La “Divina Parodia” del Libro scritto dentro e fuori [EN]
I canti dell’Eden: Purgatorio XXVIII, XXIX, XXX, XXXI, XXXII, XXXIII
1. Il “fiume sacro”. 2. Continuazione dell’accusa di Beatrice e pentimento di Dante. 3. Matelda, sacerdotessa e avvocata. 4. Beatrice svelata. Avvertenze. Abbreviazioni. Note sulla “topografia spirituale” della Commedia. |
Legenda [3]: numero dei versi; 22, 1: collegamento ipertestuale all’esegesi, nella Lectura di Olivi, di capitolo e versetto dell’Apocalisse [Ap]; Not. XIII: collegamento all’esegesi contenuta nei tredici notabilia del prologo della Lectura. Varianti rispetto al testo del Petrocchi.Viene qui esposto il canto XXXI del Purgatorio con i corrispondenti legami ipertestuali con i luoghi della Lectura super Apocalipsim ai quali i versi si riferiscono. L’intero poema è esposto nella Topografia spirituale della Commedia (2013, PDF; cfr. infra), ma si sta procedendo a un esame progressivo e aggiornato dei singoli canti (completato l’Inferno). Ogni tabella sinottica, qui presentata o alla quale si rinvia in quanto già esaminata in altra sede, è preceduta o seguita da una parte esplicativa. Sull’uso dei colori cfr. Avvertenze. |
Purgatorio XXXI |
« O tu che se’ di là dal fiume sacro », 22, 1; 1, 20; 17, 7 E
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1. Il “fiume sacro”
O tu che se’ di là dal fiume sacro … ricominciò, seguendo sanza cunta (vv. 1, 4). Beatrice è velata e non appare manifesta; le sue parole ‘continuano’, quasi a sottolineare la necessità di cose che debbono avvenire presto (Purg. XXX, 71: “continüò come colui che dice”; Ap 1, 1: «“[…] “que oportet fieri cito” … quia indistanter sunt inchoanda et absque interpolatione continuanda et consumanda”»): motivo che ritorna all’inizio del canto successivo, allorché Beatrice ricomincia a parlare, “seguendo sanza cunta” (Purg. XXXI, 4); un modo di parlare proprio anche di Farinata (Inf. X, 76), di Matelda (Purg. XXIX, 2) e ancora di Beatrice nel cielo della Luna (Par. V, 17-18). Simmetrico ad Ap 1, 1 è Ap 22, 10, dove alla fine del libro Cristo afferma la prossimità del suo avvento e giudizio. Ivi è ripreso il tema del continuare senza posa un discorso: “et continuat se ad immediate premissum”. Cristo dice anche (Ap 22, 12) che verrà presto a portare, “tamquam dantis”, la propria mercede a ciascuno secondo le sue opere, cioè ai buoni i premi e ai malvagi le pene. Che è poi quello che si propone la Commedia. Il tema della visione mostrata a Giovanni perché la manifesti ad altri si traspone sul poeta. A lui, dice Beatrice, sono state mostrate “le perdute genti” come ultimo argomento per la sua salute (Purg. XXX, 136-138); a lui, dice Cacciaguida, sono “mostrate” le anime perché ‘manifesti’ la sua visione (Par. XVII, 128, 136). Pentitosi di fronte a Beatrice del proprio traviamento, Dante riceverà dalla sua donna (Purg. XXXII, 103-105) e dal suo avo (Par. XVII, 127-128) l’ingiunzione di scrivere e di manifestare, come all’evangelista viene detto: “Scribe ergo que vidisti” (Ap 1, 19).
La parodia dell’esegesi di Ap 1, 1 e 22, 10 (le cose che Giovanni deve scrivere e le parole di Cristo sono continue e non conoscono pausa: “et continuat se ad immediate premissum”) rende preferibile, all’inizio del canto, la variante E tu anziché O tu (cfr. Inglese, ad loc.).
Il capitolo XXII dell’Apocalisse si apre con la visione del nobilissimo fiume che scorre nel mezzo della Gerusalemme celeste. È lo stesso Spirito Santo, ovvero la gloria che da Dio affluisce sui beati: fiume di acqua viva, o di vita eterna, da cui deriva tutta la sostanza della Trinità. Fiume di splendore e luce per sapienza, che ha due rive o due parti (destra e sinistra, superiore e inferiore), designanti le due nature, divina e umana, di Cristo-lignum vitae che dà perpetui frutti. Il lignum vitae, l’albero che sta nel mezzo della città, con le sue foglie getta un’ombra sacramentale, di verità superiori, su entrambe le rive, l’umana e la divina, perché non solo il cielo, ma anche la terra è ripiena della gloria di Dio.
L’esegesi di Ap 22, 1-2 offre una ricchezza tematica riaffiorante in numerosi luoghi della Commedia. Può inoltre essere considerata in collazione con altri passi del testo sacro, come Ap 21, 11 (la forma della città, ‘idea’ dello splendore divino) e Ap 21, 18.21.
Se riferita al fiume, l’esegesi conduce ai due fiumi dell’Eden (il Lete e l’Eunoè) che si dipartono da un’unica fontana, e al fiume di luce dell’Empireo (Ap 22, 1-2). Il tessuto dell’Eden è in parte segnato dai temi del fiume celeste, scomposti e assegnati a più immagini. Si dice in parte perché innumerevoli sono i segni che rinviano ad altri raggruppamenti tematici; qui si isola uno solo. Si noti la rima diriva / ravviva, per l’Eunoè (Purg. XXXIII, 127-129); ma viva è anche “la divina foresta”, in rima con riva intesa come margine in corrispondenza dell’ultimo gradino della scala (Purg. XXVIII, 1-3), quasi anticipazione della ripa verdeggiante e ombrata del Lete. Questo “rio, / che ’nver’ sinistra con sue picciole onde / piegava l’erba che ’n sua ripa uscìo” (vv. 25-27), la cui acqua toglie la memoria del peccato, costituisce la riva sinistra del fiume celeste, mentre l’Eunoè, il cui gusto “a tutti altri sapori … è di sopra” (v. 133), corrisponde all’altra riva, destra e superiore. Se il Lete è “fiume sacro” – con valore scramentale, di “sacre rei signum” come ad Ap 1, 20 e 17, 7 -, entrambi i fiumi nascono da un’unica sorgente, “al fin d’un’ombra smorta, / qual sotto foglie verdi e rami nigri / sovra suoi freddi rivi l’alpe porta” (Purg. XXXIII, 109-111). I signacula provengono tutti dalla medesima parte di esegesi, ma sono assegnati alcuni a un fiume altri all’altro, altri ancora a entrambi: la ripa e la qualità di “fiume sacro” al Lete, il derivare e l’essere l’acqua viva all’Eunoè; è comune l’ombra delle foglie. Dalle singole parti così contrassegnate, come per sineddoche, l’esperto lettore può ricostruire il tutto, cioè la dottrina che proviene dall’esegesi del testo sacro. Certo questo ‘tutto’ egli già lo conosce in latino, ma è cosa diversa ritrovarselo in volgare, figurato in tante immagini, utile per l’edificazione personale e la predicazione.
2. Continuazione dell’accusa di Beatrice e pentimento di Dante
volgendo suo parlare a me per punta, / che pur per taglio m’era paruto acro (vv. 2, 3). In un poema che parla, come la Scrittura, tutte le lingue, si piange in ogni lingua. L’esegesi di Ap 1, 7 (“E lo vedrà ogni occhio”) riguarda tutti gli uomini, ma in particolare i malvagi – coloro che “punsero” sulla croce, offesero e disprezzarono Cristo – dei quali sarà proprio piangere, gemere, perdere la gloria, ed anche essere “punti”, offesi, dispetti. Ciò che in Olivi è teologicamente inteso in senso assoluto, è ricostruito e separato da Dante in più affluenti, facendo risuonare ora l’uno ora l’altro tema: vi sono interessati i lussuriosi con Francesca e Paolo (Inf. V), i tiranni immersi nel Flegetonte sanguigno (Inf. XII), il fiorentino suicida (Inf. XIII), i tre sodomiti fiorentini (Inf. XVI), il ruffiano Venedico Caccianemico (condotto “a sì pungenti salse”, Inf. XVIII), Dante medesimo di fronte alla pena degli indovini (Inf. XX), Ulisse e Diomede (Inf. XXVI), e anche la “trista Cleopatra” di cui dice Giustiniano (Par. VI) nonché il pianto di Feltre sul suo vescovo traditore profetizzato da Cunizza (Par. IX). Qui “sta – direbbe Contini – la mondanità discretiva del Dante della Commedia, unicuique suum” [1].
Scrive Giovanni allo stesso versetto: “Piangeranno tutte le tribù della terra”. Affinché gli si creda con maggiore certezza conferma ciò in duplice lingua, quella gentile e quella ebraica, dicendo: “Etiam. Amen”, cioè piangeranno veramente sé stessi. Entrambe le parole, la latina e l’ebraica (l’etiam latino traduce l’avverbio greco, lingua in cui il libro fu scritto) sono poste a ribadire che il pianto sarà vero pianto, confermato in ogni lingua, “gentile” (greco e latino) o ebraica, sia dai fedeli come dagli stessi reprobi, stimolati dall’esperienza della pena (un passo simmetrico è, alla fine del libro, ad Ap 22, 20).
Francesca ripete due volte l’avverbio ancor: “e ’l modo ancor m’offende … che, come vedi, ancor non m’abbandona” (Inf. V, 102, 105). In entrambi i casi ancor è asseverativo, a testimoniare universalmente, quasi con un sì, che l’intensità dell’amore terreno continua nell’aldilà, e nuoce a chi punse offendendo Cristo in vita e che sta ora, anima offesa (v. 109), nel “dolor, che punge a guaio” (v. 3) [2]. Vi è dunque, come intesero il Pagliaro e il Sapegno [3], un “parallelismo logico e formale” fra le due terzine (vv. 100-105) nelle quali, a sottolineare la subitanea violenza d’amore, si insinua il tema del ladro, il cui avvento è improvviso e letale (Ap 3, 3): “s’apprende … prese costui … mi prese”. L’inciso “e ’l modo ancor m’offende” non può pertanto essere riferito a quel che precede immediatamente – “che mi fu tolta”, con allusione al modo efferato con cui Gianciotto avrebbe ucciso i due amanti togliendo loro la possibilità di pentirsi. Amore subitaneo, furtivo, mortifero contiene di per sé, nella sua intensità (“’l modo”), l’uccisione di chi si sente sicuro (“sanza alcun sospetto”, v. 129) e tarda nel pentimento.
A favore della variante n’offende, nel senso che Amore nocque a entrambi i dannati, non solo a Francesca, sta, al di là del riscontro al v. 109 (anime offense; cfr. Inglese, ad loc.), la forma plurale dell’esegesi di Ap 1, 7: «“Et plangent se super eum”, id est super offensis quas sibi intulerunt».
Piange Venedico Caccianemico (Inf. XVIII, 58-63), ma non da solo, perché anzi (etiam) “tante lingue” piangono con lui, di bolognesi abituati a dire sipa (sia, che rende amen, equivalente a sic fiat, cfr. Ap 1, 6).
Sottolineato dall’“ancor” (appropriato a Deidamía) è il pianto di Ulisse e Diomede (Inf. XXVI, 61-63), come quello di Cleopatra (Par. VI, 76).
Nell’Eden Dante piange la scomparsa di Virgilio, ma alcune tra le prime parole di Beatrice lo invitano a non farlo: “non pianger anco, non piangere ancora”: “verso grondante di nonsenso grammaticale … È un singhiozzo fissato fonosimbolicamente, per solidarietà col rimproverato persistendo, e insistendo, la necessità del rimprovero” (Contini) [4]. La ripetizione dell’avverbio – come già avvenuto con Francesca, per quanto in due differenti versi – ricalca quella di «“etiam. amen” … id est vere plangent se», quasi per dire che il vero pianto deve ancora venire: “ché pianger ti conven per altra spada” (Purg. XXX, 55-57). Dopo le accuse, la donna (che parla “per punta”, Purg. XXXI, 2) si aspetta una confessione, perché le memorie tristi della colpa non sono ancora “offense” dall’acqua del Lete (pungere e offendere sono variazioni su temi presenti nell’esegesi di Ap 1, 7). Confusione e paura spingono fuori dalla bocca del poeta un fioco sì (amen) (Purg. XXXI, 10-15).
Le folgori, nelle simmetriche esegesi di Ap 8, 5; 11, 19 e 16, 18, con acuta eloquenza feriscono i vizi; l’acro senso morale della Scrittura li punge (Ap 6, 6); l’acuta spada a doppio taglio, che Cristo tiene in bocca, li percuote e scinde (Ap 1, 16; 2, 12; 19, 15). Si notino le variazioni su questi temi operate nella semantica dei versi, la loro metamorfosi (il “remo” sostituisce la “spada”), e l’estensione dell’esegesi di Ap 19, 15 al sentire la verga o lo scettro di Cristo (“la mazza d’Ercule” provata da Caco). Il tema della spada appartiene per antonomasia a san Paolo, ma è proprio anche di Beatrice, nell’accusa rivolta a Dante (Purg. XXX, 57; XXXI, 2-3).
Era la mia virtù tanto confusa, / che la voce si mosse, e pria si spense / che da li organi suoi fosse dischiusa … Confusione e paura insieme miste (vv. 7-9, 13). È scritto nel Salmo 136, 1-4: “Sui fiumi di Babilonia sedevamo piangendo, e ai salici sospendemmo le nostre cetre dicendo: come canteremo il cantico del Signore in una terra straniera?” (Ap 14, 8). Ne conseguono, analogicamente, confusione, disordine nelle virtù, pianto, sospensione del parlare. Così a Purg. XXXI, 9, “li organi suoi”, cioè quelli che esprimono la voce di Dante, fa segno mnemonico degli “organa nostra”, cioè delle cetre, di cui dice il Salmo.
Nell’Eden la “puttana sciolta” – la meretrice Babylon, la Chiesa carnale – viene mostrata darsi al gigante (il regno di Francia) e finir tratta nella selva: secondo gli esegeti, “Babylon confusio interpretatur”. Se la confusione babilonica si mostra sul piano dei due poteri universali, il temporale e lo spirituale, essa nondimeno agisce anche a livello individuale dove, come afferma Olivi, ciascuno deve bruciare la propria meretrice interiore [5]. Così la confusione è appropriata anche a Dante (Purg. XXXI, 7, 13), finito nella selva oscura dopo essersi tolto a Beatrice e dato ad altri, quasi specchio individuale della prostituta apocalittica (“questi si tolse a me, e diessi altrui … e come perché non li fosse tolta”: Purg. XXX, 126; XXXII, 151). La confusione agisce anche a livello cittadino: “Semper enim usque ad finem seculi erunt in hoc mundo aliqui babilonici, id est reprobi, a quorum peccatis est recedendum … Babilon enim confusio interpretatur – Sempre la confusion de le persone / principio fu del mal de la cittade (Ap 14, 8; 18, 4; Par. XVI, 67-69)”.
Come balestro frange, quando scocca / da troppa tesa, la sua corda e l’arco, / e con men foga l’asta il segno tocca, / sì scoppia’ io sottesso grave carco, / fuori sgorgando lagrime e sospiri, / e la voce allentò per lo suo varco. … Dopo la tratta d’un sospiro amaro, / a pena ebbi la voce che rispuose, / e le labbra a fatica la formaro (vv. 16-21, 31-33).
■ La punteggiatura andrebbe posta in modo differente rispetto al testo del Petrocchi: “Come balestro frange, quando scocca / da troppa tesa la sua corda e l’arco, / e con men foga l’asta il segno tocca”. Due luoghi dell’esegesi possono essere richiamati. Il primo, ad Ap 2, 1, relativo al frangersi, cioè all’indebolirsi per eccesso di contemplazione, degli anacoreti del quarto stato della Chiesa: è tema già variato negli indovini, i quali vollero “veder troppo davante” (Inf. XX, 38). Il secondo, ancor più calzante, all’apertura del primo sigillo (Ap 6, 2), dove viene citato Gregorio Magno su Giobbe 29, 20: “il mio arco nella mia mano si riprenderà”, cioè si rinnoverà in una nuova gloria. L’arco designa la Sacra Scrittura, che ha nella corda il Nuovo Testamento e nel corno il Vecchio. Come nel tendere la corda si curva il corno dell’arco, così il Nuovo Testamento rende molle la durezza del Vecchio e la grazia di Cristo addolcisce il rigore dei precetti legali. Nella similitudine è appunto l’arco a curvarsi in modo eccessivo e a rompersi per la tensione della corda, cosicché l’asta viene più lenta al segno; l’antico gravame della colpa di Dante scoppia e la nuova voce di pentimento esce fievole dalla sua gola.
■ Sgorgare lacrime e sospiri appartiene alla settima prerogativa di Cristo sommo pastore, per cui si dice: “e la sua voce come la voce di molte acque” (Ap 1, 15), cioè come la voce di piogge inondanti e come l’impeto di fiumi e il mugghiare del mare. Questa voce di molte acque viene interpretata (in un luogo parallelo, ad Ap 14, 2) come suono di un’acqua che irriga, impingua, rinfresca con le lacrime e con sospiri ruggenti.
Tab. I
Ed ella: “Se tacessi o se negassi / ciò che confessi, non fora men nota / la colpa tua: da tal giudice sassi! / Ma quando scoppia de la propria gota / l’accusa del peccato, in nostra corte / rivolge sé contra ’l taglio la rota” (vv. 37-42).
Tacere, negare e confessare sono verbi compresenti ad Ap 3, 8, dove è detto a Filadelfia, la sesta chiesa d’Asia: “Et non negasti nomen meum”.
Un confronto tra i versi relativi al corno suonato da Nembrot (Inf. XXXI, 12-15) e quelli contenenti le parole pronunciate da Beatrice nell’Eden dopo la confessione di Dante (Purg. XXXI, 40-48) mostra come lo stesso materiale esegetico, con i temi della ruota e della contrarietà (la “vox rotarum” ad Ap 9, 9), possa essere ‘torto’ a differenti situazioni. In questo caso l’ammissione di colpa, per la quale il poeta riconosce di essersi mosso “in contraria parte”, fa rivolgere “la rota” (la mola) “sé contra ’l taglio”, smussando la spada della giustizia divina.
Piangendo dissi: “Le presenti cose / col falso lor piacer volser miei passi, / tosto che ’l vostro viso si nascose” … Tuttavia, perché mo vergogna porte / del tuo errore, e perché altra volta, / udendo le serene, sie più forte (vv. 34-36, 43-45). Una delle cause che rendono chiuso il sesto sigillo è lo straniarsi remoto e difforme da tutto ciò che è spirituale e deiforme, l’esser vago, l’alienarsi (ad Ap 5, 1). Per questo Cristo parla del giovane vago che se ne andò a perdersi in una regione lontana (Luca 15, 13), e degli erranti figli di Israele dice il profeta Isaia che “si sono volti indietro” (Is 1, 4), e nel Salmo è scritto: “Sui fiumi di Babilonia sedevamo piangendo, e ai salici sospendemmo le nostre cetre dicendo: come canteremo il cantico del Signore in una terra straniera?” (Ps 136, 1-4), e il profeta Baruc: “Perché, Israele, ti trovi nella terra dei nemici e sei invecchiata in una terra straniera?” (Bar 3, 10-11). All’aprirsi del sigillo Babylon, la Chiesa carnale, sposa adultera che si è alienata da Cristo, viene scossa da un grande terremoto e dall’ira dell’Agnello, cui fa seguito la “signatio” della nuova milizia di Cristo.
La “femmina balba”, apparsa in sogno al poeta sulla soglia del quarto girone della montagna, si trasforma in “dolce serena” che col piacere del suo canto distoglie i naviganti dal loro cammino: “Io volsi Ulisse del suo cammin vago / al canto mio” (Purg. XIX, 22-23). L’aggettivo “vago” può essere variamente concordato (con Ulisse, nel senso di ‘desideroso di seguire il suo cammino’; con il cammino, nel senso di ‘errante’, oppure legato al canto che ‘invaghisce’); ha comunque un carattere che deriva dall’esegesi del sesto sigillo proposta in apertura del capitolo quinto: la difformità e il lontanissimo estraniarsi da ciò che è spirituale rendono chiuso il sigillo, onde Cristo parla del giovane vago (l’aggettivo non è del testo sacro) che se ne andò in una terra lontana (Lc 15, 13) e Isaia dei figli vaghi che si sono volti indietro (Is 1, 4). Dei temi da Ap 5, 1 sono presenti nei versi l’essere vago e il canto dal Salmo 136, 4 (il canto dell’esiliato in terra straniera), per cui è più probabile che Ulisse si sia volto dal suo cammino perché invaghito del canto della sirena. Ad Ulisse e ai suoi compagni, lontani da casa e “vecchi e tardi” (Inf. XXVI, 106), ben si addice anche l’apostrofe di Baruc 3, 10-11 rivolta a Israele che invecchia in terra straniera.
Nei versi 19, 21 di Purg. XIX e 143 del canto precedente sono presenti anche parole-chiave (“vaneggiai”, “dolce”, “piacere”) che rinviano all’esegesi morale della terza tromba (in fine del cap. XI). Dopo la sollecitudine per la propria vita (contro cui si appunta la seconda tromba), interviene la sollecitudine del sapere, che si vanifica nella curiosità e nell’errore: contro di essa risuona la terza tromba, sopra l’acqua della sapienza cui l’intelligenza si ribella divenendo come una stella cadente nell’errore, designato dalla terza parte delle acque. Buona e dolce è l’acqua della scienza che concerne ciò che è vero e ciò che è utile: la scienza speculativa delle cose divine e la prudenza che regge le azioni costituiscono le due parti buone delle acque. Ma l’eccesso di sollecitudine verso sé stessi provoca la caduta di persone sante, che pure apparivano lucenti come stelle e ardenti come fiaccole, nelle acque del piacere carnale, messo da parte il piacere delle cose divine e il piacere che deriva dalle virtù e dalle sante opere.
Il riferimento del capitolo XI alla “cura sciendi”, cioè alla sollecitudine che deriva dal desiderio di sapere, ma che poi diventa colpevole curiosità errante, potrebbe suggerire l’interpretazione per cui Ulisse, nel suo cammino “a divenir del mondo esperto / e de li vizi umani e del valore”, sia stato portato lontano e reso “vago” dal canto della sirena, che non è quella del racconto omerico e nemmeno Circe, ma l’ansia di sapere fine a sé stessa che spinge a varcare i limiti imposti da Dio alla conoscenza umana, la quale invece per quei tempi era aperta all’esperienza dei costumi umani, dei vizi e delle virtù, della quale Orazio rende modello il greco, e che avrebbe dovuto essergli sufficiente, mantenendolo nel campo dell’intelligenza morale, di “color che ragionando andaro al fondo” e lasciarono “moralità” al mondo (Purg. XVIII, 67-69).
Non diversamente la spada di Beatrice si appunta su Dante colpevole di aver ascoltato, errando, le sirene, mentre avrebbe dovuto muoversi “in contraria parte” (Purg. XXXI, 43-48). Uno “straniarsi” (la “semotissima extraneitas” da tutto ciò che è spirituale, ad Ap 5, 1) dalla sua donna che il poeta non ricorda più avendo bevuto l’acqua del Lete (Purg. XXXIII, 91-93; cfr., ai vv. 67-69, i signacula che rinviano all’esegesi della cura sciendi). È probabile che in entrambi i casi ad essere condannata, per quanto avvolta con reticenza in un comune riferimento al piacere verso i beni terreni, sia la ragione (la filosofia) quando travalica i propri limiti senza una guida spirituale: “tanto son di piacere a sentir piena! … Le presenti cose / col falso lor piacer volser miei passi”. Se lo straniarsi appartiene alla Babilonia storica, non bisogna dimenticare che ciascuno di noi ha una propria Babilonia interiore che, come afferma Olivi, deve essere bruciata e uccisa per poter cantare alleluia ed entrare alle nozze dell’Agnello (Ap 19, 10). Il Salmo 136, 1-4 – “Sui fiumi di Babilonia sedevamo piangendo, e ai salici sospendemmo le nostre cetre (“organa”) dicendo: come canteremo il cantico del Signore in una terra straniera?” – si incarna in Dante stesso, nel momento del rimprovero di Beatrice; la sua virtù è confusa come in Babilonia e la voce (il canto) si spegne prima di uscire “dai suoi organi” (Purg. XXXI, 7-9).
Da notare come gli stessi temi siano appropriati all’allontanarsi dei Domenicani dai precetti del fondatore quali pecore remote e vagabonde (Par. XI, 124-129 con l’accostamento: difformitas, semotissima, vagus [Ap 5, 1] – diversi, remote, vagabunde; nel canto precedente la rima vagheggia / vaneggia – vagus, evanescit [Ap 5, 1; cap. XI]).
Tab. II
Non ti dovea gravar le penne in giuso, / ad aspettar più colpo, o pargoletta / o altra novità con sì breve uso. / Novo augelletto due o tre aspetta; / ma dinanzi da li occhi d’i pennuti / rete si spiega indarno o si saetta (vv. 58-63). Come si afferma nella quarta e nell’ottava ratio al quesito posto ad Ap 6, 12, negli inizi del rinnovamento della vita evangelica per opera di san Francesco vennero seminati errori spirituali contro di essa, i quali necessitano di tempo per emettere spine perfette e per gettare fuori tutto il veleno. Come Erode uccise i bambini per uccidere Cristo, così nell’infanzia dell’Ordine francescano il nuovo Erode costituito dai dottori carnali condannò lo stato della mendicità evangelica uccidendo molti buoni e teneri concetti. In attesa del secondo Erode, è necessario istruire gli eletti contro gli errori e le insidie, perché queste, nella tentazione ventura, feriscano di meno.
In altro luogo, ad Ap 7, 3, Olivi parla dei semi di errori già piantati e radicati nella Chiesa, poiché quasi tutti i chierici e i regolari che possiedono qualcosa in comune sembrano non sentire nulla della rinuncia evangelica ai beni. Molti poi, pur optando per questa rinuncia – effettiva o apparente -, amano e stimano a tal punto la vita rilassata arrivando a sostenere che l’uso povero, o moderatamente ristretto, delle cose debba essere escluso dal voto di perfezione evangelica.
Beatrice, rimproverando Dante nell’Eden per essersi fatto subito attrarre dopo la sua morte dal desiderio di cose terrene “per lo primo strale / de le cose fallaci”, lo tratta come un fanciullo, più ingenuo di un “novo augelletto” che almeno aspetta due o tre colpi prima di diventare esperto dei pericoli: il poeta qui impersona, parodiandolo, il cammino di tirocinio dell’Ordine francescano che deve avvenire, almeno, in due o tre generazioni (quarta ratio ad Ap 6, 12), fino alla perfetta età virile, che è il momento in cui Dante inizia il viaggio. Così egli sta dinanzi alla donna muto e vergognoso, come un fanciullo nel pentimento, mentre Beatrice, nel chiedergli di alzare la barba, segno di virilità, usa un argomento ‘velenoso’ (Purg. XXXI, 49-75).
“Novo augelletto due o tre aspetta”, riferito a Dante, fanciullo immaturo e indisposto, trasforma “sub duabus vel tribus generationibus”, il tempo richiesto all’Ordine dei Minori per pervenire alla maturità cosicché i suoi membri da reclute inesperte divengano combattenti per la fede (Ap 6, 12); per questo due o tre è lezione preferibile a due e tre (prescelta da Inglese).
I temi del “mal seme” e dell’infanzia sono pure presenti nel canto precedente, appropriato l’uno al “buon vigore terrestro” delle doti del poeta, l’altro agli “occhi giovanetti” della donna, diventati dopo la morte men cari e men graditi, come gli avversari della povertà evangelica sentono meno la necessità della rinuncia ai beni mondani (Purg. XXX, 118-123, 127-129; Ap 7, 3). Sarà lo stesso Dante, ormai pienamente maturato, a chiedere a Cacciaguida di prepararlo alle insidie future, “ché saetta previsa vien più lenta” (Par. XVII, 27; Ap 6, 12: “ut in die temptationis minus feriantur et concutiantur a iaculis iam premissis”).
Come l’Italia, non disposta rispetto all’alto Arrigo, per cieca cupidigia si è resa simile “al fantolino / che muor per fame e caccia via la balia” (Par. XXX, 139-141), così Dante, rispetto a Beatrice, non ha aspettato la maturità per affrontare i pericoli e, fanciullo, ha smarrito “la diritta via”. Ma quali erano i pericoli ai quali allude Beatrice, incontrati allorché “di carne a spirto era salita”? Nei versi essi sono presentati in varie forme: “via non vera” (Purg. XXX, 130), “imagini di ben … false” (v. 131), “memorie triste” (Purg. XXXI, 11), “fossi attraversati”, “catene” (v. 25; Ap 6, 12: “errorum fundamenta et machinamenta”), “agevolezze”, “avanzi” (v. 28; Ap 7, 3: “videntur ambire prelationes ecclesie altas et opulentas”), “le presenti cose / col falso lor piacer” (vv. 34-35; cfr. supra), “cosa mortale” (v. 53), “cose fallaci” (v. 56), “o pargoletta / o altra novità con sì breve uso” (vv. 59-60; Ap 6, 12: il nuovo Erode, rappresentato dai dottori carnali, ha ucciso gli infanti, cioè i seguaci dell’evangelico usus pauper; ciò porta ad escludere la variante vanità, che esprime un concetto già insito nel “sì breve uso”) [6]. Questo non essere del tutto disposto, per il troppo riverire la sua donna, è ancora sottolineato da Beatrice a Purg. XXXIII, 19-21.
In vita Beatrice ha sostenuto Dante con lo sguardo (“mostrando li occhi giovanetti a lui”: Purg. XXX, 121-123; per sostenere cfr. Ap 2, 3 e 15, 1); il desiderio di lei, il piacere delle sue “belle membra” (come quelle della Chiesa, nel suo edenico principio: Ap 2, 1) sarebbe bastato a condurlo al bene, come Cristo conduce alle fonti della vita (XXXI, 22-24, 50; Ap 7, 17) [7]. Dopo la morte (“Sì tosto come in su la soglia fui / di mia seconda etade e mutai vita”: la mutazione per una vita migliore è l’effetto di un terremoto spirituale ad Ap 8, 5) “questi si tolse a me, e diessi altrui” (XXX, 124-126; il verbo togliere rinvia ad Ap 2, 5, passo soggetto a numerose variazioni).
La donna, nel rimproverare l’amico, fa la parodia dell’accusa che Olivi formula contro gli avversari, nell’Ordine francescano, dell’usus pauper: “Quando di carne a spirto era salita, / e bellezza e virtù cresciuta m’era, / fu’ io a lui men cara e men gradita” – “videntur minus bene sentire de evangelica abrenuntiatione huiuscemodi communium” (vv. 127-129; Ap 7, 3).
ch’io non levai al suo comando il mento; / e quando per la barba il viso chiese, / ben conobbi il velen de l’argomento (vv. 73-75). Lo stato dei martiri, il secondo dei sette nei quali si sviluppa la storia della Chiesa, corrisponde al secondo giorno della creazione, nel quale venne fatto in cielo, ovvero nella Chiesa celeste, il firmamento della pazienza e della costanza dei martiri per cui i desideri della vita superna furono divisi dai desideri della vita terrena, come le acque superiori da quelle inferiori; così nella seconda età del mondo l’arca di Noè fu levata sopra altissimi monti (prologo, Notabile XIII).
Nel secondo girone della montagna, segnato in prevalenza da temi del secondo stato della Chiesa, Virgilio si rivolge a “gente sicura” di vedere Dio (la seconda vittoria sta nell’essere ‘sicuri’ della vita eterna: Ap 2, 11), “l’alto lume / che ’l disio vostro solo ha in sua cura”, parole da porre in relazione, per contrasto, con gli “anxii fluctus curarum” contro i quali suona la seconda tromba (cap. XI; Purg. XIII, 85-87). Nel medesimo girone, il poeta pagano, spiegando una frase di Guido del Duca sul possesso dei beni terreni che generano invidia se posseduti in compagnia, afferma che questo timore non sussisterebbe “se l’amor de la spera supprema / torcesse in suso il disiderio vostro” (Purg. XV, 52-54), che è variazione del tema della separazione dei desideri proposto dal Notabile XIII. Levare “in sù” il mento, come fanno i ciechi aspettando le parole, oppure in procinto di parlare, è atteggiamento rispettivamente di Sapìa senese e di Guido del Duca e Rinieri da Calboli (Purg. XIII, 102; XIV, 9): corrisponde anch’esso al levarsi del desiderio e fa coincidere il “firmamento”, che divide le acque superiori da quelle inferiori, con il “mento”, che è parte del corpo che divide in su o in giù.
Levare il mento al comando di Beatrice è proprio di Dante, dopo il rimprovero di aver desiderato cose mortali e fallaci invece di levarsi in su dietro alla sua donna, salita di carne a spirito e cresciuta in bellezza e virtù (Purg. XXXI, 73; per le parole di Beatrice ai vv. 55-57: “Ben ti dovevi … levar suso / di retro a me”, parodia del potere di Cristo: “bene possum te a morte ad vitam eternam sublevare“, cfr. Ap 1, 18).
Di penter sì mi punse ivi l’ortica (v. 85). San Giovanni, esaminando Dante sulla carità, gli chiede se senta “altre corde” tirarlo verso Dio, cioè, come spiega il Buti, “altri movimenti che ti tirino ad amare Iddio, come la corda tira chi vi è legato” (Par. XXVI, 49-51). L’Apostolo ha già ascoltato come il poeta si senta tratto a Dio per gli argomenti della ragione umana (Aristotele) e per l’autorità della Scrittura che con essa concorda (Mosé e lo stesso Giovanni). Questa ulteriore domanda di Giovanni è tessuta anche con motivi che sorprendono per la loro apparente distanza. L’ottava proprietà delle locuste, che al suono della quinta tromba escono dal pozzo dell’abisso aperto e privo di freno, è di avere le code aculeate simili a quelle degli scorpioni (Ap 9, 5.10). La coda designa l’intenzione finale e occulta, la coda dello scorpione incurvata verso l’alto e davanti indica la velenosa e fraudolenta intenzione di pungere quasi per stimolare verso i beni superiori e che stanno innanzi agli altri. Gli aculei della coda delle locuste penetrano sottili e acuti nel cuore lasciando la puntura del peccato e il rimorso. Questi motivi, propri di una piaga apocalittica, sono variati nelle parole dell’Evangelista: “Ma dì ancor se tu senti altre corde / tirarti verso lui, sì che tu suone / con quanti denti questo amor ti morde” (denti e mordere, nonché suonare, sono proprietà delle locuste). A Dante “non fu latente la santa intenzione / de l’aguglia di Cristo”, cioè non fu occulta intenzione come quella velenosa delle locuste e lo stimolare verso l’alto non fu fraudolento ma chiaro nell’indicare il fine al quale desiderava condurre la risposta del poeta (Par. XXVI, 52-54). La quale riprende il tema del morso per dichiarare ciò che ha concorso a formare la carità, e si tratta di “tutti quei morsi / che posson far lo cor volgere a Dio” (vv. 55-57). Anche la definizione di san Giovanni come “aguglia di Cristo”, se secondo la lettera deriva dal simbolo dell’aquila che gli è proprio, per fonetica spirituale concorda con gli “aculei” delle locuste i quali, privati della loro malefica efficacia, indirizzano all’amore del sommo bene. Non è questo l’unico luogo del poema che trasforma in senso positivo un passo che nel testo dell’Apocalisse è appropriato a figure o a situazioni negative, e di ciò altrove si è trattato.
Quelle “altre corde” che tirano verso Dio (i “morsi” della carità), diverse dagli argomenti filosofici e dall’autorità della Scrittura, corrispondono al mancato tirarsi su verso Beatrice, la quale dopo morta non era più cosa fallace, e ciò di fatto costituisce l’oggetto dell’aspro rimprovero della donna nell’Eden: “qual cosa mortale / dovea poi trarre te nel suo disio?” (Purg. XXXI, 52-54). A lei, “pria … che discendesse al mondo” furono ordinate “per sue ancelle” le virtù cardinali (vv. 106-108), su cui si fonda la beatitudine terrena (quella che la Monarchia assegna alla guida dell’Imperatore per mezzo degli insegnamenti della filosofia, Mon. III, xv, 7-10), come i seniori (gli antichi padri che vennero prima di Cristo) sono, nell’esegesi della sede divina prima dell’apertura del libro, famuli ordinati alla difesa della Chiesa (Ap 4, 4). Lo stesso tema del pungitivo rimorso, negativo nelle locuste, esaltato nell’esame sulla carità di fronte a san Giovanni, percorre il tema del pentimento di Dante di fronte a Beatrice: “Di penter sì mi punse ivi l’ortica … Tanta riconoscenza il cor mi morse” (Purg. XXXI, 85-90). In simmetrica variazione sono le espressioni “di tutte altre cose qual mi torse / più nel suo amor”, di fronte alla donna non ancora svelata che “vincer pariemi più sé stessa antica” (vv. 83, 86-87), e “tratto m’hanno del mar de l’amor torto, / e del diritto m’han posto a la riva”, di fronte a san Giovanni (Par. XXVI, 62-63).
Tab. III
[1] G. CONTINI, Filologia ed esegesi dantesca (1965) in Un’idea di Dante. Saggi danteschi, Torino 1970 e 1976, p. 135.
[2] Cfr. le terzine di Inf. XXVI, 61-63 e Par. IX, 52-54, dove parole-chiave che rinviano all’esegesi di Ap 1, 7 (Piangevisi … ancor si duole, piangerà … ancora … sì che …) sono accompagnate, nel contesto, dal pronome atono riflessivo si, o dalla congiunzione sì che; il significato è diverso dalla locuzione affermativa sì, ma la funzione asseverativa, che accerta trattarsi di vero pianto o dolore, permane.
[3] Cfr. DANTE ALIGHIERI, La Divina Commedia, a cura di N. SAPEGNO, Milano-Napoli 1957, pp. 64-65, nt. a vv. 100-107.
[4] CONTINI, Filologia ed esegesi dantesca (cfr. nt. 1), p. 141.
[5] LSA, cap. XIX, Ap 19, 10: Nota quod, secundum morale misterium, meretrix Babilon est concupiscentia carnis vel mens pravis concupiscentiis a Deo aversa. Bestia vero, supra quam sedet [cfr. Ap 17, 3], est bestialis voluptas vel prava et bestialia obiecta concupiscentie prave, vel bestialis societas menti carnali subiecta et serviens. Septem autem capita bestie sunt septem genera principalium obiectorum concupiscentie prave, que distinguuntur secundum septem genera capitalium vitiorum. Nam unumquodque habet suum formale et proprium et principale obiectum. In sexta autem etate mortalis hominis, scilicet in senio, ceciderunt quinque reges, scilicet quinque sensus. Tunc tamen precipue regnat sextus, id est avaritia, quem secuturus est septimus, scilicet intolerabilis et desperatus timor et tristitia de mortis imminentia et de mundialis vite nimium dilecte deficientia [cfr. Ap 17, 9-10].
Decem autem reges et cornua meretricem cremantia [cfr. Ap 17, 16] sunt decem genera penarum infernalium, quarum quinque sunt sensibiles, secundum quinque sensus corporis quos affligunt, alia vero quinque sunt intellectualia.
Primum est certitudo interminabilis eternitatis pene.
Secundum est intimus sensus reprobative <despectionis> et ire et inimicitie Dei et omnium sanctorum ad dampnatos.
Tertium est corrosivus remorsus conscientie, quia ex culpa propria et pro complacentia vili et transitoria tantam penam promeruerunt et in tanta dampna et supplicia se precipitaverunt.
Quartum est tabescentia invidie dampnatorum ad beatos et ad gloriam eorum.
Quintum est crepatio importabilis impatientie in summas sui ipsius maledictiones et proprie adnichilationis exoptationes et in Dei et sanctorum et etiam omnium blasphemationes se incessabiliter eviscerantis.
Qui autem per horum decem compunctivam et contritivam considerationem in se ipso comburit et occidit prefatam meretricem et reddit ei duplicia secundum demerita eius (cfr. Ap 18, 6), iste cantat quater alleluia et intrat ad nuptias Agni.
[6] Della tematica relativa all’usus pauper partecipa la figura di Matelda.
[7] La stessa tematica, da Ap 3, 5, risuona diversamente nel rimprovero di Beatrice: “e se ’l sommo piacer sì ti fallio / per la mia morte, qual cosa mortale / dovea poi trarre te nel suo disio?” (Purg. XXXI, 52-54) e nelle parole di Brunetto Latini: «Ed elli a me: “Se tu segui tua stella, / non puoi fallire a glorïoso porto, / se ben m’accorsi ne la vita bella”» (Inf. XV, 55-57).
3. Matelda, sacerdotessa e avvocata
Varia come i rami da cui sceglie fior da fiore, Matelda contiene in sé tanta ricchezza di significati spirituali, tutti considerati nell’esame di Purg. XXVIII. Qui si menzionano solo quelli inerenti al canto XXXI.
■ Matelda, il cui nome fa segno del Salmo 92, 4, muove i passi nell’Eden, luogo di questo mondo segnato dai temi della Gerusalemme celeste e della sede divina. Si tratta di un luogo remoto, quieto e adatto alla contemplazione delle cose divine, libero da piaceri e da ricchezze carnali, come l’isola di Patmos da cui Giovanni scrive alle sette chiese d’Asia (Ap 1, 9). Patmos viene interpretata come “separazione dai nemici” (separati hostes) o “separazione dei blandimenti” (separatio palpantium), perché nella contemplazione vengono separati i nemici dello spirito e le lusinghe sensuali e carnali. Un’altra interpretazione è quella di “stretto di mare” (fretum) o “gorgo” (vorago). L’Asia stessa è interpretata come “gradiens” (Ap 1, 4), per cui alla donna si addice il tema del ‘muovere il passo’: è “una donna soletta che si gia” (Purg. XXVIII, 40), il poeta la invita ad avanzare (“vegnati in voglia di trarreti avanti”, v. 46), ella si volge verso di lui mettendo “piede innanzi piede” (v. 54), si muove lungo il Lete “come ninfe che si givan sole / per le salvatiche ombre” (XXIX, 4-5), Dante procede “pari di lei, / picciol passo con picciol seguitando” (vv. 8-9), è “conducitrice” dei passi del poeta lungo il fiume (XXXII, 83-84), nel trarlo in esso tirandoselo dietro “sen giva / sovresso l’acqua lieve come scola” (XXXI, 94-96), con Dante e Stazio segue la ruota destra del carro “passeggiando l’alta selva vòta” (XXXII, 28-33), conduce i due poeti a bere l’acqua di Eunoè (XXXIII, 127-129, 133-135).
È donna “soletta … ch’io avea trovata sola” (XXVIII, 40; XXXI, 92), si muove “come ninfe che si givan sole / per le salvatiche ombre” (XXIX, 4); ciò corrisponde alla solitudine degli anacoreti, ma in essa, al modo degli attivi del quarto stato della Chiesa, si prepara per levarsi più su, verso la contemplazione.
■ Il tema della bellezza, unito ad altri del quinto stato della Chiesa nel suo inizio, assimilato al bel principio (“principium pulchritudinis”, poi corrottosi) di Sardi, la quinta chiesa d’Asia (Ap 3, 1-5) – condiscendere, contemperare, esser mondo, il mirabile variare – percorre in Purg. XXVIII la descrizione dell’Eden in quanto luogo di felicità dell’umana radice da esso poi sbandita: la “divina foresta spessa e viva” che tempera agli occhi lo splendore del nuovo giorno, l’acqua monda del Lete, il mirabile variare dei “freschi mai”, cioè dei rami fioriti; l’apparizione della “bella donna”, il volgersi di Matelda come vergine che “avvalli” con condiscendenza gli occhi onesti. Ricordare ciò che venne ‘prima’, congiunto con il tema della bellezza degli inizi di uno stato poi corrottosi, si trasforma nel ricordo di quella che per i poeti antichi fu “l’età de l’oro e suo stato felice” (Purg. XXVIII, 139-144).
All’esegesi di Ap 3, 3 – ricordare, non sapere, udire, la bellezza – rinvia anche l’ufficio penitenziale svolto da Matelda, la quale trae Dante nel Lete affinché ne beva l’acqua: “Quando fui presso a la beata riva, / ‘Asperges me’ sì dolcemente udissi, / che nol so rimembrar, non ch’io lo scriva. / La bella donna ne le braccia aprissi; / abbracciommi la testa e mi sommerse / ove convenne ch’io l’acqua inghiottissi” (Purg. XXXI, 97-102). Il Salmo 50, 9, che si recitava quando il sacerdote spargeva l’acqua benedetta sul peccatore, è incastonato nei temi della prima grazia, che si rinnova bevendo nel luogo della primordiale bellezza. La funzione di Matelda è di giustificazione e redenzione; il Salmo 50, 9 – “Asparges me hysopo et mundabor; lavabis me et super nivem dealbabor” – rinvia infatti al quinto primato di Cristo in quanto uomo, per cui egli ci lava dai peccati:
[LSA, cap. I, Ap 1, 5 (septem notabiles primatus Christi secundum quod homo)] Quinto primatum nostre iustificationis et redemptionis, quam iustificationem tangit dicendo: “et lavit nos a peccatis nostris”; redemptionem vero cum subdit: “in sanguine suo”, id est in merito sue passionis et mortis cuius modum et speciem exprimit sanguis effusus. Servat autem methaforam leprosorum, qui per balneum sanguinis mundi et calidi expurgantur et sanantur. Premisit autem “qui dilexit nos”, ad monstrandum quod ipse nos redemit et lavit non ex sua necessitate vel utilitate, vel ex debito vel ex timore aut ex coactione, sed ex sua sola misericordia et gratuita caritate.
Le stesse parole con cui Matelda, che sta sopra Dante, lo invita ad abbracciarla – “Tiemmi, tiemmi!” (vv. 92-93) – sono parodia del verbo tenere proprio di Cristo che ha potestà sulle chiese (Ap 2, 1):
Ipse etiam est pius pastor eos protegens et custodiens, et pro eorum custodia eos semper tenens et visitans. Tertia est quia metropolitano episcopo et eius metropoli ceteras ecclesias sub se habenti hic loquitur, et ideo significat se habere potestatem et curam super omnes septem episcopos et eorum ecclesias. Tentio enim significat potestatem et perambulatio vero curam.
■ Ad Ap 8, 3, nell’esegesi della “radice” della terza visione, a Cristo, angelo che sta dinanzi all’altare, “furono dati molti incensi”, cioè molte orazioni a Dio piacenti. Gli vengono dati da quanti pregando commettono sé e i propri voti a lui come nostro mediatore e avvocato e gli chiedono di offrirli a Dio. Gli sono pure dati dal Padre, come detto in Giovanni 17, 6.11: “Erano tuoi e li hai dati a me. Padre santo, conserva nel tuo nome coloro che mi hai dato”. E nel Salmo 67, 19 si afferma: “Sei salito in alto e hai ricevuto uomini in dono”. Egli riceve in noi, che siamo le sue membra, i doni della grazia che ci vengono dati. “Gli furono dati molti incensi perché offrisse le preghiere di tutti i santi sull’altare d’oro, posto davanti al trono di Dio”, cioè per offrirle a Dio sopra i meriti derivanti dalla propria umanità, oppure sopra la basilare ara della divina verità e maestà.
Il tema di Cristo sacerdote e offerente è uno dei fili con cui è tessuta Matelda. Alla tela offerta dall’esegesi della radice della terza visione (Ap 8, 3) appartiene il pregare da parte di Dante la bella donna di trarsi innanzi verso il fiume in modo che possa intendere le parole del suo canto. Matelda accetta la preghiera del poeta e si dichiara in seguito pronta a rispondere a ogni domanda (Purg. XXVIII, 43-60, 82-84).
La “bella donna” offre Dante, “bagnato” dell’acqua del Lete, “dentro a la danza de le quattro belle” (Purg. XXXI, 103-105), cioè lo offre alle virtù cardinali che lo conducono agli occhi di Beatrice senza fargli però penetrare “nel giocondo lume ch’è dentro”. Si tratta delle virtù morali e intellettuali che regolano la felicità terrena (Monarchia, III, xv, 8) e che i ‘nuovi’ padri del Limbo, quelli che come Virgilio non potettero vestirsi delle virtù teologali, “sanza vizio / conobber … e seguir tutte quante” (Purg. VII, 34-36); corrispondono alle “quattro stelle / non viste mai fuor ch’a la prima gente” di Purg. I, 23-24, che fregiano di lume il volto del pagano Catone.
È “pia … conducitrice” dei passi di Dante (Purg. XXXII, 82-84): a lei, che sa come gli antichi poeti sognassero nel Parnaso “l’età de l’oro e suo stato felice”, che fu invece del paradiso terrestre (Purg. XXVIII, 139-141), sembra bene adattarsi la figura dei santi padri che precedettero e che giovano con la loro fede e i loro meriti perché, come riporta l’esegesi di Gioacchino da Fiore dell’“altare” di Ap 8, 3, Cristo nelle opere di pietà vuole avere consorti i santi padri. E di Cristo-Beatrice, di cui precede la venuta, Matelda è ministra. A Dante che prega Beatrice di spiegargli l’origine dell’acqua del Lete e dell’Eunoè che esce da un’unica fonte, la donna risponde di pregare Matelda (Purg. XXXIII, 118-119).
Matelda è figura del Cristo-uomo, del Figlio sacerdote e offerente al Padre, come avvocato, le preghiere altrui dinanzi all’altare. “Avvocato” è hapax nel poema, posto in bocca a Tommaso d’Aquino nel dire di “quello avvocato de’ tempi cristiani / del cui latino Augustin si provide” (Par. X, 118-120). La migliore candidatura per l’innominata sapiente luce è quella di Orosio, sostenuta dal Buti, per aver scritto gli Historiarum libri adversus paganos su preghiera di Agostino, affinché fossero di aiuto al De civitate Dei che questi stava componendo. La citazione di Giovanni 17, 6.11 – “Tui erant, et michi eos dedisti. Pater sancte, serva eos in nomine tuo, quos dedisti michi” – sembra perfettamente concordare con le parole dell’Ormista: “Nam cum subiectio mea praecepto paternitatis tuae factum debeat totumque tuum sit, quod ex te ad te redit, opus meum, hoc solo meo cumulatius reddidi, quod libens feci” (I, Prol., 25-30). Non sarà pertanto casuale che il nome “Matelda” sia posto sulla 40a terzina (Purg. XXXIII, 119), in piena simmetria nel numero del verso con “quello avvocato de’ tempi cristiani” (Orosio) di Par. X: entrambi infatti sono stati o vengono pregati da altri (da Agostino e da Dante).
4. Beatrice svelata
Indi mi tolse, e bagnato m’offerse / dentro a la danza de le quattro belle; / e ciascuna del braccio mi coperse. / “Noi siam qui ninfe e nel ciel siamo stelle; / pria che Beatrice discendesse al mondo, / fummo ordinate a lei per sue ancelle. / Merrenti a li occhi suoi; ma nel giocondo / lume ch’è dentro aguzzeranno i tuoi / le tre di là, che miran più profondo”. (vv. 103-111).
A Beatrice sono ordinate come “ancelle” le virtù cardinali, su cui si fonda la beatitudine terrena, come i seniori che circondano il trono divino sono “famuli” ordinati alla difesa della Chiesa (Purg. XXXI, 106-108; Ap 4, 4). Il tema delle tribù (Romolo divise Roma in tre di esse), da Ap 5, 9, è invece appropriato alle tre virtù teologali che nell’Eden chiedono a Beatrice la grazia di svelare al suo fedele la bocca, mostrandosi “di più alto tribo”, cioè dotate di maggiore elevatezza negli atti rispetto al gruppo delle quattro virtù cardinali (vv. 130-132).
“Belle … stelle” – figura parziale delle sette stelle date a Sardi, la quinta chiesa d’Asia, nel suo bel principio – sono le quattro virtù cardinali che nell’Eden conducono il poeta agli occhi di Beatrice, nei quali però potrà vedere solo per intervento delle tre virtù teologali, “che miran più profondo” (Purg. XXXI, 103-111; Ap 3, 1). In apertura della seconda cantica, il poeta ha ‘posto mente’ al polo antartico, e vede “quattro stelle / non viste mai fuor ch’a la prima gente” (le quattro virtù cardinali, Purg. I, 22-24; le tre teologali, anch’esse stelle, saliranno al posto delle prime a Purg. VIII, 89-93): nei versi è presente il tema del ripensare a un ‘prima’ (la prima grazia) secondo l’invito fatto al vescovo di Sardi (Ap 3, 3).
Disser: “Fa che le viste non risparmi; / posto t’avem dinanzi a li smeraldi / ond’ Amor già ti trasse le sue armi” (vv. 115-117). Di smeraldo sembrano fatte le carni e le ossa della speranza, seconda delle tre donne che vengono danzando dalla destra ruota del carro e che simboleggiano le virtù teologali (Purg. XXIX, 124-125). “Li smeraldi / ond’ Amor già ti trasse le sue armi” sono gli occhi di Beatrice, ai quali viene condotto il poeta dalle quattro virtù cardinali (Purg. XXXI, 115-117). In questo caso il significato dello smeraldo proprio dell’iride che circonda la sede divina (sazia lo sguardo con il grazioso verdeggiare) cede ai motivi che appartengono al diaspro, sia ad Ap 4, 3 (riferiti a colui che siede) come nei passi simmetrici ad Ap 21, 11-12 (riferiti al lume della Gerusalemme celeste descritta nella settima visione). Il diaspro incorpora in modo fermo e incancellabile, al modo di uno specchio, la luce, come la città celeste e i cuori dei beati incorporano la luce che è gloriosa forma e immagine di Dio (Ap 21, 11). Così gli “occhi rilucenti” di Beatrice stanno saldi sul grifone-Cristo che li irradia e lo riflettono “come in lo specchio il sol” (Purg. XXXI, 119-123; cfr. Ap 1, 16). Il diaspro sta a indicare la solida virtù dei santi che difendono la Chiesa contro i nemici (sono il muro della città celeste, Ap 21, 12), ed è a questo tipo di armi, promotrici di virtù, che alludono gli strali di Amore.
Mille disiri più che fiamma caldi / strinsermi li occhi a li occhi rilucenti, / che pur sopra ’l grifone stavan saldi (vv. 118-120). “Poi venne un altro angelo e stette davanti all’altare, con in mano un turibolo d’oro” (Ap 8, 3). L’angelo che offre a Dio Padre l’incenso e il sacrificio di tutti i santi è Cristo grande sacerdote e pontefice, che per la natura divina e la singolare grazia di santità, dignità e autorità è di gran lunga “altro” dai sette angeli tubicinanti, che designano i dottori propri della terza visione (della quale i versetti di Ap 8, 3-6 costituiscono la parte radicale o proemiale). “Venne” assumendo la natura umana e mortale, “e stette davanti all’altare”, cioè davanti alla curia o alla gerarchia celeste. Come si afferma nella Lettera agli Ebrei (2, 7; cfr. Salmo 8, 6), “fu fatto di poco inferiore agli angeli” e per questo, nella passibilità della sua carne, li ebbe quasi davanti a sé. Secondo Riccardo di San Vittore, l’altare è l’umanità di Cristo sulla quale vengono offerti i nostri voti e sacrifici e divengono accetti a Dio; è l’altare dell’umile carne di Cristo, del quale Dio dice a Mosè: “farete per me un altare di terra” (Esodo 20, 24). “Stare” è anche proprio della natura divina di Cristo, che permane in modo immutabile dinanzi all’altare della sua umanità, precedendola e superandola in sublimità. Appartiene anche alla sua ferma, stabile e immutabile giustizia (Ap 4, 3).
Beatrice, al suo apparire nel paradiso terrestre, si presenta inizialmente regale e proterva, cioè rigida nella sua giustizia verso l’amico peccatore, “pur ferma … stando” sulla sponda sinistra del carro, che in questo caso rappresenta l’altare (Purg. XXX, 100-101), dalla quale pronuncia le sue accuse (ma intervengono gli angeli – “sustanze pie”). Dopo l’immersione nel Lete e l’‘offerta’ da parte di Matelda “dentro a la danza de le quattro belle”, da queste Dante viene condotto alla sua donna, che “stava” al petto del grifone (la parte leonina che designa Cristo in quanto uomo), volta verso il poeta e le quattro virtù cardinali (Purg. XXXI, 112-114). Gli occhi di Beatrice “pur sopra ’l grifone stavan saldi”, e il grifone stesso, pur nel suo trasmutare le due nature, la divina e l’umana, è cosa che il poeta vede “in sé star queta”, cioè ferma (vv. 119-120, 125-126). La Beatrice umana, conosciuta in vita da Dante, si perde; in essa penetra l’aspetto divino, per cui “vincer pariemi più sé stessa antica” (v. 83).
Come in lo specchio il sol, non altrimenti / la doppia fiera dentro vi raggiava, / or con altri, or con altri reggimenti. / Pensa, lettor, s’io mi maravigliava, / quando vedea la cosa in sé star queta, / e ne l’idolo suo si trasmutava (vv. 121-126). L’intimo mutarsi, che per Olivi fa segno della vera visione di Cristo trasfigurato nel sole (Ap 1, 16-17), è proprio di Beatrice nell’Eden, nei cui occhi il grifone-Cristo, che pur sta fermo (nella sua unità e semplicità), raggia la sua immagine (il suo “idolo”) “come in lo specchio il sol (et facies eius sicut sol … debet preclarius radiare) … or con altri, or con altri reggimenti”, cioè come duplice natura, umana-leone e divina-aquila [1].
“Pensa, lettor, s’io mi maravigliava” (v. 124). L’appello al lettore, congiunto col meravigliarsi, rinvia alla visione della Gerusalemme celeste, nella quale appaiono molte cose mostruose e inconsuete che si mescolano con quelle consuete, e ciò serve a elevare il contemplante o il lettore in uno stato di stupore (Ap 21, 17). I temi vengono variati in più luoghi del poema. A Purg. IX, 70-72, il poeta avvisa il lettore di non meravigliarsi se, con l’elevarsi della materia trattata, egli rafforza lo stile con più arte. Da menzionare, nella medesima cantica, Purg. XV, 10-15 (lo stupore per l’inusitato splendore dell’angelo e il levare le mani per farsi il “solecchio”) e XXVI, 67-69 (lo stupore del montanaro “quando rozzo e salvatico s’inurba”). Poi un altro appello al lettore circa la meraviglia e lo stupore nel vedere il grifone (la doppia fiera) raggiare negli occhi di Beatrice, “or con altri, or con altri reggimenti” (Purg. XXXI, 121-127): come nelle visioni si possono vedere cose che nella realtà non possono stare insieme, così il grifone-Cristo trasmuta negli occhi della donna le due nature (come possano stare unite verrà rivelato al poeta soltanto alla fine del viaggio). Similmente nell’incontro con san Bernardo: “Uno intendëa, e altro mi rispuose” (Par. XXXI, 58-60).
L’inciso “potest una vice videri unum et alia vice aliud, quod secundum rem non potest simul esse cum primo” rende preferibile la lezione “or con uno, or con altri” al latinismo “or con altri, or con altri”, scelta questa di Petrocchi e Inglese (cfr. Par. XXXI, 58: “Uno intendëa, e altro mi rispuose”).
Ancora, questi temi si rinvengono nei versi che precedono la prima mostruosa trasformazione dei ladri, in cui il poeta si rivolge al lettore ribadendo il proprio stupore per quanto vide una volta “levate … le ciglia” (Inf. XXV, 46-49). Oppure nell’appello al lettore a rivolgere con lui la vista “a l’alte rote” (Par. X, 7-9), o nell’incontro con Adamo (Par. XXVI, 85-90).
“Volgi, Beatrice, volgi li occhi santi”, / era la sua canzone, “al tuo fedele / che, per vederti, ha mossi passi tanti!” (vv. 133-135). Il motivo dell’apparente inimicizia – la sesta causa per cui la prudenza umana tiene chiuso il libro segnato da sette sigilli (ad Ap 5, 1) – è nel ripensare del poeta al parlare di Farinata che, nel preannunziargli l’esilio, “mi parea nemico” (Inf. X, 121-123). Così il tanto patire voluto da Dio nei confronti del Figlio – “velit suum unigenitum tanta pati” – è nella preghiera delle tre virtù teologali a Beatrice perché sveli la sua bocca volgendo gli occhi santi al suo fedele che, per vederla, “ha mossi passi tanti”: il ‘passo’, qui come spesso altrove nel poema, assume valore di patimento e di prova.
Per grazia fa noi grazia che disvele / a lui la bocca tua, sì che discerna / la seconda bellezza che tu cele (vv. 136-138). “Apocalisse”, rivelazione dell’arcano per grazia, è il disvelarsi della bocca velata di Beatrice alla preghiera delle tre virtù teologali. Ed è rivelazione non interpretata, poiché quale poeta, quand’anche fattosi pallido nello studio della poesia o abbeveratosi alla fonte di Parnaso, sarebbe capace di renderla? (vv. 139-145).
O isplendor di viva luce etterna, / chi palido si fece sotto l’ombra / sì di Parnaso, o bevve in sua cisterna, / che non paresse aver la mente ingombra, / tentando a render te qual tu paresti / là dove armonizzando il cielt’adombra, / quando ne l’aere aperto ti solvesti? (vv. 139-145). I versi finali variano i temi presenti nell’esegesi di Ap 22, 1-2, dove è descritto il fiume luminoso che scorre nel mezzo della Gerusalemme celeste. È lo stesso Spirito Santo, ovvero la gloria che da Dio affluisce sui beati: fiume di acqua viva, o di vita eterna, da cui deriva tutta la sostanza della Trinità. Fiume di splendore e luce per sapienza, che ha due rive o due parti (destra e sinistra, superiore e inferiore), designanti le due nature, divina e umana, di Cristo-lignum vitae che dà perpetui frutti. Il lignum vitae, l’albero che sta nel mezzo, con le sue foglie getta un’ombra sacramentale, di verità superiori, su entrambe le rive, l’umana e la divina, perché non solo il cielo, ma anche la terra è ripiena della gloria di Dio.
L’esegesi di Ap 22, 1-2 offre una ricchezza tematica riaffiorante in numerosi luoghi della Commedia. Se riferita al fiume, l’esegesi conduce ai due fiumi dell’Eden (il Lete e l’Eunoè) che si dipartono da un’unica fontana, e al fiume di luce dell’Empireo.
Nel suo svelarsi, Beatrice è “isplendor di viva luce etterna” che sta fra cielo e terra, “là dove armonizzando il ciel t’adombra”. Per lei non si parla di ‘fiume’ o di ‘acqua’, ma assume alcune fondamentali prerogative di Cristo centro della Gerusalemme celeste, della sua irrigazione e dunque della storia umana.
Dicit autem “fluvium” propter copiositatem et continuitatem, et “aque” quia refrigerat et lavat et reficit, et “vive” quia, secundum Ricardum, numquam deficit sed semper fluit. Quidam habent “vite”, quia vere est vite eterne. Dicit etiam “splendidum tamquam cristallum”, quia in eo est lux omnis et summe sapientie, et summa soliditas et perspicuitas quasi cristalli solidi et transparentis.
Se si rimane nel tema delle due rive del fiume, una riferita all’umanità di Cristo, l’altra alla sua divinità, allora delle due bellezze di Beatrice – gli occhi, a cui Dante viene guidato dalle virtù cardinali, e la bocca, che gli viene svelata per grazia richiesta dalle virtù teologali – la prima corrisponde alla riva inferiore, la seconda a quella suprema. Il motivo dell’adombrare è presente due volte. Una prima volta è “l’ombra … di Parnaso”, cioè della poesia incapace di rendere lo splendore del riso della donna, per quanto “palido” si sia fatto il poeta nello studio (cfr. Ap 6, 8). I versi, voce che passa transitoria come le foglie (“quoad vocem transitoria sunt”), adombrano, come i sacramenti, la vera grazia. Una seconda volta è l’armonia tra cielo e terra che “adombra” lo splendore: “là dove armonizzando il ciel t’adombra”. Sia il cielo che la terra (dove è collocato l’Eden) sono pieni della gloria di Dio, si legge nell’esegesi oliviana, e su entrambe le rive le foglie fanno ombra; là Cristo si mostra visibile secondo il corpo sulla riva inferiore e secondo l’anima e la divinità sulla riva superiore.
La donna ha anche nelle sue vesti una zona superiore (il velo candido, “sopra” il quale è “cinta d’uliva”) e una inferiore (“sotto verde manto”), cioè la veste rossa, indelebile memoria dell’umana Beatrice descritta con “vestimenta sanguigne” nella Vita Nova (1. 4, 15; 28. 1 [II 3; III 4; XXXIX 1]; Purg. XXX, 31-33).
“Quando ne l’aere aperto ti solvesti” (v. 145). L’ultimo verso rinvia alla decima perfezione di Cristo in quanto sommo pastore (prima visione), consistente nell’incomprensibile gloria che gli deriva dalla chiarezza e dalla virtù, per cui si dice: “e la sua faccia riluce come il sole in tutta la sua virtù” (Ap 1, 16). Il sole riluce in tutta la sua virtù nel mezzogiorno, quando l’aere è sereno, fugata ogni nebbia o vapore grosso. Allora il viso corporeo di Cristo ha incomparabilmente più luce e vigore, e ciò designa l’ineffabile chiarezza e virtù della sua divinità e della sua mente. Lo splendore del volto indica l’aperta e fulgida conoscenza della Sacra Scrittura, che deve raggiare in modo più chiaro nel sesto stato, prefigurata dalla trasfigurazione sul monte avvenuta dopo sei giorni e designata dall’angelo che, al suono della sesta tromba, ha la faccia come il sole (cfr. Ap 10, 1).
I temi da Ap 1, 16-17 (decima e undecima perfezione di Cristo come sommo pastore) e Ap 22, 1 (il fiume luminoso) sono già stati variati congiuntamente per descrivere il riflettersi del grifone-Cristo negli occhi di Beatrice (Purg. XXXI, 121-126). Nell’Eden, che sta in terra, Beatrice è “luce” e “gloria de la gente umana” (Purg. XXXIII, 115), prerogative del sommo pastore nella sua decima perfezione. I temi saranno compiutamente appropriati nell’ottavo cielo a Cristo e al riso di Beatrice (Par. XXIII, 25-72).
[1] Il tema del valore incomparabile ottenuto in cambio di un solo denaro e di una fede unica e semplice (Ap 5, 1) viene utilizzato dal poeta per esprimere l’avvalorarsi della propria vista che, nella visione finale della Trinità e dell’Incarnazione, subiva crescenti mutazioni di aspetti pur rimanendo la luce divina, oggetto della contemplazione, “un semplice sembiante” e “una sola parvenza” (Par. XXXIII, 109-114). Il valore senza prezzo, nell’esegesi oliviana, è contrapposto all’apparente stoltezza per cui Cristo si è fatto uomo.
AVVERTENZE
■ Seppure segue l’ordine dei ventidue capitoli dell’Apocalisse, Olivi suggerisce, nel prologo della Lectura, un metodo differente di comprensione e di aggregazione del testo, fondato sui sette stati (status), cioè sulle epoche nelle quali si articola la storia della Chiesa, prefigurate nell’Antico Testamento.
L’Apocalisse si articola in sette visioni: le sette chiese d’Asia, i sette sigilli, le sette trombe, la donna vestita di sole (le sette guerre sostenute dalla Chiesa), le sette coppe, il giudizio di Babylon nelle sette teste del drago, la Gerusalemme celeste. Le prime sei visioni possono essere a loro volta divise in sette momenti, ciascuno dei quali riferibile a uno dei sette stati. Assembrando, per le prime sei visioni, tutti i primi elementi (chiesa, sigillo, tromba, guerra, coppa, momento del giudizio di Babylon), tutti i secondi, i terzi e così di seguito, si ottengono sette gruppi di materia teologica, corrispondenti al complesso dei temi afferenti a ciascuno dei sette stati. A questi sette gruppi si aggiungono altri due: l’esegesi della settima visione (senza articolazioni interne) e l’esegesi di capitoli del testo scritturale, o di parti di essi, introduttivi delle successive specificazioni delle singole visioni per settenari, che Olivi definisce “radicalia” o “fontalia”. Si ottengono in tal modo nove gruppi: le parti proemiali, i sette assembramenti di settenari e la settima visione. Il grande prologo della Lectura, articolato in tredici notabilia, può essere anch’esso aggregato secondo i sette stati. Un libro (la Lectura) contiene dunque princìpi e criteri affinché l’accorto lettore possa trarne un altro libro, fatto con lo stesso materiale ma ricomposto e distribuito in forma diversa.
■ La Commedia mostra un ordine interno diverso da quello che appare al lettore: il viaggio di Dante ha un andamento di ciclici settenari, che corrispondono ai sette stati della storia della Chiesa, cioè alle categorie con cui Olivi organizza la materia esegetica. Questo ordine interno è registrabile per zone progressive del poema dove prevale, tramite parole-chiave, la semantica riferibile a un singolo stato. È un’intima struttura dirompente i confini letterali stabiliti dai canti e da tutte le divisioni materiali per cerchi, gironi, cieli. Ogni stato, che ha differenti inizi, è concatenato per concurrentia, come le maglie di un’armatura, con quello che precede e con quello che segue. Si possono in tal modo redigere mappe che comprendano l’ordine spirituale della Commedia. La ricerca è pervenuta a una Topografia spirituale della Commedia, dove quasi per ogni verso, o gruppo di versi, collegamenti ipertestuali conducono al “panno” esegetico fornito dalla Lectura super Apocalipsim, sul quale il “buon sartore” ha fatto “la gonna” (cfr. Par. XXXII, 139-141).
■ A ogni gruppo è arbitrariamente assegnato un diverso colore: Radici (verde), I stato (verde acqua), II stato (rosso), III stato (nero), IV stato (viola), V stato (marrone), VI stato (blu), VII stato (indaco), VII visione (fucsia). Dei gruppi sono stati integralmente studiati il terzo stato e la settima visione. Rispetto alla tabella complessiva contenente i collegamenti ipertestuali, nelle sinossi i colori possono essere variati per maggiore evidenza.
■ Non di rado nei versi alcune parole o incisi-chiave possono rinviare a più luoghi esegetici. Questo perché il testo dottrinale contenuto nella Lectura, prima di travasarsi semanticamente nella Commedia, è stato sottoposto a una duplice riorganizzazione. La prima, sulla base delle indicazioni dello stesso Olivi, secondo il materiale esegetico attribuibile ai singoli stati. La seconda, seguendo il principio applicato nelle distinctiones ad uso dei predicatori, sulla base di lemmi analogicamente collazionati. La “mutua collatio” di parti della Lectura arricchisce il significato legato alle parole e consente uno sviluppo tematico amplificato. Si vedano, ad esempio, le variazioni eseguite sul tema della “voce” o sull’espressione “in medio”, temi più volte iterati nel sacro testo, oppure il modo con cui Ap 1, 16-17 (l’esegesi della decima e undecima prefezione di Cristo come sommo pastore) percorre i versi in collazione con altri passi. A ciò predispone lo stesso testo scritturale, poiché l’Apocalisse contiene espressioni, come Leitmotive, che ritornano più volte. È determinata da parole-chiave che collegano i passi da collazionare. È suggerita dallo stesso Olivi, nel prologo, per una migliore intelligenza del testo.
■Tutte le citazioni della Lectura super Apocalipsim presenti nei saggi o negli articoli pubblicati su questo sito sono tratte dalla trascrizione, corredata di note e indici, del ms. Paris, Bibliothèque nationale de France, lat. 713, a disposizione fin dal 2009 sul sito medesimo. I passi scritturali ai quali si riferisce l’esegesi sono in tondo compresi tra “ ”; per le fonti diverse da quelle indicate si rinvia all’edizione in rete. Non viene presa in considerazione l’edizione critica a cura di WARREN LEWIS (Franciscan Institute Publications, St. Bonaventure – New York, 2015) per le problematiche da essa poste, che sono discusse in ALBERTO FORNI – PAOLO VIAN, A proposito dell’edizione di Warren Lewis della Lectura super Apocalipsim di Pietro di Giovanni Olivi. Alcune osservazioni, in “Archivum Franciscanum Historicum”, 109 (2016), pp. 99-161.
Il testo della Commedia citato è in Dante Alighieri, La Commedia secondo l’antica vulgata, a cura di GIORGIO PETROCCHI, Firenze 1994. Si tiene anche conto della recente edizione a cura di GIORGIO INGLESE, Firenze 2021 (Società Dantesca Italiana. Edizione Nazionale), qualora il testo proposto si discosti da quello del Petrocchi e la scelta della variante risulti discutibile nel confronto con la LSA.
ABBREVIAZIONI
Ap: APOCALYPSIS IOHANNIS.
LSA: PIETRO DI GIOVANNI OLIVI, Lectura super Apocalipsim.
Concordia: JOACHIM VON FIORE, Concordia Novi ac Veteris Testamenti. Herausgegeben von A. PATSCHOVSKY, Wiesbaden 2017 (Monumenta Germaniae Historica. Quellen zur Geistesgeschichte des Mittelalters, 28. Band), Teil 2 (lib. I-IV), Teil 3 (lib. V).
Expositio: GIOACCHINO DA FIORE, Expositio in Apocalypsim, in Edibus Francisci Bindoni ac Maphei Pasini, Venetiis 1527, ristampa anastatica Minerva, Frankfurt a. M. 1964.
Olivi opera spesso una sintesi del testo di Gioacchino da Fiore. Le « » precedono e chiudono un’effettiva citazione. Diversamente, viene posto un asterisco (*) o una nota in apice al termine della parte riferibile a Gioacchino.
In Ap: RICCARDO DI SAN VITTORE, In Apocalypsim libri septem, PL 196, coll. 683-888.
Note sulla “topografia spirituale” della Commedia
Per quanto segua l’ordine dei ventidue capitoli dell’Apocalisse, Olivi suggerisce un metodo differente di comprensione e di aggregazione del testo esegetico, fondato sui sette stati, cioè sui periodi nei quali si articola la storia della Chiesa. L’Antico Testamento corrisponde alle prime cinque età del mondo, secondo la divisione tradizionale [1]: è l’età del Padre secondo Gioacchino da Fiore. Con il primo avvento di Cristo, nella carne, inizia la sesta età (l’età del Figlio), nella quale la Chiesa, come fosse un individuo, cresce e si sviluppa in sette stati. Al primo, apostolico periodo, succede il secondo dei martiri; poi, al tempo di Giustiniano, il terzo stato dei dottori che confutano con l’intelletto le eresie concorre con il quarto stato degli affettuosi anacoreti devoti al pasto eucaristico, alti per la contemplazione ma anche attivi come reggitori delle genti; a partire da Carlo Magno subentra il quinto stato aperto alla vita associata delle moltitudini, bello nel principio ma poi corrottosi fino a trasformare quasi tutta la Chiesa in una nuova Babilonia; la riforma interviene, a partire da Francesco, con il cristiforme sesto stato, fino alla sconfitta dell’Anticristo; subentra infine il silenzio e la quiete del pacifico settimo stato. Il sesto e il settimo stato (la terza età di Gioacchino da Fiore) coincidono con il secondo avvento di Cristo, nello Spirito, cioè nei suoi discepoli spirituali inviati a convertire il mondo con la predicazione; al termine del settimo stato ci sarà il terzo avvento, nel giudizio.
L’Apocalisse si articola in sette visioni: le sette chiese d’Asia, i sette sigilli, le sette trombe, la donna vestita di sole (le sette guerre sostenute dalla Chiesa), le sette coppe, il giudizio di Babylon nelle sette teste del drago, la Gerusalemme celeste. Le prime sei visioni possono essere a loro volta divise in sette momenti, ciascuno dei quali riferibile a uno dei sette stati. Assembrando, per le prime sei visioni, tutti i primi elementi (chiesa, sigillo, tromba, guerra, coppa, momento del giudizio di Babylon), tutti i secondi, i terzi e così di seguito, si ottengono sette gruppi di materia teologica, corrispondenti al complesso dei temi afferenti a ciascuno dei sette stati [2]. A questi sette gruppi se ne aggiungono altri due: l’esegesi della settima visione (senza articolazioni interne) e l’esegesi di capitoli del testo scritturale, o di parti di essi, introduttivi delle successive specificazioni delle singole visioni per settenari, che Olivi definisce “radicalia” o “fontalia”. Si ottengono in tal modo nove gruppi: le parti proemiali, i sette assembramenti di settenari e la settima visione. Il grande prologo della Lectura, articolato in tredici notabilia, può essere anch’esso aggregato nelle sue parti secondo i sette stati.
L’intenso travaso di parole-temi dalla Lectura nella Commedia si accompagna a un fatto strutturale. La Commedia mostra un ordine interno diverso da quello che appare al lettore: il viaggio di Dante ha un andamento di ciclici settenari, che corrispondono ai sette stati oliviani. È un ordine registrabile per zone progressive del poema dove prevalgono i temi di un singolo stato, che rompe i confini letterali stabiliti dai canti e da tutte le divisioni materiali per cerchi, gironi, cieli. Ogni stato, che ha differenti inizi, è concatenato per “concurrentia”, come le maglie di un’armatura, con quello che precede e con quello che segue. Ciascuno stato ha in sé una grande ricchezza di motivi e contiene inoltre temi di tutti gli altri, consentendo innumerevoli intrecci e variazioni. La Commedia appare, come l’Apocalisse, “libro scritto dentro e fuori” (Ap 5, 1), con duplice struttura, linguaggio e senso, letterale e spirituale. Il viaggio di Dante e la visione di Giovanni hanno la stessa causa finale, che è la beatitudine, alla quale si perviene con diverse guide, per gradi segnati da visioni sempre più nuove e ardue delle precedenti, attraverso una sempre maggiore apertura dell’arcano coperto dal velame dei sette sigilli fino al punto più alto in cui, in questa vita, è possibile vedere la verità.
Tutti i modi del linguaggio interiore al poema esprimono un processo, un viaggio dal più chiuso al più aperto, e in questo andare hanno una loro precisa collocazione ‘topografica’, uno ‘stato’ (nel senso di momento storico che ricade sulla coscienza individuale) al quale appartenere. Si possono in tal modo stendere vere e proprie mappe tematiche che comprendano l’ordine spirituale di tutta la Commedia che aderisce, parodiandola semanticamente, a una precisa teologia della storia, sia pure modificandone profondamente le prospettive. La ciclicità dei temi permette di stabilire collegamenti inusitati tra le diverse zone; il procedere per gradi dell’illuminazione divina fa sì che episodi oscuri e quasi ermeticamente chiusi si chiariscano poi, aprendosi all’intelligenza in modo più alto.
A ogni gruppo è arbitrariamente assegnato un diverso colore: Radici (verde), I stato (verde acqua), II stato (rosso), III stato (nero), IV stato (viola), V stato (marrone), VI stato (blu), VII stato (indaco), VII visione (fucsia). Dei gruppi sono stati integralmente studiati il terzo stato e la settima visione.
INFERNO
(le prime cinque età del mondo)
La ‘topografia spirituale’ del poema mostra nell’Inferno cinque cicli settenari corrispondenti agli stati della Chiesa descritti da Olivi e ai loro temi contenuti nella Lectura. Questi cinque cicli designano le prime cinque età del mondo (riunite a loro volta nel primo stato generale, che corrisponde all’età del Padre di Gioacchino da Fiore), in quanto prefigurazione del primo avvento di Cristo e della Chiesa.
I cinque cicli settenari che si susseguono nell’Inferno a partire dal quarto canto (i primi tre canti hanno una tematica particolare) sono preceduti da cinque zone che possono essere definite ‘snodi’, dove cioè confluiscono temi provenienti da più stati, intrecciati insieme ad altri ad avviare il procedere settenario. Il centro di questi ‘snodi’ coincide con un canto (Inf. IV, X, XVII, XXVI, XXXII), ma la zona è più vasta e supera l’ambito dato dalla divisione letterale del poema.
Inf. I-III sono da considerare al di fuori dei cicli. Inf. I e II sono profondamente segnati dai temi del sesto stato. Inf. III è riferibile al settimo stato (per gli ignavi) e in parte al quinto (per l’episodio di Caronte). |
|||
canti |
I ciclo |
stati |
cerchi |
IV |
Limbo |
Radici, I (I snodo) |
I |
V |
lussuriosi |
II |
II |
VI |
golosi |
III |
III |
VII |
avari e prodighipalude Stigia
|
III–IV
V |
IV
|
VIII |
palude Stigia (orgogliosi)
|
V |
V |
IX |
apertura della porta di Dite |
V–VI |
|
canti |
II ciclo |
stati |
cerchi |
IX-X-XI |
eretici, ordinamento dell’inferno |
I (II snodo) |
VI |
XII |
violenti contro il prossimo |
II |
VII (girone 1) |
XIII |
violenti contro sé |
III |
(girone 2) |
XIV |
violenti contro Dio: bestemmiatori |
IV |
(girone 3) |
XV-XVI |
violenti contro Dio: sodomiti |
V |
|
XVIXVII |
ascesa di GerioneGerione, violenti contro Dio: usurai |
VI |
canti |
III ciclo |
stati |
cerchi |
XVII |
volo verso Malebolge |
I (III snodo) |
|
XVIII |
ruffiani, lusingatori |
Radici – II |
VIII (bolgia 1, 2) |
XIX |
simoniaci |
III |
(bolgia 3) |
XX |
indovini |
IV |
(bolgia 4) |
XXI-XXII |
barattieri |
V |
(bolgia 5) |
XXIII |
ipocriti |
V–VI |
(bolgia 6) |
XXIV-XXV |
ladri |
VI |
(bolgia 7) |
canti |
IV ciclo |
stati |
cerchi |
XXVI |
consiglieri di frode (greci) |
I (IV snodo) |
(bolgia 8) |
XXVII |
consiglieri di frode (latini) |
II |
|
XXVIII-XXIX |
seminatori di scandalo e di scisma |
III |
(bolgia 9) |
XXIX |
falsatori |
IV |
(bolgia 10) |
XXX |
falsatori |
IV–V |
|
XXXI |
giganti |
V–VI |
|
canti |
V ciclo |
stati |
cerchi |
XXXII |
Cocito: Caina, Antenora |
I (V snodo) |
IX |
XXXIII |
Antenora, Tolomea |
II |
|
XXXIV |
Giudecca |
III–IV–V |
|
XXXIV |
volgersi di Virgilio sull’anca di Lucifero |
VI |
|
Il sesto stato è per Olivi la fase più importante nella costruzione dell’edificio della Chiesa. In esso “renovabitur Christi lex et vita et crux”. Corrisponde ai tempi moderni. Ha quattro diversi inizi temporali: uno profetico, con Gioacchino da Fiore, il quale lo vide in spirito concependo la sua terza età; il secondo con la conversione di Francesco (1206), che seminò la pianta; il terzo con la predicazione degli uomini spirituali, per la quale la pianta si rinnovella; il quarto con la distruzione storica di Babylon. Dura fino alla sconfitta dell’Anticristo, il cui avvento si collocherebbe, secondo i numeri della profezia di Daniele 12, 11-12 combinati con Ap 12, 6 e 14, fra il 1290 e il giubileo di pace del 1335.
Una ‘vita nuova’ si instaura nel sesto stato, per eccellenza il momento dell’imitazione di Cristo. I rami dell’albero si dilatano producendo il frutto della carità, l’acqua che proviene da Cristo-fonte attraverso il condotto che percorre i primi cinque stati della Chiesa si effonde in un lago; è il tempo, assimilato al sacramento del matrimonio, della letizia nuziale, della familiarità, dell’amicizia. Corrisponde al sesto giorno della creazione, in cui vennero creati prima i rettili e le bestie irrazionali, poi l’uomo razionale che, come l’ordine evangelico, è fatto a immagine e somiglianza di Dio e domina tutti gli animali.
Le espressioni di Olivi relative al sesto stato – “quoddam sollempne initium novi seculi … renovaretur et consumaretur seculum”, nel quale il sacerdozio apostolico “redeat et assurgat ad ordinem primum”, la “nova Ierusalem”, interpretata come “visione di pace”, viene vista “descendere de celo” e la Chiesa descritta come la donna vestita di sole con la sua “virginea proles” – sono la veste spirituale dei versi della quarta egloga virgiliana che celebrano la rinnovata età dell’oro: “Magnus ab integro saeclorum nascitur ordo / iam redit et Virgo; redeunt Saturnia regna; / Iam nova progenies caelo demittitur alto” (Egloga IV, 5-7). Olivi completa la Lectura super Apocalipsim nel 1298, poco prima di morire, il 14 marzo, a Narbonne. Quel felicissimo stato segnato dalla pace sotto il divo Augusto, che rese l’umanità disposta al primo avvento di Cristo, si sta rinnovando nel sesto stato della Chiesa, nel secondo avvento nello Spirito. Scrive Arsenio Frugoni: “[…] quell’escatologismo, oltre che ideologia di lotta e di riforma del gruppo spirituale, era anche un vero e proprio sentimento storico […] una tensione di rinnovamento, una ansia di salvezza, che nel 1300, l’anno centenario della Natività, aveva trovato come una attivazione, in un senso di pienezza dei tempi, cui doveva corrispondere un fatto, un accadere meraviglioso e nuovo” [3].
All’apertura del sesto sigillo, l’eletta schiera dei riformatori – i 144.000 segnati dalle dodici tribù d’Israele – guida la turba innumerevole di ogni gente, tribù, popolo e lingua (Ap 7, 3-4.13). Questi eletti e magnanimi duci, separati dalla volgare schiera per più alta milizia, vengono destinati a difendere liberamente la fede – ad essi è data la “plena libertas ad innovandam christianam religionem” -; sono gli amici di Dio a lui noti per nome, configurati in Cristo crocifisso e votati al martirio.
All’interno della Chiesa del sesto stato, l’Ordine dei Minori – “ordo plurium personarum” – è assimilabile alla persona umana di Cristo. Come questa si sviluppò fino all’età virile, così dovrà essere per l’ordo evangelicus piantato da Francesco, che avrà bisogno (a differenza di Cristo che stette poco tempo nel mondo) di due o tre generazioni per svilupparsi prima di subire una condanna simile a quella di Cristo [4]. La sua maturità coincide, verso il 1300, con il terzo inizio del sesto stato, cioè con il rinnovarsi per opera dello Spirito di Cristo, nel suo secondo avvento, della pianta seminata da Francesco. Questa concezione dell’Ordine francescano come individuo in sviluppo che, perfettamente maturato, diventa il novus ordo preconizzato da Gioacchino da Fiore per l’età dello Spirito, si differenzia da quella di Bonaventura, che aveva invece distinto i Francescani del proprio tempo – e quindi anche gli Spirituali – dall’Ordine finale che dominerà fino ai confini della terra. Alla terza apertura del sesto sigillo nuovi san Giovanni vengono inviati a predicare al mondo come nel tempo degli Apostoli. Ma Giovanni non designa solo un Ordine, perché Olivi lascia aperta la possibilità di rivelazioni individuali, avute da “singulares persone”, perfetti imitatori di Cristo votati, con la loro “lingua erudita”, al compito della conversione universale.
[LSA, cap. X, Ap 10, 11] “Et dixit michi: Oportet te iterum prophetare in gentibus et populis et linguis et regibus multis”. In ipsa sapientia libri expresse continetur quod oportet iterum predicari evangelium in toto orbe, et Iudeis et gentibus, et totum orbem finaliter converti ad Christum. Sed quod per istum hoc esset implendum non poterat sciri nisi per spiritualem revelationem, et hoc dico prout per Iohannem designantur hic singulares persone quia, prout per ipsum designatur in communi ordo evangelicus et contemplativus, scitur ex ipsa intelligentia libri quod per illum ordinem debet hoc impleri.
Nei cinque cicli settenari della prima cantica il sesto stato è segnato dall’apertura della porta della città di Dite (Inf. IX, 89-90); dall’ascesa di Gerione dall’abisso (Inf. XVI, 106-136); dal precipitoso passaggio dalla quinta alla sesta bolgia (Inf. XXIII, 1-57) e poi dalle trasformazioni della settima, dove i ladri fiorentini si mutano in serpenti e viceversa (Inf. XXIV-XXV); dal chinarsi di Anteo sul fondo dell’inferno (Inf. XXXI, 136-145); dal passaggio del centro della terra, con la conversione di Virgilio sull’anca di Lucifero, che è passaggio verso la sesta età, quella della Chiesa, descritta nel Purgatorio.
Ma i temi propri del sesto stato sono diffusi ovunque, intrecciati con quelli degli altri stati, e alla loro esegesi rinviano precise parole-chiave incardinate nel senso letterale dei versi. L’esegesi dell’angelo del sesto sigillo (Ap 7, 2) è già centrale nel primo canto del poema.
La novità che il sesto stato, per eccellenza stato di rinnovamento di questo secolo, arreca nell’inferno è una novità fittizia: l’apertura della porta della città di Dite non è vera novità, perché essa è stata chiusa dall’ostinazione dei diavoli, recidivi dopo l’apertura della porta dell’inferno da parte di Cristo prefigurata dalla venuta di Ercole all’Ade, per cui Cerbero “ne porta ancor pelato il mento e ’l gozzo”; Gerione viene su ad un “novo cenno” di Virgilio, ma è figura della frode dalla velenosa coda aculeata; il nuovo prodotto dalle trasformazioni reciproche di serpenti e uomini è qualcosa di incompiuto perché l’uomo razionale, creato nel sesto stato, regredisce allo stato precedente.
L’Inferno è il luogo della durezza lapidea, dell’impetrarsi, del parlare duro di cose dure a dirsi, del duro giudizio, del senso duro della scritta al sommo della porta, dei duri lamenti, dei duri demoni, dei duri veli del gelo, della gravezza. Nell’Inferno vige l’imposizione data a Daniele dall’angelo sotto il sesto sigillo dell’Antico Testamento: “Ora tu, Daniele, chiudi queste parole e sigilla questo libro fino al tempo stabilito” (Dn 12, 4), che era la sesta età nella quale apparve Cristo e in particolare il sesto stato della sua Chiesa nella quale il libro doveva essere più pienamente aperto, non però ai malevoli e ai maldisposti. Questa durezza è rotta dall’invito di Dante ai dannati perché parlino. Far parlare liberamente, per dettato interiore, è la principale prerogativa del sesto stato – la nuova età che tanto s’aspetta, quella che ode del “dolce stil novo” e delle “nove rime” -, ed è tema che la poesia canta per intero, sia pure per un attimo, anche nella vecchia roccia infernale. Appartiene alla sesta chiesa il parlare liberamente di Cristo – ad essa è dato l’“ostium apertum”, che è “ostium sermonis” – , il sentire per dettato interiore, l’aprirsi della volontà. Appartiene alla sesta chiesa anche il far venire quelli che si dicono Giudei senza esserlo, mutati nel cuore e disposti a farsi battezzare e governare. Questo far venire a parlare equivale al cortese e liberale invito dello Spirito di Cristo a convivare, a venire con desiderio e volontario consenso, con “disio” e con “velle”, in una pausa di pace nell’eterna dannazione. All’“affettüoso grido” del poeta le ombre di Francesca e Paolo vengono “dal voler portate” verso un momento di mutazione, sebbene limitata al successivo colloquio. Tutto l’Inferno è un contrappunto fra la durezza del giudizio e l’apertura per la parola dirompente, fin che essa dura, la pena. Un’apertura che si esprime in varie forme: muoversi sospirando nel Farinata prima immobile, ‘crollarsi’ quasi per terremoto interiore dello ‘schivo’ Ulisse, convertirsi del vento in voce in Guido da Montefeltro, tornare indietro nel cammino assegnato o separarsi dai compagni di pena, essere sforzati a parlare anche malvolentieri, non poterlo negare o mostrare fretta di farlo, arrestarsi obliando il martirio, levarsi per poi ricadere, sollevarsi da atti bestiali per ritornare a essi dopo aver parlato, come nel conte Ugolino. In tante lingue, che parlano come per sé stesse mosse, sta un solo desiderio, il vivere ancora nel libro che è stato altrui aperto.
Se nell’Inferno il sesto stato non si realizza mai compiutamente, anche il settimo, che gli è strettamente connesso, non può trovare un luogo autonomo. Ciò non toglie che temi del settimo stato (e della settima visione) siano ben presenti in modo diffuso. Ad esempio, quelli relativi alla settima chiesa assumono particolare rilievo nella descrizione degli ignavi a Inf. III. Tempo del silenzio, della serena pace, del riposo dalle ansiose fatiche, il settimo stato subentra dopo le terribili tentazioni inferte, con un martirio non corporale ma psicologico, dai carnefici dell’Anticristo nel sesto. Come ogni momento della storia umana partecipa dell’imitazione di Cristo, che raggiunge l’acme nel sesto stato, così in ogni periodo si verifica una sua “quietatio”, una pausa di pace, di quiete, di silenzio propria del settimo. Così Francesca parla e ascolta “mentre che ’l vento, come fa, ci tace”. Il vento – “la bufera infernal, che mai non resta” – designa il fluttuare tempestoso delle passioni nel cuore.
PURGATORIO
(sesta età del mondo)
Dopo le prime cinque età del mondo (corrispondenti all’Antico Testamento, la gioachimita età del Padre), che hanno segnato la discesa a spirale per i cinque cicli settenari dell’Inferno, con il Purgatorio inizia la sesta età, quella di Cristo (l’età del Figlio), che ha sette stati, corrispondenti ai sette stati della Chiesa. Dapprima, nel cosiddetto ‘antipurgatorio’, si registrano in successione temi prevalenti dei primi cinque stati. Il sesto stato della sesta età (con cui si apre l’età dello Spirito) inizia con l’apertura della porta di san Pietro (la porta del purgatorio). Questo sesto stato procede anch’esso con andamento settenario, per cui ha sette momenti, coincidenti principalmente con un girone della montagna, ma non del tutto, perché sempre l’ordine spirituale del poema rompe i confini letterali e le divisioni materiali, concatenando i temi di uno stato prevalente con quelli dello stato che precede e con quelli dello stato che segue e intrecciandoli con temi di tutti gli altri stati.
È spiegato nel Notabile VII del prologo della Lectura che il sesto stato della Chiesa è il secondo stato di Cristo e ha i suoi sette tempi per cui la Chiesa, come fosse una sfera, si ricongiunge circolarmente al primo apostolico tempo. Il settimo dei sette momenti del sesto stato della Chiesa coincide con il settimo stato generale della Chiesa, che nel poema corrisponde in parte all’ultimo girone della montagna (il settimo, dove si purgano i lussuriosi) e in parte all’Eden, con cui si chiude la seconda cantica.
Il Purgatorio dunque, secondo il senso spirituale, è la storia della Chiesa che corre verso il suo sesto stato, punto di riferimento di tutte le vicende umane, antiche e moderne, che ad esso cooperano. Non è casuale che nel sesto girone della montagna sia chiarificata e riconosciuta, nel colloquio con Bonagiunta da Lucca, la poetica delle “nove rime” di Dante, già “sesto tra cotanto senno” cooptato nella “bella scola” dei poeti del Limbo.
La vasta zona dedicata al sesto momento del sesto stato della Chiesa ha il suo inizio nel forte terremoto che scuote la montagna mentre Dante e Virgilio si trovano ancora nel quinto girone (Purg. XX, 124-141). Essa è stata compiutamente esaminata altrove.
Il settimo stato dell’Olivi si realizza parte in questa vita (come pregustazione in terra della gloria eterna, cioè fin sulla cima della montagna) e in parte nella futura (nel senso della quiete delle anime beate in attesa della resurrezione, che è la materia del Paradiso).
canti |
I ciclo – fino al sesto sato |
stati |
|
I |
Catone |
Radici, I |
|
II |
angelo nocchiero, Casella |
I – II |
|
III |
scomunicati |
III |
“Antipurgatorio” |
IV |
salita al primo balzo, Belacqua |
IV – V |
|
V |
negligenti morti per violenza |
V |
|
VI |
Sordello |
V |
|
VII-VIII |
valletta dei principi |
V |
|
IX |
apertura della porta |
VI – sesto stato |
|
canti |
II ciclo – il sesto stato della sesta età |
stati |
gironi |
X-XII |
superbi |
I |
I |
XIII-XIV-XV |
invidiosi |
II |
II |
XV-XVIII |
iracondiordinamento del purgatorio,amore e libero arbitrio |
III |
IIIIV |
XVIII-XIX |
accidiosi |
IV |
IV |
XIX-XX |
avari e prodighi |
V |
V |
XX (terremoto) -XXV |
Stazio, golosi, generazione dell’uomo |
VI |
VI |
XXV-XXVI |
lussuriosi |
VII – settimo stato |
VII |
XXVIIXXVIII-XXXIII |
muro di fuoconotte stellata, termine dell’ascesaEden |
|
PARADISO
(settimo stato della Chiesa)
Il Primo Mobile è il nono e penultimo cielo, ma è il sesto se si parte dal cielo del Sole. È anche il cielo più segnato dal tema del “punto”, cui è assimilato il sesto stato. Questo consente di ricostruire l’ordine spirituale del Paradiso ponendo la cerniera nel quarto cielo del Sole. Con il terzo cielo di Venere termina infatti il cono d’ombra gettato dalla terra, secondo la dottrina di Alfragano (Par. IX, 118-119), mentre prima di descrivere l’ascesa al cielo del Sole il poeta invita il lettore a rivolgersi “a l’alte rote” (Par. X, 7-27). Senza la cesura recisa che, nella prima cantica, divide i dannati puniti all’interno della città di Dite da quelli che ne stanno fuori e, nella seconda cantica, separa le anime purganti nei sette gironi della montagna dalle anime che attendono fuori della porta (il cosiddetto ‘antipurgatorio’), anche nel Paradiso gli spiriti che si manifestano nei primi tre cieli della Luna, di Mercurio e di Venere (spiriti che mancarono ai voti, spiriti che furono attivi per conseguire onore e fama, spiriti amanti) si distinguono per minore perfezione rispetto a quelli che appaiono nei cieli seguenti.
I dieci cieli del Paradiso si mostrano pertanto ordinati in due gruppi di settenari, corrispondenti agli stati della Chiesa (e alle loro prerogative) secondo Olivi, parzialmente combacianti (da 1 a 7 e da 4 a 10: coincidono gli ultimi quattro numeri del primo gruppo e i primi quattro del secondo).
I Se si considera il primo settenario, nel primo cielo della Luna si affronta la questione dell’inadempienza dei voti, che ha corrispondenza con i temi propri della prima chiesa di Efeso, il cui nome, se interpretato, oscilla tra la fervida volontà iniziale e la remissione (l’essenza del voto consiste nella volontà).
II Nel secondo cielo di Mercurio, le battaglie sostenute dal “sacrosanto segno” dell’aquila corrispondono allo stato dei martiri, che è dei combattenti, e anche la dottrina dell’incarnazione e della passione di Cristo, esposta successivamente da Beatrice, fa parte della tematica, perché l’intera Chiesa, fondata sulla passione di Cristo, imita con i martiri la sua croce, e questo giova assai al suo radicamento.
III Nel terzo cielo di Venere, Carlo Martello spiega al modo di un dottore del terzo stato la diversità delle indoli umane e come gli uomini, non assecondandole, errino; nello stesso cielo compare Folchetto di Marsiglia, che da vescovo di Tolosa combatté l’eresia albigese.
IV – I Al quarto cielo del Sole, primo del secondo gruppo di settenari per l’esaltazione della vita apostolica (propria del primo stato e rinnovata nel sesto), si può connettere il tema stesso del sole inteso nell’esegesi della quarta tromba (Ap 8, 12): “Per solem videtur hic designari solaris vita et contemplatio summorum anachoritarum, qui fuerunt patres et exempla aliorum, vel solaris sapientia et doctrina summorum doctorum”. Sapienza e contemplazione, dottori del terzo e anacoreti del quarto stato, concorrono, come Domenico e Francesco – “L’un fu tutto serafico in ardore; / l’altro per sapïenza in terra fue / di cherubica luce uno splendore” (Par. XI, 37-39) – con mutua cortesia a infiammare il meriggio dell’universo.
V – II Il quinto cielo di Marte, secondo (come il secondo stato dei martiri) per l’esaltazione della croce di Cristo formata dai lumi dei combattenti per la fede, reca in sé il tema del condiscendere proprio del quinto stato sia nel pio discendere per la croce di Cacciaguida verso Dante, sia nella decadenza degli “alti Fiorentini”, cioè delle antiche famiglie, assimilate agli anacoreti, un tempo alti e poi vòlti in basso.
VI – III Il sesto cielo di Giove, terzo (come il terzo stato dei dottori) per la spiegazione di profonde verità di fede, sviluppa il motivo, proprio della sesta chiesa, della “porta aperta”. Aprire la porta significa illuminare e rendere acuto l’intelletto che penetra nell’occulto delle Scritture, e anche dare efficacia spirituale a penetrare nel cuore di chi ascolta: così l’aquila apre la “latebra” di Dante, così l’occhio di Rifeo Troiano fu da Dio aperto alla futura redenzione.
VII – IV Nel settimo cielo di Saturno, quarto (come il quarto stato degli anacoreti), “si tace … la dolce sinfonia di paradiso” (Par. XXI, 58-60), e il tacere è tema del settimo stato. Ivi si mostrano gli spiriti contemplativi, principali soggetti del quarto stato, proprio degli anacoreti: se si conta a partire dal quarto cielo del Sole, considerando questo come primo ovvero come nuovo avvio del ciclo settenario, il cielo di Saturno è appunto quarto.
VIII (V) Il settimo cielo di Saturno è seguito dal cielo delle Stelle fisse – ottavo e quinto -, dove si mostrano le schiere del trionfo di Cristo che discendono dall’Empireo (il quinto stato è caratterizzato dalla “condescensio”) e si celebra il trionfo di Maria (sviluppo del tema, proprio della quinta chiesa, della mirabile bellezza della Chiesa, regina ornata di veste aurea per la carità che unisce e circondata dalla varietà nei doni e nelle grazie delle diverse membra). È inoltre ricapitolazione dei precedenti sette, secondo un’interpretazione più volte presente nella Lectura dell’essere ‘ottavo’. Per questo Dante, stando nel segno dei Gemelli, riguarda in giù e torna col viso per tutte quante le sette precedenti sfere (Par. XXII, 124-154).
IX (VI) Segue il Primo Mobile o Cristallino – nono e sesto cielo –, dove il poeta vede il punto luminosissimo – Dio – da cui dipende il cielo e la terra, circondato dai nove cerchi di fuoco (Par. XXVIII, 16-18, 40-42, 94-96). Il sesto stato, secondo quanto Olivi afferma nel Notabile VIII, è il “punto” da cui dipendono gli altri stati, perché appare nel testo dell’Apocalisse in modo più evidente degli altri, che da esso assumono chiarezza quanto alla loro manifestazione nella storia, come l’intelligenza delle cose ordinate ad un fine dipende dal fine.
X (VII) La quiete e l’immobilità dell’Empireo, decimo cielo – il “ciel de la divina pace” -, corrispondono al settimo stato, di cui è propria la “quietatio”, il silenzio (tema anticipato dal tacere di Beatrice in apertura del canto XXIX), e la pace.
Il Paradiso avrebbe pertanto un ordine spirituale del seguente tipo:
cielo |
stato |
cielo |
||
I |
LUNA |
I |
||
II |
MERCURIO |
II |
||
III |
VENERE |
III |
||
IV |
SOLE |
IV |
I |
SOLE |
V |
MARTE |
V |
II |
MARTE |
VI |
GIOVE |
VI |
III |
GIOVE |
VII |
SATURNO |
VII |
IV |
SATURNO |
VIII |
V |
STELLE FISSE |
||
IX |
VI |
PRIMO MOBILE |
||
X |
VII |
EMPIREO |
Oltre ai luoghi sopra indicati, i temi del sesto e del settimo stato si rinvengono in più punti, intrecciati con altri.
[1] Cfr. LSA, cap. XVII, Ap 17, 9: «Et subdit Ricardus quod per septem reges, et per septem capita designatos, designatur hic universus populus malorum, qui secundum septem status huius seculi determinantur. Primus scilicet ab Adam usque ad Noe. Secundus a Noe usque ad Abraam. Tertius ab Abraam usque ad Moysen. Quartus a Moys<e> usque ad David. Quintus a David usque ad Christum. Sextus a Christo usque ad Antichristum. Septimus autem sub Antichristo attribuitur». Cfr. PETRI IOHANNIS OLIVI Lectura super Lucam, Lc 1, 26, ed. F. Iozzelli, Grottaferrata 2010 (Collectio Oliviana, V), pp. 187-188: «Signanter autem dicitur in sexto mense, quia Christus uenit in sexta mundi etate, et iterum post quinque notabiles synagoge decursus: nam primo, cum sola circumcisione fuit sub patribus per quadringentos annos; secundo, accepta lege, fuit sub iudicibus per tantumdem temporis; tertio, proficiens in regnum, fuit sub regibus; quarto, assumpto plenius spiritu prophetico, fuit sub prophetis sollempnioribus, scilicet sub Elia, Ysaia et Yeremia etc.; quinto, restituto templo et urbe, fuit sub pontificibus quibus, per Aggeum et Zachariam et Malachiam iterata prophetia de Christo et eius precursore Elia, factum est silentium prophetarum, ita quod obmutuit cetus sacerdotum usque ad Iohannis ortum; et iterum in eiusdem quinti temporis sexto centenario conceptus est Christus. Sicut etiam sexto die factus est homo ad ymaginem Dei, sic conuenienter sub consimili senario factus est Christus homo, plenior Dei ymago: nam et perfectio numeri senarii, que ex omnibus partibus suis aliquotis et iterum ex ternario cum suis partibus, scilicet binario et unitate, consurgit, competit sibi et etiam reflexio ternarii per binarium, id est cultus fidei et Trinitatis per geminam caritatem».
[2] Il principio è chiaramente affermato nel notabile VIII del prologo della LSA: «[…] si omnia prima membra visionum ad invicem conferas et consimiliter omnia secunda et sic de aliis, aperte videbis omnia prima ad idem primum concorditer referri et consimiliter omnia secunda ad idem secundum et sic de aliis. Et hoc in tantum quod plena intelligentia eiusdem primi multum clarificatur ex mutua collatione omnium primorum, et idem est de omnibus secundis et tertiis et sic de aliis».
[3] A. FRUGONI, La Roma di Dante, tra il tempo e l’eterno, in ID., Pellegrini a Roma nel 1300. Cronache del primo Giubileo, presentazione di C. Frugoni, a cura e con Introduzione di F. Accrocca, Casale Monferrato 1999, pp. 102-103.
[4] LSA, cap. VI, Ap 6, 12: «Secunda ratio est quia persone Christi correspondet in sexta apertione unus ordo plurium personarum sic secundum suam proportionem augendus, sicut Christus secundum suum corpus fuit usque ad perfectam etatem viriliter auctus. […] Quarta est quia, prout super evangelia ostendi, Christus parvo tempore debuit inter nos vivere et pauciori predicare […]. Nisi autem ordo evangelicus, per Franciscum renovatus, esset in multis et saltem sub duabus vel tribus generationibus propagatus et sollempnizatus, non esset nec ipse nec populus ab eo ducendus sufficienter dispositus ad tam autenticam condempnationem condempnationi Christi consimilem subeundam».