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Gen 28 2024

Inferno XVII

 

La “Divina Parodia” del Libro scritto dentro e fuori

Canti esaminati:

Inferno: I; II; III; IV; V; VI; VII; VIII; IX; X; XI; XII; XIII; XIV; XV; XVI; XVII; XVIII; XIX; XX; XXI; XXII; XXIII; XXIV; XXV; XXVI; XXXII, 124-XXXIII, 90
Purgatorio: III; XXVIII
Paradiso: XI-XII; XXXIII

 

Legenda [3]: numero dei versi; 3, 9: collegamento ipertestuale all’esegesi, nella Lectura di Olivi, di capitolo e versetto dell’Apocalisse [Ap]; Not. VII: collegamento all’esegesi contenuta nei tredici notabilia del prologo della LecturaVarianti rispetto al testo del Petrocchi.

Viene qui esposto il canto XVII dell’Inferno con i corrispondenti legami ipertestuali con i luoghi della Lectura super Apocalipsim ai quali i versi si riferiscono. L’intero poema è esposto nella Topografia spirituale della Commedia (2013, PDF; cfr. infra), ma si sta procedendo a un esame progressivo e aggiornato dei singoli canti. Ogni tabella sinottica, qui presentata o alla quale si rinvia in quanto già esaminata in altra sede, è preceduta o seguita da una parte esplicativa. Per la posizione di Inf. XVII nella topografia della prima cantica cfr. infra. Sull’uso dei colori cfr. Avvertenze.

Inferno XVII

« Ecco la fiera con la coda aguzza,
che passa i monti e rompe i muri e l’armi!
Ecco colei che tutto ’l mondo appuzza! ».   [3]

Sì cominciò lo mio duca a parlarmi;
e accennolle che venisse a proda,   3, 9
vicino al fin d’i passeggiati marmi.   [6]

E quella sozza imagine di froda
sen venne, e arrivò la testa e ’l busto,   3, 9; 9, 19
ma ’n su la riva non trasse la coda.   [9]   9, 3; 9, 19

La faccia sua era faccia d’uom giusto,   9, 7
tanto benigna avea di fuor la pelle,
e d’un serpente tutto l’altro fusto;   [12]   9, 19

due branche avea pilose insin l’ascelle;   9, 3
lo dosso e ’l petto e ambedue le coste
dipinti avea di nodi e di rotelle.   [15]   5, 5; 9, 9

Con più color, sommesse e sovraposte   12, 6
non fer mai drappi TartariTurchi,   2, 10; 17, 10-12
né fuor tai tele per Aragne imposte.   [18]  Not. VII;  6, 12

Come talvolta stanno a riva i burchi,
che parte sono in acqua e parte in terra,
e come là tra li Tedeschi lurchi   [21]

lo bivero s’assetta a far sua guerra,   16, 12-14
così la fiera pessima si stava
su l’orlo ch’è di pietra e ’l sabbion serra.   [24]   6, 8 (20, 8)

Nel vano tutta sua coda guizzava,   9, 3; 9, 19
torcendo in sù la venenosa forca
ch’a guisa di scorpion la punta armava.   [27]

Lo duca disse: « Or convien che si torca   13, 1
la nostra via un poco insino a quella
bestia malvagia che colà si corca ».   [30]

Però scendemmo a la destra mammella, Not. I; 2, 1; 1, 13
e diece passi femmo in su lo stremo,   2, 10
per ben cessar la rena e la fiammella.   [33]   12, 18

E quando noi a lei venuti semo,
poco più oltre veggio in su la rena
gente seder propinqua al loco scemo.   [36]   Not. V (9, 17); 12, 18

Quivi ’l maestro « Acciò che tutta piena
esperïenza d’esto giron porti »,   2, 1; 8, 9
mi disse, « va, e vedi la lor mena.   [39]

Li tuoi ragionamenti sian là corti;   Not. I; Not. III
mentre che torni, parlerò con questa,
che ne conceda i suoi omeri forti ».   [42]   8, 9; 7, 7 (Isachar)

Così ancor su per la strema testa   Not. XIII
di quel settimo cerchio tutto solo
andai, dove sedea la gente mesta.   [45]   9, 17

Per li occhi fora scoppiava lor duolo;
di qua, di là soccorrien con le mani
quando a’ vapori, e quando al caldo suolo:   [48]   16, 8-9

non altrimenti fan di state i cani
or col ceffo or col piè, quando son morsi
o da pulci o da mosche o da tafani.   [51]   9, 5-6

Poi che nel viso a certi li occhi porsi,
ne’ quali ’l doloroso foco casca,
non ne conobbi alcun; ma io m’accorsi   [54]

che dal collo a ciascun pendea una tasca
ch’avea certo colore e certo segno,   13, 17
e quindi par che ’l loro occhio si pasca.   [57]

E com’ io riguardando tra lor vegno,
in una borsa gialla vidi azzurro   9, 17
che d’un leone avea faccia e contegno.   [60]   9, 19

Poi, procedendo di mio sguardo il curro,
vidine un’altra come sangue rossa,   9, 17
mostrando un’oca bianca più che burro.   [63]   6, 2

E un che d’una scrofa azzurra e grossa   9, 17
segnato avea lo suo sacchetto bianco,   13, 17; 6, 2
mi disse: « Che fai tu in questa fossa?   [66]

Or te ne va; e perché se’ vivo anco,
sappi che ’l mio vicin Vitalïano
sederà qui dal mio sinistro fianco.   [69]   9, 17

Con questi Fiorentin son padoano:
spesse fïate mi ’ntronan li orecchi
gridando: “Vegna ’l cavalier sovrano,   [72]

che recherà la tasca con tre becchi!” ».
Qui distorse la bocca e di fuor trasse   9, 17   la faccia
la lingua, come bue che ’l naso lecchi.   [75]

E io, temendo no ’l più star crucciasse   Not. III
lui che di poco star m’avea ’mmonito,
torna’mi in dietro da l’anime lasse.   [78]   2, 1

Trova’ il duca mio ch’era salito
già su la groppa del fiero animale,   8, 9
e disse a me: « Or sie forte e ardito.   [81]

Omai si scende per sì fatte scale;   2, 5
monta dinanzi, ch’i’ voglio esser mezzo,   2, 1
sì che la coda non possa far male ».   [84]   2, 2

Qual è colui che sì presso ha ’l riprezzo   3, 15
de la quartana, c’ha già l’unghie smorte,
e triema tutto pur guardando ’l rezzo,   [87]

tal divenn’ io a le parole porte;   8, 9
ma vergogna mi fé le sue minacce,   2, 1
che innanzi a buon segnor fa servo forte.   [90]

I’ m’assettai in su quelle spallacce;   8, 9
sì volli dir, ma la voce non venne
com’ io credetti: ‘Fa che tu m’abbracce’.   [93]

Ma esso, ch’altra volta mi sovvenne
ad altro forse, tosto ch’i’ montai   alto   2, 3
con le braccia m’avvinse e mi sostenne;   [96]   2, 3

e disse: « Gerïon, moviti omai:   2, 5
le rote larghe, e lo scender sia poco;   9, 9
pensa la nova soma che tu hai ».   [99]

Come la navicella esce di loco   2, 5
in dietro in dietro, sì quindi si tolse;
e poi ch’al tutto si sentì a gioco,   [102]

là ’v’ era ’l petto, la coda rivolse,
e quella tesa, come anguilla, mosse,
e con le branche l’aere a sé raccolse.   [105]

Maggior paura non credo che fosse   2, 5; 2, 21-23
quando Fetonte abbandonò li freni,   3, 15; 9, 1-2
per che ’l ciel, come pare ancor, si cosse;   [108]   2, 21-23

né quando Icaro misero le reni   3, 15
sentì spennar per la scaldata cera,
gridando il padre a lui « Mala via tieni! »,   [111]   2, 1

che fu la mia, quando vidi ch’i’ era
ne l’aere d’ogne parte, e vidi spenta
ogne veduta fuor che de la fera.   [114]

Ella sen va notando lenta lenta;   6, 6
rota e discende, ma non me n’accorgo   9, 9; 2, 5
se non che al viso e di sotto mi venta.   [117]

Io sentia già da la man destra il gorgo   5, 5
far sotto noi un orribile scroscio,
per che con li occhi ’n giù la testa sporgo.   [120]

Allor fu’ io più timido a lo stoscio, 2, 5
però ch’i’ vidi fuochi e senti’ pianti;
ond’ io tremando tutto mi raccoscio.   [123]

E vidi poi, ché nol vedea davanti,
lo scendere e ’l girar per li gran mali
che s’appressavan da diversi canti.   [126]

Come ’l falcon ch’è stato assai su l’ali,   (IV status)
che sanza veder logoro o uccello
fa dire al falconiere « Omè, tu cali! »,   [129]   (V status)

discende lasso onde si move isnello,   2, 5; 2, 1  si mové
per cento rote, e da lunge si pone   9, 9; 5, 1 (VI sig.)
dal suo maestro, disdegnoso e fello;   [132]   2, 5

così ne puose al fondo Gerïone
al piè al piè de la stagliata rocca,
e, discarcate le nostre persone,
si dileguò come da corda cocca.   [136]   6, 2


Introduzione. 1. La maglia apocalittica della “fiera pessima”. 2. Le corazze degli pseudoprofeti. 3. Il lento volo nel baratro. Avvertenze. Abbreviazioni.

 

Introduzione

Se, nei canti XV e XVI, la zona dedicata ai sodomiti registra semantiche variazioni su temi propri del quinto stato della storia della Chiesa, l’ascesa di Gerione dall’abisso, indotta dalla corda gettatavi da Virgilio, è punteggiata, almeno a partire da Inf. XVI, 109, da motivi del sesto stato. Gran parte del tessuto della descrizione della bestia, nella prima parte di Inf. XVII, è formata da fili che provengono dalla sesta tromba (Ap 9, 19) e la tematica percorre anche l’episodio degli usurai. Il viaggio è arrivato al culmine del secondo dei cinque cicli settenari dell’Inferno; ci si trova nel secondo degli ‘snodi’, cioè in zone dove confluiscono temi provenienti da più stati, intrecciati insieme ad altri ad avviare il procedere settenario. Il centro di questi ‘snodi’ coincide con un canto (Inf. IV, X, XVII, XXVI, XXXII), ma la zona è più vasta e supera l’ambito dato dalla divisione letterale del poema. A partire da Inf. XVII, 78, il volo in groppa a Gerione verso Malebolge registra, ad avviare il terzo ciclo settenario, la prevalenza dei temi del primo stato.
Il sesto stato o periodo della storia della Chiesa, iniziato con san Francesco e perdurante fino alla sconfitta dell’Anticristo, corrisponde per Olivi ai tempi moderni, nei quali si verifica una palingenesi delle coscienze e un novum saeculum si realizza con la conversione universale di ebrei e gentili. Nel “poema sacro”, la parodia applica questi temi ad altri momenti e soggetti; nell’Inferno tuttavia alla materia esegetica relativa al sesto stato è data una forma incompiuta, perché il nuovo che gli è proprio è sì proposto, ma interrotto se non regredito rispetto al suo fine. Come nel primo ciclo settenario l’apertura della porta della città di Dite, che ne è il culmine, non è vera novità, perché ripetizione di quanto già fatto da Cristo con la porta dell’inferno, così nel secondo ciclo l’episodio di Gerione, fasciato anch’esso dai temi del ‘nuovo’ sesto stato, di questo rappresenta solo l’aspetto falso. La fiera viene su a un “novo cenno” di Virgilio, è paragonata a colui che “torna” dallo sciogliere l’ancora nel fondo del mare, e il tornare è proprio della sesta vittoria (Ap 3, 12). È però figura della frode dalla velenosa coda aculeata. Soprattutto, ha “la faccia … d’uom  giusto”, ma in realtà è “sozza imagine di froda”. La figura di Gerione che viene in su nuotando per l’aere grosso e scuro è “maravigliosa ad ogne cor sicuro” (Inf. XVI, 132), cioè tale da sgomentare anche un animo saldo, e corrisponde all’operare meraviglie da parte del carnefice di fronte al martire tormentato negli ultimi tempi (cfr. prologo, Notabile X). Il portare Dante salvo in groppa al fiero animale da parte di Virgilio, fatto che il maestro ricorderà al discepolo titubante ad entrare nel fuoco (Purg. XXVII, 22-24), corrisponde al significato del nome della sesta chiesa, Filadelfia, interpretata come colei che “salva l’eredità”, cioè il seme evangelico, nella grande tentazione. Non è vera “novità”, nel terzo ciclo, il “mutare e trasmutare” della “settima zavorra” (Inf. XXV, 142-144), cioè dei ladri incapaci di mantenere la forma di uomo, quella più conforme a Cristo, regredendo allo stato bestiale, alla natura e alla forma del serpente creato prima dell’uomo. Il vero e santo sesto stato corrisponde al sesto giorno della creazione, in cui vennero creati prima i rettili e le bestie irrazionali, poi l’uomo che, come l’ordine evangelico, è fatto a immagine e somiglianza di Dio e domina tutti gli animali. Meglio si presenta Anteo, nel quarto ciclo, prefigurazione di Scipione a Zama, a sua volta antica figura della grande guerra del sesto stato (Inf. XXXI, 115ss.); ma è pur sempre un gigante che, sciolto, incute terrore. Sola vera ‘novità’, a conclusione della prima cantica, è il passaggio del centro della terra, con la conversione di Virgilio sull’anca di Lucifero (Inf. XXXIV, 79, 110-111): segna il passaggio, dopo le cinque età del mondo percorse nell’Antico Testamento, alla sesta età, quella della Chiesa, descritta nel Purgatorio.
Parlare di cicli settenari che si succedono nel poema comporterebbe in essi una zona dedicata al settimo stato; nell’Inferno, pur in presenza di temi propri dell’ultimo periodo della storia umana, non si registra alcun ambito specifico: sulla questione cfr. infra.
Nell’esame dei precedenti canti del secondo ciclo è stato sempre condotto un confronto con i canti del primo ciclo corrispondenti per zona tematica, mostrando come la medesima è soggetta a multiformi variazioni: XII-V (secondo stato); XIII-VI (terzo stato); XIV-VII (quarto stato); XV/XVI-VII/VIII/IX (quinto stato, che sfocia nel sesto). Inf. XVII, secondo degli snodi, richiederebbe un confronto con Inf. X, il primo di essi. Tuttavia i due canti-snodi procedono in modo autonomo nella scelta dei motivi da variare; raramente questi conducono in entrambi alla medesima esegesi. Il caso più significativo è la materia offerta dall’istruzione data a Efeso, la prima delle sette chiese d’Asia (Ap 2, 1-7; uno ‘snodo’ segna anche l’inizio del successivo ciclo settenario, per cui è normale che vengano considerati temi del primo stato): in Inf. XVII l’esegesi è ampiamente presente con il volo su Gerione (Ap 2, 1-5; rilevante è il confronto con Inf. I, 28-43, 55-61
); è invece limitata in Inf. X ad alcuni punti, per altro di rilievo, dell’episodio di Farinata e Cavalcante (Inf. X, 47, 63; Ap 2, 5).

 

1. La maglia apocalittica della “fiera pessima”

Gerione che ascende al nuovo segno dato dalla corda gettata dall’alto da Virgilio (Inf. XVI, 121), come pure il suo venire a proda al cenno del poeta pagano (Inf. XVII, 5, 7-8), dà forma al tema, da Ap 3, 9, del ‘far venire’ coloro che, nella sinagoga di Satana, si dicono Giudei ma mentiscono perché non lo sono, i quali saranno convertiti alla fede e sottoposti al magistero del vescovo di Filadelfia. La facoltà di parlare data al sesto vescovo (Ap 3, 8: l’apertura della porta è anche apertura dell’ostium sermonis, ovvero rimozione della precedente imposizione di tacere) si traspone nel non poter il poeta tacere la cosa meravigliosa, mentre il giurare proprio dell’angelo della sesta tromba (Ap 10, 5-7) passa nel giurare da parte del poeta “per le note di questa comedìa” (Inf. XVI, 124-129). Portare Dante salvo in groppa al fiero animale da parte di Virgilio, fatto che il maestro ricorda al discepolo titubante a entrare nel fuoco che purga (Purg. XXVII, 22-24), corrisponde al significato del nome della sesta chiesa, Filadelfia, interpretata come quella che “salva l’eredità”, cioè il seme evangelico, nella grande tentazione [1].

Gerione, la “bestia” che viene “notando … in suso” dall’abisso (parodia dell’olio che designa il senso anagogico della Scrittura,“suave et omnibus ceteris liquoribus superenatans”: Ap 6, 6), “maravigliosa ad ogne cor sicuro” (Inf. XVI, 121-123, 130-136; la similitudine al v. 136 è anch’essa parodia della Scrittura, la cui interpretazione è ora estesa ora cortata: prologo, Notabile XI), si apparenta con la bestia che ad Ap 13, 1 sale dal mare (citato nella similitudine), e suscita meraviglia nelle genti a motivo della sua testa che sembrava uccisa ma poi rivive, esegesi ricca di temi per altre importanti variazioni (Ap 13, 3). Nella quarta visione, tutto l’impeto della descrizione è diretto verso quella grande guerra del sesto tempo che la bestia condurrà per mezzo di questa testa. L’espressione dell’esegesi “intorqueri ad bestiam a quarto tempore usque ad finem ecclesie consurgentem” passa nelle parole di Virgilio: “Or convien che si torca / la nostra via un poco insino a quella / bestia malvagia che colà si corca” (Inf. XVII, 28-30).
La figura della bestia che viene in su nuotando per l’“aere grosso e scuro” (Ap 9, 1-2), è “maravigliosa ad ogne cor sicuro” (Inf. XVI, 132), cioè tale da sgomentare anche un animo saldo, e corrisponde all’operare meraviglie da parte dei carnefici dell’Anticristo di fronte al martire tormentato negli ultimi tempi (prologo, Notabile X). La sicurezza interiore è un tema precipuo dei martiri, proposto alla seconda chiesa ad Ap 2, 11, contrapposto alla tristezza del cuore atterrito dalla “seconda morte” (cfr. anche Ap 6, 11).

Al momento in cui la sesta coppa viene versata, Giovanni vede “tre spiriti immondi al modo delle rane”. Si tratta di “spiriti di demoni che operano segni e che vanno a radunare i re di tutta la terra per la guerra del gran giorno di Dio onnipotente” (Ap 16, 13-14). Questi tre spiriti designano sia le suggestioni astute, sottili e quasi spirituali che i demoni inducono e suggeriscono, direttamente o per la bocca di uomini maligni, sia alcuni uomini astuti e fraudolenti i quali, nunzi e ambasciatori dell’Anticristo, vanno a radunare i re affinché corrano in guerra contro Babylon, la Chiesa carnale. In quanto tre, e uscenti concordemente da tre bocche (del drago, della bestia e del falso profeta), i tre spiriti immondi simili a rane rappresentano una trinità pessima opposta a quella santa delle persone divine e delle loro virtù.
Gerione è “fiera pessima” e triplice (“pessima” è hapax nel poema), nella quale sono accomunati tre corpi: d’uomo nella faccia, di serpente nel tronco e nella coda (assimilata a quella dello scorpione), di leone (o drago) nelle zampe artigliate. Come i tre spiriti immondi si preparano alla guerra contro Babylon, così Gerione si presenta come il “bivero”, il castoro che “tra li Tedeschi lurchi … s’assetta a far sua guerra” ai pesci (Inf. XVII, 21-24).

L’aggrovigliarsi dei nodi, proprio degli argomenti dolosi dei predicatori dell’Anticristo che mostrano un aspetto innocente, si trasforma nei “nodi” e nelle “rotelle” di cui Gerione ha dipinto il dorso, il petto e i fianchi: la fiera, “sozza imagine di froda”, ha la faccia di uomo giusto con pelle di fuori benigna (Inf. XVII, 10-15; Ap 5, 5). Groviglio richiamato dalla corda “aggroppata e ravvolta” porta da Dante a Virgilio e che questi getta nell’“alto burrato” verso Malebolge per far salire in su Gerione (Inf. XVI, 106-111), del quale è archetipo il Falsembiante che altrui ‘aviluppa’. Si rispecchia infatti nel poema, armato con l’esegesi della Lectura oliviana, il verbo ‘aviluppare’ presente in Fiore XCII, 2 (“Color con cuï sto sì ànno il mondo / Sotto da lor sì forte aviluppato”). La similitudine a Inf. XVII, 16-18 – “Con più color, sommesse e sovraposte / non fer mai drappi Tartari né Turchi, /né fuor tai tele per Aragne imposte” – elabora temi da Ap 12, 6, ancora parodiando la Scrittura che Dio ha colorato diversamente nei due Testamenti (le “tele”) e la vita di Cristo imposta nel Vangelo (prologo, Notabile VII; Ap 6, 12).

L’avviluppare di Gerione è incastonato in una vasta elaborazione dei temi della quinta tromba. Alle locuste, che escono dal pozzo dell’abisso, è dato il potere di nuocere come gli scorpioni (Ap 9, 3). Lo scorpione è blando nella faccia (ad Ap 9, 7 si dice pure che le locuste hanno la faccia umana, cioè si fingono umane e modeste e paiono fare tutto razionalmente; tema appropriato a Firenze a Purg. VI, 137), ha le braccia aperte all’amplesso ma con la coda punge e infonde il suo veleno. Così gli ipocriti, mentre blandiscono esteriormente e anteriormente, realizzano infine da dietro le loro maliziose intenzioni estorcendo i beni temporali, soddisfacendo lussurie e lascivie con quanti si congiungono e infondendo i propri pravi costumi. Esempio dell’“arte musaica” di legar parole, della quale Dante scrive nel Convivio (IV, vi, 3-4), dalle locuste il mostro infernale deriva la faccia d’uomo giusto, le “branche” (cioè le zampe, che però concordano nel suono con “brachia”, cioè con le chele degli scorpioni) e la coda con la velenosa forca a guisa di scorpione. Altri motivi presenti in Gerione derivano da Ap 9, 19 (sesta tromba), dove si parla delle code dei cavalli simili a serpenti che hanno teste (gli pseudoprofeti). Gerione viene su nuotando “per quell’ aere grosso e scuro”, tema della quinta tromba (Ap 9, 2).

 

[1] Gerione approda “vicino al fin d’i passeggiati marmi” (Inf. XVII, 6). Il verbo ‘passeggiare’, che nell’esegesi appartiene alla descrizione della Gerusalemme celeste (settima visione, Ap 21, 24), sarà usato, oltre che in altri luoghi, nell’Empireo (Par. XXXI, 46). I marmi sono una delle merci che hanno arricchito Babylon, ora rimpiante dopo la sua distruzione (Ap 18, 12); secondo Gioacchino da Fiore designano, con il bronzo e il ferro, gli “exercitia corporalia”, cioè le cose destinate all’uso quotidiano.

 

Tab. I

[LSA, cap. V, Ap 5, 5 (radix IIe visionis)] Attamen hec revelatio et fletus Iohannis potius respicit illa tempora in quibus, propter pressuras heresum et terrores imminentium periculorum, et propter nescientiam rationis seu rationabilis permissionis talium pressurarum et periculorum <et> iudiciorum, flent et suspirant sancti pro apertione libri, quantum ad illa precipue que pro illo tempore magis expedit eos scire. Hoc autem potissime spectat ad triplex tempus. […]
Tertio ad tempus Antichristi seu ad tempus aliquantulum precedens plenam apertionem sexti signaculi. Tunc enim erunt mire perplexitates conscientie in electis ita ut, teste Christo, fere in errorem ducantur (cfr. Mt 24, 24). Unde Gregorius, Moralium XXXII° super illud Iob: “Nervi testiculorum eius perplexi sunt” (Jb 40, 12) dicit hoc ideo dici, «quia argumenta predicatorum Antichristi dolosis assertionibus innodantur ut alligationum implicatio, quasi nervorum perplexitas, etsi videri possit, solvi non possit. Plerumque autem cum corda verbis inficiunt, in opere innocentiam ostendunt, neque enim aliter ad se traherent bonos»*.

* S. Gregorii Magni Moralia in Iob, libri XXIII-XXXV (CCSL, CXLIII B), lib. XXXII, cap. XVI, 5-14 (n. 28), p. 1651 (= PL 76, col. 653 B-C).

Inf. X, 94-96, 112-114; XI, 91-96

“Deh, se riposi mai vostra semenza”,
prega’ io lui, “solvetemi quel nodo
che qui ha ’nviluppata mia sentenza.

e s’i’ fui, dianzi, a la risposta muto,
fate i saper che ’l fei perché pensava
già ne l’error che m’avete soluto”.

“O sol che sani ogne vista turbata,
tu mi contenti sì quando tu solvi,
che, non men che saver, dubbiar m’aggrata.
Ancora in dietro un poco ti rivolvi”,
diss’ io, “là dove di’ ch’usura offende
la divina bontade, e ’l groppo solvi”.

Inf. XIII, 4-6

Non fronda verde, ma di color fosco;
non rami schietti, ma nodosi e ’nvolti;
non pomi v’eran, ma stecchi con tòsco.

Inf. XV, 109-114; XVI, 106-111, 130-131

Priscian sen va con quella turba grama,
e Francesco d’Accorso anche; e vedervi,
s’avessi avuto di tal tigna brama,
colui potei che dal servo de’ servi
fu trasmutato d’Arno in Bacchiglione,
dove lasciò li mal protesi nervi.

Io avea una corda intorno cinta,
e con essa pensai alcuna volta
prender la lonza a la pelle dipinta.
Poscia ch’io l’ebbi tutta da me sciolta,
sì come ’l duca m’avea comandato,
porsila a lui aggroppata e ravvolta.

ch’i’ vidi per quell’ aere grosso e scuro
venir notando una figura in suso

[LSA, cap. IX, Ap 9, 2 (IIIa visio, Va tuba)] Secundo tangitur gravitas mali de aperto iam puteo exeuntis, cum ait: “et ascendit fumus putei sicut fumus fornacis magne, et obscuratus est <sol et> aer de fumo putei” (Ap 9, 2). Fumus iste est omne extrinsecum malum opus et signum de cordali flamma luxurie et avaritie et superbie et ire et invidie et  malitiose astutie procedens. Et quanto iste fumus est maior et gro<ss>ior et de maiori ac peiori flamma exiens, tanto plus pungit et confundit oculos intuentium, et tanto plus non solum coram fidelibus sed etiam coram infidelibus diffamat et obscurat solarem claritatem fidei et ecclesie et religionis perducentis ad cultum veri solis Christi, sicut aer sua perspicuitate perducit nostrum visum ad solem et radios solis usque ad oculum nostrum. Vel per hoc designatur quod multi prelati ecclesiarum et religionum, qui prius erant quasi sol, et multi spirituales, qui prius erant quasi aer purus a sole illuminatus, corrumpuntur et denigrantur a fumo tante laxationis.

[LSA, cap. IX, Ap 9, 3.7 (IIIa visio, Va tuba] Quarto describit potestatem nocendi eis a Deo permissam et cohibitionem ipsius ab aliquibus non permissis, unde subdit: “et data est illis potestas”, scilicet nocendi, “sicut habent potestatem scorpiones terre” (Ap 9, 3). Scorpio apparet facie blandus et quasi brachiis ad amplexandum expansis, sed cauda retro pungit et nocet suum toxicum infundendo. Sic prefati ypocrite cum quodam exteriori et anteriori blandimento et favore explent finaliter suas malitiosas intentiones sive temporalia extorquendo, sive suas luxurias seu lascivias cum hiis quibus se iungunt implendo, sive suos pravos mores eis quasi infundendo. […]
Pro tertia (mala proprietate locustarum) dicit: “Et facies earum sicut facies hominum” (Ap 9, 7), quia fingunt se humanos et modestos et se cuncta secun-dum rationem agere.

Purg. VI, 136-138

Or ti fa lieta, ché tu hai ben onde:
tu ricca, tu con pace e tu con senno!
S’io dico ’l ver, l’effetto nol nasconde.

 

Inf. XVII, 7-15, 25-27

E quella sozza imagine di froda
sen venne, e arrivò la testa e ’l busto,
ma ’n su la riva non trasse la coda.
La faccia sua era faccia d’uom giusto,
tanto benigna avea di fuor la pelle,
e d’un serpente tutto l’altro fusto;
due branche avea pilose insin l’ascelle;
lo dosso e ’l petto e ambedue le coste
dipinti avea di nodi e di rotelle.

Nel vano tutta sua coda guizzava,
torcendo in sù la venenosa forca
ch’a guisa di scorpion la punta armava.

Tresor, I 192: manticores … a face d’om … cors de lyon, coue d’escorpion

 

[LSA, cap. IX, Ap 9, 19 (IIIa visio, VIa tuba)] “Potestas enim equorum in ore eorum est” (Ap 9, 19), scilicet quoad tria predicta, “et in caudis eorum; nam caude eorum similes serpentibus habentes capita, et in hiis nocent”. Leo palam sevit, serpens vero occultis insidiis ferit et feriendo suum occultum venenum infundit; sic etiam os in facie se aperte ingerit, cauda vero post tergum latet. In leonino igitur capite et ore equorum designatur temptatio aperta et violenta, in cauda vero serpentina temptatio latens et fraudulenta. Secundum enim Ioachim, minantur mortem ut tormentis penarum possint etiam constantes milites frangere; secreto autem blandiuntur et negantibus fidem promittunt felicem vitam, ut sic frangant eos quos nequeunt superare tormentis*.
Per caudas etiam equorum possunt intelligi pseudoprophete, qui per ypocrisim et per mendacia signa cooperiunt et apparenter adornant pudibundum anum bestialium turbarum, iuxta illud Isaie IX°: “Propheta docens mendacium, ipse est cauda” (Is 9, 15). Et secundum hoc possunt distingui pseudoprophete ab equitibus, ut per equites intelligantur sapientes qui plus insistunt philosophice et humane rationi et qui ceteris honorabilius presunt; pseudoprophete plus insistunt ypocritali humilitati et austeritati et aliorum quasi spiritali famulatui et falsis miraculis.
Secundum Ricardum, caudas habent habentes capita quia in cunctis se ostendunt habere rationabilem finem et caput, id est rationabile initium. Cauda enim est finis equi, caput vero est eius initium*. […]
Nota etiam quod respectu primi modi possunt per ignem et fumum et sulphur intelligi falsa miracula, quibus quasi loricis se armabunt et per que quasi sagittis igneis alios occident.

* Expositio, pars III, f. 135vb.   * In Ap III, vii (PL 196, col. 788 A-B).

Inf. XXIV, 94-99

con serpi le man dietro avean legate;
quelle ficcavan per le ren la coda
e ’l capo, ed eran dinanzi aggroppate.
Ed ecco a un ch’era da nostra proda,
s’avventò un serpente che ’l trafisse
là dove ’l collo a le spalle s’annoda.   5, 5

Inf. XXI, 136-139; XXII, 10-12

Per l’argine sinistro volta dienno;
ma prima avea ciascun la lingua stretta
coi denti, verso lor duca, per cenno;
ed elli avea del cul fatto trombetta.

né già con sì diversa cennamella
cavalier vidi muover né pedoni,
né nave a segno di terra o di stella.


2. Le corazze degli pseudoprofeti

Il tema della corazza appartiene sia alle locuste, di cui costituisce la sesta proprietà (Ap 9, 9), sia ai cavalieri (gli pseudoprofeti) che nell’esegesi della sesta tromba stanno sui cavalli dalle teste di leone (Ap 9, 17). In entrambi i casi, la corazza indica l’ostinazione, la pertinacia e l’impenetrabilità da parte delle saette dell’eloquio divino che rimprovera e invita alla penitenza. Ad Ap 9, 17 Olivi segue l’interpretazione di Gioacchino da Fiore, secondo il quale le corazze hanno tre colori: sono di fuoco (per l’ira), di zolfo (per la lussuria), di giacinto (per l’ipocrisia). Sono portate dai cavalieri che siedono, “sessores” dell’Anticristo e suoi falsi profeti. Nel suo breve stare tra gli usurai prima di salire in groppa a Gerione (Inf. XVII, 34-78), Dante vede tre dannati ai quali pende dal collo una tasca, o borsa, o sacchetto con un determinato colore corrispondente all’arme di famiglia. La prima ha un leone azzurro in campo giallo (i Gianfigliazzi; “d’un leone avea faccia” è da confrontare con “Leo palam sevit … sic etiam os in facie se aperte ingerit” di Ap 9, 19); la seconda un’oca bianca in campo rosso (gli Obriachi); la terza una scrofa azzurra in campo bianco (gli Scrovegni). Con l’eccezione del bianco, si tratta dei colori delle corazze. Il bianco rinvia ad altri passi dell’Apocalisse: è il colore di Cristo il quale, all’apertura del primo sigillo, esce vittorioso in campo su un cavallo bianco (Ap 6, 2); come pure dei cavalli e dei cavalieri del suo esercito nella battaglia finale descritta ad Ap 19, 14; la figura bianca in campo rosso può anche ironicamente alludere a coloro che hanno reso bianche le proprie stole lavandole nel sangue dell’Agnello, cioè nella mortificazione e nel martirio, e che si trovano di fronte al trono di Dio ad Ap 7, 14-15. Come gli pseudoprofeti sono “sessores”, così gli usurai siedono “in su la rena” (tema della quinta guerra, ad Ap 12, 18) vicino al burrone. Il padovano che parla a Dante ha un linguaggio pieno di risentimento sia nei confronti degli altri due fiorentini sia nel denunziare al poeta il prossimo arrivo del suo concittadino Vitaliano del Dente (che corrisponde allo zelo amaro dei cavalieri e al loro parlare senza freno, “letabunde et inhianter”, cioè a bocca aperta, cui è riconducibile anche il distorcere la bocca e il trarre fuori la lingua) [1]; Gianni Buiamonti, atteso dagli usurai fiorentini, è inoltre lui stesso “cavalier sovrano”. La “tasca / ch’avea certo colore e certo segno” è il cartiglio che ad Ap 13, 17 i seguaci dell’Anticristo recano sulla fronte o in mano in segno certo di professione della sua setta, di venerazione della sua persona e di rispetto della sua legge.
L’“os”, cioè l’ “effrenata locutio … que quidem per sevitiam ire est ignea, et per confusam et tumultuosam obscurationem veritatis et sanctitatis christiani cultus est fumus …”, è quella del gigante Nembrot dalla “fiera bocca” toccata dall’“ira o altra passïon … anima confusa”, come gli dice Virgilio (Inf. XXXI, 67-75).

Dante vede tre usurai in attesa di altri due (il padovano Vitaliano del Dente e “’l cavalier sovrano”, cioè il fiorentino Gianni Buiamonti). Il rapporto numerico tra due e tre è proprio degli spiriti immondi simili a rane di Ap 16, 12-14 (che sono tre, ma inviati dalle due teste delle quali il drago è il primo motore; i temi che li riguardano si registrano già con Gerione a Inf. XVII, 22-23). I tre spiriti, dice Olivi, sono nunzi e “corretarii Antichristi”, cioè aiutanti del grande usuraio. Questo rapporto numerico si ritroverà nelle anime che morirono di morte violenta e che si pentirono all’ultima ora meritando di aspettare nel secondo balzo della montagna prima della porta del purgatorio. Due di loro corrono incontro ai poeti “in forma di messaggi”, cioè di nunzi, per chiedere della loro condizione (Purg. V, 28-30), ma poi sono in tre a parlare: Iacopo del Cassero, Buonconte da Montefeltro e la Pia. In questo caso l’esegesi è variata in senso positivo.

■ In una zona segnata dai temi del sesto stato, che anzi concludono il secondo ciclo settenario della prima cantica, non mancano motivi propri del periodo precedente, il “condescensivo” quinto (vv. 31, 33, 35, 36: scendemmo, rena, seder propinqua; sul discendere verso destra cfr. la specifica trattazione), nonché degli altri stati: II (vv. 32, 38, 42: diece passi; porti; omeri); III (vv. 38, 40: esperienza, ragionamenti); IV (vv. 48-49: caldo, di state); V (v. 51: pulci); VII (vv. 40, 43, 44: corti, strema, settimo).

 

[1] “Qui distorse la bocca” (v. 74). Che si tratti di bocca e non di faccia si desume dal confronto con i versi, coincidenti nel numero delle terzine (23a-25a) e riferiti alla medesima esegesi (Ap 9, 17), relativi al gigante Nembrot (Inf. XXXI, 67-75). Lo Scrovegni non rivolge necessariamente il viso agli altri usurai forentini per indirizzare loro l’atto di scherno (Inglese); parla “effrenate et impudenter … letabunde et inhianter”, gode cioè di quanto dice irridendo. La similitudine – “come bue che ’l naso lecchi” – non va riferita solo a “e di fuor trasse la lingua”, ma anche al precedente distorcere la bocca. Torcere è tema da Ap 6, 5 (apertura del terzo sigillo), che segna già Ciacco (“Li diritti occhi torse allora in biechi”; Inf. VI, 91), sarà oggetto di variazioni nella bolgia dei simoniaci (Inf. XIX, 27, 36, 64) e altrove: nell’esegesi designa l’interpretazione stravolta (“intorta”) della Scrittura.

 

Tab. II

[LSA, cap. IX, Ap 9, 17 (IIIa visio, VIa tuba)] “Et qui sedebant super equos habebant loricas igneas et sulphureas et iacinctinas” (Ap 9, 17). Per loricam designatur pertinax et impenetrabilis defensio et obstinatio. Et secundum Ioachim, per igneam designatur fervens ira, per sulphuream autem fetens luxuria, per iacinctinam vero, que est coloris celestis seu etherei, designatur ypocrisis simulans se celestem et celestium contemplatricem. Hiis enim tribus teguntur sessores pseudoprophete, ne sagittis et spiculis verborum Dei possint transfigi. Ira enim et zelus eius amarus non permittit eos cernere verum, nec etiam rationem et iustitiam audire, immo nec tolerare quod in aliquo dissentiatur ab eis. Luxuria vero sic facit eos estimare vitam carnalem et opulentam esse felicem quod contrariam, quantumcumque castam et sanctam, derident ut miseram et stolidam. Ypocritalis vero cultus et sapientia divinorum reliqua omnia eis operit et adornat, ut totum videatur esse divinum*.
Item pro quanto potestas eorum contra ecclesiam et ecclesie ab eis oppressio videbitur esse iusta et a Deo data, pro tanto habebunt loricam iacinctinam; pro quanto autem erit efficax contra ecclesiam sicut ignis est contra stupam, et pro quanto secta eorum apparebit luce rationis munita, pro tanto habebunt loricam igneam; pro quanto etiam eorum carnalitas apparebit rationabiliter necessaria vel utilis corpori et humane infirmitati et aliquibus exercitiis virtutum, pro tanto habebunt loricam sulphuream. Nota etiam quod sulphurea additur ad monstrandum inexcusabilitatem credentium talibus et ad monstrandum electis unum evidens signum et hostium pravitatis istorum.

[LSA, cap. XIII, Ap 13, 15-17 (IVa visio, VIum prelium)] “Et faciet”, scilicet secunda bestia pseudo-prophetarum, “et quicumque non adoraverit imaginem bestie occidetur”, quasi dicat: non solum signis et rationibus et promissionibus facient Antichristum et eius imaginem adorari, sed etiam terribilibus statutis et penis, et hinc est quod facient sanctos occidi.
Ut autem omnes fortius cogantur Antichristum et eius sectam sequi, et ne aliquis possit inter gentes latere, idcirco subduntur alia duo que bestia pseudoprophetarum faciet. Pro primo dicitur: “Et faciet omnes, pusillos et magnos et divites et pauperes et liberos et servos, habere caracterem in dextera manu aut in frontibus suis” (Ap 13, 16).
Pro secundo  autem subditur: “et ne quis possit emere aut vendere, nisi habeat caracterem aut nomen bestie aut numerum nominis eius” (Ap 13, 17). Secundum Ioachim, caracter iste erit aliqua cedula habens in se scriptum aliquid de lege seu preceptis Antichristi, vel forte aliquam figuram statutam in signum professionis et sequele fidei eius, quam aliqui ad maiorem venerationem Antichristi circumponent frontibus suis, alii vero portabunt eam in manu quandocumque habebunt aliquid emere vel vendere. Qui autem non habebit cedulam tali caractere figuratam oportet quod habeat aliam in qua scriptum sit nomen Antichristi aut numerus nominis eius, id est littere numerales nominis eius, vel alie significantes eundem numerum**.
Intelligitur etiam in predictis quod nullus poterit “vendere”, id est predicare vel docere, nec “emere”, id est audire vel addiscere, nec aliquod sollempne officium agere, nisi sit apertus sectator et discipulus Antichristi et quod hoc per signa certa pateat.

[LSA, cap. IX, Ap 9, 17 (IIIa visio, VIa tuba)]Et capita equorum erant quasi capita leonum” (Ap 9, 17), id est animosa et impavida et ferocia et fortissima ad insiliendum et devorandum.
“Et de ore ipsorum procedit ignis et fumus et sulphur”. Per os equorum signatur effrenata locutio turbarum contra ecclesiam, que quidem per sevitiam ire est ignea, et per confusam et tumultuosam obscurationem veritatis et sanctitatis christiani cultus est fumus, per sui vero carnalitatem est sulphur. Nam de carnalibus effrenate et impudenter loquuntur et carnalia letabunde et inhianter laudant.

* Expositio, pars III, f. 135 ra-b (citazione libera).

** Ibid., pars IV, distinctio IV, ff. 168va-b, 169rb.

 Inf. XVII, 34-36, 43-45, 52-75

E quando noi a lei venuti semo,
poco più oltre veggio in su la rena
gente seder propinqua al loco scemo.

Così ancor su per la strema testa
di quel settimo cerchio tutto solo
andai, dove sedea la gente mesta.

Poi che nel viso a certi li occhi porsi,
ne’ quali ’l doloroso foco casca,
non ne conobbi alcun; ma io m’accorsi
che dal collo a ciascun pendea una tasca
ch’avea certo colore e certo segno,
e quindi par che ’l loro occhio si pasca.
E com’ io riguardando tra lor vegno,
in una borsa gialla  vidi azzurro
che d’un leone avea faccia e contegno.

Poi, procedendo di mio sguardo il curro,
vidine un’altra come sangue rossa,
mostrando un’oca bianca più che burro.
E un che d’una scrofa azzurra e grossa
segnato avea lo suo sacchetto bianco,
mi disse: “Che fai tu in questa fossa?
Or te ne va; e perché se’ vivo anco,
sappi che ’l mio vicin Vitalïano
sederà qui dal mio sinistro fianco.
Con questi Fiorentin son padoano:
spesse fïate mi ’ntronan li orecchi
gridando: ‘Vegna il cavalier sovrano,
che recherà la tasca con tre becchi!’”.
Qui distorse la bocca e di fuor trasse
la lingua, come bue che ’l naso lecchi.

Inf. XXVII, 49-51

Le città di Lamone e di Santerno
conduce il lïoncel dal nido bianco,
che muta parte da la state al verno.

Inf. XXXI, 67-75

Raphèl maì amècche zabì almi ”,
cominciò a gridar la fiera bocca,
cui non si convenia più dolci salmi.
E ’l duca mio ver’ lui: “Anima sciocca,
tienti col corno, e con quel ti disfoga
quand’ ira o altra passïon ti tocca!
Cércati al collo, e troverai la soga
che ’l tien legato, o anima confusa,
e vedi lui che ’l gran petto ti doga”.

[LSA, cap. IX, Ap 9, 19] Leo palam sevit, serpens vero occultis insidiis ferit et feriendo suum occultum venenum infundit; sic etiam os in facie se aperte ingerit, cauda vero post tergum latet. In leonino igitur capite et ore equorum designatur temptatio aperta et violenta, in cauda vero serpentina temptatio latens et fraudulenta.

[LSA, cap. VI, Ap 6, 2 (IIa visio, apertio Ii sigilli)] In prima autem apertione apparet Christus resuscitatus sedens in equo albo, id est in suo corpore glorioso et in primitiva ecclesia per regenerationis gratiam dealbata et per lucem resurrectionis Christi irradiata, in qua Christus sedens exivit in campum totius orbis non quasi pavidus aut infirmus, sed cum summa magnanimitate et insuperabili virtute. Nam suos apostolos deduxit in mundum quasi leones animosissimos et ad mirabilia facienda poten-tissimos, et “habebat” in eis “archum” predicationis valide ad corda sagittanda et penetranda. […] “Et exivit vincens ut vinceret”, id est, secundum Ricardum, vincens quos de Iudeis elegit ipsos convertendo ut per eosdem vinceret, id est converteret gentiles quos predestinaverat*.
Vel per hoc designatur quod, quando exivit ut mundum vinceret, apparuit in ipso exitu totus victoriosus et ac si iam totus vicisset.

* In Ap II, iv (PL 196, col. 762 B-C).

Inf. XVII, 67-75

Or te ne va; e perché se’ vivo anco,
sappi che ’l mio vicin Vitalïano
sederà qui dal mio sinistro fianco.
Con questi Fiorentin son padoano:
spesse fïate mi ’ntronan li orecchi
gridando: ‘Vegna il cavalier sovrano,
che recherà la tasca con tre becchi!’”.
Qui distorse la bocca e di fuor trasse
la lingua, come bue che ’l naso lecchi.

Inf. XXXI, 67-75

Raphèl maì amècche zabì almi ”,
cominciò a gridar la fiera bocca,
cui non si convenia più dolci salmi.
E ’l duca mio ver’ lui: “Anima sciocca,
tienti col corno, e con quel ti disfoga
quand’ ira o altra passïon ti tocca!
Cércati al collo, e troverai la soga
che ’l tien legato, o anima confusa,
e vedi lui che ’l gran petto ti doga”.

[LSA, cap. IX, Ap 9, 17 (IIIa visio, VIa tuba)] “Et qui sedebant super equos habebant loricas igneas et sulphureas et iacinctinas” (Ap 9, 17). […] “Et de ore ipsorum procedit ignis et fumus et sulphur”. Per os equorum signatur effrenata locutio turbarum contra ecclesiam, que quidem per sevitiam ire est ignea, et per confusam et tumultuosam obscurationem veritatis et sanctitatis christiani cultus est fumus, per sui vero carnalitatem est sulphur. Nam de carnalibus effrenate et impudenter loquuntur et carnalia letabunde et inhianter laudant.

[LSA, cap. VI, Ap 6, 5 (IIa visio, apertio IIIii sigilli)] “Et cum aperuisset sigillum tertium, audivi tertium animal” (Ap 6, 5), scilicet quod habebat faciem hominis, “dicens: Veni”, scilicet per maiorem attentionem vel per imitationem fidei doctorum hic per hominem designatorum, “et vide. Et ecce equus niger”, id est hereticorum et precipue arrianorum exercitus astutia fallaci obscurus et erroribus luci Christi contrariis denigratus. “Et qui sedebat super eum”, scilicet imperatores et episcopi arriani, “habebat stateram in manu sua”. Cum statera mensuratur quantitas ponderum, et ideo per stateram designatur hic mensuratio articulorum fidei, que quando fit per rectam et infallibilem regulam Christi et scripturarum suarum est recta statera, de qua Proverbiorum XVI° dicitur: “Pondus et statera iudicia Domini sunt” (Pro 16, 11), et Ecclesiastici XXI°: “Verba prudentium statera ponderabuntur” (Ecli 21, 28); quando vero fit per rationem erroneam et per falsam et intortam acceptionem scripture est statera dolosa, de qua Proverbiorum XI° dicitur: “Statera dolosa abhominatio est apud Deum” (Pro 11, 1), et in Psalmo: “Mendaces filii hominum in stateris” (Ps 61, 10), et Michee VI°: “Numquid iustificabo stateram impiam et sac<c>elli pondera dolosa” (Mic 6, 11).


3. Il lento volo nel baratro

La discesa per gradi dal vertice della perfezione al fondo, con la conseguente necessità di risalire alla carità originaria, a poco a poco venuta meno, è uno dei temi più importanti dell’istruzione data a Efeso, la prima e la metropolita delle sette chiese d’Asia, di cui tratta la prima visione (Ap 2, 5). Il tema, attorno al quale ruota una rosa ricca di motivi, si presta a molteplici variazioni nel poema, in primo luogo con il dare un senso spirituale all’andamento del viaggio. Nella prima parte dell’istruzione data alla chiesa di Efeso, Olivi utilizza il De eruditione hominis interioris (opera citata come Super Danielem) di Riccardo di San Vittore. Ivi si adduce l’esempio della statua sognata da Nabucodonosor, che discendeva di grado in grado dall’oro all’argento al rame al ferro e infine alla terracotta (Dn 2, 31-36). L’oro del capo indica il fulgido e fervido desiderio delle cose celesti, l’argento del petto e delle braccia la certezza del retto consiglio e il retto operare, le membra di rame la simulazione, quelle di ferro l’indignazione, quelle di terracotta la fiacchezza dissoluta. L’oro designa pure la devozione, l’argento la discrezione. Nelle virtù, come si sale per gradi al culmine, così si discende a poco a poco dal più alto all’infimo livello. Nessuno diviene turpe immediatamente, ma scivolando a poco a poco a partire dalla minima negligenza iniziale. Lo si può vedere in quanti sono all’inizio della conversione gioiosi di speranza, pazienti nella tribolazione, solleciti nell’operare, studiosi nella lettura, devoti nella preghiera, aurei per la carità, e che poi nel tempo della tentazione si tirano indietro, non però subito sprofondandosi ma cadendo prima dal bene in un bene minore e di qui nel male e infine nel peggio, secondo quanto si dice in Giobbe 14, 18-19: “un monte che cade scivola a poco a poco e la terra viene consumata dall’alluvione”.
La discesa per gradi, perdendo a poco a poco la carità per poi ritrovarla risalendo, sempre per gradi (cardine dell’esposizione di Riccardo su Daniele), è il tema che dà il movimento al viaggio, che si svolge prima “giù per lo mondo sanza fine amaro”, poi “salendo e rigirando la montagna / che drizza voi che ’l mondo fece torti” e infine “per lo ciel, di lume in lume” (Par. XVII, 112-115; Purg. XXIII, 125-126). Numerosi sono i luoghi del poema cuciti sul medesimo panno esegetico, dal tornare indietro di Dante impedito dalla lonza e dalla lupa, e poi rinunciatario nel fare il  viaggio, a Minosse, al pauroso volo in groppa a Gerione; dal Veglio di Creta ai gradini della scala d’oro discesa da Pier Damiani nel cielo di Saturno. L’esegesi di Riccardo di San Vittore, fatta propria dall’Olivi, segna anche il discendere per gradi nell’eloquio e negli stili, che acquista così un afflato cosmico e di storia universale nel viaggio concesso dalla Provvidenza. Le variazioni sui temi presenti nell’istruzione data al vescovo di Efeso (Ap 2, 1-5), insistenti nel lento e graduale discendere di Gerione, si registrano fin dal primo canto del poema; per questo sono state esaminate nel loro complesso in quella sede, alla quale si rinvia, riproponendo qui solo quanto riguarda Inf. XVII.

Per ordine di Virgilio Gerione si muove e si toglie dal luogo dove stava: «e disse: “Gerïon, moviti omai …”. Come la navicella esce di loco … sì quindi si tolse …» (Inf. XVII, 97, 100, 101), variazione sull’inciso «“et movebo candelabrum tuum de loco suo nisi penitentiam egeris”, id est evellam a me et a fide mea in quo es fundata», cioè sulla traslazione ad altri del candelabro (il primato metropolitano) minacciata al primo vescovo (Ap 2, 5). La bestia va “in dietro in dietro” dalla riva e, quando si sente a suo agio nel muoversi, “là ’v’ era ’l petto, la coda rivolse”, muove questa tesa come anguilla “e con le branche l’aere a sé raccolse” (vv. 101-105): ad essere variato è il tema del respicere retro e del commutare tratto da Luca 9, 62, passo citato nell’esegesi. Come la barca volge la prua dove era la poppa, così Gerione muta il petto per la coda, non però l’oro del capo per l’argento, ma l’argento (il petto, cioè l’apparente giusto operare) per la simulazione rappresentata dalla coda (nell’esegesi, dove è ripresa l’immagine del discendere progressivo della statua vista in sogno da Nabucodonosor, la simulazione è designata con il rame). Dopo questo volgersi, il volo si svolge per gradi, lentamente, al modo della discesa progressiva dalla somma carità del vescovo di Efeso: “le rote larghe e lo scender sia poco” (v. 98), come comanda Virgilio, memore del paulatim defluere di Giobbe 14, 18-19. E la bestia “sen va notando lenta lenta; / rota e discende”, senza che il poeta se ne accorga (vv. 115-117). Dante ha paura, è “timido a lo stoscio”, cioè alla caduta (v. 121). Si tratta di una paura maggiore di quella provata da Fetonte nel momento in cui si accorse di non poter più governare il carro del Sole, o da Icaro nel sentire sciogliersi la cera delle ali fabbricate dal padre (vv. 106-114). Giustamente si deve avere paura della caduta progressiva nel precipizio; il timore è insito nei rimproveri e nelle minacce fatte alla prima chiesa. Al termine della lenta discesa, Dante vede “li gran mali / che s’appressavan da diversi canti” (vv. 124-126), come al vescovo di Efeso viene annunciato, perché ne abbia più terrore, l’imminenza del giudizio divino. Gerione pone i due poeti al fondo come un falcone che “discende lasso onde si move isnello” (vv. 127-130): un’immagine che esplica la parola lapsus, la quale interpreta il nome della prima chiesa, calata dalla sua iniziale sollecitudine come l’uccello dal luogo dove si muove con agilità. Il porsi del falcone in modo “disdegnoso e fello”, lontano dal suo maestro che ha scontentato calando senza preda (vv. 131-132), corrisponde all’indignarsi e adirarsi di chi discende dal bene al male verso coloro ai quali si era prima studiato di piacere e che lo avevano lodato (il falconiere) ma che poi scoprono la sua viltà (l’incapacità del falcone di recare una preda). Discendere dopo essere stato “assai su l’ali” segna anche un passaggio dal contemplativo e alto quarto stato al condescensivo quinto [1].
Gerione, la “bestia” che viene “notando … in suso” dall’abisso (assimilato alla bestia che sale dal mare di Ap 13, 1, come mostra la similitudine in conclusione di Inf. XVI) e discendendo “sen va notando lenta lenta” (Inf. XVI, 131; XVII, 115-116), è parodia del senso anagogico della Scrittura designato dall’olio, “suave et omnibus ceteris liquoribus superenatans”, e dal volo dell’aquila (Ap 6, 6).

Nello scendere con Gerione, Virgilio partecipa della tematica: sta in mezzo come Cristo (v. 82: Ap 2, 1), signore del quale si temono le minacce (vv. 89-90: Ap 2, 1); esamina il male come il vescovo di Efeso (v. 83: Ap 2, 2), al quale è assimilato anche nel sostenere per un fine alto (per cui nell’espressione “ch’altra volta mi sovvenne / ad altro forse … mi sostenne” è da promuovere, come intendeva il Barbi, la lezione alto nel senso di “alto periglio” [cfr. Inf. VIII, 99]; vv. 94-96: Ap 2, 3).
Il medesimo gruppo tematico offerto dall’istruzione al primo vescovo viene utilizzato, oltre che per il volo in groppa a Gerione, anche nella descrizione della discesa lungo il corpo di Lucifero. In entrambi i casi si tratta di uno scendere per gradi fino al fondo: “Omai si scende per sì fatte scale … Attienti ben, ché per cotali scale” (Inf. XVII, 82; XXXIV, 82: da notare la simmetria sulla 28a terzina). In entrambi i casi il male viene evitato e fuggito: “… ch’i’ voglio esser mezzo, / sì che la coda non possa far male … conviensi dipartir da tanto male” (XVII, 83-84; XXXIV, 84), secondo quando viene detto in lode del vescovo di Efeso: “et non potes sustinere malos” (Ap 2, 2, quarto motivo di lode). La discesa lungo il corpo di Lucifero (XXXIV, 70-84) aggiunge altri temi della prima chiesa. Con Dante avvinghiato al collo, Virgilio “prese di tempo e loco poste”: nel fuggire il male esamina le circostanze (tema del quinto motivo di lode). Quando le ali sono abbastanza aperte, il poeta pagano si aggrappa alle coste villose scendendo giù “di vello in vello”. Arrivato all’anca di Lucifero, al punto in cui la coscia si curva e che è anche il centro della terra, Virgilio, “con fatica e con angoscia” (tema del secondo motivo di lode, il travaglio corporale), si capovolge e risale, sempre aggrappato al pelo. Ansima “com’ uom lasso”, dove l’aggettivo, che ripete il motivo della fatica, concorda con il significato del nome della prima chiesa (“lapsus”, ossia “caduta”, e quindi stanchezza rispetto al fervore originario). Non è solo un discendere e quasi un cadere come nel volo verso Malebolge, ma anche un risalire dal fondo verso un cammino che porterà “a riveder le stelle”. Il “punto”, in cui Virgilio si capovolge e inizia la risalita, è tema precipuo del sesto stato E segna il passaggio a uno stato migliore, verso il secondo regno.

■ Qua e là i temi del settimo e ultimo stato si intrecciano con quelli del primo. Dalla settima chiesa, Laodicea (Ap 3, 15-16), il tema dei tiepidi, cioè degli apostati da un alto stato più spiacenti a Dio di quanto non lo siano i “freddi” per infedeltà, poiché inducono al vomito, tema che già ha fasciato gli ignavi, ritorna in un momento di grave pericolo, che insinua nell’animo il desiderio di rinunciare. Allorché Virgilio lo invita a salire sul fiero animale, Dante prova tremando il senso di nausea e di vomito che il malarico ha per i luoghi freddi (vv. 85-87; lo stesso sentimento di “riprezzo” proverà di fronte ai “gelati guazzi” di Cocito in Inf. XXXII, 70-72). Appartengono all’esegesi di Laodicea anche i motivi dell’essere misero, appropriato ad Icaro (v. 109), dell’andare “in dietro” e della lentezza (vv. 101, 115). Persistono i temi del condescensivo quinto stato, primi fra tutti lo scendere e il calare (vv. 125, 129-130), ma anche il “rotare” (vv. 98, 116, 131; cfr. le “rotelle” al v. 15) e l’abbandonare i freni, ancora da parte di Icaro (v. 107).

■ L’espressione “le reni / sentì spennar per la scaldata cera” (vv. 109-110) contiene il tema del calore, dalla quarta coppa (Ap 16, 8; ripresa del tema dai vv. 48-49), unito a quello del bruciare le reni e del far morire i figli, dalla quarta chiesa (Ap 2, 23; cfr. Purg. XXIX, 118-120), mentre il verso successivo – “gridando il padre a lui: ‘Mala via tieni!” – allude nell’uso del verbo ‘tenere’ alla potestà del pastore che ‘tiene’ i suoi sottoposti, al modo con cui Cristo si propone alla chiesa di Efeso, la quale è chiesa metropolitana che ha potestà e cura su tutte le altre chiese (Ap 2, 1).

■ Gerione concede i suoi “omeri forti”; sulle sue “spallacce” il poeta si assetta, nonostante le “parole porte” da Virgilio dicano che per scendere non ci sono altre scale, mettendo addosso a Dante la febbre della quartana (Inf. XVII, 42, 88, 91). Portare sulle spalle o con le parole è un tema della seconda tromba (Ap 8, 9); gli omeri forti sono però propri di Issacar, una delle tribù da cui provengono i segnati d’Israele all’apertura del sesto sigillo (Ap 7, 7), tema del quale partecipa il diavolo nero che nella quinta bolgia porta sull’omero acuto e superbo un barattiere (Inf. XXI, 34-36). Virgilio, come in altre occasioni, “sostiene” (ad Ap 8, 9 è variante del “portare” da parte delle “navi”, che designano i gentili più razionali) il discepolo tenendolo abbracciato (Inf. XVII, 94-96).

 

[1]discende lasso onde si move isnello” (v. 130). Se l’esegesi di riferimento è Ap 17, 18 – con l’inciso “ad locum unde manavit” -, è da promuovere la lezione “onde si mové” (Inglese), anche per il confronto con Inf. XII, 7 e Par. VI, 67.

 

Tab. III

[LSA, cap. II, Ap 2, 5 (Ia visio, Ia ecclesia)] Item Ricardus, super Danielem, in expositione sompnii Nabucodonosor, ostendit quod sicut statua Nabucodonosor gradatim descendebat ab auro in argentum, deinde in es ac deinde in ferrum et ultimo in testam luteam, sic aliquando gradatim descenditur a supremo virtutum ad ima. Unde ibidem ait: «Puto quod nemo repente fit turpissimus, sed qui minima negligit paulatim defluit. Sicut enim quibusdam profectuum gradibus ad alta conscenditur, sic rursus gradatim ad ima descenditur»1. Et ibidem subdit: «Quosdam videmus in initio sue conversionis spe gaudentes, in tribulatione patientes, sollicitos in opere, studiosos in lectione, devotos in oratione, qui quidem in auro operantur sicut et ille cui dictum est a Christo: “Novi opera tua et caritatem tuam” et cetera (Ap 2, 19). Sed sunt multi qui in tempore temptationis recedunt, non tamen statim se in infima demergunt, sed primum de bono in minus bonum et dehinc de minus bono in malum et deinde de malo in deterius corruunt, secundum illud Iob: “Mons cadens paulatim defluit, et terra alluvione consumitur” (Jb 14, 18-19). Tales enim paulatim incipiunt a pristino desiderio tepescere et a priori fervore magis magisque deficere2. Refrigescente namque caritate, operantur bona ex deliberatione. Maius autem est bonum sequi ex desiderio et cum magna delectatione quam ex solo consilio et deliberatione; istud quidem bonum, sed illud optimum, istud pertinet ad argentum, illud autem ad aurum. Bonum est argento huiusmodi habundare, sed non minus stultum aurum suum in argentum mutare: “mittens enim manum ad aratrum et respiciens retro non est aptus regno Dei” (Lc 9, 62). Unde sermo divinus per increpationem ferit eum qui aureum opus in argentum commutat. “Scio”, inquit, “opera tua et laborem et patientiam tuam” (Ap 2, 2): ecce brachia, ecce pectus argenteum. Sed vide quid subinfertur: “Sed habeo adversum te, quod caritatem tuam primam <r>eliquisti” (Ap 2, 4). Arguitur ergo qui adhuc bonum agit, quod caritatem primam <reliquit>, et aureum caput in pectus argenteum deflexit»3. Item infra: «In capite aureo intelligitur devotio, in membris argenteis discretio, in ereis simulatio, in ferreis indignatio, in testeis dissolutio»4. Item infra: «Quid est fulgor capitis aurei nisi fervor celestis desiderii, et claritas argentei pectoris et brachii quam certitudo recti consilii et rectitudo operis certi? Sancta itaque desideria faciunt caput aureum, recta autem consilia et opera pectus et brachium argenteum»5.
Deinde, si non se correxerit, comminatur ei casum totalem dicens (Ap 2, 5): “Sin autem, venio tibi”, id est contra te. Dicit autem “venio”, non ‘veniam’, ut ex imminenti propinquitate sui adventus ipsum fortius terreat. “Et movebo candelabrum tuum de loco suo, nisi penitentiam egeris”, id est evellam a me et a fide mea in quo es fundata, secundum illud Apostoli Ia ad Corinthios III°: “Fundamentum aliud nemo potest ponere, preter id quod positum est, quod est Christus Ihesus” (1 Cor 3, 11). […]
Nota quod hanc comminationem subinfert triplici ratione. Prima est quia talis casus, scilicet a maiori bono in minus bonum et cum multis bonis adhuc restantibus, solet parvipendi. Per hanc autem comminationem ostendit quod non est parvipendendus, immo valde formidandus. Secunda est ut doceat quod talis casus est <in> lubrico summi precipitii. Unde Ricardus, ubi supra hanc comminationem pertractans, dicit: «Nisi ad priora bona citius redeas, time ne in deteriora cadas. Non enim potest homo in eodem  fixus diutius stare. Quoniam qui ad primam caritatem non revertitur, cito eius candelabrum de loco suo transfertur, quia bona intentio boni operis, quod per candelabrum designatur sicut intentio per lucem ipsius, cito in malam commutatur. Sicque opus argenteum transit in ereum, quia quod prius agebat ex veritate, ad laudem hominum resolutus, agit postmodum pro humano favore. Sed talis non potest diu latere; cum enim ceperint venter et femora apparere, id est eius turpitudo et malitia denudari, tunc incipit mox suis laudatoribus sordescere et de die in diem magis magisque vilescere, propter quod incipit illis irasci et indignari et eos crudeliter persequi, quibus multum placere studuerat. Sicque es sonorum mutatur in ferrum asperum et durum. Tales autem, sicut sunt prompti et audaces ad mala inferenda, sic sunt pusillanimes et supra modum impatientes ad toleranda illata, ut recte mirari possis quomodo convenire possit ferrum cum testa, id est crudelitas cum tanta impatientia. Hic est casus factus per gradus ab auro in fictilem testam, quod Ieremias deplorat dicens: “Filii Sion incliti et amicti auro primo, quomodo reputati sunt in vasa testea, opus manuum figuli” (Lm 4, 2)»6. […]

1. Riccardo di San Vittore, De eruditione hominis interioris, I, xxiii (PL 196, col. 1270 B).
2. Ibid., coll. 1270 C – 1271 A.
3. Ibid., I, xxiv, col. 1271 A-C.
4. Ibid., col. 1273 B.
5. Ibid., I, xxv, col. 1274 A-B.
6. Ibid., I, xxiv (PL 196, coll. 1271 D – 1272 D).

[LSA, cap. II; Ap 2, 1.2 (Ia ecclesia)] Et ideo prima ecclesia Asie innuitur habuisse primo fervidam caritatem et cecidisse ab eius primo fervore. Sic etiam primitiva ecclesia sub apostolis cecidit a primo fervore nimis iudaizando et zelando legalia. Unde et congrue vocatur Ephesus, id est voluntas mea in ea; vel lapsus, quia dum ferveret fuit voluntas Christi in ea ut matris in tenera et novella prole, cum vero lapsa est recte dicitur lapsus. […] “Hec dicit qui tenet septem stellas in dextera sua, qui ambulat in medio septem candelabrorum aureorum” (Ap 2, 1). […]
Pro secundo dicit: “et laborem tuum” (Ap 2, 2), scilicet in afflictione corporis et in laboriosis exercitiis. […] Secundum autem respicit malum ut repellendum et fugandum. Unde subdit: “et non potes sustinere malos”, quin scilicet eorum mala detesteris et increpes et ipsos a tua societate seu communione segreges. Nota quod primum, scilicet detestari malum, est semper bonum; duo autem sequentia exigunt debitas circumstantias. Non enim omnes mali sunt increpandi a quocumque aut semper, nec in omni loco vel tempore nec in omni modo, nec omnes sunt statim ab omni communione segregandi.

Inf. XVII, 82-84

Omai si scende per sì fatte scale;
monta dinanzi, ch’i’ voglio esser mezzo,
sì che la coda non possa far male.

Inf. XXXIV, 82-84

“Attienti ben, ché per cotali scale”,   gradatim
disse ’l maestro, ansando com’ uom lasso,
“conviensi dipartir da tanto male”.

Inf. XVII, 78, 97-107, 115-116, 121, 124-132

torna’mi in dietro da l’anime lasse.

e disse: “Gerïon, moviti omai:
le rote larghe, e lo scender sia poco;
pensa la nova soma che tu hai”.
Come la navicella esce di loco
in dietro in dietro, sì quindi si tolse;
e poi ch’al tutto si sentì a gioco,
là ’v’ era ’l petto, la coda rivolse,
e quella tesa, come anguilla, mosse,
e con le branche l’aere a sé raccolse.
Maggior paura non credo che fosse
quando Fetonte abbandonò li freni

Ella sen va notando lenta lenta;
rota e discende ………………….

Allor fu’ io più timido a lo stoscio

E vidi poi, ché nol vedea davanti,
lo scendere e ’l girar per li gran mali
che s’appressavan da diversi canti.
Come ’l falcon ch’è stato assai su l’ali,
che sanza veder logoro o uccello
fa dire al falconiere “Omè, tu cali!”,
discende lasso onde si move isnello,
per cento rote, e da lunge si pone
dal suo maestro, disdegnoso e fello

Inf. XXXIV, 70-81

Com’ a lui piacque, il collo li avvinghiai;
ed el prese di tempo e loco poste,
e quando l’ali fuoro aperte assai,
appigliò sé a le vellute coste;
di vello in vello giù discese poscia   gradatim (2, 5)
tra ’l folto pelo e le gelate croste.
Quando noi fummo là dove la coscia
si volge, a punto in sul grosso de l’anche,
lo duca, con fatica e con angoscia,
volse la testa ov’ elli avea le zanche,
e aggrappossi al pel com’ om che sale,
sì che ’n inferno i’ credea tornar anche.

Inf. XXVI, 13-15

Noi ci partimmo, e su per le scalee
che n’avea fatto iborni a scender pria,
rimontò ’l duca mio e trasse mee

 

 

AVVERTENZE

Seppure segue l’ordine dei ventidue capitoli dell’Apocalisse, Olivi suggerisce, nel prologo della Lectura, un metodo differente di comprensione e di aggregazione del testo, fondato sui sette stati (status), cioè sulle epoche nelle quali si articola la storia della Chiesa, prefigurate nell’Antico Testamento.
L’Apocalisse si articola in sette visioni: le sette chiese d’Asia, i sette sigilli, le sette trombe, la donna vestita di sole (le sette guerre sostenute dalla Chiesa), le sette coppe, il giudizio di Babylon nelle sette teste del drago, la Gerusalemme celeste. Le prime sei visioni possono essere a loro volta divise in sette momenti, ciascuno dei quali riferibile a uno dei sette stati. Assembrando, per le prime sei visioni, tutti i primi elementi (chiesa, sigillo, tromba, guerra, coppa, momento del giudizio di Babylon), tutti i secondi, i terzi e così di seguito, si ottengono sette gruppi di materia teologica, corrispondenti al complesso dei temi afferenti a ciascuno dei sette stati. A questi sette gruppi si aggiungono altri due: l’esegesi della settima visione (senza articolazioni interne) e l’esegesi di capitoli del testo scritturale, o di parti di essi, introduttivi delle successive specificazioni delle singole visioni per settenari, che Olivi definisce “radicalia” o “fontalia”. Si ottengono in tal modo nove gruppi: le parti proemiali, i sette assembramenti di settenari e la settima visione. Il grande prologo della Lectura, articolato in tredici notabilia, può essere anch’esso aggregato secondo i sette stati. Un libro (la Lectura) contiene dunque princìpi e criteri affinché l’accorto lettore possa trarne un altro libro, fatto con lo stesso materiale ma ricomposto e distribuito in forma diversa.

La Commedia mostra un ordine interno diverso da quello che appare al lettore: il viaggio di Dante ha un andamento di ciclici settenari, che corrispondono ai sette stati della storia della Chiesa, cioè alle categorie con cui Olivi organizza la materia esegetica. Questo ordine interno è registrabile per zone progressive del poema dove prevale, tramite parole-chiave, la semantica riferibile a un singolo stato. È un’intima struttura dirompente i confini letterali stabiliti dai canti e da tutte le divisioni materiali per cerchi, gironi, cieli. Ogni stato, che ha differenti inizi, è concatenato per concurrentia, come le maglie di un’armatura, con quello che precede e con quello che segue. Si possono in tal modo redigere mappe che comprendano l’ordine spirituale della Commedia. La ricerca è pervenuta a una Topografia spirituale della Commedia, dove quasi per ogni verso, o gruppo di versi, collegamenti ipertestuali conducono al “panno” esegetico fornito dalla Lectura super Apocalipsim, sul quale il “buon sartore” ha fatto “la gonna” (cfr. Par. XXXII, 139-141).

■ A ogni gruppo è arbitrariamente assegnato un diverso colore: Radici (verde), I stato (verde acqua), II stato (rosso), III stato (nero), IV stato (viola), V stato (marrone), VI stato (blu), VII stato (indaco), VII visione (fucsia). Dei gruppi sono stati integralmente studiati il terzo stato e la settima visione. Mentre la diversità dei colori è rispettata nella tabella complessiva contenente i collegamenti ipertestuali, nelle sinossi i colori possono essere variati per maggiore evidenza.

Non di rado nei versi alcune parole o incisi-chiave possono rinviare a più luoghi esegetici. Questo perché il testo dottrinale contenuto nella Lectura, prima di travasarsi semanticamente nella Commedia, è stato sottoposto a una duplice riorganizzazione. La prima, sulla base delle indicazioni dello stesso Olivi, secondo il materiale esegetico attribuibile ai singoli stati. La seconda, seguendo il principio applicato nelle distinctiones ad uso dei predicatori, sulla base di lemmi analogicamente collazionati. La “mutua collatio” di parti della Lectura arricchisce il significato legato alle parole e consente uno sviluppo tematico amplificato. Si vedano, ad esempio, le variazioni eseguite sul tema della “voce” o sull’espressione “in medio”, temi più volte iterati nel sacro testo, oppure il modo con cui Ap 1, 16-17 (l’esegesi della decima e undecima prefezione di Cristo come sommo pastore) percorre i versi in collazione con altri passi. A ciò predispone lo stesso testo scritturale, poiché l’Apocalisse contiene espressioni, come Leitmotive, che ritornano più volte. È determinata da parole-chiave che collegano i passi da collazionare. È suggerita dallo stesso Olivi, nel prologo, per una migliore intelligenza del testo.

Tutte le citazioni della Lectura super Apocalipsim presenti nei saggi o negli articoli pubblicati su questo sito sono tratte dalla trascrizione, corredata di note e indici, del ms. Paris, Bibliothèque nationale de France, lat. 713, a disposizione fin dal 2009 sul sito medesimo. I passi scritturali ai quali si riferisce l’esegesi sono in tondo compresi tra “ ”; per le fonti diverse da quelle indicate si rinvia all’edizione in rete. Non viene presa in considerazione l’edizione critica a cura di WARREN LEWIS (Franciscan Institute Publications, St. Bonaventure – New York, 2015) per le problematiche da essa poste, che sono discusse in ALBERTO FORNI – PAOLO VIAN, A proposito dell’edizione di Warren Lewis della Lectura super Apocalipsim di Pietro di Giovanni Olivi. Alcune osservazioni, in “Archivum Franciscanum Historicum”, 109 (2016), pp. 99-161.
Il testo della Commedia citato è in Dante Alighieri, La Commedia secondo l’antica vulgata, a cura di GIORGIO PETROCCHI, Firenze 1994. Si tiene anche conto della recente edizione a cura di GIORGIO INGLESE, Firenze 2021 (Società Dantesca Italiana. Edizione Nazionale), qualora il testo proposto si discosti da quello del Petrocchi e la scelta della variante risulti discutibile nel confronto con la LSA.
Si fa riferimento ai seguenti commenti:

Dante Alighieri, La Divina Commedia. Inferno. Commento di ANNA MARIA CHIAVACCI LEONARDI, Milano 2007 (19911).

Dante Alighieri, Commedia. Inferno. revisione del testo e commento di GIORGIO INGLESE, Roma 2007.


ABBREVIAZIONI

Ap : APOCALYPSIS IOHANNIS.

LSA : PIETRO DI GIOVANNI OLIVI, Lectura super Apocalipsim.

Concordia : JOACHIM VON FIORE, Concordia Novi ac Veteris Testamenti. Herausgegeben von A. PATSCHOVSKY, Wiesbaden 2017 (Monumenta Germaniae Historica. Quellen zur Geistesgeschichte des  Mittelalters, 28. Band), Teil 2 (lib. I-IV), Teil 3 (lib. V).

Expositio : GIOACCHINO DA FIORE, Expositio in Apocalypsim, in Edibus Francisci Bindoni ac Maphei Pasini, Venetiis 1527, ristampa anastatica Minerva, Frankfurt a. M. 1964.

Olivi opera spesso una sintesi del testo di Gioacchino da Fiore. Le « » precedono e chiudono un’effettiva citazione. Diversamente, viene posto un asterisco (*) o una nota in apice al termine della parte riferibile a Gioacchino.

In Ap : RICCARDO DI SAN VITTORE, In Apocalypsim libri septem, PL 196, coll. 683-888.

 

Note sulla “topografia spirituale” della Commedia

Per quanto segua l’ordine dei ventidue capitoli dell’Apocalisse, Olivi suggerisce un metodo differente di comprensione e di aggregazione del testo esegetico, fondato sui sette stati, cioè sui periodi nei quali si articola la storia della Chiesa. L’Antico Testamento corrisponde alle prime cinque età del mondo, secondo la divisione tradizionale [1]: è l’età del Padre secondo Gioacchino da Fiore. Con il primo avvento di Cristo, nella carne, inizia la sesta età (l’età del Figlio), nella quale la Chiesa, come fosse un individuo, cresce e si sviluppa in sette stati. Al primo, apostolico periodo, succede il secondo dei martiri; poi, al tempo di Giustiniano, il terzo stato dei dottori che confutano con l’intelletto le eresie concorre con il quarto stato degli affettuosi anacoreti devoti al pasto eucaristico, alti per la contemplazione ma anche attivi come reggitori delle genti; a partire da Carlo Magno subentra il quinto stato aperto alla vita associata delle moltitudini, bello nel principio ma poi corrottosi fino a trasformare quasi tutta la Chiesa in una nuova Babilonia; la riforma interviene, a partire da Francesco, con il cristiforme sesto stato, fino alla sconfitta dell’Anticristo; subentra infine il silenzio e la quiete del pacifico settimo stato. Il sesto e il settimo stato (la terza età di Gioacchino da Fiore) coincidono con il secondo avvento di Cristo, nello Spirito, cioè nei suoi discepoli spirituali inviati a convertire il mondo con la predicazione; al termine del settimo stato ci sarà il terzo avvento, nel giudizio.
L’Apocalisse si articola in sette visioni: le sette chiese d’Asia, i sette sigilli, le sette trombe, la donna vestita di sole (le sette guerre sostenute dalla Chiesa), le sette coppe, il giudizio di Babylon nelle sette teste del drago, la Gerusalemme celeste. Le prime sei visioni possono essere a loro volta divise in sette momenti, ciascuno dei quali riferibile a uno dei sette stati. Assembrando, per le prime sei visioni, tutti i primi elementi (chiesa, sigillo, tromba, guerra, coppa, momento del giudizio di Babylon), tutti i secondi, i terzi e così di seguito, si ottengono sette gruppi di materia teologica, corrispondenti al complesso dei temi afferenti a ciascuno dei sette stati [2]. A questi sette gruppi se ne aggiungono altri due: l’esegesi della settima visione (senza articolazioni interne) e l’esegesi di capitoli del testo scritturale, o di parti di essi, introduttivi delle successive specificazioni delle singole visioni per settenari, che Olivi definisce “radicalia” o “fontalia”. Si ottengono in tal modo nove gruppi: le parti proemiali, i sette assembramenti di settenari e la settima visione. Il grande prologo della Lectura, articolato in tredici notabilia, può essere anch’esso aggregato nelle sue parti secondo i sette stati.

L’intenso travaso di parole-temi dalla Lectura nella Commedia si accompagna a un fatto strutturale. La Commedia mostra un ordine interno diverso da quello che appare al lettore: il viaggio di Dante ha un andamento di ciclici settenari, che corrispondono ai sette stati oliviani. È un ordine registrabile per zone progressive del poema dove prevalgono i temi di un singolo stato, che rompe i confini letterali stabiliti dai canti e da tutte le divisioni materiali per cerchi, gironi, cieli. Ogni stato, che ha differenti inizi, è concatenato per “concurrentia”, come le maglie di un’armatura, con quello che precede e con quello che segue. Ciascuno stato ha in sé una grande ricchezza di motivi e contiene inoltre temi di tutti gli altri, consentendo innumerevoli intrecci e variazioni. La Commedia appare, come l’Apocalisse, “libro scritto dentro e fuori” (Ap 5, 1), con duplice struttura, linguaggio e senso, letterale e spirituale. Il viaggio di Dante e la visione di Giovanni hanno la stessa causa finale, che è la beatitudine, alla quale si perviene con diverse guide, per gradi segnati da visioni sempre più nuove e ardue delle precedenti, attraverso una sempre maggiore apertura dell’arcano coperto dal velame dei sette sigilli fino al punto più alto in cui, in questa vita, è possibile vedere la verità.
Tutti i modi del linguaggio interiore al poema esprimono un processo, un viaggio dal più chiuso al più aperto, e in questo andare hanno una loro precisa collocazione ‘topografica’, uno ‘stato’ (nel senso di momento storico che ricade sulla coscienza individuale) al quale appartenere. Si possono in tal modo stendere vere e proprie mappe tematiche che comprendano l’ordine spirituale di tutta la Commedia che aderisce, parodiandola semanticamente, a una precisa teologia della storia, sia pure modificandone profondamente le prospettive. La ciclicità dei temi permette di stabilire collegamenti inusitati tra le diverse zone; il procedere per gradi dell’illuminazione divina fa sì che episodi oscuri e quasi ermeticamente chiusi si chiariscano poi, aprendosi all’intelligenza in modo più alto.
A ogni gruppo è arbitrariamente assegnato un diverso colore: Radici (verde), I stato (verde acqua), II stato (rosso), III stato (nero), IV stato (viola), V stato (marrone), VI stato (blu), VII stato (indaco), VII visione (fucsia). Dei gruppi sono stati integralmente studiati il terzo stato e la settima visione.

INFERNO

(le prime cinque età del mondo)

La ‘topografia spirituale’ del poema mostra nell’Inferno cinque cicli settenari corrispondenti agli stati della Chiesa descritti da Olivi e ai loro temi contenuti nella Lectura. Questi cinque cicli designano le prime cinque età del mondo (riunite a loro volta nel primo stato generale, che corrisponde all’età del Padre di Gioacchino da Fiore), in quanto prefigurazione del primo avvento di Cristo e della Chiesa.
I cinque cicli settenari che si susseguono nell’Inferno a partire dal quarto canto (i primi tre canti hanno una tematica particolare) sono preceduti da cinque zone che possono essere definite ‘snodi’, dove cioè confluiscono temi provenienti da più stati, intrecciati insieme ad altri ad avviare il procedere settenario. Il centro di questi ‘snodi’ coincide con un canto (Inf. IV, X, XVII, XXVI, XXXII), ma la zona è più vasta e supera l’ambito dato dalla divisione letterale del poema.

Inf. I-III sono da considerare al di fuori dei cicli. Inf. I e II sono profondamente segnati dai temi del sesto stato. Inf. III è riferibile al settimo stato (per gli ignavi) e in parte al quinto (per l’episodio di Caronte).

canti

I ciclo

stati

cerchi

IV

Limbo

Radici, I (I snodo)

I

V

lussuriosi

II

II

VI

golosi

III

III

VII

avari e prodighi

palude Stigia
(iracondi e accidiosi)

IIIIV

 

V

IV


V

VIII

palude Stigia (orgogliosi)
città di Dite

V

V

IX

apertura della porta di Dite

VVI

 

canti

II ciclo

stati

cerchi

IX-X-XI

eretici, ordinamento dell’inferno

I (II snodo)

VI

XII

violenti contro il prossimo

II

VII (girone 1)

XIII

violenti contro sé

III

        (girone 2)

XIV

violenti contro Dio: bestemmiatori

IV

        (girone 3)

XV-XVI

violenti contro Dio: sodomiti

V

XVI

XVII

ascesa di Gerione

Gerione,  violenti contro Dio: usurai

VI

canti

III ciclo

stati

cerchi

XVII

volo verso Malebolge

I (III snodo)

 

XVIII

ruffiani, lusingatori

Radici II

VIII (bolgia 1, 2)

XIX

simoniaci

III

(bolgia 3)

XX

indovini

IV

(bolgia 4)

XXI-XXII

barattieri

V

(bolgia 5)

XXIII

ipocriti

VVI

(bolgia 6)

XXIV-XXV

ladri

VI

(bolgia 7)

canti

IV ciclo

stati

cerchi

XXVI

consiglieri di frode (greci)

I (IV snodo)

(bolgia 8)

XXVII

consiglieri di frode (latini)

II

XXVIII-XXIX

seminatori di scandalo e di scisma

III

(bolgia 9)

XXIX

falsatori

IV

  (bolgia 10)

XXX

falsatori

IVV

XXXI

giganti

VVI

 

canti

V ciclo

stati

cerchi

XXXII

Cocito: Caina, Antenora

I (V snodo)

IX

XXXIII

Antenora, Tolomea

II

XXXIV

Giudecca

IIIIVV

XXXIV

volgersi di Virgilio sull’anca di Lucifero

VI

 

 

Il sesto stato è per Olivi la fase più importante nella costruzione dell’edificio della Chiesa. In esso “renovabitur Christi lex et vita et crux”. Corrisponde ai tempi moderni. Ha quattro diversi inizi temporali: uno profetico, con Gioacchino da Fiore, il quale lo vide in spirito concependo la sua terza età; il secondo con la conversione di Francesco (1206), che seminò la pianta; il terzo con la predicazione degli uomini spirituali, per la quale la pianta si rinnovella; il quarto con la distruzione storica di Babylon. Dura fino alla sconfitta dell’Anticristo, il cui avvento si collocherebbe, secondo i numeri della profezia di Daniele 12, 11-12 combinati con Ap 12, 6 e 14, fra il 1290 e il giubileo di pace del 1335.
Una ‘vita nuova’ si instaura nel sesto stato, per eccellenza il momento dell’imitazione di Cristo. I rami dell’albero si dilatano producendo il frutto della carità, l’acqua che proviene da Cristo-fonte attraverso il condotto che percorre i primi cinque stati della Chiesa si effonde in un lago; è il tempo, assimilato al sacramento del matrimonio, della letizia nuziale, della familiarità, dell’amicizia. Corrisponde al sesto giorno della creazione, in cui vennero creati prima i rettili e le bestie irrazionali, poi l’uomo razionale che, come l’ordine evangelico, è fatto a immagine e somiglianza di Dio e domina tutti gli animali.
Le espressioni di Olivi relative al sesto stato – “quoddam sollempne initium novi seculirenovaretur et consumaretur seculum”, nel quale il sacerdozio apostolico “redeat et assurgat ad ordinem primum”, la “nova Ierusalem”, interpretata come “visione di pace”, viene vista “descendere de celo” e la Chiesa descritta come la donna vestita di sole con la sua “virginea proles” – sono la veste spirituale dei versi della quarta egloga virgiliana che celebrano la rinnovata età dell’oro: “Magnus ab integro saeclorum nascitur ordo / iam redit et Virgo; redeunt Saturnia regna; / Iam nova progenies caelo demittitur alto” (Egloga IV, 5-7). Olivi completa la Lectura super Apocalipsim nel 1298, poco prima di morire, il 14 marzo, a Narbonne. Quel felicissimo stato segnato dalla pace sotto il divo Augusto, che rese l’umanità disposta al primo avvento di Cristo, si sta rinnovando nel sesto stato della Chiesa, nel secondo avvento nello Spirito. Scrive Arsenio Frugoni: “[…] quell’escatologismo, oltre che ideologia di lotta e di riforma del gruppo spirituale, era anche un vero e proprio sentimento storico […] una tensione di rinnovamento, una ansia di salvezza, che nel 1300, l’anno centenario della Natività, aveva trovato come una attivazione, in un senso di pienezza dei tempi, cui doveva corrispondere un fatto, un accadere meraviglioso e nuovo” [3].
All’apertura del sesto sigillo, l’eletta schiera dei riformatori – i 144.000 segnati dalle dodici tribù d’Israele – guida la turba innumerevole di ogni gente, tribù, popolo e lingua (Ap 7, 3-4.13). Questi eletti e magnanimi duci, separati dalla volgare schiera per più alta milizia, vengono destinati a difendere liberamente la fede – ad essi è data la “plena libertas ad innovandam christianam religionem” -; sono gli amici di Dio a lui noti per nome, configurati in Cristo crocifisso e votati al martirio.
All’interno della Chiesa del sesto stato, l’Ordine dei Minori – “ordo plurium personarum” – è  assimilabile alla persona umana di Cristo. Come questa si sviluppò fino all’età virile, così dovrà essere per l’ordo evangelicus piantato da Francesco, che avrà bisogno (a differenza di Cristo che stette poco tempo nel mondo) di due o tre generazioni per svilupparsi prima di subire una condanna simile a quella di Cristo [4]. La sua maturità coincide, verso il 1300, con il terzo inizio del sesto stato, cioè con il rinnovarsi per opera dello Spirito di Cristo, nel suo secondo avvento, della pianta seminata da Francesco. Questa concezione dell’Ordine francescano come individuo in sviluppo che, perfettamente maturato, diventa il novus ordo preconizzato da Gioacchino da Fiore per l’età dello Spirito, si differenzia da quella di Bonaventura, che aveva invece distinto i Francescani del proprio tempo – e quindi anche gli Spirituali – dall’Ordine finale che dominerà fino ai confini della terra. Alla terza apertura del sesto sigillo nuovi san Giovanni vengono inviati a predicare al mondo come nel tempo degli Apostoli. Ma Giovanni non designa solo un Ordine, perché Olivi lascia aperta la possibilità di rivelazioni individuali, avute da “singulares persone”, perfetti imitatori di Cristo votati, con la loro “lingua erudita”, al compito della conversione universale.

[LSA, cap. X, Ap 10, 11] “Et dixit michi: Oportet te iterum prophetare in gentibus et populis et linguis et regibus multis”. In ipsa sapientia libri expresse continetur quod oportet iterum predicari evangelium in toto orbe, et Iudeis et gentibus, et totum orbem finaliter converti ad Christum. Sed quod per istum hoc esset implendum non poterat sciri nisi per spiritualem revelationem, et hoc dico prout per Iohannem designantur hic singulares persone quia, prout per ipsum designatur in communi ordo evangelicus et contemplativus, scitur ex ipsa intelligentia libri quod per illum ordinem debet hoc impleri.

Nei cinque cicli settenari della prima cantica il sesto stato è segnato dall’apertura della porta della città di Dite (Inf. IX, 89-90); dall’ascesa di Gerione dall’abisso (Inf. XVI, 106-136); dal precipitoso passaggio dalla quinta alla sesta bolgia (Inf. XXIII, 1-57) e poi dalle trasformazioni della settima, dove i ladri fiorentini si mutano in serpenti e viceversa (Inf. XXIV-XXV); dal chinarsi di Anteo sul fondo dell’inferno (Inf. XXXI, 136-145); dal passaggio del centro della terra, con la conversione di Virgilio sull’anca di Lucifero, che è passaggio verso la sesta età, quella della Chiesa, descritta nel Purgatorio.
Ma i temi propri del sesto stato sono diffusi ovunque, intrecciati con quelli degli altri stati, e alla loro esegesi rinviano precise parole-chiave incardinate nel senso letterale dei versi. L’esegesi dell’angelo del sesto sigillo (Ap 7, 2) è già centrale nel primo canto del poema.
La novità che il sesto stato, per eccellenza stato di rinnovamento di questo secolo, arreca nell’inferno è una novità fittizia: l’apertura della porta della città di Dite non è vera novità, perché essa è stata chiusa dall’ostinazione dei diavoli, recidivi dopo l’apertura della porta dell’inferno da parte di Cristo prefigurata dalla venuta di Ercole all’Ade, per cui Cerbero “ne porta ancor pelato il mento e ’l gozzo”; Gerione viene su ad un “novo cenno” di Virgilio, ma è figura della frode dalla velenosa coda aculeata; il nuovo prodotto dalle trasformazioni reciproche di serpenti e uomini è qualcosa di incompiuto perché l’uomo razionale, creato nel sesto stato, regredisce allo stato precedente.
L’Inferno è il luogo della durezza lapidea, dell’impetrarsi, del parlare duro di cose dure a dirsi, del duro giudizio, del senso duro della scritta al sommo della porta, dei duri lamenti, dei duri demoni, dei duri veli del gelo, della gravezza. Nell’Inferno vige l’imposizione data a Daniele dall’angelo sotto il sesto sigillo dell’Antico Testamento: “Ora tu, Daniele, chiudi queste parole e sigilla questo libro fino al tempo stabilito” (Dn 12, 4), che era la sesta età nella quale apparve Cristo e in particolare il sesto stato della sua Chiesa nella quale il libro doveva essere più pienamente aperto, non però ai malevoli e ai maldisposti. Questa durezza è rotta dall’invito di Dante ai dannati perché parlino. Far parlare liberamente, per dettato interiore, è la principale prerogativa del sesto stato – la nuova età che tanto s’aspetta, quella che ode del “dolce stil novo” e delle “nove rime” -, ed è tema che la poesia canta per intero, sia pure per un attimo, anche nella vecchia roccia infernale. Appartiene alla sesta chiesa il parlare liberamente di Cristo – ad essa è dato l’“ostium apertum”, che è “ostium sermonis” – , il sentire per dettato interiore, l’aprirsi della volontà. Appartiene alla sesta chiesa anche il far venire quelli che si dicono Giudei senza esserlo, mutati nel cuore e disposti a farsi battezzare e governare. Questo far venire a parlare equivale al cortese e liberale invito dello Spirito di Cristo a convivare, a venire con desiderio e volontario consenso, con “disio” e con “velle”, in una pausa di pace nell’eterna dannazione. All’“affettüoso grido” del poeta le ombre di Francesca e Paolo vengono “dal voler portate” verso un momento di mutazione, sebbene limitata al successivo colloquio. Tutto l’Inferno è un contrappunto fra la durezza del giudizio e l’apertura per la parola dirompente, fin che essa dura, la pena. Un’apertura che si esprime in varie forme: muoversi sospirando nel Farinata prima immobile, ‘crollarsi’ quasi per terremoto interiore dello ‘schivo’ Ulisse, convertirsi del vento in voce in Guido da Montefeltro, tornare indietro nel cammino assegnato o separarsi dai compagni di pena, essere sforzati a parlare anche malvolentieri, non poterlo negare o mostrare fretta di farlo, arrestarsi obliando il martirio, levarsi per poi ricadere, sollevarsi da atti bestiali per ritornare a essi dopo aver parlato, come nel conte Ugolino. In tante lingue, che parlano come per sé stesse mosse, sta un solo desiderio, il vivere ancora nel libro che è stato altrui aperto.
Se nell’Inferno il sesto stato non si realizza mai compiutamente, anche il settimo, che gli è strettamente connesso, non può trovare un luogo autonomo. Ciò non toglie che temi del settimo stato (e della settima visione) siano ben presenti in modo diffuso. Ad esempio, quelli relativi alla settima chiesa assumono particolare rilievo nella descrizione degli ignavi a Inf. III. Tempo del silenzio, della serena pace, del riposo dalle ansiose fatiche, il settimo stato subentra dopo le terribili tentazioni inferte, con un martirio non corporale ma psicologico, dai carnefici dell’Anticristo nel sesto. Come ogni momento della storia umana partecipa dell’imitazione di Cristo, che raggiunge l’acme nel sesto stato, così in ogni periodo si verifica una sua “quietatio”, una pausa di pace, di quiete, di silenzio propria del settimo. Così Francesca parla e ascolta “mentre che ’l vento, come fa, ci tace”. Il vento – “la bufera infernal, che mai non resta” – designa il fluttuare tempestoso delle passioni nel cuore.

PURGATORIO

(sesta età del mondo)

Dopo le prime cinque età del mondo (corrispondenti all’Antico Testamento, la gioachimita età del Padre), che hanno segnato la discesa a spirale per i cinque cicli settenari dell’Inferno, con il Purgatorio inizia la sesta età, quella di Cristo (l’età del Figlio), che ha sette stati, corrispondenti ai sette stati della Chiesa. Dapprima, nel cosiddetto ‘antipurgatorio’, si registrano in successione temi prevalenti dei primi cinque stati. Il sesto stato della sesta età (con cui si apre l’età dello Spirito) inizia con l’apertura della porta di san Pietro (la porta del purgatorio). Questo sesto stato procede anch’esso con andamento settenario, per cui ha sette momenti, coincidenti principalmente con un girone della montagna, ma non del tutto, perché sempre l’ordine spirituale del poema rompe i confini letterali e le divisioni materiali, concatenando i temi di uno stato prevalente con quelli dello stato che precede e con quelli dello stato che segue e intrecciandoli con temi di tutti gli altri stati.
È spiegato nel Notabile VII del prologo della Lectura che il sesto stato della Chiesa è il secondo stato di Cristo e ha i suoi sette tempi per cui la Chiesa, come fosse una sfera, si ricongiunge circolarmente al primo apostolico tempo. Il settimo dei sette momenti del sesto stato della Chiesa coincide con il settimo stato generale della Chiesa, che nel poema corrisponde in parte all’ultimo girone della montagna (il settimo, dove si purgano i lussuriosi) e in parte all’Eden, con cui si chiude la seconda cantica.
Il Purgatorio dunque, secondo il senso spirituale, è la storia della Chiesa che corre verso il suo sesto stato, punto di riferimento di tutte le vicende umane, antiche e moderne, che ad esso cooperano. Non è casuale che nel sesto girone della montagna sia chiarificata e riconosciuta, nel colloquio con Bonagiunta da Lucca, la poetica delle “nove rime” di Dante, già “sesto tra cotanto senno” cooptato nella “bella scola” dei poeti del Limbo.
La vasta zona dedicata al sesto momento del sesto stato della Chiesa ha il suo inizio nel forte terremoto che scuote la montagna mentre Dante e Virgilio si trovano ancora nel quinto girone (Purg. XX, 124-141). Essa è stata compiutamente esaminata altrove.
Il settimo stato dell’Olivi si realizza parte in questa vita (come pregustazione in terra della gloria eterna, cioè fin sulla cima della montagna) e in parte nella futura (nel senso della quiete delle anime beate in attesa della resurrezione, che è la materia del Paradiso).

canti

I ciclo – fino al sesto sato

stati

 

I

Catone

Radici, I

 

II

angelo nocchiero, Casella

–  II

 

III

scomunicati

III

“Antipurgatorio”

IV

salita al primo balzo, Belacqua

IV  –  V

V

negligenti morti per violenza

V

VI

Sordello

V

VII-VIII

valletta dei principi

V

IX

apertura della porta

VI sesto stato

 

canti

II ciclo – il sesto stato della sesta età

stati

gironi

X-XII

superbi

I

I

XIII-XIV-XV

invidiosi

II

II

XV-XVIII

iracondi

ordinamento del purgatorio,

amore e libero arbitrio

III

III

IV

XVIII-XIX

accidiosi

IV

IV

XIX-XX

avari e prodighi

V

V

XX (terremoto)  -XXV

Stazio, golosi, generazione dell’uomo

VI

VI

XXV-XXVI

lussuriosi

VII – settimo stato

VII

XXVII

XXVIII-XXXIII

 muro di fuoco

notte stellata, termine dell’ascesa

Eden

 

 

PARADISO

(settimo stato della Chiesa)

Il Primo Mobile è il nono e penultimo cielo, ma è il sesto se si parte dal cielo del Sole. È anche il cielo più segnato dal tema del “punto”, cui è assimilato il sesto stato. Questo consente di ricostruire l’ordine spirituale del Paradiso ponendo la cerniera nel quarto cielo del Sole. Con il terzo cielo di Venere termina infatti il cono d’ombra gettato dalla terra, secondo la dottrina di Alfragano (Par. IX, 118-119), mentre prima di descrivere l’ascesa al cielo del Sole il poeta invita il lettore a rivolgersi “a l’alte rote” (Par. X, 7-27). Senza la cesura recisa che, nella prima cantica, divide i dannati puniti all’interno della città di Dite da quelli che ne stanno fuori e, nella seconda cantica, separa le anime purganti nei sette gironi della montagna dalle anime che attendono fuori della porta (il cosiddetto ‘antipurgatorio’), anche nel Paradiso gli spiriti che si manifestano nei primi tre cieli della Luna, di Mercurio e di Venere (spiriti che mancarono ai voti, spiriti che furono attivi per conseguire onore e fama, spiriti amanti) si distinguono per minore perfezione rispetto a quelli che appaiono nei cieli seguenti.
I dieci cieli del Paradiso si mostrano pertanto ordinati in due gruppi di settenari, corrispondenti agli stati della Chiesa (e alle loro prerogative) secondo Olivi, parzialmente combacianti (da 1 a 7 e da 4 a 10: coincidono gli ultimi quattro numeri del primo gruppo e i primi quattro del secondo).

I  Se si considera il primo settenario, nel primo cielo della Luna si affronta la questione dell’inadempienza dei voti, che ha corrispondenza con i temi propri della prima chiesa di Efeso, il cui nome, se interpretato, oscilla tra la fervida volontà iniziale e la remissione (l’essenza del voto consiste nella volontà).

II  Nel secondo cielo di Mercurio, le battaglie sostenute dal “sacrosanto segno” dell’aquila corrispondono allo stato dei martiri, che è dei combattenti, e anche la dottrina dell’incarnazione e della passione di Cristo, esposta successivamente da Beatrice, fa parte della tematica, perché l’intera Chiesa, fondata sulla passione di Cristo, imita con i martiri la sua croce, e questo giova assai al suo radicamento.

III  Nel terzo cielo di Venere, Carlo Martello spiega al modo di un dottore del terzo stato la diversità delle indoli umane e come gli uomini, non assecondandole, errino; nello stesso cielo compare Folchetto di Marsiglia, che da vescovo di Tolosa combatté l’eresia albigese.

IV – I  Al quarto cielo del Sole, primo del secondo gruppo di settenari per l’esaltazione della vita apostolica (propria del primo stato e rinnovata nel sesto), si può connettere il tema stesso del sole inteso nell’esegesi della quarta tromba (Ap 8, 12): “Per solem videtur hic designari solaris vita et contemplatio summorum anachoritarum, qui fuerunt patres et exempla aliorum, vel solaris sapientia et doctrina summorum doctorum”. Sapienza e contemplazione, dottori del terzo e anacoreti del quarto stato, concorrono, come Domenico e Francesco – “L’un fu tutto serafico in ardore; / l’altro per sapïenza in terra fue / di cherubica luce uno splendore” (Par. XI, 37-39) – con mutua cortesia a infiammare il meriggio dell’universo.

V – II  Il quinto cielo di Marte, secondo (come il secondo stato dei martiri) per l’esaltazione della croce di Cristo formata dai lumi dei combattenti per la fede, reca in sé il tema del condiscendere proprio del quinto stato sia nel pio discendere per la croce di Cacciaguida verso Dante, sia nella decadenza degli “alti Fiorentini”, cioè delle antiche famiglie, assimilate agli anacoreti, un tempo alti e poi vòlti in basso.

VI – III  Il sesto cielo di Giove, terzo (come il terzo stato dei dottori) per la spiegazione di profonde verità di fede, sviluppa il motivo, proprio della sesta chiesa, della “porta aperta”. Aprire la porta significa illuminare e rendere acuto l’intelletto che penetra nell’occulto delle Scritture, e anche dare efficacia spirituale a penetrare nel cuore di chi ascolta: così l’aquila apre la “latebra” di Dante, così l’occhio di Rifeo Troiano fu da Dio aperto alla futura redenzione.

VII – IV Nel settimo cielo di Saturno, quarto (come il quarto stato degli anacoreti), “si tace … la dolce sinfonia di paradiso” (Par. XXI, 58-60), e il tacere è tema del settimo stato. Ivi si mostrano gli spiriti contemplativi, principali soggetti del quarto stato, proprio degli anacoreti: se si conta a partire dal quarto cielo del Sole, considerando questo come primo ovvero come nuovo avvio del ciclo settenario, il cielo di Saturno è appunto quarto.

VIII (V) Il settimo cielo di Saturno è seguito dal cielo delle Stelle fisse – ottavo e quinto -, dove si mostrano le schiere del trionfo di Cristo che discendono dall’Empireo (il quinto stato è caratterizzato dalla “condescensio”) e si celebra il trionfo di Maria (sviluppo del tema, proprio della quinta chiesa, della mirabile bellezza della Chiesa, regina ornata di veste aurea per la carità che unisce e circondata dalla varietà nei doni e nelle grazie delle diverse membra). È inoltre ricapitolazione dei precedenti sette, secondo un’interpretazione più volte presente nella Lectura dell’essere ‘ottavo’. Per questo Dante, stando nel segno dei Gemelli, riguarda in giù e torna col viso per tutte quante le sette precedenti sfere (Par. XXII, 124-154).

IX (VI) Segue il Primo Mobile o Cristallino – nono e sesto cielo –, dove il poeta vede il punto luminosissimo – Dio – da cui dipende il cielo e la terra, circondato dai nove cerchi di fuoco (Par. XXVIII, 16-18, 40-42, 94-96). Il sesto stato, secondo quanto Olivi afferma nel Notabile VIII, è il “punto” da cui dipendono gli altri stati, perché appare nel testo dell’Apocalisse in modo più evidente degli altri, che da esso assumono chiarezza quanto alla loro manifestazione nella storia, come l’intelligenza delle cose ordinate ad un fine dipende dal fine.

X (VII) La quiete e l’immobilità dell’Empireo, decimo cielo – il “ciel de la divina pace” -, corrispondono al settimo stato, di cui è propria la “quietatio”, il silenzio (tema anticipato dal tacere di Beatrice in apertura del canto XXIX), e la pace.

Il Paradiso avrebbe pertanto un ordine spirituale del seguente tipo:

cielo

stato

cielo

I

LUNA

I

II

MERCURIO

II

III

VENERE

III

IV

SOLE

IV

I

SOLE

V

MARTE

V

II

MARTE

VI

GIOVE

VI

III

GIOVE

VII

SATURNO

VII

IV

SATURNO

VIII

V

STELLE FISSE

IX

VI

PRIMO MOBILE

X

VII

EMPIREO

Oltre ai luoghi sopra indicati, i temi del sesto e del settimo stato si rinvengono in più punti, intrecciati con altri.

[1] Cfr. LSA, cap. XVII, Ap 17, 9: «Et subdit Ricardus quod per septem reges, et per septem capita designatos, designatur hic universus populus malorum, qui secundum septem status huius seculi determinantur. Primus scilicet ab Adam usque ad Noe. Secundus a Noe usque ad Abraam. Tertius ab Abraam usque ad Moysen. Quartus a Moys<e> usque ad David. Quintus a David usque ad Christum. Sextus a Christo usque ad Antichristum. Septimus autem sub Antichristo attribuitur». Cfr. PETRI IOHANNIS OLIVI Lectura super Lucam, Lc 1, 26, ed. F. Iozzelli, Grottaferrata 2010 (Collectio Oliviana, V), pp. 187-188: «Signanter autem dicitur in sexto mense, quia Christus uenit in sexta mundi etate, et iterum post quinque notabiles synagoge decursus: nam primo, cum sola circumcisione fuit sub patribus per quadringentos annos; secundo, accepta lege, fuit sub iudicibus per tantumdem temporis; tertio, proficiens in regnum, fuit sub regibus; quarto, assumpto plenius spiritu prophetico, fuit sub prophetis sollempnioribus, scilicet sub Elia, Ysaia et Yeremia etc.; quinto, restituto templo et urbe, fuit sub pontificibus quibus, per Aggeum et Zachariam et Malachiam iterata prophetia de Christo et eius precursore Elia, factum est silentium prophetarum, ita quod obmutuit cetus sacerdotum usque ad Iohannis ortum; et iterum in eiusdem quinti temporis sexto centenario conceptus est Christus. Sicut etiam sexto die factus est homo ad ymaginem Dei, sic conuenienter sub consimili senario factus est Christus homo, plenior Dei ymago: nam et perfectio numeri senarii, que ex omnibus partibus suis aliquotis et iterum ex ternario cum suis partibus, scilicet binario et unitate, consurgit, competit sibi et etiam reflexio ternarii per binarium, id est cultus fidei et Trinitatis per geminam caritatem».

[2] Il principio è chiaramente affermato nel notabile VIII del prologo della LSA: «[…] si omnia prima membra visionum ad invicem conferas et consimiliter omnia secunda et sic de aliis, aperte videbis omnia prima ad idem primum concorditer referri et consimiliter omnia secunda ad idem secundum et sic de aliis. Et hoc in tantum quod plena intelligentia eiusdem primi multum clarificatur ex mutua collatione omnium primorum, et idem est de omnibus secundis et tertiis et sic de aliis».

[3] A. FRUGONI, La Roma di Dante, tra il tempo e l’eterno, in ID., Pellegrini a Roma nel 1300. Cronache del primo Giubileo, presentazione di C. Frugoni, a cura e con Introduzione di F. Accrocca, Casale Monferrato 1999, pp. 102-103.

[4] LSA, cap. VI, Ap 6, 12: «Secunda ratio est quia persone Christi correspondet in sexta apertione unus ordo plurium personarum sic secundum suam proportionem augendus, sicut Christus secundum suum corpus fuit usque ad perfectam etatem viriliter auctus. […] Quarta est quia, prout super evangelia ostendi, Christus parvo tempore debuit inter nos vivere et pauciori predicare […]. Nisi autem ordo evangelicus, per Franciscum renovatus, esset in multis et saltem sub duabus vel tribus generationibus propagatus et sollempnizatus, non esset nec ipse nec populus ab eo ducendus sufficienter dispositus ad tam autenticam condempnationem condempnationi Christi consimilem subeundam».