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Ago 10 2024

Inferno XXVII

 

La “Divina Parodia” del Libro scritto dentro e fuori   [EN]

Canti esaminati:

Inferno: I; II; III; IV; V; VI; VII; VIII; IX; X; XI; XII; XIII; XIV; XV; XVI; XVII; XVIII; XIX; XX; XXI; XXII; XXIII; XXIV; XXV; XXVI; XXVII; XXVIII; XXIX; XXX; XXXI; XXXII, 1-123; XXXII, 124-XXXIII, 90; XXXIII, 91-157; XXXIV

Purgatorio: III; XXVIII

Paradiso: XI-XII; XXXIII

 

1. Un terremoto di conversione interiore. 2. I casi di Romagna. 3. Il martirio psicologico. 4. Il papa carnefice. 5. Il diavolo “loico”. Avvertenze. Abbreviazioni. Note sulla “topografia spirituale” della Commedia.

 

 

Legenda [3]: numero dei versi; 1, 12-13: collegamento ipertestuale all’esegesi, nella Lectura di Olivi, di capitolo e versetto dell’Apocalisse [Ap]; Not. III: collegamento all’esegesi contenuta nei tredici notabilia del prologo della LecturaVarianti rispetto al testo del Petrocchi.

Viene qui esposto il canto XXVII dell’Inferno con i corrispondenti legami ipertestuali con i luoghi della Lectura super Apocalipsim ai quali i versi si riferiscono. L’intero poema è esposto nella Topografia spirituale della Commedia (2013, PDF; cfr. infra), ma si sta procedendo a un esame progressivo e aggiornato dei singoli canti. Ogni tabella sinottica, qui presentata o alla quale si rinvia in quanto già esaminata in altra sede, è preceduta o seguita da una parte esplicativa. Per la posizione di Inf. XXVII nella topografia della prima cantica cfr. infra. Sull’uso dei colori cfr. Avvertenze.

Inferno XXVII

Secundus status: prologus, Notabilia [Not.]; I visio, II ecclesia (Smirne: 2, 8-11); II visio, II sigillum (6, 3-4); III visio, II tuba (8, 8-9); IV visio, II prelium (12, 7-12); V visio, II phiala (16, 3); VI visio, secunda pars (17, 3-6).

Già era dritta in sù la fiamma e queta   1, 12-13; Not. III; 8, 1
per non dir più, e già da noi sen gia
con la licenza del dolce poeta,   [3]

quand’ un’altra, che dietro a lei venìa,
ne fece volger li occhi a la sua cima
per un confuso suon che fuor n’uscia.   [6]   1, 10

Come ’l bue cicilian che mugghiò prima   Not. I, X; 1, 15
col pianto di colui, e ciò fu dritto,   6, 5
che l’avea temperato con sua lima,   [9]   Not. III

mugghiava con la voce de l’afflitto,   1, 15; 10, 9-10
sì che, con tutto che fosse di rame,   12, 12
pur el pareva dal dolor trafitto;   [12]

così, per non aver via né forame
dal principio nel foco, in suo linguaggio
si convertïan le parole grame.   [15]   8, 5

Ma poscia ch’ebber colto lor vïaggio
su per la punta, dandole quel guizzo
che dato avea la lingua in lor passaggio,   [18]   11, 1

udimmo dire: « O tu a cu’ io drizzo   11, 1
la voce e che parlavi mo lombardo,
dicendo “Istra ten va, più non t’adizzo”,   [21]

perch’ io sia giunto forse alquanto tardo,   3, 3
non t’incresca restare a parlar meco;
vedi che non incresce a me, e ardo!   [24]   8, 8

Se tu pur mo in questo mondo cieco
caduto se’ di quella dolce terra   17, 6
latina ond’ io mia colpa tutta reco,   [27]

dimmi se Romagnuoli han pace o guerra;   8, 8
ch’io fui d’i monti là intra Orbino
e ’l giogo di che Tever si diserra ».   [30]

Io era in giuso ancora attento e chino,   Not. III
quando il mio duca mi tentò di costa,   Not.VII; 2, 1 (2, 2)
dicendo: « Parla tu; questi è latino ».   [33]   11, 2

E io, ch’avea già pronta la risposta,
sanza indugio a parlare incominciai:
« O anima che se’ là giù nascosta,   [36]

Romagna tua non è, e non fu mai,  8, 8
sanza guerra ne’ cuor de’ suoi tiranni;
ma ’n palese nessuna or vi lasciai.   [39]

Ravenna sta come stata è molt’ anni:   Not. III
l’aguglia da Polenta la si cova,   6, 9.11
sì che Cervia ricuopre co’ suoi vanni.   [42]

La terra che già la lunga prova   2, 5; Not. XII; 2, 10
e di Franceschi sanguinoso mucchio,   6, 3
sotto le branche verdi si ritrova.   [45]

E ’l mastin vecchio e ’l nuovo da Verrucchio,
che fecer di Montagna il mal governo,   IV status
là dove soglion fan d’i denti succhio.   [48]   6, 3

Le città di Lamone e di Santerno
conduce il lïoncel dal nido bianco,   6, 2
che muta parte da la state al verno.   [51]

E quella cu’ il Savio bagna il fianco,   Not. VII     V status
così com’ ella sie’ tra ’l piano e ’l monte,                  IV status
tra tirannia si vive e stato franco.   [54]

Ora chi se’, ti priego che ne conte;
non esser duro più ch’altri sia stato,
se ’l nome tuo nel mondo tegna fronte ».   [57]   17, 5

Poscia che ’l foco alquanto ebbe rugghiato   1, 15
al modo suo, l’aguta punta mosse   8, 5-6
di qua, di là, e poi diè cotal fiato:   [60]

« S’i’ credesse che mia risposta fosse
a persona che mai tornasse al mondo,
questa fiamma staria sanza più scosse;   [63]   8, 5

ma però che già mai di questo fondo
non tornò vivo alcun, s’i’ odo il vero,
sanza tema d’infamia ti rispondo.   [66]   17, 5-6

Io fui uom d’arme, e poi fui cordigliero,
credendomi, sì cinto, fare ammenda;   7, 5
e certo il creder mio venìa intero,   [69]

se non fosse il gran prete, a cui mal prenda!,   8, 8
che mi rimise ne le prime colpe;   12, 8 (17, 6)
e come e quare, voglio che m’intenda.   [72]

Mentre ch’io forma fui d’ossa e di polpe
che la madre mi diè, l’opere mie   13, 11; 6, 3
non furon leonine, ma di volpe.   [75]

Li accorgimenti e le coperte vie   13, 11
io seppi tutte, e sì menai lor arte,
ch’al fine de la terra il suono uscie.   [78]   19, 6

Quando mi vidi giunto in quella parte   Not. III
di mia etade ove ciascun dovrebbe
calar le vele e raccoglier le sarte,   [81]   Not. V

ciò che pria mi piacëa, allor m’increbbe,
e pentuto e confesso mi rendei;   Not. XIII; 7, 5
ahi miser lasso! e giovato sarebbe.   [84]   Not. III

Lo principe d’i novi Farisei,   6, 312, 7
avendo guerra presso a Laterano,   21, 17
e non con Saracin né con Giudei,   [87]

ché ciascun suo nimico era cristiano,   vicino   6, 4
e nessun era stato a vincer Acri
né mercatante in terra di Soldano,   [90]

sommo officioordini sacri   12, 7
guardò in sé, né in me quel capestro
che solea fare i suoi cinti più macri.   [93]   7, 5

Ma come Costantin chiese Silvestro
d’entro Siratti a guerir de la lebbre,
così mi chiese questi per maestro   [96]

a guerir de la sua superba febbre;   8, 8; Not. XIII
domandommi consiglio, e io tacetti
perché le sue parole parver ebbre.   [99]   17, 6

E’ poi ridisse: “Tuo cuor non sospetti;   2, 8
finor t’assolvo, e tu m’insegna fare
sì come Penestrino in terra getti.   [102]   12, 9

Lo ciel poss’ io serrare e diserrare,   1, 17-18
come tu sai; però son due le chiavi
che ’l mio antecessor non ebbe care”.   [105]   2, 8

Allor mi pinser li argomenti gravi   3, 8
là ’ve ’l tacer mi fu avviso ’l peggio,
e dissi: “Padre, da che tu mi lavi   [108]   17, 6

di quel peccato ov’ io mo cader deggio,
lunga promessa con l’attender corto   Not. VII
ti farà trïunfar ne l’alto seggio”.   [111]   12, 12

Francesco venne poi, com’ io fu’ morto,
per me; ma un d’i neri cherubini   6, 5
li disse: “Non portar; non mi far torto.   [114]   8, 9

Venir se ne dee giù tra ’ miei meschini
perché diede l consiglio frodolente,   1, 14
dal quale in qua stato li sono a’ crini;   [117]

ch’assolver non si può chi non si pente,
né pentere e volere insieme puossi
per la contradizion che nol consente”.   [120]   5, 1; 17, 6

Oh me dolente! come mi riscossi   com’ mal mi riscossi
quando mi prese dicendomi: “Forse   3, 3
tu non pensavi ch’io löico fossi!”.   [123]

A Minòs mi portò; e quelli attorse   8, 9; 6, 5
otto volte la coda al dosso duro;
e poi che per gran rabbia la si morse  [126]   12, 12 (9, 19); 9, 516, 10

disse: “Questi è d’i rei del foco furo”;   16, 15
per ch’io là dove vedi son perduto,
e sì vestito, andando, mi rancuro ».   [129]

Quand’ elli ebbe ’l suo dir così compiuto,
la fiamma dolorando si partio,
torcendo e dibattendo ’l corno aguto.   [132]   6, 5

Noi passamm’ oltre, e io e ’l duca mio,
su per lo scoglio infino in su l’altr’ arco   21, 12
che cuopre ’l fosso in che si paga il fio   21, 12
a quei che scommettendo acquistan carco.   [136]

Nel quarto dei cinque cicli settenari dell’Inferno (canto XXVII), i consiglieri di frode latini (ottava bolgia) sono segnati dai temi del secondo stato della storia della Chiesa, proprio dei martiri. Si tratta della stessa parte del “panno” con cui è stata fatta la “gonna” di Francesca (Inf. V; primo ciclo, secondo cerchio), i cui motivi sono variati nei violenti contro il prossimo (Inf. XII; secondo ciclo, settimo cerchio, primo girone), nei ruffiani e in parte nei simoniaci (Inf. XVIII, XIX; terzo ciclo, ottavo cerchio, prima e terza bolgia) e lo saranno nel conte Ugolino (Inf. XXXIII; quinto ciclo, nono cerchio, Antenora). Nel Purgatorio i temi del secondo stato prevalgono in due cicli settenari più ampi (canti I-IX e X-XXVII): all’arrivo delle anime alla spiaggia della montagna (Purg. II) e negli invidiosi purganti (Purg. XIII, XIV).

Vengono qui di seguito posti a confronto Inf. V, XII, XVIII / XIX, XXVII, canti nei quali, rispettivamente nel primo, nel secondo, nel terzo e nel quarto ciclo settenario dell’Inferno, i temi del secondo stato prevalgono, semanticamente elaborati dalla parodia dantesca. La tematica si estende oltre i confini del singolo canto e, come mostrato nelle tabelle complessive, si intreccia con molti motivi propri di altri gruppi esegetici relativi agli status o periodi della storia della Chiesa.

Si registra, nelle singole zone, lo sviluppo delle occorrenze semantiche* relative al secondo stato che rinviano alla Lectura super Apocalipsim: V: 61, XII: 34, XVIII/XIX: 11, XXVII: 33.
Nella terza zona la tematica del secondo stato è meno presente che nelle altre zone e si  divide fra Inf. XVIII e XIX, il canto dei simoniaci dove prevalgono i temi del terzo stato.

Nel dettaglio:

prologo (V: 13, XII: 1, XVIII / XIX: 1, XXVII: 3); seconda chiesa (V: 10, XII: 12, XVIII/XIX: 0, XXVII: 4); secondo sigillo (V: 13, XII: 6, XVIII/XIX: 0, XXVII: 5); seconda tromba (V: 16, XII: 3, XVIII/XIX: 6, XXVII: 7); seconda guerra (V: 4, XII: 10, XVIII/XIX: 0, XXVII: 7); seconda coppa (V: 0, XII: 0, XVIII/XIX: 0, XXVII: 0); VI visione, seconda parte (V: 5, XII: 2, XVIII/XIX: 4, XXVII: 7).

La parodia si esercita anche in luoghi semantici, comuni a due o più zone, riferibili a stati diversi dal secondo. Ad esempio: prologo, Notabile VII, V stato (XII, 4.8.27.58; XXVII, 32.52.81); Ap 1, 1 (V, 119; XII, 86); 1, 7 (V, 3.102,105.109; XII, 132.133); 1, 15, I visione, premesse (V, 28; XXVII, 6.7.10.58); 1, 17-18, I visione, premesse (XII, 85; XXVII, 103.104); 3, 3, V chiesa (V, 100; XXVII, 122); 7, 5, VI sigillo (V, 8.10.11; XXVII, 68.83); 16, 10, V coppa (XII, 14; XXVII, 126); 16, 15, VI coppa (V, 105; XXVII, 127.128.129).
Ap 6, 12-17
, VI sigillo (XII, 7.29.81) e 8, 5-6, III visione, premesse (XII, 41.43; XXVII, 15.59.60.63) riguardano l’esegesi del terremoto.
Ap 6, 5, III sigillo (XXVII, 8.114.124.132), appartiene al terzo stato, i cui temi risultano predominanti in Inf. XXVIII, quarta zona dell’Inferno nella quale la parodia elabora motivi propri di questo periodo della storia della Chiesa.

* Per “occorrenze” si intendono le parole-chiave che nella lettera dei versi rinviano semanticamente ai temi offerti dall’esegesi; esse, ai fini del computo, sono considerate singolarmente salvo quando sono contigue, nel qual caso costituiscono un’unità.

Primo ciclo

Secondo ciclo

Inferno V

Inferno XII

Così discesi del cerchio primaio
giù nel secondo
, che men loco cinghia

e tanto più dolor, che punge a guaio.   [3]   1, 7
Stavvi Minòs orribilmente, e ringhia:
essamina le colpe ne l’intrata;
giudica e manda secondo ch’avvinghia.   [6]
Dico che quando l’anima mal nata
li vien dinanzi, tutta si confessa;   7, 5
e quel conoscitor de le peccata   [9]
vede qual loco d’inferno è da essa;
cignesi con la coda tante volte

quantunque gradi vuol che giù sia messa.   [12]
Sempre dinanzi a lui ne stanno molte:
vanno a vicenda ciascuna al giudizio,   12, 7
dicono e odono e poi son giù volte.   [15]   12, 9
« O tu che vieni al doloroso ospizio »,
disse Minòs a me quando mi vide,
lasciando l’atto di cotanto offizio,   [18  12, 7
« guarda com’ entri e di cui tu ti fide;   2, 8
non t’inganni l’ampiezza de l’intrare! ».

E ’l duca mio a lui: « Perché pur gride?   [21]
Non impedir lo suo fatale andare:
vuolsi così colà dove si puote

ciò che si vuole, e più non dimandare ».   [24]
Or incomincian le dolenti note
a farmisi sentire; or son venuto   2, 11
là dove molto pianto mi percuote.   [27]
Io venni in loco d’ogne luce muto,   [1, 15; 12,12 
che mugghia come fa mar per tempesta,   8, 8
se da contrari venti è combattuto.   [30]   Not. I
La bufera infernal, che mai non resta,
mena li spirti con la sua rapina;   2, 9
voltando e percotendo li molesta.   [33  2, 11
Quando giungon davanti a la ruina,   2, 10
quivi le strida, il compianto, il lamento;

bestemmian quivi la virtù divina.   [36]   2, 9; 17, 3
Intesi ch’a così fatto tormento
enno dannati i peccator carnali,   8, 817, 3
che la ragion sommettono al talento.   [39]
E come li stornei ne portan l’ali   8, 9
nel freddo tempo, a schiera larga e piena,

così quel fiato li spiriti mali   [42]
di qua, di là, di giù, di sù li mena;
nulla speranza li conforta mai,   2, 8.10
non che di posa, ma di minor pena.   [45]   2, 1
E come i gru van cantando lor lai,   2, 11
faccendo in aere di sé lunga riga,
così vid’ io venir, traendo guai,   [48]
ombre portate da la detta briga;   8, 9
per ch’i’ dissi: « Maestro, chi son quelle

genti che l’aura nera sì gastiga? ».   [51]
« La prima di color di cui novelle
tu vuo’ saper », mi disse quelli allotta,
« fu imperadrice di molte favelle.   [54]   17, 3
A vizio di lussuria fu sì rotta,
che libito fé licito in sua legge,
per tòrre il biasmo in che era condotta.   [57]
Ell’ è Semiramìs, di cui si legge   8, 9
che succedette a Nino e fu sua sposa:

tenne la terra che ’l Soldan corregge.   [60]
L’altra è colei che s’ancise amorosa,   5, 1
e ruppe fede al cener di Sicheo;   8, 9 

poi è Cleopatràs lussurïosa.   [63]   17, 3
Elena vedi, per cui tanto reo
tempo si volse, e vedi ’l grande Achille,
che con amore al fine combatteo. [66] 5, 1; Not. I
Vedi Parìs, Tristano »; e più di mille
ombre mostrommi e nominommi a dito,
ch’amor di nostra vita dipartille.   [69]   5, 1
Poscia ch’io ebbi ’l mio dottore udito
nomar le donne antiche e ’ cavalieri,

pietà mi giunse, e fui quasi smarrito.   [72]
I’ cominciai: « Poeta, volontieri
parlerei a quei due che ’nsieme vanno,
e paion sì al vento esser leggeri ».   [75]
Ed elli a me: « Vedrai quando saranno
più presso a noi; e tu allor li priega                        [5, 1
per quello amor che i mena, ed ei verranno ».   [78]
Sì tosto come il vento a noi li piega,
mossi la voce: « O anime affannate,   11
venite a noi parlar, s’altri nol niega! ».   [81]
Quali colombe dal  disio  chiamate   Not. XIII
con l’ali alzate e ferme al dolce nido

vegnon per l’aere, dal voler portate;   [84] 8, 9
cotali uscir de la schiera ov’ è Dido,
a noi venendo per l’aere maligno,
sì forte fu l’affettüoso grido
.   [87]
« O animal grazïoso e benigno   8, 9
che visitando vai per l’aere perso                          17, 3
noi che tignemmo il mondo di sanguigno,   [90]
se fosse amico il re de l’universo,
noi pregheremmo lui de la tua pace             [Not. X
poi ch’hai pietà del nostro mal perverso.   [93]
Di quel che udire e che parlar vi piace,
noi udiremo e parleremo a voi,

mentre che ’l vento, come fa, ci tace.   [96]
Siede la terra dove nata fui   6, 4
su la marina dove ’l Po discende   8, 8
per aver pace co’ seguaci sui.   [99]   6, 4         [
3, 3
Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende,  5, 1; 8, 8
prese costui de la bella persona                      [6, 41, 7
che mi fu tolta; e ’l modo ancor n’offende.   [102]
Amor, ch’a nullo amato amar perdona,   5, 1
mi prese del costui piacer sì forte,                      [16, 15
che, come vedi, ancor non m’abbandona.   [105]  1, 7
Amor condusse noi ad una morte.
Caina attende chi a vita ci spense ».   5, 1
Queste parole da lor ci fuor porte.   [108]   8, 9
Quand’ io intesi quell’ anime offense,   1, 7
china’ il viso, e tanto il tenni basso,            

fin che ’l poeta mi disse: « Che pense? ». [111] Not. X
Quando rispuosi, cominciai: « Oh lasso,
quanti dolci  pensier, quanto disio
menò costoro al doloroso passo! ».   [114]
Poi mi rivolsi a loro e parla’ io,
e cominciai: « Francesca, i tuoi martìri   Not. X
a lagrimar mi fanno tristo e pio.   [117]   2, 11
Ma dimmi: al tempo d’i dolci sospiri,
a che e come concedette amore   1, 1; 5, 1
che conosceste i dubbiosi disiri? ».   [120]  Not. X
E quella a me: « Nessun maggior dolore
che ricordarsi del tempo felice

ne la miseria; e ciò sa ’l tuo dottore.   [123]
Ma s’a conoscer la prima radice   Not. V
del nostro amor  tu hai cotanto affetto,   5, 1

dirò come colui che piange e dice.   [126]
Noi leggiavamo un giorno per diletto   8, 9
di Lancialotto come amor  lo strinse 5, 1; Not. X
soli eravamo e sanza alcun sospetto.   [129]
Per più fïate li occhi ci sospinse   Not. X
quella lettura, e scolorocci il viso;   8, 9

ma solo un punto fu quel che ci vinse.   [132]
Quando leggemmo il disïato  riso  8, 9;   Not. XIII
esser basciato da cotanto amante,
questi, che mai da me non fia diviso,   [135]
la bocca mi basciò tutto tremante.
Galeotto fu ’l libro e chi lo scrisse:   8, 9;   Not. X
quel giorno più non vi leggemmo avante ».   [138]
Mentre che l’uno spirto questo disse,
l’altro piangëa, sì che di pietade   Not. X
io venni men così com’ io morisse.

E caddi come corpo morto cade.   [142]

Era lo loco ov’ a scender la riva
venimmo, alpestro e, per quel che v’er’ anco,
tal, ch’ogne vista ne sarebbe schiva.   [3]
Qual è quella ruina che nel fianco 2, 10;   Not. VII
di qua da Trento l’Adice percosse,   2, 11
o per tremoto o per sostegno manco,   [6]
che da cima del monte, onde si mosse,   6, 12-17
al piano è sì la roccia discoscesa,   Not. VII
ch’alcuna via darebbe a chi sù fosse:   [9]
cotal di quel burrato era la scesa;
e ’n su la punta de la rotta lacca
l’infamïa di Creti era distesa   [12]   12, 9
che fu concetta  ne la falsa vacca;   12, 7
e quando vide noi, sé stesso morse,   16, 10
sì come quei cui l’ira dentro fiacca.   [15]   12, 12
Lo savio mio inver’ lui gridò: « Forse
tu credi che qui sia ’l duca d’Atene,   8, 9
che sù nel mondo la morte ti porse?   [18]
Pàrtiti, bestia, ché questi non vene
ammaestrato da la tua sorella,   6, 4
ma vassi per veder le vostre pene ».   [21]
Qual è quel toro che si slaccia in quella   12, 12
c’ha ricevuto già ’l colpo mortale,
che gir non sa, ma qua e là saltella,   [24]
vid’ io lo Minotauro far cotale;
e quello accorto gridò: « Corri al varco;        [Not. VII
mentre ch’e’ ’nfuria, è buon che tu ti cale ».   [27]
Così prendemmo via giù per lo scarco
di quelle pietre, che spesso moviensi   6, 12-17
sotto i miei piedi per lo novo carco.   [30]
Io gia pensando; e quei disse: « Tu pensi
forse a questa ruina, ch’è guardata   2, 10
da quell’ ira bestial ch’i’ ora spensi[33] 8, 8; 5, 1
Or vo’ che sappi che l’altra fïata
ch’i’ discesi qua giù nel basso inferno,
questa roccia non era ancor cascata.   [36] 
Ma certo poco pria, se ben discerno,
che venisse colui che la gran preda
levò a Dite del cerchio superno,   [39]
da tutte parti l’alta valle feda
tremò sì, ch’i’ pensai che l’universo   8, 5
sentisse amor, per lo qual è chi creda   [42]
più volte il mondo in caòsso converso;
e in quel punto questa vecchia roccia
qui e altrove, tal fece riverso.   [45]   12, 9
Ma ficca li occhi a valle, ché s’approccia
la riviera del sangue in la qual bolle   17, 6
qual che per vïolenza in altrui noccia ».   [48]
Oh cieca cupidigia e ira folle,
che sì ci sproni ne la vita corta,
e ne l’etterna poi sì mal c’immolle!   [51]
Io vidi un’ampia fossa in arco torta,
come quella che tutto ’l piano abbraccia,
secondo ch’avea detto la mia scorta;   [54]
e tra ’l piè de la ripa ed essa, in traccia
corrien centauri, armati di saette,   2, 10
come solien nel mondo andare a caccia.   [57]
Veggendoci calar, ciascun ristette,   Not. VII
e de la schiera tre si dipartiro
con archi e asticciuole prima elette;   [60]
e l’un gridò da lungi:  « A qual martiro   2, 1
venite voi che scendete la costa?   Not. VII
Ditel costinci; se non, l’arco tiro ».   [63]
Lo mio maestro disse: « La risposta
farem noi a Chirón costà di presso:
mal fu la voglia tua sempre sì tosta ».   [66]
Poi mi tentò, e disse: « Quelli è Nesso,   2, 1
che morì per la bella Deianira,
e fé di sé la vendetta elli stesso.   [69]   5, 1
E quel di mezzo, ch’al petto si mira,
è il gran Chirón, il qual nodrì Achille;
quell’ altro è Folo, che fu sì pien d’ira.   [72]
Dintorno al fosso vanno a mille a mille,
saettando qual anima si svelle
del sangue più che sua colpa sortille ».   [75]
Noi ci appressammo a quelle fiere isnelle:
Chirόn prese uno strale, e con la cocca
fece la barba in dietro a le mascelle.   [78]
Quando s’ebbe scoperta la gran bocca,
disse a’ compagni: « Siete voi accorti
che quel di retro move ciò ch’el tocca?   [81]   6, 12-17
Così non soglion far li piè d’i morti ».
E ’l mio buon duca, che già li er’ al petto,
dove le due nature son consorti,   [84]
rispuose: « Ben è vivo, e sì soletto   1, 18
mostrar li mi convien la valle buia;   1, 1
necessità ’l ci ’nduce, e non diletto.   [87]
Tal si partì da cantare alleluia   2, 11
che mi commise quest’ officio novo:   12, 7
non è ladron, né io anima fuia.   [90]
Ma per quella virtù per cu’ io movo
li passi miei per sì selvaggia strada,                       2, 10
danne un de’ tuoi, a cui noi siano a provo,[93] 12, 7
e che ne mostri là dove si guada,
e che porti costui in su la groppa,   8, 9
ché non è spirto che per l’aere vada ».   [96]
Chirόn si volse in su la destra poppa,
e disse a Nesso: « Torna, e sì li guida,   12, 7
e fa cansar s’altra schiera v’intoppa ».   [99]
Or ci movemmo con la scorta fida   2, 8
lungo la proda del bollor vermiglio,
dove i bolliti facieno alte strida.   [102]
Io vidi gente sotto infino al ciglio;
e ’l gran centauro disse: « E’ son tiranni      2, 9
che dier nel sangue e ne l’aver di piglio.   [105]  6, 4
Quivi si piangon li spietati danni;   2, 10
quivi è Alessandro e Dïonisio fero  2, 10 (decem dies)
che fé Cicilia aver dolorosi anni.   [108]   Not. X
E quella fronte c’ha ’l pel così nero,
è Azzolino; e quell’ altro ch’è biondo,
è Opizzo da Esti, il qual per vero   [111]
fu spento dal figliastro sù nel mondo ».  5, 1; 6, 4
Allor mi volsi al poeta, e quei disse:
« Questi ti sia or primo, e io secondo ».   [114]
Poco più oltre il centauro s’affisse
sovr’ una gente che ’nfino a la gola
parea che di quel bulicame uscisse.   [117]
Mostrocci un’ombra da l’un canto sola,
dicendo: « Colui fesse in grembo a Dio  2, 10 (X dies)
lo cor che ’n su Tamisi ancor si cola ».   [120]   12, 7
Poi vidi gente che di fuor del rio
tenean la testa e ancor tutto ’l casso;
e di costoro assai riconobb’ io.   [123]
Così a più a più si facea basso
quel sangue, sì che cocea pur li piedi;   17, 6
e quindi fu del fosso il nostro passo.   [126]   21, 12
« Sì come tu da questa parte vedi
lo bulicame che sempre si scema »,
disse ’l centauro, « voglio che tu credi   [129]
che da quest’ altra a più a più giù prema
lo fondo suo, infin ch’el si raggiunge
ove la tirannia convien che gema.   [132]   1, 7
La divina giustizia di qua punge
quell’ Attila che fu flagello in terra,   2, 10 (X dies)
e Pirro e Sesto; e in etterno munge   [135]
le lagrime, che col bollor diserra,
a Rinier da Corneto, a Rinier Pazzo,
che fecero a le strade tanta guerra ».   12, 7
Poi si rivolse e ripassossi ’l guazzo.   [139]

 

Terzo ciclo

Quarto ciclo

Inf. XVIII, 55-57, 82-102 

Inf. XXVII

I’ fui colui che la Ghisolabella
condussi a far la voglia del marchese,   8, 9
come che suoni la sconcia novella.   [57]

E ’l buon maestro, sanza mia dimanda,
mi disse: « Guarda quel grande che vene,
e per dolor non par lagrime spanda:   [84]
quanto aspetto reale ancor ritene!
Quelli è Iasón, che per cuore e per senno   8, 9
li Colchi del monton privati féne.   [87]
Ello passò per l’isola di Lenno
poi che l’ardite femmine spietate
tutti li maschi loro a morte dienno.   [90]
Ivi con segni e con parole ornate   17, 4
Isifile ingannò, la giovinetta   8, 9
che prima avea tutte l’altre ingannate.   [93]
Lasciolla quivi, gravida, soletta;
tal colpa a tal martiro lui condanna;
e anche di Medea si fa vendetta.   [96]
Con lui sen va chi da tal parte inganna;
e questo basti de la prima valle
sapere e di color che ’n sé assanna ».   [99]
Già eravam là ’ve lo stretto calle
con l’argine secondo s’incrocicchia,   Not. V, XIII
e fa di quello ad un altr’ arco spalle.   [102]   8, 9

 

Inf. XIX, 34-36, 55-57, 73-78, 115-117, 127-129

Ed elli a me: « Se tu vuo’ ch’i’ ti porti   8, 9
là giù per quella ripa che più giace,
da lui saprai di sé e de’ suoi torti ».   [36]   6, 5

« Se’ tu sì tosto di quell’ aver sazio   17, 3.6
per lo qual non temesti tòrre a ’nganno
la bella donna, e poi di farne strazio? ».   [57]

Di sotto al capo mio son li altri tratti
che precedetter me simoneggiando,   17, 6
per le fessure de la pietra piatti.   [75]
Là giù cascherò io altresì quando
verrà colui ch’i’ credea che tu fossi,
allor ch’i’ feci ’l sùbito dimando.   [78]

Ahi, Costantin, di quanto mal fu matre,
non la tua conversion, ma quella dote

che da te prese il primo ricco patre! ».   [117]   17, 6

Né si stancò d’avermi a sé distretto,
men portò sovra ’l colmo de l’arco   8, 9
che dal quarto al quinto argine è tragetto.   [129]

 

 

 

 

Già era dritta in sù la fiamma e queta
per non dir più, e già da noi sen gia
con la licenza del dolce poeta,   [3]
quand’ un’altra, che dietro a lei venìa,
ne fece volger li occhi a la sua cima
per un confuso suon che fuor n’uscia.   [6]   1, 15
Come ’l bue cicilian che mugghiò prima  Not. I, X
col pianto di colui, e ciò fu dritto,   6, 5
che l’avea temperato con sua lima,   [9]
mugghiava con la voce de l’afflitto,   1, 15
sì che, con tutto che fosse di rame,   12, 12
pur el pareva dal dolor trafitto;   [12]
così, per non aver via né forame
dal principio nel foco, in suo linguaggio
si convertïan le parole grame.   [15]   8, 5
Ma poscia ch’ebber colto lor vïaggio
su per la punta, dandole quel guizzo
che dato avea la lingua in lor passaggio,   [18]
udimmo dire: « O tu a cu’ io drizzo
la voce e che parlavi mo lombardo,
dicendo “Istra ten va, più non t’adizzo”,   [21]
perch’ io sia giunto forse alquanto tardo,   3, 3
non t’incresca restare a parlar meco;
vedi che non incresce a me, e ardo!   [24]   8, 8
Se tu pur mo in questo mondo cieco
caduto se’ di quella dolce terra   17, 6
latina ond’ io mia colpa tutta reco,   [27]
dimmi se Romagnuoli han pace o guerra;   8, 8
ch’io fui d’i monti là intra Orbino
e ’l giogo di che Tever si diserra ».   [30]
Io era in giuso ancora attento e chino,
quando il mio duca mi tentò di costa,   2, 1; Not.VII
dicendo: « Parla tu; questi è latino ».   [33]
E io, ch’avea già pronta la risposta,
sanza indugio a parlare incominciai:
« O anima che se’ là giù nascosta,   [36]
Romagna tua non è, e non fu mai,  8, 8
sanza guerra ne’ cuor de’ suoi tiranni;
ma ’n palese nessuna or vi lasciai.   [39]
Ravenna sta come stata è molt’ anni:
l’aguglia da Polenta la si cova,
sì che Cervia ricuopre co’ suoi vanni.   [42]
La terra che già la lunga prova   Not. XII; 2, 10
e di Franceschi sanguinoso mucchio,   6, 3
sotto le branche verdi si ritrova.   [45]
E ’l mastin vecchio e ’l nuovo da Verrucchio,
che fecer di Montagna il mal governo,
là dove soglion fan d’i denti succhio.   [48]   6, 3
Le città di Lamone e di Santerno
conduce il lïoncel dal nido bianco,
che muta parte da la state al verno.   [51]
E quella cu’ il Savio bagna il fiancoNot. VII
così com’ ella sie’ tra ’l piano e ’l monte,
tra tirannia si vive e stato franco.   [54]
Ora chi se’, ti priego che ne conte;
non esser duro più ch’altri sia stato,
se ’l nome tuo nel mondo tegna fronte ».  [57] 17, 5
Poscia che ’l foco alquanto ebbe rugghiato   1, 15
al modo suo, l’aguta punta mosse   8, 5-6
di qua, di là, e poi diè cotal fiato:   [60]
« S’i’ credesse che mia risposta fosse
a persona che mai tornasse al mondo,
questa fiamma staria sanza più scosse;   [63]   8, 5
ma però che già mai di questo fondo
non tornò vivo alcun, s’i’ odo il vero,
sanza tema d’infamia ti rispondo.   [66]   17, 5-6
Io fui uom d’arme, e poi fui cordigliero,
credendomi, cinto, fare ammenda;   7, 5
e certo il creder mio venìa intero,   [69]
se non fosse il gran prete, a cui mal prenda!,   8, 8
che mi rimise ne le prime colpe;   12, 8 (17, 6)
e come e quare, voglio che m’intenda.   [72]
Mentre ch’io forma fui d’ossa e di polpe
che la madre mi diè, l’opere mie   6, 3
non furon leonine, ma di volpe.   [75]
Li accorgimenti e le coperte vie
io seppi tutte, e sì menai lor arte,
ch’al fine de la terra il suono uscie.   [78]
Quando mi vidi giunto in quella parte
di mia etade ove ciascun dovrebbe
calar le vele e raccoglier le sarte,   [81]   Not. VII
ciò che pria mi piacëa, allor m’increbbe,
e pentuto e confesso mi rendei;   7, 5
ahi miser lasso! e giovato sarebbe.   [84]
Lo principe d’i novi Farisei,   6, 312, 7
avendo guerra presso a Laterano,
e non con Saracin né con Giudei,   [87]
ché ciascun suo nimico era cristiano,   vicino   6, 4
e nessun era stato a vincer Acri
né mercatante in terra di Soldano,   [90]
sommo officioordini sacri   12, 7
guardò in sé, né in me quel capestro
che solea fare i suoi cinti più macri.   [93]   7, 5
Ma come Costantin chiese Silvestro
d’entro Siratti a guerir de la lebbre,
così mi chiese questi per maestro   [96]
a guerir de la sua superba febbre;   8, 8
domandommi consiglio, e io tacetti
perché le sue parole parver ebbre.   [99]   17, 6
E’ poi ridisse: “Tuo cuor non sospetti;   2, 8
finor t’assolvo, e tu m’insegna fare
sì come Penestrino in terra getti.   [102]   12, 9
Lo ciel poss’ io serrare e diserrare,   1, 17-18
come tu sai; però son due le chiavi
che ’l mio antecessor non ebbe care”.   [105]   2, 8
Allor mi pinser li argomenti gravi
là ’ve ’l tacer mi fu avviso ’l peggio,
e dissi: “Padre, da che tu mi lavi   [108]   17, 6
di quel peccato ov’ io mo cader deggio,
lunga promessa con l’attender corto
ti farà trïunfar ne l’alto seggio”.   [111]   12, 12
Francesco venne poi, com’ io fu’ morto,
per me; ma un d’i neri cherubini   6, 5
li disse: “Non portar; non mi far torto.   [114]   8, 9
Venir se ne dee giù tra ’ miei meschini
perché diede ’l consiglio frodolente,
dal quale in qua stato li sono a’ crini;   [117]
ch’assolver non si può chi non si pente,
né pentere e volere insieme puossi
per la contradizion che nol consente”. [120]   17, 6
Oh me dolente! come mi riscossi
quando mi prese dicendomi: “Forse   3, 3
tu non pensavi ch’io löico fossi!”.   [123]
A Minòs mi portò; e quelli attorse   8, 9; 6, 5
otto volte la coda al dosso duro;                       [16, 10
e poi che per gran rabbia la si morse, [126] 12, 12
disse: “Questi è d’i rei del foco furo”;   16, 15
per ch’io là dove vedi son perduto,
e sì vestito, andando, mi rancuro ».   [129]
Quand’ elli ebbe ’l suo dir così compiuto,
la fiamma dolorando si partio,
torcendo e dibattendo ’l corno aguto.   [132]   6, 5
Noi passamm’ oltre, e io e ’l duca mio,
su per lo scoglio infino in su l’altr’ arco
che cuopre ’l fosso in che si paga il fio
a quei che scommettendo acquistan carco.   [136]


1. Un terremoto di conversione interiore

Già era dritta in sù la fiamma e queta / per non dir più (Inf. XXVII, 1-2). La quiete e il silenzio dopo il travaglio accompagnano il commiato di Ulisse, la cui fiamma si erige in alto, senza più scosse, a modo di candelabro. Per quanto non si possa attribuire al greco consigliere di frode la quiete e la felicità dei santi in attesa della resurrezione (che sono fra le prerogative del silenzioso e pacifico settimo stato), una sorta di riposo subentra nella fiamma, che si era scossa menando qua e là la cima per il vento che l’aveva affaticata a parlare.
Alle parole di Virgilio, accennanti ai propri “alti versi”, aveva fatto seguito il “crollarsi mormorando” (il mormorare dei dannati ad Ap 14, 11) della fiamma di Ulisse come agitata dal vento, che aveva gettato voce di fuori “come fosse la lingua che parlasse”. Come l’alto eloquio dei dottori genera un terremoto di conversione a Cristo verso il quale si muovono i cuori, così per un momento la fiamma di Ulisse aveva subìto un terremoto interiore e, agitata dal vento dello Spirito, parlato. Il sostantivo ‘crollo’ viene usato nel senso di “terremoto” a Purg. XXI, 34 con riferimento alle scosse che fanno tremare la montagna. Non diversamente da Ulisse si muove e scuote convertendosi la fiamma di Guido da Montefeltro, nel dare fiato dopo molto rugghiare: “in suo linguaggio / si convertïan le parole grame … l’aguta punta mosse / di qua, di là, e poi diè cotal fiato … questa fiamma staria sanza più scosse(Inf. XXVII, 15, 59-60, 63; cfr. Pier della Vigna a Inf. XIII, 92: “si convertì quel vento in cotal voce”).
Al motivo del terremoto di conversione fa da contrappunto quello della “voce di molte acque“, che risuona come il ruggire del mare (Ap 1, 15: “impetus fluminum et marinorum fluctuum et rugituum”), già trasposto nel mugghiare “come fa mar per tempesta”, che risuona nel secondo cerchio infernale (Inf. V, 28-29). La voce di Guido da Montefeltro mugghia come il toro (“’l bue cicilian”) costruito per Falaride (Inf. XXVII, 7-10), il fuoco che la nasconde “rugghia” (v. 58; “Sonat etiam quasi cum irriguo … rugientium suspiriorum”, Ap 14, 2), il suono della fama delle opere volpine dell’uomo d’arme si diffonde fino agli estremi del mondo (vv. 76-78; “perveniet usque ad fines terre”, Ap 19, 6).
Come i violenti contro il prossimo descritti in Inf. XII, così i consiglieri di frode latini dell’ottava bolgia, trattati in Inf. XXVII, si collocano in una zona – rispettivamente la seconda e la quarta dell’Inferno – dove prevalgono i temi del secondo stato. Questo periodo, proprio dei martiri, è assimilato al bue paziente e tollerante nella sofferenza (prologo, Notabile I; Ap 4, 6). Il motivo della Sicilia ‘martire’ per il tiranno “Dïonisio fero”  (l’isola è antica “figura” di santa Cecilia, martirizzata sotto Alessandro Severo: prologo, Notabile X; Inf. XII, 107-108) ritorna nella similitudine delle “parole grame” di Guido da Montefeltro, che non hanno via d’uscita dalla fiamma che le fascia, con il muggire del “bue cicilian” arroventato, per le grida di coloro che vi erano rinchiusi, costruito da Perillo per Falaride, tiranno di Agrigento (Inf. XXVII, 7-15). Da notare la simmetria tra i “dolorosi anni” fatti avere alla Sicilia dalla tirannide e il bue che “con tutto che fosse di rame, / pur el pareva dal dolor trafitto” (la rima afflitto/trafitto, vv. 10.12, è elaborata su Ap 10, 9-10). Altre parole, nella similitudine, fanno segno di altri luoghi esegetici: dritto (v. 8; Ap 6, 5: terzo sigillo); temperato (v. 9; prologo, Notabile III: quinto stato).
Al termine della trattazione, nella quarta visione, della seconda guerra sostenuta dalla Chiesa (nel secondo stato, proprio dei martiri: Ap 12, 7-12), i cieli si allietano per la vittoria sul diavolo: è modo di dire per cui trasferiamo i nostri affetti sulle cose inanimate. Trafitto dal dolore, come cosa inanimata (“con tutto che fosse di rame”), è “’l bue cicilian” fatto costruire da Falaride (Inf. XXVII, 7-12; cfr. Vita Nova, 16.8 [xxv 8]).
Virgilio, come il vescovo di Efeso, la prima delle sette chiese d’Asia (Ap 2, 2-3), possiede la scienza della discrezione, per cui conosce luoghi e tempi per ammettere ed escludere i malvagi dannati, che fa a lui venire, che ‘adizza’ a parlare e ai quali dà licenza di andar via. La sua “lingua erudita” – che secondo Gioacchino da Fiore è designata dal “calamus”, cioè dalla verga data a Giovanni ad Ap 11, 1-2 affinché misuri tempio e altare escludendo l’atrio (i Greci separati da Roma e poi, al tempo dell’Anticristo, i pravi religiosi della Chiesa latina) – corrisponde alla “parola ornata” o al “parlare onesto”, come lo chiama Beatrice in Inf. II, 67, 113. Con essa nel mondo scrisse “li alti versi”; solo la sua parola è capace di piegare gli “schivi” Greci, tali perché renitenti a sottomettersi alla sede di Roma. Diversamente si comporta il poeta pagano di fronte alla fiamma che fascia Guido da Montefeltro, desiderosa essa stessa di parlare, e dunque non ‘schiva’. Il Montefeltrano drizza la voce, una volta che la lingua ha dato il guizzo alle “parole grame”, al parlare lombardo con cui Virgilio ha licenziato la fiamma che fascia Ulisse. La guida tocca Dante nel fianco – l’espressione “mi tentò di costa” conduce al “temptare” nel senso di esaminare con discrezione, proprio del vescovo di Efeso (Ap 2, 2; con altro senso, la tentazione è insita nella guerra sostenuta dai martiri: Ap 2, 1) – e gli dice: “Parla tu; questi è latino” (Inf. XXVII, 32-33; di costa, congiunto al capo chino, rinvia alla tematica del quinto stato). Così, dei due consiglieri fraudolenti puniti nell’ottava bolgia, Ulisse corrisponde ai Greci separati dalla Chiesa di Roma, dei quali è antica prefigurazione; Guido trova invece luogo tra i pravi ed ipocriti religiosi latini dei tempoi moderni.

2. I casi di Romagna

Nell’esegesi della seconda tromba (Ap 8, 8-9), il primo versetto è particolarmente dedicato ai Gentili, perché fra essi suonò il secondo angelo (Ap 8, 8). Il male che seguì, e come il diavolo infiammasse e incitasse i Gentili contro i dottori e la loro dottrina, è così spiegato: “E fu messo nel mare come un gran monte ardente di fuoco”. Questo monte è il diavolo, adorato come Dio dai pagani negli idoli, definito “gran monte” sia per il gran tumore della sua superbia, sia per la sua grande potenza naturale. Costui riarse del fuoco d’ira e d’invidia verso i santi dottori che predicavano contro l’idolatria per espellerla dal mondo quanto possibile, e per l’effetto del suo empio suggerire e insinuarsi “fu messo nel mare”, cioè nei fluttuosi cuori dei Gentili, i quali erano come un grande mare inabitabile sia per i semplici fedeli, che si possono considerare quasi pecore e giumenti, sia per i perfetti e discreti, che sono come uomini. Il “mare” spesso nell’Apocalisse designa i Gentili, fluttuosi per gli errori, procellosi per guerre e rivolte, salsi e amari per costumi carnali e per turpe idolatria, profondi come una voragine per malizia e quasi senza fine per la moltitudine dei popoli. Gli effetti della seconda tromba sono specificati col dire: “E la terza parte del mare si fece sangue”, cioè quella parte dei Gentili che non volle credere in Cristo si fece persecutrice uccidendo i fedeli ed effondendo il loro sangue.
I temi della seconda tromba risuonano nell’episodio di Guido da Montefeltro e risuoneranno più estesi nelle parole di un altro Guido, del Duca, purgante l’invidia nel secondo girone della montagna. Per entrambi si tratta dei casi di Romagna. Già nella domanda fatta a Dante con ardente desiderio di parlare – “dimmi se Romagnuoli han pace o guerra” – il motivo della guerra si congiunge con quello del riarso monte nel momento in cui il Montefeltrano precisa la sua origine, i monti tra Urbino e il giogo appenninico da cui nasce il Tevere (Inf. XXVII, 24, 28-30). La risposta di Dante sviluppa il tema del cuore dei Gentili fluttuoso per le guerre: “Romagna tua non è, e non fu mai, / sanza guerra ne’ cuor de’ suoi tiranni” (vv. 37-38), dove persino il nome della terra allude nel suono al “mons magnus” messo nei cuori tempestosi. Nel seguito dell’episodio il tema del monte grande per superbia viene applicato a Bonifacio VIII, “il gran prete” che chiese a Guido di guarirlo “de la sua superba febbre” dandogli il consiglio fraudolento su come distruggere Palestrina (vv. 70-71, 96-98). Il papa rimise così Guido, pentitosi in vecchiaia del suo operato volpino e fattosi francescano, nelle prime colpe: un motivo, quello del ritorno all’antica idolatria, presente nell’esegesi della seconda guerra (Ap 12, 8; nell’episodio vengono variati in modo significativo i temi da Ap 17, 6, esegesi che verrà in seguito considerata).

Nella risposta che il poeta dà a Guido da Montefeltro sulla sua Romagna vengono citate cinque signorie:

  • Ravenna soggiace ai da Polenta (dal 1275), la cui aquila araldica copre Cervia (presa nel 1283) con le sue ali (vv. 40-42): la parodia sviluppa il tema, dall’apertura del quinto sigillo, delle anime dei martiri che stanno in attesa “sotto l’altare di Dio”, protette dalle ali della gloria di Cristo (Ap 6, 9.11). L’espressione “Ravenna sta come stata è molt’ anni” accenna al motivo della ferma stabilità proprio del quarto stato, “stans” (prologo, Notabile III), rafforzato dall’attendere proprio del quinto periodo. Stabilità e attesa: temi che confermano ed esplicano nella realtà storica contemporanea il bellicismo signorile che cova sotto l’apparente pace: “Romagna tua non è, e non fu mai, / sanza guerra ne’ cuor de’ suoi tiranni; / ma ’n palese nessuna or vi lasciai” (vv. 37-39).

  • Forlì “sotto le branche verdi si ritrova”, cioè sotto la signoria degli Oderlaffi (vv. 43-45). L’espressione sarà da intendere in senso positivo, per la stabilità recuperata dopo che la città “fé già la lunga prova, / e di Franceschi sanguinoso mucchio”, resistendo ai guelfi e ai francesi inviati da Martino IV e poi capitolando nonostante le astuzie di Guido da Montefeltro (1281-1283). La “lunga prova” corrisponde al lungo periodo del secondo stato della Chiesa, nel quale fu versato il sangue dei martiri (prologo, Notabile XII; Ap 2, 10); ritrovarsi equivale a recuperare la prima grazia perduta (Ap 2, 5; cfr. Inf. I, 2).

  • Rimini si mantiene pur essa stabile per la tirannia dei due Malatesta, padre e figlio (Malatesta da Verucchio e Malatestino), i quali “là dove soglion fan d’i denti succhio” (vv. 46-48), parodia dei principi pagani, assimilati all’orso di Daniele 7, 5, che fissero i denti nelle carni dei martiri (Ap 6, 3). La loro tirannide è sottolineata dal verso “che fecer di Montagna il mal governo”, fecero cioè morire il capo dei ghibellini riminesi Montagna dei Parcitadi. “Montagna”, in questo caso, è nome proprio di un ‘martire’ straziato dai Malatesta; nella terzina che riguarda Cesena (vv. 52-54) il “monte” corrisponde alla “tirannia”.

  •  Faenza, Imola, bagnate dal Lamone e dal Santerno, sono governate da Maghinardo Pagani da Susinana, “il lïoncel dal nido bianco, / che muta parte da la state al verno”, ghibellino in Romagna, guelfo in Toscana (vv. 49-51). Al Pagani sono appropriati temi – il leone, il colore bianco – propri di Cristo e dei suoi discepoli (Ap 6, 2) che ne velano di sarcasmo l’arme; Guido del Duca lo definirà il “demonio” della famiglia, concordandola coi “pagani” che nella seconda guerra combattono a fianco dei demoni contro il culto di Cristo (Purg. XIV, 118-120). Le mutazioni di parte politica riprendono il tema del “mutare e trasmutare” applicato ai ladri della bolgia precedente (Inf. XXV, 142-143).

  • La “costa” e lo “scendere” sono temi del quinto stato della storia della Chiesa, il declinante momento della pia condescensione verso la vita associata delle moltitudini, che frange l’ardua, ripida e solitaria altezza dello stato precedente (il quarto) proprio degli anacoreti. Nel Notabile VII del prologo della Lectura si recano gli esempi di Cristo che condiscese agli infermi e di Adamo, simbolo della solitudine austera degli anacoreti del quarto stato, al quale venne sottratta una forte “costa” che Dio nel creare Eva riempì di pietas.
    Trovarsi in uno stato mediocre (il quinto) viene appropriato sul piano politico a Cesena
    (vv. 52-54): “E quella cu’ il Savio bagna il fianco (la “costa”), / così com’ ella sie’ tra ’l piano e ’l monte, / tra tirannia si vive e stato franco”, dove la tirannia (il monte) è assimilata all’ardua e oltre una certa misura insostenibile vita degli anacoreti del quarto stato, mentre la libertà è tema tipico del sesto stato. Il senso pertanto sarebbe: “il governo in carica non è del tutto ‘tirannico’, né del tutto libero, ma di natura intermedia, temperata fra signorile e comunale” (Inglese). I versi relativi a Cesena insinuano il dubbio che anche quanto Tommaso d’Aquino, a Par. XI, 47-48, dice del “grave giogo” che fa piangere “Nocera con Gualdo”, abbia un risvolto politico, intendendo cioè il dominio di Perugia sulle due città.

3. Il martirio psicologico

Allor mi pinser li argomenti gravi / la ’ve ’l tacer mi fu avviso ’l peggio. Nei precedenti tre cicli, il viaggio nella storia della Chiesa allargata a tutto il mondo umano ha toccato nell’Inferno zone riferite al secondo stato o periodo, proprio dei martiri, con i canti dedicati ai lussuriosi (V), ai violenti contro il prossimo (XII), ai ruffiani (XVIII) e in parte ai simoniaci (XIX). Nel quarto ciclo, la zona dove i temi del secondo stato sono prevalenti riguarda i consiglieri di frode latini (XXVII). Seguirà, nel quinto e ultimo ciclo, l’incontro col conte Ugolino (XXXIII). Personaggi come Francesca, Guido da Montefeltro e Ugolino sono fregiati di segni che rinviano la memoria dell’accorto lettore dal senso letterale all’esegesi del secondo stato. Costoro si collocano in una zona dedicata ai martiri non nel senso che sono assimilabili ai testimoni dei primi tempi cristiani, ma perché, ingannati, non sostennero il martirio psicologico dei tempi moderni.
Secondo il principio della concorrenza tra gli stati , affermato nel Notabile X del prologo della Lectura super Apocalipsim, il sesto stato – cioè il periodo in cui vivono Olivi e Dante, iniziato con Francesco d’Assisi – concorre con il secondo, per antonomasia lo stato dei martiri, non per connessione temporale (questo inizia infatti con la persecuzione di Nerone o con la lapidazione di santo Stefano o con la passione di Cristo e dura fino alla pax costantiniana), ma a motivo della quantità dei testimoni della fede. Il tipo di martirio è tuttavia diverso. I martiri del sesto stato soffrono nel dubbio, il loro è un “certamen dubitationis” che i primi testimoni della fede non provarono per l’evidenza dell’errore in cui incorrevano gli idolatri pagani. Nel sesto stato il martire non prova soltanto il tormento del corpo, viene anche spinto (“propulsabuntur martires”) dalla sottigliezza degli argomenti filosofici, dalle distorte testimonianze scritturali, dall’ipocrita simulazione di santità, dalla falsa immagine dell’autorità divina o papale, in quanto falsi pontefici insorgono, come Anna e Caifa insorsero contro Cristo. Per rendere più intenso il martirio, i carnefici stessi operano miracoli. Tutto ciò appartiene alla tribolazione del tempo dell’Anticristo, alla tentazione che induce in errore persino gli eletti, come testimoniato da Cristo nella grande pagina escatologica di Matteo 24, 24: “dabunt signa magna et prodigia, ita ut in errorem inducantur, si fieri potest, etiam electi”. Scrive Gregorio Magno nei Moralia, commentando Giobbe 40, 12 – “stringe (nel senso di tendere) la sua coda come un cedro” -: “ora i nostri fedeli fanno miracoli nel patire perversioni, allora i seguaci di Behemot faranno miracoli anche nell’infliggerle. Pensiamo perciò quale sarà la tentazione della mente umana quando il pio martire sottoporrà il corpo ai tormenti mentre davanti ai suoi occhi il carnefice opererà miracoli”.
Dietro al dubbio ingannatore di cui parla Olivi si cela l’eterna perdizione tramite una falsa Scrittura (Francesca e Paolo: “Galeotto fu ’l libro e chi lo scrisse”) o una falsa immagine di autorità pontificale (Guido da Montefeltro), o insinuata dal dubbio che tradisce e induce alla disperazione (Ugolino).
Al vescovo della seconda chiesa d’Asia, Smirne (Ap 2, 8), Cristo dice che l’esempio della sua morte e la speranza della vita che per essa si è meritata e il suo potere debbono animare ai martìri; in essi non si deve diffidare ma anzi sperare di conseguire la vita eterna. Francesca e Paolo leggevano di Lancillotto “sanza alcun sospetto” (Inf. V, 129); Guido da Montefeltro si fidò di Bonifacio VIII (“Tuo cuor non sospetti”, gli dice il Caetani: XXVII, 100); il conte Ugolino dell’arcivescovo Ruggieri “Che per l’effetto de’ suo’ mai pensieri, / fidandomi di lui, io fossi preso / e poscia morto, dir non è mestieri” (XXXIII, 16-18).
La sesta chiesa, Filadelfia, viene lodata per aver sostenuto il moderno tipo di martirio: “Et non negasti nomen meum” (Ap 3, 8). Non negare il nome di Cristo non è cosa grande se non in una forte persecuzione, quando si è spinti e quasi costretti a negare. Non negare significa confessare, in quanto tacere in questo caso è come negare. Guido da Montefeltro, il quale di fronte a Bonifacio VIII ritiene peggior partito il tacere e non nega quanto gli viene chiesto, si inganna perché al “gran prete” confessa non il nome di Cristo e la regola evangelica, bensì la frode (Inf. XXVII, 106-111). Neppure Francesco potrà impedire che il diavolo “löico” ne porti l’anima dopo la  morte a Minosse (vv. 112-129).
“Vidi e conobbi l’ombra di colui /
che fece per viltade il gran rifiuto” (Inf. III, 59-60). Il nome di quell’ombra viene illuminato altrove, nel discorso beffardo che Bonifacio VIII, vero carnefice dei nuovi martiri della Chiesa, fa a Guido da Montefeltro: “però son due le chiavi / che ’l mio antecessor non ebbe care” (Inf. XXVII, 104-105). Guido, nel suo martirio psicologico, viene ‘spinto’ da “argomenti gravi” a dare a Bonifacio VIII il consiglio fraudolento su come prendere Palestrina: “Allor mi pinser li argomenti gravi / la ’ve ’l tacer mi fu avviso ’l peggio” (vv. 106-107). Ha dinanzi l’immagine dell’autorità pontificia, nel Notabile X del prologo della Lectura assimilata ad Anna e a Caifa, che lo assolve ancor prima di peccare. Nel suo cuore si insinua il dubbio su quale sia la vera via di salvezza: resistere in nome di “quel capestro / che solea fare i suoi cinti più macri” oppure cedere all’autorità papale? Come Francesca e Paolo nell’interpretare i “dubbiosi disiri” d’Amore, che essi intesero solo in senso carnale indotti da una falsa Scrittura, così anche il vecchio uomo d’arme viene meno nel momento della prova, quando avrebbe dovuto mantenere ferma la professione della regola evangelica, accettata col farsi “cordigliero”.
Il papa, domandando consiglio al francescano, lo inganna agendo in nome della potestà conferitagli da quelle chiavi che forse aveva consigliato lui stesso a Celestino V di non avere care. Di fronte agli argomenti distorti del pontefice e alla falsa immagine della sua autorità – elementi che contrassegnano il martirio psicologico del sesto stato, e lo differenziano da quello subìto dagli antichi cristiani nel secondo periodo della Chiesa -, il francescano Guido, dando il consiglio fraudolento, cede e apre al Caetani la porta di Palestrina, come il papa angelico, cedendo con il gran rifiuto e quasi apostatando da un alto stato, gli ha aperto la porta del pontificato. In entrambi i casi, i due potenziali eletti non hanno saputo vincere le tentazioni e salvare il seme della fede nella regola evangelica, aprendo la strada a colui che non temette “tòrre a ’nganno / la bella donna, e poi di farne strazio” (Inf. XIX, 55-57).
L’inganno perpetrato ai danni di Guido da Montefeltro si riverbera su quello messo in atto contro Celestino; entrambi, l’uomo d’arme fattosi cordigliero e il papa angelico sono posti all’inferno per aver ceduto al dubbio, nella subdola tentazione del moderno martirio, non resistendo nell’angustia l’uno, consigliando l’altro la frode.

4. Il papa carnefice

Lo principe d’i novi Farisei. La seconda delle sette guerre sostenute dalla Chiesa (descritte nella quarta visione) viene condotta dall’arcangelo Michele – del quale si sottolinea l’ufficio supremo -, duca delle schiere dei martiri assimilati agli angeli buoni che combattono contro quelli malvagi condotti dal drago (Ap 12, 7-12). Al drago, sconfitto dalle schiere dell’arcangelo Michele, viene tolto il dominio e il potere: “E fu gettato in terra quel grande drago, il serpente antico, che è chiamato diavolo e satana e che seduce tutta la terra” (Ap 12, 9).
Il tema del diavolo – «“proiectus est in terram” et cetera, id est in infimam deiectionem”» – è messo in bocca a Bonifacio VIII, “il gran prete” che domandò consiglio al francescano Guido da Montefeltro affinché gli insegnasse “sì come Penestrino in terra getti”, quasi fosse il diavolo vinto dall’esercito di Michele (Inf. XXVII, 101-102). Proprio al papa – “Lo principe d’i novi Farisei” – è ironicamente appropriato l’ufficio di Michele “princeps angelorum” nella seconda guerra (Michele può essere l’arcangelo o anche un angelo degli ordini supremi che ne fa le veci). Mentre Michele combatte il diavolo e i pagani, Bonifacio fa la guerra ai cristiani senza guardare in sé “né sommo officio né ordini sacri” (vv. 85-91). Il diavolo, gettato a terra, scenderà ancora con grande ira a vendicarsi: poiché non lo può fare su Cristo e i santi che l’hanno vinto, intende vendicarsi almeno su quanti amano le cose terrene (Ap 12, 12). Così Minosse, il quale nel giudicare l’anima di Guido da Montefeltro si morde la coda “per gran rabbia”, non potendo punire il Vicario di Cristo che ha istigato al “consiglio frodolente” (vv. 124-126).
La figura di papa Caetani, “il gran prete … che mi rimise ne le prime colpe … mi chiese questi per maestro / a guerir de la sua superba febbre” (vv. 70-71, 96-97), impersona il tema del monte grande per superbia (Ap 8, 8; seconda tromba: cfr. supra); in quanto istigatore della colpa antica è, oltre che “lo principe d’i novi Farisei”, anche nuovo Giuliano, l’imperatore apostata che volle riportare il mondo al culto pagano, il persecutore dei cristiani assimilato all’undicesimo corno della quarta bestia vista dal profeta Daniele (Dn 7, 7-8):

[LSA, cap. II, Ap 2, 10] Per undecimum vero cornu eiusdem bestie significatur Iulianus imperator et apostata, qui orbem iam sub Constantino eius patruo conversum ad Christum nisus est ad priorem idolatriam gentilium revocare, propter quod et movit generalem persecutionem in christianos.

Il papa possiede anche le qualità dell’orso, divoratore delle carni dei martiri, altra bestia della visione di Daniele assimilata al cavallo rosso che si mostra all’apertura del secondo sigillo, figura dei “pontifices idolorum et eorum opifices et paganorum principes” (Ap 6, 3); il simoniaco Niccolò III, che ha scambiato Dante per Bonifacio VIII venuto a prendere il suo posto nella fessura della pietra, “veramente fu figliuol de l’orsa” (Inf. XIX, 70). Fra gli opifices di questi pontefici neopagani che fanno ricadere nel peccato antico c’è Guido da Montefeltro, che ritornò alle sue “opere … di volpe”.

Avendo guerra presso a Laterano. All’apertura del secondo sigillo (Ap 6, 4) Giovanni vede un cavallo rosso, cioè l’esercito dei pagani rosso per il sangue sparso dai martiri. A chi vi sta seduto sopra, l’imperatore romano o il diavolo, è concesso di togliere la pace dalla terra, perseguitando non solo gente estranea e lontana ma anche i propri parenti e vicini. I temi di questa esegesi, che sottolinea l’uccisione dei consanguinei, vengono parodiati in più luoghi del poema, a cominciare dalle parole di Francesca sulla sua terra natia, nella zona dedicata al secondo stato nel primo ciclo dell’Inferno. Si ritrovano, nel secondo ciclo, appropriati a Obizzo II d’Este il quale, ucciso dal figliastro, sta immerso nel Flegetonte sanguigno fra i violenti contro il prossimo (Inf. XII, 110-112; di conseguenza, “Alessandro” sarà Alessandro Magno, del quale Dante poteva leggere in Orosio III, xvi, 3: “omnes cognatos ac proximos suos interfecit”). Nello stesso canto, risuonano anche nell’accenno ad Arianna, la sorella del Minotauro che ammaestrò Teseo su come portargli la morte (vv. 19-20).
È interessante notare, nel quarto ciclo, la variante vicino che il codice Riccardiano 1005 (Rb nell’edizione del Petrocchi) recava a Inf. XXVII, 88, riferito a Bonifacio VIII, “lo principe d’i novi Farisei”, il quale nella lotta contro i Colonna muove guerra non contro Saraceni o Giudei, “ché ciascun suo nimico era cristiano”: variante che il Petrocchi ritiene originata dall’espressione “presso a Laterano”, ma che, essendo il contesto pregno di temi del secondo stato, potrebbe fare riferimento alla persecuzione operata non verso estranei, ma nei confronti di parenti e di vicini, come per il papa sono i propri correligionari. La variante è stata poi corretta a margine in “nimico”.
Il nome “Laterano“, il luogo “
u’ siede il successor del maggior Piero” (Inf. II, 24), risuonerà nell’Empireo, immagine in terra dei “latera” della Gerusalemme celeste, una città dai quattro lati di uguale misura che vive in somma concordia e altissima povertà (Par. XXXI, 35-36; Ap 21, 17).
Nel quinto e ultimo ciclo della prima cantica, il conte Ugolino è “vicino” all’arcivescovo Ruggieri, del quale si era fidato (Inf. XXXIII, 15; cfr. Ap 2, 8). Al termine del canto, frate Alberigo racconta del genovese Branca Doria, che lasciò un diavolo in sua vece nel proprio corpo, ancora vivo su in terra, insieme ad “un suo prossimano”, cioè ad un suo parente che l’aiutò nel tradimento verso il suocero Michele Zanche (vv. 142-147).

Lo ciel poss’ io serrare e diserrare. Quanto Bonifacio VIII dice a Guido da Montefeltro, cinto del capestro francescano, per indurlo a dare “’l consiglio frodolente” su come prendere Palestrina ai Colonna – «E’ poi ridisse: “Tuo cuor non sospetti; / finor t’assolvo, e tu m’insegna fare / sì come Penestrino in terra getti. / Lo ciel poss’ io serrare e diserrare, / come tu sai; però son due le chiavi / che ’l mio antecessor non ebbe care”» (Inf. XXVII, 100-105) – rinvia sinistramente a due precisi passi della Lectura. Papa Caetani, nelle sue parole ebbre, ripete l’invito dato da Cristo alla seconda chiesa, quella dei martiri, a non diffidare poiché egli è Colui che tutto precede e conclude (Ap 2, 8; cfr. supra). La potestà delle chiavi, in virtù della quale il papa può sciogliere e legare – “Lo ciel poss’ io serrare e diserrare” –, è perfezione di Cristo sommo pastore di cui ad Ap 1, 18, passo simmetrico ad Ap 2, 8 per la comune espressione con la quale Cristo dice di essere “primus et novissimus”. Il presentarsi di Cristo alla chiesa di Smirne come “Colui che antecede” viene appropriato in tono beffardo a Celestino V, “’l mio antecessor”, che rinunciando “non ebbe care”, cioè non si curò delle chiavi che aprono e chiudono la salvezza. Figura perversa di Cristo in quanto sommo pastore: tale l’immagine di Bonifacio VIII che avrebbe dovuto imprimersi nella mente degli Spirituali francescani, riformatori della Chiesa.

5. Il diavolo “loico”

Li accorgimenti e le coperte vie / io seppi tutte. I subdoli inganni insinuati nei fedeli, nuovi martiri che soffrono nel dubbio sulle verità di fede, non scusano la caduta nella colpa, che è sempre volontaria. Il grande Anticristo sarà, come Lucifero, apostata volontario da un alto stato, dotato di sottile astuzia nell’escogitare frodi. In tal modo Olivi esclude, ad Ap 13, 11, l’opinione di quanti, come Adso Dervensis o Ildegarda di Bingen, lo avevano ritenuto corrotto dal diavolo “ab utero matris”, quasi scusando per acrasia e necessità la sua colpa [1].
La tematica si ritrova, variata, nell’elogio di san Domenico pronunciato da san Bonaventura, il quale parla della “viva vertute” infusa da Dio nella mente del santo atleta al momento della creazione (Par. XII, 58-60). In questi versi, riferiti all’essere perciò la madre di Domenico resa profeta del futuro del figlio, sono presenti anche i motivi, da Ap 13, 11, offerti dalla questione se l’Anticristo verrà o meno guidato dal diavolo fin dal ventre materno, e ciò per decisione della prescienza divina, non unico caso nel poema di metamorfosi in bonam partem di temi negativi nell’esegesi teologica, scelti e variati con differenti appropriazioni.
Gli stessi temi, in senso negativo, sono appropriati all’astuto Guido da Montefeltro (Inf. XXVII, 73-78).

[1] Cfr. ADSO DERVENSIS, De ortu et tempore Antichristi … edidit D. Verhelst, Turnholti 1976 (Corpus Christianorum. Continuatio Mediaevalis, XLV), p. 23, ll. 34-38; HILDEGARDIS Scivias, pars III, visio XI, 25 («De Antichristo et matre eius»), ed. A. Führkötter – A. Carlevaris, Turnholti 1978 (CCCM, XLIIIa), p. 590 (= PL 197, col. 717); MANSELLI, La “Lectura super Apocalipsim” di Pietro di Giovanni Olivi. Ricerche sull’escatologismo medioevale, Roma 1955 (Istituto Storico Italiano per il Medio Evo. Studi storici, 19-21), pp. 71-72.

Ciò che pria mi piacëa, allor m’increbbe, / e pentuto e confesso mi rendei
. Il tardivo pentimento di Guido, prima che “il gran prete” lo facesse cadere nel peccato antico, non gli giovò. Esso viene reso con la tematica del quinto stato, alla quale appartengono i motivi del raccogliere, del declinare e della vecchiaia rilassata (prologo, Notabile III; a ciascun periodo della Chiesa è assegnato un’età dell’individuo): il Montefeltrano, vistosi giunto alla vecchiaia, “in quella parte / di mia etade ove ciascun dovrebbe / calar le vele e raccoglier le sarte” (tema del raccogliere e della “vita condescensiva”), si rese “e pentuto e confesso” delle sue precedenti opere volpine (tema della penitenza, sacramento appropriato al quinto stato: prologo, Notabile XIII), e giovato gli sarebbe se – “ahi miser lasso!” – non si fosse rimesso nelle prime colpe dando a Bonifacio VIII il “consiglio frodolente” su come prendere Palestrina (Inf. XXVII, 79-84). Cingersi per penitenza è proprio di Gad, una delle dodici tribù d’Israele dalle quali vengono eletti i “segnati” all’apertura del sesto sigillo. Nonostante “quel capestro / che solea fare i suoi cinti più macri, sarà Minosse a cingersi “otto volte la coda al dosso duro” (Ap 7, 5).

Lunga promessa con l’attender corto. Il consiglio che Guido da Montefeltro avrebbe dato a Bonifacio VIII per prendere Palestrina nel 1299 – “lunga promessa con l’attender corto / ti farà trïunfar ne l’alto seggio” (Inf. XXVII, 110-111) -, nel senso: ‘patteggia col nemico, prometti molto e mantieni poco’, è sarcastica parodia del passo sulla “commutatio pontificatus” del Notabile VII del prologo della Lectura, dove si dice che, nell’Antico Testamento, Dio non serbò il patto di mantenere per sempre una stessa stirpe nel sommo sacerdozio, e di un altro luogo (ad Ap 5, 1) dove si aggiunge che, nel Nuovo Testamento, Cristo non mantenne tutte le promesse fatte dai profeti. Il trionfo del papa “ne l’alto seggio” è parodia di quello di Michele e delle sue schiere sul diavolo gettato a terra, per cui i cieli si allietano (Ap 12, 12).

Francesco venne poi, com’ io fu’ morto, / per me. Nei versi di Inf. XXVII che narrano la contesa per l’anima di Guido da Montefeltro fra Francesco e il diavolo “loico”, le parole di costui a Francesco – «li disse: “Non portar; non mi far torto”» (vv. 113-114) – contengono motivi dall’esegesi della seconda tromba (Ap 8, 9; temi largamente parodiati in Inf. V), nel riferimento a quei fedeli dottori che con le parole, con l’esempio, con i suffragi e con pia dedizione portavano e conducevano gli altri come navi per il mare dei Gentili, la terza parte dei quali, incapaci di sostenere le tentazioni, perì nel mare.
Già però si mostra la tematica dello stato che segue, il terzo, che troverà compiuta esplicazione nel canto seguente, fra i seminatori di scandalo e di scisma puniti nella nona bolgia col taglio della spada.
All’apertura del terzo sigillo, mostratagli dal terzo animale, quello che ha il volto di uomo, Giovanni vede un cavallo nero, che designa l’esercito degli eretici, oscuro per fallace astuzia e fatto nero per gli errori contrari alla luce di Cristo (Ap 6, 5). Colui che siede sopra di esso – designante gli imperatori o i vescovi ariani – ha in mano una bilancia. La stadera misura la quantità dei pesi, e qui sta ad indicare la misurazione degli articoli di fede. Quando la misurazione avviene secondo la retta e infallibile regola di Cristo, allora il peso è giusto, come si dice nei Proverbi: “Il peso e la bilancia sono i giudizi del Signore” (Pro 16, 11) e nell’Ecclesiastico: “Le parole dei prudenti sono pesate sulla bilancia” (Ecli 21, 28). Quando invece la misurazione si fonda sull’errore e sul falso e torto accoglimento della Scrittura, allora la stadera è dolosa, e a questa si riferiscono i Proverbi: “La bilancia falsa è in abominio al Signore” (Pro 11, 1), i Salmi: “Sono una menzogna tutti gli uomini sulla bilancia” (Ps 61, 10) e Michea: “Potrò giustificare le false bilance e il sacchetto dei pesi falsi?” (Mic 6, 11).
All’apertura del terzo sigillo (Ap 6, 5) appartengono, a Inf. XXVII, 113-114, sia “un d’i neri cherubini” (allusione al cavallo nero) come il “non mi far torto” (l’“intorta acceptio scripture” designata dalla falsa bilancia). Il diavolo sembra dire a Francesco: ‘non pesare falsamente la tua stessa Regola, che è quella osservata da Cristo, imposta agli apostoli e scritta nel Vangelo’. Torcere è proprio sia della coda di Minosse al quale Guido viene portato, sia dell’acuto corno del “foco furo” che fascia il Montefeltrano (vv. 124-125, 132).

Perché diede ’l consiglio frodolente, / dal quale in qua stato li sono a’ crini. La prima parte dell’esegesi di Ap 1, 14 è relativa ai capelli di Cristo, crini che nella loro senilità designano la “reverenda et preclara sapientie et consilii maturitas”. Un accostamento (non consueto), quello dei crini e del consiglio, che è ben conosciuto dal diavolo preparato in logica che argomenta con successo, di fronte a san Francesco, il suo diritto a prendersi l’anima di Guido da Montefeltro (Inf. XXVII, 115-117). Guido, arrivato alla vecchiaia, si era pentito delle proprie opere volpine e si era cinto del cordone, ma poi, dando a Bonifacio VIII il consiglio fraudolento su come conquistare Palestrina, si era rimesso nelle prime colpe, e da quel momento i suoi crini non sono stati più segno di maturità e di gloria celeste, per cui il diavolo dice: “dal quale in qua stato li sono a’ crini”. Crini e consiglio sono accostati dall’accorto demonio in senso negativo, all’opposto di quanto viene detto di Cristo.

Per la contradizion che nol consente. Ad Ap 17, 1 Olivi afferma che la grande meretrice designa la gente e l’impero dei Romani sia nello stato del paganesimo come in quello cristiano, durante il quale colpevolmente fornicò molto con questo mondo. Questa continuità viene sviluppata ad Ap 17, 6, dove il francescano pone la questione del perché vengano menzionate le colpe commesse da questa donna nel suo primo e antico periodo, al tempo dei pagani: per esse non dovrebbe essere condannata la gente carnale e semicristiana che vive nel sesto tempo della Chiesa. La risposta sta nelle parole di Cristo in Matteo 23, 35: “perché venga su di voi il giusto sangue effuso dal sangue di Abele il giusto”. Come un fiume che dura per molto tempo viene sempre considerato uno, per quanto l’acqua dei suoi primi anni sia diversa dall’acqua di questo anno che corre – al modo con cui diciamo che sono ormai cent’anni che questo fiume ha straripato o si è fatto sangue -, così il continuo succedere del popolo romano viene considerato una gente e un popolo, in modo che si possa dire che questo popolo fu prima pagano e poi cristiano, così da attribuire, quasi per sineddoche, quel che è di una parte all’altra parte o al tutto. Così la colpa della prima parte ridonda nella successiva, in quanto recidiva e fatta ingrata della grazia di Cristo che con misericordia l’ha lavata e santificata. Questa donna, pertanto, che dopo i molti e gravi giudizi fatti nella prima parte del suo popolo non temette di cadere in peccati simili o peggiori, deve essere giudicata per il dispregio di tutti i primi giudizi, anche misericordiosi, dati da Dio sui primi suoi padri, e dunque anche su di essa, su cui sarebbero ricaduti se non avesse demeritato. Imitando i peccati dei padri, li ha abbracciati e proseguiti, e pertanto è rea di tutto, come dice Cristo agli Ebrei del suo tempo: “Guai a voi che edificate i monumenti dei profeti, i vostri padri li hanno uccisi, poiché con la vostra opera date testimonianza che consentite alle opere dei vostri padri” (Luca, 11, 47- 48).
Questo passo contenente l’immagine del fiume “per multa tempora durans”, che giustifica teologicamente il connubio fra tempo pagano e tempo cristiano nel giudizio divino, si presta nel poema a molte variazioni. La storia umana che corre al giudizio come un unico grande fiume, anche se le sue acque non sono le stesse attraverso i secoli, rende partecipe – come in una sineddoche – il paganesimo di tutto il bene e il male che ridondano di secolo in secolo e ricadono infine sul sesto stato della Chiesa, cioè sull’età moderna. Questo passo, insieme ai precedenti versetti del capitolo XVII, assume rilievo in Inf. XXVII.
Il consentire alle opere dei padri, cioè alle precedenti colpe, ha condotto alla dannazione Guido da Montefeltro. I motivi dell’esegesi del fiume da Ap 17, 6 punteggiano tutto l’episodio (senza che il fiume sia mai citato). Già nel primo rivolgersi della fiamma al poeta, che Guido ritiene “caduto … di quella dolce terra / latina ond’ io mia colpa tutta reco” (vv. 25-27), si riconoscono il “cadere in peccata” e l’essere “omnium rea” della donna-fiume antica e nuova. Il Montefeltrano accusa Bonifacio VIII – “se non fosse il gran prete, a cui mal prenda!, / che mi rimise ne le prime colpe” (vv. 70-71) – in quanto istigatore alla colpa recidiva: domandandogli consiglio su come gettare a terra Palestrina, lo ha fatto ricadere nel vecchio peccato di frode per cui si era acquistato fama con le sue opere volpine. La risposta data al pontefice dal vecchio uomo d’arme, che ora porta la corda francescana per fare ammenda del passato, è una testimonianza di consenso alle opere dei padri che caddero in peccato, ossia un edificare, nonostante il divieto di Cristo, un monumento ai profeti: «e dissi: “Padre, da che tu mi lavi / di quel peccato ov’ io mo cader deggio”» (vv. 108-109). Guido chiama Bonifacio “padre”, ed è motivo che concorda col cadere nel peccato antico. Erroneamente crede che da esso il pontefice possa lavarlo, cioè assolverlo: le parole di ammonimento di Beatrice sulla leggerezza nel far voti – “e non crediate ch’ogne acqua vi lavi” (Par. V, 75) – risuonano, a molti versi di distanza dall’episodio infernale, come un suggello. Se Guido ha consentito peccando alle opere dei padri, “la contradizion … nol consente” che ci si possa pentire della colpa e insieme volerla commettere, come argomenta il diavolo “löico” parafrasando Luca 11, 47-48 di fronte a san Francesco, venuto invano a prendere l’anima del frate dopo la morte (Inf. XXVII, 112-120). È da notare che cadere nuovamente nella colpa antica è proprio anche dei simoniaci: “Di sotto al capo mio son li altri tratti / che precedetter me simoneggiando, / per le fessure de la pietra piatti. / Là giù cascherò io altresì quando / verrà colui ch’i’ credea che tu fossi, / allor ch’i’ feci ’l sùbito dimando” (Inf. XIX, 73-78).
Il verbo ‘consentire’ compare, nel senso di aderire al vecchio, oltre che nella citazione di Luca 11, 48 ad Ap 17, 6, anche ad Ap 6, 12 (apertura del sesto sigillo), dove si spiega che l’Ordine francescano necessita di due o tre generazioni di tirocinio per essere disposto a sostenere una condanna simile a quella di Cristo pronunciata dai sommi pontefici giudei e da quanti ad essi consentono (Bonifacio VIII è “lo principe d’i novi Farisei”). La stessa contraddizione è caratteristica del Vecchio Testamento, il cui senso è involuto, oscuro e fluttuante quasi un mare procelloso o una nube densa e tetra che assume ora un colore ora un altro, come spiegato nell’esegesi dei motivi che rendono chiuso il settimo sigillo: alla sua apertura si farà silenzio in cielo, perché la semplicità della fede e della sapienza di Cristo metterà a tacere ogni contraddizione e litigio tra vecchio e nuovo (ad Ap 5, 1).
Non mancano nell’episodio del Montefeltrano altri riferimenti alla meretrice ebbra e svergognata. Alla fiamma di Guido il poeta chiede di rivelarsi augurandole fama tra gli uomini – “se ’l nome tuo nel mondo tegna fronte” (Inf. XXVII, 55-57) – e Guido, credendo di parlare a persona che mai sarebbe tornata al mondo, risponde “sanza tema d’infamia”, non nasconde cioè, come la prostituta apocalittica, il suo nome famoso (vv. 64-66; cfr., a Inf. XIX, 56-57, le parole di Niccolò III al presunto Bonifacio VIII: “per lo qual non temesti tòrre a ’nganno / la bella donna, e poi di farne strazio”). Le parole di Bonifacio VIII, che chiede al francescano consiglio su come distruggere Palestrina, paiono “ebbre” al vecchio uomo d’arme (Inf. XXVII, 98-99: unica occorrenza dell’aggettivo).

Oh me dolente! come mi riscossi / quando mi prese dicendomi: “Forse / tu non pensavi ch’io löico fossi!”. All’esegesi del ladro, esposta ad Ap 3, 3 e 16, 15, fanno riferimento numerosi versi del poema. I motivi – mi prese, furo, vedi, vestito, andando – sono variati in Guido da Montefeltro, l’uomo d’arme che in vecchiaia si fece francescano ma che, col dare a Bonifacio VIII il “consiglio frodolente” su come prendere Palestrina, si dannò (Inf. XXVII, 122, 127-129). Il “diavolo loïco” ne ‘rubò’ l’anima a Francesco, come Amore fece con Francesca (l’espressione “mi prese” è comune ad entrambi; “come vedi” / “dove vedi” rinviano ad Ap 16, 15). Forse non è casuale che il nome della donna – Francesca -, reale nella sua storicità ma significante, sia cantato con versi che danno “e piedi e mano” all’esposizione teologica del martirio proprio dei tempi moderni, che affligge l’animo con il dubbio ingannatore più che il corpo con i tormenti, e che dovrà essere sostenuto dagli eletti degli ultimi tempi, i segnati dell’esercito di Cristo, i quali per Olivi altri non sono che i Francescani. Inf. XXVII è orchestrato variando gli stessi temi fatti risuonare in Inf. V; come Francesca, il francescano Guido ha sostenuto il moderno martirio; come la donna è stata ingannata da una falsa Scrittura, così il vecchio uomo d’arme si è fidato di una falsa immagine papale che gli garantiva l’assoluzione.
“Come mi riscossi” riprende il tema del terremoto che scuote, la “fortis concussio” che ha scosso l’anima di Guido a parlare (vv. 13-15, 58-63). Ma il terremoto, che all’apertura del sesto sigillo induce alla conversione (tale il temporaneo convertirsi delle “parole grame” verso il poeta imitatore di Cristo) segna anche la distruzione di Babylon, la Chiesa carnale, con la condanna della sua malizia. Per questo acquista rilievo la variante del codice Urb. lat. 366 –
com’ mal mi riscossi – che accentua il valore negativo dello sconvolgimento, oltre al fatto che “la caduta di mal, magari presunto fattore di ipermetria, è più probabile di una sua inserzione” (Inglese).

[LSA, prologus, Notabile V] Quia vero, post tanta Dei dona et post tot sanctorum statuum magnalia, dignum et quasi necessarium est tantam malitiam et ingratitudinem condempnari, idcirco in fine quinti status et in initio sexti debet Babilon meretrix condempnari et ille magnus terremotus fieri, qui in apertione sexti signaculi est descriptus.

E poi che per gran rabbia la si morse. Il tema dell’“ira magna” del diavolo, che nella seconda guerra si vede gettato a terra (Ap 12, 12; cfr. la “rabies iracundie” ad Ap 9, 17.19), è appropriato a Minosse, il quale vedendo l’anima del consigliere fraudolento portatagli dal nero cherubino, si morde “per gran rabbia” la coda attorta otto volte al dosso duro (vv. 124-126). Ad Ap 9, 5 (quinta tromba) la puntura delle locuste induce il ‘rimorso’ della coscienza per l’offesa e il danno, unitamente all’ira. Ma il vero motivo del gesto di Minosse sta ad Ap 16, 11 (quinta coppa), poiché si comporta come quelli che per il dolore del cuore si mangiano la propria lingua in quanto non possono ottenere ciò che desiderano cioè, nel caso, poter punire anche Bonifacio VIII, istigatore al peccato di Guido.

***

Tab. I

[LSA, cap. II, Ap 2, 10 (Ia visio, IIa ecclesia)] “Et habebitis tribulationem diebus decem”. […] Secundum vero Ricardum, per decem dies significatur claritas decalogi pro cuius custodia tribulantur electi, quasi dicat: quamdiu in luce mee legis ambulatis, tamdiu pro eius observantia tribulationem habebitis, secundum illud Apostoli: “Omnes qui pie volunt vivere in Christo Ihesu persecutionem patiuntur”, IIa ad Timotheum III° (2 Tm 3, 12). Potest etiam dici quod per decem dies figuravit decem generales persecutiones ecclesie tempore martirum, per hanc secundam ecclesiam designatorum, factas […]

[LSA, cap. VII, Ap 7, 1 (IIa visio, apertio VIi sigilli)] “Ne flarent super terram neque super mare” id est, secundum Ricardum, super malos terrena diligentes et in mari huius seculi fluctuantes; “neque in ullam arborem”, id est in bonos sursum erectos et fructificantes.

[LSA, cap. I, Ap 1, 12-13 (radix Ie visionis)] Pro primo nota quod ecclesie designantur congrue per candelabra aurea (Ap 1, 12), tum quia instar candelabrorum sunt sursum in divina erecte et ad lumen Dei suscipiendum et aliis diffundendum coaptate, tum quia per Dei sapientiam et caritatem sunt auree, tum quia sicut aurum per ignem probatur et malleis extenditur et in candelabri formam producitur et instrumentum ignis et luminis efficitur, sic ecclesie temptationibus probate et persecutionibus extenuate ardent caritate et lucent sapientia et veritate et exemplari opere.
In secunda autem, que est de Christi apparitione, apparet Christus sub duodecim proprietatibus et duodecim perfectiones summo pastori condecentes designantibus.
Prima est presentialis et assidua ecclesiarum visitatio et inhabitatio, propter quod apparuit “in medio septem candelabrorum” (Ap 1, 13), iuxta quod sacerdos legalis debebat semper sollicitam curam habere de septem lucernis et luminibus candelabri sanctuarii. Dicitur autem esse “in medio”, quia omnibus suis exhibet se intime et communissime sicut centrum, in medio spere existens, exhibet se toti spere.

Inf. XVI, 133-136

sì come torna colui che va giuso
talora a solver l’àncora ch’aggrappa
lo scoglio o altro che nel mare è chiuso,
che ’n sù  si stende e da piè si rattrappa.

Inf. XXVII, 1-3

Già era dritta in sù  la fiamma e queta
per non dir più, e già da noi sen gia
con la licenza del dolce poeta

Par. XXIII, 121-126

E come fantolin che ’nver’  la mamma
tende le braccia, poi che ’l latte prese,
per l’animo che ’nfin di fuor s’infiamma;
ciascun di quei candori in sù  si stese
con la sua cima, sì che l’alto affetto

ch’elli avieno a Maria mi fu palese.

 

Purg. XXIX, 43-45, 50, 52-54, 61-63, 76-81, 109-111, 121-122, 130, 145-146

Poco più oltre, sette alberi d’oro
falsava nel parere il lungo tratto

del mezzo ch’era ancor tra noi e loro

sì com’ elli eran candelabri apprese

Di sopra fiammeggiava il bello arnese
più chiaro assai che luna per sereno

di mezza notte nel suo mezzo mese.

La donna mi sgridò: “Perché pur ardi
sì ne l’affetto de le vive luci,

e ciò che vien di retro a lor non guardi?”.  1, 10-12

sì che lì sopra rimanea distinto
di sette liste, tutte in quei colori
onde fa l’arco il Sole e Delia il cinto.
Questi ostendali in dietro eran maggiori
che la mia vista; e, quanto a mio avviso,
diece passi distavan quei di fori.

Esso tendeva in sù  l’una e l’altra ale
tra la mezzana e le tre e tre liste,
sì ch’a nulla, fendendo, facea male.

Tre donne in giro da la destra rota
venian danzando ………………

Da la sinistra quattro facean festa

E questi sette col primaio stuolo
erano abitüati ………………..

Par. XXXI, 127-129

così quella pacifica oriafiamma
nel mezzo s’avvivava, e d’ogne parte

per igual modo allentava la fiamma

[LSA, cap. I, Ap 1, 16 (Ia visio)] Octava (perfectio summo pastori condecens) est potestativa presidentia et continentia non solum ecclesiarum sed etiam suorum rectorum, unde subdit: “et habebat in dextera sua septem stellas” (Ap 1, 16), per quas ut infra dicetur (cfr. Ap 1, 20) designantur septem episcopi ecclesiarum. Episcopus enim debet sic super ecclesiam sibi subiectam lucere et presidere sicut lux lucerne stabat quasi stella super candelabrum sanctuarii (cfr. Ex 25, 37). Sicut etiam inferiora illuminantur et reguntur per stellas, sic ecclesie per sanctos episcopos.

Par. XI, 13-18

Poi che ciascuno fu tornato ne lo
punto del cerchio in che avanti s’era,
fermossi, come a candellier candelo.
E io senti’ dentro a quella lumera
che pria m’avea parlato, sorridendo

incominciar, faccendosi più mera:

[LSA, cap. III, Ap 3, 12 (VIa victoria)] Columpna autem, sic stans, est longa et a fundo usque ad tectum erecta et solida ac sufficienter densa, et rotunda communiter vel quadrata, et firmiter fixa templique sustentativa et decorativa. Sic autem stat in Dei ecclesia vel religione vir evangelicus Christo totus configuratus, sic etiam suo modo stat in celesti curia. […] Et attende quomodo a Deo incipiens et in eius civitatem descendens, reascendit et finit in se ipsum, quia contemplatio incipit in Deo et per Dei civitatem ascendit in Christum eius regem, in quo et per quem consumatissime redit et reintrat in Deum, et sic fit circulus gloriosus.

[Ap 1, 12-13]

candelabra
aurea
sursum
extenditur
instrumentum ignis
ardent … et lucent
in medio septem candelabrorum

[Purg. XXIX]

candelabri (v. 50; hapax)
d’oro (v. 43)
in sù (v. 109)
tendeva (v. 109); ostendali (v. 79)
fiammeggiava … arnese (v. 52)
ardi … luci (vv. 61-62)
sette (vv. 43, 77, 145); mezzo, mezza … mezzo, mezzana (vv. 45, 54, 110)

L’immagine della fiamma di Ulisse “dritta in sù” partecipa, almeno in parte, dei motivi propri del candelabro (Inf. XXVII, 1).
La prima visione si apre con la designazione delle chiese per mezzo dei sette candelabri d’oro (Ap 1, 12-13). Esse infatti, come i candelabri, sono dritte in su verso le cose divine e adattate tutte insieme a ricevere il lume divino e a diffonderlo agli altri. Sono d’oro sia per la sapienza e la carità, sia perché come l’oro, saggiato nel fuoco e disteso dal martello nella forma di candelabro, diviene fiammeggiante strumento di luce, così le chiese provate dalle tentazioni ed estenuate dalle persecuzioni ardono di carità e rilucono di sapienza, verità e opere esemplari. Cristo appare quindi con dodici proprietà o perfezioni che si addicono al sommo rettore o pastore. La prima (Ap 1, 13) è la presenza assidua dell’abitare e del visitare, designata dallo stare in mezzo ai sette candelabri, al modo in cui nella vecchia legge il sacerdote doveva sempre avere sollecita cura delle sette lucerne e delle luci del candelabro del santuario. Cristo sta “in mezzo” perché si mostra in intima comunione con tutti i suoi come il centro di una sfera si mostra a tutta la sfera.
Nella processione che si svolge nell’Eden, i sette candelabri appaiono in un primo momento sette alberi d’oro (Purg. XXIX, 43-51). Il “bello arnese” fiammeggia (v. 52): il singolare rende il “coaptate” delle Chiese, in quanto tutti e sette sono collettivamente adattati a ricevere la luce e a diffonderla, ad essere “instrumentum ignis”. I motivi dell’ardere di carità e del rilucere di sapienza, verità e opere esemplari si ritrovano nel rimprovero che Matelda fa a Dante di ardere “sì ne l’affetto de le vive luci” (l’affetto deriva dalla carità e il lume dalla sapienza) senza guardare i seniori che vengono dietro ad esse (vv. 61-63). Le fiammelle dei candelabri che procedono tracciano nell’aria sette liste colorate, definite “ostendali”, cioè ‘stendardi’, che rendono l’estendersi delle chiese nelle prove e nelle persecuzioni (vv. 79-81). Il distare “diece passi” delle liste estreme, per quanto tutti i commentatori antichi vi abbiano visto solo un’allusione al decalogo, è in realtà riferito anche ai dieci giorni di tribolazioni preannunziato alla chiesa di Smirne, propria del secondo stato dei martiri: come risulta dall’esegesi di Ap 2, 10, Olivi riporta sia l’interpretazione di Riccardo di San Vittore (il decalogo) sia quella per cui i dieci giorni corrispondono alle dieci persecuzioni principali. Il grifone, simbolo di Cristo che avanza tirando il carro dopo i candelabri e i seniori, tende in su (come i candelabri) le ali rimanendo in mezzo alle sette liste (sulla linea mediana di esse, con tre a destra e tre a sinistra) senza toccarne alcuna fendendo in modo da fare male (vv. 109-111). È probabile che l’ultimo verso alluda alla promessa di protezione fatta da Cristo ai martiri, le cui tentazioni non sono causa di danno, ma di prova e di merito (Ap 2, 10). È da notare come i due motivi dello ‘stare in mezzo’ e del numero sette percorrano, diversamente variati, tutto Purg. XXIX: sono sette gli “alberi d’oro” che falsava nell’aspetto “il lungo tratto / del mezzo (cioè dello spazio intermedio) ch’era ancor tra noi e loro” (vv. 43-45); il “bello arnese” fiammeggiava “più chiaro assai che luna per sereno / di mezza notte nel suo mezzo mese” (vv. 52-54); sette sono le liste tracciate nell’aria dai candelabri (vv. 76-77), nel cui mezzo si pone il grifone tendendo in su le ali (vv. 109-111); sette sono le donne che danzano ai lati del carro (le quattro virtù cardinali a sinistra e le tre virtù teologali a destra, vv. 121-132); sette sono i personaggi che concludono la processione (san Luca, san Paolo, i quattro che simboleggiano le Epistole minori e san Giovanni in quanto autore dell’Apocalisse, vv. 133-150).
L’infiammarsi e il distendersi in su con la fiamma al modo dei candelabri, come il bimbo tende le braccia verso la mamma dopo aver preso il latte, è proprio dei lumi incandescenti che nel cielo delle stelle fisse mostrano in tal modo il proprio alto affetto verso Maria (Par. XXIII, 121-126). Maria stessa, nell’Empireo, è “pacifica oriafiamma” (“aurea flamma”, l’‘ostendale’ del re di Francia) che s’avviva “nel mezzo”, cioè in un punto simile a quello dell’orizzonte dove sta per nascere il sole (Par. XXXI, 124-129). La Vergine, come spiega san Bernardo nel canto seguente (Par. XXXII, 85-86), è “la faccia che a Cristo / più si somiglia”, e dunque anche ad essa, come a Cristo mediatore e centro dei tempi, si addice il tema dello stare “nel mezzo”.
Variante del tema dei candelabri, la figura meravigliosa di Gerione nuota in su per l’“aere grosso e scuro” come il marinaio che, immersosi in acqua per sciogliere l’ancora, torna alla superficie distendendosi in su e traendo a sé le gambe (Inf. XVI, 133-136; tornare è tema proprio della sesta vittoria, ad Ap 3, 12, che si registra in collazione con l’esegesi dei candelabri anche a Par. XI, 13-18).

 

AVVERTENZE

Seppure segue l’ordine dei ventidue capitoli dell’Apocalisse, Olivi suggerisce, nel prologo della Lectura, un metodo differente di comprensione e di aggregazione del testo, fondato sui sette stati (status), cioè sulle epoche nelle quali si articola la storia della Chiesa, prefigurate nell’Antico Testamento.
L’Apocalisse si articola in sette visioni: le sette chiese d’Asia, i sette sigilli, le sette trombe, la donna vestita di sole (le sette guerre sostenute dalla Chiesa), le sette coppe, il giudizio di Babylon nelle sette teste del drago, la Gerusalemme celeste. Le prime sei visioni possono essere a loro volta divise in sette momenti, ciascuno dei quali riferibile a uno dei sette stati. Assembrando, per le prime sei visioni, tutti i primi elementi (chiesa, sigillo, tromba, guerra, coppa, momento del giudizio di Babylon), tutti i secondi, i terzi e così di seguito, si ottengono sette gruppi di materia teologica, corrispondenti al complesso dei temi afferenti a ciascuno dei sette stati. A questi sette gruppi si aggiungono altri due: l’esegesi della settima visione (senza articolazioni interne) e l’esegesi di capitoli del testo scritturale, o di parti di essi, introduttivi delle successive specificazioni delle singole visioni per settenari, che Olivi definisce “radicalia” o “fontalia”. Si ottengono in tal modo nove gruppi: le parti proemiali, i sette assembramenti di settenari e la settima visione. Il grande prologo della Lectura, articolato in tredici notabilia, può essere anch’esso aggregato secondo i sette stati. Un libro (la Lectura) contiene dunque princìpi e criteri affinché l’accorto lettore possa trarne un altro libro, fatto con lo stesso materiale ma ricomposto e distribuito in forma diversa.

La Commedia mostra un ordine interno diverso da quello che appare al lettore: il viaggio di Dante ha un andamento di ciclici settenari, che corrispondono ai sette stati della storia della Chiesa, cioè alle categorie con cui Olivi organizza la materia esegetica. Questo ordine interno è registrabile per zone progressive del poema dove prevale, tramite parole-chiave, la semantica riferibile a un singolo stato. È un’intima struttura dirompente i confini letterali stabiliti dai canti e da tutte le divisioni materiali per cerchi, gironi, cieli. Ogni stato, che ha differenti inizi, è concatenato per concurrentia, come le maglie di un’armatura, con quello che precede e con quello che segue. Si possono in tal modo redigere mappe che comprendano l’ordine spirituale della Commedia. La ricerca è pervenuta a una Topografia spirituale della Commedia, dove quasi per ogni verso, o gruppo di versi, collegamenti ipertestuali conducono al “panno” esegetico fornito dalla Lectura super Apocalipsim, sul quale il “buon sartore” ha fatto “la gonna” (cfr. Par. XXXII, 139-141).

■ A ogni gruppo è arbitrariamente assegnato un diverso colore: Radici (verde), I stato (verde acqua), II stato (rosso), III stato (nero), IV stato (viola), V stato (marrone), VI stato (blu), VII stato (indaco), VII visione (fucsia). Dei gruppi sono stati integralmente studiati il terzo stato e la settima visione. Mentre la diversità dei colori è rispettata nella tabella complessiva contenente i collegamenti ipertestuali, nelle sinossi i colori possono essere variati per maggiore evidenza.

Non di rado nei versi alcune parole o incisi-chiave possono rinviare a più luoghi esegetici. Questo perché il testo dottrinale contenuto nella Lectura, prima di travasarsi semanticamente nella Commedia, è stato sottoposto a una duplice riorganizzazione. La prima, sulla base delle indicazioni dello stesso Olivi, secondo il materiale esegetico attribuibile ai singoli stati. La seconda, seguendo il principio applicato nelle distinctiones ad uso dei predicatori, sulla base di lemmi analogicamente collazionati. La “mutua collatio” di parti della Lectura arricchisce il significato legato alle parole e consente uno sviluppo tematico amplificato. Si vedano, ad esempio, le variazioni eseguite sul tema della “voce” o sull’espressione “in medio”, temi più volte iterati nel sacro testo, oppure il modo con cui Ap 1, 16-17 (l’esegesi della decima e undecima prefezione di Cristo come sommo pastore) percorre i versi in collazione con altri passi. A ciò predispone lo stesso testo scritturale, poiché l’Apocalisse contiene espressioni, come Leitmotive, che ritornano più volte. È determinata da parole-chiave che collegano i passi da collazionare. È suggerita dallo stesso Olivi, nel prologo, per una migliore intelligenza del testo.

Tutte le citazioni della Lectura super Apocalipsim presenti nei saggi o negli articoli pubblicati su questo sito sono tratte dalla trascrizione, corredata di note e indici, del ms. Paris, Bibliothèque nationale de France, lat. 713, a disposizione fin dal 2009 sul sito medesimo. I passi scritturali ai quali si riferisce l’esegesi sono in tondo compresi tra “ ”; per le fonti diverse da quelle indicate si rinvia all’edizione in rete. Non viene presa in considerazione l’edizione critica a cura di WARREN LEWIS (Franciscan Institute Publications, St. Bonaventure – New York, 2015) per le problematiche da essa poste, che sono discusse in ALBERTO FORNI – PAOLO VIAN, A proposito dell’edizione di Warren Lewis della Lectura super Apocalipsim di Pietro di Giovanni Olivi. Alcune osservazioni, in “Archivum Franciscanum Historicum”, 109 (2016), pp. 99-161.
Il testo della Commedia citato è in Dante Alighieri, La Commedia secondo l’antica vulgata, a cura di GIORGIO PETROCCHI, Firenze 1994. Si tiene anche conto della recente edizione a cura di GIORGIO INGLESE, Firenze 2021 (Società Dantesca Italiana. Edizione Nazionale), qualora il testo proposto si discosti da quello del Petrocchi e la scelta della variante risulti discutibile nel confronto con la LSA.
Si fa riferimento ai seguenti commenti:

Dante Alighieri, La Divina Commedia. Inferno. Commento di ANNA MARIA CHIAVACCI LEONARDI, Milano 2007 (19911).

Dante Alighieri, Commedia. Inferno. revisione del testo e commento di GIORGIO INGLESE, Roma 2007.


ABBREVIAZIONI

Ap : APOCALYPSIS IOHANNIS.

LSA : PIETRO DI GIOVANNI OLIVI, Lectura super Apocalipsim.

Concordia : JOACHIM VON FIORE, Concordia Novi ac Veteris Testamenti. Herausgegeben von A. PATSCHOVSKY, Wiesbaden 2017 (Monumenta Germaniae Historica. Quellen zur Geistesgeschichte des  Mittelalters, 28. Band), Teil 2 (lib. I-IV), Teil 3 (lib. V).

Expositio : GIOACCHINO DA FIORE, Expositio in Apocalypsim, in Edibus Francisci Bindoni ac Maphei Pasini, Venetiis 1527, ristampa anastatica Minerva, Frankfurt a. M. 1964.

Olivi opera spesso una sintesi del testo di Gioacchino da Fiore. Le « » precedono e chiudono un’effettiva citazione. Diversamente, viene posto un asterisco (*) o una nota in apice al termine della parte riferibile a Gioacchino.

In Ap : RICCARDO DI SAN VITTORE, In Apocalypsim libri septem, PL 196, coll. 683-888.

 

Note sulla “topografia spirituale” della Commedia

Per quanto segua l’ordine dei ventidue capitoli dell’Apocalisse, Olivi suggerisce un metodo differente di comprensione e di aggregazione del testo esegetico, fondato sui sette stati, cioè sui periodi nei quali si articola la storia della Chiesa. L’Antico Testamento corrisponde alle prime cinque età del mondo, secondo la divisione tradizionale [1]: è l’età del Padre secondo Gioacchino da Fiore. Con il primo avvento di Cristo, nella carne, inizia la sesta età (l’età del Figlio), nella quale la Chiesa, come fosse un individuo, cresce e si sviluppa in sette stati. Al primo, apostolico periodo, succede il secondo dei martiri; poi, al tempo di Giustiniano, il terzo stato dei dottori che confutano con l’intelletto le eresie concorre con il quarto stato degli affettuosi anacoreti devoti al pasto eucaristico, alti per la contemplazione ma anche attivi come reggitori delle genti; a partire da Carlo Magno subentra il quinto stato aperto alla vita associata delle moltitudini, bello nel principio ma poi corrottosi fino a trasformare quasi tutta la Chiesa in una nuova Babilonia; la riforma interviene, a partire da Francesco, con il cristiforme sesto stato, fino alla sconfitta dell’Anticristo; subentra infine il silenzio e la quiete del pacifico settimo stato. Il sesto e il settimo stato (la terza età di Gioacchino da Fiore) coincidono con il secondo avvento di Cristo, nello Spirito, cioè nei suoi discepoli spirituali inviati a convertire il mondo con la predicazione; al termine del settimo stato ci sarà il terzo avvento, nel giudizio.
L’Apocalisse si articola in sette visioni: le sette chiese d’Asia, i sette sigilli, le sette trombe, la donna vestita di sole (le sette guerre sostenute dalla Chiesa), le sette coppe, il giudizio di Babylon nelle sette teste del drago, la Gerusalemme celeste. Le prime sei visioni possono essere a loro volta divise in sette momenti, ciascuno dei quali riferibile a uno dei sette stati. Assembrando, per le prime sei visioni, tutti i primi elementi (chiesa, sigillo, tromba, guerra, coppa, momento del giudizio di Babylon), tutti i secondi, i terzi e così di seguito, si ottengono sette gruppi di materia teologica, corrispondenti al complesso dei temi afferenti a ciascuno dei sette stati [2]. A questi sette gruppi se ne aggiungono altri due: l’esegesi della settima visione (senza articolazioni interne) e l’esegesi di capitoli del testo scritturale, o di parti di essi, introduttivi delle successive specificazioni delle singole visioni per settenari, che Olivi definisce “radicalia” o “fontalia”. Si ottengono in tal modo nove gruppi: le parti proemiali, i sette assembramenti di settenari e la settima visione. Il grande prologo della Lectura, articolato in tredici notabilia, può essere anch’esso aggregato nelle sue parti secondo i sette stati.

L’intenso travaso di parole-temi dalla Lectura nella Commedia si accompagna a un fatto strutturale. La Commedia mostra un ordine interno diverso da quello che appare al lettore: il viaggio di Dante ha un andamento di ciclici settenari, che corrispondono ai sette stati oliviani. È un ordine registrabile per zone progressive del poema dove prevalgono i temi di un singolo stato, che rompe i confini letterali stabiliti dai canti e da tutte le divisioni materiali per cerchi, gironi, cieli. Ogni stato, che ha differenti inizi, è concatenato per “concurrentia”, come le maglie di un’armatura, con quello che precede e con quello che segue. Ciascuno stato ha in sé una grande ricchezza di motivi e contiene inoltre temi di tutti gli altri, consentendo innumerevoli intrecci e variazioni. La Commedia appare, come l’Apocalisse, “libro scritto dentro e fuori” (Ap 5, 1), con duplice struttura, linguaggio e senso, letterale e spirituale. Il viaggio di Dante e la visione di Giovanni hanno la stessa causa finale, che è la beatitudine, alla quale si perviene con diverse guide, per gradi segnati da visioni sempre più nuove e ardue delle precedenti, attraverso una sempre maggiore apertura dell’arcano coperto dal velame dei sette sigilli fino al punto più alto in cui, in questa vita, è possibile vedere la verità.
Tutti i modi del linguaggio interiore al poema esprimono un processo, un viaggio dal più chiuso al più aperto, e in questo andare hanno una loro precisa collocazione ‘topografica’, uno ‘stato’ (nel senso di momento storico che ricade sulla coscienza individuale) al quale appartenere. Si possono in tal modo stendere vere e proprie mappe tematiche che comprendano l’ordine spirituale di tutta la Commedia che aderisce, parodiandola semanticamente, a una precisa teologia della storia, sia pure modificandone profondamente le prospettive. La ciclicità dei temi permette di stabilire collegamenti inusitati tra le diverse zone; il procedere per gradi dell’illuminazione divina fa sì che episodi oscuri e quasi ermeticamente chiusi si chiariscano poi, aprendosi all’intelligenza in modo più alto.
A ogni gruppo è arbitrariamente assegnato un diverso colore: Radici (verde), I stato (verde acqua), II stato (rosso), III stato (nero), IV stato (viola), V stato (marrone), VI stato (blu), VII stato (indaco), VII visione (fucsia). Dei gruppi sono stati integralmente studiati il terzo stato e la settima visione.

INFERNO

(le prime cinque età del mondo)

La ‘topografia spirituale’ del poema mostra nell’Inferno cinque cicli settenari corrispondenti agli stati della Chiesa descritti da Olivi e ai loro temi contenuti nella Lectura. Questi cinque cicli designano le prime cinque età del mondo (riunite a loro volta nel primo stato generale, che corrisponde all’età del Padre di Gioacchino da Fiore), in quanto prefigurazione del primo avvento di Cristo e della Chiesa.
I cinque cicli settenari che si susseguono nell’Inferno a partire dal quarto canto (i primi tre canti hanno una tematica particolare) sono preceduti da cinque zone che possono essere definite ‘snodi’, dove cioè confluiscono temi provenienti da più stati, intrecciati insieme ad altri ad avviare il procedere settenario. Il centro di questi ‘snodi’ coincide con un canto (Inf. IV, X, XVII, XXVI, XXXII), ma la zona è più vasta e supera l’ambito dato dalla divisione letterale del poema.

Inf. I-III sono da considerare al di fuori dei cicli. Inf. I e II sono profondamente segnati dai temi del sesto stato. Inf. III è riferibile al settimo stato (per gli ignavi) e in parte al quinto (per l’episodio di Caronte).

canti

I ciclo

stati

cerchi

IV

Limbo

Radici, I (I snodo)

I

V

lussuriosi

II

II

VI

golosi

III

III

VII

avari e prodighi

palude Stigia
(iracondi e accidiosi)

IIIIV

 

V

IV


V

VIII

palude Stigia (orgogliosi)
città di Dite

V

V

IX

apertura della porta di Dite

VVI

 

canti

II ciclo

stati

cerchi

IX-X-XI

eretici, ordinamento dell’inferno

I (II snodo)

VI

XII

violenti contro il prossimo

II

VII (girone 1)

XIII

violenti contro sé

III

        (girone 2)

XIV

violenti contro Dio: bestemmiatori

IV

        (girone 3)

XV-XVI

violenti contro Dio: sodomiti

V

XVI

XVII

ascesa di Gerione

Gerione,  violenti contro Dio: usurai

VI

canti

III ciclo

stati

cerchi

XVII

volo verso Malebolge

I (III snodo)

 

XVIII

ruffiani, lusingatori

Radici II

VIII (bolgia 1, 2)

XIX

simoniaci

III

(bolgia 3)

XX

indovini

IV

(bolgia 4)

XXI-XXII

barattieri

V

(bolgia 5)

XXIII

ipocriti

VVI

(bolgia 6)

XXIV-XXV

ladri

VI

(bolgia 7)

canti

IV ciclo

stati

cerchi

XXVI

consiglieri di frode (greci)

I (IV snodo)

(bolgia 8)

XXVII

consiglieri di frode (latini)

II

XXVIII-XXIX

seminatori di scandalo e di scisma

III

(bolgia 9)

XXIX

falsatori

IV

  (bolgia 10)

XXX

falsatori

IVV

XXXI

giganti

VVI

 

canti

V ciclo

stati

cerchi

XXXII

Cocito: Caina, Antenora

I (V snodo)

IX

XXXIII

Antenora, Tolomea

II

XXXIV

Giudecca

IIIIVV

XXXIV

volgersi di Virgilio sull’anca di Lucifero

VI

 

 

Il sesto stato è per Olivi la fase più importante nella costruzione dell’edificio della Chiesa. In esso “renovabitur Christi lex et vita et crux”. Corrisponde ai tempi moderni. Ha quattro diversi inizi temporali: uno profetico, con Gioacchino da Fiore, il quale lo vide in spirito concependo la sua terza età; il secondo con la conversione di Francesco (1206), che seminò la pianta; il terzo con la predicazione degli uomini spirituali, per la quale la pianta si rinnovella; il quarto con la distruzione storica di Babylon. Dura fino alla sconfitta dell’Anticristo, il cui avvento si collocherebbe, secondo i numeri della profezia di Daniele 12, 11-12 combinati con Ap 12, 6 e 14, fra il 1290 e il giubileo di pace del 1335.
Una ‘vita nuova’ si instaura nel sesto stato, per eccellenza il momento dell’imitazione di Cristo. I rami dell’albero si dilatano producendo il frutto della carità, l’acqua che proviene da Cristo-fonte attraverso il condotto che percorre i primi cinque stati della Chiesa si effonde in un lago; è il tempo, assimilato al sacramento del matrimonio, della letizia nuziale, della familiarità, dell’amicizia. Corrisponde al sesto giorno della creazione, in cui vennero creati prima i rettili e le bestie irrazionali, poi l’uomo razionale che, come l’ordine evangelico, è fatto a immagine e somiglianza di Dio e domina tutti gli animali.
Le espressioni di Olivi relative al sesto stato – “quoddam sollempne initium novi seculirenovaretur et consumaretur seculum”, nel quale il sacerdozio apostolico “redeat et assurgat ad ordinem primum”, la “nova Ierusalem”, interpretata come “visione di pace”, viene vista “descendere de celo” e la Chiesa descritta come la donna vestita di sole con la sua “virginea proles” – sono la veste spirituale dei versi della quarta egloga virgiliana che celebrano la rinnovata età dell’oro: “Magnus ab integro saeclorum nascitur ordo / iam redit et Virgo; redeunt Saturnia regna; / Iam nova progenies caelo demittitur alto” (Egloga IV, 5-7). Olivi completa la Lectura super Apocalipsim nel 1298, poco prima di morire, il 14 marzo, a Narbonne. Quel felicissimo stato segnato dalla pace sotto il divo Augusto, che rese l’umanità disposta al primo avvento di Cristo, si sta rinnovando nel sesto stato della Chiesa, nel secondo avvento nello Spirito. Scrive Arsenio Frugoni: “[…] quell’escatologismo, oltre che ideologia di lotta e di riforma del gruppo spirituale, era anche un vero e proprio sentimento storico […] una tensione di rinnovamento, una ansia di salvezza, che nel 1300, l’anno centenario della Natività, aveva trovato come una attivazione, in un senso di pienezza dei tempi, cui doveva corrispondere un fatto, un accadere meraviglioso e nuovo” [3].
All’apertura del sesto sigillo, l’eletta schiera dei riformatori – i 144.000 segnati dalle dodici tribù d’Israele – guida la turba innumerevole di ogni gente, tribù, popolo e lingua (Ap 7, 3-4.13). Questi eletti e magnanimi duci, separati dalla volgare schiera per più alta milizia, vengono destinati a difendere liberamente la fede – ad essi è data la “plena libertas ad innovandam christianam religionem” -; sono gli amici di Dio a lui noti per nome, configurati in Cristo crocifisso e votati al martirio.
All’interno della Chiesa del sesto stato, l’Ordine dei Minori – “ordo plurium personarum” – è  assimilabile alla persona umana di Cristo. Come questa si sviluppò fino all’età virile, così dovrà essere per l’ordo evangelicus piantato da Francesco, che avrà bisogno (a differenza di Cristo che stette poco tempo nel mondo) di due o tre generazioni per svilupparsi prima di subire una condanna simile a quella di Cristo [4]. La sua maturità coincide, verso il 1300, con il terzo inizio del sesto stato, cioè con il rinnovarsi per opera dello Spirito di Cristo, nel suo secondo avvento, della pianta seminata da Francesco. Questa concezione dell’Ordine francescano come individuo in sviluppo che, perfettamente maturato, diventa il novus ordo preconizzato da Gioacchino da Fiore per l’età dello Spirito, si differenzia da quella di Bonaventura, che aveva invece distinto i Francescani del proprio tempo – e quindi anche gli Spirituali – dall’Ordine finale che dominerà fino ai confini della terra. Alla terza apertura del sesto sigillo nuovi san Giovanni vengono inviati a predicare al mondo come nel tempo degli Apostoli. Ma Giovanni non designa solo un Ordine, perché Olivi lascia aperta la possibilità di rivelazioni individuali, avute da “singulares persone”, perfetti imitatori di Cristo votati, con la loro “lingua erudita”, al compito della conversione universale.

[LSA, cap. X, Ap 10, 11] “Et dixit michi: Oportet te iterum prophetare in gentibus et populis et linguis et regibus multis”. In ipsa sapientia libri expresse continetur quod oportet iterum predicari evangelium in toto orbe, et Iudeis et gentibus, et totum orbem finaliter converti ad Christum. Sed quod per istum hoc esset implendum non poterat sciri nisi per spiritualem revelationem, et hoc dico prout per Iohannem designantur hic singulares persone quia, prout per ipsum designatur in communi ordo evangelicus et contemplativus, scitur ex ipsa intelligentia libri quod per illum ordinem debet hoc impleri.

Nei cinque cicli settenari della prima cantica il sesto stato è segnato dall’apertura della porta della città di Dite (Inf. IX, 89-90); dall’ascesa di Gerione dall’abisso (Inf. XVI, 106-136); dal precipitoso passaggio dalla quinta alla sesta bolgia (Inf. XXIII, 1-57) e poi dalle trasformazioni della settima, dove i ladri fiorentini si mutano in serpenti e viceversa (Inf. XXIV-XXV); dal chinarsi di Anteo sul fondo dell’inferno (Inf. XXXI, 136-145); dal passaggio del centro della terra, con la conversione di Virgilio sull’anca di Lucifero, che è passaggio verso la sesta età, quella della Chiesa, descritta nel Purgatorio.
Ma i temi propri del sesto stato sono diffusi ovunque, intrecciati con quelli degli altri stati, e alla loro esegesi rinviano precise parole-chiave incardinate nel senso letterale dei versi. L’esegesi dell’angelo del sesto sigillo (Ap 7, 2) è già centrale nel primo canto del poema.
La novità che il sesto stato, per eccellenza stato di rinnovamento di questo secolo, arreca nell’inferno è una novità fittizia: l’apertura della porta della città di Dite non è vera novità, perché essa è stata chiusa dall’ostinazione dei diavoli, recidivi dopo l’apertura della porta dell’inferno da parte di Cristo prefigurata dalla venuta di Ercole all’Ade, per cui Cerbero “ne porta ancor pelato il mento e ’l gozzo”; Gerione viene su ad un “novo cenno” di Virgilio, ma è figura della frode dalla velenosa coda aculeata; il nuovo prodotto dalle trasformazioni reciproche di serpenti e uomini è qualcosa di incompiuto perché l’uomo razionale, creato nel sesto stato, regredisce allo stato precedente.
L’Inferno è il luogo della durezza lapidea, dell’impetrarsi, del parlare duro di cose dure a dirsi, del duro giudizio, del senso duro della scritta al sommo della porta, dei duri lamenti, dei duri demoni, dei duri veli del gelo, della gravezza. Nell’Inferno vige l’imposizione data a Daniele dall’angelo sotto il sesto sigillo dell’Antico Testamento: “Ora tu, Daniele, chiudi queste parole e sigilla questo libro fino al tempo stabilito” (Dn 12, 4), che era la sesta età nella quale apparve Cristo e in particolare il sesto stato della sua Chiesa nella quale il libro doveva essere più pienamente aperto, non però ai malevoli e ai maldisposti. Questa durezza è rotta dall’invito di Dante ai dannati perché parlino. Far parlare liberamente, per dettato interiore, è la principale prerogativa del sesto stato – la nuova età che tanto s’aspetta, quella che ode del “dolce stil novo” e delle “nove rime” -, ed è tema che la poesia canta per intero, sia pure per un attimo, anche nella vecchia roccia infernale. Appartiene alla sesta chiesa il parlare liberamente di Cristo – ad essa è dato l’“ostium apertum”, che è “ostium sermonis” – , il sentire per dettato interiore, l’aprirsi della volontà. Appartiene alla sesta chiesa anche il far venire quelli che si dicono Giudei senza esserlo, mutati nel cuore e disposti a farsi battezzare e governare. Questo far venire a parlare equivale al cortese e liberale invito dello Spirito di Cristo a convivare, a venire con desiderio e volontario consenso, con “disio” e con “velle”, in una pausa di pace nell’eterna dannazione. All’“affettüoso grido” del poeta le ombre di Francesca e Paolo vengono “dal voler portate” verso un momento di mutazione, sebbene limitata al successivo colloquio. Tutto l’Inferno è un contrappunto fra la durezza del giudizio e l’apertura per la parola dirompente, fin che essa dura, la pena. Un’apertura che si esprime in varie forme: muoversi sospirando nel Farinata prima immobile, ‘crollarsi’ quasi per terremoto interiore dello ‘schivo’ Ulisse, convertirsi del vento in voce in Guido da Montefeltro, tornare indietro nel cammino assegnato o separarsi dai compagni di pena, essere sforzati a parlare anche malvolentieri, non poterlo negare o mostrare fretta di farlo, arrestarsi obliando il martirio, levarsi per poi ricadere, sollevarsi da atti bestiali per ritornare a essi dopo aver parlato, come nel conte Ugolino. In tante lingue, che parlano come per sé stesse mosse, sta un solo desiderio, il vivere ancora nel libro che è stato altrui aperto.
Se nell’Inferno il sesto stato non si realizza mai compiutamente, anche il settimo, che gli è strettamente connesso, non può trovare un luogo autonomo. Ciò non toglie che temi del settimo stato (e della settima visione) siano ben presenti in modo diffuso. Ad esempio, quelli relativi alla settima chiesa assumono particolare rilievo nella descrizione degli ignavi a Inf. III. Tempo del silenzio, della serena pace, del riposo dalle ansiose fatiche, il settimo stato subentra dopo le terribili tentazioni inferte, con un martirio non corporale ma psicologico, dai carnefici dell’Anticristo nel sesto. Come ogni momento della storia umana partecipa dell’imitazione di Cristo, che raggiunge l’acme nel sesto stato, così in ogni periodo si verifica una sua “quietatio”, una pausa di pace, di quiete, di silenzio propria del settimo. Così Francesca parla e ascolta “mentre che ’l vento, come fa, ci tace”. Il vento – “la bufera infernal, che mai non resta” – designa il fluttuare tempestoso delle passioni nel cuore.

PURGATORIO

(sesta età del mondo)

Dopo le prime cinque età del mondo (corrispondenti all’Antico Testamento, la gioachimita età del Padre), che hanno segnato la discesa a spirale per i cinque cicli settenari dell’Inferno, con il Purgatorio inizia la sesta età, quella di Cristo (l’età del Figlio), che ha sette stati, corrispondenti ai sette stati della Chiesa. Dapprima, nel cosiddetto ‘antipurgatorio’, si registrano in successione temi prevalenti dei primi cinque stati. Il sesto stato della sesta età (con cui si apre l’età dello Spirito) inizia con l’apertura della porta di san Pietro (la porta del purgatorio). Questo sesto stato procede anch’esso con andamento settenario, per cui ha sette momenti, coincidenti principalmente con un girone della montagna, ma non del tutto, perché sempre l’ordine spirituale del poema rompe i confini letterali e le divisioni materiali, concatenando i temi di uno stato prevalente con quelli dello stato che precede e con quelli dello stato che segue e intrecciandoli con temi di tutti gli altri stati.
È spiegato nel Notabile VII del prologo della Lectura che il sesto stato della Chiesa è il secondo stato di Cristo e ha i suoi sette tempi per cui la Chiesa, come fosse una sfera, si ricongiunge circolarmente al primo apostolico tempo. Il settimo dei sette momenti del sesto stato della Chiesa coincide con il settimo stato generale della Chiesa, che nel poema corrisponde in parte all’ultimo girone della montagna (il settimo, dove si purgano i lussuriosi) e in parte all’Eden, con cui si chiude la seconda cantica.
Il Purgatorio dunque, secondo il senso spirituale, è la storia della Chiesa che corre verso il suo sesto stato, punto di riferimento di tutte le vicende umane, antiche e moderne, che ad esso cooperano. Non è casuale che nel sesto girone della montagna sia chiarificata e riconosciuta, nel colloquio con Bonagiunta da Lucca, la poetica delle “nove rime” di Dante, già “sesto tra cotanto senno” cooptato nella “bella scola” dei poeti del Limbo.
La vasta zona dedicata al sesto momento del sesto stato della Chiesa ha il suo inizio nel forte terremoto che scuote la montagna mentre Dante e Virgilio si trovano ancora nel quinto girone (Purg. XX, 124-141). Essa è stata compiutamente esaminata altrove.
Il settimo stato dell’Olivi si realizza parte in questa vita (come pregustazione in terra della gloria eterna, cioè fin sulla cima della montagna) e in parte nella futura (nel senso della quiete delle anime beate in attesa della resurrezione, che è la materia del Paradiso).

canti

I ciclo – fino al sesto sato

stati

 

I

Catone

Radici, I

 

II

angelo nocchiero, Casella

–  II

 

III

scomunicati

III

“Antipurgatorio”

IV

salita al primo balzo, Belacqua

IV  –  V

V

negligenti morti per violenza

V

VI

Sordello

V

VII-VIII

valletta dei principi

V

IX

apertura della porta

VI sesto stato

 

canti

II ciclo – il sesto stato della sesta età

stati

gironi

X-XII

superbi

I

I

XIII-XIV-XV

invidiosi

II

II

XV-XVIII

iracondi

ordinamento del purgatorio,

amore e libero arbitrio

III

III

IV

XVIII-XIX

accidiosi

IV

IV

XIX-XX

avari e prodighi

V

V

XX (terremoto)  -XXV

Stazio, golosi, generazione dell’uomo

VI

VI

XXV-XXVI

lussuriosi

VII – settimo stato

VII

XXVII

XXVIII-XXXIII

 muro di fuoco

notte stellata, termine dell’ascesa

Eden

 

 

PARADISO

(settimo stato della Chiesa)

Il Primo Mobile è il nono e penultimo cielo, ma è il sesto se si parte dal cielo del Sole. È anche il cielo più segnato dal tema del “punto”, cui è assimilato il sesto stato. Questo consente di ricostruire l’ordine spirituale del Paradiso ponendo la cerniera nel quarto cielo del Sole. Con il terzo cielo di Venere termina infatti il cono d’ombra gettato dalla terra, secondo la dottrina di Alfragano (Par. IX, 118-119), mentre prima di descrivere l’ascesa al cielo del Sole il poeta invita il lettore a rivolgersi “a l’alte rote” (Par. X, 7-27). Senza la cesura recisa che, nella prima cantica, divide i dannati puniti all’interno della città di Dite da quelli che ne stanno fuori e, nella seconda cantica, separa le anime purganti nei sette gironi della montagna dalle anime che attendono fuori della porta (il cosiddetto ‘antipurgatorio’), anche nel Paradiso gli spiriti che si manifestano nei primi tre cieli della Luna, di Mercurio e di Venere (spiriti che mancarono ai voti, spiriti che furono attivi per conseguire onore e fama, spiriti amanti) si distinguono per minore perfezione rispetto a quelli che appaiono nei cieli seguenti.
I dieci cieli del Paradiso si mostrano pertanto ordinati in due gruppi di settenari, corrispondenti agli stati della Chiesa (e alle loro prerogative) secondo Olivi, parzialmente combacianti (da 1 a 7 e da 4 a 10: coincidono gli ultimi quattro numeri del primo gruppo e i primi quattro del secondo).

I  Se si considera il primo settenario, nel primo cielo della Luna si affronta la questione dell’inadempienza dei voti, che ha corrispondenza con i temi propri della prima chiesa di Efeso, il cui nome, se interpretato, oscilla tra la fervida volontà iniziale e la remissione (l’essenza del voto consiste nella volontà).

II  Nel secondo cielo di Mercurio, le battaglie sostenute dal “sacrosanto segno” dell’aquila corrispondono allo stato dei martiri, che è dei combattenti, e anche la dottrina dell’incarnazione e della passione di Cristo, esposta successivamente da Beatrice, fa parte della tematica, perché l’intera Chiesa, fondata sulla passione di Cristo, imita con i martiri la sua croce, e questo giova assai al suo radicamento.

III  Nel terzo cielo di Venere, Carlo Martello spiega al modo di un dottore del terzo stato la diversità delle indoli umane e come gli uomini, non assecondandole, errino; nello stesso cielo compare Folchetto di Marsiglia, che da vescovo di Tolosa combatté l’eresia albigese.

IV – I  Al quarto cielo del Sole, primo del secondo gruppo di settenari per l’esaltazione della vita apostolica (propria del primo stato e rinnovata nel sesto), si può connettere il tema stesso del sole inteso nell’esegesi della quarta tromba (Ap 8, 12): “Per solem videtur hic designari solaris vita et contemplatio summorum anachoritarum, qui fuerunt patres et exempla aliorum, vel solaris sapientia et doctrina summorum doctorum”. Sapienza e contemplazione, dottori del terzo e anacoreti del quarto stato, concorrono, come Domenico e Francesco – “L’un fu tutto serafico in ardore; / l’altro per sapïenza in terra fue / di cherubica luce uno splendore” (Par. XI, 37-39) – con mutua cortesia a infiammare il meriggio dell’universo.

V – II  Il quinto cielo di Marte, secondo (come il secondo stato dei martiri) per l’esaltazione della croce di Cristo formata dai lumi dei combattenti per la fede, reca in sé il tema del condiscendere proprio del quinto stato sia nel pio discendere per la croce di Cacciaguida verso Dante, sia nella decadenza degli “alti Fiorentini”, cioè delle antiche famiglie, assimilate agli anacoreti, un tempo alti e poi vòlti in basso.

VI – III  Il sesto cielo di Giove, terzo (come il terzo stato dei dottori) per la spiegazione di profonde verità di fede, sviluppa il motivo, proprio della sesta chiesa, della “porta aperta”. Aprire la porta significa illuminare e rendere acuto l’intelletto che penetra nell’occulto delle Scritture, e anche dare efficacia spirituale a penetrare nel cuore di chi ascolta: così l’aquila apre la “latebra” di Dante, così l’occhio di Rifeo Troiano fu da Dio aperto alla futura redenzione.

VII – IV Nel settimo cielo di Saturno, quarto (come il quarto stato degli anacoreti), “si tace … la dolce sinfonia di paradiso” (Par. XXI, 58-60), e il tacere è tema del settimo stato. Ivi si mostrano gli spiriti contemplativi, principali soggetti del quarto stato, proprio degli anacoreti: se si conta a partire dal quarto cielo del Sole, considerando questo come primo ovvero come nuovo avvio del ciclo settenario, il cielo di Saturno è appunto quarto.

VIII (V) Il settimo cielo di Saturno è seguito dal cielo delle Stelle fisse – ottavo e quinto -, dove si mostrano le schiere del trionfo di Cristo che discendono dall’Empireo (il quinto stato è caratterizzato dalla “condescensio”) e si celebra il trionfo di Maria (sviluppo del tema, proprio della quinta chiesa, della mirabile bellezza della Chiesa, regina ornata di veste aurea per la carità che unisce e circondata dalla varietà nei doni e nelle grazie delle diverse membra). È inoltre ricapitolazione dei precedenti sette, secondo un’interpretazione più volte presente nella Lectura dell’essere ‘ottavo’. Per questo Dante, stando nel segno dei Gemelli, riguarda in giù e torna col viso per tutte quante le sette precedenti sfere (Par. XXII, 124-154).

IX (VI) Segue il Primo Mobile o Cristallino – nono e sesto cielo –, dove il poeta vede il punto luminosissimo – Dio – da cui dipende il cielo e la terra, circondato dai nove cerchi di fuoco (Par. XXVIII, 16-18, 40-42, 94-96). Il sesto stato, secondo quanto Olivi afferma nel Notabile VIII, è il “punto” da cui dipendono gli altri stati, perché appare nel testo dell’Apocalisse in modo più evidente degli altri, che da esso assumono chiarezza quanto alla loro manifestazione nella storia, come l’intelligenza delle cose ordinate ad un fine dipende dal fine.

X (VII) La quiete e l’immobilità dell’Empireo, decimo cielo – il “ciel de la divina pace” -, corrispondono al settimo stato, di cui è propria la “quietatio”, il silenzio (tema anticipato dal tacere di Beatrice in apertura del canto XXIX), e la pace.

Il Paradiso avrebbe pertanto un ordine spirituale del seguente tipo:

cielo

stato

cielo

I

LUNA

I

II

MERCURIO

II

III

VENERE

III

IV

SOLE

IV

I

SOLE

V

MARTE

V

II

MARTE

VI

GIOVE

VI

III

GIOVE

VII

SATURNO

VII

IV

SATURNO

VIII

V

STELLE FISSE

IX

VI

PRIMO MOBILE

X

VII

EMPIREO

Oltre ai luoghi sopra indicati, i temi del sesto e del settimo stato si rinvengono in più punti, intrecciati con altri.

[1] Cfr. LSA, cap. XVII, Ap 17, 9: «Et subdit Ricardus quod per septem reges, et per septem capita designatos, designatur hic universus populus malorum, qui secundum septem status huius seculi determinantur. Primus scilicet ab Adam usque ad Noe. Secundus a Noe usque ad Abraam. Tertius ab Abraam usque ad Moysen. Quartus a Moys<e> usque ad David. Quintus a David usque ad Christum. Sextus a Christo usque ad Antichristum. Septimus autem sub Antichristo attribuitur». Cfr. PETRI IOHANNIS OLIVI Lectura super Lucam, Lc 1, 26, ed. F. Iozzelli, Grottaferrata 2010 (Collectio Oliviana, V), pp. 187-188: «Signanter autem dicitur in sexto mense, quia Christus uenit in sexta mundi etate, et iterum post quinque notabiles synagoge decursus: nam primo, cum sola circumcisione fuit sub patribus per quadringentos annos; secundo, accepta lege, fuit sub iudicibus per tantumdem temporis; tertio, proficiens in regnum, fuit sub regibus; quarto, assumpto plenius spiritu prophetico, fuit sub prophetis sollempnioribus, scilicet sub Elia, Ysaia et Yeremia etc.; quinto, restituto templo et urbe, fuit sub pontificibus quibus, per Aggeum et Zachariam et Malachiam iterata prophetia de Christo et eius precursore Elia, factum est silentium prophetarum, ita quod obmutuit cetus sacerdotum usque ad Iohannis ortum; et iterum in eiusdem quinti temporis sexto centenario conceptus est Christus. Sicut etiam sexto die factus est homo ad ymaginem Dei, sic conuenienter sub consimili senario factus est Christus homo, plenior Dei ymago: nam et perfectio numeri senarii, que ex omnibus partibus suis aliquotis et iterum ex ternario cum suis partibus, scilicet binario et unitate, consurgit, competit sibi et etiam reflexio ternarii per binarium, id est cultus fidei et Trinitatis per geminam caritatem».

[2] Il principio è chiaramente affermato nel notabile VIII del prologo della LSA: «[…] si omnia prima membra visionum ad invicem conferas et consimiliter omnia secunda et sic de aliis, aperte videbis omnia prima ad idem primum concorditer referri et consimiliter omnia secunda ad idem secundum et sic de aliis. Et hoc in tantum quod plena intelligentia eiusdem primi multum clarificatur ex mutua collatione omnium primorum, et idem est de omnibus secundis et tertiis et sic de aliis».

[3] A. FRUGONI, La Roma di Dante, tra il tempo e l’eterno, in ID., Pellegrini a Roma nel 1300. Cronache del primo Giubileo, presentazione di C. Frugoni, a cura e con Introduzione di F. Accrocca, Casale Monferrato 1999, pp. 102-103.

[4] LSA, cap. VI, Ap 6, 12: «Secunda ratio est quia persone Christi correspondet in sexta apertione unus ordo plurium personarum sic secundum suam proportionem augendus, sicut Christus secundum suum corpus fuit usque ad perfectam etatem viriliter auctus. […] Quarta est quia, prout super evangelia ostendi, Christus parvo tempore debuit inter nos vivere et pauciori predicare […]. Nisi autem ordo evangelicus, per Franciscum renovatus, esset in multis et saltem sub duabus vel tribus generationibus propagatus et sollempnizatus, non esset nec ipse nec populus ab eo ducendus sufficienter dispositus ad tam autenticam condempnationem condempnationi Christi consimilem subeundam».