La “Divina Parodia” del Libro scritto dentro e fuoriCanti esaminati:Inferno: I; II; III; IV; V; VI; VII; VIII; IX; X; XI; XII; XIII; XIV; XV; XVI; XVII; XVIII; XIX; XX; XXI; XXII; XXIII; XXIV; XXV; XXVI; XXVII; XXVIII; XXIX; XXX; XXXI; XXXII, 1-123; XXXII, 124-XXXIII, 90; XXXIII, 91-157; XXXIVPurgatorio: III; XXVIII
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1. Il tessuto di Cocito. 2. I sette e i dieci re. 3. Bocca degli Abati. Avvertenze. Abbreviazioni. Note sulla “topografia spirituale” della Commedia. |
Legenda [3]: numero dei versi; 2, 5: collegamento ipertestuale all’esegesi, nella Lectura di Olivi, di capitolo e versetto dell’Apocalisse [Ap]; Not. III: collegamento all’esegesi contenuta nei tredici notabilia del prologo della Lectura. Varianti rispetto al testo del Petrocchi.
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Inferno XXXII, 1-123 |
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S’ïo avessi le rime aspre e chiocce, 2, 5 (11, 3)
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1. Il tessuto di Cocito
Cinque cicli settenari si susseguono nell’Inferno a partire dal quarto canto (i primi tre canti sviluppano una tematica particolare); essi sono preceduti da cinque zone che possono essere definite ‘snodi’, dove cioè confluiscono e si intrecciano temi provenienti da più stati o periodi della storia della Chiesa. Attraverso tali ‘snodi’ viene avviato il procedere settenario per successive zone del poema la cui semantica registra, in misura prevalente, sistematiche variazioni su motivi appartenenti a gruppi di materia esegetica riferibili in sequenza ai singoli stati. Il centro di questi ‘snodi’ coincide con un canto (Inf. IV, X, XVII, XXVI, XXXII), ma la zona è più vasta e supera l’ambito della divisione letterale del poema. Ad esempio, il secondo ‘snodo’, del quale è centro Inf. X, inizia con il verso 106 del canto IX, dopo che l’apertura della porta della città di Dite da parte del messo celeste ha concluso il primo ciclo facendo risuonare temi del sesto stato (i motivi del settimo e ultimo periodo hanno uno sviluppo limitato nell’Inferno). A questa zona proemiale del secondo ciclo appartiene anche Inf. XI, prima che il XII canto sia tessuto principalmente sulla tematica del secondo stato, il XIII su quella del terzo, il XIV del quarto, il XV e il XVI del quinto e, da ultimo, del sesto i cui motivi pervadono anche Inf. XVII che però, nel volo di Gerione, può considerarsi ‘snodo’ del successivo terzo ciclo.
Come mostrato nella tabella che segue, i cinque ‘snodi’ sviluppano molti temi che appartengono alle premesse generali (Ap 1, 1-12), alle parti proemiali o radicali delle prime sei visioni (I: Ap 1, 12-20; II: 4, 1-11; 5, 1-14; III: 8, 2-6; IV: 11, 19-12, 3; V: 15, 1-16, 1; VI: 16, 18-21) e alla prima chiesa (Ap 2, 2-7).
La parodia trasforma, in Inf. IV, l’esegesi della sede divina prima che Cristo apra i sette sigilli (Ap 4, 2-4; radice della seconda visione); nel canto X la presunzione di tenere il primato da parte di una singola chiesa, primato che viene traslato ad altra (Ap 2, 5; prima chiesa); nel XVII, con il volo verso l’abisso in groppa a Gerione, il lento e graduale discendere dalla carità originaria rimproverato alla prima chiesa (Ap 2, 5; prima chiesa); nel XXVI la presunzione di poter viaggiare nel futuro, anticipando i disegni della Provvidenza; nel XXXII, con la chiusura ghiacciata di Cocito, la congelata durezza giudaica (Ap 8, 7; prima tromba).
■ Premesse generali (pg) e proemi delle prime sei visioni (in grassetto sono indicati i capitoli, seguiti dai versetti; tra parentesi il numero della visione) – non si considera il prologo:IV: 1, 17 (I); 4, 2-4; 5, 1.2.4.5.9.12 (II)IX, 106-X: 1, 1.3.4.5.10.12; 2, 1 (pg); 1, 13.16.17 (I); 4, 1.2.3; 5, 1.2.4.5.8; 6, 1 (II); 8, 3.5 (III); 12, 1 (IV); 16, 1 (V); 16, 19 (VI)XVII: 1, 13 (pg); 2, 1 (I)XXVI: 1, 5.7.9.10.12 (pg); 1, 16 (I); 4, 6.8-10; 5, 1.6.8.9.10 (II); 8, 3.4.5 (III); 11, 19; 12, 1 (IV); 15, 2-4.7.8; 16, 1 (V)XXXII: 1, 7 (pg); 1, 14.18 (I); 4, 1-2; 5, 14 (II); 15, 6 (V)
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Ultimo dei cinque “snodi” infernali, più breve e più stretto degli altri, il tessuto “musaico” di Cocito registra temi del settimo stato, della settima visione, delle “radici” delle visioni, del primo stato. Anteo, nel suo essere sciolto e nel lieve curvarsi ad arco verso il fondo dell’inferno come la Carisenda quando una nuvola viene vista da un osservatore passarvi sopra, è segnato dai temi del sesto stato (Inf. XXXI, 136-145). Lo stesso luogo di Cocito assume un aspetto proprio del sesto periodo. I fiumi infernali procedono infatti prima per una “stretta doccia” coi nomi di Acheronte, Stige e Flegetonte, poi, nel fondo dell’inferno dove non si scende più, formano lo stagno di Cocito (Inf. XIV, 115-120). La progressione corrisponde a quella degli stati della storia umana, i primi cinque (si rispecchiano nelle cinque parti del Veglio di Creta) procedenti “per modum stricti stipitis vel conductus”, il sesto “per modum magne et aperte effusionis aque in piscinam vel lacum” (prologo, Notabile VI): Cocito è infatti “stagno”, termine che equivale a “lago” (cfr. Ap 18, 17; Inf. XXXII, 22-24). È pertanto logico che ai temi del sesto succedano quelli del settimo (come si è detto, questo periodo, quieto e pacifico, ha una risonanza assai limitata nell’Inferno). Essi però partono non dall’inizio del canto XXXII (il precedente si era chiuso con il chinarsi del gigante) ma si insinuano dal verso 13. Le prime quattro terzine anticipano temi del primo stato e delle “radici” delle visioni, realizzando così un intreccio dei gruppi tematici come le maglie di un’armatura, incastrate in modo che le une sembrino uscire dalle altre.
VII stato: Ap 14, 19-20. Appena deposto dalle mani di Anteo sul fondo dell’inferno, Dante ode una voce che lo supplica di camminare con attenzione, in modo da non ‘calcare’ con le piante dei piedi le teste dei dannati immersi fino al collo nel “lago” ghiacciato di Cocito (Inf. XXXII, 19-24) [1]. Il calcare e il lago sono temi della settima guerra, ad Ap 14, 19-20 (quarta visione), e appartengono all’esegesi che presta panno all’ordito del secondo snodo, dopo l’ingresso nella città di Dite (Inf. IX, 109 sgg.). La parte finale della settima guerra vede l’angelo gettare l’uva vendemmiata nel grande tino (“lacus”) dell’ira divina. Il “lago” è “calcato” fuori della città di Dio, cioè fuori del luogo e del collegio dei beati, nella valle di Giosafat posta tra il monte Sion e il monte degli Ulivi, in cui staranno gli empi il giorno del giudizio. Dal “lago” “uscì sangue fino al morso dei cavalli per una distanza di 1600 stadi”. Il ‘calcare’ di Ap 14, 19-20 ha un passo simmetrico ad Ap 19, 15, dove nella battaglia contro l’Anticristo il Verbo di Dio “calca nel tino il vino dell’ira furiosa del Dio onnipotente”, cioè “preme” gli empi con pene mortifere. Il verbo ‘premere’, che rientra nella tematica del vendemmiare, è presente nell’esordio di Inf. XXXII, dove Dante dichiara che solo con rime “aspre e chiocce”, adatte al “tristo buco” su cui gravano tutti gli altri cerchi rocciosi, sarebbe in grado di ‘premere’ il succo di quanto ha visto (vv. 1-5). I traditori dei congiunti stanno nel ghiaccio come la rana sta col muso di fuori dall’acqua “quando sogna / di spigolar sovente la villana”, cioè nel periodo estivo (vv. 31-33), e il tema della mietitura caratterizza i versetti precedenti del XIV capitolo, lì dove un angelo esce dal tempio e grida all’altro angelo seduto sulla nube bianca di mietere perché la messe della terra è matura (Ap 14, 15-19 da cui il panno, nel quarto snodo, ad Inf. XXVI, 29-30).
Il numero MDC (riferito in Ap 14, 20 agli stadi che misurano la lunghezza e la profondità del sangue uscito dal lago), in cui sono compresi il sei, il cento e il mille, numeri designanti la perfezione, indica il livello di perfezione nel tormento dei dannati, minore, mediocre o perfetto. Significa pure che le pene dei dannati sono varie e adattabili in modo multiforme. Nel Flegetonte, “riviera del sangue”, i violenti contro il prossimo hanno la pena graduata secondo l’altezza del sangue in cui sono immersi: i tiranni, violenti contro le persone e le cose, stanno sotto “infino al ciglio” (Inf. XII, 103-105); gli omicidi, violenti solo contro le persone, fino alla gola (vv. 115-117); altri dannati, con pena via via meno grave (feritori, guastatori, predoni), tengono fuori del sangue bollente la testa, il busto o tutto il corpo salvo i piedi (vv. 121-125). Come spiega Nesso nel portare Dante sulla groppa, se da una parte il “bulicame” si riduce progressivamente in profondità, dall’altra ‘preme’ sempre più il suo fondo (il ‘premere’ della pena di Ap 19, 15) fino a raggiungere la massima altezza nel luogo dove sono puniti i tiranni (vv. 127-132). Una simile gradualità della pena si verifica anche nel “lago” di Cocito, per quanto in progressione ascendente rispetto a quella discendente registrata nel Flegetonte: i traditori dei parenti e i traditori della patria stanno immersi nel ghiaccio fino al collo, con il viso fuori come il muso delle rane, rispettivamente nella Caina e nell’Antenora (Inf. XXXII, 31-39); i traditori degli ospiti giacciono supini nella Tolomea (Inf. XXXIII, 91-93); i traditori dei benefattori sono infine tutti coperti dal ghiaccio, in varie posizioni, nella Giudecca (Inf. XXXIV, 10-15).
VII stato: Ap 3, 14-15. Un altro tema del settimo stato è l’“utinam frigidus esses” detto a Laodicea, ultima delle sette chiese d’Asia. Il difetto riprovato è la tepidezza, il non trovarsi né nel calore della carità che esulta in Dio né nel freddo dell’infedeltà triste per i propri peccati: “Magari tu fossi freddo o caldo!” (Ap 3, 15). Il senso è che meglio sarebbe trovarsi freddi infedeli per ignoranza, ma con possibilità di convertirsi umilmente all’ardore della vera giustizia, piuttosto che tiepidi rinunciatari di una via di perfezione intrapresa e apostati da un alto stato. Una parte di questo tema, che insiste fra gli ignavi, risuona nell’apostrofe contro i traditori che stanno in Cocito, “mal creata plebe” (il tema della creazione appartiene anch’esso alla settima chiesa, Ap 3, 14), che meglio sarebbe stata in vita pecore o capre, ossia ignoranti e umili (Inf. XXXII, 13-15). Una variazione della tematica riferita a Laodicea (Ap 3, 15) è allorché Dante prova “riprezzo … de’ gelati guazzi” (vv. 70-72), un sentimento simile a quello che si è insinuato nel suo animo prima di salire in groppa a Gerione (che corrisponde al terzo snodo), quando tremando ha provato il senso di nausea e di vomito che il malarico ha per i luoghi freddi, un sentimento che nel caso di pericolo stimola il desiderio di rinunciare (Inf. XVII, 85-90).
VII visione. Il gelo, il vetro e l’acqua che determinano il sembiante del lago di Cocito (Inf. XXXII, 22-24) provengono dalla settima visione, che descrive la Gerusalemme celeste, il cui lume “è simile a una pietra preziosa, come diaspro cristallino” (Ap 21, 11), e la cui piazza “è oro puro come vetro lucidissimo” (Ap 21, 21). I tre termini sono equivalenti ad Ap 21, 11 per designare la luminosità del cristallo (che pure compare appropriato al congelarsi delle lacrime, Inf. XXXIII, 98); sono invece scomposti nei versi, dove gelo e vetro vengono contrapposti all’acqua, con probabile riferimento all’acqua viva del fiume che scorre in mezzo alla città superna e la rinfresca, lava e ristora (Ap 22, 1). La limpidezza e trasparenza dell’acqua congelata, come uno specchio (Inf. XXXII, 54), è assoluta sul fondo dell’inferno, che corrisponde alla piazza della città, dove le ombre “trasparien come festuca in vetro” (Inf. XXXIV, 10-12). Alla Gerusalemme celeste, nella sua versione infernale, appartiene pure il riferimento a “l’alto muro” di Inf. XXXII, 18 (Ap 21, 12: “et habebat murum magnum et altum”), mentre il “pozzo scuro” e lo star “giù” e “sotto” (vv. 16.17) sono persistenze dei motivi del quinto stato (rispettivamente dalla quinta tromba, Ap 9, 1-2 e dal quinto sigillo, Ap 6, 9.11). Il fiume che scorre in mezzo alla città celeste (Ap 22, 1-2) ha due rive, una inferiore (l’umanità o il corpo di Cristo) e una superiore (la sua divinità o l’anima). Il tema ha una curiosa variazione nella Tolomea, il luogo dove le anime dannate di coloro che tradirono gli ospiti cadono mentre il corpo vive ancora in terra governato da un demonio. Così per Branca Doria, la cui anima sta immersa in Cocito e il cui corpo appare ancora vivo “di sopra”, con un rovesciamento del significato delle due rive, umana e divina, descritte ad Ap 22, 2 e uno stare dell’anima e del corpo distorto rispetto a quello di Cristo centro fra le due sponde (Inf. XXXIII, 154-157).
Le fondamenta della città sono ornate con dodici pietre preziose: diaspro, zaffiro, calcedonio, smeraldo, sardonice, cornalina, crisòlito, berillo, topazio, crisopazio, giacinto, ametista (Ap 21, 19-20). Queste gemme sono virtù, le loro qualità sono variamente distribuite. Il topazio – che secondo Gregorio Magno deriva da “pan, quod est omne, pro eo quod omni colore resplendet” e designa la perfetta vita contemplativa – è impersonato in Cacciaguida (Par. XV, 85-86); pervade sia la scala d’oro vista nel cristallino cielo di Saturno (Par. XXI, 28-33) come il velo tanto ghiacciato di Cocito “che se Tambernicchi / vi fosse sù caduto, o Pietrapana (la Pania delle Alpi Apuane, in cui pan è come incastonato), / non avria pur da l’orlo fatto cricchi” (Inf. XXXII, 28-30) [2].
“Radici” e prima visione. Al gruppo dei temi propri della settima visione fanno da contrappunto altri motivi relativi al congelamento e alla durezza, propri delle “radici”, o parti proemiali, delle visioni e appartenenti al primo stato: la neve, da Ap 1, 14 (“radice” della prima visione); il senso ottuso e grave come la pietra che chiude il sepolcro di Cristo, da Ap 4, 1-2 (“radice” della seconda visione); la grandine, da Ap 8, 7 (prima tromba) e 16, 21 (“radice” della sesta visione); il cingersi stretto i petti, da Ap 15, 6 (“radice” della quinta visione).
Nella discesa graduale del precipizio esposta nell’istruzione data alla prima delle sette chiese d’Asia, Efeso, a un certo punto il rame sonoro si trasforma nel ferro aspro e duro (Ap 2, 4-5). Si tratta di una trasformazione che il poeta prova nel trovarsi “giù nel pozzo scuro”, nel fondo dell’inferno, “dove Cocito la freddura serra”. È un luogo del quale è duro parlare, a meno di possedere “le rime aspre e chiocce”, adatte al “tristo buco / sovra ’l qual pontan tutte l’altre rocce”. Il poeta dichiara di non possederle, e confessa il proprio timore di non riuscire a esprimersi chiaramente: “non sanza tema a dicer mi conduco; / ché non è impresa da pigliare a gabbo / discriver fondo a tutto l’universo, / né da lingua che chiami mamma o babbo” (Inf. XXXII, 1-15: è da notare come il motivo della durezza, che appartiene al primo stato, sia esposto al verso 14, quello mediano della terzina, preceduto e seguito dai motivi della settima chiesa ad Ap 3, 14-15) [3]. Teme di non essere adeguato alla materia che impone una caduta di stile, e non sottovaluta il pericolo, come il vescovo di Efeso non deve prendere alla leggera la caduta verso un bene minore. I motivi del chiudere e della durezza sono connessi ad Ap 4, 1-2 (“radice” della seconda visione) con la durezza lapidea e con il senso ottuso che precedettero la venuta di Cristo, assimilati alla pietra che chiuse il sepolcro prima della resurrezione con la quale si aprì, rimuovendo il coperchio, il senso spirituale della Scrittura. Così nel fondo dell’inferno il poeta invoca in suo aiuto le Muse, “ch’aiutaro Anfïone a chiuder Tebe” traendo con il suono della lira le pietre delle mura dalle falde del monte Citerone.
La porta della tomba di Cristo, chiusa da una grande pietra, rappresenta la dura scorza della lettera che impedisce ai cuori impietriti l’accesso all’intelligenza spirituale, la quale, una volta rimossa la pietra, sollevò il senso carnale dei Giudei oppresso dalle figure profetiche e dalle promesse terrene (Ap 4, 1-2). Il tema della durezza giudaica percorre tutta la prima tromba (Ap 8, 7), caratterizzata dalla grandine congelata e indurita, come il cuore di Faraone duro alle parole e ai prodigi di Mosè, grandine che cade sulla terra insieme col fuoco, cioè con lo zelo maligno, e con la crudele uccisione di Cristo e dei suoi. Ad Ap 16, 21 la grandine dura e fredda rappresenta i durissimi colpi delle pene che procedono dall’ardore dell’ira divina e il freddo rigido della sua severità che si imprime nell’intimo dei reprobi senza alcun calore di pietà e di misericordia, rendendo i loro cuori duri verso qualsiasi bene. Questi temi relativi alle parti proemiali delle visioni e al primo stato si diffondono in Inf. XXXII e pervadono anche Inf. XXXIII, dove gli episodi del conte Ugolino e di frate Alberigo registrano la prevalenza dei temi del secondo periodo.
«a chiuder Tebe … onde parlare è duro … per gelo … sì grosso velo … sotto ’l freddo cielo … vi fosse su caduto … Pietrapana … ne la ghiaccia … il freddo … ’l gelo … la freddura … in gelatina … due ghiacciati … – “velamen est positum super cor” Iudeorum (prologus) … durus cortex littere … claudens hostium … lapidea durities (4, 1-2) … congelata et indurata … missa quasi de celo “in terram” … cum forti casu et impetu (8, 7) …designatur hic summum pondus pene … frigidum algorem (16, 21: “grando”)».
Se si collaziona l’esegesi della prima tromba (Ap 8, 7), della grandine da Ap 16, 21 e della quarta perfezione di Cristo come sommo pastore, che consiste nella maturità del consiglio designata dalla senile e gloriosa canizie del capo e dei capelli, una sapienza assimilata, se astratta, alla durezza e al gelo della neve e, se misericordiosa, alla mollezza purgativa e al calore della lana (Ap 1, 14), si palesano altri fili con cui è tessuto il gelo di Cocito. Nei versi sono intrecciati gli stessi motivi proposti nell’esegesi: il freddo, la durezza, il far velo, i capelli (“’l pel del capo” misto dei due fratelli Alberti, conti di Mangona; i capelli del dischiomato Bocca degli Abati). Il senso spirituale sottolinea la durezza del giudizio divino, che punisce senza misericordia e gela le lacrime dei dannati, che provengono da occhi “ch’eran pria pur dentro molli”, che cioè impedisce lo sfogo purgativo (le lacrime designano la contrizione). Fa da contrappunto, nei fratelli Alberti, il tema parodiato del cingere stretto al petto, nell’esegesi con una cintura d’oro (Ap 15, 6) [4].
I temi concorrono alla disperazione del conte Ugolino. Costui e l’arcivescovo Ruggieri sono “ghiacciati in una buca”, in mezzo alla “gelata” di Cocito. Nel doloroso carcere il padre non piange e non lacrima – “sì dentro impetrai” – mentre piangono i figli (come detto ad Ap 3, 18, il lacrimare, amaro in principio, purga gli occhi e restituisce una vista migliore; anche Beatrice lacrima di fronte a Virgilio). Prorompe nell’esclamazione “ahi dura terra, perché non t’apristi?”, che contiene, oltre al tema della durezza giudaica da Ap 8, 7, anche il riferimento all’aprirsi della terra che risucchia in sé fino all’inferno la bestia e il falso profeta (Ap 19, 20: il motivo è già presente nella descrizione della fine di Anfiarao a Inf. XX, 31-32; aprire la terra è appropriato, a Inf. VIII, 130, al messo che aprirà la porta della città di Dite). La fine del conte è “morte … cruda”, come crudele fu la morte di Cristo (Ap 5, 1); l’uscio dell’orribile torre viene ‘chiavato’ come fu chiuso il monumento di Cristo (Ap 4, 1-2). Da questa lapidea durezza Ugolino non si è mai liberato.
I motivi della durezza del cuore e del congelamento segnano frate Alberigo, il quale nella fredda crosta della Tolomea, “ultima posta” dell’inferno, prega i due poeti di togliergli dal volto i “duri veli”, in modo che possa sfogare il dolore che gl’impregna il cuore prima che il pianto si raggeli (Inf. XXXIII, 109-114). I “veli” appartengono alla stessa rosa di motivi propri della durezza giudaica, se si tiene conto dell’espressione paolina nella seconda Lettera ai Corinzi, 3, 14-16, citata nella pagina iniziale della Lectura: “Fino ad oggi, quando si legge Mosè, un velo è steso sul loro cuore; ma quando ci sarà la conversione al Signore, quel velo sarà tolto”, cosa che non avviene con frate Alberigo. A costui è appropriato anche il tema del dare frutti cattivi (la Giudea, nell’intenzione divina, doveva rendere frutto, e si fece poi terra dura: Ap 8, 7), e infatti si presenta come “quel da le frutta del mal orto”, con allusione all’uccisione dei suoi parenti a mensa al momento di servire loro le frutta (vv. 118-120).
Cocito è anche il luogo dove è presente in tonalità più alta il tema del chiudere all’uomo animale i segreti spirituali contenuti nel libro, come imposto a Daniele (Dn 12, 4) e allo scriba dell’Apocalisse (Ap 10, 4) e come detto più volte da Cristo (Mt 7, 6; 17, 9; Lc 8, 10). Tema insito nelle parole del conte Ugolino circa la torre della Muda, nella quale egli e i suoi figli furono rinchiusi fino alla morte “e che conviene ancor ch’altrui si chiuda” (vv. 22-24): la scelta del Petrocchi di dare ad “altrui” il valore di dativo consente di interpretare sia nel senso tradizionale – ‘nella quale altri dovranno essere rinchiusi dopo di me’ – sia nel senso che la torre chiuderà ad altri, come avvenuto con Ugolino, l’intelligenza spirituale del libro. Più avanti nel cammino di Cocito, Dante si rifiuta di aprire a frate Alberigo gli occhi incrostati di lacrime ghiacciate, perché “cortesia fu lui esser villano”, in quanto indegno di vedere la benché minima parte del libro (vv. 148-150).
La prevalenza dei temi delle “radici” e del primo stato, normale nello ‘snodo’ che avvia l’ultimo ciclo settenario dell’Inferno, non esclude motivi propri di altri raggruppamenti per periodi storici. Al v. 38, il cor tristo anticipa i temi del secondo stato, che emergono preminenti con Ugolino e frate Alberigo (Ap 2, 11; seconda chiesa); al medesimo gruppo appartiene tosco al v. 66 (Ap 12, 9; seconda guerra). Al quinto stato rinviano si dichina (v. 56; prologo, Notabile III) e ti rimagna (v. 99; Ap 12, 17: quinta guerra). Del terzo stato è proprio rotto (v. 61; Ap 2, 12: terza chiesa), del quarto stette (v. 85; prologo, Notabile III).
Il v. 12 – “sì che dal fatto il dir non sia diverso” – elabora l’espressione ad Ap 5, 4 – “ut sic verbo et facto confirmetur”.
[1] «“Et calcatus est lacus” – va sì, che tu non calchi con le piante … e vidimi davante / e sotto i piedi un lago”»: la compresenza degli elementi, nell’esegesi e nei versi, porta a escludere, al v. 20, varianti seriori come che tu non tocchi o che tu non schiacci. Al v. 19, dicere udi’mi pare una parodia dell’espressione, più volte ripetuta nell’Apocalisse, audivi vocem dicentem (ad esempio Ap 10, 4; 16, 1), il cui soggetto è Giovanni, autore del libro, nel poema impersonato da Dante; per cui meno convincente è la variante udimmo.
[2] L’accostamento, nell’esegesi di Ap 4, 3 (la sede divina prima dell’apertura dei sigilli), della pietra ai colori dell’iride (uno dei quali è il livido) sembra confermare, al v. 34, liuide contro li uidi, considerando il riferimento a Pietrapana del v. 29, parodia di una delle pietre, o gemme, della Gerusalemme celeste (cfr. Purg. XIII, 9: “col livido color de la petraia”).
[3] L’espressione “rime aspre e chiocce” sembra anche parodia dell’esegesi di Ap 11, 3, dove è detto che i due testimoni (Enoc ed Elia), «“prophetabunt amicti saccis”, id est vestibus cilicinis vel asperis et pauperculis».
[4] “Non è chiaro se il ghiaccio, formatosi per il colar delle lacrime, saldi (tra essi) i due fratelli, bocca a bocca (Casini-Barbi), o gli occhi di ciascuno (Vellutello)” (Inglese). La prima ipotesi è confortata dall’esegesi di Ap 3, 7, già parodiata a Inf. XIX, 28-33 nella fiamma che “succia” le piante dei piedi dei simoniaci muovendosi “pur su per la strema buccia”, come le lacrime “gocciar su per le labbra”. L’esegesi riguarda l’“amor fratris”, tema che in variazione dissonante ben si addice ai due fratelli Alberti che si uccisero a vicenda; amore significato dal baciarsi, secondo un passo del Cantico dei Cantici (8, 1-2).
Tab. I
[LSA, cap. XIV, Ap 14, 19-20 (IVa visio, VIIum prelium)] De quo lacu subditur (Ap 14, 19): “Et misit in lacum ire Dei magnum”. Lacus inferni dicitur lacus ire Dei, quia ibi in penis impletur effectus ire et vindicte Dei. Magnus vero dicitur, quia omnes dampnatos, qui erunt quasi innumerabiles, intra se capiet.
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Inf. XXV, 25-27, 31-33Lo mio maestro disse: “Questi è Caco,
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Inf. XXXII, 1-5, 19-24, 31-33S’ïo avessi le rime aspre e chiocce,
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2. I sette e i dieci re
L’ordine dei dannati in Cocito sembra corrispondere ad alcune suggestioni offerte dall’esegesi del capitolo XVII della Lectura. Nella Caina, Uberto, detto Camicione, dei Pazzi di Valdarno – “il Camiscion de’ Pazzi” – enumera i propri compagni di pena adoperando il tema dei sette re da Ap 17, 10 (citato ad Ap 9, 13), dei quali i primi cinque sono caduti, il sesto è ancora in vita e il settimo non è ancora venuto: ne elenca prima cinque – i due fratelli Napoleone e Alessandro, conti di Mangona. figli di Alberto degli Alberti, padrone della val di Bisenzio; Mordret; Vanni dei Cancellieri, detto Focaccia; il Sassòl Mascheroni -, poi nomina sé stesso come sesto – “unus est” –; infine dichiara di aspettare l’arrivo del settimo – “et alius nondum venit” -, cioè Ciupo, detto Carlino, dei Pazzi, il quale lo scagionerà facendo apparire meno grave la sua colpa come farà, fra i simoniaci della terza bolgia, Clemente V rispetto a Bonifacio VIII e a Niccolò III (Inf. XXXII, 52-69).
Nel capitolo XVII (citato ad Ap 9, 13 e 11, 2), tuttavia, viene proposta anche una sequenza diversa: ai versetti 12-14 e 16-17 si parla infatti di dieci re che distruggeranno la nuova Babilonia (che corrispondono alle dieci corna della bestia) e non di sette re (che corrispondono alle sette teste), come al versetto 10. Se poi si combina il testo apocalittico con Daniele 7, 24-25, i re diventano undici per l’insorgere di un altro più potente (l’Anticristo) che ne abbatterà tre che gli resistono, proferirà insulti contro l’Altissimo e distruggerà i suoi santi che gli saranno dati in mano per “un tempo, due tempi e la metà di un tempo” (per tre anni e mezzo, come spiegato nell’esegesi di Ap 12, 14). Questi motivi, che l’esegesi sviluppa all’inizio del capitolo XI (dove si ingiunge a Giovanni di non misurare l’atrio che è fuori del santuario perché è stato dato da calpestare alle genti), sembrano presenti nelle zone di Cocito successive alla Caina: ivi vengono nominati dieci personaggi – Bocca degli Abati, Buoso da Dovera, Tesauro dei Beccaria, Gianni dei Soldanieri, Gano di Magonza (Ganellone), Tebaldo dei Zambrasi (Tebaldello), il conte Ugolino e l’arcivescovo Ruggieri, frate Alberigo dei Manfredi e Brancaleone di Niccolò Doria (Branca Doria) – prima di Lucifero, “lo ’mperador del doloroso regno” che con le tre bocche rompe e maciulla tre peccatori, Giuda, Bruto e Cassio, al quale sono appropriati temi da Ap 12, 14.
Tab. II
3. Bocca degli Abati
■ L’episodio di Bocca degli Abati appare armato da alcuni temi del sesto stato. Nel capitolo undecimo (sesta tromba) si dice che verranno dati due testimoni (Elia ed Enoc) per compiere la loro missione di profeti, al termine della quale saranno uccisi in apparenza dalla bestia che sale dall’abisso per resuscitare dopo tre giorni e mezzo ed ascendere al cielo sotto lo sguardo dei nemici, mentre un grande terremoto distruggerà un decimo della città, farà perire settemila persone e costringerà gli altri a dare gloria a Dio. Circa l’efficacia della virtù dei due testimoni, Olivi pone la questione se essi faranno alla lettera segni e miracoli – come non far piovere in qualche parte del mondo, o bruciare i nemici con il fuoco che esce dalla loro bocca, o percuotere la terra con ogni piaga e peste (Ap 11, 5-6) -, seguendo il modo della vendetta corporale propria dei santi dell’Antico Testamento, o se piuttosto non sia verosimile che essi seguiranno la mansuetudine evangelica tenuta da Cristo e dagli apostoli. La risposta è che essi saranno nel pieno potere di fare segni e miracoli ma che opereranno solo quanto sarà conveniente e necessario. La compresenza delle parole conduce a un momento di “vendetta corporale”, cioè a Dante che passeggiando sul ghiaccio di Cocito tra le teste dei traditori, percuote forte con il piede il volto di Bocca degli Abati, “pestandolo” (parodia del percuotere con la piaga della “peste”) e accrescendo in tal modo la vendetta verso il malvagio traditore di Montaperti (Inf. XXXII, 76-81).
■ Nella descrizione della bestia che ascende dal mare, posta all’inizio del capitolo XIII (Ap 13, 1), si dice che essa ha sette teste e dieci corna, e sulle sue teste nomi di blasfemia. Olivi spiega trattarsi di coloro che si gloriano nel bestemmiare Cristo e i suoi, e in questo sono più famosi degli altri: il nome designa infatti l’essere noto e la fama, lo stare sul capo significa la gloria. Sono motivi recitati in Inf. XXXII, 85-99, 106 da Bocca degli Abati, il traditore di Montaperti bestemmiante e renitente a dare il proprio nome al poeta perché gli dia fama mettendolo “tra l’altre note”. Più avanti si dice che alla bestia (alla gente bestiale) è data la bocca per bestemmiare (Ap 13, 5-6). Alla fine del capitolo (Ap 13, 18), viene spiegato il 666, il “numero del nome” della bestia, che in greco è “Antemos”, cioè contrario. E Bocca brama il contrario della fama e apostrofa Dante come colui che va per l’Antenora, luogo che ha un significato storico-letterale preciso (dalla leggenda medievale della proditoria consegna del Palladio e dell’apertura del cavallo da parte del troiano Antenore) ma consonante con il nome dell’Anticristo costruito sul numero della bestia. L’Anticristo viene d’altronde interpretato come apostata, ed è questa una parte ben assegnabile al malvagio traditore immerso nel ghiaccio di Cocito.
Lo stesso tema dell’essere nominati e famosi si applica in tutt’altra situazione, allorché Stazio racconta della sua fama di poeta coronato di mirto (Purg. XXI, 85-91). E Stazio, nome del poeta famoso “ancor di là”, segna un’altra coincidenza tra senso letterale e senso spirituale, consonando con la statio in capite che designa la gloria (il valore negativo, presente nell’esegesi, nei versi si cambia in positivo con la metamorfosi parodica).
A Inf. XXXII, 92.93.98, fama, note, ti nomi sono segni del quinto stato, del quale sono tipici la fama e l’esser noto (Ap 3, 1.5); i temi, nel canto precedente, sono stati appropriati ad Anteo. Il v. 91 – “Vivo son io, e caro esser ti puote” – è parodia, che risponde al “se fossi vivo” detto da Bocca, dell’esegesi delle parole di Cristo ad Ap 1, 18 – «“et sum vivus” … bene possum te a morte ad vitam eternam sublevare», nel senso di dar fama (cfr. le parole di Dante a Brunetto Latini: “m’insegnavate come l’uom s’etterna” (Inf. XV, 85). Anche i capelli del dischiomato Bocca variano in modo dissonante i motivi con i quali vengono interpretati i capelli di Cristo (vv. 99.103; Ap 1, 14).
■ A Bocca, cui non basta “sonar con le mascelle”, ma latra ‘toccato’ dal demonio, spetta il tema del suonare in modo discordante e rustico da parte di quanti sono senz’arte, motivo che ad Ap 14, 2 viene contrapposto al suonare di Dio maestro citarista, assimilato alla modulata voce cantante dei compagni dell’Agnello: l’accostamento del suonare e del toccare le corde della cetra è nel commento scritturale come nei versi (Inf. XXXII, 106-108). Questo tema, nella specificazione che se i rustici talvolta compulsano bene ciò è dovuto al caso piuttosto che alla prudenza dell’artista, appartiene anche al poeta, il quale non sa dire “se voler fu o destino o fortuna” il fatto di aver percosso forte con il piede, passeggiando tra le teste dei peccatori immersi nel ghiaccio di Cocito, proprio la testa di Bocca (vv. 76-78).
■ Ai vv. 109.113, le parole non vo’ che più favelle … non tacer sviluppano temi del settimo stato, del quale è proprio il silenzio; esse sono simmetriche a quelle appropriate nei confronti di Vanni Fucci: “come dicesse ‘Non vo’ che più diche’ … El si fuggì che non parlò più verbo” (Inf. XXV, 6.16; prologo, Notabile III; Ap 8, 1). Il silenzio si riferisce a uno spazio temporale, per cui è da escludere la variante non vo’ che tu favelle.
Tab. III
AVVERTENZE
■ Seppure segue l’ordine dei ventidue capitoli dell’Apocalisse, Olivi suggerisce, nel prologo della Lectura, un metodo differente di comprensione e di aggregazione del testo, fondato sui sette stati (status), cioè sulle epoche nelle quali si articola la storia della Chiesa, prefigurate nell’Antico Testamento.
L’Apocalisse si articola in sette visioni: le sette chiese d’Asia, i sette sigilli, le sette trombe, la donna vestita di sole (le sette guerre sostenute dalla Chiesa), le sette coppe, il giudizio di Babylon nelle sette teste del drago, la Gerusalemme celeste. Le prime sei visioni possono essere a loro volta divise in sette momenti, ciascuno dei quali riferibile a uno dei sette stati. Assembrando, per le prime sei visioni, tutti i primi elementi (chiesa, sigillo, tromba, guerra, coppa, momento del giudizio di Babylon), tutti i secondi, i terzi e così di seguito, si ottengono sette gruppi di materia teologica, corrispondenti al complesso dei temi afferenti a ciascuno dei sette stati. A questi sette gruppi si aggiungono altri due: l’esegesi della settima visione (senza articolazioni interne) e l’esegesi di capitoli del testo scritturale, o di parti di essi, introduttivi delle successive specificazioni delle singole visioni per settenari, che Olivi definisce “radicalia” o “fontalia”. Si ottengono in tal modo nove gruppi: le parti proemiali, i sette assembramenti di settenari e la settima visione. Il grande prologo della Lectura, articolato in tredici notabilia, può essere anch’esso aggregato secondo i sette stati. Un libro (la Lectura) contiene dunque princìpi e criteri affinché l’accorto lettore possa trarne un altro libro, fatto con lo stesso materiale ma ricomposto e distribuito in forma diversa.
■ La Commedia mostra un ordine interno diverso da quello che appare al lettore: il viaggio di Dante ha un andamento di ciclici settenari, che corrispondono ai sette stati della storia della Chiesa, cioè alle categorie con cui Olivi organizza la materia esegetica. Questo ordine interno è registrabile per zone progressive del poema dove prevale, tramite parole-chiave, la semantica riferibile a un singolo stato. È un’intima struttura dirompente i confini letterali stabiliti dai canti e da tutte le divisioni materiali per cerchi, gironi, cieli. Ogni stato, che ha differenti inizi, è concatenato per concurrentia, come le maglie di un’armatura, con quello che precede e con quello che segue. Si possono in tal modo redigere mappe che comprendano l’ordine spirituale della Commedia. La ricerca è pervenuta a una Topografia spirituale della Commedia, dove quasi per ogni verso, o gruppo di versi, collegamenti ipertestuali conducono al “panno” esegetico fornito dalla Lectura super Apocalipsim, sul quale il “buon sartore” ha fatto “la gonna” (cfr. Par. XXXII, 139-141).
■ A ogni gruppo è arbitrariamente assegnato un diverso colore: Radici (verde), I stato (verde acqua), II stato (rosso), III stato (nero), IV stato (viola), V stato (marrone), VI stato (blu), VII stato (indaco), VII visione (fucsia). Dei gruppi sono stati integralmente studiati il terzo stato e la settima visione. Mentre la diversità dei colori è rispettata nella tabella complessiva contenente i collegamenti ipertestuali, nelle sinossi i colori possono essere variati per maggiore evidenza.
■ Non di rado nei versi alcune parole o incisi-chiave possono rinviare a più luoghi esegetici. Questo perché il testo dottrinale contenuto nella Lectura, prima di travasarsi semanticamente nella Commedia, è stato sottoposto a una duplice riorganizzazione. La prima, sulla base delle indicazioni dello stesso Olivi, secondo il materiale esegetico attribuibile ai singoli stati. La seconda, seguendo il principio applicato nelle distinctiones ad uso dei predicatori, sulla base di lemmi analogicamente collazionati. La “mutua collatio” di parti della Lectura arricchisce il significato legato alle parole e consente uno sviluppo tematico amplificato. Si vedano, ad esempio, le variazioni eseguite sul tema della “voce” o sull’espressione “in medio”, temi più volte iterati nel sacro testo, oppure il modo con cui Ap 1, 16-17 (l’esegesi della decima e undecima prefezione di Cristo come sommo pastore) percorre i versi in collazione con altri passi. A ciò predispone lo stesso testo scritturale, poiché l’Apocalisse contiene espressioni, come Leitmotive, che ritornano più volte. È determinata da parole-chiave che collegano i passi da collazionare. È suggerita dallo stesso Olivi, nel prologo, per una migliore intelligenza del testo.
■Tutte le citazioni della Lectura super Apocalipsim presenti nei saggi o negli articoli pubblicati su questo sito sono tratte dalla trascrizione, corredata di note e indici, del ms. Paris, Bibliothèque nationale de France, lat. 713, a disposizione fin dal 2009 sul sito medesimo. I passi scritturali ai quali si riferisce l’esegesi sono in tondo compresi tra “ ”; per le fonti diverse da quelle indicate si rinvia all’edizione in rete. Non viene presa in considerazione l’edizione critica a cura di WARREN LEWIS (Franciscan Institute Publications, St. Bonaventure – New York, 2015) per le problematiche da essa poste, che sono discusse in ALBERTO FORNI – PAOLO VIAN, A proposito dell’edizione di Warren Lewis della Lectura super Apocalipsim di Pietro di Giovanni Olivi. Alcune osservazioni, in “Archivum Franciscanum Historicum”, 109 (2016), pp. 99-161.
Il testo della Commedia citato è in Dante Alighieri, La Commedia secondo l’antica vulgata, a cura di GIORGIO PETROCCHI, Firenze 1994. Si tiene anche conto della recente edizione a cura di GIORGIO INGLESE, Firenze 2021 (Società Dantesca Italiana. Edizione Nazionale), qualora il testo proposto si discosti da quello del Petrocchi e la scelta della variante risulti discutibile nel confronto con la LSA.
Si fa riferimento ai seguenti commenti:
Dante Alighieri, La Divina Commedia. Inferno. Commento di ANNA MARIA CHIAVACCI LEONARDI, Milano 2007 (19911).
Dante Alighieri, Commedia. Inferno. revisione del testo e commento di GIORGIO INGLESE, Roma 2007.
ABBREVIAZIONI
Ap : APOCALYPSIS IOHANNIS.
LSA : PIETRO DI GIOVANNI OLIVI, Lectura super Apocalipsim.
Concordia : JOACHIM VON FIORE, Concordia Novi ac Veteris Testamenti. Herausgegeben von A. PATSCHOVSKY, Wiesbaden 2017 (Monumenta Germaniae Historica. Quellen zur Geistesgeschichte des Mittelalters, 28. Band), Teil 2 (lib. I-IV), Teil 3 (lib. V).
Expositio : GIOACCHINO DA FIORE, Expositio in Apocalypsim, in Edibus Francisci Bindoni ac Maphei Pasini, Venetiis 1527, ristampa anastatica Minerva, Frankfurt a. M. 1964.
Olivi opera spesso una sintesi del testo di Gioacchino da Fiore. Le « » precedono e chiudono un’effettiva citazione. Diversamente, viene posto un asterisco (*) o una nota in apice al termine della parte riferibile a Gioacchino.
In Ap : RICCARDO DI SAN VITTORE, In Apocalypsim libri septem, PL 196, coll. 683-888.
Note sulla “topografia spirituale” della Commedia
Per quanto segua l’ordine dei ventidue capitoli dell’Apocalisse, Olivi suggerisce un metodo differente di comprensione e di aggregazione del testo esegetico, fondato sui sette stati, cioè sui periodi nei quali si articola la storia della Chiesa. L’Antico Testamento corrisponde alle prime cinque età del mondo, secondo la divisione tradizionale [1]: è l’età del Padre secondo Gioacchino da Fiore. Con il primo avvento di Cristo, nella carne, inizia la sesta età (l’età del Figlio), nella quale la Chiesa, come fosse un individuo, cresce e si sviluppa in sette stati. Al primo, apostolico periodo, succede il secondo dei martiri; poi, al tempo di Giustiniano, il terzo stato dei dottori che confutano con l’intelletto le eresie concorre con il quarto stato degli affettuosi anacoreti devoti al pasto eucaristico, alti per la contemplazione ma anche attivi come reggitori delle genti; a partire da Carlo Magno subentra il quinto stato aperto alla vita associata delle moltitudini, bello nel principio ma poi corrottosi fino a trasformare quasi tutta la Chiesa in una nuova Babilonia; la riforma interviene, a partire da Francesco, con il cristiforme sesto stato, fino alla sconfitta dell’Anticristo; subentra infine il silenzio e la quiete del pacifico settimo stato. Il sesto e il settimo stato (la terza età di Gioacchino da Fiore) coincidono con il secondo avvento di Cristo, nello Spirito, cioè nei suoi discepoli spirituali inviati a convertire il mondo con la predicazione; al termine del settimo stato ci sarà il terzo avvento, nel giudizio.
L’Apocalisse si articola in sette visioni: le sette chiese d’Asia, i sette sigilli, le sette trombe, la donna vestita di sole (le sette guerre sostenute dalla Chiesa), le sette coppe, il giudizio di Babylon nelle sette teste del drago, la Gerusalemme celeste. Le prime sei visioni possono essere a loro volta divise in sette momenti, ciascuno dei quali riferibile a uno dei sette stati. Assembrando, per le prime sei visioni, tutti i primi elementi (chiesa, sigillo, tromba, guerra, coppa, momento del giudizio di Babylon), tutti i secondi, i terzi e così di seguito, si ottengono sette gruppi di materia teologica, corrispondenti al complesso dei temi afferenti a ciascuno dei sette stati [2]. A questi sette gruppi se ne aggiungono altri due: l’esegesi della settima visione (senza articolazioni interne) e l’esegesi di capitoli del testo scritturale, o di parti di essi, introduttivi delle successive specificazioni delle singole visioni per settenari, che Olivi definisce “radicalia” o “fontalia”. Si ottengono in tal modo nove gruppi: le parti proemiali, i sette assembramenti di settenari e la settima visione. Il grande prologo della Lectura, articolato in tredici notabilia, può essere anch’esso aggregato nelle sue parti secondo i sette stati.
L’intenso travaso di parole-temi dalla Lectura nella Commedia si accompagna a un fatto strutturale. La Commedia mostra un ordine interno diverso da quello che appare al lettore: il viaggio di Dante ha un andamento di ciclici settenari, che corrispondono ai sette stati oliviani. È un ordine registrabile per zone progressive del poema dove prevalgono i temi di un singolo stato, che rompe i confini letterali stabiliti dai canti e da tutte le divisioni materiali per cerchi, gironi, cieli. Ogni stato, che ha differenti inizi, è concatenato per “concurrentia”, come le maglie di un’armatura, con quello che precede e con quello che segue. Ciascuno stato ha in sé una grande ricchezza di motivi e contiene inoltre temi di tutti gli altri, consentendo innumerevoli intrecci e variazioni. La Commedia appare, come l’Apocalisse, “libro scritto dentro e fuori” (Ap 5, 1), con duplice struttura, linguaggio e senso, letterale e spirituale. Il viaggio di Dante e la visione di Giovanni hanno la stessa causa finale, che è la beatitudine, alla quale si perviene con diverse guide, per gradi segnati da visioni sempre più nuove e ardue delle precedenti, attraverso una sempre maggiore apertura dell’arcano coperto dal velame dei sette sigilli fino al punto più alto in cui, in questa vita, è possibile vedere la verità.
Tutti i modi del linguaggio interiore al poema esprimono un processo, un viaggio dal più chiuso al più aperto, e in questo andare hanno una loro precisa collocazione ‘topografica’, uno ‘stato’ (nel senso di momento storico che ricade sulla coscienza individuale) al quale appartenere. Si possono in tal modo stendere vere e proprie mappe tematiche che comprendano l’ordine spirituale di tutta la Commedia che aderisce, parodiandola semanticamente, a una precisa teologia della storia, sia pure modificandone profondamente le prospettive. La ciclicità dei temi permette di stabilire collegamenti inusitati tra le diverse zone; il procedere per gradi dell’illuminazione divina fa sì che episodi oscuri e quasi ermeticamente chiusi si chiariscano poi, aprendosi all’intelligenza in modo più alto.
A ogni gruppo è arbitrariamente assegnato un diverso colore: Radici (verde), I stato (verde acqua), II stato (rosso), III stato (nero), IV stato (viola), V stato (marrone), VI stato (blu), VII stato (indaco), VII visione (fucsia). Dei gruppi sono stati integralmente studiati il terzo stato e la settima visione.
INFERNO
(le prime cinque età del mondo)
La ‘topografia spirituale’ del poema mostra nell’Inferno cinque cicli settenari corrispondenti agli stati della Chiesa descritti da Olivi e ai loro temi contenuti nella Lectura. Questi cinque cicli designano le prime cinque età del mondo (riunite a loro volta nel primo stato generale, che corrisponde all’età del Padre di Gioacchino da Fiore), in quanto prefigurazione del primo avvento di Cristo e della Chiesa.
I cinque cicli settenari che si susseguono nell’Inferno a partire dal quarto canto (i primi tre canti hanno una tematica particolare) sono preceduti da cinque zone che possono essere definite ‘snodi’, dove cioè confluiscono temi provenienti da più stati, intrecciati insieme ad altri ad avviare il procedere settenario. Il centro di questi ‘snodi’ coincide con un canto (Inf. IV, X, XVII, XXVI, XXXII), ma la zona è più vasta e supera l’ambito dato dalla divisione letterale del poema.
Inf. I-III sono da considerare al di fuori dei cicli. Inf. I e II sono profondamente segnati dai temi del sesto stato. Inf. III è riferibile al settimo stato (per gli ignavi) e in parte al quinto (per l’episodio di Caronte). |
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canti |
I ciclo |
stati |
cerchi |
IV |
Limbo |
Radici, I (I snodo) |
I |
V |
lussuriosi |
II |
II |
VI |
golosi |
III |
III |
VII |
avari e prodighipalude Stigia
|
III–IV
V |
IV
|
VIII |
palude Stigia (orgogliosi)
|
V |
V |
IX |
apertura della porta di Dite |
V–VI |
|
canti |
II ciclo |
stati |
cerchi |
IX-X-XI |
eretici, ordinamento dell’inferno |
I (II snodo) |
VI |
XII |
violenti contro il prossimo |
II |
VII (girone 1) |
XIII |
violenti contro sé |
III |
(girone 2) |
XIV |
violenti contro Dio: bestemmiatori |
IV |
(girone 3) |
XV-XVI |
violenti contro Dio: sodomiti |
V |
|
XVIXVII |
ascesa di GerioneGerione, violenti contro Dio: usurai |
VI |
canti |
III ciclo |
stati |
cerchi |
XVII |
volo verso Malebolge |
I (III snodo) |
|
XVIII |
ruffiani, lusingatori |
Radici – II |
VIII (bolgia 1, 2) |
XIX |
simoniaci |
III |
(bolgia 3) |
XX |
indovini |
IV |
(bolgia 4) |
XXI-XXII |
barattieri |
V |
(bolgia 5) |
XXIII |
ipocriti |
V–VI |
(bolgia 6) |
XXIV-XXV |
ladri |
VI |
(bolgia 7) |
canti |
IV ciclo |
stati |
cerchi |
XXVI |
consiglieri di frode (greci) |
I (IV snodo) |
(bolgia 8) |
XXVII |
consiglieri di frode (latini) |
II |
|
XXVIII-XXIX |
seminatori di scandalo e di scisma |
III |
(bolgia 9) |
XXIX |
falsatori |
IV |
(bolgia 10) |
XXX |
falsatori |
IV–V |
|
XXXI |
giganti |
V–VI |
|
canti |
V ciclo |
stati |
cerchi |
XXXII |
Cocito: Caina, Antenora |
I (V snodo) |
IX |
XXXIII |
Antenora, Tolomea |
II |
|
XXXIV |
Giudecca |
III–IV–V |
|
XXXIV |
volgersi di Virgilio sull’anca di Lucifero |
VI |
|
Il sesto stato è per Olivi la fase più importante nella costruzione dell’edificio della Chiesa. In esso “renovabitur Christi lex et vita et crux”. Corrisponde ai tempi moderni. Ha quattro diversi inizi temporali: uno profetico, con Gioacchino da Fiore, il quale lo vide in spirito concependo la sua terza età; il secondo con la conversione di Francesco (1206), che seminò la pianta; il terzo con la predicazione degli uomini spirituali, per la quale la pianta si rinnovella; il quarto con la distruzione storica di Babylon. Dura fino alla sconfitta dell’Anticristo, il cui avvento si collocherebbe, secondo i numeri della profezia di Daniele 12, 11-12 combinati con Ap 12, 6 e 14, fra il 1290 e il giubileo di pace del 1335.
Una ‘vita nuova’ si instaura nel sesto stato, per eccellenza il momento dell’imitazione di Cristo. I rami dell’albero si dilatano producendo il frutto della carità, l’acqua che proviene da Cristo-fonte attraverso il condotto che percorre i primi cinque stati della Chiesa si effonde in un lago; è il tempo, assimilato al sacramento del matrimonio, della letizia nuziale, della familiarità, dell’amicizia. Corrisponde al sesto giorno della creazione, in cui vennero creati prima i rettili e le bestie irrazionali, poi l’uomo razionale che, come l’ordine evangelico, è fatto a immagine e somiglianza di Dio e domina tutti gli animali.
Le espressioni di Olivi relative al sesto stato – “quoddam sollempne initium novi seculi … renovaretur et consumaretur seculum”, nel quale il sacerdozio apostolico “redeat et assurgat ad ordinem primum”, la “nova Ierusalem”, interpretata come “visione di pace”, viene vista “descendere de celo” e la Chiesa descritta come la donna vestita di sole con la sua “virginea proles” – sono la veste spirituale dei versi della quarta egloga virgiliana che celebrano la rinnovata età dell’oro: “Magnus ab integro saeclorum nascitur ordo / iam redit et Virgo; redeunt Saturnia regna; / Iam nova progenies caelo demittitur alto” (Egloga IV, 5-7). Olivi completa la Lectura super Apocalipsim nel 1298, poco prima di morire, il 14 marzo, a Narbonne. Quel felicissimo stato segnato dalla pace sotto il divo Augusto, che rese l’umanità disposta al primo avvento di Cristo, si sta rinnovando nel sesto stato della Chiesa, nel secondo avvento nello Spirito. Scrive Arsenio Frugoni: “[…] quell’escatologismo, oltre che ideologia di lotta e di riforma del gruppo spirituale, era anche un vero e proprio sentimento storico […] una tensione di rinnovamento, una ansia di salvezza, che nel 1300, l’anno centenario della Natività, aveva trovato come una attivazione, in un senso di pienezza dei tempi, cui doveva corrispondere un fatto, un accadere meraviglioso e nuovo” [3].
All’apertura del sesto sigillo, l’eletta schiera dei riformatori – i 144.000 segnati dalle dodici tribù d’Israele – guida la turba innumerevole di ogni gente, tribù, popolo e lingua (Ap 7, 3-4.13). Questi eletti e magnanimi duci, separati dalla volgare schiera per più alta milizia, vengono destinati a difendere liberamente la fede – ad essi è data la “plena libertas ad innovandam christianam religionem” -; sono gli amici di Dio a lui noti per nome, configurati in Cristo crocifisso e votati al martirio.
All’interno della Chiesa del sesto stato, l’Ordine dei Minori – “ordo plurium personarum” – è assimilabile alla persona umana di Cristo. Come questa si sviluppò fino all’età virile, così dovrà essere per l’ordo evangelicus piantato da Francesco, che avrà bisogno (a differenza di Cristo che stette poco tempo nel mondo) di due o tre generazioni per svilupparsi prima di subire una condanna simile a quella di Cristo [4]. La sua maturità coincide, verso il 1300, con il terzo inizio del sesto stato, cioè con il rinnovarsi per opera dello Spirito di Cristo, nel suo secondo avvento, della pianta seminata da Francesco. Questa concezione dell’Ordine francescano come individuo in sviluppo che, perfettamente maturato, diventa il novus ordo preconizzato da Gioacchino da Fiore per l’età dello Spirito, si differenzia da quella di Bonaventura, che aveva invece distinto i Francescani del proprio tempo – e quindi anche gli Spirituali – dall’Ordine finale che dominerà fino ai confini della terra. Alla terza apertura del sesto sigillo nuovi san Giovanni vengono inviati a predicare al mondo come nel tempo degli Apostoli. Ma Giovanni non designa solo un Ordine, perché Olivi lascia aperta la possibilità di rivelazioni individuali, avute da “singulares persone”, perfetti imitatori di Cristo votati, con la loro “lingua erudita”, al compito della conversione universale.
[LSA, cap. X, Ap 10, 11] “Et dixit michi: Oportet te iterum prophetare in gentibus et populis et linguis et regibus multis”. In ipsa sapientia libri expresse continetur quod oportet iterum predicari evangelium in toto orbe, et Iudeis et gentibus, et totum orbem finaliter converti ad Christum. Sed quod per istum hoc esset implendum non poterat sciri nisi per spiritualem revelationem, et hoc dico prout per Iohannem designantur hic singulares persone quia, prout per ipsum designatur in communi ordo evangelicus et contemplativus, scitur ex ipsa intelligentia libri quod per illum ordinem debet hoc impleri.
Nei cinque cicli settenari della prima cantica il sesto stato è segnato dall’apertura della porta della città di Dite (Inf. IX, 89-90); dall’ascesa di Gerione dall’abisso (Inf. XVI, 106-136); dal precipitoso passaggio dalla quinta alla sesta bolgia (Inf. XXIII, 1-57) e poi dalle trasformazioni della settima, dove i ladri fiorentini si mutano in serpenti e viceversa (Inf. XXIV-XXV); dal chinarsi di Anteo sul fondo dell’inferno (Inf. XXXI, 136-145); dal passaggio del centro della terra, con la conversione di Virgilio sull’anca di Lucifero, che è passaggio verso la sesta età, quella della Chiesa, descritta nel Purgatorio.
Ma i temi propri del sesto stato sono diffusi ovunque, intrecciati con quelli degli altri stati, e alla loro esegesi rinviano precise parole-chiave incardinate nel senso letterale dei versi. L’esegesi dell’angelo del sesto sigillo (Ap 7, 2) è già centrale nel primo canto del poema.
La novità che il sesto stato, per eccellenza stato di rinnovamento di questo secolo, arreca nell’inferno è una novità fittizia: l’apertura della porta della città di Dite non è vera novità, perché essa è stata chiusa dall’ostinazione dei diavoli, recidivi dopo l’apertura della porta dell’inferno da parte di Cristo prefigurata dalla venuta di Ercole all’Ade, per cui Cerbero “ne porta ancor pelato il mento e ’l gozzo”; Gerione viene su ad un “novo cenno” di Virgilio, ma è figura della frode dalla velenosa coda aculeata; il nuovo prodotto dalle trasformazioni reciproche di serpenti e uomini è qualcosa di incompiuto perché l’uomo razionale, creato nel sesto stato, regredisce allo stato precedente.
L’Inferno è il luogo della durezza lapidea, dell’impetrarsi, del parlare duro di cose dure a dirsi, del duro giudizio, del senso duro della scritta al sommo della porta, dei duri lamenti, dei duri demoni, dei duri veli del gelo, della gravezza. Nell’Inferno vige l’imposizione data a Daniele dall’angelo sotto il sesto sigillo dell’Antico Testamento: “Ora tu, Daniele, chiudi queste parole e sigilla questo libro fino al tempo stabilito” (Dn 12, 4), che era la sesta età nella quale apparve Cristo e in particolare il sesto stato della sua Chiesa nella quale il libro doveva essere più pienamente aperto, non però ai malevoli e ai maldisposti. Questa durezza è rotta dall’invito di Dante ai dannati perché parlino. Far parlare liberamente, per dettato interiore, è la principale prerogativa del sesto stato – la nuova età che tanto s’aspetta, quella che ode del “dolce stil novo” e delle “nove rime” -, ed è tema che la poesia canta per intero, sia pure per un attimo, anche nella vecchia roccia infernale. Appartiene alla sesta chiesa il parlare liberamente di Cristo – ad essa è dato l’“ostium apertum”, che è “ostium sermonis” – , il sentire per dettato interiore, l’aprirsi della volontà. Appartiene alla sesta chiesa anche il far venire quelli che si dicono Giudei senza esserlo, mutati nel cuore e disposti a farsi battezzare e governare. Questo far venire a parlare equivale al cortese e liberale invito dello Spirito di Cristo a convivare, a venire con desiderio e volontario consenso, con “disio” e con “velle”, in una pausa di pace nell’eterna dannazione. All’“affettüoso grido” del poeta le ombre di Francesca e Paolo vengono “dal voler portate” verso un momento di mutazione, sebbene limitata al successivo colloquio. Tutto l’Inferno è un contrappunto fra la durezza del giudizio e l’apertura per la parola dirompente, fin che essa dura, la pena. Un’apertura che si esprime in varie forme: muoversi sospirando nel Farinata prima immobile, ‘crollarsi’ quasi per terremoto interiore dello ‘schivo’ Ulisse, convertirsi del vento in voce in Guido da Montefeltro, tornare indietro nel cammino assegnato o separarsi dai compagni di pena, essere sforzati a parlare anche malvolentieri, non poterlo negare o mostrare fretta di farlo, arrestarsi obliando il martirio, levarsi per poi ricadere, sollevarsi da atti bestiali per ritornare a essi dopo aver parlato, come nel conte Ugolino. In tante lingue, che parlano come per sé stesse mosse, sta un solo desiderio, il vivere ancora nel libro che è stato altrui aperto.
Se nell’Inferno il sesto stato non si realizza mai compiutamente, anche il settimo, che gli è strettamente connesso, non può trovare un luogo autonomo. Ciò non toglie che temi del settimo stato (e della settima visione) siano ben presenti in modo diffuso. Ad esempio, quelli relativi alla settima chiesa assumono particolare rilievo nella descrizione degli ignavi a Inf. III. Tempo del silenzio, della serena pace, del riposo dalle ansiose fatiche, il settimo stato subentra dopo le terribili tentazioni inferte, con un martirio non corporale ma psicologico, dai carnefici dell’Anticristo nel sesto. Come ogni momento della storia umana partecipa dell’imitazione di Cristo, che raggiunge l’acme nel sesto stato, così in ogni periodo si verifica una sua “quietatio”, una pausa di pace, di quiete, di silenzio propria del settimo. Così Francesca parla e ascolta “mentre che ’l vento, come fa, ci tace”. Il vento – “la bufera infernal, che mai non resta” – designa il fluttuare tempestoso delle passioni nel cuore.
PURGATORIO
(sesta età del mondo)
Dopo le prime cinque età del mondo (corrispondenti all’Antico Testamento, la gioachimita età del Padre), che hanno segnato la discesa a spirale per i cinque cicli settenari dell’Inferno, con il Purgatorio inizia la sesta età, quella di Cristo (l’età del Figlio), che ha sette stati, corrispondenti ai sette stati della Chiesa. Dapprima, nel cosiddetto ‘antipurgatorio’, si registrano in successione temi prevalenti dei primi cinque stati. Il sesto stato della sesta età (con cui si apre l’età dello Spirito) inizia con l’apertura della porta di san Pietro (la porta del purgatorio). Questo sesto stato procede anch’esso con andamento settenario, per cui ha sette momenti, coincidenti principalmente con un girone della montagna, ma non del tutto, perché sempre l’ordine spirituale del poema rompe i confini letterali e le divisioni materiali, concatenando i temi di uno stato prevalente con quelli dello stato che precede e con quelli dello stato che segue e intrecciandoli con temi di tutti gli altri stati.
È spiegato nel Notabile VII del prologo della Lectura che il sesto stato della Chiesa è il secondo stato di Cristo e ha i suoi sette tempi per cui la Chiesa, come fosse una sfera, si ricongiunge circolarmente al primo apostolico tempo. Il settimo dei sette momenti del sesto stato della Chiesa coincide con il settimo stato generale della Chiesa, che nel poema corrisponde in parte all’ultimo girone della montagna (il settimo, dove si purgano i lussuriosi) e in parte all’Eden, con cui si chiude la seconda cantica.
Il Purgatorio dunque, secondo il senso spirituale, è la storia della Chiesa che corre verso il suo sesto stato, punto di riferimento di tutte le vicende umane, antiche e moderne, che ad esso cooperano. Non è casuale che nel sesto girone della montagna sia chiarificata e riconosciuta, nel colloquio con Bonagiunta da Lucca, la poetica delle “nove rime” di Dante, già “sesto tra cotanto senno” cooptato nella “bella scola” dei poeti del Limbo.
La vasta zona dedicata al sesto momento del sesto stato della Chiesa ha il suo inizio nel forte terremoto che scuote la montagna mentre Dante e Virgilio si trovano ancora nel quinto girone (Purg. XX, 124-141). Essa è stata compiutamente esaminata altrove.
Il settimo stato dell’Olivi si realizza parte in questa vita (come pregustazione in terra della gloria eterna, cioè fin sulla cima della montagna) e in parte nella futura (nel senso della quiete delle anime beate in attesa della resurrezione, che è la materia del Paradiso).
canti |
I ciclo – fino al sesto sato |
stati |
|
I |
Catone |
Radici, I |
|
II |
angelo nocchiero, Casella |
I – II |
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III |
scomunicati |
III |
“Antipurgatorio” |
IV |
salita al primo balzo, Belacqua |
IV – V |
|
V |
negligenti morti per violenza |
V |
|
VI |
Sordello |
V |
|
VII-VIII |
valletta dei principi |
V |
|
IX |
apertura della porta |
VI – sesto stato |
|
canti |
II ciclo – il sesto stato della sesta età |
stati |
gironi |
X-XII |
superbi |
I |
I |
XIII-XIV-XV |
invidiosi |
II |
II |
XV-XVIII |
iracondiordinamento del purgatorio,amore e libero arbitrio |
III |
IIIIV |
XVIII-XIX |
accidiosi |
IV |
IV |
XIX-XX |
avari e prodighi |
V |
V |
XX (terremoto) -XXV |
Stazio, golosi, generazione dell’uomo |
VI |
VI |
XXV-XXVI |
lussuriosi |
VII – settimo stato |
VII |
XXVIIXXVIII-XXXIII |
muro di fuoconotte stellata, termine dell’ascesaEden |
|
PARADISO
(settimo stato della Chiesa)
Il Primo Mobile è il nono e penultimo cielo, ma è il sesto se si parte dal cielo del Sole. È anche il cielo più segnato dal tema del “punto”, cui è assimilato il sesto stato. Questo consente di ricostruire l’ordine spirituale del Paradiso ponendo la cerniera nel quarto cielo del Sole. Con il terzo cielo di Venere termina infatti il cono d’ombra gettato dalla terra, secondo la dottrina di Alfragano (Par. IX, 118-119), mentre prima di descrivere l’ascesa al cielo del Sole il poeta invita il lettore a rivolgersi “a l’alte rote” (Par. X, 7-27). Senza la cesura recisa che, nella prima cantica, divide i dannati puniti all’interno della città di Dite da quelli che ne stanno fuori e, nella seconda cantica, separa le anime purganti nei sette gironi della montagna dalle anime che attendono fuori della porta (il cosiddetto ‘antipurgatorio’), anche nel Paradiso gli spiriti che si manifestano nei primi tre cieli della Luna, di Mercurio e di Venere (spiriti che mancarono ai voti, spiriti che furono attivi per conseguire onore e fama, spiriti amanti) si distinguono per minore perfezione rispetto a quelli che appaiono nei cieli seguenti.
I dieci cieli del Paradiso si mostrano pertanto ordinati in due gruppi di settenari, corrispondenti agli stati della Chiesa (e alle loro prerogative) secondo Olivi, parzialmente combacianti (da 1 a 7 e da 4 a 10: coincidono gli ultimi quattro numeri del primo gruppo e i primi quattro del secondo).
I Se si considera il primo settenario, nel primo cielo della Luna si affronta la questione dell’inadempienza dei voti, che ha corrispondenza con i temi propri della prima chiesa di Efeso, il cui nome, se interpretato, oscilla tra la fervida volontà iniziale e la remissione (l’essenza del voto consiste nella volontà).
II Nel secondo cielo di Mercurio, le battaglie sostenute dal “sacrosanto segno” dell’aquila corrispondono allo stato dei martiri, che è dei combattenti, e anche la dottrina dell’incarnazione e della passione di Cristo, esposta successivamente da Beatrice, fa parte della tematica, perché l’intera Chiesa, fondata sulla passione di Cristo, imita con i martiri la sua croce, e questo giova assai al suo radicamento.
III Nel terzo cielo di Venere, Carlo Martello spiega al modo di un dottore del terzo stato la diversità delle indoli umane e come gli uomini, non assecondandole, errino; nello stesso cielo compare Folchetto di Marsiglia, che da vescovo di Tolosa combatté l’eresia albigese.
IV – I Al quarto cielo del Sole, primo del secondo gruppo di settenari per l’esaltazione della vita apostolica (propria del primo stato e rinnovata nel sesto), si può connettere il tema stesso del sole inteso nell’esegesi della quarta tromba (Ap 8, 12): “Per solem videtur hic designari solaris vita et contemplatio summorum anachoritarum, qui fuerunt patres et exempla aliorum, vel solaris sapientia et doctrina summorum doctorum”. Sapienza e contemplazione, dottori del terzo e anacoreti del quarto stato, concorrono, come Domenico e Francesco – “L’un fu tutto serafico in ardore; / l’altro per sapïenza in terra fue / di cherubica luce uno splendore” (Par. XI, 37-39) – con mutua cortesia a infiammare il meriggio dell’universo.
V – II Il quinto cielo di Marte, secondo (come il secondo stato dei martiri) per l’esaltazione della croce di Cristo formata dai lumi dei combattenti per la fede, reca in sé il tema del condiscendere proprio del quinto stato sia nel pio discendere per la croce di Cacciaguida verso Dante, sia nella decadenza degli “alti Fiorentini”, cioè delle antiche famiglie, assimilate agli anacoreti, un tempo alti e poi vòlti in basso.
VI – III Il sesto cielo di Giove, terzo (come il terzo stato dei dottori) per la spiegazione di profonde verità di fede, sviluppa il motivo, proprio della sesta chiesa, della “porta aperta”. Aprire la porta significa illuminare e rendere acuto l’intelletto che penetra nell’occulto delle Scritture, e anche dare efficacia spirituale a penetrare nel cuore di chi ascolta: così l’aquila apre la “latebra” di Dante, così l’occhio di Rifeo Troiano fu da Dio aperto alla futura redenzione.
VII – IV Nel settimo cielo di Saturno, quarto (come il quarto stato degli anacoreti), “si tace … la dolce sinfonia di paradiso” (Par. XXI, 58-60), e il tacere è tema del settimo stato. Ivi si mostrano gli spiriti contemplativi, principali soggetti del quarto stato, proprio degli anacoreti: se si conta a partire dal quarto cielo del Sole, considerando questo come primo ovvero come nuovo avvio del ciclo settenario, il cielo di Saturno è appunto quarto.
VIII (V) Il settimo cielo di Saturno è seguito dal cielo delle Stelle fisse – ottavo e quinto -, dove si mostrano le schiere del trionfo di Cristo che discendono dall’Empireo (il quinto stato è caratterizzato dalla “condescensio”) e si celebra il trionfo di Maria (sviluppo del tema, proprio della quinta chiesa, della mirabile bellezza della Chiesa, regina ornata di veste aurea per la carità che unisce e circondata dalla varietà nei doni e nelle grazie delle diverse membra). È inoltre ricapitolazione dei precedenti sette, secondo un’interpretazione più volte presente nella Lectura dell’essere ‘ottavo’. Per questo Dante, stando nel segno dei Gemelli, riguarda in giù e torna col viso per tutte quante le sette precedenti sfere (Par. XXII, 124-154).
IX (VI) Segue il Primo Mobile o Cristallino – nono e sesto cielo –, dove il poeta vede il punto luminosissimo – Dio – da cui dipende il cielo e la terra, circondato dai nove cerchi di fuoco (Par. XXVIII, 16-18, 40-42, 94-96). Il sesto stato, secondo quanto Olivi afferma nel Notabile VIII, è il “punto” da cui dipendono gli altri stati, perché appare nel testo dell’Apocalisse in modo più evidente degli altri, che da esso assumono chiarezza quanto alla loro manifestazione nella storia, come l’intelligenza delle cose ordinate ad un fine dipende dal fine.
X (VII) La quiete e l’immobilità dell’Empireo, decimo cielo – il “ciel de la divina pace” -, corrispondono al settimo stato, di cui è propria la “quietatio”, il silenzio (tema anticipato dal tacere di Beatrice in apertura del canto XXIX), e la pace.
Il Paradiso avrebbe pertanto un ordine spirituale del seguente tipo:
cielo |
stato |
cielo |
||
I |
LUNA |
I |
||
II |
MERCURIO |
II |
||
III |
VENERE |
III |
||
IV |
SOLE |
IV |
I |
SOLE |
V |
MARTE |
V |
II |
MARTE |
VI |
GIOVE |
VI |
III |
GIOVE |
VII |
SATURNO |
VII |
IV |
SATURNO |
VIII |
V |
STELLE FISSE |
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IX |
VI |
PRIMO MOBILE |
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X |
VII |
EMPIREO |
Oltre ai luoghi sopra indicati, i temi del sesto e del settimo stato si rinvengono in più punti, intrecciati con altri.
[1] Cfr. LSA, cap. XVII, Ap 17, 9: «Et subdit Ricardus quod per septem reges, et per septem capita designatos, designatur hic universus populus malorum, qui secundum septem status huius seculi determinantur. Primus scilicet ab Adam usque ad Noe. Secundus a Noe usque ad Abraam. Tertius ab Abraam usque ad Moysen. Quartus a Moys<e> usque ad David. Quintus a David usque ad Christum. Sextus a Christo usque ad Antichristum. Septimus autem sub Antichristo attribuitur». Cfr. PETRI IOHANNIS OLIVI Lectura super Lucam, Lc 1, 26, ed. F. Iozzelli, Grottaferrata 2010 (Collectio Oliviana, V), pp. 187-188: «Signanter autem dicitur in sexto mense, quia Christus uenit in sexta mundi etate, et iterum post quinque notabiles synagoge decursus: nam primo, cum sola circumcisione fuit sub patribus per quadringentos annos; secundo, accepta lege, fuit sub iudicibus per tantumdem temporis; tertio, proficiens in regnum, fuit sub regibus; quarto, assumpto plenius spiritu prophetico, fuit sub prophetis sollempnioribus, scilicet sub Elia, Ysaia et Yeremia etc.; quinto, restituto templo et urbe, fuit sub pontificibus quibus, per Aggeum et Zachariam et Malachiam iterata prophetia de Christo et eius precursore Elia, factum est silentium prophetarum, ita quod obmutuit cetus sacerdotum usque ad Iohannis ortum; et iterum in eiusdem quinti temporis sexto centenario conceptus est Christus. Sicut etiam sexto die factus est homo ad ymaginem Dei, sic conuenienter sub consimili senario factus est Christus homo, plenior Dei ymago: nam et perfectio numeri senarii, que ex omnibus partibus suis aliquotis et iterum ex ternario cum suis partibus, scilicet binario et unitate, consurgit, competit sibi et etiam reflexio ternarii per binarium, id est cultus fidei et Trinitatis per geminam caritatem».
[2] Il principio è chiaramente affermato nel notabile VIII del prologo della LSA: «[…] si omnia prima membra visionum ad invicem conferas et consimiliter omnia secunda et sic de aliis, aperte videbis omnia prima ad idem primum concorditer referri et consimiliter omnia secunda ad idem secundum et sic de aliis. Et hoc in tantum quod plena intelligentia eiusdem primi multum clarificatur ex mutua collatione omnium primorum, et idem est de omnibus secundis et tertiis et sic de aliis».
[3] A. FRUGONI, La Roma di Dante, tra il tempo e l’eterno, in ID., Pellegrini a Roma nel 1300. Cronache del primo Giubileo, presentazione di C. Frugoni, a cura e con Introduzione di F. Accrocca, Casale Monferrato 1999, pp. 102-103.
[4] LSA, cap. VI, Ap 6, 12: «Secunda ratio est quia persone Christi correspondet in sexta apertione unus ordo plurium personarum sic secundum suam proportionem augendus, sicut Christus secundum suum corpus fuit usque ad perfectam etatem viriliter auctus. […] Quarta est quia, prout super evangelia ostendi, Christus parvo tempore debuit inter nos vivere et pauciori predicare […]. Nisi autem ordo evangelicus, per Franciscum renovatus, esset in multis et saltem sub duabus vel tribus generationibus propagatus et sollempnizatus, non esset nec ipse nec populus ab eo ducendus sufficienter dispositus ad tam autenticam condempnationem condempnationi Christi consimilem subeundam».