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Dic 24 2023

Inferno XV-XVI

 

La “Divina Parodia” del Libro scritto dentro e fuori

Canti esaminati:

Inferno: I; II; III; IV; V; VI; VII; VIII; IX; X; XI; XII; XIII; XIV; XV; XVI; XVII; XVIII; XIX; XX; XXI; XXII; XXVI; XXXII, 124-XXXIII, 90
Purgatorio: III; XXVIII
Paradiso: XI-XII; XXXIII


Inferno
XV

1. “Siete voi qui, ser Brunetto?”: una gara di umiltà tra maestro e discepolo. 2. La “sementa santa” dei Romani. 3. “La cara e buona imagine paterna”. 4. ‘Beato chi ascolta, conserva e scrive’. 5. Il nome vive ancora. 6. L’apparente vittoria nello stadio. Appendice. “e litterati grandi e di gran fama, / d’un peccato medesmo al mondo lerci”: reminiscenze del Fiore.

Inferno XVI

1. Il rombo dei carri da guerra. 2. “L’ovra di voi e li onorati nomi”. 3. La superbia fiorentina. 4. Il fiume dal nome vacante. 5. La corda. 6. La bestia che sale dal mare. Avvertenze. Abbreviazioni.

 

Legenda [3]: numero dei versi; 6, 8: collegamento ipertestuale all’esegesi, nella Lectura di Olivi, di capitolo e versetto dell’Apocalisse [Ap]; Not. VII: collegamento all’esegesi contenuta nei tredici notabilia del prologo della LecturaVarianti rispetto al testo del Petrocchi.

Vengono qui esposti i canti XV e XVI dell’Inferno con i corrispondenti legami ipertestuali con i luoghi della Lectura super Apocalipsim ai quali i versi si riferiscono. L’intero poema è esposto nella Topografia spirituale della Commedia (2013, PDF; cfr. infra), ma si sta procedendo a un esame progressivo e aggiornato dei singoli canti. Ogni tabella sinottica, qui presentata o alla quale si rinvia in quanto già esaminata in altra sede, è preceduta o seguita da una parte esplicativa. Per la posizione di Inf. XV e XVI nella topografia della prima cantica cfr. infra. Sull’uso dei colori cfr. Avvertenze.

Quintus status: prologus, Notabilia [Not.]; I visio, V ecclesia (Sardis: 3, 1-6); II visio, V sigillum (6, 9-11 [5, 1]); III visio, V tuba (9. 1-12); IV visio, V prelium (12, 17-18); V visio, V phiala (16, 10-11); VI visio (18, 4-7).

Inferno XV

Ora cen porta l’un de’ duri margini;   6, 8
e ’l fummo del ruscel di sopra aduggia,   9, 1-2
sì che dal foco salva l’acqua e li argini.   [3]

Quali Fiamminghi tra Guizzante e Bruggia,
temendo ’l fiotto che ’nver’ lor s’avventa,   6, 12-17
fanno lo schermo perché ’l mar si fuggia;   [6]   9, 1-2

e quali Padoan lungo la Brenta,
per difender lor ville e lor castelli,
anzi che Carentana il caldo senta:   [9]   Chiarentana

a tale imagine eran fatti quelli,
tutto che né sì alti né sì grossi,
qual che si fosse, lo maestro félli.   [12]

Già eravam da la selva rimossi   12, 6
tanto, ch’i’ non avrei visto dov’ era,
perch’ io in dietro rivolto mi fossi,   [15]

quando incontrammo d’anime una schiera   5, 1
che venian lungo l’argine, e ciascuna
ci riguardava come suol da sera   [18]   3, 3; Not. VII

guardare uno altro sotto nuova luna;   8, 12
e sì ver’ noi aguzzavan le ciglia   Not. VI
come ’l vecchio sartor fa ne la cruna.   [21]   Not. III

Così adocchiato da cotal famiglia,   5, 1
fui conosciuto da un, che mi prese
per lo lembo e gridò: « Qual maraviglia! ».   [24]   3, 5; 5, 2

E io, quando ’l suo braccio a me distese,   9, 3
ficcaï li occhi per lo cotto aspetto,
sì che ’l viso abbrusciato non difese   [27]

la conoscenza süa al mio ’ntelletto;
e chinando la mano a la sua faccia,   Not. III; 1, 17    mia
 rispuosi: « Siete voi qui, ser Brunetto? ».   [30]   7, 13

E quelli: « O figliuol mio, non ti dispiaccia   8, 3
se Brunetto Latino un poco teco   6, 8
ritorna ’n dietro e lascia andar la traccia ».   [33]   18, 4

I’ dissi lui: « Quanto posso, ven preco;   8, 3
e se volete che con voi m’asseggia,   Not. V
faròl, se piace a costui che vo seco ».   [36]   8, 3

« O figliuol », disse, « qual di questa greggia   5, 1
s’arresta punto, giace poi cent’ anni   Not. III
sanz’ arrostarsi quando ’l foco il feggia.   [39]

Però va oltre: i’ ti verrò a’ panni;   3, 5
e poi rigiugnerò la mia masnada,
che va piangendo i suoi etterni danni ».   [42]

Io non osava scender de la strada   3, 5
per andar par di lui; ma ’l capo chino   Not. III
tenea com’ uom che reverente vada.   [45]   22, 8-9 (19, 10)

El cominciò: « Qual fortuna o destino
anzi l’ultimo dì qua giù ti mena?
e chi è questi che mostra ’l cammino? ».   [48]   7, 13; 5, 1; 14, 4

« Là sù di sopra, in la vita serena »,
rispuos’ io lui, « mi smarri’ in una valle,   3, 2-3
avanti che l’età mia fosse piena.   [51]   3, 2

Pur ier mattina le volsi le spalle:   1, 10-11
questi m’apparve, tornand’ ïo in quella,
e reducemi a ca per questo calle ».   [54]   1, 10-11 (17, 18)

Ed elli a me: « Se tu segui tua stella,   3, 5; 3, 1
non puoi fallire a glorïoso porto,
se ben m’accorsi ne la vita bella;   [57]

e s’io non fossi sì per tempo morto,
veggendo il cielo a te così benigno,
dato t’avrei a l’opera conforto.   [60]   6, 11

Ma quello ingrato popolo maligno   Not. V (17, 6); 8, 7
che discese di Fiesole ab antico,
e tiene ancor del monte e del macigno,   [63]   4, 1-2

ti si farà, per tuo ben far, nimico;   17, 6
ed è ragion, ché tra li lazzi sorbi
si disconvien fruttare al dolce fico.   [66]   18, 4; 9, 4 (8, 7)

Vecchia fama nel mondo li chiama orbi;
gent’ è avara, invidiosa e superba:
dai lor costumi fa che tu ti forbi.   [69]

La tua fortuna tanto onor ti serba,
che l’una parte e l’altra avranno fame   9, 5-6
di te; ma lungi fia dal becco l’erba.   [72]   9, 4

Faccian le bestie fiesolane strame   16, 10
di lor medesme, e non tocchin la pianta,   3, 12
s’alcuna surge ancora in lor letame,   [75]

in cui riviva la sementa santa   13, 18; 12, 17
di que’ Roman che vi rimaser quando   Not. V
fu fatto il nido di malizia tanta ».   [78]   18, 2; Not. V

« Se fosse tutto pieno il mio dimando »,   3, 2
rispuos’ io lui, « voi non sareste ancora
de l’umana natura posto in bando;   [81]

ché ’n la mente m’è fitta, e or m’accora,   3, 12
la cara e buona imagine paterna
di voi quando nel mondo ad ora ad ora   [84]

m’insegnavate come l’uom s’etterna:   Not. I; 14, 13
e quant’ io l’abbia in grado, mentr’ io vivo
convien che ne la mia lingua si scerna.   [87]

Ciò che narrate di mio corso scrivo,   1, 3
e serbolo a chiosar con altro testo 1, 3 (3, 3; 22, 8-9)
a donna che saprà, s’a lei arrivo.   [90]

Tanto vogl’ io che vi sia manifesto,   1, 1
pur che mia coscïenza non mi garra,   6, 11
ch’a la Fortuna, come vuol, son presto.   [93]

Non è nuova a li orecchi miei tal arra:   Not. VII
però giri Fortuna la sua rota   9, 9
come le piace, e ’l villan la sua marra ».   [96]

Lo mio maestro allora in su la gota
destra si volse in dietro e riguardommi;
poi disse: « Bene ascolta chi la nota ».   [99]   1, 3; 3, 4

Né per tanto di men parlando vommi
con ser Brunetto, e dimando chi sono   7, 13
li suoi compagni più noti e più sommi.   [102]   3, 4-5

Ed elli a me: « Saper d’alcuno è buono;   3, 4
de li altri fia laudabile tacerci,   Not. III
ché ’l tempo saria corto a tanto suono.   [105]

In somma sappi che tutti fur cherci   9, 1-2
e litterati grandi e di gran fama,   3, 1.5
d’un peccato medesmo al mondo lerci.   [108]

Priscian sen va con quella turba grama,   7, 9
e Francesco d’Accorso anche; e vedervi,
s’avessi avuto di tal tigna brama,   [111]

colui potei che dal servo de’ servi
fu trasmutato d’Arno in Bacchiglione,   Not. VII
dove lasciò li mal protesi nervi.   [114]   5, 5

Di più direi; ma ’l venire e ’l sermone
più lungo esser non può, però ch’i’ veggio
là surger nuovo fummo del sabbione.   [117]   9, 1-2; 12, 18

Gente vien con la quale esser non deggio.   7, 9.13
Sieti raccomandato il mio Tesoro,   3, 5
nel qual io vivo ancora, e più non cheggio ».   [120]

Poi si rivolse, e parve di coloro   6, 2
che corrono a Verona il drappo verde   21, 16
per la campagna; e parve di costoro
quelli che vince, non colui che perde.   [124]


***

 

Inferno XVI

Già era in loco onde s’udia ’l rimbombo
de l’acqua che cadea ne l’altro giro,
simile a quel che l’arnie fanno rombo,   [3]   9, 9

quando tre ombre insieme si partiro,   9, 12
correndo, d’una torma che passava
sotto la pioggia de l’aspro martiro.   [6]   1, 15; 2, 1

Venian ver’ noi, e ciascuna gridava:
« Sòstati tu ch’a l’abito ne sembri   16, 10
essere alcun di nostra terra prava ».   [9]   11, 18

Ahimè, che piaghe vidi ne’ lor membri,   11, 6 (9, 5-6)
ricenti e vecchie, da le fiamme incese!
Ancor men duol pur ch’i’ me ne rimembri.   [12]

A le lor grida il mio dottor s’attese;
volse ’l viso ver’ me, e « Or aspetta »,   6, 11
disse, « a costor si vuole esser cortese.   [15]   22, 17

E se non fosse il foco che saetta
la natura del loco, i’ dicerei
che meglio stesse a te che a lor la fretta ».   [18]

Ricominciar, come noi restammo, ei   Not. III
l’antico verso; e quando a noi fuor giunti,
fenno una rota di sé tutti e trei.   [21]   9, 9; 9, 12

Qual sogliono i campion far nudi e unti,
avvisando lor presa e lor vantaggio,
prima che sien tra lor battuti e punti,   [24]   1, 7

così rotando, ciascuno il visaggio   9, 9
drizzava a me, sì che ’n contraro il collo
faceva ai piè continüo vïaggio.   [27]   2, 26-28

E « Se miseria d’esto loco sollo   12, 18
rende in dispetto noi e nostri prieghi »,   1, 7
cominciò l’uno, « e ’l tinto aspetto e brollo,   [30]

la fama nostra il tuo animo pieghi   3, 1.5
a dirne chi tu se’, che i vivi piedi
così sicuro per lo ’nferno freghi.   [33]   2, 11 (6, 11)

Questi, l’orme di cui pestar mi vedi,
tutto che nudo e dipelato vada,
fu di grado maggior che tu non credi:   [36]

nepote fu de la buona Gualdrada;
Guido Guerra ebbe nome, e in sua vita   3, 1.4.5
fece col senno assai e con la spada.   [39]

L’altro, ch’appresso me la rena trita,   12, 18
è Tegghiaio Aldobrandi, la cui voce
nel mondo sù dovria esser gradita.   [42]

E io, che posto son con loro in croce,   9, 5-6
Iacopo Rusticucci fui, e certo
la fiera moglie più ch’altro mi nuoce ».   [45]

S’i’ fossi stato dal foco coperto,   6, 9.11
gittato mi sarei tra lor di sotto,
e credo che ’l dottor l’avria sofferto;   [48]   2, 3

ma perch’ io mi sarei brusciato e cotto,
vinse paura la mia buona voglia
che di loro abbracciar mi facea ghiotto.   [51]

Poi cominciai: « Non dispetto, ma doglia   1, 7
la vostra condizion dentro mi fisse,
tanta che tardi tutta si dispoglia,   [54]   3, 3; 16, 15

tosto che questo mio segnor mi disse
parole per le quali i’ mi pensai
che qual voi siete, tal gente venisse.   [57]

Di vostra terra sono, e sempre mai
l’ovra di voi e li onorati nomi   3, 1.4.5
con affezion ritrassi e ascoltai.   [60]   1, 3

Lascio lo fele e vo per dolci pomi   Not. XIII
promessi a me per lo verace duca;   3, 7
ma ’nfino al centro pria convien ch’i’ tomi ».   [63]

« Se lungamente l’anima conduca
le membra tue », rispuose quelli ancora,
« e se la fama tua dopo te luca,   [66]   3, 1.5

cortesia e valor dì se dimora   22, 17; 5, 1
ne la nostra città sì come suole,   18, 10
o se del tutto se n’è gita fora;   [69]

ché Guiglielmo Borsiere, il qual si duole   9, 5-6
con noi per poco e va là coi compagni,
assai ne cruccia con le sue parole ».   [72]

« La gente nuova e i sùbiti guadagni   18, 12 (5, 1)
orgoglio e dismisura han generata,   Not. XII; 6, 5
Fiorenza, in te, sì che tu già ten piagni ».   [75]   18, 10

Così gridai con la faccia levata;
e i tre, che ciò inteser per risposta,
guardar l’un l’altro com’ al ver si guata.   [78]   9, 9

« Se l’altre volte sì poco ti costa »,
rispuoser tutti, « il satisfare altrui,
felice te se sì parli a tua posta!   [81]   3, 8 (1, 7); 1, 4

Però, se campi d’esti luoghi bui   6, 2
e torni a riveder le belle stelle,   3, 12; 3, 1
quando ti gioverà dicere “I’ fui”,   [84]   1, 18

fa che di noi a la gente favelle ».   3, 8 (1, 7)
Indi rupper la rota, e a fuggirsi   9, 9
ali sembiar le gambe loro isnelle.   [87]   18, 2

Un amen non saria possuto dirsi   1, 7
tosto così com’ e’ fuoro spariti;
per ch’al maestro parve di partirsi.   [90]

Io lo seguiva, e poco eravam iti,
che ’l suon de l’acqua n’era sì vicino,   14, 2 (5, 5)
che per parlar saremmo a pena uditi.   [93]

Come quel fiume c’ha proprio cammino   17, 6; 3, 4
prima dal Monte Viso ’nver’ levante,   14, 1     Veso
da la sinistra costa d’Apennino,   [96]   Not. VII

che si chiama Acquacheta suso, avante   3, 4
che si divalli giù nel basso letto,
e a Forlì di quel nome è vacante,   [99]

rimbomba là sovra San Benedetto
de l’Alpe per cadere ad una scesa   IV status  17, 6  V status
ove dovea per mille esser recetto;   [102]   Not. V   dovria

così, giù d’una ripa discoscesa,
trovammo risonar quell’ acqua tinta,   14, 2; 17, 3
sì che ’n poc’ ora avria l’orecchia offesa.   [105]

Io avea una corda intorno cinta,   6, 2; 1, 13
e con essa pensai alcuna volta
prender la lonza a la pelle dipinta.   [108]

Poscia ch’io l’ebbi tutta da me sciolta,   20, 3
sì come ’l duca m’avea comandato,
porsila a lui aggroppata e ravvolta.   [111]   5, 5

Ond’ ei si volse inver’ lo destro lato,
e alquanto di lunge da la sponda
la gittò giuso in quell’ alto burrato.   [114]

‘E’ pur convien che novità risponda’,   9, 13 (6, 2)
dicea fra me medesmo, ‘al novo cenno   1, 14
che ’l maestro con l’occhio sì seconda’.   [117]

Ahi quanto cauti li uomini esser dienno   9, 13
presso a color che non veggion pur l’ovra,
ma per entro i pensier miran col senno!   [120]   2, 1

El disse a me: « Tosto verrà di sovra   3, 9; 13, 3
ciò ch’io attendo e che il tuo pensier sogna;   6, 11
tosto convien ch’al tuo viso si scovra ».   [123]

Sempre a quel ver c’ha faccia di menzogna
de’ l’uom chiuder le labbra fin ch’el puote,   10, 4
però che sanza colpa fa vergogna;   [126]

ma qui tacer nol posso; e per le note
di questa comedìa, lettor, ti giuro,   10, 5-7
s’elle non sien di lunga grazia vòte,   [129]

ch’i’ vidi per quell’ aere grosso e scuro   9, 1-2; 13, 3
venir notando una figura in suso,   6, 6
maravigliosa ad ogne cor sicuro,   [132]   13, 3 (Not. X); 6, 11

sì come torna colui che va giuso   3, 12
talora a solver l’àncora ch’aggrappa   20, 3
o scoglio o altro che nel mare è chiuso,   13, 3
che ’n sù si stende e da piè si rattrappa.   [136]   Not. XI

Vengono posti a confronto Inf. VII, 97-130, VIII, IX, 1-105 con XV-XVI, canti nei quali, rispettivamente nel primo e nel secondo ciclo settenario dell’Inferno, i temi del quinto stato prevalgono, semanticamente elaborati dalla parodia dantesca. La tematica si estende oltre i confini del singolo canto e, come mostrato nelle tabelle complessive, si intreccia con molti motivi propri di altri gruppi esegetici relativi agli status o periodi della storia della Chiesa. Rispetto al primo gruppo di canti (269 versi), il secondo (260 versi) mostra maggiore sviluppo nelle occorrenze semantiche relative al quinto stato che rinviano alla Lectura super Apocalipsim (VII: 10, VIII: 23, IX: 13; totale della zona: 46 / XV: 35, XVI: 30; totale della zona: 65): prologo (VII: 1, VIII: 0, IX: 0 / XV: 8, XVI: 2); quinta chiesa (VII: 1, VIII: 3, IX: 3 / XV: 13, XVI: 7); quinto sigillo (VII: 4, VIII: 7, IX: 1 / XV: 2, XVI: 5); quinta tromba (VII: 4, VIII: 5, IX: 7 / XV: 8, XVI: 13); quinta guerra (VII: 0, VIII: 6, IX: 2 / XV: 1, XVI: 2); quinta coppa (VII: 0, VIII: 2, IX: 0 / XV: 1, XVI: 1); VI visione, quinta parte (VII: 0, VIII: 0, IX: 0 / XV: 2, XVI: 0).
La parodia si esercita su luoghi, comuni ai due canti, riferibili a stati diversi dal quinto, propri del prologo (Notabili III, XII, relativi al quarto stato); dell’esegesi dei primi versetti (1, 1.3); delle parti proemiali alla prima visione (1, 10-11.13.14.18) e alla seconda visione (5, 5); del quarto sigillo (6, 8); del sesto sigillo (5, 1; 7, 13, in collazione con 5, 2).
Poiché si tratta di zone dove prevale la tematica del quinto stato, questa sfocia nel sesto, i cui motivi segnano la conclusione dei cicli settenari (cfr. altrove circa la presenza nell’Inferno dei temi del settimo stato).
Da rilevare in Inf. VIII, a partire dal verso 67, il largo uso di temi della settima visione.

Primo ciclo

Secondo ciclo

Inferno VII, 97-130 – VIII IX, 1-105

Inferno XV XVI

Inf. VII, 97-130

« Or discendiamo omai a maggior pieta;   7, 7
già ogne stella cade che saliva   8, 12           Not. III
quand’ io mi mossi, e ’l troppo star si vieta ».   [99]
Noi ricidemmo il cerchio a l’altra riva
sovr’ una fonte che bolle e riversa
per un fossato che da lei deriva.   [102]
L’acqua era buia assai più che persa;
e noi, in compagnia de l’onde bige,   3, 5
intrammo giù per una via diversa.   [105]   6, 9.11
In la palude va c’ha nome Stige
questo tristo ruscel, quand’ è disceso   Not. I
al piè de le maligne piagge grige.   [108]
E io, che di mirare stava inteso,   Not. III
vidi genti fangose in quel pantano,
ignude tutte, con sembiante offeso.   [111]   9, 5
Queste si percotean non pur con mano,   8, 12
ma con la testa e col petto e coi piedi,
troncandosi co’ denti a brano a brano.   [114]   9, 8
Lo buon maestro disse: « Figlio, or vedi
l’anime di color cui vinse l’ira;   9, 5
e anche vo’ che tu per certo credi   [117]
che sotto l’acqua è gente che sospira,   6, 9.11
e fanno pullular quest’ acqua al summo,
come l’occhio ti dice, u’ che s’aggira.   [120]
Fitti nel limo dicon: “Tristi fummo   5, 1
ne l’aere dolce che dal sol s’allegra,   9, 2
portando dentro accidïoso fummo:   [123]
or ci attristiam ne la belletta negra”.   5, 1
Quest’ inno si gorgoglian ne la strozza,
ché dir nol posson con parola integra ».   [126]
Così girammo de la lorda pozza
grand’ arco, tra la ripa secca e ’l mézzo,
con li occhi vòlti a chi del fango ingozza.
Venimmo al piè d’una torre al da sezzo.   [130]

Inf. VIII

Io dico, seguitando, ch’assai prima
che noi fossimo al piè de l’alta torre,
li occhi nostri n’andar suso a la cima   [3]
per due fiammette che i vedemmo porre,
e un’altra da lungi render cenno,
tanto ch’a pena il potea l’occhio tòrre.   [6]
E io mi volsi al mar di tutto ’l senno;
dissi: « Questo che dice? e che risponde   7, 13
quell’ altro foco? e chi son quei che ’l fenno? ».   [9]
Ed elli a me: « Su per le sucide onde
già scorgere puoi quello che s’aspetta,   6, 9-11
se l fummo del pantan nol ti nasconde ».   [12]   9, 2
Corda non pinse mai da sé saetta
che sì corresse via per l’aere snella,
com’ io vidi una nave piccioletta   [15]
venir per l’acqua verso noi in quella,
sotto ’l governo d’un sol galeoto,
che gridava: « Or se’ giunta, anima fella! ».   [18]
« Flegïàs, Flegïàs, tu gridi a vòto »,
disse lo mio segnore, « a questa volta:
più non ci avrai che sol passando il loto ».  [21]   3, 5
Qual è colui che grande inganno ascolta
che li sia fatto, e poi se ne rammarca,
fecesi Flegïàs ne l’ira accolta.   [24]   9, 5; 16, 11
Lo duca mio discese ne la barca,   3, 5
e poi mi fece intrare appresso lui;
e sol quand’ io fui dentro parve carca.   [27]
Tosto che ’l duca e io nel legno fui,
segando se ne va l’antica prora
de l’acqua più che non suol con altrui.   [30]
Mentre noi corravam la morta gora,
dinanzi mi si fece un pien di fango,
e disse: « Chi se’ tu che vieni anzi ora? ».   [33]   7, 13
E io a lui: « S’i’ vegno, non rimango;   12, 17
ma tu chi se’, che sì se’ fatto brutto? ».   7, 13
Rispuose: « Vedi che son un che piango ».   [36]
E io a lui: « Con piangere e con lutto,
spirito maladetto, ti rimani;   5, 1; 12, 17
ch’i’ ti conosco, ancor sie lordo tutto ».   [39]
Allor distese al legno ambo le mani;   9, 3
per che ’l maestro accorto lo sospinse,
dicendo: « Via costà con li altri cani! ».   [42]
Lo collo poi con le braccia mi cinse;
basciommi ’l volto e disse: « Alma sdegnosa,
benedetta colei che ’n te s’incinse!   [45]
Quei fu al mondo persona orgogliosa;   Not. XII
bontà non è che sua memoria fregi:
così s’è l’ombra sua qui furïosa.   [48]
Quanti si tegnon or là sù gran regi   9, 7
che qui staranno come porci in brago,
di sé lasciando orribili dispregi! ».   [51]
E io: « Maestro, molto sarei vago
di vederlo attuffare in questa broda
prima che noi uscissimo del lago ».   [54]
Ed elli a me: « Avante che la proda
ti si lasci veder, tu sarai sazio:
di tal disïo convien che tu goda ».   [57]   6, 10
Dopo ciò poco vid’ io quello strazio
far di costui a le fangose genti,
che Dio ancor ne lodo e ne ringrazio.   [60]
Tutti gridavano: « A Filippo Argenti! »;  5, 1 (6, 10)
e ’l fiorentino spirito bizzarro
in sé medesmo si volvea co’ denti.   [63]   16, 10-11
Quivi il lasciammo, che più non ne narro;
ma ne l’orecchie mi percosse un duolo,
per ch’io avante l’occhio intento sbarro.   [66]
Lo buon maestro disse: « Omai, figliuolo,
s’appressa la città c’ha nome Dite,
coi gravi cittadin, col grande stuolo ».   [69]
E io: « Maestro, già le sue meschite
là entro certe ne la valle cerno,
vermiglie come se di foco uscite [72]
fossero ». Ed ei mi disse: « Il foco etterno
ch’entro l’affoca le dimostra rosse,
come tu vedi in questo basso inferno ».   [75]
Noi pur giugnemmo dentro a l’alte fosse
che vallan quella terra sconsolata:
le mura mi parean che ferro fosse.   [78]
Non sanza prima far grande aggirata,
venimmo in parte dove il nocchier forte
« Usciteci », gridò: « qui è l’intrata ».   [81]
Io vidi più di mille in su le porte
da ciel piovuti, che stizzosamente
dicean: « Chi è costui che sanza morte   [84]
va per lo regno de la morta gente? ».   6, 8
E ’l savio mio maestro fece segno
di voler lor parlar segretamente.   [87]
Allor chiusero un poco il gran disdegno
e disser: « Vien tu solo, e quei sen vada   12, 17
che sì ardito intrò per questo regno.   [90]
Sol si ritorni per la folle strada:
pruovi, se sa; ché tu qui rimarrai,   12, 17
che li ha’ iscorta sì buia contrada ».   [93]
Pensa, lettor, se io mi sconfortai
nel suon de le parole maladette,   5, 1
ché non credetti ritornarci mai.   [96]
« O caro duca mio, che più di sette   1, 10-12
volte m’hai sicurtà renduta e tratto
d’alto periglio che ’ncontra mi stette,   [99]
non mi lasciar », diss’ io, « così disfatto;
e se ’l passar più oltre ci è negato,
ritroviam l’orme nostre insieme ratto ».   [102]
E quel segnor che lì m’avea menato,
mi disse: « Non temer; ché ’l nostro passo
non ci può tòrre alcun: da tal n’è dato.   [105]
Ma qui m’attendi, e lo spirito lasso   6, 11
conforta e ciba di speranza buona,
ch’i’ non ti lascerò nel mondo basso ».   [108]
Così sen va, e quivi m’abbandona
lo dolce padre, e io rimagno in forse,   12, 17; 9, 5-6
che sì e no nel capo mi tenciona.   [111]
Udir non potti quello ch’a lor porse;
ma ei non stette là con essi guari,   6, 11
che ciascun dentro a pruova si ricorse.   [114]
Chiuser le porte que’ nostri avversari
nel petto al mio segnor, che fuor rimase  12, 17
e rivolsesi a me con passi rari.   [117]
Li occhi a la terra e le ciglia avea rase
d’ogne baldanza, e dicea ne’ sospiri:
« Chi m’ha negate le dolenti case! ».   [120]
E a me disse: « Tu, perch’ io m’adiri,
non sbigottir, ch’io vincerò la prova,
qual ch’a la difension dentro s’aggiri.   [123]
Questa lor tracotanza non è nova;
ché già l’usaro a men segreta porta,
la qual sanza serrame ancor si trova.   [126]
Sovr’ essa vedestù la scritta morta:
e già di qua da lei discende l’erta,   3, 5
passando per li cerchi sanza scorta,
tal che per lui ne fia la terra aperta ».   [130]

Inf. IX, 1-105

Quel color che viltà di fuor mi pinse
veggendo il duca mio tornare in volta,
più tosto dentro il suo novo ristrinse.   [3]
Attento si fermò com’ uom ch’ascolta;   1, 3; 3, 3
ché l’occhio nol potea menare a lunga
per l’aere nero e per la nebbia folta.   [6]   9, 2
« Pur a noi converrà vincer la punga »,   9, 5-6
cominciò el, « se non  … Tal ne sofferse.
Oh quanto tarda a me ch’altri qui giunga!». [9] 6, 10
I’ vidi ben sì com’ ei ricoperse
lo cominciar con l’altro che poi venne,
che fur parole a le prime diverse;   [12]
ma nondimen paura il suo dir dienne,
perch’ io traeva la parola tronca
forse a peggior sentenzia che non tenne.   [15]
« In questo fondo de la trista conca
discende mai alcun del primo grado,   3, 5
che sol per pena ha la speranza cionca? ».   [18]
Questa question fec’ io; e quei  « Di rado   5, 2
incontra », mi rispuose, « che di noi   7, 13
faccia il cammino alcun per qual io vado.   [21]
Ver è ch’altra fïata qua giù fui,   1, 18
congiurato da quella Eritón cruda
che richiamava l’ombre a’ corpi sui.   [24]
Di poco era di me la carne nuda,
ch’ella mi fece intrar dentr’ a quel muro,
per trarne un spirto del cerchio di Giuda[27]   1, 18
Quell’ è ’l più basso loco e ’l più oscuro,
e ’l più lontan dal ciel che tutto gira:
ben so ’l cammin; però ti fa sicuro.   [30]   1, 18
Questa palude che ’l gran puzzo spira
cigne dintorno la città dolente,
u’ non potemo intrare omai sanz’ ira ».   [33]   5, 1 
E altro disse, ma non l’ho a mente;
però che l’occhio m’avea tutto tratto
ver’ l’alta torre a la cima rovente,   [36]
dove in un punto furon dritte ratto   Not. VIII
tre furïe infernal di sangue tinte,   16, 13; 17, 3
che membra feminine avieno e atto,   [39]
e con idre verdissime eran cinte;   1, 13
serpentelli e ceraste avien per crine,   1, 14
onde le fiere tempie erano avvinte.   [42]
E quei, che ben conobbe le meschine
de la regina de l’etterno pianto,
« Guarda », mi disse, « le feroci Erine.   [45]
Quest’ è Megera dal sinistro canto;
quella che piange dal destro è Aletto;
Tesifón è nel mezzo »; e tacque a tanto.   [48]
Con l’unghie si fendea ciascuna il petto;
battiensi a palme e gridavan sì alto,
ch’i’ mi strinsi al poeta per sospetto.   [51]
« Vegna Medusa: sì ’l farem di smalto »,
dicevan tutte riguardando in giuso;
« mal non vengiammo in Tesëo l’assalto ».   [54]
« Volgiti ’n dietro e tien lo viso chiuso;   10, 4
ché se ’l Gorgón si mostra e tu ’l vedessi,
nulla sarebbe di tornar mai suso ».   [57]
Così disse ’l maestro; ed elli stessi
mi volse, e non si tenne a le mie mani,
che con le sue ancor non mi chiudessi.   [60]  10, 4
O voi ch’avete li ’ntelletti sani,   13, 9
mirate la dottrina che s’asconde
sotto ’l velame de li versi strani.   [63]   10, 7; 5, 1
E già venìa su per le torbide onde                    9, 9
un fracasso d’un suon, pien di spavento,   6, 12-14
per cui tremavano amendue le sponde,   [66]   10, 3
non altrimenti fatto che d’un vento   12, 18
impetüoso per li avversi ardori,   10, 2
che fier la selva e sanz’ alcun rattento   [69]   9, 14
li rami schianta, abbatte e porta fori;
dinanzi polveroso va superbo,   12, 18
e fa fuggir le fiere e li pastori.   [72]   6, 12-14
Li occhi mi sciolse e disse: « Or drizza il nerbo
del viso su per quella schiuma antica
per indi ove quel fummo è più acerbo ».   [75]   9, 2
Come le rane innanzi a la nimica
biscia per l’acqua si dileguan tutte,
fin ch’a la terra ciascuna s’abbica,   [78]
vid’ io più di mille anime distrutte
fuggir così dinanzi ad un ch’al passo   6, 12-14
passava Stige con le piante asciutte.   [81]   9, 14
Dal volto rimovea quell’ aere grasso,   9, 2
menando la sinistra innanzi spesso;
e sol di quell’ angoscia parea lasso.   [84]
Ben m’accorsi ch’elli era da ciel messo,
e volsimi al maestro; e quei fé segno
ch’i’ stessi queto ed inchinassi ad esso.   [87]   19, 10
Ahi quanto mi parea pien di disdegno!   10, 3
Venne a la porta e con una verghetta   2, 1; 11, 1
l’aperse, che non v’ebbe alcun ritegno.[90]9, 14
« O cacciati del ciel, gente dispetta »,   11, 8-9
cominciò elli in su l’orribil soglia,
« ond’ esta oltracotanza in voi s’alletta?   [93]
Perché recalcitrate a quella voglia
a cui non puote il fin mai esser mozzo,
e che più volte v’ha cresciuta doglia?   [96]
Che giova ne le fata dar di cozzo?
Cerbero vostro, se ben vi ricorda,   3, 3
ne porta ancor pelato il mento e ’l gozzo ».   [99]
Poi si rivolse per la strada lorda,
e non fé motto a noi, ma fé sembiante   9, 5-6
d’omo cui altra cura stringa e morda   [102]
che quella di colui che li è davante;
e noi movemmo i piedi inver’ la terra5, 5
sicuri appresso le parole sante.   [105]

Inf. XV

Ora cen porta l’un de’ duri margini;   
6, 8
e ’l fummo del ruscel di sopra aduggia,   9, 1-2
sì che dal foco salva l’acqua e li argini.   [3]
Quali Fiamminghi tra Guizzante e Bruggia,
temendo ’l fiotto che ’nver’ lor s’avventa,   6, 12-17
fanno lo schermo perché ’l mar si fuggia;   [6]   9, 1-2
e quali Padoan lungo la Brenta,
per difender lor ville e lor castelli,
anzi che Carentana il caldo senta:   [9]
a tale imagine eran fatti quelli,
tutto che né sì alti né sì grossi,
qual che si fosse, lo maestro félli.   [12]
Già eravam da la selva rimossi
tanto, ch’i’ non avrei visto dov’ era,
perch’ io in dietro rivolto mi fossi,   [15]
quando incontrammo d’anime una schiera   5, 1
che venian lungo l’argine, e ciascuna           Not. VII
ci riguardava come suol da sera   [18]   3, 3
guardare uno altro sotto nuova luna;   8, 12
e sì ver’ noi aguzzavan le ciglia
come ’l vecchio sartor fa ne la cruna.   [21]  Not. III
Così adocchiato da cotal famiglia,   5, 1
fui conosciuto da un, che mi prese   5, 2
per lo lembo e gridò: « Qual maraviglia! ». [24]   3, 5
E io, quando ’l suo braccio a me distese,   9, 3
ficcaï li occhi per lo cotto aspetto,
sì che ’l viso abbrusciato non difese   [27]
la conoscenza süa al mio ’ntelletto;
e chinando la mano a la sua faccia,   Not. III
rispuosi: « Siete voi qui, ser Brunetto? ».  [30]   7, 13
E quelli: « O figliuol mio, non ti dispiaccia
se Brunetto Latino un poco teco   6, 8
ritorna ’n dietro e lascia andar la traccia ». [33] 18, 4
I’ dissi lui: « Quanto posso, ven preco;
e se volete che con voi m’asseggia,   Not. V
faròl, se piace a costui che vo seco ».   [36]
« O figliuol », disse, « qual di questa greggia   5, 1
s’arresta punto, giace poi cent’ anni   Not. III
sanz’ arrostarsi quando ’l foco il feggia.   [39]
Però va oltre: i’ ti verrò a’ panni;   3, 5
e poi rigiugnerò la mia masnada,
che va piangendo i suoi etterni danni ».   [42]
Io non osava scender de la strada   3, 5
per andar par di lui; ma ’l capo chino   Not. III
tenea com’ uom che reverente vada.   [45]    19, 10
El cominciò: « Qual fortuna o destino
 anzi l’ultimo dì qua giù ti mena?
 e chi è questi che mostra ’l cammino? ».  [48]   7, 13
« Là sù di sopra, in la vita serena »,
rispuos’ io lui, « mi smarri’ in una valle,   3, 2-3
avanti che l’età mia fosse piena.   [51]
Pur ier mattina le volsi le spalle:   1, 10-11
questi m’apparve, tornand’ ïo in quella,
e reducemi a ca per questo calle ».   [54]
Ed elli a me: « Se tu segui tua stella,   3, 5; 3, 1 
non puoi fallire a glorïoso porto,
se ben m’accorsi ne la vita bella;   [57]
e s’io non fossi sì per tempo morto,
veggendo il cielo a te così benigno,
dato t’avrei a l’opera conforto.   [60]   6, 11
Ma quello ingrato popolo maligno   Not. V
che discese di Fiesole ab antico,
e tiene ancor del monte e del macigno,   [63]
ti si farà, per tuo ben far, nimico;
ed è ragion, ché tra li lazzi sorbi
si disconvien fruttare al dolce fico.  [66] 18, 4; 9, 4 
Vecchia fama nel mondo li chiama orbi;
gent’ è avara, invidiosa e superba:
dai lor costumi fa che tu ti forbi.   [69]
La tua fortuna tanto onor ti serba,
che l’una parte e l’altra avranno fame   9, 5-6
di te; ma lungi fia dal becco l’erba.   [72]   9, 4
Faccian le bestie fiesolane strame   16, 10
di lor medesme, e non tocchin la pianta,
s’alcuna surge ancora in lor letame,   [75]
in cui riviva la sementa santa   12, 17
di que’ Roman che vi rimaser quando   Not. V
fu fatto il nido di malizia tanta ».   [78]   Not. V
« Se fosse tutto pieno il mio dimando »,   3, 2
rispuos’ io lui, « voi non sareste ancora
de l’umana natura posto in bando;   [81]
ché ’n la mente m’è fitta, e or m’accora,
la cara e buona imagine paterna
di voi quando nel mondo ad ora ad ora   [84]
m’insegnavate come l’uom s’etterna:
e quant’ io l’abbia in grado, mentr’ io vivo
convien che ne la mia lingua si scerna.   [87]
Ciò che narrate di mio corso scrivo,   1, 3
e serbolo a chiosar con altro testo   1, 3 (3, 3)
a donna che saprà, s’a lei arrivo.   [90]
Tanto vogl’ io che vi sia manifesto,
pur che mia coscïenza non mi garra,   6, 11
ch’a la Fortuna, come vuol, son presto.   [93]
Non è nuova a li orecchi miei tal arra:
però giri Fortuna la sua rota   9, 9
come le piace, e ’l villan la sua marra ».   [96]
Lo mio maestro allora in su la gota
destra si volse in dietro e riguardommi;            3, 4
poi disse: « Bene ascolta chi la nota ». [99] 1, 3
Né per tanto di men parlando vommi
con ser Brunetto, e dimando chi sono   7, 13
li suoi compagni più noti e più sommi[102] 3, 4-5
Ed elli a me: « Saper d’alcuno è buono;
de li altri fia laudabile tacerci,
ché ’l tempo saria corto a tanto suono.   [105]
In somma sappi che tutti fur cherci   9, 1-2
e litterati grandi e di gran fama,   3, 1.5
d’un peccato medesmo al mondo lerci.   [108]
Priscian sen va con quella turba grama,   7, 9
e Francesco d’Accorso anche; e vedervi,
s’avessi avuto di tal tigna brama,   [111]
colui potei che dal servo de’ servi
fu trasmutato d’Arno in Bacchiglione,
dove lasciò li mal protesi nervi.   [114]   5, 5
Di più direi; ma ’l venire e ’l sermone
più lungo esser non può, però ch’i’ veggio          9, 1-2
là surger nuovo fummo del sabbione[117]  12, 18
Gente vien con la quale esser non deggio.   7, 9.13
Sieti raccomandato il mio Tesoro,   3, 5
nel qual io vivo ancora, e più non cheggio ».   [120]
Poi si rivolse, e parve di coloro
che corrono a Verona il drappo verde
per la campagna; e parve di costoro
quelli che vince, non colui che perde.   [124]

Inf. XVI

Già era in loco onde s’udia ’l rimbombo
de l’acqua che cadea ne l’altro giro,
simile a quel che l’arnie fanno rombo,   [3]   9, 9
quando tre ombre insieme si partiro,   9, 12
correndo, d’una torma che passava
sotto la pioggia de l’aspro martiro.   [6]
Venian ver’ noi, e ciascuna gridava:
« Sòstati tu ch’a l’abito ne sembri   16, 10
essere alcun di nostra terra prava ».   [9]
Ahimè, che piaghe vidi ne’ lor membri,   9, 5-6
ricenti e vecchie, da le fiamme incese!
Ancor men duol pur ch’i’ me ne rimembri.   [12]
A le lor grida il mio dottor s’attese;
volse ’l viso ver’ me, e « Or aspetta »,   6, 11
disse, « a costor si vuole esser cortese.   [15]
E se non fosse il foco che saetta
la natura del loco, i’ dicerei
che meglio stesse a te che a lor la fretta ».   [18]
Ricominciar, come noi restammo, ei   Not. III
l’antico verso; e quando a noi fuor giunti,
fenno una rota di sé tutti e trei.   [21]   9, 9; 9, 12
Qual sogliono i campion far nudi e unti,
avvisando lor presa e lor vantaggio,
prima che sien tra lor battuti e punti,   [24]
così rotando, ciascuno il visaggio   9, 9
drizzava a me, sì che ’n contraro il collo
faceva ai piè continüo vïaggio.   [27]
E « Se miseria d’esto loco sollo   12, 18
rende in dispetto noi e nostri prieghi »,
cominciò l’uno, « e ’l tinto aspetto e brollo,   [30]
la fama nostra il tuo animo pieghi   3, 1.5
a dirne chi tu se’, che i vivi piedi
così sicuro per lo ’nferno freghi.   [33]   6, 11
Questi, l’orme di cui pestar mi vedi,
tutto che nudo e dipelato vada,
fu di grado maggior che tu non credi:   [36]
nepote fu de la buona Gualdrada;
Guido Guerra ebbe nome, e in sua vita   3, 1.4.5
fece col senno assai e con la spada.   [39]
L’altro, ch’appresso me la rena trita,   12, 18
è Tegghiaio Aldobrandi, la cui voce
nel mondo sù dovria esser gradita.   [42]
E io, che posto son con loro in croce,   9, 5-6
Iacopo Rusticucci fui, e certo
la fiera moglie più ch’altro mi nuoce ».   [45]
S’i’ fossi stato dal foco coperto,   6, 9.11
gittato mi sarei tra lor di sotto,
e credo che ’l dottor l’avria sofferto;   [48]
ma perch’ io mi sarei brusciato e cotto,
vinse paura la mia buona voglia
che di loro abbracciar mi facea ghiotto.   [51]
Poi cominciai: « Non dispetto, ma doglia
la vostra condizion dentro mi fisse,
tanta che tardi tutta si dispoglia,   [54]   3, 3  
tosto che questo mio segnor mi disse
parole per le quali i’ mi pensai
che qual voi siete, tal gente venisse.   [57]
Di vostra terra sono, e sempre mai
l’ovra di voi e li onorati nomi   3, 1.4.5
con affezion ritrassi e ascoltai.   [60]   1, 3
Lascio lo fele e vo per dolci pomi
promessi a me per lo verace duca;
ma ’nfino al centro pria convien ch’i’ tomi ».   [63]
« Se lungamente l’anima conduca
le membra tue », rispuose quelli ancora,
« e se la fama tua dopo te luca,   [66]   3, 1.5
cortesia e valor dì se dimora
ne la nostra città sì come suole,
o se del tutto se n’è gita fora;   [69]
ché Guiglielmo Borsiere, il qual si duole   9, 5-6
con noi per poco e va là coi compagni,
assai ne cruccia con le sue parole ».   [72]
« La gente nuova e i sùbiti guadagni
orgoglio e dismisura han generata,   Not. XII
Fiorenza, in te, sì che tu già ten piagni ».   [75]
Così gridai con la faccia levata;
e i tre, che ciò inteser per risposta,
guardar l’un l’altro com’ al ver si guata.   [78]   9, 9
« Se l’altre volte sì poco ti costa »,
rispuoser tutti, « il satisfare altrui,
felice te se sì parli a tua posta!   [81]
Però, se campi d’esti luoghi bui
e torni a riveder le belle stelle,   3, 1
quando ti gioverà dicere “I’ fui”,   [84]   1, 18
fa che di noi a la gente favelle ».
Indi rupper la rota, e a fuggirsi   9, 9
ali sembiar le gambe loro isnelle.   [87]
Un amen non saria possuto dirsi
tosto così com’ e’ fuoro spariti;
per ch’al maestro parve di partirsi.   [90]
Io lo seguiva, e poco eravam iti,
che ’l suon de l’acqua n’era sì vicino,   14, 2 (5, 5)
che per parlar saremmo a pena uditi.   [93]
Come quel fiume c’ha proprio cammino   17, 6; 3, 4
prima dal Monte Viso ’nver’ levante,   14, 1
da la sinistra costa d’Apennino,   [96]   Not. VII
che si chiama Acquacheta suso, avante   3, 4
che si divalli giù nel basso letto,   Not. VII
e a Forlì di quel nome è vacante,   [99]   3, 4
rimbomba là sovra San Benedetto
de l’Alpe per cadere ad una scesa   17, 6
ove dovea per mille esser recetto;   [102]   Not. V
così, giù d’una ripa discoscesa,
trovammo risonar quell’ acqua tinta,   14, 2; 17, 3
sì che ’n poc’ ora avria l’orecchia offesa.   [105]
Io avea una corda intorno cinta,   1, 13
e con essa pensai alcuna volta
prender la lonza a la pelle dipinta.   [108]
Poscia ch’io l’ebbi tutta da me sciolta,
sì come ’l duca m’avea comandato,
porsila a lui aggroppata e ravvolta.   [111]   5, 5
Ond’ ei si volse inver’ lo destro lato,
e alquanto di lunge da la sponda
la gittò giuso in quell’ alto burrato.   [114]
‘E’ pur convien che novità risponda’,   9, 13
dicea fra me medesmo, ‘al novo cenno   1, 14
che ’l maestro con l’occhio sì seconda’.   [117]
Ahi quanto cauti li uomini esser dienno
presso a color che non veggion pur l’ovra,
ma per entro i pensier miran col senno!   [120]
El disse a me: « Tosto verrà di sovra   3, 9; 13, 3
ciò ch’io attendo e che il tuo pensier sogna;   6, 11
tosto convien ch’al tuo viso si scovra ».   [123]
Sempre a quel ver c’ha faccia di menzogna
de’ l’uom chiuder le labbra fin ch’el puote,   10, 4
però che sanza colpa fa vergogna;   [126]
ma qui tacer nol posso; e per le note
di questa comedìa, lettor, ti giuro,   10, 5-7
s’elle non sien di lunga grazia vòte,   [129]   9, 1-2
ch’i’ vidi per quell’ aere grosso e scuro   13, 3
venir notando una figura in suso,
maravigliosa ad ogne cor sicuro,   [132]  13, 3; 6, 11
sì come torna colui che va giuso   3, 12
talora a solver l’àncora ch’aggrappa
o scoglio o altro che nel mare è chiuso,   13, 3
che ’n sù si stende e da piè si rattrappa.   [136]

 

Inferno XV

 

1. “Siete voi qui, ser Brunetto?”: una gara di umiltà tra maestro e discepolo

Ora cen porta l’un de’ duri margini (v. 1). I “duri margini” di pietra del Flegetonte, i quali “fan via, che non son arsi”, sono cerniera tra Inf. XV e il canto precedente. In quanto “fatt’eran pietre”, insieme al fondo e ai lati invece riarsi del fiume, essi attribuiscono “e piedi e mano” all’immagine esegetica dell’inestinguibile Chiesa di Roma, quella appunto di Pietro (Ap 6, 8). Dall’ira di Cristo giudice è dunque salvezza la Chiesa di Pietro.

   Quali Fiamminghi tra Guizzante e Bruggia,
temendo ’l fiotto che ’nver’ lor s’avventa,
fanno lo schermo perché ’l mar si fuggia;
   e quali Padoan lungo la Brenta,
per difender lor ville e lor castelli,
anzi che Carentana il caldo senta:
   a tale imagine eran fatti quelli,
tutto che né sì alti né sì grossi,
qual che si fosse, lo maestro félli.  (vv. 4-12)

 

All’apertura del sesto sigillo (Ap 6, 12-17) un grande terremoto – interpretato sia come eventi naturali che come sovvertimenti politici – provocherà terrore negli uomini senza distinzione di stirpe o di grado, le coscienze saranno sconvolte e si convertiranno o si induriranno maggiormente. Quanti saranno indotti alla penitenza si rifugeranno fra i sassi e le spelonche dei monti petrosi – che si faranno pietosi, condiscendenti e misericordiosi -, cioè chiederanno ausilio ai santi fermi nella fede fuggendo l’irato volto di Cristo giudice: «Dixeruntque “montibus et petris” (Ap 6, 16), id est sanctis sublimibus et firmis in fide: “Cadite super nos”, per piam scilicet affectionem et condescensionem, “et abscondite nos”, per vestram scilicet intercessionem». Cristo stesso predisse mali simili, dicendo: “Figlie di Gerusalemme, non piangete su di me ma su voi stesse” (Luca 23, 28), e ancora: “allora cominceranno a dire ai monti: cadete su di noi, e ai colli: copriteci” (23, 30). Guerre e sedizioni, all’apertura del sesto sigillo, sovvertiranno le isole e i monti, cioè le città e i regni (Ap 6, 14); le isole si muoveranno e i monti saranno traslati (Ap 16, 20); verrà cioè sconvolto, in modo imprevedibile, quel che vi è di più stabile e adatto all’umana quiete in mare, oppure di più sicuro ed eminente in terra.
I “duri margini” del Flegetonte, sopra i quali il vapore che si leva dal sangue bollente fa schermo alla pioggia di fuoco, sono simili alle dighe che i Fiamminghi – “temendo ’l fiotto che ’nver’ lor s’avventa” –  tra Wissant e Bruges oppongono come schermo “perché ’l mar si fuggia” (il motivo del fuggire, nel senso di ritirarsi, appropriato non a coloro che temono ma all’oggetto del timore) o a quelle costruite dai Padovani “lungo la Brenta” per difendere le loro città e i loro borghi murati, prima che la Carinzia senta il caldo (motivo del sentir sopravvenire il giudizio divino) che fa sciogliere le nevi e ingrossa i fiumi.
Considerata l’elaborazione semantica sui temi esegetici, e la non infrequente scelta, da parte del poeta, di nomi evocativi di immagini nel lettore – “evidentius inclaruerunt omnibus mala predicta … propter illud temporale exterminium quod sibi a Dei iudicio velint nolint sentient supervenisse” (Ap 6, 15) -, al verso 9 – “anzi che Carentana il caldo senta” – è preferibile la variante Chiarentana (Inglese).

e ’l fummo del ruscel di sopra aduggia / sì che dal foco salva l’acqua e li argini (vv. 2-3). Passando dai violenti contro la persona divina che bestemmiano o dispregiano (Inf. XIV), segnati dalla tematica del quarto stato, ai sodomiti (Inf. XV e XVI), la scena cambia parzialmente, in quanto sotto la pioggia di fuoco questi ultimi non giacciono supini in terra ma camminano senza sosta. Cambia invece il periodo della storia della Chiesa che viene rappresentato. Ci si trova nel quinto stato, la cui vasta esegesi, che serve da “panno” fino all’ascesa di Gerione dall’abisso, segnata in prevalenza dai temi del sesto stato (Inf. XVI, 124-136), offre ampia tematica alle variazioni poetiche. Storicamente iniziato a partire dall’aiuto recato da Carlo Magno o da suo padre Pipino alla Chiesa romana, questo periodo dura almeno fino alla conversione di san Francesco (1206) che apre il sesto stato, ma questo, quasi cent’anni dopo quando Olivi scriveva la Lectura (completata al più tardi nel 1298), concorreva ancora con il quinto. Di una bellezza stellare nei suoi princìpi, fiorente di regole monastiche e canoniali, aperto alla vita associata delle moltitudini dopo l’austera e a lungo insostenibile solitudine degli anacoreti del precedente periodo, il quinto stato è poi caduto in rovina per rilassatezza, tanto che la Chiesa si è trasformata quasi in una nuova Babilonia: “a planta pedis usque ad verticem est fere tota ecclesia infecta et confusa et quasi nova Babilon effecta” (prologo, Notabile VII: il tema sarà applicato al simoniaco Niccolò III).
Il fumo che esce dal pozzo al suono della quinta tromba (Ap 9, 1-2) – «“fumus” erroris procedit obscurantis solem et aerem» – è parodiato nel vapore che si leva dal ruscello di sangue che ribolle e “aduggia” ricoprendo il ruscello stesso e i margini in pietra, salvandoli dalla pioggia di fuoco in modo che ci si possa camminare sopra (Inf. XV, 1-3). È da notare che “aduggiare” significa “far ombra”, ed è proprio della stirpe dei Capetingi, come dice il suo stesso fondatore che si purga fra gli avari e i prodighi, in altra zona in cui prevalgono i temi del quinto stato (Purg. XX, 43-45). Nel principio di Inf. XV tace il tema principale (il fumo) e resta quello secondario (l’adombrare). Ancora il fumo chiude l’incontro con Brunetto Latini (vv. 115-117), il quale deve lasciare Dante allorché vede sorgere “nuovo fummo” dal sabbione, trasposizione, quest’ultimo, del tema dell’“arena” proprio della quinta guerra (Ap 12, 18).

quando incontrammo d’anime una schiera / che venian lungo l’argine, e ciascuna / ci riguardava come suol da sera / guardare uno altro sotto nuova luna; / e sì ver’ noi aguzzavan le ciglia / come ’l vecchio sartor fa ne la cruna (vv. 16-21). Delle parti del giorno, il quinto stato rappresenta il declinare verso il vespro, prima che nella notte tenebrosa, quando la meretrice Babylon e la bestia che la porta sono al colmo, “vaghino tutte le bestie della selva” (Salmo 103, 20, cfr. prologo, Notabile VII). La schiera dei sodomiti viene lungo l’argine del Flegetonte “e ciascuna / ci riguardava come suol da sera / guardare uno altro sotto nuova luna”, cioè con poca luce. “Riguardare” equivale al ripensare proprio della quinta chiesa (Ap 3, 3). Fa da contrappunto un tema del quarto stato, quello della luna oscurata (Ap 8, 12: quarta tromba) poiché nel novilunio non c’è la luce della luna.
Delle età dell’uomo, il quinto stato corrisponde alla “senectus remissa” (prologo, Notabile III), per cui il tema della sera si accompagna a quello della vecchiaia: “come suol da sera … come ’l vecchio sartor fa ne la cruna” (ma “le ciglia” introducono un motivo del quarto stato: prologo, Notabile VI).

Così adocchiato da cotal famiglia, / fui conosciuto da un, che mi prese / per lo lembo e gridò: “Qual maraviglia!” … / e chinando la mano a la sua faccia, / rispuosi: “Siete voi qui, ser Brunetto?” (vv. 22-24, 29-30). L’espressione di Brunetto Latini, che prende il discepolo “per lo lembo” – “Qual maraviglia!” –, seguita dalla risposta altrettanto stupefatta di Dante – “rispuosi: ‘Siete voi qui, ser Brunetto?’”, è da ricondurre al tema, invertito e degradato rispetto all’esegesi, del meravigliato interrogare il maestro da parte del discepolo proposto da Ap 5, 2, collazionato con quanto ad Ap 7, 13 viene detto circa il rispondere domandando da parte di uno dei seniori a Giovanni: “Questi chi sono e donde vengono?”, quelli cioè che sono vestiti con bianche stole. Si tratta di un passo che offre materia rilevante, distribuita nei versi in modo diffuso, per la tematica delle agnizioni. Una ripresa dei temi è ai vv. 48, 50, 101-102, 109, 118:

«“Qual maraviglia!” … Siete voi qui, ser Brunetto?” … chi è questi che mostra ’l cammino?” … rispuos’ io lui … e dimando chi sono / li suoi compagni … “Priscian sen va con quella turba grama … Gente vien con la quale esser non deggio” – quia talis modus querendi sensibilius designat altam admirationem querentis et raritatem ac difficultatem et arduitatem inventionis rei quesite (Ap 5, 2) … Sequitur (Ap 7, 9): “Post h<e>c vidi turbam magnam”. … “Turbam”, inquam, non solum ex una gente vel lingua existente<m>, sed “ex omnibus gentibus et tribubus et populis et linguis … Et respondit” (Ap 7, 13), id est prolocutus est, “unus de senioribus” … “Et dixit michi: Hii, qui amicti sunt stolis albis, qui sunt”, id est quales et quante dignitatis, “et unde venerunt” … sicut nos per magistrales interrogationes excitamur ad inquirendum veritatem eius de quo interrogamur».

fui conosciuto da un, che mi prese / per lo lembo e gridòe chinando la mano a la sua facciaPerò va oltre: i’ ti verrò a’ panni … Io non osava scender de la strada / per andar par di lui; ma ’l capo chino / tenea com’ uom che reverente vada (vv. 23-24, 29, 40, 43-45). La quinta vittoria (Ap 3, 5) consiste nella vittoriosa discesa alle opere di pietà e di misericordia, la quale dal consorzio con gli infermi cui condiscende non assume macchie o imperfezioni, anzi vive tra i carnali, i rilassati e gli immondi in modo puro, immacolato e santo come se si trovasse in solitudine o in mezzo a gente austera e perfetta. I perfetti padri del quinto stato conseguirono questa ardua vittoria, ad essi viene promesso che cammineranno con Cristo in bianche vesti. La veste (non viene specificato il colore, ma il bianco è il colore di Cristo: Ap 6, 2) è quella di Dante: “fui conosciuto da un, che mi prese / per lo lembo” (vv. 23-24). Il poeta cammina poi sull’argine accanto al suo maestro, che va “a’ panni” del discepolo ma ad un livello più basso trovandosi nell’arena infuocata insieme ai suoi compagni “d’un peccato medesmo al mondo lerci”. Dante non osa scendere per andare al pari di lui (vv. 43-45). In modo analogo, la paura di bruciarsi frenerà il desiderio del poeta di gettarsi “di sotto” nel sabbione per abbracciare i tre fiorentini sodomiti (Inf. XVI, 46-51). Lo “stare sotto” è tema del quinto sigillo, alla cui apertura le anime stanno riverenti in attesa “sotto” l’altare di Dio; sarà utilizzato per i barattieri (Ap 6, 9.11).
Se Dante non ‘condiscende’ fino al sabbione per evitare di bruciarsi, china però prima la mano verso il volto del suo maestro (v. 29), poi il capo mentre lo accompagna nell’andare (vv. 44-45): anche il chinare è un motivo del quinto stato, variante del suo pietoso condiscendere verso gli immondi (declinans: prologo, Notabile III). Nel verso 29 – “e chinando la mano a la sua faccia” – la variante “la mia” (proposta da Inglese) è da respingere, sia per la perfetta simmetria con il v. 25 – “E io, quando ’l suo braccio a me distese” (Chiavacci Leonardi) -, sia perché trovandosi Brunetto a un livello più basso, Dante ha già chinato la sua faccia quando “ficcaï li occhi per lo cotto aspetto” (v. 26), sia perché “la mia” è lectio facilior (Petrocchi), sia perché la “mano” designa familiarità, amicizia e conforto, come proposto ad Ap 1, 17, esegesi variata in altre situazioni. Dante vorrebbe abbracciare il suo maestro, ma l’atto è incompiuto a causa del fuoco che li separa; resta però il desiderio, che il poeta proverà anche nel vedere i tre famosi concittadini piagati dalla medesima pena: “ma perch’ io mi sarei brusciato e cotto, / vinse paura la mia buona voglia / che di loro abbracciar mi facea ghiotto” (Inf. XVI, 49-51).
Dante mostra riverenza verso il suo maestro Brunetto: “ma ’l capo chino / tenea com’ uom che reverente vada”. Si insinua nei versi la tematica, sviluppata ad Ap 19, 10 e 22, 8-9, relativa alla proibizione fatta dall’angelo a Giovanni di riverirlo e adorarlo. Questo divieto non valeva per l’Antico Testamento; nel Nuovo però, nel sesto e nel settimo stato della Chiesa, quanto sarà più alta la contemplazione della gloria dello sposo e della sposa, tanto maggiore dovrà essere l’umiliarsi non solo dinanzi a Dio ma anche dinanzi ai dottori spirituali che mostrano tanta gloria. Quanto maggiore sarà l’umiliarsi nei discepoli, tanto maggiore sarà anche nei maestri, cosicché gli angeli saranno letteralmente familiari e come compagni e conservi dei profeti, cioè dei dottori, e dei discepoli “qui servant verba prophetie”, cioè la dottrina del libro. Si sviluppa pertanto una gara tra altezza e umiltà – la “beata contentio evangelice humilitatis” -, per cui i maestri rifuggono dall’onore dato dai discepoli, i quali tuttavia non cessano dall’onorarli. Brunetto si umilia per primo quando, stando più in basso, prende Dante “per lo lembo”, cioè per la veste; Dante ‘china’ la mano verso il volto del maestro (vv. 23-24, 29). Poi Brunetto dice: “Però va oltre: i’ ti verrò a’ panni”, cioè sempre procedendo in basso col capo che sfiora la veste del poeta; Dante vorrebbe “andar par di lui”, ma non osa; ‘china’ però il capo in modo riverente (vv. 40, 43-45). Al maestro che gli promette glorioso porto e tanto onore il poeta si dichiara pronto a serbare la profezia fattagli (vv. 88-90). I motivi da Ap 19, 10 e 22, 8-9 torneranno, in altra zona “quinta”, con Adriano V che proibisce al poeta di riverirlo (Purg. XIX, 127-135) e, allo sbocciare del sesto stato, nel medesimo divieto imposto da Virgilio a Stazio (Purg. XX, 130-132).
Al suo maestro dal “viso abbrusciato” Dante appropria, variandoli in senso degradato che fa segno dell’inferiorità morale” di un dannato [1], temi che l’esegesi oliviana propone con valore positivo. Brunetto Latini – nella “schiera” dei sodomiti, “cotal famiglia” e “greggia” (Inf. XV, 16, 22, 37) -, non appartiene alla singolare famiglia e al domestico gregge delle pecore che Cristo conduce alle fonti della vita, prerogative da ascrivere alla gloriosa milizia dei segnati all’apertura del sesto sigillo, che gli sono attribuite però degradate per punizione (Ap 5, 1). Non diversamente da Filippo Argenti (Inf. VIII, 40), distende il braccio al modo delle locuste (Inf. XV, 25; Ap 9, 3; quinta tromba). Nel colloqui0 con Dante – «E quelli: “O figliuol mio, non ti dispiaccia / se Brunetto Latino un poco teco / ritorna ’n dietro e lascia andar la traccia”. / I’ dissi lui: “Quanto posso, ven preco; / e se volete che con voi m’asseggia, / faròl, se piace a costui che vo seco”.» (vv. 31-36) – sono variati temi, da Ap 8, 3, dell’offrire preghiere sull’altare (Cristo) che poi piacciono e vengono accettate. Il desiderio di Brunetto, di lasciare la sua schiera tornando indietro per accompagnarsi al discepolo, ripete l’ammonimento di Geremia 50, 8: “Recedite de medio Babilonis” (Ap 18, 4), un’uscita dalla Babilonia infernale solo per il tempo dell’incontro col discepolo. Sedersi, come vorrebbe Dante, è impossibile: il quinto stato è assimilato alla sede romana, della quale più avanti il Latini dichiarerà il poeta “sementa santa” (vv. 73-78; prologo, Notabile V). La pena del giacere “cent’ anni / sanz’ arrostarsi” (vv. 37-39) riprende il tema del giacere proprio della quarta chiesa (Ap 2, 22), già utilizzato per i bestemmiatori, privato dell’incessante “tresca de le misere mani” (Inf. XIV, 40-42).

[1] Cfr. CESARE SEGRE, Canto XV, in Lectura Dantis Neapolitana, Napoli 1986, pp. 259-268: 267.

 

Tab. I

[LSA, cap. III, Ap 3, 5 (Ia visio, Va victoria)] Quinta (victoria) est victoriosus descensus ad opera condescensionis et pietatis, qui tunc est victoriosus quando nichil sordis vel imperfectionis accipit ex consortio infirmorum quibus condescendit nec ex sua condescensione, immo inter carnales et laxos et immundos vivit sic immaculate et sancte ac si esset in solitudine vel inter austerrimos et perfectos, quod quidem patet tunc arduissimum tam in puritate quam in pietate misericordi et competit perfectis patribus quinti status, quibus et competit premium de quo in quinta ecclesia dicitur: “Qui vicerit”, scilicet sicut illi pauci qui non inquinaverunt vestes suas inter immundos, “sic vestietur vestimentis albis”, scilicet sicut illi (Ap 3, 5). Nam de illis premisit: “Ambulabunt mecum in albis” (Ap 3, 4). Per que intelligitur gloria singularis <decoris> correspondens merito predicte munditie. “Et non delebo nomen eius de libro vite, et confitebor nomen eius coram Patre meo et coram angelis eius”. Duplici ex causa hoc premium appropriat talibus.
Prima est quia isti ex multitudine immundorum, inter quos quasi sepulti et innominati vixerunt, et ex condescensione ad eos, visi sunt quasi infirmi et nulli, unde nec habuerunt nomen seu famam summe perfectorum, ideo digni sunt habere singulare nomen in gloria Dei et quod singulariter commendentur a Christo coram tota curia celi. Et ideo per quandam anthonomasiam dicit quod confitebitur nomen eorum coram Patre et angelis et quod non delebit immo, supple, firmius et clarius scribet, nomen eorum in “libro vite”, id est in Dei predestinatione et gloria.

Inf. XV, 22-24, 29-30, 34-36, 40-45, 49-51, 58-60, 76-81

Così adocchiato da cotal famiglia,
fui conosciuto da un, che mi prese
per lo lembo e gridò: “Qual maraviglia!”.

e chinando la mano a la sua faccia,
rispuosi: “Siete voi qui, ser Brunetto?”.

I’ dissi lui: “Quanto posso, ven preco;
e se volete che con voi m’asseggia,
faròl, se piace a costui che vo seco”.

“Però va oltre: i’ ti verrò a’ panni;
e poi rigiugnerò la mia masnada,
che va piangendo i suoi etterni danni”.
Io non osava scender de la strada
per andar par di lui; ma ’l capo chino
tenea com’ uom che reverente vada.

“Là sù di sopra, in la vita serena”,
rispuos’ io lui, “mi smarri’ in una valle,
 avanti che l’età mia fosse piena”.

e s’io non fossi sì per tempo morto,
veggendo il cielo a te così benigno,
dato t’avrei a l’opera conforto.

“in cui riviva la sementa santa
di que’ Roman che vi rimaser quando   12, 17
fu fatto il nido di malizia tanta”.
“Se fosse tutto pieno il mio dimando”,
rispuos’ io lui, “voi non sareste ancora
de l’umana natura posto in bando”

[LSA, cap. VI, Ap 6, 11 (IIa visio, apertio Vi sigilli)] In hac autem persecutione non est dictum quod tale aut tale animal dixerit “veni et vide”, quia «sicut in quattuor animalibus quattuor speciales ordines accipiendi sunt, sic in altare Dei romanam ecclesiam dicimus accipiendam, que peractis quattuor tempo-ribus illorum quattuor ordinum, tam in clero quam in monachis confortata est in Domino Deo suo et viguit pre ceteris quinto tempore apud Latinos» (Ioachim).

[LSA, prologus, Notabile III] Item (zelus) est septiformis quia est contra initium mali intrinsecum (I) et extrinsecum (II); et contra medium terminum, scilicet ascendens (III) stans (IV) et declinans (V); et contra terminum intrinsecum (VI) et extrinsecum (VII).

[LSA, prologus, Notabile V (V status)] Quia vero ecclesia Christi usque ad finem seculi non debet omnino extingui, ideo oportuit eam in quibusdam suis reliquiis tunc specialiter a Deo defendi et in unam partem terre recolligi, qua nulla congruentior sede Petri et sede romani imperii, que est principalis sedes Christi. Ideo in quinto tempore, quod cepit a Karolo, facta est defensio et recollectio ista, tuncque congrue instituta est vita condescensiva, ut nequeuntibus in arduis perdurare daretur locus gratie in mediocri statu.

[LSA, cap. III, Ap 3, 2-3 (Ia visio, Va ecclesia)] “Esto vigilans” (Ap 3, 2), id est non torpens vel dormiens, sed attente sollicitus de salute tua. Ille enim dormit, qui in peccatis quiescit quasi sopitus et negligit curare de salute anime sue. Quia vero iste, tamquam episcopus, tenebatur sollicite curare non solum de sua salute sed etiam subditorum suorum, ideo pro utroque monetur ut vigilet. […] Quare autem monet eum vigilare et moritura opera confirmare, ostendit subdens: “Non enim invenio opera tua plena coram Deo meo”, id est etsi coram hominibus videntur plena virtute et caritate, sunt tamen istis vacua coram Deo. […] (Ap 3, 3) Innuit etiam per hoc quod sic fuit otiosus et torpens, quod in mente non habuit qualiter acceperit et audierit statum et gratiam sue perfectionis, et quod ideo sic corruit. Que quidem nimis correspondenter patent in hoc cursu novissimo quinti temporis ecclesiastici.


2. La “sementa santa” dei Romani.

El cominciò: “Qual fortuna o destino / anzi l’ultimo dì qua giù ti mena? / e chi è questi che mostra ’l cammino?” (vv. 46-48). La terzina rinvia all’esegesi di Ap 7, 13 (seconda visione, apertura del sesto sigillo), i cui temi, dall’ampio sviluppo nel poema, sono già stati variati nel verso 30.

“Là sù di sopra, in la vita serena”, / rispuos’ io lui, “mi smarri’ in una valle, / avanti che l’età mia fosse piena (vv. 49-51). “Mi smarri’
come il vescovo di Sardi, la quinta chiesa d’Asia – “quasi sopitus … sic fuit otiosus et torpens …” (Ap 3, 2.3), esegesi variata fin dal terzo verso del poema. Anche l’inciso “avanti che l’età mia fosse piena” è parodia del versetto 3, 2: “Non enim invenio opera tua plena coram Deo meo”.

Pur ier mattina le volsi le spalle: / questi m’apparve, tornand’ ïo in quella, / e reducemi a ca per questo calle” (vv. 52-54). Volgersi è tema principale ad Ap 1, 10-11, passo che registra anche il verbo reducere; il confronto è con l’agnizione di Farinata (Inf. X, 28-36).

Ed elli a me: “Se tu segui tua stella, /
non puoi fallire a glorïoso porto, /
se ben m’accorsi ne la vita bella” (vv. 55-57).
I ‘condiscendenti’ vittoriosi del quinto stato (Ap 3, 5; cfr. supra e altre variazioni su temi dalla medesima esegesi) non verranno cancellati dal libro della vita, cioè dalla predestinazione e dalla gloria divina, anzi verranno scritti in esso in modo chiaro. Poiché vissero in mezzo alla moltitudine degli infermi come fossero sepolti o innominati senza avere il nome o la fama dei sommi perfetti, sarà dato loro il singolare nome nella gloria divina, raccomandato da Cristo di fronte a tutta la curia celeste. Olivi nota che essere cancellati dal libro della vita non presuppone alcuna mutazione o corruzione in Dio. Alcuni vi si trovano scritti in quanto, secondo la presente giustizia divina, sono degni della vita eterna e ad essa ordinati in modo tale che, se non cadono dalla grazia, non possono fallire dal conseguirla.
È quanto dice Brunetto a Dante (Inf. XV, 55-57): «Ed elli a me: “Se tu segui tua stella (cioè la virtù dei Gemelli, corrispondente alla perfezione stellare della chiesa di Sardi ad Ap 3, 1), / non puoi fallire a glorïoso porto (infallibiliter assequerentur), / se ben m’accorsi ne la vita bella” (il tema del “principium pulchritudinis”, prerogativa della quinta chiesa nei suoi inizi: Ap 2, 1)». Anche i tre Fiorentini sodomiti augurano al poeta di tornare a rivedere “le belle stelle” (Inf. XVI, 82-84).

 

Ma quello ingrato popolo maligno
che discese di Fiesole ab antico,
e tiene ancor del monte e del macigno,
ti si farà, per tuo ben far, nimico;
ed è ragion, ché tra li lazzi sorbi
si disconvien fruttare al dolce fico.
Vecchia fama nel mondo li chiama orbi;
gent’ è avara, invidiosa e superba:
dai lor costumi fa che tu ti forbi.
La tua fortuna tanto onor ti serba,
che l’una parte e l’altra avranno fame
di te; ma lungi fia dal becco l’erba. (vv. 61-72)

 

 

I temi della malignità, del mal frutto, dell’essere antichi, provenienti dall’esegesi della prima tromba che suona contro la durezza giudaica (Ap 8, 7), uniti al motivo della durezza del cuore fatto di pietra proposto, sempre applicato ai Giudei, ad Ap 4, 1-2, sono appropriati ai Fiorentini nelle parole di Brunetto Latini: “ingrato popolo maligno / che discese di Fiesole ab antico, / e tiene ancor del monte e del macigno (la “lapidea durities sensus obtusi”; vv. 61-63).
I motivi dell’ingratitudine, del discendere o ricadere nella colpa antica, contenuti nell’esegesi delle colpe della prostituta, il cui susseguirsi nei tempi, sia pagano come cristiano, è paragonato a un fiume di sangue che scorre continuo (Ap 17, 6), si trovano (senza riferimento al fiume) nel parlare di Brunetto Latini e di Cacciaguida. Il primo definisce i Fiorentini “ingrato popolo maligno / che discese di Fiesole ab antico” (Inf. XV, 61-62), il secondo i fuorusciti Bianchi “compagnia malvagia e scempia / con la qual tu cadrai in questa valle / … tutta ingrata …” (Par. XVII, 61-64; da notare la coincidenza numerica delle terzine e le variazioni semantiche “de omnibus facta ingrataingrato … ti si farà / tutta ingratasi farà). Presto, soggiunge l’avo del poeta variando il motivo della strage presente ad Ap 17, 3, sarà la tua compagnia e non tu ad averne “rossa la tempia” e a fare la prova “di sua bestialitate” (vv. 65-68), con allusione al tentativo di rimpatrio fallito alla Lastra nel 1304 [1]. Nel Notabile V del prologo, l’ingratitudine è congiunta al discendere e alla “malizia tanta” (cfr. Inf. XV, 78; per l’espressione “fu fatto il nido” cfr. Ap 18, 2).
Ad Ap 18, 4 (quinta parte della sesta visione) una voce dal cielo ammonisce gli eletti a non partecipare con i reprobi della colpa e quindi della pena. Dice dunque: “Uscite, popolo mio, da Babilonia per non associarvi ai suoi delitti e non ricevere parte dei suoi flagelli”. In modo simile dice Geremia al popolo di Dio: “Fuggite da Babilonia e dalla regione dei Caldei e siate come capri in testa al gregge” (Jr 50, 8). Allo stesso modo san Paolo scrive ai Corinzi di non mescolarsi con gli impudichi nominati e famosi che si trovano tra i fedeli, più pericolosi di quelli che si trovano nel mondo di fuori, tra i pagani (1 Cor 5, 9-13). Uscire da Babilonia significa principalmente allontanarsi dalle sue scelleratezze, dalla sua amicizia e dalla sua compagnia. In via secondaria si può intendere anche come un allontanarsi corporeo e locale per il periodo in cui la città verrà assediata e distrutta, come avvenne con i cristiani che si dice fossero ammoniti dall’angelo a lasciare la Giudea nell’imminenza dell’assedio dei Romani. Brunetto Latini ammonisce Dante a “forbirsi”, cioè a mantenersi immune, dai costumi dei suoi concittadini, che una “vecchia fama” (l’essere “nominati” della lettera paolina) nel mondo definisce “orbi”, ingrato popolo maligno, gente avara, invidiosa, superba (Inf. XV, 67-69). Cacciaguida dice a Dante, preannunciandogli l’esilio, che “di Fiorenza partir ti convene”, dove il “ti convene” è eco del paolino “oportet exire” da Babilonia ed è altro punto nel quale i versi dedicati al maestro e all’avo di Dante sono cuciti sul medesimo panno esegetico (Par. XVII, 48). Non diverse sono le parole di Virgilio al poeta in lacrime per l’impedimento frapposto dalla lupa nell’ascesa al dilettoso monte: “A te convien tenere altro vïaggio” (Inf. I, 91-93).
Alle locuste, che escono dal fumoso pozzo dell’abisso aperto al suono della quinta tromba, viene detto di non danneggiare né fieno né verde erba né alberi, ma soltanto gli uomini che non abbiano il sigillo di Dio sulla fronte (Ap 9, 4). Con questa proibizione si intende che Dio non permette che i semplici, i quali conservano l’umiltà e il verdeggiare della fede e di una vita onesta e pia (il fieno e l’erba), e i perfetti e più solidi che danno grandi frutti (gli alberi) siano lesi, a meno che non intervenga un loro pravo consenso al male. Le parole di Brunetto “ma lungi fia dal becco l’erba” (Inf. XV, 72) è un esempio di trasposizione poetica di questo tema, riferito al sottrarsi di Dante al popolo fiorentino, di parte bianca o nera, fattosi a lui nemico per il suo bene operare. Il poeta è in questo caso erba e albero, visto che il suo maestro sentenzia che “tra li lazzi sorbi / si disconvien fruttare al dolce fico” (Inf. XV, 65-66).
Ad altri due luoghi del commento apocalittico oliviano relativi al quinto stato conducono le espressioni “
che l’una parte e l’altra avranno fame / di te” (vv. 71-72; Ap 9, 5-6 [quinta tromba]: il dubbio su quale delle due parti scegliere) e “Faccian le bestie fiesolane strame / di lor medesme”  (vv. 73-74; Ap 16, 10 [quinta coppa]: “e si mangiarono le proprie lingue per il dolore”).

 

Faccian le bestie fiesolane strame
di lor medesme, e non tocchin la pianta,
s’alcuna surge ancora in lor letame,
in cui riviva la sementa santa
di que’ Roman che vi rimaser quando
fu fatto il nido di malizia tanta.
(vv. 73-78)

 

 

Nelle due terzine la parodia trasferisce solennemente sull’autore del poema, nuovo san Giovanni destinato a convertire il mondo con la sua novella Apocalisse, i temi del seme imperiale che rivive nella discendenza del secondo Federico (Ap 13, 18; motivo volto in senso positivo rispetto all’esegesi) e del seme purissimo rimasto nella Chiesa di Roma dopo le devastazioni saracene (Ap 12, 17), oltre al Salmo 104, 15 (Ap 3, 12) [2]. Il confronto, per le medesime parti di “panno” elaborate, è con Farinata, per cui si rinvia a quanto mostrato nell’esame di Inferno X.

[1] Sulle “molte corrispondenze, anche minute, che si notano tra il XV dell’Inferno e i canti di Cacciaguida” cfr. SEGRE, p. 266. In questo, come in altri casi, il panno esegetico è il medesimo.
[2] “Brunetto Latino”, col “cotto aspetto” e col “viso abbrusciato”, è immagine di quella parte della “ecclesia latina” devastata dai Saraceni, con cui concorda singolarmente nel nome e negli effetti (Ap 6, 8); nei confronti del discepolo il maestro, se fosse vissuto più a lungo, avrebbe dato “a l’opera conforto”, quello proprio della Chiesa di Roma nel quinto stato, i cui temi pervadono, con molteplici varizioni, il canto (Inf. XV, 58-60).

Tab. II

[LSA, cap. III, Ap 3, 1 (Ia visio, Va ecclesia)] Hiis autem premittitur Christus loquens, cum dicitur (Ap 3, 1): “Hec dicit qui habet septem spiritus Dei et septem stellas”, id est qui occulta omnium videt et fervido zelo spiritus iudicat tamquam habens “septem spiritus Dei”, qui prout infra dicitur “in omnem terram sunt missi” (cfr. Ap 5, 6); et etiam qui potest omnes malos quantumcumque potentes punire tamquam in sua manu, id est sub sua potentia, habens “septem stellas”, id est universos prelatos omnium ecclesiarum. Quid per septem spiritus significetur tactum est supra, capitulo primo, super prohemio huius libri. Talem ergo se proponit huic episcopo, quia habebat nomen boni cum esset malus, nec videbatur futurum iudicium formidare, et etiam quia Christus ostendit se nosse quosdam sanctos huius ecclesie occultos et paucos, tamquam omnibus spiritualiter presens et omnia potestative continens. Respectu vero quinti status ecclesiastici, talem se proponit quia quintus status est respectu quattuor statuum precedentium generalis, et ideo universitatem spirituum seu donorum et stellarum seu rectorum et officiorum se habere testatur, ut qualis debeat esse ipsius ordinis institutio tacite innotescat. Diciturque hec ei non quia dignus erat muneribus ipsis, sed quia ipsi et semini eius erant, si dignus esset, divinitus preparata. Unde et Ricardus dat aliam rationem quare hec ecclesia dicta est “Sardis”, id est principium pulchritudinis, quia scilicet sola initia boni non autem consumationem habuit, et solum nomen sanctitatis potius quam rem. Supra vero fuit alia ratio data. Respectu etiam prave multitudinis tam huius quinte ecclesie quam quinti status, prefert se habere “septem spiritus Dei et septem stellas”, id est fontalem plenitudinem donorum et gratiarum Spiritus Sancti et continentiam omnium sanctorum episcoporum quasi stellarum, tum ut istos de predictorum carentia et de sua opposita immunditia plus confundat, tum ut ad eam rehabendam fortius attrahat.

[LSA, cap. III, Ap 3, 5 (Va victoria)] Prima est quia isti ex multitudine immundorum, inter quos quasi sepulti et innominati vixerunt, et ex condescensione ad eos, visi sunt quasi infirmi et nulli, unde nec habuerunt nomen seu famam summe perfectorum, ideo digni sunt habere singulare nomen in gloria Dei et quod singulariter commendentur a Christo coram tota curia celi. Et ideo per quandam anthonomasiam dicit quod confitebitur nomen eorum coram Patre et angelis et quod non delebit immo, supple, firmius et clarius scribet, nomen eorum in “libro vite”, id est in Dei predestinatione et gloria. Super quo nota quod deleri de libro vite non ponit in Deo aliquam mutationem vel corruptionem, sed solum ex parte obiecti. Quidam enim sunt ibi scripti secundum presentem iustitiam suam, per quam sunt digni vita eterna et a Deo ordinati ad illam, ita quod si non caderent a gratia infallibiliter assequerentur illam. Pro quanto autem per casum ab illa deletur hec ordinatio, pro tanto dicuntur deleri de libro vite; et per contrarium quanto magis crescunt et perseverant in gratia, tanto magis dicuntur scribi in libro vite.

Inf. XIII, 122-123

E poi che forse li fallia la lena,
di sé e d’un cespuglio fece un groppo.

Purg
. VI, 34-39

Ed elli a me: “La mia scrittura è piana;
e la speranza di costor non falla,
se ben si guarda con la mente sana;
ché cima di giudicio non s’avvalla
perché foco d’amor compia in un punto
ciò che de’ sodisfar chi qui s’astalla” 

Par. VII, 76-87

Di tutte queste dote s’avvantaggia
l’umana creatura, e s’una manca,
di sua nobilità convien che caggia.
Solo il peccato è quel che la disfranca
e falla dissimìle al sommo bene,
per che del lume suo poco s’imbianca;
e in sua dignità mai non rivene,
se non rïempie, dove colpa vòta,
contra mal dilettar con giuste pene.
Vostra natura, quando peccò tota
nel seme suo, da queste dignitadi,
come di paradiso, fu remota

Par. XV, 16-18, 46-48

e pare stella che tramuti loco,
se non che da la parte ond’ e’ s’accende
nulla sen perde, ed esso dura poco

la prima cosa che per me s’intese,
“Benedetto sia tu”, fu, “trino e uno,
che nel mio seme se’ tanto cortese!”.

Inf. XV, 55-57; XVI, 82-84

Ed elli a me: “Se tu segui tua stella,
non puoi fallire a glorïoso porto,
se ben m’accorsi ne la vita bella

Però, se campi d’esti luoghi bui
e torni a riveder le belle stelle,
quando ti gioverà dicere “I’ fui”

Purg. XXVIII, 112-120

e l’altra terra, secondo ch’è degna
per sé e per suo ciel, concepe e figlia
di diverse virtù diverse legna.
Non parrebbe di là poi maraviglia,
udito questo, quando alcuna pianta
sanza seme palese vi s’appiglia.
E saper dei che la campagna santa
dove tu se’, d’ogne semenza è piena,
e frutto ha in sé che di là non si schianta.

Purg. XXX, 109-111

Non pur per ovra de le rote magne,
che drizzan ciascun seme ad alcun fine
secondo che le stelle son compagne

Purg. XXXI, 49-54

Mai non t’appresentò natura o arte
piacer, quanto le belle membra in ch’io
rinchiusa fui, e che so’ ’n terra sparte;
e se ’l sommo piacer sì ti fallio
per la mia morte, qual cosa mortale
dovea poi trarre te nel suo disio?

[LSA, cap. II, Ap 2, 1 (Ia visio, Va ecclesia)] Vocatur autem congrue hec ecclesia Sardis, id est principium pulchritudinis, tum quia in suis paucis incoinquinatis habet singularem gloriam pulchritudinis, quia difficillimum et arduissimum est inter tot suorum luxuriantes se omnino servare mundum; tum quia primi institutores quinti status fuerunt in se et in suis omnis munditie singulares zelatores, suorumque collegiorum regularis institutio, diversa membra et officia conectens et secundum suas proportiones ordinans sub regula unitatis condescendente proportioni membrorum, habet mire pulchritudinis formam toti generali ecclesie competentem, que est sicut regina aurea veste unitive caritatis ornata et in variis donis et gratiis diversorum membrorum circumdata varietate.

[LSA, cap. III, Ap 3, 1 (Ia visio, Va ecclesia)] Unde et Ricardus dat aliam rationem quare hec ecclesia dicta est “Sardis”, id est principium pulchritudinis, quia scilicet sola initia boni non autem consumationem habuit, et solum nomen sanctitatis potius quam rem. Supra vero fuit alia ratio data. Respectu etiam prave multitudinis tam huius quinte ecclesie quam quinti status, prefert se habere “septem spiritus Dei et septem stellas”, id est fontalem plenitudinem donorum et gratiarum Spiritus Sancti et continentiam omnium sanctorum episcoporum quasi stellarum, tum ut istos de predictorum carentia et de sua opposita immunditia plus confundat, tum ut ad eam rehabendam fortius attrahat.

Inf. II, 37-42

E qual è quei che disvuol ciò che volle
e per novi pensier cangia proposta,
sì che dal cominciar tutto si tolle,
tal mi fec’ ïo ’n quella oscura costa,
perché,  pensando, consumai la ’mpresa
che fu nel cominciar cotanto tosta.

Par. XXVII, 58-60

Del sangue nostro Caorsini e Guaschi
s’apparecchian di bere: o buon principio,
a che vil fine convien che tu caschi!

[LSA, prologus, Notabile V] Et quia contra non servantes mediocria et condescensiva digne prosiliit zelus correctionis severus, idcirco in eodem statu sancti patres severo zelo moti sunt contra suos subditos regulares. Quia etiam condescensionis gratia multi de facili abutuntur in laxationes, que postquam intrant cito crescunt et crescendo enor-miter excedunt, idcirco circa finem quinti temporis crevit enormiter laxatio omnimoda et fere in omnes, propter quod digno iudicio permissi sunt ruere in vilissimam fecem heresis Manicheorum.

 

Al quinto vescovo e alla sua semenza gli stellari doni dello Spirito sono preparati da Dio, qualora si mantengano degni. Così Cacciaguida, che nel suo discendere dalla croce luminosa “pare stella che tramuti loco”, dice come prima cosa: “Benedetto sia tu … trino e uno, / che nel mio seme se’ tanto cortese!” (Par. XV, 16, 46-48).
Ma gli stessi temi erano ben diversamente risuonati nel rimprovero di Beatrice: “e se ’l sommo piacer sì ti fallio (da confrontare con il non puoi fallire detto da Brunetto Latini) / per la mia morte, qual cosa mortale / dovea poi trarre te nel suo disio?” (Purg. XXXI, 52-54).
L’Eden, che è figura del quinto stato nel suo bel principio di pienezza stellare e di doni dello Spirito, è “campagna santa … d’ogne semenza … piena”, da cui “l’altra terra (quella abitata dagli uomini), secondo ch’è degna / per sé e per suo ciel, concepe e figlia / di diverse virtù diverse legna” (Purg. XXVIII, 112-120). Della saggezza temperata “diversa membra et officia conectens et secundum suas proportiones ordinans sub regula unitatis condescendente proportioni membrorum”, propria degli zelanti istitutori del quinto stato, sono pregne le parole di Beatrice relative a Dante prima della caduta: “Non pur per ovra de le rote magne, / che drizzan ciascun seme ad alcun fine / secondo che le stelle son compagne” (Purg. XXX, 109-111). Non sarà poi casuale che il ‘fallire’ di Dante, dopo la morte della sua donna, sia assimilato, per il medesimo panno su cui sono cucite le parole di Beatrice, alla caduta dell’uomo nel peccato originale: allora la natura umana, che si avvantaggiava “di tutte queste dote” (i doni dello Spirito), “peccò tota / nel seme suo” rendendosi indegna (Par. VII, 76-87).
Risolvendo il dubbio di Dante sul fatto che una preghiera di suffragio per le anime purganti possa modificare i decreti di Dio, Virgilio spiega (utilizzando l’esegesi di Ap 3, 5) che l’altezza del giudizio divino “non s’avvalla”, cioè non ‘condiscende’ corrompendosi, per il fatto che un atto di carità come la preghiera dia soddisfazione per la colpa. Di conseguenza “non falla” la speranza di quanti pregano affinché altri preghino per loro (Purg. VI, 25-48). Altra variazione è negli scialacquatori:
“E poi che forse li fallia la lena, / di sé e d’un cespuglio fece un groppo” (Inf. XIII, 122-123).
L’interpretazione data da Riccardo di San Vittore del nome della quinta chiesa – «“Sardis”, id est principium pulchritudinis, quia scilicet sola initia boni non autem consumationem habuit» (Ap 3, 1) – risuona in bocca a san Pietro dopo l’invettiva contro “Caorsini e Guaschi” che si apprestano a bere il sangue della Chiesa: “o buon principio, / a che vil fine convien che tu caschi!” (Par. XXVII, 59-60, dove il “vil fine” è un filo tratto dal prologo, Notabile V, sempre relativo al quinto stato). Il medesimo tema è appropriato a Dante che, offeso da viltà, consuma nel dubbio l’impresa di compiere il viaggio, da principio prontamente accettata (Inf. II, 41-42).

 

Tab. III

[LSA, prologus, Notabile V (V status)] Et quia contra non servantes mediocria et condescensiva digne prosiliit zelus correctionis severus, idcirco in eodem statu sancti patres severo zelo moti sunt contra suos subditos regulares. Quia etiam condescensionis gratia multi de facili abutuntur in laxationes, que postquam intrant cito crescunt et crescendo enormiter excedunt, idcirco circa finem quinti temporis crevit enormiter laxatio omnimoda et fere in omnes, propter quod digno iudicio permissi sunt ruere in vilissimam fecem heresis Manicheorum. Que tunc faciliter habuit in eos aditum, quia qui inter illos perfecti vocantur pretendunt miram faciem austeritatis et paupertatis, cui comparata enormis laxatio prelatorum et regularium illius temporis scandalizat oculos simplicium ad abnegandam catholicam fidem cui illi tamquam doctores presidere videntur. Inter laxationes autem intellig<e> symonias, quibus omnia ecclesiastica fere ab omnibus venduntur et emuntur et quasi venalia reputantur, et iterum ambitiosos et avaros abusus ecclesiasticarum possessionum et reddituum et fornicationes innumeras et horrendas cum quibus divina sacramenta tractantur. Quomodo autem liber iste describat omnia hec in quinto tempore inundasse, infra suis locis patebit.
Quia vero, post tanta Dei dona et post tot sanctorum statuum magnalia, dignum et quasi necessarium est tantam malitiam et ingratitudinem condempnari, idcirco in fine quinti status et in initio sexti debet Babilon meretrix condempnari et ille magnus terremotus fieri, qui in apertione sexti signaculi est descriptus (cfr. Ap 6, 12).

[LSA, cap. XII, Ap 12, 3 (IVa visio)] Omnes etiam carnales et laxi et abbates quinti temporis, et precipue illi qui maior causa et occasio fuerunt effrenate laxationis quinti temporis, convenerunt in quintum caput.

Inf. XV, 61-62, 77-78

Ma quello ingrato popolo maligno
che discese di Fiesole ab antico

di que’ Roman che vi rimaser quando
fu fatto il nido di malizia tanta 

Inf. XXII, 124-126

Di che ciascun di colpa fu compunto,
ma quei più che cagion fu del difetto;
però si mosse e gridò: “Tu se’ giunto!”.

Purg. XXIV, 79-87

“però che ’l loco u’ fui a viver posto,
di giorno in giorno più di ben si spolpa,
e a trista ruina par disposto”.
“Or va”, diss’ el; “che quei che più n’ha colpa,
vegg’ ïo a coda d’una bestia tratto
inver’ la valle ove mai non si scolpa.
La bestia ad ogne passo va più ratto,
crescendo sempre, fin ch’ella il percuote,
e lascia il corpo vilmente disfatto.

 

3. “La cara e buona imagine paterna”

Il tema, dalla sesta vittoria (Ap 3, 12), dell’iscrizione del nome di Dio padre, immagine paterna che si imprime come quella di un padre spirituale nella prole, di un abate nella propria comunità religiosa, tocca la mente di Dante nella quale è fitta “la cara e buona imagine paterna” di Brunetto Latini, che gli insegnava “nel mondo ad ora ad ora … come l’uom s’etterna”, immagine che ora l’“accora” per “lo cotto aspetto” e “’l viso abbrusciato” (Inf. XV, 82-85). Anche nell’inferno esistono momenti di apertura all’imitazione di Cristo, per quanto solo nel ricordo della vita passata; la sesta vittoria consiste appunto nel “victoriosus ingressus in Christum”. Come pure sono presenti momenti di quiete e di silenzio, tipici del settimo stato (Francesca parla e ascolta “mentre che ’l vento, come fa, ci tace”, Inf. V, 94-96). Brunetto, poco prima, ammonisce i fiorentini a ‘non toccare’ la pianta in cui rivive il santo seme dei Romani, trasponendo su Dante, unto di Dio, quanto scritto nel Salmo 104, 15 sul popolo di Israele: “Nolite tangere christos meos” (Inf. XV, 73-78). Lo stesso tema della “paternitatis imago” [1], unito a quello della soavità d’amore per cui si inscrive il nome della nuova Gerusalemme, ritorna con Guido Guinizzelli, “il padre / mio e de li altri miei miglior che mai / rime d’amor usar dolci e leggiadre”, il quale parla di Cristo come “abate del collegio” per chiedere a Dante di recitare “un paternostro” (Purg. XXVI, 97-101, 127-130; da notare, qui e nel caso di Brunetto, l’uso di “quando”). Il termine “imago”, nella visione finale di Cristo incarnato, è appropriata al Figlio: “veder voleva come si convenne / l’imago al cerchio e come vi s’indova” (Par. XXXIII, 137-138).
Nel verso 85 – “m’insegnavate come l’uom s’etterna” – “uom”, come in altri luoghi del poema, è da intendere come uomo razionale, oggetto del senso morale della Scrittura (cfr. prologo, Notabile I). Eternarsi, osservava Benvenuto, è relativo alla gloria che si consegue nella patria celeste, e tale è il significato nell’esegesi, nella quale tuttavia un passo ad Ap 14, 13 (già utilizzato per Farinata), se parodiato in forma limitata alla fama terrena conseguita con le proprie opere dopo la morte, è singolarmente consonante con un passo del Tresor: “Il rapporto maestro-discepolo sta dunque sul piano morale” (Segre, p. 265).
L’espressione “ad ora ad ora” potrebbe rinviare a un punto dell’esegesi (prologo, Notabile XII) nel quale, citando il quinto libro della Concordia di Gioacchino da Fiore, si fa riferimento alla gloria temporanea conseguita ad horam dai contemplativi del quarto stato della Chiesa, i quali fiorirono ma poi rovinarono per vanagloria; la tematica è variata nella risposta ai tre fiorentini sodomiti incontrati nel canto seguente (Inf. XVI, 73-75; cfr. infra). Si insinuerebbe pertanto, in “ad ora ad ora” un valore limitativo, di poca durata della “vanagloria de l’umane posse”, della gloria terrena, censurata in Purg. XI, 91-92 (cfr. Inglese, ad loc.).
Il verso 79 –
“Se fosse tutto pieno il mio dimando” -, è parodia, come il verso 51 – avanti che l’età mia fosse piena” –, di Ap 3, 2: Non enim invenio opera tua plena coram Deo meo”.

[1] L’esegesi – “sue paternitatis imago” – conferma quanto Petrocchi scrive circa l’inammissibilità della congiunzione e (e paterna).

 

Tab. IV

[LSA, cap. XIV, Ap 14, 13 (IVa visio, VIIum prelium)] Dicit ergo: “Audivi vocem de celo”, id est a Deo et angelis et a tota ecclesia sacre scripture, “dicentem michi: Scribe”, scilicet hoc quod subditur tamquam certum et autenticum et fidei ac spei et consolationi sanctorum necessarium. “Beati mortui qui in Domino”, id est in fide et caritate Dei, “moriuntur”, quasi dicat: quamvis a suis occisoribus vel a mundanis reputentur miseri vel destructi, ipsi tamen sunt beati. “Amodo”, id est ab hora mortis, “iam dicit Spiritus”, id est Deus trinitas vel Spiritus Sanctus, “ut requiescant a laboribus suis”, id est a tribulatione transacta. “Opera enim illorum”, id est premia seu retributiones operum que in hac vita fecerunt, “sequuntur illos”, scilicet in eternitate glorie, quasi dicat: ideo ex nunc requiescent, quia Deus ex nunc remunerabit bona opera eorum. Referendo vero hoc ad pacem status septimi in hac vita, est sensus quod pro laboriosis operibus precedentis active eorum succedet eis pax et requies vite contemplative.

Inf. X, 94-96

“Deh, se riposi mai vostra semenza”,
prega’ io lui, “solvetemi quel nodo
che qui ha ’nviluppata mia sentenza”.   5, 5

Tresor, II, 120

Glore done au preudome une seconde vite; c’est a dire que aprés sa mort la renomee ki maint de ses bones oevres fait sambler k’il soit encore en vie.


4. ‘Beato chi ascolta, conserva e scrive’

La causa finale del libro dell’Apocalisse, ciò che si consegue attraverso la sua intelligenza e osservanza, è la beatitudine: “Beato chi legge e chi ascolta” (Ap 1, 3). L’intelligenza si ottiene tramite la lettura e l’ascolto; la prima spetta ai dottori o ai letterati, il secondo ai laici. Per la salvezza non basta tuttavia apprendere o sapere senza conservare nell’affetto – con fede, speranza, carità e timore – e nelle opere, per cui si dice: “e chi conserva”. Vari versi rinviano al medesimo punto esegetico.
Il tema del “beatus qui audit … et servat” costituisce il tessuto delle parole di Virgilio a Dante “sì smarrito” (rende il “sic torpens” di Ap 3, 3; cfr. quanto dice Beatrice allo stesso Virgilio a Inf. II, 64), che volge i passi da Farinata “ripensando / a quel parlar che mi parea nemico” in quanto gli aveva predetto sciagure (Inf. X, 121-132). Come il vescovo della quinta chiesa, Dante viene invitato a conservare nella mente quello che ha ascoltato (anche se non si tratta della “prima grazia”, ma di profezie contrarie). Il motivo dell’attenzione sta nel drizzare il dito da parte di Virgilio, per affermare che solo quando sarà dinanzi a Beatrice, “al dolce raggio / di quella il cui bell’ occhio tutto vede”, potrà conoscere il corso della propria vita. Il fine di chi ascolta, ripensa attentamente e conserva ciò che ha ascoltato è  la beatitudine.
Altro esempio di variazione di questo gruppo tematico è il ‘serbare’ alle chiose di Beatrice quanto narrato al poeta sul proprio destino da Brunetto Latini: la donna saprà spiegare la profezia circa il conseguimento dell’infallibile glorioso porto insieme a quanto oscuramente dettogli da Farinata sul peso dell’arte del rientrare in patria (Inf. XV, 88-90; è la terza volta, dopo Ap 1, 10-11 e 13, 18, o anche la quarta se si considera 14, 13, che l’elaborazione della medesima esegesi accomuna Brunetto a Farinata). Perfino l’espressione di Virgilio “Bene ascolta chi la nota” (v. 99) sembra derivare dai medesimi temi, se interpretata nel senso che solo chi “nota”, cioè ha in mente e conserva, ascolta bene (cfr. Par. V, 40-42). Virgilio interviene dopo che per due terzine Dante ha dichiarato di essere pronto ai colpi della Fortuna: “però giri Fortuna la sua rota / come le piace” (vv. 91-96; la “rota”, da Ap 9, 9, è tema dall’ampio sviluppo nel canto seguente). La Fortuna, così come presentata a Inf. VII, 94-96, per quanto ministra di Dio, è il contrario del “beatus qui audit”: “ma ella s’è beata e ciò non ode” (nel senso che non ascolta il biasimo e la mala voce datale dai mondani; cfr., a Inf. X, 97, le parole di Dante a Farinata: “El par che voi veggiate, se ben odo …”). In presenza di Brunetto, per le parole di Virgilio, Dante le si oppone come colui che bene ascolta e conserva.
Ancora variante dell’ascoltare e del serbare “in affectu et opere”, da Ap 1, 3, è quanto il poeta dice ai tre fiorentini sodomiti: “e sempre mai / l’ovra di voi e li onorati nomi / con affezion ritrassi e ascoltai” (Inf. XVI, 58-60), dove il nominare è precipuo tema della quinta chiesa (Ap 3, 4) e, più in generale (nel senso di fama), di tutto il quinto stato. Serbare “ad salutem … in affectu” dopo aver visto (“beatus qui legit”) è nella preghiera alla Vergine di san Bernardo: “Ancor ti priego … che conservi sani, / dopo tanto veder, li affetti suoi” (Par. XXXIII, 34-36).
Altro riferimento al gruppo dei primi tre versetti dell’Apocalisse si rinviene in «Tanto vogl’ io che vi sia manifestoch’a la Fortuna, come vuol, son presto (Inf. XV, 91.93) – … “dedit”, inquam (revelationem), non solum ut eam sciret, sed etiam “palam facere”, id est ad manifestandum, “servis suis que oportet fieri cito”» (Ap 1, 1). Le parole “mia coscïenza”, collocati nel verso intermedio della terzina, rinviano ad Ap 6, 11.
La mutevole Fortuna tocca anche i
l vescovo di Firenze Andrea de’ Mozzi, macchiato dalla “tigna” della sodomia, che Bonifacio VIII, nel 1287, trasferì alla sede di Vicenza (“fu trasmutato d’Arno in Bacchiglione, / dove lasciò li mal protesi nervi”, vv. 110-114; parodia di Giobbe 40, 12: “Nervi testiculorum eius perplexi sunt”: cfr. Ap 5, 5). La Fortuna rinvia alla “commutatio pontificatus” trattata nel Notabile VII del prologo della Lectura.

5. Il nome vive ancora

Avere fama e nome, vivere nelle proprie opere, essere conosciuti, noti e raccomandati fra i sommi, è fra le tematiche principali del quinto stato, trattata principalmente nell’esegesi della quinta chiesa (Sardi, Ap 3, 1.5) e della connessa quinta vittoria (Ap 3, 5). Si trova sviluppata nei versi quando il discepolo chiede al maestro i nomi de “li suoi compagni più noti e più sommi” (Inf. XV, 100-102) i quali, nella risposta, “tutti fur cherci / e letterati grandi e di gran fama” (vv. 106-107; Brunetto ne nomina solo due – “saper d’alcuno è buono” -, come nella chiesa di Sardi si salvano solo pochi buoni). Anche l’espressione di Virgilio rivolta a Dante – “Bene ascolta chi la nota” (v. 99) – rientra nella tematica, nel senso di “tenere in mente” e di “conservare”, variazione del “beato chi ascolta” di Ap 1, 3 (cfr. supra). Apice della tematica sono le ultime parole di ser Brunetto: “Sieti raccomandato il mio Tesoro, / nel qual io vivo ancora” (vv. 119-120), che risultano dall’unione del “digni sunt habere singulare nomen in gloria Dei et quod singulariter commendentur a Christo coram totam curia celi” di Ap 3, 5 con il «“quia nomen habes quod vivas”, id est famam habes» di Ap 3, 1. Il tema della fama svolge un ruolo importante pure nell’episodio dei tre fiorentini sodomiti descritto in Inf. XVI: costoro pregano Dante di rivelarsi in nome della propria fama avuta in vita, dove ebbero nome (vv. 31-32, 38-39); il poeta ne ricorda con dolore e commozione gli “onorati nomi” (vv. 58-60), i tre chiedono notizie delle condizioni di Firenze augurando a Dante fama dopo la morte (v. 66). La parodia torce, limitandolo alla fama terrena, il testo esegetico lì dove questo intende non la fama presso il volgo, ma la notizia dei buoni che vivono la vita della Grazia, raccomandati nella curia celeste. Gli altri vivono per fama, ma in realtà sono morti, come lo sono Brunetto con i suoi compagni e i sodomiti fiorentini dagli “onorati nomi”, tutti “d’un peccato medesmo al mondo lerci”.

“Scio opera tua … Quia nomen habes quod vivas”, id est famam habes in vulgo quod sis iustus et per vitam gratie vivus, “et tamen mortuus es” (Ap 3, 1), scilicet per culpam mortalem. … Deinde a predicto defectu excipit quosdam illius ecclesie … Per nomina etiam intelligit personas merito sue sanctitatis notas Christo. Item proprium donum gratie, quod unusquisque accepit, dat cuique viro quasi proprium nomen ut cognoscatur ex nomine. … (Ap 3, 5) Prima est quia isti ex multitudine immundorum, inter quos quasi sepulti et innominati vixerunt, et ex condescensione ad eos, visi sunt quasi infirmi et nulli, unde nec habuerunt nomen seu famam summe perfectorum, ideo digni sunt habere singulare nomen in gloria Dei et quod singulariter commendentur a Christo coram tota curia celi. Caritas autem Dei, in quantum communis omnibus bonis, dat commune nomen sanctis ut vocentur cives Iherusalem.

poi disse: “Bene ascolta chi la nota”. … e dimando chi sono / li suoi compagni più noti e più sommi. / Ed elli a me: “Saper d’alcuno è buono; / de li altri fia laudabile tacerci, / ché ’l tempo saria corto a tanto suono. / In somma sappi che tutti fur cherci / e litterati grandi e di gran fama Sieti raccomandato il mio Tesoro, / nel qual io vivo ancora, e più non cheggio”. … la fama nostra il tuo animo pieghi / a dirne chi tu se’ … Guido Guerra ebbe nome, e in sua vita / fece col senno assai e con la spada. … Di vostra terra sono, e sempre mai / l’ovra di voi e li onorati nomi / con affezion ritrassi e ascoltai. … e se la fama tua dopo te luca (Inf. XV, 99, 101-107, 119-120; XVI, 31-32, 38-39, 58-60, 66 [a Inf. XV, 104-105, il silenzio e la brevità del tempo sono temi del settimo e ultimo stato della storia della Chiesa: cfr. prologo, Notabile III]).

Tab. V

Purg. V, 91-93; VIII, 79-84

E io a lui: “Qual forza o qual ventura
ti travïò sì fuor di Campaldino,
che non si seppe mai tua sepultura?”.

“Non le farà sì bella sepultura
la vipera che Melanesi accampa,
com’ avria fatto il gallo di Gallura”.
Così dicea, segnato de la stampa,
nel suo aspetto, di quel dritto zelo
che misuratamente in core avvampa.

[LSA, prologus, Notabile I] In quinto (eminet) zelus rectitudinis et ira iudicialis ac vita condescensiva et conventualis.

Purg. VI, 116-117                      

e se nulla di noi pietà ti move,
a vergognar ti vien de la tua fama.

Purg. VIII, 118-129

“Fui chiamato Currado Malaspina;
non son l’antico, ma di lui discesi;
a’ miei portai l’amor che qui raffina”.
“Oh!”, diss’ io lui, “per li vostri paesi
già mai non fui; ma dove si dimora
per tutta Europa ch’ei non sien palesi?
La fama che la vostra casa onora,
grida i segnori e grida la contrada,
sì che ne sa chi non vi fu ancora;
e io vi giuro, s’io di sopra vada,
che vostra gente onrata non si sfregia
del pregio de la borsa e de la spada”.

Purg. XVI, 124-126, 133-140

Currado da Palazzo e ’l buon Gherardo
e Guido da Castel, che mei si noma,
francescamente, il semplice Lombardo.

“Ma qual Gherardo è quel che tu per saggio
di’ ch’è rimaso de la gente spenta,   12, 17
in rimprovèro del secol selvaggio?”.
“O tuo parlar m’inganna, o el mi tenta”,
rispuose a me; “ché, parlandomi tosco,
par che del buon Gherardo nulla senta.
Per altro sopranome io nol conosco,
s’io nol togliessi da sua figlia Gaia”.

Purg. XIX, 88-90, 100-102, 142-145

Poi ch’io potei di me fare a mio senno,
trassimi sovra quella creatura
le cui parole pria notar mi fenno

Intra Sïestri e Chiaveri s’adima   2, 1
una fiumana bella, e del suo nome
lo titol del mio sangue fa sua cima.

Nepote ho io di là c’ha nome Alagia,
buona da sé, pur che la nostra casa
non faccia lei per essempro malvagia;
e questa sola di là m’è rimasa.   12, 17

Par. IX, 37-42, 94-96

Di questa luculenta e cara gioia
del nostro cielo che più m’è propinqua,
grande fama rimase; e pria che moia,   12, 17
questo centesimo anno ancor s’incinqua:
vedi se far si dee l’omo eccellente,
sì ch’altra vita la prima relinqua.

Folco mi disse quella gente a cui
fu noto il nome mio; e questo cielo
di me s’imprenta, com’ io fe’ di lui

[LSA, prologus, Notabile I] Quintus (status) fuit vite communis, partim zeli severi partim condescensivi, sub monachis et clericis temporales possessiones habentibus.

[LSA, prologus, Notabile V] […] tuncque (in quinto statu) congrue instituta est vita condescensiva, ut nequeuntibus in arduis perdurare daretur locus gratie in mediocri statu.

[LSA, cap. III, Ap 3, 1.4 (Ia visio, Va ecclesia)] Increpans ergo eam dicit: “Scio opera tua” (Ap 3, 1). Non ponitur hic “scio” pro ‘approbo’ sicut in precedentibus ponebatur, sed solum pro illa scientia qua infallibiliter scit omnia mala. “Quia nomen habes quod vivas”, id est famam habes in vulgo quod sis iustus et per vitam gratie vivus, “et tamen mortuus es”, scilicet per culpam mortalem. Vel si erat aperte malus, est sensus quod habebat nomen christiani, quod est nomen vite sancte, non tamen habebat rem eius sed potius oppositum, scilicet mortem culpe. […]
Deinde a predicto defectu excipit quosdam illius ecclesie, subdens: “Sed habes pauca nomina in Sardis” (Ap 3, 4). Nomina sumit pro personis quarum nomina sunt. Per nomina etiam intelligit personas merito sue sanctitatis notas Christo. Item proprium donum gratie, quod unusquisque accepit, dat cuique viro quasi proprium nomen ut cognoscatur ex nomine. Caritas autem Dei, in quantum communis omnibus bonis, dat commune nomen sanctis ut vocentur cives Iherusalem.

[Ap 3, 5 (Ia visio, Va victoria)] “Et non delebo nomen eius de libro vite, et confitebor nomen eius coram Patre meo et coram angelis eius”. Duplici ex causa hoc premium appropriat talibus.
Prima est quia isti ex multitudine immundorum, inter quos quasi sepulti et innominati vixerunt, et ex condescensione ad eos, visi sunt quasi infirmi et nulli, unde nec habuerunt nomen seu famam summe perfectorum, ideo digni sunt habere singulare nomen in gloria Dei et quod singulariter commendentur a Christo coram tota curia celi. Et ideo per quandam anthonomasiam dicit quod confitebitur nomen eorum coram Patre et angelis et quod non delebit immo, supple, firmius et clarius scribet, nomen eorum in “libro vite”, id est in Dei predestinatione et gloria.

Inf. XV, 99-108, 119-120

poi disse: “Bene ascolta chi la nota”.
Né per tanto di men parlando vommi
con ser Brunetto, e dimando chi sono
li suoi compagni più noti e più sommi.
Ed elli a me: “Saper d’alcuno è buono;
de li altri fia laudabile tacerci,
ché ’l tempo saria corto a tanto suono.
In somma sappi che tutti fur cherci
e litterati grandi e di gran fama,
d’un peccato medesmo al mondo lerci.

Sieti raccomandato il mio Tesoro,
nel qual io vivo ancora, e più non cheggio”.

Inf. XVI, 31-32, 38-39, 58-60, 66

la fama nostra il tuo animo pieghi
a dirne chi tu se’ ……………….

Guido Guerra ebbe nome, e in sua vita
fece col senno assai e con la spada.

Di vostra terra sono, e sempre mai
l’ovra di voi e li onorati nomi
con affezion ritrassi e ascoltai.

e se la fama tua dopo te luca

Inf. XXXI, 94, 127-128

Fïalte ha nome, e fece le gran prove ……

Ancor ti può nel mondo render fama,
ch’el vive …………………..

Inf. XXXII, 91-93, 98-99

“Vivo son io, e caro esser ti puote”,
fu mia risposta, “se dimandi fama,
ch’io metta il nome tuo tra l’altre note”.

e dissi: “El converrà che tu ti nomi,
o che capel qui sù non ti rimagna”.

[LSA, cap. VIII, Ap 8, 12 (IIIa visio, IVa tuba)] Per “stellas” vero, quidam singulares et alti et solitarii anachorite.

Par
. XVI, 85-87, 97-99, 124-129; XVII, 136-138

per che non dee parer mirabil cosa
ciò ch’io dirò de li alti Fiorentini
onde è la fama nel tempo nascosa.

erano i Ravignani, ond’ è disceso
il conte Guido e qualunque del nome
de l’alto Bellincione ha poscia preso.

Io dirò cosa incredibile e vera:
nel picciol cerchio s’entrava per porta
che si nomava da quei de la Pera.
Ciascun che de la bella insegna porta   7, 3-4
del gran barone il cui nome e ’l cui pregio
la festa di Tommaso riconforta

Però ti son mostrate in queste rote,
nel monte e ne la valle dolorosa
pur l’anime che son di fama note

Par. XVIII, 28-42

El cominciò: “In questa quinta soglia
de l’albero che vive de la cima
e frutta sempre e mai non perde foglia,
spiriti son beati, che giù, prima
che venissero al ciel, fuor di gran voce,   19, 1
sì ch’ogne musa ne sarebbe opima.
Però mira ne’ corni de la croce:
quello ch’io nomerò, lì farà l’atto
che fa in nube il suo foco veloce”.
Io vidi per la croce un lume tratto
dal nomar Iosuè, com’ el si feo;
né mi fu noto il dir prima che ’l fatto.
E al nome de l’alto Macabeo
vidi moversi un altro roteando,
e letizia era ferza del paleo.

[Ap 3, 5 (Ia visio, Va victoria)] “Et non delebo nomen eius de libro vite, et confitebor nomen eius coram Patre meo et coram angelis eius”. Duplici ex causa hoc premium appropriat talibus.
Prima est quia isti ex multitudine immundorum, inter quos quasi sepulti et innominati vixerunt, et ex condescensione ad eos, visi sunt quasi infirmi et nulli, unde nec habuerunt nomen seu famam summe perfectorum, ideo digni sunt habere singulare nomen in gloria Dei et quod singulariter commendentur a Christo coram tota curia celi. Et ideo per quandam anthonomasiam dicit quod confitebitur nomen eorum coram Patre et angelis et quod non delebit immo, supple, firmius et clarius scribet, nomen eorum in “libro vite”, id est in Dei predestinatione et gloria.

[Ap 3, 4 (Ia visio, Va ecclesia)] Deinde a predicto defectu excipit quosdam illius ecclesie, subdens: “Sed habes pauca nomina in Sardis” (Ap 3, 4). Nomina sumit pro personis quarum nomina sunt. Per nomina etiam intelligit personas merito sue sanctitatis notas Christo. Item proprium donum gratie, quod unusquisque accepit, dat cuique viro quasi proprium nomen ut cognoscatur ex nomine. Caritas autem Dei, in quantum communis omnibus bonis, dat commune nomen sanctis ut vocentur cives Iherusalem.

Inf. XXII, 37-39; XXV, 40-42

I’ sapea già di tutti quanti ’l nome,
sì li notai quando fuorono eletti,
e poi ch’e’ si chiamaro, attesi come.

Io non li conoscea; ma ei seguette,
come suol seguitar per alcun caso,
che l’un nomar un altro convenette

[LSA, cap. VII, Ap 7, 3-4 (IIa visio, apertio VIi sigilli)] Igitur per hunc numerum, prout est certus et diffinitus, designatur singularis dignitas signatorum. Hii enim, qui sub certo nomine et numero et scriptura a regibus ad suam militiam vel curiam aut ad sua grandia vel dona ascribuntur, sunt digniores ceteris, qui absque scriptura et numero ad vulgarem et pedestrem militiam vel familiam eliguntur. Sicut etiam Deus, in signum familiarissime notitie et amicitie, Exodi XXXIII° (Ex 33, 17) dicit Moysi: “Novi te ex nomine”, cum tamen omnes electos suos communiter noverit ut amicos et hoc modo solos reprobos dicatur nescire, sic per hanc specialem et prefixam numerationem et consignationem designatur familiarior signatio et notitia et amicitia apud Deum.

Nella tabella sono mostrati alcuni esempi di variazioni sui temi relativi alla fama (nelle varie forme) propri del quinto stato, presenti in particolare nell’esegesi della quinta chiesa d’Asia (Sardi, Ap 3, 1.4) e dell’annessa quinta vittoria (Ap 3, 5). Al quinto stato appartengono anche i temi della condescensio (prologo, Notabili I, V) e dello zelus rectitudinis (prologo, Notabile I). A Inf. XXII, 37-39 la collazione dei motivi del quinto stato è con Ap 7, 3-4 (apertura del sesto sigillo).

 

6. L’apparente vittoria nello stadio

All’apertura del primo sigillo appare Cristo resuscitato, seduto su un cavallo bianco (Ap 6, 2). Si mostra cioè nel suo corpo glorioso e nella Chiesa primitiva resa bianca dalla grazia della rigenerazione e irradiata dalla luce della sua resurrezione. Sedendo su di essa, Cristo uscì nel campo del mondo non pavido o infermo, ma con somma magnanimità e insuperabile virtù. Condusse infatti nel mondo i suoi apostoli come leoni animosi e potenti nell’operare miracoli. In essi aveva l’arco della predicazione capace di saettare e di penetrare i cuori. Gli era stata data anche la corona regale, secondo quanto si dice in Matteo 28, 18: “Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra”. La corona riguarda anche gli apostoli, che aveva fatto principi e re spirituali di tutta la Chiesa e di tutto il mondo. Con l’arco saetta i reprobi con sentenze di condanna, con la corona glorifica i buoni. Cristo “uscì vittorioso per vincere”, cioè, secondo Riccardo di San Vittore, convertendo quelli fra i Giudei che aveva eletto per vincere i Gentili predestinati. Nella sua stessa uscita nel mondo apparve vittorioso come se avesse già vinto tutto.
Abbinato al motivo del vincere, il tema del campo (Ap 6, 2) caratterizza il commiato di Brunetto Latini: al sopraggiungere di una schiera che non è la propria e con la quale non può stare, pena giacere cent’anni sotto la pioggia di fuoco senza potersi fare riparo con le mani, nell’allontanarsi “parve di coloro / che corrono a Verona il drappo verde / per la campagna; e parve di costoro / quelli che vince, non colui che perde” (Inf. XV, 121-124).
Con san Domenico, una delle due ruote, insieme a san Francesco, della biga della Chiesa, questa “si difese / e vinse in campo la sua civil briga”, ossia la lotta contro gli eretici (Par. XII, 106-108). San Giacomo avvampa d’amore verso la speranza, che non lo abbandonò mai “infin la palma e a l’uscir del campo”, cioè dalla battaglia terrena, variazione dell’uscire vittorioso di Cristo, come se avesse già vinto, nel campo del mondo (Par. XXV, 82-84).
Nei versi di Inf. XV e Par. XXV fa da contrappunto un altro tema, quello paolino del vincere il premio correndo nello stadio, proprio della settima visione (Ap 21, 16). La misura della città celeste è di 12.000 stadi. Lo stadio è lo spazio al cui termine si sosta o “si posa” per respirare e lungo il quale si corre per conseguire il premio. Designa il percorso del merito che ottiene il premio in modo trionfale, secondo quanto scrive san Paolo ai Corinzi: “Non sapete che tutti corrono nello stadio, ma di costoro uno solo prende il premio?” (1 Cor 9, 24). Ciò concorda con il fatto che lo stadio è l’ottava parte del miglio, e in questo senso designa l’ottavo giorno di resurrezione. L’ottava parte del miglio corrisponde a 125 passi, che rappresentano lo stato di perfezione apostolica che adempie i precetti del decalogo (12 apostoli x 10 comandamenti), cui si aggiunge la pienezza dei cinque sensi e delle cinque chiese patriarcali.
Brunetto Latini lascia dunque la compagnia del suo discepolo: “Poi si rivolse, e parve di coloro / che corrono a Verona il drappo verde / per la campagna; e parve di costoro / quelli che vince, non colui che perde” (Inf. XV, 121-124). Più che sfuggire alla pena di giacere cent’anni sotto la pioggia di fuoco senza potersi far schermo con le mani, in quanto correndo riesce a raggiungere la sua schiera, il premio che egli consegue è la fama del suo Tesoro che ha raccomandato a Dante (vv. 119-120). In ogni caso, può essere curioso notare che il paragone con il palio di Verona chiude il canto e il riferimento alla vittoria sta nel 124° verso, uno in meno dello “stadio” paolino. Più interessante è constatare come l’uscire in campo apparendo vittorioso, non pavido o infermo, sia tema proprio di Cristo all’apertura del primo sigillo (Ap 6, 2). Dal confronto è possibile rilevare diversi aspetti, nel rispondersi fra i due testi: la compresenza di elementi semantici, la collazione di passi simmetrici della Lectura (Ap 6, 2; 21, 16), una figura retorica (la perissologia, cioè un’affermazione seguita dalla negazione del suo contrario: “e parve di costoro / quelli che vince, non colui che perde”) suggerita dalla prosa (“apparuit in ipso exitu totus victoriosus et ac si iam totus vicisset […] exivit in campum totius orbis non quasi pavidus aut infirmus”), l’appropriazione a Brunetto, che è un dannato, di motivi propri di Cristo. Ma si tratta, a differenza di Cristo che apparve vittorioso ancor prima di vincere, di una parvenza di vittoria, considerato il degradante premio conseguito, quasi i versi finali del canto suggeriscano: avrebbe potuto vincere, ma l’insegnamento da maestro non servì a sé stesso [1].
Da notare ancora che l’arrivo al cielo della Luna è tanto veloce quanto il ‘posarsi’ di una freccia (“un quadrel”, per concordare con l’ambito tematico della città, la Gerusalemme celeste descritta nella settima visione, posta appunto “in quadro”) che vola dopo essersi staccata dalla balestra (Par. II, 23-25). Dal momento in cui inizia la descrizione dell’ascesa al cielo (con il verso 43 del primo canto del Paradiso), fino al congiungersi con la prima stella (che coincide con il 25° verso del secondo canto: “giunto mi vidi”), sono esattamente 125 versi, come i passi dello stadio paolino (Ap 21, 16).
In Par. XXV, 79-81, a san Giacomo è appropriato anche il tema della folgorante luce di Cristo (dal prologo, Notabile XII: “dentro al vivo seno / di quello incendio tremolava un lampo / sùbito e spesso a guisa di baleno”). Da notare la presenza del verbo respirare (che è hapax nel poema: “vuol ch’io respiri a te che ti dilette / di lei”, vv. 85-86), richiamato nella descrizione finale dal quietarsi del suono, dolcemente mischiato, delle voci dei tre apostoli Pietro, Giacomo e Giovanni, come i remi che “per cessar fatica o rischio … tutti si posano al sonar d’un fischio”, i quali prima percuotevano l’acqua (vv. 130-135). Respirare e posarsi sono segno del conseguimento del premio, dopo il correre nello stadio (Ap 21, 16). Il tema del posarsi è congiunto con quello della quiete e della pace proprio del settimo stato, libero da ogni fatica o opera servile (prologo, Notabile XIII; Ap 10, 5-7).

 

[1] Cfr. SEGRE, p. 268, dove si collega il correre di Brunetto a quello degli ignavi, con conseguente degrado della megalopsychia che sarebbe stata oggetto del suo insegnamento. In effetti l’esegesi di Ap 21, 16, relativa al correre nello stadio paolino, è utilizzata in entrambi i casi.

Tab. VI

[LSA, cap. VI, Ap 6, 2 (apertio Ii sigilli)] In prima autem apertione (Ap 6, 2) apparet Christus resuscitatus sedens in equo albo, id est in suo corpore glorioso et in primitiva ecclesia per regenerationis gratiam dealbata et per lucem resurrectionis Christi irradiata, in qua Christus sedens exivit in campum totius orbis non quasi pavidus aut infirmus, sed cum summa magnanimitate et insuperabili virtute. Nam suos apostolos deduxit in mundum quasi leones animosissimos et ad mirabilia facienda potentissimos, et “habebat” in eis “archum” predicationis valide ad corda sagittanda et penetranda. […]
“Et exivit vincens ut vinceret”, id est, secundum Ricardum, vincens quos de Iudeis elegit ipsos convertendo ut per eosdem vinceret, id est converteret gentiles quos predestinaverat. Vel per hoc designatur quod, quando exivit ut mundum vinceret, apparuit in ipso exitu totus victoriosus et ac si iam totus vicisset.

[LSA, prologus, Notabile XII] Dicendum quod diffusio fidei per apostolos in orbem universum debuit esse velox instar lucis solaris ab oriente in occidentem subito procedentis et instar fulguris universa subito discurrentis. Hoc enim fuit in gloriam Christi et lucis sue, unde in apertione primi signaculi dicitur exissevincens ut vinceret (cfr. Ap 6, 2).

Par. XII, 106-108; XXV, 79-87, 130-135

Se tal fu l’una rota de la biga
in che la Santa Chiesa si difese
e vinse in campo la sua civil briga

Mentr’ io diceva, dentro al vivo seno
di quello incendio tremolava un lampo
sùbito e spesso a guisa di baleno.
Indi spirò: “L’amore ond’ ïo avvampo
ancor ver’ la virtù che mi seguette  14, 4
infin la palma e a l’uscir del campo,
vuol ch’io respiri a te che ti dilette
di lei; ed emmi a grato che tu diche
quello che la speranza ti ’mpromette”.

A questa voce l’infiammato giro
si quïetò con esso il dolce mischio
che si facea nel suon del trino spiro,
sì come, per cessar fatica o rischio,
li remi, pria ne l’acqua ripercossi,
tutti si posano al sonar d’un fischio.

Inf. XV, 121-124

Poi si rivolse, e parve di coloro
che corrono a Verona il drappo verde
per la campagna; e parve di costoro
quelli che vince, non colui che perde.

[LSA, prologus, Notabile XIII] Dies vero septimus erit benedictus et sanctificatus et liber ab omni opere et labore servili et fruens pace que exsuperat omnem sensum (cfr. Gn 2, 1-3). […] Sicut etiam septima etas, a sabbato quietis Christi initiata, continet in quiete et pace sanctas animas defunctorum, sic in septimo statu complebitur id quod scribitur in hoc libro (Ap 14, 13): “Beati qui in Domino moriuntur. Dicit” enim “Spiritus ut amodo requiescant a laboribus suis”, tamquam scilicet mundo et mundanis omnino defuncti.

[LSA, cap. X, Ap 10, 5-7 (IIIa visio, VIa tuba)] Sumendo vero tubicinium septimi angeli respectu pacis que erit in ecclesia post mortem Antichristi, tunc est sensus quod tempus afflictionis et laboris sex priorum statuum, quasi sex dierum quibus laborare et operari oportet, cessabit in sabbato et requie septimi status, tuncque “consumabitur misterium” per prophetas <pre>nuntiatum quantum in hac vita consumari debet. Et sic exponit hoc Ioachim, subdens quod post tempus sex apertionum huius sexte etatis manet «tempus, ut ait angelus Danieli, quale non fuit ex eo tempore quo ceperunt homines esse in terra (cfr. Dn 12, 1), tempus utique septimi angeli, cui benedicet Dominus dans in eo pacem et letitiam sustinentibus se».

 

 

 

[LSA, cap. XXI, Ap 21, 16 (VIIa visio)] “Et civitas in quadro posita est”, id est habens quattuor latera muri sub figura quadranguli iuncta, per quod designatur solida quadratura virtutum. […] “Et mensus est civitatem Dei cum arundine per stadia duodecim milia” (Ap 21, 16). Stadium est spatium in cuius termino statur vel pro respirando pausatur, et per quod curritur ut bravium acquiratur, secundum illud Apostoli Ia ad Corinthios, capitulo IX°: “Nescitis quod hii, qui in stadio currunt, omnes quidem currunt, sed unus accipit bravium?” (1 Cor 9, 24), et ideo significat iter meriti triumphaliter obtinentis premium. Cui et congruit quod stadium est octava pars miliarii, unde designat octavam resurrectionis. Octava autem pars miliarii, id est mille passuum, sunt centum viginti quinque passus, qui faciunt duodecies decem et ultra hoc quinque; in quo designatur status continens perfectionem apostolicam habundanter implentem decalogum legis, et ultra hoc plenitudinem quinque spiritualium sensuum et quinque patriarchalium ecclesiarum.


Appendice

“e litterati grandi e di gran fama, / d’un peccato medesmo al mondo lerci”: reminiscenze del Fiore.

Dall’esame, effettuato con l’aiuto della ‘chiave’ (la Lectura super Apocalipsim di Olivi), dei significati spirituali annidati nei “pensieri gravi” di Sigieri di Brabante (del quale parla Tommaso d’Aquino nel cielo del Sole; cfr. Ap 9, 5-6) si può trarre un nuovo argomento per assegnare a Dante la paternità del Fiore (dove Sigieri è citato al sonetto XCII, 9-11).
Consideriamo i seguenti aspetti:

a) Il dubbio di Sigieri è tessuto sulla parte del “panno” (la Lectura super Apocalipsim) che riguarda il quinto stato (più precisamente: la quinta tromba, Ap 9, 5-6; si tenga conto della complessa articolazione delle aggregazioni settenarie del materiale esegetico).

b) Su questa porzione di “panno” sono tessuti altri luoghi della Commedia. Ciò avviene per uno dei principi fondamentali del rapporto fra i due testi, come già altrove esposto. Un medesimo luogo della Lectura conduce infatti, tramite la compresenza degli elementi semantici in spazi testuali sufficientemente ristretti, a più luoghi della Commedia. Il che significa che la medesima esegesi di un punto del commento scritturale è stata utilizzata in momenti diversi della stesura del poema.
A ciò si deve aggiungere un altro principio. L’intenso travaso di parole-temi dalla Lectura nella Commedia si accompagna a un fatto strutturale. La Commedia mostra un ordine interno diverso da quello che appare al lettore: il viaggio di Dante ha un andamento di ciclici settenari, che corrispondono ai sette stati dell’Olivi. È un ordine, registrabile per zone progressive del poema dove prevalgono i temi di un singolo stato, che rompe i confini letterali stabiliti dai canti e da tutte le divisioni materiali per cerchi, gironi, cieli. Poiché però ciascuno stato, oltre alle sue prerogative, contiene motivi propri di tutti gli altri, gli stessi elementi semantici che in una zona del poema si mostrano prevalenti lo sono altrove in modo incidentale.
Fra questi luoghi, afferenti alla tematica del quinto stato (in modo prevalente o incidentale), ci sono gli episodi di Brunetto Latini (prevalente), di Marco Lombardo (incidentale: la tematica prevalente riguarda il terzo stato) e di Ugo Capeto (prevalente).

b-1) Nel primo caso (Brunetto) si registrano i temi del fumo (Ap 9, 1; Inf. XV, 2-3; 116-117), dell’incerto scegliere fra due parti (Ap 9, 5-6, riferito ai partiti che avranno fame di Dante: “che l’una parte e l’altra avranno fame / di te”, vv. 71-72), e soprattutto la corrispondenza (si tratta di una citazione oliviana di Gioacchino da Fiore): «… “stella de celo” cadens fuit aliquis clericus scientia litterarum imbutus … sed et multi sacerdotes et religiosi multique principes et milites fuerunt hoc errore infecti – In somma sappi che tutti fur cherci / e litterati grandi e di gran fama, / d’un peccato medesmo al mondo lerci» (vv. 106-108).

b-2) Nel secondo caso (Marco Lombardo) si registra il tema della morte che tarda a venire per i tre vecchi lombardi, ed è lo stesso motivo che permea le parole di Tommaso d’Aquino su Sigieri (Ap 9, 5-6: «“… et desiderabunt mori, et fugiet mors ab illis” … tedet eos vivere … – e par lor tardo / che Dio a miglior vita li ripogna … che ’n pensieri / gravi a morir li parve venir tardo», Purg. XVI, 122-123; Par. X, 134-135).

b-3) Nel terzo caso, le parole di Ugo Capeto sul presunto assassinio dell’Aquinate perpetrato da Carlo d’Angiò, che “poi / ripinse al ciel Tommaso, per ammenda” (Purg. XX, 68-69), sono da connettere allo scorpionale stimolo delle pungenti e subdole locuste, che con pio zelo intendono sottrarre i fedeli dall’errore e ricondurli sulla via della salvezza (Ap 9, 5-6). Alle quali non è estraneo Carlo di Valois il quale, armato solo della lancia di Giuda, cioè della frode, punge e fa scoppiare la pancia a Firenze (vv. 73-75).

In tutti e tre i casi la ‘zona’ del poema, riferibile prevalentemente ad uno degli stati, è assai ampia dal punto di vista dello sviluppo in poesia del materiale esegetico. Mostrarlo richiederebbe l’esame, lungo e complesso, di tutta la materia relativa ad uno stato, per registrare come si adatti a questa o a quell’altra parte del poema. Per ora basti considerare che Inf. XV-XVI (i sodomiti) è ‘zona’ dove prevalgono i temi del quinto stato (naturalmente preceduta da una ‘zona quarta’, con i bestemmiatori, e seguita da una ‘zona sesta’, con l’episodio della corda e l’ascesa dall’abisso di Gerione); che Purg. XX (gli avari e i prodighi) è altrettanto pervaso dal quinto stato, preceduto dal quarto (gli accidiosi), dal terzo (gli iracondi con Marco Lombardo) ecc., e seguito dalla grande ‘zona sesta’ della montagna (a partire dal terremoto, si registrano l’incontro con Stazio, i golosi, la lezione di Stazio sull’umana generazione). I gironi del purgatorio coincidono all’incirca con uno stato, perché, come si è detto, l’intreccio dei temi rompe ogni limite letterale.

c) Elementi semantici e/o congiunture sintattiche, presenti nel poema come indicato sub b-1, 2, 3), congiunti dal fatto di essere stati elaborati sul medesimo settore della materia esegetica fornita dalla Lectura super Apocalipsim (quinta tromba), si trovano identici, ma separati, in alcuni sonetti del Fiore (LXXXVIII, 12: “mi ripogna”; XCII, 6-7, 9: “Che sed e’ vien alcun gra.litterato / Che voglia discovrir il mi’ peccato … Mastro Sighier non andò guari lieto”; CVIII, 14: “E dato â me, che ’n paradiso il pingo”), tutti riferiti a Falsembiante.

d) Presi singolarmente, quegli elementi semantici e/o congiunture sintattiche sono già stati segnalati come ‘prove interne’ di paternità dantesca. Le numerose rispondenze tra Fiore e Commedia testimoniano che “non si tratta più di una semplice somma d’indizi, ma di un organismo mnemonico che è insieme verbale, concettuale (o sinonimico), fonico e ritmico, del tutto assimilabile alla memoria che il Dante della Commedia ha di sé stesso” (Contini) [1], per cui “il Fiore è un testo che Dante, se non ha composto, ha letto e assimilato assai bene” (Gorni) [2].

e) Poiché la Commedia mostra un ordito interiore che lega luoghi diversi fra loro per parodia poetica della medesima materia esegetica, che viene trasformata per variazioni e alla quale i versi rinviano con procedimento di ars memorandi, quei punti sopra considerati, che nel Fiore sono disgiunti, appaiono non solo emergenti dalla coscienza dell’autore, nuovamente assunti nel poema in modo sparso – “la memoria che il Dante della Commedia ha di sé stesso”, come afferma Contini -, ma consapevolmente rielaborati: da Inf. XV a Par. X, come sono stati variati i temi offerti dalla Lectura dell’Olivi (in questo caso a partire da alcuni passi dell’esegesi della quinta tromba), così vi sono stati scientemente incastonati i motivi dell’antico lavoro di ‘ser Durante’.

È da notare che nel Fiore LXXXVIII, 12-14 Falsembiante, il quale veste “la roba del buon frate Alberto” (e mette in rima “ripogna” e “vergogna” come nel parlare di Marco Lombardo sui tre vecchi a Purg. XVI, 119.123), accenna all’uccisione di Sigieri di Brabante, nel 1282-1283, presso la corte di Orvieto, dove risiedeva il papa Martino IV al quale si era appellato (“a ghiado il fe’ morire a gran dolore”: XCII, 9-11). Ma, nel Paradiso, il suo ‘confratello’ Tommaso d’Aquino  – “glorïosa vita” – esalta quel dolore, in parte da lui stesso provocato, evocando i “pensieri gravi”, cioè dolorosi al punto da fargli desiderare la morte, dell’avversario martire della filosofia pura. E l’esaltazione assume un valore universale perché le parole dell’Aquinate rinviano il lettore spirituale al tormento provocato nei fedeli dalla puntura delle subdole locuste, insinuanti il dubbio su quale sia la via per raggiungere la verità (nel caso, la ragione o la fede), secondo quanto esposto dall’Olivi nell’esegesi della quinta tromba apocalittica.
Sono, questi, sondaggi indicatori di un metodo che potrebbe essere replicato su altri rapporti fra Fiore e Commedia, mostrando quanto sia feconda di implicazioni la serrata sinossi fra Commedia e Lectura super Apocalipsim.

 

[1] Cfr. GIANFRANCO CONTINI, Fiore, in Enciclopedia dantesca, II, Roma 19842, p. 900.
[2] Cfr. GUGLIELMO GORNI, Dante. Storia di un visionario, Bari 2008, p. 51.
 

Tab. VII

[LSA, cap. IX, Ap 9, 1-2 (IIIa visio, Va tuba)] Deinde pro secunda temptatione, scilicet Manicheorum hereticorum in quinto tempore multiplicatorum, et precipue in Italia et in comitatu tholosano et circa, est expositio Ioachim quod “stella de celo” cadens fuit aliquis clericus scientia litterarum imbutus, qui clavem scientie pravi dogmatis et potestatem investigandi profunda sapientie false et superstitiose, non Dei, a patre mendacii accepit. “Puteus” autem “abissi” est profunditas humane et false sapientie, de qua “fumus” erroris procedit* obscurantis solem et aerem, quia non solum plebei sed et multi sacerdotes et religiosi multique principes et milites fuerunt hoc errore infecti (cfr. Ap 9, 2).

* Expositio, pars III, f. 130va.

Inf. XV, 1-3, 70-72, 106-108 

Ora cen porta l’un de’ duri margini;
e ’l fummo del ruscel di sopra aduggia,
sì che dal foco salva l’acqua e li argini. 

La tua fortuna tanto onor ti serba,
che l’una parte e l’altra avranno fame
di te; ma lungi fia dal becco l’erba.

In somma sappi che tutti fur cherci
e litterati grandi e di gran fama,
d’un peccato medesmo al mondo lerci.

Fiore, LXXXVIII (cfr. CLXXV, 12-14) [*]
«Po’ ch’e’ vi piace, ed i’ sì ’l vi diròe»,
Diss’ alor Falsembiante: «or ascoltate,
Chéd i’ sì vi dirò la veritate
De.luogo dov’io uso e dov’i’ stoe.

Alcuna volta per lo secol voe,
Ma dentro a’ chiostri fug[g]o in salvitate,
Ché quivi poss’ io dar le gran ghignate
E tuttor santo tenuto saròe.

Il fatto a’ secolari è troppo aperto:
Lo star guari co.lor no.mmi bisogna,
C[h]’a me convien giucar troppo coperto.

Perch’ i’ la mia malizia mi ripogna,
Vest’ io la roba del buon frate Alberto:
Chi tal rob’ àe, non teme mai vergogna».

Fiore, XCII

Color con cuï sto sì ànno il mondo
Sotto da lor sì forte aviluppato,
Ched e’ nonn-è nes[s]un sì gran prelato
C[h]’a lor possanza truovi riva o fondo.

Co.mmio baratto ciaschedun afondo:
Che sed e’ vien alcun gra.litterato
Che voglia discovrir il mi’ peccato,
Co.la forza ch’i’ ò, i’ sì ’l confondo.

Mastro Sighier non andò guari lieto:
A ghiado il fe’ morire a gran dolore
Nella corte di Roma, ad Orbivieto.

Mastro Guiglielmo, il buon di Sant’Amore,
Fec’ i’ di Francia metter in divieto
E sbandir del reame a gran romore.

Fiore, CVIII

Ma quand’ i’ truovo un ben ricco usuraio
Infermo, vo’l sovente a vicitare,
Chéd i’ ne credo danari aportare
Non con giomelle, anzi a colmo staio.

E quando posso, e’ non riman danaio
A.ssua famiglia onde possa ingrassare;
Quand’ egli è morto, il convio a                                                                     [sotter[r]are,
Po’ torno e sto più ad agio che gen[n]aio.

E sed i’ sono da nessun biasmato
Perch’io il pover lascio e ’l ric[c]o stringo,
Intender fo che ’l ricco à più peccato,

E perciò sì ’l conforto e sì ’l consiglio,
Insin ch’e’ d’ogne ben s’è spodestato,
E dato â me, che ’n paradiso il pingo.

Purg. XX, 67-69, 73-75

Carlo venne in Italia e, per ammenda,
vittima fé di Curradino; e poi
ripinse al ciel Tommaso, per ammenda.

Sanz’ arme n’esce e solo con la lancia
con la qual giostrò Giuda, e quella ponta
sì, ch’a Fiorenza fa scoppiar la pancia.

[*] (ed. a cura di G. Contini, in Dante Alighieri, Opere minori, I/II, Milano-Napoli 1984)

Purg. XVI, 118-126

or può sicuramente indi passarsi
per qualunque lasciasse, per vergogna,
di ragionar coi buoni o d’appressarsi.
Ben v’èn tre vecchi ancora in cui rampogna
l’antica età la nova, e par lor tardo
che Dio a miglior vita li ripogna:
Currado da Palazzo e ’l buon Gherardo
e Guido da Castel, che mei si noma,
francescamente, il semplice Lombardo.

Par. X, 133-138

Questi onde a me ritorna il tuo riguardo,
è ’l lume d’uno spirto che ’n pensieri
gravi a morir li parve venir tardo:
essa è la luce etterna di Sigieri,
che, leggendo nel Vico de li Strami,
silogizzò invidïosi veri.

[LSA, cap. IX, Ap 9, 5-6 (IIIa visio, Va tuba)] Quinto describit gravitatem doloris predictorum lesuram consequentis et concomitantis, unde subdit: (Ap 9, 5) “sed ut cruciarent mensibus quinque, et cruciatus eorum ut cruciatus scorpii, cum percutit hominem. (Ap 9, 6) Et in diebus illis querent homines mortem et non invenient eam et desiderabunt mori, et fugiet mors ab illis”. […] Per cruciatum autem designatur hic pungitivus remorsus conscientie et timor gehenne, qui fidelibus in gravia peccata cadentibus non potest de facili deesse. Designat etiam iram et offensam quam temporaliter dampnificati et iniuriati a predictis locustis habent contra eas, et designat etiam merorem et consternationem quam multi habent de tantis malis per locustas factis, ita quod tedet eos vivere et maxime quia timent incidere in tantam temptationem et per consequens dampnari. Multi etiam per evasionem tantorum malorum cupiunt et desiderant martiria, sed non inveniunt propter pacem quinto tempori datam. […]
Quod autem ait (Ap 9, 5), “dictum” esse “illis”, id est prohibitum seu non permissum, “ne occiderent eos, sed ut cruciarent mensibus quinque”, dicit Ioachim non esse hoc dictum de morte eterna, sed de totali extinctione fidei. Quod est intelligendum respectu illorum carnalium quos non omnino in suum errorem trahunt, sed solum suis stimulis in dubium valde cruciativum inducunt, detrahendo scilicet fidelibus et mala exempla clericorum et prelatorum eis ingerendo et contra quasdam difficultates fidei arguendo per sensibiles auctoritates scripture et per quedam exempla plana et sensibilia, et e contra fictam sanctitatem suorum, quos perfectos vocant, eis demonstrando et commendando. Hoc autem instar scorpii faciunt sub blanda specie et quasi sub pio zelo <eruendi> eos ab errore et dampnatione et reducendi eos ad viam salutis. […] De predictis autem sic scorpionali stimulo et dubio fortiter cruciatis, non tamen in eorum heresim transductis nec a fide vera simpliciter extinctis, subditur quod tales “querent mortem et non invenient” (Ap 9, 6), propter scilicet nimium cruciatum sui dubii, tamquam ex hoc timentes dampnari et in utraque parte, scilicet falsa et vera, timentes errare. […] Ceteros vero hinc inde vacillantes suis venenatis aculeis cruciabunt, quia per hoc in tantam perplexitatem incident quod preeligerent mori.  


Inferno XVI

 

1. Il rombo dei carri da guerra

Inferno XVI si apre con il rimbombo dell’acqua che precipita nel cerchio sottostante, simile al ronzio delle api dentro agli alveari. Tre ombre correndo si separano insieme da una schiera di sodomiti che passano “sotto la pioggia dell’aspro martiro” (cfr. Inf. XIV, 48). La parodia si esercita sulla tematica presente nell’esegesi di Ap 9, 9.12 (quinta tromba), dove si tratta della settima proprietà delle locuste, il rombo delle ali pari al suono di carri da guerra. Le variazioni sul tema della “vox rotarum” percorrono tutto l’episodio; per esse si veda l’esame effettuato altrove. All’esegesi della quinta coppa (Ap 16, 10) rinviano i versi 8-9: “Sòstati tu ch’a l’abito ne sembri / essere alcun di nostra terra prava” (ma le ultime due parole derivano da Ap 11, 18, settima tromba). L’invito di Virgilio: “Or aspetta” (v. 14) propone il tema dell’attendere, precipuo del quinto sigillo (Ap 6, 11), esegesi parodiata anche nell’impossibilità di stare “dal foco coperto / … di sotto” (vv. 46-47; Ap 6, 9.11 ma “sofferto”, al verso successivo, è variazione da Ap 2, 3, prima chiesa). Le piaghe dei tre sodomiti, il loro cruccio e dolore, l’essere posti in croce trasferiscono sui dannati gli effetti della puntura delle locuste, le quali al suono della quinta tromba crocifiggono lo Spirito di Cristo (Ap 9, 5-6; cfr. anche 11, 6, sesta tromba). Il “loco sollo” (v. 28) rinvia al tema dell’arena, dalla quinta guerra (Ap 12, 18).
Come sempre, la tematica prevalente nella zona topografica (in questo caso propria del quinto stato), viene intrecciata con altra. Ad esempio, “noi restammo” (v. 19) personifica un concetto (lo “stare”) del quarto stato (prologo, Notabile III); le “gambe loro isnelle” (v. 87) varia la tematica di Ap 18, 2 (sesta visione).

 

Tab. VIII

[LSA, cap. IX, Ap 9, 5-6 (IIIa visio, Va tuba)] Quinto describit gravitatem doloris predictorum lesuram consequentis et concomitantis, unde subdit: (Ap 9, 5) “sed ut cruciarent mensibus quinque, et cruciatus eorum ut cruciatus scorpii, cum percutit hominem. […] De predictis autem sic scorpionali stimulo et dubio fortiter cruciatis, non tamen in eorum heresim transductis nec a fide vera simpliciter extinctis, subditur quod tales “querent mortem et non invenient” (Ap 9, 6), propter scilicet nimium cruciatum sui dubii, tamquam ex hoc timentes dampnari et in utraque parte, scilicet falsa et vera, timentes errare. […]
Ceteros vero hinc inde vacillantes suis venenatis aculeis cruciabunt, quia per hoc in tantam perplexitatem incident quod preeligerent mori (cfr. Ap 9, 5-6). Hos autem, cum plebeis et quibuslibet aliis eorum sequacibus, litteraliter videtur Apostolus predicere et describere, IIa ad Timotheum III° dicens (2 Tm 3, 1-6): “In novissimis diebus instabunt tempora periculosa et erunt homines se ipsos amantes, cupidi, elati, superbi, blasphemi, parentibus”, scilicet spiritualibus, “non obedientes, ingrati, <s>celesti, sine affectione”, scilicet fidelis amicitie, “sine pace, criminatores, incontinentes, immites, sine benignitate, proditores, protervi, tumidi, ceci, voluptatum amatores magis quam Dei, habentes <quidem> speciem pietatis”, scilicet divini cultus et zeli animarum et religionis, “virtutem autem eius abnegantes”. Quia vero tempore Pauli erant pseudoapostoli similes istis, ideo subdit: “Et hos”, id est horum similes, “devita; ex hiis enim”, id est ex horum genere, “sunt qui penetrant domos et captivas ducunt mulierculas” et cetera. De impugnatione autem veritatis per eos subdit (ibid., 3, 8): “Quemadmodum autem Iamnes et Mambres restiterunt Moysi, ita et hii resistent veritati; homines corrupti mente, reprobi circa fidem”. Quia vero eorum gravis et ultima ad nocendum potestas non est nisi per quinque menses, id est per breve tempus, ideo Apostolus subdit (ibid., 3, 9): “sed ultra non proficient, insipientia enim illorum manifesta erit omnibus, sicut illorum fuit”. […]
Vel quia in fine quinti status erat spiritus et vita Christi seu Christus in spiritu quasi crucifigendus et quinque plagis plagandus, ideo quelibet tribulatio trium predictarum cruciat quinque plagis quasi quinque mensibus, quarum due in manibus et alie due in pedibus et quinta in latere.

Inf. XVI, 10-11, 43-45, 70-72

Ahimè, che piaghe vidi ne’ lor membri,   11, 6
ricenti e vecchie, da le fiamme incese!

E io, che posto son con loro in croce,
Iacopo Rusticucci fui, e certo
la fiera moglie più ch’altro mi nuoce.*

ché Guiglielmo Borsiere, il qual si duole
con noi per poco e va là coi compagni,
assai ne cruccia con le sue parole.

* Cfr. Petrocchi sull’inammissibilità della variante mi cuoce, oltre tutto esclusa dalle variazioni operate sull’esegesi.

 

2. “L’ovra di voi e li onorati nomi”

Avere fama e nome, vivere nelle proprie opere, essere conosciuti, noti e raccomandati fra i sommi, è fra le tematiche principali del quinto stato, trattata principalmente nell’esegesi della quinta chiesa (Sardi, Ap 3, 1.5, in collazione, come ad Inf. XV, 99, con Ap 1, 3) e della connessa quinta vittoria (Ap 3, 5). I temi, le cui varianti si registrano nell’incontro con i tre fiorentini sodomiti, sono già rilevanti nell’episodio di Brunetto Latini sopra esaminato. La fama contrasta con la pena, elaborata su Ap 1, 7, dove si parla del pianto, confermato in ogni lingua (dall’amen”; cfr. Inf. XVI, 88), di coloro che hanno punto e disprezzato Cristo, temi che i versi trasferiscono sui dannati, i quali sono “tra lor battuti e punti” (v. 24), nella misera arena che “rende in dispett0 noi e nostri prieghi” (vv. 29, 52).
Della quinta chiesa (Ap 3, 1) è propria anche la bellezza stellare (“le belle stelle”: v. 83; il tornare ad esse rinvia ad Ap 3, 12, sesta vittoria; al verso successivo, l’inciso
«quando ti gioverà dicere “I’ fui”» richiama Ap 1, 18). Ancora all’esegesi di Sardi appartiene il tardare del v. 54 (Ap 3, 3; al passo simmetrico di Ap 16, 15 [sesta coppa] si riferisce l’espressione “tutta si dispoglia”).

 

3. La superbia fiorentina

■ Ad Ap 22, 16 (ultimo capitolo del libro, nella sua conclusione; l’esame compiuto è stato condotto altrove) Cristo si definisce “stella splendida”, illuminatrice dei santi, e “matutina”, che promette, predica e mostra la luce futura dell’eterno giorno. È stella in quanto fu uomo mortale e sole in quanto Dio. Egli invita tutti alla gloria (Ap 22, 17). Lo “sposo”, che secondo Riccardo di San Vittore è Cristo (Olivi nota che alcuni correttori del testo hanno tuttavia ad Ap 22, 17 “spirito” al posto di “sposo”, intendendo che Cristo invita tanto per sé quanto per il suo Spirito e per ispirazione interiore), e la “sposa”, cioè la Chiesa generale, sia quella dei beati sia quella peregrinante come quella contemplativa, dicono “Vieni”, cioè alla gloriosa cena delle nozze dell’Agnello. “E chi ascolta”, ossia chi è a conoscenza dell’invito, oppure chi crede e opera in modo retto e con obbedienza, “dica: vieni” a quelli che sono da chiamare alla cena e alla città beata. Poi è Cristo stesso ad invitare con liberalità dicendo: “Chi ha sete venga, e chi vuole riceva gratuitamente l’acqua della vita”. Dice “chi ha sete e chi vuole” perché nessuno può venire senza che ci sia desiderio e volontario consenso. “Venire” equivale a ricevere l’acqua della vita, cioè la grazia che ristora, vivifica e conduce alla vita eterna. Essa è “gratuita” perché viene data dalla carità e dalla liberalità di Cristo e ricevuta senza l’intervento di alcun prezzo venale ed esteriore, ma anche perché la prima grazia viene data senza alcun merito precedente essendo principio e causa del merito stesso e del suo aumento.
Cortesia, in quanto volontà che s’apre e viene, non è estranea al duro e lapideo mondo infernale. Dice Virgilio dei tre sodomiti fiorentini sotto la pioggia di fuoco: “a costor si vuole esser cortese” [1], e nel successivo colloquio essa riaffiora nel ricordo di una vita cittadina ormai estinta: “cortesia e valor dì se dimora / ne la nostra città sì come suole, / o se del tutto se n’è gita fora” (Inf. XVI, 15, 67-69: il liberale invito dello Spirito di Cristo è alla cena della città beata). È un segno di come, nell’amarezza dell’esilio, il poeta sempre ami un’idea della sua Firenze, patria di degni cittadini “ch’a ben far puoser li ’ngegni” (Inf. VI, 81). Come sarebbe stato un giorno per Savonarola, che ne fustigò i vizi, Firenze è l’eletta e diletta città, nuova Gerusalemme santa e pacifica.

Piangono i re della terra la caduta improvvisa e irreparabile della maledetta Babilonia, «“dicentes”, scilicet plangendo: “Ve, ve, ve”» (Ap 18, 10). Triplicano la dolorosa interiezione, parlano di Babilonia in terza persona e poi in seconda, al modo di coloro che prima piangono con sé stessi, poi si rivolgono alla persona compianta. È il modo di Francesca: “dirò come colui che piange e dice” (Inf. V, 126), ove si passa dalla prima alla terza persona: «si allontana dalla rappresentazione immediata (“piangerò e dirò”, scilicet insieme) per ricondurre l’azione al suo paradigma» (Contini) [2]. E Ugolino: “parlare e lagrimar vedrai insieme” (Inf. XXXIII, 9). Ai tre sodomiti che gli hanno chiesto (per bocca di Iacopo Rusticucci) se cortesia e valore dimorino “ne la nostra città sì come suole”, riferendosi ad essa in terza persona, Dante risponde direttamente in seconda persona, triplicando in modo anaforico: “La gente nuova e i sùbiti guadagni / orgoglio e dismisura han generata, / Fiorenza, in te, sì che tu già ten piagni” (Inf. XVI, 64-75). La dolorosa scritta sulla porta dell’inferno ripete per tre volte “Per me si va”; l’anafora distingue ancora il dire di Francesca, che ripete per tre volte “Amor”.

La superbia distrutta è nel ricordo di Montaperti, espresso da Oderisi da Gubbio a proposito di Provenzan Salvani, che era signore di Siena “quando fu distrutta / la rabbia fiorentina, che superba / fu a quel tempo sì com’ ora è putta” (Purg. XI, 112-114). L’orgoglio è veramente fiorentino. Con Filippo Argenti: “Quei fu al mondo persona orgogliosa … ’l fiorentino spirito bizzarro” (Inf. VIII, 46-48, 61-63). Nella risposta di Dante ai tre concittadini sodomiti: “La gente nuova e i sùbiti guadagni / orgoglio e dismisura han generata, / Fiorenza, in te, sì che tu già ten piagni”, Inf. XVI, 73-75; sui “guadagni” cfr. il commercio perduto con Babylon ad Ap 18, 11-12) [3]. Costituisce un vizio proprio del quarto tempo, allorché – come si afferma nel Notabile XII del prologo con citazione di Gioacchino da Fiore – gli anacoreti contemplativi “fiorirono”, ma poi passarono dalla perfezione al gloriarsi e di qui all’esaltazione e infine alla rovina. Così l’aggettivo ‘fiorentino’ si insinua tra le maglie dell’armatura teologica, scavato nel “visus est floruisse ad horam” a proposito del quarto ordine nella citazione del quinto libro della Concordia.

La libertà di parlare è data alla sesta chiesa, Filadelfia (Ap 3, 8): il verso 81 – “felice te se sì parli a tua posta!” – allude alla parola interiore dettata dallo Spirito, secondo quanto scrive san Paolo ai Romani: «“ipse Spiritus pro nobis postulat”, quia facit nos postulare» (Ap. 1, 4).

[1] “a costor si vuole esser cortese” (Inf. XVI, 15). Cortesia e volere sono congiunti nell’esegesi di Ap 22, 17: è pertanto da escludere (cfr. Petrocchi) la lezione si conviene.
[2] GIANFRANCO CONTINI, Filologia ed esegesi dantesca  (1965) in Un’idea di Dante. Saggi danteschi, Torino 1970 e 1976, p. 141.
[3] “orgoglio e dismisura han generata” (Inf. XVI, 74). Nell’esegesi (prologo, Notabile XII), “aperta enim perfectio gloriationem parit”:
è pertanto da escludere (cfr. Petrocchi) la lezione engendrata, nel senso di ‘ingradata’, accresciuta.

 

4. Il fiume dal nome vacante

Nel capitolo XI della Lectura si parla dei due testimoni dati da Dio, Enoch ed Elia, che verranno uccisi dalla bestia per poi risorgere dopo tre giorni e mezzo (corrispondenti a “un tempo, due tempi e la metà di un tempo” di Ap 12, 14, ovvero ai tre anni e mezzo in cui regnerà l’Anticristo). Di essi si dice che “profetizzeranno vestiti di sacco”, cioè di cilici e di vesti povere e aspre, a significare l’austerità della loro vita religiosa (Ap 11, 3). Essi sono “due olivi” pingui di carità e ripieni dell’unzione divina e di soavità, e “due candelabri lucenti”, i quali spandono per tutta la Chiesa il lume della sapienza divina che portano in modo alto e preclaro, “che stanno nel cospetto del Signore”, cioè assistono sempre Dio sia per la singolare contemplazione che per il servigio di una pronta obbedienza e ossequio (Ap 11, 4). Secondo Gioacchino da Fiore, sia qui come in Zaccaria 4, 14 si dice di costoro “che stanno nel cospetto del Signore della terra” perché sono venuti per questo, e andranno davanti al volto di Cristo per annunziare la venuta di un tempo nel quale è necessario che il Figlio di Dio regni su tutta la terra, cosicché gli uomini siano illuminati come da candelabri luminosi e il cuore degli eletti venga unto dalla grazia e dalla dottrina spirituale come da lampade colme di olio santo. Con il “Signore della terra” può essere anche designato l’Anticristo, che allora dominerà da usurpatore la terra e i terreni, di fronte al quale i due resisteranno con costanza ammonendolo da parte di Dio, come fecero Mosè e Aronne di fronte al Faraone e Pietro e Paolo di fronte a Nerone.
Il tema dell’Anticristo che usurpa il dominio terreno si ritrova nel cielo ottavo, delle stelle fisse, quando san Pietro pronuncia l’invettiva contro “quelli ch’usurpa in terra il luogo mio, / il luogo mio, il luogo mio che vaca / ne la presenza del Figliuol di Dio” (Par. XXVII, 22-24). Si tratta di Bonifacio VIII, pontefice regnante nel 1300, e l’appellativo di usurpatore, nelle parole del principe degli apostoli che dichiara altresì essere vacante il suo seggio in terra, sembra alludere all’illegittimità dell’elezione del Caetani. Si può rispondere con Arsenio Frugoni, che le parole di Pietro non possono essere intese come denuncia di un’illegittimità canonica di Bonifacio, “ma bensì di un’indegnità totale di colui che ha tolto ‘a ’nganno / la bella donna’ e ne fa ‘strazio’ (Inf. XIX, 56-57), sicché per quell’alleato di Satana il Papato è di fatto vacante, anche se così non appare agli uomini, nel giudizio del Figlio di Dio” [1].
Dante non entra nel dibattito se la rinuncia di Celestino V sia stata canonicamente possibile (Olivi, è noto, la considerò tale in una celebre quaestio); il “gran rifiuto” che lo condanna fu quello di un eletto del sesto stato della Chiesa che, trovandosi nell’angustia della persecuzione dei nuovi martiri, lì dove era chiamato a testimoniare la regola evangelica dal suo alto stato, si sentì inadeguato. Ingannato, forse, da quello stesso Caetani che poi da papa avrebbe ingannato Guido da Montefeltro, altro eletto (perché si fece francescano in tarda età) decaduto nella prova del dubbio.
Il tema del vacare moralmente dinanzi a Dio è presente ad Ap 3, 1-2. Il vescovo di Sardi, la quinta delle sette chiese d’Asia alle quali Giovanni scrive nella prima visione, viene rimproverato di avere fama di essere giusto e di vivere la vita della grazia, mentre invece è morto per colpa mortale: “nomen habes quod vivas et tamen mortuus es”. Viene invitato a vigilare e a confermare le sue opere che stanno per estinguersi, per cui Cristo gli dice: “non trovo le tue opere piene di fronte a Dio” cioè, spiega Olivi, anche se dinanzi agli uomini appaiono piene di virtù e di carità, vacano (nel senso di ‘sono vuote’) di fronte a Dio. Così per Bonifacio, pontefice legittimo per i terreni ma non per Dio, singolarmente consonante nel nome con l’esegesi relativa al vescovo della quinta chiesa, “quia habebat nomen boni cum esset malus” (cfr. Inf. XIX, 53). I versi pronunciati da san Pietro cuciono insieme i temi della quinta chiesa da Ap 3, 1-2 – le opere vacanti “coram Deo” – con quelli della sesta tromba da Ap 11, 4 – i due testimoni che stanno “in conspectu Domini terre” -, con la duplice appropriazione di quest’ultimo motivo all’usurpatore Anticristo (“Quelli ch’usurpa in terra”) e a Cristo (“ne la presenza del Figliuol di Dio”). Se il ‘vacare’ della sede romana è un filo tratto dall’esegesi della quinta chiesa, la quale ebbe un principio bello poi corrottosi rendendo il proprio nome vacuo di fronte a Dio, l’intenzione di san Pietro non è di dire che Bonifacio VIII è stato eletto in modo illegittimo, ma che si è reso apostata da quell’alto stato (che pertanto “usurpa” occupandone il “luogo”), come l’apostata Anticristo il quale, precisa Olivi ad Ap 13, 11, non sarà educato ed edotto dal diavolo fin dall’infanzia o dal ventre materno ma, nuovo Lucifero, sarà apostata e cadrà di sua volontà dall’altissimo e giustissimo stato in cui era stato creato.
Al passo di Ap 11, 4, relativo ai due testimoni e al loro stare “in cospetto del Signore della terra” (che può essere il Figlio di Dio oppure l’Anticristo), rinvia pure lo stare di Francesco, assetato di martirio, “ne la presenza del Soldan superba” ove “predicò Cristo e li altri che ’l seguiro” (Par. XI, 100-102). Che il Sultano sia inteso come “Dominus terre” si ricava anche dalle parole di Virgilio relative a Semiramìs (“tenne la terra che ’l Soldan corregge”, Inf. V, 60). I due testimoni “verranno per questo”, cioè per stare in presenza di Cristo “Dominus terre” e per annunciare essere prossimo il tempo in cui il Figlio di Dio regnerà sull’universa terra: il tema entra nella narrazione che Bonaventura fa della vita di Domenico: “Spesse fïate fu tacito e desto / trovato in terra da la sua nutrice, / come dicesse: ‘Io son venuto a questo’” (Par. XII, 76-78). D’altronde ad Ap 11, 4 (passo in collazione con Ap 10, 1) conduce anche Par. XI, 35-36, dove si parla appunto dei due principi – Francesco e Domenico – ordinati dalla Provvidenza a guida della Chiesa, come nell’esegesi si dice (Ap 10, 1) che Dio ha ordinato uomini angelici che illuminano gli inferiori e (Ap 11, 4) che i due testimoni, Enoch ed Elia, sono due candelabri luminosi che stanno al cospetto di Dio, come due principi e consiglieri stanno e incedono uno a destra e uno a sinistra al cospetto di un gran re.

La situazione di Bonifacio VIII è parzialmente illuminata da altro luogo del poema. Si tratta della descrizione della cascata del Flegetonte che precipita dal settimo all’ottavo cerchio infernale. Il fiume di sangue è paragonato al Montone che all’inizio, nel suo alto corso, “prima dal Monte Viso ’nver’ levante, / da la sinistra costa d’Apennino” [2] ha proprio cammino e proprio nome (Acquacheta; ad Ap 3, 4 il “proprium nomen” è il “proprium donum gratie” dato a ciascuno), nome che diventa “vacante” allorché il fiume, dopo la cascata di San Benedetto dell’Alpe, è sceso nella piana di Forlì e si chiama appunto Montone (Inf. XVI, 94-105; cfr. a Purg. V, 97 le parole di Buonconte da Montefeltro sullo sfociare in Arno dell’Archian rubesto”: “Là ’ve ’l vocabol suo diventa vano”). Questi versi di apparente indicazione geografica sono in realtà pregni di parodiati motivi spirituali. Il tema principale è la caduta rovinosa (la cascata) del fiume, corrispondente al precipitoso rovinare nella fase estrema del quinto stato condescensivo e rilassato. Così il fiume ha dapprima un nome di vita, “avante / che si divalli giù nel basso letto” (prima che ‘condiscenda’), e poi lo perde, come la chiesa di Sardi ha avuto un principio bello e poi l’ha perduto ritrovandosi con un nome vacante di fronte a Dio. Tutta la zona che precede la descrizione della cascata del Flegetonte – i sodomiti – è pervasa dai temi del quinto stato (da notare le ultime parole di ser Brunetto ad Inf. XV, 119-120: “Sieti raccomandato il mio Tesoro, / nel qual io vivo ancora”, cioè ho nome). Nel burrone in cui precipita il Flegetonte Virgilio getta la corda della quale Dante era cinto, e questo è “novo cenno” – che segna il passaggio al sesto stato -, per cui Gerione viene di sopra per portare Dante in volo nel fondo di “quell’alto burrato”, ubbidendo al comando di Virgilio che lo ha ‘fatto venire’, come Cristo promette alla sesta chiesa che le farà venire quelli della sinagoga di Satana, per sottoporli al suo magistero (Ap 3, 9).
La caduta dell’acqua del Flegetonte è “ad una scesa”, come una è l’acqua del fiume che porta le colpe della meretrice nel tempo pagano e in quello cristiano, facendo ridondare le prime sulle altre (Inf. XVI, 94-105; Ap 17, 6). È da notare che l’acqua del fiume infernale viene chiamata “tinta”, secondo quanto detto ad Ap 17, 3 della donna “sanguine et colore coccineo tinctam et rubricatam”.
Del quarto stato, “stans” (prologo, Notabile III), è proprio il fermo governare le genti “in virga ferrea”, il “victoriosus effectus” che deriva dalle res gestae degli operosi anacoreti. Nel quinto stato, “contra medium terminum … declinans” (Notabile III), limitato alla Chiesa latina, si provvede a ricevere le moltitudini – “post tam altos status expedit multitudinem condescensive recipi et primos secundum proportionem suarum virium sequi” (Notabile V) – e si apprestano le medicine che ne curino i morbi. Nella nona bolgia, l’oscuro Pier da Medicina, che vissuto “in su terra latina” concorda perfino nel nome con il ‘medicinale’ quinto stato, ricorda con nostalgia la pianura padana: “se mai torni a veder lo dolce piano / che da Vercelli a Marcabò dichina” (Inf. XXVIII, 70-75). La pianura ai piedi della montagna del purgatorio “dichina … a’ suoi termini bassi” (Purg. I, 113-114).
La cascata del Flegetonte rimbomba verso Malebolge come quella di San Benedetto dell’Alpe “per cadere ad una scesa / ove dovea per mille esser recetto” (Inf. XVI, 100-102). Il confronto con l’esegesi porta ad escludere la variante dovria, con il significato che “se l’acqua del torrente scendesse a valle non con una sola cascata, ma con molte digradanti in successione, non produrrebbe tanto fragore” (Chiavacci Leonardi, Inglese; così già il Torraca e il Sapegno). L’abbazia camaldolese, secondo l’Ottimo, “dovea essere recettacolo e abitazione per  mille abitanti”; Boccaccio riferisce (per attestazione dell’abate del monastero) che i conti Guidi volevano “fare un castello e riducervi entro molte villate datorno di lor vassalli”: le chiose antiche corrispondono al concetto, proposto dall’esegesi, che nel quinto stato della Chiesa (periodo al quale appartiene la semantica prevalente in questa zona del poema), dopo l’alto stato precedente, proprio dei solitari contemplativi, poi decaduti (l’acqua “rimbomba là sovra San Benedetto / de l’Alpe per cadere ad una scesa”) si è passati ad un periodo nel quale la vita associata prevale su quella anacoretica – “post tam altos status expedit multitudinem condescensive recipiad una scesa / ove dovea per mille esser recetto” (nel caso, secondo le chiose antiche, si trattava di un dover essere mai realizzato).

[1] ARSENIO FRUGONI, Celestino V, in Enciclopedia Dantesca, I, p. 906.
[2] “Monte Viso”, preferibile a “Monte Veso”, è parodia del monte Sion, interpretato “specula”, luogo del ‘vedere’ contemplativo: “
Per montem Sion, que Sion interpretatur specula, designatur alta  et solida eminentia contemplativi status” (Ap 14, 1).

Tab. IX

Par. XI, 34-36, 100-102

in sé sicura e anche a lui più fida,
due principi ordinò in suo favore,
che quinci e quindi le fosser per guida.

E poi che, per la sete del martiro,
ne la presenza del Soldan superba
predicò Cristo e li altri che ’l seguiro

Par. XII, 76-78

Spesse fïate fu tacito e desto
trovato in terra da la sua nutrice,
come dicesse: Io son venuto a questo.

Inf. V, 58-60

Ell’ è Semiramìs, di cui si legge
che succedette a Nino e fu sua sposa:
tenne la terra che ’l Soldan corregge.

Par. XXVII, 22-24

Quelli ch’usurpa in terra il luogo mio,
il luogo mio, il luogo mio che vaca
ne la presenza del Figliuol di Dio 

 

[LSA, cap. XI, Ap 11, 4 (IIIa visio, VIa tuba)] “In conspectu Domini terre stantes”, id est tam per singularem contemplationem quam per prompte obedientie et obsequii famulatum semper Deo assistentes.
Et secundum Ioachim, ideo tam hic quam in Zacharia, capitulo scilicet IIII° (Zc 4, 14), dicitur de istis quod sunt “in conspectu Domini terre stantes”, quia ad hoc venturi sunt et ante faciem Christi ituri, ut annuntient advenisse tempus in quo oportet regnare Filium Dei in universa terra, ita ut tamquam de candelabris lucentibus illuminentur homines et tamquam de lampadibus oleo sancto plenis inungantur corda electorum spiritali gratia et doctrina*.
Vel si per “dominum terre” intelligatur Antichristus tunc usurpatorie dominans terre et terrenis, constat quod isti stabunt coram eo tamquam sibi constanter resistentes et tamquam ipsum auctorizabiliter ex parte Dei monentes, sicut Moyses et Aaron steterunt coram Pharaone et Petrus et Paulus coram Nerone imperatore. Primum tamen videtur magis de mente littere, quia in scriptura non est consuetum quod sancti dicantur stare in conspectu regis mundani, et tamen consuetum est dici stare eos in conspectu Dei.
Preterea hic dicuntur stare in conspectu Domini sicut duo candelabra lucentia seu duo luminaria stant coram uno Domino seu coram altari Dei unum a dextris et aliud a sinistris, vel sicut duo principes vel consiliarii unius magni regis stant et incedunt coram eo unus a dextris et alius a sinistris.

[LSA, cap. X, Ap 10, 1 (IIIa visio, VIa tuba)] Quod autem quidam dicunt hunc angelum esse Christum, quia solius ipsius est aperire librum, prout dicitur supra capitulo quinto (Ap 5, 2-3.9), non negamus quin ipse sit principalis reserator libri et precipue in quantum est Deus illuminans interius mentes, sed nichilominus ordinavit sub se angelicos spiritus et angelicos homines ad ministerialiter illuminandum inferiores. Qua ergo ratione per septem angelos tuba canentes intelliguntur angelici homines et doctores et etiam spiritus angelici eis presidentes, quamquam Christus principaliter doceat omnia que per tubicinationes angelorum docentur, eadem ratione debet consimiliter intelligi in proposito.

* Expositio, pars III, f. 149ra.

[LSA, cap. III, Ap 3, 1-2.4 (Ia visio, Va ecclesia)] Talem ergo se proponit huic episcopo, quia habebat nomen boni cum esset malus, nec videbatur futurum iudicium formidare, et etiam quia Christus ostendit se nosse quosdam sanctos huius ecclesie occultos et paucos, tamquam omnibus spiritualiter presens et omnia potestative continens. […] Increpans ergo eam dicit: “Scio opera tua” (Ap 3, 1). Non ponitur hic “scio” pro ‘approbo’ sicut in precedentibus ponebatur, sed solum pro illa scientia qua infallibiliter scit omnia mala. “Quia nomen habes quod vivas”, id est famam habes in vulgo quod sis iustus et per vitam gratie vivus, “et tamen mortuus es”, scilicet per culpam mortalem. Vel si erat aperte malus, est sensus quod habebat nomen christiani, quod est nomen vite sancte, non tamen habebat rem eius sed potius oppositum, scilicet mortem culpe. […]
(Ap 3, 2) Quare autem monet eum vigilare et moritura opera confirmare, ostendit subdens: “Non enim invenio opera tua plena coram Deo meo”, id est etsi coram hominibus videntur plena virtute et caritate, sunt tamen istis vacua coram Deo. […]
Deinde a predicto defectu excipit quosdam illius ecclesie, subdens: “Sed habes pauca nomina in Sardis” (Ap 3, 4). Nomina sumit pro personis quarum nomina sunt. Per nomina etiam intelligit personas merito sue sanctitatis notas Christo. Item proprium donum gratie, quod unusquisque accepit, dat cuique viro quasi proprium nomen ut cognoscatur ex nomine. Caritas autem Dei, in quantum communis omnibus bonis, dat commune nomen sanctis ut vocentur cives Iherusalem.

Inf. XV, 119-120

Sieti raccomandato il mio Tesoro,
nel qual io vivo ancora, e più non cheggio.

Inf. XIX, 52-54

Ed el gridò: “Se’ tu già costì ritto,
se’ tu già costì ritto, Bonifazio?
Di parecchi anni mi mentì lo scritto”.

Purg. V, 97-99

Là ’ve ’l vocabol suo diventa vano,
arriva’ io forato ne la gola,
fuggendo a piede e sanguinando il piano.

Inf. XVI, 94-105

Come quel fiume c’ha proprio cammino
prima dal Monte Viso ’nver’ levante,
da la sinistra costa d’Apennino,
che si chiama Acquacheta suso, avante
che si divalli giù nel basso letto,
e a Forlì di quel nome è vacante,
rimbomba là sovra San Benedetto
de l’Alpe per cadere ad una scesa
ove dovea per mille esser recetto;
così, giù d’una ripa discoscesa,
trovammo risonar quell’ acqua tinta,
sì che ’n poc’ ora avria l’orecchia offesa.

 

5. La corda

Nell’esegesi dell’apertura del primo sigillo (Ap 6, 2) viene citato Gregorio Magno su Giobbe 29, 20: “il mio arco nella mia mano si riprenderà”, cioè si rinnoverà in una nuova gloria. L’arco designa la Sacra Scrittura, che ha nella corda il Nuovo Testamento e nel corno il Vecchio. Come nel tendere la corda si curva il corno dell’arco, così il Nuovo Testamento rende molle la durezza del Vecchio e la grazia di Cristo addolcisce il rigore dei precetti legali. La corda che inclina il corno dell’arco designa pure lo zelo che tira con forza a sé le anime per la loro salvezza. Dallo zelo partono le frecce della predicazione, che sono frecce di amore e di timore, cioè promesse, ammonimenti, minacce, rimproveri.
È Beatrice la corda che tira a sé Dante verso la salute: i suoi occhi sono “li smeraldi / ond’Amor già ti trasse le sue armi” (Purg. XXXI, 116-117), la corda con la quale Amore lo prese (Par. XXVIII, 11-12). È corda la provvidenza divina, che dispone l’ordine dell’universo saettando con l’arco che indirizza tutte le creature al proprio fine: per la sua virtù Beatrice e Dante vengono portati all’Empireo, “come a sito decreto” (Par. I, 124-126). L’ascesa al cielo avviene nel meriggio, quando “quasi tutto era là bianco / quello emisperio” (vv. 44-45), cioè quello dell’Eden, pienamente illuminato dal sole: il bianco, accanto alla corda e all’arco, è uno dei temi appropriati a Cristo nell’apertura del primo sigillo (Ap 6, 2).
Un “corno” che si inclina è quello di Ulisse, “lo maggior corno de la fiamma antica” che comincia “a crollarsi mormorando” dopo le parole di Virgilio (Inf. XXVI, 85-87). L’aggettivo ‘maggiore’, che distingue tra Ulisse e Diomede colui che ebbe più grande fama, ha un riferimento ad Ap 8, 7, nell’esegesi della prima tromba, dove si afferma che la tentazione giudaica contro Cristo si fondò sul fatto di avere dalla sua parte l’autorità e la testimonianza dei ‘maggiori’ (cioè degli avi) e dei più antichi e famosi sapienti e la sequela di quasi tutto il popolo, così da non poter essere vinta se non con la fermezza della fede e della carità (cfr. altre appropriazioni in Farinata e in Omberto Aldobrandesco).
La corda e il nuovo sono accostati nell’atto con cui Virgilio, volgendosi verso il lato destro, getta la corda, che Dante aveva “intorno cinta”, nel burrone dove precipita il Flegetonte verso Malebolge (Inf. XVI, 106 sgg.; cfr. infra). Dante pensa tra sé a questo atto come a un “novo cenno”, che il maestro segue con attento sguardo e al quale è necessario “che novità risponda”. Poi afferma apertamente che si deve essere cauti presso a coloro i quali, come Virgilio, non solo vedono gli atti esteriori ma penetrano col senno nei pensieri altrui. La corda, “novo cenno” al quale viene in su Gerione, è uno dei momenti che nell’Inferno sono segnati dalla prevalenza dei temi del sesto stato, indice di un rinnovamento, per quanto si tratti di novità incompiuta o, come nel caso, fraudolenta. Fallace passaggio dal vecchio al nuovo è, nella settima bolgia, il farsi molle della pelle del ladro che si sta mutando da serpente in uomo, mentre l’altro ne assume la durezza; le due nature sono in continua, reciproca mutazione e la forma di uomo non si mantiene regredendo a bestia (Inf. XXV, 109-111).
San Giovanni, esaminando Dante sulla carità, gli chiede se senta “altre corde” tirarlo verso Dio, cioè, come spiega il Buti, “altri movimenti che ti tirino ad amare Iddio, come la corda tira chi vi è legato” (Par. XXVI, 49-51). L’Apostolo ha già ascoltato come il poeta si senta tratto a Dio per gli argomenti della ragione umana (Aristotele) e per l’autorità della Scrittura che con essa concorda (Mosé e lo stesso Giovanni). Questa ulteriore domanda di Giovanni è tessuta anche con motivi che sorprendono per la loro apparente distanza. L’ottava proprietà delle locuste, che al suono della quinta tromba escono dal pozzo dell’abisso aperto e privo di freno, è di avere le code aculeate simili a quelle degli scorpioni (Ap 9, 5.10). La coda designa l’intenzione finale e occulta, la coda dello scorpione incurvata verso l’alto e davanti indica la velenosa e fraudolenta intenzione di pungere quasi per stimolare verso i beni superiori e che stanno innanzi agli altri. Gli aculei della coda delle locuste penetrano sottili e acuti nel cuore lasciando la puntura del peccato e il rimorso. Questi motivi, propri di una piaga apocalittica, sono variati nelle parole dell’Evangelista: “Ma dì ancor se tu senti altre corde / tirarti verso lui, sì che tu suone / con quanti denti questo amor ti morde” (denti e mordere, nonché suonare, sono proprietà delle locuste). A Dante “non fu latente la santa intenzione / de l’aguglia di Cristo”, cioè non fu occulta intenzione come quella velenosa delle locuste e lo stimolare verso l’alto non fu fraudolento ma chiaro nell’indicare il fine al quale desiderava condurre la risposta del poeta (Par. XXVI, 52-54). La quale riprende il tema del morso per dichiarare ciò che ha concorso a formare la carità, e si tratta di “tutti quei morsi / che posson far lo cor volgere a Dio” (vv. 55-57). Anche la definizione di san Giovanni come “aguglia di Cristo”, se secondo la lettera deriva dal simbolo dell’aquila che gli è proprio, per fonetica spirituale concorda con gli “aculei” delle locuste i quali, privati della loro malefica efficacia, indirizzano all’amore del sommo bene. Non è questo l’unico luogo del poema che trasforma in senso positivo un passo che nel testo dell’Apocalisse è appropriato a figure o a situazioni negative, e di ciò altrove si è trattato.
Quelle “altre corde” che tirano verso Dio (i “morsi” della carità), diverse dagli argomenti filosofici e dall’autorità della Scrittura, corrispondono al mancato tirarsi su verso Beatrice, la quale dopo morta non era più cosa fallace, e ciò di fatto costituisce l’oggetto dell’aspro rimprovero della donna nell’Eden: “qual cosa mortale / dovea poi trarre te nel suo disio?” (Purg. XXXI, 52-54). A lei, “pria … che discendesse al mondo” furono ordinate “per sue ancelle” le virtù cardinali (vv. 106-108), su cui si fonda la beatitudine terrena (quella che la Monarchia assegna alla guida dell’Imperatore per mezzo degli insegnamenti della filosofia, Mon. III, xv, 7-10), come i seniori (gli antichi padri che vennero prima di Cristo) sono, nell’esegesi della sede divina prima dell’apertura del libro, famuli ordinati alla difesa della Chiesa (Ap 4, 4). Lo stesso tema del pungitivo rimorso, negativo nelle locuste, esaltato nell’esame sulla carità di fronte a Giovanni, percorre il tema del pentimento di Dante di fronte a Beatrice: “Di penter sì mi punse ivi l’ortica … Tanta riconoscenza il cor mi morse” (Purg. XXXI, 85-90). In simmetrica variazione sono le espressioni “di tutte altre cose qual mi torse / più nel suo amor”, di fronte alla donna non ancora svelata che “vincer pariemi più sé stessa antica” (vv. 83, 86-87), e “tratto m’hanno del mar de l’amor torto, / e del diritto m’han posto a la riva”, di fronte a san Giovanni (Par. XXVI, 62-63).

I nodi e le rotelle dipinte su Gerione corrispondono alla corda che Dante porge a Virgilio “aggroppata e ravvolta” e che questi usa, gettandola nel burrone, come segnale di richiamo per far venire in su la tripartita fiera (Inf. XVI, 106-123). Sull’episodio, fra i più oscuri del poema, convergono numerosi temi. In primo luogo vi si trova il motivo dell’acqua che non può essere attraversata. Ad Ap 5, 5, dove cita Gregorio Magno a proposito dei nodosi argomenti dell’Anticristo che avviluppano le coscienze, Olivi afferma che i tre momenti storici nei quali si compie l’apertura del libro sono prefigurati in Ezechiele 47, 3-5. Il profeta vede dell’acqua scaturire dal lato destro del tempio, che un uomo misura con una cordicella in mano: per i primi mille cubiti le acque arrivano ai piedi, per i secondi fino alle ginocchia, per i terzi fino alle reni, per i successivi mille cubiti le acque sono tanto salite e divenute così profonde da non poter più essere attraversate. Così nella Chiesa, all’inizio, la semplicità dei Gentili fissò i piedi nel fondamento della fede. Al tempo di Costantino, l’impero romano e tutto il mondo piegò le ginocchia dinanzi a Cristo, che poi i dottori nel terzo stato dimostrarono contro gli eretici dover essere adorato come sommo Dio. Nel quinto stato rilassato, le reni sono ripiene di concupiscenza. Al momento dell’apertura del sesto sigillo, le acque della sapienza non possono essere più guadate.
Cingersi i fianchi indica la restrizione della concupiscenza carnale (Ap 1, 13). La corda “intorno cinta”, con la quale Dante pensava “prender la lonza a la pelle dipinta”, simbolo della concupiscenza della carne, designa il quinto stato rilassato: il poeta si è appena lasciato alle spalle i sodomiti, e i canti che li riguardano (Inf. XV-XVI) sono tessuti con prevalenza di fili tematici propri del quinto stato. In precedenza, nel cerchio degli eretici, l’ombra dell’epicureo Cavalcante “s’era in ginocchie levata” (Inf. X, 52-54). Ancor prima, entrando nella Città di Dite, Dante e Virgilio avevano mosso “i piedi inver’ la terra, / sicuri appresso le parole sante” pronunciate dal messo celeste il quale, dopo aver aperto la porta, aveva apostrofato duramente gli ostinati diavoli (Inf. IX, 104-105). I tre momenti coincidono con le tre misurazioni descritte in Ezechiele e applicate da Olivi a tre degli stati: il primo (la Chiesa degli apostoli), il terzo (gli eretici), il quinto (del quale è propria la rilassatezza). Tuttavia, secondo Olivi, nella fase finale del quinto stato non predomina solo la lussuria, ma prevalgono frodi, simonie, rapine generate dal possesso dei beni temporali. La “concupiscentia carnis” (la lussuria) è accompagnata e superata dalla “concupiscentia oculorum” (l’avarizia), nel senso della prima lettera di Giovanni 2, 16: “tutto quello che è nel mondo, la concupiscenza della carne, la concupiscenza degli occhi e la superbia della vita, non viene dal Padre, ma dal mondo”. A questi tre fondamentali errori sono assimilate le tre porte occidentali della Gerusalemme celeste, descritta nella settima visione (Ap 21, 13).
Dante si trova sul ciglio del burrone in cui risuona il rimbombo dell’acqua del Flegetonte che cade nel cerchio sottostante: è evidente che il fiume, già passato in groppa al centauro Nesso nel cerchio dei violenti contro il prossimo, non può più essere superato se non con mezzi nuovi e straordinari. Il poeta, seguendo quanto Virgilio gli ha ordinato, scioglie tutta la corda che lo cinge e la porge alla guida “aggroppata e ravvolta”. Si può notare che “l’ebbi tutta da me sciolta” fa riferimento a una citazione del De civitate Dei (XX, 8) ad Ap 20, 3, a proposito del potere di tentare da parte del diavolo, legato o sciolto in base alla misura stabilita da Dio. Questo atto segna il passaggio dalla lonza a Gerione, dalla lussuria ai nodi e agli intrecci della frode (le “perplexitates” dei Moralia di Gregorio Magno): dunque a una tentazione completa, per cui la corda, che è freno alla tentazione, è tutta sciolta. Segna anche il passaggio dal quinto al sesto stato.
Ciò è dimostrato dal confronto con un passo del quarto libro della Concordia di Gioacchino da Fiore citato da Olivi prima di procedere, nella terza visione, all’esegesi della sesta tromba (Ap 9, 13). Gioacchino ritiene incauto definire con precisione gli anni dopo la quarantesima generazione, cioè a partire dal sesto stato, che coincide con la quarantunesima generazione. Usa l’immagine dei marinai, che in vista del porto ammainano le vele e utilizzano altri strumenti per venire a proda, oppure quella di coloro che, dopo aver navigato per lidi sicuri e conosciuti, iniziano a solcare acque sconosciute in modo cauto e circospetto. Sono questi motivi presenti nell’episodio della corda. Virgilio si volge verso il lato destro: lato che indica la potestà cui tutto soggiace, ma che può anche alludere alle acque che sgorgano dal lato destro del tempio, secondo Ezechiele, 47, 3-5. Getta quindi la corda nel burrone. Subito Dante pensa tra sé a questo atto come a un “novo cenno”, che il maestro segue con attento sguardo e al quale “e’ pur convien che novità risponda”. Poi afferma apertamente che si deve essere cauti presso a coloro i quali, come Virgilio, non solo vedono gli atti esteriori ma penetrano col senno nei pensieri altrui. Comune con l’immagine di Gioacchino è l’essere cauti (proprio di Dante nei confronti di Virgilio) o circospetti (proprio di Virgilio) di fronte alle novità. Il poeta pagano è antica “figura” dell’abate calabrese, come mostrato altrove.
Guardare con circospezione ogni atto, intento o cenno fa parte del gruppo di temi aggregati attorno al motivo centrale degli ‘occhi fiammeggianti’, propri della quinta perfezione di Cristo sommo pastore ad Ap 1, 14. Guardare attorno con attenzione in una situazione nuova e nell’incertezza del cammino si ritrova nella circospezione con cui Virgilio e Stazio varcano la soglia del sesto girone del purgatorio (il numero è anche segno del sesto stato). Sono passate le prime quattro ore del giorno e la quinta non è ancora pervenuta alla metà del suo corso (l’ora è fra le dieci e le undici antimeridiane; l’ora del sesto stato è il meriggio), quando Virgilio, con l’assenso di Stazio, decide che il cammino da prendere è verso destra, volgendo le spalle al ciglio del balzo, non diversamente dal modo per seguire la via tenuto negli altri gironi (Purg. XXII, 115-126).
Ma perché la corda, che prima prende la lonza e poi trae Gerione? Nell’esegesi dell’apertura del primo sigillo (Ap 6, 2), qui sopra già considerata, al momento in cui Cristo compare su un cavallo bianco con un arco in mano, viene citato Gregorio Magno su Giobbe 29, 20: “il mio arco nella mia mano si riprenderà”, cioè si rinnoverà in una nuova gloria. L’arco designa la Sacra Scrittura, che ha nella corda il Nuovo Testamento e nel corno il Vecchio. Come nel tendere la corda si curva il corno dell’arco, così il Nuovo Testamento rende molle la durezza del Vecchio e la grazia di Cristo addolcisce il rigore dei precetti legali. La corda è pertanto associata al nuovo e connessa con il potere di tirare a sé. In tal senso Virgilio la usa come “novo cenno” a cui risponde il venire in su di Gerione il quale, pur avendo tutte le caratteristiche dell’Anticristo, concederà i suoi forti omeri per trasportare in volo Virgilio e Dante, “nova soma” (Inf. XVII, 99), dal settimo cerchio dei violenti all’ottavo di Malebolge, dove stanno i fraudolenti. I versi che riguardano Gerione si aprono con l’immagine della corda e con essa si chiudono allorché, posti i poeti al fondo e scaricate le loro persone, la fiera “si dileguò come da corda cocca” (Inf. XVII, 136), espressione che riprende il tema dell’arco e delle frecce presente ad Ap 6, 2. Questo tema, appartenente all’apertura del primo sigillo che avviene nel primo stato, quello della Chiesa degli apostoli, non è dissonante dalla presenza dei temi del sesto stato della Chiesa, perché questo, che inizia con Francesco, è ritorno al primo periodo, “unde et quasi circulariter sic iungitur primo tempori Christi ac si tota ecclesia sit una spera et ac si in sexto eius statu secundo incipiat status Christi habens sua septem tempora sicut habet totus decursus ecclesie, sic tamen quod septimus status sexti sit idem cum septimo statu totius ecclesie” (prologo, Notabile VII).
Gerione d’altronde riassume in sé motivi che sono propri del sesto stato, al quale appartiene anche il tema della novità che è proprio dell’inconsueto agire di Virgilio. Gran parte del tessuto della descrizione della bestia, nella prima parte di Inf. XVII, è formata da fili che provengono dalla sesta tromba (Ap 9, 19) e la tematica percorre anche l’episodio degli usurai. Il venire di sopra della bestia al nuovo segno dato dalla corda gettata dall’alto da Virgilio (Inf. XVI, 121), come pure il suo venire a proda al cenno del poeta pagano (Inf. XVII, 5, 7-8), dà forma al tema da Ap 3, 9 del ‘far venire’ coloro che si dicono Giudei ma mentiscono perché non lo sono, i quali saranno convertiti alla fede e sottoposti al magistero del vescovo di Filadelfia. La facoltà di parlare data al sesto vescovo (Ap 3, 8: l’apertura della porta è anche apertura dell’ostium sermonis, ovvero rimozione della precedente imposizione di tacere) si traspone nel non poter il poeta tacere la cosa meravigliosa, mentre il giurare proprio dell’angelo della sesta tromba (Ap 10, 5-7) passa nel giurare da parte del poeta “per le note di questa comedìa” (Inf. XVI, 124-129). Portare Dante salvo in groppa al fiero animale da parte di Virgilio, fatto che il maestro ricorda al discepolo titubante a entrare nel fuoco che purga (Purg. XXVII, 22-24), corrisponde al significato del nome della sesta chiesa, Filadelfia, interpretata come quella che “salva l’eredità”, cioè il seme evangelico, nella grande tentazione.

Tab. X

[LSA, cap. VI, Ap 6, 2 (apertio Ii sigilli)] In prima autem apertione apparet Christus resuscitatus sedens in equo albo, id est in suo corpore glorioso et in primitiva ecclesia per regenerationis gratiam dealbata et per lucem resurrectionis Christi irradiata, in qua Christus sedens exivit in campum totius orbis non quasi pavidus aut infirmus, sed cum summa magnanimitate et insuperabili virtute. Nam suos apostolos deduxit in mundum quasi leones animosissimos et ad mirabilia facienda potentissimos, et “habebat” in eis “archum” predicationis valide ad corda sagittanda et penetranda. […]
Secundum etiam Gregorium, Moralium XIX° in fine, super illud Iob: “Et archus meus in manu mea instaurabitur” (Jb 29, 20), per archum scriptura sacra significatur, ita quod per cordam archus designatur testamentum novum, per cornu vero testamentum vetus. Sicut enim dum corda archus trahitur cornu curvatur, sic per novum testamentum duritia testamenti veteris emollitur. Gratia enim Christi facit nobis dulcescere rigorem preceptorum legis*.
Vel per cordam designatur zelus animarum ad earum salutem fortiter tractus et totum robur cordis, quasi cornu archus, secum inclinans et trahens. A tali enim zelo manant sagitte predicationis, id est sagitte promissionum et monitionum ac comminationum et exprobrationum, et sagitte amoris et timoris.

* S. Gregorii Magni Moralia in Iob, libri XI-XXII, cura et studio M. Adriaen, Turnholti 1979 (Corpus Christianorum. Series Latina, CXLIII A), lib. XIX, cap. XXX, 55, 72-86  (n. 55), pp. 1000-1001 (= PL 76, coll. 133 C – 134 B).

Inf. XVI, 103-117; XVII, 133-136

così, giù d’una ripa discoscesa,
trovammo risonar quell’ acqua tinta,
sì che ’n poc’ ora avria l’orecchia offesa.
Io avea una corda intorno cinta,
e con essa pensai alcuna volta
prender la lonza a la pelle dipinta.
Poscia ch’io l’ebbi tutta da me sciolta,
sì come ’l duca m’avea comandato,
porsila a lui aggroppata e ravvolta.
Ond’ ei si volse inver’ lo destro lato,
e alquanto di lunge da la sponda
la gittò giuso in quell’ alto burrato.
‘E’ pur convien che novità risponda’,
dicea fra me medesmo, ‘al novo cenno
che ’l maestro con l’occhio sì seconda’.

così ne puose al fondo Gerïone
al piè al piè de la stagliata rocca,
e, discarcate le nostre persone,
si dileguò come da corda cocca.

Inf. XXV, 109-111

Togliea la coda fessa la figura
che si perdeva là, e la sua pelle
si facea molle, e quella di là dura.

Inf. XXVI, 85-87

Lo maggior corno de la fiamma antica
cominciò a crollarsi mormorando,
pur come quella cui vento affatica

Purg. XXXI, 115-117; Par. XXVIII, 10-12

Disser: “Fa che le viste non risparmi;
posto t’avem dinanzi a li smeraldi
ond’ Amor già ti trasse le sue armi”.

così la mia memoria si ricorda
ch’io feci riguardando ne’ belli occhi
onde a pigliarmi fece Amor la corda.

Par. I, 43-45, 118-120, 124-126

Fatto avea di là mane e di qua sera
tal foce, e quasi tutto era là bianco
quello emisperio, e l’altra parte nera

né pur le creature che son fore
d’intelligenza quest’ arco saetta,
ma quelle c’hanno intelletto e amore.

e ora lì, come a sito decreto,
cen porta la virtù di quella corda
che ciò che scocca drizza in segno lieto. 

Par. XXVI, 49-51

“Ma dì ancor se tu senti altre corde
tirarti verso lui, sì che tu suone
con quanti denti questo amor ti morde”.

[LSA, cap. VIII, Ap 8, 7 (IIIa visio, Ia tuba)] Vel per hoc designatur quod temptationem que simul habet magnam speciem boni et veri, et auctoritatem et testimonium maiorum et antiquiorum et in sapientia famosiorum, et sequelam maioris et quasi totalis partis populi, nullus potest vincere nisi sit in fide et caritate firmus ut terra vel arbor et non fragilis et instabilis et cito arefactibilis sicut fenum. Talis autem fuit temptatio iudaica contra Christum.

Tab. XI

[LSA, cap. IX, Ap 9, 5.10 (IIIa visio, Va tuba)] Per cruciatum (Ap 9, 5) autem designatur hic pungitivus remorsus conscientie et timor gehenne, qui fidelibus in gravia peccata cadentibus non potest de facili deesse. Designat etiam iram et offensam quam temporaliter dampnificati et iniuriati a predictis locustis habent contra eas […].
Pro octava (mala proprietate locustarum) dicit (Ap 9, 10): “Et habebant caudas similes scorpionum, et aculei erant in caudis earum, et potestas earum nocere <hominibus> mensibus quinque”.
Per caudam designatur finalis et occulta intentio et efficacia; per caudam autem scorpionis, venenosam et intoxicativam et quando vult pungere versus superiora et anteriora recurvatam, designatur intentio et eius efficacia venenata pravis moribus aut erroribus aut simul utrisque. Et hoc sub fraudulenta specie, quasi per hoc ducat et stimulet ad bona superiora et anteriora, sive illa superioritas et primitas estimetur esse in bonis carnalibus et sensualibus sive in spiritualibus et eternis. In caudis igitur locustarum sunt aculei, tum quia subtiliter et acute penetrant corda illorum quibus se familiariter applicant, tum quia puncturam peccati et remorsus in corde illorum relinquunt, tum quia sepe eos in temporalibus astute et subtiliter ledunt.

[LSA, cap. IX, Ap 9, 19 (IIIa visio, VIa tuba)] Leo palam sevit, serpens vero occultis insidiis ferit et feriendo suum occultum venenum infundit; sic etiam os in facie se aperte ingerit, cauda vero post tergum latet. In leonino igitur capite et ore equorum designatur temptatio aperta et violenta, in cauda vero serpentina temptatio latens et fraudulenta.

Par. XXVI, 49-63

“Ma dì ancor se tu senti altre corde
tirarti verso lui, sì che tu suone
con quanti denti questo amor ti morde”.
Non fu latente la santa intenzione
de l’aguglia di Cristo, anzi m’accorsi
dove volea  menar mia professione.
Però ricominciai: “Tutti quei morsi
che posson far lo cor volgere a Dio,
a la mia caritate son concorsi:
ché l’essere del mondo e l’esser mio,
la morte ch’el sostenne perch’ io viva,
e quel che spera ogne fedel com’ io,
con la predetta conoscenza viva,
tratto m’hanno del mar de l’amor torto,
e del diritto m’han posto a la riva”.

Purg. XXXI, 52-54, 85-90

e se ’l sommo piacer sì ti fallio
per la mia morte, qual cosa mortale
dovea poi trarre te nel suo disio?

Di penter sì mi punse ivi l’ortica,
che di tutte altre cose qual mi torse
più nel suo amor, più mi si fé nemica.
Tanta riconoscenza il cor mi morse,
ch’io caddi vinto; e quale allora femmi,
salsi colei che la cagion mi porse.

Tab. XII

[LSA, cap. V, Ap 5, 5 (radix IIe visionis)] Tertio ad tempus Antichristi seu ad tempus aliquantulum precedens plenam apertionem sexti signaculi. Tunc enim erunt mire perplexitates conscientie in electis ita ut, teste Christo, fere in errorem ducantur (cfr. Mt 24, 24). Unde Gregorius, Moralium XXXII° super illud Iob: “Nervi testiculorum eius perplexi sunt” (Jb 40, 12) dicit hoc ideo dici, «quia argumenta predicatorum Antichristi dolosis assertionibus innodantur ut alligationum implicatio, quasi nervorum perplexitas, etsi videri possit, solvi non possit. Plerumque autem cum corda verbis inficiunt, in opere innocentiam ostendunt, neque enim aliter ad se traherent bonos»*. […]
Apertio tamen libri spectat proprie ad tempus Christi et specialiter quoad tria tempora predicta, scilicet quoad initium ecclesie et medium et terminum. Quod et bene figuratum est Ezechielis XLVII° (Ez 47, 3-5), ubi de aquis exeuntibus a dextro latere templi dicitur quod per primos mille cubitos attingebant usque ad pedes, per secundos autem mille usque ad genua et per tertios usque ad renes. Post alios vero mille fuerunt intransvadabiles propter nimium t<u>morem et profunditatem ips<a>rum. In initio enim ecclesie, simplicitas fidelium ex gentibus fixit pedes in fide; satis enim fuit tunc quod fundarentur in ea. Tempore vero Constantini, flexit romanum imperium et totus orbis genua Christo, tuncque contra hereticos negantes Christum esse summum Deum Patri equalem est per doctores aperte probatum ipsi tamquam summo Deo summeque adorando genua esse flectenda. In quinto autem tempore, post priorem casum omnium orientalium ecclesiarum, ac deinde post enormes laxationes quinti temporis, est clare probatum et expertum nostros renes esse concupiscentia plenos. Post hoc igitur in plena apertione sexti signaculi erunt sapientiales aque intransvadabiles. Hoc enim est de proprietate misteriorum et luminum tertii status generalis, in sexto statu ecclesie inchoandi.

* S. Gregorii Magni Moralia in Iob, libri XXIII-XXXV (CCSL, CXLIII B), lib. XXXII, cap. XVI, 5-14 (n. 28), p. 1651 (= PL 76, col. 653 B-C).

Inf. IX, 104-105; X, 52-54

e noi movemmo i piedi inver’ la terra,
sicuri appresso le parole sante.

Allor surse a la vista scoperchiata
un’ombra, lungo questa, infino al mento:
credo che s’era in ginocchie levata.

Inf. XVI, 103-123; XVII, 13-15, 118, 133-136

così, giù d’una ripa discoscesa,
trovammo risonar quell’ acqua tinta,
sì che ’n poc’ ora avria l’orecchia offesa.
Io avea una corda intorno cinta,
e con essa pensai alcuna volta
prender la lonza a la pelle dipinta.
Poscia ch’io l’ebbi tutta da me sciolta,
sì come ’l duca m’avea comandato,
porsila a lui aggroppata e ravvolta.
Ond’ ei si volse inver’ lo destro lato,
e alquanto di lunge da la sponda
la gittò giuso in quell’ alto burrato.
‘E’ pur convien che novità risponda’,
dicea fra me medesmo, ‘al novo cenno
che ’l maestro con l’occhio sì seconda’.
Ahi quanto cauti li uomini esser dienno
presso a color  che non veggion pur l’ovra,
ma per entro i pensier miran col senno!
El disse a me: “Tosto verrà di sovra
ciò ch’io attendo e che il tuo pensier sogna;
tosto convien ch’al tuo viso si scovra”.

due branche avea pilose insin l’ascelle;
lo dosso e ’l petto e ambedue le coste
dipinti avea di nodi e di rotelle.

Io sentia già da la man destra il gorgo

così ne puose al fondo Gerïone
al piè al piè de la stagliata rocca,
e, discarcate le nostre persone,
si dileguò come da corda cocca.

[LSA, cap. VI, Ap 6, 2 (IIa visio, apertio Ii sigilli)] Secundum etiam Gregorium, Moralium XIX° in fine, super illud Iob: “Et archus meus in manu mea instaurabitur” (Jb 29, 20), per archum scriptura sacra significatur, ita quod per cordam archus designatur testamentum novum, per cornu vero testamentum vetus. Sicut enim dum corda archus trahitur cornu curvatur, sic per novum testamentum duritia testamenti veteris emollitur. Gratia enim Christi facit nobis dulcescere rigorem preceptorum legis. Vel per cordam designatur zelus animarum ad earum salutem fortiter tractus et totum robur cordis, quasi cornu archus, secum inclinans et trahens. A tali enim zelo manant sagitte predicationis, id est sagitte promissionum et monitionum ac comminationum et exprobrationum, et sagitte amoris et timoris.

[LSA, cap. IX, Ap 9, 13 (VIa tuba)] Item (Ioachim) IIII° libro (Concordie), ubi agit de quadragesima secunda generatione, dicit quod «articulus temporis eius melius relinquitur Deo, qui hec et multa alia in sua posuit potestate. Non enim pertinet ad concordiam querere numerum annorum in novo, ubi non habetur in veteri, et ultra quadragesimam generationem aliquid per certum numerum incautius diffinire. Nec mirum. Solent enim et naute, conspecto comminus portu, navis armamenta deponere et aliis auxiliis competenter inniti»*. Item supra eodem, agens de generatione quadragesima, dicit: «Usque ad presentem locum per experta, ut ita dicam, littora navigantes securo navigio iter faciebamus. Amodo cautius est agendum et hinc inde circumspecte reli<quum> itineris peragendum, utpote qui per incognita navigare incipimus», et cetera**.

* S. Gregorii Magni Moralia in Iob, libri XI-XXII, cura et studio M. Adriaen, Turnholti 1979 (Corpus Christianorum. Series Latina, CXLIII A), lib. XIX, cap. XXX, 55, 72-86  (n. 55), pp. 1000-1001 (= PL 76, coll. 133 C – 134 B).

* Concordia, IV 1, c. 44; Patschovsky 2, pp. 469, 20; 470, 1-6.

** Concordia, IV 1, c. 38; Patschovsky 2, p. 453, 2-5.

[LSA, cap. XX, Ap 20, 3 (VIIa visio: cfr. Aug., De civ. Dei, XX, 8)] Sciendum etiam circa hec quod numquam respectu hominum huius vite tota eius temptativa potestas ligatur seu cohibetur, nec tota sic totaliter solvitur quin sub mensura a Deo prefixa, prout ordini universi expedit, refrenetur. Unde et pro tanto respectu prescitorum est quoad quid ligatus, quia non permittitur in eos quantum vellet sevire nec in omne genus vel in omnem excessum facinorum eos pro libitu precipitare, sed nichilominus illud tempus in quo longe minus temptare permittitur vocatur per quandam anthonomasiam tempus sue ligationis, et illud in quo plus permittitur dicitur tempus solutionis eius. Et secundum hoc illud verbum: “ut non seducat amplius gentes” et cetera habet diversimode exponi; semper tamen est sensus: “ut non seducat amplius”, scilicet sicut prius.

[LSA, cap. I, Ap 1, 13 (Ia visio)] Succingi circa renes designat restrictionem inferiorum concupiscentiarum et operum carnis.

[LSA, cap. I, Ap 1, 14] Quinta (perfectio summo pastori condecens) est contemplationis speculative et practice zelativus et perspicax fervor et splendor, omnes actus et intentiones et nutus ecclesiarum circumspiciens, unde subdit: “et oculi eius velut flamma ignis”.

[LSA, cap. XXI, Ap 21, 13 (VIIa visio)] Tres (porte) etiam sunt ab aquilone, ad aperiendum aquilonarem algorem et procellam et obscuritatem hostilium temptationum et certaminum, que sunt principaliter a tribus, scilicet a carne et mundo et diabolo, seu a concupiscentia carnis et a concupiscentia oculorum et superbia vite (cfr. 1 Jo 2, 16), seu ab errore et favore et terrore. Error enim seductorius impugnat veritatem et eius intelligentiam, favor autem mundanus et adulatorius allicit et inficit voluntatem, terror autem comminatorius et malignus inducit pusillanimitatem et fugam et frangit constantiam. Unde primum est proprie [contra] rationalem, secundum contra concupiscibilem, tertium vero contra irascibilem.


6.
La bestia che sale dal mare

Gerione, la “bestia” che viene “notando … in suso” dall’abisso (parodia dell’olio che designa il senso anagogico della Scrittura,“suave et omnibus ceteris liquoribus superenatans”: Ap 6, 6), “maravigliosa ad ogne cor sicuro” (Inf. XVI, 121-123, 130-136; la similitudine al v. 136 è parodia della Scrittura, la cui interpretazione è ora estesa ora cortata: prologo, Notabile XI), si apparenta con la bestia che ad Ap 13, 1 sale dal mare (citato nella similitudine), e che suscita meraviglia nelle genti a motivo della sua testa che sembrava uccisa ma che poi rivive, esegesi che offre temi per altre importanti variazioni (Ap 13, 3). Nella quarta visione, tutto l’impeto della descrizione è diretto verso quella grande guerra del sesto tempo che la bestia condurrà per mezzo di questa testa. L’espressione dell’esegesi “intorqueri ad bestiam a quarto tempore usque ad finem ecclesie consurgentem” passa nelle parole di Virgilio: “Or convien che si torca / la nostra via un poco insino a quella / bestia malvagia che colà si corca” (Inf. XVII, 28-30).
La figura di Gerione, che viene in su nuotando per l’“aere grosso e scuro” (Ap 9, 1-2), è “maravigliosa ad ogne cor sicuro” (Inf. XVI, 132), cioè tale da sgomentare anche un animo saldo, e corrisponde all’operare meraviglie da parte dei carnefici dell’Anticristo di fronte al martire tormentato negli ultimi tempi (prologo, Notabile X). L’essere sicuri è un tema precipuo dei martiri, proposto alla seconda chiesa ad Ap 2, 11, contrapposto alla tristezza del cuore atterrito dalla “seconda morte” (cfr. anche Ap 6, 11).
Con l’ascesa di Gerione e con il successivo episodio degli usurai, zone che registrano numerose variazioni su temi del sesto stato, si conclude il secondo ciclo settenario dell’Inferno.


AVVERTENZE

Seppure segue l’ordine dei ventidue capitoli dell’Apocalisse, Olivi suggerisce, nel prologo della Lectura, un metodo differente di comprensione e di aggregazione del testo, fondato sui sette stati (status), cioè sulle epoche nelle quali si articola la storia della Chiesa, prefigurate nell’Antico Testamento.
L’Apocalisse si articola in sette visioni: le sette chiese d’Asia, i sette sigilli, le sette trombe, la donna vestita di sole (le sette guerre sostenute dalla Chiesa), le sette coppe, il giudizio di Babylon nelle sette teste del drago, la Gerusalemme celeste. Le prime sei visioni possono essere a loro volta divise in sette momenti, ciascuno dei quali riferibile a uno dei sette stati. Assembrando, per le prime sei visioni, tutti i primi elementi (chiesa, sigillo, tromba, guerra, coppa, momento del giudizio di Babylon), tutti i secondi, i terzi e così di seguito, si ottengono sette gruppi di materia teologica, corrispondenti al complesso dei temi afferenti a ciascuno dei sette stati. A questi sette gruppi si aggiungono altri due: l’esegesi della settima visione (senza articolazioni interne) e l’esegesi di capitoli del testo scritturale, o di parti di essi, introduttivi delle successive specificazioni delle singole visioni per settenari, che Olivi definisce “radicalia” o “fontalia”. Si ottengono in tal modo nove gruppi: le parti proemiali, i sette assembramenti di settenari e la settima visione. Il grande prologo della Lectura, articolato in tredici notabilia, può essere anch’esso aggregato secondo i sette stati. Un libro (la Lectura) contiene dunque princìpi e criteri affinché l’accorto lettore possa trarne un altro libro, fatto con lo stesso materiale ma ricomposto e distribuito in forma diversa.

La Commedia mostra un ordine interno diverso da quello che appare al lettore: il viaggio di Dante ha un andamento di ciclici settenari, che corrispondono ai sette stati della storia della Chiesa, cioè alle categorie con cui Olivi organizza la materia esegetica. Questo ordine interno è registrabile per zone progressive del poema dove prevale, tramite parole-chiave, la semantica riferibile a un singolo stato. È un’intima struttura dirompente i confini letterali stabiliti dai canti e da tutte le divisioni materiali per cerchi, gironi, cieli. Ogni stato, che ha differenti inizi, è concatenato per concurrentia, come le maglie di un’armatura, con quello che precede e con quello che segue. Si possono in tal modo redigere mappe che comprendano l’ordine spirituale della Commedia. La ricerca è pervenuta a una Topografia spirituale della Commedia, dove quasi per ogni verso, o gruppo di versi, collegamenti ipertestuali conducono al “panno” esegetico fornito dalla Lectura super Apocalipsim, sul quale il “buon sartore” ha fatto “la gonna” (cfr. Par. XXXII, 139-141).

■ A ogni gruppo è arbitrariamente assegnato un diverso colore: Radici (verde), I stato (verde acqua), II stato (rosso), III stato (nero), IV stato (viola), V stato (marrone), VI stato (blu), VII stato (indaco), VII visione (fucsia). Dei gruppi sono stati integralmente studiati il terzo stato e la settima visione. Mentre la diversità dei colori è rispettata nelle tabelle complessive contenente i collegamenti ipertestuali, nelle sinossi i colori possono essere variati per maggiore evidenza.

Non di rado nei versi alcune parole o incisi-chiave possono rinviare a più luoghi esegetici. Questo perché il testo dottrinale contenuto nella Lectura, prima di travasarsi semanticamente nella Commedia, è stato sottoposto a una duplice riorganizzazione. La prima, sulla base delle indicazioni dello stesso Olivi, secondo il materiale esegetico attribuibile ai singoli stati. La seconda, seguendo il principio applicato nelle distinctiones ad uso dei predicatori, sulla base di lemmi analogicamente collazionati. La “mutua collatio” di parti della Lectura arricchisce il significato legato alle parole e consente uno sviluppo tematico amplificato. Si vedano, ad esempio, le variazioni eseguite sul tema della “voce” o sull’espressione “in medio”, temi più volte iterati nel sacro testo, oppure il modo con cui Ap 1, 16-17 (l’esegesi della decima e undecima prefezione di Cristo come sommo pastore) percorre i versi in collazione con altri passi. A ciò predispone lo stesso testo scritturale, poiché l’Apocalisse contiene espressioni, come Leitmotive, che ritornano più volte. È determinata da parole-chiave che collegano i passi da collazionare. È suggerita dallo stesso Olivi, nel prologo, per una migliore intelligenza del testo.

Tutte le citazioni della Lectura super Apocalipsim presenti nei saggi o negli articoli pubblicati su questo sito sono tratte dalla trascrizione, corredata di note e indici, del ms. Paris, Bibliothèque nationale de France, lat. 713, a disposizione fin dal 2009 sul sito medesimo. I passi scritturali ai quali si riferisce l’esegesi sono in tondo compresi tra “ ”; per le fonti diverse da quelle indicate si rinvia all’edizione in rete. Non viene presa in considerazione l’edizione critica a cura di WARREN LEWIS (Franciscan Institute Publications, St. Bonaventure – New York, 2015) per le problematiche da essa poste, che sono discusse in ALBERTO FORNI – PAOLO VIAN, A proposito dell’edizione di Warren Lewis della Lectura super Apocalipsim di Pietro di Giovanni Olivi. Alcune osservazioni, in “Archivum Franciscanum Historicum”, 109 (2016), pp. 99-161.
Il testo della Commedia citato è in Dante Alighieri, La Commedia secondo l’antica vulgata, a cura di GIORGIO PETROCCHI, Firenze 1994. Si tiene anche conto della recente edizione a cura di GIORGIO INGLESE, Firenze 2021 (Società Dantesca Italiana. Edizione Nazionale), qualora il testo proposto si discosti da quello del Petrocchi e la scelta della variante risulti discutibile nel confronto con la LSA.
Si fa riferimento ai seguenti commenti:

Dante Alighieri, La Divina Commedia. Inferno. Commento di ANNA MARIA CHIAVACCI LEONARDI, Milano 2007 (19911).

Dante Alighieri, Commedia. Inferno. revisione del testo e commento di GIORGIO INGLESE, Roma 2007.


ABBREVIAZIONI

Ap : APOCALYPSIS IOHANNIS.

LSA : PIETRO DI GIOVANNI OLIVI, Lectura super Apocalipsim.

Concordia : JOACHIM VON FIORE, Concordia Novi ac Veteris Testamenti. Herausgegeben von A. PATSCHOVSKY, Wiesbaden 2017 (Monumenta Germaniae Historica. Quellen zur Geistesgeschichte des  Mittelalters, 28. Band), Teil 2 (lib. I-IV), Teil 3 (lib. V).

Expositio : GIOACCHINO DA FIORE, Expositio in Apocalypsim, in Edibus Francisci Bindoni ac Maphei Pasini, Venetiis 1527, ristampa anastatica Minerva, Frankfurt a. M. 1964.

Olivi opera spesso una sintesi del testo di Gioacchino da Fiore. Le « » precedono e chiudono un’effettiva citazione. Diversamente, viene posto un asterisco (*) o una nota in apice al termine della parte riferibile a Gioacchino.

In Ap : RICCARDO DI SAN VITTORE, In Apocalypsim libri septem, PL 196, coll. 683-888.

 

Note sulla “topografia spirituale” della Commedia

Per quanto segua l’ordine dei ventidue capitoli dell’Apocalisse, Olivi suggerisce un metodo differente di comprensione e di aggregazione del testo esegetico, fondato sui sette stati, cioè sui periodi nei quali si articola la storia della Chiesa. L’Antico Testamento corrisponde alle prime cinque età del mondo, secondo la divisione tradizionale [1]: è l’età del Padre secondo Gioacchino da Fiore. Con il primo avvento di Cristo, nella carne, inizia la sesta età (l’età del Figlio), nella quale la Chiesa, come fosse un individuo, cresce e si sviluppa in sette stati. Al primo, apostolico periodo, succede il secondo dei martiri; poi, al tempo di Giustiniano, il terzo stato dei dottori che confutano con l’intelletto le eresie concorre con il quarto stato degli affettuosi anacoreti devoti al pasto eucaristico, alti per la contemplazione ma anche attivi come reggitori delle genti; a partire da Carlo Magno subentra il quinto stato aperto alla vita associata delle moltitudini, bello nel principio ma poi corrottosi fino a trasformare quasi tutta la Chiesa in una nuova Babilonia; la riforma interviene, a partire da Francesco, con il cristiforme sesto stato, fino alla sconfitta dell’Anticristo; subentra infine il silenzio e la quiete del pacifico settimo stato. Il sesto e il settimo stato (la terza età di Gioacchino da Fiore) coincidono con il secondo avvento di Cristo, nello Spirito, cioè nei suoi discepoli spirituali inviati a convertire il mondo con la predicazione; al termine del settimo stato ci sarà il terzo avvento, nel giudizio.
L’Apocalisse si articola in sette visioni: le sette chiese d’Asia, i sette sigilli, le sette trombe, la donna vestita di sole (le sette guerre sostenute dalla Chiesa), le sette coppe, il giudizio di Babylon nelle sette teste del drago, la Gerusalemme celeste. Le prime sei visioni possono essere a loro volta divise in sette momenti, ciascuno dei quali riferibile a uno dei sette stati. Assembrando, per le prime sei visioni, tutti i primi elementi (chiesa, sigillo, tromba, guerra, coppa, momento del giudizio di Babylon), tutti i secondi, i terzi e così di seguito, si ottengono sette gruppi di materia teologica, corrispondenti al complesso dei temi afferenti a ciascuno dei sette stati [2]. A questi sette gruppi se ne aggiungono altri due: l’esegesi della settima visione (senza articolazioni interne) e l’esegesi di capitoli del testo scritturale, o di parti di essi, introduttivi delle successive specificazioni delle singole visioni per settenari, che Olivi definisce “radicalia” o “fontalia”. Si ottengono in tal modo nove gruppi: le parti proemiali, i sette assembramenti di settenari e la settima visione. Il grande prologo della Lectura, articolato in tredici notabilia, può essere anch’esso aggregato nelle sue parti secondo i sette stati.

L’intenso travaso di parole-temi dalla Lectura nella Commedia si accompagna a un fatto strutturale. La Commedia mostra un ordine interno diverso da quello che appare al lettore: il viaggio di Dante ha un andamento di ciclici settenari, che corrispondono ai sette stati oliviani. È un ordine registrabile per zone progressive del poema dove prevalgono i temi di un singolo stato, che rompe i confini letterali stabiliti dai canti e da tutte le divisioni materiali per cerchi, gironi, cieli. Ogni stato, che ha differenti inizi, è concatenato per “concurrentia”, come le maglie di un’armatura, con quello che precede e con quello che segue. Ciascuno stato ha in sé una grande ricchezza di motivi e contiene inoltre temi di tutti gli altri, consentendo innumerevoli intrecci e variazioni. La Commedia appare, come l’Apocalisse, “libro scritto dentro e fuori” (Ap 5, 1), con duplice struttura, linguaggio e senso, letterale e spirituale. Il viaggio di Dante e la visione di Giovanni hanno la stessa causa finale, che è la beatitudine, alla quale si perviene con diverse guide, per gradi segnati da visioni sempre più nuove e ardue delle precedenti, attraverso una sempre maggiore apertura dell’arcano coperto dal velame dei sette sigilli fino al punto più alto in cui, in questa vita, è possibile vedere la verità.
Tutti i modi del linguaggio interiore al poema esprimono un processo, un viaggio dal più chiuso al più aperto, e in questo andare hanno una loro precisa collocazione ‘topografica’, uno ‘stato’ (nel senso di momento storico che ricade sulla coscienza individuale) al quale appartenere. Si possono in tal modo stendere vere e proprie mappe tematiche che comprendano l’ordine spirituale di tutta la Commedia che aderisce, parodiandola semanticamente, a una precisa teologia della storia, sia pure modificandone profondamente le prospettive. La ciclicità dei temi permette di stabilire collegamenti inusitati tra le diverse zone; il procedere per gradi dell’illuminazione divina fa sì che episodi oscuri e quasi ermeticamente chiusi si chiariscano poi, aprendosi all’intelligenza in modo più alto.
A ogni gruppo è arbitrariamente assegnato un diverso colore: Radici (verde), I stato (verde acqua), II stato (rosso), III stato (nero), IV stato (viola), V stato (marrone), VI stato (blu), VII stato (indaco), VII visione (fucsia). Dei gruppi sono stati integralmente studiati il terzo stato e la settima visione.

INFERNO

(le prime cinque età del mondo)

La ‘topografia spirituale’ del poema mostra nell’Inferno cinque cicli settenari corrispondenti agli stati della Chiesa descritti da Olivi e ai loro temi contenuti nella Lectura. Questi cinque cicli designano le prime cinque età del mondo (riunite a loro volta nel primo stato generale, che corrisponde all’età del Padre di Gioacchino da Fiore), in quanto prefigurazione del primo avvento di Cristo e della Chiesa.
I cinque cicli settenari che si susseguono nell’Inferno a partire dal quarto canto (i primi tre canti hanno una tematica particolare) sono preceduti da cinque zone che possono essere definite ‘snodi’, dove cioè confluiscono temi provenienti da più stati, intrecciati insieme ad altri ad avviare il procedere settenario. Il centro di questi ‘snodi’ coincide con un canto (Inf. IV, X, XVII, XXVI, XXXII), ma la zona è più vasta e supera l’ambito dato dalla divisione letterale del poema.

Inf. I-III sono da considerare al di fuori dei cicli. Inf. I e II sono profondamente segnati dai temi del sesto stato. Inf. III è riferibile al settimo stato (per gli ignavi) e in parte al quinto (per l’episodio di Caronte).

canti

I ciclo

stati

cerchi

IV

Limbo

Radici, I (I snodo)

I

V

lussuriosi

II

II

VI

golosi

III

III

VII

avari e prodighi

palude Stigia
(iracondi e accidiosi)

IIIIV

 

V

IV


V

VIII

palude Stigia (orgogliosi)
città di Dite

V

V

IX

apertura della porta di Dite

VVI

 

canti

II ciclo

stati

cerchi

IX-X-XI

eretici, ordinamento dell’inferno

I (II snodo)

VI

XII

violenti contro il prossimo

II

VII (girone 1)

XIII

violenti contro sé

III

        (girone 2)

XIV

violenti contro Dio: bestemmiatori

IV

        (girone 3)

XV-XVI

violenti contro Dio: sodomiti

V

XVI

XVII

ascesa di Gerione

Gerione,  violenti contro Dio: usurai

VI

canti

III ciclo

stati

cerchi

XVII

volo verso Malebolge

I (III snodo)

 

XVIII

ruffiani, lusingatori

Radici II

VIII (bolgia 1, 2)

XIX

simoniaci

III

(bolgia 3)

XX

indovini

IV

(bolgia 4)

XXI-XXII

barattieri

V

(bolgia 5)

XXIII

ipocriti

VVI

(bolgia 6)

XXIV-XXV

ladri

VI

(bolgia 7)

canti

IV ciclo

stati

cerchi

XXVI

consiglieri di frode (greci)

I (IV snodo)

(bolgia 8)

XXVII

consiglieri di frode (latini)

II

XXVIII-XXIX

seminatori di scandalo e di scisma

III

(bolgia 9)

XXIX

falsatori

IV

  (bolgia 10)

XXX

falsatori

IVV

XXXI

giganti

VVI

 

canti

V ciclo

stati

cerchi

XXXII

Cocito: Caina, Antenora

I (V snodo)

IX

XXXIII

Antenora, Tolomea

II

XXXIV

Giudecca

IIIIVV

XXXIV

volgersi di Virgilio sull’anca di Lucifero

VI

 

 

Il sesto stato è per Olivi la fase più importante nella costruzione dell’edificio della Chiesa. In esso “renovabitur Christi lex et vita et crux”. Corrisponde ai tempi moderni. Ha quattro diversi inizi temporali: uno profetico, con Gioacchino da Fiore, il quale lo vide in spirito concependo la sua terza età; il secondo con la conversione di Francesco (1206), che seminò la pianta; il terzo con la predicazione degli uomini spirituali, per la quale la pianta si rinnovella; il quarto con la distruzione storica di Babylon. Dura fino alla sconfitta dell’Anticristo, il cui avvento si collocherebbe, secondo i numeri della profezia di Daniele 12, 11-12 combinati con Ap 12, 6 e 14, fra il 1290 e il giubileo di pace del 1335.
Una ‘vita nuova’ si instaura nel sesto stato, per eccellenza il momento dell’imitazione di Cristo. I rami dell’albero si dilatano producendo il frutto della carità, l’acqua che proviene da Cristo-fonte attraverso il condotto che percorre i primi cinque stati della Chiesa si effonde in un lago; è il tempo, assimilato al sacramento del matrimonio, della letizia nuziale, della familiarità, dell’amicizia. Corrisponde al sesto giorno della creazione, in cui vennero creati prima i rettili e le bestie irrazionali, poi l’uomo razionale che, come l’ordine evangelico, è fatto a immagine e somiglianza di Dio e domina tutti gli animali.
Le espressioni di Olivi relative al sesto stato – “quoddam sollempne initium novi seculirenovaretur et consumaretur seculum”, nel quale il sacerdozio apostolico “redeat et assurgat ad ordinem primum”, la “nova Ierusalem”, interpretata come “visione di pace”, viene vista “descendere de celo” e la Chiesa descritta come la donna vestita di sole con la sua “virginea proles” – sono la veste spirituale dei versi della quarta egloga virgiliana che celebrano la rinnovata età dell’oro: “Magnus ab integro saeclorum nascitur ordo / iam redit et Virgo; redeunt Saturnia regna; / Iam nova progenies caelo demittitur alto” (Egloga IV, 5-7). Olivi completa la Lectura super Apocalipsim nel 1298, poco prima di morire, il 14 marzo, a Narbonne. Quel felicissimo stato segnato dalla pace sotto il divo Augusto, che rese l’umanità disposta al primo avvento di Cristo, si sta rinnovando nel sesto stato della Chiesa, nel secondo avvento nello Spirito. Scrive Arsenio Frugoni: “[…] quell’escatologismo, oltre che ideologia di lotta e di riforma del gruppo spirituale, era anche un vero e proprio sentimento storico […] una tensione di rinnovamento, una ansia di salvezza, che nel 1300, l’anno centenario della Natività, aveva trovato come una attivazione, in un senso di pienezza dei tempi, cui doveva corrispondere un fatto, un accadere meraviglioso e nuovo” [3].
All’apertura del sesto sigillo, l’eletta schiera dei riformatori – i 144.000 segnati dalle dodici tribù d’Israele – guida la turba innumerevole di ogni gente, tribù, popolo e lingua (Ap 7, 3-4.13). Questi eletti e magnanimi duci, separati dalla volgare schiera per più alta milizia, vengono destinati a difendere liberamente la fede – ad essi è data la “plena libertas ad innovandam christianam religionem” -; sono gli amici di Dio a lui noti per nome, configurati in Cristo crocifisso e votati al martirio.
All’interno della Chiesa del sesto stato, l’Ordine dei Minori – “ordo plurium personarum” – è  assimilabile alla persona umana di Cristo. Come questa si sviluppò fino all’età virile, così dovrà essere per l’ordo evangelicus piantato da Francesco, che avrà bisogno (a differenza di Cristo che stette poco tempo nel mondo) di due o tre generazioni per svilupparsi prima di subire una condanna simile a quella di Cristo [4]. La sua maturità coincide, verso il 1300, con il terzo inizio del sesto stato, cioè con il rinnovarsi per opera dello Spirito di Cristo, nel suo secondo avvento, della pianta seminata da Francesco. Questa concezione dell’Ordine francescano come individuo in sviluppo che, perfettamente maturato, diventa il novus ordo preconizzato da Gioacchino da Fiore per l’età dello Spirito, si differenzia da quella di Bonaventura, che aveva invece distinto i Francescani del proprio tempo – e quindi anche gli Spirituali – dall’Ordine finale che dominerà fino ai confini della terra. Alla terza apertura del sesto sigillo nuovi san Giovanni vengono inviati a predicare al mondo come nel tempo degli Apostoli. Ma Giovanni non designa solo un Ordine, perché Olivi lascia aperta la possibilità di rivelazioni individuali, avute da “singulares persone”, perfetti imitatori di Cristo votati, con la loro “lingua erudita”, al compito della conversione universale.

[LSA, cap. X, Ap 10, 11] “Et dixit michi: Oportet te iterum prophetare in gentibus et populis et linguis et regibus multis”. In ipsa sapientia libri expresse continetur quod oportet iterum predicari evangelium in toto orbe, et Iudeis et gentibus, et totum orbem finaliter converti ad Christum. Sed quod per istum hoc esset implendum non poterat sciri nisi per spiritualem revelationem, et hoc dico prout per Iohannem designantur hic singulares persone quia, prout per ipsum designatur in communi ordo evangelicus et contemplativus, scitur ex ipsa intelligentia libri quod per illum ordinem debet hoc impleri.

Nei cinque cicli settenari della prima cantica il sesto stato è segnato dall’apertura della porta della città di Dite (Inf. IX, 89-90); dall’ascesa di Gerione dall’abisso (Inf. XVI, 106-136); dal precipitoso passaggio dalla quinta alla sesta bolgia (Inf. XXIII, 1-57) e poi dalle trasformazioni della settima, dove i ladri fiorentini si mutano in serpenti e viceversa (Inf. XXIV-XXV); dal chinarsi di Anteo sul fondo dell’inferno (Inf. XXXI, 136-145); dal passaggio del centro della terra, con la conversione di Virgilio sull’anca di Lucifero, che è passaggio verso la sesta età, quella della Chiesa, descritta nel Purgatorio.
Ma i temi propri del sesto stato sono diffusi ovunque, intrecciati con quelli degli altri stati, e alla loro esegesi rinviano precise parole-chiave incardinate nel senso letterale dei versi. L’esegesi dell’angelo del sesto sigillo (Ap 7, 2) è già centrale nel primo canto del poema.
La novità che il sesto stato, per eccellenza stato di rinnovamento di questo secolo, arreca nell’inferno è una novità fittizia: l’apertura della porta della città di Dite non è vera novità, perché essa è stata chiusa dall’ostinazione dei diavoli, recidivi dopo l’apertura della porta dell’inferno da parte di Cristo prefigurata dalla venuta di Ercole all’Ade, per cui Cerbero “ne porta ancor pelato il mento e ’l gozzo”; Gerione viene su ad un “novo cenno” di Virgilio, ma è figura della frode dalla velenosa coda aculeata; il nuovo prodotto dalle trasformazioni reciproche di serpenti e uomini è qualcosa di incompiuto perché l’uomo razionale, creato nel sesto stato, regredisce allo stato precedente.
L’Inferno è il luogo della durezza lapidea, dell’impetrarsi, del parlare duro di cose dure a dirsi, del duro giudizio, del senso duro della scritta al sommo della porta, dei duri lamenti, dei duri demoni, dei duri veli del gelo, della gravezza. Nell’Inferno vige l’imposizione data a Daniele dall’angelo sotto il sesto sigillo dell’Antico Testamento: “Ora tu, Daniele, chiudi queste parole e sigilla questo libro fino al tempo stabilito” (Dn 12, 4), che era la sesta età nella quale apparve Cristo e in particolare il sesto stato della sua Chiesa nella quale il libro doveva essere più pienamente aperto, non però ai malevoli e ai maldisposti. Questa durezza è rotta dall’invito di Dante ai dannati perché parlino. Far parlare liberamente, per dettato interiore, è la principale prerogativa del sesto stato – la nuova età che tanto s’aspetta, quella che ode del “dolce stil novo” e delle “nove rime” -, ed è tema che la poesia canta per intero, sia pure per un attimo, anche nella vecchia roccia infernale. Appartiene alla sesta chiesa il parlare liberamente di Cristo – ad essa è dato l’“ostium apertum”, che è “ostium sermonis” – , il sentire per dettato interiore, l’aprirsi della volontà. Appartiene alla sesta chiesa anche il far venire quelli che si dicono Giudei senza esserlo, mutati nel cuore e disposti a farsi battezzare e governare. Questo far venire a parlare equivale al cortese e liberale invito dello Spirito di Cristo a convivare, a venire con desiderio e volontario consenso, con “disio” e con “velle”, in una pausa di pace nell’eterna dannazione. All’“affettüoso grido” del poeta le ombre di Francesca e Paolo vengono “dal voler portate” verso un momento di mutazione, sebbene limitata al successivo colloquio. Tutto l’Inferno è un contrappunto fra la durezza del giudizio e l’apertura per la parola dirompente, fin che essa dura, la pena. Un’apertura che si esprime in varie forme: muoversi sospirando nel Farinata prima immobile, ‘crollarsi’ quasi per terremoto interiore dello ‘schivo’ Ulisse, convertirsi del vento in voce in Guido da Montefeltro, tornare indietro nel cammino assegnato o separarsi dai compagni di pena, essere sforzati a parlare anche malvolentieri, non poterlo negare o mostrare fretta di farlo, arrestarsi obliando il martirio, levarsi per poi ricadere, sollevarsi da atti bestiali per ritornare a essi dopo aver parlato, come nel conte Ugolino. In tante lingue, che parlano come per sé stesse mosse, sta un solo desiderio, il vivere ancora nel libro che è stato altrui aperto.
Se nell’Inferno il sesto stato non si realizza mai compiutamente, anche il settimo, che gli è strettamente connesso, non può trovare un luogo autonomo. Ciò non toglie che temi del settimo stato (e della settima visione) siano ben presenti in modo diffuso. Ad esempio, quelli relativi alla settima chiesa assumono particolare rilievo nella descrizione degli ignavi a Inf. III. Tempo del silenzio, della serena pace, del riposo dalle ansiose fatiche, il settimo stato subentra dopo le terribili tentazioni inferte, con un martirio non corporale ma psicologico, dai carnefici dell’Anticristo nel sesto. Come ogni momento della storia umana partecipa dell’imitazione di Cristo, che raggiunge l’acme nel sesto stato, così in ogni periodo si verifica una sua “quietatio”, una pausa di pace, di quiete, di silenzio propria del settimo. Così Francesca parla e ascolta “mentre che ’l vento, come fa, ci tace”. Il vento – “la bufera infernal, che mai non resta” – designa il fluttuare tempestoso delle passioni nel cuore.

PURGATORIO

(sesta età del mondo)

Dopo le prime cinque età del mondo (corrispondenti all’Antico Testamento, la gioachimita età del Padre), che hanno segnato la discesa a spirale per i cinque cicli settenari dell’Inferno, con il Purgatorio inizia la sesta età, quella di Cristo (l’età del Figlio), che ha sette stati, corrispondenti ai sette stati della Chiesa. Dapprima, nel cosiddetto ‘antipurgatorio’, si registrano in successione temi prevalenti dei primi cinque stati. Il sesto stato della sesta età (con cui si apre l’età dello Spirito) inizia con l’apertura della porta di san Pietro (la porta del purgatorio). Questo sesto stato procede anch’esso con andamento settenario, per cui ha sette momenti, coincidenti principalmente con un girone della montagna, ma non del tutto, perché sempre l’ordine spirituale del poema rompe i confini letterali e le divisioni materiali, concatenando i temi di uno stato prevalente con quelli dello stato che precede e con quelli dello stato che segue e intrecciandoli con temi di tutti gli altri stati.
È spiegato nel Notabile VII del prologo della Lectura che il sesto stato della Chiesa è il secondo stato di Cristo e ha i suoi sette tempi per cui la Chiesa, come fosse una sfera, si ricongiunge circolarmente al primo apostolico tempo. Il settimo dei sette momenti del sesto stato della Chiesa coincide con il settimo stato generale della Chiesa, che nel poema corrisponde in parte all’ultimo girone della montagna (il settimo, dove si purgano i lussuriosi) e in parte all’Eden, con cui si chiude la seconda cantica.
Il Purgatorio dunque, secondo il senso spirituale, è la storia della Chiesa che corre verso il suo sesto stato, punto di riferimento di tutte le vicende umane, antiche e moderne, che ad esso cooperano. Non è casuale che nel sesto girone della montagna sia chiarificata e riconosciuta, nel colloquio con Bonagiunta da Lucca, la poetica delle “nove rime” di Dante, già “sesto tra cotanto senno” cooptato nella “bella scola” dei poeti del Limbo.
La vasta zona dedicata al sesto momento del sesto stato della Chiesa ha il suo inizio nel forte terremoto che scuote la montagna mentre Dante e Virgilio si trovano ancora nel quinto girone (Purg. XX, 124-141). Essa è stata compiutamente esaminata altrove.
Il settimo stato dell’Olivi si realizza parte in questa vita (come pregustazione in terra della gloria eterna, cioè fin sulla cima della montagna) e in parte nella futura (nel senso della quiete delle anime beate in attesa della resurrezione, che è la materia del Paradiso).

canti

I ciclo – fino al sesto sato

stati

 

I

Catone

Radici, I

 

II

angelo nocchiero, Casella

–  II

 

III

scomunicati

III

“Antipurgatorio”

IV

salita al primo balzo, Belacqua

IV  –  V

V

negligenti morti per violenza

V

VI

Sordello

V

VII-VIII

valletta dei principi

V

IX

apertura della porta

VI sesto stato

 

canti

II ciclo – il sesto stato della sesta età

stati

gironi

X-XII

superbi

I

I

XIII-XIV-XV

invidiosi

II

II

XV-XVIII

iracondi

ordinamento del purgatorio,

amore e libero arbitrio

III

III

IV

XVIII-XIX

accidiosi

IV

IV

XIX-XX

avari e prodighi

V

V

XX (terremoto)  -XXV

Stazio, golosi, generazione dell’uomo

VI

VI

XXV-XXVI

lussuriosi

VII – settimo stato

VII

XXVII

XXVIII-XXXIII

 muro di fuoco

notte stellata, termine dell’ascesa

Eden

 

 

PARADISO

(settimo stato della Chiesa)

Il Primo Mobile è il nono e penultimo cielo, ma è il sesto se si parte dal cielo del Sole. È anche il cielo più segnato dal tema del “punto”, cui è assimilato il sesto stato. Questo consente di ricostruire l’ordine spirituale del Paradiso ponendo la cerniera nel quarto cielo del Sole. Con il terzo cielo di Venere termina infatti il cono d’ombra gettato dalla terra, secondo la dottrina di Alfragano (Par. IX, 118-119), mentre prima di descrivere l’ascesa al cielo del Sole il poeta invita il lettore a rivolgersi “a l’alte rote” (Par. X, 7-27). Senza la cesura recisa che, nella prima cantica, divide i dannati puniti all’interno della città di Dite da quelli che ne stanno fuori e, nella seconda cantica, separa le anime purganti nei sette gironi della montagna dalle anime che attendono fuori della porta (il cosiddetto ‘antipurgatorio’), anche nel Paradiso gli spiriti che si manifestano nei primi tre cieli della Luna, di Mercurio e di Venere (spiriti che mancarono ai voti, spiriti che furono attivi per conseguire onore e fama, spiriti amanti) si distinguono per minore perfezione rispetto a quelli che appaiono nei cieli seguenti.
I dieci cieli del Paradiso si mostrano pertanto ordinati in due gruppi di settenari, corrispondenti agli stati della Chiesa (e alle loro prerogative) secondo Olivi, parzialmente combacianti (da 1 a 7 e da 4 a 10: coincidono gli ultimi quattro numeri del primo gruppo e i primi quattro del secondo).

I  Se si considera il primo settenario, nel primo cielo della Luna si affronta la questione dell’inadempienza dei voti, che ha corrispondenza con i temi propri della prima chiesa di Efeso, il cui nome, se interpretato, oscilla tra la fervida volontà iniziale e la remissione (l’essenza del voto consiste nella volontà).

II  Nel secondo cielo di Mercurio, le battaglie sostenute dal “sacrosanto segno” dell’aquila corrispondono allo stato dei martiri, che è dei combattenti, e anche la dottrina dell’incarnazione e della passione di Cristo, esposta successivamente da Beatrice, fa parte della tematica, perché l’intera Chiesa, fondata sulla passione di Cristo, imita con i martiri la sua croce, e questo giova assai al suo radicamento.

III  Nel terzo cielo di Venere, Carlo Martello spiega al modo di un dottore del terzo stato la diversità delle indoli umane e come gli uomini, non assecondandole, errino; nello stesso cielo compare Folchetto di Marsiglia, che da vescovo di Tolosa combatté l’eresia albigese.

IV – I  Al quarto cielo del Sole, primo del secondo gruppo di settenari per l’esaltazione della vita apostolica (propria del primo stato e rinnovata nel sesto), si può connettere il tema stesso del sole inteso nell’esegesi della quarta tromba (Ap 8, 12): “Per solem videtur hic designari solaris vita et contemplatio summorum anachoritarum, qui fuerunt patres et exempla aliorum, vel solaris sapientia et doctrina summorum doctorum”. Sapienza e contemplazione, dottori del terzo e anacoreti del quarto stato, concorrono, come Domenico e Francesco – “L’un fu tutto serafico in ardore; / l’altro per sapïenza in terra fue / di cherubica luce uno splendore” (Par. XI, 37-39) – con mutua cortesia a infiammare il meriggio dell’universo.

V – II  Il quinto cielo di Marte, secondo (come il secondo stato dei martiri) per l’esaltazione della croce di Cristo formata dai lumi dei combattenti per la fede, reca in sé il tema del condiscendere proprio del quinto stato sia nel pio discendere per la croce di Cacciaguida verso Dante, sia nella decadenza degli “alti Fiorentini”, cioè delle antiche famiglie, assimilate agli anacoreti, un tempo alti e poi vòlti in basso.

VI – III  Il sesto cielo di Giove, terzo (come il terzo stato dei dottori) per la spiegazione di profonde verità di fede, sviluppa il motivo, proprio della sesta chiesa, della “porta aperta”. Aprire la porta significa illuminare e rendere acuto l’intelletto che penetra nell’occulto delle Scritture, e anche dare efficacia spirituale a penetrare nel cuore di chi ascolta: così l’aquila apre la “latebra” di Dante, così l’occhio di Rifeo Troiano fu da Dio aperto alla futura redenzione.

VII – IV Nel settimo cielo di Saturno, quarto (come il quarto stato degli anacoreti), “si tace … la dolce sinfonia di paradiso” (Par. XXI, 58-60), e il tacere è tema del settimo stato. Ivi si mostrano gli spiriti contemplativi, principali soggetti del quarto stato, proprio degli anacoreti: se si conta a partire dal quarto cielo del Sole, considerando questo come primo ovvero come nuovo avvio del ciclo settenario, il cielo di Saturno è appunto quarto.

VIII (V) Il settimo cielo di Saturno è seguito dal cielo delle Stelle fisse – ottavo e quinto -, dove si mostrano le schiere del trionfo di Cristo che discendono dall’Empireo (il quinto stato è caratterizzato dalla “condescensio”) e si celebra il trionfo di Maria (sviluppo del tema, proprio della quinta chiesa, della mirabile bellezza della Chiesa, regina ornata di veste aurea per la carità che unisce e circondata dalla varietà nei doni e nelle grazie delle diverse membra). È inoltre ricapitolazione dei precedenti sette, secondo un’interpretazione più volte presente nella Lectura dell’essere ‘ottavo’. Per questo Dante, stando nel segno dei Gemelli, riguarda in giù e torna col viso per tutte quante le sette precedenti sfere (Par. XXII, 124-154).

IX (VI) Segue il Primo Mobile o Cristallino – nono e sesto cielo –, dove il poeta vede il punto luminosissimo – Dio – da cui dipende il cielo e la terra, circondato dai nove cerchi di fuoco (Par. XXVIII, 16-18, 40-42, 94-96). Il sesto stato, secondo quanto Olivi afferma nel Notabile VIII, è il “punto” da cui dipendono gli altri stati, perché appare nel testo dell’Apocalisse in modo più evidente degli altri, che da esso assumono chiarezza quanto alla loro manifestazione nella storia, come l’intelligenza delle cose ordinate ad un fine dipende dal fine.

X (VII) La quiete e l’immobilità dell’Empireo, decimo cielo – il “ciel de la divina pace” -, corrispondono al settimo stato, di cui è propria la “quietatio”, il silenzio (tema anticipato dal tacere di Beatrice in apertura del canto XXIX), e la pace.

Il Paradiso avrebbe pertanto un ordine spirituale del seguente tipo:

cielo

stato

cielo

I

LUNA

I

II

MERCURIO

II

III

VENERE

III

IV

SOLE

IV

I

SOLE

V

MARTE

V

II

MARTE

VI

GIOVE

VI

III

GIOVE

VII

SATURNO

VII

IV

SATURNO

VIII

V

STELLE FISSE

IX

VI

PRIMO MOBILE

X

VII

EMPIREO

Oltre ai luoghi sopra indicati, i temi del sesto e del settimo stato si rinvengono in più punti, intrecciati con altri.

[1] Cfr. LSA, cap. XVII, Ap 17, 9: «Et subdit Ricardus quod per septem reges, et per septem capita designatos, designatur hic universus populus malorum, qui secundum septem status huius seculi determinantur. Primus scilicet ab Adam usque ad Noe. Secundus a Noe usque ad Abraam. Tertius ab Abraam usque ad Moysen. Quartus a Moys<e> usque ad David. Quintus a David usque ad Christum. Sextus a Christo usque ad Antichristum. Septimus autem sub Antichristo attribuitur». Cfr. PETRI IOHANNIS OLIVI Lectura super Lucam, Lc 1, 26, ed. F. Iozzelli, Grottaferrata 2010 (Collectio Oliviana, V), pp. 187-188: «Signanter autem dicitur in sexto mense, quia Christus uenit in sexta mundi etate, et iterum post quinque notabiles synagoge decursus: nam primo, cum sola circumcisione fuit sub patribus per quadringentos annos; secundo, accepta lege, fuit sub iudicibus per tantumdem temporis; tertio, proficiens in regnum, fuit sub regibus; quarto, assumpto plenius spiritu prophetico, fuit sub prophetis sollempnioribus, scilicet sub Elia, Ysaia et Yeremia etc.; quinto, restituto templo et urbe, fuit sub pontificibus quibus, per Aggeum et Zachariam et Malachiam iterata prophetia de Christo et eius precursore Elia, factum est silentium prophetarum, ita quod obmutuit cetus sacerdotum usque ad Iohannis ortum; et iterum in eiusdem quinti temporis sexto centenario conceptus est Christus. Sicut etiam sexto die factus est homo ad ymaginem Dei, sic conuenienter sub consimili senario factus est Christus homo, plenior Dei ymago: nam et perfectio numeri senarii, que ex omnibus partibus suis aliquotis et iterum ex ternario cum suis partibus, scilicet binario et unitate, consurgit, competit sibi et etiam reflexio ternarii per binarium, id est cultus fidei et Trinitatis per geminam caritatem».

[2] Il principio è chiaramente affermato nel notabile VIII del prologo della LSA: «[…] si omnia prima membra visionum ad invicem conferas et consimiliter omnia secunda et sic de aliis, aperte videbis omnia prima ad idem primum concorditer referri et consimiliter omnia secunda ad idem secundum et sic de aliis. Et hoc in tantum quod plena intelligentia eiusdem primi multum clarificatur ex mutua collatione omnium primorum, et idem est de omnibus secundis et tertiis et sic de aliis».

[3] A. FRUGONI, La Roma di Dante, tra il tempo e l’eterno, in ID., Pellegrini a Roma nel 1300. Cronache del primo Giubileo, presentazione di C. Frugoni, a cura e con Introduzione di F. Accrocca, Casale Monferrato 1999, pp. 102-103.

[4] LSA, cap. VI, Ap 6, 12: «Secunda ratio est quia persone Christi correspondet in sexta apertione unus ordo plurium personarum sic secundum suam proportionem augendus, sicut Christus secundum suum corpus fuit usque ad perfectam etatem viriliter auctus. […] Quarta est quia, prout super evangelia ostendi, Christus parvo tempore debuit inter nos vivere et pauciori predicare […]. Nisi autem ordo evangelicus, per Franciscum renovatus, esset in multis et saltem sub duabus vel tribus generationibus propagatus et sollempnizatus, non esset nec ipse nec populus ab eo ducendus sufficienter dispositus ad tam autenticam condempnationem condempnationi Christi consimilem subeundam».