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Lug 02 2025

I canti dell’Eden: Purgatorio XXXIII

 

La “Divina Parodia” del Libro scritto dentro e fuori   [EN]

I canti dell’Eden: Purgatorio XXVIII, XXIX, XXX, XXXI, XXXII, XXXIII

 

1. Morte e resurrezione. 2. L’ora presente del giudizio. 2.1. Un pasto idolatrico. 2.2. “ma tosto fier li fatti le Naiade”. 3. “Un cinquecento diece e cinque”. 3.1. Il “numero del nome”, in lettere: DVX. 3.2. Il “numero del nome”, in lettere: IVDEX. 3.3. Il “numero del nome”, in lettere: X (Cristo, Augusto) REDIVIVO. 3.4. Il “numero del nome”, in cifre: D – X – V. 3.5. L’epicedio per “l’alto Arrigo”. 4. “quella scuola / c’hai seguitata”. 5. “Eufratès e Tigri”. 6. Matelda e l’usus pauper”. AvvertenzeAbbreviazioniNote sulla “topografia spirituale” della Commedia.

 

Legenda [3]: numero dei versi; 17, 8: collegamento ipertestuale all’esegesi, nella Lectura di Olivi, di capitolo e versetto dell’Apocalisse [Ap]; Not. V: collegamento all’esegesi contenuta nei tredici notabilia del prologo della LecturaVarianti rispetto al testo del Petrocchi.

Viene qui esposto il canto XXXIII del Purgatorio con i corrispondenti legami ipertestuali con i luoghi della Lectura super Apocalipsim ai quali i versi si riferiscono. L’intero poema è esposto nella Topografia spirituale della Commedia (2013, PDF; cfr. infra), ma si sta procedendo a un esame progressivo e aggiornato dei singoli canti (completato l’Inferno). Ogni tabella sinottica, qui presentata o alla quale si rinvia in quanto già esaminata in altra sede, è preceduta o seguita da una parte esplicativa. Sull’uso dei colori cfr. Avvertenze.

Purgatorio XXXIII

Deus, venerunt gentes’, alternando   17, 8
or tre or quattro dolce salmodia,   5, 9
le donne incomiciaro, e lagrimando;   [3]

e Bëatrice, sospirosa e pia,   7, 7
quelle ascoltava sì fatta, che poco
più a la croce si cambiò Maria.   [6]

Ma poi che l’altre vergini dier loco   Not. I; V
a lei di dir, levata dritta in pè,
rispuose, colorata come foco:   [9]

Modicum, et non videbitis me;   17, 8
et iterum, sorelle mie dilette,
modicum, et vos videbitis me’.   [12]

Poi le si mise innanzi tutte e sette,   5, 6
e dopo sé, solo accennando, mosse
me e la donna e ’l savio che ristette.   [15]

Così sen giva; e non credo che fosse
lo decimo suo passo in terra posto,   2, 10   l’undecimo
quando con li occhi li occhi mi percosse;   [18]

e con tranquillo aspetto « Vien più tosto »,   13, 18
mi disse, « tanto che, s’io parlo teco,
ad ascoltarmi tu sie ben disposto ».   [21]   6, 12

Sì com’ io fui, com’ io dovëa, seco,
dissemi: « Frate, perché non t’attenti   1, 9
a domandarmi omai venendo meco? ».   [24]

Come a color che troppo reverenti   19, 10 (22, 8-9)
dinanzi a suo maggior parlando sono,
che non traggon la voce viva ai denti,   [27]

avvenne a me, che sanza intero suono
incominciai: « Madonna, mia bisogna
voi conoscete, e ciò ch’ad essa è buono ».   [30]

Ed ella a me: « Da tema e da vergogna
voglio che tu omai ti disviluppe,
sì che non parli più com’ om che sogna.   [33]   Not. I

Sappi che ’l vaso che ’l serpente ruppe,   12, 17; 12, 9; 2, 12
fu e non è; ma chi n’ha colpa, creda   17, 8
che vendetta di Dio non teme suppe.   [36]   2, 14-15

Non sarà tutto tempo sanza reda   19, 11 (2, 1)
l’aguglia che lasciò le penne al carro,
per che divenne mostro e poscia preda;   [39]

ch’io veggio certamente, e però il narro,   10, 5-7
a darne tempo già stelle propinque, 22, 10
secure d’ogn’ intoppo e d’ogne sbarro,   [42]   2, 11

nel quale un cinquecento diece e cinque,   13, 18
messo di Dio, anciderà la fuia   3, 3
con quel gigante che con lei delinque.   [45]   9, 5-6

E forse che la mia narrazion buia,   18, 1
qual Temi e Sfinge, men ti persuade,
perch’ a lor modo lo ’ntelletto attuia;   [48]

ma tosto fier li fatti le Naiade,   Not. IV  le fateli fatile fata
che solveranno questo enigma forte   5, 1-2; 18, 1
sanza danno di pecore o di biade.   [51]   2, 11; 9, 4

Tu nota; e sì come da me son porte,   22, 10
così queste parole segna a’ vivi
del viver ch’è un correre alla morte.   [54]

E aggi a mente, quando tu le scrivi,   1, 11.19
di non celar qual hai vista la pianta
ch’è or due volte dirubata quivi.   [57]   18, 6

Qualunque ruba quella o quella schianta,
con bestemmia di fatto offende a Dio,
che solo a l’uso suo la creò santa.   [60]

Per morder quella, in pena e in disio   7, 16
cinquemilia anni e più l’anima prima
bramò colui che ’l morso in sé punio.   [63]

Dorme lo ’ngegno tuo, se non estima   3, 3; 16, 15
per singular cagione essere eccelsa
lei tanto e sì travolta ne la cima.   [66]

E se stati non fossero acqua d’Elsa   cap. XI
li pensier vani intorno a la tua mente,
e l piacer loro un Piramo a la gelsa,   [69]   pianger   16, 4

per tante circostanze solamente
la giustizia di Dio, ne l’interdetto,
conosceresti a l’arbor moralmente.   [72]

Ma perch’ io veggio te ne lo ’ntelletto
fatto di pietra e, impetrato, tinto,   8, 7
sì che t’abbaglia il lume del mio detto,   [75]

voglio anco, e se non scritto, almen dipinto, 13, 17
che ’l te ne porti dentro a te per quello
che si reca il bordon di palma cinto ».   [78]

E io: « Sì come cera da suggello,   14, 11
che la figura impressa non trasmuta,
segnato è or da voi lo mio cervello.   [81]

Ma perché tanto sovra mia veduta
vostra parola disïata vola,
che più la perde quanto più s’aiuta? ».   [84]

« Perché conoschi », disse, « quella scuola
c’hai seguitata, e veggi sua dottrina   13, 17; 14, 11
come può seguitar la mia parola;   [87]   14, 4

e veggi vostra via da la divina   13, 1
distar cotanto, quanto si discorda   14, 2
da terra il ciel che più alto festina ».   [90]

Ond’ io rispuosi lei: « Non mi ricorda   20, 12
ch’i’ stranïasse me già mai da voi,   5, 1   stravïasse
né honne coscïenza che rimorda ».   [93]

« E se tu ricordar non te ne puoi »,
sorridendo rispuose, « or ti rammenta   3, 3
come bevesti di Letè ancoi;   [96]

e se dal fummo foco s’argomenta,
cotesta oblivïon chiaro conchiude
colpa ne la tua voglia altrove attenta.   [99]

Veramente oramai saranno nude   22, 10
le mie parole, quanto converrassi
quelle scovrire a la tua vista rude ».   [102]

E più corusco e con più lenti passi
teneva il sole il cerchio di merigge,   1, 16
che qua e là, come li aspetti, fassi,   [105]

quando s’affisser, sì come s’affigge   19, 17
chi va dinanzi a gente per iscorta
se trova novitate o sue vestigge,   [108]

le sette donne al fin d’un’ombra smorta,   22, 2
qual sotto foglie verdi e rami nigri
sovra suoi freddi rivi l’alpe porta.   [111]

Dinanzi ad esse Ëufratès e Tigri
veder mi parve uscir d’una fontana,   5, 6-7
e, quasi amici, dipartirsi pigri.   [114]

« O luce, o gloria de la gente umana,   1, 16
che acqua è questa che qui si dispiega
da un principio e sé da sé lontana? ».   [117]   5, 6-7

Per cotal priego detto mi fu: « Priega   8, 3
Matelda che ’l ti dica ». E qui rispuose,   1, 4   Mattelda
come fa chi da colpa si dislega,   [120]   incipit

la bella donna: « Questo e altre cose
dette li son per me; e son sicura
che l’acqua di Letè non gliel nascose ».   [123]

E Bëatrice: « Forse maggior cura,
che spesse volte la memoria priva,
fatt’ ha la mente sua ne li occhi oscura.   [126]

Ma vedi Eünoè che là diriva:   22, 1
menalo ad esso, e come tu se’ usa,   1, 4; 7, 3
la tramortita sua virtù ravviva ».   [129]

Come anima gentil, che non fa scusa,
ma fa sua voglia de la voglia altrui   2, 1
tosto che è per segno fuor dischiusa;   [132]

così, poi che da essa preso fui,
la bella donna mossesi, e a Stazio   1, 4
donnescamente disse: « Vien con lui ».   [135]

S’io avessi, lettor, più lungo spazio
da scrivere, i’ pur cantere’ in parte
lo dolce ber che mai non m’avria sazio;   [138]   7, 16-17

ma perché piene son tutte le carte
ordite a questa cantica seconda,   8, 6
non mi lascia più ir lo fren de l’arte.   [141]

Io ritornai da la santissima onda
rifatto sì come piante novelle   6, 12
rinovellate di novella fronda,
puro e disposto a salire a le stelle.   [145]   7, 2; 3, 1

1. Morte e resurrezione

‘Deus, venerunt gentes’, alternando / or tre or quattro dolce salmodia, / le donne incominciaro, e lagrimando (vv. 1-3). I seniori e i quattro esseri viventi cantano la lode di Cristo “in tre o, secondo Riccardo [di San Vittore], in quattro atti” (Ap 5, 9). Si tratta di un motivo che compare nelle “accoglienze oneste e liete” di Sordello nei confronti di Virgilio ripetute “tre e quattro volte” (Purg. VII, 1-2) e nella salmodia “Deus, venerunt gentes”, cantata dalle sette virtù “alternando / or tre or quattro”). La reiterazione non deriva solo dal valore indeterminato dell’espressione latina “ter quaterque” (nel senso che la festa viene ripetuta più volte), ma anche dal canto di lode delle quattro creature e dei seniori (perciò risulta di grande interesse, nel caso di Sordello, la variante “tre o quattro volte”).

e Bëatrice, sospirosa e pia, / quelle ascoltava sì fatta, che poco / più a la croce si cambiò Maria (vv. 4-6). La tribù di Simeone, la settima fra le dodici d’Israele da cui provengono i segnati all’apertura del sesto sigillo (Ap 7, 7), designa la devota preghiera che, sospirando e gemendo, impetra le grazie superne ed è degna di essere esaudita, oppure la pia condiscendenza della benigna commiserazione. Il nome viene pertanto interpretato come “ascolto” o “esaudibile” o “colui che ascolta il dolore”. Appartiene allo stato dei perfetti; è lo zelo che si manifesta nella “benigne miserationis pia condescensio”, corrispondente a uno dei temi più importanti del quinto stato, la “pietas” che condiscende verso gli infermi, in un periodo “habens sensum vivum et tenerum pietatis” (prologo, Notabile XIII; con questi motivi viene presentato san Bernardo a Par. XXXI, 61-63).
Fra i vari luoghi del poema che ad essi si riferiscono, i temi della tribù Simeone sono in primo luogo propri di Beatrice: a lei Lucia si rivolge perché ascolti “la pieta” del pianto del suo amico, che poi soccorre “pietosa” (Inf. II, 106, 133); è lei ad ascoltare “sospirosa e pia” il salmo Deus, venerunt gentes cantato lacrimando dalle sette virtù dopo le visioni delle tribolazioni del carro della Chiesa militante (Purg. XXXIII, 4-6 [1]; i motivi sono appropriati a Dante a Purg. XX, 16-18); trae un “pio sospiro” alla domanda dell’amico che non comprende come possa trascendere i corpi lievi (Par. I, 100-102). I temi si mescolano con quelli del quinto stato, momento in cui eccelle il senso vivo della pietà, ad esempio con il motivo della madre che indulge pietosa al figlio (Ap 5, 1), rispecchiato in “quel sembiante / che madre fa sovra figlio deliro” con il quale Beatrice drizza gli occhi a Dante dopo il “pio sospiro”.
I motivi del discendere, della pietà, dell’ascoltare e del sospirare sono compresenti nel discendere “nel cieco mondo”, allorché il colore smorto del viso di Virgilio suscita preoccupazione in Dante che vede la sua guida impallidire, ma questa lo rassicura che non di paura si tratta, ma della pietà per “l’angoscia de le genti / che son qua giù”. Subito all’ingresso del primo cerchio si ode un pianto fatto di sospiri, “che l’aura etterna facevan tremare”  (Inf. IV, 13-27).

Modicum, et non videbitis me; / et iterum, sorelle mie dilette, / modicum, et vos videbitis me” (vv. 10-12). Quanto ad Ap 13, 3, nella trattazione della sesta e grande guerra sostenuta dalla Chiesa, si afferma della testa della bestia ascendente dal mare, che sembrava uccisa e che rivive – per cui Giovanni dice: “E vidi una delle sue teste quasi colpita a morte, ma la sua piaga mortale fu curata” -, è da confrontare con Ap 17, 8, dove l’angelo dice a Giovanni della bestia su cui sta seduta la prostituta: “La bestia che hai visto fu e non è”. Secondo Gioacchino da Fiore, si tratta della bestia formata dalle genti infedeli le quali, già soggette all’impero romano, perseguitarono negli esordi Cristo e la Chiesa e, dopo essere caduta nei primi tre tempi della Chiesa in sei teste – i Giudei, i pagani e le quattro genti ariane (Goti occidentali ed orientali, Vandali, Longobardi) – stette infine sulla settima testa, cioè sulla gente saracena dal tempo di Maometto fino al presente. L’espressione “fu e non è” sarebbe da ascrivere al sesto tempo della Chiesa nel quale, percossa Babylon, la stessa bestia verrà superata da Cristo trionfante con il suo esercito sui dieci re, come detto ad Ap 17, 14. Allora cesserà temporaneamente la sua solidità così da sembrare non essere. Dopo un po’, tuttavia, la bestia che si riteneva uccisa salirà dall’abisso dei popoli infedeli, e allora i terreni e i carnali, i cui nomi non sono scritti nel libro della vita, si scandalizzeranno e diranno fra loro: se questo Gesù che noi adoriamo fosse veramente il Figlio di Dio, in nessun modo la persecuzione ad opera delle genti, che poco fa fu sedata, sorgerebbe nuovamente con tanta potenza a disperdere le reliquie del popolo cristiano. Così quello che si dice, che i malvagi si meraviglieranno nel vedere la bestia “che era e non è più”, va inteso non nel senso che si meravigliano del fatto che non sia, quanto perché, pur avendola poco prima vista non essere, la vedono ora salire in massima potestà, per cui sono scandalizzati fino alla negazione di Cristo e all’adorazione della stessa bestia, come si afferma nel capitolo XIII (Ap 13, 3-4.12).
Beatrice, prima di pronunciare nell’Eden la profezia dell’imminente arrivo del messo divino che ucciderà la prostituta insieme col gigante (Purg. XXXIII, 37-45), dice a Dante: “Sappi che ’l vaso che ’l serpente ruppe, / fu e non è”. Allude, come in genere si commenta, alla Chiesa corrotta (designata dal carro, le cui tribolazioni sono state descritte al termine del canto precedente) come se non esistesse più (è divenuta infatti “mostro e poscia preda” del gigante) usando le parole di Ap 17, 8: “bestia, quam vidisti, fuit et non est” (vv. 34-35). Ma ad Ap 17, 8 Olivi, citando Gioacchino da Fiore, parla della bestia che, apparsa in un primo tempo uccisa, dopo poco (post modicum) ascende dall’abisso facendo di nuovo (iterum) risorgere la persecuzione da parte delle genti che sembrava sedata e appare tanto potente da farsi adorare da quanti restano ammirati dalla sua resurrezione. Beatrice, annunciando l’arrivo del messo, pensa alla vendetta di Dio che farà risorgere la Chiesa ma lo fa recitando il tema della bestia che sembrava uccisa e che rivive, interpretato in bonam partem. Lei stessa, più sopra nel canto, cita le parole di Gesù ai discepoli per avvertirli che presto sarebbe morto e poco dopo risorto: “Modicum, et non videbitis me; / et iterum, sorelle mie dilette, / modicum, et vos videbitis me” (Purg. XXXIII, 10-12). Questo passo dal Vangelo di Giovanni 16, 16 – le parole con cui Cristo, nell’ultima cena, annuncia agli apostoli la sua imminente morte e resurrezione – è incastonato nell’esegesi di Ap 17, 8 e perfettamente concordato con il tema della bestia che sembrava uccisa e che risorge.
Anche il canto delle sette virtù le quali, lacrimando, intonano il Salmo 78, “Deus, venerunt gentes”, in cui si lamenta la distruzione del Tempio di Gerusalemme (Purg. XXXIII, 1-3), si inserisce in quanto ad Ap 17, 8 si dice del risorgere della persecuzione da parte delle genti. La “dolce salmodia” (Ps 78, 10: “ne forte dicant in gentibus: Ubi est Deus eorum?”) concorda con l’apocalittico scandalizzarsi di carnali e terreni (Ap 17, 8: “dicentes ad invicem: si iste Ihesus, quem colimus, esset vere filius Dei, nequaquam persecutio gentium, que nuper sedata fuit, iterum consurgeret in tanta potentia ad disperdendas reliquias populi christiani”). Il Salmo 78, 10 fa parte del tessuto della lettera indirizzata ai cardinali italiani, riuniti in conclave a Carpentras dopo la morte di Clemente V (20 aprile 1314; Ep. XI, 4).
Sempre con l’ausilio di Gioacchino da Fiore, e interpretando quanto scritto nell’XI capitolo di Daniele, ad Ap 13, 3 Olivi afferma che la testa della bestia che sembrava uccisa e poi rivive designa il fatto che l’Anticristo, nel primo dei tre anni e mezzo di regno, perderà la monarchia per poi recuperarla. Dal confronto di Ap 17, 8 con Ap 13, 3, la compresenza di alcune parole (l’essere la bestia e l’Anticristo in un primo tempo “percossi”, l’“ardere” del secondo per l’ira contro la Chiesa, la loro resurrezione) mostra che anche il risorgere delle luci, “come nel percuoter d’i ciocchi arsi / surgono innumerabili faville”, le quali nel cielo di Giove formano la figura dell’aquila, simbolo della giustizia (Par. XVIII, 100-105), sia variazione sui temi della bestia “che fu e non è” e dell’Anticristo, quasi ucciso per la perdita del regno e poi risorto.
Tutto ciò rende conto di un metodo sorprendente che trasforma in senso positivo, di un prossimo rinnovamento, passi che nel testo dell’Apocalisse vengono appropriati a figure o a situazioni negative, nel caso alla bestia che sale dal mare di Ap 13, 3 o alla bestia su cui siede la prostituta di Ap 17, 8, che si trasformano nella Chiesa che rivivrà e anche nell’Impero, perché “non sarà tutto tempo sanza reda / l’aguglia che lasciò le penne al carro, / per che divenne mostro e poscia preda” (Purg. XXXIII, 37-39). Alla fine del capitolo XIII, Olivi riporta l’opinione di alcuni secondo i quali il seme di Federico II rivivrà nell’Anticristo mistico, come la testa della bestia che sembrava uccisa ma rivive. Nel trasformare per parodia la Lectura nella Commedia, il poeta torce il “panno” all’ordito della sua “gonna”, come dimostrano i versi messi in bocca a Farinata e a Brunetto Latini, tessuti con fili tratti dal finale del capitolo XIII, dove trovava la discendenza di Federico II identificata con l’Anticristo, mentre per lui era sementa santa che rivivrà. Alla resurrezione dell’Impero sono da riferire le parole di Cristo successive a quelle pronunciate esplicitamente da Beatrice a Purg. XXXIII, 10-12 – “Modicum, et non videbitis me ; / et iterum, sorelle mie dilette, / modicum, et vos videbitis me” (Giovanni 16, 16) -, relative alla donna che prova le doglie del parto ma, una volta partorito, si allieta (16, 21). Cristo annuncia ai discepoli la sua morte, che sarà motivo per loro di tristezza e di tribolazione, e poi la sua resurrezione, che sarà causa di gioia.
Gerione, la “bestia” che viene “notando … in suso” dall’abisso, “maravigliosa ad ogne cor sicuro” (Inf. XVI, 121-123, 130-136), si apparenta con la bestia che ad Ap 13, 1 sale dal mare (citato nella similitudine), e che suscita meraviglia nelle genti a motivo della sua testa che sembrava uccisa ma che poi rivive (Ap 13, 3). Nella quarta visione, tutto l’impeto della descrizione è diretto verso quella grande guerra del sesto tempo che la bestia condurrà per mezzo di questa testa. L’espressione dell’esegesi “intorqueri ad bestiam a quarto tempore usque ad finem ecclesie consurgentem” passa nelle parole di Virgilio: “Or convien che si torca / la nostra via un poco insino a quella / bestia malvagia che colà si corca” (Inf. XVII, 28-30).
Lontanissima variazione sul tema della bestia che “fu e non è” si registra nella meraviglia di Sordello nell’incontrare Virgilio, «qual è colui … / che crede e non, dicendo “Ella è … non è …”» (Purg. VII, 10-12).

[1] Le parole “Ma poi che l’altre vergini dier loco / a lei di dir” (vv. 7-8) introducono un passaggio tematico dal quarto stato (vergini) al quinto (dier loco), pietoso e condiscendente, impersonato da Beatrice, la quale “sospirosa e pia, / quelle ascoltava”.

Tab. I

Inf. XVI, 121-123, 130-136

El disse a me: “Tosto verrà di sovra
ciò ch’io attendo e che il tuo pensier sogna;

tosto convien ch’al tuo viso si scovra”.

chi’ vidi per quell’ aere grosso e scuro
venir notando una figura in suso,
maravigliosa ad ogne cor sicuro,
sì come torna colui che va giuso
talora a solver l’àncora ch’aggrappa
o scoglio o altro che nel mare è chiuso,
che ’n sù si stende e da piè si rattrappa.

Inf. XVII, 28-30

Lo duca disse: “Or convien che si torca
la nostra via un poco insino a quella

bestia malvagia che colà si corca”.

Purg. VII, 10-12

Qual è colui che cosa innanzi sé
sùbita vede ond’ e’ si maraviglia,
che crede e non, dicendo “Ella è … non è …”

[LSA, cap. XIII, Ap 13, 1-3 (IVa visio, VIum prelium)] “Et vidi de mari” (Ap 13, 1), id est de infideli natione paganismi, “bestiam”, id est bestialem catervam et sectam, “ascendentem”, scilicet in al-tum dominium et in publicum effectum et statum. […]
Nota quod omnia predicta sic in generali spectant ad totam bestiam reproborum, quod possunt specialiter intorqueri ad bestiam a quarto tempore usque ad finem ecclesie consurgentem. Primo enim modo tota bestialis caterva malorum ascendit “de mari”, id est de procellosa profunditate malitie, seu de profunda et amara abisso originalis et tandem actualis corrup-tionis nature humane. […]
Ioachim tamen, libro V° Concordie exponens de Antichristo verbum seu illam partem ultime visionis Danielis […] dicit, attamen non assertorie sed opinative, […] Deinde subdit de bello quod in sexto tempore est actura per sextum caput et decem cornua, dicens: “Et vidi unum de capitibus suis quasi occisum in mortem” (Ap 13, 3). […] Prelium autem quod secundo anno faciet incipit ibi: “Et concitabitur fortitudo eius et cor eius adversus regem austri” (Dn 11, 25), usque ibi: “Et de eruditis ruent, ut conflentur et dealbentur usque ad tempus prefinitum, quia adhuc aliud tempus erit” (Dn 11, 35), id est quia sequetur tertius annus. De hoc autem quod ibi interseritur: “Et venient super eum trieres et Romani, et percutietur et revertetur” (Dn 11, 30), dicit Ioachim quod utrum hoc impleatur spiritaliter aut cor-poraliter interim dubium relinquatur. Attamen ex illa percussione, quam patietur in membris suis, magis exardescet in iram contra ecclesiam Christi. <Nam> sequitur: “Et indignabitur contra testa-mentum sanctuarii et faciet”, id est iuxta votum proficiet dolus in manu eius.
Prelium vero anni tertii incipit ibi: “Et faciet rex iuxta voluntatem suam et elevabitur et magnificabitur adversus omnem deum et adversus Deum deorum loquetur magnifica” (Dn 11, 36). In cuius fine subdit Ioachim: «Creditur autem quod tempus prefinitum, de quo dicit: “et in tempore prefinito preliabitur adversus eum rex austri” (Dn 11, 40), hic sumpsit dimidium temporis seu anni in cuius consumatione cessabit imperium Antichristi». Videtur ergo Ioa-chim opinari quod in primo anno trium annorum et dimidii perdet regnum quod ceperat acquirere et quod postmodum recuperabit ipsum. Quod si verum est, potest dici quod prima amissio regni erit quasi occisio eius, sequens vero regni recuperatio erit quasi resurrectio eius. […]
Sequitur: “Et admirata est universa terra post bestiam” (Ap 13, 3), id est cum multe admirationis timore et stupore de resurrectione capitis bestie seu de reassumptione tante potestatis.

Par. XVIII, 100-105

Poi, come nel percuoter d’i ciocchi arsi
surgono innumerabili faville,

onde li stolti sogliono agurarsi,
resurger parver quindi più di mille
luci e salir, qual assai e qual poco,
sì come ’l sol che l’accende sortille

[LSA, cap. XVII, Ap 17, 8 (VIa visio)] Dicit ergo (Ap 17, 8): “Bestia, quam vidisti, fuit et non est ”, id est, secundum Ioachim, bestia gentium infidelium, que aliquando romano imperio subiecte fuerunt et persecute sunt Christum et ecclesiam ab exordio ipsius, et per tria tempora ecclesie priora in sex capitibus corruens, scilicet in Iudeis et paganis et in quattuor gentibus seu capitibus Arrianorum, stetit tandem in septimo capite, in gente scilicet Sarracenorum a tempore Mahomet usque ad presens. Quod autem dicitur “fuit et non est”, est secundum eum sexto tempori ecclesie ascribendum sub quo, percussa prius Babilone, superabitur a Christo ipsa bestia, Christo in suis militibus triumphante de decem regibus eius, prout dicitur infra (cfr. Ap 17, 14). Tunc enim ad horam cessabit feritas ipsius, ita quod quasi videbitur  tunc non esse. Post mo-dicum autem, bestia ipsa que iam putabatur interfecta ascensura est de abisso populi infidelis, et tunc scandalizabuntur terreni et carnales, quorum non sunt scripta nomina in libro vite, dicentes ad invicem: si iste Ihesus, quem colimus, esset vere filius Dei, nequaquam persecutio gentium, que nuper sedata fuit, iterum consurgeret in tanta potentia ad disperdendas reliquias populi christiani. Et maxime quia tunc surgent pseudochristi et pseudoprophete ad seducendum, si fieri potest, etiam electos (cfr. Mt 24, 24). Ut autem angelus indicet hanc expositionem suam esse occultam et alia expositione egere, aut sapientes esse oportere eos qui possint intelligere profundam sapientiam hic con-tentam, ideo dicit quod “hic”, id est in hiis verbis, “est sensus qui habet sapientiam” (Ap 17, 9), id est qui continet profundam et occultam sapientiam. Hec Ioachim*.
Et sic, secundum eum, quando dicitur quod mali “mirabuntur, videntes bestiam que erat et non est ” (Ap 17, 8), non est sensus quod mirentur de hoc quia tunc non erit, sed potius de hoc quia, cum iam paulo ante non esset, viderunt eam ascendere in maximam potestatem, propter quod sunt inde scandalizati usque ad negationem Christi et usque ad adorationem ipsius bestie, prout scribitur capitulo XIII° (Ap 13, 4).

Expositio , pars VI, distinctio I, f. 196ra-b.

Purg. XXXIII, 1-3, 10-12, 34-35 

                           Ps 78, 1
Deus, venerunt gentes’, alternando

or tre or quattro dolce salmodia,
le donne incomiciaro, e lagrimando

Modicum, et non videbitis meJo 16, 16
et iterum, sorelle mie dilette,

modicum, et vos videbitis me.

Sappi che  ’l vaso che  ’l serpente ruppe,
fu e non è ……………………………………

2. L’ora presente del giudizio

Poi le si mise innanzi tutte e sette (v. 13). Ad Ap 5, 6 Olivi precisa non potersi affermare che qualcuno “metta sé stesso”, a meno che, a motivo dei medesimi effetti operati da tutta la Trinità, per i quali il Figlio e lo Spirito si dicono “messi”, si possa dire che la singola persona trinitaria “metta sé stessa”. Sembrano da qui derivare l’affermazione di Ulisse “ma misi me per l’alto mare aperto” (Inf. XXVI, 100: il greco si è messo da solo in viaggio contro la provvidenza divina; il mare “aperto” è il “pelagus sacre Scripture”, il libro che verrà aperto da Cristo), o il “s’avea messi dinanzi da la fronte” nella caccia che l’arcivescovo Ruggieri fa con “Gualandi con Sismondi e con Lanfranchi” (quasi una pessima Trinità, Inf. XXXIII, 31-33; cfr. ai vv. 55-56 il “si fu messo” del raggio di sole “nel doloroso carcere”) o, all’opposto, Beatrice nell’Eden che si mette dinanzi le sette virtù (Purg. XXXIII, 13). Dalla fiumana di luce dell’Empireo (che è il “fluvius” di Ap 22, 1, procedente dalla sede e da tutta la sostanza della Trinità, e designa dunque i doni dello Spirito che vengono comunicati ai beati) uscivano faville vive “e d’ogne parte si mettien ne’ fiori” (Par. XXX, 64-66).
Nella bolgia dei barattieri, le parole del Navarrese (Inf. XXII, 97-105), che preludono al “nuovo ludo” con Alichino, fanno suonare grottescamente temi provenienti da Ap 5, 6-7, dove si tratta dell’apertura da parte di Cristo del libro segnato da sette sigilli.

Così sen giva; e non credo che fosse / lo decimo suo passo in terra posto, / quando con li occhi li occhi mi percosse (vv. 16-18). Ad Ap 2, 10 Cristo consola la chiesa di Smirne (la chiesa dei martiri, seconda delle sette chiese d’Asia alle quali Giovanni scrive nella prima visione), predicendole che la sua tribolazione durerà solo dieci giorni. Olivi riporta l’interpretazione di Riccardo di San Vittore, secondo il quale i dieci giorni corrispondono al decalogo, e quella di Agostino nel De civitate Dei, riferita come opinione di altri, per cui i dieci giorni corrispondono alle dieci persecuzioni principali assimilate alle piaghe d’Egitto. L’undecima piaga – gli Egizi sommersi nel Mar Rosso – sarebbe la persecuzione ad opera dell’Anticristo, l’undicesimo corno della quarta terribile bestia diversa dalle altre, nella visione di Daniele 7, 24, designante il re che insulterà l’Altissimo e distruggerà i santi per poi essere, dopo tre anni e mezzo (un periodo designato con l’espressione “un tempo, due tempi e la metà di un tempo“), a sua volta giudicato e ucciso.
Il numero dieci, corrispondente a quello delle persecuzioni generali, si ritrova nel numero dei dannati mostrati a Dante nel girone dei violenti contro il prossimo, in una zona (Inf. XII) dove si registrano numerosi altri temi del secondo stato. Essi sono effettivamente dieci: AlessandroDionisio feroAzzolino (Ezzelino da Romano), Opizzo da Esti, Guido di Montfort (non nominato: colui che fesse in grembo a Dio / lo cor che ’n su Tamisi ancor si cola), AttilaPirroSestoRinier da CornetoRinier Pazzo.
“Diece passi” (il ‘passo’ allude al patire) fanno Virgilio e Dante scendendo verso gli usurai (Inf. XVII, 31-33). Dieci sono i Malebranche con i quali i due poeti si accompagnano nella quinta bolgia fino al precipitoso passaggio alla sesta (Inf. XXI, 120; XXII, 13).
Le fiammelle dei candelabri che procedono nell’Eden tracciano nell’aria sette liste colorate, definite “ostendali ”, cioè ‘stendardi’, termine che rende l’estendersi delle chiese nelle prove e nelle persecuzioni (Purg. XXIX, 79). Anche il distare “diece passi” delle liste estreme (vv. 80-81), per quanto tutti i commentatori antichi vi abbiano visto solo un’allusione al decalogo, è in realtà riferito anche ai dieci giorni di tribolazioni preannunziati alla chiesa di Smirne, propria del secondo stato dei martiri, come risulta dall’esegesi di Ap 2, 10. Il motivo dei dieci passi torna a Purg. XXXIII, 16-18, a proposito di Beatrice della quale, mossasi dopo aver ascoltato “sospirosa e pia” le sette virtù intonare piangendo, per le tragiche vicissitudini del carro-Chiesa militante descritte alla fine del canto precedente, il Salmo 78 – “Deus, venerunt gentes” -, e dopo aver citato le parole con cui Cristo annuncia la sua morte e resurrezione in Giovanni 16, 16, si dice: “Così sen giva; e non credo che fosse / lo decimo suo passo in terra posto, / quando con gli occhi mi percosse”. Degna di considerazione è la variante “l’undecimo passo” la quale, per quanto tarda, farebbe riferimento al presente verificarsi dell’undecima persecuzione, quella inflitta dall’Anticristo. Tale è effettivamente rappresentata dal delinquere del gigante con la prostituta, che verranno presto uccisi (non lo sono ancora, per cui l’undecimo passo non è ancora compiuto) dal messo di Dio, annunciato poco dopo da Beatrice.

e con tranquillo aspetto “Vien più tosto”, / mi disse, “tanto che, s’io parlo teco, / ad ascoltarmi tu sie ben disposto” (vv. 19-21). “Vien più tosto, dice Beatrice a Dante, poco prima di profetizzare la venuta di “un cinquecento diece e cinque“, il messo di Dio espresso con un “numero di un nome” come quello della bestia, da questo ricavato ma ad esso opposto. Così l’angelo indica a Giovanni il numero del nome della bestia: “Ut autem cognitioni huius numeri nos faciat viciniores” (Ap 13, 18). Essere disposto è proprio dell’Ordine evangelico, cioè dei Minori e del popolo da esso guidato, pervenuto a maturità e pronto a sostenere una condanna simile a quella comminata a Cristo (Ap 6, 12).

Sì com’ io fui, com’ io dovëa, seco, / dissemi: “Frate, perché non t’attenti / a domandarmi omai venendo meco?”. / Come a color che troppo reverenti / dinanzi a suo maggior parlando sono (vv. 22-26). La riverenza di fronte al nome della sua donna, “pur per Be e per ice”, “s’indonna” di tutto il poeta, che nel dubbio non ha sufficiente ardimento a chiedere (Par. VII, 13-15). È un riverire “sicut servus vehementer et cum servili subiectione honorat suum dominum creatum”, ma che Beatrice, come l’angelo di Ap 19, 10, tollera per poco tempo (v. 16). Simile atteggiamento è già presente nell’Eden, dove al poeta avviene di non riuscire a tirare fuori la voce dinanzi a Beatrice e di cominciare a parlarle “sanza intero suono”, come capita “a color che troppo reverenti / dinanzi a suo maggior parlando sono”: la donna gli si rivolge per prima con umiltà, chiamandolo “frate” e invitandolo a domandare, poiché vuole che Dante si liberi da timore e da vergogna, “sì che non parli più com’ om che sogna” (Purg. XXXIII, 22-33). L’umiltà di Beatrice è accostabile al proporsi di Giovanni, autore del libro, come fratello anziché come maestro, pur avendone diritto, così da attirare i propri interlocutori e persuaderli con l’umiltà e la dolcezza della fraternità (Ap 1, 9).

2.1. Un pasto idolatrico

Sappi che ’l vaso che ’l serpente ruppe, / fu e non è; ma chi n’ha colpa, creda / che vendetta di Dio non teme suppe (vv. 34-36). La terzina che precede la profezia con la quale Beatrice annuncia la prossima vendetta divina per opera di “un cinquecento diece e cinque”, il quale ucciderà la “fuia” (la prostituta, Clemente V) e il “gigante” (Filippo il Bello) racchiude, nel senso letterale, significati dottrinali della Lectura super Apocalipsim che la parodia appropria ad altre situazioni.

vaso

Il carro, che designa la Chiesa, rinvia ad Ap 12, 17, alla guerra condotta dal drago contro le reliquie del seme della donna, cioè della Chiesa. “Reliquie” poiché, come in un vaso di vino purissimo rimangono, una volta bevuta la parte superiore, maggiore e più pura, solo poche reliquie vicine alle impurità e quasi con esse mescolate, così della pienezza e purezza del vino dei dottori e degli anacoreti del terzo e del quarto stato prima rimasero solo le reliquie, al momento della devastazione saracena; poi, nel quinto stato, occupate molte chiese dai Saraceni e separatisi i Greci dalla fede romana, ‘rimase’ solo la Chiesa latina come reliquia della Chiesa che prima era diffusa in tutto l’orbe. Beatrice si riferisce al drago che, a Purg. XXXII, 130-135, ha devastato il fondo del carro: può indicare sia le conquiste islamiche come la separazione dei Greci da Roma, entrambi eventi scismatici. Si tratta, nella prospettiva oliviana, della quarta guerra sostenuta dalla Chiesa. Non a caso la guerra seguente, la quinta, inizia con le parole. “Quel che rimase” (v. 136).

’l serpente

Sinonimo di drago, diavolo, Satana ad Ap 12, 9.

ruppe

Nell’esegesi dell’istruzione data a Pergamo, la terza delle sette chiese d’Asia, Cristo si mostra come colui che possiede la “rumphea”, cioè la spada a doppio taglio, acuta da entrambi i lati (Ap 2, 12). Presentandosi contro i pestiferi dottori dell’erronea dottrina e come terribile confutatore dall’incisiva dottrina e dalla sentenza di condanna della sua bocca, dice “acuta da entrambi i lati”, sia perché scinde e taglia qualsiasi vizio senza distinzione di persone, sia perché distrugge i vizi contrari. Ario, da una parte, erra dicendo che il Figlio è sostanzialmente diviso dal Padre come fosse una sua creatura. Sabellio, dal lato opposto, afferma che il Padre e il Figlio sono la stessa persona. La fede di Cristo scinde e taglia entrambi gli errori. Il terzo periodo della storia della Chiesa è appunto quello dei dottori che confutano le eresie con la ragione.
Alla rumphea, allude il verbo rompere (cfr. ad esempio Inf. XIX, 20). Il serpente che ruppe il vaso, cioè Satana che ha scisso la Chiesa per opera dei Saraceni e dei Greci, riducendola alla componente latina, si è arrogata una prerogativa spettante a Cristo e ai suoi dottori.

fu e non è

Si rinvia a quanto già esposto ai vv. 10-12.

ma chi n’ha colpa

Le colpe, anche quelle per i misfatti passati, ricadono sul presente come le acque di un fiume (cfr. Ap 17, 6); dunque Clemente V e Filippo il Bello sono responsabili dell’intera corruzione della Chiesa.

creda / che vendetta di Dio non teme suppe

Affinché non lo si creda condiscendente verso i vizi pensando che non abbia la spada a doppio taglio, Cristo fa seguire alla lode il rimprovero al vescovo di Pergamo di tollerare alcuni seguaci della dottrina dei Nicolaiti, assimilata alla “dottrina di Balaam”, che consigliò il re di Moab come attirare gli Israeliti all’idolatria (al culto di Baal-Peor) fornicando con le Moabite, cosicché mangiassero le carni immolate agli idoli (Numeri 25, 1-2; 31, 16; l’asina parlante di Balaam è citata nella lettera ai cardinali). Olivi elenca quindi i casi nei quali è proibito mangiare tali carni: quando avviene in venerazione degli idoli, oppure contro la coscienza che, per il fatto che le carni sono offerte agli idoli, la mente possa essere in qualche modo contaminata; oppure allorché da ciò viene data occasione di scandalo ai più deboli, o quando ci si rende con tale atto intollerabili al collegio di quanti lo aborriscono, come avveniva fra i Giudei convertiti sia per la proibizione della legge sia per la consuetudine contraria. Nella Chiesa primitiva tale uso venne proibito ai Gentili convertiti per il pericolo di ricadere nelle colpe precedenti (Ap 2, 14-15; il tema dei Nicolaiti è oggetto anche dell’istruzione data a Smirne, la seconda chiesa d’Asia: Ap 8, 9).

[LSA, cap. II, Ap 2, 14-16] Ne tamen ex hoc credat se palpaturum vitia ipsorum quasi non habeat gladium ex parte utraque scindentem … Dicendum quod comedere idolis oblata est peccatum quando fit in veneratione idolorum, aut contra conscientiam, quamvis infirmam vel erroneam, quod ex hoc quod sunt oblata idolis consequatur aliqua immunditia mentis comedentium coinquinativa, et hoc sic quod nullo modo possint comedi absque culpa; aut quando ex hoc prebetur occasio scandali infirmis … ut ex propinquitate sui adventus magis timeat et citius ac fortius peniteat … “Et pugnabo cum illis in gladio oris mei”, id est per meas scripturas et per meos doctores gladium, id est verbum vivum spiritus mei, habentes illorum errores confundam et convincam cum auctoritatibus suis et tandem per meam iudiciariam sententiam condempnabo – creda / che vendetta di Dio non teme suppe.

Ruppe rima con suppe; se il verbo richiama la rumphea, la spada a doppio taglio con la quale Satana ha diviso la Chiesa (spada che però appartiene a Cristo vendicatore), il sostantivo allude al comedere idolis oblata, a offrire un sacrificio agli idoli. In entrambi i casi, si tratta di temi riferiti alla terza chiesa, quella operante nel tempo dei dottori che combatterono scismi et eresie. Beatrice, in figura di Cristo, sembra voler dire: ‘Se Satana ha diviso la Chiesa con la spada che non gli appartiene, coloro che sono responsabili di ogni male, antico o moderno che su di essi ridonda, sappiano che la vendetta divina, della quale è propria quella spada (cfr. Par. XXII, 16-18), non si ferma con sacrifici fatti agli idoli’. Essi sono appunto responsabili di ogni male presente: Beatrice, anche se parla del vaso-Chiesa rotto dal drago per gli scismi di Maometto e dei Greci, pensa soprattutto al trasferimento della sede romana ad Avignone (il carro tratto nella selva dal gigante).
Se suppe allude a un sacrificio offerto agli idoli, non può certo fare riferimento all’usanza fiorentina per la quale un omicidio era esente da vendetta se l’assassino riusciva a mangiare una zuppa entro nove giorni sulla tomba dell’ucciso, o alle “giubbe”, sorta di corazze di difesa, come il termine è stato variamente interpretato. Resta il significato di “suppa-offa”, nel senso di offerta, ma idolatrica. Gian Luca Potestà ha proposto che suppe sia una precisa allusione storica a quanto avvenuto nel corso del conclave di Perugia, poco prima dell’elezione di Clemente V (5 giugno 1305) [1]. Riprendendo un’interpretazione di Guido Mazzoni, che ha ricordato il costume dei giuramenti solenni in una parodia eucaristica già praticato alla corte francese prima della battaglia di Bouvines (1214), Potestà ritiene che la controversa parola faccia riferimento al pactum sceleris tra Filippo il Bello e l’arcivescovo di Bordeaux, Bertrand de Got, del quale parla Giovanni Villani (Nuova cronica, IX, 80): “Bertrand si offrì lasciandosi corrompere. In cambio delle ‘grazie’, si guadagnò l’elezione; l’accordo fu consacrato sull’altare, nella condivisione dell’eucaristia […] A Perugia si può quindi procedere all’elezione” [2]. Evocando le suppe, Dante avrebbe affermato “che tra Filippo e Bertrand era stato stipulato un accordo di mutuo interesse consacrato in un rito eucaristico (il pane intinto nel vino), compiuto guardando esclusivamente ai rispettivi vantaggi e in danno di Roma e della Chiesa romana” [3]. Se, nel contesto della grande parodia che la Commedia opera sulla Lectura di Olivi, suppe ha anche il significato di convivare con gli idoli come fecero gli Israeliti puniti da Mosè, allora l’abominevole parodia dell’Ultima Cena perpetrata da re e arcivescovo – “e udita insieme la messa, e giurata  in su l’altare credenza […] L’arcivescovo promise tutto per saramento in sul Corpus Domini […] e lo re giurò a.llui e promise di farlo eleggere papa”, come scrive Villani – viene assimilata da Beatrice, sul piano della storia della salvezza, all’idolatria. La simonia, per la quale Clemente V verrà a sostituire Bonifacio VIII nel foro della pietra nella terza bolgia, non è diversa dall’idolatria (Inf. XIX, 112-114). Il sarcasmo di Beatrice si appunta sull’atto sacrilego di ‘inzuppare’ il pane nel vino, suggellato da un giuramento per idolum, cioè falso. Il vero giuramento, che è asserzione di certa vendetta, lo dà lei stessa ai versi 40-41, parodiando il giurare dell’angelo dal volto solare che al suono della settima tromba non ci sarà più il tempo:

[LSA, cap. X, Ap 10, 5-7] Iuramentum hoc designat vehementem certitudinem et assertionem quod tempus huius seculi omnino finietur in tempore septime tube. […] Nota etiam quod ideo sub sexto statu iuratorie predicatur temporis brevitas et quasi finis, quia ex tunc singulariter inclarescet electis quod finis seculi instat et quod Dei opera sunt finali consumationi propinqua – ch’io veggio certamente, e però il narro, / a darne tempo già stelle propinque.

Da notare ancora che l’esegesi, nel trattare la proibizione di mangiare le carni offerte agli idoli, reca il tema dell’occasione di scandalo che è sviluppato nella nona bolgia, a Inf. XXVIII, 34-36, in una terzina numericamente identica (la 12a) a quella nella quale Beatrice fa riferimento alle “suppe” (Inf. XXVIII è una delle zone dell’Inferno nelle quali prevale la tematica del terzo stato).
Il vescovo di Pergamo viene dunque rimproverato per la sua negligenza nel riprendere i Nicolaiti, pur conoscendone le cattive azioni e i pestiferi insegnamenti. La sua però è una piccola colpa, come dimostra l’espressione limitata di Cristo: “Ho poco verso ti te”. Viene invitato a fare penitenza: “altrimenti”, se cioè sarai pentito meno di quanto devi, “verrò presto a te”, cioè contro di te (Ap 2, 16). Il “presto” indica l’imminenza dell’avvento, che deve indurlo a maggior timore e a più forte penitenza. “E combatterò contro di loro con la spada della mia bocca”: se non si pentiranno, il mio avvento correggerà te e punirà loro; con le Scritture e con i dottori che hanno il verbo vivo del mio spirito confonderò i loro errori, li convincerò con la loro autorità e li condannerò in giudizio.
L’esegesi offre soprattutto motivi allo scorcio di Purg. II (vv. 115-133), allorché Virgilio, Dante e la gente appena arrivata al purgatorio si fermano ad ascoltare il canto di Casella “sì contenti, / come a nessun toccasse altro la mente” (che corrisponde alla contaminazione della mente nel mangiare le carni offerte agli idoli). Il rimprovero di Catone disperde “quella masnada fresca”, che fugge verso il monte per purgarsi, come i colombi lasciano il cibo all’improvviso se sono presi da maggiore preoccupazione per cosa di cui hanno paura (il timore dell’imminente venuta di Cristo). Il partire dei due poeti non è meno rapido (“si in aliquo minus quam monui penitueris … veniam tibi … cito – né la nostra partita fu men tosta”). All’inizio del canto successivo, Virgilio appare “da sé stesso rimorso”, per la propria “dignitosa coscïenza e netta”: amaro morso per una piccola colpa (Purg. III, 7-9, corrisponde alla modesta colpa rimproverata al vescovo di Pergamo).

[1] Cfr. GIAN LUCA POTESTÀ, Dante in conclave. La Lettera ai cardinali, Milano 2021, pp. 96, 198.

[2] Ibid., pp. 168-176: 169.

[3] Ibid., p. 175.

Tab. II

[LSA, cap. II, Ap 2, 14-16 (Ia visio, IIIa ecclesia)] Ne tamen ex hoc credat se palpaturum vitia ipsorum quasi non habeat gladium ex parte utraque scindentem, ideo subdit (Ap 2, 14-15): “Sed habeo adversum te pauca, quoniam habes illic”, scilicet in Pergamo, “tenentes doctrinam Balaam, qui docebat filios Israel edere”, de sacrificio idolorum, “et fornicari; ita habes et tu tenentes doctrinam Nicholaitarum”.
Balaam per se non docuit predicta filios Israel, sed dando consilium regi Moab et Moabitis ut traherent filios Israel ad fornicandum cum filiabus seu feminis Moabitarum, ut sic per eas traherentur ad colendum idola eorum et ad edendum sacrificia eis oblata (cfr. Nm 25, 1-2; 31, 16).
Ex hoc patet quod doctrina Nicholai et Nicholaitarum docebat christianos et alios vacare comessationibus quorumcumque ciborum etiam idolis oblatorum, et passim fornicari cum omnibus mulieribus.
Sed numquid absque peccato poterant comedi carnes idolis oblate? Videtur enim quod sic secundum Apostolum, Ia ad Corinthios VIII° et X° (1 Cor 8, 4-12; 10, 23-31) et ad Romanos XIIII° (Rm 14, 14.20) et Ia ad Timotheum IIII° (1 Tm 4, 3-5).
Dicendum quod comedere idolis oblata est peccatum quando fit in veneratione idolorum, aut contra conscientiam, quamvis infirmam vel erroneam, quod ex hoc quod sunt oblata idolis consequatur aliqua immunditia mentis comedentium coinquinativa, et hoc sic quod nullo modo possint comedi absque culpa; aut quando ex hoc prebetur occasio scandali infirmis, aut quando ex esu talium reddit se horribilem et intolerabilem collegio abhominantium talem esum, sicut tunc conversi ex Iudeis abhominabantur non solum propter legis prohibitionem sed etiam propter contrariam consuetudinem.
Est etiam peccatum quando per statutum ecclesie seu prelatorum est esus illorum prohibitus quia vident imminere pericula cadendi in priores modos peccandi, et hoc modo fuit prohibitum in ecclesia primitiva, prout habetur Actuum XV°, ubi dicitur conversis ex gentibus: “Visum est Spiritui Sancto et nobis nichil ultra imponere vobis preterquam hec necessaria”, scilicet “ut abstineatis vos ab immolatis simulacrorum” et cetera (Ac 15, 28-29). Hoc autem preceptum credo quod perdurabat tempore quo Iohannes scripsit hec istis ecclesiis. Predictis autem circumstantiis exclusis non est peccatum.
Sed quare arguit hunc episcopum de peccato illorum? Ad hoc dicit Ricardus quod ideo quia ipsos viriliter non redarguebat, cum sciret eos male agere et pestifera docere.
Videtur etiam ideo argui quia ipsos a totali communione sue ecclesie non penitus repulerat, unde signanter dicit: “quoniam habes”. Huic tamen non dicit simpliciter: ‘habeo adversum te’, sed cum restrictione, scilicet “habeo pauca adversum te”, in quo innuitur de parva culpa potius quam de magna redargui.
“Similiter penitentiam age” (Ap 2, 16), sicut, supple, monui episcopum Ephesi quod penitentiam ageret. Non enim le “similiter” potest referri ad episcopum Smirne, quia ille de nullo est reprehensus ac per consequens nec monitus ut penitentiam ageret.
“Si quo minus”, id est si in aliquo minus quam monui penitueris, id est si aliter quam dixi egeris, “veniam tibi”, id est contra te, “cito”. “Cito” dicit, ut ex propinquitate sui adventus magis timeat et citius ac fortius peniteat.
“Et pugnabo cum illis in gladio oris mei”, id est per meas scripturas et per meos doctores gladium, id est verbum vivum spiritus mei, habentes illorum errores confundam et convincam cum auctoritatibus suis et tandem per meam iudiciariam sententiam condempnabo. Quasi dicat: per meum adventum te corrigam vel puniam illosque confundam, supple, nisi penitentiam egerint.
Sequentia exposui supra.

Inf. XXVIII, 34-36

E tutti li altri che tu vedi qui,
seminator di scandalo e di scisma
fuor vivi, e però son fessi così.    2, 12

Purg. XXXIII, 34-36

Sappi che ’l vaso che ’l serpente ruppe2, 12
fu e non è; ma chi n’ha colpa, creda
che vendetta di Dio non teme suppe.

Purg. II, 115-117, 124-133; III, 7-9

Lo mio maestro e io e quella gente
ch’eran con lui parevan sì contenti,
come a nessun toccasse altro la mente.

Come quando, cogliendo biado o loglio,
li colombi adunati a la pastura,
queti, sanza mostrar l’usato orgoglio,
se cosa appare ond’ elli abbian paura,
subitamente lasciano star l’esca,
perch’ assaliti son da maggior cura;
così vid’ io quella masnada fresca
lasciar lo canto, e fuggir ver’ la costa,
com’ om che va, né sa dove rïesca;
né la nostra partita fu men tosta.

El mi parea da sé stesso rimorso:
o dignitosa coscïenza e netta,
come t’è picciol fallo amaro morso!

Par. III, 1-6, 13-15

Quel sol che pria d’amor mi scaldò ’l petto,
di bella verità m’avea scoverto,
provando e riprovando, il dolce aspetto;
e io, per confessar corretto e certo
me stesso, tanto quanto si convenne
leva’ il capo a proferer più erto

tornan d’i nostri visi le postille
debili sì, che perla in bianca fronte
non vien men tosto a le nostre pupille

 

 

2.2. “ma tosto fier li fatti le Naiade”

Non sarà tutto tempo sanza reda / l’aguglia che lasciò le penne al carro, / per che divenne mostro e poscia preda (vv. 37-39). Il tema della propagazione della prole, erede del regno, attribuito a Cristo figlio di Dio vittorioso sull’Anticristo ad Ap 19, 16, percorre le parole che Beatrice nell’Eden premette alla profezia della prossima venuta di “un cinquecento diece e cinque”, il messo divino che ucciderà la Chiesa-prostituta e il gigante che con lei delinque, cioè il regno di Francia: è da notare la rima reda / preda come nell’episodio di Anteo (Inf. XXXI, 116/118), ma con valore negativo, riferito all’essere senza eredità e al rapimento operato dal gigante.

ch’io veggio certamente, e però il narro, / a darne tempo già stelle propinque, / secure d’ogn’ intoppo e d’ogne sbarro (vv. 40-42). Le parole di Beatrice sono la parodia di quanto l’angelo dal volto solare, ad Ap 10, 5-7 (terza visione, sesta tromba), afferma con giuramento circa la veemente certezza della fine, che si appropinqua, del tempo di questo secolo. L’imminenza del giudizio divino, che è “quasi presentialitas”, è pure proclamata a gran voce dal primo dei tre angeli ad Ap 14, 6-7 (quarta visione, sesta guerra). Lo stesso motivo, del “tempus … prope est”, della propinquità del tempo futuro e del giudizio, compare ad Ap 22, 10, ultimo capitolo del libro, dove viene ripreso il tema, proposto nel Titolo, delle cose che devono presto accadere. Ad Ap 22, 10 è però presente un altro tema sviluppato nel corso delle parole di Beatrice, cioè il comando di divulgare la dottrina profetica del libro in quanto certa, utile e necessaria agli eletti. A Giovanni viene pertanto detto di non mettere sotto sigillo le parole profetiche (“ne signaveris”), ma di rivelarle come sono scritte (“quod revelet ea prout hic sunt scripta”); a Dante la donna ordina di ‘segnare’ (nel senso di significare) ai vivi le parole “sì come da me son porte” (vv. 52-53).
Ad Ap 22, 10 si sottolinea la differenza tra quanto ingiunto a Giovanni ad Ap 10, 4, di sigillare le voci spirituali emesse dai sette tuoni, e quanto gli viene invece ora ordinato. La quarta spiegazione della differenza, proposta da Olivi, è che Giovanni in un primo tempo dovesse rivelare alcune cose in modo chiaro e altre sotto veli figurali, esponendo quanto conviene e non di più, mentre ora debba rivelare tutto con parole nude e senza l’ausilio di figure. È quanto Beatrice applica a sé stessa, combinando nel medesimo tempo i due atteggiamenti, allorché al termine del colloquio con Dante dichiara che d’ora in poi le sue parole “saranno nude … quanto converrassi / quelle scovrire a la tua vista rude” (Purg. XXXIII, 100-102), intendendo cioè che l’intelletto di Dante, non ancora allenato per una perfetta visione, necessita di un’esposizione delle verità in parte velata da figure (come avviene nella profezia del messo divino) e in parte espressa con parole chiare e nude. Chi parlerà senza veli e con chiarezza sarà Cacciaguida, nel chiosare “né per ambage … ma per chiare parole e con preciso / latin” le varie profezie fatte a Dante e nel rivelargli la fortuna che s’appressa (anche in questo caso, il tempo “sprona” verso il poeta; Par. XVII, 31-36, 106-108: chi parla con chiarezza e non per oscuri enigmi è l’angelo che ad Ap 18, 1-3 proclama a gran voce la caduta di Babilonia).
La terza spiegazione dei contrastanti ordini dati a Giovanni è di Gioacchino da Fiore, secondo il quale le voci spirituali emesse dai sette tuoni, che egli deve sigillare (Ap 10, 4), corrispondono agli arcani designati dal sudario che avvolse il capo di Cristo e che Pietro vide separato dalle altre bende; ciò che deve invece rendere palese si riferisce alle cose future che dovevano verificarsi ai suoi tempi. Il sudario non può non ricordare la Veronica che il pellegrino non si sazia di guardare fin che si mostra, come Dante ammira la vivace carità di san Bernardo (Par. XXXI, 103-111). In altra occasione, Virgilio ingiunge a Dante di chiudere il viso di fronte a un volto che sta per mostrarsi, e si tratta di Medusa che impietrisce (Inf. IX, 55-60). All’ordine di Virgilio fa seguito la celebre terzina con cui il poeta si appella ai lettori dagli “intelletti sani” perché guardino alla dottrina nascosta sotto il velo dei “versi strani”: vi viene sviluppata la tematica del giurare dell’angelo ad Ap 10, 7 circa il prossimo compimento del mistero di Dio, cioè dei giudizi preannunciati sotto veli mistici (Inf. IX, 61-63). Poiché il medesimo angelo ruggisce come un leone contro la resistenza e la moltitudine degli ‘induriti’ (Ap 10, 3), tema che transita nell’indignazione del messo celeste di fronte alla resistenza dei diavoli dentro le mura della Città di Dite, è plausibile che Medusa designi proprio la durezza impenetrabile di chi, reso edotto da precedenti esperienze, persevera nell’errore. Una volta aperto il libro, si dice ad Ap 10, 3, non rimane più alcun velo di scusa. Il tema del volgersi indietro è presente sia nell’episodio del “Gorgón” sia nell’apertura della porta del purgatorio (anch’essa ruggente), nel primo caso come obbligo di chiudere lo sguardo ai carnali, ai nemici, agli erranti; nel secondo come divieto di tornare ingiunto a chi viene aperto un cammino di perfezione.

Tab. III

Inf. IX, 55-57

Volgiti ’n dietro e tien lo viso chiuso;
ché se ’l Gorgón si mostra e tu ’l vedessi,
nulla sarebbe di tornar mai suso.

Par. XXXI, 103-108

Qual è colui che forse di Croazia
viene a veder la Veronica nostra,
che per l’antica fame non sen sazia,
ma dice nel pensier, fin che si mostra:
‘Segnor mio Iesù Cristo, Dio verace,
or fu sì fatta la sembianza vostra?’

[LSA, cap. XXII, Ap 22, 10 (finalis conclusio totius libri)] Sextum est <iussio> de propalando doctrinam propheticam huius libri, tamquam scilicet utillimam et necessariam electis et tamquam certam et gloriosam et Christum et eius opera clarificantem et magnificantem. Unde subdit (Ap 22, 10): “Et dixit michi”, scilicet angelus: “Ne signaveris”, id est non occultes nec sub sigillo claudas, “verba prophetie huius libri”, subditque huius duplicem rationem.
Prima est ex propinquitate futurorum temporum et iudiciorum et operum de quibus loquitur, propter quod oportet eam cito sciri, unde subdit: “tempus enim prope est”. […]
Queritur quomodo hic precipit ei quod non signet verba prophetie huius, cum supra X° (Ap 10, 4) sibi preceptum fuerit ut signet ea que locuta sunt septem tonitrua. Ad hoc est quadruplex responsio.
Prima est Gregorii, Moralium IX° dicentis quod pars anterior precipitur signari seu claudi, finis vero prohibetur, quia quod in initiis ecclesie fuit occultandum est in eius fine monstrandum*.
Secunda est Ricardi, dicentis quod verba sacre scripture sunt secundum aliquid signanda et secundum aliquid non. Sunt enim occultanda inimicis et revelanda amicis*.
Tertia est Ioachim, dicentis quod illud de septem tonitruis signandis seu occultandis intelligitur de quibusdam archanis designatis in sudario quo Christi caput fuit involutum et quod Petrus vidit separatum a reliquis linteaminibus (cfr. Jo 20, 6-7); istud enim intelligitur de hiis que futura erant in genere humano in temporibus suis. Vel, secundum eum, illud refertur ad tempus sexti angeli, istud ad principium septimi, secundum illud Danielis XII° (Dn 12, 9): “Clausi sunt signatique sermones usque ad tempus statutum” *.
Quarta est quod supra precipit ut non revelet omnia omnino nude et absque figuris, hic vero quod revelet ea prout hic sunt scripta, quedam scilicet proprie et clare et quedam sub velaminibus figurarum, et deinde quod exponantur prout et quantum expedit et non plus.

[LSA, cap. XVIII, Ap 18, 1 (VIa visio)] “Et terra illuminata est a gloria eius”, quia non in obscuro enigmate, sed sicut in claritate solis annuntiabit hominibus veritatem.

* S. Gregorii Magni Moralia in Iob, libri I-X, cura et studio M. Adriaen, Turnholti 1979 (Corpus Christianorum. Series Latina, CXLIII), lib. IX, cap. XI, 88-100 (n. 15), p. 467 (= PL 75, col. 867 C-D).

* In Ap VII, viii (PL 196, col. 879 C-D).

* Expositio, pars VIII, f. 222vb.

Purg. XXXIII, 40-41, 52-54, 100-102

ch’io veggio certamente, e però il narro,
a darne tempo già stelle propinque

Tu nota; e sì come da me son porte,
così queste parole segna a’ vivi
del viver ch’è un correre a la morte.

Veramente oramai saranno nude
le mie parole, quanto converrassi
quelle scovrire a la tua vista rude.

Par. XXXIII, 46-48

E io ch’al fine di tutt’ i disii
appropinquava, sì com’ io dovea,
l’ardor del desiderio in me finii.

Par. XVII, 31-36, 106-108

per ambage, in che la gente folle
già s’inviscava pria che fosse anciso
l’Agnel di Dio che le peccata tolle,
ma per chiare parole e con preciso
latin rispuose quello amor paterno,
chiuso e parvente del suo proprio riso

Ben veggio, padre mio, sì come sprona
lo tempo verso me, per colpo darmi

tal, ch’è più grave a chi più s’abbandona

[LSA, cap. X, Ap 10, 5-7 (IIIa visio, VIa tuba)] Iuramentum hoc designat vehementem certitudinem et assertionem quod tempus huius seculi omnino finietur in tempore septime tube. […]
Nota etiam quod ideo sub sexto statu iuratorie predicatur temporis brevitas et quasi finis, quia ex tunc singulariter inclarescet electis quod finis seculi instat et quod Dei opera sunt finali consumationi propinqua.

[LSA, cap. XIV, Ap 14, 6-7 (IVa visio)] Secundo in omnibus operationibus et intentionibus nostris eius honorem et gloriam prosequi et intendere, unde subdit: “et date illi honorem”. Ubi et subditur secunda ratio motiva, scilicet imminens vicinitas et quasi presentialitas iudicii eius, qui in quantum malos dampnabit est super omnia metuendus, in quantum vero bonos remunerabit est super omnia diligendus et colendus. Licet autem hoc iudicium sit semper timendum et predicandum, precipue tamen tunc per maiorem et evidentiorem propinquitatem ipsius.

E forse che la mia narrazion buia, / qual Temi e Sfinge, men ti persuade, / perch’ a lor modo lo ’ntelletto attuia; / ma tosto fier li fatti le Naiade, / che solveranno questo enigma forte / sanza danno di pecore o di biade (vv. 46-51). Beatrice definisce la sua profezia, relativa all’un cinquecento diece e cinque”, “narrazion buia” ed “enigma forte” (Purg. XXXIII, 46-51): se non è del tutto comprensibile come non lo erano i responsi di Temi, la dea della giustizia, e gli indovinelli della Sfinge, “perch’ a lor modo lo ’ntelletto attuia”, verrà tuttavia presto spiegata dai fatti (“ma tosto fier li fatti le Naiade”). Alcuni di questi motivi sono presenti ad Ap 5, 1-2 (nella parte ‘radicale’ della seconda visione), dove è Cristo a sciogliere gli enigmatici sigilli dell’Antico Testamento (l’aggettivo “forte” è riferito all’angelo che domanda chi sia capace di aprire il libro e di sciogliere i sette sigilli che lo chiudono). Va pure tenuto presente Ap 18, 1, dove l’angelo proclama la caduta di Babylon nella chiarezza del sole e non in un oscuro enigma.
Nel Notabile IV del prologo della Lectura, posta la questione del perché tutte le visioni del libro, a differenza della prima relativa alle sette chiese d’Asia, che è letterale ed aperta, descrivano i sette stati generali della Chiesa soprattutto per mezzo di figure estranee e oscure, si dice che Giovanni, come fecero Isaia, Geremia e gli altri profeti, predice anche eventi che debbono avvenire nel proprio tempo e che verranno verificati dall’evidenza dei fatti, perché così possano essere più credibili le profezie che si riferiscono a tempi futuri. Il verso “ma tosto fier li fatti le Naiade”, memore di un testo ovidiano non genuino (Met. VII, 759-763), è parodia dell’espressione “predixerunt aliqua suis temporibus per facti evidentiam verificata”; pertanto la lezione li fatti è indiscutibile rispetto a varianti come le fate, li fati, le fata, nel senso di eventi predestinati.
Ad Ap 17, 14 si afferma che i dieci re, per mezzo dei quali verrà distrutta la Chiesa meretrice, combatteranno contro l’Agnello, ma da questo saranno vinti. La distruzione della nuova Babilonia non si verificherà con vituperio di Cristo e dei suoi eletti e fedeli, ma anzi con loro gloria. Così, allorché “un cinquecento diece e cinque” si rivelerà, ciò sarà “sanza danno di pecore o di biade”, a differenza di quanto capitò ai Tebani i quali, dopo la soluzione dell’enigma della Sfinge, videro devastate greggi e campagne dalla fiera inviata da Temi. Per le “biade” che non verranno danneggiate il rinvio è ad Ap 9, 4 (terza visione, quinta tromba), dove viene proibito alle locuste di danneggiare il fieno e le altre erbe verdeggianti, cioè di ledere i semplici che conservano, in modo onesto e pio, l’umiltà e il verde della fede. A costoro non noceranno le tentazioni e le tribolazioni patite, saranno anzi di giovamento nell’esercizio delle virtù, ne acquisteranno meriti e il premio finale. In modo analogo, ad Ap 2, 10, alla chiesa dei martiri (Smirne) è detto di non temere le future passioni, che non si risolveranno a suo danno ma, data la protezione di Cristo, serviranno piuttosto come prova per un maggior merito e un premio più trionfale.
Nota Olivi che nel testo sacro la guerra dei dieci re contro Cristo viene prima (Ap 17, 14: “hii cum agno pugnabunt et agnus vincet illos”) della distruzione di Babylon per opera degli stessi (Ap 17, 16: “hii odient fornicariam et desolatam facient illam”), per quanto i due eventi siano da invertire nel tempo, se non da considerare contemporanei. Ciò proprio per sottolineare subito il trionfo di Cristo sui suoi nemici distruttori di Babylon.

Tab. IV

[LSA, prologus, Notabile IV] Quartum est quare prima visio litteraliter et aperte tangit septem ecclesias Asie sibi contemporaneas, allegorice vero describit septem generales status ecclesie; relique vero visiones principaliter describunt septem generales status ecclesie, non tamen aperte sed ut plurimum sub figuris extraneis et obscuris. […]
Quantum ad quartum, quare scilicet prima visio litteraliter et aperte tangit septem ecclesias Asie sibi contemporaneas, relique vero describunt septem status ecclesie generales et hoc potius obscure quam clare. Datur ad presens de primo triplex ratio.
Prima est quia ad hoc ut prophetia eorum que post longum tempus sunt ventura sit credibilis et fide digna, expedit aliqua prophetari spectantia ad tempus prophete et sue prophetie, in quibus populi prophete convicini et contemporanei experiantur et probent ipsum esse verum prophetam. Et hinc est quod Isaias et Ieremias et ceteri prophete Veteris Testamenti predixerunt aliqua suis temporibus per facti evidentiam verificata, ex quibus reliqua suis temporibus non ventura sunt facta fide digna. Et consimiliter Iohannes, longe absens a septem ecclesiis Asie, revelat eis bona ipsarum et mala, de quibus constabat eisdem quod illa scire non poterat nisi per lumen propheticum, ex quo tam ipsis quam ceteris reliqua fide digniora fuerunt.
Secunda est ad docendum quod propheticus prelatus et speculator prius et specialius debet regere sibi commissos quam ceteros.
Tertia est quia iste liber debuit esse sic clausus quod solis introducendis a Deo esset pervius. Sollempnia enim opera temporum futurorum non expedit clare revelari antequam fiant, et tamen oportet ibi esse aliquas claves et hostia per que idonei possint suo tempore ad illa intrare. Quia ergo hic occulte describuntur septem status ecclesiastici a Christo usque ad finem mundi futuri, satis decenter prima visio fuit ad litteram de septem ecclesiis Asie aptis ad figuradum septem status ecclesie generales, ut ex hoc quod est de septem ecclesiis esset clavis et signum quod liber iste de septem statibus ecclesie agit (et hoc Iohannes satis aperit cum unicuique ecclesiarum loquendo insinuat se omnibus generaliter loqui, dicendo: “Qui habet aurem audiat quid Spiritus dicat ecclesiis”, iuxta quod Christus dicit: “Quod vobis dico omnibus dico: vigilate” [Mr 13, 37]); ex hoc vero quod est de specialibus ecclesiis Asie clauderet prefatum generalem intellectum.
De secundo vero sunt multe rationes alibi recitate et ad presens datur ratio triplex.
Prima est ne si proprietates futurorum operum et statuum clare predicerentur, impedirentur certamina unicuique septem statuum occursura.
Secunda est ut digni a gratia et ab intelligentia divinorum statuum et donorum excludi per scripturarum velamina excludantur.
Tertia est ut Dei gloriosa opera et ipsorum archana ex hoc in maiori estimatione et reverentia habeantur, et ut introitus in eorum intelligentiam plenius soli divine gratie ascribantur.

[LSA, cap. V, Ap 5, 1-2 (radix IIe visionis)] Quarta causa seu ratio septuple signationis libri sumitur ex septem statibus israelitice plebis et eorum preliis sub figurali clausura presignantibus septem status ecclesiasticos et septem ipsorum certamina, quorum a Christo formatio et exhibitio aperit figuralem concordiam et significantiam septem statuum et preliorum Israel per que, tamquam per sua sigilla seu signacula, allegorice et enigmatice figurabantur. Predictos autem Israel status, cum suis preliis ac concordiis et significantiis, prenotavi in principio in XIII° notabili, in quarta scilicet parte ipsius. […] Quia vero nullus potuit status istos condere, aut eorum formationem plenarie promereri, aut Dei prescientiam propriis viribus scire et aliis revelare nisi solus Filius Dei, unde de ultimo dicit Matthei XI°: “Nemo novit Filium, nisi Pater; nec Patrem quis novit, nisi Filius et cui Filius voluerit revelare” (Mt 11, 27), ideo ad hoc monstrandum subditur (Ap 5, 2): “Et vidi angelum fortem predicantem voce magna: Quis est dignus aperire librum et solvere septem signacula eius?”.

Purg. XXXIII, 46-51

E forse che la mia narrazion buia,
qual Temi e Sfinge, men ti persuade,
perch’ a lor modo lo ’ntelletto attuia;
ma tosto fier li fatti le Naiade,
che solveranno questo enigma forte
sanza danno di pecore o di biade.

Par. XVII, 136-142

Però ti son mostrate in queste rote,
nel monte e ne la valle dolorosa
pur l’anime che son di fama note,
che l’animo di quel ch’ode, non posa
né ferma fede per essempro ch’aia
la sua radice incognita e ascosa,
né per altro argomento che non paia.

Inf. IV, 110

per sette porte intrai con questi savi

[LSA, cap. XVIII, Ap 18, 1 (VIa visio)] “Et terra illuminata est a gloria eius”, quia non in obscuro enigmate, sed sicut in claritate solis annuntiabit hominibus veritatem.

Purg. XI, 139-142

Più non dirò, e scuro so che parlo;
ma poco tempo andrà, che ’ tuoi vicini
faranno sì che tu potrai chiosarlo.
Quest’ opera li tolse quei confini.

 

[LSA, cap. IX, Ap 9, 4 (IIIa visio, Va tuba)] Deinde de cohibitione subdit: “et preceptum est illis ne lederent fenum terre neque omn<e> viride neque omnem arborem, nisi tantum homines, qui non habent signum Dei in frontibus suis” (Ap 9, 4). Per “fenum” et per ceteras herbas virentes designantur simplices, humilitatem et virorem fidei et vite honeste et pie servantes; per “arbores” vero perfectos et solidiores facientes magnos fructus. Non permittit ergo Deus istos ledi, nisi ipsi prius per pravum consensum se ipsos lederent et reprobarent. Quamdiu autem in sua bonitate permanendo illis non consentiunt, tota temptatio et tribulatio quam ab illis patiuntur proficit eis ad meritum et premium et ad virtuosum exercitium, et ideo non nocet eis, immo per accidens seu materialiter prodest.

[LSA, cap. XVII, Ap 17, 14; VIa visio] Nota quod duplici ex causa primo locutus est de pugna quam facient contra Christi electos quam de pugna quam facient contra meretricem, quamvis vel utramque simul faciant vel istam primo dictam faciant postremo. Prima causa est ad monstrandum quod destructio meretricantis ecclesie non erit in obprobrium Christi et suorum electorum, immo in gloriam eius, quia ipse in suis electis triumphabit de illis qui ipsam destruent. Et ideo primo voluit narrare Christi triumphum quam meretricis casum.

3. “Un cinquecento diece e cinque”

3.1. Il “numero del nome”, in lettere: DVX

Una delle spiegazioni date del nome derivato dal numero con cui Beatrice indica il messo di Dio – “cinquecento”, “diece” e “cinque”, cifre corrispondenti alle lettere latine D, X, V (Purg. XXXIII, 43-45) – è che il DVX, parola che si ottiene invertendo l’ordine delle lettere, abbia riferimento con la profezia del novus dux contenuta nel quarto libro della Concordia di Gioacchino da Fiore. Nella quarantaduesima generazione da Giacobbe, Zorobabele, il figlio di Salatiele, salì da Babilonia a Gerusalemme per ricostruirvi il Tempio distrutto. Nella quarantaduesima generazione dall’Incarnazione, dopo la tribolazione, l’universale pontefice della nuova Gerusalemme salirà da Babilonia “quasi novus dux”, in figura dell’angelo dell’Apocalisse che sale da oriente (Ap 7, 2). Salirà non con l’aiuto dei piedi ma poiché gli sarà data piena libertà di innovare la religione cristiana e di predicare il verbo di Dio quando già il Dio degli eserciti incomincerà a regnare su tutta la terra. La data in cui Zorobabele finì il Tempio fu il sesto anno del regno di Dario, il 515 a.C. In tal modo Dante avrebbe trasformato il nuovo Zorobabele, per il quale Gioacchino pensava a un uomo spirituale, nel messo di Dio indicato da Beatrice come erede dell’Aquila. La tesi fu avanzata nel 1984 da Marjorie Reeves al II Congresso internazionale di studi gioachimiti, dove dimostrò come i sistemi di datazione correnti ai tempi di Dante conducano in genere al 519, il secondo anno del regno di Dario in cui fu iniziata la ricostruzione del Tempio, durata quattro anni, e completata appunto nel 515, sesto anno di regno [1]. Così come proposta dalla Reeves, la tesi sembra confermata dal confronto con la Lectura, perché il passo del quarto libro della Concordia è citato nell’esegesi dell’angelo del sesto sigillo che sale da oriente (Ap 7, 2). Subito precedente la citazione di Gioacchino c’è un riferimento a Daniele 12, 1-2: “In quel tempo sorgerà Michele, il gran principe, e sarà salvato il tuo popolo … Molti di quelli che dormono nella polvere della terra si risveglieranno”. L’angelo del sesto sigillo viene identificato da Olivi in Francesco, alter Christus e rinnovatore della sua evangelica legge e vita, il quale risorgerà per confortare ed esortare il proprio Ordine nel momento in cui la Regola sarà crocifissa dai seguaci della Chiesa carnale [2].
La Lectura, pertanto, e una cronologia come quella di Eusebio (che Dante mostra di conoscere altrove, come nei calcoli su Adamo fatti nello stesso Purg. XXXIII, 61-63 e in Par. XXVI, 118-123) sarebbero di per sé sufficienti a spiegare la misteriosa profezia. A questo si aggiungano altri punti della Lectura rilevanti. Ad Ap 6, 12, trattando dell’apertura del sesto sigillo (che avviene in quattro momenti successivi), Olivi reca la tesi secondo la quale i settanta anni di cattività babilonese possono essere fatti terminare nel secondo anno del regno di Dario, il 519 [3]. Zorobabele è figura precursoria di Cristo nel Notabile XII del prologo, dove si cita ancora Gioacchino [4]. Ad Ap 11, 3, dove si tratta del mistero binario ripetuto nei due testimoni Elia e Enoch, si dice che Zorobabele e Giosuè (il figlio di Iozadàk, 1 Esdra 5, 2) furono due “duci principali” nella ricostruzione, come Giovanni Battista e Cristo all’inizio della nuova legge e Barnaba e Paolo nella missione presso le genti [5].

3.2. Il “numero del nome”, in lettere: IVDEX

L’interpretazione del messo divino come “dux”, inevitabile controfigura di un imperatore, non esclude un’altra lettura delle parole di Beatrice che trasporti la profezia su un piano di “idea storica viva”, per usare un’espressione di Bruno Nardi, liberandola dalla connessione con un personaggio contingente. Nell’Apocalisse esiste soltanto un ‘numero di un nome’ secondo il modo pronunciato da Beatrice, ed è quello della bestia, cioè il DCLXVI (“sescenti sexaginta sex”) indicato ad Ap 13, 18. È difficile sottrarsi al confronto con tale numero [6], visto che dopo la sua spiegazione Olivi riporta l’opinione di coloro i quali ritenevano che l’Anticristo mistico sarebbe venuto dal seme di Federico II e avrebbe vinto il regno di Francia, esegesi ‘torta’ da Dante al fine esattamente opposto nel parlare di Farinata e di Brunetto Latini.
In greco i numeri si indicano per mezzo delle lettere dell’alfabeto. Il numero di un nome è il totale delle lettere. Esistono solo tre nomi greci corrispondenti al DCLXVI: Antemos (“contrarius”), Arnoyme, Teitan [7]. Il nome latino è “diclvx”, scomponendo il numero della bestia in sei numeri corrispondenti a lettere: D (cinquecento), I (uno), C (cento), L (cinquanta), V (cinque), X (dieci). Se si sottraggono a “DICLVX” C e L, si ottiene DIVX che, con la congiunzione e, forma anagrammato IDXeV: “un cinquecento diece e cinque”. Il numero del nome, in questo caso, utilizzando l’articolo un (che è anche numero) e la congiunzione e, indicherebbe IVDEX, ed è nome adatto a colui che ucciderà la prostituta Babylon, già proposto da Gabriele Rossetti [8]. La sesta visione dell’Apocalisse riguarda appunto il giudizio e la condanna della Chiesa carnale, nuova Babilonia.
CL, che si è sottratto al numero della bestia, ha un suo significato, come spiegato ad Ap 9, 5-6 (quinta tromba): si tratta degli ultimi cinque mesi (ovvero di CL anni, assumendo i giorni come anni, o ancora, secondo alcuni, di cinque anni) nei quali infierirà la piaga del fumo e delle locuste e che concluderà il quinto stato, quando la “laxatio” della Chiesa raggiungerà livelli intollerabili. In ogni caso, i cinque mesi stanno ad indicare che la tribolazione durerà poco tempo, e la sottrazione del CL dal numero della bestia può significare che la sua fine è vicina. Olivi reca anche l’esempio degli Israeliti i quali, assediati in Betulia da Oloferne, decisero di attendere per cinque giorni l’aiuto divino dopo i quali si sarebbero consegnati in mano nemica. Al termine dei cinque giorni arrivò a loro Giuditta (Giuditta 7, 23-25) [9]. Si può anche ricondurre la “fuia” (ladra), come viene definita da Beatrice la meretrice che verrà uccisa insieme al gigante dal messo divino, ad Ap 3, 3 (quinta chiesa), passo dove “fur” è strettamente connesso con “iudicium”, per cui si intende che il giudizio di Cristo all’inizio del sesto stato sarà occulto e inopinato come l’arrivo di un ladro. Poiché, inoltre, Temi, modello di Beatrice nel profetare, è la dea ovidiana che ascolta le giuste preghiere affinché ripari il danno recato dal diluvio al genere umano (cfr. Met. I, 377 sgg.), si può ritenere che DVX e IVDEX siano almeno ex aequo ricavabili dalle parole di Beatrice [10].

Tab. V

[LSA, cap. XIII, Ap 13, 18 (IVa visio, VIum prelium)] Ut autem cognitioni huius numeri nos faciat viciniores, ipsum nobis evidenter manifestat dicens: “Et numerus eius est sescenti sexaginta sex”.
Ricardus dicit quod sancti doctores dicunt quod cum liber iste grece sit editus, et numerus iste secundum Grecos querendus, apud quos omnes littere aliquem numerum significant. Scioli enim in greco dicunt quod Greci habent viginti quattuor litteras et ultra hoc tres figuras, et sic habent viginti septem figuras. Quarum prime novem, secundum suum ordinem, representant digitum suum, id est prima unum, secunda duos et sic de aliis. Alie vero novem representant articulum a decem et supra, secundum ordinem suum, id est prima istarum novem significat decem, et secunda viginti et tertia triginta et sic de aliis. Ultime autem novem representant articulum a centum et supra, secundum ordinem suum, id est prima significat centum, secunda ducentos, tertia trecentos et sic de aliis. Igitur nomen eius in greco <est> Antemos, qui interpretatur contrarius. In quo nomine a significat i, n l, t ccc, e v, m xl, o lxx, s cc, quorum omnium est summa dclxvi.
Sunt etiam in greco alia duo nomina numeri huius, scilicet Arnoyme, et tertium est T<eit>an. In secundo enim a significat i, r c, n l, o lxx, y cccc, m xl, e v. In tertio autem significat t ccc, e v, i x, t ccc, a i, n l.
In latino autem nomen huius numeri est ‘diclvx’. Nam apud nos significat d QUINGENTOS, i UNUM, c centum, l quinquaginta, v QUINQUE, x DECEM.

A   1                A    1                       T   300

N   50              R    100                 E   5

T   300            N    50                    I   10

E   5                O    70                      T   300

M  40              Y    400                    A   1

O   70              M    40                     N   50

S    200            E     5

Purg. XXXIII, 37-45

Non sarà tutto tempo sanza reda
l’aguglia che lasciò le penne al carro,
per che divenne mostro e poscia preda;
ch’io veggio certamente, e però il narro,
a darne tempo già stelle propinque,
secure d’ogn’ intoppo e d’ogne sbarro,
nel quale un cinquecento diece e cinque,
messo di Dio, anciderà la fuia
con quel gigante che con lei delinque.

Inf. IX, 7-9, 85-87

“Pur a noi converrà vincer la punga”,
cominciò el, “se non  … Tal ne s’offerse.
Oh quanto tarda a me ch’altri qui giunga!”.

Ben m’accorsi ch’elli era da ciel messo,
e volsimi al maestro; e quei fé segno
ch’i’ stessi queto ed inchinassi ad esso.

D  I  C  L  V  X

666 (numerus nominis bestie)
150 (quinque menses, 9, 5-6)

Inf. XXI, 112-114

Ier, più oltre cinqu’ ore che quest’ otta,
mille dugento con sessanta sei
 anni compié che qui la via fu rotta.

[LSA, cap. IX, Ap 9, 5-6 (IIIa visio, Va tuba)] Quinto describit gravitatem doloris predictorum lesuram consequentis et concomitantis, unde subdit: (Ap 9, 5) “sed ut cruciarent mensibus quinque, et cruciatus eorum ut cruciatus scorpii, cum percutit hominem. (Ap 9, 6) Et in diebus illis querent homines mortem et non invenient eam et desiderabunt mori, et fugiet mors ab illis”. Per menses quinque secundum quosdam designantur quinque tricenarii dierum, sumendo diem pro anno, id est centum quinquaginta anni quibus, ut dicunt, plaga huius fumi et istarum locustarum erat circa finem quinti status duratura. Ioachim tamen dicit hoc de plaga Manicheorum, quamvis non assertorie. […]
Ceteros vero hinc inde vacillantes suis venenatis aculeis cruciabunt, quia per hoc in tantam perplexitatem incident quod preeligerent mori. […]
Quia vero eorum gravis et ultima ad nocendum potestas non est nisi per quinque menses, id est per breve tempus, ideo Apostolus subdit (2 Tm, 3, 9): “sed ultra non proficient, insipientia enim illorum manifesta erit omnibus, sicut illorum fuit”.
Forte per quinque menses designantur quinque menses ultimi illorum trium annorum et dimidii quibus hec temptatio in suo fine creditur duratura, in ultimis vero quinque mensibus usque ad summum sevitura, iuxta quod in sex vel quinque ultimis mensibus Christi fuit acerrima persecutio eius, scilicet a festo cenophegie seu tabernaculorum usque ad pascha quod fuit tunc octavo halendas aprilis. Ex tunc enim, prout Iohannis VII° dicitur, querebant eum Iudei interficere, propter quod noleb<at> in Iudeam ambulare (Jo 7,  1).
Vel per quinque menses designantur quinque anni, ut annus et dimidius precurrens tres annos et dimidium habeat pugnam paratoriam ad illam que ad tres et dimidium spectat; videnturque prefigurari per quinque dies quibus in tribulatione Holofern<is> Israelite, qui erant in <Betulia>, decreverunt Dei auxilium expectandum sin autem ex tunc se traderent Holoferni, prout dicitur Iudith VII° (Jdt 7, 23-25). Post illos autem quinque dies, Iudith occidit Holofernem et liberati sunt Israelite. Nam post primum diem illorum quinque, ivit Iudith ad Holofernem; quarto autem die adventus sui ad eum cenavit cum eo, prout dicitur capitulo XII° (Jdt 12, 10ss.); deinde in ipsa nocte occidit eum.

Tab. VI

[LSA, cap. VII, Ap  7, 2 (IIa visio, apertio VIi sigilli)] Nec dissonat hoc ab eo quod infra de duobus testibus a bestia occidendis dicitur, quod post tres dies et dimidium resurgent (Ap 11, 11), aut ab eo quod Danielis XI°, ubi post casum Antichristi de conversione omnis Israel agitur, dicitur: “In tempore illo consurget Michael princeps magnus, et salvabitur populus tuus, omnis” et cetera, “et multi de hiis qui dormiunt in terre pulvere evigilabunt” et cetera (cfr. Dn 12, 1-2). Item Ioachim, libro IIII° Concordie, ubi agit de quadragesima secunda generatione, dicit quod post eius tribulationem ascendet universalis pontifex nove Iherusalem quasi novus dux de Babilone, in cuius typo scriptum est in Apocalipsi: “Vidi angelum ascendentem” et cetera. Ascendet autem non gressu pedum, sed quia dabitur ei plena libertas ad innovandum christianam religionem et predicandum verbum Dei, iam incipiente regnare Domino exercituum super omnem terram.

Purg. XXXIII, 37-45

Non sarà tutto tempo sanza reda
l’aguglia che lasciò le penne al carro,
per che divenne mostro e poscia preda;
ch’io veggio certamente, e però il narro,
a darne tempo già stelle propinque,
secure d’ogn’ intoppo e d’ogne sbarro,
nel quale un cinquecento diece e cinque,
messo di Dio, anciderà la fuia
con quel gigante che con lei delinque.

D   X   V                  D  V  X

[LSA, cap. III, Ap 3, 3-4 (Ia visio, Va ecclesia)] Deinde comminatur eidem iudicium sibi occulte et inopinate superventurum si non se correxerit, unde subdit: Si ergo non vigilaveris, veniam ad te tamquam fur”, qui scilicet venit latenter et ex improviso ut bona auferat et possessorem occidat. Unde subdit: “et horam nescies qua veniam ad te”. Iustum enim est ut qui se ipsum per negligentiam et torporem nescit, nesciat horam iudicii sui et exterminii. Talis etiam propter suas tenebras non videt lucem, ac erronee credit et optat se diu in prosperitate victurum et Dei iudicium diu esse tardandum, et etiam spe presumptuosa sperat se esse finaliter salvandum, propter quod Ia ad Thessalonicenses V° dicit Apostolus quod “dies Domini veniet in nocte sicut fur. Cum enim dixerint: pax et securitas, tunc superveniet eis repentinus interitus” (1 Th 5, 2-3). Quibus autem, scilicet sanctis, et quare non veniet sicut fur ostendit subdens: “Vos autem, fratres, non estis in tenebris, ut vos dies illa tamquam fur comprehendat; omnes enim vos estis filii lucis et diei. Igitur non dormiamus sicut et ceteri, sed vigilemus et sobrii simus. Qui enim dormiunt nocte dormiunt” et cetera (ibid., 5, 4-7). Nota quod correspondenter prefigurat hic occultum Christi adventum et iudicium in fine quinti status et in initio sexti fiendum, prout infra in apertione sexti signaculi explicatur.

[LSA, cap. IX, Ap 9, 5-6 (IIIa visio, Va tuba)] Vel per quinque menses designantur quinque anni, ut annus et dimidius precurrens tres annos et dimidium habeat pugnam paratoriam ad illam que ad tres et dimidium spectat; videnturque prefigurari per quinque dies quibus in tribulatione Holofern<is> Israelite, qui erant in <Betulia>, decreverunt Dei auxilium expectandum sin autem ex tunc se traderent Holoferni, prout dicitur Iudith VII° (Jdt 7, 23-25). Post illos autem quinque dies, Iudith occidit Holofernem et liberati sunt Israelite. Nam post primum diem illorum quinque, ivit Iudith ad Holofernem; quarto autem die adventus sui ad eum cenavit cum eo, prout dicitur capitulo XII° (Jdt 12, 10ss.); deinde in ipsa nocte occidit eum.

Purg. XXXIII, 37-45

Non sarà tutto tempo sanza reda
l’aguglia che lasciò le penne al carro,
per che divenne mostro e poscia preda;
ch’io veggio certamente, e però il narro,
a darne tempo già stelle propinque,
secure d’ogn’ intoppo e d’ogne sbarro,
nel quale un cinquecento diece e cinque,
messo di Dio, anciderà la fuia
con quel gigante che con lei delinque.

I   D   X   E   V        I     V    D    E    X

Nella descrizione della bestia che ascende dal mare, posta all’inizio del capitolo XIII (Ap 13, 1), si dice che essa ha sette teste e dieci corna, e sulle sue teste nomi di blasfemia. Olivi spiega trattarsi di coloro che si gloriano nel bestemmiare Cristo e i suoi, e in questo sono più famosi degli altri: il nome designa infatti l’essere noto e la fama, lo stare sul capo significa la gloria. Sono motivi recitati in Inf. XXXII, 85-99, 106 da Bocca degli Abati, il traditore di Montaperti bestemmiante e renitente a dare il proprio nome al poeta perché gli dia fama mettendolo “tra l’altre note”. Più avanti si dice che alla bestia (alla gente bestiale) è data la bocca per bestemmiare (Ap 13, 5-6). Alla fine del capitolo (Ap 13, 18), viene spiegato il 666, il “numero del nome” della bestia, che in greco è “Antemos”, cioè contrario. E Bocca brama il contrario della fama e apostrofa Dante come colui che va per l’Antenora, luogo che ha un significato storico-letterale preciso (dalla leggenda medievale della proditoria consegna del Palladio e dell’apertura del cavallo da parte del troiano Antenore) ma consonante con il nome dell’Anticristo costruito sul numero della bestia. L’Anticristo viene d’altronde interpretato come apostata, ed è questa una parte ben assegnabile al malvagio traditore immerso nel ghiaccio di Cocito.
Lo stesso tema dell’essere nominati e famosi si applica in tutt’altra situazione, allorché Stazio racconta della sua fama di poeta coronato di mirto (Purg. XXI, 85-91). E Stazio, nome del poeta famoso “ancor di là”, segna un’altra coincidenza tra senso letterale e senso spirituale, consonando con la statio in capite che designa la gloria.

Tab. VII

[LSA, cap. XIII, Ap 13, 18 (VIum prelium)] Igitur nomen eius in greco [est] Antemos, qui interpretatur contrarius.

[LSA, cap. XIII, Ap 13, 1] Sequitur: “et super capita eius nomina blasphemie”, id est eius capita sunt famosa et nominata in blasphemantibus Christum et eius fidem. Nomen enim designat notitiam et famam, statio vero in capite designat gloriam. Tales enim gloriantur in blasphemando Christum et suos, et in hoc pre ceteris sunt famosi; nomina etiam suarum impiarum sectarum et traditio[num] sunt nomina blasphemie.
Ricardus exponit hoc moraliter, scilicet per septem capita universitatem principalium vitiorum et per decem cornua elationem impugnantem decalogum sacre legis [In Ap IV, iiii (PL 196, col. 804 C)].

Purg. XXI, 85-91

“col nome che più dura e più onora
era io di là”, rispuose quello spirto,
 “famoso assai, ma non con fede ancora.
Tanto fu dolce mio vocale spirto,
che, tolosano, a sé mi trasse Roma,
dove mertai le tempie ornar di mirto.
Stazio la gente ancor di là mi noma

Inf. XXXII, 85-99, 106-108

Lo duca stette, e io dissi a colui
che bestemmiava duramente ancora:
“Qual se’ tu che così rampogni altrui?”.
“Or tu chi se’ che vai per l’Antenora,
percotendo”, rispuose, “altrui le gote,
sì che, se fossi vivo, troppo fora?”.
“Vivo son io, e caro esser ti puote”,
 fu mia risposta, “se dimandi fama,
 ch’io metta il nome tuo tra l’altre note”.
Ed elli a me: “Del contrario ho io brama.
Lèvati quinci e non mi dar più lagna,
ché mal sai lusingar per questa lama!”.
Allor lo presi per la cuticagna
e dissi: “El converrà che tu ti nomi,
o che capel qui sù non ti rimagna”. 

quando un altro gridò: “Che hai tu, Bocca?
non ti basta sonar con le mascelle,
se tu non latri? qual diavol ti tocca?”.

[LSA, cap. XIII, Ap 13, 5-6] “Et datum est ei os loquens magna et blasphemias” (Ap 13, 5), id est ex hoc quod Deus permittit illam bestialem gentem ad tantam potestatem ascendere, data est [ei] audacia superba ad magnanimiter loquendum grandia et blasphemias contra Christum et suos. “Et data est illi potestas facere malum menses quadraginta duos”, id est per tot menses.
Et aperuit os suum in blasphemias ad Deum, blasphemare nomen eius” (Ap 13, 6), dicendo scilicet Christum non fuisse Deum, nec Deum esse in personis trinum, et preferendo se summo Deo Christo; “et tabernaculum eius”, id est ecclesiam Christi, dicendo scilicet ipsam esse erroneam et perversam; “et eos qui habitant in celo”, id est sanctos celestis conversationis et etiam sanctos iam in celo beatos, dicendo ipos esse dampnatos vel non ut nos credimus beatificatos.

In greco, lingua nella quale venne scritta l’Apocalisse, i numeri si indicano per mezzo delle lettere dell’alfabeto. Il numero di un nome è il totale delle lettere. Il “numero del nome” della bestia o dell’Anticristo è un grande segreto che richiede sapienza d’intelletto per essere computato e conosciuto. Non è uno dei numeri eterni di Dio, né di un uomo spirituale, è piuttosto un numero carnale. Oltre ad “Antemos” (“contrario”), in greco esistono altri due nomi le cui lettere formino il numero 666: “Arnoyme” e “Teitan” (Ap 13, 18).
Fra le anime invidiose purganti nel secondo girone della montagna, Guido del Duca cerca di accarnare con l’intelletto l’intendimento del poeta, il quale con una perifrasi ha detto di provenire dalla valle dell’Arno, senza nominarlo (Purg. XIV, 22-24). E l’altro romagnolo, Rinieri da Calboli, si chiede perché, parlando, abbia nascosto il nome del fiume, come si fa delle cose orribili (vv. 25-27). Guido risponde descrivendo la corruzione della misera valle del fiero fiume (vv. 28-66).

Tab. VIII

[LSA, cap. XIII, Ap 13, 18 (IVa visio, VIum prelium)] Quia vero numerus nominis bestie seu Antichristi continet in se magnum misterium, in cuius intelligentia est magna sapientia sanctis tunc ad sciendum valde utilis, ideo subditur (Ap 13, 18): “Hic”, id est in hoc loco seu numero, “sapientia est”, id est secretum magne sapientie; vel hic oportet haberi magnam sapientiam ad sciendum misterium predicti numeri.
Qui habet intellectum computet numerum bestie”, id est diligenter advertat proprietatem numeri et sue significationis.
“Numerus enim hominis est”, id est non est numerus Dei eterni aut viri spiritualis, sed potius hominis mortalis et carnalis. Et hoc designat “numerus nominis eius”, quamvis ipse per illud nomen estimet et intendat ‘contrarium’ significari. Vel, secundum Ricardum, iste numerus est “hominis”, id est talis qui potest ab homine numerari; non autem est numerus Dei, cuius <sapientie> non est numerus, quamvis Antichristus per hunc numerum velit se estimari Deum*.
Ut autem cognitioni huius numeri nos faciat viciniores, ipsum nobis evidenter manifestat dicens: “Et numerus eius est sescenti sexaginta sex”. […] Igitur nomen eius in greco <est> Antemos, qui interpretatur ‘contrarius’. […] Sunt etiam in greco alia duo nomina numeri huius, scilicet Arnoyme, et tertium est T<eit>an.

* In Ap IV, v (PL 196, col. 808 C-D).

Purg. XIV, 4-6, 22-24

“Non so chi sia, ma so ch’e’ non è solo;
domandal tu che più li t’avvicini,
e dolcemente, sì che parli, acco’lo”.

“Se ben lo ’ntendimento tuo accarno
con lo ’ntelletto”, allora mi rispuose

quei che diceva pria, “tu parli d’Arno”.

Purg. XXXIII, 19-21

e con tranquillo aspetto “Vien più tosto“,
mi disse, “tanto che, s’io parlo teco,
ad ascoltarmi tu sie ben disposto”.

 

3.3. Il “numero del nome”, in lettere: X (Cristo, Augusto) REDIVIVO

Olivi osserva che se a “diclvx”, il “numero del nome” latino della bestia, si aggiungono due lettere – “or” – si ottengono due espressioni, cioè “dicor lvx” e “doli crvx”. Rinvia quindi per ulteriori chiarimenti ad una delle sue Quaestiones de perfectione evangelica. La quaestio interessata riguarda la possibilità che nella professione di povertà evangelica e apostolica si possa lecitamente vivere dei possessi e dei redditi affidati dal papa o dai principi temporali a dei procuratori stabiliti, in modo che a coloro che hanno fatto voto di povertà non spetti né la proprietà né il diritto d’uso ma solo il semplice uso connesso alla sussistenza quotidiana. Olivi si scaglia con veemenza contro questa posizione, ritenendola dolosa e fallace, anzi identificabile con lo stesso Anticristo mistico. Spiega così che dal numero della bestia si può trarre il falso nome “dicor lux”, che indica l’ipocrisia nel presentarsi dell’Anticristo come luce del mondo, e insieme il vero nome “doli crux”, cioè croce dolosa. Le due lettere non numerali aggiunte – O e R – hanno anch’esse un loro significato, falso e ipocrita (“omnium resurrectio”, “omnium reparatio”), oppure verace (“omnium ruina”, “omnium retrogradatatio”, “omnium rabies”). Un ulteriore significato di OR è “aurum”, nel senso in cui Pietro dichiarò di non averne e Cristo proibì di possederne.
Se si prova ad aggiungere a IVDEX le due lettere OR, si ottiene una sequenza IVDEXOR che, anagrammata ripetendo due volte la I e la V, dà X REDIVIVO, ossia Cristo (o la croce) redivivo [11]. Nel capitolo XIII della Lectura super Apocalipsim Dante trovava l’esegesi della sesta e più grande battaglia. Ad Ap 13, 3 (citato ad Ap 12, 17), a proposito della bestia ascendente dal mare, si spiega il versetto “e vidi una delle sue teste quasi uccisa a morte, ma la sua piaga mortale fu guarita” con la “rediviva exaltatio regni sarracenici seu Antichristi” dopo un’iniziale caduta. Alla fine del capitolo, è il seme di Federico a rivivere nell’Anticristo mistico, come la testa della bestia che sembrava uccisa ma rivive. Nel trasformare la Lectura nella Commedia, il poeta torse il panno al suo ordito, come dimostrano i versi messi in bocca a Farinata e a Brunetto Latini tessuti con fili tratti dal finale del capitolo XIII, lì dove trovava il seme di Federico II identificato con l’Anticristo, mentre per lui era sementa santa che rivivrà. Così, se il “numero del nome” di colui che ucciderà la prostituta e il gigante deriva dal numero del nome della bestia, svuotato del suo contenuto nocivo, anche gli effetti dovranno essere ripristinatori. Non diversamente l’immagine dell’aquila nel cielo di Giove è ordita con fili tratti dalle prerogative delle bestie descritte nel capitolo XIII.
All’esaltazione della croce fa riferimento un passo del capitolo XX, dove si dice, citando l’alfabeto mistico esposto nello scritto pseudogioachimita De semine Scripturarum, che u designa il XIII secolo, poiché si pronuncia aspirando sull’estremo delle labbra, e alla fine del secolo la nuova Babilonia spirerà. Il secolo seguente, nel quale verrà rinnovata ed esaltata la croce di Cristo, è designato con x, ossia con una lettera che ha forma di croce, la quale venne introdotta da Augusto al tempo della venuta di Cristo [12]. Ad essa faranno seguito le lettere che i Latini presero dai Greci (y, z), designanti la dilatatio della Chiesa ai Greci e a tutte i Gentili. Nel cielo del Sole, Tommaso d’Aquino parla utilizzando con frequenza (per sei volte; Bonaventura, l’altro oratore, lo usa due volte) l’avverbio della parlata toscana u’ (che sta per ‘dove’): i due campioni della Chiesa, Francesco e Domenico, sono appunto venuti nel XIII secolo “a mantener la barca / di Pietro in alto mar per dritto segno” (Par. XI, 119-120). Al cielo del Sole succede quello di Marte, nel quale Dante vede una croce greca, che designa “chi prende sua croce e segue Cristo” (Par. XIV, 97-108): dalla croce trascorre in giù Cacciaguida, il quale profetizza a Dante l’esilio che, datato al 1302, si colloca nel XIV secolo. Poi, nel cielo di Giove, i lumi volano cantando e formando dapprima le lettere D, I, L, che se sono le prime lettere della scritta che appare successivamente – “Diligite iustitiam, qui iudicatis terram” (il primo versetto del libro della Sapienza) – sono anche le prime della parola “dilatatio” (Par. XVIII, 76-78). Le lettere, insieme ad altre luci, si trasformano nella figura di un’aquila nel cui occhio rifulgono le luci di Traiano, Ezechia, Costantino, Guglielmo II il Buono e Rifeo Troiano, le quali circondano la pupilla – Davide, il quale “fu il cantor de lo Spirito Santo” – che luce in mezzo ma è anche ‘sesta’ (sono dunque rappresentati i Gentili e insieme i Giudei). Da notare che le tre lettere D, I , L sono congiunte nei versi con l’avverbio or (“omnium resurrectio”) e che esse sono “come augelli surti di rivera”, come pure “resurger parver quindi più di mille / luci e salir” a formare l’aquila (Par. XVIII, 73, 76-78, 103-104).
Si può anche notare che, in principio di Purg. XXXIII, le sette virtù alternano “or tre or quattro” il Salmo 78, “Deus, venerunt gentes”. Il significato più idoneo sarà però, in questo caso, “omnium ruina”, considerato che si tratta appunto della rovina di Gerusalemme [13].
Apparentemente, quanto sopra proposto si avvicina alle conclusioni di coloro che hanno voluto dare un valore cristologico alla profezia di Beatrice [14]. In particolare il Kaske [15], che forse più di altri ne ha approfondito l’aspetto escatologico. Ma c’è una differenza fondamentale fra le soluzioni dell’enigma, che si rispecchiano in modo non unilaterale nella Lectura super Apocalipsim dell’Olivi, e quella data dal Kaske. Secondo questi, l’avvento di Cristo preconizzato è quello finale (e secondo) del giudizio. Si tratta invece del secondo di tre avventi di Cristo: il primo nella carne, il secondo nel suo Spirito, il terzo nella parusia:

[LSA, prologus, Notabile VIII] Et hinc est quod in hiis visionibus presentatur trinus Christi adventus, primus scilicet in carnem passibilem mundum redimens et ecclesiam fundans, secundus in spiritu<m> evangelice vite reformans et perficiens ecclesiam primitus iam fundatam, tertius ad iudicium glorificans electos cunctaque consumans.

Ma cosa significa avvento di Cristo nello Spirito? Significa una generale renovatio operante per mezzo dei suoi nuovi discepoli spirituali, ai quali lo Spirito (di Cristo) detta interiormente. Se tutto si deve ricondurre a Cristo come causa principale, la Provvidenza ordina poi sotto di sé ministri, angeli, nunzi e spinge anche i reprobi ad agire inconsapevolmente per i propri disegni:

[LSA, cap. X, Ap 10, 1] Quod autem quidam dicunt hunc angelum esse Christum, quia solius ipsius est aperire librum, prout dicitur supra capitulo quinto (Ap 5, 2-3.9), non negamus quin ipse sit principalis reserator libri et precipue in quantum est Deus illuminans interius mentes, sed nichilominus ordinavit sub se angelicos spiritus et angelicos homines ad ministerialiter illuminandum inferiores. Qua ergo ratione per septem angelos tuba canentes intelliguntur angelici homines et doctores et etiam spiritus angelici eis presidentes, quamquam Christus principaliter doceat omnia que per tubicinationes angelorum docentur, eadem ratione debet consimiliter intelligi in proposito.

Per questo Arrigo VII è “proles altera Isai” (Ep., VII, 29), il destinatario, dopo Cristo, di quanto il profeta afferma (Isaia 53, 4): “Vere languores nostros ipse tulit et dolores nostros ipse portavit” (Ep., VI, 25). La resurrezione dell’Impero equivale a una nuova resurrezione di Cristo nello Spirito, quella propria del sesto stato, nel quale si formerà un nuovo Ordine, non solo evangelico e contemplativo, ma anche di reggitori delle genti “in virga ferrea”, sia di re come di pontefici:

[LSA, cap. II, Ap 2, 26-28] “Qui vicerit et custodierit usque in finem opera mea, id est qualia ego feci et precepi vel consului, dabo illi potestatem super gentes et reg<et> <eas> in virga ferrea, et tamquam vas figuli confri<n>gentur, sicut ego accepi a Patre meo, et dabo illi stellam matutinam”. Secundum quosdam hic promittitur quarto ordini perfectio sexti et septimi status, quia ordo quartus est in fine seculi consumandus et visurus confractionem statue Nabucodonosor et superaturus gentes et regna et Christi cultui subiugaturus. Est etiam accepturus claram intelligentiam scripturarum et future diei eterne quasi stellam matutinam, que gratiose solem pronuntiat et precurrit.
[cap. XIV, Ap 14, 14] “Et vidi et ecce nubem candidam et super nubem sedentem similem Filio hominis, habentem in capite suo coronam auream et in manu sua falcem acutam”. Ioachim dicit: «Arbitramur in isto signari quendam ordinem iustorum, cui datum est perfecte imitari vitam Filii hominis et habere eruditam linguam ad evangelizandum evangelium regni et colligendam in aream Domini ultimam messionem, qui stat super nubem candidam quia conversatio eius non est ponderosa et obscura sed lucida et spiritalis». […] dicitque quod […] intelligendus est aliquis ordo futurus perfectorum virorum servantium vitam Christi et apostolorum […]. Si autem e contra obicias quod angelus in extremo iudicio metens malos et bonos incongrue diceretur “similis Filio hominis” et “habens coronam auream”, quasi rex omnium, ex quo magis videtur quod designet ibi Christum, qui in nube seu nubibus venturus est ad iudicium, prout dicitur supra capitulo I° (cfr. Ap 1, 7), potest dici quod principaliter designat hic evangelicum ordinem sanctorum Christo et eius vite similium et regiam seu pontificalem coronam seu auctoritatem circa finem seculi habiturorum cum potestate et officio colligendi finalem messem electorum. Unde et eorum ordo designatus est supra, capitulo X°, per “angelum amictum nube in” cuius “capite” erat “iris” quasi corona (cfr. Ap 10, 1).

Non si tratta della fine del mondo e del giudizio finale, ma di un mondo rinnovato e del giudizio di Babylon. Questo avverrà alla fine del quinto stato, per esso il sesto e nuovo periodo si distinguerà con chiarezza dal precedente. Ma prima avverrà la suscitazione dello Spirito nei discepoli inviati a predicare contro la nuova Babilonia dei reprobi.
Non è dunque, quella di Beatrice, una profezia che mira all’aldilà, ma un annunzio che il processo storico sta già operando perché in terra si realizzi un novum saeculum di pace e di giustizia. Affermare che la croce, cioè la lettera X introdotta al tempo di Augusto, è già rediviva equivale a dire che sta per instaurarsi un nuovo tempo di Augusto, anche se ciò non può essere senza battaglie interiori e tribolazioni [16]. Augusto non fu soltanto il restauratore della pace universale, quando il sacrosanto segno dell’aquila “con costui puose il mondo in tanta pace, / che fu serrato a Giano il suo delubro”; fu anche colui per il quale “piangene ancor la trista Cleopatra, / che, fuggendoli innanzi, dal colubro / la morte prese subitana e atra”: una morte inopinata e rapida come quella che il “fur” Cristo procurerà alla “fuia”, la moderna meretrice, nel giudizio che avverrà all’apertura del sesto sigillo (Par. VI, 76-81).

Tab. IX

[segue Ap 13, 18] In quadam vero questione de paupertate evangelica posui duo nomina latina, scilicet ‘dicor lux’ et ‘doli crux’, in quibus ultra litteras numerales est una sillaba duarum litterarum, scilicet ‘or’: que quid significet ibidem exposui.

Quaestio de possessionibus procuratoribus commissis pro fratrum necessitatibus (la sedicesima «quaestio de perfectione evangelica»), ed. D. Burr – D. Flood, Peter Olivi: On Poverty and Revenue, «Franciscan Studies», 40 (1980) 18-58: 34, 37-38.

Quaeritur an professio paupertatis evangelicae et apostolicae possit licite ad talem modum vivendi reduci quod amodo sufficienter vivat de possessionibus et reditibus a papa vel mundanis principibus certis procuratoribus commissis qui vice et auctoritate papae vel principum eas teneant ita quod nec dominium nec ius utendi nec usus ipsarum possessionum ad professores evangelicos spectet nisi solum simplex usus eius quod inde de facto pro victu cotidiano recipiunt. […] Respondeo quod modus praefatus est omni dolo et fallacia plenus et nisi fallar ipse est ille de quo sanctus pater Franciscus suis sociis in revelatione prophetica est locutus. Et ad istum modum sub miranda astutia introducendum in orbem inimicus homo longo iam tempore semina zizaniorum bono semini superseminavit dormitantibus in idipsum servis evangelici status (Mt 13, 25). Iste enim modus sub miro dolo omnes radices et fructus evangelicae paupertatis enervat. Et in summa fallacia divitiis abutitur divitiarumque statum exaltat et Christi consilia ad interitum ducit. Et in mira fraude mutat tempora et leges evangelici status. Et est ut aestimo praecursor novissimi Antichristi existens et ipse mystice Antichristus. Propter quod numerus et nomen bestiae merito competit sibi (Ap 13, 18), ut scilicet vere nominetur DOLI CRUX, falso vero et hypocritaliter DICOR LUX. In utroque enim praedictorum nominum litterae numerales significant DCLXVI. Et ultra hoc in quolibet restat syllaba duarum litterarum scilicet OR, seu duae litterae scilicet O et R. Modus enim praefatus hypocritaliter fortasse dicetur OMNIUM RESURRECTIO sive OMNIUM REPARATIO. Veraciter tamen erit OMNIUM RUINA sive OMNIUM RETROGRADATIO sive OMNIUM RABIES. Quid enim aliud est iste modus nisi crux dolosa, et tamen arroganter dicet se lucem mundi. Ipsaque syllaba supra numerales litteras restans scilicet OR optime apud plures significat AURUM, quod se non habere fatetur Petrus ecclesiae fundamentum quando ait: Argentum et aurum non est mihi (Ac 3, 6). Ipsumque Christus singulariter inhibet quando ait : Nolite possidere aurum (Mt 10, 9).

I   D   X   E   V       O   R 

X     R    E     D    I    V   I   V   O

 

Par. XVIII, 73, 76-78, 103-104

E come augelli surti di rivera

sì dentro ai lumi sante creature
volitando cantavano, e faciensi
or D, or I, or L in sue figure.

resurger parver quindi più di mille
luci e salir …………………….

Purg. XXXIII, 1-3

                           Ps 78, 1
Deus, venerunt gentes’, alternando
or tre or quattro dolce salmodia,
le donne incomiciaro, e lagrimando

[LSA, cap. XII, Ap 12, 17 (IVa visio, Vum prelium] Item in quarta, que incipit ibi: “Et vidi unum de capitibus suis” (Ap 13, 3), primo narratur revivificatio seu rediviva exaltatio regni sarracenici seu Antichristi post quendam priorem casum eius.

[LSA, cap. XX, Ap 20, 2-3 (VIIa visio)] Nos autem sumus in XX° centenario urbis Rome et in XIII° Christi designato secundum eum per u, quod in ultimo labiorum quasi aspirando profertur, unde et secundum eum designat quod in fine huius centenarii carnalis ecclesia seu Babilon expirabit, ut in sequenti centenario designato per x litteram, que habet formam crucis et fuit per Cesarem Augustum circa Christi adventum inventa, renovetur et exaltetur crux Christi, et post hoc sequantur littere a Grecis ad Latinos deducte designantes d i l atationem ecclesie ad Grecos et ad omnes gentes.

3.4. Il “numero del nome”, in cifre: D – X – V

È anche possibile che “un cinquecento diece e cinque” esprima una precisa cronologia. Il ‘cinquecento’ designa l’intera durata del quinto stato, che inizia con l’incoronazione di Carlo Magno (800) [17]. Si perviene pertanto al 1315 (come voleva il Davidsohn: [800]+500+10+5)  [18], o anche al 1316 (considerando un come numero), cioè alle nuove speranze suscitate dalla vittoria di Montecatini ad opera di Uguccione della Faggiuola (29 agosto 1315), il continuatore morale dell’impresa di Enrico VII, vittoria i cui tragici effetti su Firenze sembrano riecheggiare nella profezia di Forese Donati (Purg. XXIII, 106-111).
Né a ciò osta la morte di Filippo il Bello (29 novembre 1314) [19], perché il gigante, che prossimamente verrà ucciso, non designa solo quel re, ma l’intero regno di Francia, come la prostituta si incarna storicamente in almeno due pontefici, Bonifacio VIII e Clemente V, designando così la Chiesa corrotta prima e dopo il trasferimento della sede romana ad Avignone. Al termine dell’esegesi di Ap 13, 18, Olivi riporta l’opinione pseudogioachimita per cui il terremoto in apertura del sesto sigillo segnerà la caduta del regno di Francia ad opera di Federico II redivivo nel suo seme.
Il ‘dieci’, così come si presenta altrove nei canti dll’Eden, ha pure un preciso significato. Il distare “diece passi” delle estreme fra le liste colorate, dipinte nell’aria dai sette candelabri (Purg. XXIX, 79-81), per quanto tutti i commentatori antichi vi abbiano visto solo un’allusione al decalogo, è in realtà riferito anche ai dieci giorni di tribolazione preannunziati alla chiesa di Smirne, propria del secondo stato dei martiri: come risulta dall’esegesi di Ap 2, 10, Olivi riporta sia l’interpretazione di Riccardo di San Vittore (il decalogo) sia quella per cui i dieci giorni corrispondono alle dieci persecuzioni principali. Il grifone, simbolo di Cristo che avanza tirando il carro dopo i candelabri e i seniori, tende in su (come i candelabri) le ali rimanendo in mezzo alle sette liste (sulla linea mediana di esse, con tre a destra e tre a sinistra), senza toccarne alcuna fendendo in modo da fare male (vv. 109-111). È probabile che l’ultimo verso alluda alla promessa di protezione fatta da Cristo ai martiri, le cui tentazioni non sono causa di danno, ma di prova e di merito (Ap 2, 10). Lo stesso valore si può attribuire ai dieci passi, non ancora compiuti, di Beatrice preceduta dalle sette virtù e seguita da Dante, Matelda e Stazio (Purg. XXXIII, 16-18; ma è da considerare la variante l’undecimo), prima di far avvicinare l’amico e di parlargli pronunciando la celebre profezia e dopo aver ripetuto le parole con le quali Cristo in Giovanni 16, 16 e seguenti annunzia la tribolazione propria e quella dei discepoli (cfr. supra).
Il ‘cinque’, come già rilevato, indicherebbe i cinque mesi restanti, cioè un breve tempo, alla fase finale del quinto stato, quando la corruzione della Chiesa e la persecuzione della bestia sono al sommo.
A proposito del numero del nome della bestia (Ap 13, 18), Olivi cita l’interpretazione data da Gioacchino da Fiore (nell’Expositio) del numero sei e dei suoi derivati, in quanto numeri che colgono le cose temporali fatte nei sei giorni della creazione e amate dai figli di questo mondo: il tempo secolare da Adamo alla fine del mondo (DCLXVI), le sei età di questo mondo in cui la bestia regna (DC), i sei tempi della sesta età nei quali la bestia perseguita più atrocemente la Chiesa (LX), il sesto tempo della sesta età, cioè il regno dell’Anticristo in cui arde il furore della bestia (VI). Questi temi sono punti di riferimento nella quinta bolgia dei barattieri.
Gioacchino aveva dunque scomposto in tre parti, secondo il sei, il numero del nome della bestia: DC-LX-VI. Il numero di Dante è invece organizzato secondo il cinque, nel senso che la prostituta e il gigante saranno fra breve uccisi da DVX / IVDEX alla fine del quinto stato, al punto in cui la Chiesa si è quasi del tutto trasformata in una nuova Babylon, come nella visione con cui si chiude il canto precedente [20].
Dante, in conclusione, avrebbe dato al suo enigmatico numero (costruito sul modello del DCLXVI, ma ben diverso) diverse possibilità di soluzione: come numero di un nome (DVX, IVDEX), come cartiglio annunziante la nuova resurrezione di Cristo e dell’Impero (con l’inserimento di OR), come datazione del quinto stato che termina proprio con la Chiesa quasi del tutto trasformata in una nuova Babylon e presto giudicata.

3.5. L’epicedio per “l’alto Arrigo”

Cristo, in Giovanni 16, 8-11, afferma che lo Spirito verrà per convincere il mondo quanto al peccato, alla giustizia e al giudizio. Olivi, nella Lectura super Iohannem, insiste sulla sua venuta come giudice retto, possente e trionfale. Quello che afferma sembra riverberarsi nelle parole di Beatrice: “un cinquecento diece e cinque” – IVDEX:

(Jo 16, 8-11) Sciendum ergo quod sicut in forensi iudicio due sunt partes, una scilicet reorum que habet iniustitiam, alia uero que ducit causam iustam et habet pro se iustitiam, que plerumque, quando est corporaliter imbecillior, opprimitur a parte iniusta usquequo ueniat iudex rectus et in iustitia prepotens et triumphalis, et hoc ad reorum iniustitiam inexcusabiliter detegendam et conuincendam, ac deinde sententialiter et penaliter condempnandam, et econtra ad partis iuste iustitiam clarissime reuelandam et sententialiter remunerandam et glorificandam: sic proponitur hic Spiritus sanctus fuisse uenturus ad conuincendum mundum, id est Iudeos mundanos, ac deinde reliquos Christo et eius doctrine contradicentes conuincendos de peccato sue incredulitatis, qua Christo rebellabant, irrefragabiliter, scilicet ostendendo quod in hoc turpiter et erranter peccant, et iterum ad conuincendos eos de iudicio, id est de iusta dampnatione eorum. Quod quidem faciet ostendendo non solum per uerbum, sed per effectum quod diabolus princeps mundi huius, id est mundanorum, est iam iudicatus, id est condempnatus, ne scilicet habeat potestatem amodo in electos et in eligendos sicut prius habebat [21].

La prossima sparizione di sé, e l’altrettanto repentino ritorno annunziato in Giovanni 16, 16 – riportate pressoché integralmente nelle parole di Beatrice a Purg. XXXIII, 10-12 – Modicum, et non videbitis me; / et iterum, sorelle mie dilette, / modicum, et vos videbitis me– sono illustrate da Cristo al versetto 21 con una similitudine: “Mulier, cum parit, tristitiam habet, quia venit hora eius; cum autem pepererit puerum, iam non meminit pressure propter gaudium, quia natus est homo in mundum”. Olivi sottolinea con forza tale similitudine, che gli è assai congeniale, esempio dell’umanità di Cristo che nella croce ci partorì come madre, della Chiesa militante che in questa vita partorisce gli eletti, dell’anima di un singolo eletto nel momento della tribolazione:

(Jo 16, 21) Subdit autem ad hoc sensibile et manuductiuum exemplum de muliere grauiter cruciata in partu et fortiter iocundata post partum ita quod non meminit pressure precedentis, memoria scilicet contristante. Optime autem congruit hoc exemplum proposito Christi. – Primo quidem, quia Christi humanitas fuit in cruce quasi mater nos Deo parturiens, in resurrectione uero quasi iam in se et sua gloria totum partum electorum causaliter et radicaliter factum et completum habens. – Secundo, quia Ecclesia in hac uita est sicut mulier parturiens uniuersitatem electorum, cuius partus in generali resurrectione omnium complebitur in gloria plena; et secundum hoc etiam quelibet pars Ecclesie et quelibet anima cuiuscumque electi in tempore suarum grauium temptationum et tribulationum est sicut mulier parturiens, pro tempore uero subsequentis consolationis est sicut mater que de filio, quem peperit, iocundatur.
Et nota quod ab illo loco modicum etc. usque huc tanguntur tria. Quorum primum, scilicet uisio et non uisio, magis proprie spectat ad intellectum; secundum autem, scilicet tristitia et gaudium, spectat magis ad affectum; tertium uero, scilicet fortis parturitio bonorum operum seu spiritualis prolis, spectat magis ad potentiam operatiuam seu ad fortem et laboriosum conatum et effectum [22].

Intonano le sette vergini il Salmo 78, “e Bëatrice, sospirosa e pia, / quelle ascoltava sì fatta, che poco / più a la croce si cambiò Maria” (Purg. XXXIII, 4-6). Ad Ap 12, 2 (quarta visione) si afferma della donna vestita di sole: “Era incinta e gridava partorendo e si doleva per partorire”. Questa donna, per Olivi, è per antonomasia la Vergine Maria genitrice di Dio; in generale designa la Chiesa, soprattutto quella primitiva. La Vergine, infatti, se concepì nell’utero del corpo e della mente Cristo, portò anche nell’utero del cuore l’intero corpo mistico del figlio di Dio, come fosse la sua prole. Costei chiama gridando sia col gemito dei sospiri sia col suono della predicazione nel partorire Cristo che sarà crocifisso e che per la croce risorgerà manifestamente nella gloria del Padre, partorendo insieme con grave angustia il corpo mistico che sarà rigenerato nella grazia e nella gloria di Dio, che è anche il Cristo che si formerà e nascerà nei cuori. Nel girone degli avari e prodighi purganti, una voce, che si rivelerà essere quella di Ugo Capeto, propone esempi di povertà e di liberalità. È una voce che ‘chiama’ nel pianto, “come fa donna che in parturir sia”, e loda la povertà di Maria, “unica sposa de lo Spirito Santo”, attributo che è proprio anche della Chiesa (Purg. XX, 19-24, 97-99).
Le parole di Beatrice – “Modicum, et non videbitis me; / et iterum, sorelle mie dilette, / modicum, et vos videbitis me[23] – sono dunque da intendere anche nel senso che avverrà fra poco una “fortis parturitio”, la quale “spectat magis ad potentiam operativam seu ad fortem et laboriosum conatum et effectum”. Il linguaggio della donna non è riferito solo alla Chiesa (come sostenuto da tutti i commentatori a partire dal Lana, con la precisazione dell’allontanamento della sede da Roma per Avignone), ma anche all’Impero, figura del Cristo uomo che muore per poi risorgere. Si ricorderà quanto, nel cielo della Luna, dice Piccarda di Federico II: “Quest’ è la luce de la gran Costanza / che del secondo vento di Soave / generò ’l terzo e l’ultima possanza” (Par. III, 118-120), parodiando l’esegesi di Ap 12, 5 relativa al figlio maschio della donna, risorto da morte, che invano il drago tenta di divorare: «“Et peperit filium masculum”, masculum quidem non solum sexu corporis sed etiam strenuitate virilis virtutis, “qui recturus erat omnes gentes in virga ferrea”, id est in inflexibili et insuperabili iustitia et potentia». L’Impero è legato alla forte generazione. Per questo Beatrice afferma, prima di profetare il prossimo avvento del messo divino, che “non sarà tutto tempo sanza reda / l’aguglia che lasciò le penne al carro, / per che divenne mostro e poscia preda” (Purg. XXXIII, 37-39).
L’alto Arrigo”, come Cristo, è stato in terra poco tempo. Come Francesco, ha anch’egli fondato il suo ‘Ordine’, ancora però fanciullo immaturo per forti cose e alte, per cui si può dire di lui: “ch’a drizzare Italia / verrà in prima ch’ella sia disposta” (Par. XXX, 136-138). Le parole di Beatrice a Purg. XXXIII, 10-12, che ripetono Giovanni 16, 16.21, sono il più bell’epicedio che Dante potesse scrivere per il suo Imperatore, facendo recitare alla sua donna un non omnis morietur [24].

[1] M. REEVES, The Third Age: Dante’s Debt to Gioacchino da Fiore, in L’età dello Spirito e la fine dei tempi in Gioacchino da Fiore e nel gioachimismo medievale, Atti del II Congresso internazionale di studi gioachimiti 6-9 set. 1984, a cura di A. Crocco, Centro internazionale di studi gioachimiti, San Giovanni in Fiore 1986, pp. 125-139.

[2] Alcuni studi hanno accostato alla profezia di Beatrice, relativa all’“un cinquecento diece e cinque”, quanto Olivi scrive (ad Ap 7, 2 e 10, 1-2) sulla resurrezione di Francesco: cfr. N. HAVELY, Dante and the Franciscans. Poverty and the Papacy in the ‘Commedia’, Cambridge 2004, pp. 119-120; E. GIOSI, A Franciscan explanation of Dante’s cinquecento diece e cinque, in Dante and the Franciscans, ed. S. Casciani, Leiden-Boston 2006 (The Medieval Franciscans, 3), pp. 141-169: 164. Ciò è affermato come “extremely probable” nel secondo degli studi citati (mentre l’Havely attesta come l’esegesi degli Spirituali francescani offrisse un modello di “redemptive advent”), dove è stabilita anche una relazione con il significato di yesharah (rectitudo) assegnato dalla Cabala al 515, e con quello di va’etchanan (cioè io implorai, in relazione al numero delle preghiere rivolte a Dio da Mosè prima di morire: ma Dante ne era consapevole?). Non è certo da sottacere il potenziale valore politico, utilizzabile in senso filoimperiale, dell’angelo del sesto sigillo e della stessa resurrezione di Francesco. Questa è infatti accompagnata (ad Ap 7, 2) dalla figura di Michele, il “princeps magnus” della profezia di Daniele, salvatore del popolo di Israele (cfr. Dn 12, 1-2); quello, secondo Gioacchino da Fiore, è prefigurato da Zorobabele – universalis pontifex e insieme novus dux -, il figlio di Salatiele che nella quarantaduesima generazione da Giacobbe ricostruì il Tempio. Così le prerogative dell’angelo dal volto solare, nel capitolo decimo descritto come “fortis” e avente «“pedes” rectos et solidos et igneos ut “columpnam ignis”» (Ap 10, 1), si possono rinvenire appropriate anche a Cangrande della Scala. Tuttavia, è da osservare che nella Lectura super Apocalipsim sono proposti altri modelli di resurrezione, fra cui quello della bestia la cui testa sembrava uccisa e che rivive (Ap 13, 3), testualmente più calzanti nell’ambito del generale rapporto fra l’ultima opera dell’Olivi e la Commedia. Inoltre la resurrezione di Francesco, che ha come scopo di confermare e assicurare i propri discepoli nella grande tribolazione, male si adatta all’azione distruttiva del messo di Dio, che “anciderà la fuia / con quel gigante che con lei delinque”, mostrandosi invece assai congrua per Cacciaguida, che accerta il proprio discendente sul futuro che lo aspetta.

[3] LSA, cap. VI, Ap 6, 12: «Similia etiam reperies in prophetis. Nam initium septuaginta annorum captivitatis babilonice et desolationis templi per Caldeos facte sumitur uno modo a tertio decimo anno regni Iosie, sub quo cepit Ieremias eam prophetare (cfr. Jr 1, 2; 25, 3), et terminatur in primo anno Ciri regis. Alio vero modo sumitur ab ipsa destructione templi et terminatur secundo anno Darii filii Idaspis, sicut patet Zacharie I° (Zc 1, 1)».

[4] LSA, prologus, Notabile XII: «Sciendum tamen quod ipse (Ioachim) non intendit per hoc quin post illas quadraginta duas generationes perduret hec vita et sint sancti in hoc mundo. Nam, libro IIII° in fine prime partis eius, dictis consimilibus de generatione quadragesima prima et generatione quadragesima secunda, dicit quod illud tempus quod post quadragesimam secundam supererit erit absque humana estimatione annorum, velut in sabbatum absque bello et absque scandalo et cetera. Dicit etiam, tam ibi quam libro III°, quod sicut post septem signacula Veteris Testamenti consumata in Zorobabel cessaverunt ystorie et prophetie et data est requies populo Israel, et tandem circa finem ipsius post tribulationem factam sub Antiocho Christus venit in mundum, sic post septem apertiones septem sigillorum dabitur pax populo christiano, et tandem in fine mundi post persecutionem Gog veniet Christus ad iudicium. Libro etiam III° dicit quod reliquum tempus post ruinam veteris Babilonis usque ad Christum absque generationum descriptione preteriit, sicut illud quod futurum est post ruinam Babilonis nove usque ad finem seculi. Licet enim evangelista scribat duodecim generationes a Zorobabele usque ad Christum (cfr. Mt 1, 12-16), non tamen inveniuntur scripte in Veteri Testamento».

[5] LSA (Ap 11, 3): «Ad illud autem de misteriis trinitatis, dicendum quod sicut trinitatum misteria habent suas congruentias, sic habent et misteria binarii et quaternarii et septenarii et duodenarii et ceterorum numerorum. In initio enim legis missi sunt duo principes, scilicet Moyses et Aaron (cfr. Ex 6, 1.13ss.), et in ingressu terre promisse soli duo de exploratoribus et bellatoribus, scilicet Iosue et Caleph, ipsam introierunt (cfr. Nm 14, 6; 32, 12). In restauratione templi etiam sunt duo duces principales, scilicet Ihesus et Zorobabel (cfr. 1 Es 5, 2), et in initio nove legis Iohannes et Christus. Et in mission<e> primo ad gentes Barnabas et Paulus (cfr. Ac 13, 1-4). Christus etiam duos misit ad solvendam asinam et pullum (cfr. Mt 21, 1-2), et duos ad parandum cenam paschalem (cfr. Lc 22, 8). Unde ex misterio ternarii non potest probari quod Moyses sit venturus pro tertio teste, et maxime quia cetus sanctorum evangelicorum illius temporis, aut aliquis unus ex eis, poterit servire de tertio, ut sic sit ibi Enoch de statu legis nature, Helias vero de statu legis mosaice, reliqui vero sint ibi de statu legis gratie. Preterea hic non ponitur ‘dabo tribus testibus’, sed potius “dabo duobus testibus meis”, nec dicitur: ‘hii sunt tres olive et tria candelabra’, sed potius “hii sunt due olive” et cetera (Ap 11, 4)».

[6] Cfr. A. FRUGONI, Il canto XXXIII del «Purgatorio», in “Nuove letture dantesche”, V (1969-1970), Firenze 1972 (Casa di Dante in Roma), p. 243: «Il “cinquecento diece e cinque”, sicuro riferimento apocalittico, non può essere numero soltanto imitativo del 666: è impossibile, voglio dire, che Dante abbia proposto quel suo numero, per dire un numero, a mo’ di Giovanni, e non proprio quel numero. Ma costruito, invece, quel numero»; di recente, A. M. CHIAVACCI LEONARDI nel Commento (Milano 2005) ad locum. Notava G. ROSSETTI nel 1826: “E Dante, a quel passo [apocalittico] mirando, ha scritto che un cinquecento dieci e cinque punirebbe un seicento sessanta sei” (Comento analitico al “Purgatorio”. Opera inedita a cura di P. Giannantonio, Firenze 1967 [Biblioteca dell’Archivum Romanicum”, S. I, 87], pp. 336-337).

[7] Il terzo nome corrisponde forse, per sola consonanza fonetica, al “Titone antico” che ha per concubina l’aurora (non è infatti accettabile la variante “Titano”), immagine con cui si apre Purg. IX, inizio che contiene un altro tema apocalittico nella costellazione dello Scorpione che riluce in fronte alla medesima aurora (il “freddo animale / che con la coda percuote la gente”, cfr. Ap 9, 5: “et cruciatus eorum ut cruciatus scorpii, cum percutit hominem”). Arrigo VII è “Titan … pacificus” (Ep. V, 3) e “Titan preoptatus” (Ep. VII, 5), in entrambi i casi associato al ritorno della giustizia. Sulle metamorfosi nei versi degli altri due nomi greci cfr. infra, tab. VII, VIII.

[8] ROSSETTI, Comento analitico al “Purgatorio”, p. 475; Sullo spirito antipapale che produsse la Riforma …, Londra 1832, p. 275.

[9] Il dubbio assale Dante, lasciato solo da Virgilio recatosi a parlare con i diavoli custodi della città di Dite (“e io rimagno in forse, / che sì e no nel capo mi tenciona”, Inf. VIII, 109-111), dubbi che persistono al ritorno di Virgilio sconfitto, confermati dalle sibilline parole della guida – “Pur a noi converrà vincer la punga / … se non …” -, quasi a vacillare sia lo stesso Virgilio (Inf. IX, 7-9). Il “se non” – “sin autem” nell’esegesi scritturale – in effetti traduce uno stato d’animo di costernazione, corrispondendo la situazione dei due poeti a quella degli Israeliti nella tribolazione di Oloferne, allorché essi decisero che se entro cinque giorni (i cinque mesi dell’Apocalisse) non fosse arrivato l’aiuto divino, si sarebbero consegnati a Oloferne (Jdt 7, 23-25). L’arrivo di Giuditta corrisponde alla discesa del messo celeste che apre la porta della città di Dite. Si tratta dunque del dubbio da cui vengono assaliti nella fase estrema del quinto stato quanti provano la puntura delle locuste. Il messo celeste che apre la porta corrisponde al sesto stato, al quale è data la porta aperta.

[10] Se non si considera il particolare significato di CL, il riferimento dell’“un cinquecento diece e cinque” al “numero del nome” della bestia (DCLXVI) si indebolisce diventando un procedere analogico del tutto esteriore. Si può anche affermare che il valore espresso da CL (i cinque mesi, che sottolineano la brevità del tempo) sia già contenuto nel V.

[11] UGUCCIONE DA PISA, Derivationes. Edizione critica princeps a cura di E. Cecchini …., II, Firenze 2004, C 5 [25], pp. 152-153: «[…] recido componitur cum vivus et dicitur recidivus -a -um, idest renovatus, post casum reparatus, quod non potest esse nisi precesserit casus vel mors, unde recidiva arborum sunt que aliis sectis repullulant; eadem dicuntur rediviva, quia redeunt ad id quod fuerunt, quasi denuo viva […]».

[12] Cfr. ISIDORI HISPALENSIS episcopi Etymologiarum sive originum libri XX, ed. W. M. Lindsay, Oxonii 1911, lib. I, iv, 14-15: «X littera usque ad Augusti tempus nondum apud Latinos erat, [et digne hoc tempore, quo Christi nomen innotuit, quod per eam, quae crucis signum figurat, scriptitatur,] sed pro ea C et S scribebant, unde et duplex vocatur, quia pro C et S ponitur, unde et ex eisdem litteris conpositum nomen habet. A Graecis [autem] duas litteras mutuavit Latinitas, Y et Z, propter nomina scilicet Graeca, et haec apud Romanos usque ad Augusti tempus non scribebantur, sed pro Z duas S ponebant, ut ‘hilarissat’; pro Y vero I scribebant»; UGUCCIONE DA PISA, Derivationes, ed. cit., II, p. 1305 (X 15): «X littera usque ad tempus Augusti in usu non erat apud Latinos et digne hoc tempore assumpta est, que Xristi nomen innotuit, quia in figura crucis Xristi scribitur».

[13] Con questo non si intende affermare che ogni volta si sia in presenza dei correlativi oror vada ricercato uno dei significati assegnati dall’Olivi (non appaiono in tal modo nella descrizione delle stesse sette virtù a Purg. XXIX, 127-128), ma che ciò sia da considerare secondo il contesto.

[14] Cfr. la rassegna delle varie interpretazioni data da P. MAZZAMUTO alla voce Cinquecento diece e cinque nell’Enciclopedia Dantesca.

[15] R. E. KASKE, Dante’s ‘DXV’ and ‘Veltro’,  in “Traditio”, 17 (1961), pp. 185-254.

[16] È noto come il KASKE (pp. 187 sgg.) riferisca al Vere Dignum dei messali e sacramentari, presente anche come monogramma nelle rappresentazioni della Maiestas Domini, le lettere latine V e D le quali, nella profezia di Beatrice dell’“un cinquecento diece e cinque”, si collocano rispettivamente dopo e prima della X (Christus). La D e la V starebbero pertanto a designare la divinità e l’umanità di Cristo, e la natura divina precederebbe quella umana trattandosi dell’avvento finale (pp. 192-193). Questa argomentazione, per quanto ben condotta, non è suffragata dal confronto con la Lectura super Apocalipsim dell’Olivi, che reagisce invece bene ad altre soluzioni. Ancor più, si può osservare che la tesi del Kaske, ammesso che fosse, per un lettore accorto, meglio intuibile di altre, può applicarsi al Cristo del giudizio finale, non all’avvento dello Spirito di Cristo nei suoi discepoli. La profezia di Beatrice non è, come vuole il Kaske (p. 221), riferita al settimo e ultimo stato della Chiesa, bensì al sesto, che anzi concorre con la fine del quinto. Non è questione di poco conto, perché segna lo spartiacque fra un’astratta utopia e un’idea storica viva.

[17] Iniziato con Carlo Magno, restitutore del popolo latino, il quinto è il più lungo degli stati della storia della Chiesa, in quanto dura circa cinquecento anni. La singolare durata è connessa sia alla moltitudine che deve essere ricevuta in modo condescensivo e proporzionato (il quinto stato regola i cinque sensi), dopo l’ardua vita solitaria del quarto periodo, sia al completamento del tempo della “plenitudo gentium” paolina in quanto distinto dalla finale conversione degli Ebrei, sia alla grazia divina che ha voluto quasi contro giustizia salvare la Chiesa dai Saraceni, nonostante fosse degna di essere giudicata per le molte eresie. Coartato alla sede romana a causa dei peccati dei Greci, cioè della Chiesa orientale, il quinto stato viene ricompensato in durata, moltitudine della gente e pietà (LSA, prologo, Notabile XII). Il passaggio dal quinto al sesto stato appare chiaramente con Stazio il quale, dopo aver trascorso “cinquecent’ anni e più” nel girone degli avari e dei prodighi – il quinto del purgatorio –, ha infine sentito “libera volontà di miglior soglia”, una volta rimosso l’impedimento che la giustizia divina aveva posto nella sua volontà condizionata di espiare la colpa (Purg. XXI, 67-69). Il libero sentire l’interno dettatore che apre la volontà al parlare prima chiuso è tema proprio della sesta chiesa di Filadelfia (Ap 3, 8), l’ascendere in modo libero e privo di impedimenti appartiene all’angelo del sesto sigillo (Ap 7, 2). Il terremoto che scuote la montagna e accompagna la liberazione dell’anima corrisponde a quello con cui si apre il sesto sigillo (Ap 6, 12). Così, segno del “novum saeculum” rappresentato dal sesto stato, “la fenice more e poi rinasce, / quando al cinquecentesimo anno appressa”. Con l’amara mirra, che preserva dalla corruzione (con “mirra” è interpretato il nome della seconda chiesa d’Asia, “Smirna”, la chiesa dei martiri), insieme al nardo, la fenice si costruisce l’ultimo nido (Inf. XXIV, 106-111), come l’apparente morte della Chiesa-Babylon o dell’Impero senza eredi non significano estinzione del loro seme. Allusioni al quinto stato si trovano nell’episodio di Cacciaguida, che contiene molti temi propri dei ‘condescensivi’: il “cinquecento” entra nel computo ab incarnatione della nascita dell’avo del poeta (Par. XVI, 34-39); il “quinto” dell’odierno era il numero degli uomini atti alle armi in Firenze (vv. 46-48).

[18] R. DAVIDSOHN, Il «Cinquecento Diece e Cinque» del «Purgatorio» XXXIII, 43, in “Bullettino della Società Dantesca Italiana”, N. S., 9 (1902), pp. 129-130.

[19] Per quanto Filippo il Bello sia morto “per colpo di cotenna” (Par. XIX, 120), e non per il messo divino preconizzato da Beatrice, anche questa fine è fasciata con i temi del quinto stato.

[20] Cfr. G. PADOAN, Il lungo cammino del “poema sacro”. Studi danteschi, Firenze 1993 (Biblioteca dell’«Archivum Romanicum», Ser. I, vol. 250) , pp. 93-94: «La trasformazione del carro santo (la Chiesa) in mostro; il feroce drudo (il regno di Francia) che prima bacia la puttana (il pontificato) e poi la flagella portando quindi lei e il carro (“la puttana e la nova belva”) entro la selva; e la profezia di un venturo “Cinquecento Diece e Cinque, messo di Dio” che “anciderà la fuia / con quel gigante che con lei delinque” ci dicono che ogni speranza di auto-redenzione da parte della Curia pontificia era in Dante svanita e che l’elezione di un novello papa francese era già stata perpetrata (aprile 1316): anche se l’assenza di recriminazioni personalmente dirette a Giovanni XXII (a fronte dei fierissimi giudizi che nella terza cantica inchiodano quel pontefice) mostra che questi non aveva ancora dato prova di sé e della linea politica che fu da lui perseguita (e che tanto ostica fu all’Alighieri)». È tuttavia da sottolineare come la voluta oscurità della profezia di Beatrice comporti, nel passaggio dagli eventi storici al loro esemplare che li comprende e supera insieme, il silenzio sulla morte di Arrigo VII a Buonconvento, il 24 agosto 1313.

[21] PETRI IOHANNIS OLIVI Lectura super Iohannem. Critice edita a F. Iozzelli OFM, Ad Claras Aquas Roma 2025 (Collectio Oliviana, X), cap. XVI, 8-11, pp. 752-753, ll. 143-160.

[22] Ibid., 21, pp. 758-759, ll. 311-330. Il passo di Giovanni 16, 21 sarà citato nella celebre lettera dell’Olivi, inviata da Narbonne, il 18 maggio 1295, ai figli di Carlo II d’Angiò prigionieri degli Aragonesi.

[23] Il passo sul parto (Giovanni 16, 21) è connesso con i versetti precedenti. A ragione Z. BARAŃSKI (Dante e i segni. Saggi per una storia intellettuale di Dante Alighieri, Napoli 2000, p. 61) osserva che la fonte di Dante, più che il versetto 16 (solitamente citato), è costituita dai versetti 17 e 19 (per l’assenza di “iam”).

[24] Questo spiega perché la morte di Arrigo VII sembri non lasciare alcun segno se non quello, tardivo, di Par. XXX, 133-138. Cfr. E. PASQUINI, Dante e le figure del vero. La fabbrica della Commedia, Milano 2001, p. 163: “Dunque, una proiezione nel futuro delle speranze già poste in Arrigo VII, ma dopo la morte di costui (1313) delegate a un possibile per quanto ancora sconosciuto erede. Certo, la scomparsa di Arrigo VII, salutato nelle Epistole come il nuovo Messia, dovette essere il colpo definitivo per le speranze dell’esule; eppure essa non rappresenta uno spartiacque visibile nell’opera dantesca, e neppure fra Purgatorio e Paradiso. Al punto che non è illegittimo sospettare, anche alla luce dell’anticipazione cristologica dei vv. 10-12 e di certe espressioni delle Epistole, che sul Dux si proiettino ancora i riverberi della grande illusione dantesca: quasi che “l’alto Arrigo” non fosse ancora morto e si potesse continuare a sperare in lui”. Se Purg. XXXIII è stato scritto dopo la morte di Arrigo VII (24 agosto 1313) e prima dell’elezione di Giovanni XXII (7 agosto 1316), doveva essere ancora viva la speranza riposta in Giovanni, il figlio di Arrigo definito “alter Ascanius” (Ep. VII, 18; 17 aprile 1311). Il Davidsohn (art. cit., p. 130) pone la datazione fra il luglio e il novembre 1314, cioè nel lasso di tempo in cui Ludovico duca di Baviera soppiantò il lussemburghese Giovanni e venne eletto re dei Romani e di Germania (20 ottobre). Tesi plausibile, nella presupposizione che Dante avesse conoscenza preventiva di quanto stava accadendo segretamente oltralpe. Di certo, né Giovanni né Ludovico sono i nomi espressi nella profezia di Beatrice.

4. “quella scuola / c’hai seguitata”

E aggi a mente, quando tu le scrivi, / di non celar qual hai vista la pianta / ch’è or due volte dirubata quivi. / Qualunque ruba quella o quella schianta, / con bestemmia di fatto offende a Dio, / che solo a l’uso suo la creò santa (vv. 55-60). Ad Ap 18, 4 una voce dal cielo ingiunge di uscire da Babylon, per non divenire partecipi della sua scellerata amicizia o compagnia. I suoi peccati sono pervenuti fino al cielo, tanto accumulati da non poter più essere tollerati (Ap 18, 5). Per cui le deve essere inferto il doppio delle pene che ha fatto patire agli altri, anche perché doppia è stata l’offesa, a Dio e ai santi, e doppiamente arrecata, disprezzando o bestemmiando, oppure sottraendo beni e arrecando mali (Ap 18, 6). Contro Babylon si dice: “Quantum glorificavit se et in deliciis fuit, tantum date illi tormentum et luctum” (Ap 18, 7). La comminazione della pena (“quantum … tantum”) non deve essere intesa come uguaglianza quantitativa, ma come giusta proporzione ai peccati commessi.
I temi registrano numerose variazioni. I bestemmiatori, sodomiti e usurai, come indicati da Virgilio a Inf. XI, 46-51, offendono Dio, rispettivamente, con la blasfemia e col disprezzo della natura e della bontà divina. L’arena che s’accende sotto la pioggia di fuoco raddoppia il dolore (Inf. XIV, 37-39); alle parole di Dante, il Mosca dei Lamberti se ne va “accumulando duol con duolo” (Inf. XXVIII, 109-111). Beatrice parla dell’albero dell’Eden come pianta “due volte dirubata”, cioè ‘rubata’ dal gigante (“subtrahendo bona”) e prima ‘schiantata’ dall’aquila (“inferendo mala”) (Purg. XXXIII, 55-60). Come per Babylon, così anche per i dannati la pena è proporzionata alla colpa in modo non quantitativo ma qualitativo (“lo contrapasso”: Inf. XXVIII, 142).
Le parole in pena e in disio … bramò (vv. 61.63) fanno segno dell’esegesi di Ap 7, 16-17 (apertura del sesto sigillo), i cui motivi vengono variati altrove, ad esempio con maestro Adamo (Inf. XXX, 58.63) e per lo dolce ber dell’acqua dell’Eunoè (v. 138); dirubatadorme … estima (vv. 45.64) rinviano alla tematica del ladro sviluppata nei passi simmetrici di Ap 3, 3 e 16, 15.

E se stati non fossero acqua d’Elsa / li pensier vani intorno a la tua mente, / e ’l piacer loro un Piramo a la gelsa (vv. 67-69). Nei versi sono presenti temi dall’esegesi morale della terza tromba (in fine del cap. XI). Dopo la sollecitudine per la propria vita (contro cui si appunta la seconda tromba), interviene la sollecitudine del sapere, che si vanifica nella curiosità e nell’errore: contro di essa risuona la terza tromba, sopra l’acqua della sapienza cui l’intelligenza si ribella divenendo come una stella cadente nell’errore, designato dalla terza parte delle acque. Buona e dolce è l’acqua della scienza che concerne ciò che è vero e ciò che è utile: la scienza speculativa delle cose divine e la prudenza che regge le azioni costituiscono le due parti buone delle acque. Ma l’eccesso di sollecitudine verso sé stessi provoca la caduta di persone sante, che pure apparivano lucenti come stelle e ardenti come fiaccole, nelle acque del piacere carnale, messo da parte il piacere delle cose divine e il piacere che deriva dalle virtù e dalle sante opere. Da notare i temi dell’acqua, della vanità e del piacere, nell’esegesi (capitolo XI; per cui non è ammissibile la variante pianger) riferiti alla “cura sciendi, que cum evanescit fit curiosa et erronea” contro la quale suona la terza tromba, motivi che Beatrice appropria ai pensieri del poeta, incrostati come l’acqua dell’Elsa, macchiati (cioè oscurati) come il gelso dal sangue di Piramo nel loro vano dilettare (cfr. l’acqua che si fa sangue ad Ap 16, 4, terza coppa). Sono i pensieri che gli hanno impedito di riconoscere moralmente, nel grande albero dell’Eden, la giustizia di Dio (vv. 70-72).
Una delle cause che rendono chiuso il sesto sigillo è lo straniarsi remoto e difforme da tutto ciò che è spirituale e deiforme, l’esser vago, l’alienarsi (ad Ap 5, 1). Per questo Cristo parla del giovane vago che se ne andò a perdersi in una regione lontana (Luca 15, 13), e degli erranti figli di Israele dice il profeta Isaia che “si sono volti indietro” (Is 1, 4), e nel Salmo è scritto: “Sui fiumi di Babilonia sedevamo piangendo, e ai salici sospendemmo le nostre cetre dicendo: come canteremo il cantico del Signore in una terra straniera?”, cioè in Babilonia (Ps 136, 1-4); e il profeta Baruc: “Perché, Israele, ti trovi nella terra dei nemici e sei invecchiata in una terra straniera?” (Bar 3, 10-11).
La “femmina balba”, apparsa in sogno al poeta nel quarto girone della montagna, si presenta come “dolce serena” che col piacere del suo canto distoglie i naviganti dal loro cammino: “Io volsi Ulisse del suo cammin vago / al canto mio” (Purg. XIX, 22-23; il tema è anticipato al momento dell’addormentarsi: “che li occhi per vaghezza ricopersi, / e ’l pensamento in sogno trasmutai” (Purg. XVIII, 144-145). L’aggettivo “vago” può essere variamente concordato (con Ulisse, nel senso di ‘desideroso di seguire il suo cammino’; con il cammino, nel senso di ‘errante’, o legato al canto che ‘invaghisce’); ha comunque un carattere che deriva dall’esegesi del sesto sigillo proposta in apertura del capitolo quinto: la difformità e il lontanissimo estraniarsi da ciò che è spirituale rendono chiuso il sigillo, onde Cristo parla del giovane vago che se ne andò in una terra lontana (Lc 15, 13) e Isaia dei figli vaghi che si sono volti indietro (Is 1, 4). Dei temi da Ap 5, 1 sono presenti nei versi l’essere vago e il canto, per cui è più probabile che Ulisse sia stato volto dal suo cammino perché invaghito del canto della sirena. Ad Ulisse e ai suoi compagni, lontani da casa e “vecchi e tardi” (Inf. XXVI, 106), ben si addice anche l’apostrofe di Baruc 3, 11 rivolta a Israele che invecchia in terra straniera.
Il riferimento del capitolo XI alla “cura sciendi”, cioè alla sollecitudine che deriva dal desiderio di sapere, ma che poi diventa colpevole curiosità errante, potrebbe suggerire l’interpretazione per cui Ulisse, nel suo cammino “a divenir del mondo esperto / e de li vizi umani e del valore”, sia stato portato lontano e reso “vago” dal canto della sirena, che non è quella del racconto omerico e nemmeno Circe, ma l’ansia di sapere fine a sé stessa che spinge a varcare i limiti imposti da Dio alla conoscenza umana, la quale per quei tempi era aperta all’esperienza dei costumi umani, dei vizi e delle virtù, della quale Orazio rende modello il greco, e che avrebbe dovuto essergli sufficiente, mantenendolo nel campo dell’intelligenza morale, di “color che ragionando andaro al fondo” e lasciarono “moralità” al mondo (Purg. XVIII, 67-69).
Non diversamente la spada di Beatrice si appunta su Dante colpevole di aver ascoltato, errando, le sirene, mentre avrebbe dovuto muoversi “in contraria parte” (Purg. XXXI, 43-48). Uno “straniarsi” dalla sua donna che il poeta non ricorda più avendo bevuto l’acqua del Lete (Purg. XXXIII, 91-93) [1].
È probabile che in entrambi i casi, dell’eroe greco e del poeta, ad essere condannata, per quanto avvolta con reticenza in un comune riferimento ai beni terreni (nella semantica del piacere e del vaneggiare), sia la ragione che, non guidata, travalica i propri limiti, cioè la filosofia.

“voglio anco, e se non scritto, almen dipinto, / che ’l te ne porti dentro a te per quello / che si reca il bordon di palma cinto”. / E io: “Sì come cera da suggello, / che la figura impressa non trasmuta, / segnato è or da voi lo mio cervello” (vv. 76-81). Beatrice, nel vedere l’intelletto del poeta pietrificato e oscurato (v. 74; cfr. Ap 8, 7), vuole che quanto precedentemente da lei detto del messo di Dio e dell’albero dell’Eden venga portato dentro, “se non scritto, almen dipinto” (cioè con figure; anche i lumi-figure in Par. XVIII, 92 sono un “dipinto”), e ricordato, per lo stesso motivo per cui il pellegrino porta a casa il bordone cinto di foglie di palma. E Dante assicura Beatrice che il suo cervello è da lei segnato come da un sigillo la cui figura non si muta una volta impressa sulla cera (è proprio del sesto stato imprimere e sigillare la fede, come si afferma nel notabile III del prologo).
Le parole di Beatrice variano, in senso positivo, temi che nell’esegesi sono appropriati alla bestia che sale dalla terra, la seconda delle due bestie protagoniste della sesta guerra (Ap 13, 17), e all’Anticristo (14, 11): portare scritto, imprimere col sigillo una figura, segnare, seguire una dottrina falsa. Nel primo caso si dice che “nessuno potrà vendere”, cioè predicare o insegnare, “né comprare”, cioè ascoltare o apprendere, né svolgere qualche ufficio solenne se non sia aperto seguace e discepolo dell’Anticristo e se ciò non sia palese per segni certi. Nel passo simmetrico di Ap 14, 11, il terzo dei tre angeli commina l’ira divina su chiunque adori la bestia o la sua immagine e ne riceva il marchio sulla fronte o sulla mano. Il sigillo indica l’impronta della fede, della riverenza e dell’imitazione dell’Anticristo che i suoi seguaci portano nel cuore e nelle opere.
Non deve sorprendere il trasferimento dei doveri dei seguaci dell’Anticristo su Dante, considerata, ad esempio,
la quantità di elementi semantici che dalla medesima esegesi si riversa nel cielo di Giove sull’aquila, segno di Cristo. Fra i segni operati dalla bestia che sale dalla terra c’è il fare scendere dal cielo il fuoco, “res vivida et lucens” (Ap 13, 13), un tema che si ritrova nello scendere delle luci – “quel distinto foco” -, che poi risorgeranno a formare la testa e il collo dell’aquila, sul colmo della M (Par. XVIII, 97-98, 108). Nel canto successivo si dice che l’aquila è “segno” formato da “quei lucenti incendi / de lo Spirito Santo” (Par. XIX, 100-101). Come l’immagine dell’Anticristo parla (Ap 13, 15), così la “bella” e “benedetta imagine” dell’aquila parla per il rostro (Par. XIX, 10-12). Come l’immagine dell’Anticristo sarà oggetto di reverenza e di devozione, così l’aquila è “segno / che fé i Romani al mondo reverendi” (vv. 101-102). Come la legge stabilita dall’Anticristo sembrerà avere in sé lo spirito di Dio a causa dei segni e delle testimonianze dei falsi profeti, e apparirà come se parlasse poiché per la sua fede e virtù si vedranno compiere grandi prodigi, così l’aquila è il segno che fa parlare Giustiniano (Par. VI, 82). Un segno che nel governare il mondo passa “di mano in mano” (vv. 8-9, 86) a quanti lo portano (v. 43), come i seguaci dell’Anticristo, secondo quanto si dice ad Ap 13, 17, portano in mano il marchio che consente loro di “comprare e vendere”, cioè di assumere uffici solenni.

“Ma perché tanto sovra mia veduta / vostra parola disïata vola, / che più la perde quanto più s’aiuta?”. / “Perché conoschi”, disse, “quella scuola / c’hai seguitata, e veggi sua dottrina / come può seguitar la mia parola; / e veggi vostra via da la divina / distar cotanto, quanto si discorda / da terra il ciel che più alto festina” (vv. 82-90). Il poeta poi domanda perché la parola ascoltata voli tanto al di sopra delle proprie capacità intellettuali che egli più la perde quanto più si sforzi di seguirla. Beatrice risponde che ciò è perché egli comprenda che la dottrina della scuola che ha seguito non può seguire la parola di lei, e che la “vostra via” è tanto distante dalla via divina quanto il cielo che si muove più in fretta dista dalla terra.
Seguire Beatrice equivale a seguire Cristo: la donna usa il verbo, variando l’esegesi di Ap 14, 4 – quanti stanno con l’Agnello sul monte Sion lo seguono come possono in questa vita -, allorché nell’Eden parla a Dante di una sua trascorsa adesione a una filosofia che ritiene la ragione sufficiente a sé stessa; all’indistanza da Cristo subentra la distanza: «“Perché conoschi”, disse, “quella scuola / c’hai seguitata (“et sequuntur”), e veggi sua dottrina / come può seguitar («prout est hominibus huius vite possibile participant, “hii sequuntur …”») la mia parola; / e veggi vostra via (“ad quos Christus tamquam dux et exemplator itineris ipsos deducit”) da la divina / distar (“indistans ipsorum ad Christum familiaritas”) cotanto, quanto si discorda / da terra il ciel che più alto festina” (il Primo Mobile, dove a Dante apparirà il ‘punto’, causa finale della storia)». Qualunque sia la scuola di pensiero oggetto delle parole di Beatrice, essa viene indicata come all’opposto di Cristo, che dovrebbe essere guida. Ciò è sottolineato dalle successive parole di Dante, dimentico della colpa passata per aver bevuto l’acqua del Lete: “Non mi ricorda / ch’i’ stranïasse me già mai da voi” (vv. 91-92), dove si fa riferimento all’extraneitas dal divino che rende chiuso il sesto sigillo (Ap 5, 1) [2]. “Quella scuola c’hai seguitatavostra via: si passa dal particolare (una precisa dottrina filosofica) all’universale (l’umano sapere) secondo un modo tipico dello spirito profetico altrove presente.
Proprio questo trascorrere dello spirito della poesia dal concreto all’astratto rende vano ogni tentativo di identificare con sicurezza di quale “scuola” si tratti, al di là di un generico riferimento alla conoscenza umana fondata sui sensi, dietro ai quali “la ragione ha corte l’ali” (Par. II, 52-57, canto dove Beatrice confuta la teoria di Averroè, seguita da Dante, delle macchie lunari causate da “i corpi rari e densi”).

[1] I versi 91-99 fanno segno dell’esegesi del libro della vita, ad Ap 20, 12 (mi ricorda, mai, coscïenza, ricordar) e della quinta chiesa d’Asia, Sardi, ad Ap 3, 3 (ti rammenta, attenta).

[2] La parodia di Ap 5, 1 (“semotissima extraneitas … abalienati sunt”) depone a favore, al v. 92, di stranïasse (‘alienassi’: così Petrocchi) anziché stravïasse (‘sviassi’: così Inglese).

5. “Eufratès e Tigri”

■ Ad Ap 1, 4, dove si parla dei “sette spiriti che stanno dinanzi al suo trono”, si precisa trattarsi dello Spirito increato, semplice per natura e settiforme per grazia, radice e forma esemplare dei sette stati della Chiesa che costituiscono l’oggetto principale del libro dell’Apocalisse. Ad Ap 5, 6 l’increato spirito di Cristo – che ha in sé la “plenitudo spiritualis fontalitatis”-, è detto uno e semplice ma “partito”, cioè diviso, in sette doni.
Il fiumicello, rosso per il sangue bollente, che esce dalla selva dei suicidi e se ne va per l’arena del sabbione, “quale del Bulicame esce ruscello / che parton poi tra lor le peccatrici”, è il Flegetonte (Inf. XIV, 76-81). Questo tartareo fiume di virgiliana memoria è insieme uno e partito, come lo Spirito increato, inteso in senso negativo.
Una variante del medesimo tema è l’uscita nell’Eden da una sola sorgente di un’unica acqua (“d’una fontana”) che poi da sé si ‘diparte’ nel Lete e nell’Eunoè, assimilati al Tigri e all’Eufrate di Genesi 2, 14 (Purg. XXXIII, 112-117). Immagine che si ripercuote nel finale della Monarchia (III, xv, 15), per attestare che l’autorità del Monarca temporale discende direttamente dall’unico fonte dell’universale autorità, che da semplice si fa molteplice “ex habundantia bonitatis”.

Nei versi relativi all’apparizione di Beatrice nell’Eden – “sovra candido vel cinta d’uliva / donna m’apparve, sotto verde manto / vestita di color di fiamma viva” (Purg. XXX, 31-33) – le preposizioni “sovra” e “sotto” sono da ricondurre all’immagine di Cristo, albero della vita che sta nel mezzo della Gerusalemme celeste da una parte e dall’altra del fiume luminoso che l’attraversa (Ap 22, 2). La riva sinistra del fiume designa lo stato del merito, la destra lo stato del premio. Ad entrambe si presenta Cristo, nella sua umanità alla riva inferiore, nella sua divinità a quella superiore. Le foglie dell’albero coprono con verde ombra, da entrambi i lati, i frutti e gli effetti della Grazia, al modo dei sacramenti. Applicato a Beatrice, il tema della distinzione delle due rive scinde in due parti i vestiti della donna: una superiore (il cinto d’uliva) che allude al premio e alla divinità di Cristo, una inferiore (la veste sanguigna) che allude al sacrificio di Cristo uomo e allo stato del merito. Il velo (che è locuzione alternativa ad ombra, nel senso dell’“umbra velaminis” tolta dalla luce di Cristo di cui all’incipit della Lectura, da Isaia 30, 26) e il verde del manto stanno nel mezzo, e sono temi che nell’esegesi di Ap 22, 2 vengono appropriati alle foglie.
I temi ricompaiono, variati, in Purg. XXXIII, 109-111, al momento in cui le sette donne si fermano alla fonte da cui derivano Eufrate e Tigri, cioè il Lete e l’Eunoè: nella terzina, l’“ombra smorta” delle “foglie verdi e rami nigri” fa da spartiacque tra una zona inferiore (i “freddi rivi” che “l’alpe porta”) e una zona superiore (il corruscare del sole nel “cerchio di merigge” ai versi 103-105). Le sette virtù s’affisser: viene introdotto il tema dello stare fisso nella contemplazione, come un’aquila nel sole (Ap 19, 17), che sarà sviluppato nell’ascesa al cielo.

I motivi dell’ombra e del velo si ritrovano ancora nello svelarsi di Beatrice (Purg. XXXI, 133-145). Se si rimane nel tema delle due rive, una riferita all’umanità di Cristo, l’altra alla sua divinità, allora delle due bellezze di Beatrice – gli occhi, a cui Dante viene guidato dalle virtù cardinali, e la bocca, che gli viene svelata per grazia richiesta dalle virtù teologali – la prima corrisponde alla riva inferiore, la seconda a quella suprema. Il tema dell’adombrare è presente due volte. Una prima volta è “l’ombra … di Parnaso”, cioè della poesia incapace di rendere lo splendore del riso della donna, per quanto “palido” si sia fatto il poeta nello studio. I versi, voce che passa transitoria come le foglie (“quoad vocem transitoria sunt”), adombrano, come i sacramenti, la vera Grazia. Una seconda volta è l’armonia tra cielo e terra che “adombra” lo splendore: “là dove armonizzando il ciel t’adombra”. Sia il cielo che la terra (dove è collocato l’Eden) sono pieni della gloria di Dio, si legge nell’esegesi oliviana, e su entrambe le rive le foglie fanno ombra; là Cristo si mostra visibile secondo il corpo sulla riva inferiore e secondo l’anima e la divinità sulla riva superiore.
La decima perfezione di Cristo in quanto sommo pastore consiste nell’incomprensibile gloria che gli deriva dalla chiarezza e dalla virtù, per cui si dice: “e la sua faccia riluce come il sole in tutta la sua virtù” (Ap 1, 16). Il sole riluce in tutta la sua virtù nel mezzogiorno, quando l’aere è sereno, fugata ogni nebbia o vapore grosso. Allora il viso corporeo di Cristo ha incomparabilmente più luce e vigore, e ciò designa l’ineffabile chiarezza e virtù della sua divinità e della sua mente. Lo splendore del volto indica l’aperta e fulgida conoscenza della Sacra Scrittura, che deve raggiare in modo più chiaro nel sesto stato, prefigurata dalla trasfigurazione sul monte avvenuta dopo sei giorni e designata dall’angelo che, al suono della sesta tromba, ha la faccia come il sole (cfr. Ap 10, 1).
La materia offerta da Ap 1, 16-17 (decima e undecima perfezione di Cristo sommo pastore) e 22, 1 (il fiume luminoso della città superna), sarà appropriata nell’ottavo cielo a Cristo e al riso di Beatrice; nell’Eden è plasmata per lo svelamento della donna “ne l’aere aperto” e, ancor prima, per descrivere il riflettersi del grifone-Cristo nei suoi occhi (Purg. XXXI, 121-126, 139-145). Nel paradiso che sta in terra, Beatrice è “luce” e “gloria de la gente umana”, prerogative del sommo pastore nella sua decima perfezione (Purg. XXXIII, 115; si noti, ai vv. 127-129 riferiti all’Eunoè, la rima diriva / ravviva, che rinvia ad Ap 22, 1).

6. Matelda e l’usus pauper

Per cotal priego detto mi fu: “Priega / Matelda che ’l ti dica. … Ma vedi Eünoè che là diriva: / menalo ad esso, e come tu se’ usa, / la tramortita sua virtù ravviva” (vv. 118-119, 127-129). Matelda è inviata a spiegare e a preparare Dante sulla “novella fede” – la “religïone de la montagna”, fondata sull’usus pauper, che non riceve alcuna alterazione esterna – ‘impugnata’ da qualcosa che appare diverso (la presenza del vento e dell’acqua nell’Eden), al modo con cui i futuri predicatori spirituali debbono essere preparati a subire le subdole tentazioni dell’Anticristo. Come da lei spiegato disnebbiando l’intelletto del poeta (cfr. Ap 5, 1; 16, 17), il vento che fa stormire le fronde della selva e l’acqua del Lete e dell’Eunoè non sono infatti generati da vapori terrestri o da precipitazioni atmosferiche (Purg. XXVIII, 103-133). Questo aspetto di Matelda, tutt’altro che secondario, avrebbe dovuto essere ben chiaro a uno Spirituale. Si tratta infatti di un preciso richiamo con inequivocabili parole-segni all’usus pauper, l’evangelico divieto di possedere beni mondani, grande tema dell’Olivi che Dante estende dall’Ordine francescano all’universale mondanità (Ap 7, 3). Su questo punto, il discorso l’aveva cominciato Stazio, spiegando i motivi del terremoto che ha scosso la montagna, la cui “religione” non è mai “fuor d’usanza” (Purg. XXI, 40-45); lo continuerà Beatrice nel rimproverare Dante del suo errore, cioè del suo traviamento nelle virtù morali e intellettuali (Purg. XXX, 118-120, 127-129).
L’espressione “come tu se’ usa”, detta da Beatrice nei confronti di Matelda (Purg. XXXIII, 128), non è dunque da intendere nel senso che la donna dal nome misterioso sia sempre stata nell’Eden e svolga ivi i suoi uffici per ogni anima che ha scontato la pena (lo fa, quanto al bagno nel Lete, solo per Dante e non anche per Stazio). Ci si può invece chiedere se altra volta abbia ravvivato la “tramortita … virtù” del poeta e se, per questo, non sia da identificare con la “donna … santa e presta” che sveglia Dante dal vago sogno della “femmina balba” sulla soglia del quarto girone della montagna (Purg. XIX, 26). “Una donna”, “presta” appunto come Matelda, la quale, riassumendo i sette stati della Chiesa designati dai sette gironi della montagna, fa segno dell’unità della Chiesa ab initio saeculi, cioè dall’inizio della storia nel corso della quale si è sviluppata in ciclici settenari.
Dei tre modi divini del dare (Ap 1, 4), a Matelda si addice quello relativo a Cristo uomo, che impetra e dispensa i doni dello Spirito. È infatti figura del Figlio, sacerdote e offerente al Padre, come avvocato e mediatore, le preghiere altrui stando dinanzi all’altare. Le parole-chiave che rinviano a questa esegesi, parte proemiale o radicale della terza visione apocalittica (Ap 8, 3-4), si rinvengono in molti luoghi del poema, dall’immortale canto dei quattro fanciulli nell’episodio del conte Ugolino alle “ombre che pregar pur ch’altri prieghi” di Purg. VI, da Catone al quale Virgilio prega in nome della sua Marzia alla preghiera di san Bernardo alla Vergine.
Matelda svolge, come Cristo, la funzione di mediatrice, avvocato e offerente alla quale vengono indirizzate preghiere. Dante prega la bella donna di trarsi innanzi verso il fiume in modo che possa intendere le parole del suo canto. Matelda accetta la preghiera del poeta e si dichiara in seguito pronta a rispondere a ogni domanda (Purg. XXVIII, 43-60, 82-84). Le orationes delectabiles sono accettate, e non a caso mi pregasti, riferito al poeta, rima con Delectasti, il Salmo cantato dalla donna (vv. 80-82).
Matelda – “quella pia” (Purg. XXXII, 82), che spiega come gli antichi poeti sognassero allegoricamente nel Parnaso “l’età de l’oro e suo stato felice”, (Purg. XXVIII, 139-141) – è anche figura dei santi padri che precedettero Cristo e giovano con la loro fede e i loro meriti perché, come riporta l’esegesi gioachimita dell’“altare” di Ap 8, 3, Cristo nelle opere di pietà li vuole avere consorti.
La “bella donna” offre Dante, “bagnato” dell’acqua del Lete, “dentro a la danza de le quattro belle” (Purg. XXXI, 103-105), cioè lo offre alle virtù cardinali che lo conducono agli occhi di Beatrice senza fargli però penetrare “nel giocondo lume ch’è dentro”. Si tratta delle virtù morali e intellettuali che regolano la felicità terrena (Monarchia, III, xv, 8) e che i ‘nuovi’ padri del Limbo, quelli che come Virgilio non potettero vestirsi delle virtù teologali, “sanza vizio / conobber … e seguir tutte quante” (Purg. VII, 34-36); corrispondono alle “quattro stelle / non viste mai fuor ch’a la prima gente” di Purg. I, 23-24, che fregiano di lume il volto del pagano Catone.
Di Cristo-Beatrice (la quale, guardando il grifone, riflette in sé le due nature di Cristo, divina e umana: Purg. XXXI, 121-126), della quale precede la venuta, Matelda è ministra, assimilata al Cristo uomo. A Dante che prega Beatrice di spiegargli l’origine dell’acqua del Lete e dell’Eunoè che esce da un’unica fonte, la donna risponde di pregare Matelda (Purg. XXXIII, 118-119). Così il nome Matelda, che sta sulla 40a terzina (Purg. XXXIII, 119), è in piena simmetria nel numero del verso con “quello avvocato de’ tempi cristiani” (Orosio) di Par. X: entrambi infatti sono stati o vengono pregati da altri (da Dante e da sant’Agostino).
L’ufficio di mediatrice svolto da Matelda è manifesto indizio della realtà storica della sua controversa figura. La genesi del nome, dal Salmo 94, 2 – “Mirabiles elat[atel]iones [dantis]” (Ap 1, 4), depone a favore della forma Matelda anziché Mattelda (sulla base germanica ‘Mechtildis’, così Inglese).

Io ritornai da la santissima onda / rifatto sì come piante novelle / rinovellate di novella fronda, / puro e disposto a salire a le stelle (vv. 142-145). Si rinvia all’esame dei versi relativi alla nuova fioritura dell'”albero robusto” (Purg. XXXII, 52-60) e a Inf. I, 37-40.

AVVERTENZE

Seppure segue l’ordine dei ventidue capitoli dell’Apocalisse, Olivi suggerisce, nel prologo della Lectura, un metodo differente di comprensione e di aggregazione del testo, fondato sui sette stati (status), cioè sulle epoche nelle quali si articola la storia della Chiesa, prefigurate nell’Antico Testamento.
L’Apocalisse si articola in sette visioni: le sette chiese d’Asia, i sette sigilli, le sette trombe, la donna vestita di sole (le sette guerre sostenute dalla Chiesa), le sette coppe, il giudizio di Babylon nelle sette teste del drago, la Gerusalemme celeste. Le prime sei visioni possono essere a loro volta divise in sette momenti, ciascuno dei quali riferibile a uno dei sette stati. Assembrando, per le prime sei visioni, tutti i primi elementi (chiesa, sigillo, tromba, guerra, coppa, momento del giudizio di Babylon), tutti i secondi, i terzi e così di seguito, si ottengono sette gruppi di materia teologica, corrispondenti al complesso dei temi afferenti a ciascuno dei sette stati. A questi sette gruppi si aggiungono altri due: l’esegesi della settima visione (senza articolazioni interne) e l’esegesi di capitoli del testo scritturale, o di parti di essi, introduttivi delle successive specificazioni delle singole visioni per settenari, che Olivi definisce “radicalia” o “fontalia”. Si ottengono in tal modo nove gruppi: le parti proemiali, i sette assembramenti di settenari e la settima visione. Il grande prologo della Lectura, articolato in tredici notabilia, può essere anch’esso aggregato secondo i sette stati. Un libro (la Lectura) contiene dunque princìpi e criteri affinché l’accorto lettore possa trarne un altro libro, fatto con lo stesso materiale ma ricomposto e distribuito in forma diversa.

La Commedia mostra un ordine interno diverso da quello che appare al lettore: il viaggio di Dante ha un andamento di ciclici settenari, che corrispondono ai sette stati della storia della Chiesa, cioè alle categorie con cui Olivi organizza la materia esegetica. Questo ordine interno è registrabile per zone progressive del poema dove prevale, tramite parole-chiave, la semantica riferibile a un singolo stato. È un’intima struttura dirompente i confini letterali stabiliti dai canti e da tutte le divisioni materiali per cerchi, gironi, cieli. Ogni stato, che ha differenti inizi, è concatenato per concurrentia, come le maglie di un’armatura, con quello che precede e con quello che segue. Si possono in tal modo redigere mappe che comprendano l’ordine spirituale della Commedia. La ricerca è pervenuta a una Topografia spirituale della Commedia, dove quasi per ogni verso, o gruppo di versi, collegamenti ipertestuali conducono al “panno” esegetico fornito dalla Lectura super Apocalipsim, sul quale il “buon sartore” ha fatto “la gonna” (cfr. Par. XXXII, 139-141).

■ A ogni gruppo è arbitrariamente assegnato un diverso colore: Radici (verde), I stato (verde acqua), II stato (rosso), III stato (nero), IV stato (viola), V stato (marrone), VI stato (blu), VII stato (indaco), VII visione (fucsia). Dei gruppi sono stati integralmente studiati il terzo stato e la settima visione. Rispetto alla tabella complessiva contenente i collegamenti ipertestuali, nelle sinossi i colori possono essere variati per maggiore evidenza.

Non di rado nei versi alcune parole o incisi-chiave possono rinviare a più luoghi esegetici. Questo perché il testo dottrinale contenuto nella Lectura, prima di travasarsi semanticamente nella Commedia, è stato sottoposto a una duplice riorganizzazione. La prima, sulla base delle indicazioni dello stesso Olivi, secondo il materiale esegetico attribuibile ai singoli stati. La seconda, seguendo il principio applicato nelle distinctiones ad uso dei predicatori, sulla base di lemmi analogicamente collazionati. La “mutua collatio” di parti della Lectura arricchisce il significato legato alle parole e consente uno sviluppo tematico amplificato. Si vedano, ad esempio, le variazioni eseguite sul tema della “voce” o sull’espressione “in medio”, temi più volte iterati nel sacro testo, oppure il modo con cui Ap 1, 16-17 (l’esegesi della decima e undecima prefezione di Cristo come sommo pastore) percorre i versi in collazione con altri passi. A ciò predispone lo stesso testo scritturale, poiché l’Apocalisse contiene espressioni, come Leitmotive, che ritornano più volte. È determinata da parole-chiave che collegano i passi da collazionare. È suggerita dallo stesso Olivi, nel prologo, per una migliore intelligenza del testo.

Tutte le citazioni della Lectura super Apocalipsim presenti nei saggi o negli articoli pubblicati su questo sito sono tratte dalla trascrizione, corredata di note e indici, del ms. Paris, Bibliothèque nationale de France, lat. 713, a disposizione fin dal 2009 sul sito medesimo. I passi scritturali ai quali si riferisce l’esegesi sono in tondo compresi tra “ ”; per le fonti diverse da quelle indicate si rinvia all’edizione in rete. Non viene presa in considerazione l’edizione critica a cura di WARREN LEWIS (Franciscan Institute Publications, St. Bonaventure – New York, 2015) per le problematiche da essa poste, che sono discusse in ALBERTO FORNI – PAOLO VIAN, A proposito dell’edizione di Warren Lewis della Lectura super Apocalipsim di Pietro di Giovanni Olivi. Alcune osservazioni, in “Archivum Franciscanum Historicum”, 109 (2016), pp. 99-161.
Il testo della Commedia citato è in Dante Alighieri, La Commedia secondo l’antica vulgata, a cura di GIORGIO PETROCCHI, Firenze 1994. Si tiene anche conto della recente edizione a cura di GIORGIO INGLESE, Firenze 2021 (Società Dantesca Italiana. Edizione Nazionale), qualora il testo proposto si discosti da quello del Petrocchi e la scelta della variante risulti discutibile nel confronto con la LSA.

 

ABBREVIAZIONI

Ap: APOCALYPSIS IOHANNIS.

LSA: PIETRO DI GIOVANNI OLIVI, Lectura super Apocalipsim.

Concordia: JOACHIM VON FIORE, Concordia Novi ac Veteris Testamenti. Herausgegeben von A. PATSCHOVSKY, Wiesbaden 2017 (Monumenta Germaniae Historica. Quellen zur Geistesgeschichte des  Mittelalters, 28. Band), Teil 2 (lib. I-IV), Teil 3 (lib. V).

Expositio: GIOACCHINO DA FIORE, Expositio in Apocalypsim, in Edibus Francisci Bindoni ac Maphei Pasini, Venetiis 1527, ristampa anastatica Minerva, Frankfurt a. M. 1964.

Olivi opera spesso una sintesi del testo di Gioacchino da Fiore. Le « » precedono e chiudono un’effettiva citazione. Diversamente, viene posto un asterisco (*) o una nota in apice al termine della parte riferibile a Gioacchino.

In Ap: RICCARDO DI SAN VITTORE, In Apocalypsim libri septem, PL 196, coll. 683-888.

 

Note sulla “topografia spirituale” della Commedia

Per quanto segua l’ordine dei ventidue capitoli dell’Apocalisse, Olivi suggerisce un metodo differente di comprensione e di aggregazione del testo esegetico, fondato sui sette stati, cioè sui periodi nei quali si articola la storia della Chiesa. L’Antico Testamento corrisponde alle prime cinque età del mondo, secondo la divisione tradizionale [1]: è l’età del Padre secondo Gioacchino da Fiore. Con il primo avvento di Cristo, nella carne, inizia la sesta età (l’età del Figlio), nella quale la Chiesa, come fosse un individuo, cresce e si sviluppa in sette stati. Al primo, apostolico periodo, succede il secondo dei martiri; poi, al tempo di Giustiniano, il terzo stato dei dottori che confutano con l’intelletto le eresie concorre con il quarto stato degli affettuosi anacoreti devoti al pasto eucaristico, alti per la contemplazione ma anche attivi come reggitori delle genti; a partire da Carlo Magno subentra il quinto stato aperto alla vita associata delle moltitudini, bello nel principio ma poi corrottosi fino a trasformare quasi tutta la Chiesa in una nuova Babilonia; la riforma interviene, a partire da Francesco, con il cristiforme sesto stato, fino alla sconfitta dell’Anticristo; subentra infine il silenzio e la quiete del pacifico settimo stato. Il sesto e il settimo stato (la terza età di Gioacchino da Fiore) coincidono con il secondo avvento di Cristo, nello Spirito, cioè nei suoi discepoli spirituali inviati a convertire il mondo con la predicazione; al termine del settimo stato ci sarà il terzo avvento, nel giudizio.
L’Apocalisse si articola in sette visioni: le sette chiese d’Asia, i sette sigilli, le sette trombe, la donna vestita di sole (le sette guerre sostenute dalla Chiesa), le sette coppe, il giudizio di Babylon nelle sette teste del drago, la Gerusalemme celeste. Le prime sei visioni possono essere a loro volta divise in sette momenti, ciascuno dei quali riferibile a uno dei sette stati. Assembrando, per le prime sei visioni, tutti i primi elementi (chiesa, sigillo, tromba, guerra, coppa, momento del giudizio di Babylon), tutti i secondi, i terzi e così di seguito, si ottengono sette gruppi di materia teologica, corrispondenti al complesso dei temi afferenti a ciascuno dei sette stati [2]. A questi sette gruppi se ne aggiungono altri due: l’esegesi della settima visione (senza articolazioni interne) e l’esegesi di capitoli del testo scritturale, o di parti di essi, introduttivi delle successive specificazioni delle singole visioni per settenari, che Olivi definisce “radicalia” o “fontalia”. Si ottengono in tal modo nove gruppi: le parti proemiali, i sette assembramenti di settenari e la settima visione. Il grande prologo della Lectura, articolato in tredici notabilia, può essere anch’esso aggregato nelle sue parti secondo i sette stati.

L’intenso travaso di parole-temi dalla Lectura nella Commedia si accompagna a un fatto strutturale. La Commedia mostra un ordine interno diverso da quello che appare al lettore: il viaggio di Dante ha un andamento di ciclici settenari, che corrispondono ai sette stati oliviani. È un ordine registrabile per zone progressive del poema dove prevalgono i temi di un singolo stato, che rompe i confini letterali stabiliti dai canti e da tutte le divisioni materiali per cerchi, gironi, cieli. Ogni stato, che ha differenti inizi, è concatenato per “concurrentia”, come le maglie di un’armatura, con quello che precede e con quello che segue. Ciascuno stato ha in sé una grande ricchezza di motivi e contiene inoltre temi di tutti gli altri, consentendo innumerevoli intrecci e variazioni. La Commedia appare, come l’Apocalisse, “libro scritto dentro e fuori” (Ap 5, 1), con duplice struttura, linguaggio e senso, letterale e spirituale. Il viaggio di Dante e la visione di Giovanni hanno la stessa causa finale, che è la beatitudine, alla quale si perviene con diverse guide, per gradi segnati da visioni sempre più nuove e ardue delle precedenti, attraverso una sempre maggiore apertura dell’arcano coperto dal velame dei sette sigilli fino al punto più alto in cui, in questa vita, è possibile vedere la verità.
Tutti i modi del linguaggio interiore al poema esprimono un processo, un viaggio dal più chiuso al più aperto, e in questo andare hanno una loro precisa collocazione ‘topografica’, uno ‘stato’ (nel senso di momento storico che ricade sulla coscienza individuale) al quale appartenere. Si possono in tal modo stendere vere e proprie mappe tematiche che comprendano l’ordine spirituale di tutta la Commedia che aderisce, parodiandola semanticamente, a una precisa teologia della storia, sia pure modificandone profondamente le prospettive. La ciclicità dei temi permette di stabilire collegamenti inusitati tra le diverse zone; il procedere per gradi dell’illuminazione divina fa sì che episodi oscuri e quasi ermeticamente chiusi si chiariscano poi, aprendosi all’intelligenza in modo più alto.
A ogni gruppo è arbitrariamente assegnato un diverso colore: Radici (verde), I stato (verde acqua), II stato (rosso), III stato (nero), IV stato (viola), V stato (marrone), VI stato (blu), VII stato (indaco), VII visione (fucsia). Dei gruppi sono stati integralmente studiati il terzo stato e la settima visione.

INFERNO

(le prime cinque età del mondo)

La ‘topografia spirituale’ del poema mostra nell’Inferno cinque cicli settenari corrispondenti agli stati della Chiesa descritti da Olivi e ai loro temi contenuti nella Lectura. Questi cinque cicli designano le prime cinque età del mondo (riunite a loro volta nel primo stato generale, che corrisponde all’età del Padre di Gioacchino da Fiore), in quanto prefigurazione del primo avvento di Cristo e della Chiesa.
I cinque cicli settenari che si susseguono nell’Inferno a partire dal quarto canto (i primi tre canti hanno una tematica particolare) sono preceduti da cinque zone che possono essere definite ‘snodi’, dove cioè confluiscono temi provenienti da più stati, intrecciati insieme ad altri ad avviare il procedere settenario. Il centro di questi ‘snodi’ coincide con un canto (Inf. IV, X, XVII, XXVI, XXXII), ma la zona è più vasta e supera l’ambito dato dalla divisione letterale del poema.

Inf. I-III sono da considerare al di fuori dei cicli. Inf. I e II sono profondamente segnati dai temi del sesto stato. Inf. III è riferibile al settimo stato (per gli ignavi) e in parte al quinto (per l’episodio di Caronte).

canti

I ciclo

stati

cerchi

IV

Limbo

Radici, I (I snodo)

I

V

lussuriosi

II

II

VI

golosi

III

III

VII

avari e prodighi

palude Stigia
(iracondi e accidiosi)

IIIIV

 

V

IV


V

VIII

palude Stigia (orgogliosi)
città di Dite

V

V

IX

apertura della porta di Dite

VVI

 

canti

II ciclo

stati

cerchi

IX-X-XI

eretici, ordinamento dell’inferno

I (II snodo)

VI

XII

violenti contro il prossimo

II

VII (girone 1)

XIII

violenti contro sé

III

        (girone 2)

XIV

violenti contro Dio: bestemmiatori

IV

        (girone 3)

XV-XVI

violenti contro Dio: sodomiti

V

XVI

XVII

ascesa di Gerione

Gerione,  violenti contro Dio: usurai

VI

canti

III ciclo

stati

cerchi

XVII

volo verso Malebolge

I (III snodo)

 

XVIII

ruffiani, lusingatori

Radici II

VIII (bolgia 1, 2)

XIX

simoniaci

III

(bolgia 3)

XX

indovini

IV

(bolgia 4)

XXI-XXII

barattieri

V

(bolgia 5)

XXIII

ipocriti

VVI

(bolgia 6)

XXIV-XXV

ladri

VI

(bolgia 7)

canti

IV ciclo

stati

cerchi

XXVI

consiglieri di frode (greci)

I (IV snodo)

(bolgia 8)

XXVII

consiglieri di frode (latini)

II

XXVIII-XXIX

seminatori di scandalo e di scisma

III

(bolgia 9)

XXIX

falsatori

IV

  (bolgia 10)

XXX

falsatori

IVV

XXXI

giganti

VVI

 

canti

V ciclo

stati

cerchi

XXXII

Cocito: Caina, Antenora

I (V snodo)

IX

XXXIII

Antenora, Tolomea

II

XXXIV

Giudecca

IIIIVV

XXXIV

volgersi di Virgilio sull’anca di Lucifero

VI

 

 

Il sesto stato è per Olivi la fase più importante nella costruzione dell’edificio della Chiesa. In esso “renovabitur Christi lex et vita et crux”. Corrisponde ai tempi moderni. Ha quattro diversi inizi temporali: uno profetico, con Gioacchino da Fiore, il quale lo vide in spirito concependo la sua terza età; il secondo con la conversione di Francesco (1206), che seminò la pianta; il terzo con la predicazione degli uomini spirituali, per la quale la pianta si rinnovella; il quarto con la distruzione storica di Babylon. Dura fino alla sconfitta dell’Anticristo, il cui avvento si collocherebbe, secondo i numeri della profezia di Daniele 12, 11-12 combinati con Ap 12, 6 e 14, fra il 1290 e il giubileo di pace del 1335.
Una ‘vita nuova’ si instaura nel sesto stato, per eccellenza il momento dell’imitazione di Cristo. I rami dell’albero si dilatano producendo il frutto della carità, l’acqua che proviene da Cristo-fonte attraverso il condotto che percorre i primi cinque stati della Chiesa si effonde in un lago; è il tempo, assimilato al sacramento del matrimonio, della letizia nuziale, della familiarità, dell’amicizia. Corrisponde al sesto giorno della creazione, in cui vennero creati prima i rettili e le bestie irrazionali, poi l’uomo razionale che, come l’ordine evangelico, è fatto a immagine e somiglianza di Dio e domina tutti gli animali.
Le espressioni di Olivi relative al sesto stato – “quoddam sollempne initium novi seculirenovaretur et consumaretur seculum”, nel quale il sacerdozio apostolico “redeat et assurgat ad ordinem primum”, la “nova Ierusalem”, interpretata come “visione di pace”, viene vista “descendere de celo” e la Chiesa descritta come la donna vestita di sole con la sua “virginea proles” – sono la veste spirituale dei versi della quarta egloga virgiliana che celebrano la rinnovata età dell’oro: “Magnus ab integro saeclorum nascitur ordo / iam redit et Virgo; redeunt Saturnia regna; / Iam nova progenies caelo demittitur alto” (Egloga IV, 5-7). Olivi completa la Lectura super Apocalipsim nel 1298, poco prima di morire, il 14 marzo, a Narbonne. Quel felicissimo stato segnato dalla pace sotto il divo Augusto, che rese l’umanità disposta al primo avvento di Cristo, si sta rinnovando nel sesto stato della Chiesa, nel secondo avvento nello Spirito. Scrive Arsenio Frugoni: “[…] quell’escatologismo, oltre che ideologia di lotta e di riforma del gruppo spirituale, era anche un vero e proprio sentimento storico […] una tensione di rinnovamento, una ansia di salvezza, che nel 1300, l’anno centenario della Natività, aveva trovato come una attivazione, in un senso di pienezza dei tempi, cui doveva corrispondere un fatto, un accadere meraviglioso e nuovo” [3].
All’apertura del sesto sigillo, l’eletta schiera dei riformatori – i 144.000 segnati dalle dodici tribù d’Israele – guida la turba innumerevole di ogni gente, tribù, popolo e lingua (Ap 7, 3-4.13). Questi eletti e magnanimi duci, separati dalla volgare schiera per più alta milizia, vengono destinati a difendere liberamente la fede – ad essi è data la “plena libertas ad innovandam christianam religionem” -; sono gli amici di Dio a lui noti per nome, configurati in Cristo crocifisso e votati al martirio.
All’interno della Chiesa del sesto stato, l’Ordine dei Minori – “ordo plurium personarum” – è  assimilabile alla persona umana di Cristo. Come questa si sviluppò fino all’età virile, così dovrà essere per l’ordo evangelicus piantato da Francesco, che avrà bisogno (a differenza di Cristo che stette poco tempo nel mondo) di due o tre generazioni per svilupparsi prima di subire una condanna simile a quella di Cristo [4]. La sua maturità coincide, verso il 1300, con il terzo inizio del sesto stato, cioè con il rinnovarsi per opera dello Spirito di Cristo, nel suo secondo avvento, della pianta seminata da Francesco. Questa concezione dell’Ordine francescano come individuo in sviluppo che, perfettamente maturato, diventa il novus ordo preconizzato da Gioacchino da Fiore per l’età dello Spirito, si differenzia da quella di Bonaventura, che aveva invece distinto i Francescani del proprio tempo – e quindi anche gli Spirituali – dall’Ordine finale che dominerà fino ai confini della terra. Alla terza apertura del sesto sigillo nuovi san Giovanni vengono inviati a predicare al mondo come nel tempo degli Apostoli. Ma Giovanni non designa solo un Ordine, perché Olivi lascia aperta la possibilità di rivelazioni individuali, avute da “singulares persone”, perfetti imitatori di Cristo votati, con la loro “lingua erudita”, al compito della conversione universale.

[LSA, cap. X, Ap 10, 11] “Et dixit michi: Oportet te iterum prophetare in gentibus et populis et linguis et regibus multis”. In ipsa sapientia libri expresse continetur quod oportet iterum predicari evangelium in toto orbe, et Iudeis et gentibus, et totum orbem finaliter converti ad Christum. Sed quod per istum hoc esset implendum non poterat sciri nisi per spiritualem revelationem, et hoc dico prout per Iohannem designantur hic singulares persone quia, prout per ipsum designatur in communi ordo evangelicus et contemplativus, scitur ex ipsa intelligentia libri quod per illum ordinem debet hoc impleri.

Nei cinque cicli settenari della prima cantica il sesto stato è segnato dall’apertura della porta della città di Dite (Inf. IX, 89-90); dall’ascesa di Gerione dall’abisso (Inf. XVI, 106-136); dal precipitoso passaggio dalla quinta alla sesta bolgia (Inf. XXIII, 1-57) e poi dalle trasformazioni della settima, dove i ladri fiorentini si mutano in serpenti e viceversa (Inf. XXIV-XXV); dal chinarsi di Anteo sul fondo dell’inferno (Inf. XXXI, 136-145); dal passaggio del centro della terra, con la conversione di Virgilio sull’anca di Lucifero, che è passaggio verso la sesta età, quella della Chiesa, descritta nel Purgatorio.
Ma i temi propri del sesto stato sono diffusi ovunque, intrecciati con quelli degli altri stati, e alla loro esegesi rinviano precise parole-chiave incardinate nel senso letterale dei versi. L’esegesi dell’angelo del sesto sigillo (Ap 7, 2) è già centrale nel primo canto del poema.
La novità che il sesto stato, per eccellenza stato di rinnovamento di questo secolo, arreca nell’inferno è una novità fittizia: l’apertura della porta della città di Dite non è vera novità, perché essa è stata chiusa dall’ostinazione dei diavoli, recidivi dopo l’apertura della porta dell’inferno da parte di Cristo prefigurata dalla venuta di Ercole all’Ade, per cui Cerbero “ne porta ancor pelato il mento e ’l gozzo”; Gerione viene su ad un “novo cenno” di Virgilio, ma è figura della frode dalla velenosa coda aculeata; il nuovo prodotto dalle trasformazioni reciproche di serpenti e uomini è qualcosa di incompiuto perché l’uomo razionale, creato nel sesto stato, regredisce allo stato precedente.
L’Inferno è il luogo della durezza lapidea, dell’impetrarsi, del parlare duro di cose dure a dirsi, del duro giudizio, del senso duro della scritta al sommo della porta, dei duri lamenti, dei duri demoni, dei duri veli del gelo, della gravezza. Nell’Inferno vige l’imposizione data a Daniele dall’angelo sotto il sesto sigillo dell’Antico Testamento: “Ora tu, Daniele, chiudi queste parole e sigilla questo libro fino al tempo stabilito” (Dn 12, 4), che era la sesta età nella quale apparve Cristo e in particolare il sesto stato della sua Chiesa nella quale il libro doveva essere più pienamente aperto, non però ai malevoli e ai maldisposti. Questa durezza è rotta dall’invito di Dante ai dannati perché parlino. Far parlare liberamente, per dettato interiore, è la principale prerogativa del sesto stato – la nuova età che tanto s’aspetta, quella che ode del “dolce stil novo” e delle “nove rime” -, ed è tema che la poesia canta per intero, sia pure per un attimo, anche nella vecchia roccia infernale. Appartiene alla sesta chiesa il parlare liberamente di Cristo – ad essa è dato l’“ostium apertum”, che è “ostium sermonis” – , il sentire per dettato interiore, l’aprirsi della volontà. Appartiene alla sesta chiesa anche il far venire quelli che si dicono Giudei senza esserlo, mutati nel cuore e disposti a farsi battezzare e governare. Questo far venire a parlare equivale al cortese e liberale invito dello Spirito di Cristo a convivare, a venire con desiderio e volontario consenso, con “disio” e con “velle”, in una pausa di pace nell’eterna dannazione. All’“affettüoso grido” del poeta le ombre di Francesca e Paolo vengono “dal voler portate” verso un momento di mutazione, sebbene limitata al successivo colloquio. Tutto l’Inferno è un contrappunto fra la durezza del giudizio e l’apertura per la parola dirompente, fin che essa dura, la pena. Un’apertura che si esprime in varie forme: muoversi sospirando nel Farinata prima immobile, ‘crollarsi’ quasi per terremoto interiore dello ‘schivo’ Ulisse, convertirsi del vento in voce in Guido da Montefeltro, tornare indietro nel cammino assegnato o separarsi dai compagni di pena, essere sforzati a parlare anche malvolentieri, non poterlo negare o mostrare fretta di farlo, arrestarsi obliando il martirio, levarsi per poi ricadere, sollevarsi da atti bestiali per ritornare a essi dopo aver parlato, come nel conte Ugolino. In tante lingue, che parlano come per sé stesse mosse, sta un solo desiderio, il vivere ancora nel libro che è stato altrui aperto.
Se nell’Inferno il sesto stato non si realizza mai compiutamente, anche il settimo, che gli è strettamente connesso, non può trovare un luogo autonomo. Ciò non toglie che temi del settimo stato (e della settima visione) siano ben presenti in modo diffuso. Ad esempio, quelli relativi alla settima chiesa assumono particolare rilievo nella descrizione degli ignavi a Inf. III. Tempo del silenzio, della serena pace, del riposo dalle ansiose fatiche, il settimo stato subentra dopo le terribili tentazioni inferte, con un martirio non corporale ma psicologico, dai carnefici dell’Anticristo nel sesto. Come ogni momento della storia umana partecipa dell’imitazione di Cristo, che raggiunge l’acme nel sesto stato, così in ogni periodo si verifica una sua “quietatio”, una pausa di pace, di quiete, di silenzio propria del settimo. Così Francesca parla e ascolta “mentre che ’l vento, come fa, ci tace”. Il vento – “la bufera infernal, che mai non resta” – designa il fluttuare tempestoso delle passioni nel cuore.

PURGATORIO

(sesta età del mondo)

Dopo le prime cinque età del mondo (corrispondenti all’Antico Testamento, la gioachimita età del Padre), che hanno segnato la discesa a spirale per i cinque cicli settenari dell’Inferno, con il Purgatorio inizia la sesta età, quella di Cristo (l’età del Figlio), che ha sette stati, corrispondenti ai sette stati della Chiesa. Dapprima, nel cosiddetto ‘antipurgatorio’, si registrano in successione temi prevalenti dei primi cinque stati. Il sesto stato della sesta età (con cui si apre l’età dello Spirito) inizia con l’apertura della porta di san Pietro (la porta del purgatorio). Questo sesto stato procede anch’esso con andamento settenario, per cui ha sette momenti, coincidenti principalmente con un girone della montagna, ma non del tutto, perché sempre l’ordine spirituale del poema rompe i confini letterali e le divisioni materiali, concatenando i temi di uno stato prevalente con quelli dello stato che precede e con quelli dello stato che segue e intrecciandoli con temi di tutti gli altri stati.
È spiegato nel Notabile VII del prologo della Lectura che il sesto stato della Chiesa è il secondo stato di Cristo e ha i suoi sette tempi per cui la Chiesa, come fosse una sfera, si ricongiunge circolarmente al primo apostolico tempo. Il settimo dei sette momenti del sesto stato della Chiesa coincide con il settimo stato generale della Chiesa, che nel poema corrisponde in parte all’ultimo girone della montagna (il settimo, dove si purgano i lussuriosi) e in parte all’Eden, con cui si chiude la seconda cantica.
Il Purgatorio dunque, secondo il senso spirituale, è la storia della Chiesa che corre verso il suo sesto stato, punto di riferimento di tutte le vicende umane, antiche e moderne, che ad esso cooperano. Non è casuale che nel sesto girone della montagna sia chiarificata e riconosciuta, nel colloquio con Bonagiunta da Lucca, la poetica delle “nove rime” di Dante, già “sesto tra cotanto senno” cooptato nella “bella scola” dei poeti del Limbo.
La vasta zona dedicata al sesto momento del sesto stato della Chiesa ha il suo inizio nel forte terremoto che scuote la montagna mentre Dante e Virgilio si trovano ancora nel quinto girone (Purg. XX, 124-141). Essa è stata compiutamente esaminata altrove.
Il settimo stato dell’Olivi si realizza parte in questa vita (come pregustazione in terra della gloria eterna, cioè fin sulla cima della montagna) e in parte nella futura (nel senso della quiete delle anime beate in attesa della resurrezione, che è la materia del Paradiso).

canti

I ciclo – fino al sesto sato

stati

 

I

Catone

Radici, I

 

II

angelo nocchiero, Casella

–  II

 

III

scomunicati

III

“Antipurgatorio”

IV

salita al primo balzo, Belacqua

IV  –  V

V

negligenti morti per violenza

V

VI

Sordello

V

VII-VIII

valletta dei principi

V

IX

apertura della porta

VI sesto stato

 

canti

II ciclo – il sesto stato della sesta età

stati

gironi

X-XII

superbi

I

I

XIII-XIV-XV

invidiosi

II

II

XV-XVIII

iracondi

ordinamento del purgatorio,

amore e libero arbitrio

III

III

IV

XVIII-XIX

accidiosi

IV

IV

XIX-XX

avari e prodighi

V

V

XX (terremoto)  -XXV

Stazio, golosi, generazione dell’uomo

VI

VI

XXV-XXVI

lussuriosi

VII – settimo stato

VII

XXVII

XXVIII-XXXIII

 muro di fuoco

notte stellata, termine dell’ascesa

Eden

 

 

PARADISO

(settimo stato della Chiesa)

Il Primo Mobile è il nono e penultimo cielo, ma è il sesto se si parte dal cielo del Sole. È anche il cielo più segnato dal tema del “punto”, cui è assimilato il sesto stato. Questo consente di ricostruire l’ordine spirituale del Paradiso ponendo la cerniera nel quarto cielo del Sole. Con il terzo cielo di Venere termina infatti il cono d’ombra gettato dalla terra, secondo la dottrina di Alfragano (Par. IX, 118-119), mentre prima di descrivere l’ascesa al cielo del Sole il poeta invita il lettore a rivolgersi “a l’alte rote” (Par. X, 7-27). Senza la cesura recisa che, nella prima cantica, divide i dannati puniti all’interno della città di Dite da quelli che ne stanno fuori e, nella seconda cantica, separa le anime purganti nei sette gironi della montagna dalle anime che attendono fuori della porta (il cosiddetto ‘antipurgatorio’), anche nel Paradiso gli spiriti che si manifestano nei primi tre cieli della Luna, di Mercurio e di Venere (spiriti che mancarono ai voti, spiriti che furono attivi per conseguire onore e fama, spiriti amanti) si distinguono per minore perfezione rispetto a quelli che appaiono nei cieli seguenti.
I dieci cieli del Paradiso si mostrano pertanto ordinati in due gruppi di settenari, corrispondenti agli stati della Chiesa (e alle loro prerogative) secondo Olivi, parzialmente combacianti (da 1 a 7 e da 4 a 10: coincidono gli ultimi quattro numeri del primo gruppo e i primi quattro del secondo).

I  Se si considera il primo settenario, nel primo cielo della Luna si affronta la questione dell’inadempienza dei voti, che ha corrispondenza con i temi propri della prima chiesa di Efeso, il cui nome, se interpretato, oscilla tra la fervida volontà iniziale e la remissione (l’essenza del voto consiste nella volontà).

II  Nel secondo cielo di Mercurio, le battaglie sostenute dal “sacrosanto segno” dell’aquila corrispondono allo stato dei martiri, che è dei combattenti, e anche la dottrina dell’incarnazione e della passione di Cristo, esposta successivamente da Beatrice, fa parte della tematica, perché l’intera Chiesa, fondata sulla passione di Cristo, imita con i martiri la sua croce, e questo giova assai al suo radicamento.

III  Nel terzo cielo di Venere, Carlo Martello spiega al modo di un dottore del terzo stato la diversità delle indoli umane e come gli uomini, non assecondandole, errino; nello stesso cielo compare Folchetto di Marsiglia, che da vescovo di Tolosa combatté l’eresia albigese.

IV – I  Al quarto cielo del Sole, primo del secondo gruppo di settenari per l’esaltazione della vita apostolica (propria del primo stato e rinnovata nel sesto), si può connettere il tema stesso del sole inteso nell’esegesi della quarta tromba (Ap 8, 12): “Per solem videtur hic designari solaris vita et contemplatio summorum anachoritarum, qui fuerunt patres et exempla aliorum, vel solaris sapientia et doctrina summorum doctorum”. Sapienza e contemplazione, dottori del terzo e anacoreti del quarto stato, concorrono, come Domenico e Francesco – “L’un fu tutto serafico in ardore; / l’altro per sapïenza in terra fue / di cherubica luce uno splendore” (Par. XI, 37-39) – con mutua cortesia a infiammare il meriggio dell’universo.

V – II  Il quinto cielo di Marte, secondo (come il secondo stato dei martiri) per l’esaltazione della croce di Cristo formata dai lumi dei combattenti per la fede, reca in sé il tema del condiscendere proprio del quinto stato sia nel pio discendere per la croce di Cacciaguida verso Dante, sia nella decadenza degli “alti Fiorentini”, cioè delle antiche famiglie, assimilate agli anacoreti, un tempo alti e poi vòlti in basso.

VI – III  Il sesto cielo di Giove, terzo (come il terzo stato dei dottori) per la spiegazione di profonde verità di fede, sviluppa il motivo, proprio della sesta chiesa, della “porta aperta”. Aprire la porta significa illuminare e rendere acuto l’intelletto che penetra nell’occulto delle Scritture, e anche dare efficacia spirituale a penetrare nel cuore di chi ascolta: così l’aquila apre la “latebra” di Dante, così l’occhio di Rifeo Troiano fu da Dio aperto alla futura redenzione.

VII – IV Nel settimo cielo di Saturno, quarto (come il quarto stato degli anacoreti), “si tace … la dolce sinfonia di paradiso” (Par. XXI, 58-60), e il tacere è tema del settimo stato. Ivi si mostrano gli spiriti contemplativi, principali soggetti del quarto stato, proprio degli anacoreti: se si conta a partire dal quarto cielo del Sole, considerando questo come primo ovvero come nuovo avvio del ciclo settenario, il cielo di Saturno è appunto quarto.

VIII (V) Il settimo cielo di Saturno è seguito dal cielo delle Stelle fisse – ottavo e quinto -, dove si mostrano le schiere del trionfo di Cristo che discendono dall’Empireo (il quinto stato è caratterizzato dalla “condescensio”) e si celebra il trionfo di Maria (sviluppo del tema, proprio della quinta chiesa, della mirabile bellezza della Chiesa, regina ornata di veste aurea per la carità che unisce e circondata dalla varietà nei doni e nelle grazie delle diverse membra). È inoltre ricapitolazione dei precedenti sette, secondo un’interpretazione più volte presente nella Lectura dell’essere ‘ottavo’. Per questo Dante, stando nel segno dei Gemelli, riguarda in giù e torna col viso per tutte quante le sette precedenti sfere (Par. XXII, 124-154).

IX (VI) Segue il Primo Mobile o Cristallino – nono e sesto cielo –, dove il poeta vede il punto luminosissimo – Dio – da cui dipende il cielo e la terra, circondato dai nove cerchi di fuoco (Par. XXVIII, 16-18, 40-42, 94-96). Il sesto stato, secondo quanto Olivi afferma nel Notabile VIII, è il “punto” da cui dipendono gli altri stati, perché appare nel testo dell’Apocalisse in modo più evidente degli altri, che da esso assumono chiarezza quanto alla loro manifestazione nella storia, come l’intelligenza delle cose ordinate ad un fine dipende dal fine.

X (VII) La quiete e l’immobilità dell’Empireo, decimo cielo – il “ciel de la divina pace” -, corrispondono al settimo stato, di cui è propria la “quietatio”, il silenzio (tema anticipato dal tacere di Beatrice in apertura del canto XXIX), e la pace.

Il Paradiso avrebbe pertanto un ordine spirituale del seguente tipo:

cielo

stato

cielo

I

LUNA

I

II

MERCURIO

II

III

VENERE

III

IV

SOLE

IV

I

SOLE

V

MARTE

V

II

MARTE

VI

GIOVE

VI

III

GIOVE

VII

SATURNO

VII

IV

SATURNO

VIII

V

STELLE FISSE

IX

VI

PRIMO MOBILE

X

VII

EMPIREO

Oltre ai luoghi sopra indicati, i temi del sesto e del settimo stato si rinvengono in più punti, intrecciati con altri.

[1] Cfr. LSA, cap. XVII, Ap 17, 9: «Et subdit Ricardus quod per septem reges, et per septem capita designatos, designatur hic universus populus malorum, qui secundum septem status huius seculi determinantur. Primus scilicet ab Adam usque ad Noe. Secundus a Noe usque ad Abraam. Tertius ab Abraam usque ad Moysen. Quartus a Moys<e> usque ad David. Quintus a David usque ad Christum. Sextus a Christo usque ad Antichristum. Septimus autem sub Antichristo attribuitur». Cfr. PETRI IOHANNIS OLIVI Lectura super Lucam, Lc 1, 26, ed. F. Iozzelli, Grottaferrata 2010 (Collectio Oliviana, V), pp. 187-188: «Signanter autem dicitur in sexto mense, quia Christus uenit in sexta mundi etate, et iterum post quinque notabiles synagoge decursus: nam primo, cum sola circumcisione fuit sub patribus per quadringentos annos; secundo, accepta lege, fuit sub iudicibus per tantumdem temporis; tertio, proficiens in regnum, fuit sub regibus; quarto, assumpto plenius spiritu prophetico, fuit sub prophetis sollempnioribus, scilicet sub Elia, Ysaia et Yeremia etc.; quinto, restituto templo et urbe, fuit sub pontificibus quibus, per Aggeum et Zachariam et Malachiam iterata prophetia de Christo et eius precursore Elia, factum est silentium prophetarum, ita quod obmutuit cetus sacerdotum usque ad Iohannis ortum; et iterum in eiusdem quinti temporis sexto centenario conceptus est Christus. Sicut etiam sexto die factus est homo ad ymaginem Dei, sic conuenienter sub consimili senario factus est Christus homo, plenior Dei ymago: nam et perfectio numeri senarii, que ex omnibus partibus suis aliquotis et iterum ex ternario cum suis partibus, scilicet binario et unitate, consurgit, competit sibi et etiam reflexio ternarii per binarium, id est cultus fidei et Trinitatis per geminam caritatem».

[2] Il principio è chiaramente affermato nel notabile VIII del prologo della LSA: «[…] si omnia prima membra visionum ad invicem conferas et consimiliter omnia secunda et sic de aliis, aperte videbis omnia prima ad idem primum concorditer referri et consimiliter omnia secunda ad idem secundum et sic de aliis. Et hoc in tantum quod plena intelligentia eiusdem primi multum clarificatur ex mutua collatione omnium primorum, et idem est de omnibus secundis et tertiis et sic de aliis».

[3] A. FRUGONI, La Roma di Dante, tra il tempo e l’eterno, in ID., Pellegrini a Roma nel 1300. Cronache del primo Giubileo, presentazione di C. Frugoni, a cura e con Introduzione di F. Accrocca, Casale Monferrato 1999, pp. 102-103.

[4] LSA, cap. VI, Ap 6, 12: «Secunda ratio est quia persone Christi correspondet in sexta apertione unus ordo plurium personarum sic secundum suam proportionem augendus, sicut Christus secundum suum corpus fuit usque ad perfectam etatem viriliter auctus. […] Quarta est quia, prout super evangelia ostendi, Christus parvo tempore debuit inter nos vivere et pauciori predicare […]. Nisi autem ordo evangelicus, per Franciscum renovatus, esset in multis et saltem sub duabus vel tribus generationibus propagatus et sollempnizatus, non esset nec ipse nec populus ab eo ducendus sufficienter dispositus ad tam autenticam condempnationem condempnationi Christi consimilem subeundam».