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Nov 15 2024

Inferno XXXIII, 91-157

 

La “Divina Parodia” del Libro scritto dentro e fuori

Canti esaminati:

Inferno: I; II; III; IV; V; VI; VII; VIII; IX; X; XI; XII; XIII; XIV; XV; XVI; XVII; XVIII; XIX; XX; XXI; XXII; XXIII; XXIV; XXV; XXVI; XXVII; XXVIII; XXIX; XXX; XXXI; XXXII, 1-123; XXXII, 124-XXXIII, 90; XXXIII, 91-157; XXXIV

Purgatorio: III; XXVIII

Paradiso: XI-XII; XXXIII

 

Legenda [3]: numero dei versi; 8, 7: collegamento ipertestuale all’esegesi, nella Lectura di Olivi, di capitolo e versetto dell’Apocalisse [Ap]; cap. XI: collegamento all’esegesi contenuta nei tredici notabilia del prologo della LecturaVarianti rispetto al testo del Petrocchi.

Viene qui esposto il canto XXXIII, 91-157 dell’Inferno con i corrispondenti legami ipertestuali con i luoghi della Lectura super Apocalipsim ai quali i versi si riferiscono. L’intero poema è esposto nella Topografia spirituale della Commedia (2013, PDF; cfr. infra), ma si sta procedendo a un esame progressivo e aggiornato dei singoli canti. Ogni tabella sinottica, qui presentata o alla quale si rinvia in quanto già esaminata in altra sede, è preceduta o seguita da una parte esplicativa. Per la posizione di Inf. XXXIII nella topografia della prima cantica cfr. infra. Sull’uso dei colori cfr. Avvertenze. Introduzione. Abbreviazioni. Note sulla “topografia spirituale” della Commedia.

Inferno XXXIII, 91-157

Secundus status: prologus, Notabilia [Not.]; I visio, II ecclesia (Smirne: 2, 8-11); II visio, II sigillum (6, 3-4); III visio, II tuba (8, 8-9); IV visio, II prelium (12, 7-12); V visio, II phiala (16, 3); VI visio, secunda pars (17, 3-6).

Noi passammo oltre, là ’ve la gelata   8, 7; 16, 21
ruvidamente un’altra gente fascia,
non volta in giù, ma tutta riversata.   [93]

Lo pianto stesso lì pianger non lascia,
e ’l duol che truova in su li occhi rintoppo,
si volge in entro a far crescer l’ambascia;   [96]   cap. XI

ché le lagrime prime fanno groppo,
e sì come visiere di cristallo,   21, 18.21; 22, 1
rïempion sotto ’l ciglio tutto il coppo.   [99]

E avvegna che, sì come d’un callo,
per la freddura ciascun sentimento   16, 21
cessato avesse del mio viso stallo,   [102]

già mi parea sentire alquanto vento;   16, 17
per ch’io: « Maestro mio, questo chi move?   7, 13   che
non è qua giù ogne vapore spento? ».   [105]

Ond’ elli a me: « Avaccio sarai dove
di ciò ti farà l’occhio la risposta,
veggendo la cagion che ’l fiato piove ».   [108]   Not. XIII

E un de’ tristi de la fredda crosta   2, 11; 8, 7; 16, 21
gridò a noi: « O anime crudeli
tanto che data v’è l’ultima posta,   [111]   12, 7; 1, 4

levatemi dal viso i duri veli,   4, 1-2; 8, 7; prologus
sì ch’ïo sfoghi ’l duol che ’l cor m’impregna,   2, 1120, 5-6
un poco, pria che ’l pianto si raggeli ».   [114]   8, 7

Per ch’io a lui: « Se vuo’ ch’i’ ti sovvegna,
dimmi chi se’, e s’io non ti disbrigo,   13, 3
al fondo de la ghiaccia ir mi convegna ».   [117]

Rispuose adunque: « I’ son frate Alberigo;     IX (decem reges)
i’ son quel da le frutta del mal orto,   8, 7
che qui riprendo dattero per figo ».   [120]   13, 3

« Oh », diss’ io lui, « or se’  tu ancor morto? ».   12, 6
Ed elli a me: « Come ’l mio corpo stea
nel mondo sù, nulla scïenza porto.   [123]   8, 9

Cotal vantaggio ha questa Tolomea,
che spesse volte l’anima ci cade   8, 10
innanzi ch’Atropòs mossa le dea.   [126]

E perché tu più volontier mi rade   22, 17
le ’nvetrïate lagrime dal volto,   21, 18.21; 22, 1
sappie che, tosto che l’anima trade   [129]

come fec’ ïo, il corpo suo l’è tolto   8, 10; 12, 9
da un demonio, che poscia il governa
mentre che ’l tempo suo tutto sia vòlto.   [132]

Ella ruina in sì fatta cisterna;
e forse pare ancor lo corpo suso
de l’ombra che di qua dietro mi verna.   [135]

Tu ’l dei saper, se tu vien pur mo giuso:
ell’ è ser Branca Doria, e son più anni           X (decem reges)
poscia passati ch’el fu sì racchiuso ».   [138]

« Io credo », diss’ io lui, « che tu m’inganni;
ché Branca Doria non morì unquanche,
e mangia e bee e dorme e veste panni ».   [141]

« Nel fosso sù », diss’ el, « de’ Malebranche,
là dove bolle la tenace pece,
non era ancora giunto Michel Zanche,   [144]   12, 7

che questi lasciò il diavolo in sua vece
nel corpo suo, ed un suo prossimano   6, 4
che ’l tradimento insieme con lui fece.   [147]

Ma distendi oggimai in qua la mano;   Not. XI
aprimi li occhi ». E io non gliel’ apersi;   10, 4
e cortesia fu lui esser villano.   [150]   22, 17

Ahi Genovesi, uomini diversi   6, 3
d’ogne costume e pien d’ogne magagna,
perché non siete voi del mondo spersi?   [153]

Ché col peggiore spirto di Romagna
trovai di voi un tal, che per sua opra   21, 1-2
in anima in Cocito già si bagna,
e in corpo par vivo ancor di sopra.   [157]

 

Nel quarto dei cinque cicli settenari dell’Inferno (canto XXVII), i consiglieri di frode latini (ottava bolgia) sono segnati dai temi del secondo stato o periodo della storia della Chiesa, proprio dei martiri. Si tratta della stessa parte del “panno” con cui è stata fatta la “gonna” di Francesca (Inf. V; primo ciclo, secondo cerchio), i cui motivi sono variati nei violenti contro il prossimo (Inf. XII; secondo ciclo, settimo cerchio, primo girone), nei ruffiani e in parte nei simoniaci (Inf. XVIII, XIX; terzo ciclo, seconda e terza bolgia). Nel quinto e ultimo ciclo dell’Inferno, i temi del secondo stato pervadono Inf. XXXIII (nono cerchio, Antenora e Tolomea). Nel Purgatorio i temi del secondo stato prevalgono, in due cicli settenari più ampi (canti I-IX e X-XXVII), all’arrivo delle anime alla spiaggia della montagna (Purg. II) e negli invidiosi purganti (Purg. XIII, XIV).
L’episodio del conte Ugolino (Inf. XXXII, 124-139 – XXXIII, 1-90) è stato trattato a parte.

Vengono qui di seguito posti a confronto Inf. V, XII, XVIII/XIX, XXVII, XXXIII, canti nei quali, rispettivamente nel primo, nel secondo, nel terzo, nel quarto e nel quinto ciclo settenario dell’Inferno, i temi del secondo stato prevalgono, semanticamente elaborati dalla parodia dantesca. La tematica si estende oltre i confini del singolo canto e, come mostrato nelle tabelle complessive, si intreccia con molti motivi propri di altri gruppi esegetici relativi agli status o periodi della storia della Chiesa.

Si registra, nelle singole zone, lo sviluppo nelle occorrenze semantiche* relative al secondo stato che rinviano alla Lectura super Apocalipsim: V: 61, XII: 34, XVIII/XIX: 11, XXVII: 32, XXXIII: 24.
Nella terza zona la tematica del secondo stato è meno presente che nelle altre zone e si  divide fra Inf. XVIII e XIX, il canto dei simoniaci dove prevalgono i temi del terzo stato.

Nel dettaglio:

prologo (V: 13, XII: 1, XVIII / XIX: 1, XXVII: 3, XXXIII: 2); seconda chiesa (V: 10, XII: 12, XVIII/XIX: 0, XXVII: 4, XXXIII: 9); secondo sigillo (V: 13, XII: 6, XVIII/XIX: 0, XXVII: 5, XXXIII: 5); seconda tromba (V: 16, XII: 3, XVIII/XIX: 6, XXVII: 7, XXXIII: 2); seconda guerra (V: 4, XII: 10, XVIII/XIX: 0, XXVII: 6, XXXIII: 3); seconda coppa (V: 0, XII: 0, XVIII/XIX: 0, XXVII: 0, XXXIII: 0); VI visione, seconda parte (V: 5, XII: 2, XVIII/XIX: 4, XXVII: 7, XXXIII: 3).

La parodia si esercita anche in luoghi semantici, comuni a due o più zone, riferibili a stati diversi dal secondo. Ad esempio: prologo, Notabile III, VII stato (V, 92.96; XXVII, 1-2; XXXIII, 22.25), Notabile VII, V stato (XII, 4.8.27.58; XXVII, 32.52.81), Notabile XI (V, 41.47; XXXIII, 148); Ap 1, 1 (V, 119; XII, 86); 1, 7 (V, 3.102.105.109; XII, 132.133); 1, 15, I visione, premesse (V, 28; XXVII, 6.7.10.58); 1, 17-18, I visione, premesse (XII, 85; XXVII, 103.104); 3, 3, V chiesa (V, 100; XXVII, 122); 7, 5, VI sigillo (V, 8.10.11; XXVII, 68.83.93; XXXIII, 68); 7, 13-14, VI sigillo (V, 50.51.112.115.123; XIX, 31.59.60.89; XXXIII, 10.11); 11, 8, VI tromba (V, 28; XXXIII, 65); 16, 10, V coppa (XII, 14; XXVII, 126); 16, 15-16, VI coppa (V, 105; XXVII, 127.128.129; XXXIII, 4.62.63.70.87); 18, 10, VI visione (V, 126; XXXIII, 9); 22, 17, VII visione (V, 73.78.82.84.86; XXXIII, 127.150).
Ap 6, 12-17
, VI sigillo (XII, 7.29.81) e 8, 5-6, III visione, premesse (XII, 41.43; XXVII, 15.59.60.63) riguardano l’esegesi del terremoto.

* Per “occorrenze” si intendono le parole-chiave che nella lettera dei versi rinviano semanticamente ai temi offerti dall’esegesi; esse, ai fini del computo, sono considerate singolarmente salvo quando sono contigue, nel qual caso costituiscono un’unità.

Primo ciclo

Secondo ciclo

Inferno V

Inferno XII

Così discesi del cerchio primaio
giù nel secondo
, che men loco cinghia

e tanto più dolor, che punge a guaio.   [3]   1, 7
Stavvi Minòs orribilmente, e ringhia:
essamina le colpe ne l’intrata;
giudica e manda secondo ch’avvinghia.   [6]
Dico che quando l’anima mal nata
li vien dinanzi, tutta si confessa;   7, 5
e quel conoscitor de le peccata   [9]
vede qual loco d’inferno è da essa;
cignesi con la coda tante volte

quantunque gradi vuol che giù sia messa.   [12]
Sempre dinanzi a lui ne stanno molte:
vanno a vicenda ciascuna al giudizio,   12, 7
dicono e odono e poi son giù volte.   [15]   12, 9
« O tu che vieni al doloroso ospizio »,
disse Minòs a me quando mi vide,
lasciando l’atto di cotanto offizio,   [18]   12, 7
« guarda com’ entri e di cui tu ti fide;   2, 8
non t’inganni l’ampiezza de l’intrare! ».

E ’l duca mio a lui: « Perché pur gride?   [21]
Non impedir lo suo fatale andare:
vuolsi così colà dove si puote

ciò che si vuole, e più non dimandare ».   [24]
Or incomincian le dolenti note
a farmisi sentire; or son venuto   2, 11
là dove molto pianto mi percuote.   [27]
Io venni in loco d’ogne luce muto, 11, 8     [1, 15; 12,12 
che mugghia come fa mar per tempesta,   8, 8
se da contrari venti è combattuto.   [30]   Not. I
La bufera infernal, che mai non resta,
mena li spirti con la sua rapina;   2, 9
voltando e percotendo li molesta.   [33]   2, 11
Quando giungon davanti a la ruina,   2, 10
quivi le strida, il compianto, il lamento;

bestemmian quivi la virtù divina.   [36]   2, 9; 17, 3
Intesi ch’a così fatto tormento
enno dannati i peccator carnali,   8, 817, 3
che la ragion sommettono al talento.   [39]
E come li stornei ne portan l’ali   8, 9
nel freddo tempo, a schiera larga e piena,   
Not. XI
così quel fiato li spiriti mali   [42]
di qua, di là, di giù, di sù li mena;
nulla speranza li conforta mai,   2, 8.10
non che di posa, ma di minor pena.   [45]   2, 1
E come i gru van cantando lor lai,   2, 11
faccendo in aere di sé lunga riga,   
Not. XI
così vid’ io venir, traendo guai,   [48]
ombre portate da la detta briga;   8, 9
per ch’i’ dissi: « Maestro, chi son quelle   7, 13

genti che l’aura nera sì gastiga? ».   [51]
« La prima di color di cui novelle
tu vuo’ saper », mi disse quelli allotta,
« fu imperadrice di molte favelle.   [54]   17, 3
A vizio di lussuria fu sì rotta,
che libito fé licito in sua legge,
per tòrre il biasmo in che era condotta.   [57]
Ell’ è Semiramìs, di cui si legge   8, 9
che succedette a Nino e fu sua sposa:

tenne la terra che ’l Soldan corregge.   [60]
L’altra è colei che s’ancise amorosa,   5, 1
e ruppe fede al cener di Sicheo;   8, 9 

poi è Cleopatràs lussurïosa.   [63]   17, 3
Elena vedi, per cui tanto reo
tempo si volse, e vedi ’l grande Achille,
che con amore al fine combatteo. [66] 5, 1; Not. I
Vedi Parìs, Tristano »; e più di mille
ombre mostrommi e nominommi a dito,
ch’amor di nostra vita dipartille.   [69]   5, 1
Poscia ch’io ebbi ’l mio dottore udito
nomar le donne antiche e ’ cavalieri,

pietà mi giunse, e fui quasi smarrito.   [72]
I’ cominciai: « Poeta, volontieri   22, 17
parlerei a quei due che ’nsieme vanno,
e paion sì al vento esser leggeri ».   [75]
Ed elli a me: « Vedrai quando saranno
più presso a noi; e tu allor li priega   [5, 1; 22, 17
per quello amor che i mena, ed ei verranno ».   [78]
Sì tosto come il vento a noi li piega,
mossi la voce: « O anime affannate,   11
venite a noi parlar, s’altri nol niega! ».   [81]
Quali colombe dal  disio  chiamate   22, 17
on l’ali alzate e ferme al dolce nido   Not. XIII
vegnon per l’aere, dal voler portate;   [84] 22, 17
cotali uscir de la schiera ov’ è Dido,  [8, 9
a noi venendo per l’aere maligno,   22, 17
sì forte fu l’affettüoso grido.   [87]
« O animal grazïoso e benigno   8, 9
che visitando vai per l’aere perso                          17, 3
noi che tignemmo il mondo di sanguigno,   [90]
se fosse amico il re de l’universo,      [Not. III
i pregheremmo lui de la tua pace,   [Not. X
poi ch’hai pietà del nostro mal perverso.   [93]
Di quel che udire e che parlar vi piace,
noi udiremo e parleremo a voi,

mentre che ’l vento, come fa, ci tace.   [96] Not. III
Siede la terra dove nata fui   6, 4
su la marina dove ’l Po discende   8, 8
per aver pace co’ seguaci sui.   [99]   6, 4         [
3, 3
Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende, 5, 1; 8, 8
prese costui de la bella persona       [6, 41, 7
che mi fu tolta; e ’l modo ancor n’offende.   [102]
Amor, ch’a nullo amato amar perdona,   5, 1
mi prese del costui piacer sì forte,                      [16, 15
che, come vedi, ancor non m’abbandona.  [105]  1, 7
Amor condusse noi ad una morte.
Caina attende chi a vita ci spense ».   5, 1
Queste parole da lor ci fuor porte.   [108]   8, 9
Quand’ io intesi quell’ anime offense,   1, 7
china’ il viso, e tanto il tenni basso,

fin che ’l poeta mi disse: « Che pense? ». [111] Not. X
Quando rispuosi, cominciai: « Oh lasso,   7, 13
quanti dolci  pensier, quanto disio
menò costoro al doloroso passo! ».   [114]
Poi mi rivolsi a loro e parla’ io,
e cominciai: « Francesca, i tuoi martìri   Not. X
a lagrimar mi fanno tristo e pio.   [117]   2, 11
Ma dimmi: al tempo d’i dolci sospiri,
a che e come concedette amore   1, 1; 5, 1
che conosceste i dubbiosi disiri? ».   [120]  Not. X
E quella a me: « Nessun maggior dolore
che ricordarsi del tempo felice

ne la miseria; e ciò sa ’l tuo dottore.   [123]   7, 13
Ma s’a conoscer la prima radice   Not. V
del nostro amor  tu hai cotanto affetto,   5, 1

dirò come colui che piange e dice.   [126]   18, 10
Noi leggiavamo un giorno per diletto   8, 9
di Lancialotto come amor  lo strinse;   5, 1; Not. X
soli eravamo e sanza alcun sospetto.   [129]
Per più fïate li occhi ci sospinse   Not. X
quella lettura, e scolorocci il viso;   8, 9

ma solo un punto fu quel che ci vinse.   [132]
Quando leggemmo il disïato  riso  8, 9Not. XIII
esser basciato da cotanto amante,
questi, che mai da me non fia diviso,   [135]
la bocca mi basciò tutto tremante.
Galeotto fu ’l libro e chi lo scrisse:   8, 9; Not. X
quel giorno più non vi leggemmo avante ».   [138]
Mentre che l’uno spirto questo disse,   18, 10
l’altro piangëa, sì che di pietade   Not. X
io venni men così com’ io morisse.

E caddi come corpo morto cade.   [142]

Era lo loco ov’ a scender la riva
venimmo, alpestro e, per quel che v’er’ anco,
tal, ch’ogne vista ne sarebbe schiva.   [3]
Qual è quella ruina che nel fianco 2, 10;   Not. VII
di qua da Trento l’Adice percosse,   2, 11
o per tremoto o per sostegno manco,   [6]
che da cima del monte, onde si mosse,   6, 12-17
al piano è sì la roccia discoscesa,   Not. VII
ch’alcuna via darebbe a chi sù fosse:   [9]
cotal di quel burrato era la scesa;
e ’n su la punta de la rotta lacca
l’infamïa di Creti era distesa   [12]   12, 9
che fu concetta  ne la falsa vacca;   12, 7
e quando vide noi, sé stesso morse,   16, 10
sì come quei cui l’ira dentro fiacca.   [15]   12, 12
Lo savio mio inver’ lui gridò: « Forse
tu credi che qui sia ’l duca d’Atene,   8, 9
che sù nel mondo la morte ti porse?   [18]
Pàrtiti, bestia, ché questi non vene
ammaestrato da la tua sorella,   6, 4
ma vassi per veder le vostre pene ».   [21]
Qual è quel toro che si slaccia in quella   12, 12
c’ha ricevuto già ’l colpo mortale,
che gir non sa, ma qua e là saltella,   [24]
vid’ io lo Minotauro far cotale;
e quello accorto gridò: « Corri al varco;    [Not. VII
mentre ch’e’ ’nfuria, è buon che tu ti cale ».   [27]
Così prendemmo via giù per lo scarco
di quelle pietre, che spesso moviensi   6, 12-17
sotto i miei piedi per lo novo carco.   [30]
Io gia pensando; e quei disse: « Tu pensi
forse a questa ruina, ch’è guardata   2, 10
da quell’ ira bestial ch’i’ ora spensi[33] 8, 8; 5, 1
Or vo’ che sappi che l’altra fïata
ch’i’ discesi qua giù nel basso inferno,
questa roccia non era ancor cascata.   [36] 
Ma certo poco pria, se ben discerno,
che venisse colui che la gran preda
levò a Dite del cerchio superno,   [39]
da tutte parti l’alta valle feda
tremò sì, ch’i’ pensai che l’universo   8, 5
sentisse amor, per lo qual è chi creda   [42]
più volte il mondo in caòsso converso;
e in quel punto questa vecchia roccia
qui e altrove, tal fece riverso.   [45]   12, 9
Ma ficca li occhi a valle, ché s’approccia
la riviera del sangue in la qual bolle   17, 6
qual che per vïolenza in altrui noccia ».   [48]
Oh cieca cupidigia e ira folle,
che sì ci sproni ne la vita corta,
e ne l’etterna poi sì mal c’immolle!   [51]
Io vidi un’ampia fossa in arco torta,   6, 5
come quella che tutto ’l piano abbraccia,
secondo ch’avea detto la mia scorta;   [54]
e tra ’l piè de la ripa ed essa, in traccia
corrien centauri, armati di saette,   2, 10
come solien nel mondo andare a caccia.   [57]
Veggendoci calar, ciascun ristette,   Not. VII
e de la schiera tre si dipartiro
con archi e asticciuole prima elette;   [60]
e l’un gridò da lungi:  « A qual martiro   2, 1
venite voi che scendete la costa?   Not. VII
Ditel costinci; se non, l’arco tiro ».   [63]
Lo mio maestro disse: « La risposta
farem noi a Chirón costà di presso:
mal fu la voglia tua sempre sì tosta ».   [66]
Poi mi tentò, e disse: « Quelli è Nesso,   2, 1
che morì per la bella Deianira,
e fé di sé la vendetta elli stesso.   [69]   5, 1
E quel di mezzo, ch’al petto si mira,
è il gran Chirón, il qual nodrì Achille;
quell’ altro è Folo, che fu sì pien d’ira.   [72]
Dintorno al fosso vanno a mille a mille,
saettando qual anima si svelle
del sangue più che sua colpa sortille ».   [75]
Noi ci appressammo a quelle fiere isnelle:
Chirόn prese uno strale, e con la cocca
fece la barba in dietro a le mascelle.   [78]
Quando s’ebbe scoperta la gran bocca,
disse a’ compagni: « Siete voi accorti
che quel di retro move ciò ch’el tocca?  [81]  6, 12-17
Così non soglion far li piè d’i morti ».
E ’l mio buon duca, che già li er’ al petto,
dove le due nature son consorti,   [84]
rispuose: « Ben è vivo, e sì soletto   1, 18
mostrar li mi convien la valle buia;   1, 1
necessità ’l ci ’nduce, e non diletto.   [87]
Tal si partì da cantare alleluia   2, 11
che mi commise quest’ officio novo:   12, 7
non è ladron, né io anima fuia.   [90]
Ma per quella virtù per cu’ io movo
li passi miei per sì selvaggia strada,   [2, 10
danne un de’ tuoi, a cui noi siano a provo,[93] 12, 7
e che ne mostri là dove si guada,
e che porti costui in su la groppa,   8, 9
ché non è spirto che per l’aere vada ».   [96]
Chirόn si volse in su la destra poppa,
e disse a Nesso: « Torna, e sì li guida,   12, 7
e fa cansar s’altra schiera v’intoppa ».   [99]
Or ci movemmo con la scorta fida   2, 8
lungo la proda del bollor vermiglio,
dove i bolliti facieno alte strida.   [102]
Io vidi gente sotto infino al ciglio;
e ’l gran centauro disse: « E’ son tiranni      2, 9
che dier nel sangue e ne l’aver di piglio.   [105]  6, 4
Quivi si piangon li spietati danni;   2, 10
quivi è Alessandro e Dïonisio fero  2, 10  (X dies)
che fé Cicilia aver dolorosi anni.   [108]   Not. XII
E quella fronte c’ha ’l pel così nero,
è Azzolino; e quell’ altro ch’è biondo,
è Opizzo da Esti, il qual per vero   [111]
fu spento dal figliastro sù nel mondo ».  5, 1; 6, 4
Allor mi volsi al poeta, e quei disse:
« Questi ti sia or primo, e io secondo ».   [114]
Poco più oltre il centauro s’affisse
sovr’ una gente che ’nfino a la gola
parea che di quel bulicame uscisse.   [117]
Mostrocci un’ombra da l’un canto sola,
dicendo: « Colui fesse in grembo a Dio  2, 10 (X dies)
lo cor che ’n su Tamisi ancor si cola ».   [120]   12, 7
Poi vidi gente che di fuor del rio
tenean la testa e ancor tutto ’l casso;
e di costoro assai riconobb’ io.   [123]
Così a più a più si facea basso
quel sangue, sì che cocea pur li piedi;   17, 6
e quindi fu del fosso il nostro passo.   [126]   21, 12
« Sì come tu da questa parte vedi
lo bulicame che sempre si scema »,
disse ’l centauro, « voglio che tu credi   [129]
che da quest’ altra a più a più giù prema
lo fondo suo, infin ch’el si raggiunge
ove la tirannia convien che gema.   [132]   1, 7
La divina giustizia di qua punge
quell’ Attila che fu flagello in terra,   2, 10 (X dies)
e Pirro e Sesto; e in etterno munge   [135]
le lagrime, che col bollor diserra,
a Rinier da Corneto, a Rinier Pazzo,
che fecero a le strade tanta guerra ».   12, 7
Poi si rivolse e ripassossi ’l guazzo.   [139]

 

Terzo ciclo

Quarto ciclo

Inf. XVIII, 55-57, 82-102 

Inf. XXVII

I’ fui colui che la Ghisolabella
condussi a far la voglia del marchese,   8, 9
come che suoni la sconcia novella.   [57]

E ’l buon maestro, sanza mia dimanda,
mi disse: « Guarda quel grande che vene,
e per dolor non par lagrime spanda:   [84]
quanto aspetto reale ancor ritene!
Quelli è Iasón, che per cuore e per senno   8, 9
li Colchi del monton privati féne.   [87]
Ello passò per l’isola di Lenno
poi che l’ardite femmine spietate
tutti li maschi loro a morte dienno.   [90]
Ivi con segni e con parole ornate   17, 4
Isifile ingannò, la giovinetta   8, 9
che prima avea tutte l’altre ingannate.   [93]
Lasciolla quivi, gravida, soletta;
tal colpa a tal martiro lui condanna;
e anche di Medea si fa vendetta.   [96]
Con lui sen va chi da tal parte inganna;
e questo basti de la prima valle
sapere e di color che ’n sé assanna ».   [99]
Già eravam là ’ve lo stretto calle
con l’argine secondo s’incrocicchia,   Not. V, XIII
e fa di quello ad un altr’ arco spalle.   [102]   8, 9

 

Inf. XIX, 31-36, 55-60, 73-78, 88-89, 115-117, 127-129

Chi è colui, maestro, che si cruccia   7, 13
guizzando più che li altri suoi consorti”,
diss’ io, “e cui più roggia fiamma succia?”.   [33]
Ed elli a me: « Se tu vuo’ ch’i’ ti porti   8, 9
là giù per quella ripa che più giace,
da lui saprai di sé e de’ suoi torti ».   [36]   6, 5

« Se’ tu sì tosto di quell’ aver sazio   17, 3.6
per lo qual non temesti tòrre a ’nganno
la bella donna, e poi di farne strazio? ».   [57]
Tal mi fec’ io, quai son color che stanno,
per non intender ciò ch’è lor risposto,
quasi scornati, e risponder non sanno. [60]  7, 13-14

Di sotto al capo mio son li altri tratti
che precedetter me simoneggiando,   17, 6
per le fessure de la pietra piatti.   [75]
Là giù cascherò io altresì quando
verrà colui ch’i’ credea che tu fossi,
allor ch’i’ feci ’l sùbito dimando.   [78]

Io non so s’i’ mi fui qui troppo folle,
ch’i’ pur rispuosi lui a questo metro [89] 7, 13; 6, 5

Ahi, Costantin, di quanto mal fu matre,
non la tua conversion, ma quella dote

che da te prese il primo ricco patre! ».   [117]   17, 6

Né si stancò d’avermi a sé distretto,
men portò sovra ’l colmo de l’arco   8, 9
che dal quarto al quinto argine è tragetto.   [129]

 

Quinto ciclo

Inf. XXXIII

La bocca sollevò dal fiero pasto
quel peccator, forbendola a’ capelli
del capo ch’elli avea di retro guasto.   [3]
Poi cominciò: « Tu vuo’ ch’io rinovelli   16, 16
disperato dolor che ’l cor mi preme   2, 11
già pur pensando, pria ch’io ne favelli.   [6]

Ma se le mie parole esser dien seme
che frutti infamia al traditor ch’i’ rodo,   16, 10
parlare e lagrimar vedrai insieme.   [9]   18, 10
Io non so chi tu se’ né per che modo   7, 13-14
venuto se’ qua giù
; ma fiorentino   16, 10
mi sembri veramente quand’ io t’odo.   [12]
Tu dei saper ch’i’ fui conte Ugolino,
e questi è l’arcivescovo Ruggieri:
or ti dirò perché i son tal vicino.   [15]   6, 4
Che per l’effetto de’ suo’ mai pensieri,
fidandomi di lui, io fossi preso   2, 8
e poscia morto, dir non è mestieri;   [18]
però quel che non puoi avere inteso,
cioè come la morte mia fu cruda,   5, 1
udirai, e saprai s’e’ m’ha offeso.   [21]   1, 7
Breve pertugio dentro da la Muda,   Not. III
la qual per me ha ’l titol de la fame,
e che conviene ancor ch’altrui si chiuda,   [24]
m’avea mostrato per lo suo forame   Not. III
più lune già, quand’ io feci ’l mal sonno
che del futuro mi squarciò ’l velame.   [27]   2, 10
Questi pareva a me maestro e donno,
17, 3;Not. X
cacciando il lupo e ’ lupicini al monte
per che i Pisan veder Lucca non ponno
.   [30]

Con cagne magre, studïose e conte   17, 4-5
Gualandi con Sismondi e con Lanfranchi
s’avea messi dinanzi da la fronte.   [33]  
 17, 5
In picciol corso mi parieno stanchi
lo padre e ’ figli, e con l’agute scane   6, 3
mi parea lor veder fender li fianchi.   [36]
Quando fui desto innanzi la dimane,
pianger senti’ fra ’l sonno i miei figliuoli
ch’eran con meco, e dimandar del pane.   [39]
Ben se’ crudel, se tu già non ti duoli
pensando ciò che ’l mio cor s’annunziava;  2, 10
e se non piangi, di che pianger suoli?   [42]  1, 7
Già eran desti, e l’ora s’appressava
che ’l cibo ne solëa essere addotto,
e per suo sogno ciascun dubitava;   [45]  Not. X
e io senti’ chiavar l’uscio di sotto
a l’orribile torre; ond’ io guardai
nel viso a’ mie’ figliuoi sanza far motto.   [48]
Io non piangëa, sì dentro impetrai:
piangevan elli; e Anselmuccio mio
disse: “Tu guardi sì, padre! che hai?”.   [51]
Perciò non lagrimai né rispuos’ io
tutto quel giorno né la notte appresso,
infin che l’altro sol nel mondo uscìo.   [54]
Come un poco di raggio si fu messo
nel doloroso carcere, e io scorsi   2, 10
per quattro visi il mio aspetto stesso[57]

ambo le man per lo dolor mi morsi;   16, 10
ed ei, pensando ch’io ’l fessi per voglia
di manicar, di sùbito levorsi   [60]
e disser: “Padre, assai ci fia men doglia
se tu mangi di noi: tu ne vestisti   16, 15
queste misere carni, e tu le spoglia”.   [63]
Queta’mi allor per non farli più tristi;   2, 11
lo dì e l’altro stemmo tutti muti 11, 8
ahi dura terra, perché non t’apristi?   [66]
Poscia che fummo al quarto dì venuti,
Gaddo mi si gittò disteso a’ piedi,   7, 5
dicendo: “Padre mio, ché non m’aiuti?”.   [69]
Quivi morì; e come tu mi vedi 16, 15
vid’ io cascar li tre ad uno ad uno
tra ’l quinto dì e ’l sesto; ond’ io mi diedi,   [72]
già cieco, a brancolar sovra ciascuno,   16, 10
e due dì li chiamai, poi che fur morti.
Poscia, più che ’l dolor, poté ’l digiuno ».   [75]
Quand’ ebbe detto ciò, con li occhi torti   6, 5
riprese ’l teschio misero co’ denti,   16, 11
che furo a l’osso, come d’un can, forti.   [78]
Ahi Pisa, vituperio de le genti
del bel paese là dove ’l sì suona,
poi che i vicini a te punir son lenti,    [81]
muovasi la Capraia e la Gorgona,   6, 14; 16, 20
e faccian siepe ad Arno in su la foce,
sì ch’elli annieghi in te ogne persona!   [84]
Che se ’l conte Ugolino aveva voce
d’aver tradita te de le castella,
non dovei tu i figliuoi porre a tal croce.   [87]   5, 1
Innocenti facea l’età novella,                               [16, 16
novella Tebe, Uguiccione e ’l Brigata  6, 14
e li altri due che ’l canto suso appella.   [90]  2, 11
Noi passammo oltre, là ’ve la gelata
ruvidamente un’altra gente fascia,
non volta in giù, ma tutta riversata.   [93]
Lo pianto stesso lì pianger non lascia,
e ’l duol che truova in su li occhi rintoppo,   cap. XI
si volge in entro a far crescer l’ambascia;   [96]
ché le lagrime prime fanno groppo,
e sì come visiere di cristallo,
rïempion sotto ’l ciglio tutto il coppo.   [99]
E avvegna che, sì come d’un callo,
per la freddura ciascun sentimento
cessato avesse del mio viso stallo,   [102]
già mi parea sentire alquanto vento;
per ch’io: « Maestro mio, questo chi move?
non è qua giù ogne vapore spento? ».   [105]
Ond’ elli a me: « Avaccio sarai dove
di ciò ti farà l’occhio la risposta,
veggendo la cagion che ’l fiato piove ».   [108]
E un de’ tristi de la fredda crosta   2, 11
gridò a noi: « O anime crudeli
tanto che data v’è l’ultima posta,   [111]   12, 7
levatemi dal viso i duri veli,
sì ch’ïo sfoghi ’l duol che ’l cor m’impregna,   2, 11
un poco, pria che ’l pianto si raggeli ».   [114]
Per ch’io a lui: « Se vuo’ ch’i’ ti sovvegna,
dimmi chi se’, e s’io non ti disbrigo,
al fondo de la ghiaccia ir mi convegna ».   [117]
Rispuose adunque: « I’ son frate Alberigo;
i’ son quel da le frutta del mal orto,
che qui riprendo dattero per figo ».   [120]
« Oh », diss’ io lui, « or se’ tu ancor morto? ».
Ed elli a me: « Come ’l mio corpo stea
nel mondo sù, nulla scïenza porto.   [123]   8, 9
Cotal vantaggio ha questa Tolomea,
che spesse volte l’anima ci cade
innanzi ch’Atropòs mossa le dea.   [126]
E perché tu più volontier mi rade   22, 17
le ’nvetrïate lagrime dal volto,
sappie che, tosto che l’anima trade   [129]
come fec’ ïo, il corpo suo l’è tolto   12, 9
da un demonio, che poscia il governa
mentre che ’l tempo suo tutto sia vòlto.   [132]
Ella ruina in sì fatta cisterna;
e forse pare ancor lo corpo suso
de l’ombra che di qua dietro mi verna.   [135]
Tu ’l dei saper, se tu vien pur mo giuso:
ell’ è ser Branca Doria, e son più anni
poscia passati ch’el fu sì racchiuso ».   [138]
« Io credo », diss’ io lui, « che tu m’inganni;
ché Branca Doria non morì unquanche,
e mangia e bee e dorme e veste panni ».   [141]
« Nel fosso sù », diss’ el, « de’ Malebranche,
là dove bolle la tenace pece,
non era ancora giunto Michel Zanche,   [144]   12, 7
che questi lasciò il diavolo in sua vece
nel corpo suo, ed un suo prossimano   6, 4
che ’l tradimento insieme con lui fece.   [147]
Ma distendi oggimai in qua la mano;   Not. XI
aprimi li occhi ». E io non gliel’ apersi;
e cortesia fu lui esser villano.   [150]   22, 17
Ahi Genovesi, uomini diversi
d’ogne costume e pien d’ogne magagna,
perché non siete voi del mondo spersi?   [153]
Ché col peggiore spirto di Romagna
trovai di voi un tal, che per sua opra
in anima in Cocito già si bagna,
e in corpo par vivo ancor di sopra.   [157] 

Già era dritta in sù la fiamma e queta   Not. III
per non dir più, e già da noi sen gia
con la licenza del dolce poeta,   [3]
quand’ un’altra, che dietro a lei venìa,
ne fece volger li occhi a la sua cima
per un confuso suon che fuor n’uscia.   [6]   1, 15
Come ’l bue cicilian che mugghiò prima Not. I, X
col pianto di colui, e ciò fu dritto,   6, 5
che l’avea temperato con sua lima,   [9]
mugghiava con la voce de l’afflitto,   1, 15
sì che, con tutto che fosse di rame,   12, 12
pur el pareva dal dolor trafitto;   [12]
così, per non aver via né forame
dal principio nel foco, in suo linguaggio
si convertïan le parole grame.   [15]   8, 5
Ma poscia ch’ebber colto lor vïaggio
su per la punta, dandole quel guizzo
che dato avea la lingua in lor passaggio,   [18]
udimmo dire: « O tu a cu’ io drizzo
la voce e che parlavi mo lombardo,
dicendo “Istra ten va, più non t’adizzo”,   [21]
perch’ io sia giunto forse alquanto tardo,   3, 3
non t’incresca restare a parlar meco;
vedi che non incresce a me, e ardo!   [24]   8, 8
Se tu pur mo in questo mondo cieco
caduto se’ di quella dolce terra   17, 6
latina ond’ io mia colpa tutta reco,   [27]
dimmi se Romagnuoli han pace o guerra;   8, 8
ch’io fui d’i monti là intra Orbino
e ’l giogo di che Tever si diserra ».   [30]
Io era in giuso ancora attento e chino,
quando il mio duca mi tentò di costa,  2, 1; Not.VII
dicendo: « Parla tu; questi è latino ».   [33]
E io, ch’avea già pronta la risposta,
sanza indugio a parlare incominciai:
« O anima che se’ là giù nascosta,   [36]
Romagna tua non è, e non fu mai,  8, 8
sanza guerra ne’ cuor de’ suoi tiranni;
ma ’n palese nessuna or vi lasciai.   [39]
Ravenna sta come stata è molt’ anni:
l’aguglia da Polenta la si cova,
sì che Cervia ricuopre co’ suoi vanni.   [42]
La terra che già la lunga prova   Not. XII; 2, 10
e di Franceschi sanguinoso mucchio,   6, 3
sotto le branche verdi si ritrova.   [45]
E ’l mastin vecchio e ’l nuovo da Verrucchio,
che fecer di Montagna il mal governo,
là dove soglion fan d’i denti succhio.   [48]   6, 3
Le città di Lamone e di Santerno
conduce il lïoncel dal nido bianco,
che muta parte da la state al verno.   [51]
E quella cu’ il Savio bagna il fiancoNot. VII
così com’ ella sie’ tra ’l piano e ’l monte,
tra tirannia si vive e stato franco.   [54]
Ora chi se’, ti priego che ne conte;
non esser duro più ch’altri sia stato,
se ’l nome tuo nel mondo tegna fronte ».  [57] 17, 5
Poscia che ’l foco alquanto ebbe rugghiato   1, 15
al modo suo, l’aguta punta mosse   8, 5-6
di qua, di là, e poi diè cotal fiato:   [60]
« S’i’ credesse che mia risposta fosse
a persona che mai tornasse al mondo,
questa fiamma staria sanza più scosse;   [63]   8, 5
ma però che già mai di questo fondo
non tornò vivo alcun, s’i’ odo il vero,
sanza tema d’infamia ti rispondo.   [66]   17, 5-6
Io fui uom d’arme, e poi fui cordigliero,
credendomi, cinto, fare ammenda;   7, 5
e certo il creder mio venìa intero,   [69]
se non fosse il gran prete, a cui mal prenda!,   8, 8
che mi rimise ne le prime colpe;   12, 8 (17, 6)
e come e quare, voglio che m’intenda.   [72]
Mentre ch’io forma fui d’ossa e di polpe
che la madre mi diè, l’opere mie   6, 3
non furon leonine, ma di volpe.   [75]
Li accorgimenti e le coperte vie
io seppi tutte, e sì menai lor arte,
ch’al fine de la terra il suono uscie.   [78]
Quando mi vidi giunto in quella parte
di mia etade ove ciascun dovrebbe
calar le vele e raccoglier le sarte,   [81]   Not. VII
ciò che pria mi piacëa, allor m’increbbe,
e pentuto e confesso mi rendei;   7, 5
ahi miser lasso! e giovato sarebbe.   [84]
Lo principe d’i novi Farisei,   6, 312, 7
avendo guerra presso a Laterano,
e non con Saracin né con Giudei,   [87]
ché ciascun suo nimico era cristiano,   vicino   6, 4
e nessun era stato a vincer Acri
né mercatante in terra di Soldano,   [90]
sommo officioordini sacri   12, 7
guardò in sé, né in me quel capestro
che solea fare i suoi cinti più macri.   [93]   7, 5
Ma come Costantin chiese Silvestro
d’entro Siratti a guerir de la lebbre,
così mi chiese questi per maestro   [96]
a guerir de la sua superba febbre;   8, 8
domandommi consiglio, e io tacetti
perché le sue parole parver ebbre.   [99]   17, 6
E’ poi ridisse: “Tuo cuor non sospetti;   2, 8
finor t’assolvo, e tu m’insegna fare
sì come Penestrino in terra getti.   [102]   12, 9
Lo ciel poss’ io serrare e diserrare,   1, 17-18
come tu sai; però son due le chiavi
che ’l mio antecessor non ebbe care”.   [105]   2, 8
Allor mi pinser li argomenti gravi
là ’ve ’l tacer mi fu avviso ’l peggio,
e dissi: “Padre, da che tu mi lavi   [108]   17, 6
di quel peccato ov’ io mo cader deggio,
lunga promessa con l’attender corto
ti farà trïunfar ne l’alto seggio”.   [111]
Francesco venne poi, com’ io fu’ morto,
per me; ma un d’i neri cherubini   6, 5
li disse: “Non portar; non mi far torto.   [114]   8, 9
Venir se ne dee giù tra ’ miei meschini
perché diede ’l consiglio frodolente,
dal quale in qua stato li sono a’ crini;   [117]
ch’assolver non si può chi non si pente,
né pentere e volere insieme puossi
per la contradizion che nol consente”. [120]   17, 6
Oh me dolente! come mi riscossi
quando mi prese dicendomi: “Forse   3, 3
tu non pensavi ch’io löico fossi!”.   [123]
A Minòs mi portò; e quelli attorse   8, 9; 6, 5
otto volte la coda al dosso duro;                       [16, 10
e poi che per gran rabbia la si morse, [126] 12, 12
disse: “Questi è d’i rei del foco furo”;   16, 15
per ch’io là dove vedi son perduto,
e sì vestito, andando, mi rancuro ».   [129]
Quand’ elli ebbe ’l suo dir così compiuto,
la fiamma dolorando si partio,
torcendo e dibattendo ’l corno aguto.   [132]   6, 5
Noi passamm’ oltre, e io e ’l duca mio,
su per lo scoglio infino in su l’altr’ arco
che cuopre ’l fosso in che si paga il fio
a quei che scommettendo acquistan carco.   [136]

Introduzione

L’ultimo dei cicli settenari dell’Inferno registra, nel tessuto semantico di Cocito che si estende a partire da Inf. XXXII, variazioni su temi della Lectura presenti nelle “radici”, o parti proemiali, delle visioni, nel primo e nel settimo stato della  Chiesa e nella settima visione, temi che, come di consueto, pervadono anche in parte il canto successivo. L’episodio del conte Ugolino (Inf. XXXII, 124-139 – XXXIII, 1-90), trattato a parte, è segnato nell’Antenora da una tematica complessa, con prevalenza di quella appartenente al secondo stato, dei martiri, i cui motivi proseguono nella Tolomea (cfr. tabella).
In questa sede si esaminano unicamente i versi 91-157, che in Inf. XXXIII seguono quelli dedicati a Ugolino. All’esegesi della seconda chiesa, relativa alla “seconda morte”
(Ap 2, 11; 20, 5-6), appartiene la tristezza e il dolore del cuore (v. 109: tristi; v. 113: ’l duol’l cor). L’apertura del secondo sigillo (Ap 6, 4) si caratterizza per il sangue sparso con l’uccisione dei propri parenti. Al termine del canto, frate Alberigo, che fece uccidere a tradimento il cugino Manfredo e il figlio di questi Alberghetto, racconta del genovese Branca Doria, il quale lasciò un diavolo in sua vece nel proprio corpo, ancora vivo su in terra, insieme ad “un suo prossimano”, cioè ad un suo parente che l’aiutò nel tradimento verso il suocero Michele Zanche (vv. 142-147). All’esegesi della seconda tromba – che risuona contro le ansiose sollecitudini e della quale è tipico il verbo portare – rinviano porto (v. 123; Ap 8, 9) e a far crescer l’ambascia (v. 96; cap. XI). Il verso 108 – “veggendo la cagion che ’l fiato piove” – contiene una variazione su un tema del terzo stato, nel quale i dottori della Chiesa (a parlare è Virgilio) mostrano le cause degli “archana sacramentorum” (prologo, Notabile XIII) [1].

■ La seconda guerra viene condotta contro il diavolo dall’arcangelo Michele e dalle sue schiere (Ap 12, 7-12). Non è chiaro – afferma Olivi – se Michele, che nel sacro testo è proposto come principe degli angeli, indichi una sola persona corrispondente a un solo spirito angelico oppure, secondo l’ufficio svolto, designi ora una persona ora un’altra, e solo gli spiriti del penultimo ordine (gli arcangeli) oppure qualsiasi spirito degli ordini supremi in quanto esercitano e reggono gli uffici degli arcangeli o dei principi della milizia celeste nelle sue guerre. L’opinione comune di molti fedeli è che sia uno spirito del penultimo ordine dato alla Chiesa come duce, come nell’Antico Testamento fu duce della Sinagoga. Frate Alberigo asserisce che l’anima di ‘Michele’ Zanche, ucciso a tradimento dal genero Branca Doria, non era ancora giunta tra i barattieri che il traditore aveva lasciato un diavolo in sua vece nel proprio corpo, in modo da continuare ad apparire vivo su nel mondo (Inf. XXXIII, 142-147). Frate Alberigo, oltre a sapere del diavolo che governa il corpo facendo le veci dell’anima caduta nella Tolomea prima della morte (parodia del problema se Michele appartenga al penultimo ordine o all’ordine supremo in quanto fa le veci degli arcangeli), si rivolge in tema ai due poeti, chiamandoli “anime crudeli / tanto che data v’è l’ultima posta”, variazione dello “spiritus penultimi ordinis datus ecclesie” ad Ap 12, 7 (vv. 110-111; per posta, variazione sul postulare dello Spirito di cui parla san Paolo nell’Epistola ai Romani 8, 26, cfr. Ap 1, 4). Il corpo di chi tradisce, tolto e governato da un demonio, trova riferimento nell’ingresso dei diavoli nei porci (cioè in quanti sono terreni) una volta usciti dagli indemoniati gadareni di cui si dice in Matteo 8, 28-34, citato ad Ap 12, 9 a proposito del diavolo “gettato in terra” a conclusione della seconda guerra. Frate Alberigo usa nel parlare gli stessi motivi che nella quinta bolgia sono propri di Ciampolo nel suo dire beffardo di frate Gomita di Gallura, che “ne li altri offici anche / barattier fu non picciol, ma sovrano” e che non si sente mai stanco di parlare sardo con “donno Michel Zanche” (‘Michele’, per restare in tema; Inf. XXII, 86-90). Anche l’ironico “ciascun se ne loda” (v. 84), riferito ai nemici del suo signore che frate Gomita ebbe in mano e che liberò per denaro, trova corrispondenza con la lode che al termine della seconda guerra viene elevata dai santi e dai beati dopo che il diavolo è stato gettato a terra (Ap 12, 10).

■ L’esegesi di Ap 13, 3 (sesta guerra) viene utlizzata nella rissa tra maestro Adamo e Sinone greco di Troia (Inf. XXX, 100-108). Il motivo del ricevere da parte dell’Anticristo il frutto delle proprie opere è attribuito a frate Alberigo – “quel da le frutta del mal orto” -, che nel ghiaccio di Cocito riprende “dattero per figo” per il suo tradire gli ospiti (Inf. XXXIII, 118-120). Anche il rompere il patto che prima l’Anticristo aveva stabilito con il capo dell’alleanza sembra parodiato nell’ingannevole promessa da parte del poeta di liberare il viso del dannato dai duri veli del ghiaccio se questi gli riveli il suo nome – “e s’io non ti disbrigo, / al fondo de la ghiaccia ir mi convegna” (vv. 115-117) –, promessa poi non mantenuta: “e cortesia fu lui esser villano” (v. 150).

Talora, afferma Gioacchino da Fiore nel secondo libro della Concordia citato ad Ap 12, 6, le generazioni che si succedono nell’Antico Testamento sono doppie, come nel caso di Ioacaz, deposto dal faraone Necao e sostituito nel regno con Ioiakìm (4 Rg 23, 34); e di Ieconia, figlio di Ioiakìm, deposto da Nabucodonosor e sostituito con Sedecia (4 Rg 24, 15-17; 1 Par 3, 16-17). E gli esclusi talora restano nel numero delle precedenti generazioni, talora sono esclusi anche da queste, come Samgar, che al tempo di Aod giudice difese Israele contro i Filistei (Jd 3, 31) e come Isboset, il figlio di Saul che regnò su Israele al tempo in cui David regnò in Hebron su Giuda (2 Rg 2, 10-11;  4).
Si possono notare le tracce di questa esegesi nel caso della Tolomea, lì dove i traditori degli ospiti ‘cadono’ prima di morire, mentre un demonio ne “governa” il corpo in terra. Un’invenzione di Dante, che il figlio Pietro si affrettò a difendere contro possibili riserve teologiche affermando trattarsi di finzione poetica, di un’allegoria dello stato di disperazione di quei peccatori. Ma la meravigliata domanda a frate Alberigo: «“Oh!” diss’ io lui, “or se’ tu ancor morto?”» (Inf. XXXIII, 121-123) è una variante di quella fatta dal padre di Guido: “non viv’ elli ancora?”, ed è cucita, e ad essa rinvia, con gli stessi fili di un’esegesi che sottolinea, utilizzando Gioacchino da Fiore, l’incertezza sulle generazioni e la traslazione ad altri del governo di chi è ancora in vita.

La Tolomea, regione dove il ghiaccio di Cocito fascia i traditori degli ospiti, ha il “vantaggio” per cui l’anima dannata ci cade prima della morte, allorché il corpo vive ancora in terra, preso da un demonio che lo governa “mentre che ’l tempo suo tutto sia vòlto” (Inf. XXXIII, 124-132; cfr. l’esegesi di Ap 12, 9, sugli indemoniati di Gadara, e quella di Ap 8, 10 relativa alle continue rivoluzioni delle anime di corpo in corpo, secondo la dottrina di Origene).
Il fiume di acqua viva che scorre in mezzo alla città celeste, descritta nella settima visione (Ap 22, 1-2), ha due rive, una inferiore (l’umanità o il corpo di Cristo) e una superiore (la sua divinità o l’anima). Il tema ha una curiosa variazione nella Tolomea, il luogo dove le anime dannate di coloro che tradirono gli ospiti cadono mentre il corpo vive ancora in terra governato da un demonio. Così per Branca Doria, la cui anima sta immersa in Cocito e il cui corpo appare ancora vivo “di sopra”, con un rovesciamento del significato delle due rive, umana e divina, descritte ad Ap 22, 2 e uno stare dell’anima e del corpo distorto rispetto a quello di Cristo, lignum vitae centro fra le due rive (Inf. XXXIII, 154-157). L’invettiva “Ahi Genovesi, uomini diversi / d’ogne costume e pien d’ogne magagna” rinvia alla quarta bestia, diversa dalle altre, vista dal profeta Daniele (v. 151; Ap 6, 3).

■ La cortesia, in quanto volontà che s’apre e viene, liberalmente invitata dallo Spirito di Cristo alla cena nuziale, non è estranea al duro e lapideo mondo infernale. Dice Virgilio dei tre sodomiti fiorentini sotto la pioggia di fuoco: “a costor si vuole esser cortese”, e nel successivo colloquio essa riaffiora nel ricordo di una vita cittadina ormai estinta: “cortesia e valor dì se dimora / ne la nostra città sì come suole, / o se del tutto se n’è gita fora” (Inf. XVI, 15, 67-69: il liberale invito dello Spirito di Cristo è alla cena della città beata). È un segno di come, nell’amarezza dell’esilio, il poeta sempre ami un’idea della sua Firenze, patria di degni cittadini “ch’a ben far puoser li ’ngegni” (Inf. VI, 81). Come sarebbe stato un giorno per Savonarola, che ne fustigò i vizi, Firenze è l’eletta e diletta città, nuova Gerusalemme santa e pacifica.
La cortese apertura della volontà è invece negata a frate Alberigo che l’aveva sollecitata: «“E perché tu più volontier mi rade / le ’nvetrïate lagrime dal volto … Ma distendi oggimai in qua la mano; / aprimi li occhi”. E io non gliel’ apersi; / e cortesia fu lui esser villano» (Inf. XXXIII, 127-129, 148-150). Il dannato, che nell’invocazione “Ma distendi oggimai in qua la mano” ha parodiato l’uso di un’interpretazione larga e non stretta della Scrittura, nel suo caso della punizione divina (prologo, Notabile XI), rimane con gli occhi incrostati di lacrime ghiacciate, chiusi al senso spirituale del libro come esso restò chiuso nell’Antico Testamento (cfr. Ap 10, 4), del quale l’Inferno è la sacra parodia.

[1] La domanda di Dante al v. 104 – “Maestro mio, questo chi move?” – è una delle numerose variazioni su Ap 7, 13, dove Giovanni interroga l’angelo-maestro: «“Et dixit michi: Hii, qui amicti sunt stolis albis, qui sunt”, id est quales et quante dignitatis, “et unde venerunt”», esegesi già utilizzata ai vv. 10-11. Non è pertanto da accogliere la variante questo che move? (Inglese). Perché, se è vero che “a questo punto, Dante non sa e non immagina che il vento sia cagionato da una ‘persona’”, non può neppure escluderlo.

AVVERTENZE

Seppure segue l’ordine dei ventidue capitoli dell’Apocalisse, Olivi suggerisce, nel prologo della Lectura, un metodo differente di comprensione e di aggregazione del testo, fondato sui sette stati (status), cioè sulle epoche nelle quali si articola la storia della Chiesa, prefigurate nell’Antico Testamento.
L’Apocalisse si articola in sette visioni: le sette chiese d’Asia, i sette sigilli, le sette trombe, la donna vestita di sole (le sette guerre sostenute dalla Chiesa), le sette coppe, il giudizio di Babylon nelle sette teste del drago, la Gerusalemme celeste. Le prime sei visioni possono essere a loro volta divise in sette momenti, ciascuno dei quali riferibile a uno dei sette stati. Assembrando, per le prime sei visioni, tutti i primi elementi (chiesa, sigillo, tromba, guerra, coppa, momento del giudizio di Babylon), tutti i secondi, i terzi e così di seguito, si ottengono sette gruppi di materia teologica, corrispondenti al complesso dei temi afferenti a ciascuno dei sette stati. A questi sette gruppi si aggiungono altri due: l’esegesi della settima visione (senza articolazioni interne) e l’esegesi di capitoli del testo scritturale, o di parti di essi, introduttivi delle successive specificazioni delle singole visioni per settenari, che Olivi definisce “radicalia” o “fontalia”. Si ottengono in tal modo nove gruppi: le parti proemiali, i sette assembramenti di settenari e la settima visione. Il grande prologo della Lectura, articolato in tredici notabilia, può essere anch’esso aggregato secondo i sette stati. Un libro (la Lectura) contiene dunque princìpi e criteri affinché l’accorto lettore possa trarne un altro libro, fatto con lo stesso materiale ma ricomposto e distribuito in forma diversa.

La Commedia mostra un ordine interno diverso da quello che appare al lettore: il viaggio di Dante ha un andamento di ciclici settenari, che corrispondono ai sette stati della storia della Chiesa, cioè alle categorie con cui Olivi organizza la materia esegetica. Questo ordine interno è registrabile per zone progressive del poema dove prevale, tramite parole-chiave, la semantica riferibile a un singolo stato. È un’intima struttura dirompente i confini letterali stabiliti dai canti e da tutte le divisioni materiali per cerchi, gironi, cieli. Ogni stato, che ha differenti inizi, è concatenato per concurrentia, come le maglie di un’armatura, con quello che precede e con quello che segue. Si possono in tal modo redigere mappe che comprendano l’ordine spirituale della Commedia. La ricerca è pervenuta a una Topografia spirituale della Commedia, dove quasi per ogni verso, o gruppo di versi, collegamenti ipertestuali conducono al “panno” esegetico fornito dalla Lectura super Apocalipsim, sul quale il “buon sartore” ha fatto “la gonna” (cfr. Par. XXXII, 139-141).

■ A ogni gruppo è arbitrariamente assegnato un diverso colore: Radici (verde), I stato (verde acqua), II stato (rosso), III stato (nero), IV stato (viola), V stato (marrone), VI stato (blu), VII stato (indaco), VII visione (fucsia). Dei gruppi sono stati integralmente studiati il terzo stato e la settima visione. Mentre la diversità dei colori è rispettata nella tabella complessiva contenente i collegamenti ipertestuali, nelle sinossi i colori possono essere variati per maggiore evidenza.

Non di rado nei versi alcune parole o incisi-chiave possono rinviare a più luoghi esegetici. Questo perché il testo dottrinale contenuto nella Lectura, prima di travasarsi semanticamente nella Commedia, è stato sottoposto a una duplice riorganizzazione. La prima, sulla base delle indicazioni dello stesso Olivi, secondo il materiale esegetico attribuibile ai singoli stati. La seconda, seguendo il principio applicato nelle distinctiones ad uso dei predicatori, sulla base di lemmi analogicamente collazionati. La “mutua collatio” di parti della Lectura arricchisce il significato legato alle parole e consente uno sviluppo tematico amplificato. Si vedano, ad esempio, le variazioni eseguite sul tema della “voce” o sull’espressione “in medio”, temi più volte iterati nel sacro testo, oppure il modo con cui Ap 1, 16-17 (l’esegesi della decima e undecima prefezione di Cristo come sommo pastore) percorre i versi in collazione con altri passi. A ciò predispone lo stesso testo scritturale, poiché l’Apocalisse contiene espressioni, come Leitmotive, che ritornano più volte. È determinata da parole-chiave che collegano i passi da collazionare. È suggerita dallo stesso Olivi, nel prologo, per una migliore intelligenza del testo.

Tutte le citazioni della Lectura super Apocalipsim presenti nei saggi o negli articoli pubblicati su questo sito sono tratte dalla trascrizione, corredata di note e indici, del ms. Paris, Bibliothèque nationale de France, lat. 713, a disposizione fin dal 2009 sul sito medesimo. I passi scritturali ai quali si riferisce l’esegesi sono in tondo compresi tra “ ”; per le fonti diverse da quelle indicate si rinvia all’edizione in rete. Non viene presa in considerazione l’edizione critica a cura di WARREN LEWIS (Franciscan Institute Publications, St. Bonaventure – New York, 2015) per le problematiche da essa poste, che sono discusse in ALBERTO FORNI – PAOLO VIAN, A proposito dell’edizione di Warren Lewis della Lectura super Apocalipsim di Pietro di Giovanni Olivi. Alcune osservazioni, in “Archivum Franciscanum Historicum”, 109 (2016), pp. 99-161.
Il testo della Commedia citato è in Dante Alighieri, La Commedia secondo l’antica vulgata, a cura di GIORGIO PETROCCHI, Firenze 1994. Si tiene anche conto della recente edizione a cura di GIORGIO INGLESE, Firenze 2021 (Società Dantesca Italiana. Edizione Nazionale), qualora il testo proposto si discosti da quello del Petrocchi e la scelta della variante risulti discutibile nel confronto con la LSA.
Si fa riferimento ai seguenti commenti:

Dante Alighieri, La Divina Commedia. Inferno. Commento di ANNA MARIA CHIAVACCI LEONARDI, Milano 2007 (19911).

Dante Alighieri, Commedia. Inferno. revisione del testo e commento di GIORGIO INGLESE, Roma 2007.


ABBREVIAZIONI

Ap : APOCALYPSIS IOHANNIS.

LSA : PIETRO DI GIOVANNI OLIVI, Lectura super Apocalipsim.

Concordia : JOACHIM VON FIORE, Concordia Novi ac Veteris Testamenti. Herausgegeben von A. PATSCHOVSKY, Wiesbaden 2017 (Monumenta Germaniae Historica. Quellen zur Geistesgeschichte des  Mittelalters, 28. Band), Teil 2 (lib. I-IV), Teil 3 (lib. V).

Expositio : GIOACCHINO DA FIORE, Expositio in Apocalypsim, in Edibus Francisci Bindoni ac Maphei Pasini, Venetiis 1527, ristampa anastatica Minerva, Frankfurt a. M. 1964.

Olivi opera spesso una sintesi del testo di Gioacchino da Fiore. Le « » precedono e chiudono un’effettiva citazione. Diversamente, viene posto un asterisco (*) o una nota in apice al termine della parte riferibile a Gioacchino.

In Ap : RICCARDO DI SAN VITTORE, In Apocalypsim libri septem, PL 196, coll. 683-888.

 

Note sulla “topografia spirituale” della Commedia

Per quanto segua l’ordine dei ventidue capitoli dell’Apocalisse, Olivi suggerisce un metodo differente di comprensione e di aggregazione del testo esegetico, fondato sui sette stati, cioè sui periodi nei quali si articola la storia della Chiesa. L’Antico Testamento corrisponde alle prime cinque età del mondo, secondo la divisione tradizionale [1]: è l’età del Padre secondo Gioacchino da Fiore. Con il primo avvento di Cristo, nella carne, inizia la sesta età (l’età del Figlio), nella quale la Chiesa, come fosse un individuo, cresce e si sviluppa in sette stati. Al primo, apostolico periodo, succede il secondo dei martiri; poi, al tempo di Giustiniano, il terzo stato dei dottori che confutano con l’intelletto le eresie concorre con il quarto stato degli affettuosi anacoreti devoti al pasto eucaristico, alti per la contemplazione ma anche attivi come reggitori delle genti; a partire da Carlo Magno subentra il quinto stato aperto alla vita associata delle moltitudini, bello nel principio ma poi corrottosi fino a trasformare quasi tutta la Chiesa in una nuova Babilonia; la riforma interviene, a partire da Francesco, con il cristiforme sesto stato, fino alla sconfitta dell’Anticristo; subentra infine il silenzio e la quiete del pacifico settimo stato. Il sesto e il settimo stato (la terza età di Gioacchino da Fiore) coincidono con il secondo avvento di Cristo, nello Spirito, cioè nei suoi discepoli spirituali inviati a convertire il mondo con la predicazione; al termine del settimo stato ci sarà il terzo avvento, nel giudizio.
L’Apocalisse si articola in sette visioni: le sette chiese d’Asia, i sette sigilli, le sette trombe, la donna vestita di sole (le sette guerre sostenute dalla Chiesa), le sette coppe, il giudizio di Babylon nelle sette teste del drago, la Gerusalemme celeste. Le prime sei visioni possono essere a loro volta divise in sette momenti, ciascuno dei quali riferibile a uno dei sette stati. Assembrando, per le prime sei visioni, tutti i primi elementi (chiesa, sigillo, tromba, guerra, coppa, momento del giudizio di Babylon), tutti i secondi, i terzi e così di seguito, si ottengono sette gruppi di materia teologica, corrispondenti al complesso dei temi afferenti a ciascuno dei sette stati [2]. A questi sette gruppi se ne aggiungono altri due: l’esegesi della settima visione (senza articolazioni interne) e l’esegesi di capitoli del testo scritturale, o di parti di essi, introduttivi delle successive specificazioni delle singole visioni per settenari, che Olivi definisce “radicalia” o “fontalia”. Si ottengono in tal modo nove gruppi: le parti proemiali, i sette assembramenti di settenari e la settima visione. Il grande prologo della Lectura, articolato in tredici notabilia, può essere anch’esso aggregato nelle sue parti secondo i sette stati.

L’intenso travaso di parole-temi dalla Lectura nella Commedia si accompagna a un fatto strutturale. La Commedia mostra un ordine interno diverso da quello che appare al lettore: il viaggio di Dante ha un andamento di ciclici settenari, che corrispondono ai sette stati oliviani. È un ordine registrabile per zone progressive del poema dove prevalgono i temi di un singolo stato, che rompe i confini letterali stabiliti dai canti e da tutte le divisioni materiali per cerchi, gironi, cieli. Ogni stato, che ha differenti inizi, è concatenato per “concurrentia”, come le maglie di un’armatura, con quello che precede e con quello che segue. Ciascuno stato ha in sé una grande ricchezza di motivi e contiene inoltre temi di tutti gli altri, consentendo innumerevoli intrecci e variazioni. La Commedia appare, come l’Apocalisse, “libro scritto dentro e fuori” (Ap 5, 1), con duplice struttura, linguaggio e senso, letterale e spirituale. Il viaggio di Dante e la visione di Giovanni hanno la stessa causa finale, che è la beatitudine, alla quale si perviene con diverse guide, per gradi segnati da visioni sempre più nuove e ardue delle precedenti, attraverso una sempre maggiore apertura dell’arcano coperto dal velame dei sette sigilli fino al punto più alto in cui, in questa vita, è possibile vedere la verità.
Tutti i modi del linguaggio interiore al poema esprimono un processo, un viaggio dal più chiuso al più aperto, e in questo andare hanno una loro precisa collocazione ‘topografica’, uno ‘stato’ (nel senso di momento storico che ricade sulla coscienza individuale) al quale appartenere. Si possono in tal modo stendere vere e proprie mappe tematiche che comprendano l’ordine spirituale di tutta la Commedia che aderisce, parodiandola semanticamente, a una precisa teologia della storia, sia pure modificandone profondamente le prospettive. La ciclicità dei temi permette di stabilire collegamenti inusitati tra le diverse zone; il procedere per gradi dell’illuminazione divina fa sì che episodi oscuri e quasi ermeticamente chiusi si chiariscano poi, aprendosi all’intelligenza in modo più alto.
A ogni gruppo è arbitrariamente assegnato un diverso colore: Radici (verde), I stato (verde acqua), II stato (rosso), III stato (nero), IV stato (viola), V stato (marrone), VI stato (blu), VII stato (indaco), VII visione (fucsia). Dei gruppi sono stati integralmente studiati il terzo stato e la settima visione.

INFERNO

(le prime cinque età del mondo)

La ‘topografia spirituale’ del poema mostra nell’Inferno cinque cicli settenari corrispondenti agli stati della Chiesa descritti da Olivi e ai loro temi contenuti nella Lectura. Questi cinque cicli designano le prime cinque età del mondo (riunite a loro volta nel primo stato generale, che corrisponde all’età del Padre di Gioacchino da Fiore), in quanto prefigurazione del primo avvento di Cristo e della Chiesa.
I cinque cicli settenari che si susseguono nell’Inferno a partire dal quarto canto (i primi tre canti hanno una tematica particolare) sono preceduti da cinque zone che possono essere definite ‘snodi’, dove cioè confluiscono temi provenienti da più stati, intrecciati insieme ad altri ad avviare il procedere settenario. Il centro di questi ‘snodi’ coincide con un canto (Inf. IV, X, XVII, XXVI, XXXII), ma la zona è più vasta e supera l’ambito dato dalla divisione letterale del poema.

Inf. I-III sono da considerare al di fuori dei cicli. Inf. I e II sono profondamente segnati dai temi del sesto stato. Inf. III è riferibile al settimo stato (per gli ignavi) e in parte al quinto (per l’episodio di Caronte).

canti

I ciclo

stati

cerchi

IV

Limbo

Radici, I (I snodo)

I

V

lussuriosi

II

II

VI

golosi

III

III

VII

avari e prodighi

palude Stigia
(iracondi e accidiosi)

IIIIV

 

V

IV


V

VIII

palude Stigia (orgogliosi)
città di Dite

V

V

IX

apertura della porta di Dite

VVI

 

canti

II ciclo

stati

cerchi

IX-X-XI

eretici, ordinamento dell’inferno

I (II snodo)

VI

XII

violenti contro il prossimo

II

VII (girone 1)

XIII

violenti contro sé

III

        (girone 2)

XIV

violenti contro Dio: bestemmiatori

IV

        (girone 3)

XV-XVI

violenti contro Dio: sodomiti

V

XVI

XVII

ascesa di Gerione

Gerione,  violenti contro Dio: usurai

VI

canti

III ciclo

stati

cerchi

XVII

volo verso Malebolge

I (III snodo)

 

XVIII

ruffiani, lusingatori

Radici II

VIII (bolgia 1, 2)

XIX

simoniaci

III

(bolgia 3)

XX

indovini

IV

(bolgia 4)

XXI-XXII

barattieri

V

(bolgia 5)

XXIII

ipocriti

VVI

(bolgia 6)

XXIV-XXV

ladri

VI

(bolgia 7)

canti

IV ciclo

stati

cerchi

XXVI

consiglieri di frode (greci)

I (IV snodo)

(bolgia 8)

XXVII

consiglieri di frode (latini)

II

XXVIII-XXIX

seminatori di scandalo e di scisma

III

(bolgia 9)

XXIX

falsatori

IV

  (bolgia 10)

XXX

falsatori

IVV

XXXI

giganti

VVI

 

canti

V ciclo

stati

cerchi

XXXII

Cocito: Caina, Antenora

I (V snodo)

IX

XXXIII

Antenora, Tolomea

II

XXXIV

Giudecca

IIIIVV

XXXIV

volgersi di Virgilio sull’anca di Lucifero

VI

 

 

Il sesto stato è per Olivi la fase più importante nella costruzione dell’edificio della Chiesa. In esso “renovabitur Christi lex et vita et crux”. Corrisponde ai tempi moderni. Ha quattro diversi inizi temporali: uno profetico, con Gioacchino da Fiore, il quale lo vide in spirito concependo la sua terza età; il secondo con la conversione di Francesco (1206), che seminò la pianta; il terzo con la predicazione degli uomini spirituali, per la quale la pianta si rinnovella; il quarto con la distruzione storica di Babylon. Dura fino alla sconfitta dell’Anticristo, il cui avvento si collocherebbe, secondo i numeri della profezia di Daniele 12, 11-12 combinati con Ap 12, 6 e 14, fra il 1290 e il giubileo di pace del 1335.
Una ‘vita nuova’ si instaura nel sesto stato, per eccellenza il momento dell’imitazione di Cristo. I rami dell’albero si dilatano producendo il frutto della carità, l’acqua che proviene da Cristo-fonte attraverso il condotto che percorre i primi cinque stati della Chiesa si effonde in un lago; è il tempo, assimilato al sacramento del matrimonio, della letizia nuziale, della familiarità, dell’amicizia. Corrisponde al sesto giorno della creazione, in cui vennero creati prima i rettili e le bestie irrazionali, poi l’uomo razionale che, come l’ordine evangelico, è fatto a immagine e somiglianza di Dio e domina tutti gli animali.
Le espressioni di Olivi relative al sesto stato – “quoddam sollempne initium novi seculirenovaretur et consumaretur seculum”, nel quale il sacerdozio apostolico “redeat et assurgat ad ordinem primum”, la “nova Ierusalem”, interpretata come “visione di pace”, viene vista “descendere de celo” e la Chiesa descritta come la donna vestita di sole con la sua “virginea proles” – sono la veste spirituale dei versi della quarta egloga virgiliana che celebrano la rinnovata età dell’oro: “Magnus ab integro saeclorum nascitur ordo / iam redit et Virgo; redeunt Saturnia regna; / Iam nova progenies caelo demittitur alto” (Egloga IV, 5-7). Olivi completa la Lectura super Apocalipsim nel 1298, poco prima di morire, il 14 marzo, a Narbonne. Quel felicissimo stato segnato dalla pace sotto il divo Augusto, che rese l’umanità disposta al primo avvento di Cristo, si sta rinnovando nel sesto stato della Chiesa, nel secondo avvento nello Spirito. Scrive Arsenio Frugoni: “[…] quell’escatologismo, oltre che ideologia di lotta e di riforma del gruppo spirituale, era anche un vero e proprio sentimento storico […] una tensione di rinnovamento, una ansia di salvezza, che nel 1300, l’anno centenario della Natività, aveva trovato come una attivazione, in un senso di pienezza dei tempi, cui doveva corrispondere un fatto, un accadere meraviglioso e nuovo” [3].
All’apertura del sesto sigillo, l’eletta schiera dei riformatori – i 144.000 segnati dalle dodici tribù d’Israele – guida la turba innumerevole di ogni gente, tribù, popolo e lingua (Ap 7, 3-4.13). Questi eletti e magnanimi duci, separati dalla volgare schiera per più alta milizia, vengono destinati a difendere liberamente la fede – ad essi è data la “plena libertas ad innovandam christianam religionem” -; sono gli amici di Dio a lui noti per nome, configurati in Cristo crocifisso e votati al martirio.
All’interno della Chiesa del sesto stato, l’Ordine dei Minori – “ordo plurium personarum” – è  assimilabile alla persona umana di Cristo. Come questa si sviluppò fino all’età virile, così dovrà essere per l’ordo evangelicus piantato da Francesco, che avrà bisogno (a differenza di Cristo che stette poco tempo nel mondo) di due o tre generazioni per svilupparsi prima di subire una condanna simile a quella di Cristo [4]. La sua maturità coincide, verso il 1300, con il terzo inizio del sesto stato, cioè con il rinnovarsi per opera dello Spirito di Cristo, nel suo secondo avvento, della pianta seminata da Francesco. Questa concezione dell’Ordine francescano come individuo in sviluppo che, perfettamente maturato, diventa il novus ordo preconizzato da Gioacchino da Fiore per l’età dello Spirito, si differenzia da quella di Bonaventura, che aveva invece distinto i Francescani del proprio tempo – e quindi anche gli Spirituali – dall’Ordine finale che dominerà fino ai confini della terra. Alla terza apertura del sesto sigillo nuovi san Giovanni vengono inviati a predicare al mondo come nel tempo degli Apostoli. Ma Giovanni non designa solo un Ordine, perché Olivi lascia aperta la possibilità di rivelazioni individuali, avute da “singulares persone”, perfetti imitatori di Cristo votati, con la loro “lingua erudita”, al compito della conversione universale.

[LSA, cap. X, Ap 10, 11] “Et dixit michi: Oportet te iterum prophetare in gentibus et populis et linguis et regibus multis”. In ipsa sapientia libri expresse continetur quod oportet iterum predicari evangelium in toto orbe, et Iudeis et gentibus, et totum orbem finaliter converti ad Christum. Sed quod per istum hoc esset implendum non poterat sciri nisi per spiritualem revelationem, et hoc dico prout per Iohannem designantur hic singulares persone quia, prout per ipsum designatur in communi ordo evangelicus et contemplativus, scitur ex ipsa intelligentia libri quod per illum ordinem debet hoc impleri.

Nei cinque cicli settenari della prima cantica il sesto stato è segnato dall’apertura della porta della città di Dite (Inf. IX, 89-90); dall’ascesa di Gerione dall’abisso (Inf. XVI, 106-136); dal precipitoso passaggio dalla quinta alla sesta bolgia (Inf. XXIII, 1-57) e poi dalle trasformazioni della settima, dove i ladri fiorentini si mutano in serpenti e viceversa (Inf. XXIV-XXV); dal chinarsi di Anteo sul fondo dell’inferno (Inf. XXXI, 136-145); dal passaggio del centro della terra, con la conversione di Virgilio sull’anca di Lucifero, che è passaggio verso la sesta età, quella della Chiesa, descritta nel Purgatorio.
Ma i temi propri del sesto stato sono diffusi ovunque, intrecciati con quelli degli altri stati, e alla loro esegesi rinviano precise parole-chiave incardinate nel senso letterale dei versi. L’esegesi dell’angelo del sesto sigillo (Ap 7, 2) è già centrale nel primo canto del poema.
La novità che il sesto stato, per eccellenza stato di rinnovamento di questo secolo, arreca nell’inferno è una novità fittizia: l’apertura della porta della città di Dite non è vera novità, perché essa è stata chiusa dall’ostinazione dei diavoli, recidivi dopo l’apertura della porta dell’inferno da parte di Cristo prefigurata dalla venuta di Ercole all’Ade, per cui Cerbero “ne porta ancor pelato il mento e ’l gozzo”; Gerione viene su ad un “novo cenno” di Virgilio, ma è figura della frode dalla velenosa coda aculeata; il nuovo prodotto dalle trasformazioni reciproche di serpenti e uomini è qualcosa di incompiuto perché l’uomo razionale, creato nel sesto stato, regredisce allo stato precedente.
L’Inferno è il luogo della durezza lapidea, dell’impetrarsi, del parlare duro di cose dure a dirsi, del duro giudizio, del senso duro della scritta al sommo della porta, dei duri lamenti, dei duri demoni, dei duri veli del gelo, della gravezza. Nell’Inferno vige l’imposizione data a Daniele dall’angelo sotto il sesto sigillo dell’Antico Testamento: “Ora tu, Daniele, chiudi queste parole e sigilla questo libro fino al tempo stabilito” (Dn 12, 4), che era la sesta età nella quale apparve Cristo e in particolare il sesto stato della sua Chiesa nella quale il libro doveva essere più pienamente aperto, non però ai malevoli e ai maldisposti. Questa durezza è rotta dall’invito di Dante ai dannati perché parlino. Far parlare liberamente, per dettato interiore, è la principale prerogativa del sesto stato – la nuova età che tanto s’aspetta, quella che ode del “dolce stil novo” e delle “nove rime” -, ed è tema che la poesia canta per intero, sia pure per un attimo, anche nella vecchia roccia infernale. Appartiene alla sesta chiesa il parlare liberamente di Cristo – ad essa è dato l’“ostium apertum”, che è “ostium sermonis” – , il sentire per dettato interiore, l’aprirsi della volontà. Appartiene alla sesta chiesa anche il far venire quelli che si dicono Giudei senza esserlo, mutati nel cuore e disposti a farsi battezzare e governare. Questo far venire a parlare equivale al cortese e liberale invito dello Spirito di Cristo a convivare, a venire con desiderio e volontario consenso, con “disio” e con “velle”, in una pausa di pace nell’eterna dannazione. All’“affettüoso grido” del poeta le ombre di Francesca e Paolo vengono “dal voler portate” verso un momento di mutazione, sebbene limitata al successivo colloquio. Tutto l’Inferno è un contrappunto fra la durezza del giudizio e l’apertura per la parola dirompente, fin che essa dura, la pena. Un’apertura che si esprime in varie forme: muoversi sospirando nel Farinata prima immobile, ‘crollarsi’ quasi per terremoto interiore dello ‘schivo’ Ulisse, convertirsi del vento in voce in Guido da Montefeltro, tornare indietro nel cammino assegnato o separarsi dai compagni di pena, essere sforzati a parlare anche malvolentieri, non poterlo negare o mostrare fretta di farlo, arrestarsi obliando il martirio, levarsi per poi ricadere, sollevarsi da atti bestiali per ritornare a essi dopo aver parlato, come nel conte Ugolino. In tante lingue, che parlano come per sé stesse mosse, sta un solo desiderio, il vivere ancora nel libro che è stato altrui aperto.
Se nell’Inferno il sesto stato non si realizza mai compiutamente, anche il settimo, che gli è strettamente connesso, non può trovare un luogo autonomo. Ciò non toglie che temi del settimo stato (e della settima visione) siano ben presenti in modo diffuso. Ad esempio, quelli relativi alla settima chiesa assumono particolare rilievo nella descrizione degli ignavi a Inf. III. Tempo del silenzio, della serena pace, del riposo dalle ansiose fatiche, il settimo stato subentra dopo le terribili tentazioni inferte, con un martirio non corporale ma psicologico, dai carnefici dell’Anticristo nel sesto. Come ogni momento della storia umana partecipa dell’imitazione di Cristo, che raggiunge l’acme nel sesto stato, così in ogni periodo si verifica una sua “quietatio”, una pausa di pace, di quiete, di silenzio propria del settimo. Così Francesca parla e ascolta “mentre che ’l vento, come fa, ci tace”. Il vento – “la bufera infernal, che mai non resta” – designa il fluttuare tempestoso delle passioni nel cuore.

PURGATORIO

(sesta età del mondo)

Dopo le prime cinque età del mondo (corrispondenti all’Antico Testamento, la gioachimita età del Padre), che hanno segnato la discesa a spirale per i cinque cicli settenari dell’Inferno, con il Purgatorio inizia la sesta età, quella di Cristo (l’età del Figlio), che ha sette stati, corrispondenti ai sette stati della Chiesa. Dapprima, nel cosiddetto ‘antipurgatorio’, si registrano in successione temi prevalenti dei primi cinque stati. Il sesto stato della sesta età (con cui si apre l’età dello Spirito) inizia con l’apertura della porta di san Pietro (la porta del purgatorio). Questo sesto stato procede anch’esso con andamento settenario, per cui ha sette momenti, coincidenti principalmente con un girone della montagna, ma non del tutto, perché sempre l’ordine spirituale del poema rompe i confini letterali e le divisioni materiali, concatenando i temi di uno stato prevalente con quelli dello stato che precede e con quelli dello stato che segue e intrecciandoli con temi di tutti gli altri stati.
È spiegato nel Notabile VII del prologo della Lectura che il sesto stato della Chiesa è il secondo stato di Cristo e ha i suoi sette tempi per cui la Chiesa, come fosse una sfera, si ricongiunge circolarmente al primo apostolico tempo. Il settimo dei sette momenti del sesto stato della Chiesa coincide con il settimo stato generale della Chiesa, che nel poema corrisponde in parte all’ultimo girone della montagna (il settimo, dove si purgano i lussuriosi) e in parte all’Eden, con cui si chiude la seconda cantica.
Il Purgatorio dunque, secondo il senso spirituale, è la storia della Chiesa che corre verso il suo sesto stato, punto di riferimento di tutte le vicende umane, antiche e moderne, che ad esso cooperano. Non è casuale che nel sesto girone della montagna sia chiarificata e riconosciuta, nel colloquio con Bonagiunta da Lucca, la poetica delle “nove rime” di Dante, già “sesto tra cotanto senno” cooptato nella “bella scola” dei poeti del Limbo.
La vasta zona dedicata al sesto momento del sesto stato della Chiesa ha il suo inizio nel forte terremoto che scuote la montagna mentre Dante e Virgilio si trovano ancora nel quinto girone (Purg. XX, 124-141). Essa è stata compiutamente esaminata altrove.
Il settimo stato dell’Olivi si realizza parte in questa vita (come pregustazione in terra della gloria eterna, cioè fin sulla cima della montagna) e in parte nella futura (nel senso della quiete delle anime beate in attesa della resurrezione, che è la materia del Paradiso).

canti

I ciclo – fino al sesto sato

stati

 

I

Catone

Radici, I

 

II

angelo nocchiero, Casella

–  II

 

III

scomunicati

III

“Antipurgatorio”

IV

salita al primo balzo, Belacqua

IV  –  V

V

negligenti morti per violenza

V

VI

Sordello

V

VII-VIII

valletta dei principi

V

IX

apertura della porta

VI sesto stato

 

canti

II ciclo – il sesto stato della sesta età

stati

gironi

X-XII

superbi

I

I

XIII-XIV-XV

invidiosi

II

II

XV-XVIII

iracondi

ordinamento del purgatorio,

amore e libero arbitrio

III

III

IV

XVIII-XIX

accidiosi

IV

IV

XIX-XX

avari e prodighi

V

V

XX (terremoto)  -XXV

Stazio, golosi, generazione dell’uomo

VI

VI

XXV-XXVI

lussuriosi

VII – settimo stato

VII

XXVII

XXVIII-XXXIII

 muro di fuoco

notte stellata, termine dell’ascesa

Eden

 

 

PARADISO

(settimo stato della Chiesa)

Il Primo Mobile è il nono e penultimo cielo, ma è il sesto se si parte dal cielo del Sole. È anche il cielo più segnato dal tema del “punto”, cui è assimilato il sesto stato. Questo consente di ricostruire l’ordine spirituale del Paradiso ponendo la cerniera nel quarto cielo del Sole. Con il terzo cielo di Venere termina infatti il cono d’ombra gettato dalla terra, secondo la dottrina di Alfragano (Par. IX, 118-119), mentre prima di descrivere l’ascesa al cielo del Sole il poeta invita il lettore a rivolgersi “a l’alte rote” (Par. X, 7-27). Senza la cesura recisa che, nella prima cantica, divide i dannati puniti all’interno della città di Dite da quelli che ne stanno fuori e, nella seconda cantica, separa le anime purganti nei sette gironi della montagna dalle anime che attendono fuori della porta (il cosiddetto ‘antipurgatorio’), anche nel Paradiso gli spiriti che si manifestano nei primi tre cieli della Luna, di Mercurio e di Venere (spiriti che mancarono ai voti, spiriti che furono attivi per conseguire onore e fama, spiriti amanti) si distinguono per minore perfezione rispetto a quelli che appaiono nei cieli seguenti.
I dieci cieli del Paradiso si mostrano pertanto ordinati in due gruppi di settenari, corrispondenti agli stati della Chiesa (e alle loro prerogative) secondo Olivi, parzialmente combacianti (da 1 a 7 e da 4 a 10: coincidono gli ultimi quattro numeri del primo gruppo e i primi quattro del secondo).

I  Se si considera il primo settenario, nel primo cielo della Luna si affronta la questione dell’inadempienza dei voti, che ha corrispondenza con i temi propri della prima chiesa di Efeso, il cui nome, se interpretato, oscilla tra la fervida volontà iniziale e la remissione (l’essenza del voto consiste nella volontà).

II  Nel secondo cielo di Mercurio, le battaglie sostenute dal “sacrosanto segno” dell’aquila corrispondono allo stato dei martiri, che è dei combattenti, e anche la dottrina dell’incarnazione e della passione di Cristo, esposta successivamente da Beatrice, fa parte della tematica, perché l’intera Chiesa, fondata sulla passione di Cristo, imita con i martiri la sua croce, e questo giova assai al suo radicamento.

III  Nel terzo cielo di Venere, Carlo Martello spiega al modo di un dottore del terzo stato la diversità delle indoli umane e come gli uomini, non assecondandole, errino; nello stesso cielo compare Folchetto di Marsiglia, che da vescovo di Tolosa combatté l’eresia albigese.

IV – I  Al quarto cielo del Sole, primo del secondo gruppo di settenari per l’esaltazione della vita apostolica (propria del primo stato e rinnovata nel sesto), si può connettere il tema stesso del sole inteso nell’esegesi della quarta tromba (Ap 8, 12): “Per solem videtur hic designari solaris vita et contemplatio summorum anachoritarum, qui fuerunt patres et exempla aliorum, vel solaris sapientia et doctrina summorum doctorum”. Sapienza e contemplazione, dottori del terzo e anacoreti del quarto stato, concorrono, come Domenico e Francesco – “L’un fu tutto serafico in ardore; / l’altro per sapïenza in terra fue / di cherubica luce uno splendore” (Par. XI, 37-39) – con mutua cortesia a infiammare il meriggio dell’universo.

V – II  Il quinto cielo di Marte, secondo (come il secondo stato dei martiri) per l’esaltazione della croce di Cristo formata dai lumi dei combattenti per la fede, reca in sé il tema del condiscendere proprio del quinto stato sia nel pio discendere per la croce di Cacciaguida verso Dante, sia nella decadenza degli “alti Fiorentini”, cioè delle antiche famiglie, assimilate agli anacoreti, un tempo alti e poi vòlti in basso.

VI – III  Il sesto cielo di Giove, terzo (come il terzo stato dei dottori) per la spiegazione di profonde verità di fede, sviluppa il motivo, proprio della sesta chiesa, della “porta aperta”. Aprire la porta significa illuminare e rendere acuto l’intelletto che penetra nell’occulto delle Scritture, e anche dare efficacia spirituale a penetrare nel cuore di chi ascolta: così l’aquila apre la “latebra” di Dante, così l’occhio di Rifeo Troiano fu da Dio aperto alla futura redenzione.

VII – IV Nel settimo cielo di Saturno, quarto (come il quarto stato degli anacoreti), “si tace … la dolce sinfonia di paradiso” (Par. XXI, 58-60), e il tacere è tema del settimo stato. Ivi si mostrano gli spiriti contemplativi, principali soggetti del quarto stato, proprio degli anacoreti: se si conta a partire dal quarto cielo del Sole, considerando questo come primo ovvero come nuovo avvio del ciclo settenario, il cielo di Saturno è appunto quarto.

VIII (V) Il settimo cielo di Saturno è seguito dal cielo delle Stelle fisse – ottavo e quinto -, dove si mostrano le schiere del trionfo di Cristo che discendono dall’Empireo (il quinto stato è caratterizzato dalla “condescensio”) e si celebra il trionfo di Maria (sviluppo del tema, proprio della quinta chiesa, della mirabile bellezza della Chiesa, regina ornata di veste aurea per la carità che unisce e circondata dalla varietà nei doni e nelle grazie delle diverse membra). È inoltre ricapitolazione dei precedenti sette, secondo un’interpretazione più volte presente nella Lectura dell’essere ‘ottavo’. Per questo Dante, stando nel segno dei Gemelli, riguarda in giù e torna col viso per tutte quante le sette precedenti sfere (Par. XXII, 124-154).

IX (VI) Segue il Primo Mobile o Cristallino – nono e sesto cielo –, dove il poeta vede il punto luminosissimo – Dio – da cui dipende il cielo e la terra, circondato dai nove cerchi di fuoco (Par. XXVIII, 16-18, 40-42, 94-96). Il sesto stato, secondo quanto Olivi afferma nel Notabile VIII, è il “punto” da cui dipendono gli altri stati, perché appare nel testo dell’Apocalisse in modo più evidente degli altri, che da esso assumono chiarezza quanto alla loro manifestazione nella storia, come l’intelligenza delle cose ordinate ad un fine dipende dal fine.

X (VII) La quiete e l’immobilità dell’Empireo, decimo cielo – il “ciel de la divina pace” -, corrispondono al settimo stato, di cui è propria la “quietatio”, il silenzio (tema anticipato dal tacere di Beatrice in apertura del canto XXIX), e la pace.

Il Paradiso avrebbe pertanto un ordine spirituale del seguente tipo:

cielo

stato

cielo

I

LUNA

I

II

MERCURIO

II

III

VENERE

III

IV

SOLE

IV

I

SOLE

V

MARTE

V

II

MARTE

VI

GIOVE

VI

III

GIOVE

VII

SATURNO

VII

IV

SATURNO

VIII

V

STELLE FISSE

IX

VI

PRIMO MOBILE

X

VII

EMPIREO

Oltre ai luoghi sopra indicati, i temi del sesto e del settimo stato si rinvengono in più punti, intrecciati con altri.

[1] Cfr. LSA, cap. XVII, Ap 17, 9: «Et subdit Ricardus quod per septem reges, et per septem capita designatos, designatur hic universus populus malorum, qui secundum septem status huius seculi determinantur. Primus scilicet ab Adam usque ad Noe. Secundus a Noe usque ad Abraam. Tertius ab Abraam usque ad Moysen. Quartus a Moys<e> usque ad David. Quintus a David usque ad Christum. Sextus a Christo usque ad Antichristum. Septimus autem sub Antichristo attribuitur». Cfr. PETRI IOHANNIS OLIVI Lectura super Lucam, Lc 1, 26, ed. F. Iozzelli, Grottaferrata 2010 (Collectio Oliviana, V), pp. 187-188: «Signanter autem dicitur in sexto mense, quia Christus uenit in sexta mundi etate, et iterum post quinque notabiles synagoge decursus: nam primo, cum sola circumcisione fuit sub patribus per quadringentos annos; secundo, accepta lege, fuit sub iudicibus per tantumdem temporis; tertio, proficiens in regnum, fuit sub regibus; quarto, assumpto plenius spiritu prophetico, fuit sub prophetis sollempnioribus, scilicet sub Elia, Ysaia et Yeremia etc.; quinto, restituto templo et urbe, fuit sub pontificibus quibus, per Aggeum et Zachariam et Malachiam iterata prophetia de Christo et eius precursore Elia, factum est silentium prophetarum, ita quod obmutuit cetus sacerdotum usque ad Iohannis ortum; et iterum in eiusdem quinti temporis sexto centenario conceptus est Christus. Sicut etiam sexto die factus est homo ad ymaginem Dei, sic conuenienter sub consimili senario factus est Christus homo, plenior Dei ymago: nam et perfectio numeri senarii, que ex omnibus partibus suis aliquotis et iterum ex ternario cum suis partibus, scilicet binario et unitate, consurgit, competit sibi et etiam reflexio ternarii per binarium, id est cultus fidei et Trinitatis per geminam caritatem».

[2] Il principio è chiaramente affermato nel notabile VIII del prologo della LSA: «[…] si omnia prima membra visionum ad invicem conferas et consimiliter omnia secunda et sic de aliis, aperte videbis omnia prima ad idem primum concorditer referri et consimiliter omnia secunda ad idem secundum et sic de aliis. Et hoc in tantum quod plena intelligentia eiusdem primi multum clarificatur ex mutua collatione omnium primorum, et idem est de omnibus secundis et tertiis et sic de aliis».

[3] A. FRUGONI, La Roma di Dante, tra il tempo e l’eterno, in ID., Pellegrini a Roma nel 1300. Cronache del primo Giubileo, presentazione di C. Frugoni, a cura e con Introduzione di F. Accrocca, Casale Monferrato 1999, pp. 102-103.

[4] LSA, cap. VI, Ap 6, 12: «Secunda ratio est quia persone Christi correspondet in sexta apertione unus ordo plurium personarum sic secundum suam proportionem augendus, sicut Christus secundum suum corpus fuit usque ad perfectam etatem viriliter auctus. […] Quarta est quia, prout super evangelia ostendi, Christus parvo tempore debuit inter nos vivere et pauciori predicare […]. Nisi autem ordo evangelicus, per Franciscum renovatus, esset in multis et saltem sub duabus vel tribus generationibus propagatus et sollempnizatus, non esset nec ipse nec populus ab eo ducendus sufficienter dispositus ad tam autenticam condempnationem condempnationi Christi consimilem subeundam».