siviglia (Inf. XX, 126). Una situazione inversa si verifica nell’espressione con cui Ulisse indica il trascorrere dei cinque mesi di navigazione dopo l’ingresso “ne l’alto passo”: cinque volte la luce del sole si era nuovamente accesa “di sotto da la luna” e altrettante spenta, il che allude alle continue mutazioni (la luna designa la sapienza mondana, propria di Ulisse); il sole sta “sotto” la luna e non viceversa come nella donna di Ap 12, 1-2 (Inf. XXVI, 130-132). Siviglia è citata anche da Ulisse: “da la man destra mi lasciai Sibilia”: v. 110). Da un punto di vista geografico si tratta di Siviglia. “Sibilia” tuttavia può contenere un’allusione, per concordanza di suono, alla Sibilla cumana, ossia all’andata di Enea “ad immortale secolo” dove “intese cose che furon cagione / di sua vittoria e del papale ammanto” (Inf. II, 13-27): la mano destra contiene infatti le promesse di grazia e di gloria fatte da Cristo. Se di questo significato fa segno Sibilia, allora anche il fatto che la luna (ciò che è temporale) tramonti “sotto Sobilia” dà al senso letterale, geografico-astronomico, un valore provvidenziale di promessa per il prosieguo del viaggio (che Ulisse, invece, volle fare prima del tempo contro i disegni divini; il suo fu un viaggio nel futuro, oltre a quanto questi concessero ad Enea).
Come ricorda Virgilio, si tratta della luna piena, che non nocque, per la presenza della Grazia, ma giovò a Dante nella selva oscura (Inf. XX, 127-129); corrisponde al chiarore notturno del quale si parla nell’esegesi della quarta tromba: “Christi redemptoris … nocturne claritatis – e già iernotte fu la luna tonda” (Ap 8, 12). “Ben ten de’ ricordar”, gli dice il poeta pagano con le parole di Cristo al vescovo di Sardi, invitandolo a rammentare la prima grazia ricevuta (Ap 3, 3). Nella selva Dante ha trovato del bene (Inf. I, 8); non gli ha nuociuto “lo passo / che non lasciò già mai persona viva” (vv. 26-27). Alle locuste, che escono dal fumoso pozzo dell’abisso aperto al suono della quinta tromba (Ap 9, 1-2), viene detto di non danneggiare né fieno né verde erba né alberi, ma soltanto gli uomini che non hanno il sigillo di Dio sulla fronte (Ap 9, 4). Con questa proibizione si intende che Dio non permette che i semplici, i quali conservano l’umiltà e il verdeggiare della fede e di una vita onesta e pia (il fieno e l’erba), e i perfetti e più solidi che danno grandi frutti (gli alberi) siano lesi, a meno che non intervenga un loro pravo consenso al male.

AVVERTENZE

Seppure segue l’ordine dei ventidue capitoli dell’Apocalisse, Olivi suggerisce, nel prologo della Lectura, un metodo differente di comprensione e di aggregazione del testo, fondato sui sette stati (status), cioè sulle epoche nelle quali si articola la storia della Chiesa, prefigurate nell’Antico Testamento.
L’Apocalisse si articola in sette visioni: le sette chiese d’Asia, i sette sigilli, le sette trombe, la donna vestita di sole (le sette guerre sostenute dalla Chiesa), le sette coppe, il giudizio di Babylon nelle sette teste del drago, la Gerusalemme celeste. Le prime sei visioni possono essere a loro volta divise in sette momenti, ciascuno dei quali riferibile a uno dei sette stati. Assembrando, per le prime sei visioni, tutti i primi elementi (chiesa, sigillo, tromba, guerra, coppa, momento del giudizio di Babylon), tutti i secondi, i terzi e così di seguito, si ottengono sette gruppi di materia teologica, corrispondenti al complesso dei temi afferenti a ciascuno dei sette stati. A questi sette gruppi si aggiungono altri due: l’esegesi della settima visione (senza articolazioni interne) e l’esegesi di capitoli del testo scritturale, o di parti di essi, introduttivi delle successive specificazioni delle singole visioni per settenari, che Olivi definisce “radicalia” o “fontalia”. Si ottengono in tal modo nove gruppi: le parti proemiali, i sette assembramenti di settenari e la settima visione. Il grande prologo della Lectura, articolato in tredici notabilia, può essere anch’esso aggregato secondo i sette stati. Un libro (la Lectura) contiene dunque princìpi e criteri affinché l’accorto lettore possa trarne un altro libro, fatto con lo stesso materiale ma ricomposto e distribuito in forma diversa.

La Commedia mostra un ordine interno diverso da quello che appare al lettore: il viaggio di Dante ha un andamento di ciclici settenari, che corrispondono ai sette stati della storia della Chiesa, cioè alle categorie con cui Olivi organizza la materia esegetica. Questo ordine interno è registrabile per zone progressive del poema dove prevale, tramite parole-chiave, la semantica riferibile a un singolo stato. È un’intima struttura dirompente i confini letterali stabiliti dai canti e da tutte le divisioni materiali per cerchi, gironi, cieli. Ogni stato, che ha differenti inizi, è concatenato per concurrentia, come le maglie di un’armatura, con quello che precede e con quello che segue. Si possono in tal modo redigere mappe che comprendano l’ordine spirituale della Commedia. La ricerca è pervenuta a una Topografia spirituale della Commedia, dove quasi per ogni verso, o gruppo di versi, collegamenti ipertestuali conducono al “panno” esegetico fornito dalla Lectura super Apocalipsim, sul quale il “buon sartore” ha fatto “la gonna” (cfr. Par. XXXII, 139-141).

■ A ogni gruppo è arbitrariamente assegnato un diverso colore: Radici (verde), I stato (verde acqua), II stato (rosso), III stato (nero), IV stato (viola), V stato (marrone), VI stato (blu), VII stato (indaco), VII visione (fucsia). Dei gruppi sono stati integralmente studiati il terzo stato e la settima visione. Mentre la diversità dei colori è rispettata nella tabella complessiva contenente i collegamenti ipertestuali, nelle sinossi i colori possono essere variati per maggiore evidenza.

Non di rado nei versi alcune parole o incisi-chiave possono rinviare a più luoghi esegetici. Questo perché il testo dottrinale contenuto nella Lectura, prima di travasarsi semanticamente nella Commedia, è stato sottoposto a una duplice riorganizzazione. La prima, sulla base delle indicazioni dello stesso Olivi, secondo il materiale esegetico attribuibile ai singoli stati. La seconda, seguendo il principio applicato nelle distinctiones ad uso dei predicatori, sulla base di lemmi analogicamente collazionati. La “mutua collatio” di parti della Lectura arricchisce il significato legato alle parole e consente uno sviluppo tematico amplificato. Si vedano, ad esempio, le variazioni eseguite sul tema della “voce” o sull’espressione “in medio”, temi più volte iterati nel sacro testo, oppure il modo con cui Ap 1, 16-17 (l’esegesi della decima e undecima prefezione di Cristo come sommo pastore) percorre i versi in collazione con altri passi. A ciò predispone lo stesso testo scritturale, poiché l’Apocalisse contiene espressioni, come Leitmotive, che ritornano più volte. È determinata da parole-chiave che collegano i passi da collazionare. È suggerita dallo stesso Olivi, nel prologo, per una migliore intelligenza del testo.

Tutte le citazioni della Lectura super Apocalipsim presenti nei saggi o negli articoli pubblicati su questo sito sono tratte dalla trascrizione, corredata di note e indici, del ms. Paris, Bibliothèque nationale de France, lat. 713, a disposizione fin dal 2009 sul sito medesimo. I passi scritturali ai quali si riferisce l’esegesi sono in tondo compresi tra “ ”; per le fonti diverse da quelle indicate si rinvia all’edizione in rete. Non viene presa in considerazione l’edizione critica a cura di WARREN LEWIS (Franciscan Institute Publications, St. Bonaventure – New York, 2015) per le problematiche da essa poste, che sono discusse in ALBERTO FORNI – PAOLO VIAN, A proposito dell’edizione di Warren Lewis della Lectura super Apocalipsim di Pietro di Giovanni Olivi. Alcune osservazioni, in “Archivum Franciscanum Historicum”, 109 (2016), pp. 99-161.
Il testo della Commedia citato è in Dante Alighieri, La Commedia secondo l’antica vulgata, a cura di GIORGIO PETROCCHI, Firenze 1994. Si tiene anche conto della recente edizione a cura di GIORGIO INGLESE, Firenze 2021 (Società Dantesca Italiana. Edizione Nazionale), qualora il testo proposto si discosti da quello del Petrocchi e la scelta della variante risulti discutibile nel confronto con la LSA.
Si fa riferimento ai seguenti commenti:

Dante Alighieri, La Divina Commedia. Inferno. Commento di ANNA MARIA CHIAVACCI LEONARDI, Milano 2007 (19911).

Dante Alighieri, Commedia. Inferno. revisione del testo e commento di GIORGIO INGLESE, Roma 2007.


ABBREVIAZIONI

Ap : APOCALYPSIS IOHANNIS.

LSA : PIETRO DI GIOVANNI OLIVI, Lectura super Apocalipsim.

Concordia : JOACHIM VON FIORE, Concordia Novi ac Veteris Testamenti. Herausgegeben von A. PATSCHOVSKY, Wiesbaden 2017 (Monumenta Germaniae Historica. Quellen zur Geistesgeschichte des  Mittelalters, 28. Band), Teil 2 (lib. I-IV), Teil 3 (lib. V).

Expositio : GIOACCHINO DA FIORE, Expositio in Apocalypsim, in Edibus Francisci Bindoni ac Maphei Pasini, Venetiis 1527, ristampa anastatica Minerva, Frankfurt a. M. 1964.

Olivi opera spesso una sintesi del testo di Gioacchino da Fiore. Le « » precedono e chiudono un’effettiva citazione. Diversamente, viene posto un asterisco (*) o una nota in apice al termine della parte riferibile a Gioacchino.

In Ap : RICCARDO DI SAN VITTORE, In Apocalypsim libri septem, PL 196, coll. 683-888.

 

Note sulla “topografia spirituale” della Commedia

Per quanto segua l’ordine dei ventidue capitoli dell’Apocalisse, Olivi suggerisce un metodo differente di comprensione e di aggregazione del testo esegetico, fondato sui sette stati, cioè sui periodi nei quali si articola la storia della Chiesa. L’Antico Testamento corrisponde alle prime cinque età del mondo, secondo la divisione tradizionale [1]: è l’età del Padre secondo Gioacchino da Fiore. Con il primo avvento di Cristo, nella carne, inizia la sesta età (l’età del Figlio), nella quale la Chiesa, come fosse un individuo, cresce e si sviluppa in sette stati. Al primo, apostolico periodo, succede il secondo dei martiri; poi, al tempo di Giustiniano, il terzo stato dei dottori che confutano con l’intelletto le eresie concorre con il quarto stato degli affettuosi anacoreti devoti al pasto eucaristico, alti per la contemplazione ma anche attivi come reggitori delle genti; a partire da Carlo Magno subentra il quinto stato aperto alla vita associata delle moltitudini, bello nel principio ma poi corrottosi fino a trasformare quasi tutta la Chiesa in una nuova Babilonia; la riforma interviene, a partire da Francesco, con il cristiforme sesto stato, fino alla sconfitta dell’Anticristo; subentra infine il silenzio e la quiete del pacifico settimo stato. Il sesto e il settimo stato (la terza età di Gioacchino da Fiore) coincidono con il secondo avvento di Cristo, nello Spirito, cioè nei suoi discepoli spirituali inviati a convertire il mondo con la predicazione; al termine del settimo stato ci sarà il terzo avvento, nel giudizio.
L’Apocalisse si articola in sette visioni: le sette chiese d’Asia, i sette sigilli, le sette trombe, la donna vestita di sole (le sette guerre sostenute dalla Chiesa), le sette coppe, il giudizio di Babylon nelle sette teste del drago, la Gerusalemme celeste. Le prime sei visioni possono essere a loro volta divise in sette momenti, ciascuno dei quali riferibile a uno dei sette stati. Assembrando, per le prime sei visioni, tutti i primi elementi (chiesa, sigillo, tromba, guerra, coppa, momento del giudizio di Babylon), tutti i secondi, i terzi e così di seguito, si ottengono sette gruppi di materia teologica, corrispondenti al complesso dei temi afferenti a ciascuno dei sette stati [2]. A questi sette gruppi se ne aggiungono altri due: l’esegesi della settima visione (senza articolazioni interne) e l’esegesi di capitoli del testo scritturale, o di parti di essi, introduttivi delle successive specificazioni delle singole visioni per settenari, che Olivi definisce “radicalia” o “fontalia”. Si ottengono in tal modo nove gruppi: le parti proemiali, i sette assembramenti di settenari e la settima visione. Il grande prologo della Lectura, articolato in tredici notabilia, può essere anch’esso aggregato nelle sue parti secondo i sette stati.

L’intenso travaso di parole-temi dalla Lectura nella Commedia si accompagna a un fatto strutturale. La Commedia mostra un ordine interno diverso da quello che appare al lettore: il viaggio di Dante ha un andamento di ciclici settenari, che corrispondono ai sette stati oliviani. È un ordine registrabile per zone progressive del poema dove prevalgono i temi di un singolo stato, che rompe i confini letterali stabiliti dai canti e da tutte le divisioni materiali per cerchi, gironi, cieli. Ogni stato, che ha differenti inizi, è concatenato per “concurrentia”, come le maglie di un’armatura, con quello che precede e con quello che segue. Ciascuno stato ha in sé una grande ricchezza di motivi e contiene inoltre temi di tutti gli altri, consentendo innumerevoli intrecci e variazioni. La Commedia appare, come l’Apocalisse, “libro scritto dentro e fuori” (Ap 5, 1), con duplice struttura, linguaggio e senso, letterale e spirituale. Il viaggio di Dante e la visione di Giovanni hanno la stessa causa finale, che è la beatitudine, alla quale si perviene con diverse guide, per gradi segnati da visioni sempre più nuove e ardue delle precedenti, attraverso una sempre maggiore apertura dell’arcano coperto dal velame dei sette sigilli fino al punto più alto in cui, in questa vita, è possibile vedere la verità.
Tutti i modi del linguaggio interiore al poema esprimono un processo, un viaggio dal più chiuso al più aperto, e in questo andare hanno una loro precisa collocazione ‘topografica’, uno ‘stato’ (nel senso di momento storico che ricade sulla coscienza individuale) al quale appartenere. Si possono in tal modo stendere vere e proprie mappe tematiche che comprendano l’ordine spirituale di tutta la Commedia che aderisce, parodiandola semanticamente, a una precisa teologia della storia, sia pure modificandone profondamente le prospettive. La ciclicità dei temi permette di stabilire collegamenti inusitati tra le diverse zone; il procedere per gradi dell’illuminazione divina fa sì che episodi oscuri e quasi ermeticamente chiusi si chiariscano poi, aprendosi all’intelligenza in modo più alto.
A ogni gruppo è arbitrariamente assegnato un diverso colore: Radici (verde), I stato (verde acqua), II stato (rosso), III stato (nero), IV stato (viola), V stato (marrone), VI stato (blu), VII stato (indaco), VII visione (fucsia). Dei gruppi sono stati integralmente studiati il terzo stato e la settima visione.

INFERNO

(le prime cinque età del mondo)

La ‘topografia spirituale’ del poema mostra nell’Inferno cinque cicli settenari corrispondenti agli stati della Chiesa descritti da Olivi e ai loro temi contenuti nella Lectura. Questi cinque cicli designano le prime cinque età del mondo (riunite a loro volta nel primo stato generale, che corrisponde all’età del Padre di Gioacchino da Fiore), in quanto prefigurazione del primo avvento di Cristo e della Chiesa.
I cinque cicli settenari che si susseguono nell’Inferno a partire dal quarto canto (i primi tre canti hanno una tematica particolare) sono preceduti da cinque zone che possono essere definite ‘snodi’, dove cioè confluiscono temi provenienti da più stati, intrecciati insieme ad altri ad avviare il procedere settenario. Il centro di questi ‘snodi’ coincide con un canto (Inf. IV, X, XVII, XXVI, XXXII), ma la zona è più vasta e supera l’ambito dato dalla divisione letterale del poema.

Inf. I-III sono da considerare al di fuori dei cicli. Inf. I e II sono profondamente segnati dai temi del sesto stato. Inf. III è riferibile al settimo stato (per gli ignavi) e in parte al quinto (per l’episodio di Caronte).

canti

I ciclo

stati

cerchi

IV

Limbo

Radici, I (I snodo)

I

V

lussuriosi

II

II

VI

golosi

III

III

VII

avari e prodighi

palude Stigia
(iracondi e accidiosi)

IIIIV

 

V

IV


V

VIII

palude Stigia (orgogliosi)
città di Dite

V

V

IX

apertura della porta di Dite

VVI

 

canti

II ciclo

stati

cerchi

IX-X-XI

eretici, ordinamento dell’inferno

I (II snodo)

VI

XII

violenti contro il prossimo

II

VII (girone 1)

XIII

violenti contro sé

III

        (girone 2)

XIV

violenti contro Dio: bestemmiatori

IV

        (girone 3)

XV-XVI

violenti contro Dio: sodomiti

V

XVI

XVII

ascesa di Gerione

Gerione,  violenti contro Dio: usurai

VI

canti

III ciclo

stati

cerchi

XVII

volo verso Malebolge

I (III snodo)

 

XVIII

ruffiani, lusingatori

Radici II

VIII (bolgia 1, 2)

XIX

simoniaci

III

(bolgia 3)

XX

indovini

IV

(bolgia 4)

XXI-XXII

barattieri

V

(bolgia 5)

XXIII

ipocriti

VVI

(bolgia 6)

XXIV-XXV

ladri

VI

(bolgia 7)

canti

IV ciclo

stati

cerchi

XXVI

consiglieri di frode (greci)

I (IV snodo)

(bolgia 8)

XXVII

consiglieri di frode (latini)

II

XXVIII-XXIX

seminatori di scandalo e di scisma

III

(bolgia 9)

XXIX

falsatori

IV

  (bolgia 10)

XXX

falsatori

IVV

XXXI

giganti

VVI

 

canti

V ciclo

stati

cerchi

XXXII

Cocito: Caina, Antenora

I (V snodo)

IX

XXXIII

Antenora, Tolomea

II

XXXIV

Giudecca

IIIIVV

XXXIV

volgersi di Virgilio sull’anca di Lucifero

VI

 

 

Il sesto stato è per Olivi la fase più importante nella costruzione dell’edificio della Chiesa. In esso “renovabitur Christi lex et vita et crux”. Corrisponde ai tempi moderni. Ha quattro diversi inizi temporali: uno profetico, con Gioacchino da Fiore, il quale lo vide in spirito concependo la sua terza età; il secondo con la conversione di Francesco (1206), che seminò la pianta; il terzo con la predicazione degli uomini spirituali, per la quale la pianta si rinnovella; il quarto con la distruzione storica di Babylon. Dura fino alla sconfitta dell’Anticristo, il cui avvento si collocherebbe, secondo i numeri della profezia di Daniele 12, 11-12 combinati con Ap 12, 6 e 14, fra il 1290 e il giubileo di pace del 1335.
Una ‘vita nuova’ si instaura nel sesto stato, per eccellenza il momento dell’imitazione di Cristo. I rami dell’albero si dilatano producendo il frutto della carità, l’acqua che proviene da Cristo-fonte attraverso il condotto che percorre i primi cinque stati della Chiesa si effonde in un lago; è il tempo, assimilato al sacramento del matrimonio, della letizia nuziale, della familiarità, dell’amicizia. Corrisponde al sesto giorno della creazione, in cui vennero creati prima i rettili e le bestie irrazionali, poi l’uomo razionale che, come l’ordine evangelico, è fatto a immagine e somiglianza di Dio e domina tutti gli animali.
Le espressioni di Olivi relative al sesto stato – “quoddam sollempne initium novi seculirenovaretur et consumaretur seculum”, nel quale il sacerdozio apostolico “redeat et assurgat ad ordinem primum”, la “nova Ierusalem”, interpretata come “visione di pace”, viene vista “descendere de celo” e la Chiesa descritta come la donna vestita di sole con la sua “virginea proles” – sono la veste spirituale dei versi della quarta egloga virgiliana che celebrano la rinnovata età dell’oro: “Magnus ab integro saeclorum nascitur ordo / iam redit et Virgo; redeunt Saturnia regna; / Iam nova progenies caelo demittitur alto” (Egloga IV, 5-7). Olivi completa la Lectura super Apocalipsim nel 1298, poco prima di morire, il 14 marzo, a Narbonne. Quel felicissimo stato segnato dalla pace sotto il divo Augusto, che rese l’umanità disposta al primo avvento di Cristo, si sta rinnovando nel sesto stato della Chiesa, nel secondo avvento nello Spirito. Scrive Arsenio Frugoni: “[…] quell’escatologismo, oltre che ideologia di lotta e di riforma del gruppo spirituale, era anche un vero e proprio sentimento storico […] una tensione di rinnovamento, una ansia di salvezza, che nel 1300, l’anno centenario della Natività, aveva trovato come una attivazione, in un senso di pienezza dei tempi, cui doveva corrispondere un fatto, un accadere meraviglioso e nuovo” [3].
All’apertura del sesto sigillo, l’eletta schiera dei riformatori – i 144.000 segnati dalle dodici tribù d’Israele – guida la turba innumerevole di ogni gente, tribù, popolo e lingua (Ap 7, 3-4.13). Questi eletti e magnanimi duci, separati dalla volgare schiera per più alta milizia, vengono destinati a difendere liberamente la fede – ad essi è data la “plena libertas ad innovandam christianam religionem” -; sono gli amici di Dio a lui noti per nome, configurati in Cristo crocifisso e votati al martirio.
All’interno della Chiesa del sesto stato, l’Ordine dei Minori – “ordo plurium personarum” – è  assimilabile alla persona umana di Cristo. Come questa si sviluppò fino all’età virile, così dovrà essere per l’ordo evangelicus piantato da Francesco, che avrà bisogno (a differenza di Cristo che stette poco tempo nel mondo) di due o tre generazioni per svilupparsi prima di subire una condanna simile a quella di Cristo [4]. La sua maturità coincide, verso il 1300, con il terzo inizio del sesto stato, cioè con il rinnovarsi per opera dello Spirito di Cristo, nel suo secondo avvento, della pianta seminata da Francesco. Questa concezione dell’Ordine francescano come individuo in sviluppo che, perfettamente maturato, diventa il novus ordo preconizzato da Gioacchino da Fiore per l’età dello Spirito, si differenzia da quella di Bonaventura, che aveva invece distinto i Francescani del proprio tempo – e quindi anche gli Spirituali – dall’Ordine finale che dominerà fino ai confini della terra. Alla terza apertura del sesto sigillo nuovi san Giovanni vengono inviati a predicare al mondo come nel tempo degli Apostoli. Ma Giovanni non designa solo un Ordine, perché Olivi lascia aperta la possibilità di rivelazioni individuali, avute da “singulares persone”, perfetti imitatori di Cristo votati, con la loro “lingua erudita”, al compito della conversione universale.

[LSA, cap. X, Ap 10, 11] “Et dixit michi: Oportet te iterum prophetare in gentibus et populis et linguis et regibus multis”. In ipsa sapientia libri expresse continetur quod oportet iterum predicari evangelium in toto orbe, et Iudeis et gentibus, et totum orbem finaliter converti ad Christum. Sed quod per istum hoc esset implendum non poterat sciri nisi per spiritualem revelationem, et hoc dico prout per Iohannem designantur hic singulares persone quia, prout per ipsum designatur in communi ordo evangelicus et contemplativus, scitur ex ipsa intelligentia libri quod per illum ordinem debet hoc impleri.

Nei cinque cicli settenari della prima cantica il sesto stato è segnato dall’apertura della porta della città di Dite (Inf. IX, 89-90); dall’ascesa di Gerione dall’abisso (Inf. XVI, 106-136); dal precipitoso passaggio dalla quinta alla sesta bolgia (Inf. XXIII, 1-57) e poi dalle trasformazioni della settima, dove i ladri fiorentini si mutano in serpenti e viceversa (Inf. XXIV-XXV); dal chinarsi di Anteo sul fondo dell’inferno (Inf. XXXI, 136-145); dal passaggio del centro della terra, con la conversione di Virgilio sull’anca di Lucifero, che è passaggio verso la sesta età, quella della Chiesa, descritta nel Purgatorio.
Ma i temi propri del sesto stato sono diffusi ovunque, intrecciati con quelli degli altri stati, e alla loro esegesi rinviano precise parole-chiave incardinate nel senso letterale dei versi. L’esegesi dell’angelo del sesto sigillo (Ap 7, 2) è già centrale nel primo canto del poema.
La novità che il sesto stato, per eccellenza stato di rinnovamento di questo secolo, arreca nell’inferno è una novità fittizia: l’apertura della porta della città di Dite non è vera novità, perché essa è stata chiusa dall’ostinazione dei diavoli, recidivi dopo l’apertura della porta dell’inferno da parte di Cristo prefigurata dalla venuta di Ercole all’Ade, per cui Cerbero “ne porta ancor pelato il mento e ’l gozzo”; Gerione viene su ad un “novo cenno” di Virgilio, ma è figura della frode dalla velenosa coda aculeata; il nuovo prodotto dalle trasformazioni reciproche di serpenti e uomini è qualcosa di incompiuto perché l’uomo razionale, creato nel sesto stato, regredisce allo stato precedente.
L’Inferno è il luogo della durezza lapidea, dell’impetrarsi, del parlare duro di cose dure a dirsi, del duro giudizio, del senso duro della scritta al sommo della porta, dei duri lamenti, dei duri demoni, dei duri veli del gelo, della gravezza. Nell’Inferno vige l’imposizione data a Daniele dall’angelo sotto il sesto sigillo dell’Antico Testamento: “Ora tu, Daniele, chiudi queste parole e sigilla questo libro fino al tempo stabilito” (Dn 12, 4), che era la sesta età nella quale apparve Cristo e in particolare il sesto stato della sua Chiesa nella quale il libro doveva essere più pienamente aperto, non però ai malevoli e ai maldisposti. Questa durezza è rotta dall’invito di Dante ai dannati perché parlino. Far parlare liberamente, per dettato interiore, è la principale prerogativa del sesto stato – la nuova età che tanto s’aspetta, quella che ode del “dolce stil novo” e delle “nove rime” -, ed è tema che la poesia canta per intero, sia pure per un attimo, anche nella vecchia roccia infernale. Appartiene alla sesta chiesa il parlare liberamente di Cristo – ad essa è dato l’“ostium apertum”, che è “ostium sermonis” – , il sentire per dettato interiore, l’aprirsi della volontà. Appartiene alla sesta chiesa anche il far venire quelli che si dicono Giudei senza esserlo, mutati nel cuore e disposti a farsi battezzare e governare. Questo far venire a parlare equivale al cortese e liberale invito dello Spirito di Cristo a convivare, a venire con desiderio e volontario consenso, con “disio” e con “velle”, in una pausa di pace nell’eterna dannazione. All’“affettüoso grido” del poeta le ombre di Francesca e Paolo vengono “dal voler portate” verso un momento di mutazione, sebbene limitata al successivo colloquio. Tutto l’Inferno è un contrappunto fra la durezza del giudizio e l’apertura per la parola dirompente, fin che essa dura, la pena. Un’apertura che si esprime in varie forme: muoversi sospirando nel Farinata prima immobile, ‘crollarsi’ quasi per terremoto interiore dello ‘schivo’ Ulisse, convertirsi del vento in voce in Guido da Montefeltro, tornare indietro nel cammino assegnato o separarsi dai compagni di pena, essere sforzati a parlare anche malvolentieri, non poterlo negare o mostrare fretta di farlo, arrestarsi obliando il martirio, levarsi per poi ricadere, sollevarsi da atti bestiali per ritornare a essi dopo aver parlato, come nel conte Ugolino. In tante lingue, che parlano come per sé stesse mosse, sta un solo desiderio, il vivere ancora nel libro che è stato altrui aperto.
Se nell’Inferno il sesto stato non si realizza mai compiutamente, anche il settimo, che gli è strettamente connesso, non può trovare un luogo autonomo. Ciò non toglie che temi del settimo stato (e della settima visione) siano ben presenti in modo diffuso. Ad esempio, quelli relativi alla settima chiesa assumono particolare rilievo nella descrizione degli ignavi a Inf. III. Tempo del silenzio, della serena pace, del riposo dalle ansiose fatiche, il settimo stato subentra dopo le terribili tentazioni inferte, con un martirio non corporale ma psicologico, dai carnefici dell’Anticristo nel sesto. Come ogni momento della storia umana partecipa dell’imitazione di Cristo, che raggiunge l’acme nel sesto stato, così in ogni periodo si verifica una sua “quietatio”, una pausa di pace, di quiete, di silenzio propria del settimo. Così Francesca parla e ascolta “mentre che ’l vento, come fa, ci tace”. Il vento – “la bufera infernal, che mai non resta” – designa il fluttuare tempestoso delle passioni nel cuore.

PURGATORIO

(sesta età del mondo)

Dopo le prime cinque età del mondo (corrispondenti all’Antico Testamento, la gioachimita età del Padre), che hanno segnato la discesa a spirale per i cinque cicli settenari dell’Inferno, con il Purgatorio inizia la sesta età, quella di Cristo (l’età del Figlio), che ha sette stati, corrispondenti ai sette stati della Chiesa. Dapprima, nel cosiddetto ‘antipurgatorio’, si registrano in successione temi prevalenti dei primi cinque stati. Il sesto stato della sesta età (con cui si apre l’età dello Spirito) inizia con l’apertura della porta di san Pietro (la porta del purgatorio). Questo sesto stato procede anch’esso con andamento settenario, per cui ha sette momenti, coincidenti principalmente con un girone della montagna, ma non del tutto, perché sempre l’ordine spirituale del poema rompe i confini letterali e le divisioni materiali, concatenando i temi di uno stato prevalente con quelli dello stato che precede e con quelli dello stato che segue e intrecciandoli con temi di tutti gli altri stati.
È spiegato nel Notabile VII del prologo della Lectura che il sesto stato della Chiesa è il secondo stato di Cristo e ha i suoi sette tempi per cui la Chiesa, come fosse una sfera, si ricongiunge circolarmente al primo apostolico tempo. Il settimo dei sette momenti del sesto stato della Chiesa coincide con il settimo stato generale della Chiesa, che nel poema corrisponde in parte all’ultimo girone della montagna (il settimo, dove si purgano i lussuriosi) e in parte all’Eden, con cui si chiude la seconda cantica.
Il Purgatorio dunque, secondo il senso spirituale, è la storia della Chiesa che corre verso il suo sesto stato, punto di riferimento di tutte le vicende umane, antiche e moderne, che ad esso cooperano. Non è casuale che nel sesto girone della montagna sia chiarificata e riconosciuta, nel colloquio con Bonagiunta da Lucca, la poetica delle “nove rime” di Dante, già “sesto tra cotanto senno” cooptato nella “bella scola” dei poeti del Limbo.
La vasta zona dedicata al sesto momento del sesto stato della Chiesa ha il suo inizio nel forte terremoto che scuote la montagna mentre Dante e Virgilio si trovano ancora nel quinto girone (Purg. XX, 124-141). Essa è stata compiutamente esaminata altrove.
Il settimo stato dell’Olivi si realizza parte in questa vita (come pregustazione in terra della gloria eterna, cioè fin sulla cima della montagna) e in parte nella futura (nel senso della quiete delle anime beate in attesa della resurrezione, che è la materia del Paradiso).

canti

I ciclo – fino al sesto sato

stati

 

I

Catone

Radici, I

 

II

angelo nocchiero, Casella

–  II

 

III

scomunicati

III

“Antipurgatorio”

IV

salita al primo balzo, Belacqua

IV  –  V

V

negligenti morti per violenza

V

VI

Sordello

V

VII-VIII

valletta dei principi

V

IX

apertura della porta

VI sesto stato

 

canti

II ciclo – il sesto stato della sesta età

stati

gironi

X-XII

superbi

I

I

XIII-XIV-XV

invidiosi

II

II

XV-XVIII

iracondi

ordinamento del purgatorio,

amore e libero arbitrio

III

III

IV

XVIII-XIX

accidiosi

IV

IV

XIX-XX

avari e prodighi

V

V

XX (terremoto)  -XXV

Stazio, golosi, generazione dell’uomo

VI

VI

XXV-XXVI

lussuriosi

VII – settimo stato

VII

XXVII

XXVIII-XXXIII

 muro di fuoco

notte stellata, termine dell’ascesa

Eden

 

 

PARADISO

(settimo stato della Chiesa)

Il Primo Mobile è il nono e penultimo cielo, ma è il sesto se si parte dal cielo del Sole. È anche il cielo più segnato dal tema del “punto”, cui è assimilato il sesto stato. Questo consente di ricostruire l’ordine spirituale del Paradiso ponendo la cerniera nel quarto cielo del Sole. Con il terzo cielo di Venere termina infatti il cono d’ombra gettato dalla terra, secondo la dottrina di Alfragano (Par. IX, 118-119), mentre prima di descrivere l’ascesa al cielo del Sole il poeta invita il lettore a rivolgersi “a l’alte rote” (Par. X, 7-27). Senza la cesura recisa che, nella prima cantica, divide i dannati puniti all’interno della città di Dite da quelli che ne stanno fuori e, nella seconda cantica, separa le anime purganti nei sette gironi della montagna dalle anime che attendono fuori della porta (il cosiddetto ‘antipurgatorio’), anche nel Paradiso gli spiriti che si manifestano nei primi tre cieli della Luna, di Mercurio e di Venere (spiriti che mancarono ai voti, spiriti che furono attivi per conseguire onore e fama, spiriti amanti) si distinguono per minore perfezione rispetto a quelli che appaiono nei cieli seguenti.
I dieci cieli del Paradiso si mostrano pertanto ordinati in due gruppi di settenari, corrispondenti agli stati della Chiesa (e alle loro prerogative) secondo Olivi, parzialmente combacianti (da 1 a 7 e da 4 a 10: coincidono gli ultimi quattro numeri del primo gruppo e i primi quattro del secondo).

I  Se si considera il primo settenario, nel primo cielo della Luna si affronta la questione dell’inadempienza dei voti, che ha corrispondenza con i temi propri della prima chiesa di Efeso, il cui nome, se interpretato, oscilla tra la fervida volontà iniziale e la remissione (l’essenza del voto consiste nella volontà).

II  Nel secondo cielo di Mercurio, le battaglie sostenute dal “sacrosanto segno” dell’aquila corrispondono allo stato dei martiri, che è dei combattenti, e anche la dottrina dell’incarnazione e della passione di Cristo, esposta successivamente da Beatrice, fa parte della tematica, perché l’intera Chiesa, fondata sulla passione di Cristo, imita con i martiri la sua croce, e questo giova assai al suo radicamento.

III  Nel terzo cielo di Venere, Carlo Martello spiega al modo di un dottore del terzo stato la diversità delle indoli umane e come gli uomini, non assecondandole, errino; nello stesso cielo compare Folchetto di Marsiglia, che da vescovo di Tolosa combatté l’eresia albigese.

IV – I  Al quarto cielo del Sole, primo del secondo gruppo di settenari per l’esaltazione della vita apostolica (propria del primo stato e rinnovata nel sesto), si può connettere il tema stesso del sole inteso nell’esegesi della quarta tromba (Ap 8, 12): “Per solem videtur hic designari solaris vita et contemplatio summorum anachoritarum, qui fuerunt patres et exempla aliorum, vel solaris sapientia et doctrina summorum doctorum”. Sapienza e contemplazione, dottori del terzo e anacoreti del quarto stato, concorrono, come Domenico e Francesco – “L’un fu tutto serafico in ardore; / l’altro per sapïenza in terra fue / di cherubica luce uno splendore” (Par. XI, 37-39) – con mutua cortesia a infiammare il meriggio dell’universo.

V – II  Il quinto cielo di Marte, secondo (come il secondo stato dei martiri) per l’esaltazione della croce di Cristo formata dai lumi dei combattenti per la fede, reca in sé il tema del condiscendere proprio del quinto stato sia nel pio discendere per la croce di Cacciaguida verso Dante, sia nella decadenza degli “alti Fiorentini”, cioè delle antiche famiglie, assimilate agli anacoreti, un tempo alti e poi vòlti in basso.

VI – III  Il sesto cielo di Giove, terzo (come il terzo stato dei dottori) per la spiegazione di profonde verità di fede, sviluppa il motivo, proprio della sesta chiesa, della “porta aperta”. Aprire la porta significa illuminare e rendere acuto l’intelletto che penetra nell’occulto delle Scritture, e anche dare efficacia spirituale a penetrare nel cuore di chi ascolta: così l’aquila apre la “latebra” di Dante, così l’occhio di Rifeo Troiano fu da Dio aperto alla futura redenzione.

VII – IV Nel settimo cielo di Saturno, quarto (come il quarto stato degli anacoreti), “si tace … la dolce sinfonia di paradiso” (Par. XXI, 58-60), e il tacere è tema del settimo stato. Ivi si mostrano gli spiriti contemplativi, principali soggetti del quarto stato, proprio degli anacoreti: se si conta a partire dal quarto cielo del Sole, considerando questo come primo ovvero come nuovo avvio del ciclo settenario, il cielo di Saturno è appunto quarto.

VIII (V) Il settimo cielo di Saturno è seguito dal cielo delle Stelle fisse – ottavo e quinto -, dove si mostrano le schiere del trionfo di Cristo che discendono dall’Empireo (il quinto stato è caratterizzato dalla “condescensio”) e si celebra il trionfo di Maria (sviluppo del tema, proprio della quinta chiesa, della mirabile bellezza della Chiesa, regina ornata di veste aurea per la carità che unisce e circondata dalla varietà nei doni e nelle grazie delle diverse membra). È inoltre ricapitolazione dei precedenti sette, secondo un’interpretazione più volte presente nella Lectura dell’essere ‘ottavo’. Per questo Dante, stando nel segno dei Gemelli, riguarda in giù e torna col viso per tutte quante le sette precedenti sfere (Par. XXII, 124-154).

IX (VI) Segue il Primo Mobile o Cristallino – nono e sesto cielo –, dove il poeta vede il punto luminosissimo – Dio – da cui dipende il cielo e la terra, circondato dai nove cerchi di fuoco (Par. XXVIII, 16-18, 40-42, 94-96). Il sesto stato, secondo quanto Olivi afferma nel Notabile VIII, è il “punto” da cui dipendono gli altri stati, perché appare nel testo dell’Apocalisse in modo più evidente degli altri, che da esso assumono chiarezza quanto alla loro manifestazione nella storia, come l’intelligenza delle cose ordinate ad un fine dipende dal fine.

X (VII) La quiete e l’immobilità dell’Empireo, decimo cielo – il “ciel de la divina pace” -, corrispondono al settimo stato, di cui è propria la “quietatio”, il silenzio (tema anticipato dal tacere di Beatrice in apertura del canto XXIX), e la pace.

Il Paradiso avrebbe pertanto un ordine spirituale del seguente tipo:

cielo

stato

cielo

I

LUNA

I

II

MERCURIO

II

III

VENERE

III

IV

SOLE

IV

I

SOLE

V

MARTE

V

II

MARTE

VI

GIOVE

VI

III

GIOVE

VII

SATURNO

VII

IV

SATURNO

VIII

V

STELLE FISSE

IX

VI

PRIMO MOBILE

X

VII

EMPIREO

Oltre ai luoghi sopra indicati, i temi del sesto e del settimo stato si rinvengono in più punti, intrecciati con altri.

[1] Cfr. LSA, cap. XVII, Ap 17, 9: «Et subdit Ricardus quod per septem reges, et per septem capita designatos, designatur hic universus populus malorum, qui secundum septem status huius seculi determinantur. Primus scilicet ab Adam usque ad Noe. Secundus a Noe usque ad Abraam. Tertius ab Abraam usque ad Moysen. Quartus a Moys<e> usque ad David. Quintus a David usque ad Christum. Sextus a Christo usque ad Antichristum. Septimus autem sub Antichristo attribuitur». Cfr. PETRI IOHANNIS OLIVI Lectura super Lucam, Lc 1, 26, ed. F. Iozzelli, Grottaferrata 2010 (Collectio Oliviana, V), pp. 187-188: «Signanter autem dicitur in sexto mense, quia Christus uenit in sexta mundi etate, et iterum post quinque notabiles synagoge decursus: nam primo, cum sola circumcisione fuit sub patribus per quadringentos annos; secundo, accepta lege, fuit sub iudicibus per tantumdem temporis; tertio, proficiens in regnum, fuit sub regibus; quarto, assumpto plenius spiritu prophetico, fuit sub prophetis sollempnioribus, scilicet sub Elia, Ysaia et Yeremia etc.; quinto, restituto templo et urbe, fuit sub pontificibus quibus, per Aggeum et Zachariam et Malachiam iterata prophetia de Christo et eius precursore Elia, factum est silentium prophetarum, ita quod obmutuit cetus sacerdotum usque ad Iohannis ortum; et iterum in eiusdem quinti temporis sexto centenario conceptus est Christus. Sicut etiam sexto die factus est homo ad ymaginem Dei, sic conuenienter sub consimili senario factus est Christus homo, plenior Dei ymago: nam et perfectio numeri senarii, que ex omnibus partibus suis aliquotis et iterum ex ternario cum suis partibus, scilicet binario et unitate, consurgit, competit sibi et etiam reflexio ternarii per binarium, id est cultus fidei et Trinitatis per geminam caritatem».

[2] Il principio è chiaramente affermato nel notabile VIII del prologo della LSA: «[…] si omnia prima membra visionum ad invicem conferas et consimiliter omnia secunda et sic de aliis, aperte videbis omnia prima ad idem primum concorditer referri et consimiliter omnia secunda ad idem secundum et sic de aliis. Et hoc in tantum quod plena intelligentia eiusdem primi multum clarificatur ex mutua collatione omnium primorum, et idem est de omnibus secundis et tertiis et sic de aliis».

[3] A. FRUGONI, La Roma di Dante, tra il tempo e l’eterno, in ID., Pellegrini a Roma nel 1300. Cronache del primo Giubileo, presentazione di C. Frugoni, a cura e con Introduzione di F. Accrocca, Casale Monferrato 1999, pp. 102-103.

[4] LSA, cap. VI, Ap 6, 12: «Secunda ratio est quia persone Christi correspondet in sexta apertione unus ordo plurium personarum sic secundum suam proportionem augendus, sicut Christus secundum suum corpus fuit usque ad perfectam etatem viriliter auctus. […] Quarta est quia, prout super evangelia ostendi, Christus parvo tempore debuit inter nos vivere et pauciori predicare […]. Nisi autem ordo evangelicus, per Franciscum renovatus, esset in multis et saltem sub duabus vel tribus generationibus propagatus et sollempnizatus, non esset nec ipse nec populus ab eo ducendus sufficienter dispositus ad tam autenticam condempnationem condempnationi Christi consimilem subeundam».