La “Divina Parodia” del Libro scritto dentro e fuori [EN]
I canti dell’Eden: Purgatorio XXVIII, XXIX, XXX, XXXI, XXXII, XXXIII
1. Il cammino di riforma della Chiesa. 2. “Dintorno a l’albero robusto”. 3. Latini, Greci, Ebrei condotti a convertirsi. 4. “e sarai meco sanza fine cive / di quella Roma onde Cristo è romano”. 5. Persecuzioni, eresie, separazioni e decadenza della Chiesa.
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Legenda [3]: numero dei versi; 12, 4: collegamento ipertestuale all’esegesi, nella Lectura di Olivi, di capitolo e versetto dell’Apocalisse [Ap]; Not. III: collegamento all’esegesi contenuta nei tredici notabilia del prologo della Lectura. Varianti rispetto al testo del Petrocchi.Viene qui esposto il canto XXXII del Purgatorio con i corrispondenti legami ipertestuali con i luoghi della Lectura super Apocalipsim ai quali i versi si riferiscono. L’intero poema è esposto nella Topografia spirituale della Commedia (2013, PDF; cfr. infra), ma si sta procedendo a un esame progressivo e aggiornato dei singoli canti (completato l’Inferno). Ogni tabella sinottica, qui presentata o alla quale si rinvia in quanto già esaminata in altra sede, è preceduta o seguita da una parte esplicativa. Sull’uso dei colori cfr. Avvertenze. |
Purgatorio XXXII |
Tant’ eran li occhi miei fissi e attenti 12, 4
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1. Il cammino di riforma della Chiesa
Tant’ eran li occhi miei fissi e attenti / a disbramarsi la decenne sete, / che li altri sensi m’eran tutti spenti (vv. 1-3). Beatrice si è svelata; la bocca, sua “seconda bellezza” che rivela il sorriso, è manifesta. Il poeta è assorto nella contemplazione del “santo riso” della donna, che trae a sé gli occhi del poeta “con l’antica rete”, uno stato dal quale viene distolto per forza dalle tre virtù teologali, rimanendo per un po’ senza facoltà visiva. L’“antica rete” riprende, parodiando l’esegesi di Ap 12, 4, il tema introdotto nel momento dell’apparizione di Beatrice, per cui Dante indossa nuovamente i panni del diavolo ingannato dal Figlio di Dio. Come l’avversario del Redentore venne attratto dall’esca del Cristo uomo, così il poeta ha creduto di sentire con lo spirito la donna conosciuta in vita (“E lo spirito mio … d’antico amor sentì la gran potenza”). Ma come l’aculeo della divinità del Figlio di Dio trafisse per occulta virtù l’antico nemico, così “per occulta virtù che da lei mosse” sono stati trafitti gli occhi di Dante da una donna ormai salita di carne a spirito, cresciuta in bellezza e virtù (Purg. XXX, 34-42). Come di fronte alla sua donna velata ha provato, a un livello superiore, l’esperienza de “l’alta virtù che già m’avea trafitto / prima ch’io fuor di püerizia fosse”, così anche ora “l’antica rete” dell’umanità di Beatrice lo attira al divino. Di fronte a questo non si può stare “troppo fiso”, come dicono le virtù che gli fanno volgere il viso verso sinistra (il lato temporale): “e la disposizion ch’a veder èe / ne li occhi pur testé dal sol percossi, / sanza la vista alquanto esser mi fée”. Il sorriso di Beatrice incarna lo splendore del volto di Cristo (“splendor faciei”) che nel sesto stato della Chiesa riluce come il sole (“ne li occhi pur testé dal sol percossi”) e imprime in chi guarda tremore e oblio, frangendo la facoltà visiva (Ap 1, 16-17: a questa esegesi farà riferimento il sorriso di Beatrice per tutto il Paradiso).
La citazione, nell’esegesi di Ap 12, 4, del Salmo 81, 6: “Ego dixi: Dii estis et filii excelsi omnes“, esclude, al v. 8 – “quando per forza mi fu vòlto il viso / ver’ la sinistra mia da quelle dee” -, la variante idee. Dee, cioè figlie di Dio per grazia, sono appunto le tre virtù teologali che si trovano alla destra del carro; cosi saranno dii i beati che si mostrano nel cielo di Mercurio (Par. V, 123).
Ma poi ch’al poco il viso riformossi (v. 13). Il sesto stato della Chiesa è tempo di riforma del gregge (prologo, Notabile III) e di novità, segnato da un terremoto interiore che scuote le coscienze, simile a quello causato dalla predicazione di Cristo (Luca 23, 5; Ap 8, 5). Nel sesto stato la Chiesa si ricongiunge, come in un circolo e quasi fosse una sfera, al primo tempo di Cristo, iniziando in tal modo una seconda età cristiana:
[LSA, prologus, Notabile VII] Septimum est quare sextus status semper describitur ut notabiliter preeminens quinque primis et sicut finis priorum et tamquam initium novi seculi evacuans quoddam vetus seculum, sicut status Christi evacuavit Vetus Testamentum et vetustatem humani generis, unde et quasi circulariter sic iungitur primo tempori Christi ac si tota ecclesia sit una spera et ac si in sexto eius statu secundo incipiat status Christi habens sua septem tempora sicut habet totus decursus ecclesie, sic tamen quod septimus status sexti sit idem cum septimo statu totius ecclesie.
“Riformossi”, che esclude la variante “rifermossi”, fa segno della partecipazione dell’autore al processo di riforma universale, alla palingenesi rappresentata sul palcoscenico dell’Eden.
All’apertura del sesto sigillo vengono segnati sulla fronte gli eletti all’alta milizia di Cristo (Ap 7, 3-4): i temi della “signatio” sono già intervenuti più volte nel poema, ad esempio con l’“essercito molto” che va al Giubileo (Inf. XVIII, 28-33). La processione trionfale dell’Eden, “glorïoso essercito” che designa la Chiesa militante comprensiva dell’Antico Testamento, si volge come una schiera che “sé gira col segno” (i sette candelabri, cioè l’increato Spirito settiforme nei doni, che precedono i ventiquattro seniori) proteggendosi con gli scudi “per salvarsi”, in modo che a muoversi sia prima l’avanguardia (la “milizia del celeste regno”, ossia i ‘segnati’: Purg. XXXII, 16-24).
La conversione, per cui la schiera va “col sole e con le sette fiamme al volto”, inscena il passaggio dal Vecchio al Nuovo Testamento. Ma essa è orchestrata con i temi del sesto stato della Chiesa, del nuovo periodo ritornato come una sfera al suo primo tempo, che si sviluppa nei tempi moderni, nei quali opera un nuovo avvento di Cristo nello Spirito, cioè nei suoi discepoli spirituali. Dante vede nella sacra processione il primo avvento del Redentore, ma questo fa segno del secondo del quale lui stesso è protagonista.
Il grifone-Cristo “mosse il benedetto carco / sì, che però nulla penna crollonne” (vv. 25-27): muovere è proprio del terremoto (Ap 8, 5), come pure crollarsi (è il caso della fiamma di Ulisse a Inf. XXVI, 85-87); il grifone, che ne è la causa, non ne risente nelle penne (attributo, in quanto uccello, della sua divinità che è immutabile: Dante ha già visto “la cosa in sé star queta”, Purg. XXXI, 125).
La bella donna che mi trasse al varco / e Stazio e io seguitavam la rota / che fé l’orbita sua con minore arco. / Sì passeggiando l’alta selva vòta, / colpa di quella ch’al serpente crese, / temprava i passi un’angelica nota (vv. 28-33). Tornate le sette donne alle ruote del carro, e mosso dal grifone il timone, Matelda, Stazio e Dante seguono la ruota destra che, volgendosi da quel lato, descrive con il suo girare un arco minore della ruota sinistra: “seguitavam la rota / che fé l’orbita sua con minore arco”.
Il ‘seguire’ il carro tirato da Cristo contiene il tema, da Ap 14, 4, dei compagni dell’Agnello, i quali lo seguono ovunque vada, nel senso che seguono i suoi precetti e consigli, fra i quali è la povertà. Seguitare è parte del procedere “passeggiando”: l’Eden è luogo assimilato all’Asia, interpretata come “gradiens”, perché le chiese, alle quali Giovanni scrive nella prima visione, sono “in via tendendi ad patriam” (Ap 1, 4; è questo un motivo tipico di Matelda).
La “rota”, sineddoche per “carro”, è da riferire alla “vox rotarum” di Ap 9, 9, che è anche “vox curruum” (riferita alle malvage locuste, è interpretata in senso positivo). Il suo piegare più stretto “con minore arco”, nonché l’essere la selva “vòta”, è allusione alla “vacuitas cithare” di cui dice Gioacchino da Fiore nella citazione oliviana ad Ap 14, 2 (il canto dei compagni dell’Agnello sul monte Sion), alla cetra che, in quanto concava, designa la povertà volontaria e la lode di Dio che risuona bene se proceda da una mente umile e svuotata delle cose terrene (“vòta” rima con “nota”). Ciò indipendentemente dal senso letterale, per cui con l’essere “vòta” la selva dell’Eden si intende ‘vuota di uomini’, per “colpa di quella ch’al serpente crese”.
La bellezza, attribuita a Matelda, come pure il temperare, sono proprie rispettivamente della quinta chiesa, nel suo edenico principio (Ap 2, 1) e di un periodo, il quinto, condiscendente e temperato rispetto all’arduo, alto e insostenibile stato precedente (prologo, Notabile III).
temprava i passi un’angelica nota / Forse in tre voli tanto spazio prese / disfrenata saetta, quanto eramo / rimossi, quando Bëatrice scese (vv. 33-36). I passi non indicano, come spesso nel poema, solo il movimento dei piedi, ma alludono al patire e alle tribolazioni. Verso la fine del quinto stato tre gravissime tentazioni pervadono la Chiesa: la rilassatezza del clero, dei monaci e dei laici; la pestifera eresia manichea (catara), valdese e patarina; l’impugnazione dello spirito di Cristo fatta da religiosi ipocriti e fraudolenti in modo subdolo così da indurre in errore anche gli eletti. Le tre tentazioni vengono considerate insieme nella trattazione della quinta tromba (terza visione), quando viene tolto il freno al pozzo dell’abisso, cioè il cattivo esempio e il malgoverno dei prelati scioglie il freno posto ai vizi, che prima nella Chiesa era rappresentato dai precetti divini, dal timore dei giudizi, dalla rigida e severa disciplina dei prelati nei confronti dei sudditi, dall’esempio della santa compagnia e dallo zelo insofferente di enormità o sfrenatezze. Poiché il male commesso dai prelati viene preso a esempio dai sottoposti che li seguono come capi e guide, il gregge dei sudditi, sempre incline al male, vedendo i prelati precipitare a poco a poco nei vizi, in assenza di correzione o punizione da parte dei superiori negligenti e anzi favorevoli ad aprire il pozzo dei cuori, scivola anch’esso e infine precipita (Ap 9, 1-2).
Nella foresta dell’Eden tre soli passi hanno separato Dante da Matelda, che sta al di là del fiumicello; eppure l’Ellesponto, molto più largo del Lete, non fu oggetto di maggiore odio da parte di Leandro, quando il mareggiare gli impediva di raggiungere di notte l’amata Ero (Purg. XXVIII, 70-75). Il riferimento a Serse, “ancora freno a tutti orgogli umani”, in quanto passò l’Ellesponto per portare guerra ai Greci e lo riattraversò sconfitto, non è solo reminiscenza storica tratta dall’Ormista (II, x, 8-11) che s’innesta sulle Heroides di Ovidio (18-19), perché il fiumicello che separa il poeta dalla bella donna è il freno che non viene aperto o sciolto.
I “tre passi” alludono alle tre tentazioni; così i “tre voli” della “disfrenata saetta” a Purg. XXXII, 34-36 (sono da escludere le varianti diserrata/differrata; l’esegesi di riferimento, ad Ap 9, 1-2, è relativa al freno tolto). Essi sono ‘temperati’ dal canto angelico, già intervenuto con “dolci tempre” a far sciogliere il gelo che ha stretto il cuore del poeta rimproverato da Beatrice (Purg. XXX, 94-99).
2. “Dintorno a l’albero robusto”
Io senti’ mormorare a tutti “Adamo”; / poi cerchiaro una pianta dispogliata / di foglie e d’altra fronda in ciascun ramo. / La coma sua, che tanto si dilata / più quanto più è sù, fora da l’Indi / ne’ boschi lor per altezza ammirata (vv. 37-42). Il tema del mormorare, nell’esegesi accostato al salire della fiamma e appropriato alla pena eterna (Ap 14, 11), nei versi viene liberamente variato a beneficio della fiamma di Ulisse (Inf. XXVI, 85-86) o dell’aquila nel cielo di Giove (Par. XX, 25-27).
A proposito del numero del nome della bestia (DCLXVI: Ap 13, 18), Olivi cita l’interpretazione data da Gioacchino da Fiore (nell’Expositio in Apocalypsim) del numero sei e dei suoi derivati, in quanto numeri che colgono le cose temporali fatte nei sei giorni della creazione e amate dai figli di questo mondo: il tempo secolare da Adamo alla fine del mondo (DCLXVI); le sei età di questo mondo in cui la bestia regna (DC); i sei tempi della sesta età nei quali la bestia perseguita più atrocemente la Chiesa (LX); il sesto tempo della sesta età, cioè il tempo del regno dell’Anticristo in cui arde il furore della bestia (VI). Questi temi sono punti di riferimento nella quinta bolgia dei barattieri (Inf. XXI).
Olivi osserva che tutte le volte che nell’Apocalisse si tratta del grande Anticristo si tratta pure, al modo dei profeti, del tempo dell’Anticristo mistico che precede quello grande o aperto. Secondo ciò con la bestia che sale dal mare (Ap 13, 1) viene significata la vita bestiale e la plebe dei cristiani carnali e secolari, che a partire dalla fine del quarto tempo (segnato dalle conquiste arabe) ebbe molte teste di principi e di prelati carnali, e ciò quasi per seicento anni, e che in questo suo sesto centenario fu come una testa uccisa (Ap 13, 3) dallo stato evangelico di Francesco. Quanto più infatti la povertà evangelica e la perfezione che le è propria viene impressa e magnificata in modo più alto e dilatato nella Chiesa, tanto più fortemente la testa della cupidigia terrena e della vile carnalità viene in essa uccisa. Ma ormai questa testa quasi estinta rivive troppo, tanto che tutti i cristiani carnali seguono ammirati la sua gloria terrena.
Il tema della povertà evangelica, che quanto più si eleva e si dilata nella Chiesa tanto più uccide la testa della cupidigia terrena e della vile carnalità, passa nell’“albero robusto” dell’Eden, la cui chioma “tanto si dilata / più quanto più è sù” e che potrebbe essere oggetto di meraviglia per gli Indiani, nei cui boschi crescono piante altissime (Purg. XXXII, 40-42; interviene anche, nel salire in alto, la sopra menzionata esegesi di Ap 14, 11). Agli Indiani è applicato, in senso positivo, il motivo della meraviglia dei carnali nei confronti della testa della bestia che sembrava uccisa e che rivive (Ap 13, 3), come rivive innovandosi l’albero dell’Eden, prima dispogliato, nel momento in cui il grifone-Cristo lega ad esso il timone del carro.
A questo punto non appare casuale che il canto, il quale si conclude con la visione delle vicissitudini del carro, sia composto – caso unico, e il più lungo, nel poema – di centosessanta versi: il numero sessanta indica infatti i sei tempi della sesta età, nella quale la bestia ha perseguitato più atrocemente la Chiesa.
“Beato se’, grifon, che non discindi / col becco d’esto legno dolce al gusto, / poscia che mal si torce il ventre quindi”. / Così dintorno a l’albero robusto / gridaron li altri; e l’animal binato: / “Sì si conserva il seme d’ogne giusto” (vv. 43-48).
Il legno dell’albero simbolico dell’Eden, dolce al gusto ma che fa poi torcere il ventre produce l’effetto contrario a quello del libro dato a Giovanni, che prima provoca contorsioni amare e poi risulta dolce, secondo quanto viene detto all’autore dell’Apocalisse ad Ap 10, 9-10 (sesta tromba). Adamo, a Par. XXXII, 121-123, “è ’l padre per lo cui ardito gusto / l’umana specie tanto amaro gusta”.
Filadelfia, la sesta chiesa d’Asia, è interpretata sia come “amor fratris” che come “salvans hereditatem”, arca evangelica del seme della fede nel diluvio dell’Anticristo mistico e di quello aperto (Ap 2, 1): «Così dintorno a l’albero robusto / gridaron li altri; e l’animal binato: / “Sì si conserva il seme d’ogne giusto”» (Purg. XXXII, 46-48; il passo di Matteo 3, 15 – “Sic enim decet nos implere omnem iustitiam” -, di solito citato come fonte, non reca in sé il tema del conservare il seme).
L’albero è “robusto” come fu ‘robusta’ la guerra sostenuta dalla Chiesa al tempo dei martiri nel secondo stato della sua storia (Ap 12, 7): ne darà testimonianza la prima visione delle tribolazioni inflitte al carro ai vv. 109-117.
Accanto all’albero di Adamo ed Eva che sta per rifiorire, e tanto si eleva in alto come la povertà evangelica, Cristo stesso, nella figurazione del suo avvento nella carne, attesta la sua seconda venuta nello Spirito e l’indefettibilità della Chiesa.
E vòlto al temo ch’elli avea tirato, / trasselo al piè de la vedova frasca, / e quel di lei a lei lasciò legato (vv. 49-51). Peter Dronke ha comparato il verso della preghiera boeziana – “Dissice terrenae nebulas et pondera molis” – con le parole di san Bernardo alla Vergine – “perché tu ogne nube li disleghi / di sua mortalità” (Par. XXXIII, 31-32) [1]. Disleghi è tuttavia anche segno dell’incipit della Lectura, con la citazione di Isaia 30, 26: “Erit lux lune sicut lux solis, et lux solis erit septempliciter sicut lux septem dierum, in die qua alligaverit Dominus vulnus populi sui et percussuram plage eius sanaverit”. La luce della luna (il Vecchio Testamento) sarà pari alla luce del sole (il Nuovo) e questa sarà sette volte più intensa, come la luce di sette giorni, il giorno nel quale Dio fascerà la ferita del suo popolo e sanerà le sue piaghe. Il verbo dislegare è accostato, nell’incontro con Stazio, al risanare le piaghe: «ecco qui Stazio; e io lui chiamo e prego / che sia or sanator de le tue piage. / “Se la veduta etterna li dislego”, / rispuose Stazio …» (Purg. XXV, 29-32). Per quanto dislegare (qui nel senso di far palese) sia il contrario di fasciare (alligare nel passo di Isaia), Dante ha comunque elaborato in volgare la citazione del profeta inserendo il primo verbo al posto del secondo e traslitterando quest’ultimo al termine del canto: “con tal cura conviene e con tai pasti /che la piaga da sezzo si ricuscia” (vv. 138-139). L’effetto dei due verbi è affine, perché dislegare e alligare sanano le piaghe. Stazio illumina Dante circa la “veduta etterna” sull’anima umana come Maria, nella preghiera di san Bernardo, dislega, cioè dissipa, “ogne nube … di sua mortalità”, quella legata alla colpa originale, “la piaga che Maria richiuse e unse”, secondo quanto afferma lo stesso contemplante a Par. XXXII, 4. Il lettore spirituale, giunto a “disleghi”, non solo poteva rammentarsi di Boezio (dissice), se mai lo conosceva, ma avrebbe collegato la parola alla piaga del peccato originale chiusa da Maria. Al contrario di Maria e Stazio, “Rodolfo imperador fu, che potea / sanar le piaghe c’hanno Italia morta, / sì che tardi per altri si ricrea” (Purg. VII, 94-96).
Del grifone-Cristo si dice: “e quel di lei a lei lasciò legato” (Purg. XXXII, 51), cioè, secondo l’interpretazione del Buti, legò all’albero il timone che con quel legno era stato fatto (secondo la diffusa leggenda per cui la croce, nel caso il timone, era stata ricavata dall’albero di Adamo ed Eva). Sanare la piaga equivale a legare; i due verbi sono posti nella 32a terzina, vv. 94-96, rispettivamente a Purg. VII e XXXII). “A lei lasciò legato” è pertanto da ricondurre all’esegesi dell’incipit della Lectura, dove la citazione da Isaia 30, 26 – “La luce della luna sarà pari a quella del sole” – fa riferimento, secondo Olivi, allo splendore di luce alla fine del mondo, secondo il senso letterale, e alla gloria di Cristo nel Nuovo Testamento secondo il senso allegorico. La luce sarà “come la luce di sette giorni” perché il Nuovo Testamento procede, fino alla fine dei tempi, in sette stati. La Redenzione non si è conclusa con il primo avvento di Cristo, nella carne; prosegue nella storia della Chiesa: prima la conversione dei Gentili, poi, nel sesto stato, quella delle genti rimaste e infine degli Ebrei.
Il grifone che lega il timone-croce del carro all’albero non fa dunque segno unicamente dell’avvento di Cristo uomo, ma anche di quello, contemporaneo all’autore dei versi, dello Spirito nei suoi discepoli, quando questi patiranno, insieme alla Chiesa, un nuovo calvario [2].
Come le nostre piante, quando casca / giù la gran luce mischiata con quella / che raggia dietro a la celeste lasca, / turgide fansi, e poi si rinovella / di suo color ciascuna, pria che ’l sole / giunga li suoi corsier sotto altra stella; / men che di rose e più che di vïole / colore aprendo, s’innovò la pianta, / che prima avea le ramora sì sole (vv. 52-60). L’apertura del sesto sigillo, come detto ad Ap 6, 12, avviene in quattro tempi diversi. C’è un inizio profetico in Gioacchino da Fiore e forse in alcuni altri suoi contemporanei ai quali è stata rivelata la terza età generale del mondo, che contiene il sesto e il settimo stato della Chiesa. Il secondo inizio è con Francesco, padre e pianta del suo Ordine e della sua regola. Il terzo coincide con la nuova fioritura dovuta al risvegliarsi dello Spirito di Cristo in alcuni predicatori, nel momento in cui la regola francescana viene impugnata e condannata dalla Chiesa carnale. Il quarto inizio è segnato dalla distruzione di Babilonia ad opera dei dieci re, inizio per cui il sesto stato si distingue in modo chiaro dal quinto. Questi quattro inizi non sono in contraddizione, ma concordi fra loro. Così si verifica nei Vangeli: Luca inizia infatti dal sacerdozio di Zaccaria, al quale venne profeticamente rivelata la venuta di Cristo, e da Giovanni Battista, suo immediato precursore; Matteo inizia dall’umana generazione di Cristo, Marco dalla sua predicazione insieme al Battista, Giovanni dall’eternità del Verbo e dall’eterna generazione. Così, nei profeti, si può trovare diversità di inizio nel computo dei settant’anni della cattività babilonese e della desolazione del Tempio ad opera dei Caldei, o delle settanta settimane di Daniele (Dn 9, 24).
Il primo inizio profetico del sesto stato, visto in spirito da Gioacchino da Fiore, è ricordato da Bonaventura nel cielo del Sole: “e lucemi dallato / il calavrese abate Giovacchino / di spirito profetico dotato” (Par. XII, 139-141).
Il secondo inizio si rispecchia nell’elogio di Francesco fatto da Tommaso d’Aquino nel cielo del Sole (Par. XI). Ma il tema della prima fioritura è da Dante appropriato a Domenico, come appare dalle parole di Bonaventura relative alla Spagna: “In quella parte ove surge ad aprire / Zefiro dolce le novelle fronde” (Par. XII, 46-47). Viene dunque estesa a Domenico la prerogativa di avere iniziato il sesto stato.
Il terzo inizio – la nuova fioritura operata dalla predicazione degli spirituali – è nel rinnovarsi e rifiorire del grande albero dell’Eden (Purg. XXXII, 52-60), ma anche nell’essere il poeta, dopo aver bevuto l’acqua dell’Eunoè, “rifatto sì come piante novelle / rinovellate di novella fronda, / puro e disposto a salire a le stelle” (Purg. XXXIII, 142-145).
Tutta la processione nell’Eden ha come scopo finale la fioritura dell’albero, che avviene nel sesto stato della Chiesa. L’atto del grifone, di legare il timone del carro all’albero, non è solo commemorazione del suo farsi uomo nel primo avvento nella carne, ma anche di una Redenzione che procede nella storia e ora, nel tempo presente, opera nel secondo avvento, nello Spirito tramite i suoi seguaci.
Il quarto inizio dell’apertura del sesto sigillo – la distruzione storica di Babylon, con il terremoto che l’accompagna – non si realizza nel corso del viaggio, che la brucia solo virtualmente (ma, a Purg. XX, il terremoto che sconvolge la montagna fa segno della fine del regno di Francia). L’uccisione della prostituta da parte di “un cinquecento diece e cinque” è profetizzato come imminente da Beatrice nell’Eden (Purg. XXXIII, 43-45). Nel Paradiso l’invettiva di Pier Damiani contro “li moderni pastori” è confermato dai lumi degli spiriti contemplativi con “un grido di sì alto suono”, preghiera di vendetta che ‘muove’ di stupore il poeta, proprio come in un terremoto interiore (Par. XXI, 136-142; XXII, 1-18).
Tipico della sesta chiesa, oltre al rinnovarsi, è avere la porta aperta; così “men che di rose e più che di vïole / colore aprendo, s’innovò la pianta” (Purg. XXXII, 58-59). Ma rinnovamento ed eredità salvata non sono solo della Chiesa, rappresentata dall’ “albero robusto”, perché, come afferma Beatrice, “non sarà tutto tempo sanza reda / l’aguglia che lasciò le penne al carro, / per che divenne mostro e poscia preda” (Purg. XXXIII, 37-39). Anche l’Impero partecipa della stessa indefettibilità della Chiesa, per cui non può mai estinguersi fino alla fine dei secoli, anche nei momenti in cui appare non esserci. Il lignum vitae, cioè Cristo, che sta nel mezzo della Gerusalemme celeste, ombreggia con le sue sacramentali foglie entrambe le rive, umana e divina, inferiore e superiore (Ap 22, 1-2).
Nel momento dell’apparizione di Beatrice, il colore della parte orientale, tutta rosata, appartiene a una delle pietre preziose, l’ametista, che adornano le fondamenta della Gerusalemme celeste descritta nella settima visione (Ap 21, 20). L’ametista è assimilabile al viola e al rosa insieme, e designa congiuntamente l’umiltà del prelato che si espone fino alla morte per lo zelo e l’amore verso i sudditi e che con il suo esempio effonde la fiamma della carità e della sapienza divina. In questo senso il tema passa in Purg. XXXII, 58-59, quando l’“albero robusto” dell’Eden, che prima aveva i rami così soli per il peccato di Adamo [3], s’innova aprendo un colore “men che di rose e più che di vïole”, allusione all’esporsi di Cristo alla morte per zelo e amore dell’umanità. Anche Beatrice si è esposta per Dante, visitando “l’uscio d’i morti” e porgendo a Virgilio preghiere nel pianto (Purg. XXX, 139-141). Nella sua apparizione, il rosato designa il diffondersi della carità e della sapienza divina.
[1] P. DRONKE, The Conclusion of Dante’s Commedia, in Sources of Inspiration. Studies in Literaly Transformations, 400-1500, Roma 1997, pp. 131-159: 137 nota 10.
[2] Ad Ap 12, 4 Olivi pone la questione se il diavolo sapesse che Cristo era Dio o comunque senza peccato e non soggetto a dannazione. Il diavolo non conobbe la divinità di Cristo, ma solo la sua mortale umanità. Questa era però un amo che ostendeva un’esca dentro la quale stava occulto un aculeo. Così, mentre il diavolo era attratto dall’esca corporea costituita dal corpo infermo per umanità, veniva trafitto, per occulta virtù, dall’aculeo della divinità. L’esegesi, che assume grande rilievo nell’agnizione di Beatrice nell’Eden da parte di Dante, cita, parafrasandolo, il celebre inno Pange, lingua, gloriosi proelium certaminis di Venanzio Fortunato [Carmina, lib. II, 2, vv. 4-9, in Opere/1, a cura di S. Di Brazzano, Roma 2001 , p. 148 (= MGH, Auctores Antiquissimi, IV/1, rec. F. Leo, Berolini 1881, p. 28)]: “De parentis protoplasti fraude factor condolens, / quando pomi noxialis morte morsu corruit, / ipse lignum tunc notavit, damna ligni ut solveret. / Hoc opus nostrae salutis ordo depoposcerat / multiformis perditoris arte ut artem falleret / et medellam ferret inde, hostis unde laeserat”.
Non ergo dicitur capi in oculis eius ex hoc quod deitas videretur a diabolo, sed solum ex hoc quod escam humanitatis Christi habuit visibiliter coram oculis suis, non autem aculeum sue deitatis. Unde et Ambrosius super Lucam dicit quod ideo Virgo fuit desponsata Iosep, ut sacramentum incarnationis Christi diabolo celaretur. Et ecclesia, in imno passionis Christi, cantat quod nostre salutis ordo depoposcerat ut ars Christi falleret artem multiformis proditoris, de quo in versu priori premisit quod per pomum ligni fraudulenter fefellerat prothoplaustrum, id est primum hominem.
Il carme, nel rito romano, veniva cantato nelle lodi mattutine durante la settimana di Passione, e nell’adorazione della Croce nella liturgia pomeridiana del Venerdì santo. Il rimedio recato con lo stesso oggetto con cui venne inferto il torto, cioè con il “lignum”, coincide con l’atto con cui nell’Eden il grifone-Cristo lega il timone del carro-Chiesa all’albero che così rifiorisce: “e quel di lei a lei lasciò legato” (Purg. XXXII, 51), anche se nell’inno di Venanzio Fortunato non viene precisato che il legno della croce sia stato ricavato dall’albero dell’Eden. Si stabilisce comunque un sottile legame tra il nome “Adamo”, mormorato dai personaggi della processione prima di porsi in cerchio attorno all’albero spoglio (vv. 37-39), e il carro (il “plaustro”, v. 95, hapax in Dante; Adamo è “prothoplaustrum”), tra la colpa e la redenzione.
L’altro celebre carme, Vexilla regis prodeunt (II, 6), cantato anch’esso il Venerdì santo, risuona in principio dell’ultimo canto dell’Inferno (Inf. XXXIV, 1, con l’aggiunta “inferni”). Sono così accostabili i due inni alla croce del vescovo di Poitiers entrati nel breviario romano, entrambi rispettivamente collocati quasi al termine delle due prime cantiche, il primo esplicitamente citato, il secondo no. Nell’uscire dall’inferno aggrappandosi al pelo di Lucifero, Virgilio, come Cristo del quale è figura, si mostra anch’egli esperto nell’arte di ingannare il grande ingannatore.
[3] L’albero, “una pianta dispogliata / di foglie e d’altra fronda in ciascun ramo“, richiama la similitudine di Inf. III, 112-114: “Come d’autunno si levan le foglie / l’una appresso de l’altra, fin che ’l ramo / vede a la terra tutte le sue spoglie“, la quale fa anch’essa riferimento all’esegesi di Ap 16, 15.
3. Latini, Greci, Ebrei condotti a convertirsi
Io non lo ’ntesi, né qui non si canta
l’inno che quella gente allor cantaro,
né la nota soffersi tutta quanta.
S’io potessi ritrar come assonnaro
li occhi spietati udendo di Siringa,
li occhi a cui pur vegghiar costò sì caro;
come pintor che con essempro pinga,
disegnerei com’ io m’addormentai;
ma qual vuol sia che l’assonnar ben finga. (vv. 61-69)
Quanti avevano circondato l’albero, prima spoglio e ora rifiorito, prendono a cantare un inno diverso da quelli cantati sulla terra; il poeta non ne comprende le parole, come non resiste alla melodia. Il tema parodiato è il non poter ridire il canto dei compagni dell’Agnello che stanno sul monte Sion (Ap 14, 3); lo si trova variato in più luoghi del Paradiso. Un altro tema (Ap 19, 1-2) è la lode, che non può essere espressa con parole, cantata con grande melodia nel festivo convivio per le nozze di Cristo con la Chiesa, quando la moltitudine degli Ebrei e delle genti, greche e latine, entreranno in Cristo “in spiritu magno et alto” dicendo, quasi voce di molte trombe, “alleluia”, parola non traducibile.
Dante si addormenta; nei versi sono presenti i temi del vigilare e del dormire, propri della venuta del ladro minacciata al vescovo di Sardi (Ap 3, 3), esegesi già ritagliata nelle parole di Beatrice rivolte agli angeli a Purg. XXX, 103-105 e in altri luoghi del poema. Del ‘dirubare’ la pianta dice pure Beatrice a Purg. XXXIII, 56-58, la quale poco prima chiama la prostituta “fuia”, cioè ladra (v. 44).
Il ladro viene di notte per rubare e uccidere, dunque è bene vegliare ed essere figli della luce e del giorno, come dice san Paolo ai Tessalonicesi (1 Th 5, 4-7). Dante descrive il suo assonnare ricordando il cane Argo, custode di Io, addormentato da Mercurio narrandogli le storie d’amore di Pan e Siringa, e poi ucciso (Ovidio, Met., I, 622-723). Il cane dai cento occhi spietati, “a cui pur vegghiar costò sì caro”, si addormentò e fu sorpreso dal ‘ladro’ Mercurio. Pur, nel senso ‘per quanto vegliasse, non gli giovò’, è preferibile a più, nel senso che ‘restò sveglio più degli altri’ (Inglese).
Però trascorro a quando mi svegliai,
e dico ch’un splendor mi squarciò ’l velo
del sonno, e un chiamar: “Surgi: che fai?”.
Quali a veder de’ fioretti del melo
che del suo pome li angeli fa ghiotti
e perpetüe nozze fa nel cielo,
Pietro e Giovanni e Iacopo condotti
e vinti, ritornaro a la parola
da la qual furon maggior sonni rotti,
e videro scemata loro scuola
così di Moïsè come d’Elia,
e al maestro suo cangiata stola;
tal torna’ io, e vidi quella pia
sovra me starsi che conducitrice
fu de’ miei passi lungo ’l fiume pria. (vv. 70-84)
Il poeta si paragona ai tre apostoli “Pietro e Giovanni e Iacopo” i quali, dopo aver assistito alla trasfigurazione sul monte Tabor, ritornarono alla vita consueta, senza la presenza di Mosè e di Elia, e videro Cristo, paragonato al fruttifero melo del Cantico dei Cantici (II, 3), con “cangiata stola”, cioè con il solito aspetto (ad Ap 3, 4, sempre nell’esegesi della chiesa di Sardi, si parla delle bianche stole). Qui il tema principale proviene da Ap 10, 1. Si tratta dell’angelo della sesta tromba, che ha la faccia come il sole, di cui parla Gioacchino da Fiore, citato da Olivi:
Penso che quest’angelo, secondo la lettera, sia Enoch o Elia, come Dio meglio sa; ma affermo con certezza che questo angelo indica personalmente un grande predicatore, per quanto spiritualmente possa essere volto a indicare molti futuri uomini spirituali di quel tempo. La faccia dell’angelo è simile al sole perché in questo sesto stato è necessario che la contemplazione di Dio splenda come il sole per condurre alla verità coloro che sono designati in Pietro, Giacomo e Giovanni, cioè i Latini, i Greci e gli Ebrei, prima i Latini, poi i Greci e infine gli Ebrei, perché siano ultimi coloro che furono primi e viceversa [1].
È un passo che Ubertino da Casale riportò nell’Arbor vitae e che Franz Xaver Kraus ritenne connesso con il Veltro [2]. La sua compiuta utilizzazione è tuttavia altrove. Nei versi citati che descrivono il risveglio si ritrovano, in sequenza non casuale, alcune parole dell’esegesi: “splendescere”, “perduci” e i nomi dei tre apostoli. Si deve tenere in considerazione anche il passo del capitolo primo, parallelo a quanto viene detto dell’angelo del capitolo decimo, e relativo alla decima perfezione di Cristo sommo pastore (Ap 1, 16), dove “la faccia come il sole” designa appunto l’aperta e fulgida notizia della Scrittura che avviene nel mezzogiorno del sesto stato, come la trasfigurazione avvenne dopo sei giorni. È da notare che la parola “condotti” corrisponde al “perduci” di Ap 10, 1, mentre “vinti” è da collegare ad Ap 1, 17, dove la perfezione di Cristo successiva alla decima consiste nell’umiliare chi ne guarda il volto, per cui si dice: «“et cum vidissem eum”, scilicet tantum ac talem, “cecidi ad pedes eius tamquam mortuus”».
Si deve in conclusione intendere che il risveglio del poeta designi la compiuta illuminazione di quelle genti che nel sesto stato verranno condotte a Cristo, prima le reliquie dei Gentili (Latini e Greci) e poi gli Ebrei. All’ora di mezzogiorno del sesto giorno di viaggio si chiude la seconda cantica (Purg. XXXIII, 103-105), con il poeta “rifatto sì come piante novelle / rinovellate di novella fronda” (vv. 143-144). Il sesto stato è rinnovamento della vita di Cristo e della nuova pianta seminata da Francesco nel suo Ordine, nel senso qui sopra ricordato per cui, dopo un inizio profetico con Gioacchino da Fiore, il quale con la terza età dello Spirito vide in anticipo il sesto stato, si ha un secondo inizio in Francesco (nella sua conversione, avvenuta nel 1206) e un terzo nell’Ordine perfettamente disposto e maturato a predicare contro l’Anticristo; un quarto infine nell’effettiva caduta di Babylon, la Chiesa carnale (Ap 6, 12). Così il rinnovarsi della pianta prima dispogliata, una volta che il grifone vi ha legato il timone del carro (Purg. XXXII, 52-60), segno della Chiesa rinnovata nel suo sesto tempo, è prefigurazione del Dante rinnovato, “puro e disposto a salire a le stelle”.
[1] Traduzione di P. VIAN, in PIETRO DI GIOVANNI OLIVI, Scritti scelti, Roma 1989 (Fonti cristiane per il terzo millennio, 3), p. 135.
[2] F. X. KRAUS, Dante. Sein Leben und sein Werk. Sein Verhältniss zur Kunst und zur Politik, Berlin, 1897, pp. 720-746.
Tab. III.1
[LSA, cap. XIV, Ap 14, 3 (IVa visio)] Septimo quia tante erat precellentie quod nullus alius poterat pertingere ad hunc canticum, unde subdit: “Et nemo poterat dicere canticum, nisi illa centum quadra-ginta quattuor milia”. Sed contra hoc obicitur quod omnes sancti gaudent de tota gloria Dei et omnium sanctorum, ergo omnes cantant de omnibus de quibus alii cantant. Dicendum quod hic non dicitur quod non cantent de eisdem, sed quod non omnes cantant nec possunt cantare canticum superio-rum, sicut nec possunt pertingere ad coequalem et uniformem gloriam ipsorum. Iubilatorius autem actus glorie vel gratie sanctorum est idem quod canticum ipsorum, et etiam omnis sancta operatio ipsorum in quantum resonat Dei laudem est canti-cum ipsorum. Inferiores ergo, qui non pertingunt ad perfectionem operationum sanctorum superiorum, patet quod eo ipso non per-tingunt ad perfectum canticum ipsorum.
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[LSA, cap. XIX, Ap 19, 1-2 (VIa visio)] Quia etiam spiritalis intellectus tertii generalis status tunc clarissime aperietur, et cum ipso omnes ceteri, idcirco procedet tunc de tubis diversarum ystoriarum seu figurarum et innumerabilium misteriorum con-corditer et admirabiliter resonantium et sanctorum corda suscitantium ad ineffabilem Dei laudem, que hic designatur per “alleluia”. Quod est hebreum et est idem quod laudare Deum. Nam, secundum Iero-nimum, ia est in hebreo <unum> de decem nominibus Dei, cantaturque communiter in ecclesia cum grandi melodia et neupmate ad designandum illum ineffabilem iubilum laudis Dei qui verbis exprimi non potest. Unde, secundum Augustinum, ‘alleluia’ et ‘amen’ propter sui reverentiam reman-serunt intranslata. Unde, secundum Ricardum, quia “alleluia” ignotum est, addit quod notum est dicens: “laus et gloria et virtus Deo nostro”, scilicet est vel sit et reddatur seu ascribatur a nobis. “Laus” dicitur in respectu ad nos a quibus est laudandus; “gloria” vero designat essentialem et immensam beatitudinem eius suis sanctis tunc singulariter inclarescentem; “virtus” vero est eius omnipotentia per quam deiecit Babi-lonem et mirabiliter exaltavit electos.
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Par. X, 70-75, 145-148Ne la corte del cielo, ond’ io rivegno,
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Tab. III.2
[LSA, cap. III, Ap 3, 3-4 (Ia visio, Va ecclesia)] Deinde comminatur eidem iudicium sibi occulte et inopinate superventurum si non se correxerit, unde subdit: “Si ergo non vigilaveris, veniam ad te tamquam fur”, qui scilicet venit latenter et ex improviso ut bona auferat et possessorem occidat. Unde subdit: “et horam nescies qua veniam ad te”. Iustum enim est ut qui se ipsum per negligentiam et torporem nescit, nesciat horam iudicii sui et exterminii. Talis etiam propter suas tenebras non videt lucem, ac erronee credit et optat se diu in prosperitate victurum et Dei iudicium diu esse tardandum, et etiam spe presumptuosa sperat se esse finaliter salvandum, propter quod Ia ad Thes-salonicenses V° dicit Apostolus quod “dies Domini veniet in nocte sicut fur. Cum enim dixerint: pax et securitas, tunc superveniet eis repentinus interitus” (1 Th 5, 2-3). Quibus autem, scilicet sanctis, et quare non veniet sicut fur ostendit subdens: “Vos autem, fratres, non estis in tenebris, ut vos dies illa tamquam fur comprehendat; omnes enim vos estis filii lucis et diei. Igitur non dormiamus sicut et ceteri, sed vigilemus et sobrii simus. Qui enim dormiunt nocte dormiunt” et cetera (ibid., 5, 4-7). |
Purg. XXXIII, 43-45, 55-57, 64-66nel quale un cinquecento diece e cinque,
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[LSA, cap. X, Ap 10, 1 (IIIa visio, VIa tuba)] Et subdit: «Ego autem angelum istum secundum litteram aut Enoch fore puto aut Heliam. Verum, prout hoc Deus melius novit, unum dico pro certo, quod hic angelus significat personaliter magnum aliquem predicatorem, quamvis spiritaliter ad multos viros spiritales tunc temporis futuros competenter valeat intorqueri. Sane facies angeli similis est soli, quia in hoc sexto tempore oportet Dei contemplationem in modum solis splendescere et perduci ad notitiam eorum qui designantur in Petro et Iacobo et Iohanne, id est Latinorum et Grecorum et Hebreorum, primo quidem Latinorum, deinde Grecorum, tertio Hebreorum, ut fiant novis-simi qui erant primi et e contrario». Hec Ioachim. |
Purg. XXXII, 37-39, 64-82Io senti’ mormorare a tutti “Adamo”;
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[LSA, cap. I, Ap 1, 16-17 (radix Ie visionis)] Decima (perfectio summo pastori condecens) est sue claritatis et virtutis incomprehensibilis gloria, unde subdit: “et facies eius sicut sol lucet in virtute sua”. Sol in tota virtute sua lucet in meridie, et precipue quando aer est serenus expulsa omni nube et grosso vapore, et quidem corporalis facies Christi plus incomparabiliter lucet et viget. Per hoc tamen designatur ineffabilis claritas et virtus sue divinitatis et etiam sue mentis. Splendor etiam iste sue faciei designat apertam et superfulgidam notitiam scripture sacre et faciei, ita quod in sexta etate et precipue in eius sexto statu debet preclarius radiare. In cuius signum Christus post sex dies transfiguratus est in monte in faciem solis (cfr. Mt 17, 1-8), et sub sexto angelo tuba canente videtur angelus habens faciem solis et tenens librum apertum (cfr. Ap 10, 1-2).
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[LSA, cap. VI, Ap 6, 12 (apertio VIi sigilli)] Sicut enim Luchas inchoat Christi evangelium a sacerdotio Zacharie, cui facta est prophetica revelatio de Christo statim venturo et de Iohanne eius immediato precur-sore; Mattheus vero ab humana Christi generatione; Marchus vero a Christi et Iohannis predicatione; Iohannes vero a Verbi eternitate et eterna gene-ratione, sic hec sexta apertio sumpsit quoddam prophetale initium a revelatione abbatis et consimilium; a renovatione vero regule evangelice per servum eius Franciscum sumpsit sue generationis et plantationis initium; a predicatione vero spiri-tualium suscitandorum et a nova Babilone repro-bandorum sumet initium refloritionis seu repul-lulationis; a destructione vero Babilonis sumet ini-tium sue clare distinctionis a quinto statu et sue distincte clarificationis […]
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Purg. XXXII, 52-60, 85-87Come le nostre piante, quando casca
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4. “e sarai meco sanza fine cive / di quella Roma onde Cristo è romano”
■ Risvegliatosi, Dante vede Matelda, “quella pia / sovra me starsi che conducitrice / fu de’ miei passi lungo ’l fiume pria” (vv. 82-84). La “bella donna”, la quale ha spiegato come gli antichi poeti sognassero allegoricamente nel Parnaso “l’età de l’oro e suo stato felice” (Purg. XXVIII, 139-141), è figura dei santi padri che precedettero Cristo e giovano con la loro fede e i loro meriti perché, come riporta l’esegesi gioachimita dell’“altare” di Ap 8, 3, Cristo, che ‘sta’ dinanzi ad esso, nelle opere di pietà li vuole avere consorti. Conduce i passi nell’Eden, luogo assimilato all’Asia, interpretata come “gradiens”, perché le chiese, alle quali Giovanni scrive nella prima visione, sono “in via tendendi ad patriam” (Ap 1, 4; il procedere è motivo tipico di Matelda).
Dante è assalito dal dubbio (tema ricorrente nel poema: prologo, Not. X; 9, 5-6), chiede “Ov’ è Beatrice?”. La sua donna siede sulla radice dell’albero rifiorito (la Chiesa, nell’Antico e nel Nuovo Testamento, al cui sesto stato appartiene la nuova fioritura), a guardia del carro ad esso legato dal grifone (la Chiesa militante, cioè in via), circondata dalle sette virtù, mentre il grifone e gli altri della processione risalgono cantando al cielo (vv. 85-99). Stare “in circuitu” a chi siede, come suoi “famuli” e difensori della Chiesa, è proprio della descrizione della sede divina ad Ap 4, 4, tematica che già ha permeato le quattro virtù cardinali: “pria che Beatrice discendesse al mondo, / fummo ordinate a lei per sue ancelle” (Purg. XXXI, 106-108). Beatrice siede sulla radice dell’albero, cioè su Cristo radice della Chiesa in tutta la sua storia antica e nuova, rifiorita nel sesto stato. “Sola sedeasi” (v. 94): è un motivo che, nell’esegesi della quinta guerra, appartiene alla chiesa di Roma, la quale ‘sola rimase’ dopo le devastazioni operate dai Saraceni nel quarto e nel quinto stato. È stato attribuito, in diversa situazione, sia a Virgilio (“Vien tu solo”, Inf. VIII, 89) come a Dante (“Sol si ritorni”, v. 91); Brunetto Latini ha definito Dante la sola pianta rimasta a Firenze della “sementa santa” dei Romani (che colonizzarono Fiesole; Inf. XV, 73-78). Beatrice, in questo caso, designa la Chiesa di Roma alla quale è d’altronde assimilata la sede divina descritta ad Ap 4, 4. Le “sette ninfe” la circondano “con quei lumi in mano / che son sicuri d’Aquilone e d’Austro” (Purg. XXXII, 98-99): la sicurezza contro le persecuzioni è garantita da Cristo a Smirne, la seconda chiesa d’Asia, propria dei martiri (Ap 2, 11).
■ Il capitolo XVII della Lectura si chiude con un riferimento a Roma: “La donna che hai visto è la grande città che regna su tutti i re della terra” (Ap 17, 18). Ai tempi di Giovanni, Roma, “civitas magna”, imperava con la sua gente su tutto il mondo, e per tutto il periodo che san Paolo definisce “pienezza delle genti” (Rm 11, 25-26), fino all’Anticristo, Cristo ha stabilito in questa città la sede principale e universale del suo potere imperiale su tutte le chiese e su tutto il mondo, anche se molti le si ribellano contro. Le sette teste della bestia sulla quale siede la prostituta sono sette monti (Ap 17, 9), secondo il senso letterale corrispondono ai sette colli di Roma; designano anche i regni, come in Daniele 2, 34.35.44 la pietra staccatasi dal monte che distrugge la statua e si trasforma in un grande monte indica il regno eterno che distruggerà gli altri regni. Se dopo l’Anticristo e l’incenerimento operato dai dieci re (Ap 17, 16) questa città venga di nuovo riparata, cosicché ritorni ad essere la principale sede di Cristo fino alla fine del mondo, oppure se Cristo riconduca la sua sede al luogo di origine, ad esempio a Gerusalemme, è problema che Olivi lascia decidere ai disegni divini, non trovando su questo punto alcuna certezza nei testi sacri o nei dogmi di fede.
“An … Christus post Antichristum reducat sedem suam ad locum unde manavit ad urbem Romam”: la “Roma onde Cristo è romano” è il paradiso e di esso – afferma Beatrice nell’Eden – Dante sarà con lei “sanza fine cive” (Purg. XXXII, 100-102). A questa Roma celestiale fanno riferimento le parole di Virgilio a Inf. I, 124-128, parodia dell’esegesi di Ap 17, 9.18: “imperabat, sedem suam, civitas, rebellent – imperador, regna, ribellante, sua città (2), impera, seggio”.
Onde, parola-chiave di cui la tabella mostra numerose variazioni, in contrappunto con altri temi della medesima esegesi (si noti in particolare l’uso del verbo riparare), può avere sia un valore causale (la Roma di cui Cristo è primo cittadino), sia di moto da luogo (il luogo di elezione del romano impero). Lo stesso avverbio è presente in quanto Giustiniano dice di Cesare, con il quale il “sacrosanto segno” dell’aquila “Antandro e Simeonta, onde si mosse, / rivide e là dov’ Ettore si cuba”, rivide cioè la Troade da dove era salpato Enea per venire in Italia (Par. VI, 67-68). Nell’esegesi è presente un’idea di “translatio” del primato, da Gerusalemme a Roma e poi alla nuova Gerusalemme (non identificabile topograficamente tramite le Scritture), non estranea a Dante, se lo stesso Giustiniano afferma (vv. 1-9) che l’aquila passò “di mano in mano”, ed anzi fu volta da Costantino “contr’ al corso del ciel, ch’ella seguio / dietro a l’antico che Lavina tolse” (e anche questo andare da Occidente a Oriente rientrò certamente nei disegni provvidenziali). Le parole di Beatrice su “quella Roma onde Cristo è romano” attestano, comunque, la perennità della sorgente da cui discende tra due rive, la divina e l’umana, il fiume dei doni dello Spirito, pur tra tante mutazioni terrene (cfr. Ap 22, 1-2).
■ Nella settima visione apocalittica è descritta la Gerusalemme celeste, detta “città” perché ivi è una mirabile unità di tutti i santi come fossero concittadini (Ap 21, 2). L’esegesi prosegue (Ap 21, 3): “Ecco il tabernacolo di Dio con gli uomini” cioè, secondo Riccardo di San Vittore, la coabitazione manifesta della divinità con i salvati. Una “societas seu cohabitatio” con essi che non è transitoria ma eterna, per cui segue: “Egli dimorerà tra di loro”, cioè per sempre. Questo vincolo di comunanza viene maggiormente specificato aggiungendo: “ed essi saranno il suo popolo”, in quanto aderiranno a lui con la massima fedeltà con il culto, la lode e l’ubbidienza; “ed egli, Dio-con-loro, sarà il loro Dio”, loro comunicando in modo ineffabile la sua presenza e beatitudine e mai abbandonandoli. Ora, infatti, nel mondo è come non fosse con i suoi, poiché la sua faccia non si rende visibile se non “per specula”, come fosse assente. La permanenza nella patria celeste è chiamata “tabernacolo”, che propriamente sta nel deserto, e designa, “prout tamen est viatorum et peregrinantium”, la Chiesa militante e peregrinante.
Il tema del “tabernacolo”, dell’eterna “societas seu cohabitatio” con Dio, che nella sua città comunica la propria presenza e beatitudine, è cantato da Beatrice, la quale nell’Eden promette al suo amico: “e sarai meco sanza fine cive / di quella Roma onde Cristo è romano”, ingiungendogli poi di scrivere le visioni delle vicissitudini del carro-Chiesa, come a Giovanni viene poco dopo (ad Ap 21, 5) ingiunto di scrivere in modo autentico e duraturo quanto visto (Purg. XXXII, 100-105).
Nella Lectura “selva” equivale a “deserto” (cfr. Ap 12, 6), per cui Beatrice introduce con le parole: “Qui (cioè nell’Eden, che sta in terra, dove la Chiesa è ancora militante e peregrinante) sarai tu poco tempo silvano”.
Tab. IV.1
[LSA, cap. XVII, Ap 17, 16 (VIa visio)] “Et decem cornua, que vidisti, et bestia” (Ap 17, 16), et etiam bestia seu rex bestie seu, secundum Ricardum, “et bestia”, id est diabolus*; “hii”, scilicet decem reges per cornua designati, “odient fornicariam et desolatam facient illam”, scilicet suis aquis seu populis in quibus consolatorie quiescebat, “et nudam”, scilicet suis ornamentis et divitiis, “et carnes eius manducabunt”, <id est crudeliter dilacerabunt et occident, “et ipsam igni concremabunt”,> id est eius urbes et terras cremabunt et incinerabunt, ut quasi non sit memoria vel signum prioris status vel glorie eius. * In Ap V, ix (PL 196, col. 835 C).[LSA, cap. XVII, Ap 17, 18 (VIa visio)] Deinde breviter insinuat que est hec mulier de qua et propter quam tanta dixit, unde subdit: “Et mulier, quam vidisti, est civitas magna, que habet regnum super reges terre”. Nimis constat quod Roma et gens Romanorum imperabat toti orbi tempore Iohannis et huius visionis, et etiam quod per totum tempus plenitudinis gentium usque ad Antichristum seu usque ad tempus istorum decem regum fixit Christus in ea principalem et universalem sedem et potestatem imperii sui super omnes ecclesias et super totum orbem. An autem post Antichristum hec urbs iterum reparetur, ut ibi usque ad finem seculi stet principalis sedes Christi sicut fuit a tempore Christi et citra, aut Christus post Antichristum reducat sedem suam ad locum unde manavit ad urbem Romam, puta in Iherusalem vel alibi, sue dispositioni est relinquendum. Neutrum enim horum potest certificari ex sacro textu nec ex aliquo certo et catholico dogmate fidei christiane.[LSA, cap. XVII, Ap 17, 9 (VIa visio)] Quod autem per montes designentur aliquando regna patet Danielis II° (Dn 2, 34-35, 44), ubi lapis confringens statuam et tandem crescens in montem magnum dicit Daniel significare regnum quod in eternum non dissipa<bi>tur et quod conteret et consumet universa alia regna. Dicitur autem mulier, id est civitas magna, sedere super hos septem montes, quia tempore Christi et Iohannis et usque ad tempora Gothorum et Sarracenorum presidebat omnibus gentibus et regnis mundi, et etiam quia, pro quanto in ea est principalis sedes et auctoritas Christi, est de iure omnium domina, licet plures sibi rebellent et tandem ipsam crement. In huius autem figuram est Roma, ad litteram fundata super septem montes, qui sunt Tarpeius, Aventinus, Juminalis, Quirinalis, Celius, Esquilinus, Palatinus. |
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Inf. XI, 64-66; XXXIV, 28onde nel cerchio minore, ov’ è ’l punto
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Par. VI, 1-6, 67-72Poscia che Costantin l’aquila volse
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Tab. IV.2
[LSA, cap. XXI, Ap 21, 2-5 (VIIa visio)] Secundo agit de gloria civitatis Dei, id est universitatis omnium electorum, cum subdit: “Et ego Iohannes vidi civitatem sanctam Iherusalem” (Ap 21, 2). Et in hac primo describit eius gloriam breviter, secundo describitur sibi per angelum plenius, ibi: “Et venit unus de septem angelis” (Ap 21, 9). […] Vocatur autem “civitas” (Ap 21, 2), quia ibi est mira unitas omnium sanctorum tamquam concivium. […]
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[LSA, cap. XVII, Ap 17, 18 (VIa visio)] Deinde breviter insinuat que est hec mulier de qua et propter quam tanta dixit, unde subdit: “Et mulier, quam vidisti, est civitas magna, que habet regnum super reges terre”. Nimis constat quod Roma et gens Romanorum imperabat toti orbi tempore Iohannis et huius visionis, et etiam quod per totum tempus plenitudinis gentium usque ad Antichristum seu usque ad tempus istorum decem regum fixit Christus in ea principalem et universalem sedem et potes-tatem imperii sui super omnes ecclesias et super totum orbem. An autem post Antichristum hec urbs iterum reparetur, ut ibi usque ad finem seculi stet principalis sedes Christi sicut fuit a tempore Christi et citra, aut Christus post Antichristum reducat sedem suam ad locum unde manavit ad urbem Romam, puta in Iherusalem vel alibi, sue dispo-sitioni est relinquendum. Neutrum enim horum potest certificari ex sacro textu nec ex aliquo certo et catholico dogmate fidei christiane.
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Purg. XXXII, 100-106“Qui sarai tu poco tempo silvano;
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5. Persecuzioni, eresie, separazioni e decadenza della Chiesa
Le vicende allegoriche del carro, che concludono Purg. XXXII, seguono la successione degli stati della Chiesa e le loro vicissitudini fino ai tempi moderni. Ad esse, per comando di Beatrice, il poeta deve tenere gli occhi per poi scriverle, ritornato di là, “in pro del mondo che mal vive”, come a Giovanni, in più punti del libro, viene ingiunto di scrivere. Dante, che assume su di sé il ruolo dei Giudei infedeli, da Cristo fatti devotamente prosternare ai piedi del vescovo di Filadelfia, la sesta chiesa d’Asia (Ap 3, 9), “tutto ai piedi / d’i suoi comandamenti era divoto”.
Nella Tabella, per i primi quattro stati, è proposta l’esegesi delle guerre sostenute dalla Chiesa nella quarta visione, riassunte ad Ap 12, 3.
I–II (vv. 109-117) Dapprima l’aquila, più veloce di un fulmine che precipita dalla più remota regione dell’atmosfera, rompe la scorza (la vecchia legge), i fiori e le nuove foglie (la nuova legge) dell’“albero robusto” (cfr. v. 46) e colpisce il carro ad esso legato con tutta la forza tanto da farlo barcollare ora su un fianco ora su un altro “come nave in fortuna, / vinta dall’onda” (vv. 109-117): rappresenta l’Impero che perseguita la Chiesa e la seconda guerra da questa sostenuta contro i pagani e i falsi dèi, guerra che fu grande, ‘robusta’ e lunga (durò infatti per circa trecento anni), universale, in quanto diffusa in tutto il mondo, e condotta per una somma causa (ad Ap 12, 7). Nei versi non viene trattata la prima guerra, quella contro Cristo ma, come si afferma ad Ap 13, 1, le prime due guerre, quella contro Cristo e quella contro i martiri, vengono in un certo modo aggregate in una sola: infatti dalla crocifissione di Cristo iniziò quella grande guerra dei martiri che durò fino al tempo di Costantino o di Giuliano l’Apostata.
Nei versi vengono variati i temi propri della folgore, presenti in più luoghi della Lectura (segnalati nella tabella complessiva), della grandine che scende impetuosa (Ap 16, 21), della volubile nube dell’Antico Testamento che muta colore da un luogo all’altro (Ap 5, 1). Il folgorante discendere dell’aquila sarà ripreso in quanto Giustiniano dirà di Cesare, il quale “scese folgorando a Iuba” (Par. VI, 70).
Al v. 117 – “vinta da l’onda, or da poggia, or da orza” – è ammissibile la variante giunta (Inglese). Tuttavia la reminiscenza virgiliana – “naves vicit hiemps” (Aen., I, 120-122) non è qui assunta, come nella glossa di Servio, nel senso di ‘squarciare’ bensì in quello di ‘piegare’ ora su un lato ora su un’altro, verbo presente al verso precedente. Parafrasando le parole di Tommaso d’Aquino a Par. XI, 118-120 sulla “barca di Pietro” sostenuta dai due campioni Francesco e Domenico, il carro-Chiesa non si mantenne, piegando or di qua or di là, “in alto mar per dritto segno“. Vincere non comporta lo sfasciarsi della nave (per cui sarebbe preferibile “giunta”, in quanto il carro piega e non si squarcia), ma solo il suo temporaneo e pericoloso oscillare. A Purg. XIX, 2-3 “’l calor dïurno” che non può intiepidire “’l freddo de la luna, / vinto da terra, e talor da Saturno”, se impedito temporaneamente, non scompare del tutto. Il periodo storico al quale i versi 109-117 si riferiscono è il secondo stato della Chiesa, quello delle persecuzioni. Navi (i fedeli) che vengono vinte (ma solo la terza parte) dal mare tempestoso (i Gentili persecutori) è tema presente nell’esegesi della seconda tromba, ad Ap 8, 8, 9 (cfr. Inf. V, 132).
III (vv. 118-123) Poi “una volpe / che d’ogne pasto buon parea digiuna” si avventa nel fondo del carro ma viene messa in fuga da Beatrice che la riprende “di laide colpe”: rappresenta la terza guerra della Chiesa, contro le eresie confutate dai dottori. L’eresia appartiene al terzo stato: nel complesso tematico rientrano l’essere ‘laide’ le colpe della volpe (il cavallo nero all’apertura del terzo sigillo, Ap 6, 5) e la sua messa in fuga da parte di Beatrice (terza vittoria, allorché i dottori mettono in fuga l’eresia: Ap 2, 17) [1].
Le “laide colpe”, delle quali Beatrice riprende volgendo in fuga la volpe incuneatasi nel carro-Chiesa, sono da confrontare con l’espressione “di più laida opra”, riferita nella bolgia dei simoniaci a Clemente V, il “pastor sanza legge” che prenderà il posto di Bonifacio VIII nel foro della pietra (Inf. XIX, 82-83). Sono le sole due occorrenze dell’aggettivo ‘laido’ nel poema; la simonia viene da Dante considerata una forma di eresia, per cui tutto Inf. XIX è pervaso dai temi del terzo stato.
Il “pasto” è invece un signaculum del quarto stato, e corrisponde alla “pascualis refectio” dei devoti anacoreti. Da notare che la volpe dall’“ossa sanza polpe” assomiglia alla lupa, “che di tutte brame / sembiava carca ne la sua magrezza”, la quale ha impedito a Dante la salita del “dilettoso monte” (Inf. I, 49-50). Se la lupa è la controfigura cristiana dell’ipocrita bestia saracena, che prevale nel quarto stato e dura fino all’Anticristo, e del cavallo pallido e macerato in apertura del quarto sigillo (Ap 6, 8), la volpe, che designa il terzo stato, assume per il principio della “concurrentia” alcuni aspetti del quarto, soprattutto l’ipocrisia. Per converso, un signaculum del terzo stato – il ‘rompere’, dalla terza chiesa d’Asia, alla quale è data la “rumphea”, cioè la spada a doppio taglio (Ap 2, 12) – è presente nella zona riservata al secondo stato (appropriato all’aquila che cala sull’albero “rompendo de la scorza, / non che d’i fiori e de le foglie nove”; vv. 113-114), perché la radice ereticale affonda già nel tempo delle persecuzioni (Origene, fonte e seminatore dell’eresia di Ario, visse ben prima di Costantino).
La figura della volpe-eresia ha un tradizionale riferimento esegetico nel Cantico dei Cantici 2, 15: “Capite nobis vulpes parvulas quae demoliuntur vineas”. Qui, come altrove, la singola reminiscenza di un libro della Scrittura è incastonata nella grande esegesi dell’ultimo dei libri canonici. Viene così inserita in un processo storico, ché tale è l’Apocalisse nella prospettiva dell’Olivi.
IV Quindi torna l’aquila per lasciare le proprie penne al carro (definito “arca”; corrisponde all’“archa Testamenti” di Ap 11, 19; il Vecchio Testamento viene reso con la “scorza” – “in exteriori cortice” – dell’albero), mentre una voce dal cielo (di san Pietro) si duole per il funesto carico (vv. 124-129): allude alla donazione di Costantino che, se pure “offerta / forse con intenzion sana e benigna” (vv. 137-138), “fé mal frutto” e distrusse il mondo (cfr. Par. XX, 55-60; Monarchia, II, xi, 8). Il tema appartiene alla quarta guerra (corrispondente al quarto stato degli anacoreti), in cui il diavolo effonde ipocritamente il fiume delle ricchezze temporali per sommergere la Chiesa (ricchezze offerte dal diavolo “sub quadam specie veri et boni, et quasi in obsequium ecclesie quoad doctrinam fidei et quoad cultum Dei”: Ap 12, 15).
Olivi, a differenza di Gioacchino da Fiore, congiunge la trattazione della terza e della quarta guerra (Ap 12, 13-16), pur distinguendo i due momenti (cfr. quanto affermato ad Ap 12, 13 e 13, 1). Anche Dante distingue i due momenti, della volpe (terza guerra) e del ritorno dell’aquila (quarta guerra), ma li fa entrambi iniziare con “Poscia”.
Poi, apertasi la terra fra le due ruote del carro (cfr. Ap 19, 20), ne esce un drago che figge la coda su di esso e, ritraendola “come vespa che ritragge l’ago”, ne strappa e porta con sé una parte del fondo (vv. 130-135): come già interpretarono i contemporanei di Dante (che riferirono l’evento allo scisma provocato da Maometto), si tratta dei Saraceni, i quali a partire dal quarto stato occuparono molti territori dove prima fioriva la fede cristiana e in particolare la santa vita degli anacoreti. Collocato a questo punto, il drago ha appropriato il tema del trarre con la coda la terza parte delle stelle del cielo presente ad Ap 12, 4 (quarta visione), ivi riferito al drago come principale motore delle sette guerre contro la Chiesa. Il suo andarsene “vago vago” contiene il tema dello straniarsi remoto e difforme da tutto ciò che è spirituale e deiforme, l’esser vago, l’alienarsi, una delle cause che rendono chiuso il sesto sigillo (ad Ap 5, 1).
V Quella parte del carro che rimane viene subitamente ricoperta dalla piuma lasciata dall’aquila, “come da gramigna / vivace terra” (vv. 136-141): corrisponde alla quinta guerra, condotta contro quel che rimane della Chiesa (le “reliquie” o la Chiesa romana, Ap 12, 17) dopo le devastazioni operate dai Saraceni; nel quinto stato i beni temporali portano la Chiesa all’estrema rilassatezza.
VI Così trasformato, il carro (“’l dificio santo”: corrisponde alla “fabrica ecclesie” di cui ad Ap 21, 12-13) mette fuori sette teste e dieci corna (tre teste sul timone, ciascuna con due corna, e una in ciascun canto con un solo corno): un simile mostro non fu mai visto (vv. 142-147). È il momento della sesta guerra, quando ascende dal mare la bestia che ha appunto sette teste e dieci corna (Ap 13, 1), e di cui si dice (Ap 13, 4): “Quis similis bestie? … quasi dicat: nullus”. La bestia di Ap 13, 1 è però contaminata con quella di Ap 17, 3, dove Giovanni vede la prostituta seduta sopra una bestia scarlatta, coperta di nomi blasfemi, con sette teste e dieci corna. Le sette teste sono i sette monti e sono anche sette re, dei quali i primi cinque sono caduti, uno è ancora in vita e l’altro non è ancora venuto, e quando sarà venuto, dovrà rimanere per poco (Ap 17, 9-10). Le dieci corna sono i dieci re che hanno l’unico intento di consegnare il proprio potere alla bestia (Ap 17, 12-13), che combatteranno contro l’Agnello ma saranno vinti (Ap 17, 14) e che inceneriranno la prostituta (Ap 17, 16).
Seguendo un metodo proprio dell’autore dell’Apocalisse, il quale nel descrivere la bestia che sale dal mare prende qualche elemento da ciascuna delle quattro bestie della settima visione di Daniele (Dn 7, 3-7), quasi voglia insinuare che questa bestia è una sintesi di quelle quattro, il poeta combina altri elementi. Le tre teste “cornute come bue” trovano infatti un riferimento ad Ap 13, 11, dove la bestia che sale dalla terra ha due corna simili all’Agnello, imitanti cioè quelle di Cristo nella sua duplice perfezione derivante dalla scienza e dalla santità, dai due Testamenti, dalle due potestà spirituale e temporale, dai due ordini rappresentati dai due testimoni di Ap 11, 3. Il bue o vitello, inoltre, è uno dei quattro animali che stanno in mezzo e intorno al trono (Ap 4, 6), e rappresenta la passione e il sacrificio di Cristo. Il numero tre, separato dal quattro, delle teste che stanno sopra il timone del carro allude alla Trinità, nel senso della pessima Trinità opposta a quella santa, designata dai tre spiriti immondi al modo delle rane descritti ad Ap 16, 13-14.
Le quattro teste con un sol corno, che il carro mette fuori in ciascuno dei suoi canti, rimandano ad Ap 9, 13-14, dove la voce proveniente dai quattro lati (che nel testo sono “cornua”) dell’altare dice al sesto angelo tubicinante di sciogliere i quattro angeli, che secondo Gioacchino da Fiore e Riccardo di San Vittore sono quelli di cui ad Ap 7, 1-3 si dice tengano i quattro venti, contro i quali grida l’angelo del sesto sigillo di non nuocere fino a che non avvenga la “signatio” dell’esercito di Cristo. Questi quattro angeli vengono identificati da Gioacchino con i quattro evangelisti dell’Anticristo e i loro duci, che crederanno alla sua parola empia. Oppure saranno i quattro comandanti della gente saracena, della quale una parte è a oriente, cioè i Turchi; una a mezzogiorno, cioè gli Etiopi; una ad occidente, cioè i Barbari o Mauri; una ad aquilone, che spesso entrò in conflitto coi Tedeschi. Oppure designano la divisione in quattro parti dei regni cristiani figurata dai quattro tetrarchi contemporanei alla predicazione e all’uccisione di Giovanni Battista e di Cristo, e ancora la divisione e lo spregio in quattro parti del clero e della religione in sentenze contrarie. Entrambe queste divisioni sono indicate dalle quattro parti delle vesti di Cristo divise e tratte in sorte dai quattro soldati (Jo 19, 23-24); la tunica inconsutile e indivisa designa la Chiesa spirituale.
Olivi giustappone le interpretazioni delle sette teste e delle dieci corna date da Gioacchino da Fiore e da Riccardo di San Vittore. Secondo Gioacchino le sette teste designano quei popoli principali persecutori di Cristo e della Chiesa che sono, come capi degli altri, propriamente teste del drago, della bestia e della massa bestiale: così ad Ap 12, 3 e 13, 1. Ad Ap 17, 9-10 l’abate aggiunge che le sette teste sono anche sette re, da assegnare ai sette tempi della bestia e della Chiesa: il primo è Erode, il secondo Nerone, il terzo l’ariano Costanzo II, il quarto Maometto o Cosroe re dei Persiani, il quinto l’Enrico (IV ?) che angustiò la Chiesa nella lotta delle investiture; il sesto re, del quale si dice che è ancora in vita, corrisponde all’undicesimo re di Daniele (Dn 7, 24-26) sotto il quale verrà aperta la rivelazione del libro e verrà percossa Babilonia; il settimo è quello di cui si dice che non è ancora venuto e che insorgerà dopo che la settima testa della bestia parrà quasi uccisa e verrà data pace alla Chiesa. Questa settima testa, risorgendo, sarà come ottava per tempo e successione, e tuttavia sarà delle sette, come affermato ad Ap 17, 11; essa sarà ricettacolo di tutti gli errori delle sette teste precedenti sotto il regno del settimo re, fonte di malizia e vaso di errori.
Riccardo espone moralmente il significato delle sette teste (la totalità dei principali vizi) e delle dieci corna (l’insorgere altezzoso contro il decalogo della sacra legge) di Ap 13, 1. Con riferimento al capitolo XVII (Ap 17, 8-11), la bestia è il diavolo che per mezzo di essa impugna il popolo di Dio in modo crudele e bestiale, la quale “fu”, perché prima dell’avvento di Cristo esercitò il proprio dominio sul mondo, “e non è”, in quanto lo perdette in seguito a quell’avvento. I sette re e le sette teste designano l’intero popolo dei malvagi che percorre i sette tempi di questo mondo (da Adamo a Noè, da Noè ad Abramo, da Abramo a Mosè, da Mosè a Davide, da Davide a Cristo, da Cristo all’Anticristo; il settimo tempo si svolge sotto l’Anticristo). Con le teste viene figurato l’universale principato dei malvagi e la sua preminenza temporale, con i monti la superbia, con i re il mal collegio in male governato, con la donna che siede la generalità dei malvagi che poggia sulla prudenza carnale dei cattivi rettori. Cinque di queste teste sono cadute perché sono trascorsi i cinque tempi prima della venuta di Cristo e della visione di Giovanni; ne è ancora in vita una, debolissima per la grazia di Cristo ma che esercita come può la propria malizia, e un’altra non è ancora venuta e quando verrà rimarrà poco tempo, regnerà cioè per soli tre anni e mezzo.
Fra l’interpretazione morale di Riccardo e quella storica di Gioacchino, Olivi sceglie quest’ultima, soprattutto perché è contrario ad appropriare i cinque re caduti e l’espressione “fu e non è” alle cinque età che precedettero la venuta di Cristo, in quanto l’intenzione principale dell’Apocalisse è di descrivere la sesta età, quella della Chiesa, con i suoi sette stati e in particolare modo il sesto e il settimo stato.
Le sette teste e le dieci corna del mostro dantesco sono state sempre interpretate nel senso morale, anche perché ad esse fa riferimento Inf. XIX, 109-111 con un significato positivo, dei sette doni dello Spirito Santo e dei dieci comandamenti, poi corrottisi nei sette peccati capitali. Ma non è affatto esclusa l’interpretazione che riconduce le sette teste e le dieci corna a dei re contrari a Cristo. Il gigante che appare successivamente “di costa” alla prostituta, “come perché non li fosse tolta” (Purg. XXXII, 151-152), potrebbe essere infatti identificato con il corno undicesimo della visione delle quattro bestie di Daniele che, spuntato dalla quarta bestia che ha già dieci corna, sottometterà quei dieci re, proferirà insulti contro l’Altissimo e avrà in mano i santi per tre anni e mezzo (Dn 7, 24-25). Questo corno viene assimilato a quello che, nella visione successiva, spunta dal capro: sarà un re sfacciato e intrigante che insorgerà contro il principe dei principi (Dn 8, 5-25). Di giganti la Lectura non parla, ma certo l’erigere il corno che si fa più potente degli altri ne può suggerire l’immagine [2]. Come afferma Riccardo di San Vittore a proposito della bestia che sale dal mare, “cornu” equivale ad “elatio”, per cui le dieci corna impugnano i dieci comandamenti.
Il gigante può essere anche accostato, nel suo baciarsi talora con la prostituta – “e basciavansi insieme alcuna volta” (Purg. XXXII, 153) – al concordare della seconda bestia (che sale dalla terra) con la prima (che sale dal mare) e nel sostenersi a vicenda nel proprio potere (Ap 13, 11). Ma questo baciare è soprattutto da ricondurre alla citazione del Cantico dei Cantici 8, 1-2 che Olivi inserisce nella sua esegesi del nome della sesta chiesa d’Asia, Filadelfia, interpretata come “amor fratris” (Ap 3, 7). Di questa esegesi, già sarcasticamente utilizzata nella bolgia dei simoniaci, dove a Niccolò III “dai calcagni a le punte … più roggia fiamma succia” le piante dei piedi, si è trattato altrove (Inf. XIX, 28-33).
Il gigante che flagella la prostituta “dal capo infin le piante” (Purg. XXXII, 156; allusione alla violenza perpetrata in Anagni da Filippo il Bello), poiché ha rivolto “l’occhio cupido e vagante” al poeta (il ‘piaggiare’ di Bonifacio VIII tra Francia, Asburgo e Aragona) [3], è variazione su un tema dal Notabile VII del prologo, dove si afferma che la Chiesa, rilassata nel temporale alla fine del quinto stato, “a planta pedis usque ad verticem est fere tota … infecta et confusa et quasi nova Babilon effecta” (la “nova belva”, cioè il carro, che chiude il canto). Il flagellare è tema ironicamente tratto da Ap 3, 19, dove Cristo dice alla settima chiesa, Laodicea, che egli flagella coloro che ama perché facciano penitenza.
Il papa Orsini, punito nella terza bolgia per simonia, e la “puttana sciolta” sono così tessuti con parti del medesimo panno offerto dalla Lectura oliviana: il Notabile VII del prologo, in relazione alla massima corruzione raggiunta dalla Chiesa alla fine del quinto stato (“dai calcagni a le punte … dal capo infin le piante”), l’amore del Cantico dei Cantici (“e cui più roggia fiamma succia … e basciavansi insieme alcuna volta”), la citazione del cap. XVII dell’Apocalisse (Inf. XIX, 106-111; Purg. XXXII, 142-150).
Il gigante, che per comune interpretazione si incarna in Filippo il Bello, può però anche designare genericamente il regno di Francia. Il momento del viaggio è sempre datato al 1300, ma scritto almeno tredici anni dopo: come la “puttana sciolta” si identifica storicamente prima in Bonifacio VIII (per il baciare e il flagellare) e poi in Clemente V (per lo scioglimento e la traslazione del carro), cioè nel papato già romano e poi avignonese, così “quel feroce drudo”, che Beatrice preconizza prossimamente ucciso con la “fuia” dal messo divino, è pur sempre frutto “de la mala pianta / che la terra cristiana tutta aduggia”, come “i Filippi e i Luigi / per cui novellamente è Francia retta” (Purg. XX, 43-45, 49-51). Filippo il Bello non sarà ucciso da “un cinquecento diece e cinque”; “morrà – come preciserà l’aquila nel cielo di Giove – per colpo di cotenna” nel novembre 1314 (Par. XIX, 120).
La prostituta sta seduta sul mostro “sicura, quasi rocca in alto monte” (cfr. “quasi nova Babilon effecta”): nell’esegesi dell’apertura del sesto sigillo (Ap 6, 14), ripresa ad Ap 16, 20 nel preambolo della sesta visione che tratta della caduta di Babylon, la Chiesa carnale, il terremoto sconvolge quanto di più stabile, sicuro e quieto possa considerarsi, come le isole e i monti: così – immagine della cattività avignonese – il carro fatto mostro e la prostituta che siede su di esso vengono anch’essi sovvertiti e tratti per la selva dal gigante.
“Vidi di costa a lei dritto un gigante”. Nell’esegesi la “costa” è quella del forte e solitario Adamo, dalla quale Dio trasse la pietosa Eva (prologo, Notabile VII): ciò che appare nella visione, il gigante che sembra uscito dalla costa della meretrice, allude a una creazione stravolta.
Con il capitolo XVII inizia la seconda parte della sesta visione, in cui la dannazione di Babylon viene considerata diffusamente. Il primo momento di questa parte consiste nella venuta di uno dei sette angeli che avevano le sette coppe descritte nella precedente quinta visione (Ap 17, 1). Secondo Gioacchino da Fiore (Expositio), si tratta del sesto angelo cui più degli altri cinque è dato di rivelare gli occulti segreti. L’angelo – prosegue Gioacchino – chiama Giovanni per mostrare che i discepoli non possono entrare nell’intelligenza spirituale se i loro cuori non siano dai dottori di questa tratti con l’insegnamento all’apprendimento della verità. Come l’angelo invita Giovanni a vedere la dannazione e la malizia della meretrice, perché ciò giova assai, in quanto chi non le conosce viene facilmente ingannato dai cenni dei suoi occhi e dalla sua gloria, così nell’Eden Beatrice invita Dante a tenere gli occhi sul carro della Chiesa e a scrivere poi, una volta ritornato di là, quel che ha visto “in pro del mondo che mal vive” (Purg. XXXII, 103-105; passo riconducibile anche ai vari luoghi dell’Apocalisse in cui a Giovanni viene ingiunto di scrivere). Tra le vicende allegoriche del carro, la “puttana sciolta” che siede sopra di esso trasformato in mostro appare al poeta “con le ciglia intorno pronte”, e gli rivolge “l’occhio cupido e vagante”, suscitando il sospetto e l’ira del gigante che vigila su di lei (vv. 148-160). La condanna della nuova Babilonia è preannunciata da Beatrice con la profezia della venuta di “un cinquecento diece e cinque”, il “messo di Dio” che “anciderà la fuia / con quel gigante che con lei delinque” (Purg. XXXIII, 37-45).
Ancora, la funzione dell’angelo che trae i discepoli all’insegnamento spirituale è stata svolta da Virgilio nell’offrirsi come guida: “Ond’ io per lo tuo me’ penso e discerno / che tu mi segui, e io sarò tua guida, / e trarrotti di qui per loco etterno; / ove udirai le disperate strida, / vedrai li antichi spiriti dolenti, / ch’a la seconda morte ciascun grida” (Inf. I, 112-117).
Alla chiusa del canto, composto di centosessanta versi, si sta dunque consumando la sesta e più grande guerra contro la Chiesa, nel sesto tempo della sesta età, designata secondo Gioacchino da Fiore dal numero sessanta, età nella quale la bestia (il cui numero del nome è DCLXVI) perseguita più atrocemente la Chiesa (cfr. Ap 13, 18). Per il principio della “concurrentia” fra gli stati (in virtù del quale il periodo precedente non si conclude del tutto se non sotto il regime del successivo il quale, viceversa, inizia nel tempo anteriore) ci si trova, tuttavia, ancora alla fine del quinto stato allorché, come afferma Olivi, la Chiesa è quasi del tutto trasformata in una nuova Babylon (prologo, Notabile VII). Il sesto stato, iniziato con la conversione di Francesco d’Assisi (1206), concorre ancora, al 1300, con la fine del quinto e si distinguerà da esso solo con la definitiva condanna di Babylon.
Se la confusione babilonica si mostra sul piano dei due poteri universali, il temporale e lo spirituale, essa nondimeno agisce anche a livello individuale, per cui, come afferma Olivi, ciascuno deve bruciare la propria meretrice interiore (Ap 19, 10). Così la confusione è appropriata anche a Dante (Purg. XXXI, 7, 13), finito nella selva oscura dopo essersi tolto a Beatrice e dato ad altri, quasi specchio individuale della prostituta apocalittica (“questi si tolse a me, e diessi altrui … e come perché non li fosse tolta”, Purg. XXX, 126; XXXII, 151).
[1] Cfr. RAOUL MANSELLI, eresia, in Enciclopedia Dantesca, II, 19842, p. 720: “E la volpe, di cui qui parla D[ante], non è un’e[resia] particolare, come quella ariana, secondo una frequente interpretazione dei commentatori, ma è l’‘eresia’, cioè tutto il complesso dei fenomeni ereticali che effettivamente caratterizzò, come abbiamo già notato, il periodo successivo alle grandi persecuzioni e che accompagnò le grandi sistemazioni dottrinali della patristica. Non a caso chi mette in fuga la volpe non è un personaggio preciso – come sarebbe potuto essere Atanasio, per esempio -, ma Beatrice, cioè la teologia: al complesso delle dottrine ereticali si oppose, allora, il complesso delle dottrine teologiche dei padri della Chiesa. In questo senso il passo del Purgatorio traduce poeticamente quanto Ubertino da Casale dice in breve a proposito di questa età nel primo capitolo del V libro dell’Arbor vitae crucifixae Jesu, riprendendo a sua volta il commento all’Apocalisse di Pietro di Giovanni Olivi, il maestro degli spirituali francescani […]”.
[2] LINO PERTILE (La puttana e il gigante. Dal «Cantico dei Cantici» al Paradiso Terrestre di Dante, Ravenna 1998, pp. 206-213), rinvia al Salmo 18, 6: “In sole posuit tabernaculum suum; / Et ipse tanquam sponsus procedens de thalamo suo. / Exsultavit ut gigas ad currendam viam”, dove lo sposo e gigante, contaminato con Cantico 2, 8 (“Saliens in montibus, transiliens colles”), designa Cristo; nei versi di Dante svolge la figura dell’Anticristo.
Gigante e meretrice sono congiunti nell’esegesi dell’Olivi a Proverbi 9, 13a-18a: “Et nihil omnino sciens scilicet honestatis et uirtutis loquendo de scientia affectuali et experimentali, mulier stulta etc. (9, 13a): condiciones eius proponit, quales sicut tales habent. Et nihilominus tales meretricie proprietates temptationum carnalium et aliarum per mulierem hanc designatarum mistice describantur. Subdit ergo quod sedit in foribus domus sue (9, 14a) tamquam scilicet ad exteriora distracta et uaga et ad stultos attrahendos parata, super sellam quasi exhibens se ut quietam et felicem et ut auctenticam et magistralem ac per consequens ut credendam et sequendam in excelso urbis loco (9, 14b) quasi exhibens ut altam et supereminentem et quasi ut mundi reginam. Sic enim exhibet se gloria mundi et carnis aut quecumque celebris secta errorum que preter primum sensum littere per mulierem hanc mistice designatur. Et uecordi, id est habenti cor uesanum et prauum, locuta est (9, 16b), dicens scilicet: Aque furtiue dulciores sunt (9, 17a). Sicut enim proprium est curiose et uage concupiscentie semper noua et insueta et sue facultati non subiecta preoptare et preferre assuetis et subiectis quamquam de se pulchrioribus et melioribus, unde Dauid adulterans suis quinque uxoribus pretulit uxorem Vrie, sic ad litteram mulieres uane exhibent se caras et absconsas et raras hiis quos ad sui amorem et concubitum fortius accendere uolunt. Pretendunt etiam deliciosius esse aliquam nouam et hactenus insuetam habere quam uxorem suam de qua ex multa assiduitate est iam fastiditus. In hoc etiam innuitur qu[e]dam alia proprietas concupiscentie male, quia ceteris paribus plus delectatur in eo quod furtiue et astute seu insidiose aut uictoriose alteri subripit quam in hiis que gratis et de facili habet. Et ignorauit scilicet ille stultus seu uecors, quod sunt gigantes ibi (9, 18a) scilicet in domo mulieris illius. Per hec autem duo uel tria intendit, primo scilicet illud quod tamquam frequens est merito formidandu[m], scilicet quod aliqui robustiores sint uel ueniant ad meretricem illam et quod ex hoc sibi mors et sepultura imineant. Secundo per hoc rememorat, quod gigantes a tempore diluuii filias hominum pro libito assumebant. Sunt et ibi (cf. 9, 18a), id est: ex hoc peccato submersi et ad inferos deducti, et ideo illorum et omnium consimilium exemplo deberet stultus iste retrahi. Tertium est quod gigantei demones ‘sunt ibi’ ad precipitandum homines in infernum et in omne malum” (PETRI IOHANNIS OLIVI Lectura super Proverbia et Lectura super Ecclesiasten, cur. J. Schlageter , Ad Claras Aquas Grottaferrata 2003 [Collectio oliviana, VI], pp. 276-277).
La mulier stulta di Pro 9, 13a-18a è speculare a Babylon, la prostituta apocalittica descritta nella LSA: “(Pro 9, 14a-b) […] tamquam scilicet ad exteriora distracta et uaga et ad stultos attrahendos parata […] Sic enim exhibet se gloria mundi et carnis // (Ap 17, 1) […] quia qui hoc nescit de facili decipitur nutibus oculorum eius et a gloria eius; (Pro 9, 14a-b) […] quasi exhibens se ut quietam et felicem et ut auctenticam et magistralem ac per consequens ut credendam et sequendam in excelso urbis loco (9, 14b) quasi exhibens ut altam et supereminentem et quasi ut mundi reginam // (Ap 18, 7) Quia in corde suo dicit, id est superbiendo: Sedeo regina, id est in magna presidentia et gloria super regnum meum dominor et conquiesco; et vidua non sum, id est non sum destituta gloriosis episcopis et regibus; et luctum non videbo, id est numquam incidam in miseriam nec amittam predicta”.
[3] Oltre che alla politica antifrancese perseguita da Bonifacio VIII nel 1301-1303, questo barcamenarsi da parte di “tal che testé piaggia” (cfr. Inf. VI, 69), che ammicca al poeta con lo sguardo della “puttana sciolta”, sembra un ricordo dell’ambasceria a Roma nell’ottobre 1301, allorché, come scrive Boccaccio, il pontefice fece segno “d’aver mostrata igual tenerezza di ciascuna delle parti”, mentre “l’animo tutto gli pendeva alla parte Nera” (cfr. GIOVANNI BOCCACCIO, Il Comento alla “Divina Commedia” e gli altri scritti intorno a Dante, a cura di D. Guerri, II, Bari 1918 [Scrittori d’Italia], p. 174).
Tab. V.1
[LSA, cap. XVII, Ap 17, 1 (VIa visio)] “Et venit ad me unus” (Ap 17, 1). Hic plene explicat dampnationem Babilonis et causam eius, scilicet culpam propter quam est iuste dampnanda. Ubi primo introducitur angelus invitans et elevans Iohannem ad videndum in spiritu dampnationem eius, ubi et commemorat flagitia eius. […] Dicit ergo: “Et venit unus de septem angelis, qui habeb<ant> septem phialas” (Ap 17, 1). Secundum Ioachim, iste est sextus angelus cui magis quam quinque precedentibus datum est detegere occulta sacramenta. Et subdit quod angelus vocat Iohannem in signum quod discipuli non possunt intrare ad intellectum spiritalium doctorum, nisi illi per verbum eruditionis trahant corda illorum ad intelligentiam veritatis. Subdit etiam quod per hoc quod sic sollicite invitat eum ad videndum dampnationem et malitiam meretricis, designatur quod valde utile est hoc spiritaliter videre, quia qui hoc nescit de facili decipitur nutibus oculorum eius et a gloria eius [Expositio , pars VI, distinctio I, f. 194ra-b]. |
Inf. I, 112-114Ond’ io per lo tuo me’ penso e discerno
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[LSA, cap. XII, Ap 12, 3; 13, 1 (IVa visio)] “Et visum est aliud signum” (Ap 12, 3). Hic incipit describere decursum ecclesie. Et primo describit in summa septem et quasi octo prelia eius a septem capitibus drachonis et a cauda eius manantia. Secundo narrat per partes illa septem prelia. […]
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Purg. XXXII, 109-160Non scese mai con sì veloce moto II
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[LSA, cap. XII, Ap 12, 7] (II) Secundum fuit a paganis et falsis diis contra cetum martirum, ibi: “Et factum est prelium magnum in celo” (Ap 12, 7). […] Prelium autem hoc dicitur hic magnum tum quia, secundum Ricardum, fuit robustum et longum* (nam circiter trecentis annis duravit), tum quia fuit universale in toto orbe, tum quia fuit pro maxima causa.
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Poscia vidi avventarsi ne la cuna III
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[LSA, cap. XII, Ap 12, 13] (III) Tertium fuit contra fidelem doctrinam doctorum catholicorum ab hereticis arrianis et a ceteris. […] Sequitur de tertio prelio, in quo diabolus contra ecclesiam effudit flumina errorum seu heresum […] |
Poscia per indi ond’ era pria venuta, IV
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(IV) Et quartum, huic annexum, fuit contra anachoriticam seu regularem vitam sanctorum illius temporis. […] et etiam de quarto, in quo ad eam submergendam effudit flumina temporalium divi-tiarum. |
[LSA, cap. XII, Ap 12, 3-4] Dicit ergo (Ap 12, 3): “Et visum est aliud signum in celo”, id est in scripture sacre eloquio vel in ecclesia vel in celesti contemplatione. “Et ecce dracho”, id est diabolus per calliditatem “dracho”, per elationem et per grandem potentiam “magnus”, per crudelitatem “rufus”. “Habens capita septem”, id est, secundum Ricardum, septem principalium vitiorum septiformem temptationem et potestatem temptandi et inclinandi ad illa; “et cornua decem”, id est elatam multitudinem suorum principum Dei legem et eius perfectionem per denarium designatam impugnantium; “et in capitibus septem diademata”, id est septem regales glorias de septiformi victoria habita de ruentibus et prostratis per septiformem temptationem eius. “Et cauda eius trahebat tertiam partem stellarum celi” (Ap 12, 4), quia quos non potest per apertam sevitiam et sub aperta specie mali subvertere, etiam illos qui per altam scientiam et vitam erant vel videbantur quasi stelle celi, allicit et trahit sub falsa specie boni et per occultam sapientiam que in cauda figuratur*. “Et misit eos in terram”, faciendo scilicet terrena amare et terrenis adherere et terrestrem vitam habere. * In Ap IV, i (PL 196, col. 799 D).[LSA, cap. XII, Ap 12, 15 (IVum prelium)] Sic etiam non quecumque temporalia ad victum necessaria inferunt talem violentiam sicut faciunt ample possessiones et urbes et castra et multa ac pretiosa mobilia, que utique a tempore Constantini ceperunt ecclesie offerri et dari. Quia vero sub quadam specie veri et boni, et quasi in obsequium ecclesie quoad doctrinam fidei et quoad cultum Dei, diabolus latenter et dolose effudit venenum errorum et multorum vitiorum copie temporalium annexorum, ideo non dicitur serpens misisse flumen ante faciem mulieris, sed post mulierem. Dicitur etiam hoc quia non potuit diabolus facere quin a sancta ecclesia spernerentur, quasi posteriora et quasi post tergum reiecta. |
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Quel che rimase, come da gramigna V
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[LSA, cap. XII, Ap 12, 17 (Vum prelium)] (V) Sequitur de sequenti prelio. “Et iratus est dracho in mulierem” (Ap 12, 17). Ubi primo tangitur hec persecutio implicite et in generali. […] “Et abiit facere bellum cum reliquis de semine eius, qui custodiunt mandata Dei et habent testimonium Ihesu” […] |
Trasformato così ’l dificio santo VI
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[LSA, cap. XIII, Ap 13, 1.4 (VIum prelium)] Ex quo autem incipit agere de bestia, dirigit totum suum impetum ad illud magnum prelium sexti temporis quod factura est per caput quasi occisum et postmodum reviviscens (cfr. Ap 13, 3). […] “Et vidi de mari” (Ap 13, 1), id est de infideli natione paganismi, “bestiam”, id est bestialem catervam et sectam, “ascendentem”, scilicet in altum dominium et in publicum effectum et statum. […] Et ideo subdit (Ap 13, 1): “habentem capita septem”. Ioachim, prout superius recitavi, dicit quod capita huius bestie differunt a capitibus drachonis sicut metropolitane ecclesie, que sunt capita aliarum, differunt a suis episcopis, qui utique sunt capita ipsarum et quasi capita Christi cuius vicem gerunt. Et secundum hoc, vult quod illi populi, qui fuerunt principales et quasi capita aliorum ad persequendum Christum et ecclesiam, sint proprie capita bestie et bestialis caterve*. Sed nichilominus est dicendum quod principales tiranni sunt et vocantur capita bestie, sicut et episcopi, et precipue summi et universales, sunt capita ecclesie. […] Sequitur: “et cornua decem”, id est decem reges eodem tempore regnaturi, prout dicitur infra XVII° (Ap 17, 12). […] Ricardus exponit hoc moraliter, scilicet per septem capita universitatem principalium vitiorum et per decem cornua elationem impugnantem decalogum sacre legis*. […] “Et adoraverunt bestiam” (Ap 13, 4), scilicet se subiciendo et humiliando illi bestiali genti et secte eius, “dicentes”, scilicet admirative: “Quis similis bestie?”, scilicet in potestate, quasi dicat: nullus; “et quis poterit pugnare cum ea?”, id est resistere ei, quasi dicat: nullus.* Expositio, pars IV, distinctio I, f. 156rb-va.
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[LSA, cap. XIII, Ap 13, 11] “Et habebat duo cornua similia Agni”, id est Christi. Per hec cornua intelliguntur hic primo apparens similitudo gemine perfectionis Christi, scilicet scientie et sanctitatis Christi et suorum electorum. Secundo, apparens fulcimentum seu argumentum ex scientia et auctoritate duorum Testamentorum, que utique sunt Christi, id est de Christo et a Christo. Tertio, apparens similitudo duplicis auctoritatis et potestatis Christi, scilicet spiritualis, que est quasi dextrum cornu, et temporalis seu super temporalia, que est quasi sinistrum cornu. Quarto, per “duo cornua” intelliguntur duo ordines pseudoprophetarum seu falsorum religiosorum ypocritaliter similium duobus ordinibus Christi. Et secundum Ioachim, forte per “duo cornua” intelliguntur duo pseudoprophete principes aliorum pseudodoctorum quasi assimilati Helie et Enoch, qui utique erunt duo testes et quasi duo cornua Christi [Expositio, pars IV, distinctio IV, f. 166vb].[LSA, cap. IV, Ap 4, 6 (radix IIe visionis)] “Et in medio sedis et in circuitu sedis quattuor animalia” (Ap 4, 6). Per hec quattuor animalia anagogice designantur quattuor perfectiones Dei, quibus sustentant totam sedem ecclesie triumphantis et militantis, scilicet omnipotentia magnanimis et insuperabilis, quasi leo; et patientia seu sufferentia humilis omnium defectus quantum decet subportans et tolerans, quasi bos sub iugo vel curru; et prudentia rationalis omnia discrete et mansuete regens et moderans, quasi homo; et perspicacia altivola omniumque visiva et penetrativa et diiudicativa, quasi aquila. |
[LSA, cap. IX, Ap 9, 13-14 (IIIa visio, VIa tuba)] Dicit ergo (Ap 9, 13): “Et audivi vocem unam ex quattuor cornibus altaris aurei, quod est ante oculos Dei”. […] Sequitur (Ap 9, 14): “dicentem”, id est “sexto angelo qui habebat tubam: Solve quattuor angelos” id est, secundum Ricardum, predica ipsos esse solvendos ad confortationem scilicet electorum oppressorum et ad perterrendum carnales ut peniteant et convertantur*. Vel secundum Ioachim, tunc dicitur angelo ut solvat eos cum propter infinita scelera hominum iubentur sancti non orare pro populo malo et adultero. Vel secundum eum, solvere est demonstrare solutos*. Vel per hoc designatur quod sancti, zelo legis et iustitie Dei, tunc a Deo accendentur et vehementer instigabuntur ad petendum a Deo ipsos solvi, ut destruant Babilonem propter quattuor supradicta in quattuor cornibus altaris designata. Designatur etiam quod sanctorum illorum merita clamant et a Deo exigunt illos solvi. […] Secundum etiam Ioachim, isti erunt quasi quattuor evangeliste Antichristi, et duces eorum qui per verbum suum nefarium credituri sunt Antichristo. Vel quattuor duces gentis sarracenice, cuius una pars est ab oriente, scilicet Turci; alia vero in meridie, sicut Ethiopes; alia in occidente, sicut barbari sive Mauri; alia ab aquilone, que sepe cum Alamannis habuit conflictum**. Referendo tamen hoc ad tertium initium sexti status, in quo solventur hostes evangelici status, potest per hos quattuor designari quadripertita divisio regum christianorum designata per quattuor tetrarchas contemporaneos predicationi et interfectioni Iohannis et Christi, et iterum quadripertita divisio cleri et religionis in contrarias sententias et conten<t>iones earum. Utraque enim divisio designatur per quattuor partes vestium Christi et per quattuor milites divisores et sortitores earum, de quibus habetur Iohannis XIX°; tunica autem inconsutilis et indivisa designat spiritalem ecclesiam illius temporis (Jo 19, 23-24)***.* In Ap III, vii (PL 196, col. 786 D). * Expositio , pars III, f. 133vb. ** ibid., f. 134rb-va. *** Cfr. ibid., f. 145va [dove l’esegesi di Giovanni 19, 23-24 è riferita alla città santa calcata dalle genti per quarantadue mesi (Ap 11, 1-2); le quattro parti delle vesti designano le quattro chiese patriarcali, la tunica senza cuciture la chiesa latina]. |
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[LSA, cap. XVI, Ap 16, 20 (radix VIe visionis)] Deinde effectum huius iudicii insinuat quoad duas partes pene eterne. Quarum prima est pena dampni, scilicet privatio omnis boni iocundi, et hanc tangit cum subdit: “Et omnis insula fugit, et omnes montes non sunt inventi” (Ap 16, 20). Sicut in terra nichil firmius et eminentius aut tutius quam montes, sic in mari nichil stabilius et humane quieti aptius quam insule, et ideo per consumptionem seu non inventibilem subversionem vel per translationem omnium montium et insularum, tam hic quam supra sub apertione sexti sigilli (cfr. Ap 6, 14), designatur consumptio vel subversio solidiorum et eminentiorum et immobiliorum statuum et urbium et ecclesiarum et regnorum totius carnalis ecclesie. |
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Sicura, quasi rocca in alto monte,
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[LSA, cap. III, Ap 3, 7 (Ia visio, VIa ecclesia)] Unde congrue nomen huius sexte ecclesie, scilicet Philadelphia, non solum interpretatur salvans hereditatem, prout tactum est supra, sed etiam amor fratris, prout dicit Ricardus*. Nam in sexto statu, qui est tertius generalis status populi Dei, anthonomasice complebitur illud quod in tertia parte Cantici Canticorum dicit sponsa ad sponsum (Cn 8, 1-2): “Quis michi det te fratrem meum suggentem ubera matris mee, ut inveniam te solum foris et <de>obsculer? Apprehendam te et ducam in domum matris mee”, scilicet sinagoge tunc temporis convertende. * In Ap I, xi (PL 196, col. 742 C).[LSA, Ap 3, 19 (Ia visio, VIIa ecclesia)] “Et penitentiam age”, quasi dicat, secundum Ricardum: «si suasio premissa non potest te de tuo tepore excitare, animadverte diligenter me verbis arguere et flagellis castigare illos quos amo, ipsosque mea verba et flagella libenter accipere, et ab illis exemplum sume ipsosque imitando in bono emulare». Vel sensus est: “Emulare ergo”, id est ad exemplum mei et zelo amoris mei et tue salutis irascere et indignare contra tua vitia, “et” ad castigandum ea “penitentiam age”. |
[LSA, cap. XIII, Ap 13, 11 (IVa visio, VIum prelium)] “Et vidi aliam bestiam” (Ap 13, 11). Quia tempore Antichristi cum predicta bestiali gente et rege eius concurret alia bestialis caterva pseudoprophetarum, <qui> non de mari nationum infidelium sed de terra christianitatis consurgent et concordabunt cum bestia prima in unam erroneam sectam ex utrisque conflatam, ideo tractat hic de hac secunda bestia. Ideo autem secundario tractat de ista, tum quia post exaltationem prime ista sequitur, tum quia hec non in propriis viribus sed in viribus prime consurget et prevalebit, tum quia in favorem prime ista operabitur signa falsa et reliqua mala sua. […] Nota autem quod sicut ponuntur hic due bestie, una de mari et alia de terra, sic Deus Iob, capitulo XL° loquens de diabolo et corpore reproborum et de Antichristo, proponit duas, unam scilicet de terra quam vocat “Behemot”, et aliam de mari quam vocat “Leviatan” (cfr. Jb 40, 10-19; 40, 20 – 41, 25). Sic etiam Daniel in sexta visione ponit bestias de mari, de quarum una exit undecimum cornu (Dn 7, 7-8); in septima vero ponit bestiam de terra, scilicet yrcum, de cuius uno cornu exit cornu <unum>, id est rex impudens et intelligens propositiones, qui contra principem principum consurget (Dn 8, 9.23.25). |
Tab. V.2
AVVERTENZE
■ Seppure segue l’ordine dei ventidue capitoli dell’Apocalisse, Olivi suggerisce, nel prologo della Lectura, un metodo differente di comprensione e di aggregazione del testo, fondato sui sette stati (status), cioè sulle epoche nelle quali si articola la storia della Chiesa, prefigurate nell’Antico Testamento.
L’Apocalisse si articola in sette visioni: le sette chiese d’Asia, i sette sigilli, le sette trombe, la donna vestita di sole (le sette guerre sostenute dalla Chiesa), le sette coppe, il giudizio di Babylon nelle sette teste del drago, la Gerusalemme celeste. Le prime sei visioni possono essere a loro volta divise in sette momenti, ciascuno dei quali riferibile a uno dei sette stati. Assembrando, per le prime sei visioni, tutti i primi elementi (chiesa, sigillo, tromba, guerra, coppa, momento del giudizio di Babylon), tutti i secondi, i terzi e così di seguito, si ottengono sette gruppi di materia teologica, corrispondenti al complesso dei temi afferenti a ciascuno dei sette stati. A questi sette gruppi si aggiungono altri due: l’esegesi della settima visione (senza articolazioni interne) e l’esegesi di capitoli del testo scritturale, o di parti di essi, introduttivi delle successive specificazioni delle singole visioni per settenari, che Olivi definisce “radicalia” o “fontalia”. Si ottengono in tal modo nove gruppi: le parti proemiali, i sette assembramenti di settenari e la settima visione. Il grande prologo della Lectura, articolato in tredici notabilia, può essere anch’esso aggregato secondo i sette stati. Un libro (la Lectura) contiene dunque princìpi e criteri affinché l’accorto lettore possa trarne un altro libro, fatto con lo stesso materiale ma ricomposto e distribuito in forma diversa.
■ La Commedia mostra un ordine interno diverso da quello che appare al lettore: il viaggio di Dante ha un andamento di ciclici settenari, che corrispondono ai sette stati della storia della Chiesa, cioè alle categorie con cui Olivi organizza la materia esegetica. Questo ordine interno è registrabile per zone progressive del poema dove prevale, tramite parole-chiave, la semantica riferibile a un singolo stato. È un’intima struttura dirompente i confini letterali stabiliti dai canti e da tutte le divisioni materiali per cerchi, gironi, cieli. Ogni stato, che ha differenti inizi, è concatenato per concurrentia, come le maglie di un’armatura, con quello che precede e con quello che segue. Si possono in tal modo redigere mappe che comprendano l’ordine spirituale della Commedia. La ricerca è pervenuta a una Topografia spirituale della Commedia, dove quasi per ogni verso, o gruppo di versi, collegamenti ipertestuali conducono al “panno” esegetico fornito dalla Lectura super Apocalipsim, sul quale il “buon sartore” ha fatto “la gonna” (cfr. Par. XXXII, 139-141).
■ A ogni gruppo è arbitrariamente assegnato un diverso colore: Radici (verde), I stato (verde acqua), II stato (rosso), III stato (nero), IV stato (viola), V stato (marrone), VI stato (blu), VII stato (indaco), VII visione (fucsia). Dei gruppi sono stati integralmente studiati il terzo stato e la settima visione. Rispetto alla tabella complessiva contenente i collegamenti ipertestuali, nelle sinossi i colori possono essere variati per maggiore evidenza.
■ Non di rado nei versi alcune parole o incisi-chiave possono rinviare a più luoghi esegetici. Questo perché il testo dottrinale contenuto nella Lectura, prima di travasarsi semanticamente nella Commedia, è stato sottoposto a una duplice riorganizzazione. La prima, sulla base delle indicazioni dello stesso Olivi, secondo il materiale esegetico attribuibile ai singoli stati. La seconda, seguendo il principio applicato nelle distinctiones ad uso dei predicatori, sulla base di lemmi analogicamente collazionati. La “mutua collatio” di parti della Lectura arricchisce il significato legato alle parole e consente uno sviluppo tematico amplificato. Si vedano, ad esempio, le variazioni eseguite sul tema della “voce” o sull’espressione “in medio”, temi più volte iterati nel sacro testo, oppure il modo con cui Ap 1, 16-17 (l’esegesi della decima e undecima prefezione di Cristo come sommo pastore) percorre i versi in collazione con altri passi. A ciò predispone lo stesso testo scritturale, poiché l’Apocalisse contiene espressioni, come Leitmotive, che ritornano più volte. È determinata da parole-chiave che collegano i passi da collazionare. È suggerita dallo stesso Olivi, nel prologo, per una migliore intelligenza del testo.
■Tutte le citazioni della Lectura super Apocalipsim presenti nei saggi o negli articoli pubblicati su questo sito sono tratte dalla trascrizione, corredata di note e indici, del ms. Paris, Bibliothèque nationale de France, lat. 713, a disposizione fin dal 2009 sul sito medesimo. I passi scritturali ai quali si riferisce l’esegesi sono in tondo compresi tra “ ”; per le fonti diverse da quelle indicate si rinvia all’edizione in rete. Non viene presa in considerazione l’edizione critica a cura di WARREN LEWIS (Franciscan Institute Publications, St. Bonaventure – New York, 2015) per le problematiche da essa poste, che sono discusse in ALBERTO FORNI – PAOLO VIAN, A proposito dell’edizione di Warren Lewis della Lectura super Apocalipsim di Pietro di Giovanni Olivi. Alcune osservazioni, in “Archivum Franciscanum Historicum”, 109 (2016), pp. 99-161.
Il testo della Commedia citato è in Dante Alighieri, La Commedia secondo l’antica vulgata, a cura di GIORGIO PETROCCHI, Firenze 1994. Si tiene anche conto della recente edizione a cura di GIORGIO INGLESE, Firenze 2021 (Società Dantesca Italiana. Edizione Nazionale), qualora il testo proposto si discosti da quello del Petrocchi e la scelta della variante risulti discutibile nel confronto con la LSA.
ABBREVIAZIONI
Ap: APOCALYPSIS IOHANNIS.
LSA: PIETRO DI GIOVANNI OLIVI, Lectura super Apocalipsim.
Concordia: JOACHIM VON FIORE, Concordia Novi ac Veteris Testamenti. Herausgegeben von A. PATSCHOVSKY, Wiesbaden 2017 (Monumenta Germaniae Historica. Quellen zur Geistesgeschichte des Mittelalters, 28. Band), Teil 2 (lib. I-IV), Teil 3 (lib. V).
Expositio: GIOACCHINO DA FIORE, Expositio in Apocalypsim, in Edibus Francisci Bindoni ac Maphei Pasini, Venetiis 1527, ristampa anastatica Minerva, Frankfurt a. M. 1964.
Olivi opera spesso una sintesi del testo di Gioacchino da Fiore. Le « » precedono e chiudono un’effettiva citazione. Diversamente, viene posto un asterisco (*) o una nota in apice al termine della parte riferibile a Gioacchino.
In Ap: RICCARDO DI SAN VITTORE, In Apocalypsim libri septem, PL 196, coll. 683-888.
Note sulla “topografia spirituale” della Commedia
Per quanto segua l’ordine dei ventidue capitoli dell’Apocalisse, Olivi suggerisce un metodo differente di comprensione e di aggregazione del testo esegetico, fondato sui sette stati, cioè sui periodi nei quali si articola la storia della Chiesa. L’Antico Testamento corrisponde alle prime cinque età del mondo, secondo la divisione tradizionale [1]: è l’età del Padre secondo Gioacchino da Fiore. Con il primo avvento di Cristo, nella carne, inizia la sesta età (l’età del Figlio), nella quale la Chiesa, come fosse un individuo, cresce e si sviluppa in sette stati. Al primo, apostolico periodo, succede il secondo dei martiri; poi, al tempo di Giustiniano, il terzo stato dei dottori che confutano con l’intelletto le eresie concorre con il quarto stato degli affettuosi anacoreti devoti al pasto eucaristico, alti per la contemplazione ma anche attivi come reggitori delle genti; a partire da Carlo Magno subentra il quinto stato aperto alla vita associata delle moltitudini, bello nel principio ma poi corrottosi fino a trasformare quasi tutta la Chiesa in una nuova Babilonia; la riforma interviene, a partire da Francesco, con il cristiforme sesto stato, fino alla sconfitta dell’Anticristo; subentra infine il silenzio e la quiete del pacifico settimo stato. Il sesto e il settimo stato (la terza età di Gioacchino da Fiore) coincidono con il secondo avvento di Cristo, nello Spirito, cioè nei suoi discepoli spirituali inviati a convertire il mondo con la predicazione; al termine del settimo stato ci sarà il terzo avvento, nel giudizio.
L’Apocalisse si articola in sette visioni: le sette chiese d’Asia, i sette sigilli, le sette trombe, la donna vestita di sole (le sette guerre sostenute dalla Chiesa), le sette coppe, il giudizio di Babylon nelle sette teste del drago, la Gerusalemme celeste. Le prime sei visioni possono essere a loro volta divise in sette momenti, ciascuno dei quali riferibile a uno dei sette stati. Assembrando, per le prime sei visioni, tutti i primi elementi (chiesa, sigillo, tromba, guerra, coppa, momento del giudizio di Babylon), tutti i secondi, i terzi e così di seguito, si ottengono sette gruppi di materia teologica, corrispondenti al complesso dei temi afferenti a ciascuno dei sette stati [2]. A questi sette gruppi se ne aggiungono altri due: l’esegesi della settima visione (senza articolazioni interne) e l’esegesi di capitoli del testo scritturale, o di parti di essi, introduttivi delle successive specificazioni delle singole visioni per settenari, che Olivi definisce “radicalia” o “fontalia”. Si ottengono in tal modo nove gruppi: le parti proemiali, i sette assembramenti di settenari e la settima visione. Il grande prologo della Lectura, articolato in tredici notabilia, può essere anch’esso aggregato nelle sue parti secondo i sette stati.
L’intenso travaso di parole-temi dalla Lectura nella Commedia si accompagna a un fatto strutturale. La Commedia mostra un ordine interno diverso da quello che appare al lettore: il viaggio di Dante ha un andamento di ciclici settenari, che corrispondono ai sette stati oliviani. È un ordine registrabile per zone progressive del poema dove prevalgono i temi di un singolo stato, che rompe i confini letterali stabiliti dai canti e da tutte le divisioni materiali per cerchi, gironi, cieli. Ogni stato, che ha differenti inizi, è concatenato per “concurrentia”, come le maglie di un’armatura, con quello che precede e con quello che segue. Ciascuno stato ha in sé una grande ricchezza di motivi e contiene inoltre temi di tutti gli altri, consentendo innumerevoli intrecci e variazioni. La Commedia appare, come l’Apocalisse, “libro scritto dentro e fuori” (Ap 5, 1), con duplice struttura, linguaggio e senso, letterale e spirituale. Il viaggio di Dante e la visione di Giovanni hanno la stessa causa finale, che è la beatitudine, alla quale si perviene con diverse guide, per gradi segnati da visioni sempre più nuove e ardue delle precedenti, attraverso una sempre maggiore apertura dell’arcano coperto dal velame dei sette sigilli fino al punto più alto in cui, in questa vita, è possibile vedere la verità.
Tutti i modi del linguaggio interiore al poema esprimono un processo, un viaggio dal più chiuso al più aperto, e in questo andare hanno una loro precisa collocazione ‘topografica’, uno ‘stato’ (nel senso di momento storico che ricade sulla coscienza individuale) al quale appartenere. Si possono in tal modo stendere vere e proprie mappe tematiche che comprendano l’ordine spirituale di tutta la Commedia che aderisce, parodiandola semanticamente, a una precisa teologia della storia, sia pure modificandone profondamente le prospettive. La ciclicità dei temi permette di stabilire collegamenti inusitati tra le diverse zone; il procedere per gradi dell’illuminazione divina fa sì che episodi oscuri e quasi ermeticamente chiusi si chiariscano poi, aprendosi all’intelligenza in modo più alto.
A ogni gruppo è arbitrariamente assegnato un diverso colore: Radici (verde), I stato (verde acqua), II stato (rosso), III stato (nero), IV stato (viola), V stato (marrone), VI stato (blu), VII stato (indaco), VII visione (fucsia). Dei gruppi sono stati integralmente studiati il terzo stato e la settima visione.
INFERNO
(le prime cinque età del mondo)
La ‘topografia spirituale’ del poema mostra nell’Inferno cinque cicli settenari corrispondenti agli stati della Chiesa descritti da Olivi e ai loro temi contenuti nella Lectura. Questi cinque cicli designano le prime cinque età del mondo (riunite a loro volta nel primo stato generale, che corrisponde all’età del Padre di Gioacchino da Fiore), in quanto prefigurazione del primo avvento di Cristo e della Chiesa.
I cinque cicli settenari che si susseguono nell’Inferno a partire dal quarto canto (i primi tre canti hanno una tematica particolare) sono preceduti da cinque zone che possono essere definite ‘snodi’, dove cioè confluiscono temi provenienti da più stati, intrecciati insieme ad altri ad avviare il procedere settenario. Il centro di questi ‘snodi’ coincide con un canto (Inf. IV, X, XVII, XXVI, XXXII), ma la zona è più vasta e supera l’ambito dato dalla divisione letterale del poema.
Inf. I-III sono da considerare al di fuori dei cicli. Inf. I e II sono profondamente segnati dai temi del sesto stato. Inf. III è riferibile al settimo stato (per gli ignavi) e in parte al quinto (per l’episodio di Caronte). |
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canti |
I ciclo |
stati |
cerchi |
IV |
Limbo |
Radici, I (I snodo) |
I |
V |
lussuriosi |
II |
II |
VI |
golosi |
III |
III |
VII |
avari e prodighipalude Stigia
|
III–IV
V |
IV
|
VIII |
palude Stigia (orgogliosi)
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V |
V |
IX |
apertura della porta di Dite |
V–VI |
|
canti |
II ciclo |
stati |
cerchi |
IX-X-XI |
eretici, ordinamento dell’inferno |
I (II snodo) |
VI |
XII |
violenti contro il prossimo |
II |
VII (girone 1) |
XIII |
violenti contro sé |
III |
(girone 2) |
XIV |
violenti contro Dio: bestemmiatori |
IV |
(girone 3) |
XV-XVI |
violenti contro Dio: sodomiti |
V |
|
XVIXVII |
ascesa di GerioneGerione, violenti contro Dio: usurai |
VI |
canti |
III ciclo |
stati |
cerchi |
XVII |
volo verso Malebolge |
I (III snodo) |
|
XVIII |
ruffiani, lusingatori |
Radici – II |
VIII (bolgia 1, 2) |
XIX |
simoniaci |
III |
(bolgia 3) |
XX |
indovini |
IV |
(bolgia 4) |
XXI-XXII |
barattieri |
V |
(bolgia 5) |
XXIII |
ipocriti |
V–VI |
(bolgia 6) |
XXIV-XXV |
ladri |
VI |
(bolgia 7) |
canti |
IV ciclo |
stati |
cerchi |
XXVI |
consiglieri di frode (greci) |
I (IV snodo) |
(bolgia 8) |
XXVII |
consiglieri di frode (latini) |
II |
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XXVIII-XXIX |
seminatori di scandalo e di scisma |
III |
(bolgia 9) |
XXIX |
falsatori |
IV |
(bolgia 10) |
XXX |
falsatori |
IV–V |
|
XXXI |
giganti |
V–VI |
|
canti |
V ciclo |
stati |
cerchi |
XXXII |
Cocito: Caina, Antenora |
I (V snodo) |
IX |
XXXIII |
Antenora, Tolomea |
II |
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XXXIV |
Giudecca |
III–IV–V |
|
XXXIV |
volgersi di Virgilio sull’anca di Lucifero |
VI |
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Il sesto stato è per Olivi la fase più importante nella costruzione dell’edificio della Chiesa. In esso “renovabitur Christi lex et vita et crux”. Corrisponde ai tempi moderni. Ha quattro diversi inizi temporali: uno profetico, con Gioacchino da Fiore, il quale lo vide in spirito concependo la sua terza età; il secondo con la conversione di Francesco (1206), che seminò la pianta; il terzo con la predicazione degli uomini spirituali, per la quale la pianta si rinnovella; il quarto con la distruzione storica di Babylon. Dura fino alla sconfitta dell’Anticristo, il cui avvento si collocherebbe, secondo i numeri della profezia di Daniele 12, 11-12 combinati con Ap 12, 6 e 14, fra il 1290 e il giubileo di pace del 1335.
Una ‘vita nuova’ si instaura nel sesto stato, per eccellenza il momento dell’imitazione di Cristo. I rami dell’albero si dilatano producendo il frutto della carità, l’acqua che proviene da Cristo-fonte attraverso il condotto che percorre i primi cinque stati della Chiesa si effonde in un lago; è il tempo, assimilato al sacramento del matrimonio, della letizia nuziale, della familiarità, dell’amicizia. Corrisponde al sesto giorno della creazione, in cui vennero creati prima i rettili e le bestie irrazionali, poi l’uomo razionale che, come l’ordine evangelico, è fatto a immagine e somiglianza di Dio e domina tutti gli animali.
Le espressioni di Olivi relative al sesto stato – “quoddam sollempne initium novi seculi … renovaretur et consumaretur seculum”, nel quale il sacerdozio apostolico “redeat et assurgat ad ordinem primum”, la “nova Ierusalem”, interpretata come “visione di pace”, viene vista “descendere de celo” e la Chiesa descritta come la donna vestita di sole con la sua “virginea proles” – sono la veste spirituale dei versi della quarta egloga virgiliana che celebrano la rinnovata età dell’oro: “Magnus ab integro saeclorum nascitur ordo / iam redit et Virgo; redeunt Saturnia regna; / Iam nova progenies caelo demittitur alto” (Egloga IV, 5-7). Olivi completa la Lectura super Apocalipsim nel 1298, poco prima di morire, il 14 marzo, a Narbonne. Quel felicissimo stato segnato dalla pace sotto il divo Augusto, che rese l’umanità disposta al primo avvento di Cristo, si sta rinnovando nel sesto stato della Chiesa, nel secondo avvento nello Spirito. Scrive Arsenio Frugoni: “[…] quell’escatologismo, oltre che ideologia di lotta e di riforma del gruppo spirituale, era anche un vero e proprio sentimento storico […] una tensione di rinnovamento, una ansia di salvezza, che nel 1300, l’anno centenario della Natività, aveva trovato come una attivazione, in un senso di pienezza dei tempi, cui doveva corrispondere un fatto, un accadere meraviglioso e nuovo” [3].
All’apertura del sesto sigillo, l’eletta schiera dei riformatori – i 144.000 segnati dalle dodici tribù d’Israele – guida la turba innumerevole di ogni gente, tribù, popolo e lingua (Ap 7, 3-4.13). Questi eletti e magnanimi duci, separati dalla volgare schiera per più alta milizia, vengono destinati a difendere liberamente la fede – ad essi è data la “plena libertas ad innovandam christianam religionem” -; sono gli amici di Dio a lui noti per nome, configurati in Cristo crocifisso e votati al martirio.
All’interno della Chiesa del sesto stato, l’Ordine dei Minori – “ordo plurium personarum” – è assimilabile alla persona umana di Cristo. Come questa si sviluppò fino all’età virile, così dovrà essere per l’ordo evangelicus piantato da Francesco, che avrà bisogno (a differenza di Cristo che stette poco tempo nel mondo) di due o tre generazioni per svilupparsi prima di subire una condanna simile a quella di Cristo [4]. La sua maturità coincide, verso il 1300, con il terzo inizio del sesto stato, cioè con il rinnovarsi per opera dello Spirito di Cristo, nel suo secondo avvento, della pianta seminata da Francesco. Questa concezione dell’Ordine francescano come individuo in sviluppo che, perfettamente maturato, diventa il novus ordo preconizzato da Gioacchino da Fiore per l’età dello Spirito, si differenzia da quella di Bonaventura, che aveva invece distinto i Francescani del proprio tempo – e quindi anche gli Spirituali – dall’Ordine finale che dominerà fino ai confini della terra. Alla terza apertura del sesto sigillo nuovi san Giovanni vengono inviati a predicare al mondo come nel tempo degli Apostoli. Ma Giovanni non designa solo un Ordine, perché Olivi lascia aperta la possibilità di rivelazioni individuali, avute da “singulares persone”, perfetti imitatori di Cristo votati, con la loro “lingua erudita”, al compito della conversione universale.
[LSA, cap. X, Ap 10, 11] “Et dixit michi: Oportet te iterum prophetare in gentibus et populis et linguis et regibus multis”. In ipsa sapientia libri expresse continetur quod oportet iterum predicari evangelium in toto orbe, et Iudeis et gentibus, et totum orbem finaliter converti ad Christum. Sed quod per istum hoc esset implendum non poterat sciri nisi per spiritualem revelationem, et hoc dico prout per Iohannem designantur hic singulares persone quia, prout per ipsum designatur in communi ordo evangelicus et contemplativus, scitur ex ipsa intelligentia libri quod per illum ordinem debet hoc impleri.
Nei cinque cicli settenari della prima cantica il sesto stato è segnato dall’apertura della porta della città di Dite (Inf. IX, 89-90); dall’ascesa di Gerione dall’abisso (Inf. XVI, 106-136); dal precipitoso passaggio dalla quinta alla sesta bolgia (Inf. XXIII, 1-57) e poi dalle trasformazioni della settima, dove i ladri fiorentini si mutano in serpenti e viceversa (Inf. XXIV-XXV); dal chinarsi di Anteo sul fondo dell’inferno (Inf. XXXI, 136-145); dal passaggio del centro della terra, con la conversione di Virgilio sull’anca di Lucifero, che è passaggio verso la sesta età, quella della Chiesa, descritta nel Purgatorio.
Ma i temi propri del sesto stato sono diffusi ovunque, intrecciati con quelli degli altri stati, e alla loro esegesi rinviano precise parole-chiave incardinate nel senso letterale dei versi. L’esegesi dell’angelo del sesto sigillo (Ap 7, 2) è già centrale nel primo canto del poema.
La novità che il sesto stato, per eccellenza stato di rinnovamento di questo secolo, arreca nell’inferno è una novità fittizia: l’apertura della porta della città di Dite non è vera novità, perché essa è stata chiusa dall’ostinazione dei diavoli, recidivi dopo l’apertura della porta dell’inferno da parte di Cristo prefigurata dalla venuta di Ercole all’Ade, per cui Cerbero “ne porta ancor pelato il mento e ’l gozzo”; Gerione viene su ad un “novo cenno” di Virgilio, ma è figura della frode dalla velenosa coda aculeata; il nuovo prodotto dalle trasformazioni reciproche di serpenti e uomini è qualcosa di incompiuto perché l’uomo razionale, creato nel sesto stato, regredisce allo stato precedente.
L’Inferno è il luogo della durezza lapidea, dell’impetrarsi, del parlare duro di cose dure a dirsi, del duro giudizio, del senso duro della scritta al sommo della porta, dei duri lamenti, dei duri demoni, dei duri veli del gelo, della gravezza. Nell’Inferno vige l’imposizione data a Daniele dall’angelo sotto il sesto sigillo dell’Antico Testamento: “Ora tu, Daniele, chiudi queste parole e sigilla questo libro fino al tempo stabilito” (Dn 12, 4), che era la sesta età nella quale apparve Cristo e in particolare il sesto stato della sua Chiesa nella quale il libro doveva essere più pienamente aperto, non però ai malevoli e ai maldisposti. Questa durezza è rotta dall’invito di Dante ai dannati perché parlino. Far parlare liberamente, per dettato interiore, è la principale prerogativa del sesto stato – la nuova età che tanto s’aspetta, quella che ode del “dolce stil novo” e delle “nove rime” -, ed è tema che la poesia canta per intero, sia pure per un attimo, anche nella vecchia roccia infernale. Appartiene alla sesta chiesa il parlare liberamente di Cristo – ad essa è dato l’“ostium apertum”, che è “ostium sermonis” – , il sentire per dettato interiore, l’aprirsi della volontà. Appartiene alla sesta chiesa anche il far venire quelli che si dicono Giudei senza esserlo, mutati nel cuore e disposti a farsi battezzare e governare. Questo far venire a parlare equivale al cortese e liberale invito dello Spirito di Cristo a convivare, a venire con desiderio e volontario consenso, con “disio” e con “velle”, in una pausa di pace nell’eterna dannazione. All’“affettüoso grido” del poeta le ombre di Francesca e Paolo vengono “dal voler portate” verso un momento di mutazione, sebbene limitata al successivo colloquio. Tutto l’Inferno è un contrappunto fra la durezza del giudizio e l’apertura per la parola dirompente, fin che essa dura, la pena. Un’apertura che si esprime in varie forme: muoversi sospirando nel Farinata prima immobile, ‘crollarsi’ quasi per terremoto interiore dello ‘schivo’ Ulisse, convertirsi del vento in voce in Guido da Montefeltro, tornare indietro nel cammino assegnato o separarsi dai compagni di pena, essere sforzati a parlare anche malvolentieri, non poterlo negare o mostrare fretta di farlo, arrestarsi obliando il martirio, levarsi per poi ricadere, sollevarsi da atti bestiali per ritornare a essi dopo aver parlato, come nel conte Ugolino. In tante lingue, che parlano come per sé stesse mosse, sta un solo desiderio, il vivere ancora nel libro che è stato altrui aperto.
Se nell’Inferno il sesto stato non si realizza mai compiutamente, anche il settimo, che gli è strettamente connesso, non può trovare un luogo autonomo. Ciò non toglie che temi del settimo stato (e della settima visione) siano ben presenti in modo diffuso. Ad esempio, quelli relativi alla settima chiesa assumono particolare rilievo nella descrizione degli ignavi a Inf. III. Tempo del silenzio, della serena pace, del riposo dalle ansiose fatiche, il settimo stato subentra dopo le terribili tentazioni inferte, con un martirio non corporale ma psicologico, dai carnefici dell’Anticristo nel sesto. Come ogni momento della storia umana partecipa dell’imitazione di Cristo, che raggiunge l’acme nel sesto stato, così in ogni periodo si verifica una sua “quietatio”, una pausa di pace, di quiete, di silenzio propria del settimo. Così Francesca parla e ascolta “mentre che ’l vento, come fa, ci tace”. Il vento – “la bufera infernal, che mai non resta” – designa il fluttuare tempestoso delle passioni nel cuore.
PURGATORIO
(sesta età del mondo)
Dopo le prime cinque età del mondo (corrispondenti all’Antico Testamento, la gioachimita età del Padre), che hanno segnato la discesa a spirale per i cinque cicli settenari dell’Inferno, con il Purgatorio inizia la sesta età, quella di Cristo (l’età del Figlio), che ha sette stati, corrispondenti ai sette stati della Chiesa. Dapprima, nel cosiddetto ‘antipurgatorio’, si registrano in successione temi prevalenti dei primi cinque stati. Il sesto stato della sesta età (con cui si apre l’età dello Spirito) inizia con l’apertura della porta di san Pietro (la porta del purgatorio). Questo sesto stato procede anch’esso con andamento settenario, per cui ha sette momenti, coincidenti principalmente con un girone della montagna, ma non del tutto, perché sempre l’ordine spirituale del poema rompe i confini letterali e le divisioni materiali, concatenando i temi di uno stato prevalente con quelli dello stato che precede e con quelli dello stato che segue e intrecciandoli con temi di tutti gli altri stati.
È spiegato nel Notabile VII del prologo della Lectura che il sesto stato della Chiesa è il secondo stato di Cristo e ha i suoi sette tempi per cui la Chiesa, come fosse una sfera, si ricongiunge circolarmente al primo apostolico tempo. Il settimo dei sette momenti del sesto stato della Chiesa coincide con il settimo stato generale della Chiesa, che nel poema corrisponde in parte all’ultimo girone della montagna (il settimo, dove si purgano i lussuriosi) e in parte all’Eden, con cui si chiude la seconda cantica.
Il Purgatorio dunque, secondo il senso spirituale, è la storia della Chiesa che corre verso il suo sesto stato, punto di riferimento di tutte le vicende umane, antiche e moderne, che ad esso cooperano. Non è casuale che nel sesto girone della montagna sia chiarificata e riconosciuta, nel colloquio con Bonagiunta da Lucca, la poetica delle “nove rime” di Dante, già “sesto tra cotanto senno” cooptato nella “bella scola” dei poeti del Limbo.
La vasta zona dedicata al sesto momento del sesto stato della Chiesa ha il suo inizio nel forte terremoto che scuote la montagna mentre Dante e Virgilio si trovano ancora nel quinto girone (Purg. XX, 124-141). Essa è stata compiutamente esaminata altrove.
Il settimo stato dell’Olivi si realizza parte in questa vita (come pregustazione in terra della gloria eterna, cioè fin sulla cima della montagna) e in parte nella futura (nel senso della quiete delle anime beate in attesa della resurrezione, che è la materia del Paradiso).
canti |
I ciclo – fino al sesto sato |
stati |
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I |
Catone |
Radici, I |
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II |
angelo nocchiero, Casella |
I – II |
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III |
scomunicati |
III |
“Antipurgatorio” |
IV |
salita al primo balzo, Belacqua |
IV – V |
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V |
negligenti morti per violenza |
V |
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VI |
Sordello |
V |
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VII-VIII |
valletta dei principi |
V |
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IX |
apertura della porta |
VI – sesto stato |
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canti |
II ciclo – il sesto stato della sesta età |
stati |
gironi |
X-XII |
superbi |
I |
I |
XIII-XIV-XV |
invidiosi |
II |
II |
XV-XVIII |
iracondiordinamento del purgatorio,amore e libero arbitrio |
III |
IIIIV |
XVIII-XIX |
accidiosi |
IV |
IV |
XIX-XX |
avari e prodighi |
V |
V |
XX (terremoto) -XXV |
Stazio, golosi, generazione dell’uomo |
VI |
VI |
XXV-XXVI |
lussuriosi |
VII – settimo stato |
VII |
XXVIIXXVIII-XXXIII |
muro di fuoconotte stellata, termine dell’ascesaEden |
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PARADISO
(settimo stato della Chiesa)
Il Primo Mobile è il nono e penultimo cielo, ma è il sesto se si parte dal cielo del Sole. È anche il cielo più segnato dal tema del “punto”, cui è assimilato il sesto stato. Questo consente di ricostruire l’ordine spirituale del Paradiso ponendo la cerniera nel quarto cielo del Sole. Con il terzo cielo di Venere termina infatti il cono d’ombra gettato dalla terra, secondo la dottrina di Alfragano (Par. IX, 118-119), mentre prima di descrivere l’ascesa al cielo del Sole il poeta invita il lettore a rivolgersi “a l’alte rote” (Par. X, 7-27). Senza la cesura recisa che, nella prima cantica, divide i dannati puniti all’interno della città di Dite da quelli che ne stanno fuori e, nella seconda cantica, separa le anime purganti nei sette gironi della montagna dalle anime che attendono fuori della porta (il cosiddetto ‘antipurgatorio’), anche nel Paradiso gli spiriti che si manifestano nei primi tre cieli della Luna, di Mercurio e di Venere (spiriti che mancarono ai voti, spiriti che furono attivi per conseguire onore e fama, spiriti amanti) si distinguono per minore perfezione rispetto a quelli che appaiono nei cieli seguenti.
I dieci cieli del Paradiso si mostrano pertanto ordinati in due gruppi di settenari, corrispondenti agli stati della Chiesa (e alle loro prerogative) secondo Olivi, parzialmente combacianti (da 1 a 7 e da 4 a 10: coincidono gli ultimi quattro numeri del primo gruppo e i primi quattro del secondo).
I Se si considera il primo settenario, nel primo cielo della Luna si affronta la questione dell’inadempienza dei voti, che ha corrispondenza con i temi propri della prima chiesa di Efeso, il cui nome, se interpretato, oscilla tra la fervida volontà iniziale e la remissione (l’essenza del voto consiste nella volontà).
II Nel secondo cielo di Mercurio, le battaglie sostenute dal “sacrosanto segno” dell’aquila corrispondono allo stato dei martiri, che è dei combattenti, e anche la dottrina dell’incarnazione e della passione di Cristo, esposta successivamente da Beatrice, fa parte della tematica, perché l’intera Chiesa, fondata sulla passione di Cristo, imita con i martiri la sua croce, e questo giova assai al suo radicamento.
III Nel terzo cielo di Venere, Carlo Martello spiega al modo di un dottore del terzo stato la diversità delle indoli umane e come gli uomini, non assecondandole, errino; nello stesso cielo compare Folchetto di Marsiglia, che da vescovo di Tolosa combatté l’eresia albigese.
IV – I Al quarto cielo del Sole, primo del secondo gruppo di settenari per l’esaltazione della vita apostolica (propria del primo stato e rinnovata nel sesto), si può connettere il tema stesso del sole inteso nell’esegesi della quarta tromba (Ap 8, 12): “Per solem videtur hic designari solaris vita et contemplatio summorum anachoritarum, qui fuerunt patres et exempla aliorum, vel solaris sapientia et doctrina summorum doctorum”. Sapienza e contemplazione, dottori del terzo e anacoreti del quarto stato, concorrono, come Domenico e Francesco – “L’un fu tutto serafico in ardore; / l’altro per sapïenza in terra fue / di cherubica luce uno splendore” (Par. XI, 37-39) – con mutua cortesia a infiammare il meriggio dell’universo.
V – II Il quinto cielo di Marte, secondo (come il secondo stato dei martiri) per l’esaltazione della croce di Cristo formata dai lumi dei combattenti per la fede, reca in sé il tema del condiscendere proprio del quinto stato sia nel pio discendere per la croce di Cacciaguida verso Dante, sia nella decadenza degli “alti Fiorentini”, cioè delle antiche famiglie, assimilate agli anacoreti, un tempo alti e poi vòlti in basso.
VI – III Il sesto cielo di Giove, terzo (come il terzo stato dei dottori) per la spiegazione di profonde verità di fede, sviluppa il motivo, proprio della sesta chiesa, della “porta aperta”. Aprire la porta significa illuminare e rendere acuto l’intelletto che penetra nell’occulto delle Scritture, e anche dare efficacia spirituale a penetrare nel cuore di chi ascolta: così l’aquila apre la “latebra” di Dante, così l’occhio di Rifeo Troiano fu da Dio aperto alla futura redenzione.
VII – IV Nel settimo cielo di Saturno, quarto (come il quarto stato degli anacoreti), “si tace … la dolce sinfonia di paradiso” (Par. XXI, 58-60), e il tacere è tema del settimo stato. Ivi si mostrano gli spiriti contemplativi, principali soggetti del quarto stato, proprio degli anacoreti: se si conta a partire dal quarto cielo del Sole, considerando questo come primo ovvero come nuovo avvio del ciclo settenario, il cielo di Saturno è appunto quarto.
VIII (V) Il settimo cielo di Saturno è seguito dal cielo delle Stelle fisse – ottavo e quinto -, dove si mostrano le schiere del trionfo di Cristo che discendono dall’Empireo (il quinto stato è caratterizzato dalla “condescensio”) e si celebra il trionfo di Maria (sviluppo del tema, proprio della quinta chiesa, della mirabile bellezza della Chiesa, regina ornata di veste aurea per la carità che unisce e circondata dalla varietà nei doni e nelle grazie delle diverse membra). È inoltre ricapitolazione dei precedenti sette, secondo un’interpretazione più volte presente nella Lectura dell’essere ‘ottavo’. Per questo Dante, stando nel segno dei Gemelli, riguarda in giù e torna col viso per tutte quante le sette precedenti sfere (Par. XXII, 124-154).
IX (VI) Segue il Primo Mobile o Cristallino – nono e sesto cielo –, dove il poeta vede il punto luminosissimo – Dio – da cui dipende il cielo e la terra, circondato dai nove cerchi di fuoco (Par. XXVIII, 16-18, 40-42, 94-96). Il sesto stato, secondo quanto Olivi afferma nel Notabile VIII, è il “punto” da cui dipendono gli altri stati, perché appare nel testo dell’Apocalisse in modo più evidente degli altri, che da esso assumono chiarezza quanto alla loro manifestazione nella storia, come l’intelligenza delle cose ordinate ad un fine dipende dal fine.
X (VII) La quiete e l’immobilità dell’Empireo, decimo cielo – il “ciel de la divina pace” -, corrispondono al settimo stato, di cui è propria la “quietatio”, il silenzio (tema anticipato dal tacere di Beatrice in apertura del canto XXIX), e la pace.
Il Paradiso avrebbe pertanto un ordine spirituale del seguente tipo:
cielo |
stato |
cielo |
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I |
LUNA |
I |
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II |
MERCURIO |
II |
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III |
VENERE |
III |
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IV |
SOLE |
IV |
I |
SOLE |
V |
MARTE |
V |
II |
MARTE |
VI |
GIOVE |
VI |
III |
GIOVE |
VII |
SATURNO |
VII |
IV |
SATURNO |
VIII |
V |
STELLE FISSE |
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IX |
VI |
PRIMO MOBILE |
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X |
VII |
EMPIREO |
Oltre ai luoghi sopra indicati, i temi del sesto e del settimo stato si rinvengono in più punti, intrecciati con altri.
[1] Cfr. LSA, cap. XVII, Ap 17, 9: «Et subdit Ricardus quod per septem reges, et per septem capita designatos, designatur hic universus populus malorum, qui secundum septem status huius seculi determinantur. Primus scilicet ab Adam usque ad Noe. Secundus a Noe usque ad Abraam. Tertius ab Abraam usque ad Moysen. Quartus a Moys<e> usque ad David. Quintus a David usque ad Christum. Sextus a Christo usque ad Antichristum. Septimus autem sub Antichristo attribuitur». Cfr. PETRI IOHANNIS OLIVI Lectura super Lucam, Lc 1, 26, ed. F. Iozzelli, Grottaferrata 2010 (Collectio Oliviana, V), pp. 187-188: «Signanter autem dicitur in sexto mense, quia Christus uenit in sexta mundi etate, et iterum post quinque notabiles synagoge decursus: nam primo, cum sola circumcisione fuit sub patribus per quadringentos annos; secundo, accepta lege, fuit sub iudicibus per tantumdem temporis; tertio, proficiens in regnum, fuit sub regibus; quarto, assumpto plenius spiritu prophetico, fuit sub prophetis sollempnioribus, scilicet sub Elia, Ysaia et Yeremia etc.; quinto, restituto templo et urbe, fuit sub pontificibus quibus, per Aggeum et Zachariam et Malachiam iterata prophetia de Christo et eius precursore Elia, factum est silentium prophetarum, ita quod obmutuit cetus sacerdotum usque ad Iohannis ortum; et iterum in eiusdem quinti temporis sexto centenario conceptus est Christus. Sicut etiam sexto die factus est homo ad ymaginem Dei, sic conuenienter sub consimili senario factus est Christus homo, plenior Dei ymago: nam et perfectio numeri senarii, que ex omnibus partibus suis aliquotis et iterum ex ternario cum suis partibus, scilicet binario et unitate, consurgit, competit sibi et etiam reflexio ternarii per binarium, id est cultus fidei et Trinitatis per geminam caritatem».
[2] Il principio è chiaramente affermato nel notabile VIII del prologo della LSA: «[…] si omnia prima membra visionum ad invicem conferas et consimiliter omnia secunda et sic de aliis, aperte videbis omnia prima ad idem primum concorditer referri et consimiliter omnia secunda ad idem secundum et sic de aliis. Et hoc in tantum quod plena intelligentia eiusdem primi multum clarificatur ex mutua collatione omnium primorum, et idem est de omnibus secundis et tertiis et sic de aliis».
[3] A. FRUGONI, La Roma di Dante, tra il tempo e l’eterno, in ID., Pellegrini a Roma nel 1300. Cronache del primo Giubileo, presentazione di C. Frugoni, a cura e con Introduzione di F. Accrocca, Casale Monferrato 1999, pp. 102-103.
[4] LSA, cap. VI, Ap 6, 12: «Secunda ratio est quia persone Christi correspondet in sexta apertione unus ordo plurium personarum sic secundum suam proportionem augendus, sicut Christus secundum suum corpus fuit usque ad perfectam etatem viriliter auctus. […] Quarta est quia, prout super evangelia ostendi, Christus parvo tempore debuit inter nos vivere et pauciori predicare […]. Nisi autem ordo evangelicus, per Franciscum renovatus, esset in multis et saltem sub duabus vel tribus generationibus propagatus et sollempnizatus, non esset nec ipse nec populus ab eo ducendus sufficienter dispositus ad tam autenticam condempnationem condempnationi Christi consimilem subeundam».