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Lug 24 2025

Paradiso XIV

 

La ‘Divina Parodia’ del Libro scritto dentro e fuori 

The ‘Divine Parody’ of the Book written within and without

Inferno: I; II; III; IV; V; VI; VII; VIII; IX; X; XI; XII; XIII; XIV; XV; XVI; XVII; XVIII; XIX; XX; XXI; XXII; XXIII; XXIV; XXV; XXVI; XXVII; XXVIII; XXIX; XXX; XXXI; XXXII, 1-123; XXXII, 124-XXXIII, 90; XXXIII, 91-157; XXXIV

Purgatorio: III; XXVIII; XXIX; XXX; XXXI; XXXII; XXXIII

Paradiso: XI-XII; XIV; XV; XVI; XVII; XVIII, 1-51; XVIII, 52-136; XIX; XX; XXXIII

 

1. Beatrice centro della sfera. 2. Il canto degli arpisti. 3. “Una voce modesta, / forse qual fu da l’angelo a Maria”: la maschera di Salomone. 4. La misura dei lati della Gerusalemme celeste. 5. La misteriosa terza ghirlanda. 6. “Chi prende sua croce e segue Cristo”. AvvertenzeAbbreviazioniNote sulla “topografia spirituale” della Commedia.

 

Legenda [3]: numero dei versi; 5, 6: collegamento ipertestuale all’esegesi, nella Lectura di Olivi, di capitolo e versetto dell’Apocalisse [Ap]; Not. X: collegamento all’esegesi contenuta nei tredici notabilia del prologo della LecturaVarianti rispetto al testo del Petrocchi.

Viene qui esposto il canto XIV del Paradiso con i corrispondenti legami ipertestuali con i luoghi della Lectura super Apocalipsim ai quali i versi si riferiscono. L’intero poema è esposto nella Topografia spirituale della Commedia (2013, PDF; cfr. infra), ma si sta procedendo a un esame progressivo e aggiornato dei singoli canti (completato l’Inferno). Ogni tabella sinottica, qui presentata o alla quale si rinvia in quanto già esaminata in altra sede, è preceduta o seguita da una parte esplicativa. Sull’uso dei colori cfr. Avvertenze.

Paradiso XIV

Dal centro al cerchio, e sì dal cerchio al centro   5, 64, 6
movesi l’acqua in un ritondo vaso,   14, 2
secondo ch’è percosso fuori o dentro:   [3]   percossa

ne la mia mente fé sùbito caso
questo ch’io dico, sì come si tacque
 la glorïosa vita di Tommaso,   [6]   Not. X

per la similitudine che nacque
del suo parlare e di quel di Beatrice,
a cui sì cominciar, dopo lui, piacque:   [9]

« A costui fa mestieri, e nol vi dice
né con la voce né pensando ancora,
d’un altro vero andare a la radice.   [12]

Diteli se la luce onde s’infiora   Not. XII
vostra sustanza, rimarrà con voi
etternalmente sì com’ ell’ è ora;   [15]

e se rimane, dite come, poi   1, 2
che sarete visibili rifatti,
esser porà ch’al veder non vi nòi ».   [18]

Come, da più letizia pinti e tratti,   18, 22-23; 5, 9
a la fïata quei che vanno a rota   9, 9
levan la voce e rallegrano li atti,   [21]   4, 2; 14, 2; 5, 9

così, a l’orazion pronta e divota,   5, 8
li santi cerchi mostrar nova gioia   4, 2 (5, 9); 18, 22-23
nel torneare e ne la mira nota.   [24]   19, 1

Qual si lamenta perché qui si moia
per viver colà sù, non vide quive
lo refrigerio de l’etterna ploia.   [27]   5, 9; 14, 2    santa

Quell’ uno e due e tre che sempre vive   4, 8-11
e regna sempre in tre e ’n due e ’n uno,   5, 10
non circunscritto, e tutto circunscrive,   [30]

tre volte era cantato da ciascuno
di quelli spirti con tal melodia,   19, 1-2
ch’ad ogne merto saria giusto muno.   [33]

E io udi’ ne la luce più dia
del minor cerchio una voce modesta,   4, 5
forse qual fu da l’angelo a Maria,   [36]   Lectura super Lucam 1, 28

risponder: « Quanto fia lunga la festa   21, 16
di paradiso, tanto il nostro amore
si raggerà dintorno cotal vesta.   [39]

La sua chiarezza séguita l’ardore;
l’ardor la visïone, e quella è tanta,
quant’ ha di grazia sovra suo valore.   [42]   22, 17

Come la carne glorïosa e santa
fia rivestita, la nostra persona
più grata fia per esser tutta quanta;   [45]

per che s’accrescerà ciò che ne dona
di gratüito lume il sommo bene,
lume ch’a lui veder ne condiziona;   [48]

onde la visïon crescer convene,
crescer l’ardor che di quella s’accende,
crescer lo raggio che da esso vene.   [51]

Ma sì come carbon che fiamma rende,
e per vivo candor quella soverchia,   7, 9
sì che la sua parvenza si difende;   [54]

così questo folgór che già ne cerchia
fia vinto in apparenza da la carne   11, 7
che tutto dì la terra ricoperchia;   [57]

né potrà tanta luce affaticarne:   7, 16
ché li organi del corpo saran forti
a tutto ciò che potrà dilettarne ».   [60]

Tanto mi parver sùbiti e accorti
e l’uno e l’altro coro a dicer  « Amme! »,
che ben mostrar disio d’i corpi morti:   [63]   5, 4-5

forse non pur per lor, ma per le mamme,
per li padri e per li altri che fuor cari
anzi che fosser sempiterne fiamme.   [66]

Ed ecco intorno, di chiarezza pari,
nascere un lustro sopra quel che v’era,
per guisa d’orizzonte che rischiari.   [69]

E sì come al salir di prima sera
comincian per lo ciel nove parvenze,   4, 2
sì che la vista pare e non par vera,   [72]

parvemi lì novelle sussistenze
cominciare a vedere, e fare un giro
di fuor da l’altre due circunferenze.   [75]

Oh vero sfavillar del Santo Spiro!
come si fece sùbito e candente   1, 14
a li occhi miei che, vinti, nol soffriro!   [78]

Ma Bëatrice sì bella e ridente   1, 16
mi si mostrò, che tra quelle vedute   1, 17; 4, 2
si vuol lasciar che non seguir la mente.   [81]   seguì

Quindi ripreser li occhi miei virtute   12, 10
a rilevarsi; e vidimi translato   4, 2
sol con mia donna in più alta salute.   [84]

Ben m’accors’ io ch’io era più levato,
per l’affocato riso de la stella,   1, 16
che mi parea più roggio che l’usato.   [87]

Con tutto ’l core e con quella favella   1, 6; 5, 10
ch’è una in tutti, a Dio feci olocausto,
qual conveniesi a la grazia novella.   [90]

E non er’ anco del mio petto essausto
l’ardor del sacrificio, ch’io conobbi
esso litare stato accetto e fausto;   [93]   8, 4

ché con tanto lucore e tanto robbi    1, 16; 6, 4
m’apparvero splendor dentro a due raggi,
ch’io dissi: « O Elïòs che sì li addobbi! ».   [96]   4, 3

Come distinta da minori e maggi
lumi biancheggia tra ’ poli del mondo   5, 1 (6, 2)
Galassia sì, che fa dubbiar ben saggi;   [99]   Not. X

sì costellati facean nel profondo
Marte quei raggi il venerabil segno   20, 3
che fan giunture di quadranti in tondo.   [102]   21, 12.16

Qui vince la memoria mia lo ’ngegno;
ché quella croce lampeggiava Cristo,   Not. V
sì ch’io non so trovare essempro degno;   [105]

ma chi prende sua croce e segue Cristo,
ancor mi scuserà di quel ch’io lasso,
vedendo in quell’ albor balenar Cristo.   [108]   5, 1 (6, 2); Not. XII

Di corno in corno e tra la cima e ’l basso
si movien lumi, scintillando forte
nel congiugnersi insieme e nel trapasso:   [111]

così si veggion qui diritte e torte,
veloci e tarde, rinovando vista,   4, 2
le minuzie d’i corpi, lunghe e corte,   [114]

moversi per lo raggio onde si lista
talvolta l’ombra che, per sua difesa,
la gente con ingegno e arte acquista.   [117]

E come giga e arpa, in tempra tesa   Not. III; 14, 2
di molte corde, fa dolce tintinno   14, 2; 1, 13
a tal da cui la nota non è intesa,   [120]   14, 3; 19, 1

così da’ lumi che lì m’apparinno
s’accogliea per la croce una melode   14, 2; 19, 1
che mi rapiva, sanza intender l’inno.   [123]   14, 3

Ben m’accors’ io ch’elli era d’alte lode,   19, 1
però ch’a me venìa « Resurgi » e « Vinci »   5, 1 (6, 2); 7, 2
come a colui che non intende e ode.   [126]   14, 3

Ïo m’innamorava tanto quinci,   5, 8
che ’nfino a lì non fu alcuna cosa
che mi legasse con sì dolci vinci.   [129]   14, 2

Forse la mia parola par troppo osa,
posponendo il piacer de li occhi belli,
ne’ quai mirando mio disio ha posa;   [132]   21, 16

ma chi s’avvede che i vivi suggelli
d’ogne bellezza più fanno più suso,   21, 12-13.21
e ch’io non m’era lì rivolto a quelli,   [135]

escusar puommi di quel ch’io m’accuso   10, 3
per escusarmi, e vedermi dir vero:
ché ’l piacer santo non è qui dischiuso,
perché si fa, montando, più sincero.   [139]

 

1. Beatrice centro della sfera

Cristo è centro intimo della sfera-Chiesa, che si mostra a tutti e a cui guardano tutte le linee degli eletti (Ap 1, 135, 6; cfr. Vita Nova, 5.11 [xii 4]: “Ego tanquam centrum circuli, cui simili modo se habent circumferentie partes”). È “in medio vite”, cioè in mezzo alla vita e alla dottrina evangelica scritta dai quattro evangelisti (Ap 5, 6). È guida che mostra il cammino, che bisogna imitare e seguire partecipando delle sublimi perfezioni costituite dai suoi precetti e consigli (Ap 14, 4). È l’Agnello che sta in mezzo al trono e conduce alle fonti delle acque di eterna vita (Ap 7, 17). Conosce tutti gli atti e pensieri, ogni bene e male (Ap 2, 1). Tiene nella destra sette stelle (i vescovi), che rilucono sui sette candelabri (le chiese), ossia ha potestà sui principi e prelati di tutte le chiese storiche presenti e future, che percorre con la sua mediana “perambulatio” e visita nel suo cammino di guida, di signore e di pio pastore che tutto scruta e penetra (Ap 1, 132, 1.5). Il suo corpo ha raggiunto per crescita la perfezione dell’età virile, come l’Ordine evangelico, suo imitatore, nel sesto stato della Chiesa deve raggiungere la maturità (Ap 6, 12). La singolare ed esemplare vita di Cristo, imposta agli apostoli e scritta nei Vangeli, deve essere dalla nostra vita perfettamente imitata e partecipata e porsi come fine di ogni nostra azione (prologo, Notabile VII).
L’aggregazione dei luoghi dell’esegesi scritturale attorno al tema di Cristo mediatore forma una rosa i cui elementi semantici percorrono l’intero poema. Non si tratta di occorrenze più o meno casuali di parole, bensì di variazioni degli stessi elementi, la cui posizione nei versi impregna delle prerogative di Cristo, diversamente attribuite, persone e cose. Il primo verso del poema – “Nel mezzo del cammin di nostra vita” – fa coincidere il riferimento all’età anagrafica dell’autore – i trentacinque anni – con il fine stesso del viaggio: l’imitazione di Cristo, che sta in mezzo alla nostra vita e che cammina visitando con cura tutte le chiese presenti e future, cioè l’intera storia dei disegni divini che ricade sui tempi moderni.
Figura per eccellenza di Cristo sommo pastore, in tutte le sue manifestazioni, è Beatrice. È “quasi ammiraglio che in poppa e in prora / viene a veder la gente che ministra / per li altri legni, e a ben far l’incora” (Purg. XXX, 58-60); il suo “bell’occhio tutto vede” del “viaggio”, cioè del corso della vita dell’amico (Inf. X, 130-132). Ambularepercurrerevisitare le chiese sono propri di Cristo exemplator itineris, e dunque anche dei suoi imitatori. Così Francesca, a Inf. V, 88-90, dice a Dante: “O animal grazïoso e benigno / che visitando vai per l’aere perso / noi che tignemmo il mondo di sanguigno”. La parola di Beatrice va “dal centro al cerchio” (Par. XIV, 1-3), muove cioè dal mezzo, come Cristo è centro intimo della sfera-Chiesa, che si mostra a tutti e a cui guardano tutti i raggi degli eletti.
L’immagine dell’acqua che in un vaso rotondo si muove dal centro alla circonferenza oppure da questa al centro, a seconda che il vaso venga percosso all’esterno o all’interno, riprende il motivo degli esseri viventi (o animali) “in medio et in circuitu sedis” (Ap 4, 6). Costoro sono il muro che cinge e difende la Chiesa, per la quale si oppongono come pugili ai nemici esterni, e tuttavia sono sempre nel mezzo, cioè all’interno, perché intimi ad essa per la carità: tutta la Chiesa tende infatti ad essi come al centro. Sono nel mezzo a motivo del loro raccogliersi; sono intorno nel predicare e governare. Raggiungono il centro nel penetrare per quanto possibile l’intima maestà di Dio e nel quietarsi nel suo seno; stanno attorno per l’impossibilità di raggiungere l’immensa, incomprensibile e semplicissima luce, limitandosi solo al suo lato esterno, cingendo quanto è conoscibile all’intelletto creato. Dal lato esterno proviene il parlare di Tommaso d’Aquino, dal centro muove la parola di Beatrice; la conoscenza umana, impersonata nell’Aquinate, tende al vero interno, ma solo circuendolo senza raggiungerlo.
È il vaso a essere percosso, non l’acqua. Il canto è percorso da motivi “di chiara matrice musicale e coreografica”, che sono “fattori di armonizzazione compositiva” [1] i quali, come mostrato in seguito, sviluppano variazioni su altrettanti temi che nell’Apocalisse si riferiscono a canti di lode. Il vaso è il vas musicum del quale parla Gioacchino da Fiore citato nell’esegesi di Ap 14, 2, la cetra le cui corde possono essere diversamente compulsate. Il ritondo vaso è pertanto tema iniziale dagli ampi sviluppi.

[1] M. PICONE, Canto XIV, in Lectura Dantis Turicensis, III: Paradiso, a cura di G. Güntert e M. Picone, Firenze 2002, pp. 203-218: 204-205.

2. Il canto degli arpisti

Alcuni passi dell’esegesi apocalittica oliviana sono collegabili tramite la parola-chiave vox: Ap 1, 10-12 (la voce udita da Giovanni dietro le spalle); 1, 15; 14, 2; 19, 6 (tre luoghi connessi per l’espressione: vox aquarum multarum); poi ancora 5, 8-9; 14, 2 (il canto dei suonatori d’arpa). A questi gruppi tematici fanno riferimento (nel senso che verso di essi sollecitano la memoria del lettore consapevole) numerosi luoghi della Commedia. Un esame completo è stato condotto altrove; qui ci si limiterà al terzo gruppo e ad altri luoghi simmetrici, i cui temi registrano numerose variazioni nel Paradiso.

Ap 5, 8-9. Ad Ap 5, 8 (“radice” della seconda visione), al momento della lode a Cristo che apre il libro chiuso dai sette sigilli, si dice: “E quando ebbe aperto il libro, i quattro animali (o esseri viventi) e i ventiquattro seniori caddero prostrati davanti all’Agnello, avendo ciascuno una cetra e coppe d’oro piene di profumi, che sono le preghiere dei santi”.
La lode consiste in un triplice atto. In primo luogo nell’umile e adorante ringraziamento a Cristo, lì dove dice: “caddero prostrati davanti all’Agnello”, come coloro che adorano. In secondo luogo nella profumata devozione delle sante orazioni, lì dove dice che avevano “coppe d’oro piene di profumi”. Quello che viene premesso, cioè l’avere ciascuno una cetra, è da connettere al “canto nuovo” di cui tratta dopo (ad Ap 5, 9). La cetra è infatti lo strumento che accompagna il canto. Secondo Riccardo di San Vittore, le cetre designano le buone opere che vengono toccate dalle mani perché suonino, e allora questo strumento sta ad indicare la virtù della vita attiva. Se il toccare le corde della cetra e il loro risuonare sono connessi con il “canto nuovo” di cui ad Ap 5, 9, ciò significa che tutti gli affetti virtuali e gli atti sono toccati e risuonano in questa lode insieme al canto di gioia: un pieno e perfetto gioire tocca infatti tutte le virtù e da tutte trae il risuonare della lode; ciascuna virtù è come una corda della cetra, cioè della mente che gioisce.
Ad Ap 5, 8 i santi (o gli angeli) lodano Cristo oltre che con le cetre, con le coppe (o fiale). Queste, che sono larghe, lucide e vitree, rappresentano il profumo delle preghiere, l’orationum fragrans devotio”: nel Tempio erano infatti auree e vi si poneva l’incenso. Esse sono i cuori dei santi lucidi per la sapienza, dilatati per la carità, splendenti, infiammati e aurei per la contemplazione e pieni di odori per la ridondanza delle devote orazioni. Come infatti gli aromi che promanano dal fuoco ascendono in alto riempiendo con l’odore l’intera casa, così le devote orazioni salgono alla presenza di Dio, lo raggiungono e piacciono per la soavità a lui e a tutta la curia celeste e subceleste. Come l’odore, diffondendosi, spira in modo invisibile dagli aromi, così i devoti affetti degli oranti spirano in modo invisibile e si diffondono distesamente ai vari modi di essere dell’amato e alle varie forme del santo amore, come appare dalla varietà dei santi affetti espressi e messi in opera nei Salmi. Appare chiaro, secondo il modo di Riccardo di San Vittore, perché ha premesso le cetre alle coppe, in quanto la vita attiva precede comunemente la vita contemplativa. Oppure, secondo un altro modo, ha opportunamente premesso le cetre perché se prima le corde delle virtù non siano state adeguatamente disposte nella cetra della mente come conviene alla lode di Dio, non si può avere la coppa del cuore, piena di devoti desideri, sospiri, meditazioni infuocate e odorifere; così neanche la gioia della lode può essere perfettamente messa in opera se non sia preceduta dalla pienezza degli odori.

Ap 14, 2. Il capitolo XIV dell’Apocalisse si apre con la descrizione della virtù e della gloria dei santi del sesto stato che hanno vinto le persecuzioni dell’Anticristo e stanno con l’Agnello sul monte Sion. La quarta delle sette prerogative loro attribuite è la magnificenza del cantico di giubilo, la cui voce o suono ha a sua volta sette proprietà.
Il primo modo della voce è lì dove dice: “Poi udii una voce dal cielo”, con il che intende che la voce, ovvero il risuonare del canto, era in eccesso sublime e celeste.
Il secondo modo sta nell’essere questa voce irrigua e feconda e procedente in modo concorde e unito da più affetti virtuali di un grande e numeroso collegio di santi, lì dove dice: “come la voce di molte acque”. La voce di una grande e abbondante pioggia procede infatti da molte e quasi innumerevoli gocce come un solo suono proveniente da un solo suonatore, e lo stesso si può dire del suono delle acque del mare o di un fiume. Suona come irrigando di lacrime che impinguano, lavano e rinfrescano e con sospiri che ruggiscono.
Il terzo modo consiste nell’essere la voce altissima, acutissima, possente al massimo nel suo pervadere e scuotere tutto, per cui soggiunge: “e come la voce di un grande tuono”.
Il quarto modo, o proprietà, della voce cantante è di essere oltremodo soave, giocosa, modulata e proporzionata: “e la voce che udii era come quella dei citaristi che si accompagnano nel canto con le loro arpe”. Secondo Gioacchino da Fiore, la parte vuota della cetra designa la povertà volontaria: come infatti un vaso musicale non suona bene se non sia concavo, così neppure la lode di Dio risuona bene se non proceda da una mente umile e svuotata delle cose terrene.
Le corde della cetra – afferma Olivi – sono le diverse virtù, che non suonano se non siano tese, e non concordano se non siano proporzionate l’una con l’altra e non vengano toccate in ugual proporzione. È infatti necessario che gli affetti virtuali siano protesi in modo fisso e attento verso i loro termini e oggetti e che, secondo le dovute circostanze, una virtù e i suoi atti concordino in modo proporzionato con le altre virtù e i loro atti e che essi siano congiunti in modo concorde, cosicché il rigore della giustizia non escluda né venga a turbare la dolcezza della misericordia né al contrario, oppure una lieve mitezza impedisca il dovuto zelo della santa correzione e ira, o al contrario. La cetra è Dio stesso, o l’universa sua opera, della quale ciascuna parte o perfezione è una corda che, toccata dall’affetto del contemplante o del lodatore, rende con le altre una risonanza mirabilmente giocosa. Citarista è solo colui che, da maestro, ha l’arte e il frequente uso (il “magister artificiose citharizandi”). Gli altri suonano in modo discordante e rustico o senz’arte, e se talvolta compulsano bene, ciò è dovuto al caso piuttosto che alla prudenza dell’artista.
Variazioni su questi temi sopra esposti, tratti dalla medesima partitura esegetica, si registrano in principio e in fine di tre canti: Par. X, XIV, XX.

Par. X. Il tema delle coppe (“fiale”, da Ap 5, 8) si trova incastonato tra quelli della cetra (Ap 5, 8-9; 14, 2) nell’immagine dell’orologio che chiama al mattutino in fine di Par. X (vv. 139-148), nel quale le varie parti o ruote che formano il congegno concordano tra loro e suonano una dolce nota che dilata il ben disposto spirito d’amore, come la corona degli spiriti sapienti si muove e concorda le proprie voci in tempra e in indicibile dolcezza. I motivi dell’orologio e del “mattinar” provengono da Ap 7, 2, dove l’angelo del sesto sigillo – identificato in Francesco – sale da oriente, cioè dalla vita recata da Cristo, sole del mondo, nel suo primo avvento: Cristo riascese in Francesco le dieci umbratili linee dell’orologio di Acaz (4 Rg 20, 9-11; Is 38, 8) sino a quel mattino in cui nacque. L’orologio sveglia all’alba la sposa di Dio, cioè la Chiesa, perché si levi a recitare il mattutino in onore di Cristo, cosicché questi, suo sposo, le conservi l’amore: è questo anticipo delle parole che nel canto successivo Tommaso d’Aquino premette all’elogio di Francesco, ordinato da Dio con Domenico “però che andasse ver’ lo suo diletto / la sposa di colui ch’ad alte grida / disposò lei col sangue benedetto, / in sé sicura e anche a lui più fida” (Par. XI, 31-34). La reminiscenza della sposa dal Cantico dei Cantici è fortemente armata con le maglie dell’esegesi apocalittica. Da Ap 14, 2 derivano il tirare e spingersi dell’una parte dell’orologio con l’altra (“che l’una parte e l’altra tira e urge”: “quelibet perfectio per affectuales considerationes contemplantis tacta et pulsata, reddit cum aliis resonantiam mire iocunditatis … Cithara etiam est totum universum operum Dei, cuius quelibet pars sollempnis est corda una a contemplatore et laudatore divinorum operum pulsata”; cfr. Ap 5, 8: “ex omnibus trahit resonantiam laudis” e la simmetria “tangunt et pulsant … tacta et pulsata / tira e urge”). Così il suonare dolcemente, il rendere voce a voce in dolcezza, sono temi propri della cetra, che esprime la “vox … suavissima et iocundissima et artificiose et proportionaliter modulata”, in quanto rappresenta l’opera di Dio, della quale ciascuna parte o perfezione è una corda che, toccata dall’affetto del contemplante o del lodatore, rende con le altre una risonanza mirabilmente giocosa.
Il “ben disposto spirto d’amor” si riscontra nell’esegesi di Ap 5, 8, nello spirare in modo invisibile dei devoti affetti e nel loro diffondersi alle varie forme del santo amore: esso è “ben disposto” dal precedente tirare e spingersi delle parti dell’orologio, come le corde delle virtù, adeguatamente disposte nella cetra della mente alla lode di Dio, preparano la coppa del cuore, piena di devoti desideri, sospiri, meditazioni infuocate e odorifere, cioè lo spirare d’amore. Dei motivi delle coppe o fiale partecipa pure il precedente discorso di Tommaso d’Aquino, il quale non rifiuta di appagare la sete di verità del poeta (Par. X, 88-90: “qual ti negasse il vin de la sua fiala  / per la tua sete, in libertà non fora / se non com’ acqua ch’al mar non si cala”) e descrive con essi la quinta luce che “spira di tale amor” (v. 110). In Inf. X, 16-21 era stato Virgilio a disporre virtuosamente il cuore di Dante al successivo desiderio di vedere Farinata (cfr. altre variazioni su Ap 5, 8).
Il non poter essere nota la dolcezza della voce proviene sia dall’esegesi della settima proprietà della voce – nessuno può ridire il canto – ad Ap 14, 3, sia dall’ineffabilità che ad Ap 19, 1 accompagna alleluia, parola di lode per reverenza non nota e intraducibile come lo è amen,  cantata “in spiritu magno et alto” dopo la vittoria su Babylon. L’‘insemprarsi’ è motivo della sesta prerogativa dei compagni dell’Agnello, che sempre a lui drizzano e tengono lo sguardo in modo da vederlo ovunque sempre presente (Ap 14, 4).
I motivi, presenti ad Ap 14, 2, della cetra (le opere di Dio, nelle quali ciascuna perfezione è una corda dello strumento, concorde con le altre) e del citarista (colui che possiede l’arte, per frequente uso e prudenza) sono presenti anche nell’invito fatto dal poeta al lettore, in Par. X, 7-27, a levare con lui lo sguardo “a l’alte rote”, in quella parte in cui, nell’equinozio di primavera, si incontrano il movimento diurno equatoriale di tutti i corpi celesti da levante a ponente e quello annuo zodiacale dei pianeti da ponente a levante. Si tratta di movimenti opposti ma l’un con l’altro concordanti. Nelle opere divine c’è una concordia tra due elementi conformi, e c’è una concordia, altrettanto bella e piacente, tra due elementi contrapposti: “Sicut enim correspondentia concordie similis et conformis est pulchra et placens, sic et correspondentia per decentem contrapositionem. Et ideo in operibus Dei non semper est querenda correspondentia prima” (ad Ap 11, 12). A quest’ultimo tipo appartiene il divergere, a partire dal punto d’incontro equinoziale, dell’eclittica (“l’oblico cerchio che i pianeti porta”) rispetto all’equatore, essendo la prima inclinata di 23 gradi e mezzo rispetto al secondo. Una strada, quella dei pianeti, necessariamente “torta”, perché diversamente “molta virtù nel ciel sarebbe in vano, / e quasi ogne potenza qua giù morta”, se cioè nell’eclittica e nell’equatore ci fosse concordia fra simili. Il lettore potrà così cominciare a vagheggiare l’arte di un maestro che mai distoglie lo sguardo dalla propria opera (Par. X, 10-12; cfr. Ap 5, 1). Ai vv. 43-45, “lo ’ngegno e l’arte e l’uso”, per quanto chiamati dal poeta, non bastano a far immaginare la luminosità delle anime del cielo del Sole: si tratta ancora di un rinvio ad Ap 14, 2 [1].

Par. XIV-XV. Una variazione dei temi si mostra nell’inno di lode ascoltato nel cielo di Marte (Par. XIV, 118-129), dove i motivi della cetra da Ap 5, 8-9 e da Ap 14, 2 (il “dolce tintinno” di diversi strumenti armonizzati nel tendersi delle molte corde: cfr. i “tintinabula” ad Ap 1, 13) e della “vox aquarum multarum”, un solo suono che proviene da molti (una sola melodia da molte corde, sempre ad Ap 14, 2), si fondono con i motivi delle fiale da Ap 5, 8 (l’innamorarsi del poeta). Comune con l’orologio di Par. X è il tema dell’ineffabilità, della nota non intesa (Ap 14, 3: “Et nemo poterat dicere canticum”). Si riscontrano motivi da Ap 19, 1, esegesi relativa al gaudioso magnifico convivio dato nella Chiesa dopo la condanna di Babylon: mira nota, melodia, nota, melode, lode (cfr. “la gran cena / del benedetto Agnello” in principio di Par. XXIV).
Le variazioni proseguono all’inizio del canto successivo (Par. XV, 1-9) allorché le anime, per consentire a Dante di parlare, tacciono (il silenzio e il quietarsi sono temi del settimo stato). Il silenzio concorde delle corde della dolce lira, allentate e tirate dalla destra del cielo (temi della cetra), viene imposto dalla volontà di fare il bene, “in che si liqua / sempre l’amor che drittamente spira” (temi delle fiale, da Ap 5, 8). Allentare e tirare corrispondono alla misericordia e alla giustizia, cioè alle due vie di Dio (cfr. Ap 15, 2-4).
Da Ap 5, 8-9 sono ancora segnati gli spiriti sapienti i quali, “a l’orazion pronta e divota” di Beatrice (tema delle fiale), paiono girare a ruota “da più letizia pinti e tratti” (tema della cetra), mostrando “nova gioia” (tema del “canticum novum”; Par. XIV, 19-24). Nella terzina seguente (vv. 25-27), “lo refrigerio de l’etterna ploia” elabora uno dei motivi presenti nell’esegesi della “vox aquarum multarum”, pioggia che rinfresca, ad Ap 14, 2. La pioggia è etterna (da escludere la variante santa) perché il “canticum novum” (la “nova gioia”) è “de eternis aut ad eternitatem ordinatis” (Ap 5, 9).
Il “ritondo vaso“, al v. 2, corrisponde al “vas musicum” nella citazione di Gioacchino da Fiore ad Ap 14, 2 (cfr. supra).

Par. XIX-XX. Il tema della “vox aquarum multarum”, che nello stesso tempo è “unus sonus” (secondo modo del canto dei compagni dell’Agnello, Ap 14, 2), è appropriato nel cielo di Giove alla bella immagine dell’aquila, che Dante vede e anche sente parlare (citazione da Ap 8, 13: «“Et vidi et audivi vocem unius aquile volantis per medium celi”. Vidit quidem ipsam aquilam et audivit vocem ipsius. – ch’io vidi e anche udi’ parlar lo rostro»), la quale suona nella voce al singolare («e sonar ne la voce e “io” e “mio”») pur essendo formata da molti amori e dunque al plurale nel pensiero (“quand’ era nel concetto e ‘noi’ e ‘nostro’”), come un solo calore si fa sentire da molti carboni ardenti, come un unico profumo da molti fiori (Par. XIX, 10-12; 19-24). Il tema è ripreso all’inizio del canto successivo, allorché l’aquila tace e gli spiriti di cui è contesta iniziano a cantare, come il cielo, che di giorno solo del sole si accende, dopo il tramonto torna ad essere visibile per le molte luci delle stelle, nelle quali una sola luce, quella del sole, risplende (Par. XX, 1-12). Poi, cessati gli angelici squilli degli spiriti, è di nuovo l’aquila a parlare con voce che si forma nella gola ed esce “per lo suo becco in forma di parole, / quali aspettava il core ov’ io le scrissi” (vv. 28-30): scrivere nel cuore il “nome” di Dio trino e uno e del Figlio incarnato è la terza prerogativa dei compagni dell’Agnello, di cui ad Ap 14, 1. Il tema della “vox citharedorum citharizantium” da Ap 14, 2, collazionato con il passo simmetrico di Ap 5, 8-9, fornisce motivi al finale di Par. XX (vv. 142-148), lì dove le due luci benedette di Traiano e di Rifeo Troiano accompagnano con il movimento delle proprie fiammette le parole dell’aquila, “pur come batter d’occhi si concorda”, come il buon citarista si concorda, vibrando le corde, con il buon cantore, “in che più di piacer lo canto acquista”.

Ap 2, 1. Il nome della quinta chiesa d’Asia, Sardi, viene interpretato come “principio di bellezza” sia perché nei pochi rimasti integri essa consegue la singolare gloria della bellezza, essendo cosa ardua e difficile mantenersi mondi tra tanta lussuria, sia per lo zelo mostrato dai primi istitutori del quinto stato. Costoro ordinarono le diverse membra e i diversi offici dei propri collegi con una regola ispirata all’unità ma anche condiscendente in modo proporzionato alle membra stesse, conseguendo una forma di mirabile bellezza che è propria della Chiesa, la quale è come una regina ornata di una veste aurea per la carità che unisce e circondata dalla varietà nei vari doni e nelle varie grazie delle diverse membra. Del quinto stato, condescensivo, pietoso e aperto alla vita associata delle moltitudini, è proprio il temperare, cioè il modulare in modo proporzionato a ciascuna esigenza (prologo, Notabile III).
Questi temi si ritrovano nel cielo delle stelle fisse, dove ritorna la similitudine, già in Par. X, 139, dell’orologio, le cui ruote girano con differente velocità come le “carole”, cioè le corone dei beati, che danzano in modo differente o veloci o lente (Par. XXIV, 13-18). È da notare il tema del contemperare nell’espressione “come cerchi in tempra di orïuoli”, cui partecipa anche il “render voce a voce in tempra” da parte della “gloriosa rota” di Par. X, 145-146 e la “tempra tesa / di molte corde” di Par. XIV, 118-119. Dalla “carola” che al poeta appare più preziosa, quella degli apostoli e dei discepoli di Cristo (che corrispondono ai compagni dell’Agnello del testo esegetico), esce lo spirito luminoso di san Pietro che gira tre volte intorno a Beatrice “con un canto tanto divo, / che la mia fantasia nol mi ridice” (Par. XXIV, 19-24), variazione del “et nemo poterat dicere canticum”, eccezion fatta per i compagni dell’Agnello, di Ap 14, 3. Versi da confrontare, perché tessuti sullo stesso panno, con quelli di Par. I, 5-6: “e vidi cose che ridire / né sa né può chi di là sù discende”.
La luce di san Pietro si rivolge poi a Beatrice con i temi delle fiale da Ap 5, 8 (Par. XXIV, 28-33), per cui i devoti affetti degli oranti (“O santa suora mia che sì ne prieghe / divota, per lo tuo ardente affetto”) spirano e si diffondono distesamente ai vari modi di essere dell’amato e alle varie forme del santo amore (“il foco benedetto / a la mia donna dirizzò lo spiro”, dove il motivo dell’amore, a differenza che altrove, è sottaciuto).

Ap 14, 2 (in collazione con 18, 22-23 e 9, 9). Ad Ap 18, 22-23 (sesta visione) viene mostrato come Babylon, la Chiesa carnale, verrà privata in eterno di ogni canto di gioia, di ogni gaudio e di ogni opera o artificio utile o ricercato e della gioiosa luce e delle nozze, per cui si dice che non si udrà più in essa la “voce della mola”, che designa il grano o una qualche utilità, e la “voce di sposo e sposa”, che designa la letizia delle nozze.
Ad Ap 9, 9 (terza visione, quinta tromba) la “voce delle ruote” costituisce la settima proprietà delle locuste, le cui sentenze, che queste presumono altissime e volanti sopra le altre, formano come il suono di ruote e di eserciti tumultuosi o di carri che corrono in guerra contro ogni sentenza contraria, per quanto vera (cfr. esempi di variazioni sul tema).
Se si confronta Ap 14, 2 con 18, 22-23 e con 9, 9 (nel secondo e nel terzo caso l’esegesi viene in poesia interpretata in senso positivo), si vede che la vox citharedorum del primo passo è anche vox mole vox sponsi et sponse nel secondo e vox rotarum nel terzo. Dalla collazione dei tre passi, collegati dalla parola vox, si ottengono alcuni motivi propri della seconda corona di spiriti sapienti, fra i quali è san Bonaventura, che in Par. XII si aggiunge alla prima, nella quale è Tommaso d’Aquino, cingendola: il ruotare della prima “santa mola”, il volgersi delle “due ghirlande” in modo concorde, “moto a moto, canto a canto”, e il rispondere dell’estrema all’intima come due archi dell’iride (tema del concordare, nelle corde della cetra, una virtù con l’altra), il vincere da parte del canto ogni umana poesia, per quanto dolce (tema della voce soave e gioconda da Ap 14, 2 e del non poter ridire il canto nuovo da Ap 14, 3, dove è esposta la settima proprietà della voce cantante).
La vox mole è connessa ad Ap 18, 22-23 con la letizia delle nozze, e letiziare, da cui sono “pinti e tratti” (“pulsare” e “trahere” le corde della cetra ad Ap 5, 9), andare “a rota” (vox rotarum) e levar “la voce” si ritrovano negli spiriti sapienti, che in Par. XIV, 19-24 mostrano “nova gioia / nel torneare e ne la mira nota” alla domanda posta da Beatrice per conto di Dante. Chi si lamenta che qui, in terra, si muoia per andare a vivere in paradiso – aggiunge il poeta (vv. 25-27) – “non vide quive / lo refrigerio de l’etterna ploia”, variando un motivo proveniente dall’esegesi della “voce di molte acque”, voce di una grande e abbondante pioggia che lava e rinfresca (seconda proprietà della voce cantante, ad Ap 14, 2, per cui la vox citharedorum è anche vox molevox sponsi et sponsevox rotarum e vox pluvie).
Ruotare e letiziare sono propri degli spiriti amanti Cunizza e Folchetto di Marsiglia (Par. IX, 64-72) e di Giuda Maccabeo, nel momento di essere nominato da Cacciaguida (Par. XVIII, 40-42; la “mola” è sostituita dal “paleo”, cioè dalla trottola).
Di rilievo la presenza dei temi da Ap 14, 2 in un luogo relativo alle vicende che si susseguono nell’Eden (Purg. XXXII, 28-33). Matelda, Stazio e Dante seguono la ruota destra del carro-Chiesa tirato dal grifone-Cristo che, volgendosi verso destra, descrive nel suo girare un arco minore della ruota sinistra: “seguitavam la rota / che fé l’orbita sua con minore arco”. Nell’“alta selva vòta … temprava i passi un’angelica nota”. Il ‘seguire’ il carro tirato da Cristo contiene il tema, da Ap 14, 4, dei compagni dell’Agnello, i quali lo seguono ovunque vada (è la loro sesta prerogativa); la “rota”, sineddoche per “carro”, è da riferire alla “vox rotarum” di Ap 9, 9, che è anche “vox curruum” (interpretata in senso positivo); il suo piegare più stretto “con minore arco”, nonché l’essere la selva “vòta”, è allusione alla “vacuitas cithare” di cui dice Gioacchino da Fiore nella citazione oliviana ad Ap 14, 2, che designa nell’essere concavo dello strumento la povertà volontaria e la lode di Dio che risuona bene se proceda da una mente umile e svuotata delle cose terrene (“vòta” rima con “nota”). Ciò indipendentemente dal senso letterale, per cui l’essere “vòta” la selva dell’Eden si intende ‘vuota di uomini’, per “colpa di quella ch’al serpente crese”.

[1] Un altro esempio di utilizzazione di Ap 14, 2 è in Par. XIII, 16-27, dove la doppia danza delle luci beate è paragonata a due costellazioni, che si girano “per maniera / che l’uno andasse al primo e l’altro al poi”, esempio di concordia fra dissimili procedendo le due corone l’una in una direzione, l’altra in quella opposta, danza che va al di là di ogni uso umano (tema dell’arte e dell’uso frequente unito al tema, da Ap 14, 3, del non poter ripetere il canto).
Il tema dell’arte ritorna due volte nel discorso di Tommaso d’Aquino. Una prima volta (Par. XIII, 73-78) per spiegare che la natura (cioè le cause seconde nella generazione) rende sempre il sigillo della luce divina in maniera imperfetta, come l’artista a cui trema la mano, luce che tuttavia parrebbe tutta se la materia fosse perfettamente disposta e il cielo fosse nella sua virtù suprema (da notare la distinzione tra “l’artista” e “l’abito de l’arte” difettivo: non si dà maestro citarista “nisi per artem et frequentem usum”).
Una seconda volta (vv. 115-117, 121-123) il discorso di Tommaso prima definisce stolti coloro che affermano e negano “sanza distinzione … ne l’un così come ne l’altro passo”, cioè in modo precipitoso e temerario (variazione del tema della necessaria concordia delle opposte corde, come lo zelo e la misericordia), poi si appunta su colui che, come un pescatore, si mette a cercare la verità senza avere l’arte per farlo, tornando peggiorato nell’ignoranza rispetto a quando era partito (tema dell’arte). L’espressione “non torna tal qual e’ si move”, che esprime un discordare tra un prima e un poi proprio di chi non possiede l’arte per frequente uso, conduce in ben altro contesto ai versi, più antichi e famosi, con cui Dante replica a Farinata che i suoi ‘maggiori’, se cacciati due volte (nel 1248 e nel 1260), tornarono a Firenze in entrambi casi (nel 1251 e nel 1266), mentre i ghibellini non appresero bene l’arte di ritornare: «“S’ei fur cacciati, ei tornar d’ogne parte”, / rispuos’io lui, “l’una e l’altra fïata; / ma i vostri non appreser ben quell’ arte”» (Inf. X, 49-51). Le opere divine, scrive Olivi, sono come il suono di un maestro citarista che sa concordare “iustitia” e “lenitas”, rigore e dolcezza; diversamente si tratta di un suonare discordante che non deriva dall’arte e dal frequente uso. Giustizia e pietà, le due vie di Dio, valgono anche per l’esule. Non diversamente in Tre donne, nel secondo congedo, l’esule fiorentino scriveva: “camera di perdon savio uom non serra, / ché ’l perdonare è bel vincer di guerra”.

Tab. I

[LSA, cap. V, Ap 5, 8-9 (radix IIe visionis)] Item in prima describitur triplex actus laudantium. Primus est regratiativa et adorativa humiliatio ipsorum ad Christum, et hoc tangit cum ait: “Et ceciderunt coram Agno” (Ap 5, 8), scilicet more adorantium. Secundus est sanctarum orationum fragrans devotio, et hoc tangit cum ait: “et phialas aureas plenas odoramentorum”, scilicet habentes. Quod enim premittitur, “habentes singuli citharas”, spectat ad canticum quod postmodum subdit. Cithara enim est musicum instrumentum cum quo cantatur. Secundum vero Ricardum, per citharas designantur bona opera, quia manibus pulsantur ut sonent*, et secundum hoc per citharas significatur virtus vite active.
Phiale <igitur> iste sunt corda sanctorum per sapientiam lucida, per caritatem dilatata, et per contemplationem splendidam et flammeam aurea, et per devotarum orationum redundantiam odoramentis plena. Sicut enim odoramenta per ignem elicata sursum ascendunt totamque domum replent suo odore, sic devote orationes ad Dei presentiam ascendunt et pertingunt, eique suavissime placent et etiam toti curie celesti et subcelesti. Sicut <etiam> diffusio odoris spiratur invisibiliter ab odoramentis, sic devote affectiones orantium spirantur invisibiliter et latissime diffunduntur ad varias rationes dilecti et ad varias rationes sancti amoris, prout patet ex multiformi varietate sanctorum affectuum qui exprimuntur et exercentur in psalmis.
Patet autem, secundum modum Ricardi, quare citharas premisit ante phialas, quia activa communiter precedit contemplativam. Sequendo etiam alterum modum, premittit convenienter citharas, quia nisi corde virtutum sint in cithara mentis disposite prout congruit laudi Dei, non potest haberi phiala cordis plena devotis desideriis et suspiriis et meditationibus ignitis et odoriferis, sicut nec iubilatio laudis potest perfecte exerceri nisi preeat plenitudo odoramentorum.
Et ideo tertius vel, secundum Ricardum, quartus actus est decantatio laudis. Unde subditur (Ap 5, 9): “Et cantabant canticum novum”. Novum quidem, tum quia omnia que de Christo cantantur sunt nova, est enim novus homo et nova eius lex et vita et familia et gloria; tum quia numquam veterascit nec est de aliquo veteri et caduco et cito interituro, sed de eternis aut ad eternitatem ordinatis; tum quia renovat et in novitate divina conservat suos cantatores.
Si pulsatio et resonantia cithare in hoc cantico includatur, tunc designat omnium virtutum affectus et actus pulsari et resonare cum iubilo huius laudis. Plena enim seu perfecta iubilatio pulsat omnes virtutes et ex omnibus trahit resonantiam laudis. Quelibet enim virtus est una corda cithare, id est mentis iubilative. Per citharam etiam designatur scriptura sacra, vel tota universitas divinorum operum, quorum cordas varias contemplativi tangunt et pulsant et ex eis divine laudis iubilum formant: quot modi autem sunt tangendi tot sunt modi iubilandi et cantandi.

* In Ap II, iii (PL 196, col. 757 D).

[LSA, cap. I, Ap 1, 13 (radix Ie visionis)] Tertia (perfectio summo pastori condecens) est sacerdotalis et pontificalis ordinis et integre castitatis et honestatis sanctitudo, unde subdit: “vestitum podere”. Poderis enim erat vestis sacerdotalis et linea pertingens usque ad pedes, propter quod dicta est poderis, id est pedalis: pos enim grece, id est pes latine. Poderis enim, secundum aliquos, erat tunica iacinctina pertingens usque ad pedes, in cuius fimbriis erant tintinabula aurea, et de hac videtur dici illud Sapientie XVI<II>° (Sap 18, 24): “In veste poderis, quam habebat, totus erat orbis terrarum, et parentum magnalia in quattuor ordinibus lapidum erant sculpta”.

 

Par. XIV, 1-3, 19-27, 118-129; XV, 1-9

Dal centro al cerchio, e sì dal cerchio al centro
movesi l’acqua in un ritondo vaso, 14, 2
secondo ch’è percosso fuori o dentro

Come, da più letizia pinti e tratti,
a la fïata quei che vanno a rota
levan la voce e rallegrano li atti,
così, a l’orazion pronta e divota,
li santi cerchi mostrar nova gioia
nel torneare e ne la mira nota.
Qual si lamenta perché qui si moia
per viver colà sù, non vide quive
lo refrigerio de l’etterna ploia.

E come giga e arpa, in tempra tesa
di molte corde, fa dolce tintinno
a tal da cui la nota non è intesa,
così da’ lumi che lì m’apparinno
s’accogliea per la croce una melode
che mi rapiva, sanza intender l’inno.
Ben m’accors’ io ch’elli era d’alte lode,
però ch’a me venìa “Resurgi” e “Vinci”
come a colui che non intende e ode.
Ïo m’innamorava tanto quinci,
che ’nfino a lì non fu alcuna cosa
che mi legasse con sì dolci vinci.

Benigna volontade in che si liqua
sempre l’amor che drittamente spira,
come cupidità fa ne la iniqua,
silenzio puose a quella dolce lira,
e fece quïetar le sante corde
che la destra del cielo allenta e tira.
Come saranno a’ giusti preghi sorde
quelle sustanze che, per darmi voglia
ch’io le pregassi, a tacer fur concorde?

Par. XIX, 10-12, 19-25

ch’io vidi e anche udi’ parlar lo rostro,
e sonar ne la voce e “io” e “mio”,
quand’ era nel concetto e ‘noi’ e ‘nostro’.

Così un sol calor di molte brage   14, 2
si fa sentir, come di molti amori
usciva solo un suon di quella image.
Ond’ io appresso: “O perpetüi fiori
de l’etterna letizia, che pur uno
parer mi fate tutti vostri odori,
solvetemi, spirando, il gran digiuno …”.

Par. XX, 1-6, 142-148

Quando colui che tutto ’l mondo alluma
de l’emisperio nostro sì discende,
che ’l giorno d’ogne parte si consuma,
lo ciel, che sol di lui prima s’accende,
subitamente si rifà parvente
per molte luci, in che una risplende   14, 2

E come a buon cantor buon citarista
fa seguitar lo guizzo de la corda,
in che più di piacer lo canto acquista,
sì, mentre ch’e’ parlò, sì mi ricorda
ch’io vidi le due luci benedette,
pur come batter d’occhi si concorda,
con le parole mover le fiammette.

[LSA, cap. XIV, Ap 14, 2-3 (IVa visio, VIum prelium)] Quartum est excessiva precellentia iubilator<ii> cantici istorum, quam quidem septiformiter magnificat. Primo scilicet cum dicit: “Et audivi vocem de celo” (Ap 14, 2), in quo innuit quod vox seu resonantia cantici eorum erat excessive sublimis et celestis.
Secundo quod erat irrig<u>a et fecunda et ex magno et multo collegio sanctorum et plurium virtualium affectuum ipsorum procedens et concorditer unita, cum dicit: “tamquam vocem aquarum multarum”. Vox enim magne et multe pluvie est ex multis et quasi innumerabilibus guttis, proceditque quasi tamquam unus sonus et quasi ab uno sonante, et idem est de sono aquarum maris vel fluminis. Sonat etiam quasi cum irriguo pinguium et lavantium et refrigerantium lacrimarum et rugientium suspiriorum. […]
Quarto erat suavissima et iocundissima et artificiose et proportionaliter modulata, unde subdit: “et vocem, quam audivi, sicut citharedorum citharizantium cum citharis suis”. Secundum Ioachim, vacuitas cithare significat voluntariam paupertatem. Sicut enim vas musicum non bene resonat nisi sit concavum, sic nec laus bene coram Deo resonat nisi a mente humili et a terrenis evacuata procedat*.
Corde vero cithare sunt diverse virtutes, que non sonant nisi sint extense, nec concorditer nisi sint ad invicem proportionate et nisi sub consimili proportione pulsentur. Oportet enim affectus virtuales ad suos fines et ad sua obiecta fixe et attente protendi et sub debitis circumstantiis unam virtutem et eius actus aliis virtutibus et earum actibus proportionaliter concordare et concorditer coherere, ita quod rigor iustitie non excludat nec perturbet dulcorem misericordie nec e contrario, nec mititatis lenitas impediat debitum zelum sancte correctionis et ire nec e contrario, et sic de aliis.
Cithara etiam est ipse Deus, cuius quelibet perfectio, per affectuales considerationes contemplantis tacta et pulsata, reddit cum aliis resonantiam mire iocunditatis.
Cithara etiam est totum universum operum Dei, cuius quelibet pars sollempnis est corda una a contemplatore et laudatore divinorum operum pulsata.
Dicit autem “sicut citharedorum”, quia citharedus non dicitur nisi per artem et frequentem usum, sicut magister artificiose citharizandi. Reliqui enim discordanter et rusticaliter seu inartificialiter citharizant, et si aliquando pulsant bene casualiter contingit, unde ascribitur casui potius quam prudentie artis. […]
Septimo quia tante erat precellentie quod nullus alius poterat pertingere ad hunc canticum, unde subdit: “Et nemo poterat dicere canticum, nisi illa centum quadraginta quattuor milia” (Ap 14, 3).

* Expositio, pars IV, distinctio IV, f. 172ra.

Par. X, 7-12, 43-45, 139-148

Leva dunque, lettore, a l’alte rote
meco la vista, dritto a quella parte
dove l’un moto e l’altro si percuote;
e lì comincia a vagheggiar ne l’arte
di quel maestro che dentro a sé l’ama,
tanto che mai da lei l’occhio non parte.

Perch’  io lo ’ngegno e l’arte e l’uso chiami,
sì nol direi che mai s’imaginasse;
ma creder puossi e di veder si brami.

Indi, come orologio che ne chiami    7, 2
ne l’ora che la sposa di Dio surge
a mattinar lo sposo perché l’ami,
che l’una parte e l’altra tira e urge,   5, 8
tin tin sonando con sì dolce nota,   1, 13
che ’l ben disposto spirto d’amor turge;   5, 8
così vid’ ïo la gloriosa rota
muoversi e render voce a voce in tempra
e in dolcezza ch’esser non pò nota
se non colà dove gioir s’insempra.

Par. XXIV, 13-33

E come cerchi in tempra d’orïuoli
si giran sì, che ’l primo a chi pon mente
quïeto pare, e l’ultimo che voli;
così quelle carole, differente
mente danzando, de la sua ricchezza
mi facieno stimar, veloci e lente.
Di quella ch’io notai di più carezza
vid’ ïo uscire un foco sì felice,
che nullo vi lasciò di più chiarezza;
e tre fïate intorno di Beatrice
si volse con un canto tanto divo,
che la mia fantasia nol mi ridice.
Però salta la penna e non lo scrivo:
ché l’imagine nostra a cotai pieghe,
non che ’l parlare, è troppo color vivo.
“O santa suora mia che sì ne prieghe   5, 8
divota, per lo tuo ardente affetto
da quella bella spera mi disleghe”.
Poscia fermato, il foco benedetto
 a la mia donna dirizzò lo spiro,
che favellò così com’ i’ ho detto.

[LSA, cap. II, Ap 2, 1 (Ia visio, Va ecclesia)] Vocatur autem congrue hec ecclesia Sardis, id est principium pulchritudinis, tum quia in suis paucis incoinquinatis habet singularem gloriam pulchritudinis, quia difficillimum et arduissimum est inter tot suorum luxuriantes se omnino servare mundum; tum quia primi institutores quinti status fuerunt in se et in suis omnis munditie singulares zelatores, suorumque collegiorum regularis institutio, diversa membra et officia conectens et secundum suas proportiones ordinans sub regula unitatis condescendente proportioni membrorum, habet mire pulchritudinis formam toti generali ecclesie competentem, que est sicut regina aurea veste unitive caritatis ornata et in variis donis et gratiis diversorum membrorum circumdata varietate.

[LSA, prologus, Notabile III] De tertio (dono) etiam patet. Nam magistralis tuba seu expositio intendit fidei et eius scientie seminande (I), et deinde radicande seu roborande (II), deinde explicande (III), deinde amplexande (IV), deinde contemperande, unicuique scilicet secundum suam proportionem (V); intendit etiam finaliter eam imprimere et sigillare (VI) et tandem glorificare seu glorificatam exhibere (VII).

Tab. I bis

[LSA, cap. XIV, Ap 14, 2-3 (IVa visio, VIum prelium)] Quarto erat suavissima et iocundissima et artificiose et proportionaliter modulata, unde subdit: “et vocem, quam audivi, sicut citharedorum citharizantium cum citharis suis”. Secundum Ioachim, vacuitas cithare significat voluntariam paupertatem. Sicut enim vas musicum non bene resonat nisi sit concavum, sic nec laus bene coram Deo resonat nisi a mente humili et a terrenis evacuata procedat*.
Corde vero cithare sunt diverse virtutes, que non sonant nisi sint extense, nec concorditer nisi sint ad invicem proportionate et nisi sub consimili proportione pulsentur. Oportet enim affectus virtuales ad suos fines et ad sua obiecta fixe et attente protendi et sub debitis circumstantiis unam virtutem et eius actus aliis virtutibus et earum actibus proportionaliter concordare et concorditer coherere, ita quod rigor iustitie non excludat nec perturbet dulcorem misericordie nec e contrario, nec mititatis lenitas impediat debitum zelum sancte correctionis et ire nec e contrario, et sic de aliis.
Cithara etiam est ipse Deus, cuius quelibet perfectio, per affectuales considerationes contemplantis tacta et pulsata, reddit cum aliis resonantiam mire iocunditatis.
Cithara etiam est totum universum operum Dei, cuius quelibet pars sollempnis est corda una a contemplatore et laudatore divinorum operum pulsata. […]
Septimo quia tante erat precellentie quod nullus alius poterat pertingere ad hunc canticum, unde subdit: “Et nemo poterat dicere canticum, nisi illa centum quadraginta quattuor milia” (Ap 14, 3).

* Expositio, pars IV, distinctio IV, f. 172ra.

[LSA, cap. XVIII, Ap 18, 22-23 (VIa visio)] Deinde ostendit quomodo (Babilon) omni iocundo cantico seu gaudio, et omni utili et etiam curioso opere et artificio, et iocunda luce et nuptiis erit ex tunc omnino et in eternum privata, unde subdit: “Et vox citharedorum” et cetera; “et vox”, id est sonus, “mole”, molentis scilicet triticum vel alia utilia, et cetera; “et vox sponsi et sponse”, id est letitia nuptiarum, “non audietur adhuc”, id est amplius seu de cetero, “in te”.

[LSA, cap. IX, Ap 9, 9 (IIIa visio, Va tuba)] Pro septima (mala proprietate locustarum) dicit (Ap 9, 9): “Et vox alarum earum sicut vox curruum equorum multorum currentium in bellum”, id est fama et sonus tumultuosi volatus e<a>rum ad sua opera maligna est sicut tumultuosus sonus quadri-garum et equestrium exercituum magnorum et mult<o>rum impetuosissime currentium ad bellum. […] “Vox” autem “alarum” (Ap 9, 9), id est suarum sententiarum quas altissimas et prevolantes esse presumunt, est sicut vox rotarum et tumultuosi exercitus currentis in bellum contra omnem senten-tiam contrariam quantumcumque veram.

Par. IX, 64-72

Qui si tacette; e fecemi sembiante
che fosse ad altro volta, per la rota
in che si mise com’ era davante.
L’altra letizia, che m’era già nota
per cara cosa, mi si fece in vista
qual fin balasso in che lo sol percuota.
Per letiziar là sù fulgor s’acquista,
sì come riso qui; ma giù s’abbuia
l’ombra di fuor, come la mente è trista.

Par
. XII, 1-9, 19-27

Sì tosto come l’ultima parola
la benedetta fiamma per dir tolse,
a rotar cominciò la santa mola;
e nel suo giro tutta non si volse
prima ch’un’altra di cerchio la chiuse,
e moto a moto e canto a canto colse;
canto che tanto vince nostre muse,
nostre serene in quelle dolci tube,
quanto primo splendor quel ch’e’ refuse.

così di quelle sempiterne rose
volgiensi circa noi le due ghirlande,
e sì l’estrema a l’intima rispuose.
Poi che ’l tripudio e l’altra festa grande,
sì del cantare e sì del fiammeggiarsi
luce con luce gaudïose e blande,
insieme a punto e a voler quetarsi,
pur come li occhi ch’al piacer che i move
conviene insieme chiudere e levarsi

Par. XIV, 19-27

Come, da più letizia pinti e tratti,
a la fïata quei che vanno a rota
levan la voce e rallegrano li atti,
così, a l’orazion pronta e divota,
li santi cerchi mostrar nova gioia
nel torneare e ne la mira nota.
Qual si lamenta perché qui si moia
per viver colà sù, non vide quive
lo refrigerio de l’etterna ploia.

Par. XVIII, 40-42

E al nome de l’alto Macabeo
vidi moversi un altro roteando,
e letizia era ferza del paleo.

Purg. XXXII, 28-33

La bella donna che mi trasse al varco
e Stazio e io seguitavam la rota
che fé l’orbita sua con minore arco.
Sì passeggiando l’alta selva vòta,
colpa di quella ch’al serpente crese,
temprava i passi un’angelica nota.

 

Tab. II

[LSA, cap. XIV, Ap 14, 3 (IVa visio)] Septimo quia tante erat precellentie quod nullus alius poterat pertingere ad hunc canticum, unde subdit: “Et nemo poterat dicere canticum, nisi illa centum quadra-ginta quattuor milia”. Sed contra hoc obicitur quod omnes sancti gaudent de tota gloria Dei et omnium sanctorum, ergo omnes cantant de omnibus de quibus alii cantant. Dicendum quod hic non dicitur quod non cantent de eisdem, sed quod non omnes cantant nec possunt cantare canticum superio-rum, sicut nec possunt pertingere ad coequalem et uniformem gloriam ipsorum. Iubilatorius autem actus glorie vel gratie sanctorum est idem quod canticum ipsorum, et etiam omnis sancta operatio ipsorum in quantum resonat Dei laudem est canti-cum ipsorum. Inferiores ergo, qui non pertingunt ad perfectionem operationum sanctorum superiorum, patet quod eo ipso non pertingunt ad perfectum canticum ipsorum.

Par. I, 4-6, 10-12

Nel ciel che più de la sua luce prende
fu’ io, e vidi cose che ridire
né sa né può chi di là sù discende

Veramente quant’ io del regno santo
ne la mia mente potei far tesoro,
sarà ora materia del mio canto.

Par. XXIV, 22-24

e tre fïate intorno di Beatrice
si volse con un canto tanto divo,
che la mia fantasia nol mi ridice.

[LSA, cap. XIX, Ap 19, 1-2 (VIa visio)] Quia etiam spiritalis intellectus tertii generalis status tunc clarissime aperietur, et cum ipso omnes ceteri, idcirco procedet tunc de tubis diversarum ystoriarum seu figurarum et innumerabilium misteriorum con-corditer et admirabiliter resonantium et sanctorum corda suscitantium ad ineffabilem Dei laudem, que hic designatur per “alleluia”. Quod est hebreum et est idem quod laudare Deum. Nam, secundum Iero-nimum, ia est in hebreo <unum> de decem nominibus Dei, cantaturque communiter in ecclesia cum grandi melodia et neupmate ad designandum illum ineffabilem iubilum laudis Dei qui verbis exprimi non potest. Unde, secundum Augustinum, ‘alleluia’ et ‘amen’ propter sui reverentiam reman-serunt intranslata. Unde, secundum Ricardum, quia “alleluia” ignotum est, addit quod notum est dicens: “laus et gloria et virtus Deo nostro”, scilicet est vel sit et reddatur seu ascribatur a nobis. “Laus” dicitur in respectu ad nos a quibus est laudandus; “gloria” vero designat essentialem et immensam beatitudinem eius suis sanctis tunc singulariter inclarescentem; “virtus” vero est eius omnipotentia per quam deiecit Babi-lonem et mirabiliter exaltavit electos.
Subduntque unam rationem sue laudis, scilicet “quia vera et iusta iudicia eius sunt” (Ap 19, 2); “vera” quidem reddendo unicuique quod promisit vel comminatus est, iustaautem reddendo secundum quod quisque promeruit.

Par. XIV, 22-24, 28-33, 118-126

così, a l’orazion pronta e divota,
li santi cerchi mostrar nova gioia
nel torneare e ne la mira nota.

Quell’ uno e due e tre che sempre vive
e regna sempre in tre e ’n due e ’n uno,
non circunscritto, e tutto circunscrive,
tre volte era cantato da ciascuno
di quelli spirti con tal melodia,
ch’ad ogne merto saria giusto muno.

E come giga e arpa, in tempra tesa
di molte corde, fa dolce tintinno
a tal da cui la nota non è intesa,
così da’ lumi che lì m’apparinno
s’accogliea per la croce una melode
che mi rapiva, sanza intender l’inno.
Ben m’accors’ io ch’elli era d’alte lode,
però ch’a me venìa “Resurgi” e “Vinci”
come a colui che non intende e ode.

Par. XIX, 37-39, 97-99; XX, 10-12; XXI, 58-63

vid’ io farsi quel segno, che di laude
de la divina grazia era contesto,
con canti quai si sa chi là sù gaude. ……
Roteando cantava, e dicea: “Quali
son le mie note a te, che non le ’ntendi,
tal è il giudicio etterno a voi mortali”.

però che tutte quelle vive luci,
vie più lucendo, cominciaron canti
da mia memoria labili e caduci.

“e dì perché si tace in questa rota
la dolce sinfonia di paradiso,
che giù per l’altre suona sì divota”.
“Tu hai l’udir mortal sì come il viso”,
rispuose a me; “onde qui non si canta
per quel che Bëatrice non ha riso”.

Par. X,  70-75, 145-148

Ne la corte del cielo, ond’ io rivegno,
si trovan molte gioie care e belle
tanto che non si posson trar del regno;
e l canto di quei lumi era di quelle;
chi non s’impenna sì che là sù voli,
dal muto aspetti quindi le novelle.

[Ap 14, 3] Quinto quia nichil vetustum aut inveteratum in se habebat, sed omnia nova et renovativa, unde subdit (Ap 14, 3): “Et cantabant quasi canticum novum”. Novum quidem, tam ex parte materie de qua cantabant quam ex parte cantantium et suarum cithararum et quam ex parte modi cantandi.

così vid’ ïo la gloriosa rota
muoversi e render voce a voce in tempra
e in dolcezza ch’esser non pò nota
se non colà dove gioir s’insempra.

Purg. XXXII, 61-63

Io non lo ’ntesi, né qui non si canta
l’inno che quella gente allor cantaro,
né la nota soffersi tutta quanta. 

3. “Una voce modesta, / forse qual fu da l’angelo a Maria”: la maschera di Salomone

 Nel quarto capitolo dell’Apocalisse viene mostrata la gloria e la magnificenza della maestà divina, nel quinto l’incomprensibile profondità del libro che sta per essere aperto da Cristo. Per questo si dice: “E vidi nella mano destra di Colui che era seduto sul trono un libro scritto dentro e fuori, sigillato con sette sigilli” (Ap 5, 1). Il libro designa in primo luogo la prescienza divina e la predestinazione a riparare l’universo per opera di Cristo. Per appropriazione, è il Verbo stesso del Padre in quanto espressivo della sua sapienza e in quanto il Padre, nel generarlo, scrisse in esso tutta la sua sapienza. In secondo luogo, il libro è la scienza delle intelligenze angeliche data ad esse da Dio e in esse scritta, che è scienza di tutta la grazia e la gloria degli eletti e del culto di Dio che deve compiersi per mezzo di Cristo. È pertanto, assai di più, la scienza universale scritta da Dio nell’anima di Cristo. In terzo luogo, è il volume della Sacra Scrittura e in particolare dell’Antico Testamento, nel quale il Nuovo venne rinchiuso, sigillato e velato sotto varie figure.
Con i temi del libro è tessuto, nel cielo di Giove, il linguaggio dell’aquila. Rifeo Troiano, quinta delle luci sante che cerchiano l’occhio della benedetta immagine, per la grazia che deriva “da sì profonda fontana”, inaccessibile a occhio creato, mise in terra tutto il suo amore per la giustizia e così, di grazia in grazia, Dio gli aperse l’occhio alla futura redenzione umana facendo in modo che credesse. Più avanti nell’esegesi, ad Ap 5, 3, si afferma che nessuno, senza la grazia di Dio e la presupposizione del merito di Cristo, poteva avere l’implicita fede e l’intelligenza simboleggiata dal libro chiuso con i sette sigilli. Alla meraviglia del poeta di vedere un pagano fra i beati (insieme a Traiano, che però già la leggenda voleva salvato) l’aquila replica dichiarando remota la radice della predestinazione dalle viste create (Par. XX, 118-124, 130-132). Si può notare in queste parole la presenza di termini come “fontana” e “radice”, che ad Ap 4, 2 sono appropriate alla profondità del libro che Cristo dovrà aprire, libro che è quello della predestinazione divina e nel quale è scritta la scienza della grazia (Ap 5, 1).
Nel canto precedente, l’aquila ha già fatto riferimento all’apertura del “volume” nel quale verranno scritti i “dispregi” dei regnanti (Par. XIX, 112-114): in questo caso l’apertura del libro segnato dai sette sigilli di Ap 5, 1 coincide con l’apertura del libro della vita di Ap 20, 12, per cui i morti verranno giudicati per quanto è ivi scritto, secondo le loro opere. Come spiegato nell’esegesi, il libro che sta nella destra di Colui che siede sul trono contiene nel profondo interno anche le leggi e i precetti del sommo imperatore e le sentenze e i giudizi del sommo giudice. Così l’aquila afferma che il vedere umano “ne la giustizia sempiterna … entro s’interna” come l’occhio nel “pelago” (è il termine che, ad Ap 4, 6, designa la Scrittura), il cui fondo, per quanto visibile dalla riva, gli rimane però celato in alto mare per la profondità (Par. XIX, 58-63): “proda” e “pelago”, cioè la riva e l’alto mare, corrispondono al di fuori e all’interno del libro (cfr. le parole di Pier Damiani a Par. XXI, 94-96 e di Dante a san Pietro a Par. XXIV, 70-72).
Un’altra applicazione del guardare dentro al libro è nella visione finale, allorché nel “profondo” della luce eterna il poeta vede come “s’interna”, unito dal legame d’amore “in un volume”, quello che nell’universo “si squaderna”, cioè si mostra diviso (Par. XXXIII, 85-87).

Il libro sta nella destra di Dio (Ap 5, 1), sia perché è nel suo pieno potere e facoltà, sia perché contiene le promesse di grazia e di gloria fatte da Cristo, e le elargizioni e preparazioni che spettano alla destra, come le avversità e le cose temporali alla sinistra.
Sta nella destra di Colui che siede sul trono, sia perché contiene le leggi e i precetti del sommo imperatore e le sentenze e i giudizi del sommo giudice, sia perché la sua intelligenza richiede una mente alta, stabile, matura, quieta e raccolta, come è proprio dell’intelligenza divina.
È un libro scritto dentro e fuori, poiché il libro della Sacra Scrittura ha un senso letterale di fuori, mentre dentro contiene il senso anagogico, quello allegorico e quello morale. Di fuori il senso letterale narra le storie, le gesta e gli esempi dei santi e le loro opere esteriori; dentro sono le più profonde sentenze dei divini precetti e degli insegnamenti sapienziali.
I motivi della profonda sapienza contenuta dentro al libro sono propri dell’elogio che nel cielo del Sole Tommaso d’Aquino fa della quinta e più fulgida luce fra gli spiriti sapienti: “entro v’è l’alta mente u’ sì profondo / saver fu messo, che, se ’l vero è vero, / a veder tanto non surse il secondo” (Par. X, 112-114). Le espressioni “entro”, “alta mente”, “profondo saver” coincidono con elementi semantici del testo esegetico. La luce resta innominata, ma in Par. XIII, 31-111 Tommaso chiarisce, pur senza mai nominarlo, che si tratta del più sapiente dei re, cioè di Salomone. Nella prima terzina del suo elogio, l’Aquinate afferma che la luce “spira di tale amor, che tutto ’l mondo / là giù ne gola di saper novella” (Par. X, 109-111), alludendo alle dispute terrene dei teologi, divisi tra i sostenitori della salvezza di Salomone e quelli della sua dannazione a motivo della lussuria senile. Così, a tutto il mondo che brama di avere notizie, Tommaso dà l’annuncio che l’anima non solo è salvata, ma è la luce “più bella” e “più dia” del quarto cielo (cfr. Par. XIV, 34).
Lo spirare d’amore è motivo che si ritrova nel medesimo capitolo quinto (Ap 5, 8). Dopo che l’Agnello ha preso il libro, i quattro animali e i ventiquattro seniori si prostrano dinanzi a lui, avendo ciascuno un’arpa e coppe d’oro colme di profumi. Le coppe (“phiale”) sono i cuori dei santi, lucenti per la sapienza, dilatati per la carità, splendenti di aurea fiamma per la contemplazione e ripiene di profumi che emanano dalle devote orazioni. Come i profumi che sprigionano dal fuoco salgono verso l’alto e riempiono di odore tutto l’edificio, così le devote orazioni salgono alla presenza di Dio, lo raggiungono e piacciono per il loro esser soavi a Lui e a tutta la curia celeste e subceleste. Come il profumo che si diffonde spira in modo invisibile dagli aromi, così i devoti affetti di coloro che pregano spirano invisibili e si diffondono in modo amplissimo nelle varie maniere del santo amore, come è evidente nella varietà dei santi affetti espressi e messi in opera nei Salmi.
Lo stesso desiderio del mondo di avere nuove, di sapere cioè se Salomone sia o meno salvato, corrisponde al desiderio che il libro venga aperto, che è il tema fondamentale del quinto capitolo (cfr. Ap 5, 4).
Le parole che Tommaso d’Aquino dice di Salomone sono tessute, non diversamente da quanto avviene per gli altri versi del poema, con i fili tratti dalla “pestifera postilla” dell’Olivi su cui si accanivano gli inquisitori, anche domenicani. Proprio la figura di Salomone sembra una maschera, dietro la quale sta il maestro spirituale di Dante. Già Raoul Manselli sottolineava come il silenzio di Dante su Olivi, su un personaggio che non poteva non conoscere e stimare, potrebbe essere connesso con le polemiche e con il giudizio di ortodossia cui erano soggette le opere del francescano che, dopo morto, subì una persecuzione senza precedenti [1]. Si potrebbe anche affermare che, essendo la Commedia metamorfosi della Lectura super Apocalipsim, non era necessario che il poeta incontrasse nel suo pellegrinaggio il frate minore, la cui opera sempre gli stava innanzi e della cui teologia aveva rivestito Beatrice la quale, almeno nel poema sacro, non esiste al di fuori di essa. Eppure, se mai Pietro di Giovanni avesse dovuto trovar luogo nella Commedia, nessuna collocazione migliore avrebbe avuto che nel cielo del Sole. Lì avrebbe potuto ascoltare il suo ideale avversario in teologia, Tommaso d’Aquino, fare l’elogio di Francesco; sarebbe stato accanto al suo maestro Bonaventura, a Riccardo di San Vittore e a Gioacchino da Fiore, i due autori tanto citati nella Lectura, a Dionigi l’Areopagita, dal cui pensiero fu molto influenzato. Avrebbe udito da Bonaventura riprovare la mancanza di equilibrio nell’interpretare la Regola da parte del rigorista Ubertino da Casale, che pure dell’Olivi fu discepolo a Firenze e strenuo difensore nella “magna disceptatio”, e del rilassato Matteo d’Acquasparta, che come Ministro generale inviò nel 1287 Pietro di Giovanni al convento fiorentino di Santa Croce. La reticenza di Tommaso sul nome della quinta luce, rimediata in Par. XIII con un complesso argomentare che sembra aggiunto apposta per fornire un’interpretazione autentica a un’incertezza equivoca, giustifica il dubbio che il desiderio del mondo di sapere sulla salvezza o sulla dannazione dell’innominato non riguardi unicamente la lussuria di Salomone, ma pure e soprattutto la dottrina dell’Olivi. Le parole di Tommaso, che comunque non entrano nel merito della controversia, avrebbero come retroscena la battaglia intorno agli scritti oliviani iniziata dopo la morte di questi (1298) e culminata, dopo la soluzione compromissoria tra la Comunità francescana e gli Spirituali trovata al concilio di Vienne (1311-1312), nella proibizione della lettura delle opere di Pietro di Giovanni, messe al rogo a Marsiglia (1319), e nella condanna della Lectura super Apocalipsim da parte di Giovanni XXII cinque anni dopo la morte di Dante (1326). La sentenza di riabilitazione del francescano, pronunciata in cielo dalla somma autorità di una delle parti avverse, proverrebbe da una figura esterna al suo Ordine, dal quale vennero le più aspre persecuzioni, e ciò è conforme all’infiammata cortesia reciproca tra Tommaso e Bonaventura, il primo dei quali si farebbe corifeo sia di Francesco sia di colui che aveva interpretato la Regola del “poverel di Dio” come un Vangelo vissuto. La redazione del Paradiso, generalmente collocata a partire dal 1316, è contemporanea all’inasprirsi della persecuzione contro la Lectura (nel 1318 Giovanni XXII ne affidò l’esame a otto maestri in teologia): quanto basta per spiegare il silenzio su Olivi da parte di Dante, che dal francescano aveva preso il “libro” per farne con i versi cosa nuova.
Questo significa che nel cielo del Sole si assiste a una pacificazione generale delle controversie terrene, a un vero e proprio giubileo: Tommaso d’Aquino presenta a Dante la luce più fulgida, dentro la quale è contenuta la vera sapienza cristiana, e poi Sigieri, altro avversario dei Domenicani; quindi narra la vita di Francesco. Bonaventura, il maestro di Olivi, narra la vita di Domenico, mentre gli luce accanto Gioacchino da Fiore. Quindi Tommaso insiste nell’elogio della sapienza “sufficiente” di Salomone come esempio di “regal prudenza”, che non fu rivolta alla filosofia mondana, e critica alcune degenerazioni di questa. Nel canto successivo, è la stessa luce di Salomone a parlare su richiesta di Beatrice, per risolvere un dubbio di Dante sulla luminosità dei beati dopo la resurrezione dei corpi. È un Salomone che splende di umiltà: dalla “luce più dia / del minor cerchio” esce “una voce modesta, / forse qual fu da l’angelo a Maria”, una voce quale fu quella di Gabriele, che nell’alto preconio di Maria riferì umilmente ogni lode a Dio, secondo quanto scritto da Olivi nella Lectura super Lucam, opera che Dante ebbe ben presente negli anni in cui “fore trasse le nove rime” (Par. XIV, 34-36). L’immagine dell’Olivi era quella del sapiente per eccellenza: “dono Dei sapiens vir”, lo definiva Angelo Clareno, che vi scorgeva il ‘sole’ profetizzato dall’Oraculum Cyrilli “propter splendidissimam sapientiae et scientiae sibi divinitus infusae multiformitatem” [2].
I temi propri del libro sono presenti, in un contesto tutto diverso da quello di Salomone, nella presentazione che Giustiniano fa di sé stesso (Par. VI, 10-12, 22-27). Da una parte stanno i motivi provenienti da Ap 5, 1: trarre “d’entro le leggi” (il libro contiene all’interno le leggi del sommo imperatore), “l’alto lavoro” (che corrisponde all’alta mente richiesta per l’intelligenza del libro), la “destra del ciel … sì congiunta” alle imprese di Belisario (il libro sta nella destra di Dio e contiene le promesse della grazia e della gloria; il congiungere è tema appropriato ai forti angoli delle mura della Gerusalemme celeste descritta nella settima visione – Ap 21, 12, come pure il ‘posarsi’ è tema connesso con lo stadio, che è misura della città – Ap 21, 16). Da Ap 5, 8, il passo della cetra e delle coppe tenute in mano dai seniori utilizzato da Tommaso d’Aquino per descrivere la “quinta luce”, deriva il tema dello spirare da parte del primo amore e quello del beneplacito divino (è possibile una collazione con il passo simmetrico di Ap 16, 1, in cui i ministri del giudizio si apprestano a versare le coppe per ispirazione, comando e beneplacito di Dio, passo all’origine delle parole di Ulisse: “com’ altrui piacque”, e  dello stesso Giustiniano il quale, a proposito del “sacrosanto segno” dell’aquila, afferma che “Cesare per voler di Roma il tolle”).
Se la “quinta luce”, oltre ad essere Salomone, designa Olivi, allora il medesimo panno – il libro della sapienza divina – offre i fili per ordire la figura del Cesare che ebbe in mano il sacrosanto segno dell’aquila, la figura del re prudente e quella della sapienza teologico-esegetica: dal libro, come da una fonte, discendono entrambe le autorità, la temporale e la spirituale. La sapienza di Salomone, come elogiata da Tommaso d’Aquino, non fu solo politica, ma anche filosofica, di una filosofia non inutile o fine a sé stessa: “non per sapere il numero in che enno / li motor di qua sù, o se necesse / con contingente mai necesse fenno; / non si est dare primum motum esse, / o se del mezzo cerchio far si puote / trïangol sì ch’un retto non avesse” (Par. XIII, 97-102). Salomone fece un “uso povero”, prudente e proporzionato, della sapienza, sfrondata del superfluo, al modo con cui Giustiniano trasse “d’entro le leggi … il troppo e ’l vano”.
Il tema dell’ispirazione d’amore si ritrova appropriato al poeta del “dolce stil novo”, come egli stesso dice a Bonagiunta: “I’ mi son un che, quando / Amor mi spira, noto” (Purg. XXIV, 52-54). A Dante sono ancora applicati, nelle parole di rimprovero pronunciate da Beatrice nell’Eden, i motivi connessi alla “destra di Dio” che contiene le elargizioni della grazia, dategli “ne la sua vita nova” (l’espressione si trova ad Ap 5, 9, nell’esegesi del “canticum novum”) prima che il mal seme lo facesse cadere, dopo la morte della sua donna, tanto in basso (Purg. XXX, 109-117).

■ Il libro, definito ad Ap 5, 1 “volumen”, scritto dentro e fuori, che sarebbe incongruo affermare distinto per quaderni e carte, ha una forma immaginaria a guisa di rotolo, con sette pieghe, ciascuna delle quali chiusa da un sigillo. A ciascuna apertura, si presentavano a Giovanni le immagini da lui descritte dei cavalli e dei cavalieri, come se uscissero vive da dentro le pieghe (Ap 6, 1). Per questa esegesi si rinvia all’esame di Inf. XI.

[1] Cfr. R. MANSELLI, Olivi, in Enciclopedia Dantesca, IV, p. 136.

[2] ANGELUS CLARENO, Expositio regulae fratrum Minorum, ed. L. Oliger, Ad Claras Aquas (Quaracchi) prope Florentiam, 1912, Epilogus, p. 231; Liber chronicarum sive tribulationum ordinis Minorum, 5, 41, a cura di G. Boccali, Santa Maria degli Angeli 1999, p. 474; G. L. POTESTÀ, Angelo Clareno. Dai Poveri Eremiti ai Fraticelli, Roma 1990 (Nuovi studi storici, 8), pp. 154, nota 7, 204 e nt. 56.

Tab. III

[LSA, cap. IV, Ap 4, 2 (radix IIe visionis)] “Et ecce sedes”. In hac secunda parte, in qua describitur fontalis radix et causa septem apertionum libri signati, monstrantur septem designantia summam altitudinem et profunditatem ac gloriam et utilitatem huius libri et contentorum in eo.

[LSA, cap. IV, Ap 4, 6 (radix IIe visionis)] “Et in conspectu sedis”, scilicet erat, “tamquam mare vitreum simile cristallo”. Per mare designatur Christi amara et quasi infinita passio et lavacrum baptismale et penitentialis contritio et martiriorum perpessio et pelagus sacre scripture.

[LSA, cap. V, Ap 5, 1 (radix IIe visionis)] “Et vidi in dextera sedentis super tronum librum scriptum intus et foris, signatum sigillis septem” (Ap 5, 1). Preostensa gloria et magnificentia maiestatis Dei, hic accedit ad ostendendum profunditatem incomprehensibilem libri sui. Qui quidem liber est primo idem quod Dei essentialis prescientia et totius reparationis universe fiende per Christum predestinatio, et per appropriationem est ipsum Verbum Patris prout est expressivum sapientie eius et prout Pater, ipsum generando, scripsit in eo omnem sapientiam suam.
Secundo modo est idem quod scientia mentium angelicarum ipsis a Deo data et in eis scripta, prout est de totali gratia et gloria electorum et totius cultus Dei consumandi per Christum, et multo magis est scientia universorum scripta a Deo in anima Christi.
Tertio est idem quod totum volumen scripture sacre et specialiter Veteris Testamenti, in quo Novum fuit inclusum et sub figuris variis signatum et velatum.
Visus autem est “in dextera” Dei, tum quia est in eius plena potentia et facultate, tum quia continet promissiones Christi gratie et glorie et etiam largitiones et preparationes, que dicuntur spectare ad dexteram sicut adversa vel bona temporalia dicuntur spectare ad sinistram.
Erat etiam “in dextera sedentis super tronum”, tum quia continet leges et precepta summi imperatoris et sententias et iudicia summi iudicis, tum quia altam et stabilem et maturam et quietam ac recollectam mentem requirit ad hoc quod intellectualiter haberi et intelligi possit, unde et talis est intelligentia Dei.
Est etiam “scriptus intus et foris” propter varios sensus vel intellectus ipsius, quorum quidam sunt magis intrinseci et nobis magis absconsi, quidam vero sunt magis forinseci et noti. Et hoc dico respectu omnium supradictarum apertionum libri, prout in primo generali principio edito de hoc verbo super totam scripturam diffusius pertractavi. Liber etiam scripture sacre habet litteralem sensum foris, intus vero anagogicum et allegoricum et moralem. In sensu etiam litterali habet foris ystorica gesta et exempla sanctorum et suorum exteriorum operum, intus vero profundiores sententias divinorum preceptorum et sapientialium documentorum.

[LSA, cap. V, Ap 5, 3 (radix IIe visionis)] Si autem ultra hoc sit sensus quod nec librum signatum poterat aspicere, sensus est quod etiam implic<i>tam fidem et intelligentiam Christi et ecclesie procedentis usque ad statum glorie nullus poterat habere, nisi per gratiam Dei cum presuppositione meriti Christi.

Par. XIX, 52-63, 112-115

Dunque vostra veduta, che convene
essere alcun de’ raggi de la mente
di che tutte le cose son ripiene,
non pò da sua natura esser possente
tanto, che suo principio non discerna
molto di là da quel che l’è parvente.
Però ne la giustizia sempiterna
la vista che riceve il vostro mondo,
com’ occhio per lo mare, entro s’interna;
che, ben che da la proda veggia il fondo,
in pelago nol vede; e nondimeno
èli, ma cela lui l’esser profondo.

Che poran dir li Perse a’ vostri regi,
come vedranno quel volume aperto
nel qual si scrivon tutti suoi dispregi?
Lì si vedrà, tra l’opere d’Alberto ……

Par. XXXIII, 85-87

Nel suo profondo vidi che s’interna,
legato con amore in un volume,
ciò che per l’universo si squaderna

Par.  XX, 118-124, 130-132

L’altra, per grazia che da sì profonda
fontana stilla, che mai creatura
non pinse l’occhio infino a la prima onda,
tutto suo amor là giù pose a drittura:
per che, di grazia in grazia, Dio li aperse
l’occhio a la nostra redenzion futura;
ond’ ei credette in quella ……………..

O predestinazion, quanto remota
è la radice tua da quelli aspetti
che la prima cagion non veggion tota!

Par. XXI, 94-96

però che sì s’innoltra ne lo abisso
de l’etterno statuto quel che chiedi,
che da ogne creata vista è scisso. 

Par. XXIV, 70-72

E io appresso: “Le profonde cose
che mi largiscon qui la lor parvenza,
a li occhi di là giù son sì ascose …”

[LSA, cap. XX, Ap 20, 12 (VIIa visio)] Tertio describitur apertio librorum secundum quos sunt iudicandi, cum subdit: “Et libri aperti sunt, et alius liber apertus est, qui est liber vite; et iudicati sunt mortui ex hiis que scripta erant in libro, secundum opera eorum”.
Secundum Augustinum, XX° de civitate capitulo XIIII°, per libros prius positos intelliguntur sancti Veteris Testamenti et Novi, quia mali ex comparatione iustorum iudicabuntur. Secundum enim Ricardum, per mortuos intelliguntur hic mali. “Liber” autem “vite”, secundum Augustinum, idem est «quedam vis divina, qua fiet ut unicuique cuncta opera sua bona vel mala in memoriam revocentur et mentis intuitu mira celeritate cernantur, ut scientia accuset vel excuset conscientiam. Que quidem vis divina libri nomen accepit, quia in ea quodammodo legitur quicquid ea faciente recolitur». Potest etiam dici quod apertio librorum est apertio conscientiarum seu memoriarum omnium iudicandorum, que apertio fiet per vim seu potentiam Dei reducentis omnia ad claram et quasi visibilem memoriam singulorum, et etiam sic clare omnia bona vel mala omnium omnibus demonstrantis ac si omnes visibiliter legerent in cordibus omnium omnia mala vel bona que unquam fecerunt.

Tab. IV

[LSA, cap. V, Ap 5, 1 (radix IIe visionis)] “Et vidi in dextera sedentis super tronum librum scriptum intus et foris, signatum sigillis septem” (Ap 5, 1). Preostensa gloria et magnificentia maiestatis Dei, hic accedit ad ostendendum profunditatem incomprehensibilem libri sui. Qui quidem liber est primo idem quod Dei essentialis prescientia et totius reparationis universe fiende per Christum predestinatio, et per appropriationem est ipsum Verbum Patris prout est expressivum sapientie eius et prout Pater, ipsum generando, scripsit in eo omnem sapientiam suam. […]
Visus autem est “in dexteraDei, tum quia est in eius plena potentia et facultate, tum quia continet promissiones Christi gratie et glorie et etiam largitiones et preparationes, que dicuntur spectare ad dexteram sicut adversa vel bona temporalia dicuntur spectare ad sinistram.
Erat etiam “in dextera sedentis super tronum”, tum quia continet leges et precepta summi imperatoris et sententias et iudicia summi iudicis, tum quia altam et stabilem et maturam et quietam ac recollectam mentem requirit ad hoc quod intellectualiter haberi et intelligi possit, unde et talis est intelligentia Dei.
Est etiam “scriptus intus et foris” propter varios sensus vel intellectus ipsius, quorum quidam sunt magis intrinseci et nobis magis absconsi, quidam vero sunt magis forinseci et noti. Et hoc dico respectu omnium supradictarum apertionum libri, prout in primo generali principio edito de hoc verbo super totam scripturam diffusius pertractavi. Liber etiam scripture sacre habet litteralem sensum foris, intus vero anagogicum et allegoricum et moralem. In sensu etiam litterali habet foris ystorica gesta et exempla sanctorum et suorum exteriorum operum, intus vero profundiores sententias divinorum preceptorum et sapientialium documentorum.

[LSA, cap. XVI, Ap 16, 1 (Va visio, radix)] Quartum radicale est divina iussio seu inspiratio unumquemque ministrorum divini iudicii actualiter movens et applicans ad exsequendum officium suum, quia non debent ad hoc propria voluntate seu animositate moveri, sed explendo Dei beneplacitum et mandatum. Unde subdit: “Et audivi vocem magnam dicentem septem angelis: Ite et effundite septem phialas ire Dei in terram”, id est in terrenos et inferiores.

Par. VI, 10-12, 22-27

Cesare fui e son Iustinïano,
che, per voler del primo amor ch’i’ sento,
d’entro le leggi trassi il troppo e  ’l vano.

Tosto che con la Chiesa mossi i piedi,
a Dio per grazia piacque di spirarmi
l’alto lavoro, e tutto ’n lui mi diedi;
e al mio Belisar commendai l’armi,
cui la destra del ciel fu sì congiunta,
che segno fu ch’i’ dovessi posarmi.

Par.  X, 109-114

La quinta luce, ch’è tra noi più bella,
spira di tale amor, che tutto ’l mondo
là giù ne gola di saper novella:
entro v’è l’alta mente u’ sì profondo
saver fu messo, che, se ’l vero è vero,
a veder tanto non surse il secondo.

Purg. XXIV, 52-54

E io a lui: “I’ mi son un che, quando
Amor mi spira, noto, e a quel modo
ch’e’ ditta dentro vo significando”.

[LSA, cap. V, Ap 5, 8 (radix IIe visionis)] Phiale <igitur> iste sunt corda sanctorum per sapientiam lucida, per caritatem dilatata, et per contemplationem splendidam et flammeam aurea, et per devotarum orationum redundantiam odoramentis plena. Sicut enim odoramenta per ignem elicata sursum ascendunt totamque domum replent suo odore, sic devote orationes ad Dei presentiam ascendunt et pertingunt, eique suavissime placent et etiam toti curie celesti et subcelesti. Sicut <etiam> diffusio odoris spiratur invisibiliter ab odoramentis, sic devote affectiones orantium spirantur invisibiliter et latissime diffunduntur ad varias rationes dilecti et ad varias rationes sancti amoris, prout patet ex multiformi varietate sanctorum affectuum qui exprimuntur et exercentur in psalmis.

Inf. II, 85-87

“Da che tu vuo’ saver cotanto a dentro,
dirotti brievemente”, mi rispuose,
“perch’ i’ non temo di venir qua entro”.

Purg. IV, 1-4, 67-69

Quando per dilettanze o ver per doglie,
che alcuna virtù nostra comprenda,
l’anima bene ad essa si raccoglie,
par ch’a nulla potenza più intenda;

Come ciò sia, se ’l vuoi poter pensare,
dentro raccolto, imagina Sïòn
con questo monte in su la terra stare

Purg. XXX, 109-117, 142-145

Non pur per ovra de le rote magne,
che drizzan ciascun seme ad alcun fine
secondo che le stelle son compagne,
ma per larghezza di grazie divine,
che sì alti vapori hanno a lor piova,
che nostre viste là non van vicine,
questi fu tal ne la sua vita nova
virtüalmente, ch’ogne abito destro
fatto averebbe in lui mirabil prova.

Alto fato di Dio sarebbe rotto,
se Letè si passasse e tal vivanda
fosse gustata sanza alcuno scotto
di pentimento che lagrime spanda.

[LSA, cap. V, Ap 5, 9 (radix IIe visionis)] Unde subditur: “Et cantabant canticum novum”. Novum quidem, tum quia omnia que de Christo cantantur sunt nova, est enim novus homo et nova eius lex et vita et familia et gloria; tum quia numquam veterascit nec est de aliquo veteri et caduco et cito interituro, sed de eternis aut ad eternitatem ordinatis; tum quia renovat et in novitate divina conservat suos cantatores.

[LSA, cap. XXI, Ap 21, 12 (VIIa visio)] Secundum autem Ricardum, per duodecim angulos cuiuslibet porte intelliguntur universi minores et meritis occultiores, quia angulus occultum significat, et duodenarius universitatem.
In scripturis tamen sepe angulus sumitur pro fortitudine et ornatu, quia in angulis domorum, in quibus parietes coniunguntur, est fortitudo domus. Unde Christus dicitur esse factus in caput anguli et lapis angularis; et Iob I° dicitur “ventus” <concussisse> “quattuor angulos domus” ut dirueret ipsam domum (Jb 1, 19), et Zacharie X°, ubi agitur de futura fortitudine et victoria regni Iude, dicitur quod “ex ipso” erit “angulus et paxillus et archus prelii” (Zc 10, 4), id est robusti duces qui erunt aliorum sustentatores sicut angulus et paxillus; et Sophonie I° dicitur quod “dies ire” erit “super civitates munitas et super angulos excelsos” (Sph 1, 15-16), et capitulo III° dicitur: “Disperdidi gentes et dissipati sunt anguli earum” (Sph 3, 6), id est robusti duces earum; et I° Regum XIIII°: “dixit Saul: Applicate huc universos angulos populi” et cetera (1 Rg 14, 38).

[LSA, cap. XXI, Ap 21, 16 (VIIa visio)] “Et mensus est civitatem Dei cum arundine per stadia duodecim milia” (Ap 21, 16). Stadium est spatium in cuius termino statur vel pro respirando pausatur, et per quod curritur ut bravium acquiratur, secundum illud Apostoli Ia ad Corinthios, capitulo IX°: “Nescitis quod hii, qui in stadio currunt, omnes quidem currunt, sed unus accipit bravium?” (1 Cor 9, 24), et ideo significat iter meriti triumphaliter obtinentis premium. Cui et congruit quod stadium est octava pars miliarii, unde designat octavam resurrectionis. Octava autem pars miliarii, id est mille passuum, sunt centum viginti quinque passus, qui faciunt duodecies decem et ultra hoc quinque; in quo designatur status continens perfectionem apo-stolicam habundanter implentem decalogum legis, et ultra hoc plenitudinem quinque spiritualium sen-suum et quinque patriarchalium ecclesiarum.

Par. VI, 22-27

Tosto che con la Chiesa mossi i piedi,
a Dio per grazia piacque di spirarmi
l’alto lavoro, e tutto ’n lui mi diedi;
e al mio Belisar commendai l’armi,
cui la destra del ciel fu sì congiunta,
che segno fu ch’i’ dovessi posarmi.

Par. IX, 115-117, 121-123

Or sappi che là entro si tranquilla
Raab; e a nostr’ ordine congiunta,
di lei nel sommo grado si sigilla.

Ben si convenne lei lasciar per palma
in alcun cielo de l’alta vittoria
che s’acquistò con l’una e l’altra palma

Tab. V

[LSA, cap. VI, Ap 6, 1 (radix IIe visionis)] “Et vidi quod aperuisset Agnus” et cetera. Premissa fontali radice et causa septem subsequentium apertionum, que est Deus trinus et Christus homo pro nobis occisus et sue deitatis potentia resuscitatus et glorificatus, et exemplariter et causaliter et collective continens omnes ordines electorum, et non solum per naturam sue deitatis sed etiam per meritum sue humanitatis dignus aperire librum, hic subduntur sigillatim et per ordinem septem apertiones.
Circa quas est primo notandum, circa formam imaginariam huius libri, quod videtur Iohannes librum hunc vidisse instar rotuli intus et foris scripti. Ridiculosum enim esset dicere quod liber, per quaternos et cartas distinctus, esset scriptus intus et foris. Videtur etiam quod rotulus ille haberet in se septem plicas et super unaquaque erat sigillum unum impressum pro clausura ipsius. Intra autem plicam videbantur depicte imagines equorum et equitum hic subscripte, vel ad apertionem ipsius subito videbatur exterius exire unus equus vivus cum equite suo.

Inf. XI, 28-30, 49-51, 67-69, 73-74, 85-87, 101-102

Di vïolenti il primo cerchio è tutto;
ma perché si fa forza a tre persone,
in tre gironi è distinto e costrutto.

e però lo minor giron suggella
del segno suo e Soddoma e Caorsa
e chi, spregiando Dio col cor, favella.

E io: “Maestro, assai chiara procede
la tua ragione, e assai ben distingue
questo baràtro e ’l popol ch’e’ possiede”.

perché non dentro da la città roggia
sono ei puniti, se Dio li ha in ira?

Se tu riguardi ben questa sentenza,
e rechiti a la mente chi son quelli
che sù di fuor sostegnon penitenza

e se tu ben la tua Fisica note,
tu troverai, non dopo molte carte

[LSA, cap. V, Ap 5, 1 (radix IIe visionis)] Tertio est idem quod totum volumen scripture sacre et specialiter Veteris Testamenti, in quo Novum fuit inclusum et sub figuris variis signatum et velatum. […]

Par. XXXIII, 85-87

Nel suo profondo vidi che s’interna,
legato con amore in un volume,
ciò che per l’universo si squaderna

intus                                                                          cerchi 

1. Di vïolenti il primo cerchio è tutto                      (VII)

2. onde nel cerchio secondo s’annida                    (VIII)
    ipocresia, lusinghe e chi affattura,
    falsità, ladroneccio e simonia,
    ruffian, baratti e simile lordura.

3. onde nel cerchio minore, ov’ è ’l punto               (IX)
    de l’universo in su che Dite siede,
    qualunque trade in etterno è consunto.                     

foris

4. quei de la palude pingue                                          (V)

5. che mena il vento                                                      (II)

6. che batte la pioggia                                                 (III)

7. che s’incontran con sì aspre lingue                      (IV)

Inf. IX, 106-109

Dentro li  ’ntrammo sanz’ alcuna guerra;
e io, ch’avea di riguardar disio
la condizion che tal fortezza serra,
com’ io fui dentro, l’occhio intorno invio

Purg. XXX, 28-30

così dentro una nuvola di fiori
che da le mani angeliche saliva
e ricadeva in giù dentro e di fori 

Par. XXIV, 19-27

Di quella ch’io notai di più carezza
vid’ ïo uscire un foco sì felice,
che nullo vi lasciò di più chiarezza;
e tre fïate intorno di Beatrice
si volse con un canto tanto divo,
che la mia fantasia nol mi ridice.
Però salta la penna e non lo scrivo:
ché l’imagine nostra a cotai pieghe,
non che ’l parlare, è troppo color vivo.

[LSA, cap. XIV, Ap 14, 3 (IVa visio, VIum prelium)] Septimo quia tante erat precellentie quod nullus alius poterat pertingere ad hunc canticum, unde subdit: “Et nemo poterat dicere canticum, nisi illa centum quadraginta quattuor milia”.

[LSA, cap. VI, Ap 6, 1 (radix IIe visionis)] “Et vidi quod aperuisset Agnus” et cetera. […] Circa quas est primo notandum, circa formam imaginariam huius libri, quod videtur Iohannes librum hunc vidisse instar rotuli intus et foris scripti. Ridiculosum enim esset dicere quod liber, per quaternos et cartas distinctus, esset scriptus intus et foris. Videtur etiam quod rotulus ille haberet in se septem plicas et super unaquaque erat sigillum unum impressum pro clausura ipsius. Intra autem plicam videbantur depicte imagines equorum et equitum hic subscripte, vel ad apertionem ipsius subito videbatur exterius exire unus equus vivus cum equite suo.

 

4. La misura dei lati della Gerusalemme celeste

I quattro lati delle mura della Gerusalemme celeste, descritta nella settima visione, formano un quadrilatero (Ap 21, 16), che designa la solida quadratura delle virtù (a Cacciaguida il poeta dice di sentirsi “ben tetragono ai colpi di ventura”, Par. XVII, 23-24). I quattro lati sono uguali in lunghezza e in larghezza. La città dei beati quanto vede di Dio e dei suoi beni tanto ama, quanto è lunga nella visione tanto si dilata nella carità, quanto si prolunga nell’eterno tanto si dilata nel gaudio giocoso e glorioso. Lo stesso può dirsi di coloro che in questa vita raggiungono la perfezione, i quali quanto conoscono o credono tanto amano, quanto per la speranza si protendono nei beni eterni tanto si dilatano nel gaudio. Nei beati le quattro virtù cardinali – prudenza, fortezza, giustizia e temperanza -, designate dai quattro lati della città, hanno uguale misura. Anche l’altezza è uguale alla lunghezza e alla larghezza, poiché quanto i beati per la visione e per l’amore si protendono in lungo e si dilatano in largo, tanto si elevano nell’alta lode e nella reverenza verso Dio e nell’alto apprendimento e degustazione della sua sublime maestà. Tuttavia in questa vita l’altezza, proporzionata alla misura della carità e del tendere in Dio, sta comunemente solo nel desiderio e nella speranza di raggiungere la compiuta misura della patria celeste. Un edificio si pone infatti diversamente nel suo inizio e nella perfezione del fine.
Anche un sommario esame rivela quanto siano importanti questi temi nel Paradiso. La citazione di Gioacchino da Fiore sottolinea come l’uguaglianza dei lati della città designi la somma concordia dei beati nel regno di Dio. Beatrice, spiegando la differenza tra l’ordine celeste e quello del mondo, definisce il Primo Mobile come la sfera corporea corrispondente al primo dei cerchi angelici, i Serafini, “che più ama e che più sape” (la larghezza e la lunghezza si equivalgono), invitando Dante ad applicare la sua misura (il misurare la città) al criterio della virtù (i lati della città designano le virtù) e non a quello della grandezza apparente dei cerchi (Par. XXVIII, 70-78). Più avanti la donna dice che tutte le intelligenze “hanno diletto” (il godere giocoso proprio della larghezza e anche la degustazione propria dell’altezza) quanto è profonda la visione di Dio (la lunghezza; vv. 106-108). Soggiunge che l’essere beato si fonda nell’atto della visione, non nell’atto dell’amore, il quale consegue dal primo (Par. XXVIII, 109-111; cfr. Par. XXIX, 139-140). Secondo molti interpreti qui Dante accoglie la tesi tomista che fa precedere nella beatitudine l’atto dell’intelletto a quello della volontà se non nel tempo, almeno nella natura e nell’origine. Ernesto Buonaiuti notò una contraddizione tra la terzina di Par. XXVIII, 109-111 e la definizione del Primo Mobile come corrispondente “al cerchio che più ama e che più sape” (v. 72), dove invece prevarrebbe la tesi volontaristica francescana in quanto, in questo caso, l’amare è posto prima del sapere [1]. La questione viene affrontata dallo stesso Olivi ad Ap 21, 22, dove i due atti – la “visio” e il “beatificus actus caritatis” – sono considerati tanto compenetrati che nessuno dei due può ritenersi perfetto senza l’altro. Lo stesso Olivi, però, nel Notabile X del prologo della Lectura, afferma che non si può amare se non quello che si conosce, e che quindi la “notitia” precede l’amore come il terzo stato dei dottori (l’intelletto) precede storicamente il quarto stato degli anacoreti (l’affetto). La stessa questione viene posta nella domanda che Dante fa a Francesca: “Ma dimmi: al tempo d’i dolci sospiri, / a che e come concedette amore / che conosceste i dubbiosi disiri?”, e riecheggiata nella risposta: “Ma s’a conoscer la prima radice / del nostro amor tu hai cotanto affetto, / dirò come colui che piange e dice” (Inf. V, 118-120, 124-126).
Nei beati, come sa Dante che si rivolge a Cacciaguida, “l’affetto e ’l senno” (la larghezza e la lunghezza) sono di pari peso dal momento in cui essi hanno cominciato a contemplare Dio (definito, per restare nel medesimo ambito tematico, “la prima equalità”, il sole uguale nel calore della carità e nella luce della visione), diversamente dai mortali, nei quali “voglia e argomento” (corrispondenti all’affetto e al senno) hanno ali disuguali (Par. XV, 73-84).
Al termine del viaggio, la lunghezza (“il mio disio”, che esprime anche l’altezza, “secundum mensuram sue tensionis”, e dunque la “sete natural” di cui a Purg. XXI, 1-4) e la larghezza (“’l velle”) saranno in Dante “sì come rota ch’igualmente è mossa”
(Par. XXXIII, 143-145). Lo Spirito di Cristo, nell’invitare alla gloriosa cena delle nozze dell’Agnello, dice: “Et qui sitit veniat. Et qui vult accipiat aquam vite gratis”, perché, aggiunge Olivi, “nullus cogitur nec potest venire nisi per desiderium et voluntarium consensum” (ad Ap 22, 17).
Nella descrizione dell’empirea rosa, la fiumana luminosa, che prima appariva in lunghezza, successivamente diviene tonda distendendosi in figura circolare, con una circonferenza che sarebbe cintura “troppo larga” per il sole (Par. XXX, 88-90, 103-105). La rosa sempiterna “si digrada” (si allunga nel senso di protendersi), “e dilata” (si allarga) “e redole / odor di lode al sol che sempre verna” (l’elevarsi dell’altezza; vv. 124-126). Il digradare fa comunque riferimento ai “gradi”, che nella misura della città sono uguali per ciascun lato: secondo Gioacchino da Fiore, ovunque si ritrova il numero 6, in quanto il senario, riflesso su sé stesso ed elevato in alto, dà 36, e 36.000 (6 volte 6000) si ottiene dividendo 144.000 (dodici volte la misura della città, che è di 12.000 stadi) per i 4 lati.
Nel riferire l’ultima visione, Dante prima ricorda “l’abbondante grazia ond’ io presunsi / ficcar lo viso per la luce etterna” (la visione corrisponde alla lunghezza), poi afferma di aver visto la forma universale del nodo che unisce tutte le cose perché, dicendo ciò, prova un godimento più largo (i perfetti, i quali “in gaudio dilatantur” in questa vita, designano la larghezza; Par. XXXIII, 82-93). Il vedere del poeta è tanto più sincero quanto più entra nel raggio dell’alta luce (vv. 52-54), che tanto si eleva sui concetti mortali (vv. 67-68: l’altezza).
Pier Damiani ‘pareggia’, cioè rende uguale, la chiarezza della visione di Dio (“la vista mia, quant’ ella è chiara”) con “l’allegrezza ond’ io fiammeggio” – in lui sono pertanto uguali la lunghezza della visione e la larghezza del gaudio che deriva dalla carità – e, grazie alla virtù della luce divina che si congiunge con il suo vedere, può levarsi tanto sopra di sé (uguaglianza dell’altezza) nell’intelligenza della somma essenza (Par. XXI, 82-90).
I temi di Ap 21, 16 (l’uguaglianza dei lati della Gerusalemme celeste) si intrecciano, in diverse appropriazioni, con quelli di Ap 1, 16-17 (il chiaro splendore del volto di Cristo che più riluce nel meriggio del sesto stato): è il caso della larghezza-allegrezza e dell’altezza-speranza rispettivamente in Par. XXXII, 85-90 (la festa degli angeli sopra Maria) e XXV, 25-33 (Beatrice, ridendo, si rivolge a san Giacomo; il ridere rende lo “splendor faciei” di Cristo; da rilevare la variante chiarezza, che rinvia ad Ap 1, 16, rispetto a carezza).

■ Salomone, rispondendo alla prima parte della domanda di Beatrice fatta per conto di Dante, sulla luminosità dei beati dopo la resurrezione della carne – “Diteli se la luce onde s’infiora / vostra sustanza, rimarrà con voi / etternalmente sì com’ ell’ è ora” (Par. XIV, 13-15) [2]argomenta variando la tematica dell’uguaglianza dei lati della Gerusalemme celeste (Ap 21, 16).
Si riferisce dapprima alla situazione attuale, nella quale i beati sono in attesa della resurrezione (vv. 37-42): Quanto fia lunga la festa / di paradiso, tanto il nostro amore / si raggerà dintorno cotal vesta. – (civitas beatorum) quantum est in visione longa tantum est in caritate lata; quantum etiam est in longitudinem eternitatis immortaliter prolongata, tantum est iocunditate glorie dilatata”. Le misure sono diversamente appropriate: la lunghezza, anziché con la visione, è indicata con la iocunditas glorie, alla quale fa seguito la larghezza del raggiare d’amore [3].
Prosegue: “La sua chiarezza séguita l’ardore; / l’ardor la visïone, e quella è tanta, / quant’ ha di grazia sovra suo valore”. Principio è la grazia, che si aggiunge al merito conseguito in terra, cui fa seguito la visione, a questa l’ardore di carità, quindi la luminosità dell’anima. Non si può affermare che venga qui proposta la dottrina tomista della prevalenza dell’intelletto sull’affetto o volontà; anche il francescano Olivi dichiara, come sopra ricordato, che non si può amare se non ciò che si è preventivamente conosciuto. La priorità, che non significa prevalenza, della conoscenza sulla volontà, dell’intelletto sull’affetto è attestata anche storicamente, perché il terzo stato o periodo dei dottori che confutano razionalmente le eresie con la spada della ragione precede il quarto stato, proprio degli affettuosi anacoreti dediti alla pasturazione eucaristica. I due periodi, che designano rispettivamente il potere temporale e quello spirituale come le due ali d’aquila date alla donna per volare nel deserto dei Gentili (Ap 12, 14), concorrono con la loro solare sapienza a infiammare il mondo:

[LSA, prologus, Notabile X] Sicut autem notitia preit amorem, quia non potest amari nisi cognitum, sic status doctorum in hoc libro premittitur ante statum anachoritarum; in quarta tamen visione ostenduntur simul concurrere, ubi dicitur quod “date sunt mulieri due ale aquile magne ut volaret in desertum” (Ap 12, 14).

La visione precede dunque l’ardore di carità, come indica il testo dell’Apocalisse nella descrizione della Gerusalemme celeste: prima il raggio divino che consente la visione, poi l’atto di carità; entrambi sono però tanto compenetrati che nessuno dei due è perfetto senza l’altro:

[LSA, cap. XXI, Ap 21, 22 (VIIa visio)] “Et templum non vidi in ea” et cetera. Hic agit de sacro cultu et lumine quo civitas beatorum colit Deum et videt ipsum et omnia in ipso. Prius enim egit de formali et intrinseca luce et claritate eius (Ap 21, 11), hic vero de fontali obiecto et radio in quo Deum et omnia videbit. Que quidem visio est summa et ultimata illuminatio beatorum; beatificus autem actus caritatis spectat magis proprie ad cultum et sacrificium templi, quamvis utrumque in utroque comprehendatur, quia neutrum absque altero est perfectum etiam in propria specie sua.

Salomone passa quindi a spiegare ciò che avverrà con la resurrezione della carne, quando la perfezione della persona sarà più grata a Dio (Par. XIV, 43-51): per che s’accrescerà ciò che ne dona / di gratüito lume il sommo bene, / lume ch’a lui veder ne condiziona; / onde la visïon crescer convene, / crescer l’ardor che di quella s’accende, / crescer lo raggio che da esso vene”. I quattro termini (chiarezza, ardore, visione, grazia) vengono riproposti con collocazione diversa, ma sempre con movimento ascendente. Non viene fatto riferimento al merito (“valore”) perché le anime beate in attesa della resurrezione non possono più meritare. Lo splendore del corpo glorioso e santo vincerà in visibilità quello attuale dell’anima, come il carbone acceso supera per incandescenza la luce della fiamma (vv. 52-57): da rilevare, nelle parole del più sapiente fra i beati, variazioni quasi impercettibili e assai lontane dai temi originari, su elementi semantici da Ap 7, 9 e 11, 7.
Per quanto riguarda il tema della gratuità della grazia, Olivi afferma che la “prima gratia” esclude ogni merito precedente essendo “tamquam principium et caus<a> meriti” (Ap 22, 17). A Par. XXV, 67-70 la speranza è prodotta da “grazia divina e precedente merto”, e questa è verità che deriva a Dante da molte stelle, cioè da molte scritture (il tema della “stella matutina” che predica e mostra, Ap 22, 16). In questo caso la definizione della speranza ricalca quella data da Pietro Lombardo, “veniens ex Dei gratia et ex meritis praecedentibus” (Sent. III, xxvi, 1). Il merito è “precedente” rispetto alla cosa aspettata, ma l’habitus spei è dato gratuitamente da Dio senza precedente merito (cfr. Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, IIa IIe, qu. 17, a. 1, resp. ad secundum).
Nel caso degli angeli, a Par. XXVIII, 112-113, Beatrice afferma che la misura del vedere è proporzionata al merito, prodotto dalla grazia e dalla volontà buona da essa suscitata. Principio identico a quanto contenuto nell’esegesi di Ap 22, 17 (la prima grazia è data gratuitamente ma, come l’acqua di chi ha sete, ad essa si deve venire “per desiderium et voluntarium consensum”, deve cioè essere accettata) e ribadito nel canto successivo (Par. XXIX, 61-66), dove la donna dà per certo che gli angeli buoni, che con umiltà riconobbero il proprio essere dalla bontà di Dio, ebbero esaltata la loro capacità di vederlo per effetto della grazia illuminante e del loro merito, in modo che essi ora posseggono una piena e ferma volontà. La grazia, come intese Benvenuto, “fuit praedestinata meritis”, fu cioè causa del merito, non il merito (nel caso la fedeltà degli angeli) causa della grazia.

Salomone risponde infine alla seconda parte della domanda di Beatrice sulla luminosità dei beati dopo la resurrezione della carne: “e se rimane, dite come, poi / che sarete visibili rifatti, / esser porà ch’al veder non vi nòi” (vv. 16-18). Olivi, discutendo sull’utilità della narrazione per figure fatta da Giovanni nell’Apocalisse, afferma che all’altezza della visione intellettuale avuta dall’autore nulla toglie l’aggiunta di immagini che siano di aiuto: l’intelligenza dei beati dopo la resurrezione dei corpi non sarà, con l’aggiunta della vista corporea, minore di quanto sia ora senza di questa.

[LSA, cap. I, Ap 1, 2] Preterea altitudini visionis et intelligentie Iohannis non derogat quod huiusmodi figure fuerunt subiuncte et famulantes sue visioni intellectual<i>. Non enim beati post resumptionem corporum minus intelligent corporalia cum visu corporali eis adiuncto quam nunc intelligant absque visu corporali.

Salomone asserisce che “né potrà tanta luce affaticarne: / ché li organi del corpo saran forti / a tutto ciò che potrà dilettarne” (vv. 58-60), facendo riferimento ad Ap 7, 16, dove si dice che quanti  verranno condotti dall’Agnello a bere le acque della vita non saranno afflitti da alcun ardore: «“Neque cadet super illos sol”, scilicet per nimium ardorem affligens».

«Tanto mi parver sùbiti e accorti / e l’uno e l’altro coro a dicer  “Amme!”, / che ben mostrar disio d’i corpi morti: / forse non pur per lor, ma per le mamme, / per li padri e per li altri che fuor cari / anzi che fosser sempiterne fiamme» (vv. 61-66). I ventiquattro beati dicono amen, cioè confermano quanto detto da Salomone, come i ventiquattro seniori confermano, insieme agli angeli e ai quattro esseri viventi, la lode a Dio e all’Agnello, ossia al Cristo uomo fatta dalla turba innumerabile ad Ap 7, 12 (al canto di lode descritto ad Ap 4, 8-11 rinviano i vv. 28-30).
Il “disio d’i corpi morti” è il “desiderium et spes glorie et resurrectionis” del quale Olivi parla ad Ap 4, 7; in questa vita corrisponde all’altezza dei lati della Gerusalemme celeste (Ap 21, 16).  È ancora il desiderio di Giovanni, il quale parla a nome dei santi padri che precedettero, che il libro venga compiutamente aperto da Cristo nella gloria finale, il che avverrà solo con la resurrezione dei santi (Ap 5, 4.10).

[1] E. BUONAIUTI, Storia del Cristianesimo, II, Milano 19472, pp. 537-538: “Ma come nell’animo di Dante l’intellettualismo tomistico e il volontarismo cistercense-francescano si mantenessero giustapposti, senza elidersi né sopraffarsi, appare dalla contraddizione in cui è lasciata cadere Beatrice, quando, nel canto XXVIII del Paradiso, spiegando il movimento dei cerchi angelici, afferma una volta tomisticamente che l’amore poggia sul conoscere […] e afferma un’altra volta, francescanamente, che il conoscere poggia sull’amare”.
[2] Da notare la rima s’infiora / è ora (vv. 13.15), variazione sull’espressione floruisse ad horam nel Notabile XII del prologo della Lectura, riferita agli alti e fiorenti anacoreti del quarto stato, la fioritura dei quali fu temporanea, prima di essere disfatti dai Saraceni per la loro superbia. L’esegesi, che servirà a Cacciaguida nella narrazione della decadenza delle stirpi fiorentine, è indice di quanto la parodia si allontani, nel Paradiso, dai temi originari.
[3] I temi, portati da cellule semantiche presenti nell’esegesi di Ap 21, 16, relativi all’uguaglianza dei lati della Gerusalemme celeste, descritta nella settima visione apocalittica, si registrano variati anche in Purg. XV, 67-75 (con l’inserimento di motivi da Ap 2, 17); XIX, 64-69; Par. II, 103-105.

Tab. VI

[LSA, cap. XXI, Ap 21, 16 (VIIa visio)] “Et civitas in quadro posita est”, id est habens quattuor latera muri sub figura quadranguli iuncta, per quod designatur solida quadratura virtutum.
“Longitudo eius tanta est quanta et latitudo”, id est quattuor latera eius sunt equalia. Nam duo sunt longitudo eius et alia duo sunt eius latitudo. Civitas enim beatorum quantum de Deo et bonis eius videt tantum amat, et ideo quantum est in visione longa tantum est in caritate lata; quantum etiam est in longitudinem eternitatis immortaliter prolongata, tantum est iocunditate glorie dilatata.
In vita autem ista non sunt hec communiter equalia, nisi forte in illis perfectis qui quantum cognoscunt vel credunt tantum amant, et quantum per spem in bona eterna protenduntur tantum gaudio dilatantur. In beatis etiam prudentia et fortitudo et iustitia et temperantia sunt equales. Hec enim sunt quattuor latera civitatis.
Nota quod quia hic agit solum de quadratura non facit mentionem de altitudine, sed paulo post, agens de totali mensura civitatis, dicit quod “longitudo et latitudo et altitudo eius equalia sunt”. Nam quantum per visionem et amorem protenditur in longum et latum, tantum elevatur in altam laudem et reverentiam Dei et in altum superexcessum apprehensionis et degustationis sublimis maiestatis Dei. Secundum etiam mensuram sue caritatis et tensionis Dei est altitudo sue dignitatis et auctoritatis, quod non est communiter in hac vita, nisi in desiderio et in spe pertingendi ad consumatam mensuram patrie. Aliter enim se habet omne edificium in suo initio et aliter in suo fine perfecto. […]
“Et mensus est civitatem Dei cum arundine per stadia duodecim milia” (Ap 21, 16). […] Secundum autem Ioachim, designat duodecim turmas sanctorum martirum designatas per duodecim milia signatos ex unaquaque duodecim tribuum Israel, qui numerus demonstrat longitudinem et latitudinem et altitudinem esse equales. Si enim duodecies duodecim milia dividas in quattuor partes, erunt in singulis triginta sex milia, id est sexies sex milia. Si enim senarius est per se simpliciter perfectus, multo magis est cum per reflexionem sui in se ipsum est in altum auctus. Et secundum hoc ubique per latera longitudinis et latitudinis et per altitudinem ipsorum invenies sex gradus. Tanta autem equalitas designat summam concordiam beatorum in regno Dei*.

* Expositio, pars VIII, ff. 217vb-218rb.

[LSA, cap. XXI, Ap 21, 22 (VIIa visio)] “Et templum non vidi in ea” et cetera. Hic agit de sacro cultu et lumine quo civitas beatorum colit Deum et videt ipsum et omnia in ipso. Prius enim egit de formali et intrinseca luce et claritate eius (Ap 21, 11), hic vero de fontali obiecto et radio in quo Deum et omnia videbit. Que quidem visio est summa et ultimata illuminatio beatorum; beatificus autem actus caritatis spectat magis proprie ad cultum et sacrificium templi, quamvis utrumque in utroque comprehendatur, quia neutrum absque altero est perfectum etiam in propria specie sua.

[LSA, prologus, Notabile X] Sicut autem notitia preit amorem, quia non potest amari nisi cognitum, sic status doctorum in hoc libro premittitur ante statum anachoritarum; in quarta tamen visione ostenduntur simul concurrere, ubi dicitur quod “date sunt mulieri due ale aquile magne ut volaret in desertum” (Ap 12, 14).

[LSA, cap. XXII, Ap 22, 17 (finalis conclusio totius libri)] Septimo loquitur ut invitator omnium ad prefatam gloriam, et hoc tam per se quam per ecclesiam et eius doctores, unde subdit: “Et sponsus”, id est, secundum Ricardum, Christus (quidam tamen habent “Spiritus”, et quidam correctores dicunt quod sic habent antiqui et Greci, ut sic Christus tam per se quam per Spiritum suum et eius internam inspirationem ostendat se invitare), “et sponsa”, id est generalis ecclesia tam beata quam peregrinans vel contemplativa ecclesia, “dicunt: veni ”, scilicet ad nuptias. Ideo enim dixit “sponsa”, ut innueret nos invitari ad gloriosam cenam nuptiarum Agni. “Et qui audit”, scilicet hanc nostram invitationem, id est qui est de hiis sufficienter doctus; vel “qui audit”, id est recte et obedienter credit et opere perficit, “dicat”, scilicet unicuique vocandorum: “veni ”, scilicet ad cenam et civitatem beatam.
Deinde ipse Christus per se liberaliter invitat et offert, dicens: “Et qui sitit veniat, et qui vult accipiat aquam vite gratis”. Quia nullus cogitur nec potest venire nisi per desiderium et voluntarium consensum, ideo dicit “qui sitit et qui vult. Idem autem est venire quod accipere “aquam vite”, id est gratiam vite refectivam et vivificam et perducentem in vitam eternam. Dicit autem “gratis”, tum quia absque omni pretio venali et exteriori datur et accipitur, tum quia prima gratia datur absque omni previo merito et tamquam principium et caus<a> meriti, ac per consequens totum premium et augmentum gratie quod per primam gratiam acquiritur gratia reputatur. Dicit etiam “gratis”, quia tota a summa caritate Christi et summe gratuita et liberali predestinatur et offertur et datur.

Par. XV, 73-84

Poi cominciai così: “L’affetto e ’l senno,
come la prima equalità v’apparse,
d’un peso per ciascun di voi si fenno,
però che ’l sol che v’allumò e arse,
col caldo e con la luce è sì iguali,
che tutte simiglianze sono scarse.
Ma voglia e argomento ne’ mortali,
per la cagion ch’a voi è manifesta,
diversamente son pennuti in ali ;
ond’ io, che son mortal, mi sento in questa
disagguaglianza, e però non ringrazio
se non col core a la paterna festa”.

Par. XVII, 23-24

………   avvegna ch’io mi senta
ben tetragono ai colpi di ventura

Par. XXI, 82-90

poi rispuose l’amor che v’era dentro:
“Luce divina sopra me s’appunta,
penetrando per questa in ch’io m’inventro,
la cui virtù, col mio veder congiunta,
mi leva sopra me tanto, ch’i’ veggio
la somma essenza de la quale è munta.
Quinci vien l’allegrezza ond’ io fiammeggio;
per ch’a la vista mia, quant’ ella è chiara,
la chiarità de la fiamma pareggio”.

Par. XXVIII, 67-78, 106-111

Maggior bontà vuol far maggior salute;
maggior salute maggior corpo cape,
s’elli ha le parti igualmente compiute.
Dunque costui che tutto quanto rape
l’altro universo seco, corrisponde
al cerchio che più ama e che più sape:
per che, se tu a la virtù circonde
la tua misura, non a la parvenza
de le sustanze che t’appaion tonde,
tu vederai mirabil consequenza
di maggio a più e di minore a meno,
in ciascun cielo, a süa intelligenza.

e dei saper che tutti hanno diletto
quanto la sua veduta si profonda

nel vero in che si queta ogne intelletto.
Quinci si può veder come si fonda
l’esser beato ne l’atto che vede,
non in quel ch’ama, che poscia seconda

Par. XXXII, 85-90

Riguarda omai ne la faccia che a Cristo
più si somiglia, ché la sua chiarezza
sola ti può disporre a veder Cristo.

Io vidi sopra lei tanta allegrezza
piover, portata ne le menti sante

create a trasvolar per quella altezza

Purg. XXIX, 10-12

Non eran cento tra ’ suoi  passi e ’ miei,
quando le ripe igualmente dier volta,
per modo ch’a levante mi rendei.

Par. XXXIII, 67-68, 82-84, 91-93, 139-145

O somma luce che tanto ti levi
da’ concetti mortali …………

Oh abbondante grazia ond’ io presunsi
ficcar lo viso per la luce etterna,
tanto che la veduta vi consunsi!

La forma universal di questo nodo
credo ch’i’ vidi, perché più di largo,
dicendo questo, mi sento ch’i’ godo.

ma non eran da ciò le proprie penne:
se non che la mia mente fu percossa
da un fulgore in che sua voglia venne.
A l’alta fantasia qui mancò possa;
ma già volgeva il mio disio e l velle,
sì come rota ch’ igualmente è mossa,
l’amor che move il sole e l’altre stelle.

Par. XXX, 88-90, 100-105, 115-120, 124-126

e sì come di lei bevve la gronda
de le palpebre mie, così mi parve
di sua lunghezza divenuta tonda.

Lume è là sù che visibile face
lo creatore a quella creatura
che solo in lui vedere ha la sua pace.   3, 12
E’ si distende in circular  figura,
in tanto che la sua circunferenza
sarebbe al sol troppo larga cintura.

E se l’infimo grado in sé raccoglie
sì grande lume, quanta è la larghezza
di questa rosa ne l’estreme foglie!

La vista mia ne l’ampio e ne l’altezza
non si smarriva, ma tutto prendeva

il quanto e ’l quale di quella allegrezza.

Nel giallo de la rosa sempiterna,
che si digrada e dilata e redole
odor di lode al sol che sempre verna

Par. XXV, 25-33

Ma poi che ’l gratular si fu assolto,
tacito coram me ciascun s’affisse,
ignito sì che vincëa ’l mio volto.
Ridendo allora Bëatrice disse:
“Inclita vita per cui la larghezza
de la nostra basilica si scrisse,

fa risonar la spene in questa altezza:
tu sai, che tante fiate la figuri,
quante Iesù ai tre più carezza”.
                                             chiarezza

Par. XXVI, 25-30

E io: “Per filosofici argomenti
e per autorità che quinci scende
cotale amor convien che in me si ’mprenti:
ché ’l bene, in quanto ben, come s’intende,
così accende amore, e tanto maggio
quanto più di bontate in sé comprende”.

[LSA, cap. I, Ap 1, 16-17 (Ia visio)] Decima (perfectio summo pastori condecens) est sue claritatis et virtutis incomprehensibilis gloria, unde subdit: “et facies eius sicut sol lucet in virtute sua”. Sol in tota virtute sua lucet in meridie, et precipue quando aer est serenus expulsa omni nube et grosso vapore, et quidem corporalis facies Christi plus incomparabiliter lucet et viget. Per hoc tamen designatur ineffabilis claritas et virtus sue divinitatis et etiam sue mentis. Splendor etiam iste sue faciei designat apertam et superfulgidam notitiam scripture sacre et <divine> faciei <in ea, que> in sexta etate et precipue in eius sexto statu debet preclarius radiare. In cuius signum Christus post sex dies transfiguratus est in monte in faciem solis (cfr. Mt 17, 1-8), et sub sexto angelo tuba canente videtur angelus habens faciem solis et tenens librum apertum (cfr. Ap 10, 1-2).
Undecima est ex predictis sublimitatibus impressa in subditos summa humiliatio et tremefactio et adoratio, unde subdit: “et cum vidissem eum”, scilicet tantum ac talem, “cecidi ad pedes eius tamquam mortuus” (Ap 1, 17). Et est intelligendum quod cecidit in faciem prostratus, quia talis competit actui adorandi; casus vero resupinus est signum desperationis et desperate destitutionis. Huius casus sumitur ratio partim ex intolerabili superexcessu obiecti, partim ex terrifico et immutativo influxu assistentis Dei vel angeli, partim ex materiali fragilitate subiecti seu organi ipsius videntis.
Est etiam huius ratio ex causa finali, tum quia huiusmodi immutatio intimius et certius facit ipsum videntem experiri visionem esse arduam et divinam et a causis supremis, tum quia per eam quasi sibi ipsi annichilatus humilius et timoratius visiones suscipit divinas, tum quia valet ad significandum quod sanctorum excessiva virtus et perfectio tremefacit et humiliat et sibi subicit animos subditorum et etiam ceterorum intuentium. Significat etiam quod in divine contemplationis superexcessum non ascenditur nisi per sui oblivionem et abnegationem et mortificationem et per omnium privationem.

Tab. VI bis

[LSA, cap. XXI, Ap 21, 16 (VIIa visio)] “Et civitas in quadro posita est”, id est habens quattuor latera muri sub figura quadranguli iuncta, per quod designatur solida quadratura virtutum.
“Longitudo eius tanta est quanta et latitudo”, id est quattuor latera eius sunt equalia. Nam duo sunt longitudo eius et alia duo sunt eius latitudo. Civitas enim beatorum quantum de Deo et bonis eius videt tantum amat, et ideo quantum est in visione longa tantum est in caritate lata; quantum etiam est in longitudinem eternitatis immortaliter prolongata, tantum est iocunditate glorie dilatata.
In vita autem ista non sunt hec communiter equalia, nisi forte in illis perfectis qui quantum cognoscunt vel credunt tantum amant, et quantum per spem in bona eterna protenduntur tantum gaudio dilatantur. In beatis etiam prudentia et fortitudo et iustitia et temperantia sunt equales. Hec enim sunt quattuor latera civitatis.
Nota quod quia hic agit solum de quadratura non facit mentionem de altitudine, sed paulo post, agens de totali mensura civitatis, dicit quod “longitudo et latitudo et altitudo eius equalia sunt”. Nam quantum per visionem et amorem protenditur in longum et latum, tantum elevatur in altam laudem et reverentiam Dei et in altum superexcessum apprehensionis et degustationis sublimis maiestatis Dei. Secundum etiam mensuram sue caritatis et tensionis Dei est altitudo sue dignitatis et auctoritatis, quod non est communiter in hac vita, nisi in desiderio et in spe pertingendi ad consumatam mensuram patrie. Aliter enim se habet omne edificium in suo initio et aliter in suo fine perfecto. […]
“Et mensus est civitatem Dei cum arundine per stadia duodecim milia” (Ap 21, 16). […] Secundum autem Ioachim, designat duodecim turmas sanctorum martirum designatas per duodecim milia signatos ex unaquaque duodecim tribuum Israel, qui numerus demonstrat longitudinem et latitudinem et altitudinem esse equales. Si enim duodecies duodecim milia dividas in quattuor partes, erunt in singulis triginta sex milia, id est sexies sex milia. Si enim senarius est per se simpliciter perfectus, multo magis est cum per reflexionem sui in se ipsum est in altum auctus. Et secundum hoc ubique per latera longitudinis et latitudinis et per altitudinem ipsorum invenies sex gradus. Tanta autem equalitas designat summam concordiam beatorum in regno Dei*.

* Expositio, pars VIII, ff. 217vb-218rb.

[LSA, cap. XXII, Ap 22, 17 (finalis conclusio totius libri)] Deinde ipse Christus per se liberaliter invitat et offert, dicens: “Et qui sitit veniat, et qui vult accipiat aquam vite gratis”. Quia nullus cogitur nec potest venire nisi per desiderium et voluntarium consensum, ideo dicit “qui sitit et qui vult”. Idem autem est venire quod accipere “aquam vite”, id est gratiam vite refectivam et vivificam et perducentem in vitam eternam. Dicit autem “gratis”, tum quia absque omni pretio venali et exteriori datur et accipitur, tum quia prima gratia datur absque omni previo merito et tamquam principium et caus<a> meriti, ac per consequens totum premium et augmentum gratie quod per primam gratiam acquiritur gratia reputatur. Dicit etiam “gratis”, quia tota a summa caritate Christi et summe gratuita et liberali predestinatur et offertur et datur.

Purg. XV, 67-75

Quello infinito e ineffabil bene
che là sù è, così corre ad amore
com’ a lucido corpo raggio vene.
Tanto si dà quanto trova d’ardore;
sì che, quantunque carità si stende,
cresce sovr’ essa l’etterno valore.
E quanta gente più là sù s’intende,
più v’è da bene amare, e più vi s’ama,
e come specchio l’uno a l’altro rende.

[LSA, cap. II, Ap 2, 17 (IIIa victoria)] Tertia est victoriosus ascensus super phantasmata suorum sensuum, quorum sequela est causa errorum et heresum. Hic autem ascensus fit per prudentiam effugantem illorum nubila et errores ac impetus precipites et temerarios ac tempestuosos. Hoc autem competit doctoribus phantasticos hereticorum erro-res expugnantibus, quibus et competit premium singularis apprehensionis et degustationis archane sapientie Dei, de quo tertie ecclesie dicitur: “Vincenti dabo manna absconditum, et dabo ei calculum lucidum, et in calculo nomen novum scriptum, quod nemo novit, nisi qui accipit” (Ap 2, 17). […] Calculus autem, id est lapillus parvulus et solidus, pedibus sepe calcatus, est homo Christus pro nobis humiliatus et exinanitus, luce gratie et glorie et deitatis <per>fusus, in quo est nomen novum. Nichil enim magis novum quam quod Deus sit homo et homo Deus, et quod Deus tantum amaverit hominem lapsum et ab ipso iuste dampnatum quod dederit se ei in fratrem, socium et sponsum, et <in> pretium et in cibum et in premium. Hoc tamen nomen nemo affectualiter et experimentaliter novit nisi accipiat ipsum in visceribus sui amoris; non etiam intelligit ipsum nisi per fidem firmam et claram accipiat ipsum.

 

Par. XIV, 37-51

risponder: “Quanto fia lunga la festa
di paradiso, tanto il nostro amore
si raggerà dintorno cotal vesta.
La sua chiarezza séguita l’ardore;
l’ardor la visïone, e quella è tanta,
quant’ ha di grazia sovra suo valore”.
Come la carne glorïosa e santa
fia rivestita, la nostra persona
più grata fia per esser tutta quanta;
per che s’accrescerà ciò che ne dona
di gratüito lume il sommo bene,
lume ch’a lui veder ne condiziona;
onde la visïon crescer convene,
crescer l’ardor che di quella s’accende,
crescer lo raggio che da esso vene. 

Purg. XIX, 64-69

Quale ’l falcon, che prima a’ piè si mira,
indi si volge al grido e si protende
per lo disio del pasto che là il tira,
tal mi fec’ io; e tal, quanto si fende
la roccia per dar via a chi va suso,
n’andai infin dove ’l cerchiar si prende.

Par. II, 103-105

Ben che nel quanto tanto non si stenda
la vista più lontana, lì vedrai
come convien ch’igualmente risplenda.

 

Tab. VII

[LSA, cap. VII, Ap 7, 9 (IIa visio, apertio VIi sigilli)] “Amicti stolis albis”, per candorem munditie et gratie et glorie. Nam hec turba videtur hic describi quasi iam per fidem et martirium perducta ad gloriam Dei. “Et palme in manibus eorum”, id est triumphalis gloria de victoria hostium erat et evidenter apparebat in eis.

[LSA, cap. XI, 11, 7 (IIIa visio, VIa tuba)] Sequitur: “Et cum finierint testimonium suum, bestia, que ascendit de abisso, faciet adversus illos bellum et vincet illos et occidet illos”. Nota quod nec diabolus nec sui permittuntur occidere sanctos usquequo, secundum Dei ordinationem, compleverint officium suum. […] Nota etiam quod non solum dicit quod “occidet” sanctos, sed etiam quod “vincet eos”, quia secundum humanam apparentiam videbuntur convicti et confusi ab eo, ita quod simplices electi fere corruent in errorem. Unde Ioachim dicit quod vincet eos signis mendacibus et fraude demonum et calliditate verborum. Quamvis enim tempore paga-norum martires occiderentur, nichilominus error idolatrie paganorum contra quam martires pugnabant erat sic aperte confusus et vilis, virtus vero et fides martirum sic per miracula inclarescebat quod aperte apparebant victores. Aliter autem fuit in condempnatione et passione Christi, et multo aliter erit in passione sanctorum tempo-re magni Anti-christi et etiam tempore mistici.

Par. XIV, 52-60

Ma sì come carbon che fiamma rende,
e per vivo candor quella soverchia,
sì che la sua parvenza si difende;
così questo folgór che già ne cerchia
fia vinto in apparenza da la carne
che tutto dì la terra ricoperchia;
né potrà tanta luce affaticarne:
ché li organi del corpo saran forti
a tutto ciò che potrà dilettarne.

[LSA, cap. VII, 7, 16-17 (IIa visio, apertio VIi sigilli)] “Non esurient neque sitient amplius” (Ap 7, 16), scilicet respectu corporalis cibi et potus et respectu cuiuscumque penalis desiderii aut cuiuscumque desi-derii non habentis plene et indistanter quod optat. Alias enim semper esuriunt et sitiunt Deum suum et gloriam eius. “Neque cadet super illos sol”, scilicet per nimium ardorem affligens, “neque ullus estus”, id est a nullo interiori defectu, qualis est esuries vel sitis, nec ab aliquo exteriori magno vel parvo affligentur. “Quoniam Agnus, qui in medio troni est” (Ap 7, 17), tamquam scilicet media persona in Trinitate et tamquam mediator inter nos et Deum. Vel est “in medio troni”, id est in intimo sinu Patris, vel in intimo ecclesie quasi centrum ipsius. “Reget illos”, tali scilicet regimine quod non permittet eos aliquo modo affligi.

Tab. VIII

[LSA, cap. V, 5, 2-5.10 (IIa visio, radix)] Loquitur etiam interrogando seu inquirendo, dicendo scilicet: “Quis est” et cetera, tum ut insinuet instans desiderium angelorum et sanctorum patrum quod liber aperiretur et quod aliquis dignus aperire reperiretur, tum quia doctores solent per huiusmodi interrogationes excitare et exigere discipulos suos ad querendum et ad addi<s>cendum, tum quia talis modus querendi sensibilius designat altam admirationem querentis et raritatem ac difficultatem et arduitatem inventionis rei quesite.
Sequitur (Ap 5, 3): “Et nemo poterat neque in celo”, scilicet aliquis angelus, “neque in terra”, scilicet homo quantumcumque peritus vel sanctus, “neque subtus terram”, scilicet quicumque demon vel alius in inferno existens, vel quicumque mortuus quantum ad corpus sub terra sepultus et quantum ad animam ante Christi mortem in inferno existens, “aperire librum nec respicere illum”. […]
Deinde subditur gemitus Iohannis procedens ex desiderio apertionis et ex visa impossibilitate et indignitate omnium ad ipsam complendam. Ait enim: “Et ego flebam multum, quoniam nemo dignus inventus est aperire librum nec videre illum” (Ap 5, 4). Iohannes tenet hic typum omnium sanctorum patrum salvatorem et divine gratie et glorie promeritorem et impetratorem et largitorem desiderantium et pro eius dilatione et inaccessibilitate gementium. Hic autem gemitus pro tanto est in sanctis post Christi adventum pro quanto ad ipsum pro consumatione totius ecclesie et pro gratia et gloria per ipsum impetranda et largienda toto corde suspirant, et pro quanto cum humili gemitu recognoscunt nullum ad hoc fuisse potentem et dignum nisi solum Christum; potissime tamen designat cetum et statum contemplativorum, qui pre ceteris altius et viscerosius ad istud suspirant.
Deinde subditur consolatoria promissio (Ap 5, 5): “Et unus de senioribus dixit michi: Ne fleveris: ecce vicit”, id est victoriose promeruit et etiam per triumphalem potentiam prevaluit, “leo de tribu Iuda”, id est Christus de tribu Iuda natus ac invincibilis et prepotens et ad predam potenter resurgens sicut leo.
“Radix David”, id est radix totius spiritualis vite non solum fidelium qui post Christum fuerunt, sed etiam omnium sanctorum patrum precedentium. Sicut enim rami totius arboris prodeunt a radice et firmantur in ea, sic tota arbor sanctorum Veteris et Novi Testamenti prodit a Christo et firmatur in eo. […]
(Ap 5, 10) Notandum tamen quod sicut apertio libri non erit totaliter consumata usque ad generalem resurrectionem omnium sanctorum, quia sicut semper nova opera et nove illuminationes fiunt a Christo in ecclesia et in quolibet novo ingressu sanctorum morientium ad vitam eternam, sic nec sanctorum agmina designata per seniores et per animalia erunt citra illud tempus omnino completa ac per consequens nec canticum istud.

[5, 4] Item fletus hic quantus fuit in sanctis patribus ante Christum; cum etiam essent in limbo inferni, quanto desiderio suspirabant ut liber vite aperiretur eis et omnibus cultoribus Dei!

Inf. IV, 25-27, 40-42

Quivi, secondo che per ascoltare,
non avea pianto mai che di sospiri
che l’aura etterna facevan tremare

Per tai difetti, non per altro rio,
semo perduti, e sol di tanto offesi
che sanza speme vivemo in disio

Par. XIV, 61-66

Tanto mi parver sùbiti e accorti
e l’uno e l’altro coro a dicer  “Amme!”,
che ben mostrar disio d’i corpi morti:
forse non pur per lor, ma per le mamme,
per li padri e per li altri che fuor cari
anzi che fosser sempiterne fiamme.

5. La misteriosa terza ghirlanda

■ L’apertura del sesto sigillo (Ap 6, 12) avviene in quattro diversi momenti temporali:

1) un inizio profetico, con Gioacchino da Fiore (e altri a lui contemporanei), al quale fu rivelato in spirito il sesto stato, cioè la terza età: corrisponde al Vangelo di Luca, che inizia dal sacerdozio di Zaccaria, al quale fu rivelato l’avvento di Cristo e del suo precursore Giovanni Battista;

2) un inizio generazionale – “sue generationis et plantationis initium” – con il rinnovamento della regola evangelica fatto da Francesco: corrisponde al Vangelo di Matteo, che inizia dall’umana generazione di Cristo;

3) un inizio di nuova fioritura della pianta dovuta al risvegliarsi dello Spirito di Cristo e di Francesco in alcuni predicatori, nel momento in cui la regola francescana viene impugnata e condannata da Babylon, la Chiesa carnale – “a suscitatione spiritus seu quorundam ad spiritum Christi et Francisci … a predicatione vero spiritualium suscitandorum et a nova Babilone reprobandorum sumet initium refloritionis seu repullulationis”: corrisponde al Vangelo di Marco, che inizia dalla predicazione di Cristo e Giovanni Battista;

4) l’ultimo inzio dalla distruzione di Babylon, allorché non ci sarà più concurrentia fra quinto e sesto stato (iniziato con Francesco ancora sotto l’egida del quinto) e il sesto si distinguerà con chiarezza dallo stato precedente: corrisponde al Vangelo di Giovanni, che inizia dall’eternità del Verbo e dalla sua eterna generazione.

“Rabano è qui, e lucemi dallato / il calavrese abate Giovacchino / di spirito profetico dotato” (Par. XII, 139-141). Per quanto le parole di Bonaventura possano essere memori dell’antifona dei Vespri della liturgia florense, spesso citata in proposito – “Beatus Ioachim, / spiritu dotatus prophetico” -, dal confronto con la Lectura Gioacchino appare in primo luogo, per Olivi e Dante, il profeta del sesto stato, del novum saeculum, della rinnovata età augustea. Il sesto e il settimo stato della Chiesa coincidono, per Olivi, con la terza età di Gioacchino da Fiore. Non si tratta tuttavia di uno “status Spiritus sancti” come quello contestato da Tommaso d’Aquino all’abate calabrese [1]; lo Spirito che vi opera è infatti lo Spirito di Cristo – “per Spiritum suum” -, il quale “non inaugura … un’epoca nuova ma porta a compimento e a pienezza il tempo della Chiesa nel Nuovo Testamento” [2]. Per il francescano l’età dello Spirito non è appropriazione a una persona della Trinità, ma manifestazione compiuta dello Spirito di Cristo, interno dettatore che subentra alla voce esteriore della sua umanità (per altro non completamente abbandonata).
Il confronto testuale tra Commedia e Lectura super Apocalipsim risolve il problema, a lungo dibattuto, del rapporto tra Dante e Gioacchino da Fiore. Dante conobbe Gioacchino solo attraverso l’Olivi e le sue circa centocinquanta citazioni nella Lectura. Dal confronto si vede come i testi dell’abate calabrese passino in Olivi e di qui, con in più quel che è proprio del francescano, in Dante. Gioacchino da Fiore è dunque presente nella Commedia in modo diffuso, perché le numerose sue citazioni nella Lectura sono inserite nella generale metamorfosi di questa.

■ Al termine della permanenza nel cielo del Sole, quando la “voce modesta” di Salomone ha cessato di parlare, Dante vede una terza ghirlanda, di pari luminosità, circondare le altre due nelle quali si sono mostrati i 24 nominati spiriti sapienti. Si tratta, come qualcuno ha ritenuto, dei futuri sapienti della terza età di Gioacchino da Fiore, e ciò sarebbe confermato dall’esclamazione che segue tale vista: “Oh vero sfavillar del Santo Spiro!” (Par. XIV, 67-78) [3]. A questo nuovo cerchio di beati, quasi sia segno della “terza teologia”, fa riferimento Hans Urs von Balthasar [4].
I 24 spiriti, nominati, crescono dunque di numero fino a 36. I 12 della terza ghirlanda non sono nominati. In nessun modo le prime due ghirlande possono riferirsi rispettivamente alla prima età gioachimita (del Padre) e alla seconda (del Figlio): ivi si mostrano infatti mischiati personaggi sia del Vecchio come del Nuovo Testamento [5]. Inoltre nel Paradiso trionfano i temi del sesto stato, che è parte dell’età dello Spirito di Gioacchino; questa è già operante e non profeticamente futura; tutti i beati, in modo differenziato, vi partecipano. La terza corona, invece, fa segno del valore del numero 24, che cresce in 36, numero indice di maturità e sapienza.
Ad Ap 4, 4 Olivi si sofferma sul numero 24, proprio dei seniori circondanti la sede divina, numero che corrisponde ai 144.000 segnati (Ap 7, 4) uniti ai 144.000 compagni dell’Agnello (Ap 14, 1), in modo che ciascun seniore sia preposto a una schiera di 12.000, che forma come il suo seggio. Il numero 24, che è quello dei pontefici e delle classi o sorti stabilite da David, è numero copioso, in quanto cresce di 12. È infatti divisibile per 1, 2, 3, 4, 6, 8, 12, che insieme fanno 36. È pertanto un numero che si addice all’abbondanza della maturità e della sapienza dei consiglieri del sommo giudice. È integrato da 2 x 12 e da 12 x 2, perché contiene la perfezione apostolica che concorda con la doppia carità (verso Dio e verso il prossimo). Sorge da 3 x 8, indicando in tal modo la gloria della resurrezione (Cristo risorse nell’ottavo giorno) che nelle tre età generali del mondo viene data ai santi e ai cultori della Trinità.
A questa esegesi rinvia l’elenco degli “spiriti magni” che stanno nel “nobile castello” del Limbo: da “I’ vidi Eletra con molti compagni” (Inf. IV, 121) a “Averoìs che ’l gran comento feo” (v. 144) è infatti compreso in 24 versi (otto terzine). I personaggi sono divisi in due gruppi: il primo (in tre terzine: vv. 121-129) comprende gli eroi che si distinsero nella vita attiva; il secondo (vv. 130-144) annovera i contemplativi, cioè filosofi, moralisti e scienziati. Nel primo gruppo sono nominati 14 personaggi, di cui 2 seduti, il re Latino e sua figlia Lavinia. Il re Latino è collocato al centro, in quanto il suo nome compare nel quinto dei nove versi che ritraggono il gruppo. Tolte le due figure sedute e regali, restano 12 nomi (Elettra, Ettore, Enea, Cesare, Camilla, Pentesilea, Bruto, Lucrezia, Julia, Marzia, Cornelia, il Saladino “solo, in parte”). Il secondo gruppo, collocato un po’ più in alto del primo, ha come centro la triade formata da Aristotele che siede e Socrate e Platone che gli stanno più vicino degli altri (due terzine: vv. 130-135). Seguono 18 personaggi (tre terzine: vv. 136-144). Se a questi si aggiunge “la sesta compagnia”, cioè i sei poeti (Omero, Orazio, Ovidio, Lucano, Virgilio, Dante) si ottiene il numero 24, che sommato ai primi 12 ‘assistenti’ al trono di Latino e Lavinia dà 36.
Anche le parole con le quali san Bernardo descrive i “gran patrici” che siedono sugli “scanni” dell’Empireo sono articolate, come l’elenco degli “spiriti magni” che stanno nel “nobile castello” del Limbo, in 24 versi (otto terzine) a Par. XXXII, 115-138. La ‘figura’ terrestre ha così la sua consumazione nel cielo da cui discende “la provedenza, che governa il mondo / con quel consiglio nel quale ogne aspetto / creato è vinto pria che vada al fondo” (Par. XI, 28-30).

■ A Gioacchino da Fiore sono state accostate le terzine riguardanti, al termine del viaggio, la visione trinitaria:

Par. XXXIII, 115-120

Ne la profonda e chiara sussistenza
   de l’alto lume parvermi tre giri
   di tre colori e d’una contenenza;
e l’un da l’altro come iri da iri
   parea reflesso, e ’l terzo parea foco
  che quinci e quindi igualmente si spiri.

Commenta in proposito Anna Maria Chiavacci Leonardi, nel solco di quanto sostenuto a metà del ’900 da Leone Tondelli: “Se al primo mistero soccorre l’immagine del volume, a delineare in figura il secondo non esistevano sicuri precedenti, se non uno, in un autore che sappiamo molto vicino allo spirito di Dante, e cioè la rappresentazione della Trinità fatta nel Liber figurarum di Gioacchino da Fiore (tre cerchi uguali di diverso colore in parte sovrapposti)” [6]. Si può osservare che il pensare per figure, nella rappresentazione della Trinità, non è proprio del solo Gioacchino [7].
Contraria è la posizione di Giorgio Inglese: “La parola dantesca dice qualcosa che non può essere visualizzato, e va così ben oltre i famosi cerchi trinitari di Gioacchino da Fiore […] e ben oltre le possibilità dell’iconografia” [8]. La questione sembra essere ancora aperta [9].
Anche questi versi vanno confrontati con la Lectura super Apocalipsim. La sinossi mostra che, descrivendo l’invisibile, Dante figurava concetti teologici contenuti nell’esegesi della sede divina in principio del capitolo IV dell’Apocalisse. Non aveva bisogno di ispirarsi ai cerchi trinitari del Liber Figurarum di Gioacchino da Fiore, cioè a una figura, poiché era lo stesso autore che la creava in versi. Ciò non esclude la presenza di Gioacchino nel poema, presente in tutti i luoghi nei quali la parodia si esercita sulle centinaia di citazioni dell’abate calabrese incorporate nella Lectura oliviana.

[1] Cfr. l’obiezione mossa da TOMMASO D’AQUINO a quanti, come Gioacchino da Fiore, dicevano si dovesse attendere uno “status tertius Spiritus Sancti, in quo spirituales viri principabuntur”: “Alio modo status hominum variari potest secundum quod homines diversimode se habent ad eandem legem, vel perfectius vel minus perfecte. Et sic status veteris legis frequenter fuit mutatus: cum quandoque leges optime custodirentur, quandoque omnino praetermitterentur. Sic etiam status novae legis diversificatur, secundum diversa loca et tempora et personas, inquantum gratia Spiritus Sancti perfectius vel minus perfecte ab aliquibus habetur. Non est tamen expectandum quod sit aliquis status futurus in quo perfectius gratia Spiritus Sancti habeatur quam hactenus habita fuerit, maxime ab Apostolis, qui primitias Spiritus acceperunt, idest et tempore prius et ceteris abundantius, ut Glossa dicit Rom. 8, [23]” (Summa theologiae, Ia IIae, q. 106, a. 4: Utrum lex nova sit duratura usque ad finem mundi).

[2] P. VIAN, Fra Gioacchino da Fiore e lo spiritualismo francescano: Lo Spirito Santo nella Lectura super Apocalipsim di Pietro di Giovanni Olivi, in Lo Spirito Santo, in “Parola spirito e vita. Quaderni di lettura biblica”, 38 (1998/2), p. 248.

[3] Così PICONE, Canto XIV, pp. 210-212.

[4] H. U. von BALTHASAR, Gloria. Una estetica teologica, III, Stili laicali, trad. it., Milano 2017, p. 4.

[5] F. BAUSI, Dante fra scienza e sapienza. Esegesi del canto XII del Paradiso, Firenze 2009 («Saggi di Lettere italiane», LXVI), pp. 108-110.

[6] A. M. CHIAVACCI LEONARDI, Paradiso, Milano 2007, p. 903.

[7] Cf. V. CIRLOT, Figura y visión del misterio trinitario: Hildegard von Bingen y Gioacchino da Fiore, in Pensare per figure. Diagrammi e simboli in Gioacchino da Fiore. Atti del 7° Congresso internazionale di studi gioachimiti. San Giovanni in Fiore – 24-26 settembre 2009, a cura di A. Ghisalberti, Roma 2010, pp. 205-216.

[8] G. INGLESE, Commedia. Paradiso, Roma 2016, p. 401, a v. 117.

[9] Sull’argomento è tornato E. FUMAGALLI, Gioacchino da Fiore, Dante e i cerchi trinitari: una questione aperta?, in Pensare per figure (cfr. supra, nota 7), pp. 295-309.

Tab. IX

[LSA, cap. VI, Ap 6, 12 (IIa visio, apertio VIi sigilli)] Hoc igitur commemorato, est adhuc notandum a quo tempore debeat sumi initium huius sexte apertionis.

Videtur enim quibusdam quod ab initio ordinis et regule sancti patris prefati;

aliis vero quod a sollempni revelatione tertii status generalis continentis sextum et septimum statum ecclesie facta abbati Ioachim, et forte quibusdam aliis sibi contemporaneis;

aliis vero quod ab exterminio Babilonis, id est ecclesie carnalis, per decem cornua bestie, id est per decem reges, fiendo (cfr. Ap 17, 12/16);

aliis vero quod a suscitatione spiritus seu quorundam ad spiritum Christi et Francisci, tempore quo eius regula est a pluribus nequiter et sophistice impugnanda et condempnanda ab ecclesia carnalium et superborum, sicut Christus condempnatus fuit a sinagoga reproba Iudeorum. Hoc enim oportet preire temporale exterminium Babilonis, sicut Christi et suorum condempnatio a Iudeis preivit temporale exterminium sinagoge.

Sciendum autem quattuor sententias predictas sane assumptas non esse sibi contrarias, sed concordes. Sicut enim Luchas inchoat Christi evangelium a sacerdotio Zacharie, cui facta est prophetica revelatio de Christo statim venturo et de Iohanne eius immediato precursore; Mattheus vero ab humana Christi generatione; Marchus vero a Christi et Iohannis predicatione; Iohannes vero a Verbi eternitate et eterna generatione, sic hec sexta apertio sumpsit quoddam prophetale initium a revelatione abbatis et consimilium; a renovatione vero regule evangelice per servum eius Franciscum sumpsit sue generationis et plantationis initium; a predicatione vero spiritualium suscitandorum et a nova Babilone reprobandorum sumet initium refloritionis seu repullulationis; a destructione vero Babilonis sumet initium sue clare distinctionis a quinto statu et sue distincte clarificationis, iuxta quod et dicimus legalia quantum ad obligationem necessariam fuisse mortificata in Christi passione et resurrectione et tandem sepulta et effecta mortifera in evangelii pl<e>na promulgatione et in templi legalis per Titum et Vespasianum destructione.

Par. XII, 139-141

Rabano è qui, e lucemi dallato
il calavrese abate Giovacchino
di spirito profetico dotato.

Par. XIV, 67-81

Ed ecco intorno, di chiarezza pari,
nascere un lustro sopra quel che v’era,
per guisa d’orizzonte che rischiari.
E sì come al salir di prima sera
comincian per lo ciel nove parvenze,
sì che la vista pare e non par vera,
parvemi lì novelle sussistenze
cominciare a vedere, e fare un giro
di fuor da l’altre due circunferenze.   3 x 12 = 36
Oh vero sfavillar del Santo Spiro!
come si fece sùbito e candente
a li occhi miei che, vinti, nol soffriro!
Ma Bëatrice sì bella e ridente
mi si mostrò, che tra quelle vedute
si vuol lasciar che non seguir la mente.

[LSA, cap. I, Ap 1, 14 (radix Ie visionis)] Quarta est reverenda et preclara sapientie et consilii maturitas per senilem et gloriosam canitiem capitis et crinium designata, unde subdit: “caput autem eius et capilli erant candidi tamquam lana alba et tamquam nix” (Ap 1, 14). Per caput vertex mentis et sapientie, per capillos autem multitudo et ornatus subtilissimorum et spiritualissimorum cogitatuum et affectuum seu plenitudo donorum Spiritus Sancti verticem mentis adornantium designatur. Sicut autem in lana est calor fomentativus et mollities corpori se applicans, et candor contemperatior et suavior quam in nive, sic in nive est frigiditatis et congelationis algor et rigor et candor intensior nostroque visui intolerabilior, est etiam humor sordium purgativus et terre impinguativus. Per que designatur quod Christi sapientia est partim nobis condescensiva et sui ad nos contemperativa nostrique fomentativa et sua pietate calefactiva, partim autem est a nobis abstracta et nobis rigida nimisque intensa, nostrarumque sordium purgativa nostreque hereditatis impinguativa.

Tab. X

[LSA, cap. IV, Ap 4, 4 (radix IIe visionis)] Dicuntur autem esse “in circuitu sedis”, quia ad defensionem et protectionem sancte matris ecclesie ordinati sunt quasi murus eius et etiam sicut famuli eius. Sicut enim sedes Dei integratur ex ecclesia plenitudinis gentium et ex finali ecclesia reliquiarum Iudeorum et gentium tam-quam ex parte sinistra et dextera, sic duodecim principes unius partis stant ad sinistram sedis et duodecim principes alterius partis stant ad dexteram eius. Per eorum autem sedilia desi-gnantur ecclesie eis subiecte. Infra autem ponun-tur CXLIIII milia signati (Ap 7, 4) et iterum CXLIIII milia agni (Ap 14, 1), ut sic XXIV senioribus subiaceant bis CXLIIII milia, unicuique scilicet seniorum una legio habens XII milia, unaqueque legio autem est sedile senioris sibi presidentis sicut tota universalis ecclesia est sedes Dei. Sive autem sic sive aliter, mistica tamen ratio numeri seniorum hic positi sumitur ex proprie-tatibus ipsius numeri et ex XXIV pontificibus eorumque XXIV sortibus per regem David cons-titutis, de quibus habetur I° Paralipomenon XXIIII° (1 Par 24, 1-19).
Prefatus enim numerus est habundans. Nam eius parte<s> aliquote, simul sumpte, ultra ipsum superexcrescunt in duodecim. Habet enim partes septem aliquotas, scilicet unum, duo, tria, quat-tuor, sex, octo, duodecim, que faciunt XXXVI. Et ideo predictus numerus congruit superhabundanti maturitati et sapientie seniorum, qualem condecet esse in consiliis et iudiciis summi Dei. Integratur etiam ex duobus duodenariis et ex duodecim binariis, tamquam continens perfectionem aposto-licam in concordia gemine caritatis. Consurgit etiam ex tribus octonariis, tamquam resurrectionis gloriam sanctis trium temporum et sancte Trini-tatis cultoribus dandam esse designans.

Inf. IV, 121-144 = 24 versi 8 terzine

I’ vidi Eletra con molti compagni,          v. 121
tra ’ quai conobbi Ettòr ed Enea,
Cesare armato con li occhi grifagni.
Vidi Cammilla e la Pantasilea;                 6
da l’altra parte vidi ’l re Latino

che con Lavina sua figlia sedea.
Vidi quel Bruto che cacciò Tarquino,
Lucrezia, Iulia, Marzïa e Corniglia;
e solo, in parte, vidi ’l Saladino.              6                                                                                                                                              
Poi ch’innalzai un poco più le ciglia,

vidi ’l maestro di color che sanno
seder tra filosofica famiglia.

Tutti lo miran, tutti onor li fanno:
quivi vid’ ïo Socrate e Platone,
che ’nnanzi a li altri più presso li stanno;

Democrito che ’l mondo a caso pone,
Dïogenès, Anassagora e Tale,

Empedoclès, Eraclito e Zenone;
e vidi il buono accoglitor del quale,
Dïascoride dico; e vidi Orfeo,
Tulïo e Lino e Seneca morale;
Euclide geomètra e Tolomeo,
Ipocràte, Avicenna e Galïeno,
Averoìs che  ’l gran comento feo.             18  v. 144

La sesta compagnia in due si scema …       6
_____________________________________
                                                                         36

Inf. IV, 121-144 = 24 versi

I’ vidi Eletra con molti compagni,
tra ’ quai conobbi Ettòr ed Enea,
Cesare armato con li occhi grifagni.
Vidi Cammilla e la Pantasilea;
da l’altra parte vidi ’l re Latino
che con Lavina sua figlia sedea.
Vidi quel Bruto che cacciò Tarquino,
Lucrezia, Iulia, Marzïa e Corniglia;
e solo, in parte, vidi ’l Saladino.
Poi ch’innalzai un poco più le ciglia,
vidi ’l maestro di color che sanno
seder tra filosofica famiglia.
Tutti lo miran, tutti onor li fanno:
quivi vid’ ïo Socrate e Platone,
che ’nnanzi a li altri più presso li stanno;
Democrito che ’l mondo a caso pone,
Dïogenès, Anassagora e Tale,
Empedoclès, Eraclito e Zenone;
e vidi il buono accoglitor del quale,
Dïascoride dico; e vidi Orfeo,
Tulïo e Lino e Seneca morale;
Euclide geomètra e Tolomeo,
Ipocràte, Avicenna e Galïeno,
Averoìs che  ’l gran comento feo.

Par. XXXII, 115-138 = 24 versi

Ma vieni omai con li occhi sì com’ io
andrò parlando, e nota i gran patrici
di questo imperio giustissimo e pio.
Quei due che seggon là sù più felici
per esser propinquissimi ad Agusta,
son d’esta rosa quasi due radici:
colui che da sinistra le s’aggiusta
è ’l padre per lo cui ardito gusto
l’umana specie tanto amaro gusta;
dal destro vedi quel padre vetusto
di Santa Chiesa a cui Cristo le chiavi
raccomandò di questo fior venusto.
E quei che vide tutti i tempi gravi,
pria che morisse, de la bella sposa
che s’acquistò con la lancia e coi clavi,
siede lungh’ esso, e lungo l’altro posa
quel duca sotto cui visse di manna
la gente ingrata, mobile e retrosa.
Di contr’ a Pietro vedi sedere Anna,
tanto contenta di mirar sua figlia,
che non move occhio per cantare osanna;
e contro al maggior padre di famiglia
siede Lucia, che mosse la tua donna
quando chinavi, a rovinar, le ciglia.

■ L’inizio del capitolo IV della Lectura super Apocalipsim, che insieme al V forma la “radice” o parte proemiale della seconda visione, che è dei sette sigilli, consiste nella descrizione della sede divina dove siede Colui che nella mano destra tiene il libro che solo Cristo è in grado di aprire. In primo luogo viene narrato l’elevarsi spirituale di Giovanni alla visione in seguito descritta. Egli scrive infatti, per indicare un nuovo aprirsi di cose celesti e divine: “Dopo ciò vidi, ed ecco una porta aperta in cielo. La voce che prima avevo udito parlarmi come una tromba diceva: sali quassù”, cioè in cielo, “e ti mostrerò le cose che debbono accadere in seguito”, cioè dopo quelle che, nella prima visione, sono state riferite in senso letterale alle sette chiese d’Asia (Ap 4, 1). Giovanni aggiunge: “Subito fui in spirito”, ossia in estasi (Ap 4, 2). Si può intendere che Giovanni, dopo la prima visione, sia stato ricondotto a sé e che ora venga elevato di nuovo alla contemplazione estatica, oppure che dalla prima visione venga elevato a una seconda molto più alta, quasi ascendendo al cielo da un luogo subceleste o quasi il suo primo vedere in spirito non lo fosse stato realmente rispetto al secondo. Si può anche dire che la ripetizione di questo elevarsi indica che ogni visione, con i suoi oggetti, ha un proprio essere arduo, che è nuovo rispetto al modo delle visioni precedenti. Ogni illuminazione dispone la mente a riceverne una più alta: così vedere il cielo aprirsi e udire la voce possente come una tromba disponevano e stimolavano Giovanni alle visioni successive.
Passando dal secondo al terzo cerchio dell’inferno, il poeta, caduto come corpo morto per la pietà provata verso Francesca e Paolo, “al tornar de la mente” si vede attorno “novi tormenti e novi tormentati” (Inf. VI, 1-6): come Giovanni, ritorna in sé da una visione precedente per sperimentarne una nuova. Così accade dal terzo al quarto cerchio, dove il poeta vede “nove travaglie e pene” (Inf. VII, 19-20; cfr. Inf. XVIII, 22-23, nella prima bolgia). Poiché si tratta di una nuova visione, il poeta tace nel primo caso sul modo del passaggio tra i cerchi. Il medesimo tema caratterizza la salita sull’argine della settima bolgia (Inf. XXIV, 58-63). Salito sulla punta franata, Dante si siede spossato ma viene stimolato da Virgilio a spoltrirsi in quanto l’attende più lunga scala. Il poeta si leva e dichiara di sentirsi forte e ardito (corrisponde nel testo dell’Olivi all’arditezza della visione che segue) e i due riprendono la via sullo scoglio “erto più assai che quel di pria”.
La visione dell’Incarnazione, l’intelligenza dell’umano e del divino in Cristo, di come possa convenire il diametro con la circonferenza, è per il poeta l’ultima “vista nova”, per cui “indige” (hapax nel poema) del principio geometrico che non ritrova, come Giovanni indigeva di essere elevato ogni volta a più alta visione (Par. XXXIII, 133-136). Per questo san Bernardo ha pregato: “che possa con li occhi levarsi / più alto verso l’ultima salute “ (vv. 25-27).
Variazioni sul motivo del passaggio a più alta visione si registrano a Par. III, 6-7 e XXI, 13.

Il tema dell’elevarsi verso un più alto e nuovo vedere segna il passaggio dal quarto al quinto cielo. Al termine del suo soggiorno nel cielo del Sole, Dante scorge una nuova corona di beati formare un cerchio attorno alle altre due già presenti. I beati gli appaiono “novelle sussistenze”, come le stelle che in cielo di prima sera sono “nove parvenze” indistinte al vedere (Par. XIV, 70-75; il motivo è anticipato dagli stessi due cerchi beati del cielo del Sole, i quali “mostar nova gioia” come coloro che danzando in tondo “levan la voce”, vv. 19-24).
Segue un momento nel quale la mente torna in sé dall’eccesso di contemplazione, come Giovanni “ab excessu mentis ad se reductus”: gli occhi non sopportano l’incandescente “sfavillar del Santo Spiro” (vv. 76-78; cfr. Ap 1, 14), la memoria non trattiene la vista di Beatrice:
“Bëatrice sì bella e ridente / mi si mostrò, che tra quelle vedute / si vuol lasciar che non seguir la mente” (vv. 79-81). Il riso di Beatrice incarna lo splendore del volto di Cristo, che imprime in chi lo vede tremore e oblio (Ap 1, 16-17). La variante seguì, contro la quasi totalità della tradizione antica, viene da alcuni prescelta in quanto “non le cose seguono la memoria, ma la memoria le cose” (Inglese). Ma si può intendere: ‘quelle vedute … che non si accompagnarono alla memoria’, che furono cioè messe in oblio.
Dalla vista di Beatrice il poeta acquista poi vigore per elevarsi e si vede “translato … in più alta salute”, cioè nel successivo cielo di Marte, il cui rosseggiare lo rende esperto di essersi “più levato” (vv. 79-87); ivi i lumi si muovono come corpuscoli di polvere, che vanno “rinovando vista” (v. 113).
Il riso di Beatrice, sacra parodia dello splendore del volto di Cristo (Ap 1, 16-17), cresce in splendore ascendendo verso l’Empireo –
“i vivi suggelli / d’ogne bellezza più fanno più suso” (vv. 133-134) -, come cresce per rami l’illuminazione del popolo di Dio nella storia della Chiesa (Ap 21, 12-13.21). Alla fine del canto il poeta si scusa di aver posposto “il piacer de li occhi belli, / ne’ quai mirando mio disio ha posa” (il riposarsi dopo la corsa nello stadio: cfr. Ap 21, 16), alla dolcezza del canto dei beati che tanto l’ha fatto innamorare (vv. 130-139). Ma, poiché il vedere Beatrice “si fa, montando, più sincero”, superando ogni altra bellezza presente, gli è consentito scusarsi, in quanto esso non era stato messo da parte. Ad Ap 10, 3 si afferma che l’angelo dal volto solare ruggisce come un leone contro quanti, pervicaci nell’errore, non hanno più alcun velo di scusa una volta che il libro delle illuminazioni sapienziali è stato loro aperto. Dante si scusa, ma in realtà non lo deve fare; il libro, cioè gli occhi di Beatrice, è aperto (“ché ’l piacer santo non è qui dischiuso”) e sempre presente alla vista in modo più luminoso e prevalente sul resto, anche quando la luce non è sostenibile o non viene descritta.

 Tab. XI

[LSA, cap. IV, Ap 4, 1-2 (radix IIe visionis)] “Post hec vidi” (Ap 4, 1). Hic incipit visio secunda, que est de septem apertionibus septem sigillorum libri signati stantis in dextera Dei. In hac igitur primo narratur spiritualis sublevatio Iohannis ad videndum sequentia. Secundo subditur prima pars huius secunde visionis, describens fontalem radicem et causam septem apertionum libri per septem tempora ecclesiastica complendarum, ibi: “Et ecce sedes posita erat in celo” (Ap 4, 2). Tertio subditur propria apertio uniuscuiusque signaculi, capitulo sexto et septimo.
Quantum ad primum, dicit: “Post hec vidi”, scilicet id quod immediate subditur, “et ecce hostium apertum in celo”, scilicet apparuit, que apertio designabat novam apertionem supercelestium et divinorum sibi tunc fiendam. “Et vox prima, quam audivi”, supple fuit, “tamquam tube loquentis mecum, dicens: Ascende huc”, scilicet in celum, “et ostendam tibi que oportet fieri post hec”, id est post predicta, que litteraliter spectant ad presentem statum septem ecclesiarum Asie.
“Et statim fui in spiritu” (Ap 4, 2), id est in spirituali excessu mentis. Nota ex istis haberi aut quod post primam visionem fuerat ab excessu mentis ad se reductus, et ideo nunc iterato sublevatur ad mentis excessum; aut quod a primo mentis excessu, sub quo primam visionem vidit, elevatur nunc ad multo altiorem excessum, ac si tunc esset infra celum, nunc autem supra celum ascendat, et ac si suum primum esse in spiritu fuerit quasi non esse in spiritu respectu istius, de quo hic dicit: “Et statim fui in spiritu”; aut per reiterationes huiusmodi sublevationum designat quamlibet visionum cum suis obiectis habere propriam et novam arduitatem, et quod ad quamlibet videndam indigebat superelevari a Deo ad illam. Sicut autem una illuminatio disponit mentem ad aliam altiorem, sic spiritualis visio apertionis celi et spiritualis auditus vocis sic grandis, sicut est vox tube, erant dispositiones et ex<c>itationes ad sequentes sublevationes spiritus sui. Vox etiam hec dicitur ‘prima vox’ huius visionis respectu sequentium, quas in hac visione audivit.

Par. XIV, 19-24, 70-75, 79-87, 112-114

Come, da più letizia pinti e tratti,
a la fïata quei che vanno a rota
levan la voce e rallegrano li atti,
così, a l’orazion pronta e divota,
li santi cerchi mostrar nova gioia
nel torneare e ne la mira nota.

E sì come al salir di prima sera
comincian per lo ciel nove parvenze,
sì che la vista pare e non par vera,
parvemi lì novelle sussistenze
cominciare a vedere, e fare un giro
di fuor da l’altre due circunferenze.

Ma Bëatrice sì bella e ridente
mi si mostrò, che tra quelle vedute
si vuol lasciar che non seguir la mente.   seguì
Quindi ripreser li occhi miei virtute
a rilevarsi; e vidimi translato
sol con mia donna in più alta salute.
Ben m’accors’ io ch’io era più levato,
per l’affocato riso de la stella,
che mi parea più roggio che l’usato.

così si veggion qui diritte e torte,
veloci e tarde, rinovando vista,
le minuzie d’i corpi, lunghe e corte

Par. XVI, 16-18

Io cominciai: « Voi siete il padre mio;
 voi mi date a parlar tutta baldezza;
 voi mi levate , ch’i’ son più ch’io.

Par
. XXI, 13-15

Noi sem levati al settimo splendore,
che sotto ’l petto del Leone ardente
raggia mo misto giù del suo valore.

Par. XXXIII, 25-27, 133-136

supplica a te, per grazia, di virtute
tanto, che possa con li occhi levarsi
più alto verso l’ultima salute.

Qual è ’l geomètra che tutto s’affige
per misurar lo cerchio, e non ritrova,
pensando, quel principio ond’ elli indige,
tal era io a quella vista nova

Inf. VI, 1-6; VII, 19-20; XVIII, 22-23

Al tornar de la mente, che si chiuse
dinanzi a la pietà d’i due cognati,
che di trestizia tutto mi confuse,
novi tormenti e novi tormentati
mi veggio intorno, come ch’io mi mova
e ch’io mi volga, e come che io guati.

Ahi giustizia di Dio! tante chi stipa
nove travaglie e pene quant’ io viddi?

A la man destra vidi nova pieta,
novo tormento e novi frustatori

Inf. XXIV, 7-9, 25-28, 58-63, 112-118

lo villanello a cui la roba manca,
si leva, e guarda, e vede la campagna
biancheggiar tutta; ond’ ei si batte l’anca

E come quei ch’adopera ed estima,
che sempre par che ’nnanzi si proveggia,
così, levando me sù ver’ la cima
d’un ronchione, avvisava un’altra scheggia

Leva’mi allor, mostrandomi fornito
meglio di lena ch’i’ non mi sentia,
e dissi: “Va, ch’i’ son forte e ardito”.
Su per lo scoglio prendemmo la via,
ch’era ronchioso, stretto e malagevole,
ed erto più assai che quel di pria.

E qual è quel che cade, e non sa como,
per forza di demon ch’a terra il tira,
o d’altra oppilazion che lega l’omo,
quando si leva, che ’ntorno si mira
tutto smarrito de la grande angoscia
ch’elli ha sofferta, e guardando sospira:
tal era ’l peccator levato poscia.

Par. III, 4-9

e io, per confessar corretto e certo
me stesso, tanto quanto si convenne
leva’ il capo a proferer più erto;
ma visïone apparve che ritenne
a sé me tanto stretto, per vedersi,
che di mia confession non mi sovvenne.

Tab. XII

[LSA, cap. XXI, Ap 21, 12-13.21 (VIIa visio)] Sciendum igitur quod, licet per apostolos et per alios sanctos secundi status generalis ecclesie intraverit multitudo populorum ad Christum tamquam per portas civitatis Dei, nichilominus magis appropriate competit hoc principalibus doctoribus tertii generalis status, per quos omnis Israel et iterum totus orbis intrabit ad Christum. Sicut enim apostolis magis competit esse cum Christo fundamenta totius ecclesie et fidei christiane, sic istis plus competet esse portas apertas et apertores seu explicatores sapientie christiane. Nam, sicut arbor dum est in sola radice non potest sic tota omnibus explicari seu explicite monstrari sicut quando est in ramis et foliis ac floribus et fructibus consumata, sic arbor seu fabrica ecclesie et divine providentie ac sapientie in eius partibus diversimode refulgentis et participate non sic potuit nec debuit ab initio explicari sicut in sua consumatione poterit et debebit. Et ideo sicut ab initio mundi usque ad Christum crevit successive illuminatio populi Dei et explicatio ordinis et processus totius Veteris Testamenti et providentie Dei in fabricatione et gubernatione ipsius, sic est et de illuminationibus et explicationibus christiane sapientie in statu Novi Testamenti.

Par. XIV, 130-139

Forse la mia parola par troppo osa,
posponendo il piacer de li occhi belli,
ne’ quai mirando mio disio ha posa;
ma chi s’avvede che i vivi suggelli
d’ogne bellezza più fanno più suso,
e ch’io non m’era lì rivolto a quelli,
escusar puommi di quel ch’io m’accuso
per escusarmi, e vedermi dir vero:
ché ’l piacer santo non è qui dischiuso,
perché si fa, montando, più sincero.

Par. XXIII, 1-9

Come l’augello, intra l’amate fronde,
posato al nido de’ suoi dolci nati
la notte che le cose ci nasconde,
che, per veder li aspetti disïati
e per trovar lo cibo onde li pasca,
in che gravi labor li sono aggrati,
previene il tempo in su aperta frasca,
e con ardente affetto il sole aspetta,
fiso guardando pur che l’alba nasca

Par. XXIV, 115-117; XXV, 130-135; XXVI, 13-15

E quel baron che sì di ramo in ramo,
essaminando, già tratto m’avea,
che a l’ultime fronde appressavamo

A questa voce l’infiammato giro
si quïetò con esso il dolce mischio
che si facea nel suon del trino spiro,
sì come, per cessar fatica o rischio,
li remi, pria ne l’acqua ripercossi,
tutti si posano al sonar d’un fischio.

Io dissi: “Al suo piacere e tosto e tardo
vegna remedio a li occhi, che fuor porte
quand’ ella entrò col foco ond’ io sempr’ ardo”.

[LSA, cap. XXI, Ap 21, 16 (VIIa visio)] “Et mensus est civitatem Dei cum arundine per stadia duodecim milia” (Ap 21, 16). Stadium est spatium in cuius termino statur vel pro respirando pausatur, et per quod curritur ut bravium acquiratur, secundum illud Apostoli Ia ad Corinthios, capitulo IX°: “Nescitis quod hii, qui in stadio currunt, omnes quidem currunt, sed unus accipit bravium?” (1 Cor 9, 24), et ideo significat iter meriti triumphaliter obtinentis premium. Cui et congruit quod stadium est octava pars miliarii, unde designat octavam resurrectionis. Octava autem pars miliarii, id est mille passuum, sunt centum viginti quinque passus, qui faciunt duodecies decem et ultra hoc quinque; in quo designatur status continens perfectionem apostolicam habundanter implentem decalogum legis, et ultra hoc plenitudinem quinque spiritualium sen-suum et quinque patriarchalium ecclesiarum.

6. “Chi prende sua croce e segue Cristo”

Il Primo Mobile è il nono e penultimo cielo, ma è il sesto se si parte dal cielo del Sole. È anche il cielo più segnato dal tema del “punto”, cui è assimilato il sesto stato. Questo consente di ricostruire l’ordine spirituale del Paradiso ponendo la cerniera nel quarto cielo del Sole. Con il terzo cielo di Venere termina infatti il cono d’ombra gettato dalla terra, secondo la dottrina di Alfragano (Par. IX, 118-119), mentre prima di descrivere l’ascesa al cielo del Sole il poeta invita il lettore a rivolgersi “a l’alte rote” (Par. X, 7-27). Senza la cesura recisa che, nella prima cantica, divide i dannati puniti all’interno della città di Dite da quelli che ne stanno fuori e, nella seconda cantica, separa le anime purganti nei sette gironi della montagna dalle anime che attendono fuori della porta (il cosiddetto ‘antipurgatorio’), anche nel Paradiso gli spiriti che si manifestano nei primi tre cieli della Luna, di Mercurio e di Venere (spiriti che mancarono ai voti, spiriti che furono attivi per conseguire onore e fama, spiriti amanti) si distinguono per minore perfezione rispetto a quelli che appaiono nei cieli seguenti.
I dieci cieli del Paradiso si mostrano pertanto ordinati in due gruppi di settenari, corrispondenti agli stati della Chiesa (e alle loro prerogative) secondo Olivi, parzialmente combacianti (da 1 a 7 e da 4 a 10: coincidono gli ultimi quattro numeri del primo gruppo e i primi quattro del secondo).
Il quinto cielo di Marte è secondo a partire dal cielo del Sole, come il secondo stato dei martiri: ivi viene rappresentata l’esaltazione della croce di Cristo formata dai lumi dei combattenti per la fede. Reca però in sé anche il tema del condiscendere proprio del quinto stato, sia nel pio discendere per la croce di Cacciaguida verso Dante, sia nella decadenza degli “alti Fiorentini”, cioè delle antiche famiglie, assimilate agli anacoreti, un tempo alti e poi vòlti in basso.

“Con tutto ’l core e con quella favella / ch’è una in tutti, a Dio feci olocausto, / qual conveniesi a la grazia novella. / E non er’ anco del mio petto essausto / l’ardor del sacrificio, ch’io conobbi / esso litare stato accetto e fausto” (vv. 88-93). Il sesto primato di Cristo uomo, trattato nel proemio del libro (nella “salutatio” di Giovanni ai destinatari dell’Apocalisse), è il primato della nostra glorificazione o sublimazione al suo regno e al suo sacerdozio (Ap 1, 6; un passo simmetrico è ad Ap 5, 10). Per questo si dice (con l’uso del passato in luogo del futuro, frequente nella Scrittura per indicare una cosa come se fosse già avvenuta): “e fece noi regno e sacerdoti”, cioè ha fatto sì che Dio regni in noi con magnificenza come un re nel suo regno e che noi regniamo distruggendo i vizi ed edificando i beni delle virtù, ovvero che Dio regni su di noi per la grazia e infine per la gloria ed anche perché, a noi in lui e al suo culto in noi, ha fatto avere tanti beni da poterci a buon diritto considerare il suo regno grande, opulento e glorioso. Ci ha fatto anche sacerdoti, nello stato della grazia e della gloria, affinché gli vengano offerte le buone opere e venga commemorato, celebrato e offerto al Padre il suo sacrificio. L’offerta e la rappresentazione del Figlio al Padre è da noi possibile in quanto il Figlio che ci è stato dato è veramente nostro. Il regno è inteso in senso passivo, di soggezione; il sacerdozio in senso attivo, di dominio. Prima bisogna infatti essere retti da Dio e sottoporsi al suo regale impero, come un regno al suo re; poi, mediante la grazia da lui ricevuta, bisogna offrire sé stessi e trasformarsi in lui con un sacrificio igneo. Nel primo caso ci si pone come l’effetto rispetto al suo primo principio, nel secondo come atto rispetto al suo fine, perché fece ciò per essere da noi e in noi glorificato. Difatti si aggiunge: “a lui la gloria e l’impero”, cioè sia, è, e sarà, “nei secoli dei secoli”, ossia in eterno; “Amen”, cioè così sia oppure sia a lui davvero e per fede. La gloria si riferisce all’assoluta perfezione della sua beatitudine, l’impero a quanto gli è sottoposto. Oppure per “gloria” si intende l’atto di lode e di onore con cui deve essere da noi glorificato, per “impero” il pieno suo dominio su di noi. Sia la gloria che l’impero debbono essergli da noi, per mezzo della lode, attribuiti, riconosciuti e desiderati.

 

I temi del regno e del sacerdozio si ritrovano nel ringraziamento reso dal poeta all’arrivo ai cieli del Sole e di Marte. Nel primo caso, Beatrice invita Dante a ringraziare Dio, “Sol de li angeli”, per la grazia (corrisponde al “regno”) di averlo levato al sole sensibile. Il poeta si rende pronto a Dio “con tutto ’l suo gradir”, come mai fu disposto a devozione cuore di mortale (corrisponde all’offerta sacerdotale, Par. X, 52-58). Nel secondo e analogo caso, il ringraziamento (“feci olocausto”) per la nuova grazia avviene con tutto il cuore e con ardente sacrificio (Par. XIV, 88-93).

Nel “Padre nostro” che i superbi dicono girando la prima cornice della montagna, angosciati sotto il peso dei massi, si invoca prima il venire della pace del regno di Dio, poi il sacrificio della volontà da parte degli uomini, sull’esempio degli angeli che fanno questo sacrificio lodando (Purg. XI, 7-12; l’auspicio di pace, che non c’è nella formula del Pater, è tema del saluto di Giovanni ad Ap 1, 4). La terzina che precede (vv. 4-6) è in parte determinata – “laudato sia ’l tuo nome e ’l tuo valore / da ogne creatura, com’ è degno / di render grazie al tuo dolce vapore” – dall’intervento dei motivi presenti ad Ap 5, 12-13, per cui l’Agnello è degno di ricevere da ogni creatura, per lode e rendimento di grazie, ogni virtù (dallo stesso panno deriva l’onore tributato ad Aristotele fra gli “spiriti magni”, Inf. IV, 133).
L’offerta di sé stesso veste anche il topos del poeta che si rivolge alle muse “poi che vostro sono” (Purg. I, 8). Il tema dell’offerta di sé stessi come ripetizione dell’offerta del Figlio al Padre che ce l’ha dato viene sviluppato, nell’episodio del conte Ugolino, con l’offerta al padre delle proprie carni da parte dei figli (Inf. XXXIII, 61-63).
Riconoscimento laudativo sono le ultime parole di ringraziamento rivolte dal poeta a Beatrice ormai assisa nel trono che le spetta nell’Empireo. Dalla donna, dal suo potere e dalla sua bontà, egli riconosce la grazia e la virtù per cui di servo è stato tratto a libertà, cioè, come esposto nell’esegesi, dalla soggezione del “regno” è passato al dominio proprio del “sacerdozio” (Par. XXXI, 82-87; l’espressione “per tutte quelle vie”, riferita a Beatrice, è da confrontare con l’esegesi di Ap 15, 3-4, dove coloro che hanno vinto la bestia cantano le “vie” di Dio – la giustizia e la misericordia – con il canto di Mosè, proprio dei servi, e col canto dell’Agnello, proprio dei liberi) [1]. Riconoscimento di gloria è già stato dato dal poeta ai Gemelli, costellazione alla quale riconosce tutto il suo ingegno (Par. XXII, 112-114).
Nell’Epistola V, ai Signori d’Italia (scritta dopo il 1° settembre 1310), si rinviene una possibile traccia della medesima tematica nell’esortazione agli “incole Latiales” affinché sorgano incontro al loro re Arrigo, poiché destinati non solo all’impero, cioè alla soggezione, ma anche, come liberi, al reggimento.
La virtù che ha fatto degno di reverenza il segno dell’aquila “cominciò da l’ora / che Pallante morì per darli regno” (Par. VI, 34-36). Il figlio del re Evandro, che morì combattendo per Enea contro Turno, è figura di Cristo che, come affermato ad Ap 1, 6, ha sublimato l’uomo al suo regno e al sacerdozio e a cui spetta la gloria e l’impero nei secoli dei secoli. Da notare le parole “Vedi quanta virtù l’ha fatto degno / di reverenza”, che possono essere riferite ad Ap 5, 12, alla lode di Cristo degno di aprire i sette sigilli: “Dignus est … accipere virtutem … et honorem”. Inoltre, ad Ap 1, 6 – «“fecit nos regnum” celestis glorie quia facturus est, et hoc sic ac si iam esset factum» – conduce alla terzina “Ma ciò che ’l segno che parlar mi face / fatto avea prima e poi era fatturo / per lo regno mortal ch’a lui soggiace” (vv. 82-84), dove il “regno” nell’esegesi viene inteso “passive seu subiective”.
Con le parole “per ch’io te sovra te corono e mitrio” (Purg. XXVII, 142), Virgilio non intende attribuire a Dante la potestà spirituale, anche se l’iniziativa individuale, stimolo alla riforma della Chiesa in presenza di una gerarchia assente o lontana, è realmente sentita, come dimostrano i temi dell’angelo del sesto sigillo, dal poeta appropriati a sé stesso, che percorrono già i primi canti del poema. Né è sufficiente riferirsi al mitratus et coronatus del cerimoniale dell’incoronazione imperiale, nel senso che Dante è fatto ‘imperatore di sé stesso’. L’espressione “corono e mitrio” è da intendere invece nel senso dato ad Ap 1, 6, dove si dice che Cristo “fecit nos regnum (“te sovra te corono”, la corona per cui si regna coi buoni) et sacerdotes” (“e mitrio”). La doppia corona spetta all’Ordine evangelico e contemplativo di quanti, alla fine dei tempi, più si saranno fatti simili a Cristo. Essi sono designati dall’angelo di Ap 14, 14, simile nell’aspetto al Figlio dell’uomo, seduto su una nube bianca con sul capo una corona d’oro e in mano una falce affilata. Questo angelo, secondo Gioacchino da Fiore citato da Olivi, designa un ordine di giusti a cui è dato di imitare Cristo in modo perfetto e che possiede una “lingua erudita” per diffondere il Vangelo del regno di Dio e raccogliere nella terra di Dio l’ultima messe:

“Et vidi et ecce nubem candidam et super nubem sedentem similem Filio hominis, habentem in capite suo coronam auream et in manu sua falcem acutam” (Ap 14, 14). Ioachim dicit: «Arbitramur in isto signari quendam ordinem iustorum, cui datum est perfecte imitari vitam Filii hominis et habere eruditam linguam ad evangelizandum evangelium regni et colligendam in aream Domini ultimam messionem, qui stat super nubem candidam quia conversatio eius non est ponderosa et obscura sed lucida et spiritalis». […] dicitque quod […] intelligendus est aliquis ordo futurus perfectorum virorum servantium vitam Christi et apostolorum […]. Si autem e contra obicias quod angelus in extremo iudicio metens malos et bonos incongrue diceretur “similis Filio hominis” et “habens coronam auream”, quasi rex omnium, ex quo magis videtur quod designet ibi Christum, qui in nube seu nubibus venturus est ad iudicium, prout dicitur supra capitulo I° (cfr. Ap 1, 7), potest dici quod principaliter designat hic evangelicum ordinem sanctorum Christo et eius vite similium et regiam seu pontificalem coronam seu auctoritatem circa finem seculi habiturorum cum potestate et officio colligendi finalem messem electorum. Unde et eorum ordo designatus est supra, capitulo X°, per angelum amictum nube in cuius capite erat iris quasi corona (cfr. Ap 10, 1).

Tab. XIII

[LSA, cap. I, Ap 1, 6; Salutatio, VIus primatus Christi secundum quod homo] Sexto ascribit sibi primatum nostre glorificationis seu sublimationis ad suum regnum et sacerdotium, quod quidem in hac vita per gratiam inchoatur et in alia consumatur. Unde et subdit: “et fecit nos regnum et sacerdotes” (Ap 1, 6), id est quod sic Deus regnat in nobis magnifice sicut rex in suo regno, et ut sic nos sibi regn<e>mus quod vitia destruamus et bona virtutum hedificemus. Eo enim modo quo sepe in scripturis sumitur preteritum pro futuro, “fecit nos regnum” celestis glorie quia facturus est, et hoc sic ac si iam esset factum.
“Fecit” etiam nos “sacerdotes”, ut nos cor et corpus et omnia bona opera nostra sibi per ignem caritatis medullitus offeramus et morti et martirio per eius cultum tradamus, et ut sue mortis sacrificium ab ipso pro nobis impensum commemoremus et celebremus et Deo Patri offeramus.
Et nota quod regnum attribuit nobis quasi passive seu subiective, sacerdotium vero active et potestative. Primo enim oportet nos a Deo regi et eius regali imperio subici ut regnum suo regi, et tandem per vim et gratiam ab eo susceptam nos offerre sibi et in ipsum igneo sacrificio transformari. Unde per primum nos habemus ad ipsum sicut effectus ad suum principium, per secundum vero sicut actus ad suum finale obiectum.
Quia vero hoc fecit ut a nobis et in nobis glorificetur, et quia ex hiis est a nobis glorificandus, ideo subdit: “Ipsi gloria et imperium”, scilicet sit et est et erit; “in secula seculorum”, id est in eternum. “Amen”, id est sic fiat; vel “amen”, id est vere et fideliter sit ei. “Gloria” dicit absolutam perfectionem sue beati-tudinis, “imperium” vero refertur ad sibi subiecta. Utrumque autem debet sibi a nobis laudative ascribi et recognosci. Vel “gloria” dicit actum laudis et honoris quo a nobis est glorificandus, “imperium” vero dicit eius plenum dominium super nos. Utrumque autem debemus optare, scilicet quod a nobis glorificetur et quod ipse nobis plenarie dominetur.

[LSA, cap. V, Ap 5, 10; radix IIe visionis] “Et fecisti nos Deo nostro regnum et sacerdotes” (Ap 5, 10). “Regnum” scilicet ut Deus regnet super nos per gratiam et tandem per gloriam, et etiam quia per hoc ipsum facit nos sibi et suo cultui in nobis habere tanta bona ut merito simus magnum et opulentum et gloriosum regnum Dei, et maxime omnes insimul sumpti. Fecit etiam nossacerdotes”, id est ut in statu tam gratie quam glorie offeramus nos Deo in holocaustum devotionis, et etiam ut offeramus seu representemus Filium suum sibi. Offerri enim potest a nobis tamquam vere noster et verissime nobis datus.
Ne autem hoc regnum credatur esse transitorium, aut quod sic simus regnum quod non et reges regnantes, ideo contra hoc subdit: “et regnabimus super terram”, id est existendo in terra, vel in celo quod est super terram. Vel ideo “super terram”, quia quicquid terrenum et malum est subiciemus, vel quia super cuncta inferiora dominabimur virtuose.

[LSA, cap. V, Ap 5, 12-13; radix IIe visionis] “Voce magna dicentium: Dignus est Agnus” et cetera (Ap 5, 12). In hac laude angelica premittitur meritum passionis Christi, ex quo meruit accipere gloriam subiunctam, unde dicunt: “Dignus est Agnus, qui occisus est, accipere” et cetera.
Secundo illam explicant quoad septem, que Ricardus exponit sic: “Dignus est”, a creatura per laudem exhibitam, “accipere virtutem et deitatem et sapien-tiam et fortitudinem et honorem et gloriam et benedictionem”, id est ut a nobis credatur et laudetur esse Dei virtus et esse Deus sapiens, fortis, honorandus, gloriosus et benedictus. “Et omnem creaturam” et cetera (Ap 5, 13), id est non solum dignus est predicta septem accipere per laudem et gratiarum actionem, sed etiam per potestativum dominium accipere “omnem creaturam”, id est ut omnia possideat non solum naturali iure sue deitatis sed etiam iure meriti sue mortis, per quam omnia restauravit. […] Honor ’ vero est dignitas summi dominii super omnia, ac reverentia et recognitio summe subiectionis et famulatus Christo ab omni-bus exhibita gratis vel invite.

Par. X, 52-58

E Bëatrice cominciò: “Ringrazia,
ringrazia il Sol de li angeli, ch’a questo
sensibil t’ha levato per sua grazia”.
Cor di mortal non fu mai sì digesto
a divozione e a rendersi a Dio
con tutto ’l suo gradir cotanto presto,
come a quelle parole mi fec’ io

 Par. XIV, 88-93

Con tutto  ’l core e con quella favella
ch’è una in tutti, a Dio feci olocausto,
qual conveniesi a la grazia novella.
E non er’ anco del mio petto essausto
l’ardor del sacrificio, ch’i conobbi
esso litare stato accetto e fausto

Purg. XXVII, 139-142

Non aspettar mio dir più né mio cenno;
libero, dritto e sano è tuo arbitrio,
e fallo fora non fare a suo senno:
per ch’io te sovra te corono e mitrio.

Par. VI, 34-36, 82-84

Vedi quanta virtù l’ha fatto degno
di reverenza; e cominciò da l’ora
che Pallante morì per darli regno.

Ma ciò che ’l segno che parlar mi face
fatto avea prima e poi era fatturo
per lo regno mortal ch’a lui soggiace

Ep. V, 19: Evigilate igitur omnes et assurgite regi vestro, incole Latiales, non solum sibi ad imperium, sed, ut liberi, ad regimen reservati.

Purg. XI, 4-12

laudato sia  ’l tuo nome e  ’l tuo valore
da ogne creatura, com’ è degno
di render grazie al tuo dolce vapore.
Vegna ver’ noi la pace del tuo regno,
ché noi ad essa non potem da noi,
s’ella non vien, con tutto nostro ingegno.
Come del suo voler li angeli tuoi
fan sacrificio a te, cantando osanna,
così facciano li uomini de’ suoi.

Inf. IV, 133

Tutti lo miran, tutti onor li fanno

Purg. I, 7-8

Ma qui la morta poesì resurga,
o sante Muse, poi che vostro sono

[Ap 5, 10] Offerri enim potest a nobis tamquam vere noster et verissime nobis datus.

Par. XXII, 112-114

O glorïose stelle, o lume pregno
di gran virtù, dal quale io riconosco
tutto, qual che si sia, il mio ingegno

ché con tanto lucore e tanto robbi / m’apparvero splendor dentro a due raggi, / ch’io dissi: “O Elïòs che sì li addobbi!” (vv. 94-96). Al motivo, in apertura del secondo sigillo, di colui che siede sul cavallo rosso (l’impero romano che perseguita i cristiani) allude Iacopo del Cassero: “li profondi fóri / ond’ uscì ’l sangue in sul quale io sedea” (Purg. V, 73-74; incide l’esegesi di Ap 14, 20). Il colore rosso si rinviene in zone nelle quali prevalente è il riferimento al secondo stato: ad esempio in Purg. II, 13-15, nel rosseggiare di Marte nel mattino, che corrisponde (in quello che san Paolo chiama tempo della ‘pienezza delle genti’, cfr. Rm 11, 25) al periodo della lotta dei martiri contro l’idolatria fino a Costantino (prologo, Notabile VII); o negli splendori “tanto robbi” che nel cielo di Marte formano la croce (Par. XIV, 94-95; si tratta, appunto, degli spiriti che combatterono per la fede).

Come distinta da minori e maggi / lumi biancheggia tra ’ poli del mondo / Galassia sì, che fa dubbiar ben saggi; / sì costellati facean nel profondo / Marte quei raggi il venerabil segno / che fan giunture di quadranti in tondo (vv. 97-102). Attraverso complessi ragionamenti, in parte ripresi dal De semine scripturarum attribuito a Gioacchino da Fiore, Olivi sostiene, nel capitolo XX della Lectura, l’imminenza del giudizio finale dopo il sesto e il settimo stato della Chiesa. Nella sua ricostruzione a ogni secolo corrisponde una delle ventitré lettere dell’alfabeto latino: Cristo venne nell’ottavo centenario dalla fondazione di Roma, designato con la h, che non è propriamente una lettera, ma una “aspirationis nota”, perché Gesù, concepito e nato da una vergine, venne al mondo non per opera umana ma per ispirazione dello Spirito Santo. Proseguendo nell’accoppiamento di secoli e lettere, il Duecento è designato con la u, perché la lettera si pronuncia aspirando sull’estremo delle labbra e alla fine di quel secolo, Babylon, la Chiesa carnale, esalerà il suo ultimo respiro.
Il secolo seguente – il XIV -, nel quale verrà rinnovata ed esaltata la croce di Cristo, è designato con x, cioè con una lettera che ha forma di croce, la quale venne introdotta da Augusto al tempo della venuta di Cristo. Ad essa faranno seguito le lettere che i Latini presero dai Greci (y, z), designanti la dilatatio della Chiesa ai Greci e a tutte le genti. Allora ci sarà la pace, tale, come afferma Gioacchino da Fiore sulla base del profeta Daniele, quale non fu mai da quando gli uomini cominciarono a vivere in terra (Dn 12, 1). Ciò avverrà al termine della grande guerra contro l’Anticristo, forse intorno al 1335, anno che designa il giubileo di pace e di beatitudine, perché nella profezia di Daniele è detto (Dn 12, 11-12) che “dal tempo in cui sarà tolto il sacrificio perpetuo e sarà eretto l’abominio della desolazione ci saranno 1290 giorni. Beato chi aspetta e perviene a 1335 giorni”, computando i giorni come anni.
Nel cielo del Sole, Tommaso d’Aquino parla utilizzando con frequenza (per sei volte; Bonaventura, l’altro oratore, lo usa due volte: otto occorrenze sulle sedici nel poema) l’avverbio della parlata toscana (non fiorentina) u’ (che sta per ‘dove’): i due campioni della Chiesa, Francesco e Domenico, sono appunto venuti nel XIII secolo, il secolo designato con u, “a mantener la barca / di Pietro in alto mar per dritto segno” (da notare l’accostamento di “in ultimo labiorum” con “l’ultima parola” dell’Aquinate a Par. XII, 1).
Al cielo del Sole succede quello di Marte, nel quale Dante vede una croce greca (“il venerabil segno / che fan giunture di quadranti in tondo”), che designa “chi prende sua croce e segue Cristo” (Par. XIV, 100-108): dalla croce trascorre in giù Cacciaguida, il quale profetizza a Dante l’esilio che, datato al 1302, si colloca nel XIV secolo, designato con x.
Poi, nel cielo di Giove, i lumi volano cantando e formando dapprima le lettere DIL, l’inizio di trentacinque tra vocali e consonanti che successivamente si precisano nella scritta “Diligite iustitiam, qui iudicatis terram” (Sap 1, 1), ma che sono anche le prime tre lettere della parola “dilatatio” (Par. XVIII, 76-78). Le lettere, insieme ad altre luci, si trasformano nella figura di un’aquila nel cui occhio rifulgono David come pupilla, circondato dalle luci di Traiano, Ezechia, Costantino, Guglielmo II il Buono e Rifeo troiano. Gentili (Rifeo, Traiano), e Israele antico (David, Ezechia) e nuovo (Costantino, Guglielmo II), l’ultimo a convertirsi.
Il tema degli angoli, che congiungono per rafforzare, si combina con quello della città celeste a forma di quadrato (cfr. supra), che designa la solida quadratura delle virtù (Ap 21, 16), nella visione della croce greca che appare nel cielo di Marte, “il venerabil segno / che fan giunture di quadranti in tondo” (Par. XIV, 100-102; da accostare all’espressione “che quattro cerchi giugne con tre croci” di Par. I, 39, per cui il sole, “la lucerna del mondo … con miglior corso e con migliore stella / esce congiunta, e la mondana cera / più a suo modo tempera e suggella”).

Qui vince la memoria mia lo ’ngegno; / ché quella croce lampeggiava Cristo, / sì ch’io non so trovare essempro degno; / ma chi prende sua croce e segue Cristo, / ancor mi scuserà di quel ch’io lasso, / vedendo in quell’ albor balenar Cristo (vv. 103-108). Lo stato dei martiri si conforma, fra i sacramenti, alla cresima che col segno della croce impresso sulla fronte conferma e rafforza nel combattimento (prologo, Notabile XIII). Alle anime che ha condotto alla spiaggia del purgatorio l’angelo nocchiero fa il segno della croce prima di ripartire (Purg. II, 49); “la nova gente” poi “alzò la fronte” per chiedere ai due poeti la via della montagna (vv. 58-60). Ai martiri appartiene per antonomasia il superamento delle tentazioni. La seconda tromba suona contro gli ansiosi flutti dell’amore, costituiti dagli affanni e dalle sollecitudini, il cui eccesso forma quasi un mare tempestoso (Ap 8, 8; cap. XI). Il tema degli affanni d’amore è presente nell’episodio di Casella (vv. 106-117).
Cacciaguida, martire combattendo contro i Saraceni, è segnato da molti temi del secondo stato: il suo lume discende da una croce dove lampeggia Cristo, “chi prende sua croce e segue Cristo” potrà scusare l’impossibilità di trovare, da parte del poeta, un’immagine degna che lo rappresenti (Par. XIV, 103-108: “nichilque ita profuit ad radicationem prime plantationis sicut imitatio crucis Christi [prologo, Notabile V]); Dante (anch’egli ‘martire’ per l’esilio) domanda alla sua “radice” (Par. XV, 89; cfr. le parole di Francesca a Inf. V, 124-125) “quai fuor li anni / che si segnaro in vostra püerizia” [Par. XVI, 23-24: “signo crucis insigniuntur in fronte (prologo, Notabile XIII) … zelus … fertur … contra pueritiam inexpertam (prologo, Notabile III)”].
Lo splendor faciei di Cristo, che si incarna nel sorriso di Beatrice, discorre per tutto il Paradiso, con variazioni della rosa semantica che lo costella: l’essere più lucente, la troppa luce, il mettere in oblio, l’intimo accorgersi di più ardua visione. All’esegesi della decima e undecima perfezione di Cristo sommo pastore (Ap 1, 16-17) rimandano le parole incastonate nei versi come pietre miliari, a ricordare una dottrina poeticamente rivestita. Le variazioni non sono solo interne al ristretto passo esegetico, ma coinvolgono altri luoghi della Lectura.
Un lettore ‘spirituale’, di fronte al ridere di Beatrice, avrebbe senz’altro rammentato l’esegesi del volto solare di Cristo. Non nel senso di una reale identificazione, ma della conformità che nasce dal seguirlo. Se non esiste paragone per il volto di Cristo – “sì ch’io non so trovare essempro degno” (Par. XIV, 105) -, proprio una delle sue prerogative come sommo pastore è di essere “simile al Figlio dell’uomo” (Ap 1, 13). Dal fatto che non si dica “Figlio dell’uomo” ma “simile al Figlio dell’uomo” – scrive Olivi – Riccardo di San Vittore deduce trattarsi di un angelo apparso a Giovanni, che gli mostrava le cose con persona simile a quella di Cristo e in modo tanto più autorevole per il fatto di somigliare al Salvatore. Tale è Beatrice alter Christus (come san Francesco), che prende il luogo dell’angelo. Così si rende per lei possibile il sorriso, che l’iconografia tradizionalmente aveva evitato nelle raffigurazioni di Cristo.
Questo lettore virtuale avrebbe ritrovato il bianco – colore per eccellenza della luce di Cristo risorto e vittorioso all’apertura del primo sigillo “in equo albo” (Ap 6, 2 [5, 1]) – nel tentativo, di per sé limitato, di rendere il lampeggiante albore di Cristo nella croce formata dai beati nel cielo di Marte (Par. XIV, 94-99, 103-108; “Resurgi” e “Vinci” è quanto si ode della melodia cantata dai beati, vv. 124-126). Ancora una volta lo splendor e il lucore, da Ap 1, 16-17 (anticipati dal ridere di Beatrice e della stella, vv. 79-81, 85-87), sono contaminati con altro passo, in questo caso relativo all’esegesi della sede divina, adornata di vari colori (Ap 4, 3): qui incidono la cornalina (rossa per il sacrificio del Figlio di Dio; da notare la rima “robbi / addobbi”, vv. 94.96) e, fra i colori dell’iride, il fiammeggiare per carità e il bianco per sapienza (e al bianco ancora rinvia il biancheggiare della Galassia, “sì, che fa dubbiar ben saggi”, vv. 98-99) [2]. “Ché quella croce lampeggiava Cristo … vedendo in quell’ albor balenar Cristo” (vv. 104, 108): la folgorante luce della fede diffusa dagli apostoli fu “instar fulguris universa subito discurrentis” (prologo, Notabile XII). Il folgorare di Cristo si estende ai beati: la luce di Cacciaguida discende ai piedi della croce “quale per li seren tranquilli e puri / discorre ad ora ad or sùbito foco” (Par. XV, 13-14; cfr. il passo simmetrico ad Ap 13, 3, che interessa anche i due versi seguenti); lo stesso verbo designa la subitanea creazione (“lo discorrer di Dio sovra quest’ acque”, Par. XXIX, 21). La vittoriosa luce di Cristo è insita nel ridere di Beatrice: “Vincendo me col lume d’un sorriso” (Par. XVIII, 19).

[1] A Par. XXXI, 79-90 la parodia si esercita semanticamente anche sull’esegesi di Ap 12, 10 (quarta visione, seconda guerra), come avviene in altri casi, fra cui a Par. XIV, 82-84.
[2] Nella “Galassia”, cioè la Via Lattea, “che fa dubbiar ben saggi”, discordi sulla sua natura (Par. XIV, 99), è la parodia del dubbio insinuato negli ultimi tempi dai seguaci dell’Anticristo, dubbio che smarrisce anche i più esperti (prologo, Notabile X). Il dubbio riguarda i “signa et prodigia magna” dei quali parla Cristo in Matteo 24, 24, che nel caso non è un segno fallace, ma addirittura la vera croce. Diverso il caso del conte Ugolino. Appressandosi l’ora “che ’l cibo ne solëa essere addotto”, nel doloroso carcere tutti, padre e figli, sono assaliti dal dubbio: “e per suo sogno ciascun dubitava” (Inf. XXXIII 45), dove sarebbe da considerare, perché più coerente con il testo teologico di riferimento – “dabunt signa magna et prodigia” -, la variante “e per suo segno ciascun dubitava”, visto che quel sogno era stato segno fallace della fine che, se pure fosse arrivata per i corpi, non avrebbe condotto di per sé alla dannazione un uomo aperto a Cristo e non impetrato e accecato dall’odio e dal dolore.

Su Francesco, angelo del sesto sigillo, Olivi riferisce quanto ascoltato “da un uomo spirituale, fededegno, molto vicino a frate Leone confessore e compagno del beato Francesco”. Costui – si tratta di Corrado di Offida – aveva saputo che Francesco, nella tentazione babilonica nella quale egli e il suo stato e la sua regola, come Cristo, saranno crocifissi, risorgerà glorioso per confermare e informare i discepoli, come Cristo risorse per confermare gli apostoli e informarli sulla fondazione e sul governo della Chiesa futura. Quanto detto esplicitamente ad Ap 7, 2 si ritrova, più genericamente, ad Ap 10, 1 nel discendere di Cristo, del suo servo Francesco e del suo angelico ceto dei discepoli contro gli errori e le malizie del mondo.
Dante recita la parte di Giovanni, che designa il ceto evangelico. Verso di lui il tempo sprona per dare colpi gravi, ed egli va ad accertarsi di ciò che ha udito contro di sé, come Fetonte dalla madre Climene, dal suo avo Cacciaguida, che lo conferma e informa sul proprio futuro, chiarendogli “con preciso latin” quanto gli è stato profeticamente più volte detto “per ambage” nel corso del viaggio. Cacciaguida è beato nel cielo di Marte, martire perché morto nella crociata dopo essere stato cinto dalla milizia dell’imperatore Corrado III. Il suo lume si stacca discendendo da una croce in cui lampeggia Cristo, dopo che i beati hanno posto silenzio a una melodia di alta lode, le cui più distinte parole sono «‘Resurgi’ e ‘Vinci’» (Par. XIV, 103-105, 124-126).
La parodia dantesca trasforma Francesco, assimilato a Cristo nella vita e nelle stimmate, che informa i suoi discepoli sul futuro governo della Chiesa, in Cacciaguida che assicura a Dante “che s’infutura la tua vita” (Par. XVII, 98): il poeta è stato già assimilato a Francesco da Virgilio nel corso del colloquio con Stazio sulla soglia del sesto girone della montagna (Purg. XXI, 22-24).
L’esegesi di Ap 7, 2 (sesto sigillo) e 10, 1 (sesta tromba) toccano punti centrali dei canti di Cacciaguida, che saranno trattati nell’esame di questi.

Tab. XIV

[LSA, cap. VII, Ap 7, 2 (IIa visio, apertio VIi sigilli)] Audivi etiam a viro spirituali valde fide digno, et fratri Leoni confessori et socio beati Francisci valde familiari, quoddam huic scripture consonum, quod nec assero nec scio nec censeo asserendum, scilicet quod tam per verba fratris Leonis quam per propriam revelationem sibi factam perceperat Franciscum in illa pressura temptationis babilonice, in qua eius status et regula quasi instar Christi crucifigetur, resurget gloriosus, ut sicut in vita et in crucis stigmatibus Christo singulariter assimilatus, sic et in resurrectione Christo assimiletur, necessaria autem tunc discipulis confirmandis et informandis, sicut Christi resurrectio fuit necessaria apostolis confir-mandis et super fundatione et gubernatione future ecclesie informandis.
Ut autem resurrectio servi patenti gradu dignitatis distaret a resurrectione Christi et sue matris, Christus statim post triduum resurrexit, et mater eius post quadraginta dies resurrexisse dicitur a quibusdam non omnino spernendis; iste vero post totum tempus sui ordinis usque ad crucifixionem ipsius cruc<i> Christi assimilatam et Francisci stigmatibus presi-gnatam.

Par. XIV, 103-105, 124-126

Qui vince la memoria mia lo ’ngegno;
ché quella croce lampeggiava Cristo,
sì ch’io non so trovare essempro degno

Ben m’accors’ io ch’elli era d’alte lode,
però ch’a me venìa “Resurgi e “Vinci”
come a colui che non intende e ode.

Par. XVII, 1-4, 25-27, 97-99

Qual venne a Climenè, per accertarsi
di ciò ch’avëa incontro a sé udito,
quei ch’ancor fa li padri ai figli scarsi;
tal era io ……………………………..

per che la voglia mia saria contenta
d’intender qual fortuna mi s’appressa:
ché saetta previsa vien più lenta.

Non vo’ però ch’a’ tuoi vicini invidie,
poscia che s’infutura la tua vita
via più là che ’l punir di lor perfidie.

[LSA, cap. X, Ap 10, 1 (IIIa visio, VIa tuba)] “Facies” etiam “eius erat ut sol”, quia in singulari contemplatione Christi et evangelice vite eius fuit non instar lune defective, vel modice stelle vel lucis nocturne, sed instar solis et lucis diurne inflammatus et illuminatus et illuminans et inflammans. […]
Quia vero hec et sequentia in futuris eius operibus et discipulis clarius innotescent, idcirco sciendum quod a tempore sollempnis impugnationis et condempnationis evangelice vite et regule, sub mistico Antichristo fiende et sub magno amplius consumande, spiritaliter descendet Christus et eius servus Franciscus et angelicus discipulorum eius cetus contra omnes errores et malitias mundi et contra totum exercitum demonum et pravorum hominum constans et fortis et impavidus sicut leo, tam ad invadendum quam ad patiendum. Et per profundissimam sui humiliationem et per sue originis a Deo humilem recognitionem et per sui ad inferiores piam condescensionem descendet “de celo”, eritque scientia scripturarum non terrestrium et falsarum sed celestium et purissimarum quasi “nube amictus”, et etiam agillima et altissima et fecunda simul et obscura seu humili paupertate.

[LSA, cap. VI, Ap 6, 1-2 (IIa visio, apertio Ii sigilli)] Duplici ex causa leo demonstrat visa prime apertionis. Prima est quia leo signat primum ordinem ecclesie, scilicet pastorum seu apostolorum; ipsorum autem proprie fuit monstrare primum statum ecclesie in eis et sub eis formatum. Secunda est quia per leonem Christi resurgentis triumphalis et regalis potestas et gloria designatur. […] Nam suos apostolos deduxit in mundum quasi leones animosissimos et ad mirabilia facienda potentissimos, et “habebat” in eis “archum” predicationis valide ad corda sagittanda et penetranda.

Par. XVI, 34-42

dissemi: “Da quel dì che fu detto ‘Ave
al parto in che mia madre, ch’è or santa,
s’allevïò di me ond’ era grave,
al suo Leon cinquecento cinquanta
e trenta fiate venne questo foco
a rinfiammarsi sotto la sua pianta.
Li antichi miei e io nacqui nel loco
dove si truova pria l’ultimo sesto
da quei che corre il vostro annüal gioco”.

Par. XV, 19-27, 43-45

tale dal corno che ’n destro si stende
a piè di quella croce corse un astro
de la costellazion che lì resplende;
né si partì la gemma dal suo nastro,
ma per la lista radïal trascorse,
che parve foco dietro ad alabastro.
pïa l’ombra d’Anchise si porse,
se fede merta nostra maggior musa,
quando in Eliso del figlio s’accorse.

E quando l’arco de l’ardente affetto
fu sì sfogato, che l parlar discese
inver’ lo segno del nostro intelletto

 

[LSA, cap. VII, Ap 7, 3 (IIa visio, apertio VIi sigilli)] Sicut enim post transmigrationem Babilonis, quod deerat in constructione templi, in quadraginta sex annis facta, completum est in sex ultimis annis, ita nunc sub sexta apertione ordo sanctorum marti-rum consumationem accipiet. Unde in die illo qui <erit> medius inter utramque tribulationem, scilicet Babilonis et Antichristi, signabuntur multi Iudeorum et gentium signaculo sancte Trinitatis, ad complen-dum numerum sanctorum martirum infra scriptum et illam gloriosam multitudinem cuius est numerus infinitus. Hec Ioachim.

[LSA, cap. XXI, Ap 21, 16 (VIIa visio)] “Et mensus est civitatem Dei cum arundine per stadia duodecim milia” (Ap 21, 16). Stadium est spatium in cuius termino statur vel pro respirando pausatur, et per quod curritur ut bravium acquiratur, secundum illud Apostoli Ia ad Corinthios, capitulo IX°: “Nescitis quod hii, qui in stadio currunt, omnes quidem currunt, sed unus accipit bravium?” (1 Cor 9, 24), et ideo significat iter meriti triumphaliter obtinentis premium. Cui et congruit quod stadium est octava pars miliarii, unde designat octavam resurrectionis. Octava autem pars miliarii, id est mille passuum, sunt centum viginti quinque passus, qui faciunt duodecies decem et ultra hoc quinque; in quo designatur status continens perfectionem aposto-licam habundanter implentem decalogum legis, et ultra hoc plenitudinem quinque spiritualium sen-suum et quinque patriarchalium ecclesiarum.

AVVERTENZE

Seppure segue l’ordine dei ventidue capitoli dell’Apocalisse, Olivi suggerisce, nel prologo della Lectura, un metodo differente di comprensione e di aggregazione del testo, fondato sui sette stati (status), cioè sulle epoche nelle quali si articola la storia della Chiesa, prefigurate nell’Antico Testamento.
L’Apocalisse si articola in sette visioni: le sette chiese d’Asia, i sette sigilli, le sette trombe, la donna vestita di sole (le sette guerre sostenute dalla Chiesa), le sette coppe, il giudizio di Babylon nelle sette teste del drago, la Gerusalemme celeste. Le prime sei visioni possono essere a loro volta divise in sette momenti, ciascuno dei quali riferibile a uno dei sette stati. Assembrando, per le prime sei visioni, tutti i primi elementi (chiesa, sigillo, tromba, guerra, coppa, momento del giudizio di Babylon), tutti i secondi, i terzi e così di seguito, si ottengono sette gruppi di materia teologica, corrispondenti al complesso dei temi afferenti a ciascuno dei sette stati. A questi sette gruppi si aggiungono altri due: l’esegesi della settima visione (senza articolazioni interne) e l’esegesi di capitoli del testo scritturale, o di parti di essi, introduttivi delle successive specificazioni delle singole visioni per settenari, che Olivi definisce “radicalia” o “fontalia”. Si ottengono in tal modo nove gruppi: le parti proemiali, i sette assembramenti di settenari e la settima visione. Il grande prologo della Lectura, articolato in tredici notabilia, può essere anch’esso aggregato secondo i sette stati. Un libro (la Lectura) contiene dunque princìpi e criteri affinché l’accorto lettore possa trarne un altro libro, fatto con lo stesso materiale ma ricomposto e distribuito in forma diversa.

La Commedia mostra un ordine interno diverso da quello che appare al lettore: il viaggio di Dante ha un andamento di ciclici settenari, che corrispondono ai sette stati della storia della Chiesa, cioè alle categorie con cui Olivi organizza la materia esegetica. Questo ordine interno è registrabile per zone progressive del poema dove prevale, tramite parole-chiave, la semantica riferibile a un singolo stato. È un’intima struttura dirompente i confini letterali stabiliti dai canti e da tutte le divisioni materiali per cerchi, gironi, cieli. Ogni stato, che ha differenti inizi, è concatenato per concurrentia, come le maglie di un’armatura, con quello che precede e con quello che segue. Si possono in tal modo redigere mappe che comprendano l’ordine spirituale della Commedia. La ricerca è pervenuta a una Topografia spirituale della Commedia, dove quasi per ogni verso, o gruppo di versi, collegamenti ipertestuali conducono al “panno” esegetico fornito dalla Lectura super Apocalipsim, sul quale il “buon sartore” ha fatto “la gonna” (cfr. Par. XXXII, 139-141).

■ A ogni gruppo è arbitrariamente assegnato un diverso colore: Radici (verde), I stato (verde acqua), II stato (rosso), III stato (nero), IV stato (viola), V stato (marrone), VI stato (blu), VII stato (indaco), VII visione (fucsia). Dei gruppi sono stati integralmente studiati il terzo stato e la settima visione. Rispetto alla tabella complessiva contenente i collegamenti ipertestuali, nelle sinossi i colori possono essere variati per maggiore evidenza.

Non di rado nei versi alcune parole o incisi-chiave possono rinviare a più luoghi esegetici. Questo perché il testo dottrinale contenuto nella Lectura, prima di travasarsi semanticamente nella Commedia, è stato sottoposto a una duplice riorganizzazione. La prima, sulla base delle indicazioni dello stesso Olivi, secondo il materiale esegetico attribuibile ai singoli stati. La seconda, seguendo il principio applicato nelle distinctiones ad uso dei predicatori, sulla base di lemmi analogicamente collazionati. La “mutua collatio” di parti della Lectura arricchisce il significato legato alle parole e consente uno sviluppo tematico amplificato. Si vedano, ad esempio, le variazioni eseguite sul tema della “voce” o sull’espressione “in medio”, temi più volte iterati nel sacro testo, oppure il modo con cui Ap 1, 16-17 (l’esegesi della decima e undecima prefezione di Cristo come sommo pastore) percorre i versi in collazione con altri passi. A ciò predispone lo stesso testo scritturale, poiché l’Apocalisse contiene espressioni, come Leitmotive, che ritornano più volte. È determinata da parole-chiave che collegano i passi da collazionare. È suggerita dallo stesso Olivi, nel prologo, per una migliore intelligenza del testo.

Tutte le citazioni della Lectura super Apocalipsim presenti nei saggi o negli articoli pubblicati su questo sito sono tratte dalla trascrizione, corredata di note e indici, del ms. Paris, Bibliothèque nationale de France, lat. 713, a disposizione fin dal 2009 sul sito medesimo. I passi scritturali ai quali si riferisce l’esegesi sono in tondo compresi tra “ ”; per le fonti diverse da quelle indicate si rinvia all’edizione in rete. Non viene presa in considerazione l’edizione critica a cura di WARREN LEWIS (Franciscan Institute Publications, St. Bonaventure – New York, 2015) per le problematiche da essa poste, che sono discusse in ALBERTO FORNI – PAOLO VIAN, A proposito dell’edizione di Warren Lewis della Lectura super Apocalipsim di Pietro di Giovanni Olivi. Alcune osservazioni, in “Archivum Franciscanum Historicum”, 109 (2016), pp. 99-161.
Il testo della Commedia citato è in Dante Alighieri, La Commedia secondo l’antica vulgata, a cura di GIORGIO PETROCCHI, Firenze 1994. Si tiene anche conto della recente edizione a cura di GIORGIO INGLESE, Firenze 2021 (Società Dantesca Italiana. Edizione Nazionale), qualora il testo proposto si discosti da quello del Petrocchi e la scelta della variante risulti discutibile nel confronto con la LSA.

ABBREVIAZIONI

Ap: APOCALYPSIS IOHANNIS.

LSA: PIETRO DI GIOVANNI OLIVI, Lectura super Apocalipsim.

Concordia: JOACHIM VON FIORE, Concordia Novi ac Veteris Testamenti. Herausgegeben von A. PATSCHOVSKY, Wiesbaden 2017 (Monumenta Germaniae Historica. Quellen zur Geistesgeschichte des  Mittelalters, 28. Band), Teil 2 (lib. I-IV), Teil 3 (lib. V).

Expositio: GIOACCHINO DA FIORE, Expositio in Apocalypsim, in Edibus Francisci Bindoni ac Maphei Pasini, Venetiis 1527, ristampa anastatica Minerva, Frankfurt a. M. 1964.

Olivi opera spesso una sintesi del testo di Gioacchino da Fiore. Le « » precedono e chiudono un’effettiva citazione. Diversamente, viene posto un asterisco (*) o una nota in apice al termine della parte riferibile a Gioacchino.

In Ap: RICCARDO DI SAN VITTORE, In Apocalypsim libri septem, PL 196, coll. 683-888.

 

Note sulla “topografia spirituale” della Commedia

Per quanto segua l’ordine dei ventidue capitoli dell’Apocalisse, Olivi suggerisce un metodo differente di comprensione e di aggregazione del testo esegetico, fondato sui sette stati, cioè sui periodi nei quali si articola la storia della Chiesa. L’Antico Testamento corrisponde alle prime cinque età del mondo, secondo la divisione tradizionale [1]: è l’età del Padre secondo Gioacchino da Fiore. Con il primo avvento di Cristo, nella carne, inizia la sesta età (l’età del Figlio), nella quale la Chiesa, come fosse un individuo, cresce e si sviluppa in sette stati. Al primo, apostolico periodo, succede il secondo dei martiri; poi, al tempo di Giustiniano, il terzo stato dei dottori che confutano con l’intelletto le eresie concorre con il quarto stato degli affettuosi anacoreti devoti al pasto eucaristico, alti per la contemplazione ma anche attivi come reggitori delle genti; a partire da Carlo Magno subentra il quinto stato aperto alla vita associata delle moltitudini, bello nel principio ma poi corrottosi fino a trasformare quasi tutta la Chiesa in una nuova Babilonia; la riforma interviene, a partire da Francesco, con il cristiforme sesto stato, fino alla sconfitta dell’Anticristo; subentra infine il silenzio e la quiete del pacifico settimo stato. Il sesto e il settimo stato (la terza età di Gioacchino da Fiore) coincidono con il secondo avvento di Cristo, nello Spirito, cioè nei suoi discepoli spirituali inviati a convertire il mondo con la predicazione; al termine del settimo stato ci sarà il terzo avvento, nel giudizio.
L’Apocalisse si articola in sette visioni: le sette chiese d’Asia, i sette sigilli, le sette trombe, la donna vestita di sole (le sette guerre sostenute dalla Chiesa), le sette coppe, il giudizio di Babylon nelle sette teste del drago, la Gerusalemme celeste. Le prime sei visioni possono essere a loro volta divise in sette momenti, ciascuno dei quali riferibile a uno dei sette stati. Assembrando, per le prime sei visioni, tutti i primi elementi (chiesa, sigillo, tromba, guerra, coppa, momento del giudizio di Babylon), tutti i secondi, i terzi e così di seguito, si ottengono sette gruppi di materia teologica, corrispondenti al complesso dei temi afferenti a ciascuno dei sette stati [2]. A questi sette gruppi se ne aggiungono altri due: l’esegesi della settima visione (senza articolazioni interne) e l’esegesi di capitoli del testo scritturale, o di parti di essi, introduttivi delle successive specificazioni delle singole visioni per settenari, che Olivi definisce “radicalia” o “fontalia”. Si ottengono in tal modo nove gruppi: le parti proemiali, i sette assembramenti di settenari e la settima visione. Il grande prologo della Lectura, articolato in tredici notabilia, può essere anch’esso aggregato nelle sue parti secondo i sette stati.

L’intenso travaso di parole-temi dalla Lectura nella Commedia si accompagna a un fatto strutturale. La Commedia mostra un ordine interno diverso da quello che appare al lettore: il viaggio di Dante ha un andamento di ciclici settenari, che corrispondono ai sette stati oliviani. È un ordine registrabile per zone progressive del poema dove prevalgono i temi di un singolo stato, che rompe i confini letterali stabiliti dai canti e da tutte le divisioni materiali per cerchi, gironi, cieli. Ogni stato, che ha differenti inizi, è concatenato per “concurrentia”, come le maglie di un’armatura, con quello che precede e con quello che segue. Ciascuno stato ha in sé una grande ricchezza di motivi e contiene inoltre temi di tutti gli altri, consentendo innumerevoli intrecci e variazioni. La Commedia appare, come l’Apocalisse, “libro scritto dentro e fuori” (Ap 5, 1), con duplice struttura, linguaggio e senso, letterale e spirituale. Il viaggio di Dante e la visione di Giovanni hanno la stessa causa finale, che è la beatitudine, alla quale si perviene con diverse guide, per gradi segnati da visioni sempre più nuove e ardue delle precedenti, attraverso una sempre maggiore apertura dell’arcano coperto dal velame dei sette sigilli fino al punto più alto in cui, in questa vita, è possibile vedere la verità.
Tutti i modi del linguaggio interiore al poema esprimono un processo, un viaggio dal più chiuso al più aperto, e in questo andare hanno una loro precisa collocazione ‘topografica’, uno ‘stato’ (nel senso di momento storico che ricade sulla coscienza individuale) al quale appartenere. Si possono in tal modo stendere vere e proprie mappe tematiche che comprendano l’ordine spirituale di tutta la Commedia che aderisce, parodiandola semanticamente, a una precisa teologia della storia, sia pure modificandone profondamente le prospettive. La ciclicità dei temi permette di stabilire collegamenti inusitati tra le diverse zone; il procedere per gradi dell’illuminazione divina fa sì che episodi oscuri e quasi ermeticamente chiusi si chiariscano poi, aprendosi all’intelligenza in modo più alto.
A ogni gruppo è arbitrariamente assegnato un diverso colore: Radici (verde), I stato (verde acqua), II stato (rosso), III stato (nero), IV stato (viola), V stato (marrone), VI stato (blu), VII stato (indaco), VII visione (fucsia). Dei gruppi sono stati integralmente studiati il terzo stato e la settima visione.

INFERNO

(le prime cinque età del mondo)

La ‘topografia spirituale’ del poema mostra nell’Inferno cinque cicli settenari corrispondenti agli stati della Chiesa descritti da Olivi e ai loro temi contenuti nella Lectura. Questi cinque cicli designano le prime cinque età del mondo (riunite a loro volta nel primo stato generale, che corrisponde all’età del Padre di Gioacchino da Fiore), in quanto prefigurazione del primo avvento di Cristo e della Chiesa.
I cinque cicli settenari che si susseguono nell’Inferno a partire dal quarto canto (i primi tre canti hanno una tematica particolare) sono preceduti da cinque zone che possono essere definite ‘snodi’, dove cioè confluiscono temi provenienti da più stati, intrecciati insieme ad altri ad avviare il procedere settenario. Il centro di questi ‘snodi’ coincide con un canto (Inf. IV, X, XVII, XXVI, XXXII), ma la zona è più vasta e supera l’ambito dato dalla divisione letterale del poema.

Inf. I-III sono da considerare al di fuori dei cicli. Inf. I e II sono profondamente segnati dai temi del sesto stato. Inf. III è riferibile al settimo stato (per gli ignavi) e in parte al quinto (per l’episodio di Caronte).

canti

I ciclo

stati

cerchi

IV

Limbo

Radici, I (I snodo)

I

V

lussuriosi

II

II

VI

golosi

III

III

VII

avari e prodighi

palude Stigia
(iracondi e accidiosi)

IIIIV

 

V

IV


V

VIII

palude Stigia (orgogliosi)
città di Dite

V

V

IX

apertura della porta di Dite

VVI

 

canti

II ciclo

stati

cerchi

IX-X-XI

eretici, ordinamento dell’inferno

I (II snodo)

VI

XII

violenti contro il prossimo

II

VII (girone 1)

XIII

violenti contro sé

III

        (girone 2)

XIV

violenti contro Dio: bestemmiatori

IV

        (girone 3)

XV-XVI

violenti contro Dio: sodomiti

V

XVI

XVII

ascesa di Gerione

Gerione,  violenti contro Dio: usurai

VI

canti

III ciclo

stati

cerchi

XVII

volo verso Malebolge

I (III snodo)

 

XVIII

ruffiani, lusingatori

Radici II

VIII (bolgia 1, 2)

XIX

simoniaci

III

(bolgia 3)

XX

indovini

IV

(bolgia 4)

XXI-XXII

barattieri

V

(bolgia 5)

XXIII

ipocriti

VVI

(bolgia 6)

XXIV-XXV

ladri

VI

(bolgia 7)

canti

IV ciclo

stati

cerchi

XXVI

consiglieri di frode (greci)

I (IV snodo)

(bolgia 8)

XXVII

consiglieri di frode (latini)

II

XXVIII-XXIX

seminatori di scandalo e di scisma

III

(bolgia 9)

XXIX

falsatori

IV

  (bolgia 10)

XXX

falsatori

IVV

XXXI

giganti

VVI

 

canti

V ciclo

stati

cerchi

XXXII

Cocito: Caina, Antenora

I (V snodo)

IX

XXXIII

Antenora, Tolomea

II

XXXIV

Giudecca

IIIIVV

XXXIV

volgersi di Virgilio sull’anca di Lucifero

VI

 

 

Il sesto stato è per Olivi la fase più importante nella costruzione dell’edificio della Chiesa. In esso “renovabitur Christi lex et vita et crux”. Corrisponde ai tempi moderni. Ha quattro diversi inizi temporali: uno profetico, con Gioacchino da Fiore, il quale lo vide in spirito concependo la sua terza età; il secondo con la conversione di Francesco (1206), che seminò la pianta; il terzo con la predicazione degli uomini spirituali, per la quale la pianta si rinnovella; il quarto con la distruzione storica di Babylon. Dura fino alla sconfitta dell’Anticristo, il cui avvento si collocherebbe, secondo i numeri della profezia di Daniele 12, 11-12 combinati con Ap 12, 6 e 14, fra il 1290 e il giubileo di pace del 1335.
Una ‘vita nuova’ si instaura nel sesto stato, per eccellenza il momento dell’imitazione di Cristo. I rami dell’albero si dilatano producendo il frutto della carità, l’acqua che proviene da Cristo-fonte attraverso il condotto che percorre i primi cinque stati della Chiesa si effonde in un lago; è il tempo, assimilato al sacramento del matrimonio, della letizia nuziale, della familiarità, dell’amicizia. Corrisponde al sesto giorno della creazione, in cui vennero creati prima i rettili e le bestie irrazionali, poi l’uomo razionale che, come l’ordine evangelico, è fatto a immagine e somiglianza di Dio e domina tutti gli animali.
Le espressioni di Olivi relative al sesto stato – “quoddam sollempne initium novi seculirenovaretur et consumaretur seculum”, nel quale il sacerdozio apostolico “redeat et assurgat ad ordinem primum”, la “nova Ierusalem”, interpretata come “visione di pace”, viene vista “descendere de celo” e la Chiesa descritta come la donna vestita di sole con la sua “virginea proles” – sono la veste spirituale dei versi della quarta egloga virgiliana che celebrano la rinnovata età dell’oro: “Magnus ab integro saeclorum nascitur ordo / iam redit et Virgo; redeunt Saturnia regna; / Iam nova progenies caelo demittitur alto” (Egloga IV, 5-7). Olivi completa la Lectura super Apocalipsim nel 1298, poco prima di morire, il 14 marzo, a Narbonne. Quel felicissimo stato segnato dalla pace sotto il divo Augusto, che rese l’umanità disposta al primo avvento di Cristo, si sta rinnovando nel sesto stato della Chiesa, nel secondo avvento nello Spirito. Scrive Arsenio Frugoni: “[…] quell’escatologismo, oltre che ideologia di lotta e di riforma del gruppo spirituale, era anche un vero e proprio sentimento storico […] una tensione di rinnovamento, una ansia di salvezza, che nel 1300, l’anno centenario della Natività, aveva trovato come una attivazione, in un senso di pienezza dei tempi, cui doveva corrispondere un fatto, un accadere meraviglioso e nuovo” [3].
All’apertura del sesto sigillo, l’eletta schiera dei riformatori – i 144.000 segnati dalle dodici tribù d’Israele – guida la turba innumerevole di ogni gente, tribù, popolo e lingua (Ap 7, 3-4.13). Questi eletti e magnanimi duci, separati dalla volgare schiera per più alta milizia, vengono destinati a difendere liberamente la fede – ad essi è data la “plena libertas ad innovandam christianam religionem” -; sono gli amici di Dio a lui noti per nome, configurati in Cristo crocifisso e votati al martirio.
All’interno della Chiesa del sesto stato, l’Ordine dei Minori – “ordo plurium personarum” – è  assimilabile alla persona umana di Cristo. Come questa si sviluppò fino all’età virile, così dovrà essere per l’ordo evangelicus piantato da Francesco, che avrà bisogno (a differenza di Cristo che stette poco tempo nel mondo) di due o tre generazioni per svilupparsi prima di subire una condanna simile a quella di Cristo [4]. La sua maturità coincide, verso il 1300, con il terzo inizio del sesto stato, cioè con il rinnovarsi per opera dello Spirito di Cristo, nel suo secondo avvento, della pianta seminata da Francesco. Questa concezione dell’Ordine francescano come individuo in sviluppo che, perfettamente maturato, diventa il novus ordo preconizzato da Gioacchino da Fiore per l’età dello Spirito, si differenzia da quella di Bonaventura, che aveva invece distinto i Francescani del proprio tempo – e quindi anche gli Spirituali – dall’Ordine finale che dominerà fino ai confini della terra. Alla terza apertura del sesto sigillo nuovi san Giovanni vengono inviati a predicare al mondo come nel tempo degli Apostoli. Ma Giovanni non designa solo un Ordine, perché Olivi lascia aperta la possibilità di rivelazioni individuali, avute da “singulares persone”, perfetti imitatori di Cristo votati, con la loro “lingua erudita”, al compito della conversione universale.

[LSA, cap. X, Ap 10, 11] “Et dixit michi: Oportet te iterum prophetare in gentibus et populis et linguis et regibus multis”. In ipsa sapientia libri expresse continetur quod oportet iterum predicari evangelium in toto orbe, et Iudeis et gentibus, et totum orbem finaliter converti ad Christum. Sed quod per istum hoc esset implendum non poterat sciri nisi per spiritualem revelationem, et hoc dico prout per Iohannem designantur hic singulares persone quia, prout per ipsum designatur in communi ordo evangelicus et contemplativus, scitur ex ipsa intelligentia libri quod per illum ordinem debet hoc impleri.

Nei cinque cicli settenari della prima cantica il sesto stato è segnato dall’apertura della porta della città di Dite (Inf. IX, 89-90); dall’ascesa di Gerione dall’abisso (Inf. XVI, 106-136); dal precipitoso passaggio dalla quinta alla sesta bolgia (Inf. XXIII, 1-57) e poi dalle trasformazioni della settima, dove i ladri fiorentini si mutano in serpenti e viceversa (Inf. XXIV-XXV); dal chinarsi di Anteo sul fondo dell’inferno (Inf. XXXI, 136-145); dal passaggio del centro della terra, con la conversione di Virgilio sull’anca di Lucifero, che è passaggio verso la sesta età, quella della Chiesa, descritta nel Purgatorio.
Ma i temi propri del sesto stato sono diffusi ovunque, intrecciati con quelli degli altri stati, e alla loro esegesi rinviano precise parole-chiave incardinate nel senso letterale dei versi. L’esegesi dell’angelo del sesto sigillo (Ap 7, 2) è già centrale nel primo canto del poema.
La novità che il sesto stato, per eccellenza stato di rinnovamento di questo secolo, arreca nell’inferno è una novità fittizia: l’apertura della porta della città di Dite non è vera novità, perché essa è stata chiusa dall’ostinazione dei diavoli, recidivi dopo l’apertura della porta dell’inferno da parte di Cristo prefigurata dalla venuta di Ercole all’Ade, per cui Cerbero “ne porta ancor pelato il mento e ’l gozzo”; Gerione viene su ad un “novo cenno” di Virgilio, ma è figura della frode dalla velenosa coda aculeata; il nuovo prodotto dalle trasformazioni reciproche di serpenti e uomini è qualcosa di incompiuto perché l’uomo razionale, creato nel sesto stato, regredisce allo stato precedente.
L’Inferno è il luogo della durezza lapidea, dell’impetrarsi, del parlare duro di cose dure a dirsi, del duro giudizio, del senso duro della scritta al sommo della porta, dei duri lamenti, dei duri demoni, dei duri veli del gelo, della gravezza. Nell’Inferno vige l’imposizione data a Daniele dall’angelo sotto il sesto sigillo dell’Antico Testamento: “Ora tu, Daniele, chiudi queste parole e sigilla questo libro fino al tempo stabilito” (Dn 12, 4), che era la sesta età nella quale apparve Cristo e in particolare il sesto stato della sua Chiesa nella quale il libro doveva essere più pienamente aperto, non però ai malevoli e ai maldisposti. Questa durezza è rotta dall’invito di Dante ai dannati perché parlino. Far parlare liberamente, per dettato interiore, è la principale prerogativa del sesto stato – la nuova età che tanto s’aspetta, quella che ode del “dolce stil novo” e delle “nove rime” -, ed è tema che la poesia canta per intero, sia pure per un attimo, anche nella vecchia roccia infernale. Appartiene alla sesta chiesa il parlare liberamente di Cristo – ad essa è dato l’“ostium apertum”, che è “ostium sermonis” – , il sentire per dettato interiore, l’aprirsi della volontà. Appartiene alla sesta chiesa anche il far venire quelli che si dicono Giudei senza esserlo, mutati nel cuore e disposti a farsi battezzare e governare. Questo far venire a parlare equivale al cortese e liberale invito dello Spirito di Cristo a convivare, a venire con desiderio e volontario consenso, con “disio” e con “velle”, in una pausa di pace nell’eterna dannazione. All’“affettüoso grido” del poeta le ombre di Francesca e Paolo vengono “dal voler portate” verso un momento di mutazione, sebbene limitata al successivo colloquio. Tutto l’Inferno è un contrappunto fra la durezza del giudizio e l’apertura per la parola dirompente, fin che essa dura, la pena. Un’apertura che si esprime in varie forme: muoversi sospirando nel Farinata prima immobile, ‘crollarsi’ quasi per terremoto interiore dello ‘schivo’ Ulisse, convertirsi del vento in voce in Guido da Montefeltro, tornare indietro nel cammino assegnato o separarsi dai compagni di pena, essere sforzati a parlare anche malvolentieri, non poterlo negare o mostrare fretta di farlo, arrestarsi obliando il martirio, levarsi per poi ricadere, sollevarsi da atti bestiali per ritornare a essi dopo aver parlato, come nel conte Ugolino. In tante lingue, che parlano come per sé stesse mosse, sta un solo desiderio, il vivere ancora nel libro che è stato altrui aperto.
Se nell’Inferno il sesto stato non si realizza mai compiutamente, anche il settimo, che gli è strettamente connesso, non può trovare un luogo autonomo. Ciò non toglie che temi del settimo stato (e della settima visione) siano ben presenti in modo diffuso. Ad esempio, quelli relativi alla settima chiesa assumono particolare rilievo nella descrizione degli ignavi a Inf. III. Tempo del silenzio, della serena pace, del riposo dalle ansiose fatiche, il settimo stato subentra dopo le terribili tentazioni inferte, con un martirio non corporale ma psicologico, dai carnefici dell’Anticristo nel sesto. Come ogni momento della storia umana partecipa dell’imitazione di Cristo, che raggiunge l’acme nel sesto stato, così in ogni periodo si verifica una sua “quietatio”, una pausa di pace, di quiete, di silenzio propria del settimo. Così Francesca parla e ascolta “mentre che ’l vento, come fa, ci tace”. Il vento – “la bufera infernal, che mai non resta” – designa il fluttuare tempestoso delle passioni nel cuore.

PURGATORIO

(sesta età del mondo)

Dopo le prime cinque età del mondo (corrispondenti all’Antico Testamento, la gioachimita età del Padre), che hanno segnato la discesa a spirale per i cinque cicli settenari dell’Inferno, con il Purgatorio inizia la sesta età, quella di Cristo (l’età del Figlio), che ha sette stati, corrispondenti ai sette stati della Chiesa. Dapprima, nel cosiddetto ‘antipurgatorio’, si registrano in successione temi prevalenti dei primi cinque stati. Il sesto stato della sesta età (con cui si apre l’età dello Spirito) inizia con l’apertura della porta di san Pietro (la porta del purgatorio). Questo sesto stato procede anch’esso con andamento settenario, per cui ha sette momenti, coincidenti principalmente con un girone della montagna, ma non del tutto, perché sempre l’ordine spirituale del poema rompe i confini letterali e le divisioni materiali, concatenando i temi di uno stato prevalente con quelli dello stato che precede e con quelli dello stato che segue e intrecciandoli con temi di tutti gli altri stati.
È spiegato nel Notabile VII del prologo della Lectura che il sesto stato della Chiesa è il secondo stato di Cristo e ha i suoi sette tempi per cui la Chiesa, come fosse una sfera, si ricongiunge circolarmente al primo apostolico tempo. Il settimo dei sette momenti del sesto stato della Chiesa coincide con il settimo stato generale della Chiesa, che nel poema corrisponde in parte all’ultimo girone della montagna (il settimo, dove si purgano i lussuriosi) e in parte all’Eden, con cui si chiude la seconda cantica.
Il Purgatorio dunque, secondo il senso spirituale, è la storia della Chiesa che corre verso il suo sesto stato, punto di riferimento di tutte le vicende umane, antiche e moderne, che ad esso cooperano. Non è casuale che nel sesto girone della montagna sia chiarificata e riconosciuta, nel colloquio con Bonagiunta da Lucca, la poetica delle “nove rime” di Dante, già “sesto tra cotanto senno” cooptato nella “bella scola” dei poeti del Limbo.
La vasta zona dedicata al sesto momento del sesto stato della Chiesa ha il suo inizio nel forte terremoto che scuote la montagna mentre Dante e Virgilio si trovano ancora nel quinto girone (Purg. XX, 124-141). Essa è stata compiutamente esaminata altrove.
Il settimo stato dell’Olivi si realizza parte in questa vita (come pregustazione in terra della gloria eterna, cioè fin sulla cima della montagna) e in parte nella futura (nel senso della quiete delle anime beate in attesa della resurrezione, che è la materia del Paradiso).

canti

I ciclo – fino al sesto sato

stati

 

I

Catone

Radici, I

 

II

angelo nocchiero, Casella

–  II

 

III

scomunicati

III

“Antipurgatorio”

IV

salita al primo balzo, Belacqua

IV  –  V

V

negligenti morti per violenza

V

VI

Sordello

V

VII-VIII

valletta dei principi

V

IX

apertura della porta

VI sesto stato

 

canti

II ciclo – il sesto stato della sesta età

stati

gironi

X-XII

superbi

I

I

XIII-XIV-XV

invidiosi

II

II

XV-XVIII

iracondi

ordinamento del purgatorio,

amore e libero arbitrio

III

III

IV

XVIII-XIX

accidiosi

IV

IV

XIX-XX

avari e prodighi

V

V

XX (terremoto)  -XXV

Stazio, golosi, generazione dell’uomo

VI

VI

XXV-XXVI

lussuriosi

VII – settimo stato

VII

XXVII

XXVIII-XXXIII

 muro di fuoco

notte stellata, termine dell’ascesa

Eden

 

 

PARADISO

(settimo stato della Chiesa)

Il Primo Mobile è il nono e penultimo cielo, ma è il sesto se si parte dal cielo del Sole. È anche il cielo più segnato dal tema del “punto”, cui è assimilato il sesto stato. Questo consente di ricostruire l’ordine spirituale del Paradiso ponendo la cerniera nel quarto cielo del Sole. Con il terzo cielo di Venere termina infatti il cono d’ombra gettato dalla terra, secondo la dottrina di Alfragano (Par. IX, 118-119), mentre prima di descrivere l’ascesa al cielo del Sole il poeta invita il lettore a rivolgersi “a l’alte rote” (Par. X, 7-27). Senza la cesura recisa che, nella prima cantica, divide i dannati puniti all’interno della città di Dite da quelli che ne stanno fuori e, nella seconda cantica, separa le anime purganti nei sette gironi della montagna dalle anime che attendono fuori della porta (il cosiddetto ‘antipurgatorio’), anche nel Paradiso gli spiriti che si manifestano nei primi tre cieli della Luna, di Mercurio e di Venere (spiriti che mancarono ai voti, spiriti che furono attivi per conseguire onore e fama, spiriti amanti) si distinguono per minore perfezione rispetto a quelli che appaiono nei cieli seguenti.
I dieci cieli del Paradiso si mostrano pertanto ordinati in due gruppi di settenari, corrispondenti agli stati della Chiesa (e alle loro prerogative) secondo Olivi, parzialmente combacianti (da 1 a 7 e da 4 a 10: coincidono gli ultimi quattro numeri del primo gruppo e i primi quattro del secondo).

I  Se si considera il primo settenario, nel primo cielo della Luna si affronta la questione dell’inadempienza dei voti, che ha corrispondenza con i temi propri della prima chiesa di Efeso, il cui nome, se interpretato, oscilla tra la fervida volontà iniziale e la remissione (l’essenza del voto consiste nella volontà).

II  Nel secondo cielo di Mercurio, le battaglie sostenute dal “sacrosanto segno” dell’aquila corrispondono allo stato dei martiri, che è dei combattenti, e anche la dottrina dell’incarnazione e della passione di Cristo, esposta successivamente da Beatrice, fa parte della tematica, perché l’intera Chiesa, fondata sulla passione di Cristo, imita con i martiri la sua croce, e questo giova assai al suo radicamento.

III  Nel terzo cielo di Venere, Carlo Martello spiega al modo di un dottore del terzo stato la diversità delle indoli umane e come gli uomini, non assecondandole, errino; nello stesso cielo compare Folchetto di Marsiglia, che da vescovo di Tolosa combatté l’eresia albigese.

IV – I  Al quarto cielo del Sole, primo del secondo gruppo di settenari per l’esaltazione della vita apostolica (propria del primo stato e rinnovata nel sesto), si può connettere il tema stesso del sole inteso nell’esegesi della quarta tromba (Ap 8, 12): “Per solem videtur hic designari solaris vita et contemplatio summorum anachoritarum, qui fuerunt patres et exempla aliorum, vel solaris sapientia et doctrina summorum doctorum”. Sapienza e contemplazione, dottori del terzo e anacoreti del quarto stato, concorrono, come Domenico e Francesco – “L’un fu tutto serafico in ardore; / l’altro per sapïenza in terra fue / di cherubica luce uno splendore” (Par. XI, 37-39) – con mutua cortesia a infiammare il meriggio dell’universo.

V – II  Il quinto cielo di Marte, secondo (come il secondo stato dei martiri) per l’esaltazione della croce di Cristo formata dai lumi dei combattenti per la fede, reca in sé il tema del condiscendere proprio del quinto stato sia nel pio discendere per la croce di Cacciaguida verso Dante, sia nella decadenza degli “alti Fiorentini”, cioè delle antiche famiglie, assimilate agli anacoreti, un tempo alti e poi vòlti in basso.

VI – III  Il sesto cielo di Giove, terzo (come il terzo stato dei dottori) per la spiegazione di profonde verità di fede, sviluppa il motivo, proprio della sesta chiesa, della “porta aperta”. Aprire la porta significa illuminare e rendere acuto l’intelletto che penetra nell’occulto delle Scritture, e anche dare efficacia spirituale a penetrare nel cuore di chi ascolta: così l’aquila apre la “latebra” di Dante, così l’occhio di Rifeo Troiano fu da Dio aperto alla futura redenzione.

VII – IV Nel settimo cielo di Saturno, quarto (come il quarto stato degli anacoreti), “si tace … la dolce sinfonia di paradiso” (Par. XXI, 58-60), e il tacere è tema del settimo stato. Ivi si mostrano gli spiriti contemplativi, principali soggetti del quarto stato, proprio degli anacoreti: se si conta a partire dal quarto cielo del Sole, considerando questo come primo ovvero come nuovo avvio del ciclo settenario, il cielo di Saturno è appunto quarto.

VIII (V) Il settimo cielo di Saturno è seguito dal cielo delle Stelle fisse – ottavo e quinto -, dove si mostrano le schiere del trionfo di Cristo che discendono dall’Empireo (il quinto stato è caratterizzato dalla “condescensio”) e si celebra il trionfo di Maria (sviluppo del tema, proprio della quinta chiesa, della mirabile bellezza della Chiesa, regina ornata di veste aurea per la carità che unisce e circondata dalla varietà nei doni e nelle grazie delle diverse membra). È inoltre ricapitolazione dei precedenti sette, secondo un’interpretazione più volte presente nella Lectura dell’essere ‘ottavo’. Per questo Dante, stando nel segno dei Gemelli, riguarda in giù e torna col viso per tutte quante le sette precedenti sfere (Par. XXII, 124-154).

IX (VI) Segue il Primo Mobile o Cristallino – nono e sesto cielo –, dove il poeta vede il punto luminosissimo – Dio – da cui dipende il cielo e la terra, circondato dai nove cerchi di fuoco (Par. XXVIII, 16-18, 40-42, 94-96). Il sesto stato, secondo quanto Olivi afferma nel Notabile VIII, è il “punto” da cui dipendono gli altri stati, perché appare nel testo dell’Apocalisse in modo più evidente degli altri, che da esso assumono chiarezza quanto alla loro manifestazione nella storia, come l’intelligenza delle cose ordinate ad un fine dipende dal fine.

X (VII) La quiete e l’immobilità dell’Empireo, decimo cielo – il “ciel de la divina pace” -, corrispondono al settimo stato, di cui è propria la “quietatio”, il silenzio (tema anticipato dal tacere di Beatrice in apertura del canto XXIX), e la pace.

Il Paradiso avrebbe pertanto un ordine spirituale del seguente tipo:

cielo

stato

cielo

I

LUNA

I

II

MERCURIO

II

III

VENERE

III

IV

SOLE

IV

I

SOLE

V

MARTE

V

II

MARTE

VI

GIOVE

VI

III

GIOVE

VII

SATURNO

VII

IV

SATURNO

VIII

V

STELLE FISSE

IX

VI

PRIMO MOBILE

X

VII

EMPIREO

Oltre ai luoghi sopra indicati, i temi del sesto e del settimo stato si rinvengono in più punti, intrecciati con altri.

[1] Cfr. LSA, cap. XVII, Ap 17, 9: «Et subdit Ricardus quod per septem reges, et per septem capita designatos, designatur hic universus populus malorum, qui secundum septem status huius seculi determinantur. Primus scilicet ab Adam usque ad Noe. Secundus a Noe usque ad Abraam. Tertius ab Abraam usque ad Moysen. Quartus a Moys<e> usque ad David. Quintus a David usque ad Christum. Sextus a Christo usque ad Antichristum. Septimus autem sub Antichristo attribuitur». Cfr. PETRI IOHANNIS OLIVI Lectura super Lucam, Lc 1, 26, ed. F. Iozzelli, Grottaferrata 2010 (Collectio Oliviana, V), pp. 187-188: «Signanter autem dicitur in sexto mense, quia Christus uenit in sexta mundi etate, et iterum post quinque notabiles synagoge decursus: nam primo, cum sola circumcisione fuit sub patribus per quadringentos annos; secundo, accepta lege, fuit sub iudicibus per tantumdem temporis; tertio, proficiens in regnum, fuit sub regibus; quarto, assumpto plenius spiritu prophetico, fuit sub prophetis sollempnioribus, scilicet sub Elia, Ysaia et Yeremia etc.; quinto, restituto templo et urbe, fuit sub pontificibus quibus, per Aggeum et Zachariam et Malachiam iterata prophetia de Christo et eius precursore Elia, factum est silentium prophetarum, ita quod obmutuit cetus sacerdotum usque ad Iohannis ortum; et iterum in eiusdem quinti temporis sexto centenario conceptus est Christus. Sicut etiam sexto die factus est homo ad ymaginem Dei, sic conuenienter sub consimili senario factus est Christus homo, plenior Dei ymago: nam et perfectio numeri senarii, que ex omnibus partibus suis aliquotis et iterum ex ternario cum suis partibus, scilicet binario et unitate, consurgit, competit sibi et etiam reflexio ternarii per binarium, id est cultus fidei et Trinitatis per geminam caritatem».

[2] Il principio è chiaramente affermato nel notabile VIII del prologo della LSA: «[…] si omnia prima membra visionum ad invicem conferas et consimiliter omnia secunda et sic de aliis, aperte videbis omnia prima ad idem primum concorditer referri et consimiliter omnia secunda ad idem secundum et sic de aliis. Et hoc in tantum quod plena intelligentia eiusdem primi multum clarificatur ex mutua collatione omnium primorum, et idem est de omnibus secundis et tertiis et sic de aliis».

[3] A. FRUGONI, La Roma di Dante, tra il tempo e l’eterno, in ID., Pellegrini a Roma nel 1300. Cronache del primo Giubileo, presentazione di C. Frugoni, a cura e con Introduzione di F. Accrocca, Casale Monferrato 1999, pp. 102-103.

[4] LSA, cap. VI, Ap 6, 12: «Secunda ratio est quia persone Christi correspondet in sexta apertione unus ordo plurium personarum sic secundum suam proportionem augendus, sicut Christus secundum suum corpus fuit usque ad perfectam etatem viriliter auctus. […] Quarta est quia, prout super evangelia ostendi, Christus parvo tempore debuit inter nos vivere et pauciori predicare […]. Nisi autem ordo evangelicus, per Franciscum renovatus, esset in multis et saltem sub duabus vel tribus generationibus propagatus et sollempnizatus, non esset nec ipse nec populus ab eo ducendus sufficienter dispositus ad tam autenticam condempnationem condempnationi Christi consimilem subeundam».